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French, Spanish, Italian Pages 773 [776] Year 2013
Actas del XXVIé Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas Volumen V
XXVI CILFR Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas 6–11 de septiembre de 2010 Valencia
De Gruyter
Actas del XXVI Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas Valencia 2010 Editores: Emili Casanova Herrero, Cesáreo Calvo Rigual
Volumen V Sección 6: Descripción histórica y / o sincrónica de las lenguas románicas: onomástica (toponimia y antroponimia) Sección 9: La pragmática de las lenguas románicas
De Gruyter
ISBN 978-3-11-029983-0 e-ISBN 978-3-11-029997-7 Library of Congress Cataloging-in-Publication Data A CIP catalog record for this book has been applied for at the Library of Congress. Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2013 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Gesamtherstellung: Hubert & Co. GmbH & Co. KG, Göttingen
∞ Gedruckt auf säurefreiem Papier Printed in Germany www.degruyter.com
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c2N+)1'0)1123#'S)'*+;.- gorri) ‹rosso›: Iturrigorri = Turrikore; basco lur ‹terra› + zur(i): lurzuri ‹terra bianca› = Lutzurró (con -r allungata, come nei derivati baschi: lur: lurra, astigar: astigarraga); basco soro ‹terreno incolto› + gain ‹altura›: Sorogain = Soroeni (che spiega anche il mutamento di agin ‹tasso› a eni nella Sardegna orientale); basco ardi ‹pecora› + ile, ule ‹pelo›: artile, artule = Artilai, Ardule, Ardaule (e i Sardi Pelliti o i mastrucati latrunculi ricordati da Tito Livio o Cicerone ben si addicono ai luoghi dove si confezionavano le pelli di lana di pecora, ancora in uso alla fine del secolo XIX); basco arte ‹leccio› + lats ‹corso d’acqua› = Artalatsia ‹terreno di lecci attraversato da acque› (esiste anche Artui che potrebbe riflettere basco artedui ‹bosco di lecci›); basco *susun (Michelena: Susunaga), zuzun ‹pioppo› = Susune ‹terreno di pioppi›;
Ci sono delle forme paleosarde che, come l’ultimo esempio dimostra, sono formate con radici postulate o ricostruite da Joseba Andoni Lakarra per il Neolitico. Ne menziono due tipi: (a) il tipo raddoppiante, ad es. *do/dol > odol ‹sangue›, che si riflette sorprendentemente nelle alture rossicce di Baunei: Dodoliai, altrove Dolai o Rivu dolia; (b) le formazioni con occlusiva dentale sonora iniziale, convertita poi in liquida nel Basco storico (tipo *da-gun > lagun ‹amico›): Desunele, formato con *desu > basco leze ‹precipizio, burrone› + nele ‹buio›; Durunele, con *dur > lur ‹terra› (cfr. edur, edurra a Bergara, insieme con elur, elurra ‹neve›) e nele. Un dato importante che mi preme segnalare in breve è la perfetta corrispondenza tra il significato espresso dai significanti postulati e i referenti denotati, a volte con effetti di ‹contiguità referenziale› (ad es. Desunele, una ‹voragine buia› in territorio di Orgósolo, Soroeni ‹un sito archeologico di Lodine situato su una vetta di montagna› o Turrikore ‹una sorgente sita ai piedi del Monte Ruju›). Come ho anticipato prima, con l’aiuto del Basco siamo anche in grado di discernere correttamente le radici dai suffissi. Cosí, quel -kor con vocale paragogica (-kore, -o) o quel -mele/nele, non sono altro che gli aggettivi posposti derivati da paleobasco *koR- > gorri e *bel (> bele, bel-tz ‹nero›). In questo modo, capiamo finalmente il significato trasparente di numerosissime formazioni toponomastiche rimaste ermetiche per secoli, quali: Orgosekoro ‹sorgente dalle acque rosse›, Turrikore e l’ibrido Enalekoro, con vēna, venālis (già lat. vēna fontis) ‹fonte rossa›, e Maramele ‹palude (mara) scura›, Araunele e varianti ‹valle scura, profonda e non soleggiata› (sd. Badde niedda, basco Arambeltza), Risunele (con rīvus, -um
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Eduardo Blasco Ferrer
e svolgimento di [β] > Ø e poi [s], come in maius, -um > masu o nel toponimo dorgalese Plammasera < ‹palma vera›), ‹rivo nero, Rivu nigheddu›, Thikunele, con colpo di glottide per [k] (fīcus, -um, con dileguo regolare della labiodentale e prostesi di interdentale, come in urgusa e thurgusa) ‹fico nero, Figu niedda›, Makumele (semitico maqōm) ‹insediamento basaltico, e perciò scuro›, Gutturunele, con lat. guttur ‹gola›. Come s’è visto da qualche esempio illustrato prima, moltre delle costruzioni paleosarde trovano esatti traducenti in materiale sardo neolatino, confermando la bontà della riscostruzione: Funtana ruja, Terra bianca, orrúbia, Badde, Piskina, (B)ena, Ficu niedda, Baku, Rivu nieddu. Di particolare rilevanza per la corretta ricostruzione dei rapporti ancestrali esistenti tra l’antica Iberia e la Sardegna neolitica si rivelano le radici già viste ili e mele, che ora sottopongo a una piú analitica discussione. Come abbiamo visto, già Pomponio Mela si riferisce a questa tribú indomita come una delle piú antiche, e altri autori (Tito Livio) ci ricordano che essa si rifugiava negli Insani Montes della regione orientale sarda. A nord del loro dominio altri storiografi classici menzionano la presenza dei Bàlari, nei dintorni e sulle cime del Limbara nella Gallura. Ora, è pacifico che Ili-enses rifletta una formazione etnica con la notissima radice ili, che come ben sappiamo è tipica di tutta la Hispania iberica, da Iliberris = Elvira mozarabica e poi Granada a Iliberris = Elne, oltre i Pirenei. Non c’è alcun dubbio, di conseguenza, sul fatto che la tribú che ospitarono i Montes Insani della Barbagia (< Barbaria), delle Baronie e dell’Alta Ogliastra, dove oggi s’infittiscono piú densamente i microtoponimi con ili, fosse discendente da una popolazione emigrata dall’antica Iberia. Come risulta chiaro altresí che la radice bal- sia da correlare con le Baleari e con l’antroponimia paleoispanica dotata di tale radice, già bene studiata da Maria Lourdes Albertos Firmat. Aggiungo poi che il coronimo Gaddura, Gallura corrisponde esattamente a basco gallur (da *gal-dur), appunto ‹cima, vetta› (del Limbara, appunto!). Il riflesso paleoispanico dell’aggettivo mele è anch’esso illustrativo dei plurimi spunti ricostruttivi che il confronto serrato fra i due tipi linguistici apre alla ricerca etimologica futura. La base *bel- di basco bel-tz ‹nero, scuro› (associato al colore del corvo, bele), di (h)orbel ‹foglie cadute›, (h)arbel ‹lavagna, table noire›, gibel ‹fegato›, sabel ‹ventre› e bele ‹corvo›, si ritrova in aquitano Belex e, infine, con una foggia piú interessante, nell’iberico bels, beles, beleś e soprattutto mele(s), meli(s) nell’iscrizione latina del Bronzo di Ascoli, che restituisce i nomi di alcuni equites iberici della turma Salluitana (Salduba sarebbe diventata Caesaraugusta), che avevano partecipato alla guerra contro i Marsi ed erano stati premiati con la cittadinanza romana da Gn. Pompeo Strabone. Lí troviamo, in effetti: Ordumeles per *Ortunbeles, Adimels e altre corrispondenze per noi rilevantissime, perché evidenziano lo stesso adeguamento dell’occlusiva bilabiale sonora avvenuto nel Paleosardo mele (donde poi nele, nuli ecc.). Questi riscontri sono importantissimi, perché ci indicano la compartecipazione dei vari populi dell’antica Penisola Iberica, Paleobaschi e Iberi, alla colonizzazione globale della Sardegna preneolitica e neolitica, fino all’avvento dei Semiti, e piú tardi dei Romani, che segnano il terminus post quem per la formazione degli ibridi del tipo Makumele (< maqōm) o Gutturunele (< guttur).
Iberia in Sardegna. La decifrazione del Paleosardo
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6. Conclusioni e Desiderata La formula latina citius emergit veritas ex errore quam ex confusione credo si addica bene alla tesi che ho esposto sommariamente qui. Prima della corretta segmentazione e individuazione del tipo agglutinante del Paleosardo, e della successiva identificazione della sua matrice paleoispanica, regnava molta confusione fra gli studiosi dei sostrati della Sardegna, e nessun progresso è stato segnato nella decodificazione delle centinaia di microtoponimi della Sardegna centro-orientale, rimasti ermetici a ogni tentativo ermeneutico. Ora si apre una pista nuova, un terreno che promette fertili aree d’indagine e risultati accettabili di ricostruzione. Le richieste di competenze interdisciplinari (conoscenza delle regole ricostruttive del Paleobasco; conoscenza degli avanzamenti nel campo dell’Iberico; minime conoscenze nell’ambito dell’Indeuropeo; assimilazione delle continue acquisizioni nei campi dell’Archeologia e della Genetica molecolare e delle popolazioni) sono molte e ci obbligano necessariamente a istituire un pool internazionale e interdisciplinare di studiosi, un’esigenza questa, che come hanno posto di manifesto i colleghi Günter Holtus e Fernando Sánchez Miret nella loro bella panoramica di prospettive future della Romanistica, diverrà una carta vincente per le aspettative accademiche di ricerca, lavorative e sociali dei futuri Romanisti.
Bibliografia minima Albertos Firmat, María Lourdes (1966): La onomástica personal primitiva de Hispania: Tarraconense y Bética. Madrid: CSIC. Blasco Ferrer, Eduardo (1988): Le parlate dell’Alta Ogliastra. Cagliari: Della Torre. — (1993): Tracce indeuropee nella Sardegna nuragica? In: Indogermanische Forschungen 98, 177-185. — (2010): Paleosardo. Le radici linguistiche della Sardegna neolitica. Berlin / New York: de Gruyter. Holtus, Günter / Sánchez Miret, Fernando (2008): Romanitas, Filología románica, Romanística. Tübingen: Max Niemeyer. Hubschmid, Johannes (1953): Sardische Studien. Bern: Francke. Untermann, Jürgen (1990): Monumenta Linguarum Hispanicarum. III. Die iberischen Inschriften aus Spanien, (2 voll.). Wiesbaden: L. Reichert. Wagner, Max Leopold (1951): La lingua sarda. Bern: Francke. — (1960-64): Dizionario Etimologico Sardo, (3 voll.). Heidelberg: C. Winter. Wolf, Heinz Jürgen (1998): Toponomastica barbaricina. Nuoro: Insula.
Llum Bracho Lapiedra (Universitat Politècnica de València)
Criteris de denominació toponímica al País Valencià: el cas de la Gran Enciclopedia Temática de la Comunitat Valenciana
1. Introducció Els topònims són un dels elements més polièdrics i controvertits de la lingüística, per tal com no només estan molt lligats a la identitat d’un lloc, ja que el designen, sinó que en conformen la història, la cultura, la sociolingüística, etc. (Graells et al. 1999: 25). L’objectiu d’aquest estudi és presentar un treball de recerca en relació amb la toponímia des d’un vessant lingüisticopragmàtic pel que fa a una zona en què conviuen dues llengües oficials, com és el cas del País Valencià. Al País Valencià, per raons de caràcter històric i sociolingüístic, la llei preveu dues formes de denominació toponímica oficial: una forma bilingüe i una forma monolingüe en català (en valencià) i en espanyol, depenent de la zona. En conseqüència, la denominació dels topònims segueix dos criteris bàsics al País Valencià: el de territorialitat i el d’historicitat. Això no obstant, la Generalitat Valenciana segueix un tercer criteri denominat oficialista, per a la documentació oficial, segons el qual els topònims s’escriuen tal com apareixen en les publicacions oficials que es reediten anualment. Tot plegat, dificulta en gran mesura l’aplicació, de manera coherent, d’algun criteri de denominació toponímica existent en els distints documents que s’editen on hi ha la presència d’aquests elements lingüístics, i és que, com assevera Miquel Nicolàs (1998: 311): Fins a quin punt, doncs, no hi ha una neutralitat primera de les formes toponímiques, sinó que aquestes, la seva replega sistemàtica i la seva posterior interpretació, no estan en general prefigurades per una determinada intencionalitat. La sospita és tan elemental que segurament no mereix l’apel·latiu d’hipòtesi, però pot ser útil a l’hora de representar-nos d’una manera més plausible els lligams complexos entre la toponímia i la història social de la llengua.
En concret, l’estudi que abordem se centra en el tractament de les denominacions toponímiques valencianes d’una enciclopèdia, editada en espanyol recentment per un periòdic de gran tiratge a nivell autonòmic. Aquesta anàlisi dóna compte de quins han estat els criteris de denominació toponímica de la zona esmentada, en un text escrit en una de les llengües oficials, per tal de detectar quins han estat els motius que han dut a l’aplicació d’aquests criteris i, en darrer terme, com es tradueixen aquestes decisions a la comprensió última del text per part dels lectors.
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Llum Bracho Lapiedra
2. La denominació toponímica a l’Estat espanyol Com és sabut, la Llei de bases de règim local (7/1985, de 2 d’abril) determina que cal escriure els topònims en espanyol en tot l’Estat espanyol, tret de les comunitats autònomes que tinguen una llengua pròpia, on aquests apareixeran seguint tres opcions: en la llengua pròpia, en espanyol o en ambdues llengües, i que «aquestes denominacions només tindran caràcter oficial quan s’inscriguin en el Registre d’Entitats Locals i es publiquin al Butlletí Oficial de l’Estat» (Graells et al. 1999: 26). A les comunitats autònomes catalanoparlants, l’aplicació d’aquesta llei es vehicula mitjançant dos tractaments distints. D’acord amb el primer, a les Illes Balears (Llei 3/1986, de 29 d’abril) i a Catalunya (Llei 1/1998, de 7 de gener), la forma oficial dels topònims és únicament en català. En canvi, al País Valencià1, o Comunitat Valenciana, per raons de caràcter històric i sociolingüístic, la llei preveu dues formes de denominació toponímica oficial (Llei 4/1983, de 23 de novembre): una forma bilingüe, i una forma monolingüe, en català (en valencià) o en espanyol, depenent de la zona (Graells et al. 1999: 26). En conseqüència, la denominació toponímica segueix dos criteris bàsics al País Valencià: el de territorialitat (d’acord amb el qual els topònims pertanyents a la zona castellanoparlant del País Valencià apareixen en espanyol i els topònims pertanyents a la zona valencianoparlant apareixen en català, independentment de la llengua d’ús) i el d’historicitat (que fa referència a la denominació dels topònims segons la tradició de la llengua d’ús). Si seguim el primer criteri, el de territorialitat, el topònim Castelló de la Plana, (que pertany a la zona valencianoparlant), quedaria escrit en català, i el topònim Villar del Arzobispo (corresponent a la zona castellanoparlant), apareixeria escrit en espanyol. En canvi, amb el criteri d’historicitat, suposant que la llengua d’ús fóra el català, un topònim pertanyent a la zona castellanoparlant, com ara Toixa (Tuéjar en espanyol), s’escriuria segons la seua forma en català, mentre que un de la zona valencianoparlant, conservaria la seua forma original catalana, com en el cas d’Albalat dels Sorells. Això no obstant, existeix un tercer criteri, denominat oficialista, per a la documentació oficial, que és el que segueix la Generalitat Valenciana. D’acord amb aquest criteri els topònims s’escriuen tal com apareixen en la Denominació oficial dels municipis i altres entitats locals de la Comunitat Valenciana, publicació que recull els topònims oficials del País Valencià i que es reedita anualment (Lacreu et al. 1995: 56).2 Per exemple, Torís i València, encara que pertanyen a la zona valencianoparlant, apareixen escrits oficialment en espanyol, és a dir: Turís i Valencia.3 A més a més, val a dir que, en els textos oficials i en La denominació País Valencià respon a la ‹concepció moderna› de l’autonomia valenciana, tal com es recull al preàmbul de l’Estatut d’Autonomia (1994: 1 i 2006: 7). En aquest sentit, nosaltres la preferim a la de ‹Comunitat Valenciana› perquè és d’ús comú en els àmbits acadèmics, socials i polítics com a manifestació integradora dins de la cultura catalana. 2 També es pot consultar l’actualització dels municipis i de les entitats locals inframunicipals i metropolitanes a la pàgina web: http://www.civis.gva.es/civis/va/civis/civis.htm 3 En aquest sentit, Ismael Vallès exposa que: «València és manté encara ortografiada a la castellana, sense haver adoptat la pròpia ortografia i algunes de les ciutats de més habitants com les d’Alacant, Elx, Castelló, Alcoi i Sagunt, han optat per la fórmula bilingüe (Alcoi /Alcoy) que és innecessària –entre altres coses per la proximitat del català i el castellà– i s’ha demostrat desastrosa, car en la pràctica predomina l’ús de la forma castellana, i no clarifica res» (2000: 503). 1
Criteris de denominació toponímica al País Valencià
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els textos no oficials com ara els mapes, rètols, etiquetes o documents mercantils, cal usar la forma oficial i legal del topònim (Graells et al. 1999: 27). D’altra banda, en els criteris que se segueixen en el tractament traductor de la toponímia es distingeix entre toponímia major (ciutats, viles i pobles) i toponímia menor (partides, llocsdits, etc.). Aquesta darrera es recull en els dos volums de Toponímia dels pobles valencians que editava la Conselleria de Cultura, Educació i Ciència, conjuntament amb la Conselleria de Medi Ambient (Lacreu et al. 1995: 57)4 i, en l’actualitat, l’Acadèmica Valenciana de la Llengua. Malgrat això: Aquesta consideració [la distinció entre toponímia major i menor] presenta un interès científic molt reduït. Al contrari: ha servit per excusar falles notables d’alguns investigadors que han tingut peresa d’acudir a les fonts completes, i potser difícils, de la toponímia, i han bastit teories gratuïtes partint de publicacions sempre insegures com són els Nomenclàtors oficials o les Enciclopèdies. Històricament no existeix cap diferència essencial entre els topònims acollits en aquestes obres, i batejats ‹majors›, i els anomenats ‹menors›; car és evident que molts noms de pobles actuals, i fins de ciutats, eren topònims ‹menors› fa pocs anys; que, en canvi, topònims ‹majors› vénen cada dia a engrossir les files de la toponímia ‹menor›, quan els pobles i les aglomeracions importants es despoblen i s’enrunen; i aquest fenomen s’ha produït a totes les èpoques de la història, i encara es desenvolupa sota els nostres ulls (Moreu-Rey 1999: 15).
Aquesta distinció no representa cap problema pel que fa a topònims no compartits entre territoris de parla diferent; tanmateix, d’altres, com ara serres o rius, esdevindran un problema de denominació si se segueix el criteri de territorialitat, ja que depenent de la llengua del territori on s’ubiquen o per on passen, es denominaran en una llengua o en una altra.
3. Objectius i metodologia de l’estudi toponímic Tenint en compte les possibilitats de denominació toponímica citades anteriorment, l’objectiu principal d’aquest estudi és el de determinar quin o quins d’aquests criteris de denominació toponímica se segueixen en la Gran enciclopedia temática de la Comunitat Valenciana (GETECV), obra en format CD-ROM, publicada per l’Editorial Prensa Valenciana, pertanyent al periòdic de tiratge autonòmic Levante. El mercantil valenciano. En aquest sentit, els objectius secundaris han estat dos: per una banda, comprovar si els criteris es mantenien en els topònims territorials (per exemple, el cas dels municipis) i, per l’altra, si aquests també s’acomplien en els interterritorials (com ara els rius). La metodologia que s’ha seguit en la consecució d’aquest treball ha estat una metodologia contrastiva segons la qual s’ha realitzat la comparació entre tres fonts documentals: els topònims de la GETECV, la web oficial de la Generalitat Valenciana (on apareix la denominació oficial dels topònims) i la Toponímia dels Pobles Valencians (TPV), editada per l’Acadèmia Valenciana de la Llengua (que segueix un criteri de territorialitat a l’hora de representar els topònims). En comparar la primera i la tercera, en primer lloc, podíem Cal indicar que el nom d’aquestes conselleries ha canviat i que, actualment, es denominen Conselleria d’Educació, i Conselleria de Medi Ambient, Aigua, Urbanisme i Habitatge, respectivament.
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Llum Bracho Lapiedra
descartar si les denominacions de la GETECV corresponien a la consecució d’un criteri de territorialitat, amb la qual cosa calia contrastar si les denominacions eren coincidents o no amb les oficials, d’acord amb la web de la Generalitat Valenciana.
4. Anàlisi dels resultats toponímics L’anàlisi dels resultats observats amb l’estudi contrastiu a dalt esmentat en un total de 236 topònims, entre municipis, orografia i hidrografia, ens permet afirmar que la desigualtat total entre els topònims de la GETECV i de la TPV és d’un 50%; en el cas dels territorials aquesta diferència puja a un 75% i, en el cas dels interterritorials, baixa a un 27%, com es pot observar a la Taula 1. Tipus de topònims
Núm. de topònims
No coincidents
Desigualtat sobre coincidents
Territorials
104
1
75%
Interterritorials
132
53
27%
Total d’analitzats
236
54
51%
Taula 1. Comparació toponímica entre la GETECV i la base de dades de la TPV.
D’altra banda, l’anàlisi qualitativa dels topònims territorials de la GETECV (amb una desigualtat entre aquestes dues bases de dades del 75%, com s’observa a la taula anterior), permet classificar els topònims territorials en cinc apartats d’acord amb la tipologia descrita: 1. Topònims de la zona catalanoparlant amb denominació en castellà (per exemple, Montroy o Alboraya), que ens porta a la conclusió que la GETECV no segueix el criteri territorialista. 2. Topònims de la zona catalanoparlant en català (per exemple, Alcoi) que no coincideixen amb la forma oficial, bé en bilingüe o bé en castellà, de la qual cosa es dedueix que la GETECV no és consegüent amb el criteri oficialista ni l’historicista, tenint en compte que l’enciclopèdia esmentada està escrita en castellà. 3. Duplicitat de denominacions (per exemple, podem trobar tant Burriana com Borriana i tant Gestalgar com Xestalgar). 4. Errors de coherència denominativa; per exemple, trobem Cervera del Maestre i també Zorita del Maestrazgo, en referència a la mateixa comarca: el Maestrat. 5. Errors de coherència ortotipogràfica als topònims de la zona catalanoparlant, que podem subclassificar en a) amb grafia en català en, recordem-ho, un text escrit en castellà (per exemple, Nàquera); b) amb grafia en castellà, malgrat que el topònim té forma catalana: la Llosa de Camacho, enlloc de, seguint un criteri historicista: la Losa de Camacho o un criteri territorialista: la Llosa de Camatxo5, i c) amb grafia distinta a l’original (per exemple, Almiseràt o Benassau; escrits correctament: Almiserà i Benasau, respectivament). Aquestes dades qualitatives es poden observar de manera quantitativa en els gràfics següents (Gràfic 1 i 2). Una cerca en Google.es ens mostra que el terme Llosa de Camatxo, a més, és més usual en el ciberespai, amb uns 236.000 resultats, mentre que cercant Llosa de Camacho, apareixen uns 106.000 resultats. [Consulta: desembre, 2010].
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Criteris de denominació toponímica al País Valencià
Errors de coherència ortotipogràfica en topònims territorials
amb grafia en català
31% 46%
amb grafia en castellà amb grafia distinta a l'original
23%
Gràfic 1. Classificació tipològica dels topònims territorials de la GETECV.
En el Gràfic 1, podem observar, en primer lloc, que més d’una tercera part dels topònims territorials que en la TPV consten en valencià, apareixen en castellà en la GETECV. Així mateix, una tercera part dels topònims territorials d’aquesta enciclopèdia no tenen una denominació ben definida. Finalment, els errors de coherència resulten d’un gran percentatge, ja que en sumen gairebé una tercera part. Si ens centrem ara en els errors de coherència ortotipogràfica, reflectits en el Gràfic 2, la majoria (un 46 %) se relacionen amb la conservació de grafies catalanes; gairebé un terç del total apareixen amb una grafia distinta a l’original i, en darrer lloc, hi ha els topònims territorials amb errors de coherència produïda per una grafia en castellà en el topònim català. Classificació tipològica de topònims territorials de la GETECV Topònims valencians en castellà 16% 13%
32%
Topònims oficial no coincidents en català Duplicitat de denominacions
30%
9%
Errors de coherència denominativa Errors de coherència ortotipogràfica
Gràfic 2. Errors de coherència ortotipogràfica en topònims territorials.
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Llum Bracho Lapiedra
En relació amb els topònims interterritorials de la GETECV, amb una desigualtat del 27% en els topònims que coincideixen en comparació amb la TPV, podem classificar-los en cinc apartats: 1. Topònims valencians en castellà (com ara sierra Engarcerán per a la serra d’en Galceran). Se’n dedueix que no segueix, doncs, el criteri territorialista. 2. Manca de coincidència de grafies (per exemple, río Boïlgues per al riu Bohílgues). 3. Manca de coincidència denominativa (per exemple, río Vacas per al riu Vaca o de Xeraco). 4. Doble denominació (río Mijares; río Millares) i 5. Grafia catalana (río Palància, río de la Sénia). Per tant, d’acord amb això, la GETECV tampoc no sembla seguir el criteri historicista en aquests topònims. Classificació tipològica de topònims interterritorials de la GETECV
19%
24%
5%
19%
Topònims valencians en castellà No-coincidència de grafies No-coincidència denominativa Doble denominació Grafia catalana
33%
Gràfic 3. Classificació tipològica dels topònims interterritorials de la GETECV.
En aquest sentit, en les dades quantitatives en relació amb els topònims interterritorials (veg. Gràfic 3), destaca la manca de coincidència de grafies entre els topònims de la TPV i de la GETECV. A més a més, un quart dels topònims d’origen valencià apareixen en castellà, malgrat que apareixen grafies catalanes (impròpies del castellà) en un 20% dels topònims. I, finalment, cal subratllar el 20% de indefinició denominativa, la qual cosa fa entreveure una gran manca de criteri en la nomenclatura dels topònims interterritorials.
5. Conclusions En definitiva, com s’ha pogut comprovar amb les dades analitzades i mostrades al llarg d’aquest estudi, podem afirmar que no es detecta que en la publicació de la Gran Enciclopedia Temática de la Comunitat Valenciana es tinga en ment un criteri clar sobre denominació toponímica. A més a més, és evident que la informació que proporciona aquesta enciclopèdia sobre els topònims territorials és, amb escreix, molt superior a la que hi consta en relació amb els interterritorials (com ara els rius).
Criteris de denominació toponímica al País Valencià
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Finalment, la manca de coincidència denominativa entre l’enciclopèdia estudiada i la base de dades Toponímia dels Pobles Valencians, tant en els topònims territorials (d’un 30%) com dels interterritorials (que ascendeix a un 20%), demostra que, pel que fa a la nomenclatura d’aquesta part de l’onomàstica, al País Valencià hi ha una gran indefinició denominativa, probablement causada per la diversitat de criteris de denominació toponímica existent (Bracho 2008).
Referències bibliogràfiques Bracho, Llum (2008): El comportament ideològic a través de la toponímia en la traducció ambidireccional de textos ambientals en català. In: Llengua & Literatura 19, 189-220. Cap de l’Estat (1985): Ley 7/1985, de 2 de abril, Reguladora de las bases del régimen local. In: BOE 80 de 03/04/1985. http://www.boe.es/aeboe/consultas/bases_datos/act.php?id=BOE-A-1985-5392 CIVIS. Portal de la Direcció General de Administració Local. Informació Municipal - Dades d’entitats locals. [en línia] http://www.civis.gva.es/civis/va/civis/civis.htm DDAA (2009): Gran enciclopedia temática de la Comunitat Valenciana. València: Editorial Prensa Valenciana. [CD-ROM]. 20 vols. DDAA (2009): Toponímia dels pobles valencians. València: Acadèmia Valenciana de la Llengua. [Vol. 1 + CD-ROM, actualitzable en línia]. Graells, Jordi et al. (1999): Criteris de traducció de noms, denominacions i topònims. In: Criteris Lingüístics 3. Barcelona: Generalitat de Catalunya, Departament de Cultura. Lacreu, Josep et al. (1995): Criteris lingüístics. In: Propostes lingüístiques 2. València: Generalitat Valenciana, Conselleria d’Educació i Ciència. Moreu-Rey, Enric (1999): Els nostres noms de lloc. Mallorca: Moll. Nicolàs, Miquel (1998): La història de la llengua catalana: la construcció d’un discurs. València / Barcelona: Institut Interuniversitari de Filologia Valenciana / Publicacions de l’Abadia de Montserrat. Presidència de la Generalitat de Catalunya (1998): Llei 1/1998, de 7 de gener, de política lingüística. In: DOGC 2553, de 09/01/1998. http://educacio.gencat.net/extranet/dogc/llei_1_1998.pdf Presidència de la Generalitat Valenciana (1983): Llei 4/1983, de 23 de novembre, d’ús i ensenyament del valencià. In: DOGV 133, 01/12/1983. http://portales.gva.es/sdg/legislacion/valenciano/Llei%20 dus%20i%20ensenyament%20del%20valencia.htm Presidència del Govern de la Comunitat Autònoma de les Illes Balears (1986): Llei 3/1986, de 29 d’abril, de normalització lingüística. In: BOCAIB 15 de 20/05/1986. http://contingutsweb.parlamentib.es/ Biblioteca/Legislacio/balears_leg/textos/bocaib_1983_1996/1986/IB_llei_3_1986_bocaib.pdf Vallès, Ismael (2000): Normalització dels noms dels municipis al País Valencià. València: ed. Denes.
Claude Buridant (Université de Strasbourg)
L’onomastique dans la Chronique des rois de France
1. Brève présentation de la Chronique La Chronique des rois de France, vaste chronique retraçant l’histoire des rois de France depuis sa légendaire origine troyenne jusqu’au règne de Philippe-Auguste, est la traduction en français de chroniques latines conservées à Saint-Denis, de styles très divers, allant de la sécheresse des annales à la versification ampoulée de l’épopée en vers de la Philippide de Guillaume le Breton, qui retrace sur le modèle virgilien la vie du souverain. Il est exclu, dans cet exposé, de détailler la composition de l’ensemble, qui a fait l’objet de plusieurs mises au point, dont, au premier chef, l’article très documenté de Gillette Labory, identifiant minutieusement les sources manuscrites et soulignant les rapports avec les chroniqueurs des Grandes Chroniques de France, autre monument des premiers historiens nationaux; c’est avec sa très précieuse collaboration qu’est en préparation l’édition de la Chronique, à la Société des Anciens Textes Français et que je présente ici cette contribution à l’onomastique. J’en ai rappelé ailleurs les principaux éléments comme support à des études portant sur différents aspects de la langue du traducteur. Je rappellerai simplement ici ce qui me semble suffisant pour mon propos en m’appuyant sur l’étude de Gillette Labory consacrée à cette ‹première histoire nationale française›. La traduction, exécutée par un anonyme entre 1217 et 1230, a comme source la compilation ou la continuation d’Aimoin, historien et moine de Fleury, auteur d’une Historia Francorum écrite au début du 11e siècle et continuée jusqu’en 1015 ou 1031, parvenue à l’abbaye de Saint-Germain-des-Prés, où elle est recopiée, interpolée, poursuivie en plusieurs étapes jusqu’à la fin du 12e siècle. L’archétype en est le ms. latin 12711 de la Bibliothèque Nationale de Paris, écrit à Saint-Germain-des-Prés. C’est de ce manuscrit que dérivent tous les manuscrits comportant continuations et interpolations; le plus ancien, le manuscrit Vatican Regina 550, écrit à Saint-Denis au début du 13e siècle, est le manuscrit de référence pour la chronique latine, dont Gillette Labory fait une collation soigneuse pour la mise au point de l’édition, mais le texte se trouve aussi dans l’édition d’Aimoin parue en 1567 à Paris, chez Wechel, et disponible sur le site de la Bibliothèque de l’Université Complutense de Madrid. La traduction française est conservée dans deux rédactions: – le manuscrit Vatican Regina 624, de la fin du 13e siècle ou du commencement du 14e, mais amputé du début (Mérovingiens et Pippinides) et ne commençant qu’avec la Vie de Charlemagne: ms. A. – le manuscrit 869 du Musée Condé de Chantilly, du dernier quart du 15e siècle, amputé de sa fin: ms. B.
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Claude Buridant
Cette chronique anticipe sur le Roman des rois ou Grandes Chroniques de France, composées par Primat quelque cinquante ans plus tard à partir des mêmes matériaux, dont le ms. latin 5925 de la Bibliothèque Nationale de Paris, qui utilise par ailleurs le travail de l’Anonyme, en dehors des rédactions subsistantes, en y recourant de manière systématique à partir des Vies de Louis VI et de Louis VII. En complément de l’étude de la traduction du latin, il est donc licite de comparer: – les deux versions de la Chronique des rois de France dans les deux rédactions manuscrites, terrain privilégié pour l’étude des évolutions de la langue; – la Chronique des rois de France et les Grandes Chroniques de France, qui ont fait l’objet d’une édition monumentale de Jules Viard, à la Société de l’Histoire de France, que nous essaierons d’égaler dans la mesure du possible. La présente étude, limitée à l’onomastique de la première partie de la Chronique des rois de France, allant des origines à la Vie de Charlemagne dans le manuscrit B, seul manuscrit conservé en l’occurrence, sera ainsi illustrée par des exemples référés à la future édition (Livre, Chapitre de l’original, paragraphe de l’édition. Ex. III, CXVIII, 56), au texte latin d’Aimoin dans l’édition Wechel (Livre, Chapitre, page. Ex. IV, XCVI, 475), et aux Grandes Chroniques dans l’édition Jules Viard, abrégé en GC, tome et page (Ex. GC, II, 62).
2. Un premier tamis: la latinisation des noms autochtones La Chronique des rois, dans sa première partie en particulier, représentée uniquement dans le manuscrit B de Chantilly, qui traite de la période mérovingienne et pipinnide de l’histoire de France, depuis les légendaires origines troyennes jusqu’à Charlemagne, est le lieu d’un fourmillement onomastique remarquable, qui peut contribuer à compléter largement les tables des éditions et des dictionnaires des anthroponymes et toponymes contemporains, par des attestations en latin et en langue vulgaire, pourvu qu’elles soient soumises à une revue systématique et rigoureuse que je m’efforcerai de mener ici en ne retenant que les exemples les plus illustratifs. L’original latin de la chronique présente sous leur habillage latin les noms de personnes et de lieux de diverses origines, romaine au sens large, germanique dans ses variantes francique, burgonde, lombarde, wisigothique, arabe et même celtique, dont on peut reconstituer ou conjecturer la forme vernaculaire. A travers les chroniques, annales, récits de toutes sortes, dès le haut Moyen Age, il s’agissait de transcrire en latin, langue unique des lettrés, les différents apports des civilisations héritées de l’Empire romain ou qui s’y étaient implantés, et non sans variantes, comme le remarque B. Dumézil à propos des noms de la reine Brunehaut: Pour comprendre le destin de cette femme, notre première tâche est de lui donner un nom. Les sources contemporaines la désignent en effet selon des formes extrêmement variables: Brunehilda, Brunechilda, Brunigildis, Brunigilda, voire Bruna... Ces incertitudes orthographiques s’expliquent par une volonté de transcrire en latin, unique langue de l’écrit, un nom issu des dialectes germaniques parlé par des peuples occupant l’Europe occidentale. (Dumézil 2008: 8)
L’onomastique dans la Chronique des rois de France
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Héritier et compilateur des grandes chroniques antérieures, Aimoin nous livre en matière d’onomastique une première forme d’adaptation, peut-être pas entièrement unifiée, mais relativement cohérente, soit un premier système de transposition ayant, sinon des règles strictes, du moins des lignes de force remarquables. Le chroniqueur n’est d’ailleurs pas dénué de connaissance philologiques; il mentionne au passage l’étymologie de toponymes germaniques –en langage barbarin– latinisés, ce que reprend la traduction: Deinde post pugnam quam inter Odoacram & Pheletheum fuisse superiori commemoravimus libello, profecti Longobardi de Golanda pervenerunt in Rugiland, quae Latine Rugorum patria dicitur. Nam land in lingua Germaorum, patria dicitur verbo Latinorum. Exempto autem humanis rebus Gudehoc, successit ejus filius Claffo. Decedente autem Claffone, Tato regnum tenuit. Quo tempore Longobardi relicta Rugorum patria venerunt in campos patentes, qui sermone barbarico felth appellantur, mansueruntque ibi. (Aimoin II, XIII, 104) ... Rugilande, qui est appelee en latin la terre aux Rugiens, car ce que l’on dit en latin, c’est a entendre en tiois land... en Chans overt, c’est une terre qui est ainsi appellee et en langaige barbarin en Felth (II, XIII, 11-12)
Mais le traducteur lui-même peut intervenir pour donner l’étymon d’un nom propre, comme pour le pantheon, dont il rappelle la composition en grec, en glosant le latin: un vieil temple et ancien qui estoit a Romme et qui avoit nom Pantheon. Il avoit nom Pantheon pour ce qu’il estoit sacré et dedié en l’honneur de tous les dieux aux sarrazins et aux paiens, car ce que nous disons en françoys ‹tout› dient les Grejoys ‹pan› et se que nous disons en françoys ‹dieu›, ilz dient ‹theos›, c’estoit a dire ‹le temple de tous les dieux›. (III, LVI, 61-62)
La toponymie et l’anthroponymie germanique sont largement latinisés, comme en témoignent quelques exemples. Les toponymes germaniques en au (germanisation de aqua, adj. ‹humide› au départ, dont le féminin substantivé a désigné tout lieu humide) sont latinisés en -o, avec une déclinaison que peut refléter la traduction: Bardengo (III, CIX, 10. Aimoin, IV, LXXVIII, 436 : in pagum... Bardengoum / GC, III, 54 et note 5: Bardengohout: Bardengau, Hanovre, près de Hunebourg, sur l’Illmenau. Arrabo est une des nombreuses formes latinisées pour la Raab, recensées par Graesse (Raba, Rabus, Ar(r)abo, Arrobo, Hrapa, Hraba, Rabaniza, Rhaba), Aimoin, IV, LXXXII, 446: usque ad Arrabonis fluenta: la riviere d’Arrabone, III, CXI, 8 / GC, III, 69: Arrabone: Raab, rivière de l’Autriche et de la Hongrie, affluent de droite du Danube. Cambum est la latinisation de Kamp: Aimoin, IV, LXXXII, 446 : Cambum fluvium: la riviere de Cambe, III, CXI, 6 / GC, II, 67 et note 2: le Kamp, rivière de Basse-Autriche, affluent de gauche du Danube. Les anthroponymes germaniques en h sont adaptés en ch non sans témoins de leur forme originale parfois, comme pour hari: Cherbertum, Aimoin, II, XXVIII; II, XLI, 45 / Charibertus, Aimoin, III, XLIII, 113; III, LVIII, 235 / Cherebertus qui et Aribertus dictus est, Aimoin, III, I, 146; III, II, 147. Formes qui se réflètent dans la traduction: Cherbert / Charibert: Caribert, un des fils du roi Clotaire 1er et d’Ingonde, roi de Paris. A ce premier niveau, les possibilités de travestissement existent déjà, qui peuvent se transmettre dans la traduction. Remarquable est le cas d’Avistraice, III, CI, 4, qui traduit une forme altérée du latin, comme l’a relevé J. Viard: Aimoin, IV, LV, 393: Amistrachiam / GC, II, 227 et note 4: Anistrachie, mauvaise lecture d’Unistrachia pour Wistrachia: partie orientale
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de la Frise actuelle bordée par le Zuydersee (auj. Westergoo). Alomoram (fluvium), Aimoin, IV, LXXXIV, 449 - passé dans la traduction: Alomore, III, CXII, 4 / GC, III, 72- , est une altération de alcmona / altmona nom primitivement celtique désignant un mont fortifié, puis la rivière coulant au pied, germanisé en Altmül, actuellement Altmühl, affluent du Danube. Des mélectures dans l’original peuvent aussi engendrer de faux noms propres, comme dans Olier, III, XXXVII, 11. Aimoin, III, LV, 247: Olericum quendam / GC, I, 331 : un home qui Holeriques avoit nom. C’est le clericum quendam d’Aimoin qui, par suite de la confusion du c, sans doute mal fait dans le manuscrit, avec o, a donné Olericum, d’où Holeriques.
3. Transpositions par mésinterprétation du latin et leçons déformées Des leçons erronées viennent de mélectures du latin témoignant en particulier des habitudes d’une scripta continua agrégeant des éléments clitiques à leur support; les prépositions du latin sont ainsi, dans la traduction, le lieu privilégié d’agglutinations: Abhibernie pour Hibernie, III, LI, 98. Aimoin, III, XXV, 295-296: beatus Colombanus ab Hybernia Oceani progressus: l’Irlande, évangélisée par saint Colomban. Ingolande pour Golande, II, XIII, 8, 12. Aimoin, II, XIII, 104 : ingolanda / GC, I, 135: la terre de Golanda: Goland, pays occupé par les Lombards dans leur migration de Scandinavie. Ce phénomène touche aussi l’article dans la traduction: Liubi(le) le roy des Vulziens, III, CXXVIII, 4. Aimoin, IV, CXI, 516 : Liubi regis Vultzorum / GC, IV, 76: le roi Leubi. Leçon à rectifier: l’article le est une première fois agglutiné au nom propre et répété; lire Liubi le roi des Vulziens, génitif latin de Liubus: Lieube, roi des Vulsques. Des altérations touchent le corps même de noms propres: à quelques lignes de distance, on trouve Luiserne, III, CXVII, 5 / Berserne, III, CXVII, 7, leçon déformée. Aimoin, IV, XCI, 465: Luceria / GC, III, 98 et note 3: Luceria, Italie, prov. et district de Foggia (Pouille) ou plutôt Nocera inferiore dei Pagani, province de Salerne. Le traducteur donne lui-même deux variantes d’un même anthroponyme: Icelui Soibaut ou Sisebot, III, LX, 58. Soibaut, III, LX, 57, 61, 62. Aimoin, IV, XIII, 328 : Sisebodus / GC, II, 112 et note 2: Sisebut, roi d’Espagne, 612-621, donné comme le successeur direct du roi Witteric, mais succède à Gondemar (610-612) après son assassinat. Certaines leçons laissent perplexe: Doulx Riches, III, CV, 4. Aimoin, IV, LXVIII, 415 : Duadives / GC, III, 21 et note 5, Eginhard, Annales: in loco qui duas dives vocatur. Est-ce la traduction de Dulcis dives? On ignore où est cette localité. J. Viard rapporte aussi l’exemple de Luxovium traduit étrangement par Lieuberbiz dans les Grandes Chroniques de France à la suite d’une mélecture du ms. latin de la Bibliothèque Nationale, 5925, fol. 67, source de la traduction: Lux à la fin d’une ligne et ovium au commencement de la ligne suivante, pris pour le génitif pluriel d’ovis, ‹berbiz›,et lux interprété en rapport avec ce génitif (GC, II, 55 et note). Un nom commun peut être pris pour un nom propre: Ung chastel qui estoit assis sur la marche qui Amporro a nom, en la langue denesche estoit appellé Reric, III, CXVIII, 54. Aimoin, IV, XCVI, 475: destructo emporio / GC, II, 112 et note 2: un chastel qui avoit nom Empores. Emporium désigne un comptoir marchand.
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Un anthroponyme latin peut être pris pour un toponyme: Ung chasteau qui a nom Rumstan, III, CIV, 14. Aimoin, IV, LXVII, 414 : Captoque in itinere Rumstano, cum ad urbem praedictam venisset, mater et soror neptis Vuarnarii ducis ad conspectum eius adductae sunt / GC, II, 256 et note 4: et si pristrent des gens Ramistame, frere le duc Guedon et oncle le duc Gaifier, qui de son neveu s’en estoit a li fuiz et puis de li a Gaifier: Remistane, frère d’Eudes, duc d’Aquitaine.
4. Leçons erronées par incompréhension On relève à l’occasion des leçons travesties par incompréhension: En ce temps mesmes avint une grant guerre entre Clovis et Alarique, le roy des Gotiens, et on sceut bien que Clovis commença ceste guerre plus pour ce qu’ilz estoient Ariens, si come estoient les Bourgoignons, qu’il ne fist pour autre chose... I, XXVI, 1. Dans le manuscrit: si come ilz n’estoient rien! Aimoin, I, XX, 62: quia Ghoti Arriane hereseos secuti Burgundiones erant.
5. Graphèmes équivoques Comme très souvent dans les manuscrits médiévaux écrits en écriture gothique, et les manuscrits A et B de la Chronique des rois de France, des graphèmes peuvent être difficiles à distinguer, comme ils le sont déjà dans l’original: les noms propres, par leur opacité, en sont des illustrations privilégiées, qui se présentent parfois sous des formes concurrentielles, pour autant que la lecture en soit assurée. Soit les graphèmes c et t et n et u dans ces quelques exemples: Ancharit, où les deux graphèmes sont représentés dans leurs variantes concurrentielles, sans compter la variante nasale en/an: Ancharit, III, XLVI, 7. Ancharis, III, XLVI, 3, 4. Auchari, roi de Lombardie, III, XLII, 1. Antharit, le roy de Lombardie, III, XLIV, 6. Enchariz, III, XLI, titre ; XLVI,3. Encharis, III, XLVI, 1. Aimoin, III, LXXVIII, 272: Autharis / GC, II, 22 et Table: Autharis (Authaire): Authari, roi de Lombardie. Coringiens (l. Thoringiens ?), II, IX, 28: les habitants de la Thuringe. Ceulx de Crace, III, XII, 6 / GC, I, 219: les Traciens: les Thraces. Les jambages sont aussi des lieux d’équivoques, soit u/n déjà relevé dans l’exemple précédent, mais aussi Caucius (l. Cantins?), II, XL, 1. Aimoin, II, XXXVI, 141: Cautinus: Cantin, évêque de Clermont en Auvergne. Ortove, III, CXVII, 4. Aimoin, IV, XCI, 465: Ortona / GC, III, 98 et note 2: Ortone: Ortona a mare, Italie, prov. de Chieti, dans les Abruzzes, sur l’Adriatique. La distinction in/ni/ui/m/im ui/iu est particulièrement délicate en l’absence de trait oblique sur í: [Germanie] peut se lire Germanie ou Germaine (passim). Nannins (l. Nannius?), I, V, 6. Aimoin, I, III, 26: Nannius, général romain en lutte contre les Francs. Thimotiens pour Tunotiens: Thimotiens, unes gens qui s’estoient partiz de la compaignie des Burgaulz, III, CXXV, 14. Thymotiens, III, CXXIV, 11. Aimoin, IV, CVI, 501: Tunotiarum / GC, IV, 64: Thimoteis: Tunotiens, peuple bulgare.
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D’autres graphèmes prêtent occasionnellement à confusion. – distinction b / h: Hertefroy, III, XXV, 4. Aimoin, III, XXXIX, 397: Bertefrido. – distinction c / e: Arusco, III, CXXVII, 3. Aimoin, IV, CX, 512: Aruseus: Arendsee, lac de Thuringe, avec mélecture possible dès l’original. – distinction c / r: Carane, le roy des Hongres, III, VIII, titre, 1. Aimoin, II, VI, 156: Cacanum / GC, I, 211: Kacanus: Cagane, roi des Huns. – distinction e / o: Genove, III, CXVIII, 23. Aimoin, IV, XLIV, 470 : civitatis Genuae: Gênes, Italie. – distinction ∫ long / l: godesaibe, III, CXVIII, 48. Aimoin, IV, XCVI, 474: Godelaibum / GC, III, 111: Godelaibbes: Godelaibe, duc des Abodrites.
6. Formes phonétiques de la transposition en français 6.1. Alternances Comme pour l’ensemble du vocabulaire, en l’absence d’orthographe réglée, un même nom propre présente souvent, dans la Chronique, des formes à alternances concurrentielles reflétant des phénomènes phonétiques généraux ou plus particulièrement les tendances graphiques du copiste. – alternance er / ar: saint Arnoul / saint Hernoul, saint Ernoul; Clermont / Clarmont, etc. – alternance er / re par interversion: Bertaire(s) / Bretaire, Brecaire(s) < Berchario; l’interversion de l donne aussi la forme saint Supplice – Souplice < Sulpicius. – alternance ier / er: Sierge / Serge. – alternance l / u témoignant de la vocalisation: Amalbert / Amaubert; Silvestre / Sauvestre. – alternance o / ou témoignant de la fermeture de /o/ en /u/: Cahors / Cahours; Tol / Toul. – alternance rhotacisme / lambdacisme: Barthasar / Balthasar; Dalmaise / Darmaise < Dalmatia. 6.2. Règles de transposition en français La transposition en français reflète les évolutions phonétiques générales qui se sont produites au cours de l’ancien et du moyen français et qui ont abouti, pour les anthroponymes et les toponymes, à des formes vulgaires que connaît le plus souvent le traducteur, mais qui lui échappent aussi quand il s’agit de l’énorme stock de noms propres que l’on peut qualifier d’exotiques, du fonds germanique en particulier, auquel il applique peu ou prou des règles d’évolution, L’effort d’actualisation historique s’observe aussi, dans le manuscrit B, lorsque des équivalents contemporains viennent doubler des toponymes anciens, comme Soabe, qui ores est appellee Allemagne, III, I, 8, etc.: la Souabe. On relève des cas similaires dans les GC, comme dans Neustrie, qui ore est appelee Normandie, II, 47.
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Parmi les principaux phénomènes évolutifs, on relève: – le traitement de a accentué libre: Walderada > Vaudree (évolution phonétique intégrale). – le traitement de o ouvert en ue: Mosa > Muese ; Odo > Uedes. – la vocalisation de l antéconsonantique, non sans alternance l / u notée supra: Sauve < Salvius; Walderada > Vaudree, etc. – le traitement de voyelle accentuée + nasale. Soit à l’intervocalique: -anu / -enu > -ain / -en / -an: Aginiano > Aginain; Sabinianus > Sabinien. Avec mouillure NY dans -ania > -aigne: Campania > Champaigne; Cefalenia > Cefalaine. Ou dans -onia > -oigne / -oine: Colonia > Coloigne; Saxonia > Sessoigne. Soit en position implosive avec mouillure: civitatem sanctoniam > Xainctes. – le traitement du groupe consonne + yod avec anticipation. Dans la finale -oliu: [Palatoliu] > Paleisuel. Dans -ariu > -aire, avec réduction possible en -ere: Autharius > Authere. Bertarius > Bertaire(s), Hermarius > Hermaire, etc., mais aussi -ier: Hildegarius > Hildegier. Dans -eriu > -ier: Itherium > Itier. Dans -uria > -uire: Asturia > Astuire (= Asturie). Dans atia, asia> aise: Dalmatia> Dalmaise, Asia > Aise, Austrasia > Austraise, Warmatia > Varmaise / Vermaise. – le traitement des occlusives intervocaliques. Soit g en entourage vélaire: Drogonem > Droon. Soit d intervocalique: Odoenus > Oains. Soit b intervocalique: Eborinum > Evroin, Sabina > Savine. On relèvera ici le traitement de la finale celto-latine -iacu en -i: Frontiacum > Fronci (= Fronsac), Latingiacum > Laigny (= Lagny), Salmonciaca > Salmonci (= Samoussy), Vinciaco > Vinci (= Vinchy). Et de celle en dunum: Augustodunum > Ostun la cité. Mais peut être simplerment francisée la finale dans les anthroponymes ou toponymes, attestés déjà pour un bon nombre sous leur forme vulgaire: – dans les anthroponymes (petite sélection représentative): Anthemius > Antimes, Aretehus > Ariste, Avitius > Avites, Donus > Donnes, Edicius > Edice, Vlaucatus > Flanques, Gislam > Gille, Godinus > Godin, Lucius > Luce, Marcus > Marques, Monmolus > Monmole, Crocus > Troques. – dans les toponymes (petite sélection représentative): Brennacum villam > Brenne, Combis villam > Combes, Dispargum > Dispargue. Sont francisés à des degrés divers des toponymes latinisés d’origine étrangère largement attestés parfois sous cet habillage dans la littérature de l’époque: Cordres, une cité d’Espaigne; Capes < Capua; Jadres < Iadera (= Zadar); Osche < Osca (= Huesca); Tarsatique, une cité de la contree de Liburne, III, CXV, 16. Aimoin, III, LXXXIX, 458: Tarsaticum / GC, III, 86 et note 3: Tersatz, bourg de l’Istrie, près de Fiume. Sont maintenus dans la traduction d’anciens toponymes latins ayant devancé leurs concurrents plus récents: Istre < Ister, nom latin du Danube au regard de Dunoe (cf. infra). La francisation peut être le calque d’une forme adjectivale: Catine, III, XXXVI, 16. Aimoin, II, XXXII, 137: incivitate Catinensi: Catane, en Sicile. La transparence est nette également dans Hispale < Hispalensis episcopus (= Séville), Nucerine < Nucerina civitate, Sedunense < Sedunensis (pontifex) (= Sion, Suisse), Tridentine < Tridentino territorio (= Trente, Italie). L’habillage français peut être purement graphique, comme dans -um prononcé /õ/ au Moyen Age = on: Carnauton < Carnuntum (= Hainburg, Autriche), Vuaracon, le conte de Bretaigne / Vuarocus, maintenant la déclinaison latine.
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La déclinaison à alternance imparisyllabique se maintient souvent dans les patronymes issus de -o / -onem: Arsafes – Arsafion, Bueves – Bobon, Cleph – Claphon, Giles – Gilon, Huet – Huon, Sanses – Sanson, Uedes- Uedon. Mais une seule forme est parfois retenue répondant à l’emploi casuel du latin: Oles < Olo, avec des finales en -o / -on: Coco < Coconem, Tasso < Tassonem, Tasco / Tascon / Taiscon < Thrasco. Certains exemples sont problématiques: Marien, III, I, 16 (pour Marion?). Aimoin, III, I, 147, Mario.
7. Les noms propres d’origine arabe Les anthroponymes d’origine arabe, peu nombreux, ont un traitement assez cohérent et constituent un ilot exotique. Les éléments de base originaux restent transparents et les finales originales sont maintenues, au regard de leurs correspondants francisés dans les GC. Soit Abd (‹serviteur›): Abdela / GC Abdelle, Abdirama / GC Abderame, Abdirama / GC Abderame (= Abd-el-Rahman, gouverneur de la province d’Espagne, vaincu par Charles Martel). Soit Abu (‹père de›): Abulabaz, Abulaz, Abumarvan. Soit Ibn (‹fils de›): Ibnalarabi. Est déjà transposé en latin, sous la forme hébraïque, Abraham, le nom arabe d’Ibrahim. Amor est la forme latine répondant à Omar, transposée en Amour, roi sarrasin.
8. Les noms propres d’origine germanique 8.1. Formes latinisées Comme on l’a déjà observé, les noms propres germaniques, massivement représentés, sont passées par le tamis du latin, que reflète habituellement leur transposition en français, non sans travestissements parfois, comme dans ces quelques exemples: ad Alaram fluvium > Alare le fleuve: la rivière Aller, affluent de la Weser. Ambram fluvium > Ambre: l’Emmer, affluent de la Weser. Badenfliot > Badenfliot / GC, Badenflot: Beidenfleth, sur la Stör, dans le Schleswig-Holstein. Buki et variantes se retrouvent dans deux toponymes: Buki > Bucri / GC, III, 32 et note 6: Burki: Bückeberg, massif de la Weser; Hohbuocki > Hobbucki – Hubboki (sic dans le ms., le premier b pour h) / GC, III, 124 et note 2: le Hobeck ou Hohbeckerberg, dans le Hanovre. Tulliacum > Culbiaque / GC, Tulbic: Zulpich en Rhénanie. 8.2. Séries toponymiques La transposition des toponymes et oronymes germaniques, massivement latinisés, s’opère selon des règles relativement cohérentes, à l’oeuvre dans des séries plus ou moins étoffées, non sans des altérations:
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– toponymes à base borc / burgus: Eresburgum > Ereborc – Erebourc - Herebourc / GC, III, 25 et note 1: Marsberg, auparavant Stadtberg; Vviziburgensis episcopus > Vuireborch: Würzburg, Bavière. – toponymes à base felt / feldus: Eselsfeth > Esefeth – Esefelt: Itzehoe, SchleswigHolstein; Smetfeldus > Senefet: la plaine de Sendfeld, en Westphalie. – toponymes à base heim latinisés sous différentes formes ou non: Ingelinheim > Ingelenheim / Ingilem: Ingelheim, près de Mayence; Cussestin > Cusestem: Kostheim, Hesse. – toponymes à base strut: Onestruth > Onestruch (l. Onestruth ?): Unstrut, rivière de Saxe. – toponymes à base furt : l’actuel Frankfurt a déjà en latin des formes variées, transposées et multipliées en français, dans la Chronique des rois comme dans les GC, indices d’une difficulté à fixer dans une forme stable un toponyme devenu opaque: Franconofur – Franconofuz – Franconofurd – Franconomur / GC, Franquenefort – Franquenefourt – Franquenehourt – Franquenewort – Franquenoforth. – toponymes en -ing latinisés: Skahumgi > Ahumgi (avec troncation) / GC, Skahingue: Schonigen, dans le Brunswick (cf. infra le traitement de cette finale dans les anthroponymes). 8.3. Séries anthroponymiques On rappellera que, succédant au système trinaire du latin, composé du nomen prévalent, du praenomen et du cognomen, le système anthroponymique des principaux peuples germaniques (Francs, Burgondes, Wisigoths) repose sur un principe unique sous deux formes : la forme binaire des noms composés, constitués de deux éléments, le second étant un substantif (-frid ‹paix›, -hildis ‹combat›) ou un adjectif (-berth ‹brillant›, hard ‹dur, fort›), déterminé par le premier; la forme dérivée de noms hypocoristiques (diminutifs) pouvant eux-mêmes revêtir une forme simple, constituée par le premier élément des noms composés: Berta, femme de Pépin le Bref, est la forme familière de Berthrada, qui a donné la forme savante Bertrae, forme populaire Bertrée. Il faut souligner cependant, avec M.-T. Morlet, que les noms germaniques «ont été créés par des populations dont le but n’était pas de produire des noms ayant une signification particulière, mais plutôt de former des noms réunissant des éléments bien connus d’eux, car ils figuraient dans des noms préexistants.» (Morlet 1968: 6. Cf. aussi Goetz 1996: 100). La conscience de la signification première de ces noms est en tout cas perdue chez Aimoin et ses sources, de même que dans la traduction. Ici encore, des séries se dessinent dans des transpositions relativement bien réglées: Noms en bald > baldus > baut, avec variantes: Gondebaut – Gondebault, Karibaut, Theodebal, Theobart, Villebaut. Noms en berg > berga > biere: Ingoberga > Angerbiere. Noms en brand > brandus > brant: Hyldebrant – Hyldebran. Noms en fold > foldus: Wolfoldus > Uulfolz. Noms en frid > fridus > froy: Anfroy, Hermenfroy, Hunfroy, Liefroy, Mainfroy, etc. Noms en gard > garda > garde: Hyldegarde, Visegarde. Noms en god > gaudus > gaut: Helingault.
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Noms en gilde > childis > childe / gilde: Bilichilde, Brunechilde, Herminigildes, etc. Noms en gisil > gisillus > gisille: Angesigille – Aregisille, Godesigille, Leudesigilles, etc. Noms en gis > gisus > gis: Vinygise – Vuinigise. Noms en gund > gunda > gonde / gunde: Caragonde, Fredegonde, Ingonde – Ingunde, etc. Noms en hard > hardus > art: Richart. Noms en hilde > hildis > hilde: Clodoïde – Clouaut, Nanthilde – Nanchilde, Svuanahilde. Noms en -ing > ingus > ingue / inge : Amingus > Aminges, Hemmingue, Setachingues, mais -ling latinisé en longus > long: Amalongus > Amelon. Noms en kind > kindus> kinde: Vindokindes. Noms en lind > linda > linde: Theudelinde. Noms en mir > mirus > mire: Clodomire, Ingomire, Marcomire. Noms en mund > mundus> mont: Agelmont, Leudemont, Sigismont. Noms en rik > ricus > rique: Monderique, Theodorique – Thierry. Noms en trud > trudis > tru/trouz: Gomatruz, Loutrouz, Pletruz, Rantruz. Noms en wulf (plus spécialement lombards) > -ulphus >- ulfe: Brunulfe, Chranulfes, Engulfes, Fadulfe le Lombart, etc. Noms en winth (plus spécialement wisigoths) > adaptations: Galdsunidam > Galsvinte – Gasinte, Galdsonda > Gasonde.
A l’exemple de Theodorique / Thierry, Clodoïde / Clouaut, peuvent être en concurrence des formes calques et des formes phonétiquement évoluées, comme froy < fridus, entrées dans le patrimoine onomastique commun. 8.4. Problème du W germanique C’est ici le lieu de traiter le cas des noms propres germaniques en W. A l’initiale, le W d’origine germanique connaît, en dehors de l’aire picarde, une évolution phonétique en /gw/ > /g/. La traduction offre les formes en g pour les patronymes attestés à l’époque dans la langue vulgaire, au regard des GC parfois: Wado > Gaidon / GC: Wascons; Walanem > Galon / GC: Walane. Le latin offre aussi des adaptations en h comme Helpi > Helpin / GC, Velpium: Welf 1er, comte de Bavière. A l’intervocalique, dans des anthroponymes originairement en wald (‹gouverner›), son amuïssement suit celui du latin. La traduction les rend sous les formes -oal(d) /oalz avec vocalisation -ouaut / ouault, et des rhotacismes -ouart: Ansoaldus > Ansoalz, Clodoaldum > Clodouart qui ores est appellé saint Clouaut, Gondouault, Grimouaut – Grimouault, Rodoal – Redoalz, Regnault, etc., mais il est occasionnellement maintenu: Givaldus > Gilvart, Sigivalt. En dehors de ces cas, W est souvent maintenu, et on relèvera avec intérêt les différentes possibilités pour le transcrire dans le manuscrit B: – en position initiale: transcription par uu: uuisere [131 v°a]; uuandelmer [88 r°b]; uuilleris [150 r°a]. Transcription par υu: υuaracon [56 v°a] – υuaraton [124 v°b] υuarocus [55 r°b], etc. Transcription par υυ: υυarmaise [133 v°b]; CV, 23 [135 r°a]. Transcription par υ: υacon, [32 v°b]; υaharne [139 v°a]. – en position implosive: transcription par uu: suuanahilde [129 r°b] < suuanahildem.
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9. Noms de peuples La traduction offre, pour la transposition des noms de peuples, une large palette de suffixation l’emportant souvent sur les formes de base calquées, auxquelles on peut comparer les équivalents dans les GC: -ciens: Abodriti > Abodriciens / GC: Abodriciens 11 occ. Abodrites 6 occ. - Abodrices 1 occ. Gothi >Gotiens – Gocien(s) 38 occ. - Goths occ. - Gos 1 occ. - Gotz 1 occ. Mais aussi en -ins: Carantins (les habitants de la Carinthie). -iens: Heruli > Eruliens. Westphalorum (regione) > Faliens / GC: Wistephalois. -ois: Carniolois (les habitants de la Carniole), Navarroys. -ans: Guduscanorum > Guduscans, peuplade bulgare. - ain: Ribuarium fines > Riboains / Roboains (les Francs ripuaires). Mais est également employée la périphrase commode ceulx de, qui peut pallier le manque d’équivalence synthétique: Thraces > ceulx de Crace (l. Trace) / GC: Traciens; Dunenses > ceulx de Dun; ceulx de l’Abie ; ceulx de Sardaigne. Cette même périphrase est employée par le traducteur des Fet des Romains en équivalence souvent modernisée des peuplades antiques sur le territoire de la Gaule et ailleurs, comme le relève J. M. A. Beer en dégagent le processus d’unification anachronique ainsi à l’oeuvre (Beer 1976: 92 et 209-213).
10. Formes latines conservées, alternances et doublements Il n’est pas exceptionnel que des formes latines soient conservées dans la traduction. Dans les anthroponymes, une longue liste peut ainsi être dressée, où dominent en particulier les grands noms de l’Antiquité, à côté de noms de hauts personnages de la période mérovingienne, sous forme déclinée parfois: Antiochus, Brutus, Campulus, Cassiodorus, Crannichis, Dragamos, Ebrardus, Egideo, Egila, Endoeli (génitif latin), Feleteum (accusatif latin), Focas, Fortunatus, Francio, Frigantes, Gluomi, Heliodorus, Heraclionas, Horsmida, Leuva, Liubi (génitif latin), Neptunum (accusatif latin), Saburro, Sedeleuba, Tolga, Torgotho, Torquatus, Totila, Vuolfus. De même pour les toponymes, où le maintien des originaux –dont les toponymes de source celtique en -iacu–, peut refléter l’ignorance du correspondant vulgaire, à restituer dans le glossaire: Adiacus et Ypiacy (dans la région de Cahors, non identifiés), Captoniacum (Choisy-au-Bac, Oise), Centulo, Ecredum (ms. Dechredum pour Ebredum (Embrun, Alpes), l’eglise de mon seigneur saint Laurent, qui est apellee a craticula (Saint-Laurent du Latran, en référence au martyr du saint), Dravernum (Dravail, Essonne), Maurelegiaco (Marlenheim, Bas-Rhin), Petrocia (Perusse, Aveyron), Port Veneris (Portovenere, Italie), la riviere Scaldiam (l’Escaut), Spinzia (Epoisses, Côte-d’Or), Uceticum (Uzès, Gard), apud Vapingum (Gap, Hautes-Alpes), Vinemacus (le Vimeu). Il n’est pas rare, enfin, qu’un même toponyme apparaisse, dans la traduction, sous sa forme vulgaire et sous sa forme latine plus ou moins adaptée. La liste des cités gagnées par les troupes de Charles Martel sur les Sarrasins garde ainsi les toponymes latins, mais doublés pour certains de leur traduction: ce fut Biterne, Montpellier, Biterris, Mont Pessulain, Agathen (Agde), Nevensium (Nîmes), Uceticum (Uzès), III, CI, 41 / GC : liste similaire aussi latine, en
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dehors de Montpellier. Se concurrencent Clarmont / Clarismons (Clermont en Auvergne), Clipi / Clipiaco, Dunoe / Hystre, Lippia / Lippe, Nonantule / Nonantinas. De même dans les anthroponymes: Borna / Borne, Cancanus / Concane, Crassus / Crasse, Nicetes / Nitece (confusion c / t).
Conclusion et perspectives La grille d’analyse de l’énorme matériau onomastique de la Chronique des rois de France, dans sa première partie, consignée dans le seul manuscrit B, si elle dégage des lignes de force de son traitement au regard du latin de sa source, n’est que le condensé d’observations plus fines appuyées sur un relevé systématique issu de la Table complète des noms propres. Elle devrait être complétée, pour la suite du texte, par une comparaison systématique des noms propres dans les deux manuscrits, à partir de la traduction de la Vita Karoli, où s’observent des modernisations (Karlon → Charles, Charlon Martel → Charles Marteaux, toutes les gens de Germanie, c’est d’Allemaigne → toutes les gens d’Alemaigne). A cette étape, cependant, l’examen peut avoir valeur d’exemple. Il fait appel à un fort ensemble de paramètres qui se superposent et s’interpénètrent à la fois: la tradition manuscrite, et de la source et de la traduction, qui conditionnent en partie l’habillage des formes, latines et françaises, la traduction et ses options dans leur traitement, à laquelle on peut constamment comparer la pratique de l’oeuvre parallèle des Grandes Chroniques de France. L’énorme stock onomastique des fonds romain au sens large, germanique, arabe, celtique, mais aussi français, passé par le tamis du latin, constituait pour le traducteur un problème majeur de transposition. S’il avait à sa disposition un ensemble non négligeable d’équivalents d’anthroponymes et de toponymes ‹français› familiers en regard des originaux latins ou latinisés, il avait aussi affaire à un fonds ‹exotique›, germanique en particulier, qu’il devait transposer à travers des graphies que pouvait déformer une transmission manuscrite peu sûre, remplie de pièges et de chausse-trapes, l’onomastique, par son opacité, étant un lieu privilégié de mélectures et de travestissements favorisés par l’équivoque des graphies, chez des copistes travaillant aussi de façon mécanique. Le résultat de ce parcours onomastique est un plurisystème où entrent en concurrence les équivalents connus et les naturalisations à la française, conditionnées par le phonétisme contemporain, les calques et les transfuges du latin, les formes métissées, témoignant peut-être d’ignorances, l’onomastique se situant au carrefour de la culture bilingue du traducteur tout en étant, en quelque sorte, un révélateur de ses connaissances, i. e. de son univers géographicohistorique, confronté à d’autres mondes, et de ses options. Deux points méritent encore d’être relevés, pour terminer. Ce type d’enquête onomastique mérite d’être menée sur d’autres traductions, pour élargir la perspective et tester ses conclusions. C’est ainsi que dans la traduction de l’Histoire abrégée de Jérusalem conservée dans le ms. BN 17203, le traducteur, confronté à l’univers biblique antique et contemporain, pratique volontiers une onomastique bilingue assortie aussi d’équivalents (cf. le tans Moysi, le temple Domini [9 r°a]; Yopem, qui siet sor la marine, qui ore est apielee Japhe... [15 v°b); Laoditiam, qui est en Surie [18 v°b].
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Le problème de la transposition des noms propres ‹exotiques› et de leur naturalisation en français est récurrent et se pose dans tous les ouvrages et récits historiques; c’est singulièrement le cas pour l’onomastique de la période mérovingienne, comme le relève R.-X. Lantéri au seuil de son ouvrage sur Brunehilde, où l’on peut aller de la signification originelle, quasitotémique (Déesse (de la guerre) en cuirasse), au nom franchement naturalisé, en passant par Brouniakhildis, compagne de Khildeberkht!! (Lantéri 1995:1-2).
Bibliographie Sources Aimoni monachi, qui antea annonimi editus est, historiae Francorum Lib. V, ex Veterib. Exemplaribus multo emendationes: Parisiis apud Andream Wechelum, 1567. Exemplaire en ligne sur le site de la Biblioteca Complutense de Madrid. Chroniques latines de Saint-Denis: édition critique par Pascale Bourgain, édition en ligne de l’École des Chartes. Les grandes Chroniques de France: édition Jules Viard, Paris, Société de l’Histoire de France. 1. Des origines à Clotaire II, 1920, SHF, 395. 2. De Clotaire II à Pépin le Bref, 1922, SHF, 401. 3. Charlemagne, 1923, SHF, 404. 10. Appendices, Tables, 1953, SHF, 457.
Etudes et répertoires Beer, Jeanette M. A. (1976): A Medieval Caesar. Genève: Droz. Dumézil, Bruno (2008): La reine Brunehaut. Paris: Fayard. Fouché Pierre (1966-1969): Phonétique historique du français. II. Les voyelles. III. Les consonnes et Index général. Paris: Klincksieck. Flutre, Louis-Ferdinand (1962): Table des noms propres avec toutes leurs variantes figurant dans les romans du Moyen Age écrits en français ou en provençal et actuellement publiés ou analysés. Poitiers: Centre supérieur de Civilisation Médiévale. Goetz, Hans-Werner (1996): Nomen feminile. Namen und Namengebung der Frauen im frühen Mittelalter. In: Francia. Forschungen zur Westeuropäischen Geschichte 23/1, 99-134. Graesse, Johann Georg Theodor (1972): Orbis latinus. Lexikon lateinischer geographischer Namen des Mittelalters und der Neuzeit. Grossausgabe, bearb. und hrsg. von Helmut Plechl. Braunschweig: Klinkhardt & Biermann. En ligne par The Electronic Text Service: Columbia University. Labory Gillette (1990): Essai d’une histoire nationale au XIIIe siècle: la chronique de l’Anonyme Chantilly-Vatican. In: Bibliothèque de l’Ecole des Chartes 148, 301-354. Lantéri, Roger-Xavier (1995): Brunehilde, la première reine de France. Paris: Perrin. Longnon, Auguste (1968): Les noms de lieu de la France. Leur origine, leur signification, leurs transformations (2 vol.). Paris: Champion. Morlet, Marie-Thérèse (1968-1972): Les noms de personnes sur le territoire de l’ancienne Gaule du VIe au XIIe siècle. I, Les noms du germanique occidental et les créations gallo-germaniques. II. Les noms latins ou transmis par le latin. Paris: CNRS.
Daniela Cacia (Università di Torino)
Riflessi galloromanzi nell’antroponimia cuneese (XII-XVI secolo)
L’obiettivo del presente contributo consiste nel valutare quale sia stata l’incidenza dell’elemento galloromanzo sui secondi nomi attestati dal XII al XVI secolo nell’area sudoccidentale del Piemonte, ovvero nei territori che sono inclusi nell’attuale provincia di Cuneo. Com’è noto, infatti, buona parte del territorio cuneese ed in particolare il versante alpino risulta caratterizzato da parlate occitane. Attualmente i comuni della provincia di Cuneo che, sulla base della legge 482/99, recante ‹Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche›, hanno dichiarato di appartenere alla minoranza linguistica occitana sono 721 su 250. Per l’epoca di cui ci occupiamo (XII-XVI secolo) risulta ovviamente difficile, per non dire impossibile, individuare quale fosse l’estensione del dominio linguistico galloromanzo, che però aveva certamente uno sviluppo maggiore, espandendosi anche verso la pianura. Per l’indagine sono state consultate 14 fonti, selezionate all’interno di due storiche collane, ovvero la Biblioteca della Società Storica Subalpina2 e la Biblioteca della Società per gli Studi Storici, Archeologici ed Artistici della provincia di Cuneo.3 Complessivamente sono stati esaminati 206 documenti, oltre a 5 volumi di Statuti, tutti redatti in latino, dai quali sono stati estratti i dati antroponimici riferiti a 4722 individui, in prevalenza di sesso maschile (4618), per un totale di 1266 lemmi. Escludendo i lemmi impiegati in funzione di primo nome (91) ed escludendo altresì gli elementi antroponimici utilizzati dichiaratamente come soprannomi, cioè introdotti da una formula soprannominale4 (18), si giunge ai 1157 secondi nomi5 presi in esame per il presente lavoro. Acceglio, Aisone, Argentera, Barge, Bellino, Bernezzo, Borgo San Dalmazzo, Boves, Briga Alta, Brondello, Canosio, Caraglio, Cartignano, Casteldelfino, Castellar, Castelmagno, Celle di Macra, Cervasca, Chiusa di Pesio, Crissolo, Demonte, Dronero, Elva, Entracque, Envie, Frabosa Soprana, Frabosa Sottana, Frassino, Gaiola, Gambasca, Isasca, Limone Piemonte, Macra, Marmora, Melle, Moiola, Montemale, Monterosso Grana, Oncino, Ormea, Ostana, Paesana, Pagno, Peveragno, Pontechianale, Pietraporzio, Pradleves, Prazzo, Revello, Rittana, Roaschia, Robilante, Roburent, Roccabruna, Roccaforte Mondovì, Roccasparvera, Roccavione, San Damiano Macra, Sanfront, Sambuco, Sampeyre, Stroppo, Valdieri, Valgrana, Valmala, Valloriate, Venasca, Vernante, Vignolo, Villanova Mondovì, Villar San Costanzo, Vinadio. 2 Durando (1902), Sacco (1933), Barelli (1936), Tamagnone (1969), fonti schedate integralmente, ed inoltre Tallone (1906) e Tallone (1916), di cui sono stati presi in considerazione i documenti redatti nel Cuneese. 3 Mi riferisco a Molineris (1978), Leone (1982), Camilla (1985), Pezzano (1987), Bosco (1994), Giorsetti (2004), Gullino (2005), Mangione (2006). Sono stati esclusi sia i contesti dubbi o incompleti sia i riferimenti a principi, papi ed imperatori. 4 Circa la natura dell’elemento soprannominale registrato nell’antroponimia cuneese si rimanda a Cacia (2010: 47-68). 5 Nel computo rientrano anche i nomi singoli. 1
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La componente galloromanza rilevabile nei 1157 lemmi in esame è piuttosto contenuta: 101 forme (369 individui), pari al 9% circa del corpus (8,7%). Ho accolto sia i nomi che presentano esiti galloromanzi certi o altamente probabili sia i nomi che mostrano fenomeni comuni ai volgari galloromanzi e a quelli galloitalici, nell’impossibilità di ricondurre con certezza i singoli casi all’uno o all’altro dominio linguistico. Inoltre ho preferito includere anche i nomi per i quali l’ipotesi galloromanza è data soltanto come possibile, accanto ad altre soluzioni interpretative parimenti convincenti. I nomi posti ai primi ranghi6 consentono di avanzare alcune considerazioni preliminari. Limiterò l’osservazione alle forme con frequenza uguale o superiore a 5, che denominano 235 persone su 369, pari al 64%. oliverius (oliverus) giraudus (giraldus) fereyranus ogerius balayre (balayra) bergognus anfossus bayus (bay) girardus berardus berbierius (berbiera) gilius bruyderius buscatus faramia maynardus (meynardus) galvagnus milo (milonus) rolandus (rollandus)
N. attestazioni 69 23 21 20 15 14 9 9 9 7 6 6 7 7 6 6 5 5 5
N. individui 67 23 20 18 15 13 9 9 8 6 6 6 5 5 5 5 5 5 5
Emerge innanzitutto l’apporto fornito all’antroponimia cuneese dalla letteratura francese e provenzale, in particolare dalle canzoni di gesta. In prima posizione s’incontra Oliverius, che risale etimologicamente al latino olivarius, dal fitonimo latino oliva unito al suffisso -arius. In Italia ricorre dall’XI secolo, poco prima Seguono con frequenza pari a 4 abrivatus, armoinus, bergerius, guytre, laugerius (anche nelle forme letgerius, legerius), miraglus, pinpanellus, rogerius; con frequenza pari a 3 aymo (aymone), bayardus, gondoli, guigo, raynaudus (1 occorrenza come raynaldus); con frequenza pari a 2 aymerii, bayle, bertritus, cavigla, cignino (de), dau (do), frep, garita, garnoni, garo, girbays, gramondi, lunello, mestralis, moyne, pecollus, sarle, vevianus; attestati un’unica volta aluysia (de), araz (de), armandus, armerius, baiacti, beliardus, bertrandus, bigotus, bordello, bornado (de), brenude (de collis de), brigaudj, danisius, denixji, esclafenatis (de), fabre, galiardi, galufayre, garetus, gaselum, gauduinis (de), gooin (de), gorgia, guigeran, guteres, ialino, ioç, juxiane, layle, loque, loyssius, malora, manesserii, mayscent (de), menigaudo, nalays, palmerij, penacius, percevallus, perruca, regny (de), rentrua, robertus, scoferius, termegnono, tomator, toreyna (de), tranguerius, ubleti, vianesii, ysabella (de).
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dell’elaborazione della Chanson de Roland, che nei decenni successivi rese famosa la figura del paladino Oliviero, cugino e amico di Orlando.7 Per il Piemonte ricordiamo Olivarius (primo nome) a Pinerolo, nel Torinese, nel 1040 (NPI, s.v. ‹Oliviero›). Tuttavia all’interno del corpus cuneese il nome fa la sua comparsa sul finire del XIII secolo, periodo in cui le suggestioni dell’epopea francese non sono trascurabili. Ritengo pertanto che abbia carattere letterario. Si presenta nel 1275 in funzione di primo nome (‹oliverius faber› ad Aisone, Tallone 1906: documento 87), poco dopo e per tutto il periodo considerato in funzione di secondo nome: ‹guillelmus oliverius› nel 1284 a Bernezzo (Tallone 1906: documento 113); ‹martinus oliverius› e ‹pere oliverius› nel 1286 a Dronero (Tallone 1906: documento 128). Dal XIV secolo le attestazioni s’infittiscono e si diversificano: il nome appare preceduto da preposizione (‹johannes de olivero› nel 1314 a Sommariva del Bosco, Leone 1982: documento 47); ricorre anche al plurale (‹henricus de oliveriis› nel 1314 a Sommariva del Bosco, Leone 1982: documento 47); in qualche caso viene rafforzato dal nome individuale, si creano cioè designazioni del tipo ‹oliverrius de oliverriis› (1314) e ‹oliverius de oliverijs› (1472), entrambe attestate a Sommariva del Bosco.8 Tra i Sommarivesi che nel 1472 prestarono giuramento di fedeltà al duca Amedeo IX di Savoia c’era pure un ‹rolandus oliverij› (Leone 1982: documento 54): chissà se l’individuo in questione ebbe o meno consapevolezza di recare nel proprio nome il ricordo congiunto dei due paladini caduti a Roncisvalle. La fortunata serie dei nomi ispirati alla letteratura cavalleresca annovera, a partire dal XII secolo, Ogerius9, attestato nel 1185 (‹ulricus ogerius de nevies›, Racconigi, Bosco 1994: documento 9), e Milo10, presente come nome singolo dal 1198 (‹ego milo sacri palatii notarius interfui et rogatus hanc cartam tradidi et scripsi›, Racconigi, Leone 1982: documento 8), come secondo nome nella forma Milonus nel 1284 (‹jacobus milonus›, Borgo San Dalmazzo, Tallone 1906: documento 113), cui seguono, attestati dal XIII secolo, Rolandus11 (‹homines Per la documentazione medievale del nome si rimanda ai sempre preziosi contributi di Rajna 1888 e Rajna 1889, da integrare con la ricca documentazione offerta da NPI e da CI. 8 Cfr. rispettivamente Leone (1982: documento 47 e documento 54). La consuetudine di forgiare il nome individuale sulla base del nome famigliare è ben documentata nel territorio di Sommariva del Bosco tra il XIV e il XV secolo: ‹gramaticus de gramaticis› (1314), ‹patritus de patritis› (1314), ‹adamus de adamis› (1472), ‹barberius de barberiis› (1472). Si veda Cacia (2008). 9 Deve la sua diffusione alla letteratura cavalleresca francese ed in particolare al personaggio di Oggeri o Uggeri il Danese (Ogier li Daneis), paladino di Carlo Magno ed eroe del ciclo dei baroni ribelli. Etimologicamente risale secondo alcuni al personale di origine germanica e di trafila franca Audhigari, da cui il francese Audigier, costituito dagli elementi *audha- ‹ricchezza› e *gaira- ‹lancia›; secondo altri al personale germanico ma di tradizione nordica Holmgeirr (Holger in danese moderno), formato dagli elementi *holm ‹isola› e geirr ‹lancia› (per approfondimenti si rimanda a NPI, s.v. ‹Uggero›). 10 Pur essendo presente nell’onomastica greca come Mílon (connesso a milós ‹lento, tardo›) e in quella latina come cognomen della gens Annia, attestato nelle epigrafi dell’area di Milano (NPI, s.v. ‹Milone›), trovò diffusione attraverso la letteratura epica e romanzesca legata ai Cantari: Milone era infatti il marito di Berta, padre di Orlando (cfr. Flûtre 1962: 139 e Langlois 1904: 451-153). L’origine sarà dunque presumibilmente germanica. 11 Dal francese antico Rollans e Rollant, moderno Roland, di origine germanica, documentato dall’VIII secolo come Hrodland (De Felice 1986, s.v.), formato dagli elementi *hrōtha- ‹fama, gloria› e *nantha- ‹audace, ardito›. Fu adattato nel latino medievale Rodelandus e Rolandus (anche nella variante Rollandus). Fittamente presente in Piemonte come primo e secondo nome. 7
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de cluxia congregati [...] ordinaverunt henricum rollandum›, Chiusa di Pesio, 1260, Mangione 2006: documento 13), Bayardus12 (‹infrascripti de brenecio [...] juraverunt [...] arnolfetus bayardus›, Bernezzo, 1284, Tallone 1906: documento 113), dal XIV secolo Galvagnus13 (‹ego francischinus de galvagno, notarius comunis cunei›, Cuneo, 1308, Mangione 2006: documento 34), accanto a molti altri, collocati ai ranghi inferiori (non manca Raynaldus14 dal 1246, Raynaudus dal 1286). Anche il nome rilevato in seconda posizione può essere, di fatto, il riflesso dell’illustre tradizione lirica d’oltralpe, che annovera famosi trovatori così denominati, basti citare Guiraut de Borneil e Guiraut Riquier. Quale che sia comunque il riferimento culturale, dal punto di vista fonetico occorre fare una precisazione e lo stesso Giraudus invita alla prudenza. Infatti gli esiti fonetici che dall’originale personale germanico15 conducono alla forma Giraudus, in particolare la palatalizzazione dell’occlusiva velare in posizione iniziale e la velarizzazione della laterale in appoggio a dentale, sono presenti anche nel piemontese (Rohlfs 1966: §155 e §243). Talvolta la peculiare distribuzione geografica delle attestazioni può fornire qualche indizio, seppure con le necessarie precauzioni, ricordate in apertura, circa l’impossibilità di stabilire quale fosse la reale estensione del dominio galloromanzo tra il XII e il XVI secolo. Per Giraudus, ad esempio, si osserva effettivamente una buona concentrazione delle occorrenze sul versante alpino, in località come Aisone e Roaschia, che ancora oggi appartengono alla comunità occitana. Il nome entra nel repertorio nel XIII secolo, dapprima come Giraldus, attestato come nomen unicum nel 1260 a Villafalletto ‹dedit [...] omnes terras coltas et prata [...] domino giraldo sacerdoti et capellano ville› (Bosco 1994: documento 25), nel 1275 come secondo nome ad Aisone (‹bernardus giralda›, Tallone 1906: documento 87). Nello stesso periodo compare la forma, che risulta prevalente, Giraudus: ‹jacobo giraudo› nel 1279 a Risale all’antico francese baiart, aggettivo con il valore di ‹di colore baio› ed anche sostantivo maschile ‹cavallo baio›, da bai ‹baio› (a sua volta dal latino badius), cioè rosso-bruno, inizialmente riferito al manto dei cavalli. Trovò diffusione attraverso la tradizione epica cavalleresca, con riferimento al cavallo del paladino Rinaldo. 13 Di matrice letteraria, discende dal nome del nipote di re Artù, che compare come Walganus o Walwanus nell’Historia regum Britanniae (1135-1139) di Goffredo di Monmouth e le cui gesta trovarono in seguito larga diffusione nel tardo Medioevo attraverso i poemi epici del ciclo bretone, che lo cantarono con il nome, in antico francese, di Gauvain (o Gawayne) e lo resero celebre come uno dei dodici cavalieri della tavola rotonda. L’origine etimologica del nome è da ricondurre probabilmente al personale celtico Gwalchemei (NPI, s.v. ‹Galvano›). 14 Di origine germanica, risale al personale Raginald o Reginald, costituito dagli elementi *ragina‹consiglio, decisione (ispirata dagli dei)› e *walda- ‹potente›. Si diffonde grazie alla popolarità acquisita dal paladino di Francia Rinaldo di Montalbano, cugino di Orlando e paladino di Carlo Magno, celebrato nelle Chansons de geste e rilanciato durante il Rinascimento da fortunati poemi. Al pari di Giraudus, anche il cognome Rainaudo mostra velarizzazione della consonante laterale in appoggio a dentale, fenomeno condiviso sia dalle parlate galloromanze (si osservino gli esiti francesi e provenzali Rainaud e Raynaud) sia dalle parlate galloitaliche (Rohlfs 1966: § 243). 15 Il nome risale ad un personale di origine germanica formato dagli elementi *gaira- ‹lancia› e *walda‹potente›, attestato a partire dal VII secolo (Gairowald, Gairold, Geroald), successivamente nelle forme latinizzate Geraldus, Giraldus, che in Francia vennero volgarizzate in Gerald, Girald, Giraut al Nord, Geraud, Giraud al Sud.
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Villafalletto (Bosco 1994: documento 37); ‹guillelmi giraudi›, ‹dalmacius giraudus›, ‹facius giraudus›, ‹jacometus giraudus›, tutti nel 1284 a Roaschia (Tallone 1906: documento 113). Nei secoli successivi è registrato con continuità a Sommariva del Bosco e a Chiusa di Pesio. Esito di tipo provenzale è visibile in Balayre e Faramia. Balayre, che compare una volta anche nella forma Balayra (‹martinus balayra›, Leone 1982: documento 54), è presente nella nostra fonte esclusivamente a Sommariva del Bosco nel 1472: riproduce la voce provenzale balaire16 ‹danzatore›, anche nel senso di ‹buffone› (Mistral 1979, s.v. ‹balaire, arello, airis, airo›). Un secolo prima, in un atto notarile datato 3 maggio 1300, ‹guillelmus ballayre› e ‹michael balleyre› rinnovarono il giuramento di fedeltà all’abate del monastero di San Teofredo, insieme agli altri cittadini della comunità di Bersezio17. Bersezio, paese dell’alta valle Stura, è caratterizzato storicamente da parlata provenzale. La presenza del nome a Sommariva del Bosco potrebbe trovare una spiegazione, quanto meno, con migrazioni di gruppi famigliari dalle valli alpine alla pianura. Un riflesso galloromanzo si scorge anche in Faramia, considerando la presenza della voce feràmio, faràmio18 nel provenzale, con il significato di ‹bestia selvaggia› (Mistral 1979, s.v). Rientra dunque nella categoria dei secondi nomi imposti in origine come soprannomi riferiti a comportamenti peculiari, probabilmente una manifesta scontrosità d’animo. Nel repertorio ricorre a Cuneo tra il 1244 (‹guillelmus fharamia›, Bosco 1994: documento 22) e il 1300 (‹per cartam factam per fredelicum faramiam notarium›, Mangione 2006: documento 9b, 111). Nello stesso periodo s’incontra in Valle Stura dal 1240 al 1247, spesso però con riferimento allo stesso individuo citato nelle fonti consultate per il presente studio, cioè quel dominus ‹guillelmus fharamia› che fu castellano della valle di Stura per conto del marchese di Saluzzo (Tallone 1912: documento 23). Tra gli esiti provenzali certi vi è pure, collocato ad un rango inferiore, il tipo fabre, dal latino faber (ferrarius) ‹fabbro ferraio›, con mantenimento dell’occlusiva labiale, fenomeno tipico del Sud-est francese ed in particolare della Provenza:19 il nome è attestato nel repertorio degli antroponimi cuneesi nel 1518 (‹marchus fabre›, Chiusa di Pesio, cfr. Camilla 1985: documento 23b, 438-443). Non mancano esiti galloromanzi di tipo francese. Si osservi in particolare l’evoluzione del suffisso latino -arius presente in berbierius: considerato che in Piemonte il suffisso latino -arius evolve generalmente in -erius / -erus, l’esito -ierius si dovrà molto probabilmente ad influsso del francese -ier (esito francese di -arius). Berbierius è attestato come secondo nome dal 1185 (‹a prato martini berbierii›, Racconigi, Bosco 1994: documento 9) ed è presente anche nella forma berbiera dal 1284 (‹johannes berbiera›, ‹maynardus berbiera›, ‹willelmus berbiera›, Entracque, Tallone 1906: documento 114). Per altri nomi, invece, sono ugualmente plausibili diverse ipotesi. Mi sembra questo il caso di Buscatus, che compare a Villafalletto tra il 1257 e il 1311 (‹henricus buscatus›, ‹johannes buscatus›, ecc.), anche sotto forma di plurale collettivo Buscati (1289: ‹sectorem Presente anche nel catalano ballaire, di analogo significato (Mistral 1979, s.v. ‹balaire›). Tallone 1912: documento 36. Preciso che le ultime due occorrenze citate non compaiono nel corpus dei nomi cuneesi, in quanto frutto di approfondimenti successivi su singoli nomi. 18 La voce provenzale deriva a sua volta dal basso latino feramen ‹fera venatica› (Du Cange 1954). 19 Per la distribuzione dei tipi cognominali francesi Fabre (Provenza), Faure (Langue d’oc), Favre e Fevre nel resto della Francia si rimanda alla carta linguistica elaborata da Dauzat (1988: 320-322). 16 17
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unum prati iacentis in riclareto cui coherent via et buscati›). Come suggeriva il compianto prof. Giuliano Gasca Queirazza, profondo conoscitore dell’antroponimia piemontese, alla base di questo secondo nome è possibile riconoscere la voce buschè, che in piemontese assume il valore di ‹acquistare cercando›, anche con ogni mezzo, dunque ‹rubare, predare› (Di Sant’Albino 1859: s.v.) e, nel linguaggio venatorio, ‹braccare› (Gavuzzi 1896). Il nome varrà dunque ‹ricercato›, ‹depredato›, ‹braccato›. L’italiano antico conosce il verbo buscare, di analogo significato. Da segnalare poi che in Piemonte esiste anche l’espressione figurata andè d’busca ‹andare in rovina, ridursi al verde› (Di Sant’Albino 1859: s.v. ‹busca›), che poggia sul valore di busca ‹fuscello, fuscellino (…) minuzzolo di legno, paglia o simile› (Di Sant’Albino 1859: s.v. ‹busca›). Il provenzale se busca(r) vale altresì ‹se busquer, se cambrer en marchant, se rengorger› (Mistral 1979: s.v. ‹busca›), secondo Gasca Queirazza ‹arcuarsi, incurvarsi› (Gasca Queirazza 1994: s.v. ‹Buscatus›). Se si accettano queste ultime ipotesi, il nome viene ad assumere sfumature di significato assai variegate. L’andamento nel tempo dell’elemento galloromanzo dal XII al XVI secolo, calcolato sulla base del numero di individui, sul numero di forme rilevate complessivamente in ciascun secolo e sul numero di forme di nuova introduzione, cioè che non risultano attestate nei secoli precedenti, evidenzia che il periodo maggiormente permeabile all’influsso galloromanzo si colloca tra il XIII e il XIV secolo.
Nel XII secolo, infatti, l’elemento galloromanzo è attestato debolmente in soli 6 individui (6 forme differenti). Si tratta, con la sola eccezione del già citato berbierius, di secondi nomi aventi carattere patronimico ed etimo germanico, ad esempio Anfossus, che rappresenta l’adattamento delle forme provenzali Anfos, Anfous, Amphoux (De Felice 1978) del personale di origine germanica che ha prodotto l’italiano Alfonso.20 Nel repertorio dei nomi cuneesi ricorre una prima volta nel 1173 all’interno di una denominazione complessa (‹anfossus filius cuiusdam aicardi fecit istam eandem donacionem› a Morozzo, Camilla 1985: documenti I); è frequente come primo nome nel corso del XIII secolo (‹coherent anfossus grimaudus›, Villafalletto, 1257, Bosco 1994: documento 23); ritorna stabilmente fino al XVI secolo. Il personale germanico alla base del nome è costituito da un secondo elemento chiaramente identificabile nell’elemento *funsa- ‹pronto›, mentre nella prima componente onomastica è possibile riconoscere *athala- ‹nobiltà› oppure *ala- ‹tutto› (NPI, s.v. ‹Alfonso›).
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Nel XIII e nel XIV secolo il repertorio antroponimico cuneese si arricchisce ed accanto alla categoria dei patronimici iniziano ad apparire tutte le tradizionali categorie onomastiche. Nel XV secolo si assiste ad un’inversione di tendenza: il numero di forme galloromanze presenti nell’onomastica cuneese diminuisce, a fronte di una maggiore concentrazione negli alti ranghi, basti pensare che ben 40 delle 141 persone registrate in questo secolo porta lo stesso secondo nome (Oliverius). Da notare che la progressiva diminuzione nel numero di nuove forme accolte nel repertorio antroponimico cuneese trova corrispondenza nel minor afflusso di gallicismi e francesismi che si riversano nel lessico italiano in età umanistica e rinascimentale (Morgana 1994).
Passando alle categorie onomastiche, osserviamo che pochi titoli riescono ad entrare nella catena onomastica. Bayle, presente nel 1275 ad Aisone (‹peyre bayle›, Tallone 1906, documento 87) e nel 1314 a Sommariva del Bosco (‹thomas baylle›, Leone 1982: documento 47), condivide con l’antico francese bail ‹funzionario amministrativo› l’origine dal latino baiulus ‹portatore›21. Moyne, registrato a Gambasca nel 1516 (‹jofredi moyne›22) e nel 1567 (‹antonius moyne›23), presenta un esito analogo a quello del francese moine ‹monaco›24. Anche la specificazione di mestiere, intesa ovviamente come parte integrante della catena onomastica e non come semplice indicazione dell’attività lavorativa esercitata, riflette raramente esiti galloromanzi. Nella maggior parte dei casi si tratta di forme attestate una sola volta nell’intero repertorio. Un’eccezione è rappresentata dal tipo Bergerius, che ha il suo corrispondente nel francese berger25 ‹guardiano di greggi, pastore› e nel piemontese bergè, di analogo significato La voce latina baiulus ‹portatore›, continua nelle lingue romanze nelle due forme sincopate *bailus / *baila e, con metatesi, *balius / *balia. L’esito baila è tipico del dominio galloromanzo e dell’Italia settentrionale. La voce acquisì il significato giuridico e amministrativo ‹amministratore, procuratore› in epoca carolingia (per approfondimenti si rimanda alla voce ‹baiulus› del LEI). 22 Gambasca 1516: «de mandato [...] jofredi moyne et pauli layle consiliarorum gambasche» (Tamagnone 1969: 103). 23 Gambasca 1567: «comparuerunt providi viri [...] antonius moyne, petrus bernardus [...] omnes consiliares locorum prefatorum [...] gambasche» (Tamagnone 1969: 107). 24 Dal basso latino monachus. Da notare che a Gambasca, dove il nome era presente nel XVI secolo, il cognome risulta tuttora assai frequente (rilevazione effettuata sugli elenchi telefonici). 25 Alla base si pone il latino medievale bergerius ‹custode di pecore› (Du Cange 1954: s.v.), risalente 21
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(Di Sant’Albino 1859: s.v.): dopo una prima attestazione a Sommariva del Bosco nel 1314 (‹jacobus bergerius›, Leone 1982: documento 47), il nome ricorre nella stessa località più volte sotto la forma ‹bergerij› nel 1472 (‹andreas bergerij›, ‹thomas bergerij›, Leone 1982: 54). All’interno della categoria dei secondi nomi derivati da una voce del lessico comune mi sembrano degni di nota alcuni antroponimi che sembrano anticipare i tempi, rispetto alla successiva introduzione della voce nel lessico italiano. Il tipo Abrivatus, esclusivo di Villafalletto, compare nel XIII secolo (a partire dal 1257) sia come secondo nome sia come nome collettivo di famiglia: nel 1257 «unam iornatam et dimidiam, coherent [...] et abrevati» (Bosco 1994: documento 23) e «coherent villielmus tinamus et jacobus abrivatus» (Bosco 1994: documento 23); nel 1289 «iornatas duas terre iacentis ad robiolum cui coherent jacobus bauduinus et abrivati» (Bosco 1994: documento 45) e «presentibus [...] et oddeto abrivato testibus vocatis et rogatis» (Bosco 1994: documento 46); nel 1290 «sub porticu domus in qua habitat raymondus abrivatus» (Bosco 1994: documento 53). Trova corrispondenza nel provenzale abrivar (Mistral 1979, s.v. ‹abriva›), nel piemontese abrivè26 (Di Sant’Albino 1859: s.v.), nell’italiano antico abbrivare.27 Suggerisce l’idea del ‹mettersi velocemente in movimento›: il secondo nome avrà dunque avuto, in origine, il valore di ‹eccitato›; ‹pronto all’azione›; forse anche con riferimento ad una persona dal carattere impetuoso. Alla base vi è il gallico *brig- ‹forza, vivacità› (LEI, s.v. ‹*BRIG-›). La più antica registrazione del verbo in documenti italiani risale al XVII secolo: abbrevare nel 1614. Poco dopo, nel 1691, abbrivare entra nella terza edizione del vocabolario della Crusca: «abbrivare. Termine marinaresco. Dicesi del principiare a muoversi il vassello prima ch’abbia presa tutta la velocità, a proporzione del vento, o remi, ch’l sospingono. Ed il vassello, allora che cammina con tutta sua velocità, dicesi aver preso l’abbrivo». Nel 1797 è documentato l’aggettivo italiano abbrivato ‹messo in moto, avviato› (LEI, s.v. ‹*BRIG-›). Le attestazioni contenute nelle carte medievali di Villafalletto ne testimoniano la precoce penetrazione in campo onomastico, quanto meno in territorio piemontese. Anche per Bigotus, che ha il suo corrispondente nel francese bigot ‹bigotto, bacchettone› (in uso in Francia come appellativo ingiurioso28 dal 1165, cfr. TLFi, s.v. ‹bigot›), l’attestazione antroponimica precede di parecchi secoli la documentazione letteraria del termine nel lessico comune: Bigotus è registrato come secondo nome nel 1286 a Dronero («nomina consiliariorum sunt hec [...] miçelus bigotus», Tallone 1906: documento 128); la prima documentazione dell’aggettivo bigotto in testi italiani risale invece al XVII secolo.29 Gli ultimi due esempi consentono di avanzare alcune riflessioni in merito al diverso grado al latino classico berbicarius. Di Sant’Albino (1859, s.v. ‹abrivè› e s.v. ‹abriv›) spiega le voci piemontesi abrivè come «il principiare a muoversi un naviglio spinto da vele o da remi» e abriv come «quel primo impeto che prende il naviglio quando è spinto o dalle vele o dalla voga», in senso figurato «la prima mossa con furia di checchessia, liberato dal ritegno che l’impediva di muoversi», ne registra l’uso anche nell’espressione piè l’abriv «pigliar l’abbrivo […] cominciare a muoversi […] prender la fuga». 27 Secondo DELIN (s.v. ‹abbrivare›) dal provenzale abbrivar ‹mettersi velocemente in movimento›, a sua volta dal gallico brigos ‹forza›. 28 Dall’antico alto tedesco bî God ‹per Dio›, attribuito inizialmente ai Normanni per il loro frequente ricorso all’esclamazione (TLFi, s.v. ‹bigot1›; GDLI, s.v. ‹bigotto›; DELIN, s.v. ‹bigotto›). 29 Redi: «Bigotti e bigozzi son chiamati dagli Aretini talvolta per ischerzo i frati, i monaci, ed alcune persone inclinate all’ipocrisia»; Saccenti, Rime: «Era per altro timida e bigotta, / E al mondo ingannator non troppo avvezza» (Tommaseo / Bellini 1865-1879: s.v. ‹bigotto›). 26
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di persistenza dei riflessi galloromanzi nell’onomastica piemontese ed italiana di oggi. Mentre infatti il secondo nome Abrivatus non lascia alcuna traccia, il cognome Bigotto30 è ancora oggi presente in Piemonte e in Italia, anche nelle forme Bigotti, Bigot, Bigotta, Bigota. Per verificare l’esistenza odierna delle forme cognominali rilevate nel XII-XVI secolo ho utilizzato le rappresentazioni cartografiche messe a disposizione da GENS31 sulla base dei dati ricavabili dagli elenchi telefonici. Dei 101 tipi registrati nel corpus, 53 sopravvivono nell’onomastica piemontese di oggi e 12 forme non risultano più attestate in Piemonte ma sono presenti nelle restanti regioni, a partire da quelle più vicine all’area di nostro interesse. In totale dunque sopravvive il 64 % dei tipi onomastici rilevati dal XII al XVI secolo. Molti dei secondi nomi che abbiamo citato in apertura mostrano tuttora una distribuzione esclusiva o prevalente in Piemonte. Mi limiterò a ricordare Faramia ed Anfossi, ai quali aggiungo, collocati ai ranghi più bassi del repertorio, Rainaudo e Rainaudi, presenti oggi solo in Piemonte; Pecollo, che può trovare una corrispondenza nell’antico provenzale pécol, pécoul ‹sciocco, sempliciotto› (Mistral 1979, s.v. ‹pecou›32); Miraglio33, in cui si riflette il provenzale miralh ‹specchio› (Mistral 1979, s.v. ‹mirau›), da confrontare con l’italiano antico miraglio ‹specchio›, registrato sul finire del XIII secolo. Certamente però l’alta frequenza nel corpus dei nomi cuneesi non rappresenta automaticamente una garanzia di continuità: nessuna traccia lasciano fereyranus34 (rango 3), bruyderius35 (rango 13), mentre balayre (rango 5) scompare in questa veste ma sopravvive Nel corso del Novecento il cognome Bigotto fa registrare 16 presenze in Piemonte, Bigotti 158 (epicentro nell’Alessandrino), Bigotta 104 (82 a NO, 14 a TO, 8 a VC), Bigota e Bigot 1 ciascuno (entrambi a TO). I dati sono ricavati da ArchiCoPie, archivio dei cognomi piemontesi relativi ai contribuenti fiscalmente attivi nel 1994, organizzato e gestito da Elena Papa. 31 Cfr. http://www.gens.labo.net. La natura della fonte non garantisce il massimo grado di esaustività, tuttavia consente di visualizzare con rapidità le aree di distribuzione di un determinato cognome. 32 Risale a sua volta al latino medievale pecollus ‹fulcrum lecti, vel sellae› (Du Cange 1954: s.v.). 33 Tra i secondi nomi dell’area di Cuneo ricorre ad Entracque nel 1284: ‹alcherius miraglus›, ‹petrus miraglus›, ‹raymundus miraglus› (cfr. per tutte le occorrenze Tallone 1906: documento 114). 34 Da confrontare con il cognome francese Ferreyre, variante di Ferrière(s) e Ferrère(s), frequente in Francia, derivato dal latino ferrum ‹ferro› unito al suffisso latino -aria (Morlet 1997: s.v. ‹Ferrières›). Designa un luogo dove si estraeva o si produceva ferro. Nella forma attestata nel repertorio cuneese si osserva l’aggiunta del suffisso latino -anus. Presente a Sommariva del Bosco nel 1472 (‹andreas fereyrani›, ‹anthonius fereyrani›, Leone 1982: documento 54), s’incontra eccezionalmente come primo nome (‹fereyranus de fereyrani›, Leone 1982: documento 54). 35 Appartiene alla serie dei nomi per i quali sono possibili diverse interpretazioni. La prima risale alle voci piemontesi brúya ‹biada o erba nata da poco›, ‹gemma›, brúy ‹germoglio; occhio del viticcio› (cfr. per entrambi AIS 1310, punto 144: Corio), bruyún ‹tallo. Sottile germoglio o la messa dell’erbe quando vogliono andare in semenza› (Di Sant’Albino:1859: s.v. ‹brojon›; Zalli 1830: s.v. ‹brojon›; Dal Pozzo 1893: s.v. ‹brojòn›; Levi 1927: s.v. ‹bruiún›), bruyuné ‹germogliare› (Di Sant’Albino 1859: s.v. ‹brojonè›; Zalli 1830: s.v. ‹brojonè›; Levi 1927: s.v. ‹bruiunè›), riconducibili ad una base preromana *brok / *brog- ‹vegetale che germoglia, spunta› (LEI, s.v. *brok(k)-). La seconda ipotesi riconduce al piemontese bruì ‹rombare, ronzare›, specie nel senso di ‹gorgogliare. Quel rumoreggiare delle budelle per vento o altro› (Di Sant’Albino 1859: s.v.) e all’italiano antico bruire ‹produrre rumori, gorgoglii› (registrato a partire dal XIV secolo, TLIO, s.v.), considerato (cfr. DELIN, s.v.) prestito dal francese bruire ‹fare del rumore› (in uso dal XII secolo, cfr. TLFi, s.v. ‹bruire›). Gasca Queirazza (1994: 165) ha precisato che «come nell’aggettivo francese bruidif la dentale d si può riferire all’infisso della forma iterativa -it-, mentre -erius è l’esito del latino -arius, suffisso d’agente». 30
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nel cognome, registrato in provincia di Cuneo, Ballaira36, che è il risultato di un parziale adattamento della voce provenzale alla morfologia piemontese. Da notare che i secondi nomi ancora oggi attestati in Piemonte e in Italia appartengono per il 61% a bassi ranghi, risultano cioè attestati nel repertorio cuneese del XII-XVI secolo 1 o al massimo 2 volte.37 In conclusione, l’apporto galloromanzo ai secondi nomi del Piemonte meridionale è certamente, dal punto di vista quantitativo, contenuto (poco meno del 9% del repertorio complessivo), ma a ben guardare esso si rivela alquanto interessante dal punto di vista linguistico ed altrettanto tenace: interessante perché buona parte dei nomi reperiti nell’antroponimia cuneese potrebbe contribuire all’ipotesi di una possibile retrodatazione di alcuni gallicismi, tenendo conto però che le attestazioni sono in latino; tenace perché l’elemento galloromanzo si mostra capace di superare i confini dell’area alpina, estendere il proprio raggio d’azione all’area pedemontana e in molti casi alle regioni settentrionali d’Italia, e soprattutto si mostra in grado di superare i limiti cronologici, radicandosi nel repertorio onomastico (piemontese e non) odierno. Come tale mi è parso degno della nostra attezione, anche a distanza di secoli.
