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French, Spanish, Italian Pages 773 [776] Year 2013
Actas del XXVIé Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas Volumen V
XXVI CILFR Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas 6–11 de septiembre de 2010 Valencia
De Gruyter
Actas del XXVI Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas Valencia 2010 Editores: Emili Casanova Herrero, Cesáreo Calvo Rigual
Volumen V Sección 6: Descripción histórica y / o sincrónica de las lenguas románicas: onomástica (toponimia y antroponimia) Sección 9: La pragmática de las lenguas románicas
De Gruyter
ISBN 978-3-11-029983-0 e-ISBN 978-3-11-029997-7 Library of Congress Cataloging-in-Publication Data A CIP catalog record for this book has been applied for at the Library of Congress. Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2013 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Gesamtherstellung: Hubert & Co. GmbH & Co. KG, Göttingen
∞ Gedruckt auf säurefreiem Papier Printed in Germany www.degruyter.com
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Ci sono delle forme paleosarde che, come l’ultimo esempio dimostra, sono formate con radici postulate o ricostruite da Joseba Andoni Lakarra per il Neolitico. Ne menziono due tipi: (a) il tipo raddoppiante, ad es. *do/dol > odol ‹sangue›, che si riflette sorprendentemente nelle alture rossicce di Baunei: Dodoliai, altrove Dolai o Rivu dolia; (b) le formazioni con occlusiva dentale sonora iniziale, convertita poi in liquida nel Basco storico (tipo *da-gun > lagun ‹amico›): Desunele, formato con *desu > basco leze ‹precipizio, burrone› + nele ‹buio›; Durunele, con *dur > lur ‹terra› (cfr. edur, edurra a Bergara, insieme con elur, elurra ‹neve›) e nele. Un dato importante che mi preme segnalare in breve è la perfetta corrispondenza tra il significato espresso dai significanti postulati e i referenti denotati, a volte con effetti di ‹contiguità referenziale› (ad es. Desunele, una ‹voragine buia› in territorio di Orgósolo, Soroeni ‹un sito archeologico di Lodine situato su una vetta di montagna› o Turrikore ‹una sorgente sita ai piedi del Monte Ruju›). Come ho anticipato prima, con l’aiuto del Basco siamo anche in grado di discernere correttamente le radici dai suffissi. Cosí, quel -kor con vocale paragogica (-kore, -o) o quel -mele/nele, non sono altro che gli aggettivi posposti derivati da paleobasco *koR- > gorri e *bel (> bele, bel-tz ‹nero›). In questo modo, capiamo finalmente il significato trasparente di numerosissime formazioni toponomastiche rimaste ermetiche per secoli, quali: Orgosekoro ‹sorgente dalle acque rosse›, Turrikore e l’ibrido Enalekoro, con vēna, venālis (già lat. vēna fontis) ‹fonte rossa›, e Maramele ‹palude (mara) scura›, Araunele e varianti ‹valle scura, profonda e non soleggiata› (sd. Badde niedda, basco Arambeltza), Risunele (con rīvus, -um
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Eduardo Blasco Ferrer
e svolgimento di [β] > Ø e poi [s], come in maius, -um > masu o nel toponimo dorgalese Plammasera < ‹palma vera›), ‹rivo nero, Rivu nigheddu›, Thikunele, con colpo di glottide per [k] (fīcus, -um, con dileguo regolare della labiodentale e prostesi di interdentale, come in urgusa e thurgusa) ‹fico nero, Figu niedda›, Makumele (semitico maqōm) ‹insediamento basaltico, e perciò scuro›, Gutturunele, con lat. guttur ‹gola›. Come s’è visto da qualche esempio illustrato prima, moltre delle costruzioni paleosarde trovano esatti traducenti in materiale sardo neolatino, confermando la bontà della riscostruzione: Funtana ruja, Terra bianca, orrúbia, Badde, Piskina, (B)ena, Ficu niedda, Baku, Rivu nieddu. Di particolare rilevanza per la corretta ricostruzione dei rapporti ancestrali esistenti tra l’antica Iberia e la Sardegna neolitica si rivelano le radici già viste ili e mele, che ora sottopongo a una piú analitica discussione. Come abbiamo visto, già Pomponio Mela si riferisce a questa tribú indomita come una delle piú antiche, e altri autori (Tito Livio) ci ricordano che essa si rifugiava negli Insani Montes della regione orientale sarda. A nord del loro dominio altri storiografi classici menzionano la presenza dei Bàlari, nei dintorni e sulle cime del Limbara nella Gallura. Ora, è pacifico che Ili-enses rifletta una formazione etnica con la notissima radice ili, che come ben sappiamo è tipica di tutta la Hispania iberica, da Iliberris = Elvira mozarabica e poi Granada a Iliberris = Elne, oltre i Pirenei. Non c’è alcun dubbio, di conseguenza, sul fatto che la tribú che ospitarono i Montes Insani della Barbagia (< Barbaria), delle Baronie e dell’Alta Ogliastra, dove oggi s’infittiscono piú densamente i microtoponimi con ili, fosse discendente da una popolazione emigrata dall’antica Iberia. Come risulta chiaro altresí che la radice bal- sia da correlare con le Baleari e con l’antroponimia paleoispanica dotata di tale radice, già bene studiata da Maria Lourdes Albertos Firmat. Aggiungo poi che il coronimo Gaddura, Gallura corrisponde esattamente a basco gallur (da *gal-dur), appunto ‹cima, vetta› (del Limbara, appunto!). Il riflesso paleoispanico dell’aggettivo mele è anch’esso illustrativo dei plurimi spunti ricostruttivi che il confronto serrato fra i due tipi linguistici apre alla ricerca etimologica futura. La base *bel- di basco bel-tz ‹nero, scuro› (associato al colore del corvo, bele), di (h)orbel ‹foglie cadute›, (h)arbel ‹lavagna, table noire›, gibel ‹fegato›, sabel ‹ventre› e bele ‹corvo›, si ritrova in aquitano Belex e, infine, con una foggia piú interessante, nell’iberico bels, beles, beleś e soprattutto mele(s), meli(s) nell’iscrizione latina del Bronzo di Ascoli, che restituisce i nomi di alcuni equites iberici della turma Salluitana (Salduba sarebbe diventata Caesaraugusta), che avevano partecipato alla guerra contro i Marsi ed erano stati premiati con la cittadinanza romana da Gn. Pompeo Strabone. Lí troviamo, in effetti: Ordumeles per *Ortunbeles, Adimels e altre corrispondenze per noi rilevantissime, perché evidenziano lo stesso adeguamento dell’occlusiva bilabiale sonora avvenuto nel Paleosardo mele (donde poi nele, nuli ecc.). Questi riscontri sono importantissimi, perché ci indicano la compartecipazione dei vari populi dell’antica Penisola Iberica, Paleobaschi e Iberi, alla colonizzazione globale della Sardegna preneolitica e neolitica, fino all’avvento dei Semiti, e piú tardi dei Romani, che segnano il terminus post quem per la formazione degli ibridi del tipo Makumele (< maqōm) o Gutturunele (< guttur).
Iberia in Sardegna. La decifrazione del Paleosardo
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6. Conclusioni e Desiderata La formula latina citius emergit veritas ex errore quam ex confusione credo si addica bene alla tesi che ho esposto sommariamente qui. Prima della corretta segmentazione e individuazione del tipo agglutinante del Paleosardo, e della successiva identificazione della sua matrice paleoispanica, regnava molta confusione fra gli studiosi dei sostrati della Sardegna, e nessun progresso è stato segnato nella decodificazione delle centinaia di microtoponimi della Sardegna centro-orientale, rimasti ermetici a ogni tentativo ermeneutico. Ora si apre una pista nuova, un terreno che promette fertili aree d’indagine e risultati accettabili di ricostruzione. Le richieste di competenze interdisciplinari (conoscenza delle regole ricostruttive del Paleobasco; conoscenza degli avanzamenti nel campo dell’Iberico; minime conoscenze nell’ambito dell’Indeuropeo; assimilazione delle continue acquisizioni nei campi dell’Archeologia e della Genetica molecolare e delle popolazioni) sono molte e ci obbligano necessariamente a istituire un pool internazionale e interdisciplinare di studiosi, un’esigenza questa, che come hanno posto di manifesto i colleghi Günter Holtus e Fernando Sánchez Miret nella loro bella panoramica di prospettive future della Romanistica, diverrà una carta vincente per le aspettative accademiche di ricerca, lavorative e sociali dei futuri Romanisti.
Bibliografia minima Albertos Firmat, María Lourdes (1966): La onomástica personal primitiva de Hispania: Tarraconense y Bética. Madrid: CSIC. Blasco Ferrer, Eduardo (1988): Le parlate dell’Alta Ogliastra. Cagliari: Della Torre. — (1993): Tracce indeuropee nella Sardegna nuragica? In: Indogermanische Forschungen 98, 177-185. — (2010): Paleosardo. Le radici linguistiche della Sardegna neolitica. Berlin / New York: de Gruyter. Holtus, Günter / Sánchez Miret, Fernando (2008): Romanitas, Filología románica, Romanística. Tübingen: Max Niemeyer. Hubschmid, Johannes (1953): Sardische Studien. Bern: Francke. Untermann, Jürgen (1990): Monumenta Linguarum Hispanicarum. III. Die iberischen Inschriften aus Spanien, (2 voll.). Wiesbaden: L. Reichert. Wagner, Max Leopold (1951): La lingua sarda. Bern: Francke. — (1960-64): Dizionario Etimologico Sardo, (3 voll.). Heidelberg: C. Winter. Wolf, Heinz Jürgen (1998): Toponomastica barbaricina. Nuoro: Insula.
Llum Bracho Lapiedra (Universitat Politècnica de València)
Criteris de denominació toponímica al País Valencià: el cas de la Gran Enciclopedia Temática de la Comunitat Valenciana
1. Introducció Els topònims són un dels elements més polièdrics i controvertits de la lingüística, per tal com no només estan molt lligats a la identitat d’un lloc, ja que el designen, sinó que en conformen la història, la cultura, la sociolingüística, etc. (Graells et al. 1999: 25). L’objectiu d’aquest estudi és presentar un treball de recerca en relació amb la toponímia des d’un vessant lingüisticopragmàtic pel que fa a una zona en què conviuen dues llengües oficials, com és el cas del País Valencià. Al País Valencià, per raons de caràcter històric i sociolingüístic, la llei preveu dues formes de denominació toponímica oficial: una forma bilingüe i una forma monolingüe en català (en valencià) i en espanyol, depenent de la zona. En conseqüència, la denominació dels topònims segueix dos criteris bàsics al País Valencià: el de territorialitat i el d’historicitat. Això no obstant, la Generalitat Valenciana segueix un tercer criteri denominat oficialista, per a la documentació oficial, segons el qual els topònims s’escriuen tal com apareixen en les publicacions oficials que es reediten anualment. Tot plegat, dificulta en gran mesura l’aplicació, de manera coherent, d’algun criteri de denominació toponímica existent en els distints documents que s’editen on hi ha la presència d’aquests elements lingüístics, i és que, com assevera Miquel Nicolàs (1998: 311): Fins a quin punt, doncs, no hi ha una neutralitat primera de les formes toponímiques, sinó que aquestes, la seva replega sistemàtica i la seva posterior interpretació, no estan en general prefigurades per una determinada intencionalitat. La sospita és tan elemental que segurament no mereix l’apel·latiu d’hipòtesi, però pot ser útil a l’hora de representar-nos d’una manera més plausible els lligams complexos entre la toponímia i la història social de la llengua.
En concret, l’estudi que abordem se centra en el tractament de les denominacions toponímiques valencianes d’una enciclopèdia, editada en espanyol recentment per un periòdic de gran tiratge a nivell autonòmic. Aquesta anàlisi dóna compte de quins han estat els criteris de denominació toponímica de la zona esmentada, en un text escrit en una de les llengües oficials, per tal de detectar quins han estat els motius que han dut a l’aplicació d’aquests criteris i, en darrer terme, com es tradueixen aquestes decisions a la comprensió última del text per part dels lectors.
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Llum Bracho Lapiedra
2. La denominació toponímica a l’Estat espanyol Com és sabut, la Llei de bases de règim local (7/1985, de 2 d’abril) determina que cal escriure els topònims en espanyol en tot l’Estat espanyol, tret de les comunitats autònomes que tinguen una llengua pròpia, on aquests apareixeran seguint tres opcions: en la llengua pròpia, en espanyol o en ambdues llengües, i que «aquestes denominacions només tindran caràcter oficial quan s’inscriguin en el Registre d’Entitats Locals i es publiquin al Butlletí Oficial de l’Estat» (Graells et al. 1999: 26). A les comunitats autònomes catalanoparlants, l’aplicació d’aquesta llei es vehicula mitjançant dos tractaments distints. D’acord amb el primer, a les Illes Balears (Llei 3/1986, de 29 d’abril) i a Catalunya (Llei 1/1998, de 7 de gener), la forma oficial dels topònims és únicament en català. En canvi, al País Valencià1, o Comunitat Valenciana, per raons de caràcter històric i sociolingüístic, la llei preveu dues formes de denominació toponímica oficial (Llei 4/1983, de 23 de novembre): una forma bilingüe, i una forma monolingüe, en català (en valencià) o en espanyol, depenent de la zona (Graells et al. 1999: 26). En conseqüència, la denominació toponímica segueix dos criteris bàsics al País Valencià: el de territorialitat (d’acord amb el qual els topònims pertanyents a la zona castellanoparlant del País Valencià apareixen en espanyol i els topònims pertanyents a la zona valencianoparlant apareixen en català, independentment de la llengua d’ús) i el d’historicitat (que fa referència a la denominació dels topònims segons la tradició de la llengua d’ús). Si seguim el primer criteri, el de territorialitat, el topònim Castelló de la Plana, (que pertany a la zona valencianoparlant), quedaria escrit en català, i el topònim Villar del Arzobispo (corresponent a la zona castellanoparlant), apareixeria escrit en espanyol. En canvi, amb el criteri d’historicitat, suposant que la llengua d’ús fóra el català, un topònim pertanyent a la zona castellanoparlant, com ara Toixa (Tuéjar en espanyol), s’escriuria segons la seua forma en català, mentre que un de la zona valencianoparlant, conservaria la seua forma original catalana, com en el cas d’Albalat dels Sorells. Això no obstant, existeix un tercer criteri, denominat oficialista, per a la documentació oficial, que és el que segueix la Generalitat Valenciana. D’acord amb aquest criteri els topònims s’escriuen tal com apareixen en la Denominació oficial dels municipis i altres entitats locals de la Comunitat Valenciana, publicació que recull els topònims oficials del País Valencià i que es reedita anualment (Lacreu et al. 1995: 56).2 Per exemple, Torís i València, encara que pertanyen a la zona valencianoparlant, apareixen escrits oficialment en espanyol, és a dir: Turís i Valencia.3 A més a més, val a dir que, en els textos oficials i en La denominació País Valencià respon a la ‹concepció moderna› de l’autonomia valenciana, tal com es recull al preàmbul de l’Estatut d’Autonomia (1994: 1 i 2006: 7). En aquest sentit, nosaltres la preferim a la de ‹Comunitat Valenciana› perquè és d’ús comú en els àmbits acadèmics, socials i polítics com a manifestació integradora dins de la cultura catalana. 2 També es pot consultar l’actualització dels municipis i de les entitats locals inframunicipals i metropolitanes a la pàgina web: http://www.civis.gva.es/civis/va/civis/civis.htm 3 En aquest sentit, Ismael Vallès exposa que: «València és manté encara ortografiada a la castellana, sense haver adoptat la pròpia ortografia i algunes de les ciutats de més habitants com les d’Alacant, Elx, Castelló, Alcoi i Sagunt, han optat per la fórmula bilingüe (Alcoi /Alcoy) que és innecessària –entre altres coses per la proximitat del català i el castellà– i s’ha demostrat desastrosa, car en la pràctica predomina l’ús de la forma castellana, i no clarifica res» (2000: 503). 1
Criteris de denominació toponímica al País Valencià
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els textos no oficials com ara els mapes, rètols, etiquetes o documents mercantils, cal usar la forma oficial i legal del topònim (Graells et al. 1999: 27). D’altra banda, en els criteris que se segueixen en el tractament traductor de la toponímia es distingeix entre toponímia major (ciutats, viles i pobles) i toponímia menor (partides, llocsdits, etc.). Aquesta darrera es recull en els dos volums de Toponímia dels pobles valencians que editava la Conselleria de Cultura, Educació i Ciència, conjuntament amb la Conselleria de Medi Ambient (Lacreu et al. 1995: 57)4 i, en l’actualitat, l’Acadèmica Valenciana de la Llengua. Malgrat això: Aquesta consideració [la distinció entre toponímia major i menor] presenta un interès científic molt reduït. Al contrari: ha servit per excusar falles notables d’alguns investigadors que han tingut peresa d’acudir a les fonts completes, i potser difícils, de la toponímia, i han bastit teories gratuïtes partint de publicacions sempre insegures com són els Nomenclàtors oficials o les Enciclopèdies. Històricament no existeix cap diferència essencial entre els topònims acollits en aquestes obres, i batejats ‹majors›, i els anomenats ‹menors›; car és evident que molts noms de pobles actuals, i fins de ciutats, eren topònims ‹menors› fa pocs anys; que, en canvi, topònims ‹majors› vénen cada dia a engrossir les files de la toponímia ‹menor›, quan els pobles i les aglomeracions importants es despoblen i s’enrunen; i aquest fenomen s’ha produït a totes les èpoques de la història, i encara es desenvolupa sota els nostres ulls (Moreu-Rey 1999: 15).
Aquesta distinció no representa cap problema pel que fa a topònims no compartits entre territoris de parla diferent; tanmateix, d’altres, com ara serres o rius, esdevindran un problema de denominació si se segueix el criteri de territorialitat, ja que depenent de la llengua del territori on s’ubiquen o per on passen, es denominaran en una llengua o en una altra.
3. Objectius i metodologia de l’estudi toponímic Tenint en compte les possibilitats de denominació toponímica citades anteriorment, l’objectiu principal d’aquest estudi és el de determinar quin o quins d’aquests criteris de denominació toponímica se segueixen en la Gran enciclopedia temática de la Comunitat Valenciana (GETECV), obra en format CD-ROM, publicada per l’Editorial Prensa Valenciana, pertanyent al periòdic de tiratge autonòmic Levante. El mercantil valenciano. En aquest sentit, els objectius secundaris han estat dos: per una banda, comprovar si els criteris es mantenien en els topònims territorials (per exemple, el cas dels municipis) i, per l’altra, si aquests també s’acomplien en els interterritorials (com ara els rius). La metodologia que s’ha seguit en la consecució d’aquest treball ha estat una metodologia contrastiva segons la qual s’ha realitzat la comparació entre tres fonts documentals: els topònims de la GETECV, la web oficial de la Generalitat Valenciana (on apareix la denominació oficial dels topònims) i la Toponímia dels Pobles Valencians (TPV), editada per l’Acadèmia Valenciana de la Llengua (que segueix un criteri de territorialitat a l’hora de representar els topònims). En comparar la primera i la tercera, en primer lloc, podíem Cal indicar que el nom d’aquestes conselleries ha canviat i que, actualment, es denominen Conselleria d’Educació, i Conselleria de Medi Ambient, Aigua, Urbanisme i Habitatge, respectivament.
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Llum Bracho Lapiedra
descartar si les denominacions de la GETECV corresponien a la consecució d’un criteri de territorialitat, amb la qual cosa calia contrastar si les denominacions eren coincidents o no amb les oficials, d’acord amb la web de la Generalitat Valenciana.
4. Anàlisi dels resultats toponímics L’anàlisi dels resultats observats amb l’estudi contrastiu a dalt esmentat en un total de 236 topònims, entre municipis, orografia i hidrografia, ens permet afirmar que la desigualtat total entre els topònims de la GETECV i de la TPV és d’un 50%; en el cas dels territorials aquesta diferència puja a un 75% i, en el cas dels interterritorials, baixa a un 27%, com es pot observar a la Taula 1. Tipus de topònims
Núm. de topònims
No coincidents
Desigualtat sobre coincidents
Territorials
104
1
75%
Interterritorials
132
53
27%
Total d’analitzats
236
54
51%
Taula 1. Comparació toponímica entre la GETECV i la base de dades de la TPV.
D’altra banda, l’anàlisi qualitativa dels topònims territorials de la GETECV (amb una desigualtat entre aquestes dues bases de dades del 75%, com s’observa a la taula anterior), permet classificar els topònims territorials en cinc apartats d’acord amb la tipologia descrita: 1. Topònims de la zona catalanoparlant amb denominació en castellà (per exemple, Montroy o Alboraya), que ens porta a la conclusió que la GETECV no segueix el criteri territorialista. 2. Topònims de la zona catalanoparlant en català (per exemple, Alcoi) que no coincideixen amb la forma oficial, bé en bilingüe o bé en castellà, de la qual cosa es dedueix que la GETECV no és consegüent amb el criteri oficialista ni l’historicista, tenint en compte que l’enciclopèdia esmentada està escrita en castellà. 3. Duplicitat de denominacions (per exemple, podem trobar tant Burriana com Borriana i tant Gestalgar com Xestalgar). 4. Errors de coherència denominativa; per exemple, trobem Cervera del Maestre i també Zorita del Maestrazgo, en referència a la mateixa comarca: el Maestrat. 5. Errors de coherència ortotipogràfica als topònims de la zona catalanoparlant, que podem subclassificar en a) amb grafia en català en, recordem-ho, un text escrit en castellà (per exemple, Nàquera); b) amb grafia en castellà, malgrat que el topònim té forma catalana: la Llosa de Camacho, enlloc de, seguint un criteri historicista: la Losa de Camacho o un criteri territorialista: la Llosa de Camatxo5, i c) amb grafia distinta a l’original (per exemple, Almiseràt o Benassau; escrits correctament: Almiserà i Benasau, respectivament). Aquestes dades qualitatives es poden observar de manera quantitativa en els gràfics següents (Gràfic 1 i 2). Una cerca en Google.es ens mostra que el terme Llosa de Camatxo, a més, és més usual en el ciberespai, amb uns 236.000 resultats, mentre que cercant Llosa de Camacho, apareixen uns 106.000 resultats. [Consulta: desembre, 2010].
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Criteris de denominació toponímica al País Valencià
Errors de coherència ortotipogràfica en topònims territorials
amb grafia en català
31% 46%
amb grafia en castellà amb grafia distinta a l'original
23%
Gràfic 1. Classificació tipològica dels topònims territorials de la GETECV.
En el Gràfic 1, podem observar, en primer lloc, que més d’una tercera part dels topònims territorials que en la TPV consten en valencià, apareixen en castellà en la GETECV. Així mateix, una tercera part dels topònims territorials d’aquesta enciclopèdia no tenen una denominació ben definida. Finalment, els errors de coherència resulten d’un gran percentatge, ja que en sumen gairebé una tercera part. Si ens centrem ara en els errors de coherència ortotipogràfica, reflectits en el Gràfic 2, la majoria (un 46 %) se relacionen amb la conservació de grafies catalanes; gairebé un terç del total apareixen amb una grafia distinta a l’original i, en darrer lloc, hi ha els topònims territorials amb errors de coherència produïda per una grafia en castellà en el topònim català. Classificació tipològica de topònims territorials de la GETECV Topònims valencians en castellà 16% 13%
32%
Topònims oficial no coincidents en català Duplicitat de denominacions
30%
9%
Errors de coherència denominativa Errors de coherència ortotipogràfica
Gràfic 2. Errors de coherència ortotipogràfica en topònims territorials.
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Llum Bracho Lapiedra
En relació amb els topònims interterritorials de la GETECV, amb una desigualtat del 27% en els topònims que coincideixen en comparació amb la TPV, podem classificar-los en cinc apartats: 1. Topònims valencians en castellà (com ara sierra Engarcerán per a la serra d’en Galceran). Se’n dedueix que no segueix, doncs, el criteri territorialista. 2. Manca de coincidència de grafies (per exemple, río Boïlgues per al riu Bohílgues). 3. Manca de coincidència denominativa (per exemple, río Vacas per al riu Vaca o de Xeraco). 4. Doble denominació (río Mijares; río Millares) i 5. Grafia catalana (río Palància, río de la Sénia). Per tant, d’acord amb això, la GETECV tampoc no sembla seguir el criteri historicista en aquests topònims. Classificació tipològica de topònims interterritorials de la GETECV
19%
24%
5%
19%
Topònims valencians en castellà No-coincidència de grafies No-coincidència denominativa Doble denominació Grafia catalana
33%
Gràfic 3. Classificació tipològica dels topònims interterritorials de la GETECV.
En aquest sentit, en les dades quantitatives en relació amb els topònims interterritorials (veg. Gràfic 3), destaca la manca de coincidència de grafies entre els topònims de la TPV i de la GETECV. A més a més, un quart dels topònims d’origen valencià apareixen en castellà, malgrat que apareixen grafies catalanes (impròpies del castellà) en un 20% dels topònims. I, finalment, cal subratllar el 20% de indefinició denominativa, la qual cosa fa entreveure una gran manca de criteri en la nomenclatura dels topònims interterritorials.
5. Conclusions En definitiva, com s’ha pogut comprovar amb les dades analitzades i mostrades al llarg d’aquest estudi, podem afirmar que no es detecta que en la publicació de la Gran Enciclopedia Temática de la Comunitat Valenciana es tinga en ment un criteri clar sobre denominació toponímica. A més a més, és evident que la informació que proporciona aquesta enciclopèdia sobre els topònims territorials és, amb escreix, molt superior a la que hi consta en relació amb els interterritorials (com ara els rius).
Criteris de denominació toponímica al País Valencià
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Finalment, la manca de coincidència denominativa entre l’enciclopèdia estudiada i la base de dades Toponímia dels Pobles Valencians, tant en els topònims territorials (d’un 30%) com dels interterritorials (que ascendeix a un 20%), demostra que, pel que fa a la nomenclatura d’aquesta part de l’onomàstica, al País Valencià hi ha una gran indefinició denominativa, probablement causada per la diversitat de criteris de denominació toponímica existent (Bracho 2008).
Referències bibliogràfiques Bracho, Llum (2008): El comportament ideològic a través de la toponímia en la traducció ambidireccional de textos ambientals en català. In: Llengua & Literatura 19, 189-220. Cap de l’Estat (1985): Ley 7/1985, de 2 de abril, Reguladora de las bases del régimen local. In: BOE 80 de 03/04/1985. http://www.boe.es/aeboe/consultas/bases_datos/act.php?id=BOE-A-1985-5392 CIVIS. Portal de la Direcció General de Administració Local. Informació Municipal - Dades d’entitats locals. [en línia] http://www.civis.gva.es/civis/va/civis/civis.htm DDAA (2009): Gran enciclopedia temática de la Comunitat Valenciana. València: Editorial Prensa Valenciana. [CD-ROM]. 20 vols. DDAA (2009): Toponímia dels pobles valencians. València: Acadèmia Valenciana de la Llengua. [Vol. 1 + CD-ROM, actualitzable en línia]. Graells, Jordi et al. (1999): Criteris de traducció de noms, denominacions i topònims. In: Criteris Lingüístics 3. Barcelona: Generalitat de Catalunya, Departament de Cultura. Lacreu, Josep et al. (1995): Criteris lingüístics. In: Propostes lingüístiques 2. València: Generalitat Valenciana, Conselleria d’Educació i Ciència. Moreu-Rey, Enric (1999): Els nostres noms de lloc. Mallorca: Moll. Nicolàs, Miquel (1998): La història de la llengua catalana: la construcció d’un discurs. València / Barcelona: Institut Interuniversitari de Filologia Valenciana / Publicacions de l’Abadia de Montserrat. Presidència de la Generalitat de Catalunya (1998): Llei 1/1998, de 7 de gener, de política lingüística. In: DOGC 2553, de 09/01/1998. http://educacio.gencat.net/extranet/dogc/llei_1_1998.pdf Presidència de la Generalitat Valenciana (1983): Llei 4/1983, de 23 de novembre, d’ús i ensenyament del valencià. In: DOGV 133, 01/12/1983. http://portales.gva.es/sdg/legislacion/valenciano/Llei%20 dus%20i%20ensenyament%20del%20valencia.htm Presidència del Govern de la Comunitat Autònoma de les Illes Balears (1986): Llei 3/1986, de 29 d’abril, de normalització lingüística. In: BOCAIB 15 de 20/05/1986. http://contingutsweb.parlamentib.es/ Biblioteca/Legislacio/balears_leg/textos/bocaib_1983_1996/1986/IB_llei_3_1986_bocaib.pdf Vallès, Ismael (2000): Normalització dels noms dels municipis al País Valencià. València: ed. Denes.
Claude Buridant (Université de Strasbourg)
L’onomastique dans la Chronique des rois de France
1. Brève présentation de la Chronique La Chronique des rois de France, vaste chronique retraçant l’histoire des rois de France depuis sa légendaire origine troyenne jusqu’au règne de Philippe-Auguste, est la traduction en français de chroniques latines conservées à Saint-Denis, de styles très divers, allant de la sécheresse des annales à la versification ampoulée de l’épopée en vers de la Philippide de Guillaume le Breton, qui retrace sur le modèle virgilien la vie du souverain. Il est exclu, dans cet exposé, de détailler la composition de l’ensemble, qui a fait l’objet de plusieurs mises au point, dont, au premier chef, l’article très documenté de Gillette Labory, identifiant minutieusement les sources manuscrites et soulignant les rapports avec les chroniqueurs des Grandes Chroniques de France, autre monument des premiers historiens nationaux; c’est avec sa très précieuse collaboration qu’est en préparation l’édition de la Chronique, à la Société des Anciens Textes Français et que je présente ici cette contribution à l’onomastique. J’en ai rappelé ailleurs les principaux éléments comme support à des études portant sur différents aspects de la langue du traducteur. Je rappellerai simplement ici ce qui me semble suffisant pour mon propos en m’appuyant sur l’étude de Gillette Labory consacrée à cette ‹première histoire nationale française›. La traduction, exécutée par un anonyme entre 1217 et 1230, a comme source la compilation ou la continuation d’Aimoin, historien et moine de Fleury, auteur d’une Historia Francorum écrite au début du 11e siècle et continuée jusqu’en 1015 ou 1031, parvenue à l’abbaye de Saint-Germain-des-Prés, où elle est recopiée, interpolée, poursuivie en plusieurs étapes jusqu’à la fin du 12e siècle. L’archétype en est le ms. latin 12711 de la Bibliothèque Nationale de Paris, écrit à Saint-Germain-des-Prés. C’est de ce manuscrit que dérivent tous les manuscrits comportant continuations et interpolations; le plus ancien, le manuscrit Vatican Regina 550, écrit à Saint-Denis au début du 13e siècle, est le manuscrit de référence pour la chronique latine, dont Gillette Labory fait une collation soigneuse pour la mise au point de l’édition, mais le texte se trouve aussi dans l’édition d’Aimoin parue en 1567 à Paris, chez Wechel, et disponible sur le site de la Bibliothèque de l’Université Complutense de Madrid. La traduction française est conservée dans deux rédactions: – le manuscrit Vatican Regina 624, de la fin du 13e siècle ou du commencement du 14e, mais amputé du début (Mérovingiens et Pippinides) et ne commençant qu’avec la Vie de Charlemagne: ms. A. – le manuscrit 869 du Musée Condé de Chantilly, du dernier quart du 15e siècle, amputé de sa fin: ms. B.
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Claude Buridant
Cette chronique anticipe sur le Roman des rois ou Grandes Chroniques de France, composées par Primat quelque cinquante ans plus tard à partir des mêmes matériaux, dont le ms. latin 5925 de la Bibliothèque Nationale de Paris, qui utilise par ailleurs le travail de l’Anonyme, en dehors des rédactions subsistantes, en y recourant de manière systématique à partir des Vies de Louis VI et de Louis VII. En complément de l’étude de la traduction du latin, il est donc licite de comparer: – les deux versions de la Chronique des rois de France dans les deux rédactions manuscrites, terrain privilégié pour l’étude des évolutions de la langue; – la Chronique des rois de France et les Grandes Chroniques de France, qui ont fait l’objet d’une édition monumentale de Jules Viard, à la Société de l’Histoire de France, que nous essaierons d’égaler dans la mesure du possible. La présente étude, limitée à l’onomastique de la première partie de la Chronique des rois de France, allant des origines à la Vie de Charlemagne dans le manuscrit B, seul manuscrit conservé en l’occurrence, sera ainsi illustrée par des exemples référés à la future édition (Livre, Chapitre de l’original, paragraphe de l’édition. Ex. III, CXVIII, 56), au texte latin d’Aimoin dans l’édition Wechel (Livre, Chapitre, page. Ex. IV, XCVI, 475), et aux Grandes Chroniques dans l’édition Jules Viard, abrégé en GC, tome et page (Ex. GC, II, 62).
2. Un premier tamis: la latinisation des noms autochtones La Chronique des rois, dans sa première partie en particulier, représentée uniquement dans le manuscrit B de Chantilly, qui traite de la période mérovingienne et pipinnide de l’histoire de France, depuis les légendaires origines troyennes jusqu’à Charlemagne, est le lieu d’un fourmillement onomastique remarquable, qui peut contribuer à compléter largement les tables des éditions et des dictionnaires des anthroponymes et toponymes contemporains, par des attestations en latin et en langue vulgaire, pourvu qu’elles soient soumises à une revue systématique et rigoureuse que je m’efforcerai de mener ici en ne retenant que les exemples les plus illustratifs. L’original latin de la chronique présente sous leur habillage latin les noms de personnes et de lieux de diverses origines, romaine au sens large, germanique dans ses variantes francique, burgonde, lombarde, wisigothique, arabe et même celtique, dont on peut reconstituer ou conjecturer la forme vernaculaire. A travers les chroniques, annales, récits de toutes sortes, dès le haut Moyen Age, il s’agissait de transcrire en latin, langue unique des lettrés, les différents apports des civilisations héritées de l’Empire romain ou qui s’y étaient implantés, et non sans variantes, comme le remarque B. Dumézil à propos des noms de la reine Brunehaut: Pour comprendre le destin de cette femme, notre première tâche est de lui donner un nom. Les sources contemporaines la désignent en effet selon des formes extrêmement variables: Brunehilda, Brunechilda, Brunigildis, Brunigilda, voire Bruna... Ces incertitudes orthographiques s’expliquent par une volonté de transcrire en latin, unique langue de l’écrit, un nom issu des dialectes germaniques parlé par des peuples occupant l’Europe occidentale. (Dumézil 2008: 8)
L’onomastique dans la Chronique des rois de France
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Héritier et compilateur des grandes chroniques antérieures, Aimoin nous livre en matière d’onomastique une première forme d’adaptation, peut-être pas entièrement unifiée, mais relativement cohérente, soit un premier système de transposition ayant, sinon des règles strictes, du moins des lignes de force remarquables. Le chroniqueur n’est d’ailleurs pas dénué de connaissance philologiques; il mentionne au passage l’étymologie de toponymes germaniques –en langage barbarin– latinisés, ce que reprend la traduction: Deinde post pugnam quam inter Odoacram & Pheletheum fuisse superiori commemoravimus libello, profecti Longobardi de Golanda pervenerunt in Rugiland, quae Latine Rugorum patria dicitur. Nam land in lingua Germaorum, patria dicitur verbo Latinorum. Exempto autem humanis rebus Gudehoc, successit ejus filius Claffo. Decedente autem Claffone, Tato regnum tenuit. Quo tempore Longobardi relicta Rugorum patria venerunt in campos patentes, qui sermone barbarico felth appellantur, mansueruntque ibi. (Aimoin II, XIII, 104) ... Rugilande, qui est appelee en latin la terre aux Rugiens, car ce que l’on dit en latin, c’est a entendre en tiois land... en Chans overt, c’est une terre qui est ainsi appellee et en langaige barbarin en Felth (II, XIII, 11-12)
Mais le traducteur lui-même peut intervenir pour donner l’étymon d’un nom propre, comme pour le pantheon, dont il rappelle la composition en grec, en glosant le latin: un vieil temple et ancien qui estoit a Romme et qui avoit nom Pantheon. Il avoit nom Pantheon pour ce qu’il estoit sacré et dedié en l’honneur de tous les dieux aux sarrazins et aux paiens, car ce que nous disons en françoys ‹tout› dient les Grejoys ‹pan› et se que nous disons en françoys ‹dieu›, ilz dient ‹theos›, c’estoit a dire ‹le temple de tous les dieux›. (III, LVI, 61-62)
La toponymie et l’anthroponymie germanique sont largement latinisés, comme en témoignent quelques exemples. Les toponymes germaniques en au (germanisation de aqua, adj. ‹humide› au départ, dont le féminin substantivé a désigné tout lieu humide) sont latinisés en -o, avec une déclinaison que peut refléter la traduction: Bardengo (III, CIX, 10. Aimoin, IV, LXXVIII, 436 : in pagum... Bardengoum / GC, III, 54 et note 5: Bardengohout: Bardengau, Hanovre, près de Hunebourg, sur l’Illmenau. Arrabo est une des nombreuses formes latinisées pour la Raab, recensées par Graesse (Raba, Rabus, Ar(r)abo, Arrobo, Hrapa, Hraba, Rabaniza, Rhaba), Aimoin, IV, LXXXII, 446: usque ad Arrabonis fluenta: la riviere d’Arrabone, III, CXI, 8 / GC, III, 69: Arrabone: Raab, rivière de l’Autriche et de la Hongrie, affluent de droite du Danube. Cambum est la latinisation de Kamp: Aimoin, IV, LXXXII, 446 : Cambum fluvium: la riviere de Cambe, III, CXI, 6 / GC, II, 67 et note 2: le Kamp, rivière de Basse-Autriche, affluent de gauche du Danube. Les anthroponymes germaniques en h sont adaptés en ch non sans témoins de leur forme originale parfois, comme pour hari: Cherbertum, Aimoin, II, XXVIII; II, XLI, 45 / Charibertus, Aimoin, III, XLIII, 113; III, LVIII, 235 / Cherebertus qui et Aribertus dictus est, Aimoin, III, I, 146; III, II, 147. Formes qui se réflètent dans la traduction: Cherbert / Charibert: Caribert, un des fils du roi Clotaire 1er et d’Ingonde, roi de Paris. A ce premier niveau, les possibilités de travestissement existent déjà, qui peuvent se transmettre dans la traduction. Remarquable est le cas d’Avistraice, III, CI, 4, qui traduit une forme altérée du latin, comme l’a relevé J. Viard: Aimoin, IV, LV, 393: Amistrachiam / GC, II, 227 et note 4: Anistrachie, mauvaise lecture d’Unistrachia pour Wistrachia: partie orientale
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de la Frise actuelle bordée par le Zuydersee (auj. Westergoo). Alomoram (fluvium), Aimoin, IV, LXXXIV, 449 - passé dans la traduction: Alomore, III, CXII, 4 / GC, III, 72- , est une altération de alcmona / altmona nom primitivement celtique désignant un mont fortifié, puis la rivière coulant au pied, germanisé en Altmül, actuellement Altmühl, affluent du Danube. Des mélectures dans l’original peuvent aussi engendrer de faux noms propres, comme dans Olier, III, XXXVII, 11. Aimoin, III, LV, 247: Olericum quendam / GC, I, 331 : un home qui Holeriques avoit nom. C’est le clericum quendam d’Aimoin qui, par suite de la confusion du c, sans doute mal fait dans le manuscrit, avec o, a donné Olericum, d’où Holeriques.
3. Transpositions par mésinterprétation du latin et leçons déformées Des leçons erronées viennent de mélectures du latin témoignant en particulier des habitudes d’une scripta continua agrégeant des éléments clitiques à leur support; les prépositions du latin sont ainsi, dans la traduction, le lieu privilégié d’agglutinations: Abhibernie pour Hibernie, III, LI, 98. Aimoin, III, XXV, 295-296: beatus Colombanus ab Hybernia Oceani progressus: l’Irlande, évangélisée par saint Colomban. Ingolande pour Golande, II, XIII, 8, 12. Aimoin, II, XIII, 104 : ingolanda / GC, I, 135: la terre de Golanda: Goland, pays occupé par les Lombards dans leur migration de Scandinavie. Ce phénomène touche aussi l’article dans la traduction: Liubi(le) le roy des Vulziens, III, CXXVIII, 4. Aimoin, IV, CXI, 516 : Liubi regis Vultzorum / GC, IV, 76: le roi Leubi. Leçon à rectifier: l’article le est une première fois agglutiné au nom propre et répété; lire Liubi le roi des Vulziens, génitif latin de Liubus: Lieube, roi des Vulsques. Des altérations touchent le corps même de noms propres: à quelques lignes de distance, on trouve Luiserne, III, CXVII, 5 / Berserne, III, CXVII, 7, leçon déformée. Aimoin, IV, XCI, 465: Luceria / GC, III, 98 et note 3: Luceria, Italie, prov. et district de Foggia (Pouille) ou plutôt Nocera inferiore dei Pagani, province de Salerne. Le traducteur donne lui-même deux variantes d’un même anthroponyme: Icelui Soibaut ou Sisebot, III, LX, 58. Soibaut, III, LX, 57, 61, 62. Aimoin, IV, XIII, 328 : Sisebodus / GC, II, 112 et note 2: Sisebut, roi d’Espagne, 612-621, donné comme le successeur direct du roi Witteric, mais succède à Gondemar (610-612) après son assassinat. Certaines leçons laissent perplexe: Doulx Riches, III, CV, 4. Aimoin, IV, LXVIII, 415 : Duadives / GC, III, 21 et note 5, Eginhard, Annales: in loco qui duas dives vocatur. Est-ce la traduction de Dulcis dives? On ignore où est cette localité. J. Viard rapporte aussi l’exemple de Luxovium traduit étrangement par Lieuberbiz dans les Grandes Chroniques de France à la suite d’une mélecture du ms. latin de la Bibliothèque Nationale, 5925, fol. 67, source de la traduction: Lux à la fin d’une ligne et ovium au commencement de la ligne suivante, pris pour le génitif pluriel d’ovis, ‹berbiz›,et lux interprété en rapport avec ce génitif (GC, II, 55 et note). Un nom commun peut être pris pour un nom propre: Ung chastel qui estoit assis sur la marche qui Amporro a nom, en la langue denesche estoit appellé Reric, III, CXVIII, 54. Aimoin, IV, XCVI, 475: destructo emporio / GC, II, 112 et note 2: un chastel qui avoit nom Empores. Emporium désigne un comptoir marchand.
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Un anthroponyme latin peut être pris pour un toponyme: Ung chasteau qui a nom Rumstan, III, CIV, 14. Aimoin, IV, LXVII, 414 : Captoque in itinere Rumstano, cum ad urbem praedictam venisset, mater et soror neptis Vuarnarii ducis ad conspectum eius adductae sunt / GC, II, 256 et note 4: et si pristrent des gens Ramistame, frere le duc Guedon et oncle le duc Gaifier, qui de son neveu s’en estoit a li fuiz et puis de li a Gaifier: Remistane, frère d’Eudes, duc d’Aquitaine.
4. Leçons erronées par incompréhension On relève à l’occasion des leçons travesties par incompréhension: En ce temps mesmes avint une grant guerre entre Clovis et Alarique, le roy des Gotiens, et on sceut bien que Clovis commença ceste guerre plus pour ce qu’ilz estoient Ariens, si come estoient les Bourgoignons, qu’il ne fist pour autre chose... I, XXVI, 1. Dans le manuscrit: si come ilz n’estoient rien! Aimoin, I, XX, 62: quia Ghoti Arriane hereseos secuti Burgundiones erant.
5. Graphèmes équivoques Comme très souvent dans les manuscrits médiévaux écrits en écriture gothique, et les manuscrits A et B de la Chronique des rois de France, des graphèmes peuvent être difficiles à distinguer, comme ils le sont déjà dans l’original: les noms propres, par leur opacité, en sont des illustrations privilégiées, qui se présentent parfois sous des formes concurrentielles, pour autant que la lecture en soit assurée. Soit les graphèmes c et t et n et u dans ces quelques exemples: Ancharit, où les deux graphèmes sont représentés dans leurs variantes concurrentielles, sans compter la variante nasale en/an: Ancharit, III, XLVI, 7. Ancharis, III, XLVI, 3, 4. Auchari, roi de Lombardie, III, XLII, 1. Antharit, le roy de Lombardie, III, XLIV, 6. Enchariz, III, XLI, titre ; XLVI,3. Encharis, III, XLVI, 1. Aimoin, III, LXXVIII, 272: Autharis / GC, II, 22 et Table: Autharis (Authaire): Authari, roi de Lombardie. Coringiens (l. Thoringiens ?), II, IX, 28: les habitants de la Thuringe. Ceulx de Crace, III, XII, 6 / GC, I, 219: les Traciens: les Thraces. Les jambages sont aussi des lieux d’équivoques, soit u/n déjà relevé dans l’exemple précédent, mais aussi Caucius (l. Cantins?), II, XL, 1. Aimoin, II, XXXVI, 141: Cautinus: Cantin, évêque de Clermont en Auvergne. Ortove, III, CXVII, 4. Aimoin, IV, XCI, 465: Ortona / GC, III, 98 et note 2: Ortone: Ortona a mare, Italie, prov. de Chieti, dans les Abruzzes, sur l’Adriatique. La distinction in/ni/ui/m/im ui/iu est particulièrement délicate en l’absence de trait oblique sur í: [Germanie] peut se lire Germanie ou Germaine (passim). Nannins (l. Nannius?), I, V, 6. Aimoin, I, III, 26: Nannius, général romain en lutte contre les Francs. Thimotiens pour Tunotiens: Thimotiens, unes gens qui s’estoient partiz de la compaignie des Burgaulz, III, CXXV, 14. Thymotiens, III, CXXIV, 11. Aimoin, IV, CVI, 501: Tunotiarum / GC, IV, 64: Thimoteis: Tunotiens, peuple bulgare.
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D’autres graphèmes prêtent occasionnellement à confusion. – distinction b / h: Hertefroy, III, XXV, 4. Aimoin, III, XXXIX, 397: Bertefrido. – distinction c / e: Arusco, III, CXXVII, 3. Aimoin, IV, CX, 512: Aruseus: Arendsee, lac de Thuringe, avec mélecture possible dès l’original. – distinction c / r: Carane, le roy des Hongres, III, VIII, titre, 1. Aimoin, II, VI, 156: Cacanum / GC, I, 211: Kacanus: Cagane, roi des Huns. – distinction e / o: Genove, III, CXVIII, 23. Aimoin, IV, XLIV, 470 : civitatis Genuae: Gênes, Italie. – distinction ∫ long / l: godesaibe, III, CXVIII, 48. Aimoin, IV, XCVI, 474: Godelaibum / GC, III, 111: Godelaibbes: Godelaibe, duc des Abodrites.
6. Formes phonétiques de la transposition en français 6.1. Alternances Comme pour l’ensemble du vocabulaire, en l’absence d’orthographe réglée, un même nom propre présente souvent, dans la Chronique, des formes à alternances concurrentielles reflétant des phénomènes phonétiques généraux ou plus particulièrement les tendances graphiques du copiste. – alternance er / ar: saint Arnoul / saint Hernoul, saint Ernoul; Clermont / Clarmont, etc. – alternance er / re par interversion: Bertaire(s) / Bretaire, Brecaire(s) < Berchario; l’interversion de l donne aussi la forme saint Supplice – Souplice < Sulpicius. – alternance ier / er: Sierge / Serge. – alternance l / u témoignant de la vocalisation: Amalbert / Amaubert; Silvestre / Sauvestre. – alternance o / ou témoignant de la fermeture de /o/ en /u/: Cahors / Cahours; Tol / Toul. – alternance rhotacisme / lambdacisme: Barthasar / Balthasar; Dalmaise / Darmaise < Dalmatia. 6.2. Règles de transposition en français La transposition en français reflète les évolutions phonétiques générales qui se sont produites au cours de l’ancien et du moyen français et qui ont abouti, pour les anthroponymes et les toponymes, à des formes vulgaires que connaît le plus souvent le traducteur, mais qui lui échappent aussi quand il s’agit de l’énorme stock de noms propres que l’on peut qualifier d’exotiques, du fonds germanique en particulier, auquel il applique peu ou prou des règles d’évolution, L’effort d’actualisation historique s’observe aussi, dans le manuscrit B, lorsque des équivalents contemporains viennent doubler des toponymes anciens, comme Soabe, qui ores est appellee Allemagne, III, I, 8, etc.: la Souabe. On relève des cas similaires dans les GC, comme dans Neustrie, qui ore est appelee Normandie, II, 47.
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Parmi les principaux phénomènes évolutifs, on relève: – le traitement de a accentué libre: Walderada > Vaudree (évolution phonétique intégrale). – le traitement de o ouvert en ue: Mosa > Muese ; Odo > Uedes. – la vocalisation de l antéconsonantique, non sans alternance l / u notée supra: Sauve < Salvius; Walderada > Vaudree, etc. – le traitement de voyelle accentuée + nasale. Soit à l’intervocalique: -anu / -enu > -ain / -en / -an: Aginiano > Aginain; Sabinianus > Sabinien. Avec mouillure NY dans -ania > -aigne: Campania > Champaigne; Cefalenia > Cefalaine. Ou dans -onia > -oigne / -oine: Colonia > Coloigne; Saxonia > Sessoigne. Soit en position implosive avec mouillure: civitatem sanctoniam > Xainctes. – le traitement du groupe consonne + yod avec anticipation. Dans la finale -oliu: [Palatoliu] > Paleisuel. Dans -ariu > -aire, avec réduction possible en -ere: Autharius > Authere. Bertarius > Bertaire(s), Hermarius > Hermaire, etc., mais aussi -ier: Hildegarius > Hildegier. Dans -eriu > -ier: Itherium > Itier. Dans -uria > -uire: Asturia > Astuire (= Asturie). Dans atia, asia> aise: Dalmatia> Dalmaise, Asia > Aise, Austrasia > Austraise, Warmatia > Varmaise / Vermaise. – le traitement des occlusives intervocaliques. Soit g en entourage vélaire: Drogonem > Droon. Soit d intervocalique: Odoenus > Oains. Soit b intervocalique: Eborinum > Evroin, Sabina > Savine. On relèvera ici le traitement de la finale celto-latine -iacu en -i: Frontiacum > Fronci (= Fronsac), Latingiacum > Laigny (= Lagny), Salmonciaca > Salmonci (= Samoussy), Vinciaco > Vinci (= Vinchy). Et de celle en dunum: Augustodunum > Ostun la cité. Mais peut être simplerment francisée la finale dans les anthroponymes ou toponymes, attestés déjà pour un bon nombre sous leur forme vulgaire: – dans les anthroponymes (petite sélection représentative): Anthemius > Antimes, Aretehus > Ariste, Avitius > Avites, Donus > Donnes, Edicius > Edice, Vlaucatus > Flanques, Gislam > Gille, Godinus > Godin, Lucius > Luce, Marcus > Marques, Monmolus > Monmole, Crocus > Troques. – dans les toponymes (petite sélection représentative): Brennacum villam > Brenne, Combis villam > Combes, Dispargum > Dispargue. Sont francisés à des degrés divers des toponymes latinisés d’origine étrangère largement attestés parfois sous cet habillage dans la littérature de l’époque: Cordres, une cité d’Espaigne; Capes < Capua; Jadres < Iadera (= Zadar); Osche < Osca (= Huesca); Tarsatique, une cité de la contree de Liburne, III, CXV, 16. Aimoin, III, LXXXIX, 458: Tarsaticum / GC, III, 86 et note 3: Tersatz, bourg de l’Istrie, près de Fiume. Sont maintenus dans la traduction d’anciens toponymes latins ayant devancé leurs concurrents plus récents: Istre < Ister, nom latin du Danube au regard de Dunoe (cf. infra). La francisation peut être le calque d’une forme adjectivale: Catine, III, XXXVI, 16. Aimoin, II, XXXII, 137: incivitate Catinensi: Catane, en Sicile. La transparence est nette également dans Hispale < Hispalensis episcopus (= Séville), Nucerine < Nucerina civitate, Sedunense < Sedunensis (pontifex) (= Sion, Suisse), Tridentine < Tridentino territorio (= Trente, Italie). L’habillage français peut être purement graphique, comme dans -um prononcé /õ/ au Moyen Age = on: Carnauton < Carnuntum (= Hainburg, Autriche), Vuaracon, le conte de Bretaigne / Vuarocus, maintenant la déclinaison latine.
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La déclinaison à alternance imparisyllabique se maintient souvent dans les patronymes issus de -o / -onem: Arsafes – Arsafion, Bueves – Bobon, Cleph – Claphon, Giles – Gilon, Huet – Huon, Sanses – Sanson, Uedes- Uedon. Mais une seule forme est parfois retenue répondant à l’emploi casuel du latin: Oles < Olo, avec des finales en -o / -on: Coco < Coconem, Tasso < Tassonem, Tasco / Tascon / Taiscon < Thrasco. Certains exemples sont problématiques: Marien, III, I, 16 (pour Marion?). Aimoin, III, I, 147, Mario.
7. Les noms propres d’origine arabe Les anthroponymes d’origine arabe, peu nombreux, ont un traitement assez cohérent et constituent un ilot exotique. Les éléments de base originaux restent transparents et les finales originales sont maintenues, au regard de leurs correspondants francisés dans les GC. Soit Abd (‹serviteur›): Abdela / GC Abdelle, Abdirama / GC Abderame, Abdirama / GC Abderame (= Abd-el-Rahman, gouverneur de la province d’Espagne, vaincu par Charles Martel). Soit Abu (‹père de›): Abulabaz, Abulaz, Abumarvan. Soit Ibn (‹fils de›): Ibnalarabi. Est déjà transposé en latin, sous la forme hébraïque, Abraham, le nom arabe d’Ibrahim. Amor est la forme latine répondant à Omar, transposée en Amour, roi sarrasin.
8. Les noms propres d’origine germanique 8.1. Formes latinisées Comme on l’a déjà observé, les noms propres germaniques, massivement représentés, sont passées par le tamis du latin, que reflète habituellement leur transposition en français, non sans travestissements parfois, comme dans ces quelques exemples: ad Alaram fluvium > Alare le fleuve: la rivière Aller, affluent de la Weser. Ambram fluvium > Ambre: l’Emmer, affluent de la Weser. Badenfliot > Badenfliot / GC, Badenflot: Beidenfleth, sur la Stör, dans le Schleswig-Holstein. Buki et variantes se retrouvent dans deux toponymes: Buki > Bucri / GC, III, 32 et note 6: Burki: Bückeberg, massif de la Weser; Hohbuocki > Hobbucki – Hubboki (sic dans le ms., le premier b pour h) / GC, III, 124 et note 2: le Hobeck ou Hohbeckerberg, dans le Hanovre. Tulliacum > Culbiaque / GC, Tulbic: Zulpich en Rhénanie. 8.2. Séries toponymiques La transposition des toponymes et oronymes germaniques, massivement latinisés, s’opère selon des règles relativement cohérentes, à l’oeuvre dans des séries plus ou moins étoffées, non sans des altérations:
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– toponymes à base borc / burgus: Eresburgum > Ereborc – Erebourc - Herebourc / GC, III, 25 et note 1: Marsberg, auparavant Stadtberg; Vviziburgensis episcopus > Vuireborch: Würzburg, Bavière. – toponymes à base felt / feldus: Eselsfeth > Esefeth – Esefelt: Itzehoe, SchleswigHolstein; Smetfeldus > Senefet: la plaine de Sendfeld, en Westphalie. – toponymes à base heim latinisés sous différentes formes ou non: Ingelinheim > Ingelenheim / Ingilem: Ingelheim, près de Mayence; Cussestin > Cusestem: Kostheim, Hesse. – toponymes à base strut: Onestruth > Onestruch (l. Onestruth ?): Unstrut, rivière de Saxe. – toponymes à base furt : l’actuel Frankfurt a déjà en latin des formes variées, transposées et multipliées en français, dans la Chronique des rois comme dans les GC, indices d’une difficulté à fixer dans une forme stable un toponyme devenu opaque: Franconofur – Franconofuz – Franconofurd – Franconomur / GC, Franquenefort – Franquenefourt – Franquenehourt – Franquenewort – Franquenoforth. – toponymes en -ing latinisés: Skahumgi > Ahumgi (avec troncation) / GC, Skahingue: Schonigen, dans le Brunswick (cf. infra le traitement de cette finale dans les anthroponymes). 8.3. Séries anthroponymiques On rappellera que, succédant au système trinaire du latin, composé du nomen prévalent, du praenomen et du cognomen, le système anthroponymique des principaux peuples germaniques (Francs, Burgondes, Wisigoths) repose sur un principe unique sous deux formes : la forme binaire des noms composés, constitués de deux éléments, le second étant un substantif (-frid ‹paix›, -hildis ‹combat›) ou un adjectif (-berth ‹brillant›, hard ‹dur, fort›), déterminé par le premier; la forme dérivée de noms hypocoristiques (diminutifs) pouvant eux-mêmes revêtir une forme simple, constituée par le premier élément des noms composés: Berta, femme de Pépin le Bref, est la forme familière de Berthrada, qui a donné la forme savante Bertrae, forme populaire Bertrée. Il faut souligner cependant, avec M.-T. Morlet, que les noms germaniques «ont été créés par des populations dont le but n’était pas de produire des noms ayant une signification particulière, mais plutôt de former des noms réunissant des éléments bien connus d’eux, car ils figuraient dans des noms préexistants.» (Morlet 1968: 6. Cf. aussi Goetz 1996: 100). La conscience de la signification première de ces noms est en tout cas perdue chez Aimoin et ses sources, de même que dans la traduction. Ici encore, des séries se dessinent dans des transpositions relativement bien réglées: Noms en bald > baldus > baut, avec variantes: Gondebaut – Gondebault, Karibaut, Theodebal, Theobart, Villebaut. Noms en berg > berga > biere: Ingoberga > Angerbiere. Noms en brand > brandus > brant: Hyldebrant – Hyldebran. Noms en fold > foldus: Wolfoldus > Uulfolz. Noms en frid > fridus > froy: Anfroy, Hermenfroy, Hunfroy, Liefroy, Mainfroy, etc. Noms en gard > garda > garde: Hyldegarde, Visegarde. Noms en god > gaudus > gaut: Helingault.
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Noms en gilde > childis > childe / gilde: Bilichilde, Brunechilde, Herminigildes, etc. Noms en gisil > gisillus > gisille: Angesigille – Aregisille, Godesigille, Leudesigilles, etc. Noms en gis > gisus > gis: Vinygise – Vuinigise. Noms en gund > gunda > gonde / gunde: Caragonde, Fredegonde, Ingonde – Ingunde, etc. Noms en hard > hardus > art: Richart. Noms en hilde > hildis > hilde: Clodoïde – Clouaut, Nanthilde – Nanchilde, Svuanahilde. Noms en -ing > ingus > ingue / inge : Amingus > Aminges, Hemmingue, Setachingues, mais -ling latinisé en longus > long: Amalongus > Amelon. Noms en kind > kindus> kinde: Vindokindes. Noms en lind > linda > linde: Theudelinde. Noms en mir > mirus > mire: Clodomire, Ingomire, Marcomire. Noms en mund > mundus> mont: Agelmont, Leudemont, Sigismont. Noms en rik > ricus > rique: Monderique, Theodorique – Thierry. Noms en trud > trudis > tru/trouz: Gomatruz, Loutrouz, Pletruz, Rantruz. Noms en wulf (plus spécialement lombards) > -ulphus >- ulfe: Brunulfe, Chranulfes, Engulfes, Fadulfe le Lombart, etc. Noms en winth (plus spécialement wisigoths) > adaptations: Galdsunidam > Galsvinte – Gasinte, Galdsonda > Gasonde.
A l’exemple de Theodorique / Thierry, Clodoïde / Clouaut, peuvent être en concurrence des formes calques et des formes phonétiquement évoluées, comme froy < fridus, entrées dans le patrimoine onomastique commun. 8.4. Problème du W germanique C’est ici le lieu de traiter le cas des noms propres germaniques en W. A l’initiale, le W d’origine germanique connaît, en dehors de l’aire picarde, une évolution phonétique en /gw/ > /g/. La traduction offre les formes en g pour les patronymes attestés à l’époque dans la langue vulgaire, au regard des GC parfois: Wado > Gaidon / GC: Wascons; Walanem > Galon / GC: Walane. Le latin offre aussi des adaptations en h comme Helpi > Helpin / GC, Velpium: Welf 1er, comte de Bavière. A l’intervocalique, dans des anthroponymes originairement en wald (‹gouverner›), son amuïssement suit celui du latin. La traduction les rend sous les formes -oal(d) /oalz avec vocalisation -ouaut / ouault, et des rhotacismes -ouart: Ansoaldus > Ansoalz, Clodoaldum > Clodouart qui ores est appellé saint Clouaut, Gondouault, Grimouaut – Grimouault, Rodoal – Redoalz, Regnault, etc., mais il est occasionnellement maintenu: Givaldus > Gilvart, Sigivalt. En dehors de ces cas, W est souvent maintenu, et on relèvera avec intérêt les différentes possibilités pour le transcrire dans le manuscrit B: – en position initiale: transcription par uu: uuisere [131 v°a]; uuandelmer [88 r°b]; uuilleris [150 r°a]. Transcription par υu: υuaracon [56 v°a] – υuaraton [124 v°b] υuarocus [55 r°b], etc. Transcription par υυ: υυarmaise [133 v°b]; CV, 23 [135 r°a]. Transcription par υ: υacon, [32 v°b]; υaharne [139 v°a]. – en position implosive: transcription par uu: suuanahilde [129 r°b] < suuanahildem.
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9. Noms de peuples La traduction offre, pour la transposition des noms de peuples, une large palette de suffixation l’emportant souvent sur les formes de base calquées, auxquelles on peut comparer les équivalents dans les GC: -ciens: Abodriti > Abodriciens / GC: Abodriciens 11 occ. Abodrites 6 occ. - Abodrices 1 occ. Gothi >Gotiens – Gocien(s) 38 occ. - Goths occ. - Gos 1 occ. - Gotz 1 occ. Mais aussi en -ins: Carantins (les habitants de la Carinthie). -iens: Heruli > Eruliens. Westphalorum (regione) > Faliens / GC: Wistephalois. -ois: Carniolois (les habitants de la Carniole), Navarroys. -ans: Guduscanorum > Guduscans, peuplade bulgare. - ain: Ribuarium fines > Riboains / Roboains (les Francs ripuaires). Mais est également employée la périphrase commode ceulx de, qui peut pallier le manque d’équivalence synthétique: Thraces > ceulx de Crace (l. Trace) / GC: Traciens; Dunenses > ceulx de Dun; ceulx de l’Abie ; ceulx de Sardaigne. Cette même périphrase est employée par le traducteur des Fet des Romains en équivalence souvent modernisée des peuplades antiques sur le territoire de la Gaule et ailleurs, comme le relève J. M. A. Beer en dégagent le processus d’unification anachronique ainsi à l’oeuvre (Beer 1976: 92 et 209-213).
10. Formes latines conservées, alternances et doublements Il n’est pas exceptionnel que des formes latines soient conservées dans la traduction. Dans les anthroponymes, une longue liste peut ainsi être dressée, où dominent en particulier les grands noms de l’Antiquité, à côté de noms de hauts personnages de la période mérovingienne, sous forme déclinée parfois: Antiochus, Brutus, Campulus, Cassiodorus, Crannichis, Dragamos, Ebrardus, Egideo, Egila, Endoeli (génitif latin), Feleteum (accusatif latin), Focas, Fortunatus, Francio, Frigantes, Gluomi, Heliodorus, Heraclionas, Horsmida, Leuva, Liubi (génitif latin), Neptunum (accusatif latin), Saburro, Sedeleuba, Tolga, Torgotho, Torquatus, Totila, Vuolfus. De même pour les toponymes, où le maintien des originaux –dont les toponymes de source celtique en -iacu–, peut refléter l’ignorance du correspondant vulgaire, à restituer dans le glossaire: Adiacus et Ypiacy (dans la région de Cahors, non identifiés), Captoniacum (Choisy-au-Bac, Oise), Centulo, Ecredum (ms. Dechredum pour Ebredum (Embrun, Alpes), l’eglise de mon seigneur saint Laurent, qui est apellee a craticula (Saint-Laurent du Latran, en référence au martyr du saint), Dravernum (Dravail, Essonne), Maurelegiaco (Marlenheim, Bas-Rhin), Petrocia (Perusse, Aveyron), Port Veneris (Portovenere, Italie), la riviere Scaldiam (l’Escaut), Spinzia (Epoisses, Côte-d’Or), Uceticum (Uzès, Gard), apud Vapingum (Gap, Hautes-Alpes), Vinemacus (le Vimeu). Il n’est pas rare, enfin, qu’un même toponyme apparaisse, dans la traduction, sous sa forme vulgaire et sous sa forme latine plus ou moins adaptée. La liste des cités gagnées par les troupes de Charles Martel sur les Sarrasins garde ainsi les toponymes latins, mais doublés pour certains de leur traduction: ce fut Biterne, Montpellier, Biterris, Mont Pessulain, Agathen (Agde), Nevensium (Nîmes), Uceticum (Uzès), III, CI, 41 / GC : liste similaire aussi latine, en
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dehors de Montpellier. Se concurrencent Clarmont / Clarismons (Clermont en Auvergne), Clipi / Clipiaco, Dunoe / Hystre, Lippia / Lippe, Nonantule / Nonantinas. De même dans les anthroponymes: Borna / Borne, Cancanus / Concane, Crassus / Crasse, Nicetes / Nitece (confusion c / t).
Conclusion et perspectives La grille d’analyse de l’énorme matériau onomastique de la Chronique des rois de France, dans sa première partie, consignée dans le seul manuscrit B, si elle dégage des lignes de force de son traitement au regard du latin de sa source, n’est que le condensé d’observations plus fines appuyées sur un relevé systématique issu de la Table complète des noms propres. Elle devrait être complétée, pour la suite du texte, par une comparaison systématique des noms propres dans les deux manuscrits, à partir de la traduction de la Vita Karoli, où s’observent des modernisations (Karlon → Charles, Charlon Martel → Charles Marteaux, toutes les gens de Germanie, c’est d’Allemaigne → toutes les gens d’Alemaigne). A cette étape, cependant, l’examen peut avoir valeur d’exemple. Il fait appel à un fort ensemble de paramètres qui se superposent et s’interpénètrent à la fois: la tradition manuscrite, et de la source et de la traduction, qui conditionnent en partie l’habillage des formes, latines et françaises, la traduction et ses options dans leur traitement, à laquelle on peut constamment comparer la pratique de l’oeuvre parallèle des Grandes Chroniques de France. L’énorme stock onomastique des fonds romain au sens large, germanique, arabe, celtique, mais aussi français, passé par le tamis du latin, constituait pour le traducteur un problème majeur de transposition. S’il avait à sa disposition un ensemble non négligeable d’équivalents d’anthroponymes et de toponymes ‹français› familiers en regard des originaux latins ou latinisés, il avait aussi affaire à un fonds ‹exotique›, germanique en particulier, qu’il devait transposer à travers des graphies que pouvait déformer une transmission manuscrite peu sûre, remplie de pièges et de chausse-trapes, l’onomastique, par son opacité, étant un lieu privilégié de mélectures et de travestissements favorisés par l’équivoque des graphies, chez des copistes travaillant aussi de façon mécanique. Le résultat de ce parcours onomastique est un plurisystème où entrent en concurrence les équivalents connus et les naturalisations à la française, conditionnées par le phonétisme contemporain, les calques et les transfuges du latin, les formes métissées, témoignant peut-être d’ignorances, l’onomastique se situant au carrefour de la culture bilingue du traducteur tout en étant, en quelque sorte, un révélateur de ses connaissances, i. e. de son univers géographicohistorique, confronté à d’autres mondes, et de ses options. Deux points méritent encore d’être relevés, pour terminer. Ce type d’enquête onomastique mérite d’être menée sur d’autres traductions, pour élargir la perspective et tester ses conclusions. C’est ainsi que dans la traduction de l’Histoire abrégée de Jérusalem conservée dans le ms. BN 17203, le traducteur, confronté à l’univers biblique antique et contemporain, pratique volontiers une onomastique bilingue assortie aussi d’équivalents (cf. le tans Moysi, le temple Domini [9 r°a]; Yopem, qui siet sor la marine, qui ore est apielee Japhe... [15 v°b); Laoditiam, qui est en Surie [18 v°b].
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Le problème de la transposition des noms propres ‹exotiques› et de leur naturalisation en français est récurrent et se pose dans tous les ouvrages et récits historiques; c’est singulièrement le cas pour l’onomastique de la période mérovingienne, comme le relève R.-X. Lantéri au seuil de son ouvrage sur Brunehilde, où l’on peut aller de la signification originelle, quasitotémique (Déesse (de la guerre) en cuirasse), au nom franchement naturalisé, en passant par Brouniakhildis, compagne de Khildeberkht!! (Lantéri 1995:1-2).
Bibliographie Sources Aimoni monachi, qui antea annonimi editus est, historiae Francorum Lib. V, ex Veterib. Exemplaribus multo emendationes: Parisiis apud Andream Wechelum, 1567. Exemplaire en ligne sur le site de la Biblioteca Complutense de Madrid. Chroniques latines de Saint-Denis: édition critique par Pascale Bourgain, édition en ligne de l’École des Chartes. Les grandes Chroniques de France: édition Jules Viard, Paris, Société de l’Histoire de France. 1. Des origines à Clotaire II, 1920, SHF, 395. 2. De Clotaire II à Pépin le Bref, 1922, SHF, 401. 3. Charlemagne, 1923, SHF, 404. 10. Appendices, Tables, 1953, SHF, 457.
Etudes et répertoires Beer, Jeanette M. A. (1976): A Medieval Caesar. Genève: Droz. Dumézil, Bruno (2008): La reine Brunehaut. Paris: Fayard. Fouché Pierre (1966-1969): Phonétique historique du français. II. Les voyelles. III. Les consonnes et Index général. Paris: Klincksieck. Flutre, Louis-Ferdinand (1962): Table des noms propres avec toutes leurs variantes figurant dans les romans du Moyen Age écrits en français ou en provençal et actuellement publiés ou analysés. Poitiers: Centre supérieur de Civilisation Médiévale. Goetz, Hans-Werner (1996): Nomen feminile. Namen und Namengebung der Frauen im frühen Mittelalter. In: Francia. Forschungen zur Westeuropäischen Geschichte 23/1, 99-134. Graesse, Johann Georg Theodor (1972): Orbis latinus. Lexikon lateinischer geographischer Namen des Mittelalters und der Neuzeit. Grossausgabe, bearb. und hrsg. von Helmut Plechl. Braunschweig: Klinkhardt & Biermann. En ligne par The Electronic Text Service: Columbia University. Labory Gillette (1990): Essai d’une histoire nationale au XIIIe siècle: la chronique de l’Anonyme Chantilly-Vatican. In: Bibliothèque de l’Ecole des Chartes 148, 301-354. Lantéri, Roger-Xavier (1995): Brunehilde, la première reine de France. Paris: Perrin. Longnon, Auguste (1968): Les noms de lieu de la France. Leur origine, leur signification, leurs transformations (2 vol.). Paris: Champion. Morlet, Marie-Thérèse (1968-1972): Les noms de personnes sur le territoire de l’ancienne Gaule du VIe au XIIe siècle. I, Les noms du germanique occidental et les créations gallo-germaniques. II. Les noms latins ou transmis par le latin. Paris: CNRS.
Daniela Cacia (Università di Torino)
Riflessi galloromanzi nell’antroponimia cuneese (XII-XVI secolo)
L’obiettivo del presente contributo consiste nel valutare quale sia stata l’incidenza dell’elemento galloromanzo sui secondi nomi attestati dal XII al XVI secolo nell’area sudoccidentale del Piemonte, ovvero nei territori che sono inclusi nell’attuale provincia di Cuneo. Com’è noto, infatti, buona parte del territorio cuneese ed in particolare il versante alpino risulta caratterizzato da parlate occitane. Attualmente i comuni della provincia di Cuneo che, sulla base della legge 482/99, recante ‹Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche›, hanno dichiarato di appartenere alla minoranza linguistica occitana sono 721 su 250. Per l’epoca di cui ci occupiamo (XII-XVI secolo) risulta ovviamente difficile, per non dire impossibile, individuare quale fosse l’estensione del dominio linguistico galloromanzo, che però aveva certamente uno sviluppo maggiore, espandendosi anche verso la pianura. Per l’indagine sono state consultate 14 fonti, selezionate all’interno di due storiche collane, ovvero la Biblioteca della Società Storica Subalpina2 e la Biblioteca della Società per gli Studi Storici, Archeologici ed Artistici della provincia di Cuneo.3 Complessivamente sono stati esaminati 206 documenti, oltre a 5 volumi di Statuti, tutti redatti in latino, dai quali sono stati estratti i dati antroponimici riferiti a 4722 individui, in prevalenza di sesso maschile (4618), per un totale di 1266 lemmi. Escludendo i lemmi impiegati in funzione di primo nome (91) ed escludendo altresì gli elementi antroponimici utilizzati dichiaratamente come soprannomi, cioè introdotti da una formula soprannominale4 (18), si giunge ai 1157 secondi nomi5 presi in esame per il presente lavoro. Acceglio, Aisone, Argentera, Barge, Bellino, Bernezzo, Borgo San Dalmazzo, Boves, Briga Alta, Brondello, Canosio, Caraglio, Cartignano, Casteldelfino, Castellar, Castelmagno, Celle di Macra, Cervasca, Chiusa di Pesio, Crissolo, Demonte, Dronero, Elva, Entracque, Envie, Frabosa Soprana, Frabosa Sottana, Frassino, Gaiola, Gambasca, Isasca, Limone Piemonte, Macra, Marmora, Melle, Moiola, Montemale, Monterosso Grana, Oncino, Ormea, Ostana, Paesana, Pagno, Peveragno, Pontechianale, Pietraporzio, Pradleves, Prazzo, Revello, Rittana, Roaschia, Robilante, Roburent, Roccabruna, Roccaforte Mondovì, Roccasparvera, Roccavione, San Damiano Macra, Sanfront, Sambuco, Sampeyre, Stroppo, Valdieri, Valgrana, Valmala, Valloriate, Venasca, Vernante, Vignolo, Villanova Mondovì, Villar San Costanzo, Vinadio. 2 Durando (1902), Sacco (1933), Barelli (1936), Tamagnone (1969), fonti schedate integralmente, ed inoltre Tallone (1906) e Tallone (1916), di cui sono stati presi in considerazione i documenti redatti nel Cuneese. 3 Mi riferisco a Molineris (1978), Leone (1982), Camilla (1985), Pezzano (1987), Bosco (1994), Giorsetti (2004), Gullino (2005), Mangione (2006). Sono stati esclusi sia i contesti dubbi o incompleti sia i riferimenti a principi, papi ed imperatori. 4 Circa la natura dell’elemento soprannominale registrato nell’antroponimia cuneese si rimanda a Cacia (2010: 47-68). 5 Nel computo rientrano anche i nomi singoli. 1
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La componente galloromanza rilevabile nei 1157 lemmi in esame è piuttosto contenuta: 101 forme (369 individui), pari al 9% circa del corpus (8,7%). Ho accolto sia i nomi che presentano esiti galloromanzi certi o altamente probabili sia i nomi che mostrano fenomeni comuni ai volgari galloromanzi e a quelli galloitalici, nell’impossibilità di ricondurre con certezza i singoli casi all’uno o all’altro dominio linguistico. Inoltre ho preferito includere anche i nomi per i quali l’ipotesi galloromanza è data soltanto come possibile, accanto ad altre soluzioni interpretative parimenti convincenti. I nomi posti ai primi ranghi6 consentono di avanzare alcune considerazioni preliminari. Limiterò l’osservazione alle forme con frequenza uguale o superiore a 5, che denominano 235 persone su 369, pari al 64%. oliverius (oliverus) giraudus (giraldus) fereyranus ogerius balayre (balayra) bergognus anfossus bayus (bay) girardus berardus berbierius (berbiera) gilius bruyderius buscatus faramia maynardus (meynardus) galvagnus milo (milonus) rolandus (rollandus)
N. attestazioni 69 23 21 20 15 14 9 9 9 7 6 6 7 7 6 6 5 5 5
N. individui 67 23 20 18 15 13 9 9 8 6 6 6 5 5 5 5 5 5 5
Emerge innanzitutto l’apporto fornito all’antroponimia cuneese dalla letteratura francese e provenzale, in particolare dalle canzoni di gesta. In prima posizione s’incontra Oliverius, che risale etimologicamente al latino olivarius, dal fitonimo latino oliva unito al suffisso -arius. In Italia ricorre dall’XI secolo, poco prima Seguono con frequenza pari a 4 abrivatus, armoinus, bergerius, guytre, laugerius (anche nelle forme letgerius, legerius), miraglus, pinpanellus, rogerius; con frequenza pari a 3 aymo (aymone), bayardus, gondoli, guigo, raynaudus (1 occorrenza come raynaldus); con frequenza pari a 2 aymerii, bayle, bertritus, cavigla, cignino (de), dau (do), frep, garita, garnoni, garo, girbays, gramondi, lunello, mestralis, moyne, pecollus, sarle, vevianus; attestati un’unica volta aluysia (de), araz (de), armandus, armerius, baiacti, beliardus, bertrandus, bigotus, bordello, bornado (de), brenude (de collis de), brigaudj, danisius, denixji, esclafenatis (de), fabre, galiardi, galufayre, garetus, gaselum, gauduinis (de), gooin (de), gorgia, guigeran, guteres, ialino, ioç, juxiane, layle, loque, loyssius, malora, manesserii, mayscent (de), menigaudo, nalays, palmerij, penacius, percevallus, perruca, regny (de), rentrua, robertus, scoferius, termegnono, tomator, toreyna (de), tranguerius, ubleti, vianesii, ysabella (de).
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dell’elaborazione della Chanson de Roland, che nei decenni successivi rese famosa la figura del paladino Oliviero, cugino e amico di Orlando.7 Per il Piemonte ricordiamo Olivarius (primo nome) a Pinerolo, nel Torinese, nel 1040 (NPI, s.v. ‹Oliviero›). Tuttavia all’interno del corpus cuneese il nome fa la sua comparsa sul finire del XIII secolo, periodo in cui le suggestioni dell’epopea francese non sono trascurabili. Ritengo pertanto che abbia carattere letterario. Si presenta nel 1275 in funzione di primo nome (‹oliverius faber› ad Aisone, Tallone 1906: documento 87), poco dopo e per tutto il periodo considerato in funzione di secondo nome: ‹guillelmus oliverius› nel 1284 a Bernezzo (Tallone 1906: documento 113); ‹martinus oliverius› e ‹pere oliverius› nel 1286 a Dronero (Tallone 1906: documento 128). Dal XIV secolo le attestazioni s’infittiscono e si diversificano: il nome appare preceduto da preposizione (‹johannes de olivero› nel 1314 a Sommariva del Bosco, Leone 1982: documento 47); ricorre anche al plurale (‹henricus de oliveriis› nel 1314 a Sommariva del Bosco, Leone 1982: documento 47); in qualche caso viene rafforzato dal nome individuale, si creano cioè designazioni del tipo ‹oliverrius de oliverriis› (1314) e ‹oliverius de oliverijs› (1472), entrambe attestate a Sommariva del Bosco.8 Tra i Sommarivesi che nel 1472 prestarono giuramento di fedeltà al duca Amedeo IX di Savoia c’era pure un ‹rolandus oliverij› (Leone 1982: documento 54): chissà se l’individuo in questione ebbe o meno consapevolezza di recare nel proprio nome il ricordo congiunto dei due paladini caduti a Roncisvalle. La fortunata serie dei nomi ispirati alla letteratura cavalleresca annovera, a partire dal XII secolo, Ogerius9, attestato nel 1185 (‹ulricus ogerius de nevies›, Racconigi, Bosco 1994: documento 9), e Milo10, presente come nome singolo dal 1198 (‹ego milo sacri palatii notarius interfui et rogatus hanc cartam tradidi et scripsi›, Racconigi, Leone 1982: documento 8), come secondo nome nella forma Milonus nel 1284 (‹jacobus milonus›, Borgo San Dalmazzo, Tallone 1906: documento 113), cui seguono, attestati dal XIII secolo, Rolandus11 (‹homines Per la documentazione medievale del nome si rimanda ai sempre preziosi contributi di Rajna 1888 e Rajna 1889, da integrare con la ricca documentazione offerta da NPI e da CI. 8 Cfr. rispettivamente Leone (1982: documento 47 e documento 54). La consuetudine di forgiare il nome individuale sulla base del nome famigliare è ben documentata nel territorio di Sommariva del Bosco tra il XIV e il XV secolo: ‹gramaticus de gramaticis› (1314), ‹patritus de patritis› (1314), ‹adamus de adamis› (1472), ‹barberius de barberiis› (1472). Si veda Cacia (2008). 9 Deve la sua diffusione alla letteratura cavalleresca francese ed in particolare al personaggio di Oggeri o Uggeri il Danese (Ogier li Daneis), paladino di Carlo Magno ed eroe del ciclo dei baroni ribelli. Etimologicamente risale secondo alcuni al personale di origine germanica e di trafila franca Audhigari, da cui il francese Audigier, costituito dagli elementi *audha- ‹ricchezza› e *gaira- ‹lancia›; secondo altri al personale germanico ma di tradizione nordica Holmgeirr (Holger in danese moderno), formato dagli elementi *holm ‹isola› e geirr ‹lancia› (per approfondimenti si rimanda a NPI, s.v. ‹Uggero›). 10 Pur essendo presente nell’onomastica greca come Mílon (connesso a milós ‹lento, tardo›) e in quella latina come cognomen della gens Annia, attestato nelle epigrafi dell’area di Milano (NPI, s.v. ‹Milone›), trovò diffusione attraverso la letteratura epica e romanzesca legata ai Cantari: Milone era infatti il marito di Berta, padre di Orlando (cfr. Flûtre 1962: 139 e Langlois 1904: 451-153). L’origine sarà dunque presumibilmente germanica. 11 Dal francese antico Rollans e Rollant, moderno Roland, di origine germanica, documentato dall’VIII secolo come Hrodland (De Felice 1986, s.v.), formato dagli elementi *hrōtha- ‹fama, gloria› e *nantha- ‹audace, ardito›. Fu adattato nel latino medievale Rodelandus e Rolandus (anche nella variante Rollandus). Fittamente presente in Piemonte come primo e secondo nome. 7
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de cluxia congregati [...] ordinaverunt henricum rollandum›, Chiusa di Pesio, 1260, Mangione 2006: documento 13), Bayardus12 (‹infrascripti de brenecio [...] juraverunt [...] arnolfetus bayardus›, Bernezzo, 1284, Tallone 1906: documento 113), dal XIV secolo Galvagnus13 (‹ego francischinus de galvagno, notarius comunis cunei›, Cuneo, 1308, Mangione 2006: documento 34), accanto a molti altri, collocati ai ranghi inferiori (non manca Raynaldus14 dal 1246, Raynaudus dal 1286). Anche il nome rilevato in seconda posizione può essere, di fatto, il riflesso dell’illustre tradizione lirica d’oltralpe, che annovera famosi trovatori così denominati, basti citare Guiraut de Borneil e Guiraut Riquier. Quale che sia comunque il riferimento culturale, dal punto di vista fonetico occorre fare una precisazione e lo stesso Giraudus invita alla prudenza. Infatti gli esiti fonetici che dall’originale personale germanico15 conducono alla forma Giraudus, in particolare la palatalizzazione dell’occlusiva velare in posizione iniziale e la velarizzazione della laterale in appoggio a dentale, sono presenti anche nel piemontese (Rohlfs 1966: §155 e §243). Talvolta la peculiare distribuzione geografica delle attestazioni può fornire qualche indizio, seppure con le necessarie precauzioni, ricordate in apertura, circa l’impossibilità di stabilire quale fosse la reale estensione del dominio galloromanzo tra il XII e il XVI secolo. Per Giraudus, ad esempio, si osserva effettivamente una buona concentrazione delle occorrenze sul versante alpino, in località come Aisone e Roaschia, che ancora oggi appartengono alla comunità occitana. Il nome entra nel repertorio nel XIII secolo, dapprima come Giraldus, attestato come nomen unicum nel 1260 a Villafalletto ‹dedit [...] omnes terras coltas et prata [...] domino giraldo sacerdoti et capellano ville› (Bosco 1994: documento 25), nel 1275 come secondo nome ad Aisone (‹bernardus giralda›, Tallone 1906: documento 87). Nello stesso periodo compare la forma, che risulta prevalente, Giraudus: ‹jacobo giraudo› nel 1279 a Risale all’antico francese baiart, aggettivo con il valore di ‹di colore baio› ed anche sostantivo maschile ‹cavallo baio›, da bai ‹baio› (a sua volta dal latino badius), cioè rosso-bruno, inizialmente riferito al manto dei cavalli. Trovò diffusione attraverso la tradizione epica cavalleresca, con riferimento al cavallo del paladino Rinaldo. 13 Di matrice letteraria, discende dal nome del nipote di re Artù, che compare come Walganus o Walwanus nell’Historia regum Britanniae (1135-1139) di Goffredo di Monmouth e le cui gesta trovarono in seguito larga diffusione nel tardo Medioevo attraverso i poemi epici del ciclo bretone, che lo cantarono con il nome, in antico francese, di Gauvain (o Gawayne) e lo resero celebre come uno dei dodici cavalieri della tavola rotonda. L’origine etimologica del nome è da ricondurre probabilmente al personale celtico Gwalchemei (NPI, s.v. ‹Galvano›). 14 Di origine germanica, risale al personale Raginald o Reginald, costituito dagli elementi *ragina‹consiglio, decisione (ispirata dagli dei)› e *walda- ‹potente›. Si diffonde grazie alla popolarità acquisita dal paladino di Francia Rinaldo di Montalbano, cugino di Orlando e paladino di Carlo Magno, celebrato nelle Chansons de geste e rilanciato durante il Rinascimento da fortunati poemi. Al pari di Giraudus, anche il cognome Rainaudo mostra velarizzazione della consonante laterale in appoggio a dentale, fenomeno condiviso sia dalle parlate galloromanze (si osservino gli esiti francesi e provenzali Rainaud e Raynaud) sia dalle parlate galloitaliche (Rohlfs 1966: § 243). 15 Il nome risale ad un personale di origine germanica formato dagli elementi *gaira- ‹lancia› e *walda‹potente›, attestato a partire dal VII secolo (Gairowald, Gairold, Geroald), successivamente nelle forme latinizzate Geraldus, Giraldus, che in Francia vennero volgarizzate in Gerald, Girald, Giraut al Nord, Geraud, Giraud al Sud.
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Villafalletto (Bosco 1994: documento 37); ‹guillelmi giraudi›, ‹dalmacius giraudus›, ‹facius giraudus›, ‹jacometus giraudus›, tutti nel 1284 a Roaschia (Tallone 1906: documento 113). Nei secoli successivi è registrato con continuità a Sommariva del Bosco e a Chiusa di Pesio. Esito di tipo provenzale è visibile in Balayre e Faramia. Balayre, che compare una volta anche nella forma Balayra (‹martinus balayra›, Leone 1982: documento 54), è presente nella nostra fonte esclusivamente a Sommariva del Bosco nel 1472: riproduce la voce provenzale balaire16 ‹danzatore›, anche nel senso di ‹buffone› (Mistral 1979, s.v. ‹balaire, arello, airis, airo›). Un secolo prima, in un atto notarile datato 3 maggio 1300, ‹guillelmus ballayre› e ‹michael balleyre› rinnovarono il giuramento di fedeltà all’abate del monastero di San Teofredo, insieme agli altri cittadini della comunità di Bersezio17. Bersezio, paese dell’alta valle Stura, è caratterizzato storicamente da parlata provenzale. La presenza del nome a Sommariva del Bosco potrebbe trovare una spiegazione, quanto meno, con migrazioni di gruppi famigliari dalle valli alpine alla pianura. Un riflesso galloromanzo si scorge anche in Faramia, considerando la presenza della voce feràmio, faràmio18 nel provenzale, con il significato di ‹bestia selvaggia› (Mistral 1979, s.v). Rientra dunque nella categoria dei secondi nomi imposti in origine come soprannomi riferiti a comportamenti peculiari, probabilmente una manifesta scontrosità d’animo. Nel repertorio ricorre a Cuneo tra il 1244 (‹guillelmus fharamia›, Bosco 1994: documento 22) e il 1300 (‹per cartam factam per fredelicum faramiam notarium›, Mangione 2006: documento 9b, 111). Nello stesso periodo s’incontra in Valle Stura dal 1240 al 1247, spesso però con riferimento allo stesso individuo citato nelle fonti consultate per il presente studio, cioè quel dominus ‹guillelmus fharamia› che fu castellano della valle di Stura per conto del marchese di Saluzzo (Tallone 1912: documento 23). Tra gli esiti provenzali certi vi è pure, collocato ad un rango inferiore, il tipo fabre, dal latino faber (ferrarius) ‹fabbro ferraio›, con mantenimento dell’occlusiva labiale, fenomeno tipico del Sud-est francese ed in particolare della Provenza:19 il nome è attestato nel repertorio degli antroponimi cuneesi nel 1518 (‹marchus fabre›, Chiusa di Pesio, cfr. Camilla 1985: documento 23b, 438-443). Non mancano esiti galloromanzi di tipo francese. Si osservi in particolare l’evoluzione del suffisso latino -arius presente in berbierius: considerato che in Piemonte il suffisso latino -arius evolve generalmente in -erius / -erus, l’esito -ierius si dovrà molto probabilmente ad influsso del francese -ier (esito francese di -arius). Berbierius è attestato come secondo nome dal 1185 (‹a prato martini berbierii›, Racconigi, Bosco 1994: documento 9) ed è presente anche nella forma berbiera dal 1284 (‹johannes berbiera›, ‹maynardus berbiera›, ‹willelmus berbiera›, Entracque, Tallone 1906: documento 114). Per altri nomi, invece, sono ugualmente plausibili diverse ipotesi. Mi sembra questo il caso di Buscatus, che compare a Villafalletto tra il 1257 e il 1311 (‹henricus buscatus›, ‹johannes buscatus›, ecc.), anche sotto forma di plurale collettivo Buscati (1289: ‹sectorem Presente anche nel catalano ballaire, di analogo significato (Mistral 1979, s.v. ‹balaire›). Tallone 1912: documento 36. Preciso che le ultime due occorrenze citate non compaiono nel corpus dei nomi cuneesi, in quanto frutto di approfondimenti successivi su singoli nomi. 18 La voce provenzale deriva a sua volta dal basso latino feramen ‹fera venatica› (Du Cange 1954). 19 Per la distribuzione dei tipi cognominali francesi Fabre (Provenza), Faure (Langue d’oc), Favre e Fevre nel resto della Francia si rimanda alla carta linguistica elaborata da Dauzat (1988: 320-322). 16 17
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unum prati iacentis in riclareto cui coherent via et buscati›). Come suggeriva il compianto prof. Giuliano Gasca Queirazza, profondo conoscitore dell’antroponimia piemontese, alla base di questo secondo nome è possibile riconoscere la voce buschè, che in piemontese assume il valore di ‹acquistare cercando›, anche con ogni mezzo, dunque ‹rubare, predare› (Di Sant’Albino 1859: s.v.) e, nel linguaggio venatorio, ‹braccare› (Gavuzzi 1896). Il nome varrà dunque ‹ricercato›, ‹depredato›, ‹braccato›. L’italiano antico conosce il verbo buscare, di analogo significato. Da segnalare poi che in Piemonte esiste anche l’espressione figurata andè d’busca ‹andare in rovina, ridursi al verde› (Di Sant’Albino 1859: s.v. ‹busca›), che poggia sul valore di busca ‹fuscello, fuscellino (…) minuzzolo di legno, paglia o simile› (Di Sant’Albino 1859: s.v. ‹busca›). Il provenzale se busca(r) vale altresì ‹se busquer, se cambrer en marchant, se rengorger› (Mistral 1979: s.v. ‹busca›), secondo Gasca Queirazza ‹arcuarsi, incurvarsi› (Gasca Queirazza 1994: s.v. ‹Buscatus›). Se si accettano queste ultime ipotesi, il nome viene ad assumere sfumature di significato assai variegate. L’andamento nel tempo dell’elemento galloromanzo dal XII al XVI secolo, calcolato sulla base del numero di individui, sul numero di forme rilevate complessivamente in ciascun secolo e sul numero di forme di nuova introduzione, cioè che non risultano attestate nei secoli precedenti, evidenzia che il periodo maggiormente permeabile all’influsso galloromanzo si colloca tra il XIII e il XIV secolo.
Nel XII secolo, infatti, l’elemento galloromanzo è attestato debolmente in soli 6 individui (6 forme differenti). Si tratta, con la sola eccezione del già citato berbierius, di secondi nomi aventi carattere patronimico ed etimo germanico, ad esempio Anfossus, che rappresenta l’adattamento delle forme provenzali Anfos, Anfous, Amphoux (De Felice 1978) del personale di origine germanica che ha prodotto l’italiano Alfonso.20 Nel repertorio dei nomi cuneesi ricorre una prima volta nel 1173 all’interno di una denominazione complessa (‹anfossus filius cuiusdam aicardi fecit istam eandem donacionem› a Morozzo, Camilla 1985: documenti I); è frequente come primo nome nel corso del XIII secolo (‹coherent anfossus grimaudus›, Villafalletto, 1257, Bosco 1994: documento 23); ritorna stabilmente fino al XVI secolo. Il personale germanico alla base del nome è costituito da un secondo elemento chiaramente identificabile nell’elemento *funsa- ‹pronto›, mentre nella prima componente onomastica è possibile riconoscere *athala- ‹nobiltà› oppure *ala- ‹tutto› (NPI, s.v. ‹Alfonso›).
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Nel XIII e nel XIV secolo il repertorio antroponimico cuneese si arricchisce ed accanto alla categoria dei patronimici iniziano ad apparire tutte le tradizionali categorie onomastiche. Nel XV secolo si assiste ad un’inversione di tendenza: il numero di forme galloromanze presenti nell’onomastica cuneese diminuisce, a fronte di una maggiore concentrazione negli alti ranghi, basti pensare che ben 40 delle 141 persone registrate in questo secolo porta lo stesso secondo nome (Oliverius). Da notare che la progressiva diminuzione nel numero di nuove forme accolte nel repertorio antroponimico cuneese trova corrispondenza nel minor afflusso di gallicismi e francesismi che si riversano nel lessico italiano in età umanistica e rinascimentale (Morgana 1994).
Passando alle categorie onomastiche, osserviamo che pochi titoli riescono ad entrare nella catena onomastica. Bayle, presente nel 1275 ad Aisone (‹peyre bayle›, Tallone 1906, documento 87) e nel 1314 a Sommariva del Bosco (‹thomas baylle›, Leone 1982: documento 47), condivide con l’antico francese bail ‹funzionario amministrativo› l’origine dal latino baiulus ‹portatore›21. Moyne, registrato a Gambasca nel 1516 (‹jofredi moyne›22) e nel 1567 (‹antonius moyne›23), presenta un esito analogo a quello del francese moine ‹monaco›24. Anche la specificazione di mestiere, intesa ovviamente come parte integrante della catena onomastica e non come semplice indicazione dell’attività lavorativa esercitata, riflette raramente esiti galloromanzi. Nella maggior parte dei casi si tratta di forme attestate una sola volta nell’intero repertorio. Un’eccezione è rappresentata dal tipo Bergerius, che ha il suo corrispondente nel francese berger25 ‹guardiano di greggi, pastore› e nel piemontese bergè, di analogo significato La voce latina baiulus ‹portatore›, continua nelle lingue romanze nelle due forme sincopate *bailus / *baila e, con metatesi, *balius / *balia. L’esito baila è tipico del dominio galloromanzo e dell’Italia settentrionale. La voce acquisì il significato giuridico e amministrativo ‹amministratore, procuratore› in epoca carolingia (per approfondimenti si rimanda alla voce ‹baiulus› del LEI). 22 Gambasca 1516: «de mandato [...] jofredi moyne et pauli layle consiliarorum gambasche» (Tamagnone 1969: 103). 23 Gambasca 1567: «comparuerunt providi viri [...] antonius moyne, petrus bernardus [...] omnes consiliares locorum prefatorum [...] gambasche» (Tamagnone 1969: 107). 24 Dal basso latino monachus. Da notare che a Gambasca, dove il nome era presente nel XVI secolo, il cognome risulta tuttora assai frequente (rilevazione effettuata sugli elenchi telefonici). 25 Alla base si pone il latino medievale bergerius ‹custode di pecore› (Du Cange 1954: s.v.), risalente 21
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(Di Sant’Albino 1859: s.v.): dopo una prima attestazione a Sommariva del Bosco nel 1314 (‹jacobus bergerius›, Leone 1982: documento 47), il nome ricorre nella stessa località più volte sotto la forma ‹bergerij› nel 1472 (‹andreas bergerij›, ‹thomas bergerij›, Leone 1982: 54). All’interno della categoria dei secondi nomi derivati da una voce del lessico comune mi sembrano degni di nota alcuni antroponimi che sembrano anticipare i tempi, rispetto alla successiva introduzione della voce nel lessico italiano. Il tipo Abrivatus, esclusivo di Villafalletto, compare nel XIII secolo (a partire dal 1257) sia come secondo nome sia come nome collettivo di famiglia: nel 1257 «unam iornatam et dimidiam, coherent [...] et abrevati» (Bosco 1994: documento 23) e «coherent villielmus tinamus et jacobus abrivatus» (Bosco 1994: documento 23); nel 1289 «iornatas duas terre iacentis ad robiolum cui coherent jacobus bauduinus et abrivati» (Bosco 1994: documento 45) e «presentibus [...] et oddeto abrivato testibus vocatis et rogatis» (Bosco 1994: documento 46); nel 1290 «sub porticu domus in qua habitat raymondus abrivatus» (Bosco 1994: documento 53). Trova corrispondenza nel provenzale abrivar (Mistral 1979, s.v. ‹abriva›), nel piemontese abrivè26 (Di Sant’Albino 1859: s.v.), nell’italiano antico abbrivare.27 Suggerisce l’idea del ‹mettersi velocemente in movimento›: il secondo nome avrà dunque avuto, in origine, il valore di ‹eccitato›; ‹pronto all’azione›; forse anche con riferimento ad una persona dal carattere impetuoso. Alla base vi è il gallico *brig- ‹forza, vivacità› (LEI, s.v. ‹*BRIG-›). La più antica registrazione del verbo in documenti italiani risale al XVII secolo: abbrevare nel 1614. Poco dopo, nel 1691, abbrivare entra nella terza edizione del vocabolario della Crusca: «abbrivare. Termine marinaresco. Dicesi del principiare a muoversi il vassello prima ch’abbia presa tutta la velocità, a proporzione del vento, o remi, ch’l sospingono. Ed il vassello, allora che cammina con tutta sua velocità, dicesi aver preso l’abbrivo». Nel 1797 è documentato l’aggettivo italiano abbrivato ‹messo in moto, avviato› (LEI, s.v. ‹*BRIG-›). Le attestazioni contenute nelle carte medievali di Villafalletto ne testimoniano la precoce penetrazione in campo onomastico, quanto meno in territorio piemontese. Anche per Bigotus, che ha il suo corrispondente nel francese bigot ‹bigotto, bacchettone› (in uso in Francia come appellativo ingiurioso28 dal 1165, cfr. TLFi, s.v. ‹bigot›), l’attestazione antroponimica precede di parecchi secoli la documentazione letteraria del termine nel lessico comune: Bigotus è registrato come secondo nome nel 1286 a Dronero («nomina consiliariorum sunt hec [...] miçelus bigotus», Tallone 1906: documento 128); la prima documentazione dell’aggettivo bigotto in testi italiani risale invece al XVII secolo.29 Gli ultimi due esempi consentono di avanzare alcune riflessioni in merito al diverso grado al latino classico berbicarius. Di Sant’Albino (1859, s.v. ‹abrivè› e s.v. ‹abriv›) spiega le voci piemontesi abrivè come «il principiare a muoversi un naviglio spinto da vele o da remi» e abriv come «quel primo impeto che prende il naviglio quando è spinto o dalle vele o dalla voga», in senso figurato «la prima mossa con furia di checchessia, liberato dal ritegno che l’impediva di muoversi», ne registra l’uso anche nell’espressione piè l’abriv «pigliar l’abbrivo […] cominciare a muoversi […] prender la fuga». 27 Secondo DELIN (s.v. ‹abbrivare›) dal provenzale abbrivar ‹mettersi velocemente in movimento›, a sua volta dal gallico brigos ‹forza›. 28 Dall’antico alto tedesco bî God ‹per Dio›, attribuito inizialmente ai Normanni per il loro frequente ricorso all’esclamazione (TLFi, s.v. ‹bigot1›; GDLI, s.v. ‹bigotto›; DELIN, s.v. ‹bigotto›). 29 Redi: «Bigotti e bigozzi son chiamati dagli Aretini talvolta per ischerzo i frati, i monaci, ed alcune persone inclinate all’ipocrisia»; Saccenti, Rime: «Era per altro timida e bigotta, / E al mondo ingannator non troppo avvezza» (Tommaseo / Bellini 1865-1879: s.v. ‹bigotto›). 26
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di persistenza dei riflessi galloromanzi nell’onomastica piemontese ed italiana di oggi. Mentre infatti il secondo nome Abrivatus non lascia alcuna traccia, il cognome Bigotto30 è ancora oggi presente in Piemonte e in Italia, anche nelle forme Bigotti, Bigot, Bigotta, Bigota. Per verificare l’esistenza odierna delle forme cognominali rilevate nel XII-XVI secolo ho utilizzato le rappresentazioni cartografiche messe a disposizione da GENS31 sulla base dei dati ricavabili dagli elenchi telefonici. Dei 101 tipi registrati nel corpus, 53 sopravvivono nell’onomastica piemontese di oggi e 12 forme non risultano più attestate in Piemonte ma sono presenti nelle restanti regioni, a partire da quelle più vicine all’area di nostro interesse. In totale dunque sopravvive il 64 % dei tipi onomastici rilevati dal XII al XVI secolo. Molti dei secondi nomi che abbiamo citato in apertura mostrano tuttora una distribuzione esclusiva o prevalente in Piemonte. Mi limiterò a ricordare Faramia ed Anfossi, ai quali aggiungo, collocati ai ranghi più bassi del repertorio, Rainaudo e Rainaudi, presenti oggi solo in Piemonte; Pecollo, che può trovare una corrispondenza nell’antico provenzale pécol, pécoul ‹sciocco, sempliciotto› (Mistral 1979, s.v. ‹pecou›32); Miraglio33, in cui si riflette il provenzale miralh ‹specchio› (Mistral 1979, s.v. ‹mirau›), da confrontare con l’italiano antico miraglio ‹specchio›, registrato sul finire del XIII secolo. Certamente però l’alta frequenza nel corpus dei nomi cuneesi non rappresenta automaticamente una garanzia di continuità: nessuna traccia lasciano fereyranus34 (rango 3), bruyderius35 (rango 13), mentre balayre (rango 5) scompare in questa veste ma sopravvive Nel corso del Novecento il cognome Bigotto fa registrare 16 presenze in Piemonte, Bigotti 158 (epicentro nell’Alessandrino), Bigotta 104 (82 a NO, 14 a TO, 8 a VC), Bigota e Bigot 1 ciascuno (entrambi a TO). I dati sono ricavati da ArchiCoPie, archivio dei cognomi piemontesi relativi ai contribuenti fiscalmente attivi nel 1994, organizzato e gestito da Elena Papa. 31 Cfr. http://www.gens.labo.net. La natura della fonte non garantisce il massimo grado di esaustività, tuttavia consente di visualizzare con rapidità le aree di distribuzione di un determinato cognome. 32 Risale a sua volta al latino medievale pecollus ‹fulcrum lecti, vel sellae› (Du Cange 1954: s.v.). 33 Tra i secondi nomi dell’area di Cuneo ricorre ad Entracque nel 1284: ‹alcherius miraglus›, ‹petrus miraglus›, ‹raymundus miraglus› (cfr. per tutte le occorrenze Tallone 1906: documento 114). 34 Da confrontare con il cognome francese Ferreyre, variante di Ferrière(s) e Ferrère(s), frequente in Francia, derivato dal latino ferrum ‹ferro› unito al suffisso latino -aria (Morlet 1997: s.v. ‹Ferrières›). Designa un luogo dove si estraeva o si produceva ferro. Nella forma attestata nel repertorio cuneese si osserva l’aggiunta del suffisso latino -anus. Presente a Sommariva del Bosco nel 1472 (‹andreas fereyrani›, ‹anthonius fereyrani›, Leone 1982: documento 54), s’incontra eccezionalmente come primo nome (‹fereyranus de fereyrani›, Leone 1982: documento 54). 35 Appartiene alla serie dei nomi per i quali sono possibili diverse interpretazioni. La prima risale alle voci piemontesi brúya ‹biada o erba nata da poco›, ‹gemma›, brúy ‹germoglio; occhio del viticcio› (cfr. per entrambi AIS 1310, punto 144: Corio), bruyún ‹tallo. Sottile germoglio o la messa dell’erbe quando vogliono andare in semenza› (Di Sant’Albino:1859: s.v. ‹brojon›; Zalli 1830: s.v. ‹brojon›; Dal Pozzo 1893: s.v. ‹brojòn›; Levi 1927: s.v. ‹bruiún›), bruyuné ‹germogliare› (Di Sant’Albino 1859: s.v. ‹brojonè›; Zalli 1830: s.v. ‹brojonè›; Levi 1927: s.v. ‹bruiunè›), riconducibili ad una base preromana *brok / *brog- ‹vegetale che germoglia, spunta› (LEI, s.v. *brok(k)-). La seconda ipotesi riconduce al piemontese bruì ‹rombare, ronzare›, specie nel senso di ‹gorgogliare. Quel rumoreggiare delle budelle per vento o altro› (Di Sant’Albino 1859: s.v.) e all’italiano antico bruire ‹produrre rumori, gorgoglii› (registrato a partire dal XIV secolo, TLIO, s.v.), considerato (cfr. DELIN, s.v.) prestito dal francese bruire ‹fare del rumore› (in uso dal XII secolo, cfr. TLFi, s.v. ‹bruire›). Gasca Queirazza (1994: 165) ha precisato che «come nell’aggettivo francese bruidif la dentale d si può riferire all’infisso della forma iterativa -it-, mentre -erius è l’esito del latino -arius, suffisso d’agente». 30
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nel cognome, registrato in provincia di Cuneo, Ballaira36, che è il risultato di un parziale adattamento della voce provenzale alla morfologia piemontese. Da notare che i secondi nomi ancora oggi attestati in Piemonte e in Italia appartengono per il 61% a bassi ranghi, risultano cioè attestati nel repertorio cuneese del XII-XVI secolo 1 o al massimo 2 volte.37 In conclusione, l’apporto galloromanzo ai secondi nomi del Piemonte meridionale è certamente, dal punto di vista quantitativo, contenuto (poco meno del 9% del repertorio complessivo), ma a ben guardare esso si rivela alquanto interessante dal punto di vista linguistico ed altrettanto tenace: interessante perché buona parte dei nomi reperiti nell’antroponimia cuneese potrebbe contribuire all’ipotesi di una possibile retrodatazione di alcuni gallicismi, tenendo conto però che le attestazioni sono in latino; tenace perché l’elemento galloromanzo si mostra capace di superare i confini dell’area alpina, estendere il proprio raggio d’azione all’area pedemontana e in molti casi alle regioni settentrionali d’Italia, e soprattutto si mostra in grado di superare i limiti cronologici, radicandosi nel repertorio onomastico (piemontese e non) odierno. Come tale mi è parso degno della nostra attezione, anche a distanza di secoli.
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Riflessi galloromanzi nell’antroponimia cuneese (XII-XVI secolo)
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Marina Castiglione / Michele Burgio (Palermo)
Poligenesi e polimorfia dei ‹blasoni popolari›. Una ricerca sul campo in Sicilia a partire dai moventi1
1. Genesi e forma dei ‹blasoni› La categoria del ‹blasone popolare› o soprannome etnico (come proponiamo di definirlo, pur senza rinunciare al calco di Pitrè che d’ora in poi useremo senza virgolette) non è affatto monolitica né facile da delimitare.2 Quando, di fronte alla ricchezza di espressioni, ci si propone di costituire un corpus e si deve decidere cosa ritenere un soprannome comunitario e cosa no (per estemporaneità, ristrettezza di diffusione o eccessiva genericità del dato raccolto), ci si pongono davanti una serie di valutazioni dal cui esito non si può prescindere. L’ambito entro cui si generano le varie forme linguistiche analizzate è senza dubbio lo stereotipo: questi rappresenta un iperonimo di blasone popolare.3 Il carattere stereotipico di quest’ultimo è dato dall’estensione di una marca caratteristica di un individuo o di una ristretta cerchia di persone all’intera popolazione di un gruppo urbano. Non rientrano dunque nel campo linguistico dei blasoni popolari tutti gli usi e i comportamenti visti come propri della comunità vicina, ma solo quelli che si decide di portare a livello del motto, che viene dunque riproposto con continuità, diventando quasi un sostituto o un integrativo dell’aggettivo etnico, sia micro (i quartieri cittadini) che macrogeografico (dal singolo centro sino alla nazione):4 L’articolo è stato progettato ed elaborato da entrambi gli autori, ma i paragrafi vanno così attribuiti: M. Castiglione §2., §3.; M. Burgio §1. 2 Già Telmon (cf. la voce blasone popolare. In: Beccaria 2004) avvertiva che non si tratta semplicemente di accettare ogni forma di stereotipi giacché questi «hanno però spesso un valore più ampio, comprendente ogni segmento cristallizzato ed accettato acriticamente». 3 Sull’etichetta ci limitiamo a segnalare che il conio della forma blason populaire si deve al francese Alfred Canel (1858), ma che la sua prima attestazione in ambito scientifico è legata all’importante lavoro di Gaidoz / Sèbillot (1884). Giuseppe Pitrè si appassiona subito a quest’ultimo testo e adotta il calco blasone popolare (1891), sebbene, a partire da Migliorini (1948), per motivi non di astratta etichettatura, sia stata proposta la forma soprannomi etnici. Proprio questa etichetta è quella che intendiamo utilizzare nel nostro progetto DASES (Dizionario Atlante dei Soprannomi Etnici in Sicilia), per cui cf. Castiglione / Burgio (2011). Nel recente Atles Lingüístic del domin català (Veny / Pons 2004) la carta VII è destinata ai ‹Nom humoristic del abitants›, senza che venga assorbita l’etichetta di matrice francese. In alcune informazioni complementari a margine della carta stessa, sono riportate le motivazioni e, talora, una modesta pluridenominazione del punto d’indagine. 4 Il testo di Gaidoz / Sébillot (1884) si apre proprio con una carrellata di blasoni transnazionali che 1
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Marina Castiglione / Michele Burgio
Come recentemente da noi discusso5, all’interno dell’antroponomastica popolare i blasoni ricoprono, dunque, la funzione di soprannomi etnici (cf. Migliorini 1948, in Cortelazzo 1984: 156): essi sono riferiti non più alla sfera familiare ma a quella comunitaria. Ad un aggettivo etnico possono corrispondere più soprannomi etnici perché l’aggettivo etnico è legato al più ristretto bacino di forme linguistiche della toponomastica mentre il blasone (dipendendo, appunto, dalla creatività popolare) ha pressoché infinite possibilità di esprimersi e di evolversi nel tempo. Accadrà così che, ad esempio, anche durante un’indagine effettuata ad Isnello, sulle Madonie, nella Sicilia centrale, in provincia di Palermo, agli abitanti del vicino centro di Collesano, accanto al corrispondente aggettivo etnico (ulisanisi), vengano attribuiti oggi ben tre blasoni popolari: austriaci, taroddi e liccapateddi. Per ragioni di tempo non ci soffermeremo qui sulle ipotesi motivazionali dei tre blasoni in questione, quel che preme è sottolineare come il blasone popolare abbia però un richiamo di univocità nei confronti di chi lo riceva. Non classifichiamo, infatti, come blasone il ‹minchia› venuto fuori nella considerazione ‹li ulisanisi sunnu minchia› perché i blasoni popolari sono delle nomee riferite a gruppi etnici ma non tutte le nomee riferite a gruppi etnici sono blasoni popolari. Infatti il blasone popolare è, come e più dell’insulto, «un atto linguistico di sintesi: la parola condensa tutto un giudizio, una valutazione, un’argomentazione complessa» (cf. Casalegno / Goffi 2005: IX). In più, esso si fa portatore di un’ulteriore carica motivazionale, perché riferito ad un preciso gruppo di persone che hanno già di per sé un loro denotatum etnico, che si corre a connotare. Mentre chi conia un generico insulto vuole limitare la propria offesa personale ad una precisa circostanza o circoscriverla attorno ad un pretesto, chi genera un soprannome (individuale o comunitario che sia) sa benissimo quale è l’antroponimo ‹ufficiale› della persona o del gruppo che vuole schernire, ma ad esso vuole ‹stabilizzare› determinate caratteristiche uscendo dai canali canonici di identificazione. Questo particolare tipo di ‹etichette› (non necessariamente si tratta di insulti) si carica però di valore antonomastico. Da questa speciale e necessaria corrispondenza tra denotatum e connotatum si genera dunque il blasone popolare, acquisendo forme e modi più vari.6 abbracciano diversi paesi europei. In occasione del Convegno di Aix en Provence, Castiglione / Burgio (in stampa). 6 Caffarelli (2002:129) passa in rassegna i problemi classificatori riguardo ai soprannomi, da Rohlfs a Ruffino. Le difficoltà incontrate dagli studiosi nella classificazione di una categoria antroponomastica come il soprannome individuale aumentano ancor più nell’analisi di una categoria come il soprannome comunitario, più complessa almeno a livello di forme. 5
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Circoscrivendo un ambito significativo di produttività a mo’ di esempio che ci consenta di riflettere e di chiarire ulteriormente queste considerazioni, tornano utili le parole di Casalegno quando rileva che «un ambito semantico particolarmente ricco per la produzione di epiteti ingiuriosi è quello riferito al corpo. Attraverso una forma di sineddoche degradante la persona viene associata ad una sua singola parte per individuarne qualità negative» (cf. Casalegno / Goffi 2005: XV). Da uno sguardo ai primi materiali siciliani in nostro possesso si può già notare che le caratterizzazioni fisiche siano viste come insulti più efficaci rispetto alla stessa causa che quel difetto ha generato. Gli abitanti di vari comuni siciliani7, geograficamente ben distribuiti nell’area centromeridionale, hanno il blasone popolare di panzuti, lett. ‹panciuti›. Certamente per molti, ma con buona probabilità per tutti loro, la motivazione è da ricercarsi nell’antica diffusione in queste aree delle febbri malariche, responsabili del rigonfiamento della pancia a fronte di una perniciosa magrezza del resto del corpo.8 È significativo come il riferimento alla malaria e alle febbri malariche resti in secondo piano: è la deformità fisica, ancor più che la malattia in sé, a contenere, per il parlante, la massima connotazione ingiuriosa. Alla stessa causa corrisponde un diverso blasone documentato da Pitrè, in altri centri: gli abbuttati di Caronia (ME) e di Roccapalumba (PA), antroponomasticamente contrassegnati per sempre da questa malattia ormai debellata (Carta 1). Stesso procedimento di formazione del blasone abbiamo potuto riscontrare in altri casi. Qui si dirà del blasone degli abitanti di Racalmuto (AG) e di Acquaviva Platani (CL). I primi sono detti immiruti, ossia ‹gobbi›9, e nessun riferimento è fatto al lavoro di miniera, che impegnava buona parte della popolazione e che fu la ragione di questa deformazione dorsale; i secondi sono detti dinti purriti / niuri, ossia ‹denti marci›, senza che venga fatto riferimento alla peculiare situazione legata all’approvvigionamento idrico del paese che aveva la sua fonte dalle acque drenate dal fiume Platani, fiume ricco di sali minerali e quasi salmastro che determinava la conseguente colorazione giallastra dei denti. La circostanzialità della causa primaria viene ad essere, così, offuscata dalla creazione linguistica che crea lo stereotipo.
Si tratta di Camastra (AG), Santa Elisabetta (AG), Calamonaci (AG), Campobello di Licata (AG), Casteltermini (AG), Villafranca Sicula (AG), Barrafranca (CL), Serradifalco (CL), Campofranco (CL), Butera (CL), Resuttano (CL), Lascari (PA), Scillato (PA), Sciara (PA), Acate (RG) e Giarratana (RG). 8 Oggi la perdita della causa originaria, conduce alla necessità di rimotivare il segno, così talora si registrano motivazioni ‹paretimologiche›: gli abitanti di Serradifalco sarebbero panzuti perché hanno fatto della gastronomia un settore di riconversione economica; quelli di Campofranco lo sarebbero perché erano poveri e chiedevano la farina in prestito; quelli di Calamònaci lo sarebbero perché uomini ‹di panza›, ossia omertosi. 9 Riporta d’altronde Leonardo Sciascia, fonte attenta e di prima mano, che «a Naro i racalmutesi sono semplicemente chiamati ‹salinari›» (1982: 45), a conferma della declinazione al plurale del blasone. 7
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Carta 1: distribuzione dei soprannomi etnici legati alla malaria
2. Archetipo, stereotipo, prototipo e pregiudizio: fonte e conseguenza dei blasoni Nei conflitti o circostanze che hanno generato il blasone sono ravvisabili dicotomie archetipiche che contrappongono, ad esempio, nobili vs villani; campagna vs città; mare vs montagna; credenti vs miscredenti. Ciascuno di questi gruppi attribuisce all’altro caratteri negativi che, attraverso il linguaggio, si trasmettono dando luogo a stereotipi non necessariamente antroponomastici: Il cittadino ha coniato per chi viene dalla campagna appellativi come cafone, burino, che in origine significavano semplicemente ‹contadino›, mentre buzzurro, in origine appioppato agli svizzeri che calavano nelle città italiane a vendere castagne, polenta e mele cotte, dopo l’Unità d’Italia fu affibbiato dai romani a quelli del Nord che si spostavano nella capitale, in particolare i piemontesi. (Beccaria 2004a: 10)
Nel corpus (che mira a contenere il patrimonio demologico, fonti bibliografiche locali e letterarie e le ricerche sul campo recenti) queste opposizioni sono rappresentate senza che, anche qui, affiorino in maniera esplicita le categorie che ne stanno alla base. La motivazione
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per cui i palermitani sono appellati manciatarii, ‹mangioni›, non ha soltanto relazione con la buona cucina del luogo, ma soprattutto con le risorse economiche della capitale in opposizione alle condizioni meno agiate del contado. Più leggibile, è invece, l’opposizione tra catapani e chitubbi, blasoni registrati a Caltabellotta (AG) e nella vicina frazione di Sant’Anna. Il blasone catapani10 ha un’origine storica in quanto con esso si contrassegnavano i residenti all’interno del catapanato, provincia bizantina che non resistette all’attacco normanno. In siciliano moderno l’aggettivo indica qualunque funzionario dell’annona e assume, pertanto, i connotati di chi taglieggia in nome dello stato. Non sarà un caso che la vicina frazione di Sant’Anna abbia coniato questo epiteto per la vicina e assai potente in epoca medievale Caltabellotta; dal canto suo la città ha blasonato gli abitanti della frazione con chitubbi, prob. da citus urbs o da una particolare forma di contratto matrimoniale di origine ebraica (ketubah).11 Occorre, inoltre, rilevare la presenza di stereotipi soggiacenti che spesso sono riducibili ad un repertorio di poche categorie negative: ‹falso / infido›; ‹stupido›; ‹vanaglorioso›; ‹traditore›; ‹povero›; ‹debole›, ecc. È interessante vedere, ad esempio, come la categoria della povertà, sfortunatamente comune –oggi come ieri– a più parte dei centri siciliani, venga riversata contro il comune vicino. Quando gli abitanti di Niscemi (CL) intendono apostrofare malevolmente i vicini di Caltagirone (CT) gli rivolgono il blasone quagghiariddara, ricordando che il loro mestiere usuale era degradante, in quanto umili venditori di interiora12; a questo, in un gioco in cui vince chi offende di più, i caltagironesi contraccambiano dando ai niscemesi il blasone di fumirara, ossia spalatori di letame. Leonardo Sciascia in Kermesse riporta una filastrocca e un etnico stereotipizzato: Gruttisi. Grottesi. Di Grotte, paese a tre chilometri da Racalmuto; e più piccolo. I grottesi che venivano a Racalmuto erano derisi dai ragazzi con questa strofe, variamente scandita o cantata: ‹Grutti gruttisi/ cu li corna tisi / scorciano cani / e fannu cammisi›13 (Grotte grottesi / con le corna ben dritte / scuoiano cani / e della pelle fanno camicie). Si irrideva così alla povertà dei grottesi: e davvero il paese deve essere stato poverissimo […]. (1982: 33) Nadurisi. Col nome di Naduri (certamente arabo) i racalmutesi hanno sempre chiamato Bompensiere, piccolo paese in provincia di Caltanissetta e distante una diecina di chilometri da Racalmuto. Nadurisi, quindi, gli abitanti. Venire dal Naduri era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque zotici e sprovveduti.14 (1982: 44)
Oggi anche cognome, come in Caracausi (1993/I: 342). Lo troviamo, inoltre, tra i soprannomi registrati in Ruffino (2009: 315). 11 I parlanti attuali giocano su una facile paretimologia e dicono che il blasone nasca dalla domanda: ‹comu porti l’acqua a Sant’Anna?› ‹Cchî tubbi› (lett.: ‹come conduci l’acqua a Sant’Anna?› ‹con le tubature›). 12 In VS/III quagghiareddi e quagghiareddu sono rispettivamente le interiora commestibili dei quadrupedi macellati (accezione di questo esempio), e, più precisamente, l’abomaso degli agnelli e dei vitelli da latte. 13 In questo caso parleremo di un ‹medio tasso di creatività linguistica›, in quanto il soprannome etnico nasce dalla somma di due formule stereotipiche usate anche per altri contesti. 14 Cf. infra l’esempio di catrinnaru e n.16. 10
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D’altra parte altri esempi possono essere fatti sul versante della polimorfia assunta da un unico stereotipo quale quello di ‹stupido›: nchiònchiari, pitr’e ppauli, àsini, minchiuna, lu sceccu si vivi la luna, pirzisi, babbi15, ecc. Tutto ciò avviene nelle forme più diverse che vanno da soprannomi etnici che definiremo ad ‹alto tasso di creatività linguistica›, ossia originali nella forma linguistica e testuale, passando attraverso altri a ‹medio tasso di creatività linguistica›, poligenetici o fondati su strutture formulari, sino a quelli a ‹zero tasso di creatività linguistica› (sostanzialmente gli aggettivi etnici che si stereotipizzano e che potremmo chiamare deetnonimici).16 Nella documentazione scritta e orale (ma sovente più nella prima) spesso i blasoni sono legati in sequenze liriche quasi paremiologiche che rappresentano i tratti di riconoscibilità stereotipizzata delle comunità coinvolte. Ne abbiamo rilevato uno che tratteggia le donne madonite e ne fonda il criterio di una eventuale scelta matrimoniale: Utturusedda la Isiniddara Appanzicatedda la ulisanisa Ucchiuzzi beddi la Puddinita Ucchiuzzi moddi la casteddabbunisa Sciuri di biddizzi la Grattaruscia Scanza facenni la Muntimaiurisa Travagliatura la Cirdisa Capiddusedda la Iracisa Immirutedda la Pulizzana Rucciddara la Casalara.17
A volte lo stereotipo ha alla base un prototipo. Quello più diffuso tra i nostri materiali è quello dell’ebreo.18 Interessante quanto dichiarato da un informatore a proposito degli abitanti Non sempre questi blasoni vanno accolti come generici. Nel caso di Prizzi (PA), ad esempio, la pretesa stupidità dei prizzitani babbi è ricondotta al fatto che il centro sorge in montagna, a più di 1000 metri, in un’area i cui comuni limitrofi sorgono tutti ad altezze assai inferiori. Gli abitanti di questi ultimi, ritengono che i prizzesi siano stupidi per via di una dieta povera di iodio che li porta a soffrire di cretinismo di tipo alpino. Si tratta, ovviamente, di una trovata popolare del tutto fantasiosa. Certo è che su di essa si ricamano trame di aneddoti. Uno di essi vuole che un gruppo di prizzesi abbiano costruito un pupazzo di neve e, sulla scorta dei manufatti in creta, abbiano pensato di cuocerlo in forno. Quando andarono a ritirarlo, trovarono il fuoco spento ed una pozza d’acqua. Al che, contrariati, si indignarono di come quel signore di neve avesse urinato sul fuoco, prima di svignarsela! 16 Un caso del genere è quello di busacchinaru che sarà sia l’aggettivo etnico degli abitanti di Bisacquino che il blasone con il significato di ‹persona che non onora i suoi debiti›. 17 Lett.: gozzuta l’abitante di Isnello, con la pancia quella di Collesano, begli occhietti quella di Pollina, occhietti dolci la castelbuonese, fiore di bellezze la gratterese, pigra quella di Montemaggiore, lavoratrice quella di Cerda, dai folti capelli la geracese, ingobbita la polizzana, ciarlatana la resuttanese (o campofelicese). La filastrocca è stata da noi raccolta lanciando la seguente ‹esca› sul forum virtuale Caffè Scorretto, blog frequentato dai madoniti, la cui home è visitabile all’indirizzo: http://www.caffescorretto.com/old_site/citta/collesano: «Cari amici […] Sto raccogliendo i soprannomi collettivi delle Madonie, cioè quelle forme di ‘nciùria che ci si dice fra abitanti di paesi diversi. […] Non le ‘nciùrie personali, ma quelle collettive! […] Scavate nella memoria!». 18 A proposito dell’addensamento di significati negativi intorno alla figura dell’ebreo si veda Faloppa (2004: 15
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del comune di Bivona, chiamati iudè ‹giudei›, il quale afferma: «[agli abitanti di Bivona] non ci dìcinu iudè, iddi su’ (lett. essi sono) iudè». Il processo che possiamo tracciare è, quindi, il seguente: il prototipo diventa soprannome etnico; il soprannome etnico si sterotipizza al punto tale da prevalere sull’esperienza diretta e, influenzando il giudizio sociale, dà luogo al pregiudizio. Alla base motivazionale del blasone pensiamo, allora, che vi siano meccanismi sociorelazionali di opposizione (dicotomia archetipica), semplificazione (stereotipia), astrazione (prototipia) a cui si aggiungono cause circostanziali non sempre ricostruibili, soprattutto se lontane e / o rimosse dalla comunità. Rare volte capita (ma non è escluso che proseguendo nel lavoro i dubbi si dipanino) che né ragioni storiche né motivazioni fornite dai parlanti né documentazione di altro tipo aiutino a comprendere quale stereotipo (e, dunque, quale causa possibile) sia alla base di un blasone. Il fiorire di motivazioni fantasiose non aiuta, ma spesso complica la ricerca. Ad esempio il blasone ggialli, attribuito, insieme ad altri19, ai cittadini di Agrigento, ha una storia recente e una circolazione prevalentemente legata al mondo della tifoseria (è infatti appannaggio principalmente degli storici rivali favaresi) e non è presente nelle sillogi del secolo scorso da noi consultate. Le motivazioni addotte con prospettiva di analisi emica, dai favaresi e dagli stessi agrigentini, sarebbero legate: a)
al colore della pietra arenaria tufacea che si estraeva nell’area e che caratterizza i templi ed il centro storico della città;
b)
alla poca propensione degli abitanti del capoluogo al lavoro nei campi che produrrebbe un colorito pallido (facci ggiarni);
c)
all’invidia provata dagli agrigentini nei confronti dei vicini favaresi (sic!) che li renderebbe gialli di bile;
d)
allo zolfo estratto nell’entroterra e che veniva trasportato nel porto cittadino;
e)
al giallo delle ginestre o dei campi di grano che circondano la città…
E dunque: troppe motivazioni, nessuna motivazione. Una volta perso il legame con l’àition i parlanti non solo non riconoscono più la connotazione del tratto che hanno elevato a stigma, ma lo sottopongono a ipotesi ricostruttive a posteriori: usano il soprannome etnico in quanto denotatum, ma non ne individuano più il connotatum che rendeva il paese vicino campanilisticamente ‹altro, diverso e peggiore› da sé. Lo stereotipo sociale resta legato all’etichetta, svuotata, però, del significato che l’ha generata: «Sembra sopravvivere solo la forma verbale del dileggio: se, in passato, la funzione della canzonatura era quella di offendere e deridere i membri dei paesi confinanti, oggi, l’unica funzione, disimpegnata, attribuibile al motteggio popolare è quella ludica» (Bitonti 2007: 25). Ma, come vedremo, non è l’unico modo in cui un blasone si opacizza. 21-55): «Usuraio. Strozzino, avido, avaro. Truffatore, furbo, uno che raggira. E poi ostinato, maleducato, importuno: uno che molesta. Che umilia, maltratta. Una persona crudele, una canaglia. Un empio. Un impuro, dentro e fuori: uno che puzza, brutto e sporco. E che vive nel disordine e nella confusione… Sono questi, solo una parte dei significati che hanno avuto e hanno, ancora oggi, le parole ebreo e giudeo in alcune lingue europee, e in molti dialetti italiani» (2004: 21). Si veda anche infra alla nota successiva. 19 Tra cui zingari: altro prototipo dalla storia lunga (cf. Faloppa 2004: 155-158).
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3. Perché studiare oggi i soprannomi etnici? È qui il caso di accennare appena al fatto che la disciplina antroponomastica si è dedicata quasi esclusivamente allo studio dei soprannomi individuali, riservando ai blasoni popolari contributi di assai minore entità quantitativa e, fatalmente, qualitativa. Si tratta di raccolte microareali di diverse aree italiane ma soprattutto siciliane, incoraggiate dall’interesse di Giuseppe Pitrè, il primo ad occuparsi del blasone popolare in Italia, e risalenti all’ultimo decennio dell’Ottocento ed ai primi due del Novecento. Il grande demologo avrebbe voluto, sulla scorta dei modelli francesi, compilare un Blasone Popolare d’Italia, progetto mai portato a termine.20 Riteniamo che l’interesse prevalentemente demologico per i blasoni vada oggi integrato in un’ottica più compiutamente geolinguistica e sociomotivazionale –fors’anche cognitiva– del processo di nominazione. Ci rendiamo conto che all’interno delle comunità odierne, socialmente più frammentate rispetto a quelle tradizionali e talora anche frammentarie dal punto di vista urbanistico, con periferie fisicamente staccate e quasi estranee al tessuto viario, tale interesse sembrerebbe tardivo e anacronistico. Il soprannome comunitario, infatti, nasce quando l’identità della comunità vicina è nettamente riconoscibile al punto da potere trovare una sintesi icastica in una marca aggettivale, in una locuzione, in un sintagma (anche univerbato), in una filastrocca, in un intero racconto.21 Così come per il soprannome individuale22, trattandosi di un fatto sociale in cui si riverberano pregiudizi, conflitti o semplici atti iperdenotativi, esso per nascere e per mantenersi, per entrare nella langue, abbisogna non soltanto dell’atto creativo in sé, ma soprattutto di una condivisione extralinguistica che spesso trova in moventi storicoculturali, economici, ideologici, persino igienico-sanitari (come abbiamo visto nel caso dei blasoni panzuti, immiruti e dinti purriti), la sua forza propulsiva prima e coesiva dopo. Se anche dovessimo studiare il blasone come reperto di linguistica archeologica, scopriremmo, attraverso una rilevazione più fitta e mirata di quella consegnataci dalle preziose fonti folkloristiche, elementi importanti e ancora inediti.
Si pensi che nel solo 1902 l’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari raccoglie ben quattro contributi sul blasone popolare, dall’acitano, al lucchese, al senese, al novarese. 21 Le forme linguistiche assunte dai soprannomi etnici sono state classificate in Castiglione / Burgio (in stampa). 22 Come osserva Putzu (2000: 37): «caratteristica costitutiva del soprannome è la vitalità, ossia la produttività e la trasparenza semantica. La vitalità è un tratto evidentemente proprio del soprannome; tanto più se lo si consideri in prospettiva storica in raffronto al nome: molti soprannomi sono effimeri, ma altri durano per alcune generazioni e una parte di questi diventano nomi di famiglia ufficiali, opacizzando l’originario significato. Nel frattempo nuovi soprannomi si sono formati, in un ciclo perennemente produttivo. Dunque il soprannome è un fatto dinamico; il che obbliga, se lo si voglia studiare, a seguirlo per l’intero esplicarsi della sua fenomenologia. Ma intanto da che punto partire? Nella misura in cui il soprannome è ‹nome›, esso è il frutto di un evento di ‹nominazione›. Abbiamo detto che la nominazione richiede che sia strutturata una completa situazione comunicativa: essa non è atto di uno solo, […]: è momento senz’altro sociale». 20
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Eppure, dentro e fuori il nostro corpus, ci sembra di rilevare elementi di vitalità23 davvero sorprendenti in ordine ai nuovi utenti e alle dinamiche motivazionali. Velocemente –e giusto a conferma di quanto andiamo affermando– uno sguardo fuori dal nostro corpus. Nel gennaio del 2010, sulla rivista mensile di divulgazione scientifica Focus, è apparsa una mappatura cartografica costruita grazie al contributo dei lettori, dal titolo ‹La guerra dei mille campanili›. Nel numero di marzo un lettore siciliano, non rilevando il blasone messinese, buddaci, ne chiede l’inserimento e ne fornisce la motivazione.24 Proponiamo ora un esempio che, nella sua diacronia ricostruibile, rivela la complessità della materia all’interno dei dati che andiamo raccogliendo. Il caso ha come epicentro la città di Caltanissetta e due comuni ad essa vicini nonché amministrativamente dipendenti: San Cataldo e Santa Caterina Villarmosa. Il primo è capoluogo di provincia e conta oggi circa 60.000 abitanti, il secondo, a 7 km. di distanza in direzione ovest, che ha una storia di stanziamento altrettanto antico e autonomo, consta invece di ca. 23.000 abitanti, l’ultimo centro, di fondazione feudale, a 18 km. a nord-ovest, conta ca. 6.000 abitanti. Nelle fonti scritte e orali i due centri confliggono con il capoluogo, ma non tra loro. Innanzitutto la rivalità tra Caltanissetta25 e San Cataldo è testimoniata da una coppia di distici speculari raccolti da Pitrè e alla cui origine possiamo supporre con una certa sicurezza che stia l’attributo vicendevole di ‹arrogante e supponente›: Sancatallisi, cu li corna appisi26 cu vi li fici? li Catanittisi Catanittisi, cu li corna appisi. Cu cci l’appisi? li Sancatallisi (Pitrè, Proverbi III)
Sempre in Pitrè riscontriamo un blasone nisseno rivolto al piccolo centro di S. Caterina V., Catarinari parrini, e un altro che, guardando a est e a ovest, abbraccia entrambi i centri, pazzi di San Catallu e vecchi di Santa Catarina (Schema 1).
La vitalità è uno degli indici che cerchiamo di rilevare al momento delle indagini, ovvero «la longevità sociale e il contesto d’uso e la sua variabilità lungo gli assi diafasico-diastratico-diamesico» (Caffarelli 2002: 129, n.27). 24 Il lettore ne documenta un uso non effimero e rimanda al referente primario di buddace, ossia, un pesce dalla bocca enorme asserendo che «da secoli i messinesi sono chiamati buddaci perché sanno fare solo parole e niente fatti». La forma è rilevabile anche nelle scritte esposte in Calabria. 25 Per Caltanissetta Alesso riporta anche manciabletti, ossia mangia bietole, registrato come blasone attribuito dai piccoli centri di Resuttano e Alimena. Ciò dimostra che i blasoni possono generarsi poligeneticamente e che ciascuna comunità guarda all’altra a partire da situazioni semantico-motivazionali diverse. Il blasone è riportato anche da Pitrè come attribuito dagli abitanti della sola Alimena. 26 Il blasone si oppone ad un modello che metaforizza le corna come simbolo di arroganza e in cui esse possono essere spavaldamente impennate (‹xxx chî corna tisi›) o, come in questo caso (‹xxx cu li corna appisi›) e simili (‹xxx ccu li corna mmanu›), abbassate in segno di alterigia frustrata. 23
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Schema 1: Caltanissetta, San Cataldo e Santa Caterina Villarmosa nei materiali di Pitrè
La raccolta del DASES che stiamo attualmente svolgendo ci offre altri materiali di riflessione (Schema 2). Infatti, non sembra più esserci traccia del motteggio pitreiano, ma lo schema di contrapposizione speculare sopravvive, tanto che ne abbiamo raccolto un altro in cui vengono chiamati in causa i santi protettori, San Michele per Caltanissetta e San Cataldo per il paese a lui dedicato: curri Micheli ca veni Catallu, curri Catallu ca veni Micheli (materiali DASES)
In questa dialettica di religiosità popolare, nessuno dei due popoli sembra prevalere sull’altro e la ‹partita› si chiude in pareggio. Ma su questo conflitto irrisolto torneremo. Cosa accade sul versante di Santa Caterina? Anche qui pare essersi riproposto uno schema speculare27 che contrappone, ma in maniera più blanda e meno accesa, i due centri. I parlanti di Santa Caterina ‹recuperano› la nomea del grande centro di ‹arrogante e supponente› rendendola con il blasone vrudara, ricavato probabilmente dal sintagma fraseologico dialettale / regionale ‹fare brodo›28, e connettendolo, nelle motivazioni esplicite, con una caratteristica precipua del centro nisseno, ossia quello di essere legato alle miniere di zolfo e alla presenza diffusa di osterie in cui si forniva il brodo mattutino prima di scendere nelle Altri soprannomi etnici contrassegnano il piccolo centro di Santa Caterina: maragrà (dal nome femminile più diffuso, Maria Grazia); vinti e vintiunu, spara / scoppia la bbiumma (locuzione attribuita ai giochi pirotecnici che si svolgono la notte tra il 20 e il 21 agosto in occasione della festa patronale). 28 Vrodu: trasl. (Man.) spocchia, boria, alterigia (cf. VS/5).
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gallerie. Da parte loro i nisseni risponderebbero con un sucara che, a detta degli abitanti di Santa Caterina, riporterebbe lo scambio di blasoni dentro l’alveo innocuo degli usi alimentari (‹mangiatori di [pasta con il] sugo›). Inoltre, nel tempo, l’aggettivo etnico catrinnaru ha assunto, a Caltanissetta, l’accezione di ‹villano, rozzo›29, sicché basta usare il semplice attributo di provenienza che è già in sé allusivo della subordinazione. Torniamo alla vicenda della contrapposizione tra Caltanissetta e San Cataldo. Le origini dei blasoni possono riguardare eventi specifici e fatti storici, e un’altra coppia di blasoni ci dà la possibilità di entrare dentro i moti risorgimentali. Il blasone popolare di Caltanissetta, maunzisi30, nel senso di traditori, e il blasone del vicino centro di San Cataldo, vintidù, nel senso di ‹pazzi›, sembrano, infatti, potersi ricondurre con una qualche certezza ad un preciso episodio di tradimento ad opera dei nisseni nei confronti dei vicini sancataldesi: Nell’agosto 1820, durante i moti anti-borbonici che interessarono la Sicilia (e tutto il Meridione, invero) a cavallo tra il 1820 e il 1821, la città di Caltanissetta appoggiò la politica napoletana e dovette fronteggiare le rappresaglie organizzate, per conto dei palermitani, dal Principe Galletti di San Cataldo, che coordinò i gruppi di guerriglia inviati dai vari comuni, fra cui Marianopoli. Nel corso della tregua di una battaglia che vedeva fronteggiarsi gli uni e gli altri, ‹un gruppo di armati nisseni, che avevano fatto una sortita per respingere i briganti che saccheggiavano le campagne, attaccarono di sorpresa i marianopolitani e si impadronirono del posto di guardia [di Babbaurra]. Si gridò al tradimento perché le trattative erano ancora in corso, tanto che gli uomini che erano stati sconfitti si precipitarono dal Principe chiedendo vendetta› [Cfr. Zaffuto Rovello 2008, p.4]. Fu facile collegare il tradimento al traditore per eccellenza, Gano di Magonza, e alla stirpe dei traditori magonzesi. (Burgio 2009: 123)
Ancora oggi in molte aree dell’isola maganzisi ha il significato di ‹traditore› e la nomea nissena si spinge sino a punti distanti, dove però perde la sua carica offensiva (‹mauzisi vuol diri cartanittisi›, ci è stato detto a Campofranco). I Sancataldesi, invece, nonostante la prevedibile sconfitta, rimasero sul campo e nel 1822 subirono un processo che vide tra gli imputati anche il Principe Galletti (nel frattempo, in realtà, datosi alla latitanza). Da qui venne loro attribuito, con felice abbinamento alla simbologia della Smorfia, il blasone vintidù, che non faceva altro che confermare e dimostrare un blasone già circolante (pazzi di San Catallu ecc.). Così come molti altri comuni ‹blasonati› rifuggono dall’attribuire al loro blasone un’origine sprezzante, altrettanto fanno i nisseni quando, dovendo cercare le cause del proprio blasone, ne riferiscono alcune che testimonierebbero non la tendenza al tradimento, bensì una non documentata discendenza illustre (a) o una presunta capacità imprenditoriale (b): (a) ‹discendiamo da Magonza, barone Magonza che era ricchissimo› (M.G.70 anni) (b) ‹perché il conte di Magonza si dava da fare› (M.P. 81 anni)
Cf. infra §2. Le diverse varianti fonetiche (maganzisi, maanzisi, magunzisi, maunzisi) rimandano sempre al significato di ‹traditore›. Per il deonimico cf. Schweickardt s.v. Magonza.
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Schema 2: Caltanissetta, San Cataldo e Santa Caterina Villarmosa nei materiali del DASES
Ma oggi la storia ha una inattesa continuazione in nuovi utenti che attribuiscono significazioni secondarie o neutralizzano quelle offensive. Le rivalità non viaggiano più sulla scorta degli antichi mestieri, dei caratteri pseudoantropologici delle diverse comunità, delle caratteristiche geotopografiche delle aree di insediamento, ma spesso soltanto delle tifoserie calcistiche, vere e proprie autostrade dei blasoni. Le locali squadre di calcio, spesso contrapposte nello stesso campionato e denominate Maonza31 e 22, sono oggi la cassa di risonanza dei blasoni tradizionali. Quando maonzesi e vintidù si sfidano, gli etnici sono banditi e i blasoni, lungi dall’essere sentiti come marchi di tradimento da un lato e sbeffeggiamento dall’altro, diventano veri e propri elementi di riconoscimento e prestigio. Facciamo un passo indietro: quando Migliorini preferiva al calco di blason populaire la dizione di ‹soprannomi etnici (e locali)›, lo faceva perché notava come l’analogia fra blasone, indicante, nel linguaggio corrente, uno stemma o un contrassegno che un individuo usa per qualificare e identificare se stesso e il suo casato, e il blasone popolare, dove sono gli altri ad affibbiare il contrassegno, non fosse molto riuscita. Non poteva prevedere che un insulto eteronimo non solo venisse accettato dalla comunità ‹offesa›, ma che venisse interiorizzato nelle motivazioni al punto da subire un processo di appropriazione onomastica: ecco che i maonzesi si fregiano di un ossimorico ‹orgoglio maonzese› e i vintidù intensificano la motivazione primaria del soprannome con la glossa ‹commando neuropatico› dotandosi, non ce ne voglia Migliorini, di un vero e proprio blasone con tanto di stemma: Si tratta di un vero e proprio appellativo toponimico. Per un approfondimento su questa categoria onomastica in Sicilia, cf. Burgio (in stampa)..
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Alla fine del processo di rimozione della motivazione originaria, riportiamo il testo di una scritta esposta su un liceo nisseno in cui l’antico attributo di ‹traditore› può essere rivolto affettuosamente ad una ragazza dall’innamorato (sancataldese?): «Maonzesina, hai perso a dama?». Nell’impiego dei nuovi utenti l’appellativo maonzesina ha ormai perso la forza connotativa negativa ed è diventato un appellativo neutro, una sorta di aggettivo etnico secondario.
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Chiara Colli Tibaldi (Università di Torino)
L’indicazione di mestiere nei secondi nomi dell’Astigiano (1387-1389)
Il patrimonio onomastico rappresenta una preziosa fonte di informazioni storiche e linguistiche di un territorio, restituendone i riflessi culturali, le tradizioni e gli elementi della vita comunitaria. Tra i vari filoni d’indagine, quello relativo all’influenza del lessico comune nella denominazione personale offre utili informazioni per la ricostruzione della storia locale. L’antico rapporto tra il nome comune e il nome proprio rappresenta uno dei punti nevralgici della ricerca onomastica. La panoramica tipologica dei cognomi moderni ci offre il riflesso e il risultato del processo di formazione della nostra ‹targa› identificativa, raccogliendo l’eredità dei secondi nomi formatisi in epoca medievale. Gli studi rivolti a riconoscere e valutare la consistenza e la varietà dei cognomi moderni concordano nell’affermare che la maggior parte di essi sia costituita da una base onomastica, comprendente nomi personali, patronimici e matronimici, toponimi e etnici1. Tuttavia, risulta fondamentale l’apporto tutt’altro che trascurabile del lessico comune e soprattutto di quello relativo ai nomi di mestiere.2 L’identificazione dell’individuo attraverso la professione esercitata risulta infatti strumento assai caratterizzante e quindi facilmente utilizzabile per distinguere le persone, specie all’interno di comunità ristrette come quelle che contraddistinguevano il periodo medievale. Per questa ragione l’indicazione del mestiere esercitato compare spesso nei documenti a carattere pratico, ma, a causa dei lunghi tempi di stabilizzazione del sistema, non è sempre agevole distinguere i casi in cui esso, superando la sua generica funzione di elemento descrittivo, diventa componente reale della catena antroponimica.3 Rohlfs (1972) riconosce nel panorama onomastico moderno cognomi derivanti da patronimici (ne differenzia più tipi: Bernardo, Bernardi, Di Bernardo e Dei Bernardi, ecc.), cognomi costituiti da toponimi, che probabilmente indicavano il luogo d’origine dell’individuo che denominavano (Ancona, Milano, Palermo), aggettivi etnici, anch’essi riferiti alla provenienza (Albanese, Alemanno, Provenzano). La classificazione fornita dal Rohlfs trova accoglimento nell’opera di De Felice (1978: 17-18), il quale individuando ulteriori categorie, ne compie una diversa sistematizzazione e ne offre per la prima volta la distribuzione percentuale. Si vedano inoltre gli studi di Arcamone (1987: 95-99), che secondo una panoramica più circoscritta conferma l’apporto preponderante degli antroponimi dapprima come patronimici, considerati come i primi cognomi in fase embrionale, e poi nomi di mestiere, etnici, ed epiteti vari, e di Lurati (2000, 19-39) per i cognomi tra Lombardia, Piemonte e Svizzera italiana. 2 Sommando le percentuali parziali riferite ai cognomi con base onomastica (antroponimi personali, toponimi ed etnici) riportate in De Felice (1978), verifichiamo che essa costituisce circa il 75% dei cognomi moderni, a fronte di una percentuale più ridotta derivante dal lessico, in cui spicca però in modo significativo l’indicazione di mestiere o professione e carica (10% del totale). 3 La necessità di individuazione precisa della persona attraverso una specificazione onomastica capace di identificare l’individuo e le sue relazioni con la famiglia di nascita ha origine all’interno di 1
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Chiara Colli Tibaldi
Lo studio specifico dell’onomastica piemontese ha messo in rilievo che occorre attendere il secondo millennio per trovare casi sicuri di utilizzazione non eccezionale del mestiere, piegato alla funzione di vero ‹nome aggiunto›, pronto a trasformarsi in cognome non appena la consuetudine locale lo richiederà o almeno lo consentirà.4 Le prime attestazioni reperite di nomi aggiunti basati su mestieri risalgono al IX secolo, ma sono assolutamente sporadiche e numericamente non raffrontabili ai casi in cui la voce individuata ricopre ancora il ruolo di funzione.5 È solo dopo il Mille che l’indicazione di mestiere diventa strumento d’uso frequente e dal XII secolo addirittura mezzo privilegiato per l’identificazione dell’individuo. A questa trasformazione contribuiscono senz’altro lo sviluppo demografico che impone una diversificazione delle attività, la maggiore circolazione umana che disperde l’individuo al di fuori della sua comunità d’origine cancellandone i tratti di fondamentale individuazione rappresentati dal patronimico e l’importanza sempre più grande della classe mercantile, alla cui base si pone la pratica professionale di cui va orgogliosa. società complesse; secondo gli studi questo sarebbe il motivo per il quale i primi esempi di secondo nome in funzione di determinante si rintracciano dapprima in ambito urbano e solo successivamente si estendono al mondo rurale, anche se a questo proposito, come si dirà in seguito, occorre tenere in considerazione, per la datazione nelle zone rurali, l’importanza della proprietà. Il primo tentativo di delineare una storia del cognome in Italia si deve a Gaudenzi (1898), che, basandosi sul contesto antroponimico bolognese, aveva cercato di rendere conto dello sviluppo e della fissazione del nome di famiglia. Le conclusioni raggiunte dallo studioso mantengono oggi soprattutto un interesse di tipo storico, richiedendo una profonda revisione alla luce di documentazione più ampia sia in senso cronologico che territoriale. Lo studio di Aebischer (1924) sul cantone di Friburgo offre un esempio di indagine metodologicamente compiuta, a cui più o meno esplicitamente si richiameranno le successive analisi in ambito italiano. Una sintesi significativa dei risultati raggiunti si può leggere in D’Acunti (1994), la cui documentazione si estende dall’area settentrionale (Petracco Sicardi 1984, Folena 1979-81, Pellegrini 1981) a quella centrale (Herlihy / Klapisch-Zuber 1978) fino all’estrema Puglia (Mancarella 1978-79). In questo quadro mancano tuttavia riferimenti specifici all’evoluzione della determinazione di mestiere come componente antroponimica. Non offre indicazioni significative lo storico saggio di Prati (1936), marginale rispetto al tema dei nomi di mestiere, così come necessariamente limitata risulta la ricognizione sui cognomi moderni che si può leggere in Caffarelli (1998). Per una visione d’insieme occorrerà probabilmente attendere la conclusione dell’ambizioso progetto PATRom (Patronymica Romanica) promosso dall’Università di Trier, che si propone di offrire una documentazione sistematica dell’onomastica familiare in ambito romanzo, dedicando ovviamente spazio anche alla categoria dei nomi di mestiere. 4 In ambito piemontese la ricerca storica sul valore e le funzioni del secondo nome ha permesso di identificare il ruolo specifico dell’indicazione di mestiere fino al raggiungimento dello status di cognome. Essenziali per la comprensione del fenomeno sono i lavori di Alda Rossebastiano sulle relazioni tra nome, cognome e soprannome nel Piemonte rurale (Rossebastiano 2004) e sull’identificazione del valore agentivo della terminazione -ando nell’onomastica del Canavese (Rossebastiano 1994). Come aveva già osservato Kremer 1976-1977 per l’area iberica, l’uso del nome di mestiere come cognome risulta assai tardivo. La stessa situazione si realizza in Piemonte, come si può rilevare scorrendo l’ampia documentazione offerta da Rossebastiano (2009b: 3-17). 5 Cfr. i dati raccolti nella banca dati ArchiMediOn (Archivio Medievale di Onomastica), curata e gestita da Elena Papa, che registra antroponimi e toponimi attestati in carte medievali edite ed inedite dall’VIII al XVI secolo (per indicazioni sulla struttura e sull’organizzazione della banca dati si veda la presentazione on-line all’indirizzo associazioni.unito.it/ArchiMediOn).
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In conseguenza di tutto questo l’individuo si manifesta per ciò che fa non più e non solo attraverso la citazione della sua origine genetica o etnica. Accanto all’indicazione di provenienza, anche la specializzazione lavorativa diventa etichetta di riconoscimento. Questa indicazione entra nella catena onomastica all’inizio come nome aggiunto o soprannome riferito ad una singola persona, in origine destinato a perdersi con la morte dell’individuo. In realtà la storia del cognome dimostra come ciò non sia sempre avvenuto: molto spesso il soprannome continua nelle discendenze successive, dapprima occasionalmente, poi sistematicamente, trasformandosi in nome di famiglia, oggi in Italia abitualmente definito cognome.6 Questo passaggio di radicamento è favorito dalla proprietà immobiliare, anche minima, che per la riscossione delle tasse deve mostrarsi reperibile nella trasmissione per successione. Se si entra nel dettaglio, si può poi osservare che i primi nomi aggiunti a sfondo professionale sono rappresentati da indicazioni di mestieri piuttosto umili, quelli che definivano le operazioni indispensabili per la sopravvivenza della comunità: il fabbro, il panettiere, il barbiere, che all’epoca era anche il praticante la bassa chirurgia, ecc. Tutti questi lavori, spesso tramandati di padre in figlio, quando non addirittura praticati da tutti o quasi i componenti della famiglia, si appropriano di una forza identificativa non solo applicabile all’individuo, ma agli interi gruppi familiari, con ciò ponendo le basi della trasmissione ereditaria, che di fatto altro non è che conservazione della tradizione familiare. Le professioni delle classi sociali alte tardano invece a cedere sul piano della funzione per entrare nella catena onomastica. Le ragioni sono ovviamente molteplici, ma alcune spiccano particolarmente: le professioni ‹alte› spesso coincidono con cariche o si accostano a titoli, strumenti parimente utili per l’identificazione dell’individuo che per essere riconosciuto in questo modo può non richiedere necessariamente la presenza di un nome aggiunto. Occorre anche tenere presente che queste professioni generalmente non presentano un quadro di pratica familiare così diffusa e quindi non sono sostenute dall’applicazione ad un gruppo di individui appartenenti al medesimo nucleo. Ciò non esclude ovviamente che anche funzioni come medico, cancelliere, scavino diventino col tempo cognomi, ma il loro trapasso dall’una all’altra funzione è meno precoce e quindi sposta in avanti nel tempo il radicamento e la trasmissione. Il lavoro condotto in ambito astigiano si propone di verificare il ruolo e l’incidenza del nome di mestiere come categoria antroponimica in relazione alle altre possibilità di determinazione personale. La fonte selezionata è rappresentata da alcuni documenti contenuti nel Codice delle fidelitates astenses dell’Archivio di Stato di Torino (13871389): l’estensione del corpus onomastico ed il ruolo sociale dei nominati (i cives chiamati a giurare fedeltà al nuovo signore) garantiscono la significatività del campione, rappresentativo a livello numerico e sociale, mentre il periodo in questione è adatto dal punto di vista onomastico proprio perché nel XIV secolo sul territorio la trasmissione del secondo nome ha già carattere ereditario e di conseguenza i secondi nomi ispirati alla categoria dei nomi di mestiere possono essere considerati ‹cognomi›, in senso moderno, senza più rimandare alla primitiva indicazione di funzione. Intorno all’evoluzione del secondo nome come determinazione con valore legale cfr. Spagnesi (1978).
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L’analisi effettuata sui documenti del Codice ha portato a circoscrivere tutti gli antroponimi che ipoteticamente riflettono un’indicazione di mestiere o di funzione: tra essi sono stati inclusi anche i nomi di dignità e le professioni che probabilmente rivelano un originario carattere soprannominale o canzonatorio. Gli individui appartenenti alla categoria esaminata rappresentano circa il 10% del totale.7 L’area esaminata è quella astigiana, dove attualmente la coltivazione della vite risulta particolarmente importante. Nei tempi ai quali ci riferiamo evidentemente la specializzazione non sembra essere così forte: in effetti, non solo a livello locale, ma in tutto il Piemonte, la coltura della vite era limitata alle terre di diretto sfruttamento signorile (situazione che condivideva anche con la Francia). Solo verso la fine del XIII secolo anche in Piemonte, come in tutta l’Europa, si rivolse un interesse particolare alla vite.8 Delle attività legate alla coltivazione delle viti e alla vinificazione non restano tracce particolarmente insistenti, eccezion fatta per carracinus9 che rimanda al carratium, ossia il palo che sostiene le viti. Un mestiere come quello del vignaiolo, presente in altre zone10 non è individuato, pur essendo noti cognomi collegati alla vigna (de vineis) che affiancano i nomi di mestiere. Le attività che interessano il vino richiamano la mescita (tabernarius), praticata ovviamente in qualunque città, la conservazione del vino (canevarius ‹cantiniere›), la torchiatura dei grappoli (prexarius, torserius), la fabbricazione delle botti (barlerius), con ciò delineando un quadro certamente interessato ma non definito dalla presenza della vite. Tale situazione è documentata, anche a livello giuridico, dagli Statuti medievali di Asti11 che non annoverano tra i mestieri disciplinati quelli relativi alla produzione vinicola, ma che lasciano piuttosto intuire una società in cui spiccano attività di artigianato, e soprattutto di commercio di vari materiali, ma anche di allevamento di bestiame e attività fondamentali che riguardano la vita quotidiana della comunità.
Dei 3648 individui considerati 379 riportano nel loro nome un’indicazione di mestiere. La percentuale calcolata sul campione corrisponde a quella riportata da De Felice (1978) relativa alla stessa categoria ma calcolata sul repertorio dei cognomi moderni. 8 Ne sono dimostrazione le investiture ad fictum nelle quali «si imponeva esplicitamente all’affittuario la riduzione di una parte del terreno a vigna» Cfr. Nada Patrone (1973: 34-35). 9 Du Cange (1883-87 s.v. carratium ‹paxillo quo sustentatur vitis› -inus). Cfr. anche Nigra (1920: s.v. carracia ‹palo da vigna›), Frola (1918), che ne registra l’uso nelle forme carratia, caracias, carrazios, carazas, caracios, caratios, gli Statuti medievali di Nizza (Asti) s.v. caracia con lo stesso significato di ‹palo da vite›. Il suffisso -inus, applicato alla base carratium può avere valore alterativo e indicare ‹un piccolo palo›; va tuttavia segnalato che in area piemontese il suffisso ha conservato l’originario valore di indicatore di relazione ed è frequentemente utilizzato per formazione dei nomi di mestiere (Rohlfs 1966-69, §1094). Su questa base il tipo antroponimico carracinus può essere accolto tra le denominazioni connesse a nomi di mestiere, nel senso di colui che si dedica alla preparazione di tali sostegni. L’identificazione della professione attraverso il nome del prodotto oggetto si può riscontrare ancora nel cognome moderno. In Lurati (2000) questa soluzione si pone in posizione intermedia tra le categoria dei soprannomi e quella dei nomi di mestiere. 10 Cfr. Rossebastiano (2009a): martinus vignator (a. 1192, Albiano d’Ivrea), petrus vignolanus (a. 1274, Andrate), vignolandus (a. 1363, Torino). 11 Codice Catenato, Statuti di Asti. 7
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Del resto la figura del mercante astigiano è da sempre assai nota dal momento che Asti fu uno dei centri di più precoce ed intensa attività mercantile12 e raggiunse, grazie soprattutto alla favorevole posizione centrale in aera pedemontana e all’abile politica dei suoi vescovi e del suo ceto dirigente, una posizione di largo respiro non soltanto in Italia, ma anche a livello europeo.13 Le indicazioni di mestiere legate al commercio che si riscontrano nel repertorio riflettono attività circoscritte alla vita quotidiana della piccola comunità e, nella maggior parte dei casi, accompagnano le attività di produzione del prodotto: barlerius14, borserius (‹chi fabbrica o vende borse›)15, botinerius16, botonerius, cappellerius, carboneriis (de), corderius, formagarius, frenarius (chi fabbrica i freni e le selle per i cavalli)17, lanerius, mercerius, piscator, sacharius18, testor. Non stupisce nemmeno la grande incidenza di nomi di mestieri relativi ad attività legate all’agricoltura e all’allevamento di bestiame, che nell’alto e nel basso Medioevo rappresentavano in Piemonte la fonte principale di sopravvivenza e di ricchezza.19 I mercanti astigiani probabilmente erano presenti nelle fiere francesi già prima del 1074, Cfr. Nada (1986). 13 Numerosi cartulari dei notai liguri attestano nel XII l’attività di mercanti astigiani impegnati in traffici marittimi per commerci a Bugia, a Ceuta, nel Levante, a Maiorca, in Sardegna ed in Sicilia, che si estende nei secoli successivi anche ai territori di Provenza, Catalogna, e oltre. Essi seppero introdursi, inoltre, presso le corti signorili, di volta in volta più importanti, e addirittura nel XIV secolo saranno anche alla corte pontificia di Avignone, dalla quale, con l’appoggio papale, prenderanno l’avvio le fortune di alcune ricche famiglie astigiane (cfr. Nada 1986: 174-177). 14 Variante della voce barilarius, formata da barile ‹cadus, dolium, amphora› (cfr. Du Cange 18831887, s.v.) con suffisso agentivo -arius, utilizzata per designare ‹chi fabbrica, vende o trasporta i barili›. L’esito documentato ad Asti, Barlerius, ne rappresenta la forma sincopata per la caduta della vocale pretonica, esito frequente nella parlata locale; regolare è il passaggio del suffisso -arius ad -erius in Piemonte, soluzione comune all’area gallo-romanza. 15 Va ricordato che il termine burserius poteva valere anche ‹tesoriere (che tiene la borsa), cassiere›; cfr. Sella (1944) e GDLI la voce borsario «ant. cassiere, che riscuote per conto dello Stato»). 16 In area piemontese si deve pensare come base al tipo botin «P’cit bot ‹orciuolino, orciuoletto. Piccolo orcio›» (Di Sant’Albino 1859), o ‹piccola botte› (Zalli 1930, Gavuzzi 1896). In questo caso il mestiere di riferimento potrebbe essere quello di fabbricante o venditore di piccoli vasi o botti. Tuttavia sempre in Piemonte esiste botina ‹stivaletto da donna› (fr. bottine). Il termine è antico e botinerius potrebbe quindi valere ‹fabbricante di stivaletti›. 17 Secondo nome tratto da indicazione di mestiere, continua il latino medievale frenarius ‹qui facit frena [...] sellarios et scutarios, frenarios atque armerios, candelarios, fabros› (Du Cange 1883-87), da frenum ‹morso› con suffisso agentivo -arius. 18 Esso è riferito a ‹chi fabbricava e vendeva sacchi, o a chi caricava, scaricava e trasportava sacchi di merci e prodotti vari› (De Felice 1978). Il Du Cange (1883-1887) documenta s.v. saccarii «portatores saccourum. Gall. porte-sac; saquiers». Tale valore è confermato anche da altri glossari di latino medievale, come il Sella (1937). Alla base c’è il termine saccus, che in latino si ritrova già in Plauto con il valore di ‹recipiente di tela aperto di sopra› (DEI, s.v. sacco), al quale si è aggiunto il suffisso agentivo -arius. 19 In particolare l’Astigiano, già ampiamente coltivato nei secoli X e XI, ampliò in modo decisivo l’estensione del terreno adibito all’agricoltura nel XIII secolo, periodo che rappresentò la conclusione di quella vera e propria rivoluzione agraria manifestatasi già nei secoli precedenti attraverso il dissodamento di boschi e gerbidi, in relazione con lo sviluppo del commercio, la rinascita cittadina e l’aumento demografico (cfr. Nada 1973: 31-35). 12
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Le attività erano piuttosto generiche, adatte a soddisfare tutte le necessità della società, come estimoniano boverius20, favarius21, laborator22, messearius23, sarterius24. Anche l’allevamento del bestiame e le attività ad esso connesse rappresentavano una fonte di sussistenza diffusa, che si riflettono in secondi nomi come asinarius, divenuto tra l’altro il cognome di una delle famiglie aristocratiche locali, caballarius, craverius, culaterius, ferrandus25, morcerius, pasturellus. I primi due nomi sono anche interpretabili in direzione della conduzione degli animali da trasporto, attività che si collega a quelle specificamente dedicate alla cura del cavallo, l’animale principe del medioevo, emergenti attraverso ferrarius, equiparabile a ferrandus ma con diversa selezione del suffisso, frenarius, marescalcus. Alla conduzione di animali fanno riferimento anche maynerius26, minator27, entrambi forse riconducibili alla stessa base, ma con una diversa selezione del suffisso. Rappresenta un originario nome di mestiere, corrispondente al latino bovarius ‹bovaro, boaro› (lat. tardo boārius ‹pastor boum›). Il dialetto piemontese conosce il termine boè (Di Sant’Albino 1859), e nel Canavese buer è ‹colui che ara la terra con i buoi›. 21 Letteralmente deriva da fabarius ‹seminatore di fave› e anche ‹mangiatore di fave›. In epoca medievale la voce acquisisce anche il significato di ‹cantante›, poiché i cantori usavano mangiare fave per rendere la loro voce melodiosa (Du Cange 1883-88). Il latino medievale conosce pure il termine faverius per designare un tipo di colombo (Du Cange, s.v. faverius). La forma favarius attestata nell’Astigiano mostra il passaggio dalla labiale sonora b in posizione intervocalica a labiodentale v (Rohlfs 1966-1969: §215). 22 In epoca medievale il laborator era propriamente il ‹giornaliere› ossia il ‹contadino che lavora a giornata›. La voce ricorre frequentemente negli Statuti piemontesi (Frola 1918, Sodano 1969-70, Bellero 1966-67, Apricò 1967-68, Nervo 1969-70), per designare il semplice lavoratore della terra, ma anche per indicare l’aratore, essendo il pesante lavoro di aratura denominato appunto labore. 23 Ha alla base il latino medievale messarius o messiarius, formato con suffisso -arius dal latino messis ‹messe›, a sua volta dal verbo mĕtere ‹mietere›. La voce, ben attestata nei glossari medievali vale ‹custode delle messi e delle vigne› (Du Cange 1883-1887) o ‹guardia campestre› (Niermeyer 1954-76), trovando continuazione in area francese continua nella voce messier, che l’AITLF glossa come «Garde faisant l’office de garde-champêtre, qui était commis temporairement à la surveillance des produits du sol qui servent à la nourriture des hommes et des animaux, avant la récolte, afin de les protéger du vol». 24 Deriva dal verbo latino medievale sartare ‹terram incultam excolere, Gall. Essarter, défricher› (Du Cange 1883-1887 e Niermeyer 1954-76, s.v.). Si tratta quindi del sarchiatore, ossia colui che estirpa e dissoda le terre incolte. 25 Secondo nome tratto dal verbo ferrare ‹applicare piastre metalliche sul piede del cavallo, asino, mulo e bue a protezione e a difesa› (DELIN), in unione all’elemento -ando, apparentemente interpretabile come desinenza di gerundio di prima coniugazione. Tale costruzione si inserisce tra le forme cognominali in -ando studiate da Rossebastiano (1994) in area canavesana. Va segnalato che nel Cuneese il verbo ferrare poteva essere esteso anche al maiale, il quale veniva munito di anello al naso, per evitare che grufolando rovinasse le coltivazioni e nel Canavese può inoltre valere ‹castrare›. 26 L’antroponimo è tratto dal latino medievale maynerius, attestato dal Du Cange 1883-1887 accanto alle varianti maignerius, mainerius, meynerius, con il significato di ‹familiaris, domesticus, serviens, apparitor›, ma potrebbe anche essere una variante di meynerius riconducibile al verbo minari. 27 Continua il latino mĭnātor, -oris ‹colui che conduce le bestie›, per estensione ‹guardiano di animali›, derivato attraverso il suffisso -ātor dal lat. classico minări ‹minacciare›, a cui si sostituisce minare, con forma attiva. Al valore originario del verbo si aggiunge già nel II secolo il senso di ‹spingere, pungolare› (DELIN). 20
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Attività agricole generiche emergono anche da camperonus, cassinarius, durandus maxuarius28, morandus29, rusticus, seghinus. Molto più varia la pratica artigianale, che conferma l’immagine di una città vivace e presente sui mercati. Accanto al barberius, immancabile nei testi piemontesi, troviamo, oltre ai cognomi già citati parlando di attività di commercio, archerius, archinus (voci sinonimiche ma che presentano suffissi diversi), bonaterius30, borserius, botinerius31, botonerius, fereglinus, fuserius, spaerius 32, corbellerius, fornaxerius, olerius33, poterius 34, tabularius, testimonianze di specializzazioni rilevanti, adatte a soddisfare esigenze diversificate e anche particolari che probabilmente andavano ben oltre le richieste del luogo. Sono dettagliatamente soddisfatte anche le necessità quotidiane, rilevabili attraverso molinarius, fornarius, bozerius35, formagarius, triperius, piscator, cazator, sartor, calegarius, Originaria denominazione di mestiere, tratta dal latino mansuarius (da mansus ‹villa aut locus familiae...; fundus cum certo agri modo›; ‹villula coloni unius habitationi propria›, cfr. Du Cange 1883-1887). La forma attestata è l’esito di assimilazione regressiva -ns- > -ss-, qui resa graficamente con -x-. La voce corrisponde di fatto al tipo massarius ‹massaro›, ma anche ‹tesoriere› (documentato a Parma nel 1255; cfr. Sella 1937, s.v. masus), passata all’italiano nella forma massaio ‹conduttore di un podere, di cui presiede ai lavori e cura il bestiame› (DELIN). 29 Esso deriverebbe dal verbo mǒrāre (ad soldos) ‹assoldare› o mǒrāri ‹restare, dimorare› con significato simile a quello dell’italiano manente che indicava nel medioevo il lavoratore agricolo di un podere di proprietà altrui in cui era obbligato per contratto a risiedere permanentemente (Rossebastiano 1994). Nell’Italia Settentrionale il significato si è evoluto in ‹mezzadro› ossia lavoratore agricolo che coltiva la terra altrui in base a un contratto che prevedesse la suddivisione dei prodotti (GDLI). 30 Corrisponde alla voce dialettale bonëtè ‹berrettaio, berrettinaio› (Gavuzzi 1896) da bonet ‹berretta›, che può assumere anche significati particolari in ambiti settoriali (come termine della cucina, bonet vale ‹vaso di rame stagnato ad uso di cucina e pasticceria›. Cfr. Ponza 1859, Di Sant’Albino 1859). La voce boneta è già attestata dal Du Cange (1883-1887), che glossa ‹bonetta, capitis tegumentum, Gallis bonet, Italis bierretto›. L’etimo è incerto. Il latino medievale conosce abonnis ‹benda utilizzata come copricapo› (obbonis, var. abonnis), il cui etimo fu inizialmente fatto risalire al germanico (Gamillscheg 1928), senza tuttavia incontrare il favore degli studiosi (FEW). A questo proposito cfr. REW e LEI, s.v. abbonis. 31 Per l’interpretazione si veda la nota 16. 32 Secondo nome riconducibile alla voce del latino medievale spatharius che con la sua variante spadarii ha il duplice significato di ‹qui spathas conficit› e ‹imperatorii corporis custos› (Du Cange 1883-1887 e Niermeyer 1954-76; nel primo significato cfr. anche Sella 1937, s.v. spadarius). La voce trova riscontro anche nella parlata locale in cui troviamo spadè ‹spadajo, spadaro› (Ponza 1859). La forma in esponente presenta dileguo dell’occlusiva dentale sorda in sede intervocalica e la consueta evoluzione -arius> -erius. 33 L’ipotesi più probabile è che continui la voce del latino medievale olerius ‹chi fa olle› (Sella 1944) per ollarius, da olla ‹vaso, pentola›. Il piemontese conosce d’altra parte olè ‹vasajo, pentolajo, pignattaro, stovigliaio› (Ponza 1959) e viene chiamato ola il vaso da notte. 34 Continua il latino medievale potarius ‹Gallico potier (vasaio, orciaiuolo) [...] potorum seu poculorum (tazze) artifex. Potarii sive facientes ollas› (Du Cange 1883-1887), derivato da potus ‹Poculum, vasculum›. 35 L’antroponimo si presta ad una duplice interpretazione: l’ipotesi più plausibile è che si tratti del nome del ‹macellaio›, corrispondente al latino medievale buzerius ‹ex Gall. Boucher› (Du Cange 1883-1887 ). In alternativa potrebbe trattarsi di un nome da bozza che in area settentrionale assume il significato di ‹bottiglia, fiasca, boccia›, e che etimologicamente corrisponde al fr. bosse bariletto, 28
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cappellerius.. Anche murator, pontrerius36 e peratarius37 si inseriscono nelle specializzazioni indispensabili all’interno di una comunità. Nei tempi che ci interessano un’altra attività particolarmente nota nella città di Asti era quella del prestito del denaro, che ha avuto ricaduta onomastica nel tipo faletus.38 Anche i nomi che richiamano cariche e funzioni di governo contribuiscono a definire la realtà territoriale. Il sistema feudale, da tempo tramontato, emerge ancora attraverso comes, marchio, marchixius, vassallus, mentre si perpetuano attraverso l’onomastica uffici di tradizione nettamente medievale come airaldus, confaronerius, gastaldus39, gabelerius, pedagerius, passator40, alferius, su cui poggia il nome di una importante casata aristocratica piemontese (Alfieri), e, ancora, sapiens41, a testimonianza dell’attenta organizzazione comunale di cui Asti fu un esempio illustre.
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il quale dialettalmente assume pure il significato di fiasca. Cfr. in GDLI: s.v. bozza1 «bozza, i Lombardi intendono un vaso di vetro, con cui si tiene il vino (Valisneri, III-378)». In questo secondo caso l’apposizione del suffisso agentivo -erius, variante settentrionale di -arius, porterebbe ad interpretare l’antroponimo come ‹venditore o fabbricatore di fiasche e bottiglie›. La forma qui attestata potrebbe essere variante epentetica di ponterius per pontarius, corrispondente al ‹pontiere›, ‹colui che sovrintende alla costruzione e alla riparazione dei ponti›. La voce, cha ha alla base il lat. pǒntem, ricorre nel latino medievale di Parma nel 1255 (Sella 1937). Il dialetto piemontese ha continuato invece la voce pontoniè ‹pontoniere›, ed anche pontonajo ‹soldato particolarmente addetto alle operazioni de’ ponti da guerra: è per lo più ascritto nella milizia dell’artiglieria in compagnie separate›. Si tratta tuttavia di una voce specifica del lessico militare. Il nome può derivare dal lat. perreta ‹locus muris cinctus› (Du Cange), e indicare chi costruiva muri di cinta in pietra. Alla base si dovrà pertanto porre il latino petra, con semplificazione settentrionale del nesso -tr-, unito al suffisso -etum, a valore collettivo. Alla composizione si aggiunge il suffisso -arius. In questo caso si tratterebbe di una forma accostabile a perreator ‹lapidum sector› (Du Cange), con cambio di suffisso. Si tratta di un secondo nome riconducibile alle voci del latino medievale falcti (sic) «vel Faleti dicebantur Usurarii quidam Lombardi et Itali sæculo xiv» e falleti, «Societatis mercatorum Italicorum, qui usuram sæpius exercebant» (Du Cange 1883-1887), e fa riferimento all’ambito creditizio che rappresenta, a complemento di quello commerciale, una delle attività più diffuse del Piemonte medievale, e dell’Astigiano in particolare. (Cfr. Nada 1986: 177). Secondo nome che riprende la denominazione di una carica feudale, continua il latino gastaldus, il cui valore è precisato da Du Cange (1883-87), «sic appellabant Longobardi locorum, praediorum ac villarum praefectos, rerum dominicarum actores, procuratores, administratores, villicos». Si tratta dell’adattamento del longobardo gastald, voce con la quale l’amministrazione longobarda designava il ministro o amministratore delle tenute regali e anche il luogotenente di un duca e poi scadde al semplice significato di custode o fattore (DEI) (cfr. Rossi 1896, s.v. gastaldus ‹ufficiale preposto nelle ville›). Du Cange 1883-1887 s.v. passator ne documenta l’uso con riferimento al signore che esercita sulle sue terre il diritto di passaggio «Dominus, cui Passagii, seu transitus praestatio competit», ma il termine può anche riferirsi direttamente a colui che materialmente riscuote tale tassa, ossia all’esattore del pedaggio (cfr. Sella 1944, passator, Venezia 1251). In area veneta passador è il ‹traghettatore› (Boerio 1829); da questo si formano numerosi cognomi (cfr. Olivieri 1924, che registra passador ‹barcaiuolo›). Negli Statuti medievali sapiens poteva indicare persone per lo più elette dal Consiglio, che avevano svariati incarichi, come quello di legislatore, di giudice e di paciere.
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La presenza di una classe sociale superiore è denunciata da gramatichus e magister, mentre l’organizzazione della città si dichiara attraverso burgensis, burganinus, la presenza della chiesa con prepositus, presbiter e, in parte, anche clericus, l’importanza della religione attraverso pellegrinus e palmerius. La realtà dell’area piemontese meridionale, fortemente investita dalla presenza saracena, riesce, inoltre, a trasparire attraverso soldanus. I secondi nomi sono spesso anche campo privilegiato di manifestazione dell’ironia popolare, che sovente si svolge in canzonatura, quando non in bonaria denigrazione a volte non lontana del vero e proprio insulto. È in questa prospettiva che forse si devono interpretare anche alcuni nomi che abbiamo già citato, apparentemente riconducibili, in una lettura rigorosa, a cariche ed uffici notabili, perché questi si diffondono anche attraverso il soprannome attribuito non in funzione della carica, ma attraverso atti o fatti accaduti, a noi totalmente ignoti, che hanno attirato l’attenzione e suscitato l’ilarità della comunità. Si pensi a nomi come rex, attribuibile a chi eccelleva in qualche arte o anche alla tradizione letteraria delle sacre rappresentazioni nella quale i ruoli erano fissi all’interno delle famiglie locali, oppure comes, marchio, baronxellus, titoli che spesso venivano attribuiti a chi prestava servizio al signore. Alla fantasia del popolo non manca la creatività che riesce talora a definire per sempre una persona. Questa tendenza alla creazione dei ‹falsi mestieri› è palese in formazioni a volte già volgari, o quasi, all’interno di contesti latini; si pensi a cantamessa, chaguaspia42, metfogus, tagliapanis.43 Attraverso il soprannome trova modo di emergere la realtà più umile, testimoniata ad esempio da servet, che, come richiede la sua posizione in fondo alla scala sociale, è già in forma volgare, e da raterius e baraterius...44 Di chiara origine soprannominale, è composto dal verbo cacare, dal lat. cacāre, voce infantile (cacca) e il sostantivo spiga, dal latino spica(m) ‹punta›, d’origine incerta, che nel latino medievale di area emiliana assume anche il valore di ‹lavanda› (Sella 1937). 43 I composti verbo + nome rappresentano la soluzione prevalente per la formazione dei falsi mestieri in tutto il Piemonte. Cfr. Rossebastiano (2009a), in cui compaiono nomi dalla chiara sfumatura denigratoria del tipo guastavinus / vastavinum, bruxavigna o genericamente soprannominale come sapavigna, arancavigna, portavinus, ecc. 44 Secondo nome che si presta a diverse interpretazioni; il barattiere è colui che ‹commette baratteria› ossia colui che inganna o commette frode. Il vocabolo ha sempre avuto un senso dispregiativo, indicando anche ‹individui senza mestiere fisso› (DELIN). Oltre a ‹tenutario di banco da gioco› assume nel XIII secolo il significato di ‹ribaldo che si presta come facchino e boia› e in Dante anche ‹funzionario pubblico che vien meno ai suoi doveri per danaro› (DEI), mentre viene utilizzato da Boccaccio in accezione neutra per indicare un ‹negoziante al minuto, rivendigliuolo, sensale, rigattiere (1348-53)› (GDLI). Nel provenzale esiste la voce corrispondente baratier che deriverebbe da barata (‹inganno, contesa›), termine probabilmente alla base dell’italiano barattare (DEI). Nel latino medievale ritroviamo lo stesso significato dispregiativo per la forma baraterius (Sella 1944, 1937). Probabilmente in questi casi la derivazione può fare capo al verbo baratare ‹dissipare, disperdere, dilapidare›, ma può anche riferirsi al verbo omografo che indica l’azione del permutare i beni: in questo caso il termine verrebbe a designare colui che pratica il baratto (Du Cange 1883-1887). Troviamo conferma del primo significato negli Statuti medievali piemontesi del Bellero (1966-67), in cui baraterius indica ‹frodatore, barattiere›. A queste ipotesi interpretative, la 42
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Quello che manca invece del tutto, qui e in altri documenti analoghi del Piemonte, è il nome di mestiere legato a professioni femminili: le donne, ben presenti nella catena onomastica attraverso i matronimici, non sono significative come lavoratrici, salvo quando si prestano ad attività scarsamente dignitose, prossime alla malavita. Questo è quanto risulta da altri documenti piemontesi dove le professioni femminili evidenziate sono del tipo tabernaria. In altri testi compaiono tanti nomi illustri come contessa, duchessa, regina, ma ancora una volta, più che testimonianze di una situazione sociale, sono soprannomi ironici. In cosiderazione della panoramica appena proposta, si può concludere che la scelta dell’indicazione di mestiere come elemento identificativo conferma l’importanza della professione a livello di determinazione e realizzazione personale attraverso cui la società riconosce e accoglie gli individui che ne fanno parte. La varietà e la veste linguistica dei mestieri analizzati consentono da un lato di ricostruire l’organizzazione della società del territorio, e dall’altro di rintracciare elementi caratterizzanti ancora oggi la parlata strettamente locale, che risulta così atavicamente radicata nell’individuo. Il riconoscimento del lavoro come valore fondamentale per l’individuo, emerge pure dall’utilizzo velatamente dissacrante di nomi indicanti titoli e alte cariche da interpretare in contrapposizione ai mestieri più umili, per giungere all’attacco diretto che identifica colui che di lavorare proprio non ha alcuna intenzione attraverso il nome fagnanus, presente ancora oggi dialetto locale con il termine fagnan e che sta ad indicare colui che vive secondo il principio, per dirla alla monferrina, dello scapa travaj che me ariv.
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L’indicazione di mestiere nei secondi nomi dell’Astigiano (1387-1389)
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Anna-Maria Corredor Plaja (Universitat de Girona)
Antroponímia i creativitat: l’exemple dels sobrenoms de Portbou (Alt Empordà)
Presentem en aquest treball el resultat de la segona fase d’un projecte més ampli de recollida i estudi de l’onomàstica (toponímia i antroponímia) del terme municipal de Portbou, a la comarca de l’Alt Empordà.1 Concretament, hem anotat els sobrenoms i els hem analitzat des del punt de vista formal i semàntic, tenint en compte la seva motivació. Cal precisar que es tracta gairebé en tots els casos de sobrenoms individuals, actuals o pretèrits, alguns dels quals amb el temps han esdevingut noms de casa. En total hem pogut recollir 131 sobrenoms, una xifra modesta, certament, però gens menyspreable per a un poble que, segons l’últim cens2, té tan sols 1.325 habitants i que, per la seva condició de municipi fronterer, compta amb poca gent arrelada al territori.3
1. Mètode de treball La recollida dels sobrenoms s’ha fet bàsicament a partir d’enquestes orals individuals. Tanmateix, la primera enquesta (juliol 2009) la vam fer reunint tres persones alhora i va ser força productiva; durant una conversa d’allò més distesa, tres veus van aportar informacions molt diverses sobre els noms dels carrers, de les cases, dels llocs de la rodalia; les explicacions de l’un completaven les dels altres, i a l’inrevés, si una dada no semblava prou exacta es discutia i al final miraven de posar-se d’acord. Però quan va arribar el moment de parlar dels sobrenoms dels portbouencs, que ens havíem reservat expressament per al final, el to de la conversa va canviar una mica, va fer la impressió que no n’hi havia, que allò eren coses del passat més remot i que, de cop, la memòria els fallava... En realitat, el que passava és que aquells enquestats es trobaven davant una forastera, i faltava el punt de confiança necessari per poder abordar aquell tema, certament delicat. Els sobrenoms, prou que ho sabem, no són gaire ben vistos, solen ser motiu de rebuig social, i la majoria de les vegades s’usen en cercles més o menys reduïts en els Per a la part corresponent a la primera fase remetem a l’article Aproximació a l’onomàstica urbana de Portbou (Alt Empordà), volum del Butlletí de la Societat d’Onomàstica d’homenatge a Albert Manent (en premsa). 2 Font consultada: Generalitat de Catalunya: Idescat. Anuari estadístic de Catalunya, 2009. 3 L’entrada en vigor de l’Acta Única Europea, que va suposar la lliure circulació de mercaderies a partir de l’1 de gener del 1993, va provocar la pèrdua de molts llocs de treball i un gran nombre de portbouencs van haver de marxar de la població. La davallada d’habitants, que ja s’havia iniciat als anys 80, va tornar a patir una forta sotragada, de la qual el poble no s’ha pogut recuperar. 1
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quals no tothom té accés. És evident que no és el mateix fer enquestes sobre malnoms en un context conegut que en un lloc on no es coneix ningú... Per tant, d’aquesta enquesta col·lectiva van sortir pocs sobrenoms individuals, però en canvi, es va començar a crear un lligam que havia de permetre un resultat molt satisfactori al cap de poc temps. Després, a còpia d’anar guanyant la confiança de la gent, es van realitzar més enquestes individuals, van sorgir fins i tot col·laboradors espontanis, i, de mica en mica, la llista dels sobrenoms es va anar allargant. Una petita recerca a la biblioteca municipal va permetre espigolar algun sobrenom a la revista local El Full de l’Albera marítima, però hem hagut de deixar pendent la recerca en altres fonts escrites: encara que els sobrenoms pertanyin al registre oral, de vegades se’n poden trobar en documents conservats als arxius, en els quals de vegades s’anotava el sobrenom com a informació complementària al cognom de l’individu4, per tant, en un futur cal explorar també aquesta via. Un cop amb el material recollit, n’hem fet una anàlisi centrant-nos en la forma que presenten els noms i en la seva motivació, en els casos en què ha estat possible. Tot seguit, hem optat per ordenar-los per ordre alfabètic i presentar-los com un annex amb les explicacions sobre el seu origen quan s’han pogut aconseguir.
2. Estudi formal dels sobrenoms Pel que fa a l’estructura, com a articles introductoris, les formes que trobem són: en, el, la, l’. Hi ha tres casos en què l’article introductori es troba en plural: són sobrenoms col·lectius però que no són noms de casa: es tracta dels Germans Abisinios, de les Vellaneres, i dels Coques. Un cas curiós és el de la Ela i la I, un sobrenom que és alhora individual i col·lectiu, atès que designava dues amigues, una molt espigada i l’altra baixeta. Considerem igualment un sobrenom col·lectiu el Parlament, colla d’avis (i alguna àvia) que, dia sí dia també, passen el rall a la fresca de la Rambla petita. Trobem sobrenoms simples i sobrenoms compostos. Dins dels simples, hi ha els que provenen de noms comuns (el Carbassó, en Cansalada, en Formatget, en Calderilla, en Calés, la Garsa, en Gòmit, en Llissa, el Llobarro, el Marrà, el Músic, en Puro, la Truita, en Xapes, en Gana, el Fariner) i els que provenen de noms propis (en Dubonnet, en Totó, en Carpanta), els que estan construïts amb afèresi (en Ceto, en Quet), els que són adjectius substantivats (la Curta, la Llarga, el Llarg, el Rovellat), els que són hipocorístics (en Sidret), els que són construïts amb sufixació (la Caterinots, el Cordillet, la Cigalona). Un cas curiós és en Canco, construït amb l’afèresi del cognom Barranco i la lletra inicial del prenom de l’individu (Carles), per tant, es converteix en un exemple de síncope, com també ho són en Xinoques i en Picolives. En Llangonissa és un exemple de construcció de sobrenom amb metàtesi. En Puro, el Doctor Aspirina, en Dubonnet, són exemples de construccions amb metonímia. La ironia és present en el cas d’en Milhomes, individu esquifit. Es pot parlar de metàfora en casos com l’Ull de pop, el Cordillet, el Carbassó, el Pilon, etc. D’allò més original és el cas d’en Quim dels Cucs, en el qual trobem un bon exemple d’analogia (cuc / cook, en anglès). La mateixa autora (2000) ho va poder constatar en diversos manuals del fons notarial de Pals.
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I també aquí podem esmentar el cas de la Cigalona, sobrenom originat pel cognom Mascle de la senyora en qüestió. Per tant, uns quants exemples de figures literàries a l’abast de tothom. Observant els sobrenoms compostos, trobem les següents estructures: Article + nom + sintagma preposicional: l’As de Canya, l’Emilio de la Piga, la Maria del Túnel, l’Ous de Plom, el Papu de Celler. Article + adjectiu: el Llarg, la Llarga, la Curta, el Rovellat. Article + nom + conjunció + nom: la Pa i Pets. Article + prenom + adjectiu: la Roseta Xafardera, la Marieta Xerraire, el Nas Pla. Article + prenom + cognom: en Carlos Gardel. Compostos de grafia aglutinada: adverbi + verb conjugat (en Maipagues), verb conjugat + substantiu (en Xinoques, en Picolives). Compostos amb guionet (verb conjugat + guionet + nom): en Pica-rodes, en Pixa-llits, en Plega-mans. No hi ha dubte que des d’un punt de vista morfològic, comparant amb el que és el funcionament de la llengua normativa, sobten unes quantes combinacions particulars. Observem les següents: Article personal singular + nom plural: en Xapes, en Datos, en Dedos, en Siete Machos, l’Ous de Plom. Article personal masculí + nom comú femení: en Cansalada, en Llissa, en Llangonissa, en Calderilla, en Mano, en Gana, en Tinieblas, en Pota Podrida. Article femení + nom comú masculí: la Pa i Pets. Article personal masculí + prenom femení: en Marina. Article femení + nom comú femení aplicat a un masculí: la Garsa, gramaticalment és un femení, però com a renom és masculí. Afegim encara un cas de masculinització d’un prenom: el Saro, a partir de Sara, afèresi de Baltasara. Un altre aspecte que remarquem en aquest apartat és la influència de les llengües veïnes, en aquest cas, el castellà i el francès. En el nostre repertori hi trobem el que Moreu-Rey (1981: 47) anomena ‹manllevats integrals›; en són exemples: en Dedos, en Mano, el Gordo, el Marquesito, el Niño, en Siete Machos, en Pablito, en Plinio, el Cojo de Málaga, el Risueño, en Tinieblas, que, independentment de l’article que els precedeix, s’utilitzen amb la pronúncia castellana. D’altres, es pronuncien a la catalana: el Xino, en Datos. Trobem també combinacions de català i castellà: els Germans Abisinios, en Mig Polvo. Pel que fa a la influència del francès, es fa sentir en el Forgeron, manllevat integral d’aquella llengua, en la Marrena i els Marrenos, un manlleu del francès marraine, en el sobrenom en Pagalla, una adaptació del francès pagaille, i en el cas d’en Dubonnet, marca d’un conegut aperitiu francès.
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3. Estudi semàntic És evident que un corpus de poc més d’un centenar de noms no permet fer gaires classificacions, o millor dit, no permet fer una il·lustració amb gaires exemples, i encara amb més raó si el que volem considerar són les causes i circumstàncies de la seva creació, altrament dit, l’etiologia dels noms recollits. Aquest aspecte ens sembla bàsic, i si no, fixem-nos en uns quants exemples: el Nas Pla, nom aplicat no pas a un individu que té el nas xato, com es pot pensar d’entrada, sinó a un individu de cognom Planas i amb el qual es fa un joc de paraules (Gubert 1990: 152); els Marrenos, néts de la Marrena, emigrada a França i batejada així a la seva tornada; la Ela i la I, dues amigues que sempre anaven juntes, una molt alta i l’altra molt baixa; l’As de Canya, un gran aficionat al joc del mahjong; en Datos, l’home que sempre anava tot escopetejat a ‹Prendre datos!›; el Doctor Aspirina, que no era cap metge que receptés aspirines, sinó que la seva senyora les hi feia prendre. En el primer exemple, tenir en compte l’etiologia ens allunya de la interpretació purament lingüística del sobrenom; en els altres, l’etiologia ens permet entendre plenament el significat del sobrenom. Així, seguint el model proposat per Moreu-Rey (1981), però sempre tenint en compte la motivació, establim un primer grup de sobrenoms referits a una especificitat constant, o durable, amb els subgrups següents: 1) Situació familiar: la Marrena, els Marrenos, la Mònica, el Niño, en Marina, el Saro,
les Bessones.
2) Característiques físiques:
– Dimensions del cos: el Carbassó, la Curta, el Llarg, la Llarga, la Ela i la I, en Milhomes, el Gordo, en Pilon, el Papu de Celler, en Demis Roussos. – Color de la pell o del cabell: els Germans Abisinios, en Negret, el Rovellat. – Parts del cos: el Nas de Llauna, el Xato, l’Emilio de la Piga, l’Ull de Pop, en Mig Polvo, en Bigotis, en Caraluna. – Invalideses: en Pota Podrida, el Cojo de Málaga, en Dedos, en Mano. – Peculiaritats en el caminar: en Plega-mans, l’Ous de Plom. – Peculiaritats en el parlar: en Sipi. – La gana: en Carpanta, en Gana.
3) Singularitats del caràcter:
– Presumidots: el Bien Peinao, el Marquesito. – Vanitosos: el Millonari, en Siete Machos. – Autoritaris: l’Estalin. – Xerraires: la Marieta Xerraire, la Roseta Xafardera. – Rabiüts: la Caterinots, el Cojo de Málaga. – Somniadors: en Tinieblas.
4) Els oficis: en Calderilla, el Fariner, el Forgeron, la Maria del Gel, en Pica-rodes,
en Pixa-llits, les Vellaneres, en Quim dels Cucs, en Quim del Carro, els Coques, en Ramon de la Depuradora.
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5) Dedicacions constants no professionals:
– Música, joc, teatre, esports: l’As de Canya, en Carlos Gardel, la Faraona, el Músic, el Maestro Txan. – Menjar i fumar: la Pa i Pets, en Puro, en Ramon de la Pipa, en Joan de la Pipa, en Picolives. – Costums diversos: en Maipagues, en Xapes, la Pentoneta.
6) Sobrenoms derivats de noms o de cognoms: en Canco, en Cartit, la Caterinots, en Ceto,
la Garsa, en Nasi, en Sidret, en Tavi, en Tonicus, en Vileta
7) Sobrenoms motivats pel lloc d’origen o de residència: la Manya, l’Alemanya, el
Gallego, la Maria del Túnel, el Gitano, la Russa
En un altre grup de sobrenoms trobem els que són derivats de fets episòdics, i establim dos subgrups: 1) Fets de parla puntuals, en aquest cas: en Datos, en Siete Machos, en Currito, el Tendre, en Tatarit, en Sesmènec, en Tataro, en Tito Bé. 2) Activitats no constants: en Totó, la Faraona.
4. Conclusions Malgrat que el corpus de sobrenoms estudiats sigui més aviat migrat, creiem que és prou representatiu per trobar-hi els trets que caracteritzen aquesta parcel·la de l’antroponímia: d’una banda, trobem en els sobrenoms nombroses mutacions morfològiques en clara contradicció amb el funcionament normatiu de la llengua, i de l’altra, una barrija-barreja de noms amb una riquesa lèxica molt destacable. Són elements que, defugint la rigidesa de la normativa, tenen el seu propi funcionament i els seus propis recursos per propagar-se i perpetuar-se (tornant a l’exemple de la Marrena, per molt que la Marrena hagi passat a millor vida, sempre ens quedaran els Marrenos...). Per tot això, podem dir que els sobrenoms representen la part més lúdica de la llengua, de fet, ens mostren una manera singular de sobreviure a la rutina de la vida quotidiana, de vegades amb prou humor: el Papu de Celler, l’Ull de Pop, el Cordillet, en Tinieblas, en Datos, la Cigalona, la Ela i la I, la Pentoneta, en Quim dels Cucs són autèntiques troballes pel que fa a exemples de creativitat lingüística. Igualment, com hem vist amb uns quants exemples, el corpus recollit és prou representatiu per demostrar com n’és d’important l’etiologia per copsar plenament la significació dels apel·latius i anar més enllà del seu contingut purament semàntic. Efectivament, en el moment de ser creat, cada sobrenom ha tingut la seva motivació i ha adquirit una càrrega afectiva, és per això que intentar esbrinar l’origen dels noms ha de ser la tasca prioritària abans de posar-nos a fer classificacions. És cert que hi ha noms transparents, com ara el Llarg, però en general, creiem que en aquest terreny hem d’aprendre a desconfiar de la transparència semàntica i acostumar-nos a indagar tant com es pugui les circumstàncies que van originar el sobrenom. I aquí cal recordar el recurs a les fonts escrites, que poden ajudar a aclarir molts dubtes.
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M’agradaria acabar amb una citació del mestre Moreu-Rey, que en un dels seus articles (1991: 187) escriu en les seves conclusions: Amb l’aprofitament dels exemples l’explicació dels quals és segura o probable, els sobrenoms equivalen a un mirall verídic d’una col·lectivitat: amb les seves activitats i oficis peculiars, les seves qualitats i defectes, els seus orígens, la seva llengua genuïna, etc. I per això mereixen no solament l’atenció dels estudiosos, mes també la de tots els qui s’esforcen per a la conservació del nostre patrimoni cultural.
En efecte, els sobrenoms són un patrimoni lingüisticocultural molt valuós, però són un patrimoni essencialment oral, per tant, molt vulnerable, i que ens cal salvaguardar. Encara que als pobles la gent es continuï coneixent més pels sobrenoms que no pas pels cognoms i que el costum de ‹batejar› es mantingui més o menys vigent, ens trobem davant un material fugisser, però únic, que és urgent que continuem recollint i estudiant. Per descomptat que la llista dels sobrenoms de Portbou queda oberta...
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6. Annex: relació dels sobrenoms ordenats alfabèticament i, en la majoria dels casos, acompanyats de la seva explicació. Alemanya, l’: sobrenom ben vigent encara com a nom de casa (ca l’Alemanya). As de Canya, l’: era un gran aficionat al mahjong, joc de taula xinès les fitxes del qual eren fetes tradicionalment amb bambú. Bessones, les: sobrenom ben vigent com a nom de casa, pel fet que allà hi havien viscut dues germanes bessones, una encara viva. Bien Peinao, el: sempre ben pentinat. Bigotis, en: pel seu mostatxo imponent. Calderilla, en: fill d’un drapaire que recollia ampolles de vidre i que devia pagar amb xavalla. Calés, en: antic sobrenom d’origen desconegut, però que possiblement faci referència a un individu aficionat a fer diners. Califa, en: sobrenom d’un jove del poble, no hem pogut esbrinar el perquè. Canco, en: afèresi del cognom Barranco, combinada amb la lletra inicial del nom de pila (Carles). Cansalada, en: no hem pogut esbrinar l’origen d’aquest antic renom. Caraluna, en: per la seva cara rodona com una lluna plena. Carbassó, el: vivia al carrer de Colera, era molt baixet. El sobrenom es manté com a nom de casa (cal Carbassó). Carlos Gardel, en: era un dels néts de la Marrena, aficionat a cantar tangos. Carpanta, en: ganut de mena. Cartit, en: el sobrenom deriva probablement del cognom Cortada. Caterinots, la: la Caterina era la geniüda de la família del Llarg; vivia al carrer anomenat Que no es passa. Ceto, en: afèresi d’Aniceto, que era com es deia el pare. Cigalona, la: regentava una merceria a la plaça Major. La van batejar així perquè el seu cognom era Mascle, que ella mirava d’arreglar posant-li un accent. Cojo de Málaga, el: coix i rabiüt, però no pas originari d’allà baix.5 Coques, els: eren dos germans flequers. Cordillet, en: era alt i molt prim. Currito, en: ‹Currito!› és la seva expressió per saludar els altres. Curta, la: era l’amiga de la néta del Llarg, que era molt més alta que ella. Datos, en: era venedor de vins i licors. Quan el veien pel carrer i li preguntaven on anava, la resposta sempre era ‹a prendre datos!›. Dedos, en: el sobrenom prové del fet que li falten uns quants dits. El sobrenom fa una referència clara a Antonio Martín Escudero, anomenat ‹el Cojo de Màlaga› (Càceres, 1895-Bellver de Cerdanya, 1937), que fou un conegut capitost anarquista.
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Demis Roussos, en: per la semblança física amb l’artista. Doctor Aspirina, el: fill d’en Carpanta. La seva dona li donava aspirines per a tots els seus mals. Dubonnet, en: per la seva afició a beure aquest aperitiu. Ela i la I, la: eren dues amigues que sempre anaven juntes, una molt alta i l’altra molt baixa. Emilio de la Piga, l’: vivia al carrer de l’Església i, evidentment, tenia una piga. Estalin, l’: per comparació amb el posat autoritari de Stalin. Se’l coneix també per en Ramon de la Depuradora i pel Maestro Txan. Faraona, la: expliquen que de joveneta havia fet algun paper al teatre vestida d’andalusa, però segons altres veus, sembla que el sobrenom també té a veure amb el seu posat. Fariner, el: comerciejava amb farina. Forgeron, el: era ferrer i el cridaven pel nom de l’ofici en francès. Formatget, en: sobrenom d’origen desconegut. Gallego, el: pel seu lloc d’origen. Gamba, can: sobrenom amb què es coneix un restaurant. Gana, en: sempre a punt per menjar. Garsa, la: derivat probablement del mateix cognom de l’individu, García. Germans Abisinios, els: eren anomenats així pel color molt morè de la pell. Gitano, el: per la seva ètnia. Gòmit, en: alguna anècdota relacionada amb aquest peix deu ser l’origen del sobrenom, però no hem aconseguit trobar-la. Gordo, el: és un sobrenom que designa més d’un individu de complexió grossa. Joan de la Pipa, en: per la seva afició a fumar amb pipa. Let, en: sobrenom d’origen desconegut, potser afèresi d’algun cognom. Llangonissa, en: no hem pogut saber si li agradava, si en venia, si era llarg i prim... Llarg, el: Nati Peral (2006: 13) escriu: «El meu avi era molt alt i per això li deien el Llarg. Ensenyava a ballar sardanes i les va ballar gairebé fins que es va morir». Llarga, la: filla del Llarg. Llissa, en: era pescador. S’explica l’anècdota que quan els seus companys pescaven algun peix estrany li preguntaven: ‹Llissa, quin peix és, aquest?›, la seva resposta sempre era: ‹Peix d’aigua!›. Llobarro, el: escrivint els seus records del passat, Paco Sàcera (2000: 20) esmenta en «Joanito Ferrer, però que tots li dèiem ‹El Llobarro›, i que era fill d’un guàrdia d’assalt». Maestro Txan, el: cinturó negre i reconegut expert en defensa personal, que imparteix classes als membres dels cossos de seguretat. Maipagues, en: a l’hora de pagar, sempre feia el ronsa. Mano, en: té una mà esguerrada. Manya, la: pel seu origen aragonès. Maria del Gel, la: s’havia dedicat a la venda de gel.
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Maria del Túnel, la: havia viscut a la primera casa edificada prop del túnel de Cervera, i coneguda també per la Mònica. Marieta Xerraire, la: per la seva afició a la conversa. Marina, en: el sobrenom prové del nom de la mare, que sempre ha estat al capdavant del negoci. Marquesito, el: elegant i presumidot. Marrà, el: pel seu caràcter tossut. Marrena, la: va marxar a França amb els seus cinc néts orfes i els va criar allà. El sobrenom prové del francès marraine (padrina). I cada nét va ser anomenat el ‹Marreno›... Mig Polvo, en: per la seva mirada extasiada. Milhomes, en: pel seu físic esquifit, conegut també per en Tomateta. Millonari, el: també anomenat en Millonetis, pels seus aires de grandesa. Mònica, la: el sobrenom prové de la feminització del cognom de la protagonista (Mónico). Músic, el: formava part d’una família de músics i vivia ribera amunt, on també trobem la sendera del Músic i l’hort del Músic. Nas de Llauna, el: originari de Colera, tothom coincideix a dir que ‹té un nas molt especial›. Nas Pla, el: la inversió de les síl·labes de la paraula ‹Planàs› és l’origen d’aquest sobrenom amb que els treballadors de la Companyia de Ferrocarrils anomenaven el seu director (Gubert 1990: 152). Nasi, en: afèresi d’Ignasi, era un oncle de Nati Peral. Negret, en: era molt morè de cara. Ninus, en: era el sobrenom del propietari del mico de la plaça del Mono, que es deia Titi. Niño, el: el sobrenom correspon possiblement a un apel·latiu familiar. Ous de Plom, l’: caminava encorbat. Pa i Pets, la: antic sobrenom d’origen desconegut, que reflecteix probablement un determinat règim alimentari i les seves conseqüències... Pablito, en: s’anomena així un personatge tot peculiar. Pagalla, en: havia emigrat a França i allà el tractaven de pagaille, potser per l’enrenou que feia. Papu de Celler, el: o simplement el Papus, antic sobrenom avui caigut en desús, aplicat a un individu de complexió forta, imponent. Parlament, el: nom amb què es coneixen la colla de gent gran, especialment homes, que, dia sí dia també, seuen a la Rambla petita i parlen de coses diverses (‹aquí fan el temps›, ens deia un que els va preguntar si l’endemà plouria). Pentoneta, la: antic sobrenom encara ben vigent com a nom de casa (ca la Pentoneta6), i també en plural (les Pentonetes). Sembla que el mot deriva de la paraula pendó. Pere Brut, en: pel seu aspecte deixadot. Picolives: era aficionat a menjar olives. Pica-rodes, en: treballava a l’estació i el sobrenom deriva del seu ofici de ‹picar les rodes›, que era una de les feines que realitzaven els carreters. Rectifiquem la grafia emprada en l’article esmentat a la nota 1, un cop conegut l’origen del sobrenom.
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Pijillas, en: durant la guerra va ser un dels líders de la plaça de Dalt. Pilon, en: alt i gros, fill d’en Tion. Pitxi, en: de jovenet jugava a futbol i sembla que marcava molts gols, una mica com el Pichi Alonso. Pitxur, en: conegut sobrenom d’origen desconegut. Pixa-llits, en: matalasser de renom de Colera que tenia clientela a Portbou. Plega-mans, en: caminava amb les mans encreuades a l’esquena. Plinio, en: el sobrenom té el seu origen en un dels personatges de la sèrie de televisió espanyola Crónicas de un pueblo. Pota Podrida, en: li faltava una cama, que el tren li havia aixafat. Puro, en: és un sobrenom que s’aplicava tant al pare com al fill, perquè tots dos fumaven cigars. Quet, en: afèresi d’Enriquet, sobrenom encara vigent com a antic nom de casa. Quiko, en: Nati Peral (2009: 6) recorda la vinya dels seus avis ‹avui de l’Antonio García, en Quiko›. Quim del Carro, en: sempre anava amunt i avall amb el carro. Quim dels Cucs, en: havia treballat a la companyia de viatges Cook. Ramon de l’Olla, en: treballava a la duana i era fill d’en García de l’Olla. Ramon de la Depuradora, en: treballa en aquestes instal·lacions. Ramon de la Pipa, en: es tracta d’un renom que va passar de pare a fill. Risueño, el: per la seva barca, que s’anomenava així. Roseta Xafardera, la: sempre a l’aguait, pendent del que passava al carrer. Rovellat, el: era pèl-roig. Rovelló, en: va quedar batejat així una vegada que es va posar una gorra i algú va trobar que semblava un rovelló. Russa, la: arribada d’aquell país, ha acabat instal·lant-se definitivament al poble. Saro, el: la seva dona es deia Sara, afèresi de Baltasara. El sobrenom també va donar lloc a un nom de casa (cal Saro). Sesmènec, en: és un sobrenom que prové d’una deformació fonètica: el noi es deia Domingo, d’aquí va passar a Domènec, i de Domènec va sortir Sesmènec. Sidret, en: forma hipocorística, i amb afèresi, d’Isidre. Siete Machos, en: és així com anomena, orgullós, els seus set fills. Sipi, en: era un treballador de la duana que parlava papissot. Tai, en: treballava a la duana, era germà d’en Tion. Tatarit, en: el sobrenom deriva d’un defecte de parla, i sembla que quan l’home volia preguntar ‹què t’ha dit?›, la cosa es convertia en una mena de tatarit. Tataro, en: es deia Ricardo, tenia un defecte de parla i el seu nom sonava així. Tavi, en: afèresi d’Octavi. Tendre, el: ‹Ei, Tendre!› és la salutació que fa als seus coneguts. Teti, en: no hem pogut esbrinar el perquè d’aquest sobrenom.
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Tinieblas, en: individu solitari que vagarejava sovint amb un llibre sota el braç. Tion, en: sembla que el sobrenom deriva de Pantaleón, que és com es deia l’home. Tito Bé, en: l’home pronunciava ell mateix així el seu nom i cognom quan era una criatura. Tomateta, en: sobrenom d’origen desconegut amb què era conegut també en Milhomes. Tonicus, en: derivat de Toni, el sobrenom encara perdura com a nom de casa (can Tonicus). Totó, en: es tracta de Ricard Novell i Cuffí, conegut per Totó, era un portbouenc molt popular, un xic estrambòtic però molt servicial7. Sembla que el sobrenom prové del personatge del mag Totorelli, que ell va interpretar en una ocasió. Tuduri, en: sobrenom d’origen desconegut, si bé és molt probable que derivi d’un antic cognom, i aplicat a l’individu anomenat també en Rovelló. Truita, la: era l’àvia del que encara avui es coneix per can Truita. Vellaneres, les: tenien botiga de verdures, sembla derivat de vellanes. Ull de Pop, l’: per la forma dels seus ulls. Vileta, en : derivat del cognom Vila. Virolet, el: sobrenom derivat possiblement del joc anomenat així. Xapes, en: era molt aficionat a lluir xapes. Xata, la: era la dona del Xino, i, curiosament, no té res a veure amb el Xato. Xato, el: pel seu nas xato. Xino, el: havia estat un esportista destacat de l’equip de waterpolo i natació local de mitjans del segle XX; es desconeix l’origen del sobrenom. Xinoques, en: sobrenom d’origen desconegut.
Un retrat molt complet d’aquest personatge es pot llegir a: Sànchez (2009: 6).
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Aproximación á zootoponimia do Concello de Ribadeo (Lugo)
1. Introdución Un dos campos historicamente máis produtivos dentro da lingüística galega é o da onomástica e, dentro dela, o da toponimia. Os recursos para o seu estudo (e máis en concreto da toponimia no seu estado medieval) aumentaron considerabelmente nos últimos anos, grazas á aparición de numerosas coleccións documentais e á dixitalización de moitas delas, o cal permite unha consulta máis rápida e efectiva do material. Neste sentido debemos chamar a atención sobre recursos informáticos de consulta libre como o CODOLGA (Corpus Documentale Latinum Gallaeciae)1, do Centro Ramón Piñeiro de Investigación en Humanidades, e sobre todo o TMILG (Tesouro Medieval Informatizado da Lingua Galega)2 e o ITGM (Inventario Toponímico da Galicia Medieval)3, ambos os dous desenvolvidos no seo do Instituto da Lingua Galega baixo a dirección do doutor Xavier Varela Barreiro. O interese que presenta o estudo da toponimia para un lingüista adquire distintas formas e vertentes. Por unha banda, os nomes de lugar achegan información moi valiosa sobre fenómenos que ilustran a evolución diacrónica dunha lingua, ao tempo que conserva en non poucos casos restos fosilizados de elementos léxicos pertencentes a estratos lingüísticos anteriores (Morala 2010: 105). Canto á natureza e enfoque do noso traballo, levamos a cabo un estudo toponímico no que reunimos todos os nomes de lugar dun concello galego determinado (Ribadeo, na comarca da Mariña Oriental, pertencente á provincia de Lugo) que teñen como motivación principal o campo semántico da fauna (zootopónimos), tanto no referido aos propios animais en si mesmos como a actividades, obxectos e/ou substancias relacionados con eles. Trátase, pois, do extracto dun traballo máis amplo que estamos a desenvolver nestes momentos e que abrangue o estudo global da toponimia do devandito concello de Ribadeo. A xeito de introdución debemos indicar que os zootopónimos constitúen un subgrupo incardinado dentro dunha categoría máis ampla como é a da toponimia delexical. En efecto, todo corpus toponímico pode sistematizarse e categorizarse conforme á tipoloxía dos elementos Pode consultarse no seguinte enderezo: http://corpus.cirp.es/codolga. Pode consultarse no seguinte enderezo: http://ilg.usc.es/tmilg. 3 Pode consultarse no seguinte enderezo: http://ilg.usc.es/itgm. 1 2
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lingüísticos concretos nos que se fundan os distintos ítems que o constitúen, tipoloxía que nos permite distinguir a toponimia delexical (nomes de lugar orixinados a partir de elementos léxicos da lingua, en calquera das súas fases históricas) da toponimia deonomástica (nomes de lugar creados a partir de elementos onomásticos preexistentes, sexan antropónimos ou topónimos). Á súa vez, os topónimos delexicais poden clasificarse en función dos trazos semánticos predominantes en cada lexema concreto, o cal permitiría postular en principio a existencia de diversos campos toposemánticos cuxo número e definición varía notabelmente duns autores a outros. Unha desas posíbeis clasificacións, que se axeita en grande medida aos nosos propósitos, contempla a existencia de oito grandes grupos (Martínez 2010: 39-41), un dos cales é o dos zootopónimos, que agrupa todos aqueles nomes de lugar creados a partir de lexemas cuxo significado fai referencia a algún tipo de animal.
2. Algunhas consideracións sobre a zootoponimia É ben coñecido o xeito en que o mundo animal influenciou a mentalidade do home ao longo dos tempos, influencia que se proxectou sobre ámbitos tan diversos da experiencia humana como o folklore, a literatura, a relixión, a simboloxía ou mesmo a medicina. Evidentemente, esta repercusión do mundo animal reflíctese en todas as culturas e en todas as linguas, pois todas elas xeraron un vocabulario zoonímico de grande vitalidade (produtos, aspecto, partes do corpo etc.). Un dos campos no que mellor podemos verificar esta circunstancia é no das metáforas ou símiles zoomorfizantes, especialmente abondosas e expresivas no caso do galego: pensemos por exemplo en ser malo como os pollos, poñerse feito un porco, feder como unha bubela, ir cargado coma un burro, ser negro coma un corvo, estar contento coma un cuco, ser falso como unha mula etc. De idéntica realidade participan outro tipo de enunciados fraseolóxicos cuxo significado se nos presenta con menor claridade que nos casos anteriores, pois non reproducen unha estrutura de tipo comparativo: referímonos a secuencias como boi de palla (‹ser moi bo›), buscar a burra e ir a cabalo dela (‹non darse de conta de algo ben evidente›), chámalle burro ao cabalo! (dise de alguén que nos parecía pouco esperto mais que demostrou con algún feito ou dito ser persoa aguda), ir de burra e volver de albarda (‹non aprender nada›), erguerse co galo (‹madrugar moito›), andar coa mosca tras da orella (‹sospeitar algo›) etc. Ademais da produtividade léxica e fraseolóxica característica dos zoónimos, estes elementos son frecuentemente utilizados ben como indicadores toponomásticos ou ben como nomes persoais, a través do estado intermedio do sobrenome, feito que os integra de xeito secundario na categoría dos topónimos deonomásticos. O expoñente máis coñecido disto é a onomástica xermánica, na que se utilizaban de xeito frecuente bases lexicais como *ber ‹oso› ou *wulfs ‹lobo› na formación de antropónimos. É ben coñecida a presenza na antroponimia medieval galega de temas xermánicos que interviñeron na constitución de nomes persoais bitemáticos, como por exemplo *marha ‹corcel de batalla› (que temos como base de baldemarus), *bera(n) ‹oso› (presente en bera ou beraldus), *ara ‹aguia› (recoñecíbel en aragundia ou arulfus) ou *wulfus ‹lobo› (que temos por exemplo en randulfus, grisulfus
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e moitos outros). De todos os xeitos, esta práctica onomástica revélasenos como moi antiga e verifícase de feito no propio latín, moitos de cuxos cognomes se explican en virtude da antroponimización de determinados nomes de animais como lupus, apius, taurus ou merulus (Kajanto 1982: 325 e ss.). Esta práctica gozou de grande vitalidade aínda na época propiamente romance, tal e como poñen de relevo os múltiples sobrenomes zoonímicos testemuñados na nosa documentación medieval, tanto instrumental como literaria: casos como porcallo, pego, sardiña e moitos outros así o evidencian (Boullón 1999: 78-79). De feito, moitos destes sobrenomes acabaron cristalizando a partir de certa altura histórica como apelidos persoais, logrando deste xeito fixarse e perpetuarse até a actualidade. Volvendo ao entorno xeográfico específico que nos ocupa, no concello de Ribadeo existen topónimos baseados en nomes de persoa que á súa vez remiten a temas zoonímicos, como Vilamariz, onde se recoñece probabelmente o gótico *marha ‹corcel de batalla› (HgNb §173). Ora ben, como non se trata de zootopónimos primarios en sentido estrito, fican excluídos do noso interese inmediato. Unha das opinións máis reproducidas por certos autores é a de que o campo da zoonimia non acostuma xerar unha grande cantidade de topónimos, debido entre outras circunstancias á mobilidade dos animais: [...] la flora es inamovible, por lo que sirve durante siglos, para definir un determinado lugar, mientras que un lobo o un águila pasan con facilidad de un monte a otro, o las moscas y las hormigas se encuentran en todas partes sin localizaciones preferentes, por lo que ninguno de estos animales sirve para una adjetivación particular. (Galmés 1986: 31)
Agora ben, tal e como veremos de contado, estas afirmacións son susceptíbeis de múltiples matices, pois os animais si constitúen unha base rendíbel e recorrente tanto na creación directa de denominacións toponímicas como a posteriori no estabelecemento de posíbeis refaccións formais provocadas por algún tipo de asociación etimolóxica. Por outra banda, o léxico animal preséntasenos como especialmente produtivo no eido da microtoponimia, xeralmente asentada en estratos lingüísticos máis recentes no tempo e cuxa fixación escrita (de darse) tamén se produciu polo xeral en épocas non moi recuadas. Son moitos os topónimos menores cuxa transmisión só se viu garantida por medio da oralidade, o que os colocaba nunha situación de especial vulnerabilidade que favorecía posíbeis cambios de denominación ou incluso a perda do propio topónimo, como xa se rexistraba na veciña Asturias.4 Por tanto, resulta evidente que o estudo deste tipo de nomenclaturas microtoponímicas (desde o punto de vista da extensión que ocupan: montes, terras de cultivo etc.), xeralmente obviadas en traballos deste tipo, resulta fundamental de cara a atinxir un coñecemento máis global e completo dos procedementos de creación toponímica. A situación vólvese máis complexa no eido da toponimia maior, xa que en moitas ocasións encontrámonos ante formas de orixe moi antiga que perderon a súa conexión inicial co léxico común e foron relacionadas con outros lexemas coñecidos, moitos deles zoonímicos, producíndose deste xeito un fenómeno de asociación etimolóxica: «el lenguaje toponímico de motivación animal, recogido en el entorno asturiano de estas zonas más altas, supone un precioso documento lingüístico al lado de otros. Una vez más, las voces del suelo diseñan estadios ecológicos pretéritos, sin duda más variados, ricos y polícromos de lo que ofrece el silencioso o silenciado monte actual» (Concepción 1990: 766).
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los topónimos en su evolución o por el desuso de la lengua que les dió origen, pueden hacerse opacos, y es entonces cuando tiene lugar la reinterpretación, operada en la conciencia lingüística del hablante, que tiende a reagrupar formas etimológicamente oscuras con raíces conocidas de aspecto semejante (Galmés 1986: 31)
Parece lóxico, por tanto, que este fenómeno de asociación etimolóxica se presente predominantemente nos lexemas prerromanos, nos que a base lexical se encontra escurecida polo tempo e o desuso na lingua oral común. Xa Dauzat constataba que a etimoloxía popular actuaba sobre palabras illadas que perderan o seu significado primitivo, provocando deste xeito asociacións con palabras da lingua cotiá coas que en principio non gardaban ningún tipo de relación. En resumo: «La etimología popular [...] establece una motivación etimológica espontánea, subjetiva. No necesita ningún aparato científico» (Baldinger 1986:15), circunstancia esta que teremos ocasión de comprobar nalgún exemplo do noso corpus. Mais son mostras ben coñecidas a do topónimo coruñés Touro, que procede dunha raíz oronímica prelatina *tur-, mais que se asociou co zoónimo touro. O mesmo acontece co concello mariñán de Cervo, que entronca con outros topónimos prelatinos como Cervantes ou Cervaña, mais cuxa asociación co zoónimo cervo chegou até o extremo de figurar este animal no escudo municipal.
3. Corpus Na recompilación dos ítems zootoponímicos presentes no termo municipal de Ribadeo botamos man de varias fontes. Por unha banda, recorremos ao Nomenclátor de Galicia (= NG)5, que contén unicamente topónimos maiores, ou sexa, alusivos a núcleos de poboación, co cal constitúe un recurso por si só bastante limitado. Por ese motivo, a información achegada polo NG foi complementada con material recollido no noso propio traballo de campo, e que nos proporcionou un abondoso número de microtopónimos ou topónimos menores, moitos dos cales efectivamente presentan a priori unha base zoonímica. Como pode comprobarse, e consoante ao dito anteriormente, os ítems relacionados nun primeiro momento cun elemento léxico animal predominan no eido da toponimia menor, pois suman un total de 21 rexistros (o 75% do total de ítems analizados) fronte aos 7 topónimos (o 25% restante) que designan núcleos habitados. Son zootopónimos menores A Abilleira, *Bituriais6, Cabalar, O Campo da Cuca, Cegoñas, O Cementerio das Burras, O Centolar, O Colmeal, O Corno da Lebre, *Cortiña do Pajaro, O Ollo do Estornín, Fontes do Lobo, Matacán, Munxilloeira, Pena Corveira, Pena das Corvas, A Pena do Gato, A Pena dos Corvos, Pena Mosqueira, A Rigueira do Bexato, O Trobo, mentres que designan entidades de poboación os ítems Cantarrá, A Currada, A Curuxeira, Os Galos, A Pega, O Rato e A Trapa.
Pódese consultar no seguinte enderezo: http://www.xunta.es/toponimia. Os elementos sinalados cun asterisco indican que se trata dunha forma unicamente rexistrada de modo escritural na documentación antiga, ambas as dúas no Real de Eclesiásticos da freguesía de Santalla da Devesa.
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Outro tipo de división que resulta do noso interese é a que se basea no eixo doméstico vs. salvaxe, coherente coa visión antropolóxica galega e fundada na relevancia dos animais domésticos como base da economía familiar e eixo vertebrador da maior parte das actividades cotiás, pois «los quehaceres de todo el año giran principalmente en torno a su cuidado y manutención; las tierras son cultivadas pensando en alimentarlos» (Lisón 2004:125). Pola contra, os animais salvaxes traen escaseza e inquedanza para o campesiño. Dito doutro xeito, estabelécese unha oposición entre os animais domésticos e os animais salvaxes na medida en que os primeiros, utilizando os esquemas simbólico-morais do paisano galego, están onde lles corresponde, e os segundos, pola contra, veñen do mundo exterior, de onde procede sempre o mal e a desgraza, e traspasan violentamente os límites internos. Esta dicotomía vixente no mundo tradicional galego ten proxección e rendibilidade na toponimia: como iremos vendo, os animais domésticos (cabalarías, galiñas, ovellas, vacas, porcos) van designar lugares e relacións sensibelmente distintas ás que designan os animais salvaxes (aguias, lobos, raposos). Ao mesmo tempo, o material estudado é susceptíbel de novas subagrupacións xa estritamente lingüísticas, dependendo da natureza e motivación dos distintos ítems. 3.1. Zootopónimos primarios Trátase de formas alusivas á presenza de animais no territorio designado. Dentro deste apartado, podemos diferenciar distintos tipos de topónimos en función das opcións morfosintácticas observábeis na súa constitución: a) derivados: neles opérase unha modificación do lexema mediante un repertorio sufixal bastante limitado, xeralmente -eiro e -ar / -al, o que implica a elisión dun primitivo núcleo nominal. Un bo exemplo deste modelo é o topónimo Munxilloeira (punta de mar da freguesía de San Pedro de Rinlo), deriva da forma mexillón, a cal á súa vez remite ao latín tardío *muscellĭōne. O topónimo presenta dúas alteracións fonéticas salientábeis: por un lado, o [η] implosivo da primeira sílaba, que debe explicarse por repercusión da nasal inicial como en mallo / manllo, nec quem > ninguén e similares; e polo outro, a vogal pretónica [u], que ou ben entronca directamente co vocalismo etimolóxico ou ben se explica pola labialización do [e] da forma mexillón, como en semana > *somana ou fermento > * formento, por exemplo. Tamén derivado dun nome de marisco, mais desta vez co sufixo -ar (variante de -al < latín -āle), é O Centolar, abundancial formado sobre a base léxica centola, de etimoloxía incerta aínda que posibelmente céltica. O topónimo O Centolar dálle nome a unha das puntas marítimas situadas na entrada do porto de Rinlo. Canto ao microtopónimo Pena Corveira, Galmés sinala que «puesto que el cuervo es un ave diseminada por todas partes, no es definitoria de un lugar concreto, por lo que debemos pensar para la serie la base latina curvum, es decir, ‹corvo›, ‹arqueado›» (Galmés 1986:37), mais neste caso o lugar que recibe tal denominación (situado na freguesía de Santalla da Devesa) non presenta esa particularidade formal, senón que se caracteriza por ser unha pedra onde se congrega habitualmente un bo número de corvos mariños, circunstancia que permite entroncar directamente este ítem co zoónimo corvo, do latín cŏruŭ. Esta explicación pode seguramente extrapolarse á grande maioría dos homónimos e parónimos existentes ao longo do territorio galego, pois, malia a opinión de Galmés, en galego descoñecemos derivados do
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latín curuŭs mediante o sufixo -ārĭŭs, así como da correspondente forma patrimonial galega corvo mediante a adxunción do sufixo -eiro (Martínez 2010:157-158). Son bastantes os presuntos zootopónimos que deben explicarse en puridade como antigos derivados de radicais prelatinos (aínda que non necesariamente) que, ao tornárense opacos para os falantes, foron asociados a lexemas zoonímicos formalmente similares e que aínda resultaban transparentes e produtivos na lingua. No corpus que manexamos hai casos que se teñen interpretado desde esa óptica, como por exemplo Pena Mosqueira, nome dunha paraxe da freguesía de Santalla da Devesa. É moi probábel que esteamos perante un simple derivado do substantivo mosca (< latín mŭsca), que segundo parece adoita aplicárselles a lugares frescos onde se alinda o gando vacún nos meses de verán, opinión xa formulada polo padre Sarmiento. Porén, Galmés (1986: 37) amósase unha vez máis escéptico ao respecto e prefire retrotraer esta serie toponímica (Mosqueira, Moscoso e similares) ao latín muscus ‹almiscre›, pasando posteriormente a confundirse co dito zoónimo. Para o ítem toponímico concreto que nos ocupa consideramos máis acertada esta segunda hipótese, mais partindo dunha outra acepción que presentaba ese mesmo termo latino e que non é outra que ‹mofo, balor›, moi doado de atopar no lugar en cuestión. É de interese comprobar como en moitas ocasións o zootopónimo, aínda referíndose en efecto á presenza dun animal na zona, alude máis ben á configuración do terreo dun determinado xeito que podería favorecer ou propiciar tal presenza: se no caso de Pena Mosqueira unha das hipóteses a considerar era a que denotaba condicións favorábeis á presenza do insecto en cuestión, en *Bituriais (abundancial procedente da forma latina uŭltŭre ‹voitre›) ou en A Curuxeira (de curuxa, derivado á súa vez de *corugĭa)7 estamos ante formacións alusivas a lugares altos, sombríos e de vexetación frondosa, aptos en efecto como hábitat tanto do voitre como da curuxa. De feito, Filgueira Valverde8 chegou a aboar a voz curuxeira no seu dicionario como ‹Lugar en sitio elevado y peñascoso›; e Aníbal Otero, co significado ‹Pequeño poblado, caserío, en lugar peñascoso, propio de curuxas›. b) sintagmas nominais nos que o zoónimo aparece como determinante dun núcleo nominal: son claros exemplos desta categoría casos como O Cementerio das Burras, onde o termo burro procede do latín burrichum ‹cabalo pequeno›. Se ben a motivación deste topónimo é suficientemente transparente (designa un lugar de San Pedro de Rinlo onde se soterraban este tipo de animais), cómpre referirmos outras posíbeis motivacións verificadas en territorios próximos ao que nos ocupa, como por exemplo a acepción ‹palleiro› descrita para certos topónimos da comarca asturiana de Teberga, onde burru designa un «pequeñu balagar que se conoz cola mesma espresión, quiciabes comu un casu d’animalización tan frecuente nes fales populares» (García Arias 1990: 51). Canto á procedencia da voz curuxa hai diversas hipóteses que a relacionan ben coa forma dunha capucha como Crespo (1982: 40-41) «de cuculla procedió nuestra curuxa. Y su variante coruxa, por la similitud que sus orejas enhiestas guardan con la capucha» ou ben co son onomatopeico que estas emiten (Corral 1985: 356). Aínda que tamén se teñen explicado estas formacións como derivados de *corrŭgĭa, directamente relacionado co latín hispánico *corrŭgŭs ‹canle de auga› (de onde o galego córrago / corgo). 8 Agás cando indiquemos expresamente o contrario, as definicións e información lexicográfica empregadas nesta contribución foron extraídas sempre do Dicionario de Dicionarios, editado por Antón Santamarina Fernández (vid. bibliografía). 7
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Outros dos exemplos rexistrados no concello ribadense é O Corno da Lebre (nome dunha punta de mar en San Pedro de Rinlo), procedente do étimo latino lepŏre e que ten como motivación directa a forma que presenta esta punta de mar, certamente comparábel á dunha lebre. Tamén unha motivación similar podemos recoñecer nalgún outro topónimo menor como O Ollo do Estornín (lugar da freguesía de Santalla da Devesa), derivado do latín sturnŭm mediante un sufixo diminutivo latino -īnŭ do que resulta esta forma -ín propia do galego oriental, remarcando a idea de pequenez dun nacente de auga. Por outra parte, a forma bexato, concorrente no sintagma A Rigueira do Bexato (nome dun monte da freguesía de San Lourenzo de Vilaframil), reflicte a variedade local da forma máis común buxato. Procede do étimo butĕo ao que se lle engade o sufixo latino -attŭ (> -ato), presente noutros derivados como lobato e similares. A motivación deste topónimo, como a doutros sintagmas toponímicos semellantes xa comentados, atópase na relación existente entre as características dun emprazamento e as especies animais asociadas a el. Seguindo coa concorrencia de aves neste tipo de sintagmas toponímicos, Hubschmid considera que a palabra Cuco, presente n’O Campo da Cuca (nome dun terreo da freguesía de Santalla da Devesa), pode ter unha orixe onomatopeica e relaciona este termo co vocábulo éuscaro kukur ‹cresta›. Para os topónimos derivados do ítem corvo, como A Pena dos Corvos ou A Pena das Corvas (ambos os dous na freguesía de Santalla da Devesa), vid. Pena Corveira. Canto a A Pena do Gato, nome dun marco localizado na freguesía de Santalla da Devesa, é evidente que recoñecemos nel o substantivo común gato (< latín tardío *cattŭ). Cremos que a súa presenza neste sintagma toponímico pode obedecer ao uso deste animal doméstico como cebo para unha trampa destinada a capturar animais maiores, motivación semellante á que se ten descrito para outros topónimos análogos como Espelgato, Carrigatos, Mazagatos etc. Outra opción a ter en conta é que esta denominación faga referencia simplemente á presenza do gato montés no lugar. Outro mamífero de grande presenza no imaxinario do home rural galego, e asociado a miúdo a valores eminentemente negativos, é o lobo. No noso corpus detectamos un topónimo Fontes do Lobo (nome dunha fonte e paraxe da freguesía de San Xoán de Ove), alusivo ben á presenza do lobo nas inmediacións, ben ás características físicas do lugar, situado no medio dun monte que o dito animal podía seguramente frecuentar. c) frases verbais toponimizadas: como representativos deste mecanismo toponímico temos os exemplos de Cantarrá (nome dun lugar da freguesía de Santa María de Ribadeo) e de Matacán (nome duns prados da freguesía de Santalla da Devesa). No tocante a Cantarrá, cómpre apuntar que este tipo de topónimos nos que parece intervir o verbo cantar son habitualmente explicados a partir do céltico *kanto ‹ángulo, recanto›, mais cremos que esta interpretación non é aplicábel ao caso do Cantarrá ribadense, como tampouco ás formas Cantarrá e Cantarrán que NG rexistra respectivamente nos concellos de Mugardos e Salvaterra de Miño. Outro tanto pode dicirse a respecto dos Cantarrana / Cantarranas consignados no territorio castelanófono, os cales, en opinión de Sanz (1997: 326), «aluden siempre a lugares poblados de estos anfibios». En efecto, o lugar chamado Cantarrá no concello de Ribadeo anegábase con moita facilidade, co cal constituía un hábitat privilexiado para animais coma as ras. Xa que logo, o topónimo pode analizarse como unha frase verbal formada polo verbo cantar (do latín cantāre, forma iterativa do verbo canĕre ‹cantar›) e o substantivo ra (< latín rana). Esta estrutura morfosintática é homologábel á da devandita forma Matacán, analizábel
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como o resultado da combinación do verbo matar (< latín *mattāre ‹golpear, abater›) co substantivo can (< latín cane). Porén, a interpretación semántica deste topónimo non resulta doada e téñense achegado hipóteses diversas. Hai na toponimia galega varios ítems formados polo verbo matar e un zoónimo pluralizado (p.ex. Matabois, Matalobos, As Penas de Matacás etc.), referidos á existencia dun declive pronunciado no terreo (cfr. Despeñaperros no ámbito castelanófono), aínda que tampouco podería descartarse que esteamos perante un antigo alcume persoal toponimizado. Unha outra opción sería a fitonímica, o que implicaría analizar Matacán / Matacás a partir do fitónimo mata (< prelatino *matta), mais, tal e como apunta Navaza (2006: 335), «non temos noticia dalgún uso fitonímico de matacán, matacáns ou matacás, aínda que existen formas paralelas, con outros nomes de animais (matacabalos, matapulgas...), que designan especies vexetais». 3.2. Posíbeis sobrenomes de base zoonímica que acabaron toponimizados O topónimo O Rato (que se repite como topónimo maior no concello lugués de Cervo e tamén como nome dun río que pasa pola cidade de Lugo) dálle nome a un núcleo habitado da freguesía de Santalla da Devesa. Pode ter, no caso concreto que nos ocupa, cando menos tres vías de explicación, xa que polo momento non se atopou documentación medieval que permita determinar inequivocamente a súa orixe. Por un lado, podería tratarse dun alcume (medieval ou posterior) que recibía o dono desas terras. O alcume en cuestión sería o zoónimo rato, probabelmente procedente dunha voz xermánica ratto a través do latín vulgar *rattŭ. O nome do animal, a través dese uso antroponímico, acabaría toponimizándose, tal e como aconteceu en moitos outros casos análogos, entre eles algún dos que teremos ocasión de comentar de seguido. A prol desta hipótese está o uso como sobrenome deste lexema zoonímico xa desde a Idade Media: por exemplo, Michaele Petri canonico dicto Raton (Santiago 1261), Estebo Ratón (Ourense 1440), Vasco Ratón (Ourense 1441), etc. Aínda na actualidade, segundo os datos da Cartografía dos Apelidos de Galicia9 (CAG), a forma Rato aparece como apelido na nosa terra. O topónimo A Venda do Rato, no concello de Guntín, admite tamén unha explicación deste tipo, pois parece basearse no sobrenome do dono dunha venda (cfr. A Venda da Teresa, na Gudiña). A segunda hipótese é que proveña de raptŭm, participio do verbo latino rapĭō, que faría alusión á forza do río, coma no caso do seu homónimo, o río lugués Rato. De todos os xeitos, trátase dun lugar bastante chan onde hai un regato que conta cun caudal pequeno de auga. Tamén podería pensarse en que se trate dun lugar onde se pagaba unha renda rata no senso dunha renda ratificada ou confirmada, se ben carecemos de documentación que avale tal extremo. Por outro lado, unha cuestión que nos parece significativa é que o nome designa o lugar e non propiamente o río, xa que para se referir ao curso de auga utilízanse denominacións como Río de Sa ou Río do Lagar; é por este motivo que a denominación de Río do Rato, ao igual cás outras dúas, semella puramente locativa (a corrente fluvial adquire o nome dos lugares polos que discorre), e non se trata por tanto da denominación propia e orixinal do río. De todos os xeitos, esta situación puido non ser a mesma antigamente, ou incluso ser o resultado da perda da consciencia do referente. Pode consultarse no seguinte enderezo: http://servergis.cesga.es/website/apelidos/viewer.asp.
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Se para O Rato falamos da probabilidade máis ou menos alta dun antigo sobrenome zoonímico, algo similar podería sinalarse para A Pega e Os Galos, nome de senllos núcleos habitados pertencentes respectivamente ás freguesías de San Xoán de Ove e Santa María de Vilaselán. Para A Pega (que reencontramos como topónimo maior noutros puntos de Galicia) podemos partir do ornitónimo pega, do latín vulgar *pēca (pola forma clásica pĭca ‹pega›, ‹especie de gralla›), cuxa toponimización podería vir dada a través dun previo uso antroponímico, ou sexa, como sobrenome persoal. Apoiámonos para iso na existencia aínda na actualidade dunha familia coñecida como Os Pegos na freguesía de San Xoán de Ove, a mesma á que pertence o lugar da Pega. Ademais, o uso de pega / pego como alcume está moi estendido aínda hoxe en Galicia, e, a xulgar polos datos que nos proporciona a documentación, pode remontarse xa a tempos medievais: Petrus Gundisalvi cognomento Pego (Sobrado dos Monxes c. 1063), Ovecus Petri connomento Pego (Caaveiro 1244), Diego Pego (Vilourente 1431), Fernan Pego (Vilourente 1439, 1467), etc. O apelido Pego, segundo parece, é relativamente abondoso en Galicia, pois a CAG recolle até 1036 ocorrencias (1 delas en Ribadeo, precisamente). Á luz destes datos, non sería descartábel que A Pega fixese referencia en orixe a unha muller apelidada Pego ou da devandita familia d’Os Pegos que habitou ese lugar, segundo unha tendencia habitual á flexión en xénero feminino dos apelidos masculinos cando a portadora dos mesmos é unha muller: por exemplo, en Ribadeo temos alcumes familiares como Rulo ou *Rulero que, cando os levan mulleres, pasan a ser Rula e *Rulera. No tocante a Os Galos, pode postularse tamén unha orixe zoonímica, o latín gallŭs, mais non cremos que se trate dun zootopónimo primario, senón que, como nos casos anteriores, o ornitónimo utilizouse como sobrenome familiar e a partir daí callou como topónimo. De feito, gallŭs empregouse xa como cognome en época latina (Kajanto 1982: 12, 45) e na documentación altomedieval atopamos exemplos como Petro Gallo (Sobrado s.d.), Ruderico Gallo (Sobrado s.d.), Rudericus cognomento Gallus (Sobrado 1168) etc. Agora ben, unha outra opción é pensar na asociación etimolóxica do lexema galo coa raíz prelatina *kal(l)io- ‹pedra›, algo coherente coas características físicas do lugar, accidentado e moi abondoso en penedos (Galmés 1986: 33).10 3.3. Zootopónimos de interpretación problemática A enseada denominada Cabalar, na freguesía de Santalla da Devesa, parece tomar o seu nome do latín vulgar caballŭs ‹cabalo capado, cabalo de traballo›, posíbel empréstimo céltico que veu reemprazar a forma clásica e non marcada equŭs. Porén, cremos que neste caso debe tratarse dun uso metafórico ‹pedras superpostas› testemuñado noutros topónimos similares. Contigüa á enseada de Cabalar está outra enseada chamada Cegoñas. O contexto xeográfico e as características físicas do emprazamento dificultan a vinculación directa co zoónimo cegoña (< latín cĭconĭam), de xeito que quizais resulte máis verosímil pensar nalgún tipo de relación co homónimo cegoña ‹néboa baixa, brétema›, posíbel derivado de cego. A historia e o folclore locais achégannos datos de interese, pois puidemos recoller un relato segundo o cal un mendigo foi pedir á casa da única muller que vivía nese lugar, cando de súpeto comezou a ver entrar unha morea de homes, que identificou cos fillos e mais o marido da señora. Ante iso, o mendigo colleu medo e fuxiu da casa mentres dicía: Demasiados galos para unha soa galiña! De todos os xeitos, non pode descartarse que esta historia sexa unha reinterpretación a posteriori do topónimo que nos ocupa, na liña doutros tantos casos nos que operou algún tipo de etimoloxía popular.
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3.4. Topónimos alusivos a construcións estreitamente vinculadas cos animais e o seu aproveitamento por parte do home O termo currada, presente no topónimo A Currada (nome dunha localidade da freguesía de Santa María Madanela de Cedofeita), aparece nos dicionarios galegos, se ben é máis frecuente a variante corrada, xa aboada por Marcial Valladares co significado de ‹patio principal a la entrada de una casa, especialmente de campo›, e por tanto sinónimo de curral. Pola súa banda, Acevedo rexistrou unha acepción como ‹mullido, árgomas o aulagas, paja, etc., que se echa delante de las casas de los labradores para que, pisando, se convierta en estiércol›, probablemente consecuencia de un fenómeno de extensión semántica por metonimia. Xa que logo, parece verosímil explicar currada / corrada en relación con curral, ambos os dous de orixe prelatina (cfr. curro / corro ‹curral de pequenas dimensións onde se gardan os apeiros de labranza ou os animais›, ‹lugar pechado no monte onde se recollen os animais›), ou, segundo outros autores, relacionados co latín currŭs ‹carro› mediante unha evolución semántica ‹carro› > ‹lugar para os carros› > ‹curral› (Álvarez Maurín 1994: 289). Canto ao substantivo trapa (base do topónimo A Trapa, tamén na devandita parroquia de Cedofeita), aparece nos dicionarios con diversas acepcións, moitas delas susceptíbeis de uso toponímico. Eladio Rodríguez define a voz como ‹Puerta o trampa en el piso›, mentres que Elixio Rivas (FrampasII, s.v. trapa) recolle en Pedrafita o valor ‹Pequeña madera, accionada por medio de un larguero, para cortar el agua del molino› e en Santa Cruz de Arrabaldo ‹Trampa›. Pola súa banda, Constantino García aboa o significado ‹Puerta abatible en un agujero que da paso a un lugar bajo, o sobre la cocina› e ‹Trampa›. Segundo Coromines (DCECH, s.v. trampa), estamos perante unha voz onomatopeica trapp / tramp, e indica que se refire tanto a unha ‹Tabla que se abre en el suelo al pisarla› como ao ‹Armadijo que se pone para cazar›, sentido patente nos termos do catalán, o asturiano ou o portugués. En galego, o uso da variante trampa por trapa (Vázquez Santamarina 1971: 68) non é rara. No asturiano occidental, trapa alude a unha trampa para cazar perdices ou a unha especie de trapela aberta no piso das cortes para botarlle comida ao gando. A alternancia dos temas trap- / tramppercíbese tamén nos derivados trampallada / trapallada, trampela / trapela (Crespo Pozo 1985: 196) etc. No caso do noso topónimo, supoñemos que o lugar acabou adquirindo a denominación de A Trapa por ser un punto onde se colocaba algún tipo de trampas para cazar animais, na liña dalgunhas das acepcións antes sinaladas para o termo. O portugués ten os nomes xeográficos Trapa e Trapela que Fernandes (2001: 229) explica a partir de trap(p)a «armadilha para animais selvagens, daí podendo ter tomado um sentido topográfico». A toponimia relacionada coas abellas e as construcións habilitadas para elas é bastante abondosa no termo municipal de Ribadeo. Como observa J. M. González (1959: 355), «la abeja fue tiempo atrás un animal imprescindible en una economía familiar y alimentaria todavía desconocedora del azúcar, [...] y al mismo tiempo proporcionaba cera para el alumbrado de la casa y de la iglesia». Deste xeito, contamos cun topónimo O Colmeal (nome duns terreos situados na freguesía de Santalla da Devesa), derivado do substantivo colmea ‹recipiente artificial onde viven as abellas e onde elaboran o mel e mais a cera›, termo probabelmente prelatino que podería explicarse a partir do céltico *kolmēnā, derivado á súa vez de *kǒlmos ‹palla›. Tamén se teñen contemplado outras hipóteses, como o latín columělla ou cŭlmus ‹talo do trigo›. Sinónimo de colmea é a forma abelleira, que explica
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o topónimo A Abilleira (nome dunha enseada na parroquia de San Lourenzo de Vilaframil). Evidentemente, abelleira / abilleira é un derivado de abella (< latín *apĭcŭla) mediante o sufixo -eira, se ben na variante abilleira, que deu orixe ao noso topónimo, hai que sinalar a alteración fonética da vogal pretónica medial debida á acción do ditongo [ej] da sílaba tónica (cfr. Regueira / Rigueira, Reboira / Riboira e similares). Tamén dentro deste campo semántico hai que interpretar o topónimo O Trobo (denominación dada polos habitantes de San Pedro de Rinlo a unha praia da freguesía de Santalla da Devesa), que remite ao substantivo trobo ‹colmea formada por unha cortiza ou tronco excavado›, sinónimo por tanto de termos como os xa comentados abelleira e colmea. De todos os xeitos, é interesante sinalar que na zona estudada existe distinción consciente entre colmea e trobo, considerándose este máis tradicional. O galego trobo e o astur-leonés truébanu remiten a un antigo derivado prelatino *trŏbănŭ para o cal Bascuas (2006: 322) suxeriu algún tipo de relación co indoeuropeo *treb- ‹edificio, vivenda, construción de madeira› (de onde o latín trabs ‹trabe›, o antigo galés treb ‹vivenda› ou o alemán Dorf ‹aldea›). Menos probábeis son explicacións como a de Coromines, que partía dunha forma gótica *thraus ‹arca› latinizada como trŏx (DCECH, s.v. troj), ou a de García González (1962: 378), que propuña como étimo o latín tŭbŭlŭ.
4. Cabo Ao longo das epígrafes precedentes puidemos demostrar como os termos zoonímicos, contrariamente ao que opinaron algún autores, si constitúen unha fonte moi produtiva na creación de denominacións toponímicas, especialmente no ámbito da microtoponimia (predominante na configuración do noso corpus), mais tamén no da toponimia maior, onde é relativamente habitual detectar zoónimos participando de fenómenos de reetimoloxización e asociación etimolóxica, ou actuando como nexo entre o sistema toponímico e outros subsistemas onomásticos, nomeadamente o antroponímico (zoónimos habilitados como nome ou sobrenome persoal). Estas evidencias, así como a identificación de certos mecanismos lingüísticos recorrentes na creación deses zootopónimos, poden constituír un bo punto de partida para estudos máis amplos neste eido.
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Nicolae Felecan (Universitatea de Nord, Baia Mare, România)
Corelaţia nume oficial / nume neoficial în zona Ţara Oaşului
Comunicarea de faţă abordează o problemă de semiotică naturală, şi anume felul în care, într-o comunitate determinată (Ţara Oaşului), are loc procesul de atribuire a numelor nonrituale (exemplu: porecla). Ea este o continuare a lucrării Structuri antroponimice în Ţara Oaşului, pe care am susţinut-o la Cel de-al XXV-lea Congres Internaţional de Lingvistică şi Filologie romanică, Innsbruck, 3-8 septembrie 2007. Atunci ne-am ocupat de numele oficiale ale localităţilor ce alcătuiesc arealul numit Ţara Oaşului. De data aceasta, ne propunem să abordăm problema din punctul de vedere al percepţiei locuitorilor faţă de semenii lor şi faţă chiar de ei înşişi. Procesul este interesant, întrucât ţine de voinţa indivizilor şi are, drept urmare, un foarte pronunţat caracter social, vehiculând obiceiuri, raporturi sociale, defecte fizice ori morale. Depistarea motivaţiei care le-a dat naştere şi apoi clasificarea lor sunt problemele pe care le vom urmări în lucrarea de faţă. Sperăm că ea va îmbogăţi, cu fapte concrete, înregistrate într-un areal izolat, dar cu o puternică vitalitate atât socială cât şi lingvistică, literatura de specialitate. Pentru confirmarea ori infirmarea datelor culese din localităţile Târşolţ (T), Turţ (Tţ) şi Vama (V), aparţinătoare Ţării Oaşului, judeţul Satu Mare, am lărgit cercetarea şi asupra localităţilor Borşa (B), Groşii Ţibleşului (GŢ), Larga (L), Mesteacăn (M), Sat Şugatag (Ş), Suciu de Sus (SS), judeţul Maramureş, Rebrişoara (R), judeţul Bistriţa-Năsăud şi Purcăreţ (P), judeţul Sălaj. Cercetarea pe teren şi discuţiile cu subiecţii anchetaţi impun cu necesitate clarificarea unor probleme de terminologie. E vorba, în primul rând, de accepţiunile pe care le au termenii poreclă şi supranume. În arealul cercetat de noi, poreclă este singurul cuvânt utilizat pentru denominaţia populară a individului, fie «ca mijloc de identificare a lui», fie ca «termen de batjocură», cel de supranume fiind ignorat. Aceasta înseamnă că termenul poreclă (din sl. poreklo) este mai vechi şi uzual, în timp ce supranume este mai nou, format din elementele supra- + nume, după fr. surnom (DEX, s. v.). În lingvistica românească, ambii termeni apar la sfârşitul secolului al XIX-lea în lucrarea lui Aureliu Candrea (1895) Poreclele la români, unde se dau şi accepţiunile lor: «se numesc porecle aceste cuvinte prin care poporul loveşte în năravul sau defectul cuiva», iar «dacă porecla dată cuiva de către o persoană este repetată şi de alţii la adresa aceleiaşi persoane, ea devine supranume» (Candrea 1895: 7-8). Din interpretarea pe care Aureliu Candrea o face acestor noţiuni mai reiese şi faptul că «poreclele conţin mai întotdeauna o metaforă», pe câtă vreme «porecla devenită supranume pierde foarte adesea noţiunea primitivă peiorativă» şi «se alipeşte atunci la numele acelei persoane şi, ori se stinge odată cu încetarea ei din viaţă, ori supravieţuieşte trecând asupra urmaşilor săi ca nume de familie» (Candrea 1895: 8-9). Reluând discuţia asupra celor doi termeni, după mai bine de 40 de ani, Ştefan Paşca (1936), Nume de persoane şi nume de animale în Ţara Oltului, face precizarea că utilizarea termenului de supranume:
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este dictată de împrejurarea că acesta are o funcţiune exclusiv antroponomastică, pe când porecla indică o funcţiune semantică. Porecla se dă ca o batjocură unui individ, incidental, supranumele, născute din porecle şi calificative, sunt legate indisolubil de numele indivizilor, devenind chiar ereditare.1
Aprecierile celor doi cărturari sunt izvorâte din situaţia reală existentă în lumea satelor, unde, atât pentru «numele provenit dintr-o caracteristică a aspectului exterior, a psihicului ori a unei alte trăsături», cât şi pentru cel folosit drept «element de identificare», se foloseşte un singur cuvânt, poreclă, în timp ce specialiştii şi oficialităţile utilizează doi termeni: poreclă, pentru primul caz şi supranume pentru al doilea. Un exemplu grăitor în această privinţă ni-l oferă Cartea de telefoane cu nume şi porecle din Săliştea de Sus, judeţul Maramureş2 şi Cartea de telefoane a comunei Moisei (Pasca 1936: 44; vezi şi I. Roşianu (1976), unde abonaţii telefonici sunt catalogaţi «atât după nume şi prenume, cât şi după porecle», fiindcă, spune o localnică din Săliştea de Sus, Ioana Chiş, «noi ne ştim mai mult după porecle» şi «mai puţin după buletin».3 Cercetarea noastră a consemnat faptul că, alături de aceste denumiri de identificare, numite în graiul local porecle, unele persoane mai au una sau mai multe porecle, dar care «nu se spun», deoarece sunt «de ocară sau de batjocură şi purtătorul lor s-ar supăra».4 Exemplele următoare vor confirma afirmaţia. Între paranteze am notat porecla: Viorel a lu5 Zmărăndău (Scaiu), Mitică a lu Zmărăndău (Jvânăială), Ştefan a diacului (Pârâială), Coman Gheorghe a Pintii (Ghiocel), Tomoioagă Viorica a lu Tolci (Fuieşu «e foarte înceată, mere pe drum azi, mâni şi poimâni»)6 (M); De-a lu Grigoruţ (Ţaigăr), Dumitru lu Ucigaşu (Vulpea), Gavril a lu Ureche (Ţârcu), De-a lu Hârceag (Guzu) (B); Todoru Luchii de pă Dumbrăvi (Mierla), Ionu Văsălichii Găzdacului (Cloşcău), Viorica li Ştefan (Gozăriţa), Aurelia li Costan (Droanga) (SS) etc.
Faţă de această situaţie, şi-au exprimat punctul de vedere majoritatea specialiştilor români care au abordat subiectul. Unii, pentru uşurinţa cercetării, au opinat pentru utilizarea unui singur termen, fie acela poreclă (Graur 1965: 70, Purcar-Guşeilă 1967: 146), fie supranume, dar cu următoarele adausuri: ironice «care au un pronunţat caracter afectiv şi vizează satirizarea, uneori descalificarea, celui care le poartă» şi neutre «lipsite de caracter afectiv, satiric sau ironic, care nu slujesc decât la precizarea identităţii» (Ţâra 1968: 227), subiective şi obiective (Homorodeanu / Mocanu 1969: 136), afective şi neafective (I. Roşianu 1976: 300). Alţii acceptă ambii termeni, poreclă şi supranume, dar nu întotdeauna materialul faptic concordă cu precizările teoretice propuse.7 Paşca (1936: 44); vezi şi I. Roşianu (1976) Cartea de telefoane cu nume şi porecle. Paginile lui Aurel, Săliştea de Sus, judeţul Maramureş, 1992; ediţia a II-a, 2010. 3 Vezi Adevărul de seară, Baia Mare, nr. 557 (494), vineri, 7 mai 2010, 4. 4 Todoran Mircea, 68 de ani, localitatea Purcăreţ; vezi şi Golopenţia-Eretescu (1972: 17, 3, 204). 5 Articolul proclitic lui, înaintea numelor proprii, apare în graiurile din această zonă în formele lu sau li. Pentru detalii, vezi Dimitrescu et al. (1978: 235-237). 6 În Vâlcele, judeţul Cluj, fuieş, fuieşuri, s. n. «Vânt puternic care suflă zăpada în toate părţile, viscol», cf. Todoran (1960: 29-126). 7 Vezi, în acest sens, Roşianu (1976: 289-301); A. Stan (1973: 86-87). 1 2
Corelaţia nume oficial / nume neoficial în zona Ţara Oaşului
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Din păcate, nici lucrările lexicografice nu aduc un plus de claritate a celor doi termeni, care adesea sunt denumiţi unul prin celălalt. DEX, de pildă, numeşte porecla ca «un supranume dat, de obicei în bătaie de joc, unei persoane, mai ales în legătură cu o trăsătură caracteristică a aspectului său exterior, a psihicului sau a activităţii sale», iar supranumele, ca un «nume adăugat la numele propriu al unei persoane în semn de cinste sau pentru a o distinge printr-o caracteristică sau printr-o circumstanţă de altă persoană cu acelaşi nume; poreclă». Nici Dicţionarul de ştiinţe ale limbii (Bidu-Vrănceanu et al.2001) nu clarifică problemele. Dintre cei doi termeni se ia în discuţie doar supranumele, denumit ca «poreclă repetată, generalizată, spre deosebire de simplele porecle, folosite ocazional. Supranumele au fost introduse pentru a evita confuziile cu aceleaşi nume şi prenume (situaţii în care se folosesc şi poreclele)» (p. 523). Mai multe detalii găsim în Enciclopedia limbii române (2011), coordonator Marius Sala, unde se precizează faptul că «supranumele nu se confundă cu porecla» (p. 553), fiindcă «poreclele sunt denumiri ocazionale, în timp ce supranumele sunt stabile, având tendinţa să se fixeze la o persoană, transmiţându-se apoi ereditar» (p. 442). Pe de altă parte, se face precizarea că «poreclele au la bază ironia, umorul, simţul critic» sau «întâmplări mai mult sau mai puţin cunoscute, ticuri verbale, expresii folosite mai des, defecte de rostire etc.» (p. 442), în vreme ce supranumele «în sistemul popular substituie numele de familie sau chiar prenumele, fiind unicul mijloc de individualizare a persoanei» (p. 553). Dintr-o altă perspectivă, etno- şi psiholingvistică, Sanda Golopenţia-Eretescu include actele de numire având drept obiecte animale şi oameni într-o semiotică naturală a microcolectivităţii săteşti, arătând că «actele de numire sunt rituale (botezarea) sau nonrituale (poreclirea)» (Enciclopedia 2001: 146). Deducem din cele arătate până acum că atribuirea de nume antrenează, mijlocit sau nemijlocit, două persoane: una care atribuie numele şi alta căreia i se atribuie numele, iar în măsura în care intervine un tertium, care poate fi preotul, în cazul botezului, sau instituţia de stat (funcţionarul primăriei), în oficializarea numelui, avem o situaţie mijlocită, «rituală» şi, prin aceasta, oficială. În cazul în care tertium este exclus, situaţia este nemijlocită, «nonrituală» şi prin urmare, neoficială.8 În această circumstanţă intră şi poreclirea, fenomen interesant şi din punct de vedere lingvistic, dar mai ales social şi psihologic. Individul, ca membru al unei colectivităţi care are anumite principii de viaţă, trebuie să-şi asume şi responsabilităţi (comportamentale, culturale, integratoare etc.). Prin urmare, orice persoană apare în două ipostaze: una, de a observa ceea ce se petrece în jurul ei, şi, a doua, de a fi observată de ceilalţi. De aceea, în momentul în care apar devieri, indiferent de ce natură, cel în cauză va fi taxat printr-o poreclă, ce va fi cunoscută sau nu, acceptată sau tolerată. O perspectivă nouă în abordarea actului poreclirii ne oferă Daiana Felecan (2010) în care autoarea, plasând discuţia într-o nouă perspectivă, dezvăluie mecanismul polifonic al poreclei, care presupune patru acţiuni succesive: selectarea, atribuirea, propagarea şi utilizarea şi tot atâtea instanţe: pacientul (poreclitul), agentul (poreclitorul), colpoltorul (cel care propagă poreclele) şi utilizatorii (cei care folosesc în mod curent porecla, conştienţi sau nu de semnificaţia acesteia). Tot patru elemente compun şi configuraţia polifonică: locutor, punctele de vedere (pdv), fiinţele discursive şi legăturile enunţiative. Ca urmare, analiza enunţului implică următoarele operaţii: A. identificarea locutorului, B. identificarea punctelor de vedere şi C. stabilirea tipului de legătură dintre diverşi locutori şi diversele pdv, necesare oricărei lucrări care abordează o asemenea temă. Pentru formula antroponimică –oficială, neoficială–, vezi şi Ionescu (2007).
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Pe baza celor prezentate până aici, suntem de părere că porecla este o subclasă antroponimică, alături de prenume, nume şi supranume, faţă de care poate fi raportată prin apropieri ori deosebiri. Apropierea de prenume se regăseşte în dispunerea de aceeaşi clasă sursă: de pildă ghiocel. Deosebirea constă în aceea că pentru prenume se selectează notele pozitive, în cazul dat, ale plantei: cu flori de un alb imaculat, frumoase, viguroase (întrucât apar primăvara foarte timpuriu), în timp ce pentru poreclă se are în vedere un aspect care, prin antiteză, devine negativ: Ghiocel este poreclit un individ cu tenul închis, brunet. Cu numele, porecla are în comun un fond lexical, provenit din trecerea, în anumite condiţii, a poreclei în nume. Faţă de supranume, care are trăsături specifice: o funcţie exclusiv antroponimică, izvorâtă din necesitatea identificării mai uşor a unei persoane, mai ales când mai mulţi indivizi poartă acelaşi nume (sau şi prenume); stabilitate, dată de posibilitatea trecerii la descendenţi; lipsa de afectivitate –supranumele, provenite din porecle, nu supără, fiindcă aspectul negativ a fost transformat, în timp, într-o caracterizare pozitivă–, singularitate, un individ are un singur supranume, porecla se caracterizează prin: funcţia semantică; accentuat caracter afectiv, metaforic; reprezintă punctul vulnerabil al celui poreclit;9 sunt utilizate într-un cerc mai restrâns de persoane - adesea nici poreclitul nu-şi cunoaşte «ciufulitura», de aceea «poţi să-l vinzi pă om dintă el şi iel nu ştie» (Golopenţia-Eretescu 1972: 2, 204); mobilitate, ele se creează necontenit, incidental, ocazional; pluralitate – adesea, o persoană poate avea una, două sau mai multe porecle. În cele ce urmează, vom oferi poreclele, vechi şi recente, consemnate în arealul cercetat de noi, grupate în funcţie de aspectele care le-au generat: (1) După aspectul fizic. Individul e prea mare, prea gras, prea rotund sau prea mic ori cu un format defectuos: a) metafore: Acceleratu (SS), Bărbânoc (SS), Bimbor (SS) («om mare şi gras; mutalău»), Briciu (SS), Calpac («beţiv»), Canceu (M) («bea ţuica cu canceu»), Câcărază (R) («e mic şi îndesat»), Cârlig (V) («e adus de spate»), Cârnat (Ş) («e lung şi slab»), Cepu (R) («e mică»), Chipu (SS) («se considera foarte frumos»), Ciolban (Ş) («n-are nicio formă»), Ciontu (SS), Ciotan (SS) ( nume de persoană, se întâlneşte la multe popoare încă din cele mai vechi timpuri, iar pentru spaţiul românesc ele constituie o probă a continuităţii.23 Dar, indiferent care au fost motivele, la început, de atribuire a unor asemenea nume, noi credem că în cazul poreclelor se au în vedere părţile negative, fie cele privitoare la înfăţişarea animalului: mare, puternic, fioros etc., fie cele privitoare la însuşirile lui: şiretenie, lăcomie, sălbăticie, încetineală etc. O extindere a cercetării, care implicit va duce la o îmbogăţire a corpusului de porecle, va spori datele privitoare la acest subiect şi va putea nuanţa şi mai bine unele afirmaţii făcute acum.
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Oliviu Felecan (Universitatea de Nord, Baia Mare, Romania)
Il contatto linguistico romeno-romanzo attuale riflesso nell’antroponimia
1. Premessa Il legame genealogico della lingua romena con la romanità occidentale è stato interrotto geograficamente dall’interposizione di popoli migratori sin dal tempo della sua formazione (secoli VI-VIII, conformemente ELR: 220).1 Così, il superstrato della lingua romena è l’antico slavo, mentre nel corso della sua storia la Romània Occidentale non ha più avuto un legame diretto con lo spazio carpato-danubiano-pontico. Conseguentemente, il contatto linguistico diretto si è realizzato con le lingue delle popolazioni adiacenti: greco bizantino, ungherese, tedesco, slavo (+ bulgaro, serbo, ucraino, polacco, russo), turco, tataro o neogreco. A fatica in epoca moderna (sec. XVIII-XIX), contemporaneamente alla rilatinizzazione della Romania, si sono ripresi i legami con le lingue romanze dell’ovest dell’Europa, specie con il francese e l’italiano, sia tramite i giovani mandati a studiare all’estero, sia tramite la Scuola Transilvana e la Chiesa greco-cattolica, soprattutto in Transilvania. Così come osserva Sanda Reinheimer Rîpeanu in Lingvistica romanică. Lexic - fonetică - morfologie, i termini presi dal romeno allo slavone o al greco scompaiono di fronte ai loro concorrenti dell’Occidente, non solo perché, dal punto di vista della nostra lingua, questi ultimi corrispondono meglio alla sua struttura, ma anche perché essi rispondono ad una mentalità di rinnovamento della vita romena su tutti i piani (2001: 45).
I prestiti dalle lingue romanze occidentali, specie dal francese e dall’italiano, hanno facilitato la ripresa delle relazioni tra il romeno e la Romania Occidentale.
I pareri della maggior parte degli specialisti (I. Coteanu, O Densusianu, I. Iordan, D. Macrea, Al. Rosetti, M. Sala, G. Weigand) convergono, con piccole sfumature, su questi secoli, mentre altri si spingono fino al secolo V (G. Ivănescu, T. Papahagi) o estendono la formazione del romeno al IX secolo (Al. Niculescu).
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2. Premesse del contatto linguistico romeno-romanzo Nel periodo antico, il contatto linguistico si realizza soprattutto in aree geografiche unitarie, in cui le popolazioni non erano separate da forme di rilievo tipo monti alti o mari. Anche se i ‹confini› naturali non sono insuperabili, essi allentano e limitano l’interferenza linguistica. Tradizionalmente, il contatto linguistico dei romeni aveva luogo tanto all’interno delle frontiere (con gli ungheresi, i tedeschi e gli ucraini), quanto con le popolazioni dei paesi vicini, attraverso «l’esistenza di alcuni contatti storici, culturali, politici o economici, ma soprattutto geografici» (Steinke / Vraciu 1999: 35). Ai giorni nostri, più precisamente dopo il 1989, il contatto linguistico2 si è ridimensionato in ragione dell’estrema mobilità degli individui. Ciò impone lo studio dei cambiamenti linguistici in corso e, implicitamente, lo studio delle modifiche intervenute a livello dei nomi. Dopo la caduta della Cortina di Ferro, quasi due milioni di romeni si sono stabiliti fuori dei confini, per lo più nei paesi ospitali dell’ovest dell’Europa romanza: Italia, Spagna, Francia, Portogallo.3 La maggioranza delle persone partite per lavoro all’estero sono giovani, fatto che facilita la padronanza delle lingue straniere e il bilinguismo. D’altronde, i romeni partiti per lavoro in Occidente vivono in comunità bilingui od anche plurilingui.4 Tuttavia, accanto a fattori strettamente linguistici, devono essere presi in considerazione anche fattori sociali, psicologici e socioculturali. Nel processo di passaggio alla nuova lingua, si constatano differenze di atteggiamento condizionate dallo status sociale dei parlanti, etnia, religione, sesso, età, occupazione ecc. L’analisi sottile della relazione tra le lingue indigene e quelle di alcune popolazioni immigranti porta alla conclusione che «fattori di ordine sociale e psicologico fanno sì che una lingua immigrante sia in primo luogo esposta all’interferenza» (Ionescu-Ruxăndoiu / Chiţoran 1975: 94), per cause molteplici: la novità della sistemazione crea per gli immigranti la necessità di un vocabolario nuovo, adeguato; il disorientamento sociale e culturale degli immigranti mina la resistenza inerziale a un prestito eccessivo nella loro lingua e così via.
3. Il contatto linguistico romeno-romanzo riflesso nell’antroponimia Per quanto riguarda l’antroponimia, il contatto linguistico è evidente nell’attribuzione di alcuni nomi stranieri ai bambini, fatto sempre più frequente negli ultimi anni. Per esempio, un personaggio della trasmissione TV prima richiamata –con nome tradizionale romeno, Vasile– ha battezzato la figlia con il neologismo Jesica; un gestore di pizzerie italiano, di Satu Gli studi su questo argomento hanno attirato l’attenzione degli specialisti negli ultimi decenni, fra i quali possiamo ricordare: Sala (1974; 1997). 3 Secondo statistiche non ufficiali, in Italia si troverebbero più di un milione di romeni, in Spagna circa 800.000, mentre a Parigi il loro numero si aggira approssimativamente intorno a 100.000. 4 Sono possibili tanto nel caso di emigranti provenienti da famiglie miste o minoritarie (per esempio di etnia ungherese), quanto anche nel caso in cui gli emigranti hanno cambiato periodicamente paese di adozione, alla ricerca di condizioni di vita migliori. 2
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Mare, sposato con una romena, ha scelto il nome Davide per il suo bambino. Praticamente, la stratificazione antroponimica, ugualmente a quella linguistica, è in stretta relazione con lo status socioeconomico dei membri di una comunità, come anche con gli indici di mobilità sociale della comunità rispettiva. Nel caso degli emigranti, il cambiamento antroponimico non può essere compreso senza analizzare i modelli di mobilità sociale. La linguistica e la sociologia convergono nella loro azione a rilevare gli schemi secondo cui funziona la scelta dei nomi. Il contatto linguistico romeno-romanzo degli ultimi anni si è riflesso non solo a livello lessicale, ma anche a livello antroponimico, dato che questi due compartimenti della lingua rappresentano un sensibile sismografo delle trasformazioni della vita sociale, politica, culturale, economica. Nel contesto degli scambi interculturali internazionali, i nomi non solo rappresentano l’espressione di una data identità culturale, con una storia unica e precisa, sviluppata dentro un dato contesto, ma diventano un prodotto linguistico dinamico, transnazionale. Il nome passa con estrema facilità attraverso le barriere linguistiche, sociali, religiose, ecc. Il prestito o la creazione di nuovi antroponimi sono molto più liberi e più attivi rispetto al campo dei nomi comuni. Partendo da qui, analizzeremo in seguito alcune particolarità del contatto antroponimico romeno-romanzo degli ultimi anni, come parte di un progetto di ricerca intitolato Interferenze multietniche riflesse nell’antroponimia del Maramureş, spazio centrale-europeo, vinto nel quadro di competizione dell’Idea (PN II) dell’anno 2008.5 La base dei dati proviene dal nordovest della Romania, mentre la documentazione è stata raccolta sul campo, tramite un questionario rilevante (CAM) dal punto di vista socio- e psico-linguistico6, da alcuni addetti all’inchiesta –per lo più studenti e masterandi dell’Università Nord di Baia Mare– che l’hanno somministrato ad alcune migliaia di individui, sia di ambiente urbano, sia rurale. 3.1. Il contatto antroponimico romeno-romanzo e la mobilità internazionale Il paesaggio antroponimico romeno degli ultimi venti anni è caratterizzato dall’arricchimento dell’inventario dei nomi neologici, sia per la serie maschile che per quella femminile. Molti nomi di battesimo hanno perso lo status di segno caratteristico dell’identità etnica, non essendo rilevanti sotto l’aspetto etnolinguistico. L’adozione di nomi stranieri può equivalere all’abbandono di alcune mentalità, costumi e routine comportamentali vecchi. Essa tende verso uno status di prestigio, uguale a quello del paese di adozione. La diffusione delle innovazioni antroponimiche può essere messa in rapporto con l’imitazione di alcuni gruppi di prestigio sociale superiore che stimolano l’interferenza linguistica. L’opzione per un nome straniero dipende anche dal livello intellettuale e culturale degli individui, dalle loro caratteristiche temperamentali o di personalità. Alcuni esempi evocativi in questo senso sono: Si tratta del contratto CNCSIS (Consiglio Nazionale della Ricerca Scientifica e dell’Insegnamento Superiore) nr. 838/2009, codice 251, con una durata di anni tre: 2009-2011. 6 La modalità di realizzazione, la struttura e l’applicabilità del questionario antroponimico Maramureş (CAM) sono stati presentati al III Simposio internazionale di linguistica, che ha avuto luogo presso l’Istituto di Linguistica Iorgu Iordan - Al. Rosetti dell’Academia Române di Bucureşti nel novembre 2009, per essere pubblicato nell’autunno 2010 con il titolo Aspecte socio- şi psiholingvistice reflectate în realizarea unei anchete antroponimice, nel volume che raccoglierà le relazioni presentate. 5
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Andreea (’98, Romania) +7 Claudia (’02, Spagna8) –genitori ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente urbano–; Antonio (’93) + Marco Ricardo (’99, ambedue nati a Roma) –genitori ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente rurale, stabilitisi in Italia–; Beatrice (’00, Romania) + Valentina (’04, Italia) –genitori ortodossi, studi medi, lavorano nell’edilizia in Italia–; Bogdan Ion (’06, Italia) –genitori ortodossi, con studi superiori, provenienti da ambiente rurale e stabilitisi da dieci anni in Italia–; Enrico Filipo9 (’08, Torino) –genitori ortodossi, studi medi, stabilitisi in Italia dall’anno 2001–; Florin (’96, Romania) + Mario (’98, Italia) –genitori ortodossi, studi medi, stabilitisi in Italia da nove anni–; Giuliano (’02, Italia) + Daniel (’09. Romania) –genitori l’uno ortodosso, l’altro cattolico, con studi superiori, provenienti da ambiente urbano e con grande mobilità internazionale–; Leea (’09, Lyon) –genitori ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente rurale, stabilitisi in Francia–; Luca (’00) + Marius (’03) + Irina (’07) –due dei fratelli nati in Romania, uno in Italia: genitori con studi ginnasiali, con grande mobilità all’estero–; Maria (’96, Romania) + Isabella (’08. Italia) –genitori stabilitisi in Italia, parlano a casa sia romeno, sia italiano–; Matteo (’09, Baia Mare) –i genitori hanno studi medi, sono greco-cattolici e sono stati tre anni in Italia–.
A differenza del contatto linguistico tra romeno e ungherese / ucraino, all’interno delle frontiere, il contatto linguistico tra romeno e le altre lingue romanze, realizzato fuori delle frontiere, è facilitato dal grado di parentela genetica tra esse. E’ molto meno probabile che i romeni della Transilvania battezzino i figli con nomi ungheresi o ucraini, anche se sono vicini a etnici appartenenti a queste comunità linguistiche, ciò nonostante non esitano ad adottare nomi di battesimo italiani, spagnoli, francesi anche quando si stabiliscono a migliaia di chilometri di distanza. Le spiegazioni sono molteplici e prendono di mira il pregiudizio della superiorità di un sistema antroponimico straniero, occidentale10, esistente soprattutto in persone che non hanno una preparazione solida. Dalla prospettiva socio-linguistica, l’adesione a norme della classe immediatamente superiore traduce un’attitudine di dipendenza tra lo status di classe e il livello economico degli individui. Ad ogni tipo di mobilità sociale corrisponde una data concezione di vita, riflessa anche sul piano del comportamento linguistico attraverso l’adozione di norme linguistiche del gruppo superiore, la coerenza nei confronti delle norme del rispettivo gruppo o il rifiuto di accettare la norma di prestigio riconosciuta (Ruxăndoiu / Chiţoran 1975: 207-208).
Se gli stati romanzi occidentali come l’Italia, la Francia, la Spagna non cercano o non sono intenzionati ad imporre la politica linguistica ai nuovi emigranti, le minoranze etniche, desiderando manifestare lealtà linguistica, adottano, accanto alla lingua ufficiale utilizzata quotidianamente in servizio, i nomi dei paesi che li hanno adottati e li attribuiscono ai propri bambini. La speranza inconfessata è che almeno questi abbiano la fortuna di non subire discriminazioni, almeno a livello del primo contatto linguistico o che non sia lesa l’immagine partendo dal nome portato. D’altra parte, nelle lingue immigranti, i fenomeni di Il segno + indica la relazione tra due portatori di nome: fratelli o sorelle. Tra parentesi ho precisato l’anno e il luogo / paese di nascita, come indice temporale / spaziale rilevante nella presente relazione. 9 La spiegazione data per la scelta di questo nome doppio è legata alla potenza / fortuna di una migliore integrazione nell’ambiente italiano, dove i genitori non sono più intenzionati a rimanere. 10 Dal punto di vista psicologico, i romeni si sono inoculati per sempre nel subcosciente che un prodotto proveniente dall’ovest è superiore ad uno simile autoctono, mentre l’ammirazione per i valori europei, occidentali, compare implicitamente nei sondaggi eurobarometro realizzati nei paesi che si accingevano ad aderire all’Unione Europea: la Romania si è collocata sempre al primo posto, con l’ 85%. 7 8
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interferenza sono più frequenti e hanno alla base un certo disorientamento sociale e culturale dei nuovi venuti. «La novità della collocazione crea per gli immigranti la necessità di un vocabolario adeguato» (Ruxăndoiu / Chiţoran 1975: 97), tradotto a livello antroponimico tramite l’assunzione di alcuni nomi di battesimo estranei alla tradizione di casa. 3.2. Tradizione / innovazione nel contatto antroponimico romeno-romanzo Partendo dagli esempi precedenti, accanto alla tendenza a innovare a qualsiasi prezzo attraverso la scelta di alcuni nomi neologici, si manifesta anche un’attitudine opposta, purista, di conservazione dei nomi di battesimo della madre-patria. In questa situazione, la funzione di prestigio antroponimico, associata alla superiorità socioculturale del paese di adozione e all’uniformazione positiva della sua popolazione, impallidisce di fronte alla funzione separatrice, dove primeggia l’opposizione, la separazione nei confronti degli altri. L’adozione in modo selettivo dei nomi specifici di altre civiltà, la realizzazione di alcune scelte razionali possono essere associate, da una parte, all’identificazione agli standard della propria cultura e religione, la loro coscienza verso la valorizzazione, senza gerarchie positive o negative. D’altra parte, lo specifico dei modelli antroponimici deve essere posto in relazione con la funzione unificatrice, che riunisce i portatori di alcuni nomi classici, tradizionali, all’interno di una comunità / famiglia. In questo senso, vorremmo ricordare alcuni esempi convincenti: Adelina Maria (’94, Romania) + Lorenţo11 Gheorghe (’06, Italia) –genitori bilingui (parlano tanto il romeno, come l’italiano a casa), stabilitisi da 13 anni nella Penisola–; Carina Amalia (’97, Borşa) + Marco Daniel (’00, Borşa) –famiglia ortodossa, studi medi, ha abitato tre anni in Italia–; David (’07, Italia) –il padre, romeno ortodosso stabilito da dieci anni in Italia, e sposato con una italiana cattolica, parlano a casa la lingua della moglie–; Dorel Sorin (’98) + Sebastian Kevin (’05, Borşa) –famiglia ortodossa, studi medi e mobilità internazionale (Italia - 5 anni, Africa - 3 anni)–; Oana (’97, Romania) + Laurenţiu (’06, Italia) –famiglia mista romeno-ucraina ortodossa, stabilita in Italia da nove anni–; Oana-Maria (’98, Romania) + Andreea Elena (’01, Bruxelles) –romeni ortodossi, stabilitisi da otto anni in Belgio–; Raluca Anuţa (’98) + Loredana (’99, Borşa, ambedue) –famiglia ortodossa, con studi ginnasiali, abitano da alcuni anni in Italia–; Rareş Liviu12 (’02, Baia Mare) + Maia13 Alesia (’04, Baia Mare) –genitori ortodossi studi medi, aventi tre anni di lavoro in Spagna–; Silvia (’91) + Alina (’96, Borşa, ambedue) –famiglia ortodossa, studi medi, è stata nove anni in Italia–; Vanesa Mădălina (’97, Borşa) –famiglia ortodossa, studi medi, è stata un anno in Italia–.
Si noti l’ortografia fonetica romena (sbagliata) del nome italiano Lorenzo, fatto che può essere messo in relazione con la mancanza di una preparazione superiore dei genitori. 12 Nome scelto in base a quello del nonno. 13 Nome comune in famiglia. 11
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3.3. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: una prospettiva religiosa, interconfessionale In base al loro significato, la maggioranza dei nomi precedenti sono cristiani, del calendario. Così come osserva Pedro Cristian Ionescu Pérez in Concetti, metodologie e terminologie nell’antroponimia romanza, «il problema centrale dell’antroponimia romanza è l’origine culturale dei nomi individuali. Da questo punto di vista, essi si classificano in nomi laici e nomi religiosi», questi ultimi risultano preponderanti nell’antroponimia del Maramureş. Il fatto è plausibile finché «il repertorio dei nomi cristiani è permanente (non perde elementi, come nel caso dei nomi di famiglia) [...] e presenta due versioni principali, tra cui non si può stabilire una netta differenza: nomi cattolici romano-occidentali (nettamente dominanti in Occidente e con notevole presenza anche in Romania) e nomi greco-ortodossi (nettamente dominanti in Romania e minoritari in Occidente)» (2007: 226). Tenendo conto che la maggioranza della popolazione della Romania (~86,8%)14 e, implicitamente, del Maramureş (~77,1%) è di confessione ortodossa, il peso dei nomi di battesimo di ispirazione agiografica bizantina è nettamente superiore, mentre nella nostra esposizione abbiamo selezionato una tavolozza complessa, in cui si incontrano anche santi latini. «Fino ad oggi, i nomi religiosi costituiscono un inventario internazionale, anche se le forme onomastiche nazionali differiscono da una lingua all’altra» (Tomescu 2007: 539). Interessante è che ciò appare chiaramente anche in persone di altra confessione, come forma denominativa unica o doppia: Alesia (’09, Cluj) –genitori romeni, testimoni di Geova, studi medi, provenienti da ambiente urbano–; Andrei Filip (’02) + Emanuela Genoveva15 (’04, Baia Mare, ambedue) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano–; Antonio Daniel (’09, Sighet) –genitori romeni avventisti, con studi superiori, provenienti da ambiente rurale–; Dennis16 Gabriel (’99, Sibiu) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano, padre con grande mobilità internazionale (autista)–; Mariana (’95) + Ivan (’96) + Adriana (’97) + Denis (’99) + Diana17 (’02) –famiglia ucraina di ambiente rurale, studi medi, pentecostale, senza mobilità internazionale–; Naomi Ioana (’92) + Ionuţ18 Alexandru (’95, Baia Mare) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano–; Sara Rut (’02) + Samuel Andrei19 (’05, Baia Mare, ambii) –romeni pentecostali studi medi, di ambiente urbano–; Sorin + Flaviu + Marian + Denis –genitori romeni pentecostali, studi medi, provenienti da ambiente rurale–.
Questi nomi non sono molto diversi, fatte alcune eccezioni, da quelli scelti da genitori ortodossi o cattolici, fatto non osservabile senza l’impiego del questionario (CAM) sul campo. 16 17
I dati provengono dalla statistica ufficiale dell’ultimo censimento svolto in Romania, nell’anno 2002. Dal nome della madre. La spiegazione fornita dai genitori in relazione all’ortografia è ‹per essere moderno›. I primi due nomi derivano dalla madre (Maria) e dal padre (Ivan), il terzo ed il quinto ‹sono piaciuti› ai genitori, mentre per il quarto hanno dato la spiegazione che è ‹comune a quelli di confessione pentecostale›. 18 All’origine del primo nome femminile sta Biblia, come detto dai genitori, mentre per il ragazzo il primo nome è ripreso dal padre. 19 In questo caso, la madre ha fornito una spiegazione inusuale nella scelta dei nomi dei futuri bambini: ‹Ho sognato i nomi dei bambini›. 14 15
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Partendo dall’affermazione che «in assenza di un inventario specifico, il protestantesimo è caratterizzato dal rifiuto dei nomi dei santi cattolici o greco-ortodossi e l’ampia accettazione dei nomi dell’ Antico Testamento» (Ionescu 2007: 226), ci saremmo aspettati di trovare solo nomi vetero-testamentari, ciò che non viene confermato. I nomi dei santi, accanto a quelli neologici hanno un numero di occorrenze uguale agli altri, situazione simile a quella incontrata presso le famiglie appartenenti alle confessioni tradizionali, con antichità plurisecolare. Per esemplificare, ci soffermeremo sui nomi di battesimo incontrati in ambiente rurale o urbano, ortodosso, romano-cattolico o greco-cattolico: Alberto (’07, Baia Mare) –genitori con studi ginnasiali, greco-cattolici, provenienti da ambiente rurale–; Anamaria Iuliana (’95) + Roxana Gaviola (’98, Baia Mare, ambedue) –genitori con studi ginnasiali, ortodossi, provenienti da ambiente rurale–; Anita20 (’90, Baia Mare) –famiglia bilingue romeno-ungherese, greco-cattolica, proveniente da ambiente rurale, studi medi–; Bogdan Andrei (’91) + Denis Mihăiţă21 (’98, Baia Mare, ambedue) –famiglia ortodossa, studi medi, proveniente da ambiente rurale–; Daiana Maria22 (’01, Baia Mare) –genitori con studi universitari, ortodossi, provenienti da ambiente rurale, senza mobilità internazionale–; Eveline (’92, Baia Sprie) –famiglia bilingue romeno-ungherese proveniente da ambiente urbano, romanocattolica, con studi superiori, senza mobilità internazionale–; Izabela (’05) + Karina (’08, Sighet, ambedue) –famiglia mista ungherese-ucraina, romano-cattolica + ortodossa, multilingue, studi medi, senza mobilità internazionale–; Leone Ciprian + Luiza + Lucia + Nicolae –famiglia studi medi, greco-cattolica–; Nicoleta Denisa (’01, Baia Mare) –famiglia ortodossa, studi medi, proveniente da ambiente urbano, senza mobilità internazionale–; Patrik (’05) + Silviu (’07, Sighet) –famiglia ortodossa, di ambiente rurale, studi medi–; Paul (’88) + Beatrix (’93, Satu Mare) –genitori romeni, romano-cattolici, studi medi, provenienti da ambiente urbano–.
3.4. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: una prospettiva socioculturale La scelta dei nomi stranieri, neologici, singoli o combinati con quelli tradizionali, agiografici, si incontra sia nell’ambiente urbano che in quello rurale. Il repertorio antroponimico non si distingue nemmeno nelle comunità monolingui, caratterizzato com’è da un miscuglio che non tiene conto dell’etnia, della religione, della condizione socio-economica o del livello di istruzione dei genitori. Gli antroponimi, all’inizio del III millennio, superano le barriere linguistiche e culturali, come mostra il nord-ovest della Romania: Albert Adrian23 (’04) –genitori ortodossi, studi superiori, di ambiente urbano–; Albertina Raluca (’08, Baia Mare) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Antonia (’05) + Antonio Ionuţ (’08, Baia Mare) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Andrada Patricia (’88) + Ştefan Dumitru (’97, Borşa) –famiglia romena studi medi, proveniente da ambiente urbano, ortodosso + cattolico–; Cătălin (’90) + In questo caso, la madre non considera utile la scelta di molti nomi per i bambini. La spiegazione dei genitori legata alla scelta del diminutivo non richiede commenti: ‹era molto piccolo e carino›. 22 I genitori hanno dichiarato che il primo nome è stato scelto a piacere, mentre il secondo perché è ‹nome santo›. 23 Il primo nome è piaciuto alla madre, il secondo è il nome del padre. 20 21
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Xena (’97) –genitori romeni ortodossi, studi medi, dimoranti in ambiente urbano–; Denis (’98) + Paul (’99, Borşa) –famiglia ortodossa, studi superiori, di ambiente rurale–; Elisa (’97, Borşa) –famiglia ortodossa, studi superiori, ambiente urbano–; Ines (’93) + Maya + Vladimir (’09) – genitori ortodossi, studi superiori, ambiente urbano, con mobilità internazionale–; Ionuţ Septimiu (’93) + Genoveva24 Ramona (’97) + Denisa Claudia (’01, Borşa) –genitori ortodossi, studi medi, di zona urbana–; Mădălina Alexandra (’94) + Georgiana (’99) + Ilie Denis (’09, Borşa) –genitori ortodossi, studi medi, di zona urbana–; Ovidia Andreia (’07) + Octavia Iulia (’09, Baia Mare) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Patricia Oana (’04) + Robert Daniel (’08, Baia Mare, ambedue) –genitori romeni agricoltori, studi ginnasiali, provenienti da ambiente rurale–; Traian25 (’88) + Daiana Beatris (’98, Borşa) –famiglia romena ortodossa, studi medi, proveniente da ambiente urbano–; Xena-Ana (’95) + Ionuţ (’00, Borşa) –famiglia ortodossa, con studi ginnasiali, di ambiente urbano, con mobilità internazionale–.
I nomi romeni –forma-base o secondaria, motivati o non motivati– si compenetrano con quelli romanzi occidentali, che possono sia adattarsi graficamente o morfologicamente, sia conservare l’aspetto originario. Il contatto antroponimico romeno-italiano e romeno-spagnolo è facilitato da prestiti più vecchi, che, presentemente, hanno una durata apprezzabile nella lingua, del tipo Bianca, Carina, Ciprian, Renata, Sergiu (< it.); Carmen, Consuela, Ramona (< sp.) (Tomescu 2001: 134). Anche se alcune comunità linguistiche differiscono per ciò che riguarda il modo di gerarchizzare e, in conseguenza, di esprimere i valori culturali, esse si possono incontrare a livello antroponimico, dove la pressione dell’uso facilita le interferenze linguistiche. Un fattore ausiliario è rappresentato dalla moda (Zăbavă 2008), dall’influenza culturale e dai mass-media (Felecan 2007a), ciò che si osserva anche in alcuni bambini delle famiglie oggetto dell’inchiesta. Questi componenti prendono di mira talvolta solo una parte del doppio nome: Andreea (’89) + Madeleine-Anne26 (’91, Târgu Lăpuş) –genitori di ambiente rurale, con studi ginnasiali–; David (’00) + Ronaldo27 (’04) + Leonardo (’08, Baia Mare, tutti) –genitori rom di ambiente rurale, con studi ginnasiali–; Ema28-Theodora (’08, Baia Mare) –genitori di ambiente urbano, con studi superiori–; Georgiana Sandra29 (’88, Baia Mare) + Denisa Octavia (’89, Cluj) –genitori di ambiente rurale, studi medi–; Giulia Maria (’05) + Alexandra Patricia30 (’07) –genitori con studi medi, provenienti da ambiente urbano–; Marian Nicolas31 (’04, Spagna) –genitori bilingui
Il primo nome del bambino rappresenta il rinnovo del nome del papà, mentre Genoveva è anche il nome della madre. Il carattere ereditario, trasmesso da una generazione all’altra per linea paterna o materna, si incontra in molti nomi di battesimo della zona oggetto dell’inchiesta, come un fattore di coesione della famiglia/ della comunità. 25 Coincide con il nome del padre. 26 Dal nome di un personaggio letterario della novella Ciuleandra, scritta da Liviu Rebreanu. 27 Il primo bambino porta il nome del padre, il secondo ha preso il nome di un calciatore in voga nel periodo precedente la sua nascita. 28 Dal personaggio di Flaubert da Madame Bovary. 29 Se Georgiana e Octavia sono ripresi dai nonni, Sandra ha come fonte di ispirazione la celebre cantante tedesca, sposata con un romeno, in voga negli anni ’80. 30 Giulia e Patricia hanno avuto come fonte di ispirazioni trasmissioni televisive. 31 L’etimologia di questo nome va ricercata nell’attore Nicolas Cage. 24
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abitano da sei anni in Spagna–; Mia + Anca + Nelu + Alexandru + Antonel32 (’85-’98) –genitori con studi medi, provenienti da ambiente rurale–; Miriam Amina (’05, Borşa) –i genitori avventisti hanno scelto i nomi da un personaggio di film–; Roberto Sebastian33 (’99, Baia Mare) –genitori romeni ortodossi, studi medi, provenienti da ambiente urbano–.
Tutti questi esempi certificano la fedeltà antroponimica nei confronti di una comunità di prestigio, formata sia da modelli perenni –mitologici, storici, letterari ecc.–, sia dai divi quotidiani, di film, musica, sport, show-biz e così via. La formula antroponimica può rappresentare un referente complesso, costituito «dall’apporto di informazione specifica di ogni componente, in virtù dell’appartenenza di questi ad una classe determinata del sistema di nome proprio di una data lingua, come anche, nel quadro della classe, alle diverse categorie di questa» (Ionescu Perez 2007: 219). Alcuni nomi hanno come referente diretto solo il gruppo familiare ridotto –i genitori e i discendenti diretti–, altri hanno una funzione socio-culturale o estetica. 3.5. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: modelli ufficiali / uso familiare Il processo dell’attività di (de)nominazione si svolge in due fasi: la produzione / l’assunzione del nome, concepiti come atto individuale di creazione linguistica / imitazione parziale o totale, realizzato da un nominatore, e la socializzazione del nome, atto attraverso cui le persone vicine assumono la (de)nominazione, conferendovi un ruolo interpersonale nella comunicazione. Concepito dalla prospettiva sistema antroponimico / discorso antroponimico, «lo studio della (de)nominazione si colloca, dal punto di vista metodologico, non solo nel quadro della linguistica del sistema, ma anche in quello della linguistica dell’uso, a cui spetta l’analisi e la descrizione dell’antroponimia nel contesto [...], come anche la valutazione degli aspetti cognitivi, psichici, sociali e culturali» (Ionescu Perez 2007: 216). Tuttavia, non priva di interesse si dimostra l’analisi del modo in cui i bambini vengono chiamati in famiglia o tra amici allorquando hanno l’età corrispondente. Anche se molto spesso si conserva la forma ufficiale, compaiono nell’uso molte abbreviazioni. Tra i procedimenti fonetici, i più usati sono: – l’apocope: Ale < Alessia (’08, Baia Mare); Anto < Antonio34 (’93); Bia < Bianca (’00) + Ralu < Raluca (’03, Sighet); Daia < Daiana Maria (’90); Gesi < Gesica Simona (’03, Milano); Giuli < Giulia Maria (’05); Kari < Karina (’90) + Cristi < Cristian (’93); Laur < Laurenţiu (’98); Leo < Leonard; Leo < Leone + Luci < Lucia; Ralu < Raluca Anuţa (’98) + Lori < Loredana35 (’99); Patri < Patrisia Iasmina (’02, Baia Mare); Sabri < Sara Sabrina (’90, Negreşti); Teo < Ema-Theodora36 (’08, Baia Mare). L’ultimo bambino ha il nome ispirato dal personaggio di film, Antonio, anche se in romeno è diminutivo. Il primo elemento del doppio nome ha come ispirazione il nome del calciatore italiano Roberto Baggio, mentre l’etimologia del secondo va cercata con il nome della città spagnola San Sebastian, dove i genitori hanno lavorato due anni. 34 L’intera famiglia si è stabilita in Italia. 35 I genitori delle due sorelle abitano da dieci anni in Italia. 36 Nella presente situazione l’apocope ha interessato il primo nome chiaramente nell’atto ufficiale, mentre si è preferito il secondo, che conosce lo stesso fenomeno. 32 33
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– la sincope: Giulio < Giuliano (’02, Italia); Liza < Luiza; Mia < Maria (’88); – l’aferesi: Alina37 < Rusalina (’94); Leta < Violeta (’90, Baia Mare); Mona < Simona (’90); – il raddoppiamento: Bobo < Paul (’01, Borşa); Dede < Dennis Gabriel (’99, Sibiu); Dodo (/ Doruţa) < Dora Ramona (’90); Lala < Alexandra Patricia (’07, Baia Mare);
Sotto influsso occidentale, si moltiplicano gli ipocoristici suffissati con -i / -y (Graur 1965: 64), sia nei nomi ufficiali –Angi (’03) + Rozi38 (’07)–, che nelle confidenziali, familiari: Any < Ana-Maria (’90); Chany < Charlotte Mirela (’88) + Fredy < Alfred Ştefan (’90, Satu Mare); Cory < Corina Anamaria (’93) + Deny (’00, Baia Mare); Edi < Eduard-Mateo (’07, Baia Mare); Lori < Lorena (’06, Baia Mare); Robi < Robert (’01, Borşa); Robi < Roberto (’99, Baia Mare); Timi < Timea Graţiela (’01) + Mery < Maria39 (’96). Sempre un’influenza occidentale si nota nella pronuncia di alcuni nomi tradizionali romeni, di fattura biblica: Bazil < Vasile40 (’96); Dave < David (’97, Baia Mare). Una situazione a parte si incontra allorquando, nel registro familiare, colloquiale, si usano forme appellative che, apparentemente, non hanno legame con il nome semplice o composto: Ali < Alexandra Veronica (’06) + Bubuţica < Oana Maria (’08, Baia Mare); Alisa < Alecsandra41 Maria (’08); Ducu < Vlad Ryan (’03, Canada); Nina < Cristina Ioana (’02, Torino); Tatu < Arthur (’90, Baia Mare); Ţuţi < Cecilia Mădălina (’96, Sighet); Vuţi < Livia (’87, Borşa). In altri casi, si combinano più fenomeni fonetici per ottenere la forma usata in famiglia o tra amici: Adi < Adrian Lorin (’89); Dea < Andrea (’90, Baia Mare); Deea < Andreea (’96, Borşa); Ipi < Olimpia (’90, Borşa).
3.6. Il contatto antroponimico romeno-romanzo: varianti grafiche e fonetiche Un’altra particolarità del contatto antroponimico romeno-romanzo prende di mira l’esitazione nella scelta / uso di alcuni nomi che ammettono più varianti di scrittura e di pronuncia. In situazione di interferenza linguistica, gli antroponimi variabili (con due o più forme) entrano in concorrenza con gli antroponimi invariabili (con una sola forma), ciò che lascia l’impressione, qualche volta, di alcuni xenismi. Esempi a sostegno dell’affermazione abbondano soprattutto per i nomi di battesimo romanzi (Felecan 2007b) selezionati nella zona oggetto dell’inchiesta: Albert / Alberto; Alecsandra / Alesandra / Alessandra / Alexandra; Alecsandru / Alejandro / Alesandro / Alessandro / Alexander / Alexandre / Alexandro / Alexandru; Alesia / Alessia / Alexia; Alice / Alicia / Alisa / Alisia / Alissa / Alissia / Alyssa; Andrea / Andreea / Andreia; Angel / Angelo / Anhel; Beatrice / Beatris / Beatriz; Darie / Dario / Darius; Danisa / Denisa / Denisia / Denissa; Denis / Deniss / Dennis; Elisa / Elissa / Eliza; Emanuela / Emanuelle; Geanina / Senza questionario, non avremmo saputo che Alina – nome creato in romeno o prestato (Ionescu 2001: 27), abbastanza frequente nell’onomastica attuale– è una forma ottenuta per aferesi nel caso in esame. 38 La forma ipocoristica è ripresa dal nome della madre, così come per gli altri tre fratelli –(Octavia (’93) + Octavian (’95) + Gavrilă (’97)– il modello è costituito dal nome del padre (Octavian), rispettivamente del nonno. 39 Anche se stabilitisi in Italia, i genitori preferiscono un anglicismo nell’uso familiare. 40 Il nome unico è stato ripreso dal nonno e, probabilmente, sembrava ‹démodé›, anche se la famiglia proviene da ambiente rurale. 41 Scritto così, secondo le regole ortografiche, non con -x, come la maggioranza dei nomi dei giorni nostri. 37
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Gianina / Jianina; Geovanni / Giovani / Giovanni; Irena / Irene / Irina; Isabel / Isabela / Isabella / Isabelle / Izabela / Izabella; Jhose / Jose; Laurencio / Laurenţiu / Lorenţo / Lorenzo; Lorena / Lorraine; Luisa / Luiza; Maia / Maya; Mateo / Mateus / Matteo; Melisa / Melissa; Nicolas / Nicholas; Rafael / Rafaelo / Raphael; Ricardo / Riccardo / Richardo; Vanesa / Vanessa.42
Le varianti corrette appartengono, di regola, alle famiglie che hanno una preparazione superiore e che tengono a un certo rigore della forma esteriore del nome in ambito pubblico. Si registrano, tuttavia, anche varianti scorrette per ogni lingua romanza. Esse sono causate in buona misura da un contatto linguistico superficiale, nell’ambito di famiglie con una preparazione culturale media, ma con una mobilità internazionale pronunciata, in più paesi consecutivamente. Nel caso di individui con istruzione precaria, in una comunità allogena, la forma grafica può coincidere con quella sonora, sebbene scorretta secondo gli standard della lingua romena o della lingua italiana / spagnola / francese / portoghese. Trattandosi di un contatto recente, non esiste neppure l’influenza livellatrice della variante standard, come si intravede in numerose esitazioni fonetiche o ortografiche.
4. Conclusioni Dalla prospettiva socio-linguistica, il nostro studio ha di vista la covarianza sistematica delle strutture antroponimiche riflesse nel contatto romeno-romanzo degli ultimi anni. In seguito ad ampie inchieste sul terreno realizzate nel NO del paese, abbiamo selezionato una parte dei questionari (CAM), eloquente sotto questa prospettiva. Abbiamo tenuto conto di fattori extralinguistici come l’area geografica, la natura della popolazione (indigena o emigrata, rurale o urbana), lo specifico etnico, culturale, religioso, lo status sociale, l’educazione degli attanti onomastici. L’acquisizione del nome innovatore nella lingua romena si trova in stretto legame con questi fattori. Il contatto antroponimico romeno-romanzo si realizza parallelamente al contatto linguistico, sia all’interno delle frontiere –tramite i mass-media–, sia nei paesi romanzi occidentali, ospitali per vaste comunità di connazionali. Questi, in qualità di (de)nominatori, si trovano a dover scegliere tra la conservazione dell’identità, perpetuando i nomi di battesimo ereditati dalla famiglia e l’adozione di nomi stranieri –comunque vicini allo spirito della lingua romena–, che potrebbero facilitare l’integrazione futura dei neonati nello spazio occidentale. Psicologicamente, i fattori extra-linguistici rivestono un ruolo determinante nella ‹lotta› che si svolge tra vecchio e nuovo. L’acquisizione dei nomi allogeni è più forte nelle comunità romene che si lasciano sedurre dal miraggio della superiorità occidentale-romanza. Sulla base della comparazione dei sistemi antroponimici, si possono osservare le interferenze possibili in situazioni di contatto, come indice diagnostico della struttura onomastica contemporanea, in correlazione con fenomeni sociali particolari.
Ho realizzato una selezione delle varianti antroponimiche, senza dimenticare le differenze all’interno della lingua romena o quelle percettibili in caso di interferenze romeno-ucraine o romeno-ungheresi, di cui mi sono occupato in altre occasioni: v. Felecan (2009b; 2010).
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Vitalina Maria Frosi
Os hodônimos de Caxias do Sul
1. Caxias do Sul Caxias do Sul é uma cidade brasileira, situada no nordeste do Rio Grande do Sul. Fundada por imigrantes italianos em 1875, teve seu início em meio a uma floresta virgem e, ao completar hoje seus 136 anos, é habitada por mais de 435.482 habitantes (cf. Censo demográfico do IBGE de 2010). É dividida oficialmente em sete distritos e em quatro regiões administrativas. Possui 3664 logradouros, que são o objeto de estudo do presente trabalho. Os bairros, as praças, as ruas, as avenidas e demais espaços de circulação desta cidade compõem a lista dos nomes atualizada pela Prefeitura Municipal em 12 de janeiro de 2010. Nosso objetivo principal foi o de ordenar esses nomes, determinar as categorias a que pertencem e apresentar reflexões de caráter geral, tendo em conta aspectos interdisciplinares decorrentes do contexto bilíngue, cultural e histórico-político em que se inserem. A pesquisa baseou-se em documentos e restringiu-se aos nomes oficiais atribuídos às ruas por uma autoridade legalmente constituída; eventuais observações poderão ser feitas a denominações espontâneas dadas pelo povo. A análise dos dados tem caráter quantitativo, porém faz-se uso de aportes da metodologia qualitativa para a abordagem de aspectos interdisciplinares pertinentes à questão em foco. A categorização dos hodônimos segue a taxionomia dos topônimos observada, em linhas amplas, pelos estudiosos de toponomástica em geral. No Brasil, essa taxionomia foi adaptada por Dick (1992) e é seguida pela maioria dos estudiosos de toponomástica do Brasil. Embora julguemos fundamental o tratamento etimológico dos nomes e sobrenomes no estudo de topônimos ou hodônimos, não contemplaremos aqui este segmento. Considerados os limites deste trabalho, privilegiamos a categorização das ruas com acréscimo de informações às peculiaridades típicas da amostra utilizada. Não obstante isso, a quantidade de antropo-hodônimos de Caxias do Sul não deixa de ser um atrativo muito forte, uma questão de real importância para o estudo dos nomes e sobrenomes constantes na listagem dos dois grupos étnicos: o italiano e o não italiano.
2. O que dizem os nomes e os hodônimos Ruas, avenidas e travessas, bairros, parques e praças têm nomes que preservam reminiscências do passado; conhecê-los e descrevê-los, preservá-los e socializá-los é tarefa
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do pesquisador. Alguns nomes têm procedência remota, no longínquo decurso do tempo e seu sentido pode perder-se dentro dessa dimensão ou, ainda, tornar-se empanado no imenso espaço territorial. Outros têm origem próxima, são conhecidos, transparentes, de modo particular, quando designam ruas recém-abertas. Os nomes das ruas de um centro urbano transcendem a função de orientar alguém rumo a um determinado local. O que pareceria, à primeira vista, um mero sinal, ou um nome identificador de endereços aos transeuntes, é, na verdade, um signo hodonímico que subsume um significado virtualmente presente no nome em si, apreensível na sua completude por suas interrelações contextuais. Chamam-se hodônimos os nomes das vias de circulação de um centro urbano. São constituídos por nomes próprios de pessoas ou de outras entidades. Seu estudo tem lugar na Linguística, precisamente, no Léxico, onde se situa a Onomástica, que compreende a Antroponímia e a Toponomástica. A Hodonímia é um ramo da Toponímia. Dentro disso, Oliveira / Isquerdo (2004: 9) consideram que, sendo o léxico a primeira via de acesso a um texto, «representa a janela através da qual uma comunidade pode ver o mundo». Os hodônimos sinalizam a cultura, a história, a vida e a linguagem de um povo. Verbalizados ou escritos em formatos diversos, os hodônimos carregam informações que transcendem uma época qualquer. Apesar disso, a passagem do tempo lhes obscurece o sentido, torna-os opacos. Eles se cristalizam. A opacidade, no dizer de Dick (1990: 20), é uma característica do signo toponímico. Referindo-se aos nomes próprios de pessoas, Dick (2001: 85) diz que eles «são obscurecidos em seu conteúdo léxico-semântico pela opacidade do próprio signo que os conforma, distanciados, da maioria das ocorrências, do foco original». Dauzat (1947: 1), reportando-se aos nomes de lugares, diz que eles se apresentam «como palavras antigas, de significado preciso, cristalizadas e esterilizadas de modo mais ou menos rápido, esvaziadas de sentido original». Nessa mesma obra (1947: 223), atribui ao processo de denominação de ruas antigas as mesmas características verificáveis na designação de lugares antigos. Podemos, portanto, estender essa afirmação aos nomes de ruas, de um modo especial, quando elas constituem o sistema viário de cidades antigas. Se são recentes, com uma curta trajetória de vida, os nomes de suas ruas poderão manter uma certa transparência, sobretudo se nelas ainda habitam testemunhas oculares. O que pode variar, com certeza, é o entendimento da palavra antiga. No caso de Caxias do Sul, antigos são os hodônimos criados há cem anos. No caso da França, da Itália, ou de outros países europeus, os hodônimos antigos podem ter vários séculos de idade, ou até milênios. Em seu estudo sobre os nomes de lugares, Charles Rostaing (1948: 13) diz que todo nome de lugar tem um significado que, por razões várias, torna-se imperceptível para os habitantes. Às vezes, o nome cristaliza-se de modo a tornar-se incompreensível. Na Itália, inúmeros são os estudos e dicionários produzidos no campo da toponomástica. Por serem tantos os estudiosos, haveria necessidade de muito espaço para mencionar todos, por isso destacamos apenas alguns nomes pela importância e atualidade dos estudos produzidos e, de modo particular, porque a eles tivemos acesso. Dentre outros mencionamos Queirazza / Marcato / Pellegrini / Sicardi / Rossebastiano (2006); Pellegrini (2008); Olivieri (2001); Sciaretta (2010). Especificamente, sobre onomástica, nomes e sobrenomes de pessoas, pelo seu rigor científico, referimos Caffarelli / Marcato (2008); Rossebastiano / Papa (2005); Marcato (2009). Caffarelli, além de exímio estudioso, é diretor da Rivista Italiana di Onomastica que vem sendo publicada
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semestralmente há 10 anos. Importa mencionar ainda Dizionario dei cognomi italiani (1978); I nomi degli italiani. Informazioni onomastiche e linguistiche, socioculturali e religiose (1982) e Nomi e cultura (1987) do estudioso Emilio De Felice. Igualmente importante è a obra Un nome al giorno: origine e storia dei nomi di persona italiani (1955, 1957) de Carlo Tagliavini. Não cabe, neste artigo, uma revisão extensa sobre a literatura existente, mas não podemos deixar de mencionar também a obra de José Leite de Vasconcellos intitulada Onomatologia, 1931. Vasconcellos (1931: 460) diz que fazer um estudo dos nomes próprios é classificálos em conformidade com as fontes de que se originaram, alertando ainda a importância em se explicar a origem de cada um deles. No que tange à produção de caráter científico por estudiosos brasileiros, importa considerar o Dicionário Etimológico de Nomes e Sobrenomes de Rosário Farani Mansur Guérios (1973). No campo da Toponímia, os estudos se configuram, principalmente, pela elaboração dos Atlas Toponímicos de diversos Estados, em desenvolvimento em várias universidades federais e na universidade estadual de Londrina, conforme esclarecem Dick (2007: 828-829); Seabra (2007: 827); Isquerdo (2007: 828). Em sua obra A dinâmica dos nomes da cidade de São Paulo 1554-1897, dentre tantos denominativos estudados, Dick consagra um capítulo inteiro, intitulado ‹O nome da rua› ao estudo científico de caráter interdisciplinar dos nomes das ruas da cidade de São Paulo (1997: 133-269). De modo peculiar, são destacados, descritos e explicados os referenciais toponímicos do centro antigo da cidade de São Paulo. Diferentemente dos signos linguísticos, os hodônimos, assim como é no caso dos topônimos, são signos motivados. De acordo com Dick, «o que era arbitrário, em termos de língua, transforma-se no ato do batismo de um lugar, em essencialmente motivado, não sendo exagero afirmar ser essa uma das principais características do topônimo» (1990: 18). O estudo dos hodônimos propicia o resgate de fatos socioculturais de que são parte integrante.
3. Os hodônimos de Caxias do Sul: a contribuição da antroponímia nos nomes de ruas O contexto lingüístico e cultural de Caxias do Sul compreende o convívio de dois grupos étnicos predominantes, o luso-brasileiro e o italiano. Frosi / Faggion / Dal Corno (2008) referem a questão do bilinguismo como estando em vias de solução para monolinguismo de português. Mesmo assim, afirmam que a fala e a cultura italianas constituem um substrato de forte contribuição em vários aspectos das comunidades regionais, mormente no sistema hodonímico marcado pela presença de nomes italianos. Os hodônimos revelam aspectos da linguagem, da cultura, da história, da política, da terra, em suma, da própria maneira de ver o mundo, assim se expressam Faggion / Dal Corno / Frosi (2008: 278-279). Em Caxias do Sul, a antroponímia contribuiu significativamente com a hodonímia. Uma análise inicial das 3664 ruas e praças reuniu em dois grupos distintos os hodônimos de Caxias do Sul. Numa lista, foram colocados os nomes italianos; numa outra, os não italianos. Consideramos italianos os nomes de pessoas, de cidades, objetos e outros que ou conservam a ortografia original, ou sofreram adaptações àquela portuguesa, como o nome ‹Vêneto›, usado com acento circunflexo, tendo ocorrido, inclusive, o que se poderia chamar de hipercorreção, o
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caso da reduplicação do ‹tt›, Venetto. Nessa categoria, foram inseridos também os sobrenomes trentinos que, às vezes, possuem traços germânicos. Figuram como hodônimos não italianos todos aqueles de origem luso-brasileira, sejam eles representados por nomes de pessoas, ou por vegetais, animais, santos, profissões etc., escritos em língua portuguesa, com inclusão também daqueles provenientes de outras etnias, nesse caso, pouco numerosos. Quantidades
% sobre 3.664
Hodônimos representados por nomes italianos (pessoas, cidades, animais, acidentes geográficos vegetais, coisas etc...)
2273
62,00
Hodônimos representados por nomes não italianos (pessoas, cidades, animais, acidentes geográficos vegetais, coisas etc...)
1391
38,00
Total
3664
100,00
Especificação dos hodônimos classificados por grupo étnico italiano versus grupo étnico não italiano
Tabela 1: Hodônimos de Caxias do Sul reunidos por grupo étnico
A Tabela 1 evidencia uma predominância de hodônimos representados por nomes italianos, 62%. Do total de hodônimos (3664) 38% são creditados ao grupo étnico não italiano. Constatamos que os imigrantes e seus descendentes não só denominaram os povoados com nomes de localidades italianas, segundo afirmam Frosi./ Faggion / Dal Corno (2008a: 412415) como também homenagearam o grupo étnico italiano dando a ruas, avenidas, parques e praças nomes de pessoas e de lugares italianos. Dauzat, referindo-se a nomes de localidades (1947: 38), diz que «Os imigrantes experimentam o desejo legítimo de lembrar, nas cidades que criam, as cidades de seu país de origem». A propósito disso, acrescentamos que os ítalodescendentes preservaram a memória dos que fundaram e desenvolveram a cidade, dando a muitas ruas dela nomes de pessoas de seu próprio grupo étnico. A reunião dos hodônimos em dois grupos étnicos, um de língua majoritária, outro de língua minoritária, exprime um significado. O grupo de língua minoritária é representado por um número maior de hodônimos, precisamente, 2273; o de língua majoritária resulta em 1391. Não há contradição nisso: quantidade não significa qualidade ou superioridade. Quando Caxias do Sul era formada predominantemente (para não dizer exclusivamente) por italianos e seus descendentes, as primeiras ruas abertas em seu território tiveram todas denominações oficiais de personagens brasileiros do Rio Grande do Sul e do Brasil: políticos, militares, governadores, presidentes, ministros, jornalistas, conforme expõe Frosi (2009a: 344). As pessoas homenageadas com seus nomes dados às ruas eram todas importantes, mas eram totalmente desconhecidas para o povo que fundou o lugar, nele habitava e estava trabalhando e desenvolvendo a comunidade. As ruas de que estamos falando são hoje as do bairro Centro da cidade caxiense. O único nome não brasileiro é Garibaldi, talvez, porque era considerado o herói de dois mundos, o italiano e o brasileiro, então, entrou na lista dos homenageados desse bairro de Caxias do Sul. Os hodônimos italianos encontram-se, na maioria, em zonas periféricas da cidade. O estudo recente de Tríssia Ordovás Sartori (2010) analisa em detalhes a questão do bairro Centro de Caxias do Sul.
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Um estudo cronológico das denominações das ruas de Caxias do Sul, constante em Marcato (2009), mostra que, de 1875 a 1946, portanto, durante os primeiros 71 anos de vida dessa cidade, os hodônimos representados por nomes luso-brasileiros eram numericamente superiores àqueles de nomes italianos. Nas primeiras décadas de desenvolvimento da cidade, poucos foram os nomes italianos dados a ruas. Só em 1959, as denominações italianas para as ruas caxienses ultrapassam, de fato, em quantidades, as luso-brasileiras e conservam a primazia até os dias de hoje. Além disso, a maior parte das ruas que tinham sido designadas com nomes de lugares italianos tiveram esses nomes substituídos por designativos brasileiros, quando ocorreu a ditadura política, e com ela a Campanha de nacionalização e de brasilianização, fatos estudados e referidos por Pesavento (1980: 156-194); Frosi / Faggion / Dal Corno (2008). Não podendo dar nomes de lugares da Itália às ruas, abertas por italianos e seus descendentes, em solo brasileiro, a solução foi a de dar nomes de pessoas. Trata-se de uma hipótese, mas, talvez, isso explique a quantidade de antropo-hodônimos italianos verificados a partir de 1959. Nas últimas décadas, além dos antropo-hodônimos, ocorreram também denominações com nomes de lugares italianos: Pistóia e Monte Castelo (1959); Turin e Venetto (1967); Monte Carmelo (1976); Vicenza (1980); Arsié, Fonzaso, Seren del Grappa (1988); Castelnovo (1990); Alpina (1991); Vêneto (2003); Pedavena (2004); Monte Bérico, Pedancino, Santa Corona e São Giácomo (2008). Especificação categorias
das
Ta x i o n o m i a d e n a t u r e z a antropocultural
1. Animo-hodônimos 2. Antropo-hodônimos 3. Axio-hodônimos 4. Coro-hodônimos 5. Crono-hodônimos 6. Eco-hodônimos 7. Ergo-hodônimos 8. Etno-hodônimos 9. Dirrema-hodônimos 10. Hiero-hodônimos 11. Mito-hodônimos 12. Historio-hodônimos 13. Número-hodônimos 14. Pólio-hodônimos 15. Sócio-hodônimos 16. Soma-hodônimos TOTAL ......................................
Italianos % sobre Quant. 3664 00 0,00 2158 58,90 62 1,69 16 0,44 01 0,03 00 0,00 00 0,00 00 0,00 00 0,00 09 0,24 00 0,00 00 0,00 00 0,00 01 0,03 07 0,19 00 0,00 2254 61,52
Não italianos % sobre Quant. 3664 12 0,33 928 25,33 69 1,88 54 1,47 02 0,05 02 0,05 04 0,11 08 0,22 00 0,00 65 1,78 00 0,00 26 0,71 05 0,14 06 0,16 45 1,23 00 0,00 1226 33,46
Tabela 2: Categorias de natureza antropocultural
A Tabela 2 mostra que, dentre as 16 categorias de natureza antropocultural do grupo étnico italiano, sobressaem-se os antropo-hodônimos com 58,90% não só em relação com os da série dos italianos mas também no confronto dessa mesma categoria com a que lhe é correspondente no grupo étnico não italiano, numericamente representado esse último por 25,33% sobre o
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Vitalina Maria Frosi
total de hodônimos. A alta representatividade da categoria antropocultural italiana parece confirmar a marca a que se refere Dick (1997: 193-208) isto é, em nosso caso, vemos como suporte de identificação étnica o nome e o sobrenome italianos. Contrastando extremamente, temos as categorias Dirrema-hodônimos e Soma-hodônimos com representatividade nula para ambos os grupos étnicos. A Tabela 2 apresenta também, nas categorias de natureza antropocultural, mais 7 categorias com representatividade zero para o grupo étnico italiano. Para esse grupo é digna de nota a concentração das homenagens a nomes de indivíduos italianos e a seus descendentes. A leitura dos processos da Câmara de Vereadores sobre a análise da proposição de nomes para ruas e praças, ou sobre a substituição de denominações por outras, revela que muitas ruas que tinham nomes de localidades italianas tiveram esses nomes substituídos por outros, principalmente, por designativos de personagens brasileiros da administração pública, de escritores, de políticos e de militares, portadores de altos títulos, dentro da hierarquia de comando do país receptor. Segundo Frosi (2010: 65) o Acto nº 85 de 2 de maio de 1939, assinado pelo então prefeito municipal de Caxias do Sul, determinou algumas mudanças de nomes para vias da cidade: (a) a Rua Veneza passou a denominar-se Rua Olavo Bilac; (b) a Rua Treviso passou a denominarse Rua Machado de Assis; (c) a Rua Vicenza passou a denominar-se Rua Castro Alves; (d) a Rua Trento passou a denominar-se Rua José do Patrocínio. Oficialmente cancelados dos registros documentais, esses nomes permanecem, todavia, na memória das pessoas ainda viventes que testemunharam os acontecimentos ocorridos no passado.