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Riflessi galloromanzi nell’antroponimia cuneese (XII-XVI secolo)
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Marina Castiglione / Michele Burgio (Palermo)
Poligenesi e polimorfia dei ‹blasoni popolari›. Una ricerca sul campo in Sicilia a partire dai moventi1
1. Genesi e forma dei ‹blasoni› La categoria del ‹blasone popolare› o soprannome etnico (come proponiamo di definirlo, pur senza rinunciare al calco di Pitrè che d’ora in poi useremo senza virgolette) non è affatto monolitica né facile da delimitare.2 Quando, di fronte alla ricchezza di espressioni, ci si propone di costituire un corpus e si deve decidere cosa ritenere un soprannome comunitario e cosa no (per estemporaneità, ristrettezza di diffusione o eccessiva genericità del dato raccolto), ci si pongono davanti una serie di valutazioni dal cui esito non si può prescindere. L’ambito entro cui si generano le varie forme linguistiche analizzate è senza dubbio lo stereotipo: questi rappresenta un iperonimo di blasone popolare.3 Il carattere stereotipico di quest’ultimo è dato dall’estensione di una marca caratteristica di un individuo o di una ristretta cerchia di persone all’intera popolazione di un gruppo urbano. Non rientrano dunque nel campo linguistico dei blasoni popolari tutti gli usi e i comportamenti visti come propri della comunità vicina, ma solo quelli che si decide di portare a livello del motto, che viene dunque riproposto con continuità, diventando quasi un sostituto o un integrativo dell’aggettivo etnico, sia micro (i quartieri cittadini) che macrogeografico (dal singolo centro sino alla nazione):4 L’articolo è stato progettato ed elaborato da entrambi gli autori, ma i paragrafi vanno così attribuiti: M. Castiglione §2., §3.; M. Burgio §1. 2 Già Telmon (cf. la voce blasone popolare. In: Beccaria 2004) avvertiva che non si tratta semplicemente di accettare ogni forma di stereotipi giacché questi «hanno però spesso un valore più ampio, comprendente ogni segmento cristallizzato ed accettato acriticamente». 3 Sull’etichetta ci limitiamo a segnalare che il conio della forma blason populaire si deve al francese Alfred Canel (1858), ma che la sua prima attestazione in ambito scientifico è legata all’importante lavoro di Gaidoz / Sèbillot (1884). Giuseppe Pitrè si appassiona subito a quest’ultimo testo e adotta il calco blasone popolare (1891), sebbene, a partire da Migliorini (1948), per motivi non di astratta etichettatura, sia stata proposta la forma soprannomi etnici. Proprio questa etichetta è quella che intendiamo utilizzare nel nostro progetto DASES (Dizionario Atlante dei Soprannomi Etnici in Sicilia), per cui cf. Castiglione / Burgio (2011). Nel recente Atles Lingüístic del domin català (Veny / Pons 2004) la carta VII è destinata ai ‹Nom humoristic del abitants›, senza che venga assorbita l’etichetta di matrice francese. In alcune informazioni complementari a margine della carta stessa, sono riportate le motivazioni e, talora, una modesta pluridenominazione del punto d’indagine. 4 Il testo di Gaidoz / Sébillot (1884) si apre proprio con una carrellata di blasoni transnazionali che 1
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Marina Castiglione / Michele Burgio
Come recentemente da noi discusso5, all’interno dell’antroponomastica popolare i blasoni ricoprono, dunque, la funzione di soprannomi etnici (cf. Migliorini 1948, in Cortelazzo 1984: 156): essi sono riferiti non più alla sfera familiare ma a quella comunitaria. Ad un aggettivo etnico possono corrispondere più soprannomi etnici perché l’aggettivo etnico è legato al più ristretto bacino di forme linguistiche della toponomastica mentre il blasone (dipendendo, appunto, dalla creatività popolare) ha pressoché infinite possibilità di esprimersi e di evolversi nel tempo. Accadrà così che, ad esempio, anche durante un’indagine effettuata ad Isnello, sulle Madonie, nella Sicilia centrale, in provincia di Palermo, agli abitanti del vicino centro di Collesano, accanto al corrispondente aggettivo etnico (ulisanisi), vengano attribuiti oggi ben tre blasoni popolari: austriaci, taroddi e liccapateddi. Per ragioni di tempo non ci soffermeremo qui sulle ipotesi motivazionali dei tre blasoni in questione, quel che preme è sottolineare come il blasone popolare abbia però un richiamo di univocità nei confronti di chi lo riceva. Non classifichiamo, infatti, come blasone il ‹minchia› venuto fuori nella considerazione ‹li ulisanisi sunnu minchia› perché i blasoni popolari sono delle nomee riferite a gruppi etnici ma non tutte le nomee riferite a gruppi etnici sono blasoni popolari. Infatti il blasone popolare è, come e più dell’insulto, «un atto linguistico di sintesi: la parola condensa tutto un giudizio, una valutazione, un’argomentazione complessa» (cf. Casalegno / Goffi 2005: IX). In più, esso si fa portatore di un’ulteriore carica motivazionale, perché riferito ad un preciso gruppo di persone che hanno già di per sé un loro denotatum etnico, che si corre a connotare. Mentre chi conia un generico insulto vuole limitare la propria offesa personale ad una precisa circostanza o circoscriverla attorno ad un pretesto, chi genera un soprannome (individuale o comunitario che sia) sa benissimo quale è l’antroponimo ‹ufficiale› della persona o del gruppo che vuole schernire, ma ad esso vuole ‹stabilizzare› determinate caratteristiche uscendo dai canali canonici di identificazione. Questo particolare tipo di ‹etichette› (non necessariamente si tratta di insulti) si carica però di valore antonomastico. Da questa speciale e necessaria corrispondenza tra denotatum e connotatum si genera dunque il blasone popolare, acquisendo forme e modi più vari.6 abbracciano diversi paesi europei. In occasione del Convegno di Aix en Provence, Castiglione / Burgio (in stampa). 6 Caffarelli (2002:129) passa in rassegna i problemi classificatori riguardo ai soprannomi, da Rohlfs a Ruffino. Le difficoltà incontrate dagli studiosi nella classificazione di una categoria antroponomastica come il soprannome individuale aumentano ancor più nell’analisi di una categoria come il soprannome comunitario, più complessa almeno a livello di forme. 5
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Circoscrivendo un ambito significativo di produttività a mo’ di esempio che ci consenta di riflettere e di chiarire ulteriormente queste considerazioni, tornano utili le parole di Casalegno quando rileva che «un ambito semantico particolarmente ricco per la produzione di epiteti ingiuriosi è quello riferito al corpo. Attraverso una forma di sineddoche degradante la persona viene associata ad una sua singola parte per individuarne qualità negative» (cf. Casalegno / Goffi 2005: XV). Da uno sguardo ai primi materiali siciliani in nostro possesso si può già notare che le caratterizzazioni fisiche siano viste come insulti più efficaci rispetto alla stessa causa che quel difetto ha generato. Gli abitanti di vari comuni siciliani7, geograficamente ben distribuiti nell’area centromeridionale, hanno il blasone popolare di panzuti, lett. ‹panciuti›. Certamente per molti, ma con buona probabilità per tutti loro, la motivazione è da ricercarsi nell’antica diffusione in queste aree delle febbri malariche, responsabili del rigonfiamento della pancia a fronte di una perniciosa magrezza del resto del corpo.8 È significativo come il riferimento alla malaria e alle febbri malariche resti in secondo piano: è la deformità fisica, ancor più che la malattia in sé, a contenere, per il parlante, la massima connotazione ingiuriosa. Alla stessa causa corrisponde un diverso blasone documentato da Pitrè, in altri centri: gli abbuttati di Caronia (ME) e di Roccapalumba (PA), antroponomasticamente contrassegnati per sempre da questa malattia ormai debellata (Carta 1). Stesso procedimento di formazione del blasone abbiamo potuto riscontrare in altri casi. Qui si dirà del blasone degli abitanti di Racalmuto (AG) e di Acquaviva Platani (CL). I primi sono detti immiruti, ossia ‹gobbi›9, e nessun riferimento è fatto al lavoro di miniera, che impegnava buona parte della popolazione e che fu la ragione di questa deformazione dorsale; i secondi sono detti dinti purriti / niuri, ossia ‹denti marci›, senza che venga fatto riferimento alla peculiare situazione legata all’approvvigionamento idrico del paese che aveva la sua fonte dalle acque drenate dal fiume Platani, fiume ricco di sali minerali e quasi salmastro che determinava la conseguente colorazione giallastra dei denti. La circostanzialità della causa primaria viene ad essere, così, offuscata dalla creazione linguistica che crea lo stereotipo.
Si tratta di Camastra (AG), Santa Elisabetta (AG), Calamonaci (AG), Campobello di Licata (AG), Casteltermini (AG), Villafranca Sicula (AG), Barrafranca (CL), Serradifalco (CL), Campofranco (CL), Butera (CL), Resuttano (CL), Lascari (PA), Scillato (PA), Sciara (PA), Acate (RG) e Giarratana (RG). 8 Oggi la perdita della causa originaria, conduce alla necessità di rimotivare il segno, così talora si registrano motivazioni ‹paretimologiche›: gli abitanti di Serradifalco sarebbero panzuti perché hanno fatto della gastronomia un settore di riconversione economica; quelli di Campofranco lo sarebbero perché erano poveri e chiedevano la farina in prestito; quelli di Calamònaci lo sarebbero perché uomini ‹di panza›, ossia omertosi. 9 Riporta d’altronde Leonardo Sciascia, fonte attenta e di prima mano, che «a Naro i racalmutesi sono semplicemente chiamati ‹salinari›» (1982: 45), a conferma della declinazione al plurale del blasone. 7
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Carta 1: distribuzione dei soprannomi etnici legati alla malaria
2. Archetipo, stereotipo, prototipo e pregiudizio: fonte e conseguenza dei blasoni Nei conflitti o circostanze che hanno generato il blasone sono ravvisabili dicotomie archetipiche che contrappongono, ad esempio, nobili vs villani; campagna vs città; mare vs montagna; credenti vs miscredenti. Ciascuno di questi gruppi attribuisce all’altro caratteri negativi che, attraverso il linguaggio, si trasmettono dando luogo a stereotipi non necessariamente antroponomastici: Il cittadino ha coniato per chi viene dalla campagna appellativi come cafone, burino, che in origine significavano semplicemente ‹contadino›, mentre buzzurro, in origine appioppato agli svizzeri che calavano nelle città italiane a vendere castagne, polenta e mele cotte, dopo l’Unità d’Italia fu affibbiato dai romani a quelli del Nord che si spostavano nella capitale, in particolare i piemontesi. (Beccaria 2004a: 10)
Nel corpus (che mira a contenere il patrimonio demologico, fonti bibliografiche locali e letterarie e le ricerche sul campo recenti) queste opposizioni sono rappresentate senza che, anche qui, affiorino in maniera esplicita le categorie che ne stanno alla base. La motivazione
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per cui i palermitani sono appellati manciatarii, ‹mangioni›, non ha soltanto relazione con la buona cucina del luogo, ma soprattutto con le risorse economiche della capitale in opposizione alle condizioni meno agiate del contado. Più leggibile, è invece, l’opposizione tra catapani e chitubbi, blasoni registrati a Caltabellotta (AG) e nella vicina frazione di Sant’Anna. Il blasone catapani10 ha un’origine storica in quanto con esso si contrassegnavano i residenti all’interno del catapanato, provincia bizantina che non resistette all’attacco normanno. In siciliano moderno l’aggettivo indica qualunque funzionario dell’annona e assume, pertanto, i connotati di chi taglieggia in nome dello stato. Non sarà un caso che la vicina frazione di Sant’Anna abbia coniato questo epiteto per la vicina e assai potente in epoca medievale Caltabellotta; dal canto suo la città ha blasonato gli abitanti della frazione con chitubbi, prob. da citus urbs o da una particolare forma di contratto matrimoniale di origine ebraica (ketubah).11 Occorre, inoltre, rilevare la presenza di stereotipi soggiacenti che spesso sono riducibili ad un repertorio di poche categorie negative: ‹falso / infido›; ‹stupido›; ‹vanaglorioso›; ‹traditore›; ‹povero›; ‹debole›, ecc. È interessante vedere, ad esempio, come la categoria della povertà, sfortunatamente comune –oggi come ieri– a più parte dei centri siciliani, venga riversata contro il comune vicino. Quando gli abitanti di Niscemi (CL) intendono apostrofare malevolmente i vicini di Caltagirone (CT) gli rivolgono il blasone quagghiariddara, ricordando che il loro mestiere usuale era degradante, in quanto umili venditori di interiora12; a questo, in un gioco in cui vince chi offende di più, i caltagironesi contraccambiano dando ai niscemesi il blasone di fumirara, ossia spalatori di letame. Leonardo Sciascia in Kermesse riporta una filastrocca e un etnico stereotipizzato: Gruttisi. Grottesi. Di Grotte, paese a tre chilometri da Racalmuto; e più piccolo. I grottesi che venivano a Racalmuto erano derisi dai ragazzi con questa strofe, variamente scandita o cantata: ‹Grutti gruttisi/ cu li corna tisi / scorciano cani / e fannu cammisi›13 (Grotte grottesi / con le corna ben dritte / scuoiano cani / e della pelle fanno camicie). Si irrideva così alla povertà dei grottesi: e davvero il paese deve essere stato poverissimo […]. (1982: 33) Nadurisi. Col nome di Naduri (certamente arabo) i racalmutesi hanno sempre chiamato Bompensiere, piccolo paese in provincia di Caltanissetta e distante una diecina di chilometri da Racalmuto. Nadurisi, quindi, gli abitanti. Venire dal Naduri era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque zotici e sprovveduti.14 (1982: 44)
Oggi anche cognome, come in Caracausi (1993/I: 342). Lo troviamo, inoltre, tra i soprannomi registrati in Ruffino (2009: 315). 11 I parlanti attuali giocano su una facile paretimologia e dicono che il blasone nasca dalla domanda: ‹comu porti l’acqua a Sant’Anna?› ‹Cchî tubbi› (lett.: ‹come conduci l’acqua a Sant’Anna?› ‹con le tubature›). 12 In VS/III quagghiareddi e quagghiareddu sono rispettivamente le interiora commestibili dei quadrupedi macellati (accezione di questo esempio), e, più precisamente, l’abomaso degli agnelli e dei vitelli da latte. 13 In questo caso parleremo di un ‹medio tasso di creatività linguistica›, in quanto il soprannome etnico nasce dalla somma di due formule stereotipiche usate anche per altri contesti. 14 Cf. infra l’esempio di catrinnaru e n.16. 10
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D’altra parte altri esempi possono essere fatti sul versante della polimorfia assunta da un unico stereotipo quale quello di ‹stupido›: nchiònchiari, pitr’e ppauli, àsini, minchiuna, lu sceccu si vivi la luna, pirzisi, babbi15, ecc. Tutto ciò avviene nelle forme più diverse che vanno da soprannomi etnici che definiremo ad ‹alto tasso di creatività linguistica›, ossia originali nella forma linguistica e testuale, passando attraverso altri a ‹medio tasso di creatività linguistica›, poligenetici o fondati su strutture formulari, sino a quelli a ‹zero tasso di creatività linguistica› (sostanzialmente gli aggettivi etnici che si stereotipizzano e che potremmo chiamare deetnonimici).16 Nella documentazione scritta e orale (ma sovente più nella prima) spesso i blasoni sono legati in sequenze liriche quasi paremiologiche che rappresentano i tratti di riconoscibilità stereotipizzata delle comunità coinvolte. Ne abbiamo rilevato uno che tratteggia le donne madonite e ne fonda il criterio di una eventuale scelta matrimoniale: Utturusedda la Isiniddara Appanzicatedda la ulisanisa Ucchiuzzi beddi la Puddinita Ucchiuzzi moddi la casteddabbunisa Sciuri di biddizzi la Grattaruscia Scanza facenni la Muntimaiurisa Travagliatura la Cirdisa Capiddusedda la Iracisa Immirutedda la Pulizzana Rucciddara la Casalara.17
A volte lo stereotipo ha alla base un prototipo. Quello più diffuso tra i nostri materiali è quello dell’ebreo.18 Interessante quanto dichiarato da un informatore a proposito degli abitanti Non sempre questi blasoni vanno accolti come generici. Nel caso di Prizzi (PA), ad esempio, la pretesa stupidità dei prizzitani babbi è ricondotta al fatto che il centro sorge in montagna, a più di 1000 metri, in un’area i cui comuni limitrofi sorgono tutti ad altezze assai inferiori. Gli abitanti di questi ultimi, ritengono che i prizzesi siano stupidi per via di una dieta povera di iodio che li porta a soffrire di cretinismo di tipo alpino. Si tratta, ovviamente, di una trovata popolare del tutto fantasiosa. Certo è che su di essa si ricamano trame di aneddoti. Uno di essi vuole che un gruppo di prizzesi abbiano costruito un pupazzo di neve e, sulla scorta dei manufatti in creta, abbiano pensato di cuocerlo in forno. Quando andarono a ritirarlo, trovarono il fuoco spento ed una pozza d’acqua. Al che, contrariati, si indignarono di come quel signore di neve avesse urinato sul fuoco, prima di svignarsela! 16 Un caso del genere è quello di busacchinaru che sarà sia l’aggettivo etnico degli abitanti di Bisacquino che il blasone con il significato di ‹persona che non onora i suoi debiti›. 17 Lett.: gozzuta l’abitante di Isnello, con la pancia quella di Collesano, begli occhietti quella di Pollina, occhietti dolci la castelbuonese, fiore di bellezze la gratterese, pigra quella di Montemaggiore, lavoratrice quella di Cerda, dai folti capelli la geracese, ingobbita la polizzana, ciarlatana la resuttanese (o campofelicese). La filastrocca è stata da noi raccolta lanciando la seguente ‹esca› sul forum virtuale Caffè Scorretto, blog frequentato dai madoniti, la cui home è visitabile all’indirizzo: http://www.caffescorretto.com/old_site/citta/collesano: «Cari amici […] Sto raccogliendo i soprannomi collettivi delle Madonie, cioè quelle forme di ‘nciùria che ci si dice fra abitanti di paesi diversi. […] Non le ‘nciùrie personali, ma quelle collettive! […] Scavate nella memoria!». 18 A proposito dell’addensamento di significati negativi intorno alla figura dell’ebreo si veda Faloppa (2004: 15
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del comune di Bivona, chiamati iudè ‹giudei›, il quale afferma: «[agli abitanti di Bivona] non ci dìcinu iudè, iddi su’ (lett. essi sono) iudè». Il processo che possiamo tracciare è, quindi, il seguente: il prototipo diventa soprannome etnico; il soprannome etnico si sterotipizza al punto tale da prevalere sull’esperienza diretta e, influenzando il giudizio sociale, dà luogo al pregiudizio. Alla base motivazionale del blasone pensiamo, allora, che vi siano meccanismi sociorelazionali di opposizione (dicotomia archetipica), semplificazione (stereotipia), astrazione (prototipia) a cui si aggiungono cause circostanziali non sempre ricostruibili, soprattutto se lontane e / o rimosse dalla comunità. Rare volte capita (ma non è escluso che proseguendo nel lavoro i dubbi si dipanino) che né ragioni storiche né motivazioni fornite dai parlanti né documentazione di altro tipo aiutino a comprendere quale stereotipo (e, dunque, quale causa possibile) sia alla base di un blasone. Il fiorire di motivazioni fantasiose non aiuta, ma spesso complica la ricerca. Ad esempio il blasone ggialli, attribuito, insieme ad altri19, ai cittadini di Agrigento, ha una storia recente e una circolazione prevalentemente legata al mondo della tifoseria (è infatti appannaggio principalmente degli storici rivali favaresi) e non è presente nelle sillogi del secolo scorso da noi consultate. Le motivazioni addotte con prospettiva di analisi emica, dai favaresi e dagli stessi agrigentini, sarebbero legate: a)
al colore della pietra arenaria tufacea che si estraeva nell’area e che caratterizza i templi ed il centro storico della città;
b)
alla poca propensione degli abitanti del capoluogo al lavoro nei campi che produrrebbe un colorito pallido (facci ggiarni);
c)
all’invidia provata dagli agrigentini nei confronti dei vicini favaresi (sic!) che li renderebbe gialli di bile;
d)
allo zolfo estratto nell’entroterra e che veniva trasportato nel porto cittadino;
e)
al giallo delle ginestre o dei campi di grano che circondano la città…
E dunque: troppe motivazioni, nessuna motivazione. Una volta perso il legame con l’àition i parlanti non solo non riconoscono più la connotazione del tratto che hanno elevato a stigma, ma lo sottopongono a ipotesi ricostruttive a posteriori: usano il soprannome etnico in quanto denotatum, ma non ne individuano più il connotatum che rendeva il paese vicino campanilisticamente ‹altro, diverso e peggiore› da sé. Lo stereotipo sociale resta legato all’etichetta, svuotata, però, del significato che l’ha generata: «Sembra sopravvivere solo la forma verbale del dileggio: se, in passato, la funzione della canzonatura era quella di offendere e deridere i membri dei paesi confinanti, oggi, l’unica funzione, disimpegnata, attribuibile al motteggio popolare è quella ludica» (Bitonti 2007: 25). Ma, come vedremo, non è l’unico modo in cui un blasone si opacizza. 21-55): «Usuraio. Strozzino, avido, avaro. Truffatore, furbo, uno che raggira. E poi ostinato, maleducato, importuno: uno che molesta. Che umilia, maltratta. Una persona crudele, una canaglia. Un empio. Un impuro, dentro e fuori: uno che puzza, brutto e sporco. E che vive nel disordine e nella confusione… Sono questi, solo una parte dei significati che hanno avuto e hanno, ancora oggi, le parole ebreo e giudeo in alcune lingue europee, e in molti dialetti italiani» (2004: 21). Si veda anche infra alla nota successiva. 19 Tra cui zingari: altro prototipo dalla storia lunga (cf. Faloppa 2004: 155-158).
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3. Perché studiare oggi i soprannomi etnici? È qui il caso di accennare appena al fatto che la disciplina antroponomastica si è dedicata quasi esclusivamente allo studio dei soprannomi individuali, riservando ai blasoni popolari contributi di assai minore entità quantitativa e, fatalmente, qualitativa. Si tratta di raccolte microareali di diverse aree italiane ma soprattutto siciliane, incoraggiate dall’interesse di Giuseppe Pitrè, il primo ad occuparsi del blasone popolare in Italia, e risalenti all’ultimo decennio dell’Ottocento ed ai primi due del Novecento. Il grande demologo avrebbe voluto, sulla scorta dei modelli francesi, compilare un Blasone Popolare d’Italia, progetto mai portato a termine.20 Riteniamo che l’interesse prevalentemente demologico per i blasoni vada oggi integrato in un’ottica più compiutamente geolinguistica e sociomotivazionale –fors’anche cognitiva– del processo di nominazione. Ci rendiamo conto che all’interno delle comunità odierne, socialmente più frammentate rispetto a quelle tradizionali e talora anche frammentarie dal punto di vista urbanistico, con periferie fisicamente staccate e quasi estranee al tessuto viario, tale interesse sembrerebbe tardivo e anacronistico. Il soprannome comunitario, infatti, nasce quando l’identità della comunità vicina è nettamente riconoscibile al punto da potere trovare una sintesi icastica in una marca aggettivale, in una locuzione, in un sintagma (anche univerbato), in una filastrocca, in un intero racconto.21 Così come per il soprannome individuale22, trattandosi di un fatto sociale in cui si riverberano pregiudizi, conflitti o semplici atti iperdenotativi, esso per nascere e per mantenersi, per entrare nella langue, abbisogna non soltanto dell’atto creativo in sé, ma soprattutto di una condivisione extralinguistica che spesso trova in moventi storicoculturali, economici, ideologici, persino igienico-sanitari (come abbiamo visto nel caso dei blasoni panzuti, immiruti e dinti purriti), la sua forza propulsiva prima e coesiva dopo. Se anche dovessimo studiare il blasone come reperto di linguistica archeologica, scopriremmo, attraverso una rilevazione più fitta e mirata di quella consegnataci dalle preziose fonti folkloristiche, elementi importanti e ancora inediti.
Si pensi che nel solo 1902 l’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari raccoglie ben quattro contributi sul blasone popolare, dall’acitano, al lucchese, al senese, al novarese. 21 Le forme linguistiche assunte dai soprannomi etnici sono state classificate in Castiglione / Burgio (in stampa). 22 Come osserva Putzu (2000: 37): «caratteristica costitutiva del soprannome è la vitalità, ossia la produttività e la trasparenza semantica. La vitalità è un tratto evidentemente proprio del soprannome; tanto più se lo si consideri in prospettiva storica in raffronto al nome: molti soprannomi sono effimeri, ma altri durano per alcune generazioni e una parte di questi diventano nomi di famiglia ufficiali, opacizzando l’originario significato. Nel frattempo nuovi soprannomi si sono formati, in un ciclo perennemente produttivo. Dunque il soprannome è un fatto dinamico; il che obbliga, se lo si voglia studiare, a seguirlo per l’intero esplicarsi della sua fenomenologia. Ma intanto da che punto partire? Nella misura in cui il soprannome è ‹nome›, esso è il frutto di un evento di ‹nominazione›. Abbiamo detto che la nominazione richiede che sia strutturata una completa situazione comunicativa: essa non è atto di uno solo, […]: è momento senz’altro sociale». 20
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Eppure, dentro e fuori il nostro corpus, ci sembra di rilevare elementi di vitalità23 davvero sorprendenti in ordine ai nuovi utenti e alle dinamiche motivazionali. Velocemente –e giusto a conferma di quanto andiamo affermando– uno sguardo fuori dal nostro corpus. Nel gennaio del 2010, sulla rivista mensile di divulgazione scientifica Focus, è apparsa una mappatura cartografica costruita grazie al contributo dei lettori, dal titolo ‹La guerra dei mille campanili›. Nel numero di marzo un lettore siciliano, non rilevando il blasone messinese, buddaci, ne chiede l’inserimento e ne fornisce la motivazione.24 Proponiamo ora un esempio che, nella sua diacronia ricostruibile, rivela la complessità della materia all’interno dei dati che andiamo raccogliendo. Il caso ha come epicentro la città di Caltanissetta e due comuni ad essa vicini nonché amministrativamente dipendenti: San Cataldo e Santa Caterina Villarmosa. Il primo è capoluogo di provincia e conta oggi circa 60.000 abitanti, il secondo, a 7 km. di distanza in direzione ovest, che ha una storia di stanziamento altrettanto antico e autonomo, consta invece di ca. 23.000 abitanti, l’ultimo centro, di fondazione feudale, a 18 km. a nord-ovest, conta ca. 6.000 abitanti. Nelle fonti scritte e orali i due centri confliggono con il capoluogo, ma non tra loro. Innanzitutto la rivalità tra Caltanissetta25 e San Cataldo è testimoniata da una coppia di distici speculari raccolti da Pitrè e alla cui origine possiamo supporre con una certa sicurezza che stia l’attributo vicendevole di ‹arrogante e supponente›: Sancatallisi, cu li corna appisi26 cu vi li fici? li Catanittisi Catanittisi, cu li corna appisi. Cu cci l’appisi? li Sancatallisi (Pitrè, Proverbi III)
Sempre in Pitrè riscontriamo un blasone nisseno rivolto al piccolo centro di S. Caterina V., Catarinari parrini, e un altro che, guardando a est e a ovest, abbraccia entrambi i centri, pazzi di San Catallu e vecchi di Santa Catarina (Schema 1).
La vitalità è uno degli indici che cerchiamo di rilevare al momento delle indagini, ovvero «la longevità sociale e il contesto d’uso e la sua variabilità lungo gli assi diafasico-diastratico-diamesico» (Caffarelli 2002: 129, n.27). 24 Il lettore ne documenta un uso non effimero e rimanda al referente primario di buddace, ossia, un pesce dalla bocca enorme asserendo che «da secoli i messinesi sono chiamati buddaci perché sanno fare solo parole e niente fatti». La forma è rilevabile anche nelle scritte esposte in Calabria. 25 Per Caltanissetta Alesso riporta anche manciabletti, ossia mangia bietole, registrato come blasone attribuito dai piccoli centri di Resuttano e Alimena. Ciò dimostra che i blasoni possono generarsi poligeneticamente e che ciascuna comunità guarda all’altra a partire da situazioni semantico-motivazionali diverse. Il blasone è riportato anche da Pitrè come attribuito dagli abitanti della sola Alimena. 26 Il blasone si oppone ad un modello che metaforizza le corna come simbolo di arroganza e in cui esse possono essere spavaldamente impennate (‹xxx chî corna tisi›) o, come in questo caso (‹xxx cu li corna appisi›) e simili (‹xxx ccu li corna mmanu›), abbassate in segno di alterigia frustrata. 23
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Schema 1: Caltanissetta, San Cataldo e Santa Caterina Villarmosa nei materiali di Pitrè
La raccolta del DASES che stiamo attualmente svolgendo ci offre altri materiali di riflessione (Schema 2). Infatti, non sembra più esserci traccia del motteggio pitreiano, ma lo schema di contrapposizione speculare sopravvive, tanto che ne abbiamo raccolto un altro in cui vengono chiamati in causa i santi protettori, San Michele per Caltanissetta e San Cataldo per il paese a lui dedicato: curri Micheli ca veni Catallu, curri Catallu ca veni Micheli (materiali DASES)
In questa dialettica di religiosità popolare, nessuno dei due popoli sembra prevalere sull’altro e la ‹partita› si chiude in pareggio. Ma su questo conflitto irrisolto torneremo. Cosa accade sul versante di Santa Caterina? Anche qui pare essersi riproposto uno schema speculare27 che contrappone, ma in maniera più blanda e meno accesa, i due centri. I parlanti di Santa Caterina ‹recuperano› la nomea del grande centro di ‹arrogante e supponente› rendendola con il blasone vrudara, ricavato probabilmente dal sintagma fraseologico dialettale / regionale ‹fare brodo›28, e connettendolo, nelle motivazioni esplicite, con una caratteristica precipua del centro nisseno, ossia quello di essere legato alle miniere di zolfo e alla presenza diffusa di osterie in cui si forniva il brodo mattutino prima di scendere nelle Altri soprannomi etnici contrassegnano il piccolo centro di Santa Caterina: maragrà (dal nome femminile più diffuso, Maria Grazia); vinti e vintiunu, spara / scoppia la bbiumma (locuzione attribuita ai giochi pirotecnici che si svolgono la notte tra il 20 e il 21 agosto in occasione della festa patronale). 28 Vrodu: trasl. (Man.) spocchia, boria, alterigia (cf. VS/5).
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gallerie. Da parte loro i nisseni risponderebbero con un sucara che, a detta degli abitanti di Santa Caterina, riporterebbe lo scambio di blasoni dentro l’alveo innocuo degli usi alimentari (‹mangiatori di [pasta con il] sugo›). Inoltre, nel tempo, l’aggettivo etnico catrinnaru ha assunto, a Caltanissetta, l’accezione di ‹villano, rozzo›29, sicché basta usare il semplice attributo di provenienza che è già in sé allusivo della subordinazione. Torniamo alla vicenda della contrapposizione tra Caltanissetta e San Cataldo. Le origini dei blasoni possono riguardare eventi specifici e fatti storici, e un’altra coppia di blasoni ci dà la possibilità di entrare dentro i moti risorgimentali. Il blasone popolare di Caltanissetta, maunzisi30, nel senso di traditori, e il blasone del vicino centro di San Cataldo, vintidù, nel senso di ‹pazzi›, sembrano, infatti, potersi ricondurre con una qualche certezza ad un preciso episodio di tradimento ad opera dei nisseni nei confronti dei vicini sancataldesi: Nell’agosto 1820, durante i moti anti-borbonici che interessarono la Sicilia (e tutto il Meridione, invero) a cavallo tra il 1820 e il 1821, la città di Caltanissetta appoggiò la politica napoletana e dovette fronteggiare le rappresaglie organizzate, per conto dei palermitani, dal Principe Galletti di San Cataldo, che coordinò i gruppi di guerriglia inviati dai vari comuni, fra cui Marianopoli. Nel corso della tregua di una battaglia che vedeva fronteggiarsi gli uni e gli altri, ‹un gruppo di armati nisseni, che avevano fatto una sortita per respingere i briganti che saccheggiavano le campagne, attaccarono di sorpresa i marianopolitani e si impadronirono del posto di guardia [di Babbaurra]. Si gridò al tradimento perché le trattative erano ancora in corso, tanto che gli uomini che erano stati sconfitti si precipitarono dal Principe chiedendo vendetta› [Cfr. Zaffuto Rovello 2008, p.4]. Fu facile collegare il tradimento al traditore per eccellenza, Gano di Magonza, e alla stirpe dei traditori magonzesi. (Burgio 2009: 123)
Ancora oggi in molte aree dell’isola maganzisi ha il significato di ‹traditore› e la nomea nissena si spinge sino a punti distanti, dove però perde la sua carica offensiva (‹mauzisi vuol diri cartanittisi›, ci è stato detto a Campofranco). I Sancataldesi, invece, nonostante la prevedibile sconfitta, rimasero sul campo e nel 1822 subirono un processo che vide tra gli imputati anche il Principe Galletti (nel frattempo, in realtà, datosi alla latitanza). Da qui venne loro attribuito, con felice abbinamento alla simbologia della Smorfia, il blasone vintidù, che non faceva altro che confermare e dimostrare un blasone già circolante (pazzi di San Catallu ecc.). Così come molti altri comuni ‹blasonati› rifuggono dall’attribuire al loro blasone un’origine sprezzante, altrettanto fanno i nisseni quando, dovendo cercare le cause del proprio blasone, ne riferiscono alcune che testimonierebbero non la tendenza al tradimento, bensì una non documentata discendenza illustre (a) o una presunta capacità imprenditoriale (b): (a) ‹discendiamo da Magonza, barone Magonza che era ricchissimo› (M.G.70 anni) (b) ‹perché il conte di Magonza si dava da fare› (M.P. 81 anni)
Cf. infra §2. Le diverse varianti fonetiche (maganzisi, maanzisi, magunzisi, maunzisi) rimandano sempre al significato di ‹traditore›. Per il deonimico cf. Schweickardt s.v. Magonza.
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Schema 2: Caltanissetta, San Cataldo e Santa Caterina Villarmosa nei materiali del DASES
Ma oggi la storia ha una inattesa continuazione in nuovi utenti che attribuiscono significazioni secondarie o neutralizzano quelle offensive. Le rivalità non viaggiano più sulla scorta degli antichi mestieri, dei caratteri pseudoantropologici delle diverse comunità, delle caratteristiche geotopografiche delle aree di insediamento, ma spesso soltanto delle tifoserie calcistiche, vere e proprie autostrade dei blasoni. Le locali squadre di calcio, spesso contrapposte nello stesso campionato e denominate Maonza31 e 22, sono oggi la cassa di risonanza dei blasoni tradizionali. Quando maonzesi e vintidù si sfidano, gli etnici sono banditi e i blasoni, lungi dall’essere sentiti come marchi di tradimento da un lato e sbeffeggiamento dall’altro, diventano veri e propri elementi di riconoscimento e prestigio. Facciamo un passo indietro: quando Migliorini preferiva al calco di blason populaire la dizione di ‹soprannomi etnici (e locali)›, lo faceva perché notava come l’analogia fra blasone, indicante, nel linguaggio corrente, uno stemma o un contrassegno che un individuo usa per qualificare e identificare se stesso e il suo casato, e il blasone popolare, dove sono gli altri ad affibbiare il contrassegno, non fosse molto riuscita. Non poteva prevedere che un insulto eteronimo non solo venisse accettato dalla comunità ‹offesa›, ma che venisse interiorizzato nelle motivazioni al punto da subire un processo di appropriazione onomastica: ecco che i maonzesi si fregiano di un ossimorico ‹orgoglio maonzese› e i vintidù intensificano la motivazione primaria del soprannome con la glossa ‹commando neuropatico› dotandosi, non ce ne voglia Migliorini, di un vero e proprio blasone con tanto di stemma: Si tratta di un vero e proprio appellativo toponimico. Per un approfondimento su questa categoria onomastica in Sicilia, cf. Burgio (in stampa)..
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Alla fine del processo di rimozione della motivazione originaria, riportiamo il testo di una scritta esposta su un liceo nisseno in cui l’antico attributo di ‹traditore› può essere rivolto affettuosamente ad una ragazza dall’innamorato (sancataldese?): «Maonzesina, hai perso a dama?». Nell’impiego dei nuovi utenti l’appellativo maonzesina ha ormai perso la forza connotativa negativa ed è diventato un appellativo neutro, una sorta di aggettivo etnico secondario.
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Chiara Colli Tibaldi (Università di Torino)
L’indicazione di mestiere nei secondi nomi dell’Astigiano (1387-1389)
Il patrimonio onomastico rappresenta una preziosa fonte di informazioni storiche e linguistiche di un territorio, restituendone i riflessi culturali, le tradizioni e gli elementi della vita comunitaria. Tra i vari filoni d’indagine, quello relativo all’influenza del lessico comune nella denominazione personale offre utili informazioni per la ricostruzione della storia locale. L’antico rapporto tra il nome comune e il nome proprio rappresenta uno dei punti nevralgici della ricerca onomastica. La panoramica tipologica dei cognomi moderni ci offre il riflesso e il risultato del processo di formazione della nostra ‹targa› identificativa, raccogliendo l’eredità dei secondi nomi formatisi in epoca medievale. Gli studi rivolti a riconoscere e valutare la consistenza e la varietà dei cognomi moderni concordano nell’affermare che la maggior parte di essi sia costituita da una base onomastica, comprendente nomi personali, patronimici e matronimici, toponimi e etnici1. Tuttavia, risulta fondamentale l’apporto tutt’altro che trascurabile del lessico comune e soprattutto di quello relativo ai nomi di mestiere.2 L’identificazione dell’individuo attraverso la professione esercitata risulta infatti strumento assai caratterizzante e quindi facilmente utilizzabile per distinguere le persone, specie all’interno di comunità ristrette come quelle che contraddistinguevano il periodo medievale. Per questa ragione l’indicazione del mestiere esercitato compare spesso nei documenti a carattere pratico, ma, a causa dei lunghi tempi di stabilizzazione del sistema, non è sempre agevole distinguere i casi in cui esso, superando la sua generica funzione di elemento descrittivo, diventa componente reale della catena antroponimica.3 Rohlfs (1972) riconosce nel panorama onomastico moderno cognomi derivanti da patronimici (ne differenzia più tipi: Bernardo, Bernardi, Di Bernardo e Dei Bernardi, ecc.), cognomi costituiti da toponimi, che probabilmente indicavano il luogo d’origine dell’individuo che denominavano (Ancona, Milano, Palermo), aggettivi etnici, anch’essi riferiti alla provenienza (Albanese, Alemanno, Provenzano). La classificazione fornita dal Rohlfs trova accoglimento nell’opera di De Felice (1978: 17-18), il quale individuando ulteriori categorie, ne compie una diversa sistematizzazione e ne offre per la prima volta la distribuzione percentuale. Si vedano inoltre gli studi di Arcamone (1987: 95-99), che secondo una panoramica più circoscritta conferma l’apporto preponderante degli antroponimi dapprima come patronimici, considerati come i primi cognomi in fase embrionale, e poi nomi di mestiere, etnici, ed epiteti vari, e di Lurati (2000, 19-39) per i cognomi tra Lombardia, Piemonte e Svizzera italiana. 2 Sommando le percentuali parziali riferite ai cognomi con base onomastica (antroponimi personali, toponimi ed etnici) riportate in De Felice (1978), verifichiamo che essa costituisce circa il 75% dei cognomi moderni, a fronte di una percentuale più ridotta derivante dal lessico, in cui spicca però in modo significativo l’indicazione di mestiere o professione e carica (10% del totale). 3 La necessità di individuazione precisa della persona attraverso una specificazione onomastica capace di identificare l’individuo e le sue relazioni con la famiglia di nascita ha origine all’interno di 1
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Chiara Colli Tibaldi
Lo studio specifico dell’onomastica piemontese ha messo in rilievo che occorre attendere il secondo millennio per trovare casi sicuri di utilizzazione non eccezionale del mestiere, piegato alla funzione di vero ‹nome aggiunto›, pronto a trasformarsi in cognome non appena la consuetudine locale lo richiederà o almeno lo consentirà.4 Le prime attestazioni reperite di nomi aggiunti basati su mestieri risalgono al IX secolo, ma sono assolutamente sporadiche e numericamente non raffrontabili ai casi in cui la voce individuata ricopre ancora il ruolo di funzione.5 È solo dopo il Mille che l’indicazione di mestiere diventa strumento d’uso frequente e dal XII secolo addirittura mezzo privilegiato per l’identificazione dell’individuo. A questa trasformazione contribuiscono senz’altro lo sviluppo demografico che impone una diversificazione delle attività, la maggiore circolazione umana che disperde l’individuo al di fuori della sua comunità d’origine cancellandone i tratti di fondamentale individuazione rappresentati dal patronimico e l’importanza sempre più grande della classe mercantile, alla cui base si pone la pratica professionale di cui va orgogliosa. società complesse; secondo gli studi questo sarebbe il motivo per il quale i primi esempi di secondo nome in funzione di determinante si rintracciano dapprima in ambito urbano e solo successivamente si estendono al mondo rurale, anche se a questo proposito, come si dirà in seguito, occorre tenere in considerazione, per la datazione nelle zone rurali, l’importanza della proprietà. Il primo tentativo di delineare una storia del cognome in Italia si deve a Gaudenzi (1898), che, basandosi sul contesto antroponimico bolognese, aveva cercato di rendere conto dello sviluppo e della fissazione del nome di famiglia. Le conclusioni raggiunte dallo studioso mantengono oggi soprattutto un interesse di tipo storico, richiedendo una profonda revisione alla luce di documentazione più ampia sia in senso cronologico che territoriale. Lo studio di Aebischer (1924) sul cantone di Friburgo offre un esempio di indagine metodologicamente compiuta, a cui più o meno esplicitamente si richiameranno le successive analisi in ambito italiano. Una sintesi significativa dei risultati raggiunti si può leggere in D’Acunti (1994), la cui documentazione si estende dall’area settentrionale (Petracco Sicardi 1984, Folena 1979-81, Pellegrini 1981) a quella centrale (Herlihy / Klapisch-Zuber 1978) fino all’estrema Puglia (Mancarella 1978-79). In questo quadro mancano tuttavia riferimenti specifici all’evoluzione della determinazione di mestiere come componente antroponimica. Non offre indicazioni significative lo storico saggio di Prati (1936), marginale rispetto al tema dei nomi di mestiere, così come necessariamente limitata risulta la ricognizione sui cognomi moderni che si può leggere in Caffarelli (1998). Per una visione d’insieme occorrerà probabilmente attendere la conclusione dell’ambizioso progetto PATRom (Patronymica Romanica) promosso dall’Università di Trier, che si propone di offrire una documentazione sistematica dell’onomastica familiare in ambito romanzo, dedicando ovviamente spazio anche alla categoria dei nomi di mestiere. 4 In ambito piemontese la ricerca storica sul valore e le funzioni del secondo nome ha permesso di identificare il ruolo specifico dell’indicazione di mestiere fino al raggiungimento dello status di cognome. Essenziali per la comprensione del fenomeno sono i lavori di Alda Rossebastiano sulle relazioni tra nome, cognome e soprannome nel Piemonte rurale (Rossebastiano 2004) e sull’identificazione del valore agentivo della terminazione -ando nell’onomastica del Canavese (Rossebastiano 1994). Come aveva già osservato Kremer 1976-1977 per l’area iberica, l’uso del nome di mestiere come cognome risulta assai tardivo. La stessa situazione si realizza in Piemonte, come si può rilevare scorrendo l’ampia documentazione offerta da Rossebastiano (2009b: 3-17). 5 Cfr. i dati raccolti nella banca dati ArchiMediOn (Archivio Medievale di Onomastica), curata e gestita da Elena Papa, che registra antroponimi e toponimi attestati in carte medievali edite ed inedite dall’VIII al XVI secolo (per indicazioni sulla struttura e sull’organizzazione della banca dati si veda la presentazione on-line all’indirizzo associazioni.unito.it/ArchiMediOn).
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In conseguenza di tutto questo l’individuo si manifesta per ciò che fa non più e non solo attraverso la citazione della sua origine genetica o etnica. Accanto all’indicazione di provenienza, anche la specializzazione lavorativa diventa etichetta di riconoscimento. Questa indicazione entra nella catena onomastica all’inizio come nome aggiunto o soprannome riferito ad una singola persona, in origine destinato a perdersi con la morte dell’individuo. In realtà la storia del cognome dimostra come ciò non sia sempre avvenuto: molto spesso il soprannome continua nelle discendenze successive, dapprima occasionalmente, poi sistematicamente, trasformandosi in nome di famiglia, oggi in Italia abitualmente definito cognome.6 Questo passaggio di radicamento è favorito dalla proprietà immobiliare, anche minima, che per la riscossione delle tasse deve mostrarsi reperibile nella trasmissione per successione. Se si entra nel dettaglio, si può poi osservare che i primi nomi aggiunti a sfondo professionale sono rappresentati da indicazioni di mestieri piuttosto umili, quelli che definivano le operazioni indispensabili per la sopravvivenza della comunità: il fabbro, il panettiere, il barbiere, che all’epoca era anche il praticante la bassa chirurgia, ecc. Tutti questi lavori, spesso tramandati di padre in figlio, quando non addirittura praticati da tutti o quasi i componenti della famiglia, si appropriano di una forza identificativa non solo applicabile all’individuo, ma agli interi gruppi familiari, con ciò ponendo le basi della trasmissione ereditaria, che di fatto altro non è che conservazione della tradizione familiare. Le professioni delle classi sociali alte tardano invece a cedere sul piano della funzione per entrare nella catena onomastica. Le ragioni sono ovviamente molteplici, ma alcune spiccano particolarmente: le professioni ‹alte› spesso coincidono con cariche o si accostano a titoli, strumenti parimente utili per l’identificazione dell’individuo che per essere riconosciuto in questo modo può non richiedere necessariamente la presenza di un nome aggiunto. Occorre anche tenere presente che queste professioni generalmente non presentano un quadro di pratica familiare così diffusa e quindi non sono sostenute dall’applicazione ad un gruppo di individui appartenenti al medesimo nucleo. Ciò non esclude ovviamente che anche funzioni come medico, cancelliere, scavino diventino col tempo cognomi, ma il loro trapasso dall’una all’altra funzione è meno precoce e quindi sposta in avanti nel tempo il radicamento e la trasmissione. Il lavoro condotto in ambito astigiano si propone di verificare il ruolo e l’incidenza del nome di mestiere come categoria antroponimica in relazione alle altre possibilità di determinazione personale. La fonte selezionata è rappresentata da alcuni documenti contenuti nel Codice delle fidelitates astenses dell’Archivio di Stato di Torino (13871389): l’estensione del corpus onomastico ed il ruolo sociale dei nominati (i cives chiamati a giurare fedeltà al nuovo signore) garantiscono la significatività del campione, rappresentativo a livello numerico e sociale, mentre il periodo in questione è adatto dal punto di vista onomastico proprio perché nel XIV secolo sul territorio la trasmissione del secondo nome ha già carattere ereditario e di conseguenza i secondi nomi ispirati alla categoria dei nomi di mestiere possono essere considerati ‹cognomi›, in senso moderno, senza più rimandare alla primitiva indicazione di funzione. Intorno all’evoluzione del secondo nome come determinazione con valore legale cfr. Spagnesi (1978).
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L’analisi effettuata sui documenti del Codice ha portato a circoscrivere tutti gli antroponimi che ipoteticamente riflettono un’indicazione di mestiere o di funzione: tra essi sono stati inclusi anche i nomi di dignità e le professioni che probabilmente rivelano un originario carattere soprannominale o canzonatorio. Gli individui appartenenti alla categoria esaminata rappresentano circa il 10% del totale.7 L’area esaminata è quella astigiana, dove attualmente la coltivazione della vite risulta particolarmente importante. Nei tempi ai quali ci riferiamo evidentemente la specializzazione non sembra essere così forte: in effetti, non solo a livello locale, ma in tutto il Piemonte, la coltura della vite era limitata alle terre di diretto sfruttamento signorile (situazione che condivideva anche con la Francia). Solo verso la fine del XIII secolo anche in Piemonte, come in tutta l’Europa, si rivolse un interesse particolare alla vite.8 Delle attività legate alla coltivazione delle viti e alla vinificazione non restano tracce particolarmente insistenti, eccezion fatta per carracinus9 che rimanda al carratium, ossia il palo che sostiene le viti. Un mestiere come quello del vignaiolo, presente in altre zone10 non è individuato, pur essendo noti cognomi collegati alla vigna (de vineis) che affiancano i nomi di mestiere. Le attività che interessano il vino richiamano la mescita (tabernarius), praticata ovviamente in qualunque città, la conservazione del vino (canevarius ‹cantiniere›), la torchiatura dei grappoli (prexarius, torserius), la fabbricazione delle botti (barlerius), con ciò delineando un quadro certamente interessato ma non definito dalla presenza della vite. Tale situazione è documentata, anche a livello giuridico, dagli Statuti medievali di Asti11 che non annoverano tra i mestieri disciplinati quelli relativi alla produzione vinicola, ma che lasciano piuttosto intuire una società in cui spiccano attività di artigianato, e soprattutto di commercio di vari materiali, ma anche di allevamento di bestiame e attività fondamentali che riguardano la vita quotidiana della comunità.
Dei 3648 individui considerati 379 riportano nel loro nome un’indicazione di mestiere. La percentuale calcolata sul campione corrisponde a quella riportata da De Felice (1978) relativa alla stessa categoria ma calcolata sul repertorio dei cognomi moderni. 8 Ne sono dimostrazione le investiture ad fictum nelle quali «si imponeva esplicitamente all’affittuario la riduzione di una parte del terreno a vigna» Cfr. Nada Patrone (1973: 34-35). 9 Du Cange (1883-87 s.v. carratium ‹paxillo quo sustentatur vitis› -inus). Cfr. anche Nigra (1920: s.v. carracia ‹palo da vigna›), Frola (1918), che ne registra l’uso nelle forme carratia, caracias, carrazios, carazas, caracios, caratios, gli Statuti medievali di Nizza (Asti) s.v. caracia con lo stesso significato di ‹palo da vite›. Il suffisso -inus, applicato alla base carratium può avere valore alterativo e indicare ‹un piccolo palo›; va tuttavia segnalato che in area piemontese il suffisso ha conservato l’originario valore di indicatore di relazione ed è frequentemente utilizzato per formazione dei nomi di mestiere (Rohlfs 1966-69, §1094). Su questa base il tipo antroponimico carracinus può essere accolto tra le denominazioni connesse a nomi di mestiere, nel senso di colui che si dedica alla preparazione di tali sostegni. L’identificazione della professione attraverso il nome del prodotto oggetto si può riscontrare ancora nel cognome moderno. In Lurati (2000) questa soluzione si pone in posizione intermedia tra le categoria dei soprannomi e quella dei nomi di mestiere. 10 Cfr. Rossebastiano (2009a): martinus vignator (a. 1192, Albiano d’Ivrea), petrus vignolanus (a. 1274, Andrate), vignolandus (a. 1363, Torino). 11 Codice Catenato, Statuti di Asti. 7
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Del resto la figura del mercante astigiano è da sempre assai nota dal momento che Asti fu uno dei centri di più precoce ed intensa attività mercantile12 e raggiunse, grazie soprattutto alla favorevole posizione centrale in aera pedemontana e all’abile politica dei suoi vescovi e del suo ceto dirigente, una posizione di largo respiro non soltanto in Italia, ma anche a livello europeo.13 Le indicazioni di mestiere legate al commercio che si riscontrano nel repertorio riflettono attività circoscritte alla vita quotidiana della piccola comunità e, nella maggior parte dei casi, accompagnano le attività di produzione del prodotto: barlerius14, borserius (‹chi fabbrica o vende borse›)15, botinerius16, botonerius, cappellerius, carboneriis (de), corderius, formagarius, frenarius (chi fabbrica i freni e le selle per i cavalli)17, lanerius, mercerius, piscator, sacharius18, testor. Non stupisce nemmeno la grande incidenza di nomi di mestieri relativi ad attività legate all’agricoltura e all’allevamento di bestiame, che nell’alto e nel basso Medioevo rappresentavano in Piemonte la fonte principale di sopravvivenza e di ricchezza.19 I mercanti astigiani probabilmente erano presenti nelle fiere francesi già prima del 1074, Cfr. Nada (1986). 13 Numerosi cartulari dei notai liguri attestano nel XII l’attività di mercanti astigiani impegnati in traffici marittimi per commerci a Bugia, a Ceuta, nel Levante, a Maiorca, in Sardegna ed in Sicilia, che si estende nei secoli successivi anche ai territori di Provenza, Catalogna, e oltre. Essi seppero introdursi, inoltre, presso le corti signorili, di volta in volta più importanti, e addirittura nel XIV secolo saranno anche alla corte pontificia di Avignone, dalla quale, con l’appoggio papale, prenderanno l’avvio le fortune di alcune ricche famiglie astigiane (cfr. Nada 1986: 174-177). 14 Variante della voce barilarius, formata da barile ‹cadus, dolium, amphora› (cfr. Du Cange 18831887, s.v.) con suffisso agentivo -arius, utilizzata per designare ‹chi fabbrica, vende o trasporta i barili›. L’esito documentato ad Asti, Barlerius, ne rappresenta la forma sincopata per la caduta della vocale pretonica, esito frequente nella parlata locale; regolare è il passaggio del suffisso -arius ad -erius in Piemonte, soluzione comune all’area gallo-romanza. 15 Va ricordato che il termine burserius poteva valere anche ‹tesoriere (che tiene la borsa), cassiere›; cfr. Sella (1944) e GDLI la voce borsario «ant. cassiere, che riscuote per conto dello Stato»). 16 In area piemontese si deve pensare come base al tipo botin «P’cit bot ‹orciuolino, orciuoletto. Piccolo orcio›» (Di Sant’Albino 1859), o ‹piccola botte› (Zalli 1930, Gavuzzi 1896). In questo caso il mestiere di riferimento potrebbe essere quello di fabbricante o venditore di piccoli vasi o botti. Tuttavia sempre in Piemonte esiste botina ‹stivaletto da donna› (fr. bottine). Il termine è antico e botinerius potrebbe quindi valere ‹fabbricante di stivaletti›. 17 Secondo nome tratto da indicazione di mestiere, continua il latino medievale frenarius ‹qui facit frena [...] sellarios et scutarios, frenarios atque armerios, candelarios, fabros› (Du Cange 1883-87), da frenum ‹morso› con suffisso agentivo -arius. 18 Esso è riferito a ‹chi fabbricava e vendeva sacchi, o a chi caricava, scaricava e trasportava sacchi di merci e prodotti vari› (De Felice 1978). Il Du Cange (1883-1887) documenta s.v. saccarii «portatores saccourum. Gall. porte-sac; saquiers». Tale valore è confermato anche da altri glossari di latino medievale, come il Sella (1937). Alla base c’è il termine saccus, che in latino si ritrova già in Plauto con il valore di ‹recipiente di tela aperto di sopra› (DEI, s.v. sacco), al quale si è aggiunto il suffisso agentivo -arius. 19 In particolare l’Astigiano, già ampiamente coltivato nei secoli X e XI, ampliò in modo decisivo l’estensione del terreno adibito all’agricoltura nel XIII secolo, periodo che rappresentò la conclusione di quella vera e propria rivoluzione agraria manifestatasi già nei secoli precedenti attraverso il dissodamento di boschi e gerbidi, in relazione con lo sviluppo del commercio, la rinascita cittadina e l’aumento demografico (cfr. Nada 1973: 31-35). 12
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Le attività erano piuttosto generiche, adatte a soddisfare tutte le necessità della società, come estimoniano boverius20, favarius21, laborator22, messearius23, sarterius24. Anche l’allevamento del bestiame e le attività ad esso connesse rappresentavano una fonte di sussistenza diffusa, che si riflettono in secondi nomi come asinarius, divenuto tra l’altro il cognome di una delle famiglie aristocratiche locali, caballarius, craverius, culaterius, ferrandus25, morcerius, pasturellus. I primi due nomi sono anche interpretabili in direzione della conduzione degli animali da trasporto, attività che si collega a quelle specificamente dedicate alla cura del cavallo, l’animale principe del medioevo, emergenti attraverso ferrarius, equiparabile a ferrandus ma con diversa selezione del suffisso, frenarius, marescalcus. Alla conduzione di animali fanno riferimento anche maynerius26, minator27, entrambi forse riconducibili alla stessa base, ma con una diversa selezione del suffisso. Rappresenta un originario nome di mestiere, corrispondente al latino bovarius ‹bovaro, boaro› (lat. tardo boārius ‹pastor boum›). Il dialetto piemontese conosce il termine boè (Di Sant’Albino 1859), e nel Canavese buer è ‹colui che ara la terra con i buoi›. 21 Letteralmente deriva da fabarius ‹seminatore di fave› e anche ‹mangiatore di fave›. In epoca medievale la voce acquisisce anche il significato di ‹cantante›, poiché i cantori usavano mangiare fave per rendere la loro voce melodiosa (Du Cange 1883-88). Il latino medievale conosce pure il termine faverius per designare un tipo di colombo (Du Cange, s.v. faverius). La forma favarius attestata nell’Astigiano mostra il passaggio dalla labiale sonora b in posizione intervocalica a labiodentale v (Rohlfs 1966-1969: §215). 22 In epoca medievale il laborator era propriamente il ‹giornaliere› ossia il ‹contadino che lavora a giornata›. La voce ricorre frequentemente negli Statuti piemontesi (Frola 1918, Sodano 1969-70, Bellero 1966-67, Apricò 1967-68, Nervo 1969-70), per designare il semplice lavoratore della terra, ma anche per indicare l’aratore, essendo il pesante lavoro di aratura denominato appunto labore. 23 Ha alla base il latino medievale messarius o messiarius, formato con suffisso -arius dal latino messis ‹messe›, a sua volta dal verbo mĕtere ‹mietere›. La voce, ben attestata nei glossari medievali vale ‹custode delle messi e delle vigne› (Du Cange 1883-1887) o ‹guardia campestre› (Niermeyer 1954-76), trovando continuazione in area francese continua nella voce messier, che l’AITLF glossa come «Garde faisant l’office de garde-champêtre, qui était commis temporairement à la surveillance des produits du sol qui servent à la nourriture des hommes et des animaux, avant la récolte, afin de les protéger du vol». 24 Deriva dal verbo latino medievale sartare ‹terram incultam excolere, Gall. Essarter, défricher› (Du Cange 1883-1887 e Niermeyer 1954-76, s.v.). Si tratta quindi del sarchiatore, ossia colui che estirpa e dissoda le terre incolte. 25 Secondo nome tratto dal verbo ferrare ‹applicare piastre metalliche sul piede del cavallo, asino, mulo e bue a protezione e a difesa› (DELIN), in unione all’elemento -ando, apparentemente interpretabile come desinenza di gerundio di prima coniugazione. Tale costruzione si inserisce tra le forme cognominali in -ando studiate da Rossebastiano (1994) in area canavesana. Va segnalato che nel Cuneese il verbo ferrare poteva essere esteso anche al maiale, il quale veniva munito di anello al naso, per evitare che grufolando rovinasse le coltivazioni e nel Canavese può inoltre valere ‹castrare›. 26 L’antroponimo è tratto dal latino medievale maynerius, attestato dal Du Cange 1883-1887 accanto alle varianti maignerius, mainerius, meynerius, con il significato di ‹familiaris, domesticus, serviens, apparitor›, ma potrebbe anche essere una variante di meynerius riconducibile al verbo minari. 27 Continua il latino mĭnātor, -oris ‹colui che conduce le bestie›, per estensione ‹guardiano di animali›, derivato attraverso il suffisso -ātor dal lat. classico minări ‹minacciare›, a cui si sostituisce minare, con forma attiva. Al valore originario del verbo si aggiunge già nel II secolo il senso di ‹spingere, pungolare› (DELIN). 20
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Attività agricole generiche emergono anche da camperonus, cassinarius, durandus maxuarius28, morandus29, rusticus, seghinus. Molto più varia la pratica artigianale, che conferma l’immagine di una città vivace e presente sui mercati. Accanto al barberius, immancabile nei testi piemontesi, troviamo, oltre ai cognomi già citati parlando di attività di commercio, archerius, archinus (voci sinonimiche ma che presentano suffissi diversi), bonaterius30, borserius, botinerius31, botonerius, fereglinus, fuserius, spaerius 32, corbellerius, fornaxerius, olerius33, poterius 34, tabularius, testimonianze di specializzazioni rilevanti, adatte a soddisfare esigenze diversificate e anche particolari che probabilmente andavano ben oltre le richieste del luogo. Sono dettagliatamente soddisfatte anche le necessità quotidiane, rilevabili attraverso molinarius, fornarius, bozerius35, formagarius, triperius, piscator, cazator, sartor, calegarius, Originaria denominazione di mestiere, tratta dal latino mansuarius (da mansus ‹villa aut locus familiae...; fundus cum certo agri modo›; ‹villula coloni unius habitationi propria›, cfr. Du Cange 1883-1887). La forma attestata è l’esito di assimilazione regressiva -ns- > -ss-, qui resa graficamente con -x-. La voce corrisponde di fatto al tipo massarius ‹massaro›, ma anche ‹tesoriere› (documentato a Parma nel 1255; cfr. Sella 1937, s.v. masus), passata all’italiano nella forma massaio ‹conduttore di un podere, di cui presiede ai lavori e cura il bestiame› (DELIN). 29 Esso deriverebbe dal verbo mǒrāre (ad soldos) ‹assoldare› o mǒrāri ‹restare, dimorare› con significato simile a quello dell’italiano manente che indicava nel medioevo il lavoratore agricolo di un podere di proprietà altrui in cui era obbligato per contratto a risiedere permanentemente (Rossebastiano 1994). Nell’Italia Settentrionale il significato si è evoluto in ‹mezzadro› ossia lavoratore agricolo che coltiva la terra altrui in base a un contratto che prevedesse la suddivisione dei prodotti (GDLI). 30 Corrisponde alla voce dialettale bonëtè ‹berrettaio, berrettinaio› (Gavuzzi 1896) da bonet ‹berretta›, che può assumere anche significati particolari in ambiti settoriali (come termine della cucina, bonet vale ‹vaso di rame stagnato ad uso di cucina e pasticceria›. Cfr. Ponza 1859, Di Sant’Albino 1859). La voce boneta è già attestata dal Du Cange (1883-1887), che glossa ‹bonetta, capitis tegumentum, Gallis bonet, Italis bierretto›. L’etimo è incerto. Il latino medievale conosce abonnis ‹benda utilizzata come copricapo› (obbonis, var. abonnis), il cui etimo fu inizialmente fatto risalire al germanico (Gamillscheg 1928), senza tuttavia incontrare il favore degli studiosi (FEW). A questo proposito cfr. REW e LEI, s.v. abbonis. 31 Per l’interpretazione si veda la nota 16. 32 Secondo nome riconducibile alla voce del latino medievale spatharius che con la sua variante spadarii ha il duplice significato di ‹qui spathas conficit› e ‹imperatorii corporis custos› (Du Cange 1883-1887 e Niermeyer 1954-76; nel primo significato cfr. anche Sella 1937, s.v. spadarius). La voce trova riscontro anche nella parlata locale in cui troviamo spadè ‹spadajo, spadaro› (Ponza 1859). La forma in esponente presenta dileguo dell’occlusiva dentale sorda in sede intervocalica e la consueta evoluzione -arius> -erius. 33 L’ipotesi più probabile è che continui la voce del latino medievale olerius ‹chi fa olle› (Sella 1944) per ollarius, da olla ‹vaso, pentola›. Il piemontese conosce d’altra parte olè ‹vasajo, pentolajo, pignattaro, stovigliaio› (Ponza 1959) e viene chiamato ola il vaso da notte. 34 Continua il latino medievale potarius ‹Gallico potier (vasaio, orciaiuolo) [...] potorum seu poculorum (tazze) artifex. Potarii sive facientes ollas› (Du Cange 1883-1887), derivato da potus ‹Poculum, vasculum›. 35 L’antroponimo si presta ad una duplice interpretazione: l’ipotesi più plausibile è che si tratti del nome del ‹macellaio›, corrispondente al latino medievale buzerius ‹ex Gall. Boucher› (Du Cange 1883-1887 ). In alternativa potrebbe trattarsi di un nome da bozza che in area settentrionale assume il significato di ‹bottiglia, fiasca, boccia›, e che etimologicamente corrisponde al fr. bosse bariletto, 28
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cappellerius.. Anche murator, pontrerius36 e peratarius37 si inseriscono nelle specializzazioni indispensabili all’interno di una comunità. Nei tempi che ci interessano un’altra attività particolarmente nota nella città di Asti era quella del prestito del denaro, che ha avuto ricaduta onomastica nel tipo faletus.38 Anche i nomi che richiamano cariche e funzioni di governo contribuiscono a definire la realtà territoriale. Il sistema feudale, da tempo tramontato, emerge ancora attraverso comes, marchio, marchixius, vassallus, mentre si perpetuano attraverso l’onomastica uffici di tradizione nettamente medievale come airaldus, confaronerius, gastaldus39, gabelerius, pedagerius, passator40, alferius, su cui poggia il nome di una importante casata aristocratica piemontese (Alfieri), e, ancora, sapiens41, a testimonianza dell’attenta organizzazione comunale di cui Asti fu un esempio illustre.
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il quale dialettalmente assume pure il significato di fiasca. Cfr. in GDLI: s.v. bozza1 «bozza, i Lombardi intendono un vaso di vetro, con cui si tiene il vino (Valisneri, III-378)». In questo secondo caso l’apposizione del suffisso agentivo -erius, variante settentrionale di -arius, porterebbe ad interpretare l’antroponimo come ‹venditore o fabbricatore di fiasche e bottiglie›. La forma qui attestata potrebbe essere variante epentetica di ponterius per pontarius, corrispondente al ‹pontiere›, ‹colui che sovrintende alla costruzione e alla riparazione dei ponti›. La voce, cha ha alla base il lat. pǒntem, ricorre nel latino medievale di Parma nel 1255 (Sella 1937). Il dialetto piemontese ha continuato invece la voce pontoniè ‹pontoniere›, ed anche pontonajo ‹soldato particolarmente addetto alle operazioni de’ ponti da guerra: è per lo più ascritto nella milizia dell’artiglieria in compagnie separate›. Si tratta tuttavia di una voce specifica del lessico militare. Il nome può derivare dal lat. perreta ‹locus muris cinctus› (Du Cange), e indicare chi costruiva muri di cinta in pietra. Alla base si dovrà pertanto porre il latino petra, con semplificazione settentrionale del nesso -tr-, unito al suffisso -etum, a valore collettivo. Alla composizione si aggiunge il suffisso -arius. In questo caso si tratterebbe di una forma accostabile a perreator ‹lapidum sector› (Du Cange), con cambio di suffisso. Si tratta di un secondo nome riconducibile alle voci del latino medievale falcti (sic) «vel Faleti dicebantur Usurarii quidam Lombardi et Itali sæculo xiv» e falleti, «Societatis mercatorum Italicorum, qui usuram sæpius exercebant» (Du Cange 1883-1887), e fa riferimento all’ambito creditizio che rappresenta, a complemento di quello commerciale, una delle attività più diffuse del Piemonte medievale, e dell’Astigiano in particolare. (Cfr. Nada 1986: 177). Secondo nome che riprende la denominazione di una carica feudale, continua il latino gastaldus, il cui valore è precisato da Du Cange (1883-87), «sic appellabant Longobardi locorum, praediorum ac villarum praefectos, rerum dominicarum actores, procuratores, administratores, villicos». Si tratta dell’adattamento del longobardo gastald, voce con la quale l’amministrazione longobarda designava il ministro o amministratore delle tenute regali e anche il luogotenente di un duca e poi scadde al semplice significato di custode o fattore (DEI) (cfr. Rossi 1896, s.v. gastaldus ‹ufficiale preposto nelle ville›). Du Cange 1883-1887 s.v. passator ne documenta l’uso con riferimento al signore che esercita sulle sue terre il diritto di passaggio «Dominus, cui Passagii, seu transitus praestatio competit», ma il termine può anche riferirsi direttamente a colui che materialmente riscuote tale tassa, ossia all’esattore del pedaggio (cfr. Sella 1944, passator, Venezia 1251). In area veneta passador è il ‹traghettatore› (Boerio 1829); da questo si formano numerosi cognomi (cfr. Olivieri 1924, che registra passador ‹barcaiuolo›). Negli Statuti medievali sapiens poteva indicare persone per lo più elette dal Consiglio, che avevano svariati incarichi, come quello di legislatore, di giudice e di paciere.
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La presenza di una classe sociale superiore è denunciata da gramatichus e magister, mentre l’organizzazione della città si dichiara attraverso burgensis, burganinus, la presenza della chiesa con prepositus, presbiter e, in parte, anche clericus, l’importanza della religione attraverso pellegrinus e palmerius. La realtà dell’area piemontese meridionale, fortemente investita dalla presenza saracena, riesce, inoltre, a trasparire attraverso soldanus. I secondi nomi sono spesso anche campo privilegiato di manifestazione dell’ironia popolare, che sovente si svolge in canzonatura, quando non in bonaria denigrazione a volte non lontana del vero e proprio insulto. È in questa prospettiva che forse si devono interpretare anche alcuni nomi che abbiamo già citato, apparentemente riconducibili, in una lettura rigorosa, a cariche ed uffici notabili, perché questi si diffondono anche attraverso il soprannome attribuito non in funzione della carica, ma attraverso atti o fatti accaduti, a noi totalmente ignoti, che hanno attirato l’attenzione e suscitato l’ilarità della comunità. Si pensi a nomi come rex, attribuibile a chi eccelleva in qualche arte o anche alla tradizione letteraria delle sacre rappresentazioni nella quale i ruoli erano fissi all’interno delle famiglie locali, oppure comes, marchio, baronxellus, titoli che spesso venivano attribuiti a chi prestava servizio al signore. Alla fantasia del popolo non manca la creatività che riesce talora a definire per sempre una persona. Questa tendenza alla creazione dei ‹falsi mestieri› è palese in formazioni a volte già volgari, o quasi, all’interno di contesti latini; si pensi a cantamessa, chaguaspia42, metfogus, tagliapanis.43 Attraverso il soprannome trova modo di emergere la realtà più umile, testimoniata ad esempio da servet, che, come richiede la sua posizione in fondo alla scala sociale, è già in forma volgare, e da raterius e baraterius...44 Di chiara origine soprannominale, è composto dal verbo cacare, dal lat. cacāre, voce infantile (cacca) e il sostantivo spiga, dal latino spica(m) ‹punta›, d’origine incerta, che nel latino medievale di area emiliana assume anche il valore di ‹lavanda› (Sella 1937). 43 I composti verbo + nome rappresentano la soluzione prevalente per la formazione dei falsi mestieri in tutto il Piemonte. Cfr. Rossebastiano (2009a), in cui compaiono nomi dalla chiara sfumatura denigratoria del tipo guastavinus / vastavinum, bruxavigna o genericamente soprannominale come sapavigna, arancavigna, portavinus, ecc. 44 Secondo nome che si presta a diverse interpretazioni; il barattiere è colui che ‹commette baratteria› ossia colui che inganna o commette frode. Il vocabolo ha sempre avuto un senso dispregiativo, indicando anche ‹individui senza mestiere fisso› (DELIN). Oltre a ‹tenutario di banco da gioco› assume nel XIII secolo il significato di ‹ribaldo che si presta come facchino e boia› e in Dante anche ‹funzionario pubblico che vien meno ai suoi doveri per danaro› (DEI), mentre viene utilizzato da Boccaccio in accezione neutra per indicare un ‹negoziante al minuto, rivendigliuolo, sensale, rigattiere (1348-53)› (GDLI). Nel provenzale esiste la voce corrispondente baratier che deriverebbe da barata (‹inganno, contesa›), termine probabilmente alla base dell’italiano barattare (DEI). Nel latino medievale ritroviamo lo stesso significato dispregiativo per la forma baraterius (Sella 1944, 1937). Probabilmente in questi casi la derivazione può fare capo al verbo baratare ‹dissipare, disperdere, dilapidare›, ma può anche riferirsi al verbo omografo che indica l’azione del permutare i beni: in questo caso il termine verrebbe a designare colui che pratica il baratto (Du Cange 1883-1887). Troviamo conferma del primo significato negli Statuti medievali piemontesi del Bellero (1966-67), in cui baraterius indica ‹frodatore, barattiere›. A queste ipotesi interpretative, la 42
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Quello che manca invece del tutto, qui e in altri documenti analoghi del Piemonte, è il nome di mestiere legato a professioni femminili: le donne, ben presenti nella catena onomastica attraverso i matronimici, non sono significative come lavoratrici, salvo quando si prestano ad attività scarsamente dignitose, prossime alla malavita. Questo è quanto risulta da altri documenti piemontesi dove le professioni femminili evidenziate sono del tipo tabernaria. In altri testi compaiono tanti nomi illustri come contessa, duchessa, regina, ma ancora una volta, più che testimonianze di una situazione sociale, sono soprannomi ironici. In cosiderazione della panoramica appena proposta, si può concludere che la scelta dell’indicazione di mestiere come elemento identificativo conferma l’importanza della professione a livello di determinazione e realizzazione personale attraverso cui la società riconosce e accoglie gli individui che ne fanno parte. La varietà e la veste linguistica dei mestieri analizzati consentono da un lato di ricostruire l’organizzazione della società del territorio, e dall’altro di rintracciare elementi caratterizzanti ancora oggi la parlata strettamente locale, che risulta così atavicamente radicata nell’individuo. Il riconoscimento del lavoro come valore fondamentale per l’individuo, emerge pure dall’utilizzo velatamente dissacrante di nomi indicanti titoli e alte cariche da interpretare in contrapposizione ai mestieri più umili, per giungere all’attacco diretto che identifica colui che di lavorare proprio non ha alcuna intenzione attraverso il nome fagnanus, presente ancora oggi dialetto locale con il termine fagnan e che sta ad indicare colui che vive secondo il principio, per dirla alla monferrina, dello scapa travaj che me ariv.
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L’indicazione di mestiere nei secondi nomi dell’Astigiano (1387-1389)
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Anna-Maria Corredor Plaja (Universitat de Girona)
Antroponímia i creativitat: l’exemple dels sobrenoms de Portbou (Alt Empordà)
Presentem en aquest treball el resultat de la segona fase d’un projecte més ampli de recollida i estudi de l’onomàstica (toponímia i antroponímia) del terme municipal de Portbou, a la comarca de l’Alt Empordà.1 Concretament, hem anotat els sobrenoms i els hem analitzat des del punt de vista formal i semàntic, tenint en compte la seva motivació. Cal precisar que es tracta gairebé en tots els casos de sobrenoms individuals, actuals o pretèrits, alguns dels quals amb el temps han esdevingut noms de casa. En total hem pogut recollir 131 sobrenoms, una xifra modesta, certament, però gens menyspreable per a un poble que, segons l’últim cens2, té tan sols 1.325 habitants i que, per la seva condició de municipi fronterer, compta amb poca gent arrelada al territori.3
1. Mètode de treball La recollida dels sobrenoms s’ha fet bàsicament a partir d’enquestes orals individuals. Tanmateix, la primera enquesta (juliol 2009) la vam fer reunint tres persones alhora i va ser força productiva; durant una conversa d’allò més distesa, tres veus van aportar informacions molt diverses sobre els noms dels carrers, de les cases, dels llocs de la rodalia; les explicacions de l’un completaven les dels altres, i a l’inrevés, si una dada no semblava prou exacta es discutia i al final miraven de posar-se d’acord. Però quan va arribar el moment de parlar dels sobrenoms dels portbouencs, que ens havíem reservat expressament per al final, el to de la conversa va canviar una mica, va fer la impressió que no n’hi havia, que allò eren coses del passat més remot i que, de cop, la memòria els fallava... En realitat, el que passava és que aquells enquestats es trobaven davant una forastera, i faltava el punt de confiança necessari per poder abordar aquell tema, certament delicat. Els sobrenoms, prou que ho sabem, no són gaire ben vistos, solen ser motiu de rebuig social, i la majoria de les vegades s’usen en cercles més o menys reduïts en els Per a la part corresponent a la primera fase remetem a l’article Aproximació a l’onomàstica urbana de Portbou (Alt Empordà), volum del Butlletí de la Societat d’Onomàstica d’homenatge a Albert Manent (en premsa). 2 Font consultada: Generalitat de Catalunya: Idescat. Anuari estadístic de Catalunya, 2009. 3 L’entrada en vigor de l’Acta Única Europea, que va suposar la lliure circulació de mercaderies a partir de l’1 de gener del 1993, va provocar la pèrdua de molts llocs de treball i un gran nombre de portbouencs van haver de marxar de la població. La davallada d’habitants, que ja s’havia iniciat als anys 80, va tornar a patir una forta sotragada, de la qual el poble no s’ha pogut recuperar. 1
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quals no tothom té accés. És evident que no és el mateix fer enquestes sobre malnoms en un context conegut que en un lloc on no es coneix ningú... Per tant, d’aquesta enquesta col·lectiva van sortir pocs sobrenoms individuals, però en canvi, es va començar a crear un lligam que havia de permetre un resultat molt satisfactori al cap de poc temps. Després, a còpia d’anar guanyant la confiança de la gent, es van realitzar més enquestes individuals, van sorgir fins i tot col·laboradors espontanis, i, de mica en mica, la llista dels sobrenoms es va anar allargant. Una petita recerca a la biblioteca municipal va permetre espigolar algun sobrenom a la revista local El Full de l’Albera marítima, però hem hagut de deixar pendent la recerca en altres fonts escrites: encara que els sobrenoms pertanyin al registre oral, de vegades se’n poden trobar en documents conservats als arxius, en els quals de vegades s’anotava el sobrenom com a informació complementària al cognom de l’individu4, per tant, en un futur cal explorar també aquesta via. Un cop amb el material recollit, n’hem fet una anàlisi centrant-nos en la forma que presenten els noms i en la seva motivació, en els casos en què ha estat possible. Tot seguit, hem optat per ordenar-los per ordre alfabètic i presentar-los com un annex amb les explicacions sobre el seu origen quan s’han pogut aconseguir.
2. Estudi formal dels sobrenoms Pel que fa a l’estructura, com a articles introductoris, les formes que trobem són: en, el, la, l’. Hi ha tres casos en què l’article introductori es troba en plural: són sobrenoms col·lectius però que no són noms de casa: es tracta dels Germans Abisinios, de les Vellaneres, i dels Coques. Un cas curiós és el de la Ela i la I, un sobrenom que és alhora individual i col·lectiu, atès que designava dues amigues, una molt espigada i l’altra baixeta. Considerem igualment un sobrenom col·lectiu el Parlament, colla d’avis (i alguna àvia) que, dia sí dia també, passen el rall a la fresca de la Rambla petita. Trobem sobrenoms simples i sobrenoms compostos. Dins dels simples, hi ha els que provenen de noms comuns (el Carbassó, en Cansalada, en Formatget, en Calderilla, en Calés, la Garsa, en Gòmit, en Llissa, el Llobarro, el Marrà, el Músic, en Puro, la Truita, en Xapes, en Gana, el Fariner) i els que provenen de noms propis (en Dubonnet, en Totó, en Carpanta), els que estan construïts amb afèresi (en Ceto, en Quet), els que són adjectius substantivats (la Curta, la Llarga, el Llarg, el Rovellat), els que són hipocorístics (en Sidret), els que són construïts amb sufixació (la Caterinots, el Cordillet, la Cigalona). Un cas curiós és en Canco, construït amb l’afèresi del cognom Barranco i la lletra inicial del prenom de l’individu (Carles), per tant, es converteix en un exemple de síncope, com també ho són en Xinoques i en Picolives. En Llangonissa és un exemple de construcció de sobrenom amb metàtesi. En Puro, el Doctor Aspirina, en Dubonnet, són exemples de construccions amb metonímia. La ironia és present en el cas d’en Milhomes, individu esquifit. Es pot parlar de metàfora en casos com l’Ull de pop, el Cordillet, el Carbassó, el Pilon, etc. D’allò més original és el cas d’en Quim dels Cucs, en el qual trobem un bon exemple d’analogia (cuc / cook, en anglès). La mateixa autora (2000) ho va poder constatar en diversos manuals del fons notarial de Pals.
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I també aquí podem esmentar el cas de la Cigalona, sobrenom originat pel cognom Mascle de la senyora en qüestió. Per tant, uns quants exemples de figures literàries a l’abast de tothom. Observant els sobrenoms compostos, trobem les següents estructures: Article + nom + sintagma preposicional: l’As de Canya, l’Emilio de la Piga, la Maria del Túnel, l’Ous de Plom, el Papu de Celler. Article + adjectiu: el Llarg, la Llarga, la Curta, el Rovellat. Article + nom + conjunció + nom: la Pa i Pets. Article + prenom + adjectiu: la Roseta Xafardera, la Marieta Xerraire, el Nas Pla. Article + prenom + cognom: en Carlos Gardel. Compostos de grafia aglutinada: adverbi + verb conjugat (en Maipagues), verb conjugat + substantiu (en Xinoques, en Picolives). Compostos amb guionet (verb conjugat + guionet + nom): en Pica-rodes, en Pixa-llits, en Plega-mans. No hi ha dubte que des d’un punt de vista morfològic, comparant amb el que és el funcionament de la llengua normativa, sobten unes quantes combinacions particulars. Observem les següents: Article personal singular + nom plural: en Xapes, en Datos, en Dedos, en Siete Machos, l’Ous de Plom. Article personal masculí + nom comú femení: en Cansalada, en Llissa, en Llangonissa, en Calderilla, en Mano, en Gana, en Tinieblas, en Pota Podrida. Article femení + nom comú masculí: la Pa i Pets. Article personal masculí + prenom femení: en Marina. Article femení + nom comú femení aplicat a un masculí: la Garsa, gramaticalment és un femení, però com a renom és masculí. Afegim encara un cas de masculinització d’un prenom: el Saro, a partir de Sara, afèresi de Baltasara. Un altre aspecte que remarquem en aquest apartat és la influència de les llengües veïnes, en aquest cas, el castellà i el francès. En el nostre repertori hi trobem el que Moreu-Rey (1981: 47) anomena ‹manllevats integrals›; en són exemples: en Dedos, en Mano, el Gordo, el Marquesito, el Niño, en Siete Machos, en Pablito, en Plinio, el Cojo de Málaga, el Risueño, en Tinieblas, que, independentment de l’article que els precedeix, s’utilitzen amb la pronúncia castellana. D’altres, es pronuncien a la catalana: el Xino, en Datos. Trobem també combinacions de català i castellà: els Germans Abisinios, en Mig Polvo. Pel que fa a la influència del francès, es fa sentir en el Forgeron, manllevat integral d’aquella llengua, en la Marrena i els Marrenos, un manlleu del francès marraine, en el sobrenom en Pagalla, una adaptació del francès pagaille, i en el cas d’en Dubonnet, marca d’un conegut aperitiu francès.
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3. Estudi semàntic És evident que un corpus de poc més d’un centenar de noms no permet fer gaires classificacions, o millor dit, no permet fer una il·lustració amb gaires exemples, i encara amb més raó si el que volem considerar són les causes i circumstàncies de la seva creació, altrament dit, l’etiologia dels noms recollits. Aquest aspecte ens sembla bàsic, i si no, fixem-nos en uns quants exemples: el Nas Pla, nom aplicat no pas a un individu que té el nas xato, com es pot pensar d’entrada, sinó a un individu de cognom Planas i amb el qual es fa un joc de paraules (Gubert 1990: 152); els Marrenos, néts de la Marrena, emigrada a França i batejada així a la seva tornada; la Ela i la I, dues amigues que sempre anaven juntes, una molt alta i l’altra molt baixa; l’As de Canya, un gran aficionat al joc del mahjong; en Datos, l’home que sempre anava tot escopetejat a ‹Prendre datos!›; el Doctor Aspirina, que no era cap metge que receptés aspirines, sinó que la seva senyora les hi feia prendre. En el primer exemple, tenir en compte l’etiologia ens allunya de la interpretació purament lingüística del sobrenom; en els altres, l’etiologia ens permet entendre plenament el significat del sobrenom. Així, seguint el model proposat per Moreu-Rey (1981), però sempre tenint en compte la motivació, establim un primer grup de sobrenoms referits a una especificitat constant, o durable, amb els subgrups següents: 1) Situació familiar: la Marrena, els Marrenos, la Mònica, el Niño, en Marina, el Saro,
les Bessones.
2) Característiques físiques:
– Dimensions del cos: el Carbassó, la Curta, el Llarg, la Llarga, la Ela i la I, en Milhomes, el Gordo, en Pilon, el Papu de Celler, en Demis Roussos. – Color de la pell o del cabell: els Germans Abisinios, en Negret, el Rovellat. – Parts del cos: el Nas de Llauna, el Xato, l’Emilio de la Piga, l’Ull de Pop, en Mig Polvo, en Bigotis, en Caraluna. – Invalideses: en Pota Podrida, el Cojo de Málaga, en Dedos, en Mano. – Peculiaritats en el caminar: en Plega-mans, l’Ous de Plom. – Peculiaritats en el parlar: en Sipi. – La gana: en Carpanta, en Gana.
3) Singularitats del caràcter:
– Presumidots: el Bien Peinao, el Marquesito. – Vanitosos: el Millonari, en Siete Machos. – Autoritaris: l’Estalin. – Xerraires: la Marieta Xerraire, la Roseta Xafardera. – Rabiüts: la Caterinots, el Cojo de Málaga. – Somniadors: en Tinieblas.
4) Els oficis: en Calderilla, el Fariner, el Forgeron, la Maria del Gel, en Pica-rodes,
en Pixa-llits, les Vellaneres, en Quim dels Cucs, en Quim del Carro, els Coques, en Ramon de la Depuradora.
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5) Dedicacions constants no professionals:
– Música, joc, teatre, esports: l’As de Canya, en Carlos Gardel, la Faraona, el Músic, el Maestro Txan. – Menjar i fumar: la Pa i Pets, en Puro, en Ramon de la Pipa, en Joan de la Pipa, en Picolives. – Costums diversos: en Maipagues, en Xapes, la Pentoneta.
6) Sobrenoms derivats de noms o de cognoms: en Canco, en Cartit, la Caterinots, en Ceto,
la Garsa, en Nasi, en Sidret, en Tavi, en Tonicus, en Vileta
7) Sobrenoms motivats pel lloc d’origen o de residència: la Manya, l’Alemanya, el
Gallego, la Maria del Túnel, el Gitano, la Russa
En un altre grup de sobrenoms trobem els que són derivats de fets episòdics, i establim dos subgrups: 1) Fets de parla puntuals, en aquest cas: en Datos, en Siete Machos, en Currito, el Tendre, en Tatarit, en Sesmènec, en Tataro, en Tito Bé. 2) Activitats no constants: en Totó, la Faraona.
4. Conclusions Malgrat que el corpus de sobrenoms estudiats sigui més aviat migrat, creiem que és prou representatiu per trobar-hi els trets que caracteritzen aquesta parcel·la de l’antroponímia: d’una banda, trobem en els sobrenoms nombroses mutacions morfològiques en clara contradicció amb el funcionament normatiu de la llengua, i de l’altra, una barrija-barreja de noms amb una riquesa lèxica molt destacable. Són elements que, defugint la rigidesa de la normativa, tenen el seu propi funcionament i els seus propis recursos per propagar-se i perpetuar-se (tornant a l’exemple de la Marrena, per molt que la Marrena hagi passat a millor vida, sempre ens quedaran els Marrenos...). Per tot això, podem dir que els sobrenoms representen la part més lúdica de la llengua, de fet, ens mostren una manera singular de sobreviure a la rutina de la vida quotidiana, de vegades amb prou humor: el Papu de Celler, l’Ull de Pop, el Cordillet, en Tinieblas, en Datos, la Cigalona, la Ela i la I, la Pentoneta, en Quim dels Cucs són autèntiques troballes pel que fa a exemples de creativitat lingüística. Igualment, com hem vist amb uns quants exemples, el corpus recollit és prou representatiu per demostrar com n’és d’important l’etiologia per copsar plenament la significació dels apel·latius i anar més enllà del seu contingut purament semàntic. Efectivament, en el moment de ser creat, cada sobrenom ha tingut la seva motivació i ha adquirit una càrrega afectiva, és per això que intentar esbrinar l’origen dels noms ha de ser la tasca prioritària abans de posar-nos a fer classificacions. És cert que hi ha noms transparents, com ara el Llarg, però en general, creiem que en aquest terreny hem d’aprendre a desconfiar de la transparència semàntica i acostumar-nos a indagar tant com es pugui les circumstàncies que van originar el sobrenom. I aquí cal recordar el recurs a les fonts escrites, que poden ajudar a aclarir molts dubtes.
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M’agradaria acabar amb una citació del mestre Moreu-Rey, que en un dels seus articles (1991: 187) escriu en les seves conclusions: Amb l’aprofitament dels exemples l’explicació dels quals és segura o probable, els sobrenoms equivalen a un mirall verídic d’una col·lectivitat: amb les seves activitats i oficis peculiars, les seves qualitats i defectes, els seus orígens, la seva llengua genuïna, etc. I per això mereixen no solament l’atenció dels estudiosos, mes també la de tots els qui s’esforcen per a la conservació del nostre patrimoni cultural.
En efecte, els sobrenoms són un patrimoni lingüisticocultural molt valuós, però són un patrimoni essencialment oral, per tant, molt vulnerable, i que ens cal salvaguardar. Encara que als pobles la gent es continuï coneixent més pels sobrenoms que no pas pels cognoms i que el costum de ‹batejar› es mantingui més o menys vigent, ens trobem davant un material fugisser, però únic, que és urgent que continuem recollint i estudiant. Per descomptat que la llista dels sobrenoms de Portbou queda oberta...
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6. Annex: relació dels sobrenoms ordenats alfabèticament i, en la majoria dels casos, acompanyats de la seva explicació. Alemanya, l’: sobrenom ben vigent encara com a nom de casa (ca l’Alemanya). As de Canya, l’: era un gran aficionat al mahjong, joc de taula xinès les fitxes del qual eren fetes tradicionalment amb bambú. Bessones, les: sobrenom ben vigent com a nom de casa, pel fet que allà hi havien viscut dues germanes bessones, una encara viva. Bien Peinao, el: sempre ben pentinat. Bigotis, en: pel seu mostatxo imponent. Calderilla, en: fill d’un drapaire que recollia ampolles de vidre i que devia pagar amb xavalla. Calés, en: antic sobrenom d’origen desconegut, però que possiblement faci referència a un individu aficionat a fer diners. Califa, en: sobrenom d’un jove del poble, no hem pogut esbrinar el perquè. Canco, en: afèresi del cognom Barranco, combinada amb la lletra inicial del nom de pila (Carles). Cansalada, en: no hem pogut esbrinar l’origen d’aquest antic renom. Caraluna, en: per la seva cara rodona com una lluna plena. Carbassó, el: vivia al carrer de Colera, era molt baixet. El sobrenom es manté com a nom de casa (cal Carbassó). Carlos Gardel, en: era un dels néts de la Marrena, aficionat a cantar tangos. Carpanta, en: ganut de mena. Cartit, en: el sobrenom deriva probablement del cognom Cortada. Caterinots, la: la Caterina era la geniüda de la família del Llarg; vivia al carrer anomenat Que no es passa. Ceto, en: afèresi d’Aniceto, que era com es deia el pare. Cigalona, la: regentava una merceria a la plaça Major. La van batejar així perquè el seu cognom era Mascle, que ella mirava d’arreglar posant-li un accent. Cojo de Málaga, el: coix i rabiüt, però no pas originari d’allà baix.5 Coques, els: eren dos germans flequers. Cordillet, en: era alt i molt prim. Currito, en: ‹Currito!› és la seva expressió per saludar els altres. Curta, la: era l’amiga de la néta del Llarg, que era molt més alta que ella. Datos, en: era venedor de vins i licors. Quan el veien pel carrer i li preguntaven on anava, la resposta sempre era ‹a prendre datos!›. Dedos, en: el sobrenom prové del fet que li falten uns quants dits. El sobrenom fa una referència clara a Antonio Martín Escudero, anomenat ‹el Cojo de Màlaga› (Càceres, 1895-Bellver de Cerdanya, 1937), que fou un conegut capitost anarquista.
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Demis Roussos, en: per la semblança física amb l’artista. Doctor Aspirina, el: fill d’en Carpanta. La seva dona li donava aspirines per a tots els seus mals. Dubonnet, en: per la seva afició a beure aquest aperitiu. Ela i la I, la: eren dues amigues que sempre anaven juntes, una molt alta i l’altra molt baixa. Emilio de la Piga, l’: vivia al carrer de l’Església i, evidentment, tenia una piga. Estalin, l’: per comparació amb el posat autoritari de Stalin. Se’l coneix també per en Ramon de la Depuradora i pel Maestro Txan. Faraona, la: expliquen que de joveneta havia fet algun paper al teatre vestida d’andalusa, però segons altres veus, sembla que el sobrenom també té a veure amb el seu posat. Fariner, el: comerciejava amb farina. Forgeron, el: era ferrer i el cridaven pel nom de l’ofici en francès. Formatget, en: sobrenom d’origen desconegut. Gallego, el: pel seu lloc d’origen. Gamba, can: sobrenom amb què es coneix un restaurant. Gana, en: sempre a punt per menjar. Garsa, la: derivat probablement del mateix cognom de l’individu, García. Germans Abisinios, els: eren anomenats així pel color molt morè de la pell. Gitano, el: per la seva ètnia. Gòmit, en: alguna anècdota relacionada amb aquest peix deu ser l’origen del sobrenom, però no hem aconseguit trobar-la. Gordo, el: és un sobrenom que designa més d’un individu de complexió grossa. Joan de la Pipa, en: per la seva afició a fumar amb pipa. Let, en: sobrenom d’origen desconegut, potser afèresi d’algun cognom. Llangonissa, en: no hem pogut saber si li agradava, si en venia, si era llarg i prim... Llarg, el: Nati Peral (2006: 13) escriu: «El meu avi era molt alt i per això li deien el Llarg. Ensenyava a ballar sardanes i les va ballar gairebé fins que es va morir». Llarga, la: filla del Llarg. Llissa, en: era pescador. S’explica l’anècdota que quan els seus companys pescaven algun peix estrany li preguntaven: ‹Llissa, quin peix és, aquest?›, la seva resposta sempre era: ‹Peix d’aigua!›. Llobarro, el: escrivint els seus records del passat, Paco Sàcera (2000: 20) esmenta en «Joanito Ferrer, però que tots li dèiem ‹El Llobarro›, i que era fill d’un guàrdia d’assalt». Maestro Txan, el: cinturó negre i reconegut expert en defensa personal, que imparteix classes als membres dels cossos de seguretat. Maipagues, en: a l’hora de pagar, sempre feia el ronsa. Mano, en: té una mà esguerrada. Manya, la: pel seu origen aragonès. Maria del Gel, la: s’havia dedicat a la venda de gel.
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Maria del Túnel, la: havia viscut a la primera casa edificada prop del túnel de Cervera, i coneguda també per la Mònica. Marieta Xerraire, la: per la seva afició a la conversa. Marina, en: el sobrenom prové del nom de la mare, que sempre ha estat al capdavant del negoci. Marquesito, el: elegant i presumidot. Marrà, el: pel seu caràcter tossut. Marrena, la: va marxar a França amb els seus cinc néts orfes i els va criar allà. El sobrenom prové del francès marraine (padrina). I cada nét va ser anomenat el ‹Marreno›... Mig Polvo, en: per la seva mirada extasiada. Milhomes, en: pel seu físic esquifit, conegut també per en Tomateta. Millonari, el: també anomenat en Millonetis, pels seus aires de grandesa. Mònica, la: el sobrenom prové de la feminització del cognom de la protagonista (Mónico). Músic, el: formava part d’una família de músics i vivia ribera amunt, on també trobem la sendera del Músic i l’hort del Músic. Nas de Llauna, el: originari de Colera, tothom coincideix a dir que ‹té un nas molt especial›. Nas Pla, el: la inversió de les síl·labes de la paraula ‹Planàs› és l’origen d’aquest sobrenom amb que els treballadors de la Companyia de Ferrocarrils anomenaven el seu director (Gubert 1990: 152). Nasi, en: afèresi d’Ignasi, era un oncle de Nati Peral. Negret, en: era molt morè de cara. Ninus, en: era el sobrenom del propietari del mico de la plaça del Mono, que es deia Titi. Niño, el: el sobrenom correspon possiblement a un apel·latiu familiar. Ous de Plom, l’: caminava encorbat. Pa i Pets, la: antic sobrenom d’origen desconegut, que reflecteix probablement un determinat règim alimentari i les seves conseqüències... Pablito, en: s’anomena així un personatge tot peculiar. Pagalla, en: havia emigrat a França i allà el tractaven de pagaille, potser per l’enrenou que feia. Papu de Celler, el: o simplement el Papus, antic sobrenom avui caigut en desús, aplicat a un individu de complexió forta, imponent. Parlament, el: nom amb què es coneixen la colla de gent gran, especialment homes, que, dia sí dia també, seuen a la Rambla petita i parlen de coses diverses (‹aquí fan el temps›, ens deia un que els va preguntar si l’endemà plouria). Pentoneta, la: antic sobrenom encara ben vigent com a nom de casa (ca la Pentoneta6), i també en plural (les Pentonetes). Sembla que el mot deriva de la paraula pendó. Pere Brut, en: pel seu aspecte deixadot. Picolives: era aficionat a menjar olives. Pica-rodes, en: treballava a l’estació i el sobrenom deriva del seu ofici de ‹picar les rodes›, que era una de les feines que realitzaven els carreters. Rectifiquem la grafia emprada en l’article esmentat a la nota 1, un cop conegut l’origen del sobrenom.
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Pijillas, en: durant la guerra va ser un dels líders de la plaça de Dalt. Pilon, en: alt i gros, fill d’en Tion. Pitxi, en: de jovenet jugava a futbol i sembla que marcava molts gols, una mica com el Pichi Alonso. Pitxur, en: conegut sobrenom d’origen desconegut. Pixa-llits, en: matalasser de renom de Colera que tenia clientela a Portbou. Plega-mans, en: caminava amb les mans encreuades a l’esquena. Plinio, en: el sobrenom té el seu origen en un dels personatges de la sèrie de televisió espanyola Crónicas de un pueblo. Pota Podrida, en: li faltava una cama, que el tren li havia aixafat. Puro, en: és un sobrenom que s’aplicava tant al pare com al fill, perquè tots dos fumaven cigars. Quet, en: afèresi d’Enriquet, sobrenom encara vigent com a antic nom de casa. Quiko, en: Nati Peral (2009: 6) recorda la vinya dels seus avis ‹avui de l’Antonio García, en Quiko›. Quim del Carro, en: sempre anava amunt i avall amb el carro. Quim dels Cucs, en: havia treballat a la companyia de viatges Cook. Ramon de l’Olla, en: treballava a la duana i era fill d’en García de l’Olla. Ramon de la Depuradora, en: treballa en aquestes instal·lacions. Ramon de la Pipa, en: es tracta d’un renom que va passar de pare a fill. Risueño, el: per la seva barca, que s’anomenava així. Roseta Xafardera, la: sempre a l’aguait, pendent del que passava al carrer. Rovellat, el: era pèl-roig. Rovelló, en: va quedar batejat així una vegada que es va posar una gorra i algú va trobar que semblava un rovelló. Russa, la: arribada d’aquell país, ha acabat instal·lant-se definitivament al poble. Saro, el: la seva dona es deia Sara, afèresi de Baltasara. El sobrenom també va donar lloc a un nom de casa (cal Saro). Sesmènec, en: és un sobrenom que prové d’una deformació fonètica: el noi es deia Domingo, d’aquí va passar a Domènec, i de Domènec va sortir Sesmènec. Sidret, en: forma hipocorística, i amb afèresi, d’Isidre. Siete Machos, en: és així com anomena, orgullós, els seus set fills. Sipi, en: era un treballador de la duana que parlava papissot. Tai, en: treballava a la duana, era germà d’en Tion. Tatarit, en: el sobrenom deriva d’un defecte de parla, i sembla que quan l’home volia preguntar ‹què t’ha dit?›, la cosa es convertia en una mena de tatarit. Tataro, en: es deia Ricardo, tenia un defecte de parla i el seu nom sonava així. Tavi, en: afèresi d’Octavi. Tendre, el: ‹Ei, Tendre!› és la salutació que fa als seus coneguts. Teti, en: no hem pogut esbrinar el perquè d’aquest sobrenom.
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Tinieblas, en: individu solitari que vagarejava sovint amb un llibre sota el braç. Tion, en: sembla que el sobrenom deriva de Pantaleón, que és com es deia l’home. Tito Bé, en: l’home pronunciava ell mateix així el seu nom i cognom quan era una criatura. Tomateta, en: sobrenom d’origen desconegut amb què era conegut també en Milhomes. Tonicus, en: derivat de Toni, el sobrenom encara perdura com a nom de casa (can Tonicus). Totó, en: es tracta de Ricard Novell i Cuffí, conegut per Totó, era un portbouenc molt popular, un xic estrambòtic però molt servicial7. Sembla que el sobrenom prové del personatge del mag Totorelli, que ell va interpretar en una ocasió. Tuduri, en: sobrenom d’origen desconegut, si bé és molt probable que derivi d’un antic cognom, i aplicat a l’individu anomenat també en Rovelló. Truita, la: era l’àvia del que encara avui es coneix per can Truita. Vellaneres, les: tenien botiga de verdures, sembla derivat de vellanes. Ull de Pop, l’: per la forma dels seus ulls. Vileta, en : derivat del cognom Vila. Virolet, el: sobrenom derivat possiblement del joc anomenat així. Xapes, en: era molt aficionat a lluir xapes. Xata, la: era la dona del Xino, i, curiosament, no té res a veure amb el Xato. Xato, el: pel seu nas xato. Xino, el: havia estat un esportista destacat de l’equip de waterpolo i natació local de mitjans del segle XX; es desconeix l’origen del sobrenom. Xinoques, en: sobrenom d’origen desconegut.
Un retrat molt complet d’aquest personatge es pot llegir a: Sànchez (2009: 6).
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Aproximación á zootoponimia do Concello de Ribadeo (Lugo)
1. Introdución Un dos campos historicamente máis produtivos dentro da lingüística galega é o da onomástica e, dentro dela, o da toponimia. Os recursos para o seu estudo (e máis en concreto da toponimia no seu estado medieval) aumentaron considerabelmente nos últimos anos, grazas á aparición de numerosas coleccións documentais e á dixitalización de moitas delas, o cal permite unha consulta máis rápida e efectiva do material. Neste sentido debemos chamar a atención sobre recursos informáticos de consulta libre como o CODOLGA (Corpus Documentale Latinum Gallaeciae)1, do Centro Ramón Piñeiro de Investigación en Humanidades, e sobre todo o TMILG (Tesouro Medieval Informatizado da Lingua Galega)2 e o ITGM (Inventario Toponímico da Galicia Medieval)3, ambos os dous desenvolvidos no seo do Instituto da Lingua Galega baixo a dirección do doutor Xavier Varela Barreiro. O interese que presenta o estudo da toponimia para un lingüista adquire distintas formas e vertentes. Por unha banda, os nomes de lugar achegan información moi valiosa sobre fenómenos que ilustran a evolución diacrónica dunha lingua, ao tempo que conserva en non poucos casos restos fosilizados de elementos léxicos pertencentes a estratos lingüísticos anteriores (Morala 2010: 105). Canto á natureza e enfoque do noso traballo, levamos a cabo un estudo toponímico no que reunimos todos os nomes de lugar dun concello galego determinado (Ribadeo, na comarca da Mariña Oriental, pertencente á provincia de Lugo) que teñen como motivación principal o campo semántico da fauna (zootopónimos), tanto no referido aos propios animais en si mesmos como a actividades, obxectos e/ou substancias relacionados con eles. Trátase, pois, do extracto dun traballo máis amplo que estamos a desenvolver nestes momentos e que abrangue o estudo global da toponimia do devandito concello de Ribadeo. A xeito de introdución debemos indicar que os zootopónimos constitúen un subgrupo incardinado dentro dunha categoría máis ampla como é a da toponimia delexical. En efecto, todo corpus toponímico pode sistematizarse e categorizarse conforme á tipoloxía dos elementos Pode consultarse no seguinte enderezo: http://corpus.cirp.es/codolga. Pode consultarse no seguinte enderezo: http://ilg.usc.es/tmilg. 3 Pode consultarse no seguinte enderezo: http://ilg.usc.es/itgm. 1 2
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lingüísticos concretos nos que se fundan os distintos ítems que o constitúen, tipoloxía que nos permite distinguir a toponimia delexical (nomes de lugar orixinados a partir de elementos léxicos da lingua, en calquera das súas fases históricas) da toponimia deonomástica (nomes de lugar creados a partir de elementos onomásticos preexistentes, sexan antropónimos ou topónimos). Á súa vez, os topónimos delexicais poden clasificarse en función dos trazos semánticos predominantes en cada lexema concreto, o cal permitiría postular en principio a existencia de diversos campos toposemánticos cuxo número e definición varía notabelmente duns autores a outros. Unha desas posíbeis clasificacións, que se axeita en grande medida aos nosos propósitos, contempla a existencia de oito grandes grupos (Martínez 2010: 39-41), un dos cales é o dos zootopónimos, que agrupa todos aqueles nomes de lugar creados a partir de lexemas cuxo significado fai referencia a algún tipo de animal.
2. Algunhas consideracións sobre a zootoponimia É ben coñecido o xeito en que o mundo animal influenciou a mentalidade do home ao longo dos tempos, influencia que se proxectou sobre ámbitos tan diversos da experiencia humana como o folklore, a literatura, a relixión, a simboloxía ou mesmo a medicina. Evidentemente, esta repercusión do mundo animal reflíctese en todas as culturas e en todas as linguas, pois todas elas xeraron un vocabulario zoonímico de grande vitalidade (produtos, aspecto, partes do corpo etc.). Un dos campos no que mellor podemos verificar esta circunstancia é no das metáforas ou símiles zoomorfizantes, especialmente abondosas e expresivas no caso do galego: pensemos por exemplo en ser malo como os pollos, poñerse feito un porco, feder como unha bubela, ir cargado coma un burro, ser negro coma un corvo, estar contento coma un cuco, ser falso como unha mula etc. De idéntica realidade participan outro tipo de enunciados fraseolóxicos cuxo significado se nos presenta con menor claridade que nos casos anteriores, pois non reproducen unha estrutura de tipo comparativo: referímonos a secuencias como boi de palla (‹ser moi bo›), buscar a burra e ir a cabalo dela (‹non darse de conta de algo ben evidente›), chámalle burro ao cabalo! (dise de alguén que nos parecía pouco esperto mais que demostrou con algún feito ou dito ser persoa aguda), ir de burra e volver de albarda (‹non aprender nada›), erguerse co galo (‹madrugar moito›), andar coa mosca tras da orella (‹sospeitar algo›) etc. Ademais da produtividade léxica e fraseolóxica característica dos zoónimos, estes elementos son frecuentemente utilizados ben como indicadores toponomásticos ou ben como nomes persoais, a través do estado intermedio do sobrenome, feito que os integra de xeito secundario na categoría dos topónimos deonomásticos. O expoñente máis coñecido disto é a onomástica xermánica, na que se utilizaban de xeito frecuente bases lexicais como *ber ‹oso› ou *wulfs ‹lobo› na formación de antropónimos. É ben coñecida a presenza na antroponimia medieval galega de temas xermánicos que interviñeron na constitución de nomes persoais bitemáticos, como por exemplo *marha ‹corcel de batalla› (que temos como base de baldemarus), *bera(n) ‹oso› (presente en bera ou beraldus), *ara ‹aguia› (recoñecíbel en aragundia ou arulfus) ou *wulfus ‹lobo› (que temos por exemplo en randulfus, grisulfus
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e moitos outros). De todos os xeitos, esta práctica onomástica revélasenos como moi antiga e verifícase de feito no propio latín, moitos de cuxos cognomes se explican en virtude da antroponimización de determinados nomes de animais como lupus, apius, taurus ou merulus (Kajanto 1982: 325 e ss.). Esta práctica gozou de grande vitalidade aínda na época propiamente romance, tal e como poñen de relevo os múltiples sobrenomes zoonímicos testemuñados na nosa documentación medieval, tanto instrumental como literaria: casos como porcallo, pego, sardiña e moitos outros así o evidencian (Boullón 1999: 78-79). De feito, moitos destes sobrenomes acabaron cristalizando a partir de certa altura histórica como apelidos persoais, logrando deste xeito fixarse e perpetuarse até a actualidade. Volvendo ao entorno xeográfico específico que nos ocupa, no concello de Ribadeo existen topónimos baseados en nomes de persoa que á súa vez remiten a temas zoonímicos, como Vilamariz, onde se recoñece probabelmente o gótico *marha ‹corcel de batalla› (HgNb §173). Ora ben, como non se trata de zootopónimos primarios en sentido estrito, fican excluídos do noso interese inmediato. Unha das opinións máis reproducidas por certos autores é a de que o campo da zoonimia non acostuma xerar unha grande cantidade de topónimos, debido entre outras circunstancias á mobilidade dos animais: [...] la flora es inamovible, por lo que sirve durante siglos, para definir un determinado lugar, mientras que un lobo o un águila pasan con facilidad de un monte a otro, o las moscas y las hormigas se encuentran en todas partes sin localizaciones preferentes, por lo que ninguno de estos animales sirve para una adjetivación particular. (Galmés 1986: 31)
Agora ben, tal e como veremos de contado, estas afirmacións son susceptíbeis de múltiples matices, pois os animais si constitúen unha base rendíbel e recorrente tanto na creación directa de denominacións toponímicas como a posteriori no estabelecemento de posíbeis refaccións formais provocadas por algún tipo de asociación etimolóxica. Por outra banda, o léxico animal preséntasenos como especialmente produtivo no eido da microtoponimia, xeralmente asentada en estratos lingüísticos máis recentes no tempo e cuxa fixación escrita (de darse) tamén se produciu polo xeral en épocas non moi recuadas. Son moitos os topónimos menores cuxa transmisión só se viu garantida por medio da oralidade, o que os colocaba nunha situación de especial vulnerabilidade que favorecía posíbeis cambios de denominación ou incluso a perda do propio topónimo, como xa se rexistraba na veciña Asturias.4 Por tanto, resulta evidente que o estudo deste tipo de nomenclaturas microtoponímicas (desde o punto de vista da extensión que ocupan: montes, terras de cultivo etc.), xeralmente obviadas en traballos deste tipo, resulta fundamental de cara a atinxir un coñecemento máis global e completo dos procedementos de creación toponímica. A situación vólvese máis complexa no eido da toponimia maior, xa que en moitas ocasións encontrámonos ante formas de orixe moi antiga que perderon a súa conexión inicial co léxico común e foron relacionadas con outros lexemas coñecidos, moitos deles zoonímicos, producíndose deste xeito un fenómeno de asociación etimolóxica: «el lenguaje toponímico de motivación animal, recogido en el entorno asturiano de estas zonas más altas, supone un precioso documento lingüístico al lado de otros. Una vez más, las voces del suelo diseñan estadios ecológicos pretéritos, sin duda más variados, ricos y polícromos de lo que ofrece el silencioso o silenciado monte actual» (Concepción 1990: 766).
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los topónimos en su evolución o por el desuso de la lengua que les dió origen, pueden hacerse opacos, y es entonces cuando tiene lugar la reinterpretación, operada en la conciencia lingüística del hablante, que tiende a reagrupar formas etimológicamente oscuras con raíces conocidas de aspecto semejante (Galmés 1986: 31)
Parece lóxico, por tanto, que este fenómeno de asociación etimolóxica se presente predominantemente nos lexemas prerromanos, nos que a base lexical se encontra escurecida polo tempo e o desuso na lingua oral común. Xa Dauzat constataba que a etimoloxía popular actuaba sobre palabras illadas que perderan o seu significado primitivo, provocando deste xeito asociacións con palabras da lingua cotiá coas que en principio non gardaban ningún tipo de relación. En resumo: «La etimología popular [...] establece una motivación etimológica espontánea, subjetiva. No necesita ningún aparato científico» (Baldinger 1986:15), circunstancia esta que teremos ocasión de comprobar nalgún exemplo do noso corpus. Mais son mostras ben coñecidas a do topónimo coruñés Touro, que procede dunha raíz oronímica prelatina *tur-, mais que se asociou co zoónimo touro. O mesmo acontece co concello mariñán de Cervo, que entronca con outros topónimos prelatinos como Cervantes ou Cervaña, mais cuxa asociación co zoónimo cervo chegou até o extremo de figurar este animal no escudo municipal.