Os nomes de pessoas e de localidades italianas, dados a ruas em solo brasileiro, refletem elementos culturais, linguísticos e identitários do grupo étnico italiano como lembra Faggion (2006). Embora a diversidade linguística e cultural seja uma riqueza nem sempre tem sido respeitada. Em conformidade com Bertolini (1996), o poder político e os fatos históricos determinam quais nomes devem ser dados às ruas mais importante de um centro urbano. Tal é o caso de Caxias do Sul. As ruas do bairro Centro dessa cidade receberam seus nomes luso-brasileiros nos primeiros anos de sua fundação, quando a comunidade era formada preponderantemente por italianos. No entanto, nenhuma rua do centro da cidade recebeu nome italiano. A alta representatividade numérica dos nomes italianos advém das zonas periféricas da cidade. Acrescente-se também que nomes dados espontaneamente pelo povo foram substituídos por outros, oficialmente impostos já nas primeiras décadas da colonização. No que se refere a esse período, aproximadamente meio século, a contar de 1875, ano em que chegaram ao local as primeiras famílias italianas, servem de exemplo denominações como Rua Grande e Rua dos Caiporas (termo de origem tupi com significado de homem do mato ou azarado, sem sorte), nomes dados pelo povo à principal artéria da, então, pequena cidade. Oficialmente essa rua recebeu, em 1880, o nome de Silveira Martins (fundador do Partido Federalista Brasileiro) e, mais tarde, passou a se chamar Avenida Júlio de Castilhos, nome que conserva até hoje. Caso semelhante ocorreu com o denominativo Villa Bella, escolhido e usado pelo povo, mas que, oficialmente, recebeu o nome de Dr. Montaury, engenheiro e político brasileiro. O estudo sobre as ruas de Pádua de Carla Bertolin (1996), desenvolvido na perspectiva histórica, mostra que as vias de circulação daquele centro urbano, além de terem sido
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denominadas, em grande parte, em consonância com as fases histórico-políticas do país italiano, receberam nomes de personagens de projeção durante as guerras: A. Diaz, 1925; generale Cantore, 1934; F. Baracca, 1935 e de lugares que ficaram marcados por episódios famosos de combates neles ocorridos, por exemplo, Monte Grappa. A troca de nomes de ruas importantes ocorre também devido a mudanças políticas. Segundo Bertolin (1996), as ruas do Centro são as mais polêmicas e são as primeiras a terem seus nomes trocados quando um novo grupo assume o poder. Uma nota à parte merecem os hodônimos desta amostra representados por nomes de profissões. Este segmento foi objeto de estudo realizado como parte do Projeto Toponímia da Universidade de Caxias do Sul, por três professoras do Mestrado em Letras, Cultura e Regionalidade, isto é, Frosi / Faggion / Dal Corno (2008: 4): Nossa tendência inicial teria sido a de considerar estes hodônimos representativos de profissões vinculando-os a uma herança cultural transplantada na RCI pelos imigrantes oriundos do norte da Itália. Aliás, não é difícil encontrarmos denominações de profissões nas ruas de muitas cidades italianas, fazendo referência a atividades que, no passado, eram lá desenvolvidas. Dentre tantas, a título de exemplificação, em Firenze, a Via dei Calzaiuoli quer lembrar a todos os que por ela transitam as numerosas lojas de meias que do século XIV ao século XVI existiam nessa rua (Guccerelli 1985: 80). Em Veneza, são muitas as ruas que conservam hodônimos provenientes de profissões como, por exemplo, La Merceria, indicativa da rua em que, no passado, se instalaram os mercadores de tecidos e de artigos para vestuário como botões, fitas, alfinetes etc. Em Milão, a Via degli Artieri, conforme Vittore Buzzi / Claudio Buzzi (2005: 22) «vuole ricordare gli operai laboriosi e intelligenti che furono alla base della prosperità economica di Milano lavorando nelle numerose piccole officine e nei laboratori».
Em abril de 1988, a Indicação nº 236 da Comissão de Denominação de Ruas, ligada à Câmara de Vereadores de Caxias do Sul, propunha ao Legislativo Municipal a denominação de 27 ruas do loteamento Belo Horizonte sugerindo para elas nomes de profissões humildes praticadas no passado nessa cidade. Os nomes sugeridos tencionavam homenagear pessoas humildes, construtoras da riqueza local. O processo nº XXVIII/1988 da Câmara de Vereadores teve aprovação imediata e foi transformado na lei nº 3238 naquele mesmo ano. Os hodônimos representativos de profissões humildes referem-se a ruas de Caxias do Sul onde, com muita probabilidade, essas profissões nunca foram exercidas. Os nomes das ruas do Bairro Santa Fé são marcados com o morfema de plural. Uma análise, nesse sentido, dá-nos uma idéia de abrangência, de coletividade; em síntese, de inclusão de todos aqueles profissionais pertencentes à mesma categoria, que, de fato, em outros pontos da cidade, praticaram tais profissões (2008: 5). Além dos hodônimos de natureza antropológica, temos hodônimos de natureza físicogeográfica. Os hodônimos das categorias de natureza física, como o próprio nome indica, decorrem dos aspectos físico-ambientais influenciadores, presentes no ato de denominar uma rua. De acordo com Nascimento (2009: 116), a povoação de Caxias do Sul determinava que: a sede teria nove quadras de norte a sul e nove de leste a oeste. As quadras seriam ligeiramente retangulares, e todas conteriam dez lotes urbanos. Todos os lotes estariam dispostos na orientação norte-sul, menos nas quadras do extremo oeste, que teriam os lotes ocidentais como orientação leste-oeste; e nas quadras a oeste e leste da praça mais centralizada, que teriam nas faces voltadas a ela, os lotes no sentido leste-oeste.
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Vitalina Maria Frosi
Especificação
das
categorias
Taxion om i as d e n at ureza f í si ca
1. Astro-hodônimos 2. Cardino-hodônimos 3. Cromo-hodônimos 4. Dimensio-hodônimos 5. Fito-hodônimos 6. Geomorfo-hodônimos 7. Hidro-hodônimos 8. Lito-hodônimos 9. Meteoro-hodônimos 10. Morfo-hodônimos 11. Zoo-hodônimo TOTAL ....................................................
Italianos Quantidades 10 00 00 00 00 06 01 00 00 00 02 19
% 0,27 0,00 0,00 0,00 0,00 0,16 0,03 0,00 0,00 0,00 0,06 0,52
Não italianos Quantidades % 11 0,30 00 0,00 04 0,11 01 0,03 79 2,15 12 0,33 12 0,33 05 0,14 02 0,05 00 0,00 39 1,06 165 4,50
Tabela 3: Categorias dos Hodônimos de natureza físico-geográfica
Em consonância com este traçado do território da cidade, com orientação leste-oeste, foram abertas as ruas mais importantes do que é hoje Caxias do Sul. As vias de circulação deste centro urbano são, predominantemente, retilíneas. Era de se esperar, pois, que houvesse algumas denominações típicas da categoria morfológica, precisamente, motivadas pelo traçado geométrico aplicado ao espaço geográfico destinado à movimentação dos habitantes. O traçado geométrico não originou nenhum hodônimo que tivesse sido motivado por esse tipo de acidente físico. A configuração do terreno de Caxias do Sul é bastante irregular, distribuindo-se em altos e baixos, com poucas e reduzidas áreas planas em toda a sua extensão. Morros e outras particularidades topográficas serviram de motivação a somente 6 geomorfo-hodônimos do grupo étnico italiano (Alpina, Forqueta, Monte Bérico, Monte Carmelo, Monte Castelo e Pedancino); 12 do grupo étnico não italiano (Avenida Colina, Rua Da Ladeira, Estrada Municipal Mirabel, Do Canto, Vista Alegre, Bairro Bela Vista, Bairro Esplanada, Bairro Planalto, Bairro Montenegro, Serrano Santo Antônio, Avenida Roraima, Bairro Serrano). Consideradas todas as categorias cujos nomes têm como motivadores os acidentes de ordem físico-ambiental, sua representatividade é verdadeiramente insignificante em confronto com aquelas cujos motivadores foram os aspectos humanos. Isso é válido, em particular, para o caso do grupo étnico italiano que apresenta 0,83% de hodônimos, motivados por acidentes físico-ambientais, em relação ao universo de hodônimos desse grupo, isto é, 2273 e 0,51% em relação ao universo da amostra (3664). Na lista de hodônimos de natureza físico-ambiental do grupo não italiano, observa-se que há uma representatividade maior em confronto com a dos italianos. Os resultados mostram 11,86% relativamente ao total de hodônimos do grupo não italiano (1391) e 4,50% em relação ao universo dado pela pesquisa (3664 no total). No grupo dos não italianos, destacamos a categoria dos fito-hodônimos com 2,15% sobre 3664; em contrapartida, essa categoria tem zero representatividade no grupo dos ítalo-descendentes. Não podemos afirmar que o território caxiense, a natureza físico-ambiental tenha suscitado motivações peculiares, por parte de seus habitantes. Pelo contrário, a carência de áreas verdes na cidade levou alguns vereadores a proporem nomes de flores e de árvores a muitas ruas de um
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Os hodônimos de Caxias do Sul
bairro residencial, denominado Cinquentenário, não motivados pela existência dessas plantas, pois, de fato, não havia delas nesse lugar, mas alguém dentre os vereadores teve como propósito incentivar os habitantes, proprietários de ricas mansões, a plantarem, respectivamente, as flores cujo nome denominava a rua em que moravam. Isso também não surtiu muito efeito. Em suma, o que motivou os denominadores dessas ruas não foi um referencial físico, materialmente existente naquelas ruas, mas o desejo de que esse referente fosse criado.
4. O gênero: sua representação nos hodônimos Os hodônimos, do mesmo modo que os topônimos, são reveladores da história de vida de um grupo humano, dos seus valores e crenças, de suas escolhas, de sua cultura, dos papéis desempenhados por homens e mulheres. Especificação das categorias dos hodônimos por gênero dos nomes italianos e dos não italianos
Quantidades
% sobre 3664
Italianos masculinos .............................................................
1883
51,39
Não italianos masculinos .....................................................
872
23,80
Total de masculinos ..............................................................
2755
75,19
Italianos femininos ...............................................................
346
9,44
Não italianos femininos .......................................................
127
3,47
Total de femininos ................................................................
473
12,91
Italianos não designativos de pessoas ...................................
44
1,20
Não designativos de pessoas do grupo não italiano ..............
392
10,70
Total de nomes não designativos de pessoas ........................
436
11,90
Tabela 4: Categorias dos hodônimos por gênero
A Tabela 4 revela que o gênero masculino tem uma representatividade numérica muito superior a do gênero feminino, seja nos hodônimos do grupo étnico italiano, seja naqueles do grupo étnico não italiano. Essa mesma tabela mostra, também, as ocorrências dos hodônimos representados por nomes não designativos de pessoas, com os dados numéricos tanto para os do grupo italiano como para os do grupo não italiano. As ruas denominadas com nomes de mulheres não são as do bairro Centro da cidade; elas estão na periferia e seus nomes passam despercebidos à população. Além disso, fazendo um confronto delas com as ruas homenageadas com nomes masculinos (88,07%) conclui-se que poucos de seus nomes ficaram nas placas indicativas das vias de circulação (12,91%). As mulheres não atuaram em funções consideradas econômica e socialmente importantes. Elas eram do lar, da casa, dos filhos, dedicadas e incansáveis no trabalho quotidiano, anônimo, boas mães, fiéis ao marido, boas esposas. Frosi (2009: 346) observa que esses atributos estão registrados na explicitação de motivos e justificativas dos processos submetidos à Câmara
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Vitalina Maria Frosi
de Vereadores para aprovação ou não de seus nomes, quando indicados para designar ruas, as menos importantes da cidade em que viveram. Os hodônimos de Caxias do Sul não só homenageiam pessoas ilustres, eles também revelam a desigualdade que sempre marcou os gêneros sociais e humanos. Em sua obra Mulheres sem rosto, Maria Abel Machado (1998: 85) faz uma análise detalhada do papel desempenhado pela mulher ítalo-brasileira, tanto no ambiente rural quanto no dos centros urbanos. Assim se expressa a historiadora: «Trabalhavam, cuidavam de seus afazeres domésticos, criavam os filhos, participavam das orações da Igreja, mas deviam permanecer confinadas no espaço doméstico, como era exigido pela ordem geral, comandada por uma sociedade de lideranças masculinas». Além das categorias de natureza antropo-hodonímica, que somam 88,07% em relação ao universo da pesquisa (3664), foram identificados 436 (11,90%) ruas que têm nomes não designativos de pessoas. O percentual dessas ruas do grupo étnico italiano é realmente insignificante, isto é, 1,20% do universo dos dados. Retomando o que foi dito, em síntese, nomes de pessoas, italianos e não italianos são privilegiados para representar as ruas, com quantitativos maiores para os primeiros. As demais categorias de natureza antropocultural e de natureza física têm muito pouca representatividade, algumas delas têm resultado zero ou percentuais insignificantes. A categoria de gênero feminino é numericamente pouco representada nos hodônimos de ambos os grupos étnicos estudados; isso denuncia a desigualdade de papéis desempenhados e de posições sociais diferenciadas entre homens e mulheres. Alguns hodônimos não homenageiam referentes que existiram: eles expressam o desejo de que tais referentes venham a existir. Além do que foi dito, a pesquisa é um processo e, como tal, tem prosseguimento. O significado dos hodônimos é seguramente apreensível quando removemos a poeira que o tempo depositou sobre eles. Uma comunidade italiana em solo brasileiro teve suas ruas principais denominadas com nomes brasileiros. Hoje, essa mesma comunidade ítalobrasileira tem suas ruas numericamente representadas com vantagem significativa para os nomes italianos. O poder político brasileiro atuou em favor do país receptor, quando a população era preponderantemente italiana. O poder político instituído do país hóspede promoveu a aculturação do grupo minoritário mesmo com perda de elementos culturais que, se cultivados, teriam sido caros ao patrimônio sociocultural e lingüístico desse país.
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Sarah Leroy (UMR 7114 MoDyCo, CNRS – Université Paris Ouest Nanterre La Défense)
Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre
0. Introduction La déonomastique est une branche de la lexicologie historique qui «prend pour matériau les dérivés de noms propres» (Fontant 1998: 5) et décrit et analyse les différents procédés morphologiques, syntaxiques et sémantiques de cette dérivation (Schweickard 1992). Les déonomastiques, unités lexicales dérivées de noms propres, constituent un ensemble hétérogène. Ceux qui nous intéressent ici ont trois caractéristiques: translatifs (distincts des suffixés comme machiavélique et de ceux qui résultent d’une ellipse comme jersey), ils sont également substantifs, et relèvent sémantiquement de la métaphore (et non de la métonymie). Leur analyse s’inscrit dans le cadre plus large du traitement, au sein du programme TLF-Étym de révision sélective des notices étymologiques du Trésor de la Langue Française.1 Il s’agit donc de revenir sur l’étymologie des déonomastiques de ce type, tels que dulcinée ou cassandre. On s’appuie pour les relever sur le travail de Fontant (1998), qui a relevé 136 de ces «anthroponymes démotivés» dans la nomenclature de six dictionnaires du français.
1. Les déonomastiques «antiques» 1.1. Des noms propres liés à l’Antiquité On compte une centaine de ces déonomastiques translatifs dans le Trésor de la Langue Française, dont près de la moitié proviennent d’un nom propre «antique», c’est-à-dire en relation, de quelque manière que ce soit, avec l’Antiquité gréco-latine: apollon, caton, égérie, messaline, œdipe, pythie, stentor, zoïle… Ce «lien» avec l’Antiquité est, le plus souvent, signalé dans la partie étymologique et historique de la notice du Trésor de la Langue Française, Programme mené depuis 2005 à l’UMR 7118 ATILF, CNRS – Universités de Nancy, sous les directions successives d’Éva Buchi, Gilles Petrequin et à présent Nadine Steinfeld. Voir http://www. atilf.fr/tlf-etym /. Cf. Buchi (2005).
1
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Sarah Leroy
par une indication d’ordre linguistique: il est fait mention d’un étymon latin ou grec (avec parfois des précisions sur la variété concernée) ou d’un emprunt à l’une de ces langues... sosie:
du lat. Sosia, lui-même du gr. Sws…a$
du nom propre Aristarque (ca 215-143 av. J.-C.), lat. Aristarchus (gr. `Ar…starco$ ds BAILLY)
aristarque:
zoïle:
Empr. au lat. d’époque impériale Zoilus, gr. ZèŽlo$
Il peut parfois être plus indirect, et apparaître par l’intermédiaire d’une référence à la culture gréco-latine ou à l’histoire. giton:
du nom de Gito, jeune homosexuel dans le Satiricon de Pétrone
du nom de Messaline, femme de l’empereur Claude, connue pour ses débauches, exécutée sur ordre de son époux en l’an 48
messaline:
démosthène:
du nom de Démosthène, orateur athénien (385-322 av. J.-C.)
En conjoignant ces deux indicateurs, on retient un ensemble de 45 déonomastiques «antiques», dont certains, plutôt désuets, semblent quasiment sortis d’usage (aristarque, automédon, phaéton, zoïle), mais dont d’autres, au contraire, peuvent être considérés comme tout à fait lexicalisés, le nom propre d’origine n’étant quasiment plus perçu (égérie, furie, harpie, mécène). adonis, amazone, apollon, argonaute, argus, aristarque, automédon, caton, cerbère, césar, crésus, cyclope, démosthène, égérie, épigone, furie, géant, giton, harpie, hercule, hermaphrodite, hydre, mécène, mégère, mentor, messaline, muse, narcisse, néron, nestor, œdipe, olibrius, pénélope, phaéton, phénix, protée, pythie, sirène, sosie, sphinx, stentor, titan, triton, vénus, zoïle
Cette ensemble recouvre donc des cas divers: certains déonomastiques sont d’un usage courant, tandis que d’autres sont plutôt à considérer comme des archaïsmes; pour quelques uns, la relation au nom propre est forte, pour d’autres elle l’est beaucoup moins; enfin, pour une petite sous-partie de l’ensemble, la répartition catégorielle entre l’étymon (nom propre) et déonomastique (nom commun) peut connaître un certain flou. 1.2. Tous des déonomastiques? Du point de vue référentiel et formel, quelle que soit la langue dont ils relèvent, les noms propres donnés comme étymons (de façon plus ou moins précise) ne sont pas tous sur le même plan. La plupart (une trentaine) sont des noms propres tout à fait prototypiques, purs (Jonasson 1994: 34-38): ils désignent, par une forme lexicale spécialisée dans cet emploi de nom propre, tout à fait opaque au niveau du sens (c’est-à-dire qu’on ne peut l’interpréter en fonction d’une base lexicale étymologique), un individu unique, une personne (historique, romanesque ou mythologique): Messaline, Crésus, Pénélope… Mais le statut de nom propre de quelques autres étymons, tel qu’il est présenté dans les notices du Trésor de la Langue Française, est moins évident. Il est d’ailleurs à noter que pour l’essentiel de ces cas, nulle
Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre
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indication catégorielle (nom propre, nom commun, ou même simplement nom) n’est donnée dans le Trésor de la Langue Française2, alors que cette absence totale d’indication ne se présente qu’à trois reprises3 lorsque les étymons sont des noms propres prototypiques. Ainsi, les noms de groupes d’individus semblent considérés tantôt comme des noms propres, si l’on en juge par les majuscules (pourtant flottantes) et les commentaires (Furies, Géants, Harpies, Muses, Pythies, Sirènes, Titans), tantôt plutôt comme des noms communs, soit par leur sens descriptif (Épigones), soit parce qu’ils sont eux-mêmes construits sur un nom propre (Argonautes, Amazones). furie: Empr. au lat. class. Furia, gén. au plur., désignant les trois Furies, déesses symbolisant la vengeance sirène: empr. au b. lat. sirena, lat. siren «être fabuleux de la mythologie grecque» […], gr. Seir»n
«génies mi-oiseaux, mi-femmes qui dans l’Odyssée attirent par leurs chants les navigateurs et causent leur perte» épigone: Empr. au gr. ™p…gono$ (d’où lat. class. Epigoni) littéralement «né après, descendant», oi Ep…gonoi «les Épigones, les descendants des sept chefs tués devant Thèbes».
Empr. au lat. Argonautes (-a), -ae «Argonaute» (dep. CICÉRON, De oratore, 1, 174 ds TLL s.v., 537, 22), lui-même empr. au gr. ArgonaÚth$ «id.», composé d’Argè, nom du navire des Argonautes et de naÚth$ «matelot».
argonaute:
En latin, ces noms semblent considérés comme des noms propres «collectifs», essentiellement à cause de leur désignation unique, même lorsqu’il s’agit morphologiquement d’adjectifs (Pythie, Épigone), de dérivés de noms propres (Pythie, Argonautes) et/ou d’emprunts au grec (Épigone, Argonautes). Par ailleurs, des noms d’individus particuliers donnés comme étymons semblent bien, toujours d’après l’observation de l’usage de la majuscule et des commentaires dans la notice, être à considérer comme des noms communs: H/hydre, P/phénix, S/sphinx. Cette catégorisation paraît reprendre celle du latin, où ces lexèmes, noms communs empruntés au grec, sont employés, avec ou sans complément, pour désigner un référent particulier de la catégorie, tout en demeurant essentiellement des noms communs. Empr. au lat. phoenix «oiseau fabuleux», «palmier», gr. fo…nix «pourpre», «oiseau fabuleux», «palmier».
phénix:
hydre: empr. du lat. class. hydra «hydre de Lerne», lui-même empr. du gr. Ûdra, de même sens (de Ûdwr «eau»).
On voit avec ces quelques exemples que dans certains cas, on peut se demander s’il est bien exact de parler de processus déonomastique, si ce n’est pas l’emprunt, du français au latin, de la désignation par un nom commun d’un référent particulier qui invite à le considérer, après coup, comme une sorte de nom propre. Ceci invite à considérer plus attentivement les relations entre emprunt et processus déonomastique. À l’exception des notices harpie et titan, où il est question d’un «emploi comme nom commun». Pour les notices cylope, triton, vénus.
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2. Emprunt et/ou déonomastique 2.1. La situation dans le Trésor de la Langue Française La partie étymologie et histoire des notices du Trésor de la Langue Française n’indique pas non plus toujours de façon extrêmement précise l’étymologie origine des noms communs français. Étant donnée l’origine gréco-latine4 de ces noms communs, deux possibilités sont à envisager: soit le déonomastique est formé en grec ou en latin et est emprunté par le français, soit il est formé en français, sur un nom propre emprunté au grec ou au latin. Or le Trésor de la Langue Française reste très vague à ce sujet. Cependant les diverses indications données dans les notices tendent davantage à supposer un emprunt de déonomastique que la création en français d’un déonomastique sur un nom propre emprunté. S’il est rarement nettement indiqué que la translation déonomastique peut avoir déjà eu lieu en grec ou en latin, cela est suggéré dans plusieurs cas, alors qu’aucune notice ne suggère une translation déonomastique effectuée en français. L’hypothèse d’une translation déonomastique déjà achevée en latin n’est explicitement avancée que dans deux cas, harpie et mécène. empr. au lat. Harpyia, mythol., déjà utilisé en lat. comme nom commun (empr. au gr. “Arpia) harpie:
mécène: Tiré du lat. Maecenas, Mécène, nom d’un ministre d’Auguste, protecteur des lettres et des arts; déjà nom commun en lat.
Trois autres cas laissent plus de marge à l’interprétation: soit il n’est pas absolument clair que la mention «employé aussi comme nom commun» concerne le latin (caton), soit il n’est pas absolument clair qu’il s’agit de translation déonomastique et non d’emploi particulier (figuré) du nom propre (crésus, zoïle). Emploi par antonomase du nom de Marcus Porcius Cato Caton l’Ancien ou le Censeur réputé pour sa droiture et sa sévérité; cf. en lat. Cato employé comme exemple d’homme intègre (Cicéron ds TLL s.v. 269, 6);
caton:
Lat. class. Croesus (gr. Kro‹soj), nom d’un roi de Lydie (VIe s. av. J.-C.), célèbre par ses richesses; employé aussi comme nom commun pour désigner un homme riche.
crésus:
zoïle: Empr. au lat. d’époque impériale Zoilus, gr. ZèŽloj nom d’un grammairien d’Alexandrie du IVe s. av. Jésus-Christ, célèbre par son traité en neuf livres où il dénonçait les absurdités et les contradictions d’Homère; a été empl. dès Ovide comme synon. de «détracteur».
Enfin, cinq notice (mentor, pénélope, protée, sosie, titan) mentionnent un «emploi comme nom commun», sans préciser la langue dans laquelle se fait cet emploi.5 Il s’agit essentiellement d’étymon latins, les étymons grecs étant largement minoritaires. On parlera donc principalement du latin dans la suite de cette présentation. 5 Il semble cependant s’agir du français, comme en témoignent les attestations tirées de Fénelon et de Rotrou pour mentor et sosie. 4
Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre
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Or, si des cas de lexicalisation complète en latin ne sont pas à exclure avant l’examen systématique de toutes les attestations pour chaque nom propre, la tendance qui semble se dessiner est celle de l’existence d’emplois métaphoriques du nom propre en latin (cf. Vallat 2002), emplois figurés n’entraînant pas de lexicalisation achevée; le latin ne formerait donc pas, ou de façon exceptionnelle, de déonomastiques de ce type. L’examen des attestations en latin6 et leur analyse du point de vue de la linguistique synchronique des noms propres (structure du syntagme nominal, fonction phrastique de celuici, présence ou absence d’un référent-cible d’une métaphore, etc.)7 les fait plutôt apparaître comme des métaphores vives. Seuls quelques cas, comme celui de mécène, mentionné cidessus, présentent des emplois ambigüs, comme dans l’exemple ci-dessous: «Fundite quae mea sunt» dicebat «cuncta» Catullus praecipitare uolens etiam pulcherrima, uestem purpuream teneris quoque Maecenatibus aptam [...] (Juvénal, Satires, XII, 37-39)8
Le nom propre en emploi métaphorique est au pluriel, in absentia et en fonction référentielle, mais un adjectif précise quel trait diffère du Mécène historique –efféminé–, ce qui plaide pour une antonomase encore vive, voire éventuellement pour un emploi exemplaire.9 Il reste difficile, sur la base de ce type d’exemple ambigu et exceptionnel10, d’établir nettement la réalité d’un processus déonomastique en latin. 2.2. Trois possibilités On voit donc que l’existence d’emplois figurés du nom propre avant, ou même après, la translation déonomastique, qui est un processus progressif, continu, rend difficile la datation du déonomastique lui-même, et l’établissement de l’étymologie, emprunt ou translation déonomastique, du mot français. Théoriquement, trois cas sont possibles: – Un nom propre latin qui connaît des emplois métaphoriques en latin donne lieu à une translation déonomastique en latin, lequel déonomastique est emprunté par le français.11 – Un nom propre latin qui connaît des emplois métaphoriques en latin, est emprunté par le français, langue dans laquelle se poursuivent les emplois métaphoriques et a lieu la translation déonomastique. – Un nom propre latin pour lequel aucun emploi métaphorique n’est attesté en latin est emprunté par le français, où il connaît des emplois métaphoriques puis donne lieu à une translation déonomastique. Base Bibliotheca Teubneriana Latina-5, comprenant tous les textes jusqu’au ive siècle ap. J.-C. inclus. Cf. Leroy (2004a: 81-143) pour une description plus détaillée. 8 «Jetez ce qui m’appartient», disait Catullus, «tout», voulant se débarrasser même des plus beaux objets, un vêtement de pourpre convenable même pour les Mécène(s) efféminés (...) 9 Emploi dans lequel «le référent du nom propre [est traité] comme un échantillon représentatif d’un type humain» (Leroy 2004b: 73). 10 D’autres cas sont également discutables, comme celui de caton, traité dans Dupraz / Leroy (2008). 11 Qui peut également, par ailleurs, emprunter le nom propre lui-même et l’employer dans des constructions métaphoriques. 6 7
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De plus, la naissance du déonomastique n’entraînant pas la disparition du nom propre, les emplois métaphoriques de celui-ci peuvent côtoyer celui-là, ce qui ne facilite pas l’attestation et la datation de la translation déonomastique. La documentation ne permet pas de donner un exemple fiable de la première possibilité (translation déonomatique effectuée en latin, emprunt du déonomastique latin par le français). En revanche, le nom propre Mégère et le déonomastique éponyme illustrent parfaitement la deuxième possibilité (translation déonomastique en français mais emplois métaphoriques du nom propre déjà en latin). Le lat. Megaera est originellement un théonyme, appliqué à un monstre mythologique; il s’agit d’un emprunt au grec. En latin antique, deux exemples seulement d’emploi antonomastique nous sont connus, tous deux tardifs (ive siècle ap. J.C.): Cuius acerbitati uxor graue accesserat incentiuum, germanitate Augusti turgida supra modum, quam Hanniballiano regi fratris filio antehac Constantinus iunxerat pater, Megaera quaedam mortalis, inflammatrix saeuientis adsidua, humani cruoris auida nihil mitius quam maritus. (Ammien Marcellin, XIV, 1, 1)12 Delectas in proelium Marcellinus cohortes et ipsum factionis nefariae robur illa belli ciuilis Megaera rapiebat, tanto ceteris satellitibus audentior quanto exertiorem operam nauabat tyranno frater tyranni. (Pacatus, Panégyrique de Théodose, 35, 1)13
Ces deux exemples s’analysent comme des emplois métaphoriques du nom propre, en raison de la structure du SN (avec expansions), de sa fonction (prédicative: apposition) et du caractère in praesentia de la relation métaphorique. Il est donc clair dans ce cas que la lexicalisation n’est pas accomplie en latin, mais qu’elle se fait en français, sur la base d’un nom propre emprunté au latin. C’est sur le nom propre Mégère, attesté en français dès la deuxième moitié du xve siècle, qu’est formé le déonomastique, attesté depuis 1587: Le courrier estant party ceste Megere ne peut reposer la nuict, ains sentant vne autre Megéere [sic] en son ame, qui la tourmentoit estrangement en vengeant la parricide de sa cousine, se repentoit de l’auoir commandé, mais elle ne sçauoit quel ordre y mettre, iusques à ce que le Mi‑lord de Leycestre son grand mignon, l’enseigna. (Martyre de la Royne d’Escosse, Douairiere de France. Contenant le vray discours des traïsons à elle faictes à la suscitation d’Elizabet Angloise, par lequel les mensonges, calomnies & faulses accusations dressees contre ceste tresuertueuse, trescatholique & tresillustre princesses sont esclarcies & son innocence aueree, 1587: 334)
La troisième possibilité est illustrée par l’exemple d’É/égérie, nom propre et déonomastique. En latin, seul le nom propre est attesté; nulle trace du déonomastique ni d’emplois qui pourraient constituer des emplois métaphoriques du nom propre. C’est donc sur le nom propre Mais à l’aigreur de celui-ci s’était ajoutée, comme une lourde incitation, son épouse, arrogante outre mesure de sa parenté avec l’Auguste, qu’auparavant Constantin son père avait donnée au roi Hanniballien, fils de son frère, une vraie Mégère mortelle, inflammatrice perpétuelle de sa cruauté, avide de sang humain avec aussi peu de douceur que son mari. 13 Marcellinus entraînait au combat des cohortes d’élite et la force vive même de la faction impie, cette Mégère de la guerre civile, audacieux entre tous les satellites, d’autant plus qu’il était prompt à abattre l’ouvrage pour un tyran, lui, frère du tyran. 12
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Égérie, emprunté au latin Egeria14, attesté en français dès le xvie siècle, que se fait la translation déonomastique. Cette translation a lieu dans la première moitié du xixe siècle. Elle est précédée par des emplois métaphoriques, qui ne disparaissent pas au moment de la lexicalisation. Ainsi, jusqu’en 1816, on ne trouve que le Npr ‹standard›, désignant une personne;15 c’est en 1817 qu’on relève un premier emploi métaphorique:16 L’à-propos est la nymphe égérie des hommes d’état, des généraux, de tous ceux qui ont affaire à la mobile nature de l’espèce humaine. (Staël, Considérations sur les principaux évènements de la Révolution française, 1817: 178)
Pour une première attestation du déonomastique17, il faut attendre 1838: D’ailleurs où est le besoin d’une Égérie? Nous savons tout. (Quinet, Revue des Deux mondes 15, 1838: 332)
À partir de cette date, les attestations deviennent de plus en plus nombreuses, l’emploi du déonomastique se généralise: Des Céladons rimeurs, amants d’une égérie, en habit de satin font de la bergerie, sont en grand désespoir, et, couchés sur le dos, regardent le soleil en faisant des rondeaux. (Banville, Les Cariatides, 1842: 35) Il s’était laissé conter que tous les hommes politiques un peu éminents ont une égérie dans leur manche. (Sandeau, Sacs et parchemins, 1851: 37)
Mais cette translation déonomastique ne fait pas pour autant disparaître le nom propre, dont on continuer à trouver des emplois standard et aussi, bien entendu, métaphoriques: J’aimai la nymphe égérie qui inspirait à Numa, dans une grotte, au bord d’une fontaine, des lois sages. (France, Le Petit Pierre, 1918: 249) […] nous savons tous que M. le président de la république est un Numa qui a dix-sept Égéries (Explosion de rires) […]. (Hugo, Actes et Paroles 1, 1875: 262)
On note cependant que la fréquence du nom propre (qu’il soit en emploi standard ou modifié) a tendance à reculer à mesure que celle du déonomastique augmente, comme si ce dernier devait en quelque sorte faire oublier le nom propre pour se stabiliser dans le lexique.
Ce nom propre est lui-même attesté depuis Ennius (OLD), sur un étymon grec Eger…a (Forcellini). Il s’agit généralement du personnage mythologique de la nymphe conseillère du roi latin Numa, mais pas toujours. 16 Bien que le nom propre ne comporte pas de majuscule initiale, ce qui indique la tendance en cours à la lexicalisation. 17 Bien que le nom propre comporte une majuscule initiale, cette fois: le caractère in absentia et la fonction référentielle du syntagme nominal complément de nom témoignent du passage au déonomastique. 14 15
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3. L’oubli du nom propre 3.1. Disparition du nom propre Cet «oubli du nom propre» apparaît également lorsque l’étymologie onomastique n’est plus perçue, que le déonomastique, totalement autonome, n’évoque plus nécessairement le nom propre étymon. C’est d’ailleurs essentiellement le cas de déonomastiques antiques tels que mécène, harpie ou mégère, d’autres, tels que don juan, harpagon ou tartuffe, d’étymons plus récents, gardant un lien plus net avec le nom propre dont ils proviennent. La relation entre le nom propre et le déonomastique, deux lexèmes de forme identique et de relation étymologique évidente, est donc à mettre en rapport avec l’aboutissement de la translation déonomastique. Il semble que le déonomastique ne puisse pleinement exister, indépendamment du nom propre, que lorsqu’il est le seul «survivant» de la paire, lorsque le nom propre, tombé en désuétude ou beaucoup moins employé, a été oublié. Le cas de mégère, déonomastique particulièrement répandu et lexicalisé, illustre ce processus: les relevés effectués sur l’intégralité de la base Frantext18 indiquent nettement qu’au fil des siècles le nom propre disparaît au profit du déonomastique. xvie xviie xviiie xixe xxe
Occurrences du nom propre 0 11 (52%) 4 (27%) 3 (4%) 0
Occurrences du déonomastique 0 10 (48%) 11 (73%) 66 (96%) 102
Fréquences respectives du couple nom propre / déonomastique M/mégère
En revanche, on voit avec tartuffe, dont la relation avec son étymon nom propre reste forte, d’une part qu’il n’y a pas de baisse significative de l’emploi du nom propre au fil du temps, d’autre part que ce dernier reste toujours nettement plus fréquent que le déonomastique. xvie xviie xviiie xixe xxe
Occurrences du nom propre 0 122 (97%) 77 (69%) 230 (80%) 132 (79%)
Occurrences du déonomastique 0 4 (3%) 35 (31%) 57 (20%) 36 (21%)
Fréquences respectives du couple nom propre / déonomastique T/tartuffe
Les fréquences respectives du nom propre et du déonomastique semblent donc en relation avec l’intégration et l’autonomisation du déonomastique. 18
Base textuelle de près de 4000 textes appartenant aux domaines des sciences, des arts, de la littérature, des techniques, qui couvrent cinq siècles de littérature (du xvie au xxie siècles). Cf. http:// www.atilf.fr/frantext.htm.
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3.2. Disparition des emplois figurés du nom propre Cependant, un autre déonomastique, mécène, dont le dérivé mécénat témoigne de l’intégration dans le lexique, présente une situation plus complexe: comme pour mégère, la fréquence du nom propre baisse tandis que celle du déonomastique augmente, mais elle se maintient néanmoins. xvie xviie xviiie xixe xxe
Occurrences du nom propre 0 4 15 (83%) 27 (69%) 32 (22%)
Occurrences du déonomastique 0 0 3 (17%) 22 (31%) 115 (78%)
Fréquences respectives du couple nom propre / déonomastique M/mécène
De plus, la prise en compte de la forme Maecenas, qui domine jusqu’au xviiie et qui ne donne lieu à aucune translation déonomastique, ni même à un emploi métaphorique ou figuré19, fait apparaître, d’une part, que c’est bien sur la forme francisée, donc empruntée, du nom propre, Mécène, que se fait le déonomastique, d’autre part que la répartition et la distinction entre nom propre et déonomastique s’effectue rapidement. Ainsi, si l’on trouve parmi les occurrences du nom propre Mécène, des emplois métaphoriques20, ceux-ci se raréfient au fil des siècles (2 occurrences sur 4 au xviie, 5 sur 15 au xviiie, 4 sur 27 au xixe, 1 sur 32 au xxe). Il n’avait pas trouvé mauvais que son gendre Camusot fît la cour à la charmante actrice Coralie, car lui-même était secrètement le Mécène de Mlle Florentine, première danseuse du théâtre de la Gaîté. (Balzac, Un début dans la vie, 1845: 836) Ce que je peux vous dire, c’est que ce monsieur est pour M. Elstir une espèce de Mécène qui l’a lancé, et l’a souvent tiré d’embarras en lui commandant des tableaux. (Proust, À la recherche du temps perdu, 1921: 500)
Ainsi, le nom propre peut ne pas disparaître mais baisser en fréquence, et surtout perdre ses emplois métaphoriques, au profit du déonomastique, ce qui rend possible un voisinage entre déonomastique et nom propre qui fait bien apparaître leur autonomie respective en même temps que leur lien étymologique. Virgile était le protégé non pas d’un mécène quelconque mais de Mécène lui-même aux sollications de qui il composa les géorgiques pour rappeler à ses contemporains les bienfaits de l’agriculture […] (Cendras, Bourlinguer, 1948: 137) On compte 5 occurrences au xvie siècle, 99 au xviie et 8 au xviiie. La répartition entre nom propre en emploi métaphorique et déonomastique ne relevant pas de critères stricts, les chiffres indiqués sont indicatifs et témoignent d’une répartition effectuée en fonction des structures linguistiques évoquées en 2.1. et par la suite.
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Le cas de T/tartuffe, évoqué ci-dessus, confirme que c’est non seulement la baisse de fréquence du nom propre, mais aussi la perte de ses emplois modifiés, en particulier métaphoriques, qui permet au déonomastique de trouver sa place dans le lexique. Le nom propre Tartuffe, outre qu’il est plus présent dans les mémoires que Mécène, pour des raisons culturelles, est fréquent dans les textes observés, sous différents emplois. En emploi standard, il désigne l’œuvre ou le personnage éponyme. Mais il connaît également de nombreux emplois figurés, en particulier métaphoriques. Le plus coupable, c’était Pétain, le faux nez de l’idéal, le Tartufe de la trahison, le masochiste de la défaite, celui qui couvrait de son air paterne et de son autorité coupable tous les crimes et toutes les lâchetés. (Ormesson, Au plaisir de Dieu, 1974: 395) Aimerais qu’on me consacre des tartines. Vivre anonyme. Me fait tartir. Suis pas Tartuffe. J’avoue. Veux pas de la tombe à Tartempion. (Doubrovsky, Fils, 1977: 350)
Par ces emplois non strictement référentiels, le nom propre peut en arriver à désigner un type plutôt qu’un individu. […] un écrivain qui n’éprouve pas tout à fait les sentiments dont il témoigne en public, sans doute, n’est-il pas encore Tartufe ; mais il a déjà fait quelques pas dans la direction de Tartufe. (Mauriac, Journal 1, 1934: 69)
La diversité et la fréquence de ces emplois particuliers du nom propre rend délicate la diffusion et l’autonomisation d’un déonomastique translatif nominal de type métaphorique, qui lui-même est susceptible de connaître un emploi adjectival ou d’être employé comme nom de qualité. […] la maison Scabelli, italienne, calottine, tartufe, verrait la chose d’un très mauvais œil […] (Butor, La Modification, 1957: 39) L’enculé! Lui lâcher ça devant les copains! Quel plaisir il aurait eu à lui casser le morceau. Eh va donc, eh, nabot, rond de chiotte! vilain laid! babouin! tartufe! Il se rattrapait tout bas, entre les dents. (Guérin, L’Apprenti, 1946: 112)
La relation entre nom propre et déonomastique est ici fort différente de ce qu’elle est dans le cas de M/mégère ou même M/mécène. Outre que le premier domine toujours, par sa fréquence, le second, l’éventail des emplois y est bien plus large, et constitue un continuum qui va du nom du personnage au nom commun supposé n’y faire qu’allusion. Ces deux éléments expliquent le flou de la frontière et la difficulté éprouvée à marquer le passage, la translation déonomastique: plutôt que d’un passage, il s’agit d’une coexistence entre deux unités lexicales très proches, dont l’une, le déonomastique, peine à trouver sa place indépendamment de l’autre.
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4. Conclusion La lexicalisation complète d’un déonomastique dépend étroitement du devenir du nom propre dont il est issu. Pour qu’un déonomastique prenne sa place dans le lexique et «coupe les ponts» avec son étymon nom propre, il faut que celui-ci soit, sinon totalement oublié et sorti d’usage, au moins bien distinct du déonomastique, ne partageant plus avec lui de sens métaphorique. Les emplois figurés et/ou modifiés du nom propre, qui jouent un rôle d’adjuvant au moment de la translation, du passage au déonomastique, peuvent au contraire, s’ils perdurent, brouiller les pistes et empêcher ce processus d’aller à son terme. Étant données les difficultés à établir nettement la translation pour ce type de déonomastique (l’indice principal restant souvent la lexicographisation, qui n’est pas toujours d’une grande aide, par manque de précision et d’exactitude), l’étymologie de ces lexèmes devra prendre en compte le statut de l’étymon (s’agit-il toujours d’un nom propre?) et surtout les relations entre déonomastique et nom propre, en passant bien sûr par l’établissement précis du moment et de la langue du passage du nom propre au nom commun.
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Michela Letizia (Università di Napoli Federico II)
Nomi propri nella poesia catalana medievale
1. Introduzione Il mio intervento è parte di un più ampio progetto che intende reperire, all’interno della letteratura catalana del XIV e del XV secolo, la presenza dei nomi propri: si tratta cioè di dare vita ad un repertorio onomastico, strumento che, com’è noto, è stato messo al servizio degli studi trobadorici grazie al lavoro di F. M. Chambers (1971). Si è perciò pensato di costruire anche per la poesia in lingua catalana un indice analogo, che può rivelarsi utile in sé, come riferimento per gli studiosi e per le loro ricerche, ma anche perché in grado di evidenziare, a partire dalla presenza o meno di un patrimonio di nomi condiviso, i persistenti legami tra questa produzione poetica e quella in lingua d’oc. Sappiamo infatti che la lirica catalana nasce come continuazione di quella dei trovatori, al punto che i suoi poeti continueranno a comporre in provenzale almeno sino ad Ausiàs March e ben dopo, dunque, l’estinzione della lirica trobadorica, che può dirsi compiuta già nel corso del XIII secolo. Naturalmente non mancheranno le differenze, sia storiche, sia culturali, sia, più in generale, di ispirazione, e l’attività dei poeti catalani ben presto si avvierà ad assumere caratteri propri, pur non mettendo mai in discussione il debito con gli illustri predecessori poetici. Prima però di addentrarci nell’elenco dei nomi, e di perderci, per citare il titolo dell’ultimo lavoro di Umberto Eco (2009), nella «vertigine della lista», ci sia concessa una ulteriore riflessione: un repertorio di nomi offre infatti la possibilità di fare luce su un patrimonio di conoscenze complesso, variegato e stratificato, e di verificare il codice di chi lo usa; esso permette altresì di venire a contatto con un mondo concreto, fatto di personaggi dotati di un nome e, talvolta, di un cognome, ma sempre strettamente ancorati alla letterarietà. Emergeranno così, di volta in volta, i nomi delle autorità letterarie più note al tempo dei poeti presi in esame, e delle loro opere più famose; e, accanto ai personaggi della mitologia, anche quelli, più recenti, del mondo romanzesco, diventati parte di un patrimonio culturale ben noto. I nomi dei personaggi femminili, veri o fittizi, saranno numerosi, in una produzione ancorata al mondo trobadorico, e alla sua fedeltà assoluta ad Amore; e se la presenza del nome del poeta all’interno del componimento è da taluni considerata il segno della convenzionalità di tale poesia (questa è la tesi, ad esempio, di Claudio Giunta 2002: 423-429), è pur vero che, d’altra parte, proprio attraverso la presenza di «scene» in cui si muovono uomini e donne dotati di un nome, si disegna una «soglia dell’individuazione (Jauss 1977: 24-27)» che è uno degli importanti contributi della cultura letteraria catalana medievale.
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I testi presi in esame sono quelli pubblicati sul Rialc, il repertorio informatizzato dell’antica letteratura catalana, un progetto nato presso l’Università di Napoli Federico II, con la collaborazione dell’Universitat Autònoma de Barcelona e dell’Universitat de Girona, e con la partecipazione di studiosi di altre università europee. Il Rialc comprende il corpus della letteratura catalana del XIV e del XV secolo, sulla base delle edizioni critiche ritenute più affidabili; non mancano comunque le revisioni, soprattutto laddove l’edizione di riferimento non sia ritenuta perfetta, e gli interventi di riedizione o di edizione vera e propria, laddove l’edizione esistente non sia ritenuta affidabile, o il testo si presenti addirittura inedito. Per i componimenti non ancora incorporati nel Repertorio, si farà ricorso a riproduzioni fotografiche dei manoscritti. Per ciò che riguarda i criteri del presente lavoro, ancora in via di realizzazione, ci si attiene alle scelte compiute da Chambers (1971: 10-11): esso comprenderà, quindi, i nomi di persone, di luoghi, di gruppi di persone, reali o immaginari; inoltre, i senyals, ossia gli pseudonimi a cui i poeti del Medioevo ricorrevano per indicare allusivamente il nome della donna amata. Per i nomi della sfera religiosa, Chambers include «Jhesus», «Jhesucrist», «Crist», «Sancta Maria», mentre esclude «Dio» e gli appellativi più comuni rivolti a Cristo e a Maria. Mancano i nomi dei partecipanti a tenzoni o partimens, e le personificazioni, queste ultime da noi incluse. Infine, per quanto attiene all’identificazione di ciascun nome, e alla spiegazione del suo significato, saranno fornite indicazioni a partire dalla bibliografia già esistente; laddove non sia possibile ricavare notizia alcuna, si tenterà di orientare il lettore verso una possibile collocazione del nome nel suo contesto. 1.1. Sezioni Se tuttavia in Chambers la successione dei nomi segue un ordine alfabetico, nel nostro repertorio essi sono distribuiti all’interno di specifiche sezioni (ma in ciascuna sezione l’ordine è esso pure alfabetico). Le sezioni individuate sono dieci: 1. nomi religiosi 2. nomi di luoghi e di popoli 3. personificazioni 4. personaggi mitologici e romanzeschi 5. senyals 6. nomi propri 7. nomi dei poeti e autonominazione degli autori 8. nomi di autori e di opere 9. personaggi storici 10. Appendice: cognomi parlanti ne Lo somni de Johan Johan (Jaume Gassull R. 74.3). Quindi, ancora seguendo Chambers (1971: 12-13), vedremo che l’elenco si costruisce a partire dal nome, che precede sempre il cognome; gli appellativi, eventualmente e dove da noi segnalati, seguono, posti tra parentesi. Subito dopo il nome, comparirà la sua identificazione, seguita, tra parentesi, dall’indicazione della fonte, o delle fonti, da cui è tratta. Seguiranno il nome dell’autore, il numero e l’incipit del componimento, ed il numero del verso dove è
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presente il nome. Il singolo componimento sarà indicato sulla base della numerazione del Rialc (a sua volta ripresa dal Rao, il «Repertori d’autors i d’obres (Parramon 1992)», nel quale ogni testo è designato con due cifre: la prima rimanda al numero d’ordine della lista alfabetica degli autori; la seconda a quella della lista, anch’essa alfabetica, dei componimenti di ciascun autore). 1.2. La scelta di un testo Tuttavia, dopo avere illustrato la costruzione dell’elenco, e averne dichiarato sommariamente le intenzioni teoriche ed i presupposti culturali, è opportuno soffermarsi su un ambito più ristretto, che consenta di fare luce sulla reale utilità, secondo noi, di un siffatto strumento, e sulla sua non trascurabile istanza ludica e amena. Intanto, per ambito più ristretto si intende la scelta, per questa indagine sui nomi, di un testo della letteratura catalana, contenuto nel cosiddetto Cançoner satirich valencià, edito da Miquel i Planas nel 1911: il testo è Lo Sompni de Johan Johan, e in particolare alcuni versi di questo lungo componimento molto ricco di nomi, come vedremo. Il canzoniere satirico contiene, oltre al Sompni, anche Lo procés de les olives, del quale costituisce la continuazione, come si dirà più oltre. A questo punto però siamo già giunti all’aspetto ludico e ameno: facciamo allora un passo indietro, alla ricerca delle ragioni dell’elenco, convinti che dopo averne inteso la natura e la funzione, che vanno ben al di là di quella pratica, sapremo gustarci fino in fondo il godimento offerto dal testo prescelto, e dal suo elenco di nomi. Perchè dunque un elenco? Se sopra si è detto che ci sono delle ragioni, potremmo dire, storiche e culturali alla base di un catalogo di nomi propri, queste non sono però le uniche che lo rendono degno della più attenta considerazione in ambito letterario. Un elenco è quindi uno strumento letterario? E dicendo strumento non si rischia di attribuire all’elenco solamente una ragione utilitaristica, con una natura e un fine esclusivamente pratici? Già sappiamo come tale oggetto affiori con abbondanza di esempi in numerosi contesti, sin dalle origini della storia letteraria, a riprova del fatto che ci troviamo di fronte ad un vero e proprio classico della letteratura di tutti i tempi (Curtius 1992: 108-110). Tuttavia, il nostro intento è quello di individuare il perchè di questa presenza così ampiamente attestata dell’elenco: noi crediamo che la motivazione sia di natura, potremmo dire, ontologica, e tale spiegazione ontologica dell’elenco, che va alla ricerca della sua natura ed essenza, ben si attaglia all’epoca medievale, e anzi le si addice nella maniera più profonda e naturale. Il motivo di questa armonia e compenetrazione tra l’elenco ed il Medioevo è dato, a ben vedere, dalle peculiarità di quest’epoca, che tutto mira a sistemare entro un ordine e una gerarchia precisi, e che entro queste suddivisioni della realtà e delle sue componenti trova la sua ragion d’essere e la sua identità. L’elenco è un mezzo per riprodurre l’ordine immaginato del reale, seppure in una scala di dimensioni ridotte: esso appare così come una sorta di «forma semplice» della lingua, per usare la terminologia di Jolles (2003: 289), il quale così la definisce: Quando sotto l’influsso di un’idea dominante di una disposizione mentale la pluralità e la molteplicità dell’esistenza e degli avvenimenti concreti si condensano e prendono forma, quando vengono colte dal linguaggio nelle loro unità elementari non divisibili e in architetture linguistiche designano e al tempo stesso significano tale esistenza e tali avvenimenti, diciamo che nasce una forma semplice.
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Tale forma semplice è destinata ad assumere sembianze le più diverse nel corso dello sviluppo letterario, letterarizzandosi e diventando forma artistica, pur restando sempre ancorata alla sua natura di catalogo, di successione di elementi che appartengono ad una data configurazione oggettiva della realtà. Questi elementi, anche se diversi tra di loro, hanno qualcosa in comune; e la ricerca di ciò che, nel caos indistinto della diversità, accomuna tra di loro gli oggetti di un dato mondo o di un dato «ambito di senso», per dirla con Jauss (1977: 41) che proprio alla teoria delle forme semplici di Jolles fa riferimento, è una delle peculiarità della condizione umana, e della sua capacità di procedere per distinzioni e differenziazioni. Non soltanto, quindi, di una struttura mentale del Medioevo si tratta, bensì di ogni epoca, giacchè nella ripetizione dell’elenco, nello scorrere tranquillizzante di una serie ordinata di presenze che si succedono secondo un criterio prestabilito, si instaura l’illusione che non tutto sia perso e dissipato, che qualcosa, che delle cose, eroicamente resistano, e resistendo confermano la stessa esistenza dell’uomo. Un oggetto dotato di una sua materialità e consistenza riconoscibili, trova così la sua collocazione all’interno del mondo letterario perchè ha una funzione specifica: lungi dall’essere solo uno strumento pratico e di consultazione, esso fornisce, nella molteplicità delle forme che assume, una risposta ad uno dei tratti più propri dell’umanità, e a cui dunque la letteratura non poteva non ricorrere. Tanto è vero che: l’elenco si ripropone nel mondo medievale, nel Rinascimento e nel Barocco, dove la forma del mondo è quella di una nuova astronomia, e specialmente nel mondo moderno e postmoderno. Segno che alla vertigine dell’elenco si soggiace per molte svariate ragioni (Eco 2009: 18).
Ancora Umberto Eco (2009: 113-118) distingue tra «lista poetica» e «lista pratica»: se quest’ultima ha una funzione referenziale, ed ha il solo scopo di enumerare oggetti del mondo esterno, la lista poetica può comporsi di elementi immaginari, o reali all’interno del mondo creato dall’autore; inoltre, la lista pratica è finita, dal momento che designa una serie di cose che, quando viene redatta, sono quelle che sono e non una di più, mentre una lista poetica è, almeno idealmente, infinita ed estensibile all’infinito (in teoria, scrive Eco (2009: 116), «Omero avrebbe potuto continuare all’infinito il suo catalogo delle navi»). Un elenco di nomi è dunque una lista pratica o una lista poetica? Nel nostro particolare caso, esso si pone a metà strada tra le due caratterizzazioni: poichè nasce come uno strumento di consultazione, è senza dubbio dotato di una utilità pratica; tuttavia, riunendo al suo interno nomi reali e nomi fittizi, ricopre anche una funzione poetica, e dal suo attraversamento ci vengono consegnate le chiavi per meglio comprendere l’universo medievale. Un elenco è quindi una unità solo apparentemente minima: nella realtà, ha una natura densamente significativa, e niente affatto accessoria. Nel presente lavoro poi, ci proponiamo di fare un’operazione ardita, poichè estrapoliamo una lista di nomi all’interno di un testo poetico, nomi che, una volta inseriti dentro alla lista più generale dei nomi della poesia catalana del Medioevo, costituiranno, a delizia dello studioso, una lista nella lista, una lista al quadrato, potremmo dire, salvaguardando la loro sostanza di nomi poeticamente creati, ma senza perdere al contempo il loro ricco contenuto informativo. Rivolgiamoci ora al nostro testo, che attende di essere osservato ed esaminato con divertita attenzione. Il Somni racconta, appunto, di un lungo sogno, che scorre attraverso i suoi oltre tremila versi: protagonista è un individuo dal nome di Johan Johan, nome specchio o nome doppio, che sembra già alludere al carattere, potremmo dire, fortemente onomastico dell’intero
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componimento.1 Al suo interno compaiono altri personaggi, veri e presunti, ed anche alcune personificazioni. Lo stesso autore, Jaume Gassull, è presente tra i protagonisti della vicenda, e non mancano i nomi di altri poeti, tutti più o meno noti, della tradizione catalana. Tra questi, Bernat Fenollar, Johan Moreno, Narcís Vinyoles, Balthasar Portell, che con lo stesso Gassull sono i protagonisti e gli autori del già menzionato Procés de les olives, un componimento satirico incentrato sulla controversia tra i giovani e i vecchi per stabilire se questi ultimi possano ancora ottenere l’amore delle donne; inoltre, Corella, Despi, Artes, Ximeno, Sobrevero. Alcune donne del Somni, giunte a far visita alla «partera», raccontano proprio la disputa oggetto del Procés, di cui sono venute a conoscenza, descrivendone lo svolgimento ed i suoi ben noti protagonisti. Esse sanno che in quella circostanza si è parlato male del loro sesso, e s’indignano della pretesa dei vecchi all’amore. Comincia così il dibattito: a difendere la causa delle donne sarà la dea Venere, mentre il loro avvocato sarà Artes, ed il loro «procurador» Despi. Moreno sarà invece il «procurador» dei vecchi, come nel Procés. Il componimento si conclude con una «Sentencia» contraria ai vecchi, riservando solo ai giovani il diritto all’amore. Al di là dell’oggetto del dibattito che si viene a determinare tra i protagonisti del Somni, ciò che conta per noi è la folta presenza di nomi propri dentro al testo, una presenza persino dichiarata, se è vero che a un certo punto leggiamo quella che potrebbe apparire come una sorta di dichiarazione di poetica: «Digau, si Deu vos do salut, de cadascu los noms d’aquells, de hu en hu».2 E dunque comincia la sfilata, dentro ai versi, dei nomi, con un gusto per l’elencazione evidente ed esibito, sorta di piacere non del testo, bensì del nome, il nome che quando viene dato, dà esso stesso piacere. Se le personificazioni di Venus e Raho sono, com’è naturale, entità astratte e giudicanti, i personaggi chiamati per nome risultano invece dotati di una loro compiuta fisionomia, e non mancano persino di una pur minima caratterizzazione psicologica: chi ha un nome ha anche un carattere, e così Moreno e Despi si fronteggiano, mentre ciascuno dei presenti elenca (!) le proprie ragioni a sostegno della causa dei giovani o, dall’altro lato, della causa dei vecchi, in un succedersi di esempi e di autorità a sostenere di volta in volta la propria parte nella disputa. Ad interessarci in maniera particolare sono alcuni versi, nei quali assistiamo ad un uso sfrontato, per dire così, dei nomi propri: il nome proprio (o meglio, il cognome) viene caricato di una istanza significativa, diventa esso stesso portatore di significato, connotandosi di un contenuto specifico e connotando altresì il dibattito in un modo affatto peculiare. Ecco i cognomi parlanti: 3 Johan Pantaix/ ple-de-mil-anys, Marti Carcaix, / Nofre Panssit, / Jaume Ruat, Guilem Podrit, / Perot Ysagre, / mossen Sospir, miçer Puagre, / don Ramon Fleuma, / en Matheu Sech, n’Alfonso Reuma, / mestre Rugall, / mossen Rovell, miçer Gargall, / en Lorenç Tos, / mossen Jamech En «Joan Joan devé una personificació de la simplicitat y de la bonhomía, equivalent al Juan Lanas que s’ha forjat el poble castellà, y al qual nosaltres en referím també, encara que d’una manera menys precisa, quan dihèm d’algú qu’es un bon Joan» (Miquel i Planas, Note 1911: 329). 2 R. 74.3, v. 416-418. 3 Così si esprime a proposito dell’elenco dei nomi Miquel i Planas, in Note (1911- 336) : «Com se veurà, els noms dels personatges tenen tots una significació material (enfermetat, defecte, ecc.) o ideològica: entre aquests darrers se troben noms de formaciò complexa, com Ple de mils anys (que potser havía d’esser Ple de malanys), En Pipitos (¿tal vegada En-pituitós?), Trist-any (que non cal confondre ab el malhaurat amant d’Iseu) y No puch»–. 1
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pipitos, / miçer Laguanya, / mossen Humor, Vicent Migranya, / Andreu Moxell, / Gaspar Estopa, don Fluxell, / miçer Postema, / Antoni Brach, mestre Quarema, / Felip Sardina, / miçer Exut, Cosme Ranyina, / y en Amargos, / Damia Grony, Miquel Çelos, / mestre Trist-any, / mossen Adzar, Domingo Cany, / Tomas Corcat, / Bernat Tramssit, Aloy Podat, / n’Agosti Fluix, / Jordi No-puch, Lois Arruix, / y altres molts mes.4
«Y altres molts mes»: dunque anche questa lista è potenzialmente infinita, a riprova del fatto che la distinzione operata da Umberto Eco tra la lista pratica, che è finita, e la lista poetica, che invece è infinita, può dirsi fondata ed esatta anche nel nostro esempio. Ma veniamo ai nomi, e anzi ai cognomi: a pronunciarli è Joan Moreno, che presenta così gli uomini che sono venuti a sostenere la sua parte a difesa dei vecchi, e i cui nomi sono appunto «fermanses», garanzie della causa di Moreno, nomi-garanti, potremmo dire. Cominciamo dal primo: «Joan Pantaix ple-de-mil-anys5», ‹Joan6 Affanno7 pieno di mille anni›. Pantaix infatti è sostantivo che significa «respiració fatigosa», come attesta il DCVB;8 ma il termine è già comparso anche nel nostro testo (come riporta pure il DCVB) al v. 1147: «hi quant lo vent li va manquant, / crex lo pantaix». La locuzione riferita a questo personaggio, «ple de mil anys», viene dunque annunciata sin dal suo cognome, che introduce un uomo sbuffante per l’età, dal respiro corto e ansimante. «Pantaix» così è cognome parlante, e figura9 del soggetto a cui si riferisce. Dopo di lui vengono «Marti Carcaix»10 e «Nofre Panssit»:11 il primo è detto, non troppo gentilmente, ‹Carcassa›;12 il secondo invece è ‹Appassito›13 senza rimedio. «Jaume Ruat»14 è, al pari del suo predecessore, ‹Rugoso›15, mentre «Guilem Podrit»16 è ‹Corrotto› senza scampo, consumato per effetto della consunzione degli anni.17 6 7 8 9 4 5
12 10 11
13
16 17 14 15
R. 74.3 vv. 1475-1503. R. 74.3 v. 1475. Scegliamo di non tradurre in italiano i nomi dei personaggi, limitandoci alla traduzione dei soli cognomi. D. català-italià p. 877, s. v. panteix. «Al vell quan pantaix li veda lo mot (Proc. Olives 2071)», DCVB vol. 8, p. 189, s. v. pantaix. Usiamo qui il termine nell’accezione originaria di ‹immagine plastica›, di cui parla Auerbach nel suo Figura (1967-1998), p. 43. R. 74.3 v. 1476. R. 74.3 v. 1477. Traduciamo il termine come se corrispondesse al significato di «carcaixa»: «cosa vella o feta malbé» (DCVB vol. 2, p. 1020); il sostantivo «carcaix» infatti, significa «estoig per tenir les sagetes» (DCVB vol. 2, pp. 1021-1022), ed è un termine dall’etimologia incerta, come segnala il DECLC (vol. II, p. 564). Il senso del termine «carcaixa» è dunque vicino a quello dell’italiano «carcassa», che corrisponde, nel suo senso figurato, a «persona o cosa malridotta, consumata, rovinata dagli anni» (Dizionario della Lingua Italiana 2008, p. 432). DCVB vol. 8, p. 187, s. v. pansit,-ida, agg., dove compare anche il senso figurato: «aixafat, mancat de delit, de bon humor»; cfr. anche D. català-italià, p. 876, dove si legge, accanto al senso proprio di «avvizzito», «appassito», anche quello figurato di: «mogio, abbattuto, mesto, avvilito». R. 74.3 v. 1478. DCVB vol. 9, p. 605, s. v. ruat,-ada, agg. R. 74.3 v. 1478. DCVB vol. 8, p. 698, s. v. podrit, agg. e sost; 1. agg.: «Corromput, descompost per l’acció d’agents dissolvents». Cfr. anche D. català-italià, p. 931.
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«Perot Ysagre»18 e «miçer Puagre»19 recano entrambi, verosimilmente, il nome di due infiammazioni dal momento che, alla voce «usagre», il DCVB testimonia: «erupció pustulosa que apareix a la cara durant la primera dentició»20, laddove «poagre» corrisponde ad una «gota dels peus, inflamació que s’accentua principalment en el dit gros».21 Potremmo tradurre il primo con ‹Rogna›22, e il secondo con ‹Gotta›.23 «Mossen Sospir» è il ‹signor Sospiro›, cui si aggiunge «don Ramon Fleuma»24, uomofiacco, che sembra trascinarsi a stento25, ma l’aggettivo significa, propriamente, ‹senza carattere›, ‹debole›.26 Tuttavia, oramai dovremmo avere appreso che l’autore di questo componimento fa un uso libero, per dir così, della lingua, adattandola alle sue esigenze plastiche e raffigurative, e non di rado puntando più sul significante e, dunque, sull’esteriorità della parola, che non sul suo senso proprio. Egli è un abile tessitore di volti e di maschere, che ci sfilano dinnanzi come in un buffo carnevale della vecchiezza, ciascuno esibendo il proprio nome-bandiera, e sventolandolo senza riguardo sotto i nostri occhi. Così, ecco «Matheu Sech»27, ‹il Secco›28, scarno e rinsecchito, un morto che cammina; e «n’Alfonso Reuma»29, ‹il signor Alfonso Catarro›, ancora nell’ambito dei nomi che alludono ad una cattiva condizione fisica; «mestre Rugall»30 personifica «el so aspre que es produeix a la gargamella d’un malalt, d’un agonitzant»31, e potremmo tradurlo con ‹Raucedine›32,
R. 74.3 v. 1479. R. 74.3 v. 1480. 20 DCVB vol. 10, p. 629, s. v. usagre. Etimologia incerta: tuttavia, il DCVB giudica ammissibile l’etimologia suggerita da Corominas, DCELC (vol. IV, pp. 657-658), in base alla quale si tratterebbe di una deformazione del basso latino focus agre, ‹fuego agre›: «primero se diría *fogusagre o *fogusàzere, y separando fog(o) quedarían las formas modernas. [...]. El pueblo ignorante del latín reconocería l’element foc-, pero no lo demás, e interpretaría focus acre, pronunciado vulgarmente fog’usagre, como una especie de compuesto de sustantivo con adjetivo». Quindi, a cadere è l’elemento foc, determinando la parola usagre. 21 DCVB vol. 8, p. 682; DECLC vol. VI, p. 126, s. v. poagre m. 22 Più ampia la spiegazione proposta dal DCELC, che riunisce diverse testimonianze riguardo al nostro sostantivo, tutte di ambito medico e concordi nel sottolineare il carattere acre, aspro e pungente, di questo disturbo fisico. Usagre è qui spiegato come «sarna», corrispondente all’italiano ‹scabbia› (D. català-italiá p. 1052, s. v. sarna). 23 D. català-italiá p. 930, s. v. poagre. 24 R. 74.3 v. 1481. 25 DCVB vol. 5, p. 916, s. v. fleuma agg: «mancat de caràcter, de decisió […]». È interessante notare che esiste anche il sostantivo «flema o fleuma» (DCVB vol. 5, p. 913-914); si legga infatti V. Pitarch i L. Gimeno, nota 121, p. 228: «És un mot polisèmic: mucositat, burla, persona apatica». 26 D. català-italià p. 599, s. v. fleuma, agg. 27 R. 74.3 v. 1482; DCVB vol. 9, p. 778, s. v. sec, seca. 28 D. català-italià p. 1054. 29 DCVB vol. 9, p. 457, s. v. reuma: «Fluxió d’humor en alguna part del cos. Fleuma, expectoració de saliva». R. 74.3 v. 1482. D. català-italià p. 1027. 30 R. 74.3 v. 1483. 31 DCVB vol. 9, p. 538, s. v. rogall. 32 D. català-italiá p. 1033. 18 19
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laddove «mossen Rovell»33 è il «signor Ruggine» in persona; «miçer Gargall»34 è, ahinoi, il ‹signor Sputo›, e non mancano neppure il ‹signor Lorenç Tosse› e, più avanti, il ‹signor Vicent Emicrania› («Lorenç (en) Tos»35 e «Vicent Migranya»).36 Sembra proprio che l’autore nutra un gusto per ciò che può provocare ribrezzo, al fine di ottenere un effetto di caricatura; ma è evidente altresì come egli sia capace di attenuare la componente diremo fisica e corporea dei suoi ritratti, e di dosare con cura le sue scelte rappresentative. Vediamolo dunque all’opera, intento a presentarci «Jamech en-Pipitos»37, ‹Signor Jamech Moccioso›, «misser Llaguanya»38, ‹signor Cispa›39, «mossen Humor»40, ‹signor Umore›;41 e ancora, «Andreu Moxell»42, ‹Andreu Conocchia›43, «Gaspar Estopa»44,
R. 74.3 v. 1484; DCVB vol. 9, p. 601, s. v. rovell: «Hidròxid de ferro vermellós que es forma a la superfície del ferro per l’acció de l’aire humit; per anal., la capa que es forma a la superfície d’altres metalls per corrosió». D. català-italià p. 1038. 34 R. 74.3 v. 1484; DCVB vol. 6, p. 189, s. v. gargall: «salivada espessa barrejada amb mucositats de la gola o dels bronquis». Qui compare proprio il nostro verso come esempio. Cfr. anche D. català-italià p. 629. 35 R. 74.3 v. 1485; D. català-italià p. 1129. 36 R. 74.3 v. 1488; D. català-italià p. 801. 37 R. 74.3 v. 1486; parola di difficile comprensione, malgrado la nostra traduzione. Nell’edizione di V. Pitarch e L. Gimeno del testo si legge, alla nota 123, p. 228: «mot obscur; Miquel i Planas hi suggereix la possibilitat de relacionar-lo amb pituïtós, és a dir mocós». In italiano, il GDLI, vol. XIII, p. 594, alla voce pitutoso spiega: «che abbonda di pituita, composto prevalentemente di pituita; flemmatico». E tra le locuzioni riporta: «febbre pituitosa: accompagnata da copiosa emissione di catarro»; «umore pituitoso: pituita, catarro». Tuttavia, un’altra ipotesi interpretativa, e anzi piuttosto una suggestione, potrebbe essere quella che lega il nostro aggettivo al sostantivo «pipiu», corrispondente a «pipí, orina» (DCVB vol. 8, p. 600, s. v. pipiu). Ci troveremmo dunque dinnanzi ad un’invenzione verbale del nostro scatenato autore, da tradursi con ‹Incontinente› o ‹Piscione›. 38 R. 74.3 v. 1487; DCVB vol. 6, p. 928, s. v. lleganya: «porció de matèria blana, blanquinosa, produïda per solidificació d’un humor segregat per les glàndules sebàcies de les parpelles, i que s’enganxa alls llagrimers i a les pestanyes». 39 D. català-italià p. 740. 40 DCVB vol. 6, p. 566, s. v. humor: «liquid patològic segregat per un cos animal o vegetal». 41 R. 74.3 v. 1488; in italiano traduciamo in maniera letterale, attribuendo al termine il medesimo significato di «fluido o insieme di fluidi superflui o corrotti che provocano malattie o alterazioni patologiche», secondo la definizione di GDLI, vol. XXI, p. 530. 42 R. 74.3 v. 1489; DCVB vol. 7, p. 487, s. v. moixell: «bolic o manyoc de llana o d’altra matèria textil; manat, feix». 43 Il GDLI, vol. III, p. 573, registra, tra le locuzioni in cui compare conocchia: «da conocchia, da conocchie: di nessun valore, di scarso pregio, di pessima qualità (con riferimento all’uso di fare la pergamena con carta vecchia e usata, per mezzo di conocchie); trarre lana dalle conocchie: esercitare la prostituzione». In ogni caso, com’è evidente, il termine può assumere un significato dispregiativo, collocandosi in un contesto di qualità tutte al negativo. 44 R 74.3 v. 1490; DCVB vol. 5, p. 571, s. v. estopa: «fluix com una estopa: fluixot, mancat de vigor». 33
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‹Gaspar Stoppa›45, «don Fluxell»46, ‹signor Piuma›; e di seguito «miçer Postema»47, ‹signor Pus›, e «Antoni Brach»48, ‹Antoni Pustoloso›: si veda come qui, con una tecnica che ritornerà nei versi successivi, Gassull abilmente incastoni, tra i tre sostantivi iniziali che aprono sul senso di ribrezzo, («Pipitos», «Llaguanya» e «Humor»), e i due sostantivi finali altrettanto nauseabondi («Postema» e «Brach»), tre termini tra di loro semanticamente affini («Moxell», «Estopa» e «Fluxell»), che indicano la mancanza di forza fisica dei vecchi, paragonati a una conocchia, alla stoppa e alla piuma. Essi, pur designando oggetti differenti, alludono in egual misura alla perdita di vigoria degli uomini che li posseggono, diventati per effetto degli anni mosci e informi (anzi, al limite della deformità fisica), come pezze di scarso valore o come esili piume; questa sequenza centrale di sostantivi inoltre, insistendo più sulla debolezza del corpo che non sulla sua ripugnanza, prepara la comparsa dei ben più rivoltanti sostantivi successivi, aumentandone così l’espressività. Allo stesso modo più avanti ci troviamo dinnanzi ad una serie di nomi che insistono sul ribrezzo fisico, con una progressione materica vistosa e un intento ironico e dissacratore: «Cosme Ranyna»49, ‹Cosme Pieno d’ira› o, con maggiore forza visiva, ‹Cosme Ringhioso›; «n’Amargos»50, ‹il Ripugnante›51, «Damia Grony»52, ‹Damia Grugno›53, ai quali si accostano, ad attenuare la violenza dei primi, i più miti e pensosi «Miquel Celos»54, ‹Miquel Geloso› e «mestre Trist-any»55 ‹maestro dell’Età triste›, sorta, quest’ultimo, di nomen omen che porta con sé ed esibisce, finanche nella grafia, la tristezza penosa e pesante della età avanzata. In italiano il termine, nel suo senso figurato, è attribuito a «qualcuno privo di vigore, di nerbo» (GRADIT, vol. VI, p. 410); ma sono registate anche le locuzioni: «uomo, bamboccio di stoppa: burattino (e al figur. indica una persona dappoco, priva di energia e personalità, o anche attonita, istupidita)»; «di stoppa (con valore aggett.): che ha colore biondastro opaco ed è ispido (i capelli, la barba)» (GDLI vol. XX, p. 223). Ancora, il Dizionario Treccani (vol. IV, pp. 607-608) riporta le locuzioni: «avere le gambe di stoppa, fiacche, deboli; essere un uomo di stoppa, senza personalità, senza volontà propria, o senza effettiva autorità». 46 R. 74.3 v. 1490; DCVB vol. 5, p. 933, s. v. fluixell. 47 R. 74.3 v. 1491. 48 R. 74.3 v. 1492; DCVB vol. 2, p. 640, s. v. brac. Dello stesso ambito semantico del precedente «postema». Traduciamo con l’aggettivo italiano ‹pustoloso›, con una certa libertà, dal momento che «brach» è sostantivo corrispondente a «postema, materia supurada». Dunque corrisponde all’italiano «pus, materia» (D. català-italià, s. v. brac, p. 234). 49 R. 74.3 v. 1494 ; DCVB vol. 9 p. 368, s. v. renyina: «acció de renyir, de barallar-se»; e p. 369, s. v. renyinós,-osa: «que mou renyina sovint». D. català-italià p. 1014, registra, alla voce renyina: «rottura, discussione, lite, alterco, litigio, briga»; renyinar: «litigare, rompere». 50 R. 74.3 v. 1495. 51 DCVB p. 603 vol. 1: «[…] Que causa afflicció o repugnància moral; que expressa fonda afflició; que sent fonda afflició». 52 R. 74.3 v. 1496. 53 Il termine corrisponde sia a ‹fastidio›, ‹molestia›, sia a ‹grugnito› (DCVB vol. 6, p. 420, s. v. grony). Nel primo significato compare nel Procès de les olives, come testimoniato dal DCVB: «Hi veus aquí’l grony hi la desventura». In ogni caso, sembra che il senso di ‹grugnito›, ‹grugno›, sia dotato di una maggiore espressività, e sia quindi adatto al nostro contesto: non è difficile immaginare un vecchio ringrugnito dagli anni e dalle rughe, altra maschera che va ad aggiungersi alla triste e a tratti oscena sfilata della vecchiezza proposta dal nostro autore. 54 R. v. 1496. 55 R. v. 1497. 45
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Si tratta, evidentemente, di una procedura compositiva che mira ad ottenere un forte impatto visivo sul pubblico ma che, al medesimo tempo, intende conservare una eleganza stilistica e di espressione che racchiuda e compendi tutti gli effetti emotivi derivati dalla demolizione della vecchiaia e delle sue pretese d’amore. Infine, un’altra successione di cognomi repellenti: «Domingo Cany»56, ‹Domingo Canna grossa›, «Tomas Corcat»57, ‹Tomas Distrutto dai vermi›, «Bernat Tramssit»58, ‹Bernat Denutrito›, cui seguono, ancora una volta con una funzione di attenuazione espressiva, «n’Agosti Fluix»59, ‹Agosti Floscio›, e il pure implacabile, sebbene non rivoltante, «Jordi No-puch»60, ‹Jordi Non-Posso›. La sua abilità di creatore di nomi è evidente: essa risalta soprattutto nei nomi composti, non tanto, quindi, o non solamente, nei nomi-sostantivo, o nomi parlanti. Si veda la mirabile sintesi data proprio da «Jordi No-puch»: Jordi ‹Non-posso› è lì per dirci che non può più fare con il proprio corpo oramai avanti negli anni, quello che pure vorrebbe tanto fare; il linguaggio, e la locuzione che lo presenta, dicono la sua impotenza e la esibiscono, dal momento che egli non può, in ogni caso, disfarsene. E questa locuzione è come uno schiocco di lingua, che racchiude tutte le altre menomazioni fisiche e spirituali che la vecchiaia porta con sé, e a cui abbiamo assistito finora; e se non fosse così definitiva nella sua brevità di parola-stemma, indurrebbe senza dubbio al sorriso per l’arguzia sintetica di cui fa mostra. Queste locuzioni aggettivali, unite ai cognomi parlanti, (si veda anche «ple de mil anys», col quale abbiamo iniziato questa rappresentazione, a spiegare «Pantaix» che lo precede), li potenziano così oltre misura, chiarendo ulteriormente, se mai ve ne fosse bisogno, la condizione fisica e spirituale del soggetto al quale vanno, è il caso di dire, dal momento che siamo dinnanzi a un componimento che non disdegna le espressioni più popolari, ad appiopparsi impietosamente.61 In ogni caso, è da un elenco di nomi che scaturisce questa inedita e scanzonata rappresentazione del reale: quello a cui assistiamo divertiti, così, è una sorta di spettacolo dei nomi, che davvero non è finito, giacché molti altri personaggi potrebbero farne parte, e unirsi alla sfilata. Il nostro autore è così il creatore di un elenco poetico, secondo la definizione di Umberto Eco che ormai abbiamo fatto nostra; egli fa liberamente scaturire un inanellamento di nomi beffa o di nomi-ringhio, per servirci di una definizione a cui ricorre Stefano Bartezzaghi R. 74.3 v. 1498; Pitarch i Gimeno, nota 125, p. 229: «Canó gruixat»; cfr. anche DCVB vol. 2, p. 919-920, s. v. cany, dove leggiamo anche: «Canyetes no volen, pensant en lo cany, Proc. Olives, 2039». Il sostantivo canó ha, accanto al significato principale di «object llarguer i buit, generalment de forma cilindrica», nelle sue varie accezioni, anche quello di «órgan animal o vegetal de forma tubular». Sembra dunque evidente la sua connotazione oscena. 57 R. 79.3 v. 1499; l’aggettivo significa infatti «destruït o deteriorat pels corcs» (DCVB vol. 3, p. 526, s. v. corcat, -ada); cfr. anche D. català-italià p. 360, s. v. corcat-ada: «tarlato; cariato». 58 R. 79.3 v. 1500; DCVB vol. 10, p. 439. 59 DCVB vol. 5, p. 932, s. v. fluix, fluixa: «dèbil, mancat de força, de vigor». 60 R. 79.3 v. 1502. 61 Miquel i Planas (1911: XX): «Tots els accidents, totes les miseries físiques y morals de la senectut personificades en altres tants fiadors del representant dels vells, van presentant-se en estrafalaria corrúa: la enumeració de tots aquests personatges es una pàgina de fort humorisme entre les més interessants del poema». 56
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in riferimento alle parole62, e di cui quindi facciamo un uso, a rigore, improprio (ad esempio, parola-ringhio è, in Bartezzaghi, il termine terrone), ma che ben dice l’espressività e la furia onomastica del nostro brano: contenitore di nomi che inchiodano i propri portatori ad un fardello, quello del proprio corpo consumato dalla vecchiezza, e spietatamente sottoposto alla pubblica sconfessione da parte del nostro autore.
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Michela Letizia
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Giorgio Marrapodi (Universität des Saarlandes)
I suffissi -ano e -iano nei deonimici italiani
1. Due paroline a guisa d’introduzione L’onomastica è sempre stata un po’ la cenerentola delle discipline linguistiche, al punto che in passato alcuni studiosi hanno messo in dubbio addirittura la sua appartenenza alla linguistica, cosa che ovviamente non ha nessunissimo senso.1 Questo pregiudizio –radicato nella ‹stranezza› del nome proprio, nella sua ‹eccentricità› rispetto ai fatti ‹comuni› della lingua2– ha fatto sì che molte questioni che lo riguardassero fossero più o meno trascurate, a seconda delle tradizioni nazionali. Questa situazione ha portato al fatto, almeno in Italia3, che gli studi onomastici fossero prevalentemente di tipo storico-linguistico o etimologico, non raramente con una prospettiva secondo la quale il nome proprio serve più che altro a spiegare aspetti storici, sociali e culturali. Sono del tutto mancati studi che si occupassero di aspetti grammaticali del nome proprio di una società. E sebbene negli ultimi anni l’onomastica abbia ripreso un certo vigore, va detto che in realtà si è trattato di un intensificarsi numerico limitato alle correnti di ricerca tradizionali, mentre quegli aspetti che erano stati trascurati hanno continuato ad esserlo. Così, se per il francese per esempio è possibile annoverare un paio di grammatiche del nome proprio –quella della Jonasson e quella della Gary-Prieur (entrambe degli anni ’90)– per l’italiano sono invece rarissimi i lavori che prendano in considerazione aspetti grammaticali di qualsiasi tipo, morfologici o sintattici che siano. Nel migliore dei casi –per esempio i riferimenti che ho utilizzato in questo lavoro– è possibile trovare informazioni a margine di trattazioni sul lessico comune, informazioni che, come è lecito attendersi, non possono avere nessuna pretesa di esaustività e quindi di assoluta precisione. Con questo mio intervento vorrei quindi andare un po’ controcorrente e proporre un tentativo di descrizione di un fenomeno morfologico, quello della derivazione deonimica con i suffissi -ano e -iano, sulla base del corpus GRADIT, costituito da 1935 deonimici (673 Per una breve rassegna delle opinioni sulla marginalità del nome proprio nella linguistica cfr. Marrapodi (2006: XIV, particolarmente le note 2, 3 e 4). 2 Principio anch’esso privo di senso: casomai tra il nome proprio e il nome comune si instaura una sistema a due poli (con tutte le tensioni del caso), quello dell’individualità e quello della generalità fatto che di per sé esclude l’idea di un centro e di una periferia. 3 Basta però leggere i titoli degli interventi di questa sezione per rendersi conto che la grammatica del nome proprio non è che abbia tutti questi appassionati adepti anche al di fuori dell’Italia e dell’italianistica. 1
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deantroponimici e 1262 detoponimici) in -ano / -iano, partendo dalle scarne informazioni di altri studiosi. Si tratterà semplicemente di vedere se ci siano regole distributive di -ano / -iano e di quale natura possano essere.
2. I deantroponimici Per quanto riguarda i deantroponimici pare ci sia un accordo pressoché unanime sul suffisso -iano, con una restrizione fonologica per le basi terminanti in una consonante o semiconsonante palatale, per cui forme del tipo badogliano, carducciano e simili sarebbero invece col suffisso -ano. Tale restrizione è formulata da Seidl nei seguenti termini: Siccome l’incompatibilità fra suffissi che cominciano con /j/ e basi che terminano in una consonante o semiconsonante palatale è regolare in italiano (cfr. tediamo, rovesciamo, origliamo, mugugniamo, baciamo, friggiamo), la forma -ano del suffisso potrebbe anche essere attribuita ad un processo fonologico regolare di cancellazione di /j/ dopo una consonante o semiconsonante palatale. Qui si preferisce tuttavia classificare queste formazioni sotto -ano, che è la forma in cui il suffisso appare in superficie. (Seidl 2004: 411)
Il punto critico di questa formulazione è che il parametro di classificazione di un fenomeno pare sia fondato su un criterio soggettivo di preferenza. Questo criterio porta in termini quantitativi ad una distribuzione del fenomeno come segue: • deantroponimici in -iano = 573 (abeliano - wertheriano), • deantroponimici in -ano con base terminante in semivocale = 68 (accursiano - wesleyano), • deantroponimici in -ano con base terminante in consonante palatale = 20 (acaciano- vinciano), • deantroponimici sicuramente in -ano senza restrizione di alcun tipo = 12 (che in realtà
possono diventare 7 se si considerano le 4 doppiette galileano/galileiano, humeano/ humiano, linneano/linneiano, priscillano/priscilliano e la tripletta senechiano/ seneciano/senecano).
Optando per la classificazione di Seidl si avrebbero dunque 100 eccezioni sul totale di 673 deantroponimici, cioè il 14,83 per cento. Dato però che c’è un modo, e cioè la regola fonologica di cui sopra, che permetterebbe di ridurre il numero di eccezioni da 100 a 12 (di cui però solo 7 assolute senza una variante regolare), cioè all’1,78 per cento, non vedo perché adottare la classificazione di Seidl, a maggior ragione se l’unico criterio di classificazione è un criterio soggettivo di preferenza. Quindi, la mia proposta relativa ai deantroponimici, proposta che peraltro è già in nuce nelle scelte etimologiche del GRADIT, è che il suffisso -iano sia altamente dominante nella formazione dei deantroponimici (98,22 per cento) e che solo l’1,78 per cento dei casi costituisca eccezione con deantroponimici in -ano.
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2.1. Eccezioni Uno degli aspetti più interessanti della linguistica –parere personale– non sta tanto nell’individuare norme e comportamenti regolari nel sistema linguistico, quanto piuttosto, una volta individuate queste norme e questi comportamenti, tentare di spiegare le eccezioni. Nella fattispecie, tolte le 4 doppiette e la tripletta già citate, le eccezioni sono copernicano, domenicano, francescano, luterano, maomettano, pessoano, sillano. Perchè in questo caso non si ha *copernichiano, *domenichiano, *franceschiano ecc.? Da alcuni studiosi (p. es. Rainer 2004: 412) era stata notata una certa tendenza di tipo semantico (peraltro riconosciuta come vaga e del tutto secondaria rispetto ad altre tendenze): deantroponimici relativi all’ambito religioso, tenderebbero a suffissare in -ano, fatto che però esclude i casi di sillano, galileano, linneano e –aggiungerei– pessoano. La pista religiosa non è però del tutto peregrina. Un’ipotesi, alla quale manca ancora la verifica dei dati e su cui mi riprometto di tornare, è che la prima apparizione di queste forme non sia stata nei testi volgari, ma –dato il referente religioso– in testi latini medievali ed ecclesiastici, e quindi nella forma copernicanus, domenicanus, franciscanus e così via. La forma italiana non sarebbe quindi nient’altro che un cultismo adattato da questa forma originaria latina (cfr. Rainer 1996). Per sillano si hanno già le attestazioni del latino classico sullanus (con la variante syllanus) mentre per senecano termine recente del linguaggio scientifico-letterario (prima attestazione del 1956, rispetto al 1994 di senechiano) il riferimento potrebbe essere un termine specialistico in latino (penso ad esempio al concetto di comparativus senecanus usato da Seidensticker)4 plasmato su un modello senecanus più antico.5 È evidente d’altronde che la classificazione di tipo sincronico non può prescindere dal fatto che alcune forme riferite a personaggi dell’antichità o di ambito religioso, come macedoniano, marcelliano, muciano fossero già latine, indipendentemente dal periodo della loro apparizione in italiano. Per quanto riguarda la forma pessoano, si potrebbe giustificare con il fatto che l’utilizzo di -iano con un conseguente *pessoiano creerebbe un accumulo di vocali e semivocali assai scomodo dal punto di vista articolatorio. La cosa potrebbe essere in parte confermata dalle forme galileano e linneano, dove si presenta lo stesso problema. Dato però che l’accostamento della vocale palatale /e/ con la semivocale /j/ del suffisso è meno stridente, si attestano anche le forme galileiano e linneiano, In ogni caso Dardano (2009: 111) pare attribuire una preferenza al tipo con suffisso -ano, almeno nel caso di linneiano / linneano. 3. I detoponimici Per quanto riguarda i detoponimici, a parte un’informazione alquanto generica sulla prevalenza del suffisso -ano e rare eccezioni in ambito italiano non giustificate con -iano (il caso comunemente citato di Leso>lesiano), un po’ più diffuse con i toponimi stranieri, non si Cfr. Seidesticker (1985: 118). È chiaro che, vista la datazione dell’italiano, non si intende qui derivare il senecano italiano dal termine usato da Seidestricker. Si tratta solo di evidenziare un modello costitutivo latino soggiacente che possa aver influenzato la formazione della parola in italiano. 5 Cfr. per es. il lat. mediev. senecanus che si evince da un passo del Manoscritto 511 (datato 1150-1225) all’Hunterian Museum di Glasgow: «Est et stylus alius Senecanus, sed optimus quidem et fortissimus, epistulas componendi, praetermisso scilicet quolibet artificio prosaico supra dicto»: cfr. Faral (1936: 58). 4
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sa gran che. In realtà, analizzando il materiale, la situazione si presenta un po’ più articolata, meno facilmente riconducibile a regole di grande maggioranza e del tutto diverse da quelle dei deantroponimici, fatto che peraltro non crea nessun problema, visto che non sta scritto da nessuna parte che una regola, una volta individuata, debba per forza valere a prescindere dalla classe dei segni linguistici a cui si applica, o che ci si debba sforzare di farlo.6 Analizzando il corpus dei 1262 detoponimici in -ano e -iano, si individuano due gruppi compatti, facenti capo a due diverse regole: • quello dei 671 detoponimici di tipo quasi esclusivamente etnico derivati sicuramente con -ano (abduano - zurigano) • quello dei 235 detoponimici derivati con -iano relativi alla terminologia specialistica scientifica (quasi esclusivamente geologica e paleontologica; aaleniano - ypresiano).7 Una prima regola distributiva dunque individua valori semantici diversi dei due suffissi: si usa prevalentemente il suffisso -ano per i derivati etnici, ma quando il detoponimico pertiene alla sfera delle terminologie specialistiche si adotta il suffisso -iano senza alcuna restrizione di tipo fonologico o morfologico. A questo proposito emblematica è la coppia strombolano / stromboliano, il primo di ambito etnico-geografico, il secondo relativo alla terminologia della vulcanologia. Una situazione del genere prevede da logica due gruppi di eccezioni: • quello dei detoponimici di ambito specialistico in -ano (7 casi) • quello dei detoponimici etnici che sembrano suffissare in -iano (apparentemente 324 casi) 3.1. Eccezioni: detoponimici di ambito specialistico in -ano Dei 7 detoponimici che suffissano in -ano, 5 sono facilmente spiegabili come prestiti. 2 certamente dall’inglese (oldowan, senecan), visto che si riferiscono a località di ingerenza anglosassone e che dalle ricerche effettuate sembrano comparire solo nella lessicografia e nei testi specifici di lingua inglese. In altri tre casi (chelleano, gerzeano e peleano) si ha l’opzione sia dall’inglese e dal francese, ma non sempre è possibile risalire a datazioni che possano chiarire la trafila. Ha probabilmente ragione Schweickard a considerare chelleano prestito dal francese8, trattandosi di una località francese e quindi verosimilmente esplorata da francesi. Per peleano il GRADIT attesta la derivazione dal fr. peléen (da Montagne Pelée, nome di un vulcano nella francofona Martinica). Riguardo a gerzeano (dalla localita egiziana di El Jerzeh) bisogna lamentare le carenze della lessicografia a proposito di tutto ciò che riguarda i nomi propri: né il TLF né il Grand Robert attestano il francese gerzéen, peraltro ben presente nella D’altronde l’affermazione di Lo Duca «Tuttavia -iano è diventato in italiano soprattutto un suffisso deantroponimico, esito certo incoraggiato dall’analoga possibilità dell’inglese» (Lo Duca 2004: 215), lascia intendere indirettamente che -iano risulti assai meno produttivo nei detoponimici. 7 Sono compresi in questo gruppo i detoponimici derivati dai nomi di pianeta, che vengono considerati alla stregua di termini specialistici piuttosto che etnici di fantasia designanti gli abitanti immaginari di questi pianeti. D’altronde questo può valere per marziano e venusiano / veneriano, non certo per gli altri termini utilizzati nella terminologia astronomica. 8 Cfr. DI 1, 462, 55segg. 6
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letteratura specialistica. Non è possibile quindi risalire a una datazione precisa che permetta di stabilire la trafila corretta. Europano, riferito al satellite di Giove Europa, lascia aperta ogni possibilità. Trattandosi di un termine specialistico dell’astrologia potrebbe essere ovviamente un prestito9, ma finora le ricerche (lessicografiche e internet) non hanno dato esito. D’altro canto il fatto che ci aspetteremmo *european (attestato in inglese con altri significati), da cui si dovrebbe avere in italiano *europeano o *europiano10 e non un europano, lascia pensare che possa trattarsi di un termine italiano coniato con un regolare -ano, a maggior ragione se si pensa che il satellite Europa fu scoperto da Galileo e da lui nominato. Il GRADIT peraltro non riporta la fonte, né una ricerca lessicografica ha permesso per ora di capire quale sia l’origine storica del termine. Sicuramente di origine italiana è verrucano, termine introdotto dal geologo Savi nel 1838 e come tale poi esportato anche nella terminologia di altre lingue. Paradossalmente questa che sembrerebbe un’eccezione nell’eccezione, è l’unico caso regolare. Come già detto11, la stragrande maggioranza dei termini scientifici di origine deonimica è un prestito, particolarmente dall’inglese o dal francese, a seconda del periodo storico e delle contingenze geografiche. La presenza di -iano –invece del regolare -ano che troviamo in verrucano (e forse in europano)– è quindi il risultato di un adattamento degli originali suffissi francese -éen e inglese -ian, di origine evidentemente latina o neolatina ( Elvira e similares) e para a cal o Nomenclátor de Galicia aboa 5 ocorrencias,
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carecermos de datos decisivos neste sentido (o cal nos impide entre outras cousas estabelecer a cronoloxía máis ou menos exacta na que tivo lugar a suplantación que nos ocupa), cremos cando menos probábel que o monte recibise tal nome a partir do da freguesía contigüa de San Xoán de Sardiñeiro, reproducindo deste xeito un esquema que se verifica nun bo número de casos similares, moitos deles con implicación deste mesmo ítem haxionímico.4 Agora ben, na consolidación desta nova denominación en detrimento da forma Rou testemuñada nos textos medievais influíu sen dúbida un factor de grande relevancia para explicar este tipo de transformacións internas do sistema toponímico. Referímonos ao feito de que a denominación Seoane resultaba moito máis transparente para os falantes (tanto por si mesma como pola relación directa que se podía estabelecer co nome da freguesía contigüa) cá denominación Rou, que moi probabelmente haxa que explicar a partir do substrato lingüístico prelatino (Martínez 2010: 295-297) e que, por tanto, carecía de correlatos claros e identificábeis no repertorio léxico dos usuarios: dito doutro xeito, a forma Seoane estaba máis e mellor motivada cá forma Rou. 2.2. Medieval T(h)oar moderno Castro En dous documentos de TO localizamos referencias a un río denominado Toar ou Thoar.5 O texto máis antigo, con data de 1131, ofrécenos referencias xeográficas moi vagas e limítase a sinalar que a aldea de Codesos, hoxe englobada dentro da freguesía de San Xián da Pereiriña (Cee), se encontra no territorio Nemancos, e máis en concreto sub monte de Olgoso et fluuio Toar, concurrente ad ecclesiam Sancti Christofori. En cambio, no outro texto que tivemos ocasión de manexar (e que á súa vez é copia dun orixinal redactado en 1219), as coordenadas xeográficas aparecen moito máis matizadas e resultan moito máis decisivas na identificación do referente extralingüístico asociado á forma Toar / Thoar. Nese diploma lévase a cabo a devisazón da parroquia de Peraria (correspondente á actual San Xián da Pereiriña), situada in terra de Nemancos iuxta fluuium Thoar sub monte Faro.6 No corpo do documento trázanse os seguintes límites para a dita parroquia: [...] per terminos et loca antiqua scilicet per Sauariz et inde per Petram Albam de jusanam, et inde per Petram Albam de susanam, et inde per Farum, et inde per Baldumar, et inde ad castellum de todas elas concentradas na provincia de Lugo. Efectivamente, a prol desta interpretación contamos coa existencia dun bo número de freguesías galegas que teñen como padroeiro a San Xoán mais que contan (ou contaron) dentro dos seus límites con lugares e entidades de poboación cuxa denominación mantén (ou mantivo) a denominación tradicional Seoane: p.ex., na parroquia de San Xoán de Moeche existen dúas aldeas chamadas respectivamente Seoane Novo e Seoane Vello. Nalgúns casos dáse a coexistencia dentro do mesmo sintagma da variante patrimonial coa variante menos evoluída, tal e como observamos no nome da freguesía de San Xoán de Seoane, no concello de Allariz, ou no de San Xoán de Seoane de Arcos, no concello do Carballiño. 5 Aínda que resulta razoábel pensar nunha orixe etimolóxica común, non debemos confundir este topónimo medieval coa forma moderna Toar que lles dá nome a senllas entidades de poboación das freguesías de Santalla da Devesa (Friol) e San Breixo de Parga (Guitiriz), nin tampouco co Toar que encontramos mencionado nun documento de 1208 e que debeu darlle nome noutrora a un lugar da actual freguesía de San Martiño de Doade (Sober). 6 O monte Faro non é outro có actual monte Cantorna, na localidade do mesmo nome. 4
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Peraria, et inde per aquam que decurrit inter Purcar et ipsam Perariam et intrat in Thoar, et inde ad ramum de Sambadi, et inde ad pontem de Constanti, et inde ad fontem Ouium, et inde ad Bicianes, et inde ad ribam Sancti Juliani, et inde ad vadum de Chanca, et inde ad Sauariz ubi incepimus.
Boa parte do interese deste treito radica en que a inmensa maioría do material toponímico nel explicitado (coas únicas excepcións de Petram Albam de jusanam, Petram Albam de susanam, fonte Ouium e Bicianes) resulta doadamente recoñecíbel aínda na actualidade, tal e como reflectimos no seguinte cadro: Forma medieval Sauariz Farum Baldumar Peraria Purcar Sambadi pontem de Constanti Sancti Juliani vadum de Chanca
Forma moderna Chafarís Cantorna (monte) Baldomar A Pereira Porcar Sambade Ponte Constante San Xián A Chanca (río)
Neste contexto, o río Toar / Thoar non pode ser outro có actual río Castro, un dos de maior entidade da vertente atlántica galega, que nace no monte Escaleira (Vimianzo) e desemboca no esteiro de Lires, xa no concello de Muxía. De feito, o río Castro constitúe o único curso fluvial certamente relevante que atravesa o termo parroquial de San Xián da Pereiriña, circunstancia á que temos que engadir aínda outra non menos interesante: esa aquam que decurrit inter Purcar et ipsam Perariam et intrat in Thoar debe identificarse sen lugar a dúbidas co rego de Porcar, unha pequena corrente de auga que nace nas abas do monte Cantorna e vai desaugar en última instancia ao río Castro. A conxunción destes dous datos e a solidez e transparencia do texto que tomamos como base na nosa pescuda permítennos afirmar por tanto que o nome (ou un dos nomes, dada a tendencia deste tipo de entidades á polionimia) do río Castro non era outro que Toar / Thoar. Obviamente, o hidrónimo Castro debe entenderse como un hidrónimo secundario, ou o que é o mesmo, a corrente fluvial en cuestión adquiriu a súa denominación hodierna a partir do da poboación homónima da freguesía de Santa Locaia de Frixe (Muxía). Esta dedución non se basea en suposicións gratuítas, senón que se apoia nun documento de 1165 conservado na colección documental do mosteiro de San Xulián de Moraime e no que se acouta a dita herdade de Castro seguindo o curso dun rivum que vadit inter Frixe et Castrum, e que, a xulgar polo contexto, só pode tratarse do río Castro. A conclusión verdadeiramente interesante que podemos extraer dos parágrafos anteriores ten que ver coa natureza e motivación do cambio toponímico observado: en efecto, un lexema castro (< latín castrŭ(m) ‹fortaleza, altura fortificada›), debidamente toponimizado, desprazou unha formación que quizais poidamos derivar dun tema *tug- reducíbel á súa vez ao coñecido radical indoeuropeo *tā- ‹derreterse, fluír›, ‹mofo, que apodrece› (Bascuas 2006: 122; Martínez 2010: 350-352). Reprodúcese por tanto o mesmo esquema que comentabamos na epígrafe anterior para as formas Rou e Seoane, i.e., a substitución dunha denominación toponímica antiga de probábel filiación prelatina e semanticamente opaca
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para os falantes por unha forma máis moderna, pertencente ao estrato latino, con apoios no léxico común e, neste caso, cunha especial produtividade toponímica verificábel ao longo de todo o territorio galego. 2.2. Medieval Tronco / Trunco moderno Grande Dentro do mesmo documento de 1135 ao que xa aludimos nunha epígrafe anterior (vid. §2.1) defínense os lindes tanto da freguesía de San Salvador de Duio como da de San Martiño de Duio, e a respecto desta última estabelécense os seguintes termos: Termini ecclesie Sancti Martini sunt isti: de vna parte per illam aquam de illo riuulo de Trunco sicut uadit et intrat in mare de arena de Locustaria et finitur intus in mare [...] de inde de alia parte iterum incipit alius terminus in predicto riuulo de Tronco et uadit per illum parietem antiquum qui exit de ipso riuulo et uadit sursum ad montem diuidendo hereditatem de Sancto Martino et hereditatem de Hermo.
Na posterior confirmación deste mesmo diploma, datado segundo viamos por volta de 1232, repítese practicamente sen alteracións a mesma secuencia. Tal e como podemos comprobar, un dos eixos empregados na contextualización xeográfica da parroquia de San Martiño de Duio é ese riuulo de Trunco ou riuulo de Tronco, que segundo Pérez (2004: 761) non é máis ca un simple regato do concello de Fisterra, sen deterse en maiores consideracións. Porén, o treito que acabamos de transcribir proporciónanos por si só algúns datos moi aproveitábeis de cara a estabelecer o referente extralingüístico exacto da expresión toponímica que nos ocupa. O principal deles é a propia relevancia que atinxe no texto o riuulo de Trunco / riuulo de Tronco, relevancia máis propia dunha corrente fluvial de certa entidade que dun simple regato.7 Neste sentido, o único río de relativa importancia que drena o termo parroquial de San Martiño de Duio é o río Grande, cuxa denominación xa resulta abondo transparente no que respecta ao seu tamaño e caudal en relación aos dos restantes cursos fluviais tanto da freguesía en cuestión como do propio concello de Fisterra en xeral. Ademais, no texto sinálase que a auga dese río intrat in mare de arena de Locustaria8, i.e., que desemboca no areal de Langosteira, inmensa praia pertencente á freguesía de San Martiño de Duio, o cal non fai máis que confirmar a nosa suposición inicial, xa que é nese punto onde desauga precisamente o río Grande.
Cómpre puntualizar que os lexemas hidronímicos fluuĭŭs, rīuŭs e riuulŭs, que no latín clásico presentaban matices semánticos netamente diferenciados, adoitan ser intercambiábeis na nosa documentación altomedieval, o que a miúdo conduce a confusións e interpretacións erróneas de certas secuencias. 8 Debemos lembrar que o substantivo latino area (< latín arēna(m)) desenvolveu na lingua medieval a acepción ‹praia, areal›, cuxa vixencia se prolongou segundo parece até épocas relativamente recentes. De feito, xa Eladio Rodríguez indicara no seu día a utilización da forma area como sinónimo de areal en moitos instrumentos antigos, chegando inclusive a finais do s. XVI. Elixio Rivas observou tamén que «en toda la costa gallega, area fue la voz denominadora de playa (praia) hasta fines del siglo pasado». De feito, é este matiz semántico o que nos permite explicar de xeito satisfactorio topónimos costeiros como Arealonga e similares. 7
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Por último, o riuulo Trunco / riuulo Tronco tamén é tomado como referencia para estabelecer os límites occidentais e noroccidentais da freguesía de San Martiño de Duio: eses límites, tal e como podemos comprobar no texto, arrincan das marxes do dito río, onde comeza un parietem antiquum que ascende até un monte que actúa como divisoria entre hereditatem de Sancto Martino (correspondente ás actuais localidades de San Martiño de Abaixo e San Martiño de Arriba) e hereditatem de Hermo (os actuais Ermedesuxo de Arriba e Ermedesuxo de Abaixo). O monte en cuestión debe ser xa que logo o monte Pión (207 m), en cuxas abas nace precisamente o río Grande. Por tanto, comprobamos máis unha vez como as coordenadas xeográficas descritas ou insinuadas na documentación resultan doadas de extrapolar ao territorio actual. Canto á interpretación etimolóxica da expresión medieval Tronco / Trunco, parece verosímil retrotraelo ao latín truncus ‹tronco dunha planta ou árbore›, ‹ramo cortado do tronco›, acepcións conservadas por todos os seus descendentes románicos, entre os cales se conta obviamente o galego-portugués tronco. A repercusión toponímica deste lexema non semella moi importante, cando menos no eido da toponimia maior, mais aínda así podemos aducir exemplos modernos como Tronco, Porto dos Troncos, Por da Tronca ou Val dos Troncos. Pola contra, gozan de maior presenza cuantitativa derivados abundanciais ou colectivos como Troncal, Troncoso, Troncedo e similares. En opinión de Gonzalo Navaza (2006: 549), a toponimización do fitónimo tronco podería explicarse pola existencia de arborado aproveitábel para a produción de madeira, interpretación que pode conciliarse co seu uso como nome dunha corrente fluvial.
3. Conclusións Como puido inferirse do contido das epígrafes precedentes, o estudo dos fenómenos de substitución toponímica reviste un especial interese. Por unha banda, comprobamos en que medida eses fenómenos poden axudarnos na reconstrución de antigas paisaxes toponímicas e territoriais que gozaron de vitalidade nunha determinada fase histórica, mais que acabaron por verse transformadas en maior ou menor medida. É nesta vertente onde mellor se perciben as posibilidades de interacción da toponomástica con outras disciplinas científicas, particularmente coa xeografía e a historia, aínda que non só. Por outro lado, e en relación cunha perspectiva máis global e sistémica dos estudos toponomásticos, os traballos de detección e identificación dos referentes extralingüísticos denotados polos topónimos medievais permítennos recoñecer certas tendencias ou pautas que explican a natureza e sentido dos distintos casos de substitución toponímica: aspectos como a maior ou menor transparencia das formas toponímicas, o grao de adecuación do signo toponímico á entidade física designada, etc. adquiren por tanto grande importancia neste punto.
Rou, T(h)oar, Trunco: alguns exemplos de substitución toponímica na comarca de Fisterra (Galicia)
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Ruth Miguel Franco (Universitat de les Illes Balears)
El cartulario Madrid, AHN, 996B y los documentos originales del Archivo Capitular de Toledo: aportaciones al estudio de la onomástica
1. El Archivo Capitular de Toledo: documentación original y cartularios1 La aportación de los cartularios a los estudios antroponímicos es de una gran importancia, por la abundancia de materiales que proporcionan y su diversidad, y por ser, en muchos casos, la única fuente histórica que poseemos sobre una determinada región en un periodo histórico concreto. Sin embargo, se ha llamado la atención muchas veces sobre los problemas que plantean estos volúmenes en los estudios históricos y lingüísticos, ya que las transformaciones que sufre el documento original en su proceso de copia lo invalidan en ocasiones como material de análisis. Sin embargo, se pueden considerar estas transformaciones como documento histórico en sí mismas, de modo que se anule lo que Patrick Geary (1993: 15-16) ha llamado ‹la invisibilidad del cartulario›, es decir, pasar de utilizar el cartulario como mero transmisor de información a tener en cuenta sus características intrínsecas y su naturaleza como un dato más en el estudio. Así pues, la riqueza de los fondos documentales del Archivo Capitular de Toledo (ACT), donde se conservan documentos desde el 1086, fecha de la reconquista de la ciudad, hasta el siglo XVI, se ve incrementada por la existencia de ocho cartularios. La documentación toledana (en la que incluimos, como ya hemos dicho, estos cartularios) ha sido estudiada con profundidad inversamente proporcional al interés que ha despertado: ha sido escaso el recurso de los estudiosos a los fondos originales; esta situación es especialmente llamativa si se piensa en el papel que tradicionalmente se ha asignado a la ciudad de Toledo en la historia de la lengua española (Sánchez-Prieto 2007, 2008a, 2008b). La mayor parte de los citados cartularios está relacionada con la celebración del IV Concilio de Letrán (1215), donde se discutió la primacía de Toledo sobre las otras sedes hispánicas y compila bulas y documentación pontificia acerca de este tema. Sin embargo, tres cartularios en concreto (Toledo, Biblioteca Capitular de Toledo 42-20, copiado en 1190; Madrid, AHN, 996B, del primer cuarto del s. XIII y Madrid, AHN, 987B, copiado hacia 1257) recogen un total de quinientos treinta y cuatro documentos privados y reales, de los que se han identificado doscientos ochenta y ocho originales conservados. De estos Este trabajo se inscribe en los siguientes proyectos de investigación: HUM2006-04767/FILO; FFI2009-10877.
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tres cartularios, en este trabajo nos centraremos en el segundo de los mencionados: Madrid, AHN, 996B (al que nos referiremos simplemente como 996), por varios motivos. En primer lugar, transmite un gran número de documentos (exactamente ciento veintinueve de los trescientos treinta y tres que contiene) cuyo original se ha perdido. Esta desaparición debió de tener lugar en fecha poco posterior a la compilación del volumen, ya que sólo treinta y ocho de estas piezas aparecen en cartularios posteriores. Por tanto, 996 constituye nuestra única fuente de información para algunos aspectos de la historia de la sede toledana. En segundo lugar, este cartulario realiza copias imitativas: reproduce los sellos, rotas, crismones y demás signos de validación de los documentos (Chassel 1993), característica relacionada con el hecho de que la copia de los textos sea también de gran exactitud, ya que la comparación entre los originales conservados y el cartulario en estudios anteriores ha puesto de manifiesto que los copistas reprodujeron en la mayor parte de los casos las grafías de los originales, incluidos topónimos y antropónimos, exceptuando las firmas árabes, que se recogen simplemente como et alia nomina arabica. Esta característica hace que 996 sea especialmente adecuado para un estudio lingüístico y de historia de los sistemas de escritura en ambiente toledano, aunque es preciso no perder de vista los documentos originales. El cartulario, como hemos dicho, tiene como fecha post quem 1222, que es la del último documento que recoge y se supone que su copia pudo ser impulsada por el arzobispo de Toledo Jiménez de Rada, pero está escrito en una gotica textualis plenamente desarrollada, por lo que quizá habría que datarlo algo más tarde (Sánchez-Prieto 2008a: 177; 2007: 175 n. 46). El empleo de este tipo de letra va a determinar algunas de las elecciones gráficas del cartulario; por otra parte, en la copia se alternan numerosas manos, a veces dentro del mismo documento, pero la gran uniformidad característica de la littera textualis hace extremadamente difícil establecer los cambios de mano (Torrens 1995: 348-50), lo que sería de gran interés para la delimitación de algunas de las diferencias entre los documentos copiados.
2. El corpus antroponímico del cartulario 996 Para el estudio que presentamos a continuación hemos examinado la totalidad de los documentos contenidos en el cartulario, a excepción de las bulas y los textos no documentales.2 Es preciso mencionar que este cartulario copia mayoritariamente documentos en latín, con diversos grados de corrección que van desde la cuidada redacción y elaboración retórica de algunas cartas reales y episcopales hasta documentos en los que sólo ciertos aspectos gráficos y formularios pueden adscribirse al patrón latino. Sólo un porcentaje mínimo de la documentación recogida en 996 está escrita en castellano (mientras que, por ejemplo, el mencionado cartulario 987 incluye un alto porcentaje de piezas ya plenamente romances)3, Como, por ejemplo, la llamada Hitación de Wamba (doc. 529), o una compilación de citas de autores visigóticos que apoyan la primacía de Toledo sobre las otras sedes de Hispania (doc. 528). 3 En la mayor parte de los casos Hernández (1996) no indica en su catálogo la lengua de redacción de los documentos, por lo que no se pueden ofrecer cifras exactas hasta contar con una edición de estos volúmenes. 2
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aunque hemos prestado una atención particular a estos documentos. Dentro de estos textos, hemos dividido los antropónimos según la parte del documento en la que se encuentran, por una parte los nombres de los participantes en el hecho documentado en el cuerpo del documento, donde se señalan de manera especial, por el interés que revisten, las listas de pobladores, los beneficiarios de las mandas en los testamentos4 y los posesores de las casas o las tierras que se mencionan al identificar o localizar la propiedad en las compraventas, concambios o donaciones, y, por otra, las columnas de firmantes, suscriptores y las listas de testigos, a las que se atiende en modo particular si son autógrafas en el original. En total se han recogido cuatro mil ciento setenta y cuatro entradas, que se distribuyen de la siguiente manera:
Gráfico 1
Los documentos más tempranos son en la mayor parte de los casos de donaciones reales y privilegios, con gran número de confirmantes (31,83 antropónimos por documento en el primer periodo analizado), mientras que en los últimos años la media es de 13,67 nombres por documento, lo que se debe a la mayor presencia de documentación privada, con listas de testigos no demasiado largas. Es complejo establecer de cuántas personas diferentes estamos hablando. El catálogo de Hernández (1996) cuenta con un excelente índice onomástico, de gran ayuda a la hora de identificar a los portadores de cada nombre, pero que regulariza las grafías en muchos casos y que no siempre tiene en cuenta las variaciones ortográficas de los antropónimos. Podemos aventurar una primera estimación de mil novecientos noventa y ocho personajes diferentes, esto es, cada persona aparece una media de 2,08 veces;5 en cualquier caso, los datos presentados no pueden considerarse definitivos hasta que contemos con una edición crítica de los documentos y del cartulario. Sobre la relevancia de los testamentos para los estudios antroponímicos. vid. Martínez (2009). Esto varía según las épocas. De 987 a 100, tenemos una media de 1,2; entre1101 y 1125, la media es 1,31; 1,6 entre 1126 y 1150; entre 1151 y 1175, en cambio, la media es 2,07; entre 1176 y 1200, de 2,29; finalmente, entre 1201 y 1222, la media es de 2,37.
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3. Variación gráfica y lingüística en los nombres propios 3.1. Variación gráfica entre original y copia El cartulario realiza copias que conservan, en la mayoría de los casos, las particularidades y variaciones del original (Miguel en prensa). Sin embargo, también encontramos ejemplos de cambios ortográficos entre original y copia. En el documento 886, A.2.D.1.1, sin fecha, pero que se puede situar hacia el segundo cuarto del XII, en el f. 85vb, el donante aparece como Guterret en el cuerpo, pero firma como Gutteriz. 996 cambia la -t final en una -z, pero mantiene la grafía de la firma inalterada. Sin embargo, en el doc. 151, año 1168, f. 9r-v (cuyo original no se nos ha conservado), aparecen Gomet Garsie y Gomet Gondissalui, de . Del mismo modo, en el doc. 239, V.7.C.1.9, año 1191, f. 73ra-b (venta de Carabanchel), hay variaciones gráficas del mismo tipo: Aldefonso aparece como Alfonso, se cambia Gondissalvus Saxamon por Gundisalvus Saxomon con asimilación vocálica en dos ocasiones y falta la h del nombre Nicholaus; igualmente el nombre Michael de los originales Z.4.A.14 (doc. 254, año 1194, f. 72ra-b) y Z.4.A.8 (doc. 158, año 1171, f. 95vb96ra) aparece como Micahel en el cartulario. El cartulario introduce también variaciones sintácticas, como el dativo femenino Ore, en Z.4.A.52 (doc. 250, año 1193, f. 77va-78ra), que nota con la forma Oro. Estas variaciones son interesantes desde el punto de vista de la historia de los sistemas de escritura y deben ser tenidas en cuenta a la hora de utilizar el cartulario 996 para el análisis lingüístico (García 2009: 277-278), pero, como se puede apreciar, nada tienen que ver con los cambios comprobados en otros cartularios, que a veces pasan por alteraciones importantes en los sistemas de denominación de la persona, como la adición de la procedencia al nombre propio (Bourin 1993: 109-110), o las alteraciones en, por ejemplo, la composición de las listas de testigos o suscriptores, como han observado numerosos investigadores de otros cartularios (Barrow 2005: 108-112; Hunningsett 1971; Tessier 1964: 36-39). 3.2. Oscilaciones gráficas dentro del cartulario Pasamos a continuación a analizar los datos contenidos en el cartulario; a este respecto, es muy interesante la variación gráfica entre las diferentes apariciones de un mismo nombre (Ramírez 1993: 575-576). Así, por ejemplo, el nombre de Gonzalo de Marañón presenta las siguientes alteraciones gráficas, que se corresponden, en los casos comprobados, a las del documento original: doc. 90, año 1153, f. 75rb: Gonzalbo de Maranon doc. 104, año 1155, f. 80vb: Gunsalvus de Marannon doc. 108, año 1155, f. 54vb: Gunzalvus Marranun
Nos referiremos a cada documento por el número que recibe en el catálogo documental de Hernández (1996); se reenvía a este estudio para una descripción detallada de las piezas.
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doc. 112, año 1155, f. 5r7: Gonzalvus de Marainon doc. 123, año 1158, f. 61ra: Gunzalvus de Marranum doc. 140, año 1163, f. 84r: Gonzalvus de Maregno (cuerpo del documento), Ipse Conzaluus (testigo) doc. 161, año 1172, f. 8r: Gonsalvus de Margnione doc. 162, año 1173, f. 62ra: Gundisalvus de Marannone doc. 180, año 1177, f. 13r: Gundissalvus de Marannon doc. 184, año 1178, f. 42vb: G. de Marannone
Vemos en esta breve selección ejemplos de casi todas las maneras diferentes de notar la nasal palatal; interesante también la oscilación vocálica del nombre germánico, que va desde la latinización (doc. 180) hasta el mantenimiento de la forma más cercana al romance (doc. 90). Como se puede apreciar, estos ejemplos no se pueden organizar cronológicamente, ni agruparse por los folios donde se encuentran en el cartulario, lo que nos daría idea de la alternancia de copistas con diferentes hábitos gráficos. Sí se puede mencionar que el original del doc. 104 fue redactado por Adriano, notario del emperador, teniendo la cancillería Juan Fernández; también era canciller este personaje en los documentos 108 y 112.8 En cambio, el 162 lo redactó Pedro, notario del rey; el 180, Guillermo, capellán del conde Nuño y la condesa Teresa durante el sitio de Cuenca, y el 184 el maestro y notario Giraldo.9 Se comprueba también que, dependiendo de la parte del documento donde aparezca, el nombre toma uno u otro aspecto; los firmantes y suscriptores suelen presentar formas más estandarizadas y acordes con las grafías latinas, mientras que son especialmente interesantes las listas de pobladores y los propietarios de casas y tierras colindantes a la propiedad descrita en el documento. Digna de señalar es también la variación entre Gonzaluus en el texto del doc. 140 y Conzaluus en la lista de testigos con la sorda por hipercorrección. Del mismo modo, en la lista de testes de concilio el doc. 161 aparece dos veces el nombre de Gonzaluo, siempre con esta grafía. Se pueden ver diferentes fases de la evolución del sufijo latino -arius, en el nombre de un poblador, Andrés Zapatero, en dos documentos del mismo año: doc. 107, año 1155, f. 4v: Andree Zapateiro y doc. 112, año 1155, f. 64ra: Andree Çapatario.Ambos nombres están en dativo, ya que este personaje es receptor de la donación de tierras. Más tarde, en 1184, en el título que precede al doc. 211, recogido en el f. 97vb leemos: Emit Petrus Sobrino vineam in arcicolla ab Arnaldo Zapatero et ab aliis. Es decir, se declina el nombre pero no el cognomen; en el cuerpo del documento sucede lo mismo: Ego Arnaldus Zapatero.Pero también en esto hay variación: en 1206 Sancho, arcediano de Madrid, compra dos mesones, uno de los cuales linda con domum Vitalis Zapaterii collateralem in occidente (doc 286, f. 20r). Esto nos lleva al tan debatido problema de la fijación del oficio o sobrenombre como apellido (Simón 2010: 63-64; Simón / Vicente en prensa). El cartulario aporta datos a este respecto. Por ejemplo, varios personajes son denominados abbas. En varios casos podemos estar casi seguros de su consideración como apellido, como en el caso de Domingo Abad, canónigo toledano, que confirma el documento: Ego Dominicus dictus abbas canonicus confirmo (doc. 258, Confirmación casi por completo ilegible, seguimos la trascripción de Hernández La copia está en muy mal estado, pero se puede leer con bastante claridad el nombre de Iohannes Fernandiz. 9 Nada se indica en el caso de los doc. 90, 140 y 161. 7 8
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año 1195, f. 100ra); la indicación dictus es prueba de que no se trata de su cargo. Por otra parte, en esta época10 casi en todos los casos se indica el monasterio en el que los abades desempeñan este cargo (doc. 188, año 1180, f. 46va M. abbas Couarrubias; doc. 263, año 1198, f. 103rb Iohannes abbas Sancte Leocadie; doc. 357, año 1214, f. 39ra Willelmus abbas S Maria Fitero). Otros casos son interesantes, como Miguel Herrero: Michael Ferrero, doc. 295, año 1208, f. 45rb, Micael Ferrero doc. 279, año 1203, f. 91rb; Micael Ferrero aparece varias veces a lo largo del doc. 267, año 1199, f. 91rb-va, uno de los pocos documentos escritos consistentemente en romance; sorprendentemente, hacia el final del documento, cuando se hace constar la presencia de este personaje, leemos: Micael Faber. ¿Nos autoriza esto a pensar que Herrero no es apellido, sino identificación mediante el oficio o, por el contrario, debemos suponer que el escriba, Bricio, diácono de San Vicente11, quiso introducir una variación latinizante en este texto? Sucede algo parecido con los gentilicios: en el doc. 331, año 1213, f. 74rb, en el que un monje de Silos entrega materialmente la villa de Cabañas al arzobispo don Rodrigo, los testigos se organizan según su lugar de procedencia, primero los hombres buenos de Ocaña y después los de Cabañas, bajo el epígrafe: De cabanias; pues bien, el último de estos es Martin de Cabanias, denominación que resultaría redundante si se refiriese sólo a su procedencia. La importancia del estudio de esta variación ortográfica, corriente, por otra parte, en la escritura de este periodo, radica en la mencionada aportación de la documentación del ACT a la caracterización global de la variedad lingüística toledana; el análisis de la variación ortográfica en los documentos puede arrojar luz sobre este capítulo de la historia de la lengua. 3.3. Variación entre documento y título Es especialmente interesante la variación gráfica entre los nombres propios mencionados en los títulos o pequeños regestos que acompañan a los documentos y el cuerpo de la carta.12 Hemos mencionado ya que en el cartulario 996 se alternan un gran número de copistas diferentes; también en los títulos encontramos diferentes manos. El copista del documento deja un espacio en blanco al inicio que luego es utilizado para el título; en algunas ocasiones queda en blanco (f. 83va, por ejemplo), mientras que en otras resulta insuficiente y la escritura se prolonga en el espacio entre columnas (f. 43va) o al margen (f. 86rb). En general, se puede decir que, en los casos comprobados, 996 mantiene las grafías de los originales en la copia del documento, pero introduce alteraciones cuando menciona los mismos nombres en los En documentos más antiguos no se indica, sin embargo. Un ejemplo destacado es el doc. 1, de 987, donde encontramos una serie de personajes (Belasius, Felix, Garsenus, Johannes, Julianus, Maurellus, Menendus, Pascasius, Petrus, Potentius, Sabastianus, Stephanus, Transmirus) cuyos nombres se acompañan simplemente con la denominación abbas. 11 Este personaje aparece en dos documentos y siempre se denomina a sí mismo de la misma manera, única en el cartulario: Ego Bricius et connomine Lupus (doc. 267, año 1199, f. 91vb; doc. 279, año 1203, f. 91rb) 12 En los originales comprobados no hay correspondencia entre el título que reciben en el cartulario y el regesto anotado al dorso. 10
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títulos, probablemente más acordes con los usos gráficos del centro de copia del cartulario o del escriba (Breay 1999: 116; Brittain 2004: 31). Mencionamos a continuación algunos de los cambios entre la copia del cuerpo del documento y el título: doc. 26, año 1127, f. 101 rb-va: título: Nesina; doc.: Nezina dc. 31, año 1130, f. 104vb: título: Bermundo Petriz; doc.: Bermut Petrez doc. 44, año 1142, f. 93va: título: P. Afillado; doc.: Petro Afilado doc. 49, año 1144, f. 81vb: título: Cethe; doc.: Cete doc. 65, año 1149, f. 102va: título: Guter Petrez de Rinoso; doc.: Guter Petriz de Rinoso doc. 81, año 1151, f. 90ra-b: título: Enego Adalil; doc.: Enigo Adalil doc. 149, año 1163, f. 84ra-2: título: Gonsalui de Maranion; doc.: Fernandus, Marricus, Gomez Gundisalui, filii de comite Gundisaluo de Maranone doc. 146, año 1166. f. 89rb-va: título: Johannis Zapatarii; doc.: Johanni Zabateiro doc. 153, año 1168, f. 102ra: título: Clemens Almuqedez; doc.: Clemens Almukedez doc. 156, año 1170, f. 66rb-va: título: Arnalt Corbin; doc.: Arnaldus de Corbin doc. 190, año 1181, f. 84vb-85ra: título: Gundissaluo Didaci, Melesende; doc.: Gonzalvo Diaz, Melisent doc. 202, año 1182, f. 98ra: título: Petrone; doc.: Pedrona doc. 206, año 1183, f. 101vb-102ra: título: Petri Garsie de Aza; doc.: Petrus Garciez de Aza doc. 222, año 1188, f. 85va: título: título: Dominico Iacobi; doc.: Dominicus cognomine Iacobus doc. 235, año 1190,f. 77va-1: título: Marie de Estella; doc.: Marie de Stella doc. 379, año 1218, f. 23rb-va: título: Gundisalvo de Mesa; doc.: Gonzalvo de Mesa
En esta breve selección de datos, se puede apreciar que entre los títulos y las grafías de los documentos originales copiados existen diferencias de todo tipo, desde cuestiones meramente gráficas, como la elección th / t en el nombre de Cete en el doc. 49, la adición de la e- epentética ante el apellido de María de Estella en el doc. 235, o el cambio s / z el doc. 26 o k / q en el doc. 153, hasta la latinización del nombre de Gonzalo (de Marañón, doc. 190, de Mesa doc. 379) o Zapatarii (doc. 146). Algunas de las variaciones son lingüísticamente muy interesantes, como la apócope con ensordecimiento final en los nombres Melisent (doc. 190), Arnalt (doc. 156) o Bermut (doc. 31), las oscilaciones en las vocales palatales en Enigo / Enego (doc. 81) o el apellido Petrez / Petriz (doc. 65) o las corrección de la sonorización de Pedrona en el doc. 202. Es decir, se comprueba que estas diferencias no siguen un patrón fijo, oscilan entre la latinización o la adopción de grafías romances. En otros casos, vemos cambios en la denominación de la persona: doc. 139, año 1163, f. 93rb: título: Maria Petri Tolosa; doc.: Maria que fuit uxor Petri Tolosani doc. 366, año 1216, f. 101va: título: Maria Dominguez, doc.: Maria Domingo filia del rei de Pedro Ovequez; de Pero Ovequez; abas de Peidrovequez
Aunque no nos ocupamos aquí de los topónimos, llama la atención la variación en el nombre de la aldea de Alcabón, Perovéquez. Este documento está en romance y las diferentes formas del nombre Pedro son las que encontramos también en la onomástica del cartulario. También es interesante la variación que sufren los nombres a lo largo del documento. Por ejemplo: doc. 258, año 1195, f. 99vb-100ra: título: Loba; doc.: Loba Stephani Iuliani filia, Lupa Estefani confirmo
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En algunos casos estos títulos precisan la identidad de algunos de los participantes en el acto documentado, pero sin añadirlos al texto del documento ni alterar este de ningún modo. Por ejemplo, en f. 96rb leemos De testamento Raimundi decani Toletani, mientras que el documento comienza simplemente: ego R. toletane sedis decanus(doc. 316, año 1211); f. 67va-vb el título es De hereditate Peidro Cosso in alcudia, mientras que el documento identifica a los receptores de la donación como Sancio et Petro nepotibus Iohannis Maquede (doc. 52, año 1146).
4. Variación cronológica y según la tipología documental El estudio de la variación cronológica y tipológica de la onomástica del cartulario 996 presenta especial interés, ya que, como se ha dicho, los documentos no están ordenados y sólo en algunas partes del volumen presentan una cierta organización cronológica o geográfica, aunque no del todo exacta (Miguel en prensa); el hecho de que los datos que aportan los textos presenten tendencias cronológicas apreciables nos habla una vez más de la relación entre copia y original, ya que esta progresión no se puede atribuir a una estandarización de los textos por parte de los copistas del cartulario ni a diferencias entre los hábitos gráficos de los escribas que alternan en la copia. En primer lugar, los nombres visigodos que encontramos en los primeros documentos (Sunna, Cixila, Transmirus, Sisebuto, Sesmiro, Seniofredo, cf. Piel / Kremer 1976), desaparecen casi por completo a partir del 1100, cuando empezamos a encontrar nombres de origen franco (Bernardo, Roberto, Guillermo, Ramírez 1993: 577; Ruiz 1995). A partir del segundo cuarto del XII la variación onomástica sufre un descenso. Pasamos de una media de 1,7 personas con el mismo nombre en el periodo de 1101-112513 a 2,7 en el periodo siguiente (1126-1150); sube a 3,8 entre 1151 y 1175 hasta llegar a 5,2 entre 1175 y 12001 y 5,4 entre 1201 y 1225. La mayor parte de los nombres únicos que encontramos pertenecen a clérigos y son u onomástica bíblica (como Amós, obispo de Lugo, o Adán, presbítero) o creaciones latinas cristianas del tipo Seruusdei, probablemente adoptada tras la ordenación sacerdotal. Los nombres más difusos se recogen en la tabla siguiente (en %; sólo se tienen en consideración los nombres que superan el 2%):
Pedro Juan Martín Domingo Miguel Rodrigo García
1101-1125
1126-1150
1151-1175
1175-1200
1201-1225
10,90
14,36 12,64 5,7 4,02 6,89 6,32 3,44
12,9 9,89 5,8 6,88 3,87 3,01 3,44
12,78 10,83 5,15 4,44 3,55 2,84 2,84
12,31 8,51 3,98 7,6 2,71 3,44 2,71
4,87
No se tiene en cuenta el primer periodo, de 987 a 1100, ya que la documentación presenta características especiales, comentadas más arriba.
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1101-1125 Fernando Guillermo Gonzalo
1126-1150
1151-1175
6,09
1175-1200
1201-1225
2,48
3,07 2,53 2,35
3,22 4,44 Tabla 1
Los nombres más populares son, con diferencia, Pedro y Juan. Juan tiene la particularidad de empezar a aparecer sólo a partir del primer cuarto del XII. Martín, en cambio, otro de los más comunes, es el único, junto con Pedro, que aparece consistentemente a lo largo de todo el cartulario. Fernando es un caso curioso: tras ser uno de los más populares a principios del XII, sufre un brusco descenso hasta el último cuarto de ese siglo, para repuntar tímidamente en ese momento. También Guillermo, tras un momento de popularidad a mediados del XII, desaparece prácticamente para volver a aparecer a principios del XIII. Gonzalo se difunde sólo entre finales del XII y principios del XIII. Asimismo, otros nombres sólo son frecuentes en un periodo determinado, estando en otras épocas casi ausentes de la documentación. Es el caso de Pelayo y Raimundo entre 1101 y 1125, cuando ambos alcanzan un 4,87,% para desaparecer posteriormente. Entre 1126 y 1150 Esteban y Julián suponen respectivamente un 4,02% y un 4,59% de los antropónimos recogidos. Finalmente, entre el 1201 y el 1225 el nombre Egidio conoce una popularidad no registrada anteriormente (3,26%). También se aprecian tendencias diferentes en los apellidos según las diferentes épocas de los documentos. En los documentos más tempranos abunda, sin llegar a predominar, el nomen unicum (Bourin 1993: 105; Duby 1973: 398-9), con indicación en muchas ocasiones del oficio o cargo del personaje. Hasta el segundo cuarto del s. XII la mayor parte de los patronímicos presentan la terminación -z; pero a partir del tercer cuarto y definitivamente en el siglo XIII encontramos preferentemente el genitivo latino, con muy raras excepciones. Esto es especialmente interesante en los confirmantes de los documentos de la cancillería real, cuyo apellido se estandariza mediante un genitivo latino y un nombre latinizado en la práctica totalidad de los casos (Menéndez Pidal / Tovar 1962: 374-6; Kremer 1988: 1589). De cualquier forma, la variación, sobre todo en la documentación privada, es notable. En el doc. 228 (1189, f. 75vb-76ra) el testatario R. Roderici menciona en las mandas a su hermano Ferrando Roiz, donde se aprecia que la latinización es mayor en las partes formularias y menor en las menos estandarizadas. Por lo que respecta a la variación entre documentos, llama la atención la forma de denominación de los suscriptores o confirmantes en los documentos del cabildo toledano, que se limita a la inicial del nombre de pila y al cargo desempeñado (J. thesaurarius), con indicación a veces del origen geográfico (D. Guadalfaiarensis diaconus) o de la iglesia o capellanía a la que pertenecía (F. presbiter Santi Andree). Sólo en contadas ocasiones encontramos el apellido de los clérigos u otros modos de denominación (Dominicus Niger capellanus). Pues bien, esta forma de denominación mediante la inicial no se encuentra en el cartulario antes de la mitad del siglo XII, es rara en documentos privados y, cuando aparece, se refiere casi siempre a un clérigo. En los originales, muchas de estas iniciales son firmas autógrafas, pero, sobre todo a partir del s. XIII, se deben a la misma mano del escriba del documento. Otro cambio importante se generaliza a partir de la mitad del siglo XII la
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Ruth Miguel Franco
denominación mediante (patronímico) de + topónimo. Encontramos el primer caso en 1146 y se difunde considerablemente a partir del tercer cuarto del XII (Bourin 1993:104-5).
5. Conclusiones Los cartularios delimitan un corpus documental con fronteras cronológicas y geográficas más o menos precisas, determinadas por las intenciones o necesidades de los compiladores o promotores de su elaboración en un momento preciso. El conjunto resultante, que quizá adolezca de falta de cohesión o de objetividad si nos atenemos a criterios estrictamente historicistas, ofrece una visión particular de la documentación de un centro concreto y es, por ello, una doble fuente de información: la que nos ofrecen las cartas en sí y la que nos ofrece el modo en el que fueron seleccionadas, dispuestas y agrupadas. El cartulario 996 copia con notable precisión los documentos originales, también en lo que respecta a los nombres propios de persona, como se puede observar de la comparación entre documento original y copia. También el contraste entre los títulos que anteceden a los documentos y los textos en sí es revelador de la intención de fidelidad que caracteriza la copia. El conjunto de datos onomásticos que ofrece el cartulario presenta características interesantes en lo que respecta a las diferentes formas de denominación de la persona en documentos eclesiásticos y laicos, la difusión o retroceso de determinados nombres o en la evolución de la notación de los patronímicos. Así pues, con la caracterización del cartulario que se realizó al principio y de los datos hasta aquí expuestos se puede afirmar que el cartulario Madrid, AHN, 996B, es en sí una fuente de gran valor para el estudio de la documentación del Archivo Capitular de Toledo y puede aportar datos complementarios al análisis, lingüístico e histórico de las cartas originales.
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Maria Mihăilă (Université de Craiova)
Aspects actuels de l’anthroponymie roumaine
1. Introduction Les noms de personne représentent le signe linguistique le plus intimement lié à l’expérience humaine. C’est pourquoi, ces noms doivent être connus et mis en lumière pour ceux qui veulent connaître la vérité sur leurs prédécesseurs. L’anthroponymie s’est constituée comme branche de la linguistique pendant les dernières décennies du XIXe siècle, quand on a établi les caractéristiques et les valeurs distinctes des noms propres par rapport aux autres mots de la langue. Au XXe siècle, on a enregistré le développement de la recherche anthroponymique diachronique et synchronique par les études consacrées aux problèmes concrets, théoriques et méthodologiques et par la fondation des premiers centres de recherche anthroponymique. La nouveauté des deux dernières décennies consiste dans le fait que les anthroponymes sont considérés dans leur ensemble, comme un système qui doit être étudié tel quel. Signes linguistiques d’une nature particulière, les noms propres de chaque langue se constituent dans un système distinct, organisé d’après les règles onomastiques, d’une manière cohérente et différencié en ce qui concerne la sémantique, la morphologie et la syntaxe. Dans notre communication, nous voulons présenter quelques aspects de la modernisation du système onomastique roumain. Par conséquent, l’inventaire onomastique actuel a changé par rapport à l’inventaire médiéval, mais ce changement n’a pas d’incidence directe sur sa structuration, car les formes traditionnelles coexistent avec les formes nouvelles, mais plutôt sur son enrichissement. En outre, la modernisation concerne uniquement le fonds des prénoms et non pas celui des noms de famille, où les prénoms religieux continuent à occuper la première place dans la hiérarchie de fréquence. Si les prénoms laïques slaves se remarquaient, dans le système médiéval, par leur fréquence élevée, ils occupent aujourd’hui une place moyenne tout comme les prénoms modernes qui ont un degré élevé ou moyen de fréquence.
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2. Aspects actuels de l’anthroponymie roumaine 2. 1. Le statut, la classification, le sens des noms de personne Les caractéristiques du système onomastique roumain, la saisie et la distribution des anthroponymes ont été abordées traditionnellement, l’innovation se trouvant au niveau des unités anthroponymiques. On accorde une importance beaucoup plus grande aux problèmes théoriques et méthodologiques qui visent la promotion de nouvelles optiques scientifiques adéquates à la complexité des projets de recherche en harmonie avec l’étude européenne du système. Les méthodes pour rassembler le matériel ont reposé sur les systèmes informatisés officiels, ce qui garantit la précision des données pour la fréquence des formules officielles enregistrées et une analyse plus attentive des caractéristiques du système anthroponymique roumain actuel. En faisant référence aux étapes récentes d’évolution du sous-ensemble anthroponymique, formé des noms individuels (prénoms), on constate que la croissance de son inventaire est en relation avec d’autres facteurs. Dans le choix d’un nom, ce qui compte c’est d’abord le critère culturel et ensuite le critère euphonique. Dans le cas du système anthroponymique national, avec motivation sémantique, une analyse diachronique nous mène à la conclusion qu’il y à une relation entre la vitalité de certaines unités du système anthroponymique populaire et la sémantique des noms communs dont ils proviennent. Dans le cas anthroponymique delexicalisé, les noms se rapportant aux lexèmes à sémantique pastorale occupent une place importante (Dima 2008: 64). 2. 2. L’évolution du système anthroponymique roumain L’étude diachronique du système anthroponymique roumain est l’objectif déterminant dans l’établissement d’une périodisation de la formation du système anthroponymique actuel de la Roumanie par l’analyse des vagues d’influence. L’évolution du système anthroponymique roumain comporte plusieurs étapes: – la formation des anthroponymes dans le procès de romanisation sur le fonds de la christianisation de la population autochtone; – les emprunts onomastiques directs des peuples migrants: Slaves, Coumans, Hongrois ou les emprunts cultes a travers l’église par la langue grecque; – la fixation et la consolidation du système onomastique médiéval. La structure de l’inventaire onomastique se définit en relation avec les classes sociales et dans la perspective de la distinction entre un système dénominatif populaire et l’autre culte. 2.3. Le moyen de formation des noms individuels et de groupe et des hypocoristiques roumains On a analysé les principaux moyens de formation des formules de dénomination personnelle, y inclus ceux des hypocoristiques.
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En ce qui concerne le changement de la valeur onomasiologique et le comportement linguistique par le passage d’une classe à l’autre, le facteur le plus important dans la modification ou dans l’apparition de nouveaux noms de personne fréquents semble être la mode. Par conséquent, de nouveaux suffixes anthroponymiques ou des noms étrangers ainsi que des dérivés régressifs sont apparus pour remplacer les anthroponymes traditionnels. A présent, il y a le phénomène des emprunts des noms de stars, de personnalités politiques, culturelles, de personnages des films. Dans la transmission des noms, la charge sémantique disparaît, leur adaptation ayant lieu au niveau morphologique et phonétique. Ils sont entrés dans la classe des noms de personne certains adjectifs, numéraux, participes, vocatifs, auxquels on a ajouté des suffixes anthroponymiques spécifiques. (Marin 2004)
Les prénoms sont moins nombreux, mais avec une grande fréquence et avec un grand pouvoir de dérivation et de combinaison avec d’autres noms, tandis que les noms laïques sont plus nombreux, avec moins de variantes anthroponymiques et avec une distribution différente. Le plus important courant de renouvellement de l’onomastique roumaine a lieu a la fin du XVIIIe siècle en Transylvanie et il se prolonge au XIXe et XXe siècles. Il s’agit dans l’introduction de nouveaux prénoms, repris du répertoire onomastique latin et cela aura des repercursions sur tout l’inventaire des prénoms traditionnels. L’introduction des prénoms romanes dans le système onomastique roumain a eu lieu par voie savante, les formes onomastiques étant empruntées a la civilisation et a la culture latines (Cezar, Laurentiu, Marius, Remus): Aurelia, Cornelia, Livia, Valeriu. L’adoption moderne des noms de personne latins a eu de grandes chances a s’imposer dans l’onomastique roumaine grâce a la triple valeur des formes onomastiques: noms illustrant l’origine latine, noms affectifs et noms spécifiques introductifs (Tomescu 2001: 133). Le problème de la fixation des prénoms modernes, cultes dans la tradition onomastique roumaine, appartient à l’avenir qui va décider sur la conservation et sur la disparition de certaines formes. Le regretté prof. Gheorghe Bolocan a fondé à l’Université de Craiova, en 1992, le Laboratoire de Sciences Onomastiques dans le but d’élaborer un Dictionnaire des noms de famille de Roumanie, une première synthèse scientifique sur les noms de personne roumains, sans tenir compte de leur origine. Le Dictionnaire va inclure: – les noms de tous les citoyens de la Roumanie (en indiquant la fréquence de chaque nom et la diffusion de ces données sur le territoire). On a obtenu une liste de plus de 300.000 noms avec la mention du nombre de ceux qui les portent. – les attestations provenues des documents et des catagraphies ; On se pose le problème du nombre des noms de famille sur le territoire de la Roumanie (voir Dauzat). En 1995, on a initié à Craiova une revue de spécialité « Etudes et recherches d’onomastique », rédacteur en chef Gheorghe Bolocan. Le Dictionnaire toponymique de la Roumanie - Olténie, en 6 volumes de 500 pages. L’Institut de Linguistique « Iorgu Iordan » de Bucarest, sous la coordination de son directeur, l’acad. Marius Sala, participe à la réalisation du Dictionnaire historique des noms de familles romanes (PATROM), projet européen, initié il y a deux décennies et coordonné par le Comité International des Sciences Onomastiques, la Société de Linguistique Romane, la Société Américaine du Nom et la Société Canadienne pour l’Etude des Noms.
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Du point de vue de la modernisation du système onomastique, on constate les aspects suivants: 1. le changement de l’aspect de l’inventaire onomastique actuel par rapport à celui médiéval; 2. le changement n’a pas de répercussions sur l’inventaire onomastique car les formes traditionnelles coexistent avec les formes nouvelles; 3. la modernisation de l’anthroponymie ne suppose pas le remplacement des vieilles formes par des formes nouvelles; 4. la modernisation apparaît uniquement au niveau du fonds des prénoms et non pas à celui des noms de famille. Les prénoms religieux traditionnels, masculins ou féminins, continuent à occuper les deux premières places en ce qui concerne la fréquence: Gheorghe 1, Ion, Ioan 2/3, Vasile 4, Constantin 5, Maria 1, Elena 2, Ana 3, Ioana 4, Mariana, Mihaela 6, Ileana 7, Daniela 1. Dans le premier groupe de fréquence, il y a des noms de fêtes religieuses: Florin 10, Cristian 22, Floarea, Cristina 12, et comme noms modernes: Marian 11, Marius 14, les deux provenant du nom religieux Maria, bien que le nom latin Marius n’a aucune relation avec le prénom Maria. Les prénoms laïques slaves, qui étaient très fréquents dans le système anthroponymique médiéval occupent une place moyenne ou très modeste: Mircea 26, Dan 102, Vlad 103. Les noms laïques provenant des noms communs sont rares, la plupart des formes vieilles sont en déclin. Il y a pourtant les noms modernes Viorel 11 et Viorica 10 qui sont fréquents. On retrouve les noms modernes sur toute l’échelle de la hiérarchie: George 29, Victor 40, Alin 55, Eduard 119. Chez les noms féminins, la modernisation et plus accentuée: Alina 17, Doina 46, Ana Maria 100, Bianca 116, Otilia 140. Le changement de l’inventaire des prénoms sous la pression de l’innovation et de la mode onomastique va s’accentuer avec la modernisation de la vie sociale des Roumains. Les voies de pénétration des nouveaux noms se diversifient et se perfectionnent par l’intermédiaire de l’informatique, de la télévision, de la radio et du libre circulation des personnes. La modernisation du système onomastique roumain a impliqué l’officialisation des noms de famille, le renouvellement de l’inventaire par des formes néogrecs, latinistes et occidentales mais elle n’a pas altéré le fonds onomastique traditionnel, gardé jusqu’à nos jours. Les changements dans l’anthroponymie se manifestent plus rapidement que dans le lexique, ce qui fait que le système onomastique soit le miroir des transformations sociales, culturelles, ethniques, sur un certain territoire. 2. 4. Problèmes de grammaire soulevés par les noms de personne (le genre, le nombre, le cas, les structures syntaxiques, la dérivation) Le système morphologique des formules de dénomination montre que toutes participent à l’opposition de genre, qui est «une catégorie fixe des anthroponymes à fonction de classificateur formel» (Tomescu 1998). On a considéré que les porteurs des noms constituent une catégorie flexionnelle où la plupart des noms se présentent au singulier, mais cette thèse classique a été abandonnée, en démontrant que, du point de vue distributionnel, les noms propres sont soumis à l’opposition singulier / pluriel: «La règle des grammaires courantes de considérer comme singularia tantum les noms propres de personne ne correspond pas à la réalité linguistique» (Iordan 1954: 302).
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L’opposition de détermination ou l’articulation a une fonction exclusivement casuelle. Les anthroponymes expriment le Nominatif à l’aide des terminaisons de genre et de nombre, le Génitif / Datif à l’aide des morphèmes syntaxiques enclitiques et le Vocatif par les morphèmes synthétiques. Le comportement morphologique de même que celui syntaxique subordonnent les anthroponymes à la classe du nom commun. 2.5. L’orthographe, l’orthoépie et l’abréviation des noms de personne Quand ils sont empruntés aux systèmes onomastiques étrangers, les noms de personne créent des problèmes d’orthographe et d’orthoépie, les uns étant adaptés complètement. L’abréviation elle aussi pose des problèmes. Dans ce cas, il faut consulter les dénominations officielles des noms d’institution. 2.6. Les valeurs expressives des anthroponymes. La stylistique Dans la littérature, les noms propres ont une certaine charge sémantique, le rapport signifié-signifiant étant assez rapproché de celui des noms communs. Les noms de certains personnages littéraires sont devenus fréquents dans le système anthroponymique roumain, tout en influençant ainsi la mode. Ils sont devenus l’emblème du caractère du personnage ou de la complexité des ceux qui les portent. Par rapport à la réalité, le rôle des anthroponymes en littérature est parfois lié à leur sens, le rapport signifié-signifiant étant assez rapproché de celui entre les noms communs. 2.7. Interférences des différents systèmes onomastiques Ce problème est étudié partiellement et porte, surtout, sur le système slave de dénomination, sous nombreux aspects (diachronie). Comme les noms de personne sont des éléments qui marquent les tendances du roumain dans les différentes étapes de son évolution, leur recherche continue à différents niveaux et sous nombreux aspects dans les centres universitaires ou académiques où les jeunes chercheurs cherchent à déchiffrer les secrets des noms du début du XXIe siècle pour continuer le travail des prédécesseurs, car nomen est omen.
3. Conclusions La description de l’organisation anthroponymique roumaine, caractérisée par l’abstraction et par la généralité, a pour objectif, d’une part, la définition des noms de personne en rapport
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avec les relations qu’ils établissent, en fonction de leur place sur l’ensemble du système et non pas de leur nature et, d’autre part, la définition des combinaisons réalisées par les unités du système. L’inventaire de ces éléments, leur classement en fonction de l’accomplissement de la fonction anthroponymique, la description de la distribution des noms de personne dans différentes combinaisons gardent l’analyse anthroponymique dans le domaine de la linguistique synchronique. Le système anthroponymique roumain s’individualise par les aspects suivants: 1. Les noms de personne, tout comme les noms de lieu, font partie du patrimoine linguistique d’une langue et leur étude nous permet de mieux comprendre l’évolution de la langue à travers le temps. 2. L’inventaire des noms de personne a un caractère ouvert et dynamique. 3. Malgré la variété des formes onomastiques concrets, on constate que le système anthroponymique roumain présente des traits de généralité.
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Olga Mori (Universidad de Münster)
Acerca de la especificación de los nombres propios
1. El concepto de segunda designación Acerca del concepto de que los nombres propios son una segunda designación hay diferentes opiniones. Posiblemente, la más difundida sea la que considera que los nombres propios son segundas designaciones por ser homónimos de otras designaciones primarias simples o compuestas e incluso de oraciones. Fleischer (1985: 10-13) opina que este atributo no puede ser aplicado a todos los tipos de nombres propios y que otras designaciones también pueden ser llamadas secundarias y que por segunda designación debe entenderse un cambio de función, el paso de designaciones usuales al sistema onomástico. Bajo este concepto Coseriu (1973: 280) entiende otra cosa. Dice que el nombre propio es «un segundo nombrar individualizante y unificante; un nombrar que no está antes, sino después del nombrar mediante universales». Según este criterio, la primera designación de un referente personal es el nombre común, p. ej., hombre y la segunda el nombre propio, el antropónimo Juan, con el que se identifica a una persona determinada. En mi opinión, existen dos tipos de designaciones dentro del plano de los nombres propios. Segundas designaciones onímicas son los nombres no oficiales, los distintos tipos de sobrenombres utilizados para nombrar a un individuo ya designado por un primer nombre propio oficial. Aquí observamos la interrelación entre la primera y la segunda designación con nombres propios en el plano del habla. A veces funcionan independientemente unos de otros según el ámbito o el ambiente, otras complementándose.
2. Especificación informativa o identificación Partimos del presupuesto que los nombres propios son multívocos, es decir que, como meras formas, un mismo nombre puede designar distintos referentes. Según Coseriu (1973: 306-307), existe un tipo autónomo de determinación, la especificación informativa o identificación cuyos instrumentos son llamados identificadores, por medio de la cual se especifica el significado de una forma multívoca. Agrega:
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Olga Mori
La identificación es una operación que no se realiza con significados sino con formas, y en vista de la atribución del significado por el interlocutor: ella se cumple para que las formas sean inequívocas, es decir, para que el oyente les atribuya ciertos significados y no otros.
En este trabajo, observamos, entonces, cómo se establece la unicidad de un nombre propio en el plano del habla por medio de la especificación informativa o identificación para garantizar la identificación de un referente. Tenemos en cuenta dos casos: 1) el empleo de un mismo nombre propio para designar a diferentes individuos de la misma clase, p. ej., muchas personas se llaman Juan, y 2) el empleo de nombres propios homófonos que designan distintos tipos de referentes, p. ej., Córdoba es una provincia argentina, la capital de esta provincia, el nombre de una calle y el de un negocio.
3. Los nombres propios oficiales Los nombres propios oficiales, por ejemplo los antropónimos, se diferencian de otros signos lingüísticos por estar reglamentados por ley, o sea que, al estudiarlos, hay que tener en cuenta dos aspectos, el legal y el lingüístico, aunque más no sea en diferentes niveles de análisis. La estructura y el empleo de los nombres propios oficiales están fijados por ley, debido a lo cual en el plano de la norma y en el del habla, el aspecto legal interfiere en el lingüístico reglamentando las estructuras de estos nombres mientras que la de los no oficiales solo depende de las posibilidades del sistema de cada lengua. Es más, como las leyes que fijan el uso de los nombres de persona están sujetas a modificaciones por adelantos sociales o a petición de los habitantes, la forma, la lengua y la nomenclatura de los antropónimos se ven sometidas a cambios temporales. Como consecuencia de delimitaciones político–geográficas, los nombres propios oficiales acusan diferencias estructurales dentro de la zona lingüística del español, es decir que no hay uniformidad sino semejanzas de estructuras y de nomenclaturas entre las distintas zonas, las que deben ser respetadas, por ejemplo, en los textos literarios que tratan de reproducir el habla de una zona. Sólo a título de ejemplificación comparamos, brevemente, la ley española con la argentina sobre la imposición de un nombre de persona. En primer lugar, ambas leyes establecen que la adjudicación de un nombre propio identificador a los recién nacidos dentro de un plazo determinado es un derecho y un deber; además fijan la lengua, el género, la estructura, la cantidad, y el significado de los nombres. 3.1. La ley española sobre la otorgación de nombres de persona La ley española publicada por el Registro Civil (1989) establece, en el Capítulo III, Del nombre y apellidos, §§ 53-54, 40–41, que las personas deben ser designadas por su nombre y apellidos, paterno y materno. Los nombres de los ciudadanos españoles deberán ser consignados en alguna de las lenguas españolas. Se prohíben los nombres extravagantes,
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impropios de personas, irreverentes o subversivos así como la conversión en nombre de los apellidos o seudónimos. No se debe imponer al nacido el nombre de un hermano vivo o cualquier otro que dificulte la identificación. Además, la ley fija qué apellidos se impondrán y en qué orden en el caso de filiación legítima, de hijos naturales o de padres desconocidos. Además, la ley establece (Título V, Sección 5.a. Del nombre y apellidos. Subsección 1.a. Del nombre propio, §192, 126) que no se pueden otorgar más de dos nombres simples unidos por un guión o uno compuesto. Si los nombres en lenguas extranjeras tienen traducción se registrarán en una de las lenguas españolas que elija la persona que otorga el nombre. No se deben emplear nombres extravagantes que solos o en combinación con los apellidos no respeten el decoro de las personas ni los que hagan confusa la designación o induzcan a error sobre el sexo. En la Subsección 2.a. De los apellidos en general, §194, 126, se establece que la conjunción copulativa se empleará entre el apellido paterno y el materno. No se permite el empleo del apellido Expósito ni de ningún otro que indique origen desconocido (§196, 127). Por otra parte, se fija que los que adquieran la nacionalidad española conservarán los apellidos con la variante femenina o masculina admitida en el país de procedencia (§§199-200, 127). 3.2. La ley argentina A grandes rasgos existen semejanzas entre la ley española y la argentina. En Argentina, la ley Nº 18.248 de la Dirección Nacional del Registro Oficial publicada en el Boletín Oficial de la República Argentina en 1969 fija la adjudicación de los nombres propios oficiales de las personas. Esta ley fue modificada en 2006 eliminándose algunos aspectos en los que se discriminaba a las mujeres. Un cambio importante es el agregado de que el nombre debe individualizar e identificar, lo que está relacionado con su función lingüística. Se permiten hasta tres nombres de pila. Según la nueva versión, no se usará más el apellido paterno solo sino los apellidos paterno y materno sin nexo de unión entre ellos, incluso si éstos son compuestos, pero no podrán ser más de cuatro. Antes, las mujeres casadas debían adoptar el apellido del esposo precedido por la preposición de; en la actualidad, es optativo para ambos cónyuges añadir el apellido del otro precedido por la preposición . En lo que respecta a la lengua, se usa el castellano y se adaptan los nombres extranjeros de difícil grafía y pronunciación. Por el Art. 1 de la Ley N° 23.162 del 30.10.1984 se permite inscribir nombres procedentes o derivados de voces aborígenes autóctonas previa realización de un trámite administrativo ante el Instituto Nacional de Asuntos Indígenas que fundamente el nombre indígena en castellano. Se pueden usar nombres idénticos para hermanos vivos siempre y cuando uno de los tres nombres de pila sirva para identificar. En lo que concierne al significado, se ha introducido un concepto más amplio, prohibiéndose la inscripción de nombres lesivos a la dignidad de la persona. 3.3. Comparación de las dos leyes Las leyes de los dos países varían en la cantidad máxima de nombres y apellidos que se pueden imponer y en el empleo de una conjunción o guión para unir los nombres o no. Actualmente, la ley argentina se acerca más a la española porque permite usar el
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apellido de la madre también aunque sin conjunción. Este segundo apellido materno puede, en ocasiones, asegurar la univocidad del nombre. Difieren en la posibilidad dada a los cónyuges de optar por el apellido de uno de ellos precedido por la preposición de al casarse y respecto a las lenguas utilizadas. En los dos países, el nombre no debe dejar dudas acerca del sexo del designado, lo que implica la existencia de nomenclaturas de nombres femeninos y masculinos. La ley española va más lejos al aceptar nombres extranjeros con diferentes terminaciones de acuerdo al género. Con mayor o menor detalle, las dos limitan la selección de los nombres por su poder evocativo. En el plano del habla difieren las nomenclaturas de los dos países, a veces hasta el extremo de que algunos nombres usados en España son tabú en la Argentina. Sin embargo, desde el punto de vista pragmático, lo prescrito por la ley no se cumple fielmente. Así, en lo que respecta a la connotación política, en los dos países han sido adjudicados nombres a los recién nacidos que evocan las ideas políticas de los progenitores. A pesar de la restricción de seleccionar nombres de acuerdo al sexo, en la norma del español Jesús, José, Ángel y María pueden formar nombres compuestos en los que el primer nombre actúa como especificador del sexo de los nombrados María José, María Jesús, María Ángel y José María, Jesús María. No obstante la cantidad de nombres y apellidos registrados en los documentos oficiales para asegurar la identificación, muchas personas no los emplean en la norma individual. Tal proceso de reducción puede llegar hasta emplearse solo las iniciales en una firma: J A < José Antonio. Estas leyes, no necesariamente conocidas por los ciudadanos, les quitan libertad creativa, limitan su expresividad y la necesidad de nombrar a alguien con afecto. Los hablantes no se limitan al empleo de los nombres oficiales sino que crean segundas designaciones no oficiales que transgreden lo establecido por las leyes. Los apodos, por ejemplo, son ridículos, extravagantes, suelen expresar tendencias políticas e ideológicas y, a veces, suscitan intencionalmente equívocos respecto al sexo de la persona. Escapan a todo tipo de restricciones respecto al número de elementos y de construcción morfosintáctica y algunos tipos de sobrenombres se forman por alteración de la forma del nombre legal, p. ej., del apellido Tabanelli se ha formado Tábanos; otros se crean para que sean homófonos de nombres propios aceptados en la norma escondiendo una connotación negativa: Elena < el enano (Mori 1993).
4. Especificación o identificación de los nombres propios legales Ahora bien, debido a la multivocidad de los nombres propios surge la necesidad de especificarlos para asegurar la identificación. El apellido o los apellidos actúan de identificadores del nombre de pila. Sin embargo, en general, no se ha tenido en cuenta en la gramática la existencia de la especificación dentro del nombre de pila. Uno de los nombres debe identificar a hermanos; en Argentina se repite con frecuencia el nombre María, p. ej., María Rita, María Inés y María Julia Echeverría son hermanas. Aquí el segundo nombre de pila actúa como especificador del primero y como desambiguador e identificador principal
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porque el primer nombre y el apellido coinciden. A pesar del propósito de los padres de llamarlas por los dos nombres, en el ámbito familiar suele caer el primero y el segundo se convierte en el identificador individual. Asimismo, en el habla, se tiende a simplificar los nombres legales y a crear nuevas designaciones a partir de ellos para sustituirlos, hecho que se observa en la abundante creación de formas hipocorísticas o de otros sobrenombres. En el ejemplo mencionado, las niñas recibieron esporádicamente los sobrenombres: Riti o Rata < Rita, Inu < Inés y Maju < María Julia. Este ejemplo pone en evidencia varios hechos en el plano de la norma, por un lado, la influencia de la norma individual en la elección de nombres legales, por otro, la influencia de la norma social que considera el empleo de nombres compuestos con María, de fuerte connotación religiosa, adecuados, bonitos y clásicos. Este nombre no solo se utiliza para formar compuestos sino que según sean las advocaciones de la Virgen que se quieran evocar, el nombre de pila María va modificado por la preposición de + (Art) + NP: María del Pilar, María de la Macarena, María de las Nieves, María del Huerto, María de los Milagros. También se encuentra este tipo de identificación para nombres masculinos, p. ej.: Juan de Dios. Debido a la gran frecuencia de estos nombres compuestos, en el habla se suele abreviar María cuando es segundo nombre, pero se llega hasta el punto de abreviarlo cuando es el primer nombre porque éste se sobreentiende, p. ej., en tarjetas de identificación se han usado: M. Isabel Zwanck y M. Verónica Paladini. En España se emplea la abreviatura Ma. 4.1. Los nombres propios no oficiales funcionan como una segunda designación Si bien la identificación e individualización legal de una persona está dada por el nombre oficial completo, éste solo se realiza obligatoriamente en su totalidad en ámbitos oficiales: documentación personal, trámites legales, pasajes aéreos, etc., y en ocasiones especiales del ámbito privado tales como participaciones de eventos familiares importantes. Ahora bien, como se ha dicho, existe otro tipo de segunda designación. Los nombres propios no oficiales constituyen una segunda designación de tipo metafórico para un referente ya designado por un nombre propio oficial. Con frecuencia, los hablantes hallan que los nombres oficiales no expresan la carga emotiva deseada en ciertas situaciones y crean otros que usarán solos como identificadores individuales o con los nombres legales. Los nombres propios oficiales y los no oficiales tienen sus propios ámbitos de realización en distintos registros, lo que no quiere decir que se excluyan ni que unos tengan más o menos valor que los otros, antes bien, en ciertas situaciones, llegan a complementarse. Desde el punto de vista de la comunicación los nombres no oficiales no solo identifican sino que proveen una mayor cantidad de información sobre el designado. Las restricciones en el empleo de los nombres no oficiales no son de carácter legal sino que están impuestas por el decoro, por la norma social que aceptará o no el uso de algunos tipos de sobrenombres según el ambiente. Como los nombres propios ya están actualizados porque en ellos la designación coincide con la denotación, en el plano del habla, la situación y el contexto pueden garantizar la identificación de un referente incluso para una parte del nombre multívoco, ya sea éste el nombre de pila o el apellido, sin posteriores delimitadores (Coseriu 1973: 307). El registro
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de lengua y la norma determinan el tipo y la forma del nombre que se usa o se debe usar en un acto de habla. En el vocativo, se emplean, según el ámbito, el nombre, el apellido o un sobrenombre solos porque la identificación del nombre multívoco está dada por la situación y la asociación directa entre designación y referente. En cambio, al hablar de una tercera persona no conocida a todos los participantes del acto de habla puede surgir la necesidad de identificar el nombre multívoco: ¿Qué Juan? Juan López; Juan, el hijo de la panadera; el Flaco López; Juan, el farmacéutico, etc. 4.2. Diferentes posibilidades de especificar o identificar un nombre propio Entre las posibilidades existentes de especificar o identificar nombres propios para que resulten inequívocos, figuran las siguientes: 1. el nombre de pila es especificado por el apellido paterno: Ramiro García; 2. el apellido materno puede identificar y distinguir dos nombres y apellidos iguales: Santiago López Guerrero y Santiago López Erb; 3. el apellido de casada puede identificar a una mujer en Argentina: Sra. de Rodríguez y en la actualidad, el apellido de la esposa puede identificar a un hombre también; 4. un nombre de pila evita la multivocidad si el otro nombre de pila y el apellido coinciden: Domingo Faustino Sarmiento (1811-1888) y Domingo Fidel Sarmiento (1845-1866, hijo adoptivo de Domingo Faustino Sarmiento); 5. los numerales identifican los nombres de reyes, emperadores, papas, etc.: Felipe II, Carlos V, así como también los sobrenombres: Alfonso el Sabio, Isabel la Católica. Incluso se usan los dos procedimientos simultáneamente: Alfonso II, , donde Alfonso ya identificado por el numeral lleva, además, un sobrenombre en aposición (Luna 2003: 24). 6. En el ámbito de la nobleza se suele identificar el nombre de pila con el lugar de origen precedido por la preposición más el título: María Josefa de Borbón y Sajonia, infanta de España. 7. Algunos de los identificadores se han fijado en la norma según el ambiente, p. ej., se usan viejo y joven para diferenciar entre padre e hijo en la pintura: Hans Holbein, el Viejo y Hans Holbein, el Joven, aunque también se encuentra Juan de Borgoña hijo como en el habla estándar: Pedro López, hijo. 8. Cuando un antropónimo ha sido transpuesto para designar un negocio y este pertenece a varios hermanos que tienen el mismo apellido, se especifica con una abreviatura la relación existente entre los dueños, p. ej.: Brandli Hnos, Colamé Hnos. Otras estructuras gramaticales con nombres propios oficiales pueden aclarar quiénes son los dueños de un negocio, p. ej., con una conjunción copulativa Pedro Balestrino E Hijo o con un nombre propio en la frase preposicional: Hijos de Ivo Querzoli. Además de estos casos de carácter casi fijo en la norma, en el habla coloquial o en textos que la reproducen se observa un uso creciente de interrelación entre nombres oficiales y no oficiales. Estos también individualizan por sí mismos y llegan a sustituir al nombre oficial en algunos ambientes y en comunidades pequeñas. Como los sobrenombres son también multívocos, en ocasiones deben ser identificados por el apellido: El Flaco López. Los nombres oficiales y los no oficiales no funcionan siempre independientemente unos de otros en el habla sino que participan juntos en distintos tipos de relaciones de identificación. En Argentina, se emplean en el lenguaje coloquial oral y escrito, en la prensa y en la televisión, como se documenta en los ejemplos siguientes.
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El sobrenombre funciona: 1. en forma independiente: Fue arrestado ‹el Polaco›. (TV, Canal 11, 07.05.2010); 2. en reemplazo del nombre, especificado o identificado por el apellido o por una frase preposicional: El ‹Fino› Palacios le salvó la vida a Macri. (TV, Canal 11, 10.05.10); Murió el ‹Chacal› de Mendoza. (TV, Canal 13, 06.05.2010); 3. como identificador del nombre de pila: Alejandro ‹Huevo› Müller y Carlos ‹Chacho› Alvarez (Pronto, Año 14, Nº 701, 06.01.2010), Miguel ‹Mameluco› Villalba (La Nación, 23.05.2010); 4. como identificador de todo el nombre propio en una noticia necrológica: Rubén José Melchiori ‹Bicho› (La Opinión, Nº 7072, 28.05.2010).
5. Designación de referentes de distintas clases por un nombre propio multívoco Otro tipo de multivocidad es el empleo de nombres propios homófonos para designar referentes pertenecientes a diferentes clases. Por ejemplo, Tomás Manuel de Anchorena (1783-1847) es un antropónimo que designa a un jurisconsulto, diputado por Buenos Aires en el Congreso de Tucumán. Las calles de Baradero, Argentina, han sido designadas con los nombres de los congresales para recordar este gran evento histórico con el que se sella la independencia argentina en 1816. Como antropónimo, Anchorena es parte del nombre propio legal, el apellido, identificador del nombre. En segundo lugar, Anchorena es un odónimo, pero no se emplea el elemento genérico calle en la señalización; en España se usaría el elemento genérico más una frase preposicional Calle de Anchorena. En tercer lugar, este nombre se ha empleado para designar un tercer tipo de referente, un negocio, en: Farmacia Anchorena. Es una nueva transposición a partir del nombre de la calle para indicar el lugar donde está situado el negocio. Debido a las posibles transposiciones se va formando una cadena de nombres propios multívocos que se evocan unos a otros aunque designan distintos referentes. La transposición se realiza con nombres propios ya existentes y, en realidad, ésta se lleva a cabo no solo para identificar un referente sino para conservar parte del significado evocativo que conlleva el nombre. Cuando Anchorena se emplea para designar un tercer referente mantiene la evocación de los dos empleos precedentes aunque en este caso prevalece el segundo pues se intenta hacer notar la ubicación del negocio. Cuando se realizan transposiciones existen restricciones según la lengua y aun dentro de la misma lengua como lo hemos comprobado en el caso de la designación de las calles (Mori 2007). A veces es necesario incluir la parte genérica en el compuesto, otras no. El elemento genérico indica la clase a la cual pertenece el referente designado. Si no se usa un elemento genérico, la situación o el contexto indican cuál es el referente en el acto del habla. De todos modos, no consideramos los casos de transposición como ‹polifuncionalidad› del nombre propio pues la función es la misma, lo que cambia son los referentes. Tampoco pensamos que sean homónimos sino homófonos porque son meras formas con significado evocativo (cf. Fleischer 1985: 23).
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5.1. Acerca de los topónimos oficiales multívocos También los topónimos oficiales son nombres multívocos, motivo por el cual requieren identificadores para garantizar la identificación de un referente. Coseriu (1973: 307-308) distingue tres tipos de identificadores: ocasionales (Córdoba, Argentina); usuales (Castellón de la Plana) y constantes (Nueva York). Los identificadores usuales y los constantes forman con el determinado un nombre compuesto, hecho que no impide que puedan suprimirse en el habla. Además, los nombres geográficos se identifican por medio de otros sustantivos propios o comunes y de adjetivos. El determinador no particulariza el objeto denotado sino el nombre con respecto a otros nombres formalmente idénticos. Muchos nombres oficiales están formados por un nombre genérico que designa un referente geográfico más frase preposicional. El elemento genérico designa la clase de referente geográfico a la que se le adjudicó el nombre multívoco. Por ejemplo, en Argentina, los nombres de muchas ciudades son homófonos de los de las provincias de las cuales son capitales. En el plano oficial legal se diferencian unos de otros por el elemento genérico: Provincia de Córdoba y Ciudad de Córdoba, Provincia de La Rioja y Ciudad de La Rioja. Hay casos en que, aunque los nombres oficiales de la capital y de la provincia sean distintos, esta diferenciación no se hará en el lenguaje hablado, p. ej., el nombre oficial de la capital de la Provincia de Tucumán es San Miguel de Tucumán, el homófono de un hagiónimo San Miguel identificado por de + Tucumán, y el de la capital de la Provincia de Catamarca es San Fernando del Valle de Catamarca con dos identificadores, pero en el habla, por un proceso de reducción, se emplean solo Tucumán y Catamarca. En cambio, la ciudad de Buenos Aires no es la capital de la Provincia de Buenos Aires, cuya capìtal es la ciudad de La Plata, sino que es la Capital Federal de la República Argentina, nombre compuesto en el que hay tres identificadores constantes: Federal determina a Capital y de la República Argentina a Capital Federal y Argentina a República. A pesar de la existencia de estos nombres propios oficiales, en el habla coloquial se suelen suprimir los elementos genéricos. El contexto o el conocimiento de la realidad extralingüística actúan como determinadores no verbales: Alguien vive en Buenos Aires o viaja a Buenos Aires, con lo que se sobreentiende Ciudad de Buenos Aires. Los elementos genéricos son importantes desambiguadores en el caso de multivocidad del topónimo. En este ejemplo especial es posible evitar toda ambigüedad en cuanto al referente sustituyendo Buenos Aires por Capital Federal. En las direcciones postales se puede escribir Capital Federal, y los hablantes suelen decir: Vivo en Capital o Voy a la Capital. La identificación del referente correcto del topónimo multívoco puede resultar de la situación del acto del habla, del contexto, y del conocimiento de la realidad extralingüística. Si alguien dice Voy a Córdoba a visitar a Magdalena, se sobreentiende ciudad si los hablantes conocen a la persona mencionada. En Vamos de vacaciones a Córdoba se supone que será algún punto de las sierras de la Provincia de Córdoba. También en revistas que reproducen el estilo coloquial, con frecuencia, se disocia una parte de los topónimos oficiales compuestos, los identificadores usuales, en un cierto contexto. Así, en lugar de Punta del Este, una ciudad de veraneo en Uruguay, se dice solamente Punta, p. ej., Llegaron a Punta para recibir el Año Nuevo (Pronto, Año 14, Nº 701, 06.01.2010), lo que evoca conocimiento del lugar, una clase social elevada de los veraneantes y demás. Por otra parte, en un mismo texto, pueden alternar el nombre completo y el abreviado, sobre
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todo cuando ya se ha mencionado en primer término el nombre compuesto. Lo que también puede facilitar la disociación es que no haya otros topónimos conocidos en la misma región construidos con la palabra Punta. La disociación o reducción de los identificadores usuales no es aplicable del mismo modo a todos los topónimos, sino que se debe estudiar cada caso en particular. Por ejemplo, en Mar del Plata, Argentina, no será factible usar solo Mar porque existen otros topónimos compuestos con Mar: Mar de Ajó, Mar del Tuyú, Mar del Sur; en cambio, se ha creado un nuevo nombre Mardel usado en el lenguaje coloquial con un cierto tono irónico. El topónimo oficial puede ser reemplazado por un sobrenombre si la identificación del referente queda asegurada; así, Mar del Plata es conocida como La Feliz. p. ej.: El gobernador bonaerense viajó a La Feliz con la intención de ver el estado de la ciudad y visitar a varios amigos que hacen temporada (Pronto, Año 14, Nº 701, 06.01.2010). Los nombres propios compuestos formados con la designación de un referente geográfico pueden recibir distintos determinadores, p. ej., adjetivos: Punta Rasa, Punta Delgada, Mar Chiquita, apelativos: Punta Cantera, nombres propios: Glaciar Perito Moreno, preposición + nombre propio: Estrecho de Magallanes. Diferentes referentes geográficos pueden ser designados por un nombre propio multívoco, p. ej., Valencia es el nombre de un lago, de un golfo y de dos ciudades, pero como en las construcciones con antropónimos, el elemento genérico o la identificación aseguran la identificación del referente designado por el nombre multívoco. A pesar de que los identificadores ocasionales son optativos, suelen ser indispensables en el caso de topónimos multívocos en determinados contextos y ámbitos, p. ej., planes de viajes, horarios y atlas geográficos. Muchos topónimos españoles fueron llevados a América y existen Córdoba, España; Córdoba, México, y Córdoba, Argentina. De allí la necesidad de diferenciarlos con la especificación del país en el que se encuentran. La falta de especificación de los topónimos ha dado lugar a graves equivocaciones. 5.2. Enfoque de la Real Academia Española La Real Academia Española (2009: §12.13. 875-885) describe las construcciones apositivas como secuencias en las que un sustantivo modifica a otro sustantivo y las clasifica en especificativas ‹A B› (mi amigo Arturo) y explicativas ‹A, B› (mi amigo, Arturo). En las especificativas un nombre puede unirse directamente con otro (la ópera Fidelio), otras veces por la preposición ‹de› (el canal de Panamá) y en otros casos es opcional (la calle de Alcalá). No restringen la denotación del sustantivo, sino que indican la referencia del sustantivo sobre el que inciden. Muchas de ellas llevan un nombre propio que identifica al nombre común: la torre Eifel, el novelista Cervantes, el hotel Imperio, etc. Considera aposición especificativa los ejemplos que hemos llamado identificación, tales como la relación entre nombre de pila y apellido o entre nombre oficial y apodo. En las aposiciones explicativas el segundo término agrega alguna precisión o comentario del primero: Ámsterdam, capital de Holanda, es una ciudad cosmopolita (R.A.E. 2009: §12.15. 893-898).
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6. Conclusiones Hemos distinguido dos tipos de nombres propios, legales u oficiales y no oficiales, primeras y segundas designaciones respectivamente, que pueden funcionar independientemente unos de otros en el discurso en distintos ámbitos. Debido a la multivocidad de los nombres propios, las leyes deben garantizar la identificación e individualización, por lo cual tanto un apellido como un nombre pueden funcionar como identificadores en un nombre oficial. Existen otras posibilidades de identificación cuyo uso es relativamente fijo en la norma. Además, el sexo del referente debe quedar especificado ya sea por la selección de nombres masculinos o femeninos según las nomenclaturas oficiales o por la posición de los componentes de un nombre de pila compuesto. Como la comparación de las leyes lo demuestra, las primeras designaciones oficiales presentan tanto semejanzas como diferencias dentro de la zona de habla española, lo que también es válido para los sobrenombres. En el plano del habla no siempre se utilizan los nombres oficiales completos sino partes de ellos, pero la situación o el contexto deben garantizar la identificación del referente, hecho que merece un estudio en particular. Los sobrenombres, segundas designaciones, también son multívocos y por lo tanto pueden necesitar identificadores en el discurso. En el habla, los dos tipos de designaciones suelen complementarse: a veces, los sobrenombres actúan de identificadores de los nombres propios oficiales y otras, los nombres propios legales son identificadores de los sobrenombres, posibilidad que dependerá de la estructura del sobrenombre. Además, los nombres multívocos participan en otro tipo de construcciones con un nombre común que adjudica el nombre propio a una determinada clase de referentes.
Bibliografía Boletín Oficial de la República Argentina (24.6.1969): Registro de estado civil. Nuevas normas para la inscripción de nombres de las personas naturales. Ley Nº 18.248. Año LXXVII. Nº 21.709. Buenos Aires: Dirección Nacional del Registro Oficial. Boletín Oficial del Estado (1989): Registro Civil. Madrid: Imprenta Nacional del Boletín Oficial del Estado. Coseriu, Eugenio (³1973): Teoría del lenguaje y lingüística general. Madrid: Gredos. Fleischer, Wolfgang (1985): Der Eigenname als sekundäre Benennung. In: L/S 129/l, Reihe A, 10-28. Luna, Félix (2003): La cultura en tiempos de la Colonia (1536-1810). Buenos Aires: Planeta. Mori, Olga (1999): Anthroponyme als Spitznamen. In: Kremer, Dieter (ed.): Onomastik. Akten des 18. Internationalen Kongresses für Namenforschung. Trier, 12-17. April 1993. Band III, Namensoziologie. Tübingen: Niemeyer, 104-111. — (2007): Odonyms of Buenos Aires and Tarragona: a comparative approach. In: Onoma 42, 89-109. Real Academia Española (2009): Nueva Gramática de la lengua española. Morfología. Sintaxis. Vol. 1. Madrid: Espasa.
Ángel Narro (Universitat de València)
Mítica de los moros y moras de la toponimia peninsular1
1. Introducción En la toponimia peninsular encontramos un buen número de topónimos que contienen ya de manera total, ya parcialmente alguna referencia a los términos ‹moro› y ‹mora›, lo que popularmente se interpretó como un vestigio de la influencia de la dominación musulmana en la península ibérica. Así pues, la fascinación popular –e incluso culta en ocasiones– por este tipo de topónimos provocó que se comenzaran a crear en torno a éstos un sinfín de cuentos y leyendas con los moros y las moras como protagonistas centrales del relato, remitiendo a una época histórica pasada quasi-mítica. La importancia de esta relación entre topónimo y leyenda, ha de ser analizada con una cierta cautela. Hace ya bastantes años, que las explicaciones mítico-legendarias de topónimos con ‹moro› y ‹mora› quedaron totalmente obsoletas –excepto en algunos casos de especial relevancia en el imaginario popular como, por ejemplo, el Suspiro del moro granadino– y se trataron de explicar la mayoría de estos topónimos a partir de la base toponímica preindoeuropea mor-, cuyo significado primigenio hace alusión a un ‹montón de piedras› (Hubschmid 1970: 29-30), aunque parece oscilar entre dos conceptos: el de ‹piedra o roca› y el de ‹punta›, entre cima y peñasco (Querol 2000: 411). A partir de esta base toponímica se habrían creado un buen número de topónimos que aluden a esos ‹moros› o ‹moras› de manera clara como Mora (Toledo), Mora d’Ebre (Tarragona), Moro (Badajoz, Valencia, Lérida), San Salvador de Moro (Asturias), analizados por Galmés de Fuentes (2000: 45), a los que, en nuestra opinión, se podrían añadir los topónimos de Mora de Rubielos (Teruel) y sus vecinos Rubielos de Mora, Linares de Mora y Cabra de Mora, dependientes del primero; Móra la Nova (Tarragona, vecina de Móra d’Ebre), Moros (Zaragoza) y Venta del Moro (Valencia). Por otro lado, como también Galmés de Fuentes indica (2000: 45-46), la asociación de esta serie de topónimos que designan localidades situadas en territorios rocosos o peñascos no parece tan clara en otros topónimos como Morata (Zaragoza), Morato (Asturias), La Moría (Asturias), Moratilla (Guadalajara), Moratón (Almería), Moratalla (Murcia), Moreda (Asturias y León), Moral de Órbigo (León), Moraleja (Cuenca, Albacete…), Moraleda (Albacete), Moraña (Pontevedra), Moreira (La Coruña, Lugo, Orense, Pontevedra), San Pedro de Mor (Lugo), Morella (Castellón), Morell (Mallorca), Morilla (Huesca) o Morón (Sevilla), a los que se podrían sumar algunos otros 1
Investigador becado por la Conselleria d’Educació de la Generalitat Valenciana gracias al programa de Becas de Formación de Personal Investigador (BFPI).
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topónimos de los considerados mayores como Moradillo del Castillo, Moradillo de Roa y Moradillo de Sedano (Burgos) o Morata de Tajuña (Madrid). Con todo, a pesar de los estudios toponímicos científicos en esta línea, disociar el topónimo de la leyenda popular no siempre es fácil e incluso en ocasiones se pueden encontrar leyendas cultas para explicar el topónimo en cuestión, como en el caso del topónimo sevillano Morón de la Frontera, cuyo origen se piensa que está en el término latino Mauror, de donde derivaría ‹morón›, término homónimo del castellano antiguo morón, cuyo significado, al parecer, era el de ‹caballo›, derivado de mauron, ‹caballo negro› en época de Isidoro de Sevilla (Pascual 1995: 603); explicación poco convincente teniendo en cuenta la particular situación geográfica del municipio, muy similar a la del resto de los topónimos antes citados. Por el contrario, existen también algunos casos en la toponimia peninsular en que los estudiosos han aceptado la explicación etimológica a partir del término latino maurus, fonéticamente caricaturizados según Ballester (2006: 10), en los casos de algunos de los moriscos de la toponimia hispánica, como el Moriscos de Gran Canaria, el de Salamanca o el Morisco abulense (Trapero 1999: 295). Como no podría ser de otra manera, en la toponimia menor los casos en los que aparecen formas derivadas de la base toponímica mor- se multiplican de manera exponencial a la hora de designar prominencias del terreno como por ejemplo en ámbito catalán los topónimos de la Morella, el Morell, Moratella, Moraira, la Morana o Morquerol (Querol 2000: 405). En la toponimia balear Galmés de Fuentes considera que algunos topónimos como Moro, Morell, Morelló o Moragues son análogos a los Moría, Moreda, Moral o Morón peninsulares (Galmés 1992: 311), y señala además que en los lugares en que aparecen esta serie de derivados de la base mor- se hayan emplazados monumentos megalíticos o talayots, es decir, ‹un montón de piedras› (Galmés 1983: 413). No obstante, hemos detectado casos de topónimos menores en los que aparecen elementos que hacen referencia a ‹moros› o ‹moras› que no pueden ser explicados a partir de esta base toponímica por diferentes razones que a continuación analizaremos con todo detalle.
2. Casos inexplicables a partir de la base toponímica mor-. El caso de los topónimos de Fuentenebro (Burgos) En un trabajo que realizamos acerca de la toponimia de Fuentenebro, población situada en el extremo sur de la provincia de Burgos, encontramos una serie de topónimos que incluían algún elemento susceptible de ser relacionado con la base toponímica mor-. Nuestro trabajo de campo detectó un total de seis topónimos que hacían alusión directa o indirecta a un ‹moro› o una ‹mora›: Moruga, Campo del Moro, Casa del Moro, el Reguero del Castaño Morito, Hoyo Moro y el Responso de la Mora. El primero de los términos atestiguados en este municipio burgalés de Fuentenebro, Moruga, parece ser el único cuya etimología está realmente relacionada con la base mor-, ya que hace referencia a una zona en la que se alza un promontorio pedregoso que curiosamente
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se halla frente a la colina en la que se encuentra la vecina población de Moradillo de Roa, en nuestra opinión otro topónimo de similar naturaleza. El segundo de ellos, el de Campo del Moro, según los informantes del municipio nada tiene que ver con la Casa del Moro, aunque su situación no se corresponde con la de un promontorio rocoso ni un peñasco, por lo que es más que razonable sospechar que en realidad se trate de un caso similar al de la Casa del Moro, éste sí atestiguado con seguridad. En este caso estamos frente a un antroponímico, pues la zona de la Casa del Moro hace referencia al enclave en el que antiguamente se encontraba la casa, de la que hoy día tan sólo quedan ruinas, de un tal Lucio Moro, antiguo habitante de la localidad conocido por los informantes consultados más ancianos. Sin embargo, para el Campo del Moro existe otra posibilidad digna de considerar a través de las leyendas populares sobre moros y moras en el municipio como veremos en el topónimo del Responso de la Mora. Mucho más curioso es, en cambio, el caso del Reguero del Castaño Morito, reguero que recibe su nombre a causa del castaño, de color algo más oscuro de lo normal, que se sitúa dominando el curso del mismo. La denominación de este castaño como ‹morito› se produce a partir del uso popular del adjetivo ‹moro›, éste sí del latín maurus, con el significado no de ‹musulmán› o ‹sarraceno›, sino de ‹oscuro› o ‹negruzco›. Este uso como adjetivo calificativo a partir de un uso popular debería ser estudiado para establecer paralelismos dentro de la toponimia peninsular. Quizá este mismo sentido tenga el elemento moro de Hoyo Moro, ya que es más probable que un hoyo sea oscuro o sombrío, a que se utilice un elemento que normalmente designa elevaciones rocosas del terreno para designar contradictoriamente una zona de depresión. Aún así, no estamos en disposición de determinar la naturaleza de este topónimo. Para acabar con los topónimos recogidos en nuestra labor de campo en el municipio de Fuentenebro nos queda por citar el Responso de la Mora, topónimo que hace referencia a una determinada zona del arroyo que atraviesa de sur a norte el término municipal de la localidad y que se halla a los pies de una montaña en la que se encuentran las ruinas de una torre vigía de época medieval. En el municipio se cuenta la leyenda aún hoy de que en esa torre vigía –para los oriundos de la localidad castillo musulmán– habitaba una reina mora que bajaba a bañarse hasta el arroyo día tras día y que cuando murió se la enterró en el lugar en el que todos los días tomaba el baño. Los informantes secundan la historia narrada por Pecharromán, autor de un libro sobre el municipio, según la cual, los niños del pueblo cada vez que pasaban cerca del lugar en el que se supone que yace enterrada la reina mora lanzaban una piedra y decían: ‹¡Responso de la mora!›, para así honrar su alma (Pecharromán 2007: 160). El topónimo designa un montón de piedras sobre el que, supuestamente, descansa la mora protagonista del relato. Sin duda, es curioso que el topónimo, creado seguramente a partir de la leyenda del Responso de la mora haga referencia a un montón de piedras, significado que tiene, por otra parte, la base preindoeuropea mor-. ¿Estamos ante una casualidad? ¿O es que acaso este Responso de la mora esconde una denominación anterior derivada de la base mor-, pero sufrió una transformación a causa de las leyendas populares sobre moros y moras en el municipio? ¿Fue la leyenda realmente la que originó el topónimo y causó el montón de piedras, o a la inversa, el montón de piedras (mor-) lo que hizo nacer el relato mítico? Contestar a cualquiera de estas preguntas podría ser harto complicado ya que carecemos de los medios necesarios para poder determinar qué existió antes si el huevo o la gallina, en este caso el montón de piedras o la leyenda. Sin embargo, lo que sí que podemos hacer es
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comparar esta leyenda con otras existentes a lo largo y ancho de la península ibérica para poder determinar sus puntos en común y sus diferencias. Así pues, esta leyenda de origen popular del pequeño municipio de Fuentenebro nos sirve para introducir una nueva categoría de topónimos que contienen algún ‹moro› o ‹mora› en su composición y que tienen detrás una curiosa leyenda de personajes míticos de otro tiempo y que, si bien la tradición popular los ha encasillado en la categoría de lo musulmán de época medieval, su primitivo origen quizá se deba a un tiempo bastante anterior y a una serie de mitos relacionados con los primitivos pobladores de la península ibérica.
3. Mouros y mouras encantadas En la península ibérica, sobre todo en la zona de influencia galaico-portuguesa, encontramos una gran cantidad de topónimos que contienen los vocablos mouro o moura que, a priori, nada tienen que ver con la base toponímica mor-, dada su situación geomórfica, y que tampoco se explican a partir de ninguna leyenda relacionada con el mundo musulmán, por dos motivos fundamentales: uno, la escasa presencia de invasiones musulmanas en el noroeste peninsular, y dos, la propia naturaleza del término moura o mouro, bien documentado en lengua portuguesa como derivado del término céltico *mrvos- cuyo significado es el de muerto o ser sobrenatural (Frazão / Morais 2009: 18), si bien también se ha pensado que estos vocablos proceden del étimo Mora o Morga, nombres de la diosa-madre celta (Caridad 2004: 36). Esta raíz *mrvos- parece ser similar, aunque diferente en la forma, a la raíz indoeuropea que origina el latín mortuus (*mr-tuos) o el indio medio mrtáh o el griego βροτός(*mr-tós). De dicha base céltica deriva la palabra irlandesa marb, la britónica marw, y la restituida del galo *marvos. De ella procede también directamente la voz que utilizaron los celtas lusogallegos: maruos=muerto. (Alonso 1998: 12; Millán 1990: 550). Así las mouras o moiras son una serie de espíritus o seres fantásticos que protegen, según las leyendas portuguesas y gallegas, los tesoros de los mouros encantados. Estas mouras están asociadas según Frazão y Morais a prácticas de religiosidad popular que provienen de mitos prehistóricos; tienen una serie de poderes mágicos y suelen mostrarse a los seres humanos en las horas del entreabierto, las horas de contacto entre el mundo natural y el mundo sobrenatural (Frazão / Morais 2009: 25-27). Según estas investigadoras, la tradición de las mouras encantadas nace en el paleolítico y se relaciona con una serie de cultos a la fertilidad. A partir de ahí, comienza a codificarse todo un corpus mítico en el que las mouras encantadas forman parte del imaginario mítico popular y se las relaciona con el mundo de lo sobrenatural y del más allá, rasgo típico de la mitología indoeuropea en general (Frazão / Morais 2009: 38-41). En Galicia, el mouro y la moura son los antepasados remotos, los desaparecidos hace mucho tiempo cuando aún no había llegado el cristianismo (Alonso 1998: 13), religión que trata de combatir estas tradiciones relacionando el mouro o la moura con lo pagano, y que en la Edad Media, pues, pasará a ser identificado con los invasores musulmanes ayudado por un fenómeno de homofonía (Frazão / Morais 2009: 17).
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Estos mouros y mouras, seres mitológicos prehistóricos cuya presencia se confundió con la de los pobladores musulmanes por un proceso de contaminación han dado lugar a un considerable número de topónimos en el ámbito galaico-portugués. Sin embargo, como siempre, en toponimia no es oro todo lo que reluce, por ello algunos casos de la toponimia mayor portuguesa han de ser analizados con cierta cautela. Así, muy probablemente la Moura del Alentejo haya que situarla junto a otros casos similares de la península ibérica dada su situación sobre una elevación montañosa. Además sobre este municipio, situado al sur del país, se cuenta una leyenda relacionada con el mundo musulmán, que se recoge en la web del municipio y que narra la historia de la mora Salúquia remitiendo a la época de la reconquista cristiana. Trata-se de uma lenda, que nos remete para a época conturbada da reconquista cristã, numa altura em que Salúquia era alcaidessa de Moura, filha de Abu-Assan. Salúquia estava prometida a Brafma, príncipe da vizinha Cidade de Aroche. Chegada a véspera do dia do casamento, Salúquia aguardava ansiosa a chegada do noivo e da sua comitiva, mirando a paisagem em redor do alto de uma das torres do seu castelo. Entretanto, com igual ansiedade Brafma pôs-se a caminho de Moura acompanhado por uma pequena escolta, desconhecendo os planos dos cristãos que ao saber do casamento logo pensaram em interceptar Brafma. D. Álvaro Rodrigues e D. Pedro Rodrigues encabeçavam o grupo de cristãos que organizaram uma emboscada aos muçulmanos. Depois de travada a batalha e de todos estes estarem mortos, os cristãos vestiram-se com os seus trajes e dirigiram-se a Moura. Salúquia, ao vê-los, julgou tratar-se do noivo e restantes muçulmanos e baixou a ponte levadiça que dava acesso ao castelo, dando início a uma chacina que só terminou com a dominação cristã. Salúquia, ao aperceber-se do famigerado destino, tomou as chaves do castelo e precipitou-se da torre que ainda guarda o seu nome. A partir de então, diz a Lenda que a esta Cidade (então Maura) passou a chamar-se Moura em homenagem á corajosa muçulmana, e que os reconquistadores Rodrigues tomaram este apelido também. (www.cm-moura.pt)
Lo mismo parece suceder con Mourão, cerca de Évora, también en el sur del país y como Moura, muy cerca de la frontera con territorio español. Esta localidad también se sitúa en un terreno montañoso al estilo de los topónimos comentados anteriormente y en comparación con la lengua española parece similar al Morón sevillano al que antes aludíamos. Otros casos en los que nos es más difícil discernir la naturaleza del topónimo y que seguramente aluden a esos seres primitivos que antes mencionábamos son los municipios de Mouros en Ourém; Mouro en el de Ponte de Lima y Moura Morta pedanía de Peso da Régua, en la región de Vila Real. Este último topónimo parece ser una tautología compuesta de dos versiones del mismo elemento, como apunta Caridad (2004: 35). Sin embargo, donde estas mouras y estos mouros encantados dejaron un huella notoria es en la toponimia menor en la que encontramos un buen número de topónimos en los que el elemento mouro o moura remite a estos seres fantásticos cuyas leyendas aparecen también en cada uno de estos lugares con algunos rasgos comunes. En Galicia y en el norte de Portugal son abundantes términos como el Forno dos Mouros, Casa dos Mouros, Casa da Moura o Montiños da Moura para referirse a las mámoas, que deriva del diminutivo latino mammula para aludir a la forma de los túmulos dolménicos (Carneiro 2000: 372-373). Esta relación entre mouras y túmulos dolménicos aparece también en la Pena da Moura, cerca de la aldea de Moruxosa, perteneciente al municipio de Sobrado (La Coruña), situada muy cerca de una construcción de este tipo (Alonso 1998: 16).
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Los mitos y leyendas relacionados con las mouras y los mouros han dejado un buen número de topónimos que guardan sus correspondientes leyendas sobre estos seres encantados y que Frazão y Morais han recogido en sus tres volúmenes sobre el mundo de las mouras encantadas. Algunos de los topónimos recogidos por estas investigadoras o por otras fuentes empleadas por ellas son los siguientes: Forno dos Mouros (Monte de Saia, Barcelos), Fonte Mourena (Salir, Algarve), Pala da Moura (Tras-os-Montes), Casa da Moura (Gruta en Carreira dos Cavalos, en la Serra da Estrela y galería subterránea en Castelo Velho), Casa da Moura de Zedes (Caraceda de Ansiães), Fonte da Mora Cassima (Loulé), Lapas dos Mouros (Torres Novas), Cova dos Moros (Querença, Algarve), Anta da Pala da Moura (Vilarinho de Castanheira), Pedra da Moura (Praia de Lavadores, Porto), Penedo da Moura (Viana do Castelo), Pego da Moura (São Miguel de Mota), Cabeço dos Mouros (Idanha-a-Velha, Castelo Branco), Cama da Moura (Castro Daire) y Casas dos Mouros (Vilar de Perdizes). Imposible sería detallar en este breve estudio las leyendas portuguesas y gallegas sobre mouras y mouros encantados que recogen en sus estudios Frazão y Morais, aunque conviene, antes de pasar a analizar algunas leyendas similares al otro lado de la frontera, repasar algunos rasgos esenciales de este tipo de mitos: se trata de unos seres fantásticos, representantes del mundo de los muertos que establecen con sus apariciones en determinados lugares –normalmente corrientes de agua, cuevas, grutas o terrenos relacionadas con la profundidad terrestre; aunque también construcciones dolménicas– una especie de nexo de unión entre el mundo de los vivos y el de los muertos. En un principio se piensa que eran unas figuras relacionadas con cultos a la fertilidad, aunque las propiedades de estos seres mágicos se multiplicaron con el paso del tiempo, asumiendo características tanto positivas como negativas. Las diferentes civilizaciones que pasaron por la península ibérica (romanos paganos, cristianos y musulmanes) trataron de adaptar estos cultos ancestrales a su propia religión o denostarlos en otros casos. Así nace la confusión entre moura encantada, ser encantado de raíces paleolíticas en la península ibérica, y moura con el significado de musulmana o pagana. Los estudios antes citados de Frazão y Morais y algunos otros como los de Llinares García o el de Alonso Romero han documentado y analizado la gran cantidad de leyendas y mitos sobre las mouras y los mouros en el ámbito lingüístico galaico-portugués. Sin embargo, la cuestión que nos hacemos a continuación es del todo necesaria: ¿tenemos en el resto de la península ibérica leyendas similares a las documentadas en el oeste peninsular? ¿En caso afirmativo, pertenecen también estas leyendas a estos concepciones mítico-religiosas del homo sapiens durante el período del llamado ‹Refugio Ibérico›? Aunque respuestas de este tipo no son fáciles de contestar, intentaremos tan sólo advertir ciertos nexos comunes entre las leyendas sobre moros y moras por todo el territorio peninsular.
4. La épica de los moros musulmanes, la mítica de las moras encantadas Durante muchos años, como antes comentábamos, se intentaron explicar los topónimos que contenían o aludían –aunque fuera ligeramente– a los términos moro y mora mediante leyendas de origen tanto culto en menor medida, como popular en mayor. Este tipo de leyendas,
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a pesar de no ser válidas para explicar etimológicamente el término en cuestión, son preciosas manifestaciones de cómo el vulgo interpretaba el nombre de su propia población y relacionaba la gestación de su municipio o de cualquier otro elemento geográfico de su localidad con un pasado mítico, generalmente la época de la reconquista y de las batallas entre moros y cristianos. Leyendas como la del Responso de la Mora de Fuentenebro o la de la mora Salúquia de Moura abundan en nuestro país, aunque normalmente la explicación del topónimo es mucho más sencilla –y menos inverosímil– a partir de la base preindoeuropea mor-. Un caso como el antes mencionado de Morón, este más bien respondiendo a una leyenda de carácter culto, parece estar claro. Sin embargo, no es el único. Como Ballester comenta en un trabajo sobre las caricaturas lingüísticas, el topónimo, valenciano Venta del Moro podría ser entendido por el hablante actual como lugar donde se vende un musulmán; además tilda de inverosímil el romance entre un caballero cristiano llamado Rubielos y una Mora anónima que narra una leyenda para explicar los topónimos turolenses Mora de Rubielos y Rubielos de Mora (Ballester 2006: 10). Incluso el topónimo de Zamora se intentó explicar en tiempos pasados a partir de un grito ‹Ze mora› que el rey D. Alfonso espetó a una vaca negra, o del vocablo árabe samurah, ‹turquesa› (Cortés 1952: 66), quizá por relacionarlo con la parte ‹mora› que el topónimo contiene. Las leyendas de las moras encantadas, por su parte, en el territorio del estado español aparecen también en una gran variedad de lugares compartiendo rasgos en común con las mouras portuguesas. En resumen, la leyenda narra la aparición mágica de una joven de hermosura sin igual –normalmente la noche de San Juan– con un peine en las manos o algún otro elemento en los aledaños de un castillo, una cueva o cualquier otro paraje natural cargado de fuerte simbolismo. Así, encontramos restos de estas moras encantadas en un buen número de topónimos repartidos por todo el país. Sin embargo, si bien la base mítica sobre la que se asientan este tipo de leyendas parece ser la misma que en el territorio del dominio lingüístico galaico-portugués, es necesario tomar cierta distancia a la hora de relacionar unas leyendas con otras. Nuestra afirmación se fundamenta en el testimonio recogido en el Itinerario de Antonino en el que aparece una forma ad Morum que debemos situar en el sureste peninsular y que denota, pues, la presencia en toponimia de una forma derivada de la raíz mor- en el siglo I y que confirmaría, en consecuencia, la teoría comúnmente aceptada a la hora de explicar los topónimos anteriormente señalados. No obstante, este ad Morum que recoge Antonino y la atestiguada procedencia, diversa desde el punto de vista etimológico, de la raíz celta *mrvos- del ‹mouro› portugués, nos inclinan a determinar la época medieval de la dominación musulmana como la responsable de todas estas leyendas similares a las encontradas al otro lado de la frontera y no habría que alejarse, pues, en la noche de los tiempos para encontrar una explicación coherente a este tipo de topónimos en el territorio español. A pesar de todo ello en algunos caso se observan similitudes entre las características de las encantadas y las mouras portuguesas, por lo que sería difícil ofrecer una respuesta general. Haría falta un estudio detallado de todos los casos registrados.. Así, no es de extrañar que encontremos un buen número de Cuevas de la mora en diferentes municipios españoles. En Bogarra (Albacete) encontramos una Cueva de la mora (Selva 1993: 481), topónimo idéntico al que encontramos en El Vellón (Madrid), en El Cañavate (Cuenca), o en la provincia de Huelva, éste último dando nombre a una aldea dependiente de Almonaster la real. En la misma provincia de Huelva, en el célebre municipio de Jabugo
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encontramos otra Cueva de la mora, con restos arqueológicos en su interior que llegan a remitir al Paleolítico (Romero / Rivera 1999: 263). También en La Pedriza (Manzanares el real, Madrid) encontramos una Cueva de la mora, refugio, según la tradición de una bella mora enamorada de un cristiano: Ella era la hija más guapa y más hermosa de un rico árabe, y él un caballero cruzado que ante la imposibilidad de la aventura amorosa decidió marchar a Oriente a luchar contra los de la media luna. La familia de la joven no pudo consentir tal disparate y la encerró en esta cueva de La Pedriza cuando el Real de Manzanares era un territorio en disputa entre árabes y cristianos, mucho antes de las peleas entre madrileños y segovianos. La leyenda nada aclara del caballero cristiano, pero asegura que la dama mora sigue visitando el lugar en busca de su enamorado. (Leralta 2002: 65-66)
Con el ‹apellido› de encantada –que aparece en solitario en numerosas ocasiones en otros topónimos que se relacionan con leyendas similares– encontramos también un buen número de cuevas en las que supuestamente aparecen estas leyendas que remiten a historias de batallas míticas entre moros y cristianos. En Carrascosa del Campo (Cuenca) tenemos, pues, una Cueva de la mora encantada, topónimo similar al que encontramos en el municipio de Uclés, también en Cuenca, en el de Bulbuente (Zaragoza) o en el de Trébago (Soria), en cuya página web podemos leer la leyenda completa (http://www.trebago.com/revistas/11/05leyendas.asp). La fascinación por este tipo de mitos llevó al gran Gustavo Adolfo Bécquer a escribir la leyenda titulada La cueva de la mora, ambientada en el municipio navarro de Fitero, que narra como el alma de la hija de un alcaide moro aparece cada noche penando por las ruinas de una fortaleza árabe y llena en el río una jarrita de agua. Sin embargo, no siempre es la cueva la residencia de la mora encantada, como demuestran los topónimos conquenses de Cerro de la mora, uno en Barchín del Hoyo y el otro en Torrejoncillo del Rey.
4. Conclusiones Como hemos podido observar a lo largo de este trabajo en la toponimia peninsular encontramos una gran cantidad de topónimos que parecen remitir al pasado musulmán que, sin duda, dejó una gran huella en nuestra toponimia. Por el contrario, se ha de mantener un sumo cuidado a la hora de analizar estos topónimos y hemos de tener presente la posibilidad de que provengan de una tradición muy anterior a la época medieval de la dominación musulmana en el caso de los topónimos situados en el ámbito lingüístico galaico-portugués. Por ello, es necesario identificar y distinguir entre aquellos topónimos que nacen de la tradición medieval, y aquellos que son explicables fácilmente a partir de la base mor- evitando caer en anacronismos y en explicaciones populares que no han de ser extraídas del contexto folclórico y popular en el que nace, crecen y perviven. En cuanto a los relatos míticos alrededor de estos topónimos, si en Portugal parece claro que existen unos mitos que hablan de las mouras encantadas como seres mágicos que remiten a los muertos y que aparecen en condiciones y lugares de especial simbolismo, de igual
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manera hemos podido observar que en territorio español el mito parece tener innumerables similitudes, dejando su rastro, como sucede en el país vecino, también en la toponimia. Sin embargo, a la luz de los testimonios más antiguos como el ad Morum de Antonino no es posible establecer un paralelismo entre las mouras portuguesas y las moras del territorio hispánico. Si bien el mito parece idéntico, las historias de las moras encantadas hispánicas nacen seguramente en el imaginario popular a partir de las leyendas sobre las batallas entre sarracenos y cristianos de la época de la reconquista contadas generación tras generación y por ello no gozarían, pues, de la antigüedad paleolítica de las mouras encantadas portuguesas y gallegas Aún así, convendría realizar un análisis de conjunto de cada uno de los casos registrados en la toponimia peninsular y un estudio de sus semejanzas y diferencias. Con todo y con eso, es sin duda curioso como el lenguaje, quizá guiado por el azar, decidió que formas de diversas procedencias (mor-, *mrvos-, maurus) confluyesen en las lenguas modernas en términos homófonos que han provocado la confusión en la interpretación de muchos de los topónimos mencionados a lo largo de este trabajo.
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Teodor Oancă / Ramona Lazea (Craiova)
Dai nomi comuni moldavi al cognome
I cognomi, che diciamo provenire dai nomi comuni, occupano un posto importante nell’antroponimia romena. I nomi comuni si sono antroponimizzati, dando origine sia a un nomignolo, sia a un soprannome. Definiamo il nomignolo come «il risultato della codificazione tramite un nome comune di una particolarità fisica, psichica, morale o di comportamento che caratterizza una persona alla quale viene attribuito quel nome» (Oancă 1999: 44). Il nomignolo, dunque, è personale. Per gli eredi ai quali si trasmette, il nomignolo non risulta più motivato, ma funziona come un cognome non ufficiale, che viene chiamato soprannome. Il soprannome può provenire anche da un appellativo denominativo, con cui viene chiamata l’occupazione, l’appartenenza etnica, il rango o il titolo acquisito, lo stato sociale, il grado militare, l’origine locale, ecc. (Oancă 1996: 12): Olaru (< olar ‹vasaio›), Turcu (< turc ‹turco›), Logofătu (< logofăt ‹cancelliere›), Boieru (< boier ‹boiardo›), Căpitanu (< căpitan ‹capitano›), Craioveanu (< craioveanu ‹abitante della città di Craiova, cioè craioveno›). I cognomi romeni hanno conosciuto un periodo di formalizzazione nel corso del XIX secolo. Solo nel 1895, con la Legge sul cognome, questo è diventato obbligatorio per tutti i cittadini. Il sistema tradizionale di denominare le persone era ridotto al nome proprio, seguito dal nome del padre, del nonno, eventualmente anche del bisnonno. Questa serie si concludeva con un soprannome che funzionava come un cognome non ufficiale. Poiché la maggior parte dei soprannomi proveniva dai nomi comuni, lo studio in parallelo dell’antroponimo e del nome comune dal quale proviene diventa necessario per conoscere più in dettaglio la lingua parlata, molto prima di effettuare le indagini dialettali per la realizzazione degli atlanti linguistici. Per l’Atlante Linguistico romeno, le indagini sul terreno sono state effettuate da Sever Pop e da Emil Petrovici nel periodo 1930-1938. La ricerca dei documenti di archivio, tra i quali anche i registri di stato civile relativi ai neonati, agli sposati e ai deceduti, del XIX secolo, mette in evidenza le tendenze manifestate nei vari ambiti sociali per l’attribuzione di un nome proprio, un nomignolo, un soprannome. I nomi comuni dai quali provengono queste categorie di antroponimi fanno parte dal vocabolario fondamentale della lingua romena o presentano un uso regionale. Questi ultimi sono considerati parole dialettali. Essi caratterizzano il parlato in vari sottodialetti del dialetto daco romeno. Uno di questi sottodialetti è quello moldavo, al quale molti linguisti romeni e stranieri hanno dedicato importanti studi. Un’ampia presentazione delle particolarità del sottodialetto moldavo esiste nel TDR (1984: 163-208). Nella sezione Lessico di TDR (1984: 191-199), sono state identificate molte parole che appartengono esclusivamente al sottodialetto moldavo o che si trovano in aree più ristrette e nelle parlate cui questo sottodialetto si avvicina. Un lavoro apparso recentemente e di riferimento per la letteratura di specialità è firmato da Vasile Frăţilă (2010) in cui al sottodialetto moldavo vengono dedicate le pagine dalla 77 alla 85.
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Il sottodialetto moldavo rappresenta l’area orientale del dialetto daco romeno, cioè il territorio compreso tra il Nistru ad est (il territorio compreso tra il Nistru e il Prut è noto come Repubblica di Moldavia), il confine con l’Ucraina a nord, la parte orientale della Transilvania e la regione storica romena della Muntenia, a sud. Di solito sono date come appartenenti esclusivamente al sottodialetto moldavo le parole come agud ‹dud› (termine letterario, it. ‹gelso›), barabulă ‹cartof› it. ‹patata›, bortă ‹gaură› it. ‹buca›, bostan ‹dovleac› it. ‹zucca›), chelbos ‹chel› it. ‹calvo›, ciolan ‹os› it. ‹osso›, ciubotă ‹cizmă› it. ‹stivale›, colţun ‹ciorap› it. ‹calza›, covată ‹albie pentru aluat› it. ‹madia›, curechi ‹varză› it. ‹cavolo›, duşec ‹saltea› it. ‹materasso›, gheb ‹cocoaşă› it.‹gobba›, harbuz ‹pepene verde› it. cocomero›, hulub ‹porumbel› ‹it. colombo›, iorgan ‹plapuma› it. trapunta›, oghial ‹plapumă› it. trapunta›, perjă ‹prună› it. susina›, pleşuv ‹chel› it. ‹calvo›, prisacă ‹stupină› it. ‹apiario›, sandâc ‹ladă› it. ‹cassa›, stoler ‹tâmplar› it. ‹falegname›, vădană ‹văduvă› it. ‹vedova› (TDR, 1984: 231-234). Dalla maggior parte di queste parole sono risultati dei cognomi ufficiali. Considerato che tali parole sono usate solo in Moldavia, possiamo dire che i cognomi provenienti da queste parole si potevano formare solo in Moldavia e per tale fatto sono considerate come aventi origine moldava. Da questi nomi comuni hanno avuto origine in primo luogo i nomignoli creati da persone che si esprimevano nella parlata locale. Il nomignolo si poteva imporre solo se era motivato e accettato dalla comunità alla quale appartenevano sia la persona cui era stato affibbiato il nomignolo sia la persona che aveva creato il nomignolo stesso. I nomignoli come Agud, Bostan, Ciubotă, Harbuz, Hulub, ecc. dai quali sono risultati i soprannomi che, più tardi (dopo due-tre generazioni), sono diventati cognomi ufficiali, sono stati creati almeno alla metà del XIX secolo. Il fenomeno è comune a tutte le zone geografiche della Romania, dove si parlano altri sottodialetti del dialetto daco romeno, che si identifica con la lingua nazionale romena. Oggi registriamo cognomi di origine moldava anche in altre regioni del Paese dove sono arrivati i portatori o i loro predecessori. Una valutazione molto vicina alla realtà ci viene offerta dalla BDAR, creata nel 1994 presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Craiova. Le informazioni di cui disponiamo riguardano la frequenza e la distribuzione per distretti dei cognomi della Romania. In base a questi dati possono essere identificate le zone di origine per certi cognomi e la loro presenza in altre regioni (vedi allegato). Secondo il modello delle carte dialettali, possono essere fatte delle carte antroponimiche che mettono in evidenza, in base alla frequenza significativa di una zona, un determinato cognome e la sua zona di diffusione. Non per caso la zona antroponimica si rapporta a quella dialettale. Si registrano delle varianti fonetiche che corrispondono alla pronunzia locale dei nomi propri, in concordanza con la pronunzia dei nomi comuni dai quali si rivendica la derivazione. Le grafie dei cognomi attuali si sono trasmesse di generazione in generazione da almeno cento anni. In Romania, i cognomi si trasmettono per via maschile da una generazione all’altra. Ecco un esempio della relazione antroponimo - termine dialettale: il cognome Hulub ha la frequenza assoluta 369, dei quali in Moldavia se ne registrano 280. Anche se l’appellativo hulub è caratteristico per il sottodialetto moldavo, frequenze significative del cognome Hulub si registrano nei distretti di Botoşani (56), Iaşi (103), Vaslui (91). Per la presenza in altri distretti del cognome Hulub, vedi allegato. Da questo antroponimo risultano derivare: Huluba, Huluban, Hulubei. La grande presenza nel distretto di Sălaj (nel nordovest della Romania) del cognome Huluban (181 del totale di 347) può essere giustificata
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dall’esistenza nel parlato, da molto tempo, dell’appellativo hulub, di origine ucraina, come quello di Moldavia, ma che ha avuto la concorrenza e poi è stato eliminato dall’uso dalla parola romena di origine latina porumb ‹porumbel›. L’antroponimo Huluban nel distretto di Sălaj è una prova che il termine comune dal quale ha avuto origine il derivato huluban è stato caratteristico anche di questa zona. Un esempio altrettanto convincente è rappresentato dal cognome Agud. Questo proviene dal nome comune, appartenente al sottodialetto moldoveno, agud, ‹dud› nella lingua letteraria. Conformemente alla BDAR, nel 1994 il cognome Agud era portato da 207 persone, di cui 184 nell’area del sottodialetto crişan parlato nella Romania occidentale, laddove il termine comune agud non è presente nella lingua parlata. Ciò presuppone che in passato la parola dialettale agud era attiva anche nelle parlate della Romania occidentale, ma ha avuto la concorrenza di altri termini, come frăgar o pomniţar ed è stato tolta definitivamente dall’uso. Con l’attuale presenza del cognome Agud in una zona in cui il nome comune agud manca, ci indirizza a ricostituire l’area laterale dialettale di questo termine, esistente da almeno 300 anni. L’appellativo agud è stato in relazione sinonimica con frăgar e, nel corso del tempo, ha cessato di essere attivo nella lingua, fino ad arrivare ad essere del tutto dimenticato (Oancă, 2005: 407-412). È fuor di dubbio che i termini dialettali hanno il corrispondente sinonimico nella lingua letteraria. Allo stesso modo funzionano le cose anche quando si tratta di antroponimi provenienti da queste parole. L’appellativo vărzar ‹persona che coltiva e vende cavoli› ha come corrispondente nel sottodialetto moldavo la parola curecher (derivato da curechi ‹varză›). Da questi termini sono risultati i cognomi Vărzaru e Curecheriu. Quest’ultimo ha una frequenza assoluta 412, di cui 338 nei distretti della Moldavia. Seguendo le frequenze per distretti, constatiamo che esiste un’area rappresentativa del cognome Curechiu nei distretti del nord-est della Romania, Botoşani e Iaşi, in cui la frequenza arriva a 302. Alla domanda indiretta (ALR, s.n. vol. I, h. 198) per la nozione dovleac ‹it. zucca›, è stato risposto bostan nell’area del sottodialetto moldavo e dovleac nell’area del sottodialetto di Muntenia. Da questi appellativi sono risultati i cognomi Bostan, con frequenza preponderante nei distretti della Moldavia (vedi allegato) e Dovleac, rappresentato significativamente nei distretti della Muntenia e dell’Oltenia. I due appellativi si ritrovano nei nomignoli Bostan e Dovleac, diventati più tardi cognomi, attribuiti a persone con un grado ridotto di intelligenza. Sempre in base alla frequenza di un cognome, possiamo identificare l’area dialettale di un termine dal quale proviene il rispettivo antroponimo. Così, pocriş, spiegato come ‹coperchio con cui si coprono le scodelle› (Frăţilă, 2010: 77-85) è considerato come appartenente al sottodialetto moldavo. Ma il cognome Pocriş figura solo in 4 (degli 8) distretti della Moldavia, rappresentando 122 persone che hanno questo nome, del totale di 182. Ciò vuol dire che in base alla frequenza del cognome possiamo valutare l’area in cui in passato è stato usato attivamente il termine dialettale pocriş. Nello stesso contesto di riferire il cognome ad un termine dialettale si iscrivono anche Poloboc, proveniente dal nome comune poloboc ‹putină›, it. ‹botte›. Su un totale di 320, nei distretti della Moldavia l’antroponimo registra la frequenza 291. Il termine sottodialettale tâmplar, nel sottodialetto moldavo ha come corrispondente la parola stoler. Da questi termini sono risultati i cognomi Tâmplaru con frequenza assoluta 505, registrata soprattutto nell’area del sottodialetto di Muntenia, e Stoleru con frequenza assoluta 2603 dei quali 2085 si registrano nell’area del sottodialetto moldavo (vedi allegato).
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Il nome comune, nei vari sottodialetti, può presentare dei sensi diversi: così, nel sottodialetto moldavo, pulpă ha il senso di ubero, mentre in altri sottodialetti il senso di base è ‹la parte muscolosa del piede tra il ginocchio e la caviglia›. Il cognome Pulpă è registrato con la frequenza assoluta 187 di cui in Moldavia 63. Ma i distretti Suceava (frequenza 42) e Vrancea (frequenza 18) si trovano rispettivamente al limite nord e sud del territorio del sottodialetto moldavo, zone fortemente influenzate dalle parlate loro vicine, dove pulpă non vuol dire ubero. Dunque, il cognome Pulpă si rivendica con il senso di ‹parte muscolosa del piede tra il ginocchio e la caviglia›, motivo per cui non possiamo considerare come specifico dell’intero sottodialetto moldavo il termine pulpă con il senso di ubero. Le frequenze dei cognomi notati in grassetto in Allegato corrispondono all’area del sottodialetto moldavo. Esse evidenziano il territorio in cui questi si sono formati, se si fa il confronto con le frequenze registrate in altre regioni della Romania. Seguendo queste frequenze registrate nei distretti della Moldavia, constatiamo che in certe zone si concentra un grande numero di portatori del cognome che proviene da una parola dialettale. Questa circostanza è messa meglio in evidenza dalla carta antroponimica in cui le frequenze del cognome sono iscritte nello spazio dell’unità amministrativa, come è, nel caso della Romania, il distretto. Da quanto sopra esposto, risulta quanto segue. I cognomi che hanno la loro origine nei termini dialettali presentano dei tratti caratteristici alle parlate che appartengono ad un sottodialetto. Constatiamo che, se la carta dialettale registra un termine come specifico all’intero dialetto (nel nostro caso quello moldavo), il cognome risultato da questo si può concentrare solo in certe zone. Applicando il metodo di ricerca della geografia antroponimica (Oancă 1998) abbiamo la possibilità –conoscendo la frequenza e la distribuzione territoriale di un cognome– di mettere in evidenza fatti di lingua di particolare interesse, conformemente ad una ricerca linguistica di natura sincronica o diacronica.
Bibliografia ALR = Atlas lingvistic romanesc. Serie nouă. (1956), vol. I şi urm. Bucureşti: Editura Academiei Române, sub redacţia lui Emil Petrovici. TDR = Rusu, Valeriu (1984): Tratat de dialectologie românească. Craiova: Editura Scrisul Românesc. Frăţilă, Vasile (2010): Probleme de dialectologie română. Blaj: Editura Astra. Oancă, Teodor (2005): Reconstituirea ariei laterale dialectale agud. In: Studia in honorem magistri Vasile Frăţilă. Timişoara: Universitatea de Vest Timişoara, 407-412. — (1999): Onomastică şi dialectologie. Craiova: Fundaţia Scrisul Românesc. — (1998): Geografie antroponimică românească. Metodă şi aplicaţii. Craiova: Editura de Sud. — (1996): Probleme controversate în cercetarea onomastică românească. Craiova: Editura Scrisul Românesc. — (2005): Reconstituirea ariei laterale dialectale agud. In: Studia in honorem magistri Vasile Frăţilă. Timişoara: Universitatea de Vest Timişoara, 407-412. — / Lazea, Ramona (2008): Aree dialettali e antroponimiche. In: Quaderni Internazionali di RIOn 3, 167-172.
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ALLEGATO
Sigle per regioni e distretti O = Oltenia (Dj-Dolj, Gj-Gorj, Mh-Mehedinţi, Ot-Olt, Vl-Vâlcea), M = Muntenia (AgArgeş, Br- Brăila, Bz-Buzău, Cl-Călăraşi, Db-Dâmboviţa, Gr-Giurgiu, Il-Ialomiţa, PhPrahova, Tr-Teleorman), D = Dobrogea ( Cţ-Constanţa, Tl-Tulcea), ML = Moldova (BcBacău, Bt-Botoşani, Gl-Galaţi, Iş-Iaşi, Nţ-Neamţ, Sv-Suceava, Vr-Vrancea, Vs-Vaslui), MR = Maramureş (Mm-Maramureş, Sm-Satu Mare), T = Transilvania (Ab-Alba, Bn-Bistriţa Năsăud, Bv-Braşov, Cl-Cluj, Cv-Covasna, Hd-Hunedoara, Hg-Harghita, Ms-Mureş, SbSibiu), CR = Crişana (Ar-Arad, Bh-Bihor, Sj-Sălaj), BNT = Banat (Cs-Caraş Severin, TmTimiş), B = Bucureşti. BORTĂ 1270: O-10 (4-Dj, 1-Gj, 5-Vl); M-30 (5-Ag, 4-Br, 6-Bz, 2-Cl, 1- Il, 12-Ph); D-40 (17-Cţ, 23-Tl); ML-1067 (332-Bc, 137-Bt, 15-Gl, 28-Iş, 395-Nţ, 97-Sv, 14-Vr, 49-Vs); T-74 (22-Bn, 21-Bv, 1-Cj, 1-Cv,21-Hd, 3-Hg, 5-Sb); CR-6 (Ar); BNT-37 (6-Cs, 31-Tm); B-6. BOSTAN 5759: O-32 (8-Dj, 11-Gj, 4-Mh, 4-Ot, 5-Vl); M-563 (112-Ag, 68-Br, 195-Bz, 21-Cl, 54-Db, 7-Gr, 48-Il, 47-Ph, 11-Tr); D-172 (153-Cţ, 19-Tl); ML-4036 (820-Bc, 444Bt, 485-Gl, 713-Iş, 766-Nţ, 88-Sv, 477-Vr, 243-Vs); MR-18(11-Mm, 7-Sm); T-461 (65Ab, 7-Bn, 170-Bv, 12-Cj, 8-Cv,114-Hd, 25-Hg, 26-Ms, 34-Sb); CR-23 (13-Ar, 9-Bh, 1-Sj); BNT-151 (39-Cs, 112-Tm); B-303. CIUBOTĂ 287: O-7 (Gj-3, Vl-4); M-12 (Br-1,Db-5,Gr-2,Il-4); D-2 (Cţ); ML-229 (Bc19, Bt-1, 5-Gl, 143-Nţ, 11-Sv, 50-Vs); MR-2 (Sm); T-31 (5-Bn, 19-Bv,4-Hd, 2-Hg, 1-Sb); BNT-4 (2-Cs, 2-Tm). COVATARIU 155: M-4 (3-Ag, 1-Ph); D-5 (Cţ); ML-112 (7-Bc, 29-Bt, 13-Iş, 12-Nţ, 51Sv); T-13 (Hd-7, Mş-3, Sb-3); BNT-10 (Cs-2, Tm-8); B-11. COVĂTARU 140: O-1 (Dj); M-2 (1-Cl, 1-Db); D-2 (Cţ); ML-106 (21-Bt, 2-Gl, 16-Iş, 3-Nţ, 64-Sv); T-13 (8-Bv, 5-Hd); B-16. HARBUZ 551: O-2 (Gj); M-146 (1-Ag, 17-Br, 113-Bz, 1-Cl, 10-Db, 1-Ph, 3-Tr); D-1 (Tl); ML-336 (17-Bc, 60-Bt, 21-Gl, 117-Iş, 5-Nţ, 17-Sv, 32-Vr, 67-Vs); T-24 (9-Bv, 3.Cl, 6-Cv, 4-Hd, 2-Mş); BNT-3 (Tm); B-39. HARBUZARU 334: O-2 (1-Gj, 1- Mh); M-10 (4-Br, 2-db, 1-Il, 3-Tr); D-13 (Cţ); ML202 (1-Bc, 48-Bt, 1-Gl, 28-Iş, 26-Nţ, 2-Sv, 96-Vs); MR-1 (Mm); T-69 (48-Bv, 21-Hd); BNT-13 (6-Cs, 7-Tm); B-24. HULUB 369: O-9 (7-Dj, 2-Gj); M-18 (7-Br, 5-Db, 1-Gr, 3-Il, 1-Ph, 1-Tr); D-25 (16-Cţ, 9-Tl); ML-280 (11-Bc, 56-Bt, 3-Gl, 103-Iş, 13-Sv, 3-Vr, 91-Vs); T-3 (Bv); CR-2 (Ar); BNT7 (Cs); B-25. HULUBA 390: O-1 (Vl); M-8 (4-Br, 2-Bz, 1-Cl, 1-Il); D-32 (2-Cţ, 30-Tl); ML-284 (177Bc, 1-Gl, 2-Iş, 6-Nţ, 1-Sv, 1-Vr, 96-Vs); MR-4 (Mm); T-39 (17-Bv, 6-Cj, 15-Hd, 1-Sb); CR-1 (Bh); BNT-5 (Tm); B-16. HULUBAN 347: O-4 (Gj); ML-3 (Sv); MR-15 (10-Mm, 5-Sm); T-95 (3.Ab, 2-Bn, 12Bv, 77-Cj, 1-Hd); CR-186 (3-Ar, 2-Bh, 181-Sj); BNT-24 (2-Cs, 22-Tm); B-20.
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HULUBEI 249: O-1 (Dj); M-14 (2-Bz, 5-Gr, 3-Il, 4-Ph); D-17 (15-Cţ, 2-Tl); ML-170 (24Bc, 1-Bt, 35-Gl, 96-Iş, 3-Nţ, 7-Sv, 4-Vs); MR-4 (Sm); T-18 (16-Hd, 2-Mş); BNT-1 (Cs); B-24. PERJA 158: M-54 (Ag); ML-2 (1-Iş, 1-Sv); T-69 (34-Ab, 19-Bv,7-Cj, 2-Hd, 7-Mş); CR-8 (Ar); B-25. PERJERU 180: M-9 (3-Br, 4-Bz, 1-Cl, 1-Ph); ML-145 (42-Bc, 4-Bt, 78-Gl, 1-Iş, 11-Nţ, 1-Vr, 8-Vs); T-12 (6-Bv, 6-Hd); CR-3 (Ar); B-11. PERJU 2193: O-34 (17-Dj, 11-Gj, 1-Ot, 5-Vl); M-73 (6-Ag, 3-Br, 4-Bz, 7-Db, 10-Gr, 4-Il, 37-Ph, 2-Tr); D-62 (57-Cţ, 5-Tl); ML-1652 (375-Bc, 68-Bt, 110-Gl, 521-Iş, 140-Nţ, 96Sv, 24-Vr, 318-Vs); T-147 (6-Ab, 73-Bv, 4-Cj, 33-Hd, 1-Mş, 30-Sb); CR-16 (14-Ar, 2-Bh); BNT-46 (18-Cs, 28-Tm); B-163. PLEŞUVU 322: O-16 (Mh); M-7 (1-Bz, 3-Db, 2-Il, 1-Ph); D-1 (Cţ); ML-276 (190-Bc, 5-Gl, 3-Nţ, 78-Vs); T-4 (1-Ab, 1-Bv, 1-Cv, 1-Hd); BNT-18 (7-Cs, 11-Tm). PRISACĂ 248: O-2 (1-Dj, 1-Mh); M-28 (20-Br, 2-Db, 6-Il); D-11 (Cţ); ML-171 (15-Bc, 51-Bt, 5-Gl, 19-Nţ, 77-Sv, 4-Vs); T-5 (1-Ab, 1-Bn, 3-Hd); BNT-20 (3-Cs, 17-Tm); B-11. PRISĂCARIU 457: O-14 (5-Gj, 4-Mh, 5-Ot); M-55 (8-Ag, 4-Br, 3-Bz, 9-Cl, 11-Db, 10Gr, 1-Il, 4-Ph, 5-Tr); D-45 (44-Cţ, 1-Tl); ML-185 (18-Bc, 47-Bt, 17-Gl, 40-Nţ, 13-Sv, 2-Vr, 48-Vs); MR-7 (Mm); T-84 (3-Bn, 30-Bv, 9-Cj, 2-Cv, 28-Hd, 12-Sb); CR-8 (Ar); BNT-39 (10-Cs, 29-Tm); B-16. PRISĂCARU 578: O-14 (1-Dj, 1-Gj, 4-Ot, 8-Vl); M-97 (1-Ag, 5-Br, 13-Bz, 8-Cl, 12Db, 5-Gr, 16-Il, 32-Ph, 5-Tr); D-54 ( 43-Cţ, 11-Tl); ML-244 (82-Bc, 16-Bt, 42-Gl, 21-Nţ, 6-Sv, 19-Vr, 58-Vs); MR-16 (7-Mm, 9-Sm); T-84 (3-Ab, 4-Bn, 37-Bv, 10-Cj, 13-Hd, 2-Hg, 15-Sb); CR-7 (3-Ar, 3-Bh, 1-Sj); BNT-42 (20-Cs, 22-Tm); B-20. PRISECARIU 887: O-30 (16-Gj, 5-Mh, 7-Ot, 2-Vl); M-29 (8-Ag, 1-Br, 5-Bz, 1-Cl, 5-Db, 8-Ph, 1-Tr); D-16 (Cţ); ML-700 (128-Bc, 103-Bt, 3-Gl, 149-Iş, 198-Nţ, 40-Sv, 6-Vr, 73-Vs); MR-8 (Mm); T-50 (4-Bn, 10-Bv, 4-Cj, 3-Cv, 27-Hd, 1-Mş, 1-Sb); CR-3 (Ar); BNT21 (6-Cs, 15-Tm); B-30. STOLERU 2683: O-37 (7-Dj, 15-Gj, 6-Mh, 5-Ot, 4-Vl); M-59 (12-Ag, 14-Br, 5-Bz, 7-Cl, 7-Db, 13-Ph, 1-Tr); D-99 (90-Cţ, 9-Tl); ML-2085 (518-Bc, 94-Bt, 174-Gl, 324-Iş, 448-Nţ, 187-Sv, 135-Vr, 205-Vs); MR-3 (Mm); T-119 (2-Ab, 5-Bn, 53-Bv, 13-Cj, 13-Cv, 32-Hd, 1-Hg); CR-20 (14-Ar, 4-Bh, 2-Sj); BNT-51 (21-Cs, 30-/m); B-210. VADANA 401: M-5 (1-Br, 3-Cl, 1-Il); D-10 (5-Cţ, 5-Tl); ML-331 (127-Bc, 1-Bt, 7-Gl, 20-Iş, 133-Nţ,18-Sv, 10 Vr, 15-Vs); T-44 (3-Bn, 7-Bv, 5-Cj, 14-Hd, 13-Hg, 2-Ms); BNT-5 (Tm); B-6. VĂDANA 129: M-72 (9-Ag, 9-Br, 16-Bz, 5-Cl, 16-Il, 17-Ph); D-19 (9-Cţ, 10-Tl); ML-29 (10-Bc, 8-Gl, 1-Nţ, 9-Vr, 1-Vs); T-8 (3-Bv, 2-Cj, 1-Hg, 2-Sb); B-1.
Elena Papa (Università di Torino)
Riflessi delle attività pastorali nella toponomastica alpina del Piemonte: varietà e diffusione della terminologia legata all’insediamento stagionale
Le attività pastorali, che fin dall’antichità hanno rappresentato la risorsa fondamentale delle popolazioni montane, hanno lasciato tracce profonde nella toponomastica alpina. Anche nei siti più impervi lo spazio della montagna rivela i segni di una lunga frequentazione da parte dell’uomo, che nel tempo lo ha trasformato in un sistema organizzato e produttivo, nonostante i forti condizionamenti climatici e ambientali. La necessità di spostarsi da un pascolo all’altro in relazione alla quota, all’esposizione e al tipo di allevamento ha determinato la diffusione di strutture di ricovero temporaneo degli animali e dei pastori, le cui dimensioni e caratteristiche tipologiche possono variare in modo considerevole anche all’interno dello stesso territorio. La microtoponomastica restituisce l’immagine di questi spostamenti e delle relative soste. Le denominazioni utilizzate attingono al lessico locale e hanno carattere descrittivo; le stazioni pastorali sono designate con nomi generici –alpe, gias, muanda, meira, fourest– la cui distintività è assicurata da specificazioni ispirate alle caratteristiche del territorio o semplicemente indicanti la proprietà. Non è infrequente l’utilizzo del nome privo di determinante, ossia con valore assoluto, laddove l’identificazione del luogo non si presti ad equivoci. Le denominazioni restano fissate nel tempo indipendentemente dalla permanenza delle attività originarie sul territorio o dalle modifiche funzionali intervenute nella gestione dello spazio. Appare così evidente la difficoltà e insieme l’importanza di ricostruire i precisi significati alla base di questi toponimi, la cui comprensione è necessaria se si desidera conoscere il contesto culturale e ambientale in cui essi sono sorti. Lungo la dorsale alpina del Piemonte la varietà di denominazioni assegnate agli insediamenti pastorali temporanei, pur in aree apparentemente omogenee, ha presto suscitato l’interesse degli studiosi, in particolare nell’ambito geografico;1 minore è stato il coinvolgimento di filologi e glottologi, nonostante le considerazioni espresse da Blanchard nella poderosa opera Le Alpes Occidentales: «Un philologue aurait à coup sûr des remarques intéressantes à nous faire sur la variété de ces significations et sur son explication» (Blanchard 1938-1956, vol. VI, 2: 468). Le ragioni di tale «disattenzione» sono da ricercarsi nella recenziorità di formazione di questo tipo di toponimi, corrispondente ad una minore problematicità di ricostruzione etimologica rispetto al repertorio oronimico e idronimico alpino, che affonda le sue radici nell’indoeuropeo. Esistono d’altra parte difficoltà oggettive nella sistematizzazione di un patrimonio onomastico di matrice popolare, diatopicamente caratterizzato da polisemia, ma Tra i molti mi limito a ricordare Lorenzi (1918 e 1920), Roletto (1918 e 1919), Pracchi (1943), Iori (1959), Sereno (1997).
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contestualmente segnato dalla coesistenza di forme apparentemente sinonimiche all’interno dello stesso territorio. La pluralità di denominazioni ha creato non pochi problemi ai cartografi che si sono accinti a fornire una descrizione dettagliata del territorio. I rilevatori inviati sul posto a registrare i toponimi locali non sono sempre riusciti a comprendere a fondo il valore semantico dei termini proposti e hanno limitato lo spazio di interpretazione a loro affidato. I ben noti errori nella registrazione toponimica effettuata da rilevatori non competenti nelle lingue locali2 hanno determinato la necessità di costanti revisioni del materiale raccolto. Nel 1911 la neo-istituita Reale Commissione per la revisione toponomastica della Carta d’Italia aveva precisato nelle Istruzioni generali i criteri di rilevamento a cui attenersi: «la Carta dovrà essere scritta in lingua italiana; ma la terminologia locale pei nomi comuni dovrà essere mantenuta». Le Istruzioni riportavano indicazioni specifiche sulle accentazioni dei nomi e sulla trascrizione dei nomi dialettali e stranieri attestati sul territorio (cfr. Cantile 2004); per trarre d’impaccio i rilevatori, iniziarono ad essere approntate raccolte di termini geografici locali. Per il Piemonte è prezioso il contributo redatto nel 1914 dallo stesso Gen. Carlo Porro, Direttore dell’I.G.M. e membro della Reale Commissione, predisposto per la stampa ma mai ufficialmente pubblicato, le cui bozze sono conservate presso l’I.G.M. di Firenze.3 Effettivamente nella cartografia dell’I.G.M. le indicazioni toponimiche relative a pascoli e alpeggi si presentano in forma dialettale o con minimi adattamenti di superficie. In questo senso la toponomastica locale è stata per certi versi preservata, evitando il rischio di uniformare le denominazioni semanticamente affini ispirandosi ad un’ideale sistematizzazione del quadro onomastico. Le carte dell’I.G.M. non sono esenti dai problemi sopra accennati, ma la quantità di dati toponimici raccolti è tale da poter garantire la validità generale delle indicazioni relative alla diffusione e rappresentatività delle diverse forme. La possibilità di ricerca insite in questo strumento erano già state colte da Lina Iori, che nel 1959 aveva preso in considerazione la nomenclatura tradizionale di carattere pastorale a partire dalle carte a piccola scala. Il supporto della cartografia digitale e dei sistemi di gestione dei dati geografici consentono oggi una visione di maggiore dettaglio unitamente alla possibilità di approfondire tematicamente gli oggetti indagati. La base dati utilizzata per questo studio è stata individuata nella cartografia in scala 1:10.000, a cui è correlata una serie toponimica molto ampia. Per la verifica della distribuzione areale lo strumento utilizzato è rappresentato dal sistema ToP-GIS4, che consente di correlare variabili linguistiche e geomorfologiche, fornendo una visualizzazione precisa dei limiti di diffusione delle diverse denominazioni.
Cf. Porro 1913: 5: «il personale incaricato del lavoro sul terreno mancava della necessaria preparazione per la corretta trascrizione dei nomi locali, la quale era poi resa difficile, specie nei primi tempi, dalla nessuna conoscenza che gli operatori avevano dei dialetti delle regioni, dove erano mandati a lavorare». 3 Il volumetto, dal titolo Topolessigrafia del Piemonte. Contributo alla topolessigrafia italiana, si presenta privo del nome dell’autore, ma è certamente redatto dallo stesso Porro. Cf. Gasca Queirazza (1978). 4 Cf. http://associazioni.unito.it/ArchiMediOn/ (2010 12 15). 2
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Nel sistema sono stati inoltre inseriti i dati relativi alla situazione degli alpeggi moderni recentemente censiti dalla Banca dati degli alpeggi della Regione Piemonte5, utili per procedere ad un confronto con la situazione storica fissata dalla cartografia dell’I.G.M. In questa sede l’analisi sarà limitata a due sole voci, alpe, gias, la cui diffusione sul territorio può efficacemente illustrare la complessità e la varietà di problematiche connesse all’interpretazione dei toponimi alpini di carattere pastorale.
Alpe Si tratta del tipo toponimico più diffuso, presente sul territorio nelle forme Alp, Alpe o, con rotacismo, Arp. Le attestazioni toponimiche piemontesi ricavate dall’I.G.M. sono 1260. La classificazione degli oggetti topografici effettuata dall’I.G.M. ci permette di verificare che la maggior parte delle denominazioni sono riferite a case di alta montagna (725) o a o case isolate (279); 2 sono classificate come «case isolate di dimensioni notevoli», 10 come «edifici: diruti e semidiruti». I toponimi riferiti ad aree geografiche sono 24; un discreto numero di alpi si caratterizza per l’articolazione in gruppi di case o nuclei insediativi (203, 8), in qualche caso divenuti veri e propri centri abitati (Alpe Cheggio, fr. di Antrona Schieranco, 1500 m;6 Alpette, com. in prv. di Torino, 957 m, 300 abitanti). La voce alpe, di origine preindoeuropea7, continua il lat. alpis, che accanto al significato di ‹montagna alta›8, ha presto acquisito il valore di ‹pascolo di alta montagna a cui gli animali salgono durante il periodo estivo›, originariamente tipico dell’area settentrionale. La penetrazione di questa accezione nell’italiano era fatta risalire dal DEI al sec. XIX, ma il GDLI e il DELIN ne hanno suggerito una retrodatazione al 1310-12 sulla base di una citazione, per la verità non così esplicita, tratta dalla Cronica di Dino Compagni, in cui si legge, con riferimento a Pistoia: «Piangano i suoi cittadini […], posseditori di così ricco luogo, attorniato di belle fiumane e d’utili alpi e di fini terreni» (I, 26). In area piemontese i documenti medievali registrano precocemente questo valore, confermando l’importanza dell’allevamento montano nell’economia locale. Le attestazioni più antiche si collocano intorno agli inizi dell’XI secolo9 e si riferiscono agli alpeggi situati Il Censimento degli alpeggi piemontesi è stato realizzato dall’IPLA (Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente) nel 2003-2004 e ha portato al controllo puntuale e alla descrizione delle attività produttive di tutti gli alpeggi della regione con una portata di almeno 20 capi. Gli alpeggi censiti sono in tutto 1029. I dati ufficiali, relativi a denominazioni, localizzazioni e altitudine, mi sono stati forniti dal dott. Paolo Ferraris, ispiratore e curatore del progetto, a cui va il mio ringraziamento. 6 Così all’epoca della rilevazione I.G.M., ma attualmente non più abitata. 7 Accanto all’ipotesi preindoeuropea connessa al tipo *alb- ‹altura›, Hubschmied propone una derivazione dal gall. *alpis, *alpa ‹pascolo di montagna›, forma nominale in -pi, -pa dalla radice *al ‹nutrire› (LEI). 8 Cf. Du Cange (1883-1887: s.v. alpes): «vocati non modo montes, qui Italiam ab Gallia et Germania disterminant, sed etiam universim quivis montes altiores». 9 Un antecedente molto più lontano risulterebbe nel VII sec. nel Piacentino, segnalato da Vaccarone / Bertoglio [s.d.]. Il documento a cui gli studiosi fanno riferimento ha per oggetto la donazione di una «alpicella qui appellatur monte penice… usque in fluvio trivia», effettuata da Adalvaldo, figlio 5
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nell’alta Val d’Ossola e nella Val Sesia. Nei secoli successivi in tali terre si sarebbero insediati i coloni walser, ai quali i monasteri, detentori dei diritti di pascolo, affidarono l’onere della gestione affinché le facessero fruttare (cfr. Zanzi / Rizzi 2002: 441-494). Tuttora le attestazioni toponimiche del tipo alpe restano fittissime in quella zona. Accanto all’«alpe rotunda in valle mastalone», nominata in un documento del 1011 (Valsesia, BSSS 124), le carte segnano gli atti di passaggio dell’«alpe de otro» (Alagna, 1025, BSSS 124), ricco alpeggio appartenente ai conti di Pombia, confiscato dall’imperatore e ceduto al vescovo Uberto di Novara, e infine donato al monastero cluniacense di Castelletto Cervo nel 1083, insieme all’«alpe nominatur lavazoso» (Rima, BSSS 124). La documentazione si espande nel XII secolo, in concomitanza con l’affermazione dei diversi enti monastici sul territorio. Lo sfruttamento dei pascoli alpini ebbe infatti grande impulso grazie ai monasteri, i quali iniziarono una vivace politica di acquisizione di terreni di pascoli e diritti di alpeggio, testimoniata dai relativi cartari. Un documento del 1168 sancisce la concessione del diritto di pascolo «une alpis ubi dicitur petrafica cum omnibus suis pertinentiis sicut tenebat elena filia quondam rogerio qui dicitur de ciporeto» (BSSS 36) all’abbazia cistercense di Casanova.10 La successiva espansione porterà nel XIII secolo all’acquisizione dell’Alpe di Tête e di alcune alpi della zona di Pragelato, oltre ai diritti sull’Alpe del Pis11 (Massello) e della metà dell’Alpe dei Tredici laghi (Prali), nella Val Germanasca (Comba / Dal Verme 1996: 16). Risalgono a quel periodo le lunghe controversie circa i diritti di sfruttamento degli alpeggi da parte delle comunità, danneggiate dalla cessione di diritti feudali alle abbazie. Un altro noto esempio riguarda le comunità dell’alta Valle di Pesio, che per anni rivendicheranno inutilmente il diritto di pascolo sulle alpi un tempo comuni («alpes silicet vacherii et serpenterii et pratum brunum»), cedute ai monaci della Certosa di Pesio all’atto della sua fondazione nel 1173 (Camilla 1985). Se le alpes medievali si identificano essenzialmente come pascoli, è vero che nel tempo la voce estende il proprio significato fino a designare i fabbricati legati alle attività pastorali. Esplicita a questo proposito la definizione fornita dal Di Sant’Albino (1859): «Alp: fra noi denota singolarmente quel punto di un alto monte su cui sorge un fabbricato o sia una cascina, dove si conducono nell’estate i pastori colle loro mandre, perché godano dei pascoli ivi esistenti, e donde, dopo aver fabbricato burri, caci, ecc., scendono sull’avanzar dell’autunno per tornarsi alla pianura».
di Agilulfo, in favore dell’abbazia di Bobbio. Tuttavia l’atto originale non risulta, trasmesso da una copia più tarda risalente al X sec. 10 Cf. anche BSSS 14, n. 166: «Andrea, delfino di Vienna e conte di Albon, dona al monastero di Santa Maria di Casanova ogni suo diritto sulle Alpi del Pis e di Pierrefixe, e compone le differenze tra il monastero e gli uomini di Sauze e Cesana» (1213). 11 Cf. BSSS 2: «in alpe del piz» (1202); «alpibus una dicta del pis» (1275).
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La Description settecentesca del capitano Rouzier12, registrando il tipo alpe nella valle di Perosa e Pragelato e nella valle di S. Martino, glossava il termine evidenziando appunto la presenza di fabbricati per il ricovero degli animali: «bergerie où il y a des paturages aux environs». L’ambivalenza della voce è messa in luce da Porro (1914) che definisce l’alpe «pascolo in alta montagna, anche abitazione dei pastori e ricovero delle mandre». Il Dizionario storico-geografico del Casalis offre una descrizione dettagliata della natura dell’alpe nelle valli di Lanzo alla metà dell’Ottocento: corrispondenti ai «così detti chalets», le alpi erano costituite dalla «semplice unione di un camera da fuoco senza focolare, di una cantina ove si tiene il latte, di un’altra ove si tengono i caci, ed una grande stalla capace di contenere 50 sino a 100 vacche, che è forza di condurre ogni giorno a pascolare, qualunque sia la condizione atmosferica, nelle pasture che ne dipendono».13 La definizione mette in luce la progressiva specializzazione semantica della stessa voce rispetto all’uso di alp nell’area alpina contigua sul versante francese e nella Svizzera Romanda, dove è più marcata la separazione tra l’alpe, intesa come pascolo, e lo chalet, abitazione dei pastori.14 Il rilevamento cartografico evidenzia la discontinuità delle attestazioni toponimiche del tipo alpe lungo la dorsale alpina del Piemonte. Il massimo accentramento si rileva nel settore nord-orientale (501 toponimi); 82 sono le forme attestate nell’area forestale Valle Sacra, Val Chiusella, Dora Baltea Canavesana, 171 nelle Valli Orco e Soana, 191 nelle Valli di Lanzo. Spostandosi verso sud le attestazioni diminuiscono (27 in Val Chisone, Germanasca e Sangone; 13 in Valle Po, Bronda e Infernotto), per interrompersi nell’area della Val Varaita, Valle Grana, Valle Maira e Valle Stura, dove l’affermazione del termine è contrastata dalla presenza di altre voci concorrenti. Un limitato gruppo di esempi si ritrova nuovamente lungo il confine ligure, nelle Valli Monregalesi e nell’alta Val Tanaro (10). Un’indicazione contrastante viene offerta dal Censimento degli alpeggi promosso dalla Regione Piemonte, che presenta esempi di denominazioni Description des passages, qui se trouvent dans les alpes / qui separent le piémont de la france / divisée en deux traittés, dont le premier renferme le cols par / lesquels on va en france et le second contient les / passages par lesquels les vallées de Piémont communiquent / entr’elles, et avec la provence, et le Dauphiné / par Jean Baptiste Rouzier capitaine du Régiment de Monfort / 1749 (AST, Corte, Carte Topografiche Archivio Segreto, 7 F I rosso). 13 Casalis (1851: 27-28, voce Torino (provincia di). 14 Si veda a questo proposito la serie di definizioni fornite da André Pégorier nella recente raccolta Les noms de lieux en France. Glossaire de termes dialectaux realizzata per l’Institut Géographique National: Alpe (Alpes) ‹Pâturage de haute altitude›; Arp, arpe (Savoie) ‹Alpe, pâturage de montagne›; Aup (Dauphineé) ‹pâturage de montagne dans les Alpes›; Aupihoun, arpilhoun (Alpes, Sud-Est,) ‹petite alpille, colline, pâturage›. 12
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con base alpe anche in Valle Varaita (1), Valle Maira (2) e Valle Stura (17), suggerendo una distribuzione più omogenea della voce.15 Il dato è nuovo ed ha un significato ben preciso: le denominazioni censite nel 2003-2004, eseguite con criteri diversi rispetto alla cartografia I.G.M., riflettono l’espansione del tipo alpe, interpretato come voce tecnica e di uso generalizzato per indicare un certo tipo di organizzazione produttiva di montagna; non si riconosce la stessa fortuna alle voci concorrenti, nonostante esse siano tradizionali del luogo. Va d’altra parte precisato che il rilevamento del dato onomastico non è stato uno degli obiettivi del Censimento degli alpeggi, motivo per cui le unità produttive risultano talora registrate solo attraverso il determinante, senza conservare memoria dell’indicatore geografico che pure costituisce parte integrante della denominazione toponimica.16 Di questo trattamento, peraltro non sistematico, è necessario tener conto quando si confrontano le carte tematiche risultanti dalle due fonti. La netta differenza di punti «alpe» nell’estrema propaggine settentrionale del Piemonte (501 a fronte di 39) dipende in parte da questo fenomeno. Tuttavia se si considera il numero globale degli alpeggi attualmente presenti nella zona (188), appare evidente come la stessa area che nel medioevo aveva conosciuto la sua espansione proprio attraverso lo sfruttamento dei pascoli alpini segni oggi un forte regresso, in ragione dell’evidente difficoltà di mantenere produttivi alpeggi situati su versanti scoscesi, caratterizzati da altitudini elevate e forte isolamento.
Gias Secondo per diffusione tra i tipi toponimici legati alle attività pastorali, Gias risulta ampiamente attestato sia in Piemonte sia nelle aree alpine della Francia e della Svizzera Romanda. La voce continua il lat. med. jassium «ovile» che il Du Cange (1883-1887) registra richiamando il provenzale jas, da *jacium. Accanto a jassium è diffuso anche il tipo jassile, con suff. -ile (Rohlfs 1969: §1080): «Idem quod mox jassium, f. quod in eo jacent pecora». Alla base è il verbo iăcēre, nel senso di ‹stare disteso, essere sdraiato, coricato›. Si tratta propriamente di una specializzazione semantica rispetto ad un valore originario certamente più generico del termine (*jacium ‹luogo dove ci si sdraia›), che nei numerosi continuatori romanzi, ben rappresentati nelle parlate del dominio linguistico occitano, catalano e italiano (REW 4566), si orienta essenzialmente verso due accezioni:
Il maggior numero di attestazioni si rileva nelle Valli di Lanzo (52); Valle Sacra, Val Chiusella, Dora Baltea Canavesana (36); Strona e Basso Toce, Cusio Mottarone (26); Valli Monregalesi (21); Valle Stura (17); Valle Anzasca (12); Valli Chisone e Germanasca (9); Valli Po, Bronda ed Infernotto (9). Esempi sparsi ricorrrono nella Valle Elvo (5); Alta Val Tanaro, Mongia, Cevetta (4); Valli Gesso, Vermenagna, Pesio (4); Bassa Val di Susa e Cenischia (3); Val Sangone (3); Valle Maira (2); Val Ceronda, Casternone e Alto Canavese (2); Valli Orco e Soana (2); Valle Varaita (1); Alta Valle Susa (1); Val Sesia (1). 16 Cf. Alpe Regina (Formazza) › Regina; Alpe Giamporino (Varzo) › Ciamporino; Alpe Sangiatto (Baceno) › Sangiatto; Alpe Vallescia (Trasquera) › Vallescia. 15
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1) ‹giaciglio, covo›, soprattutto di animali selvatici –cf. jas «gîte (d’un lièvre)», attestato in Francia alla fine del XII secolo e inizio del XIII (FEW 5, 6a) 2) ‹lettiera, strame›, strato di foglie, paglia, erba secca preparato per «far sdraiare» gli animali nella stalla. Lo stesso quadro semantico è accolto dal piemontese: il Di Sant’Albino (1859, s.v. giass), si limita infatti a indicare le accezioni di 1) «Covacciolo, covo, giaciglio. Luogo dove si riposano alcuni animali quadrupedi. V. Tana». La voce ricorre anche nella locuzione Pié la levr a giass «Pigliar la lepre a covo. […] ‹prenderla o trovarla ferma›», utilizzata anche in senso metaforico. 2) «Impatto, lettiera. Lo sterno o letto che si fa alle bestie nelle stalle, che anche dicesi giaciglio o giacitojo. Queste ultime voci denotano più propr. il luogo dove giacciono. Onde Fe el giass a le bestie. Fare l’impatto alle bestie, cioè fare lo sterno, il letto alle bestie». La consultazione degli atlanti linguistici consente di avere un’idea della reale diffusione del tipo lessicale in area romanza. Il controllo mette in luce la notevole estensione del valore di ‹lettiera› e in subordine di quello di ‹covo›.17 La polisemia della voce pone evidenti problemi nell’individuazione del significato preciso a cui risalire nell’interpretazione toponimica. Tuttavia, escludendo l’accezione ‹lettiera›, che poco si adatta al contesto onomastico, sono pochi i casi in cui, anche in ambito romanzo, una denominazione di luogo possa giustificare il valore di ‹covo, rifugio›: gli esempi certi sono garantiti dall’esplicitazione del determinante, come nel caso di Le Jas des Lièvres (Belledonne, Isère, a 2325 m.) e Jas de l’Aigle (Alpes-de-Haute-Provence).18 Di fatto le denominazioni toponimiche registrate anche nel territorio d’Oltralpe risultano in genere riferite ad aree di pascolo19, elemento che aiuta a circoscrivere il significato al contesto delle attività pastorali. Pégorier (2006) ne fornisce una ricca documentazione, registrando le varianti dialettali tipiche delle diverse aree con il relativo significato: Ajas: couche, gîte, abri pour les troupeaux. Var. jas. jasse (Gascogne). Ayas: couche, gîte, emplacement où couchent les troupeaux. Var. jasse, jas (Haut-Pyrénées). Gias: parc pour les moutons (Briançonnais). Jas, jat: nom donné aux pâturages de certains endroits du Forez; gîte des troupeaux (Forez). Jas: gîte, lieu où couchent les troupeaux (Aveyron, Gers, Ubaye, Alpes, Provence). Jasse: abri pour le berger et enclos où l’on parque le bétail en montagne (Ariège, Dordogne, Provence et autres régions). Yas: gîte, refuge, bergerie (Haut-Pyrénées).
I limiti imposti alla pubblicazione non consentono di esplicitare le singole citazioni. Riferimenti specifici per l’area contigua al Piemonte si possono ritrovare sotto le voci «la litière» (ALF 779, ALJA 654, ALP 705) e «strame, mettere lo strame» (AIS VI, 1170); «le gîte du lièvre» (ALJA 955, ALP 962) e «il covo della lepre» (AIS III, 521); «le parc à moutons» (ALP 756); «l’alpage, habitation d’alpage» (ALJA II, liste complémentaire L62). 18 Cf. le riserve di Bessat / Germi (2004: 174). 19 Cf. Bessat / Germi (2004: 174-178). Segnalo inoltre La Jasse (Bessans, Haute-Maurienne, Savoie); Jasse-Vieille (Argentine, Basse-Maurienne, Savoie); Jasseplagne, (Arvillard, Savoie). 17
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Ciò nonostante l’identificazione del valore reale di gias su un certo territorio richiede un ulteriore approfondimento, con indagini mirate sia in senso diacronico che diatopico. Come si evince anche dalla già citata glossa del Du Cange (1883-1887) a jassile, storicamente la voce designa un’area destinata ad accogliere gli animali per la notte, in sostanza uno spazio cintato. La citazione «Quoddam casale totum situm in loco de Alpibus, prope magnum Jassium, etc.» tratta dal Tabul. S. Victoris Massiliensis (a. 1460 circa) e riportata dallo stesso Du Cange (1883-1887: s.v. jassium), conferma la distinzione tra il jas, semplice struttura di contenimento, e i pascoli circostanti o gli eventuali fabbricati. Le attestazioni medievali non sono comunque frequenti e sono tutte piuttosto tarde tanto in Italia quanto in Francia. Nelle Alpi Provenzali il valore di «bergerie, bercail, cabane où on enferme le troupeau» risulta attestato dal 1465 (TLFI).20 In Piemonte è preziosa la documentazione cartografica reperita da Rinaldo Comba (Comba / Dal Verme 1996: 19), che oltre a registrare la presenza di un Iacium Chastelleti (Casteldelfino) in una carta dell’alta Val Varaita risalente al 1421-22, ne conserva l’immagine, corrispondente ad uno spazio cintato da un muro di pietra a secco. Più semplice è l’aspetto del gias raffigurato in una carta topografica del 1566, costituito da una staccionata in legno.21 Decisamente più tarde sono le attestazioni riferite ad un giacio martino / giazo martino, che risulta nel catasto di Ala di Stura del 1590. La diffusione della voce iacium nell’uso pastorale è indirettamente confermata dalla presenza del verbo jazare, documentato in Piemonte negli Statuti di Monasterolo di Savigliano (Arch. Com., a. 1481) Ordinatus est quod campares de Monastiroly non possint nec debeant ducere oves extraneas ad jazandum in sua possessione sub pena pro quolibet et qualibet vice solidos XX in astensium
e negli Statuti di Brosso, in Valchiusella (a. 1497, BSSS 92: 354): Jtem quod bestie bovine equine et muline et ovine a festo santi Johannis Baptiste cuiuslibet anni usque ad festum santi Bertolomei inclusive pernoctare et Jazare debeant ultra cimam montis cavalarie sub pena solidorum duorum pro singola Bestia […]
Nonostante la diffusione storica dell’accezione di jassium quale ‹stazzo›, i principali dizionari piemontesi (Zalli 1815 e 1830, Ponza 1830-1833, Di Sant’Albino 1859) non registrano questo significato. Le carte dell’AIS (VI 1192a) rivelano tuttavia la presenza di questo valore semantico a Vicoforte (175: stramuda da n ģas al awt) e a Valdieri (181: merar ad ģas), corrispondenti alle aree di parlata provenzale. Ulteriori conferme vengono dalla consultazione del Dizionario del dialetto valdese della Val Germanasca (Pons 1973) che, s.v. gias, accanto all’accezione primaria ‹strame›, registra già o gias «luogo dove si fermano durante il giorno i bovini e gli ovini per riposare e ruminare». 20
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Recentemente è stata messa in discussione la datazione della prima attestazione del valore di jas in questa accezione, che la prima edizione del TLFI faceva risalire al XIII secolo (1208, Charte de Durbon, HautesAlpes). In realtà la citazione si riferirebbe al valore ‹gîte de lievre›. Cf. Andronache 2009: 125. Comba / Dal Verme (1996:19). Il gias era localizzato tra Valdieri e Andonno.
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Il repertorio topolessicografico raccolto da Rouzier consente di ampliare l’area di diffusione della voce, glossata, con minime varianti, come «endroit entourré d’une muraille ou avec des clefs qui forment un parc où l’on enferme les brebis pendant la nuit en été», oltre che nella Val Germanasca, anche nelle altre vallate occitane, quali la Val di Susa (a Cesana) e le valli Pellice, Po, Maira, Grana e Stura. Il controllo dell’attuale distribuzione dei toponimi formati con gias in area piemontese evidenzia una diversa e più estesa localizzazione rispetto al bacino delle valli occitane. I relativi toponimi registrati dall’I.G.M. sono complessivamente 343. La forma conservata nella toponomastica riproduce in genere la pronuncia dialettale. Solo nel settore nordorientale si attestano esempi di adattamento con esito Giaccio22 o Ghiaccio23, in analogia con il piem. giasa (‹ lat. med. glacia per glacies) ‹ghiaccio›. Se il quadro toponimico appare globalmente omogeneo, l’identificazione precisa del valore di gias pone ancora diverse difficoltà in relazione all’ulteriore estensione semantica del termine. Il glossario approntato da Carlo Salvioni all’inizio del Novecento nel corso di un’indagine sul dialetto provenzaleggiante di Roaschia (CN) rivela che in quell’area ģas vale «cascina sull’alpe, pascolo alpino» e anzi localmente si «distinguono a seconda delle stagioni, ģas sután, ģas del mes e ģas suran» (Salvioni 1907: 538). Dal valore specifico di ‹recinto›, la voce è quindi passata a designare anche i pascoli e la cascina di montagna, acquistando, per certi versi, una valenza sinonimica rispetto ad alpe. Non è un caso che le denominazioni storiche di alcune alpi, documentate fin dal medioevo, quali le già citate «alpes […] vacherii et serpenterii» o l’Alpe del Pis risultino oggi registrate nella cartografia I.G.M. rispettivamente come Gias Vaccarile, Gias Serpentera e Gias del Piz. Anche il glossario del Porro (1914: s.v. gias) non riporta una definizione specifica, ma si limita a rimandare ad alpe.24 Il valore semantico dei due termini non è tuttavia sovrapponibile poiché, a differenza dell’alpe, il gias risulta essere una stazione di sosta temporanea del bestiame, andando piuttosto a collocarsi nella sfera semantica di voci parallele quali muanda, mianda.25 D’altra parte la disposizione stessa dei gias su più livelli è attestata anche dalla toponomastica, che non di rado presenta denominazioni seriali del tipo Gias sottano / Gias di mezzo / Gias soprano.26 Alpe Giaccio dell’Asino, Coggiola; Alpe Giaccia Croso e Piano di Giaccio Croso, Broglio (BI); Turio del Giaccio, Scopa; Alpe Giaccio, Mollia (Val Sesia). 23 C. Ghiaccio, Pollone; Ghiaccio Comune, BI; A. Ghiaccio, Sabbia; A. Ghiaccio, Boccioleto e Rima S. Giuseppe; il Ghiaccio, Riva Valdobbia (Val Sesia); il Ghiaccio, Pieve Vergante (Val d’Ossola). 24 Cf. Porro 1914; unica particolarità annotata riguarda il valore polisemico della voce, che «in alcuni paesi vuol dire anche letame (Lomellina)». Lo stesso significato ricorre anche nel Canavese. 25 Esito dialettale del lat. mutanda, dal verbo mutare (REW 5785), designa la stazione pastorale temporanea. 26 Cf. Gias soprano / di mezzo / sottano del Pari; Gias soprano / sottano Sestrera, Baus Lula, Canavere, del
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Secondo la classificazione degli oggetti topografici prodotta dall’I.G.M. la maggior parte delle attestazioni si riferisce a «case di alta montagna» (161) o a «case isolate» (57); 24 si riferiscono a «edifici diruti e semidiruti», 1 a «baracca o capanna» (Gias dell’Adreit, Valle Gesso). Più coerentemente con il valore semantico originario della voce, 8 denominazioni di luogo si riferiscono a «mura dirute e semidirute» (in Valle Gesso: Gias della Portia, Gias della Losa, Gias soprano, Gias Lausetto, Gias Lagarol, Gias del Saut, m. 1847, Gias del Mesa, com. di Valdieri; Gias della Pera, com. di Entracque). Si noti che, a differenza del tipo alpe, nessun gias ha dato origine ad un insediamento stabile. Allo stato attuale è difficile discriminare il preciso valore semantico della voce, distinguendo tra il significato proprio di ‹stazzo› e quello successivamente acquisito di ‹pascolo con casale e ovile›. Su questo problema Bessat / Germi (2004: 174) auspicavano per il versante francese la possibilità di indagare più approfonditamente il territorio, integrando le indicazioni toponimiche con ricerche sul campo. Il lavoro puntuale condotto nell’ambito del censimento degli alpeggi piemontesi ha in parte ridotto le speranze di poter ottenere risultati determinanti con la sola indagine sul campo. Nella coscienza dei parlanti le denominazioni locali non sono più trasparenti e il paesaggio pastorale è stato modificato dalla mano dell’uomo. La documentazione fotografica a corredo del Censimento evidenzia l’assenza di un assetto strutturale specifico del gias: le località censite prevedono attualmente la combinazione costante di edifici di abitazione del pastore e di ricovero per animali. Una ricerca più fine andrebbe piuttosto affrontata con gli strumenti dello storico, ripercorrendo la documentazione catastale, le mappe, i contratti ed ogni tipo di memoria che possa ancora conservare le tracce di un’economia pastorale di villaggio. L’esame fin qui condotto mette in luce la complessità dell’analisi della toponomastica alpina correlata all’attività pastorale. Pur trattandosi in genere di denominazioni recenti, poco problematiche dal punto di vista etimologico, l’interpretazione non può essere immediata: il valore semantico delle voci che entrano a far parte della denominazione dei luoghi non solo varia in relazione al tempo e allo spazio, ma in questo caso risulta anche fortemente condizionato dagli usi e dalle consuetudini pastorali delle diverse comunità. La rilevazione della diversa distribuzione delle voci in relazione a variabili di tipo linguistico dev’essere vagliata alla luce dei legami che si instaurano tra l’uomo e il territorio, senza trascurare gli effetti dei processi di semplificazione e di omologazione che spesso intervengono ad alterare gli originari rapporti tra significante e significato. Negli ultimi decenni lo spopolamento montano, l’abbandono dei pascoli più disagevoli, il passaggio da un’economia di tipo familiare ad una dimensione imprenditoriale hanno inciso sullo spazio alpino e ne hanno modificato il profilo. Il Censimento degli alpeggi ha registrato questi cambiamenti: i dati che ne risultano mostrano l’impoverimento del patrimonio onomastico storico e confermano l’urgenza di un rilevamento sistematico di quanto ancora permane. L’indagine condotta a livello locale non è tuttavia sufficiente: il ruolo di «cerniera» storicamente esercitato dalle Alpi rende auspicabile che l’inquadramento toponomastico e lessicale possa realizzarsi nell’ambito di progetti transnazionali, capaci di restituire un’immagine non frammentaria dei fenomeni indagati.
Colle (Chiusa Pesio); Gias Travet di sopra / di sotto (Groscavallo); Giasso superiore / inferiore (Traversella).
Riflessi delle attività pastorali nella toponomastica alpina del Piemonte
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Alda Rossebastiano (Università di Torino)
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
L’onomastica contemporanea conosce in tutta l’area romanza un’ampia serie di nomi individuali e di famiglia riconducibili ad aggettivi qualificativi che riguardano principalmente l’aspetto fisico e la valutazione morale. L’esemplificazione è superflua, data la diffusione delle categorie citate. Più limitata, ma pur presente, è invece l’applicazione di comparativi e superlativi alla funzione denominativa. All’interno della categoria risulta decisamente abbondante la documentazione relativa ad alcune forme organiche che partono da radici diverse da quelle della base1, probabilmente perché sono più difficilmente percepibili come alterati. Le forme di alterazione non organica risultano invece quasi completamente scomparse ai giorni nostri, mentre sopravvivono ancora nell’onomastica medievale piemontese.2 Poiché il nome individuale ha molto spesso valenza augurale, sarà abbastanza prevedibile trovare abbondante circolazione di un superlativo come maximus, che indica l’eccellenza sotto ogni possibile aspetto. Il superlativo venne utilizzato nell’onomastica antica dapprima come cognomen, ad indicare il più vecchio fra tre o più fratelli, per divenire poi nome personale indipendente. Poiché a portarlo furono diversi santi dei primi secoli, il nome si diffuse in ambiente cristiano, interessando anche direttamente il Piemonte, di cui in particolare ci occupiamo. Tra i santi protettori della città di Torino, troviamo infatti il suo primo vescovo, san Massimo, vissuto tra IV e V secolo, allievo del vescovo di Vercelli e celebre per le sue omelie. Nonostante la conseguente inevitabile intensa circolazione locale, evidenziata anche dalle iscrizioni di epoca romana reperite sul territorio3, il periodo medievale non mostra di apprezzare molto il nome, che in Piemonte, secondo ArchiMediOn, trova posto soltanto come patronimico e, nella forma F Maxima, come matronimico. Le ragioni del limite sono probabilmente da ricercarsi nel registro alto cui appartiene la forma.4 La più antica attestazione rinvenuta nel Piemonte medievale richiama con le due componenti della catena onomastica il collegamento tra il nome e la città di Vercelli, dove compare nel 1169 ‹vercellinus de maxima›. Più tardi, nel sec. XV, troveremo ‹laurencius Per la documentazione moderna dei nomi individuali utilizzo i dati di NPI, estrapolando i riferimenti relativi al solo Piemonte. 2 Per la documentazione medievale mi baso sui dati di ArchiMediOn (Archivio Medievale Onomastico), organizzato e gestito da Elena Papa. Cfr. http://associazioni.unito.it/ArchiMediOn/. 3 Non a caso la documentazione del CIL V insiste particolarmente nell’area tra Torino e Vercelli. Segnaliamo: Maximus a Romano Canavese (7144), a Torino (7192), ad Asti (7579), a Pollenzo (7622), a Dogliani (7670), a Cherasco (7676), a Morozzo (7706), Maxumus a Vercelli (6671), a Torino (7031), a Saluzzo (7630), Maxemus a Torino (7137), Max’mus tra Novara e Vercelli (6486), Maxsimo a Lombriasco (7341); Maxima a Vercelli (6736), a Torino (7164), Maxuma a Torino (7019), a Castagnole delle Lanze (7590). 4 Per l’Italia centro-meridionale il MOR segnala Maximus a Spoleto dall’813, Maxima tra 795-816. 1
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Alda Rossebastiano
maximus› e ‹iohannes maximus alias spina›, ambedue a Carrù nel 1414; ‹benedictus de maximo›, a. 1423 a Valperga. A frenare la diffusione può essere stata localmente anche una sorta di tabù generato dalla riverenza dovuta ad un santo tanto celebre, la cui personalità si imponeva come irraggiungibile in eccellenza. Di qui forse la diffusione di forme a loro volta alterate, che stemperano la gravità del nome, come masimonus, nome unico a Novara nel 1094 (Bovio 1966-1967), accanto a maximinus5, frequente nel XV secolo a Carrù (‹anthonius maximinus›, ‹facius maximinus›, ‹iacobus maximinus›, tutti attestati nel 1414). Sono proprio soluzioni come queste a garantire l’avvenuto passaggio del superlativo da voce del lessico comune a nome proprio. In epoca moderna il nome ha superato in Italia la barriera del rispetto ed ha ottenuto grande successo, testimoniato da 594.510 attestazioni M e 573 F nel corso del XX secolo.6 In realtà il trionfo del nome è limitato ad un ventennio circa, quello del miracolo italiano, che va dal 1956 al 1977, periodo in cui Massimo si colloca ininterrottamente nei primi venti ranghi nazionali.
Resta bene ancorata sul territorio anche la funzione di nome di famiglia, testimoniata da 47 registrazioni di Massimo (22 Massimi) a Torino7, 33 (2 Massimi) a Novara, 18 a Cuneo, 9 ad Alessandria, 2 a Vercelli. Ben più insistente Massimino che mostra 504 attestazioni a Cuneo, 188 (2 Massimini) a Torino, 6 (2 Massimini) a Vercelli, 6 (1 Massimini) a Novara, 3 ad Alessandria, 2 ad Asti. Intorno al valore di -inus in onomastica, cfr. Papa 2008. Ovviamento in questo caso può trattarsi anche di un richiamo diretto di S. Massimino di Aix o dell’omonimo vescovo di Treviri. 6 Per l’esattezza dal 1.1.1900 al 31.12.1994, secondo la banca dati del Ministero delle Finanze utilizzata per NPI. Le occorrenze in Piemonte sono 24.461 per Massimo e 39 per Massima. 7 Qui e sempre d’ora in poi, si intende la provincia relativa. La banca dati cui si attinge è ArchiCoPie, basata sempre sui dati del Ministero delle Finanze. 5
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
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Non lascia traccia di sé invece *Massimone.8 Se il concetto di Massimo è positivo, al suo opposto si colloca Minimo, uno dei nomi legati all’ideologia della nuova religione, attraverso i quali si testimonia la ricerca di umiltà propria dell’onomastica dei primi secoli dell’era cristiana.9 Il medioevo piemontese lo trova a Novara, in una citazione locale di ambiente ecclesiastico che riporta ‹ego gosbertus minimus levita cantore et primicerius› (a. 1013). Difficile individuare se in questo caso minimus appartenga già effettivamente alla catena onomastica come secondo nome o sia ancora da considerarsi semplice attributo di levita ‹diacono› o invece entri nella catena onomastica come nome aggiunto in prospettiva cristiana, introdotto da chi magari proveniva da ambiente giudaico con abituale cambio di nome al momento del battesimo. Sta di fatto tuttavia che il cognome Minimo10 risulta ancora oggi attestato proprio a Novara (2 occorrenze). Come nome individuale Minimo presenta in Italia 6 occorrenze al M, accanto a 7 al F nella forma Minima. Se dal concetto di grande / piccolo passiamo a quello di buono / cattivo ci rendiamo conto che la continuità del superlativo di tradizione latina risulta ancora più scarsa. La banca dati del Piemonte medievale non reca tracce né di Optimus11 né di Pessimus12, né con funzione di nome individuale né come nome di famiglia, mentre l’onomastica italiana moderna conosce il nome individuale Ottimo (116 occorrenze) / Ottima (23), ma non menziona Pessimo / Pessima. L’intenzione augurale nella scelta del nome individuale risulta quindi anche in questo caso assolutamente prevalente. Per quanto riguarda il nome di famiglia, Ottimo13, rileviamo che conta 11 attestazioni in Piemonte, di cui 10 a Torino e 1 a Cuneo. Al F riscontriamo una sola volta Pessima a Torino, mentre manca del tutto Ottima. Tanto equivale a dire che il valore negativo si afferma come matronimico, quello positivo come patronimico. Abbastanza rare ma non del tutto assenti risultano le forme di superlativo in -issim- che nel medioevo piemontese sono tipiche dell’onomastica femminile. Ne sono esempio Bellissima nel 1092 a Novara e Bilisima nel 1227 ad Asti. L’interpretazione di quest’ultimo nome non è del tutto chiara: non si esclude che si possa ricondurre a Bella (e per questa ragione viene qui citato), nonostante la i protonica, ma è più probabile che si tratti di un forma aferetica per (Ama)bilissima, e quindi da collegarsi ad Amabile, nome molto diffuso in epoca medievale.14
Nessun riscontro né in De Felice (1978), né in CI. Nessun riscontro di questi nomi né in CIL V, né in MOR. 10 Nessun riscontro né in De Felice (1978) né in CI. 11 Ricavo tuttavia da Serra (1950: 21), l’esistenza di ‹Gennaro filio Optimis› in carte salernitane dell’855. Assente in MOR. 12 Assente anche in MOR. 13 CI registra il cognome senza fornire indicazioni sulla sua consistenza numerica sul territorio nazionale. Nessuna menzione in De Felice (1978). 14 Cfr.: Mabile nella Lira 5 di Siena, Mabilia nella Lira 3 di Siena e nella Libra di Perugia (Castellani Pollidori 1961). 8 9
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Se Bellissima è nome unico con funzione di nome individuale, Bilisima è matronimico (‹gandulfus de bilisima›) attestato nel 1227, e di conseguenza come nome individuale deve essere antedatato. Ambedue i testi in cui i nomi appaiono sono scritti in latino, ma la seconda forma denuncia già chiaramente l’interferenza del volgare, sottolineando l’importanza dell’onomastica per la datazione delle voci del lessico comune.15 I due nomi piemontesi si accostano quindi a quelli toscani Dulcissima, Dulcisima e Chiarissima presenti nella senese Lira 5, risalenti al 1261 (Castellani Pollidori 1961: 61-62) e a quelli registrati nella perugina Libra (1285): Clarissima e Albissima (Mittleman 1997). Il M Dolcissimus è attestato già in documenti longobardi del 767.16 Forme analoghe di superlativo continuano fino ai giorni nostri, generalmente sostenute da motivazioni religiose, in particolare le litanie lauretane.17 Ne sono esempio Dolcissima (140 occorrenze), Castissima (13), Purissima (286, di cui 18 in Piemonte), accanto a Carissima (112, di cui 7 in Piemonte), Carissimo18 (25), Novissima (25), Felicissimo (19), Felicissima (58, di cui 3 in Piemonte). Molto più abbondante la serie dei nomi di famiglia, che in Piemonte è rappresentata da: Altissimo (20 a TO), Attivissimo (8 a TO), Bellissima (3 a NO, 2 a TO), Bellissimo (18 a TO, 9 a CN, 8 ad AL, 3 a VC, 1 ad AT), Carissimi (15 a NO, 7 ad AT, 7 a TO, 2 ad AL), Carissimo (3 a TO, 2 a NO), Facilissimo19 (3 a TO), Felicissimo (3 a TO), Lustrissimi (4 ad AL), Pochissimo20 (11 a CN). In questa serie di superlativi, accanto ad esempi che rientrano nella categoria dei nomi che esprimono affettività (siano essi di origine patronimica / matronimica o soprannominale), ne troviamo alcuni che manifestano segni di una probabile costruzione a tavolino, tipica dei cognomi attribuiti ai trovatelli. Pensiamo in particolare ad Attivissimo, Facilissimo, Pochissimo. Per Lustrissimi si dovrà pensare ad un soprannome di riguardo divenuto cognome. Il massimo grado di una qualità trova espressione anche attraverso altri e più interessanti meccanismi di rafforzamento del concetto espresso dall’aggettivo. Uno di questi è l’avverbio sic che appare in Sibella (‹sibellam iugalem et filiam vuiberti›, a. 1147 a Trino, poi a Casale Monferrato ‹guilielmus de sibella› e ‹oliverius de sibella›, inizio sec. XIII), in Sybonus (‹sibonus de ruata repentia›, ‹wuillelmus sybonus›, ‹vercellus siboni›, a. 1253 a Chieri). Totalmente scomparsi come nomi individuali, trovano continuazione tra i cognomi piemontesi nelle forme Sibella (1 a TO), Sibelli (TO 3, CN 3, NO 2, VC 1, AL 1) e Sibona (CN 417, TO 354, AT 41, VC 13, AL 2), Sibono (CN 1, TO 1), Siboni (TO 3, CN 1, AL 1).
La prima attestazione del superlativo di amabile, amabilissimo, secondo il LEI risale al 1308 circa. NPI, scheda Dolcissima (a cura di E. Papa). 17 Rossebastiano (2005: 99-146). L’assenza di quasi tutte queste forme F all’interno del MOR conferma l’ipotesi di un collegamento con le litanie citate. 18 Un ‹benedictus carissimus› è registrato dal MOR nel 1191 a Roma. Mi pare abbastanza interessante segnalare che il medesimo individuo, frequentemente citato tra il 1191 e il 1193, in alternativa viene denominato ‹benedictus carushomo›, a garantire la sicura trasparenza al momento del significato insito nel nome aggiunto. 19 Assente in CI. 20 Assente in CI. 15 16
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Ricopre la medesima funzione tam che troviamo preposto a magnus21 in ‹rigotinus tamagnus›, attestato nel 1329 a Ceresole Reale, giunto fino ai giorni nostri come cognome in Piemonte nelle forme Tamagno (TO 105, VC 52, CN 48, AL 21, NO 1), Tamagna (AL 4, TO 4), Tamagni (NO 15, TO 5, VC 4). Un prefisso elativo piuttosto raro in italiano (anche nella lingua antica, dove tuttavia trovano posto quanto meno trafreddo22, tracaldo23 e trabello24), ma alla base invece del comune modello francese25, è trans. Unito a bellus crea Trabellus26, secondo nome citato con riferimento probabile a due fratelli di Viale d’Asti (‹tebaldus trabellus› e ‹ubertus trabellus›) nel 1232. Assente nell’onomastica italiana moderna come nome individuale, ha continuazione nei cognomi attraverso Trabella27, che conta 13 attestazioni ad Alessandria. Nella medesima zona l’aggettivo si accosta anche ad ultra per creare Oltrabella28 (3), mentre a Torino (7) e a Novara (2) per la formazione si utilizza extra29 dando luogo a Strabello.30 Quest’ultimo ha il suo antecedente in Strabella, documentato come nome individuale F in Piemonte nel 1147.31 Alla base di molte di queste formazioni si trova l’aggettivo bello che mostra particolare insistenza nell’onomastica. Accade tuttavia che bello emerga anche in composizione con un altro aggettivo in formazioni che possono essere interpretate sia come somma di aggettivi che come formazioni di valore superlativo in cui la prima componente è belle / bellum con valore avverbiale.32 Ne sono esempi Belexanus, nome unico portato da due individui a Novara nel 1087, come secondo nome ad Alessandria nel 1177 (‹lanfrancum belexanum›), Belegrosso / Bello et grosso33 come secondi nomi a Torino, rispettivamente nel 1153 (‹uilielmi bellegrosso›) e nel 1158 (‹guilelmus bello et grosso›). In quasi tutti questi casi si osserva una e interna, probabilmente dovuta a concrezione della preposizione et. Non così nell’esempio rappresentato da Belfort (‹guillielmus de belfort›, a. 1219 ad Avigliana), dove la preposizione non appare. Non escludiamo che possa trattarsi di una formazione realizzatasi attraverso la somma di aggettivo + sostantivo, con possibile richiamo di una località, ma l’esistenza di una costruzione di superlativo realizzata proprio attraverso la giustapposizione a bel di un altro aggettivo34, ci conduce anche nella direzione indicata che tuttavia nella fattispecie riteniamo meno probabile. Delle tre forme medievali attestate in Piemonte sopravvive solo l’ultima, come nome di famiglia, nelle varianti Belfort (CN 6), Belforte (TO 79, AL 55, CN 12, VC 1), Belforti (TO 5, 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 21 22
DEI, s.v. tamagno, antico, di area settentrionale. Lausberg (1966: §686, 1, d.). Attestato nel XIV secolo nella forma tracalda ‹caldissima› (OVI). LEI, s.v. bellus, 950, datato 1300 circa in Toscana. Alessio (1955: II, 27). Un Trabonus chierico viene menzionato ad Arezzo nel 715, secondo Serra (1950: 21, nota 1). Assente in CI. Assente in CI. Lausberg (1966: §686), 1, e. Per la confusione tra extra>stra e trans>tra cfr. Tollemache (1945: 124). Assente in CI. Serra (1950: 21, nota 3). Rohlfs (1968: §404), nota 1; 1969: §886). Bellagrossa risulta invece essere nome individuale nella Lira 3 di Perugia (Castellani Pollidori 1961). Ricordiamo in aggiunta anche la forma bellebonus presente nel MOR (a. 1192, a Viterbo).
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VC 3). A questo cognome se ne possono tuttavia aggiungere altri costruiti allo stesso modo, attestati in epoca moderna, dei quali non abbiamo reperito documentazione medievale. Si tratta di Belsanti (TO 9, CN 3), Belcaro (TO 4, VC 1, AL 1), Belcari (NO 2, TO 2). Questi casi risultano di particolare interesse sul territorio piemontese, dove sono correnti nel dialetto formazioni elative di questo tipo, sia con costruzioni giustapposizionali che congiunte da et. Quest’ultimo tipo in loco non si presenta solo nel caso di participi passati, come segnala il Rohlfs35, ma anche con altri tipi, ad esempio aggettivali36 (es.: bela grasa, bela grosa, accanto a belecuntenta, belemata, oltre che belefait, beledit). Per l’onomastica locale segnaliamo la sopravvivenza in epoca moderna di Bellebono (VC 6, TO 3, NO 2), Bellebuono (TO 3), Belleboni (TO 1) e, con accordo interno generato da erronea interpretazione della formula, Bellanova37 (TO 29, NO 4, VC 2, AL 2, CN 1). Accordo del medesimo tipo si individua in composizione col participio passato, nel caso di Bellofatto (TO 15, NO 3) che affianca Belafatti (NO 2) e forse Bellaveduto (TO 6) accanto a Bellaveduta (TO 5); queste ultime due forme potrebbero giustificare pure altra e diversa interpretazione, del tutto trasparente. Un’altra formazione composta può essere individuata in Forbellus, presente come secondo nome a Vercelli nel 1395 (‹iordanus forbellis›). La prima componente è molto probabilmente forte per fortiter, uno degli avverbi che possono creare un superlativo nelle lingue romanze.38 Il nome è attestato nel Libro di Montaperti e come Fortibiaus nella chanson de geste39, ma non ha continuazione ai giorni nostri. Più diffuso sul territorio l’impiego di bene come avverbio elativo, visibile in Benbonus (‹manfredus qui vocor benbonus›, a. 1177), ormai scomparso nel territorio nazionale al pari di Benlonga, Benelonga, Benelunga (‹guillelmus de benlonga›, a. 1264 a Biella, ‹guillelmus de benelonga de bugella notarius›, a. 1292 a Biella, ‹guillelmus de benelonga notarius›, a. 1317 a Biella, ‹guillelmus de benelunga›, a. 1274 a Biella). Alla formazione dei superlativi si giunge anche attraverso la ripetizione dell’aggettivo (Alessio 1955: 28) visibile nel nome unico Bonbonus, presente nell’Astigiano come Bombunus (‹vinea bombuni›, a. 755) e in altri documenti piemontesi nell’a. 1140, a fianco del derivato bonbonius (‹bonbonio›, a. 1153, nomen unicum). Il Piemonte contemporaneo testimonia la continuazione col cognome Bomboni (1 ad AL). Nella medesima categoria si possono collocare Belbellus, usato come nomen unicum nel 1165 a Vercelli (Ferraris 1968-1969), accanto a Belbellotus (stessa funzione, stesso anno, stesso luogo) e al nome aggiunto de Belbello, a. 1173 (stesso luogo). Nessuna attestazione in Piemonte in epoca moderna, né come nome individuale, né come nome di famiglia.40 Un’altra soluzione possibile è quella realizzata con tutto, che appare nei nomi individuali Tutebonus (‹tutebonus de olevolo›, a. 1247 a Vercelli), Tutobenus (‹tutobenus de egro›, a. 1274 ad Orta San Giulio), Tutunus (‹fulchus tutunus de mariana›, a. 1229 a Maglione). Della serie sopravvive solo Tuttobene (AL 6, TO 5), divenuto nome di famiglia. Rohlfs (1968: § 404, nota 1). Cfr. anche LEI, s.v. bellus. 37 Non si esclude tuttavia che nova possa invece corrispondere a ‹novella›, a creare il valore complessivo di ‹bella notizia›. 38 Cfr. foarte in romeno. 39 Cfr. Langlois (1904: 225), dove risulta essere il nome di un gigante in Renaut de Montauban. 40 Assente anche in CI. 35 36
253
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
U
A
B
S
Maximus / -a minimus Bellissima
Sibella
Strabella Belexanus
Nome di famiglia
Massimo
Massimo
Minimo Ottimo / -a
Minimo Ottimo Pessima Bellissima,-o ---
-issim-
Bilisima
Sibella Sybonus, Sibonus
Nome individuale
Dolcissima Castissima Purissima Carissima, -o Novissima
sic
Felicissimo / -a
Carissimo, -i Altissimo Attivissimo Facilissimo Pochissimo Lustrissimi Felicissimo Sibella, -i Sibona, -o, -i
Tamagnus Trabellus
tam trans ultra extra Bellum
Belexanus Belegrosso, Bello et grosso
Tamagno, -a, -i Trabella Oltrabella Strabello ----Belfort, Belforte, Belforti Belsanti Belcaro, Belcari Bellebono, Bellebuono, Belleboni Bellanova
Belfort
Bellofatto, Belafatti
forbellus
bombunus Bonbonius Belbellus belbellotus
Benlonga, benelonga, benelunga
De belbello tutobenus tutunus
Benbonus
forte bene
Bellaveduto, Bellaveduta ---------
Bonus+bonus Bellus+bellus + suff. -otttutto
Bomboni --Tuttobene ---
254
Alda Rossebastiano
In sintesi, sul piano della formazione osserviamo in epoca medievale l’uso di -issim-, sic, tam, trans, extra, forte, bellum, bene, tutto, oltre alla ripetizione dell’aggettivo. Tutte queste soluzioni hanno continuazione fino ad epoca moderna, quando si vede comparire anche ultra>oltra. Nessun esito con multum41, l’avverbio che ha riscosso il maggiore successo nella formazione dei superlativi nel lessico comune: non a caso il suo uso è ignoto al dialetto piemontese. Parimenti assenti formazioni con ad satis > assai, piuttosto diffuse invece nell’Italia centrale.42 Sul piano degli aggettivi implicati registriamo minimo, bello, sano, buono, grosso, amabile, magno, lungo, nella documentazione medievale, cui si aggiungono in epoca moderna quelli alla base dei nomi individuali Ottimo, Pessima, Minimo, Dolcissima, Castissima, Purissima, Carissima, -o, Felicissimo, -a, Novissima; come si può osservare sono tutti di valore positivo, ad eccezione di Minimo. Le aggiunte moderne nella categoria dei nomi di famiglia sono: Altissimo, Attivissimo, Carissimo, -i, Facilissimo, Felicissimo, Lustrissimi, Pochissimo, santo, nuovo, fatto, veduto, bene, con netta prevalenza delle forme dotte in -issimo e popolardialettali in bel, seguito o no da congiunzione. Le forme attuali in -issimo sono spesso di tradizione religiosa, legate alle litanie laureatane, oppure sono costruzioni artificiose destinate alle creazione dei cognomi dei trovatelli, piuttosto che reale continuazione di nomi medievali. Di minore diffusione il comparativo. La forma sintetica di magnus è maior, che nel latino medievale si è sostantivato, assumendo significati diversi, tra cui quello indicativo di una carica (Du Cange 1983-1887). Per questa ragione è difficile distinguere in onomastica i casi in cui maior segnala come nella classicità il confronto tra due43 o, come nell’epoca imperiale, una funzione44, da quelli in cui fa realmente parte della catena onomastica. Nonostante ciò mi pare che non esistano dubbi sulla possibilità di collocazione di maior nella categoria dei nomi individuali per ‹maior de rugia›, a. 1217 a Varallo, in quella dei secondi nomi per il genitivo ‹domini jacobi maioris›, a. 1219 ad Ivrea.45 Certezza maggiore si presenta nei casi in cui compare l’alterato corrispondente, vale a dire maiorinus.46 Un esempio antichissimo è offerto da ‹signum manibus luvixini filius quondam magiorini›, a. 974 ad Oleggio. Questo nome unico ha continuazione in epoca moderna come Maggiorino (1445 attestazioni in Italia, di cui 779 in Piemonte e 217 a TO, 190 a CN, 181 ad AT, 132 ad AL), Maggiorina (1380 in Italia, di cui 723 in Piemonte, 177 ad AT, 135 ad AL, 102 a TO), sostenuto localmente dalla venerazione per il primo vescovo di Acqui, che portava questo nome, vissuto nel III secolo. Persiste anche come nome di famiglia nelle forme Maggiorino (TO 15, AT 7, AL 2, CN 1), Maggiorini (NO 16), Maiorino (TO 34, NO 1), Maiorini (TO 3), Majorino (TO 6). Nessuna forma con multum neppure nella Lira di Siena e nella Libra di Perugia, ma Moltocara appare a Pistoia nel 1219 (Serra 1950: 21, nota 6) e Multobonus in Romagna nel 1237 (ivi, nota 5). 42 Cfr. a Siena (Lira 5) Bellassai, a Perugia (Libra 1285) Bellassaie. 43 Cfr. i seguenti esempi: ‹sigismundus maior subscripsi›, a. 1136 ad Ivrea; ‹ego johannes maior subscripsi›, a. 1176 ad Ivrea. 44 Cfr. il seguente esempio: ‹signum simondi de montealto maioris yporiensis ecclesie›, a. 1122 a Montalto Dora. 45 Altri esempi in MOR per l’Italia centrale. 46 Cfr. MOR per l’Italia Centrale, dove riscontro: ‹Maiurinus› nel 945 a Tivoli; ‹Maiorinus Columna› nel 1051. 41
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
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Ovviamente non manca Maggiore (Italia 46, di cui 38 in Piemonte, con epicentro tra Cuneo ed Asti), come nome personale (F Maggiora 9) e come nome di famiglia (TO 109, NO 51, VC 35, AT 13, CN 7), accanto a Maggiora (AT 459, TO 246, AL 65, NO 45, VC 29, CN 7), Maggiori (NO 8, TO 7, CN 5), Maiori (AL 1). Il contrario è rappresentato da minor, di cui non trovo attestazioni se non nell’onomastica moderna47 con funzione di nome di famiglia nelle forme Minore (TO 36, CN 10, NO 4), Minora (TO 1), Minoro (AL 1), Minori (TO 11, CN 1). Il comparativo di bonus, melior si presenta come nome unico in ‹ego melior imperialis aule notarius› 1250 a Susa; con metaplasmo in ‹meliorus de domino ramundo›, 1245 a Lanzo Torinese, al F ‹melior48 uxor condam guillelmi de orsino› 1323 a Varallo; come nome individuale in ‹filii quondam melioris calcagni›, a. 1192 a Torino; ‹melior platula›, a. 1193 ad Asti; ‹meliorus de busca›, a. 1193 a Romanisio; ‹melior teça et uxor eius beria›, 1220 a Villar Focchiardo; ‹melioris de gouone› 1240 a Govone; ‹melior sancti felicis› 1253 a Chieri; ‹melior de campo› 1323 a Varallo; come secondo nome in ‹garnerius melior›, 1155 a Torino; ‹ottonis melioris› 1167 ad Asti; ‹raimondus melior› 1209 a Torino; ‹forzanus de meliore de campo› 1343 a Vercelli. Nell’onomastica moderna continua come nome individuale M nella forma Migliore (5) e in funzione di nome di famiglia nelle forme Migliore (TO 708, AL 9, NO 8, VC 5, AT 5), Migliora (AL 51, TO 3, AT 2, CN 1), Migliori (TO 11, CN 3, NO 2). Il contrario è assente sia nell’onomastica medievale che in quella moderna. Una forma interessante di comparativo organico è rappresentata da Bellexor < *bellatiore(m), che ha il suo corrispettivo nel fr. a. bellezour.49 La forma, sconosciuta non solo al lessico italiano contemporaneo50, ma anche ad OVI e TLIO, mostra invece buona insistenza nel francese antico al pari di altre analogamente costruite (Alessio 1950: 25). Ricordiamo soltanto, per l’antichità della documentazione, l’occorrenza nella Sequenza di Santa Eulalia (880-890), dove si legge ‹Bel auret corps, bellezour anima›.51 In questo caso l’onomastica è più generosa e ci restituisce documentazione piuttosto abbondante.52 Ricordiamo Bellexor nome unico a Novara nel 1087, e matronimico a Chieri nel 1253 (‹iohannes de bellexor›). Il personaggio è noto anche secondo diverse varianti cognominali, tra cui Belexor e Bellexore, attestati nel medesimo luogo e nel medesino anno. Un’altra soluzione è rappresentata da Belosor (‹obertus belosor consul de limone›), a. 1230 a Limone Piemonte, area di parlata occitana. Questa collocazione mostra anche attraverso il territorio l’evidente contatto locale con la cultura d’oltralpe. Cfr. tuttavia MOR: ‹Leo Minor›, a. 1091; ‹Iohannes Minor›, a. 1118; ‹Leo Paganus Minor›, a. 1132, tutte citazioni di difficile valutazione in quanto a funzione. 48 Melliore trova posto anche nella Lira 5, Milliore nella Lira 3 di Siena. Il M è piuttosto diffuso in Toscana e a Bologna, meno nella restante Italia settentrionale. Molto abbondante la documentazione in MOR, a partire dal 1185. Lì nel 1210 troviamo anche ‹Meliora›, moglie di ‹Iohannes Comes›. 49 Alessio (1950: 25); Pope (21952: §819). Si tratta di un comparativo organico di bellatus, derivato di bellus. 50 Assente anche nel LEI. 51 Cito da Tagliavini (1969: 487, nota 35). 52 Segnaliamo due attestazioni di Ciore, ipocoristico di nomi terminanti in -ciore in Brattö (1955: 74). Altra forma estesa nel medesimo repertorio è Forciore, che diventa Forzore a Siena e Forziore a Montepulciano (ivi, 102). 47
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L’onomastica individuale moderna non conserva il nome, che invece continua come nome di famiglia attraverso Belisori (NO 2). Il comparativo organico di tradizione latina parrebbe anche testimoniato da capesor (‹guillelmus capesor›), a. 1202 ad Ivrea, da ricondurre a *capitiore(m) comparativo di *cap(i)tus da capere, col senso di ‹capire›.53 Del nome a valore soprannominale mancano però continuatori moderni. Nessuna testimonianza invece di gensore / genzore e forzore, comparativi organici ben noti alla lingua antica (Cella 2003: XXX, nota 28). Per concludere la serie dei comparativi citiamo l’unico esempio sicuro di comparativo analitico, rappresentato da Plusbellus54, nome unico attestato a Novara nel 1092 (Bovio 19661967), che continua nel cognome moderno Piubello (TO 5), Piubelli (TO 5, CN 1, AL 1). Potrebbe forse trovarvi posto anche il moderno cognome Piubeni (NO 5), per il quale tuttavia non si esclude la formazione da plus + sostantivo. U
A
B
S
Nome individuale
Nome di famiglia
maior
maior
maior
Maggiore, -a
Maggiore, Maggiora, Maggiori, Maiori
Maggiorino, -a
Maggiorino, Maiorino, Majorino, Maggiorini, Maiorini
magiorinus
Minore, Minoro, Minora, Minori
minor melior, meliorus bellexor
plusbellus
melior meliorus
Migliore
Migliore, Migliora, Migliori
melior
melior
bellexor, belexor, bellexore, belosor
bellatior
Belisori
capesor
capitior
---
plus bellus
Piubello, Piubelli Piubeni
Il modesto quadro così ricavato documenta la tendenza alla pronta perdita dei comparativi organici a radice stabile e ancor più la difficoltà di acquisizione delle forme analitiche, anche se univerbate. Sul piano semantico questa onomastica si configura ancora una volta come tendente al positivo (anche minore assume qui un carattere affettivo), mostrando predilezione particolare per il concetto di ‹bello› ed esaurendosi nelle indicazioni di ‹grande›, ‹buono›, ‹intelligente›. Così vorremmo del resto tutti che fossero i nostri figli, per i quali siamo chiamati a scegliere un nome.
Ricordiamo che nel dialetto locale l’intelligenza che comprende di capire al volo è detta scherzosamente capisoira. 54 Plubella è presente anche nella Libra di Perugia del 1285. Cfr. inoltre MOR: ‹domna plubella›, sec. XII. 53
Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana
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Stefan Ruhstaller (Universidad Pablo de Olavide) / María Dolores Gordón (Universidad de Sevilla)
Criterios para la normalización de la toponimia andaluza1
1. La normalización de la toponimia menor del dominio castellano, reto pendiente La necesidad de disponer de un nomenclátor oficial, no solo de la toponimia mayor sino también de la menor, es incuestionable: debe existir para cada nombre de lugar una forma única declarada oficial, principalmente para su empleo escrito en textos y documentos de uso público, como mapas, catastros, rótulos viarios, etc. A pesar de lo evidente que resulta tal necesidad, en el dominio del castellano son prácticamente inexistentes los nomenclátores que recojan sistemáticamente topónimos menores fijados en cuanto a su forma gráfica de acuerdo con criterios lingüísticos bien fundamentados y que cuenten con la aprobación de las autoridades competentes. Un caso especialmente ilustrativo es el de Andalucía, comunidad autónoma que carece, hoy por hoy, completamente tanto de un catálogo de criterios de normalización como de un repertorio de formas oficiales elaborado de acuerdo con una metodología mínimamente científica. Es cierto que en 1990 la Junta de Andalucía publicó un Inventario de toponimia andaluza que recoge más de 120.000 formas toponímicas escritas; no obstante, este material no había sido sometido, antes de su inclusión, a un examen lingüístico destinado a determinar la versión más apropiada desde el punto de vista lingüístico para su empleo oficial, pues se trata simplemente de las formas toponímicas procedentes de un vaciado de tres tipos de fuentes elaboradas por no lingüistas (Junta de Andalucía 1990, t. 0: 35-37): los mapas del Servicio Geográfico del Ejército (61,7%), el Catastro de Fincas Rústicas del Ministerio de Economía y Hacienda (36,8%) y una clasificación de vías pecuarias del ICONA (1,3%). Consecuencia de este procedimiento de recopilación de los datos, que renuncia a una criba crítica basada en principios lingüísticos, y sin siquiera trabajar con datos de primera mano, es que el Inventario, por ahora único repertorio toponímico que aspira a tener alguna validez «oficial» (aunque no se declara expresamente si esta ha de ser realmente su función), es que gran parte de los materiales que contiene adolece de todo tipo de deficiencias e inexactitudes, que no solo resultan chocantes para el experto en toponimia (Gordón / Ruhstaller 1998; Ruhstaller 2010b: 287 El presente trabajo se enmarca dentro del proyecto de investigación «Recopilación, análisis y normalización de la toponimia de las áreas meridionales de España», financiado por el Ministerio de Ciencia e Innovación (referencia FFI2009-10544).
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Stefan Ruhstaller / María Dolores Gordón
288), sino que incluso pueden dar lugar a problemas de tipo práctico en su uso cotidiano. Evidentemente, en estas circunstancias, es urgente acometer la tarea (sin duda inmensa, dadas las dimensiones de la comunidad autónoma: 87.268 km2) de normalizar la toponimia andaluza, una tarea que, si es promovida decididamente por las autoridades competentes, daría lugar a resultados prácticos importantes y de gran repercusión en múltiples ámbitos. El punto de partida puede ser el proyecto de investigación «Recopilación, análisis y normalización de la toponimia de las áreas meridionales de España» que hemos iniciado bajo la dirección de María Dolores Gordón y que cuenta con financiación del Ministerio de Ciencia e Innovación de España.
2. Criterios de normalización El primer paso que habrá que dar será el establecimiento de un conjunto de criterios lingüísticos que puedan ser aplicados al material toponímico «en bruto» (es decir, al conjunto de todas las variantes, tanto escritas como orales, que circulan en el uso de cada nombre). No es reto fácil en vista, por una parte, de las diferencias fonéticas que separan a las hablas andaluzas de la pronunciación estándar y, por otra, de la variedad que presentan dichas hablas entre sí, así como en vista de la existencia de numerosas variantes, tanto orales como escritas, de gran parte de los nombres que coexisten en el uso real. La casuística es amplia y variada: tanto es así que cada nombre tendrá que ser analizado individualmente para descartar variantes erróneas (frecuentes en las fuentes escritas) o al menos no apropiadas para convertirse en oficiales. 2.1. El grado de adaptación a la ortografía del español de las formas que presentan rasgos dialectales La primera cuestión que requiere ser esclarecida es la del grado de «castellanización» que habrá de imprimirse a las formas dialectales. No cabe duda de que no se trata de reproducir con un máximo de detalles fonéticos las formas orales, ni menos de realizar una transcripción fonética propiamente dicha. Claro que para los toponimistas y los dialectólogos sería interesante disponer de una fuente que ofreciera las pronunciaciones locales de cada nombre, pues podrían sacar numerosas conclusiones de interés para la geografía lingüística (y de ahí para otras ramas de la disciplina). De lo que realmente se trata es de permitir a quien lea cada forma reproducirla con un máximo de fidelidad al uso tradicional predominante. Por ello, obviamente, habremos de utilizar, a la hora de fijar gráficamente las formas toponímicas orales, el alfabeto habitual para la escritura del castellano; y no solo esto: tendremos que asumir al máximo las convenciones de la ortografía castellana para asegurar que cualquier lector de un documento que contenga formas toponímicas normalizadas sepa reproducirlas espontáneamente con un grado máximo de cercanía a la realidad del uso tradicional local. Esto significa, a efectos prácticos, que no podremos
Criterios para la normalización de la toponimia andaluza
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reflejar gráficamente fenómenos fonéticos dialectales como el yeísmo, el seseo / ceceo, aspiraciones del fonema /x/ o de sibilantes en posición implosiva, la neutralización de los fonemas /r/ - /l/ en posición implosiva, la pérdida de las consonantes en posición final de palabra, etc., cuando aparezcan en nombres claramente identificables con apelativos del castellano: así, una forma oral [kahtiyéha] habrá de grafiarse Castilleja, [elensiná] El Encinal, [eɾmohóŋ] como El Mojón, [lahéθaβoyá] como La Dehesa Boyal. Nuestra postura es, pues, contraria a una reproducción lo más fiel posible a las características fonéticas propias de cada habla local, y ello no en último término porque hemos de garantizar la aceptabilidad de las formas escritas establecidas para los usuarios –que son casi la totalidad de la población, personas de todos los estratos sociales y grupos profesionales, oriundos de la localidad o no, familiarizados con las peculiaridades de cada habla o no–, que sin duda rechazarían mayoritariamente unas grafías demasiado alejadas de las convenciones ortográficas generales. 2.2. El dilema del grado de castellanización Si bien este principio nos parece indiscutible si queremos que las formas normalizadas que proponemos los lingüistas tengan realmente aceptación en el uso cotidiano entre los usuarios de mapas, documentos públicos, letreros, etc. (y no creen, al contrario, polémica o confusión, rechazo o división entre los hablantes), no deja de ser cierto que las formas escritas así se alejan de la pronunciación real o incluso la adulteran, realidad en principio difícil de admitir para el lingüista. De hecho, la aplicación estricta no es posible sin correr el riesgo de «alienar» un porcentaje no despreciable de los nombres, o incluso de desfigurarlos. Veamos algunos ejemplos. ¿Cómo hemos de grafiar un nombre que circula tradicionalmente en el habla local como [kasíyalahámbɾe]: como Casilla del Hambre (es decir, totalmente adaptado a la lengua estándar), o como Casilla La Jambre (respetando el rasgo dialectal de la conservación como aspiración de la F- inicial latina)? ¿O debemos optar por una solución intermedia como Casilla La Hambre, donde la forma la en lugar del alomorfo el del art. fem. al menos indica que el sust. Hambre no comienza por [a] tónica, ya que le precede una consonante aspirada? O un topónimo menor pronunciado como [laehγreɲá], ¿debe normalizarse como La Esgreñá o como La Desgreñada? ¿La forma oral [torelaβá] ha de transcribirse, reflejando lo más fielmente posible la secuencia de sonidos, como Torrelabá, o hemos de castellanizarla como Torre del Abad o Torre Lavada (ambas formas podrían corresponder en principio a la citada forma oral)? Es evidente que las alternativas que hemos indicado en segundo lugar no solo se apartan fonéticamente de manera considerable de la pronunciación propia del habla local, e incluso implican una interpretación etimológica. La consecuencia de ello es que, en primer lugar, adulteramos y aun anulamos los rasgos propios individuales de los nombres en cuestión; y, en segundo lugar, dado que la etimología es, como bien sabemos, un terreno extremadamente resbaladizo, corremos el riesgo de incurrir en interpretaciones erróneas desde el punto de vista histórico y lexicológico, estableciendo como única forma válida lo que en realidad es una etimología popular.
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2.3. El criterio histórico: tradiciones escritas y etimología El problema se complica aún más si tenemos en cuenta la existencia de tradiciones escritas de los nombres, aunque es innegable que estas últimas a veces nos proporcionan una ayuda de gran valor. Veamos algunos ejemplos ilustrativos. El topónimo menor que circula en la lengua hablada como [torelaβá] figura en los mapas antiguos y actuales (estos últimos se basan en los primeros) y en el catastro como Torre del Abad, y aparece atestiguado en la documentación antigua mayoritariamente con esta misma forma (aunque esporádicamente encontramos ya en el siglo XVIII una variante Torre Lavada). Desde el punto de vista histórico, no cabe duda de que el nombre tiene su motivación inicial en una propiedad eclesiástica. Si declaramos oficial la forma Torre del Abad restablecemos la transparencia semántica del nombre, y consagramos lo que tiene una cierta tradición escrita en mapas y catastro; ello implica, no obstante, que no reproducimos realmente la pronunciación, sino que restauramos una forma histórica. Un ejemplo muy similar es el de topónimo conocido actualmente en el uso oral local como El Chicle; la documentación histórica reciente revela que se trata de una etimología popular muy moderna, pues en los textos antiguos figura siempre Chirque, forma que remonta a un venerable origen mozárabe QUERCUS ‹la encina› (Ruhstaller 1992: 110-112). Y un tercer ejemplo: ¿cómo debe normalizarse un topónimo que tiene en el habla local variantes tan diversas como [kweβahónda], [koβaγónda], [kweβalóŋga], además de [kweβaδóŋga] (Ruhstaller 1992: 107)? También en este caso existe una cierta tradición escrita: tanto el mapa como el catastro emplean Covadonga, forma justificada por el origen histórico-etimológico del nombre: se trataba de una propiedad medieval del monasterio de Covadonga. En todos estos casos, que son representativos de un porcentaje no despreciable del material toponímico que ha de ser normalizado, parece razonable optar por una forma que goza de una cierta tradición escrita (aunque no haya nunca sido declarada oficial), y que, además, refleja con mayor fidelidad el origen histórico-lingüístico que las variantes que realmente circulan en el habla moderna. Esta opción equivaldría a una restauración histórica similar a la que se realiza con los monumentos artísticos y arquitectónicos: también estos forman parte del patrimonio histórico de un país –la toponimia en no menor grado que cualquier otra manifestación cultural–, y como tal requiere un cuidado continuo. Esto quiere decir que a la hora de normalizar las formas toponímicas a veces no hemos de empeñarnos en reproducir literalmente los rasgos fonéticos de la pronunciación vigente, sino que tenemos que tener en cuenta también la existencia de una cierta tradición escrita y el origen etimológico (siempre que este puede ser establecido de forma segura). Con todo, no se trata de recuperar necesariamente viejas formas que hace siglos cayeron en desuso y ya nadie reconocería: así, un topónimo generalmente conocido en el habla local actual como Pelotero ha de normalizarse bajo esta forma, por mucho que los lingüistas sepamos que se trata de una etimología popular de un originario [Cortijo de] Pedro de Otero, topónimo de origen antroponímico. 2.4. Variantes contradictorias de un nombre: ¿cuál elegir? No quiere decir esto último, sin embargo, que debamos dar por válido todo lo que figura en la documentación escrita: al contrario, el proyecto de normalización tiene, como uno de sus principales objetivos, la depuración de los muchos datos toponímicos erróneos que
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circulan en el uso escrito público. De nuevo conviene recurrir a una serie de casos concretos para exponer las diferentes problemáticas y proponer las soluciones más adecuadas desde una perspectiva lingüística. El hidrónimo pronunciado en las hablas de la región como [wéhna] o [gwéhna] aparece grafiado con cierta frecuencia bajo la forma Huéznar o incluso Hueznar. ¿Cuál ha de ser la forma escrita oficial: Huesna, Huezna, Güesna, Güezna, Huésnar o Huéznar, entre otras imaginables? La abundante documentación histórica con que contamos en este caso, que abarca decenas de formas desde el siglo XIII hasta nuestros días, coincide casi sin excepción en la forma Huesna; la var. Huéznar surge esporádicamente a mediados del siglo XIX, si bien comienza a prevalecer a finales del XX (Gordón 1995: 436-437). Es evidente que la consonante final se debe a una hipercorrección muy reciente, que pretende restituir una [–ɾ] presuntamente perdida en la pronunciación popular. Por tanto, sin duda alguna hemos de declarar oficial la forma Huesna, respaldada tanto por el uso oral actual como por la documentación histórica, muy anterior a la elisión de la [-ɾ] en andaluz. Muy similar es el caso de otro hidrónimo, que encontramos grafiado en un rótulo situado en una autovía sevillana como Rivera de Huelva. También en este caso la forma elegida por los responsables es ultracorrecta y, por tanto, inadecuada, pues las que se emplean realmente en la lengua oral de la comarca son [bwéɾβa] o [gwéɾβa], y no solo en el habla moderna, sino ya desde época medieval: el río se documenta profusamente en los textos antiguos, y ello desde 1253 y casi sin excepción, bajo las formas Buerua y Huerva (Gordón 1995: 433). La que se impone, pues, como forma oficial normalizada es, sin duda alguna, (Rivera de) Huerva. Es cierto que el peso de la tradición escrita a veces es considerable, tanto que puede limitar la aplicación estricta de los criterios lingüísticos. Así, el nombre que todavía en el habla popular actual de una localidad sevillana se pronuncia como [hamapéγa], con una aspiración que es recuerdo de la forma etimológica (se trata de una variante metatética de un antiguo Majapegas –< Majada [de las] Pegas ‹majada de las urracas›–, documentado todavía en 1783; Gordón: 1995: 184), debería grafiarse en rigor como Jamapega. No obstante, al tratarse de un nombre ampliamente conocido en su difusión escrita como Hamapega (el lugar alberga un apeadero de tren e importantes instalaciones de telecomunicación) resultaría muy problemático un cambio gráfico, difícilmente aceptable por parte de los usuarios, máxime teniendo en cuenta que la forma con H- ha repercutido en la pronunciación, sobre todo de los grupos sociales más cultos, que evitan la aspiración porque entienden que es análoga a la de voces como hacer [haθéɾ] (donde sería un rasgo muy vulgar). Casos como este último nos hacen ver que la normalización de la toponimia de un área dialectal como la andaluza tiene también una dimensión sociolingüística que plantea numerosos problemas. Las hablas de las comunidades locales nunca son homogéneas: existen, incluso en núcleos pequeños, diferencias de estrato que en un ámbito andaluz se manifiestan lingüísticamente por una mayor o menor fidelidad a las características más acusadamente dialectales, o, respectivamente, una adopción hasta cierto punto de los rasgos de la lengua culta suprarregional. Esto significa que si los lingüistas optamos por una variante característica del habla más tradicional que pervive en los estratos más conservadores (personas mayores y/o de escaso nivel de formación) corremos el riesgo de que los hablantes más cercanos en su actuación lingüística habitual a la norma suprarregional (que son precisamente quienes con mayor frecuencia estarán en contacto con la toponimia escrita normalizada) quizá no puedan
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aceptar la forma propuesta por clasificarla instintivamente como vulgar: así, por ejemplo, un topónimo pronunciado popularmente como [fwéntelahiγéɾa] no puede ser normalizado, digamos, como Fuente la Jiguera, pues tal forma difícilmente sería aceptada por los usuarios mínimamente instruidos, para quienes la aspiración de la F- latina etimológica es un rasgo sociolingüísticamente estigmatizado, por muy genuino que sea desde el punto de vista dialectológico. La documentación de estas formas aún vivas en los sectores que mejor conservan las características tradicionales del dialecto tendrá que reservarse para los estudios propiamente filológicos, centrados en el análisis lingüístico. En los dos casos anteriores, las formas que hemos descartado como inadecuadas lingüísticamente a pesar de su presencia en la vida pública al menos parten de la realidad del uso (que interpretan inapropiadamente), aun cuando pecan de hipercorrectas. Más urgente todavía es depurar formas que carecen totalmente de fundamento y constituyen simples erratas; basta con analizar cualquier mapa para percatarse de numerosos datos erróneos, que, a partir de ahí, fácilmente pueden propagarse y contaminar el uso tradicional. El beneficio práctico que se deriva de la aplicación sistemática de los criterios de normalización al material toponímico es, pues, evidente.