3. Corpus Na recompilación dos ítems zootoponímicos presentes no termo municipal de Ribadeo botamos man de varias fontes. Por unha banda, recorremos ao Nomenclátor de Galicia (= NG)5, que contén unicamente topónimos maiores, ou sexa, alusivos a núcleos de poboación, co cal constitúe un recurso por si só bastante limitado. Por ese motivo, a información achegada polo NG foi complementada con material recollido no noso propio traballo de campo, e que nos proporcionou un abondoso número de microtopónimos ou topónimos menores, moitos dos cales efectivamente presentan a priori unha base zoonímica. Como pode comprobarse, e consoante ao dito anteriormente, os ítems relacionados nun primeiro momento cun elemento léxico animal predominan no eido da toponimia menor, pois suman un total de 21 rexistros (o 75% do total de ítems analizados) fronte aos 7 topónimos (o 25% restante) que designan núcleos habitados. Son zootopónimos menores A Abilleira, *Bituriais6, Cabalar, O Campo da Cuca, Cegoñas, O Cementerio das Burras, O Centolar, O Colmeal, O Corno da Lebre, *Cortiña do Pajaro, O Ollo do Estornín, Fontes do Lobo, Matacán, Munxilloeira, Pena Corveira, Pena das Corvas, A Pena do Gato, A Pena dos Corvos, Pena Mosqueira, A Rigueira do Bexato, O Trobo, mentres que designan entidades de poboación os ítems Cantarrá, A Currada, A Curuxeira, Os Galos, A Pega, O Rato e A Trapa.
Pódese consultar no seguinte enderezo: http://www.xunta.es/toponimia. Os elementos sinalados cun asterisco indican que se trata dunha forma unicamente rexistrada de modo escritural na documentación antiga, ambas as dúas no Real de Eclesiásticos da freguesía de Santalla da Devesa.
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Outro tipo de división que resulta do noso interese é a que se basea no eixo doméstico vs. salvaxe, coherente coa visión antropolóxica galega e fundada na relevancia dos animais domésticos como base da economía familiar e eixo vertebrador da maior parte das actividades cotiás, pois «los quehaceres de todo el año giran principalmente en torno a su cuidado y manutención; las tierras son cultivadas pensando en alimentarlos» (Lisón 2004:125). Pola contra, os animais salvaxes traen escaseza e inquedanza para o campesiño. Dito doutro xeito, estabelécese unha oposición entre os animais domésticos e os animais salvaxes na medida en que os primeiros, utilizando os esquemas simbólico-morais do paisano galego, están onde lles corresponde, e os segundos, pola contra, veñen do mundo exterior, de onde procede sempre o mal e a desgraza, e traspasan violentamente os límites internos. Esta dicotomía vixente no mundo tradicional galego ten proxección e rendibilidade na toponimia: como iremos vendo, os animais domésticos (cabalarías, galiñas, ovellas, vacas, porcos) van designar lugares e relacións sensibelmente distintas ás que designan os animais salvaxes (aguias, lobos, raposos). Ao mesmo tempo, o material estudado é susceptíbel de novas subagrupacións xa estritamente lingüísticas, dependendo da natureza e motivación dos distintos ítems. 3.1. Zootopónimos primarios Trátase de formas alusivas á presenza de animais no territorio designado. Dentro deste apartado, podemos diferenciar distintos tipos de topónimos en función das opcións morfosintácticas observábeis na súa constitución: a) derivados: neles opérase unha modificación do lexema mediante un repertorio sufixal bastante limitado, xeralmente -eiro e -ar / -al, o que implica a elisión dun primitivo núcleo nominal. Un bo exemplo deste modelo é o topónimo Munxilloeira (punta de mar da freguesía de San Pedro de Rinlo), deriva da forma mexillón, a cal á súa vez remite ao latín tardío *muscellĭōne. O topónimo presenta dúas alteracións fonéticas salientábeis: por un lado, o [η] implosivo da primeira sílaba, que debe explicarse por repercusión da nasal inicial como en mallo / manllo, nec quem > ninguén e similares; e polo outro, a vogal pretónica [u], que ou ben entronca directamente co vocalismo etimolóxico ou ben se explica pola labialización do [e] da forma mexillón, como en semana > *somana ou fermento > * formento, por exemplo. Tamén derivado dun nome de marisco, mais desta vez co sufixo -ar (variante de -al < latín -āle), é O Centolar, abundancial formado sobre a base léxica centola, de etimoloxía incerta aínda que posibelmente céltica. O topónimo O Centolar dálle nome a unha das puntas marítimas situadas na entrada do porto de Rinlo. Canto ao microtopónimo Pena Corveira, Galmés sinala que «puesto que el cuervo es un ave diseminada por todas partes, no es definitoria de un lugar concreto, por lo que debemos pensar para la serie la base latina curvum, es decir, ‹corvo›, ‹arqueado›» (Galmés 1986:37), mais neste caso o lugar que recibe tal denominación (situado na freguesía de Santalla da Devesa) non presenta esa particularidade formal, senón que se caracteriza por ser unha pedra onde se congrega habitualmente un bo número de corvos mariños, circunstancia que permite entroncar directamente este ítem co zoónimo corvo, do latín cŏruŭ. Esta explicación pode seguramente extrapolarse á grande maioría dos homónimos e parónimos existentes ao longo do territorio galego, pois, malia a opinión de Galmés, en galego descoñecemos derivados do
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latín curuŭs mediante o sufixo -ārĭŭs, así como da correspondente forma patrimonial galega corvo mediante a adxunción do sufixo -eiro (Martínez 2010:157-158). Son bastantes os presuntos zootopónimos que deben explicarse en puridade como antigos derivados de radicais prelatinos (aínda que non necesariamente) que, ao tornárense opacos para os falantes, foron asociados a lexemas zoonímicos formalmente similares e que aínda resultaban transparentes e produtivos na lingua. No corpus que manexamos hai casos que se teñen interpretado desde esa óptica, como por exemplo Pena Mosqueira, nome dunha paraxe da freguesía de Santalla da Devesa. É moi probábel que esteamos perante un simple derivado do substantivo mosca (< latín mŭsca), que segundo parece adoita aplicárselles a lugares frescos onde se alinda o gando vacún nos meses de verán, opinión xa formulada polo padre Sarmiento. Porén, Galmés (1986: 37) amósase unha vez máis escéptico ao respecto e prefire retrotraer esta serie toponímica (Mosqueira, Moscoso e similares) ao latín muscus ‹almiscre›, pasando posteriormente a confundirse co dito zoónimo. Para o ítem toponímico concreto que nos ocupa consideramos máis acertada esta segunda hipótese, mais partindo dunha outra acepción que presentaba ese mesmo termo latino e que non é outra que ‹mofo, balor›, moi doado de atopar no lugar en cuestión. É de interese comprobar como en moitas ocasións o zootopónimo, aínda referíndose en efecto á presenza dun animal na zona, alude máis ben á configuración do terreo dun determinado xeito que podería favorecer ou propiciar tal presenza: se no caso de Pena Mosqueira unha das hipóteses a considerar era a que denotaba condicións favorábeis á presenza do insecto en cuestión, en *Bituriais (abundancial procedente da forma latina uŭltŭre ‹voitre›) ou en A Curuxeira (de curuxa, derivado á súa vez de *corugĭa)7 estamos ante formacións alusivas a lugares altos, sombríos e de vexetación frondosa, aptos en efecto como hábitat tanto do voitre como da curuxa. De feito, Filgueira Valverde8 chegou a aboar a voz curuxeira no seu dicionario como ‹Lugar en sitio elevado y peñascoso›; e Aníbal Otero, co significado ‹Pequeño poblado, caserío, en lugar peñascoso, propio de curuxas›. b) sintagmas nominais nos que o zoónimo aparece como determinante dun núcleo nominal: son claros exemplos desta categoría casos como O Cementerio das Burras, onde o termo burro procede do latín burrichum ‹cabalo pequeno›. Se ben a motivación deste topónimo é suficientemente transparente (designa un lugar de San Pedro de Rinlo onde se soterraban este tipo de animais), cómpre referirmos outras posíbeis motivacións verificadas en territorios próximos ao que nos ocupa, como por exemplo a acepción ‹palleiro› descrita para certos topónimos da comarca asturiana de Teberga, onde burru designa un «pequeñu balagar que se conoz cola mesma espresión, quiciabes comu un casu d’animalización tan frecuente nes fales populares» (García Arias 1990: 51). Canto á procedencia da voz curuxa hai diversas hipóteses que a relacionan ben coa forma dunha capucha como Crespo (1982: 40-41) «de cuculla procedió nuestra curuxa. Y su variante coruxa, por la similitud que sus orejas enhiestas guardan con la capucha» ou ben co son onomatopeico que estas emiten (Corral 1985: 356). Aínda que tamén se teñen explicado estas formacións como derivados de *corrŭgĭa, directamente relacionado co latín hispánico *corrŭgŭs ‹canle de auga› (de onde o galego córrago / corgo). 8 Agás cando indiquemos expresamente o contrario, as definicións e información lexicográfica empregadas nesta contribución foron extraídas sempre do Dicionario de Dicionarios, editado por Antón Santamarina Fernández (vid. bibliografía). 7
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Outros dos exemplos rexistrados no concello ribadense é O Corno da Lebre (nome dunha punta de mar en San Pedro de Rinlo), procedente do étimo latino lepŏre e que ten como motivación directa a forma que presenta esta punta de mar, certamente comparábel á dunha lebre. Tamén unha motivación similar podemos recoñecer nalgún outro topónimo menor como O Ollo do Estornín (lugar da freguesía de Santalla da Devesa), derivado do latín sturnŭm mediante un sufixo diminutivo latino -īnŭ do que resulta esta forma -ín propia do galego oriental, remarcando a idea de pequenez dun nacente de auga. Por outra parte, a forma bexato, concorrente no sintagma A Rigueira do Bexato (nome dun monte da freguesía de San Lourenzo de Vilaframil), reflicte a variedade local da forma máis común buxato. Procede do étimo butĕo ao que se lle engade o sufixo latino -attŭ (> -ato), presente noutros derivados como lobato e similares. A motivación deste topónimo, como a doutros sintagmas toponímicos semellantes xa comentados, atópase na relación existente entre as características dun emprazamento e as especies animais asociadas a el. Seguindo coa concorrencia de aves neste tipo de sintagmas toponímicos, Hubschmid considera que a palabra Cuco, presente n’O Campo da Cuca (nome dun terreo da freguesía de Santalla da Devesa), pode ter unha orixe onomatopeica e relaciona este termo co vocábulo éuscaro kukur ‹cresta›. Para os topónimos derivados do ítem corvo, como A Pena dos Corvos ou A Pena das Corvas (ambos os dous na freguesía de Santalla da Devesa), vid. Pena Corveira. Canto a A Pena do Gato, nome dun marco localizado na freguesía de Santalla da Devesa, é evidente que recoñecemos nel o substantivo común gato (< latín tardío *cattŭ). Cremos que a súa presenza neste sintagma toponímico pode obedecer ao uso deste animal doméstico como cebo para unha trampa destinada a capturar animais maiores, motivación semellante á que se ten descrito para outros topónimos análogos como Espelgato, Carrigatos, Mazagatos etc. Outra opción a ter en conta é que esta denominación faga referencia simplemente á presenza do gato montés no lugar. Outro mamífero de grande presenza no imaxinario do home rural galego, e asociado a miúdo a valores eminentemente negativos, é o lobo. No noso corpus detectamos un topónimo Fontes do Lobo (nome dunha fonte e paraxe da freguesía de San Xoán de Ove), alusivo ben á presenza do lobo nas inmediacións, ben ás características físicas do lugar, situado no medio dun monte que o dito animal podía seguramente frecuentar. c) frases verbais toponimizadas: como representativos deste mecanismo toponímico temos os exemplos de Cantarrá (nome dun lugar da freguesía de Santa María de Ribadeo) e de Matacán (nome duns prados da freguesía de Santalla da Devesa). No tocante a Cantarrá, cómpre apuntar que este tipo de topónimos nos que parece intervir o verbo cantar son habitualmente explicados a partir do céltico *kanto ‹ángulo, recanto›, mais cremos que esta interpretación non é aplicábel ao caso do Cantarrá ribadense, como tampouco ás formas Cantarrá e Cantarrán que NG rexistra respectivamente nos concellos de Mugardos e Salvaterra de Miño. Outro tanto pode dicirse a respecto dos Cantarrana / Cantarranas consignados no territorio castelanófono, os cales, en opinión de Sanz (1997: 326), «aluden siempre a lugares poblados de estos anfibios». En efecto, o lugar chamado Cantarrá no concello de Ribadeo anegábase con moita facilidade, co cal constituía un hábitat privilexiado para animais coma as ras. Xa que logo, o topónimo pode analizarse como unha frase verbal formada polo verbo cantar (do latín cantāre, forma iterativa do verbo canĕre ‹cantar›) e o substantivo ra (< latín rana). Esta estrutura morfosintática é homologábel á da devandita forma Matacán, analizábel
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como o resultado da combinación do verbo matar (< latín *mattāre ‹golpear, abater›) co substantivo can (< latín cane). Porén, a interpretación semántica deste topónimo non resulta doada e téñense achegado hipóteses diversas. Hai na toponimia galega varios ítems formados polo verbo matar e un zoónimo pluralizado (p.ex. Matabois, Matalobos, As Penas de Matacás etc.), referidos á existencia dun declive pronunciado no terreo (cfr. Despeñaperros no ámbito castelanófono), aínda que tampouco podería descartarse que esteamos perante un antigo alcume persoal toponimizado. Unha outra opción sería a fitonímica, o que implicaría analizar Matacán / Matacás a partir do fitónimo mata (< prelatino *matta), mais, tal e como apunta Navaza (2006: 335), «non temos noticia dalgún uso fitonímico de matacán, matacáns ou matacás, aínda que existen formas paralelas, con outros nomes de animais (matacabalos, matapulgas...), que designan especies vexetais». 3.2. Posíbeis sobrenomes de base zoonímica que acabaron toponimizados O topónimo O Rato (que se repite como topónimo maior no concello lugués de Cervo e tamén como nome dun río que pasa pola cidade de Lugo) dálle nome a un núcleo habitado da freguesía de Santalla da Devesa. Pode ter, no caso concreto que nos ocupa, cando menos tres vías de explicación, xa que polo momento non se atopou documentación medieval que permita determinar inequivocamente a súa orixe. Por un lado, podería tratarse dun alcume (medieval ou posterior) que recibía o dono desas terras. O alcume en cuestión sería o zoónimo rato, probabelmente procedente dunha voz xermánica ratto a través do latín vulgar *rattŭ. O nome do animal, a través dese uso antroponímico, acabaría toponimizándose, tal e como aconteceu en moitos outros casos análogos, entre eles algún dos que teremos ocasión de comentar de seguido. A prol desta hipótese está o uso como sobrenome deste lexema zoonímico xa desde a Idade Media: por exemplo, Michaele Petri canonico dicto Raton (Santiago 1261), Estebo Ratón (Ourense 1440), Vasco Ratón (Ourense 1441), etc. Aínda na actualidade, segundo os datos da Cartografía dos Apelidos de Galicia9 (CAG), a forma Rato aparece como apelido na nosa terra. O topónimo A Venda do Rato, no concello de Guntín, admite tamén unha explicación deste tipo, pois parece basearse no sobrenome do dono dunha venda (cfr. A Venda da Teresa, na Gudiña). A segunda hipótese é que proveña de raptŭm, participio do verbo latino rapĭō, que faría alusión á forza do río, coma no caso do seu homónimo, o río lugués Rato. De todos os xeitos, trátase dun lugar bastante chan onde hai un regato que conta cun caudal pequeno de auga. Tamén podería pensarse en que se trate dun lugar onde se pagaba unha renda rata no senso dunha renda ratificada ou confirmada, se ben carecemos de documentación que avale tal extremo. Por outro lado, unha cuestión que nos parece significativa é que o nome designa o lugar e non propiamente o río, xa que para se referir ao curso de auga utilízanse denominacións como Río de Sa ou Río do Lagar; é por este motivo que a denominación de Río do Rato, ao igual cás outras dúas, semella puramente locativa (a corrente fluvial adquire o nome dos lugares polos que discorre), e non se trata por tanto da denominación propia e orixinal do río. De todos os xeitos, esta situación puido non ser a mesma antigamente, ou incluso ser o resultado da perda da consciencia do referente. Pode consultarse no seguinte enderezo: http://servergis.cesga.es/website/apelidos/viewer.asp.
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Se para O Rato falamos da probabilidade máis ou menos alta dun antigo sobrenome zoonímico, algo similar podería sinalarse para A Pega e Os Galos, nome de senllos núcleos habitados pertencentes respectivamente ás freguesías de San Xoán de Ove e Santa María de Vilaselán. Para A Pega (que reencontramos como topónimo maior noutros puntos de Galicia) podemos partir do ornitónimo pega, do latín vulgar *pēca (pola forma clásica pĭca ‹pega›, ‹especie de gralla›), cuxa toponimización podería vir dada a través dun previo uso antroponímico, ou sexa, como sobrenome persoal. Apoiámonos para iso na existencia aínda na actualidade dunha familia coñecida como Os Pegos na freguesía de San Xoán de Ove, a mesma á que pertence o lugar da Pega. Ademais, o uso de pega / pego como alcume está moi estendido aínda hoxe en Galicia, e, a xulgar polos datos que nos proporciona a documentación, pode remontarse xa a tempos medievais: Petrus Gundisalvi cognomento Pego (Sobrado dos Monxes c. 1063), Ovecus Petri connomento Pego (Caaveiro 1244), Diego Pego (Vilourente 1431), Fernan Pego (Vilourente 1439, 1467), etc. O apelido Pego, segundo parece, é relativamente abondoso en Galicia, pois a CAG recolle até 1036 ocorrencias (1 delas en Ribadeo, precisamente). Á luz destes datos, non sería descartábel que A Pega fixese referencia en orixe a unha muller apelidada Pego ou da devandita familia d’Os Pegos que habitou ese lugar, segundo unha tendencia habitual á flexión en xénero feminino dos apelidos masculinos cando a portadora dos mesmos é unha muller: por exemplo, en Ribadeo temos alcumes familiares como Rulo ou *Rulero que, cando os levan mulleres, pasan a ser Rula e *Rulera. No tocante a Os Galos, pode postularse tamén unha orixe zoonímica, o latín gallŭs, mais non cremos que se trate dun zootopónimo primario, senón que, como nos casos anteriores, o ornitónimo utilizouse como sobrenome familiar e a partir daí callou como topónimo. De feito, gallŭs empregouse xa como cognome en época latina (Kajanto 1982: 12, 45) e na documentación altomedieval atopamos exemplos como Petro Gallo (Sobrado s.d.), Ruderico Gallo (Sobrado s.d.), Rudericus cognomento Gallus (Sobrado 1168) etc. Agora ben, unha outra opción é pensar na asociación etimolóxica do lexema galo coa raíz prelatina *kal(l)io- ‹pedra›, algo coherente coas características físicas do lugar, accidentado e moi abondoso en penedos (Galmés 1986: 33).10 3.3. Zootopónimos de interpretación problemática A enseada denominada Cabalar, na freguesía de Santalla da Devesa, parece tomar o seu nome do latín vulgar caballŭs ‹cabalo capado, cabalo de traballo›, posíbel empréstimo céltico que veu reemprazar a forma clásica e non marcada equŭs. Porén, cremos que neste caso debe tratarse dun uso metafórico ‹pedras superpostas› testemuñado noutros topónimos similares. Contigüa á enseada de Cabalar está outra enseada chamada Cegoñas. O contexto xeográfico e as características físicas do emprazamento dificultan a vinculación directa co zoónimo cegoña (< latín cĭconĭam), de xeito que quizais resulte máis verosímil pensar nalgún tipo de relación co homónimo cegoña ‹néboa baixa, brétema›, posíbel derivado de cego. A historia e o folclore locais achégannos datos de interese, pois puidemos recoller un relato segundo o cal un mendigo foi pedir á casa da única muller que vivía nese lugar, cando de súpeto comezou a ver entrar unha morea de homes, que identificou cos fillos e mais o marido da señora. Ante iso, o mendigo colleu medo e fuxiu da casa mentres dicía: Demasiados galos para unha soa galiña! De todos os xeitos, non pode descartarse que esta historia sexa unha reinterpretación a posteriori do topónimo que nos ocupa, na liña doutros tantos casos nos que operou algún tipo de etimoloxía popular.
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3.4. Topónimos alusivos a construcións estreitamente vinculadas cos animais e o seu aproveitamento por parte do home O termo currada, presente no topónimo A Currada (nome dunha localidade da freguesía de Santa María Madanela de Cedofeita), aparece nos dicionarios galegos, se ben é máis frecuente a variante corrada, xa aboada por Marcial Valladares co significado de ‹patio principal a la entrada de una casa, especialmente de campo›, e por tanto sinónimo de curral. Pola súa banda, Acevedo rexistrou unha acepción como ‹mullido, árgomas o aulagas, paja, etc., que se echa delante de las casas de los labradores para que, pisando, se convierta en estiércol›, probablemente consecuencia de un fenómeno de extensión semántica por metonimia. Xa que logo, parece verosímil explicar currada / corrada en relación con curral, ambos os dous de orixe prelatina (cfr. curro / corro ‹curral de pequenas dimensións onde se gardan os apeiros de labranza ou os animais›, ‹lugar pechado no monte onde se recollen os animais›), ou, segundo outros autores, relacionados co latín currŭs ‹carro› mediante unha evolución semántica ‹carro› > ‹lugar para os carros› > ‹curral› (Álvarez Maurín 1994: 289). Canto ao substantivo trapa (base do topónimo A Trapa, tamén na devandita parroquia de Cedofeita), aparece nos dicionarios con diversas acepcións, moitas delas susceptíbeis de uso toponímico. Eladio Rodríguez define a voz como ‹Puerta o trampa en el piso›, mentres que Elixio Rivas (FrampasII, s.v. trapa) recolle en Pedrafita o valor ‹Pequeña madera, accionada por medio de un larguero, para cortar el agua del molino› e en Santa Cruz de Arrabaldo ‹Trampa›. Pola súa banda, Constantino García aboa o significado ‹Puerta abatible en un agujero que da paso a un lugar bajo, o sobre la cocina› e ‹Trampa›. Segundo Coromines (DCECH, s.v. trampa), estamos perante unha voz onomatopeica trapp / tramp, e indica que se refire tanto a unha ‹Tabla que se abre en el suelo al pisarla› como ao ‹Armadijo que se pone para cazar›, sentido patente nos termos do catalán, o asturiano ou o portugués. En galego, o uso da variante trampa por trapa (Vázquez Santamarina 1971: 68) non é rara. No asturiano occidental, trapa alude a unha trampa para cazar perdices ou a unha especie de trapela aberta no piso das cortes para botarlle comida ao gando. A alternancia dos temas trap- / tramppercíbese tamén nos derivados trampallada / trapallada, trampela / trapela (Crespo Pozo 1985: 196) etc. No caso do noso topónimo, supoñemos que o lugar acabou adquirindo a denominación de A Trapa por ser un punto onde se colocaba algún tipo de trampas para cazar animais, na liña dalgunhas das acepcións antes sinaladas para o termo. O portugués ten os nomes xeográficos Trapa e Trapela que Fernandes (2001: 229) explica a partir de trap(p)a «armadilha para animais selvagens, daí podendo ter tomado um sentido topográfico». A toponimia relacionada coas abellas e as construcións habilitadas para elas é bastante abondosa no termo municipal de Ribadeo. Como observa J. M. González (1959: 355), «la abeja fue tiempo atrás un animal imprescindible en una economía familiar y alimentaria todavía desconocedora del azúcar, [...] y al mismo tiempo proporcionaba cera para el alumbrado de la casa y de la iglesia». Deste xeito, contamos cun topónimo O Colmeal (nome duns terreos situados na freguesía de Santalla da Devesa), derivado do substantivo colmea ‹recipiente artificial onde viven as abellas e onde elaboran o mel e mais a cera›, termo probabelmente prelatino que podería explicarse a partir do céltico *kolmēnā, derivado á súa vez de *kǒlmos ‹palla›. Tamén se teñen contemplado outras hipóteses, como o latín columělla ou cŭlmus ‹talo do trigo›. Sinónimo de colmea é a forma abelleira, que explica
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o topónimo A Abilleira (nome dunha enseada na parroquia de San Lourenzo de Vilaframil). Evidentemente, abelleira / abilleira é un derivado de abella (< latín *apĭcŭla) mediante o sufixo -eira, se ben na variante abilleira, que deu orixe ao noso topónimo, hai que sinalar a alteración fonética da vogal pretónica medial debida á acción do ditongo [ej] da sílaba tónica (cfr. Regueira / Rigueira, Reboira / Riboira e similares). Tamén dentro deste campo semántico hai que interpretar o topónimo O Trobo (denominación dada polos habitantes de San Pedro de Rinlo a unha praia da freguesía de Santalla da Devesa), que remite ao substantivo trobo ‹colmea formada por unha cortiza ou tronco excavado›, sinónimo por tanto de termos como os xa comentados abelleira e colmea. De todos os xeitos, é interesante sinalar que na zona estudada existe distinción consciente entre colmea e trobo, considerándose este máis tradicional. O galego trobo e o astur-leonés truébanu remiten a un antigo derivado prelatino *trŏbănŭ para o cal Bascuas (2006: 322) suxeriu algún tipo de relación co indoeuropeo *treb- ‹edificio, vivenda, construción de madeira› (de onde o latín trabs ‹trabe›, o antigo galés treb ‹vivenda› ou o alemán Dorf ‹aldea›). Menos probábeis son explicacións como a de Coromines, que partía dunha forma gótica *thraus ‹arca› latinizada como trŏx (DCECH, s.v. troj), ou a de García González (1962: 378), que propuña como étimo o latín tŭbŭlŭ.
4. Cabo Ao longo das epígrafes precedentes puidemos demostrar como os termos zoonímicos, contrariamente ao que opinaron algún autores, si constitúen unha fonte moi produtiva na creación de denominacións toponímicas, especialmente no ámbito da microtoponimia (predominante na configuración do noso corpus), mais tamén no da toponimia maior, onde é relativamente habitual detectar zoónimos participando de fenómenos de reetimoloxización e asociación etimolóxica, ou actuando como nexo entre o sistema toponímico e outros subsistemas onomásticos, nomeadamente o antroponímico (zoónimos habilitados como nome ou sobrenome persoal). Estas evidencias, así como a identificación de certos mecanismos lingüísticos recorrentes na creación deses zootopónimos, poden constituír un bo punto de partida para estudos máis amplos neste eido.
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Nicolae Felecan (Universitatea de Nord, Baia Mare, România)
Corelaţia nume oficial / nume neoficial în zona Ţara Oaşului
Comunicarea de faţă abordează o problemă de semiotică naturală, şi anume felul în care, într-o comunitate determinată (Ţara Oaşului), are loc procesul de atribuire a numelor nonrituale (exemplu: porecla). Ea este o continuare a lucrării Structuri antroponimice în Ţara Oaşului, pe care am susţinut-o la Cel de-al XXV-lea Congres Internaţional de Lingvistică şi Filologie romanică, Innsbruck, 3-8 septembrie 2007. Atunci ne-am ocupat de numele oficiale ale localităţilor ce alcătuiesc arealul numit Ţara Oaşului. De data aceasta, ne propunem să abordăm problema din punctul de vedere al percepţiei locuitorilor faţă de semenii lor şi faţă chiar de ei înşişi. Procesul este interesant, întrucât ţine de voinţa indivizilor şi are, drept urmare, un foarte pronunţat caracter social, vehiculând obiceiuri, raporturi sociale, defecte fizice ori morale. Depistarea motivaţiei care le-a dat naştere şi apoi clasificarea lor sunt problemele pe care le vom urmări în lucrarea de faţă. Sperăm că ea va îmbogăţi, cu fapte concrete, înregistrate într-un areal izolat, dar cu o puternică vitalitate atât socială cât şi lingvistică, literatura de specialitate. Pentru confirmarea ori infirmarea datelor culese din localităţile Târşolţ (T), Turţ (Tţ) şi Vama (V), aparţinătoare Ţării Oaşului, judeţul Satu Mare, am lărgit cercetarea şi asupra localităţilor Borşa (B), Groşii Ţibleşului (GŢ), Larga (L), Mesteacăn (M), Sat Şugatag (Ş), Suciu de Sus (SS), judeţul Maramureş, Rebrişoara (R), judeţul Bistriţa-Năsăud şi Purcăreţ (P), judeţul Sălaj. Cercetarea pe teren şi discuţiile cu subiecţii anchetaţi impun cu necesitate clarificarea unor probleme de terminologie. E vorba, în primul rând, de accepţiunile pe care le au termenii poreclă şi supranume. În arealul cercetat de noi, poreclă este singurul cuvânt utilizat pentru denominaţia populară a individului, fie «ca mijloc de identificare a lui», fie ca «termen de batjocură», cel de supranume fiind ignorat. Aceasta înseamnă că termenul poreclă (din sl. poreklo) este mai vechi şi uzual, în timp ce supranume este mai nou, format din elementele supra- + nume, după fr. surnom (DEX, s. v.). În lingvistica românească, ambii termeni apar la sfârşitul secolului al XIX-lea în lucrarea lui Aureliu Candrea (1895) Poreclele la români, unde se dau şi accepţiunile lor: «se numesc porecle aceste cuvinte prin care poporul loveşte în năravul sau defectul cuiva», iar «dacă porecla dată cuiva de către o persoană este repetată şi de alţii la adresa aceleiaşi persoane, ea devine supranume» (Candrea 1895: 7-8). Din interpretarea pe care Aureliu Candrea o face acestor noţiuni mai reiese şi faptul că «poreclele conţin mai întotdeauna o metaforă», pe câtă vreme «porecla devenită supranume pierde foarte adesea noţiunea primitivă peiorativă» şi «se alipeşte atunci la numele acelei persoane şi, ori se stinge odată cu încetarea ei din viaţă, ori supravieţuieşte trecând asupra urmaşilor săi ca nume de familie» (Candrea 1895: 8-9). Reluând discuţia asupra celor doi termeni, după mai bine de 40 de ani, Ştefan Paşca (1936), Nume de persoane şi nume de animale în Ţara Oltului, face precizarea că utilizarea termenului de supranume:
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este dictată de împrejurarea că acesta are o funcţiune exclusiv antroponomastică, pe când porecla indică o funcţiune semantică. Porecla se dă ca o batjocură unui individ, incidental, supranumele, născute din porecle şi calificative, sunt legate indisolubil de numele indivizilor, devenind chiar ereditare.1
Aprecierile celor doi cărturari sunt izvorâte din situaţia reală existentă în lumea satelor, unde, atât pentru «numele provenit dintr-o caracteristică a aspectului exterior, a psihicului ori a unei alte trăsături», cât şi pentru cel folosit drept «element de identificare», se foloseşte un singur cuvânt, poreclă, în timp ce specialiştii şi oficialităţile utilizează doi termeni: poreclă, pentru primul caz şi supranume pentru al doilea. Un exemplu grăitor în această privinţă ni-l oferă Cartea de telefoane cu nume şi porecle din Săliştea de Sus, judeţul Maramureş2 şi Cartea de telefoane a comunei Moisei (Pasca 1936: 44; vezi şi I. Roşianu (1976), unde abonaţii telefonici sunt catalogaţi «atât după nume şi prenume, cât şi după porecle», fiindcă, spune o localnică din Săliştea de Sus, Ioana Chiş, «noi ne ştim mai mult după porecle» şi «mai puţin după buletin».3 Cercetarea noastră a consemnat faptul că, alături de aceste denumiri de identificare, numite în graiul local porecle, unele persoane mai au una sau mai multe porecle, dar care «nu se spun», deoarece sunt «de ocară sau de batjocură şi purtătorul lor s-ar supăra».4 Exemplele următoare vor confirma afirmaţia. Între paranteze am notat porecla: Viorel a lu5 Zmărăndău (Scaiu), Mitică a lu Zmărăndău (Jvânăială), Ştefan a diacului (Pârâială), Coman Gheorghe a Pintii (Ghiocel), Tomoioagă Viorica a lu Tolci (Fuieşu «e foarte înceată, mere pe drum azi, mâni şi poimâni»)6 (M); De-a lu Grigoruţ (Ţaigăr), Dumitru lu Ucigaşu (Vulpea), Gavril a lu Ureche (Ţârcu), De-a lu Hârceag (Guzu) (B); Todoru Luchii de pă Dumbrăvi (Mierla), Ionu Văsălichii Găzdacului (Cloşcău), Viorica li Ştefan (Gozăriţa), Aurelia li Costan (Droanga) (SS) etc.
Faţă de această situaţie, şi-au exprimat punctul de vedere majoritatea specialiştilor români care au abordat subiectul. Unii, pentru uşurinţa cercetării, au opinat pentru utilizarea unui singur termen, fie acela poreclă (Graur 1965: 70, Purcar-Guşeilă 1967: 146), fie supranume, dar cu următoarele adausuri: ironice «care au un pronunţat caracter afectiv şi vizează satirizarea, uneori descalificarea, celui care le poartă» şi neutre «lipsite de caracter afectiv, satiric sau ironic, care nu slujesc decât la precizarea identităţii» (Ţâra 1968: 227), subiective şi obiective (Homorodeanu / Mocanu 1969: 136), afective şi neafective (I. Roşianu 1976: 300). Alţii acceptă ambii termeni, poreclă şi supranume, dar nu întotdeauna materialul faptic concordă cu precizările teoretice propuse.7 Paşca (1936: 44); vezi şi I. Roşianu (1976) Cartea de telefoane cu nume şi porecle. Paginile lui Aurel, Săliştea de Sus, judeţul Maramureş, 1992; ediţia a II-a, 2010. 3 Vezi Adevărul de seară, Baia Mare, nr. 557 (494), vineri, 7 mai 2010, 4. 4 Todoran Mircea, 68 de ani, localitatea Purcăreţ; vezi şi Golopenţia-Eretescu (1972: 17, 3, 204). 5 Articolul proclitic lui, înaintea numelor proprii, apare în graiurile din această zonă în formele lu sau li. Pentru detalii, vezi Dimitrescu et al. (1978: 235-237). 6 În Vâlcele, judeţul Cluj, fuieş, fuieşuri, s. n. «Vânt puternic care suflă zăpada în toate părţile, viscol», cf. Todoran (1960: 29-126). 7 Vezi, în acest sens, Roşianu (1976: 289-301); A. Stan (1973: 86-87). 1 2
Corelaţia nume oficial / nume neoficial în zona Ţara Oaşului
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Din păcate, nici lucrările lexicografice nu aduc un plus de claritate a celor doi termeni, care adesea sunt denumiţi unul prin celălalt. DEX, de pildă, numeşte porecla ca «un supranume dat, de obicei în bătaie de joc, unei persoane, mai ales în legătură cu o trăsătură caracteristică a aspectului său exterior, a psihicului sau a activităţii sale», iar supranumele, ca un «nume adăugat la numele propriu al unei persoane în semn de cinste sau pentru a o distinge printr-o caracteristică sau printr-o circumstanţă de altă persoană cu acelaşi nume; poreclă». Nici Dicţionarul de ştiinţe ale limbii (Bidu-Vrănceanu et al.2001) nu clarifică problemele. Dintre cei doi termeni se ia în discuţie doar supranumele, denumit ca «poreclă repetată, generalizată, spre deosebire de simplele porecle, folosite ocazional. Supranumele au fost introduse pentru a evita confuziile cu aceleaşi nume şi prenume (situaţii în care se folosesc şi poreclele)» (p. 523). Mai multe detalii găsim în Enciclopedia limbii române (2011), coordonator Marius Sala, unde se precizează faptul că «supranumele nu se confundă cu porecla» (p. 553), fiindcă «poreclele sunt denumiri ocazionale, în timp ce supranumele sunt stabile, având tendinţa să se fixeze la o persoană, transmiţându-se apoi ereditar» (p. 442). Pe de altă parte, se face precizarea că «poreclele au la bază ironia, umorul, simţul critic» sau «întâmplări mai mult sau mai puţin cunoscute, ticuri verbale, expresii folosite mai des, defecte de rostire etc.» (p. 442), în vreme ce supranumele «în sistemul popular substituie numele de familie sau chiar prenumele, fiind unicul mijloc de individualizare a persoanei» (p. 553). Dintr-o altă perspectivă, etno- şi psiholingvistică, Sanda Golopenţia-Eretescu include actele de numire având drept obiecte animale şi oameni într-o semiotică naturală a microcolectivităţii săteşti, arătând că «actele de numire sunt rituale (botezarea) sau nonrituale (poreclirea)» (Enciclopedia 2001: 146). Deducem din cele arătate până acum că atribuirea de nume antrenează, mijlocit sau nemijlocit, două persoane: una care atribuie numele şi alta căreia i se atribuie numele, iar în măsura în care intervine un tertium, care poate fi preotul, în cazul botezului, sau instituţia de stat (funcţionarul primăriei), în oficializarea numelui, avem o situaţie mijlocită, «rituală» şi, prin aceasta, oficială. În cazul în care tertium este exclus, situaţia este nemijlocită, «nonrituală» şi prin urmare, neoficială.8 În această circumstanţă intră şi poreclirea, fenomen interesant şi din punct de vedere lingvistic, dar mai ales social şi psihologic. Individul, ca membru al unei colectivităţi care are anumite principii de viaţă, trebuie să-şi asume şi responsabilităţi (comportamentale, culturale, integratoare etc.). Prin urmare, orice persoană apare în două ipostaze: una, de a observa ceea ce se petrece în jurul ei, şi, a doua, de a fi observată de ceilalţi. De aceea, în momentul în care apar devieri, indiferent de ce natură, cel în cauză va fi taxat printr-o poreclă, ce va fi cunoscută sau nu, acceptată sau tolerată. O perspectivă nouă în abordarea actului poreclirii ne oferă Daiana Felecan (2010) în care autoarea, plasând discuţia într-o nouă perspectivă, dezvăluie mecanismul polifonic al poreclei, care presupune patru acţiuni succesive: selectarea, atribuirea, propagarea şi utilizarea şi tot atâtea instanţe: pacientul (poreclitul), agentul (poreclitorul), colpoltorul (cel care propagă poreclele) şi utilizatorii (cei care folosesc în mod curent porecla, conştienţi sau nu de semnificaţia acesteia). Tot patru elemente compun şi configuraţia polifonică: locutor, punctele de vedere (pdv), fiinţele discursive şi legăturile enunţiative. Ca urmare, analiza enunţului implică următoarele operaţii: A. identificarea locutorului, B. identificarea punctelor de vedere şi C. stabilirea tipului de legătură dintre diverşi locutori şi diversele pdv, necesare oricărei lucrări care abordează o asemenea temă. Pentru formula antroponimică –oficială, neoficială–, vezi şi Ionescu (2007).
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Pe baza celor prezentate până aici, suntem de părere că porecla este o subclasă antroponimică, alături de prenume, nume şi supranume, faţă de care poate fi raportată prin apropieri ori deosebiri. Apropierea de prenume se regăseşte în dispunerea de aceeaşi clasă sursă: de pildă ghiocel. Deosebirea constă în aceea că pentru prenume se selectează notele pozitive, în cazul dat, ale plantei: cu flori de un alb imaculat, frumoase, viguroase (întrucât apar primăvara foarte timpuriu), în timp ce pentru poreclă se are în vedere un aspect care, prin antiteză, devine negativ: Ghiocel este poreclit un individ cu tenul închis, brunet. Cu numele, porecla are în comun un fond lexical, provenit din trecerea, în anumite condiţii, a poreclei în nume. Faţă de supranume, care are trăsături specifice: o funcţie exclusiv antroponimică, izvorâtă din necesitatea identificării mai uşor a unei persoane, mai ales când mai mulţi indivizi poartă acelaşi nume (sau şi prenume); stabilitate, dată de posibilitatea trecerii la descendenţi; lipsa de afectivitate –supranumele, provenite din porecle, nu supără, fiindcă aspectul negativ a fost transformat, în timp, într-o caracterizare pozitivă–, singularitate, un individ are un singur supranume, porecla se caracterizează prin: funcţia semantică; accentuat caracter afectiv, metaforic; reprezintă punctul vulnerabil al celui poreclit;9 sunt utilizate într-un cerc mai restrâns de persoane - adesea nici poreclitul nu-şi cunoaşte «ciufulitura», de aceea «poţi să-l vinzi pă om dintă el şi iel nu ştie» (Golopenţia-Eretescu 1972: 2, 204); mobilitate, ele se creează necontenit, incidental, ocazional; pluralitate – adesea, o persoană poate avea una, două sau mai multe porecle. În cele ce urmează, vom oferi poreclele, vechi şi recente, consemnate în arealul cercetat de noi, grupate în funcţie de aspectele care le-au generat: (1) După aspectul fizic. Individul e prea mare, prea gras, prea rotund sau prea mic ori cu un format defectuos: a) metafore: Acceleratu (SS), Bărbânoc (SS), Bimbor (SS) («om mare şi gras; mutalău»), Briciu (SS), Calpac («beţiv»), Canceu (M) («bea ţuica cu canceu»), Câcărază (R) («e mic şi îndesat»), Cârlig (V) («e adus de spate»), Cârnat (Ş) («e lung şi slab»), Cepu (R) («e mică»), Chipu (SS) («se considera foarte frumos»), Ciolban (Ş) («n-are nicio formă»), Ciontu (SS), Ciotan (SS) ( nume de persoană, se întâlneşte la multe popoare încă din cele mai vechi timpuri, iar pentru spaţiul românesc ele constituie o probă a continuităţii.23 Dar, indiferent care au fost motivele, la început, de atribuire a unor asemenea nume, noi credem că în cazul poreclelor se au în vedere părţile negative, fie cele privitoare la înfăţişarea animalului: mare, puternic, fioros etc., fie cele privitoare la însuşirile lui: şiretenie, lăcomie, sălbăticie, încetineală etc. O extindere a cercetării, care implicit va duce la o îmbogăţire a corpusului de porecle, va spori datele privitoare la acest subiect şi va putea nuanţa şi mai bine unele afirmaţii făcute acum.
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Oliviu Felecan (Universitatea de Nord, Baia Mare, Romania)
Il contatto linguistico romeno-romanzo attuale riflesso nell’antroponimia
1. Premessa Il legame genealogico della lingua romena con la romanità occidentale è stato interrotto geograficamente dall’interposizione di popoli migratori sin dal tempo della sua formazione (secoli VI-VIII, conformemente ELR: 220).1 Così, il superstrato della lingua romena è l’antico slavo, mentre nel corso della sua storia la Romània Occidentale non ha più avuto un legame diretto con lo spazio carpato-danubiano-pontico. Conseguentemente, il contatto linguistico diretto si è realizzato con le lingue delle popolazioni adiacenti: greco bizantino, ungherese, tedesco, slavo (+ bulgaro, serbo, ucraino, polacco, russo), turco, tataro o neogreco. A fatica in epoca moderna (sec. XVIII-XIX), contemporaneamente alla rilatinizzazione della Romania, si sono ripresi i legami con le lingue romanze dell’ovest dell’Europa, specie con il francese e l’italiano, sia tramite i giovani mandati a studiare all’estero, sia tramite la Scuola Transilvana e la Chiesa greco-cattolica, soprattutto in Transilvania. Così come osserva Sanda Reinheimer Rîpeanu in Lingvistica romanică. Lexic - fonetică - morfologie, i termini presi dal romeno allo slavone o al greco scompaiono di fronte ai loro concorrenti dell’Occidente, non solo perché, dal punto di vista della nostra lingua, questi ultimi corrispondono meglio alla sua struttura, ma anche perché essi rispondono ad una mentalità di rinnovamento della vita romena su tutti i piani (2001: 45).
I prestiti dalle lingue romanze occidentali, specie dal francese e dall’italiano, hanno facilitato la ripresa delle relazioni tra il romeno e la Romania Occidentale.
I pareri della maggior parte degli specialisti (I. Coteanu, O Densusianu, I. Iordan, D. Macrea, Al. Rosetti, M. Sala, G. Weigand) convergono, con piccole sfumature, su questi secoli, mentre altri si spingono fino al secolo V (G. Ivănescu, T. Papahagi) o estendono la formazione del romeno al IX secolo (Al. Niculescu).
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2. Premesse del contatto linguistico romeno-romanzo Nel periodo antico, il contatto linguistico si realizza soprattutto in aree geografiche unitarie, in cui le popolazioni non erano separate da forme di rilievo tipo monti alti o mari. Anche se i ‹confini› naturali non sono insuperabili, essi allentano e limitano l’interferenza linguistica. Tradizionalmente, il contatto linguistico dei romeni aveva luogo tanto all’interno delle frontiere (con gli ungheresi, i tedeschi e gli ucraini), quanto con le popolazioni dei paesi vicini, attraverso «l’esistenza di alcuni contatti storici, culturali, politici o economici, ma soprattutto geografici» (Steinke / Vraciu 1999: 35). Ai giorni nostri, più precisamente dopo il 1989, il contatto linguistico2 si è ridimensionato in ragione dell’estrema mobilità degli individui. Ciò impone lo studio dei cambiamenti linguistici in corso e, implicitamente, lo studio delle modifiche intervenute a livello dei nomi. Dopo la caduta della Cortina di Ferro, quasi due milioni di romeni si sono stabiliti fuori dei confini, per lo più nei paesi ospitali dell’ovest dell’Europa romanza: Italia, Spagna, Francia, Portogallo.3 La maggioranza delle persone partite per lavoro all’estero sono giovani, fatto che facilita la padronanza delle lingue straniere e il bilinguismo. D’altronde, i romeni partiti per lavoro in Occidente vivono in comunità bilingui od anche plurilingui.4 Tuttavia, accanto a fattori strettamente linguistici, devono essere presi in considerazione anche fattori sociali, psicologici e socioculturali. Nel processo di passaggio alla nuova lingua, si constatano differenze di atteggiamento condizionate dallo status sociale dei parlanti, etnia, religione, sesso, età, occupazione ecc. L’analisi sottile della relazione tra le lingue indigene e quelle di alcune popolazioni immigranti porta alla conclusione che «fattori di ordine sociale e psicologico fanno sì che una lingua immigrante sia in primo luogo esposta all’interferenza» (Ionescu-Ruxăndoiu / Chiţoran 1975: 94), per cause molteplici: la novità della sistemazione crea per gli immigranti la necessità di un vocabolario nuovo, adeguato; il disorientamento sociale e culturale degli immigranti mina la resistenza inerziale a un prestito eccessivo nella loro lingua e così via.
3. Il contatto linguistico romeno-romanzo riflesso nell’antroponimia Per quanto riguarda l’antroponimia, il contatto linguistico è evidente nell’attribuzione di alcuni nomi stranieri ai bambini, fatto sempre più frequente negli ultimi anni. Per esempio, un personaggio della trasmissione TV prima richiamata –con nome tradizionale romeno, Vasile– ha battezzato la figlia con il neologismo Jesica; un gestore di pizzerie italiano, di Satu Gli studi su questo argomento hanno attirato l’attenzione degli specialisti negli ultimi decenni, fra i quali possiamo ricordare: Sala (1974; 1997). 3 Secondo statistiche non ufficiali, in Italia si troverebbero più di un milione di romeni, in Spagna circa 800.000, mentre a Parigi il loro numero si aggira approssimativamente intorno a 100.000. 4 Sono possibili tanto nel caso di emigranti provenienti da famiglie miste o minoritarie (per esempio di etnia ungherese), quanto anche nel caso in cui gli emigranti hanno cambiato periodicamente paese di adozione, alla ricerca di condizioni di vita migliori. 2
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Mare, sposato con una romena, ha scelto il nome Davide per il suo bambino. Praticamente, la stratificazione antroponimica, ugualmente a quella linguistica, è in stretta relazione con lo status socioeconomico dei membri di una comunità, come anche con gli indici di mobilità sociale della comunità rispettiva. Nel caso degli emigranti, il cambiamento antroponimico non può essere compreso senza analizzare i modelli di mobilità sociale. La linguistica e la sociologia convergono nella loro azione a rilevare gli schemi secondo cui funziona la scelta dei nomi. Il contatto linguistico romeno-romanzo degli ultimi anni si è riflesso non solo a livello lessicale, ma anche a livello antroponimico, dato che questi due compartimenti della lingua rappresentano un sensibile sismografo delle trasformazioni della vita sociale, politica, culturale, economica. Nel contesto degli scambi interculturali internazionali, i nomi non solo rappresentano l’espressione di una data identità culturale, con una storia unica e precisa, sviluppata dentro un dato contesto, ma diventano un prodotto linguistico dinamico, transnazionale. Il nome passa con estrema facilità attraverso le barriere linguistiche, sociali, religiose, ecc. Il prestito o la creazione di nuovi antroponimi sono molto più liberi e più attivi rispetto al campo dei nomi comuni. Partendo da qui, analizzeremo in seguito alcune particolarità del contatto antroponimico romeno-romanzo degli ultimi anni, come parte di un progetto di ricerca intitolato Interferenze multietniche riflesse nell’antroponimia del Maramureş, spazio centrale-europeo, vinto nel quadro di competizione dell’Idea (PN II) dell’anno 2008.5 La base dei dati proviene dal nordovest della Romania, mentre la documentazione è stata raccolta sul campo, tramite un questionario rilevante (CAM) dal punto di vista socio- e psico-linguistico6, da alcuni addetti all’inchiesta –per lo più studenti e masterandi dell’Università Nord di Baia Mare– che l’hanno somministrato ad alcune migliaia di individui, sia di ambiente urbano, sia rurale. 3.1. Il contatto antroponimico romeno-romanzo e la mobilità internazionale Il paesaggio antroponimico romeno degli ultimi venti anni è caratterizzato dall’arricchimento dell’inventario dei nomi neologici, sia per la serie maschile che per quella femminile. Molti nomi di battesimo hanno perso lo status di segno caratteristico dell’identità etnica, non essendo rilevanti sotto l’aspetto etnolinguistico. L’adozione di nomi stranieri può equivalere all’abbandono di alcune mentalità, costumi e routine comportamentali vecchi. Essa tende verso uno status di prestigio, uguale a quello del paese di adozione. La diffusione delle innovazioni antroponimiche può essere messa in rapporto con l’imitazione di alcuni gruppi di prestigio sociale superiore che stimolano l’interferenza linguistica. L’opzione per un nome straniero dipende anche dal livello intellettuale e culturale degli individui, dalle loro caratteristiche temperamentali o di personalità. Alcuni esempi evocativi in questo senso sono: Si tratta del contratto CNCSIS (Consiglio Nazionale della Ricerca Scientifica e dell’Insegnamento Superiore) nr. 838/2009, codice 251, con una durata di anni tre: 2009-2011. 6 La modalità di realizzazione, la struttura e l’applicabilità del questionario antroponimico Maramureş (CAM) sono stati presentati al III Simposio internazionale di linguistica, che ha avuto luogo presso l’Istituto di Linguistica Iorgu Iordan - Al. Rosetti dell’Academia Române di Bucureşti nel novembre 2009, per essere pubblicato nell’autunno 2010 con il titolo Aspecte socio- şi psiholingvistice reflectate în realizarea unei anchete antroponimice, nel volume che raccoglierà le relazioni presentate. 5
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Andreea (’98, Romania) +7 Claudia (’02, Spagna8) –genitori ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente urbano–; Antonio (’93) + Marco Ricardo (’99, ambedue nati a Roma) –genitori ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente rurale, stabilitisi in Italia–; Beatrice (’00, Romania) + Valentina (’04, Italia) –genitori ortodossi, studi medi, lavorano nell’edilizia in Italia–; Bogdan Ion (’06, Italia) –genitori ortodossi, con studi superiori, provenienti da ambiente rurale e stabilitisi da dieci anni in Italia–; Enrico Filipo9 (’08, Torino) –genitori ortodossi, studi medi, stabilitisi in Italia dall’anno 2001–; Florin (’96, Romania) + Mario (’98, Italia) –genitori ortodossi, studi medi, stabilitisi in Italia da nove anni–; Giuliano (’02, Italia) + Daniel (’09. Romania) –genitori l’uno ortodosso, l’altro cattolico, con studi superiori, provenienti da ambiente urbano e con grande mobilità internazionale–; Leea (’09, Lyon) –genitori ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente rurale, stabilitisi in Francia–; Luca (’00) + Marius (’03) + Irina (’07) –due dei fratelli nati in Romania, uno in Italia: genitori con studi ginnasiali, con grande mobilità all’estero–; Maria (’96, Romania) + Isabella (’08. Italia) –genitori stabilitisi in Italia, parlano a casa sia romeno, sia italiano–; Matteo (’09, Baia Mare) –i genitori hanno studi medi, sono greco-cattolici e sono stati tre anni in Italia–.
A differenza del contatto linguistico tra romeno e ungherese / ucraino, all’interno delle frontiere, il contatto linguistico tra romeno e le altre lingue romanze, realizzato fuori delle frontiere, è facilitato dal grado di parentela genetica tra esse. E’ molto meno probabile che i romeni della Transilvania battezzino i figli con nomi ungheresi o ucraini, anche se sono vicini a etnici appartenenti a queste comunità linguistiche, ciò nonostante non esitano ad adottare nomi di battesimo italiani, spagnoli, francesi anche quando si stabiliscono a migliaia di chilometri di distanza. Le spiegazioni sono molteplici e prendono di mira il pregiudizio della superiorità di un sistema antroponimico straniero, occidentale10, esistente soprattutto in persone che non hanno una preparazione solida. Dalla prospettiva socio-linguistica, l’adesione a norme della classe immediatamente superiore traduce un’attitudine di dipendenza tra lo status di classe e il livello economico degli individui. Ad ogni tipo di mobilità sociale corrisponde una data concezione di vita, riflessa anche sul piano del comportamento linguistico attraverso l’adozione di norme linguistiche del gruppo superiore, la coerenza nei confronti delle norme del rispettivo gruppo o il rifiuto di accettare la norma di prestigio riconosciuta (Ruxăndoiu / Chiţoran 1975: 207-208).
Se gli stati romanzi occidentali come l’Italia, la Francia, la Spagna non cercano o non sono intenzionati ad imporre la politica linguistica ai nuovi emigranti, le minoranze etniche, desiderando manifestare lealtà linguistica, adottano, accanto alla lingua ufficiale utilizzata quotidianamente in servizio, i nomi dei paesi che li hanno adottati e li attribuiscono ai propri bambini. La speranza inconfessata è che almeno questi abbiano la fortuna di non subire discriminazioni, almeno a livello del primo contatto linguistico o che non sia lesa l’immagine partendo dal nome portato. D’altra parte, nelle lingue immigranti, i fenomeni di Il segno + indica la relazione tra due portatori di nome: fratelli o sorelle. Tra parentesi ho precisato l’anno e il luogo / paese di nascita, come indice temporale / spaziale rilevante nella presente relazione. 9 La spiegazione data per la scelta di questo nome doppio è legata alla potenza / fortuna di una migliore integrazione nell’ambiente italiano, dove i genitori non sono più intenzionati a rimanere. 10 Dal punto di vista psicologico, i romeni si sono inoculati per sempre nel subcosciente che un prodotto proveniente dall’ovest è superiore ad uno simile autoctono, mentre l’ammirazione per i valori europei, occidentali, compare implicitamente nei sondaggi eurobarometro realizzati nei paesi che si accingevano ad aderire all’Unione Europea: la Romania si è collocata sempre al primo posto, con l’ 85%. 7 8
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interferenza sono più frequenti e hanno alla base un certo disorientamento sociale e culturale dei nuovi venuti. «La novità della collocazione crea per gli immigranti la necessità di un vocabolario adeguato» (Ruxăndoiu / Chiţoran 1975: 97), tradotto a livello antroponimico tramite l’assunzione di alcuni nomi di battesimo estranei alla tradizione di casa. 3.2. Tradizione / innovazione nel contatto antroponimico romeno-romanzo Partendo dagli esempi precedenti, accanto alla tendenza a innovare a qualsiasi prezzo attraverso la scelta di alcuni nomi neologici, si manifesta anche un’attitudine opposta, purista, di conservazione dei nomi di battesimo della madre-patria. In questa situazione, la funzione di prestigio antroponimico, associata alla superiorità socioculturale del paese di adozione e all’uniformazione positiva della sua popolazione, impallidisce di fronte alla funzione separatrice, dove primeggia l’opposizione, la separazione nei confronti degli altri. L’adozione in modo selettivo dei nomi specifici di altre civiltà, la realizzazione di alcune scelte razionali possono essere associate, da una parte, all’identificazione agli standard della propria cultura e religione, la loro coscienza verso la valorizzazione, senza gerarchie positive o negative. D’altra parte, lo specifico dei modelli antroponimici deve essere posto in relazione con la funzione unificatrice, che riunisce i portatori di alcuni nomi classici, tradizionali, all’interno di una comunità / famiglia. In questo senso, vorremmo ricordare alcuni esempi convincenti: Adelina Maria (’94, Romania) + Lorenţo11 Gheorghe (’06, Italia) –genitori bilingui (parlano tanto il romeno, come l’italiano a casa), stabilitisi da 13 anni nella Penisola–; Carina Amalia (’97, Borşa) + Marco Daniel (’00, Borşa) –famiglia ortodossa, studi medi, ha abitato tre anni in Italia–; David (’07, Italia) –il padre, romeno ortodosso stabilito da dieci anni in Italia, e sposato con una italiana cattolica, parlano a casa la lingua della moglie–; Dorel Sorin (’98) + Sebastian Kevin (’05, Borşa) –famiglia ortodossa, studi medi e mobilità internazionale (Italia - 5 anni, Africa - 3 anni)–; Oana (’97, Romania) + Laurenţiu (’06, Italia) –famiglia mista romeno-ucraina ortodossa, stabilita in Italia da nove anni–; Oana-Maria (’98, Romania) + Andreea Elena (’01, Bruxelles) –romeni ortodossi, stabilitisi da otto anni in Belgio–; Raluca Anuţa (’98) + Loredana (’99, Borşa, ambedue) –famiglia ortodossa, con studi ginnasiali, abitano da alcuni anni in Italia–; Rareş Liviu12 (’02, Baia Mare) + Maia13 Alesia (’04, Baia Mare) –genitori ortodossi studi medi, aventi tre anni di lavoro in Spagna–; Silvia (’91) + Alina (’96, Borşa, ambedue) –famiglia ortodossa, studi medi, è stata nove anni in Italia–; Vanesa Mădălina (’97, Borşa) –famiglia ortodossa, studi medi, è stata un anno in Italia–.
Si noti l’ortografia fonetica romena (sbagliata) del nome italiano Lorenzo, fatto che può essere messo in relazione con la mancanza di una preparazione superiore dei genitori. 12 Nome scelto in base a quello del nonno. 13 Nome comune in famiglia. 11
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3.3. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: una prospettiva religiosa, interconfessionale In base al loro significato, la maggioranza dei nomi precedenti sono cristiani, del calendario. Così come osserva Pedro Cristian Ionescu Pérez in Concetti, metodologie e terminologie nell’antroponimia romanza, «il problema centrale dell’antroponimia romanza è l’origine culturale dei nomi individuali. Da questo punto di vista, essi si classificano in nomi laici e nomi religiosi», questi ultimi risultano preponderanti nell’antroponimia del Maramureş. Il fatto è plausibile finché «il repertorio dei nomi cristiani è permanente (non perde elementi, come nel caso dei nomi di famiglia) [...] e presenta due versioni principali, tra cui non si può stabilire una netta differenza: nomi cattolici romano-occidentali (nettamente dominanti in Occidente e con notevole presenza anche in Romania) e nomi greco-ortodossi (nettamente dominanti in Romania e minoritari in Occidente)» (2007: 226). Tenendo conto che la maggioranza della popolazione della Romania (~86,8%)14 e, implicitamente, del Maramureş (~77,1%) è di confessione ortodossa, il peso dei nomi di battesimo di ispirazione agiografica bizantina è nettamente superiore, mentre nella nostra esposizione abbiamo selezionato una tavolozza complessa, in cui si incontrano anche santi latini. «Fino ad oggi, i nomi religiosi costituiscono un inventario internazionale, anche se le forme onomastiche nazionali differiscono da una lingua all’altra» (Tomescu 2007: 539). Interessante è che ciò appare chiaramente anche in persone di altra confessione, come forma denominativa unica o doppia: Alesia (’09, Cluj) –genitori romeni, testimoni di Geova, studi medi, provenienti da ambiente urbano–; Andrei Filip (’02) + Emanuela Genoveva15 (’04, Baia Mare, ambedue) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano–; Antonio Daniel (’09, Sighet) –genitori romeni avventisti, con studi superiori, provenienti da ambiente rurale–; Dennis16 Gabriel (’99, Sibiu) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano, padre con grande mobilità internazionale (autista)–; Mariana (’95) + Ivan (’96) + Adriana (’97) + Denis (’99) + Diana17 (’02) –famiglia ucraina di ambiente rurale, studi medi, pentecostale, senza mobilità internazionale–; Naomi Ioana (’92) + Ionuţ18 Alexandru (’95, Baia Mare) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano–; Sara Rut (’02) + Samuel Andrei19 (’05, Baia Mare, ambii) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano–; Sorin + Flaviu + Marian + Denis –genitori romeni pentecostali, studi medi, provenienti da ambiente rurale–.
Questi nomi non sono molto diversi, fatte alcune eccezioni, da quelli scelti da genitori ortodossi o cattolici, fatto non osservabile senza l’impiego del questionario (CAM) sul campo. 16 17
I dati provengono dalla statistica ufficiale dell’ultimo censimento svolto in Romania, nell’anno 2002. Dal nome della madre. La spiegazione fornita dai genitori in relazione all’ortografia è ‹per essere moderno›. I primi due nomi derivano dalla madre (Maria) e dal padre (Ivan), il terzo ed il quinto ‹sono piaciuti› ai genitori, mentre per il quarto hanno dato la spiegazione che è ‹comune a quelli di confessione pentecostale›. 18 All’origine del primo nome femminile sta Biblia, come detto dai genitori, mentre per il ragazzo il primo nome è ripreso dal padre. 19 In questo caso, la madre ha fornito una spiegazione inusuale nella scelta dei nomi dei futuri bambini: ‹Ho sognato i nomi dei bambini›. 14 15
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Partendo dall’affermazione che «in assenza di un inventario specifico, il protestantesimo è caratterizzato dal rifiuto dei nomi dei santi cattolici o greco-ortodossi e l’ampia accettazione dei nomi dell’ Antico Testamento» (Ionescu 2007: 226), ci saremmo aspettati di trovare solo nomi vetero-testamentari, ciò che non viene confermato. I nomi dei santi, accanto a quelli neologici hanno un numero di occorrenze uguale agli altri, situazione simile a quella incontrata presso le famiglie appartenenti alle confessioni tradizionali, con antichità plurisecolare. Per esemplificare, ci soffermeremo sui nomi di battesimo incontrati in ambiente rurale o urbano, ortodosso, romano-cattolico o greco-cattolico: Alberto (’07, Baia Mare) –genitori con studi ginnasiali, greco-cattolici, provenienti da ambiente rurale–; Anamaria Iuliana (’95) + Roxana Gaviola (’98, Baia Mare, ambedue) –genitori con studi ginnasiali, ortodossi, provenienti da ambiente rurale–; Anita20 (’90, Baia Mare) –famiglia bilingue romeno-ungherese, greco-cattolica, proveniente da ambiente rurale, studi medi–; Bogdan Andrei (’91) + Denis Mihăiţă21 (’98, Baia Mare, ambedue) –famiglia ortodossa, studi medi, proveniente da ambiente rurale–; Daiana Maria22 (’01, Baia Mare) –genitori con studi universitari, ortodossi, provenienti da ambiente rurale, senza mobilità internazionale–; Eveline (’92, Baia Sprie) –famiglia bilingue romeno-ungherese proveniente da ambiente urbano, romanocattolica, con studi superiori, senza mobilità internazionale–; Izabela (’05) + Karina (’08, Sighet, ambedue) –famiglia mista ungherese-ucraina, romano-cattolica + ortodossa, multilingue, studi medi, senza mobilità internazionale–; Leone Ciprian + Luiza + Lucia + Nicolae –famiglia studi medi, greco-cattolica–; Nicoleta Denisa (’01, Baia Mare) –famiglia ortodossa, studi medi, proveniente da ambiente urbano, senza mobilità internazionale–; Patrik (’05) + Silviu (’07, Sighet) –famiglia ortodossa, di ambiente rurale, studi medi–; Paul (’88) + Beatrix (’93, Satu Mare) –genitori romeni, romano-cattolici, studi medi, provenienti da ambiente urbano–.
3.4. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: una prospettiva socioculturale La scelta dei nomi stranieri, neologici, singoli o combinati con quelli tradizionali, agiografici, si incontra sia nell’ambiente urbano che in quello rurale. Il repertorio antroponimico non si distingue nemmeno nelle comunità monolingui, caratterizzato com’è da un miscuglio che non tiene conto dell’etnia, della religione, della condizione socio-economica o del livello di istruzione dei genitori. Gli antroponimi, all’inizio del III millennio, superano le barriere linguistiche e culturali, come mostra il nord-ovest della Romania: Albert Adrian23 (’04) –genitori ortodossi, studi superiori, di ambiente urbano–; Albertina Raluca (’08, Baia Mare) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Antonia (’05) + Antonio Ionuţ (’08, Baia Mare) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Andrada Patricia (’88) + Ştefan Dumitru (’97, Borşa) –famiglia romena studi medi, proveniente da ambiente urbano, ortodosso + cattolico–; Cătălin (’90) + In questo caso, la madre non considera utile la scelta di molti nomi per i bambini. La spiegazione dei genitori legata alla scelta del diminutivo non richiede commenti: ‹era molto piccolo e carino›. 22 I genitori hanno dichiarato che il primo nome è stato scelto a piacere, mentre il secondo perché è ‹nome santo›. 23 Il primo nome è piaciuto alla madre, il secondo è il nome del padre. 20 21
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Xena (’97) –genitori romeni ortodossi, studi medi, dimoranti in ambiente urbano–; Denis (’98) + Paul (’99, Borşa) –famiglia ortodossa, studi superiori, di ambiente rurale–; Elisa (’97, Borşa) –famiglia ortodossa, studi superiori, ambiente urbano–; Ines (’93) + Maya + Vladimir (’09) – genitori ortodossi, studi superiori, ambiente urbano, con mobilità internazionale–; Ionuţ Septimiu (’93) + Genoveva24 Ramona (’97) + Denisa Claudia (’01, Borşa) –genitori ortodossi, studi medi, di zona urbana–; Mădălina Alexandra (’94) + Georgiana (’99) + Ilie Denis (’09, Borşa) –genitori ortodossi, studi medi, di zona urbana–; Ovidia Andreia (’07) + Octavia Iulia (’09, Baia Mare) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Patricia Oana (’04) + Robert Daniel (’08, Baia Mare, ambedue) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Traian25 (’88) + Daiana Beatris (’98, Borşa) –famiglia romena ortodossa, studi medi, proveniente da ambiente urbano–; Xena-Ana (’95) + Ionuţ (’00, Borşa) –famiglia ortodossa, con studi ginnasiali, di ambiente urbano, con mobilità internazionale–.
I nomi romeni –forma-base o secondaria, motivati o non motivati– si compenetrano con quelli romanzi occidentali, che possono sia adattarsi graficamente o morfologicamente, sia conservare l’aspetto originario. Il contatto antroponimico romeno-italiano e romeno-spagnolo è facilitato da prestiti più vecchi, che, presentemente, hanno una durata apprezzabile nella lingua, del tipo Bianca, Carina, Ciprian, Renata, Sergiu (< it.); Carmen, Consuela, Ramona (< sp.) (Tomescu 2001: 134). Anche se alcune comunità linguistiche differiscono per ciò che riguarda il modo di gerarchizzare e, in conseguenza, di esprimere i valori culturali, esse si possono incontrare a livello antroponimico, dove la pressione dell’uso facilita le interferenze linguistiche. Un fattore ausiliario è rappresentato dalla moda (Zăbavă 2008), dall’influenza culturale e dai mass-media (Felecan 2007a), ciò che si osserva anche in alcuni bambini delle famiglie oggetto dell’inchiesta. Questi componenti prendono di mira talvolta solo una parte del doppio nome: Andreea (’89) + Madeleine-Anne26 (’91, Târgu Lăpuş) –genitori di ambiente rurale, con studi ginnasiali–; David (’00) + Ronaldo27 (’04) + Leonardo (’08, Baia Mare, tutti) –genitori rom di ambiente rurale, con studi ginnasiali–; Ema28-Theodora (’08, Baia Mare) –genitori di ambiente urbano, con studi superiori–; Georgiana Sandra29 (’88, Baia Mare) + Denisa Octavia (’89, Cluj) –genitori di ambiente rurale, studi medi–; Giulia Maria (’05) + Alexandra Patricia30 (’07) –genitori con studi medi, provenienti da ambiente urbano–; Marian Nicolas31 (’04, Spagna) –genitori bilingui
Il primo nome del bambino rappresenta il rinnovo del nome del papà, mentre Genoveva è anche il nome della madre. Il carattere ereditario, trasmesso da una generazione all’altra per linea paterna o materna, si incontra in molti nomi di battesimo della zona oggetto dell’inchiesta, come un fattore di coesione della famiglia/ della comunità. 25 Coincide con il nome del padre. 26 Dal nome di un personaggio letterario della novella Ciuleandra, scritta da Liviu Rebreanu. 27 Il primo bambino porta il nome del padre, il secondo ha preso il nome di un calciatore in voga nel periodo precedente la sua nascita. 28 Dal personaggio di Flaubert da Madame Bovary. 29 Se Georgiana e Octavia sono ripresi dai nonni, Sandra ha come fonte di ispirazione la celebre cantante tedesca, sposata con un romeno, in voga negli anni ’80. 30 Giulia e Patricia hanno avuto come fonte di ispirazioni trasmissioni televisive. 31 L’etimologia di questo nome va ricercata nell’attore Nicolas Cage. 24
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abitano da sei anni in Spagna–; Mia + Anca + Nelu + Alexandru + Antonel32 (’85-’98) –genitori con studi medi, provenienti da ambiente rurale–; Miriam Amina (’05, Borşa) –i genitori avventisti hanno scelto i nomi da un personaggio di film–; Roberto Sebastian33 (’99, Baia Mare) –genitori romeni ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente urbano–.
Tutti questi esempi certificano la fedeltà antroponimica nei confronti di una comunità di prestigio, formata sia da modelli perenni –mitologici, storici, letterari ecc.–, sia dai divi quotidiani, di film, musica, sport, show-biz e così via. La formula antroponimica può rappresentare un referente complesso, costituito «dall’apporto di informazione specifica di ogni componente, in virtù dell’appartenenza di questi ad una classe determinata del sistema di nome proprio di una data lingua, come anche, nel quadro della classe, alle diverse categorie di questa» (Ionescu Perez 2007: 219). Alcuni nomi hanno come referente diretto solo il gruppo familiare ridotto –i genitori e i discendenti diretti–, altri hanno una funzione socio-culturale o estetica. 3.5. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: modelli ufficiali / uso familiare Il processo dell’attività di (de)nominazione si svolge in due fasi: la produzione / l’assunzione del nome, concepiti come atto individuale di creazione linguistica / imitazione parziale o totale, realizzato da un nominatore, e la socializzazione del nome, atto attraverso cui le persone vicine assumono la (de)nominazione, conferendovi un ruolo interpersonale nella comunicazione. Concepito dalla prospettiva sistema antroponimico / discorso antroponimico, «lo studio della (de)nominazione si colloca, dal punto di vista metodologico, non solo nel quadro della linguistica del sistema, ma anche in quello della linguistica dell’uso, a cui spetta l’analisi e la descrizione dell’antroponimia nel contesto [...], come anche la valutazione degli aspetti cognitivi, psichici, sociali e culturali» (Ionescu Perez 2007: 216). Tuttavia, non priva di interesse si dimostra l’analisi del modo in cui i bambini vengono chiamati in famiglia o tra amici allorquando hanno l’età corrispondente. Anche se molto spesso si conserva la forma ufficiale, compaiono nell’uso molte abbreviazioni. Tra i procedimenti fonetici, i più usati sono: – l’apocope: Ale < Alessia (’08, Baia Mare); Anto < Antonio34 (’93); Bia < Bianca (’00) + Ralu < Raluca (’03, Sighet); Daia < Daiana Maria (’90); Gesi < Gesica Simona (’03, Milano); Giuli < Giulia Maria (’05); Kari < Karina (’90) + Cristi < Cristian (’93); Laur < Laurenţiu (’98); Leo < Leonard; Leo < Leone + Luci < Lucia; Ralu < Raluca Anuţa (’98) + Lori < Loredana35 (’99); Patri < Patrisia Iasmina (’02, Baia Mare); Sabri < Sara Sabrina (’90, Negreşti); Teo < Ema-Theodora36 (’08, Baia Mare). L’ultimo bambino ha il nome ispirato dal personaggio di film, Antonio, anche se in romeno è diminutivo. Il primo elemento del doppio nome ha come ispirazione il nome del calciatore italiano Roberto Baggio, mentre l’etimologia del secondo va cercata con il nome della città spagnola San Sebastian, dove i genitori hanno lavorato due anni. 34 L’intera famiglia si è stabilita in Italia. 35 I genitori delle due sorelle abitano da dieci anni in Italia. 36 Nella presente situazione l’apocope ha interessato il primo nome chiaramente nell’atto ufficiale, mentre si è preferito il secondo, che conosce lo stesso fenomeno. 32 33
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– la sincope: Giulio < Giuliano (’02, Italia); Liza < Luiza; Mia < Maria (’88); – l’aferesi: Alina37 < Rusalina (’94); Leta < Violeta (’90, Baia Mare); Mona < Simona (’90); – il raddoppiamento: Bobo < Paul (’01, Borşa); Dede < Dennis Gabriel (’99, Sibiu); Dodo (/ Doruţa) < Dora Ramona (’90); Lala < Alexandra Patricia (’07, Baia Mare);
Sotto influsso occidentale, si moltiplicano gli ipocoristici suffissati con -i / -y (Graur 1965: 64), sia nei nomi ufficiali –Angi (’03) + Rozi38 (’07)–, che nelle confidenziali, familiari: Any < Ana-Maria (’90); Chany < Charlotte Mirela (’88) + Fredy < Alfred Ştefan (’90, Satu Mare); Cory < Corina Anamaria (’93) + Deny (’00, Baia Mare); Edi < Eduard-Mateo (’07, Baia Mare); Lori < Lorena (’06, Baia Mare); Robi < Robert (’01, Borşa); Robi < Roberto (’99, Baia Mare); Timi < Timea Graţiela (’01) + Mery < Maria39 (’96). Sempre un’influenza occidentale si nota nella pronuncia di alcuni nomi tradizionali romeni, di fattura biblica: Bazil < Vasile40 (’96); Dave < David (’97, Baia Mare). Una situazione a parte si incontra allorquando, nel registro familiare, colloquiale, si usano forme appellative che, apparentemente, non hanno legame con il nome semplice o composto: Ali < Alexandra Veronica (’06) + Bubuţica < Oana Maria (’08, Baia Mare); Alisa < Alecsandra41 Maria (’08); Ducu < Vlad Ryan (’03, Canada); Nina < Cristina Ioana (’02, Torino); Tatu < Arthur (’90, Baia Mare); Ţuţi < Cecilia Mădălina (’96, Sighet); Vuţi < Livia (’87, Borşa). In altri casi, si combinano più fenomeni fonetici per ottenere la forma usata in famiglia o tra amici: Adi < Adrian Lorin (’89); Dea < Andrea (’90, Baia Mare); Deea < Andreea (’96, Borşa); Ipi < Olimpia (’90, Borşa).
3.6. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: varianti grafiche e fonetiche Un’altra particolarità del contatto antroponimico romeno-romanzo prende di mira l’esitazione nella scelta / uso di alcuni nomi che ammettono più varianti di scrittura e di pronuncia. In situazione di interferenza linguistica, gli antroponimi variabili (con due o più forme) entrano in concorrenza con gli antroponimi invariabili (con una sola forma), ciò che lascia l’impressione, qualche volta, di alcuni xenismi. Esempi a sostegno dell’affermazione abbondano soprattutto per i nomi di battesimo romanzi (Felecan 2007b) selezionati nella zona oggetto dell’inchiesta: Albert / Alberto; Alecsandra / Alesandra / Alessandra / Alexandra; Alecsandru / Alejandro / Alesandro / Alessandro / Alexander / Alexandre / Alexandro / Alexandru; Alesia / Alessia / Alexia; Alice / Alicia / Alisa / Alisia / Alissa / Alissia / Alyssa; Andrea / Andreea / Andreia; Angel / Angelo / Anhel; Beatrice / Beatris / Beatriz; Darie / Dario / Darius; Danisa / Denisa / Denisia / Denissa; Denis / Deniss / Dennis; Elisa / Elissa / Eliza; Emanuela / Emanuelle; Geanina / Senza questionario, non avremmo saputo che Alina – nome creato in romeno o prestato (Ionescu 2001: 27), abbastanza frequente nell’onomastica attuale– è una forma ottenuta per aferesi nel caso in esame. 38 La forma ipocoristica è ripresa dal nome della madre, così come per gli altri tre fratelli –(Octavia (’93) + Octavian (’95) + Gavrilă (’97)– il modello è costituito dal nome del padre (Octavian), rispettivamente del nonno. 39 Anche se stabilitisi in Italia, i genitori preferiscono un anglicismo nell’uso familiare. 40 Il nome unico è stato ripreso dal nonno e, probabilmente, sembrava ‹démodé›, anche se la famiglia proviene da ambiente rurale. 41 Scritto così, secondo le regole ortografiche, non con -x, come la maggioranza dei nomi dei giorni nostri. 37
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Gianina / Jianina; Geovanni / Giovani / Giovanni; Irena / Irene / Irina; Isabel / Isabela / Isabella / Isabelle / Izabela / Izabella; Jhose / Jose; Laurencio / Laurenţiu / Lorenţo / Lorenzo; Lorena / Lorraine; Luisa / Luiza; Maia / Maya; Mateo / Mateus / Matteo; Melisa / Melissa; Nicolas / Nicholas; Rafael / Rafaelo / Raphael; Ricardo / Riccardo / Richardo; Vanesa / Vanessa.42
Le varianti corrette appartengono, di regola, alle famiglie che hanno una preparazione superiore e che tengono a un certo rigore della forma esteriore del nome in ambito pubblico. Si registrano, tuttavia, anche varianti scorrette per ogni lingua romanza. Esse sono causate in buona misura da un contatto linguistico superficiale, nell’ambito di famiglie con una preparazione culturale media, ma con una mobilità internazionale pronunciata, in più paesi consecutivamente. Nel caso di individui con istruzione precaria, in una comunità allogena, la forma grafica può coincidere con quella sonora, sebbene scorretta secondo gli standard della lingua romena o della lingua italiana / spagnola / francese / portoghese. Trattandosi di un contatto recente, non esiste neppure l’influenza livellatrice della variante standard, come si intravede in numerose esitazioni fonetiche o ortografiche.
4. Conclusioni Dalla prospettiva socio-linguistica, il nostro studio ha di vista la covarianza sistematica delle strutture antroponimiche riflesse nel contatto romeno-romanzo degli ultimi anni. In seguito ad ampie inchieste sul terreno realizzate nel NO del paese, abbiamo selezionato una parte dei questionari (CAM), eloquente sotto questa prospettiva. Abbiamo tenuto conto di fattori extralinguistici come l’area geografica, la natura della popolazione (indigena o emigrata, rurale o urbana), lo specifico etnico, culturale, religioso, lo status sociale, l’educazione degli attanti onomastici. L’acquisizione del nome innovatore nella lingua romena si trova in stretto legame con questi fattori. Il contatto antroponimico romeno-romanzo si realizza parallelamente al contatto linguistico, sia all’interno delle frontiere –tramite i mass-media–, sia nei paesi romanzi occidentali, ospitali per vaste comunità di connazionali. Questi, in qualità di (de)nominatori, si trovano a dover scegliere tra la conservazione dell’identità, perpetuando i nomi di battesimo ereditati dalla famiglia e l’adozione di nomi stranieri –comunque vicini allo spirito della lingua romena–, che potrebbero facilitare l’integrazione futura dei neonati nello spazio occidentale. Psicologicamente, i fattori extra-linguistici rivestono un ruolo determinante nella ‹lotta› che si svolge tra vecchio e nuovo. L’acquisizione dei nomi allogeni è più forte nelle comunità romene che si lasciano sedurre dal miraggio della superiorità occidentale-romanza. Sulla base della comparazione dei sistemi antroponimici, si possono osservare le interferenze possibili in situazioni di contatto, come indice diagnostico della struttura onomastica contemporanea, in correlazione con fenomeni sociali particolari.
Ho realizzato una selezione delle varianti antroponimiche, senza dimenticare le differenze all’interno della lingua romena o quelle percettibili in caso di interferenze romeno-ucraine o romeno-ungheresi, di cui mi sono occupato in altre occasioni: v. Felecan (2009b; 2010).
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Vitalina Maria Frosi
Os hodônimos de Caxias do Sul
1. Caxias do Sul Caxias do Sul é uma cidade brasileira, situada no nordeste do Rio Grande do Sul. Fundada por imigrantes italianos em 1875, teve seu início em meio a uma floresta virgem e, ao completar hoje seus 136 anos, é habitada por mais de 435.482 habitantes (cf. Censo demográfico do IBGE de 2010). É dividida oficialmente em sete distritos e em quatro regiões administrativas. Possui 3664 logradouros, que são o objeto de estudo do presente trabalho. Os bairros, as praças, as ruas, as avenidas e demais espaços de circulação desta cidade compõem a lista dos nomes atualizada pela Prefeitura Municipal em 12 de janeiro de 2010. Nosso objetivo principal foi o de ordenar esses nomes, determinar as categorias a que pertencem e apresentar reflexões de caráter geral, tendo em conta aspectos interdisciplinares decorrentes do contexto bilíngue, cultural e histórico-político em que se inserem. A pesquisa baseou-se em documentos e restringiu-se aos nomes oficiais atribuídos às ruas por uma autoridade legalmente constituída; eventuais observações poderão ser feitas a denominações espontâneas dadas pelo povo. A análise dos dados tem caráter quantitativo, porém faz-se uso de aportes da metodologia qualitativa para a abordagem de aspectos interdisciplinares pertinentes à questão em foco. A categorização dos hodônimos segue a taxionomia dos topônimos observada, em linhas amplas, pelos estudiosos de toponomástica em geral. No Brasil, essa taxionomia foi adaptada por Dick (1992) e é seguida pela maioria dos estudiosos de toponomástica do Brasil. Embora julguemos fundamental o tratamento etimológico dos nomes e sobrenomes no estudo de topônimos ou hodônimos, não contemplaremos aqui este segmento. Considerados os limites deste trabalho, privilegiamos a categorização das ruas com acréscimo de informações às peculiaridades típicas da amostra utilizada. Não obstante isso, a quantidade de antropo-hodônimos de Caxias do Sul não deixa de ser um atrativo muito forte, uma questão de real importância para o estudo dos nomes e sobrenomes constantes na listagem dos dois grupos étnicos: o italiano e o não italiano.
2. O que dizem os nomes e os hodônimos Ruas, avenidas e travessas, bairros, parques e praças têm nomes que preservam reminiscências do passado; conhecê-los e descrevê-los, preservá-los e socializá-los é tarefa
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do pesquisador. Alguns nomes têm procedência remota, no longínquo decurso do tempo e seu sentido pode perder-se dentro dessa dimensão ou, ainda, tornar-se empanado no imenso espaço territorial. Outros têm origem próxima, são conhecidos, transparentes, de modo particular, quando designam ruas recém-abertas. Os nomes das ruas de um centro urbano transcendem a função de orientar alguém rumo a um determinado local. O que pareceria, à primeira vista, um mero sinal, ou um nome identificador de endereços aos transeuntes, é, na verdade, um signo hodonímico que subsume um significado virtualmente presente no nome em si, apreensível na sua completude por suas interrelações contextuais. Chamam-se hodônimos os nomes das vias de circulação de um centro urbano. São constituídos por nomes próprios de pessoas ou de outras entidades. Seu estudo tem lugar na Linguística, precisamente, no Léxico, onde se situa a Onomástica, que compreende a Antroponímia e a Toponomástica. A Hodonímia é um ramo da Toponímia. Dentro disso, Oliveira / Isquerdo (2004: 9) consideram que, sendo o léxico a primeira via de acesso a um texto, «representa a janela através da qual uma comunidade pode ver o mundo». Os hodônimos sinalizam a cultura, a história, a vida e a linguagem de um povo. Verbalizados ou escritos em formatos diversos, os hodônimos carregam informações que transcendem uma época qualquer. Apesar disso, a passagem do tempo lhes obscurece o sentido, torna-os opacos. Eles se cristalizam. A opacidade, no dizer de Dick (1990: 20), é uma característica do signo toponímico. Referindo-se aos nomes próprios de pessoas, Dick (2001: 85) diz que eles «são obscurecidos em seu conteúdo léxico-semântico pela opacidade do próprio signo que os conforma, distanciados, da maioria das ocorrências, do foco original». Dauzat (1947: 1), reportando-se aos nomes de lugares, diz que eles se apresentam «como palavras antigas, de significado preciso, cristalizadas e esterilizadas de modo mais ou menos rápido, esvaziadas de sentido original». Nessa mesma obra (1947: 223), atribui ao processo de denominação de ruas antigas as mesmas características verificáveis na designação de lugares antigos. Podemos, portanto, estender essa afirmação aos nomes de ruas, de um modo especial, quando elas constituem o sistema viário de cidades antigas. Se são recentes, com uma curta trajetória de vida, os nomes de suas ruas poderão manter uma certa transparência, sobretudo se nelas ainda habitam testemunhas oculares. O que pode variar, com certeza, é o entendimento da palavra antiga. No caso de Caxias do Sul, antigos são os hodônimos criados há cem anos. No caso da França, da Itália, ou de outros países europeus, os hodônimos antigos podem ter vários séculos de idade, ou até milênios. Em seu estudo sobre os nomes de lugares, Charles Rostaing (1948: 13) diz que todo nome de lugar tem um significado que, por razões várias, torna-se imperceptível para os habitantes. Às vezes, o nome cristaliza-se de modo a tornar-se incompreensível. Na Itália, inúmeros são os estudos e dicionários produzidos no campo da toponomástica. Por serem tantos os estudiosos, haveria necessidade de muito espaço para mencionar todos, por isso destacamos apenas alguns nomes pela importância e atualidade dos estudos produzidos e, de modo particular, porque a eles tivemos acesso. Dentre outros mencionamos Queirazza / Marcato / Pellegrini / Sicardi / Rossebastiano (2006); Pellegrini (2008); Olivieri (2001); Sciaretta (2010). Especificamente, sobre onomástica, nomes e sobrenomes de pessoas, pelo seu rigor científico, referimos Caffarelli / Marcato (2008); Rossebastiano / Papa (2005); Marcato (2009). Caffarelli, além de exímio estudioso, é diretor da Rivista Italiana di Onomastica que vem sendo publicada
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semestralmente há 10 anos. Importa mencionar ainda Dizionario dei cognomi italiani (1978); I nomi degli italiani. Informazioni onomastiche e linguistiche, socioculturali e religiose (1982) e Nomi e cultura (1987) do estudioso Emilio De Felice. Igualmente importante è a obra Un nome al giorno: origine e storia dei nomi di persona italiani (1955, 1957) de Carlo Tagliavini. Não cabe, neste artigo, uma revisão extensa sobre a literatura existente, mas não podemos deixar de mencionar também a obra de José Leite de Vasconcellos intitulada Onomatologia, 1931. Vasconcellos (1931: 460) diz que fazer um estudo dos nomes próprios é classificálos em conformidade com as fontes de que se originaram, alertando ainda a importância em se explicar a origem de cada um deles. No que tange à produção de caráter científico por estudiosos brasileiros, importa considerar o Dicionário Etimológico de Nomes e Sobrenomes de Rosário Farani Mansur Guérios (1973). No campo da Toponímia, os estudos se configuram, principalmente, pela elaboração dos Atlas Toponímicos de diversos Estados, em desenvolvimento em várias universidades federais e na universidade estadual de Londrina, conforme esclarecem Dick (2007: 828-829); Seabra (2007: 827); Isquerdo (2007: 828). Em sua obra A dinâmica dos nomes da cidade de São Paulo 1554-1897, dentre tantos denominativos estudados, Dick consagra um capítulo inteiro, intitulado ‹O nome da rua› ao estudo científico de caráter interdisciplinar dos nomes das ruas da cidade de São Paulo (1997: 133-269). De modo peculiar, são destacados, descritos e explicados os referenciais toponímicos do centro antigo da cidade de São Paulo. Diferentemente dos signos linguísticos, os hodônimos, assim como é no caso dos topônimos, são signos motivados. De acordo com Dick, «o que era arbitrário, em termos de língua, transforma-se no ato do batismo de um lugar, em essencialmente motivado, não sendo exagero afirmar ser essa uma das principais características do topônimo» (1990: 18). O estudo dos hodônimos propicia o resgate de fatos socioculturais de que são parte integrante.
3. Os hodônimos de Caxias do Sul: a contribuição da antroponímia nos nomes de ruas O contexto lingüístico e cultural de Caxias do Sul compreende o convívio de dois grupos étnicos predominantes, o luso-brasileiro e o italiano. Frosi / Faggion / Dal Corno (2008) referem a questão do bilinguismo como estando em vias de solução para monolinguismo de português. Mesmo assim, afirmam que a fala e a cultura italianas constituem um substrato de forte contribuição em vários aspectos das comunidades regionais, mormente no sistema hodonímico marcado pela presença de nomes italianos. Os hodônimos revelam aspectos da linguagem, da cultura, da história, da política, da terra, em suma, da própria maneira de ver o mundo, assim se expressam Faggion / Dal Corno / Frosi (2008: 278-279). Em Caxias do Sul, a antroponímia contribuiu significativamente com a hodonímia. Uma análise inicial das 3664 ruas e praças reuniu em dois grupos distintos os hodônimos de Caxias do Sul. Numa lista, foram colocados os nomes italianos; numa outra, os não italianos. Consideramos italianos os nomes de pessoas, de cidades, objetos e outros que ou conservam a ortografia original, ou sofreram adaptações àquela portuguesa, como o nome ‹Vêneto›, usado com acento circunflexo, tendo ocorrido, inclusive, o que se poderia chamar de hipercorreção, o
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caso da reduplicação do ‹tt›, Venetto. Nessa categoria, foram inseridos também os sobrenomes trentinos que, às vezes, possuem traços germânicos. Figuram como hodônimos não italianos todos aqueles de origem luso-brasileira, sejam eles representados por nomes de pessoas, ou por vegetais, animais, santos, profissões etc., escritos em língua portuguesa, com inclusão também daqueles provenientes de outras etnias, nesse caso, pouco numerosos. Quantidades
% sobre 3.664
Hodônimos representados por nomes italianos (pessoas, cidades, animais, acidentes geográficos vegetais, coisas etc...)
2273
62,00
Hodônimos representados por nomes não italianos (pessoas, cidades, animais, acidentes geográficos vegetais, coisas etc...)
1391
38,00
Total
3664
100,00
Especificação dos hodônimos classificados por grupo étnico italiano versus grupo étnico não italiano
Tabela 1: Hodônimos de Caxias do Sul reunidos por grupo étnico
A Tabela 1 evidencia uma predominância de hodônimos representados por nomes italianos, 62%. Do total de hodônimos (3664) 38% são creditados ao grupo étnico não italiano. Constatamos que os imigrantes e seus descendentes não só denominaram os povoados com nomes de localidades italianas, segundo afirmam Frosi./ Faggion / Dal Corno (2008a: 412415) como também homenagearam o grupo étnico italiano dando a ruas, avenidas, parques e praças nomes de pessoas e de lugares italianos. Dauzat, referindo-se a nomes de localidades (1947: 38), diz que «Os imigrantes experimentam o desejo legítimo de lembrar, nas cidades que criam, as cidades de seu país de origem». A propósito disso, acrescentamos que os ítalodescendentes preservaram a memória dos que fundaram e desenvolveram a cidade, dando a muitas ruas dela nomes de pessoas de seu próprio grupo étnico. A reunião dos hodônimos em dois grupos étnicos, um de língua majoritária, outro de língua minoritária, exprime um significado. O grupo de língua minoritária é representado por um número maior de hodônimos, precisamente, 2273; o de língua majoritária resulta em 1391. Não há contradição nisso: quantidade não significa qualidade ou superioridade. Quando Caxias do Sul era formada predominantemente (para não dizer exclusivamente) por italianos e seus descendentes, as primeiras ruas abertas em seu território tiveram todas denominações oficiais de personagens brasileiros do Rio Grande do Sul e do Brasil: políticos, militares, governadores, presidentes, ministros, jornalistas, conforme expõe Frosi (2009a: 344). As pessoas homenageadas com seus nomes dados às ruas eram todas importantes, mas eram totalmente desconhecidas para o povo que fundou o lugar, nele habitava e estava trabalhando e desenvolvendo a comunidade. As ruas de que estamos falando são hoje as do bairro Centro da cidade caxiense. O único nome não brasileiro é Garibaldi, talvez, porque era considerado o herói de dois mundos, o italiano e o brasileiro, então, entrou na lista dos homenageados desse bairro de Caxias do Sul. Os hodônimos italianos encontram-se, na maioria, em zonas periféricas da cidade. O estudo recente de Tríssia Ordovás Sartori (2010) analisa em detalhes a questão do bairro Centro de Caxias do Sul.
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Um estudo cronológico das denominações das ruas de Caxias do Sul, constante em Marcato (2009), mostra que, de 1875 a 1946, portanto, durante os primeiros 71 anos de vida dessa cidade, os hodônimos representados por nomes luso-brasileiros eram numericamente superiores àqueles de nomes italianos. Nas primeiras décadas de desenvolvimento da cidade, poucos foram os nomes italianos dados a ruas. Só em 1959, as denominações italianas para as ruas caxienses ultrapassam, de fato, em quantidades, as luso-brasileiras e conservam a primazia até os dias de hoje. Além disso, a maior parte das ruas que tinham sido designadas com nomes de lugares italianos tiveram esses nomes substituídos por designativos brasileiros, quando ocorreu a ditadura política, e com ela a Campanha de nacionalização e de brasilianização, fatos estudados e referidos por Pesavento (1980: 156-194); Frosi / Faggion / Dal Corno (2008). Não podendo dar nomes de lugares da Itália às ruas, abertas por italianos e seus descendentes, em solo brasileiro, a solução foi a de dar nomes de pessoas. Trata-se de uma hipótese, mas, talvez, isso explique a quantidade de antropo-hodônimos italianos verificados a partir de 1959. Nas últimas décadas, além dos antropo-hodônimos, ocorreram também denominações com nomes de lugares italianos: Pistóia e Monte Castelo (1959); Turin e Venetto (1967); Monte Carmelo (1976); Vicenza (1980); Arsié, Fonzaso, Seren del Grappa (1988); Castelnovo (1990); Alpina (1991); Vêneto (2003); Pedavena (2004); Monte Bérico, Pedancino, Santa Corona e São Giácomo (2008). Especificação categorias
das
Ta x i o n o m i a d e n a t u r e z a antropocultural
1. Animo-hodônimos 2. Antropo-hodônimos 3. Axio-hodônimos 4. Coro-hodônimos 5. Crono-hodônimos 6. Eco-hodônimos 7. Ergo-hodônimos 8. Etno-hodônimos 9. Dirrema-hodônimos 10. Hiero-hodônimos 11. Mito-hodônimos 12. Historio-hodônimos 13. Número-hodônimos 14. Pólio-hodônimos 15. Sócio-hodônimos 16. Soma-hodônimos TOTAL ......................................
Italianos % sobre Quant. 3664 00 0,00 2158 58,90 62 1,69 16 0,44 01 0,03 00 0,00 00 0,00 00 0,00 00 0,00 09 0,24 00 0,00 00 0,00 00 0,00 01 0,03 07 0,19 00 0,00 2254 61,52
Não italianos % sobre Quant. 3664 12 0,33 928 25,33 69 1,88 54 1,47 02 0,05 02 0,05 04 0,11 08 0,22 00 0,00 65 1,78 00 0,00 26 0,71 05 0,14 06 0,16 45 1,23 00 0,00 1226 33,46
Tabela 2: Categorias de natureza antropocultural
A Tabela 2 mostra que, dentre as 16 categorias de natureza antropocultural do grupo étnico italiano, sobressaem-se os antropo-hodônimos com 58,90% não só em relação com os da série dos italianos mas também no confronto dessa mesma categoria com a que lhe é correspondente no grupo étnico não italiano, numericamente representado esse último por 25,33% sobre o
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Vitalina Maria Frosi
total de hodônimos. A alta representatividade da categoria antropocultural italiana parece confirmar a marca a que se refere Dick (1997: 193-208) isto é, em nosso caso, vemos como suporte de identificação étnica o nome e o sobrenome italianos. Contrastando extremamente, temos as categorias Dirrema-hodônimos e Soma-hodônimos com representatividade nula para ambos os grupos étnicos. A Tabela 2 apresenta também, nas categorias de natureza antropocultural, mais 7 categorias com representatividade zero para o grupo étnico italiano. Para esse grupo é digna de nota a concentração das homenagens a nomes de indivíduos italianos e a seus descendentes. A leitura dos processos da Câmara de Vereadores sobre a análise da proposição de nomes para ruas e praças, ou sobre a substituição de denominações por outras, revela que muitas ruas que tinham nomes de localidades italianas tiveram esses nomes substituídos por outros, principalmente, por designativos de personagens brasileiros da administração pública, de escritores, de políticos e de militares, portadores de altos títulos, dentro da hierarquia de comando do país receptor. Segundo Frosi (2010: 65) o Acto nº 85 de 2 de maio de 1939, assinado pelo então prefeito municipal de Caxias do Sul, determinou algumas mudanças de nomes para vias da cidade: (a) a Rua Veneza passou a denominar-se Rua Olavo Bilac; (b) a Rua Treviso passou a denominarse Rua Machado de Assis; (c) a Rua Vicenza passou a denominar-se Rua Castro Alves; (d) a Rua Trento passou a denominar-se Rua José do Patrocínio. Oficialmente cancelados dos registros documentais, esses nomes permanecem, todavia, na memória das pessoas ainda viventes que testemunharam os acontecimentos ocorridos no passado.
Os nomes de pessoas e de localidades italianas, dados a ruas em solo brasileiro, refletem elementos culturais, linguísticos e identitários do grupo étnico italiano como lembra Faggion (2006). Embora a diversidade linguística e cultural seja uma riqueza nem sempre tem sido respeitada. Em conformidade com Bertolini (1996), o poder político e os fatos históricos determinam quais nomes devem ser dados às ruas mais importante de um centro urbano. Tal é o caso de Caxias do Sul. As ruas do bairro Centro dessa cidade receberam seus nomes luso-brasileiros nos primeiros anos de sua fundação, quando a comunidade era formada preponderantemente por italianos. No entanto, nenhuma rua do centro da cidade recebeu nome italiano. A alta representatividade numérica dos nomes italianos advém das zonas periféricas da cidade. Acrescente-se também que nomes dados espontaneamente pelo povo foram substituídos por outros, oficialmente impostos já nas primeiras décadas da colonização. No que se refere a esse período, aproximadamente meio século, a contar de 1875, ano em que chegaram ao local as primeiras famílias italianas, servem de exemplo denominações como Rua Grande e Rua dos Caiporas (termo de origem tupi com significado de homem do mato ou azarado, sem sorte), nomes dados pelo povo à principal artéria da, então, pequena cidade. Oficialmente essa rua recebeu, em 1880, o nome de Silveira Martins (fundador do Partido Federalista Brasileiro) e, mais tarde, passou a se chamar Avenida Júlio de Castilhos, nome que conserva até hoje. Caso semelhante ocorreu com o denominativo Villa Bella, escolhido e usado pelo povo, mas que, oficialmente, recebeu o nome de Dr. Montaury, engenheiro e político brasileiro. O estudo sobre as ruas de Pádua de Carla Bertolin (1996), desenvolvido na perspectiva histórica, mostra que as vias de circulação daquele centro urbano, além de terem sido
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denominadas, em grande parte, em consonância com as fases histórico-políticas do país italiano, receberam nomes de personagens de projeção durante as guerras: A. Diaz, 1925; generale Cantore, 1934; F. Baracca, 1935 e de lugares que ficaram marcados por episódios famosos de combates neles ocorridos, por exemplo, Monte Grappa. A troca de nomes de ruas importantes ocorre também devido a mudanças políticas. Segundo Bertolin (1996), as ruas do Centro são as mais polêmicas e são as primeiras a terem seus nomes trocados quando um novo grupo assume o poder. Uma nota à parte merecem os hodônimos desta amostra representados por nomes de profissões. Este segmento foi objeto de estudo realizado como parte do Projeto Toponímia da Universidade de Caxias do Sul, por três professoras do Mestrado em Letras, Cultura e Regionalidade, isto é, Frosi / Faggion / Dal Corno (2008: 4): Nossa tendência inicial teria sido a de considerar estes hodônimos representativos de profissões vinculando-os a uma herança cultural transplantada na RCI pelos imigrantes oriundos do norte da Itália. Aliás, não é difícil encontrarmos denominações de profissões nas ruas de muitas cidades italianas, fazendo referência a atividades que, no passado, eram lá desenvolvidas. Dentre tantas, a título de exemplificação, em Firenze, a Via dei Calzaiuoli quer lembrar a todos os que por ela transitam as numerosas lojas de meias que do século XIV ao século XVI existiam nessa rua (Guccerelli 1985: 80). Em Veneza, são muitas as ruas que conservam hodônimos provenientes de profissões como, por exemplo, La Merceria, indicativa da rua em que, no passado, se instalaram os mercadores de tecidos e de artigos para vestuário como botões, fitas, alfinetes etc. Em Milão, a Via degli Artieri, conforme Vittore Buzzi / Claudio Buzzi (2005: 22) «vuole ricordare gli operai laboriosi e intelligenti che furono alla base della prosperità economica di Milano lavorando nelle numerose piccole officine e nei laboratori».
Em abril de 1988, a Indicação nº 236 da Comissão de Denominação de Ruas, ligada à Câmara de Vereadores de Caxias do Sul, propunha ao Legislativo Municipal a denominação de 27 ruas do loteamento Belo Horizonte sugerindo para elas nomes de profissões humildes praticadas no passado nessa cidade. Os nomes sugeridos tencionavam homenagear pessoas humildes, construtoras da riqueza local. O processo nº XXVIII/1988 da Câmara de Vereadores teve aprovação imediata e foi transformado na lei nº 3238 naquele mesmo ano. Os hodônimos representativos de profissões humildes referem-se a ruas de Caxias do Sul onde, com muita probabilidade, essas profissões nunca foram exercidas. Os nomes das ruas do Bairro Santa Fé são marcados com o morfema de plural. Uma análise, nesse sentido, dá-nos uma idéia de abrangência, de coletividade; em síntese, de inclusão de todos aqueles profissionais pertencentes à mesma categoria, que, de fato, em outros pontos da cidade, praticaram tais profissões (2008: 5). Além dos hodônimos de natureza antropológica, temos hodônimos de natureza físicogeográfica. Os hodônimos das categorias de natureza física, como o próprio nome indica, decorrem dos aspectos físico-ambientais influenciadores, presentes no ato de denominar uma rua. De acordo com Nascimento (2009: 116), a povoação de Caxias do Sul determinava que: a sede teria nove quadras de norte a sul e nove de leste a oeste. As quadras seriam ligeiramente retangulares, e todas conteriam dez lotes urbanos. Todos os lotes estariam dispostos na orientação norte-sul, menos nas quadras do extremo oeste, que teriam os lotes ocidentais como orientação leste-oeste; e nas quadras a oeste e leste da praça mais centralizada, que teriam nas faces voltadas a ela, os lotes no sentido leste-oeste.
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Vitalina Maria Frosi
Especificação
das
categorias
Taxion om i as d e n at ureza f í si ca
1. Astro-hodônimos 2. Cardino-hodônimos 3. Cromo-hodônimos 4. Dimensio-hodônimos 5. Fito-hodônimos 6. Geomorfo-hodônimos 7. Hidro-hodônimos 8. Lito-hodônimos 9. Meteoro-hodônimos 10. Morfo-hodônimos 11. Zoo-hodônimo TOTAL ....................................................
Italianos Quantidades 10 00 00 00 00 06 01 00 00 00 02 19
% 0,27 0,00 0,00 0,00 0,00 0,16 0,03 0,00 0,00 0,00 0,06 0,52
Não italianos Quantidades % 11 0,30 00 0,00 04 0,11 01 0,03 79 2,15 12 0,33 12 0,33 05 0,14 02 0,05 00 0,00 39 1,06 165 4,50
Tabela 3: Categorias dos Hodônimos de natureza físico-geográfica
Em consonância com este traçado do território da cidade, com orientação leste-oeste, foram abertas as ruas mais importantes do que é hoje Caxias do Sul. As vias de circulação deste centro urbano são, predominantemente, retilíneas. Era de se esperar, pois, que houvesse algumas denominações típicas da categoria morfológica, precisamente, motivadas pelo traçado geométrico aplicado ao espaço geográfico destinado à movimentação dos habitantes. O traçado geométrico não originou nenhum hodônimo que tivesse sido motivado por esse tipo de acidente físico. A configuração do terreno de Caxias do Sul é bastante irregular, distribuindo-se em altos e baixos, com poucas e reduzidas áreas planas em toda a sua extensão. Morros e outras particularidades topográficas serviram de motivação a somente 6 geomorfo-hodônimos do grupo étnico italiano (Alpina, Forqueta, Monte Bérico, Monte Carmelo, Monte Castelo e Pedancino); 12 do grupo étnico não italiano (Avenida Colina, Rua Da Ladeira, Estrada Municipal Mirabel, Do Canto, Vista Alegre, Bairro Bela Vista, Bairro Esplanada, Bairro Planalto, Bairro Montenegro, Serrano Santo Antônio, Avenida Roraima, Bairro Serrano). Consideradas todas as categorias cujos nomes têm como motivadores os acidentes de ordem físico-ambiental, sua representatividade é verdadeiramente insignificante em confronto com aquelas cujos motivadores foram os aspectos humanos. Isso é válido, em particular, para o caso do grupo étnico italiano que apresenta 0,83% de hodônimos, motivados por acidentes físico-ambientais, em relação ao universo de hodônimos desse grupo, isto é, 2273 e 0,51% em relação ao universo da amostra (3664). Na lista de hodônimos de natureza físico-ambiental do grupo não italiano, observa-se que há uma representatividade maior em confronto com a dos italianos. Os resultados mostram 11,86% relativamente ao total de hodônimos do grupo não italiano (1391) e 4,50% em relação ao universo dado pela pesquisa (3664 no total). No grupo dos não italianos, destacamos a categoria dos fito-hodônimos com 2,15% sobre 3664; em contrapartida, essa categoria tem zero representatividade no grupo dos ítalo-descendentes. Não podemos afirmar que o território caxiense, a natureza físico-ambiental tenha suscitado motivações peculiares, por parte de seus habitantes. Pelo contrário, a carência de áreas verdes na cidade levou alguns vereadores a proporem nomes de flores e de árvores a muitas ruas de um
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Os hodônimos de Caxias do Sul
bairro residencial, denominado Cinquentenário, não motivados pela existência dessas plantas, pois, de fato, não havia delas nesse lugar, mas alguém dentre os vereadores teve como propósito incentivar os habitantes, proprietários de ricas mansões, a plantarem, respectivamente, as flores cujo nome denominava a rua em que moravam. Isso também não surtiu muito efeito. Em suma, o que motivou os denominadores dessas ruas não foi um referencial físico, materialmente existente naquelas ruas, mas o desejo de que esse referente fosse criado.
4. O gênero: sua representação nos hodônimos Os hodônimos, do mesmo modo que os topônimos, são reveladores da história de vida de um grupo humano, dos seus valores e crenças, de suas escolhas, de sua cultura, dos papéis desempenhados por homens e mulheres. Especificação das categorias dos hodônimos por gênero dos nomes italianos e dos não italianos
Quantidades
% sobre 3664
Italianos masculinos .............................................................
1883
51,39
Não italianos masculinos .....................................................
872
23,80
Total de masculinos ..............................................................
2755
75,19
Italianos femininos ...............................................................
346
9,44
Não italianos femininos .......................................................
127
3,47
Total de femininos ................................................................
473
12,91
Italianos não designativos de pessoas ...................................
44
1,20
Não designativos de pessoas do grupo não italiano ..............
392
10,70
Total de nomes não designativos de pessoas ........................
436
11,90
Tabela 4: Categorias dos hodônimos por gênero
A Tabela 4 revela que o gênero masculino tem uma representatividade numérica muito superior a do gênero feminino, seja nos hodônimos do grupo étnico italiano, seja naqueles do grupo étnico não italiano. Essa mesma tabela mostra, também, as ocorrências dos hodônimos representados por nomes não designativos de pessoas, com os dados numéricos tanto para os do grupo italiano como para os do grupo não italiano. As ruas denominadas com nomes de mulheres não são as do bairro Centro da cidade; elas estão na periferia e seus nomes passam despercebidos à população. Além disso, fazendo um confronto delas com as ruas homenageadas com nomes masculinos (88,07%) conclui-se que poucos de seus nomes ficaram nas placas indicativas das vias de circulação (12,91%). As mulheres não atuaram em funções consideradas econômica e socialmente importantes. Elas eram do lar, da casa, dos filhos, dedicadas e incansáveis no trabalho quotidiano, anônimo, boas mães, fiéis ao marido, boas esposas. Frosi (2009: 346) observa que esses atributos estão registrados na explicitação de motivos e justificativas dos processos submetidos à Câmara
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Vitalina Maria Frosi
de Vereadores para aprovação ou não de seus nomes, quando indicados para designar ruas, as menos importantes da cidade em que viveram. Os hodônimos de Caxias do Sul não só homenageiam pessoas ilustres, eles também revelam a desigualdade que sempre marcou os gêneros sociais e humanos. Em sua obra Mulheres sem rosto, Maria Abel Machado (1998: 85) faz uma análise detalhada do papel desempenhado pela mulher ítalo-brasileira, tanto no ambiente rural quanto no dos centros urbanos. Assim se expressa a historiadora: «Trabalhavam, cuidavam de seus afazeres domésticos, criavam os filhos, participavam das orações da Igreja, mas deviam permanecer confinadas no espaço doméstico, como era exigido pela ordem geral, comandada por uma sociedade de lideranças masculinas». Além das categorias de natureza antropo-hodonímica, que somam 88,07% em relação ao universo da pesquisa (3664), foram identificados 436 (11,90%) ruas que têm nomes não designativos de pessoas. O percentual dessas ruas do grupo étnico italiano é realmente insignificante, isto é, 1,20% do universo dos dados. Retomando o que foi dito, em síntese, nomes de pessoas, italianos e não italianos são privilegiados para representar as ruas, com quantitativos maiores para os primeiros. As demais categorias de natureza antropocultural e de natureza física têm muito pouca representatividade, algumas delas têm resultado zero ou percentuais insignificantes. A categoria de gênero feminino é numericamente pouco representada nos hodônimos de ambos os grupos étnicos estudados; isso denuncia a desigualdade de papéis desempenhados e de posições sociais diferenciadas entre homens e mulheres. Alguns hodônimos não homenageiam referentes que existiram: eles expressam o desejo de que tais referentes venham a existir. Além do que foi dito, a pesquisa é um processo e, como tal, tem prosseguimento. O significado dos hodônimos é seguramente apreensível quando removemos a poeira que o tempo depositou sobre eles. Uma comunidade italiana em solo brasileiro teve suas ruas principais denominadas com nomes brasileiros. Hoje, essa mesma comunidade ítalobrasileira tem suas ruas numericamente representadas com vantagem significativa para os nomes italianos. O poder político brasileiro atuou em favor do país receptor, quando a população era preponderantemente italiana. O poder político instituído do país hóspede promoveu a aculturação do grupo minoritário mesmo com perda de elementos culturais que, se cultivados, teriam sido caros ao patrimônio sociocultural e lingüístico desse país.