3. Recapitulación Las reflexiones anteriores, basadas en numerosos ejemplos concretos y reales, pueden sistematizarse de la siguiente forma. El punto de partida en el proceso de establecimiento de la forma que ha de fijarse como oficial lo constituye, sin duda alguna, la que predomina en el uso oral local. Ahora bien, no se trata de representar con absoluto detalle la fonética dialectal más tradicional de cada habla local, y menos de transcribir fonéticamente: ello daría lugar a grafías muy difíciles o incluso imposibles de interpretar adecuadamente por parte de los usuarios, que son la práctica totalidad de los ciudadanos, cuyo único referente a la hora de pronunciar formas escritas son las reglas de la ortografía académica. Vista la problemática desde nuestra perspectiva de lingüistas, resulta, pues, ineludible hacer sustanciosas concesiones a las expectativas –que tienen su origen en los hábitos creados por la ortografía convencional– de los hablantes y lectores no especializados, unas concesiones que, es cierto, empobrecen la información contenida en las formas toponímicas escritas, pero que garantizan la general interpretabilidad y aceptabilidad de las mismas. Así, hemos de renunciar a reflejar los rasgos dialectales cuando el léxico contenido en los nombres es claramente identificable con voces corrientes en el idioma. Cuando conviven en el uso diversas variantes, hemos de seleccionar aquella que cuente con el respaldo de la documentación histórica y tenga fundamento etimológico. En casos muy concretos, incluso es lícito restablecer la forma originaria no conservada en el uso actual, concretamente cuando se trata de nombres desfigurados en época reciente por ignorancia y descuido (recordemos casos como Chicle en lugar de Chirque). Finalmente, no podemos pasar por alto ciertas tradiciones que se han instaurado en el uso escrito, aunque nunca hayan sido declaradas oficiales. Hemos de advertir, finalmente, que cada nombre requiere una valoración individual, teniendo en cuenta todas las variantes que
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existen tanto en el uso oral local como en la escritura, e incluso la explicación lingüística (que, a su vez, ha de basarse en la documentación escrita de épocas pasadas). Esta labor requiere la intervención constante de los lingüistas, que no solo han de establecer un catálogo de criterios generales, sino también de aplicar estos a todos y cada uno de los nombres. Para ello, no obstante, ha de recopilarse de forma sistemática el material toponímico, a través de encuestas directas con hablantes locales competentes en este sector concreto del léxico, y llevarse a cabo el análisis de documentación escrita tanto actual como antigua. Se trata de un trabajo de inmensas dimensiones, que, sin embargo, debe ser acometido sin más demora.
Bibliografía Gordón Peral, María Dolores (1995): Toponimia sevillana. Ribera, Aljarafe y Sierra. Sevilla: Excma. Diputación Provincial / Fundación Luis Cernuda. — / Ruhstaller, Stefan (1998): Reflexiones sobre un tipo peculiar de obra lexicográfica: los repertorios corográficos. In: Terrado, Javier (ed.): Toponimia. Más allá de las fronteras lingüísticas. Studia toponymica in memoriam Joan Coromines et Alfonso Irigoyen Oblata. Lleida: Universitat de Lleida, 23-39. Junta de Andalucía (1990): Inventario de toponimia andaluza (9 vols.). Sevilla: Consejería de Obras Públicas y Transportes de la Junta de Andalucía. Ruhstaller, Stefan (1990): Nombres de lugar mozárabes de Carmona. In: Historia. Instituciones. Documentos, 17, 237-245. — (1992): Toponimia de la región de Carmona. Bern: Francke. — (2010a): Artículo modelo del Diccionario etimológico de los nombres de lugar de la provincia de Sevilla. In: ACILPR XXV 2, 417-425. — (2010b): La investigación sobre toponimia de Andalucía Occidental. In: Gordón Peral, María Dolores (coord.): Toponimia de España. Estado actual y perspectivas de la investigación. Berlín / Nueva York: De Gruyter, 287-302.
Patxi Salaberri (Universidad Pública de Navarra / Nafarroako Unibertsitate Publikoa)
Los nombres vascos vistos desde el romance: breve recorrido histórico
0. Introducción Es mi intención hacer un pequeño trabajo de comparación entre los resultados vascos y romances de los topónimos de Vasconia, centrándome especialmente en los de Navarra, pero sin descuidar, en la medida de mis conocimientos, el resto de la zona de habla vasca, actual o histórica. También trataré brevemente de la influencia del romance en la evolución del sistema antroponímico vasco. Debo señalar, antes de todo, que el euskera no ha sido nunca la lengua de la administración y que las formas que encontramos en la documentación son, la mayor parte de las veces, las variantes romances de los nombres, aunque estos sean generalmente, si bien con bastantes excepciones, de origen eusquérico, antroponímico o descriptivo. Como decía Mitxelena (1984: 286) los hechos de pronunciación pueden encontrar resistencia a verse reflejados en la escritura, pero entre ellos «los románicos, en general, son aceptados con menos resistencia que los vascos».
1. Toponimia Las variantes romances de los topónimos vascos se deben a que dichos topónimos han sido utilizados en boca –y en pluma– romance, pero no debemos pensar por ello que todas estas variantes son, por decirlo de alguna manera, del mismo calibre, ya que encontramos grandes diferencias en la distancia lingüística que presentan con respecto a la forma empleada en euskera, hecho que debe relacionarse, en general, con la mayor o menor antigüedad del contacto de lenguas en la zona en la que la localidad portadora del nombre se encuentra. Es decir, cuanto mayor ha sido dicho contacto, más posibilidades habrá de que haya surgido una variante romance diferenciada del étimo y de la variante vasca, y no pretendo identificar estos dos, pues a menudo, especialmente en los topónimos de origen antroponímico, las diferencias son notables. Así por ejemplo, tenemos Olleta en la Valdorba navarra, llamado Oleta en euskera, como indica la microtoponimia de las localidades circundantes, pero Oleta
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en Longida (Navarra), más hacia el interior de la zona de habla vasca histórica, Oleta / Olaeta en Aramaio (Álava), valle donde se conserva la lengua, etc. Las diferencias en el romanceamiento de los topónimos eusquéricos van desde las que podemos denominar sustanciales (tipo Irunberri / Lumbier, Tutera / Tudela) hasta la coincidencia total, es decir, hasta la conservación del topónimo vasco intacto (tipo Amoroto, Añorbe, Iriberri, Orio, Udabe), pasando por diferencias que podemos calificar de intermedias, aunque está claro que medir la distancia lingüística no es tarea fácil. Por ejemplo, cuando hay una sibilante en el nombre, dejando a un lado las cuestiones acentuales de por sí complicadas, la pronunciación en una y otra lengua cambia exclusivamente en dicho sonido, dado que los hablantes de romance no tienen ni han tenido los sonidos correspondientes a las apicales o dorsales vascas, sean éstas fricativas o africadas, en su inventario fonológico: Eratsun ([ć]), Ollakarizketa ([s]), Leitza ([c]) vs. Erasun ([ś]), Ollacarizqueta ([θ]), Leiza ([θ]). No tratamos aquí, en lo que respecta a los dobletes que no tienen que ver nada etimológicamente (tipo Auritz / Burguete, Gerendiain / Viscarret, Luzaide / Valcarlos, Orreaga / Roncesvalles), más que del par Vitoria / Gasteiz, ya que las variantes vascas y romances de los nombres de las otras capitales de provincia que veremos a continuación están unidas, en mayor o menor grado, etimológicamente. Las variantes divergentes entran dentro de lo que Rohlfs en 1966 llamaba «toponymie de double tradition», habitual en zonas bilingües, toda Vasconia al presente. Las parejas de topónimos vasco / romance son muy conocidas entre nosotros, especialmente en Álava, Navarra y la Vasconia septentrional, y no están ausentes de Bizkaia (Santurtzi / Santurce) y Gipuzkoa (Hondarribia / Fuenterrabía), aunque en esta última región, la que mejor ha conservado la lengua ancestral y precisamente por ésto, sean menos numerosas. En la zona oriental de Navarra fronteriza históricamente con el romance hay un buen número de topónimos que, a partir de un étimo común cuyo origen con frecuencia no está claro, desarrollaron tempranamente dos variantes, una eusquérica y otra romance, según las reglas fonológicas de cada lengua: Biotzari / Bigüézal, Erronkari / Roncal, Galipentzu / Gallipienzo, Igari / Igal, Irunberri / Lumbier, Nabaskoze / Navascués, Nardoze / Nardués, Zangoza / Sangüesa, etc., pero Ezkaroze / Ezcároz, Uztarroze / Uztárroz sin diptongación en zona vasca hasta la actualidad, y también Iriberri, no *Libier, en la mencionada Valdorba, en contacto con el romance sí, pero de habla vasca todavía, al menos parcialmente, en 1863. Quiero dejar claro antes de seguir adelante, que se citan las formas normalizadas de los topónimos, sean éstos vascos o romances, pero el que aparezcan en este trabajo no quiere decir que unas y otras sean formas oficiales, sino que se emplean o se han empleado así en boca de hablantes de las susodichas lenguas. Por ejemplo, Leioa es el nombre de la localidad vizcaína llamada durante el franquismo Lejona, variante esta última que no ha desaparecido a pesar de no ser oficial y no constar en las señales viarias. En el otro lado, en el vasco, hay por las circunstancias pasadas y presentes de la lengua, un sinfín de variantes eusquéricas que nunca han sido oficiales y que hoy en día tampoco lo son, principalmente en Navarra. Un par de ejemplos: Tudela (Navarra) ha sido históricamente y es todavía Tutera en lengua vasca, con evolución propia de esta lengua, a partir de la TŪTĒLA latina; del mismo modo, el nombre de la localidad también navarra Carcastillo es en euskera Zarrakaztelu, forma empleada por ejemplo por los pastores salacencos vascohablantes que bajaban con sus rebaños a las Bardenas a pasar el invierno.
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En cuanto a los nombres de las regiones de Vasconia, podemos decir que todos tienen, como era de esperar, una variante romance al lado de la eusquérica, pero que la distancia que hay entre las dos formas no es la misma en todos los casos, siendo más cercanas las de las provincias de la Vasconia meridional que las correspondientes a la Vasconia septentrional. No hay un gran secreto en ello: los sistemas fonológicos del castellano y del euskera están mucho más próximos entre sí que el de esta última lengua y el del francés (hay que recordar en este punto que en el lado norte de la frontera hasta muy tarde la lengua con la que el euskera estaba en contacto era el gascón, y en ciertas zonas la variedad bearnesa). En el lado sur de la frontera, la diferencia de pronunciación entre Bizkaia y Gipuzkoa por un lado y Vizcaya y Guipúzcoa por el otro, si dejamos aparte las cuestiones acentuales, se reducen a la diferencia que existe entre la dorsoalveolar vasca y la interdental castellana, es decir, en esta última lengua se trata básicamente de dos topónimos vascos pronunciados a la española. Por otro lado, en el caso de Álava y Navarra, llamadas en euskera Araba y Nafarroa, las diferencias son más sustanciales: el étimo del primer topónimo, de origen indoeuropeo en opinión de Villar (en Villar / Prósper 2005: 434-435) que sigue en esto a Krahe (1964: 35, 63 y 69 principalmente), a pesar de que este autor no menciona nuestra Álava, debía ser similar a la forma empleada hoy en día en castellano; en euskera el paso de la lateral lene a vibrante simple es habitual en posición intervocálica. Así pues, la evolución habrá sido ésta: Alaba > Álava (castellano) / Araba (euskera). En lo que respecta al carácter proparoxítono del topónimo, Mitxelena (1982: 303) escribe, a propósito de pronunciaciones como Abornícano, Apreguíndana, Aprícano, Audícana, Berrícano, etc., que «no parece que se puedan comprender sino por la mediación de una lengua no románica», que en la mayoría de los casos al menos sería el euskera. El lingüista guipuzcoano en otro trabajo de la misma época (1984: 287) menciona (sierra) Sálvada (Álava) y Ciérvana (Bizkaia) y, respecto a este último topónimo, dice que la posición del acento es antiguo por el diptongo, pero que no pudo salir por evolución puramente románica de Ceruiāna o Seruiāna. El topónimo vizcaíno Ziórtza también se debe a la pronunciación proparoxítona del étimo Zináurritza y contrasta con la pronunciación castellana Cenarrúza, fijada también como apellido (véase Salaberri 2001). En lo que concierne al nombre del antiguo reino pirenaico, creo que en origen es algo así como *Nabarroa, topónimo vasco compuesto del étnico nabar ‹navarro› más el sufijo locativo -oa presente también en Gipuzkoa, con base giputz ‹guipuzcoano (de lengua)›. En vasco antiguo no había /f/, y, por lo tanto, la labiodental sorda eusquérica actual deberá ser considerada posterior, similar a ciertas evoluciones del tipo de abari ‹cena› > afari, habia ‹nido› > afia (< lat. cavea) o zubi ‹puente› > zufi. El paso, de todos modos, tiene más de novecientos años de antigüedad, como demuestra el «Comite Sancio in Nafarra» ‹el conde Sancho en Navarra› de l102 de la documentación legerense. La evolución -oa > -a no está bien explicada, pero parece que habrá que achacarla al uso del topónimo en romance, aunque es posible que el sistema de posposiciones vascas haya ayudado en cierta medida. Los nombres de las capitales de provincia tienen formas divergentes según la lengua, a pesar de que también aquí la divergencia no es de la misma entidad en todos los casos. Así, San Sebastián es la forma romance equivalente al vasco Donostia que está en la base del gentilicio donostiarra (con artículo vasco -a) empleado también en castellano. Donostia
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procede de *Done Sebastiani, es decir, las formas vasca y castellana son en origen sinónimas. En cuanto a la capital de Bizkaia, Bilbao es un topónimo vasco con final –ao ‹aho›, ‹boca› probablemente, presente también en Lasao, Ugao, etc. La forma Bilbo ya documentada en el siglo XVIII y general actualmente en euskera, es una reducción de Bilbao, favorecida por el sistema de posposiciones vasco mencionado más arriba (Bilbaora ‹a Bilbao›, Bilbaotik ‹[vengo] de Bilbao›, Bilbaokoa ‹[soy] de Bilbao›...). La capital navarra es más antigua que las susodichas, y se documenta ya en las obras de los geógrafos clásicos Ptolomeo y Estrabón. Fue Bahr (1948: 33) el primero que se dio cuenta de que en la base de los Pompaelo, Pompailo clásicos se encontraba el antropónimo Pompeius y el elemento ilu (no iltu, es decir iLu, como quería en 1976 Untermann) que podría estar presente en Iruna, nombre de la capital del antiguo reino según el investigador vasco-alemán. Mitxelena (1979: 26) dice que el -ilone (de la forma de acusativo latina, se supone; Ποµπελών en griego) debe corresponder de un modo u otro al vasco Iruñea. En lo que respecta a la capital de Álava, noua Victoria fundada por Sancho VI el Sabio en 1181 sobre el poblado anterior denominado Gastehiz (1025) o Gasteiz (1089) y convertida rápidamente en Victoria (1189), Bitoria (1200), creo que estamos ante un derivado del nombre personal Gaste(a), relacionado con el término vasco gazte ‹joven› (gaztea con artículo) que procede de *gartze(a), base del nombre de persona Garze, Garzea, Garzia, conservado en el muy extendido apellido García, por ejemplo. El final -iz procede en mi opinión del genitivo latino y como éste indicaba posesión, por lo que lo encontramos como patronímico (Pero Gasteyz ‹Pedro hijo de Gaste›) o topónimo (Gasteiz ‹el poblado de Gaste›). El hecho de que en la reja de San Millán de 1025 tengamos Gastehiz (Ubieto 1976: 176) no nos debe hacer creer que ahí la aspiración está por una nasal como pensaba Irigoien (1982: 622) o una vibrante como escribe Iglesias (2002: 133), dado que dicha aspiración aparece también ante otros sufijos, pero no es, que sepamos, la huella de ningún otro sonido anterior (Gazaheta, Sansoheta, por ejemplo), aunque en la reja ‹h› frecuentemente representa –pero no es lo que queda de– la huella de otro sonido: [γ] en Gardellihi, [ß] en Mendihil, actuales Gardelegi, Mendibil (Álava), por ejemplo. La aspiración, es, sin embargo, un tema complejo que no puede ser estudiado aquí. En este punto debo señalar que no todas las reglas fonológicas responsables de las diferentes variantes vascas y romances son sincrónicas dentro de cada lengua; quiero decir que algunas no son productivas desde hace tiempo, mientras que otras están todavía en vigor actualmente. Por ejemplo, la diptongación de vocales y el paso de lateral intervocálica lene a vibrante sinple (Biótzali > Biotzari / Bigüézal, Navarra, Álaba > Araba / Álava) son dos reglas que antiguamente se aplicaron a topónimos de origen eusquérico o foráneo, pero que en los últimos siglos no han sido productivas. Por otro lado, la neutralización de sibilante tras sonante (nasal especialmente) que tiene como resultado un archifonema africado, está viva en la actualidad en amplias áreas del país y lo ha estado durante los últimos siglos, mientras que el romance (castellano) a falta de las africadas correspondientes transcribe los topónimos con los sonidos más cercanos: así, a Villar / Prósper (2005) se les olvida señalar en su interesante obra que las formas actuales Oyarzun o Ulzama que citan corresponden al castellano, pero no al euskera, donde la pronunciación habitual es Oiartzun y Ultzama, las dos con africada, la segunda a la vez etimológica y posicional.
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2. Antroponimia Quiero referirme ahora brevemente a la influencia de los romances, más o menos oficiales dependiendo de la lengua y de la época, en el sistema antroponímico vasco. En primer lugar me gustaría tocar el tema de los nombres de pila entre los que, en un primer momento, es decir, a partir de los últimos siglos de la Edad Media, encontramos variantes eusquéricas al lado de las formas romances que se impusieron con el paso del tiempo también entre los hablantes de euskera, sin duda por el peso de la Iglesia y de la administración, si bien la influencia de la moda y el carácter pasajero de la misma deben ser igualmente tenidos en cuenta. Por poner un ejemplo, en 1641 se documenta una pequeña lista de «gente y armas del quiñon de Errartea del valle de Salazar» (Navarra): «Charles Xandua, Joanes YparJauregui, Carlos Lopearoza, Bernart Tanco, Martin Oyerzqui, Pedro Galchabarra, Charles Galant, Charles Esparza, Ynigo Bereterra, Joanes Tamborin, Ynigo Capataria, Pedro Joanqui, Martin Español». En 1649 la lista cambia un poco: «Charles Xandua, Charles Galchabarra, Joanes Aroça, Charles Udarezpe, Fortuno Eliçaguibel, Charles Lope aroça, Carlos Galant, Charles Landaguti, Charles Esseberri». Como puede verse Charles es mayoritario respecto a Carlos y hay dos vecinos que aparecen indistintamente con una variante o con otra: «Carlos Lopearoza» / «Charles Lope aroça»; «Charles Galant» / «Carlos Galant». Por otro lado, encontramos Ynigo y Fortuno, no los eusquéricos, independientemente de su origen, Eneko y Orti, aunque el primero fue habitual al menos hasta el final de la primera mitad del siglo XVII; el segundo, Orti, parece que para entonces ya había sido desplazado por Fortuno. Entre los nombres de origen eusquérico en un tiempo comunes que desaparecen tempranamente, con toda probabilidad por el «empuje» de otro tipo de nombres favorecidos por la religión y la(s) lengua(s) de la administración, podemos citar Amuna o Amona, Anaia (con nasal ‹fortis›) o Anaie, Andere, Anderezu y Andereza, Apala o Apalo, Arano(a), Gabon, Gaiztarro, Gizon, Ilurdo e Ilurde, Itsusi, Lander(ra), Nabar(ra) y Nafarra, Seme(a), Uso(a), Zuri(a). Otra serie de nombres no desaparece, pero la variante empleada en euskera (son nombres de procedencia en general latina) es sustituida a menudo, no en todas las regiones de manera simultánea, por su equivalente romance: Aingeru → Ángel; Antso, Antsa → Sancho, Sancha; Armentari → Armentero; Aurubilitu → Orobellido; Azeari, Azari → Asnar(e); Bazkoare, Paskoare, Bazkoara → Pasc(u)al, Pasc(u)ala; Bi(n)kenti → Vicente; Domiku, Domeka → Domingo, Dominga; Eneko → Ieñego, Iñego, Eñego; Eztebe → Esteban; Fran(t)zes, Fran(t) zesa → Francisco, Francisca; Gardele → Cardiel; Garindo → Galindo; Gendule → Centol; Joanes, Joane, Joanis → Juan; Gostobaro, Kostobare → Cristóbal; Jakue, Jakube, Jakobe → Santiago; Laurendi → Lorenzo; Marti(e) → Martin, Martino; Mikel(e) → Miguel; Otxoa → Lope; Petri, Betri, Peru → Pedro; Salbatore → Salvador; Sanduru → Santos, etc. No sólo desaparecen los nombres y sus variantes vascas, sino también ciertos procedimientos de denominación empleados en euskera que son reemplazados por sus equivalentes romances, al menos en el sistema onomástico oficial, ya que siguen todavía en uso, aunque, claro está, no crean apellidos. Los puntos que quiero ver son los siguientes: a) La serie nombre de pila + patronímico + locativo + -ko(a) o, alternativamente, nombre de pila + locativo + -ko(a) sustituido tempranamente por el equivalente castellano nombre
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Patxi Salaberri
de pila + patronímico + de + locativo o nombre de pila + de + locativo. Voy a poner unos ejemplos: «Eneco Arceiz Iriarteco» (1110), «Garcea Lopeiz Barbatai[n]go» (1183), «Orti Sanoiz Ostatuco» (s. XIII), «Pero Periz Gortelucequo» (1350), «Garcia Martiniz Indaberrico» (1366), «Johan Periz Ganbaraco» (1366), «Pero Garcia Errecaldeco» (1366), «Ochoa Martinez Larreco» (1465). Denominaciones de este tipo, desde fecha temprana, alternan en la documentación –pero no probablemente en el uso oral vasco– con otras como las siguientes: «Orti Sanz de Legarra» (s. XIII), «Garcia Garceiz de Goñi» (1309), «Thota Martinitz de Bayllarin» (1324), «Martin Yeneguitz d’Açotz» (1325), «Garcia Lopeiz de Liçassoayn» (1392), «Ancho Errantz d’Aguerre» (1397), «Martin Peres de Yraulagoitia» (1409), etc. En cuanto a las denominaciones sin patronímico tenemos «Orti Mendigorrico» (1111), «Ansso Gasqueco» (s. XIII), «Domeca Navaçco» (s. XIII), «Dota Gorrizco» (s. XIII), «Miquele Bassoco» (1255), «Semeno Ataondoco» (1281), «Garcia Erraçuco» (1366), que alternan en la documentación y finalmente son reemplazados por otras como «Sanduru d’Arlegui» (s. XIII), «Teresa de Alzuza» (1303), «Johan de la Casa Nueua» (1388), «Martin de Çirarroysta» (1497), etc, y, también por formas sin preposición romance ni posposición vasca como «Domiqu Esparça» (s. XIII), «Sancho Ainazquar» (s. XIII), «Machin Baztan» (1366), «Garcia Muzqui» (1366), etc. b) El patronímico vasco basado en el genitivo posesivo -ren, que ha dejado algún rastro en la documentación, muy escaso sin embargo, tipo «Lope iaun Ortire semea» ‹Lope hijo de(l) señor Fortún› (Oteitza, N, 1122-1131; sobre este tema véase Salaberri 2008). Es, no obstante, procedimiento habitual en la lengua para identificar a las personas, si bien, de la misma manera que la estructura vista en los apartados previos, no da lugar a ningún apellido. c) El sistema vasco de hipocorísticos (véase Salaberri 2009). Es importante porque está todavía en uso y con bastante buena salud, y también porque hay una gran cantidad de oicónimos y apellidos, en este orden, que proceden de aquellos. Existen cuatro procedimientos en euskera para formar los hipocorísticos: 1) palatalización, 2) uso de sufijos, 3) abreviación del nombre y 4) combinación de dos de los tres procedimientos anteriores. Hoy en día los cuatro están vivos, pero, por ejemplo, el recurso consistente en anteponer la africada chicheante [č] utilizado en un tiempo en las hablas occidentales (tipo Elena → Txelena), ha desaparecido e, igualmente, una serie importante de sufijos que a lo largo de la historia conocida de la lengua han estado en uso y ya no lo están. Parte de esto puede ser fruto del devenir normal de la lengua, pero hay que tener en cuenta que el euskera ha estado siempre, y está todavía hoy en día, sometido a una presión muy grande desde todos los frentes, hecho que ha llevado en grandes extensiones del país a su pérdida, y también al proceso de empobrecimiento que supone la pérdida de recursos onomásticos y expresivos.
Los nombres vascos vistos desde el romance: breve recorrido histórico
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Bibliografía Bähr, Gerhard (1948): Baskisch und Iberisch. Bayonne. Iglesias, Hector (2002): Sur le toponyme Gasteiz: origine et signification. In: Fontes Linguae Vasconum 89, 129-138. Irigoien, Alfontso (1982): Sobre el topónimo Gasteiz y su entorno antroponímico. In: Vitoria en la Edad Media. Vitoria-Gasteiz: Ayuntamiento de Vitoria-Gasteiz, 621-652. Krahe, Hans (1964): Unsere Ältesten Flussnamen. Wiesbaden. Mitxelena, Koldo (21977): Fonética Histórica Vasca. San Sebastián: Seminario Julio de Urquijo. — (1979): La langue ibère. In: Actas del II coloquio sobre lenguas y culturas prerromanas de la Península Ibérica. Salamanca, 23-39. — (1982): Sobre la lengua vasca en Álava durante la Edad Media. In: Vitoria en la Edad Media. Vitoria-Gasteiz: Ayuntamiento de Vitoria-Gasteiz, 299-306. — (1984): Estratos en la toponimia alavesa. In: La Formación de Álava. Vitoria-Gasteiz: Diputación Foral de Álava, 279-288. Rohlfs, Gerhard (1966): Toponymie de double tradition. In: Mélanges de Linguistique et de Philologie Romanes. Strasbourg, 413-426. Salaberri, Patxi (2001): Ziortza / Cenarruza aldaeren inguruan. In: Euskera 46, 739-749. — (2004): Nafarroa Behereko herrien izenak. Lekukotasunak eta etimologia. Pamplona / Iruñea: Gobierno de Navarra. — (2008): La patronimia vasca y su relación con la romance vecina. In: RIOn 15, 389-401. — (2009): Izen ttipiak euskaraz. Bilbao / Bilbo: Real Academia de la Lengua Vasca. Ubieto, Antonio (1976): Cartulario de San Millán de la Cogolla (759-1076). Valencia: Instituto de Estudios Riojanos / Monasterio de San Millán de la Cogolla / Anúbar Ediciones. Untermann, Jürgen (1976): Pompaelo. In: Beiträge zur Namenforschung 11.2, 121-135. Villar, Francisco / Prósper, Blanca M. (2005): Vascos, celtas e indoeuropeos. Genes y lenguas. Salamanca: Ediciones de la Universidad de Salamanca.
Moisés Selfa Sastre (Universitat de Lleida)
Algunes aportacions a l’onomàstica catalana medieval: estructura, formació i filiació lingüística de l’antroponímia dels Privilegis de la Ciutat de Balaguer (anys 1211-1352)
L’any 1994, els professors Jordi Bolòs i Masclans i Josep Moran i Ocerinjauregui van publicar el Repertori d’Antropònims Catalans (RAC) I, obra molt extensa i acurada, fruit del treball d’aquests dos investigadors al Programa Internacional de Recerca Antroponímica PatRom (Patronymica Romanica). Deu anys més tard, el 2004, la comissió del PatRom català publicava el Diccionari d’antroponímia catalana, un recull força considerable d’antropònims medievals del domini lingüístic català. En aquest diccionari, coordinat pel Dr. Antoni Badia i Margarit, participaren investigadors com Maria Reina Bastardas, Emili Casanova i Joan Miralles. Des de llavors fins a l’actualitat, que nosaltres sapiguem, no s’ha publicat cap treball global i complet referit a l’antroponímia medieval catalana, a excepció del Copus d’antropònims mallorquins (segle XV) del Dr. Joan Miralles i Monserrat i els Censos de población del territorio de Barcelona en la década de 1360 de la investigadora Esperança Piquer i Ferrer, obra molt meritòria pel seu rigor en la transcripció i pels índexs d’antropònims i topònims oferts. Pel que fa a l’antic Comtat d’Urgell, objecte del nostre estudi, s’ha editat molta documentació d’arxius comarcals i capitulars i de monestirs i cenobis, que conté una valuosa informació antroponímica. Només cal veure, a tall d’exemple, les diverses col·leccions documentals publicades a la revista Urgellia de monestirs com els de Santa Cecília d’Elins i Sant Pere de Tavèrnoles. De tota aquesta documentació capitular i notarial publicada, en aquest treball ens centrarem en els Pergamins de la Ciutat de Balaguer i, particularment, en els antropònims documentats en aquesta font en el període que abraça els anys 1211, data del primer documents, i 1352. En concret, ens fixarem en dos aspectes d’aquesta antroponímia: la seva estructura i, en segon lloc, l’origen i significat d’aquells noms que per a nosaltres resulten dubtosos des d’aquest punt de vista lexico-etimològic.
1. Font emprada en l’estudi onomàstic: els Pergamins de Privilegis de la ciutat de Balaguer La font emprada en el nostre estudi onomàstic és l’excel.lent edició dels Pergamins de Privilegis de la ciutat de Balaguer de Dolors Domingo. Aquest fons de Pergamins de Privilegis es conserva en l’Arxiu Històric Comarcal de Balaguer i consta de 68 peces en pergamí. Cronològicament comprèn un període molt ampli, des del segle XIII al XVII. Nosaltres estudiarem, en un primer moment, el periode comprès entre els anys 1211 i 1352. Per a properes publicacions deixem l’estudi de l’onomàstica de 1373 a 1459, que és la data del darrer document d’aquesta col.leció documental.
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Moisés Selfa Sastre
La documentació notarial, com és sabut, és fonamental per a qualsevol estudi onomàstic. I, sens dubte, en els privilegis, un tipus de documentació notarial molt especial, apareixen un ventall de noms de lloc i de persona que ens permeten apreciar els sistemes de denominació emprats quan aquests eren redactats pels notaris. Recordem que la concessió de privilegis estava reservada exclusivament als reis des del punt de vista legal i el mimetisme de les oficines senyorials d’expedició documental cap a la cancelleria reial va conduir al fet que el discurs diplomàtic utilitzat pels notaris per a la concessió d’una mercè per part d’un senyor prengués la forma del privilegi, naturalment no rodat, ja que l’ús d’aquest últim era privatiu del monarca, i amb la particularitat que els privilegis senyorials estaven segellats amb el segell de cera pendent, donat que únicament el Rei podia segellar en plom.
2. Estudi formal dels sistemes de denominació La classificació sintagmàtica del corpus total aplegat als Pergamins de la Ciutat de Balaguer (1211-1352) en base a la procedència i significat del nom ens permet distingir les següents estructures: 2.1. Nom substantiu + nom substantiu: 2.1.1. Nom + delexical:1 Arnaldus Baiuli, Guilelmus Baiuli, Raimundus Baiuli, Iacobus Bardoill, Iacobus Bardoyl, Bartolomeo Bardoyll, Laurencius Bardoyll, Iacobus Baro, Petrus Baro, Periconus Barull, Raimundus Boill, Arnaldus Bonet, Ludovicus Bordello, Berengarius Brot, Salvator Calp, Adam Carví, Berengarius Cirera, Dominicus Claver, Petrus Colom, Franciscus Columbi, Bernardus Cortit, Iacobus Cortit, Petrus Costa, Laurencius Cortit, Marconus Cortit, Periconus Cortit, Petrus Cortit, Petrusa Cortit, , Petrus Cortiti, Guilelmus Çabaterii, Petrus Çabaterii, Arnaldus Çabater, Guillelmus Çabater, Periconus Çabater, Raimundus Çabater, Guillelmus Çacirera, Aparicus Draper, Bernardus Exernit, Iacibus Fabre, Petrus Fenoyll, Nicholai Forment, Iohanis Fort, Raimundus Frontera, Guillelmus Fuster, Iacobo Fuster, Iacobus Fuster, Franciscus Fyllach, Petrus Gaço, Raimundis Gueraldi, Franciscus Jornet, Guilelmus Jorneti, Raimundus Jover, Iohanis Laneres, Petrus Mageri, Bernardus Maiori, Petrus Medici, Iohannis Merçer, Berengarius Molaç, Berengarii Monachi, Franciscus Oriol, Michaelis Oriol, Petrus Oriol, Iohannis Padellaç, Guilelmus Palet, Azceranis Pardi, Raimundus Patxi, Berengarius Pelliparii, Bonanatus Petra, Armenterius Pilosi, Bernardus Pintor, Arnaldus Piquer, Arnaldus Ponter, Petrus Putii, Almonetus Rabacie, Arnaldus Rabacie, Bernardus Rabacie, Iacobus Rabacie, Iohanis Reals, Anthoni Roqua, Ioannis Rosich, Bernardus Rubei, Andreas Saiol, Periconus Sala, Iacobus Sartor, Salvator Senyer, Bernardus Spigol, Guilelmus Spigol, Iohannis Torner, Periconus Vasset, Raimundus Vasset.
Delexical, terminologia utilitzada al projecte d’investigació PatRom (Patronymica Romanica), ve a referir-se al procés d’ antroponimització dels lexemes a l’Edat Mitjana.
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Algunes aportacions a l´onomàstica catalana medieval
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2.1.2. Nom + patronímic: Bernardus Andree, Petrus Anrich, Poncius Arnaldi, Raimundus Bonfyll, Arnaldus Cerda, Petrus Dalmacii, Nicholay Domenech, Berengarius Domingelo, Guillelmus Domingelo, Petrus Emerici, Garcia Ferrandiz, Garcia Garces, Salvatoris Gifré, Berengarius Giner, Franciscus Giner, Arnaldus Gisbert, Ferrarius Gispert, Petrus Gondisalvi, Didacus Gonzalbis, Iohanis Gracia, Arnaldus Guasch, Iohannos Guillamota, Guillelmus Guitart, Guillelmus Iulani, Arnaldus Laurencii, Raimundus Natalis, Raimundus Nicholay, Arnaldus Nicholay Petrus Nicholay, Petrus Oliva, Antonius Petri, Berengarius Petri, Guilelmus Raimundi, Petrus Raimundi, Arnaldus Rogerii, Arnaldus Rollan, Garsia Romei, Petrus Sanccii, Nunus Sancii, Michaelis Sanxo, Petrus Sanxo, Raimundus Sanxo, Petrus Segui, Petrus Vitale.
2.1.3. Nom + topònim: Petrus Aculonis, Bernardus Aguyllo, Sensonis Aguyllo, Berengarius Alos, Berengarius Angularia, Andreas Apilia, Poncius Barchinone, Iacobus Bonasch, Bernardus Camporrellis, Arnaldo Capela, Anthonio Cardona, Berengarius Garriga, Antonius Casadevall, Periconus Casteyllo, Raimundus Cervaria, Petrus Cervera, Guillelmus Çamora, Arnaldus Çauila, Bernardus Ferrera, Berengarius Garriga, Arnaldus Gerunda, Bartolomeus Lerida, Guillelmus Maçanet, Periconus Maçanet, Jacobus Madiona, Steffano Mongrins, Raimundus Monte Catano, Guillelmus Montechatano, Arnaldus Murello, Franciscus Oluga, Arnaldus Pallars, Petrus Panades, Petrus Poncius, Bartolemeus Puig Redon, Petrus Queralt, Berengarius Rajadello, Vitalis Regola, Petrus Rialp, Raimundus Rialp, Arnaldus Sancta Linea, Peretonus Sancta Linea, Petrus Sanctalinea, Arnaldus Sclusa, Guillelmus Sclusa, Bernardus Segarra, Hogeto Servianus, Marconus Serra, Petrus Serra, Berengarius Sola, Ioannis Stanyol, Guillelmus Terracone, Raimundus Terraça, Petrus Toloni, Raimundus Vilalta, Guilemus Villa, Arnaldus Villam, Petrus Villam.
2.1.4. Dubtosos: Pascasius Barrusta, Arnaldus Bestinez, Bernardus Bulfarines, Bartolomeus Cartam, Raimundus Catra, Petrus Coltelli, Bernardus Durbam, Arnaldus Gençana, Bartolomeus Leoder, Balagarii Marroqui, Petrus Peratalaç, Rogerius Rachonato, Petrus Scapa, Berengarius Tempsur.
2.2. Nom + preposició + topònim: Petrus de Alberola, Berengarius de Alberol, Antonius de Albesia, Dalmatius de Alenterno, Iordanus de Alentorn, Raimundus de Almazor, Iohannis Daltes, Berengarius de Anglesill, Raimundus de Angularia, Sancius de Antillone, Joan d’Aragó, Isabelis de Aragonia, Arnaldus de Aran, Cerveronus de Artesa, Arnaldus de Artesa, Petrus de Artesa, Ariolus de Artesa, Gueraldus de Artesia, Berengarius de Avellanes, Bernardus de Aversone, Petrus de Barbaroga, Pascasius de Barbera, Arnaldus de Belvis, Arnaldus de Berga, Iohanis de Berga, Petrus de Berga, Guillelmus de Bolleda, Arnaldus Cortit de na Bonjorn, Bernardus de Camporrellis,
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Moisés Selfa Sastre
Martinus de Caneto, Gueraldi de Capraria, Petrus de Carreu, Bernardus de Castellione, Raimundus de Casteyllo, Iacobus de Caxino, Guillelmus de Cervaria, Arnaldus de Cervere, Guillelmus de ça Cirera, Raimundus de Coponibus, Guillelmus dez Col, Periconus dez Col, Petrus de Coromina, Bernardus de Corronibus, Guillelmus de Curilione, Guillelmus de Entença, Poncius d’Eril, Bernadus de Falchs, Bernardus de Fenoyllar, Berengarii de Fluviano, Lupi de Fontibus, Ato de Forces, Matalonis de Frascano, Bernardus de Guardia, Raimundus de Guardia, Petrus de Gonera, Michael de Gorrea, Petrus de Gradu, Franciscus de la Guardia, Poncius de la Guardia, Raimundus de Josa, Berengarius de Laurencio, Marchus de Liçana, Raimundus de Mari, Bernardus de Mascho, Guilelmus de Menuari, Arnaldus de Merleto, Raimundus de Mice, Arnaldus de Molet, Berengarius de Monçonis, Berengarius de Monges, Franciscus des Monges, Othonus de Montecateno, Arnaldus de Moz, Franciscus de Murello, Iacobus de Murello, Salvator de Murello, Bernardus de Muro, Raimundeti de Nargo, Raimundus de Nargo, Guillelmus d’Oç, Andreas de Oluga, Arnaldus de Orcau, Balaguerius de Orenga, Bernardus de Palacio, Raimundus de Peralta, Arnaldus de Peratalaç, Bartholomeus de Podio, Guilelmus de Podio, Petrus des Podio, Bernardus de Ponte, Dalmacius de Pontons, Petrus de Queralto, Bartolomeus de Rialp, Amorosius de Ripellis, Poncius de Ripellis, Raimundus de Ripellis, Andreas de Roda, Arnaldus de Rubione, Garssia de Santalinea, Guillelmus de Ter, Berengarius de la Terrossa, Feredicus de Toledo, Arnaldus de Uliola, Bernardus de Uliola, Petro de Vich, Arnaldus de Vila, Dominicus de Viscarra.
2.3. Nom + preposició + nom 2.3.1. Nom + preposició + nom delexical: Bonaventura deç Clergue, Bernardus de Miçe, Petrus de Miçe.
2.3.2. Nom + preposició + nom patronímic: Balagerius de na Arnalda, Beremgarius de Maior.
2.4. Nom simple: Alfons, Elionor, Ermengol, Iacobus, Ioannis, Jaume, Pere, Pontius, Raimundus.
2.5. Nom doble + nom: Petrus Arnaldus Arcedone, Eiximenis Petrus Figuerola, Iacobus Ioannis Muntanyola.
2.6. Nom doble + preposició + nom: Rodericus Eximeni de Bornoll, Blasius Manga de Vila Marxant.
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3. Discussió sobre alguns noms per a nosaltres dubtosos o opacs Oferim, tot seguit, l’origen i significat d’alguns dels noms del grup 2.1. (Nom substantiu + nom substantiu), subgrup 2.1.4, dels quals no coneixem amb total seguretat aquestes dades lèxic-semàntiques. Per a altres estudis posteriors deixem l’anàlisi dels grups 2, 3, 4, 5 i 6. Barrusta Pergamins de la Ciutat de Balaguer (en endavant PCB): ‹Pascasius Barrusta› (1352). Podria ser una mala escriptura del notari que hauria escrit Barrusta en lloc de Barrusca. Com afirma Alcover-Moll (1993: 336), a les zones del Pallars, Guissona, Tremp, Solsona, barrusca té el significat de ‹part llenyosa del raïm›. Bestinez PCB: ‹Arnaldus Bestinez› (1341). Per a nosaltres és un nom d’origen desconegut. Podria estar relacionat amb el cognom Bestit que, segons Francesc de Borja Moll (1959: 313), s’aplicava a un nen nascut d’una membrana. Quant al sufix patronímic -ines, a Catalunya no és freqüent durant l’Edat Mitjana. Bulfarines PCB: ‹Bernardus Bulfarines› (1341). Nom que sembla un compost del verb bullir i el nom farines. Josep Bulfarines fou un important alcalde i jutge de Balaguer al segle XVII i, segons Alcover-Moll (1993: 731), els habitants de St. Pere de Torelló són anomenats satíricament així pels pobles veïns. Cartam PCB: ‹Bartolomeus Cartam› (1341). L’origen d’aquest nom podria estar relacionat amb el català cartam, ‹conjunt de cartes›, que Joan Coromines (1992: 599a54) documenta el 1640 si bé també podria tenir el significat de ‹la part inferior del barret dels bolets, formada per una gran quantitat de fulles semblants als papers› com recull Alcover-Moll (1993: 1074). En tot cas seria un postantropònim i no s’hauria de descartar que estigués relacionat amb el següent nom de Catra. Catra PCB: ‹Raimundus Catra› (1341). Creiem que es correspon al català catre ‹llit lleuger per a una sola persona›, si bé en català catra té, com indica Joan Coromines (1993: 635a8), el significat d’‹explicacions›. Seria, com l’anterior, un postantropònim. Coltelli PCB: ‹Petrus Coltelli› (1341). Sembla un nom relacionat amb el nom coltell ‹ganivet›, del llatí CULTELLUS, genitiu singular CULTELLI.
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Moisés Selfa Sastre
Durbam PCB: ‹Bernardus Durbam› (1341). Podríem relacionar-lo amb un nom vinculat amb el topònim Durban, si bé no s’hauria de descartar que estigués relacionat amb el llinatge Durbau que existeix a Riells, Banyoles, Cardona, i fins i tot, Malgrat i Sabadell entre d’altres llocs del domini lingüístic com assenyalen Alcover-Moll (1993: 625). En aquest cas derivaria del nom germànic personal Turbald. Gençana PCB: ‹Arnaldus Gençana› (1341). Alcover-Moll (1993: 252) dóna Gençana com un llinatge de Castelló de Farfanya, poble pròxim al de Balaguer. El seu origen sembla ser el llatí GENTIANA,-AE. Leoder PCB: ‹Bartolomeus Leoder› (1296, 1322). Leoder, català Lleuder, és un llinatge que Alcover-Moll (1993: 971) dóna com a propi de Besalú, Barcelona, Llinars, Mataró, entre d’altres llocs, i que derivaria del germànic Liuther. Si el considerem un patronímic estaria relacionat amb el llatí LEOTARIUS. Marroqui PCB: ‹Balagarii Marroqui› (1341). Nom delexical segurament relacionat amb l’apelatiu homònim: ‹nadiu del Marroc› i també, com recull Alcover-Moll (1993: 264), ‹pell adobada que s’ha posat en un clot amb sostres d’aigua i escorça›. Peratalaç PCB: ‹Petrus Peratalaç› (1341). Sembla un compost de Pera ‹pedra› i del participi tallat, si bé la major dificultat per acceptar aquesta hipòtesi seria la no concordança de gènere entre el nom i el participi. En tot cas, recordem que el nostre estudi parteix d’una edició documental. Podria tractar-se d’una mala lectura del nom. Rachonato PCB: ‹Rogerius Rachonato› (1314 trasllat de 1431). Molt probablement es tracta d’un compost de Racone, documentat pel Repertori d’Antropònims Catalans l’any 845 als comtats de Pallars i Ribagorça, i Ato d’una base gòtica atta ‹pare›. Scapa PCB: ‹Petrus Scapa› (1341). Nom que podem relacionar amb el d’Escapa, llinatge que recull Alcover-Moll (1993: 213) a diversos llocs del nord-est de Catalunya i a Alacant. Tempsur PCB: ‹Berengarius Tempsur› (1341). Segurament Tempsut. En català existeix l’adjectiu tempsot, ‹temps dolent, tempestuós› (DCVB, s.v.). Sembla un derivat adjectival.
Algunes aportacions a l´onomàstica catalana medieval
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Bibliografia Alcover, Antoni Maria / Moll, Francesc de Borja (1993): Diccionari Català-Valencià-Balear (10 voll.). Palma de Mallorca: Editorial Moll. Bolós i Masclans, Jordi / Moran i Ocerinjauregui, Josep (1994): Repertori d’Antropònims catalans (RAC) I. Barcelona: Institut d’Estudis Catalans. Coromines, Joan (1995-2001): Diccionari Etimològic i Complementari de la llengua catalana (10 voll.). Barcelona: Curial Edicions Catalanes. Domingo, Dolors (ed.) (1997): Pergamins de Privilegis de la ciutat de Balaguer. Lleida: Universitat de Lleida. Miralles, Joan (1997): Corpus d’antropònims mallorquins del segle XV. Barcelona: Institut d’Estudis Catalans. Piquer, Esperança (2005): Censos de población del territorio de Barcelona en la década de 1360. Tübingen: Max Niemeyer.
Vicent Terol i Reig (Arxiu Municipal d’Ontinyent)
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida (segles XIII-XVI)
Els darrers estudis realitzats entorn a l’onomàstica medieval valenciana, sobretot el magnífic treball del professor Enric Guinot (1999) han insistit en la major presència de noms de llinatge (es tracta aclaparadorament d’antrotopònims) d’origen occità al sud del riu Xúquer, en el que serà la governació dellà lo riu de Xúquer durant l’època foral medieval i moderna. Aquesta major presència no va deixar mai de ser testimonial (no superaria en cap cas el 10 per cent) però prou més notòria que en la resta del territori valencià, certament, encara que hi ha casos com els que hem exhumat a la Vall d’Albaida (a l’àrea de les Comarques Centrals Valencianes) on es documenta (Terol 1997) com un fenomen amb continuïtat al llarg dels segles XIII-XVI i fins i tot en el Sis-cents i, sobretot, el Set-cents.1 En aquestos primers moments de la colonització cristiana del Regne de València aquesta és una contrada en la qual es documenten amb relativa freqüència mercaders occitans, en concret de Narbona, la qual cosa ens permet de constatar que les relacions, bé que testimonials, existien.2 Un aspecte remarcable és la presència de diversos llinatges únics en el conjunt del País Valencià: Carnasó, Carnaçón, Carnuzó (Ontinyent, segle XIII) Aliés (Ontinyent 1325-1350) Carniols (Ontinyent 1325-1350) Ullac (Ontinyent 1325-1350) Loserra (Ontinyent 1450) Andonys (Ontinyent 1490-1521) Rufach (Biar i Ontinyent, 1328 i 1443-1521) Sobra/Sorba (Ontinyent 1496-1521) Manda/Mende (Albaida 1314) Caús (l’Olleria, Llutxent i Quatretonda, XIV-XVI) Caïx/Cayx (Albaida, Llutxent 1395-1420) La majoria dels francesos emigrats a la comarca en els segles XVII i XVIII procedien de Gascunya i Alvèrnia. 2 Apareixen documentats: «Marcó de Vilaraga, mercader de Narbona» i «Iohannes Isern, mercator Narbone»: Arxiu Municipal de Cocentaina (AMC endavant), Cort del justícia (CJ endavant) 13031304, 1304, f. 94v i 1314, f. 148r, respectivament. Agraïm al professor Emili Casanova que haja autoritzat la utilització d’aquestes i altres dades per a la realització d’aquest treball, exhumades per nosaltres mateixos durant 1993-1994, en el transcurs dels treballs de recerca i buidatge realitzats per al Projecte Internacional de Patronímica Romànica Europea (PATROM), dirigit pel professor Dieter Kremer, Universitat de Treveris, Alemanya, i del qual el professor Casanova ha estat coordinador al País Valencià. 1
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Vicent Terol i Reig
1. Ontinyent i Agullent La principal base d’aproximació a l’estudi de l’onomàstica «fundacional» de l’Ontinyent cristià ha estat i encara és el Llibre del Repartiment. Emili Casanova i J. A. Cano ja van explotar aquesta informació en el seu treball pioner, les passes del qual va seguir el professor Enric Guinot. (Cano / Casanova 1986; Guinot 1999: 206-209). Les riquíssimes séries de la cancelleria reial de la Corona d’Aragó, iniciades precisament amb Jaume I i de la qual formen part els dos volums del Llibre del Repartiment són el complement indispensable. Tanmateix, en el cas que ens ocupa tenim la mala sort que els esborranys de les concessions de lots de terra i cases que contenen aquestos dos volums a males penes donen informació sobre Ontinyent i quan ho fan els assentaments són tan lacònics que ni tan sols disposem de dades toponímiques de les esmentades donacions. A diferència d’uns altres casos, com ara Xàtiva o bona part de la Vall d’Albaida, que sí que hi estan ben presents i prou ben representats. Aquest hàndicap inicial suposa una exigència formidable, però de cap manera infranquejable. Afortunadament, la documentació medieval conservada a l’Arxiu Municipal d’Ontinyent d’aquest període ens aporta algunes dades complementàries que junt a les escasses i precioses referències reflectides en la magnífica documentació municipal medieval dels arxius municipals d’Alcoi i Cocentaina ens permeten ampliar considerablement la base d’estudi d’aquest moment fundacional. Hem extret també algunes dades dels registres dels repartiments de Múrcia i Cartagena (Torres 1971). També ho hem fet dels de Lorca i Oriola (Torres 1977: 35, 43) , tot i que en aquestos casos només ens ofereixen tres noms de fonts, atés que els colons fan ús de l’antrotopònim de procedència, és a dir, Ontinyent (Pero, Ioan i Jayme de Otiñén) i en el cas d’Oriola es tracta d’una confusió amb la vila aragonesa d’Ontinyena, al Baix Cinca (Guinot 1999: II, 653; Torres 1986 i 1988). Les dades resultants, amb una mostra que hem triplicat, tenen l’avantatge afegit d’oferir-nos informació sobre els repobladors que, efectivament i no sols nominalment, van conformar la societat ontinyentina del segle XIII. Així, doncs, dels dénou assentaments inicials que ens aporta el Llibre del Repartiment, passem a 54 identificacions que corresponen a 52-53 individus per a tot el segle XIII. Dels 48 llinatges que apareixen, en 26 casos es tracta d’antrotopònims (nom+nom de lloc), un percentatge altíssim (54 per cent). Es distribueixen de la següent manera: indistint
indistint
NA
CAS
VAL
Total
4
1
1
26
CAT
ARA
Origen: topònim
9
5
1
4
Origen: nom de persona, sobrenom o ofici
10
6
3
1
Origen: element de la natura
2
-
-
-
-
-
-
-
2
Total noms de llinatge
21
11
4
5
1
4
1
1
48
43,8
22,9
8,4
10,5
2
8,4
2
2
100
Percentatge %
CAT / ARA
OCC
ARA / OCC
1
20
Quadre I. Distribució de noms de llinatge a Ontinyent (1248-1300)
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
285
La proporció de catalanoparlants respecte a castellanoparlants seria, així les coses, la següent: Catalanoparlants: 44% Castellanoparlants:
34%
Occitans:
12%
Indistints:
10%
Total 100 Proporció CAT/ARA-NA: 2/1 La presència de llinatges occitans és molt remarcable a la vila d’Ontinyent, la futura capital de la comarca. En el període 1248-1300 documentem cinc llinatges occitans, que representen un 10,5 per cent. El percentatge és una mica major, en qualsevol cas, que els que s’han documentat en els casos d’Albaida i de Xàtiva més ben estudiats fins ara (Guinot 1999; Ferrer 1996; Casanova / Terol 1995). Comptat i debatut, aquest percentatge és prou més alt que en la resta del País Valencià. Tanmateix, el percentatge podria ser encara major, atés que alguns atribuïts com a catalans o indistints ho podrien ser també, casos de Fontès / Fontes i, sobretot, Duran / Durà. Ontinyent compleix així una de les característiques del repoblament del sud del Xúquer. Aquesta presència occitana a l’Ontinyent del segle XIII cobra major importància quan realitzem una anàlisi qualitativa: constatem que els primers notaris i escrivans de la cort ontinyentina eren occitans, tot hi apunta. Guillelmus Provincial / Guillem Provençal, des de 1263, i qui fa l’efecte que era el seu fill, Pere Guillem, també notari, documentat almenys en 1284 i mort, fa l’efecte, en 1301. La seua presència queda reflectida pàl·lidament en usos com ara l’aparició de la forma «Ontinhén», indubtablement occitana i ara podem verificar que gens casual, en la documentació municipal de Cocentaina de 1294 (Ponsoda 1996: 352), tot reflectint literalment sens dubte documents produïts en la cort del justícia ontinyentí pels notaris de procedència provençal. Això ens fa lamentar encara més, la pèrdua de la documentació municipal ontinyentina d’aquest període, la qual d’haver-se conservat hauria permés la realització d’estudis lingüístics ben interessants sobre la sempre apassionant problemàtica de les llengües en contacte, enriquida en aquest cas notablement amb l’aportació occitana. Una veritable llàstima, comptat i debatut. Pel que fa als noms de fonts característics entre els occitans tenim Bonanat / Bonafonat, Narbonet / Narbonetus i Ramon / Raimon. La presència de llinatges occitans o d’origen occità és encara notable en el període 13251350, quan podem establir una completa, tot i que no exhaustiva, reconstrucció dels veïns i veïnes de la vila, amb un total de 395 individus (tres dels quals són dones) d’Ontinyent, 26 d’Agullent i 5 de Morera (els llocs del terme existents en aquell moment). Els 395 individus ontinyentins exhumats s’enquadren en 212 noms de llinatge. S’ha de remarcar la forta incidència percentual dels antrotopònims en aquest període: la meitat dels 212 noms de llinatges ho són. És, de qualsevol manera, un percentatge molt alt, sobretot si el comparem als altres casos valencians coneguts, estudiats per Enric Guinot, on se sol constatar habitualment una mitjana del 30 per cent.
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Vicent Terol i Reig
CAT
ARA
indistint CAT / ARA
OCC
indistint ARA / OCC
Altres
Total
Origen: topònim
58
22
2
10
4
11
107
Origen: nom de persona, sobrenom o ofici
45
23
21
4
-
-
93
Origen: element de la natura
10
1
1
-
-
-
12
Total noms de llinatge
113
44
24
14
4
11
212
Percentatge (%)
53,3
21,6
11,2
6,8
1,9
5,2
100
Quadre II. Distribució de noms de llinatge a Ontinyent (1325-1350)3
La proporció de catalanoparlants respecte a castellanoparlants, establerta atesa la proporció d’atribució d’origen dels individus i no només la dels noms de llinatge seria, així les coses, la següent: Catalanoparlants 230 58,5 Castellanoparlants 94 23,8 Occitans 24 6,1 Indistints 47 11,7 Total 395 100 Proporció CAT/ARA: 3/1 Hem identificat els següents noms de llinatge constituïts per nom + topònim d’origen occità: Aliés. Referent a la ciutat d’Alès (Llenguadoc). Carnicer. Corrupció de l’originari Carnassó / Carnaçó, tot hi apunta. Carniols. Relacionat amb Carniol (Alta Provènça-Alps). Corbany / Corbaní. Sembla que no es tracta d’un antrotopònim occità, tot i que la pertanyença a l’aristrocràcia i al cercle de servidors de l’infant Ramon Berenguer, llavors comte d’Empúries i senyor d’Ontinyent, ens fa pensar que es tracte d’un individu d’aquest origen. Si es tractara d’un antrotopònim, correspondria a una localitat de Flandes. Entrevís. Tot i que podria tractar-se d’un sobrenom, relacionat amb una part del cos, la qual cosa ens situaria en les comarques del Camp de Tarragona, és molt probable que es tracte d’un antrotopònim occità corromput. En aquest cas s’hauria de relacionar amb les poblacions d’Entrevaux o Entrevennes (Alta Provença). Gavaldà. Règió d’Occitània que constituïa un comtat sota jurisdicció feudal del rei d’Aragó-comte de Barcelona, fins al tractat de Corbeil de 1258. En occità, Gavaudan o Gevaudan. Gusargues. Guzargues, localitat occitana del cantó de Castries, departament de l’Erau. Muntanya. Referent a la localitat occitana de Montanhac (Besiers) o, també, a la de Montanha (Gironda). Cas semblant al de Fontès / Fontes, encara que la pronuncia actual amb a final àtona (el nom de llinatge ha desaparegut a hores d’ara però es conserva el topònim molí Montanya / Muntanya o molí de Montanya / Muntanya) fa pensar en aquesta opció, en detriment de la possible relació amb la localitat catalana de Montanyà. La documentació ho Topònims navarresos, 6; castellans, 3 i valencians, 2.
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Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
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avala: el nom de llinatge deriva en femení en «na Muntanya» i no mai en «na Muntanyana», com passa, per exemple amb els noms de llinatge «Mollà» o «Macià», que deriven en «na Mollana» i «na Maciana», respectivament. Sabater. Relacionat amb el repoblador de 1248 Narbonet Çabater. Ullac. No hem pogut identificar el seu origen, tot i que sembla derivar de la paraula occitana «uelh» (ull, en llengua catalana). Vedell. És, tanmateix, d’atribució dubtosa. Pensem que es podria tractar d’una corrupció d’un antropotònim occità, referent a la població occitana del Llenguadoc, actualment al departament d’Arieja, Vedelha (Bédeille en francés).
Hi ha altres noms de llinatge d’origen occità, derivats o fixats a partir de noms de fonts: Bonafonat. En origen relacionat amb el nom de llinatge Carniçó / Carnissó. Un Bonafonat Carniçó és l’antecedent dels Bonafonat, que faran servir com a nom de llinatge el prenom del pare. Guillem. Com en el cas anterior, en origen documentem Guillem Provincial, notari, en 1263, pare fa l’efecte del notari Pere Guillem, documentat en 1284. Els seus successors perpetuen aquest costum onomàstic i fixen el nom de llinatge.
En altres ocasions l’atribució pot variar, fruit de les dualitats toponímiques constatades a una i altra banda dels Pirineus, ja a Occitània, ja a l’Alt Aragó i/o Catalunya. Berbegal. Pot ser indistintament occità (Barbegal, Arlés; granja fortificada i conjunt de molins) o aragonés, comarca del Somontano d’Osca. Celles, les. Relacionat amb la població del departament d’Arieja, comtat de Foix. Hi ha també una altra possibilitat: Celles (l’Erau). És, tanmateix, d’atribució dubtosa, atés que potser es tracte de la població d’Osca, comarca del Somontano de Barbastro. Fontés / Fontes. També pot ser indistintament occità, en el districte de Besiers i cantó de Montagnac, en el primer cas o aragonés en el segon. Montfort. Pot ser aragonés o occità. En aquest cas es tractaria del castell de la Fenolleda històrica, en l’actualitat forma part del departament d’Aude. Orús, d’. Un altre cas que pot ser occità o aragonés, fruit del fenomen de la repetició de topònims a una banda i altra dels Pirineus, de vegades de manera quasi simètrica.
Farem un repàs diacrònic fins arribar al darrer moment, a les dècades inicials del Cinc-cents, en vespres de la revolta agermanada, quan encara es verifica un flux d’individus procedents de Gascunya i del comtat de Foix. Hem identificat un grup de 18 persones, que representen tan sols el 3 per cent del total dels veïns d’Ontinyent del període 1443-1450. En la majoria de casos es tracta clarament de noms de llinatge occitans o d’orígens occitans: Gallach, Gay, Loserra, Montferrer o Rufach. Aquest darrer (relacionat amb Rofilhac; Rouffilhac en francés; l’Òut, Guiana) provindria de la propera Biar, on se l’ha documentat ja en 1328, com a membre de la primera generació de colons que poblaran la vila després de l’expulsió dels sarraïns en 1280.4 La resta (Entrevís, Espanya, Gassó, Muntanya o Segura) són d’atribució menys clara. En el cas de Montferrer ha estat determinant l’onomàstica dels membres d’aquest llinatge, amb noms de fonts tan rotunds com Folc. AMC, CJ 1327-1329, f. 131r . Hi apareix Joan / Iohannes Rufach.
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En el següent període acotat, 1496-1499, només representen un 2,5 per cent, tretze individus d’un total de 559. Apareixen ara algun antrotopònims molt clars, com Andonys (corresponent a Andoins / Andonsh, Bearn, Gascunya) i Melís (a Mailís Landes, Gascunya)5 junt a uns altres noms de llinatge com ara Auger, Mollà (provinent del lloc d’Els Vint-i-cinc, terme de Xàtiva, despoblat en terme municipal de l’Olleria en l’actualitat, i d’Albaida) i Pramunt. En aquest moment es documenten a Agullent per primera vegada noms de llinatge d’origen occità, Mollà (tres individus) que procedeix d’Albaida. L’últim període estudiat correspon al moment de la revolta de la Germania (1519-1522). Continuen documentant-se els anteriors noms de llinatge Andonys, Melís, corresponents ara a la segona generació. Un indici de les peculiaritats del període i, alhora, del dinamisme com a centre del districte tèxtil interior valencià de què fa gala la vila d’Ontinyent és la gran quantitat de noms de llinatge que documentem en un únic cas: 139, un 46,2 per cent del total dels cognoms. Aquest fenomen s’ha de relacionar amb la remarcable presència de llinatges que a primera ullada podrien resultar una mica «exòtics», com ara francesos, occitans, mallorquins, catalans, no pocs castellans de la Manxa, alguns bascos lato sensu i algun perpinyanés i portugués. Molt d’ells, si és que no ho va ser la totalitat, fixaren la seua residència atrets per l’embranzida de la manufactura tèxtil de la llana. S’entén així la presència de barreters i sastres de Castella la Vella i peraires inclús d’Andalusia.6 Així les coses trobem Gonçalbo d’Enguix, peraire; Jordi de la Sobra, calceter (que cal relacionar amb la població de Surba / Surban, País de Foix7); Bertran Subrau / Zubrau, abaixador; «Pedro de Arquos, baxador, natural de Gascunya» o «en Bernat de Behan, texidor, natural de França». També diversos manyans i fabricants de cardes: mestre Arnau Campà, manyà; mestre Arnau de Muntanyes, carder i manyà; mestre Onofre Machí / Magí, carder. A més a més, hi ha també alguns individus relacionats amb la substancial reforma de l’església major de la vila. Així trobem Pere de Britis, pedrapiquer qui era «moço de mestre Benet Oger, pedrapiquer», natural de Lió i responsable de la reforma. Un altre cas és el de Joan de Roria, pedrapiquer que treballa a l’església de Santa Maria. Sembla tractar-se d’un antrotopònim que cal relacionar amb la població de Roraa, a la Val Pèlis i Alta Val del Ròia, a les Valls Occitanes de Provença, a hores d’ara en territori italià. A Agullent en el mateix període veiem, per primera vegada, una incidència percentual notòria, encara que testimonial, un 5 per cent dels agullentins tenen cognoms d’origen occità, cinc individus en el cas de Mollà, d’origen albaidí, i l’aparició de Munnar / Munaro / Munrro / Mulnar del qual apareix documentat el seu origen geogràfic: veí del lloc de «Prepach e de la senyoria de Bearn» i habitador llavors (1520) a Agullent.8 Tot i això, la seua població d’origen apareix deformada, en realitat es tractaria de Preishac de Geusvath o de Preishac Navarrencs.
Tot i això pot tractar-se d’un nom de fonts femení, en qualsevol cas occità. Arxiu Municipal d’Ontinyent (AMO endavant), Cort del justícia (CJ endavant) 1508-1515, Llibre de memorials, 2ª mà de memorials (1508), f. 3. Apareix Francesc Ochoa, peraire, natural d’Úbeda, que habitava llavors a Ontinyent. 7 AMO, CJ 1534, obligacions. Es documenta «Jordi de la Sobra, calçater, natural del condat de Foix». Casat amb Isabet, filla de Bernat Conca, peraire i draper d’Ontinyent; les cartes nupcials es van redactar el 10 de maig de 1516. 8 AMO, CJ 1520, 1ª mà de memorials, f. 10v 5 6
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
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2. Albaida i el Palomar La vila d’Albaida i el seu lloc annex d’el Palomar guarden estreta relació amb el cas ontinyentí i, en menor grau amb el de Xàtiva. Així, doncs, constatem una presència occitana remarcable per la seua importància qualitativa, relacionada també amb l’exercici de l’art de notaria. Hem identificat dos llinatges de notaris i oligarques: els Caix i els Moollà / Mollà, en ambdós casos es tracta d’antropotònims. Pel que fa als primers, els Caix, (també apareix la forma gràfica Cax) se’ls documenta per primera vegada a Cocentaina, a mitjan segle XIV: Domingo Caïx / Cax en 1346.9 Després els localitzem a Albaida, on apareixen en l’escassa documentació conservada de les darreres dècades del segle XIV. Podria tractar-se de refugiats al Regne de València ja en la segona meitat del segle XIV, fugint de la inestabilitat que provocarà als seus països la guerra dels Cent Anys. En les primeres dècades del XV desapareixen de la vila i fa l’efecte que emigren a Alzira o València.10 Caïx / Cayx és un castell situat en terme de Luség (Luzech en francés, departament d’Òlt i part del País de Caors (regió històrica d’Aquitània). El castell va ser pres i cremat per Simó de Montfort durant la croada albigesa.11 Bernat Caïx és un notari present a Albaida a finals del XIV i principis del XV. Hem documentat la seua activitat almenys entre 1403 i 1411.12 La seua residència a la vila ha estat provada, atés que entre les propietats que declara el prevere Jaume Serrador, d’Albaida, cap a 1420 apareix: «per l’ort e terra ab noguer e moreres que foren d’en Anthoni Dezcoll e aprés foren d’en Bernat Caïx, notari».13 Fa l’efecte que després residiria a Llutxent, on se’l documenta en 1415.14 Hi ha un altre, contemporani de l’anterior i a bon segur parent: Ramon Caïx. Podria tractar-se d’un descendent seu, atés que cap a 1420 continuaria viu i adquiriria algunes propietats.15 Pel que fa als Moollà / Mollà, es documenten a la vila d’Albaida a partir de 1298, Pere de Mollà16, encara que és més que probable que hagueren arribat a la vila prou abans. S’ha de relacionar amb l’antropotònim Molhac de la zona del Tarn i Garona (regió històrica de Guiana) i de manera prou més improbable amb l’homònim d’Aquitània. Entre els repobladors de Xàtiva documentats en 1248-1249 (Guinot 1999: II, 526) apareix amb la forma Mohoylhan (Philipus de) i Mohoylha / Mohoylhà (Thomasius de) a més de la forma Molian (Martinus de, AMC 1346-1347, f. 48r. En la primera meitat del segle XVI es documenta a Alzira (Olmos 1961: 745, perg. 6.556): Joan Caix i sa muller, d’Alzira, venen una propietat rústica a Jeroni Gibert el 19 de gener de 1531. Apareix a València encara en el segle XVII (Baixauli 2001: 53). 11 Tenim notícia d’altres orígens possibles: a la Barcelona del Tres-cents es documenta un Andreu del Caix, canviador originari de Siracusa (Sicília): (Mutgé 2004: 34 i 338). 12 S’hi cita un censal carregat a Albaida en 18 d’abril de 1403 i autoritzat per aquest notari: AMO, CJ 1439, 4ª mà d’execucions, f. 29r. La seua actitivat en 1411 està ben documentada: Arxiu Municipal d’Albaida (AMA endavant), Pergamins, àpoques, núm. 1: 1420, gener 2. Albaida. 13 AMA, Cappatró i llibre de cobrament de la peita c. 1395-1504, f. 47v . 14 AMO CJ 1426, f. 202. 15 AMA, Cappatró i llibre de cobrament de la peita c. 1395-1504, f. 36v, «un troç de vinya que comprà d’en Ramon Caix a la Coma d’en Vermell, atinent vinya d’en Guillem Alegre...». 16 ARV, Protocols notarials, 11.179, ff. 31v-32v. 1298, juny 15. Albaida. Consell general. Referència que he d’agrair a Luis Pablo Martínez. 9
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carnisser). A la ciutat de València es documenta la forma Moollà i Moollac (tot i que aquesta darrera sols una vegada) en les dues darreres dècades del segle XIII (Guinot 2008). S’ha de precisar que la forma gràfica Moollà serà la que ells mateixos faran servir fins ben entrat el segle XIV: en 1368 un d’ells encara signarà com Pere Moollà, notari. El primer dels individus documentats és Berenguer, notari qui apareix com Berenguer Moollà, exerceix com a lloctinent del Justícia en aquest exercici. A partir de 1363 documentem un altre notari, parent de l’anterior amb seguretat: Pere Moollà. Finalment, ja en el primer terç del XV documentem un tercer notari, qui farà servir el nom de fonts prototípic del llinatge: Bonastre documentat en 1412 i mort en 1420.17 El cognom apareix simplificat quasi sempre. Tot i això, quan són ells els propis redactors dels documents, sempre apareix en la seua forma primigènia, Moollà amb doble «o». Ho comprovem en una data tan tardana encara com 1368, en un pergamí de l’Arxiu Municipal d’Ontinyent18, on es fa esment d’un altre membre del llinatge, homònim del notari que redacta el document, i veí com ell mateix de la vila d’Albaida: «tros de vinya ab oliveres a les Fontanelles, franch, que afronta ab terra d’en Pere Moollà». El notari en qüestió signa el document així: «Senyal(signe notarial) de mi, Pere Moollà, notari públich per aucturitat real per tota la terra et senyoria del molt alt senyor rey d’Aragó qui açò scriq». Serà l’origen comú del que és a hores d’ara un dels noms de llinatge més estesos i comuns de la comarca, amb noms de fonts tan característics com ara Bonastre, l’ús del qual perdurarà encara en les darreres dècades del segle XV a Albaida i a Banyeres de Mariola. Un dels primers occitans documentats és Bru Arbret (sembla que es tracta d’un corrupció d’un antrotopònim de Gascunya: Albret) documentat ja en 1298, el nom de fonts del qual n’es ben eloqüent de la procedència. Quan tenim dades fiscals exhaustives, susceptibles de poderse explotar en atenció a una finalitat demogràfica19, observem que el percentatge de veïns amb noms de llinatge de procedència occitana al Palomar és en 1509 del 9,6 per cent, i en els cinc casos (sobre els 52 veïns) es tracta de membres del llinatge Mollà. La proporció és encara menor a Albaida: dels 256 veïns identificats en 1509 (llista completa) només set individus (tres Mollà, tres Durà i un Segura) a males penes un 3 per cent. El cas del notari Bertomeu de Montalbà, que exerceix a Albaida a continuació de Bernat Caix i dels Mollà, podria ser també occità. Es tracta de tota manera d’un antrotopònim d’atribució indistinta, aragonesa o occitana, tanmateix. Un altre nom de llinatge molt estés també per la comarca i ben especialment a la subcomarca del marquesat d’Albaida és Duran > Durà. Fa l’efecte que es tracta d’un llinatge d’origen narbonés en el cas d’Albaida. Una anotació als registres fiscals de la darrera dècada del XIV ens permetria apuntar-ho: «Pere Duran e Narbona (sic)», c. 1395, que sembla tractarse de la seua muller, na Narbona.20 AMO CJ 1413, f. 59r, censal carregat en 1408 autoritzat per Bonastre Mollà, notari d’Albaida. AMO, CJ 1416-1420, obligacions, 24-2-20. Miquel Torró, llaurador, i Agnés, sa muller, habitadors d’Agullent, tenien un deute pendent amb Caterina, vídua de Bonastre Mollà, notari d’Albaida. 18 AMO, Pergamins núm. 64, 1368, gener 20. Albaida, Partició dels béns de l’herència de Pere Vidal. Procedeix de les cobertes originals del protocol de Gracià Bodí, (1494-1499). Es tracta d’un original múltiple (carta partida per A B C), redactat en gòtica catalana. Restaurat en 2005. 19 Es tracta d’un llibre cobratori de la peita de 1509, servat a l’Arxiu Municipal d’Albaida. 20 Segons la delimitació d’una de les propietats esmentades en el testament de Francesc d’Exea (1404) seria «n’Arbona» (Casanova 2009). 17
Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida
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La resta d’individus identificats són: Berenguer Manda, batle d’Albaida (1314) que s’ha de relacionar amb la ciutat de Mende, capital del comtat de Gavaldà, al Llenguadoc històric. Joan de Fontés / Fontes, documentat en 1327, seria un cas idèntic al dels seus parents ontinyentins, d’on fa l’efecte que procedeix el cognom. Els altres casos exhumats fan referència al nom de llinatge Gasch / Gasc i Gaschó / Gascó, un gentilici. Fa l’efecte que apareixen indistintament i referits a la mateixa persona: Joan Gasc / Gasch o Gascó / Gaschó. Apareix documentat a finals del segle XIV com a veí d’Albaida. Després, durant uns anys exercirà de saig o corredor de la cort del justícia d’Albayda (1413-1417) i molt després, en 1432, apareix com a guarda del terme d’Agres.21 Un indici de la seua presència a la vila és l’esment d’una na Gascona, sogra de Pere Cesplugues, d’Agullent.22 El cognom apareix simultàniament a Llutxent, a la Pobla de Rugat (en l’actualitat del Duc) i a Bocairent, com ara veurem. Finalment esmentarem «Guillalme» Rellach, calderer, documentat a finals del segle XVI. Es tracta d’un antrotopònim relacionat amb la població de Relhac (Reilhac en francés) de l’Òlt, a la regió històrica del Carcin, Guiana.23
3. La vila de Llutxent i el lloc de Quatretonda Encara que l’onomàstica de la baronia de Llutxent (integrada per aquesta vila i el lloc de cristians de Quatretonda, la resta eren llocs poblats de sarraïns) era un tema inèdit fins ara, les recerques realitzades ens permeten de verificar la presència notable de noms de llinatge d’origen occità. En la periodització establerta hem documentat els següents: 1346-1401, Bramon, amb dos individus; Carcí, Gasch / Guasch i Gordó amb un cadascun, que suposen un 8 per cent del total (62 individus). En el període 1411-1458 només trobem Caïx i Mollà, representats per un sol individu, que suposa un discret 4 per cent del total (46 individus). El percentatge augmenta substancialment en el següent moment, 1464-1496: Gasch / Guasch amb cinc individus, Gascó amb tres i Caús, Mollà i Montpeller amb només un, que suposen un 10,8 per cent del total (una llista completa de 102 individus). En el període següent (1510-1527) només trobem un Gasch / Guasch en la relació de 67 veïns de què disposem.24 Les referències corresponents a Gascó: «ab terra d’en Johan Gaschó» c. 1395 AMA, cappatró de la peita, f. 47r ; Pel que fa a Gasc / Guasch: ibídem f. 45r, f. 47r i 56v c. 1395: «ab terra d’en Johan Gasch»; «vinya d’en Johan Gasch...» al Barranc Pregó; AMO CJ 1413 47r; AMO CJ 1416-1420, obligacions 1417; AMO CJ 1432, f. 190r. 22 Aquest declara cap a 1420: «Primo, hun troç de ort a la Badia, que ach de sa sogra na Gascona», AMA, cappatró de la peita, f. 30v. 23 AMA, llig. s/c corresponent a 1596, Procés del procurador fiscal de la vila y condat de Albayda contra Pere Rodova, alias murmur, del lloch de Atzeneta. 24 Elaborada en bona part a partir d’un consell general dels veïns de Llutxent (seixanta) i habitants de Quatretonda (vint-i-sis) per a l’elecció de síndic en 1525: Arxiu Municipal de Llutxent, Pergamins, núm. 1; 1525, febrer 26. Llutxent. Notícia d’aquest document proporcionada per l’amic Frederic Oriola, de Quatretonda. 21
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Pel que fa a Quatretonda només hem documentat el nom de llinatge Caus / Caús, en el període 1465-1497, amb dos individus que suposen un discret 6,6 per cent de la llista completa de 30 individus identificats en aquest moments. Segons les dades de què disposem, es verifica (salvades les limitacions de la documentació emprada i amb totes les precaucions que això suposa) la procedència d’alguns dels llinatges d’origen occità: la Pobla de Rugat (actual Pobla del Duc) en el cas de Gascó, el lloc d’el Palomar en el de Mollà. Es desconeix l’origen de Bramon però la seua presència esporàdica s’explica per ser el nom de llinatge del rector i d’un germà d’aquest. El nom de llinatge Caus / Caús, documentat a l’Olleria, a Llutxent i a Quatretonda, és ben interessant. Si es tractara d’un antropotònim l’hauríem de relacionar amb la ciutat occitana de Caús / Caüç (Cahus en francés) al departament d’Òlt (Òut en occità), proper a Caors. Podria correspondre també a una de les grafies antigues de Caors (Caus, Caurs o Cáurs) que hauria quedat fossilitzada des del moment de l’arribada a contrades valencianes.25 Comptat i debatut, als documents d’arxiu exhumats apareix gràficament com «Caus» (Guinot 1999: 596)26 i l’hem interpretat en un primer moment com Çaus / Saus (Terol 2010), per estar present aquest nom de llinatge a l’Olleria mateix, a Moixent (la Costera) i a Bufali a hores d’ara.
4. La resta de la comarca: Bocairent, Montaverner, l’Olleria i la Pobla del Duc A partir de les evidències contundents que acabem d’analitzar en el cas dels Moollà / Mollà a Albaida, podrem verificar la major incidència percentual de tota la comarca, i una de les majors de tot el país: Montaverner, xicotet lloc de cristians en terme de la ciutat de Xativa. En la llista de veïns del morabatí de 1421 apareixen 31 veïns dels quals set pertanyen al nom de llinatge Mollà, és a dir un 22,6 per cent. Segons el cens de 1510 onze dels quaranta veïns porten el nom de llinatge Mollà i dos el de Bordera, això ens indica un 32,5 per cent dels noms de llinatge d’origen occità. Bordera, documentat ja en 1314 a Biar (apareix «Domingo Bordera» com a jurat de Biar en 1314-1315: Arxiu Municipal de Cocentaina, CJ 1314, f. 136bis) és un antrotopònim relacionat amb la població de Bordèras (Bordères-sur-l’Échez, en francés) o Bordèras de Loron, al departament dels Alts Pirineus, a la Gascunya històrica. La realitat antroponímica de la resta de poblacions cristianes, que coneixem acceptablement a hores d’ara, divergeix dels casos esmentats i s’hi pot constatar una presència molt testimonial Tot i això podria estar relacionat amb els Caors / Cahorç (Ferrer de, Ferrarius de; carnisser) documentats a Xàtiva en 1248-1249, tot i que coincidiria amb un altre beneficiari de donacions a Morvedre (F. de Cahors): (Guinot 1999: 524 i 306). 26 Se l’interpreta com Caus, el plural del mot ben conegut referit, sobretot, al recer o amagatall d’animals. Es tracta de Francesc Caús, documentat en el moment de redacció inicial del registre fiscal més antic que es conserva a la comarca, un cappatró de la peita redactat en els anys finals del segle XIV (c. 1395) i els inicials del XV i anotat i esmenat fins a 1504, amb una llista cobratòria que serviria de registre auxiliar, f. 1v i 4r. 25
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quan no la pràctica absència d’individus de procedència occitana. La presència a la Pobla del Duc és testimonial. Només un nom de llinatge, un gentilici, Gascó, des de 1376. Apareix en aquest moment també Clarmunt, «Raymundus Clarmunt», que també ho podria ser, relacionada per tant amb alguna de les nombroses poblacions del territori històric dels dialectes occitans, encara que seria més probable que es referira al poblet del terme de Tremp, al Pallars Jussà, o a l’Anoia. Es documenten diversos individus del llinatge Gascó amb continuïtat fins a la primera meitat del segle XVI, quan desapareix de la vila: Iacobus Gaschó (1376), Guillem Gascó, jurat (1401), Joan Gascó (1427), na Dolça, muller d’en Johan Gascó, vehí de la Pobla de Rugat (1438) i Miquel Gascó (1476).27 El mateix cal dir de Bocairent, on el percentatge és ínfim: només es documenta aquest mateix llinatge (Gascó) en 1349-1359, en 1372-1386 i 1421.28 Pel que respecta als populosos llocs de cristians de la comarca situats dins el terme de la ciutat de Xàtiva, constatem la total absència a Benigànim. A l’Olleria, quan els documentem es tracta en ambdós casos d’aportacions de les poblacions veïnes, Albaida sobretot (cas dels Moollà / Mollà) i Ontinyent (Sabater). Es documenta també el nom de llinatge Bovet, esporàdicament. Tot i que correspondria a un antrotopònim d’origen català (Pallars Jussà), podria tractar-se també d’una derivació d’un sobrenom derivat d’un nom d’au, en aquest cas en llengua occitana. Els Sabater els trobem a l’Olleria a finals del segle XIV. Els Mollà mereixen un comentari a banda. Es documenten a Montaverner des del segle XIV, per proximitat a Albaida i el seu lloc del Palomar, fa l’efecte. A l’Olleria no apareixen fins 14951496, tot i que apareix ja al lloc dels Vint-i-cinc (actual terme municipal de l’Olleria) en 1432, encara que ja no torna a aparéixer després, i al lloc d’Atzueva, terme d’Albaida, en aquest moment, 1438 (Terol 2010). La procedència documentada és Albaida. A Ontinyent arriben procedents dels Vint-i-cinc i d’Albaida, via Agullent, cap a 1496. Hui és un dels més habituals a tota la comarca. En el cens de 1510 (Valldecabres 2002: 526-528) dels 126 veïns de l’Olleria, Mollà és el segon cognom en representació (amb nou veïns) junt a un Caús i un individu identificat com a gascó. Representen un 9 per cent del total dels veïns. Un apunt final: en 1569 es documenta Jeroni i Joan Gascó, germans, vidriers de l’Olleria.29 Es tracta, ara per ara, de la dada més antiga de l’especialitat manufacturera que serà característica de la vila encara en els nostres dies: el poble del vidre.
La dada de 1438: AMO CJ 1438, 1ª mà libri litium, tutelarum et curatorum et aliorum literarum exparsarum, f. 11r. Per a la resta, incloses les de 1376: ARV, Protocols núm. 1.772, Jaume Perera, 5-9-1376. Transcrit per Abel Soler (1999: 517-519). 28 Sobre 77 identificacions en el primer cas i 118 en el segon, segons les nostres pròpies recerques. Hem esmenat les inexactituds de les dades de 1359 ofertes per I. Gironés (1995). Les de 1421 en Guinot (1999: 589-593). 29 AMA, llig. 1570, llibre de cort del justícia 1570, 1ª mà judiciària del batle, s/f, 27-12-1569. 27
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5. Pervivència, desaparició i / o substitució dels antrotopònims occitans a la Vall d’Albaida (segles XIV-XV) Sorprén constatar que la majoria dels cognoms derivats de noms de llocs o antrotopònims occitans o d’origen occità desapareixen o, almenys, tenen una pervivència molt limitada, a penes dues o tres generacions. A banda de possibles raons d’índole demogràfic, com ara la desaparició de llinatges o la intensa mobilitat constatada en el període estudiat, s’imposa una explicació que s’ha de relacionar amb la variabilitat observada en la fixació dels noms de llinatge. En efecte, encara no s’ha produït l’estabilització definitiva i és molt habitual la pervivència de l’ús del nom del pare en detriment del nom de llinatge patern, amb la qual cosa els antrotopònims acaben transformant-se o esdevenint, de vegades, tan sols un sobrenom. Aquesta dinàmica explica algunes desaparicions sorprenents i quasi sobtades. Alguns cognoms s’han transformat o han passat a ser sobrenoms. Aquest és el cas protagonitzat per un emigrat del Bearn: el peraire mestre Vicent Andunys / Andunyes o Ondunyes, àlias Arnau, qui de vegades consta com «Vicent Arnau». Al remat serà el sobrenom l’element que quedarà com a nom de llinatge, en detriment de l’antrotopònim que feia referència a la localitat de procedència de son pare: Andonsh / Andonhs (en occità; en francés Andoins) en Gascunya. A la mort de son pare, mestre Arnau Andonys, sastre, adoptarà el patronímic en detriment de l’antrotopònim, el qual no deixava de resultar estrany, a bon segur per la major normalitat que facilitaria la seua integració en la comunitat d’acollida. El fenomen descrit ara mateix contrasta significativament amb la pervivència dels noms de llinatge occitans (entenga-s’hi antrotopònims) en la toponímia històrica, en algun cas fins al segle XVIII. Hi ha diversos exemples a Ontinyent: Carnassó, barranc i pont (encara present en el segle XVIII); barranc del Sabater (si està relacionat, com tot apunta, amb Narbonet Sabater, colon documentat en 1248); el Pla de Melís, documentat durant els segles XVIXVIII. Pel que fa a d’Orús, sembla que ha quedat també fixat en la toponímia, atés que denomina en l’actualitat una casa o mas, la ca Torús, construïda sobre una torre fortificada medieval i junt a una necròpolis islàmica. Es tracta d’un fenomen conegut i ben estudiat en altres àmbits. A la futura capital de la Vall d’Albaida hi ha altre casos: com la Montanyola (partida i masia), el Deuslosal (partida rural), la senda de la Luisma o la Costa-escantalina (partida), que corresponen tots ells a llinatges de les primeres generacions de pobladors: Deuslosal (1248), Montanyola (1295), Luisma (segles XIV i XV) i pel que fa al darrer, es tracta del nom antic de partida de la Costa, relacionat bé que molt alterat, amb el nom de llinatge documentat a l’Ontinyent del segle XIII, Senta Linea > Santa Linya.
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Joan Tort i Donada (Universitat de Barcelona)
Toponímia, paisatge i ús del medi. Un estudi de cas a la regió de Ribagorça (Catalunya-Aragó)1
1. Introducció La regió històrica de la Ribagorça, situada al vessant sud dels Pirineus i a cavall de Catalunya i Aragó, ha estat reconeguda com un àmbit del màxim interès des del punt de vista lingüístic i toponímic. El caràcter secularment aïllat del seu territori, emmarcat pels massissos més elevats de la serralada pirinenca, i el fet de ser, en múltiples sentits, un territori de frontera (concepte clau per explicar la realitat ribagorçana, tant històrica com actual) expliquen que fos presa en consideració per lingüistes, dialectòlegs i historiadors de les llengües romàniques des de moments molt primerencs. I que es pugui dir, des de la perspectiva d’avui, que ens trobem davant una de les regions muntanyenques de la Romània més estudiades, documentalment i sobre el terreny, des d’un inici, i que hagi donat lloc a aportacions, en alguns casos, d’una elevada significació. Amb la present comunicació ens proposem aprofitar una part del bagatge de recerques lingüístiques i, particularment, toponímiques, dutes a terme sobre aquest territori, per aproximar-nos al paisatge i a la geografia ribagorçanes. Partim de la base del gran potencial que presenta la Ribagorça des d’aquest punt de vista: dels valors, múltiples i contrastats, del seu patrimoni natural i cultural. I, a través d’una selecció àmplia dels seus topònims (triats en funció del seu grau d’expressivitat geogràfica i paisatgística), tractarem de posar en evidència la qüestió que, en el nostre estudi, creiem fonamental: el grau d’exactitud, de precisió i de concordança semàntica que, com a tendència general, assoleix la toponímia històrica ribagorçana a l’hora de reflectir la realitat bàsica del territori: sigui tant a una escala general com al nivell dels detalls més particulars i concrets.
La recerca en què es fonamenta aquest article ha estat duta a terme en el marc del Projecte de Recerca CSO2009-12225-C05-03, del Ministeri de Ciència i Innovació, i del Grup de Recerca Ambiental Mediterrània, reconegut per la Generalitat de Catalunya (2009-SG-1515).
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Joan Tort i Donada
2. La Ribagorça. Estudi d’un ‹paisatge toponímic› 2.1. Ribagorça, o Ripacurtia, «el territori de les riberes tallades» La nostra regió d’estudi queda definida, tant des del punt de vista històric com en la seva realitat territorial actual, per un topònim de dilatades arrels en el temps: Ribagorça, documentat Ripacurtia al segle XI. Aquest topònim, escrit en baix llatí, és un nom compost que consta de dues paraules de significat relativament transparent: «ripa» (riba en el català actual, que té aquí el sentit de «pendent escarpat format per un despreniment de terra constituïda per guixos o argiles»), i «curtia» (derivat de «curtus», tallat). Així, la hipòtesi acceptada pels lingüistes és que el significat etimològic del topònim és, aproximadament, «el territori de les riberes tallades».2 En qualsevol cas hem de subratllar, en relació amb aquest topònim, que percebem una plena correspondència entre el nom en qüestió i el seu «significat paisatgístic». Si s’ha de circumscriure en un simple enunciat, o fins i tot en un simple nom, la diversitat morfològica d’aquest domini geogràfic que estem analitzant, amb els seus gairebé 3000 km² d’extensió, haurem de reconèixer que el nom de Ribagorça (entès en el sentit etimològic de referència) és, sens dubte, el més adequat. Perquè dir «El territori de les riberes tallades», aplicant l’enunciat al conjunt de la regió ribagorçana, és probablement la manera de dir més, sobre la globalitat d’aquesta regió (i d’aquest paisatge), amb el menor nombre de paraules.3
2.2. Els principals orònims En ser la Ribagorça un territori essencialment muntanyós, els noms dels grans massissos i alineacions orogràfiques presents a la regió prenen un paper fonamental –com a «eixos lingüístics vertebradors» d’aquest particular paisatge toponímic. En el context de referència, tres grups d’orònims principals han estat objecte de la nostra atenció: al nord de la regió, un grup que s’inscriu de ple en el Pirineu axial: els massissos de la Maleïda (o la Maladeta), de Vallhiverna i de Besiberri. A l’oest, l’aïllat massís del Turbó. Al sud, la gran alineació del Montsec. I, finalment, a l’interior, separant el que seria una Ribagorça d’«alta muntanya» d’una Ribagorça de «muntanya mitjana», la serra del Cis i la serra de Sant Gervàs. En aquest sentit, OnoCat VI, 385-386. Cal notar, així mateix, la notable difusió del nom ribera, amb caràcter de topònim, a gran part de la conca de la Noguera Ribagorçana: Ribera, poble a la vall de Castanesa, Ribera de Vall, poble, i la Ribera, comarcada, al terme de Cornudella de Valira, La Ribereta, lloc del terme de Sapeira, etc. Un sentit més geomorfològic, en canvi, té el topònim Ribampiedro, a la vall de Boí, format sobre els noms RIPA i PETRA i que identifica un gran corriment de terres (ben perceptible, paisatgísticament) sobre el poble d’Erill la Vall (OnoCat VI, 386-387).
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La Maleïda, amb les seves diferents variants (Maleïdes, Maleïtes, Maladeta, etc.), és el nom que identifica el massís més elevat dels Pirineus (i que culmina en el pic d’Aneto, a 3404 m). Derivat del llatí MALEDICTA, participi de MALE DICERE, «maleir», fa referència a la condició de ‹muntanya proscrita› que va tenir popularment el massís, a causa del seva altitud i del seu aïllament (reforçat per la presència de glaceres en més d’un dels seus vessants), fins ben entrat el segle XVIII.4 Encara avui, malgrat la seva plena colonització pel turisme i les activitats de muntanya, La Maleïda-Maladeta segueix sent, per la seva envergadura i per la seva individualitat, el gran referent paisatgístic del nord de la Ribagorça (entre d’altres territoris). Un paper paisatgísticament secundari, però també rellevant, el tenen dos nuclis orogràfics relativament pròxims al primer. Vallhiverna, del llatí VALLIS HIBERNA («vall geliua»),5 va ser un nom inicialment aplicat a la vall i, més tard, estès a un dels grans ramals muntanyosos situats al sud de la Maleïda. A la mateixa latitud, però cap a l’est, a l’altre costat del riu Noguera Ribagorçana, se situa el massís de Besiberri, de similar altitud (per sobre dels 3000 m) i transcendència paisatgística. La interpretació etimològica d’aquest nom (de l’arrel basca baso-be erri, «paratge al peu dels cingles») suggereix, com en el cas de Vallhiverna, una aplicació inicial a la base del massís, més que a la muntanya en si mateixa (comportament toponímic que, d’altra banda, pot considerar-se plenament normal).6 A nivell de toponímia comparada, és interessant relacionar aquesta última construcció amb el nom d’una altra muntanya pròxima, Comalespada, el sentit del qual és idèntic encara que sobre la base de dos termes habituals del lèxic català actual («coma» i «espadat»).7 Cap a l’oest, una fita orogràfica i paisatgística fonamental del territori ribagorçà és el massís del Turbó. El nom, d’etimologia dubtosa, ha portat alguns lingüistes a relacionar-lo amb la formació de nuclis tempestuosos (o «torbonades», en expressió habitual a nivell local), possibilitat versemblant si es té en compte el caràcter prominent del massís i el seu aïllament respecte a la resta de grans muntanyes de la regió. Una rellevància paisatgística similar, i de major transcendència espacial, té per la seva part el Montsec, potent anticlinal que delimita la Ribagorça pel sud. El seu nom (documentat Montesico en 1044), que fa referència a l’ambient àrid i sec que el caracteritza8, és a parer nostre un clar exemple toponímic del principi de transparència. Finalment, el paisatge oronímic ribagorçà es completa, en els seus grans trets, amb els noms de dues grans estructures orogràfiques –disposades, com el Montsec, en forma d’anticlinal orientat d’oest a est–, inserides geològicament en el domini del Prepirineu, que vertebren l’interior de la regió. D’una banda, la serra de Sant Gervàs, serra a la qual dóna nom una antiga ermita, dedicada a Sant Gervàs i situada en el seu vessant sud, al costat d’una de les cabaneres –antic camí per al trànsit del bestiar– més importants de la Ribagorça. De l’altra, la serra del Cis, entre els cursos del riu Isàvena i la Noguera Ribagorçana; aquest topònim, derivat del llatí MONTE SCISSUM, «muntanya tallada»,9 resulta extraordinàriament expressiu de la morfologia general de l’anticlinal esmentat –que defineix substancialment el paisatge físic d’aquesta part de la regió. 6 7 8 9 4 5
Vegeu OnoCat V, 150-151 OnoCat VII, 431. OnoCat II, 488. OnoCat III, 415. OnoCat V, 381 OnoCat III, 376.
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2.3. Àmbits interns individualitzats L’existència d’uns eixos orogràfics que afecten el conjunt del territori ribagorçà i que, d’alguna manera, el compartimenten físicament afavoreix la conformació en el seu si d’un gran nombre d’àmbits interns dotats d’una gran individualitat. Per regla general, aquests àmbits –una vall marginal, un vessant de vall, una petita conca, un interfluvi– fonamenten la seva individualitat en el fet de tenir un topònim propi i específic, amb un gran arrelament en l’espai i en el temps. El seu paper és fonamental en la conformació del paisatge toponímic de la Ribagorça, ja que permet la identificació de cadascuna de les múltiples peces que dibuixen, en última instància, el mosaic de la regió. Són àmbits paisatgístics significatius les grans valls del nord, d’una gran rellevància històrica i dotades, en general, d’una personalitat (o diferenciació) geogràfica molt precisa. A l’extrem nord-oriental, la vall de Boí és un dels més connotats. El seu nom (que ja consta com a Valle Boinam abans de l’any 945, i que hem d’interpretar, versemblantment, com la «vall de les vaques»)10, fa referència a allò que podem considerar que és la riquesa tradicional del lloc: la ramaderia extensiva. Pròxima a aquesta vall, i coincidint amb la capçalera del riu Noguera Ribagorçana, la vall de Barravés, de configuració semblant a la de Boí, no ens permet unes correlacions toponímiques similars a causa de l’opacitat etimològica del nom.11 I una cosa equivalent podem dir d’una altra gran vall septentrional, en aquest cas la de Castanesa: l’al·lusió a uns hipotètics boscos de castanyers originals no es pot fundar ni en una raó etimològica clara12 ni en un testimoni actual prou significatiu d’aquesta espècie vegetal a la zona de referència. Al centre i sud de la nostra regió d’estudi (és a dir, en el que seria Ribagorça mitjana o baixa) la menor contundència física del relleu fa que els grans àmbits interns estiguin més desdibuixats. Cal esmentar, de tota manera, alguns àmbits que gaudeixen d’una identitat pròpia molt arrelada i que es corresponen, en tots els casos, amb uns determinats paisatges: en aquest sentit es destaquen, ocupant un dels dos vessants de la zona mitjana del curs de la Noguera Ribagorçana, la Ribera (o Ribera de Cornudella)13, la Terreta, nom derivat de «terra»,14 o la Feixa, topònim d’una gran expressivitat paisatgística, en el sentit de al·ludir a una configuració física molt concreta –que Coromines caracteritza com una «gran faixa rocosa o de terra a la falda d’una muntanya».15
OnoCat III, 45-46. Coromines apunta la possibilitat, molt versemblant, que Barravés sigui un nom d’origen antroponímic (OnoCat II, 355-358). 12 Vegeu OnoCat III, 304. 13 Ribera i riba, noms força equivalents, són denominacions habituals a tota la Ribagorça (vegeu l’epígraf 3.2.) 14 OnoCat VII, 266. 15 OnoCat IV, 204. 10 11
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2.4. Un relleu fragmentat i amb una gran diversitat de formes Hem tingut ocasió de subratllar, a l’inici de l’article, que la fragmentació del medi físic és un tret substancial del territori ribagorçà. Toponímicament, aquest tret té una manifestació constant, a escales diferents, i adopta una gran diversitat de formes (lingüístiques) en funció de la pròpia variació de les geoformes. En aquest epígraf tractarem de reflectir, sintèticament, aquest aspecte fonamental del paisatge toponímic de la Ribagorça. Trobem en alguns sectors de la Ribagorça occidental, a la franja de contacte entre la zona axial i les anomenades serres interiors del Prepirineu, unitats de relleu individualitzades i prominents, que es destaquen per l’amplitud de les seves formes arrodonides. Un exemple característic és el Corronco, sobre el poble de Durro, que arriba als 2543 m d’altitud. El topònim, d’arrel preromana segons Coromines, deriva del basc kunkur(r) i equival a la idea de «gepa»;16 podem interpretar-lo, per tant, com una metonímia d’un clar sentit paisatgístic. Sentit que es reprodueix en dos topònims d’estructura semblant, i relativament pròxims al primer: Corroncui, petit poble del vessant nord de la Serra de Sant Gervàs (de formes força arrodonides, a diferència del vessant sud), i Concurrell, antic mas situat al vessant est de la muntanya de Sant Cosme (de semblant perfil a les anteriors).17 En oposició a aquestes formes més arrodonides, detectem la identificació de formes de relleu més enèrgiques i contundents a través de dos topònims de notable transcendència en el paisatge local: d’una banda, Turmeda (nom derivat de torm o tormo, que en el català arcaic és sinònim de «roca»)18, i, de l’altra, el Codó (relacionat amb l’arrel llatina COS, COTIS, també equivalent a «roca», i que es troba a la base de nombrosos topònims catalans d’origen oronímic).19 Un lloc i un altre es troben en un dels paratges més accidentats de la conca mitjana de la Noguera Ribagorçana, a la capçalera de una de les valls afluents de la conca (àmbits en què, en general, la intensitat dels processos d’erosió és elevada). També els processos de carstificació han deixat una empremta important en el paisatge d’alguns sectors de la Ribagorça. Per exemple en la part oriental de la Terreta, a la vall mitjana de la Noguera Ribagorçana. Uns testimonis expressius d’aquests processos són els topònims Esplugafreda20 i Espluga de Serra:21 noms de sengles nuclis de població, formats sobre l’arrel comuna espluga (del llatí SPELUCA, «cavitat»), i que s’inscriuen en un marc paisatgístic marcat amb gran força per l’empremta del carst. És, de fet, el mateix entorn que envolta a la petita vila del Castellet: nom que interpretem com una al·lusió metafòrica als penyals que circumden el poble, de capritxoses formes esculpides per l’erosió. A un nivell de major detall, però en un pla de significació equivalent, anotem dos topònims (també al·lusius a nuclis de població) amb un origen presumiblement vinculat a les formes del terreny: Casterner de les Olles, a la vall de la Noguera Ribagorçana, i Casterner de Noals, a OnoCat III, 441-442. Concurrell, també de l’arrel kunkur però sense metàtesi i amb sufix derivatiu en català. (Ibid. nota anterior). 18 OnoCat VII, 305. La terminació -eda atorga a aquest topònim un sentit específicament col·lectiu. 19 OnoCat III, 455. 20 Esplugafreda, documentat Spluca Freta en 988. Etimològicament, l’arrel -freda pot interpretar-se procedent tant de FRETA («freda») com de FRACTA («trencada»). OnoCat IV, 132-134. 21 Antigament, ESPLUGA TRESSERRA (on tresserra equivalia a «darrere la serra»). OnoCat VII, 348. 16 17
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la de la Valira de Castanesa, afluent de l’anterior. En tots dos casos, l’etimologia de Casterner apunta a «castell negre»22, en referència al color fosc de la penya sobre la qual s’alcen les cases respectives (i, en el seu moment, el primitiu castell). Una correspondència similar, a nivell de «paisatge local», però amb més transcendència espacial, es dóna, finalment, en dos topònims amb un clar sentit oronímic que identifiquen dues destacades poblacions del sector mitjà de la Ribagorça oriental: Sopeira (documentat Supetra en 851), i Sapeira (illa Petra, en document de 979). En el primer cas, l’etimologia (del llatí SUB PETRA, «sota la roca»)23, està clarament en la direcció de la realitat geogràfica i paisatgística del lloc: literalment, al peu de la paret sud-oest de la serra de Sant Gervàs. El mateix es pot dir, encara que des d’una perspectiva diferent, de Sapeira –senzillament «la roca»24–, nucli, en aquest cas, situat sobre la mateixa cresta d’un petit anticlinal perpendicular a l’eix del riu Noguera Ribagorçana. Cal subratllar, així mateix, que al sector septentrional de la Ribagorça (és a dir, la zona axial) el glacialisme i els processos periglacials han tingut un paper geomorfològic i paisatgístic molt rellevant, i que eventualment aquests processos es troben a l’origen de determinats noms. Per exemple, els topònims compostos formats sobre l’arrel coma –derivada del llatí CUMBA, que apunta genuïnament a la idea de fondalada o depressió en medi muntanyenc. La vall de Boí, d’una manera particular, registra nombrosos exemples de topònims d’aquest tipus.25 Com a casos il·lustratius citarem Comallímpia (o Comallémpia), del llatí CUMBA LIMPIDA, «fondalada sense vegetació»;26 Comalesbienes, que Coromines relaciona amb l’arrel BENNA, suposadament cèltica, i amb un significat equivalent a «fondalada plena de pèlags»27, i, finalment, Comaloforno, nom que previsiblement va passar de designar un paratge situat a la part baixa d’un vessant muntanyós a identificar un dels cims més destacats de la regió.28 Un altre exemple en la línia exposada, i amb una notable transcendència espacial, és el de Llauset, que identifica una de les valls, d’origen glacial, més destacades de la capçalera de la Noguera Ribagorçana. Es tracta d’un nom que els lingüistes relacionen amb el terme local llau, derivat del llatí LABES, «despreniment de terres».29 A la pràctica, l’observació detallada dels dos vessants, especialment en la seva part alta i mitjana, permet detectar amb facilitat com l’empremta d’aquests processos perviu, de manera visible, en el perfil general de la vall. Sense sortir de la zona axial de la Ribagorça, cal afegir que, en ocasions, trobem en la pròpia toponímia el reflex d’una percepció clarament «negativa» d’aquest medi físic (o paisatge) tan abrupte i contundent: noms com Malavesina o riu Malo, paratge i rierol, respectivament, a l’alta vall de Boí, amb una al·lusió explícita a la idea de «cosa dolenta», en són un bon exemple.30 OnoCat III, 327-328. OnoCat VII, 159. Ibid. Vegeu, al respecte, Coromines TVB (en general) i OnoCat III, 414-417. OnoCat III, 415. Vegeu també la nota 9, respecte al topònim Comalespada. Ibid. OnoCat III, 415-416. Coromines es decanta per relacionar forno amb la idea d’«obertura», «fornícula» o «trau» a la carena de la muntanya, però ens sembla més lògic vincular el nom al caràcter profundament tancat, o encofurnat, del paratge. Vegeu també, respecte d’aquesta qüestió, l’entrada forn a OnoCat IV, 260-262. 29 OnoCat V, 45. 30 OnoCat II, 415 [Malavesina] i V, 158 [Riu Malo]. Significativament, a la primera entrada Coromines defineix el paratge com una «vall escarpadíssima, tota ella trencacolls i estimballs gegantescos». 24 25 26 27 28 22 23
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Completem aquest epígraf amb la menció de sis topònims que, encara que d’ubicació una mica dispersa, afegeixen elements d’anàlisi significatius al nostre estudi –en la mesura que aporten, des del pla de l’onomàstica, altres dades rellevants sobre el caràcter general del medi físic. D’una banda, al sector nord cal citar el petit poble de Bono (documentat Bonnobe en 978). Situat al peu dels estreps orientals de la serra de Ventolà, que s’alcen sobre el nucli en un desnivell de més de 1000 m, és un altre exemple de correspondència entre paisatge i nom del lloc –almenys, si ens atenim a l’explicació etimològica que l’interpreta com un topònim que té origen en l’arrel basca bono-be, equivalent a «sota la penya».31 A l’oest, l’esmentat nom de Ventolà és un altre interessant exemple de ‹marcador paisatgístic›, en el sentit d’al·ludir a un punt destacat del relleu, literalment, «exposat als vents».32 Cal destacar la presència, i amb una ubicació equiparable, d’un altre Ventolà a la Ribagorça, uns 20 km al sud de l’anterior, sobre la població del Pont de Suert. Així mateix, dins el terme municipal actual d’aquesta població, i sobre els contraforts més orientals de la serra de Sant Gervàs, trobem Pinyana. Documentat Pinnana el 1094, el nom deriva del llatí PINNA (que val per «penya» o «roca gran») i subratlla, en la seva essència, la condició genuïnament muntanyenca del paisatge físic on s’insereix.33 Un altre topònim amb un cert grau de recurrència oronímica i un significatiu contingut a nivell semàntic és el de Seix, que a la Ribagorça apareix sovint amb la forma Sas (amb o sense article, com Seix / el Seix). Es tracta d’un nom aplicat, en general, a sectors de interfluvi entre valls principals, generalment consistents en terrasses de sediments transportats pels rius i situats a una certa altura sobre el fons de la vall –de manera que conformen un tipus de paisatge localment extens, més aviat àrid i poc apte per al cultiu, que apareix amb freqüència a les valls laterals de la Ribagorça mitjana i baixa.34 Finalment, ens queda esmentar els noms d’Espills35 i Miralles,36 etimològicament al·lusius, en ambdós casos, a la idea de «mirador», i que s’apliquen a dos llocs (avui abandonats) situats en dos punts panoràmics en el sector mitjà de la vall de la Noguera Ribagorçana. Es tracta d’uns interessants exemples de menció d’unes bones condicions de visibilitat (en el sentit de disposar d’unes àmplies perspectives visuals) d’uns determinats emplaçaments, estratègicament adaptats a les estructures de relleu de la regió. 2.5. Un paisatge amb una forta empremta fluvial La Ribagorça, com hem tingut ocasió d’apuntar, és un territori en bona mesura construït pels rius i per la dinàmica geomorfològica fluvial.37 Aquest fet és especialment patent en la meitat OnoCat III, 73. OnoCat VII, 458. OnoCat VI, 229-231 OnoCat VII, 56-59. Parlem, en qualsevol cas, de topònims molt antics (el Seix del terme d’Orrit es documenta el 978), i més aviat opacs des del punt de vista etimològic (se’ls ha relacionat, en qualsevol cas, amb el llatí SAXUM, equivalent a «penya»). 35 OnoCat IV, 124. 36 OnoCat V, 283-284. Afirma Coromines, respecte de Miralles (nom freqüent a la toponimia històrica de Catalunya), que es tracta d’«un topònim de gènesi sempre orogràfica». 37 Vegeu, en relació amb aquesta idea, l’epígraf 3.2. 33 34 31 32
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oriental de la regió, vertebrada pel curs del riu que cal considerar clau, des del punt de vista geohistòric, en la conformació d’aquest territori: la Noguera Ribagorçana. Com a hidrònim, estem davant d’un nom d’interès doble. Noguera, d’una banda (documentat Nocaria el 848), s’interpreta com una forma arcaica que prové del llatí AMNIS NAUICARIA –derivat de NAVIS, «rai», és a dir, giny per al transport fet a base de troncs d’arbres– i que només es va aplicar als rius dels Pirineus que van registrar aquesta modalitat de transport fluvial.38 D’altra banda, el determinatiu Ribagorçana (valle Ripacurcana, 905) ens fa visible, d’una manera inequívoca, la relació d’identitat que s’ha donat entre el nom històric de la regió i el nom del seu riu principal. Cal anotar, amb caràcter complementari, que el principal afluent del riu que ens ocupa és identificat, també, amb l’arrel noguera. Es tracta del riu Noguera de Tor, també conegut com riu de Caldes, que recorre la vall de Boí i aflueix al curs principal prop de la població del Pont de Suert. A l’interior de la conca fluvial de la Noguera Ribagorçana, i al·ludint a afluents o cursos secundaris, trobem un altre hidrònim d’un gran interès: la Valira.39 Joan Coromines interpreta aquest nom com un hagiotopònim, és a dir, com una aplicació de la construcció AMNIS VALERIA (AMNIS, equivalent a «riu», i VALERIA, a una advocació religiosa formada a partir de la feminització de VALERIUS) a certs cursos fluvials, que es distingirien dels altres cursos (com ara torrents o rierols) pel fet de tenir un cabal d’aigua permanent.40 Un sentit més relacionat amb les formes fluvials que amb el propi riu tenen una sèrie de topònims, que anotem a continuació (tots ells, al nostre entendre, amb una rellevant transcendència paisatgística). Així, a la capçalera de la conca, el nom de Conangles (de conangulum, gir brusc en el curs del riu)41, molt relacionat amb el nom d’un paratge proper, Anglos (de angulos, aplicat en sentit tant orogràfic com hidrogràfic).42 Més endavant, és a dir, en una de les principals gorges del curs mitjà de la Noguera Ribagorçana, registrem un nom que constitueix un veritable ‹marcador paisatgístic›: Escales.43 Derivat del llatí SCALA, que segons Coromines tenia un sentit equivalent al de «graó o obstacle orogràfic», la seva aplicació toponímica (mitjançant diferents derivats) ha tingut, segons aquest lingüista, una difusió internacional.44 Aigües avall, un altre destacat topònim amb transcendència paisatgística és Areny (documentat Arinio en 823). Es tracta, segons el lingüista citat, d’un nom originat en OnoCat V, 469. En el cas de la Noguera Ribagorçana sembla ser que hi va haver històricament, de forma ocasional, cert ús dels rais. En el cas de la Noguera Pallaresa, aquesta modalitat de transport està àmpliament documentada. 39 El mapa comarcal de l’Alta Ribagorça a escala 1:50.000 l’enregistra en tres casos: la Valira de Castanesa (al terme de Montanui), la Valira de Cornudella (terme de Cornudella de Valira), i en la curiosa forma la Valiri (terme de Malpàs). 40 OnoCat VII, 395-397. 41 OnoCat III, 420. 42 OnoCat II, 195. 43 Encara que fora de la conca de la Noguera Ribagorçana, citem aquí un altre important topònim de la Ribagorça amb una genealogia equiparable a la d’Escales. Es tracta de Graus, població situada al costat del riu Éssera i al peu d’un destacat contrafort dels Pirineus. El nom, en aquest cas, deriva del llatí GRADO, que, entre altres termes, ha originat el català graó (OnoCat IV, 380). 44 Vegeu OnoCat IV, 90-91. Coromines esmenta, en aquesta entrada, interessants exemples toponímics derivats de SCALA, amb un sentit equiparable al d’Escales, a diferents indrets dels Alps. 38
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l’adjectiu llatí ARENEUS (en el llatí clàssic, ARENARIUS o ARENOSUS)45, que cal relacionar amb la presència, prop d’aquest nucli de població, de sorrals (o dipòsits de sorres) formats per la pròpia dinàmica fluvial de la Noguera Ribagorçana o els seus afluents. Finalment, al límit meridional de la regió, hem de citar un altre exemple molt notable de topònim (concretament, hidrònim) amb valor de «marcador paisatgístic»: Mont-rebei, aplicat a una altra de les grans gorges o congostos del riu (i, per extensió, al seu entorn més proper). En aquest cas, l’etimologia que s’ha proposat del nom (de MONTE RAPIDIU, rapidiu equivalent a «rabeig»)46 presenta unes innegables correspondències amb les característiques del riu –amb nombrosos rabeigs en un llarg tram, que la cua de l’embassament de Canelles va fer desaparèixer en tot aquest sector.
2.6. La toponímia en relació amb el procés històric de colonització del territori Un nombre molt significatiu de topònims ribagorçans no referits directament a elements del medi físic al·ludeix a aspectes, originaris o derivats, del procés històric de colonització del territori. Fins aquí, d’una manera indirecta, hem tingut ocasió de citar nombrosos exemples en aquesta línia, en desenvolupar els diferents camps temàtics de la nostra anàlisi. Sense anar més lluny, el topònim Boí, tractat en l’epígraf 2.3 (com un dels grans àmbits interns de la Ribagorça), és també una mostra singular de la forta empremta de l’activitat pastoral i ramadera a les terres altes de la regió. Ara, al llarg de l’epígraf, aportarem nous exemples toponímics que, amb caràcter puntual o amb una projecció extensiva, donen testimoni de les dues grans direccions en les quals cal entendre el procés de colonització: com a «apropiació» i com a «ús» del territori. Respecte a la primera idea (els topònims com a reflex d’una forma d’apropiació del territori) es podria citar els freqüents casos de denominació d’assentaments de població que inclouen el genèric castell o torre en el topònim.47 El fet que, històricament (i, d’una manera específica, durant els segles medievals), la Ribagorça s’hagi configurat clarament com un territori de frontera (Vilar 1964) es troba a la base del tret toponímic que acabem d’apuntar, i que és fàcilment perceptible per a qualsevol observador. Com a exemple paradigmàtic d’aquesta manera de denominar, en tot cas, creiem interessant citar el doble topònim Erill Castell-Erill la Vall. Fonamentats, tots dos noms, en l’antropònim Erill, d’origen basco-ibèric48, nom d’una de les famílies nobles medievals de major rellevància als territoris pirinencs de Ribagorça-Pallars, al·ludeixen, respectivament, a dos punts clau dels seus dominis (separats entre si més de deu quilòmetres): el primer, al castell o residència fortificada del senyor d’Erill; el segon, al lloc o enclavament (avui important nucli de població) situat al centre de la vall de Boí i punt neuràlgic, sens dubte, de les seves antigues possessions, atès el valor potencial de les pastures de la vall. OnoCat II, 230. OnoCat V, 375-376. 47 A banda dels topònims que citem al llarg de l’article, podem esmentar els casos de la Torre de Tamúrcia, la Torre de Amargós, la Torre del Senyor, Torrelaribera, Castellnou de Montsec o Sobrecastell, entre altres. 48 Segons Coromines, OnoCat IV, 82-83. 45 46
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Un altre cas de doble topònim amb un sentit semblant, i localitzat també a la vall de Boí, és el d’Estany de Monges-Estany de Cavallers. Es tracta de dos llacs d’origen glacial situats a la capçalera de la vall, el nom dels quals, d’acord amb la interpretació de Coromines, reflecteix també un vincle –en aquesta ocasió, antagònic– de propietat: eclesiàstica, en el primer cas (i en relació amb algun dels monestirs de la regió);49 senyorial civil, en el segon.50 Quant a la segona idea (els topònims com a reflex d’un ús determinat del territori), cal assenyalar que són molt nombrosos els exemples que poden citar-se en aquest sentit –sustentats en noms, sovint, de significat transparent, però, altres vegades, d’una gran opacitat etimològica. I que, normalment, apunten a una determinada modalitat d’ús, l’agropecuari, que pot considerar-se prevalent durant una seqüència de temps molt dilatada –i que, malgrat tot, ja no inclou l’època actual. Una sèrie de topònims que esdevé un testimoni històric significatiu del cultiu de la vinya al nord de la regió és la formada per Vinyal-Ardanui-Ardanué:51 tres nuclis de població separats amb prou feines 8 km entre si i situats gairebé a la mateixa latitud (encara que en valls i en altituds diferents), a la franja del que, en el context de la Ribagorça, es pot considerar ja com a alt Pirineu.52 Es tracta d’una dada interessant, a parer nostre, de cara al coneixement del límit històric del cultiu de plantes llenyoses (com la vinya i l’olivera) al vessant meridional dels Pirineus, sobre el qual alguns autors han fet aportacions rellevants al llarg de l’últim mig segle.53 De fet, pel que fa al procés de colonització del territori ribagorçà (o, en altres paraules, a la seva geografia històrica) creiem que aquesta trilogia de noms té veritable entitat de ‹marcador paisatgístic›. No lluny dels llocs que acabem d’esmentar, i al costat del curs de la Noguera Ribagorçana, trobem un altre punt d’alta significació respecte a l’ús històric del territori, Montanui. Coromines relaciona aquest nom, d’etimologia opaca, amb una arrel d’origen basc, mendinobe, que vindria a significar «lloc de descans per al bestiar».54 La veritat és que el paisatge de l’entorn de Montanui, en un eixamplament del fons de la vall i amb una àmplia presència de prats als voltants del poble, sembla donar un clar fonament a aquesta interpretació. Una mica més al sud, però al vessant oposat de la vall, un altre nom (de morfologia diferent, però d’interpretació etimològica concomitant), Gotarta, apunta a un assentament semblant al de Montanui però en un context no de «fons de vall» sinó de «falda de muntanya».55 OnoCat V, 320. OnoCat III, 344-345. 51 Vinyal és topònim d’etimologia transparent, a diferència d’Ardanui i Ardanué, que segons Coromines són noms d’origen preromà que remeten a l’arrel basca ardan, al·lusiva al cultiu de la vinya (OnoCat II, 224-225). 52 És significatiu assenyalar que Vinyal, el lloc situat més al nord dels tres, es troba en línia recta a menys de 15 km del pic d’Aneto, la muntanya de major altura dels Pirineus. Així mateix, el lloc es troba diversos quilòmetres aigües amunt de Vilaller, que és el punt de la vall de la Noguera Ribagorçana que els geòlegs assenyalen com a límit meridional del radi d’acció de la glacera que seguia aquesta vall a finals de l’era quaternària. 53 En particular, Salvador Llobet. También hi fa referència Lluís Solé i Sabarís a l’obra Los Pirineos. El medio y el hombre. 54 OnoCat V, 329. 55 OnoCat IV, 372-373. Coromines interpreta el nom Gotarta como «lloc de corrals», i el relaciona amb el basc gorta. 49 50
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Un tipus de referència lingüística similar, vehiculada a través d’un nom que, segons Coromines, encara era vigent com a nom comú a la zona pirinenca fa unes dècades, és la que correspon al topònim l’Estall (que identifica un lloc situat al vessant sud del Montsec, ja al límit meridional de la Ribagorça). Per a aquest autor, estall era un nom habitualment aplicat a la idea de «corral en zona de muntanya»56, i la seva gran difusió al Pirineu explica que hagi donat lloc a topònims tan singulars com Estanyofinestro, aplicat al vessant d’una muntanya situat per sobre del poble de Taüll i que, tot i l’aparença, no fa referència a un llac de muntanya sinó a un compost de Stallon Fenestron, que equivaldria aproximadament a «corral entre els prats de fenc».57 Que la al·lusió a l’ús agroramader del territori és un fet recurrent en la toponímia ribagorçana al llarg de la història ens ho prova la gran quantitat de topònims actuals, de significat transparent o gairebé transparent, que és possible detectar avui en tot aquest àmbit geogràfic a partir d’una lectura atenta de la cartografia o dels nomenclàtors existents. A tall d’exemple, citarem un sol cas: Pleta Verda, nom aplicat a una de les muntanyes de la serra de Lleràs, al sud-est de la Ribagorça i a la divisòria entre les conques de la Noguera Ribagorçana i la Noguera Pallaresa. Creiem significatiu que el nom, tot i tractar-se d’un orònim, tingui un origen semàntic vinculat a l’explotació ramadera –presumiblement relacionada amb el trànsit ancestral de ramats transhumants per moltes de les cadenes de muntanyes de la regió. En definitiva, una mostra explícita del tipus d’ús predominant que ha tingut, de forma intensiva i d’una manera persistent, una gran part de l’espai geogràfic ribagorçà.
3. Unes reflexions de síntesi Per les seves particulars condicions geogràfiques (regió natural situada al vessant meridional dels Pirineus, entre la zona axial i les serres exteriors del Prepirineu), històriques (el seu àmbit coincideix en gran mesura amb el del comtat medieval) i lingüístiques (en sentit sincrònic, per la confluència en aquest territori de les llengües catalana, aragonesa i castellana, en sentit diacrònic, per la rellevància, en la toponímia de la regió, dels substrats prellatins), la Ribagorça es configura com un «laboratori», a escala natural, idoni per a l’anàlisi proposada. El fet de poder comptar, en relació amb aquest àmbit, amb determinades eines d’estudi (com és, a nivell general, l’obra Onomasticon Cataloniae, de Joan Coromines, i, en els últims anys, amb els estudis locals de la col·lecció Toponimia de Ribagorza, dirigida per Xavier Terrado) facilita també les coses, d’una manera molt significativa, a l’investigador actual. La diversitat d’àmbits temàtics i la pluralitat d’escales (temporals i espacials) en les quals pot ser abordat l’estudi de la toponímia de la regió permet que, en una perspectiva de síntesi, puguem parlar de la Ribagorça com un sistema toponímic tendencialment complet, coherent i ben integrat, la vigència del qual, que en bona mesura respon al model de vida anterior al OnoCat IV, 145. OnoCat IV, 150. STALLON > estall hauria donat, per assimilació i per etimologia popular, «estany», mentre que FENESTRON dóna, per evolució normal, fenàs.
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Joan Tort i Donada
canvi rural esdevingut a la muntanya europea des de mitjan segle XX, deu molt al caràcter perifèric d’aquest territori (tant respecte a Catalunya com a Aragó) i al seu escàs grau de transformació física contemporània. Finalment, hem constatat les interessants possibilitats que ofereix a la Ribagorça l’estudi de la toponímia de detall, o «microtoponímia» (potser l’àmbit de la toponímia ribagorçana menys investigat fins ara); en concret, els casos d’aquest tipus analitzats en el nostre treball ens han permès detectar correspondències i interrelacions significatives amb topònims d’altres escales i nivells, i n’han esdevingut, en el pla general de l’estudi, un bon complement.
Bibliografia Coromines, Joan (1965 i 1970): Estudis de toponímia catalana, 2 vol. Barcelona: Barcino. — (1983): Toponímia de la vall de Boí (TBV). In: Butlletí Interior de la Societat d’Onomàstica 12, 1-20 i 14, 1-23. — (1979-1991): Diccionari etimològic i complementari de la llengua catalana (DECat). Barcelona: Curial Edicions / Caixa de Pensions, 9 vols. — (1989-1999): Onomasticon Cataloniae (OnoCat). Barcelona: Curial Edicions / Caixa de Pensions, 8 vols. Sancho, A. (2011): Canvi rural, transformació del paisatge i polítiques territorials a la Terreta (Ribagorça, Catalunya / Aragó). Tesi doctoral llegida a la Universitat de Barcelona el juny de 2011. Disponible a Internet [Tesis en xarxa]. Solé, Ll. (1964): La Ribagorça. In: Solé, Ll. (dir.): Geografia de Catalunya. Vol. II. Barcelona: Aedos, 55-92. Terrado, Xavier (2002): Els noms de lloc de la vall de Boí. Lleida: Pagès Editors. — (2010): La toponímia de la Ribagorça i el lèxic romànic. In: Creus, I. / Puig, M. / Veny, J. R. (a cura de): Actes del Quinzè Col·loqui Internacional de Llengua i Literatura Catalanes (Universitat de Lleida, 7-11 de setembre de 2009). Montserrat: Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 43-79. Tort, J. (2003): A propòsit de la relació entre toponímia i geografia: el principi de ‹significativitat territorial›. In: Casanova, Emili / Valero, L. R. (edd.): XXIX Col·loqui de la Societat d’Onomàstica (Teulada, 6-8 desembre 2002). Barcelona: Butlletí Interior de la Societat d’Onomàstica, 94-95, 675-688. — (2006): Els noms de lloc i el territori: la toponímia des de la geografia. In: Mallorquí, E. (ed.): Toponímia, paisatge i cultura del món rural. Girona: Associació d’Història Rural de les Comarques Gironines / Universitat de Girona. — (2007): Per a una interpretació geogràfica de l’obra etimològica de Joan Coromines. In: Casanova, Emili / Terrado, Xavier (edd.): Studia in honorem Joan Coromines. Lleida: Pagès Editors, 263-287. Vilar, P. (1964): Catalunya dins l’Espanya moderna. (4 vol.). Barcelona: Edicions 62. — (1979): Qüestions de toponímia. In: La divisió territorial de Catalunya. Selecció d’escrits de geografia, I. Barcelona: Curial Edicions, 289-330.
Toponímia, paisatge i ús del medi. Un estudi de cas a la regió de Ribagorça (Catalunya-Aragó)
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Annex Mapa de la regió històrica de la Ribagorça (sector oriental: conca de la Noguera Ribagorçana). Hi consten, amb número o amb lletra, la major part dels topònims analitzats a l’article.
Federico Vicario (Udine)
Lo Schedario onomastico di Giovanni Battista Corgnali
L’interesse per lo studio del lessico e dell’onomastica si coniugano di frequente in una stessa persona. Questo è stato anche il caso di Giovanni Battista Corgnali (1887-1956), una delle personalità di maggiore rilievo, senza dubbio, nel panorama della cultura friulana della prima metà del secolo scorso. Per tutta la vita egli si dedicò con competenza e fervore all’illustrazione dei più diversi aspetti della vita, della storia e della lingua del Friuli, ma rafforzò anche notevolmente il ruolo di ente di riferimento della cultura regionale che la Biblioteca Civica di Udine in quegli anni svolgeva e che continua tuttora a svolgere –fu direttore della Biblioteca, in particolare, per quasi trent’anni, dal 1924 al 1953. Fu membro attivo e autorevole della Società Filologica Friulana, della quale fu socio fondatore a Gorizia nel 1919, istituzione per la quale spese parte delle sue migliori energie. Condivise e sostenne, in primo luogo, l’impegnativo progetto di redazione dell’Atlante linguistico italiano (ALI), affidato al momento dell’avvio del lavoro al corregionale e amico Ugo Pellis, cui venne affidato l’incarico di rilevatore unico per la somministrazione dei questionari linguistici. Durante la seconda guerra mondiale dette riparo presso la Biblioteca Civica, per altro, ai preziosi materiali raccolti per l’Atlante; Corgnali si preoccupò anche di ordinare, almeno in parte, le schede dell’Atlante e fu lui stesso a consegnare i mazzi dei fascicoli originali nelle mani di Benvenuto Terracini dell’Università di Torino, che era succeduto al Bartoli nella direzione della poderosa impresa, impresa che si spera di vedere presto portata a termine. Per la stessa Società Filologica curò soprattutto la completa revisione dei materiali dello storico Vocabolario friulano di Jacopo Pirona, che esce come Nuovo Pirona nel 1935, lasciandoci però una miniera di dati e di informazioni, sotto forma di schede e di appunti, solo in parte utilizzate. Una piccola nota merita la redazione del Vocabolario friulano. Il primo dizionario friulano moderno vero e proprio si deve, nella seconda metà dell’Ottocento, all’opera dell’abate Jacopo Pirona, direttore del liceo classico e primo conservatore della Biblioteca Civica di Udine, che pubblica, dopo una serie di studi preparatori, questo suo pregevole Vocabolario friulano a Venezia nel 1871. Il Vocabolario uscì in realtà postumo, essendo morto l’abate Pirona l’anno prima, nel 1870; il volume fu pubblicato infatti da suo nipote Giulio Andrea Pirona, medico e naturalista, che proseguì con passione l’opera dello zio con la raccolta di ulteriori vocaboli e locuzioni. Grazie all’impulso che agli studi friulani diede la fondazione della Società Filologica Friulana, il lavoro dei due Pirona fu ripreso, completamente rivisto e ulteriormente ampliato da Ercole Carletti e, come detto, da Giovanni Battista Corgnali. Il primo si occupò, in particolare, della parte letteraria, con la citazione di autori e contesti, il secondo della parte documentaria, impreziosendo il repertorio, per altro, con due importanti appendici, una per i toponimi e una per gli antroponimi. Nel 1992 Giovanni Frau cura la stampa della seconda edizione del Nuovo Pirona, raccogliendo tutte le Aggiunte e le
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integrazioni uscite nel frattempo (circa 400 pagine), a consolidare la posizione di vocabolario friulano di riferimento che questo repertorio indubbiamente continua a detenere. Al di là della dedizione e della passione con le quali il Corgnali resse l’importante istituzione che gli era stata affidata, la Biblioteca Civica di Udine, doti unanimemente riconosciute, egli ci ha lasciato anche una produzione di saggi e di studi di tutto rispetto. I suoi studi più importanti, nel campo della filologia e della linguistica friulana, la produzione che in questa sede riveste per noi il maggiore interesse, sono stati adunati e ripresentati da Gaetano Perusini sul numero speciale del Ce fastu? per il 1965-1967, la rivista della Società Filologica Friulana cui il Corgnali regolarmente collaborò; la pubblicazione di questi lavori è corredata da una serie di indici analitici, che ne fanno apprezzare ancor più la ricchezza e l’importanza per la cultura regionale. Lelia Sereni (1965-1967a), che di Corgnali ha curato la bibliografia e che ha ricoperto la funzione di direttrice della Biblioteca di Udine dal 1962 al 1989, ci offre alla fine un elenco di 401 contributi, per la maggior parte brevi, pubblicati prevalentemente su riviste locali, tanto in italiano, quanto in friulano; i suoi titoli per la sola Società Filologica Friulana sono stati, in particolare, ben 108. La produzione scientifica e divulgativa di Giovanni Battista Corgnali, anche solo dal punto di vista quantitativo, risulta senza dubbio piuttosto ampia. Gianfranco D’Aronco (1963-1966: 335), presentando un profilo dell’uomo e dello studioso per l’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Udine, pur riconoscendogli numerose e notevoli benemerenze, rilevava tuttavia come «egli non ci diede una grossa opera, totalmente sua, cui affidare più che ad altre il suo nome». Se si prendono in esame le sole pubblicazioni questo può anche essere vero, nondimeno il grande lavoro di ricercatore e di studioso di Corgnali, e quindi il suo contributo al progresso degli studi friulani, è costituito anche, se non soprattutto, da ingenti raccolte di carte e di documenti –in buona parte inediti, riuniti ora in 21 buste presso la Biblioteca Civica– e, ancor più, da tre imponenti schedari manoscritti, conservati sempre presso la Biblioteca Civica. Le tre raccolte sono costituite, in particolare, dalle schede con gli appunti lessicali di completamento al Vocabolario friulano, cui ho fatto cenno, lo schedario toponomastico e quello onomastico. In questi schedari lo studioso raccolse e ordinò una mole veramente straordinaria di informazioni e di dati sulla storia, la lingua e la cultura friulana, un patrimonio che attende ancora di essere adeguatamente valorizzato. Ad onta della continua consultazione degli schedari di Corgnali da parte di una vasta utenza, soprattutto quello toponomastico e quello onomastico, si segnala, con vero rammarico, la scarsità di lavori che si preoccupino di descrivere e di rendere maggiormente fruibile, ma anche di valorizzare, questo enorme patrimonio manoscritto. Una descrizione dei materiali raccolti negli schedari, piuttosto sommaria, è offerta ancora da Lelia Sereni, sempre sul citato volume del 1965-1967 della rivista Ce fastu? In questa sede mi propongo di presentare, in particolare, alcune brevi considerazioni sulla raccolta dello Schedario onomastico. Lo Schedario onomastico –ma si potrebbe dire anche antroponimico, come fa Giovanni Frau, dal momento che contiene materiali che attengono agli appellativi personali, mentre è quello toponomastico che raccoglie notizie relative ai nomi di luogo– si compone, fisicamente, di 85 cassette di cartone della lunghezza di cm. 23,5, per un’altezza di cm. 7,00 e una larghezza di cm. 13,0. Le cassette si trovano in un grande armadio di legno nella sala attigua all’attuale Direzione della Biblioteca, sala occupata quasi interamente da scaffali con
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libri e riviste, ora di non agevole accesso a causa di lavori di ristrutturazione del palazzo. Le prime 74 cassette riguardano di norma i nomi maschili, la cassetta 75 raccoglie sia nomi maschili che femminili, e le cassette dalla 76 in poi di norma nomi femminili. Lo Schedario onomastico è stato, per altro, integralmente fotocopiato ancora da Giovanni Frau e si può consultare ora, rilegato in 20 volumi, anche presso il Dipartimento di Lingue e Letterature germaniche e romanze dell’Università degli Studi di Udine; qui si trova, allo stesso modo fotocopiato e rilegato, anche il ricco Schedario toponomastico. In ogni cassetta dovrebbero esserci, comunque, tra le 1.500 e le 2.000 schedine, di formato anche leggermente diverso, per un totale di circa 160.000 schedine. I materiali sono raccolti in ordine alfabetico con richiami stile ‹rubrica› per le voci di particolare importanza (si tratta delle voci che presentano le maggiori attestazioni, di solito, o un numero di varianti particolarmente notevole); vi sono anche indicazioni specifiche per i formanti. Nella cassetta 5, ad esempio, si segnala il formante -AU, con l’indicazione di cognomi o soprannomi come Masau, Pitau, Vau e altri, il formante -AZ, molto produttivo per tutta una serie di cognomi, e altri ancora. Sui suffissi formanti antroponimi, in particolare per le forme di femminile uscenti in -ùs / -ùz, piuttosto comuni in friulano (soprattutto antico), si segnala il breve contributo del Corgnali Onomastica friulana. Del diminutivo femminile in -ùs e in -ùz pubblicato ancora sulla rivista Ce fastu?, nel 1934. Il tipo di informazioni che Corgnali annota nelle schede riguardano in primo luogo le attestazioni di singoli elementi antroponimici tratti da documenti più o meno antichi, in latino e in volgare, soprattutto di area friulana, ma anche non friulana; a queste si aggiungono le notizie e le curiosità delle quali viene direttamente a conoscenza da informatori e studiosi locali. In alcune schede incolla ritagli di giornali o di libri, cita pubblicazioni, annota bibliografie. Molte schedine, semplici appunti o promemoria, sono costituite anche solamente dalle risposte che Corgnali forniva ai frequentatori della Biblioteca, che si rivolgevano direttamente a lui per ricevere informazioni sull’origine del loro nome o sulla provenienza geografica della loro famiglia. Piuttosto numerose e varie sono le fonti alle quali Corgnali attinge per formare la raccolta dello Schedario onomastico –anche se numerose sono le schedine, in realtà, che non riportano alcuna indicazione. Lelia Sereni (ms.), su incarico di Giovanni Frau, si è occupata di sciogliere, una decina di anni fa le sigle presenti nello Schedario onomastico, sigle che riguardano tutta una serie di manoscritti, soprattutto, e di opere a stampa. L’elenco della Sereni comprende per la precisione 103 sigle. L’operazione di sciogliere le sigle adoperate nello Schedario è risultata assai complessa, anche per una profonda conoscitrice delle frequentazioni documentarie e bibliografiche di Corgnali come Lelia Sereni. Difficile è stato soprattutto ricostruire gli spostamenti e verificare le collocazioni dei manoscritti più antichi, tanto della Biblioteca Civica che dell’Archivio di Stato, che sono appunto i fondi principali cui Corgnali attingeva, fondi interessati da successivi interventi di riordino e di condizionamento. Bisogna dire, in ogni caso, che queste 103 fonti non rappresentano che una parte delle fonti presenti nello Schedario, dal momento che più del doppio esse si sono rivelate ad una revisione, ancora non completa, dei materiali. Tra i manoscritti, si segnalano prima di tutto i cospicui fondi conservati presso la Biblioteca Civica di Udine. Sono citate, in particolare, carte di confraternite, atti di notai, registri canonici, fondi privati di famiglie, note di locazioni, sentenze processuali. Ancora numerosi
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sono i pezzi conservati all’Archivio di Stato di Udine: si tratta del fondo notarile antico, di fondi di famiglie private come il fondo di Toppo, il fondo de Portis, il fondo Savorgnan e molti altri. Per quanto riguarda le opere a stampa, numerose sono le raccolte e le edizioni di testi antichi –che comprendono quindi già esse in partenza una pluralità di fonti– come ad esempio il Thesaurus Ecclesiae Aquileiensis di Giuseppe Bianchi, il Codice Diplomatico Istriano di Pietro Kandler o il Diplomatarium Portusnaonense di Giuseppe Valentinelli. Tra le altre opere a stampa, di argomento onomastico e storico, Corgnali ricorre spesso al ben noto Das Land Görz und Gradisca del barone Carl von Czoernig –statistico e storico di grande levatura, che in questo volume raccoglie il frutto di pazienti ricerche negli archivi pubblici e privati del Friuli austriaco, nonché dell’esame della vasta bibliografia precedente– al secondo volume del Die sprache der Langobarden, cioè il Langobardisches Wörterbuch. Personennamen, di Wilhelm Bruckner, a La vita in Friuli. Usi, costumi e superstizioni popolari di Valentino Ostermann. Le 103 sigle riportate sulle schedine e sciolte dalla Sereni non esauriscono in ogni caso, come detto, le fonti dalle quali Corgnali ricavava i suoi spunti e registrava le sue note: di certo un aiuto a ricostruire l’insieme delle fonti di interesse potrebbe venire dal confronto con le altre raccolte, quella sulla toponomastica e quella sul lessico, che sono state realizzate negli stessi anni e con gli stessi criteri. Abbiamo detto, per altro, che parte delle note riflettevano indicazioni di più o meno occasionali informatori, e comunque numerose, se non numerosissime, sono le schedine prive dell’indicazione specifica della fonte –anche se non dubitiamo che Corgnali avrebbe saputo ricondurre tali appunti all’origine. Oltre alle schede compilate da Corgnali in prima persona, nello Schedario onomastico possiamo inoltre riconoscere almeno due importati raccolte di antroponimi in origine autonome. La prima è costituita dalle schede del conte Giovanni Battista della Porta, studioso vissuto tra la seconda metà dell’Otto e la prima metà del Novecento; la seconda è rappresentata dal vasto repertorio di schede su nomi, cognomi e soprannomi friulani promosso dalla Società Filologica Friulana. Le schedine di Giovanni Battista della Porta dovrebbero essere almeno 3.000, si presentano di formato leggermente inferiore e di colore più chiaro rispetto a quelle di Corgnali –e, direi, di consistenza anche leggermente superiore, come grammatura della carta– e riguardano lo spoglio di una nutrita serie di documenti friulani, in latino e in volgare, del XIV e del XV secolo. Si consideri, a questo proposito, che il della Porta fu studioso di vasta erudizione, cui dobbiamo alcune opere veramente ragguardevoli, come la Toponomastica storica della Città e del Comune di Udine, pubblicato una prima volta nel 1928 e ripubblicato con note nel 1991 dalla Società Filologica Friulana, ma poi anche gli inediti Index notariorum Patriae Fori Julii e Voci e cose del passato in Friuli, entrambe opere di grande valore conservate presso la nostra Biblioteca Civica. La seconda raccolta di schede confluita nello Schedario onomastico è, come detto, quella della Società Filologica Friulana. La Società Filologica promosse tra gli anni Venti e Trenta, con la determinante collaborazione dello stesso Corgnali, una serie di minuziosi lavori di raccolta e di schedatura dei cognomi e dei nomi, ma anche dei soprannomi, della regione friulana, lavori in parte pubblicati sulle riviste della Società. Molto lungo sarebbe rimandare a tutti questi lavori singolarmente e anche di dubbia utilità, direi, potendo ora disporre degli Indici delle pubblicazioni della Società stessa, usciti a cura di Lucio Peressi una prima volta nel 1974 e in seguito più volte aggiornati (siamo arrivati, ormai, al sesto supplemento, per gli anni 1997-2001, vd. Bibliografia). I contributi di interesse, per la disciplina, sono decine,
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infatti, e si possono individuare con facilità andando a consultare l’indice per soggetti sotto le seguenti voci: Antroponimia, Cognomi friulani e istriani, Onomastica, Onomastica slovena. Con piacere segnalo, nel presentare questa comunicazione, il progetto di revisione e di digitalizzazione su supporto elettronico di questo amplissimo repertorio, progetto avviato alla fine del 2009 dalla Biblioteca Civica di Udine a cura dello scrivente. Accedendo fin d’ora all’indirizzo www.bibliografiafriulana.it/corgnali si possono consultare le voci di onomastica personale già inserite e risalire alla bibliografia delle fonti consultate dal Corgnali. I dati sono in costante aggiornamento. Alla fine di novembre del 2010, ad un anno circa dall’avvio del progetto, sono stati inseriti e validati circa 4.000 lemmi, per altrettante schedine, ma soprattutto sono state individuate e controllate le fonti del repertorio, che sono al momento più di 300. Alcuni records, circa 200, richiedono, prima della validazione e quindi della pubblicazione in rete, un controllo di lettura della schedina o ancora lo scioglimento della sigla della fonte, tra quelle non riconosciute dalla Sereni. Accedendo al sito è possibile, quindi, interrogare lo Schedario onomastico per quanto riguarda gli antroponimi registrati nella raccolta e le fonti utilizzate. La scheda relativa al lemma ci indica il genere del nome (maschile / femminile) o l’eventuale segnalazione dei formanti, con il commento del Corgnali, se presente, e il legame alla fonte dalla quale è tratta la citazione. Passando alla scheda sulla fonte, si ottengono indicazioni sul tipo della fonte stessa (bibliografica / manoscritta) e l’elenco di tutti gli elementi presenti nel repertorio, già inseriti nel database, estratti da tale fonte. Lo scioglimento delle sigle bibliografiche rimanda all’autore del contributo a stampa, l’indicazione del titolo dell’articolo e la segnalazione di luogo di edizione, dell’editore e della data di pubblicazione. Il supporto informatico al repertorio, realizzato sulla base delle specifiche esigenze del progetto, è della CG Soluzioni Informatiche di Udine, una ditta specializzata in prodotti per le biblioteche, per i musei e per la gestioni dei beni culturali. Di interesse sempre onomastico, relativo al friulano antico (XIV e XV secolo), segnalo la possibilità del collegamento ad un altro sito attivo, il sito del Dizionario storico friulano, all’indirizzo www.dizionariofriulano.it, indirizzo presente sulla stessa homepage dello Schedario onomastico di Corgnali. Da questo sito, con l’interrogazione relativa alla sezione del lessico, si possono ottenere ulteriori informazioni sugli elementi antroponimici di interesse e attestati in manoscritti tardomedievali di area friulana. L’eredità di Giovanni Battista Corgnali nel campo dell’onomastica personale, prima di tutto, i suoi lavori e la grande mole dei materiali da lui raccolti costituiscono un patrimonio di straordinaria importanza per il progresso degli studi linguistici e storici del Friuli. Per quanto riguarda gli studi di antroponimia, non posso non segnalare che il Friuli ha partecipato con un suo autonomo centro di ricerca, del quale facevamo parte Giovanni Frau, Carla Marcato ed io, all’ambizioso progetto europeo Pat.Rom. (Patronymica Romanica), ben noto a tutti gli onomasti, un’indagine sull’antroponimia storica delle lingue romanze coordinata da Dieter Kremer dell’Università di Trier. Il monumentale Schedario onomastico di Giovanni Battista Corgnali, che ho cercato qui brevemente di presentare, ha costituito la fonte principale delle informazioni che hanno consentito la partecipazione di Udine e del Friuli a questa vasta impresa di ricerca. Con la digitalizzazione su supporto elettronico del repertorio, in realtà appena iniziata, speriamo di poter consentire a studiosi e ricercatori una migliore fruizione dei dati contenuti nello Schedario; questo potrebbe essere il primo passo per la formazione
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di una solida base sulla quale costruire un Dizionario storico dei nomi del Friuli, opera che manca ancora nel panorama, pur ricco, degli studi linguistici friulani, un’opera che pare tuttavia matura per essere pensata e avviata.
Bibliografia Bianchi, Giuseppe (ed.) (1847): Thesaurus Ecclesiae Aquileiensis. Udine: Trombetti-Murero. Bruckner, Wilhelm (1895): Die Sprache der Langobarden. Strassburg: Trübner. Corgnali, Giovanni Battista (1934): Onomastica friulana. Del diminutivo femminile in -ùs e in -ùz. In: Ce fastu? 14, 103-107. ― (1965-1967): Scritti e testi friulani (a cura di Gaetano Perusini). In: Ce fastu? 41-43, vii-x, 5-405. della Porta, Giovanni Battista (1901-1946): Index notariorum Patriae Fori Julii. Editio II. Ms. inedito conservato presso il Fondo Principale della Biblioteca Civica di Udine (ms. 3849). ― (1901-1946): Voci e cose del passato in Friuli. Ms. inedito conservato presso il Fondo Principale della Biblioteca Civica di Udine (ms. 2694). ― (1928): Toponomastica storica della città e del comune di Udine. Udine: Bosetti. Kandler, Pietro (ed.) (1878): Codice Diplomatico Istriano. Trieste: Lloyd Austriaco. Ostermann, Valentino (1894): La vita in Friuli. Usi, costumi e superstizioni popolari. Udine: Del Bianco. Peressi, Lucio (ed.) (1974): Mezzo secolo di cultura friulana. Indice delle pubblicazioni della Società Filologica Friulana (1919-1972) [e successivi Supplementi: nr. 1 (1975), nr. 2 (1980), nr. 3 (1986), nr. 4 (1991), nr. 5 (1998), nr. 6 (2004)]. Udine: Società Filologica Friulana. Pirona, Giulio Andrea / Carletti, Ercole / Corgnali, Giovanni Battista (1935): Il Nuovo Pirona, Vocabolario friulano (con aggiunte e correzioni riordinate da G. Frau, 21992). Udine: Società Filologica Friulana. Pirona, Jacopo (1871): Vocabolario friulano (a cura di Giulio Andrea Pirona). Venezia: Antonelli. Sereni, Lelia (s.d.): Sigle dello Schedario onomastico di G. B. Corgnali. Ms. inedito presso la Biblioteca Civica di Udine. ― (1965-1967a): Bibliografia di G. B. Corgnali. In: Ce fastu? 41-43, 20-32. ― (1965-1967b): Le schedine del ‹dotôr› Corgnali. In: Ce fastu? 41-43, 15-19. Valentinelli, Giuseppe (ed.) (1865): Diplomatarium Portusnaonense. Wien: Hof- und Staatsdruckerei. von Czoernig, Carl (1873): Das Land Görz und Gradisca (mit Einschluß von Aquileia). Wien: Braunmüller.
Secció 9 La pragmàtica de les llengües romàniques
Emilio Ridruejo (Universidad de Valladolid)
Presentación
El desarrollo en las últimas décadas de la pragmática lingüística exigía a los organizadores del Congreso de Valencia dedicar a esta parcela toda una sección de comunicaciones, tal como ya se había hecho en el Congreso de Innsbruck, aunque allí sin individualizarse plenamente. No obstante, esta decisión no carecía de riesgos teóricos y prácticos. La pragmática como disciplina lingüística que tiene sus raíces en la filosofía del lenguaje y que pretende, en gran medida, investigar las vinculaciones entre el código lingüístico y los componentes de la enunciación en que se ejecutan los mensajes, ha de centrarse fundamentalmente en atender a aspectos generales de la comunicación lingüística, con independencia de cada lengua concreta. Y de aquí nace inicialmente una cierta contradicción, pues en un congreso de Filología y Lingüística Románica han de ser los rasgos específicos de un conjunto de lenguas y sus realizaciones discursivas las que se constituyen como objeto de la investigación. En este marco, a pesar de la contradicción citada, los romanistas han presentado en el XXVI Congreso de Lingüística y Filología Románicas un conjunto muy rico de comunicaciones. Estas parten del hecho de que, incluso al indagar en componentes exteriores al código lingüístico, podían hallarse diferencias entre los hablantes de distintas lenguas, con lo cual se amplía el ámbito de la pragmática con la posibilidad de hallar diferencias interlingüísticas e interculturales. A los romanistas se les presenta, así, bien la oportunidad de encontrar peculiaridades pragmáticas propias del conjunto de las lenguas románicas, o bien rasgos pragmáticos contrastivos en las diferentes lenguas de este grupo. En una de las parcelas que cuenta con mayor desarrollo en la pragmática, la del estudio de los actos de habla, aunque su análisis tiene, o pretende tener, carácter universal y las condiciones de éxito o de fracaso de cada acto de habla no pueden quedar limitadas a ninguna lengua en particular, sí que cabe determinar para cada acto circunstancias y características que lo individualizan dentro de una tradición lingüística y cultural. También cabe investigar si inventarios diferentes de actos de habla que quedan vinculados a momentos concretos del desarrollo de una tradición cultural o incluso literaria. En esta línea, iniciada hace años por una gran romanista, B. Schlieben Lange, se inscriben algunan de las comunicaciones presentadas en el Congreso como la de A. Schrott sobre el consejo y su utilización como asunto literario medieval y la de Alfonzetti sobre los elogios en italiano. Igualmente parecen actuar de manera general los principios que, en el ámbito de la sociopragmática, regulan la cortesía en los intercambios verbales. Pero, aún con mayor claridad que en los actos de habla, hay en esos principios una marcada variación vinculada a cada lengua y a cada momento cultural. Sobre todo, hay que destacar las diferencias existentes en los instrumentos empleados, en cada momento y en cada lengua, para llevar a buen término esos principios básicos que regular los intercambios comunicativos, la ejecución de actos verbales arriesgados o el establecimiento del tipo de relación existe entre los interlocutores.
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En este campo, ya ampliamente explorado en la Romanística, se inscribe el estudio de la evolución de las formas de tratamiento en las lenguas románicas y los rasgos diferenciales que surgen entre unas y otras tal como lo presentan Del Rey Quesada, quien examina las fórmulas del cortesía en el siglo XVI, y Campo Hoyos, que investiga rasgos diferenciales en los tratamientos en el teatro francés del siglo XVII y en su adaptación española en el XVIII. En relación con la cortesía aplicada a un tipo especial de actos de habla, Muñoz revela su funcionamiento en los actos de petición en los procedimientos judiciales. En el mismo ámbito, pero desde un ángulo totalmente opuesto, Spampinato describe el insulto en textos medievales italianos. Una parte destacada de la competencia pragmática se hace patente en reglas que determinan el empleo de unidades gramaticales cuyo significado remite a los componentes de la enunciación y a sus circunstancias. La configuración de tales unidades es específica para cada sistema lingüístico, como también lo es la selección de unidades léxicas o gramaticales que se utilizan para la representación de diferentes funciones pragmáticas. Son varias las comunicaciones presentadas que recaen sobre esos elementos gramaticales utilizados en las lenguas románicas para la formulación de una extensa gama de funciones pragmáticas. Szantyka estudia en italiano y en francés cómo los demostrativos se emplean en la formulación de la proximidad o la distancia afectiva y psicológica. Hassler describe los procedimientos gramaticales, fundamentalmente también deícticos, que se utilizan en la construcción de un texto polifónico (un asunto que igualmente se trata en la aportación de Gonçalves). Skutta analiza los recursos que se emplean en francés en la referencia pronominal ambigua y cómo tal ambigüedad se resuelve o se mantiene para dar perfiles poco definidos en la narración literaria. En la comunicación de Rodríguez Ramallo se estudia la sintaxis de las conjunciones que y si en oraciones independientes. y se muestra cómo se utilizan en la expresión de algunas funciones pragmáticas, el énfasis , la repetición , etc. Hannemann, finalmente, describe los medios de reflejar la evidencialidad en la prensa periódica. El interfaz que vincula la pragmática con la gramática debería tener en nuestro Congreso una especial relevancia cuando se examina desde el punto de vista diacrónico. Y es que otra posibilidad de integrar la pragmática en la Romanística consiste en atender a la orientación diacrónica, que ha sido siempre dominante en esta disciplina. Por su origen histórico comparativo, la Lingüística Románica exige examinar la vinculación histórica entre las diferentes lenguas y dialectos del tronco románico y la de estas con el latín, de manera que la explicación de las divergencias reciba una justificación diacrónica. En este punto, la pragmática puede proporcionar un instrumento provechoso para dar cuenta de algunos cambios que han tenido lugar, bien en el conjunto de las lenguas románicas, o bien solo en algunas de ellas, a la vez que se abre una vía para justificar sus rasgos diferenciales. Y es que la pragmática, al tratar de las condiciones de la enunciación y de sus propiedades, puede contribuir de manera privilegiada a explicar los sentidos contextuales que están en la base de los cambios de las unidades significativas (incluyendo entre ellas las gramaticales). También, consiguientemente, puede la pragmática dar cuenta de los procesos de generalización de tales sentidos y de su independización de las condiciones en que surgen. En nuestro Congreso se presentaron comunicaciones de tipo histórico. Citemos la de Hoyos Hoyos que presenta cómo un rasgos sintáctico, la inserción de un verbo de lengua, puede ser utilizado en la configuración de un rasgo de tipo evidencial en la prosa
Secció 9 – Presentació
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medieval castellana. Las explicaciones de los cambios gramaticales que han tenido lugar en las lenguas románicas, su generalización y las diferencias que se producen entre ellas constituyen una parcela en la que se inscribe alguna contribución al congreso, como la de Garcés acerca del desarrollo de dos operadores conversacionales. Sin embargo, es esta una línea de investigación que todavía no ha sido demasiado explorada o que se vincula más con la gramática histórica que con la pragmática diacrónica. En todos los congresos, por muy extensos y abarcadores que sean, aparecen comunicaciones que resultan difíciles de integrar con claridad en alguna de las secciones previstas y los organizadores se las ven y se las desean, sobre todo, si son de calidad, para darles acogida. En el Congreso Lingüística y Filología Románicas de Valencia algunas de las comunicaciones que la organización ha propuesto para la sección de pragmática, solo encajan en ella considerando algunos aspectos periféricos. Por ejemplo, el proceso de adquisición de la lengua en entornos bilingües (con dos lenguas románicas) y los procesos de interferencia entre ellas, tal como los presenta Solías, es sin duda un asunto de gran interés, no solo para la lingüística general, sino también para la Romanística, pero solo puede ser asumido dentro del campo de la pragmática en cuanto que se examinan las complejas condiciones de la enunciación en las que se configura el proceso de aprendizaje. Por el contrario, la vertiente filológica, siempre presente en la Romanística, encuentra en algunas parcelas de la pragmática un instrumento adecuado para dar cuenta de la construcción de los textos. Así, esta disciplina permite la descipción ajustada de elementos gramaticales que ejercen funciones específicas en la construcción textual. De acuerdo con esta tarea, Costachescu examina algunos de esos elementos, las formas francesas avant y aprés, que alternan su sentido conceptual con funciones procedimentales para cuya interpretación es relevante el conocimiento enciclopédico y Resende plantea la estructura sintáctica --la relación entre nominalización y transitividad-- atendiendo a la naturaleza de las referencias. Otras nociones aportadas por la pragmática facilitan explicar rasgos textuales, en particular, los que dependen de la naturaleza o de la posición que asumen emisor y destinatario de los textos. Este posicionamiento de uno y otro ha sido estudiado por Molina en un tipo especial de texto, el publicitario, en el cual el autor ve un juego especular mediante con el que el emisor construye su imagen en función de los destinatarios. Ciertas características textuales se asocian al tipo de referencia tratada y a la naturaleza del texto, jurídico, científico, histórico, literario, etc. Las tradiciones discursivas, pero también las reglas sociopragmáticas vigentes para un determinado género en cada época, pueden ser aportadas en la descripción textual. Entre los elementos especiales de algunos tipos textuales, Citu examina el adagio y sus funciones en los textos legislativos franceses. Se puede ver que, en estas investigaciones, los límites entre pragmática y análisis del discurso no siempre aparecen nítidos y que algunas de las comunicaciones incluidas en esta sección recaen sobre asuntos que igualmente hubieran entrado con adecuación en un apartado dedicado al análisis del discurso. Una de estas parcelas intermedias es la que se refiere a los procedimientos retóricos, tautología, litotes, que suponen una aparente ruptura de una máxima conversacional, tal como lo estudia Abé, de una parte, y Adler, de otra. Otra materia fronteriza es la relativa a la organización de la información en el texto. Este asunto, de gran importancia, ha atraído la atención de varios romanistas: Garrido Medina estudia la relación entre la sintaxis y la estructura jerárquica de la información; Gililov examina igualmente
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la estructura informativa y muestra la relevancia que tienen en este proceso el orden de palabras, así como los factores suprasegmentales y Forsgren, quien plantea la existencia de varias estructuras informativas, las estudia en las oraciones temporales. Tampoco es fácil trazar la frontera entre pragmática y sociolingüística cuando se examinan, como hace Loureiro el discurso masculino y femenino en portugués, pues si la variación es de carácter social, en ella se reconocen diferencias pragmáticas en la elección de los asuntos tratados, en la carga de subjetividad y y en la emotividad. La pragmática tiene incluso una vertiente aplicada a la lexicografía. I. Penadés propone depurar las definiciones lexicográficas en varias lenguas románicas, definiciones que dependen excesivamente de los componentes pragmáticos. A estas alturas, y sin haber agotado el inventario de comunicaciones, el lector ya será consciente de la variedad y complejidad de los asuntos tratados en la sección de pragmática del XXVI Congreso de Lingüística y Filología Románicas. Y de lo que tampoco tendrá el lector duda es que la pragmática incorpora nuevos puntos de vista que permiten renovar el tratamiento de cuestiones tradicionales en la Romanística.
Hiroshi Abé (Université du Tôhoku)
A propos de l’hétérogénéité de la phrase contradictoire en français
1. Introduction Nous aimerions tenter une analyse de la phrase contradictoire du type ‹X n’est pas X›: Cet homme n’est pas un homme. Cette construction, qui consiste à nier à X la propriété X, n’énonce a priori qu’une absurdité. Mais l’existence de ce type de phrase est en elle-même une preuve qu’elle a bien sa raison d’être. Nous analyserons la construction contradictoire de ce type par rapport à l’hypothèse de la subjectivité. C’est Michel Bréal, un des fondateurs de la sémantique, qui a signalé, il y a plus de cent ans, l’existence du niveau subjectif dans le langage, niveau qui concerne le jugement du locuteur et qui sous-tend les phénomènes linguistiques. Par exemple, selon lui, ‹sans doute› dans (1) signifie que le locuteur estime très probable le fait que le voyageur soit déjà arrivé. Dans son prolongement, Emile Benveniste a insisté sur la fonction subjective dans le langage, comme l’indique (2). Au Japon également, il existe un linguiste, Motoki Tokieda, qui a distingué ‹JI› et ‹SHI›; les premiers sont des monèmes particuliers qui concernent spécialement la subjectivité du locuteur, par exemple ‹TABUN› (= probablement) dans (3). (1) le côté subjectif du langage … ‹A l’heure qu’il est, il (= le voyageur) est sans doute arrivé›, sans doute ne se rapporte pas au voyageur, mais à moi. (Bréal 1976 [1897]: 234-235) (2) Il (= le langage) est marqué si profondément par l’expression de la subjectivité qu’on se demande si, autrement construit, il pourrait encore fonctionner et s’appeler langage. Nous parlons bien du langage, et non pas seulement de langues particulières. Mais les faits des langues particulières, qui s’accordent, témoignent pour le langage. (Benveniste 1966: 261) (3)
TABUN (= probablement) KARE-HA (il-Nominatif) GAKUSEI (= étudiant) DA (= est). (= Il est probablement étudiant.)