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Sarah Leroy (UMR 7114 MoDyCo, CNRS – Université Paris Ouest Nanterre La Défense)
Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre
0. Introduction La déonomastique est une branche de la lexicologie historique qui «prend pour matériau les dérivés de noms propres» (Fontant 1998: 5) et décrit et analyse les différents procédés morphologiques, syntaxiques et sémantiques de cette dérivation (Schweickard 1992). Les déonomastiques, unités lexicales dérivées de noms propres, constituent un ensemble hétérogène. Ceux qui nous intéressent ici ont trois caractéristiques: translatifs (distincts des suffixés comme machiavélique et de ceux qui résultent d’une ellipse comme jersey), ils sont également substantifs, et relèvent sémantiquement de la métaphore (et non de la métonymie). Leur analyse s’inscrit dans le cadre plus large du traitement, au sein du programme TLF-Étym de révision sélective des notices étymologiques du Trésor de la Langue Française.1 Il s’agit donc de revenir sur l’étymologie des déonomastiques de ce type, tels que dulcinée ou cassandre. On s’appuie pour les relever sur le travail de Fontant (1998), qui a relevé 136 de ces «anthroponymes démotivés» dans la nomenclature de six dictionnaires du français.
1. Les déonomastiques «antiques» 1.1. Des noms propres liés à l’Antiquité On compte une centaine de ces déonomastiques translatifs dans le Trésor de la Langue Française, dont près de la moitié proviennent d’un nom propre «antique», c’est-à-dire en relation, de quelque manière que ce soit, avec l’Antiquité gréco-latine: apollon, caton, égérie, messaline, œdipe, pythie, stentor, zoïle… Ce «lien» avec l’Antiquité est, le plus souvent, signalé dans la partie étymologique et historique de la notice du Trésor de la Langue Française, Programme mené depuis 2005 à l’UMR 7118 ATILF, CNRS – Universités de Nancy, sous les directions successives d’Éva Buchi, Gilles Petrequin et à présent Nadine Steinfeld. Voir http://www. atilf.fr/tlf-etym /. Cf. Buchi (2005).
1
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Sarah Leroy
par une indication d’ordre linguistique: il est fait mention d’un étymon latin ou grec (avec parfois des précisions sur la variété concernée) ou d’un emprunt à l’une de ces langues... sosie:
du lat. Sosia, lui-même du gr. Sws…a$
du nom propre Aristarque (ca 215-143 av. J.-C.), lat. Aristarchus (gr. `Ar…starco$ ds BAILLY)
aristarque:
zoïle:
Empr. au lat. d’époque impériale Zoilus, gr. ZèŽlo$
Il peut parfois être plus indirect, et apparaître par l’intermédiaire d’une référence à la culture gréco-latine ou à l’histoire. giton:
du nom de Gito, jeune homosexuel dans le Satiricon de Pétrone
du nom de Messaline, femme de l’empereur Claude, connue pour ses débauches, exécutée sur ordre de son époux en l’an 48
messaline:
démosthène:
du nom de Démosthène, orateur athénien (385-322 av. J.-C.)
En conjoignant ces deux indicateurs, on retient un ensemble de 45 déonomastiques «antiques», dont certains, plutôt désuets, semblent quasiment sortis d’usage (aristarque, automédon, phaéton, zoïle), mais dont d’autres, au contraire, peuvent être considérés comme tout à fait lexicalisés, le nom propre d’origine n’étant quasiment plus perçu (égérie, furie, harpie, mécène). adonis, amazone, apollon, argonaute, argus, aristarque, automédon, caton, cerbère, césar, crésus, cyclope, démosthène, égérie, épigone, furie, géant, giton, harpie, hercule, hermaphrodite, hydre, mécène, mégère, mentor, messaline, muse, narcisse, néron, nestor, œdipe, olibrius, pénélope, phaéton, phénix, protée, pythie, sirène, sosie, sphinx, stentor, titan, triton, vénus, zoïle
Cette ensemble recouvre donc des cas divers: certains déonomastiques sont d’un usage courant, tandis que d’autres sont plutôt à considérer comme des archaïsmes; pour quelques uns, la relation au nom propre est forte, pour d’autres elle l’est beaucoup moins; enfin, pour une petite sous-partie de l’ensemble, la répartition catégorielle entre l’étymon (nom propre) et déonomastique (nom commun) peut connaître un certain flou. 1.2. Tous des déonomastiques? Du point de vue référentiel et formel, quelle que soit la langue dont ils relèvent, les noms propres donnés comme étymons (de façon plus ou moins précise) ne sont pas tous sur le même plan. La plupart (une trentaine) sont des noms propres tout à fait prototypiques, purs (Jonasson 1994: 34-38): ils désignent, par une forme lexicale spécialisée dans cet emploi de nom propre, tout à fait opaque au niveau du sens (c’est-à-dire qu’on ne peut l’interpréter en fonction d’une base lexicale étymologique), un individu unique, une personne (historique, romanesque ou mythologique): Messaline, Crésus, Pénélope… Mais le statut de nom propre de quelques autres étymons, tel qu’il est présenté dans les notices du Trésor de la Langue Française, est moins évident. Il est d’ailleurs à noter que pour l’essentiel de ces cas, nulle
Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre
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indication catégorielle (nom propre, nom commun, ou même simplement nom) n’est donnée dans le Trésor de la Langue Française2, alors que cette absence totale d’indication ne se présente qu’à trois reprises3 lorsque les étymons sont des noms propres prototypiques. Ainsi, les noms de groupes d’individus semblent considérés tantôt comme des noms propres, si l’on en juge par les majuscules (pourtant flottantes) et les commentaires (Furies, Géants, Harpies, Muses, Pythies, Sirènes, Titans), tantôt plutôt comme des noms communs, soit par leur sens descriptif (Épigones), soit parce qu’ils sont eux-mêmes construits sur un nom propre (Argonautes, Amazones). furie: Empr. au lat. class. Furia, gén. au plur., désignant les trois Furies, déesses symbolisant la vengeance sirène: empr. au b. lat. sirena, lat. siren «être fabuleux de la mythologie grecque» […], gr. Seir»n
«génies mi-oiseaux, mi-femmes qui dans l’Odyssée attirent par leurs chants les navigateurs et causent leur perte» épigone: Empr. au gr. ™p…gono$ (d’où lat. class. Epigoni) littéralement «né après, descendant», oi Ep…gonoi «les Épigones, les descendants des sept chefs tués devant Thèbes».
Empr. au lat. Argonautes (-a), -ae «Argonaute» (dep. CICÉRON, De oratore, 1, 174 ds TLL s.v., 537, 22), lui-même empr. au gr. ArgonaÚth$ «id.», composé d’Argè, nom du navire des Argonautes et de naÚth$ «matelot».
argonaute:
En latin, ces noms semblent considérés comme des noms propres «collectifs», essentiellement à cause de leur désignation unique, même lorsqu’il s’agit morphologiquement d’adjectifs (Pythie, Épigone), de dérivés de noms propres (Pythie, Argonautes) et/ou d’emprunts au grec (Épigone, Argonautes). Par ailleurs, des noms d’individus particuliers donnés comme étymons semblent bien, toujours d’après l’observation de l’usage de la majuscule et des commentaires dans la notice, être à considérer comme des noms communs: H/hydre, P/phénix, S/sphinx. Cette catégorisation paraît reprendre celle du latin, où ces lexèmes, noms communs empruntés au grec, sont employés, avec ou sans complément, pour désigner un référent particulier de la catégorie, tout en demeurant essentiellement des noms communs. Empr. au lat. phoenix «oiseau fabuleux», «palmier», gr. fo…nix «pourpre», «oiseau fabuleux», «palmier».
phénix:
hydre: empr. du lat. class. hydra «hydre de Lerne», lui-même empr. du gr. Ûdra, de même sens (de Ûdwr «eau»).
On voit avec ces quelques exemples que dans certains cas, on peut se demander s’il est bien exact de parler de processus déonomastique, si ce n’est pas l’emprunt, du français au latin, de la désignation par un nom commun d’un référent particulier qui invite à le considérer, après coup, comme une sorte de nom propre. Ceci invite à considérer plus attentivement les relations entre emprunt et processus déonomastique. À l’exception des notices harpie et titan, où il est question d’un «emploi comme nom commun». Pour les notices cylope, triton, vénus.
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2. Emprunt et/ou déonomastique 2.1. La situation dans le Trésor de la Langue Française La partie étymologie et histoire des notices du Trésor de la Langue Française n’indique pas non plus toujours de façon extrêmement précise l’étymologie origine des noms communs français. Étant donnée l’origine gréco-latine4 de ces noms communs, deux possibilités sont à envisager: soit le déonomastique est formé en grec ou en latin et est emprunté par le français, soit il est formé en français, sur un nom propre emprunté au grec ou au latin. Or le Trésor de la Langue Française reste très vague à ce sujet. Cependant les diverses indications données dans les notices tendent davantage à supposer un emprunt de déonomastique que la création en français d’un déonomastique sur un nom propre emprunté. S’il est rarement nettement indiqué que la translation déonomastique peut avoir déjà eu lieu en grec ou en latin, cela est suggéré dans plusieurs cas, alors qu’aucune notice ne suggère une translation déonomastique effectuée en français. L’hypothèse d’une translation déonomastique déjà achevée en latin n’est explicitement avancée que dans deux cas, harpie et mécène. empr. au lat. Harpyia, mythol., déjà utilisé en lat. comme nom commun (empr. au gr. “Arpia) harpie:
mécène: Tiré du lat. Maecenas, Mécène, nom d’un ministre d’Auguste, protecteur des lettres et des arts; déjà nom commun en lat.
Trois autres cas laissent plus de marge à l’interprétation: soit il n’est pas absolument clair que la mention «employé aussi comme nom commun» concerne le latin (caton), soit il n’est pas absolument clair qu’il s’agit de translation déonomastique et non d’emploi particulier (figuré) du nom propre (crésus, zoïle). Emploi par antonomase du nom de Marcus Porcius Cato Caton l’Ancien ou le Censeur réputé pour sa droiture et sa sévérité; cf. en lat. Cato employé comme exemple d’homme intègre (Cicéron ds TLL s.v. 269, 6);
caton:
Lat. class. Croesus (gr. Kro‹soj), nom d’un roi de Lydie (VIe s. av. J.-C.), célèbre par ses richesses; employé aussi comme nom commun pour désigner un homme riche.
crésus:
zoïle: Empr. au lat. d’époque impériale Zoilus, gr. ZèŽloj nom d’un grammairien d’Alexandrie du IVe s. av. Jésus-Christ, célèbre par son traité en neuf livres où il dénonçait les absurdités et les contradictions d’Homère; a été empl. dès Ovide comme synon. de «détracteur».
Enfin, cinq notice (mentor, pénélope, protée, sosie, titan) mentionnent un «emploi comme nom commun», sans préciser la langue dans laquelle se fait cet emploi.5 Il s’agit essentiellement d’étymon latins, les étymons grecs étant largement minoritaires. On parlera donc principalement du latin dans la suite de cette présentation. 5 Il semble cependant s’agir du français, comme en témoignent les attestations tirées de Fénelon et de Rotrou pour mentor et sosie. 4
Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre
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Or, si des cas de lexicalisation complète en latin ne sont pas à exclure avant l’examen systématique de toutes les attestations pour chaque nom propre, la tendance qui semble se dessiner est celle de l’existence d’emplois métaphoriques du nom propre en latin (cf. Vallat 2002), emplois figurés n’entraînant pas de lexicalisation achevée; le latin ne formerait donc pas, ou de façon exceptionnelle, de déonomastiques de ce type. L’examen des attestations en latin6 et leur analyse du point de vue de la linguistique synchronique des noms propres (structure du syntagme nominal, fonction phrastique de celuici, présence ou absence d’un référent-cible d’une métaphore, etc.)7 les fait plutôt apparaître comme des métaphores vives. Seuls quelques cas, comme celui de mécène, mentionné cidessus, présentent des emplois ambigüs, comme dans l’exemple ci-dessous: «Fundite quae mea sunt» dicebat «cuncta» Catullus praecipitare uolens etiam pulcherrima, uestem purpuream teneris quoque Maecenatibus aptam [...] (Juvénal, Satires, XII, 37-39)8
Le nom propre en emploi métaphorique est au pluriel, in absentia et en fonction référentielle, mais un adjectif précise quel trait diffère du Mécène historique –efféminé–, ce qui plaide pour une antonomase encore vive, voire éventuellement pour un emploi exemplaire.9 Il reste difficile, sur la base de ce type d’exemple ambigu et exceptionnel10, d’établir nettement la réalité d’un processus déonomastique en latin. 2.2. Trois possibilités On voit donc que l’existence d’emplois figurés du nom propre avant, ou même après, la translation déonomastique, qui est un processus progressif, continu, rend difficile la datation du déonomastique lui-même, et l’établissement de l’étymologie, emprunt ou translation déonomastique, du mot français. Théoriquement, trois cas sont possibles: – Un nom propre latin qui connaît des emplois métaphoriques en latin donne lieu à une translation déonomastique en latin, lequel déonomastique est emprunté par le français.11 – Un nom propre latin qui connaît des emplois métaphoriques en latin, est emprunté par le français, langue dans laquelle se poursuivent les emplois métaphoriques et a lieu la translation déonomastique. – Un nom propre latin pour lequel aucun emploi métaphorique n’est attesté en latin est emprunté par le français, où il connaît des emplois métaphoriques puis donne lieu à une translation déonomastique. Base Bibliotheca Teubneriana Latina-5, comprenant tous les textes jusqu’au ive siècle ap. J.-C. inclus. Cf. Leroy (2004a: 81-143) pour une description plus détaillée. 8 «Jetez ce qui m’appartient», disait Catullus, «tout», voulant se débarrasser même des plus beaux objets, un vêtement de pourpre convenable même pour les Mécène(s) efféminés (...) 9 Emploi dans lequel «le référent du nom propre [est traité] comme un échantillon représentatif d’un type humain» (Leroy 2004b: 73). 10 D’autres cas sont également discutables, comme celui de caton, traité dans Dupraz / Leroy (2008). 11 Qui peut également, par ailleurs, emprunter le nom propre lui-même et l’employer dans des constructions métaphoriques. 6 7
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De plus, la naissance du déonomastique n’entraînant pas la disparition du nom propre, les emplois métaphoriques de celui-ci peuvent côtoyer celui-là, ce qui ne facilite pas l’attestation et la datation de la translation déonomastique. La documentation ne permet pas de donner un exemple fiable de la première possibilité (translation déonomatique effectuée en latin, emprunt du déonomastique latin par le français). En revanche, le nom propre Mégère et le déonomastique éponyme illustrent parfaitement la deuxième possibilité (translation déonomastique en français mais emplois métaphoriques du nom propre déjà en latin). Le lat. Megaera est originellement un théonyme, appliqué à un monstre mythologique; il s’agit d’un emprunt au grec. En latin antique, deux exemples seulement d’emploi antonomastique nous sont connus, tous deux tardifs (ive siècle ap. J.C.): Cuius acerbitati uxor graue accesserat incentiuum, germanitate Augusti turgida supra modum, quam Hanniballiano regi fratris filio antehac Constantinus iunxerat pater, Megaera quaedam mortalis, inflammatrix saeuientis adsidua, humani cruoris auida nihil mitius quam maritus. (Ammien Marcellin, XIV, 1, 1)12 Delectas in proelium Marcellinus cohortes et ipsum factionis nefariae robur illa belli ciuilis Megaera rapiebat, tanto ceteris satellitibus audentior quanto exertiorem operam nauabat tyranno frater tyranni. (Pacatus, Panégyrique de Théodose, 35, 1)13
Ces deux exemples s’analysent comme des emplois métaphoriques du nom propre, en raison de la structure du SN (avec expansions), de sa fonction (prédicative: apposition) et du caractère in praesentia de la relation métaphorique. Il est donc clair dans ce cas que la lexicalisation n’est pas accomplie en latin, mais qu’elle se fait en français, sur la base d’un nom propre emprunté au latin. C’est sur le nom propre Mégère, attesté en français dès la deuxième moitié du xve siècle, qu’est formé le déonomastique, attesté depuis 1587: Le courrier estant party ceste Megere ne peut reposer la nuict, ains sentant vne autre Megéere [sic] en son ame, qui la tourmentoit estrangement en vengeant la parricide de sa cousine, se repentoit de l’auoir commandé, mais elle ne sçauoit quel ordre y mettre, iusques à ce que le Mi‑lord de Leycestre son grand mignon, l’enseigna. (Martyre de la Royne d’Escosse, Douairiere de France. Contenant le vray discours des traïsons à elle faictes à la suscitation d’Elizabet Angloise, par lequel les mensonges, calomnies & faulses accusations dressees contre ceste tresuertueuse, trescatholique & tresillustre princesses sont esclarcies & son innocence aueree, 1587: 334)
La troisième possibilité est illustrée par l’exemple d’É/égérie, nom propre et déonomastique. En latin, seul le nom propre est attesté; nulle trace du déonomastique ni d’emplois qui pourraient constituer des emplois métaphoriques du nom propre. C’est donc sur le nom propre Mais à l’aigreur de celui-ci s’était ajoutée, comme une lourde incitation, son épouse, arrogante outre mesure de sa parenté avec l’Auguste, qu’auparavant Constantin son père avait donnée au roi Hanniballien, fils de son frère, une vraie Mégère mortelle, inflammatrice perpétuelle de sa cruauté, avide de sang humain avec aussi peu de douceur que son mari. 13 Marcellinus entraînait au combat des cohortes d’élite et la force vive même de la faction impie, cette Mégère de la guerre civile, audacieux entre tous les satellites, d’autant plus qu’il était prompt à abattre l’ouvrage pour un tyran, lui, frère du tyran. 12
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Égérie, emprunté au latin Egeria14, attesté en français dès le xvie siècle, que se fait la translation déonomastique. Cette translation a lieu dans la première moitié du xixe siècle. Elle est précédée par des emplois métaphoriques, qui ne disparaissent pas au moment de la lexicalisation. Ainsi, jusqu’en 1816, on ne trouve que le Npr ‹standard›, désignant une personne;15 c’est en 1817 qu’on relève un premier emploi métaphorique:16 L’à-propos est la nymphe égérie des hommes d’état, des généraux, de tous ceux qui ont affaire à la mobile nature de l’espèce humaine. (Staël, Considérations sur les principaux évènements de la Révolution française, 1817: 178)
Pour une première attestation du déonomastique17, il faut attendre 1838: D’ailleurs où est le besoin d’une Égérie? Nous savons tout. (Quinet, Revue des Deux mondes 15, 1838: 332)
À partir de cette date, les attestations deviennent de plus en plus nombreuses, l’emploi du déonomastique se généralise: Des Céladons rimeurs, amants d’une égérie, en habit de satin font de la bergerie, sont en grand désespoir, et, couchés sur le dos, regardent le soleil en faisant des rondeaux. (Banville, Les Cariatides, 1842: 35) Il s’était laissé conter que tous les hommes politiques un peu éminents ont une égérie dans leur manche. (Sandeau, Sacs et parchemins, 1851: 37)
Mais cette translation déonomastique ne fait pas pour autant disparaître le nom propre, dont on continuer à trouver des emplois standard et aussi, bien entendu, métaphoriques: J’aimai la nymphe égérie qui inspirait à Numa, dans une grotte, au bord d’une fontaine, des lois sages. (France, Le Petit Pierre, 1918: 249) […] nous savons tous que M. le président de la république est un Numa qui a dix-sept Égéries (Explosion de rires) […]. (Hugo, Actes et Paroles 1, 1875: 262)
On note cependant que la fréquence du nom propre (qu’il soit en emploi standard ou modifié) a tendance à reculer à mesure que celle du déonomastique augmente, comme si ce dernier devait en quelque sorte faire oublier le nom propre pour se stabiliser dans le lexique.
Ce nom propre est lui-même attesté depuis Ennius (OLD), sur un étymon grec Eger…a (Forcellini). Il s’agit généralement du personnage mythologique de la nymphe conseillère du roi latin Numa, mais pas toujours. 16 Bien que le nom propre ne comporte pas de majuscule initiale, ce qui indique la tendance en cours à la lexicalisation. 17 Bien que le nom propre comporte une majuscule initiale, cette fois: le caractère in absentia et la fonction référentielle du syntagme nominal complément de nom témoignent du passage au déonomastique. 14 15
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3. L’oubli du nom propre 3.1. Disparition du nom propre Cet «oubli du nom propre» apparaît également lorsque l’étymologie onomastique n’est plus perçue, que le déonomastique, totalement autonome, n’évoque plus nécessairement le nom propre étymon. C’est d’ailleurs essentiellement le cas de déonomastiques antiques tels que mécène, harpie ou mégère, d’autres, tels que don juan, harpagon ou tartuffe, d’étymons plus récents, gardant un lien plus net avec le nom propre dont ils proviennent. La relation entre le nom propre et le déonomastique, deux lexèmes de forme identique et de relation étymologique évidente, est donc à mettre en rapport avec l’aboutissement de la translation déonomastique. Il semble que le déonomastique ne puisse pleinement exister, indépendamment du nom propre, que lorsqu’il est le seul «survivant» de la paire, lorsque le nom propre, tombé en désuétude ou beaucoup moins employé, a été oublié. Le cas de mégère, déonomastique particulièrement répandu et lexicalisé, illustre ce processus: les relevés effectués sur l’intégralité de la base Frantext18 indiquent nettement qu’au fil des siècles le nom propre disparaît au profit du déonomastique. xvie xviie xviiie xixe xxe
Occurrences du nom propre 0 11 (52%) 4 (27%) 3 (4%) 0
Occurrences du déonomastique 0 10 (48%) 11 (73%) 66 (96%) 102
Fréquences respectives du couple nom propre / déonomastique M/mégère
En revanche, on voit avec tartuffe, dont la relation avec son étymon nom propre reste forte, d’une part qu’il n’y a pas de baisse significative de l’emploi du nom propre au fil du temps, d’autre part que ce dernier reste toujours nettement plus fréquent que le déonomastique. xvie xviie xviiie xixe xxe
Occurrences du nom propre 0 122 (97%) 77 (69%) 230 (80%) 132 (79%)
Occurrences du déonomastique 0 4 (3%) 35 (31%) 57 (20%) 36 (21%)
Fréquences respectives du couple nom propre / déonomastique T/tartuffe
Les fréquences respectives du nom propre et du déonomastique semblent donc en relation avec l’intégration et l’autonomisation du déonomastique. 18
Base textuelle de près de 4000 textes appartenant aux domaines des sciences, des arts, de la littérature, des techniques, qui couvrent cinq siècles de littérature (du xvie au xxie siècles). Cf. http:// www.atilf.fr/frantext.htm.
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3.2. Disparition des emplois figurés du nom propre Cependant, un autre déonomastique, mécène, dont le dérivé mécénat témoigne de l’intégration dans le lexique, présente une situation plus complexe: comme pour mégère, la fréquence du nom propre baisse tandis que celle du déonomastique augmente, mais elle se maintient néanmoins. xvie xviie xviiie xixe xxe
Occurrences du nom propre 0 4 15 (83%) 27 (69%) 32 (22%)
Occurrences du déonomastique 0 0 3 (17%) 22 (31%) 115 (78%)
Fréquences respectives du couple nom propre / déonomastique M/mécène
De plus, la prise en compte de la forme Maecenas, qui domine jusqu’au xviiie et qui ne donne lieu à aucune translation déonomastique, ni même à un emploi métaphorique ou figuré19, fait apparaître, d’une part, que c’est bien sur la forme francisée, donc empruntée, du nom propre, Mécène, que se fait le déonomastique, d’autre part que la répartition et la distinction entre nom propre et déonomastique s’effectue rapidement. Ainsi, si l’on trouve parmi les occurrences du nom propre Mécène, des emplois métaphoriques20, ceux-ci se raréfient au fil des siècles (2 occurrences sur 4 au xviie, 5 sur 15 au xviiie, 4 sur 27 au xixe, 1 sur 32 au xxe). Il n’avait pas trouvé mauvais que son gendre Camusot fît la cour à la charmante actrice Coralie, car lui-même était secrètement le Mécène de Mlle Florentine, première danseuse du théâtre de la Gaîté. (Balzac, Un début dans la vie, 1845: 836) Ce que je peux vous dire, c’est que ce monsieur est pour M. Elstir une espèce de Mécène qui l’a lancé, et l’a souvent tiré d’embarras en lui commandant des tableaux. (Proust, À la recherche du temps perdu, 1921: 500)
Ainsi, le nom propre peut ne pas disparaître mais baisser en fréquence, et surtout perdre ses emplois métaphoriques, au profit du déonomastique, ce qui rend possible un voisinage entre déonomastique et nom propre qui fait bien apparaître leur autonomie respective en même temps que leur lien étymologique. Virgile était le protégé non pas d’un mécène quelconque mais de Mécène lui-même aux sollications de qui il composa les géorgiques pour rappeler à ses contemporains les bienfaits de l’agriculture […] (Cendras, Bourlinguer, 1948: 137) On compte 5 occurrences au xvie siècle, 99 au xviie et 8 au xviiie. La répartition entre nom propre en emploi métaphorique et déonomastique ne relevant pas de critères stricts, les chiffres indiqués sont indicatifs et témoignent d’une répartition effectuée en fonction des structures linguistiques évoquées en 2.1. et par la suite.
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Le cas de T/tartuffe, évoqué ci-dessus, confirme que c’est non seulement la baisse de fréquence du nom propre, mais aussi la perte de ses emplois modifiés, en particulier métaphoriques, qui permet au déonomastique de trouver sa place dans le lexique. Le nom propre Tartuffe, outre qu’il est plus présent dans les mémoires que Mécène, pour des raisons culturelles, est fréquent dans les textes observés, sous différents emplois. En emploi standard, il désigne l’œuvre ou le personnage éponyme. Mais il connaît également de nombreux emplois figurés, en particulier métaphoriques. Le plus coupable, c’était Pétain, le faux nez de l’idéal, le Tartufe de la trahison, le masochiste de la défaite, celui qui couvrait de son air paterne et de son autorité coupable tous les crimes et toutes les lâchetés. (Ormesson, Au plaisir de Dieu, 1974: 395) Aimerais qu’on me consacre des tartines. Vivre anonyme. Me fait tartir. Suis pas Tartuffe. J’avoue. Veux pas de la tombe à Tartempion. (Doubrovsky, Fils, 1977: 350)
Par ces emplois non strictement référentiels, le nom propre peut en arriver à désigner un type plutôt qu’un individu. […] un écrivain qui n’éprouve pas tout à fait les sentiments dont il témoigne en public, sans doute, n’est-il pas encore Tartufe ; mais il a déjà fait quelques pas dans la direction de Tartufe. (Mauriac, Journal 1, 1934: 69)
La diversité et la fréquence de ces emplois particuliers du nom propre rend délicate la diffusion et l’autonomisation d’un déonomastique translatif nominal de type métaphorique, qui lui-même est susceptible de connaître un emploi adjectival ou d’être employé comme nom de qualité. […] la maison Scabelli, italienne, calottine, tartufe, verrait la chose d’un très mauvais œil […] (Butor, La Modification, 1957: 39) L’enculé! Lui lâcher ça devant les copains! Quel plaisir il aurait eu à lui casser le morceau. Eh va donc, eh, nabot, rond de chiotte! vilain laid! babouin! tartufe! Il se rattrapait tout bas, entre les dents. (Guérin, L’Apprenti, 1946: 112)
La relation entre nom propre et déonomastique est ici fort différente de ce qu’elle est dans le cas de M/mégère ou même M/mécène. Outre que le premier domine toujours, par sa fréquence, le second, l’éventail des emplois y est bien plus large, et constitue un continuum qui va du nom du personnage au nom commun supposé n’y faire qu’allusion. Ces deux éléments expliquent le flou de la frontière et la difficulté éprouvée à marquer le passage, la translation déonomastique: plutôt que d’un passage, il s’agit d’une coexistence entre deux unités lexicales très proches, dont l’une, le déonomastique, peine à trouver sa place indépendamment de l’autre.
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4. Conclusion La lexicalisation complète d’un déonomastique dépend étroitement du devenir du nom propre dont il est issu. Pour qu’un déonomastique prenne sa place dans le lexique et «coupe les ponts» avec son étymon nom propre, il faut que celui-ci soit, sinon totalement oublié et sorti d’usage, au moins bien distinct du déonomastique, ne partageant plus avec lui de sens métaphorique. Les emplois figurés et/ou modifiés du nom propre, qui jouent un rôle d’adjuvant au moment de la translation, du passage au déonomastique, peuvent au contraire, s’ils perdurent, brouiller les pistes et empêcher ce processus d’aller à son terme. Étant données les difficultés à établir nettement la translation pour ce type de déonomastique (l’indice principal restant souvent la lexicographisation, qui n’est pas toujours d’une grande aide, par manque de précision et d’exactitude), l’étymologie de ces lexèmes devra prendre en compte le statut de l’étymon (s’agit-il toujours d’un nom propre?) et surtout les relations entre déonomastique et nom propre, en passant bien sûr par l’établissement précis du moment et de la langue du passage du nom propre au nom commun.
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Michela Letizia (Università di Napoli Federico II)
Nomi propri nella poesia catalana medievale
1. Introduzione Il mio intervento è parte di un più ampio progetto che intende reperire, all’interno della letteratura catalana del XIV e del XV secolo, la presenza dei nomi propri: si tratta cioè di dare vita ad un repertorio onomastico, strumento che, com’è noto, è stato messo al servizio degli studi trobadorici grazie al lavoro di F. M. Chambers (1971). Si è perciò pensato di costruire anche per la poesia in lingua catalana un indice analogo, che può rivelarsi utile in sé, come riferimento per gli studiosi e per le loro ricerche, ma anche perché in grado di evidenziare, a partire dalla presenza o meno di un patrimonio di nomi condiviso, i persistenti legami tra questa produzione poetica e quella in lingua d’oc. Sappiamo infatti che la lirica catalana nasce come continuazione di quella dei trovatori, al punto che i suoi poeti continueranno a comporre in provenzale almeno sino ad Ausiàs March e ben dopo, dunque, l’estinzione della lirica trobadorica, che può dirsi compiuta già nel corso del XIII secolo. Naturalmente non mancheranno le differenze, sia storiche, sia culturali, sia, più in generale, di ispirazione, e l’attività dei poeti catalani ben presto si avvierà ad assumere caratteri propri, pur non mettendo mai in discussione il debito con gli illustri predecessori poetici. Prima però di addentrarci nell’elenco dei nomi, e di perderci, per citare il titolo dell’ultimo lavoro di Umberto Eco (2009), nella «vertigine della lista», ci sia concessa una ulteriore riflessione: un repertorio di nomi offre infatti la possibilità di fare luce su un patrimonio di conoscenze complesso, variegato e stratificato, e di verificare il codice di chi lo usa; esso permette altresì di venire a contatto con un mondo concreto, fatto di personaggi dotati di un nome e, talvolta, di un cognome, ma sempre strettamente ancorati alla letterarietà. Emergeranno così, di volta in volta, i nomi delle autorità letterarie più note al tempo dei poeti presi in esame, e delle loro opere più famose; e, accanto ai personaggi della mitologia, anche quelli, più recenti, del mondo romanzesco, diventati parte di un patrimonio culturale ben noto. I nomi dei personaggi femminili, veri o fittizi, saranno numerosi, in una produzione ancorata al mondo trobadorico, e alla sua fedeltà assoluta ad Amore; e se la presenza del nome del poeta all’interno del componimento è da taluni considerata il segno della convenzionalità di tale poesia (questa è la tesi, ad esempio, di Claudio Giunta 2002: 423-429), è pur vero che, d’altra parte, proprio attraverso la presenza di «scene» in cui si muovono uomini e donne dotati di un nome, si disegna una «soglia dell’individuazione (Jauss 1977: 24-27)» che è uno degli importanti contributi della cultura letteraria catalana medievale.
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I testi presi in esame sono quelli pubblicati sul Rialc, il repertorio informatizzato dell’antica letteratura catalana, un progetto nato presso l’Università di Napoli Federico II, con la collaborazione dell’Universitat Autònoma de Barcelona e dell’Universitat de Girona, e con la partecipazione di studiosi di altre università europee. Il Rialc comprende il corpus della letteratura catalana del XIV e del XV secolo, sulla base delle edizioni critiche ritenute più affidabili; non mancano comunque le revisioni, soprattutto laddove l’edizione di riferimento non sia ritenuta perfetta, e gli interventi di riedizione o di edizione vera e propria, laddove l’edizione esistente non sia ritenuta affidabile, o il testo si presenti addirittura inedito. Per i componimenti non ancora incorporati nel Repertorio, si farà ricorso a riproduzioni fotografiche dei manoscritti. Per ciò che riguarda i criteri del presente lavoro, ancora in via di realizzazione, ci si attiene alle scelte compiute da Chambers (1971: 10-11): esso comprenderà, quindi, i nomi di persone, di luoghi, di gruppi di persone, reali o immaginari; inoltre, i senyals, ossia gli pseudonimi a cui i poeti del Medioevo ricorrevano per indicare allusivamente il nome della donna amata. Per i nomi della sfera religiosa, Chambers include «Jhesus», «Jhesucrist», «Crist», «Sancta Maria», mentre esclude «Dio» e gli appellativi più comuni rivolti a Cristo e a Maria. Mancano i nomi dei partecipanti a tenzoni o partimens, e le personificazioni, queste ultime da noi incluse. Infine, per quanto attiene all’identificazione di ciascun nome, e alla spiegazione del suo significato, saranno fornite indicazioni a partire dalla bibliografia già esistente; laddove non sia possibile ricavare notizia alcuna, si tenterà di orientare il lettore verso una possibile collocazione del nome nel suo contesto. 1.1. Sezioni Se tuttavia in Chambers la successione dei nomi segue un ordine alfabetico, nel nostro repertorio essi sono distribuiti all’interno di specifiche sezioni (ma in ciascuna sezione l’ordine è esso pure alfabetico). Le sezioni individuate sono dieci: 1. nomi religiosi 2. nomi di luoghi e di popoli 3. personificazioni 4. personaggi mitologici e romanzeschi 5. senyals 6. nomi propri 7. nomi dei poeti e autonominazione degli autori 8. nomi di autori e di opere 9. personaggi storici 10. Appendice: cognomi parlanti ne Lo somni de Johan Johan (Jaume Gassull R. 74.3). Quindi, ancora seguendo Chambers (1971: 12-13), vedremo che l’elenco si costruisce a partire dal nome, che precede sempre il cognome; gli appellativi, eventualmente e dove da noi segnalati, seguono, posti tra parentesi. Subito dopo il nome, comparirà la sua identificazione, seguita, tra parentesi, dall’indicazione della fonte, o delle fonti, da cui è tratta. Seguiranno il nome dell’autore, il numero e l’incipit del componimento, ed il numero del verso dove è
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presente il nome. Il singolo componimento sarà indicato sulla base della numerazione del Rialc (a sua volta ripresa dal Rao, il «Repertori d’autors i d’obres (Parramon 1992)», nel quale ogni testo è designato con due cifre: la prima rimanda al numero d’ordine della lista alfabetica degli autori; la seconda a quella della lista, anch’essa alfabetica, dei componimenti di ciascun autore). 1.2. La scelta di un testo Tuttavia, dopo avere illustrato la costruzione dell’elenco, e averne dichiarato sommariamente le intenzioni teoriche ed i presupposti culturali, è opportuno soffermarsi su un ambito più ristretto, che consenta di fare luce sulla reale utilità, secondo noi, di un siffatto strumento, e sulla sua non trascurabile istanza ludica e amena. Intanto, per ambito più ristretto si intende la scelta, per questa indagine sui nomi, di un testo della letteratura catalana, contenuto nel cosiddetto Cançoner satirich valencià, edito da Miquel i Planas nel 1911: il testo è Lo Sompni de Johan Johan, e in particolare alcuni versi di questo lungo componimento molto ricco di nomi, come vedremo. Il canzoniere satirico contiene, oltre al Sompni, anche Lo procés de les olives, del quale costituisce la continuazione, come si dirà più oltre. A questo punto però siamo già giunti all’aspetto ludico e ameno: facciamo allora un passo indietro, alla ricerca delle ragioni dell’elenco, convinti che dopo averne inteso la natura e la funzione, che vanno ben al di là di quella pratica, sapremo gustarci fino in fondo il godimento offerto dal testo prescelto, e dal suo elenco di nomi. Perchè dunque un elenco? Se sopra si è detto che ci sono delle ragioni, potremmo dire, storiche e culturali alla base di un catalogo di nomi propri, queste non sono però le uniche che lo rendono degno della più attenta considerazione in ambito letterario. Un elenco è quindi uno strumento letterario? E dicendo strumento non si rischia di attribuire all’elenco solamente una ragione utilitaristica, con una natura e un fine esclusivamente pratici? Già sappiamo come tale oggetto affiori con abbondanza di esempi in numerosi contesti, sin dalle origini della storia letteraria, a riprova del fatto che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio classico della letteratura di tutti i tempi (Curtius 1992: 108-110). Tuttavia, il nostro intento è quello di individuare il perchè di questa presenza così ampiamente attestata dell’elenco: noi crediamo che la motivazione sia di natura, potremmo dire, ontologica, e tale spiegazione ontologica dell’elenco, che va alla ricerca della sua natura ed essenza, ben si attaglia all’epoca medievale, e anzi le si addice nella maniera più profonda e naturale. Il motivo di questa armonia e compenetrazione tra l’elenco ed il Medioevo è dato, a ben vedere, dalle peculiarità di quest’epoca, che tutto mira a sistemare entro un ordine e una gerarchia precisi, e che entro queste suddivisioni della realtà e delle sue componenti trova la sua ragion d’essere e la sua identità. L’elenco è un mezzo per riprodurre l’ordine immaginato del reale, seppure in una scala di dimensioni ridotte: esso appare così come una sorta di «forma semplice» della lingua, per usare la terminologia di Jolles (2003: 289), il quale così la definisce: Quando sotto l’influsso di un’idea dominante di una disposizione mentale la pluralità e la molteplicità dell’esistenza e degli avvenimenti concreti si condensano e prendono forma, quando vengono colte dal linguaggio nelle loro unità elementari non divisibili e in architetture linguistiche designano e al tempo stesso significano tale esistenza e tali avvenimenti, diciamo che nasce una forma semplice.
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Tale forma semplice è destinata ad assumere sembianze le più diverse nel corso dello sviluppo letterario, letterarizzandosi e diventando forma artistica, pur restando sempre ancorata alla sua natura di catalogo, di successione di elementi che appartengono ad una data configurazione oggettiva della realtà. Questi elementi, anche se diversi tra di loro, hanno qualcosa in comune; e la ricerca di ciò che, nel caos indistinto della diversità, accomuna tra di loro gli oggetti di un dato mondo o di un dato «ambito di senso», per dirla con Jauss (1977: 41) che proprio alla teoria delle forme semplici di Jolles fa riferimento, è una delle peculiarità della condizione umana, e della sua capacità di procedere per distinzioni e differenziazioni. Non soltanto, quindi, di una struttura mentale del Medioevo si tratta, bensì di ogni epoca, giacchè nella ripetizione dell’elenco, nello scorrere tranquillizzante di una serie ordinata di presenze che si succedono secondo un criterio prestabilito, si instaura l’illusione che non tutto sia perso e dissipato, che qualcosa, che delle cose, eroicamente resistano, e resistendo confermano la stessa esistenza dell’uomo. Un oggetto dotato di una sua materialità e consistenza riconoscibili, trova così la sua collocazione all’interno del mondo letterario perchè ha una funzione specifica: lungi dall’essere solo uno strumento pratico e di consultazione, esso fornisce, nella molteplicità delle forme che assume, una risposta ad uno dei tratti più propri dell’umanità, e a cui dunque la letteratura non poteva non ricorrere. Tanto è vero che: l’elenco si ripropone nel mondo medievale, nel Rinascimento e nel Barocco, dove la forma del mondo è quella di una nuova astronomia, e specialmente nel mondo moderno e postmoderno. Segno che alla vertigine dell’elenco si soggiace per molte svariate ragioni (Eco 2009: 18).
Ancora Umberto Eco (2009: 113-118) distingue tra «lista poetica» e «lista pratica»: se quest’ultima ha una funzione referenziale, ed ha il solo scopo di enumerare oggetti del mondo esterno, la lista poetica può comporsi di elementi immaginari, o reali all’interno del mondo creato dall’autore; inoltre, la lista pratica è finita, dal momento che designa una serie di cose che, quando viene redatta, sono quelle che sono e non una di più, mentre una lista poetica è, almeno idealmente, infinita ed estensibile all’infinito (in teoria, scrive Eco (2009: 116), «Omero avrebbe potuto continuare all’infinito il suo catalogo delle navi»). Un elenco di nomi è dunque una lista pratica o una lista poetica? Nel nostro particolare caso, esso si pone a metà strada tra le due caratterizzazioni: poichè nasce come uno strumento di consultazione, è senza dubbio dotato di una utilità pratica; tuttavia, riunendo al suo interno nomi reali e nomi fittizi, ricopre anche una funzione poetica, e dal suo attraversamento ci vengono consegnate le chiavi per meglio comprendere l’universo medievale. Un elenco è quindi una unità solo apparentemente minima: nella realtà, ha una natura densamente significativa, e niente affatto accessoria. Nel presente lavoro poi, ci proponiamo di fare un’operazione ardita, poichè estrapoliamo una lista di nomi all’interno di un testo poetico, nomi che, una volta inseriti dentro alla lista più generale dei nomi della poesia catalana del Medioevo, costituiranno, a delizia dello studioso, una lista nella lista, una lista al quadrato, potremmo dire, salvaguardando la loro sostanza di nomi poeticamente creati, ma senza perdere al contempo il loro ricco contenuto informativo. Rivolgiamoci ora al nostro testo, che attende di essere osservato ed esaminato con divertita attenzione. Il Somni racconta, appunto, di un lungo sogno, che scorre attraverso i suoi oltre tremila versi: protagonista è un individuo dal nome di Johan Johan, nome specchio o nome doppio, che sembra già alludere al carattere, potremmo dire, fortemente onomastico dell’intero
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componimento.1 Al suo interno compaiono altri personaggi, veri e presunti, ed anche alcune personificazioni. Lo stesso autore, Jaume Gassull, è presente tra i protagonisti della vicenda, e non mancano i nomi di altri poeti, tutti più o meno noti, della tradizione catalana. Tra questi, Bernat Fenollar, Johan Moreno, Narcís Vinyoles, Balthasar Portell, che con lo stesso Gassull sono i protagonisti e gli autori del già menzionato Procés de les olives, un componimento satirico incentrato sulla controversia tra i giovani e i vecchi per stabilire se questi ultimi possano ancora ottenere l’amore delle donne; inoltre, Corella, Despi, Artes, Ximeno, Sobrevero. Alcune donne del Somni, giunte a far visita alla «partera», raccontano proprio la disputa oggetto del Procés, di cui sono venute a conoscenza, descrivendone lo svolgimento ed i suoi ben noti protagonisti. Esse sanno che in quella circostanza si è parlato male del loro sesso, e s’indignano della pretesa dei vecchi all’amore. Comincia così il dibattito: a difendere la causa delle donne sarà la dea Venere, mentre il loro avvocato sarà Artes, ed il loro «procurador» Despi. Moreno sarà invece il «procurador» dei vecchi, come nel Procés. Il componimento si conclude con una «Sentencia» contraria ai vecchi, riservando solo ai giovani il diritto all’amore. Al di là dell’oggetto del dibattito che si viene a determinare tra i protagonisti del Somni, ciò che conta per noi è la folta presenza di nomi propri dentro al testo, una presenza persino dichiarata, se è vero che a un certo punto leggiamo quella che potrebbe apparire come una sorta di dichiarazione di poetica: «Digau, si Deu vos do salut, de cadascu los noms d’aquells, de hu en hu».2 E dunque comincia la sfilata, dentro ai versi, dei nomi, con un gusto per l’elencazione evidente ed esibito, sorta di piacere non del testo, bensì del nome, il nome che quando viene dato, dà esso stesso piacere. Se le personificazioni di Venus e Raho sono, com’è naturale, entità astratte e giudicanti, i personaggi chiamati per nome risultano invece dotati di una loro compiuta fisionomia, e non mancano persino di una pur minima caratterizzazione psicologica: chi ha un nome ha anche un carattere, e così Moreno e Despi si fronteggiano, mentre ciascuno dei presenti elenca (!) le proprie ragioni a sostegno della causa dei giovani o, dall’altro lato, della causa dei vecchi, in un succedersi di esempi e di autorità a sostenere di volta in volta la propria parte nella disputa. Ad interessarci in maniera particolare sono alcuni versi, nei quali assistiamo ad un uso sfrontato, per dire così, dei nomi propri: il nome proprio (o meglio, il cognome) viene caricato di una istanza significativa, diventa esso stesso portatore di significato, connotandosi di un contenuto specifico e connotando altresì il dibattito in un modo affatto peculiare. Ecco i cognomi parlanti: 3 Johan Pantaix/ ple-de-mil-anys, Marti Carcaix, / Nofre Panssit, / Jaume Ruat, Guilem Podrit, / Perot Ysagre, / mossen Sospir, miçer Puagre, / don Ramon Fleuma, / en Matheu Sech, n’Alfonso Reuma, / mestre Rugall, / mossen Rovell, miçer Gargall, / en Lorenç Tos, / mossen Jamech En «Joan Joan devé una personificació de la simplicitat y de la bonhomía, equivalent al Juan Lanas que s’ha forjat el poble castellà, y al qual nosaltres en referím també, encara que d’una manera menys precisa, quan dihèm d’algú qu’es un bon Joan» (Miquel i Planas, Note 1911: 329). 2 R. 74.3, v. 416-418. 3 Così si esprime a proposito dell’elenco dei nomi Miquel i Planas, in Note (1911- 336) : «Com se veurà, els noms dels personatges tenen tots una significació material (enfermetat, defecte, ecc.) o ideològica: entre aquests darrers se troben noms de formaciò complexa, com Ple de mils anys (que potser havía d’esser Ple de malanys), En Pipitos (¿tal vegada En-pituitós?), Trist-any (que non cal confondre ab el malhaurat amant d’Iseu) y No puch»–. 1
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pipitos, / miçer Laguanya, / mossen Humor, Vicent Migranya, / Andreu Moxell, / Gaspar Estopa, don Fluxell, / miçer Postema, / Antoni Brach, mestre Quarema, / Felip Sardina, / miçer Exut, Cosme Ranyina, / y en Amargos, / Damia Grony, Miquel Çelos, / mestre Trist-any, / mossen Adzar, Domingo Cany, / Tomas Corcat, / Bernat Tramssit, Aloy Podat, / n’Agosti Fluix, / Jordi No-puch, Lois Arruix, / y altres molts mes.4
«Y altres molts mes»: dunque anche questa lista è potenzialmente infinita, a riprova del fatto che la distinzione operata da Umberto Eco tra la lista pratica, che è finita, e la lista poetica, che invece è infinita, può dirsi fondata ed esatta anche nel nostro esempio. Ma veniamo ai nomi, e anzi ai cognomi: a pronunciarli è Joan Moreno, che presenta così gli uomini che sono venuti a sostenere la sua parte a difesa dei vecchi, e i cui nomi sono appunto «fermanses», garanzie della causa di Moreno, nomi-garanti, potremmo dire. Cominciamo dal primo: «Joan Pantaix ple-de-mil-anys5», ‹Joan6 Affanno7 pieno di mille anni›. Pantaix infatti è sostantivo che significa «respiració fatigosa», come attesta il DCVB;8 ma il termine è già comparso anche nel nostro testo (come riporta pure il DCVB) al v. 1147: «hi quant lo vent li va manquant, / crex lo pantaix». La locuzione riferita a questo personaggio, «ple de mil anys», viene dunque annunciata sin dal suo cognome, che introduce un uomo sbuffante per l’età, dal respiro corto e ansimante. «Pantaix» così è cognome parlante, e figura9 del soggetto a cui si riferisce. Dopo di lui vengono «Marti Carcaix»10 e «Nofre Panssit»:11 il primo è detto, non troppo gentilmente, ‹Carcassa›;12 il secondo invece è ‹Appassito›13 senza rimedio. «Jaume Ruat»14 è, al pari del suo predecessore, ‹Rugoso›15, mentre «Guilem Podrit»16 è ‹Corrotto› senza scampo, consumato per effetto della consunzione degli anni.17 6 7 8 9 4 5
12 10 11
13
16 17 14 15
R. 74.3 vv. 1475-1503. R. 74.3 v. 1475. Scegliamo di non tradurre in italiano i nomi dei personaggi, limitandoci alla traduzione dei soli cognomi. D. català-italià p. 877, s. v. panteix. «Al vell quan pantaix li veda lo mot (Proc. Olives 2071)», DCVB vol. 8, p. 189, s. v. pantaix. Usiamo qui il termine nell’accezione originaria di ‹immagine plastica›, di cui parla Auerbach nel suo Figura (1967-1998), p. 43. R. 74.3 v. 1476. R. 74.3 v. 1477. Traduciamo il termine come se corrispondesse al significato di «carcaixa»: «cosa vella o feta malbé» (DCVB vol. 2, p. 1020); il sostantivo «carcaix» infatti, significa «estoig per tenir les sagetes» (DCVB vol. 2, pp. 1021-1022), ed è un termine dall’etimologia incerta, come segnala il DECLC (vol. II, p. 564). Il senso del termine «carcaixa» è dunque vicino a quello dell’italiano «carcassa», che corrisponde, nel suo senso figurato, a «persona o cosa malridotta, consumata, rovinata dagli anni» (Dizionario della Lingua Italiana 2008, p. 432). DCVB vol. 8, p. 187, s. v. pansit,-ida, agg., dove compare anche il senso figurato: «aixafat, mancat de delit, de bon humor»; cfr. anche D. català-italià, p. 876, dove si legge, accanto al senso proprio di «avvizzito», «appassito», anche quello figurato di: «mogio, abbattuto, mesto, avvilito». R. 74.3 v. 1478. DCVB vol. 9, p. 605, s. v. ruat,-ada, agg. R. 74.3 v. 1478. DCVB vol. 8, p. 698, s. v. podrit, agg. e sost; 1. agg.: «Corromput, descompost per l’acció d’agents dissolvents». Cfr. anche D. català-italià, p. 931.
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«Perot Ysagre»18 e «miçer Puagre»19 recano entrambi, verosimilmente, il nome di due infiammazioni dal momento che, alla voce «usagre», il DCVB testimonia: «erupció pustulosa que apareix a la cara durant la primera dentició»20, laddove «poagre» corrisponde ad una «gota dels peus, inflamació que s’accentua principalment en el dit gros».21 Potremmo tradurre il primo con ‹Rogna›22, e il secondo con ‹Gotta›.23 «Mossen Sospir» è il ‹signor Sospiro›, cui si aggiunge «don Ramon Fleuma»24, uomofiacco, che sembra trascinarsi a stento25, ma l’aggettivo significa, propriamente, ‹senza carattere›, ‹debole›.26 Tuttavia, oramai dovremmo avere appreso che l’autore di questo componimento fa un uso libero, per dir così, della lingua, adattandola alle sue esigenze plastiche e raffigurative, e non di rado puntando più sul significante e, dunque, sull’esteriorità della parola, che non sul suo senso proprio. Egli è un abile tessitore di volti e di maschere, che ci sfilano dinnanzi come in un buffo carnevale della vecchiezza, ciascuno esibendo il proprio nome-bandiera, e sventolandolo senza riguardo sotto i nostri occhi. Così, ecco «Matheu Sech»27, ‹il Secco›28, scarno e rinsecchito, un morto che cammina; e «n’Alfonso Reuma»29, ‹il signor Alfonso Catarro›, ancora nell’ambito dei nomi che alludono ad una cattiva condizione fisica; «mestre Rugall»30 personifica «el so aspre que es produeix a la gargamella d’un malalt, d’un agonitzant»31, e potremmo tradurlo con ‹Raucedine›32,
R. 74.3 v. 1479. R. 74.3 v. 1480. 20 DCVB vol. 10, p. 629, s. v. usagre. Etimologia incerta: tuttavia, il DCVB giudica ammissibile l’etimologia suggerita da Corominas, DCELC (vol. IV, pp. 657-658), in base alla quale si tratterebbe di una deformazione del basso latino focus agre, ‹fuego agre›: «primero se diría *fogusagre o *fogusàzere, y separando fog(o) quedarían las formas modernas. [...]. El pueblo ignorante del latín reconocería l’element foc-, pero no lo demás, e interpretaría focus acre, pronunciado vulgarmente fog’usagre, como una especie de compuesto de sustantivo con adjetivo». Quindi, a cadere è l’elemento foc, determinando la parola usagre. 21 DCVB vol. 8, p. 682; DECLC vol. VI, p. 126, s. v. poagre m. 22 Più ampia la spiegazione proposta dal DCELC, che riunisce diverse testimonianze riguardo al nostro sostantivo, tutte di ambito medico e concordi nel sottolineare il carattere acre, aspro e pungente, di questo disturbo fisico. Usagre è qui spiegato come «sarna», corrispondente all’italiano ‹scabbia› (D. català-italiá p. 1052, s. v. sarna). 23 D. català-italiá p. 930, s. v. poagre. 24 R. 74.3 v. 1481. 25 DCVB vol. 5, p. 916, s. v. fleuma agg: «mancat de caràcter, de decisió […]». È interessante notare che esiste anche il sostantivo «flema o fleuma» (DCVB vol. 5, p. 913-914); si legga infatti V. Pitarch i L. Gimeno, nota 121, p. 228: «És un mot polisèmic: mucositat, burla, persona apatica». 26 D. català-italià p. 599, s. v. fleuma, agg. 27 R. 74.3 v. 1482; DCVB vol. 9, p. 778, s. v. sec, seca. 28 D. català-italià p. 1054. 29 DCVB vol. 9, p. 457, s. v. reuma: «Fluxió d’humor en alguna part del cos. Fleuma, expectoració de saliva». R. 74.3 v. 1482. D. català-italià p. 1027. 30 R. 74.3 v. 1483. 31 DCVB vol. 9, p. 538, s. v. rogall. 32 D. català-italiá p. 1033. 18 19
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laddove «mossen Rovell»33 è il «signor Ruggine» in persona; «miçer Gargall»34 è, ahinoi, il ‹signor Sputo›, e non mancano neppure il ‹signor Lorenç Tosse› e, più avanti, il ‹signor Vicent Emicrania› («Lorenç (en) Tos»35 e «Vicent Migranya»).36 Sembra proprio che l’autore nutra un gusto per ciò che può provocare ribrezzo, al fine di ottenere un effetto di caricatura; ma è evidente altresì come egli sia capace di attenuare la componente diremo fisica e corporea dei suoi ritratti, e di dosare con cura le sue scelte rappresentative. Vediamolo dunque all’opera, intento a presentarci «Jamech en-Pipitos»37, ‹Signor Jamech Moccioso›, «misser Llaguanya»38, ‹signor Cispa›39, «mossen Humor»40, ‹signor Umore›;41 e ancora, «Andreu Moxell»42, ‹Andreu Conocchia›43, «Gaspar Estopa»44,
R. 74.3 v. 1484; DCVB vol. 9, p. 601, s. v. rovell: «Hidròxid de ferro vermellós que es forma a la superfície del ferro per l’acció de l’aire humit; per anal., la capa que es forma a la superfície d’altres metalls per corrosió». D. català-italià p. 1038. 34 R. 74.3 v. 1484; DCVB vol. 6, p. 189, s. v. gargall: «salivada espessa barrejada amb mucositats de la gola o dels bronquis». Qui compare proprio il nostro verso come esempio. Cfr. anche D. català-italià p. 629. 35 R. 74.3 v. 1485; D. català-italià p. 1129. 36 R. 74.3 v. 1488; D. català-italià p. 801. 37 R. 74.3 v. 1486; parola di difficile comprensione, malgrado la nostra traduzione. Nell’edizione di V. Pitarch e L. Gimeno del testo si legge, alla nota 123, p. 228: «mot obscur; Miquel i Planas hi suggereix la possibilitat de relacionar-lo amb pituïtós, és a dir mocós». In italiano, il GDLI, vol. XIII, p. 594, alla voce pitutoso spiega: «che abbonda di pituita, composto prevalentemente di pituita; flemmatico». E tra le locuzioni riporta: «febbre pituitosa: accompagnata da copiosa emissione di catarro»; «umore pituitoso: pituita, catarro». Tuttavia, un’altra ipotesi interpretativa, e anzi piuttosto una suggestione, potrebbe essere quella che lega il nostro aggettivo al sostantivo «pipiu», corrispondente a «pipí, orina» (DCVB vol. 8, p. 600, s. v. pipiu). Ci troveremmo dunque dinnanzi ad un’invenzione verbale del nostro scatenato autore, da tradursi con ‹Incontinente› o ‹Piscione›. 38 R. 74.3 v. 1487; DCVB vol. 6, p. 928, s. v. lleganya: «porció de matèria blana, blanquinosa, produïda per solidificació d’un humor segregat per les glàndules sebàcies de les parpelles, i que s’enganxa alls llagrimers i a les pestanyes». 39 D. català-italià p. 740. 40 DCVB vol. 6, p. 566, s. v. humor: «liquid patològic segregat per un cos animal o vegetal». 41 R. 74.3 v. 1488; in italiano traduciamo in maniera letterale, attribuendo al termine il medesimo significato di «fluido o insieme di fluidi superflui o corrotti che provocano malattie o alterazioni patologiche», secondo la definizione di GDLI, vol. XXI, p. 530. 42 R. 74.3 v. 1489; DCVB vol. 7, p. 487, s. v. moixell: «bolic o manyoc de llana o d’altra matèria textil; manat, feix». 43 Il GDLI, vol. III, p. 573, registra, tra le locuzioni in cui compare conocchia: «da conocchia, da conocchie: di nessun valore, di scarso pregio, di pessima qualità (con riferimento all’uso di fare la pergamena con carta vecchia e usata, per mezzo di conocchie); trarre lana dalle conocchie: esercitare la prostituzione». In ogni caso, com’è evidente, il termine può assumere un significato dispregiativo, collocandosi in un contesto di qualità tutte al negativo. 44 R 74.3 v. 1490; DCVB vol. 5, p. 571, s. v. estopa: «fluix com una estopa: fluixot, mancat de vigor». 33
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‹Gaspar Stoppa›45, «don Fluxell»46, ‹signor Piuma›; e di seguito «miçer Postema»47, ‹signor Pus›, e «Antoni Brach»48, ‹Antoni Pustoloso›: si veda come qui, con una tecnica che ritornerà nei versi successivi, Gassull abilmente incastoni, tra i tre sostantivi iniziali che aprono sul senso di ribrezzo, («Pipitos», «Llaguanya» e «Humor»), e i due sostantivi finali altrettanto nauseabondi («Postema» e «Brach»), tre termini tra di loro semanticamente affini («Moxell», «Estopa» e «Fluxell»), che indicano la mancanza di forza fisica dei vecchi, paragonati a una conocchia, alla stoppa e alla piuma. Essi, pur designando oggetti differenti, alludono in egual misura alla perdita di vigoria degli uomini che li posseggono, diventati per effetto degli anni mosci e informi (anzi, al limite della deformità fisica), come pezze di scarso valore o come esili piume; questa sequenza centrale di sostantivi inoltre, insistendo più sulla debolezza del corpo che non sulla sua ripugnanza, prepara la comparsa dei ben più rivoltanti sostantivi successivi, aumentandone così l’espressività. Allo stesso modo più avanti ci troviamo dinnanzi ad una serie di nomi che insistono sul ribrezzo fisico, con una progressione materica vistosa e un intento ironico e dissacratore: «Cosme Ranyna»49, ‹Cosme Pieno d’ira› o, con maggiore forza visiva, ‹Cosme Ringhioso›; «n’Amargos»50, ‹il Ripugnante›51, «Damia Grony»52, ‹Damia Grugno›53, ai quali si accostano, ad attenuare la violenza dei primi, i più miti e pensosi «Miquel Celos»54, ‹Miquel Geloso› e «mestre Trist-any»55 ‹maestro dell’Età triste›, sorta, quest’ultimo, di nomen omen che porta con sé ed esibisce, finanche nella grafia, la tristezza penosa e pesante della età avanzata. In italiano il termine, nel suo senso figurato, è attribuito a «qualcuno privo di vigore, di nerbo» (GRADIT, vol. VI, p. 410); ma sono registate anche le locuzioni: «uomo, bamboccio di stoppa: burattino (e al figur. indica una persona dappoco, priva di energia e personalità, o anche attonita, istupidita)»; «di stoppa (con valore aggett.): che ha colore biondastro opaco ed è ispido (i capelli, la barba)» (GDLI vol. XX, p. 223). Ancora, il Dizionario Treccani (vol. IV, pp. 607-608) riporta le locuzioni: «avere le gambe di stoppa, fiacche, deboli; essere un uomo di stoppa, senza personalità, senza volontà propria, o senza effettiva autorità». 46 R. 74.3 v. 1490; DCVB vol. 5, p. 933, s. v. fluixell. 47 R. 74.3 v. 1491. 48 R. 74.3 v. 1492; DCVB vol. 2, p. 640, s. v. brac. Dello stesso ambito semantico del precedente «postema». Traduciamo con l’aggettivo italiano ‹pustoloso›, con una certa libertà, dal momento che «brach» è sostantivo corrispondente a «postema, materia supurada». Dunque corrisponde all’italiano «pus, materia» (D. català-italià, s. v. brac, p. 234). 49 R. 74.3 v. 1494 ; DCVB vol. 9 p. 368, s. v. renyina: «acció de renyir, de barallar-se»; e p. 369, s. v. renyinós,-osa: «que mou renyina sovint». D. català-italià p. 1014, registra, alla voce renyina: «rottura, discussione, lite, alterco, litigio, briga»; renyinar: «litigare, rompere». 50 R. 74.3 v. 1495. 51 DCVB p. 603 vol. 1: «[…] Que causa afflicció o repugnància moral; que expressa fonda afflició; que sent fonda afflició». 52 R. 74.3 v. 1496. 53 Il termine corrisponde sia a ‹fastidio›, ‹molestia›, sia a ‹grugnito› (DCVB vol. 6, p. 420, s. v. grony). Nel primo significato compare nel Procès de les olives, come testimoniato dal DCVB: «Hi veus aquí’l grony hi la desventura». In ogni caso, sembra che il senso di ‹grugnito›, ‹grugno›, sia dotato di una maggiore espressività, e sia quindi adatto al nostro contesto: non è difficile immaginare un vecchio ringrugnito dagli anni e dalle rughe, altra maschera che va ad aggiungersi alla triste e a tratti oscena sfilata della vecchiezza proposta dal nostro autore. 54 R. v. 1496. 55 R. v. 1497. 45
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Si tratta, evidentemente, di una procedura compositiva che mira ad ottenere un forte impatto visivo sul pubblico ma che, al medesimo tempo, intende conservare una eleganza stilistica e di espressione che racchiuda e compendi tutti gli effetti emotivi derivati dalla demolizione della vecchiaia e delle sue pretese d’amore. Infine, un’altra successione di cognomi repellenti: «Domingo Cany»56, ‹Domingo Canna grossa›, «Tomas Corcat»57, ‹Tomas Distrutto dai vermi›, «Bernat Tramssit»58, ‹Bernat Denutrito›, cui seguono, ancora una volta con una funzione di attenuazione espressiva, «n’Agosti Fluix»59, ‹Agosti Floscio›, e il pure implacabile, sebbene non rivoltante, «Jordi No-puch»60, ‹Jordi Non-Posso›. La sua abilità di creatore di nomi è evidente: essa risalta soprattutto nei nomi composti, non tanto, quindi, o non solamente, nei nomi-sostantivo, o nomi parlanti. Si veda la mirabile sintesi data proprio da «Jordi No-puch»: Jordi ‹Non-posso› è lì per dirci che non può più fare con il proprio corpo oramai avanti negli anni, quello che pure vorrebbe tanto fare; il linguaggio, e la locuzione che lo presenta, dicono la sua impotenza e la esibiscono, dal momento che egli non può, in ogni caso, disfarsene. E questa locuzione è come uno schiocco di lingua, che racchiude tutte le altre menomazioni fisiche e spirituali che la vecchiaia porta con sé, e a cui abbiamo assistito finora; e se non fosse così definitiva nella sua brevità di parola-stemma, indurrebbe senza dubbio al sorriso per l’arguzia sintetica di cui fa mostra. Queste locuzioni aggettivali, unite ai cognomi parlanti, (si veda anche «ple de mil anys», col quale abbiamo iniziato questa rappresentazione, a spiegare «Pantaix» che lo precede), li potenziano così oltre misura, chiarendo ulteriormente, se mai ve ne fosse bisogno, la condizione fisica e spirituale del soggetto al quale vanno, è il caso di dire, dal momento che siamo dinnanzi a un componimento che non disdegna le espressioni più popolari, ad appiopparsi impietosamente.61 In ogni caso, è da un elenco di nomi che scaturisce questa inedita e scanzonata rappresentazione del reale: quello a cui assistiamo divertiti, così, è una sorta di spettacolo dei nomi, che davvero non è finito, giacché molti altri personaggi potrebbero farne parte, e unirsi alla sfilata. Il nostro autore è così il creatore di un elenco poetico, secondo la definizione di Umberto Eco che ormai abbiamo fatto nostra; egli fa liberamente scaturire un inanellamento di nomi beffa o di nomi-ringhio, per servirci di una definizione a cui ricorre Stefano Bartezzaghi R. 74.3 v. 1498; Pitarch i Gimeno, nota 125, p. 229: «Canó gruixat»; cfr. anche DCVB vol. 2, p. 919-920, s. v. cany, dove leggiamo anche: «Canyetes no volen, pensant en lo cany, Proc. Olives, 2039». Il sostantivo canó ha, accanto al significato principale di «object llarguer i buit, generalment de forma cilindrica», nelle sue varie accezioni, anche quello di «órgan animal o vegetal de forma tubular». Sembra dunque evidente la sua connotazione oscena. 57 R. 79.3 v. 1499; l’aggettivo significa infatti «destruït o deteriorat pels corcs» (DCVB vol. 3, p. 526, s. v. corcat, -ada); cfr. anche D. català-italià p. 360, s. v. corcat-ada: «tarlato; cariato». 58 R. 79.3 v. 1500; DCVB vol. 10, p. 439. 59 DCVB vol. 5, p. 932, s. v. fluix, fluixa: «dèbil, mancat de força, de vigor». 60 R. 79.3 v. 1502. 61 Miquel i Planas (1911: XX): «Tots els accidents, totes les miseries físiques y morals de la senectut personificades en altres tants fiadors del representant dels vells, van presentant-se en estrafalaria corrúa: la enumeració de tots aquests personatges es una pàgina de fort humorisme entre les més interessants del poema». 56
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in riferimento alle parole62, e di cui quindi facciamo un uso, a rigore, improprio (ad esempio, parola-ringhio è, in Bartezzaghi, il termine terrone), ma che ben dice l’espressività e la furia onomastica del nostro brano: contenitore di nomi che inchiodano i propri portatori ad un fardello, quello del proprio corpo consumato dalla vecchiezza, e spietatamente sottoposto alla pubblica sconfessione da parte del nostro autore.
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Michela Letizia
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Giorgio Marrapodi (Universität des Saarlandes)
I suffissi -ano e -iano nei deonimici italiani
1. Due paroline a guisa d’introduzione L’onomastica è sempre stata un po’ la cenerentola delle discipline linguistiche, al punto che in passato alcuni studiosi hanno messo in dubbio addirittura la sua appartenenza alla linguistica, cosa che ovviamente non ha nessunissimo senso.1 Questo pregiudizio –radicato nella ‹stranezza› del nome proprio, nella sua ‹eccentricità› rispetto ai fatti ‹comuni› della lingua2– ha fatto sì che molte questioni che lo riguardassero fossero più o meno trascurate, a seconda delle tradizioni nazionali. Questa situazione ha portato al fatto, almeno in Italia3, che gli studi onomastici fossero prevalentemente di tipo storico-linguistico o etimologico, non raramente con una prospettiva secondo la quale il nome proprio serve più che altro a spiegare aspetti storici, sociali e culturali. Sono del tutto mancati studi che si occupassero di aspetti grammaticali del nome proprio di una società. E sebbene negli ultimi anni l’onomastica abbia ripreso un certo vigore, va detto che in realtà si è trattato di un intensificarsi numerico limitato alle correnti di ricerca tradizionali, mentre quegli aspetti che erano stati trascurati hanno continuato ad esserlo. Così, se per il francese per esempio è possibile annoverare un paio di grammatiche del nome proprio –quella della Jonasson e quella della Gary-Prieur (entrambe degli anni ’90)– per l’italiano sono invece rarissimi i lavori che prendano in considerazione aspetti grammaticali di qualsiasi tipo, morfologici o sintattici che siano. Nel migliore dei casi –per esempio i riferimenti che ho utilizzato in questo lavoro– è possibile trovare informazioni a margine di trattazioni sul lessico comune, informazioni che, come è lecito attendersi, non possono avere nessuna pretesa di esaustività e quindi di assoluta precisione. Con questo mio intervento vorrei quindi andare un po’ controcorrente e proporre un tentativo di descrizione di un fenomeno morfologico, quello della derivazione deonimica con i suffissi -ano e -iano, sulla base del corpus GRADIT, costituito da 1935 deonimici (673 Per una breve rassegna delle opinioni sulla marginalità del nome proprio nella linguistica cfr. Marrapodi (2006: XIV, particolarmente le note 2, 3 e 4). 2 Principio anch’esso privo di senso: casomai tra il nome proprio e il nome comune si instaura una sistema a due poli (con tutte le tensioni del caso), quello dell’individualità e quello della generalità fatto che di per sé esclude l’idea di un centro e di una periferia. 3 Basta però leggere i titoli degli interventi di questa sezione per rendersi conto che la grammatica del nome proprio non è che abbia tutti questi appassionati adepti anche al di fuori dell’Italia e dell’italianistica. 1
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deantroponimici e 1262 detoponimici) in -ano / -iano, partendo dalle scarne informazioni di altri studiosi. Si tratterà semplicemente di vedere se ci siano regole distributive di -ano / -iano e di quale natura possano essere.
2. I deantroponimici Per quanto riguarda i deantroponimici pare ci sia un accordo pressoché unanime sul suffisso -iano, con una restrizione fonologica per le basi terminanti in una consonante o semiconsonante palatale, per cui forme del tipo badogliano, carducciano e simili sarebbero invece col suffisso -ano. Tale restrizione è formulata da Seidl nei seguenti termini: Siccome l’incompatibilità fra suffissi che cominciano con /j/ e basi che terminano in una consonante o semiconsonante palatale è regolare in italiano (cfr. tediamo, rovesciamo, origliamo, mugugniamo, baciamo, friggiamo), la forma -ano del suffisso potrebbe anche essere attribuita ad un processo fonologico regolare di cancellazione di /j/ dopo una consonante o semiconsonante palatale. Qui si preferisce tuttavia classificare queste formazioni sotto -ano, che è la forma in cui il suffisso appare in superficie. (Seidl 2004: 411)
Il punto critico di questa formulazione è che il parametro di classificazione di un fenomeno pare sia fondato su un criterio soggettivo di preferenza. Questo criterio porta in termini quantitativi ad una distribuzione del fenomeno come segue: • deantroponimici in -iano = 573 (abeliano - wertheriano), • deantroponimici in -ano con base terminante in semivocale = 68 (accursiano - wesleyano), • deantroponimici in -ano con base terminante in consonante palatale = 20 (acaciano- vinciano), • deantroponimici sicuramente in -ano senza restrizione di alcun tipo = 12 (che in realtà
possono diventare 7 se si considerano le 4 doppiette galileano/galileiano, humeano/ humiano, linneano/linneiano, priscillano/priscilliano e la tripletta senechiano/ seneciano/senecano).
Optando per la classificazione di Seidl si avrebbero dunque 100 eccezioni sul totale di 673 deantroponimici, cioè il 14,83 per cento. Dato però che c’è un modo, e cioè la regola fonologica di cui sopra, che permetterebbe di ridurre il numero di eccezioni da 100 a 12 (di cui però solo 7 assolute senza una variante regolare), cioè all’1,78 per cento, non vedo perché adottare la classificazione di Seidl, a maggior ragione se l’unico criterio di classificazione è un criterio soggettivo di preferenza. Quindi, la mia proposta relativa ai deantroponimici, proposta che peraltro è già in nuce nelle scelte etimologiche del GRADIT, è che il suffisso -iano sia altamente dominante nella formazione dei deantroponimici (98,22 per cento) e che solo l’1,78 per cento dei casi costituisca eccezione con deantroponimici in -ano.
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2.1. Eccezioni Uno degli aspetti più interessanti della linguistica –parere personale– non sta tanto nell’individuare norme e comportamenti regolari nel sistema linguistico, quanto piuttosto, una volta individuate queste norme e questi comportamenti, tentare di spiegare le eccezioni. Nella fattispecie, tolte le 4 doppiette e la tripletta già citate, le eccezioni sono copernicano, domenicano, francescano, luterano, maomettano, pessoano, sillano. Perchè in questo caso non si ha *copernichiano, *domenichiano, *franceschiano ecc.? Da alcuni studiosi (p. es. Rainer 2004: 412) era stata notata una certa tendenza di tipo semantico (peraltro riconosciuta come vaga e del tutto secondaria rispetto ad altre tendenze): deantroponimici relativi all’ambito religioso, tenderebbero a suffissare in -ano, fatto che però esclude i casi di sillano, galileano, linneano e –aggiungerei– pessoano. La pista religiosa non è però del tutto peregrina. Un’ipotesi, alla quale manca ancora la verifica dei dati e su cui mi riprometto di tornare, è che la prima apparizione di queste forme non sia stata nei testi volgari, ma –dato il referente religioso– in testi latini medievali ed ecclesiastici, e quindi nella forma copernicanus, domenicanus, franciscanus e così via. La forma italiana non sarebbe quindi nient’altro che un cultismo adattato da questa forma originaria latina (cfr. Rainer 1996). Per sillano si hanno già le attestazioni del latino classico sullanus (con la variante syllanus) mentre per senecano termine recente del linguaggio scientifico-letterario (prima attestazione del 1956, rispetto al 1994 di senechiano) il riferimento potrebbe essere un termine specialistico in latino (penso ad esempio al concetto di comparativus senecanus usato da Seidensticker)4 plasmato su un modello senecanus più antico.5 È evidente d’altronde che la classificazione di tipo sincronico non può prescindere dal fatto che alcune forme riferite a personaggi dell’antichità o di ambito religioso, come macedoniano, marcelliano, muciano fossero già latine, indipendentemente dal periodo della loro apparizione in italiano. Per quanto riguarda la forma pessoano, si potrebbe giustificare con il fatto che l’utilizzo di -iano con un conseguente *pessoiano creerebbe un accumulo di vocali e semivocali assai scomodo dal punto di vista articolatorio. La cosa potrebbe essere in parte confermata dalle forme galileano e linneano, dove si presenta lo stesso problema. Dato però che l’accostamento della vocale palatale /e/ con la semivocale /j/ del suffisso è meno stridente, si attestano anche le forme galileiano e linneiano, In ogni caso Dardano (2009: 111) pare attribuire una preferenza al tipo con suffisso -ano, almeno nel caso di linneiano / linneano. 3. I detoponimici Per quanto riguarda i detoponimici, a parte un’informazione alquanto generica sulla prevalenza del suffisso -ano e rare eccezioni in ambito italiano non giustificate con -iano (il caso comunemente citato di Leso>lesiano), un po’ più diffuse con i toponimi stranieri, non si Cfr. Seidesticker (1985: 118). È chiaro che, vista la datazione dell’italiano, non si intende qui derivare il senecano italiano dal termine usato da Seidestricker. Si tratta solo di evidenziare un modello costitutivo latino soggiacente che possa aver influenzato la formazione della parola in italiano. 5 Cfr. per es. il lat. mediev. senecanus che si evince da un passo del Manoscritto 511 (datato 1150-1225) all’Hunterian Museum di Glasgow: «Est et stylus alius Senecanus, sed optimus quidem et fortissimus, epistulas componendi, praetermisso scilicet quolibet artificio prosaico supra dicto»: cfr. Faral (1936: 58). 4
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sa gran che. In realtà, analizzando il materiale, la situazione si presenta un po’ più articolata, meno facilmente riconducibile a regole di grande maggioranza e del tutto diverse da quelle dei deantroponimici, fatto che peraltro non crea nessun problema, visto che non sta scritto da nessuna parte che una regola, una volta individuata, debba per forza valere a prescindere dalla classe dei segni linguistici a cui si applica, o che ci si debba sforzare di farlo.6 Analizzando il corpus dei 1262 detoponimici in -ano e -iano, si individuano due gruppi compatti, facenti capo a due diverse regole: • quello dei 671 detoponimici di tipo quasi esclusivamente etnico derivati sicuramente con -ano (abduano - zurigano) • quello dei 235 detoponimici derivati con -iano relativi alla terminologia specialistica scientifica (quasi esclusivamente geologica e paleontologica; aaleniano - ypresiano).7 Una prima regola distributiva dunque individua valori semantici diversi dei due suffissi: si usa prevalentemente il suffisso -ano per i derivati etnici, ma quando il detoponimico pertiene alla sfera delle terminologie specialistiche si adotta il suffisso -iano senza alcuna restrizione di tipo fonologico o morfologico. A questo proposito emblematica è la coppia strombolano / stromboliano, il primo di ambito etnico-geografico, il secondo relativo alla terminologia della vulcanologia. Una situazione del genere prevede da logica due gruppi di eccezioni: • quello dei detoponimici di ambito specialistico in -ano (7 casi) • quello dei detoponimici etnici che sembrano suffissare in -iano (apparentemente 324 casi) 3.1. Eccezioni: detoponimici di ambito specialistico in -ano Dei 7 detoponimici che suffissano in -ano, 5 sono facilmente spiegabili come prestiti. 2 certamente dall’inglese (oldowan, senecan), visto che si riferiscono a località di ingerenza anglosassone e che dalle ricerche effettuate sembrano comparire solo nella lessicografia e nei testi specifici di lingua inglese. In altri tre casi (chelleano, gerzeano e peleano) si ha l’opzione sia dall’inglese e dal francese, ma non sempre è possibile risalire a datazioni che possano chiarire la trafila. Ha probabilmente ragione Schweickard a considerare chelleano prestito dal francese8, trattandosi di una località francese e quindi verosimilmente esplorata da francesi. Per peleano il GRADIT attesta la derivazione dal fr. peléen (da Montagne Pelée, nome di un vulcano nella francofona Martinica). Riguardo a gerzeano (dalla localita egiziana di El Jerzeh) bisogna lamentare le carenze della lessicografia a proposito di tutto ciò che riguarda i nomi propri: né il TLF né il Grand Robert attestano il francese gerzéen, peraltro ben presente nella D’altronde l’affermazione di Lo Duca «Tuttavia -iano è diventato in italiano soprattutto un suffisso deantroponimico, esito certo incoraggiato dall’analoga possibilità dell’inglese» (Lo Duca 2004: 215), lascia intendere indirettamente che -iano risulti assai meno produttivo nei detoponimici. 7 Sono compresi in questo gruppo i detoponimici derivati dai nomi di pianeta, che vengono considerati alla stregua di termini specialistici piuttosto che etnici di fantasia designanti gli abitanti immaginari di questi pianeti. D’altronde questo può valere per marziano e venusiano / veneriano, non certo per gli altri termini utilizzati nella terminologia astronomica. 8 Cfr. DI 1, 462, 55segg. 6
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letteratura specialistica. Non è possibile quindi risalire a una datazione precisa che permetta di stabilire la trafila corretta. Europano, riferito al satellite di Giove Europa, lascia aperta ogni possibilità. Trattandosi di un termine specialistico dell’astrologia potrebbe essere ovviamente un prestito9, ma finora le ricerche (lessicografiche e internet) non hanno dato esito. D’altro canto il fatto che ci aspetteremmo *european (attestato in inglese con altri significati), da cui si dovrebbe avere in italiano *europeano o *europiano10 e non un europano, lascia pensare che possa trattarsi di un termine italiano coniato con un regolare -ano, a maggior ragione se si pensa che il satellite Europa fu scoperto da Galileo e da lui nominato. Il GRADIT peraltro non riporta la fonte, né una ricerca lessicografica ha permesso per ora di capire quale sia l’origine storica del termine. Sicuramente di origine italiana è verrucano, termine introdotto dal geologo Savi nel 1838 e come tale poi esportato anche nella terminologia di altre lingue. Paradossalmente questa che sembrerebbe un’eccezione nell’eccezione, è l’unico caso regolare. Come già detto11, la stragrande maggioranza dei termini scientifici di origine deonimica è un prestito, particolarmente dall’inglese o dal francese, a seconda del periodo storico e delle contingenze geografiche. La presenza di -iano –invece del regolare -ano che troviamo in verrucano (e forse in europano)– è quindi il risultato di un adattamento degli originali suffissi francese -éen e inglese -ian, di origine evidentemente latina o neolatina ( Elvira e similares) e para a cal o Nomenclátor de Galicia aboa 5 ocorrencias,
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carecermos de datos decisivos neste sentido (o cal nos impide entre outras cousas estabelecer a cronoloxía máis ou menos exacta na que tivo lugar a suplantación que nos ocupa), cremos cando menos probábel que o monte recibise tal nome a partir do da freguesía contigüa de San Xoán de Sardiñeiro, reproducindo deste xeito un esquema que se verifica nun bo número de casos similares, moitos deles con implicación deste mesmo ítem haxionímico.4 Agora ben, na consolidación desta nova denominación en detrimento da forma Rou testemuñada nos textos medievais influíu sen dúbida un factor de grande relevancia para explicar este tipo de transformacións internas do sistema toponímico. Referímonos ao feito de que a denominación Seoane resultaba moito máis transparente para os falantes (tanto por si mesma como pola relación directa que se podía estabelecer co nome da freguesía contigüa) cá denominación Rou, que moi probabelmente haxa que explicar a partir do substrato lingüístico prelatino (Martínez 2010: 295-297) e que, por tanto, carecía de correlatos claros e identificábeis no repertorio léxico dos usuarios: dito doutro xeito, a forma Seoane estaba máis e mellor motivada cá forma Rou. 2.2. Medieval T(h)oar moderno Castro En dous documentos de TO localizamos referencias a un río denominado Toar ou Thoar.5 O texto máis antigo, con data de 1131, ofrécenos referencias xeográficas moi vagas e limítase a sinalar que a aldea de Codesos, hoxe englobada dentro da freguesía de San Xián da Pereiriña (Cee), se encontra no territorio Nemancos, e máis en concreto sub monte de Olgoso et fluuio Toar, concurrente ad ecclesiam Sancti Christofori. En cambio, no outro texto que tivemos ocasión de manexar (e que á súa vez é copia dun orixinal redactado en 1219), as coordenadas xeográficas aparecen moito máis matizadas e resultan moito máis decisivas na identificación do referente extralingüístico asociado á forma Toar / Thoar. Nese diploma lévase a cabo a devisazón da parroquia de Peraria (correspondente á actual San Xián da Pereiriña), situada in terra de Nemancos iuxta fluuium Thoar sub monte Faro.6 No corpo do documento trázanse os seguintes límites para a dita parroquia: [...] per terminos et loca antiqua scilicet per Sauariz et inde per Petram Albam de jusanam, et inde per Petram Albam de susanam, et inde per Farum, et inde per Baldumar, et inde ad castellum de todas elas concentradas na provincia de Lugo. Efectivamente, a prol desta interpretación contamos coa existencia dun bo número de freguesías galegas que teñen como padroeiro a San Xoán mais que contan (ou contaron) dentro dos seus límites con lugares e entidades de poboación cuxa denominación mantén (ou mantivo) a denominación tradicional Seoane: p.ex., na parroquia de San Xoán de Moeche existen dúas aldeas chamadas respectivamente Seoane Novo e Seoane Vello. Nalgúns casos dáse a coexistencia dentro do mesmo sintagma da variante patrimonial coa variante menos evoluída, tal e como observamos no nome da freguesía de San Xoán de Seoane, no concello de Allariz, ou no de San Xoán de Seoane de Arcos, no concello do Carballiño. 5 Aínda que resulta razoábel pensar nunha orixe etimolóxica común, non debemos confundir este topónimo medieval coa forma moderna Toar que lles dá nome a senllas entidades de poboación das freguesías de Santalla da Devesa (Friol) e San Breixo de Parga (Guitiriz), nin tampouco co Toar que encontramos mencionado nun documento de 1208 e que debeu darlle nome noutrora a un lugar da actual freguesía de San Martiño de Doade (Sober). 6 O monte Faro non é outro có actual monte Cantorna, na localidade do mesmo nome. 4
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Peraria, et inde per aquam que decurrit inter Purcar et ipsam Perariam et intrat in Thoar, et inde ad ramum de Sambadi, et inde ad pontem de Constanti, et inde ad fontem Ouium, et inde ad Bicianes, et inde ad ribam Sancti Juliani, et inde ad vadum de Chanca, et inde ad Sauariz ubi incepimus.
Boa parte do interese deste treito radica en que a inmensa maioría do material toponímico nel explicitado (coas únicas excepcións de Petram Albam de jusanam, Petram Albam de susanam, fonte Ouium e Bicianes) resulta doadamente recoñecíbel aínda na actualidade, tal e como reflectimos no seguinte cadro: Forma medieval Sauariz Farum Baldumar Peraria Purcar Sambadi pontem de Constanti Sancti Juliani vadum de Chanca
Forma moderna Chafarís Cantorna (monte) Baldomar A Pereira Porcar Sambade Ponte Constante San Xián A Chanca (río)
Neste contexto, o río Toar / Thoar non pode ser outro có actual río Castro, un dos de maior entidade da vertente atlántica galega, que nace no monte Escaleira (Vimianzo) e desemboca no esteiro de Lires, xa no concello de Muxía. De feito, o río Castro constitúe o único curso fluvial certamente relevante que atravesa o termo parroquial de San Xián da Pereiriña, circunstancia á que temos que engadir aínda outra non menos interesante: esa aquam que decurrit inter Purcar et ipsam Perariam et intrat in Thoar debe identificarse sen lugar a dúbidas co rego de Porcar, unha pequena corrente de auga que nace nas abas do monte Cantorna e vai desaugar en última instancia ao río Castro. A conxunción destes dous datos e a solidez e transparencia do texto que tomamos como base na nosa pescuda permítennos afirmar por tanto que o nome (ou un dos nomes, dada a tendencia deste tipo de entidades á polionimia) do río Castro non era outro que Toar / Thoar. Obviamente, o hidrónimo Castro debe entenderse como un hidrónimo secundario, ou o que é o mesmo, a corrente fluvial en cuestión adquiriu a súa denominación hodierna a partir do da poboación homónima da freguesía de Santa Locaia de Frixe (Muxía). Esta dedución non se basea en suposicións gratuítas, senón que se apoia nun documento de 1165 conservado na colección documental do mosteiro de San Xulián de Moraime e no que se acouta a dita herdade de Castro seguindo o curso dun rivum que vadit inter Frixe et Castrum, e que, a xulgar polo contexto, só pode tratarse do río Castro. A conclusión verdadeiramente interesante que podemos extraer dos parágrafos anteriores ten que ver coa natureza e motivación do cambio toponímico observado: en efecto, un lexema castro (< latín castrŭ(m) ‹fortaleza, altura fortificada›), debidamente toponimizado, desprazou unha formación que quizais poidamos derivar dun tema *tug- reducíbel á súa vez ao coñecido radical indoeuropeo *tā- ‹derreterse, fluír›, ‹mofo, que apodrece› (Bascuas 2006: 122; Martínez 2010: 350-352). Reprodúcese por tanto o mesmo esquema que comentabamos na epígrafe anterior para as formas Rou e Seoane, i.e., a substitución dunha denominación toponímica antiga de probábel filiación prelatina e semanticamente opaca
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para os falantes por unha forma máis moderna, pertencente ao estrato latino, con apoios no léxico común e, neste caso, cunha especial produtividade toponímica verificábel ao longo de todo o territorio galego. 2.2. Medieval Tronco / Trunco moderno Grande Dentro do mesmo documento de 1135 ao que xa aludimos nunha epígrafe anterior (vid. §2.1) defínense os lindes tanto da freguesía de San Salvador de Duio como da de San Martiño de Duio, e a respecto desta última estabelécense os seguintes termos: Termini ecclesie Sancti Martini sunt isti: de vna parte per illam aquam de illo riuulo de Trunco sicut uadit et intrat in mare de arena de Locustaria et finitur intus in mare [...] de inde de alia parte iterum incipit alius terminus in predicto riuulo de Tronco et uadit per illum parietem antiquum qui exit de ipso riuulo et uadit sursum ad montem diuidendo hereditatem de Sancto Martino et hereditatem de Hermo.
Na posterior confirmación deste mesmo diploma, datado segundo viamos por volta de 1232, repítese practicamente sen alteracións a mesma secuencia. Tal e como podemos comprobar, un dos eixos empregados na contextualización xeográfica da parroquia de San Martiño de Duio é ese riuulo de Trunco ou riuulo de Tronco, que segundo Pérez (2004: 761) non é máis ca un simple regato do concello de Fisterra, sen deterse en maiores consideracións. Porén, o treito que acabamos de transcribir proporciónanos por si só algúns datos moi aproveitábeis de cara a estabelecer o referente extralingüístico exacto da expresión toponímica que nos ocupa. O principal deles é a propia relevancia que atinxe no texto o riuulo de Trunco / riuulo de Tronco, relevancia máis propia dunha corrente fluvial de certa entidade que dun simple regato.7 Neste sentido, o único río de relativa importancia que drena o termo parroquial de San Martiño de Duio é o río Grande, cuxa denominación xa resulta abondo transparente no que respecta ao seu tamaño e caudal en relación aos dos restantes cursos fluviais tanto da freguesía en cuestión como do propio concello de Fisterra en xeral. Ademais, no texto sinálase que a auga dese río intrat in mare de arena de Locustaria8, i.e., que desemboca no areal de Langosteira, inmensa praia pertencente á freguesía de San Martiño de Duio, o cal non fai máis que confirmar a nosa suposición inicial, xa que é nese punto onde desauga precisamente o río Grande.
Cómpre puntualizar que os lexemas hidronímicos fluuĭŭs, rīuŭs e riuulŭs, que no latín clásico presentaban matices semánticos netamente diferenciados, adoitan ser intercambiábeis na nosa documentación altomedieval, o que a miúdo conduce a confusións e interpretacións erróneas de certas secuencias. 8 Debemos lembrar que o substantivo latino area (< latín arēna(m)) desenvolveu na lingua medieval a acepción ‹praia, areal›, cuxa vixencia se prolongou segundo parece até épocas relativamente recentes. De feito, xa Eladio Rodríguez indicara no seu día a utilización da forma area como sinónimo de areal en moitos instrumentos antigos, chegando inclusive a finais do s. XVI. Elixio Rivas observou tamén que «en toda la costa gallega, area fue la voz denominadora de playa (praia) hasta fines del siglo pasado». De feito, é este matiz semántico o que nos permite explicar de xeito satisfactorio topónimos costeiros como Arealonga e similares. 7
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Por último, o riuulo Trunco / riuulo Tronco tamén é tomado como referencia para estabelecer os límites occidentais e noroccidentais da freguesía de San Martiño de Duio: eses límites, tal e como podemos comprobar no texto, arrincan das marxes do dito río, onde comeza un parietem antiquum que ascende até un monte que actúa como divisoria entre hereditatem de Sancto Martino (correspondente ás actuais localidades de San Martiño de Abaixo e San Martiño de Arriba) e hereditatem de Hermo (os actuais Ermedesuxo de Arriba e Ermedesuxo de Abaixo). O monte en cuestión debe ser xa que logo o monte Pión (207 m), en cuxas abas nace precisamente o río Grande. Por tanto, comprobamos máis unha vez como as coordenadas xeográficas descritas ou insinuadas na documentación resultan doadas de extrapolar ao territorio actual. Canto á interpretación etimolóxica da expresión medieval Tronco / Trunco, parece verosímil retrotraelo ao latín truncus ‹tronco dunha planta ou árbore›, ‹ramo cortado do tronco›, acepcións conservadas por todos os seus descendentes románicos, entre os cales se conta obviamente o galego-portugués tronco. A repercusión toponímica deste lexema non semella moi importante, cando menos no eido da toponimia maior, mais aínda así podemos aducir exemplos modernos como Tronco, Porto dos Troncos, Por da Tronca ou Val dos Troncos. Pola contra, gozan de maior presenza cuantitativa derivados abundanciais ou colectivos como Troncal, Troncoso, Troncedo e similares. En opinión de Gonzalo Navaza (2006: 549), a toponimización do fitónimo tronco podería explicarse pola existencia de arborado aproveitábel para a produción de madeira, interpretación que pode conciliarse co seu uso como nome dunha corrente fluvial.
3. Conclusións Como puido inferirse do contido das epígrafes precedentes, o estudo dos fenómenos de substitución toponímica reviste un especial interese. Por unha banda, comprobamos en que medida eses fenómenos poden axudarnos na reconstrución de antigas paisaxes toponímicas e territoriais que gozaron de vitalidade nunha determinada fase histórica, mais que acabaron por verse transformadas en maior ou menor medida. É nesta vertente onde mellor se perciben as posibilidades de interacción da toponomástica con outras disciplinas científicas, particularmente coa xeografía e a historia, aínda que non só. Por outro lado, e en relación cunha perspectiva máis global e sistémica dos estudos toponomásticos, os traballos de detección e identificación dos referentes extralingüísticos denotados polos topónimos medievais permítennos recoñecer certas tendencias ou pautas que explican a natureza e sentido dos distintos casos de substitución toponímica: aspectos como a maior ou menor transparencia das formas toponímicas, o grao de adecuación do signo toponímico á entidade física designada, etc. adquiren por tanto grande importancia neste punto.
Rou, T(h)oar, Trunco: alguns exemplos de substitución toponímica na comarca de Fisterra (Galicia)
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Ruth Miguel Franco (Universitat de les Illes Balears)
El cartulario Madrid, AHN, 996B y los documentos originales del Archivo Capitular de Toledo: aportaciones al estudio de la onomástica
1. El Archivo Capitular de Toledo: documentación original y cartularios1 La aportación de los cartularios a los estudios antroponímicos es de una gran importancia, por la abundancia de materiales que proporcionan y su diversidad, y por ser, en muchos casos, la única fuente histórica que poseemos sobre una determinada región en un periodo histórico concreto. Sin embargo, se ha llamado la atención muchas veces sobre los problemas que plantean estos volúmenes en los estudios históricos y lingüísticos, ya que las transformaciones que sufre el documento original en su proceso de copia lo invalidan en ocasiones como material de análisis. Sin embargo, se pueden considerar estas transformaciones como documento histórico en sí mismas, de modo que se anule lo que Patrick Geary (1993: 15-16) ha llamado ‹la invisibilidad del cartulario›, es decir, pasar de utilizar el cartulario como mero transmisor de información a tener en cuenta sus características intrínsecas y su naturaleza como un dato más en el estudio. Así pues, la riqueza de los fondos documentales del Archivo Capitular de Toledo (ACT), donde se conservan documentos desde el 1086, fecha de la reconquista de la ciudad, hasta el siglo XVI, se ve incrementada por la existencia de ocho cartularios. La documentación toledana (en la que incluimos, como ya hemos dicho, estos cartularios) ha sido estudiada con profundidad inversamente proporcional al interés que ha despertado: ha sido escaso el recurso de los estudiosos a los fondos originales; esta situación es especialmente llamativa si se piensa en el papel que tradicionalmente se ha asignado a la ciudad de Toledo en la historia de la lengua española (Sánchez-Prieto 2007, 2008a, 2008b). La mayor parte de los citados cartularios está relacionada con la celebración del IV Concilio de Letrán (1215), donde se discutió la primacía de Toledo sobre las otras sedes hispánicas y compila bulas y documentación pontificia acerca de este tema. Sin embargo, tres cartularios en concreto (Toledo, Biblioteca Capitular de Toledo 42-20, copiado en 1190; Madrid, AHN, 996B, del primer cuarto del s. XIII y Madrid, AHN, 987B, copiado hacia 1257) recogen un total de quinientos treinta y cuatro documentos privados y reales, de los que se han identificado doscientos ochenta y ocho originales conservados. De estos Este trabajo se inscribe en los siguientes proyectos de investigación: HUM2006-04767/FILO; FFI2009-10877.
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tres cartularios, en este trabajo nos centraremos en el segundo de los mencionados: Madrid, AHN, 996B (al que nos referiremos simplemente como 996), por varios motivos. En primer lugar, transmite un gran número de documentos (exactamente ciento veintinueve de los trescientos treinta y tres que contiene) cuyo original se ha perdido. Esta desaparición debió de tener lugar en fecha poco posterior a la compilación del volumen, ya que sólo treinta y ocho de estas piezas aparecen en cartularios posteriores. Por tanto, 996 constituye nuestra única fuente de información para algunos aspectos de la historia de la sede toledana. En segundo lugar, este cartulario realiza copias imitativas: reproduce los sellos, rotas, crismones y demás signos de validación de los documentos (Chassel 1993), característica relacionada con el hecho de que la copia de los textos sea también de gran exactitud, ya que la comparación entre los originales conservados y el cartulario en estudios anteriores ha puesto de manifiesto que los copistas reprodujeron en la mayor parte de los casos las grafías de los originales, incluidos topónimos y antropónimos, exceptuando las firmas árabes, que se recogen simplemente como et alia nomina arabica. Esta característica hace que 996 sea especialmente adecuado para un estudio lingüístico y de historia de los sistemas de escritura en ambiente toledano, aunque es preciso no perder de vista los documentos originales. El cartulario, como hemos dicho, tiene como fecha post quem 1222, que es la del último documento que recoge y se supone que su copia pudo ser impulsada por el arzobispo de Toledo Jiménez de Rada, pero está escrito en una gotica textualis plenamente desarrollada, por lo que quizá habría que datarlo algo más tarde (Sánchez-Prieto 2008a: 177; 2007: 175 n. 46). El empleo de este tipo de letra va a determinar algunas de las elecciones gráficas del cartulario; por otra parte, en la copia se alternan numerosas manos, a veces dentro del mismo documento, pero la gran uniformidad característica de la littera textualis hace extremadamente difícil establecer los cambios de mano (Torrens 1995: 348-50), lo que sería de gran interés para la delimitación de algunas de las diferencias entre los documentos copiados.
2. El corpus antroponímico del cartulario 996 Para el estudio que presentamos a continuación hemos examinado la totalidad de los documentos contenidos en el cartulario, a excepción de las bulas y los textos no documentales.2 Es preciso mencionar que este cartulario copia mayoritariamente documentos en latín, con diversos grados de corrección que van desde la cuidada redacción y elaboración retórica de algunas cartas reales y episcopales hasta documentos en los que sólo ciertos aspectos gráficos y formularios pueden adscribirse al patrón latino. Sólo un porcentaje mínimo de la documentación recogida en 996 está escrita en castellano (mientras que, por ejemplo, el mencionado cartulario 987 incluye un alto porcentaje de piezas ya plenamente romances)3, Como, por ejemplo, la llamada Hitación de Wamba (doc. 529), o una compilación de citas de autores visigóticos que apoyan la primacía de Toledo sobre las otras sedes de Hispania (doc. 528). 3 En la mayor parte de los casos Hernández (1996) no indica en su catálogo la lengua de redacción de los documentos, por lo que no se pueden ofrecer cifras exactas hasta contar con una edición de estos volúmenes. 2
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aunque hemos prestado una atención particular a estos documentos. Dentro de estos textos, hemos dividido los antropónimos según la parte del documento en la que se encuentran, por una parte los nombres de los participantes en el hecho documentado en el cuerpo del documento, donde se señalan de manera especial, por el interés que revisten, las listas de pobladores, los beneficiarios de las mandas en los testamentos4 y los posesores de las casas o las tierras que se mencionan al identificar o localizar la propiedad en las compraventas, concambios o donaciones, y, por otra, las columnas de firmantes, suscriptores y las listas de testigos, a las que se atiende en modo particular si son autógrafas en el original. En total se han recogido cuatro mil ciento setenta y cuatro entradas, que se distribuyen de la siguiente manera:
Gráfico 1
Los documentos más tempranos son en la mayor parte de los casos de donaciones reales y privilegios, con gran número de confirmantes (31,83 antropónimos por documento en el primer periodo analizado), mientras que en los últimos años la media es de 13,67 nombres por documento, lo que se debe a la mayor presencia de documentación privada, con listas de testigos no demasiado largas. Es complejo establecer de cuántas personas diferentes estamos hablando. El catálogo de Hernández (1996) cuenta con un excelente índice onomástico, de gran ayuda a la hora de identificar a los portadores de cada nombre, pero que regulariza las grafías en muchos casos y que no siempre tiene en cuenta las variaciones ortográficas de los antropónimos. Podemos aventurar una primera estimación de mil novecientos noventa y ocho personajes diferentes, esto es, cada persona aparece una media de 2,08 veces;5 en cualquier caso, los datos presentados no pueden considerarse definitivos hasta que contemos con una edición crítica de los documentos y del cartulario. Sobre la relevancia de los testamentos para los estudios antroponímicos. vid. Martínez (2009). Esto varía según las épocas. De 987 a 100, tenemos una media de 1,2; entre1101 y 1125, la media es 1,31; 1,6 entre 1126 y 1150; entre 1151 y 1175, en cambio, la media es 2,07; entre 1176 y 1200, de 2,29; finalmente, entre 1201 y 1222, la media es de 2,37.
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3. Variación gráfica y lingüística en los nombres propios 3.1. Variación gráfica entre original y copia El cartulario realiza copias que conservan, en la mayoría de los casos, las particularidades y variaciones del original (Miguel en prensa). Sin embargo, también encontramos ejemplos de cambios ortográficos entre original y copia. En el documento 886, A.2.D.1.1, sin fecha, pero que se puede situar hacia el segundo cuarto del XII, en el f. 85vb, el donante aparece como Guterret en el cuerpo, pero firma como Gutteriz. 996 cambia la -t final en una -z, pero mantiene la grafía de la firma inalterada. Sin embargo, en el doc. 151, año 1168, f. 9r-v (cuyo original no se nos ha conservado), aparecen Gomet Garsie y Gomet Gondissalui, de . Del mismo modo, en el doc. 239, V.7.C.1.9, año 1191, f. 73ra-b (venta de Carabanchel), hay variaciones gráficas del mismo tipo: Aldefonso aparece como Alfonso, se cambia Gondissalvus Saxamon por Gundisalvus Saxomon con asimilación vocálica en dos ocasiones y falta la h del nombre Nicholaus; igualmente el nombre Michael de los originales Z.4.A.14 (doc. 254, año 1194, f. 72ra-b) y Z.4.A.8 (doc. 158, año 1171, f. 95vb96ra) aparece como Micahel en el cartulario. El cartulario introduce también variaciones sintácticas, como el dativo femenino Ore, en Z.4.A.52 (doc. 250, año 1193, f. 77va-78ra), que nota con la forma Oro. Estas variaciones son interesantes desde el punto de vista de la historia de los sistemas de escritura y deben ser tenidas en cuenta a la hora de utilizar el cartulario 996 para el análisis lingüístico (García 2009: 277-278), pero, como se puede apreciar, nada tienen que ver con los cambios comprobados en otros cartularios, que a veces pasan por alteraciones importantes en los sistemas de denominación de la persona, como la adición de la procedencia al nombre propio (Bourin 1993: 109-110), o las alteraciones en, por ejemplo, la composición de las listas de testigos o suscriptores, como han observado numerosos investigadores de otros cartularios (Barrow 2005: 108-112; Hunningsett 1971; Tessier 1964: 36-39). 3.2. Oscilaciones gráficas dentro del cartulario Pasamos a continuación a analizar los datos contenidos en el cartulario; a este respecto, es muy interesante la variación gráfica entre las diferentes apariciones de un mismo nombre (Ramírez 1993: 575-576). Así, por ejemplo, el nombre de Gonzalo de Marañón presenta las siguientes alteraciones gráficas, que se corresponden, en los casos comprobados, a las del documento original: doc. 90, año 1153, f. 75rb: Gonzalbo de Maranon doc. 104, año 1155, f. 80vb: Gunsalvus de Marannon doc. 108, año 1155, f. 54vb: Gunzalvus Marranun
Nos referiremos a cada documento por el número que recibe en el catálogo documental de Hernández (1996); se reenvía a este estudio para una descripción detallada de las piezas.
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doc. 112, año 1155, f. 5r7: Gonzalvus de Marainon doc. 123, año 1158, f. 61ra: Gunzalvus de Marranum doc. 140, año 1163, f. 84r: Gonzalvus de Maregno (cuerpo del documento), Ipse Conzaluus (testigo) doc. 161, año 1172, f. 8r: Gonsalvus de Margnione doc. 162, año 1173, f. 62ra: Gundisalvus de Marannone doc. 180, año 1177, f. 13r: Gundissalvus de Marannon doc. 184, año 1178, f. 42vb: G. de Marannone
Vemos en esta breve selección ejemplos de casi todas las maneras diferentes de notar la nasal palatal; interesante también la oscilación vocálica del nombre germánico, que va desde la latinización (doc. 180) hasta el mantenimiento de la forma más cercana al romance (doc. 90). Como se puede apreciar, estos ejemplos no se pueden organizar cronológicamente, ni agruparse por los folios donde se encuentran en el cartulario, lo que nos daría idea de la alternancia de copistas con diferentes hábitos gráficos. Sí se puede mencionar que el original del doc. 104 fue redactado por Adriano, notario del emperador, teniendo la cancillería Juan Fernández; también era canciller este personaje en los documentos 108 y 112.8 En cambio, el 162 lo redactó Pedro, notario del rey; el 180, Guillermo, capellán del conde Nuño y la condesa Teresa durante el sitio de Cuenca, y el 184 el maestro y notario Giraldo.9 Se comprueba también que, dependiendo de la parte del documento donde aparezca, el nombre toma uno u otro aspecto; los firmantes y suscriptores suelen presentar formas más estandarizadas y acordes con las grafías latinas, mientras que son especialmente interesantes las listas de pobladores y los propietarios de casas y tierras colindantes a la propiedad descrita en el documento. Digna de señalar es también la variación entre Gonzaluus en el texto del doc. 140 y Conzaluus en la lista de testigos con la sorda por hipercorrección. Del mismo modo, en la lista de testes de concilio el doc. 161 aparece dos veces el nombre de Gonzaluo, siempre con esta grafía. Se pueden ver diferentes fases de la evolución del sufijo latino -arius, en el nombre de un poblador, Andrés Zapatero, en dos documentos del mismo año: doc. 107, año 1155, f. 4v: Andree Zapateiro y doc. 112, año 1155, f. 64ra: Andree Çapatario.Ambos nombres están en dativo, ya que este personaje es receptor de la donación de tierras. Más tarde, en 1184, en el título que precede al doc. 211, recogido en el f. 97vb leemos: Emit Petrus Sobrino vineam in arcicolla ab Arnaldo Zapatero et ab aliis. Es decir, se declina el nombre pero no el cognomen; en el cuerpo del documento sucede lo mismo: Ego Arnaldus Zapatero.Pero también en esto hay variación: en 1206 Sancho, arcediano de Madrid, compra dos mesones, uno de los cuales linda con domum Vitalis Zapaterii collateralem in occidente (doc 286, f. 20r). Esto nos lleva al tan debatido problema de la fijación del oficio o sobrenombre como apellido (Simón 2010: 63-64; Simón / Vicente en prensa). El cartulario aporta datos a este respecto. Por ejemplo, varios personajes son denominados abbas. En varios casos podemos estar casi seguros de su consideración como apellido, como en el caso de Domingo Abad, canónigo toledano, que confirma el documento: Ego Dominicus dictus abbas canonicus confirmo (doc. 258, Confirmación casi por completo ilegible, seguimos la trascripción de Hernández La copia está en muy mal estado, pero se puede leer con bastante claridad el nombre de Iohannes Fernandiz. 9 Nada se indica en el caso de los doc. 90, 140 y 161. 7 8
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año 1195, f. 100ra); la indicación dictus es prueba de que no se trata de su cargo. Por otra parte, en esta época10 casi en todos los casos se indica el monasterio en el que los abades desempeñan este cargo (doc. 188, año 1180, f. 46va M. abbas Couarrubias; doc. 263, año 1198, f. 103rb Iohannes abbas Sancte Leocadie; doc. 357, año 1214, f. 39ra Willelmus abbas S Maria Fitero). Otros casos son interesantes, como Miguel Herrero: Michael Ferrero, doc. 295, año 1208, f. 45rb, Micael Ferrero doc. 279, año 1203, f. 91rb; Micael Ferrero aparece varias veces a lo largo del doc. 267, año 1199, f. 91rb-va, uno de los pocos documentos escritos consistentemente en romance; sorprendentemente, hacia el final del documento, cuando se hace constar la presencia de este personaje, leemos: Micael Faber. ¿Nos autoriza esto a pensar que Herrero no es apellido, sino identificación mediante el oficio o, por el contrario, debemos suponer que el escriba, Bricio, diácono de San Vicente11, quiso introducir una variación latinizante en este texto? Sucede algo parecido con los gentilicios: en el doc. 331, año 1213, f. 74rb, en el que un monje de Silos entrega materialmente la villa de Cabañas al arzobispo don Rodrigo, los testigos se organizan según su lugar de procedencia, primero los hombres buenos de Ocaña y después los de Cabañas, bajo el epígrafe: De cabanias; pues bien, el último de estos es Martin de Cabanias, denominación que resultaría redundante si se refiriese sólo a su procedencia. La importancia del estudio de esta variación ortográfica, corriente, por otra parte, en la escritura de este periodo, radica en la mencionada aportación de la documentación del ACT a la caracterización global de la variedad lingüística toledana; el análisis de la variación ortográfica en los documentos puede arrojar luz sobre este capítulo de la historia de la lengua. 3.3. Variación entre documento y título Es especialmente interesante la variación gráfica entre los nombres propios mencionados en los títulos o pequeños regestos que acompañan a los documentos y el cuerpo de la carta.12 Hemos mencionado ya que en el cartulario 996 se alternan un gran número de copistas diferentes; también en los títulos encontramos diferentes manos. El copista del documento deja un espacio en blanco al inicio que luego es utilizado para el título; en algunas ocasiones queda en blanco (f. 83va, por ejemplo), mientras que en otras resulta insuficiente y la escritura se prolonga en el espacio entre columnas (f. 43va) o al margen (f. 86rb). En general, se puede decir que, en los casos comprobados, 996 mantiene las grafías de los originales en la copia del documento, pero introduce alteraciones cuando menciona los mismos nombres en los En documentos más antiguos no se indica, sin embargo. Un ejemplo destacado es el doc. 1, de 987, donde encontramos una serie de personajes (Belasius, Felix, Garsenus, Johannes, Julianus, Maurellus, Menendus, Pascasius, Petrus, Potentius, Sabastianus, Stephanus, Transmirus) cuyos nombres se acompañan simplemente con la denominación abbas. 11 Este personaje aparece en dos documentos y siempre se denomina a sí mismo de la misma manera, única en el cartulario: Ego Bricius et connomine Lupus (doc. 267, año 1199, f. 91vb; doc. 279, año 1203, f. 91rb) 12 En los originales comprobados no hay correspondencia entre el título que reciben en el cartulario y el regesto anotado al dorso. 10
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títulos, probablemente más acordes con los usos gráficos del centro de copia del cartulario o del escriba (Breay 1999: 116; Brittain 2004: 31). Mencionamos a continuación algunos de los cambios entre la copia del cuerpo del documento y el título: doc. 26, año 1127, f. 101 rb-va: título: Nesina; doc.: Nezina dc. 31, año 1130, f. 104vb: título: Bermundo Petriz; doc.: Bermut Petrez doc. 44, año 1142, f. 93va: título: P. Afillado; doc.: Petro Afilado doc. 49, año 1144, f. 81vb: título: Cethe; doc.: Cete doc. 65, año 1149, f. 102va: título: Guter Petrez de Rinoso; doc.: Guter Petriz de Rinoso doc. 81, año 1151, f. 90ra-b: título: Enego Adalil; doc.: Enigo Adalil doc. 149, año 1163, f. 84ra-2: título: Gonsalui de Maranion; doc.: Fernandus, Marricus, Gomez Gundisalui, filii de comite Gundisaluo de Maranone doc. 146, año 1166. f. 89rb-va: título: Johannis Zapatarii; doc.: Johanni Zabateiro doc. 153, año 1168, f. 102ra: título: Clemens Almuqedez; doc.: Clemens Almukedez doc. 156, año 1170, f. 66rb-va: título: Arnalt Corbin; doc.: Arnaldus de Corbin doc. 190, año 1181, f. 84vb-85ra: título: Gundissaluo Didaci, Melesende; doc.: Gonzalvo Diaz, Melisent doc. 202, año 1182, f. 98ra: título: Petrone; doc.: Pedrona doc. 206, año 1183, f. 101vb-102ra: título: Petri Garsie de Aza; doc.: Petrus Garciez de Aza doc. 222, año 1188, f. 85va: título: título: Dominico Iacobi; doc.: Dominicus cognomine Iacobus doc. 235, año 1190,f. 77va-1: título: Marie de Estella; doc.: Marie de Stella doc. 379, año 1218, f. 23rb-va: título: Gundisalvo de Mesa; doc.: Gonzalvo de Mesa
En esta breve selección de datos, se puede apreciar que entre los títulos y las grafías de los documentos originales copiados existen diferencias de todo tipo, desde cuestiones meramente gráficas, como la elección th / t en el nombre de Cete en el doc. 49, la adición de la e- epentética ante el apellido de María de Estella en el doc. 235, o el cambio s / z el doc. 26 o k / q en el doc. 153, hasta la latinización del nombre de Gonzalo (de Marañón, doc. 190, de Mesa doc. 379) o Zapatarii (doc. 146). Algunas de las variaciones son lingüísticamente muy interesantes, como la apócope con ensordecimiento final en los nombres Melisent (doc. 190), Arnalt (doc. 156) o Bermut (doc. 31), las oscilaciones en las vocales palatales en Enigo / Enego (doc. 81) o el apellido Petrez / Petriz (doc. 65) o las corrección de la sonorización de Pedrona en el doc. 202. Es decir, se comprueba que estas diferencias no siguen un patrón fijo, oscilan entre la latinización o la adopción de grafías romances. En otros casos, vemos cambios en la denominación de la persona: doc. 139, año 1163, f. 93rb: título: Maria Petri Tolosa; doc.: Maria que fuit uxor Petri Tolosani doc. 366, año 1216, f. 101va: título: Maria Dominguez, doc.: Maria Domingo filia del rei de Pedro Ovequez; de Pero Ovequez; abas de Peidrovequez
Aunque no nos ocupamos aquí de los topónimos, llama la atención la variación en el nombre de la aldea de Alcabón, Perovéquez. Este documento está en romance y las diferentes formas del nombre Pedro son las que encontramos también en la onomástica del cartulario. También es interesante la variación que sufren los nombres a lo largo del documento. Por ejemplo: doc. 258, año 1195, f. 99vb-100ra: título: Loba; doc.: Loba Stephani Iuliani filia, Lupa Estefani confirmo
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En algunos casos estos títulos precisan la identidad de algunos de los participantes en el acto documentado, pero sin añadirlos al texto del documento ni alterar este de ningún modo. Por ejemplo, en f. 96rb leemos De testamento Raimundi decani Toletani, mientras que el documento comienza simplemente: ego R. toletane sedis decanus(doc. 316, año 1211); f. 67va-vb el título es De hereditate Peidro Cosso in alcudia, mientras que el documento identifica a los receptores de la donación como Sancio et Petro nepotibus Iohannis Maquede (doc. 52, año 1146).
4. Variación cronológica y según la tipología documental El estudio de la variación cronológica y tipológica de la onomástica del cartulario 996 presenta especial interés, ya que, como se ha dicho, los documentos no están ordenados y sólo en algunas partes del volumen presentan una cierta organización cronológica o geográfica, aunque no del todo exacta (Miguel en prensa); el hecho de que los datos que aportan los textos presenten tendencias cronológicas apreciables nos habla una vez más de la relación entre copia y original, ya que esta progresión no se puede atribuir a una estandarización de los textos por parte de los copistas del cartulario ni a diferencias entre los hábitos gráficos de los escribas que alternan en la copia. En primer lugar, los nombres visigodos que encontramos en los primeros documentos (Sunna, Cixila, Transmirus, Sisebuto, Sesmiro, Seniofredo, cf. Piel / Kremer 1976), desaparecen casi por completo a partir del 1100, cuando empezamos a encontrar nombres de origen franco (Bernardo, Roberto, Guillermo, Ramírez 1993: 577; Ruiz 1995). A partir del segundo cuarto del XII la variación onomástica sufre un descenso. Pasamos de una media de 1,7 personas con el mismo nombre en el periodo de 1101-112513 a 2,7 en el periodo siguiente (1126-1150); sube a 3,8 entre 1151 y 1175 hasta llegar a 5,2 entre 1175 y 12001 y 5,4 entre 1201 y 1225. La mayor parte de los nombres únicos que encontramos pertenecen a clérigos y son u onomástica bíblica (como Amós, obispo de Lugo, o Adán, presbítero) o creaciones latinas cristianas del tipo Seruusdei, probablemente adoptada tras la ordenación sacerdotal. Los nombres más difusos se recogen en la tabla siguiente (en %; sólo se tienen en consideración los nombres que superan el 2%):
Pedro Juan Martín Domingo Miguel Rodrigo García
1101-1125
1126-1150
1151-1175
1175-1200
1201-1225
10,90
14,36 12,64 5,7 4,02 6,89 6,32 3,44
12,9 9,89 5,8 6,88 3,87 3,01 3,44
12,78 10,83 5,15 4,44 3,55 2,84 2,84
12,31 8,51 3,98 7,6 2,71 3,44 2,71
4,87
No se tiene en cuenta el primer periodo, de 987 a 1100, ya que la documentación presenta características especiales, comentadas más arriba.
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1101-1125 Fernando Guillermo Gonzalo
1126-1150
1151-1175
6,09
1175-1200
1201-1225
2,48
3,07 2,53 2,35
3,22 4,44 Tabla 1
Los nombres más populares son, con diferencia, Pedro y Juan. Juan tiene la particularidad de empezar a aparecer sólo a partir del primer cuarto del XII. Martín, en cambio, otro de los más comunes, es el único, junto con Pedro, que aparece consistentemente a lo largo de todo el cartulario. Fernando es un caso curioso: tras ser uno de los más populares a principios del XII, sufre un brusco descenso hasta el último cuarto de ese siglo, para repuntar tímidamente en ese momento. También Guillermo, tras un momento de popularidad a mediados del XII, desaparece prácticamente para volver a aparecer a principios del XIII. Gonzalo se difunde sólo entre finales del XII y principios del XIII. Asimismo, otros nombres sólo son frecuentes en un periodo determinado, estando en otras épocas casi ausentes de la documentación. Es el caso de Pelayo y Raimundo entre 1101 y 1125, cuando ambos alcanzan un 4,87,% para desaparecer posteriormente. Entre 1126 y 1150 Esteban y Julián suponen respectivamente un 4,02% y un 4,59% de los antropónimos recogidos. Finalmente, entre el 1201 y el 1225 el nombre Egidio conoce una popularidad no registrada anteriormente (3,26%). También se aprecian tendencias diferentes en los apellidos según las diferentes épocas de los documentos. En los documentos más tempranos abunda, sin llegar a predominar, el nomen unicum (Bourin 1993: 105; Duby 1973: 398-9), con indicación en muchas ocasiones del oficio o cargo del personaje. Hasta el segundo cuarto del s. XII la mayor parte de los patronímicos presentan la terminación -z; pero a partir del tercer cuarto y definitivamente en el siglo XIII encontramos preferentemente el genitivo latino, con muy raras excepciones. Esto es especialmente interesante en los confirmantes de los documentos de la cancillería real, cuyo apellido se estandariza mediante un genitivo latino y un nombre latinizado en la práctica totalidad de los casos (Menéndez Pidal / Tovar 1962: 374-6; Kremer 1988: 1589). De cualquier forma, la variación, sobre todo en la documentación privada, es notable. En el doc. 228 (1189, f. 75vb-76ra) el testatario R. Roderici menciona en las mandas a su hermano Ferrando Roiz, donde se aprecia que la latinización es mayor en las partes formularias y menor en las menos estandarizadas. Por lo que respecta a la variación entre documentos, llama la atención la forma de denominación de los suscriptores o confirmantes en los documentos del cabildo toledano, que se limita a la inicial del nombre de pila y al cargo desempeñado (J. thesaurarius), con indicación a veces del origen geográfico (D. Guadalfaiarensis diaconus) o de la iglesia o capellanía a la que pertenecía (F. presbiter Santi Andree). Sólo en contadas ocasiones encontramos el apellido de los clérigos u otros modos de denominación (Dominicus Niger capellanus). Pues bien, esta forma de denominación mediante la inicial no se encuentra en el cartulario antes de la mitad del siglo XII, es rara en documentos privados y, cuando aparece, se refiere casi siempre a un clérigo. En los originales, muchas de estas iniciales son firmas autógrafas, pero, sobre todo a partir del s. XIII, se deben a la misma mano del escriba del documento. Otro cambio importante se generaliza a partir de la mitad del siglo XII la
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Ruth Miguel Franco
denominación mediante (patronímico) de + topónimo. Encontramos el primer caso en 1146 y se difunde considerablemente a partir del tercer cuarto del XII (Bourin 1993:104-5).
5. Conclusiones Los cartularios delimitan un corpus documental con fronteras cronológicas y geográficas más o menos precisas, determinadas por las intenciones o necesidades de los compiladores o promotores de su elaboración en un momento preciso. El conjunto resultante, que quizá adolezca de falta de cohesión o de objetividad si nos atenemos a criterios estrictamente historicistas, ofrece una visión particular de la documentación de un centro concreto y es, por ello, una doble fuente de información: la que nos ofrecen las cartas en sí y la que nos ofrece el modo en el que fueron seleccionadas, dispuestas y agrupadas. El cartulario 996 copia con notable precisión los documentos originales, también en lo que respecta a los nombres propios de persona, como se puede observar de la comparación entre documento original y copia. También el contraste entre los títulos que anteceden a los documentos y los textos en sí es revelador de la intención de fidelidad que caracteriza la copia. El conjunto de datos onomásticos que ofrece el cartulario presenta características interesantes en lo que respecta a las diferentes formas de denominación de la persona en documentos eclesiásticos y laicos, la difusión o retroceso de determinados nombres o en la evolución de la notación de los patronímicos. Así pues, con la caracterización del cartulario que se realizó al principio y de los datos hasta aquí expuestos se puede afirmar que el cartulario Madrid, AHN, 996B, es en sí una fuente de gran valor para el estudio de la documentación del Archivo Capitular de Toledo y puede aportar datos complementarios al análisis, lingüístico e histórico de las cartas originales.
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Maria Mihăilă (Université de Craiova)
Aspects actuels de l’anthroponymie roumaine
1. Introduction Les noms de personne représentent le signe linguistique le plus intimement lié à l’expérience humaine. C’est pourquoi, ces noms doivent être connus et mis en lumière pour ceux qui veulent connaître la vérité sur leurs prédécesseurs. L’anthroponymie s’est constituée comme branche de la linguistique pendant les dernières décennies du XIXe siècle, quand on a établi les caractéristiques et les valeurs distinctes des noms propres par rapport aux autres mots de la langue. Au XXe siècle, on a enregistré le développement de la recherche anthroponymique diachronique et synchronique par les études consacrées aux problèmes concrets, théoriques et méthodologiques et par la fondation des premiers centres de recherche anthroponymique. La nouveauté des deux dernières décennies consiste dans le fait que les anthroponymes sont considérés dans leur ensemble, comme un système qui doit être étudié tel quel. Signes linguistiques d’une nature particulière, les noms propres de chaque langue se constituent dans un système distinct, organisé d’après les règles onomastiques, d’une manière cohérente et différencié en ce qui concerne la sémantique, la morphologie et la syntaxe. Dans notre communication, nous voulons présenter quelques aspects de la modernisation du système onomastique roumain. Par conséquent, l’inventaire onomastique actuel a changé par rapport à l’inventaire médiéval, mais ce changement n’a pas d’incidence directe sur sa structuration, car les formes traditionnelles coexistent avec les formes nouvelles, mais plutôt sur son enrichissement. En outre, la modernisation concerne uniquement le fonds des prénoms et non pas celui des noms de famille, où les prénoms religieux continuent à occuper la première place dans la hiérarchie de fréquence. Si les prénoms laïques slaves se remarquaient, dans le système médiéval, par leur fréquence élevée, ils occupent aujourd’hui une place moyenne tout comme les prénoms modernes qui ont un degré élevé ou moyen de fréquence.
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2. Aspects actuels de l’anthroponymie roumaine 2. 1. Le statut, la classification, le sens des noms de personne Les caractéristiques du système onomastique roumain, la saisie et la distribution des anthroponymes ont été abordées traditionnellement, l’innovation se trouvant au niveau des unités anthroponymiques. On accorde une importance beaucoup plus grande aux problèmes théoriques et méthodologiques qui visent la promotion de nouvelles optiques scientifiques adéquates à la complexité des projets de recherche en harmonie avec l’étude européenne du système. Les méthodes pour rassembler le matériel ont reposé sur les systèmes informatisés officiels, ce qui garantit la précision des données pour la fréquence des formules officielles enregistrées et une analyse plus attentive des caractéristiques du système anthroponymique roumain actuel. En faisant référence aux étapes récentes d’évolution du sous-ensemble anthroponymique, formé des noms individuels (prénoms), on constate que la croissance de son inventaire est en relation avec d’autres facteurs. Dans le choix d’un nom, ce qui compte c’est d’abord le critère culturel et ensuite le critère euphonique. Dans le cas du système anthroponymique national, avec motivation sémantique, une analyse diachronique nous mène à la conclusion qu’il y à une relation entre la vitalité de certaines unités du système anthroponymique populaire et la sémantique des noms communs dont ils proviennent. Dans le cas anthroponymique delexicalisé, les noms se rapportant aux lexèmes à sémantique pastorale occupent une place importante (Dima 2008: 64). 2. 2. L’évolution du système anthroponymique roumain L’étude diachronique du système anthroponymique roumain est l’objectif déterminant dans l’établissement d’une périodisation de la formation du système anthroponymique actuel de la Roumanie par l’analyse des vagues d’influence. L’évolution du système anthroponymique roumain comporte plusieurs étapes: – la formation des anthroponymes dans le procès de romanisation sur le fonds de la christianisation de la population autochtone; – les emprunts onomastiques directs des peuples migrants: Slaves, Coumans, Hongrois ou les emprunts cultes a travers l’église par la langue grecque; – la fixation et la consolidation du système onomastique médiéval. La structure de l’inventaire onomastique se définit en relation avec les classes sociales et dans la perspective de la distinction entre un système dénominatif populaire et l’autre culte. 2.3. Le moyen de formation des noms individuels et de groupe et des hypocoristiques roumains On a analysé les principaux moyens de formation des formules de dénomination personnelle, y inclus ceux des hypocoristiques.
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En ce qui concerne le changement de la valeur onomasiologique et le comportement linguistique par le passage d’une classe à l’autre, le facteur le plus important dans la modification ou dans l’apparition de nouveaux noms de personne fréquents semble être la mode. Par conséquent, de nouveaux suffixes anthroponymiques ou des noms étrangers ainsi que des dérivés régressifs sont apparus pour remplacer les anthroponymes traditionnels. A présent, il y a le phénomène des emprunts des noms de stars, de personnalités politiques, culturelles, de personnages des films. Dans la transmission des noms, la charge sémantique disparaît, leur adaptation ayant lieu au niveau morphologique et phonétique. Ils sont entrés dans la classe des noms de personne certains adjectifs, numéraux, participes, vocatifs, auxquels on a ajouté des suffixes anthroponymiques spécifiques. (Marin 2004)
Les prénoms sont moins nombreux, mais avec une grande fréquence et avec un grand pouvoir de dérivation et de combinaison avec d’autres noms, tandis que les noms laïques sont plus nombreux, avec moins de variantes anthroponymiques et avec une distribution différente. Le plus important courant de renouvellement de l’onomastique roumaine a lieu a la fin du XVIIIe siècle en Transylvanie et il se prolonge au XIXe et XXe siècles. Il s’agit dans l’introduction de nouveaux prénoms, repris du répertoire onomastique latin et cela aura des repercursions sur tout l’inventaire des prénoms traditionnels. L’introduction des prénoms romanes dans le système onomastique roumain a eu lieu par voie savante, les formes onomastiques étant empruntées a la civilisation et a la culture latines (Cezar, Laurentiu, Marius, Remus): Aurelia, Cornelia, Livia, Valeriu. L’adoption moderne des noms de personne latins a eu de grandes chances a s’imposer dans l’onomastique roumaine grâce a la triple valeur des formes onomastiques: noms illustrant l’origine latine, noms affectifs et noms spécifiques introductifs (Tomescu 2001: 133). Le problème de la fixation des prénoms modernes, cultes dans la tradition onomastique roumaine, appartient à l’avenir qui va décider sur la conservation et sur la disparition de certaines formes. Le regretté prof. Gheorghe Bolocan a fondé à l’Université de Craiova, en 1992, le Laboratoire de Sciences Onomastiques dans le but d’élaborer un Dictionnaire des noms de famille de Roumanie, une première synthèse scientifique sur les noms de personne roumains, sans tenir compte de leur origine. Le Dictionnaire va inclure: – les noms de tous les citoyens de la Roumanie (en indiquant la fréquence de chaque nom et la diffusion de ces données sur le territoire). On a obtenu une liste de plus de 300.000 noms avec la mention du nombre de ceux qui les portent. – les attestations provenues des documents et des catagraphies ; On se pose le problème du nombre des noms de famille sur le territoire de la Roumanie (voir Dauzat). En 1995, on a initié à Craiova une revue de spécialité « Etudes et recherches d’onomastique », rédacteur en chef Gheorghe Bolocan. Le Dictionnaire toponymique de la Roumanie - Olténie, en 6 volumes de 500 pages. L’Institut de Linguistique « Iorgu Iordan » de Bucarest, sous la coordination de son directeur, l’acad. Marius Sala, participe à la réalisation du Dictionnaire historique des noms de familles romanes (PATROM), projet européen, initié il y a deux décennies et coordonné par le Comité International des Sciences Onomastiques, la Société de Linguistique Romane, la Société Américaine du Nom et la Société Canadienne pour l’Etude des Noms.
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Du point de vue de la modernisation du système onomastique, on constate les aspects suivants: 1. le changement de l’aspect de l’inventaire onomastique actuel par rapport à celui médiéval; 2. le changement n’a pas de répercussions sur l’inventaire onomastique car les formes traditionnelles coexistent avec les formes nouvelles; 3. la modernisation de l’anthroponymie ne suppose pas le remplacement des vieilles formes par des formes nouvelles; 4. la modernisation apparaît uniquement au niveau du fonds des prénoms et non pas à celui des noms de famille. Les prénoms religieux traditionnels, masculins ou féminins, continuent à occuper les deux premières places en ce qui concerne la fréquence: Gheorghe 1, Ion, Ioan 2/3, Vasile 4, Constantin 5, Maria 1, Elena 2, Ana 3, Ioana 4, Mariana, Mihaela 6, Ileana 7, Daniela 1. Dans le premier groupe de fréquence, il y a des noms de fêtes religieuses: Florin 10, Cristian 22, Floarea, Cristina 12, et comme noms modernes: Marian 11, Marius 14, les deux provenant du nom religieux Maria, bien que le nom latin Marius n’a aucune relation avec le prénom Maria. Les prénoms laïques slaves, qui étaient très fréquents dans le système anthroponymique médiéval occupent une place moyenne ou très modeste: Mircea 26, Dan 102, Vlad 103. Les noms laïques provenant des noms communs sont rares, la plupart des formes vieilles sont en déclin. Il y a pourtant les noms modernes Viorel 11 et Viorica 10 qui sont fréquents. On retrouve les noms modernes sur toute l’échelle de la hiérarchie: George 29, Victor 40, Alin 55, Eduard 119. Chez les noms féminins, la modernisation et plus accentuée: Alina 17, Doina 46, Ana Maria 100, Bianca 116, Otilia 140. Le changement de l’inventaire des prénoms sous la pression de l’innovation et de la mode onomastique va s’accentuer avec la modernisation de la vie sociale des Roumains. Les voies de pénétration des nouveaux noms se diversifient et se perfectionnent par l’intermédiaire de l’informatique, de la télévision, de la radio et du libre circulation des personnes. La modernisation du système onomastique roumain a impliqué l’officialisation des noms de famille, le renouvellement de l’inventaire par des formes néogrecs, latinistes et occidentales mais elle n’a pas altéré le fonds onomastique traditionnel, gardé jusqu’à nos jours. Les changements dans l’anthroponymie se manifestent plus rapidement que dans le lexique, ce qui fait que le système onomastique soit le miroir des transformations sociales, culturelles, ethniques, sur un certain territoire. 2. 4. Problèmes de grammaire soulevés par les noms de personne (le genre, le nombre, le cas, les structures syntaxiques, la dérivation) Le système morphologique des formules de dénomination montre que toutes participent à l’opposition de genre, qui est «une catégorie fixe des anthroponymes à fonction de classificateur formel» (Tomescu 1998). On a considéré que les porteurs des noms constituent une catégorie flexionnelle où la plupart des noms se présentent au singulier, mais cette thèse classique a été abandonnée, en démontrant que, du point de vue distributionnel, les noms propres sont soumis à l’opposition singulier / pluriel: «La règle des grammaires courantes de considérer comme singularia tantum les noms propres de personne ne correspond pas à la réalité linguistique» (Iordan 1954: 302).
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L’opposition de détermination ou l’articulation a une fonction exclusivement casuelle. Les anthroponymes expriment le Nominatif à l’aide des terminaisons de genre et de nombre, le Génitif / Datif à l’aide des morphèmes syntaxiques enclitiques et le Vocatif par les morphèmes synthétiques. Le comportement morphologique de même que celui syntaxique subordonnent les anthroponymes à la classe du nom commun. 2.5. L’orthographe, l’orthoépie et l’abréviation des noms de personne Quand ils sont empruntés aux systèmes onomastiques étrangers, les noms de personne créent des problèmes d’orthographe et d’orthoépie, les uns étant adaptés complètement. L’abréviation elle aussi pose des problèmes. Dans ce cas, il faut consulter les dénominations officielles des noms d’institution. 2.6. Les valeurs expressives des anthroponymes. La stylistique Dans la littérature, les noms propres ont une certaine charge sémantique, le rapport signifié-signifiant étant assez rapproché de celui des noms communs. Les noms de certains personnages littéraires sont devenus fréquents dans le système anthroponymique roumain, tout en influençant ainsi la mode. Ils sont devenus l’emblème du caractère du personnage ou de la complexité des ceux qui les portent. Par rapport à la réalité, le rôle des anthroponymes en littérature est parfois lié à leur sens, le rapport signifié-signifiant étant assez rapproché de celui entre les noms communs. 2.7. Interférences des différents systèmes onomastiques Ce problème est étudié partiellement et porte, surtout, sur le système slave de dénomination, sous nombreux aspects (diachronie). Comme les noms de personne sont des éléments qui marquent les tendances du roumain dans les différentes étapes de son évolution, leur recherche continue à différents niveaux et sous nombreux aspects dans les centres universitaires ou académiques où les jeunes chercheurs cherchent à déchiffrer les secrets des noms du début du XXIe siècle pour continuer le travail des prédécesseurs, car nomen est omen.
3. Conclusions La description de l’organisation anthroponymique roumaine, caractérisée par l’abstraction et par la généralité, a pour objectif, d’une part, la définition des noms de personne en rapport
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avec les relations qu’ils établissent, en fonction de leur place sur l’ensemble du système et non pas de leur nature et, d’autre part, la définition des combinaisons réalisées par les unités du système. L’inventaire de ces éléments, leur classement en fonction de l’accomplissement de la fonction anthroponymique, la description de la distribution des noms de personne dans différentes combinaisons gardent l’analyse anthroponymique dans le domaine de la linguistique synchronique. Le système anthroponymique roumain s’individualise par les aspects suivants: 1. Les noms de personne, tout comme les noms de lieu, font partie du patrimoine linguistique d’une langue et leur étude nous permet de mieux comprendre l’évolution de la langue à travers le temps. 2. L’inventaire des noms de personne a un caractère ouvert et dynamique. 3. Malgré la variété des formes onomastiques concrets, on constate que le système anthroponymique roumain présente des traits de généralité.
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Olga Mori (Universidad de Münster)
Acerca de la especificación de los nombres propios
1. El concepto de segunda designación Acerca del concepto de que los nombres propios son una segunda designación hay diferentes opiniones. Posiblemente, la más difundida sea la que considera que los nombres propios son segundas designaciones por ser homónimos de otras designaciones primarias simples o compuestas e incluso de oraciones. Fleischer (1985: 10-13) opina que este atributo no puede ser aplicado a todos los tipos de nombres propios y que otras designaciones también pueden ser llamadas secundarias y que por segunda designación debe entenderse un cambio de función, el paso de designaciones usuales al sistema onomástico. Bajo este concepto Coseriu (1973: 280) entiende otra cosa. Dice que el nombre propio es «un segundo nombrar individualizante y unificante; un nombrar que no está antes, sino después del nombrar mediante universales». Según este criterio, la primera designación de un referente personal es el nombre común, p. ej., hombre y la segunda el nombre propio, el antropónimo Juan, con el que se identifica a una persona determinada. En mi opinión, existen dos tipos de designaciones dentro del plano de los nombres propios. Segundas designaciones onímicas son los nombres no oficiales, los distintos tipos de sobrenombres utilizados para nombrar a un individuo ya designado por un primer nombre propio oficial. Aquí observamos la interrelación entre la primera y la segunda designación con nombres propios en el plano del habla. A veces funcionan independientemente unos de otros según el ámbito o el ambiente, otras complementándose.
2. Especificación informativa o identificación Partimos del presupuesto que los nombres propios son multívocos, es decir que, como meras formas, un mismo nombre puede designar distintos referentes. Según Coseriu (1973: 306-307), existe un tipo autónomo de determinación, la especificación informativa o identificación cuyos instrumentos son llamados identificadores, por medio de la cual se especifica el significado de una forma multívoca. Agrega:
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Olga Mori
La identificación es una operación que no se realiza con significados sino con formas, y en vista de la atribución del significado por el interlocutor: ella se cumple para que las formas sean inequívocas, es decir, para que el oyente les atribuya ciertos significados y no otros.
En este trabajo, observamos, entonces, cómo se establece la unicidad de un nombre propio en el plano del habla por medio de la especificación informativa o identificación para garantizar la identificación de un referente. Tenemos en cuenta dos casos: 1) el empleo de un mismo nombre propio para designar a diferentes individuos de la misma clase, p. ej., muchas personas se llaman Juan, y 2) el empleo de nombres propios homófonos que designan distintos tipos de referentes, p. ej., Córdoba es una provincia argentina, la capital de esta provincia, el nombre de una calle y el de un negocio.
3. Los nombres propios oficiales Los nombres propios oficiales, por ejemplo los antropónimos, se diferencian de otros signos lingüísticos por estar reglamentados por ley, o sea que, al estudiarlos, hay que tener en cuenta dos aspectos, el legal y el lingüístico, aunque más no sea en diferentes niveles de análisis. La estructura y el empleo de los nombres propios oficiales están fijados por ley, debido a lo cual en el plano de la norma y en el del habla, el aspecto legal interfiere en el lingüístico reglamentando las estructuras de estos nombres mientras que la de los no oficiales solo depende de las posibilidades del sistema de cada lengua. Es más, como las leyes que fijan el uso de los nombres de persona están sujetas a modificaciones por adelantos sociales o a petición de los habitantes, la forma, la lengua y la nomenclatura de los antropónimos se ven sometidas a cambios temporales. Como consecuencia de delimitaciones político–geográficas, los nombres propios oficiales acusan diferencias estructurales dentro de la zona lingüística del español, es decir que no hay uniformidad sino semejanzas de estructuras y de nomenclaturas entre las distintas zonas, las que deben ser respetadas, por ejemplo, en los textos literarios que tratan de reproducir el habla de una zona. Sólo a título de ejemplificación comparamos, brevemente, la ley española con la argentina sobre la imposición de un nombre de persona. En primer lugar, ambas leyes establecen que la adjudicación de un nombre propio identificador a los recién nacidos dentro de un plazo determinado es un derecho y un deber; además fijan la lengua, el género, la estructura, la cantidad, y el significado de los nombres. 3.1. La ley española sobre la otorgación de nombres de persona La ley española publicada por el Registro Civil (1989) establece, en el Capítulo III, Del nombre y apellidos, §§ 53-54, 40–41, que las personas deben ser designadas por su nombre y apellidos, paterno y materno. Los nombres de los ciudadanos españoles deberán ser consignados en alguna de las lenguas españolas. Se prohíben los nombres extravagantes,
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impropios de personas, irreverentes o subversivos así como la conversión en nombre de los apellidos o seudónimos. No se debe imponer al nacido el nombre de un hermano vivo o cualquier otro que dificulte la identificación. Además, la ley fija qué apellidos se impondrán y en qué orden en el caso de filiación legítima, de hijos naturales o de padres desconocidos. Además, la ley establece (Título V, Sección 5.a. Del nombre y apellidos. Subsección 1.a. Del nombre propio, §192, 126) que no se pueden otorgar más de dos nombres simples unidos por un guión o uno compuesto. Si los nombres en lenguas extranjeras tienen traducción se registrarán en una de las lenguas españolas que elija la persona que otorga el nombre. No se deben emplear nombres extravagantes que solos o en combinación con los apellidos no respeten el decoro de las personas ni los que hagan confusa la designación o induzcan a error sobre el sexo. En la Subsección 2.a. De los apellidos en general, §194, 126, se establece que la conjunción copulativa se empleará entre el apellido paterno y el materno. No se permite el empleo del apellido Expósito ni de ningún otro que indique origen desconocido (§196, 127). Por otra parte, se fija que los que adquieran la nacionalidad española conservarán los apellidos con la variante femenina o masculina admitida en el país de procedencia (§§199-200, 127). 3.2. La ley argentina A grandes rasgos existen semejanzas entre la ley española y la argentina. En Argentina, la ley Nº 18.248 de la Dirección Nacional del Registro Oficial publicada en el Boletín Oficial de la República Argentina en 1969 fija la adjudicación de los nombres propios oficiales de las personas. Esta ley fue modificada en 2006 eliminándose algunos aspectos en los que se discriminaba a las mujeres. Un cambio importante es el agregado de que el nombre debe individualizar e identificar, lo que está relacionado con su función lingüística. Se permiten hasta tres nombres de pila. Según la nueva versión, no se usará más el apellido paterno solo sino los apellidos paterno y materno sin nexo de unión entre ellos, incluso si éstos son compuestos, pero no podrán ser más de cuatro. Antes, las mujeres casadas debían adoptar el apellido del esposo precedido por la preposición de; en la actualidad, es optativo para ambos cónyuges añadir el apellido del otro precedido por la preposición . En lo que respecta a la lengua, se usa el castellano y se adaptan los nombres extranjeros de difícil grafía y pronunciación. Por el Art. 1 de la Ley N° 23.162 del 30.10.1984 se permite inscribir nombres procedentes o derivados de voces aborígenes autóctonas previa realización de un trámite administrativo ante el Instituto Nacional de Asuntos Indígenas que fundamente el nombre indígena en castellano. Se pueden usar nombres idénticos para hermanos vivos siempre y cuando uno de los tres nombres de pila sirva para identificar. En lo que concierne al significado, se ha introducido un concepto más amplio, prohibiéndose la inscripción de nombres lesivos a la dignidad de la persona. 3.3. Comparación de las dos leyes Las leyes de los dos países varían en la cantidad máxima de nombres y apellidos que se pueden imponer y en el empleo de una conjunción o guión para unir los nombres o no. Actualmente, la ley argentina se acerca más a la española porque permite usar el
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apellido de la madre también aunque sin conjunción. Este segundo apellido materno puede, en ocasiones, asegurar la univocidad del nombre. Difieren en la posibilidad dada a los cónyuges de optar por el apellido de uno de ellos precedido por la preposición de al casarse y respecto a las lenguas utilizadas. En los dos países, el nombre no debe dejar dudas acerca del sexo del designado, lo que implica la existencia de nomenclaturas de nombres femeninos y masculinos. La ley española va más lejos al aceptar nombres extranjeros con diferentes terminaciones de acuerdo al género. Con mayor o menor detalle, las dos limitan la selección de los nombres por su poder evocativo. En el plano del habla difieren las nomenclaturas de los dos países, a veces hasta el extremo de que algunos nombres usados en España son tabú en la Argentina. Sin embargo, desde el punto de vista pragmático, lo prescrito por la ley no se cumple fielmente. Así, en lo que respecta a la connotación política, en los dos países han sido adjudicados nombres a los recién nacidos que evocan las ideas políticas de los progenitores. A pesar de la restricción de seleccionar nombres de acuerdo al sexo, en la norma del español Jesús, José, Ángel y María pueden formar nombres compuestos en los que el primer nombre actúa como especificador del sexo de los nombrados María José, María Jesús, María Ángel y José María, Jesús María. No obstante la cantidad de nombres y apellidos registrados en los documentos oficiales para asegurar la identificación, muchas personas no los emplean en la norma individual. Tal proceso de reducción puede llegar hasta emplearse solo las iniciales en una firma: J A < José Antonio. Estas leyes, no necesariamente conocidas por los ciudadanos, les quitan libertad creativa, limitan su expresividad y la necesidad de nombrar a alguien con afecto. Los hablantes no se limitan al empleo de los nombres oficiales sino que crean segundas designaciones no oficiales que transgreden lo establecido por las leyes. Los apodos, por ejemplo, son ridículos, extravagantes, suelen expresar tendencias políticas e ideológicas y, a veces, suscitan intencionalmente equívocos respecto al sexo de la persona. Escapan a todo tipo de restricciones respecto al número de elementos y de construcción morfosintáctica y algunos tipos de sobrenombres se forman por alteración de la forma del nombre legal, p. ej., del apellido Tabanelli se ha formado Tábanos; otros se crean para que sean homófonos de nombres propios aceptados en la norma escondiendo una connotación negativa: Elena < el enano (Mori 1993).
4. Especificación o identificación de los nombres propios legales Ahora bien, debido a la multivocidad de los nombres propios surge la necesidad de especificarlos para asegurar la identificación. El apellido o los apellidos actúan de identificadores del nombre de pila. Sin embargo, en general, no se ha tenido en cuenta en la gramática la existencia de la especificación dentro del nombre de pila. Uno de los nombres debe identificar a hermanos; en Argentina se repite con frecuencia el nombre María, p. ej., María Rita, María Inés y María Julia Echeverría son hermanas. Aquí el segundo nombre de pila actúa como especificador del primero y como desambiguador e identificador principal
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porque el primer nombre y el apellido coinciden. A pesar del propósito de los padres de llamarlas por los dos nombres, en el ámbito familiar suele caer el primero y el segundo se convierte en el identificador individual. Asimismo, en el habla, se tiende a simplificar los nombres legales y a crear nuevas designaciones a partir de ellos para sustituirlos, hecho que se observa en la abundante creación de formas hipocorísticas o de otros sobrenombres. En el ejemplo mencionado, las niñas recibieron esporádicamente los sobrenombres: Riti o Rata < Rita, Inu < Inés y Maju < María Julia. Este ejemplo pone en evidencia varios hechos en el plano de la norma, por un lado, la influencia de la norma individual en la elección de nombres legales, por otro, la influencia de la norma social que considera el empleo de nombres compuestos con María, de fuerte connotación religiosa, adecuados, bonitos y clásicos. Este nombre no solo se utiliza para formar compuestos sino que según sean las advocaciones de la Virgen que se quieran evocar, el nombre de pila María va modificado por la preposición de + (Art) + NP: María del Pilar, María de la Macarena, María de las Nieves, María del Huerto, María de los Milagros. También se encuentra este tipo de identificación para nombres masculinos, p. ej.: Juan de Dios. Debido a la gran frecuencia de estos nombres compuestos, en el habla se suele abreviar María cuando es segundo nombre, pero se llega hasta el punto de abreviarlo cuando es el primer nombre porque éste se sobreentiende, p. ej., en tarjetas de identificación se han usado: M. Isabel Zwanck y M. Verónica Paladini. En España se emplea la abreviatura Ma. 4.1. Los nombres propios no oficiales funcionan como una segunda designación Si bien la identificación e individualización legal de una persona está dada por el nombre oficial completo, éste solo se realiza obligatoriamente en su totalidad en ámbitos oficiales: documentación personal, trámites legales, pasajes aéreos, etc., y en ocasiones especiales del ámbito privado tales como participaciones de eventos familiares importantes. Ahora bien, como se ha dicho, existe otro tipo de segunda designación. Los nombres propios no oficiales constituyen una segunda designación de tipo metafórico para un referente ya designado por un nombre propio oficial. Con frecuencia, los hablantes hallan que los nombres oficiales no expresan la carga emotiva deseada en ciertas situaciones y crean otros que usarán solos como identificadores individuales o con los nombres legales. Los nombres propios oficiales y los no oficiales tienen sus propios ámbitos de realización en distintos registros, lo que no quiere decir que se excluyan ni que unos tengan más o menos valor que los otros, antes bien, en ciertas situaciones, llegan a complementarse. Desde el punto de vista de la comunicación los nombres no oficiales no solo identifican sino que proveen una mayor cantidad de información sobre el designado. Las restricciones en el empleo de los nombres no oficiales no son de carácter legal sino que están impuestas por el decoro, por la norma social que aceptará o no el uso de algunos tipos de sobrenombres según el ambiente. Como los nombres propios ya están actualizados porque en ellos la designación coincide con la denotación, en el plano del habla, la situación y el contexto pueden garantizar la identificación de un referente incluso para una parte del nombre multívoco, ya sea éste el nombre de pila o el apellido, sin posteriores delimitadores (Coseriu 1973: 307). El registro
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de lengua y la norma determinan el tipo y la forma del nombre que se usa o se debe usar en un acto de habla. En el vocativo, se emplean, según el ámbito, el nombre, el apellido o un sobrenombre solos porque la identificación del nombre multívoco está dada por la situación y la asociación directa entre designación y referente. En cambio, al hablar de una tercera persona no conocida a todos los participantes del acto de habla puede surgir la necesidad de identificar el nombre multívoco: ¿Qué Juan? Juan López; Juan, el hijo de la panadera; el Flaco López; Juan, el farmacéutico, etc. 4.2. Diferentes posibilidades de especificar o identificar un nombre propio Entre las posibilidades existentes de especificar o identificar nombres propios para que resulten inequívocos, figuran las siguientes: 1. el nombre de pila es especificado por el apellido paterno: Ramiro García; 2. el apellido materno puede identificar y distinguir dos nombres y apellidos iguales: Santiago López Guerrero y Santiago López Erb; 3. el apellido de casada puede identificar a una mujer en Argentina: Sra. de Rodríguez y en la actualidad, el apellido de la esposa puede identificar a un hombre también; 4. un nombre de pila evita la multivocidad si el otro nombre de pila y el apellido coinciden: Domingo Faustino Sarmiento (1811-1888) y Domingo Fidel Sarmiento (1845-1866, hijo adoptivo de Domingo Faustino Sarmiento); 5. los numerales identifican los nombres de reyes, emperadores, papas, etc.: Felipe II, Carlos V, así como también los sobrenombres: Alfonso el Sabio, Isabel la Católica. Incluso se usan los dos procedimientos simultáneamente: Alfonso II, , donde Alfonso ya identificado por el numeral lleva, además, un sobrenombre en aposición (Luna 2003: 24). 6. En el ámbito de la nobleza se suele identificar el nombre de pila con el lugar de origen precedido por la preposición más el título: María Josefa de Borbón y Sajonia, infanta de España. 7. Algunos de los identificadores se han fijado en la norma según el ambiente, p. ej., se usan viejo y joven para diferenciar entre padre e hijo en la pintura: Hans Holbein, el Viejo y Hans Holbein, el Joven, aunque también se encuentra Juan de Borgoña hijo como en el habla estándar: Pedro López, hijo. 8. Cuando un antropónimo ha sido transpuesto para designar un negocio y este pertenece a varios hermanos que tienen el mismo apellido, se especifica con una abreviatura la relación existente entre los dueños, p. ej.: Brandli Hnos, Colamé Hnos. Otras estructuras gramaticales con nombres propios oficiales pueden aclarar quiénes son los dueños de un negocio, p. ej., con una conjunción copulativa Pedro Balestrino E Hijo o con un nombre propio en la frase preposicional: Hijos de Ivo Querzoli. Además de estos casos de carácter casi fijo en la norma, en el habla coloquial o en textos que la reproducen se observa un uso creciente de interrelación entre nombres oficiales y no oficiales. Estos también individualizan por sí mismos y llegan a sustituir al nombre oficial en algunos ambientes y en comunidades pequeñas. Como los sobrenombres son también multívocos, en ocasiones deben ser identificados por el apellido: El Flaco López. Los nombres oficiales y los no oficiales no funcionan siempre independientemente unos de otros en el habla sino que participan juntos en distintos tipos de relaciones de identificación. En Argentina, se emplean en el lenguaje coloquial oral y escrito, en la prensa y en la televisión, como se documenta en los ejemplos siguientes.
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El sobrenombre funciona: 1. en forma independiente: Fue arrestado ‹el Polaco›. (TV, Canal 11, 07.05.2010); 2. en reemplazo del nombre, especificado o identificado por el apellido o por una frase preposicional: El ‹Fino› Palacios le salvó la vida a Macri. (TV, Canal 11, 10.05.10); Murió el ‹Chacal› de Mendoza. (TV, Canal 13, 06.05.2010); 3. como identificador del nombre de pila: Alejandro ‹Huevo› Müller y Carlos ‹Chacho› Alvarez (Pronto, Año 14, Nº 701, 06.01.2010), Miguel ‹Mameluco› Villalba (La Nación, 23.05.2010); 4. como identificador de todo el nombre propio en una noticia necrológica: Rubén José Melchiori ‹Bicho› (La Opinión, Nº 7072, 28.05.2010).
5. Designación de referentes de distintas clases por un nombre propio multívoco Otro tipo de multivocidad es el empleo de nombres propios homófonos para designar referentes pertenecientes a diferentes clases. Por ejemplo, Tomás Manuel de Anchorena (1783-1847) es un antropónimo que designa a un jurisconsulto, diputado por Buenos Aires en el Congreso de Tucumán. Las calles de Baradero, Argentina, han sido designadas con los nombres de los congresales para recordar este gran evento histórico con el que se sella la independencia argentina en 1816. Como antropónimo, Anchorena es parte del nombre propio legal, el apellido, identificador del nombre. En segundo lugar, Anchorena es un odónimo, pero no se emplea el elemento genérico calle en la señalización; en España se usaría el elemento genérico más una frase preposicional Calle de Anchorena. En tercer lugar, este nombre se ha empleado para designar un tercer tipo de referente, un negocio, en: Farmacia Anchorena. Es una nueva transposición a partir del nombre de la calle para indicar el lugar donde está situado el negocio. Debido a las posibles transposiciones se va formando una cadena de nombres propios multívocos que se evocan unos a otros aunque designan distintos referentes. La transposición se realiza con nombres propios ya existentes y, en realidad, ésta se lleva a cabo no solo para identificar un referente sino para conservar parte del significado evocativo que conlleva el nombre. Cuando Anchorena se emplea para designar un tercer referente mantiene la evocación de los dos empleos precedentes aunque en este caso prevalece el segundo pues se intenta hacer notar la ubicación del negocio. Cuando se realizan transposiciones existen restricciones según la lengua y aun dentro de la misma lengua como lo hemos comprobado en el caso de la designación de las calles (Mori 2007). A veces es necesario incluir la parte genérica en el compuesto, otras no. El elemento genérico indica la clase a la cual pertenece el referente designado. Si no se usa un elemento genérico, la situación o el contexto indican cuál es el referente en el acto del habla. De todos modos, no consideramos los casos de transposición como ‹polifuncionalidad› del nombre propio pues la función es la misma, lo que cambia son los referentes. Tampoco pensamos que sean homónimos sino homófonos porque son meras formas con significado evocativo (cf. Fleischer 1985: 23).
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5.1. Acerca de los topónimos oficiales multívocos También los topónimos oficiales son nombres multívocos, motivo por el cual requieren identificadores para garantizar la identificación de un referente. Coseriu (1973: 307-308) distingue tres tipos de identificadores: ocasionales (Córdoba, Argentina); usuales (Castellón de la Plana) y constantes (Nueva York). Los identificadores usuales y los constantes forman con el determinado un nombre compuesto, hecho que no impide que puedan suprimirse en el habla. Además, los nombres geográficos se identifican por medio de otros sustantivos propios o comunes y de adjetivos. El determinador no particulariza el objeto denotado sino el nombre con respecto a otros nombres formalmente idénticos. Muchos nombres oficiales están formados por un nombre genérico que designa un referente geográfico más frase preposicional. El elemento genérico designa la clase de referente geográfico a la que se le adjudicó el nombre multívoco. Por ejemplo, en Argentina, los nombres de muchas ciudades son homófonos de los de las provincias de las cuales son capitales. En el plano oficial legal se diferencian unos de otros por el elemento genérico: Provincia de Córdoba y Ciudad de Córdoba, Provincia de La Rioja y Ciudad de La Rioja. Hay casos en que, aunque los nombres oficiales de la capital y de la provincia sean distintos, esta diferenciación no se hará en el lenguaje hablado, p. ej., el nombre oficial de la capital de la Provincia de Tucumán es San Miguel de Tucumán, el homófono de un hagiónimo San Miguel identificado por de + Tucumán, y el de la capital de la Provincia de Catamarca es San Fernando del Valle de Catamarca con dos identificadores, pero en el habla, por un proceso de reducción, se emplean solo Tucumán y Catamarca. En cambio, la ciudad de Buenos Aires no es la capital de la Provincia de Buenos Aires, cuya capìtal es la ciudad de La Plata, sino que es la Capital Federal de la República Argentina, nombre compuesto en el que hay tres identificadores constantes: Federal determina a Capital y de la República Argentina a Capital Federal y Argentina a República. A pesar de la existencia de estos nombres propios oficiales, en el habla coloquial se suelen suprimir los elementos genéricos. El contexto o el conocimiento de la realidad extralingüística actúan como determinadores no verbales: Alguien vive en Buenos Aires o viaja a Buenos Aires, con lo que se sobreentiende Ciudad de Buenos Aires. Los elementos genéricos son importantes desambiguadores en el caso de multivocidad del topónimo. En este ejemplo especial es posible evitar toda ambigüedad en cuanto al referente sustituyendo Buenos Aires por Capital Federal. En las direcciones postales se puede escribir Capital Federal, y los hablantes suelen decir: Vivo en Capital o Voy a la Capital. La identificación del referente correcto del topónimo multívoco puede resultar de la situación del acto del habla, del contexto, y del conocimiento de la realidad extralingüística. Si alguien dice Voy a Córdoba a visitar a Magdalena, se sobreentiende ciudad si los hablantes conocen a la persona mencionada. En Vamos de vacaciones a Córdoba se supone que será algún punto de las sierras de la Provincia de Córdoba. También en revistas que reproducen el estilo coloquial, con frecuencia, se disocia una parte de los topónimos oficiales compuestos, los identificadores usuales, en un cierto contexto. Así, en lugar de Punta del Este, una ciudad de veraneo en Uruguay, se dice solamente Punta, p. ej., Llegaron a Punta para recibir el Año Nuevo (Pronto, Año 14, Nº 701, 06.01.2010), lo que evoca conocimiento del lugar, una clase social elevada de los veraneantes y demás. Por otra parte, en un mismo texto, pueden alternar el nombre completo y el abreviado, sobre
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todo cuando ya se ha mencionado en primer término el nombre compuesto. Lo que también puede facilitar la disociación es que no haya otros topónimos conocidos en la misma región construidos con la palabra Punta. La disociación o reducción de los identificadores usuales no es aplicable del mismo modo a todos los topónimos, sino que se debe estudiar cada caso en particular. Por ejemplo, en Mar del Plata, Argentina, no será factible usar solo Mar porque existen otros topónimos compuestos con Mar: Mar de Ajó, Mar del Tuyú, Mar del Sur; en cambio, se ha creado un nuevo nombre Mardel usado en el lenguaje coloquial con un cierto tono irónico. El topónimo oficial puede ser reemplazado por un sobrenombre si la identificación del referente queda asegurada; así, Mar del Plata es conocida como La Feliz. p. ej.: El gobernador bonaerense viajó a La Feliz con la intención de ver el estado de la ciudad y visitar a varios amigos que hacen temporada (Pronto, Año 14, Nº 701, 06.01.2010). Los nombres propios compuestos formados con la designación de un referente geográfico pueden recibir distintos determinadores, p. ej., adjetivos: Punta Rasa, Punta Delgada, Mar Chiquita, apelativos: Punta Cantera, nombres propios: Glaciar Perito Moreno, preposición + nombre propio: Estrecho de Magallanes. Diferentes referentes geográficos pueden ser designados por un nombre propio multívoco, p. ej., Valencia es el nombre de un lago, de un golfo y de dos ciudades, pero como en las construcciones con antropónimos, el elemento genérico o la identificación aseguran la identificación del referente designado por el nombre multívoco. A pesar de que los identificadores ocasionales son optativos, suelen ser indispensables en el caso de topónimos multívocos en determinados contextos y ámbitos, p. ej., planes de viajes, horarios y atlas geográficos. Muchos topónimos españoles fueron llevados a América y existen Córdoba, España; Córdoba, México, y Córdoba, Argentina. De allí la necesidad de diferenciarlos con la especificación del país en el que se encuentran. La falta de especificación de los topónimos ha dado lugar a graves equivocaciones. 5.2. Enfoque de la Real Academia Española La Real Academia Española (2009: §12.13. 875-885) describe las construcciones apositivas como secuencias en las que un sustantivo modifica a otro sustantivo y las clasifica en especificativas ‹A B› (mi amigo Arturo) y explicativas ‹A, B› (mi amigo, Arturo). En las especificativas un nombre puede unirse directamente con otro (la ópera Fidelio), otras veces por la preposición ‹de› (el canal de Panamá) y en otros casos es opcional (la calle de Alcalá). No restringen la denotación del sustantivo, sino que indican la referencia del sustantivo sobre el que inciden. Muchas de ellas llevan un nombre propio que identifica al nombre común: la torre Eifel, el novelista Cervantes, el hotel Imperio, etc. Considera aposición especificativa los ejemplos que hemos llamado identificación, tales como la relación entre nombre de pila y apellido o entre nombre oficial y apodo. En las aposiciones explicativas el segundo término agrega alguna precisión o comentario del primero: Ámsterdam, capital de Holanda, es una ciudad cosmopolita (R.A.E. 2009: §12.15. 893-898).
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6. Conclusiones Hemos distinguido dos tipos de nombres propios, legales u oficiales y no oficiales, primeras y segundas designaciones respectivamente, que pueden funcionar independientemente unos de otros en el discurso en distintos ámbitos. Debido a la multivocidad de los nombres propios, las leyes deben garantizar la identificación e individualización, por lo cual tanto un apellido como un nombre pueden funcionar como identificadores en un nombre oficial. Existen otras posibilidades de identificación cuyo uso es relativamente fijo en la norma. Además, el sexo del referente debe quedar especificado ya sea por la selección de nombres masculinos o femeninos según las nomenclaturas oficiales o por la posición de los componentes de un nombre de pila compuesto. Como la comparación de las leyes lo demuestra, las primeras designaciones oficiales presentan tanto semejanzas como diferencias dentro de la zona de habla española, lo que también es válido para los sobrenombres. En el plano del habla no siempre se utilizan los nombres oficiales completos sino partes de ellos, pero la situación o el contexto deben garantizar la identificación del referente, hecho que merece un estudio en particular. Los sobrenombres, segundas designaciones, también son multívocos y por lo tanto pueden necesitar identificadores en el discurso. En el habla, los dos tipos de designaciones suelen complementarse: a veces, los sobrenombres actúan de identificadores de los nombres propios oficiales y otras, los nombres propios legales son identificadores de los sobrenombres, posibilidad que dependerá de la estructura del sobrenombre. Además, los nombres multívocos participan en otro tipo de construcciones con un nombre común que adjudica el nombre propio a una determinada clase de referentes.
Bibliografía Boletín Oficial de la República Argentina (24.6.1969): Registro de estado civil. Nuevas normas para la inscripción de nombres de las personas naturales. Ley Nº 18.248. Año LXXVII. Nº 21.709. Buenos Aires: Dirección Nacional del Registro Oficial. Boletín Oficial del Estado (1989): Registro Civil. Madrid: Imprenta Nacional del Boletín Oficial del Estado. Coseriu, Eugenio (³1973): Teoría del lenguaje y lingüística general. Madrid: Gredos. Fleischer, Wolfgang (1985): Der Eigenname als sekundäre Benennung. In: L/S 129/l, Reihe A, 10-28. Luna, Félix (2003): La cultura en tiempos de la Colonia (1536-1810). Buenos Aires: Planeta. Mori, Olga (1999): Anthroponyme als Spitznamen. In: Kremer, Dieter (ed.): Onomastik. Akten des 18. Internationalen Kongresses für Namenforschung. Trier, 12-17. April 1993. Band III, Namensoziologie. Tübingen: Niemeyer, 104-111. — (2007): Odonyms of Buenos Aires and Tarragona: a comparative approach. In: Onoma 42, 89-109. Real Academia Española (2009): Nueva Gramática de la lengua española. Morfología. Sintaxis. Vol. 1. Madrid: Espasa.
Ángel Narro (Universitat de València)
Mítica de los moros y moras de la toponimia peninsular1
1. Introducción En la toponimia peninsular encontramos un buen número de topónimos que contienen ya de manera total, ya parcialmente alguna referencia a los términos ‹moro› y ‹mora›, lo que popularmente se interpretó como un vestigio de la influencia de la dominación musulmana en la península ibérica. Así pues, la fascinación popular –e incluso culta en ocasiones– por este tipo de topónimos provocó que se comenzaran a crear en torno a éstos un sinfín de cuentos y leyendas con los moros y las moras como protagonistas centrales del relato, remitiendo a una época histórica pasada quasi-mítica. La importancia de esta relación entre topónimo y leyenda, ha de ser analizada con una cierta cautela. Hace ya bastantes años, que las explicaciones mítico-legendarias de topónimos con ‹moro› y ‹mora› quedaron totalmente obsoletas –excepto en algunos casos de especial relevancia en el imaginario popular como, por ejemplo, el Suspiro del moro granadino– y se trataron de explicar la mayoría de estos topónimos a partir de la base toponímica preindoeuropea mor-, cuyo significado primigenio hace alusión a un ‹montón de piedras› (Hubschmid 1970: 29-30), aunque parece oscilar entre dos conceptos: el de ‹piedra o roca› y el de ‹punta›, entre cima y peñasco (Querol 2000: 411). A partir de esta base toponímica se habrían creado un buen número de topónimos que aluden a esos ‹moros› o ‹moras› de manera clara como Mora (Toledo), Mora d’Ebre (Tarragona), Moro (Badajoz, Valencia, Lérida), San Salvador de Moro (Asturias), analizados por Galmés de Fuentes (2000: 45), a los que, en nuestra opinión, se podrían añadir los topónimos de Mora de Rubielos (Teruel) y sus vecinos Rubielos de Mora, Linares de Mora y Cabra de Mora, dependientes del primero; Móra la Nova (Tarragona, vecina de Móra d’Ebre), Moros (Zaragoza) y Venta del Moro (Valencia). Por otro lado, como también Galmés de Fuentes indica (2000: 45-46), la asociación de esta serie de topónimos que designan localidades situadas en territorios rocosos o peñascos no parece tan clara en otros topónimos como Morata (Zaragoza), Morato (Asturias), La Moría (Asturias), Moratilla (Guadalajara), Moratón (Almería), Moratalla (Murcia), Moreda (Asturias y León), Moral de Órbigo (León), Moraleja (Cuenca, Albacete…), Moraleda (Albacete), Moraña (Pontevedra), Moreira (La Coruña, Lugo, Orense, Pontevedra), San Pedro de Mor (Lugo), Morella (Castellón), Morell (Mallorca), Morilla (Huesca) o Morón (Sevilla), a los que se podrían sumar algunos otros 1
Investigador becado por la Conselleria d’Educació de la Generalitat Valenciana gracias al programa de Becas de Formación de Personal Investigador (BFPI).
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topónimos de los considerados mayores como Moradillo del Castillo, Moradillo de Roa y Moradillo de Sedano (Burgos) o Morata de Tajuña (Madrid). Con todo, a pesar de los estudios toponímicos científicos en esta línea, disociar el topónimo de la leyenda popular no siempre es fácil e incluso en ocasiones se pueden encontrar leyendas cultas para explicar el topónimo en cuestión, como en el caso del topónimo sevillano Morón de la Frontera, cuyo origen se piensa que está en el término latino Mauror, de donde derivaría ‹morón›, término homónimo del castellano antiguo morón, cuyo significado, al parecer, era el de ‹caballo›, derivado de mauron, ‹caballo negro› en época de Isidoro de Sevilla (Pascual 1995: 603); explicación poco convincente teniendo en cuenta la particular situación geográfica del municipio, muy similar a la del resto de los topónimos antes citados. Por el contrario, existen también algunos casos en la toponimia peninsular en que los estudiosos han aceptado la explicación etimológica a partir del término latino maurus, fonéticamente caricaturizados según Ballester (2006: 10), en los casos de algunos de los moriscos de la toponimia hispánica, como el Moriscos de Gran Canaria, el de Salamanca o el Morisco abulense (Trapero 1999: 295). Como no podría ser de otra manera, en la toponimia menor los casos en los que aparecen formas derivadas de la base toponímica mor- se multiplican de manera exponencial a la hora de designar prominencias del terreno como por ejemplo en ámbito catalán los topónimos de la Morella, el Morell, Moratella, Moraira, la Morana o Morquerol (Querol 2000: 405). En la toponimia balear Galmés de Fuentes considera que algunos topónimos como Moro, Morell, Morelló o Moragues son análogos a los Moría, Moreda, Moral o Morón peninsulares (Galmés 1992: 311), y señala además que en los lugares en que aparecen esta serie de derivados de la base mor- se hayan emplazados monumentos megalíticos o talayots, es decir, ‹un montón de piedras› (Galmés 1983: 413). No obstante, hemos detectado casos de topónimos menores en los que aparecen elementos que hacen referencia a ‹moros› o ‹moras› que no pueden ser explicados a partir de esta base toponímica por diferentes razones que a continuación analizaremos con todo detalle.
2. Casos inexplicables a partir de la base toponímica mor-. El caso de los topónimos de Fuentenebro (Burgos) En un trabajo que realizamos acerca de la toponimia de Fuentenebro, población situada en el extremo sur de la provincia de Burgos, encontramos una serie de topónimos que incluían algún elemento susceptible de ser relacionado con la base toponímica mor-. Nuestro trabajo de campo detectó un total de seis topónimos que hacían alusión directa o indirecta a un ‹moro› o una ‹mora›: Moruga, Campo del Moro, Casa del Moro, el Reguero del Castaño Morito, Hoyo Moro y el Responso de la Mora. El primero de los términos atestiguados en este municipio burgalés de Fuentenebro, Moruga, parece ser el único cuya etimología está realmente relacionada con la base mor-, ya que hace referencia a una zona en la que se alza un promontorio pedregoso que curiosamente
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se halla frente a la colina en la que se encuentra la vecina población de Moradillo de Roa, en nuestra opinión otro topónimo de similar naturaleza. El segundo de ellos, el de Campo del Moro, según los informantes del municipio nada tiene que ver con la Casa del Moro, aunque su situación no se corresponde con la de un promontorio rocoso ni un peñasco, por lo que es más que razonable sospechar que en realidad se trate de un caso similar al de la Casa del Moro, éste sí atestiguado con seguridad. En este caso estamos frente a un antroponímico, pues la zona de la Casa del Moro hace referencia al enclave en el que antiguamente se encontraba la casa, de la que hoy día tan sólo quedan ruinas, de un tal Lucio Moro, antiguo habitante de la localidad conocido por los informantes consultados más ancianos. Sin embargo, para el Campo del Moro existe otra posibilidad digna de considerar a través de las leyendas populares sobre moros y moras en el municipio como veremos en el topónimo del Responso de la Mora. Mucho más curioso es, en cambio, el caso del Reguero del Castaño Morito, reguero que recibe su nombre a causa del castaño, de color algo más oscuro de lo normal, que se sitúa dominando el curso del mismo. La denominación de este castaño como ‹morito› se produce a partir del uso popular del adjetivo ‹moro›, éste sí del latín maurus, con el significado no de ‹musulmán› o ‹sarraceno›, sino de ‹oscuro› o ‹negruzco›. Este uso como adjetivo calificativo a partir de un uso popular debería ser estudiado para establecer paralelismos dentro de la toponimia peninsular. Quizá este mismo sentido tenga el elemento moro de Hoyo Moro, ya que es más probable que un hoyo sea oscuro o sombrío, a que se utilice un elemento que normalmente designa elevaciones rocosas del terreno para designar contradictoriamente una zona de depresión. Aún así, no estamos en disposición de determinar la naturaleza de este topónimo. Para acabar con los topónimos recogidos en nuestra labor de campo en el municipio de Fuentenebro nos queda por citar el Responso de la Mora, topónimo que hace referencia a una determinada zona del arroyo que atraviesa de sur a norte el término municipal de la localidad y que se halla a los pies de una montaña en la que se encuentran las ruinas de una torre vigía de época medieval. En el municipio se cuenta la leyenda aún hoy de que en esa torre vigía –para los oriundos de la localidad castillo musulmán– habitaba una reina mora que bajaba a bañarse hasta el arroyo día tras día y que cuando murió se la enterró en el lugar en el que todos los días tomaba el baño. Los informantes secundan la historia narrada por Pecharromán, autor de un libro sobre el municipio, según la cual, los niños del pueblo cada vez que pasaban cerca del lugar en el que se supone que yace enterrada la reina mora lanzaban una piedra y decían: ‹¡Responso de la mora!›, para así honrar su alma (Pecharromán 2007: 160). El topónimo designa un montón de piedras sobre el que, supuestamente, descansa la mora protagonista del relato. Sin duda, es curioso que el topónimo, creado seguramente a partir de la leyenda del Responso de la mora haga referencia a un montón de piedras, significado que tiene, por otra parte, la base preindoeuropea mor-. ¿Estamos ante una casualidad? ¿O es que acaso este Responso de la mora esconde una denominación anterior derivada de la base mor-, pero sufrió una transformación a causa de las leyendas populares sobre moros y moras en el municipio? ¿Fue la leyenda realmente la que originó el topónimo y causó el montón de piedras, o a la inversa, el montón de piedras (mor-) lo que hizo nacer el relato mítico? Contestar a cualquiera de estas preguntas podría ser harto complicado ya que carecemos de los medios necesarios para poder determinar qué existió antes si el huevo o la gallina, en este caso el montón de piedras o la leyenda. Sin embargo, lo que sí que podemos hacer es
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comparar esta leyenda con otras existentes a lo largo y ancho de la península ibérica para poder determinar sus puntos en común y sus diferencias. Así pues, esta leyenda de origen popular del pequeño municipio de Fuentenebro nos sirve para introducir una nueva categoría de topónimos que contienen algún ‹moro› o ‹mora› en su composición y que tienen detrás una curiosa leyenda de personajes míticos de otro tiempo y que, si bien la tradición popular los ha encasillado en la categoría de lo musulmán de época medieval, su primitivo origen quizá se deba a un tiempo bastante anterior y a una serie de mitos relacionados con los primitivos pobladores de la península ibérica.
3. Mouros y mouras encantadas En la península ibérica, sobre todo en la zona de influencia galaico-portuguesa, encontramos una gran cantidad de topónimos que contienen los vocablos mouro o moura que, a priori, nada tienen que ver con la base toponímica mor-, dada su situación geomórfica, y que tampoco se explican a partir de ninguna leyenda relacionada con el mundo musulmán, por dos motivos fundamentales: uno, la escasa presencia de invasiones musulmanas en el noroeste peninsular, y dos, la propia naturaleza del término moura o mouro, bien documentado en lengua portuguesa como derivado del término céltico *mrvos- cuyo significado es el de muerto o ser sobrenatural (Frazão / Morais 2009: 18), si bien también se ha pensado que estos vocablos proceden del étimo Mora o Morga, nombres de la diosa-madre celta (Caridad 2004: 36). Esta raíz *mrvos- parece ser similar, aunque diferente en la forma, a la raíz indoeuropea que origina el latín mortuus (*mr-tuos) o el indio medio mrtáh o el griego βροτός(*mr-tós). De dicha base céltica deriva la palabra irlandesa marb, la britónica marw, y la restituida del galo *marvos. De ella procede también directamente la voz que utilizaron los celtas lusogallegos: maruos=muerto. (Alonso 1998: 12; Millán 1990: 550). Así las mouras o moiras son una serie de espíritus o seres fantásticos que protegen, según las leyendas portuguesas y gallegas, los tesoros de los mouros encantados. Estas mouras están asociadas según Frazão y Morais a prácticas de religiosidad popular que provienen de mitos prehistóricos; tienen una serie de poderes mágicos y suelen mostrarse a los seres humanos en las horas del entreabierto, las horas de contacto entre el mundo natural y el mundo sobrenatural (Frazão / Morais 2009: 25-27). Según estas investigadoras, la tradición de las mouras encantadas nace en el paleolítico y se relaciona con una serie de cultos a la fertilidad. A partir de ahí, comienza a codificarse todo un corpus mítico en el que las mouras encantadas forman parte del imaginario mítico popular y se las relaciona con el mundo de lo sobrenatural y del más allá, rasgo típico de la mitología indoeuropea en general (Frazão / Morais 2009: 38-41). En Galicia, el mouro y la moura son los antepasados remotos, los desaparecidos hace mucho tiempo cuando aún no había llegado el cristianismo (Alonso 1998: 13), religión que trata de combatir estas tradiciones relacionando el mouro o la moura con lo pagano, y que en la Edad Media, pues, pasará a ser identificado con los invasores musulmanes ayudado por un fenómeno de homofonía (Frazão / Morais 2009: 17).
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Estos mouros y mouras, seres mitológicos prehistóricos cuya presencia se confundió con la de los pobladores musulmanes por un proceso de contaminación han dado lugar a un considerable número de topónimos en el ámbito galaico-portugués. Sin embargo, como siempre, en toponimia no es oro todo lo que reluce, por ello algunos casos de la toponimia mayor portuguesa han de ser analizados con cierta cautela. Así, muy probablemente la Moura del Alentejo haya que situarla junto a otros casos similares de la península ibérica dada su situación sobre una elevación montañosa. Además sobre este municipio, situado al sur del país, se cuenta una leyenda relacionada con el mundo musulmán, que se recoge en la web del municipio y que narra la historia de la mora Salúquia remitiendo a la época de la reconquista cristiana. Trata-se de uma lenda, que nos remete para a época conturbada da reconquista cristã, numa altura em que Salúquia era alcaidessa de Moura, filha de Abu-Assan. Salúquia estava prometida a Brafma, príncipe da vizinha Cidade de Aroche. Chegada a véspera do dia do casamento, Salúquia aguardava ansiosa a chegada do noivo e da sua comitiva, mirando a paisagem em redor do alto de uma das torres do seu castelo. Entretanto, com igual ansiedade Brafma pôs-se a caminho de Moura acompanhado por uma pequena escolta, desconhecendo os planos dos cristãos que ao saber do casamento logo pensaram em interceptar Brafma. D. Álvaro Rodrigues e D. Pedro Rodrigues encabeçavam o grupo de cristãos que organizaram uma emboscada aos muçulmanos. Depois de travada a batalha e de todos estes estarem mortos, os cristãos vestiram-se com os seus trajes e dirigiram-se a Moura. Salúquia, ao vê-los, julgou tratar-se do noivo e restantes muçulmanos e baixou a ponte levadiça que dava acesso ao castelo, dando início a uma chacina que só terminou com a dominação cristã. Salúquia, ao aperceber-se do famigerado destino, tomou as chaves do castelo e precipitou-se da torre que ainda guarda o seu nome. A partir de então, diz a Lenda que a esta Cidade (então Maura) passou a chamar-se Moura em homenagem á corajosa muçulmana, e que os reconquistadores Rodrigues tomaram este apelido também. (www.cm-moura.pt)
Lo mismo parece suceder con Mourão, cerca de Évora, también en el sur del país y como Moura, muy cerca de la frontera con territorio español. Esta localidad también se sitúa en un terreno montañoso al estilo de los topónimos comentados anteriormente y en comparación con la lengua española parece similar al Morón sevillano al que antes aludíamos. Otros casos en los que nos es más difícil discernir la naturaleza del topónimo y que seguramente aluden a esos seres primitivos que antes mencionábamos son los municipios de Mouros en Ourém; Mouro en el de Ponte de Lima y Moura Morta pedanía de Peso da Régua, en la región de Vila Real. Este último topónimo parece ser una tautología compuesta de dos versiones del mismo elemento, como apunta Caridad (2004: 35). Sin embargo, donde estas mouras y estos mouros encantados dejaron un huella notoria es en la toponimia menor en la que encontramos un buen número de topónimos en los que el elemento mouro o moura remite a estos seres fantásticos cuyas leyendas aparecen también en cada uno de estos lugares con algunos rasgos comunes. En Galicia y en el norte de Portugal son abundantes términos como el Forno dos Mouros, Casa dos Mouros, Casa da Moura o Montiños da Moura para referirse a las mámoas, que deriva del diminutivo latino mammula para aludir a la forma de los túmulos dolménicos (Carneiro 2000: 372-373). Esta relación entre mouras y túmulos dolménicos aparece también en la Pena da Moura, cerca de la aldea de Moruxosa, perteneciente al municipio de Sobrado (La Coruña), situada muy cerca de una construcción de este tipo (Alonso 1998: 16).
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Los mitos y leyendas relacionados con las mouras y los mouros han dejado un buen número de topónimos que guardan sus correspondientes leyendas sobre estos seres encantados y que Frazão y Morais han recogido en sus tres volúmenes sobre el mundo de las mouras encantadas. Algunos de los topónimos recogidos por estas investigadoras o por otras fuentes empleadas por ellas son los siguientes: Forno dos Mouros (Monte de Saia, Barcelos), Fonte Mourena (Salir, Algarve), Pala da Moura (Tras-os-Montes), Casa da Moura (Gruta en Carreira dos Cavalos, en la Serra da Estrela y galería subterránea en Castelo Velho), Casa da Moura de Zedes (Caraceda de Ansiães), Fonte da Mora Cassima (Loulé), Lapas dos Mouros (Torres Novas), Cova dos Moros (Querença, Algarve), Anta da Pala da Moura (Vilarinho de Castanheira), Pedra da Moura (Praia de Lavadores, Porto), Penedo da Moura (Viana do Castelo), Pego da Moura (São Miguel de Mota), Cabeço dos Mouros (Idanha-a-Velha, Castelo Branco), Cama da Moura (Castro Daire) y Casas dos Mouros (Vilar de Perdizes). Imposible sería detallar en este breve estudio las leyendas portuguesas y gallegas sobre mouras y mouros encantados que recogen en sus estudios Frazão y Morais, aunque conviene, antes de pasar a analizar algunas leyendas similares al otro lado de la frontera, repasar algunos rasgos esenciales de este tipo de mitos: se trata de unos seres fantásticos, representantes del mundo de los muertos que establecen con sus apariciones en determinados lugares –normalmente corrientes de agua, cuevas, grutas o terrenos relacionadas con la profundidad terrestre; aunque también construcciones dolménicas– una especie de nexo de unión entre el mundo de los vivos y el de los muertos. En un principio se piensa que eran unas figuras relacionadas con cultos a la fertilidad, aunque las propiedades de estos seres mágicos se multiplicaron con el paso del tiempo, asumiendo características tanto positivas como negativas. Las diferentes civilizaciones que pasaron por la península ibérica (romanos paganos, cristianos y musulmanes) trataron de adaptar estos cultos ancestrales a su propia religión o denostarlos en otros casos. Así nace la confusión entre moura encantada, ser encantado de raíces paleolíticas en la península ibérica, y moura con el significado de musulmana o pagana. Los estudios antes citados de Frazão y Morais y algunos otros como los de Llinares García o el de Alonso Romero han documentado y analizado la gran cantidad de leyendas y mitos sobre las mouras y los mouros en el ámbito lingüístico galaico-portugués. Sin embargo, la cuestión que nos hacemos a continuación es del todo necesaria: ¿tenemos en el resto de la península ibérica leyendas similares a las documentadas en el oeste peninsular? ¿En caso afirmativo, pertenecen también estas leyendas a estos concepciones mítico-religiosas del homo sapiens durante el período del llamado ‹Refugio Ibérico›? Aunque respuestas de este tipo no son fáciles de contestar, intentaremos tan sólo advertir ciertos nexos comunes entre las leyendas sobre moros y moras por todo el territorio peninsular.
4. La épica de los moros musulmanes, la mítica de las moras encantadas Durante muchos años, como antes comentábamos, se intentaron explicar los topónimos que contenían o aludían –aunque fuera ligeramente– a los términos moro y mora mediante leyendas de origen tanto culto en menor medida, como popular en mayor. Este tipo de leyendas,
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a pesar de no ser válidas para explicar etimológicamente el término en cuestión, son preciosas manifestaciones de cómo el vulgo interpretaba el nombre de su propia población y relacionaba la gestación de su municipio o de cualquier otro elemento geográfico de su localidad con un pasado mítico, generalmente la época de la reconquista y de las batallas entre moros y cristianos. Leyendas como la del Responso de la Mora de Fuentenebro o la de la mora Salúquia de Moura abundan en nuestro país, aunque normalmente la explicación del topónimo es mucho más sencilla –y menos inverosímil– a partir de la base preindoeuropea mor-. Un caso como el antes mencionado de Morón, este más bien respondiendo a una leyenda de carácter culto, parece estar claro. Sin embargo, no es el único. Como Ballester comenta en un trabajo sobre las caricaturas lingüísticas, el topónimo, valenciano Venta del Moro podría ser entendido por el hablante actual como lugar donde se vende un musulmán; además tilda de inverosímil el romance entre un caballero cristiano llamado Rubielos y una Mora anónima que narra una leyenda para explicar los topónimos turolenses Mora de Rubielos y Rubielos de Mora (Ballester 2006: 10). Incluso el topónimo de Zamora se intentó explicar en tiempos pasados a partir de un grito ‹Ze mora› que el rey D. Alfonso espetó a una vaca negra, o del vocablo árabe samurah, ‹turquesa› (Cortés 1952: 66), quizá por relacionarlo con la parte ‹mora› que el topónimo contiene. Las leyendas de las moras encantadas, por su parte, en el territorio del estado español aparecen también en una gran variedad de lugares compartiendo rasgos en común con las mouras portuguesas. En resumen, la leyenda narra la aparición mágica de una joven de hermosura sin igual –normalmente la noche de San Juan– con un peine en las manos o algún otro elemento en los aledaños de un castillo, una cueva o cualquier otro paraje natural cargado de fuerte simbolismo. Así, encontramos restos de estas moras encantadas en un buen número de topónimos repartidos por todo el país. Sin embargo, si bien la base mítica sobre la que se asientan este tipo de leyendas parece ser la misma que en el territorio del dominio lingüístico galaico-portugués, es necesario tomar cierta distancia a la hora de relacionar unas leyendas con otras. Nuestra afirmación se fundamenta en el testimonio recogido en el Itinerario de Antonino en el que aparece una forma ad Morum que debemos situar en el sureste peninsular y que denota, pues, la presencia en toponimia de una forma derivada de la raíz mor- en el siglo I y que confirmaría, en consecuencia, la teoría comúnmente aceptada a la hora de explicar los topónimos anteriormente señalados. No obstante, este ad Morum que recoge Antonino y la atestiguada procedencia, diversa desde el punto de vista etimológico, de la raíz celta *mrvos- del ‹mouro› portugués, nos inclinan a determinar la época medieval de la dominación musulmana como la responsable de todas estas leyendas similares a las encontradas al otro lado de la frontera y no habría que alejarse, pues, en la noche de los tiempos para encontrar una explicación coherente a este tipo de topónimos en el territorio español. A pesar de todo ello en algunos caso se observan similitudes entre las características de las encantadas y las mouras portuguesas, por lo que sería difícil ofrecer una respuesta general. Haría falta un estudio detallado de todos los casos registrados.. Así, no es de extrañar que encontremos un buen número de Cuevas de la mora en diferentes municipios españoles. En Bogarra (Albacete) encontramos una Cueva de la mora (Selva 1993: 481), topónimo idéntico al que encontramos en El Vellón (Madrid), en El Cañavate (Cuenca), o en la provincia de Huelva, éste último dando nombre a una aldea dependiente de Almonaster la real. En la misma provincia de Huelva, en el célebre municipio de Jabugo
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encontramos otra Cueva de la mora, con restos arqueológicos en su interior que llegan a remitir al Paleolítico (Romero / Rivera 1999: 263). También en La Pedriza (Manzanares el real, Madrid) encontramos una Cueva de la mora, refugio, según la tradición de una bella mora enamorada de un cristiano: Ella era la hija más guapa y más hermosa de un rico árabe, y él un caballero cruzado que ante la imposibilidad de la aventura amorosa decidió marchar a Oriente a luchar contra los de la media luna. La familia de la joven no pudo consentir tal disparate y la encerró en esta cueva de La Pedriza cuando el Real de Manzanares era un territorio en disputa entre árabes y cristianos, mucho antes de las peleas entre madrileños y segovianos. La leyenda nada aclara del caballero cristiano, pero asegura que la dama mora sigue visitando el lugar en busca de su enamorado. (Leralta 2002: 65-66)
Con el ‹apellido› de encantada –que aparece en solitario en numerosas ocasiones en otros topónimos que se relacionan con leyendas similares– encontramos también un buen número de cuevas en las que supuestamente aparecen estas leyendas que remiten a historias de batallas míticas entre moros y cristianos. En Carrascosa del Campo (Cuenca) tenemos, pues, una Cueva de la mora encantada, topónimo similar al que encontramos en el municipio de Uclés, también en Cuenca, en el de Bulbuente (Zaragoza) o en el de Trébago (Soria), en cuya página web podemos leer la leyenda completa (http://www.trebago.com/revistas/11/05leyendas.asp). La fascinación por este tipo de mitos llevó al gran Gustavo Adolfo Bécquer a escribir la leyenda titulada La cueva de la mora, ambientada en el municipio navarro de Fitero, que narra como el alma de la hija de un alcaide moro aparece cada noche penando por las ruinas de una fortaleza árabe y llena en el río una jarrita de agua. Sin embargo, no siempre es la cueva la residencia de la mora encantada, como demuestran los topónimos conquenses de Cerro de la mora, uno en Barchín del Hoyo y el otro en Torrejoncillo del Rey.
4. Conclusiones Como hemos podido observar a lo largo de este trabajo en la toponimia peninsular encontramos una gran cantidad de topónimos que parecen remitir al pasado musulmán que, sin duda, dejó una gran huella en nuestra toponimia. Por el contrario, se ha de mantener un sumo cuidado a la hora de analizar estos topónimos y hemos de tener presente la posibilidad de que provengan de una tradición muy anterior a la época medieval de la dominación musulmana en el caso de los topónimos situados en el ámbito lingüístico galaico-portugués. Por ello, es necesario identificar y distinguir entre aquellos topónimos que nacen de la tradición medieval, y aquellos que son explicables fácilmente a partir de la base mor- evitando caer en anacronismos y en explicaciones populares que no han de ser extraídas del contexto folclórico y popular en el que nace, crecen y perviven. En cuanto a los relatos míticos alrededor de estos topónimos, si en Portugal parece claro que existen unos mitos que hablan de las mouras encantadas como seres mágicos que remiten a los muertos y que aparecen en condiciones y lugares de especial simbolismo, de igual
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manera hemos podido observar que en territorio español el mito parece tener innumerables similitudes, dejando su rastro, como sucede en el país vecino, también en la toponimia. Sin embargo, a la luz de los testimonios más antiguos como el ad Morum de Antonino no es posible establecer un paralelismo entre las mouras portuguesas y las moras del territorio hispánico. Si bien el mito parece idéntico, las historias de las moras encantadas hispánicas nacen seguramente en el imaginario popular a partir de las leyendas sobre las batallas entre sarracenos y cristianos de la época de la reconquista contadas generación tras generación y por ello no gozarían, pues, de la antigüedad paleolítica de las mouras encantadas portuguesas y gallegas Aún así, convendría realizar un análisis de conjunto de cada uno de los casos registrados en la toponimia peninsular y un estudio de sus semejanzas y diferencias. Con todo y con eso, es sin duda curioso como el lenguaje, quizá guiado por el azar, decidió que formas de diversas procedencias (mor-, *mrvos-, maurus) confluyesen en las lenguas modernas en términos homófonos que han provocado la confusión en la interpretación de muchos de los topónimos mencionados a lo largo de este trabajo.
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Teodor Oancă / Ramona Lazea (Craiova)
Dai nomi comuni moldavi al cognome
I cognomi, che diciamo provenire dai nomi comuni, occupano un posto importante nell’antroponimia romena. I nomi comuni si sono antroponimizzati, dando origine sia a un nomignolo, sia a un soprannome. Definiamo il nomignolo come «il risultato della codificazione tramite un nome comune di una particolarità fisica, psichica, morale o di comportamento che caratterizza una persona alla quale viene attribuito quel nome» (Oancă 1999: 44). Il nomignolo, dunque, è personale. Per gli eredi ai quali si trasmette, il nomignolo non risulta più motivato, ma funziona come un cognome non ufficiale, che viene chiamato soprannome. Il soprannome può provenire anche da un appellativo denominativo, con cui viene chiamata l’occupazione, l’appartenenza etnica, il rango o il titolo acquisito, lo stato sociale, il grado militare, l’origine locale, ecc. (Oancă 1996: 12): Olaru (< olar ‹vasaio›), Turcu (< turc ‹turco›), Logofătu (< logofăt ‹cancelliere›), Boieru (< boier ‹boiardo›), Căpitanu (< căpitan ‹capitano›), Craioveanu (< craioveanu ‹abitante della città di Craiova, cioè craioveno›). I cognomi romeni hanno conosciuto un periodo di formalizzazione nel corso del XIX secolo. Solo nel 1895, con la Legge sul cognome, questo è diventato obbligatorio per tutti i cittadini. Il sistema tradizionale di denominare le persone era ridotto al nome proprio, seguito dal nome del padre, del nonno, eventualmente anche del bisnonno. Questa serie si concludeva con un soprannome che funzionava come un cognome non ufficiale. Poiché la maggior parte dei soprannomi proveniva dai nomi comuni, lo studio in parallelo dell’antroponimo e del nome comune dal quale proviene diventa necessario per conoscere più in dettaglio la lingua parlata, molto prima di effettuare le indagini dialettali per la realizzazione degli atlanti linguistici. Per l’Atlante Linguistico romeno, le indagini sul terreno sono state effettuate da Sever Pop e da Emil Petrovici nel periodo 1930-1938. La ricerca dei documenti di archivio, tra i quali anche i registri di stato civile relativi ai neonati, agli sposati e ai deceduti, del XIX secolo, mette in evidenza le tendenze manifestate nei vari ambiti sociali per l’attribuzione di un nome proprio, un nomignolo, un soprannome. I nomi comuni dai quali provengono queste categorie di antroponimi fanno parte dal vocabolario fondamentale della lingua romena o presentano un uso regionale. Questi ultimi sono considerati parole dialettali. Essi caratterizzano il parlato in vari sottodialetti del dialetto daco romeno. Uno di questi sottodialetti è quello moldavo, al quale molti linguisti romeni e stranieri hanno dedicato importanti studi. Un’ampia presentazione delle particolarità del sottodialetto moldavo esiste nel TDR (1984: 163-208). Nella sezione Lessico di TDR (1984: 191-199), sono state identificate molte parole che appartengono esclusivamente al sottodialetto moldavo o che si trovano in aree più ristrette e nelle parlate cui questo sottodialetto si avvicina. Un lavoro apparso recentemente e di riferimento per la letteratura di specialità è firmato da Vasile Frăţilă (2010) in cui al sottodialetto moldavo vengono dedicate le pagine dalla 77 alla 85.
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Il sottodialetto moldavo rappresenta l’area orientale del dialetto daco romeno, cioè il territorio compreso tra il Nistru ad est (il territorio compreso tra il Nistru e il Prut è noto come Repubblica di Moldavia), il confine con l’Ucraina a nord, la parte orientale della Transilvania e la regione storica romena della Muntenia, a sud. Di solito sono date come appartenenti esclusivamente al sottodialetto moldavo le parole come agud ‹dud› (termine letterario, it. ‹gelso›), barabulă ‹cartof› it. ‹patata›, bortă ‹gaură› it. ‹buca›, bostan ‹dovleac› it. ‹zucca›), chelbos ‹chel› it. ‹calvo›, ciolan ‹os› it. ‹osso›, ciubotă ‹cizmă› it. ‹stivale›, colţun ‹ciorap› it. ‹calza›, covată ‹albie pentru aluat› it. ‹madia›, curechi ‹varză› it. ‹cavolo›, duşec ‹saltea› it. ‹materasso›, gheb ‹cocoaşă› it.‹gobba›, harbuz ‹pepene verde› it. cocomero›, hulub ‹porumbel› ‹it. colombo›, iorgan ‹plapuma› it. trapunta›, oghial ‹plapumă› it. trapunta›, perjă ‹prună› it. susina›, pleşuv ‹chel› it. ‹calvo›, prisacă ‹stupină› it. ‹apiario›, sandâc ‹ladă› it. ‹cassa›, stoler ‹tâmplar› it. ‹falegname›, vădană ‹văduvă› it. ‹vedova› (TDR, 1984: 231-234). Dalla maggior parte di queste parole sono risultati dei cognomi ufficiali. Considerato che tali parole sono usate solo in Moldavia, possiamo dire che i cognomi provenienti da queste parole si potevano formare solo in Moldavia e per tale fatto sono considerate come aventi origine moldava. Da questi nomi comuni hanno avuto origine in primo luogo i nomignoli creati da persone che si esprimevano nella parlata locale. Il nomignolo si poteva imporre solo se era motivato e accettato dalla comunità alla quale appartenevano sia la persona cui era stato affibbiato il nomignolo sia la persona che aveva creato il nomignolo stesso. I nomignoli come Agud, Bostan, Ciubotă, Harbuz, Hulub, ecc. dai quali sono risultati i soprannomi che, più tardi (dopo due-tre generazioni), sono diventati cognomi ufficiali, sono stati creati almeno alla metà del XIX secolo. Il fenomeno è comune a tutte le zone geografiche della Romania, dove si parlano altri sottodialetti del dialetto daco romeno, che si identifica con la lingua nazionale romena. Oggi registriamo cognomi di origine moldava anche in altre regioni del Paese dove sono arrivati i portatori o i loro predecessori. Una valutazione molto vicina alla realtà ci viene offerta dalla BDAR, creata nel 1994 presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Craiova. Le informazioni di cui disponiamo riguardano la frequenza e la distribuzione per distretti dei cognomi della Romania. In base a questi dati possono essere identificate le zone di origine per certi cognomi e la loro presenza in altre regioni (vedi allegato). Secondo il modello delle carte dialettali, possono essere fatte delle carte antroponimiche che mettono in evidenza, in base alla frequenza significativa di una zona, un determinato cognome e la sua zona di diffusione. Non per caso la zona antroponimica si rapporta a quella dialettale. Si registrano delle varianti fonetiche che corrispondono alla pronunzia locale dei nomi propri, in concordanza con la pronunzia dei nomi comuni dai quali si rivendica la derivazione. Le grafie dei cognomi attuali si sono trasmesse di generazione in generazione da almeno cento anni. In Romania, i cognomi si trasmettono per via maschile da una generazione all’altra. Ecco un esempio della relazione antroponimo - termine dialettale: il cognome Hulub ha la frequenza assoluta 369, dei quali in Moldavia se ne registrano 280. Anche se l’appellativo hulub è caratteristico per il sottodialetto moldavo, frequenze significative del cognome Hulub si registrano nei distretti di Botoşani (56), Iaşi (103), Vaslui (91). Per la presenza in altri distretti del cognome Hulub, vedi allegato. Da questo antroponimo risultano derivare: Huluba, Huluban, Hulubei. La grande presenza nel distretto di Sălaj (nel nordovest della Romania) del cognome Huluban (181 del totale di 347) può essere giustificata
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dall’esistenza nel parlato, da molto tempo, dell’appellativo hulub, di origine ucraina, come quello di Moldavia, ma che ha avuto la concorrenza e poi è stato eliminato dall’uso dalla parola romena di origine latina porumb ‹porumbel›. L’antroponimo Huluban nel distretto di Sălaj è una prova che il termine comune dal quale ha avuto origine il derivato huluban è stato caratteristico anche di questa zona. Un esempio altrettanto convincente è rappresentato dal cognome Agud. Questo proviene dal nome comune, appartenente al sottodialetto moldoveno, agud, ‹dud› nella lingua letteraria. Conformemente alla BDAR, nel 1994 il cognome Agud era portato da 207 persone, di cui 184 nell’area del sottodialetto crişan parlato nella Romania occidentale, laddove il termine comune agud non è presente nella lingua parlata. Ciò presuppone che in passato la parola dialettale agud era attiva anche nelle parlate della Romania occidentale, ma ha avuto la concorrenza di altri termini, come frăgar o pomniţar ed è stato tolta definitivamente dall’uso. Con l’attuale presenza del cognome Agud in una zona in cui il nome comune agud manca, ci indirizza a ricostituire l’area laterale dialettale di questo termine, esistente da almeno 300 anni. L’appellativo agud è stato in relazione sinonimica con frăgar e, nel corso del tempo, ha cessato di essere attivo nella lingua, fino ad arrivare ad essere del tutto dimenticato (Oancă, 2005: 407-412). È fuor di dubbio che i termini dialettali hanno il corrispondente sinonimico nella lingua letteraria. Allo stesso modo funzionano le cose anche quando si tratta di antroponimi provenienti da queste parole. L’appellativo vărzar ‹persona che coltiva e vende cavoli› ha come corrispondente nel sottodialetto moldavo la parola curecher (derivato da curechi ‹varză›). Da questi termini sono risultati i cognomi Vărzaru e Curecheriu. Quest’ultimo ha una frequenza assoluta 412, di cui 338 nei distretti della Moldavia. Seguendo le frequenze per distretti, constatiamo che esiste un’area rappresentativa del cognome Curechiu nei distretti del nord-est della Romania, Botoşani e Iaşi, in cui la frequenza arriva a 302. Alla domanda indiretta (ALR, s.n. vol. I, h. 198) per la nozione dovleac ‹it. zucca›, è stato risposto bostan nell’area del sottodialetto moldavo e dovleac nell’area del sottodialetto di Muntenia. Da questi appellativi sono risultati i cognomi Bostan, con frequenza preponderante nei distretti della Moldavia (vedi allegato) e Dovleac, rappresentato significativamente nei distretti della Muntenia e dell’Oltenia. I due appellativi si ritrovano nei nomignoli Bostan e Dovleac, diventati più tardi cognomi, attribuiti a persone con un grado ridotto di intelligenza. Sempre in base alla frequenza di un cognome, possiamo identificare l’area dialettale di un termine dal quale proviene il rispettivo antroponimo. Così, pocriş, spiegato come ‹coperchio con cui si coprono le scodelle› (Frăţilă, 2010: 77-85) è considerato come appartenente al sottodialetto moldavo. Ma il cognome Pocriş figura solo in 4 (degli 8) distretti della Moldavia, rappresentando 122 persone che hanno questo nome, del totale di 182. Ciò vuol dire che in base alla frequenza del cognome possiamo valutare l’area in cui in passato è stato usato attivamente il termine dialettale pocriş. Nello stesso contesto di riferire il cognome ad un termine dialettale si iscrivono anche Poloboc, proveniente dal nome comune poloboc ‹putină›, it. ‹botte›. Su un totale di 320, nei distretti della Moldavia l’antroponimo registra la frequenza 291. Il termine sottodialettale tâmplar, nel sottodialetto moldavo ha come corrispondente la parola stoler. Da questi termini sono risultati i cognomi Tâmplaru con frequenza assoluta 505, registrata soprattutto nell’area del sottodialetto di Muntenia, e Stoleru con frequenza assoluta 2603 dei quali 2085 si registrano nell’area del sottodialetto moldavo (vedi allegato).
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Il nome comune, nei vari sottodialetti, può presentare dei sensi diversi: così, nel sottodialetto moldavo, pulpă ha il senso di ubero, mentre in altri sottodialetti il senso di base è ‹la parte muscolosa del piede tra il ginocchio e la caviglia›. Il cognome Pulpă è registrato con la frequenza assoluta 187 di cui in Moldavia 63. Ma i distretti Suceava (frequenza 42) e Vrancea (frequenza 18) si trovano rispettivamente al limite nord e sud del territorio del sottodialetto moldavo, zone fortemente influenzate dalle parlate loro vicine, dove pulpă non vuol dire ubero. Dunque, il cognome Pulpă si rivendica con il senso di ‹parte muscolosa del piede tra il ginocchio e la caviglia›, motivo per cui non possiamo considerare come specifico dell’intero sottodialetto moldavo il termine pulpă con il senso di ubero. Le frequenze dei cognomi notati in grassetto in Allegato corrispondono all’area del sottodialetto moldavo. Esse evidenziano il territorio in cui questi si sono formati, se si fa il confronto con le frequenze registrate in altre regioni della Romania. Seguendo queste frequenze registrate nei distretti della Moldavia, constatiamo che in certe zone si concentra un grande numero di portatori del cognome che proviene da una parola dialettale. Questa circostanza è messa meglio in evidenza dalla carta antroponimica in cui le frequenze del cognome sono iscritte nello spazio dell’unità amministrativa, come è, nel caso della Romania, il distretto. Da quanto sopra esposto, risulta quanto segue. I cognomi che hanno la loro origine nei termini dialettali presentano dei tratti caratteristici alle parlate che appartengono ad un sottodialetto. Constatiamo che, se la carta dialettale registra un termine come specifico all’intero dialetto (nel nostro caso quello moldavo), il cognome risultato da questo si può concentrare solo in certe zone. Applicando il metodo di ricerca della geografia antroponimica (Oancă 1998) abbiamo la possibilità –conoscendo la frequenza e la distribuzione territoriale di un cognome– di mettere in evidenza fatti di lingua di particolare interesse, conformemente ad una ricerca linguistica di natura sincronica o diacronica.
Bibliografia ALR = Atlas lingvistic romanesc. Serie nouă. (1956), vol. I şi urm. Bucureşti: Editura Academiei Române, sub redacţia lui Emil Petrovici. TDR = Rusu, Valeriu (1984): Tratat de dialectologie românească. Craiova: Editura Scrisul Românesc. Frăţilă, Vasile (2010): Probleme de dialectologie română. Blaj: Editura Astra. Oancă, Teodor (2005): Reconstituirea ariei laterale dialectale agud. In: Studia in honorem magistri Vasile Frăţilă. Timişoara: Universitatea de Vest Timişoara, 407-412. — (1999): Onomastică şi dialectologie. Craiova: Fundaţia Scrisul Românesc. — (1998): Geografie antroponimică românească. Metodă şi aplicaţii. Craiova: Editura de Sud. — (1996): Probleme controversate în cercetarea onomastică românească. Craiova: Editura Scrisul Românesc. — (2005): Reconstituirea ariei laterale dialectale agud. In: Studia in honorem magistri Vasile Frăţilă. Timişoara: Universitatea de Vest Timişoara, 407-412. — / Lazea, Ramona (2008): Aree dialettali e antroponimiche. In: Quaderni Internazionali di RIOn 3, 167-172.
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ALLEGATO
Sigle per regioni e distretti O = Oltenia (Dj-Dolj, Gj-Gorj, Mh-Mehedinţi, Ot-Olt, Vl-Vâlcea), M = Muntenia (AgArgeş, Br- Brăila, Bz-Buzău, Cl-Călăraşi, Db-Dâmboviţa, Gr-Giurgiu, Il-Ialomiţa, PhPrahova, Tr-Teleorman), D = Dobrogea ( Cţ-Constanţa, Tl-Tulcea), ML = Moldova (BcBacău, Bt-Botoşani, Gl-Galaţi, Iş-Iaşi, Nţ-Neamţ, Sv-Suceava, Vr-Vrancea, Vs-Vaslui), MR = Maramureş (Mm-Maramureş, Sm-Satu Mare), T = Transilvania (Ab-Alba, Bn-Bistriţa Năsăud, Bv-Braşov, Cl-Cluj, Cv-Covasna, Hd-Hunedoara, Hg-Harghita, Ms-Mureş, SbSibiu), CR = Crişana (Ar-Arad, Bh-Bihor, Sj-Sălaj), BNT = Banat (Cs-Caraş Severin, TmTimiş), B = Bucureşti. BORTĂ 1270: O-10 (4-Dj, 1-Gj, 5-Vl); M-30 (5-Ag, 4-Br, 6-Bz, 2-Cl, 1- Il, 12-Ph); D-40 (17-Cţ, 23-Tl); ML-1067 (332-Bc, 137-Bt, 15-Gl, 28-Iş, 395-Nţ, 97-Sv, 14-Vr, 49-Vs); T-74 (22-Bn, 21-Bv, 1-Cj, 1-Cv,21-Hd, 3-Hg, 5-Sb); CR-6 (Ar); BNT-37 (6-Cs, 31-Tm); B-6. BOSTAN 5759: O-32 (8-Dj, 11-Gj, 4-Mh, 4-Ot, 5-Vl); M-563 (112-Ag, 68-Br, 195-Bz, 21-Cl, 54-Db, 7-Gr, 48-Il, 47-Ph, 11-Tr); D-172 (153-Cţ, 19-Tl); ML-4036 (820-Bc, 444Bt, 485-Gl, 713-Iş, 766-Nţ, 88-Sv, 477-Vr, 243-Vs); MR-18(11-Mm, 7-Sm); T-461 (65Ab, 7-Bn, 170-Bv, 12-Cj, 8-Cv,114-Hd, 25-Hg, 26-Ms, 34-Sb); CR-23 (13-Ar, 9-Bh, 1-Sj); BNT-151 (39-Cs, 112-Tm); B-303. CIUBOTĂ 287: O-7 (Gj-3, Vl-4); M-12 (Br-1,Db-5,Gr-2,Il-4); D-2 (Cţ); ML-229 (Bc19, Bt-1, 5-Gl, 143-Nţ, 11-Sv, 50-Vs); MR-2 (Sm); T-31 (5-Bn, 19-Bv,4-Hd, 2-Hg, 1-Sb); BNT-4 (2-Cs, 2-Tm). COVATARIU 155: M-4 (3-Ag, 1-Ph); D-5 (Cţ); ML-112 (7-Bc, 29-Bt, 13-Iş, 12-Nţ, 51Sv); T-13 (Hd-7, Mş-3, Sb-3); BNT-10 (Cs-2, Tm-8); B-11. COVĂTARU 140: O-1 (Dj); M-2 (1-Cl, 1-Db); D-2 (Cţ); ML-106 (21-Bt, 2-Gl, 16-Iş, 3-Nţ, 64-Sv); T-13 (8-Bv, 5-Hd); B-16. HARBUZ 551: O-2 (Gj); M-146 (1-Ag, 17-Br, 113-Bz, 1-Cl, 10-Db, 1-Ph, 3-Tr); D-1 (Tl); ML-336 (17-Bc, 60-Bt, 21-Gl, 117-Iş, 5-Nţ, 17-Sv, 32-Vr, 67-Vs); T-24 (9-Bv, 3.Cl, 6-Cv, 4-Hd, 2-Mş); BNT-3 (Tm); B-39. HARBUZARU 334: O-2 (1-Gj, 1- Mh); M-10 (4-Br, 2-db, 1-Il, 3-Tr); D-13 (Cţ); ML202 (1-Bc, 48-Bt, 1-Gl, 28-Iş, 26-Nţ, 2-Sv, 96-Vs); MR-1 (Mm); T-69 (48-Bv, 21-Hd); BNT-13 (6-Cs, 7-Tm); B-24. HULUB 369: O-9 (7-Dj, 2-Gj); M-18 (7-Br, 5-Db, 1-Gr, 3-Il, 1-Ph, 1-Tr); D-25 (16-Cţ, 9-Tl); ML-280 (11-Bc, 56-Bt, 3-Gl, 103-Iş, 13-Sv, 3-Vr, 91-Vs); T-3 (Bv); CR-2 (Ar); BNT7 (Cs); B-25. HULUBA 390: O-1 (Vl); M-8 (4-Br, 2-Bz, 1-Cl, 1-Il); D-32 (2-Cţ, 30-Tl); ML-284 (177Bc, 1-Gl, 2-Iş, 6-Nţ, 1-Sv, 1-Vr, 96-Vs); MR-4 (Mm); T-39 (17-Bv, 6-Cj, 15-Hd, 1-Sb); CR-1 (Bh); BNT-5 (Tm); B-16. HULUBAN 347: O-4 (Gj); ML-3 (Sv); MR-15 (10-Mm, 5-Sm); T-95 (3.Ab, 2-Bn, 12Bv, 77-Cj, 1-Hd); CR-186 (3-Ar, 2-Bh, 181-Sj); BNT-24 (2-Cs, 22-Tm); B-20.
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HULUBEI 249: O-1 (Dj); M-14 (2-Bz, 5-Gr, 3-Il, 4-Ph); D-17 (15-Cţ, 2-Tl); ML-170 (24Bc, 1-Bt, 35-Gl, 96-Iş, 3-Nţ, 7-Sv, 4-Vs); MR-4 (Sm); T-18 (16-Hd, 2-Mş); BNT-1 (Cs); B-24. PERJA 158: M-54 (Ag); ML-2 (1-Iş, 1-Sv); T-69 (34-Ab, 19-Bv,7-Cj, 2-Hd, 7-Mş); CR-8 (Ar); B-25. PERJERU 180: M-9 (3-Br, 4-Bz, 1-Cl, 1-Ph); ML-145 (42-Bc, 4-Bt, 78-Gl, 1-Iş, 11-Nţ, 1-Vr, 8-Vs); T-12 (6-Bv, 6-Hd); CR-3 (Ar); B-11. PERJU 2193: O-34 (17-Dj, 11-Gj, 1-Ot, 5-Vl); M-73 (6-Ag, 3-Br, 4-Bz, 7-Db, 10-Gr, 4-Il, 37-Ph, 2-Tr); D-62 (57-Cţ, 5-Tl); ML-1652 (375-Bc, 68-Bt, 110-Gl, 521-Iş, 140-Nţ, 96Sv, 24-Vr, 318-Vs); T-147 (6-Ab, 73-Bv, 4-Cj, 33-Hd, 1-Mş, 30-Sb); CR-16 (14-Ar, 2-Bh); BNT-46 (18-Cs, 28-Tm); B-163. PLEŞUVU 322: O-16 (Mh); M-7 (1-Bz, 3-Db, 2-Il, 1-Ph); D-1 (Cţ); ML-276 (190-Bc, 5-Gl, 3-Nţ, 78-Vs); T-4 (1-Ab, 1-Bv, 1-Cv, 1-Hd); BNT-18 (7-Cs, 11-Tm). PRISACĂ 248: O-2 (1-Dj, 1-Mh); M-28 (20-Br, 2-Db, 6-Il); D-11 (Cţ); ML-171 (15-Bc, 51-Bt, 5-Gl, 19-Nţ, 77-Sv, 4-Vs); T-5 (1-Ab, 1-Bn, 3-Hd); BNT-20 (3-Cs, 17-Tm); B-11. PRISĂCARIU 457: O-14 (5-Gj, 4-Mh, 5-Ot); M-55 (8-Ag, 4-Br, 3-Bz, 9-Cl, 11-Db, 10Gr, 1-Il, 4-Ph, 5-Tr); D-45 (44-Cţ, 1-Tl); ML-185 (18-Bc, 47-Bt, 17-Gl, 40-Nţ, 13-Sv, 2-Vr, 48-Vs); MR-7 (Mm); T-84 (3-Bn, 30-Bv, 9-Cj, 2-Cv, 28-Hd, 12-Sb); CR-8 (Ar); BNT-39 (10-Cs, 29-Tm); B-16. PRISĂCARU 578: O-14 (1-Dj, 1-Gj, 4-Ot, 8-Vl); M-97 (1-Ag, 5-Br, 13-Bz, 8-Cl, 12Db, 5-Gr, 16-Il, 32-Ph, 5-Tr); D-54 ( 43-Cţ, 11-Tl); ML-244 (82-Bc, 16-Bt, 42-Gl, 21-Nţ, 6-Sv, 19-Vr, 58-Vs); MR-16 (7-Mm, 9-Sm); T-84 (3-Ab, 4-Bn, 37-Bv, 10-Cj, 13-Hd, 2-Hg, 15-Sb); CR-7 (3-Ar, 3-Bh, 1-Sj); BNT-42 (20-Cs, 22-Tm); B-20. PRISECARIU 887: O-30 (16-Gj, 5-Mh, 7-Ot, 2-Vl); M-29 (8-Ag, 1-Br, 5-Bz, 1-Cl, 5-Db, 8-Ph, 1-Tr); D-16 (Cţ); ML-700 (128-Bc, 103-Bt, 3-Gl, 149-Iş, 198-Nţ, 40-Sv, 6-Vr, 73-Vs); MR-8 (Mm); T-50 (4-Bn, 10-Bv, 4-Cj, 3-Cv, 27-Hd, 1-Mş, 1-Sb); CR-3 (Ar); BNT21 (6-Cs, 15-Tm); B-30. STOLERU 2683: O-37 (7-Dj, 15-Gj, 6-Mh, 5-Ot, 4-Vl); M-59 (12-Ag, 14-Br, 5-Bz, 7-Cl, 7-Db, 13-Ph, 1-Tr); D-99 (90-Cţ, 9-Tl); ML-2085 (518-Bc, 94-Bt, 174-Gl, 324-Iş, 448-Nţ, 187-Sv, 135-Vr, 205-Vs); MR-3 (Mm); T-119 (2-Ab, 5-Bn, 53-Bv, 13-Cj, 13-Cv, 32-Hd, 1-Hg); CR-20 (14-Ar, 4-Bh, 2-Sj); BNT-51 (21-Cs, 30-/m); B-210. VADANA 401: M-5 (1-Br, 3-Cl, 1-Il); D-10 (5-Cţ, 5-Tl); ML-331 (127-Bc, 1-Bt, 7-Gl, 20-Iş, 133-Nţ,18-Sv, 10 Vr, 15-Vs); T-44 (3-Bn, 7-Bv, 5-Cj, 14-Hd, 13-Hg, 2-Ms); BNT-5 (Tm); B-6. VĂDANA 129: M-72 (9-Ag, 9-Br, 16-Bz, 5-Cl, 16-Il, 17-Ph); D-19 (9-Cţ, 10-Tl); ML-29 (10-Bc, 8-Gl, 1-Nţ, 9-Vr, 1-Vs); T-8 (3-Bv, 2-Cj, 1-Hg, 2-Sb); B-1.
Elena Papa (Università di Torino)
Riflessi delle attività pastorali nella toponomastica alpina del Piemonte: varietà e diffusione della terminologia legata all’insediamento stagionale
Le attività pastorali, che fin dall’antichità hanno rappresentato la risorsa fondamentale delle popolazioni montane, hanno lasciato tracce profonde nella toponomastica alpina. Anche nei siti più impervi lo spazio della montagna rivela i segni di una lunga frequentazione da parte dell’uomo, che nel tempo lo ha trasformato in un sistema organizzato e produttivo, nonostante i forti condizionamenti climatici e ambientali. La necessità di spostarsi da un pascolo all’altro in relazione alla quota, all’esposizione e al tipo di allevamento ha determinato la diffusione di strutture di ricovero temporaneo degli animali e dei pastori, le cui dimensioni e caratteristiche tipologiche possono variare in modo considerevole anche all’interno dello stesso territorio. La microtoponomastica restituisce l’immagine di questi spostamenti e delle relative soste. Le denominazioni utilizzate attingono al lessico locale e hanno carattere descrittivo; le stazioni pastorali sono designate con nomi generici –alpe, gias, muanda, meira, fourest– la cui distintività è assicurata da specificazioni ispirate alle caratteristiche del territorio o semplicemente indicanti la proprietà. Non è infrequente l’utilizzo del nome privo di determinante, ossia con valore assoluto, laddove l’identificazione del luogo non si presti ad equivoci. Le denominazioni restano fissate nel tempo indipendentemente dalla permanenza delle attività originarie sul territorio o dalle modifiche funzionali intervenute nella gestione dello spazio. Appare così evidente la difficoltà e insieme l’importanza di ricostruire i precisi significati alla base di questi toponimi, la cui comprensione è necessaria se si desidera conoscere il contesto culturale e ambientale in cui essi sono sorti. Lungo la dorsale alpina del Piemonte la varietà di denominazioni assegnate agli insediamenti pastorali temporanei, pur in aree apparentemente omogenee, ha presto suscitato l’interesse degli studiosi, in particolare nell’ambito geografico;1 minore è stato il coinvolgimento di filologi e glottologi, nonostante le considerazioni espresse da Blanchard nella poderosa opera Le Alpes Occidentales: «Un philologue aurait à coup sûr des remarques intéressantes à nous faire sur la variété de ces significations et sur son explication» (Blanchard 1938-1956, vol. VI, 2: 468). Le ragioni di tale «disattenzione» sono da ricercarsi nella recenziorità di formazione di questo tipo di toponimi, corrispondente ad una minore problematicità di ricostruzione etimologica rispetto al repertorio oronimico e idronimico alpino, che affonda le sue radici nell’indoeuropeo. Esistono d’altra parte difficoltà oggettive nella sistematizzazione di un patrimonio onomastico di matrice popolare, diatopicamente caratterizzato da polisemia, ma Tra i molti mi limito a ricordare Lorenzi (1918 e 1920), Roletto (1918 e 1919), Pracchi (1943), Iori (1959), Sereno (1997).