Parmi les opérations subjectives, ‹la factualité› a particulièrement attiré l’intérêt des chercheurs. Les études sur la modalité se sont concentrées sur cette subjectivité. Mais nous aimerions signaler l’existence d’une autre subjectivité dont l’importance est comparable: la désirabilité. Celle-ci a été introduite par Akatsuka pour analyser des constructions hypothétiques. Selon elle, dans une construction hypothétique comme (4) et (5), on ne trouve que la paire ‹désirable – désirable›, ou la paire ‹indésirable – indésirable›.
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(4)
If you eat spinach [= DESIRABLE], you’ll be strong [= DESIRABLE]. (Akatsuka / Tsubomoto 1998: 17)
(5)
If you don’t eat spinach [= UNDESIRABLE], I’ll spank you [= UNDESIRABLE]. (ibid.)
Akatsuka propose, pour la notion de désirabilité, une paraphrase comme ‹I WANT IT TO HAPPEN / NOT TO HAPPEN› (Akatsuka 1997: 323; Akatsuka / Tsubomoto 1998: 16). Mais nous pensons que cette notion de désirabilité a bien plus de portée explicative qu’elle ne le suppose. Dans cette optique, nous présenterons pour cette subjectivité une définition plus large et plus simple : ‹Je trouve un fait énoncé désirable ou indésirable›. Nous pouvons analyser par exemple le mécanisme de la locution ‹qui plus est› à l’aide de cette notion (Abé 2006). Dans la construction ‹A qui plus est B›, de A à B, on voit augmenter la désirabilité ou l’indésirabilité, comme l’illustre (6). Si ce n’est pas le cas comme dans (7), la relation entre les deux phrases devient insolite. Il est donc à noter que la fonction de cette locution ne se limite pas à celle d’ajouter B à A, mais qu’elle indique en même temps qu’il existe, de A à B, une augmentation de désirabilité ou d’indésirabilité. (6)
(J’aime vivre dans une grande famille et j’aime aussi les chiens.) Après m’être mariée avec Paul, je peux vivre aussi avec ses parents. Qui plus est, avec leurs chiens.
(7)
(J’aime vivre dans une grande famille et je déteste les chiens.) Après m’être mariée avec Paul, je peux vivre aussi avec ses parents. # Qui plus est, avec leurs chiens.
De la même manière, nous croyons pouvoir expliquer le mécanisme de l’emploi ‹plus que›, comme on le voit dans (8) et (9) que nous avons trouvés dans des magazines français. Ici le marqueur comparatif ‹plus ~ que ~› ne concerne plus l’échelle quantitative ordinaire, mais plutôt celle de la désirabilité. (8) et (9) expriment l’idée que la désirabilité de cette montre ou de cette bière dépasse respectivement les autres articles du même genre. (8) [publicité pour une montre] Bien plus qu’une montre / Tissot, Innovation par Tradition (9)
[publicité pour une bière] (il s’agit d’une image de la tour Eiffel) C’est un peu plus qu’une antenne / (il s’agit d’une image de la bière) C’est un peu plus qu’une bière.
Or nous pensons que la subjectivité peut être exprimée non seulement par certains monèmes ou locutions mais par des constructions du type spécial. Dans cette optique, nous avons analysé la tautologie du type ‹X est X› (Abé 2009a; 2009b) et nous traiterons dans cet article la phrase contradictoire du type ‹X n’est pas X›, comme dans (10) - (12). (10) (Après avoir vécu quelques années dans un pays où tout semble être idéal pour le locuteur) Ce pays n’est pas (plus) un pays! C’est le paradis que j’ai tant espéré! (11) (Après un désastre) Ce pays n’est pas un pays! Tout est en désordre et les habitants sont prêts à l’abandonner. (12) (A propos d’un pays annexé à un autre à cause d’une défaite) Ce pays n’est pas (plus) un pays. Ce n’est qu’une province d’un autre.
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2. Études précédentes Pour ce qui est de la tautologie du type ‹X est X› qui a attiré l’attention des chercheurs, il existe des études de la part de la pragmatique radicale (Grice, Levinson etc.), de la sémantique (Wierzbicka, Schapira etc.), de la sémantique cognitive (Sakahara et Fujita) etc. A la construction contradictoire par contre, on a prêté jusqu’ici peu d’intérêt. Cela est dû peut-être au fait qu’elle est considérée comme un phénomène marginal ou extraordinaire. Mais il existe deux analyses intéressantes, que nous allons mentionner. D’une part, selon Sakahara (1993; 2002; 2008) qui s’appuie sur la sémantique du prototype (Taylor 2003 etc.), la tautologie du type différenciation comme dans (13) indique qu’il existe, à l’intérieur de la catégorie X, une sous-catégorie composée de membres dont le degré d’appartenance à la catégorie X est très élevé, tandis que le sujet X de la phrase contradictoire comme dans (14) se réfère au membre expulsé de cette sous-catégorie. Ainsi la tautologie (13) indique qu’il se trouve, à l’intérieur de la catégorie ‹chat›, une sous-catégorie se composant des ‹véritables chats›. En ce qui concerne (14), on souhaite dire que le chat dont il s’agit, tout en restant dans la catégorie ‹chat›, n’appartient pas à cette sous-catégorie ‹véritable chat›. (13) Un chat est un chat, seulement s’il attrape des souris. (14) Ce chat n’est pas un chat, parce qu’il n’attrape pas de souris.
D’autre part, Okubo (2002; 2003), s’inspirant de la théorie de l’argumentation élaborée par Oswald Ducrot, est d’avis que la phrase contradictoire constitue un argument en faveur d’une conclusion explicite ou implicite. Ainsi ‹Ce chat n’est pas un chat› dans (14) sert d’argument par exemple à une conclusion ‹Donc je n’élève pas ce chat›. La phrase copulative mise en négation ‹X n’est pas Y› signifie normalement que X n’a pas de propriété Y. Par exemple ‹Son fils n’est pas étudiant› consiste à dire que ‹son fils n’a pas de propriété d’être étudiant›. Mais, dans un énoncé contradictoire, le sens propositionnel semble ne pas fonctionner de la même manière ou il ne fonctionne pas du tout. C’est pour cela que les deux études recherchent le vrai sens de la phrase ailleurs que dans son aspect superficiel. Nous partageons nous-même ce point de vue. Car on n’arrive pas à expliquer le signifié de la construction contradictoire par la simple synthèse de ses composants.
3. Désirabilité Mais aucune de ces deux hypothèses ne peut expliquer l’orientation subjective, orientation soit positive ou soit négative, dont peut se revêtir la phrase contradictoire dans la plupart des cas. Ainsi, orientation positive comme dans (15) et (17), orientation négative comme dans (16) et (18). (15) (Après avoir vécu quelques années dans un pays où tout semble être idéal pour le locuteur) Ce pays n’est pas (plus) un pays! C’est le paradis que j’ai tant espéré! (= 10)
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(16) (Après un désastre) Ce pays n’est pas un pays! Tout est en désordre et les habitants sont prêts à l’abandonner. (= 11) (17) (A propos d’un robot doté d’une intelligence comparable à celle de l’homme) Ce robot n’est pas (plus) un robot! (18) (A propos d’un robot gravement abîmé) Ce robot n’est pas (plus) un robot! Il n’est qu’une masse de fer.
Ce fait se constate également dans les exemples authentiques comme dans (19) – (22). On voit que la même phrase contradictoire ‹l’école n’est plus une école› présente une orientation positive dans (19), une orientation négative dans (20). Concernant la phrase contradictoire ‹cet homme n’est pas un homme›, dans (21) et (22), on peut remarquer le même contraste. (19) Avec l’été vient la fête de l’Institut Notre-Dame. … Les bénévoles étaient nombreux à tenir des stands pour la joie des petits et des grands … Tout s’est bien passé et les enfants ont été charmés de cet après-midi où l’école n’est plus une école. (Google) (20) Je sais que la nécessité de l’école est développée ici. Mais c’est parce que l’école n’est plus une école mais un gardiennage de gosses, qu’on est arrivé à ces sentiments de délinquance, d’insécurité, d’irrespect ... (Google) (21) Cet homme n’est pas un homme, c’est un panthéon. Toutefois, il n’aimerait pas ce genre d’éloge, car il pensait simplement que nos belles valeurs devraient être un devoir… (Google) (22) Cet homme porte des traces de violence profondément enfouies en lui et il aurait fallu qu’il parvienne à les effacer mais il n’a pas mis les efforts nécessaires pour le faire. Cet homme n’est pas un homme. C’est un monstre. Je suis une femme, une mère et une grand-mère et je vous assure que c’est un drame qui me poignarde le coeur. (Google)
4. Valeur informationnelle Il est incontestable que, dans (15) et (16), ‹ce pays› reste bien dans la catégorie ‹pays›. De la même manière, dans (19) et (20), (21) et (22), ‹l’école› et ‹cet homme› se rangent bien dans la catégorie ‹école› et ‹homme› respectivement. Et cette information est bien partagée déjà avant l’énonciation par les interlocuteurs. Nous pouvons donc dire qu’ici le sens propositionnel n’a pas de valeur informationnelle. Or il est intéressant de comparer (17) (18) avec (23), (19) (20) avec (24). On comprendra que, malgré l’aspect identique, l’énoncé contradictoire dans (23) est de nature différente de celle de (17) (18) ; de la même manière, celui de (24) est différent de celui de (19) (20). (23) Vous ne vous trompez pas! Ce robot n’est pas un robot! Un homme est dedans.
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(24) (L’auteur commente une photographie) Voilà l’école où je suis allé de 6 à 10 ans... / Le bâtiment comprend l’unique classe, du cours préparatoire... / Une classique petite école de campagne, avec son préau, sa cour, le jardin de la maîtresse. / Juste derrière l’école, la ligne de chemin de fer Granville - Paris Monparnasse... / On voit à gauche le passage à niveau. / Anctoville-sur Bosq est un petit village d’une centaine d’habitants... / L’école n’est plus une école depuis longtemps... / La route était sinueuse et campagnarde.... Que de plaisirs et de jeux sur le chemin de l’école, que de bouquets cueillis, que de fossés, que de chemins sombres et inquiétants l’hiver... / Tout le long du chemin, deux kilomètres, un garçon, une fille s’ajoutait au groupe, on entendait des cris de joie et des bousculades, des rires, des chants... (Google)
Nous pouvons observer une différence parallèle entre (25) (26) d’une part et (27) d’autre part, (28) (29) d’une part et (30) d’autre part. (25) (A propos d’une étudiante dont la communication a obtenu une très bonne appréciation dans un congrès prestigieux) Cette étudiante n’est plus une étudiante! (26) (A propos d’une étudiante fainéante qui a déjà arrêté de travailler) Cette étudiante n’est plus une étudiante! (27) (A propos de celle qui vient de sortir de l’université mais dont on a trouvé, tout de même, le nom dans la liste) C’est bizarre. Cette étudiante n’est plus étudiante. (28) (A propos d’une maison pleine d’objets d’art) Cette maison n’est pas une maison! C’est un (vrai) musée! (29) Je me tiens tout seul. / Et cette maison n’est pas une maison. / C’est si triste de vous voir partir. (chanson, Jean égoïste) (30) ATTENTION! Cette maison n’est pas une…maison! / Une drôle d’idée qui me laisse perplexe. Depuis maintenant plusieurs décennies, Hydro Ontario (et d’autres compagnies électriques aux États-Unis) construisent des sous-stations électriques, des transformateurs électriques en fait qu’ils masquent en maisons normales. / Parce qu’évidemment, personne ne veut habiter à côté d’une sous-station électrique. Alors déguiser la sous-station permet d’avoir des transformateurs électriques en plein quartier résidentiel sans que personne ne s’en rende compte. (Google)
Par exemple pour (23), nous pouvons proposer la paraphrase ‹ce robot (= l’objet qui nous paraît un robot) n’est pas un robot (= n’a pas de propriété de robot)›. De la même manière, pour (24), ‹cette école (= le bâtiment qui a l’aspect d’une école) n’est plus une école (= n’a plus de fonction d’école)›, pour (27), ‹cette étudiante (= celle qui était étudiante ici) n’est plus étudiante (= n’a plus de statut d’étudiante ici)›. Il est donc à noter que ces phrases en apparence contradictoires ne sont pas en fait contradictoires, dans la mesure où elles ont bien des valeurs informationnelles à transmettre. Et en même temps, on remarquera que, dans ces phrases, il ne se trouve d’orientation ni positive ni négative. Par contre, dans le cas de la phrase contradictoire proprement dite, on n’a qu’une absurdité: à propos de X qui est authentiquement X, on dit qu’il n’est pas X. Et cette absurdité est bien reconnue par les interlocuteurs. Face à l’absence de valeur informationnelle de la phrase, on n’a d’autre choix que de rechercher une interprétation en dehors du sens propositionnel. Cela
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amène une intervention de la subjectivité et fait naître une orientation positive ou négative, jugement subjectif du locuteur. La phrase contradictoire arrive ainsi à signifier que le degré de désirabilité du X dont il s’agit est bien supérieur ou bien inférieur aux autres de la même catégorie. La phrase contradictoire n’est qu’un cadre vide de la phrase pour ainsi dire, mais par ce fait même elle peut servir à exprimer la subjectivité. Par rapport à cette hypothèse, nous pouvons signaler un phénomène comparable. Comparons par exemple (31) et (32), (33) et (34). Dans (31) et (33), l’information ‹il s’agit de musique› et ‹il s’agit de chien› est déjà bien partagée par les interlocuteurs, tandis que ce n’est pas le cas dans (32) et (34). Ici c’est toujours l’absence de valeur informationnelle qui donne une orientation positive dans (31), négative dans (33). Dans (32) et (34) qui ont tous les deux une valeur informationnelle, on n’a aucune de ces orientations subjectives. (31) (Etant ému par une certaine musique) Ça, c’est de la musique ! (32) (Le petit enfant demande à son père ce qu’est la musique. Et le père, en jouant de la guitare, lui dit:) Ça, c’est de la musique. (33) (Quand celui qui déteste les chiens voit un chien mordre une personne, il dit :) Ça, c’est bien les chiens … (34) (Celui qui voit un animal approcher) C’est un chien !
5. Conclusion La phrase contradictoire du type ‹X n’est pas X› a pour fonction d’exprimer la désirabilité ou l’indésirabilité, jugement subjectif du locuteur, à propos de X. Dire, à propos du X qui est authentiquement X, qu’il n’est pas X, ne constituerait qu’une absurdité. Mais c’est cette absence de valeur informationnelle qui permet une interprétation subjective. D’autre part, la même construction peut avoir, selon le cas, une valeur informationnelle. Dans ce cas, on n’a d’orientation ni positive ni négative. La fonction de la construction contradictoire se présente donc comme hétérogène. Le niveau subjectif, dont la désirabilité, reste immanent en principe, mais peut parfois apparaître à la surface. L’hypothèse de la subjectivité ainsi conçue peut rendre compte de bien des phénomènes linguistiques qui jusqu’ici restent dans l’obscurité.
Bibliographie Abé, Hiroshi (2006): A propos de la notion de désirabilité dans le langage. In: Junji Kawaguchi et al. (éds.): Cognition et émotion dans le langage. Tokyo: Keio University Center for Integrated Research on the Mind, 207-222.
A propos de l’hétérogénéité de la phrase contradictoire en français
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Silvia Adler (Université Bar llan)
Approximation, exactitude et figures rhétoriques
1. Introduction Nombreux sont les phénomènes linguistiques qui peuvent s’étudier sous l’angle des concepts de l’approximation (ou l’imprécision), d’une part, et de la précision ou l’exactitude, d’autre part (cf. Bat-Zeev / Adler / Asnes 2010). Citons, entre autres, les modifieurs de quantifieurs prépositionnels d’approximation autour de, aux environs de, près de, jusqu’à, au-delà de accompagnant un numéral (cf. Adler / Asnes 2004-2010); l’adverbe facilement (Vaguer 2010) + Num; l’adverbe exactement ou la combinaison plus exactement (Schapira 2010), illustrés dans les exemples (1-3). (1) Un verre de bière contient autour de 100 calories (Adler / Asnes 2010). (2) L’expérience dura facilement cinq à six secondes (Vaguer 2010). (3) Pierre a passé l’été au Maroc et / ou plus précisément / plus exactement à Marrakech (Schapira 2010).
On se propose, dans la présente étude, de revisiter les concepts de l’approximation et de l’exactitude pour y inclure les figures rhétoriques que sont la litote et la tautologie. Plus précisément, la litote sera prise comme un cas particulier du phénomène de l’approximation et la tautologie de type [Nomx = Nomx] comme un cas particulier du concept d’exactitude. Nous entendons par approximation un produit de l’imprécision et de l’exactitude, en ce sens que ce qui est approximatif dévie par rapport à une valeur vraie ou admise (cf. Adler / Asnes à paraître). Quant à l’exactitude, bien que la langue confonde souvent cette notion avec celle de précision, les sciences exactes lient cette dernière à une mesure de fidélité ou fiabilité, alors que l’exactitude se voit liée à la conformité des résultats à une valeur vraie ou admise ou, autrement dit, à la justesse des résultats. L’exactitude présuppose un accord entre les résultats obtenus et une valeur de référence préétablie considérée comme vraie. Malgré les différences conceptuelles entre approximation et exactitude et donc entre litote et tautologie, ces deux figures font appel à la compétence inférentielle du destinataire: en tant que figure d’approximation, la litote cède la charge du repérage du ‹vrai message› –c’est-à-dire du message décalé et intensifié– au destinataire. Dans le cas de la tautologie, le minimalisme formel du tour tautologique oblige le récepteur à ‹amplifier› le message, c’està-dire à sélectionner les traits susceptibles de valider l’assertion tautologique, en vue d’un résultat communicatif heureux.
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A première vue, tout ceci semble aller de pair avec une figure d’approximation, mais risque de devenir peu plausible avec une figure qui se veut d’exactitude. Si d’exactitude il s’agit, quelle sorte de travail interprétatif serait-il mis dans les mains du récepteur? En réalité, il n’y a pas collision. Le fait pour la tautologie d’asserter que Nomx est Nomx et, par là même, d’exclure toute possibilité d’une alternative légitime qui pourrait se substituer à Nomx, sert de signal au récepteur de se concentrer sur ‹toute la force du terme› et de ne sélectionner que les traits conformes avec une intention communicative visée. On procédera en trois temps: les deux sections qui suivent traitent (1) de la litote et (2) de la tautologie dans le but de mieux exposer les propriétés sémantico-pragmatiques qui soustendent l’emploi de chacune des deux stratégies discursives. La section 4 consolide le lien de chacune desdites figures avec le concept qui lui est approprié et expose en même temps que s’il est possible d’apprécier la vérité propositionnelle de la litote sur le plan des implicatures scalaires, comme l’ont déjà fait de nombreux auteurs, rien n’empêche d’appliquer la même logique dans l’analyse de la tautologie, c’est-à-dire de mesurer sa vérité propositionnelle selon le degré de possession d’une propriété donnée. Cette graduation étayera le lien entre litote et approximation, d’une part, et entre tautologie et exactitude, d’autre part.
2. La litote Selon certains chercheurs, la litote consiste grosso modo à asserter moins pour faire entendre davantage, suggérant ainsi un rapport entre litote et atténuation (cf. Anscombre / Ducrot 1983; Aquien / Molinié 1996; Fontanier 1977; Lilti 2004; Robrieux 1993). L’énoncé (4) pris au film The Blues Brothers pourrait illustrer cette sorte de litote: (4)
The boys look a little upset (les gars ont l’air un peu déçus).
Elwood, l’auteur de cette litote, prononce cet énoncé après que les membres du groupe réuni depuis peu par les frères découvrent une fois de trop qu’ils ne seront pas payés pour le show qu’ils viennent de donner. Est-ce une litote? Certes, c’en est une pour les spectateurs qui comparent le très haut degré de déception et d’indignité des membres du groupe à la description amoindrie faite par Elwood, autrement dit qui reconnaissent un décalage entre la véritable réaction des membres du groupe et le signifiant superficiel et trop affaibli de Elwood (ce qui produit de l’humour). Par ailleurs, étant donné le caractère imperturbable de chacun des frères, s’impose la question de savoir si, d’une part, le récepteur (Jake) identifie l’énoncé comme étant litotique, et si, d’autre part, l’émetteur désintensifie intentionnellement ses propos pour provoquer une certaine réaction chez le récepteur. Nous dirons que cet énoncé illustre davantage le caractère insouciant de chacun des frères. Pour parler de litote il faut donc que l’émetteur dise moins avec l’intention de signifier plus, et que le récepteur, à son tour, identifie cette intention et donc comprenne beaucoup plus de ce qui a été formellement prononcé. En termes de perlocution, la communication entre les frères s’avère donc être heureuse: ledit énoncé n’est pas perçu comme étant une figure litotique par Jake, mais il paraît qu’il n’était pas produit avec l’intention d’en être une par Elwood. Ce n’est que le
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spectateur qui reste frustré du fait que l’impact de cette description n’ait pas été retenu par le vrai destinataire du message (dans le cadre du film), mais en même temps il peut y voir un indice supplémentaire de la conduite nonchalante des frères. Au contraire, une vraie litote (intentionnelle, et perçue comme telle par le récepteur) est repérée dans le film britannique The Girl in the Café qui relate l’histoire d’un haut fonctionnaire au ministère des Finances, Lawrence, membre de la délégation britannique au Sommet du G8 de Reykjavik. Lawrence se fait accompagner au Sommet par Gina, une jeune femme qu’il a rencontrée dans un café. Sur place, Gina ne manque pas de ‹mettre la pagaille› parmi les pairs de Lawrence en dénonçant l’impotence des gouvernements face à l’extrême pauvreté de certaines régions du monde. Après avoir mis Lawrence dans un embarras qui lui a presque valu son poste, Gina demande si elle lui a causé trop d’ennuis, à quoi Lawrence répond, avec toute la retenue britannique typique, que la réaction de Gina était «un peu inattendue». Sous le parapluie de ce type ‹atténuant› de litote, on pourrait également inclure: 5. Il commence à m’énerver avec ses exigences!
où le but de l’action représentée par il commence à m’énerver est équivalent à sa plénitude («il m’énerve»), et peut-être même: 6.
«Ne t’avise pas de me manquer de parole, ou je te caresse le derrière à coups de botte. M. de Saint-Elme se retourna, prêt à gifler le malotru…».1
où caresse diminue le véritable degré d’intensité des réactions éprouvées par M. de Saint-Elme. D’autres chercheurs associent la litote non pas à l’utilisation de «downtoners» accompagnant le terme visé, ni à celle d’expressions amoindrissantes, mais à la négation et, plus particulièrement, à une double négation. Ainsi, Jespersen (1917), pour qui, dans la litote, une déclaration positive est exprimée au moyen d’une négation du contraire; Horn (1991) et son modèle duplex negatio affirmat; Bonhomme (2002: 16) qui parle de «litotes par inversion d’une orientation abaissante en orientation relevante»; Lachlan Mackenzie (2008: 78), pour qui «Litotes is defined as a rhetorical figure in which an affirmative intention is formulated and encoded by means of a double use of negative expressions».2 Cependant, selon certains chercheurs la litote ne se confine pas uniquement au modèle (¬¬E E), mais est déclenchée aussi par des «downtoners» ou «minimizers», cette fois ci, en combinaison avec un terme désignant le contraire du terme recherché. Ainsi, selon van der Wouden (1996: 145), est litotique une phrase contenant une négation forte (ne pas + adjectif négatif) comme dans (7), mais aussi l’énoncé 8 contenant un adverbe morphologiquement non négatif avec un adjectif négatif (c’est-à-dire désignant le contraire de l’orientation recherchée), étant donné que les deux contextes permettent un raisonnement qui exploite l’extension positive de l’échelle des valeurs établie par la prédication. 7. Il n’est pas inintelligent d’envisager l’informatisation d’un certain nombre de relations entre les gouvernés et l’Etat. 8. Il est difficilement inintelligent d’envisager l’informatisation d’un certain nombre de relations entre les gouvernés et l’Etat. Pris à http://www.scribd.com/doc/2386417/Lesclave-amoureuse. Cf. également Fontanier (1977); Hübler (1983); Robrieux (1993).
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Sous (9), sont regroupés d’autres échantillons à effet litotique, courants dans la littérature: 9.
–Va, je ne te hais point (Le Cid, Corneille). –Il n’est pas laid (= ne + être + pas + ‹non beau›). –Il est loin d’être un idiot / Il n’est pas complètement stupide / borné... –Vous n’étiez pas sans savoir que (/ vous n’ignoriez pas que) je travaillais sur le même sujet. –On ne peut ne pas tenir compte des fétiches dans le sport.
Qu’en est-il de ces énoncés? Devant un énoncé comme Cet étudiant n’est pas inintelligent, par exemple, il semble difficile de déterminer avec certitude la nature litotique de la séquence. La preuve en est le fait de pouvoir enchaîner par …mais il n’est pas intelligent non plus. Ceci est dû à la nature graduable de l’attribut.3 L’intentionalité du locuteur ainsi que la capacité pour le récepteur de reconnaître cette intentionalité s’avèrent donc cruciales pour repérer la litote, vu que celle-ci n’échappe pas à l’ambigüité locutoire (Bonhomme 2002: 16; van der Wouden 1996: 146). La composante pragmatique dans la thèse de Horn (1991), qui se fonde sur les maximes de Grice (1989), rend compte de tels usages: le fait d’utiliser une version marquée, et donc d’imposer au récepteur un effort supplémentaire dans le travail de décodage, est le signe que l’émetteur n’était pas en position d’utiliser de façon heureuse la version directe. La litote exploite donc une zone intermédiaire se trouvant entre l’adjectif graduable et son contraire et même une zone qui dépasse l’adjectif contraire (en ce sens que le contraire inféré peut luimême être gradué). Si nous optons pour la lecture litotique (et non littérale), nous verrons donc que dans le cas de la litote avec négation, un degré supérieur est toujours envisagé: ça peut être le pôle opposé dans l’échelle (inintelligent - intelligent), mais aussi une zone dépassant le pôle opposé (très/ extrêmement intelligent: graduation de la propriété scalaire opposée). Dans le cas de la litote sans négation (comme dans: un peu fâché, contenant un «downtoner»), un degré supérieur de l’adjectif graduable est envisagé (très fâché), mais la même polarité est préservée, en ce sens qu’une prédication contraire n’est pas inférable. Le prédicat modifié par un adverbe de degré diminuant représente –littéralement– un degré inférieur de la même qualité visée. Un troisième modèle de litotes étudié essentiellement par Lachlan Mackenzie (2008) est celui contentant manquer de ou faillir à la forme négative4 (cf. ex. 10): (10) –Cette loi n’a pas manqué de susciter des réactions un peu partout dans le pays. Pour ce qui est des adjectifs graduables, cf. Kennedy (1999); Palma (2006); Rivara (1993); Whittaker (2002): la négation des deux termes est possible, parce que le référent peut bien se trouver à un stade intermédiaire. Ces termes ne sont pas gouvernés par le principe du tiers exclu. C’est leur assertion simultanée qui pose des problèmes (cf. encore Giermak-Zielinska 2006). 4 Lachlan (2008) étudie la négation de fail to, comme dans I did not fail to reach the summit inférant la vérité de la complétive infinitive (I reached the summit). Ajoutons en passant que selon Lachlan Mackenzie, le verbe anglais fail a subi une grammaticalisation pour devenir une périphrase de négation (sous la forme de fail to). L’auteur impute la grammaticalisation du verbe fail à des facteurs pragmatiques ayant à voir avec des circonstances de «disappointed expectation» (Lachlan 2008: 81) (cf. encore Herslund 2003, pour faillir). 3
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Ces énoncés non seulement infèrent la vérité de la complétive infinitive (cf. Lachlan Mackenzie 2008), mais aussi ouvrent la voie à une appréciation subjective concernant le degré de performance de l’événement en question: Il n’a pas manqué d’atteindre ses objectifs il a atteint ses objectifs il a atteint ses objectifs + qualification: de façon satisfaisante, plus que satisfaisante / très bien… Résumons: Dans le cas de la litote, l’approximation résulte du fait que l’assertion n’est pas conforme à la valeur vraie ou admise. Cette valeur peut occuper différentes zones dans le pôle opposé dans le cas d’une litote contenant une négation (valeur opposée ou valeur opposée intensifiée), ou la même polarité dans le cas des litotes contenant des downtoners, mais une position en tout cas décalée par rapport à celle de l’assertion.
3. La tautologie Pour Fraser (1988); Frédéric (1981); Hayakawa (1964); Perelman / Olbrechts-Tyteca (1970); Rastier (1996); Rey-Debove (1978); Schapira (2000) et Wierzbicka (1987), la tautologie de type [Nomx = Nomx]5 n’illustre pas un cas d’échec conversationnel. A la base d’une pareille hypothèse réside l’idée qu’un prédicat, noyau informationnel de la proposition, doit apporter une information nouvelle à celle procurée par le sujet (Frédéric 1981; Rey-Debove 1978). De plus, le fait de transformer une expression thématique en rhématique est un signe pour le récepteur de réévaluer le tour tautologique.6 Selon Perelman / Olbrechts-Tyteca (1970: 292), l’identité des signifiants ne garantit pas celle des signifiés, et Riegel (2001) ajoute que ces tautologies s’ouvrent à des interprétations qui excèdent considérablement leur sens phrastique.7 Perelman / Olbrechts-Tyteca (1970: 292) appellent ce type de tautologie une tautologie apparente. Pour Rey-Debove (1978), c’est une tautologie formelle. Robrieux (1993: 116-117) parle d’«identité apparente, dans la mesure où le sujet et le prédicat ne renvoient pas exactement au même référent». Riegel (2001) parle d’«énoncés attributifs tautologiques». D’autres terminologies courantes: «tautologies symétriques» (Schapira 2000), «nominal tautologies» (Fraser 1988), «equative tautological utterances» (Ward / Hirschberg 1991), «deep tautologies» (Bulhof / Gimbel 2004). Comme pour la litote, d’autres formules sont considérées dans la littérature comme tautologiques dont, pour n’en donner qu’un exemple, Il y a justice et justice où, selon Beauzée (1767: II, 458) et plus récemment Rastier (1996: 146), les deux occurrences du même terme sont évaluées de façon contrastive. Cf. à ce propos Schapira (2000: 282-283) qui propose d’expliquer ce type de tautologies selon la théorie standard du prototype (Kleiber 1990). 6 Par exemple, selon Schapira (2000: 276), le mécanisme fonctionnel de ces tautologies attributives réside dans le fait que «tout en mettant en relation d’égalité des signifiants identiques, la phrase différencie les signifiés», et cette différenciation provient de la position même du segment identique, en tant que sujet ou attribut (voire, selon qu’il soit à la gauche ou à la droite de être). 7 Cela dit, Riegel avance à juste titre que le problème d’excédent interprétatif et des inférences n’est pas exclusif aux énoncés tautologiques, ce qui l’amène à la conclusion que le moteur des énoncés attributifs tautologiques est tout autre. Pour lui (2001: 143), ces énoncés «assertent analytiquement du référent de leur sujet […] qu’il est ce qu’il est, c’est-à-dire l’occurrence d’un concept […]. Telles quelles, ces phrases ne disent rien d’autre que la façon dont la langue nous permet de référer 5
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En ce qui concerne la nature de la différence entre le sujet et le prédicat en apparence identiques, il existe une grande variété de thèses. Frédéric (1981) ainsi que Rey-Debove (1978) parlent d’un processus d’addition de sens. Rastier (1996: 145-146) réplique que, par la même logique, rien n’empêche de plaider pour une réduction de sens: la seconde occurrence nominale dans la matrice [Nomx = Nomx] serait de nature plus sélective. Rastier soulève aussi le problème théorique qu’il y a à attribuer plus de poids à la seconde occurrence, sans mentionner le caractère problématique d’une explication fondée sur des exploitations connotatives: si connotation il y a tout de même, comment se fait-il qu’elle est absente dans l’utilisation de la première occurrence nominale? A part ce débat, la tautologie en suscite un autre, opposant cette fois-ci les partisans de la pragmatique radicale et ceux de la sémantique radicale: en ce qui concerne les premiers, la tautologie est une réalisation particulière des implicatures conversationnelles gricéennes et leur possibilité générale de traduction consolide leur caractère indépendant. L’interprétation de la tautologie dépend largement d’un processus inférentiel (Ward / Hirschberg 1991). Les partisans de la sémantique radicale, en revanche, avancent que les tatuologies sont spécifiques et non universelles et que leur traductibilité est loin d’être garantie (cf. Wierzbicka 1987). L’étude de cas spécifiques montre qu’il est difficile de déterminer si, dans la transition de la première occurrence à la seconde, il y a en effet addition ou réduction de sens, et pour ce qui est du débat sémantique/ pragmatique radicales, nous préférons adopter une position moins ‹radicale›.8 Bulhof / Gimbel (2004: 1004) suggèrent que le propos de la tautologie est de faire comprendre au destinataire que Nom ne signifie pas «à peu près Nom» mais Nom. Leur position fait écho à Ward / Hirschberg (1991), pour qui des énoncés alternatifs de type a est b ou quelques a sont b ne peuvent pas être retenus comme pertinents quand le locuteur produit a est a. Ceci va de pair avec la composante logique de la tautologie: sa véridicité provient du contenu, pas nécessairement des donnés factuelles susceptibles de la vérifier. Cela dit, étant donné son minimalisme formel, nous admettons que la tautologie doit s’apprécier aussi du point de vue de ce qu’elle communique. D’après Riegel (2001), l’«excédent interprétatif» n’est pas le «moteur» de la tautologie, mais il en découle, ce qui d’ailleurs caractérise d’autres schémas linguistiques. Autrement dit, la nature laconique de la matrice finit par ancrer le processus d’interprétation dans le déchiffrement des intentions de l’émetteur dans un contexte précis. Par la tautologie, l’énonciateur invite le récepteur à se fixer sur l’exact, mais c’est cette invitation à se fixer sur l’exact qui mène ensuite le récepteur à aller au-delà de la surface apparente pour découvrir ce que représenterait la valeur exacte aux yeux du locuteur (cf. 11): à des entités génériques ou particulières... en les présentant comme des occurrences de concepts. De ce point de vue, Une femme est une femme, Un sou est un sou […] ne sont que des instances particulières de la vérité ‹linguistique› Un N est un N (ou Un x est un x) et ne se distinguent donc pas des tautologies logiques […]. Mais comme ces énoncés ‹roulent› sur des termes lexicaux et non sur la catégorie abstraite à laquelle ils appartiennent, leur signification tautologique est exploitée discursivement pour attirer l’attention sur le contenu spécifique de ces termes et rappeler à quoi engage leur usage dans une expression référentielle». 8 Pour les arguments relatifs aux deux approches, cf. Bulhof / Gimbel (2004); Fraser (1988); Ward / Hirschberg (1991); Wierzbicka (1987).
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(11) «Un pot-de-vin est un pot-de-vin est un pot-de-vin. Les juges se doivent d’éteindre des incendies lorsqu’ils sont encore petits. Quand ils sont grands, on ne peut plus les contrôler» (la rubrique de Mordéchai Gilat dans le journal Israel Haiom - «Israël aujourd’hui» - 11.3.2009).
La tautologie à trois temps n’est pas courante en hébreu (à l’instar du français), mais le journaliste aurait prolongé le tour précisément pour faire signe que sa position reste intacte, même après avoir pris en compte tous les détours de l’affaire. Au centre de cette affaire, un médecin israélien célèbre qui a été condamné à 15 mois de prison pour avoir été soudoyé par un criminel. La somme qu’il a reçue était insignifiante. Compte tenu de la personnalité en question et du fait que le médecin a avoué avoir accepté le dessous-de-table parce qu’il avait peur du criminel, la conversation du jour s’est portée sur la légitimité d’un verdict aussi draconien. La tautologie vient consolider le fait que cette pratique n’a pas d’excuse et qu’aussi dérisoire la somme soit-elle, c’est toujours un acte illégitime. La répétition à trois temps nous rappelle que le référent n’évolue pas avec le temps, que ça reste ce que c’est: un pot-de-vin. Puisqu’il n’existe pas de degrés différents de crime qui soient moins tolérables que d’autres, on n’a pas le droit de se montrer tolérant. En quoi consiste alors l’«exactitude» de la tautologie? En ce qu’elle annule toute possibilité de gradation ou de décalage par rapport à la valeur conçue comme vraie. Ce qui est ramené à l’attention discursive est précisément la question de justesse d’une prédication particulière. Chacun des cas suivants fera ressortir davantage l’essentiel de la tautologie et un échantillon de la richesse des aspects sémantico-pragmatiques qui lui sont liés. (12) Une promesse est une promesse.
Pragmatiquement parlant, cet énoncé pourrait avoir une valeur impérative, en ce sens que le locuteur essaye de ramener le prometteur à l’accomplissement de ses engagements. Suivant la pragmatique de Austin (1962), une interprétation pareille suggère un décalage entre acte locutionnaire et acte illocutionnaire, sauf que s’il s’agit d’une requête, celle-ci est donnée de façon atténuée9, dans une formule qui insiste sur la justesse de la prédication et qui laisse inexprimée la conclusion rhétorique qui s’impose. Comme l’émetteur ne fait pas mention du cas particulier qui lui concerne, cela lui permet d’éviter toute confrontation directe avec le récepteur. De ce point de vue-là, l’on pourrait voir dans cette tautologie une stratégie de politesse. Blum-Kulka (1997: 50-51) suggère que dans la vie quotidienne, les usagers de la langue n’expriment pas leurs intentions de façon directe et que la violation des maximes de Grice devient la norme.10 Elle parle de stratégies de politesse négative où l’émetteur prend en considération l’opposition possible du récepteur et sa répugnance d’être forcé. C’est ce qui se passe dans le cas présent: l’émetteur demande de la coopération mais il prend en compte le fait préliminaire que la coopération pourrait ne pas être garantie. Le Voici donc un dénominateur commun entre tautologie et litote: les deux peuvent servir de stratégie d’atténuation. 10 Cf. aussi Goffman (1967), qui rend compte de la façon dont les gens négocient la «face» dans leurs interactions sociales; Brown et Levinson (1987), pour qui un ordre direct devient pour le récepteur un «face-threatening act»; Searle (1979) qui a aussi corrélé l’utilisation des actes de langage indirects avec la politesse; Grice (1975), bien sûr, qui avait reconnu que le respect des maximes pouvait contredire certaines règles de politesse. 9
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locuteur réduit au maximum la possibilité d’une imposition sur le récepteur en utilisant la forme de demande la moins personnelle, donnée sous forme d’une matrice générique. Le cas particulier, pertinent pour le récepteur, n’existe ici qu’au niveau des implicatures.11 (13) Une femme est une femme.
A nouveau, le facteur pragmatique joue un rôle prépondérant en ce sens qu’il y a un appel explicite au pouvoir interprétatif de l’interlocuteur pour déterminer, face à une situation donnée, quel ensemble de propriétés est à sélectionner et donc pour parvenir à l’argumentation visée: péjorative ou laudative (la femme comme objet de dédain ou d’admiration). Cet appel se fonde sur un savoir commun qui réside à la base de la communication (cf. Sperber / Wilson 1989), c’est-à-dire une série de prémisses qui mènent à un déchiffrement heureux des intentions communicatives.12 (14) Un but est un but.
Au football, il importe peu que le but soit brillant, poétiquement marqué, d’une vélocité exceptionnelle ou plutôt, comme dans le cas qui aurait sans doute engendré une réaction tautologique, un résultat disgracieux de coïncidence, chance ou opportunisme (plutôt qu’un produit de talent), du moment que le ballon a pénétré le but et il n’y a aucune loi ou sanction pour contredire ce fait, le but est un but, voire il est légal. En d’autres termes, on a l’impression qu’un énoncé pareil sera émis par quelqu’un qui essaie d’établir la légitimité d’un but spécifique ayant l’air douteux, en faisant appel à une matrice qui, logiquement parlant, est valide dans toute combinaison possible et donc qui ne peut pas être contredite. Une précision s’impose à ce stade-ci: on pourrait être porté à croire que le Nom de la tautologie est une occurrence prototypique de la classe, de par sa capacité de servir d’exemplaire de la classe de Noms dont il fait partie.13 Or, une tautologie pareille est De retour au débat pragmatique / sémantique radicales. Selon le modèle sémantique de Wierzbicka (1987: 108), une promesse est une promesse appartient à la catégorie des «tautologies d’obligation» et l’implication de cet énoncé est très différente de celle de Les promesses sont des promesses («pas plus qu’une promesse», «on ne peut pas se fier sur les promesses»). Cet exemple, à nos yeux, n’est pas à même de fragiliser l’importance du contexte dans le processus inférentiel: une promesse est une promesse dans une promesse est une promesse et / mais un contrat est un contrat suggère qu’une promesse n’est pas aussi impérative qu’un contrat. 12 Une étude plus détaillée devrait rendre compte de la différence existant entre (13) et Une mère est une mère, qui n’exploite que des propriétés positives susceptibles de valider la prédication, ou encore de la possibilité de ce dernier énoncé, à l’encontre de (13), de s’utiliser ironiquement, évoquant le contraire de ce qui aurait été reconstruit conventionnellement, par exemple dans un cas où l’on n’arrive pas à faire coïncider la mère en question avec un model prototypique de la catégorie de mères (Kleiber 1990). Ce serait intéressant également de considérer Une belle mère est une belle mère. Qui plus est, on devrait encore rendre compte des tautologies permettant des lectures particulières, à savoir dont le sujet référentiel ne renvoie pas à une classe virtuelle (Une mère est une mère), mais à une occurrence particulière (Maman est maman). Ici l’ironie paraît plus problématique. Un énoncé pareil sera sans doute utilisé afin d’évoquer de façon exacte toutes les propriétés qui font d’un individu ce qu’il est et de le distinguer de toute autre personne avec laquelle il pourrait potentiellement être comparé. 13 Pour une analyse de la tautologie ayant recours à la théorie du prototype, cf. Sakahara (1993). 11
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émise précisément en cas d’un référent qui risque de paraître douteux aux yeux de certains destinataires, donc loin d’être exemplaire. Ceci constituerait une raison pour écarter la tautologie du cadre de la théorie du prototype. En revanche, si l’on traite la tautologie en termes d’exactitude, d’annulation d’une graduation possible ou d’un flou définitoire (il n’y a pas ‹assez but› / ‹très but›, comme il n’y a pas d’ailleurs ‹plus / moins pot-de-vin›), on peut inférer faclilement: «si tous les termes de la définition de but sont respectés, ceci mène à la conclusion inévitable qu’un but est un but (le but est légal)». Un but exceptionnellement beau aurait sans doute engendré une réaction de type: Quel but! (avec ou sans adjectif explicite), étant donné que dans une situation pareille, ce qui pourrait être mis en doute n’est pas le but lui-même ou son droit d’être considéré comme tel (la possibilité d’intégration de l’occurrence à un ensemble contenant), mais plutôt sa caractérisation (propriétés concernant sa magnitude, vélocité, etc.). En d’autres termes, dans le cas d’un but incontestable, son statut et sa légitimité sont pris pour acquis, et l’on reste seulement avec la question de comment exactement déterminer son emplacement sur une échelle évaluative. Une autre réaction possible dans le cas d’un but réussi: Ce but est (définitivement, vraiment) un but! avec une première occurrence nominale spécifique, pour confirmer le mérite du but de porter son nom.
4. Litotes et tautologies: d’une perspective scalaire aux concepts d’approximation et d’exactitude En matière de graduation, la formule tautologique annule toute disponibilité de graduation ou d’alternance avec d’autres concepts proches, ou d’‹à peu près› potentiels. N est N enlève tout ce qui n’est pas exactement N dans une échelle de représentations, et enlève les ‹plus ou moins› N. La tautologie ferme l’échelle de représentation de sorte qu’il n’y a accès ni à des sous-ensembles ni à des ensembles sur-ordonnés. La formule litotique, en revanche, fait signe de ne pas enlever d’autres référents dans l’échelle de représentation. La litote établit une situation dans laquelle le référent est décalé par rapport à sa représentation énonciative, d’où l’idée d’imprécision ou d’approximation. Si l’on associe la litote à une sorte de ‹understatement›, comme le font plusieurs auteurs, ce décalage se concrétisera par un amoindrissement par rapport à un degré de référence. Dans le cas de la formule litotique avec négation, le décalage est d’autant plus apparent que la négation, de par sa nature, implique la prise en compte et l’évaluation des alternatives.14 Dans une approche pragmatique néo-gricéenne (entre autres, Horn 2009; Levinson 2000), il serait possible d’intégrer la litote dans les phénomènes «Q»15, en ce sens d’une formation d’«ensembles de contraste» ou d’«échelles de quantité». On sait que les termes scalaires créent une échelle informative ascendante en ce sens d’une inclusion des termes positionnés plus bas dans l’échelle par ceux positionnés plus haut dans l’échelle (mais non vice versa). Par exemple: un locuteur ayant choisi quelques-uns/ deux (termes moins informatifs que beaucoup/ trois, Ou, comme le suggère Hübler (1983: 32) en parlant de l’effet sémantiquement indéterminé de la négation: X is not h = X is a v b v c v d v e v f v g. 15 Faisant référence à la maxime de quantité de Grice (1989). 14
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respectivement, dans les échelles quelques-uns - beaucoup - la plupart - tous / un - deux trois - quatre) fait signe que le terme plus informatif (beaucoup / trois) est non applicable pour une situation donnée. Par contre, trois implique deux, comme d’ailleurs beaucoup implique quelques-uns du point de vue des implicatures scalaires. Mais ce qu’il y a de particulier à la litote c’est qu’un locuteur ayant par exemple prononcé un peu fâché (positionné plus bas dans l’échelle que très fâché), permet précisément d’inférer du ‹sous-ensemble› à ce qui pourrait être pris comme l’‹ensemble› ou, pour le dire autrement, permet d’inférer des ensembles sur-ordonnés également. Dans le cadre néo-gricéen donc, une affirmation affaiblie implique (quantitativement) que le locuteur n’était pas en position, épistémiquement parlant, d’asserter une valeur plus forte dans l’échelle établie. L’échelle donc est peut-être fermée sémantiquement (ce qui est asserté constitue un bord inférieur) mais c’est l’implicature quantificationnelle qui établit le bord supérieur. Donc, de même que You ate some of the cake (cf. Horn 2009) implique ‹some but not all› mais aussi, d’après un modèle duel basé sur le modèle Q («dire suffisamment») ‹some if not all›, être un peu fâché est un bord inférieur (‹un peu mais pas très fâché›) mais aussi implique (‹un peu et même très fâché›).
5. Conclusion Nous avons mis en jeu des outils tant sémantiques que pragmatiques dans notre représentation de mécanismes tautologiques et litotiques afin d’intégrer ces figures dans les domaines de l’approximation et de l’exactitude. En fait, il est possible de s’inspirer de la distinction faite par Hübler (1983: 70-74) entre adverbes de degré internes et externes –les premiers graduant la qualification prédicative elle-même (par exemple: enough, somewhat, hardly), les seconds graduant la validité de la prédication (par exemple: basically, technically)– pour établir la ligne de partage entre les deux figures rhétoriques que sont la litote et la tautologie. La litote affecte ainsi l’intensité de la prédication même; la tautologie porte sur la validité de la prédication.
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Giovanna Alfonzetti (Catania)
I complimenti in italiano. Riflessioni metapragmatiche
1. Introduzione Nella mia ricerca sui complimenti in italiano, si sono integrati due diversi approcci metodologici: il metodo sul campo, basato sull’osservazione di dati linguistici reali, e il cosiddetto armchair method (Jucker 2009: 1615), basato invece su riflessioni, opinioni e valutazioni dei parlanti elicitate tramite questionario. Nella prima fase della ricerca, è stato sottoposto ad analisi conversazionale un ampio corpus di parlato spontaneo registrato a Catania e a Roma. È così emerso il complesso funzionamento pragmatico delle sequenze complimento-risposta nella conversazione (cf. Alfonzetti 2009), insieme ad alcuni punti teorici problematici che nella seconda fase della ricerca, che qui si presenta, sono stati riconsiderati, sottoponendoli alla riflessione di un campione di 300 parlanti di diverso sesso, età e background sociocoulturale, provenienti dalle stesse due città in cui è stata svolta l’indagine sul campo. Al campione è stato somministrato un questionario che affronta tali questioni e cioè in particolare: a) le funzioni dei complimenti e il loro rapporto con la cortesia verbale; b) le norme sociolinguistiche che ne regolano lo scambio in termini di sesso, età, relazione di ruolo e status dei parlanti; frequenza e oggetto dei complimenti; d) l’estensione della catena di merito: se e sino a che punto valutazioni positive su luoghi, cose, oggetti, persone più o meno direttamente connesse al destinatario vengano da questi recepite come complimenti; e) i criteri per l’individuazione dei complimenti impliciti; f) il rapporto con il contesto conversazionale e situazionale; g) i fenomeni di modulazione; h) le risposte ai complimenti.
2. I complimenti e la cortesia verbale Il rapporto tra complimenti e cortesia verbale è stato trattato approfonditamente altrove (cf. Alfonzetti in stampa a). Qui ci si limiterà a osservare che nella competenza
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Giovanna Alfonzetti
metapragmatica del campione intervistato, delle principali concezioni teoriche dei complimenti –come: (i) atti che minacciano la faccia del destinatario (Brown / Levinson 1987); (ii) atti intrinsecamente cortesi (Leech 1983) e (iii) atti rituali fatti in conformità a precise norme socioculturali– prevale nettamente la seconda. Le risposte alle prime quattro domande del questionario, che qui riportiamo: (1) Perchè si fanno i complimenti? (2) Che cosa le suscita ricevere un complimento? (3) In quali situazioni si sente obbligato/a a fare un complimento? (4) In quali circostanze si aspetta di ricevere un complimento?
ci porgono soprattutto l’immagine dei complimenti come atti di cortesia positiva, nei quali si esprime ammirazione verso il destinatario con lo scopo principale di fargli piacere. E piacere è la reazione che la netta maggioranza dichiara di provare nel ricevere un complimento. Diffusa è pure l’idea che i complimenti vengano fatti perché alcune circostanze lo impongono o perché si vuole dare una buona immagine di sé e quindi per mostrarsi affabili e piacere al destinatario. Ciò conferma fondamentalmente quanto era emerso nella prima fase della ricerca basata sull’osservazione di dati linguistici reali: i complimenti sono atti multifunzionali, il cui scambio nell’interazione sociale può essere adeguatamente spiegato adottando un modello teorico che integri, anziché contrapporre, la concezione strategico-strumentale della cortesia e quella normativo-contrattuale.1 Un dato nuovo emerso in questa seconda fase della ricerca è la necessità di includere nella concettualizzazione della cortesia una componente di self-politeness, per controbilanciare la priorità solitamente accordata alla cortesia orientata verso il destinatario (intesa sia come esibizione di solidarietà che di deferenza nei suoi confronti), riconoscendo in tal modo l’esigenza del parlante di mostrare competenza, sicurezza e individualità nell’interazione sociale (Chen 2001: 104). Si spiegano così le risposte secondo cui, come si è detto, i complimenti verrebbero fatti soprattutto per piacere al destinatario più che per fargli piacere. Le motivazioni menzionate dagli intervistati sul perché si facciano i complimenti mostrano che la relazione tra cortesia orientata verso il destinatario (other-politeness) e quella orientata verso se stessi (selfpoliteness) costituisce un continuum (Chen 2001: 104), lungo il quale in molti casi è difficile tracciare una netta distinzione tra i due poli. Possiamo dunque considerare i complimenti face-sensitive acts (Ruhi 2006: 77-78) che, a seconda dell’ethos culturale prevalente in una determinata comunità e delle circostanze specifiche, vengono percepiti o come face-threatening acts o invece, molto più spesso, come face-enhancing acts, volti a rafforzare la faccia positiva soprattutto di chi li riceve ma anche di chi li fa. La necessità di un riavvicinamento tra la concezione di Brown / Levinson (1987) –secondo cui la cortesia consisterebbe nell’uso strumentale di certe strategie linguistiche per proteggere la faccia dei partecipanti– e quella di Ide (1989: 223) –centrata sul concetto di discernimento, inteso come «the speaker’s use of polite expressions according to social conventions»– è sottolineata, tra gli altri, da Lakoff / Ide (2005: 19), secondo le quali una teoria universale della cortesia «might require both (or aspects of both) to be applicable in some or all cultures».
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3. Contesto situazionale e conversazionale Tuttavia affinché il complimento sortisca l’effetto desiderato è fondamentale che sia sentito come spontaneo e disinteressato da chi lo riceve. Questo punto, già emerso nella prima fase della ricerca, trova conferma in alcune domande appositamente inserite nel questionario. 3.1. Contesto situazionale La prima di queste verte sul rapporto tra enunciato e contesto di situazione: agli intervistati viene chiesto se considerino un complimento le parole rivolte a una cliente mentre prova un vestito in un negozio, una prima volta dalla commessa, la seconda volta da un’altra cliente. Qui di seguito si riporta integralmente la quinta domanda del questionario: (5)
In quali di queste circostanze, secondo lei, la cliente riceve un complimento? a. (in un negozio, la commessa dice alla cliente che sta provando un vestito) Questo vestito le sta molto bene. Le mette in risalto il corpo b. (in un negozio una cliente dice a un’altra cliente che sta provando un vestito) Questo vestito le sta molto bene. Le mette in risalto il corpo.
Questo esempio è stato ripreso dal corpus di parlato spontaneo registrato nella prima fase della ricerca. In quell’occasione la signora aveva reagito in maniera radicalmentee diversa: ignorando del tutto la commessa, il cui elogio era stato probabilmente attribuito all’intento di spingerla a comprare l’abito; ringraziando, invece, l’altra cliente, le cui parole erano state evidentemente trattate come un complimento. Questa ipotesi, formulata sulla base dell’analisi conversazionale, trova piena conferma nelle risposte degli intervistati: solo il 20% considera un complimento le parole della commessa, mentre la percentuale sale all’80% nel caso in cui queste stesse parole vengono dette da una seconda cliente, perché il suo apprezzamento è ritenuto disinteressato. Una valutazione positiva rivolta al destinatario viene, dunque, recepita come un complimento o meno a seconda delle circostanze, del rapporto tra parlante e destinatario, dell’intenzione, degli scopi, delle aspettative dei partecipanti, ecc. 3.2. Contesto conversazionale (criterio sequenziale) Fondamentale è inoltre il contesto conversazionale. Nell’analisi del parlato spontaneo è emerso infatti che per individuare un complimento nella conversazione, oltre ai criteri formale e pragmatico-funzionale, è rilevante anche il criterio sequenziale (Alfonzetti 2009: 39-46): il complimento prototipico occorre, cioè, quando il parlante, avendo notato o saputo qualcosa per cui ritiene che il destinatario meriti di essere lodato, prende il turno autoselezionandosi e gli rivolge spontaneamente una valutazione positiva. Anche in questo caso la sola forma dell’enunciato non basta a determinarne il valore illocutorio, contrariamente a quanto presuppongono gli studi condotti con il metodo etnografico, che pur annotando
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gli enunciati subito dopo la loro occorrenza, li isolano da ciò che precede e segue, per ovvi limiti di memoria. Ora, un enunciato che dal punto di vista formale potrebbe sembrare un complimento se considerato isolatamente, non viene spesso trattato come tale –non è cioè seguito da una delle risposte che tipicamente si danno ai complimenti– quando è una mossa reattiva, cioè sollecitata in qualche modo dall’interlocutore per mezzo di: (a) un’autodenigrazione (b) una esplicita richiesta di opinione (c) o, più indirettamente, attirando l’attenzione sull’oggetto del potenziale complimento. Per verificare la validità di questa ipotesi sulla rilevanza del criterio sequenziale, formulata a partire dal comportamento osservato nella prima fase della ricerca, è stato chiesto agli intervistati di indicare in quali dei quattro casi previsti dalla domanda (6) del questionario si può dire che B abbia fatto un complimento ad A:2 (6)
In quali di questi casi B ha fatto un complimento ad A? a. (autodenigrazione) A: Oggi mi vedo una schifezza B: Ma no! stai benissimo! b. (richiesta di opinione) A: Come mi sta questo vestito? B: Ti sta benissimo c. (attirare l’attenzione sull’oggetto che si desidera venga apprezzato) A: Hai visto il mio nuovo taglio di capelli? B: Sì certo, è molto bello. Ti sta bene. d. (mossa iniziale non sollecitata) B incontra per strada A e le dice: B: Hai un vestito bellissimo!
Com’era prevedibile, l’ultima circostanza, in cui la valutazione positiva non è sollecitata in alcun modo, viene scelta dalla netta maggioranza degli intervistati (75%), mentre le altre tre da analoghe percentuali leggermente inferiori al 50% , per la precisione: a. dal 45%; b. dal 49%; c. dal 44%. Questi dati confermano quindi la rilevanza del criterio sequenziale anche per gli stessi protagonisti della comunicazione, oltre che per l’analista: quanto più spontaneamente una valutazione positiva viene rivolta all’interlocutore, tanto più è probabile che questi la recepisca come complimento.
Si noti che le etichettature delle diverse circostanze (autodenigrazione, ecc.), qui messe tra parentesi, nel questionario sottoposto agli intervistati non figurano affatto per non condizionarne la risposta.
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4. Modulazione dei complimenti Lo stesso accade quando le espressioni di apprezzamento che il parlante rivolge al destinatario vengono intensificate. L’analisi del parlato spontaneo mostra una netta tendenza verso il rafforzamento del complimento ai diversi livelli linguistici e non linguistici, caratterizzati dalla ridondanza di segnali emotivi di vario genere: i complimenti sono spesso formulati sorridendo, con tonalità della voce ed espressioni del volto amichevoli e affettuose, con sguardi diretti, intensi e prolungati; frequenti sono i fenomeni prosodici di allungamento fonologico e innalzamento o abbassamento del volume della voce (sussurrare), così come, a livello più strettamente linguistico, i superlativi o altri termini valutativi iperbolici (stupendo, meraviglioso, eccellente, straordinario, eccezionale, ecc.), gli avverbi di intensificazione (molto, tanto, enormemente, ecc.) o modali (veramente, davvero, ecc.), con cui il parlante sottolinea la verità e la sincerità di quanto detto; le costruzioni sintattiche marcate; le ripetizioni e i performativi espliciti, ecc. Quasi del tutto assenti invece dal corpus i fenomeni di mitigazione. Alla luce di tutto ciò, ci si è chieste se, da un punto di vista teorico più generale, sia possibile o abbia senso applicare il concetto di mitigazione ad atti che, come i complimenti, comportano effetti positivi per l’interlocutore o se invece la mitigazione non riguardi piuttosto rimproveri, critiche, ordini, richieste, cattive notizie, ecc., coerentemente con l’opinione di Fraser (1980: 342), secondo cui la mitigazione sarebbe una strategia anticipatrice mirante a ridurre gli effetti negativi che questo genere di atti comporta sul destinatario.3 Si è cercato di far luce su questo punto, chiedendo agli intervistati se considerino complimenti i tre enunciati riportati al punto (7), ciascuno dei quali contiene una forma attenuativa: un verbo di atteggiamento proposizionale (a), che fa sì che il complimento si presenti come espressione di un’opinione personale, piuttosto che come una valutazione oggettiva; l’avverbio abbastanza (b), appartenente alla categoria di elementi mitigatori etichettata come hedges da Fraser (1980) e bushes o propositional hedges da Caffi (1999) e, infine, una litote (c): (7)
Considera un complimento se qualcuno le dice: a. Penso / credo / mi pare che questo vestito ti stia bene b. Ti sta abbastanza bene questo vestito c. Non ti sta male questo vestito
Complessivamente il campione mostra di gradire molto poco gli apprezzamenti mitigati: meno del 10% considera complimenti gli enunciati a. e c. (9% e 8% rispettivamente) e il 19% l’enunciato b. I commenti con cui gli intervistati hanno accompagnato le risposte confermano pienamente la posizione di Held (1989) e di Janney / Arndt (1992: 35): nelle società che incoraggiano le manifestazioni delle emozioni (come può senz’altro considerarsi quella italiana, in particolare centro-meridionale), la regola generale prevede che gli atti di Per una discussione più approfondita sulla opportunità di applicare il concetto di mitigazione anche ai complimenti, si rinvia a Alfonzetti (in stampa b).
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cortesia positiva debbano essere sufficientemente rafforzati, perché se il grado di intensità è troppo debole rischiano di essere percepiti come falsi, forzati o ironici. L’intensificazione è dunque un altro attributo rilevante per la definizione del complimento prototipico, almeno nella cultura in cui è stata svolta la presente ricerca.
5. Complimenti impliciti Naturalmente si può anche adottare una concezione più complessa della mitigazione, qual è, ad esempio, quella elaborata da Caffi (2007: 88), secondo cui la funzione principale della mitigazione sarebbe quella di deresponsabilizzare il parlante rispetto sia al contentuto sia al destinatario della sua enunciazione, con il risultato che il messaggio risulta spesso passibile di più interpretazioni. In tal caso potrebbero considerarsi mitigati i complimenti impliciti4, i complimenti cioè realizzati come atti linguistici indiretti, nei quali il giudizio di valore non è asserito ma presupposto oppure implicato e quindi ricostruibile per mezzo di un processo inferenziale basato sulle massime del principio di cooperazione di Grice e su conoscenze extralinguistiche condivise dagli interlocutori. I complimenti impliciti hanno infatti una certa dose di ambiguità intrinseca che in determinate circostanze potrebbe essere intenzionalmente voluta dal parlante proprio per attenuare la responsabilità di quanto detto; cosicché, nel caso in cui il complimento non venga recepito o ben accolto dal destinatario, il parlante può sempre fingere che il suo enunciato non era stato inteso come un complimento. Nell’analisi del parlato spontaneo ci si imbatte spesso in enunciati la cui categorizzazione come complimenti non è semplice o scontata né per l’analista né per il destinatario, soprattutto quando la reazione di quest’ultimo manca o è anch’essa ambigua, come succede nell’esempio (8): (8) Intervallo della seduta di laurea (il padre di una laureanda, A, si rivolge ad una docente, B, uscita dall’aula per fumare) Am: lei non era tra i banchi? si è laureata? Bf: ((sguardo perplesso)) [sì mi sono laureata a suo tempo Am: [sto scherzando ((pausa)) Am: eh! eccome! e sono soddisfazioni
A. aveva forse l’intenzione di lodare la docente per il suo aspetto giovanile o l’ha veramente scambiata per una laureanda? E B. risponde come se prendesse alla lettera le domande di A perché non le recepisce o perché finge di non recepirle come complimento? E se finge lo fa perché ne è infastidita o perché non vuole correre il rischio di trattare come complimento ciò che forse non era inteso come tale? Domande a cui è difficile dare una risposta sia in sede di analisi, sia quando si è protagonisti dello scambio comunicativo. Sui complimenti impliciti, complessivamente poco studiati rispetto a quelli espliciti, cf. soprattutto Boyle (2000) e, per l’italiano, Alfonzetti (2010).
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Si è deciso di sottoporre questo caso, insieme ad altri analoghi, al giudizio degli intervistati, come si può osservare al punto (9), dove vengono riportati alcuni complimenti impliciti rinvenuti nel corpus di parlato spontaneo: (9)
Quali delle frasi in corsivo ritiene siano un complimento rivolto ad A? (Sono possibili più risposte. Per le risposte positive, esplicitare quale tipo di complimento sia stato fatto: bellezza, aspetto giovanile, bravura, ecc.):
a. (durante una cena tra amici, la padrona di casa mette a tavola una composta di frutta dicendo che l’ha fatta A. Uno degli invitati si rivolge ad A. e le dice) E che sei una giapponese? ………………………………………………………………….. b. (Una docente entra in un’aula e vede alcuni studenti che conosce e una persona che non conosce, la quale si presenta dicendo di essere la professoressa A. La docente le risponde) Ah! mi sembrava una studentessa! c. (durante una cena tra amici, A, la padrona di casa, ha preparato una crema al formaggio e un commensale le chiede se l’ha fatta lei; la padrona di casa risponde di sì ma di non voler dire come l’ha fatta. Il commensale, dopo aver assaggiato la crema, ribatte)) A, non c’è bisogno che ce lo dici. L’importante è che la fai. ……………………………………… d. (durante un intervallo della seduta di laurea il padre di una laureanda si rivolge a una docente della commissione, A, uscita fuori per fumare e le chiede)) Lei non era tra i banchi? Si è laureata? ………………………………………………………. e. (un amico dice ad A)) Lo sai che sei sulla copertina di Glamour di questa settimana? ……………………………...
Le risposte degli intervistati e i loro commenti rispecchiano le incertezze e difficoltà incontrate nell’analisi: (i) gli enunciati a. e d. sono considerati come complimenti solo dal 21% degli intervistati, per ragioni diverse: a. perché molti non sanno che i giapponesi sono bravi nell’arte di intagliare e disporre la frutta; d. perché trattare una docente come una laureanda implicherebbe sminuirne lo status; (ii) l’enunciato b. è ritenuto un complimento dal 63%, una percentuale molto più alta di d., nonostante le analogie: una docente scambiata per una studentessa; (iii) l’enunciato e. viene categorizzato come complimento dal 52%; la percentuale relativamente bassa si spiega con il fatto che anche questo caso richiede la condivisione di conoscenze extra-linguistiche, che invece molti intervistati non possiedono: e cioè che Glamour sia una rivista femminile, sulla cui copertina sono solitamente raffigurate top model, considerate nella nostra società modelli di bellezza femminile; (iv) l’enunciato c., infine, è un complimento per il 71%; si tratta quindi del caso meno controverso, forse perché nella cultura italiana saper cucinare bene è un valore indiscusso e universalmente riconosciuto.
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Conclusioni Le risposte alla domanda (9) del questionario mostrano chiaramente che in alcuni casi non è possibile stabilire categoricamente, né in quanto analisti, né in quanto parlanti, se ci si trovi di fronte a un complimento o meno. Questo tuttavia non deve stupirci. Solo se ci si colloca in una prospettiva logico-filosofica, gli atti linguistici –considerati come entità astratte esemplificate con enunciati costruiti a tavolino– possono essere definiti e individuati senza problemi come categorie discrete. Nella complessità dei discorsi reali, invece, emerge «the fuzziness of speech acts» (Jucker / Taavitsainen 2000: 69). Non sempre si può decidere con esattezza se un determinato enunciato sia un invito, una promessa, un rimprovero, perché spesso verrà recepito «comme étant plus ou moins une invitation, une promesse, un reproche» (De Fornel 1990: 161). Questa dose di indecidibilità e variabilità nelle interpretazioni della forza illocutoria di un enunciato, emersa sia dall’analisi del parlato spontaneo sia dai dati metapragmatici del questionario, suggerisce la possibilità di adottare una concezione prototipica dei complimenti. La teoria dei prototipi applicata agli atti linguistici5 riesce infatti a rendere conto del fatto che un enunciato possa realizzare l’atto corrispondente in una maniera più o meno conforme alla sua definizione astratta. Se un enunciato presenta tutti gli attributi connessi alla definizione sarà considerato una realizzazione prototipica di quell’atto. Se invee possiede solo alcuni di questi attributi o se il loro potere definitorio è debole sarà sentito come una realizzazione meno forte. Nel caso dei complimenti, l’uso di termini valutativi espliciti aventi significato positivo; l’essere una mossa iniziale, non sollecitata in alcun modo, e priva di secondi fini (qual è invece, ad esempio, l’adulazione); il rafforzamento a vari livelli e con vari mezzi del contenuto elogiativo sono attributi con un potere defintiorio forte. Di conseguenza, le valutazioni positive rivolte disinteressatamente e spontaneamente al destinatario senza nessuna sua sollecitazione; che non presentino forme attenuative, ma che al contrario siano sufficientemente intensificate, si collocano in una posizione più centrale all’interno della categoria in quanto complimenti prototipici. Quelle implicite, mitigate, sollecitate o interessate stanno invece in una posizione più periferica, dove si addensano le maggiori oscillazioni sia nei comportamenti direttamente osservabili che nella competenza metacomunicativa dei parlanti. È importante precisare che la teoria dei prototipi cui si fa qui riferimento vede le proprietà prototipiche non come inerenti al mondo reale, secondo una prospettiva realista elaborata inizialmente da Rosch, ma poi superata in favore di una concezione funzionale: gli attributi prototipici presuppongono piuttosto la conoscenza degli esseri umani, delle loro attività e del mondo reale e vanno visti pertanto come proprietà sociali e contestuali (Rosch 1978: 41-42). Le proprietà che possono essere associate ai complimenti, come a tutti gli atti linguistici in generale, «sont liées à nottre expérience sociale de la conversation et des types d’organisation qui la régissent» (De Fornel 1989: 39).
Sulla possibilità di estendere la teoria dei prototipi agli atti linguistici e in particolare ai complimenti, cf. De Fornel (1989).
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José María Bernardo Paniagua (Universitat de València)
La Lingüística en la ‹Sociedad red›
1. Introducción Uno de los paradigmas más adecuados para representar, analizar e interpretar la sociedad actual es, según Castells (2002; 2006), el Informacionalismo que, a su entender, constituye «un paradigma tecnológico que se basa en el aumento de la capacidad humana de procesamiento de la información en torno a las revoluciones parejas en microelectrónica e ingeniería genética» adecuado para establecer los fundamentos de la estructura y dinámica social, cultural y comunicativa de la sociedad actual. En palabras de Ariño (2009: 9): La creación de un nuevo ecosistema cultural, centrado en la World Wide Web, pero que la desborda, que es on-line, instantáneo, crecientemente inalámbrico y ubicuo, basado en la circulación de información digital y en la personalización de la comunicación, cambia la lógica de funcionamiento de las interacciones humanas y también de los movimientos sociales.
Esta comunicación pretende formular algunas pautas para pensar la Lingüística (teórica y aplicada) en ese contexto sociocultural y científico que, sin duda, exige nuevos planteamientos y no sólo sociológicos o económicos sino también antropológicos, culturales y, desde luego, comunicativos y lingüísticos. A modo de hipótesis, este trabajo asume que la sociedad actual, la sociedad red, se caracteriza fundamentalmente por las interrelaciones sociales que establecen sus miembros a través de unas modalidades de comunicación e información específicas: mediáticas, electrónicas, virtuales e hipertextuales. Esas modalidades comunicativas e informativas, a su vez, suponen la superación y complementación de los procesos y formas de la comunicación oral o escrita que han constituido los focos de interés científico e investigador en un determinado momento histórico. La comunidad científica del campo de saber comunicativo, y desde luego la más específica de la investigación lingüística, debe, pues, asumir esa realidad comunicativa como punto de partida de su quehacer científico y, al mismo tiempo, crear el bagaje necesario para responder adecuadamente a las exigencias analíticas e interpretativas que conlleva la sociedad que Castells (2001) también denomina Galaxia Internet.
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2. La sociedad red. El informacionalismo La necesidad de conectar las peculiaridades de la sociedad actual, llámese de la información, de la comunicación, del conocimiento o de cualquier otro modo (Bernardo / Prunyonosa 2002), con la estructura y sistema de comunicación es ineludible para poder establecer la delimitación correcta de la realidad comunicativa contemporánea y especialmente en lo que hace referencia a la incidencia tecnológica. En efecto, y tal como detalla Castells (19971998, vol 1: 360), es preciso reconocer la existencia de «una transformación tecnológica de dimensiones históricas» que conlleva la formación de un supertexto y un metalenguaje que, por vez primera en la historia, integran en el mismo sistema las modalidades escrita, oral y audiovisual de la comunicación humana. El espíritu humano reúne sus dimensiones en una nueva interacción entre las dos partes del cerebro, las máquinas y los contextos sociales.
Como se ha dicho antes, pueden recopilarse diversas teorías o formas de interpretar la sociedad y cultura actuales (Muñoz 2005), no obstante, en este caso se asumirá como síntesis del resto de visiones el paradigma que Castells (2001; 2006) denomina informacionalismo y delimita como un paradigma tecnológico que «organiza una serie de descubrimientos tecnológicos alrededor de un núcleo y un sistema de relaciones que mejoran la actuación de cada tecnología específica» (Castells 2006: 33) básicamente porque el análisis e interpretación que hace de la sociedad y de la tecnología parece muy adecuado para incidir en aquellos aspectos que se intenta poner de relieve en este trabajo. Sin profundizar en el estudio pormenorizado que Castells (1997-1998; 2001; 2006; 2009) ha llevado a cabo en diversas obras, es posible formular alguna de sus tesis fundamentales en los términos que aparecen a continuación. En primer lugar, la tecnología, el paradigma tecnológico, es el rasgo específico de la sociedad actual debido a que sobre esa base (Castells 2006: 71-72) ha surgido una nueva estructura social, una estructura constituida a partir de tecnologías electrónicas de la comunicación: redes sociales de poder. Entonces ¿dónde está la diferencia? En la tecnología, por supuesto, pero también en la estructura social en red, y en el conjunto específico de relaciones implicadas en la lógica en red.
A partir de ese supuesto, este autor reclama que se ha de olvidar la noción de sociedad de la información o de sociedad del conocimiento y reemplazarla con el concepto de la sociedad red, pues, según él (Castells 1997-1998, vol 1: 47), el término sociedad de la información destaca el papel de esta última en la sociedad. Pero yo sostengo que la información, en su sentido más amplio, es decir, como comunicación del conocimiento, ha sido fundamental en todas las sociedades […]. En contraste, el término informacional indica el atributo de una forma específica de organización social en la que la generación, el procesamiento y la transmisión de la información se convierten en las fuentes fundamentales de la productividad y el poder, debido a las nuevas condiciones tecnológicas que surgen en este periodo histórico.
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Para comprender con más detalle la naturaleza de la sociedad red, es preciso insistir en el origen y fundamentación de la misma que, según el propio Castells (2006: 31): emergió gradualmente como una nueva forma de organización social de la actividad humana en el último tramo del siglo XX, sobre los cimientos del informacionalismo. Sin la capacidad proporcionada por este nuevo paradigma tecnológico, la sociedad red no podría actuar, del mismo modo que la sociedad industrial no hubiera podido expandirse completamente sin la electricidad.
Es decir, para el nacimiento de la sociedad red el cambio tecnológico fue determinante ya que liberó todas las potencialidades de las redes y supuso la transformación de las tecnologías de la información y la comunicación, basada en la revolución de la microelectrónica.
Las tesis enunciadas anteriormente puede verse reflejadas e interrelacionadas en la delimitación que Castells (2006: 33-34) hace del informacionalismo donde afirma que un paradigma tecnológico que se basa en el aumento de la capacidad humana de procesamiento de la información en torno a las revoluciones parejas en microelectrónica e ingeniería genética. Pero ¿qué es lo revolucionario de estas tecnologías respecto a anteriores revoluciones de la tecnología de la información, como, por ejemplo, la de la invención de la imprenta? La imprenta fue de hecho un descubrimiento tecnológico de primer orden, con considerables consecuencias en todos los dominios de la sociedad, aunque produjo cambios mucho mayores en el contexto europeo de principios de la era moderna que en el contexto chino, donde se inventó muchos siglos antes. Las nuevas tecnologías de la información de nuestra época, en cambio, tienen una relevancia muy superior porque marcan el comienzo de un nuevo paradigma tecnológico sobre la base de tres principales rasgos distintivos: 1. la capacidad de estas tecnologías para ampliar por sí mismas el procesamiento de información en cuanto a volumen, complejidad y velocidad, 2. su capacidad recombinatoria, y 3. su flexibilidad distributiva.
3. Ciencia, tecnología, sociedad Para defender o, al menos, presentar la trascendencia de las tecnologías, especialmente las informativas, comunicativas e informáticas, no es preciso hacer un recorrido exhaustivo por las teorías en torno al lugar de la tecnología en los procesos de construcción de la sociedad y, en nuestro caso, en la conformación de los discursos y mensajes mediáticos como factores claves en la configuración del imaginario colectivo. Pero sí creemos conveniente insistir en la necesidad de romper con la dicotomía que se alberga en las perspectivas tecnófobas y tecnófilas que se apoyan, por su incapacidad para la matización, en la defensa de planteamientos irreconciliables a la hora de afrontar el papel de la tecnociencia en la evolución social y, al mismo tiempo, descartan la conveniencia de buscar la complementariedad, en un contexto de complejidad, de los múltiples y diversos factores que interactúan para comprender e interpretar su auténtica dimensión comunicativa y social.
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A nuestro entender, tecnófobos y tecnófilos defienden, con discursos sólo aparentemente distintos, el mismo determinismo encaminado bien a justificar el predominio ineludible de la tecnología o bien a propalar la exclusión de la tecnociencia en el proceso de construcción de la sociedad y, por lo mismo, caminan hacia un idéntico fatalismo por más que sea de signo diferente (Aibar 2002: 38), pero la crítica al determinismo tecnológico, a la tecnofilia, no obstante, no pasa por sustraer la trascendencia que merece la tecnociencia en el momento actual y que, a nuestro entender, debe conducir a superar la minusvaloración, la valoración meramente instrumental y, por supuesto, a desterrar el prejuicio de la demonización (Feenberg 2004; Pardo 2009). Es preciso, pues, alejarse de la postura acrítica e ingenuamente escéptica que niega la trascendencia sociocultural de las tecnologías, especialmente las comunicativas, informativas e informáticas que conforman la realidad del Ciberespacio que, según Briggs / Burke (2002: 363), «No es adecuado tratarlo en términos de ilusión, fantasía y evasión. Tiene una economía interna, así como una psicología y su historia». Por otra, ensayar nuevos paradigmas explicativos tales como el Informacionalismo (Castells 2002; 2006), la Poscomunicación (Rojas-Vera / Arape, 1996), que toman en consideración las funciones que Bettetini / Colombo (1995: 29-41) atribuyen a las nuevas tecnologías con respecto a la representación, la comunicación y el conocimiento y, sobre todo, aquellos fenómenos que Pérez (2002: 153) incluye en la cultura que denomina poshumana, desde la que se vislumbra una realidad en la que se han introducido nuevas variables que aún no sabemos cuánto darán de sí, y aunque para despejarlas tendremos que esperar a que pase el tiempo, ya prometen dinamizar el juego social. Este concepto de cultura poshumana se relaciona con la idea de que el hombre se está fundiendo con el artificio, para dar lugar a nuevos ámbitos de intercambio y de relación y para descubrir nuevas dimensiones de realidad.
La dimensión social, cultural y epistemológica de la tecnología ha sido enmarcada en el ámbito de la filosofía de la ciencia a través del paradigma Ciencia, Tecnología y Sociedad (CTS) (López / Sánchez Ron 2001; Broncano 2000; Quintanilla 1988; 2000; González / López / Luján 1997; Muguerza / Cerezo 2000; Olivé 2007) que ha supuesto un giro importante en la filosofía de la ciencia ya que, según Echeverría (2000: 246-247), ha replanteado por completo la noción de racionalidad-científica. Puesto que la filosofía de la ciencia ya no es sólo filosofía del conocimiento científico, sino también filosofía de la actividad científica (y de la acción tecnocientífica), el concepto mismo de racionalidad científica ha cambiado profundamente. Frente a una racionalidad puramente epistémica (mayor capacidad predictiva, mayor grado de corroboración o de falsación de las teorías, mayor simplicidad o generalidad de los principios, de las leyes o de los axiomas), la filosofía de la ciencia ha comenzado a pensar la racionalidad científica no sólo como filosofía teórica, sino también como filosofía práctica.
En ese contexto, Quintanilla (2000: 257-260) habla del sistema técnico como un «sistema de acciones humanas intencionalmente orientado a la transformación de objetos concretos para conseguir de forma eficiente un resultado valioso», dentro del cual, la información, el sistema informativo, sería un sistema tecnológico mixto que incluye un componente físico (electrónica) y un componente cultural (tratamiento de la información). Esto es, las tecnologías que intervienen en la comunicación e información
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no son sólo tecnologías físicas, además son tecnologías sociales y específicamente culturales: las cargas electromagnéticas que manipulan y transmiten son señales; es decir, tienen un contenido semiótico, transportan información. Ahora bien, sin entrar en detalles sobre las complejidades semánticas y ontológicas que arrastra el concepto de información, basta comprobar que su presencia es universal en todas las técnicas (y no sólo en las tecnologías de la información) para comprender que no estamos en realidad ante un ‹tercer entorno› tecnológicamente irreducible. En mi opinión, las tecnologías de la información y las comunicaciones son tan materiales (del primer y segundo entorno) como cualquier otra. Lo que sí es cierto, sin embargo, es que gracias en parte a esas tecnologías se están operando grandes transformaciones sociales y culturales que nos permiten concebir muchos aspectos de la realidad como si se desenvolvieran en un espacio nuevo, virtual, telemático, etc., que tan sugerentemente ha sabido describir Javier Echeverría.
Lo dicho en este apartado nos conduce a sostener que, para afrontar de forma coherente y eficaz el fenómeno de la comunicación tal como sucede y tiene lugar en la sociedad actual, no es suficiente el aparato epistemológico que aporta la filosofía de la ciencia o epistemología de carácter estático que centra su interés en los productos científicos, básicamente las teorías científicas, como constructos de representación, análisis e interpretación. Debe tener en cuenta, por el contrario, las aportaciones más recientes surgidas en el seno de la comunidad científica a partir, sobre todo, de la relevancia adquirida por la filosofía de la tecnología, de la tecnociencia, que exige superar el concepto de tecnología como mera practicidad para valorar las infraestructuras tecnológicas como recurso indispensable para la acción y actuación científica y, al mismo tiempo, conceder a las tecnologías, a los sistemas tecnológicos, la capacidad de generar nuevas realidades que conllevan, como es lógico, formas peculiares de representación, conocimiento y percepción (Bettetini / Colombo 1995).
4. Lingüística y Sociedad red Lo explicado hasta el momento constituye el contexto socio-científico de la propuesta que se formulará a continuación en torno al campo del saber lingüístico como parte de otro más amplio y complejo que es la comunicación. Por eso mismo, es preciso incidir previamente en las derivaciones que la sociedad red tiene en la cultura, en la comunicación y, por lo tanto, en los lenguajes. En efecto, la cultura audiovisual, virtual, informatizada, multimediática o hipertextual constituye, según Pérez (1996: 11-12), un sistema de comunicación integrado, basado en la producción y distribución electrónica digitalizada y el intercambio de las señales, [que] tiene importantes consecuencias para las formas de percepción sociales [y que] transforma radicalmente el espacio y el tiempo, las dimensiones fundamentales de la vida humana. las localidades se desprenden de su significado cultural, histórico y geográfico y se reintegran en redes funcionales o en collages de imágenes, provocando un espacio de flujos que sustituye al espacio de lugares.
Desde esa perspectiva, las implicaciones en torno a las que es necesario reflexionar hacen referencia, en primer lugar, al ámbito antropológico, que conlleva la necesidad de
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contemplar la implementación que las nuevas tecnologías de la comunicación (TIC) suponen con respecto a las capacidades y competencias de los agentes de la comunicación ya que, al menos ciertas tecnologías, inciden de forma determinante tanto en la capacidad y competencia en la interacción e interactividad entre emisores y receptores. En segundo lugar, al ámbito comunicativo que, sin duda en conexión con el antropológico, plantea la exigencia de una nueva delimitación de los factores o elementos que componen la estructura y definen la dinámica de la comunicación. Es decir, al emisor y al receptor se les ha de atribuir unas competencias específicas provenientes de la implementación subrayada anteriormente como efecto de la determinación tecnológica que, superando o completando las exigencias canónicas, inciden en la capacidad y aptitud para el empleo de recursos tecnológicos adecuados para conformar los nuevos tipos de texto que pueden generarse valiéndose de determinados mecanismos propios de la cibercultura. Lo mismo ocurrirá con la delimitación, la estructura y la lectura e interpretación de los hipertextos que constituyen los artefactos vehiculizadores de los mensajes, entre otras razones porque su caracterización ha de realizarse completando los rasgos que definían los textos tradicionales con las aportaciones e implicaciones que conlleva la aplicación y uso de ciertas tecnologías (Lamarca 2006). Finalmente, al ámbito teórico o epistemológico, puesto que las innovaciones señaladas conducen, sin duda, a una necesaria revisión de la delimitación del lenguaje como objeto de investigación en el campo de la comunicación y, desde luego, en el de la Lingüística como ciencia que se enmarca en dicho ámbito del saber y que aporta una determinada perspectiva de aproximación. Esto es, parece lógico exigir a los lingüistas que asuman el reto de afrontar las nuevas dimensiones de la comunicación y, por tanto, del lenguaje a la hora de delimitar su campo de investigación con la finalidad de proporcionar una perspectiva de tratamiento e investigación acorde con la complejidad que caracteriza las nuevas manifestaciones del lenguaje (Crystal 2002). La complejidad de la naturaleza y estructura de la comunicación, las peculiaridades de sus productos y, en definitiva, el modelo de interacción social y comunicativa específica, exige de los estudiosos de la comunicación y de la lingüística asumir como uno de los compromisos más importantes centrar la atención en la pluralidad de textos y discursos que genera la interacción comunicativa en sus múltiples manifestaciones, completar su campo de observación, análisis y explicación más tradicional y ensayar modelos de representación y métodos de estudio que contemplen las nuevas dimensiones del lenguaje que presenta la producción mediática en la sociedad actual: la escrita, la audiovisual, la informática y la virtual. Al mismo tiempo, ha de intentar construir un entramado explicativo y argumentativo que ponga de manifiesto tanto las razones en las que se apoya la exigencia del nuevo rumbo en la investigación en el campo del saber comunicativo y lingüístico como en algunas de las pautas que pueden guiarla. La respuesta a los retos planteados por la nueva realidad comunicativa puede verse reflejada, aunque de forma fragmentaria, en trabajos lingüísticos y comunicativos con enunciados tales como: ‹lenguaje y máquinas› (Yule 2003: 173-186), ‹lenguaje e internet› (Crystal 2002), ‹escritura digital› (Díaz 2001), ‹textos electrónicos› (López Alonso / Séré 2003), ‹redacción ciberperiodística› (Díaz / Salaverría 2003). Incluso pueden constatarse algunas pautas en estudios concretos sobre los textos audiovisuales (Bernardo / Pruñonosa
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2000; Bernardo / Gavaldà / Pellisser 2003); el lenguaje de Internet (Crystal 2002); la escritura digital (Díaz 2001); el ciberperiodismo (Díaz / Salaverría 2003); los textos y discursos electrónicos (López Alonso / Séré 2003; Mestre, 2009) modelos de comunicación en Internet (López García 2005); el sistema de la comunicación mediática (Bernardo 2006); la realidad virtual (Echeverría 2001). Teniendo en cuenta las exigencias aludidas y los supuestos epistemológicos pertinentes, tanto los estudiosos de la comunicación como los de la lingüística han de proponer y ensayar: – Unos modelos de representación que integren el factor tecnológico como elemento
constitutivo, y no simplemente instrumental, de la acción comunicativa, puesto que, sin duda alguna, las tecnologías implementan artificialmente la capacidad natural humana de cognición, procesamiento, producción y percepción de la realidad y, en este caso, conforman y definen una interacción comunicativa específica.
– Un corpus terminológico que supere el empleado hasta este momento que amplíe
y complete con conceptos y términos provenientes de otros campos científicos, tecnológicos y específicamente comunicativos con la finalidad no sólo de nombrar los nuevos elementos y los factores considerados individualmente, sino también las estructuras textuales y discursivas de las nuevas unidades de comunicación.
– Y, a partir precisamente de la incidencia de la tecnología en el proceso comunicativo
y de la nueva interacción comunicativa que están viviendo y protagonizando los miembros de la comunidad que habita el ciberespacio, el estudio de lo que la nueva filosofía de la ciencia denomina acción o intervención tecnológica (Echeverría 2003) y, por otra, el análisis e interpretación de la naturaleza y estructura de los productos dominantes en la sociedad red.
El campo del saber específicamente lingüístico, en fin, ha de superar la aproximación exclusivamente lingüística a la relación existente entre la comunicación y el lenguaje y ensayar modelos comunicativos más complejos y adecuados para poder responder a las manifestaciones comunicativas en las que los signos y unidades lingüísticas se combinan con otros signos y unidades de naturaleza no lingüística. Por otra, afrontar el estudio de las producciones textuales, genéricamente denominadas mediáticas, que postulan la necesidad de ensayar una explicación que complete la específicamente lingüística con las aportaciones provenientes de otras ramas del saber que afrontan la comunicación actual y sus lenguajes desde supuestos, modelos y métodos más adecuados.
5. Algunas conclusiones De acuerdo con todo lo anterior, la investigación lingüística está obligada a considerar atentamente la evolución socio-científica descrita e integrar las innovaciones relevantes como elementos de su conformación epistemológica con la finalidad de responder adecuadamente
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a los retos teóricos y prácticos a la hora de representar analizar e interpretar su objeto de estudio, el lenguaje, en el ámbito de las diferentes situaciones comunicativas que se generan en la sociedad actual fruto, entre otras cosas, de la trascendencia, incluso antropológica, adquirida por las TICs, factores infraestructurales al tiempo que elementos indispensables en la competencia y acción lingüística de los hablantes. Las pautas que, a nuestro entender, debe seguir la investigación lingüística actual hacen referencia básicamente a tres ámbitos que definen, de forma genérica, las exigencias de la filosofía de la ciencia actual tal como se plantea en el paradigma denominado Ciencia, Tecnología y Sociedad: la complejidad socio-científica, el eclecticismo y la pluridemensionalidad de los textos y lenguajes. La complejidad, en primer lugar, es un atributo indispensable para delimitar todos los objetos científicos y plantea, según Morin (2000: 13-15), la necesidad de un nuevo modelo de investigación en estos términos: Existe una falta de adecuación cada vez más grande, profunda y grave entre nuestros saberes discordes, troceados, encasillados en disciplinas, y por otra parte unas realidades o problemas cada vez más multidisciplinarios, transversales, multidimensionales, transnacionales, globales y planetarios.
En el caso de la investigación lingüística, la complejidad tiene un triple fundamento: el informacionalismo de la sociedad red, la trascendencia del sistema tecnológico (infraestructuras y acciones) y la nueva cultura o cibercultura. Las implicaciones de ese triple fundamento se han de traducir en la delimitación del objeto, la formulación de los paradigmas y la complementariedad disciplinar o interdisciplinaridad / transdisciplinaridad. La necesidad del eclecticismo, por su parte, proviene de la insuficiencia de los paradigmas vigentes en el campo del saber lingüístico que, como es lógico, surgieron en otros contextos socio-científicos y, por lo mismo, no han integrado en el modelo de representación e interpretación las elementos conformantes del informacionalismo formulado por Castells (2006); sobre todo, las tecnologías como complementariedad antropológica (Hine 2004) de la acción comunicativa de los agentes, las peculiaridades de esas tecnologías en la interacción comunicativa y la conformación de los textos. El eclecticismo significa, pues, integración simétrica de las aportaciones de paradigmas y disciplinas provenientes de campos del saber experimental y social para proponer un paradigma que responda a la complejidad citada anteriormente y, al mismo tiempo, creación de equipos de investigación plurales y diversos. Las dimensiones plurales de los textos y de los lenguajes abunda, en fin, en los aspectos enumerados anteriormente: la complejidad y el eclecticismo. Trasladado al campo del saber lingüístico, la pluridimensionalidad es, sin duda, un postulado que conlleva básicamente la necesidad de que los lingüistas abandonen el internalismo e inmanentismo que suele caracterizar los paradigmas, la metodología y las técnicas de investigación (Abril 2007) y supone la marginación de lo elementos, los factores y las fases del proceso de producción textual en diferentes situaciones y contextos. Es decir, los lingüistas han de superar la centralidad del llamado lenguaje natural y tomar en consideración la peculiaridad que adquiere en los textos audiovisuales, multimediáticos, digitales e hipertextuales comprendidos como unidad compleja en el ámbito de la Lingüística teórica y práctica.
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Francesco Bianco (Sapienza Università di Roma)
Il cum inversum fra italiano antico e moderno1
1. Introduzione Oggetto del presente contributo è un tipo di costruzione temporale, conosciuta come cum inversum2, in cui i normali rapporti fra i due membri della frase si invertono: lo sfondo temporale è contenuto nella proposizione formalmente reggente, sempre preposta, mentre la codificazione dell’evento logicamente principale (nuovo e inatteso) è affidata a una proposizione posposta, introdotta da una congiunzione temporale: (1)
Stava dormendo tranquillamente, quando (all’improvviso) squillò il telefono.
Il cum inversum sembra essere un prodotto della sintassi latina; nella fase arcaica il costrutto è ancora in fase di elaborazione e la sua presenza è abbastanza rara, mentre a partire da Cicerone diventa uno stilema narrativo di uso frequente:3 (2)
vixdum epistulam tuam legeram, cum ad me Postumus Curtius venit (Cicerone, cit. in 5 Kühner 1976: 339).
(3)
ventum erat ad limen, cum virgo ‹poscere fata / tempus› ait (Virgilio, cit. in Wehr 1984: 182).
Questo lavoro prende vita dalle ricerche svolte per la mia tesi di dottorato dal titolo Le proposizioni temporali di contemporaneità nella prosa narrativa italiana antica, in corso di elaborazione (al momento di consegnare il contributo) presso l’Università di Roma Sapienza sotto la guida di Massimo Arcangeli e Luca Lorenzetti. Tali ricerche rientrano anche nel progetto denominato Archivio della Sintassi dell’Italiano Letterario (ArSIL), coordinato da Maurizio Dardano; il progetto (cfr. Dardano 2009) è finanziato dall’Università degli Studi Roma Tre e coinvolge anche studiosi delle università di Cassino, Macerata e Roma Sapienza; è prevista la pubblicazione di un volume sulla sintassi della frase complessa nella prosa antica. 2 Il fenomeno è altrimenti chiamato ‹subordinazione inversa› (Agostini 1978: 393) o ‹inversione temporale› (Consales 2004: 101); in questa sede adotto indifferentemente le diverse denominazioni, che considero sinonimiche; dato l’incerto status del legame fra le due proposizioni (discusso in § 4.1), sostituisco ‹proposizione reggente› e ‹proposizione subordinata› con i più neutri ‹protasi› e ‹apodosi›, riferendoli esclusivamente alla posizione reciproca dei due membri della frase. 3 Cfr. Luraghi (1995: 366). 1
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Esso si conserva nel latino della tarda antichità e del Medio Evo, per trasferirsi alle nascenti lingue romanze:4 (4)
ils allaient depuis cinq nimutes quand Jeanne soudain s’écria: (Maupassant, cit. in Wehr 1984: 183).
(5)
Estaba trabajando cuando ocurrió el accidente («Clarín», 3.2.1997; cit. in Real Academia Española 2009: 1831).
Costruzioni analogue a queste si trovano anche al di fuori del dominio romanzo; per esempio in lingue germaniche, come l’inglese e il tedesco: (6)
John was skiing, when he fell and broke his leg. (Luraghi 1995: 365).
(7)
Kaum hatte er aber sein Pferd in das Wasser gelenkt, als dieses stürzte und ihn ins Wasser abwarf. (Duden Grammatik: 1050).
È lecito pensare che ciò sia dovuto all’influsso culturale e linguistico che la lingua latina e le sue discendenti romanze, attraverso i modelli letterari e le condizioni di plurilinguismo presenti in certi ambienti dell’Europa nel Medio Evo, hanno esercitato sulla formazione di altre lingue e letterature europee. Questa tesi è confortata dalla natura del cum inversum, modulo sintattico dal carattere spiccatamente narrativo5 e perciò frequente nei testi letterari, la cui circolazione e il cui prestigio linguistico possono aver giocato un ruolo importante.
2. Forme della subordinazione inversa in italiano L’introduttore più frequente è la congiunzione quando; talora è rinforzata da avverbi come improvvisamente o locuzioni avverbiali come all’improvviso, a un tratto, etc.: (8) Era salito sul tetto di un capannone, per seguire da vicino gli operai che stavano ristrutturando l’immobile, destinato a spazio per gli uffici della sua concessionaria Fiat, quando, improvvisamente, la lastra in vetroresina ha ceduto di schianto facendolo precipitare al suolo da un’ altezza di 7-8 metri. («La Repubblica», 26.3.1986). (9) In estremis sono sul punto di dire: grazie ma questa settimana ho ospiti, quando all’improvviso la serena amenità con cui monsieur Ozu mi sta davanti apre una folgorante breccia nel tempo. (Barbery Riccio, 171). (10) Ero in sella a uno scooter con mio figlio di diciotto mesi quando a un tratto vidi per la strada otto persone su moto. («La Repubblica», 8.10.2009).
Ciò vale quanto meno per l’italiano, lo spagnolo e gli idiomi galloromanzi. Cfr. Tonelli (1999: 123) e Consales (2004: 103).
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L’altro introduttore della subordinazione inversa è il complementatore che: (11) [La moglie di Neil Armostrong, pochi istanti prima del primo allunaggio] Non aveva ancora finito di parlare che la voce di suo marito tornò a frusciare dall’ altoparlante ricollegato: («La Repubblica», 12.7.1999). (12) [Il commissario Salvo Montalbano] Non arriniscì a fari [= non riuscì a fare] un passo che il telefono squillò. (Camilleri Vasaio, 57).
In italiano antico quest’ultimo è preferito soprattutto in poesia, probabilmente in quanto parola monosillabica: (13) Già non compié di tal consiglio rendere, / ch’io li vidi venir con l’ali tese (Dante Inf., XXIII, vv. 34-35, p. 385; cit. in Agostini 1978: 393).
Il paradigma delle forme verbali riscontrabili nell’apodosi, introdotta da quando/che è piuttosto ampio: il modo selezionato è l’indicativo; i tempi più usati sono il passato prossimo e il passato remoto, ma è possibile anche trovare il presente narrativo: (14) Si infila un vecchio pile da montagna, e sta per inserire l’allarme antifurto quando gli viene in mente che Theo è in casa. (McEwan Sabato, 77).
Assai più raro è il futuro semplice: (15) Samuel inizierà a parlare con Hermann quando improvvisamente arriverà Mark come da accordi.6
Fra gli introduttori della subordinazione inversa formati con quando il più importante, per frequenza d’uso e per varietà di forme supportate, è certamente la locuzione quand’ecco; con questa locuzione, in italiano antico, la gamma dei tempi verbali è per lo più limitata alla coppia imperfetto / trapassato prossimo nella protasi e al passato remoto nell’apodosi; più raro è l’imperfetto narrativo: (16) Missore Galeotto Malatesta redutto se era in una forte terra, la quale se dice Paturno, fra Macerata e Ancona, quanno ecco sùbito che dereto li veniva la nobile iente imperiale, Todeschi e Toscani, conti della Alamagna, usati a guerra, moiti cimieri, loro cornamuse sonanno, loro naccari (AR Cronica, XXVI, p. 226).
In italiano contemporaneo alcune costruzioni temporali rette da che + imperfetto iterativo conservano i tratti salienti della subordinazione inversa: (17) Henry non faceva in tempo a posare il libro che stava leggendo, che quello già tornava a posto nello scaffale dell’ingresso. (McEwan Sabato, 162).7 L’esempio è tratto dalla pagina web http://www.trucchigratis.biz/black_mirror.html (2010 11 01); la scarsa presenza del futuro non sembra legata ai caratteri del costrutto, quanto alla rarità delle narrazioni al futuro. 7 Non si intende escludere, in questa sede, la possibilità di trovare un che / quando (inverso) + 6
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La locuzione quand’ecco può reggere anche un infinito, naturalmente con funzione narrativa;8 il soggetto può essere anteposto o, più spesso, posposto al verbo: (18) Quand’ ecco il professor Ehud Netzer, dell’Università ebraica di Gerusalemme, una vita dedicata alla soluzione del ‹giallo›, annunciare la scoperta: («La Repubblica», 9.5.2007). (19) Quand’ecco arrivare la notizia del mezzo gemello –di base a Sondrio– appena schiantato, esploso con pilota e copilota a bordo, dalle parti di Santa Caterina Valfurva, quasi in Svizzera. («La Stampa», 14.8.2003).
Funzionalmente simile, benché meno frequente, è la forma quand’ecco + sostantivo-testa di una frase relativa: (20) Il fortunato, dopo tre-sei ore di coda, sta ancora contando il malloppetto appena incassato, perché quasi quasi non ci crede, quand’ecco i militanti pannelliani del banchetto numero due che si fanno sotto: un contributo. («La Repubblica», 17.8.1997).
Quand’ecco, per mezzo dell’aggiunta del complementatore che, può reggere anche una completiva: (21) Noi, fuori aula, accalcati intorno ai televisori, sentivamo i nomi e i deputati erano tutti ingobbiti sulle loro schedine del totocalcio. Quand’ecco che alla lettura della scheda numero 239, con il nome di Nilde Iotti, scoppia l’applauso. («La Stampa», 17.05.1992).
A volte questa costruzione non è che una variante di quand’ecco + sostantivo + relativa; l’antecedente di quest’ultima diventa il soggetto della completiva, che può essere anche omesso quando sia facimente recuperabile dal contesto: (22) E avevamo fatto i nomi di Denilson, Djalminha, lasciando perdere un Ronaldo che a venti anni appare gia’un veterano, quand’ecco che dalla Malesia è arrivata l’eco delle strabilianti imprese dei loro ‹eredi›, i ragazzi della Under 20, che hanno inflitto al Belgio [...] un incredibile 10 - 0. («La Gazzetta dello Sport», 26.6.1997). (23) Man mano che scendevano negli abissi, Visa e Pat erano sempre più pentiti della loro coraggiosa decisione. Quand’ecco che, vicino a una roccia spugnosa, [Visa e Pat] videro i pesci filosofi. (Benni Elianto, 199).9
imperfetto narrativo in italiano moderno; né quella di imbattersi, al contrario, in un cum inversum ‹iterativo› italiano antico; si tratta tuttavia di forme di cui non si è trovata né traccia nei testi né menzione nelle grammatiche. 8 La possibilità di reggere l’infinitiva è preclusa agli altri introduttori, in quanto legata alle proprietà sintattico-semantiche dell’avverbio presentativo ecco; cfr. Serianni (1988: 430). 9 Si tratta di un’alternativa più ‹neutra› rispetto a quand’ecco + sostantivo + relativa, in cui all’antecedente è assegnata una prominenza particolare; cfr. l’esempio (14) con la seguente riformulazione: Il fortunato [...] quasi quasi non ci crede, quand’ ecco che i militanti pannelliani del banchetto numero due si fanno sotto: un contributo.
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Non di rado quand’ecco regge un semplice sintagma nominale, che assume il massimo rilievo;10 un verbo sottinteso, di significato generico, è facilmente inferibile in base al significato del sostantivo (p. es. apparire nel caso di un nuovo attore nella scena rappresentata; accadere nel caso di un evento, etc.) e la sua omissione non pregiudica la comprensione dell’enunciato né tanto meno il realizzarsi dell’effetto sorpresa ricercato attraverso la subordinazione inversa; quest’ultimo è anzi prodotto con maggiore efficacia, grazie all’ancor più rapida presentazione del fatto o del protagonista inattesi:11 (24) Il corteo era a metà del sentiero quand’ecco [apparire] i due dei reparti di sicurezza, cacciatori di Sardegna. («Il Corriere della Sera», 20.3.2005). (25) Il papa aveva svolto un intervento di natura culturale, e il presidente delle Istituzioni Religiose di Terra santa aveva auspicato l’intensificarsi del dialogo. Quand’ecco [arrivare / verificarsi] l’intervento non previsto di Tamini. («La Repubblica», 12.5.2009).
3. Cum inversum vs incidenza inversa12 La letteratura scientifica tende a considerare la subordinazione inversa come una sottoclasse dei rapporti di contemporaneità, o comunque come una costruzione riconducibile a quella categoria; più specificamente, fra i due membri della frase sussisterebbe un rapporto di ‹incidenza›13, sia pur invertito rispetto a quello canonico: (26a) Mentre Luigi stava dormendo profondamente il campanello suonò. (26b) Luigi stava dormendo profondamente, quando (all’improvviso) il campanello suonò.
Da un punto di vista strettamente temporale, la relazione instaurata dai due membri di 20a e di 20b è assolutamente la stessa: quella di un’azione puntuale che interrompe lo svolgimento di un’azione durativa. Non sempre, tuttavia, le cose stanno così: l’azione puntuale, ad esempio, può prodursi mentre l’evento contenuto nella reggente è prossimo a compiersi o a iniziare; l’evento improvviso, naturalmente, può perturbare il corso degli eventi: (27) Se disponìa a hacerlo [= ‹cerrar la puerta›] con el último aliento, cuando vio a Florentino Ariza vestido de luto en el centro de la sala desierta (García Márquez, cit. in Real Academia Española 2009: 1830).
Cfr. la nota 8. Cfr. il § 4.2. 12 Per la definizione di ‹incidenza inversa› e la sua differenza con il concetto di ‹subordinazione inversa› mi permetto di rinviare a Bianco (2009: 231-232, in particolare la nota 11). 13 Cfr. ad es. Mäder (1968: 39-40) e Consales (2004: 101); per una classificazione dei rapporti di contemporaneità cfr. Bianco (2009: 231-233); sulle temporali di posteriorità cfr. Digregorio (2006). 10 11
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(28) Ancora sbalordito da quella sequenza di eventi a dir poco miracolosi, stavo per chiedergli altre spiegazioni, quando un rumore improvviso e secco ci distolse. (Eco Rosa, 168).
Il valore aspettuale (incoativo), delle locuzioni verbali disponerse a / stare per + infinito ci pone nell’immediata anteriorità di un’azione saliente (chiudere la porta / chiedere spiegazioni); sotto un altro punto di vista, è possibile affermare che la visione di Florentino Ariza e il rumore secco e improvviso sono prodotti durante una fase preparatoria dell’evento, fase la cui durata è codificata dalla forma imperfettiva del verbo disponerse/stare; dietro questi esempi si può leggere perciò un rapporto temporale a cavallo fra l’anteriorità, l’incidenza e la terminatività, poiché l’evento puntuale viene ad interrompere il momento di attesa, impedendo (nel caso degli esempi proposti) il prodursi dell’azione che era stata preparata. Più interessante è il caso in cui l’evento dell’apodosi sia successivo a quello della protasi: (29) Ha percorso un paio di centinaia di metri nel traffico pigro di Marylebone, quando, nello specchietto retrovisore, nota una Bmw rossa due macchine dietro la sua. (McEwan Sabato, 147). (30) Drogo aveva già perso la speranza che potesse mai terminare quando il cielo cominciò a impallidire e folate gelide annunciarono che l’alba non era lontana. (Buzzati Tartari, 77).
In entrambi gli esempi la posteriorità dell’azione contenuta nella protasi è suggerita dall’uso dei tempi verbali: in 29 si può al limite inferire un rapporto di incidenza fra la percezione della BMW rossa e la durata del dell’intero tragitto (tragitto, di cui il paio di centinaia di metri non è che un segmento); l’esempio 30 non lascia spazio a interpretazioni di questo tipo.14 In entrambi i casi, inoltre, andrà notato come la fine dell’evento contenuto nella protasi, coincidente (29) o prossima (30) al verificarsi dell’evento ‹improvviso› (la percezione della BMW/l’alba), non sia causata da quest’ultimo. Il rapporto temporale che lega i membri della subordinazione inversa non può dunque essere interamente ascritto alla categoria della contemporaneità né tanto meno a quella, ancor più circoscritta, dell’incidenza; piuttosto, la gamma di possibilità comprende un arco che va dalla immediata anteriorità fino all’immediata posteriorità dell’azione dell’apodosi rispetto a quella della protasi.
4. Caratteri del cum inversum Rispetto alla costruzione temporale canonica la subordinazione inversa presenta alcune restrizioni formali: la più evidente, costante in tutte le lingue che conoscono il costrutto, è l’impossibilità di mutare l’ordine dei membri: la proposizione introdotta dalla congiunzione temporale (apodosi) è sempre posposta alla proposizione formalmente reggente (protasi). L’avverbio già, fra l’altro, lascia supporre uno scarto temporale, sia pur breve, fra la perdita della speranza e i primi segni dell’alba imminente.
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Delle proposizioni temporali canoniche è ben noto il carattere presupposizionale, che permette loro di fungere localizzatori temporali dell’evento contenuto nella proposizione reggente (cfr. Le Draoulec (2003: 175-179). In diversi contributi, Svetlana Vogeleer (1998) e Anne Le Draoulec (2003; 2006) hanno affermato, con argomentazioni convincenti, la diversa natura della subordinazione inversa; ben lungi dall’introdurre una presupposizione, essa veicola piuttosto un’asserzione con addizione informativa (+Nuovo). Per questa ragione Vogeleer (1998: 84) sostiene che il quand inverso agisce da vero e proprio connettore temporale, legando fra loro due asserzioni, mentre quello canonico «ne sert pas à introduire une proposition, mais à transformer une proposition en un constituant temporel»; la costruzione temporale standard «exprime non pas deux, mais une seule proposition». 4.1. Fra ipotassi e paratassi Questa considerazione, come quelle che l’hanno preceduta, portano a interrogarsi circa lo status sintattico dell’apodosi e circa il rapporto gerarchico fra quest’ultima e la protasi: siamo ancora nel campo della subordinazione o ci troviamo, piuttosto, in quello della coordinazione? Così come accade anche in altri tipi di costruzioni complesse, alla posposizione della subordinata si associa il rilassamento del rapporto gerarchico fra i due membri.15 Lo status dell’apodosi tende ad avvicinarsi a quello di una proposizione indipendente; un elemento a favore di questa interpretazione sta nella possibile presenza di una pausa tra i due membri della costruzione, pausa che contribuisce alla creazione di un profilo intonativo particolare;16 a questa pausa corrispondono nello scritto la virgola, il punto e virgola o il punto fermo: (31) Sembra l’altro giorno che scrivevamo (e bene) di Facile, l’ultimo cd di Mina. Quand’ecco che a sorpresa, a meno di sette mesi di distanza, la signora Mazzini se ne esce con un nuovo lavoro, anch’esso col solito titolo fuori contesto, Caramella. («L’Unità», 30.5.2010). (32) Le due religiose dell’Istituto di Santa Dorotea stavano raggiungendo la chiesa delle suore di San Giuseppe a piedi come facevano ogni giorno in questo periodo estivo. Quando, all’improvviso, è piombata su di loro una Rover: («La Repubblica», 25.8.2009).
Laura Baranzini (2009: 933-934) ha notato il diverso comportamento del tedesco e del francese, due lingue che marcano sintatticamente la frase subordinata; in tedesco l’ordine VO, naturale nella proposizione indipendente, si inverte nella secondaria, col verbo che va in coda di frase;17 questa posizione è mantenuta anche nel caso di un ‹umgekehrtes Als›, cosa che qualificherebbe l’apodosi come subordinata.
Per citare solo un esempio, relativo al dominio logico sintattico della concessione, è quanto accade a quelle che Ilde Consales (2005: 227-267) chiama ‹concessive limitative›, che contengono cioè un’affermazione mirata a indebolire il contenuto di validità della reggente: A Praga la vita costa poco; quantunque non sia economica come una volta; cfr. anche Bianco (2010: 255). 16 Per il francese cfr. Le Draoulec (2003: 185). 17 Cfr. l’esempio 7. 15
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In francese la proposizione coordinata ad una subordinata è introdotta dalla congiunzione que (33a); l’esempio (33b) mostra come la frase coordinata ad un ‹quand invers› non richieda la congiunzione subordinante, lasciando ipotizzare la natura indipendente di entrambe: (33) a) Je marchais volontiers dans le bois quand il faisait beau temps et que j’avais envie d’être seule. (Baranzini 2009: 933). b) Je marchais tranquillement dans le bois, quand tout à coup il me poussa et je tombai. (Baranzini 2009: 933).
Questi indizi, non immediatamente comparabili, non producono una risposta definitiva. Suggeriscono tuttavia che il rapporto fra i due membri della costruzione inversa sia diverso da quello che lega la temporale canonica alla propria reggente. Ciò si manifesta nelle diverse lingue in una spinta più o meno forte verso l’affrancamento dell’apodosi dalla propria natura di frase dipendente; a questo (incompiuto) processo18 non corrisponde una perdita di indipendenza della protasi: in ciò sta la particolarità sintattica del cum inversum. 4.2. Usi del cum inversum Come ha ben mostrato lo studio di Barbara Wehr (1984), il cum inversum appartiene a un insieme di strumenti che le lingue romanze hanno ereditato dal latino per mettere in rilievo dei costituenti; la sua caratteristica peculiare, rispetto all’effetto prodotto sul destinatario del messaggio, è quella di conferire questo rilievo ad un evento presentandolo come come inatteso e sorprendente. Usato propriamente, questo modulo sintattico introduce un colpo di scena, fa avanzare la storia e tiene viva l’attenzione del destinatario, indirizzandola sull’azione saliente. Significativo è l’esempio 34, tratto da un quotidiano, in cui l’autore inserisce come inciso quella che potrebbe quasi considerarsi una glossa metalinguistica (colpo di scena), mostrando di voler proprio presentare un fatto come sorprendente attraverso un quando (quand’ecco) inverso: (34) Il giovane autore di quel commercio, dicevamo, aveva l’aria di non intendere che il Duce non è materia leggera, né capiva le polemiche politiche in corso, essendo con ogni probabilità la politica, per un venticinquenne della sua fatta, una specie di assurdo ostrogoto. Quand’ ecco –colpo di scena– che si fa viva Cinecittà Luce spiegando che c’è di mezzo una questione di diritti commerciali. («La Repubblica», 5.2.2010).
In italiano antico, come in quello moderno, il cum inversum non appare solo nella prosa narrativa: Dante ne fa uso nella Commedia, ma è ancor più significativa la sua presenza in autori lirici quali Cavalcanti (35) e Petrarca (36), allorquando nei componimenti si sviluppa una pur breve linea diegetica:19 Ilde Consales (2004: 113) ha saggiamente parlato di ‹pseudosubordinazione›. Conclude la studiosa: «Ancora una volta, dunque, sembrerebbe opportuno parlare, piuttosto che di un confine netto fra ipotassi e paratassi, di gradatum che unisce i due poli della subordinazione e della coordinazione, lungo il quale si collocano le diverse modalità d’espressione di questa particolare relazione» (Consales 2004: 116). 19 Sulla subordinazione inversa nell’antica lirica italiana cfr. Gorni (1981: 143-186), Marrani (2003) e Tonelli (1999). 18
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(35) Era in penser d’amor quand’i’ trovai / due foresette nove. (Cavalcanti Rime, XXX, vv. 1-2, 114; cit. in Mäder 1968: 39). (36) Già fiammeggiava l’amorosa stella / per l’oriente, [...] quando mia speme già condutta al verde / Giunse nel cor (Petrarca RVF, XXXIII, vv. 1-10, 56; cit. in Tonelli 1999: 126).
Diversi sono gli usi anche nell’italiano contemporaneo: l’esempio 37 testimonia la presenza della subordinazione inversa nel parlato-scritto del giornalismo televisivo: (37) Stava calando la sera ieri in Afghanistan su questa strada / la Ringroad / il principale asse stradale del paese / quando una moto / lasciata al lato della carreggiata / è esplosa al passaggio di un convoglio militare italiano («Tg3», 26/7/2009).
Non di rado un cum inversum apre articoli o servizi di cronaca; lo scopo è quello di catturare subito l’attenzione dello spettatore / lettore, richiamando il fatto principale in forma aneddotica e facendo ricorso alla suspense; inoltre il costrutto, marcando l’apertura del testo rispetto a ciò che lo precede, funge anche da vero e proprio segnale discorsivo. Mutatis mutandis, questa funzione è confrontabile con quella svolta dalla subordinazione inversa nel Decameron, allorquando essa scandisce il confine fra una novella appena conclusa e la cornice narrativa: (38) Già era il sole inchinato al vespro, e in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle delle giovani donne e de’ tre giovani si trovarono esser finite. (Boccaccio Dec., I, conclusione, 1, 122). Tacevasi già la Lauretta e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; ( Boccaccio Dec., VI, 4, 2, 730).
5. Conclusioni I dati raccolti e le osservazioni sulla subordinazione inversa in italiano antico (Consales 2004) e moderno (Baranzini 2007; 2009) sono utili non solo in prospettiva italianistica, ma anche in quella più ampia degli studi romanzi o in una, ancor più generale, che consideri anche lingue non romanze.20 L’applicazione del modello elaborato nell’ambito degli studi francesi, che sembrano tracciare la via in questo campo, si è rivelata proficua da un duplice punto di vista: da un lato essa ha offerto ai dati raccolti per l’italiano un modello interpretativo d’avanguardia; dall’altro sono i dati dell’italiano ad aver testato la validità dei modelli, confermandone alcuni punti di forza. Alcuni dati empirici sembrano tuttavia entrare in conflitto con questi modelli: Vogeleer (1998), ad esempio, sostiene che l’effetto sorpresa prodotto dalla subordinazione inversa è frutto della sovrapposizione di due punti di vista: uno, percettivo, appartiene a un personaggio presente nella protasi, che subisce il prodursi dell’evento inatteso; l’altro, epistemico, è quello del narratore; questo assunto, secondo Vogeleer (1998: 89 segg.), produrrebbe alcune restrizioni rispetto al Una prospettiva che abbraccia più lingue romanze è quella di Wehr (1984).
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contenuto dei due membri della frase: l’esempio (39) non consentirebbe un’interpretazione ‹inversa›, perché nell’apodosi manca il possibile portatore di un punto di vista percettivo: (39) Tout était calme quand une porte claqua. (Vogeleer 1998: 90).
La presenza del pronome di prima persona nell’apodosi di (40), ugualmente, non permetterebbe l’interpretazione inversa, in quanto il punto di vista sarebbe interamente assorbito dall’io narrante presente nell’apodosi: (40) Michel lisait le journal quand je suis entré. (Vogeleer 1998: 90).
Ciò mal si accorda ai dati che è possibile raccogliere e analizzare per la lingua italiana: i brani 41 e 42 sono considerati a pieno titolo esempi di cum inversum:21 (41) elle si trassero verso me per isvegliarmi […]. E parlandomi così, cessòe la forte fantasia entro in quello puncto che io volea dicere: «O Beatrice, benedecta sie tu!»; e già detto avea «O Beatrice», quando riscotendomi apersi gli occhi, e vidi che io era ingannato. (Dante VN, XIV, 13, 130; cit. in Consales 2004: 105-106). (42) Era già della notte gran parte passata, quando la reina da loro si partì, e essi molto onorati, sì come ella avea comandato, andarono a dormire. (Boccaccio Filoc., V, LXXX, 1, 656; cit. in Consales 2004: 110).
Il prosieguo della ricerca in questa direzione metterà meglio in luce differenze e affinità fra i diversi idiomi, permettendo di offrire un quadro più organico della codificazione della temporalità nella nostra e nelle altre lingue.
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Ana I. Campo Hoyos (Universidad de Valladolid)
Concordancia y variación en el uso de fórmulas de tratamiento a través de un corpus teatral francés-español en los siglos XVII y XVIII
1. Introducción Si bien los principios que regulan la cortesía verbal han sido estudiados desde diferentes perspectivas, a la hora de establecer posibles diferencias pragmáticas en el uso lingüístico cortés entre dos lenguas, se puede tratar de buscar concordancias o variaciones entre dos elementos determinados. El presente trabajo pretende iniciar un estudio de pragmática histórica, y a la vez contrastiva, analizando y comparando los procedimientos de mención del interlocutor en corpora literarios del género teatral en francés y español. La razón para emplear un corpus de trabajo perteneciente al género dramático es que se considera como el género literario que refleja de manera más cercana el habla natural (como explica Jucker 1995), gracias a su empleo del estilo directo, su estructura de turnos alternos de palabra y su intercambio comunicativo entre hablantes… etc. Por tanto, los resultados obtenidos del análisis pueden ser considerados, manteniendo cierta prevención, como característicos y propios de cada lengua en esa etapa concreta. Otra razón es que nos permite la recreación aproximada, y gracias a ella el análisis, de situaciones comunicativas concretas en relación al contexto social y la cultura a la que pertenecen. Sin embargo, hay que tener en cuenta que el lenguaje teatral no deja de ser el resultado elaborado –no espontáneo–, de la interrelación de un conjunto de códigos: lingüístico, literario, poético, dramático, escénico... Y todos confluyen en este peculiar discurso, como expone acertadamente Nadine Ly (2001: 9-28), por lo que habrá que tomar con precaución las conclusiones a las que lleguemos.
2. Objetivos y metodología El estudio de las formas de tratamiento no puede dejar de lado el tipo de relación que mantienen los hablantes, las características personales de cada uno, el tipo de papel que jueguen en una determinada situación o las características contextuales que los rodeen en un
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determinado momento. Estas son las consideraciones que señala Kerbrat-Orecchioni (1992: 36) en relación al estudio de las relaciones interpersonales. Partiendo de las premisas anteriores, en este trabajo se pretende realizar un estudio diacrónico contrastivo en español y francés, sobre el uso de ciertos procedimientos pragmáticos de mención del interlocutor en los siglos XVII y XVIII. Con este fin, se ha tomado como corpus una breve selección de obras dramáticas correspondientes a ese periodo, del francés J. Baptiste Poquelin, Molière, y del autor español Leandro Fernández de Moratín, quien llevó a cabo la traducción y adaptación de varios textos teatrales del primero, como analiza René Andioc en diversas ocasiones (2005; 2008). Este conjunto de factores parece tener un innegable peso en su creación literaria original, y de hecho, en muchas ocasiones se le atribuye al autor francés una influencia literaria tan notable en el escritor español, en cuanto a temática y personajes, que se le considera como una fuente. Por otra parte, consideramos que podría resultar científicamente relevante observar si esa influencia se extiende a su aplicación lingüística y pragmática, especialmente dentro de la situación comunicativa teatral. Respecto a la metodología de estudio, el primer paso fue la selección de las obras del corpus atendiendo a una temática similar, con unos personajes-tipo coincidentes para que las situaciones comunicativas pudieran tener el mayor número posible de puntos en común. Las obras que han servido de base para el estudio comparativo son: L’école des maris (1661) y L’école des femmes (1662) de J.B.P., Molière, y El sí de las niñas (1806) de L. Fdez. de Moratín. La selección de esta obra de Moratín se debe al claro paralelismo que presenta con las obras francesas y por otra parte, a que es la obra del autor más completa y desarrollada. Además de estas, hemos consultado puntualmente otras obras de ambos autores que nos sirvieran de contrapunto en la comparación: El viejo y la niña (1825) y La mojigata (1825); Le medécin malgré lui (1666) y El médico a la fuerza (1802), pero por motivos de tiempo y espacio resultaba un proyecto muy ambicioso para presentar en este trabajo, de modo que consideraremos la posibilidad de ampliar el corpus y el estudio en el futuro. Posteriormente, se procedió a la identificación y al análisis discursivo de las fórmulas de tratamiento, en especial las referidas a la segunda persona, dentro de las distintas situaciones comunicativas de las obras en cada una de las lenguas. Y finalmente, al cotejo de aparición y situaciones de uso de dichas fórmulas en español y francés, con el objeto de observar su posible concordancia o variación y determinar los factores a los que responden.
3. Las formas de tratamiento 3.1 Las formas de tratamiento Las formas de tratamiento resultan una parte fundamental de cualquier interacción comunicativa. Las interacciones comunicativas se pueden considerar como un conjunto de intervenciones, producidas de forma colectiva en un contexto determinado y que llegan a constituir un discurso. Este discurso constituirá nuestro campo de análisis. Puede centrarse
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en el nivel del contenido o en el de la relación, y aunque evidentemente ambos podrían ser importantes según el tipo de interacción y la secuencia escogida para el análisis, en este trabajo nos centraremos principalmente en el de la relación entre los hablantes. Par termes d’adresse on entend l’ensemble des expressions dont dispose le locuteur pour désigner son (ou ses) allocutaire(s) (Kerbrat-Orecchioni 1992: 15)1
Aunque poseen un valor deíctico, su importancia para nosotros es su valor relacional, estableciendo los lazos sociales entre hablantes. Pueden darse de forma nominal o pronominal, pero nos centraremos principalmente en estos últimos. La teoría clásica de Brown y Gilman (1960) sobre el funcionamiento de las fórmulas de tratamiento, constituye el marco teórico del que partimos para el estudio del sistema pronominal de segunda persona. Estos autores proponen que los sistemas de tratamiento se pueden reducir a dos grandes categorías formales, que se simbolizan a través de las formas latinas tú y vos por T y V. En resumen, distinguen dos dimensiones semánticas en los usos de tratamiento: la dimensión semántica del poder, que se manifiesta en una relación asimétrica en la que el hablante con más poder o estatus usa T y recibe V, y la dimensión semántica de la solidaridad, en la que se da una relación simétrica ya que ambos interlocutores emplean T cuando hay confianza, y V en situaciones más formales. El tipo de lengua en que se estén analizando los tratamientos influirá en el paradigma más o menos complejo, ya que existen lenguas como el inglés, donde el pronombre you coincide formalmente tanto para el uso distante y cortés, como para el de cercanía. Mientras que en francés o español, se dispone de dos formas que se especializan, una en la expresión de confianza o familiaridad y otra en la de mayor distancia formal o de cortesía. 3.2 Evolución histórica de los sistemas de tratamiento en francés y español. En el sistema pronominal francés, la oposición entre tu / vous se va estableciendo progresivamente como marca de poder y jerarquía desde finales del siglo XIV. El trato de tu refleja el grado de poder de un interlocutor sobre otro, de modo que era empleado por la nobleza hacia sus criados y vasallos que les correspondían con el trato de vous. Por otra parte, dentro del trato familiar, los padres o parientes de mayor autoridad utilizaban el tu al dirigirse a sus hijos o parientes más jóvenes, recibiendo a cambio el vous. En cambio, entre iguales dentro de una misma clase social se empleaba el mismo tratamiento, siendo el vous lo habitual entre la clase alta, y el tu en las clases más humildes. Esta práctica se generalizaría de tal modo que el sistema de tratamientos en francés se simplificó notablemente, estableciendo una estructura menos compleja que la del paradigma del español en torno al siglo XVII. En definitiva, para el hablante francés del siglo XVII, el tratamiento de respeto y distancia social se correspondía con vous, mientras que el de cercanía y relación afectiva o de confianza era tu. Por ‹fórmulas de tratamiento› se entiende el conjunto de términos o expresiones de las que dispone el hablante para designar a su o a sus interlocutores (la traducción es nuestra)
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Mientras que en español, como explican Fontanella (1999) y Lapesa (2000), el sistema de tratamientos y su evolución tuvo un proceso más complicado. El trato de voseo y tuteo entre personas de clase alta y baja se produjo de forma similar a lo mencionado en francés. Sin embargo, cuando los criados comenzaron a imitar el trato de vos de sus amos y este tratamiento se generalizó entre la clase baja, la clase alta comenzó a tratarse de vuestra merced para distinguirse del resto de clases sociales. Así, a lo largo de los siglos XVI y XVII, esta nueva fórmula empezó a convertirse en el tratamiento de respeto y distancia social. Entretanto, el trato de vos sufrió una dualidad: por un lado, amplió su espectro hasta llegar a ser trato de confianza o incluso de intimidad, y por otro, conservó un antiguo significado de máximo respeto y servidumbre, proveniente del lenguaje del amor cortés. Durante el siglo XVII, el tratamiento de confianza e intimidad de vos entró en conflicto con el de tú, habitual en la relación entre esposos o padres e hijos. Finalmente, este sistema tan complicado no se sostuvo y aunque en el mundo hispánico el conflicto tuvo diversas soluciones, en el caso del español peninsular, desapareció el vos como trato de cercanía, donde triunfó el tú. Como consecuencia, en el siglo XVIII, nos encontramos con que este proceso de simplificación del sistema de tratamientos se encuentra ya muy avanzado aunque aún vigente. En líneas generales, tendríamos un tratamiento de respeto y distancia social de usted (aunque en ocasiones aún fluctúa con el trato de vos, como vemos en algunas de las obras más tempranas de Moratín) y un trato de tú generalizado para la confianza y la cercanía.
4. El análisis del corpus 4.1 El periodo cultural A lo largo de la historia, entre Francia y España ha existido una estrecha relación en cuanto a intercambio de influencias en sus movimientos culturales. Esto también ocurrió en el periodo que nos ocupa, si bien el Barroco español se siguió cultivando y alargando durante el siglo XVII e incluso hasta buena parte del siglo XVIII. Esto hizo que se diera un relativo desfase temporal entre las propuestas culturales de ambos países. Este es el caso del Neoclasicismo, que llega a España cuando en Francia ya ha transcurrido casi un siglo de su apogeo y se está pasando a una nueva forma de expresión cultural. Sin embargo, este desfase nos puede ayudar a comparar desde una perspectiva semejante la obra dramática francesa de Molière en el siglo XVII con la del escritor español Leandro Fernández de Moratín a finales del XVIII. 4.2 Temática y personajes La temática de las obras estudiadas gira en torno a la condición de las mujeres de la época, su educación y su libertad –o mas bien la falta de ella– a la hora de elegir marido. Considerado el padre de la comedia francesa, parece que la principal divisa teatral de Molière era la de «hacer reír a la gente honrada», ya que creía firmemente que el teatro
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Concordancia y variación en el uso de fórmulas de tratamiento a través de un corpus teatral francés-español
podía ser una herramienta para corregir malas costumbres de forma amena y divertida. En esta ocasión, la elección de un tema que ya representaba un problema actual para la sociedad de su época supuso un grave escándalo en el momento de su puesta en escena, ya que abogaba por la libertad de los jóvenes y ridiculizaba abiertamente la severidad de la autoridad. Más de un siglo después, Fernández de Moratín, conocedor de la tradición y evolución de las costumbres españolas, advierte el mismo problema en la sociedad española de la época y recupera este argumento en varias de sus obras. Asimismo, aprovecha también para criticar otros vicios nacionales como la exagerada religiosidad o la ociosidad. Por tanto, observamos la clara intencionalidad de ambos autores de que sus obras constituyeran un reflejo de la realidad en que vivían, así como de su función reprobatoria de moral y costumbres. En sus obras aparecen muchachas jóvenes y algo reprimidas por su educación. Su futuro suele estar a cargo de figuras autoritarias, que consideran que tanto la virtud como la buena educación de las mujeres, reside en acatar sus decisiones sin oponerse. Estas jóvenes no tienen libertad de elegir en los matrimonios concertados, generalmente con hombres mucho mayores que ellas, y que incluso, en el caso de las obras francesas, son sus propios tutores. Las jóvenes suelen verse encerradas o en lugares de difícil acceso donde apenas pueden comunicarse con sus enamorados, aunque finalmente se evitan los matrimonios indeseados y la situación amorosa se resuelve a su favor. En las obras francesas analizadas, esto sucede gracias a su habilidad para burlarlos con la ayuda de algún criado o amigo, mientras que en la española se debe a la reflexión del personaje principal sobre el error de la imposición en el casamiento. 4.3 Los tratamientos pronominales de 2ª persona en las obras: Tu vs. Vous / Tú vs. Usted El análisis del tipo de relación entre interlocutores en el corpus mencionado no solo ha abarcado la identificación de la fórmula pronominal expresa, sino su expresión a través de las desinencias verbales correspondientes, de los pronombres personales átonos (clíticos) y de los posesivos. PRON. PERSONALES Y POSESIVOS Pers.
Sujeto
OD / OI
Prepos.
Atributo – Posesivos
Antep.
Posp.
2ª
tú
te
ti,contigo
tuyo tuya tuyos tuyas
tu / tus
de ti
usted
a,con usted
suyo suya suyos suyas
su / sus
de usted
Adj. possessives
Postposé
lo / la
le
se
PRON. PERSONNELLES Y POSSESSIVES Pers.
Sujet
CD / CI
Préposition
Pron. possessives
2e
tu
te
toi
tien tienne tiens tiennes
vous
vous
vous
vôtre vôtres
ton votre
ta
tes
à toi
vos
à vous
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4.4 Descripción y análisis de distintas situaciones comunicativas. Según el sistema propuesto por Brown y Gilman (1960), existen dos ejes en torno a los cuales se organiza el uso de los pronombres, el poder y la solidaridad. De acuerdo con esto, el tipo de relaciones que se establece entre los hablantes puede ser de simetría o asimetría. 4.4.1 Las relaciones simétricas Como explica Tannen (1996: 33): «La solidaridad se asocia al uso recíproco del pronombre o las formas simétricas de tratamiento (…) la solidaridad gobierna relaciones simétricas caracterizadas por la igualdad social y la semejanza ». Esto implica que ambos interlocutores reciban y empleen el mismo trato, generalmente por pertenecer a la misma categoría social o considerarse en el mismo plano jerárquico. Pueden tratarse de forma cortés (vous o usted) o de forma cercana (tu o tú). 4.4.1.1. En el análisis de nuestro corpus, observamos como los personajes de clase alta, buena posición social y económica, se dirigen entre ellos el trato deferente de usted o de vous, como iguales. DOÑA IRENE.- Mi hermana es la que sigue siempre bastante delicada. Ha padecido mucho este invierno... Pero, vaya, no sabía qué hacerse con su sobrina la buena señora... Está muy contenta de nuestra elección. DON DIEGO.- Yo celebro que sea tan a gusto de aquellas personas a quienes debe usted particulares obligaciones. DOÑA IRENE.- Sí, Trinidad está muy contenta; y en cuanto a Circuncisión, ya lo ha visto usted. La ha costado mucho despegarse de ella; pero ha conocido que, siendo para su bienestar, es necesario pasar por todo... Ya se acuerda usted de lo expresiva que estuvo y... [El sí de las niñas, acto I, esc. III] CHRYSALDE - Nous sommes ici seuls; et l’on peut, ce me semble, Sans craindre d’être ouœs, y discourir ensemble: Voulez-vous qu’en ami je vous ouvre mon cœur? Votre dessein pour vous me fait trembler de peur; Et de quelque façon que vous tourniez l’affaire, Prendre femme est à vous un coup bien téméraire. ARNOLPHE - Il est vrai, notre ami. Peut-être que chez vous Vous trouvez des sujets de craindre pour chez nous; Et votre front, je crois, veut que du mariage Les cornes soient partout l’infaillible apanage. [L’école des femmes, acto I, esc. I] SGANARELLE - Ah! c’est vous que je cherche. VALÈRE- Moi, Monsieur? SGANARELLE - Vous. Valère est-il pas votre nom? VALÈRE - Oui. SGANARELLE - Je viens vous parler, si vous le trouvez bon. VALÈRE - Puis-je être assez heureux pour vous rendre service? [L’école des maris, acto II, esc. II]
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4.4.1.2. Del mismo modo, dentro de este tipo de relación simétrica, observamos que la clase social más humilde (los criados) emplea el trato de tuteo, tanto en francés como en español, considerando que interactúan en situación de igualdad y/o solidaridad. ALAIN - Georgette! GEORGETTE - Hé bien? ALAIN - Ouvre là-bas. GEORGETTE - Vas-y, toi. ALAIN - Vas-y, toi. [L’école des femmes, acto I, esc. II] RITA.- ¡Qué gusto me das!... Ahora sí se conoce que la tiene amor. CALAMOCHA.- ¿Amor?... ¡Friolera!... El moro Gazul fue para con él un pelele, Medoro un zascandil y Gaiferos un chiquillo de la doctrina. RITA.- ¡Ay, cuando la señorita lo sepa! CALAMOCHA.- Pero acabemos. ¿Cómo te hallo aquí? ¿Con quién estás? ¿Cuándo llegaste? Qué... RITA.- Yo te lo diré. [El sí de las niñas, acto I, esc. III]
4.4.2 Las relaciones asimétricas Siguiendo el modelo mencionado, el otro tipo de relaciones que se puede dar entre los hablantes es de carácter asimétrico. Tannen (1996:33) lo resume así: «En el sistema de Brown y Gilman, el poder se asocia al uso no recíproco de los pronombres; (…) El poder gobierna relaciones asimétricas en las que uno se subordina al otro». De esta manera explica que uno de los hablantes emplea un trato informal hacia el otro, el tuteo o nombre de pila, mientras recibe a cambio el trato de respeto, ya sea pronominal (vous / usted), o a través del título-apellido. 4.4.2.1 En los ejemplos analizados del corpus, comprobamos como efectivamente el poder y la jerarquía rigen estas relaciones asimétricas. La distinción entre clases sociales se acentúa por la relación de autoridad y dependencia que existe entre amo y criado, estableciéndose este tipo de asimetría. Los señores, en una posición jerárquica superior, socialmente hablando, tutean a sus criados, empleando también formas nominales como nombres propios o incluso términos despectivos. Por su parte, los criados parten desde la posición jerárquica inferior y emplean el trato deferente de vous o usted. En caso de emplear fórmulas nominales, son títulos que denotan la posición social elevada del interlocutor como Monsieur, Madame o Seigneur, así como Señor, Señora o Señorita. DOÑA IRENE.- Rita. RITA.- (Aparte.) Otra. ¿Qué manda usted? DOÑA IRENE.- Encarga mucho al mozo que lleve la carta al instante... Pero no, señor; mejor es... No quiero que la lleve él, que son unos borrachones, que no se les puede... Has de decir a Simón que digo yo que me haga el gusto de echarla en el correo. ¿Lo entiendes? RITA.- Sí, señora. [El sí de las niñas, acto II, esc. III]
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VALÈRE - Ergaste, que dis-tu d’une telle aventure? (…) ERGASTE, bas, à Valère. - Selon ma conjecture, Je tiens qu’elle n’a rien de déplaisant pour vous, Qu’un mystère assez fin est caché là-dessous, Et qu’enfin cet avis n’est pas d’une personne Qui veuille voir cesser l’amour qu’elle vous donne. [L’école des maris, acto I, esc. II]
4.4.2.2. Otro tipo de distinción asimétrica en el tratamiento, relacionado con la jerarquía y el poder, es el que se da en las relaciones familiares o en situaciones en las que uno de los hablantes posee autoridad y poder sobre el otro. En el caso de la obra de Molière, observamos la relación entre tutor y pupila o padre e hijo: SGANARELLE - Au contraire, mignonne, C’est me faire mieux voir ton amour et ta foi, Et mon cœur avec joie accepte cet emploi: Tu m’obliges par là plus que je ne puis dire. ISABELLE - Tenez donc. SGANARELLE - Bon. Voyons ce qu’il a pu t’écrire. ISABELLE- Ah! Ciel! Gardez-vous bien de l’ouvrir. [L’école des maris, acto II, esc. III]
Mientras que en la de Moratín, vemos el trato entre madre e hija o tío y sobrino, observándose en todas ellas una relación asimétrica. En el primer ejemplo se puede ver la influencia francesa en uno de los tratamientos nominales, ya que la introducción del término mamá procedente de la voz francesa maman, constituye un claro galicismo en español. DOÑA IRENE.- Pues cuenta, niña, con lo que te he dicho ya. Y mira que no gusto de repetir una cosa dos veces. Este caballero está sentido, y con muchísima razón. DOÑA FRANCISCA.- Bien: sí, señora; ya lo sé. No me riña usted más. DOÑA IRENE.- No es esto reñirte, hija mía; esto es aconsejarte. Porque como tú no tienes conocimiento para considerar el bien que se nos ha entrado por las puertas... Y lo atrasada que me coge, que yo no sé lo que hubiera sido de tu pobre madre... Siempre cayendo y levantando... Médicos, botica... Que se dejaba pedir aquel caribe de Don Bruno (Dios le haya coronado de gloria) los veinte y los treinta reales por cada papelillo de píldoras de coloquíntida y asafétida... Mira que un casamiento como el que vas a hacer, muy pocas le consiguen. Bien que a las oraciones de tus tías, que son unas bienaventuradas, debemos agradecer esta fortuna, y no a tus méritos ni a mi diligencia... ¿Qué dices? DOÑA FRANCISCA.- Yo, nada, mamá. DOÑA IRENE.- Pues nunca dices nada. ¡Válgame Dios, señor!... En hablándote de esto no te ocurre nada que decir. [El sí de las niñas, acto II, esc. II] DON DIEGO.- ¡Siempre dándome que sentir, siempre! Pero... (Acercándose a DON CARLOS.) ¿Qué dices? ¿De veras ha ocurrido alguna desgracia? Vamos... ¿Qué te sucede?... ¿Por qué estás aquí? CALAMOCHA.- Porque le tiene a usted ley, y le quiere bien, y...
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DON DIEGO.- A ti no te pregunto nada... ¿Por qué has venido de Zaragoza sin que yo lo sepa?... ¿Por qué te asusta el verme?... Algo has hecho: sí, alguna locura has hecho que le habrá de costar la vida a tu pobre tío. DON CARLOS.- No, señor, que nunca olvidaré las máximas de honor y prudencia que usted me ha inspirado tantas veces. DON DIEGO.- Pues ¿a qué viniste? ¿Es desafío? ¿Son deudas? ¿Es algún disgusto con tus jefes?... Sácame de esta inquietud, Carlos... Hijo mío, sácame de este afán. [El sí de las niñas, acto II, esc. IX]
En las relaciones familiares, tanto el factor socioeconómico como la edad suelen ser determinantes a la hora de establecer una jerarquía de superioridad respecto al interlocutor en desventaja. Sin embargo, en la obra francesa de L’école des maris, observamos como tanto entre hermanos (Ariste y Sganarelle) como entre hermanas (Leonor e Isabelle), se da una relación de igualdad y un trato cortés de vous. Por tanto, especialmente en el caso de los varones donde se destaca varias veces este factor, el hecho de que uno de ellos sea mayor que el otro, no parece ser motivo suficiente para que sea considerado como jerárquicamente superior. ARISTE - Cette farouche humeur, dont la sévérité Fuit toutes les douceurs de la société, À tous vos procédés inspire un air bizarre, Et, jusques à l’habit, vous rend chez vous barbare. SGANARELLE - Il est vrai qu’à la mode il faut m’assujettir, Et ce n’est pas pour moi que je me dois vêtir! Ne voudriez-vous point, par vos belles sornettes, Monsieur mon frère aîné (car, Dieu merci, vous l’êtes D’une vingtaine d’ans, à ne vous rien celer, Et cela ne vaut point la peine d’en parler) [L’école des maris, acto I, esc. I] LÉONOR, à Isabelle.- Je me charge de tout, en cas que l’on vous gronde. LISETTE, à Isabelle.- Toujours dans une chambre à ne point voir le monde? ISABELLE - Il est ainsi bâti. LÉONOR - Je vous en plains, ma sœur. [L’école des maris, acto I, esc. II] ISABELLE - Ma sœur, je vous demande un généreux pardon, Si de mes libertés j’ai taché votre nom. [L’école des maris, acto III, esc. IX]
En los ejemplos analizados, encontramos que el hablante en situación de superioridad jerárquica, puede emplear el tuteo o no, mientras que el otro por su situación de dependencia y menor poder, debe emplear siempre el trato deferente. En las obras de Molière se plantean estas diferentes situaciones: 1. El tutor trata de forma deferente y respetuosa a la pupila empleando el vous, como es el caso de Ariste a Leonor (L’école des maris) o el de Arnolphe a Agnès la mayor parte del tiempo (L’écoles des femmes).
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ARNOLPHE - Et ne saviez-vous pas que c’était me déplaire? AGNÈS - Moi? point du tout. Quel mal cela vous peut-il faire? ARNOLPHE - Il est vrai, j’ai sujet d’en être réjoui. Vous ne m’aimez donc pas, à ce compte? AGNÈS - Vous? [L’école des femmes, acto V, esc. IV]
2. El tutor marca su autoridad sobre la pupila desde el tratamiento de tu que le dirige, por lo que utiliza el que se destina a interlocutores jerárquicamente inferiores, como Sganarelle a Isabelle (L’école des maris). En ocasiones, la posible variación desde el trato cortés y lejano de vous al uso del tuteo (más cercano y familiar), puede interpretarse también como expresión de un trato cariñoso, especialmente acompañado de ciertos apelativos afectuosos. En este caso concreto, podría entenderse como un intento de acercamiento por parte del tutor, ya que su intención es casarse con su pupila Isabelle. SGANARELLE – Ne t’afflige point tant; va, ma petite femme, Je m’en vais le trouver et lui chanter sa gamme. […] SGANARELLE - Va, je n’oublierai rien, je t’en donne assurance. ISABELLE - J’attends votre retour avec impatience. Hâtez-le, s’il vous plaît, de tout votre pouvoir: Je languis quand je suis un moment sans vous voir. SGANARELLE - Va, pouponne, mon cœur, je reviens tout à l’heure [L’école des maris, acto II, esc. VII]2
En la obra de Moratín, los parientes de mayor autoridad son el tío (D. Diego) y la madre (D. Irene), respecto del sobrino (D. Carlos) y la hija (D. Francisca). Los dos primeros suelen emplear el tuteo, acompañados incluso de expresiones cariñosas o familiares, mientras que los jóvenes siempre emplean el trato de usted hacia sus superiores. Desde nuestro punto de vista, en este tipo de relación asimétrica son especialmente relevantes tanto el factor edad, como la posición social y económica. Un aspecto interesante de la relación asimétrica, que se mantiene hasta nuestros días, es que la capacidad de variar el tratamiento corresponde siempre al interlocutor de mayor rango jerárquico. Puede ser con intención cariñosa y afectiva para acentuar la proximidad, pasando del trato cortés al más cercano, como vemos en la obra francesa: ARNOLPHE – Vous fuyez l’ignorance, et voulez, quoi qu’il coûte, Apprendre du blondin quelque chose? AGNES- Sans doute. C’est de lui que je sais ce que je peux savoir: Et beaucoup plus qu’à vous je pense lui devoir […] ARNOLPHE - Mon pauvre petit cœur, tu le peux, si tu veux. (Il fait un soupir.) Écoute seulement ce soupir amoureux, La cursiva es nuestra.
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Vois ce regard mourant, contemple ma personne, Et quitte ce morveux et l’amour qu’il te donne. C’est quelque sort qu’il faut qu’il ait jeté sur toi, Et tu seras cent fois plus heureuse avec moi. Ta forte passion est d’être brave et leste: Tu le seras toujours, va, je te le proteste; Sans cesse, nuit et jour, je te caresserai, Je te bouchonnerai, baiserai, mangerai; Tout comme tu voudras, tu pourras te conduire: Je ne m’explique point, et cela, c’est tout dire. [L’école des femmes, acto V, esc. IV]
Pero también puede darse al contrario, pasando del tuteo habitual al trato de vous o de usted por causa de la ira, el enfado o el sarcasmo. En esta ocasión, la intención del hablante no es otorgar un trato deferente, sino acentuar la distancia social o provocar un alejamiento, al menos ficticio, con el interlocutor. DON DIEGO.- Todos esos motivos no valen nada... ¡Porque le dio la gana de ver al tío!... Lo que quiere su tío de usted no es verle cada ocho días, sino saber que es hombre de juicio, y que cumple con sus obligaciones. Eso es lo que quiere... Pero (Alza la voz y se pasea con inquietud.) yo tomaré mis medidas para que estas locuras no se repitan otra vez... Lo que usted ha de hacer ahora es marcharse inmediatamente. DON CARLOS.- Señor, si... DON DIEGO.- No hay remedio... Y ha de ser al instante. Usted no ha de dormir aquí. [El sí de las niñas, acto II, esc. IX]
De esta forma, es interesante resaltar que el fenómeno de variación del tratamiento, tanto en uno como en otro sentido, se da en ambas lenguas y condiciones similares.
5. Conclusiones Como ya hemos mencionado anteriormente, a la hora de sacar nuestras conclusiones, no debemos olvidar que la lengua empleada en dichas situaciones comunicativas (ya sea en español, francés o en una comparación de ambas lenguas) responde a una combinación de diversos códigos (lingüístico, literario, dramático…) que confluyen a la vez en la escena teatral, como apunta acertadamente la estudiosa del teatro barroco, Nadine Ly (1981, 2001). A pesar de esto, a través del análisis de los ejemplos de nuestro corpus, llegamos a ciertas consideraciones que exponemos a continuación. Existen algunos aspectos en los que ambas lenguas concuerdan y otros usos en los que difieren, como se podía suponer a priori. Unos son de tipo genérico, relativos a la evolución de las lenguas en una época determinada. Otros se refieren a usos particulares, ya sean por la relación entre los interlocutores o por el establecimiento de determinadas situaciones comunicativas.
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De forma general, se observa que el sistema de tratamientos tanto en español como en francés tiende a simplificarse y mantenerse así. En el caso de la segunda persona, la tendencia general es establecerse en una oposición dual: – Para el tratamiento de respeto y distancia social, vous en francés y usted en español. – Para el tratamiento de igualdad y cercanía, tu en francés y tú en español. Como hemos comentado más arriba, el sistema francés llevaba ya cierto tiempo establecido de forma más simple y así tiende a mantenerse durante la época de Molière. En cambio, el sistema español tenía un sistema de tratamientos más complicado, proveniente del proceso de simplificación que comienza en los siglos XVI y XVII y que ya está bastante avanzado en tiempos de Fernández de Moratín, aunque aún se mantiene cierta fluctuación con el vos cortés. A lo largo del siglo XVIII continúa esta tendencia hasta terminar por eliminar el vos del tratamiento de respeto y convertir el antiguo vuestra merced en usted como fórmula cortés. De esta forma, ambos tratamientos se mantienen durante el siglo XIX, y en el caso del español se volverá a cambiar en el siglo XX con diferencias diatópicas, diastráticas, etc. Tanto en las obras francesas como en las españolas, la distinción entre los tipos de tratamiento que otorgan los interlocutores gira en torno a la jerarquía y el poder, ya sea debido a la clase social o a la posición en la relación familiar. Consideramos que los principales factores a tener en cuenta en este estudio, y que determinan la forma de tratamiento son: el tipo de relación de labor o servicio entre los interlocutores (amo-criado, señora-criada) y el papel que juegan en la relación de autoridad / dependencia entre ellos (madre-hija, tíosobrino, tutor-pupila), ya que contribuyen a acentuar la asimetría en el trato. En las obras de ambos autores, se observa que en determinadas situaciones comunicativas, el hablante que posee una jerarquía social superior a la de su interlocutor, puede dejarse llevar por su estado de ánimo y variar el tratamiento que le dirige, tanto de forma positiva (más afectiva) como negativa (más distante). Por el contrario, el interlocutor de rango inferior siempre mantendrá el trato deferente de vous o usted. La coincidencia entre los usos lingüísticos de ambos autores es notable. La selección de obras con la misma temática favorece este hecho, pero su elección resulta útil, ya que estas proponen situaciones comunicativas e interlocutores semejantes. Hay que tener en cuenta que el análisis de elementos del discurso literario supone la comparación del habla (en cuanto a actualización personal de la lengua) de dos autores específicos en distintas lenguas. Esto significa que no debe extrapolarse al uso lingüístico real de la época sin cierta precaución, ya que se trata de una visión personal y elaborada de forma artificial, no espontánea, en lo que se refiere a su carácter de escrito literario. En cualquier caso, este trabajo solo propone el comienzo de este análisis comparativo, que resultaría más interesante ampliando el corpus de estudio con más obras y incluso con la introducción de más autores de esa época.
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6. Bibliografía Fuentes primarias Molière, Jean Baptiste Poquelin (1987) [1661-1662]: L’école des maris; L’école des femmes; La critique de L’école des femmes. Paris: Gallimard. — (2010): Ouvres completes. Forestier, Georges / Bourqui, Claude (edd.): Paris: Gallimard. Fernández de Moratín, Leandro (1990) [1792-1806]: La comedia nueva; El sí de las niñas. Madrid: Espasa-Calpe. — (2008): Los Moratines. Obras completas 2. Obras de Leandro Fernández de Moratín. Madrid: Cátedra.
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Laura Cîţu (Université de Piteşti, Roumanie)
Formes sapientiales et discours sentencieux. L’adage dans le langage législatif français, du droit coutumier au droit contemporain
1. Cadre théorique et méthodologique Les rapports entre le langage et le droit ont constamment suscité, depuis l’âge de l’antiquité classique, l’intérêt des philosophes, rhétoriciens, logiciens et, à l’époque contemporaine, des juristes et des linguistes. La complexité de ces rapports dépasse de loin celle qui pourrait s’instaurer dans tout autre rapport du langage avec les autres domaines de l’activité humaine. Ce type d’interaction est fondé sur un interconditionnement, dans ce sens que le droit ne peut s’exercer que par le langage, et en même temps, le langage lui-même existe et agit en vertu des règles et des normes, dont la structure essentielle relève du mode d’organisation du droit. Droit du langage et langage du droit se trouvent donc au centre d’une problématique qui aboutit, à l’époque moderne, à la configuration d’un champ disciplinaire, dont les contours se dessinent de plus en plus clairement. La Nouvelle rhétorique. Traité de l’argumentation, parue en 1958 appartenait à deux juristes, Ch. Perelman et L. Olbrechts-Tyteca, et marquait le moment de résurrection de l’argumentation dans l’espace européen, après une longue période de domination du mode de pensée cartésienne. Les dernières décennies du XXe siècle ont représenté pour la science de la linguistique une période d’essor sans précédent, si bien que l’ampleur prise par l’étude du langage, surpassant les limites d’une discipline unique, a conduit à la constitution du domaine des ‹sciences du langage›. Parmi celles-ci, la linguistique juridique réclame, et à juste titre, son droit de cité. La linguistique juridique, la jurilinguistique et, plus récemment, la linguistique légale1 sont des disciplines ayant toutes pour objet le langage du droit, mais dont les objectifs majeurs restent encore à définir et à délimiter de manière scientifique. Pour ce qui est des deux premières, une démarche qui nous semble essentielle avant tout consiste à signaler et à contrecarrer la tendance de leur emploi synonymique. Ainsi, sur la page web de l’équipe de recherche IniTerm jurilinguistique, équipe associée à l’Université Lyon 3, figure le terme de jurilinguistique et, en dessous, la définition suivante: Le terme de linguistique légale désigne l’équivalent français de la Forensic Linguistics, discipline qui, à peine introduite en France, date depuis une quarantaine d’années dans les pays anglo-saxons. Le numéro 132 / juin 2010 de la revue Langage & Société – Linguistique légale et demande sociale: les linguistes au tribunal est consacré à la promotion de cette discipline dans l’espace de la France et reconsidère le rôle du linguiste par rapport aux besoins sociaux qu’il pourrait combler.