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contestualmente segnato dalla coesistenza di forme apparentemente sinonimiche all’interno dello stesso territorio. La pluralità di denominazioni ha creato non pochi problemi ai cartografi che si sono accinti a fornire una descrizione dettagliata del territorio. I rilevatori inviati sul posto a registrare i toponimi locali non sono sempre riusciti a comprendere a fondo il valore semantico dei termini proposti e hanno limitato lo spazio di interpretazione a loro affidato. I ben noti errori nella registrazione toponimica effettuata da rilevatori non competenti nelle lingue locali2 hanno determinato la necessità di costanti revisioni del materiale raccolto. Nel 1911 la neo-istituita Reale Commissione per la revisione toponomastica della Carta d’Italia aveva precisato nelle Istruzioni generali i criteri di rilevamento a cui attenersi: «la Carta dovrà essere scritta in lingua italiana; ma la terminologia locale pei nomi comuni dovrà essere mantenuta». Le Istruzioni riportavano indicazioni specifiche sulle accentazioni dei nomi e sulla trascrizione dei nomi dialettali e stranieri attestati sul territorio (cfr. Cantile 2004); per trarre d’impaccio i rilevatori, iniziarono ad essere approntate raccolte di termini geografici locali. Per il Piemonte è prezioso il contributo redatto nel 1914 dallo stesso Gen. Carlo Porro, Direttore dell’I.G.M. e membro della Reale Commissione, predisposto per la stampa ma mai ufficialmente pubblicato, le cui bozze sono conservate presso l’I.G.M. di Firenze.3 Effettivamente nella cartografia dell’I.G.M. le indicazioni toponimiche relative a pascoli e alpeggi si presentano in forma dialettale o con minimi adattamenti di superficie. In questo senso la toponomastica locale è stata per certi versi preservata, evitando il rischio di uniformare le denominazioni semanticamente affini ispirandosi ad un’ideale sistematizzazione del quadro onomastico. Le carte dell’I.G.M. non sono esenti dai problemi sopra accennati, ma la quantità di dati toponimici raccolti è tale da poter garantire la validità generale delle indicazioni relative alla diffusione e rappresentatività delle diverse forme. La possibilità di ricerca insite in questo strumento erano già state colte da Lina Iori, che nel 1959 aveva preso in considerazione la nomenclatura tradizionale di carattere pastorale a partire dalle carte a piccola scala. Il supporto della cartografia digitale e dei sistemi di gestione dei dati geografici consentono oggi una visione di maggiore dettaglio unitamente alla possibilità di approfondire tematicamente gli oggetti indagati. La base dati utilizzata per questo studio è stata individuata nella cartografia in scala 1:10.000, a cui è correlata una serie toponimica molto ampia. Per la verifica della distribuzione areale lo strumento utilizzato è rappresentato dal sistema ToP-GIS4, che consente di correlare variabili linguistiche e geomorfologiche, fornendo una visualizzazione precisa dei limiti di diffusione delle diverse denominazioni.
Cf. Porro 1913: 5: «il personale incaricato del lavoro sul terreno mancava della necessaria preparazione per la corretta trascrizione dei nomi locali, la quale era poi resa difficile, specie nei primi tempi, dalla nessuna conoscenza che gli operatori avevano dei dialetti delle regioni, dove erano mandati a lavorare». 3 Il volumetto, dal titolo Topolessigrafia del Piemonte. Contributo alla topolessigrafia italiana, si presenta privo del nome dell’autore, ma è certamente redatto dallo stesso Porro. Cf. Gasca Queirazza (1978). 4 Cf. http://associazioni.unito.it/ArchiMediOn/ (2010 12 15). 2
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Nel sistema sono stati inoltre inseriti i dati relativi alla situazione degli alpeggi moderni recentemente censiti dalla Banca dati degli alpeggi della Regione Piemonte5, utili per procedere ad un confronto con la situazione storica fissata dalla cartografia dell’I.G.M. In questa sede l’analisi sarà limitata a due sole voci, alpe, gias, la cui diffusione sul territorio può efficacemente illustrare la complessità e la varietà di problematiche connesse all’interpretazione dei toponimi alpini di carattere pastorale.
Alpe Si tratta del tipo toponimico più diffuso, presente sul territorio nelle forme Alp, Alpe o, con rotacismo, Arp. Le attestazioni toponimiche piemontesi ricavate dall’I.G.M. sono 1260. La classificazione degli oggetti topografici effettuata dall’I.G.M. ci permette di verificare che la maggior parte delle denominazioni sono riferite a case di alta montagna (725) o a o case isolate (279); 2 sono classificate come «case isolate di dimensioni notevoli», 10 come «edifici: diruti e semidiruti». I toponimi riferiti ad aree geografiche sono 24; un discreto numero di alpi si caratterizza per l’articolazione in gruppi di case o nuclei insediativi (203, 8), in qualche caso divenuti veri e propri centri abitati (Alpe Cheggio, fr. di Antrona Schieranco, 1500 m;6 Alpette, com. in prv. di Torino, 957 m, 300 abitanti). La voce alpe, di origine preindoeuropea7, continua il lat. alpis, che accanto al significato di ‹montagna alta›8, ha presto acquisito il valore di ‹pascolo di alta montagna a cui gli animali salgono durante il periodo estivo›, originariamente tipico dell’area settentrionale. La penetrazione di questa accezione nell’italiano era fatta risalire dal DEI al sec. XIX, ma il GDLI e il DELIN ne hanno suggerito una retrodatazione al 1310-12 sulla base di una citazione, per la verità non così esplicita, tratta dalla Cronica di Dino Compagni, in cui si legge, con riferimento a Pistoia: «Piangano i suoi cittadini […], posseditori di così ricco luogo, attorniato di belle fiumane e d’utili alpi e di fini terreni» (I, 26). In area piemontese i documenti medievali registrano precocemente questo valore, confermando l’importanza dell’allevamento montano nell’economia locale. Le attestazioni più antiche si collocano intorno agli inizi dell’XI secolo9 e si riferiscono agli alpeggi situati Il Censimento degli alpeggi piemontesi è stato realizzato dall’IPLA (Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente) nel 2003-2004 e ha portato al controllo puntuale e alla descrizione delle attività produttive di tutti gli alpeggi della regione con una portata di almeno 20 capi. Gli alpeggi censiti sono in tutto 1029. I dati ufficiali, relativi a denominazioni, localizzazioni e altitudine, mi sono stati forniti dal dott. Paolo Ferraris, ispiratore e curatore del progetto, a cui va il mio ringraziamento. 6 Così all’epoca della rilevazione I.G.M., ma attualmente non più abitata. 7 Accanto all’ipotesi preindoeuropea connessa al tipo *alb- ‹altura›, Hubschmied propone una derivazione dal gall. *alpis, *alpa ‹pascolo di montagna›, forma nominale in -pi, -pa dalla radice *al ‹nutrire› (LEI). 8 Cf. Du Cange (1883-1887: s.v. alpes): «vocati non modo montes, qui Italiam ab Gallia et Germania disterminant, sed etiam universim quivis montes altiores». 9 Un antecedente molto più lontano risulterebbe nel VII sec. nel Piacentino, segnalato da Vaccarone / Bertoglio [s.d.]. Il documento a cui gli studiosi fanno riferimento ha per oggetto la donazione di una «alpicella qui appellatur monte penice… usque in fluvio trivia», effettuata da Adalvaldo, figlio 5
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nell’alta Val d’Ossola e nella Val Sesia. Nei secoli successivi in tali terre si sarebbero insediati i coloni walser, ai quali i monasteri, detentori dei diritti di pascolo, affidarono l’onere della gestione affinché le facessero fruttare (cfr. Zanzi / Rizzi 2002: 441-494). Tuttora le attestazioni toponimiche del tipo alpe restano fittissime in quella zona. Accanto all’«alpe rotunda in valle mastalone», nominata in un documento del 1011 (Valsesia, BSSS 124), le carte segnano gli atti di passaggio dell’«alpe de otro» (Alagna, 1025, BSSS 124), ricco alpeggio appartenente ai conti di Pombia, confiscato dall’imperatore e ceduto al vescovo Uberto di Novara, e infine donato al monastero cluniacense di Castelletto Cervo nel 1083, insieme all’«alpe nominatur lavazoso» (Rima, BSSS 124). La documentazione si espande nel XII secolo, in concomitanza con l’affermazione dei diversi enti monastici sul territorio. Lo sfruttamento dei pascoli alpini ebbe infatti grande impulso grazie ai monasteri, i quali iniziarono una vivace politica di acquisizione di terreni di pascoli e diritti di alpeggio, testimoniata dai relativi cartari. Un documento del 1168 sancisce la concessione del diritto di pascolo «une alpis ubi dicitur petrafica cum omnibus suis pertinentiis sicut tenebat elena filia quondam rogerio qui dicitur de ciporeto» (BSSS 36) all’abbazia cistercense di Casanova.10 La successiva espansione porterà nel XIII secolo all’acquisizione dell’Alpe di Tête e di alcune alpi della zona di Pragelato, oltre ai diritti sull’Alpe del Pis11 (Massello) e della metà dell’Alpe dei Tredici laghi (Prali), nella Val Germanasca (Comba / Dal Verme 1996: 16). Risalgono a quel periodo le lunghe controversie circa i diritti di sfruttamento degli alpeggi da parte delle comunità, danneggiate dalla cessione di diritti feudali alle abbazie. Un altro noto esempio riguarda le comunità dell’alta Valle di Pesio, che per anni rivendicheranno inutilmente il diritto di pascolo sulle alpi un tempo comuni («alpes silicet vacherii et serpenterii et pratum brunum»), cedute ai monaci della Certosa di Pesio all’atto della sua fondazione nel 1173 (Camilla 1985). Se le alpes medievali si identificano essenzialmente come pascoli, è vero che nel tempo la voce estende il proprio significato fino a designare i fabbricati legati alle attività pastorali. Esplicita a questo proposito la definizione fornita dal Di Sant’Albino (1859): «Alp: fra noi denota singolarmente quel punto di un alto monte su cui sorge un fabbricato o sia una cascina, dove si conducono nell’estate i pastori colle loro mandre, perché godano dei pascoli ivi esistenti, e donde, dopo aver fabbricato burri, caci, ecc., scendono sull’avanzar dell’autunno per tornarsi alla pianura».
di Agilulfo, in favore dell’abbazia di Bobbio. Tuttavia l’atto originale non risulta, trasmesso da una copia più tarda risalente al X sec. 10 Cf. anche BSSS 14, n. 166: «Andrea, delfino di Vienna e conte di Albon, dona al monastero di Santa Maria di Casanova ogni suo diritto sulle Alpi del Pis e di Pierrefixe, e compone le differenze tra il monastero e gli uomini di Sauze e Cesana» (1213). 11 Cf. BSSS 2: «in alpe del piz» (1202); «alpibus una dicta del pis» (1275).
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La Description settecentesca del capitano Rouzier12, registrando il tipo alpe nella valle di Perosa e Pragelato e nella valle di S. Martino, glossava il termine evidenziando appunto la presenza di fabbricati per il ricovero degli animali: «bergerie où il y a des paturages aux environs». L’ambivalenza della voce è messa in luce da Porro (1914) che definisce l’alpe «pascolo in alta montagna, anche abitazione dei pastori e ricovero delle mandre». Il Dizionario storico-geografico del Casalis offre una descrizione dettagliata della natura dell’alpe nelle valli di Lanzo alla metà dell’Ottocento: corrispondenti ai «così detti chalets», le alpi erano costituite dalla «semplice unione di un camera da fuoco senza focolare, di una cantina ove si tiene il latte, di un’altra ove si tengono i caci, ed una grande stalla capace di contenere 50 sino a 100 vacche, che è forza di condurre ogni giorno a pascolare, qualunque sia la condizione atmosferica, nelle pasture che ne dipendono».13 La definizione mette in luce la progressiva specializzazione semantica della stessa voce rispetto all’uso di alp nell’area alpina contigua sul versante francese e nella Svizzera Romanda, dove è più marcata la separazione tra l’alpe, intesa come pascolo, e lo chalet, abitazione dei pastori.14 Il rilevamento cartografico evidenzia la discontinuità delle attestazioni toponimiche del tipo alpe lungo la dorsale alpina del Piemonte. Il massimo accentramento si rileva nel settore nord-orientale (501 toponimi); 82 sono le forme attestate nell’area forestale Valle Sacra, Val Chiusella, Dora Baltea Canavesana, 171 nelle Valli Orco e Soana, 191 nelle Valli di Lanzo. Spostandosi verso sud le attestazioni diminuiscono (27 in Val Chisone, Germanasca e Sangone; 13 in Valle Po, Bronda e Infernotto), per interrompersi nell’area della Val Varaita, Valle Grana, Valle Maira e Valle Stura, dove l’affermazione del termine è contrastata dalla presenza di altre voci concorrenti. Un limitato gruppo di esempi si ritrova nuovamente lungo il confine ligure, nelle Valli Monregalesi e nell’alta Val Tanaro (10). Un’indicazione contrastante viene offerta dal Censimento degli alpeggi promosso dalla Regione Piemonte, che presenta esempi di denominazioni Description des passages, qui se trouvent dans les alpes / qui separent le piémont de la france / divisée en deux traittés, dont le premier renferme le cols par / lesquels on va en france et le second contient les / passages par lesquels les vallées de Piémont communiquent / entr’elles, et avec la provence, et le Dauphiné / par Jean Baptiste Rouzier capitaine du Régiment de Monfort / 1749 (AST, Corte, Carte Topografiche Archivio Segreto, 7 F I rosso). 13 Casalis (1851: 27-28, voce Torino (provincia di). 14 Si veda a questo proposito la serie di definizioni fornite da André Pégorier nella recente raccolta Les noms de lieux en France. Glossaire de termes dialectaux realizzata per l’Institut Géographique National: Alpe (Alpes) ‹Pâturage de haute altitude›; Arp, arpe (Savoie) ‹Alpe, pâturage de montagne›; Aup (Dauphineé) ‹pâturage de montagne dans les Alpes›; Aupihoun, arpilhoun (Alpes, Sud-Est,) ‹petite alpille, colline, pâturage›. 12
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con base alpe anche in Valle Varaita (1), Valle Maira (2) e Valle Stura (17), suggerendo una distribuzione più omogenea della voce.15 Il dato è nuovo ed ha un significato ben preciso: le denominazioni censite nel 2003-2004, eseguite con criteri diversi rispetto alla cartografia I.G.M., riflettono l’espansione del tipo alpe, interpretato come voce tecnica e di uso generalizzato per indicare un certo tipo di organizzazione produttiva di montagna; non si riconosce la stessa fortuna alle voci concorrenti, nonostante esse siano tradizionali del luogo. Va d’altra parte precisato che il rilevamento del dato onomastico non è stato uno degli obiettivi del Censimento degli alpeggi, motivo per cui le unità produttive risultano talora registrate solo attraverso il determinante, senza conservare memoria dell’indicatore geografico che pure costituisce parte integrante della denominazione toponimica.16 Di questo trattamento, peraltro non sistematico, è necessario tener conto quando si confrontano le carte tematiche risultanti dalle due fonti. La netta differenza di punti «alpe» nell’estrema propaggine settentrionale del Piemonte (501 a fronte di 39) dipende in parte da questo fenomeno. Tuttavia se si considera il numero globale degli alpeggi attualmente presenti nella zona (188), appare evidente come la stessa area che nel medioevo aveva conosciuto la sua espansione proprio attraverso lo sfruttamento dei pascoli alpini segni oggi un forte regresso, in ragione dell’evidente difficoltà di mantenere produttivi alpeggi situati su versanti scoscesi, caratterizzati da altitudini elevate e forte isolamento.
Gias Secondo per diffusione tra i tipi toponimici legati alle attività pastorali, Gias risulta ampiamente attestato sia in Piemonte sia nelle aree alpine della Francia e della Svizzera Romanda. La voce continua il lat. med. jassium «ovile» che il Du Cange (1883-1887) registra richiamando il provenzale jas, da *jacium. Accanto a jassium è diffuso anche il tipo jassile, con suff. -ile (Rohlfs 1969: §1080): «Idem quod mox jassium, f. quod in eo jacent pecora». Alla base è il verbo iăcēre, nel senso di ‹stare disteso, essere sdraiato, coricato›. Si tratta propriamente di una specializzazione semantica rispetto ad un valore originario certamente più generico del termine (*jacium ‹luogo dove ci si sdraia›), che nei numerosi continuatori romanzi, ben rappresentati nelle parlate del dominio linguistico occitano, catalano e italiano (REW 4566), si orienta essenzialmente verso due accezioni:
Il maggior numero di attestazioni si rileva nelle Valli di Lanzo (52); Valle Sacra, Val Chiusella, Dora Baltea Canavesana (36); Strona e Basso Toce, Cusio Mottarone (26); Valli Monregalesi (21); Valle Stura (17); Valle Anzasca (12); Valli Chisone e Germanasca (9); Valli Po, Bronda ed Infernotto (9). Esempi sparsi ricorrrono nella Valle Elvo (5); Alta Val Tanaro, Mongia, Cevetta (4); Valli Gesso, Vermenagna, Pesio (4); Bassa Val di Susa e Cenischia (3); Val Sangone (3); Valle Maira (2); Val Ceronda, Casternone e Alto Canavese (2); Valli Orco e Soana (2); Valle Varaita (1); Alta Valle Susa (1); Val Sesia (1). 16 Cf. Alpe Regina (Formazza) › Regina; Alpe Giamporino (Varzo) › Ciamporino; Alpe Sangiatto (Baceno) › Sangiatto; Alpe Vallescia (Trasquera) › Vallescia. 15
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1) ‹giaciglio, covo›, soprattutto di animali selvatici –cf. jas «gîte (d’un lièvre)», attestato in Francia alla fine del XII secolo e inizio del XIII (FEW 5, 6a) 2) ‹lettiera, strame›, strato di foglie, paglia, erba secca preparato per «far sdraiare» gli animali nella stalla. Lo stesso quadro semantico è accolto dal piemontese: il Di Sant’Albino (1859, s.v. giass), si limita infatti a indicare le accezioni di 1) «Covacciolo, covo, giaciglio. Luogo dove si riposano alcuni animali quadrupedi. V. Tana». La voce ricorre anche nella locuzione Pié la levr a giass «Pigliar la lepre a covo. […] ‹prenderla o trovarla ferma›», utilizzata anche in senso metaforico. 2) «Impatto, lettiera. Lo sterno o letto che si fa alle bestie nelle stalle, che anche dicesi giaciglio o giacitojo. Queste ultime voci denotano più propr. il luogo dove giacciono. Onde Fe el giass a le bestie. Fare l’impatto alle bestie, cioè fare lo sterno, il letto alle bestie». La consultazione degli atlanti linguistici consente di avere un’idea della reale diffusione del tipo lessicale in area romanza. Il controllo mette in luce la notevole estensione del valore di ‹lettiera› e in subordine di quello di ‹covo›.17 La polisemia della voce pone evidenti problemi nell’individuazione del significato preciso a cui risalire nell’interpretazione toponimica. Tuttavia, escludendo l’accezione ‹lettiera›, che poco si adatta al contesto onomastico, sono pochi i casi in cui, anche in ambito romanzo, una denominazione di luogo possa giustificare il valore di ‹covo, rifugio›: gli esempi certi sono garantiti dall’esplicitazione del determinante, come nel caso di Le Jas des Lièvres (Belledonne, Isère, a 2325 m.) e Jas de l’Aigle (Alpes-de-Haute-Provence).18 Di fatto le denominazioni toponimiche registrate anche nel territorio d’Oltralpe risultano in genere riferite ad aree di pascolo19, elemento che aiuta a circoscrivere il significato al contesto delle attività pastorali. Pégorier (2006) ne fornisce una ricca documentazione, registrando le varianti dialettali tipiche delle diverse aree con il relativo significato: Ajas: couche, gîte, abri pour les troupeaux. Var. jas. jasse (Gascogne). Ayas: couche, gîte, emplacement où couchent les troupeaux. Var. jasse, jas (Haut-Pyrénées). Gias: parc pour les moutons (Briançonnais). Jas, jat: nom donné aux pâturages de certains endroits du Forez; gîte des troupeaux (Forez). Jas: gîte, lieu où couchent les troupeaux (Aveyron, Gers, Ubaye, Alpes, Provence). Jasse: abri pour le berger et enclos où l’on parque le bétail en montagne (Ariège, Dordogne, Provence et autres régions). Yas: gîte, refuge, bergerie (Haut-Pyrénées).
I limiti imposti alla pubblicazione non consentono di esplicitare le singole citazioni. Riferimenti specifici per l’area contigua al Piemonte si possono ritrovare sotto le voci «la litière» (ALF 779, ALJA 654, ALP 705) e «strame, mettere lo strame» (AIS VI, 1170); «le gîte du lièvre» (ALJA 955, ALP 962) e «il covo della lepre» (AIS III, 521); «le parc à moutons» (ALP 756); «l’alpage, habitation d’alpage» (ALJA II, liste complémentaire L62). 18 Cf. le riserve di Bessat / Germi (2004: 174). 19 Cf. Bessat / Germi (2004: 174-178). Segnalo inoltre La Jasse (Bessans, Haute-Maurienne, Savoie); Jasse-Vieille (Argentine, Basse-Maurienne, Savoie); Jasseplagne, (Arvillard, Savoie). 17
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Ciò nonostante l’identificazione del valore reale di gias su un certo territorio richiede un ulteriore approfondimento, con indagini mirate sia in senso diacronico che diatopico. Come si evince anche dalla già citata glossa del Du Cange (1883-1887) a jassile, storicamente la voce designa un’area destinata ad accogliere gli animali per la notte, in sostanza uno spazio cintato. La citazione «Quoddam casale totum situm in loco de Alpibus, prope magnum Jassium, etc.» tratta dal Tabul. S. Victoris Massiliensis (a. 1460 circa) e riportata dallo stesso Du Cange (1883-1887: s.v. jassium), conferma la distinzione tra il jas, semplice struttura di contenimento, e i pascoli circostanti o gli eventuali fabbricati. Le attestazioni medievali non sono comunque frequenti e sono tutte piuttosto tarde tanto in Italia quanto in Francia. Nelle Alpi Provenzali il valore di «bergerie, bercail, cabane où on enferme le troupeau» risulta attestato dal 1465 (TLFI).20 In Piemonte è preziosa la documentazione cartografica reperita da Rinaldo Comba (Comba / Dal Verme 1996: 19), che oltre a registrare la presenza di un Iacium Chastelleti (Casteldelfino) in una carta dell’alta Val Varaita risalente al 1421-22, ne conserva l’immagine, corrispondente ad uno spazio cintato da un muro di pietra a secco. Più semplice è l’aspetto del gias raffigurato in una carta topografica del 1566, costituito da una staccionata in legno.21 Decisamente più tarde sono le attestazioni riferite ad un giacio martino / giazo martino, che risulta nel catasto di Ala di Stura del 1590. La diffusione della voce iacium nell’uso pastorale è indirettamente confermata dalla presenza del verbo jazare, documentato in Piemonte negli Statuti di Monasterolo di Savigliano (Arch. Com., a. 1481) Ordinatus est quod campares de Monastiroly non possint nec debeant ducere oves extraneas ad jazandum in sua possessione sub pena pro quolibet et qualibet vice solidos XX in astensium
e negli Statuti di Brosso, in Valchiusella (a. 1497, BSSS 92: 354): Jtem quod bestie bovine equine et muline et ovine a festo santi Johannis Baptiste cuiuslibet anni usque ad festum santi Bertolomei inclusive pernoctare et Jazare debeant ultra cimam montis cavalarie sub pena solidorum duorum pro singola Bestia […]
Nonostante la diffusione storica dell’accezione di jassium quale ‹stazzo›, i principali dizionari piemontesi (Zalli 1815 e 1830, Ponza 1830-1833, Di Sant’Albino 1859) non registrano questo significato. Le carte dell’AIS (VI 1192a) rivelano tuttavia la presenza di questo valore semantico a Vicoforte (175: stramuda da n ģas al awt) e a Valdieri (181: merar ad ģas), corrispondenti alle aree di parlata provenzale. Ulteriori conferme vengono dalla consultazione del Dizionario del dialetto valdese della Val Germanasca (Pons 1973) che, s.v. gias, accanto all’accezione primaria ‹strame›, registra già o gias «luogo dove si fermano durante il giorno i bovini e gli ovini per riposare e ruminare». 20
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Recentemente è stata messa in discussione la datazione della prima attestazione del valore di jas in questa accezione, che la prima edizione del TLFI faceva risalire al XIII secolo (1208, Charte de Durbon, HautesAlpes). In realtà la citazione si riferirebbe al valore ‹gîte de lievre›. Cf. Andronache 2009: 125. Comba / Dal Verme (1996:19). Il gias era localizzato tra Valdieri e Andonno.
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Il repertorio topolessicografico raccolto da Rouzier consente di ampliare l’area di diffusione della voce, glossata, con minime varianti, come «endroit entourré d’une muraille ou avec des clefs qui forment un parc où l’on enferme les brebis pendant la nuit en été», oltre che nella Val Germanasca, anche nelle altre vallate occitane, quali la Val di Susa (a Cesana) e le valli Pellice, Po, Maira, Grana e Stura. Il controllo dell’attuale distribuzione dei toponimi formati con gias in area piemontese evidenzia una diversa e più estesa localizzazione rispetto al bacino delle valli occitane. I relativi toponimi registrati dall’I.G.M. sono complessivamente 343. La forma conservata nella toponomastica riproduce in genere la pronuncia dialettale. Solo nel settore nordorientale si attestano esempi di adattamento con esito Giaccio22 o Ghiaccio23, in analogia con il piem. giasa (‹ lat. med. glacia per glacies) ‹ghiaccio›. Se il quadro toponimico appare globalmente omogeneo, l’identificazione precisa del valore di gias pone ancora diverse difficoltà in relazione all’ulteriore estensione semantica del termine. Il glossario approntato da Carlo Salvioni all’inizio del Novecento nel corso di un’indagine sul dialetto provenzaleggiante di Roaschia (CN) rivela che in quell’area ģas vale «cascina sull’alpe, pascolo alpino» e anzi localmente si «distinguono a seconda delle stagioni, ģas sután, ģas del mes e ģas suran» (Salvioni 1907: 538). Dal valore specifico di ‹recinto›, la voce è quindi passata a designare anche i pascoli e la cascina di montagna, acquistando, per certi versi, una valenza sinonimica rispetto ad alpe. Non è un caso che le denominazioni storiche di alcune alpi, documentate fin dal medioevo, quali le già citate «alpes […] vacherii et serpenterii» o l’Alpe del Pis risultino oggi registrate nella cartografia I.G.M. rispettivamente come Gias Vaccarile, Gias Serpentera e Gias del Piz. Anche il glossario del Porro (1914: s.v. gias) non riporta una definizione specifica, ma si limita a rimandare ad alpe.24 Il valore semantico dei due termini non è tuttavia sovrapponibile poiché, a differenza dell’alpe, il gias risulta essere una stazione di sosta temporanea del bestiame, andando piuttosto a collocarsi nella sfera semantica di voci parallele quali muanda, mianda.25 D’altra parte la disposizione stessa dei gias su più livelli è attestata anche dalla toponomastica, che non di rado presenta denominazioni seriali del tipo Gias sottano / Gias di mezzo / Gias soprano.26 Alpe Giaccio dell’Asino, Coggiola; Alpe Giaccia Croso e Piano di Giaccio Croso, Broglio (BI); Turio del Giaccio, Scopa; Alpe Giaccio, Mollia (Val Sesia). 23 C. Ghiaccio, Pollone; Ghiaccio Comune, BI; A. Ghiaccio, Sabbia; A. Ghiaccio, Boccioleto e Rima S. Giuseppe; il Ghiaccio, Riva Valdobbia (Val Sesia); il Ghiaccio, Pieve Vergante (Val d’Ossola). 24 Cf. Porro 1914; unica particolarità annotata riguarda il valore polisemico della voce, che «in alcuni paesi vuol dire anche letame (Lomellina)». Lo stesso significato ricorre anche nel Canavese. 25 Esito dialettale del lat. mutanda, dal verbo mutare (REW 5785), designa la stazione pastorale temporanea. 26 Cf. Gias soprano / di mezzo / sottano del Pari; Gias soprano / sottano Sestrera, Baus Lula, Canavere, del
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Secondo la classificazione degli oggetti topografici prodotta dall’I.G.M. la maggior parte delle attestazioni si riferisce a «case di alta montagna» (161) o a «case isolate» (57); 24 si riferiscono a «edifici diruti e semidiruti», 1 a «baracca o capanna» (Gias dell’Adreit, Valle Gesso). Più coerentemente con il valore semantico originario della voce, 8 denominazioni di luogo si riferiscono a «mura dirute e semidirute» (in Valle Gesso: Gias della Portia, Gias della Losa, Gias soprano, Gias Lausetto, Gias Lagarol, Gias del Saut, m. 1847, Gias del Mesa, com. di Valdieri; Gias della Pera, com. di Entracque). Si noti che, a differenza del tipo alpe, nessun gias ha dato origine ad un insediamento stabile. Allo stato attuale è difficile discriminare il preciso valore semantico della voce, distinguendo tra il significato proprio di ‹stazzo› e quello successivamente acquisito di ‹pascolo con casale e ovile›. Su questo problema Bessat / Germi (2004: 174) auspicavano per il versante francese la possibilità di indagare più approfonditamente il territorio, integrando le indicazioni toponimiche con ricerche sul campo. Il lavoro puntuale condotto nell’ambito del censimento degli alpeggi piemontesi ha in parte ridotto le speranze di poter ottenere risultati determinanti con la sola indagine sul campo. Nella coscienza dei parlanti le denominazioni locali non sono più trasparenti e il paesaggio pastorale è stato modificato dalla mano dell’uomo. La documentazione fotografica a corredo del Censimento evidenzia l’assenza di un assetto strutturale specifico del gias: le località censite prevedono attualmente la combinazione costante di edifici di abitazione del pastore e di ricovero per animali. Una ricerca più fine andrebbe piuttosto affrontata con gli strumenti dello storico, ripercorrendo la documentazione catastale, le mappe, i contratti ed ogni tipo di memoria che possa ancora conservare le tracce di un’economia pastorale di villaggio. L’esame fin qui condotto mette in luce la complessità dell’analisi della toponomastica alpina correlata all’attività pastorale. Pur trattandosi in genere di denominazioni recenti, poco problematiche dal punto di vista etimologico, l’interpretazione non può essere immediata: il valore semantico delle voci che entrano a far parte della denominazione dei luoghi non solo varia in relazione al tempo e allo spazio, ma in questo caso risulta anche fortemente condizionato dagli usi e dalle consuetudini pastorali delle diverse comunità. La rilevazione della diversa distribuzione delle voci in relazione a variabili di tipo linguistico dev’essere vagliata alla luce dei legami che si instaurano tra l’uomo e il territorio, senza trascurare gli effetti dei processi di semplificazione e di omologazione che spesso intervengono ad alterare gli originari rapporti tra significante e significato. Negli ultimi decenni lo spopolamento montano, l’abbandono dei pascoli più disagevoli, il passaggio da un’economia di tipo familiare ad una dimensione imprenditoriale hanno inciso sullo spazio alpino e ne hanno modificato il profilo. Il Censimento degli alpeggi ha registrato questi cambiamenti: i dati che ne risultano mostrano l’impoverimento del patrimonio onomastico storico e confermano l’urgenza di un rilevamento sistematico di quanto ancora permane. L’indagine condotta a livello locale non è tuttavia sufficiente: il ruolo di «cerniera» storicamente esercitato dalle Alpi rende auspicabile che l’inquadramento toponomastico e lessicale possa realizzarsi nell’ambito di progetti transnazionali, capaci di restituire un’immagine non frammentaria dei fenomeni indagati.
Colle (Chiusa Pesio); Gias Travet di sopra / di sotto (Groscavallo); Giasso superiore / inferiore (Traversella).
Riflessi delle attività pastorali nella toponomastica alpina del Piemonte
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Alda Rossebastiano (Università di Torino)
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
L’onomastica contemporanea conosce in tutta l’area romanza un’ampia serie di nomi individuali e di famiglia riconducibili ad aggettivi qualificativi che riguardano principalmente l’aspetto fisico e la valutazione morale. L’esemplificazione è superflua, data la diffusione delle categorie citate. Più limitata, ma pur presente, è invece l’applicazione di comparativi e superlativi alla funzione denominativa. All’interno della categoria risulta decisamente abbondante la documentazione relativa ad alcune forme organiche che partono da radici diverse da quelle della base1, probabilmente perché sono più difficilmente percepibili come alterati. Le forme di alterazione non organica risultano invece quasi completamente scomparse ai giorni nostri, mentre sopravvivono ancora nell’onomastica medievale piemontese.2 Poiché il nome individuale ha molto spesso valenza augurale, sarà abbastanza prevedibile trovare abbondante circolazione di un superlativo come maximus, che indica l’eccellenza sotto ogni possibile aspetto. Il superlativo venne utilizzato nell’onomastica antica dapprima come cognomen, ad indicare il più vecchio fra tre o più fratelli, per divenire poi nome personale indipendente. Poiché a portarlo furono diversi santi dei primi secoli, il nome si diffuse in ambiente cristiano, interessando anche direttamente il Piemonte, di cui in particolare ci occupiamo. Tra i santi protettori della città di Torino, troviamo infatti il suo primo vescovo, san Massimo, vissuto tra IV e V secolo, allievo del vescovo di Vercelli e celebre per le sue omelie. Nonostante la conseguente inevitabile intensa circolazione locale, evidenziata anche dalle iscrizioni di epoca romana reperite sul territorio3, il periodo medievale non mostra di apprezzare molto il nome, che in Piemonte, secondo ArchiMediOn, trova posto soltanto come patronimico e, nella forma F Maxima, come matronimico. Le ragioni del limite sono probabilmente da ricercarsi nel registro alto cui appartiene la forma.4 La più antica attestazione rinvenuta nel Piemonte medievale richiama con le due componenti della catena onomastica il collegamento tra il nome e la città di Vercelli, dove compare nel 1169 ‹vercellinus de maxima›. Più tardi, nel sec. XV, troveremo ‹laurencius Per la documentazione moderna dei nomi individuali utilizzo i dati di NPI, estrapolando i riferimenti relativi al solo Piemonte. 2 Per la documentazione medievale mi baso sui dati di ArchiMediOn (Archivio Medievale Onomastico), organizzato e gestito da Elena Papa. Cfr. http://associazioni.unito.it/ArchiMediOn/. 3 Non a caso la documentazione del CIL V insiste particolarmente nell’area tra Torino e Vercelli. Segnaliamo: Maximus a Romano Canavese (7144), a Torino (7192), ad Asti (7579), a Pollenzo (7622), a Dogliani (7670), a Cherasco (7676), a Morozzo (7706), Maxumus a Vercelli (6671), a Torino (7031), a Saluzzo (7630), Maxemus a Torino (7137), Max’mus tra Novara e Vercelli (6486), Maxsimo a Lombriasco (7341); Maxima a Vercelli (6736), a Torino (7164), Maxuma a Torino (7019), a Castagnole delle Lanze (7590). 4 Per l’Italia centro-meridionale il MOR segnala Maximus a Spoleto dall’813, Maxima tra 795-816. 1
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Alda Rossebastiano
maximus› e ‹iohannes maximus alias spina›, ambedue a Carrù nel 1414; ‹benedictus de maximo›, a. 1423 a Valperga. A frenare la diffusione può essere stata localmente anche una sorta di tabù generato dalla riverenza dovuta ad un santo tanto celebre, la cui personalità si imponeva come irraggiungibile in eccellenza. Di qui forse la diffusione di forme a loro volta alterate, che stemperano la gravità del nome, come masimonus, nome unico a Novara nel 1094 (Bovio 1966-1967), accanto a maximinus5, frequente nel XV secolo a Carrù (‹anthonius maximinus›, ‹facius maximinus›, ‹iacobus maximinus›, tutti attestati nel 1414). Sono proprio soluzioni come queste a garantire l’avvenuto passaggio del superlativo da voce del lessico comune a nome proprio. In epoca moderna il nome ha superato in Italia la barriera del rispetto ed ha ottenuto grande successo, testimoniato da 594.510 attestazioni M e 573 F nel corso del XX secolo.6 In realtà il trionfo del nome è limitato ad un ventennio circa, quello del miracolo italiano, che va dal 1956 al 1977, periodo in cui Massimo si colloca ininterrottamente nei primi venti ranghi nazionali.
Resta bene ancorata sul territorio anche la funzione di nome di famiglia, testimoniata da 47 registrazioni di Massimo (22 Massimi) a Torino7, 33 (2 Massimi) a Novara, 18 a Cuneo, 9 ad Alessandria, 2 a Vercelli. Ben più insistente Massimino che mostra 504 attestazioni a Cuneo, 188 (2 Massimini) a Torino, 6 (2 Massimini) a Vercelli, 6 (1 Massimini) a Novara, 3 ad Alessandria, 2 ad Asti. Intorno al valore di -inus in onomastica, cfr. Papa 2008. Ovviamento in questo caso può trattarsi anche di un richiamo diretto di S. Massimino di Aix o dell’omonimo vescovo di Treviri. 6 Per l’esattezza dal 1.1.1900 al 31.12.1994, secondo la banca dati del Ministero delle Finanze utilizzata per NPI. Le occorrenze in Piemonte sono 24.461 per Massimo e 39 per Massima. 7 Qui e sempre d’ora in poi, si intende la provincia relativa. La banca dati cui si attinge è ArchiCoPie, basata sempre sui dati del Ministero delle Finanze. 5
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
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Non lascia traccia di sé invece *Massimone.8 Se il concetto di Massimo è positivo, al suo opposto si colloca Minimo, uno dei nomi legati all’ideologia della nuova religione, attraverso i quali si testimonia la ricerca di umiltà propria dell’onomastica dei primi secoli dell’era cristiana.9 Il medioevo piemontese lo trova a Novara, in una citazione locale di ambiente ecclesiastico che riporta ‹ego gosbertus minimus levita cantore et primicerius› (a. 1013). Difficile individuare se in questo caso minimus appartenga già effettivamente alla catena onomastica come secondo nome o sia ancora da considerarsi semplice attributo di levita ‹diacono› o invece entri nella catena onomastica come nome aggiunto in prospettiva cristiana, introdotto da chi magari proveniva da ambiente giudaico con abituale cambio di nome al momento del battesimo. Sta di fatto tuttavia che il cognome Minimo10 risulta ancora oggi attestato proprio a Novara (2 occorrenze). Come nome individuale Minimo presenta in Italia 6 occorrenze al M, accanto a 7 al F nella forma Minima. Se dal concetto di grande / piccolo passiamo a quello di buono / cattivo ci rendiamo conto che la continuità del superlativo di tradizione latina risulta ancora più scarsa. La banca dati del Piemonte medievale non reca tracce né di Optimus11 né di Pessimus12, né con funzione di nome individuale né come nome di famiglia, mentre l’onomastica italiana moderna conosce il nome individuale Ottimo (116 occorrenze) / Ottima (23), ma non menziona Pessimo / Pessima. L’intenzione augurale nella scelta del nome individuale risulta quindi anche in questo caso assolutamente prevalente. Per quanto riguarda il nome di famiglia, Ottimo13, rileviamo che conta 11 attestazioni in Piemonte, di cui 10 a Torino e 1 a Cuneo. Al F riscontriamo una sola volta Pessima a Torino, mentre manca del tutto Ottima. Tanto equivale a dire che il valore negativo si afferma come matronimico, quello positivo come patronimico. Abbastanza rare ma non del tutto assenti risultano le forme di superlativo in -issim- che nel medioevo piemontese sono tipiche dell’onomastica femminile. Ne sono esempio Bellissima nel 1092 a Novara e Bilisima nel 1227 ad Asti. L’interpretazione di quest’ultimo nome non è del tutto chiara: non si esclude che si possa ricondurre a Bella (e per questa ragione viene qui citato), nonostante la i protonica, ma è più probabile che si tratti di un forma aferetica per (Ama)bilissima, e quindi da collegarsi ad Amabile, nome molto diffuso in epoca medievale.14
Nessun riscontro né in De Felice (1978), né in CI. Nessun riscontro di questi nomi né in CIL V, né in MOR. 10 Nessun riscontro né in De Felice (1978) né in CI. 11 Ricavo tuttavia da Serra (1950: 21), l’esistenza di ‹Gennaro filio Optimis› in carte salernitane dell’855. Assente in MOR. 12 Assente anche in MOR. 13 CI registra il cognome senza fornire indicazioni sulla sua consistenza numerica sul territorio nazionale. Nessuna menzione in De Felice (1978). 14 Cfr.: Mabile nella Lira 5 di Siena, Mabilia nella Lira 3 di Siena e nella Libra di Perugia (Castellani Pollidori 1961). 8 9
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Se Bellissima è nome unico con funzione di nome individuale, Bilisima è matronimico (‹gandulfus de bilisima›) attestato nel 1227, e di conseguenza come nome individuale deve essere antedatato. Ambedue i testi in cui i nomi appaiono sono scritti in latino, ma la seconda forma denuncia già chiaramente l’interferenza del volgare, sottolineando l’importanza dell’onomastica per la datazione delle voci del lessico comune.15 I due nomi piemontesi si accostano quindi a quelli toscani Dulcissima, Dulcisima e Chiarissima presenti nella senese Lira 5, risalenti al 1261 (Castellani Pollidori 1961: 61-62) e a quelli registrati nella perugina Libra (1285): Clarissima e Albissima (Mittleman 1997). Il M Dolcissimus è attestato già in documenti longobardi del 767.16 Forme analoghe di superlativo continuano fino ai giorni nostri, generalmente sostenute da motivazioni religiose, in particolare le litanie lauretane.17 Ne sono esempio Dolcissima (140 occorrenze), Castissima (13), Purissima (286, di cui 18 in Piemonte), accanto a Carissima (112, di cui 7 in Piemonte), Carissimo18 (25), Novissima (25), Felicissimo (19), Felicissima (58, di cui 3 in Piemonte). Molto più abbondante la serie dei nomi di famiglia, che in Piemonte è rappresentata da: Altissimo (20 a TO), Attivissimo (8 a TO), Bellissima (3 a NO, 2 a TO), Bellissimo (18 a TO, 9 a CN, 8 ad AL, 3 a VC, 1 ad AT), Carissimi (15 a NO, 7 ad AT, 7 a TO, 2 ad AL), Carissimo (3 a TO, 2 a NO), Facilissimo19 (3 a TO), Felicissimo (3 a TO), Lustrissimi (4 ad AL), Pochissimo20 (11 a CN). In questa serie di superlativi, accanto ad esempi che rientrano nella categoria dei nomi che esprimono affettività (siano essi di origine patronimica / matronimica o soprannominale), ne troviamo alcuni che manifestano segni di una probabile costruzione a tavolino, tipica dei cognomi attribuiti ai trovatelli. Pensiamo in particolare ad Attivissimo, Facilissimo, Pochissimo. Per Lustrissimi si dovrà pensare ad un soprannome di riguardo divenuto cognome. Il massimo grado di una qualità trova espressione anche attraverso altri e più interessanti meccanismi di rafforzamento del concetto espresso dall’aggettivo. Uno di questi è l’avverbio sic che appare in Sibella (‹sibellam iugalem et filiam vuiberti›, a. 1147 a Trino, poi a Casale Monferrato ‹guilielmus de sibella› e ‹oliverius de sibella›, inizio sec. XIII), in Sybonus (‹sibonus de ruata repentia›, ‹wuillelmus sybonus›, ‹vercellus siboni›, a. 1253 a Chieri). Totalmente scomparsi come nomi individuali, trovano continuazione tra i cognomi piemontesi nelle forme Sibella (1 a TO), Sibelli (TO 3, CN 3, NO 2, VC 1, AL 1) e Sibona (CN 417, TO 354, AT 41, VC 13, AL 2), Sibono (CN 1, TO 1), Siboni (TO 3, CN 1, AL 1).
La prima attestazione del superlativo di amabile, amabilissimo, secondo il LEI risale al 1308 circa. NPI, scheda Dolcissima (a cura di E. Papa). 17 Rossebastiano (2005: 99-146). L’assenza di quasi tutte queste forme F all’interno del MOR conferma l’ipotesi di un collegamento con le litanie citate. 18 Un ‹benedictus carissimus› è registrato dal MOR nel 1191 a Roma. Mi pare abbastanza interessante segnalare che il medesimo individuo, frequentemente citato tra il 1191 e il 1193, in alternativa viene denominato ‹benedictus carushomo›, a garantire la sicura trasparenza al momento del significato insito nel nome aggiunto. 19 Assente in CI. 20 Assente in CI. 15 16
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Ricopre la medesima funzione tam che troviamo preposto a magnus21 in ‹rigotinus tamagnus›, attestato nel 1329 a Ceresole Reale, giunto fino ai giorni nostri come cognome in Piemonte nelle forme Tamagno (TO 105, VC 52, CN 48, AL 21, NO 1), Tamagna (AL 4, TO 4), Tamagni (NO 15, TO 5, VC 4). Un prefisso elativo piuttosto raro in italiano (anche nella lingua antica, dove tuttavia trovano posto quanto meno trafreddo22, tracaldo23 e trabello24), ma alla base invece del comune modello francese25, è trans. Unito a bellus crea Trabellus26, secondo nome citato con riferimento probabile a due fratelli di Viale d’Asti (‹tebaldus trabellus› e ‹ubertus trabellus›) nel 1232. Assente nell’onomastica italiana moderna come nome individuale, ha continuazione nei cognomi attraverso Trabella27, che conta 13 attestazioni ad Alessandria. Nella medesima zona l’aggettivo si accosta anche ad ultra per creare Oltrabella28 (3), mentre a Torino (7) e a Novara (2) per la formazione si utilizza extra29 dando luogo a Strabello.30 Quest’ultimo ha il suo antecedente in Strabella, documentato come nome individuale F in Piemonte nel 1147.31 Alla base di molte di queste formazioni si trova l’aggettivo bello che mostra particolare insistenza nell’onomastica. Accade tuttavia che bello emerga anche in composizione con un altro aggettivo in formazioni che possono essere interpretate sia come somma di aggettivi che come formazioni di valore superlativo in cui la prima componente è belle / bellum con valore avverbiale.32 Ne sono esempi Belexanus, nome unico portato da due individui a Novara nel 1087, come secondo nome ad Alessandria nel 1177 (‹lanfrancum belexanum›), Belegrosso / Bello et grosso33 come secondi nomi a Torino, rispettivamente nel 1153 (‹uilielmi bellegrosso›) e nel 1158 (‹guilelmus bello et grosso›). In quasi tutti questi casi si osserva una e interna, probabilmente dovuta a concrezione della preposizione et. Non così nell’esempio rappresentato da Belfort (‹guillielmus de belfort›, a. 1219 ad Avigliana), dove la preposizione non appare. Non escludiamo che possa trattarsi di una formazione realizzatasi attraverso la somma di aggettivo + sostantivo, con possibile richiamo di una località, ma l’esistenza di una costruzione di superlativo realizzata proprio attraverso la giustapposizione a bel di un altro aggettivo34, ci conduce anche nella direzione indicata che tuttavia nella fattispecie riteniamo meno probabile. Delle tre forme medievali attestate in Piemonte sopravvive solo l’ultima, come nome di famiglia, nelle varianti Belfort (CN 6), Belforte (TO 79, AL 55, CN 12, VC 1), Belforti (TO 5, 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 21 22
DEI, s.v. tamagno, antico, di area settentrionale. Lausberg (1966: §686, 1, d.). Attestato nel XIV secolo nella forma tracalda ‹caldissima› (OVI). LEI, s.v. bellus, 950, datato 1300 circa in Toscana. Alessio (1955: II, 27). Un Trabonus chierico viene menzionato ad Arezzo nel 715, secondo Serra (1950: 21, nota 1). Assente in CI. Assente in CI. Lausberg (1966: §686), 1, e. Per la confusione tra extra>stra e trans>tra cfr. Tollemache (1945: 124). Assente in CI. Serra (1950: 21, nota 3). Rohlfs (1968: §404), nota 1; 1969: §886). Bellagrossa risulta invece essere nome individuale nella Lira 3 di Perugia (Castellani Pollidori 1961). Ricordiamo in aggiunta anche la forma bellebonus presente nel MOR (a. 1192, a Viterbo).
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VC 3). A questo cognome se ne possono tuttavia aggiungere altri costruiti allo stesso modo, attestati in epoca moderna, dei quali non abbiamo reperito documentazione medievale. Si tratta di Belsanti (TO 9, CN 3), Belcaro (TO 4, VC 1, AL 1), Belcari (NO 2, TO 2). Questi casi risultano di particolare interesse sul territorio piemontese, dove sono correnti nel dialetto formazioni elative di questo tipo, sia con costruzioni giustapposizionali che congiunte da et. Quest’ultimo tipo in loco non si presenta solo nel caso di participi passati, come segnala il Rohlfs35, ma anche con altri tipi, ad esempio aggettivali36 (es.: bela grasa, bela grosa, accanto a belecuntenta, belemata, oltre che belefait, beledit). Per l’onomastica locale segnaliamo la sopravvivenza in epoca moderna di Bellebono (VC 6, TO 3, NO 2), Bellebuono (TO 3), Belleboni (TO 1) e, con accordo interno generato da erronea interpretazione della formula, Bellanova37 (TO 29, NO 4, VC 2, AL 2, CN 1). Accordo del medesimo tipo si individua in composizione col participio passato, nel caso di Bellofatto (TO 15, NO 3) che affianca Belafatti (NO 2) e forse Bellaveduto (TO 6) accanto a Bellaveduta (TO 5); queste ultime due forme potrebbero giustificare pure altra e diversa interpretazione, del tutto trasparente. Un’altra formazione composta può essere individuata in Forbellus, presente come secondo nome a Vercelli nel 1395 (‹iordanus forbellis›). La prima componente è molto probabilmente forte per fortiter, uno degli avverbi che possono creare un superlativo nelle lingue romanze.38 Il nome è attestato nel Libro di Montaperti e come Fortibiaus nella chanson de geste39, ma non ha continuazione ai giorni nostri. Più diffuso sul territorio l’impiego di bene come avverbio elativo, visibile in Benbonus (‹manfredus qui vocor benbonus›, a. 1177), ormai scomparso nel territorio nazionale al pari di Benlonga, Benelonga, Benelunga (‹guillelmus de benlonga›, a. 1264 a Biella, ‹guillelmus de benelonga de bugella notarius›, a. 1292 a Biella, ‹guillelmus de benelonga notarius›, a. 1317 a Biella, ‹guillelmus de benelunga›, a. 1274 a Biella). Alla formazione dei superlativi si giunge anche attraverso la ripetizione dell’aggettivo (Alessio 1955: 28) visibile nel nome unico Bonbonus, presente nell’Astigiano come Bombunus (‹vinea bombuni›, a. 755) e in altri documenti piemontesi nell’a. 1140, a fianco del derivato bonbonius (‹bonbonio›, a. 1153, nomen unicum). Il Piemonte contemporaneo testimonia la continuazione col cognome Bomboni (1 ad AL). Nella medesima categoria si possono collocare Belbellus, usato come nomen unicum nel 1165 a Vercelli (Ferraris 1968-1969), accanto a Belbellotus (stessa funzione, stesso anno, stesso luogo) e al nome aggiunto de Belbello, a. 1173 (stesso luogo). Nessuna attestazione in Piemonte in epoca moderna, né come nome individuale, né come nome di famiglia.40 Un’altra soluzione possibile è quella realizzata con tutto, che appare nei nomi individuali Tutebonus (‹tutebonus de olevolo›, a. 1247 a Vercelli), Tutobenus (‹tutobenus de egro›, a. 1274 ad Orta San Giulio), Tutunus (‹fulchus tutunus de mariana›, a. 1229 a Maglione). Della serie sopravvive solo Tuttobene (AL 6, TO 5), divenuto nome di famiglia. Rohlfs (1968: § 404, nota 1). Cfr. anche LEI, s.v. bellus. 37 Non si esclude tuttavia che nova possa invece corrispondere a ‹novella›, a creare il valore complessivo di ‹bella notizia›. 38 Cfr. foarte in romeno. 39 Cfr. Langlois (1904: 225), dove risulta essere il nome di un gigante in Renaut de Montauban. 40 Assente anche in CI. 35 36
253
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
U
A
B
S
Maximus / -a minimus Bellissima
Sibella
Strabella Belexanus
Nome di famiglia
Massimo
Massimo
Minimo Ottimo / -a
Minimo Ottimo Pessima Bellissima,-o ---
-issim-
Bilisima
Sibella Sybonus, Sibonus
Nome individuale
Dolcissima Castissima Purissima Carissima, -o Novissima
sic
Felicissimo / -a
Carissimo, -i Altissimo Attivissimo Facilissimo Pochissimo Lustrissimi Felicissimo Sibella, -i Sibona, -o, -i
Tamagnus Trabellus
tam trans ultra extra Bellum
Belexanus Belegrosso, Bello et grosso
Tamagno, -a, -i Trabella Oltrabella Strabello ----Belfort, Belforte, Belforti Belsanti Belcaro, Belcari Bellebono, Bellebuono, Belleboni Bellanova
Belfort
Bellofatto, Belafatti
forbellus
bombunus Bonbonius Belbellus belbellotus
Benlonga, benelonga, benelunga
De belbello tutobenus tutunus
Benbonus
forte bene
Bellaveduto, Bellaveduta ---------
Bonus+bonus Bellus+bellus + suff. -otttutto
Bomboni --Tuttobene ---
254
Alda Rossebastiano
In sintesi, sul piano della formazione osserviamo in epoca medievale l’uso di -issim-, sic, tam, trans, extra, forte, bellum, bene, tutto, oltre alla ripetizione dell’aggettivo. Tutte queste soluzioni hanno continuazione fino ad epoca moderna, quando si vede comparire anche ultra>oltra. Nessun esito con multum41, l’avverbio che ha riscosso il maggiore successo nella formazione dei superlativi nel lessico comune: non a caso il suo uso è ignoto al dialetto piemontese. Parimenti assenti formazioni con ad satis > assai, piuttosto diffuse invece nell’Italia centrale.42 Sul piano degli aggettivi implicati registriamo minimo, bello, sano, buono, grosso, amabile, magno, lungo, nella documentazione medievale, cui si aggiungono in epoca moderna quelli alla base dei nomi individuali Ottimo, Pessima, Minimo, Dolcissima, Castissima, Purissima, Carissima, -o, Felicissimo, -a, Novissima; come si può osservare sono tutti di valore positivo, ad eccezione di Minimo. Le aggiunte moderne nella categoria dei nomi di famiglia sono: Altissimo, Attivissimo, Carissimo, -i, Facilissimo, Felicissimo, Lustrissimi, Pochissimo, santo, nuovo, fatto, veduto, bene, con netta prevalenza delle forme dotte in -issimo e popolardialettali in bel, seguito o no da congiunzione. Le forme attuali in -issimo sono spesso di tradizione religiosa, legate alle litanie laureatane, oppure sono costruzioni artificiose destinate alle creazione dei cognomi dei trovatelli, piuttosto che reale continuazione di nomi medievali. Di minore diffusione il comparativo. La forma sintetica di magnus è maior, che nel latino medievale si è sostantivato, assumendo significati diversi, tra cui quello indicativo di una carica (Du Cange 1983-1887). Per questa ragione è difficile distinguere in onomastica i casi in cui maior segnala come nella classicità il confronto tra due43 o, come nell’epoca imperiale, una funzione44, da quelli in cui fa realmente parte della catena onomastica. Nonostante ciò mi pare che non esistano dubbi sulla possibilità di collocazione di maior nella categoria dei nomi individuali per ‹maior de rugia›, a. 1217 a Varallo, in quella dei secondi nomi per il genitivo ‹domini jacobi maioris›, a. 1219 ad Ivrea.45 Certezza maggiore si presenta nei casi in cui compare l’alterato corrispondente, vale a dire maiorinus.46 Un esempio antichissimo è offerto da ‹signum manibus luvixini filius quondam magiorini›, a. 974 ad Oleggio. Questo nome unico ha continuazione in epoca moderna come Maggiorino (1445 attestazioni in Italia, di cui 779 in Piemonte e 217 a TO, 190 a CN, 181 ad AT, 132 ad AL), Maggiorina (1380 in Italia, di cui 723 in Piemonte, 177 ad AT, 135 ad AL, 102 a TO), sostenuto localmente dalla venerazione per il primo vescovo di Acqui, che portava questo nome, vissuto nel III secolo. Persiste anche come nome di famiglia nelle forme Maggiorino (TO 15, AT 7, AL 2, CN 1), Maggiorini (NO 16), Maiorino (TO 34, NO 1), Maiorini (TO 3), Majorino (TO 6). Nessuna forma con multum neppure nella Lira di Siena e nella Libra di Perugia, ma Moltocara appare a Pistoia nel 1219 (Serra 1950: 21, nota 6) e Multobonus in Romagna nel 1237 (ivi, nota 5). 42 Cfr. a Siena (Lira 5) Bellassai, a Perugia (Libra 1285) Bellassaie. 43 Cfr. i seguenti esempi: ‹sigismundus maior subscripsi›, a. 1136 ad Ivrea; ‹ego johannes maior subscripsi›, a. 1176 ad Ivrea. 44 Cfr. il seguente esempio: ‹signum simondi de montealto maioris yporiensis ecclesie›, a. 1122 a Montalto Dora. 45 Altri esempi in MOR per l’Italia centrale. 46 Cfr. MOR per l’Italia Centrale, dove riscontro: ‹Maiurinus› nel 945 a Tivoli; ‹Maiorinus Columna› nel 1051. 41
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
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Ovviamente non manca Maggiore (Italia 46, di cui 38 in Piemonte, con epicentro tra Cuneo ed Asti), come nome personale (F Maggiora 9) e come nome di famiglia (TO 109, NO 51, VC 35, AT 13, CN 7), accanto a Maggiora (AT 459, TO 246, AL 65, NO 45, VC 29, CN 7), Maggiori (NO 8, TO 7, CN 5), Maiori (AL 1). Il contrario è rappresentato da minor, di cui non trovo attestazioni se non nell’onomastica moderna47 con funzione di nome di famiglia nelle forme Minore (TO 36, CN 10, NO 4), Minora (TO 1), Minoro (AL 1), Minori (TO 11, CN 1). Il comparativo di bonus, melior si presenta come nome unico in ‹ego melior imperialis aule notarius› 1250 a Susa; con metaplasmo in ‹meliorus de domino ramundo›, 1245 a Lanzo Torinese, al F ‹melior48 uxor condam guillelmi de orsino› 1323 a Varallo; come nome individuale in ‹filii quondam melioris calcagni›, a. 1192 a Torino; ‹melior platula›, a. 1193 ad Asti; ‹meliorus de busca›, a. 1193 a Romanisio; ‹melior teça et uxor eius beria›, 1220 a Villar Focchiardo; ‹melioris de gouone› 1240 a Govone; ‹melior sancti felicis› 1253 a Chieri; ‹melior de campo› 1323 a Varallo; come secondo nome in ‹garnerius melior›, 1155 a Torino; ‹ottonis melioris› 1167 ad Asti; ‹raimondus melior› 1209 a Torino; ‹forzanus de meliore de campo› 1343 a Vercelli. Nell’onomastica moderna continua come nome individuale M nella forma Migliore (5) e in funzione di nome di famiglia nelle forme Migliore (TO 708, AL 9, NO 8, VC 5, AT 5), Migliora (AL 51, TO 3, AT 2, CN 1), Migliori (TO 11, CN 3, NO 2). Il contrario è assente sia nell’onomastica medievale che in quella moderna. Una forma interessante di comparativo organico è rappresentata da Bellexor < *bellatiore(m), che ha il suo corrispettivo nel fr. a. bellezour.49 La forma, sconosciuta non solo al lessico italiano contemporaneo50, ma anche ad OVI e TLIO, mostra invece buona insistenza nel francese antico al pari di altre analogamente costruite (Alessio 1950: 25). Ricordiamo soltanto, per l’antichità della documentazione, l’occorrenza nella Sequenza di Santa Eulalia (880-890), dove si legge ‹Bel auret corps, bellezour anima›.51 In questo caso l’onomastica è più generosa e ci restituisce documentazione piuttosto abbondante.52 Ricordiamo Bellexor nome unico a Novara nel 1087, e matronimico a Chieri nel 1253 (‹iohannes de bellexor›). Il personaggio è noto anche secondo diverse varianti cognominali, tra cui Belexor e Bellexore, attestati nel medesimo luogo e nel medesino anno. Un’altra soluzione è rappresentata da Belosor (‹obertus belosor consul de limone›), a. 1230 a Limone Piemonte, area di parlata occitana. Questa collocazione mostra anche attraverso il territorio l’evidente contatto locale con la cultura d’oltralpe. Cfr. tuttavia MOR: ‹Leo Minor›, a. 1091; ‹Iohannes Minor›, a. 1118; ‹Leo Paganus Minor›, a. 1132, tutte citazioni di difficile valutazione in quanto a funzione. 48 Melliore trova posto anche nella Lira 5, Milliore nella Lira 3 di Siena. Il M è piuttosto diffuso in Toscana e a Bologna, meno nella restante Italia settentrionale. Molto abbondante la documentazione in MOR, a partire dal 1185. Lì nel 1210 troviamo anche ‹Meliora›, moglie di ‹Iohannes Comes›. 49 Alessio (1950: 25); Pope (21952: §819). Si tratta di un comparativo organico di bellatus, derivato di bellus. 50 Assente anche nel LEI. 51 Cito da Tagliavini (1969: 487, nota 35). 52 Segnaliamo due attestazioni di Ciore, ipocoristico di nomi terminanti in -ciore in Brattö (1955: 74). Altra forma estesa nel medesimo repertorio è Forciore, che diventa Forzore a Siena e Forziore a Montepulciano (ivi, 102). 47
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L’onomastica individuale moderna non conserva il nome, che invece continua come nome di famiglia attraverso Belisori (NO 2). Il comparativo organico di tradizione latina parrebbe anche testimoniato da capesor (‹guillelmus capesor›), a. 1202 ad Ivrea, da ricondurre a *capitiore(m) comparativo di *cap(i)tus da capere, col senso di ‹capire›.53 Del nome a valore soprannominale mancano però continuatori moderni. Nessuna testimonianza invece di gensore / genzore e forzore, comparativi organici ben noti alla lingua antica (Cella 2003: XXX, nota 28). Per concludere la serie dei comparativi citiamo l’unico esempio sicuro di comparativo analitico, rappresentato da Plusbellus54, nome unico attestato a Novara nel 1092 (Bovio 19661967), che continua nel cognome moderno Piubello (TO 5), Piubelli (TO 5, CN 1, AL 1). Potrebbe forse trovarvi posto anche il moderno cognome Piubeni (NO 5), per il quale tuttavia non si esclude la formazione da plus + sostantivo. U
A
B
S
Nome individuale
Nome di famiglia
maior
maior
maior
Maggiore, -a
Maggiore, Maggiora, Maggiori, Maiori
Maggiorino, -a
Maggiorino, Maiorino, Majorino, Maggiorini, Maiorini
magiorinus
Minore, Minoro, Minora, Minori
minor melior, meliorus bellexor
plusbellus
melior meliorus
Migliore
Migliore, Migliora, Migliori
melior
melior
bellexor, belexor, bellexore, belosor
bellatior
Belisori
capesor
capitior
---
plus bellus
Piubello, Piubelli Piubeni
Il modesto quadro così ricavato documenta la tendenza alla pronta perdita dei comparativi organici a radice stabile e ancor più la difficoltà di acquisizione delle forme analitiche, anche se univerbate. Sul piano semantico questa onomastica si configura ancora una volta come tendente al positivo (anche minore assume qui un carattere affettivo), mostrando predilezione particolare per il concetto di ‹bello› ed esaurendosi nelle indicazioni di ‹grande›, ‹buono›, ‹intelligente›. Così vorremmo del resto tutti che fossero i nostri figli, per i quali siamo chiamati a scegliere un nome.
Ricordiamo che nel dialetto locale l’intelligenza che comprende di capire al volo è detta scherzosamente capisoira. 54 Plubella è presente anche nella Libra di Perugia del 1285. Cfr. inoltre MOR: ‹domna plubella›, sec. XII. 53
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
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Stefan Ruhstaller (Universidad Pablo de Olavide) / María Dolores Gordón (Universidad de Sevilla)
Criterios para la normalización de la toponimia andaluza1
1. La normalización de la toponimia menor del dominio castellano, reto pendiente La necesidad de disponer de un nomenclátor oficial, no solo de la toponimia mayor sino también de la menor, es incuestionable: debe existir para cada nombre de lugar una forma única declarada oficial, principalmente para su empleo escrito en textos y documentos de uso público, como mapas, catastros, rótulos viarios, etc. A pesar de lo evidente que resulta tal necesidad, en el dominio del castellano son prácticamente inexistentes los nomenclátores que recojan sistemáticamente topónimos menores fijados en cuanto a su forma gráfica de acuerdo con criterios lingüísticos bien fundamentados y que cuenten con la aprobación de las autoridades competentes. Un caso especialmente ilustrativo es el de Andalucía, comunidad autónoma que carece, hoy por hoy, completamente tanto de un catálogo de criterios de normalización como de un repertorio de formas oficiales elaborado de acuerdo con una metodología mínimamente científica. Es cierto que en 1990 la Junta de Andalucía publicó un Inventario de toponimia andaluza que recoge más de 120.000 formas toponímicas escritas; no obstante, este material no había sido sometido, antes de su inclusión, a un examen lingüístico destinado a determinar la versión más apropiada desde el punto de vista lingüístico para su empleo oficial, pues se trata simplemente de las formas toponímicas procedentes de un vaciado de tres tipos de fuentes elaboradas por no lingüistas (Junta de Andalucía 1990, t. 0: 35-37): los mapas del Servicio Geográfico del Ejército (61,7%), el Catastro de Fincas Rústicas del Ministerio de Economía y Hacienda (36,8%) y una clasificación de vías pecuarias del ICONA (1,3%). Consecuencia de este procedimiento de recopilación de los datos, que renuncia a una criba crítica basada en principios lingüísticos, y sin siquiera trabajar con datos de primera mano, es que el Inventario, por ahora único repertorio toponímico que aspira a tener alguna validez «oficial» (aunque no se declara expresamente si esta ha de ser realmente su función), es que gran parte de los materiales que contiene adolece de todo tipo de deficiencias e inexactitudes, que no solo resultan chocantes para el experto en toponimia (Gordón / Ruhstaller 1998; Ruhstaller 2010b: 287 El presente trabajo se enmarca dentro del proyecto de investigación «Recopilación, análisis y normalización de la toponimia de las áreas meridionales de España», financiado por el Ministerio de Ciencia e Innovación (referencia FFI2009-10544).
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Stefan Ruhstaller / María Dolores Gordón
288), sino que incluso pueden dar lugar a problemas de tipo práctico en su uso cotidiano. Evidentemente, en estas circunstancias, es urgente acometer la tarea (sin duda inmensa, dadas las dimensiones de la comunidad autónoma: 87.268 km2) de normalizar la toponimia andaluza, una tarea que, si es promovida decididamente por las autoridades competentes, daría lugar a resultados prácticos importantes y de gran repercusión en múltiples ámbitos. El punto de partida puede ser el proyecto de investigación «Recopilación, análisis y normalización de la toponimia de las áreas meridionales de España» que hemos iniciado bajo la dirección de María Dolores Gordón y que cuenta con financiación del Ministerio de Ciencia e Innovación de España.
2. Criterios de normalización El primer paso que habrá que dar será el establecimiento de un conjunto de criterios lingüísticos que puedan ser aplicados al material toponímico «en bruto» (es decir, al conjunto de todas las variantes, tanto escritas como orales, que circulan en el uso de cada nombre). No es reto fácil en vista, por una parte, de las diferencias fonéticas que separan a las hablas andaluzas de la pronunciación estándar y, por otra, de la variedad que presentan dichas hablas entre sí, así como en vista de la existencia de numerosas variantes, tanto orales como escritas, de gran parte de los nombres que coexisten en el uso real. La casuística es amplia y variada: tanto es así que cada nombre tendrá que ser analizado individualmente para descartar variantes erróneas (frecuentes en las fuentes escritas) o al menos no apropiadas para convertirse en oficiales. 2.1. El grado de adaptación a la ortografía del español de las formas que presentan rasgos dialectales La primera cuestión que requiere ser esclarecida es la del grado de «castellanización» que habrá de imprimirse a las formas dialectales. No cabe duda de que no se trata de reproducir con un máximo de detalles fonéticos las formas orales, ni menos de realizar una transcripción fonética propiamente dicha. Claro que para los toponimistas y los dialectólogos sería interesante disponer de una fuente que ofreciera las pronunciaciones locales de cada nombre, pues podrían sacar numerosas conclusiones de interés para la geografía lingüística (y de ahí para otras ramas de la disciplina). De lo que realmente se trata es de permitir a quien lea cada forma reproducirla con un máximo de fidelidad al uso tradicional predominante. Por ello, obviamente, habremos de utilizar, a la hora de fijar gráficamente las formas toponímicas orales, el alfabeto habitual para la escritura del castellano; y no solo esto: tendremos que asumir al máximo las convenciones de la ortografía castellana para asegurar que cualquier lector de un documento que contenga formas toponímicas normalizadas sepa reproducirlas espontáneamente con un grado máximo de cercanía a la realidad del uso tradicional local. Esto significa, a efectos prácticos, que no podremos
Criterios para la normalización de la toponimia andaluza
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reflejar gráficamente fenómenos fonéticos dialectales como el yeísmo, el seseo / ceceo, aspiraciones del fonema /x/ o de sibilantes en posición implosiva, la neutralización de los fonemas /r/ - /l/ en posición implosiva, la pérdida de las consonantes en posición final de palabra, etc., cuando aparezcan en nombres claramente identificables con apelativos del castellano: así, una forma oral [kahtiyéha] habrá de grafiarse Castilleja, [elensiná] El Encinal, [eɾmohóŋ] como El Mojón, [lahéθaβoyá] como La Dehesa Boyal. Nuestra postura es, pues, contraria a una reproducción lo más fiel posible a las características fonéticas propias de cada habla local, y ello no en último término porque hemos de garantizar la aceptabilidad de las formas escritas establecidas para los usuarios –que son casi la totalidad de la población, personas de todos los estratos sociales y grupos profesionales, oriundos de la localidad o no, familiarizados con las peculiaridades de cada habla o no–, que sin duda rechazarían mayoritariamente unas grafías demasiado alejadas de las convenciones ortográficas generales. 2.2. El dilema del grado de castellanización Si bien este principio nos parece indiscutible si queremos que las formas normalizadas que proponemos los lingüistas tengan realmente aceptación en el uso cotidiano entre los usuarios de mapas, documentos públicos, letreros, etc. (y no creen, al contrario, polémica o confusión, rechazo o división entre los hablantes), no deja de ser cierto que las formas escritas así se alejan de la pronunciación real o incluso la adulteran, realidad en principio difícil de admitir para el lingüista. De hecho, la aplicación estricta no es posible sin correr el riesgo de «alienar» un porcentaje no despreciable de los nombres, o incluso de desfigurarlos. Veamos algunos ejemplos. ¿Cómo hemos de grafiar un nombre que circula tradicionalmente en el habla local como [kasíyalahámbɾe]: como Casilla del Hambre (es decir, totalmente adaptado a la lengua estándar), o como Casilla La Jambre (respetando el rasgo dialectal de la conservación como aspiración de la F- inicial latina)? ¿O debemos optar por una solución intermedia como Casilla La Hambre, donde la forma la en lugar del alomorfo el del art. fem. al menos indica que el sust. Hambre no comienza por [a] tónica, ya que le precede una consonante aspirada? O un topónimo menor pronunciado como [laehγreɲá], ¿debe normalizarse como La Esgreñá o como La Desgreñada? ¿La forma oral [torelaβá] ha de transcribirse, reflejando lo más fielmente posible la secuencia de sonidos, como Torrelabá, o hemos de castellanizarla como Torre del Abad o Torre Lavada (ambas formas podrían corresponder en principio a la citada forma oral)? Es evidente que las alternativas que hemos indicado en segundo lugar no solo se apartan fonéticamente de manera considerable de la pronunciación propia del habla local, e incluso implican una interpretación etimológica. La consecuencia de ello es que, en primer lugar, adulteramos y aun anulamos los rasgos propios individuales de los nombres en cuestión; y, en segundo lugar, dado que la etimología es, como bien sabemos, un terreno extremadamente resbaladizo, corremos el riesgo de incurrir en interpretaciones erróneas desde el punto de vista histórico y lexicológico, estableciendo como única forma válida lo que en realidad es una etimología popular.
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2.3. El criterio histórico: tradiciones escritas y etimología El problema se complica aún más si tenemos en cuenta la existencia de tradiciones escritas de los nombres, aunque es innegable que estas últimas a veces nos proporcionan una ayuda de gran valor. Veamos algunos ejemplos ilustrativos. El topónimo menor que circula en la lengua hablada como [torelaβá] figura en los mapas antiguos y actuales (estos últimos se basan en los primeros) y en el catastro como Torre del Abad, y aparece atestiguado en la documentación antigua mayoritariamente con esta misma forma (aunque esporádicamente encontramos ya en el siglo XVIII una variante Torre Lavada). Desde el punto de vista histórico, no cabe duda de que el nombre tiene su motivación inicial en una propiedad eclesiástica. Si declaramos oficial la forma Torre del Abad restablecemos la transparencia semántica del nombre, y consagramos lo que tiene una cierta tradición escrita en mapas y catastro; ello implica, no obstante, que no reproducimos realmente la pronunciación, sino que restauramos una forma histórica. Un ejemplo muy similar es el de topónimo conocido actualmente en el uso oral local como El Chicle; la documentación histórica reciente revela que se trata de una etimología popular muy moderna, pues en los textos antiguos figura siempre Chirque, forma que remonta a un venerable origen mozárabe QUERCUS ‹la encina› (Ruhstaller 1992: 110-112). Y un tercer ejemplo: ¿cómo debe normalizarse un topónimo que tiene en el habla local variantes tan diversas como [kweβahónda], [koβaγónda], [kweβalóŋga], además de [kweβaδóŋga] (Ruhstaller 1992: 107)? También en este caso existe una cierta tradición escrita: tanto el mapa como el catastro emplean Covadonga, forma justificada por el origen histórico-etimológico del nombre: se trataba de una propiedad medieval del monasterio de Covadonga. En todos estos casos, que son representativos de un porcentaje no despreciable del material toponímico que ha de ser normalizado, parece razonable optar por una forma que goza de una cierta tradición escrita (aunque no haya nunca sido declarada oficial), y que, además, refleja con mayor fidelidad el origen histórico-lingüístico que las variantes que realmente circulan en el habla moderna. Esta opción equivaldría a una restauración histórica similar a la que se realiza con los monumentos artísticos y arquitectónicos: también estos forman parte del patrimonio histórico de un país –la toponimia en no menor grado que cualquier otra manifestación cultural–, y como tal requiere un cuidado continuo. Esto quiere decir que a la hora de normalizar las formas toponímicas a veces no hemos de empeñarnos en reproducir literalmente los rasgos fonéticos de la pronunciación vigente, sino que tenemos que tener en cuenta también la existencia de una cierta tradición escrita y el origen etimológico (siempre que este puede ser establecido de forma segura). Con todo, no se trata de recuperar necesariamente viejas formas que hace siglos cayeron en desuso y ya nadie reconocería: así, un topónimo generalmente conocido en el habla local actual como Pelotero ha de normalizarse bajo esta forma, por mucho que los lingüistas sepamos que se trata de una etimología popular de un originario [Cortijo de] Pedro de Otero, topónimo de origen antroponímico. 2.4. Variantes contradictorias de un nombre: ¿cuál elegir? No quiere decir esto último, sin embargo, que debamos dar por válido todo lo que figura en la documentación escrita: al contrario, el proyecto de normalización tiene, como uno de sus principales objetivos, la depuración de los muchos datos toponímicos erróneos que
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circulan en el uso escrito público. De nuevo conviene recurrir a una serie de casos concretos para exponer las diferentes problemáticas y proponer las soluciones más adecuadas desde una perspectiva lingüística. El hidrónimo pronunciado en las hablas de la región como [wéhna] o [gwéhna] aparece grafiado con cierta frecuencia bajo la forma Huéznar o incluso Hueznar. ¿Cuál ha de ser la forma escrita oficial: Huesna, Huezna, Güesna, Güezna, Huésnar o Huéznar, entre otras imaginables? La abundante documentación histórica con que contamos en este caso, que abarca decenas de formas desde el siglo XIII hasta nuestros días, coincide casi sin excepción en la forma Huesna; la var. Huéznar surge esporádicamente a mediados del siglo XIX, si bien comienza a prevalecer a finales del XX (Gordón 1995: 436-437). Es evidente que la consonante final se debe a una hipercorrección muy reciente, que pretende restituir una [–ɾ] presuntamente perdida en la pronunciación popular. Por tanto, sin duda alguna hemos de declarar oficial la forma Huesna, respaldada tanto por el uso oral actual como por la documentación histórica, muy anterior a la elisión de la [-ɾ] en andaluz. Muy similar es el caso de otro hidrónimo, que encontramos grafiado en un rótulo situado en una autovía sevillana como Rivera de Huelva. También en este caso la forma elegida por los responsables es ultracorrecta y, por tanto, inadecuada, pues las que se emplean realmente en la lengua oral de la comarca son [bwéɾβa] o [gwéɾβa], y no solo en el habla moderna, sino ya desde época medieval: el río se documenta profusamente en los textos antiguos, y ello desde 1253 y casi sin excepción, bajo las formas Buerua y Huerva (Gordón 1995: 433). La que se impone, pues, como forma oficial normalizada es, sin duda alguna, (Rivera de) Huerva. Es cierto que el peso de la tradición escrita a veces es considerable, tanto que puede limitar la aplicación estricta de los criterios lingüísticos. Así, el nombre que todavía en el habla popular actual de una localidad sevillana se pronuncia como [hamapéγa], con una aspiración que es recuerdo de la forma etimológica (se trata de una variante metatética de un antiguo Majapegas –< Majada [de las] Pegas ‹majada de las urracas›–, documentado todavía en 1783; Gordón: 1995: 184), debería grafiarse en rigor como Jamapega. No obstante, al tratarse de un nombre ampliamente conocido en su difusión escrita como Hamapega (el lugar alberga un apeadero de tren e importantes instalaciones de telecomunicación) resultaría muy problemático un cambio gráfico, difícilmente aceptable por parte de los usuarios, máxime teniendo en cuenta que la forma con H- ha repercutido en la pronunciación, sobre todo de los grupos sociales más cultos, que evitan la aspiración porque entienden que es análoga a la de voces como hacer [haθéɾ] (donde sería un rasgo muy vulgar). Casos como este último nos hacen ver que la normalización de la toponimia de un área dialectal como la andaluza tiene también una dimensión sociolingüística que plantea numerosos problemas. Las hablas de las comunidades locales nunca son homogéneas: existen, incluso en núcleos pequeños, diferencias de estrato que en un ámbito andaluz se manifiestan lingüísticamente por una mayor o menor fidelidad a las características más acusadamente dialectales, o, respectivamente, una adopción hasta cierto punto de los rasgos de la lengua culta suprarregional. Esto significa que si los lingüistas optamos por una variante característica del habla más tradicional que pervive en los estratos más conservadores (personas mayores y/o de escaso nivel de formación) corremos el riesgo de que los hablantes más cercanos en su actuación lingüística habitual a la norma suprarregional (que son precisamente quienes con mayor frecuencia estarán en contacto con la toponimia escrita normalizada) quizá no puedan
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aceptar la forma propuesta por clasificarla instintivamente como vulgar: así, por ejemplo, un topónimo pronunciado popularmente como [fwéntelahiγéɾa] no puede ser normalizado, digamos, como Fuente la Jiguera, pues tal forma difícilmente sería aceptada por los usuarios mínimamente instruidos, para quienes la aspiración de la F- latina etimológica es un rasgo sociolingüísticamente estigmatizado, por muy genuino que sea desde el punto de vista dialectológico. La documentación de estas formas aún vivas en los sectores que mejor conservan las características tradicionales del dialecto tendrá que reservarse para los estudios propiamente filológicos, centrados en el análisis lingüístico. En los dos casos anteriores, las formas que hemos descartado como inadecuadas lingüísticamente a pesar de su presencia en la vida pública al menos parten de la realidad del uso (que interpretan inapropiadamente), aun cuando pecan de hipercorrectas. Más urgente todavía es depurar formas que carecen totalmente de fundamento y constituyen simples erratas; basta con analizar cualquier mapa para percatarse de numerosos datos erróneos, que, a partir de ahí, fácilmente pueden propagarse y contaminar el uso tradicional. El beneficio práctico que se deriva de la aplicación sistemática de los criterios de normalización al material toponímico es, pues, evidente.
3. Recapitulación Las reflexiones anteriores, basadas en numerosos ejemplos concretos y reales, pueden sistematizarse de la siguiente forma. El punto de partida en el proceso de establecimiento de la forma que ha de fijarse como oficial lo constituye, sin duda alguna, la que predomina en el uso oral local. Ahora bien, no se trata de representar con absoluto detalle la fonética dialectal más tradicional de cada habla local, y menos de transcribir fonéticamente: ello daría lugar a grafías muy difíciles o incluso imposibles de interpretar adecuadamente por parte de los usuarios, que son la práctica totalidad de los ciudadanos, cuyo único referente a la hora de pronunciar formas escritas son las reglas de la ortografía académica. Vista la problemática desde nuestra perspectiva de lingüistas, resulta, pues, ineludible hacer sustanciosas concesiones a las expectativas –que tienen su origen en los hábitos creados por la ortografía convencional– de los hablantes y lectores no especializados, unas concesiones que, es cierto, empobrecen la información contenida en las formas toponímicas escritas, pero que garantizan la general interpretabilidad y aceptabilidad de las mismas. Así, hemos de renunciar a reflejar los rasgos dialectales cuando el léxico contenido en los nombres es claramente identificable con voces corrientes en el idioma. Cuando conviven en el uso diversas variantes, hemos de seleccionar aquella que cuente con el respaldo de la documentación histórica y tenga fundamento etimológico. En casos muy concretos, incluso es lícito restablecer la forma originaria no conservada en el uso actual, concretamente cuando se trata de nombres desfigurados en época reciente por ignorancia y descuido (recordemos casos como Chicle en lugar de Chirque). Finalmente, no podemos pasar por alto ciertas tradiciones que se han instaurado en el uso escrito, aunque nunca hayan sido declaradas oficiales. Hemos de advertir, finalmente, que cada nombre requiere una valoración individual, teniendo en cuenta todas las variantes que
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existen tanto en el uso oral local como en la escritura, e incluso la explicación lingüística (que, a su vez, ha de basarse en la documentación escrita de épocas pasadas). Esta labor requiere la intervención constante de los lingüistas, que no solo han de establecer un catálogo de criterios generales, sino también de aplicar estos a todos y cada uno de los nombres. Para ello, no obstante, ha de recopilarse de forma sistemática el material toponímico, a través de encuestas directas con hablantes locales competentes en este sector concreto del léxico, y llevarse a cabo el análisis de documentación escrita tanto actual como antigua. Se trata de un trabajo de inmensas dimensiones, que, sin embargo, debe ser acometido sin más demora.
Bibliografía Gordón Peral, María Dolores (1995): Toponimia sevillana. Ribera, Aljarafe y Sierra. Sevilla: Excma. Diputación Provincial / Fundación Luis Cernuda. — / Ruhstaller, Stefan (1998): Reflexiones sobre un tipo peculiar de obra lexicográfica: los repertorios corográficos. In: Terrado, Javier (ed.): Toponimia. Más allá de las fronteras lingüísticas. Studia toponymica in memoriam Joan Coromines et Alfonso Irigoyen Oblata. Lleida: Universitat de Lleida, 23-39. Junta de Andalucía (1990): Inventario de toponimia andaluza (9 vols.). Sevilla: Consejería de Obras Públicas y Transportes de la Junta de Andalucía. Ruhstaller, Stefan (1990): Nombres de lugar mozárabes de Carmona. In: Historia. Instituciones. Documentos, 17, 237-245. — (1992): Toponimia de la región de Carmona. Bern: Francke. — (2010a): Artículo modelo del Diccionario etimológico de los nombres de lugar de la provincia de Sevilla. In: ACILPR XXV 2, 417-425. — (2010b): La investigación sobre toponimia de Andalucía Occidental. In: Gordón Peral, María Dolores (coord.): Toponimia de España. Estado actual y perspectivas de la investigación. Berlín / Nueva York: De Gruyter, 287-302.
Patxi Salaberri (Universidad Pública de Navarra / Nafarroako Unibertsitate Publikoa)
Los nombres vascos vistos desde el romance: breve recorrido histórico
0. Introducción Es mi intención hacer un pequeño trabajo de comparación entre los resultados vascos y romances de los topónimos de Vasconia, centrándome especialmente en los de Navarra, pero sin descuidar, en la medida de mis conocimientos, el resto de la zona de habla vasca, actual o histórica. También trataré brevemente de la influencia del romance en la evolución del sistema antroponímico vasco. Debo señalar, antes de todo, que el euskera no ha sido nunca la lengua de la administración y que las formas que encontramos en la documentación son, la mayor parte de las veces, las variantes romances de los nombres, aunque estos sean generalmente, si bien con bastantes excepciones, de origen eusquérico, antroponímico o descriptivo. Como decía Mitxelena (1984: 286) los hechos de pronunciación pueden encontrar resistencia a verse reflejados en la escritura, pero entre ellos «los románicos, en general, son aceptados con menos resistencia que los vascos».
1. Toponimia Las variantes romances de los topónimos vascos se deben a que dichos topónimos han sido utilizados en boca –y en pluma– romance, pero no debemos pensar por ello que todas estas variantes son, por decirlo de alguna manera, del mismo calibre, ya que encontramos grandes diferencias en la distancia lingüística que presentan con respecto a la forma empleada en euskera, hecho que debe relacionarse, en general, con la mayor o menor antigüedad del contacto de lenguas en la zona en la que la localidad portadora del nombre se encuentra. Es decir, cuanto mayor ha sido dicho contacto, más posibilidades habrá de que haya surgido una variante romance diferenciada del étimo y de la variante vasca, y no pretendo identificar estos dos, pues a menudo, especialmente en los topónimos de origen antroponímico, las diferencias son notables. Así por ejemplo, tenemos Olleta en la Valdorba navarra, llamado Oleta en euskera, como indica la microtoponimia de las localidades circundantes, pero Oleta
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en Longida (Navarra), más hacia el interior de la zona de habla vasca histórica, Oleta / Olaeta en Aramaio (Álava), valle donde se conserva la lengua, etc. Las diferencias en el romanceamiento de los topónimos eusquéricos van desde las que podemos denominar sustanciales (tipo Irunberri / Lumbier, Tutera / Tudela) hasta la coincidencia total, es decir, hasta la conservación del topónimo vasco intacto (tipo Amoroto, Añorbe, Iriberri, Orio, Udabe), pasando por diferencias que podemos calificar de intermedias, aunque está claro que medir la distancia lingüística no es tarea fácil. Por ejemplo, cuando hay una sibilante en el nombre, dejando a un lado las cuestiones acentuales de por sí complicadas, la pronunciación en una y otra lengua cambia exclusivamente en dicho sonido, dado que los hablantes de romance no tienen ni han tenido los sonidos correspondientes a las apicales o dorsales vascas, sean éstas fricativas o africadas, en su inventario fonológico: Eratsun ([ć]), Ollakarizketa ([s]), Leitza ([c]) vs. Erasun ([ś]), Ollacarizqueta ([θ]), Leiza ([θ]). No tratamos aquí, en lo que respecta a los dobletes que no tienen que ver nada etimológicamente (tipo Auritz / Burguete, Gerendiain / Viscarret, Luzaide / Valcarlos, Orreaga / Roncesvalles), más que del par Vitoria / Gasteiz, ya que las variantes vascas y romances de los nombres de las otras capitales de provincia que veremos a continuación están unidas, en mayor o menor grado, etimológicamente. Las variantes divergentes entran dentro de lo que Rohlfs en 1966 llamaba «toponymie de double tradition», habitual en zonas bilingües, toda Vasconia al presente. Las parejas de topónimos vasco / romance son muy conocidas entre nosotros, especialmente en Álava, Navarra y la Vasconia septentrional, y no están ausentes de Bizkaia (Santurtzi / Santurce) y Gipuzkoa (Hondarribia / Fuenterrabía), aunque en esta última región, la que mejor ha conservado la lengua ancestral y precisamente por ésto, sean menos numerosas. En la zona oriental de Navarra fronteriza históricamente con el romance hay un buen número de topónimos que, a partir de un étimo común cuyo origen con frecuencia no está claro, desarrollaron tempranamente dos variantes, una eusquérica y otra romance, según las reglas fonológicas de cada lengua: Biotzari / Bigüézal, Erronkari / Roncal, Galipentzu / Gallipienzo, Igari / Igal, Irunberri / Lumbier, Nabaskoze / Navascués, Nardoze / Nardués, Zangoza / Sangüesa, etc., pero Ezkaroze / Ezcároz, Uztarroze / Uztárroz sin diptongación en zona vasca hasta la actualidad, y también Iriberri, no *Libier, en la mencionada Valdorba, en contacto con el romance sí, pero de habla vasca todavía, al menos parcialmente, en 1863. Quiero dejar claro antes de seguir adelante, que se citan las formas normalizadas de los topónimos, sean éstos vascos o romances, pero el que aparezcan en este trabajo no quiere decir que unas y otras sean formas oficiales, sino que se emplean o se han empleado así en boca de hablantes de las susodichas lenguas. Por ejemplo, Leioa es el nombre de la localidad vizcaína llamada durante el franquismo Lejona, variante esta última que no ha desaparecido a pesar de no ser oficial y no constar en las señales viarias. En el otro lado, en el vasco, hay por las circunstancias pasadas y presentes de la lengua, un sinfín de variantes eusquéricas que nunca han sido oficiales y que hoy en día tampoco lo son, principalmente en Navarra. Un par de ejemplos: Tudela (Navarra) ha sido históricamente y es todavía Tutera en lengua vasca, con evolución propia de esta lengua, a partir de la TŪTĒLA latina; del mismo modo, el nombre de la localidad también navarra Carcastillo es en euskera Zarrakaztelu, forma empleada por ejemplo por los pastores salacencos vascohablantes que bajaban con sus rebaños a las Bardenas a pasar el invierno.
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En cuanto a los nombres de las regiones de Vasconia, podemos decir que todos tienen, como era de esperar, una variante romance al lado de la eusquérica, pero que la distancia que hay entre las dos formas no es la misma en todos los casos, siendo más cercanas las de las provincias de la Vasconia meridional que las correspondientes a la Vasconia septentrional. No hay un gran secreto en ello: los sistemas fonológicos del castellano y del euskera están mucho más próximos entre sí que el de esta última lengua y el del francés (hay que recordar en este punto que en el lado norte de la frontera hasta muy tarde la lengua con la que el euskera estaba en contacto era el gascón, y en ciertas zonas la variedad bearnesa). En el lado sur de la frontera, la diferencia de pronunciación entre Bizkaia y Gipuzkoa por un lado y Vizcaya y Guipúzcoa por el otro, si dejamos aparte las cuestiones acentuales, se reducen a la diferencia que existe entre la dorsoalveolar vasca y la interdental castellana, es decir, en esta última lengua se trata básicamente de dos topónimos vascos pronunciados a la española. Por otro lado, en el caso de Álava y Navarra, llamadas en euskera Araba y Nafarroa, las diferencias son más sustanciales: el étimo del primer topónimo, de origen indoeuropeo en opinión de Villar (en Villar / Prósper 2005: 434-435) que sigue en esto a Krahe (1964: 35, 63 y 69 principalmente), a pesar de que este autor no menciona nuestra Álava, debía ser similar a la forma empleada hoy en día en castellano; en euskera el paso de la lateral lene a vibrante simple es habitual en posición intervocálica. Así pues, la evolución habrá sido ésta: Alaba > Álava (castellano) / Araba (euskera). En lo que respecta al carácter proparoxítono del topónimo, Mitxelena (1982: 303) escribe, a propósito de pronunciaciones como Abornícano, Apreguíndana, Aprícano, Audícana, Berrícano, etc., que «no parece que se puedan comprender sino por la mediación de una lengua no románica», que en la mayoría de los casos al menos sería el euskera. El lingüista guipuzcoano en otro trabajo de la misma época (1984: 287) menciona (sierra) Sálvada (Álava) y Ciérvana (Bizkaia) y, respecto a este último topónimo, dice que la posición del acento es antiguo por el diptongo, pero que no pudo salir por evolución puramente románica de Ceruiāna o Seruiāna. El topónimo vizcaíno Ziórtza también se debe a la pronunciación proparoxítona del étimo Zináurritza y contrasta con la pronunciación castellana Cenarrúza, fijada también como apellido (véase Salaberri 2001). En lo que concierne al nombre del antiguo reino pirenaico, creo que en origen es algo así como *Nabarroa, topónimo vasco compuesto del étnico nabar ‹navarro› más el sufijo locativo -oa presente también en Gipuzkoa, con base giputz ‹guipuzcoano (de lengua)›. En vasco antiguo no había /f/, y, por lo tanto, la labiodental sorda eusquérica actual deberá ser considerada posterior, similar a ciertas evoluciones del tipo de abari ‹cena› > afari, habia ‹nido› > afia (< lat. cavea) o zubi ‹puente› > zufi. El paso, de todos modos, tiene más de novecientos años de antigüedad, como demuestra el «Comite Sancio in Nafarra» ‹el conde Sancho en Navarra› de l102 de la documentación legerense. La evolución -oa > -a no está bien explicada, pero parece que habrá que achacarla al uso del topónimo en romance, aunque es posible que el sistema de posposiciones vascas haya ayudado en cierta medida. Los nombres de las capitales de provincia tienen formas divergentes según la lengua, a pesar de que también aquí la divergencia no es de la misma entidad en todos los casos. Así, San Sebastián es la forma romance equivalente al vasco Donostia que está en la base del gentilicio donostiarra (con artículo vasco -a) empleado también en castellano. Donostia
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procede de *Done Sebastiani, es decir, las formas vasca y castellana son en origen sinónimas. En cuanto a la capital de Bizkaia, Bilbao es un topónimo vasco con final –ao ‹aho›, ‹boca› probablemente, presente también en Lasao, Ugao, etc. La forma Bilbo ya documentada en el siglo XVIII y general actualmente en euskera, es una reducción de Bilbao, favorecida por el sistema de posposiciones vasco mencionado más arriba (Bilbaora ‹a Bilbao›, Bilbaotik ‹[vengo] de Bilbao›, Bilbaokoa ‹[soy] de Bilbao›...). La capital navarra es más antigua que las susodichas, y se documenta ya en las obras de los geógrafos clásicos Ptolomeo y Estrabón. Fue Bahr (1948: 33) el primero que se dio cuenta de que en la base de los Pompaelo, Pompailo clásicos se encontraba el antropónimo Pompeius y el elemento ilu (no iltu, es decir iLu, como quería en 1976 Untermann) que podría estar presente en Iruna, nombre de la capital del antiguo reino según el investigador vasco-alemán. Mitxelena (1979: 26) dice que el -ilone (de la forma de acusativo latina, se supone; Ποµπελών en griego) debe corresponder de un modo u otro al vasco Iruñea. En lo que respecta a la capital de Álava, noua Victoria fundada por Sancho VI el Sabio en 1181 sobre el poblado anterior denominado Gastehiz (1025) o Gasteiz (1089) y convertida rápidamente en Victoria (1189), Bitoria (1200), creo que estamos ante un derivado del nombre personal Gaste(a), relacionado con el término vasco gazte ‹joven› (gaztea con artículo) que procede de *gartze(a), base del nombre de persona Garze, Garzea, Garzia, conservado en el muy extendido apellido García, por ejemplo. El final -iz procede en mi opinión del genitivo latino y como éste indicaba posesión, por lo que lo encontramos como patronímico (Pero Gasteyz ‹Pedro hijo de Gaste›) o topónimo (Gasteiz ‹el poblado de Gaste›). El hecho de que en la reja de San Millán de 1025 tengamos Gastehiz (Ubieto 1976: 176) no nos debe hacer creer que ahí la aspiración está por una nasal como pensaba Irigoien (1982: 622) o una vibrante como escribe Iglesias (2002: 133), dado que dicha aspiración aparece también ante otros sufijos, pero no es, que sepamos, la huella de ningún otro sonido anterior (Gazaheta, Sansoheta, por ejemplo), aunque en la reja ‹h› frecuentemente representa –pero no es lo que queda de– la huella de otro sonido: [γ] en Gardellihi, [ß] en Mendihil, actuales Gardelegi, Mendibil (Álava), por ejemplo. La aspiración, es, sin embargo, un tema complejo que no puede ser estudiado aquí. En este punto debo señalar que no todas las reglas fonológicas responsables de las diferentes variantes vascas y romances son sincrónicas dentro de cada lengua; quiero decir que algunas no son productivas desde hace tiempo, mientras que otras están todavía en vigor actualmente. Por ejemplo, la diptongación de vocales y el paso de lateral intervocálica lene a vibrante sinple (Biótzali > Biotzari / Bigüézal, Navarra, Álaba > Araba / Álava) son dos reglas que antiguamente se aplicaron a topónimos de origen eusquérico o foráneo, pero que en los últimos siglos no han sido productivas. Por otro lado, la neutralización de sibilante tras sonante (nasal especialmente) que tiene como resultado un archifonema africado, está viva en la actualidad en amplias áreas del país y lo ha estado durante los últimos siglos, mientras que el romance (castellano) a falta de las africadas correspondientes transcribe los topónimos con los sonidos más cercanos: así, a Villar / Prósper (2005) se les olvida señalar en su interesante obra que las formas actuales Oyarzun o Ulzama que citan corresponden al castellano, pero no al euskera, donde la pronunciación habitual es Oiartzun y Ultzama, las dos con africada, la segunda a la vez etimológica y posicional.
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2. Antroponimia Quiero referirme ahora brevemente a la influencia de los romances, más o menos oficiales dependiendo de la lengua y de la época, en el sistema antroponímico vasco. En primer lugar me gustaría tocar el tema de los nombres de pila entre los que, en un primer momento, es decir, a partir de los últimos siglos de la Edad Media, encontramos variantes eusquéricas al lado de las formas romances que se impusieron con el paso del tiempo también entre los hablantes de euskera, sin duda por el peso de la Iglesia y de la administración, si bien la influencia de la moda y el carácter pasajero de la misma deben ser igualmente tenidos en cuenta. Por poner un ejemplo, en 1641 se documenta una pequeña lista de «gente y armas del quiñon de Errartea del valle de Salazar» (Navarra): «Charles Xandua, Joanes YparJauregui, Carlos Lopearoza, Bernart Tanco, Martin Oyerzqui, Pedro Galchabarra, Charles Galant, Charles Esparza, Ynigo Bereterra, Joanes Tamborin, Ynigo Capataria, Pedro Joanqui, Martin Español». En 1649 la lista cambia un poco: «Charles Xandua, Charles Galchabarra, Joanes Aroça, Charles Udarezpe, Fortuno Eliçaguibel, Charles Lope aroça, Carlos Galant, Charles Landaguti, Charles Esseberri». Como puede verse Charles es mayoritario respecto a Carlos y hay dos vecinos que aparecen indistintamente con una variante o con otra: «Carlos Lopearoza» / «Charles Lope aroça»; «Charles Galant» / «Carlos Galant». Por otro lado, encontramos Ynigo y Fortuno, no los eusquéricos, independientemente de su origen, Eneko y Orti, aunque el primero fue habitual al menos hasta el final de la primera mitad del siglo XVII; el segundo, Orti, parece que para entonces ya había sido desplazado por Fortuno. Entre los nombres de origen eusquérico en un tiempo comunes que desaparecen tempranamente, con toda probabilidad por el «empuje» de otro tipo de nombres favorecidos por la religión y la(s) lengua(s) de la administración, podemos citar Amuna o Amona, Anaia (con nasal ‹fortis›) o Anaie, Andere, Anderezu y Andereza, Apala o Apalo, Arano(a), Gabon, Gaiztarro, Gizon, Ilurdo e Ilurde, Itsusi, Lander(ra), Nabar(ra) y Nafarra, Seme(a), Uso(a), Zuri(a). Otra serie de nombres no desaparece, pero la variante empleada en euskera (son nombres de procedencia en general latina) es sustituida a menudo, no en todas las regiones de manera simultánea, por su equivalente romance: Aingeru → Ángel; Antso, Antsa → Sancho, Sancha; Armentari → Armentero; Aurubilitu → Orobellido; Azeari, Azari → Asnar(e); Bazkoare, Paskoare, Bazkoara → Pasc(u)al, Pasc(u)ala; Bi(n)kenti → Vicente; Domiku, Domeka → Domingo, Dominga; Eneko → Ieñego, Iñego, Eñego; Eztebe → Esteban; Fran(t)zes, Fran(t) zesa → Francisco, Francisca; Gardele → Cardiel; Garindo → Galindo; Gendule → Centol; Joanes, Joane, Joanis → Juan; Gostobaro, Kostobare → Cristóbal; Jakue, Jakube, Jakobe → Santiago; Laurendi → Lorenzo; Marti(e) → Martin, Martino; Mikel(e) → Miguel; Otxoa → Lope; Petri, Betri, Peru → Pedro; Salbatore → Salvador; Sanduru → Santos, etc. No sólo desaparecen los nombres y sus variantes vascas, sino también ciertos procedimientos de denominación empleados en euskera que son reemplazados por sus equivalentes romances, al menos en el sistema onomástico oficial, ya que siguen todavía en uso, aunque, claro está, no crean apellidos. Los puntos que quiero ver son los siguientes: a) La serie nombre de pila + patronímico + locativo + -ko(a) o, alternativamente, nombre de pila + locativo + -ko(a) sustituido tempranamente por el equivalente castellano nombre
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Patxi Salaberri
de pila + patronímico + de + locativo o nombre de pila + de + locativo. Voy a poner unos ejemplos: «Eneco Arceiz Iriarteco» (1110), «Garcea Lopeiz Barbatai[n]go» (1183), «Orti Sanoiz Ostatuco» (s. XIII), «Pero Periz Gortelucequo» (1350), «Garcia Martiniz Indaberrico» (1366), «Johan Periz Ganbaraco» (1366), «Pero Garcia Errecaldeco» (1366), «Ochoa Martinez Larreco» (1465). Denominaciones de este tipo, desde fecha temprana, alternan en la documentación –pero no probablemente en el uso oral vasco– con otras como las siguientes: «Orti Sanz de Legarra» (s. XIII), «Garcia Garceiz de Goñi» (1309), «Thota Martinitz de Bayllarin» (1324), «Martin Yeneguitz d’Açotz» (1325), «Garcia Lopeiz de Liçassoayn» (1392), «Ancho Errantz d’Aguerre» (1397), «Martin Peres de Yraulagoitia» (1409), etc. En cuanto a las denominaciones sin patronímico tenemos «Orti Mendigorrico» (1111), «Ansso Gasqueco» (s. XIII), «Domeca Navaçco» (s. XIII), «Dota Gorrizco» (s. XIII), «Miquele Bassoco» (1255), «Semeno Ataondoco» (1281), «Garcia Erraçuco» (1366), que alternan en la documentación y finalmente son reemplazados por otras como «Sanduru d’Arlegui» (s. XIII), «Teresa de Alzuza» (1303), «Johan de la Casa Nueua» (1388), «Martin de Çirarroysta» (1497), etc, y, también por formas sin preposición romance ni posposición vasca como «Domiqu Esparça» (s. XIII), «Sancho Ainazquar» (s. XIII), «Machin Baztan» (1366), «Garcia Muzqui» (1366), etc. b) El patronímico vasco basado en el genitivo posesivo -ren, que ha dejado algún rastro en la documentación, muy escaso sin embargo, tipo «Lope iaun Ortire semea» ‹Lope hijo de(l) señor Fortún› (Oteitza, N, 1122-1131; sobre este tema véase Salaberri 2008). Es, no obstante, procedimiento habitual en la lengua para identificar a las personas, si bien, de la misma manera que la estructura vista en los apartados previos, no da lugar a ningún apellido. c) El sistema vasco de hipocorísticos (véase Salaberri 2009). Es importante porque está todavía en uso y con bastante buena salud, y también porque hay una gran cantidad de oicónimos y apellidos, en este orden, que proceden de aquellos. Existen cuatro procedimientos en euskera para formar los hipocorísticos: 1) palatalización, 2) uso de sufijos, 3) abreviación del nombre y 4) combinación de dos de los tres procedimientos anteriores. Hoy en día los cuatro están vivos, pero, por ejemplo, el recurso consistente en anteponer la africada chicheante [č] utilizado en un tiempo en las hablas occidentales (tipo Elena → Txelena), ha desaparecido e, igualmente, una serie importante de sufijos que a lo largo de la historia conocida de la lengua han estado en uso y ya no lo están. Parte de esto puede ser fruto del devenir normal de la lengua, pero hay que tener en cuenta que el euskera ha estado siempre, y está todavía hoy en día, sometido a una presión muy grande desde todos los frentes, hecho que ha llevado en grandes extensiones del país a su pérdida, y también al proceso de empobrecimiento que supone la pérdida de recursos onomásticos y expresivos.
Los nombres vascos vistos desde el romance: breve recorrido histórico
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Bibliografía Bähr, Gerhard (1948): Baskisch und Iberisch. Bayonne. Iglesias, Hector (2002): Sur le toponyme Gasteiz: origine et signification. In: Fontes Linguae Vasconum 89, 129-138. Irigoien, Alfontso (1982): Sobre el topónimo Gasteiz y su entorno antroponímico. In: Vitoria en la Edad Media. Vitoria-Gasteiz: Ayuntamiento de Vitoria-Gasteiz, 621-652. Krahe, Hans (1964): Unsere Ältesten Flussnamen. Wiesbaden. Mitxelena, Koldo (21977): Fonética Histórica Vasca. San Sebastián: Seminario Julio de Urquijo. — (1979): La langue ibère. In: Actas del II coloquio sobre lenguas y culturas prerromanas de la Península Ibérica. Salamanca, 23-39. — (1982): Sobre la lengua vasca en Álava durante la Edad Media. In: Vitoria en la Edad Media. Vitoria-Gasteiz: Ayuntamiento de Vitoria-Gasteiz, 299-306. — (1984): Estratos en la toponimia alavesa. In: La Formación de Álava. Vitoria-Gasteiz: Diputación Foral de Álava, 279-288. Rohlfs, Gerhard (1966): Toponymie de double tradition. In: Mélanges de Linguistique et de Philologie Romanes. Strasbourg, 413-426. Salaberri, Patxi (2001): Ziortza / Cenarruza aldaeren inguruan. In: Euskera 46, 739-749. — (2004): Nafarroa Behereko herrien izenak. Lekukotasunak eta etimologia. Pamplona / Iruñea: Gobierno de Navarra. — (2008): La patronimia vasca y su relación con la romance vecina. In: RIOn 15, 389-401. — (2009): Izen ttipiak euskaraz. Bilbao / Bilbo: Real Academia de la Lengua Vasca. Ubieto, Antonio (1976): Cartulario de San Millán de la Cogolla (759-1076). Valencia: Instituto de Estudios Riojanos / Monasterio de San Millán de la Cogolla / Anúbar Ediciones. Untermann, Jürgen (1976): Pompaelo. In: Beiträge zur Namenforschung 11.2, 121-135. Villar, Francisco / Prósper, Blanca M. (2005): Vascos, celtas e indoeuropeos. Genes y lenguas. Salamanca: Ediciones de la Universidad de Salamanca.
Moisés Selfa Sastre (Universitat de Lleida)
Algunes aportacions a l’onomàstica catalana medieval: estructura, formació i filiació lingüística de l’antroponímia dels Privilegis de la Ciutat de Balaguer (anys 1211-1352)
L’any 1994, els professors Jordi Bolòs i Masclans i Josep Moran i Ocerinjauregui van publicar el Repertori d’Antropònims Catalans (RAC) I, obra molt extensa i acurada, fruit del treball d’aquests dos investigadors al Programa Internacional de Recerca Antroponímica PatRom (Patronymica Romanica). Deu anys més tard, el 2004, la comissió del PatRom català publicava el Diccionari d’antroponímia catalana, un recull força considerable d’antropònims medievals del domini lingüístic català. En aquest diccionari, coordinat pel Dr. Antoni Badia i Margarit, participaren investigadors com Maria Reina Bastardas, Emili Casanova i Joan Miralles. Des de llavors fins a l’actualitat, que nosaltres sapiguem, no s’ha publicat cap treball global i complet referit a l’antroponímia medieval catalana, a excepció del Copus d’antropònims mallorquins (segle XV) del Dr. Joan Miralles i Monserrat i els Censos de población del territorio de Barcelona en la década de 1360 de la investigadora Esperança Piquer i Ferrer, obra molt meritòria pel seu rigor en la transcripció i pels índexs d’antropònims i topònims oferts. Pel que fa a l’antic Comtat d’Urgell, objecte del nostre estudi, s’ha editat molta documentació d’arxius comarcals i capitulars i de monestirs i cenobis, que conté una valuosa informació antroponímica. Només cal veure, a tall d’exemple, les diverses col·leccions documentals publicades a la revista Urgellia de monestirs com els de Santa Cecília d’Elins i Sant Pere de Tavèrnoles. De tota aquesta documentació capitular i notarial publicada, en aquest treball ens centrarem en els Pergamins de la Ciutat de Balaguer i, particularment, en els antropònims documentats en aquesta font en el període que abraça els anys 1211, data del primer documents, i 1352. En concret, ens fixarem en dos aspectes d’aquesta antroponímia: la seva estructura i, en segon lloc, l’origen i significat d’aquells noms que per a nosaltres resulten dubtosos des d’aquest punt de vista lexico-etimològic.
1. Font emprada en l’estudi onomàstic: els Pergamins de Privilegis de la ciutat de Balaguer La font emprada en el nostre estudi onomàstic és l’excel.lent edició dels Pergamins de Privilegis de la ciutat de Balaguer de Dolors Domingo. Aquest fons de Pergamins de Privilegis es conserva en l’Arxiu Històric Comarcal de Balaguer i consta de 68 peces en pergamí. Cronològicament comprèn un període molt ampli, des del segle XIII al XVII. Nosaltres estudiarem, en un primer moment, el periode comprès entre els anys 1211 i 1352. Per a properes publicacions deixem l’estudi de l’onomàstica de 1373 a 1459, que és la data del darrer document d’aquesta col.leció documental.