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La linguistique juridique examine les signes linguistiques que le droit emploie (disons pour simplifier, les mots, sous le rapport de leur sens et de leur forme) et les énoncés que le droit produit (disons par exemple les phrases et les textes, sous le rapport de leur fonction, de leur structure, de leur style, de leur présentation, etc.) (http://www.initerm.net)
Cette définition est empruntée, comme il est d’ailleurs précisé sur la page web mentionnée, à Gérard Cornu et à son ouvrage La linguistique juridique, l’édition de 2005. Or, ce qui frappe dans cette présentation c’est qu’au mot entrée jurilinguistique est associée une définition portant sur la linguistique juridique. A première vue, la seule distinction intuitive que l’on serait tenté d’opérer entre les deux ne porterait que sur une focalisation différente des morphèmes en jeu, comme si le positionnement différent de la partie juri- tiendrait plutôt au goût et à la formation de l’usager des termes (le juriste préférerait le terme de ‹jurilinguistique›, alors que le linguiste parlera plutôt de ‹linguistique juridique›). C’est ce qui suggère l’emploi indifférencié des deux dans le cas ci-dessus. Or, les deux termes correspondent à deux disciplines différentes, entre lesquelles il y a certes des interférences tant qu’elles se partagent le même domaine, le langage du droit, mais qui sont apparues avec des programmes différents, et l’amalgame ne saurait servir à aucune d’entre elles. 1.1. Linguistique juridique et jurilinguistique En effet, l’acte de naissance de la linguistique juridique est signé en 1990, quand Gérard Cornu, juriste de formation, publie la première édition de son ouvrage mentionné ci-dessus. L’auteur y met, à proprement parler, les fondements solides d’une discipline dont il présente laborieusement l’objet, les méthodes, la place parmi les autres disciplines connexes, les enjeux sur le plan de la connaissance et du fonctionnement social. A la définition ci-dessus, Cornu ajoute plus loin: « …la linguistique juridique comprend à la fois l’étude du langage du droit et celle du droit du langage» (2000: 10). Cet ouvrage est programmatique, car, à part la réflexion prouvée et l’argumentation menée en faveur de la discipline, l’auteur procède à une approche systématique du langage juridique, avec des outils linguistiques2, en partant du niveau lexical3 jusqu’au niveau discursif et textuel. Il pratique ainsi un modèle de linguistique intégrale appliquée au langage du droit, modèle doué d’un fort pouvoir descriptif. En revanche, la jurilinguistique est consacrée4 en tant que branche de la linguistique, dans un espace fortement imprégné par des besoins juridiques spécifiques –le Canada, territoire fédéral où coexistent les deux systèmes de droit que partagent toutes les sociétés démocratiques– le common law (ou droit jurisprudentiel) et le civil law (droit civil, doctrinaire). La nécessité La formation juridique principale et non linguistique de l’auteur y joue son rôle. Même s’il s’agissait des années ’90, quand l’appareil de la linguistique était déjà laborieux et avancé, il s’attache plutôt aux instruments de la linguistique classique, structuraliste. Cette marque spécifique n’affecte cependant en rien la valeur d’ensemble de l’ouvrage. 3 Le niveau du vocabulaire détient la partie la plus importante dans l’économie de l’ouvrage. Ce qui est justifié d’ailleurs, la terminologie juridique étant un chapitre essentiel dans l’approche du langage juridique. 4 Il s’agit d’un ouvrage collectif, publié en 1982 au Québec, sous la direction de Jean-Claude Gémar, avec le titre Langage du droit et traduction. Essais de jurilinguistique. 2
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d’assurer un système juridique cohérent sur tout le territoire canadien a conduit à ce que l’approche linguistique du langage juridique soit centrée non sur le plan de la linguistique théorique, mais sur les questions de la traduction, de la transposition et de la corédaction des textes normatifs. Ce type de contexte social spécifique au Canada à l’époque de naissance de la jurilinguistique est d’ailleurs responsable, selon nous, du glissement subreptice qui a fait que les deux disciplines sont amalgamées, à l’heure actuelle, dans l’espace européen, comme on l’a vu plus haut. La création et le développement de l’Union Européenne, avec les défis du multilinguisme et de la cohabitation du droit communautaire avec les droits nationaux amènent comme priorités, sur le plan de l’analyse linguistique du langage juridique, les domaines de la traduction et de la didactique. L’équipe IniTerm se donne d’ailleurs comme objet de recherche «la didactique du français juridique et de la traduction juridique en général» (ibid.). La Commission Européenne emploie actuellement un nombre important de traducteurs formés par des programmes spécifiques dans les universités des pays membres. Les besoins d’ordre linguistique et juridique reliés à l’objectif majeur de l’élaboration et de l’application du droit européen ont conduit, par la pratique de l’interdisciplinarité, à inclure dans le registre des professions demandées par cet organisme celle de linguiste – juriste. 1.2. Analyse linguistique et langage juridique L’analyse linguistique du langage juridique est nécessairement mise en rapport avec ces enjeux multiples reliés à la demande sociale. La linguistique en tant que science humaine à caractère théorique fondamental s’enrichit ainsi de la dimension d’une finalité très pratique dans ses rapports avec les sciences sociales, en l’occurrence celles associées au domaine du droit. En même temps, cette évolution exige d’autant plus que l’objet mis en discussion –le langage juridique– soit abordé de façon scientifique. Cela suppose que le champ disciplinaire impliqué soit défini, et que les différentes branches de la linguistique juridique, menacées de dissolution, bénéficient d’une consécration de leur statut, de leur mission et de leur appareil conceptuel. Dans cette perspective, la linguistique juridique est la science générale du langage du droit, étant elle-même une branche de la linguistique générale. La recherche théorique menée sur le langage juridique ne saurait être occultée, au contraire, développée sur la relation langage général –langage juridique, les apports aux deux domaines impliqués– la linguistique générale et la linguistique juridique – pourraient être des plus significatifs. D’autre part, la systématisation du statut des branches de la linguistique juridique est tributaire des trois plans relatifs au fonctionnement du droit à travers le langage: l’élaboration, l’interprétation, l’application du droit. C’est à partir de ces trois plans conceptuels que fut proposée une typologie fonctionnelle des discours du droit, à laquelle se rattache l’étude linguistique du langage juridique: i. le discours législatif 5; ii. le discours doctrinaire; iii. le discours juridictionnel; iv. le discours coutumier.6 Les différentes branches rattachées à la linguistique juridique sont focalisées sur un ou plusieurs de ces types de discours, sans que les interférences avec les autres types soient complètement exclues. Ainsi, la jurilinguistique, axée Le discours législatif étant considéré, à son tour, comme un sous-type de la catégorie supérieure du discours normatif. 6 Cette typologie repose sur celle proposée par Cornu (2000). 5
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sur la traduction, la didactique et l’informatique juridique7 privilégie le plan de l’application du droit, et partant, le domaine du discours juridictionnel. D’autre part, au niveau des organismes européens, elle a une contribution significative dans le plan de l’élaboration du droit, dans la mesure où les actes normatifs européens, en principal les règlements, les directives et les recommandations censés exercer leur juridicité dans tous les Etats membres, passent non seulement par le processus de traduction, mais aussi de corédaction. La jurilinguistique détient ainsi une très forte dimension pratique parmi les branches de la linguistique juridique. Dans le plan de l’élaboration du droit, notamment de la rédaction des actes législatifs, la linguistique juridique peut servir la cause de la légistique –discipline juridique dont l’objet d’étude est constitué par l’élaboration et la rédaction du texte législatif. La crise législative contemporaine –car il y en a bien une, et les théoriciens du droit la dénoncent d’une voix de plus en plus forte–, est reflétée par deux phénomènes saillants– l’inflation et la pollution des lois. Au-delà des facteurs extralinguistiques, reliés aux conditions géopolitiques et idéologiques qui déterminent les systèmes juridiques, la crise législative est aussi une crise due au langage, au mode de rédaction, d’interprétation et d’application de la loi. Aussi le travail de recherche sur ce langage même doit-il, plus que jamais, être mené conjointement par les juristes et les linguistes, pour atteindre un objectif essentiel: l’amélioration du fonctionnement du système juridique, au bénéfice des institutions et des citoyens. Enfin, la linguistique légale, la dernière née des branches de la linguistique juridique8, est censée valoriser les résultats de la recherche linguistique sur le plan de l’interprétation du droit. Les juridictions se confrontent actuellement de plus en plus aux besoins de statuer dans des affaires incriminant non seulement le faire, comme jusqu’à présent (contraventions, délits, infractions), mais également le dire. Les plaintes formulées en justice contre des faits de langue –outrage, diffamation, injure, plagiat– rendent de plus en plus nécessaire l’expertise linguistique dans les jugements. La linguistique est appelée à mettre en place tout son dispositif opératoire, basé sur des acquis de la sémantique, la lexicologie, la sociolinguistique, la psycholinguistique, la pragmatique et l’analyse des interactions, pour qu’il serve dans cette expertise. Ce nouveau rapport institué entre la linguistique et le langage juridique implique une remise en question fondamentale du rôle et du statut du linguiste dans ce domaine. D. Lagorgette (2010) signale la nécessité que l’ordre judiciaire soit adapté, par des actes normatifs spécifiques, afin que le linguiste exerce sa prestation dans le cadre juridictionnel non en tant que témoin, seule hypostase légale, selon le droit français actuel, dans laquelle l’analyse du linguiste peut être valorisée comme preuve au tribunal, mais comme expert, selon le modèle des pays anglo-saxons. D’autre part, ce changement de statut obligera le linguiste à reconsidérer la méthodologie de sa recherche, et surtout à élaborer et intérioriser d’une façon différente la dimension déontologique de sa profession. Car la pratique de la recherche linguistique sera ainsi orientée non seulement vers des objectifs épistémologiques, mais elle aura une visée applicative supérieure où l’éthique joue un rôle essentiel. D. Vincent offre dans un article de date récente (2010) trois échantillons illustratifs d’expertise linguistique effectuée sur demande et présentée par les avocats des parties au tribunal. Les trois modèles d’analyse du discours présentés convoquent les outils et moyens La constitution de bases de données législatives et terminologiques représentent un enjeu essentiel sur le territoire européen se trouvant sur l’incidence du droit communautaire. 8 Au moins dans les pays européens de droit civil, telle la France. 7
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de la linguistique moderne et contribuent à éclaircir les valences des textes mis en discussion, et à aider les protagonistes de l’acte judiciaire (avocats, juges) dans leurs défense / accusation, respectivement leurs jugements. Dans ce contexte d’une complexité significative des rapports entre le langage, le droit et les sciences impliquées, la linguistique juridique doit, plus que jamais, affirmer son statut et ses objectifs, par une articulation équilibrée des deux plans de la recherche théorique et applicative.
2. Formes sapientiales et discours sentencieux Il est bien connu que la terminologie linguistique ne se forge pas au hasard9, ni sur les coups du caprice des chercheurs. Derrière chaque terme spécifique au domaine, même si ce terme est souvent emprunté au langage commun, et que l’on s’appuie sur son sens nucléaire, il y a tout un parcours conceptuel qui justifie le linguiste dans son choix du signifiant. Ce parcours est fait dans un souci de contourner l’équivoque notionnelle, et d’octroyer à la respective forme linguistique une acception précise, technique, partagée par les membres de la communauté scientifique, au moins le long de la démonstration où cette forme figure, sinon avec le résultat d’une consécration pérenne. 2.1. Le discours sentencieux Le syntagme discours sentencieux mérite qu’on s’arrête sur sa justification. Ce métadiscours est destiné à mettre en évidence la technicité que nous attachons à la formule choisie. Sa signification repose sur le vieux sens du mot sentencieux –«Qui contient des sentences; gnomique» (Dict. Petit Robert)–, et non sur le sens moderne, à valeur péjorative et ironique –«Qui s’exprime de manière solennelle et affectée» (ibid.). La forme alternative plus véhiculée, surtout dans la parémiologie, pour rendre le contenu conceptuel du mot sentencieux est la forme sapiential. Si nous n’avons pas opté pour cette forme, c’est parce que, selon nous, entre les deux formes s’institue un rapport hypero-hyponymique, qui fait que le discours sapiential n’est qu’un hyponyme du discours sentencieux. Cette affirmation sera soutenue dans ce qui suit. 2.2. Le discours sapiential On attache communement la dénomination de ‹discours sapiential› à une forme linguistique du type ‹proverbe›, ‹dicton›, ‹sentence›, ‹précepte›, ‹aphorisme›, ‹apophtegme›, ‹maxime›, ‹adage›, ‹brocard›10, etc. Cette classe assez hétérogène est constituée à partir de Comme d’ailleurs c’est le cas de la terminologie dans tous les domaines de connaissance. Le mot brocard est dû à un évêque de Worms, nommé Brocardus en latin, qui réunit au XIe siècle, sous le nom de Brocardia, une collection de sentences devenues célèbres.
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caractéristiques communes, telles que: i. origine populaire (dictons et proverbes) ou savante (sentence, aphorismes, apophtegmes); ii. vérité supérieure ou précepte moral; iii. concision; iv. caractère général et impersonnel; v. structuration logique, etc. On peut remarquer que ces caractéristiques envisagent simultanément la forme et le contenu conceptuel. En tout cas, distinctes ou conjointes, c’est la présence de l’une ou d’un cumul de ces propriétés qui fait qu’une séquence d’une dimension variable, mais jamais trop longue, peut être située dans la catégorie du discours sapiential. Le discours sapiential est intégré dans le discours sentencieux, dans ce sens qu’une séquence quelconque, qui n’est pas nécessairement reconnaissable à partir de sa forme comme séquence sapientiale, sera interprétée comme discours sentencieux, à moins que l’on puisse récupérer au niveau de son implicite un contenu sentencieux. Selon que tout énoncé concis, à caractère général et impersonnel et de structuration logique n’est pas nécessairement proverbe ou dicton, etc., de même une séquence, un texte d’apparence quotidienne ou spécialisée peut se réclamer, en fait, du discours sentencieux. Nous allons illustrer les deux cas de figure dans ce qui suit. Prenons l’exemple suivant: L’émigrant n’a plus de racines (A. de Saint-Exupéry)
Cet énoncé est construit selon le mode du proverbe et remplit toutes le conditions pour accéder à ce statut. Au premier abord, c’est cette compétence parémiologique que tout locuteur avisé possède qui permet de situer des énoncés dans la classe du proverbe. Il y a ensuite toute une littérature linguistique récente qui a réussi à déterminer scientifiquement quelles sont les propriétés formelles et sémantiques du proverbe, qui le distinguent par rapport à d’autres formes parémiologiques, propriétés qui peuvent aussi prédire si un énoncé de langue peut ou non accéder au titre de proverbe. C’est sur la base de ces recherches que l’on sait maintenant pourquoi l’énoncé ci-dessus peut devenir proverbe, tout comme le suivant: On ne tire pas sur une ambulance (exemple emprunté à G. Kleiber)
Cela explique aussi pourquoi les énoncés: Les manuscrits ne brûlent pas. La lâcheté est le plus affreux des vices (M. Bulgakov, Le Maître et Margareta)
sont reconnus comme des proverbes russes, et pourquoi un énoncé tel que: Les chats sont curieux
n’a aucune chance de devenir proverbe. Dans tous ces cas, ce qui suscite la discussion sur ces séquences et non sur d’autres11, c’est d’abord leur ressemblance formelle. Ce qui met en branle la compétence parémiologique, c’est toujours une certaine structure de phrase et d’autres éléments formels similaires qui évoquent un énoncé parémiologique. La conclusion Personne ne se poserait la question si les énoncés La baleine est un mamiphère ou Le fromage est dans le frigo sont ou pourraient être des proverbes.
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qui s’en dégage est que, pour être proverbe, une séquence est d’abord contrainte du point de vue formel. C’est une condition nécessaire, mais non suffisante, car tout ce qui répond à cette contrainte formelle n’est pas et ne peut pas être proverbe. Cette condition, que nous avons illustrée par le cas du proverbe, reste valable pour tous les énoncés sapientiaux. Qu’il s’agisse de dicton, maxime, adage, etc., toutes ces espèces ont une forme linguistique concise, en premier lieu, et un caractère général et impersonnel en second lieu. Autrement dit, le discours sapiential comme type de discours est déterminé et ne peut pas se soustraire à la contrainte de la forme, et cette forme est nécessairement concise et à caractère général et impersonnel. 2.3. L’adage comme forme sapientiale du discours sentencieux Le discours sentencieux n’est pas soumis à la contrainte de la forme. Il peut contenir, outre les formes de discours sapiential, des séquences dont la longueur peut dépasser les limites d’une phrase. Le discours sentencieux se repère au niveau textuel, car c’est le contenu qui l’emporte dans la délimitation de ce type de discours, au niveau explicite aussi bien qu’au niveau implicite. Le trait distinctif de ce contenu qui peut revêtir toute forme linguistique, trait qu’il partage d’ailleurs avec toutes les espèces du genre sapiential, c’est sa réflexivité. En revanche, il est sûr que le contenu réflexif d’une séquence textuelle et discursive que l’on peut situer dans le type de discours sentencieux, et qui n’est ni proverbe, ni adage, ni maxime, rejoint dans sa signification profonde, soit par voie de la diachronie, soit par un subtil réseau isotopique et intertextuel, un proverbe, un adage, une maxime lui préexistant. Nous allons illustrer ce cas de figure par l’exemple de l’adage et de la maxime dans le discours du droit, plus précisément dans le discours législatif. Les codes modernes représentent des recueils d’anciennes maximes. Il y en a qui ont servi en méthode législative comme source du droit12 et y ont fondu, d’autres qui se maintiennent en tant que telles et s’insèrent dans une variété de types de discours et avec des finalités argumentatives diverses. Les exemples suivants en témoignent. Vox populi vox Dei [Voix du peuple, voix de Dieu]
Cet adage latin est présent dans le droit coutumier, ensuite transposé sous le principe essentiel de l’Etat de droit, qui postule la loi de représentativité de la majorité, mais on peut le retrouver aussi dans une multitude de discours, à partir de la conversation quotidienne jusqu’au discours littéraire ou à la plaidoirie de l’avocat. Il est utilisé en tant qu’argument justificatif et peut être rattaché au type de discours sapiential. Soit l’exemple suivant: On doit dans les conventions rechercher quelle a été la commune intention des parties contractantes, plutôt que de s’arrêter au sens littéral des termes (Art. 1156 – Code civil français).
Nous considérons que les exemples de ce type illustrent le concept de ‹discours sentencieux›. Cet article de loi règle en matière de contrats et conventions et vise comme Les adages latins, source du droit romain, fondent le système juridique français et d’autres systèmes qui s’en réclament, alors que les pays de common law –le deuxième grand type de système juridique, connaît beaucoup d’adages d’origine germanique.
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destinataire le juge qui doit interpréter et appliquer la loi. A une première lecture, il semble difficile d’associer cette séquence au type de discours sentencieux. C’est par voie d’inférence logique qu’on arrive à mettre en relation le texte de l’Article 1156 avec son sous-texte présent sous la forme de l’adage [Le fond emporte la forme]. On pourrait objecter que le concept de ‹discours sentencieux› risque de se diluer, car il pourrait ainsi recouvrir toute séquence de texte législatif ou normatif. Pour l’instant, nous pouvons affirmer en contrepartie que toutes les lois, dispositions, normes et directives de toutes sortes ne peuvent pas se réclamer du discours sentencieux. Une première sélection s’opère quand on élimine les textes législatifs qui ne permettent pas de récupérer par voie de l’inférence un adage.13 Il s’ensuit que la démarche théorique visant à soustraire ce concept au risque d’éclatement doit être continuée dans le sens de la définition et du repérage des propriétés linguistiques particulières pour ce type de discours. Or, pour ce faire, le premier examen critique nécessaire porte sur la notion d’adage, qui joue un rôle fondamental dans la détermination du discours sentencieux juridique. 2.4. Adage, maxime et discours coutumier G. Cornu (2000) considère que chaque discipline du champ de la connaissance –la médecine, la morale, la philosophie, etc.– est circonscrite par un ensemble de maximes. Le droit nommerait les siennes ‹adages›. Comme cet auteur ne s’attache pas au souci de rigueur définitionnelle, les questions que soulève son affirmation n’empiètent pas trop sur la suite de sa description dans l’ouvrage mentionné. D’ailleurs, cette affirmation se soutient par la tradition, car on parle en droit moins de ‹maxime› et surtout d’‹adage›, depuis les Adages d’Erasme (1508) jusqu’aux recueils modernes (comme celui de Daguin, 1926). Apparemment, selon la définition de Cornu, ‹adage› et ‹maxime› sont synonymes, seul le champ référentiel de chacune étant différent: adage en droit, maxime dans les autres domaines de la vie socioprofessionnelle et spirituelle. Ailleurs, Cornu les considère, avec le proverbe, le dicton, l’apophtegme, etc., comme les ‹facettes› d’un même ‹genre littéraire› (1926: 359). En revanche, les dictionnaires offrent les définitions suivantes: Adage – Maxime pratique ou juridique, ancienne et populaire (Petit Robert); – Formule généralement ancienne, énonçant une vérité admise, un principe d’action ou une règle juridique (TLF); – Enonciation brève et frappante d’une règle de conduite, empruntée au droit coutumier ou écrit (par exemple Nul n’est censé ignorer la loi) (Larousse). Maxime – Règle de conduite, règle de morale; (Spécialt.) Formule lapidaire énonçant une règle morale ou une vérité générale (Petit Robert); Puisque nous nous limitons pour l’instant au langage juridique, l’intérêt ne portera que sur l’adage. La maxime participe elle aussi de la nature du discours sentencieux, mais ne vise pas essentiellement le langage juridique, car elle énonce plutôt une règle de morale et non une règle juridique.
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– A. Précepte, principe de conduite, règle morale; Philos. (Chez Kant) – principe choisi librement par un individu et d’après lequel il dirige sa conduite; B. Proposition, phrase généralement courte, énonçant une vérité morale, une règle d’action, de conduite (TLF); – Formule qui résume un principe de morale, une règle de conduite ou un jugement d’ordre général (Larousse). Comme on peut constater, les dictionnaires ne sont pas une base suffisante pour délimiter les deux espèces et associer à chacune un contenu conceptuel distinct. A partir de ces données, on peut regrouper dans un premier temps les caractéristiques lexicographiques des deux espèces de façon à dégager ce qui les distingue. On constate ainsi que pour les deux entrées, les dictionnaires mentionnent les propriétés suivantes: i. Le caractère ancien; ii. La brièveté de la forme; iii.Enonciation d’une vérité admise, d’un principe d’action, d’une règle de conduite. Ce qui est propre à l’adage et qui n’est pas mentionné pour la maxime aussi, c’est l’évocation de sa relation avec le droit, coutumier ou écrit (Larousse). Par ailleurs, le Petit Robert mentionne pour adage ‹maxime juridique›. Au-delà des rapports complexes entre la morale et la loi que ces définitions évoquent, on pourrait tenir pour viable, au moins pour cette étape de la démarche, la conclusion que la maxime et l’adage entretiennent un rapport ‹contenant› / ‹contenu›, ou que les adages constituent une sous-classes de maximes, agissant dans le domaine du droit. Une règle de morale, énoncée sous la forme d’une maxime, lorsqu’elle a fini par postuler une règle juridique, deviendra adage. D’autre part, on continue encore de parler dans le langage du droit de ‹maxime›, ce qui montre qu’il ne suffit pas de se situer dans le champ du droit et du langage juridique pour que la distinction entre ‹adage› et ‹maxime› devienne opérationnelle. Cette délimitation a plus de chances d’être opérée, à notre avis, si l’on puise dans la notion de valeur juridique d’une maxime et de la juridicité spécifique à l’adage. Une des caractéristiques essentielles de cette forme sapientiale qu’est l’adage, c’est sa capacité de subsister dans le domaine juridique non seulement dans le droit coutumier, mais aussi sous divers avatars dans beaucoup d’autres branches du droit, dans tout le système juridique français et partant, dans le discours doctrinaire et jurisprudentiel, dans les codes contemporains des sociétés, jusque dans des espaces où le droit romain se fait sentir d’une façon ou d’une autre.14
Il faut citer à cet égard le Code tunisien des obligations et des contrats, où il figure des articles tels que: «A égalité de droits celui qui s’oppose à toute innovation doit être préféré» (a. 546. [Quiéta non novere?]; «Nul ne peut donner gratuitement s’il est insolvable» (a. 552 [nemo liberalis nisi liberatus], etc. (Cornu 2000: 361).
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3. Les rapports de l’adage au texte de loi contemporaine Le contenu implicite de bon nombre d’adages classiques se retrouve sous diverses formes dans le texte explicite du discours législatif. Les exemples ci-dessous, dont la partie gauche contient le texte de l’adage, et la partie droite la forme correspondante dans des articles législatifs, viennent l’illustrer: i. [En fait de meubles, possession vaut titre] → En fait de meubles, la possession vaut titre. (Code civil français, art. 2279) ii. [Le fond emporte la forme]15 → On doit dans les conventions rechercher quelle a été la commune intention des parties contractantes, plutôt que de s’arrêter au sens littéral des termes. (Code civ., art. 1156) iii. [Bâtards ne succèdent] → Tous les enfants dont la filiation est légalement établie ont les mêmes droits et les mêmes devoirs dans leurs rapports avec leur père et mère. Ils entrent dans la famille de chacun d’eux (Code civ., Art. 310). iv. [Le mari au-dehors et la femme au-dedans] → Ǿ
Ces exemples mettent en lumière quatre types de rapports institués entre le texte classique de l’adage et son correspondant dans le Code civil français: a) Correspondance directe. C’est le cas de l’exemple sous i., qui présente une reprise littérale, seul le déterminant défini venant s’ajouter au nom dans la variante moderne du texte. b) Correspondance implicite. Le second exemple rend compte de la transposition d’un même contenu propositionnel sous une forme linguistique différente. c) Correspondance renversée. Le principe juridique renfermé par l’adage sous sa forme classique est mis en relation contraire avec son correspondant du texte moderne. C’est l’exemple sous iii. d) Non correspondance. Le principe contenu par le dernier exemple d’adage ne connaît plus de réalisation dans le Code civil actuel. L’analyse linguistique de l’adage dans le droit civil français s’avère ainsi pertinente et capable de conduire à des résultats doués de pouvoir descriptif et explicatif concernant la structure profonde du langage juridique. Cet examen de l’adage prouve, une fois de plus, que le discours législatif construit son objet d’une façon particulière. Les deux derniers types de rapports illustrés ci-dessus –renversement, respectivement absence du principe de l’adage–, sont à mettre en relation avec l’idée qu’une loi suppose d’abord l’intégration dans un système de valeurs adopté par les sociétés à un moment donné, et qu’elle doit ensuite s’intégrer dans le système juridique dont elle est une séquence. Une loi suppose des rapports de cohésion et de cohérence, ce n’est pas un simple énoncé isolé, même contextualisé, mais une unité discursive élaborée selon une vision d’ensemble de la législation existante, et intégré dans un ample réseau textuel. Il est à remarquer que le texte de cet adage se retrouve et agit sous sa forme contraire –La forme emporte le fond– toujours dans le langage juridique, cette fois-ci dans la jurisprudence. Il sert à exprimer dans ce cas l’idée que le bien-fondé d’une demande en justice peut ne pas conduire au gain de cause dans un jugement rendu, pour cause de défaut de forme ou de procédure. La relation d’antonymie des adages au niveau de tous les types de discours juridique fera l’objet d’une autre approche.
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Bibliographie Cornu, Gérard (22000): Linguistique juridique. Paris: Éditions Montchrestien, E.J.A. Daguin, Arthur (1926): Axiomes, Aphorismes et brocards français de Droit. Paris. Doetsch, Aileen (2008): Rendre le droit avec justesse – Les méthodes de production de textes législatifs plurilingues. Presses Universitaires de Strasbourg. Gémar, Jean-Claude (dir.) (1982): Langage du droit et traduction. Montréal: Linguatech Collection Langues de spécialité / Conseil de la langue française. Gouvard, J.-M. (1999): Les adages du droit français. In: LFr 123, 1. Sémantique et stéréotype, 70-84. Guţă, Ancuţa (2008): La perception de l’Antiquité à travers le discours juridique actuel. In: Analele Universităţii din Craiova 5, 1-2, 121-125. Lagorgette, Dominique (2010): Introduction. In: Linguistique légale et demande sociale: les linguistes au tribunal. Paris: Editions de la Maison des sciences de l’homme, 5-15. Langages 53 (1979): Le discours juridique: analyses et méthodes. Langui, A. (1989): L’adage, vestige de la poésie du droit. In: Histoire du droit social. Paris: PUF. Scurtu, Gabriela (2007): Linguistique juridique. Les structures langagières du discours normatif français. Craiova: Editura Sitech. Vincent, Diane (2010): Mésinterprétation, plagiat, insulte et diffamation: objets de litiges et matériaux de linguistes. In: Linguistique légale et demande sociale: les linguistes au tribunal. Paris: Editions de la Maison des sciences de l’homme, 35-51.
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Avant vs. après: contenu conceptuel et contenu procédural
1. Introduction Notre étude se propose d’examiner la distinction, introduite par la pragmatique cognitive, entre le sens conceptuel et le sens procédural ou instructionnel (Sperber / Wilson 1989, Kleiber 1994, Moeschler 2002) dans l’emploi des prépositions-adverbes avant et après. Du point de vue de la fréquence, ces prépositions introduisent surtout des syntagmes faisant référence au temps. La prépondérance du sens temporel sur celui spatial est d’ailleurs marquée par les dictionnaires consultés (Robert, Littré, Académie, TLFi). Tous ces dictionnaires donnent précédence au sens temporel, sans exception pour après et avec une seule exception pour avant, à savoir le TLFi: tout en présentant pour l’adverbe avant comme premier sens l’antériorité dans le temps, ‹auparavant›, ce dictionnaire considère que la première signification de la préposition est celle d’antériorité dans l’espace, ‹devant›. Du point de vue cognitif, le temps étant beaucoup plus abstrait que l’espace, pour la grande majorité des adverbes et des prépositions les emplois temporels représentent des extensions sémantiques par métaphores des significations spatiales. Il suffit de penser à des lexèmes comme à, autour, dans, de, en, entre, jusque, sous, sur, vers pour lesquels le sens temporel dérive du sens spatial. Il parait que les lexèmes avant et après constituent, de ce point de vue, une exception. Il existe deux articles très connus sur la sémantique des connecteurs avant et après, tous les deux traitant les emplois temporels, Anscombe (1964) et Heinämäki (1972). Le fameux article d’Elisabeth Anscombe (1964) propose une analyse vériconditionnelle, tandis que Heinämäki (1972) s’occupe surtout des emplois contrefactuels de avant. Elisabeth Anscombe (1964) souligne l’asymétrie qui existe dans l’emploi temporel des deux items, entre autre avec des syntagmes à polarité négative (faire un geste, dire un mot, ne pas savoir comment / pourquoi, etc.), qui peuvent être employées avec avant, mais par avec après. Ce même genre d’asymétrie a été constaté aussi par Heinämäki (1972), qui a fait une description vériconditionnelle alternative à celle d’Anscombe, proposant, en plus, une correction concernant le comportement pragmatique des adverbiaux temporels. Frege (1892) a inauguré l’étude des présuppositions avec la constatation que la forme positive ou négative du verbe de la principale n’influence pas la vérité de la prédication exprimée par l’adverbial temporel, qui constitue, donc, la présupposition de la phrase dans son entier. (1) Jean a fait / n’a pas fait un second dribbling avant que le ballon ait été joué par un autre équipier. < Le ballon a été joué par un autre équipier.
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Heinämäki a observé que avant (que / de) peut introduire aussi des prédications contrefactuelles: (2)
L’arbitré a sifflé avant que Jean puisse envoyer le ballon dans le but.
(3) Mozart est mort avant de finir son Requiem.
Il est clair que Jean n’a pas envoyé le ballon dans le but et Mozart n’a pas fini son Requiem. Cette capacité d’exprimer le contrefactuel manque aux adverbiaux introduits par après: (4)
L’arbitré a sifflé après que Jean a envoyé le ballon dans le but.
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Mozart est mort après avoir fini son Requiem.
Il faut remarquer que les exemples fournis par les sémanticiens pour décrire le comportement temporel de ces deux lexèmes (Anscombe 1964, Beaver / Condoravdi 2003 etc.) sont assez spécieux et, à part les emplois contrefactuels, ne se retrouvent pas dans notre corpus. Quant aux études de sémantique spatiale, nous nous limitons à citer les travaux classiques de Claude Vandeloise (1986), ainsi que la formalisation des relations spatiales projectives proposées par Michel Aurnague (1997).
2. Description du corpus L’étude du corpus électronique, obtenu spécialement des exemples du TLFi et des recherches sur Google, nous a montré qu’il existe trois emplois fondamentaux de ces prépositions: l’emploi temporel, l’emploi spatial, et l’emploi hiérarchique. Ce qui réunit les significations spatiales et temporelles est l’existence d’un repère par rapport auquel le locuteur situe les entités ou les événements dans le temps ou dans l’espace. L’usage temporel, le plus fréquent, impose une lecture événementielle, situant les prédications dans un ordre chronologique. Du point de vue spatial, les prépositions avant et après introduisent des relations projectives par rapport à un axe frontal. Quant aux emplois hiérarchiques, elles se retrouvent dans les syntagmes avant tout et après tout, qui marquent seulement la partie supérieure d’une hiérarchie (il s’agit avant tout / après tout d’obtenir une théorie satisfaisante). Il est facile de constater que dans une telle phrase, intervient une neutralisation des sens contraires des deux prépositions. Dans les pages qui suivent, pour des raisons d’espace, nous allons discuter seulement les emplois temporels. Notre étude du corpus montre que, du point de vue linguistique, avant et après présentent en français beaucoup d’analogies dans leur usage, ce qui confirme l’observation de Beaver / Condoravdi (2003) sur le caractère converse de ces deux lexèmes au niveau lexical. Cette caractéristique est exprimée par la formule (6) où M et M’ représentent les deux prédications: (6) [[avant]](M, M’) ≡ [[après]](M’, M) (Beaver / Condoravdi 2003: 2)
Quand les lexèmes avant et après introduisent des adverbiaux temporels, ils ordonnent les prédications sur un axe chronologique par leur contenu conceptuel, exprimant un rapport
Avant vs. après: contenu conceptuel et contenu procédural
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sémantique réciproque ou convexe, puisque, comme nous avons vu, dans la plupart des cas, ‹x après y› ≡ ‹y avant x›. Du point de vue procédural, les deux items imposent une lecture événementielle à la prédication, indiquant au récepteur la coïncidence (pour après) ou la non coïncidence (pour avant) de l’ordre d’occurrence des prédicats dans le discours avec ordre chronologique des événements qui constituent leur référence. Les emplois conceptuels se retrouvent dans deux situations: (i) avant et après introduisent des éléments à contenu événementiel évident, comme des verbes à l’infinitif, des propositions subordonnées temporelles ou des substantifs désignant des événements, la plupart des déverbaux; (ii) la même lecture apparaît si le syntagme a comme centre un substantif désignant des intervalles temporels. Les emplois instructionnels sont imposés par l’occurrence dans les mêmes conditions d’un nom propre (anthroponyme ou toponyme) ou d’un pronom personnel. Les emplois trouvés dans le corpus marquent un passage continu et progressif d’un sens clairement conceptuel à une signification clairement procédurale. 2.1. Emplois conceptuels Les emplois conceptuels ont dans leur centre l’expression du repère, pour assurer l’ancrage (temporel ou spatial) de la phrase. Dans les emplois temporels, il existe deux types de repères: un adverbial désignant un intervalle temporel ou bien un événement situé dans un intervalle temporel connu aux interlocuteurs. 2.1.1. Repère - événement Le sens conceptuel se retrouve dans sa forme plus claire dans le cas d’un repère constitué par un événement qui, du point de vue syntaxique, peut être codifié sous la forme d’une subordonnée temporelle, d’un infinitif ou d’un substantif résulté d’une nominalisation. Les subordonnées temporelles qui nous intéressent sont introduite pas les conjonctions composées avant que et après que, avec la différence d’une certaine nuance modale pour avant que, qui se construisent avec le subjonctif: (7)
L’intuition est une des facultés de l’homme intérieur dont le spécialisme est un attribut. Elle agit par une imperceptible sensation ignorée de celui qui lui obéit: Napoléon s’en allant instinctivement de sa place avant qu’un boulet n’y arrive. (H. de Balzac, Louis Lambert, 1832, 208)
(8)
Après avoir quitté cette ville / après que nous eûmes quitté cette ville, la pluie cessa et le vent tourna au nord. (d’après H. Malot, Sans famille, 1878, 110)
Parfois ces subordonnées expriment des situations contrefactuelles (9) ou des faits seulement possibles ou probables (10):
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(9) J’intervenais avant que vous ayez pu battre en retraite et vous obligeais à accepter le combat. (F. Mauriac, Le Nœud de vipères, 1932, 115) (10) Ta fierté serait donc ton endroit vulnérable; c’est peut-être même ton idole. Prends garde, renonces-y avant qu’elle ne soit brisée. (H.-F. Amiel, Journal, 1866, 80)
En revanche, après que, dénotant des faits réels et activant la présupposition factuelle de Frege, introduit le plus souvent une subordonnée à l’indicatif: (11) Ce soir-là, après qu’ils eurent mangé leurs pommes de terre et terminé leur chétif dîner, les trois frères demeurèrent réunis. (M. Barrès, La Colline inspirée, 1913, 267)
Les grammairiens ont constaté que, depuis le début du XXe siècle, les locuteurs emploient tantôt l’indicatif, tantôt le subjonctif dans les subordonnées introduites par après que: (12) Après que tu m’aies abandonnée, j’ai d’abord fui le couvent pour la montagne. (A. Camus, La Dévotion à la croix, adapté de Calderon de la Barca, 1953, 578) (13) Le lendemain matin, tandis qu’Yves buvait son chocolat dans son lit, après que son grandpère fût venu l’embrasser (...) on parla d’abord de Napoléon, ce qui était entre la grand-mère et le petit-fils un sujet suivi de conversations, de controverses, de méditations et de perplexités en commun. (P. Drieu La Rochelle, Rêveuse bourgeoisie, 1939, 118)
Cet emploi du subjonctif, très fréquent dans la langue parlée et dans le langage de la presse et de la télévision, a commencé par être considéré fautif, puis il a été accepté. Il est facile de constater, comme Grevisse (1988), que la tournure après que + subjonctif se retrouve chez un grand nombre d’écrivains.1 Le problème se retrouve débattu non seulement dans les grammaires et les dictionnaires, mais aussi dans les forums de discussions sur la grammaire du français qu’on trouve sur l’Internet: tout le monde constate la fréquence de la tournure; certains blogueurs la considèrent erronée, d’autres l’acceptent, qualifiant les critiques de ‹puristes›. Ce qui nous intéresse est surtout la motivation de l’apparition de cet usage. Le TLFi cite les opinions de M. Stéfanini qui, dans un article de 1953, explique le choix du subjonctif comme un temps in fieri ‹en train de se réaliser›, observation difficile à accepter vue que les propositions introduites ne sont jamais contrefactuelles: (14) La joueuse française est sortie victorieuse d’un match très disputé après que son adversaire se soit blessé à la cheville. (15) Paul est rentré après que je sois parti.
Marc Wilmet (1979) pense que le passage de l’indicatif au subjonctif est l’expression d’un affaiblissement de la catégorie du temps en faveur de l’aspect, puisque les formes simples et composées du subjonctif constituent toujours des couples aspectuels véritables. Grevisse cite Sartre, Montherlant, Duhamel, Mauriac, Camus, Jules Roy, Maulnier, Cesbron, Daniel-Rops, Aragon, Mitterrand, Saint-John Perse, Proust, Valéry, De Gaulle, Ionesco, Roger Vailland, Lacan, Félicien Marceau, Butor, Robbe-Grillet, Georges Mounin, Giscard d’Estaing, Perec, Beauvoir, Soustelle, Claude Simon.
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Cette interprétation nous semble peu convaincante, car après que introduit surtout des verbes téliques exprimant le perfectif, les prédications imperfectives étant presque absentes. Personnellement nous croyons à l’explication de Claude Duneton (2004), qui considère que l’emploi du subjonctif dans la subordonnée introduite par après que est un phénomène de hypercorrection causé par l’analogie avec avant que. Dans notre corpus, les constructions avant de + Vinf et après + Vinf sont les plus fréquentes et, comme les précédentes, impliquent le plus souvent des prédications téliques: (16) Hier soir donc, après avoir assuré mon gîte dans le seul hôtel acceptable de la ville, je me suis mis en route… (J. Michelet, Sur les chemins de l’Europe, 1874, 211) (17) Avant d’entrer, ils examinèrent l’habitation. (G. De Maupassant, Les Dimanches d’un bourgeois de Paris, 1880, 45)
Dans toutes ces énoncés les subordonnées temporelles établissent une chronologie des prédications de la forme E1 et ensuite E2: dans (14) l’adversaire s’est blesé et ensuite la joueuse française a vaincu le match, dans (17) les protagonistes examinent l’habitation et ensuite ils y entrent. Dans tous ces cas, la relation d’ordre est converse, comme montré dans (6). Le même sens conceptuel se retrouve dans les adverbiaux temporels ayant dans leur centre un substantif résulté d’une nominalisation: (18) Le prince Murat et le maréchal Soult arrivèrent les premiers devant les redoutes ennemies et engagèrent l’action avant l’arrivée de Napoléon et du reste de l’armée. (G. Sand, Histoire de ma vie, t. 2, 1855, 145) (19) –Il faut reconnaître que Monsieur Keller a bien du talent, dit maman après échange de quelques banales politesses. (A. Gide, Geneviève, 1936, 1380)
Il est clair que nous avons le même rapport E1 et ensuite E2: le prince Murat et le maréchal Soult engagent la bataille (E1) et ensuite est arrivé Napoléon et le reste de l’armée (E2), la mère du narrateur a échangé des politesses avec ses interlocuteurs (E1) et ensuite a fait une remarque sur le talent de Monsieur Keller (E2). 2.1.2. Repère - un intervalle temporel Le sens conceptuel est présent aussi quand le repère est constitué par un substantif désignant un intervalle temporel. C’est un type d’occurrence usuel, se trouvant, dans notre corpus, au même niveau de fréquence que les occurrences de l’infinitif. Les prépositions introduisant des adverbiaux temporels ont comme centre du syntagme adverbial: – des adverbes quantitatifs (peu, longtemps, bientôt, …): (20) Cette famille ‹les Rotchield› possèderait avant peu tout le beau de la terre qui est encore à vendre. (E. et J. De Goncourt, Journal, mars 1892, 219) (21) Ma soif et ma gourmandise furent plus fortes que mon dégoût; mais j’en gardai, longtemps après, l’estomac lourd et la langue comme épaissie. (A. Gide, Journal, 1905, 163)
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– des intervalles flous (exprimés par des substantifs du type temps, période, époque, …): (22) Après un temps de surprise, le silence finit par être accepté par tous comme l’aboutissement nécessaire d’une introspection creusée jusqu’au sacrifice total, jusqu’à l’absorption du regardé par le regardant. (G. Bernanos, L’Imposture, 1927, 427) (23) Avant cette période, quelque chose de chimiquement indispensable au goût de vivre ne se combinait plus avec le reste en moi. (J. Cocteau, Monologues, 1960, 44)
– des intervalles selon le calendrier, allant de jour jusqu’à ère. Notre corpus a attesté plusieurs situations: a. des noms temporels ‹communs›2, avec leurs sous-intervalles: (24) C’est seulement quelques mois après la parution, que Paul Souday, l’arbitre officiel des lettres, le redouté mentor du Temps, s’est occupé de moi. (R. Martin Du Gard, Souvenirs autobiographiques et littér, 1955, LIX) (25) Après un certain nombre d’années j’ai fini par comprendre que la nature des choses me faisait une loi d’aspirer à la mort. (J. Bousquet, Traduit du silence, 1936, 7)
b. des noms ‹propres›: (26) Le Christ est appelé soleil de justice, et dans l’une des Grandes Antiennes que l’Église catholique chante avant Noël: Oriens, c’est-à-dire ‹soleil levant›. (G. Le Scouezec, Les Arts divinatoires majeurs, 1964, 210) (27) Mais tu partirais le dimanche après vêpres à six heures, tu serais à Rouen à onze, et tu nous quitterais avec grand regret le samedi dans l’après-midi. (G. Flaubert, Correspondance, 1832, 4)
En quelque sorte, les numéraux avec les noms qui désignent des intervalles cycliques, comme siècle, an ou heures, donnent aux adverbiaux la capacité d’avoir comme référent un intervalle unique, comme les substantifs temporels ‹propres›: (28) Impossible d’être au travail avant 9 heures, et si j’étais indisposé tout ce système luimême se détraquerait. Cette double considération me fait désirer un arrangement plus rationnel, plus rassurant et plus stable. (H.- F. Amiel, Journal intime, 1866, 522) (29) Avant 1934, Koufra était dans la zone d’influence britannique, aujourd’hui c’est seulement un morceau des territoires italiens. (Ch. De Gaulle, Mém., 1954, 356)
Nous reprenons de Fillmore (1975) la distinction faite pour des substantifs désignant des intervalles temporels entre les noms ‹communs› (heure, jour, semaine, année, siècle, etc.) et les noms ‹propres› (lundi, …, dimanche, janvier, ...., décembre, Noël, etc.): les noms ‹propres› ne peuvent pas être employés comme termes de mesure. En plus, en combinaison avec des modificateurs comme ce, passé, prochain, futur..., les deux catégories de noms désignent leurs intervalles de référence de manière diverse.
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2.2. Emplois procéduraux - lecture événementielle Les emplois procéduraux interviennent surtout dans l’interprétation événementielle de substantifs qui ne dérivent pas d’un verbe ou d’un nom propre, anthroponyme ou toponyme.
2.2.1. Noms communs
Dans le cas des noms communs, la lecture événementielle est basée sur les frames sémantiques de chaque lexème nominal. Les substantifs communs peuvent exprimer: – l’instauration d’un nouveau état résultant, avec des SN dénotant des phénomènes complexes, comme le christianisme / le choc / la ruine / le décantage / la floraison / la gratuité / la ruine / … (avant le christianisme / le choc / …). (30) Après la gratuité de l’instruction est venue l’assistance scolaire, c’est-à-dire délivrance gratuite des livres, délivrance gratuite des sabots, puis des vêtements. (M. Barrès, Cahiers, t. 9, 1911, 56-57) (31) Je suppose, dis-je, que le texte d’Ézéchiel soit authentique, et que cette page fameuse ait été en effet écrite six ou sept siècles avant le christianisme. (M. Leroux, De l’Humanité, t. 2, 1840, 832)
Il est clair que l’occurrence des prépositions avant / après déclenche l’interprétation prédicative du substantif, selon son frame sémantique: avant l’apparition du christianisme signifie avant que le christianisme ait apparu, après l’institution de l’instruction gratuite est interprété comme après que l’instruction gratuite a été instituée. D’autres substantifs, qu’on pourrait qualifier de ‹aspectuels›, individualisent une certaine phase de l’événement: (32) Une heure après le début de ce volcan sur la scène du monde, de larges ruisseaux de lave incandescente coulaient sur ses flancs. (J. Verne, Enfants du capitaine Grant, t. 3, 1868, 174) (33) Mais un beau danseur s’élança avant la fin du dernier couplet. Il préférait à une bergère de chanson, c’était visible, quelque grasse fille hanchue qu’il pouvait cambrer sous son bras agile. (G. Guèvremont, Le Survenant, 1945, 133)
Selon le frame de chaque substantif, l’occurrence des prépositions entraînent des interprétations comme après que le volcan a commencé son éruption, ou bien avant que le dernier couplet de la chanson soit chanté. Le repère peut être fourni par des phénomènes complexes, naturels ou historiques. Pour le domaine historique, le substantif le plus fréquent utilisé comme indication teporelle est guerre (comme phénomène total ou une de ses phases): (34) Quant à moi, je resterai en relations après la guerre avec les fermiers chez qui j’ai travaillé pendant quatre ans. Ils m’ont traité comme un des leurs. (F. Ambrière, Grandes vacances, 1946, 196)
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(35) Il paraît qu’hier un déserteur a dit à la brigade qu’avant l’attaque il y aurait un bombardement de cent heures. (J. Romains, Hommes bonne vol., 1938, 10) (36) Après la victoire, on fera, comme il convient, la répartition des dépouilles opimes. (G. Clemenceau, Iniquité, 1899, 261)
Nous pouvons introduire, dans la même catégorie, des mots comme révolution, accession (au pouvoir), crise, récession, etc. (37) L’écologie ne pèsera malheureusement quasiment rien dans un contexte de reprise économique mondial et de forte demande en énergie après la crise. (http://tropicalbear. over-blog.com/article-6279040.html) (38) Je lui dis que je connais assez bien son pays, y ayant séjourné plusieurs fois avant l’accession de Hitler au pouvoir. (J. Green, Journal, 1950, 343)
Assez fréquents sont les substantifs qui désignent des phénomènes météorologiques, qui occurrent avec des verbes du type se produire ou cesser: (39) Courant à l’aise sur les pentes gazonneuses, j’arrivai à Chamounix avant la pluie. (G. Sand, Hist. vie, t. 4, 1855, 195) (40) Quand le beau temps reparut, une voile se montra à l’horizon. C’était un pirate colombien qui arrivait après la tempête, en véritable oiseau de proie des mers. (P.- A. Ponson Du Terrail, Le Club des valets de cœur, t. 3, 1859, 32)
Toute une série d’adverbiaux introduits par avant ou après désignent des événements importants dans l’histoire individuelle des personnes, comme la naissance, la mort, le mariage, le divorce, etc.: (41) On l’administra une heure avant sa mort. (Académie) (42) Trois ans après la naissance d’une fille, tous les grands parents de madame de Watteville étaient morts et leurs successions liquidées. (H. de Balzac, A. Savarus, 1842, 4)
Un grand nombre d’adverbiaux introduits par avant et après désignent comme repère des activités humaines régulières, comme celle de se nourrir à certaines heures, selon un modèle culturel connu à tous et qui permet aux interlocuteurs d’individualiser le moment: (43) À neuf heures, le baron, qui prit un bain avant le dîner, fit une toilette de marié, se parfuma, s’adonisa. (H. de Balzac, Splendeurs et misères des courtisanes, 1848, 166) (44) Je me couchais après le repas; je dormais, je me réveillais plus las encore, l’esprit engourdi comme pour une métamorphose. (A. Gide, Les Nourritures terrestres, 1897, 159)
Parfois le locuteur fait référence à une certaine phase du repas en désignant un certain plat ou une certaine boisson, qu’on mange ou boit dans un moment faisant partie d’une succession codifiée sociologiquement et culturellement. Il s’agit, évidemment, d’un transfert métonymique:
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(45) Je m’approche de maman Philomène avant la soupe et j’y dis: - Maîtresse, voilà la foulaison finie et le tout engrangé prêt à vendre. (J. Giono, Un de Baumugnes, 1929, 117) (46) Le premier jour, après son café, il avait commandé un verre de calvados. (G. Simenon, Les Vacances de Maigret, 1948, 18)
Souvent la lecture événementielle se réfère plutôt à une zone sémantique qu’à un verbe précis: avant la soupe peut signifier avant de manger ou avant d’apporter / de servir la soupe tandis que après son café, vu le script de restaurant, peut signifier non seulement après avoir bu / pris son café, mais aussi après avoir commandé un café. Dans d’autres situations la prédication est plus précise: (47) Après dix bouteilles, il buvait un coup de tisane. Il absorbait un litre par heure, huit litres dans sa tâche; il les rendait en transpiration. (P. Hamp, Vin de Champagne, 1909, 83) (48) Après le dessert, on causait des mille riens de la journée. (E. Zola, Thérèse Raquin, 1867, 45)
Évidemment, dans ces exemples les prédications impliquent les verbes boire, respectivement manger ou leurs synonymes. 2.2.2. Noms propres Dans le cas des noms propres, la lecture événementielle est liée, presque exclusivement, aux connaissances encyclopédiques des locuteurs. Dans le cas des noms des célébrités ou des personnalités réputées, quelle que soit l’époque quand elles ont vécu, cette lecture regarde généralement leur domaine d’excellence. Dans le cas des toponymes, la lecture prédicative est déclenchée par un événement important qui y a eu lieu. Du point de vue temporel, les syntagmes après / avant + Nomantroponyme désigne un intervallerepère qui se rapporte à la vie ou à la période d’activité d’une certaine personne. (49) Avant Freud, la psychologie classique n’a étudié que les manifestations du moi qui affleurent à la surface. (M. Choisy, Qu’est-ce que la psychanalyse? 1950, 111) (50) Si la vérité pourtant n’était pas conforme à la raison ni à la logique humaine? Si elle était vraiment cette folie qu’a dénoncée saint Paul, et après lui Tertullien, cette absurdité? (F. Mauriac, Journal du temps de l’occupation, 1944, 340)
Cette interprétation se maintient si le syntagme a dans son centre un pronom personnel déictique, mais, dans ce cas, la référence temporelle concerne seulement les limites de la vie, sans impliquer nécessairement l’activité: (51) La nature ne distille pas; moi, je distille. D’autres feront bien plus après moi. (E. Renan, Drames philosophiques, L’Eau de jouvence, 1888, V, 3, 506) (52) Ne vous effrayez point d’assister à la fin prochaine de votre père, de votre ancien ami. C’est par une loi de la nature qu’il quitte avant vous cette terre où il est venu le premier. (A.-L.- G. de Staël, Corinne, t. 2, 1807, 22)
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Si le nom propre est celui d’une compagnie, d’une industrie, la lecture procédurale implique le type d’activité: (53) Je venais d’entrer comme jeune pilote de ligne à la société Latécoère qui assura, avant l’Aéropostale, puis Air France, la liaison Toulouse-Dakar. Là j’apprenais le métier. (A. De Saint-Exupéry, Terre des hommes, 1939, 141)
Comme nous l’avons montré, si le nom propre est un toponyme, l’ancrage temporel est donné par un épisode important qui a eu lieu là-bas, le plus souvent un événement historique (une bataille, un traité, etc.): (54) Il fumait la pipe en porcelaine qu’il avait rapportée de son évasion d’Allemagne, après Sedan. (R. Abellio Pacifiques, 1946, 98) (55) Avant Lisbonne, l’Union européenne était organisée conformément au traité de Maastricht.
Le moment d’ancrage pour ces deux énoncés est constitué, évidemment, par le 1 septembre 1870 (date de la défaite de Napoléon III, à Sedan) et par le 1 décembre 2009 (jour de l’entrée en vigueur du traité de Lisbonne). Dans les journaux, on synthétise aussi avec des substantifs toponymes des événements du quotidien, qui se trouvent dans la mémoire immédiate des lecteurs: (56) Obama et Clinton se neutralisent avant le Texas. (Le Figaro 22.02.2008)
Il s’agit, dans ce cas, de la campagne pour l’investiture démocrate avant l’élection présidentielle aux États-Unis du novembre 2008. L’article discute les conséquences d’un débat à l’Université de Texas des deux candidats à la candidature du Parti démocrate. Le syntagme avant le Texas prend comme point de repère les élections primaires au Texas, en mai 2008.
3. Conclusions Les prépositions-adverbes avant et après présentent en français une remarquable unité linguistique. Leur sens conceptuel est normalement opposé et, le plus souvent, converse, mais ces deux lexèmes occurrent dans les mêmes contextes. Pour les deux items examinés, les adverbiaux temporels dépassent, comme fréquence, les adverbiaux spatiaux. Dans leur acception temporelle, les syntagmes ou les subordonnées temporelles introduites par les mots étudiés présentent deux catégories d’emplois: – ils offrent un repère temporel à la prédication de la phrase, s’il contient des lexèmes qui désignent des intervalles temporels; – ils obligent le récepteur à faire une lecture événementielle, quel que soit le centre de l’expression introduite-verbes, noms issus d’une nominalisation, noms qui réfèrent à un événement ou à un état résultant, pronoms ou des noms (propres et communs) ‹ordinaux›.
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Les deux lexèmes, dans leur emploi temporel, présentent la caractéristique commune d’offrir un repère pour situer et / ou ordonner les événements. L’emploi conceptuel correspond surtout à la sémantique de ces lexèmes tandis que le deuxième, l’emploi procédural, à leur pragmatique. Dans l’étude du corpus, nous avons constaté un passage continu du sens conceptuel à l’emploi procédural, le second ayant une importante composante encyclopédique, surtout dans le cas des noms propres, le repère pouvant être (i) dans le cas des noms propres anthroponymiques l’époque de l’activité de la personnalité désignée ou (ii) dans le cas des noms propres toponymiques l’événement historique qui y a eu lieu.
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Santiago del Rey Quesada (Universidad de Sevilla)
Fórmulas de tratamiento en los diálogos de Alfonso de Valdés
1. Introducción El estudio lingüístico de la cortesía se perfila hoy día como una de las líneas de investigación más fructíferas y motivadoras en el ámbito de la filología. A pesar de su relativamente escasa vida como objeto de análisis, la cortesía verbal cuenta ya con abundante bibliografía e incluso con teorías consolidadas de pretensión universal, lo que pone de manifiesto el creciente interés de los investigadores del lenguaje con respecto a las formas lingüísticas que se relacionan con ella.1 El propósito que guía nuestra contribución es el de ofrecer una serie de datos relevantes en lo que respecta al empleo de las formas de tratamiento en el siglo XVI y su concreción en la ficción literaria construida en dos diálogos: el Diálogo de las cosas acaecidas en Roma (1527) y el Diálogo de Mercurio y Carón (1528). De entre las obras literarias que pueden ser objeto de estudio con la finalidad de descubrir características propias de una determinada etapa de lengua, el diálogo se nos presenta como un género interesante, en el sentido de que a él es esencial la codificación discursiva de al menos dos figuras comunicativas, locutor y adlocutario, que participan en el intercambio conversacional, en el ámbito del cual las estrategias de cortesía y, entre ellas, el uso de distintas formas de tratamiento, según la diferencia social y de grado de familiaridad que exista entre los participantes en el coloquio, son un elemento indispensable para crear la verosimilitud necesaria en cualquier producto literario de esta clase.
En referencia a otras épocas de la historia de la lengua, los estudios de cortesía empiezan a ser importantes en la bibliografía sobre este tema. Dentro de la específicamente española, uno de los aspectos relacionados con la cortesía más atendidos es el de las fórmulas de tratamiento. El punto de partida a este respecto lo constituye sin duda el minucioso trabajo de Rafael Lapesa (2000), Personas gramaticales y tratamientos en español, publicado por primera vez en 1970. Muy abundantes son los estudios sobre la evolución del vos en España e Hispanoamérica. En lo que respecta a estudios monográficos concretos sobre literatura en español, podemos citar los trabajos, centrados en diferentes épocas de la historia del español, pero sobre todo en los siglos XVI y XVII, de Romera (1981), Enguita (1986), Martínez (1988), Castillo (1990), Líbano (1991), Torres (1993), Salvador (1996), Herrero (1999), Maldonado (1999), García (2000), Calderón (2000) y Pedroviejo (2003), entre otros.
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2. Fórmulas de tratamiento en el corpus seleccionado Marcos Marín (1980: 220) define las fórmulas de tratamiento como «las distintas maneras que tiene la primera persona de dirigirse a la segunda en el coloquio». Dentro de esta definición no cabría hablar de los pronombres de primera persona; sin embargo, el mismo Marcos Marín estudia un poco después el nos mayestático y el nosotros de modestia. También Enguita2 deja fuera de su definición las formas de primera persona, al igual que Ángeles Líbano Zumalacárregui.3 Martínez Gavilán (1988: 85), sin embargo, en su estudio de las formas de tratamiento en el siglo XVII, aclara que habría que tener en cuenta «no sólo las formas empleadas en el tratamiento con el interlocutor, sino también las que el propio hablante utiliza para designarse a sí mismo, ya que ambos, primera y segunda persona del discurso, son los protagonistas del acto comunicativo». Para estudiar las fórmulas de tratamiento en nuestros diálogos nos basaremos en el estudio de Lapesa (2000). Tal como hace este autor, comenzaremos con los sustitutos de primera persona. 2.1. Sustitutos de la primera persona No encontramos otros sustitutos del pronombre yo en nuestro corpus más que (esporádicamente) los pronombres nos y nosotros y sus formas átonas correspondientes. Tal uso posee diferentes valores. 2.1.1. El plural mayestático arranca, como indica Lapesa (2000: 311) «de la cancillería imperial romana» que sustituía nos por ego. Nosotros sólo lo encontramos en el dmyc, concretamente en algunas de las cartas regias que se insertan en los largos parlamentos de Mercurio: MERCURIO. (Carta del Emperador al Rey de Inglaterra): Y porque conoscemos en vos otra tal intención y voluntad, muy afectuosamente os rogamos, muy caro y muy amado tío y hermano, que nos enviéis vuestro parecer de lo que en este caso debemos por nuestra parte hacer [dmyc: 142].
Este y otros testimonios del plural mayestático responden a un uso artificioso pero «normal en las pragmáticas y demás disposiciones del siglo XVI», aunque «los monarcas posteriores fueron restringiendo el uso de nos con creciente preferencia por el singular» (Lapesa 2000: 312)4. La decadencia del plural mayestático puede verse reflejada en una de las muchas caricaturas sociales que se dibujan en el dmyc con las ánimas: «Se entiende por fórmula de tratamiento el empleo de un pronombre –o sintagma nominal– por medio del cual un hablante se dirige a su interlocutor» (Enguita 1986: 295). 3 «Entendemos por fórmula de tratamiento los distintos procedimientos que emplea la primera persona, llamada también persona locutiva, para dirigirse a la segunda, su interlocutor, o persona alocutiva» (Líbano 1991: 107). 4 La supervivencia del Pluralis Majestatis entre los autores europeos que escribían en latín todavía era notable en el siglo xv, pero los humanistas trataron de erradicarlo por completo del uso de la lengua (Ijsewijn / Dacré 1998: 407). 2
Fórmulas de tratamiento en los diálogos de Alfonso de Valdés
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ÁNIMA. ¡Ah, barquero! Pásanos. CARÓN. ¿Estás solo y dices «pásanos» como si fuésedes muchos? ÁNIMA. ¿Tú no ves que soy obispo? CARÓN. ¿Y pues? ÁNIMA. Los obispos, por guardar nuestra gravedad, hablamos en número plural. CARÓN. Sea mucho de enhorabuena. Y tú, ¿sabes qué cosa es ser obispo? ÁNIMA. ¡Mira si lo sé, habiéndolo sido veinte años! [dmyc: 125]
La reflexión metalingüística, de señalado efecto cómico en este contexto, sirve para destacar la soberbia del personaje, cuya prepotencia lo hace creerse superior aun en el más allá. El fragmento refleja también el leit motiv del poder igualitario de la muerte, que no hace diferencias, ni siquiera en lo que a las formas de tratamiento se refiere, entre reyes, obispos y simples ciudadanos. 2.1.2. También existe abundante documentación en latín del plural sociativo. Lapesa (2000: 313) explica en qué consiste de la siguiente forma: «valiéndose del plural el autor o hablante presenta a sus lectores u oyentes como partícipes de lo que él dice, piensa o hace, o bien se suma a dichos, ideas o acciones de ellos». En este caso, a diferencia de lo que ocurre con el plural de modestia, la referencia deíctica no sólo se dirige al emisor sino que hay cierta inclusión de ‹otros› en la primera persona, con lo que no hay valor enteramente traslaticio en el número plural, pues la pluralidad, aunque virtualmente, existe. En ambos diálogos, el plural sociativo se emplea con frecuencia cuando uno de los personajes decide comenzar un proceso argumentativo, mediante la fórmula veamos, y también cuando, en el dmyc, los interlocutores deciden abordar a las ánimas para informarse sobre su condición en vida, utilizando para ello el verbo saber de manera exhortativa: LATANCIO. Veamos: si alguno quisiera tomar la capa a Jesucristo, ¿creéis que se pusiera en armas para defendella? [dcar: 106]. CARÓN.- Cosa es que muy pocas veces acaece, subir reyes por esta montaña. MERCURIO.- No me maravillo, pues hay pocos. Sepamos quién es y de dónde [dmyc: 210].
Con la utilización de esta persona verbal, al menos en los ejemplos que hemos encontrado en el dcar, se pretende también impersonalizar o generalizar la referencia de lo enunciado. Se trata en realidad de una estrategia empleada en las interrogativas retóricas. Asimismo, tal vez, podríamos ver en el uso de dicha persona una estrategia de cortesía, en tanto que el locutor se incluye en la enunciación de un acto de habla en el que es patente la intención de crítica y rechazo de determinados valores: LATANCIO. Si nos parece que esta doctrina cristiana es alguna burlería, ¿por qué no la dejamos del todo? [dcar: 102] LATANCIO. ¿Pues por qué queremos darle como cosa a él muy preciosa y grata lo que sabemos que él menospreció y quiso que nosotros menospreciásemos, no teniendo cuidado de ofrecerle nuestras ánimas muy puras y limpias de todo vicio y pecado, siendo esta la más preciosa y agradable cosa de cuantas le podemos ofrecer? [dcar: 181-182].
Tanto el plural de modestia, que no hemos hallado en estos diálogos, como el sociativo los incluye Haverkate (1987: 50) dentro del tipo de referencia que denomina
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‹pseudoinclusivo›, término que considera acertado «en el sentido de que refleja el carácter indirecto de los actos verbales marcados por la correspondiente estructura referencial». En cuanto al plural sociativo de «referencia indirecta y humorística a la segunda persona» (Lapesa 2000: 313), del tipo ¿Qué? Nos hemos puesto bien en la comida, ¿no? o ¡Cómo nos gusta fastidiar al personal! ¿eh?, Lapesa señala que es propio del «lenguaje coloquial moderno». Sin embargo, aunque tan sólo en una ocasión, lo hemos visto en una de las obras que aquí estamos analizando, concretamente en el dmyc. El contexto conversacional es, efectivamente, de escasa formalidad: ÁNIMA. ¿Vosotros no vedes que soy cardenal? CARÓN. Ése tengas en el ojo. ÁNIMA. Más aína lo ternás tú si me haces tomar este remo. CARÓN. ¿De cardenal te quieres tornar galeote? MERCURIO. No lo consientas, Carón. CARÓN. ¿Por qué, Mercurio? MERCURIO. Porque si guía tu barca como guió la Iglesia de Jesucristo, yo te la doy por perdida. ÁNIMA. Dejémonos de esas gracias, Mercurio, que ya se pasó vuestro tiempo, pues que no sois ya alcahuete de Júpiter [dmyc: 60].
2.1.3. Hemos hallado un caso de referencia al propio emisor en número plural que no se corresponde con los usos mayestático ni sociativo, sino que es empleado con una intención humorística, o más bien irónica, por parte del hablante, que pretende así distanciarse del contenido de su propia enunciación. Precisamente en dicho distanciamiento reside la ironía.5 Se trata de un dativo ético, y, como señalaba Lapesa a propósito del tipo de sociativo al que nos acabamos de referir, el empleo aquí también es netamente coloquial: CARÓN. ¿Quieres que te diga la verdad, Mercurio? Así como yo me huelgo que ellos lo hagan como tú dices, así me parece que convernía a ellos y a todos que hiciesen lo contrario. MERCURIO. ¿De barquero te nos quieres tornar consejero? Calla, pues, si quieres que prosiga mi historia. CARÓN. Soy contento. Pero veamos primero lo que quiere decir esta ánima que no va a pasar con las otras [dmyc: 103].
2.2. Sustitutos de la segunda persona La referencia al interlocutor puede verbalizarse de muy diversas maneras. En el ejercicio cotidiano del lenguaje, los hablantes aprendemos a desenvolvernos utilizando ciertas estrategias que permitan el trato respetuoso con los demás. La elección de determinadas formas de tratamiento frente a otras depende de varios factores extralingüísticos y contextuales que hay que calibrar, a veces de manera inconsciente, en la relación con el otro dialogante. A continuación intentaremos dibujar el panorama de formas de tratamiento de segunda persona Narbona (2005: 106) dice que «la ironía [...] va ligada al distanciamiento comunicativo, por lo que mal podría conseguirse mediante una andadura sintáctica de la proximidad».
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en nuestro corpus. Advertimos de antemano que nos referiremos básicamente a las dos que hemos documentado: tú y vos, pues no hemos encontrado el sustituto vuestra merced ni otros sintagmas con sustantivos abstractos similares. De la forma vuestra merced dice Lapesa (2000: 319) que «se extendió al tratamiento respetuoso en general; rehusarla entre iguales era injurioso cuando no había mucha confianza, y era vejatorio regatearla a inferiores distinguidos. Así ocurría ya hacia 1530, y los testimonios literarios posteriores son muy abundantes». Nuestros diálogos son del primer tercio del siglo XVI; sin duda el tratamiento ya debía de ser frecuente en la sociedad castellana. Su ausencia en los textos que estamos estudiando puede deberse a que todavía la generalización no había alcanzado su punto álgido, pero también al hecho de que, salvo en alguno de los documentos regios transcritos en el dmyc, en alguna de las secuencias en estilo directo integradas en el relato de ciertas ánimas o en el pasaje final del dcar, no se refleje ninguna situación sociolingüísticamente asimétrica en estas obras. 2.2.1. Sustitutos de la segunda persona en el dcar En el dcar, la forma de tratamiento casi exclusiva que encontramos es la de vos. Hay que tener en cuenta, en primer lugar, que la obra está constituida por la sola conversación entre Latancio y el Arcidiano. El portero que provoca el cese del diálogo no aparece sino al final y tan sólo con tres intervenciones. El uso de vos en el dcar parece ser el correspondiente a una situación en la que los interlocutores son de una misma condición social y la relación entre éstos es de familiaridad o amistad: LATANCIO. ¡Válame Dios! ¿Es aquél el Arcidiano del Viso, el mayor amigo que yo tenía en Roma? [dcar: 85]
Es decir, estaríamos en un estadio lingüístico en el que ya se notaría, en palabras de Lapesa (2000: 322), «el éxito que en el siglo XVI logró vuestra merced como fórmula de respeto», lo que «contribuyó decisivamente a que vos se convirtiese en tratamiento para iguales de mucha confianza o para inferiores». Pero aún no sería excesivamente notable para los hablantes la decadencia del vos, que se degradaría hasta ser considerado una forma de trato ofensiva para las personas de cierto nivel social. En el dcar se deja notar un ambiente de respeto mutuo entre los dialogantes que en pocas ocasiones se resuelve en contextos «no acomodaticios» (Haverkate 1998: 180-181), por lo que puede decirse que la amistad entre ellos no transgrede los límites de lo cordial. En resumidas cuentas, el vos que Latancio y el Arcidiano se intercambian indica un «trato respetuoso entre iguales» (Salvador 1996: 192), uso que atestigua el hermano de nuestro autor, Juan de Valdés (2003[1535]: 171), cuando explica su preferencia por «poner» la -d al final de las formas imperativas de segunda persona del plural en los verbos: V.- Póngola por dos respetos: el uno por henchir más el vocablo, y el otro por que aya diferencia entre el toma con el acento en la o, que es para quando hablo con un muy inferior, a quien digo tú, y tomá con el acento en la a, que es para quando hablo con un casi igual, a quien digo vos; lo mesmo es en compra y comprad, en come y comed, etc. (Valdés 2003[1535]: 171).
El tratamiento de vos es también el empleado por los interlocutores cuando al final del diálogo entra en escena el portero de la iglesia de San Francisco para echar a Latancio y al Arcidiano.
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El estatus del portero, que es clérigo como el Arcidiano, es inferior al de éste, integrante de la curia romana. Se presenta en cualquier caso una relación entre desconocidos, con lo que no cabe la posibilidad de que se trate de un vos de familiaridad. Tampoco creemos que el uso de este pronombre por parte del Arcidiano hacia el portero corresponda a un deseo de expresar su superioridad social, sino que más bien podríamos considerarlo un vos de respeto: PORTERO. Si no queréis salir, dejaros he encerrados. ARCIDIANO. Gentil cortesía sería ésa, a lo menos no os lo manda así Sanct Francisco [dcar: 234-235].
Cuando, a lo largo de la obra, uno de los dialogantes se refiere al otro incluyéndolo dentro de un conjunto de personas, el plural empleado es vosotros: LATANCIO. ¿Y de eso pesaros hía a vosotros? [dcar: 144]
Aunque de manera esporádica, también hemos encontrado la forma de tratamiento basada en el tú en el dcar. Los contextos de enunciación más claros en los que se halla el uso de este pronombre los constituyen pasajes en los que alguno de los personajes invoca a Dios:
LATANCIO. ¡Oh inmenso Dios, y cómo en cada particularidad de estas manifiestas tus maravillas! ¡Quesiste queste buen Duque muriese por esecutar con mayor rigor tu justicia! [dcar: 157]
La conversación, siempre virtual, con seres sobrenaturales como Dios intenta reflejar un contexto enunciativo en el que se prodiga la emotividad propia de la intimidad espiritual, y de ahí el uso de la fórmula de tratamiento de cercanía, que intenta reforzar los lazos entre el padre celestial y sus súbditos, única relación vertical en que las formas de respeto son sustituidas por las de confianza. No debía de ser así, sin embargo, a finales del siglo XVIII, al menos si tenemos que hacer caso a las palabras de Gregorio Garcés, quien en 1791 dice: «Mas por lo que mira a la palabra vos, usámosla por muestra de gran respeto en el singular hablando con Dios, con la santísima Virgen, etc.» (Lapesa 2000: 324). 3.2.2. Sustitutos de la segunda persona en el dmyc A diferencia de lo que ocurre en el dcar, en el dmyc predomina el tú como forma de tratamiento. Este uso podría responder a una cuestión de moda literaria, pues, como indica Lapesa (2000: 316), «el humanismo latinizante se aparta de las costumbres contemporáneas y emplea un tuteo exclusivo en La Celestina y sus imitaciones». En el caso del dmyc, tendríamos que tener asimismo en cuenta la influencia de las obras de Luciano y, por supuesto, del Charon de Erasmo. Pero creemos también que esta fórmula de tratamiento se corresponde con el deseo del autor de presentar un contexto situacional en que todos los seres que entran en escena poseen la misma condición una vez abandonado el mundo terrenal, de manera que en nuestra obra se impone el tópico del poder igualitario de la muerte: ÁNIMA. Pásame luego, barquero. CARÓN. Espérate que vengan otros. ¿Piensas que por ti sólo ha de hacer un viaje mi barca?
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ÁNIMA. Nunca vi barquero tan grosero. ¿Tú no miras con quién hablas? CARÓN. Di, pues, quién eres. ÁNIMA. El Duque. CARÓN. Pues mira, hermano: duques, reyes, papas, cardenales y ganapanes, todos son iguales en mi barca6 [dmyc: 118-119].
Mercurio y Carón, personajes que conducen el diálogo a lo largo de toda la obra, se tratan desde el principio mediante la selección de formas verbales, pronombres y determinantes propios de la segunda persona del singular: MERCURIO. Despierta, despierta, Carón. CARÓN. Mejor harías tú de callar [dmyc: 77].
Sería improcedente caracterizar a estos dos personajes sociolingüísticamente. Se trata de seres de la mitología greco-latina, que interactúan como compañeros sin ningún tipo de diferenciación ‹intrasocial› (si este término puede aplicarse a la sociedad de los inmortales, dentro del contexto ficcional que proporciona la literatura). No obstante, podríamos pensar que Mercurio, como mensajero divino, detenta una posición privilegiada con respecto a Carón, que, según nos lo presenta la tradición, desempeñaba su trabajo sólo previo pago de un óbolo por parte de los familiares de los muertos, es decir, podría considerarse su oficio como ‹manual›, y recordemos cuán reacios eran los griegos a este tipo de labor. Sin embargo, Valdés presenta a estos personajes completamente humanizados y sabedores de lo que ocurre en el mundo incluso en la época del autor. Así pues, la dimensión mitológica parece quedar de lado en nuestro diálogo en favor del desarrollo de la propia conversación. Nos encontramos, en fin, en un mundo donde el eje vertical de la dimensión social parece desvanecerse para remarcar la igualdad de todos los seres que entran en contacto en este marco de ficción. En el diálogo entre los personajes principales y las ánimas que llegan a ellos, por regla general, el tratamiento mutuo es el de tú. Así ocurre sin excepción en los pasajes en que intervienen las ánimas primera, segunda, tercera, cuarta, séptima, octava, novena, undécima y las ánimas del final de la primera parte del diálogo que estamos analizando: CARÓN. Pues paga el pasaje, que allá te mostrarán a qué sabor has de vivir de aquí adelante. ÁNIMA. ¿Yo, pasaje? ¡Como si no supieses tú que los frailes somos exentos! [dmyc: 97]. CARÓN. Pues ¿cómo se dejaban gobernar de un infiel como tú? ÁNIMA. ¿A qué llamas infiel? ¡Sabes si me enojo! CARÓN. Cierto, tú no pareces otra cosa sino puro infiel [dmyc: 150].
También con las ánimas de la segunda parte del dmyc los personajes principales utilizan el tú; se trata de la forma exclusiva cuando aparecen la segunda, la tercera, la cuarta y la quinta de las ánimas que figuran en esta parte:
La barca de Carón, en este caso, es símbolo de la muerte. Es frecuente encontrar en nuestro diálogo interferencias entre la concepción cristiana y la concepción pagano-mitológica del más allá, a veces con intención satírica.
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ÁNIMA. Como conoscí que me queríades hablar, me vine hacia vosotros; por eso, preguntad y decid lo que quisierdes. MERCURIO. Tu resplandor nos ciega y espanta, y tu humildad y benigna habla nos convida a que no dejemos de rogarte que nos digas el estado que toviste en el mundo y de qué manera en él te gobernaste, pues tanta gloria mereces alcanzar [dmyc: 239].
Hemos diferenciado entre las ánimas de la primera y la segunda parte porque, siendo las primeras, según nos las presenta el autor, más indignas que las segundas, seres investidos de una dignidad casi sagrada, parecería que éstas merecen un tratamiento más respetuoso que el que se ofrece a aquéllas. Sin embargo, como dijimos antes, se impone en todos los casos el tópico del poder igualitario de la muerte, y, claro, también el peso de la tradición. En el pasaje en que participa la quinta ánima del primer libro encontramos una novedad: el empleo de vos cuando se increpa a Mercurio: ÁNIMA. Dejémonos desas gracias, Mercurio, que ya se pasó vuestro tiempo, pues que no sois ya alcahuete de Júpiter. ¿Cómo? ¿Que por tan ruin me teníades que hobi[e]se de tomar tan ruin oficio? CARÓN. ¿Por tan necio me tenías tú a mí que había de fiar mi barca a un hombre como tú? [dmyc: 137]
Es raro que las ánimas se dirijan en el diálogo a Mercurio, pero, cuando sucede, la forma preferida es el tuteo. Así pues, no podemos pensar que esta ánima considere superior a Mercurio respecto de Carón; si no queremos considerarlo descuido del autor, tal vez podría pensarse de nuevo en cierta estrategia de distanciamiento medio cortés medio irónico, sobre todo teniendo en cuenta que precede un acto de habla exhortativo. Repárese, en fin, en que la forma teníades es ambigua, pues puede referirse a los dos personajes, lo que permitiría la respuesta de Carón, cuando, previamente, el ánima se estaba refiriendo al otro interlocutor. La siguiente ánima, la correspondiente a la doncella metida a monja a la fuerza (cuyo pasaje no aparece en la edición impresa de la obra), es tratada de vos por parte de Carón: CARÓN. ¿Qué decís vos, mis amores? ÁNIMA. ¡Desventurada de mí! CARÓN. Pues decidme qué habéis. ÁNIMA. Yo soy la desdichada que, no gozando del otro mundo, vengo agora a penar en estotro. CARÓN. Tú te tuviste la culpa [dmyc: 143].
Es posible que pueda influir en la elección de esta forma de tratamiento «el concepto de cortesía debida por el hombre a la dama» (Herrero 1999: 232). Tengamos en cuenta que es la primera mujer que concurre en el diálogo. Pero es interesante advertir que, en el momento en que la doncella declara que va a ir al infierno, Carón cambia al uso de tú. Es decir, el contrato cortés entre los interlocutores se rompe a favor de la imposición de la igualdad. Para terminar con las formas de tratamiento empleadas en los pasajes en que intervienen las ánimas, nos referiremos a la que emite el más extenso parlamento de la obra: la del rey Polidoro. En las largas parrafadas de este personaje se insertan numerosas secuencias en estilo directo, donde podemos ver reflejados distintos tipos de relaciones sociales. Es muy interesante el fragmento en que Polidoro relata la anécdota que propició su cambio de actitud con respecto a los asuntos de gobierno:
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ÁNIMA. Estando, pues, yo en esta perplejidad que oyes, un día, paseando solo en mi cámara, vino un criado mío con quien yo tenía poca y aun casi ninguna conversación, y trabándome por el hombro, me remeció diciendo: «Torna, torna en ti, Polidoro». Yo, espantado de ver un tan gran atrevimiento, no sabía qué decir; por una parte me quise enojar, y por otra me parecía no ser sin algún misterio aquella novedad. A la fin, viendo él que yo no hablaba, me tornó a decir: «Veamos, ¿tú no sabes que eres pastor y no señor, y que has de dar cuenta de estas ovejas al señor del ganado, que es Dios?». Diciendo esto, se salió de la cámara y me dejó solo y tan atónito, que no sabía adónde me estaba [dmyc: 213].
Es una de las escasas ocasiones en que tenemos una relativamente rica descripción del contexto de enunciación. Consideremos que Polidoro es un rey; el ‹atrevimiento›, creemos, no se refiere sólo al hecho de que el criado tome al monarca por el brazo y lo agite, sino también al modo en que se dirige verbalmente a su superior, mediante el uso del pronombre tú. Sería impensable en esta época que un criado increpara de esta manera a un rey, pero hay que tener en cuenta, una vez más, que se trata de una mera anécdota literaria que, por lo demás, se introduce para explicar el cambio de personalidad de Polidoro con respecto a su reino. En cualquier caso, nótese el resultado ofensivo que adquiere la segunda persona del singular en este pasaje. Por último mencionaremos los documentos regios que el autor transcribe en el dmyc. En todos ellos el interlocutor es aludido mediante el pronombre vos como fórmula de respeto: MERCURIO. (Cartel de desafío del rey de Francia al Emperador): os decimos que habéis mentido por la gorja y que tantas cuantas veces lo dijerdes mentiréis, estando deliberado de defender nuestra honra hasta la fin de nuestra vida [dmyc: 236].
4. Conclusiones El estudio de las formas de tratamiento en los diálogos de Alfonso de Valdés revela la gran variedad de usos designativos referentes a la primera persona, con diferentes propósitos según nos encontremos con pasajes que intentan recrear situaciones de intercambio conversacional más cercanas a la inmediatez o a la distancia comunicativas.7 Los únicos pronombres que encontramos para la referencia al interlocutor son tú y vos, siendo vosotros el plural de ambas unidades, aunque es frecuente su alternancia incluso cuando un locutor se refiere al otro preferentemente con una de ellas, variando así, en virtud de la finalidad que guía su enunciación, el modo de referencia gramatical al compañero del diálogo. En relación con las nociones de inmediatez y distancia comunicativas, cf. Koch / Oesterreicher (2007 [1990]). Sigue siendo entre los especialistas objeto de debate si la literatura puede ofrecer datos realmente estimables para considerar la oralidad en épocas pasadas. No obstante, la mayoría cree que sería un gran error apartar del estudio de lo coloquial a las obras literarias, pues «lo específico del texto literario consiste exactamente en la posibilidad de fingir (...) todas las formas de este continuo concepcional» (Oesterreicher 2004: 734), es decir, la literatura puede recrear cualquier tipo de situación comunicativa, tanto de la cercanía como de la distancia.
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Con este trabajo hemos intentado ofrecer una contribución más al estudio de las fórmulas de tratamiento en una época en que éstas estaban sufriendo un intenso reajuste que llevaría a la desaparición, al menos en lo que al castellano peninsular se refiere, de ciertos pronombres y al triunfo de ciertas fórmulas deícticas que habrían de continuar hasta nuestros días. Además, con el estudio de esta concreta manifestación de la cortesía verbal en las dos obras de Alfonso de Valdés pretendemos dar un paso más en el análisis lingüístico de los diálogos, un género al que aún no se le han dedicado suficientes trabajos cuyo objeto sea exclusivamente lingüístico y no sólo literario. No hay que olvidar, por lo demás, que aún queda por hacer una historia de la lengua basada en el análisis del discurso, que contemple desde una perspectiva diacrónica las estrategias comunicativas presentes en los textos que nos sirven de base para la reconstrucción de los precedentes de la lengua que hablamos actualmente. Considerar los fenómenos vinculados a la cortesía en textos antiguos puede contribuir en gran medida a la puesta en marcha de esta iniciativa metodológica, puesto que al hablar de cortesía verbal tendremos que hacer referencia a determinados fenómenos lingüísticos y extralingüísticos que superan el nivel oracional de análisis y en los que entran en juego multitud de consideraciones de índole histórica, social y cultural que habrá que delimitar y desentrañar si queremos conseguir una completa caracterización de la lengua de nuestros antepasados, así como comprender de manera efectiva la evolución de ciertas fórmulas de tratamiento y otras estrategias comunicativas que perduran en el uso del español.
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Mats Forsgren (Université de Stockholm)
Passé simple et imparfait, ordre des mots et structure informationnelle: observations et remarques sur le cas de figure proposition principale – subordonnée temporelle en quand / lorsque / au moment où en français écrit
Les mots diversement rangés font un divers sens et les sens diversement rangés font différents effets (Pascal, Pensées, I, 23)
1. Introduction L’on sait que les problèmes descriptifs fournis par le jeu sémiotique et interprétatif de la variation intratextuelle passé simple – imparfait sont multiples, puisque touchant à de nombreux aspects linguistiques et cognitivo-interprétatifs; aussi la littérature traitant cette variation est-elle impressionnante: travaux sur la distribution et les combinatoires syntaxiques et aspectuelles (nombre d’études classiques: Klum, Martin, Wilmet…); primauté de l’anaphoricité ou de l’imperfectivité de l’imparfait (Berthonneau / Kleiber vs p.ex. Vetters et De Mulder); modélisation cognitive (Gosselin); différentes situations référentielles désignées sémiotiquement par ces deux temps: coïncidence ou antériorité des procès désignés (Borillo); points de vue perceptuel et épistémique et leur répartition et prise en charge dans le récit (la ‹focalisation› de Genette; Rabatel, Vogeleer); valeurs informationnelles relatives des deux temps (‹arrière-plan› vs ‹premier plan› ou ‹topique› vs ‹commentaire›: Blumenthal, Weinrich; Ducrot, Vet); statuts syntaxique et énonciatif en termes de subordination ou d’assertion / présupposition (Lambrecht; Benzitoun; Le Draoulec),… et j’en passe. Dans une communication faite en 2005 (et qui vient d’être publiée récemment: BartningForsgren 2010), l’intérêt était centré sur d’une part les fréquences relatives des combinaisons théoriquement possibles d’une proposition principale et une subordonnée temporelle en quand / lorsque (avec coup d’œil sur le cas comportant l’expression conjonctionnelle au moment où); d’autre part sur l’interprétation des contenus respectifs de ces énoncés en termes hiérarchiques de par exemple ‹arrière-plan / premier plan› (cf. Weinrich 1989) ou de ‹thème / rhème›. Les matériaux utilisés pour cette enquête avaient été tirés, d’une part, de travaux faits par des chercheurs scandinaves (Olsson 1971; Sundell 1984); d’autre part de Frantext. Parmi les résultats de cette étude se trouve le rejet de l’hypothèse de Weinrich, selon laquelle l’imparfait indiquerait en principe toujours ‹l’arrière-plan› (parce qu’étant marqué pour le trait ‹topicalisation›), alors que le passé simple indiquerait toujours ‹le premier plan› (parce que marqué selon lui pour le trait ‹focalisation›). Il nous a été en effet facile de constater, et nous n’étions pas les premiers à l’avoir fait remarquer, que ceci est loin d’être la seule possibilité en contexte authentique.
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De plus, nous avions trouvé, vers le fond des matériaux utilisés, que le connecteur temporel apparenté au moment où, à l’encontre de l’hypothèse formulée par Vogeleer / De Mulder (1997) ainsi que par Le Draoulec (2005), peut en fait jouer le rôle de ‹cum inversum›. C’est pourquoi je me propose, dans cette communication, de rendre compte de la poursuite de ce travail –étude des fréquences relatives des combinaisons et l’interprétation de leur structuration communicationnelle– sur la combinaison proposition principale-proposition subordonnée temporelle en quand / lorsque et au moment où; en ajoutant cependant maintenant des données d’un corpus journalistique d’envergure (le COSTO1). Je précise tout de suite qu’il s’agit d’un travail en cours; les quelques conclusions que je serai amené à tirer ne revêtent donc qu’un caractère provisoire. Mon exposé passera par les étapes suivantes: après un rappel de quelques données appartenant à l’étude conduite avec la collègue Inge Bartning, j’ajouterai un bouquet d’occurrences en provenance d’un genre textuel différent, la prose journalistique; après quoi, je terminerai par quelques réflexions sur la notion de structure informationnelle, ceci vers le fond d’aussi bien de lectures relativement fouillées, ainsi que sur les données présentées.
2. Quelques données d’abord Permettez-moi d’abord de rappeler les différents types de séquences en jeu: a. Proposition principale (PP) à l’imparfait – subordonnée temporelle (ST) au passé simple: (1) Il était hors d’haleine quand il arriva au bureau de poste (Sartre, cit. Sten 1952: 121)
b. PP au passé simple – ST à l’imparfait: (2)
Le lendemain, l’officier descendit quand nous prenions notre petit déjeuner dans la cuisine (Vercors, cit Sten 1952: 121)
c. ST à l’imparfait – PP au passé simple: (3) Lorsque je cherchais des documents sur Mareb, Charcot,…, me signala les rapports d’Arnaud, le premier Européen qui ait atteint Mareb (Malraux, cit. Olsson 1971: 124)
d. ST au passé simple – PP à l’imparfait: (4)
Quand elle releva la tête, il la regardait en riant (Sten 1952: 121)
Le COrpus de STOckholm consiste en deux échantillons de numéros des journaux Le Monde et L’Express, le premier datant des années 1987-1988, le deuxième de 1997-1998. Chaque échantillon comprend dix numéros du Monde et dix de L’Express, Le corpus entier totalise environ 6 millions de mots courants. Voir Engwall / Bartning (1989).
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Le type a. comprend aussi le type quand dit ‹inverse›, le ‹cum inversum› de la grammaire latine:2 (5) Il allait s’engager sur le pont Solférino quand il s’arrêta ( Sartre, cit Sten 1952: 121)
Les fréquences relatives de ces types, dans des textes authentiques, constituent une information non dénuée d’intérêt. Le tableau suivant a été établi d’après les enquêtes effectuées par Olsson (1971) sur un corpus consistant en 25 romans et 50 journaux (en tout environ 4.000 occurrences). Pour la comparaison, nous avons calculé, toujours dans les mêmes enquêtes, le nombre des cas où le passé composé se trouve à la place du passé simple:3 Type a PP imp – quand + ps / pc b PP ps / pc – quand + imp c quand + imp – PP ps / pc d quand + ps / pc – PP imp Total
Avec le p.simple Cas % 203 52,2 16 4,1 5 1,3 165 42,4 389 100
Avec le p. composé cas % 56 34,3 33 20 12 7,7 62 38 163 100
Tableau 1. Fréquences relatives des types a-d (Olsson 1971)
Commentaires: Au moins tous les enseignants connaissent l’état des choses fréquentiel que démontre ce tableau: en français écrit formel4 et lorsque le temps narratif est le passé simple, ce sont les types a et d qui règnent pratiquement en maîtres absolus: env 52 respectivement 42% des occurrences de ces quatre types. Les subordonnées en quand / lorsque, qu’elles soient antéou postposées, prennent donc majoritairement le temps aoristique (ps / pc), et les principales majoritairement le temps descriptif / duratif. Comme l’indique cependant la partie droite du tableau, avec le passé composé au lieu du passé simple, la combinatoire dans ce type de corpus (romans + journaux) est sensiblement plus ouverte, ce qui laisse formuler l’hypothèse que le français parlé informel –où règne le passé composé comme temps narratif du passé– ferait preuve d’un tableau fréquentiel différent du nôtre. Ajoutons qu’en ce qui concerne nombre d’autres expressions conjonctives temporelles (cf Borillo 1988), comme par exemple au moment où, l’imparfait est parfaitement courant: (6)
Au moment où je prenais pied, je vis un canot (Giraudoux, cit. Sten 1952: 173)
Et ce sont donc, en ce qui concerne au moment où, par conséquent nos types b. et c. qui l’emportent: «Iam ver appetebat, cum Hannibal castra movit.» Voir Sundell (1984: 71). Cf aussi le terme ‹quand narratif› proposé par Declerck (1997). C’est ce type que Benzitoun (2005) considère, en s’appuyant sur plusieurs tests syntaxiques (équivalence avec un interrogatif; extraction; détermination par l’adverbe juste), comme une construction phrastique syntaxiquement indépendante et non subordonnée. 3 Autre comparaison: chez Olsson (1971), les nombres des occurrences comprenant des temps identiques –cas qui n’entre pas dans notre étude ici– sont les suivants: ps / ps 698; pc / pc 232; imp / imp 785. Dans tous ces cas, l’antéposition de la subordonnée temporelle est nettement majoritaire. 4 N.B.: Les matériaux fondant ces chiffres comprennent des romans (25) et des journaux (50 numéros). Voir plus loin. 2
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type Frantext: au moment où p.simple p.composé Total cas % cas % cas a 3 5,3 2 4,5 5 b 21 37,5 22 50 43 c 29 51,8 19 43,2 48 d 3 5,4 1 2,3 4 Total: 56 100 44 100 100
(cf Olsson: quand / lorsque) p. simple p.composé % % 52,2 34,3 4,1 20 1,3 7,7 42,4 38 100 100
Tableau 2. Fréquence des types a. – d. avec au moment où5 (100 occurrences des types a-d; Frantext 1980-1997)
Il s’est avéré en fait que les trois cas du type a. étaient des occurrences clairement du type ‹inverse›: (7)
Je marquais mon assentiment d’un hochement de tête, y ajoutant, par lâcheté, un sourire au moment où, se détachant de la cretonne à fleurs rouges et jaunes qui garnissait l’intérieur, une figure d’outre-tombe s’avança vers moi pour délivrer le même regard éteint de l’homme qui fronçait ses paupières diaphanes de volatile, sans pour autant me fixer… (Bianciotti, Le Pas si lent de l’amour, 45)
(8) me demandait-il en mettant une sourdine à sa colère, au moment où un homme en blouse blanche, brusquement surgi dans l’embrasure d’une porte, lui coupa le souffle en l’appelant par son nom. (Bianciotti, Sans la miséricorde du Christ, 306) (9) C’est pourquoi je pense qu’il y avait quelqu’un dans sa voiture au moment où il m’a téléphoné, et m’a dit, traqué: «J’arrête là notre conversation, j’ai trop peur que quelqu’un puisse nous entendre, parce qu’il avait besoin d’un témoin dans ce revirement des chefs d’accusation». (H. Guibert 1990, 265-266)
J’ajoute l’exemple trouvé dans les mémoires de Berlioz, et qui avait fourni le point de départ de notre première étude: (10) Il ne m’est resté de mon voyage de Paris à Vienne que deux souvenirs remarquables, celui d’une douleur violente… et celui d’un Dieu que j’aperçus par la fenêtre d’une auberge d’Augsbourg. Ce brave homme qui vient de fonder une sorte de néo-christianisme assez en vogue dèjà en Bavière et en Saxe, montait en voiture au moment où, pâle d’émotion, l’aubergiste me le montra; j’ai oublié son nom, mais il me parut avoir une figure vive, intelligente, et en somme l’air d’un assez bon diable. (Berlioz, Mémoires: Deuxième voyage en Allemagne, première lettre)
Dans tous ces cas, la proposition introduite par au moment où, pour subordonnée qu’elle soit en grammaire de surface, n’est, au niveau communicatif, ni thématique ou d’arrière-plan; elle constitue le message principal, un rhème asserté (pour les arguments, je renvoie à Bartning / Forsgren 2010). Une première enquête portant sur au moment que, effectuée sur Frantext, 20e siècle, n’a donné, pour le passé simple, que 6 occurrences (2 passé simple, 4 passé composé) représentent notre type b. et 4 représentant le type c. (2 p.s., 2 p.c.), et aucune des deux autres types.
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Nous avons donc pu réfuter la généralité des hypothèses d’aussi bien Vogeleer et Vogeleer / De Mulder, que Le Draoulec, selon qui ce type ne serait pas possible avec au moment où. Le fait que jusque-là la base empirique de l’étude consistait presque exclusivement d’occurrences tirées de textes littéraires, le besoin d’imposait de consulter des textes d’un genre différent. C’est pourquoi je me suis tourné vers le discours journalistique. Voyons maintenant des attestations d’au moment où dans un tel corpus (le COSTO): Combinaison: cas: Formes verbales identiques des deux propositions: 57 (dont: présent – présent 46 imparfait – imparfait 8 passé composé – passé composé 3) Cas démontrant une différence temporelle (Ps / pc ou imp): 14 Autres (futur, conditionnel, plus-que-parfait; PP non phrastique) 47 Total: 118 Tableau 3: les 118 occurrences d’au moment
La séquence qui nous intéresse particulièrement dans l’étude en cours est donc représentée, pour le moment, par uniquement 14 occurrences. Elles se répartissent sur nos quatre types de la façon suivante: Type avec le ps avec le pc a PP imp – au moment où + ps / pc - 1 b PP ps / pc – au moment où + imp - 10 c au moment où + imp – PP ps / pc - 3 d au moment où + ps / pc – PP imp - Total: 14 Tableau 4
La première constatation qui s’impose en étudiant ce tableau est que notre corpus journalistique, pour grand qu’il soit, ne contient, dans une combinaison comprenant l’expression conjonctive temporelle au moment où6, aucune réalisation du passé simple, en PP ou en ST. Comme on l’a vu ci-dessus, l’enquête de Bartning / Forsgren (2010) portant sur une tranche de Frantext avait donné 56 occurrences du passé simple dans une telle combinaison, et que dans l’étude sur quand / lorsque (Olsson (1971; 25 romans et 50 journaux), il y en avait quand même 389 –dont la grande majorité proviennent, il est vrai, de livres (fiction ou histoire).7 Voir des exemples ci-dessous. En fait, j’en ai trouvé quelques-unes, mais là uniquement en combinaison avec l’expression ‹télisante› jusqu’au moment où. 7 Comme le démontrent les chiffres d’Olsson (1971: 50), le passé simple est, globalement parlant, extrêmement rare dans les articles de journaux rapportant des événements actuels. J’ai moi-même, dans plusieurs articles, argumenté pour une explication discursivo-énonciative de ce fait: pour 6
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Il semble donc bien, en revanche, que dans le genre textuel ‹discours journalistique›, l’expression conjonctive temporelle au moment où se combine, lorsqu’il s’agit des temps du passé, presque exclusivement avec la forme aspectuelle durative (l’imparfait et le plus-queparfait). La seule occurrence trouvée comportant une forme à l’aspect limitatif est la suivante: (11) La veille, la société IBM, qui participait au financement des l’exposition, donnait pour ses invités une réception dans les salles du Grand Palais. Il semble bien que le dessin était en place au moment où elle s’est terminée, un peu avant 23 heures. (COSTO)
Est-ce bien un cas d’au moment où ‹inverse›? Il semble plutôt que non, étant donné l’anaphore elle et la séquence s’est terminée, également anaphorique, mais sur un mode méronomique et associatif (une réception comprend une fin); la subordonnée comportant au moment où semble jouer dans ce cas-là le rôle d’arrière-plan, alors que la proposition matrice à l’imparfait, …que le dessin était en place, contient le premier plan, le message focalisé. Des specimina du type b, le mieux représenté, avec la temporelle à droite: (12) Des villageois ont déclaré avoir entendu deux explosions, une en plein vol, l’autre au moment où l’appareil perdait de l’altitude. (COSTO) (13) Le racket opéré auprès de bijoutiers par deux inspecteurs des impôts du XIXe arrondissement restera, lui aussi, dans les annales. Ils se sont fait pincer, le 16 mars 1986, dans un parking de l’avenue Foch, au moment où il recevait (sic!) d’un commerçant 120000 Francs en liquide. (COSTO)
Dans ces deux textes, le focus informationnel se trouve sur les séquences à droite, à l’imparfait, les séquences au temps aoristique (en l’occurrence le pc) constituant le point de départ du message, le fond ou le cadre. Peut-on soutenir que dans de tels cas les séquences événementielles constituent ‹l’arrièreplan›, alors que les séquences descriptivo-duratives représentent ‹le premier plan›? C’est la question que je me pose. Je passe ainsi à la dernière étape de mon exposé.
3. Focus sur l’aspect communicatif du langage: y a-t-il une ou plusieurs ‹structure/s/ de l’information›? Comme le constate Henning Nølke: «Il est fondamental pour l’homme, […], de structurer sa perception en un premier plan et un arrière-plan.» (Nølke 1992 : 463)8. Seulement, «…au moment où il sera question de préciser en quoi consiste cette bipartition, et quelles sont ses manifestations proprement linguistiques, il y presque autant de conceptions qu’il y en a de le texte journalistique (du quotidien comme de l’hebdomadaire), le repère moi-ici-maintenant (le facteur déictique) est implicite et omniprésent, ce qui amène, comme temps narratif, le passé composé (Forsgren 1981 et 1998). 8 Texte repris dans Nølke (1994).
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linguistes» (ib.). Dans l’approche dite ‹fonctionnelle› du langage, le nombre des termes et concepts appartenant au domaine ‹structure de l’information› est en effet aussi impressionnant que le désaccord ou, à la limite, le manque de consensus quant à leur emploi: thème-rhème, sujet-prédicat psychologiques, topique-commentaire, fond-figure, point de départ-but de l’énoncé, information ancienne / nouvelle… De fait, Nølke en arrive à énumérer non moins de six propositions de définitions, rien que pour le couple terminologique ‹thème-rhème›: a. b. c. d. e. f.
Le premier segment de l’énoncé / Le reste Ce dont on parle / Ce qu’on en dit Connu / Non connu Lié contextuellement / Non lié contextuellement Information antérieure / Information nouvelle Peu de Dynamique Communicatif / Beaucoup de DC
On tombe volontiers avec Nølke lorsqu’il dit : … au fond, les différentes définitions tendent à utiliser les termes thème-rhème pour dénoter des phénomènes différents. […] l’énoncé est susceptible de véhiculer ‒en même temps‒ plusieurs structurations binaires, qui se recouvrent souvent –parfois complètement– sans que cela soit toujours le cas. (ib.: 464).
Il faudrait donc, comme l’a aussi souligné Sophie Prévost (2001), essayer de tirer au clair le caractère et les domaines des notions engagées.9 C’est pourquoi nous proposons de distinguer les dimensions informationnelles suivantes, en principe toutes de caractère binaire:10 – ‹Aboutness› ou ‹ce dont on parle›, conception d’inspiration logicisante (cf les notions d’argument et prédicat logiques). Se logent sous cette enseigne les notions suivantes: les distinctions ‹thème-rhème intraphrastiques› et ‹topique-commentaire textuels› (cf p.ex. l’école polonaise; Ducrot, Vet; Lambrecht); – Dynamisme communicatif (la Perspective fonctionnelle de la phrase de l’École de Prague): ‹dynamisme communicatif bas / élevé›, ‹point de départ / but de l’énoncé›, ‹cadre spatiotemporel›, ‹fond / focus› (cf p.ex. Firbas; Blumenthal, Combettes. – Statut argumentatif: distinction en ‹acte directeur / subordonné› (cf p.ex. l’analyse du discours genèvoise des connexions causales et adversativo-concessives: Roulet, Moeschler et al.). – Statut énonciatif: ‹connu / nouveau›, ‹assertion / présupposition›, ‹polyphonie› et ‹points de vue› ou ‹sources épistémiques› (cf p.ex. Ducrot; Chafe, Lambrecht; Vogeleer, Rabatel)
Vers le fond de cette organisation des paramètres informationnels, je propose donc que les termes ‹arrière-plan› et ‹premier plan› soient utilisés uniquement pour le paramètre ‹dynamisme communicatif›. Ainsi, la notion d’arrière-plan correspondra à un point de départ ou un fond informationnel –un thème argumental ou un cadre spatio-temporel intraphrastiques–; celle Prévost distingue entre approches psychologiques –qui sont caractérisées comme intraphrastiques‒ et approches informationnelles –qui sont caractérisées comme textuelles. Voir aussi Bartning / Forsgren (2010: 218). 10 Notons que pour Combettes / Tomassone (1988: 67), il faut éviter une analyse trop dichotomique,en introduisant quelques nuances dans le concept de dynamisme communicatif (ces auteurs suivent l’école de Prague, en utilisant les termes ‹thème / rhème› pour cette dimension. 9
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de premier plan correspondra à la partie du contenu de l’énoncé qui est mise en relief, ou focalisée, par l’ordre des mots, par la clivation syntaxique, par des moyens lexicaux ou, à l’oral, par une prosodie particulière. Souvent –mais non pas toujours–, cette dernière partie se caractérisera également par les notions énonciatives ‹nouveau› et ‹assertion›. Pour revenir maintenant à la description de Weinrich (1989), nous avions donc pu constater, Inge Bartning et moi, comme avant nous par exemple Vogeleer (1998), que le passé simple (passé composé), ne peut guère être globalement qualifié comme un temps de premier plan, parce que ‹focalisant›, l’imparfait comme globalement d’arrrière-plan, parce que ‹topicalisant›, à moins qu’on ne fournisse une définition opérationnelle de ces termes, ce qui ne semble pas être le cas chez Weinrich (1989). Les énoncés authentiques où c’est l’inverse qui se produit sont légion, comme d’ailleurs notre tableau 1 et des exemples fournis ci-dessous l’ont démontré: (14) Lorsque la voiture arriva place de la Concorde, des colonnes d’étudiants marchaient vers le Figaro (Peyrefitte; cit. Olsson 1971: 81) (15) Quand il la vit, elle descendait les premières marches de l’escalier qui conduit au sous-sol (Le Clézio; cit. Olsson, ib.) (16) Quand il passa la Seine, la demie d’une heure sonnait à Notre-Dame (Plisnier; cit. Olsson, ib.: 83) (17) Au moment où ils firent irruption dans sa chambre jaune et argent du second étage, celuici était à sa prière, entouré de trois personnes: Billal Aga, Refet et une Gedikli, Pakisé. (Frantext: Grèce, La Nuit du sérail: 452-253) (18) Au moment où le noir se fit, Antoinette chuchotait à son époux: – Note bien que si ça se trouve, c’est pas tellement des bonnes places, on va devoir lever le cou comme au cinéma. (Frantext: Vergne, L’Innocence du boucher: 223)
On pourrait en fait avancer, et c’est ce qui avait été souligné auparavant par aussi bien Ducrot (1979) que Berthonneau (1987) et Vet (1999): dans la combinaison passé simple-imparfait, la phrase au passé simple peut mettre en place un cadre temporel (Berthonneau), qui va servir de ‹thème› ou ‹topique› (‹aboutness›; Ducrot, Vet), auquel la phrase à l’imparfait dans ce cas applique un ‹commentaire›. En fait, comme Vogeleer (1998) l’a proposé, la temporelle à un temps aspectuellement aoristique (ps / pc) mais communicativement ‹thématique› peut également être postposéé (marquée à l’oral par l’intonation dite ‹plate›: (19) – Pauvre Jean, sa voiture est complètement démolie. – Ça ne m’étonne pas. Il roulait à 200 à l’heure quand il a eu son accident. (Vogeleer 1998: 83) (20) J’avais sept ans quand la guerre éclata (deux interprétations possibles: en quand ‹inverse› rhématique et en quand thématique!)
Alain Rabatel, par contre, semble suivre Weinrich, en gardant une corrélation fixe entre ‹arrière-plan› et ‹phrase stative› (‹prédication adjectivale›, à l’imparfait), entre ‹premier plan› et ‹phrase dynamique› (‹prédication verbale›, au passé simple / passé composé):
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D’un point de vue cognitif, la phrase stative sert d’arrière-plan (background) à la phrase dynamique qui précède (foreground). On peut, en première analyse, considérer que la place de l’énoncé statif par rapport à celle de l’énoncé comportant la description d’événement est peu significative, dans la mesure où la prédication verbale est première et la prédication adjectivale seconde, sur les plans cognitif et logico-grammatical, et ce, quel que soit l’ordre des énoncés à l’imparfait et au passé simple. Mais la relation sémantique entre énoncé statif et description d’action prend des significations différentes selon la place de l’énoncé statif. (Rabatel 2008: 187)
La perspective descriptive de Rabatel est cognitive, narratologique et polyphonique: si la valeur informationnelle des temps reste pour lui invariable11, la différence de place de nos séquences au passé simple et à l’imparfait, en revanche, est pertinente pour d’une part l’attribution des contenus propositionnels à différentes sources épistémiques, le narrateur ou l’énonciateur (personnage); d’autre part, en perspective argumentative, pour le statut d’explication de l’énoncé statif: (21) Pierre entra dans la cuisine. La lumière était éclairée (21’) La lumière était éclairée. Pierre entra dans la cuisine.
Alors que dans (21), le lecteur partage avec Pierre (énonciateur et percepteur) la vision de la cuisine, dans (21’), l’énoncé statif –désignant la perception toujours de Pierre– fournit une explication projective, partagé avec le lecteur, de l’événement désigné par l’aoriste. Cependant, ce n’est pas là, on l’a vu, la dimension choisie ici pour la discussion de la structure informationnelle.
Pour conclure: L’ordre ‹arrière-plan›-‹premier plan› serait donc à considérer, vers le fond des observations fournies ci-dessus, comme la structure informationnelle par défaut12, indépendamment du statut syntaxique –proposition principale ou subordonnée temporelle– ou du temps utilisé: passé simple / passé composé ou imparfait. Chaque rupture de cet ordre par défaut sera marquée par des moyens particuliers, prosodiques ou syntaxiques.
En fait, on pourrait se demander dans quel sens la ‹prédication verbale› serait toujours ‹première›, la prédication ‹adjectivale› toujours ‹seconde›. Selon quels critères? 12 Cf de Beaugrande / Dressler (1981: 75): «Since people tend to give a point of orientation before presenting new or surprising things, informativity tends to rise toward the end of a clause or sentence». 11
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Xosé Ramón Freixeiro Mato (Universidade da Coruña)
Conectores consecutivos en galego-portugués: da época medieval á actualidade1
1. Os conectores consecutivos Os conectores consecutivos presentan o membro do discurso en que figuran como unha consecuencia dun membro anterior, de modo que se dá unha relación de causa a consecuencia entre as informacións conectadas por eles. Montolío (2001: 99) distingue entre os conectores consecutivos –aqueles que introducen a consecuencia e que, por tanto, conformarían as estruturas oracionais tradicionalmente chamadas consecutivas– e outras expresións conectivas que introducen a causa e que contribúen para a conformación das estruturas oracionais causais; en todas elas se dá unha relación causa-consecuencia. A cláusula causal e a consecutiva presentan un mesmo tipo de relación lóxico-semántica entre as partes; a diferenza radica no aspecto de tal relación que se focaliza ou intensifica mediante a presenza do conector: en canto as estruturas causais inciden na causa, premisa ou argumento que conduce a unha conclusión, a subliñárena ou enfatizándoa, as estruturas consecutivas poñen o acento en indicaren cal é exactamente a consecuencia ou conclusión que se deduce da información previa. Pódense estabelecer dous grupos de expresións conectivas consecutivas do punto de vista sintáctico: as integradas na oración, que presentan na súa formación a conxunción que (así que, de modo / maneira / xeito que, de aí que, polo que); e as parentéticas por tanto, por consecuencia, por conseguinte, por iso, por esta / tal razón, por esa / tal causa, por ese / tal motivo, pois, así pois, xa que logo. Segundo o tipo de significado procedimental que posuíren, podemos distinguir os seguintes tipos de expresións conectivas consecutivas (Montolío 2001: 136): aquelas que introducen a consecuencia e sinalan anaforicamente a causa desencadeante, que poden ser parentéticas (por iso, por ese / tal / dito motivo / razón / causa) ou integradas na oración (polo que, de aí que); aquelas que indican que o que segue constitúe a consecuencia, mais sen apuntar á causa, que tamén poden ser parentéticas (por tanto, por consecuencia, por conseguinte, pois) ou integradas na oración (de maneira / modo / xeito que, así que); e así pois, que representaría un grao intermedio entre os dous grupos anteriores. O presente traballo insírese no marco do proxecto de investigación Glosario crítico da poesía medieval galego-portuguesa. I. Cantigas de amor e cantigas de amigo (código FFI2009-08917).
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De todas estas expresións, seguindo o criterio de Portolés (2001: 140) só se poden considerar conectores consecutivos plenamente gramaticalizados os seguintes: pois e así pois, que se limitan a mostraren o membro en que se achan como un consecuente dun membro anterior; por tanto, por conseguinte e de aí, que basean o paso dun antecedente ao consecuente nun razoamento; e por (ou en) consecuencia, onde o consecuente se presenta como un estado de cousas que é resultado doutro estado de cousas; así e entón acharíanse nun grao menor de gramaticalización como conectores consecutivos. De acordo con este autor (Portolés 2001: 56) expresións do tipo de por iso, por ese motivo, por tal razón ou por esta causa non son marcadores discursivos por posuíren capacidade de flexión ou variación, por conteren un elemento anafórico e por posuíren usos vedados aos adverbios marcadores, como seren autónomos nun turno de palabra ou desempeñaren unha función na cláusula. Como este traballo ten como obxectivo a perspectiva diacrónica no aparecemento e uso dos conectores consecutivos desde o galego-portugués medieval até ao galego actual, procurarase a seguir agrupar algunhas das unidades máis significativas por certas afinidades semánticas e/ou funcionais, con especial atención ás variantes formais e as posíbeis interferencias da lingua castelá no uso e evolución destas. Neste sentido, debemos ter en conta que, como di Hagège (2000: 106), nunha situación de «bilinguisme d’inégalité» como a que se dá na Galiza, os marcadores discursivos da lingua dominante pasan a ser a «colonne avancée en direction de l’invasion lexicale», que anuncian por tanto a ofensiva en masa sobre o léxico e despois sobre a gramática da lingua dominada; o caso galego parece confirmar esta opinión (Freixeiro 2005a: 110-170). Centrarémonos, por falta de espazo, nas unidades parentéticas formadas por unha única palabra, a deixarmos de lado tanto aquelas construcións integradas que tradicionalmente veñen sendo consideradas locucións conxuntivas (de modo que, así que, de aí que etc.), como as parentéticas que constitúen locucións conectoras (por tanto, por conseguinte, así pois, xa que logo etc.). Primeiramente estudaranse aquelas unidades que, alén de se converteren historicamente en conectores, aínda conservan na actualidade a súa plena funcionalidade como adverbios de tempo (entón, logo, daquela), a partillaren ambos os valores. En segundo lugar, analízase unha forma, pois, que perdeu o seu valor adverbial temporal para se transformar en conxunción e marcador discursivo, e os adverbios de modo así, consecuentemente e conseguintemente, o primeiro plenamente vigorante na lingua medieval e os segundos formados na última etapa da lingua, que tamén adquiriron funcións discursivas. Salvo pois, plenamente gramaticalizado como marcador discursivo, os outros aínda están en proceso de se gramaticalizaren. Presicindimos daquelas formas que tiveron esa función na época medieval, mais que a perderon na contemporánea, como é o caso de por ende, por én ou pero, xa tratados noutro lugar (Freixeiro 2005b). Débese ter en conta, en todo o caso, que a relación sintáctica entre cláusulas e enunciados da lingua medieval non estaba tan delimitada como na actualidade e que, por tanto, o significado dos nexos conxuntivos era menos definido e máis polivalente ou ambiguo.
2. Os adverbios e conectores entón, daquela, logo Algúns dos conectores consecutivos do galego actual proveñen da categoría dos adverbios de tempo, a partir de cuxo valor, que non perderon, foron adquirindo funcións discursivas.
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Neste sentido, un marcador que ten diferentes funcións no texto e que presenta variantes formais, con posíbel interferencia do español no avanzo dalgunha desas, é entón, que convive con daquela e logo tanto na expresión adverbial de tempo como no papel de conector consecutivo; curiosamente, as dúas últimas unidades penetraron como galeguismos no castelán utilizado na Galiza so as formas de aquella e y luego. Non parece difícil acharmos un vínculo entre todos os seus valores a partir do orixinario adverbial común, aínda que cada unha das formas teña a súa propia evolución na lingua. 2.1. Entón Este conector partilla en xeral os usos discursivos en galego cos que ten en español entonces, forma tamén usada por aquel. No galego medieval existían as formas entõ, entonçe, estõ, estonçe (Lorenzo 1975: 558-560) e tamén anton, entonces, estonces (Ferreiro 1999: 219); Huber (1986: 256-268) recolle enton e entonce entre os adverbios de tempo da lingua antiga, mais tamén enton u como conxunción temporal, e Nunes (1989: 345) entonce, estonce e entom só como adverbios temporais; en Cunha (1991, s.v. então) recóllese só co significado de «nesse ou naquele tempo, momento ou ocasião» e atéstanse as formas entõ, entonce e enton a partir do século XIII, en canto estõ e estonce a partir do XIV. Porén, no corpus das cantigas de amigo, de amor e de escarnio e maldizer contabilizamos só as formas enton, con 232 ocorrencias, e entonce con unha, con valor adverbial de tempo. No galego medio achamos casos de entón (dous nas coplas de Sarmiento) e entonces (dous na poesía de Cornide), sempre con valor adverbial de tempo. No galego escrito contemporáneo conviven as formas entón, entonces, estonces, estoncias, estonzas ou mesmo destonces, destoncias (García de Diego 1909: 148), presentes no século XIX e XX. Nos textos decimonónicos temos múltiplos exemplos delas, con predominio de estonces, entonces e entón; Saco Arce (1868: 122) só recolle na súa gramática entón e estonces entre os adverbios de tempo, e Valladares (1970: 106) entón; o dicionario incompleto de Porto Rey (2000: 384), elaborado a finais do século XIX, xa recolle a entrada ‹entón› cos dous valores, o de adverbio de tempo e o de conector consecutivo. Na obra de Mirás, por exemplo, temos casos de entonces (6 ocorrencias) e de estonses, predominante con 39 ocorrencias. Nos dous libros de versos de Curros, polo contrario, achamos un uso predominante de entón (27 ocorrencias), con 12 ocorrencias de estonces (e dúas de destonces) e ningunha de entonces. En Cantares gallegos de Rosalía só se rexistra a forma estonces, con 11 ocorrencias, tamén predominante n’A tecedeira de Bonaval de López Ferreiro con 36 ocorrencias, face ás 21 de entonces, as únicas que aparecen nesta obra. No cancioneiro de Pérez Ballesteros só se atesta a forma entonces en tres ocasións. Aínda que na maior parte dos exemplos que se documentan nos textos decimonónicos, ben como nos dos séculos escuros, o valor desta partícula é adverbial de tempo, tamén aparece no XIX con valor consecutivo, nalgúns casos precedida de pois, o que parece confirmar que foi a partir do seu valor adverbial como desenvolveu funcións discursivas de conector consecutivo. Tal proceso comprende os seguintes pasos, segundo Pons (1998: 164): (i) transcategorización, neste caso paso de adverbio a conxunción; (ii) fixación dos seus constituíntes, etapa nesta ocasión producida no latín (IN + TUNCE, EX + TUNCE);
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(iii) redución fonolóxica, de entonce(s), estonce(s) a entón, aínda que non de forma sistemática; (iv) xeneralización do significado, entendido como creación de polisemias, hipótese manexada para o desenvolvemento dos usos conxuntivos; (v) acrecentamento de funcións pragmáticas, que van do concreto e referencial ao abstracto e non referencial, como é o caso dos valores textuais ou anafóricos de entón; e (vi) subxectivización, pois pon de manifesto a actitude do falante en expresións modais como pois entón! ou en oracións interrogativas para pedir unha aclaración de algo que non concorda co que di outra persoa. En relación con isto, Franco (1990), con base no portugués, a partir de exemplos como Então gosta deste quarto? ou Então como foram essas férias?, afirma que a partícula modal «então parece-me ter-se especializado para sobretudo exprimir o interesse, por parte de quem interroga, pela resposta à pergunta», valor que tamén pon en evidencia este exemplo do galego actual: –Entón como pode saber agora que son brancas? (Ollos 91). Nos textos do século XX proliferan todas esas variantes formais tanto con valor adverbial como consecutivo, se ben que segundo se vai fixando un modelo máis ou menos estendido de lingua escrita só as formas entonces e sobre todo entón prevalecerán. As gramáticas desta mesma centuria tenden a recoller principalmente entón como adverbio de tempo (Lugrís 1931: 74), talvez por diferencialismo, embora Carré (1967: 119) tamén cite estonces. Canto aos traballos dialectais do último terzo do século XX, Couceiro (1976: 131) e Taboada (1979: 162) dan conta de entonces na fala de Feás e do Val de Verín, respectivamente, Fernández González (1981: 145) menciona as formas estonces, entonces, entoncias e estoncias nos Ancares de León, e Frías (1999: 79) atesta estonces, entonces, entós e estoncias entre os adverbios de tempo do galego exterior; por súa parte, Porto Dapena (1977: 207) non cita esta forma entre os adverbios de tempo utilizados na comarca ferrolá, aínda que si daquela, que traduce para o español por ‹entonces›; en ningún destes traballos se inclúe entón ou as súas variantes entre as conxuncións, como tamén acontece nas gramáticas de Carré (1967: 125-126), de Carballo (1979: 256-259) e de Álvarez / Regueira / Monteagudo (1986: 531); si figura por primeira vez nunha gramática galega como conxunción entón, xunto con daquela, en Costa et al. (1988: 303). Aínda que as normas oficiais do galego viñan recollendo, desde 1982, as formas entón e entonces como válidas, na revisión aprobada en 2003 pola Real Academia Galega suprimiuse a segunda por desnecesaria (Real Academia Galega / Instituto da Lingua Galega 2003: 175), a ter en conta tamén o criterio diferencialista. Por tanto, canto ao seu valor, podemos falar, por unha parte, dun entón adverbial, que como adverbio de pasado é parafraseábel por ‹nese momento› ou ‹naquela época› e determina un verbo que está en pasado; e, por outra parte, dun entón conector con varios valores. Embora non sexa obxectivo central deste traballo analizarmos a fondo os valores discursivos de cada un dos conectores consecutivos, pode ser de utilidade a proposta de Oller (2000), que, a se basear na forma catalá llavors, sinala os seguintes valores para este conector: temporal reorientador, con certo carácter aditivo e de posterioridade; temporal enfatizador, tamén con certo sentido aditivo e de posterioridade; valor consecutivo argumentador; e valor consecutivo atenuador. Aínda conscientes de que o tema precisa unha análise máis profunda a partir dun corpus acaído, non resulta difícil constatar unha evidente relación entre os valores discursivos do catalán llavors, do castelán entonces e do galego-portugués entón / então.
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2.2. Daquela Unha peculiaridade do galego no ámbito dos marcadores discursivos con función de conectores consecutivos é que xerou unha forma propia, daquela, que pode substituír entón; nos Ancares de León, no canto da forma feminina, Fernández González (1981: 145) atesta a masculina d’aquel, que traduce por ‹entonces› e no galego exterior Frías (1999: 79) cita daquelha (léase con consoante palatal) ao lado de daquela entre os adverbios de tempo. A partir da preposición de + o pronome demostrativo aquela xerouse esta forma, que presenta dous valores principais: o primeiro consiste en ser equivalente a un adverbio de tempo, tipo entón, ou a unha fórmula que funcione como tal, como ‹naquela época›, ‹na altura› etc.; o segundo consiste en desempeñar funcións de conxunción consecutiva e presentar outras funcións discursivas próximas de formas como pois, por tanto ou entón, entre outras. É de salientarmos nomeadamente o paralelismo sintáctico, semántico e pragmático existente entre entón e daquela, xa que ambos poden comportarse quer como adverbios de tempo, quer como conxuncións consecutivas ou conectores con valores discursivos similares, parecendo nun principio intercambiábeis en todos os casos. Taboada (1979: 162), ao tratar dos adverbios de tempo no Val de Verín, afirma que «entonces y daquela se refieren tanto al pasado como al futuro», en canto Couceiro (1976: 132) sitúa daquela como indicador dun tempo pasado na fala de Feás. En contra do que acontece cos demais adverbios de tempo relativos ou referentes, que se documentan «desde os primeiros momentos do galego-portugués» (Ferreiro 1999: 356), daquela é de aparición serodia como tal, e talvez máis aínda como conxunción consecutiva; ningunha gramática decimonónica a recolle entre os adverbios nin entre as conxuncións, a non ser Saco Arce (1868: 127) ao falar de «modos adverbiales formados elípticamente de adjetivos que llevan sobreentendido el sustantivo con quien conciertan», como «D’aquela (sobreentiende vez) entonces». Segundo os datos que nos facilita o Dicionario de Dicionarios a través do RILG, dos decimonónicos só recollen esta palabra o de Francisco Javier Rodríguez na lista de voces sen definir e o de Cuveiro Piñol, de 1876, que a marca como familiar e traduce por «Entonces, en aquel tiempo, como iba diciendo, etc.», con esta última acepción a apuntar para valores discursivos que só voltarán a aparecer moito despois no dicionario de Eladio Rodríguez, publicado no período 1958-1961, coas correspondencias castelás ‹pues entonces›, ‹en ese caso› ou ‹siendo así› e a remarcar tanto o seu uso «comunísimo» na Coruña como a utilización no castelán de persoas galegas so a forma de aquella. De todos os xeitos, non a achamos documentada nos textos medievais nin do galego medio. Mais xa aparece no século XIX, pois Pérez Ballesteros recolle o seguinte cantar popular: Cando a lebre diga misa / e o raposo sea frade / d’aquela, meu queridiño, / que nosa amistá s’acabe (CPG I, 10); e afirma en nota de rodapé, a repetir case exactamente as palabras de Saco: «D’aquela quiere decir entonces; se sobreentiende la palabra vez». Se ningún dos exemplos literarios decimonónicos nos confirman rotundamente o funcionamento de daquela como conector consecutivo ou con outros valores discursivos asociados, o TILG levántanos un exemplo finisecular que parece apuntar nese sentido e fornécenos outros exemplos nos primordios do século XX que confirman a gramaticalización como conector. Tamén non resulta casual que estas primeiras atestacións escritas de daquela como marcador discursivo correspondan a pezas teatrais que pretenden imitar e reflectir a fala popular espontánea en textos conversacionais, contexto en que os usos discursivos desta palabra se xeraron, con
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certeza, e onde aínda hoxe dominan. Así nolo confirman igualmente outras atestacións que nos proporciona o TILG, procedentes dunha publicación periódica popular desas primeiras décadas do XX, O Tío Marcos da Portela (3ª época). Son moito raros, de todas as formas, os usos de daquela como adverbio nos textos de finais do XIX e dos primordios do XX, e máis aínda aqueles en que funciona claramente como conector consecutivo. Parece lóxico deducir que a partir da elisión do substantivo na secuencia temporal daquela vez esta forma contracta foi adquirindo plenas funcións como adverbio de tempo equivalente a entón, para acabar tamén por asumir o carácter de conector consecutivo deste, a se converter con ambos os valores nunha fórmula de uso «frecuentísimo» (Ferreiro 1999: 356) no galego actual. Afirma ao respecto Carballo Calero (1979: 303): «De la idea de sucesión temporal se pasa a la de causalidad, y así daquela, como ‹entonces›, puede convertirse en locución consecutiva». Porto Dapena (1977: 164), a se basear no galego falado en Ferrolterra, afirma que se usa co sentido de ‹entonces, en aquel momento› e nunca como conxunción consecutiva, «como ocurre, por ejemplo, en la zona de Puentedeume». Carré (1967: 172), por súa parte, xa destacaba a construción ¡E pois daquela!, co valor de ‹por que non?›, ‹que ten de estraño?›, ‹naturalmente›. De todos os modos, a primeira obra de carácter lingüístico, alén da de Saco e dos dicionarios citados, que recolle daquela como adverbio de tempo é a de García de Diego (1909: 149), que cita «d’aquela ‹por entonces›» e «dende aquela ‹desde entonces›»; posteriormente, Lugrís Freire (1931: 74) afirma na súa gramática: «Daquela, equivalente a entón, ê moi usada nas Mariñas de Betanzos e n-unha gran parte da provincia da Cruña»; mais non a cita entre as conxuncións. Tamén a recolle a gramática de Carré (1967: 119) entre os adverbios de tempo. Nos textos literarios do século XX achamos exemplos cos dous valores, mais con predominio do adverbial. No ALGa rexístrase a presenza de daquela como conxunción por todo o territorio galego, embora fundamentalmente concentrado na parte sudoccidental do país, ao lado dalgún punto moito esporádico de daquelas no galego centro-oriental (Instituto da Lingua Galega 1995: 404). Alén deste valor, asumiu outros como marcador discursivo, con alta rendibilidade tanto na introdución de preguntas como de respostas en textos conversacionais: –E daquela? -María de Castro semellaba persuadida de que aquela conversa tiña pouco que ver con ela.// –Daquela as súas aparecen en varios lugares da casa -informouna Leo Caldas (Ollos 53). A alta frecuencia do seu uso na actualidade, cando menos no plano oral, ponse tamén en evidencia polo feito da súa penetración no castelán falado na Galiza. No entanto, Álvarez Giménez (1909) non cita a interferencia daquela / de aquella entre os defectos da língua castelá falada na Galiza, cando si dá conta do caso de y luego, o que podería ser un indicio de que a interferencia non se producira aínda ou era incipiente a principios do século XX; tamén pode confirmar esta impresión o feito de que na obra da autora galega Emilia Pardo Bazán, que escribe nun castelán inzado de galeguismos, non se rexistre este caso (González / Soto 2000). Diremos, por tanto, que a extensión do uso do galeguismo de aquella no castelán se debeu producir ao longo do século XX. A este respecto, Porto Dapena (1977: 164, nota 21) afirma que no galego de Ferrolterra mesmo «algunos, hablando castellano, dicen de aquella en lugar de entonces», dedución que podería ser aplicada, seguramente, á totalidade da Galiza lingüística, en que persoas que adoito empregan as dúas linguas presentan esta interferencia gramatical nos seus hábitos orais cotiáns. Este fenómeno tamén se traslada ocasionalmente á escrita.
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2.3. Logo Con excepción de daquela, todos os adverbios de tempo relativos ou referentes se documentan desde os primeiros momentos do galego-portugués, entre eles logo, proveniente de (IN) LOCO (Ferreiro 1995: 353). Huber (1986: 256-269) cítao como adverbio de tempo co significado de ‹inmediatamente› (e tamén logo logo ‹sen demora›), mais non como conxunción, en canto Nunes (1989: 345-353) o sinala como adverbio de tempo, sen lle atribuír significado, e ao tratar das conxuncións se limita a indicar que para compensar a perda das demais conxuncións latinas a lingua recorreu a outras palabras, «principalmente aos advérbios e preposições» como mas, logo, ora, u etc. e con eles creou novas conxuncións, mais sen especificar cando aconteceu iso. No corpus da lírica profana medieval atéstanse 294 ocorrencias de logo, normalmente cos significados de ‹axiña›, ‹inmediatamente›, ‹despois›; nalgún caso é posíbel unha interpretación como conxunción consecutiva, mais de forma dubidosa pola proximidade entre a indicación de posterioridade e de consecuencia. No entanto, os textos do galego medio móstrannos xa o emprego de logo con valor consecutivo. En textos do XVIII logo combina con pois e reforza o valor consecutivo deste. O valor consecutivo de logo explícase a partir do seu significado como adverbio de posterioridade e del tamén van derivar outros valores discursivos, como acontece con entón e daquela, aínda que neste caso se callar refreados pola irrupción de e logo. Resulta obvio afirmar que tal uso continuará durante o século XIX e o XX, até á actualidade, embora sexa talvez algo limitado e máis propio de contextos formais, pois nos rexistros populares foi engulido pola variante e logo, que amplía grandemente os seus valores discursivos, entre os que non parece acharse directamente o consecutivo, aínda que si outros explicábeis a partir del. Con todo, non faltan exemplos de logo como marcador discursivo no galego actual: –A que hora podes, logo? -Caldas tentaba acurralar o rapaz (Ollos 119). En síntese, parece claro que tanto no caso de entón como de daquela e logo se produciu, aínda que en diferentes momentos históricos e de acordo tamén coa súa orixe etimolóxica, un proceso de gramaticalización como marcadores discursivos desde o valor adverbial temporal. Como marcadores, o seu valor básico é de conectores consecutivos, facilmente explicábel desde o valor adverbial de tempo, aínda que dese carácter consecutivo poidan derivar outros valores dalgunha maneira asociados a el.
3. O adverbio, conxunción e marcador discursivo pois A partícula pois posúe unha grande relevancia na lingua desde a época medieval até á actualidade, con diferentes valores; algunhas atestacións populares figuran so a forma pos (Domínguez 2006). Segundo Ferreiro (1995: 356), provén do latín POST, adverbio de lugar que, após a aglutinación con algunhas preposicións, está presente nas variantes adverbiais do sistema lingüístico galego-portugués despois e despós (DE+EX+POST), depois (DE+POST), dempois e dempós (DE+IN+POST); na opinión deste mesmo estudioso, a presenza de ditongo final en pois e nalgúns destes derivados «ten a súa orixe na analoxía con outros adverbios
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acabados en ditongo, como mais»; porén, Huber (1986: 88) considera que tanto pois como depois proveñen de POSTEA e Nunes (1989: 345) dá como étimo *POSTI (por POSTE); ambos o inclúen na relación de adverbios de tempo e o primeiro tamén o introduce na listaxe de conxuncións consecutivas e causais (Huber 1986: 268-269). Segundo o visto noutros casos como os de entón, logo ou daquela, da expresión de tempo posterior, neste caso con máis clareza por ser o seu valor temporal único, non resulta difícil pasar a indicar a consecuencia; e xa se viu ao inicio a estreita relación entre esta e a causa. Neste sentido, son oportunas as seguintes palabras de Garachana (1998: 197): toda consecuencia es posterior a su causa; de manera que no es de extrañar que pueda inferirse un valor consecutivo a partir de un significado de posterioridad. Emplear un término que significa ‹más tarde, después› con el valor de ‹por lo tanto› supone un proceso metonímico por el que nos referimos al dominio entero (la consecuencia) a partir de uno de sus constituyentes (la posterioridad temporal característica de las relaciones consecutivas). Se trata, pues, de una metonimia del tipo la parte por el todo.
En todo o corpus lírico profano do galego-portugués medieval atéstanse arredor de 1.600 ocorrencias de pois, con frecuente asimilación da consoante final, e nelas transparecen fundamentalmente os valores de adverbio temporal e de nexo causal. Porén, nin sempre resulta doado nos textos poéticos precisar o valor da partícula, tarefa algo máis fácil na prosa medieval, onde se confirma unha alta rendibilidade de pois como adverbio de tempo e como conxunción causal, xunto coa locución pois que neste caso, mais onde tamén algunhas ocorrencias parecen apuntar para o valor consecutivo e a funcionalidade discursiva. Do pois conector consecutivo e marcador discursivo con outros valores próximos xa temos exemplos abundantes nos textos do galego medio. En moitos casos os pois consecutivos aparecen como parentéticos segundo é norma e ao mesmo tempo non inician o segmento discursivo, a mostraren así a súa mobilidade no discurso. Se xa na lingua medieval pois tiña unha alta frecuencia de uso e destacada diversidade funcional, ambas as características se foron incrementando no percurso temporal e na actualidade ocupa o lugar 112 no conxunto das mil palabras galegas máis utilizadas, segundo o Corpus do Galego Actual (CORGA), como recolle Domínguez (2006: 145), quen destaca a continuidade dos valores que posúe no galego contemporáneo –entre os que xa non cita o adverbial de tempo tan común na lingua medieval–, sen cortes abruptos, a se basear nun amplo corpus de textos orais e escritos correspondentes a diferentes rexistros lingüísticos. O contínuum funcional que sinala esta autora ten un extremo no de conxunción causal e outro no de organizador do discurso, a pasar así dese o primeiro uso nexual a conxunción consecutiva e logo, respectivamente, ao de marcador discursivo conclusivo, afirmativo, focalizador e finalmente organizador do discurso. Mais tamén sinala que os casos en que funciona como conxunción, nomeadamente consecutiva, xa están contaminados polo seu rol máis común de marcador do discurso, pois sería a partir do valor conxuntivo, mediante un proceso inferencial, como iría adquirindo os valores discursivos. Neste caso pode modalizar a estrutura –cos valores básicos de concluír, afirmar e focalizar– ou organizar o discurso de varias maneiras –introducindo un excurso, provocando unha pausa na enunciación, retomando a idea ou a narración interrompida, ou a marcar o comezo da narración. En todo este proceso pois vai sufrindo un baleiramento semántico progresivo que se pon en evidencia
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a partir da súa función de focalizador e que se consolida na de organizador do discurso (Domínguez 2006: 171). Portolés (2001: 55), por súa parte, no intento por distinguir as conxuncións dos adverbios que son marcadores discursivos considera este marcador, no español pues, como un caso especial, xa que ten tres usos diferentes: causal como conxunción que introduce unha cláusula que xustifica outra anterior; adverbio marcador discursivo con significado consecutivo, que é tónico, evita a posición inicial do membro do discurso en que se inclúe e vai delimitado pola entoación; e comentador, o máis complexo categorialmente por se non acomodar ben dentro das conxuncións nin dos adverbios, que é máis frecuente no discurso oral do que no escrito, que se sitúa na posición inicial do seu membro, e que presenta este como un comentario novo a respecto do discurso precedente, sendo unha forma átona que non vai seguida de pausa. Sexa focalizador ou comentador, o caso é que o pois marcador discursivo en galego, desposuído de valor consecutivo, ten hoxe unha alta presenza e rendibilidade na lingua oral e escrita, nomeadamente nos textos conversacionais como inicio de resposta: –Se non chego a refrealas pégolle dous tiros. // –Pois foi o único que non lle pegaches -dixo Caldas (Ollos 121).
4. Os adverbios de modo así, consecuentemente e conseguintemente O adverbio de modo así, xa presente na lingua medieval so a forma assi (Ferreiro 1995: 355; Nunes 1989: 140; Huber 1986: 257) con tal uso adverbial e tamén a facer parte de locucións conxuntivas con valor copulativo ou comparativo (assi... como) e consecutivo (assi ou asi que), neste caso en concorrencia con outras locucións como (a)tam (tan)... que, (a)tanto... que, (a)tal... que, de (ou em) maneira que, en tal guisa que, segundo recolle Huber (1986: 305), acabou por adquirir tamén o valor de conector consecutivo sen a axuda da conxunción que, segundo acontece con expresións modais sinónimas como desta forma, deste modo ou deste xeito. Con todo, xa como adverbio de modo, ou de afirmación (Huber 1986: 259), tiña unha grande rendibilidade na lingua medieval, pois no corpus da lírica profana atéstanse arredor de 600 ocorrencias. Nos textos do galego medio xa temos constancia de así ou assí en funcións de conector consecutivo e no século XIX temos tamén atestacións, por veces en combinación con pois. Mais neste mesmo século xa concorren as dúas partículas con tal valor na fórmula así pois, ausente dos textos medievais, alén doutras locucións conectores como pois ben, pois entón ou pois logo; se así pois xa ten atestacións no século XVIII, as outras documéntanse por primeira vez no XIX, e todas elas teñen unha maior rendibilidade como marcadores discursivos na actualidade que así, de uso limitado e non plenamente gramaticalizado. Por outra parte, o TILG documenta por consecuencia como marcador discursivo a principios do século XX, do cal presenta varias ocorrencias, algunha con en como primeiro elemento. Tamén nos ofrece documentación literaria de consecuentemente como conector xa desde 1927, alén de figurar no dicionario de Eladio Rodríguez co significado de ‹conseguintemente› e ‹por consecuencia›. Segundo acontece en xeral cos conectores consecutivos, é propio de textos argumentativos e explicativos, e o seu uso restrito corresponde case en exclusiva ao rexistro culto.
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Por último, tamén aparece no século XX a forma adverbial conseguintemente co mesmo valor que por conseguinte, embora o seu uso, tamén culto, sexa aínda moito máis restrito. O primeiro dicionario que o recolle é o de Eladio Rodríguez (1958-1961), traducido por «consiguientemente, por consecuencia» (s. v.) e o primeiro rexistro literario que nos dá o TILG é de 1962, con valor de conector consecutivo.
5. Conclusión Algúns conectores consecutivos do galego actual proveñen do galego-portugués medieval, onde normalmente funcionaban como adverbios de tempo, cal é o caso de entón e logo, que irían gramaticalizándose como conxuncións para logo se converteren en marcadores discursivos de valor consecutivo e con outros valores derivados del; daquela seguiría este mesmo percurso após a perda do substantivo na expresión temporal daquela vez, mais posteriormente, sen adquirir a condición de marcador plenamente documentada até ao século XX. Nos primordios do período decimonónico xa se atesta a forte irrupción da variante e logo como marcador discursivo e tanto este como daquela trasladarán as súas funcións discursivas ao castelán falado na Galiza no século XIX e no XX, respectivamente, en canto a variante entonces ve ampliados os seus usos por influencia do español, hoxe freados sobre todo na lingua escrita por prescrición normativa. Un marcador discursivo moi relevante pola súa grande frecuencia de uso e funcións é pois, xa con alta presenza na lingua medieval, onde orixinariamente funcionaba como adverbio de tempo con valor de posterioridade, do cal deriva a súa conversión en conxunción causal ou consecutiva e de aí finalmente a adquisición de funcións discursivas como marcador de ampla rendibilidade. O proceso de conversión de pois en marcador discursivo, iniciado no período medieval, xa se pode considerar consolidado no galego medio. Por último, o adverbio de modo así, con grande presenza na lingua medieval, xa presenta funcións de conector consecutivo nos textos do galego medio e na actualidade ten unha baixa rendibilidade face a así pois. Os tamén adverbios modais consecuentemente e conseguintemente adquiren algún uso como conectores consecutivos só a partir do século XX, embora unicamente en rexistros cultos, igual que as correlativas locucións conectores por consecuencia e por conseguinte.
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María Pilar Garcés (Universidad Carlos III de Madrid)
El proceso evolutivo de los marcadores en todo caso y en cualquier caso1
1. Introducción El surgimiento de los marcadores discursivos responde a distintos procesos de cambio lingüístico que suponen la conversión de determinadas unidades léxicas o sintagmáticas en elementos gramaticales que adquieren diversas funciones discursivas. Para explicar este proceso, nos apoyaremos en algunos de los presupuestos básicos de la teoría de la gramaticalización2 y también tendremos en cuenta, especialmente, cómo influyen en la evolución de estos elementos los cambios que se producen en los paradigmas que se van configurando a través de la incorporación, eliminación o modificación de las distintas unidades léxicas que los integran en las distintas etapas de su desarrollo. Desde esta perspectiva, nuestro estudio se centra en la evolución de los marcadores en cualquier caso, en todo caso, que se integran en el grupo de los marcadores reformulativos de separación, caracterizado por indicar que una parte o la totalidad de lo expresado en los segmentos de referencia o de lo que se presupone o se infiere de ellos no se considera relevante para la prosecución del discurso;3 de este modo, se desarrolla un proceso de revisión en el que se vuelve sobre los miembros anteriores, explícitos o implícitos, donde se plantean diversas perspectivas que el hablante modifica, rechaza o se muestra indiferente ante ellas, para expresar una nueva formulación concluyente. Este trabajo se enmarca en el proyecto de investigación HUM 2007-63165/FILO, financiado por el Ministerio de Ciencia e Innovación de España. 2 La visión tradicional de la teoría de la gramaticalización restringe este fenómeno a aquellos procesos de cambio en los que se va del léxico a la gramática o de lo menos gramatical a lo más gramatical (Meillet 1912/1965; Kuryłowicz 1975; Heine / Claudi / Hünnemeyer 1991; Hopper / Traugott 22003); una visión más actual incluye también otros cambios en los que el origen de la evolución se encuentra en el discurso: la gramaticalización supone la codificación en la gramática de unos significados discursivos (Traugott 1989, 1995b, 2003). Nuestra propuesta se enmarca en la consideración de que la evolución de los marcadores del discurso ha de considerarse como un proceso de gramaticalización entendida esta desde una perspectiva más amplia que permite incluir los fenómenos que se desarrollan en el discurso (Company 2003, 2004, Brinton / Traugott 2005, Garcés 2006, 2010). 3 Es también la caracterización que M.ª A. Martín Zorraquino y J. Portolés dan a estos marcadores (1999: 4128; Portolés 22001). Algunos autores destacan su función concesiva (Fuentes / Alcaide 2002; Santos 2003). 1
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2. Los valores actuales de los marcadores en todo caso y en cualquier caso El marcador en todo caso presenta dos valores fundamentales: 1) suspende la relevancia de lo expresado o implicado en los miembros anteriores e introduce una formulación considerada más pertinente, o 2) elimina las inferencias que se derivan de lo manifestado y se sustituyen por las que resultan del miembro reformulado (Garcés 2008a). El significado actual del marcador en cualquier caso supone una revisión de las alternativas planteadas en el segmento de referencia, tanto de las reales como de las virtuales, así como de las inferencias derivadas de ellas, y la suspensión de su relevancia porque no modifican la conclusión manifestada en el miembro reformulado (Garcés 2008a). La evolución de estos dos marcadores responde a mecanismos diversos y se produce en periodos distintos, pero muestran procesos de convergencia y divergencia en su desarrollo hasta configurar los valores que manifiestan en la época actual4, como señalaremos a continuación.
3. La evolución del marcador en todo caso El sustantivo caso, núcleo de los dos sintagmas, procede del latín CASU(S)5, forma polisémica que, entre sus múltiples significados, tiene el de ‹suceso›, ‹circunstancia›, ‹asunto› del que se deriva el que muestra la forma romance desde sus primeras documentaciones En su asociación con el cuantificador universal todo6, derivado de la forma latina TŌTUS ‹todo, entero› que adquirió también el valor propio de OMNIS, los casos a los que se refiere pueden ir delimitados contextualmente (1), pero también se puede aludir de forma genérica al conjunto de situaciones, circunstancias o casos que pueden darse (2); en este tipo de construcciones en las que el sintagma todo caso se muestra como término de la preposición en está el origen de este marcador discursivo:7 (1)
Et otrosí l’alcalde deue recebir el fiador de ser a dreito que es offrescido por el reo, encara contradiziendo el auctor, et otrosí fiador de estar a dreito deue ser dado ante que el pleito sea començado o depués que fuere començado el quoal fiador offrescido et recebido, luego deue ser demandado fiador de riedra, quar, si, encara dado el fiador de estar a dreito d’aqueill qui captiene al reo, et l’alcalde passare en pleito, iudgando alguna cosa, ante
Para una propuesta de representación de la evolución de los marcadores discursivos en un diccionario histórico Garcés (2008b). 5 Según indican J. Corominas y J. A. Pascual (1991, I: 909), el sustantivo caso ‹suceso›, ‹casualidad›, etc. está tomado del latín «CASUS, -US, ‹caída›, ‹caso fortuito›, ‹accidente›, ‹caso gramatical›, y éste de CASUS, participio pasivo de CADERE». 6 El cuantificador todo en castellano hereda los valores que tenía TŌTUS ‹todo, entero› en latín y, además, los propios de OMNIS, que caracteriza como totalidad a un conjunto precisado cuantitativamente. 7 Cabe destacar que estas primeras apariciones se documentan en textos aragoneses con las peculiaridades lingüísticas de esa zona geográfica. 4
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que fiador de riedra sea dado por el actor, depués el actor non deue ser constreynnido de dar fiador de riedra entroa que al reo sea mandado la iura por mandamiento del alcalde, si el actor quisiere prouar o non quisiere, [o] entroaque el reo, condempnado por sententia, sea constreynnido de pagar et dar lo que fué demandado. Quar en el I et en el otro caso d’estos el actor, en todo caso que contesca, deue dar fiador de riedra sin ninguna exceptión, maguer fiador de ser a dreito en ninguna partida del iuditio non fué dado njn fiador de riedra fué demandado ante, mas si por auentura en quoal se quiere d’estos dos casos el actor non quisiere dar fiador de riedra, el reo non deue ser constreynnido de iurar ni de pagar ni de dar nin de fazer aqueillo que fué iudgado. (Anónimo, Vidal Mayor, c. 1250) (2)
A honor daquel qui dixo. non temptaras a dios to sennor. reuocamos & destroymos en todo caso. el iudizio del fierro calient. & del agua feruient. (Anónimo, Fueros de Aragón, 1247)
En estas documentaciones el sintagma en todo caso se registra con una función de complemento circunstancial con un valor temporal que alude a todas las circunstancias posibles en las que pueden producirse los acontecimientos referidos. Esta posibilidad que manifiesta la combinación del sustantivo caso con el cuantificador universal de hacer referencia de forma genérica a un conjunto de circunstancias explicitadas anteriormente o implícitas en el contexto es la base para la creación del marcador discursivo. Ahora bien, las construcciones en las que funciona como complemento circunstancial se van a mantener durante los siglos posteriores hasta la actualidad, aunque según se va fijando su empleo como marcador disminuirá su uso en ese tipo de estructuras.8 En el siglo XIV se documenta ya algún ejemplo en el que este sintagma no presenta incidencia directa sobre la predicación verbal sino que va antepuesto al enunciado en el que se inserta y se refiere anafóricamente a una serie de situaciones descritas en los enunciados previos (3). (3)
El surco non deue auer de fondo mas adelante de dos pies & medio o tres pies. Despues deues saber que sy la vjñya se debe labrar o cauar por hombres & no pont arar con bestias. deues dexar otro tanto espaçio de tierra que non sea plantada como tiene el surco. es a saber que sy el surco tiene de ancho. tres pies. deues le dexar otros tres pies de ancho que non te le cale plantar. E despues faze hombre otro surco por semejante manera. fasta tanto que el campo es acabado de plantar. E sy por aventura tu querras que la vjñya sea labrada con bestias. la vegada tu faras los surcos o sy quieres barrenaduras de hondura de tres pies. E de amplaria de dos pies & medjo Et los claueras o barrenas avran de luengo tres pies. E dexaras de espaçio de surco a surco o de clauar a clavera çinco o seys pies. sy querras las vjñyas sean labradas por hombres. sy qujer con bueyes o con otras bestias. En todo caso conujiene que los espaçios que de suso avemos ordenado sean segujdos & guardados. (Ferrer Sayol, Libro de Palladio, 1380-1385)
Se trata de un enunciado anterior complejo en el que se exponen varias posibilidades explicitadas mediante el empleo de formas temporales de futuro que indican los dos posibles modos de actuar, pero, tanto si de da una alternativa –que las vjñyas sean labradas por hombres– como otra –sean labradas con bueyes o con otras bestias– lo más relevante es lo que se indica en el enunciado introducido por en todo caso, referido a que las acciones que se realicen han de seguir unas pautas determinadas. La mayor frecuencia de este tipo de construcciones se da en el lenguaje jurídico, donde se mantienen como fórmulas fijas para hacer referencia a una ley que ha de ejecutarse en toda situación o en cualquier circunstancia que sea de aplicación.
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Esto supone un cambio en el funcionamiento del sintagma en todo caso que pasa a desempeñar una función en el nivel textual como conector de segmentos discursivos y un cambio semántico que implica establecer relaciones conceptuales entre los enunciados conectados. A partir del siglo XV se amplían los contextos en los que en todo caso funciona como conector con la adquisición de nuevos sentidos que vienen determinados por el contexto en el que se inserta. Se mantienen los casos en los que se alude explícitamente a una serie de posibilidades, para mostrar inhibición ante ellas e indicar que lo más relevante es lo que se indica en el enunciado en el que se inserta este marcador: (4)
E el pedido que se repartiese para que se pagase en tres pagas: la primera fasta quarenta dias, la segunda fasta otros quarenta dias, e la tercera fasta, otros cuarenta dias; pero que al presente non se cogiesen dello salvo las dichas monedas primeras; e lo que montase en las dos pagas primera y segunda del dicho pedido oviese de continuar la dicha guerra con los dichos moros o corriese otra nesçesidad mayor o menor o igual tanto que fuese de guerra o de otra cosa para pagar sueldo que en este caso se cogiesen e pagasen, todos los dichos quarenta cuentos y medio de monedas y pedido, segund dicho es, a los plazos suso dichos enteramente, e que de otra guisa non se cogiesen nin pagasen al presente, salvo las dichas dos pagas de las dichas monedas e pedido que agora se han de coger; pero que en todo caso la paga postremera del dicho pedido e monedas se coja en el mes de Diciembre deste dicho presente año. (Anónimo, Ordenamiento sobre recaudación de las monedas y pedidos otorgados por lo procuradores del reino, 1432-1433)
Como se observa en el ejemplo anterior (4), se manifiestan explícitamente las opciones que pueden darse en la entrega de las pagas: la primera ha de repartirse en una determinada fecha y la segunda dependerá de las circunstancias; pero el que este pago se realice en un plazo o en otro no va a impedir que la consecuencia necesaria sea que la tercera paga haya de distribuirse en una fecha concreta. En estas estructuras en las que se muestra que la consecuencia que se pudiera derivar de lo expresado anteriormente no varía la conclusión mantenida en el enunciado en el que se inserta este marcador, este puede ir precedido por pero que mantiene y refuerza ese valor. Junto a estos contextos surgen otros nuevos en los que las hipótesis o posibilidades pueden delimitarse a través de estructuras que implican esas opciones: construcciones modales, estructuras condicionales, empleo de formas verbales en futuro, condicional o subjuntivo o negaciones que suponen una afirmación correspondiente: (5) –¿Dónde sodes vosotros e qué buscades? Creo que sodes judíos e andades barruntando la tierra para nos lo fazer dañar. E sed presos. Dixiéronle: –Señor, non somos barruntes, ca tenemos padre viejo e otro hermano pequeño e enbiónos por çebera. Díxoles: –Pues que quede aquí el uno de vos e idvos con çebera e traedme esse hermano pequeño que dezides por que sepa que dezides verdad. Dixiéronle: –Señor, non nos lo dará nuestro padre, ca después que perdió a Joseph, su fijo, non lo parte de sí. Díxoles: –En todo caso non iredes de quí si esto non fazedes. (Lope García de Salazar, Istoria de las Bienandanzas e fortunas, 1471-1476)
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En este párrafo (5), las posibilidades se manifiestan a través del futuro y de la negación: el enunciado non nos lo dará nuestro padre implica que puede que el padre permita o no al hijo presentarse ante el Señor, pero tanto si sucede una cosa como la otra –puede que le deje venir o que no le deje venir– la conclusión es la misma: no podrán marcharse del lugar hasta que no se cumpla lo solicitado; además, se observa cómo las posibilidades son planteadas por uno de los interlocutores y la afirmación concluyente la manifiesta otro distinto. En esta época –a finales del XV y ya en el XVI– comienza a documentarse la presencia del sintagma en todo caso en estructuras en las que se oponen o contrastan dos enunciados o miembros de enunciado: un segmento negativo seguido de uno positivo, en el que se inserta este marcador; es común en este tipo de estructuras que en todo caso vaya precedido por adverbios o conjunciones que acentúan esa oposición: el adverbio antes, que en la época en la que aparece con este marcador (siglos XV y XVI) forma parte del paradigma de las expresiones adversativas9 con un sentido, sobre todo, preferencial (6) o la conjunción adversativa de sentido exclusivo que será mas (7) en estas primeras documentaciones y posteriormente será sustituida por sino (8). La asociación de este marcador a estos contextos supone la adquisición de un nuevo sentido: se elimina la relevancia del primer segmento sustituyéndola por la del segundo. (6)
Quanto en lo de los indultos, veo lo que me screuis el papa os respondio. Essa es cosa que non le deueys floxar, antes, en todo caso, trabajareys sean reualidados. (Anónimo, Fernando al conde de Tendilla sobre la provisión de obispados y abadías, 1487)
(7)
Tambien escrevimos al Duque de Terranova agraviandole lo que Santa Cruz procura de la venida en Apulla del Rey de Romanos, é diciendole que no solamente no lo procure, mas que en todo caso lo desvie e estorue, é así lo haced vos, porque traería muchos y mucho grandes inconvenientes e estorvaria la negociacion que tenemos con el dicho Rey de Romanos. (Anónimo, Correspondencia real [Cartas del Gran Capitán], 1503-1504).
(8)
Pero nosotros no escribimos la historia de Carlos V, sino en todo caso la de Yuste. Bueno será, pues, que antes de penetrar en el Monasterio digamos todo lo que se sabe acerca de su fundación y rápido desarrollo hasta el momento en que representó tan importante papel en el mundo, así como respecto de su lamentable ruina. (Pedro Antonio de Alarcón, Una visita al monaterio de Yuste [Viajes por España], 1873)
Este marcador puede adquirir un nuevo sentido cuando tanto el primer miembro como el segundo forman parte de una escala argumentativa y el segundo se sitúa en una posición inferior a la del primero; en este sentido, se presenta el segmento del discurso que introduce como la concesión máxima que el locutor está dispuesto a hacer a su interlocutor tras haber rechazado lo expresado en un segmento previo; constituye, por tanto, una reformulación atenuadora de la negación refutativa presente en el primer miembro del discurso (García 2002: 113). (9) E avían hablado con los moros, e avían ydo dos vezes a la cibdad; e al fin avían respondido que no querían partido ninguno y en todo caso querían defender su cibdad e lo suyo de quien se lo quisiese tomar. (Diego de Valera, Crónica de los Reyes Católicos, 1487-1488) Como señala R. Espinosa (2007), el adverbio antes como expresión adversativa se documenta a partir del siglo XIV.
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En una escala argumentativa en la que el elemento más alto sería entablar una batalla y enfrentarse al enemigo el hablante rechaza ese argumento y lo sustituye por uno que se sitúa en un nivel inferior en la escala, mantenerse a la defensiva, que es lo máximo que está dispuesto a conceder (9). Asimismo, puede introducir un nuevo punto de vista del propio hablante, que supone una revisión de lo expresado en un enunciado precedente, a fin de evitar que el interlocutor ponga en cuestión la primera formulación; se manifiesta, por tanto, un descenso en el nivel de la escala argumentativa, pero, a diferencia de la propuesta anterior, aquí se presenta como lo mínimo que, según el hablante, su interlocutor debería aceptar para mantener el buen funcionamiento de la interacción comunicativa. (10) Y como la doncella entendiesse que el cavallero andava enamorado y servía a otra, viendo que a ella no la vía ni la visitava va como solía perdió con los celos la paciencia; y assí, un día le envió a dezir que en todo caso viniesse a hablarla, porque tenía un negocio que tratar con él. (Antonio de Torquemada, Jardín de flores curiosas, 1569)
En este ejemplo (10), se atenúa la fuerza argumentativa de un punto de vista precedentemente evocado –visitar con frecuencia a alguien, tener una relación frecuente con alguien–, sustituido por un argumento más débil –hablar en una ocasión determinada–, a fin de evitar posibles objeciones y reproches a la enunciación de la primera formulación. De este modo, desde mediados del siglo XVI ya aparecen configurados los valores que el marcador en todo caso va a mantener hasta la actualidad: el valor de inhibición o indiferencia, que comparte con en cualquier caso en los contextos en los que se plantean varias posibilidades o alternativas previas que no son relevantes para llegar a la consecuencia o conclusión expresada en el miembro discursivo en el que sitúa este marcador; el valor que adquiere en los contextos en los que hay un enunciado anterior que no se considera relevante y es reemplazado por la nueva formulación en la que se inserta este marcador; en estos casos puede mostrarse como un argumento de nivel inferior que es la concesión máxima que el hablante está dispuesto a hacer a su interlocutor tras haber rechazado un argumento precedente más fuerte, o una modificación en la argumentación utilizando también un argumento inferior al anterior para evitar posibles objeciones por parte del interlocutor.
4. La evolución del marcador en cualquier caso La aparición en los documentos del corpus de la combinación del sustantivo romance caso con las variantes formales del cuantificador de indistinción, qual quier, qualquier, cual quier, cualquier, es tardía, aunque construcciones de este tipo se registran en textos escritos en latín desde los primeros testimonios recogidos.10 Así se testimonia en diversos documentos: An hinc autem si quislibet homo, tam ex consanguineis, id est, filiis, neptis, seu extraneis, id est, regibus, comitibus, potestatibus, infanzonibus vel ex villanis plebibus super hanc nostram
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Ya nos hemos referido en el apartado anterior a la polisemia del sustantivo caso y a su significado general que permite hacer referencia a ‹asuntos›, ‹sucesos› o ‹circunstancias› explicitados en el texto o implicados en él. Respecto del cuantificador de indistinción cualquier se documenta desde el siglo XI en las variantes formales propias de los primeros siglos, qualquier, qual quier. Se trata de una palabra compuesta por el relativo interrogativo latino QUALIS y la forma verbal quiera, presente de subjuntivo del verbo de volición querer, construida como un calco semántico de las correspondientes latinas creadas sobre la base de verbos como –VIS o -LIBET (QUIVIS o QUILIBET) con las que se construían las formas indefinidas (Espinosa 2010: 327). En castellano, se elige para la creación del compuesto el verbo QUARERE, que, de su significado originario de ‹buscar›, ‹inquirir›, ‹pedir› había evolucionado, ya en latín vulgar, a ‹desear› y de ahí a ‹querer› en el latín vulgar hispánico (Corominas / Pascual 1991: IV, 717-721). La evolución del segmento quier hasta convertirse en un marcador de opcionalidad se explica por el propio significado del verbo (Elvira 2007): al tratarse de un verbo de volición, muestra una gran capacidad polisémica lo que posibilita que pueda participar en procesos de desplazamientos semánticos muy variados; el concepto de volición está cercano semánticamente al valor optativo, dado que supone una elección entre posibilidades, y este es el valor que muestra esta forma en muchos textos medievales castellanos (11): (11) Los que piensan en el mal que les verna por el fecho que fizieren destos se entiende que aprisieron la sapiencia, e non puede seer mayor contrario ny mayor mal, quier a los altos quier a los baxos, nin porque mas ayna les venga mal que por creer mezcla nin mençoja mayormente a los que mayor poder an. (Anónimo, Libro de los buenos proverbios que dijeron los filósofos y sabios antiguos, c 1250)
En estos contextos, ha perdido su significado literal y se ha convertido en un marcador de opción. Este valor es el que permite su combinación con el relativo qual (qualquier) para configurar el indefinido de indistinción. De este modo, la forma cualquier tiene su origen en el reanálisis que convierte una secuencia de sintagmas en un compuesto morfológico (Rivero 1991: 216). El origen del marcador en cualquier caso está en las construcciones en las que este sintagma preposicional es una combinación libre que funciona en el ámbito de la predicación oracional como complemento circunstancial con un valor temporal que remite a las posibles situaciones o circunstancias en las que se puede producir o realizar una determinada acción (12): (12) Suma de las indulgençias e perdones quel dicho monsterio ha; quinientos annos e quinientas quarentenas de perdón, según se contiene en las letras, e más, que quita todos los peccados ueniales e oluidados en la conffessión, e las quaresmas e quatro tiénporas e uigilias quebrantadas, e las penitençias quebrantadas commo quier que sean dadas en qualquier caso. (Anónimo, Carta privada de un traslado notarial, 1398) offertionem auso temerario in quolibet casu convellere, infringere, vel in modico conturbare conaverit sit primitus a Domino Jhesu Christo maledictus, et a Christi corpus et sanguine excomunicatus, et a limine sancte matris ecelesie sequestratus, utrisque in fronte vivens careat lucernas, demumque cum diabolo et Judas traditore marata anathema factus, cum demonibus penas eternas sustineat luiturus, amen. (Anónimo, Sometimiento de las iglesias de Santa María de Fresno y San Andrés de Treviana al monasterio de San, 903)
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Un proceso de cambio muestran las construcciones en las que el sintagma preposicional lleva como complemento una oración de relativo con el verbo ser en subjuntivo, que aporta un valor de generalización, y todo el sintagma hace referencia a las situaciones posibles señaladas en el contexto previo, ante las que el hablante se mantiene indiferente porque ninguna de ellas invalida la conclusión que se expresa en el enunciado en el que se inserta en cualquier caso (13): (13) Nunca mayor desbarato nin tan grande puede venir a los que estan alegres quanto supitamente la su fortaleza se les torna en espanto & en pavor. Mas en cualquier caso que sea son de regir & recoger los que quedaron en la batalla & son de levantar con amonestamientos convenibles & son de reparar con armas entonçe los nuevos quando se buscan nuevas ayudas. & lo que mas aprovecha ca a todas ocasiones es de fazer arremetida contra los mesmos vençedores por escondidas asechanças. (Fray Alonso de San Cristóbal, Libro de Vegecio de la caballería, 1454-a 1500)
En este tipo de contextos se muestran varios cambios que indican el proceso de evolución que está experimentando este sintagma: se sitúa en la posición inicial del enunciado lo que implica que su incidencia se extiende a toda la predicación y no únicamente a un elemento de ella; además, admite ir precedido por la conjunción mas, en este contexto con un sentido restrictivo, que marca que las inferencias de lo expresado anteriormente –de la consideración de que a alguien le invada el terror o el espanto en una situación de conflicto se deriva que intentaría huir y no ocuparse de nada– quedan eliminadas porque lo relevante es la conclusión que se desprende de lo expresado en el enunciado precedido por este conector –es preciso quedarse tras la batalla para ayudar en lo necesario–; la función de en cualquier caso que sea es señalar la inoperancia de los casos referidos en el enunciado previo porque lo relevante es lo que se afirma a continuación.11 El valor de indistinción del cuantificador y el significado general del sustantivo caso, que lo hace aplicable a distintos tipos de situaciones, será la base sobre la que se asiente el significado del sintagma en cualquier caso, cuando asuma plenamente su función como marcador discursivo. Ese paso se muestra en el siguiente ejemplo (14), en el que se alude catafóricamente a las distintas posibilidades, explicitadas y enlazadas a través de una coordinación disyuntiva, que no se consideran relevantes para llegar a la conclusión señalada en el enunciado previo, en el que se ubica la locución adverbial en cualquier caso: (14) Lo segundo, por juramento falso, que es cuando lo que se afirma con juramento no es verdad, sabiendo el que lo dice que no es, es pecado mortal en cualquier caso, ora lo que se jura sea cosa grave, ora liviana, ora con daño, ora con provecho, aunque fuese por salvar la vida de un hombre, y aun de todo el mundo. (Felipe de Meneses, Luz del alma cristiana, 1555)
Este valor de revisar varias opciones, explícitas o implícitas, que no se consideran relevantes para la conclusión o consecuencia que se deriva del enunciado o miembro discursivo en el que se sitúa el marcador será el significado básico de en cualquier caso, convertido en sintagma fijo, sin posibles modificadores o complementos que lo especifiquen, con movilidad En este tipo de construcciones aún no se ha fijado la preposición que acompaña al sintagma y se encuentran muestras de en cualquier caso que sea o por cualquier caso que sea.