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Moisés Selfa Sastre
La documentació notarial, com és sabut, és fonamental per a qualsevol estudi onomàstic. I, sens dubte, en els privilegis, un tipus de documentació notarial molt especial, apareixen un ventall de noms de lloc i de persona que ens permeten apreciar els sistemes de denominació emprats quan aquests eren redactats pels notaris. Recordem que la concessió de privilegis estava reservada exclusivament als reis des del punt de vista legal i el mimetisme de les oficines senyorials d’expedició documental cap a la cancelleria reial va conduir al fet que el discurs diplomàtic utilitzat pels notaris per a la concessió d’una mercè per part d’un senyor prengués la forma del privilegi, naturalment no rodat, ja que l’ús d’aquest últim era privatiu del monarca, i amb la particularitat que els privilegis senyorials estaven segellats amb el segell de cera pendent, donat que únicament el Rei podia segellar en plom.
2. Estudi formal dels sistemes de denominació La classificació sintagmàtica del corpus total aplegat als Pergamins de la Ciutat de Balaguer (1211-1352) en base a la procedència i significat del nom ens permet distingir les següents estructures: 2.1. Nom substantiu + nom substantiu: 2.1.1. Nom + delexical:1 Arnaldus Baiuli, Guilelmus Baiuli, Raimundus Baiuli, Iacobus Bardoill, Iacobus Bardoyl, Bartolomeo Bardoyll, Laurencius Bardoyll, Iacobus Baro, Petrus Baro, Periconus Barull, Raimundus Boill, Arnaldus Bonet, Ludovicus Bordello, Berengarius Brot, Salvator Calp, Adam Carví, Berengarius Cirera, Dominicus Claver, Petrus Colom, Franciscus Columbi, Bernardus Cortit, Iacobus Cortit, Petrus Costa, Laurencius Cortit, Marconus Cortit, Periconus Cortit, Petrus Cortit, Petrusa Cortit, , Petrus Cortiti, Guilelmus Çabaterii, Petrus Çabaterii, Arnaldus Çabater, Guillelmus Çabater, Periconus Çabater, Raimundus Çabater, Guillelmus Çacirera, Aparicus Draper, Bernardus Exernit, Iacibus Fabre, Petrus Fenoyll, Nicholai Forment, Iohanis Fort, Raimundus Frontera, Guillelmus Fuster, Iacobo Fuster, Iacobus Fuster, Franciscus Fyllach, Petrus Gaço, Raimundis Gueraldi, Franciscus Jornet, Guilelmus Jorneti, Raimundus Jover, Iohanis Laneres, Petrus Mageri, Bernardus Maiori, Petrus Medici, Iohannis Merçer, Berengarius Molaç, Berengarii Monachi, Franciscus Oriol, Michaelis Oriol, Petrus Oriol, Iohannis Padellaç, Guilelmus Palet, Azceranis Pardi, Raimundus Patxi, Berengarius Pelliparii, Bonanatus Petra, Armenterius Pilosi, Bernardus Pintor, Arnaldus Piquer, Arnaldus Ponter, Petrus Putii, Almonetus Rabacie, Arnaldus Rabacie, Bernardus Rabacie, Iacobus Rabacie, Iohanis Reals, Anthoni Roqua, Ioannis Rosich, Bernardus Rubei, Andreas Saiol, Periconus Sala, Iacobus Sartor, Salvator Senyer, Bernardus Spigol, Guilelmus Spigol, Iohannis Torner, Periconus Vasset, Raimundus Vasset.
Delexical, terminologia utilitzada al projecte d’investigació PatRom (Patronymica Romanica), ve a referir-se al procés d’ antroponimització dels lexemes a l’Edat Mitjana.
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Algunes aportacions a l´onomàstica catalana medieval
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2.1.2. Nom + patronímic: Bernardus Andree, Petrus Anrich, Poncius Arnaldi, Raimundus Bonfyll, Arnaldus Cerda, Petrus Dalmacii, Nicholay Domenech, Berengarius Domingelo, Guillelmus Domingelo, Petrus Emerici, Garcia Ferrandiz, Garcia Garces, Salvatoris Gifré, Berengarius Giner, Franciscus Giner, Arnaldus Gisbert, Ferrarius Gispert, Petrus Gondisalvi, Didacus Gonzalbis, Iohanis Gracia, Arnaldus Guasch, Iohannos Guillamota, Guillelmus Guitart, Guillelmus Iulani, Arnaldus Laurencii, Raimundus Natalis, Raimundus Nicholay, Arnaldus Nicholay Petrus Nicholay, Petrus Oliva, Antonius Petri, Berengarius Petri, Guilelmus Raimundi, Petrus Raimundi, Arnaldus Rogerii, Arnaldus Rollan, Garsia Romei, Petrus Sanccii, Nunus Sancii, Michaelis Sanxo, Petrus Sanxo, Raimundus Sanxo, Petrus Segui, Petrus Vitale.
2.1.3. Nom + topònim: Petrus Aculonis, Bernardus Aguyllo, Sensonis Aguyllo, Berengarius Alos, Berengarius Angularia, Andreas Apilia, Poncius Barchinone, Iacobus Bonasch, Bernardus Camporrellis, Arnaldo Capela, Anthonio Cardona, Berengarius Garriga, Antonius Casadevall, Periconus Casteyllo, Raimundus Cervaria, Petrus Cervera, Guillelmus Çamora, Arnaldus Çauila, Bernardus Ferrera, Berengarius Garriga, Arnaldus Gerunda, Bartolomeus Lerida, Guillelmus Maçanet, Periconus Maçanet, Jacobus Madiona, Steffano Mongrins, Raimundus Monte Catano, Guillelmus Montechatano, Arnaldus Murello, Franciscus Oluga, Arnaldus Pallars, Petrus Panades, Petrus Poncius, Bartolemeus Puig Redon, Petrus Queralt, Berengarius Rajadello, Vitalis Regola, Petrus Rialp, Raimundus Rialp, Arnaldus Sancta Linea, Peretonus Sancta Linea, Petrus Sanctalinea, Arnaldus Sclusa, Guillelmus Sclusa, Bernardus Segarra, Hogeto Servianus, Marconus Serra, Petrus Serra, Berengarius Sola, Ioannis Stanyol, Guillelmus Terracone, Raimundus Terraça, Petrus Toloni, Raimundus Vilalta, Guilemus Villa, Arnaldus Villam, Petrus Villam.
2.1.4. Dubtosos: Pascasius Barrusta, Arnaldus Bestinez, Bernardus Bulfarines, Bartolomeus Cartam, Raimundus Catra, Petrus Coltelli, Bernardus Durbam, Arnaldus Gençana, Bartolomeus Leoder, Balagarii Marroqui, Petrus Peratalaç, Rogerius Rachonato, Petrus Scapa, Berengarius Tempsur.
2.2. Nom + preposició + topònim: Petrus de Alberola, Berengarius de Alberol, Antonius de Albesia, Dalmatius de Alenterno, Iordanus de Alentorn, Raimundus de Almazor, Iohannis Daltes, Berengarius de Anglesill, Raimundus de Angularia, Sancius de Antillone, Joan d’Aragó, Isabelis de Aragonia, Arnaldus de Aran, Cerveronus de Artesa, Arnaldus de Artesa, Petrus de Artesa, Ariolus de Artesa, Gueraldus de Artesia, Berengarius de Avellanes, Bernardus de Aversone, Petrus de Barbaroga, Pascasius de Barbera, Arnaldus de Belvis, Arnaldus de Berga, Iohanis de Berga, Petrus de Berga, Guillelmus de Bolleda, Arnaldus Cortit de na Bonjorn, Bernardus de Camporrellis,
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Moisés Selfa Sastre
Martinus de Caneto, Gueraldi de Capraria, Petrus de Carreu, Bernardus de Castellione, Raimundus de Casteyllo, Iacobus de Caxino, Guillelmus de Cervaria, Arnaldus de Cervere, Guillelmus de ça Cirera, Raimundus de Coponibus, Guillelmus dez Col, Periconus dez Col, Petrus de Coromina, Bernardus de Corronibus, Guillelmus de Curilione, Guillelmus de Entença, Poncius d’Eril, Bernadus de Falchs, Bernardus de Fenoyllar, Berengarii de Fluviano, Lupi de Fontibus, Ato de Forces, Matalonis de Frascano, Bernardus de Guardia, Raimundus de Guardia, Petrus de Gonera, Michael de Gorrea, Petrus de Gradu, Franciscus de la Guardia, Poncius de la Guardia, Raimundus de Josa, Berengarius de Laurencio, Marchus de Liçana, Raimundus de Mari, Bernardus de Mascho, Guilelmus de Menuari, Arnaldus de Merleto, Raimundus de Mice, Arnaldus de Molet, Berengarius de Monçonis, Berengarius de Monges, Franciscus des Monges, Othonus de Montecateno, Arnaldus de Moz, Franciscus de Murello, Iacobus de Murello, Salvator de Murello, Bernardus de Muro, Raimundeti de Nargo, Raimundus de Nargo, Guillelmus d’Oç, Andreas de Oluga, Arnaldus de Orcau, Balaguerius de Orenga, Bernardus de Palacio, Raimundus de Peralta, Arnaldus de Peratalaç, Bartholomeus de Podio, Guilelmus de Podio, Petrus des Podio, Bernardus de Ponte, Dalmacius de Pontons, Petrus de Queralto, Bartolomeus de Rialp, Amorosius de Ripellis, Poncius de Ripellis, Raimundus de Ripellis, Andreas de Roda, Arnaldus de Rubione, Garssia de Santalinea, Guillelmus de Ter, Berengarius de la Terrossa, Feredicus de Toledo, Arnaldus de Uliola, Bernardus de Uliola, Petro de Vich, Arnaldus de Vila, Dominicus de Viscarra.
2.3. Nom + preposició + nom 2.3.1. Nom + preposició + nom delexical: Bonaventura deç Clergue, Bernardus de Miçe, Petrus de Miçe.
2.3.2. Nom + preposició + nom patronímic: Balagerius de na Arnalda, Beremgarius de Maior.
2.4. Nom simple: Alfons, Elionor, Ermengol, Iacobus, Ioannis, Jaume, Pere, Pontius, Raimundus.
2.5. Nom doble + nom: Petrus Arnaldus Arcedone, Eiximenis Petrus Figuerola, Iacobus Ioannis Muntanyola.
2.6. Nom doble + preposició + nom: Rodericus Eximeni de Bornoll, Blasius Manga de Vila Marxant.
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3. Discussió sobre alguns noms per a nosaltres dubtosos o opacs Oferim, tot seguit, l’origen i significat d’alguns dels noms del grup 2.1. (Nom substantiu + nom substantiu), subgrup 2.1.4, dels quals no coneixem amb total seguretat aquestes dades lèxic-semàntiques. Per a altres estudis posteriors deixem l’anàlisi dels grups 2, 3, 4, 5 i 6. Barrusta Pergamins de la Ciutat de Balaguer (en endavant PCB): ‹Pascasius Barrusta› (1352). Podria ser una mala escriptura del notari que hauria escrit Barrusta en lloc de Barrusca. Com afirma Alcover-Moll (1993: 336), a les zones del Pallars, Guissona, Tremp, Solsona, barrusca té el significat de ‹part llenyosa del raïm›. Bestinez PCB: ‹Arnaldus Bestinez› (1341). Per a nosaltres és un nom d’origen desconegut. Podria estar relacionat amb el cognom Bestit que, segons Francesc de Borja Moll (1959: 313), s’aplicava a un nen nascut d’una membrana. Quant al sufix patronímic -ines, a Catalunya no és freqüent durant l’Edat Mitjana. Bulfarines PCB: ‹Bernardus Bulfarines› (1341). Nom que sembla un compost del verb bullir i el nom farines. Josep Bulfarines fou un important alcalde i jutge de Balaguer al segle XVII i, segons Alcover-Moll (1993: 731), els habitants de St. Pere de Torelló són anomenats satíricament així pels pobles veïns. Cartam PCB: ‹Bartolomeus Cartam› (1341). L’origen d’aquest nom podria estar relacionat amb el català cartam, ‹conjunt de cartes›, que Joan Coromines (1992: 599a54) documenta el 1640 si bé també podria tenir el significat de ‹la part inferior del barret dels bolets, formada per una gran quantitat de fulles semblants als papers› com recull Alcover-Moll (1993: 1074). En tot cas seria un postantropònim i no s’hauria de descartar que estigués relacionat amb el següent nom de Catra. Catra PCB: ‹Raimundus Catra› (1341). Creiem que es correspon al català catre ‹llit lleuger per a una sola persona›, si bé en català catra té, com indica Joan Coromines (1993: 635a8), el significat d’‹explicacions›. Seria, com l’anterior, un postantropònim. Coltelli PCB: ‹Petrus Coltelli› (1341). Sembla un nom relacionat amb el nom coltell ‹ganivet›, del llatí CULTELLUS, genitiu singular CULTELLI.
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Moisés Selfa Sastre
Durbam PCB: ‹Bernardus Durbam› (1341). Podríem relacionar-lo amb un nom vinculat amb el topònim Durban, si bé no s’hauria de descartar que estigués relacionat amb el llinatge Durbau que existeix a Riells, Banyoles, Cardona, i fins i tot, Malgrat i Sabadell entre d’altres llocs del domini lingüístic com assenyalen Alcover-Moll (1993: 625). En aquest cas derivaria del nom germànic personal Turbald. Gençana PCB: ‹Arnaldus Gençana› (1341). Alcover-Moll (1993: 252) dóna Gençana com un llinatge de Castelló de Farfanya, poble pròxim al de Balaguer. El seu origen sembla ser el llatí GENTIANA,-AE. Leoder PCB: ‹Bartolomeus Leoder› (1296, 1322). Leoder, català Lleuder, és un llinatge que Alcover-Moll (1993: 971) dóna com a propi de Besalú, Barcelona, Llinars, Mataró, entre d’altres llocs, i que derivaria del germànic Liuther. Si el considerem un patronímic estaria relacionat amb el llatí LEOTARIUS. Marroqui PCB: ‹Balagarii Marroqui› (1341). Nom delexical segurament relacionat amb l’apelatiu homònim: ‹nadiu del Marroc› i també, com recull Alcover-Moll (1993: 264), ‹pell adobada que s’ha posat en un clot amb sostres d’aigua i escorça›. Peratalaç PCB: ‹Petrus Peratalaç› (1341). Sembla un compost de Pera ‹pedra› i del participi tallat, si bé la major dificultat per acceptar aquesta hipòtesi seria la no concordança de gènere entre el nom i el participi. En tot cas, recordem que el nostre estudi parteix d’una edició documental. Podria tractar-se d’una mala lectura del nom. Rachonato PCB: ‹Rogerius Rachonato› (1314 trasllat de 1431). Molt probablement es tracta d’un compost de Racone, documentat pel Repertori d’Antropònims Catalans l’any 845 als comtats de Pallars i Ribagorça, i Ato d’una base gòtica atta ‹pare›. Scapa PCB: ‹Petrus Scapa› (1341). Nom que podem relacionar amb el d’Escapa, llinatge que recull Alcover-Moll (1993: 213) a diversos llocs del nord-est de Catalunya i a Alacant. Tempsur PCB: ‹Berengarius Tempsur› (1341). Segurament Tempsut. En català existeix l’adjectiu tempsot, ‹temps dolent, tempestuós› (DCVB, s.v.). Sembla un derivat adjectival.
Algunes aportacions a l´onomàstica catalana medieval
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Bibliografia Alcover, Antoni Maria / Moll, Francesc de Borja (1993): Diccionari Català-Valencià-Balear (10 voll.). Palma de Mallorca: Editorial Moll. Bolós i Masclans, Jordi / Moran i Ocerinjauregui, Josep (1994): Repertori d’Antropònims catalans (RAC) I. Barcelona: Institut d’Estudis Catalans. Coromines, Joan (1995-2001): Diccionari Etimològic i Complementari de la llengua catalana (10 voll.). Barcelona: Curial Edicions Catalanes. Domingo, Dolors (ed.) (1997): Pergamins de Privilegis de la ciutat de Balaguer. Lleida: Universitat de Lleida. Miralles, Joan (1997): Corpus d’antropònims mallorquins del segle XV. Barcelona: Institut d’Estudis Catalans. Piquer, Esperança (2005): Censos de población del territorio de Barcelona en la década de 1360. Tübingen: Max Niemeyer.
Vicent Terol i Reig (Arxiu Municipal d’Ontinyent)
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida (segles XIII-XVI)
Els darrers estudis realitzats entorn a l’onomàstica medieval valenciana, sobretot el magnífic treball del professor Enric Guinot (1999) han insistit en la major presència de noms de llinatge (es tracta aclaparadorament d’antrotopònims) d’origen occità al sud del riu Xúquer, en el que serà la governació dellà lo riu de Xúquer durant l’època foral medieval i moderna. Aquesta major presència no va deixar mai de ser testimonial (no superaria en cap cas el 10 per cent) però prou més notòria que en la resta del territori valencià, certament, encara que hi ha casos com els que hem exhumat a la Vall d’Albaida (a l’àrea de les Comarques Centrals Valencianes) on es documenta (Terol 1997) com un fenomen amb continuïtat al llarg dels segles XIII-XVI i fins i tot en el Sis-cents i, sobretot, el Set-cents.1 En aquestos primers moments de la colonització cristiana del Regne de València aquesta és una contrada en la qual es documenten amb relativa freqüència mercaders occitans, en concret de Narbona, la qual cosa ens permet de constatar que les relacions, bé que testimonials, existien.2 Un aspecte remarcable és la presència de diversos llinatges únics en el conjunt del País Valencià: Carnasó, Carnaçón, Carnuzó (Ontinyent, segle XIII) Aliés (Ontinyent 1325-1350) Carniols (Ontinyent 1325-1350) Ullac (Ontinyent 1325-1350) Loserra (Ontinyent 1450) Andonys (Ontinyent 1490-1521) Rufach (Biar i Ontinyent, 1328 i 1443-1521) Sobra/Sorba (Ontinyent 1496-1521) Manda/Mende (Albaida 1314) Caús (l’Olleria, Llutxent i Quatretonda, XIV-XVI) Caïx/Cayx (Albaida, Llutxent 1395-1420) La majoria dels francesos emigrats a la comarca en els segles XVII i XVIII procedien de Gascunya i Alvèrnia. 2 Apareixen documentats: «Marcó de Vilaraga, mercader de Narbona» i «Iohannes Isern, mercator Narbone»: Arxiu Municipal de Cocentaina (AMC endavant), Cort del justícia (CJ endavant) 13031304, 1304, f. 94v i 1314, f. 148r, respectivament. Agraïm al professor Emili Casanova que haja autoritzat la utilització d’aquestes i altres dades per a la realització d’aquest treball, exhumades per nosaltres mateixos durant 1993-1994, en el transcurs dels treballs de recerca i buidatge realitzats per al Projecte Internacional de Patronímica Romànica Europea (PATROM), dirigit pel professor Dieter Kremer, Universitat de Treveris, Alemanya, i del qual el professor Casanova ha estat coordinador al País Valencià. 1
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Vicent Terol i Reig
1. Ontinyent i Agullent La principal base d’aproximació a l’estudi de l’onomàstica «fundacional» de l’Ontinyent cristià ha estat i encara és el Llibre del Repartiment. Emili Casanova i J. A. Cano ja van explotar aquesta informació en el seu treball pioner, les passes del qual va seguir el professor Enric Guinot. (Cano / Casanova 1986; Guinot 1999: 206-209). Les riquíssimes séries de la cancelleria reial de la Corona d’Aragó, iniciades precisament amb Jaume I i de la qual formen part els dos volums del Llibre del Repartiment són el complement indispensable. Tanmateix, en el cas que ens ocupa tenim la mala sort que els esborranys de les concessions de lots de terra i cases que contenen aquestos dos volums a males penes donen informació sobre Ontinyent i quan ho fan els assentaments són tan lacònics que ni tan sols disposem de dades toponímiques de les esmentades donacions. A diferència d’uns altres casos, com ara Xàtiva o bona part de la Vall d’Albaida, que sí que hi estan ben presents i prou ben representats. Aquest hàndicap inicial suposa una exigència formidable, però de cap manera infranquejable. Afortunadament, la documentació medieval conservada a l’Arxiu Municipal d’Ontinyent d’aquest període ens aporta algunes dades complementàries que junt a les escasses i precioses referències reflectides en la magnífica documentació municipal medieval dels arxius municipals d’Alcoi i Cocentaina ens permeten ampliar considerablement la base d’estudi d’aquest moment fundacional. Hem extret també algunes dades dels registres dels repartiments de Múrcia i Cartagena (Torres 1971). També ho hem fet dels de Lorca i Oriola (Torres 1977: 35, 43) , tot i que en aquestos casos només ens ofereixen tres noms de fonts, atés que els colons fan ús de l’antrotopònim de procedència, és a dir, Ontinyent (Pero, Ioan i Jayme de Otiñén) i en el cas d’Oriola es tracta d’una confusió amb la vila aragonesa d’Ontinyena, al Baix Cinca (Guinot 1999: II, 653; Torres 1986 i 1988). Les dades resultants, amb una mostra que hem triplicat, tenen l’avantatge afegit d’oferir-nos informació sobre els repobladors que, efectivament i no sols nominalment, van conformar la societat ontinyentina del segle XIII. Així, doncs, dels dénou assentaments inicials que ens aporta el Llibre del Repartiment, passem a 54 identificacions que corresponen a 52-53 individus per a tot el segle XIII. Dels 48 llinatges que apareixen, en 26 casos es tracta d’antrotopònims (nom+nom de lloc), un percentatge altíssim (54 per cent). Es distribueixen de la següent manera: indistint
indistint
NA
CAS
VAL
Total
4
1
1
26
CAT
ARA
Origen: topònim
9
5
1
4
Origen: nom de persona, sobrenom o ofici
10
6
3
1
Origen: element de la natura
2
-
-
-
-
-
-
-
2
Total noms de llinatge
21
11
4
5
1
4
1
1
48
43,8
22,9
8,4
10,5
2
8,4
2
2
100
Percentatge %
CAT / ARA
OCC
ARA / OCC
1
20
Quadre I. Distribució de noms de llinatge a Ontinyent (1248-1300)
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
285
La proporció de catalanoparlants respecte a castellanoparlants seria, així les coses, la següent: Catalanoparlants: 44% Castellanoparlants:
34%
Occitans:
12%
Indistints:
10%
Total 100 Proporció CAT/ARA-NA: 2/1 La presència de llinatges occitans és molt remarcable a la vila d’Ontinyent, la futura capital de la comarca. En el període 1248-1300 documentem cinc llinatges occitans, que representen un 10,5 per cent. El percentatge és una mica major, en qualsevol cas, que els que s’han documentat en els casos d’Albaida i de Xàtiva més ben estudiats fins ara (Guinot 1999; Ferrer 1996; Casanova / Terol 1995). Comptat i debatut, aquest percentatge és prou més alt que en la resta del País Valencià. Tanmateix, el percentatge podria ser encara major, atés que alguns atribuïts com a catalans o indistints ho podrien ser també, casos de Fontès / Fontes i, sobretot, Duran / Durà. Ontinyent compleix així una de les característiques del repoblament del sud del Xúquer. Aquesta presència occitana a l’Ontinyent del segle XIII cobra major importància quan realitzem una anàlisi qualitativa: constatem que els primers notaris i escrivans de la cort ontinyentina eren occitans, tot hi apunta. Guillelmus Provincial / Guillem Provençal, des de 1263, i qui fa l’efecte que era el seu fill, Pere Guillem, també notari, documentat almenys en 1284 i mort, fa l’efecte, en 1301. La seua presència queda reflectida pàl·lidament en usos com ara l’aparició de la forma «Ontinhén», indubtablement occitana i ara podem verificar que gens casual, en la documentació municipal de Cocentaina de 1294 (Ponsoda 1996: 352), tot reflectint literalment sens dubte documents produïts en la cort del justícia ontinyentí pels notaris de procedència provençal. Això ens fa lamentar encara més, la pèrdua de la documentació municipal ontinyentina d’aquest període, la qual d’haver-se conservat hauria permés la realització d’estudis lingüístics ben interessants sobre la sempre apassionant problemàtica de les llengües en contacte, enriquida en aquest cas notablement amb l’aportació occitana. Una veritable llàstima, comptat i debatut. Pel que fa als noms de fonts característics entre els occitans tenim Bonanat / Bonafonat, Narbonet / Narbonetus i Ramon / Raimon. La presència de llinatges occitans o d’origen occità és encara notable en el període 13251350, quan podem establir una completa, tot i que no exhaustiva, reconstrucció dels veïns i veïnes de la vila, amb un total de 395 individus (tres dels quals són dones) d’Ontinyent, 26 d’Agullent i 5 de Morera (els llocs del terme existents en aquell moment). Els 395 individus ontinyentins exhumats s’enquadren en 212 noms de llinatge. S’ha de remarcar la forta incidència percentual dels antrotopònims en aquest període: la meitat dels 212 noms de llinatges ho són. És, de qualsevol manera, un percentatge molt alt, sobretot si el comparem als altres casos valencians coneguts, estudiats per Enric Guinot, on se sol constatar habitualment una mitjana del 30 per cent.
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Vicent Terol i Reig
CAT
ARA
indistint CAT / ARA
OCC
indistint ARA / OCC
Altres
Total
Origen: topònim
58
22
2
10
4
11
107
Origen: nom de persona, sobrenom o ofici
45
23
21
4
-
-
93
Origen: element de la natura
10
1
1
-
-
-
12
Total noms de llinatge
113
44
24
14
4
11
212
Percentatge (%)
53,3
21,6
11,2
6,8
1,9
5,2
100
Quadre II. Distribució de noms de llinatge a Ontinyent (1325-1350)3
La proporció de catalanoparlants respecte a castellanoparlants, establerta atesa la proporció d’atribució d’origen dels individus i no només la dels noms de llinatge seria, així les coses, la següent: Catalanoparlants 230 58,5 Castellanoparlants 94 23,8 Occitans 24 6,1 Indistints 47 11,7 Total 395 100 Proporció CAT/ARA: 3/1 Hem identificat els següents noms de llinatge constituïts per nom + topònim d’origen occità: Aliés. Referent a la ciutat d’Alès (Llenguadoc). Carnicer. Corrupció de l’originari Carnassó / Carnaçó, tot hi apunta. Carniols. Relacionat amb Carniol (Alta Provènça-Alps). Corbany / Corbaní. Sembla que no es tracta d’un antrotopònim occità, tot i que la pertanyença a l’aristrocràcia i al cercle de servidors de l’infant Ramon Berenguer, llavors comte d’Empúries i senyor d’Ontinyent, ens fa pensar que es tracte d’un individu d’aquest origen. Si es tractara d’un antrotopònim, correspondria a una localitat de Flandes. Entrevís. Tot i que podria tractar-se d’un sobrenom, relacionat amb una part del cos, la qual cosa ens situaria en les comarques del Camp de Tarragona, és molt probable que es tracte d’un antrotopònim occità corromput. En aquest cas s’hauria de relacionar amb les poblacions d’Entrevaux o Entrevennes (Alta Provença). Gavaldà. Règió d’Occitània que constituïa un comtat sota jurisdicció feudal del rei d’Aragó-comte de Barcelona, fins al tractat de Corbeil de 1258. En occità, Gavaudan o Gevaudan. Gusargues. Guzargues, localitat occitana del cantó de Castries, departament de l’Erau. Muntanya. Referent a la localitat occitana de Montanhac (Besiers) o, també, a la de Montanha (Gironda). Cas semblant al de Fontès / Fontes, encara que la pronuncia actual amb a final àtona (el nom de llinatge ha desaparegut a hores d’ara però es conserva el topònim molí Montanya / Muntanya o molí de Montanya / Muntanya) fa pensar en aquesta opció, en detriment de la possible relació amb la localitat catalana de Montanyà. La documentació ho Topònims navarresos, 6; castellans, 3 i valencians, 2.
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Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
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avala: el nom de llinatge deriva en femení en «na Muntanya» i no mai en «na Muntanyana», com passa, per exemple amb els noms de llinatge «Mollà» o «Macià», que deriven en «na Mollana» i «na Maciana», respectivament. Sabater. Relacionat amb el repoblador de 1248 Narbonet Çabater. Ullac. No hem pogut identificar el seu origen, tot i que sembla derivar de la paraula occitana «uelh» (ull, en llengua catalana). Vedell. És, tanmateix, d’atribució dubtosa. Pensem que es podria tractar d’una corrupció d’un antropotònim occità, referent a la població occitana del Llenguadoc, actualment al departament d’Arieja, Vedelha (Bédeille en francés).
Hi ha altres noms de llinatge d’origen occità, derivats o fixats a partir de noms de fonts: Bonafonat. En origen relacionat amb el nom de llinatge Carniçó / Carnissó. Un Bonafonat Carniçó és l’antecedent dels Bonafonat, que faran servir com a nom de llinatge el prenom del pare. Guillem. Com en el cas anterior, en origen documentem Guillem Provincial, notari, en 1263, pare fa l’efecte del notari Pere Guillem, documentat en 1284. Els seus successors perpetuen aquest costum onomàstic i fixen el nom de llinatge.
En altres ocasions l’atribució pot variar, fruit de les dualitats toponímiques constatades a una i altra banda dels Pirineus, ja a Occitània, ja a l’Alt Aragó i/o Catalunya. Berbegal. Pot ser indistintament occità (Barbegal, Arlés; granja fortificada i conjunt de molins) o aragonés, comarca del Somontano d’Osca. Celles, les. Relacionat amb la població del departament d’Arieja, comtat de Foix. Hi ha també una altra possibilitat: Celles (l’Erau). És, tanmateix, d’atribució dubtosa, atés que potser es tracte de la població d’Osca, comarca del Somontano de Barbastro. Fontés / Fontes. També pot ser indistintament occità, en el districte de Besiers i cantó de Montagnac, en el primer cas o aragonés en el segon. Montfort. Pot ser aragonés o occità. En aquest cas es tractaria del castell de la Fenolleda històrica, en l’actualitat forma part del departament d’Aude. Orús, d’. Un altre cas que pot ser occità o aragonés, fruit del fenomen de la repetició de topònims a una banda i altra dels Pirineus, de vegades de manera quasi simètrica.
Farem un repàs diacrònic fins arribar al darrer moment, a les dècades inicials del Cinc-cents, en vespres de la revolta agermanada, quan encara es verifica un flux d’individus procedents de Gascunya i del comtat de Foix. Hem identificat un grup de 18 persones, que representen tan sols el 3 per cent del total dels veïns d’Ontinyent del període 1443-1450. En la majoria de casos es tracta clarament de noms de llinatge occitans o d’orígens occitans: Gallach, Gay, Loserra, Montferrer o Rufach. Aquest darrer (relacionat amb Rofilhac; Rouffilhac en francés; l’Òut, Guiana) provindria de la propera Biar, on se l’ha documentat ja en 1328, com a membre de la primera generació de colons que poblaran la vila després de l’expulsió dels sarraïns en 1280.4 La resta (Entrevís, Espanya, Gassó, Muntanya o Segura) són d’atribució menys clara. En el cas de Montferrer ha estat determinant l’onomàstica dels membres d’aquest llinatge, amb noms de fonts tan rotunds com Folc. AMC, CJ 1327-1329, f. 131r . Hi apareix Joan / Iohannes Rufach.
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En el següent període acotat, 1496-1499, només representen un 2,5 per cent, tretze individus d’un total de 559. Apareixen ara algun antrotopònims molt clars, com Andonys (corresponent a Andoins / Andonsh, Bearn, Gascunya) i Melís (a Mailís Landes, Gascunya)5 junt a uns altres noms de llinatge com ara Auger, Mollà (provinent del lloc d’Els Vint-i-cinc, terme de Xàtiva, despoblat en terme municipal de l’Olleria en l’actualitat, i d’Albaida) i Pramunt. En aquest moment es documenten a Agullent per primera vegada noms de llinatge d’origen occità, Mollà (tres individus) que procedeix d’Albaida. L’últim període estudiat correspon al moment de la revolta de la Germania (1519-1522). Continuen documentant-se els anteriors noms de llinatge Andonys, Melís, corresponents ara a la segona generació. Un indici de les peculiaritats del període i, alhora, del dinamisme com a centre del districte tèxtil interior valencià de què fa gala la vila d’Ontinyent és la gran quantitat de noms de llinatge que documentem en un únic cas: 139, un 46,2 per cent del total dels cognoms. Aquest fenomen s’ha de relacionar amb la remarcable presència de llinatges que a primera ullada podrien resultar una mica «exòtics», com ara francesos, occitans, mallorquins, catalans, no pocs castellans de la Manxa, alguns bascos lato sensu i algun perpinyanés i portugués. Molt d’ells, si és que no ho va ser la totalitat, fixaren la seua residència atrets per l’embranzida de la manufactura tèxtil de la llana. S’entén així la presència de barreters i sastres de Castella la Vella i peraires inclús d’Andalusia.6 Així les coses trobem Gonçalbo d’Enguix, peraire; Jordi de la Sobra, calceter (que cal relacionar amb la població de Surba / Surban, País de Foix7); Bertran Subrau / Zubrau, abaixador; «Pedro de Arquos, baxador, natural de Gascunya» o «en Bernat de Behan, texidor, natural de França». També diversos manyans i fabricants de cardes: mestre Arnau Campà, manyà; mestre Arnau de Muntanyes, carder i manyà; mestre Onofre Machí / Magí, carder. A més a més, hi ha també alguns individus relacionats amb la substancial reforma de l’església major de la vila. Així trobem Pere de Britis, pedrapiquer qui era «moço de mestre Benet Oger, pedrapiquer», natural de Lió i responsable de la reforma. Un altre cas és el de Joan de Roria, pedrapiquer que treballa a l’església de Santa Maria. Sembla tractar-se d’un antrotopònim que cal relacionar amb la població de Roraa, a la Val Pèlis i Alta Val del Ròia, a les Valls Occitanes de Provença, a hores d’ara en territori italià. A Agullent en el mateix període veiem, per primera vegada, una incidència percentual notòria, encara que testimonial, un 5 per cent dels agullentins tenen cognoms d’origen occità, cinc individus en el cas de Mollà, d’origen albaidí, i l’aparició de Munnar / Munaro / Munrro / Mulnar del qual apareix documentat el seu origen geogràfic: veí del lloc de «Prepach e de la senyoria de Bearn» i habitador llavors (1520) a Agullent.8 Tot i això, la seua població d’origen apareix deformada, en realitat es tractaria de Preishac de Geusvath o de Preishac Navarrencs.
Tot i això pot tractar-se d’un nom de fonts femení, en qualsevol cas occità. Arxiu Municipal d’Ontinyent (AMO endavant), Cort del justícia (CJ endavant) 1508-1515, Llibre de memorials, 2ª mà de memorials (1508), f. 3. Apareix Francesc Ochoa, peraire, natural d’Úbeda, que habitava llavors a Ontinyent. 7 AMO, CJ 1534, obligacions. Es documenta «Jordi de la Sobra, calçater, natural del condat de Foix». Casat amb Isabet, filla de Bernat Conca, peraire i draper d’Ontinyent; les cartes nupcials es van redactar el 10 de maig de 1516. 8 AMO, CJ 1520, 1ª mà de memorials, f. 10v 5 6
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
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2. Albaida i el Palomar La vila d’Albaida i el seu lloc annex d’el Palomar guarden estreta relació amb el cas ontinyentí i, en menor grau amb el de Xàtiva. Així, doncs, constatem una presència occitana remarcable per la seua importància qualitativa, relacionada també amb l’exercici de l’art de notaria. Hem identificat dos llinatges de notaris i oligarques: els Caix i els Moollà / Mollà, en ambdós casos es tracta d’antropotònims. Pel que fa als primers, els Caix, (també apareix la forma gràfica Cax) se’ls documenta per primera vegada a Cocentaina, a mitjan segle XIV: Domingo Caïx / Cax en 1346.9 Després els localitzem a Albaida, on apareixen en l’escassa documentació conservada de les darreres dècades del segle XIV. Podria tractar-se de refugiats al Regne de València ja en la segona meitat del segle XIV, fugint de la inestabilitat que provocarà als seus països la guerra dels Cent Anys. En les primeres dècades del XV desapareixen de la vila i fa l’efecte que emigren a Alzira o València.10 Caïx / Cayx és un castell situat en terme de Luség (Luzech en francés, departament d’Òlt i part del País de Caors (regió històrica d’Aquitània). El castell va ser pres i cremat per Simó de Montfort durant la croada albigesa.11 Bernat Caïx és un notari present a Albaida a finals del XIV i principis del XV. Hem documentat la seua activitat almenys entre 1403 i 1411.12 La seua residència a la vila ha estat provada, atés que entre les propietats que declara el prevere Jaume Serrador, d’Albaida, cap a 1420 apareix: «per l’ort e terra ab noguer e moreres que foren d’en Anthoni Dezcoll e aprés foren d’en Bernat Caïx, notari».13 Fa l’efecte que després residiria a Llutxent, on se’l documenta en 1415.14 Hi ha un altre, contemporani de l’anterior i a bon segur parent: Ramon Caïx. Podria tractar-se d’un descendent seu, atés que cap a 1420 continuaria viu i adquiriria algunes propietats.15 Pel que fa als Moollà / Mollà, es documenten a la vila d’Albaida a partir de 1298, Pere de Mollà16, encara que és més que probable que hagueren arribat a la vila prou abans. S’ha de relacionar amb l’antropotònim Molhac de la zona del Tarn i Garona (regió històrica de Guiana) i de manera prou més improbable amb l’homònim d’Aquitània. Entre els repobladors de Xàtiva documentats en 1248-1249 (Guinot 1999: II, 526) apareix amb la forma Mohoylhan (Philipus de) i Mohoylha / Mohoylhà (Thomasius de) a més de la forma Molian (Martinus de, AMC 1346-1347, f. 48r. En la primera meitat del segle XVI es documenta a Alzira (Olmos 1961: 745, perg. 6.556): Joan Caix i sa muller, d’Alzira, venen una propietat rústica a Jeroni Gibert el 19 de gener de 1531. Apareix a València encara en el segle XVII (Baixauli 2001: 53). 11 Tenim notícia d’altres orígens possibles: a la Barcelona del Tres-cents es documenta un Andreu del Caix, canviador originari de Siracusa (Sicília): (Mutgé 2004: 34 i 338). 12 S’hi cita un censal carregat a Albaida en 18 d’abril de 1403 i autoritzat per aquest notari: AMO, CJ 1439, 4ª mà d’execucions, f. 29r. La seua actitivat en 1411 està ben documentada: Arxiu Municipal d’Albaida (AMA endavant), Pergamins, àpoques, núm. 1: 1420, gener 2. Albaida. 13 AMA, Cappatró i llibre de cobrament de la peita c. 1395-1504, f. 47v . 14 AMO CJ 1426, f. 202. 15 AMA, Cappatró i llibre de cobrament de la peita c. 1395-1504, f. 36v, «un troç de vinya que comprà d’en Ramon Caix a la Coma d’en Vermell, atinent vinya d’en Guillem Alegre...». 16 ARV, Protocols notarials, 11.179, ff. 31v-32v. 1298, juny 15. Albaida. Consell general. Referència que he d’agrair a Luis Pablo Martínez. 9
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carnisser). A la ciutat de València es documenta la forma Moollà i Moollac (tot i que aquesta darrera sols una vegada) en les dues darreres dècades del segle XIII (Guinot 2008). S’ha de precisar que la forma gràfica Moollà serà la que ells mateixos faran servir fins ben entrat el segle XIV: en 1368 un d’ells encara signarà com Pere Moollà, notari. El primer dels individus documentats és Berenguer, notari qui apareix com Berenguer Moollà, exerceix com a lloctinent del Justícia en aquest exercici. A partir de 1363 documentem un altre notari, parent de l’anterior amb seguretat: Pere Moollà. Finalment, ja en el primer terç del XV documentem un tercer notari, qui farà servir el nom de fonts prototípic del llinatge: Bonastre documentat en 1412 i mort en 1420.17 El cognom apareix simplificat quasi sempre. Tot i això, quan són ells els propis redactors dels documents, sempre apareix en la seua forma primigènia, Moollà amb doble «o». Ho comprovem en una data tan tardana encara com 1368, en un pergamí de l’Arxiu Municipal d’Ontinyent18, on es fa esment d’un altre membre del llinatge, homònim del notari que redacta el document, i veí com ell mateix de la vila d’Albaida: «tros de vinya ab oliveres a les Fontanelles, franch, que afronta ab terra d’en Pere Moollà». El notari en qüestió signa el document així: «Senyal(signe notarial) de mi, Pere Moollà, notari públich per aucturitat real per tota la terra et senyoria del molt alt senyor rey d’Aragó qui açò scriq». Serà l’origen comú del que és a hores d’ara un dels noms de llinatge més estesos i comuns de la comarca, amb noms de fonts tan característics com ara Bonastre, l’ús del qual perdurarà encara en les darreres dècades del segle XV a Albaida i a Banyeres de Mariola. Un dels primers occitans documentats és Bru Arbret (sembla que es tracta d’un corrupció d’un antrotopònim de Gascunya: Albret) documentat ja en 1298, el nom de fonts del qual n’es ben eloqüent de la procedència. Quan tenim dades fiscals exhaustives, susceptibles de poderse explotar en atenció a una finalitat demogràfica19, observem que el percentatge de veïns amb noms de llinatge de procedència occitana al Palomar és en 1509 del 9,6 per cent, i en els cinc casos (sobre els 52 veïns) es tracta de membres del llinatge Mollà. La proporció és encara menor a Albaida: dels 256 veïns identificats en 1509 (llista completa) només set individus (tres Mollà, tres Durà i un Segura) a males penes un 3 per cent. El cas del notari Bertomeu de Montalbà, que exerceix a Albaida a continuació de Bernat Caix i dels Mollà, podria ser també occità. Es tracta de tota manera d’un antrotopònim d’atribució indistinta, aragonesa o occitana, tanmateix. Un altre nom de llinatge molt estés també per la comarca i ben especialment a la subcomarca del marquesat d’Albaida és Duran > Durà. Fa l’efecte que es tracta d’un llinatge d’origen narbonés en el cas d’Albaida. Una anotació als registres fiscals de la darrera dècada del XIV ens permetria apuntar-ho: «Pere Duran e Narbona (sic)», c. 1395, que sembla tractarse de la seua muller, na Narbona.20 AMO CJ 1413, f. 59r, censal carregat en 1408 autoritzat per Bonastre Mollà, notari d’Albaida. AMO, CJ 1416-1420, obligacions, 24-2-20. Miquel Torró, llaurador, i Agnés, sa muller, habitadors d’Agullent, tenien un deute pendent amb Caterina, vídua de Bonastre Mollà, notari d’Albaida. 18 AMO, Pergamins núm. 64, 1368, gener 20. Albaida, Partició dels béns de l’herència de Pere Vidal. Procedeix de les cobertes originals del protocol de Gracià Bodí, (1494-1499). Es tracta d’un original múltiple (carta partida per A B C), redactat en gòtica catalana. Restaurat en 2005. 19 Es tracta d’un llibre cobratori de la peita de 1509, servat a l’Arxiu Municipal d’Albaida. 20 Segons la delimitació d’una de les propietats esmentades en el testament de Francesc d’Exea (1404) seria «n’Arbona» (Casanova 2009). 17
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
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La resta d’individus identificats són: Berenguer Manda, batle d’Albaida (1314) que s’ha de relacionar amb la ciutat de Mende, capital del comtat de Gavaldà, al Llenguadoc històric. Joan de Fontés / Fontes, documentat en 1327, seria un cas idèntic al dels seus parents ontinyentins, d’on fa l’efecte que procedeix el cognom. Els altres casos exhumats fan referència al nom de llinatge Gasch / Gasc i Gaschó / Gascó, un gentilici. Fa l’efecte que apareixen indistintament i referits a la mateixa persona: Joan Gasc / Gasch o Gascó / Gaschó. Apareix documentat a finals del segle XIV com a veí d’Albaida. Després, durant uns anys exercirà de saig o corredor de la cort del justícia d’Albayda (1413-1417) i molt després, en 1432, apareix com a guarda del terme d’Agres.21 Un indici de la seua presència a la vila és l’esment d’una na Gascona, sogra de Pere Cesplugues, d’Agullent.22 El cognom apareix simultàniament a Llutxent, a la Pobla de Rugat (en l’actualitat del Duc) i a Bocairent, com ara veurem. Finalment esmentarem «Guillalme» Rellach, calderer, documentat a finals del segle XVI. Es tracta d’un antrotopònim relacionat amb la població de Relhac (Reilhac en francés) de l’Òlt, a la regió històrica del Carcin, Guiana.23
3. La vila de Llutxent i el lloc de Quatretonda Encara que l’onomàstica de la baronia de Llutxent (integrada per aquesta vila i el lloc de cristians de Quatretonda, la resta eren llocs poblats de sarraïns) era un tema inèdit fins ara, les recerques realitzades ens permeten de verificar la presència notable de noms de llinatge d’origen occità. En la periodització establerta hem documentat els següents: 1346-1401, Bramon, amb dos individus; Carcí, Gasch / Guasch i Gordó amb un cadascun, que suposen un 8 per cent del total (62 individus). En el període 1411-1458 només trobem Caïx i Mollà, representats per un sol individu, que suposa un discret 4 per cent del total (46 individus). El percentatge augmenta substancialment en el següent moment, 1464-1496: Gasch / Guasch amb cinc individus, Gascó amb tres i Caús, Mollà i Montpeller amb només un, que suposen un 10,8 per cent del total (una llista completa de 102 individus). En el període següent (1510-1527) només trobem un Gasch / Guasch en la relació de 67 veïns de què disposem.24 Les referències corresponents a Gascó: «ab terra d’en Johan Gaschó» c. 1395 AMA, cappatró de la peita, f. 47r ; Pel que fa a Gasc / Guasch: ibídem f. 45r, f. 47r i 56v c. 1395: «ab terra d’en Johan Gasch»; «vinya d’en Johan Gasch...» al Barranc Pregó; AMO CJ 1413 47r; AMO CJ 1416-1420, obligacions 1417; AMO CJ 1432, f. 190r. 22 Aquest declara cap a 1420: «Primo, hun troç de ort a la Badia, que ach de sa sogra na Gascona», AMA, cappatró de la peita, f. 30v. 23 AMA, llig. s/c corresponent a 1596, Procés del procurador fiscal de la vila y condat de Albayda contra Pere Rodova, alias murmur, del lloch de Atzeneta. 24 Elaborada en bona part a partir d’un consell general dels veïns de Llutxent (seixanta) i habitants de Quatretonda (vint-i-sis) per a l’elecció de síndic en 1525: Arxiu Municipal de Llutxent, Pergamins, núm. 1; 1525, febrer 26. Llutxent. Notícia d’aquest document proporcionada per l’amic Frederic Oriola, de Quatretonda. 21
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Pel que fa a Quatretonda només hem documentat el nom de llinatge Caus / Caús, en el període 1465-1497, amb dos individus que suposen un discret 6,6 per cent de la llista completa de 30 individus identificats en aquest moments. Segons les dades de què disposem, es verifica (salvades les limitacions de la documentació emprada i amb totes les precaucions que això suposa) la procedència d’alguns dels llinatges d’origen occità: la Pobla de Rugat (actual Pobla del Duc) en el cas de Gascó, el lloc d’el Palomar en el de Mollà. Es desconeix l’origen de Bramon però la seua presència esporàdica s’explica per ser el nom de llinatge del rector i d’un germà d’aquest. El nom de llinatge Caus / Caús, documentat a l’Olleria, a Llutxent i a Quatretonda, és ben interessant. Si es tractara d’un antropotònim l’hauríem de relacionar amb la ciutat occitana de Caús / Caüç (Cahus en francés) al departament d’Òlt (Òut en occità), proper a Caors. Podria correspondre també a una de les grafies antigues de Caors (Caus, Caurs o Cáurs) que hauria quedat fossilitzada des del moment de l’arribada a contrades valencianes.25 Comptat i debatut, als documents d’arxiu exhumats apareix gràficament com «Caus» (Guinot 1999: 596)26 i l’hem interpretat en un primer moment com Çaus / Saus (Terol 2010), per estar present aquest nom de llinatge a l’Olleria mateix, a Moixent (la Costera) i a Bufali a hores d’ara.
4. La resta de la comarca: Bocairent, Montaverner, l’Olleria i la Pobla del Duc A partir de les evidències contundents que acabem d’analitzar en el cas dels Moollà / Mollà a Albaida, podrem verificar la major incidència percentual de tota la comarca, i una de les majors de tot el país: Montaverner, xicotet lloc de cristians en terme de la ciutat de Xativa. En la llista de veïns del morabatí de 1421 apareixen 31 veïns dels quals set pertanyen al nom de llinatge Mollà, és a dir un 22,6 per cent. Segons el cens de 1510 onze dels quaranta veïns porten el nom de llinatge Mollà i dos el de Bordera, això ens indica un 32,5 per cent dels noms de llinatge d’origen occità. Bordera, documentat ja en 1314 a Biar (apareix «Domingo Bordera» com a jurat de Biar en 1314-1315: Arxiu Municipal de Cocentaina, CJ 1314, f. 136bis) és un antrotopònim relacionat amb la població de Bordèras (Bordères-sur-l’Échez, en francés) o Bordèras de Loron, al departament dels Alts Pirineus, a la Gascunya històrica. La realitat antroponímica de la resta de poblacions cristianes, que coneixem acceptablement a hores d’ara, divergeix dels casos esmentats i s’hi pot constatar una presència molt testimonial Tot i això podria estar relacionat amb els Caors / Cahorç (Ferrer de, Ferrarius de; carnisser) documentats a Xàtiva en 1248-1249, tot i que coincidiria amb un altre beneficiari de donacions a Morvedre (F. de Cahors): (Guinot 1999: 524 i 306). 26 Se l’interpreta com Caus, el plural del mot ben conegut referit, sobretot, al recer o amagatall d’animals. Es tracta de Francesc Caús, documentat en el moment de redacció inicial del registre fiscal més antic que es conserva a la comarca, un cappatró de la peita redactat en els anys finals del segle XIV (c. 1395) i els inicials del XV i anotat i esmenat fins a 1504, amb una llista cobratòria que serviria de registre auxiliar, f. 1v i 4r. 25
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quan no la pràctica absència d’individus de procedència occitana. La presència a la Pobla del Duc és testimonial. Només un nom de llinatge, un gentilici, Gascó, des de 1376. Apareix en aquest moment també Clarmunt, «Raymundus Clarmunt», que també ho podria ser, relacionada per tant amb alguna de les nombroses poblacions del territori històric dels dialectes occitans, encara que seria més probable que es referira al poblet del terme de Tremp, al Pallars Jussà, o a l’Anoia. Es documenten diversos individus del llinatge Gascó amb continuïtat fins a la primera meitat del segle XVI, quan desapareix de la vila: Iacobus Gaschó (1376), Guillem Gascó, jurat (1401), Joan Gascó (1427), na Dolça, muller d’en Johan Gascó, vehí de la Pobla de Rugat (1438) i Miquel Gascó (1476).27 El mateix cal dir de Bocairent, on el percentatge és ínfim: només es documenta aquest mateix llinatge (Gascó) en 1349-1359, en 1372-1386 i 1421.28 Pel que respecta als populosos llocs de cristians de la comarca situats dins el terme de la ciutat de Xàtiva, constatem la total absència a Benigànim. A l’Olleria, quan els documentem es tracta en ambdós casos d’aportacions de les poblacions veïnes, Albaida sobretot (cas dels Moollà / Mollà) i Ontinyent (Sabater). Es documenta també el nom de llinatge Bovet, esporàdicament. Tot i que correspondria a un antrotopònim d’origen català (Pallars Jussà), podria tractar-se també d’una derivació d’un sobrenom derivat d’un nom d’au, en aquest cas en llengua occitana. Els Sabater els trobem a l’Olleria a finals del segle XIV. Els Mollà mereixen un comentari a banda. Es documenten a Montaverner des del segle XIV, per proximitat a Albaida i el seu lloc del Palomar, fa l’efecte. A l’Olleria no apareixen fins 14951496, tot i que apareix ja al lloc dels Vint-i-cinc (actual terme municipal de l’Olleria) en 1432, encara que ja no torna a aparéixer després, i al lloc d’Atzueva, terme d’Albaida, en aquest moment, 1438 (Terol 2010). La procedència documentada és Albaida. A Ontinyent arriben procedents dels Vint-i-cinc i d’Albaida, via Agullent, cap a 1496. Hui és un dels més habituals a tota la comarca. En el cens de 1510 (Valldecabres 2002: 526-528) dels 126 veïns de l’Olleria, Mollà és el segon cognom en representació (amb nou veïns) junt a un Caús i un individu identificat com a gascó. Representen un 9 per cent del total dels veïns. Un apunt final: en 1569 es documenta Jeroni i Joan Gascó, germans, vidriers de l’Olleria.29 Es tracta, ara per ara, de la dada més antiga de l’especialitat manufacturera que serà característica de la vila encara en els nostres dies: el poble del vidre.
La dada de 1438: AMO CJ 1438, 1ª mà libri litium, tutelarum et curatorum et aliorum literarum exparsarum, f. 11r. Per a la resta, incloses les de 1376: ARV, Protocols núm. 1.772, Jaume Perera, 5-9-1376. Transcrit per Abel Soler (1999: 517-519). 28 Sobre 77 identificacions en el primer cas i 118 en el segon, segons les nostres pròpies recerques. Hem esmenat les inexactituds de les dades de 1359 ofertes per I. Gironés (1995). Les de 1421 en Guinot (1999: 589-593). 29 AMA, llig. 1570, llibre de cort del justícia 1570, 1ª mà judiciària del batle, s/f, 27-12-1569. 27
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5. Pervivència, desaparició i / o substitució dels antrotopònims occitans a la Vall d’Albaida (segles XIV-XV) Sorprén constatar que la majoria dels cognoms derivats de noms de llocs o antrotopònims occitans o d’origen occità desapareixen o, almenys, tenen una pervivència molt limitada, a penes dues o tres generacions. A banda de possibles raons d’índole demogràfic, com ara la desaparició de llinatges o la intensa mobilitat constatada en el període estudiat, s’imposa una explicació que s’ha de relacionar amb la variabilitat observada en la fixació dels noms de llinatge. En efecte, encara no s’ha produït l’estabilització definitiva i és molt habitual la pervivència de l’ús del nom del pare en detriment del nom de llinatge patern, amb la qual cosa els antrotopònims acaben transformant-se o esdevenint, de vegades, tan sols un sobrenom. Aquesta dinàmica explica algunes desaparicions sorprenents i quasi sobtades. Alguns cognoms s’han transformat o han passat a ser sobrenoms. Aquest és el cas protagonitzat per un emigrat del Bearn: el peraire mestre Vicent Andunys / Andunyes o Ondunyes, àlias Arnau, qui de vegades consta com «Vicent Arnau». Al remat serà el sobrenom l’element que quedarà com a nom de llinatge, en detriment de l’antrotopònim que feia referència a la localitat de procedència de son pare: Andonsh / Andonhs (en occità; en francés Andoins) en Gascunya. A la mort de son pare, mestre Arnau Andonys, sastre, adoptarà el patronímic en detriment de l’antrotopònim, el qual no deixava de resultar estrany, a bon segur per la major normalitat que facilitaria la seua integració en la comunitat d’acollida. El fenomen descrit ara mateix contrasta significativament amb la pervivència dels noms de llinatge occitans (entenga-s’hi antrotopònims) en la toponímia històrica, en algun cas fins al segle XVIII. Hi ha diversos exemples a Ontinyent: Carnassó, barranc i pont (encara present en el segle XVIII); barranc del Sabater (si està relacionat, com tot apunta, amb Narbonet Sabater, colon documentat en 1248); el Pla de Melís, documentat durant els segles XVIXVIII. Pel que fa a d’Orús, sembla que ha quedat també fixat en la toponímia, atés que denomina en l’actualitat una casa o mas, la ca Torús, construïda sobre una torre fortificada medieval i junt a una necròpolis islàmica. Es tracta d’un fenomen conegut i ben estudiat en altres àmbits. A la futura capital de la Vall d’Albaida hi ha altre casos: com la Montanyola (partida i masia), el Deuslosal (partida rural), la senda de la Luisma o la Costa-escantalina (partida), que corresponen tots ells a llinatges de les primeres generacions de pobladors: Deuslosal (1248), Montanyola (1295), Luisma (segles XIV i XV) i pel que fa al darrer, es tracta del nom antic de partida de la Costa, relacionat bé que molt alterat, amb el nom de llinatge documentat a l’Ontinyent del segle XIII, Senta Linea > Santa Linya.
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Joan Tort i Donada (Universitat de Barcelona)
Toponímia, paisatge i ús del medi. Un estudi de cas a la regió de Ribagorça (Catalunya-Aragó)1
1. Introducció La regió històrica de la Ribagorça, situada al vessant sud dels Pirineus i a cavall de Catalunya i Aragó, ha estat reconeguda com un àmbit del màxim interès des del punt de vista lingüístic i toponímic. El caràcter secularment aïllat del seu territori, emmarcat pels massissos més elevats de la serralada pirinenca, i el fet de ser, en múltiples sentits, un territori de frontera (concepte clau per explicar la realitat ribagorçana, tant històrica com actual) expliquen que fos presa en consideració per lingüistes, dialectòlegs i historiadors de les llengües romàniques des de moments molt primerencs. I que es pugui dir, des de la perspectiva d’avui, que ens trobem davant una de les regions muntanyenques de la Romània més estudiades, documentalment i sobre el terreny, des d’un inici, i que hagi donat lloc a aportacions, en alguns casos, d’una elevada significació. Amb la present comunicació ens proposem aprofitar una part del bagatge de recerques lingüístiques i, particularment, toponímiques, dutes a terme sobre aquest territori, per aproximar-nos al paisatge i a la geografia ribagorçanes. Partim de la base del gran potencial que presenta la Ribagorça des d’aquest punt de vista: dels valors, múltiples i contrastats, del seu patrimoni natural i cultural. I, a través d’una selecció àmplia dels seus topònims (triats en funció del seu grau d’expressivitat geogràfica i paisatgística), tractarem de posar en evidència la qüestió que, en el nostre estudi, creiem fonamental: el grau d’exactitud, de precisió i de concordança semàntica que, com a tendència general, assoleix la toponímia històrica ribagorçana a l’hora de reflectir la realitat bàsica del territori: sigui tant a una escala general com al nivell dels detalls més particulars i concrets.
La recerca en què es fonamenta aquest article ha estat duta a terme en el marc del Projecte de Recerca CSO2009-12225-C05-03, del Ministeri de Ciència i Innovació, i del Grup de Recerca Ambiental Mediterrània, reconegut per la Generalitat de Catalunya (2009-SG-1515).
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Joan Tort i Donada
2. La Ribagorça. Estudi d’un ‹paisatge toponímic› 2.1. Ribagorça, o Ripacurtia, «el territori de les riberes tallades» La nostra regió d’estudi queda definida, tant des del punt de vista històric com en la seva realitat territorial actual, per un topònim de dilatades arrels en el temps: Ribagorça, documentat Ripacurtia al segle XI. Aquest topònim, escrit en baix llatí, és un nom compost que consta de dues paraules de significat relativament transparent: «ripa» (riba en el català actual, que té aquí el sentit de «pendent escarpat format per un despreniment de terra constituïda per guixos o argiles»), i «curtia» (derivat de «curtus», tallat). Així, la hipòtesi acceptada pels lingüistes és que el significat etimològic del topònim és, aproximadament, «el territori de les riberes tallades».2 En qualsevol cas hem de subratllar, en relació amb aquest topònim, que percebem una plena correspondència entre el nom en qüestió i el seu «significat paisatgístic». Si s’ha de circumscriure en un simple enunciat, o fins i tot en un simple nom, la diversitat morfològica d’aquest domini geogràfic que estem analitzant, amb els seus gairebé 3000 km² d’extensió, haurem de reconèixer que el nom de Ribagorça (entès en el sentit etimològic de referència) és, sens dubte, el més adequat. Perquè dir «El territori de les riberes tallades», aplicant l’enunciat al conjunt de la regió ribagorçana, és probablement la manera de dir més, sobre la globalitat d’aquesta regió (i d’aquest paisatge), amb el menor nombre de paraules.3
2.2. Els principals orònims En ser la Ribagorça un territori essencialment muntanyós, els noms dels grans massissos i alineacions orogràfiques presents a la regió prenen un paper fonamental –com a «eixos lingüístics vertebradors» d’aquest particular paisatge toponímic. En el context de referència, tres grups d’orònims principals han estat objecte de la nostra atenció: al nord de la regió, un grup que s’inscriu de ple en el Pirineu axial: els massissos de la Maleïda (o la Maladeta), de Vallhiverna i de Besiberri. A l’oest, l’aïllat massís del Turbó. Al sud, la gran alineació del Montsec. I, finalment, a l’interior, separant el que seria una Ribagorça d’«alta muntanya» d’una Ribagorça de «muntanya mitjana», la serra del Cis i la serra de Sant Gervàs. En aquest sentit, OnoCat VI, 385-386. Cal notar, així mateix, la notable difusió del nom ribera, amb caràcter de topònim, a gran part de la conca de la Noguera Ribagorçana: Ribera, poble a la vall de Castanesa, Ribera de Vall, poble, i la Ribera, comarcada, al terme de Cornudella de Valira, La Ribereta, lloc del terme de Sapeira, etc. Un sentit més geomorfològic, en canvi, té el topònim Ribampiedro, a la vall de Boí, format sobre els noms RIPA i PETRA i que identifica un gran corriment de terres (ben perceptible, paisatgísticament) sobre el poble d’Erill la Vall (OnoCat VI, 386-387).
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La Maleïda, amb les seves diferents variants (Maleïdes, Maleïtes, Maladeta, etc.), és el nom que identifica el massís més elevat dels Pirineus (i que culmina en el pic d’Aneto, a 3404 m). Derivat del llatí MALEDICTA, participi de MALE DICERE, «maleir», fa referència a la condició de ‹muntanya proscrita› que va tenir popularment el massís, a causa del seva altitud i del seu aïllament (reforçat per la presència de glaceres en més d’un dels seus vessants), fins ben entrat el segle XVIII.4 Encara avui, malgrat la seva plena colonització pel turisme i les activitats de muntanya, La Maleïda-Maladeta segueix sent, per la seva envergadura i per la seva individualitat, el gran referent paisatgístic del nord de la Ribagorça (entre d’altres territoris). Un paper paisatgísticament secundari, però també rellevant, el tenen dos nuclis orogràfics relativament pròxims al primer. Vallhiverna, del llatí VALLIS HIBERNA («vall geliua»),5 va ser un nom inicialment aplicat a la vall i, més tard, estès a un dels grans ramals muntanyosos situats al sud de la Maleïda. A la mateixa latitud, però cap a l’est, a l’altre costat del riu Noguera Ribagorçana, se situa el massís de Besiberri, de similar altitud (per sobre dels 3000 m) i transcendència paisatgística. La interpretació etimològica d’aquest nom (de l’arrel basca baso-be erri, «paratge al peu dels cingles») suggereix, com en el cas de Vallhiverna, una aplicació inicial a la base del massís, més que a la muntanya en si mateixa (comportament toponímic que, d’altra banda, pot considerar-se plenament normal).6 A nivell de toponímia comparada, és interessant relacionar aquesta última construcció amb el nom d’una altra muntanya pròxima, Comalespada, el sentit del qual és idèntic encara que sobre la base de dos termes habituals del lèxic català actual («coma» i «espadat»).7 Cap a l’oest, una fita orogràfica i paisatgística fonamental del territori ribagorçà és el massís del Turbó. El nom, d’etimologia dubtosa, ha portat alguns lingüistes a relacionar-lo amb la formació de nuclis tempestuosos (o «torbonades», en expressió habitual a nivell local), possibilitat versemblant si es té en compte el caràcter prominent del massís i el seu aïllament respecte a la resta de grans muntanyes de la regió. Una rellevància paisatgística similar, i de major transcendència espacial, té per la seva part el Montsec, potent anticlinal que delimita la Ribagorça pel sud. El seu nom (documentat Montesico en 1044), que fa referència a l’ambient àrid i sec que el caracteritza8, és a parer nostre un clar exemple toponímic del principi de transparència. Finalment, el paisatge oronímic ribagorçà es completa, en els seus grans trets, amb els noms de dues grans estructures orogràfiques –disposades, com el Montsec, en forma d’anticlinal orientat d’oest a est–, inserides geològicament en el domini del Prepirineu, que vertebren l’interior de la regió. D’una banda, la serra de Sant Gervàs, serra a la qual dóna nom una antiga ermita, dedicada a Sant Gervàs i situada en el seu vessant sud, al costat d’una de les cabaneres –antic camí per al trànsit del bestiar– més importants de la Ribagorça. De l’altra, la serra del Cis, entre els cursos del riu Isàvena i la Noguera Ribagorçana; aquest topònim, derivat del llatí MONTE SCISSUM, «muntanya tallada»,9 resulta extraordinàriament expressiu de la morfologia general de l’anticlinal esmentat –que defineix substancialment el paisatge físic d’aquesta part de la regió. 6 7 8 9 4 5
Vegeu OnoCat V, 150-151 OnoCat VII, 431. OnoCat II, 488. OnoCat III, 415. OnoCat V, 381 OnoCat III, 376.
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2.3. Àmbits interns individualitzats L’existència d’uns eixos orogràfics que afecten el conjunt del territori ribagorçà i que, d’alguna manera, el compartimenten físicament afavoreix la conformació en el seu si d’un gran nombre d’àmbits interns dotats d’una gran individualitat. Per regla general, aquests àmbits –una vall marginal, un vessant de vall, una petita conca, un interfluvi– fonamenten la seva individualitat en el fet de tenir un topònim propi i específic, amb un gran arrelament en l’espai i en el temps. El seu paper és fonamental en la conformació del paisatge toponímic de la Ribagorça, ja que permet la identificació de cadascuna de les múltiples peces que dibuixen, en última instància, el mosaic de la regió. Són àmbits paisatgístics significatius les grans valls del nord, d’una gran rellevància històrica i dotades, en general, d’una personalitat (o diferenciació) geogràfica molt precisa. A l’extrem nord-oriental, la vall de Boí és un dels més connotats. El seu nom (que ja consta com a Valle Boinam abans de l’any 945, i que hem d’interpretar, versemblantment, com la «vall de les vaques»)10, fa referència a allò que podem considerar que és la riquesa tradicional del lloc: la ramaderia extensiva. Pròxima a aquesta vall, i coincidint amb la capçalera del riu Noguera Ribagorçana, la vall de Barravés, de configuració semblant a la de Boí, no ens permet unes correlacions toponímiques similars a causa de l’opacitat etimològica del nom.11 I una cosa equivalent podem dir d’una altra gran vall septentrional, en aquest cas la de Castanesa: l’al·lusió a uns hipotètics boscos de castanyers originals no es pot fundar ni en una raó etimològica clara12 ni en un testimoni actual prou significatiu d’aquesta espècie vegetal a la zona de referència. Al centre i sud de la nostra regió d’estudi (és a dir, en el que seria Ribagorça mitjana o baixa) la menor contundència física del relleu fa que els grans àmbits interns estiguin més desdibuixats. Cal esmentar, de tota manera, alguns àmbits que gaudeixen d’una identitat pròpia molt arrelada i que es corresponen, en tots els casos, amb uns determinats paisatges: en aquest sentit es destaquen, ocupant un dels dos vessants de la zona mitjana del curs de la Noguera Ribagorçana, la Ribera (o Ribera de Cornudella)13, la Terreta, nom derivat de «terra»,14 o la Feixa, topònim d’una gran expressivitat paisatgística, en el sentit de al·ludir a una configuració física molt concreta –que Coromines caracteritza com una «gran faixa rocosa o de terra a la falda d’una muntanya».15
OnoCat III, 45-46. Coromines apunta la possibilitat, molt versemblant, que Barravés sigui un nom d’origen antroponímic (OnoCat II, 355-358). 12 Vegeu OnoCat III, 304. 13 Ribera i riba, noms força equivalents, són denominacions habituals a tota la Ribagorça (vegeu l’epígraf 3.2.) 14 OnoCat VII, 266. 15 OnoCat IV, 204. 10 11
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2.4. Un relleu fragmentat i amb una gran diversitat de formes Hem tingut ocasió de subratllar, a l’inici de l’article, que la fragmentació del medi físic és un tret substancial del territori ribagorçà. Toponímicament, aquest tret té una manifestació constant, a escales diferents, i adopta una gran diversitat de formes (lingüístiques) en funció de la pròpia variació de les geoformes. En aquest epígraf tractarem de reflectir, sintèticament, aquest aspecte fonamental del paisatge toponímic de la Ribagorça. Trobem en alguns sectors de la Ribagorça occidental, a la franja de contacte entre la zona axial i les anomenades serres interiors del Prepirineu, unitats de relleu individualitzades i prominents, que es destaquen per l’amplitud de les seves formes arrodonides. Un exemple característic és el Corronco, sobre el poble de Durro, que arriba als 2543 m d’altitud. El topònim, d’arrel preromana segons Coromines, deriva del basc kunkur(r) i equival a la idea de «gepa»;16 podem interpretar-lo, per tant, com una metonímia d’un clar sentit paisatgístic. Sentit que es reprodueix en dos topònims d’estructura semblant, i relativament pròxims al primer: Corroncui, petit poble del vessant nord de la Serra de Sant Gervàs (de formes força arrodonides, a diferència del vessant sud), i Concurrell, antic mas situat al vessant est de la muntanya de Sant Cosme (de semblant perfil a les anteriors).17 En oposició a aquestes formes més arrodonides, detectem la identificació de formes de relleu més enèrgiques i contundents a través de dos topònims de notable transcendència en el paisatge local: d’una banda, Turmeda (nom derivat de torm o tormo, que en el català arcaic és sinònim de «roca»)18, i, de l’altra, el Codó (relacionat amb l’arrel llatina COS, COTIS, també equivalent a «roca», i que es troba a la base de nombrosos topònims catalans d’origen oronímic).19 Un lloc i un altre es troben en un dels paratges més accidentats de la conca mitjana de la Noguera Ribagorçana, a la capçalera de una de les valls afluents de la conca (àmbits en què, en general, la intensitat dels processos d’erosió és elevada). També els processos de carstificació han deixat una empremta important en el paisatge d’alguns sectors de la Ribagorça. Per exemple en la part oriental de la Terreta, a la vall mitjana de la Noguera Ribagorçana. Uns testimonis expressius d’aquests processos són els topònims Esplugafreda20 i Espluga de Serra:21 noms de sengles nuclis de població, formats sobre l’arrel comuna espluga (del llatí SPELUCA, «cavitat»), i que s’inscriuen en un marc paisatgístic marcat amb gran força per l’empremta del carst. És, de fet, el mateix entorn que envolta a la petita vila del Castellet: nom que interpretem com una al·lusió metafòrica als penyals que circumden el poble, de capritxoses formes esculpides per l’erosió. A un nivell de major detall, però en un pla de significació equivalent, anotem dos topònims (també al·lusius a nuclis de població) amb un origen presumiblement vinculat a les formes del terreny: Casterner de les Olles, a la vall de la Noguera Ribagorçana, i Casterner de Noals, a OnoCat III, 441-442. Concurrell, també de l’arrel kunkur però sense metàtesi i amb sufix derivatiu en català. (Ibid. nota anterior). 18 OnoCat VII, 305. La terminació -eda atorga a aquest topònim un sentit específicament col·lectiu. 19 OnoCat III, 455. 20 Esplugafreda, documentat Spluca Freta en 988. Etimològicament, l’arrel -freda pot interpretar-se procedent tant de FRETA («freda») com de FRACTA («trencada»). OnoCat IV, 132-134. 21 Antigament, ESPLUGA TRESSERRA (on tresserra equivalia a «darrere la serra»). OnoCat VII, 348. 16 17
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la de la Valira de Castanesa, afluent de l’anterior. En tots dos casos, l’etimologia de Casterner apunta a «castell negre»22, en referència al color fosc de la penya sobre la qual s’alcen les cases respectives (i, en el seu moment, el primitiu castell). Una correspondència similar, a nivell de «paisatge local», però amb més transcendència espacial, es dóna, finalment, en dos topònims amb un clar sentit oronímic que identifiquen dues destacades poblacions del sector mitjà de la Ribagorça oriental: Sopeira (documentat Supetra en 851), i Sapeira (illa Petra, en document de 979). En el primer cas, l’etimologia (del llatí SUB PETRA, «sota la roca»)23, està clarament en la direcció de la realitat geogràfica i paisatgística del lloc: literalment, al peu de la paret sud-oest de la serra de Sant Gervàs. El mateix es pot dir, encara que des d’una perspectiva diferent, de Sapeira –senzillament «la roca»24–, nucli, en aquest cas, situat sobre la mateixa cresta d’un petit anticlinal perpendicular a l’eix del riu Noguera Ribagorçana. Cal subratllar, així mateix, que al sector septentrional de la Ribagorça (és a dir, la zona axial) el glacialisme i els processos periglacials han tingut un paper geomorfològic i paisatgístic molt rellevant, i que eventualment aquests processos es troben a l’origen de determinats noms. Per exemple, els topònims compostos formats sobre l’arrel coma –derivada del llatí CUMBA, que apunta genuïnament a la idea de fondalada o depressió en medi muntanyenc. La vall de Boí, d’una manera particular, registra nombrosos exemples de topònims d’aquest tipus.25 Com a casos il·lustratius citarem Comallímpia (o Comallémpia), del llatí CUMBA LIMPIDA, «fondalada sense vegetació»;26 Comalesbienes, que Coromines relaciona amb l’arrel BENNA, suposadament cèltica, i amb un significat equivalent a «fondalada plena de pèlags»27, i, finalment, Comaloforno, nom que previsiblement va passar de designar un paratge situat a la part baixa d’un vessant muntanyós a identificar un dels cims més destacats de la regió.28 Un altre exemple en la línia exposada, i amb una notable transcendència espacial, és el de Llauset, que identifica una de les valls, d’origen glacial, més destacades de la capçalera de la Noguera Ribagorçana. Es tracta d’un nom que els lingüistes relacionen amb el terme local llau, derivat del llatí LABES, «despreniment de terres».29 A la pràctica, l’observació detallada dels dos vessants, especialment en la seva part alta i mitjana, permet detectar amb facilitat com l’empremta d’aquests processos perviu, de manera visible, en el perfil general de la vall. Sense sortir de la zona axial de la Ribagorça, cal afegir que, en ocasions, trobem en la pròpia toponímia el reflex d’una percepció clarament «negativa» d’aquest medi físic (o paisatge) tan abrupte i contundent: noms com Malavesina o riu Malo, paratge i rierol, respectivament, a l’alta vall de Boí, amb una al·lusió explícita a la idea de «cosa dolenta», en són un bon exemple.30 OnoCat III, 327-328. OnoCat VII, 159. Ibid. Vegeu, al respecte, Coromines TVB (en general) i OnoCat III, 414-417. OnoCat III, 415. Vegeu també la nota 9, respecte al topònim Comalespada. Ibid. OnoCat III, 415-416. Coromines es decanta per relacionar forno amb la idea d’«obertura», «fornícula» o «trau» a la carena de la muntanya, però ens sembla més lògic vincular el nom al caràcter profundament tancat, o encofurnat, del paratge. Vegeu també, respecte d’aquesta qüestió, l’entrada forn a OnoCat IV, 260-262. 29 OnoCat V, 45. 30 OnoCat II, 415 [Malavesina] i V, 158 [Riu Malo]. Significativament, a la primera entrada Coromines defineix el paratge com una «vall escarpadíssima, tota ella trencacolls i estimballs gegantescos». 24 25 26 27 28 22 23
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Completem aquest epígraf amb la menció de sis topònims que, encara que d’ubicació una mica dispersa, afegeixen elements d’anàlisi significatius al nostre estudi –en la mesura que aporten, des del pla de l’onomàstica, altres dades rellevants sobre el caràcter general del medi físic. D’una banda, al sector nord cal citar el petit poble de Bono (documentat Bonnobe en 978). Situat al peu dels estreps orientals de la serra de Ventolà, que s’alcen sobre el nucli en un desnivell de més de 1000 m, és un altre exemple de correspondència entre paisatge i nom del lloc –almenys, si ens atenim a l’explicació etimològica que l’interpreta com un topònim que té origen en l’arrel basca bono-be, equivalent a «sota la penya».31 A l’oest, l’esmentat nom de Ventolà és un altre interessant exemple de ‹marcador paisatgístic›, en el sentit d’al·ludir a un punt destacat del relleu, literalment, «exposat als vents».32 Cal destacar la presència, i amb una ubicació equiparable, d’un altre Ventolà a la Ribagorça, uns 20 km al sud de l’anterior, sobre la població del Pont de Suert. Així mateix, dins el terme municipal actual d’aquesta població, i sobre els contraforts més orientals de la serra de Sant Gervàs, trobem Pinyana. Documentat Pinnana el 1094, el nom deriva del llatí PINNA (que val per «penya» o «roca gran») i subratlla, en la seva essència, la condició genuïnament muntanyenca del paisatge físic on s’insereix.33 Un altre topònim amb un cert grau de recurrència oronímica i un significatiu contingut a nivell semàntic és el de Seix, que a la Ribagorça apareix sovint amb la forma Sas (amb o sense article, com Seix / el Seix). Es tracta d’un nom aplicat, en general, a sectors de interfluvi entre valls principals, generalment consistents en terrasses de sediments transportats pels rius i situats a una certa altura sobre el fons de la vall –de manera que conformen un tipus de paisatge localment extens, més aviat àrid i poc apte per al cultiu, que apareix amb freqüència a les valls laterals de la Ribagorça mitjana i baixa.34 Finalment, ens queda esmentar els noms d’Espills35 i Miralles,36 etimològicament al·lusius, en ambdós casos, a la idea de «mirador», i que s’apliquen a dos llocs (avui abandonats) situats en dos punts panoràmics en el sector mitjà de la vall de la Noguera Ribagorçana. Es tracta d’uns interessants exemples de menció d’unes bones condicions de visibilitat (en el sentit de disposar d’unes àmplies perspectives visuals) d’uns determinats emplaçaments, estratègicament adaptats a les estructures de relleu de la regió. 2.5. Un paisatge amb una forta empremta fluvial La Ribagorça, com hem tingut ocasió d’apuntar, és un territori en bona mesura construït pels rius i per la dinàmica geomorfològica fluvial.37 Aquest fet és especialment patent en la meitat OnoCat III, 73. OnoCat VII, 458. OnoCat VI, 229-231 OnoCat VII, 56-59. Parlem, en qualsevol cas, de topònims molt antics (el Seix del terme d’Orrit es documenta el 978), i més aviat opacs des del punt de vista etimològic (se’ls ha relacionat, en qualsevol cas, amb el llatí SAXUM, equivalent a «penya»). 35 OnoCat IV, 124. 36 OnoCat V, 283-284. Afirma Coromines, respecte de Miralles (nom freqüent a la toponimia històrica de Catalunya), que es tracta d’«un topònim de gènesi sempre orogràfica». 37 Vegeu, en relació amb aquesta idea, l’epígraf 3.2. 33 34 31 32
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oriental de la regió, vertebrada pel curs del riu que cal considerar clau, des del punt de vista geohistòric, en la conformació d’aquest territori: la Noguera Ribagorçana. Com a hidrònim, estem davant d’un nom d’interès doble. Noguera, d’una banda (documentat Nocaria el 848), s’interpreta com una forma arcaica que prové del llatí AMNIS NAUICARIA –derivat de NAVIS, «rai», és a dir, giny per al transport fet a base de troncs d’arbres– i que només es va aplicar als rius dels Pirineus que van registrar aquesta modalitat de transport fluvial.38 D’altra banda, el determinatiu Ribagorçana (valle Ripacurcana, 905) ens fa visible, d’una manera inequívoca, la relació d’identitat que s’ha donat entre el nom històric de la regió i el nom del seu riu principal. Cal anotar, amb caràcter complementari, que el principal afluent del riu que ens ocupa és identificat, també, amb l’arrel noguera. Es tracta del riu Noguera de Tor, també conegut com riu de Caldes, que recorre la vall de Boí i aflueix al curs principal prop de la població del Pont de Suert. A l’interior de la conca fluvial de la Noguera Ribagorçana, i al·ludint a afluents o cursos secundaris, trobem un altre hidrònim d’un gran interès: la Valira.39 Joan Coromines interpreta aquest nom com un hagiotopònim, és a dir, com una aplicació de la construcció AMNIS VALERIA (AMNIS, equivalent a «riu», i VALERIA, a una advocació religiosa formada a partir de la feminització de VALERIUS) a certs cursos fluvials, que es distingirien dels altres cursos (com ara torrents o rierols) pel fet de tenir un cabal d’aigua permanent.40 Un sentit més relacionat amb les formes fluvials que amb el propi riu tenen una sèrie de topònims, que anotem a continuació (tots ells, al nostre entendre, amb una rellevant transcendència paisatgística). Així, a la capçalera de la conca, el nom de Conangles (de conangulum, gir brusc en el curs del riu)41, molt relacionat amb el nom d’un paratge proper, Anglos (de angulos, aplicat en sentit tant orogràfic com hidrogràfic).42 Més endavant, és a dir, en una de les principals gorges del curs mitjà de la Noguera Ribagorçana, registrem un nom que constitueix un veritable ‹marcador paisatgístic›: Escales.43 Derivat del llatí SCALA, que segons Coromines tenia un sentit equivalent al de «graó o obstacle orogràfic», la seva aplicació toponímica (mitjançant diferents derivats) ha tingut, segons aquest lingüista, una difusió internacional.44 Aigües avall, un altre destacat topònim amb transcendència paisatgística és Areny (documentat Arinio en 823). Es tracta, segons el lingüista citat, d’un nom originat en OnoCat V, 469. En el cas de la Noguera Ribagorçana sembla ser que hi va haver històricament, de forma ocasional, cert ús dels rais. En el cas de la Noguera Pallaresa, aquesta modalitat de transport està àmpliament documentada. 39 El mapa comarcal de l’Alta Ribagorça a escala 1:50.000 l’enregistra en tres casos: la Valira de Castanesa (al terme de Montanui), la Valira de Cornudella (terme de Cornudella de Valira), i en la curiosa forma la Valiri (terme de Malpàs). 40 OnoCat VII, 395-397. 41 OnoCat III, 420. 42 OnoCat II, 195. 43 Encara que fora de la conca de la Noguera Ribagorçana, citem aquí un altre important topònim de la Ribagorça amb una genealogia equiparable a la d’Escales. Es tracta de Graus, població situada al costat del riu Éssera i al peu d’un destacat contrafort dels Pirineus. El nom, en aquest cas, deriva del llatí GRADO, que, entre altres termes, ha originat el català graó (OnoCat IV, 380). 44 Vegeu OnoCat IV, 90-91. Coromines esmenta, en aquesta entrada, interessants exemples toponímics derivats de SCALA, amb un sentit equiparable al d’Escales, a diferents indrets dels Alps. 38
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l’adjectiu llatí ARENEUS (en el llatí clàssic, ARENARIUS o ARENOSUS)45, que cal relacionar amb la presència, prop d’aquest nucli de població, de sorrals (o dipòsits de sorres) formats per la pròpia dinàmica fluvial de la Noguera Ribagorçana o els seus afluents. Finalment, al límit meridional de la regió, hem de citar un altre exemple molt notable de topònim (concretament, hidrònim) amb valor de «marcador paisatgístic»: Mont-rebei, aplicat a una altra de les grans gorges o congostos del riu (i, per extensió, al seu entorn més proper). En aquest cas, l’etimologia que s’ha proposat del nom (de MONTE RAPIDIU, rapidiu equivalent a «rabeig»)46 presenta unes innegables correspondències amb les característiques del riu –amb nombrosos rabeigs en un llarg tram, que la cua de l’embassament de Canelles va fer desaparèixer en tot aquest sector.
2.6. La toponímia en relació amb el procés històric de colonització del territori Un nombre molt significatiu de topònims ribagorçans no referits directament a elements del medi físic al·ludeix a aspectes, originaris o derivats, del procés històric de colonització del territori. Fins aquí, d’una manera indirecta, hem tingut ocasió de citar nombrosos exemples en aquesta línia, en desenvolupar els diferents camps temàtics de la nostra anàlisi. Sense anar més lluny, el topònim Boí, tractat en l’epígraf 2.3 (com un dels grans àmbits interns de la Ribagorça), és també una mostra singular de la forta empremta de l’activitat pastoral i ramadera a les terres altes de la regió. Ara, al llarg de l’epígraf, aportarem nous exemples toponímics que, amb caràcter puntual o amb una projecció extensiva, donen testimoni de les dues grans direccions en les quals cal entendre el procés de colonització: com a «apropiació» i com a «ús» del territori. Respecte a la primera idea (els topònims com a reflex d’una forma d’apropiació del territori) es podria citar els freqüents casos de denominació d’assentaments de població que inclouen el genèric castell o torre en el topònim.47 El fet que, històricament (i, d’una manera específica, durant els segles medievals), la Ribagorça s’hagi configurat clarament com un territori de frontera (Vilar 1964) es troba a la base del tret toponímic que acabem d’apuntar, i que és fàcilment perceptible per a qualsevol observador. Com a exemple paradigmàtic d’aquesta manera de denominar, en tot cas, creiem interessant citar el doble topònim Erill Castell-Erill la Vall. Fonamentats, tots dos noms, en l’antropònim Erill, d’origen basco-ibèric48, nom d’una de les famílies nobles medievals de major rellevància als territoris pirinencs de Ribagorça-Pallars, al·ludeixen, respectivament, a dos punts clau dels seus dominis (separats entre si més de deu quilòmetres): el primer, al castell o residència fortificada del senyor d’Erill; el segon, al lloc o enclavament (avui important nucli de població) situat al centre de la vall de Boí i punt neuràlgic, sens dubte, de les seves antigues possessions, atès el valor potencial de les pastures de la vall. OnoCat II, 230. OnoCat V, 375-376. 47 A banda dels topònims que citem al llarg de l’article, podem esmentar els casos de la Torre de Tamúrcia, la Torre de Amargós, la Torre del Senyor, Torrelaribera, Castellnou de Montsec o Sobrecastell, entre altres. 48 Segons Coromines, OnoCat IV, 82-83. 45 46
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Un altre cas de doble topònim amb un sentit semblant, i localitzat també a la vall de Boí, és el d’Estany de Monges-Estany de Cavallers. Es tracta de dos llacs d’origen glacial situats a la capçalera de la vall, el nom dels quals, d’acord amb la interpretació de Coromines, reflecteix també un vincle –en aquesta ocasió, antagònic– de propietat: eclesiàstica, en el primer cas (i en relació amb algun dels monestirs de la regió);49 senyorial civil, en el segon.50 Quant a la segona idea (els topònims com a reflex d’un ús determinat del territori), cal assenyalar que són molt nombrosos els exemples que poden citar-se en aquest sentit –sustentats en noms, sovint, de significat transparent, però, altres vegades, d’una gran opacitat etimològica. I que, normalment, apunten a una determinada modalitat d’ús, l’agropecuari, que pot considerar-se prevalent durant una seqüència de temps molt dilatada –i que, malgrat tot, ja no inclou l’època actual. Una sèrie de topònims que esdevé un testimoni històric significatiu del cultiu de la vinya al nord de la regió és la formada per Vinyal-Ardanui-Ardanué:51 tres nuclis de població separats amb prou feines 8 km entre si i situats gairebé a la mateixa latitud (encara que en valls i en altituds diferents), a la franja del que, en el context de la Ribagorça, es pot considerar ja com a alt Pirineu.52 Es tracta d’una dada interessant, a parer nostre, de cara al coneixement del límit històric del cultiu de plantes llenyoses (com la vinya i l’olivera) al vessant meridional dels Pirineus, sobre el qual alguns autors han fet aportacions rellevants al llarg de l’últim mig segle.53 De fet, pel que fa al procés de colonització del territori ribagorçà (o, en altres paraules, a la seva geografia històrica) creiem que aquesta trilogia de noms té veritable entitat de ‹marcador paisatgístic›. No lluny dels llocs que acabem d’esmentar, i al costat del curs de la Noguera Ribagorçana, trobem un altre punt d’alta significació respecte a l’ús històric del territori, Montanui. Coromines relaciona aquest nom, d’etimologia opaca, amb una arrel d’origen basc, mendinobe, que vindria a significar «lloc de descans per al bestiar».54 La veritat és que el paisatge de l’entorn de Montanui, en un eixamplament del fons de la vall i amb una àmplia presència de prats als voltants del poble, sembla donar un clar fonament a aquesta interpretació. Una mica més al sud, però al vessant oposat de la vall, un altre nom (de morfologia diferent, però d’interpretació etimològica concomitant), Gotarta, apunta a un assentament semblant al de Montanui però en un context no de «fons de vall» sinó de «falda de muntanya».55 OnoCat V, 320. OnoCat III, 344-345. 51 Vinyal és topònim d’etimologia transparent, a diferència d’Ardanui i Ardanué, que segons Coromines són noms d’origen preromà que remeten a l’arrel basca ardan, al·lusiva al cultiu de la vinya (OnoCat II, 224-225). 52 És significatiu assenyalar que Vinyal, el lloc situat més al nord dels tres, es troba en línia recta a menys de 15 km del pic d’Aneto, la muntanya de major altura dels Pirineus. Així mateix, el lloc es troba diversos quilòmetres aigües amunt de Vilaller, que és el punt de la vall de la Noguera Ribagorçana que els geòlegs assenyalen com a límit meridional del radi d’acció de la glacera que seguia aquesta vall a finals de l’era quaternària. 53 En particular, Salvador Llobet. También hi fa referència Lluís Solé i Sabarís a l’obra Los Pirineos. El medio y el hombre. 54 OnoCat V, 329. 55 OnoCat IV, 372-373. Coromines interpreta el nom Gotarta como «lloc de corrals», i el relaciona amb el basc gorta. 49 50
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Un tipus de referència lingüística similar, vehiculada a través d’un nom que, segons Coromines, encara era vigent com a nom comú a la zona pirinenca fa unes dècades, és la que correspon al topònim l’Estall (que identifica un lloc situat al vessant sud del Montsec, ja al límit meridional de la Ribagorça). Per a aquest autor, estall era un nom habitualment aplicat a la idea de «corral en zona de muntanya»56, i la seva gran difusió al Pirineu explica que hagi donat lloc a topònims tan singulars com Estanyofinestro, aplicat al vessant d’una muntanya situat per sobre del poble de Taüll i que, tot i l’aparença, no fa referència a un llac de muntanya sinó a un compost de Stallon Fenestron, que equivaldria aproximadament a «corral entre els prats de fenc».57 Que la al·lusió a l’ús agroramader del territori és un fet recurrent en la toponímia ribagorçana al llarg de la història ens ho prova la gran quantitat de topònims actuals, de significat transparent o gairebé transparent, que és possible detectar avui en tot aquest àmbit geogràfic a partir d’una lectura atenta de la cartografia o dels nomenclàtors existents. A tall d’exemple, citarem un sol cas: Pleta Verda, nom aplicat a una de les muntanyes de la serra de Lleràs, al sud-est de la Ribagorça i a la divisòria entre les conques de la Noguera Ribagorçana i la Noguera Pallaresa. Creiem significatiu que el nom, tot i tractar-se d’un orònim, tingui un origen semàntic vinculat a l’explotació ramadera –presumiblement relacionada amb el trànsit ancestral de ramats transhumants per moltes de les cadenes de muntanyes de la regió. En definitiva, una mostra explícita del tipus d’ús predominant que ha tingut, de forma intensiva i d’una manera persistent, una gran part de l’espai geogràfic ribagorçà.
3. Unes reflexions de síntesi Per les seves particulars condicions geogràfiques (regió natural situada al vessant meridional dels Pirineus, entre la zona axial i les serres exteriors del Prepirineu), històriques (el seu àmbit coincideix en gran mesura amb el del comtat medieval) i lingüístiques (en sentit sincrònic, per la confluència en aquest territori de les llengües catalana, aragonesa i castellana, en sentit diacrònic, per la rellevància, en la toponímia de la regió, dels substrats prellatins), la Ribagorça es configura com un «laboratori», a escala natural, idoni per a l’anàlisi proposada. El fet de poder comptar, en relació amb aquest àmbit, amb determinades eines d’estudi (com és, a nivell general, l’obra Onomasticon Cataloniae, de Joan Coromines, i, en els últims anys, amb els estudis locals de la col·lecció Toponimia de Ribagorza, dirigida per Xavier Terrado) facilita també les coses, d’una manera molt significativa, a l’investigador actual. La diversitat d’àmbits temàtics i la pluralitat d’escales (temporals i espacials) en les quals pot ser abordat l’estudi de la toponímia de la regió permet que, en una perspectiva de síntesi, puguem parlar de la Ribagorça com un sistema toponímic tendencialment complet, coherent i ben integrat, la vigència del qual, que en bona mesura respon al model de vida anterior al OnoCat IV, 145. OnoCat IV, 150. STALLON > estall hauria donat, per assimilació i per etimologia popular, «estany», mentre que FENESTRON dóna, per evolució normal, fenàs.
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Joan Tort i Donada
canvi rural esdevingut a la muntanya europea des de mitjan segle XX, deu molt al caràcter perifèric d’aquest territori (tant respecte a Catalunya com a Aragó) i al seu escàs grau de transformació física contemporània. Finalment, hem constatat les interessants possibilitats que ofereix a la Ribagorça l’estudi de la toponímia de detall, o «microtoponímia» (potser l’àmbit de la toponímia ribagorçana menys investigat fins ara); en concret, els casos d’aquest tipus analitzats en el nostre treball ens han permès detectar correspondències i interrelacions significatives amb topònims d’altres escales i nivells, i n’han esdevingut, en el pla general de l’estudi, un bon complement.
Bibliografia Coromines, Joan (1965 i 1970): Estudis de toponímia catalana, 2 vol. Barcelona: Barcino. — (1983): Toponímia de la vall de Boí (TBV). In: Butlletí Interior de la Societat d’Onomàstica 12, 1-20 i 14, 1-23. — (1979-1991): Diccionari etimològic i complementari de la llengua catalana (DECat). Barcelona: Curial Edicions / Caixa de Pensions, 9 vols. — (1989-1999): Onomasticon Cataloniae (OnoCat). Barcelona: Curial Edicions / Caixa de Pensions, 8 vols. Sancho, A. (2011): Canvi rural, transformació del paisatge i polítiques territorials a la Terreta (Ribagorça, Catalunya / Aragó). Tesi doctoral llegida a la Universitat de Barcelona el juny de 2011. Disponible a Internet [Tesis en xarxa]. Solé, Ll. (1964): La Ribagorça. In: Solé, Ll. (dir.): Geografia de Catalunya. Vol. II. Barcelona: Aedos, 55-92. Terrado, Xavier (2002): Els noms de lloc de la vall de Boí. Lleida: Pagès Editors. — (2010): La toponímia de la Ribagorça i el lèxic romànic. In: Creus, I. / Puig, M. / Veny, J. R. (a cura de): Actes del Quinzè Col·loqui Internacional de Llengua i Literatura Catalanes (Universitat de Lleida, 7-11 de setembre de 2009). Montserrat: Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 43-79. Tort, J. (2003): A propòsit de la relació entre toponímia i geografia: el principi de ‹significativitat territorial›. In: Casanova, Emili / Valero, L. R. (edd.): XXIX Col·loqui de la Societat d’Onomàstica (Teulada, 6-8 desembre 2002). Barcelona: Butlletí Interior de la Societat d’Onomàstica, 94-95, 675-688. — (2006): Els noms de lloc i el territori: la toponímia des de la geografia. In: Mallorquí, E. (ed.): Toponímia, paisatge i cultura del món rural. Girona: Associació d’Història Rural de les Comarques Gironines / Universitat de Girona. — (2007): Per a una interpretació geogràfica de l’obra etimològica de Joan Coromines. In: Casanova, Emili / Terrado, Xavier (edd.): Studia in honorem Joan Coromines. Lleida: Pagès Editors, 263-287. Vilar, P. (1964): Catalunya dins l’Espanya moderna. (4 vol.). Barcelona: Edicions 62. — (1979): Qüestions de toponímia. In: La divisió territorial de Catalunya. Selecció d’escrits de geografia, I. Barcelona: Curial Edicions, 289-330.
Toponímia, paisatge i ús del medi. Un estudi de cas a la regió de Ribagorça (Catalunya-Aragó)
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Annex Mapa de la regió històrica de la Ribagorça (sector oriental: conca de la Noguera Ribagorçana). Hi consten, amb número o amb lletra, la major part dels topònims analitzats a l’article.
Federico Vicario (Udine)
Lo Schedario onomastico di Giovanni Battista Corgnali
L’interesse per lo studio del lessico e dell’onomastica si coniugano di frequente in una stessa persona. Questo è stato anche il caso di Giovanni Battista Corgnali (1887-1956), una delle personalità di maggiore rilievo, senza dubbio, nel panorama della cultura friulana della prima metà del secolo scorso. Per tutta la vita egli si dedicò con competenza e fervore all’illustrazione dei più diversi aspetti della vita, della storia e della lingua del Friuli, ma rafforzò anche notevolmente il ruolo di ente di riferimento della cultura regionale che la Biblioteca Civica di Udine in quegli anni svolgeva e che continua tuttora a svolgere –fu direttore della Biblioteca, in particolare, per quasi trent’anni, dal 1924 al 1953. Fu membro attivo e autorevole della Società Filologica Friulana, della quale fu socio fondatore a Gorizia nel 1919, istituzione per la quale spese parte delle sue migliori energie. Condivise e sostenne, in primo luogo, l’impegnativo progetto di redazione dell’Atlante linguistico italiano (ALI), affidato al momento dell’avvio del lavoro al corregionale e amico Ugo Pellis, cui venne affidato l’incarico di rilevatore unico per la somministrazione dei questionari linguistici. Durante la seconda guerra mondiale dette riparo presso la Biblioteca Civica, per altro, ai preziosi materiali raccolti per l’Atlante; Corgnali si preoccupò anche di ordinare, almeno in parte, le schede dell’Atlante e fu lui stesso a consegnare i mazzi dei fascicoli originali nelle mani di Benvenuto Terracini dell’Università di Torino, che era succeduto al Bartoli nella direzione della poderosa impresa, impresa che si spera di vedere presto portata a termine. Per la stessa Società Filologica curò soprattutto la completa revisione dei materiali dello storico Vocabolario friulano di Jacopo Pirona, che esce come Nuovo Pirona nel 1935, lasciandoci però una miniera di dati e di informazioni, sotto forma di schede e di appunti, solo in parte utilizzate. Una piccola nota merita la redazione del Vocabolario friulano. Il primo dizionario friulano moderno vero e proprio si deve, nella seconda metà dell’Ottocento, all’opera dell’abate Jacopo Pirona, direttore del liceo classico e primo conservatore della Biblioteca Civica di Udine, che pubblica, dopo una serie di studi preparatori, questo suo pregevole Vocabolario friulano a Venezia nel 1871. Il Vocabolario uscì in realtà postumo, essendo morto l’abate Pirona l’anno prima, nel 1870; il volume fu pubblicato infatti da suo nipote Giulio Andrea Pirona, medico e naturalista, che proseguì con passione l’opera dello zio con la raccolta di ulteriori vocaboli e locuzioni. Grazie all’impulso che agli studi friulani diede la fondazione della Società Filologica Friulana, il lavoro dei due Pirona fu ripreso, completamente rivisto e ulteriormente ampliato da Ercole Carletti e, come detto, da Giovanni Battista Corgnali. Il primo si occupò, in particolare, della parte letteraria, con la citazione di autori e contesti, il secondo della parte documentaria, impreziosendo il repertorio, per altro, con due importanti appendici, una per i toponimi e una per gli antroponimi. Nel 1992 Giovanni Frau cura la stampa della seconda edizione del Nuovo Pirona, raccogliendo tutte le Aggiunte e le
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integrazioni uscite nel frattempo (circa 400 pagine), a consolidare la posizione di vocabolario friulano di riferimento che questo repertorio indubbiamente continua a detenere. Al di là della dedizione e della passione con le quali il Corgnali resse l’importante istituzione che gli era stata affidata, la Biblioteca Civica di Udine, doti unanimemente riconosciute, egli ci ha lasciato anche una produzione di saggi e di studi di tutto rispetto. I suoi studi più importanti, nel campo della filologia e della linguistica friulana, la produzione che in questa sede riveste per noi il maggiore interesse, sono stati adunati e ripresentati da Gaetano Perusini sul numero speciale del Ce fastu? per il 1965-1967, la rivista della Società Filologica Friulana cui il Corgnali regolarmente collaborò; la pubblicazione di questi lavori è corredata da una serie di indici analitici, che ne fanno apprezzare ancor più la ricchezza e l’importanza per la cultura regionale. Lelia Sereni (1965-1967a), che di Corgnali ha curato la bibliografia e che ha ricoperto la funzione di direttrice della Biblioteca di Udine dal 1962 al 1989, ci offre alla fine un elenco di 401 contributi, per la maggior parte brevi, pubblicati prevalentemente su riviste locali, tanto in italiano, quanto in friulano; i suoi titoli per la sola Società Filologica Friulana sono stati, in particolare, ben 108. La produzione scientifica e divulgativa di Giovanni Battista Corgnali, anche solo dal punto di vista quantitativo, risulta senza dubbio piuttosto ampia. Gianfranco D’Aronco (1963-1966: 335), presentando un profilo dell’uomo e dello studioso per l’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Udine, pur riconoscendogli numerose e notevoli benemerenze, rilevava tuttavia come «egli non ci diede una grossa opera, totalmente sua, cui affidare più che ad altre il suo nome». Se si prendono in esame le sole pubblicazioni questo può anche essere vero, nondimeno il grande lavoro di ricercatore e di studioso di Corgnali, e quindi il suo contributo al progresso degli studi friulani, è costituito anche, se non soprattutto, da ingenti raccolte di carte e di documenti –in buona parte inediti, riuniti ora in 21 buste presso la Biblioteca Civica– e, ancor più, da tre imponenti schedari manoscritti, conservati sempre presso la Biblioteca Civica. Le tre raccolte sono costituite, in particolare, dalle schede con gli appunti lessicali di completamento al Vocabolario friulano, cui ho fatto cenno, lo schedario toponomastico e quello onomastico. In questi schedari lo studioso raccolse e ordinò una mole veramente straordinaria di informazioni e di dati sulla storia, la lingua e la cultura friulana, un patrimonio che attende ancora di essere adeguatamente valorizzato. Ad onta della continua consultazione degli schedari di Corgnali da parte di una vasta utenza, soprattutto quello toponomastico e quello onomastico, si segnala, con vero rammarico, la scarsità di lavori che si preoccupino di descrivere e di rendere maggiormente fruibile, ma anche di valorizzare, questo enorme patrimonio manoscritto. Una descrizione dei materiali raccolti negli schedari, piuttosto sommaria, è offerta ancora da Lelia Sereni, sempre sul citato volume del 1965-1967 della rivista Ce fastu? In questa sede mi propongo di presentare, in particolare, alcune brevi considerazioni sulla raccolta dello Schedario onomastico. Lo Schedario onomastico –ma si potrebbe dire anche antroponimico, come fa Giovanni Frau, dal momento che contiene materiali che attengono agli appellativi personali, mentre è quello toponomastico che raccoglie notizie relative ai nomi di luogo– si compone, fisicamente, di 85 cassette di cartone della lunghezza di cm. 23,5, per un’altezza di cm. 7,00 e una larghezza di cm. 13,0. Le cassette si trovano in un grande armadio di legno nella sala attigua all’attuale Direzione della Biblioteca, sala occupata quasi interamente da scaffali con
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libri e riviste, ora di non agevole accesso a causa di lavori di ristrutturazione del palazzo. Le prime 74 cassette riguardano di norma i nomi maschili, la cassetta 75 raccoglie sia nomi maschili che femminili, e le cassette dalla 76 in poi di norma nomi femminili. Lo Schedario onomastico è stato, per altro, integralmente fotocopiato ancora da Giovanni Frau e si può consultare ora, rilegato in 20 volumi, anche presso il Dipartimento di Lingue e Letterature germaniche e romanze dell’Università degli Studi di Udine; qui si trova, allo stesso modo fotocopiato e rilegato, anche il ricco Schedario toponomastico. In ogni cassetta dovrebbero esserci, comunque, tra le 1.500 e le 2.000 schedine, di formato anche leggermente diverso, per un totale di circa 160.000 schedine. I materiali sono raccolti in ordine alfabetico con richiami stile ‹rubrica› per le voci di particolare importanza (si tratta delle voci che presentano le maggiori attestazioni, di solito, o un numero di varianti particolarmente notevole); vi sono anche indicazioni specifiche per i formanti. Nella cassetta 5, ad esempio, si segnala il formante -AU, con l’indicazione di cognomi o soprannomi come Masau, Pitau, Vau e altri, il formante -AZ, molto produttivo per tutta una serie di cognomi, e altri ancora. Sui suffissi formanti antroponimi, in particolare per le forme di femminile uscenti in -ùs / -ùz, piuttosto comuni in friulano (soprattutto antico), si segnala il breve contributo del Corgnali Onomastica friulana. Del diminutivo femminile in -ùs e in -ùz pubblicato ancora sulla rivista Ce fastu?, nel 1934. Il tipo di informazioni che Corgnali annota nelle schede riguardano in primo luogo le attestazioni di singoli elementi antroponimici tratti da documenti più o meno antichi, in latino e in volgare, soprattutto di area friulana, ma anche non friulana; a queste si aggiungono le notizie e le curiosità delle quali viene direttamente a conoscenza da informatori e studiosi locali. In alcune schede incolla ritagli di giornali o di libri, cita pubblicazioni, annota bibliografie. Molte schedine, semplici appunti o promemoria, sono costituite anche solamente dalle risposte che Corgnali forniva ai frequentatori della Biblioteca, che si rivolgevano direttamente a lui per ricevere informazioni sull’origine del loro nome o sulla provenienza geografica della loro famiglia. Piuttosto numerose e varie sono le fonti alle quali Corgnali attinge per formare la raccolta dello Schedario onomastico –anche se numerose sono le schedine, in realtà, che non riportano alcuna indicazione. Lelia Sereni (ms.), su incarico di Giovanni Frau, si è occupata di sciogliere, una decina di anni fa le sigle presenti nello Schedario onomastico, sigle che riguardano tutta una serie di manoscritti, soprattutto, e di opere a stampa. L’elenco della Sereni comprende per la precisione 103 sigle. L’operazione di sciogliere le sigle adoperate nello Schedario è risultata assai complessa, anche per una profonda conoscitrice delle frequentazioni documentarie e bibliografiche di Corgnali come Lelia Sereni. Difficile è stato soprattutto ricostruire gli spostamenti e verificare le collocazioni dei manoscritti più antichi, tanto della Biblioteca Civica che dell’Archivio di Stato, che sono appunto i fondi principali cui Corgnali attingeva, fondi interessati da successivi interventi di riordino e di condizionamento. Bisogna dire, in ogni caso, che queste 103 fonti non rappresentano che una parte delle fonti presenti nello Schedario, dal momento che più del doppio esse si sono rivelate ad una revisione, ancora non completa, dei materiali. Tra i manoscritti, si segnalano prima di tutto i cospicui fondi conservati presso la Biblioteca Civica di Udine. Sono citate, in particolare, carte di confraternite, atti di notai, registri canonici, fondi privati di famiglie, note di locazioni, sentenze processuali. Ancora numerosi
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sono i pezzi conservati all’Archivio di Stato di Udine: si tratta del fondo notarile antico, di fondi di famiglie private come il fondo di Toppo, il fondo de Portis, il fondo Savorgnan e molti altri. Per quanto riguarda le opere a stampa, numerose sono le raccolte e le edizioni di testi antichi –che comprendono quindi già esse in partenza una pluralità di fonti– come ad esempio il Thesaurus Ecclesiae Aquileiensis di Giuseppe Bianchi, il Codice Diplomatico Istriano di Pietro Kandler o il Diplomatarium Portusnaonense di Giuseppe Valentinelli. Tra le altre opere a stampa, di argomento onomastico e storico, Corgnali ricorre spesso al ben noto Das Land Görz und Gradisca del barone Carl von Czoernig –statistico e storico di grande levatura, che in questo volume raccoglie il frutto di pazienti ricerche negli archivi pubblici e privati del Friuli austriaco, nonché dell’esame della vasta bibliografia precedente– al secondo volume del Die sprache der Langobarden, cioè il Langobardisches Wörterbuch. Personennamen, di Wilhelm Bruckner, a La vita in Friuli. Usi, costumi e superstizioni popolari di Valentino Ostermann. Le 103 sigle riportate sulle schedine e sciolte dalla Sereni non esauriscono in ogni caso, come detto, le fonti dalle quali Corgnali ricavava i suoi spunti e registrava le sue note: di certo un aiuto a ricostruire l’insieme delle fonti di interesse potrebbe venire dal confronto con le altre raccolte, quella sulla toponomastica e quella sul lessico, che sono state realizzate negli stessi anni e con gli stessi criteri. Abbiamo detto, per altro, che parte delle note riflettevano indicazioni di più o meno occasionali informatori, e comunque numerose, se non numerosissime, sono le schedine prive dell’indicazione specifica della fonte –anche se non dubitiamo che Corgnali avrebbe saputo ricondurre tali appunti all’origine. Oltre alle schede compilate da Corgnali in prima persona, nello Schedario onomastico possiamo inoltre riconoscere almeno due importati raccolte di antroponimi in origine autonome. La prima è costituita dalle schede del conte Giovanni Battista della Porta, studioso vissuto tra la seconda metà dell’Otto e la prima metà del Novecento; la seconda è rappresentata dal vasto repertorio di schede su nomi, cognomi e soprannomi friulani promosso dalla Società Filologica Friulana. Le schedine di Giovanni Battista della Porta dovrebbero essere almeno 3.000, si presentano di formato leggermente inferiore e di colore più chiaro rispetto a quelle di Corgnali –e, direi, di consistenza anche leggermente superiore, come grammatura della carta– e riguardano lo spoglio di una nutrita serie di documenti friulani, in latino e in volgare, del XIV e del XV secolo. Si consideri, a questo proposito, che il della Porta fu studioso di vasta erudizione, cui dobbiamo alcune opere veramente ragguardevoli, come la Toponomastica storica della Città e del Comune di Udine, pubblicato una prima volta nel 1928 e ripubblicato con note nel 1991 dalla Società Filologica Friulana, ma poi anche gli inediti Index notariorum Patriae Fori Julii e Voci e cose del passato in Friuli, entrambe opere di grande valore conservate presso la nostra Biblioteca Civica. La seconda raccolta di schede confluita nello Schedario onomastico è, come detto, quella della Società Filologica Friulana. La Società Filologica promosse tra gli anni Venti e Trenta, con la determinante collaborazione dello stesso Corgnali, una serie di minuziosi lavori di raccolta e di schedatura dei cognomi e dei nomi, ma anche dei soprannomi, della regione friulana, lavori in parte pubblicati sulle riviste della Società. Molto lungo sarebbe rimandare a tutti questi lavori singolarmente e anche di dubbia utilità, direi, potendo ora disporre degli Indici delle pubblicazioni della Società stessa, usciti a cura di Lucio Peressi una prima volta nel 1974 e in seguito più volte aggiornati (siamo arrivati, ormai, al sesto supplemento, per gli anni 1997-2001, vd. Bibliografia). I contributi di interesse, per la disciplina, sono decine,
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infatti, e si possono individuare con facilità andando a consultare l’indice per soggetti sotto le seguenti voci: Antroponimia, Cognomi friulani e istriani, Onomastica, Onomastica slovena. Con piacere segnalo, nel presentare questa comunicazione, il progetto di revisione e di digitalizzazione su supporto elettronico di questo amplissimo repertorio, progetto avviato alla fine del 2009 dalla Biblioteca Civica di Udine a cura dello scrivente. Accedendo fin d’ora all’indirizzo www.bibliografiafriulana.it/corgnali si possono consultare le voci di onomastica personale già inserite e risalire alla bibliografia delle fonti consultate dal Corgnali. I dati sono in costante aggiornamento. Alla fine di novembre del 2010, ad un anno circa dall’avvio del progetto, sono stati inseriti e validati circa 4.000 lemmi, per altrettante schedine, ma soprattutto sono state individuate e controllate le fonti del repertorio, che sono al momento più di 300. Alcuni records, circa 200, richiedono, prima della validazione e quindi della pubblicazione in rete, un controllo di lettura della schedina o ancora lo scioglimento della sigla della fonte, tra quelle non riconosciute dalla Sereni. Accedendo al sito è possibile, quindi, interrogare lo Schedario onomastico per quanto riguarda gli antroponimi registrati nella raccolta e le fonti utilizzate. La scheda relativa al lemma ci indica il genere del nome (maschile / femminile) o l’eventuale segnalazione dei formanti, con il commento del Corgnali, se presente, e il legame alla fonte dalla quale è tratta la citazione. Passando alla scheda sulla fonte, si ottengono indicazioni sul tipo della fonte stessa (bibliografica / manoscritta) e l’elenco di tutti gli elementi presenti nel repertorio, già inseriti nel database, estratti da tale fonte. Lo scioglimento delle sigle bibliografiche rimanda all’autore del contributo a stampa, l’indicazione del titolo dell’articolo e la segnalazione di luogo di edizione, dell’editore e della data di pubblicazione. Il supporto informatico al repertorio, realizzato sulla base delle specifiche esigenze del progetto, è della CG Soluzioni Informatiche di Udine, una ditta specializzata in prodotti per le biblioteche, per i musei e per la gestioni dei beni culturali. Di interesse sempre onomastico, relativo al friulano antico (XIV e XV secolo), segnalo la possibilità del collegamento ad un altro sito attivo, il sito del Dizionario storico friulano, all’indirizzo www.dizionariofriulano.it, indirizzo presente sulla stessa homepage dello Schedario onomastico di Corgnali. Da questo sito, con l’interrogazione relativa alla sezione del lessico, si possono ottenere ulteriori informazioni sugli elementi antroponimici di interesse e attestati in manoscritti tardomedievali di area friulana. L’eredità di Giovanni Battista Corgnali nel campo dell’onomastica personale, prima di tutto, i suoi lavori e la grande mole dei materiali da lui raccolti costituiscono un patrimonio di straordinaria importanza per il progresso degli studi linguistici e storici del Friuli. Per quanto riguarda gli studi di antroponimia, non posso non segnalare che il Friuli ha partecipato con un suo autonomo centro di ricerca, del quale facevamo parte Giovanni Frau, Carla Marcato ed io, all’ambizioso progetto europeo Pat.Rom. (Patronymica Romanica), ben noto a tutti gli onomasti, un’indagine sull’antroponimia storica delle lingue romanze coordinata da Dieter Kremer dell’Università di Trier. Il monumentale Schedario onomastico di Giovanni Battista Corgnali, che ho cercato qui brevemente di presentare, ha costituito la fonte principale delle informazioni che hanno consentito la partecipazione di Udine e del Friuli a questa vasta impresa di ricerca. Con la digitalizzazione su supporto elettronico del repertorio, in realtà appena iniziata, speriamo di poter consentire a studiosi e ricercatori una migliore fruizione dei dati contenuti nello Schedario; questo potrebbe essere il primo passo per la formazione
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di una solida base sulla quale costruire un Dizionario storico dei nomi del Friuli, opera che manca ancora nel panorama, pur ricco, degli studi linguistici friulani, un’opera che pare tuttavia matura per essere pensata e avviata.
Bibliografia Bianchi, Giuseppe (ed.) (1847): Thesaurus Ecclesiae Aquileiensis. Udine: Trombetti-Murero. Bruckner, Wilhelm (1895): Die Sprache der Langobarden. Strassburg: Trübner. Corgnali, Giovanni Battista (1934): Onomastica friulana. Del diminutivo femminile in -ùs e in -ùz. In: Ce fastu? 14, 103-107. ― (1965-1967): Scritti e testi friulani (a cura di Gaetano Perusini). In: Ce fastu? 41-43, vii-x, 5-405. della Porta, Giovanni Battista (1901-1946): Index notariorum Patriae Fori Julii. Editio II. Ms. inedito conservato presso il Fondo Principale della Biblioteca Civica di Udine (ms. 3849). ― (1901-1946): Voci e cose del passato in Friuli. Ms. inedito conservato presso il Fondo Principale della Biblioteca Civica di Udine (ms. 2694). ― (1928): Toponomastica storica della città e del comune di Udine. Udine: Bosetti. Kandler, Pietro (ed.) (1878): Codice Diplomatico Istriano. Trieste: Lloyd Austriaco. Ostermann, Valentino (1894): La vita in Friuli. Usi, costumi e superstizioni popolari. Udine: Del Bianco. Peressi, Lucio (ed.) (1974): Mezzo secolo di cultura friulana. Indice delle pubblicazioni della Società Filologica Friulana (1919-1972) [e successivi Supplementi: nr. 1 (1975), nr. 2 (1980), nr. 3 (1986), nr. 4 (1991), nr. 5 (1998), nr. 6 (2004)]. Udine: Società Filologica Friulana. Pirona, Giulio Andrea / Carletti, Ercole / Corgnali, Giovanni Battista (1935): Il Nuovo Pirona, Vocabolario friulano (con aggiunte e correzioni riordinate da G. Frau, 21992). Udine: Società Filologica Friulana. Pirona, Jacopo (1871): Vocabolario friulano (a cura di Giulio Andrea Pirona). Venezia: Antonelli. Sereni, Lelia (s.d.): Sigle dello Schedario onomastico di G. B. Corgnali. Ms. inedito presso la Biblioteca Civica di Udine. ― (1965-1967a): Bibliografia di G. B. Corgnali. In: Ce fastu? 41-43, 20-32. ― (1965-1967b): Le schedine del ‹dotôr› Corgnali. In: Ce fastu? 41-43, 15-19. Valentinelli, Giuseppe (ed.) (1865): Diplomatarium Portusnaonense. Wien: Hof- und Staatsdruckerei. von Czoernig, Carl (1873): Das Land Görz und Gradisca (mit Einschluß von Aquileia). Wien: Braunmüller.
Secció 9 La pragmàtica de les llengües romàniques
Emilio Ridruejo (Universidad de Valladolid)
Presentación
El desarrollo en las últimas décadas de la pragmática lingüística exigía a los organizadores del Congreso de Valencia dedicar a esta parcela toda una sección de comunicaciones, tal como ya se había hecho en el Congreso de Innsbruck, aunque allí sin individualizarse plenamente. No obstante, esta decisión no carecía de riesgos teóricos y prácticos. La pragmática como disciplina lingüística que tiene sus raíces en la filosofía del lenguaje y que pretende, en gran medida, investigar las vinculaciones entre el código lingüístico y los componentes de la enunciación en que se ejecutan los mensajes, ha de centrarse fundamentalmente en atender a aspectos generales de la comunicación lingüística, con independencia de cada lengua concreta. Y de aquí nace inicialmente una cierta contradicción, pues en un congreso de Filología y Lingüística Románica han de ser los rasgos específicos de un conjunto de lenguas y sus realizaciones discursivas las que se constituyen como objeto de la investigación. En este marco, a pesar de la contradicción citada, los romanistas han presentado en el XXVI Congreso de Lingüística y Filología Románicas un conjunto muy rico de comunicaciones. Estas parten del hecho de que, incluso al indagar en componentes exteriores al código lingüístico, podían hallarse diferencias entre los hablantes de distintas lenguas, con lo cual se amplía el ámbito de la pragmática con la posibilidad de hallar diferencias interlingüísticas e interculturales. A los romanistas se les presenta, así, bien la oportunidad de encontrar peculiaridades pragmáticas propias del conjunto de las lenguas románicas, o bien rasgos pragmáticos contrastivos en las diferentes lenguas de este grupo. En una de las parcelas que cuenta con mayor desarrollo en la pragmática, la del estudio de los actos de habla, aunque su análisis tiene, o pretende tener, carácter universal y las condiciones de éxito o de fracaso de cada acto de habla no pueden quedar limitadas a ninguna lengua en particular, sí que cabe determinar para cada acto circunstancias y características que lo individualizan dentro de una tradición lingüística y cultural. También cabe investigar si inventarios diferentes de actos de habla que quedan vinculados a momentos concretos del desarrollo de una tradición cultural o incluso literaria. En esta línea, iniciada hace años por una gran romanista, B. Schlieben Lange, se inscriben algunan de las comunicaciones presentadas en el Congreso como la de A. Schrott sobre el consejo y su utilización como asunto literario medieval y la de Alfonzetti sobre los elogios en italiano. Igualmente parecen actuar de manera general los principios que, en el ámbito de la sociopragmática, regulan la cortesía en los intercambios verbales. Pero, aún con mayor claridad que en los actos de habla, hay en esos principios una marcada variación vinculada a cada lengua y a cada momento cultural. Sobre todo, hay que destacar las diferencias existentes en los instrumentos empleados, en cada momento y en cada lengua, para llevar a buen término esos principios básicos que regular los intercambios comunicativos, la ejecución de actos verbales arriesgados o el establecimiento del tipo de relación existe entre los interlocutores.
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En este campo, ya ampliamente explorado en la Romanística, se inscribe el estudio de la evolución de las formas de tratamiento en las lenguas románicas y los rasgos diferenciales que surgen entre unas y otras tal como lo presentan Del Rey Quesada, quien examina las fórmulas del cortesía en el siglo XVI, y Campo Hoyos, que investiga rasgos diferenciales en los tratamientos en el teatro francés del siglo XVII y en su adaptación española en el XVIII. En relación con la cortesía aplicada a un tipo especial de actos de habla, Muñoz revela su funcionamiento en los actos de petición en los procedimientos judiciales. En el mismo ámbito, pero desde un ángulo totalmente opuesto, Spampinato describe el insulto en textos medievales italianos. Una parte destacada de la competencia pragmática se hace patente en reglas que determinan el empleo de unidades gramaticales cuyo significado remite a los componentes de la enunciación y a sus circunstancias. La configuración de tales unidades es específica para cada sistema lingüístico, como también lo es la selección de unidades léxicas o gramaticales que se utilizan para la representación de diferentes funciones pragmáticas. Son varias las comunicaciones presentadas que recaen sobre esos elementos gramaticales utilizados en las lenguas románicas para la formulación de una extensa gama de funciones pragmáticas. Szantyka estudia en italiano y en francés cómo los demostrativos se emplean en la formulación de la proximidad o la distancia afectiva y psicológica. Hassler describe los procedimientos gramaticales, fundamentalmente también deícticos, que se utilizan en la construcción de un texto polifónico (un asunto que igualmente se trata en la aportación de Gonçalves). Skutta analiza los recursos que se emplean en francés en la referencia pronominal ambigua y cómo tal ambigüedad se resuelve o se mantiene para dar perfiles poco definidos en la narración literaria. En la comunicación de Rodríguez Ramallo se estudia la sintaxis de las conjunciones que y si en oraciones independientes. y se muestra cómo se utilizan en la expresión de algunas funciones pragmáticas, el énfasis , la repetición , etc. Hannemann, finalmente, describe los medios de reflejar la evidencialidad en la prensa periódica. El interfaz que vincula la pragmática con la gramática debería tener en nuestro Congreso una especial relevancia cuando se examina desde el punto de vista diacrónico. Y es que otra posibilidad de integrar la pragmática en la Romanística consiste en atender a la orientación diacrónica, que ha sido siempre dominante en esta disciplina. Por su origen histórico comparativo, la Lingüística Románica exige examinar la vinculación histórica entre las diferentes lenguas y dialectos del tronco románico y la de estas con el latín, de manera que la explicación de las divergencias reciba una justificación diacrónica. En este punto, la pragmática puede proporcionar un instrumento provechoso para dar cuenta de algunos cambios que han tenido lugar, bien en el conjunto de las lenguas románicas, o bien solo en algunas de ellas, a la vez que se abre una vía para justificar sus rasgos diferenciales. Y es que la pragmática, al tratar de las condiciones de la enunciación y de sus propiedades, puede contribuir de manera privilegiada a explicar los sentidos contextuales que están en la base de los cambios de las unidades significativas (incluyendo entre ellas las gramaticales). También, consiguientemente, puede la pragmática dar cuenta de los procesos de generalización de tales sentidos y de su independización de las condiciones en que surgen. En nuestro Congreso se presentaron comunicaciones de tipo histórico. Citemos la de Hoyos Hoyos que presenta cómo un rasgos sintáctico, la inserción de un verbo de lengua, puede ser utilizado en la configuración de un rasgo de tipo evidencial en la prosa
Secció 9 – Presentació
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medieval castellana. Las explicaciones de los cambios gramaticales que han tenido lugar en las lenguas románicas, su generalización y las diferencias que se producen entre ellas constituyen una parcela en la que se inscribe alguna contribución al congreso, como la de Garcés acerca del desarrollo de dos operadores conversacionales. Sin embargo, es esta una línea de investigación que todavía no ha sido demasiado explorada o que se vincula más con la gramática histórica que con la pragmática diacrónica. En todos los congresos, por muy extensos y abarcadores que sean, aparecen comunicaciones que resultan difíciles de integrar con claridad en alguna de las secciones previstas y los organizadores se las ven y se las desean, sobre todo, si son de calidad, para darles acogida. En el Congreso Lingüística y Filología Románicas de Valencia algunas de las comunicaciones que la organización ha propuesto para la sección de pragmática, solo encajan en ella considerando algunos aspectos periféricos. Por ejemplo, el proceso de adquisición de la lengua en entornos bilingües (con dos lenguas románicas) y los procesos de interferencia entre ellas, tal como los presenta Solías, es sin duda un asunto de gran interés, no solo para la lingüística general, sino también para la Romanística, pero solo puede ser asumido dentro del campo de la pragmática en cuanto que se examinan las complejas condiciones de la enunciación en las que se configura el proceso de aprendizaje. Por el contrario, la vertiente filológica, siempre presente en la Romanística, encuentra en algunas parcelas de la pragmática un instrumento adecuado para dar cuenta de la construcción de los textos. Así, esta disciplina permite la descipción ajustada de elementos gramaticales que ejercen funciones específicas en la construcción textual. De acuerdo con esta tarea, Costachescu examina algunos de esos elementos, las formas francesas avant y aprés, que alternan su sentido conceptual con funciones procedimentales para cuya interpretación es relevante el conocimiento enciclopédico y Resende plantea la estructura sintáctica --la relación entre nominalización y transitividad-- atendiendo a la naturaleza de las referencias. Otras nociones aportadas por la pragmática facilitan explicar rasgos textuales, en particular, los que dependen de la naturaleza o de la posición que asumen emisor y destinatario de los textos. Este posicionamiento de uno y otro ha sido estudiado por Molina en un tipo especial de texto, el publicitario, en el cual el autor ve un juego especular mediante con el que el emisor construye su imagen en función de los destinatarios. Ciertas características textuales se asocian al tipo de referencia tratada y a la naturaleza del texto, jurídico, científico, histórico, literario, etc. Las tradiciones discursivas, pero también las reglas sociopragmáticas vigentes para un determinado género en cada época, pueden ser aportadas en la descripción textual. Entre los elementos especiales de algunos tipos textuales, Citu examina el adagio y sus funciones en los textos legislativos franceses. Se puede ver que, en estas investigaciones, los límites entre pragmática y análisis del discurso no siempre aparecen nítidos y que algunas de las comunicaciones incluidas en esta sección recaen sobre asuntos que igualmente hubieran entrado con adecuación en un apartado dedicado al análisis del discurso. Una de estas parcelas intermedias es la que se refiere a los procedimientos retóricos, tautología, litotes, que suponen una aparente ruptura de una máxima conversacional, tal como lo estudia Abé, de una parte, y Adler, de otra. Otra materia fronteriza es la relativa a la organización de la información en el texto. Este asunto, de gran importancia, ha atraído la atención de varios romanistas: Garrido Medina estudia la relación entre la sintaxis y la estructura jerárquica de la información; Gililov examina igualmente
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la estructura informativa y muestra la relevancia que tienen en este proceso el orden de palabras, así como los factores suprasegmentales y Forsgren, quien plantea la existencia de varias estructuras informativas, las estudia en las oraciones temporales. Tampoco es fácil trazar la frontera entre pragmática y sociolingüística cuando se examinan, como hace Loureiro el discurso masculino y femenino en portugués, pues si la variación es de carácter social, en ella se reconocen diferencias pragmáticas en la elección de los asuntos tratados, en la carga de subjetividad y y en la emotividad. La pragmática tiene incluso una vertiente aplicada a la lexicografía. I. Penadés propone depurar las definiciones lexicográficas en varias lenguas románicas, definiciones que dependen excesivamente de los componentes pragmáticos. A estas alturas, y sin haber agotado el inventario de comunicaciones, el lector ya será consciente de la variedad y complejidad de los asuntos tratados en la sección de pragmática del XXVI Congreso de Lingüística y Filología Románicas. Y de lo que tampoco tendrá el lector duda es que la pragmática incorpora nuevos puntos de vista que permiten renovar el tratamiento de cuestiones tradicionales en la Romanística.
Hiroshi Abé (Université du Tôhoku)
A propos de l’hétérogénéité de la phrase contradictoire en français
1. Introduction Nous aimerions tenter une analyse de la phrase contradictoire du type ‹X n’est pas X›: Cet homme n’est pas un homme. Cette construction, qui consiste à nier à X la propriété X, n’énonce a priori qu’une absurdité. Mais l’existence de ce type de phrase est en elle-même une preuve qu’elle a bien sa raison d’être. Nous analyserons la construction contradictoire de ce type par rapport à l’hypothèse de la subjectivité. C’est Michel Bréal, un des fondateurs de la sémantique, qui a signalé, il y a plus de cent ans, l’existence du niveau subjectif dans le langage, niveau qui concerne le jugement du locuteur et qui sous-tend les phénomènes linguistiques. Par exemple, selon lui, ‹sans doute› dans (1) signifie que le locuteur estime très probable le fait que le voyageur soit déjà arrivé. Dans son prolongement, Emile Benveniste a insisté sur la fonction subjective dans le langage, comme l’indique (2). Au Japon également, il existe un linguiste, Motoki Tokieda, qui a distingué ‹JI› et ‹SHI›; les premiers sont des monèmes particuliers qui concernent spécialement la subjectivité du locuteur, par exemple ‹TABUN› (= probablement) dans (3). (1) le côté subjectif du langage … ‹A l’heure qu’il est, il (= le voyageur) est sans doute arrivé›, sans doute ne se rapporte pas au voyageur, mais à moi. (Bréal 1976 [1897]: 234-235) (2) Il (= le langage) est marqué si profondément par l’expression de la subjectivité qu’on se demande si, autrement construit, il pourrait encore fonctionner et s’appeler langage. Nous parlons bien du langage, et non pas seulement de langues particulières. Mais les faits des langues particulières, qui s’accordent, témoignent pour le langage. (Benveniste 1966: 261) (3)
TABUN (= probablement) KARE-HA (il-Nominatif) GAKUSEI (= étudiant) DA (= est). (= Il est probablement étudiant.)
Parmi les opérations subjectives, ‹la factualité› a particulièrement attiré l’intérêt des chercheurs. Les études sur la modalité se sont concentrées sur cette subjectivité. Mais nous aimerions signaler l’existence d’une autre subjectivité dont l’importance est comparable: la désirabilité. Celle-ci a été introduite par Akatsuka pour analyser des constructions hypothétiques. Selon elle, dans une construction hypothétique comme (4) et (5), on ne trouve que la paire ‹désirable – désirable›, ou la paire ‹indésirable – indésirable›.
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(4)
If you eat spinach [= DESIRABLE], you’ll be strong [= DESIRABLE]. (Akatsuka / Tsubomoto 1998: 17)
(5)
If you don’t eat spinach [= UNDESIRABLE], I’ll spank you [= UNDESIRABLE]. (ibid.)
Akatsuka propose, pour la notion de désirabilité, une paraphrase comme ‹I WANT IT TO HAPPEN / NOT TO HAPPEN› (Akatsuka 1997: 323; Akatsuka / Tsubomoto 1998: 16). Mais nous pensons que cette notion de désirabilité a bien plus de portée explicative qu’elle ne le suppose. Dans cette optique, nous présenterons pour cette subjectivité une définition plus large et plus simple : ‹Je trouve un fait énoncé désirable ou indésirable›. Nous pouvons analyser par exemple le mécanisme de la locution ‹qui plus est› à l’aide de cette notion (Abé 2006). Dans la construction ‹A qui plus est B›, de A à B, on voit augmenter la désirabilité ou l’indésirabilité, comme l’illustre (6). Si ce n’est pas le cas comme dans (7), la relation entre les deux phrases devient insolite. Il est donc à noter que la fonction de cette locution ne se limite pas à celle d’ajouter B à A, mais qu’elle indique en même temps qu’il existe, de A à B, une augmentation de désirabilité ou d’indésirabilité. (6)
(J’aime vivre dans une grande famille et j’aime aussi les chiens.) Après m’être mariée avec Paul, je peux vivre aussi avec ses parents. Qui plus est, avec leurs chiens.
(7)
(J’aime vivre dans une grande famille et je déteste les chiens.) Après m’être mariée avec Paul, je peux vivre aussi avec ses parents. # Qui plus est, avec leurs chiens.
De la même manière, nous croyons pouvoir expliquer le mécanisme de l’emploi ‹plus que›, comme on le voit dans (8) et (9) que nous avons trouvés dans des magazines français. Ici le marqueur comparatif ‹plus ~ que ~› ne concerne plus l’échelle quantitative ordinaire, mais plutôt celle de la désirabilité. (8) et (9) expriment l’idée que la désirabilité de cette montre ou de cette bière dépasse respectivement les autres articles du même genre. (8) [publicité pour une montre] Bien plus qu’une montre / Tissot, Innovation par Tradition (9)
[publicité pour une bière] (il s’agit d’une image de la tour Eiffel) C’est un peu plus qu’une antenne / (il s’agit d’une image de la bière) C’est un peu plus qu’une bière.
Or nous pensons que la subjectivité peut être exprimée non seulement par certains monèmes ou locutions mais par des constructions du type spécial. Dans cette optique, nous avons analysé la tautologie du type ‹X est X› (Abé 2009a; 2009b) et nous traiterons dans cet article la phrase contradictoire du type ‹X n’est pas X›, comme dans (10) - (12). (10) (Après avoir vécu quelques années dans un pays où tout semble être idéal pour le locuteur) Ce pays n’est pas (plus) un pays! C’est le paradis que j’ai tant espéré! (11) (Après un désastre) Ce pays n’est pas un pays! Tout est en désordre et les habitants sont prêts à l’abandonner. (12) (A propos d’un pays annexé à un autre à cause d’une défaite) Ce pays n’est pas (plus) un pays. Ce n’est qu’une province d’un autre.
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2. Études précédentes Pour ce qui est de la tautologie du type ‹X est X› qui a attiré l’attention des chercheurs, il existe des études de la part de la pragmatique radicale (Grice, Levinson etc.), de la sémantique (Wierzbicka, Schapira etc.), de la sémantique cognitive (Sakahara et Fujita) etc. A la construction contradictoire par contre, on a prêté jusqu’ici peu d’intérêt. Cela est dû peut-être au fait qu’elle est considérée comme un phénomène marginal ou extraordinaire. Mais il existe deux analyses intéressantes, que nous allons mentionner. D’une part, selon Sakahara (1993; 2002; 2008) qui s’appuie sur la sémantique du prototype (Taylor 2003 etc.), la tautologie du type différenciation comme dans (13) indique qu’il existe, à l’intérieur de la catégorie X, une sous-catégorie composée de membres dont le degré d’appartenance à la catégorie X est très élevé, tandis que le sujet X de la phrase contradictoire comme dans (14) se réfère au membre expulsé de cette sous-catégorie. Ainsi la tautologie (13) indique qu’il se trouve, à l’intérieur de la catégorie ‹chat›, une sous-catégorie se composant des ‹véritables chats›. En ce qui concerne (14), on souhaite dire que le chat dont il s’agit, tout en restant dans la catégorie ‹chat›, n’appartient pas à cette sous-catégorie ‹véritable chat›. (13) Un chat est un chat, seulement s’il attrape des souris. (14) Ce chat n’est pas un chat, parce qu’il n’attrape pas de souris.
D’autre part, Okubo (2002; 2003), s’inspirant de la théorie de l’argumentation élaborée par Oswald Ducrot, est d’avis que la phrase contradictoire constitue un argument en faveur d’une conclusion explicite ou implicite. Ainsi ‹Ce chat n’est pas un chat› dans (14) sert d’argument par exemple à une conclusion ‹Donc je n’élève pas ce chat›. La phrase copulative mise en négation ‹X n’est pas Y› signifie normalement que X n’a pas de propriété Y. Par exemple ‹Son fils n’est pas étudiant› consiste à dire que ‹son fils n’a pas de propriété d’être étudiant›. Mais, dans un énoncé contradictoire, le sens propositionnel semble ne pas fonctionner de la même manière ou il ne fonctionne pas du tout. C’est pour cela que les deux études recherchent le vrai sens de la phrase ailleurs que dans son aspect superficiel. Nous partageons nous-même ce point de vue. Car on n’arrive pas à expliquer le signifié de la construction contradictoire par la simple synthèse de ses composants.
3. Désirabilité Mais aucune de ces deux hypothèses ne peut expliquer l’orientation subjective, orientation soit positive ou soit négative, dont peut se revêtir la phrase contradictoire dans la plupart des cas. Ainsi, orientation positive comme dans (15) et (17), orientation négative comme dans (16) et (18). (15) (Après avoir vécu quelques années dans un pays où tout semble être idéal pour le locuteur) Ce pays n’est pas (plus) un pays! C’est le paradis que j’ai tant espéré! (= 10)
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(16) (Après un désastre) Ce pays n’est pas un pays! Tout est en désordre et les habitants sont prêts à l’abandonner. (= 11) (17) (A propos d’un robot doté d’une intelligence comparable à celle de l’homme) Ce robot n’est pas (plus) un robot! (18) (A propos d’un robot gravement abîmé) Ce robot n’est pas (plus) un robot! Il n’est qu’une masse de fer.
Ce fait se constate également dans les exemples authentiques comme dans (19) – (22). On voit que la même phrase contradictoire ‹l’école n’est plus une école› présente une orientation positive dans (19), une orientation négative dans (20). Concernant la phrase contradictoire ‹cet homme n’est pas un homme›, dans (21) et (22), on peut remarquer le même contraste. (19) Avec l’été vient la fête de l’Institut Notre-Dame. … Les bénévoles étaient nombreux à tenir des stands pour la joie des petits et des grands … Tout s’est bien passé et les enfants ont été charmés de cet après-midi où l’école n’est plus une école. (Google) (20) Je sais que la nécessité de l’école est développée ici. Mais c’est parce que l’école n’est plus une école mais un gardiennage de gosses, qu’on est arrivé à ces sentiments de délinquance, d’insécurité, d’irrespect ... (Google) (21) Cet homme n’est pas un homme, c’est un panthéon. Toutefois, il n’aimerait pas ce genre d’éloge, car il pensait simplement que nos belles valeurs devraient être un devoir… (Google) (22) Cet homme porte des traces de violence profondément enfouies en lui et il aurait fallu qu’il parvienne à les effacer mais il n’a pas mis les efforts nécessaires pour le faire. Cet homme n’est pas un homme. C’est un monstre. Je suis une femme, une mère et une grand-mère et je vous assure que c’est un drame qui me poignarde le coeur. (Google)
4. Valeur informationnelle Il est incontestable que, dans (15) et (16), ‹ce pays› reste bien dans la catégorie ‹pays›. De la même manière, dans (19) et (20), (21) et (22), ‹l’école› et ‹cet homme› se rangent bien dans la catégorie ‹école› et ‹homme› respectivement. Et cette information est bien partagée déjà avant l’énonciation par les interlocuteurs. Nous pouvons donc dire qu’ici le sens propositionnel n’a pas de valeur informationnelle. Or il est intéressant de comparer (17) (18) avec (23), (19) (20) avec (24). On comprendra que, malgré l’aspect identique, l’énoncé contradictoire dans (23) est de nature différente de celle de (17) (18) ; de la même manière, celui de (24) est différent de celui de (19) (20). (23) Vous ne vous trompez pas! Ce robot n’est pas un robot! Un homme est dedans.
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(24) (L’auteur commente une photographie) Voilà l’école où je suis allé de 6 à 10 ans... / Le bâtiment comprend l’unique classe, du cours préparatoire... / Une classique petite école de campagne, avec son préau, sa cour, le jardin de la maîtresse. / Juste derrière l’école, la ligne de chemin de fer Granville - Paris Monparnasse... / On voit à gauche le passage à niveau. / Anctoville-sur Bosq est un petit village d’une centaine d’habitants... / L’école n’est plus une école depuis longtemps... / La route était sinueuse et campagnarde.... Que de plaisirs et de jeux sur le chemin de l’école, que de bouquets cueillis, que de fossés, que de chemins sombres et inquiétants l’hiver... / Tout le long du chemin, deux kilomètres, un garçon, une fille s’ajoutait au groupe, on entendait des cris de joie et des bousculades, des rires, des chants... (Google)
Nous pouvons observer une différence parallèle entre (25) (26) d’une part et (27) d’autre part, (28) (29) d’une part et (30) d’autre part. (25) (A propos d’une étudiante dont la communication a obtenu une très bonne appréciation dans un congrès prestigieux) Cette étudiante n’est plus une étudiante! (26) (A propos d’une étudiante fainéante qui a déjà arrêté de travailler) Cette étudiante n’est plus une étudiante! (27) (A propos de celle qui vient de sortir de l’université mais dont on a trouvé, tout de même, le nom dans la liste) C’est bizarre. Cette étudiante n’est plus étudiante. (28) (A propos d’une maison pleine d’objets d’art) Cette maison n’est pas une maison! C’est un (vrai) musée! (29) Je me tiens tout seul. / Et cette maison n’est pas une maison. / C’est si triste de vous voir partir. (chanson, Jean égoïste) (30) ATTENTION! Cette maison n’est pas une…maison! / Une drôle d’idée qui me laisse perplexe. Depuis maintenant plusieurs décennies, Hydro Ontario (et d’autres compagnies électriques aux États-Unis) construisent des sous-stations électriques, des transformateurs électriques en fait qu’ils masquent en maisons normales. / Parce qu’évidemment, personne ne veut habiter à côté d’une sous-station électrique. Alors déguiser la sous-station permet d’avoir des transformateurs électriques en plein quartier résidentiel sans que personne ne s’en rende compte. (Google)
Par exemple pour (23), nous pouvons proposer la paraphrase ‹ce robot (= l’objet qui nous paraît un robot) n’est pas un robot (= n’a pas de propriété de robot)›. De la même manière, pour (24), ‹cette école (= le bâtiment qui a l’aspect d’une école) n’est plus une école (= n’a plus de fonction d’école)›, pour (27), ‹cette étudiante (= celle qui était étudiante ici) n’est plus étudiante (= n’a plus de statut d’étudiante ici)›. Il est donc à noter que ces phrases en apparence contradictoires ne sont pas en fait contradictoires, dans la mesure où elles ont bien des valeurs informationnelles à transmettre. Et en même temps, on remarquera que, dans ces phrases, il ne se trouve d’orientation ni positive ni négative. Par contre, dans le cas de la phrase contradictoire proprement dite, on n’a qu’une absurdité: à propos de X qui est authentiquement X, on dit qu’il n’est pas X. Et cette absurdité est bien reconnue par les interlocuteurs. Face à l’absence de valeur informationnelle de la phrase, on n’a d’autre choix que de rechercher une interprétation en dehors du sens propositionnel. Cela
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amène une intervention de la subjectivité et fait naître une orientation positive ou négative, jugement subjectif du locuteur. La phrase contradictoire arrive ainsi à signifier que le degré de désirabilité du X dont il s’agit est bien supérieur ou bien inférieur aux autres de la même catégorie. La phrase contradictoire n’est qu’un cadre vide de la phrase pour ainsi dire, mais par ce fait même elle peut servir à exprimer la subjectivité. Par rapport à cette hypothèse, nous pouvons signaler un phénomène comparable. Comparons par exemple (31) et (32), (33) et (34). Dans (31) et (33), l’information ‹il s’agit de musique› et ‹il s’agit de chien› est déjà bien partagée par les interlocuteurs, tandis que ce n’est pas le cas dans (32) et (34). Ici c’est toujours l’absence de valeur informationnelle qui donne une orientation positive dans (31), négative dans (33). Dans (32) et (34) qui ont tous les deux une valeur informationnelle, on n’a aucune de ces orientations subjectives. (31) (Etant ému par une certaine musique) Ça, c’est de la musique ! (32) (Le petit enfant demande à son père ce qu’est la musique. Et le père, en jouant de la guitare, lui dit:) Ça, c’est de la musique. (33) (Quand celui qui déteste les chiens voit un chien mordre une personne, il dit :) Ça, c’est bien les chiens … (34) (Celui qui voit un animal approcher) C’est un chien !
5. Conclusion La phrase contradictoire du type ‹X n’est pas X› a pour fonction d’exprimer la désirabilité ou l’indésirabilité, jugement subjectif du locuteur, à propos de X. Dire, à propos du X qui est authentiquement X, qu’il n’est pas X, ne constituerait qu’une absurdité. Mais c’est cette absence de valeur informationnelle qui permet une interprétation subjective. D’autre part, la même construction peut avoir, selon le cas, une valeur informationnelle. Dans ce cas, on n’a d’orientation ni positive ni négative. La fonction de la construction contradictoire se présente donc comme hétérogène. Le niveau subjectif, dont la désirabilité, reste immanent en principe, mais peut parfois apparaître à la surface. L’hypothèse de la subjectivité ainsi conçue peut rendre compte de bien des phénomènes linguistiques qui jusqu’ici restent dans l’obscurité.
Bibliographie Abé, Hiroshi (2006): A propos de la notion de désirabilité dans le langage. In: Junji Kawaguchi et al. (éds.): Cognition et émotion dans le langage. Tokyo: Keio University Center for Integrated Research on the Mind, 207-222.
A propos de l’hétérogénéité de la phrase contradictoire en français
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Silvia Adler (Université Bar llan)
Approximation, exactitude et figures rhétoriques
1. Introduction Nombreux sont les phénomènes linguistiques qui peuvent s’étudier sous l’angle des concepts de l’approximation (ou l’imprécision), d’une part, et de la précision ou l’exactitude, d’autre part (cf. Bat-Zeev / Adler / Asnes 2010). Citons, entre autres, les modifieurs de quantifieurs prépositionnels d’approximation autour de, aux environs de, près de, jusqu’à, au-delà de accompagnant un numéral (cf. Adler / Asnes 2004-2010); l’adverbe facilement (Vaguer 2010) + Num; l’adverbe exactement ou la combinaison plus exactement (Schapira 2010), illustrés dans les exemples (1-3). (1) Un verre de bière contient autour de 100 calories (Adler / Asnes 2010). (2) L’expérience dura facilement cinq à six secondes (Vaguer 2010). (3) Pierre a passé l’été au Maroc et / ou plus précisément / plus exactement à Marrakech (Schapira 2010).
On se propose, dans la présente étude, de revisiter les concepts de l’approximation et de l’exactitude pour y inclure les figures rhétoriques que sont la litote et la tautologie. Plus précisément, la litote sera prise comme un cas particulier du phénomène de l’approximation et la tautologie de type [Nomx = Nomx] comme un cas particulier du concept d’exactitude. Nous entendons par approximation un produit de l’imprécision et de l’exactitude, en ce sens que ce qui est approximatif dévie par rapport à une valeur vraie ou admise (cf. Adler / Asnes à paraître). Quant à l’exactitude, bien que la langue confonde souvent cette notion avec celle de précision, les sciences exactes lient cette dernière à une mesure de fidélité ou fiabilité, alors que l’exactitude se voit liée à la conformité des résultats à une valeur vraie ou admise ou, autrement dit, à la justesse des résultats. L’exactitude présuppose un accord entre les résultats obtenus et une valeur de référence préétablie considérée comme vraie. Malgré les différences conceptuelles entre approximation et exactitude et donc entre litote et tautologie, ces deux figures font appel à la compétence inférentielle du destinataire: en tant que figure d’approximation, la litote cède la charge du repérage du ‹vrai message› –c’est-à-dire du message décalé et intensifié– au destinataire. Dans le cas de la tautologie, le minimalisme formel du tour tautologique oblige le récepteur à ‹amplifier› le message, c’està-dire à sélectionner les traits susceptibles de valider l’assertion tautologique, en vue d’un résultat communicatif heureux.
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A première vue, tout ceci semble aller de pair avec une figure d’approximation, mais risque de devenir peu plausible avec une figure qui se veut d’exactitude. Si d’exactitude il s’agit, quelle sorte de travail interprétatif serait-il mis dans les mains du récepteur? En réalité, il n’y a pas collision. Le fait pour la tautologie d’asserter que Nomx est Nomx et, par là même, d’exclure toute possibilité d’une alternative légitime qui pourrait se substituer à Nomx, sert de signal au récepteur de se concentrer sur ‹toute la force du terme› et de ne sélectionner que les traits conformes avec une intention communicative visée. On procédera en trois temps: les deux sections qui suivent traitent (1) de la litote et (2) de la tautologie dans le but de mieux exposer les propriétés sémantico-pragmatiques qui soustendent l’emploi de chacune des deux stratégies discursives. La section 4 consolide le lien de chacune desdites figures avec le concept qui lui est approprié et expose en même temps que s’il est possible d’apprécier la vérité propositionnelle de la litote sur le plan des implicatures scalaires, comme l’ont déjà fait de nombreux auteurs, rien n’empêche d’appliquer la même logique dans l’analyse de la tautologie, c’est-à-dire de mesurer sa vérité propositionnelle selon le degré de possession d’une propriété donnée. Cette graduation étayera le lien entre litote et approximation, d’une part, et entre tautologie et exactitude, d’autre part.
2. La litote Selon certains chercheurs, la litote consiste grosso modo à asserter moins pour faire entendre davantage, suggérant ainsi un rapport entre litote et atténuation (cf. Anscombre / Ducrot 1983; Aquien / Molinié 1996; Fontanier 1977; Lilti 2004; Robrieux 1993). L’énoncé (4) pris au film The Blues Brothers pourrait illustrer cette sorte de litote: (4)
The boys look a little upset (les gars ont l’air un peu déçus).
Elwood, l’auteur de cette litote, prononce cet énoncé après que les membres du groupe réuni depuis peu par les frères découvrent une fois de trop qu’ils ne seront pas payés pour le show qu’ils viennent de donner. Est-ce une litote? Certes, c’en est une pour les spectateurs qui comparent le très haut degré de déception et d’indignité des membres du groupe à la description amoindrie faite par Elwood, autrement dit qui reconnaissent un décalage entre la véritable réaction des membres du groupe et le signifiant superficiel et trop affaibli de Elwood (ce qui produit de l’humour). Par ailleurs, étant donné le caractère imperturbable de chacun des frères, s’impose la question de savoir si, d’une part, le récepteur (Jake) identifie l’énoncé comme étant litotique, et si, d’autre part, l’émetteur désintensifie intentionnellement ses propos pour provoquer une certaine réaction chez le récepteur. Nous dirons que cet énoncé illustre davantage le caractère insouciant de chacun des frères. Pour parler de litote il faut donc que l’émetteur dise moins avec l’intention de signifier plus, et que le récepteur, à son tour, identifie cette intention et donc comprenne beaucoup plus de ce qui a été formellement prononcé. En termes de perlocution, la communication entre les frères s’avère donc être heureuse: ledit énoncé n’est pas perçu comme étant une figure litotique par Jake, mais il paraît qu’il n’était pas produit avec l’intention d’en être une par Elwood. Ce n’est que le
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spectateur qui reste frustré du fait que l’impact de cette description n’ait pas été retenu par le vrai destinataire du message (dans le cadre du film), mais en même temps il peut y voir un indice supplémentaire de la conduite nonchalante des frères. Au contraire, une vraie litote (intentionnelle, et perçue comme telle par le récepteur) est repérée dans le film britannique The Girl in the Café qui relate l’histoire d’un haut fonctionnaire au ministère des Finances, Lawrence, membre de la délégation britannique au Sommet du G8 de Reykjavik. Lawrence se fait accompagner au Sommet par Gina, une jeune femme qu’il a rencontrée dans un café. Sur place, Gina ne manque pas de ‹mettre la pagaille› parmi les pairs de Lawrence en dénonçant l’impotence des gouvernements face à l’extrême pauvreté de certaines régions du monde. Après avoir mis Lawrence dans un embarras qui lui a presque valu son poste, Gina demande si elle lui a causé trop d’ennuis, à quoi Lawrence répond, avec toute la retenue britannique typique, que la réaction de Gina était «un peu inattendue». Sous le parapluie de ce type ‹atténuant› de litote, on pourrait également inclure: 5. Il commence à m’énerver avec ses exigences!
où le but de l’action représentée par il commence à m’énerver est équivalent à sa plénitude («il m’énerve»), et peut-être même: 6.
«Ne t’avise pas de me manquer de parole, ou je te caresse le derrière à coups de botte. M. de Saint-Elme se retourna, prêt à gifler le malotru…».1
où caresse diminue le véritable degré d’intensité des réactions éprouvées par M. de Saint-Elme. D’autres chercheurs associent la litote non pas à l’utilisation de «downtoners» accompagnant le terme visé, ni à celle d’expressions amoindrissantes, mais à la négation et, plus particulièrement, à une double négation. Ainsi, Jespersen (1917), pour qui, dans la litote, une déclaration positive est exprimée au moyen d’une négation du contraire; Horn (1991) et son modèle duplex negatio affirmat; Bonhomme (2002: 16) qui parle de «litotes par inversion d’une orientation abaissante en orientation relevante»; Lachlan Mackenzie (2008: 78), pour qui «Litotes is defined as a rhetorical figure in which an affirmative intention is formulated and encoded by means of a double use of negative expressions».2 Cependant, selon certains chercheurs la litote ne se confine pas uniquement au modèle (¬¬E E), mais est déclenchée aussi par des «downtoners» ou «minimizers», cette fois ci, en combinaison avec un terme désignant le contraire du terme recherché. Ainsi, selon van der Wouden (1996: 145), est litotique une phrase contenant une négation forte (ne pas + adjectif négatif) comme dans (7), mais aussi l’énoncé 8 contenant un adverbe morphologiquement non négatif avec un adjectif négatif (c’est-à-dire désignant le contraire de l’orientation recherchée), étant donné que les deux contextes permettent un raisonnement qui exploite l’extension positive de l’échelle des valeurs établie par la prédication. 7. Il n’est pas inintelligent d’envisager l’informatisation d’un certain nombre de relations entre les gouvernés et l’Etat. 8. Il est difficilement inintelligent d’envisager l’informatisation d’un certain nombre de relations entre les gouvernés et l’Etat. Pris à http://www.scribd.com/doc/2386417/Lesclave-amoureuse. Cf. également Fontanier (1977); Hübler (1983); Robrieux (1993).
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Sous (9), sont regroupés d’autres échantillons à effet litotique, courants dans la littérature: 9.
–Va, je ne te hais point (Le Cid, Corneille). –Il n’est pas laid (= ne + être + pas + ‹non beau›). –Il est loin d’être un idiot / Il n’est pas complètement stupide / borné... –Vous n’étiez pas sans savoir que (/ vous n’ignoriez pas que) je travaillais sur le même sujet. –On ne peut ne pas tenir compte des fétiches dans le sport.
Qu’en est-il de ces énoncés? Devant un énoncé comme Cet étudiant n’est pas inintelligent, par exemple, il semble difficile de déterminer avec certitude la nature litotique de la séquence. La preuve en est le fait de pouvoir enchaîner par …mais il n’est pas intelligent non plus. Ceci est dû à la nature graduable de l’attribut.3 L’intentionalité du locuteur ainsi que la capacité pour le récepteur de reconnaître cette intentionalité s’avèrent donc cruciales pour repérer la litote, vu que celle-ci n’échappe pas à l’ambigüité locutoire (Bonhomme 2002: 16; van der Wouden 1996: 146). La composante pragmatique dans la thèse de Horn (1991), qui se fonde sur les maximes de Grice (1989), rend compte de tels usages: le fait d’utiliser une version marquée, et donc d’imposer au récepteur un effort supplémentaire dans le travail de décodage, est le signe que l’émetteur n’était pas en position d’utiliser de façon heureuse la version directe. La litote exploite donc une zone intermédiaire se trouvant entre l’adjectif graduable et son contraire et même une zone qui dépasse l’adjectif contraire (en ce sens que le contraire inféré peut luimême être gradué). Si nous optons pour la lecture litotique (et non littérale), nous verrons donc que dans le cas de la litote avec négation, un degré supérieur est toujours envisagé: ça peut être le pôle opposé dans l’échelle (inintelligent - intelligent), mais aussi une zone dépassant le pôle opposé (très/ extrêmement intelligent: graduation de la propriété scalaire opposée). Dans le cas de la litote sans négation (comme dans: un peu fâché, contenant un «downtoner»), un degré supérieur de l’adjectif graduable est envisagé (très fâché), mais la même polarité est préservée, en ce sens qu’une prédication contraire n’est pas inférable. Le prédicat modifié par un adverbe de degré diminuant représente –littéralement– un degré inférieur de la même qualité visée. Un troisième modèle de litotes étudié essentiellement par Lachlan Mackenzie (2008) est celui contentant manquer de ou faillir à la forme négative4 (cf. ex. 10): (10) –Cette loi n’a pas manqué de susciter des réactions un peu partout dans le pays. Pour ce qui est des adjectifs graduables, cf. Kennedy (1999); Palma (2006); Rivara (1993); Whittaker (2002): la négation des deux termes est possible, parce que le référent peut bien se trouver à un stade intermédiaire. Ces termes ne sont pas gouvernés par le principe du tiers exclu. C’est leur assertion simultanée qui pose des problèmes (cf. encore Giermak-Zielinska 2006). 4 Lachlan (2008) étudie la négation de fail to, comme dans I did not fail to reach the summit inférant la vérité de la complétive infinitive (I reached the summit). Ajoutons en passant que selon Lachlan Mackenzie, le verbe anglais fail a subi une grammaticalisation pour devenir une périphrase de négation (sous la forme de fail to). L’auteur impute la grammaticalisation du verbe fail à des facteurs pragmatiques ayant à voir avec des circonstances de «disappointed expectation» (Lachlan 2008: 81) (cf. encore Herslund 2003, pour faillir). 3
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Ces énoncés non seulement infèrent la vérité de la complétive infinitive (cf. Lachlan Mackenzie 2008), mais aussi ouvrent la voie à une appréciation subjective concernant le degré de performance de l’événement en question: Il n’a pas manqué d’atteindre ses objectifs il a atteint ses objectifs il a atteint ses objectifs + qualification: de façon satisfaisante, plus que satisfaisante / très bien… Résumons: Dans le cas de la litote, l’approximation résulte du fait que l’assertion n’est pas conforme à la valeur vraie ou admise. Cette valeur peut occuper différentes zones dans le pôle opposé dans le cas d’une litote contenant une négation (valeur opposée ou valeur opposée intensifiée), ou la même polarité dans le cas des litotes contenant des downtoners, mais une position en tout cas décalée par rapport à celle de l’assertion.
3. La tautologie Pour Fraser (1988); Frédéric (1981); Hayakawa (1964); Perelman / Olbrechts-Tyteca (1970); Rastier (1996); Rey-Debove (1978); Schapira (2000) et Wierzbicka (1987), la tautologie de type [Nomx = Nomx]5 n’illustre pas un cas d’échec conversationnel. A la base d’une pareille hypothèse réside l’idée qu’un prédicat, noyau informationnel de la proposition, doit apporter une information nouvelle à celle procurée par le sujet (Frédéric 1981; Rey-Debove 1978). De plus, le fait de transformer une expression thématique en rhématique est un signe pour le récepteur de réévaluer le tour tautologique.6 Selon Perelman / Olbrechts-Tyteca (1970: 292), l’identité des signifiants ne garantit pas celle des signifiés, et Riegel (2001) ajoute que ces tautologies s’ouvrent à des interprétations qui excèdent considérablement leur sens phrastique.7 Perelman / Olbrechts-Tyteca (1970: 292) appellent ce type de tautologie une tautologie apparente. Pour Rey-Debove (1978), c’est une tautologie formelle. Robrieux (1993: 116-117) parle d’«identité apparente, dans la mesure où le sujet et le prédicat ne renvoient pas exactement au même référent». Riegel (2001) parle d’«énoncés attributifs tautologiques». D’autres terminologies courantes: «tautologies symétriques» (Schapira 2000), «nominal tautologies» (Fraser 1988), «equative tautological utterances» (Ward / Hirschberg 1991), «deep tautologies» (Bulhof / Gimbel 2004). Comme pour la litote, d’autres formules sont considérées dans la littérature comme tautologiques dont, pour n’en donner qu’un exemple, Il y a justice et justice où, selon Beauzée (1767: II, 458) et plus récemment Rastier (1996: 146), les deux occurrences du même terme sont évaluées de façon contrastive. Cf. à ce propos Schapira (2000: 282-283) qui propose d’expliquer ce type de tautologies selon la théorie standard du prototype (Kleiber 1990). 6 Par exemple, selon Schapira (2000: 276), le mécanisme fonctionnel de ces tautologies attributives réside dans le fait que «tout en mettant en relation d’égalité des signifiants identiques, la phrase différencie les signifiés», et cette différenciation provient de la position même du segment identique, en tant que sujet ou attribut (voire, selon qu’il soit à la gauche ou à la droite de être). 7 Cela dit, Riegel avance à juste titre que le problème d’excédent interprétatif et des inférences n’est pas exclusif aux énoncés tautologiques, ce qui l’amène à la conclusion que le moteur des énoncés attributifs tautologiques est tout autre. Pour lui (2001: 143), ces énoncés «assertent analytiquement du référent de leur sujet […] qu’il est ce qu’il est, c’est-à-dire l’occurrence d’un concept […]. Telles quelles, ces phrases ne disent rien d’autre que la façon dont la langue nous permet de référer 5
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En ce qui concerne la nature de la différence entre le sujet et le prédicat en apparence identiques, il existe une grande variété de thèses. Frédéric (1981) ainsi que Rey-Debove (1978) parlent d’un processus d’addition de sens. Rastier (1996: 145-146) réplique que, par la même logique, rien n’empêche de plaider pour une réduction de sens: la seconde occurrence nominale dans la matrice [Nomx = Nomx] serait de nature plus sélective. Rastier soulève aussi le problème théorique qu’il y a à attribuer plus de poids à la seconde occurrence, sans mentionner le caractère problématique d’une explication fondée sur des exploitations connotatives: si connotation il y a tout de même, comment se fait-il qu’elle est absente dans l’utilisation de la première occurrence nominale? A part ce débat, la tautologie en suscite un autre, opposant cette fois-ci les partisans de la pragmatique radicale et ceux de la sémantique radicale: en ce qui concerne les premiers, la tautologie est une réalisation particulière des implicatures conversationnelles gricéennes et leur possibilité générale de traduction consolide leur caractère indépendant. L’interprétation de la tautologie dépend largement d’un processus inférentiel (Ward / Hirschberg 1991). Les partisans de la sémantique radicale, en revanche, avancent que les tatuologies sont spécifiques et non universelles et que leur traductibilité est loin d’être garantie (cf. Wierzbicka 1987). L’étude de cas spécifiques montre qu’il est difficile de déterminer si, dans la transition de la première occurrence à la seconde, il y a en effet addition ou réduction de sens, et pour ce qui est du débat sémantique/ pragmatique radicales, nous préférons adopter une position moins ‹radicale›.8 Bulhof / Gimbel (2004: 1004) suggèrent que le propos de la tautologie est de faire comprendre au destinataire que Nom ne signifie pas «à peu près Nom» mais Nom. Leur position fait écho à Ward / Hirschberg (1991), pour qui des énoncés alternatifs de type a est b ou quelques a sont b ne peuvent pas être retenus comme pertinents quand le locuteur produit a est a. Ceci va de pair avec la composante logique de la tautologie: sa véridicité provient du contenu, pas nécessairement des donnés factuelles susceptibles de la vérifier. Cela dit, étant donné son minimalisme formel, nous admettons que la tautologie doit s’apprécier aussi du point de vue de ce qu’elle communique. D’après Riegel (2001), l’«excédent interprétatif» n’est pas le «moteur» de la tautologie, mais il en découle, ce qui d’ailleurs caractérise d’autres schémas linguistiques. Autrement dit, la nature laconique de la matrice finit par ancrer le processus d’interprétation dans le déchiffrement des intentions de l’émetteur dans un contexte précis. Par la tautologie, l’énonciateur invite le récepteur à se fixer sur l’exact, mais c’est cette invitation à se fixer sur l’exact qui mène ensuite le récepteur à aller au-delà de la surface apparente pour découvrir ce que représenterait la valeur exacte aux yeux du locuteur (cf. 11): à des entités génériques ou particulières... en les présentant comme des occurrences de concepts. De ce point de vue, Une femme est une femme, Un sou est un sou […] ne sont que des instances particulières de la vérité ‹linguistique› Un N est un N (ou Un x est un x) et ne se distinguent donc pas des tautologies logiques […]. Mais comme ces énoncés ‹roulent› sur des termes lexicaux et non sur la catégorie abstraite à laquelle ils appartiennent, leur signification tautologique est exploitée discursivement pour attirer l’attention sur le contenu spécifique de ces termes et rappeler à quoi engage leur usage dans une expression référentielle». 8 Pour les arguments relatifs aux deux approches, cf. Bulhof / Gimbel (2004); Fraser (1988); Ward / Hirschberg (1991); Wierzbicka (1987).
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(11) «Un pot-de-vin est un pot-de-vin est un pot-de-vin. Les juges se doivent d’éteindre des incendies lorsqu’ils sont encore petits. Quand ils sont grands, on ne peut plus les contrôler» (la rubrique de Mordéchai Gilat dans le journal Israel Haiom - «Israël aujourd’hui» - 11.3.2009).
La tautologie à trois temps n’est pas courante en hébreu (à l’instar du français), mais le journaliste aurait prolongé le tour précisément pour faire signe que sa position reste intacte, même après avoir pris en compte tous les détours de l’affaire. Au centre de cette affaire, un médecin israélien célèbre qui a été condamné à 15 mois de prison pour avoir été soudoyé par un criminel. La somme qu’il a reçue était insignifiante. Compte tenu de la personnalité en question et du fait que le médecin a avoué avoir accepté le dessous-de-table parce qu’il avait peur du criminel, la conversation du jour s’est portée sur la légitimité d’un verdict aussi draconien. La tautologie vient consolider le fait que cette pratique n’a pas d’excuse et qu’aussi dérisoire la somme soit-elle, c’est toujours un acte illégitime. La répétition à trois temps nous rappelle que le référent n’évolue pas avec le temps, que ça reste ce que c’est: un pot-de-vin. Puisqu’il n’existe pas de degrés différents de crime qui soient moins tolérables que d’autres, on n’a pas le droit de se montrer tolérant. En quoi consiste alors l’«exactitude» de la tautologie? En ce qu’elle annule toute possibilité de gradation ou de décalage par rapport à la valeur conçue comme vraie. Ce qui est ramené à l’attention discursive est précisément la question de justesse d’une prédication particulière. Chacun des cas suivants fera ressortir davantage l’essentiel de la tautologie et un échantillon de la richesse des aspects sémantico-pragmatiques qui lui sont liés. (12) Une promesse est une promesse.
Pragmatiquement parlant, cet énoncé pourrait avoir une valeur impérative, en ce sens que le locuteur essaye de ramener le prometteur à l’accomplissement de ses engagements. Suivant la pragmatique de Austin (1962), une interprétation pareille suggère un décalage entre acte locutionnaire et acte illocutionnaire, sauf que s’il s’agit d’une requête, celle-ci est donnée de façon atténuée9, dans une formule qui insiste sur la justesse de la prédication et qui laisse inexprimée la conclusion rhétorique qui s’impose. Comme l’émetteur ne fait pas mention du cas particulier qui lui concerne, cela lui permet d’éviter toute confrontation directe avec le récepteur. De ce point de vue-là, l’on pourrait voir dans cette tautologie une stratégie de politesse. Blum-Kulka (1997: 50-51) suggère que dans la vie quotidienne, les usagers de la langue n’expriment pas leurs intentions de façon directe et que la violation des maximes de Grice devient la norme.10 Elle parle de stratégies de politesse négative où l’émetteur prend en considération l’opposition possible du récepteur et sa répugnance d’être forcé. C’est ce qui se passe dans le cas présent: l’émetteur demande de la coopération mais il prend en compte le fait préliminaire que la coopération pourrait ne pas être garantie. Le Voici donc un dénominateur commun entre tautologie et litote: les deux peuvent servir de stratégie d’atténuation. 10 Cf. aussi Goffman (1967), qui rend compte de la façon dont les gens négocient la «face» dans leurs interactions sociales; Brown et Levinson (1987), pour qui un ordre direct devient pour le récepteur un «face-threatening act»; Searle (1979) qui a aussi corrélé l’utilisation des actes de langage indirects avec la politesse; Grice (1975), bien sûr, qui avait reconnu que le respect des maximes pouvait contredire certaines règles de politesse. 9
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locuteur réduit au maximum la possibilité d’une imposition sur le récepteur en utilisant la forme de demande la moins personnelle, donnée sous forme d’une matrice générique. Le cas particulier, pertinent pour le récepteur, n’existe ici qu’au niveau des implicatures.11 (13) Une femme est une femme.
A nouveau, le facteur pragmatique joue un rôle prépondérant en ce sens qu’il y a un appel explicite au pouvoir interprétatif de l’interlocuteur pour déterminer, face à une situation donnée, quel ensemble de propriétés est à sélectionner et donc pour parvenir à l’argumentation visée: péjorative ou laudative (la femme comme objet de dédain ou d’admiration). Cet appel se fonde sur un savoir commun qui réside à la base de la communication (cf. Sperber / Wilson 1989), c’est-à-dire une série de prémisses qui mènent à un déchiffrement heureux des intentions communicatives.12 (14) Un but est un but.
Au football, il importe peu que le but soit brillant, poétiquement marqué, d’une vélocité exceptionnelle ou plutôt, comme dans le cas qui aurait sans doute engendré une réaction tautologique, un résultat disgracieux de coïncidence, chance ou opportunisme (plutôt qu’un produit de talent), du moment que le ballon a pénétré le but et il n’y a aucune loi ou sanction pour contredire ce fait, le but est un but, voire il est légal. En d’autres termes, on a l’impression qu’un énoncé pareil sera émis par quelqu’un qui essaie d’établir la légitimité d’un but spécifique ayant l’air douteux, en faisant appel à une matrice qui, logiquement parlant, est valide dans toute combinaison possible et donc qui ne peut pas être contredite. Une précision s’impose à ce stade-ci: on pourrait être porté à croire que le Nom de la tautologie est une occurrence prototypique de la classe, de par sa capacité de servir d’exemplaire de la classe de Noms dont il fait partie.13 Or, une tautologie pareille est De retour au débat pragmatique / sémantique radicales. Selon le modèle sémantique de Wierzbicka (1987: 108), une promesse est une promesse appartient à la catégorie des «tautologies d’obligation» et l’implication de cet énoncé est très différente de celle de Les promesses sont des promesses («pas plus qu’une promesse», «on ne peut pas se fier sur les promesses»). Cet exemple, à nos yeux, n’est pas à même de fragiliser l’importance du contexte dans le processus inférentiel: une promesse est une promesse dans une promesse est une promesse et / mais un contrat est un contrat suggère qu’une promesse n’est pas aussi impérative qu’un contrat. 12 Une étude plus détaillée devrait rendre compte de la différence existant entre (13) et Une mère est une mère, qui n’exploite que des propriétés positives susceptibles de valider la prédication, ou encore de la possibilité de ce dernier énoncé, à l’encontre de (13), de s’utiliser ironiquement, évoquant le contraire de ce qui aurait été reconstruit conventionnellement, par exemple dans un cas où l’on n’arrive pas à faire coïncider la mère en question avec un model prototypique de la catégorie de mères (Kleiber 1990). Ce serait intéressant également de considérer Une belle mère est une belle mère. Qui plus est, on devrait encore rendre compte des tautologies permettant des lectures particulières, à savoir dont le sujet référentiel ne renvoie pas à une classe virtuelle (Une mère est une mère), mais à une occurrence particulière (Maman est maman). Ici l’ironie paraît plus problématique. Un énoncé pareil sera sans doute utilisé afin d’évoquer de façon exacte toutes les propriétés qui font d’un individu ce qu’il est et de le distinguer de toute autre personne avec laquelle il pourrait potentiellement être comparé. 13 Pour une analyse de la tautologie ayant recours à la théorie du prototype, cf. Sakahara (1993). 11
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émise précisément en cas d’un référent qui risque de paraître douteux aux yeux de certains destinataires, donc loin d’être exemplaire. Ceci constituerait une raison pour écarter la tautologie du cadre de la théorie du prototype. En revanche, si l’on traite la tautologie en termes d’exactitude, d’annulation d’une graduation possible ou d’un flou définitoire (il n’y a pas ‹assez but› / ‹très but›, comme il n’y a pas d’ailleurs ‹plus / moins pot-de-vin›), on peut inférer faclilement: «si tous les termes de la définition de but sont respectés, ceci mène à la conclusion inévitable qu’un but est un but (le but est légal)». Un but exceptionnellement beau aurait sans doute engendré une réaction de type: Quel but! (avec ou sans adjectif explicite), étant donné que dans une situation pareille, ce qui pourrait être mis en doute n’est pas le but lui-même ou son droit d’être considéré comme tel (la possibilité d’intégration de l’occurrence à un ensemble contenant), mais plutôt sa caractérisation (propriétés concernant sa magnitude, vélocité, etc.). En d’autres termes, dans le cas d’un but incontestable, son statut et sa légitimité sont pris pour acquis, et l’on reste seulement avec la question de comment exactement déterminer son emplacement sur une échelle évaluative. Une autre réaction possible dans le cas d’un but réussi: Ce but est (définitivement, vraiment) un but! avec une première occurrence nominale spécifique, pour confirmer le mérite du but de porter son nom.
4. Litotes et tautologies: d’une perspective scalaire aux concepts d’approximation et d’exactitude En matière de graduation, la formule tautologique annule toute disponibilité de graduation ou d’alternance avec d’autres concepts proches, ou d’‹à peu près› potentiels. N est N enlève tout ce qui n’est pas exactement N dans une échelle de représentations, et enlève les ‹plus ou moins› N. La tautologie ferme l’échelle de représentation de sorte qu’il n’y a accès ni à des sous-ensembles ni à des ensembles sur-ordonnés. La formule litotique, en revanche, fait signe de ne pas enlever d’autres référents dans l’échelle de représentation. La litote établit une situation dans laquelle le référent est décalé par rapport à sa représentation énonciative, d’où l’idée d’imprécision ou d’approximation. Si l’on associe la litote à une sorte de ‹understatement›, comme le font plusieurs auteurs, ce décalage se concrétisera par un amoindrissement par rapport à un degré de référence. Dans le cas de la formule litotique avec négation, le décalage est d’autant plus apparent que la négation, de par sa nature, implique la prise en compte et l’évaluation des alternatives.14 Dans une approche pragmatique néo-gricéenne (entre autres, Horn 2009; Levinson 2000), il serait possible d’intégrer la litote dans les phénomènes «Q»15, en ce sens d’une formation d’«ensembles de contraste» ou d’«échelles de quantité». On sait que les termes scalaires créent une échelle informative ascendante en ce sens d’une inclusion des termes positionnés plus bas dans l’échelle par ceux positionnés plus haut dans l’échelle (mais non vice versa). Par exemple: un locuteur ayant choisi quelques-uns/ deux (termes moins informatifs que beaucoup/ trois, Ou, comme le suggère Hübler (1983: 32) en parlant de l’effet sémantiquement indéterminé de la négation: X is not h = X is a v b v c v d v e v f v g. 15 Faisant référence à la maxime de quantité de Grice (1989). 14
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respectivement, dans les échelles quelques-uns - beaucoup - la plupart - tous / un - deux trois - quatre) fait signe que le terme plus informatif (beaucoup / trois) est non applicable pour une situation donnée. Par contre, trois implique deux, comme d’ailleurs beaucoup implique quelques-uns du point de vue des implicatures scalaires. Mais ce qu’il y a de particulier à la litote c’est qu’un locuteur ayant par exemple prononcé un peu fâché (positionné plus bas dans l’échelle que très fâché), permet précisément d’inférer du ‹sous-ensemble› à ce qui pourrait être pris comme l’‹ensemble› ou, pour le dire autrement, permet d’inférer des ensembles sur-ordonnés également. Dans le cadre néo-gricéen donc, une affirmation affaiblie implique (quantitativement) que le locuteur n’était pas en position, épistémiquement parlant, d’asserter une valeur plus forte dans l’échelle établie. L’échelle donc est peut-être fermée sémantiquement (ce qui est asserté constitue un bord inférieur) mais c’est l’implicature quantificationnelle qui établit le bord supérieur. Donc, de même que You ate some of the cake (cf. Horn 2009) implique ‹some but not all› mais aussi, d’après un modèle duel basé sur le modèle Q («dire suffisamment») ‹some if not all›, être un peu fâché est un bord inférieur (‹un peu mais pas très fâché›) mais aussi implique (‹un peu et même très fâché›).
5. Conclusion Nous avons mis en jeu des outils tant sémantiques que pragmatiques dans notre représentation de mécanismes tautologiques et litotiques afin d’intégrer ces figures dans les domaines de l’approximation et de l’exactitude. En fait, il est possible de s’inspirer de la distinction faite par Hübler (1983: 70-74) entre adverbes de degré internes et externes –les premiers graduant la qualification prédicative elle-même (par exemple: enough, somewhat, hardly), les seconds graduant la validité de la prédication (par exemple: basically, technically)– pour établir la ligne de partage entre les deux figures rhétoriques que sont la litote et la tautologie. La litote affecte ainsi l’intensité de la prédication même; la tautologie porte sur la validité de la prédication.
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Giovanna Alfonzetti (Catania)
I complimenti in italiano. Riflessioni metapragmatiche
1. Introduzione Nella mia ricerca sui complimenti in italiano, si sono integrati due diversi approcci metodologici: il metodo sul campo, basato sull’osservazione di dati linguistici reali, e il cosiddetto armchair method (Jucker 2009: 1615), basato invece su riflessioni, opinioni e valutazioni dei parlanti elicitate tramite questionario. Nella prima fase della ricerca, è stato sottoposto ad analisi conversazionale un ampio corpus di parlato spontaneo registrato a Catania e a Roma. È così emerso il complesso funzionamento pragmatico delle sequenze complimento-risposta nella conversazione (cf. Alfonzetti 2009), insieme ad alcuni punti teorici problematici che nella seconda fase della ricerca, che qui si presenta, sono stati riconsiderati, sottoponendoli alla riflessione di un campione di 300 parlanti di diverso sesso, età e background sociocoulturale, provenienti dalle stesse due città in cui è stata svolta l’indagine sul campo. Al campione è stato somministrato un questionario che affronta tali questioni e cioè in particolare: a) le funzioni dei complimenti e il loro rapporto con la cortesia verbale; b) le norme sociolinguistiche che ne regolano lo scambio in termini di sesso, età, relazione di ruolo e status dei parlanti; frequenza e oggetto dei complimenti; d) l’estensione della catena di merito: se e sino a che punto valutazioni positive su luoghi, cose, oggetti, persone più o meno direttamente connesse al destinatario vengano da questi recepite come complimenti; e) i criteri per l’individuazione dei complimenti impliciti; f) il rapporto con il contesto conversazionale e situazionale; g) i fenomeni di modulazione; h) le risposte ai complimenti.
2. I complimenti e la cortesia verbale Il rapporto tra complimenti e cortesia verbale è stato trattato approfonditamente altrove (cf. Alfonzetti in stampa a). Qui ci si limiterà a osservare che nella competenza
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Giovanna Alfonzetti
metapragmatica del campione intervistato, delle principali concezioni teoriche dei complimenti –come: (i) atti che minacciano la faccia del destinatario (Brown / Levinson 1987); (ii) atti intrinsecamente cortesi (Leech 1983) e (iii) atti rituali fatti in conformità a precise norme socioculturali– prevale nettamente la seconda. Le risposte alle prime quattro domande del questionario, che qui riportiamo: (1) Perchè si fanno i complimenti? (2) Che cosa le suscita ricevere un complimento? (3) In quali situazioni si sente obbligato/a a fare un complimento? (4) In quali circostanze si aspetta di ricevere un complimento?
ci porgono soprattutto l’immagine dei complimenti come atti di cortesia positiva, nei quali si esprime ammirazione verso il destinatario con lo scopo principale di fargli piacere. E piacere è la reazione che la netta maggioranza dichiara di provare nel ricevere un complimento. Diffusa è pure l’idea che i complimenti vengano fatti perché alcune circostanze lo impongono o perché si vuole dare una buona immagine di sé e quindi per mostrarsi affabili e piacere al destinatario. Ciò conferma fondamentalmente quanto era emerso nella prima fase della ricerca basata sull’osservazione di dati linguistici reali: i complimenti sono atti multifunzionali, il cui scambio nell’interazione sociale può essere adeguatamente spiegato adottando un modello teorico che integri, anziché contrapporre, la concezione strategico-strumentale della cortesia e quella normativo-contrattuale.1 Un dato nuovo emerso in questa seconda fase della ricerca è la necessità di includere nella concettualizzazione della cortesia una componente di self-politeness, per controbilanciare la priorità solitamente accordata alla cortesia orientata verso il destinatario (intesa sia come esibizione di solidarietà che di deferenza nei suoi confronti), riconoscendo in tal modo l’esigenza del parlante di mostrare competenza, sicurezza e individualità nell’interazione sociale (Chen 2001: 104). Si spiegano così le risposte secondo cui, come si è detto, i complimenti verrebbero fatti soprattutto per piacere al destinatario più che per fargli piacere. Le motivazioni menzionate dagli intervistati sul perché si facciano i complimenti mostrano che la relazione tra cortesia orientata verso il destinatario (other-politeness) e quella orientata verso se stessi (selfpoliteness) costituisce un continuum (Chen 2001: 104), lungo il quale in molti casi è difficile tracciare una netta distinzione tra i due poli. Possiamo dunque considerare i complimenti face-sensitive acts (Ruhi 2006: 77-78) che, a seconda dell’ethos culturale prevalente in una determinata comunità e delle circostanze specifiche, vengono percepiti o come face-threatening acts o invece, molto più spesso, come face-enhancing acts, volti a rafforzare la faccia positiva soprattutto di chi li riceve ma anche di chi li fa. La necessità di un riavvicinamento tra la concezione di Brown / Levinson (1987) –secondo cui la cortesia consisterebbe nell’uso strumentale di certe strategie linguistiche per proteggere la faccia dei partecipanti– e quella di Ide (1989: 223) –centrata sul concetto di discernimento, inteso come «the speaker’s use of polite expressions according to social conventions»– è sottolineata, tra gli altri, da Lakoff / Ide (2005: 19), secondo le quali una teoria universale della cortesia «might require both (or aspects of both) to be applicable in some or all cultures».
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3. Contesto situazionale e conversazionale Tuttavia affinché il complimento sortisca l’effetto desiderato è fondamentale che sia sentito come spontaneo e disinteressato da chi lo riceve. Questo punto, già emerso nella prima fase della ricerca, trova conferma in alcune domande appositamente inserite nel questionario. 3.1. Contesto situazionale La prima di queste verte sul rapporto tra enunciato e contesto di situazione: agli intervistati viene chiesto se considerino un complimento le parole rivolte a una cliente mentre prova un vestito in un negozio, una prima volta dalla commessa, la seconda volta da un’altra cliente. Qui di seguito si riporta integralmente la quinta domanda del questionario: (5)
In quali di queste circostanze, secondo lei, la cliente riceve un complimento? a. (in un negozio, la commessa dice alla cliente che sta provando un vestito) Questo vestito le sta molto bene. Le mette in risalto il corpo b. (in un negozio una cliente dice a un’altra cliente che sta provando un vestito) Questo vestito le sta molto bene. Le mette in risalto il corpo.
Questo esempio è stato ripreso dal corpus di parlato spontaneo registrato nella prima fase della ricerca. In quell’occasione la signora aveva reagito in maniera radicalmentee diversa: ignorando del tutto la commessa, il cui elogio era stato probabilmente attribuito all’intento di spingerla a comprare l’abito; ringraziando, invece, l’altra cliente, le cui parole erano state evidentemente trattate come un complimento. Questa ipotesi, formulata sulla base dell’analisi conversazionale, trova piena conferma nelle risposte degli intervistati: solo il 20% considera un complimento le parole della commessa, mentre la percentuale sale all’80% nel caso in cui queste stesse parole vengono dette da una seconda cliente, perché il suo apprezzamento è ritenuto disinteressato. Una valutazione positiva rivolta al destinatario viene, dunque, recepita come un complimento o meno a seconda delle circostanze, del rapporto tra parlante e destinatario, dell’intenzione, degli scopi, delle aspettative dei partecipanti, ecc. 3.2. Contesto conversazionale (criterio sequenziale) Fondamentale è inoltre il contesto conversazionale. Nell’analisi del parlato spontaneo è emerso infatti che per individuare un complimento nella conversazione, oltre ai criteri formale e pragmatico-funzionale, è rilevante anche il criterio sequenziale (Alfonzetti 2009: 39-46): il complimento prototipico occorre, cioè, quando il parlante, avendo notato o saputo qualcosa per cui ritiene che il destinatario meriti di essere lodato, prende il turno autoselezionandosi e gli rivolge spontaneamente una valutazione positiva. Anche in questo caso la sola forma dell’enunciato non basta a determinarne il valore illocutorio, contrariamente a quanto presuppongono gli studi condotti con il metodo etnografico, che pur annotando
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gli enunciati subito dopo la loro occorrenza, li isolano da ciò che precede e segue, per ovvi limiti di memoria. Ora, un enunciato che dal punto di vista formale potrebbe sembrare un complimento se considerato isolatamente, non viene spesso trattato come tale –non è cioè seguito da una delle risposte che tipicamente si danno ai complimenti– quando è una mossa reattiva, cioè sollecitata in qualche modo dall’interlocutore per mezzo di: (a) un’autodenigrazione (b) una esplicita richiesta di opinione (c) o, più indirettamente, attirando l’attenzione sull’oggetto del potenziale complimento. Per verificare la validità di questa ipotesi sulla rilevanza del criterio sequenziale, formulata a partire dal comportamento osservato nella prima fase della ricerca, è stato chiesto agli intervistati di indicare in quali dei quattro casi previsti dalla domanda (6) del questionario si può dire che B abbia fatto un complimento ad A:2 (6)
In quali di questi casi B ha fatto un complimento ad A? a. (autodenigrazione) A: Oggi mi vedo una schifezza B: Ma no! stai benissimo! b. (richiesta di opinione) A: Come mi sta questo vestito? B: Ti sta benissimo c. (attirare l’attenzione sull’oggetto che si desidera venga apprezzato) A: Hai visto il mio nuovo taglio di capelli? B: Sì certo, è molto bello. Ti sta bene. d. (mossa iniziale non sollecitata) B incontra per strada A e le dice: B: Hai un vestito bellissimo!
Com’era prevedibile, l’ultima circostanza, in cui la valutazione positiva non è sollecitata in alcun modo, viene scelta dalla netta maggioranza degli intervistati (75%), mentre le altre tre da analoghe percentuali leggermente inferiori al 50% , per la precisione: a. dal 45%; b. dal 49%; c. dal 44%. Questi dati confermano quindi la rilevanza del criterio sequenziale anche per gli stessi protagonisti della comunicazione, oltre che per l’analista: quanto più spontaneamente una valutazione positiva viene rivolta all’interlocutore, tanto più è probabile che questi la recepisca come complimento.
Si noti che le etichettature delle diverse circostanze (autodenigrazione, ecc.), qui messe tra parentesi, nel questionario sottoposto agli intervistati non figurano affatto per non condizionarne la risposta.
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4. Modulazione dei complimenti Lo stesso accade quando le espressioni di apprezzamento che il parlante rivolge al destinatario vengono intensificate. L’analisi del parlato spontaneo mostra una netta tendenza verso il rafforzamento del complimento ai diversi livelli linguistici e non linguistici, caratterizzati dalla ridondanza di segnali emotivi di vario genere: i complimenti sono spesso formulati sorridendo, con tonalità della voce ed espressioni del volto amichevoli e affettuose, con sguardi diretti, intensi e prolungati; frequenti sono i fenomeni prosodici di allungamento fonologico e innalzamento o abbassamento del volume della voce (sussurrare), così come, a livello più strettamente linguistico, i superlativi o altri termini valutativi iperbolici (stupendo, meraviglioso, eccellente, straordinario, eccezionale, ecc.), gli avverbi di intensificazione (molto, tanto, enormemente, ecc.) o modali (veramente, davvero, ecc.), con cui il parlante sottolinea la verità e la sincerità di quanto detto; le costruzioni sintattiche marcate; le ripetizioni e i performativi espliciti, ecc. Quasi del tutto assenti invece dal corpus i fenomeni di mitigazione. Alla luce di tutto ciò, ci si è chieste se, da un punto di vista teorico più generale, sia possibile o abbia senso applicare il concetto di mitigazione ad atti che, come i complimenti, comportano effetti positivi per l’interlocutore o se invece la mitigazione non riguardi piuttosto rimproveri, critiche, ordini, richieste, cattive notizie, ecc., coerentemente con l’opinione di Fraser (1980: 342), secondo cui la mitigazione sarebbe una strategia anticipatrice mirante a ridurre gli effetti negativi che questo genere di atti comporta sul destinatario.3 Si è cercato di far luce su questo punto, chiedendo agli intervistati se considerino complimenti i tre enunciati riportati al punto (7), ciascuno dei quali contiene una forma attenuativa: un verbo di atteggiamento proposizionale (a), che fa sì che il complimento si presenti come espressione di un’opinione personale, piuttosto che come una valutazione oggettiva; l’avverbio abbastanza (b), appartenente alla categoria di elementi mitigatori etichettata come hedges da Fraser (1980) e bushes o propositional hedges da Caffi (1999) e, infine, una litote (c): (7)
Considera un complimento se qualcuno le dice: a. Penso / credo / mi pare che questo vestito ti stia bene b. Ti sta abbastanza bene questo vestito c. Non ti sta male questo vestito
Complessivamente il campione mostra di gradire molto poco gli apprezzamenti mitigati: meno del 10% considera complimenti gli enunciati a. e c. (9% e 8% rispettivamente) e il 19% l’enunciato b. I commenti con cui gli intervistati hanno accompagnato le risposte confermano pienamente la posizione di Held (1989) e di Janney / Arndt (1992: 35): nelle società che incoraggiano le manifestazioni delle emozioni (come può senz’altro considerarsi quella italiana, in particolare centro-meridionale), la regola generale prevede che gli atti di Per una discussione più approfondita sulla opportunità di applicare il concetto di mitigazione anche ai complimenti, si rinvia a Alfonzetti (in stampa b).
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cortesia positiva debbano essere sufficientemente rafforzati, perché se il grado di intensità è troppo debole rischiano di essere percepiti come falsi, forzati o ironici. L’intensificazione è dunque un altro attributo rilevante per la definizione del complimento prototipico, almeno nella cultura in cui è stata svolta la presente ricerca.
5. Complimenti impliciti Naturalmente si può anche adottare una concezione più complessa della mitigazione, qual è, ad esempio, quella elaborata da Caffi (2007: 88), secondo cui la funzione principale della mitigazione sarebbe quella di deresponsabilizzare il parlante rispetto sia al contentuto sia al destinatario della sua enunciazione, con il risultato che il messaggio risulta spesso passibile di più interpretazioni. In tal caso potrebbero considerarsi mitigati i complimenti impliciti4, i complimenti cioè realizzati come atti linguistici indiretti, nei quali il giudizio di valore non è asserito ma presupposto oppure implicato e quindi ricostruibile per mezzo di un processo inferenziale basato sulle massime del principio di cooperazione di Grice e su conoscenze extralinguistiche condivise dagli interlocutori. I complimenti impliciti hanno infatti una certa dose di ambiguità intrinseca che in determinate circostanze potrebbe essere intenzionalmente voluta dal parlante proprio per attenuare la responsabilità di quanto detto; cosicché, nel caso in cui il complimento non venga recepito o ben accolto dal destinatario, il parlante può sempre fingere che il suo enunciato non era stato inteso come un complimento. Nell’analisi del parlato spontaneo ci si imbatte spesso in enunciati la cui categorizzazione come complimenti non è semplice o scontata né per l’analista né per il destinatario, soprattutto quando la reazione di quest’ultimo manca o è anch’essa ambigua, come succede nell’esempio (8): (8) Intervallo della seduta di laurea (il padre di una laureanda, A, si rivolge ad una docente, B, uscita dall’aula per fumare) Am: lei non era tra i banchi? si è laureata? Bf: ((sguardo perplesso)) [sì mi sono laureata a suo tempo Am: [sto scherzando ((pausa)) Am: eh! eccome! e sono soddisfazioni
A. aveva forse l’intenzione di lodare la docente per il suo aspetto giovanile o l’ha veramente scambiata per una laureanda? E B. risponde come se prendesse alla lettera le domande di A perché non le recepisce o perché finge di non recepirle come complimento? E se finge lo fa perché ne è infastidita o perché non vuole correre il rischio di trattare come complimento ciò che forse non era inteso come tale? Domande a cui è difficile dare una risposta sia in sede di analisi, sia quando si è protagonisti dello scambio comunicativo. Sui complimenti impliciti, complessivamente poco studiati rispetto a quelli espliciti, cf. soprattutto Boyle (2000) e, per l’italiano, Alfonzetti (2010).
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Si è deciso di sottoporre questo caso, insieme ad altri analoghi, al giudizio degli intervistati, come si può osservare al punto (9), dove vengono riportati alcuni complimenti impliciti rinvenuti nel corpus di parlato spontaneo: (9)
Quali delle frasi in corsivo ritiene siano un complimento rivolto ad A? (Sono possibili più risposte. Per le risposte positive, esplicitare quale tipo di complimento sia stato fatto: bellezza, aspetto giovanile, bravura, ecc.):
a. (durante una cena tra amici, la padrona di casa mette a tavola una composta di frutta dicendo che l’ha fatta A. Uno degli invitati si rivolge ad A. e le dice) E che sei una giapponese? ………………………………………………………………….. b. (Una docente entra in un’aula e vede alcuni studenti che conosce e una persona che non conosce, la quale si presenta dicendo di essere la professoressa A. La docente le risponde) Ah! mi sembrava una studentessa! c. (durante una cena tra amici, A, la padrona di casa, ha preparato una crema al formaggio e un commensale le chiede se l’ha fatta lei; la padrona di casa risponde di sì ma di non voler dire come l’ha fatta. Il commensale, dopo aver assaggiato la crema, ribatte)) A, non c’è bisogno che ce lo dici. L’importante è che la fai. ……………………………………… d. (durante un intervallo della seduta di laurea il padre di una laureanda si rivolge a una docente della commissione, A, uscita fuori per fumare e le chiede)) Lei non era tra i banchi? Si è laureata? ………………………………………………………. e. (un amico dice ad A)) Lo sai che sei sulla copertina di Glamour di questa settimana? ……………………………...
Le risposte degli intervistati e i loro commenti rispecchiano le incertezze e difficoltà incontrate nell’analisi: (i) gli enunciati a. e d. sono considerati come complimenti solo dal 21% degli intervistati, per ragioni diverse: a. perché molti non sanno che i giapponesi sono bravi nell’arte di intagliare e disporre la frutta; d. perché trattare una docente come una laureanda implicherebbe sminuirne lo status; (ii) l’enunciato b. è ritenuto un complimento dal 63%, una percentuale molto più alta di d., nonostante le analogie: una docente scambiata per una studentessa; (iii) l’enunciato e. viene categorizzato come complimento dal 52%; la percentuale relativamente bassa si spiega con il fatto che anche questo caso richiede la condivisione di conoscenze extra-linguistiche, che invece molti intervistati non possiedono: e cioè che Glamour sia una rivista femminile, sulla cui copertina sono solitamente raffigurate top model, considerate nella nostra società modelli di bellezza femminile; (iv) l’enunciato c., infine, è un complimento per il 71%; si tratta quindi del caso meno controverso, forse perché nella cultura italiana saper cucinare bene è un valore indiscusso e universalmente riconosciuto.
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Conclusioni Le risposte alla domanda (9) del questionario mostrano chiaramente che in alcuni casi non è possibile stabilire categoricamente, né in quanto analisti, né in quanto parlanti, se ci si trovi di fronte a un complimento o meno. Questo tuttavia non deve stupirci. Solo se ci si colloca in una prospettiva logico-filosofica, gli atti linguistici –considerati come entità astratte esemplificate con enunciati costruiti a tavolino– possono essere definiti e individuati senza problemi come categorie discrete. Nella complessità dei discorsi reali, invece, emerge «the fuzziness of speech acts» (Jucker / Taavitsainen 2000: 69). Non sempre si può decidere con esattezza se un determinato enunciato sia un invito, una promessa, un rimprovero, perché spesso verrà recepito «comme étant plus ou moins une invitation, une promesse, un reproche» (De Fornel 1990: 161). Questa dose di indecidibilità e variabilità nelle interpretazioni della forza illocutoria di un enunciato, emersa sia dall’analisi del parlato spontaneo sia dai dati metapragmatici del questionario, suggerisce la possibilità di adottare una concezione prototipica dei complimenti. La teoria dei prototipi applicata agli atti linguistici5 riesce infatti a rendere conto del fatto che un enunciato possa realizzare l’atto corrispondente in una maniera più o meno conforme alla sua definizione astratta. Se un enunciato presenta tutti gli attributi connessi alla definizione sarà considerato una realizzazione prototipica di quell’atto. Se invee possiede solo alcuni di questi attributi o se il loro potere definitorio è debole sarà sentito come una realizzazione meno forte. Nel caso dei complimenti, l’uso di termini valutativi espliciti aventi significato positivo; l’essere una mossa iniziale, non sollecitata in alcun modo, e priva di secondi fini (qual è invece, ad esempio, l’adulazione); il rafforzamento a vari livelli e con vari mezzi del contenuto elogiativo sono attributi con un potere defintiorio forte. Di conseguenza, le valutazioni positive rivolte disinteressatamente e spontaneamente al destinatario senza nessuna sua sollecitazione; che non presentino forme attenuative, ma che al contrario siano sufficientemente intensificate, si collocano in una posizione più centrale all’interno della categoria in quanto complimenti prototipici. Quelle implicite, mitigate, sollecitate o interessate stanno invece in una posizione più periferica, dove si addensano le maggiori oscillazioni sia nei comportamenti direttamente osservabili che nella competenza metacomunicativa dei parlanti. È importante precisare che la teoria dei prototipi cui si fa qui riferimento vede le proprietà prototipiche non come inerenti al mondo reale, secondo una prospettiva realista elaborata inizialmente da Rosch, ma poi superata in favore di una concezione funzionale: gli attributi prototipici presuppongono piuttosto la conoscenza degli esseri umani, delle loro attività e del mondo reale e vanno visti pertanto come proprietà sociali e contestuali (Rosch 1978: 41-42). Le proprietà che possono essere associate ai complimenti, come a tutti gli atti linguistici in generale, «sont liées à nottre expérience sociale de la conversation et des types d’organisation qui la régissent» (De Fornel 1989: 39).
Sulla possibilità di estendere la teoria dei prototipi agli atti linguistici e in particolare ai complimenti, cf. De Fornel (1989).
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José María Bernardo Paniagua (Universitat de València)
La Lingüística en la ‹Sociedad red›
1. Introducción Uno de los paradigmas más adecuados para representar, analizar e interpretar la sociedad actual es, según Castells (2002; 2006), el Informacionalismo que, a su entender, constituye «un paradigma tecnológico que se basa en el aumento de la capacidad humana de procesamiento de la información en torno a las revoluciones parejas en microelectrónica e ingeniería genética» adecuado para establecer los fundamentos de la estructura y dinámica social, cultural y comunicativa de la sociedad actual. En palabras de Ariño (2009: 9): La creación de un nuevo ecosistema cultural, centrado en la World Wide Web, pero que la desborda, que es on-line, instantáneo, crecientemente inalámbrico y ubicuo, basado en la circulación de información digital y en la personalización de la comunicación, cambia la lógica de funcionamiento de las interacciones humanas y también de los movimientos sociales.
Esta comunicación pretende formular algunas pautas para pensar la Lingüística (teórica y aplicada) en ese contexto sociocultural y científico que, sin duda, exige nuevos planteamientos y no sólo sociológicos o económicos sino también antropológicos, culturales y, desde luego, comunicativos y lingüísticos. A modo de hipótesis, este trabajo asume que la sociedad actual, la sociedad red, se caracteriza fundamentalmente por las interrelaciones sociales que establecen sus miembros a través de unas modalidades de comunicación e información específicas: mediáticas, electrónicas, virtuales e hipertextuales. Esas modalidades comunicativas e informativas, a su vez, suponen la superación y complementación de los procesos y formas de la comunicación oral o escrita que han constituido los focos de interés científico e investigador en un determinado momento histórico. La comunidad científica del campo de saber comunicativo, y desde luego la más específica de la investigación lingüística, debe, pues, asumir esa realidad comunicativa como punto de partida de su quehacer científico y, al mismo tiempo, crear el bagaje necesario para responder adecuadamente a las exigencias analíticas e interpretativas que conlleva la sociedad que Castells (2001) también denomina Galaxia Internet.
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2. La sociedad red. El informacionalismo La necesidad de conectar las peculiaridades de la sociedad actual, llámese de la información, de la comunicación, del conocimiento o de cualquier otro modo (Bernardo / Prunyonosa 2002), con la estructura y sistema de comunicación es ineludible para poder establecer la delimitación correcta de la realidad comunicativa contemporánea y especialmente en lo que hace referencia a la incidencia tecnológica. En efecto, y tal como detalla Castells (19971998, vol 1: 360), es preciso reconocer la existencia de «una transformación tecnológica de dimensiones históricas» que conlleva la formación de un supertexto y un metalenguaje que, por vez primera en la historia, integran en el mismo sistema las modalidades escrita, oral y audiovisual de la comunicación humana. El espíritu humano reúne sus dimensiones en una nueva interacción entre las dos partes del cerebro, las máquinas y los contextos sociales.
Como se ha dicho antes, pueden recopilarse diversas teorías o formas de interpretar la sociedad y cultura actuales (Muñoz 2005), no obstante, en este caso se asumirá como síntesis del resto de visiones el paradigma que Castells (2001; 2006) denomina informacionalismo y delimita como un paradigma tecnológico que «organiza una serie de descubrimientos tecnológicos alrededor de un núcleo y un sistema de relaciones que mejoran la actuación de cada tecnología específica» (Castells 2006: 33) básicamente porque el análisis e interpretación que hace de la sociedad y de la tecnología parece muy adecuado para incidir en aquellos aspectos que se intenta poner de relieve en este trabajo. Sin profundizar en el estudio pormenorizado que Castells (1997-1998; 2001; 2006; 2009) ha llevado a cabo en diversas obras, es posible formular alguna de sus tesis fundamentales en los términos que aparecen a continuación. En primer lugar, la tecnología, el paradigma tecnológico, es el rasgo específico de la sociedad actual debido a que sobre esa base (Castells 2006: 71-72) ha surgido una nueva estructura social, una estructura constituida a partir de tecnologías electrónicas de la comunicación: redes sociales de poder. Entonces ¿dónde está la diferencia? En la tecnología, por supuesto, pero también en la estructura social en red, y en el conjunto específico de relaciones implicadas en la lógica en red.
A partir de ese supuesto, este autor reclama que se ha de olvidar la noción de sociedad de la información o de sociedad del conocimiento y reemplazarla con el concepto de la sociedad red, pues, según él (Castells 1997-1998, vol 1: 47), el término sociedad de la información destaca el papel de esta última en la sociedad. Pero yo sostengo que la información, en su sentido más amplio, es decir, como comunicación del conocimiento, ha sido fundamental en todas las sociedades […]. En contraste, el término informacional indica el atributo de una forma específica de organización social en la que la generación, el procesamiento y la transmisión de la información se convierten en las fuentes fundamentales de la productividad y el poder, debido a las nuevas condiciones tecnológicas que surgen en este periodo histórico.
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Para comprender con más detalle la naturaleza de la sociedad red, es preciso insistir en el origen y fundamentación de la misma que, según el propio Castells (2006: 31): emergió gradualmente como una nueva forma de organización social de la actividad humana en el último tramo del siglo XX, sobre los cimientos del informacionalismo. Sin la capacidad proporcionada por este nuevo paradigma tecnológico, la sociedad red no podría actuar, del mismo modo que la sociedad industrial no hubiera podido expandirse completamente sin la electricidad.
Es decir, para el nacimiento de la sociedad red el cambio tecnológico fue determinante ya que liberó todas las potencialidades de las redes y supuso la transformación de las tecnologías de la información y la comunicación, basada en la revolución de la microelectrónica.
Las tesis enunciadas anteriormente puede verse reflejadas e interrelacionadas en la delimitación que Castells (2006: 33-34) hace del informacionalismo donde afirma que un paradigma tecnológico que se basa en el aumento de la capacidad humana de procesamiento de la información en torno a las revoluciones parejas en microelectrónica e ingeniería genética. Pero ¿qué es lo revolucionario de estas tecnologías respecto a anteriores revoluciones de la tecnología de la información, como, por ejemplo, la de la invención de la imprenta? La imprenta fue de hecho un descubrimiento tecnológico de primer orden, con considerables consecuencias en todos los dominios de la sociedad, aunque produjo cambios mucho mayores en el contexto europeo de principios de la era moderna que en el contexto chino, donde se inventó muchos siglos antes. Las nuevas tecnologías de la información de nuestra época, en cambio, tienen una relevancia muy superior porque marcan el comienzo de un nuevo paradigma tecnológico sobre la base de tres principales rasgos distintivos: 1. la capacidad de estas tecnologías para ampliar por sí mismas el procesamiento de información en cuanto a volumen, complejidad y velocidad, 2. su capacidad recombinatoria, y 3. su flexibilidad distributiva.
3. Ciencia, tecnología, sociedad Para defender o, al menos, presentar la trascendencia de las tecnologías, especialmente las informativas, comunicativas e informáticas, no es preciso hacer un recorrido exhaustivo por las teorías en torno al lugar de la tecnología en los procesos de construcción de la sociedad y, en nuestro caso, en la conformación de los discursos y mensajes mediáticos como factores claves en la configuración del imaginario colectivo. Pero sí creemos conveniente insistir en la necesidad de romper con la dicotomía que se alberga en las perspectivas tecnófobas y tecnófilas que se apoyan, por su incapacidad para la matización, en la defensa de planteamientos irreconciliables a la hora de afrontar el papel de la tecnociencia en la evolución social y, al mismo tiempo, descartan la conveniencia de buscar la complementariedad, en un contexto de complejidad, de los múltiples y diversos factores que interactúan para comprender e interpretar su auténtica dimensión comunicativa y social.
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A nuestro entender, tecnófobos y tecnófilos defienden, con discursos sólo aparentemente distintos, el mismo determinismo encaminado bien a justificar el predominio ineludible de la tecnología o bien a propalar la exclusión de la tecnociencia en el proceso de construcción de la sociedad y, por lo mismo, caminan hacia un idéntico fatalismo por más que sea de signo diferente (Aibar 2002: 38), pero la crítica al determinismo tecnológico, a la tecnofilia, no obstante, no pasa por sustraer la trascendencia que merece la tecnociencia en el momento actual y que, a nuestro entender, debe conducir a superar la minusvaloración, la valoración meramente instrumental y, por supuesto, a desterrar el prejuicio de la demonización (Feenberg 2004; Pardo 2009). Es preciso, pues, alejarse de la postura acrítica e ingenuamente escéptica que niega la trascendencia sociocultural de las tecnologías, especialmente las comunicativas, informativas e informáticas que conforman la realidad del Ciberespacio que, según Briggs / Burke (2002: 363), «No es adecuado tratarlo en términos de ilusión, fantasía y evasión. Tiene una economía interna, así como una psicología y su historia». Por otra, ensayar nuevos paradigmas explicativos tales como el Informacionalismo (Castells 2002; 2006), la Poscomunicación (Rojas-Vera / Arape, 1996), que toman en consideración las funciones que Bettetini / Colombo (1995: 29-41) atribuyen a las nuevas tecnologías con respecto a la representación, la comunicación y el conocimiento y, sobre todo, aquellos fenómenos que Pérez (2002: 153) incluye en la cultura que denomina poshumana, desde la que se vislumbra una realidad en la que se han introducido nuevas variables que aún no sabemos cuánto darán de sí, y aunque para despejarlas tendremos que esperar a que pase el tiempo, ya prometen dinamizar el juego social. Este concepto de cultura poshumana se relaciona con la idea de que el hombre se está fundiendo con el artificio, para dar lugar a nuevos ámbitos de intercambio y de relación y para descubrir nuevas dimensiones de realidad.
La dimensión social, cultural y epistemológica de la tecnología ha sido enmarcada en el ámbito de la filosofía de la ciencia a través del paradigma Ciencia, Tecnología y Sociedad (CTS) (López / Sánchez Ron 2001; Broncano 2000; Quintanilla 1988; 2000; González / López / Luján 1997; Muguerza / Cerezo 2000; Olivé 2007) que ha supuesto un giro importante en la filosofía de la ciencia ya que, según Echeverría (2000: 246-247), ha replanteado por completo la noción de racionalidad-científica. Puesto que la filosofía de la ciencia ya no es sólo filosofía del conocimiento científico, sino también filosofía de la actividad científica (y de la acción tecnocientífica), el concepto mismo de racionalidad científica ha cambiado profundamente. Frente a una racionalidad puramente epistémica (mayor capacidad predictiva, mayor grado de corroboración o de falsación de las teorías, mayor simplicidad o generalidad de los principios, de las leyes o de los axiomas), la filosofía de la ciencia ha comenzado a pensar la racionalidad científica no sólo como filosofía teórica, sino también como filosofía práctica.
En ese contexto, Quintanilla (2000: 257-260) habla del sistema técnico como un «sistema de acciones humanas intencionalmente orientado a la transformación de objetos concretos para conseguir de forma eficiente un resultado valioso», dentro del cual, la información, el sistema informativo, sería un sistema tecnológico mixto que incluye un componente físico (electrónica) y un componente cultural (tratamiento de la información). Esto es, las tecnologías que intervienen en la comunicación e información
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no son sólo tecnologías físicas, además son tecnologías sociales y específicamente culturales: las cargas electromagnéticas que manipulan y transmiten son señales; es decir, tienen un contenido semiótico, transportan información. Ahora bien, sin entrar en detalles sobre las complejidades semánticas y ontológicas que arrastra el concepto de información, basta comprobar que su presencia es universal en todas las técnicas (y no sólo en las tecnologías de la información) para comprender que no estamos en realidad ante un ‹tercer entorno› tecnológicamente irreducible. En mi opinión, las tecnologías de la información y las comunicaciones son tan materiales (del primer y segundo entorno) como cualquier otra. Lo que sí es cierto, sin embargo, es que gracias en parte a esas tecnologías se están operando grandes transformaciones sociales y culturales que nos permiten concebir muchos aspectos de la realidad como si se desenvolvieran en un espacio nuevo, virtual, telemático, etc., que tan sugerentemente ha sabido describir Javier Echeverría.
Lo dicho en este apartado nos conduce a sostener que, para afrontar de forma coherente y eficaz el fenómeno de la comunicación tal como sucede y tiene lugar en la sociedad actual, no es suficiente el aparato epistemológico que aporta la filosofía de la ciencia o epistemología de carácter estático que centra su interés en los productos científicos, básicamente las teorías científicas, como constructos de representación, análisis e interpretación. Debe tener en cuenta, por el contrario, las aportaciones más recientes surgidas en el seno de la comunidad científica a partir, sobre todo, de la relevancia adquirida por la filosofía de la tecnología, de la tecnociencia, que exige superar el concepto de tecnología como mera practicidad para valorar las infraestructuras tecnológicas como recurso indispensable para la acción y actuación científica y, al mismo tiempo, conceder a las tecnologías, a los sistemas tecnológicos, la capacidad de generar nuevas realidades que conllevan, como es lógico, formas peculiares de representación, conocimiento y percepción (Bettetini / Colombo 1995).
4. Lingüística y Sociedad red Lo explicado hasta el momento constituye el contexto socio-científico de la propuesta que se formulará a continuación en torno al campo del saber lingüístico como parte de otro más amplio y complejo que es la comunicación. Por eso mismo, es preciso incidir previamente en las derivaciones que la sociedad red tiene en la cultura, en la comunicación y, por lo tanto, en los lenguajes. En efecto, la cultura audiovisual, virtual, informatizada, multimediática o hipertextual constituye, según Pérez (1996: 11-12), un sistema de comunicación integrado, basado en la producción y distribución electrónica digitalizada y el intercambio de las señales, [que] tiene importantes consecuencias para las formas de percepción sociales [y que] transforma radicalmente el espacio y el tiempo, las dimensiones fundamentales de la vida humana. las localidades se desprenden de su significado cultural, histórico y geográfico y se reintegran en redes funcionales o en collages de imágenes, provocando un espacio de flujos que sustituye al espacio de lugares.
Desde esa perspectiva, las implicaciones en torno a las que es necesario reflexionar hacen referencia, en primer lugar, al ámbito antropológico, que conlleva la necesidad de
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contemplar la implementación que las nuevas tecnologías de la comunicación (TIC) suponen con respecto a las capacidades y competencias de los agentes de la comunicación ya que, al menos ciertas tecnologías, inciden de forma determinante tanto en la capacidad y competencia en la interacción e interactividad entre emisores y receptores. En segundo lugar, al ámbito comunicativo que, sin duda en conexión con el antropológico, plantea la exigencia de una nueva delimitación de los factores o elementos que componen la estructura y definen la dinámica de la comunicación. Es decir, al emisor y al receptor se les ha de atribuir unas competencias específicas provenientes de la implementación subrayada anteriormente como efecto de la determinación tecnológica que, superando o completando las exigencias canónicas, inciden en la capacidad y aptitud para el empleo de recursos tecnológicos adecuados para conformar los nuevos tipos de texto que pueden generarse valiéndose de determinados mecanismos propios de la cibercultura. Lo mismo ocurrirá con la delimitación, la estructura y la lectura e interpretación de los hipertextos que constituyen los artefactos vehiculizadores de los mensajes, entre otras razones porque su caracterización ha de realizarse completando los rasgos que definían los textos tradicionales con las aportaciones e implicaciones que conlleva la aplicación y uso de ciertas tecnologías (Lamarca 2006). Finalmente, al ámbito teórico o epistemológico, puesto que las innovaciones señaladas conducen, sin duda, a una necesaria revisión de la delimitación del lenguaje como objeto de investigación en el campo de la comunicación y, desde luego, en el de la Lingüística como ciencia que se enmarca en dicho ámbito del saber y que aporta una determinada perspectiva de aproximación. Esto es, parece lógico exigir a los lingüistas que asuman el reto de afrontar las nuevas dimensiones de la comunicación y, por tanto, del lenguaje a la hora de delimitar su campo de investigación con la finalidad de proporcionar una perspectiva de tratamiento e investigación acorde con la complejidad que caracteriza las nuevas manifestaciones del lenguaje (Crystal 2002). La complejidad de la naturaleza y estructura de la comunicación, las peculiaridades de sus productos y, en definitiva, el modelo de interacción social y comunicativa específica, exige de los estudiosos de la comunicación y de la lingüística asumir como uno de los compromisos más importantes centrar la atención en la pluralidad de textos y discursos que genera la interacción comunicativa en sus múltiples manifestaciones, completar su campo de observación, análisis y explicación más tradicional y ensayar modelos de representación y métodos de estudio que contemplen las nuevas dimensiones del lenguaje que presenta la producción mediática en la sociedad actual: la escrita, la audiovisual, la informática y la virtual. Al mismo tiempo, ha de intentar construir un entramado explicativo y argumentativo que ponga de manifiesto tanto las razones en las que se apoya la exigencia del nuevo rumbo en la investigación en el campo del saber comunicativo y lingüístico como en algunas de las pautas que pueden guiarla. La respuesta a los retos planteados por la nueva realidad comunicativa puede verse reflejada, aunque de forma fragmentaria, en trabajos lingüísticos y comunicativos con enunciados tales como: ‹lenguaje y máquinas› (Yule 2003: 173-186), ‹lenguaje e internet› (Crystal 2002), ‹escritura digital› (Díaz 2001), ‹textos electrónicos› (López Alonso / Séré 2003), ‹redacción ciberperiodística› (Díaz / Salaverría 2003). Incluso pueden constatarse algunas pautas en estudios concretos sobre los textos audiovisuales (Bernardo / Pruñonosa
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2000; Bernardo / Gavaldà / Pellisser 2003); el lenguaje de Internet (Crystal 2002); la escritura digital (Díaz 2001); el ciberperiodismo (Díaz / Salaverría 2003); los textos y discursos electrónicos (López Alonso / Séré 2003; Mestre, 2009) modelos de comunicación en Internet (López García 2005); el sistema de la comunicación mediática (Bernardo 2006); la realidad virtual (Echeverría 2001). Teniendo en cuenta las exigencias aludidas y los supuestos epistemológicos pertinentes, tanto los estudiosos de la comunicación como los de la lingüística han de proponer y ensayar: – Unos modelos de representación que integren el factor tecnológico como elemento
constitutivo, y no simplemente instrumental, de la acción comunicativa, puesto que, sin duda alguna, las tecnologías implementan artificialmente la capacidad natural humana de cognición, procesamiento, producción y percepción de la realidad y, en este caso, conforman y definen una interacción comunicativa específica.
– Un corpus terminológico que supere el empleado hasta este momento que amplíe
y complete con conceptos y términos provenientes de otros campos científicos, tecnológicos y específicamente comunicativos con la finalidad no sólo de nombrar los nuevos elementos y los factores considerados individualmente, sino también las estructuras textuales y discursivas de las nuevas unidades de comunicación.
– Y, a partir precisamente de la incidencia de la tecnología en el proceso comunicativo
y de la nueva interacción comunicativa que están viviendo y protagonizando los miembros de la comunidad que habita el ciberespacio, el estudio de lo que la nueva filosofía de la ciencia denomina acción o intervención tecnológica (Echeverría 2003) y, por otra, el análisis e interpretación de la naturaleza y estructura de los productos dominantes en la sociedad red.
El campo del saber específicamente lingüístico, en fin, ha de superar la aproximación exclusivamente lingüística a la relación existente entre la comunicación y el lenguaje y ensayar modelos comunicativos más complejos y adecuados para poder responder a las manifestaciones comunicativas en las que los signos y unidades lingüísticas se combinan con otros signos y unidades de naturaleza no lingüística. Por otra, afrontar el estudio de las producciones textuales, genéricamente denominadas mediáticas, que postulan la necesidad de ensayar una explicación que complete la específicamente lingüística con las aportaciones provenientes de otras ramas del saber que afrontan la comunicación actual y sus lenguajes desde supuestos, modelos y métodos más adecuados.
5. Algunas conclusiones De acuerdo con todo lo anterior, la investigación lingüística está obligada a considerar atentamente la evolución socio-científica descrita e integrar las innovaciones relevantes como elementos de su conformación epistemológica con la finalidad de responder adecuadamente
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a los retos teóricos y prácticos a la hora de representar analizar e interpretar su objeto de estudio, el lenguaje, en el ámbito de las diferentes situaciones comunicativas que se generan en la sociedad actual fruto, entre otras cosas, de la trascendencia, incluso antropológica, adquirida por las TICs, factores infraestructurales al tiempo que elementos indispensables en la competencia y acción lingüística de los hablantes. Las pautas que, a nuestro entender, debe seguir la investigación lingüística actual hacen referencia básicamente a tres ámbitos que definen, de forma genérica, las exigencias de la filosofía de la ciencia actual tal como se plantea en el paradigma denominado Ciencia, Tecnología y Sociedad: la complejidad socio-científica, el eclecticismo y la pluridemensionalidad de los textos y lenguajes. La complejidad, en primer lugar, es un atributo indispensable para delimitar todos los objetos científicos y plantea, según Morin (2000: 13-15), la necesidad de un nuevo modelo de investigación en estos términos: Existe una falta de adecuación cada vez más grande, profunda y grave entre nuestros saberes discordes, troceados, encasillados en disciplinas, y por otra parte unas realidades o problemas cada vez más multidisciplinarios, transversales, multidimensionales, transnacionales, globales y planetarios.
En el caso de la investigación lingüística, la complejidad tiene un triple fundamento: el informacionalismo de la sociedad red, la trascendencia del sistema tecnológico (infraestructuras y acciones) y la nueva cultura o cibercultura. Las implicaciones de ese triple fundamento se han de traducir en la delimitación del objeto, la formulación de los paradigmas y la complementariedad disciplinar o interdisciplinaridad / transdisciplinaridad. La necesidad del eclecticismo, por su parte, proviene de la insuficiencia de los paradigmas vigentes en el campo del saber lingüístico que, como es lógico, surgieron en otros contextos socio-científicos y, por lo mismo, no han integrado en el modelo de representación e interpretación las elementos conformantes del informacionalismo formulado por Castells (2006); sobre todo, las tecnologías como complementariedad antropológica (Hine 2004) de la acción comunicativa de los agentes, las peculiaridades de esas tecnologías en la interacción comunicativa y la conformación de los textos. El eclecticismo significa, pues, integración simétrica de las aportaciones de paradigmas y disciplinas provenientes de campos del saber experimental y social para proponer un paradigma que responda a la complejidad citada anteriormente y, al mismo tiempo, creación de equipos de investigación plurales y diversos. Las dimensiones plurales de los textos y de los lenguajes abunda, en fin, en los aspectos enumerados anteriormente: la complejidad y el eclecticismo. Trasladado al campo del saber lingüístico, la pluridimensionalidad es, sin duda, un postulado que conlleva básicamente la necesidad de que los lingüistas abandonen el internalismo e inmanentismo que suele caracterizar los paradigmas, la metodología y las técnicas de investigación (Abril 2007) y supone la marginación de lo elementos, los factores y las fases del proceso de producción textual en diferentes situaciones y contextos. Es decir, los lingüistas han de superar la centralidad del llamado lenguaje natural y tomar en consideración la peculiaridad que adquiere en los textos audiovisuales, multimediáticos, digitales e hipertextuales comprendidos como unidad compleja en el ámbito de la Lingüística teórica y práctica.
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