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en el enunciado y, generalmente, en una posición incidental y con un ámbito de incidencia que se extiende al enunciado en el que se inserta y con el que conecta. De este modo, los entornos preferentes de uso del marcador son aquellos en los que las posibilidades o las opciones vienen explicitadas en el contexto lingüístico o se puede aludir a ellas a través de construcciones que marcan hipótesis (condicionales, formas del subjuntivo que conllevan una interpretación prospectiva), posibilidad o probabilidad (futuros) o distintas modalidades (verbos o adverbios modales, verbos que indican suposición, creencia, etc.). Con este valor y en este tipo de estructuras el marcador ya se encuentra consolidado a finales del siglo XVI y se mantendrá durante los siglos posteriores hasta la época actual, como se manifiesta en los ejemplos siguientes: (15) Así que, no parece que con el dicho Barbarroja se podría concertar ni asegurar cosa que bien estuviese, y que en cualquier caso, lo que se hubiere de tratar, concertar y asentar, debe ser con los dichos reyes, o rey de Túnez, asegurándoos lo mejor que se pueda, para que el dicho Barbarroja sea echado de allí, y se le haga todo el daño que se pueda, así en su armada y gente como en todo lo demás que se pueda hacer. (Fray Prudencio de Sandoval, Historia de la vida y hechos del Emperador Carlos V, 1604-1618)
Como muestra este texto, las posibilidades referidas en el enunciado previo vienen señaladas por varios elementos: la negación anterior (no parece) que contrasta con la posible afirmación de otro enunciador, con lo que se crea una lectura polifónica, y el empleo del condicional (podría) que señala la hipótesis de que se pudiera producir o no un hecho. (16) ... Verdaderamente es frecuente entre los franceses y otros pueblos el desprecio y la burla; y ya que no faltan entre vosotros (dicho sea con vuestro consentimiento) quienes escriban con negligencia, sin gracia, con rudeza y hasta con tosquedad, y si nosotros espontáneamente los disculpamos y no por eso despreciamos a todo el pueblo francés, al que antes honramos como muy sabio, justo es que también vosotros perdonéis nuestros defectos. En cualquier caso, si cometemos alguna falta sería sin duda mejor reprendernos con moderación y sin ofensa que despreciarnos a todos en conjunto con tanta arrogancia. (Ignacio de Luzán, Defensa de España y participación en la campaña contra Gregorio Mayans, 1742)
Las hipótesis vienen establecidas por la modalidad expresada en el enunciado anterior que supone la evaluación de una determinada situación por parte del hablante y la necesaria utilización del subjuntivo en referencia a que pueda realizarse o no el hecho señalado –perdonar o no perdonar los defectos del pueblo español por parte del pueblo francés–. (17) De todas suertes, conviene llamar la atención sobre los vicios que más resaltan en la generalidad de los que se dedican á enseñar caballos guiados por sus caprichos solamente. Estos consisten en usar tirones ó toques fuertes con las riendas, unos para determinar el caballo adelante, otros como castigo de alguna falta cometida por él: en cualquier caso es impertinente, porque las riendas no deben ejercer sobre el animal más funciones que las de dirigir, contener ó hacerle parar definitivamente. (José Hidalgo y Terrón, Obra completa de equitación, 1889)
La opcionalidad puede venir establecida por una correlación contrastiva unos… otros para indicar que ninguna de las posibilidades es válida porque lo relevante es la afirmación introducida por el marcador.
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(18) ¿Es que la ‹fauna de los snobs› de que habla Ortega se ha multiplicado prodigiosamente? Tal vez. Pero, en cualquier caso, la generalidad del fenómeno, que es para Ortega y Gasset lo característico, resulta completamente inexacta. (José Bergamín, Artículos, 1923-1974)
Las posibilidades pueden venir determinadas por el empleo de un adverbio modal epistémico como tal vez que expresa la duda de que se produzca una determinada situación: puede que un determinado grupo se haya multiplicado prodigiosamente o no, pero lo relevante, tanto si es así como si no, es que la generalidad de ese fenómeno, que es lo característico para un determinado filósofo, resulta inexacta.
5. Procesos de evolución e integración de en todo caso y en cualquier caso en el paradigma de los marcadores de separación La creación de los marcadores en cualquier caso y en todo caso muestra cómo se va configurando el paradigma de los marcadores de separación. Ambos elementos tienen su origen en una construcción libre constituida por el sustantivo caso, de amplia polisemia, el cuantificador de indistinción cualquier y el de carácter universal todo, en construcciones en las que aparecen como término de la preposición en. La base del significado está en el carácter polisémico del sustantivo, con referencia a diversas situaciones posibles y en los valores coincidentes de todo y cualquier como cuantificadores universales en los contextos en los que pueden hacer referencia a todas las circunstancias posibles, tanto explícitas como implícitas. El paso al dominio textual se da, en primer lugar, en la locución en todo caso, del que hay ya ejemplos como conector a finales del siglo XIV; en este nuevo empleo adquiere el valor de señalar que los casos explicitados en el contexto precedente no se consideran relevantes para la conclusión expresada en el miembro discursivo en el que se inserta el marcador. Este es el valor que también presenta en cualquier caso en sus primeras apariciones en la función de conector, que datan de mediados del siglo XVI. Posteriormente, a finales del siglo XVI, en todo caso comienza a ampliar sus contextos de uso y se especializa en estructuras en las que se contrasta u opone un segmento negativo a uno afirmativo, en el que se inserta el marcador, por lo que este adquiere un nuevo valor, el de modificar o anular la relevancia del segmento anterior para sustituirla por la que se deriva de la nueva formulación. Por su parte, el marcador en cualquier caso va a mantener su valor originario como conector de modo exclusivo. En definitiva, los dos marcadores siguen compartiendo contextos cuando se invalida la relevancia del primer término sin pretender reemplazarlo por el segundo y delimitan sus funciones cuando el segundo miembro reemplaza y sustituye al anterior; esta delimitación es evidente cuando estos marcadores van precedidos de una conjunción: los dos son compatibles con la conjunción adversativa restrictiva pero, y solo en todo caso puede ir precedido de la adversativa exclusiva sino.
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Joaquín Garrido (Universidad Complutense de Madrid)
Niveles de organización en las relaciones interoracionales: discurso y texto
1. Introducción Las relaciones entre oraciones son susceptibles de análisis. Para ello, en lugar de una perspectiva pragmática del discurso, en términos de intenciones o de actos, se propone un enfoque de construcción de discurso (Garrido 2007), en el cual cada oración se une a la siguiente según pautas establecidas como relaciones de discurso. Estas relaciones están definidas formalmente en términos de estructuras de representación de discurso (Kamp y Reyle (1993) y su ampliación a estructuras segmentadas (Asher y Lascarides)). De este modo, hay subordinación y coordinación, o más bien hipotaxis y parataxis, entre las oraciones, en el sentido de que una oración o bien forma parte de un mismo segmento de discurso o bien forma parte de uno nuevo, es decir, de otro (Garrido 2003); adicionalmente, ciertas propiedades aspectuales y de alcance nominal caracterizan modos de discurso diversos, como son el modo narrativo o el argumentativo (Smith 2003). Por otra parte, los discursos o estructuras jerarquizadas constituidas por oraciones (Garrido 2011) se adaptan al molde del tipo de texto, que organiza la información de manera que se adapte a la transmisión del texto en el marco de una determinada acción social (Garrido 2009), propia de una determinada comunidad de práctica (Eckert 2000). El presente enfoque de construcción de discurso se aplica a un breve texto en el apartado tercero, tras comparar en el segundo diferentes análisis llevados a cabo mediante dos aproximaciones diferentes a las relaciones entre segmentos del texto: la teoría de la estructura retórica de Mann y Thompson (1998), aplicada por Mann (2003) al ejemplo, y el modelo de conectividad de Renkema (2006 y 2009). En términos de Labov (1997: 398), «The reader is asked to accept the validity of those findings provisionally until a larger body of material can be presented». Los resultados del análisis cuya validez es provisional tienen que ver con la interacción dinámica entre la estructura del discurso, es decir, cómo están unidas las oraciones entre sí, y la estructura del texto, es decir, cómo se distribuyen las unidades o segmentos de discurso en las partes o componentes en que está organizado el texto de acuerdo con el tipo de texto a que pertenece. Al mismo tiempo, se abandona la idea de la peculiaridad del discurso, de la dualidad entre sistema y uso de la lengua, mediante la propuesta de unidades de dos niveles superiores al de la oración, constituidos por unidades lingüísticas jerarquizadas entre sí, el discurso y el texto. Se integran así enfoques de unidades de la conversación (Briz 2007) en la tradición de la articulación del discurso de Roulet (1995), como también unidades incorporadas en otros marcos de análisis (Kroon 1995), como el de la gramática funcional discursiva de Hengeveld y Mackenzie (2008).
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En su lugar, tres unidades básicas constituyen lo que podríamos entender como tres niveles de organización, oración, discurso y texto, en un proceso dinámico que podemos denominar abreviadamente construcción de discurso, tanto desde el punto de vista de la expresión como en el de la interpretación, ya que ambas constituyen las dos caras de una misma moneda de construcción simultánea del sentido y el sonido (o su representación en la comprensión).
2. Relaciones retóricas y conectividad Observemos las relaciones entre las oraciones siguientes (Garrido 1997, 216): (1a) (1b) (1c) (1d) (1e)
María se levantó. Juan la saludó. María empujó a Juan. Juan se cayó. María pintó un cuadro. Usó acrílicas y óleo. María es rubia. Pero Juan es moreno. María es rubia. Juan también es rubio.
En el marco del análisis iniciado por Hobbs (1985), se trata de las relaciones de narración, resultado, ampliación, contraste y paralelo, respectivamente (la de ampliación se llama también relación de detalle o de elaboración; la de narración, secuencia). Las relaciones interoracionales han sido objeto de numerosos análisis (Garrido 2007). En el marco de la teoría de la estructura retórica de Mann y Thompson (1988; Taboada y Mann 2006), Renkema (2006, 2008 y 2009) ha propuesto un modelo de conectividad de tres niveles, correspondientes a las funciones definidas por Bühler (1934). Para ejemplificarlo lo aplica a una anécdota que Mann (2003) analizó en su página de la red, el texto de la Madre Teresa tomado del Reader’s Digest de enero 1986, p. 117. (2) (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) (10)
Mother Theresa text Mother Teresa often gives people unexpected advice. When a group of Americans, many in the teaching profession, visited her in Calcutta, they asked her for some advice to take home to their families. «Smile at your wives», she told them. «Smile at your husbands.» Thinking that perhaps the counsel was simplistic, coming from an unmarried person, one of them asked, «Are you married?» «Yes», she replied, to their surprise, «and I find it hard sometimes to smile at Jesus».
En Renkema (2008) aparece la siguiente traducción: (3) (1)
Texto de la Madre Teresa La Madre Teresa a menudo da consejos inesperados a la gente. (2) Cuando un grupo de americanos, muchos de ellos activos en el sector de la educación, la visitaron en Calcuta
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(3) le preguntaron por un consejo que pudieran llevarse consigo para sus familias. (4) «Sonreír a sus esposas», les dijo. (5) «Sonreír a sus maridos». (6) Pensando que tal vez el consejo era un tanto simple, (7) viniendo de una persona soltera, (8) uno de ellos preguntó: «¿Está usted casada?» (9) «Sí», contestó, dejándoles sorprendidos, (10) «y me resulta duro algunas veces sonreír a Jesús». (11) Puede ser muy exigente.
El análisis de Mann (2003) se puede resumir de la siguiente manera: (4)
Análisis de Mann 1 da consejos 2 la visitaron 3 le preguntaron 4 «Sonreír a sus esposas» dijo 5 «Sonreír a sus maridos» 6 pensando que el consejo era simple 7 viniendo de una soltera 8 preguntaron «usted casada?» 9 «sí», contestó 10 «me resulta duro sonreír a Jesús» 11 «Puede ser muy exigente»
1 preparación de 2-11 2 circunstancia de 3-11 4-5 solución de 3 4 unión con 5 3-5 secuencia con 6 7 causa involuntaria de 6 6-7 causa voluntaria de 8 9-11 solución de 6-8 10-11 ampliación de 9 10 resultado involuntario de 11
El anterior es solo uno de los tres análisis diferentes que Mann (2003) ofrece de la última parte del texto, representados a continuación: (5)
Tres análisis de Mann 2003 Análisis 1: solución 6-8, 9-11 Análisis 2: secuencia 6-9, 10-11 Análisis 3: secuencia 6-8, 9, 10-11
En el primero, la respuesta de la Madre Teresa (9, 10 y 11) es solución de la pregunta 8, a su vez motivada por las razones aducidas en 6 y 7. La respuesta 9 está ampliada o detallada por 10 y 11, en donde 11, «Puede ser muy exigente» es el núcleo, la causa de 10, «me resulta duro sonreír a Jesús», que es el satélite, el resultado involuntario de 10. En resumen, relación de solución entre la pregunta y la respuesta, cada una con sus respectivos segmentos adicionales. En el segundo análisis de Mann, hay una relación de secuencia o narración entre 6-9 y 1011, es decir entre la pregunta y su respuesta, por un lado, y la afirmación sobre que le cuesta sonreír porque es exigente, por el otro. En el tercer análisis, hay secuencia o narración entre la pregunta, 6-8, la respuesta, 9, y la explicación de la respuesta, 10-11. El propio Mann explica así la razón de proponer tres análisis: This has been done in order to facilitate some thinking about why one analysis might be preferable to another. In this case, preferences seem to revolve around which intentions are most plausible to attribute to the author.
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Mann observa que hay una «relación analógica» entre el segmento del consejo de sonreír y el de que es difícil sonreír a Jesús, pero esta relación, «elemento estructural del discurso», no queda identificada en la estructura retórica del texto: Notice that one of the key relationships in the text is an analogical relationship between «Smile at your husbands» and «I find it hard sometimes to smile at Jesus». Notice also that there is no trace of this analogical relationship in the RST analyses of the text. It is certainly a discourse structural element, and it is certainly involved in the way that the text communicates, but it is of a different order than RST identifies.
Para dar cuenta de la «relación analógica» es necesario, pues, ampliar el análisis. Para la última parte, Renkema (2006) propone un segundo análisis: (6)
Dos análisis de Renkema Análisis 1: secuencia 6-8, 9; secuencia 9, 10-11 Análisis 2: secuencia 6-8, 9; ampliación 9, 10-11
En lugar de que haya secuencia o narración entre la respuesta y la explicación, en el segundo análisis hay una relación de ampliación de la respuesta mediante la explicación. Renkema (2006, 131) propone que en casos de ambigüedad la «informatividad» o «riqueza de conectividad» decida entre las relaciones, por ejemplo entre secuencia y causa en «She had a baby in March and got married in April». La secuencia (de dos núcleos) es menos informativa que la causa (el bebé) y su núcleo (casarse después). Aunque no la aplica al texto anterior, podríamos suponer que la decisión entre secuencia y ampliación sería la ampliación (tomando, como Renkema, la secuencia o narración como menos informativa que la ampliación). Pero, según ese criterio, sería todavía más informativa la relación de solución que propone Mann en su primer análisis, entre la pregunta de si está casada (6-8) y la respuesta de que sí y es difícil sonreír a Jesús (9-11). En un análisis posterior, Renkema prefiere la opción de la secuencia a la de la ampliación: «Because the content of segment 10 is doing more than merely giving information about the answer ‹Yes›, and also refers to segments 4 and 5 about ‹smiling›; the label Sequence has better arguments here». Renkema (2009, 94). De este modo está integrando la relación analógica que observaba Mann. Es más, decide que entre una relación local (de ampliación entre 9 y 10) y una global (entre elementos de 10 y de 3 y los anteriores 4 y 5), la global es la que predomina. Su explicación se basa en distinguir tres niveles, de conexión de segmentos («conjunción»), de relación entre conceptos («adjunción») y de interacción entre quienes se comunican («interjunción»), basándose en el modelo de Bühler (1934) de tres funciones, expresiva, representativa y apelativa («Ausdruck, Darstellung, Appell») y, en realidad, siguiendo a Halliday (1970) en sus funciones textual, ideativa e interpersonal: para Renkema (2009, 53), la conjunción es el nivel de enlace («linking») de forma con forma, la adjunción el nivel de enlace de información con información, la interjunción es el nivel de enlace de hablante con oyente. Ampliación y narración pertenecen al nivel de adjunción, pero la decisión entre las dos compete al nivel de conjunción. Su explicación se podría entender como que en el nivel de enlace de forma con forma, la relación de secuencia (o narración) enlaza segmentos más amplios que la de ampliación.
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3. Construcción de discurso 3.1. Conexión en el discurso y tipo de texto Es frecuente emplear los términos de discurso y texto como intercambiables: por ejemplo, Borreguero (2007: 60) habla de «tipología discursiva» y a continuación de «tipología textual» de manera indistinta. En el presente análisis de construcción del discurso, se consideran unidadades diferentes los discursos y los textos. Se puede considerar el discurso como unidad constituida por oraciones, en la que cada oración se construye y, como observan Kamp y Reyle (1993, 59), se interpreta teniendo en cuenta las precedentes. Se trata del enfoque de la construcción de discurso, que consiste en las siguientes premisas. En primer lugar, las oraciones constituyen unidades superiores, secuencias, segmentos o discursos, en procesos que se explican mediante un principio de conexión (o relevancia a la inversa, entendida la relevancia en el sentido de Sperber / Wilson 1995), que se aplica a la oración construida con otras en el discurso: siempre hay un proceso de coerción, de reorganización de la información interna y de exigencia de información adicional para poder conectarse al resto de la construcción; y es el total de la construcción la fuente de información contextual que se requiere para su conexión. (Garrido 2009: 225)
En tercer lugar, hay un conjunto finito de relaciones entre oraciones, las relaciones de discurso (Asher y Lascarides 2003), que organizan las oraciones en la estructura global del discurso (Busquets, Vieu y Asher 2001). Estas relaciones pueden ser coordinantes o subordinantes (Asher y Vieu 2005), o de parataxis o hipotaxis (Gaudino-Fallegger 2010). Las opciones de organización de cada discurso, es decir, en la construcción y conexión de las oraciones que lo componen, se acumulan en categorías prototípicas, constituyendo tipos de discurso o estilos (estilo informal frente a estilo formal, por ejemplo); mientras que las opciones de organización de cada texto, es decir, en la construcción y conexión de los discursos. se organizan, igualmente, en categorías prototípicas, constituyendo tipos de texto o géneros (Garrido 1997: 232); los géneros pueden presentar un estilo prototípico o registro (Garrido 2009: 32). Se prescinde así de la distinción entre unidades «del sistema, gramaticales» frente a unidades de «la comunicación realizada, emitida», «del discurso ya producido», en términos de Fuentes (2000: 75 y 92). En su lugar, se propone que más allá de la oración las unidades existentes son también parte de la gramática. En otros términos, en lugar de unidades como los actos de discurso (como en Briz 2007) o los enunciados (Fuentes 2000), lo que hay más allá de la oración es secuencias de oraciones, construidas mediante un conjunto finito de relaciones denominadas relaciones retóricas o relaciones de discurso (Garrido 2009: 227); las oraciones solo existen y se construyen como constituyentes del discurso (Garrido 2010: 16). Por último, los discursos constituyen unidades superiores, los textos, en que se produce el empaquetamiento de los discursos en unidades propias de cada tipo de texto, como son las intervenciones en la conversación o los párrafos en la mayoría de los textos escritos. Los textos son parte de acciones definidas socialmente, por ejemplo, el testamento y la acción de otorgar testamento (Garrido 2009, 233).
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Los tipos de texto constituyen tradiciones discursivas, que sirven de modelo variable a los hablantes, como observan Schrott y Völker (2005, 11), remitiendo a Koch (1997) y Oesterreicher (1997): Wenn Sprecher eine Urkunde abfassen [...]…, wenn sie einen Bittbrief schreiben [...], einen journalistischen Text redigieren [...] oder als administrative Funktionsträger eine petición an übergeordnete Verwaltungsorgane schreiben [...], dann greifen sie auf Modelle zurück, die die Textproduktion anleiten und zugleich Freiraum für Variationen lassen (Koch 1997, Oesterreicher 1997).
En la terminología empleada aquí, las tradiciones discursivas se denominan tradiciones tipológicas textuales, en el sentido de que constituyen tipos de textos, ya que se reserva el término de discursivo a todo lo que tiene que ver con las unidades o segmentos estructurados que denominamos abreviadamente discursos. El tipo de texto actúa como «molde» en que se construyen los discursos, y «es el tipo de texto, el hecho de ser un texto de un determinado género, lo que organiza los discursos de manera que todos encajen» (Garrido 1997: 239 y 242). De este modo, el texto anterior pertenece a un tipo de texto que podríamos denominar parábola o anécdota ejemplar, caracterizado por un final o cierre que remite al principio o apertura («sorprendentes», «sorprendidos»). Se trata de un tipo característico de anécdota, frecuente en la publicación Reader’s Digest de los años en cuestión), cruzado con la tradición discursiva del consejo1, que tiene una estructura organizativa propia. Cada tipo de texto caracteriza al grupo de hablantes que lo utiliza en sus actividades o prácticas sociales. Los hablantes son miembros de diferentes comunidades de actividades o prácticas, en el sentido que da Eckert (2000: 22) al término: «una comunidad orientada a una actividad cotidiana compartida y concreta»; «a community oriented to shared and concrete everyday practice». «Unida por esta común empresa, la gente acaba desarrollando y compartiendo maneras de hacer las cosas, maneras de hablar, creencias, valores –en una palabra, prácticas»; «United by this common enterprise, people come to develop and share ways of doing things, ways of talking, beliefs, values –in short, practices», p. 39): hablar tal variedad, o tal estilo en tal tipo de texto, al hacer tal cosa con tal gente. La existencia del texto (y su tipo o estructura característica), junto con la del discurso, permite reinterpretar los niveles que, casi como Renkena, propone antes Kroon (1997), continuados en el modelo de gramática funcional discursiva de Hengeveld y Mackenzie (2008), además del «representativo» («representational»): un nivel «presentativo» para las relaciones retóricas, y un nivel «interaccional» para las relaciones entre las intervenciones: la representación corresponde a las oraciones y sus componentes, las cláusulas, mientras que las relaciones entre las intervenciones, como las intervenciones mismas, son propiedades del texto (en el caso de la conversación, puesto que en tipos de texto de la comunicación escrita el párrafo sería la unidad prototípica).
Agradezco a Angela Schrott la observación sobre la estructura de consejo (véase al respecto Schrott 2010), así como recordarme los análisis de Labov.
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3.2. Relaciones de discurso y estructura del texto Frente al análisis anterior, hay que destacar dos relaciones diferentes, que dan cuenta de «contestó» y de la pregunta y respuesta, respectivamente. La primera es la relación de la atribución (Wolf / Gibson 2005), que conecta hacia fuera la oración («preguntó», «contestó»), y crea un nuevo modo de discurso (Smith 2003), con tiempos verbales diferentes («está», «resulta»). En segundo lugar, la relación de pregunta-respuesta representa la relación entre la intensión de una pregunta y un término proposicional; y una oración interrogativa tiene la misma relación con la oración precedente que la tendría su respuesta, en términos de Asher / Lascarides (2003: 316 y 49). Aunque es conveniente mantener la numeración anterior para facilitar las comparaciones, conviene hacer algunas modificaciones (y, de paso, correcciones en la traducción) para poder aplicar el nuevo enfoque. (7) Texto de la Madre Teresa (1) a Madre Teresa a menudo da consejos inesperados a la gente. (2-3) Cuando un grupo de americanos, muchos de ellos activos en el sector de la educación, la visitaron en Calcuta, le [pidieron] un consejo que pudieran llevarse consigo para sus familias. (4a) «[Sonrían] a sus esposas», (4b) les dijo. (5) «[Sonrían] a sus maridos». (6-7-8a) Pensando que tal vez el consejo era un tanto simple, viniendo de una persona soltera, uno de ellos preguntó: (8b) «¿Está usted casada?» (9-10) (9a) «Sí», (9b) contestó, dejándoles sorprendidos, (10) «y me resulta duro algunas veces sonreír a Jesús. (11) Puede ser muy exigente.
Efectivamente, la oración (1) está en relación de preparación u orientación con la segunda, constituida por (2-3), es decir, una sola oración, en que (3) es la cláusula principal. Hay una relación de narración o secuencia entre (2-3), (4b), (6-7-8a) y (9b), que podemos resumir en sus verbos: «pidieron», «dijo», «preguntó» y «contestó». Mediante la relación de atribución que estos verbos representan se constituye lo que queda descrito por la palabra «consejo», que es una anáfora conceptual o encapsulador (González Ruiz 2008, 247). El consejo consiste en oraciones con verbos en presente: «está», «resulta», «puede»; es decir, constituye otra unidad diferente de la anterior, narrativa. Es un diálogo en que en primer lugar hay una relación de pregunta-respuesta, (8b) y (9a). Conviene tener en cuanta que, aunque se respeta la numeración anterior, (6-7-8a) es la primera parte de una oración construida mediante atribución con la segunda parte, denominada (8b); es decir que (6-7-8a-8b) es una única oración. Lo mismo ocurre con (9a), que tiene como inciso o expresión parentética el verbo que sigue la narración, (9b) «contestó», y está coordinada con (10) «sí, y me resulta». El diálogo entonces esta constituido por (4a)-(5), (8b)-(9a)-(10)-(11). Los tiempos verbales estructuran el texto en tres partes diferentes. La primera parte es de apertura, con un verbo en presente habitual y sintagma nominal genérico, es decir, en un modo descriptivo de discurso: «da consejos inesperados». La segunda parte es de varias oraciones, unidas por la relación de narración o secuencia, con verbos en perfecto simple y sintagmas nominales específicos: «pidieron», «dijo», «preguntó», «contestó»; es un modo
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narrativo de discurso, que presenta acontecimientos puntuales y pasados. La tercera parte es un diálogo, reproducción en estilo directo de la conversación, con verbos en presente habitual, es decir, que describen estados, pero mediante relaciones que constituyen un modo argumentativo de discurso. Es decir, desde el punto de vista de las relaciones de discurso, el texto está organizado de la manera siguiente: (8) Análisis de las relaciones de discurso 1 da consejos 1 orientación de 2-3 2-3 le pidieron un consejo 2 narración con 4b 4a «Sonrían» 4a atribución de 4a 4b dijo 4b narración con 8a 5 «Sonrían» 4a unión con 5 6-7-8a preguntaron 6-7-8a narración con 9b 9b contestó 9b atribución de 9a 9a «Sí[estoy casada]» 9a prueba de 4a-5 10 «y me resulta» 9a contraste con 10 11 «puede ser muy exigente» 11 explicación de 10
En el análisis anterior aparecen las relaciones de unión, prueba, contraste y explicación, definidas por Asher / Lascarides (2003). Lo interesante aquí es que (9b) «contestó» ya no se relaciona directamente con ninguna oración siguiente. Es la última relación en el modo narrativo. Lo que se contestó continúa el diálogo narrado anterior, de manera que al consejo de sonreír de (4a-5) le sigue el apoyo, la prueba de solvencia, de (9a) «estoy casada», es decir, puedo decir esto porque hablo por experiencia. La conjunción «y» en (10) representa una relación adversativa, de contraste, entre estar casada y resultar difícil sonreír; y lo más sorprendente, el dato de estar casada con Jesús, se coloca en la parte paradójica (se espera que sea fácil sonreír a Jesús), seguida de la explicación (la relación inversa del resultado) de (11). 3.3. Discurso y texto en el ejemplo En el análisis (8) aparece en cursiva el diálogo narrado. Desde el punto de vista del discurso, hemos visto que hay tres modos diferentes, el descriptivo de (1), la orientación o preparación de todo lo que sigue iniciado por (2-3), el de la narración de cómo dio un consejo en (2-3)-(4b)-( 6-7-8a)-(9b); y, en cursiva, el diálogo que reproduce el consejo, con (4a)-(5), el consejo mismo, y (8b)-(9a)-(10)-(11), la prueba o argumentación del consejo, que resulta sorprendente. Y esta es la clave que caracteriza el texto: su cierre remite a su apertura. Renkema observa acerca de los componentes de la estructura del texto, refiriéndose a los núcleos de una relación de unión o junción entre ellos: If sequence 10-11 is placed at the same level as 3-5 and 6-9, then the relation is a triple N-relation. These three Ns could be described more precisely with concepts from a story grammar […] in which an ‹event› and an ‹internal event plus action› is followed by a ‹reaction› in 10-11. (Renkema 2006: 127)
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Efectivamente, hay una estructura superior a la de las relaciones de discurso: se trata de la organización del texto de acuerdo con el tipo mencionado anteriormente, la parábola o anécdota ejemplar, entrecruzada con el tipo de texto del consejo. El texto se abre con la afirmación genérica acerca de la capacidad de dar consejos sorprendentes, de manera que todo lo que sigue es un ejemplo (recuérdese el género de los exempla), que se cierra con la doble sorpresa, el hecho de que una monja esté casada y el hecho de que sea difícil sonreír a Jesús porque pida demasiado en ciertas ocasiones (el acontecimiento más notable y su resolución, respectivamente, en términos de Labov 1997). A su vez, el ejemplo se narra (relaciones discursivas de narración) y el consejo (tipo de texto, incrustado en la anécdota) se presenta directamente, organizado como diálogo (tipo de texto, incrustado en el consejo) mediante las relaciones discursivas de la prueba, contraste y explicación (modo argumentativo). De este modo podemos comprobar la compleja interrelación entre la organización del discurso y la del texto: en el discurso, las relaciones entrelazan jerárquicamente unas oraciones con otras, y las agrupan en pasajes caracterizados por modos discursivos diferentes. En el texto, se entrecruzan tipos de diferente naturaleza, como son la anécdota, el consejo y la conversación; y esta hibridación no es tal, sino que cada tipo de texto es una tradición discursiva o mejor, el entrecruzamiento («Verflechtung») de diferentes tradiciones o, en términos de tipología textual, la construcción de unos tipos a partir de otros. En el texto de la Madre Teresa, la anécdota («story») típica del Reader’s Digest está construida con tipos textuales que pasan a constituir componentes suyos, como son el ejemplo y el consejo. Esta complejidad no es un excepcional del texto analizado, ya que lo característico del tipo de texto es el entrecruzamiento de tradiciones discursivas, que es preferible denominar tradiciones tipológicas textuales.
4. Conclusión En el texto analizado, si acudimos al concepto de modo discursivo, las relaciones de narración constituyen un discurso con los cuatro acontecimientos («pidieron», «dijo», «preguntó», «contestó»), mientras que las relaciones argumentativas estructuran otro, en que se propone un consejo y se argumenta sobre él; y la relación de atribución conecta de manera entrecruzada uno y otro. Al mismo tiempo, las relaciones discursivas estructuran de manera jerárquica los segmentos. La organización discursiva interactúa con la textual: aunque la explicación final queda en el discurso de modo argumentativo en posición subordinada, el tipo de texto le confiere la posición central: es el cierre que presenta la información más importante, lo sorprendente del consejo que se anuncia en la apertura. Del mismo modo, dentro del consejo, la instrucción de sonreír inicial queda cerrada por la dificultad final de sonreír. Los tipos de texto (principal e incrustados) van jerarquizando las unidades de discurso, y estas se adaptan a ellos al ir siendo construidas en el propio molde del tipo de texto. Se explica así como construcción del discurso el proceso de establecer relaciones entre oraciones y entre los segmentos resultantes. En lugar de diferentes niveles y componentes, la concepción del segmento de discurso como unidad resultante de un proceso de construcción sintáctica y semántica permite abordar así mismo la unidad superior, el texto, que organiza los
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segmentos de discurso de acuerdo con las condiciones de transmisión en el marco de la acción social de una comunidad en que se construye el texto. Al mismo tiempo, el segmento de discurso se construye a partir de la unidad inmediatamente inferior de la gramática, la oración, a partir de las relaciones que contrae con otras oraciones de acuerdo con su estructura sintáctica interna.
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Patrick Gililov (Cologne)
Intonosyntaxe du message: regard contrastif sur le marquage de la visée communicative en français et en roumain
1. Introduction: visée communicative et concepts informatifs La présente communication se propose de comparer les procédés d’ordre syntaxique et intonatif assurant l’expression de la visée communicative en français et en roumain. Par visée communicative, nous entendons la structuration de l’information véhiculée par l’énoncé dans un acte de communication. Dans la description des faits relatifs à la visée communicative, nous aurons recours aux concepts informatifs de support, d’apport et de report, tels qu’ils ont été définis par Jean Perrot. Ainsi, nous désignerons de support un élément informatif formant le point de départ ou tremplin du message, nous nommerons apport le noyau informatif ou propos du message, c’est-à-dire le message proprement dit, et nous parlerons de report pour renvoyer à un élément du message rejeté après l’apport ou intercalé dans celui-ci. Tandis que le support et le report représentent des éléments facultatifs et dépendants, la présence de l’apport est à la fois nécessaire et suffisante pour qu’il y ait message. Le principal mérite de l’approche de Jean Perrot réside dans le fait que l’identification des constituants du message s’opère sur des critères proprement linguistiques. En effet, chaque signifié relevant de la visée communicative est associé à un signifiant spécifique de nature intonative; ainsi, le support est réalisé par une intonation concave ouvrante, l’apport se signale par une courbe mélodique autonome et close sur elle-même, ponctuée par un contour conclusif porteur de la modalité de l’énoncé, le report, finalement, reçoit une intonation plate et sans relief, dite parenthétique.1 Seule une telle assise linguistique de l’analyse des composants du message permet de rendre compte de la stratégie communicative du locuteur. Par contre, les considérations fondées sur le rapport au contexte discursif, qui cherchent à identifier les unités d’articulation constitutives du message sur la base du statut informationnel connu ou nouveau des éléments référentiels de l’énoncé, tombent dans l’erreur de confondre l’analyse de la structure informationnelle de l’énoncé en tant que telle avec l’analyse du conditionnement extralinguistique, toujours relatif d’ailleurs, de sa mise en œuvre.
Cette définition intonationnelle des fonctions informatives fait apparaître que l’organisation du message en support, apport et report correspond parfaitement à l’organisation macro-syntaxique de l’énoncé en préfixe, noyau et suffixe, proposée par le GARS (cf. Blanche-Benveniste 2010).
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Dans ce qui suit, nous examinerons d’abord les procédés syntaxiques et intonatifs servant à marquer respectivement le support, le report et l’apport. Nous nous intéresserons ensuite aux stratégies poursuivies en vue d’établir une hiérarchisation de l’information à l’intérieur même de l’apport. Finalement, nous tenterons de dresser un bilan conclusif.
2. Le marquage du support informatif: détachement en tête d’énoncé, dislocation à gauche, intonème de topique En français comme en roumain, le support informatif se marque par le détachement d’un constituant syntaxique en tête d’énoncé. Ainsi, dans les exemples suivants, c’est un complément circonstanciel, respectivement Dans les Alpes et În caz de cutremur, qui assume la fonction informative de support pour poser le cadre de l’énoncé: (1)
Dans les Alpes, on peut pratiquer le ski toute l’année. (GMF: 427)
(2)
În caz de cutremur, nu se fuge pe scări. (Gramatica Academiei: 927)
Dans les cas où le constituant détaché est un actant, sa reprise pronominale au sein de l’énoncé-noyau s’impose, du moins pour ce qui est des arguments internes du verbe. On parle alors de dislocation à gauche: (3)
Ces montagnes, je les trouve sublimes. (GMF: 426)
(4)
Castelul, l-am vizitat. (Gramatica Academiei: 951)
En ce qui concerne le sujet en tant qu’argument externe du verbe, sa reprise pronominale en cas de détachement à gauche est de règle en français, où le pronom constitue un clitique; en roumain, elle est tout au moins fréquente, pourvu qu’il y ait véritablement détachement, c’est-à-dire éjection du constituant hors de l’énoncé-noyau: (5)
Ces montagnes, elles sont magnifiques. (GMF: 427)
(6)
Ioana ea m-a ajutat întodeauna la greu. (Gramatica Academiei: 923)
Le français et, dans une plus large mesure encore, le roumain connaissent par ailleurs la possibilité de constituer en support une expression prédicative: (7)
Intelligentes, elles le sont. (GMF: 428)
(8)
Pour être retors, il l’est. (ibidem)
(9)
De deşteaptă, măcar e deşteaptă? (Gramatica Academiei: 917)
(10) De dus, du-te, nu mai sta pe gânduri! (ibidem)
Intonosyntaxe du message: regard contrastif sur le marquage de la visée communicative en français et en roumain
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Intonativement, le support informatif se caractérise par un contour mélodique final ascendant2 et un allongement important de la dernière syllabe accentuée créant une pause subjective. Cet intonème, appelé par Mario Rossi (1999) intonème de topique, qui sépare le support de l’apport, ne doit pas être confondu avec l’intonème d’ordre syntaxique qui, à l’intérieur de l’apport, relie le sujet au prédicat, et qui se distingue de l’intonème de topique par l’absence du trait {Montant} ainsi que par un allongement moindre de la dernière syllabe, qui ne suscite pas d’effet de pause.
3. Le marquage du report informatif: détachement en fin ou en milieu d’énoncé, dislocation à droite, intonème de thème Tout comme le support, le report se présente sous la forme d’un segment détaché. Seulement, cette fois-ci, le constituant en question n’est pas extraposé au début, mais à l’intérieur ou à la fin de l’énoncé: (11) Elles sont magnifiques, ces montagnes. (GMF: 427) (12) Je l’aime beaucoup, Jeanne. (Rossi 1999: 83) (13) Jeanne, comme vous savez, est une amie charmante. (ibidem) (14) Il est capable, cette course, de la gagner en deux jours. (Rossi: 97) (15) Dă-o-ncoace, umbrela. (Gramatica Academiei: 914) (16) Aş putea s-o mai ţin, cartea aia, o săptămână? (ibidem) (17) Cei doi, norocul lor, sunt buni. (Gramatica Academiei: 950) (18) L-ai vizitat, castelul? (Gramatica Academiei: 951)
En analogie avec la dislocation à gauche, le détachement d’un actant en fin d’énoncé avec annonce pronominale au sein de l’énoncé-noyau se dit dislocation à droite. Syntaxiquement, cette dernière ne s’avère pourtant pas exactement symétrique de sa contrepartie gauche, car elle exige que le constituant éjecté soit marqué –de façon redondante, vu la présence de la copie pronominale– quant à sa fonction syntaxique, ce qui n’est pas le cas dans la dislocation à gauche. Soient les deux exemples roumains suivants: (19) Măcar telefonează-le, pătinţilor tăi, dacă nu te duci să-i vezi cu lunile. (Gramatica Academiei: 926) (20) Autorităţile locale, poţi să li te adresezi cât vrei, tot n-or să-ţi răspundă. (ibidem) Dans les énoncés interrogatifs, cependant, le support présente normalement un contour final descendant.
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Tandis que, dans (19), le constituant pătinţilor tăi, reporté après le noyau prédicatif, apparaît obligatoirement au datif pour marquer sa fonction originelle de complément indirect au sein de l’énoncé-noyau, l’exemple (20) illustre qu’un actant disloqué à gauche peut très bien se passer d’un tel marquage fonctionnel; en effet, le segment Autorităţile locale, détaché en tête, ne porte aucune marque de complément indirect. Les mêmes conditions sont valables pour le français, abstraction faite, bien sûr, de son comportement plus analytique dans le marquage fonctionnel des actants. Concernant le roumain, il convient d’opérer une distinction nette entre la dislocation à droite et la double expression de l’objet à l’intérieur de l’énoncé-noyau, qui est de règle pour les objets humains spécifiques. Considérons, à ce propos, la paire d’exemples suivante: (21a) (Îl) caut pe profesor. (Perrot 1997: 631) (21b) Îl caut, pe profesor. (ibidem)
En (21a), où les parenthèses indiquent le statut facultatif de l’indice actanciel, nous sommes en présence d’un énoncé sans détachement aucun, doté d’une intonation autonome à contour conclusif sur la dernière syllabe et formant un simple apport informatif. En (21b), par contre, où l’indice actanciel est obligatoire, la virgule médiane indique qu’il s’agit d’un énoncé segmenté analysable en un noyau prédicatif (Îl caut) affecté d’une intonation conclusive, qui correspond à l’apport informatif, suivi d’un constituant éjecté à valeur de report. Précisons, à l’occasion, les faits intonatifs: comme l’a montré Mario Rossi (1999), à la différence du support informatif, le report ne possède pas d’intonation propre, mais il se caractérise par une copie réduite et abaissée de la frontière intonative qui le précède, ce qui le prive de relief prosodique.
4. Le marquage de l’apport informatif: intonème de fin d’assertion, clivage, début d’énoncé à valeur d’apport Une fois que l’on a extrait de l’énoncé tous les constituants détachés qui représentent le support et le report, l’apport informatif est constitué de l’ensemble des éléments qui demeurent. Ce noyau dur du message est borné par un marqueur de fin d’assertion, appelé par Mario Rossi (1999) conclusif majeur, qui se caractérise par un ton grave dans le bas de la tessiture du locuteur3 ainsi qu’un allongement important de la dernière syllabe accentuée, induisant la perception d’une pause.4 Pour marquer un constituant de l’énoncé comme apport informatif, le français standard emploie habituellement le dispositif syntaxique de la phrase clivée, qui consiste à intégrer Le trait {Grave} peut ne pas être réalisé lorsqu’un intonème expressif est amalgamé avec l’intonème conclusif majeur. 4 L’intonation qui clôt les interrogations totales est parfaitement semblable à l’intonème de topique, qui signale le support informatif. 3
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le constituant en question à une prédication auxiliaire d’identification en l’encadrant par la tournure c’est … qui / que: (22) C’est hier que je l’ai rencontré. (Perrot 1997: 634) (23) C’est à vous que je m’adresse. (Perrot 1997: 635)
Le constituant sélectionné est affecté d’une intonation conclusive; la proposition relative qui suit porte une intonation parenthétique, qui l’estampille comme report informatif. C’est cette configuration intonationnelle caractéristique de la phrase clivée qui permet de rendre parfaitement univoque, à l’oral, des énoncés potentiellement ambigus dans leur forme écrite, tels que le suivant: (24) C’est l’œuvre qui m’intéresse. (Krötsch / Sabban 1990: 90)
En l’absence de marques intonatives, (24) peut signifier ou bien ‹Ce qui m’intéresse, c’est l’œuvre (et non pas son auteur ou son prix, par exemple).› ou bien ‹Voici l’œuvre qui m’intéresse.› Lorsque l’énoncé est prononcé avec une intonation conclusive sur l’œuvre, suivie d’une intonation parenthétique affectant la relative, la première lecture s’impose et il y a clivage; par contre, une intonation conclusive sur m’intéresse déterminera la seconde lecture, où l’apport informatif englobe l’ensemble de l’énoncé. Quant au roumain, les phrases clivées lui sont étrangères. Pour conférer la valeur d’apport informatif à un constituant de l’énoncé, il suffit de le placer au début de l’énoncé en le dotant d’une intonation conclusive, le reste de l’énoncé étant fourni comme après-coup sous forme de report, avec l’intonation parenthétique qui s’y attache. Dans les exemples suivants, nous avons marqué les apports informatifs en gras: (25) De bătrăneţe mă tem cel mai tare. (Gramatica Academiei: 940) (26) De mâna mea a fost făcut tot ce vezi. (ibidem) (27) Cu copiii trebuia să te duci la ţară. (Gramatica Academiei: 941)
Or, dans un registre plus relâché, le français, lui aussi, fait amplement usage de ce type de tournures à constituant initial affecté d’un contour intonatif terminal, suivi du reste de l’énoncé, doté d’une intonation plate de report. En voici quelques exemples, dans lesquels les caractères gras indiquent à nouveau l’apport informatif: (28) Pierre travaille la nuit (… pas Paul). (Krötsch / Sabban 1990: 82) (29) Des tomates tu dois acheter (… pas des pommes de terre). (Krötsch / Sabban 1990: 83) (30) À sa tante il ressemble (… pas à son oncle). (Krötsch / Sabban 1990: 84) (31) La nuit Pierre travaille (… pas le jour). (Krötsch / Sabban: 85)
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5. La hiérarchisation de l’information à l’intérieur même de l’apport informatif: intonème continuatif dominant, inversion du sujet, constructions présentatives et habitives, accent de focalisation Après avoir vu les procédés intervenant dans le marquage des fonctions informatives de support, de report et d’apport, nous nous proposons à présent de nous pencher sur l’organisation informationnelle interne à l’apport. À cet effet, nous introduisons dans notre inventaire des fonctions informatives les deux concepts traditionnels de thème et de rhème, qui correspondent respectivement à un support (point de départ, champ d’application) et un apport (but, propos), mais au niveau de l’assertion, et non plus du message entier. Comme pour les autres concepts informatifs, nous attribuons au thème et au rhème un signifiant de nature intonative: ainsi, la frontière du thème est marquée par un intonème d’ordre syntaxique, appelé par Mario Rossi (1999) continuatif dominant ou intonème de sujet, qui est défini par un ton moyennement haut ainsi qu’un allongement de la dernière syllabe accentuée, qui, étant moindre que celui caractérisant les intonèmes de topique et de fin d’assertion, ne crée pourtant pas de pause subjective; la partie restante de l’apport, bornée par l’intonème de fin d’assertion, constitue le rhème. Typiquement, le sujet nominal d’un énoncé constitue le thème et le groupe verbal le rhème. D’autres répartitions sont toutefois possibles. Notamment, la fonction de thème peut être assumée par un adverbe de phrase, un complément circonstanciel, un complément d’objet ou un attribut du sujet:5 (32) Heureusement (que) Jean n’en sait rien. (GMF: 376) (33) De là viennent toutes nos difficultés. (GMF: 139) (34) Des oignons, elles en achètent souvent. (GMF: 427) (35) À sa tante, il lui ressemble. (Krötsch / Sabban: 84) (36) Pe profesoarea de chimie am mai văzut-o din când în când, de a lungul anilor. (Gramatica Academiei: 925) (37) Omul ăsta, pe el nu-l antipatizează nici duşmanii, doar îl urăsc. (ibidem) (38) Moartea, de ea nu mă tem. (Gramatica Academiei: 926)
Étant donné que ces constituants thématiques présentent une intonation continuative, ils ne sont pas éjectés du noyau syntaxique au même titre que les éléments détachés à fonction de support, ce qui se reconnaît en outre au fait qu’ils reçoivent en général un marquage fonctionnel. Dans les exemples (37) et (38), support informatif et thème de l’assertion sont combinés: dans un premier temps, le support réalise l’acte de référence; ensuite, le thème vient spécifier la fonction syntaxique. Dans tous les exemples qui suivent, le rhème de l’assertion est marqué en gras et le thème en italique.
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En ce qui concerne l’extension du rhème, elle peut se limiter à un seul constituant, mais elle peut également comprendre l’ensemble de l’apport. Ce second cas apparaît lorsque l’énoncénoyau fournissant l’apport informatif ne contient pas d’intonème continuatif dominant. Dans les exemples suivants, la présence de l’intonème continuatif dominant devant le dernier constituant de l’énoncé provoque que celui-ci se charge d’une valeur sélective, semblable à celle que prennent les constituants initiaux affectés d’une intonation terminale: (39) Je ne mange pas de ce pain-là (mais de celui-ci). (GMF: 161) (40) J’ai acheté des citrons (et non des oranges). (GMF: 170) (41) Paul a hérité cette vieille commode de son oncle (et non de sa grand-mère). (GMF: 217) (42) O să merg cu avionul (nu cu autocarul). (Gramatica Academiei: 934) (43) Tata i-a adus banii Mariei (nu lui Carmen). (Suzuki 2005: 224) (44) Să plătească cine e vinovat. (Gramatica Academiei: 938) (45) M-a sprijinit întodauna, orice aş fi întreprins, tatăl meu. (ibidem)
Dans (44) et (45), le rhème de l’assertion est constitué par le sujet grammatical en position finale. En français, une telle organisation informationnelle de l’énoncé n’est possible que dans le cas où le sujet inversé prend la forme d’une formule de définition; ainsi dans les exemples suivants: (46) Passera devant le conseil de discipline tout élève de l’établissement au comportement incivil. (Lahousse 2003: 13) (47) Est admis en licence tout étudiant ayant obtenu au moins 26 points au DEUG. (Cornish 2005: 78)
Si le français n’admet donc guère que le sujet inversé soit à lui seul porteur du rhème entier, les sujets inversés rhématiques sont néanmoins possibles, voire privilégiés lorsqu’ils se rattachent à un verbe servant à signaler l’existence ou le mode d’existence de leur référent; mais c’est alors l’union du verbe et du sujet postposé et non plus le sujet à lui tout seul qui représente le rhème de l’assertion: (48) Au fond de la vallée se dressait une église gothique. (Cornish 2005: 78) (49) Dans le château vivait un vieux couple. (Lahousse 2003: 22) (50) Entre un garde [didascalie]. (GFM: 139)
Dans une perspective logique, on peut analyser ce type d’assertions, où le rhème englobe à la fois le sujet et le prédicat, comme des jugements thétiques (par opposition aux jugements catégoriques): au lieu de remplir une prédication sur le sujet, c’est-à-dire de lui assigner une propriété, le verbe ne fait que le poser, c’est-à-dire indiquer son existence; le sujet, à son tour,
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abandonne sa position6 thématique habituelle (bornée par l’intonème continuatif dominant) pour fusionner avec le verbe en un bloc rhématique solidaire. En roumain, une telle intégration du sujet au groupe verbal s’effectue systématiquement par un placement immédiatement postverbal du sujet, dont résulte un ordre des mots VS(O): (51) A telefonat Alexandru. (Suzuki 2005: 228) (52) A fugit Popescu. (ibidem) (53) A plecat Alexandru la ţară. (Suzuki 2005: 230) (54) A spart Petru vaza. (Suzuki 2005: 221) (55) L-a certat mama pe Alexandru. (Suzuki 2005: 223) (56) Au invadat ruşii Afganistanul. (Suzuki 2005: 214)
Ces énoncés entièrement rhématiques, qui peuvent constituer la réponse à une question (implicite) du type Ce-i? Ce s-a întâmplat?, condensent la totalité du message dans une structure informationnelle insécable; ils sont prononcés d’un seul souffle. Quant au français, il répugne en principe à incorporer le sujet grammatical au rhème, et même la postposition du sujet après un verbe exprimant l’existence ou le mode d’existence, dont nous venons de voir des exemples dans (48), (49) et (50), se rencontre uniquement dans un usage relativement châtié de la langue. Afin de promouvoir le sujet dans une position rhématique, le français préfère ainsi, au lieu de simplement le postposer au verbe, l’introduire par une prédication auxiliaire (surtout il y a, mais aussi c’est) en lui rattachant une proposition relative contenant le reste du rhème, ou bien encore, le coder comme complément d’objet du verbe en occupant la position du sujet, devenue vacante, par un il impersonnel (sujet postiche), cette seconde option n’étant toutefois possible qu’avec un verbe intransitif: (57) C’est les enfants qui viennent chez moi et il faut que j’aie du temps libre. (Lambrecht 2004: 56) (58) Il y a le facteur qui veut vous parler. (GMF: 455) (59) Il y a les agriculteurs qui manifestent à Strasbourg. (GMF: 456) (60) Il y a un gosse qui pleure. (Perrot 1997: 628) (61) Il est arrivé plusieurs accidents. (GMF: 448) (62) Il se passe de drôles de choses. (ibidem) (63) Il règne un silence de mort. (ibidem) (64) Il souffle un vent de panique. (ibidem) En effet, les frontières intonatives marquent une position, elles ne se déplacent pas (cf. Rossi 1999).
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À la prédication auxiliaire d’existence peut également se substituer une «saisie habitive» (Perrot 1997: 628) du fait décrit: (65) J’ai mon gosse qui est malade. (Perrot 1997: 628) (66) Il a un pneu qu’il doit changer. (ibidem)
Il nous reste désormais à mentionner un dernier dispositif intonationnel influant sur l’organisation du message: il s’agit de l’accent de focalisation, qui réalise une proéminence locale par une montée brusque de la fréquence fondamentale accompagnée d’un pic d’intensité, sa propriété définitionnelle étant le trait {Haut}, d’où le terme de pitch accent en anglais. L’accent de focalisation a le pouvoir de mettre en vedette n’importe quel élément, même sublexical, au sein de l’apport et du support informatifs (le report, par contre, ne peut être modifié par l’accent de focalisation). Cette caractéristique lui permet notamment de marquer des points forts à l’intérieur d’un syntagme et de fonctionner ainsi comme un relais de l’intonème de fin d’assertion. Dans les exemples suivants, la présence de l’accent de focalisation est signalée par des petites majuscules: (67) Le fils de la voisine s’est tué en voiture. (Rossi 1999: 121) (68) … mais un véritable désaveu pour le passé. (Rossi 1999: 122) (69) şi lângă el este şcoala, care a fost o casă foarte frumoasă (CORV: 71) (70) … cu avionul se strǎbat milioane de kilometri… Cu trenul se strǎbat (CORV: 83)
mult
mai puţini
6. Conclusion De notre bref survol des stratégies intonatives et syntaxiques mises en œuvre par le français et le roumain dans le façonnage de la visée communicative, il ressort que le comportement des deux langues converge, dans ce domaine, sur la plupart des points: ainsi toutes les deux utilisent-elles les dislocations à gauche et à droite, forment des débuts d’énoncé à valeur d’apport et réduisent l’extension du rhème de l’assertion par le retardement de l’intonème continuatif dominant. La principale différence qui sépare les deux langues, quant à la syntaxe du message, semble consister dans le fait que le français manifeste une répugnance particulière à attribuer une position rhématique au sujet grammatical; c’est la raison pour laquelle il fait un usage abondant de constructions impersonnelles et de prédications auxiliaires qui lui permettent de coder le sujet comme un complément d’objet direct ou un attribut du sujet.
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Miguel Gonçalves (Université Catholique Portugaise - Braga)
Éléments pour une tipologie des représentations discursives. La contribution de la conception polyphonique du discours
1. Concepts et instruments d’analyse 1.1. Discours, langue, énonciation et segment de discours En situant ce travail dans le cadre d’une ‹linguistique des représentations discursives› et en annonçant, en simultané, que nous le faisons, essentiellement, dans le cadre théorique de la conception polyphonique du discours (et de la théorie de l’argumentation de la langue) élaborées par Ducrot et Anscombre, si nous ne sommes pas d’ores et déjà exemptés d’expliquer le sens dans lequel nous utiliserons certains concepts opératoires, nous nous sentons par contre dans l’obligation de faire certaines définitions et justifications. Cela ne nous empêche pas, cependant, de commencer par mentioner les concepts de discours, langue, énonciation et segment de discours. Le concept de discours que nous utiliserons est affilié à la tradition de la dichotomie saussurienne langue / parole, dans laquelle, comme l’affirment Arrivé, Gadet et Galmiche (1986: 373) ‹les linguistes contemporains ont généralement renoncé au terme parole et le remplacent par le terme discours›, comme le fait d’une manière générale, et entre autres Benveniste (1974: 10), pour qui le discours est produit toutes les fois où nous parlons (ou écrivons). Compte tenu de l’ambiguité qui est souvent associé au terme énonciation, entre le sens que lui attribue Benveniste (1974: 80), c’est-à-dire la ‹mise en fonctionnement de la langue par un acte individuel d’utilisation›, et la définition proposée par Ducrot (1980: 33) –‹l’événement, le fait que constitue l’appariton d’un énoncé›– nous privilégierons, comme nous l’avons fait dans Gonçalves (2002) cette acception, c’est-à-dire que nous aussi, nous considérons que l’appariton de chaque énoncé est le résultat d’une énonciation, d’un évènement historique unique et irrépétable qui consiste à produire une séquence sonore ou écrite possédant du sens. D’autre part, nous nous référerons, de mainière indifférenciée, à des séquences sonores ou écrites associées par un sens ou à des segments de discours (Ducrot 1980), en réservant, par convention –et en ne nous réglant pas ici entièrement sur le diapason de Ducrot– le terme énoncé à une sous-classe spécifique de segments de discours que nous définirons par la suite.
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Dans la ligne de la tradition commencée essentiellement par Damourette et Pichon (1911-1940), nous considérons également que l’analyse de la relation entre formes et sens ne peut être faite en marge des trois paramètres que tout le discours présuppose: le je, le ici et le maintenant. Pour finir, parler de segments de discours signifie considérer que notre objet, que le discours, est segmentable, en d’autres termes, qu’il peut être décomposé en unités mineures. 1.2. L’environnement discursif Indépendamment de son degré de complexité, toute séquence sonore ou écrite ou tout segment se présent ‹en discours› dans un environnement déterminé ou, dans l’heureuse et non moins classique expression de Prieto (1966: 13), dans certaines ‹circonstances›, c’està-dire qu’il est indissociable de ‹tous des faits connus› par la personne qui attribue un sens à une séquence sonore ou écrite. Malgré l’inexistance d’une terminologie parfaitement uniforme –par exemple au lieu de contexte nous pouvons trouver le cotexte et, au lieu de situation, le contexte– parmi les faits mentionnés précédement, nous distinguons habituellement le contexte, la situation, mais aussi les savoirs partagés. Pour notre part, nous préférons parler d’environnement discursif dans l’acception de concept de cirsonstance(s) et qui englobe aussi bien le contexte et la situation que les savoirs accumulés dont nous disposons au moment où nous attribuons un sens à une séquence sonore ou écrite (Haillet 2002). D’autre part, dans le cadre de cette approche, nous privilégirons l’examen des données d’ordre linguistique qui se prêtent à l’observation directe. Ainsi, les exemples suivants montrent comment le contexte détermine s’il est possible ou pas de remplacer respectivement ‹apagar› [effacer] par ‹fazer desaparecer› [faire disparaître] et ‹viver› [vivre] par ‹habitar› [habiter]: (1) Apagou o ficheiro do computador e não conseguiu recuperá-lo. (2) Cabe ao professor apagar o quadro no final da aula. (3) O João Garcia, apesar de montanhista, não vive na Serra do Gerês. (4) O João Garcia vive um novo momento de glória após mais uma subida ao Everest.
C’est dans ce contexte que nous aborderons l’interprétation par défaut –une désignation qui signifie, lors d’une première approche, l’interprétation d’une séquence indépendamment de la prise en compte des facteurs qui lui sont externes ou, si nous préférons, en l’absence d’indications spécifiques. Ainsi, par exemple: (5) O João Garcia está ali.
représente, dans des circonstances normales, la présence de João Garcia, em termes temporels, comme étant contemporaine de la prodution de (5), de son ‹apparition›, cette interprétaticon étant donc celle qui s’imposera par défaut.
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1.3. Le discours comme organisation de représentations Malgré son caractère réducteur –mais qui n’est pas pour autant moins diffusé– et, par conséquent, malgré les insuffisances qui lui sont reconnues, il y a une longue tradition qui attribue pour principale fonction au discours de ‹décrire le réel›. Cependant, si l’on demeure fidèle à une telle perspective, comment contourner les difficultés que des exemples comme ceux ci-dessous présentent? (6) – É o quê…, mais um momento Coca-cola? – Ah!... se tivesses visto ontem… foi espectacular! (7)
Há políticos que apenas encontram inspiração intramuros. Mas há um que, entre todos, tem resistido a todos chamamentos. Quando lhe perguntámos se ele imagina um dia deixar Lisboa, rumo ao PE, ele responde: ‹Dei comigo a pensar que Bruxelas não tem sol nem mar; iria sentir-me desterrado›.
Est-il possible de parler de ‹description du réel› à propos de la manière dont sont respectivement envisagés la présence / vision de l’interlocuteur en (6) et le sentiment d’isolement en (7)? Voyons donc comment nous proposons de regarder le discours. Assumons-le comme une matérialité –sonore ou écrite– dont la fonction fondamentale est de représenter. Il y a des discours qui représentent ce dont ils parlent comme réel: (8)
Logo que a pele é tocada, envia um sinal ao córtex somatosensorial, uma área do cérebro especializada no tratamento das sensações…
(9)
Braga é a capital do Minho.
(10) Prometeu e cumpriu: Nelson Évora tornou-se campeão olímpico em Pequim em 2008.
mais il y a également des discours qui représentent ce dont ils parlent comme imaginaire: (11) Se neste momento tivesse renunciado a baixar os impostos, toda a comunicação social falaria em mais uma promessa não cumprida. (12) Pouco a pouco, esqueceu o sucedido. (13) Um produtor europeu que soubesse utilizar, inteligentemente, hormonas na criação de animais de qualidade obteria ganhos consideráveis em cada cabeça por ano.
Ce n’est cependant pas ce type de distinction que nous nous proposons d’aborder ici; nous centrerons plutôt notre attention sur la manière dont les représentations discursives sont construites. Dans ce contexte, nous ferons attentions aux exemples suivants: (14) Esperei pelo autocarro alguns minutos. (15) Esperei pelo autocarro vários minutos.
S’il s’agit d’une attente de cinq minutes, à l’arrêt de l’autobus, les deux énoncés sont acceptables et nous les utilisons pour rapporter le même fait objectif; ils sont cependant
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également différents, non pas par la quantité, mais par la manière de représenter tandis qu’ils expriment deux points de vue différents sur l’attente. Nous dirons donc qu’indépendamment du fait que l’événement décrit –cinq minutes– ait eu lieu ou pas, ces deux énoncés témoignent de la construction de deux représentations discursives différentes (Anscombre / Ducrot 1976, 1981, 1983; Gonçalves 2002). C’est également le cas avec: (16) Este remédio é caro, mas eficaz. (17) Este remédio é eficaz, mas caro.
dont le choix d’une combinaison formelle ou d’une autre n’affecte en rien le médicament –réel ou fictif– en question, ainsi que les propriétés que ces deux énoncés lui attribuent; ce qui change, c’est le sens, la nature et la fonction de la représentation discursive choisie. (18) Dado por muitos como acabado para a competição, o bicampeão nos 1500 metros dos europeus de atletismo de pista coberta, Rui Silva, procura amanhã, 8 de Março, em Turim, contrariar aquilo que tem sido um verdadeiro calvário em termos desportivos… (19) Dado por muitos como acabado para a competição, o bicampeão nos 1500 metros dos europeus de atletismo de pista coberta, Rui Silva, procurará amanhã, 8 de Março, em Turim, contrariar aquilo que tem sido um verdadeiro calvário em termos desportivos…
Pour sa part, l’opposition au niveau des exemples précédents est faite par l’intermédiaire de deux manières d’annoncer la course prévue pour le dimanche 8 mars –un événement dont le statut de fait réel, le jour de la publication du journal, peut être pour le moins discutable. (20) Ao volante do seu Porsche, D. C. tenta abrir passagem no trânsito caótico de uma final de tarde chuvosa. Irritada, insurge-se contra estes ‹raio de aselhas› que só estorvam. Um taxista entra em cena: ‹Oh linda, tiraste a carta por correspondência?... Então deves têla comprado ou roubado!...› A ira do homem não permite reconhecer que a esta jovem mulher, de longos cabelos loiros, sobre quem ele descarrega a sua fúria, é nem mais nem menos de que a sua heroína da telenovela das 22 horas.
Nous ne nous intéresserons pas ici à la manière dont cet épisode raconté au présent de l’indicatif met en scène des évènements passés nous nous limiterons à commenter, brièvement, les extraits soulignés (présentés entre guillemets et en italique). Bien que ne mettant pas de côté la possibilité que D. C utilise l’expression ‹raio de aselhas›, le fait que le chauffeur de taxi ait recours au commentaire présenté, sous la forme d’insulte, ne nous étonne pas. Dans le cadre de notre approche, ce qu’il importe de souligner est que (20) représente l’individu en question manifestant de cette manière sa colère et ne reconnaissant pas celle qu’il admire tous les jours à la télé. Cette mise en scène, plus ou moins crédible quant aux détails que nous finissons de commenter a pour effet de représenter, d’une certaine manière, l’attitude du chauffeur de taxi: indépendamment de ce qui est arrivé, (20) représente ces mots en tant que discours direct, comme étant attribués à un homme irascible Notre objet n’est bien sûr pas l’événement raconté ici en tant que tel. Ce qui au contraire intéresse les analyses linguistiques, c’est ce que le discours construit (ou ce qui est construit
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par l’intermédiaire du discours) et, surtout, la manière dont le discours le représente (Anscombre 1990). Cet angle d’approche est celui adopté, son objectif étant l’étude des propriétés que les énoncés manifestent ainsi. Ce qu’il nous importe de considérer, ce sont les formes multiples de mettre en pratique, de faire intervenir –dans les énoncés considérés comme autant d’autres représentations discursives– différents points de vue adoptés sur ce dont nous parlons.
2. Polyphonie et stratégies discursives L’inscription de notre approche dans le cadre d’une linguistique des représentations discursives étant justifiée de manière sommaire, il nous faut encore justifier notre option pour le cadre théorique adopté: la conception polyphonique du discours. Nous le ferons par le biais de la présentation de certaines notions fondamentales et toujours dans la perspective de leur articulation avec la doctrine déjà exposée. 2. 1. Locuteur, énonciateur et point(s) de vue La centralité que le concept d’énoncé occupe dans ce travail étant soulignée, il importe néanmoins de procéder à sa caractérisation, d’autant plus que dans la perspective adoptée, celui-ci est assumé d’une manière très particulière: si pour Tesnière, dans la plupart des langues européennes, chaque énoncé «exprime tout un petit drame» et si, «comme un drame en effet, il comporte obligatoirement un procès, et le plus souvent des acteurs et des circonstances» (Tesnière 1959: 102), chez Anscombree / Ducrot (1983; 1984) la métaphore de la représentation théâtrale est également assumée sans réserves, car l’énoncé constitue une mise en scène, avec des rôles bien définis, présentée ici, d’une manière presque récurrente, par les auteurs: Lorsqu’un locuteur L produit un énoncé E –en entendant par là un segment de discours occurrence d’une phrase de la langue– il met en scène un ou plusieurs énonciateurs […]. Ce locuteur peu adopter vis-à-vis de ses énonciateurs (au moins) deux attitudes: – ou bien s’identifier à eux […], – ou bien s’en distancier en les assimilant à une personne distincte de lui [plus précisément, de lui en tant qu’il est locuteur de l’énoncé], personne qui peut être ou non déterminé (1983: 175).
De plus, Ducrot établit la distinction entre locuteur d’une part et producteur empirique (ou encore sujet parlant empirique ou producteur effectif de l’énoncé) de l’autre. Le premier est un être discursif, une instance constituée par le discours, par l’apparition de cet énoncé ou d’un autre; le second est un être empirique, qui ‹n’a pas à être pris en compte par une description linguistique préoccupée seulement des indications sémantiques contenues dans l’énoncé› (Ducrot 1984: 172). L’opposition entre locuteur et énonciateur, telle qu’elle est présentée par Anscombre (1985a: 7), est également importante dans le contexte dans lequel nous nous situons:
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Le locuteur –celui que l’énoncé désigne comme son auteur– peut se situer de différentes façons par rapport aux divers énonciateurs mis en scène. Il peut s’identifier à un énonciateur et assumer alors la responsabilité du point de vue que celui-ci exprime. –[…]. Il peut également se distancer d’un énonciateur, ce qui ne signifie pas nécessairement qu’il refuse de point de vue de ce dernier, mais simplement qu’il n’en revendique pas la paternité.
Nous avons auparavant également évoqué la distinction entre locuteur en tant que tel et locuteur en tant qu’être du monde. Le premier, nous l’avons dit, est l’instance constituée par l’apparition de tout l’énoncé et il est distinct du locuteur-objet du discours, comme nous l’illustrerons ensuite: (21) Os macacos são mamíferos. (22) Vigiei todos os exames e recolhi as provas.
Les deux énoncés impliquent un locuteur-origine, mais seul le second a pour objet le locuteur en tant qu’être du monde. De plus, le locuteur du discours peut se trouver représenté comme origine d’un point de vue, assumé ou non par le locuteur-origine de l’énoncé. 2. 2. La réalité du locuteur La conception d’un ensemble construit par le discours (Anscombre 1990: 85) et constitué de points de vue peut être importante pour la réflexion en cours. Cet ensemble est défini en étroite relation avec deux paramètres impliqués par tout énoncé: le moment où il surgit ou est produit et son origine, le locuteur en tant que tel. Son utilisation exige cependant qu’un troisième concept, le concept d’objet représenté par l’énoncé soit expliqué au préalable. En effet, l’emploi des propres notions de représentation discursive et de point de vue en impliquent une autre: celle qui correspond à ce qui / à celui qui représente cet énoncé ou un autre et la notion qui correspond à ce sur quoi porte un point de vue déterminé. Si nous considérons les énoncés suivants, nous dirons, lors d’une première phase d’approximation qu’il s’agit, respectivement, de l’ ‹atterrissage de l’avion› et de la ‹prudence de João Garcia›: (23) O avião aterrou. (24) O João Garcia é prudente.
Ce qui rend cependant difficile cette désignation de l’objet représenté ici –voire même mis en scène– est l’existence d’énoncés comme: (25) O Max fica aqui. (26) O estádio fica aqui. (27) O avião fica às voltas no ar. (28) O estádio fica atrás do ginásio. (29) O estádio está atrás do ginásio.
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Dès lors, parler de la présence / permanence de Max en désignant l’objet représenté dans ‹O Max fica aqui› ménerait, à la rigueur, à parler de la présence / permanence du stade, pour désigner l’objet représenté dans ‹O estádio fica aqui›. En second lieu, si ‹O avião fica às voltas no ar›, lorsque l’on parle du vol de l’avion, il est évident que cela ne représente pas le même objet que ‹O Max fica aqui›. Pour finir, la comparaison entre (28) et (29) illustre un problème similaire, en d’autres termes, l’impossibilité de trouver –pour désigner ce qu’ils représentent, deux syntagmes nominaux différents, l’un correspondant à ficar et l’autre à estar: (28) O estádio fica atrás do ginásio. (29) O estádio está atrás do ginásio.
C’est pour s’opposer à ces difficultés qu’est utilisée, dans le sillage de Maingueneau (1981), une notation schématique qui consiste à avoir recours pour désigner l’objet représenté par cet énoncé ou un autre, à des séries entre guillemets dans lesquelles les tirets remplacent les espaces en blanc et dans lesquelles la forme conjuguée du verbe est remplacée par l’infinitif. Ainsi, nous aurions: ‹o-avião-aterrar›: para o objecto representado em ‹O avião aterrou›. ‹Max-ficar-aqui›: para o objecto representado em ‹O Max fica aqui›. […] ‹o-estádio-ficar-atrás-do-ginásio›: para o objecto representado em ‹O estádio fica atrás do ginásio›.
Cette convention permet d’éviter toute confusion entre l’objet donné et ses éventuelles représentations discursives: en effet, les séquences présentées auparavant ne sont pas des énoncés et ne ressemblent pas à des énoncés. Dans cette perspective, nous dirons qu’un énoncé constitue la représentation d’au moins un point de vue sur l’objet qui lui correspond; par exemple, un seul point de vue est représenté dans ‹O Max está aqui›, ce qui est également le cas des autres énoncés de la présence / permanence de Max en désignant l’objet représenté dans ‹O Max fica aqui› ménerait, à la rigueur, à parler de la présence / permanence du stade, pour désigner l’objet représenté dans ‹O estádio fica aqui›. En second lieu, si ‹O avião fica às voltas no ar›, lorsque l’on parle du vol de l’avion, il est évident que cela ne représente pas le même objet que ‹O Max fica aqui›. Pour finir, la comparaison entre (28) et (29) illustre un problème similair. Avant de conclure, nous préciserons comment la notion d’objet représenté s’articule avec la notion de point de vue: pour cela, nous dirons que dans ‹Max afirma que o avião aterrou› –qui a pour objet ‹Max-afirmar-que-o-avião-aterrar›– nous avons la représentation du point de vue ‹l’avion a atterri› (relatif à l’objet ‹o-avião-aterrar›) comme étant attribué à une instance distincte du locuteur.
2. 3. L’ironie en tant que représentation indirecte de points de vue Comment la conception polyphonique du discours favorise-t-elle l’interprétation des énoncés comme ironiques? Avant de répondre, commençons par expliquer qu’il n’y a pas d’énoncés qui soient intrinsèquement ironiques et que c’est la combinaison d’une certaine représentation
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discursive et d’un type précis d’environnement / contexte qui mène à l’attribution au locuteur du point de vue opposé à celui qui est explicitement exprimé. Ainsi, interprété par défaut, un énoncé comme ‹O universo caminha ansiosamente para a liberdade› n’est pas compris nécessairement comme signifiant le contraire1; cependant, dans l’exemple ci-dessous (Gonçalves 1993: 173), nous sommes menés à considérer que le locuteur de ‹O universo caminha ansiosamente para a liberdade› adopte un point de vue qui se situe précisément à l’opposé. (30) Nos primeiros dias de Agosto, imediatamente após a invasão do Kowait pelo Iraque, feito o ponto da situação da crise, o telejornal tinha preparado uma peça em que eram passados em revista os principais momentos de tensão que tinham abalado o mundo depois da segunda guerra mundial. O jornalista que comentava as imagens concluiu assim a sua visão dos factos: ‹–O puzzle aqui montado, em que se misturam revoluções falhadas com ditadores sem escrúpulos, em que são revisitados povos e nações que viram usurpada a sua História, é bem o reflexo de que ninguém duvida de que o universo caminha ansiosamente para a liberdade›.
D’une manière générale, pour expliquer le mécanisme sous-jacent, nous adoptons une conception scalaire du phénomène: lorsque l’environnement discursif, dans l’acception dans laquelle nous l’avons défini précédemment, contredit plus ou moins clairement un point de vue exprimé explicitement par un certain énoncé, nous aurons plus ou moins tendance à l’interpréter, en attribuant au locuteur le point de vue opposé. Ce qui est sous-jacent à une telle conception d’ironie, en tant que phénomène qui consiste à interpréter, de cette manière spécifique, un certain énoncé par rapport à son environnement discursif, est une réticence naturelle à considérer des points de vue jugés comme incohérents comme étant assumés par la même instance discursive. L’impossibilité d’expliquer le phénomène en question dans l’énoncé précédent grâce à la présence d’un certain segment de discours spécifique produit invariablement le même effet qui nous mène à rechercher d’autres critères formels constituant l’ironie : nous croyons que c’est leur compatibilité avec un point de vue de type opposé qui caractérise les environnements discursifs dans lesquels un certain point de vue est interprété comme ironique.
3. Les représentations discursives comme stratégies: quelques éléments conclusifs Intéressons-nous aux énoncés suivants: (31) O clube procura negociar a saída de M. Veloso. (32) Diz-se que o clube procura negociar a saída de M. Veloso. (33) A arrogância do treinador não é suficiente para dissimular a sua incompetência. Il suffit de connaître par exemple l’optimisme d’un philosophe comme Theillard de Chardin.
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Éléments pour une tipologie des représentations discursives
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Il découle de ce que nous avons dit auparavant, à propos de la distinction entre locuteur, énonciateur et point(s) de vue que le point de vue ‹O clube procura negociar a saída de M. Veloso›, attribué à une instance non identifiée et distincte de l’origine de l’énoncé, n’est pas représenté comme assumé par le locuteur de ‹Diz-se que o clube procura negociar a saída de M. Veloso› –ce qui permet, par exemple, une plus grande ou une plus faible diffusion de ce point de vue, présent dans l’esprit du proverbe ‹il n’y a pas de fumée sans feu›, avec les distances souhaitables. Pour sa part, appliquée à l’énoncé ‹A arrogância do treinador não é suficiente para dissimular a sua incompetência›, conformément à ce que nous avons affirmé en 2.3., notre approche mène à dire qu’il représente les points de vue ‹O treinador é arrogante› et ‹O treinador é incompetente› simultanément assumés par le locuteur-origine de l’énoncé et comme préexistant à l’énonciation –des propriétés qui ont pour corolaire la ‹mise en scène› de ces points de vue en tant que ‹valides en eux-mêmes›, comme ‹acquis› et, par conséquent, comme n’ayant pas besoin de justification; nous comprenons comment le recours à ce type de construction est fréquemment attesté dans le discours politique et dans le discours publicitaire. Revenons à l’exemple (30). Considérons également le type particulier de représentation discursive qui constitue la combinaison ‹ninguém duvida que o universo caminha ansiosamente para a liberdade› avec le contexte / environnement discursif illustré. La mise en scène de ce point de vue manifestement contredit par son contexte immédiat –un contexte compatible avec le type opposé de point de vue– serait (est) de nature à faire presque sourire si nous n’étions pas face à des résultats aussi tragiques. Le regard avec lequel nous avons abordé cette diversité d’effets –exemplifiés ici de manière très succincte– est directement inspiré de la conception polyphonique du discours selon laquelle produire des énoncés, c’est mettre en scène des objets et des points de vue sur ces objets, ainsi que d’éventuels positionnements du locuteur face à ces points de vue. D’une manière plus particulière, nous nous appuierons essentiellement sur la notion de stratégie discursive élaborée par Anscombre (1985b) et dont le point de départ repose sur la possibilité que le locuteur puisse utiliser les énonciateurs mis en scène pour concrétiser ses propres intentions discursives, en précisant qu’il dispose pour cela de plusieurs tactiques: il peut dès le départ, ne pas s’identifier avec un énonciateur, en s’éloignant de celui-ci (c’est l’un des rôles de ‹de acordo com…›), mais il peut également s’identifier avec l’un des énonciateurs, et pour finir, il peut réaliser un acte par le simple fait de mettre en scène un énonciateur différent de lui (comme c’est le cas dans l’ironie). Or, ces différents cas de figure correspondent à ce que nous appelons ici des propriétés des énoncés, telles que: la non-coïncidence entre l’origine de l’énoncé et l’origine du point de vue, associée éventuellement, pour sa part, à la représentation de ce point de vue comme assumé ou non par l’origine du point de vue, comme impliqué ou implicite, comme décisif pour le locuteur, etc. L’examen sous cet angle de la définition qu’Anscombre (1985a: 345) donne de la stratégie discursive, à savoir: ‹la mise en place par le locuteur d’un énoncé (ou d’un ensemble d´énoncés), des différents énonciateurs […] et des diverses identifications ou distanciations› fait émerger la manière dont notre projet de linguistique des représentations discursives s’articule avec cette conception. D’une part, dans la perspective que nous adoptons, ce qui se trouve ainsi ‹mise en place› est –invariablement– une représentation discursive plus ou
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moins complexe; de l’autre, cette représentation discursive présente des propriétés qui lui permettent d’exercer cette fonction ou une autre, de provoquer ce défaut ou un autre. Il s’agit, par conséquent, de déterminer à partir d’un petit nombre de paramètres, d’après quelles propriétés un énoncé déterminé est interprété comme réalisant une stratégie discursive particulière, comme produisant l’effet dont nous cherchons à circonscrire la nature. C’est donc grâce à une approche décidément ancrée sur la conception polyphonique du discours (sens oublier le rôle que la théorie de l’argumentation dans la langue y peux jouer aussi e sur laquelle nous y revenons plus tard) que nous nous proposons d’appréhender la diversité des stratégies discursives. Outre le recours à des paraphrases destinées à rapporter le point de vue présenté, nous essayerons également de mettre à jour (actualiser) les caractéristiques des représentations discursives en examinant la commutabilité d’un segment avec un autre, ainsi que la compatibilité d’une certaine séquence avec différents types de situations (contextes).
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Gerda Haßler (Potsdam)
Polifonía y deixis en las lenguas románicas
En esta contribución quiero tratar dos fenómenos relacionados entre ellos que han sido estudiados en textos literarios, pero muy poco como fenómenos lingüísticos que pueden aparecer en todas las enunciaciones: la polifonía y la deixis. Se concibe la polifonía como una característica de los textos literarios que presentan pluralidad de voces que se corresponden con múltiples conciencias independientes e inconfundibles no reducibles entre sí. Partimos de la hipótesis de que se puede constatar polifonía también en el uso cotidiano de la lengua. Los estudios lingüísticos sobre la deixis se limitan normalmente a los fenómenos sistemáticos de las lenguas, así como adverbios modales, marcadores del discurso ajeno, formas verbales, la prosodia y otros marcadores de polifonía.
1. La orientación por medio de los deícticos La orientación por medio de los deícticos es el remedio principal de construcción de un texto polifónico. Se construyen puntos de vista del hablante o del autor y de otros personajes. El problema del punto de vista, de la perspectiva, está íntimamente ligado a dos cuestiones que son objeto de estudio tradicional de la lingüística: la modalidad y la deixis. La deixis representa una orientación espacio-temporal respecto a un punto que se toma como centro. Según Bühler este punto es el hablante, y por tanto, su posición espacio-temporal.1 Cuando concebimos los deícticos como los elementos lingüísticos cuya interpretación referencial cambia según cambia el punto de anclaje, una relación deíctica se establece entre dos puntos: un punto de origen y un punto de referencia (Volkmann 2009: 115).
Para el desarrollo ulterior de la noción de deixis cf. Bauhr (1989), Haßler / Volkmann (2009), Lamiquiz (1992), Lenz (2003), Moeschler (1996), Rauh (1978 y 1982-1983), Vicente Mateu (1994).
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El punto de origen en cualquier caso es siempre una persona, una conciencia, un centro epistémico o psicológico, un locutor. Esta persona es el punto cero del sistema de coordenadas de tiempo y espacio. Los puntos de referencia pueden ser elementos de la situación enunciativa misma (ahora, aquí, este) u otros elementos o factores que se relacionan con la situación enunciativa (después, mañana, allí, aquel). Cuando estudiamos la deixis y los deícticos nos inscribimos en un paradigma que centra su atención en la función demostrativa del lenguaje y no en el otro paradigma de la teoría del lenguaje que centra sus estudios en la función representativa del lenguaje. En un acercamiento práctico a los textos hemos de reconocer que la orientación deíctica no siempre se hace por referencia al «yo» hablante, ni siquiera en la lengua oral corriente. Más bien, el yo hablante es el origen y el centro no marcado de la deixis, pero es capaz de elaborar estrategias retóricas para delegarla en un foco secundario (cf. García Landa 1998: 191). El foco orientador de la deixis en un texto narrativo puede ser el narrador, pero también el sujeto o el objeto de la focalización. Esta cuestión ya fue formulada por Bühler en su estudio de los demostrativos y, sobre todo, de las transposiciones o cambios de punto de vista. En la narración, observa Bühler, hay otras orientaciones temporales al margen del «yo-aquí-ahora» del sujeto hablante: En todas las narraciones épicas e históricas desempeñan un importante papel las trasposiciones bien ordenadas (…). Si un ámbito es mencionado primero mediante nombres propios, como «Paris, Revolución, Napoleón I», o está dado como supuesto tácito, se producen en el decir la trasposiciones a ese ámbito y de él a otros ámbitos de un modo casi tan inadvertido como las trasposiciones en los saltos de la cámara en el cine (…). Las trasposiciones son un segundo medio de desligamiento de las manifestaciones lingüísticas. (Bühler 1980 [1934]: 547-548)
Karl Bühler señaló una deixis especial que llama Deixis am Phantasma (deixis en fantasma), que se produce «cuando un narrador lleva al oyente al reino de lo ausente recordable o al reino de la fantasía constructiva y lo obsequia allí con los mismos demostrativos para que vea y oiga lo que haya que ver y oír allí (y tocar, se entiende, y quizá también oler y gustar)». Esto pasa por ejemplo cuando se emplea el presente histórico o en el así llamado discurso directo. El valor deíctico del tiempo verbal presente es el de expresar simultaneidad. En ejemplo (1) el locutor usa este deíctico para acercar al interlocutor psicológicamente a un tiempo pasado. (1)
En 1492 Colón descubre América.
En (2) los deícticos de la frase introductoria no tienen el mismo punto de anclaje que los deícticos dentro del discurso directo. Mientras me y ayer y el tiempo verbal de dijo tienen su punto cero en el locutor, los deícticos ahora, contigo y la persona y el tiempo verbal de voy parten de la persona llamada Ana. El locutor pasa en parte de su discurso el punto cero de los deícticos a otro centro epistémico (cf. Volkmann 2005: 232-233.). (2) Ana me dijo ayer: «A partir de ahora no voy a hablar más contigo».
La deixis en fantasma no se limita a los ámbitos clásicos de la deixis, también la modalidad, la ilocución y los elementos idiosincrásicos pueden centrarse en otra persona ajena al locutor actual. El locutor actual puede expresar actitudes e ilocuciones de otra persona, y también imitar los rasgos idiosincráticos de otro hablante (Volkmann 2009: 16).
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Se puede construir entonces en textos narrativos una deixis múltiple diferente de la deixis simple. La deixis es simple en textos en los que todos los deícticos tienen el autor del texto, el hablante actual como punto de anclaje. En el momento en que el locutor actual desplaza el centro deíctico a otro punto de anclaje, a «un fantasma» se trata de una doble deixis o de una deixis múltiple. El autor en cualquier caso sigue siendo un centro deíctico del texto (Volkmann 2009: 117). Usamos el término deixis múltiple porque el autor de un texto narrativo puede cambiar el centro deíctico varias veces en su texto.
2. Deixis simple, deixis múltiple y deixis fingida en textos polifónicos Utilizamos en este contexto el concepto de ‹deixis fingida› que conecta con la ‹deixis en fantasma› de Bühler, añadiendo a este concepto el aspecto de la configuración de un punto de anclaje concientemente distinto del punto de anclaje del emisor del texto. Una deixis fingida puede ser simple cuando hay un solo punto de anclaje, que en este caso, es el de un narrador fingido: Tenemos una deixis simple fingida en las siguientes frases d’Albert Camus en las cuales el narrador fingido aparece en la primera persona: (3)
Je prendrai l’autobus à deux heures et j’arriverai dans l’après-midi. Ainsi, je pourrai veiller et je rentrerai demain soir. (K339 - Camus Albert, L’Étranger, 1942, 1125)
En este caso el yo del narrador fingido corresponde a la deixis personal simple del texto, demain soir (‹mañana por la tarde›) marca la deixis temporal, anclada también en el narrador. En el discurso directo en la obra Les lauriers du lac de Constance de Marie Chaix la deixis personal es doble y cambia según el interlocutor, pero sigue estando anclada en el locutor, en este caso fingido: (4)
–Que vas-tu faire ? –Vous mettre à l’abri, d’abord. Monter à Paris ensuite. Je suis en congé. J’ai besoin de vacances, paraît-il. Dans quelques mois, je chercherai une maison à Lyon. On verra. (CHAIX Marie, Les lauriers du lac de Constance, 1974, 7)
De la misma manera el futuro en estas enunciaciones se refiere a la deixis temporal de los dos interlocutores. La deixis del párrafo narrativo siguiente es más complicada e interacciona con la modalidad. La forma verbal dominante en la cual se narra en este texto es el condicional, lo que crea una especie de virtualidad y dependencia de ciertas circunstancias. Además el condicional confiere posterioridad al momento pasado relacionado con la deixis de un personaje. El imperfecto en este texto expresa deícticamente el tiempo narrado que es anterior para el narrador, pero presente para el personaje introducido por el pronombre elle. Además hay dos voces que se introducen en el texto, pero sin marcadores explícitos de discurso directo o indirecto. Es la frase c’est ainsi qu’il marche que se refiere a la deixis del personaje femenino y en la cual se utiliza el presente. La misma voz aparece en c’est aujourd’hui qu’il tombe
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dans ma vie. En las últimas dos frases se introduce el presente anclado en la deixis fingida del narrador. En el transcurso del tiempo (también fingido) las acciones descritas por estas frases describen acciones que acontecen antes de las otras que el narrador omnisciente prevé. (5)
Elle se dirait c’est ainsi qu’il marche, tandis qu’il avancerait sous le petit vent d’est coupant, cigarette aux lèvres, souriant, son chat blanc sous un bras, une petite valise au bout de l’autre, se dirait c’est aujourd’hui qu’il tombe dans ma vie, tandis qu’on lui ouvrirait la lourde porte. Elle ne savait pas que cela arriverait, ne l’attendait pas. Ne savait pas qu’un matin sec de Lorraine il lui dirait: comme tu as grandi, une vraie jeune fille et qu’alors tout serait bousculé, gâché, perdu et qu’elle n’aurait plus rien à lui dire. Il est encore assis sur la corniche de la terrasse. Ses jambes se balancent dans le vide […] (CHAIX Marie, Les lauriers du lac de Constance, 1974, 233)
A base de los tres ejemplos franceses podemos hacer constar que se puede establecer polifonía a través de la multiplicación de la deixis. Una multiplicación de la deixis puede crearse por la introducción de varios personajes (ejemplo 4) y por el uso de varios planes de deixis fingida, como la deixis temporal fingida en el ejemplo (5). Pero como se ve en el ejemplo (3), la deixis puede ser única también en un texto fingido en el cual, por consecuencia no existe más de una voz. deixis deixis real
deixis fingida
deixis simple
deixis multiple polifonia
Es interesante cómo se introduce la voz del personaje femenino en el ejemplo (5): c’est ainsi qu’il marche c’est aujourd’hui qu’il tombe dans ma vie
La autora no solamente utiliza el presente que destaca de las formas verbales mayoritariamente escritas en condicional, sino que emplea también el marcador más utilizado de focalización c’est … que para focalizar el complemento adverbial. Esta focalización confiere una especie de oralidad fingida a las dos oraciones. Además, en el segundo caso se trata de un deíctico que señala la relación con el momento del habla.
3. Los deícticos esp. hoy, fr. aujourd’hui, it. oggi, port. hoje Hasta ahora hemos analizado la relación entre la deixis y la polifonía en textos literarios con deixis fingida. Ahora veremos la interacción de deícticos con la polifonía en textos no literarios que comportan una deixis real, lo que quiere decir que están anclados en el
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punto de vista temporal, espacial y personal del hablante. Empezamos por el deíctico que significa ‹hoy›. Hemos encontrado bastantes ejemplos en los cuales hoy marca un anclaje en el presente del locutor. La proposición temporalizada por hoy muchas veces se contrasta con otra que concierne otro tiempo o una situación imaginaria: (6) esp. Creo que la razón es que la música no ha estado hasta hoy en los planes de enseñanza. Pero cuando esté, ¿qué música se va a escuchar? (CDE, 19-OR, Entrevista ABC) (7) esp. En realidad, esa idea extravagante se creó el siglo pasado, cuando la Real Academia era un centro de prestigio social. Hoy no. Hoy la Academia está constituida por escritores, por científicos, por filólogos que saben que el prestigio tiene que fundarse en la eficacia. (CDE, 19-OR, Entrevista ABC) (8) pt. Quando eu era mais nova, fazia planos. Hoje não. Eu quero viver isso enquanto eu posso, enquanto eu for útil para a equipe. (CDP 19Or:Br:Intrv:Cid) (9) pt. A população ainda tem dúvida sobre a ciência em relação à morte cerebral. Mas hoje a ciência é capaz de dar o diagnóstico de morte cerebral com uma certeza de 100%, com a realização dos exames necessários. (CDP 19Or:Br:Intrv:Cid) (10) it. Non sei andata in giro con gli amici oggi ? È una bella domenica ... (Corisdemo: oggi) (11) fr. Foudroyés aujourd’hui par la force mécanique, nous pourrons vaincre dans l’avenir par une force mécanique supérieure. Le destin du monde est là. (De Gaulle, Charles, Discours et messages. 1. Pendant la guerre. 1940-1946, 1970, p. 4)
En las frases (6) hasta (11) se hacen constataciones contradictorias, una para el presente y otra para el tiempo anterior. Pero la perspectiva del hablante es la misma y la deixis en estas enunciaciones es única. Hemos encontrado algunas colocaciones del deíctico hoy y de formas verbales en imperfecto que podrían considerarse como manifestaciones de una deixis doble. En las enunciaciones (12) y (13) el deíctico hoy ancla el mensaje en la perspectiva temporal del hablante, pero el imperfecto hace referencia a otro origen de la información: la prensa y el Partido de Trabajo, respectivamente. Se trata de una mezcla de dos centros deícticos, en este caso señalados por marcadores de la temporalidad. El hablante en estas entrevistas no se encarga enteramente de la verdad del contenido y se refiere al origen de la información. (12) Ya le leímos en la prensa hoy de que el propio Zedillo estaba llamando y presionando a diputados y por esto si hay que tener cuidado con este asunto. (CDE Entrevista (PAN) Vicente Fox (28 de Diciembre de 1999) (13) Hoy en la tarde el PT ya anunciaba toda la suma de los partidos emergentes con el PRD, excepto el Verde Ecologista y el Centro Democrático (CDE, Entrevista (PAN) Bravo Mena (23 de Noviembre de 1999)
En el lenguaje no literario estas mezclas de deixis y de perspectivas son más frecuentes. La deixis múltiple puede aparecer en dos formas: el cambio de perspectivas y la mezcla de perspectivas
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(Volkmann 2005: 232). Un cambio de perspectivas se produce en caso de que en una parte del discurso el locutor mismo es centro deíctico y en otra parte el centro deíctico está anclado en otra persona. En el tal llamado discurso directo normalmente se usan elementos gráficos para marcar un cambio de perspectivas (comillas, guiones, cambio del tipo de imprenta, cursiva / redonda etc). La mezcla de perspectivas es un tipo de deixis múltiple en el cual se emplean deícticos con diferentes centros de anclaje dentro de una frase sintáctica sin marcadores gráficos. (14) Pero por la mañana tenían que adornar el árbol. Mañana era navidad.
Por ejemplo en (14) mañana se refiere a un momento futuro, después del momento de la enunciación; el tiempo verbal de tenía y era es, sin embargo, anterior al momento de la enunciación.2 Los dos elementos deícticos se refieren al mismo momento (navidad). Este ejemplo es una mezcla entre la perspectiva del narrador (14a) y del personaje (14b) que muchas veces se ha llamado estilo indirecto libre: (14a) Al día siguiente era navidad. (14b) Mañana será navidad.
En el ejemplo (15) el deíctico hoy ancla el mensaje en el punto actual del personaje, el imperfecto que muchas veces se emplea de una manera atemporal, se refiere a otra perspectiva, en este caso la del narrador. (15) Hoy era el día. Tenía nueve años y captaba el significado del Sacramento. […] Hoy se habían trocado los papeles. Recreaba cada detalle de esa sala con olor a tristeza (CDE Lebron, Maybell, Memoria sin tiempo)
Hay ejemplos semejantes en otras lenguas románicas, por ejemplo (16) y (17) en portugués y (18) en francés. (16) pt. Mas hoje não - não reclamava nada, não se zangava com nada e, de todas as maneiras, deu-lhe muito mais liberdade do que nas outras vezes. (CDP Dôra, Doralina 1975) (17) pt. Hoje então estava divina. (CDP Machado de Assis Quincas Borba) (18) fr. Il était aujourd’hui comme son auto et son auto était comme lui, ils se valaient. (Frantext, - Bazin Hervé, La Mort du petit cheval, 1950, 152, XIX)
Vemos una posibilidad de explicación del comportamiento del imperfecto en el carácter anafórico de algunas formas verbales. Si las relaciones entre tiempos son semejantes a las relaciones correferenciales entre sintagmas nominales, esperamos que existan formas verbales anafóricas y el pretérito imperfecto parece ser el candidato apropiado para ser calificado de anáfora verbal (García / Camus 2004: 54). Ya en 1986 Bertinetto constató que el imperfecto precisa de una contextualización. Para probar su hipótesis utiliza la frase italiana en (19): (19) it. Filippo telefonava a sua madre. Para la interpretación de esta frase cf. también Hamburger (1957).
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Para contextualizarla propone las frases (20) y (21): (20) it. Mentre Maria leggeva, Filippo telefonava a sua madre. (21) it. Filippo telefonava a sua madre, quando all’improvviso cadde la linea.
En estas frases el imperfecto se refiere sea a otro imperfecto, expresando la simultaneidad, o a un pretérito perfecto simple que localiza la acción en el tiempo. El carácter anafórico (o catafórico) del imperfecto provoca su deficiencia temporal, en vez que el pretérito perfecto simple y el pretérito perfecto compuesto son perfectamente autosuficientes: (22) it. Filippo telefonò / ha telefonato a sua madre.
Parece que todas las veces que no hay una fijación temporal realizada por otro verbo o por adverbios, el imperfecto no expresa por si mismo un valor temporal. Eso ocurre también en frases con deícticos que lo pueden localizar en el presente o el futuro.
5. Polifonía y gramática: formas verbales en oraciones incorporadas La presencia de dos (o más) locutores, muchas veces minimalmente marcados en un texto, primero fue tratada en los estudios de la literatura según la teoría de Bajtín (Bachtin 1970 [1929]) y después en la lingüística siguiendo a Ducrot (1972, 1982 y Ducrot / Bourcier 1980) y Reyes y utilizando la noción de polifonía.3 Reyes (1984: 64ff.) distingue el locutor y el enunciador, el primero citando al enunciador, reproduciendo su discurso y le defiere la responsabilidad para la exactitud del enunciado.4 Cuando estudiamos enunciados no fácticos, aparece una relación posible de formas verbales a la polifonía. En el ejemplo (23) el locutor actual constata el hablar de Pepe, pero no dice nada sobre la exactitud de lo dicho: (23) Pepe dice que Ana está en casa.
De esta manera explica, además de su propia perspectiva, la de otra persona, la de Pepe. También en las manifestaciones de actitud es posible una organización polifónica en dependencia de la oración incorporada. Partiendo de la constatación de que la estructura del diálogo se refleja en los enunciados, esta estructura debe ser comprobable también a nivel gramatical. En la frase (24), utilizada como título en internet (http://www.f1-action.net/infos/article12497. html) la proposición que Renault a triché se relativiza en cuanto a la perspectiva de Bernie. (24) Bernie ne croit pas que Renault a triché. Sobre el desarrollo ulterior de la noción de polifonía cf. Anscombre (2009), Atayan (2009), García / Tordesillas (2001), Gévaudan (1997 y 2008), Haßler (1997, 2001 y 2004), Nølke (1993-2001) y Nølke / Fløttum / Norén (2004). 4 Cf. también Reyes (1990 y 1994). 3
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¿Pero qué dice esta frase sobre la opinión del locutor actual sobre el contenido de la proposición? Podemos recibir indicaciones oportunas para contestar a esta pregunta cuando cambiamos el indicativo por el subjuntivo: (25) Bernie ne croit pas que Renault ait triché.
Mientras que el locutor actual no ponga en duda la exactitud del enunciado en (24), deja abierto en (25) si es verdad. Una polifonía en el sentido de Bajtín se introduce aquí por una forma verbal: mientras que en (25) el locutor aparezca solamente como informador, en (24) dice también su opinión que no coincide con la del enunciador. Cuando el locutor actual se pone a sí mismo como sujeto de la oración matriz negada, no es posible utilizar el indicativo en la oración incorporada porque el locutor se contradeciría a sí mismo: (26) Je ne crois pas qu’il en fasse trop. (26’) *Je ne crois pas qu’il en fait trop.
Las formas del verbo después de verbos del hablar y de la opinión en el español culto se comportan de la misma manera (Ridruejo 1999): (27) No cree que es inteligente. (28) No cree que sea inteligente. (29) No dice que es inteligente. (30) No dice que sea inteligente.
Mientras que el locutor de las frases (27) y (29) no modalice la proposición en la frase incorporada y le confiera de esta manera cierto potencial de verdad, está de acuerdo con el enunciador cuando utiliza el subjuntivo. Neg.+ Verbo de opinión / decir + que + IND. + atributo enunciador proposición A
locutor
no modaliza la proposición A
Neg.+ Verbo de opinión / decir + que + SUBJ. + atributo enunciador
proposición A
locutor modaliza la proposición A
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Las formas verbales no solamente son capaces de introducir la perspectiva del locutor en la enunciación y de contrastarla con la del enunciador. Pueden también dar una explicación sobre la consideración del interlocutor. La implicación del recipiente y de su deixis se puede confirmar con el siguiente ejemplo. Un profesor que enseña matemáticas puede producir los siguientes enunciados (cf. Wachtmeister 2006): (31) … y simplificando nos da entonces 1,5 por la raíz cuadrada de 2, y la raíz cuadrada de 2 era 1,4142, así que el resultado final... (32) … y simplificando nos da entonces 1,5 por la raíz cuadrada de 2, y la raíz cuadrada de 2 es 1,4142, así que el resultado final...
En (31) el hablante subraya que el oyente tiene acceso así como el mismo al valor de la raíz cuadrada de 2. En el enunciado (32) se presenta esta ecuación como algo nuevo para el oyente.
4. Conclusión En el momento en que el locutor actual desplaza el centro deíctico a otro punto de anclaje, a «un fantasma» se trata de una doble deixis o de una deixis múltiple. Se utiliza para este género de deixis, entre otros, el uso indexical de pronombres que se distingue del uso correferencial en el cual el pronombre tiene la misma referencia que el grupo nominal al que se refiere. De la misma manera se puede reconocer una función deíctica en el imperfecto, que ya ha sido tratado varias veces en el contexto del estilo indirecto libre. El imperfecto no tiene valor temporal por sí mismo, pero puede anclar una enunciación en un punto diferente del punto del emisor. Deícticos temporales, personales y locales, como mañana, tu o aquí, contribuyen también a la configuración de la polifonía en textos. Finalmente hemos encontrado en las formas verbales una manifestación de las relaciones entre locutor, enunciador y interlocutor.
6. Bibliografía CDE = Corpus del español. http://www.corpusdelespanol.org/ CDP = Corpus do portugues. http://www.corpusdoportugues.org/ CORIS = http://corpora.dslo.unibo.it/coris_ita.html FRANTEXT = Base textuelle Frantext. http://www.frantext.fr/ Anscombre, Jean-Claude (2009): La comédie de la polyphonie et ses personnages. In: LFr 164, 11-31. Atayan, Vahram (2009): Délimatation des énoncés, polyphonie et argumentation: quelques considération sur un «affreux problème». In: PhiN 49, 1-34. Bachtin, Michail (Bakhtine, Michael) (1970 [1929]): La poétique de Dostojevski. Paris: Seuil. Bauhr, Gerhard (1989): Deixis y temporalidad en el sistema verbal español. In: Anales I, 131-136.
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Anja Hennemann (Universidad de Potsdam)
Siempre habla ‹una fuente›. El (ab)uso de los marcadores evidenciales por los periodistas
1. Introducción Indicar (u ocultar) la fuente de la información expresada en un enunciado constituye una estrategia comunicativa fundamental. Los periódicos, por poner un ejemplo, han elaborado a través de la práctica fórmulas específicas que aluden al origen de la información impresa: ‹según dejaron trascender fuentes oficiales›, ‹información de primera mano›, ‹fuentes confiables›, etc. [...] Pero más allá de estos sistemas específicos ligados a tipos discursivos particulares, las lenguas poseen en su arsenal de recursos formas cuya tarea es hacer una referencia a la fuente de información de la que el hablante dispone (Wachtmeister 2005: 1).
El fenómeno lingüístico de indicar el modo cómo se ha adquirido la información que se transmite mediante un enunciado, se llama evidencialidad –un término que aparece por primera vez en los estudios de Boas (1947) (véase también Barnes 1984, Willett 1988 y Aikhenvald 2003, 2004). En lenguas donde la evidencialidad es parte del sistema lingüístico, el término evidencial es expresado por afijos o morfemas flexivos obligatorios que son parte de las formas verbales. En Tariana (cf. Aikhenvald 2004: 2-3), por ejemplo, no se puede hacer simplemente una afirmación. Es obligatorio que el hablante elija un sufijo verbal para indicar el modo cómo éste ha adquirido o recibido la información. Los significados evidenciales (que muestran que la información ha sido vista, inferida o transmitida al hablante actual, etc.) pueden expresarse en cualquier idioma (véase los estudios de Cornillie 2007, Volkmann 2005, Haßler 2004, Squartini 2001, 2004, Wachtmeister 2005 y Reyes 1996, 2002, por ejemplo). Lo que interesa aquí son el tipo de estructuras empleadas para expresar estos significados (cf. Floyd 1997: 36). Aunque la evidencialidad, una categoría semántico-funcional, no sea parte del sistema gramatical del español contemporáneo porque no posee ‹evidenciales verdaderos› puede ser expresada mediante medios de expresión lexicales y no, o parcialmente gramaticalizados. Aquí hay dos ejemplos, donde el ejemplo (1) contiene una forma lexical y el ejemplo (2) una forma parcialmente gramaticalizada: (1) Los dos coches estaban muy igualados porque Webber se negó en redondo a cederle la posición. El australiano tenía la mejor trazada, pero el alemán, seguramente pensando
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que acabaría por ceder, giró hacia la derecha para no verse superado en la curva. (El País 02/06/10)1 (2) cuando abra sus puertas el primer Ikea de Galicia. Está situado en el polígono industrial de A Grela, donde «el tráfico ya es un caos y será un caos al cuadrado si nos meten a este monstruo sin Tercera Ronda», alerta la patronal de la zona en referencia a la multinacional sueca del mueble. (El País 01/06/10)
La forma lexical del ejemplo (1), el adverbio epistémico-modal, indica también la fuente de información expresada en el enunciado. Como ya ha señalado Haßler (2004: 229), [en] muchos casos, los adverbios epistémico-modales (ciertamente, seguramente, evidentemente, o locuciones adverbiales como por lo visto, al parecer) no denotan solamente la seguridad del hablante en cuanto al contenido de lo dicho, sino también el modo como la información que se transmite ha sido adquirida.
En el ejemplo (1) se trata de la inferencia del tipo razonamiento; es razonable pensar que el conductor estaba pensando ‹que acabaría por ceder›. Este tipo de inferencia representa un tipo de evidencia indirecta (cf. Willett 1988: 57). La forma que aparece en el ejemplo (2) está parcialmente gramaticalizada; es el futuro sintético que también es usado para expresar una inferencia del tipo de razonamiento. Al locutor le parece razonable pensar que habrá un caos enorme si el Ikea es metido en el edificio sin Tercera Ronda. El futuro sintético ha sido refuncionalizado, es decir que se usa más para expresar valores modales y evidenciales que temporales (cf. Haßler 1997: 42; véase también Squartini 2001). Es posible que este desarrollo se deba a que se usa más el futuro perifrástico para expresar el valor temporal. Los ejemplos siguientes contienen la locución adverbial al parecer, que –según Cornillie– es usada para expresar la evidencia referida; «[…] the al parecer constructions […] are based on reported information» (Cornillie 2007: 35): (3) La ceremonia ha durado una hora. Ha sido muy sencilla y con la música como melodía final de tono romántico que al parecer es una de las preferidas de la pareja. Eran las cuatro y media de la tarde cuando el nuevo matrimonio abandonaba la catedral de Estocolmo y se subía a un coche de caballos para recorrer las calles de la ciudad. (El País 21/06/10) (4) Se oyeron risas cuando el oficiante se dirigió a Daniel y le llamó príncipe –además también es ahora duque de Västergötland– y hubo sorpresa cuando antes de abandonar el templo se escuchó una melodía moderna y por supuesto romántica que, al parecer, es la canción favorita de la pareja. Tras una hora de ceremonia los recién casados recorrieron la ciudad. (El País 21/06/10)
En suma, los medios de expresión que muestran una función similar o la misma que ‹evidenciales verdaderos› –los que son usados para indicar la fuente de la información expresada en un enunciado (como los de los ejemplos (1), (2) y (3) / (4))– reciben el nombre de expresiones evidenciales. No se les llamará simplemente evidenciales porque este término Todos los ejemplos son originales (de El País o de los foros de El País). No se ha modificado ninguno.
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es reservado para referirse a los sufijos que se adosan a las formas verbales y que forman parte del sistema gramatical (como en la lengua Tariana). Consecuentemente, los expresiones evidenciales comprenden todos los medios de expresión (gramaticales o lexicales) que indican el tipo de la fuente de información para el contenido de una proposición. El ejemplo siguiente representa otro tipo de formas para indicar la fuente de información. Por ejemplo, cuando la información ha sido transmitida se hace uso de la subcategoría evidencial quotación (evidencia referida), como en el ejemplo (5); a diferencia de al parecer, como en los ejemplos (3) y (4) que se usa para indicar que la información proporcionada ha sido oída o para citar a una persona sin nombrarla. Sin embargo, el ejemplo (5) contiene medios de expresión para citar a personas determinadas (quiso dejar claro, decía y declaró): (5) Pero el presidente estadounidense quiso dejar ayer claro quién pagaría la factura: «Mi Administración usará todos los recursos a su alcance para enfrentar la situación aunque el responsable último y quien financiará la operación será BP». Dubitativa y hasta la fecha queriendo minimizar el incidente, BP decía ayer que aceptaría «la ayuda que se nos ofrezca». Así lo declaró Doug Suttles, jefe de operaciones de BP, empresa que operaba la plataforma propiedad de Transocean. (El País 02/05/10)
Con una cita uno puede distanciarse de la enunciación o quiere cultivar «la imagen del hablante, especialmente su imagen de persona digna de confianza, en el caso de los evidenciales» (Reyes 1996: 60). Es decir que también hay «citas con función probatoria o ‹evidencial›» (Reyes 1996: 10) que parecen ser un medio estilístico querido por los periodistas. Según parece, mientras más puedan justificar una información, mejor. Los periodistas se ven envueltos en un diálogo con los receptores de sus noticias, aunque no sea un diálogo típico oral caracterizado por la presencia e interacción de, por lo menos, dos interlocutores. En este caso estamos hablando de una comunicación multidireccional porque los participantes de un diálogo son emisor y receptor al mismo tiempo. La comunicación periodística, en cambio, es unidireccional (cf. Schäfer 2008: 526) porque el autor y el receptor están separados tanto local como temporalmente y tampoco comparten una situación comunicativa. Sin embargo, el periodista se ve envuelto en un diálogo con el lector y por eso hay que analizar sus manifestaciones como enunciados en lugar de oraciones. Un enunciado es una «secuencia lingüística concreta, realizada por un emisor en una situación comunicativa; se define dentro de una teoría pragmática» (Escandell 1993: 34). Así que investigaremos los enunciados periodísticos dentro del contexto pragmático (cf. Escandell 1993: 271) debido a que la evidencialidad, como la entendemos aquí, es reinterpretada pragmáticamente. Pero hay que tener en cuenta que a veces la ‹justificación evidencial› (cf. Givón 1982: 24) tiene lugar en dos niveles: primero, una persona entrevistada puede indicar la fuente de la información (por ejemplo, mediante supongo que..., aparentemente, creo que será... etc.); y segundo, si tal persona está citada por el periodista, ella misma representa la fuente de información que quiere transmitir el autor de las noticias. Entonces, cada vez que tratemos exclusivamente los ‹casos muy especiales› de indicar la fuente de información (a partir del capítulo 4) nos estaremos refiriendo solamente al segundo nivel de la justificación evidencial.
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2. El fondo pragmático para analizar expresiones evidenciales La pragmática estudia el significado contextualizado, mientras que la semántica estudia el significado descontextualizado (significado básico) (cf. Silva-Corvalán 2001: 131). «[U]n estudio adecuado del léxico no puede dejar de ser pragmático» (Calvo 1994: 52) porque en una comunicación –escrita u oral– «las frases pueden adquirir contenidos significativos que no se encuentran directamente en el significado literal» (Escandell 1993: 26). Entonces las explicaciones pragmáticas no pueden ser solamente formales, sino principalmente funcionales (cf. Escandell 1993: 47). Por ejemplo, para saber cuál es la función del adverbio evidentemente hay que analizarlo desde una perspectiva pragmática. A pesar que se deriva etimológicamente del latín evidens y videre, en muchos casos su uso y / o función no tiene nada / poco que ver con su semántica (cf. Reyes 1996: 28-29). Si analizamos los siguientes ejemplos, (6) «Ahora los borregos que jaleaban y aplaudían a la calamidad cuando advertía que no recortaría los derechos sociales bajo ningun concepto le jalearán y le aplaudirán cuando anuncie el despido libre...Es el fanatismo en estado puro. Evidentemente no son socialistas sino zapateristas. [...]» (El País 30/05/10) (7) la Policlínica Tibidabo en Barcelona ofrece pastillas y tratamientos a sus pacientes para dejar de ser gays ha reabierto la polémica sobre una opción descartada en 1973, cuando los científicos rechazaron esta inclinación como trastorno psicológico. «Evidentemente, no se puede curar la homosexualidad. Estas terapias suponen mala praxis y están desautorizadas. Causan trastornos depresivos, conductas autodestructivas, ansiedad y pueden derivar en el suicidio», afirma la psicóloga Silvia Morell. (El País 24/06/10)
podemos observar que evidentemente «en muchos casos no tiene nada que ver con la evidencia verdaderamente visual, sino que sirve para subrayar la incontestabilidad de una conclusión» (Haßler 2004: 232). Ante este fondo pragmático –y dentro de este estudio– hay que prestar atención al principio de cooperación de Grice (1967): Grice’s Cooperative Principle […] is the claim that in conversation participants try to make their contributions suitable to the shared purpose of the ‹talk exchange› that they are engaged in: that is, they cooperate with each other in the strong sense that they have a shared goal beyond understanding and being understood (Allott 2010: 51).
Aunque dentro de este contexto –dentro de las noticias de forma escrita– no se trata de un ‹talk exchange› típico, sino de una comunicación unidireccional, los periodistas tienen el mismo objetivo: quieren ser entendidos por sus receptores. El principio de cooperación de Grice (1967/1989: 26-27) se concreta en las máximas de la conversación que son máxima de Cantidad, máxima de Cualidad, máxima de Relación y máxima de Manera. Lo que interesa aquí es la máxima de Relación, también llamada máxima de Relevancia que exige ‹Haga su contribución relevante› o ‹Sé pertinente›. Esto quiere decir que un locutor / autor debería contribuir solamente con informaciones que le parezcan relevante al interlocutor / receptor.
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Si analizamos el ejemplo (8), podemos concluir que el periodista transmite una información relevante; indica la fuente de información para el contenido de su enunciado: (8) Para escenificarla, ayer inauguró en la plaza de Callao la fuente que ha donado al Ayuntamiento. «En vista de que no las coloca, se la hemos regalado, a ver si emprende un plan de recuperación de fuentes», explicó Marcos Montes, presidente de A Pie. (El País 23/06/10)
Pero no todas las fuentes de información son relevantes para el receptor. Hay fuentes de información que habrá que interpretar únicamente desde la perspectiva del periodista: son aquéllas fuentes de información que usa el periodista para distanciarse del contenido del enunciado, como en el ejemplo (9). El periodista quiere transmitir informaciones sin ser responsable del contenido. Parece ser que todo lo que puede hacer el periodista para no tener que asumir la responsabilidad sobre las informaciones es hacer uso de una fuente ‹no identificada›: (9) Una fuente de seguridad citada por la agencia afirmó que se trató de un ‹golpe› importante y que los miembros de Al Qaeda mantenían una reunión «en la que planeaban ataques contra intereses yemeníes y extranjeros, entre ellos objetivos económicos clave». [...] La fuente citada por Saba, no identificada, dijo que planeaban ataques contra intereses extranjeros en venganza por los ataques de la semana pasada [...]. «Las fuerzas de seguridad siguen persiguiendo a los elementos terroristas allá donde se escondan y no habrá tolerancia con ellos para desbaratar sus planes contra la seguridad del país», añadió la fuente. (El País 24/12/09)
En este caso, el valor probatorio o evidencial de las expresiones evidenciales parece estar minimalizado porque el receptor no sabe más que hay / había una fuente de la información transmitida. Pero lo que sí sabe es que siempre hay una fuente que indica de dónde se han obtenido los contenidos de una información. En este caso, como en el ejemplo (9), no parece ser relevante que los periodistas precisen que hay una fuente, ya que esto no haría que los receptores supiesen mucho más que antes. Así podemos constatar que la máxima de Relación propuesta por Grice a veces parece ser violada. El hecho de que las máximas de Grice pueden ser seguidas o no, es decir, pueden ser violadas, se manifiesta especialmente en la prensa. Si observamos los siguientes ejemplos, podemos concluir que los medios de expresión con valor evidencial representan una información relevante junto a la información transmitida. En este caso, los adverbios epistémico-modales o los predicados epistémicos como suponer añaden la información relevante de que dicha proposición no es cierta sino que es un resultado de inferencia. Por ejemplo, si un locutor / autor expresa que supone (o piensa, cree etc.) una situación, no expresa que tal situación sea ‹un hecho›. Por consiguiente, el locutor / autor transmite una información relevante junto a su información transmitida que no es ‹un hecho›: (10) pero veo que hoy soy la oveja negra. Evidentemente hay cosas mas importantes ahora en este pais! Vale! Y tampoco están ilegalizando la prostitución […] (El País 16/05/10) (11) Regresó en los primeros días de mayo. Llegó al aeropuerto de Barajas y logró eludir los controles de los policías y los guardias antidroga, pese a venir con las entrañas llenas de bolas de cocaína. Tuvo suerte. Aparentemente. (El País 25/05/10)
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(12) hasta que no ha tenido más remedio Woody Harrelson contra todo pronóstico «No sé muy bien cuál es mi imagen. O no sé si lo quiero saber. De hippy, supongo», resume con simpleza y sinceridad este actor de 48 años. (El País 25/05/10)
3. El uso (relevante) de expresiones evidenciales Pragmatically speaking, evidential claims to ‹knowledge› can be made in a variety of ways through reference to: direct observation (see, hear, taste, smell, feel); indirect [retailed] observation / hearsay (variations on the theme of ‹it is said that› / ‹the word on the street is› / ‹rumour has it that›; allegedly, purportedly, reportedly, supposedly; (un)tested claims to knowledge (believe, guess, know, reckon, suppose, suspect think, understand; clearly, obviously); and inference (apparently, evidently, presumably) (Hoye 2008: 158).
Así que podemos observar que –‹pragmáticamente hablando›– el español también se vale de varios medios de expresion para realizar formas evidenciales que nos llevan al conocimiento de la fuente original de dónde o cómo procede una información. Por consiguiente, vamos a tratar medios de expresión que indican la evidencia referida e inferida. La evidencia referida puede ser expresada, por ejemplo, mediante explicar, declarar, confirmar, decir + la manifestación del hablante citado (la manifestación inactual). La evidencia inferida se expresa, por ejemplo, mediante adverbios epistémico-modales, verbos epistémicos o formas verbales del futuro sintético. 3.1. El pulpo Paul lo ha dicho: España será campeona del mundo»:2 la evidencia referida (directa e indirecta) Las expresiones siguientes constituyen informaciones relevantes porque indican la fuente de la información transmitida en las noticias: (13) «Este ha sido parte de la larga lista de meteduras de pata y errores en las relaciones públicas», declaró Emanuel. «Pienso que todos coincidimos en que Tony Hayward no va a tener una segunda carrera en asesoría de relaciones públicas», añadió. (El País 23/06/10) (14) «Eso sí, una vez decomisado el vehículo, no será posible recuperarlo, ha confirmado el director de la DGT.». Vamos, que no te lo devuelven. No sé en qué casos te lo podrán decomisar (supongo que será en delitos muy graves o reincidencia..., digo yo) [...] (El País 02/05/10) (15) Piqué jugaba en el Manchester y el capitán del Barça había celebrado la noche antes el doblete de la temporada 2006 y explicó que estaba hecho polvo porque se había ido a dormir a las tres y se había tomado una cerveza. Hoy son inseparables dentro y fuera del campo. «Es como mi hermano mayor», reconoce Piqué [...] (El País 30/06/10) http://www.cope.es/deportes/09-07-10--pulpo-paul-lo-ha-dicho-espana-sera-campeonamundo-192071-1 (29/10/10).
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(16) Una disposición adicional permite hacer las rebajas de otras partidas de gasto de personal, como la formación o las prejubilaciones, para tocar menos los salarios. Los sindicatos ya han advertido de que no les sirve. No es una cuestión de euros, dicen, sino de un convenio que no están dispuestos a sacrificar. (El País 30/06/10)
Analizando las expresiones de citas, como ya ha sido mencionado antes, hay que tener en cuenta que la justificación evidencial puede ocurrir en dos niveles: por un lado, una persona entrevistada puede indicar la fuente de la información que transmite (por ejemplo mediante supongo que será en el ejemplo 14); y por otro lado, si la persona entrevistada está citada por el periodista, ella misma representa la fuente de información que quiere transmitir el autor de las noticias. De todas formas, las expresiones de citas constituyen informaciones relevantes porque indican al receptor la fuente de la información transmitida en las noticias. 3.2 «pienso que probablemente haya algo que se pueda hacer [...]»:3 la evidencia inferida expresada por adverbios epistémico-modales y formas verbales del futuro sintético En los ejemplos siguientes el adverbio epistémico-modal seguramente y las formas verbales del futuro sintético llevan el significado ‹la información del enunciado es una inferencia›. Por eso representan informaciones relevantes: (17) ¿Quiénes somos? ¿De dónde venimos? ¿Adónde vamos? A los españoles, sin ir más lejos, esta crisis nos ha sido bastante útil para averiguar con notable precisión de dónde venimos; aunque, en contrapartida (y, seguramente, como consecuencia de ello) ahora no sepamos muy bien quiénes somos, ni, lo que es aún más lamentable, hacia dónde demonios vamos. (El País 17/06/2010) (18) «Es un asesino en serie. De mis compañeros, que yo sepa, han muerto 42 seguramente por el polvo de amianto, y van a venir muchos más», dice pausadamente Pagola, con dificultades para respirar. (El País 01/05/10) (19) «Eso sí, una vez decomisado el vehículo, no será posible recuperarlo, ha confirmado el director de la DGT.». Vamos, que no te lo devuelven. No sé en qué casos te lo podrán decomisar (supongo que será en delitos muy graves o reincidencia...., digo yo) [...] (El País 02/05/10) (20) «Más que nada lo hago por el carácter simbólico de la protesta», comenta. «Aunque espero unificar todos los procedimientos en uno solo, porque si no será un follón». «En el peor de los casos, no habrá más remedio que pagar el dinero y los recargos. [...]» (El País 28/04/10) (21) Andrés Martínez Arrieta será el instructor de la recusación del juez Luciano Varela, que quedará apartado de la causa mientras se tramita el incidente. Sobre el magistrado que sustituirá a Varela al frente de la causa principal, parece que será finalmente Julián Sánchez Melgar en lugar de Perfecto Andrés Ibáñez, al que apuntaban las primeras informaciones. (El País 02/05/10) (22) El entrenador del FC Barcelona cree que el partido frente al Villarreal no será definitivo para ganar la Liga. (El País 02/05/10) El Independiente del Sureste 26/10/10.
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Podríamos concluir entonces que los adverbios y las formas del futuro no expresan solamente que la información transmitida ha sido inferida sino también que se trata de una información relevante desde la perspectiva del interlocutor / receptor. Todos estos medios de expresión llevan el significado ‹la información del enunciado es una inferencia›. Y debido a que llevan consigo esta información, son relevantes.
4. Cuando la fuente de la información transmitida es una fuente Hoye (2008: 153) explica que locutores / autores indican la fuente de la información transmitida para apoyar sus hipótesis o sus argumentos: «By invoking evidence, speakers lend weight to their arguments because in offering backup for their hypotheses, they clearly signal where and how they stand on the issues that concern them». ¿Pero realmente puede indicar una fuente cómo se obtuvo o de dónde procede la información? ¿Una fuente puede apoyar argumentos o informaciones? Analizando los ejemplos (23)-(35) podríamos concluir que a pesar de que siempre se hace mención de una fuente, los receptores no saben mucho más que antes sobre el origen de la información transmitida, debido a que ellos saben de antemano que siempre hay una fuente de las informaciones de noticias. (23) En casos concretos como el del Royal Bank of Scotland, las ayudas superan los 200.000 millones. Como señalaba una fuente comunitaria, «se trata una cifra superior al PIB de Dinamarca». En el caso de Alemania, la Comisión ha aprobado ayudas a una decena de entidades. (El País 22/06/10) (24) «Decidió sacar el coche fuera de horario laboral y como la confianza se gana día a día, se da por perdida», precisaron. Otra fuente añadió que en vehículo viajaban otras tres personas (El País 13/06/10) (25) Los agresores, según relató, se bajaron de un coche con los cristales ahumados y sin matrícula y las filmaron con una cámara de teléfono móvil mientras les ordenaban que se pusieran el pañuelo. La fuente consideró la filmación como un documento para rendir cuenta a los organizadores del ataque. Opinó también que los matones estaban convencidos de su impunidad (El País 13/06/10) (26) En el tiroteo fallecieron dos gendarmes, además de un ciudadano chino y un civil argelino que circulaban en ese momento por el lugar. «Tenemos cuatro muertos, entre ellos dos gendarmes», ha señalado una fuente de seguridad que ha preferido guardar el anonimato. (El País 13/06/10) (27) El número de cadáveres encontrados en una fosa clandestina de 180 metros de profundidad descubierta el sábado en el sureño estado mexicano de Guerrero podría superar los cuarenta, informó el lunes una fuente oficial. (El País 03/06/10) (28) «Esta ley no está redactada para proteger a la sociedad francesa del islamismo, sino a las mujeres y sus derechos», asegura otra fuente a Le Figaro. (El País 02/05/10)
Siempre habla ‹una fuente›. El (ab)uso de los marcadores evidenciales por los periodistas
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(29) Sin embargo, «la cumbre del Eurogrupo fue el detonante para que el fin de semana se adoptara la decisión histórica sobre la gobernanza económica del euro», según una fuente comunitaria. (El País 15/05/10) (30) El Nobel colombiano es uno de los autores hispanos más leídos en Irán. Pero nadie garantiza la fidelidad en persa de su rico y explícito vocabulario. «Los traductores los adaptan al gusto de los censores para evitar su prohibición», explica una fuente conocedora del proceso. (El País 16/05/10) (31) La diferencia es que ahora han tenido ante sus ojos el texto concreto que el Consejo de Ministros examinará el miércoles. El Gobierno se lo esperaba. Así lo afirma una fuente próxima citada hoy por el periódico Le Figaro, que es el medio que ha revelado el dictamen del Consejo de Estado. Esta misma fuente señala que el Gobierno continuará adelante con la ley a pesar de la opinión del organismo jurídico. (El País 16/05/10) (32) La mujer de 20 años que murió estrangulada el pasado viernes en Málaga fue hallada frente a la casa del principal sospechoso del crimen. «La tiró en la calle, como quien baja la basura», contaba ayer una fuente policial. (El País 17/06/10) (33) «Sacó el cuerpo a la calle cuando amanecía, porque a esa hora ya no tenía márgenes de movimiento para trasladar el cadáver a otro sitio», considera una fuente cercana al caso. «Después, se marchó del lugar y llamó a su madre para pedirle que limpiara la casa», añade. (El País 17/06/10) (34) En los últimos días ha habido contactos -siempre informales y con los sindicatos por separado para tantear un terreno que, de momento, parece resbaladizo. «La negociación será difícil porque va a suponer abrir el convenio en canal», opina una fuente cercana a la dirección de Metro. (El País 30/06/10) (35) «Funciona mucho el proteccionismo interno, el recurso a la política de traslado, a la patada hacia arriba», admite una alta fuente de la magistratura. (El País 29/06/10)
Expresiones como ‹una fuente policial›, ‹una fuente comunitaria› o ‹una fuente cercana al caso› parecen ser minimizadas en su valor evidencial, en su función probatoria y en su grado de relevancia. Herrero (2006: 66) explica: [...] un enunciado [o una parte de un enunciado] será irrelevante o no pertinente, si incluye información tan nueva que no se tienen datos que permitan interpretarla o si incluye una información tan conocida que no aporta nada al destinatario en el contexto en el que esa información se produce.
Y si consideramos que el receptor ya sabe que siempre hay una fuente de las informaciones transmitidas, las expresiones como ‹una fuente cercana al caso› pueden ser evaluadas como ‹una información tan conocida que no aporta nada al destinatario en el contexto en el que esa información se produce› –o digamos que no aporta casi nada–. Es de suponer que el interlocutor / receptor sabe, después de haber leído noticias sobre un crimen, que la fuente es ‹una fuente policial›, por ejemplo. Las palabras siguientes pueden justificar –de vez en cuando– la falta de una fuente exacta: Es el caso de Somalia. «Los periodistas recorrían tierra de nadie para llegar a donde estaba el Gobierno, informarse, regresar y contarlo a través de una página web. Es una lección de lo
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relevante de nuestra profesión. Como cuando una fuente se esconde para contarte algo porque su vida corre peligro si se descubre que él es el informante», relató. (El País 28/05/10)
¿Pero expresiones como ‹una fuente oficial› son de una u otra manera relevante para el contexto? Se trata de un grado de relevancia muy pequeño, casi inexistente porque cuando los periodistas cuentan de un cierto proceso o de un crimen, los receptores ya podrían imaginarse cuáles serían estas fuentes: una fuente conocedora del proceso y una fuente policial, respectivamente.
5. Evaluación de los resultados y conclusión Podemos resumir que una fuente tiene muy poca relevancia, mientras que una fuente policial, por ejemplo, no tiene tan poca relevancia, pero sí poca relevancia. Por otro lado, fuentes de información como el presidente estadounidense quiso dejar ayer claro... (ejemplo 6) son relevantes. Por eso resulta muy importante –en un estudio con fondo pragmático– trabajar bajo un contexto y no analizar enunciados simples (veáse también Ducrot 1984: 47-49). Se puede observar que los adverbios epistémico-modales, construcciones impersonales como al parecer, formas del futuro sintético y citas son medios de expresion legítimos que usan los periodistas para indicar la fuente de la información que transmiten. Las expresiones evidenciales que son muy subjetivas, como los predicados epistémicos (suponer, creer etc.) se encuentran normalmente solo en enunciados citados, es decir, en enunciados que son resultados de un entrevista. De todas formas, el uso de expresiones evidenciales es motivado pragmáticamente y depende de la constelación hablante-oyente, o bien autorreceptor: Los periodistas se ven obligados a justificar lo que más puedan siempre y cuando ésta no parezca ser relevante. Esa es la razón por la cuál terminamos con las palabras de Escandell Vidal al respecto: Los humanos no somos simplemente mecanismos que procesan y transmiten información eficientemente; somos también seres sociales que interactúan, y que se encuentran sujetos a las normas y convenciones sociales de la colectiviad en la que viven. El lenguaje se usa no sólo para aportar información nueva y relevante, o para modificar las creencias del otro (Escandell 1993: 155).
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Carmen Hoyos Hoyos (Universidad de Valladolid)
Revisión de una construcción de sintaxis histórica desde la pragmática
1. Introducción El punto de partida para las reflexiones que constituyen esta comunicación ha sido la revisión de El conde Lucanor, cuyo estudio de las estructuras sintácticas abordamos hace tiempo (Hoyos 1982), si bien la interpretación que entonces hacíamos quedaba circunscrita estrictamente en el ámbito de la sintaxis. Ahora hemos vuelto a considerar algunas construcciones, pero desde la perspectiva que nos ofrece la pragmática. Conviene poner de relieve la importancia que la Nueva Gramática de la Lengua Española de la RAE concede a la pragmática y aunque no le asigna el estatuto que da a las partes reconocidas de la gramática (Fonética y Fonología; Morfología y Sintaxis) le dedica amplio contenido en diversos capítulos (en especial en los números 14, 15, 17, 30, 32, 40, 42, 46 y 47, pero también en otros.). La define como: Disciplina que analiza los fenómenos léxicos y gramaticales en función de las intenciones de los interlocutores y de su conocimiento de las circunstancias externas al contenido de los mensajes. Corresponde también a esta disciplina analizar las formas en que se transmiten y se interpretan las informaciones verbales no codificadas lingüísticamente, así como la posible pertinencia lingüística de otros datos, como los relativos a la identificación de los interlocutores o al momento y al lugar en que se emiten los mensajes. (2009: 5)
Y sobre todo, nos parece relevante el reconocimiento que se hace en la gramática académica de que las consideraciones pragmáticas sean necesarias en la descripción de numerosos aspectos de la gramática. Nos parece que la pragmática puede ayudar a interpretar algunas construcciones sintácticas. Así lo ha visto Jef Verschueren cuando dice (2002: 207) «No hay apenas ningún tipo de construcción sintáctica que no haya recibido atención desde un punto de vista pragmático», e incluso añade «la pragmática fue traída a la lingüística por los especialistas en sintaxis que buscaban solucionar problemas permitiendo que tanto el significado como el contexto entraran en la descripción y la explicación». Asimismo, hay lingüistas españoles, por ejemplo Salvador Gutiérrez, Antonio Narbona, Antonio Briz y el grupo Val.Es.Co. etc. que consideran que la pragmática puede ser la solución para algunos problemas de la sintaxis, en especial, los referentes al español coloquial. Es decir, intentan completar con el enfoque pragmático lo que a la sintaxis y semántica les falta. En este sentido, Narbona (1996: 224) dice que la Pragmática «no es un nivel de análisis más
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que venga a sumarse a la semántica y a la sintaxis (las dos disciplinas más consolidadas), sino más bien una perspectiva o punto de vista que ha de constituir el fundamento de ambas». Pues bien, la hipótesis de la que partimos en esta comunicación es que la inserción de la construcción formada por un determinado tipo de verbo (que detallaremos posteriormente) + que podría ser interpretada como un recurso que permite al enunciador matizar el grado de responsabilidad sobre lo enunciado. Nuestra atención ha recaído en una construcción muy frecuente en El conde Lucanor. Generalmente, aparece en relación con la presencia de una oración de relativo. Se trata de la inserción de un verbo de lengua, creencia u opinión como «en esto que me dezides que queredes fazer« (Ex.II: 66), «Et con aquella riqueza que ella cuydava que avía» (Ex.VII: 84) etc. Dicha construcción, desde un punto de vista sintáctico, puede explicarse como un fenómeno básicamente de recursividad, pero también plantea algunas cuestiones, como el desplazamiento, susceptibles de diversas interpretaciones, (RAE 2009: 3300). Ahora bien, ampliado su análisis a la luz de la pragmática, podría ser interpretada como un operador pragmático, según Barrenechea (1979), pues permite al enunciador matizar su responsabilidad sobre lo enunciado. Asimismo se puede decir que es un recurso para expresar el «grado de compromiso que el hablante asume con respecto a la verdad de la proposición contenida en un enunciado» (Ridruejo 1999: 3214).
2. Sintaxis y pragmática Puesto que en esta comunicación nos proponemos revisar una construcción sintáctica bajo el foco de la pragmática, nos parece oportuno dedicar un apartado para hacer algunas consideraciones teóricas referentes a ambas disciplinas. Es sabido que el objetivo de la sintaxis se centra en la constructio, en la colocación o secuencia de las unidades para constituir los mensajes; para ello se ha establecido un conjunto de pautas, de reglas que posibilitan su formación y su interpretación. Hay que conocer y aplicar una serie de reglas así como el funcionamiento de las partículas para el engranaje de las diversas piezas a fin de lograr la correcta construcción de las correspondientes unidades lingüísticas. No obstante, podría ocurrir que una estructura fuese sintácticamente perfecta siguiendo las reglas, pero no aceptable desde el punto de vista semántico. (1) (2)
Micifuz y Zapirón se comieron un capón (Aceptable sintáctica y semánticamente). Micifuz y Zapirón se comieron un asador (Aceptable sintáctica, pero no semánticamente porque el asador es un objeto que carece del rasgo de ‹comestible›).
Por tanto, no es suficiente que estos formatos sintácticos estén bien construidos, además tienen que ser coherentes. Es decir, que junto con la sintaxis tiene que intervenir la semántica para que la construcción sea aceptable. Pero también para la descripción y explicación de algunas estructuras hay que emplear no solo el significado sino también el contexto, como decía Jef Verschueren en la cita anterior. En efecto, teniéndolo en cuenta, a la hora de analizar, por ejemplo, una construcción sintáctica constituida por forma verbal conjugada más Infinitivo podremos diferenciar entre una simple construcción de Infinitivo como en (3), o una perífrasis de Infinitivo en (4):
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(3) (4)
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Voy a estudiar. (Me desplazo desde mi casa hasta la biblioteca en la que acostumbro a estudiar. En este contexto el verbo ir tiene el significado de verbo de movimiento físico). Voy a estudiar. (Ya estoy sentada con el libro en la mesa y todos mis apuntes y me dispongo a iniciar la acción de estudiar. Aquí el verbo ir se interpreta como verbo auxiliar de una perífrasis de Infinitivo incoativa).
La pragmática atiende al contexto y también a la intención de los interlocutores. De hecho, una misma oración gramatical puede expresar de forma indirecta la intención de pedir ayuda en (5), mientras que en (6) la misma oración gramatical sirve para declinar una invitación: (5) A. Tengo invitados mañana y aún no he comprado la comida. B. No te preocupes, yo puedo preparar los postres. (6) A. ¿Te apetece dar una vuelta? B. Tengo invitados mañana y aún no he comprado la comida.
En resumen, en la comunicación, a la hora de interpretar un discurso no bastan solo la sintaxis y la semántica; además de conocer las reglas gramaticales y los significados de las unidades que nos permitan codificar y descodificar hay que hacer inferencias porque, como dice Martín Zorraquino (1999: 4057), no todo está explícito en el texto. Por los ejemplos que hemos visto hay que tener en cuenta otros aspectos que se dan cuando usamos el lenguaje, y de todo esto se ocupa la pragmática. Se puede decir que la aceptabilidad depende también de reglas pragmáticas. Lakoff (1998) propone que al igual que una oración es incorrecta si incumple las reglas sintácticas, del mismo modo habría que señalar el grado de incorrección pragmática según la trasgresión que se haga de las reglas pragmáticas. Esta autora las denomina «Máximas de la competencia pragmática» y las resume en dos: claridad y cortesía (1998: 265). A veces es difícil compaginar las dos y hay que elegir entre una u otra. No es nuestro objetivo ahora entrar en detalles, pero recordamos que las reglas de la claridad ya fueron expuestas por Grice (1975) como «Máximas de la conversación» y señaló estas cuatro: cantidad, calidad, pertinencia y manera. En cuanto a las de cortesía, Lakoff (1998: 268) propone tres máximas: M1 No importune, M2 Ofrezca alternativas y M3 Haga que O (oyente) se sienta bien, compórtese amigablemente. Afirma que estas máximas son de validez universal, aunque las costumbres cambien en las distintas culturas. Antes decíamos que a veces hay que elegir entre claridad o cortesía, e incluso Lakoff llega a afirmar que la ruptura de las máximas de la conversación favorecen M2 y M3 de cortesía. También interpreta como apoyo a la cortesía el debilitamiento que sufren ciertos verbos en lo que tendrían que ser declaraciones asertivas.1 El hecho de quitar fuerza a un aserto se puede entender como deferencia, por tanto cortesía, hacia el oyente que quizá no comparta nuestro punto de vista; o quizá sea una cautela ante algo de lo que no tenemos total seguridad y de lo que no nos atrevemos a responsabilizarnos. Y así, teniendo en cuenta reglas sintácticas, semánticas y también pragmáticas, hemos llegado a plantearnos cómo nos expresamos ante nuestro oyente o interlocutor, cómo decimos o cuál es nuestra actitud (modus) sobre el contenido (dictum) de un enunciado, de modo que podemos manifestar nuestra visión acerca de la posibilidad, grados de certeza, duda etc. sobre lo dicho. Estamos ante la modalidad que, según Verschueren (2002: 214), es un fenómeno inherentemente pragmático. Cursiva nuestra. Es el fundamento de la interpretación que hacemos en este estudio de una construcción sintáctica como un recurso de atenuación, por tanto de cortesía. Relación, pues, entre sintaxis y pragmática.
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3. La modalidad La modalidad ha sido estudiada desde antiguo por la filosofía, se trata de la modalidad lógica, y muchas de sus clasificaciones y denominaciones han pasado a la modalidad lingüística. Así, con criterio lógico se define la oración como la expresión de un juicio, y se retoma la clasificación filosófica de juicios asertorios, problemáticos y apodícticos en un tratado de sintaxis, Gili y Gaya (1967: 132). A mediados del siglo XX Von Wright (1951) publicó un ensayo sobre Lógica modal y estableció cuatro tipos de modalidad: alética (necesario, contingente, posible, imposible), epistémica (cierto, dudoso, probable, improbable), deóntica (obligatorio, facultativo, permitido, prohibido), y existencial (universal, existente, nulo). La noción de modalidad epistémica puede variar de unos a otros teóricos. En un artículo sobre evidencialidad y modalidad epistémica, Saeger (2005) reconoce que esta modalidad «es generalmente relacionada con conocimiento y creencia, aunque muchos teóricos incluyen el término de ‹verdad›». Al final concluye afirmando que «A pesar de las ópticas divergentes, todos distinguen al menos los tres tipos de modalidad epistémica: posibilidad, probabilidad y certeza». La modalidad en lingüística viene definida de forma clara y sencilla en la Nueva gramática de la lengua española (RAE 2009: 3113): «Suele llamarse modalidad a la manifestación lingüística de la actitud del hablante en relación con el contenido de los mensajes». Se distingue entre modalidad de la enunciación, en la que se consideran unos tipos oracionales básicos (asertivo, interrogativo, imperativo), y modalidad o modalización del enunciado que se refiere a cómo el hablante considera el contenido proposicional con respecto a la verdad (cierto, posible, probable, dudoso etc.). Incluso se distingue un sentido amplio o laxo de modalidad frente a un sentido restrictivo o estricto. Aunque en RAE (2009: 3116) no se adopta el sentido amplio de modalidad, se define como «cualquier manifestación lingüística, directa o indirecta, que revele la presencia del hablante en el mensaje que se transmite». Para Ridruejo (1999: 3214), a la hora de analizar una lengua como el español resulta más útil aprovechar la distinción entre modalidad epistémica y modalidad deóntica, porque, en su opinión, hay categorías gramaticales que se diferencian de acuerdo con cada tipo de modalidad. Y define la modalidad epistémica «como la expresión del grado de compromiso2 que el hablante asume con respecto a la verdad de la proposición contenida en un enunciado». Por otra parte, en relación con la teoría de los actos de habla y las cinco categorías básicas de actos ilocutivos propuestas por Searle (1975/1979), Ridruejo (1999: 3213, nota 4) identifica las modalidades deónticas con los actos comisivos y directivos, en cambio los actos asertivos adoptan diferentes formas de modalidad epistémica. Finalmente, para completar este apartado sobre modalidad queremos recordar los diversos recursos lingüísticos para expresar las modalidades del enunciado. El repertorio está constituido por los denominados verbos modales3 (poder, deber, soler, etc.) y por otras formas léxicas como adjetivos y adverbios que guardan relación semántica con dichos verbos, La cursiva es nuestra. De esta modalidad también se dice que está orientada al hablante. Hay que advertir que a veces los verbos modales pueden usarse en enunciados con modalidad deóntica en actos de habla permisivos como Luis, puede venir mañana al archivo (alguien con autoridad, por ejemplo el director, da permiso a Luis para acceder al archivo). Pero también puede expresar la posibilidad propia de la modalidad epistémica: No sé qué hará Luis, puede venir mañana al archivo o quedarse en casa preparando el informe.
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Posiblemente, ha llovido. Algunos de estos modalizadores podemos encontrarlos en perífrasis verbales y en las subordinadas sustantivas como en Puede haber llovido; Es posible que haya llovido (RAE 2009: 3116). Barrenechea (1979) llega a afirmar que cualquier expresión modalizadora es un operador pragmático en cuanto sirve como «indicador de la posición que toma el enunciador ante su enunciado». Estos operadores pueden pertenecer a distintos tipos, bien al nivel fónico, o al morfológico, al sintáctico, al léxico o al fraseológico. Se trata, como comentan Calsamiglia y Tusón (2004: 179), de considerar las opciones que tiene el hablante sobre los enunciados que emite desde el punto de vista del grado de responsabilidad que asume respecto al contenido del enunciado.
4. Análisis del corpus El corpus en el que basamos esta investigación lo constituye la conocida obra de D. Juan Manuel El conde Lucanor o Libro de los enxiemplos del conde Lucanor et de Patronio, fechada en 1335, según la edición, de José Manuel Blecua (21971). Como es sabido, esta obra consta de cinco partes de desigual extensión y de distinto estilo, siendo la parte I la que contiene los exemplos y una forma de expresión más llana y declarada, según confiesa el propio autor en el comienzo de la parte II, cuando para dar gusto a su amigo, don Jaime, señor de Xérica, se propone escribir las partes restantes de un modo más oscuro y no tan declarado, pues éste consideraba «mengua de sabiduría fablar en las cosas muy llana et declaradamente» (Blecua 1971: 263). En las partes II, III y IV siguen los personajes del conde y de Patronio, pero en vez de las narraciones de los exemplos hay una serie de sentencias que, según Blecua (1971:33), al pasar de una a otra se vuelven más oscuras. Y la quinta parte no tiene relación con las cuatro anteriores aunque continúan los mismos personajes. Por esto, nuestro análisis se ha centrado exclusivamente en la parte I, ya que además de los personajes fundamentales, Lucanor y Patronio, disponemos de otros incluidos en algunos exemplos y que participan en diversas situaciones comunicativas.
5. Construcción sintáctica inserta (verbo + que) Al revisar la sintaxis de El conde Lucanor nos volvió a llamar la atención uno de sus rasgos característicos como es la abundante recursividad, y más concretamente, la inserción de un verbo de ‹lengua, opinión o creencia› más un que transpositor o, si se prefiere, conjunción.4 Por economía, de ahora en adelante nos referiremos a esta construcción sintáctica incrustada con la forma abreviada de CSI(verbo+que). Podemos comprobarlo en este ejemplo: En Hernández (1984) la conjunción es denominada transpositor por su función de insertar o transponer la unidad lingüística superior de un nexus ( sujeto + predicado) como núcleo en el hueco funcional de un sintagma.
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Et con aquella riqueza [que ella cuydava que avía], asmó cómmo casaría sus fijos et sus fijas» (84).5
Es el exemplo de doña Truhana y la olla de miel. La forma verbal que organiza la oración es asmó, y el esquema sintáctico es / circunstancial – verbo - objeto directo/. En el sintagma prepositivo que realiza la función del circunstancial, vemos una oración de relativo –entre corchetes– cuyo antecedente es aquella riqueza [que ella cuydava que avía], y dentro de la relativa está incrustada –en cursiva- la construcción de un verbo de ‹crencia› más el transpositor que. La inserción de esta construcción provoca la prolepsis o anticipación del relativo cuya función sintáctica (sujeto, objeto etc.) pertenece a la oración de relativo; en el ejemplo citado ejerce la función de objeto, y se puede comprobar fácilmente con la sola supresión de la construcción inserta: [que ella cuydava que avía ] [que ella avía] /objeto - sujeto - verbo/ Entendemos que de no haber incluido la construcción con el verbo cuydar, el narrador estaría afirmando que doña Truhana tenía aquella riqueza, pero la CSI(verbo+que) hace que la responsabilidad sobre la certeza del contenido de la proposición recaiga en el personaje de la narración, y además, para que no haya ambigüedad, se explicita con el pronombre ella. Algo semejante tenemos en (8) donde el narrador no asume que sea verdad lo que previamente se ha dicho y deja la responsabilidad a los propios personajes de creer en ello, a saber, «El alcalde avía mandado ya que lo enforcassen, et non fallaban soga para lo enforcar. Et en quanto buscavan la soga, llamó el omne al alcalde et diole la limosnera con los dineros» A partir de ese momento el alcalde intenta salvarlo y ese cambio de comportamiento lo explica así el narrador, o sea Patronio, (8)
Et esto fazía el alcalde por lo librar por los quinientos maravedís que cuydava que le avía dado (225)
Teniendo en cuenta que el oyente en el caso del conde, o el lector en nuestro caso, aún desconoce el contenido de la bolsa, esta falta de compromiso por parte del narrador hace que esta CSI(verbo+que) dé un toque de intriga o suspense a la narración. Y nuestro autor sabe deslindar muy bien la creencia del personaje, según hemos visto en (8), de la narración objetiva y directa del suceso, como podemos apreciar en la secuencia siguiente: «apartósse el alcalde et avrió la limosnera, et cuydando fallar los quinientos maravedís, non falló los dineros, mas falló una soga en la limosnera. Et luego que esto vio, mandol enforcar» (226). Veamos otros ejemplos de El conde Lucanor para tener en cuenta tanto los verbos utilizados como la situación comunicativa. Precisamente, es en el esquema del diálogo entre Lucanor y Patronio en el que vamos a contextualizar la mayoría de los ejemplos. Como sabemos, se trata de un diálogo un tanto primitivo pues la interacción no se mantiene siempre de forma directa, sino que se recurre con bastante frecuencia al estilo indirecto, en concreto, en el segundo turno del conde que lo resuelve de esta forma: «El conde le rogó quel dixiesse cómmo fuera aquello», secuencia narrativa que da pie a la intervención extensa de Patronio. La situación comunicativa se repite de forma regular en cada exemplo, sin perjuicio de alguna variante ocasional, en cuatro turnos:
En los ejemplos de El conde Lucanor solo citaremos la página.
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1º Lucanor expone un problema que le ha surgido y pide consejo a Patronio sobre cómo tiene que proceder. Todo ello en estilo directo. 2º Primera intervención de Patronio, quien anticipa al conde que le convendría saber algo que ocurrió en una ocasión, pues podría servirle para resolver su situación actual. 3º En este turno la intervención de Lucanor ya no es directa, sino indirecta a través de una breve secuencia narrativa, que ya hemos citado supra: «El conde le rogó quel dixiesse cómmo fuera aquello». 4º Segunda intervención de Patronio, la más extensa, con el texto narrativo que constituye el núcleo, el meollo de cada exemplo, y con una parte final que corresponde al consejo que da al conde. Dado que estos turnos se repiten sistemáticamente, los tomaremos como referencia para organizar el análisis de los diversos ejemplos. 5.1. Primer turno del conde A veces, en la exposición previa que hace el conde de la situación en la que se encuentra, hallamos inserta la construcción modalizadora (que señalamos en cursiva): (9)
Patronio, un omne que da a entender que es mi amigo me començó a loar mucho… (78).
El conde no se atreve a afirmar que ese hombre sea su amigo, evita esa responsabilidad y dice que actúa como si fuera su amigo. Esta matización la expresa con da a entender que. En otras ocasiones, esta CSI(verbo+que) no intenta evitar la responsabilidad del aserto, al contrario, es una forma de refuerzo, pertenece a los llamados evidenciales, denominación que se refiere, según Calsamiglia y Tusón (2004: 180), a los recursos lingüísticos empleados para indicar la actitud del hablante respecto al conocimiento, o, en palabras de Verschueren (2002: 214), una modalidad que marca la fuente de información en términos de objetividad o subjetividad. De Saeger (2006: 269) comenta la posibilidad de interpretar la evidencialidad como un componente de la expresión de modalidad epistémica en cuyo caso se podrían entender dos tipos de modalidad uno más alto que el otro en la escala de probabilidad, es decir, bien dos tipos de modalidad epistémica (mayor o menor probabilidad) o bien dos tipos de evidencialidad (indicios suficientes o insuficientes). Sin embargo, este autor prefiere reservar el término de modalidad epistémica para «aquellos usos subjetivos e impersonales en los que el grado de probabilidad es menor que en los usos que aquí llamaremos evidenciales, para destacar su carácter argumentativo». En El conde Lucanor, los ejemplos más claros son los de formas verbales que están en primera persona coincidiendo con el hablante, y con los verbos saber y entender, y a veces incluso con el verbo decir reforzado con el adverbio bien. También es patente el carácter argumentativo como vemos en (10) en la relativa explicativa, en (11) en la subordinada introducida con porque, y en (12) en la consecutiva con que. En el ejemplo (10) el evidencial es sé que; el conde tiene total conocimiento de que esos hombres que van a pedirle dineros podrían evitar esa acción, y porque lo sabe pide consejo sobre la forma de actuar: (10) «vienen a mí muchos omnes, que sé que lo pueden muy bien escusar, et demándanme que les dé estos dineros que me cuestan tan caros» ( 86).
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(11) Et esto vos pregunto porque bien entiendo que muchas cosas a mester el omne para saber acertar en lo mejor et fazerlo» (243). (12) Et tales cosas fizieron ante mí aquellos, que bien vos digo que me fizieron aver muy peor esperança de las gentes de quanto avía, ante que aquellos que assí errasen contra mí» (217). (13) –¡A, don Martín, sabet que esto non era juego, que vien vos digo que grand miedo he passado!» (225)
Esta CSI (verbo+que) expresa un valor de refuerzo para insistir, para mostrar como evidente lo que el hablante considera cierto. Su carácter redundante se comprueba porque si la suprimimos, la sintaxis queda perfectamente aceptable y mantiene el mismo significado. Dicha CSI (verbo+que), evidencial, con valor de refuerzo, no solo la utiliza el conde en su primer turno del diálogo, sino que aparece en boca de algunos personajes de los exemplos. Así, en el Exemplo L una dueña, mujer de un vasallo de Saladín, la emplea en la argumentación que hace para evitar acceder a los deseos deshonestos del sultán: (14) –Señor, commo quier que yo só assaz muger de pequeña guisa, pero vien sé que el amor non es en poder del omne, ante es el omne en poder del amor. Et bien sé yo que si vós tan grand amor me avedes commo dezides, que podría ser verdat esto que me vos dezides, pero assí commo esto sé bien, assí sé otra cosa: que quando los omnes, et señaladamente los señores, vos pagades de alguna muger, dades a entender que faredes quanto ella quisiere, et desque ella finca mal andante et escarnida, preçiádesla poco [et], commo es derecho, finca del todo mal. Et yo, señor, reçelo que conteçerá assí a mí (246-7).
A veces, en el uso del verbo saber como evidencial se añade, para reforzar, la presencia del que todo lo sabe y todo lo ve, de Dios. Y esto puede hacerse en estilo indirecto en una narración, en cuyo caso Dios funciona como sujeto de una forma verbal en 3ª persona del imperfecto de Indicativo:6 (15) Ca bien sabié Dios que ella mucho deseava la su vida (246).
Y también en estilo directo, siendo Dios el interlocutor al que se dirige el enunciador, como en (16) cuando la mujer de Roy Gonzáles, tras el regreso de su marido, dice antes de comer: (16) –¡Señor!, ¡vendito seas tú que me dexaste veer este día, ca tú sabes que después que don Roy Gonzáles se partió desta tierra, que ésta es la primera carne que yo comí, et el primero vino que yo beví! (221).
Pero volvamos al primer turno del conde, que lo cierra pidiendo consejo a Patronio: (17) (18) (19) (20) (21)
et él rogol quel consejase lo que entendía que devía fazer sobre ello (62). ruégovos que me digades lo que vos paresçe que devo fazer en esto (86, 115, 135, 169, 217). ruégovos que me conseiedes lo que, vos semeia que me cumple de fazer en esto (99). ruégovos que me conseiedes lo que vierdes que me cae más de fazer (112, 123, 132, 232, 241). ruégovos que me digades lo que enten[dier]des que en esto se puede fazer (117).
Este uso lo tenemos en el español actual. Si el enunciador expresa su razonamiento en estilo directo, entonces el tiempo verbal cambia a presente de Indicativo: «Bien sabe Dios que …»
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En estos ejemplos la construcción inserta es un recurso cortés para suavizar o atenuar la responsabilidad del que tiene que aconsejar, no se le exige una pauta certera, un consejo correcto, sino que se cumple la máxima nº 2 de cortesía que dice «M2 Ofrezca alternativas». Es decir, el conde le pide a Patronio ayuda sobre cómo tiene que actuar, pero no le exige que no se equivoque, simplemente le ruega que lo haga según su entender, y esto se logra gracias a la inserción de la forma impersonal en presente de Indicativo de verbos como paresçe que / semeia que etc., aunque también puede remarcar ese conocimiento un tanto más hipotético del consejero mediante el empleo de la forma verbal en segunda persona de Futuro de Subjuntivo como en vierdes que / entendierdes que etc. En este primer turno, en la petición de ayuda, la CSI(verbo+que) responde plenamente a la interacción en estilo directo, y como tal la hemos visto en los ejemplos (18, 19, 20, 21) con alusión a la segunda persona del diálogo, bien a través de la forma verbal vierdes / entendierdes, bien a través del referente pronominal vos paresçe / vos semeia. No obstante, también puede utilizarse en estilo indirecto como en el caso de (17). Finalmente, para terminar el comentario sobre este primer turno, hay que aclarar que no siempre el conde utiliza ese recurso modalizador de atenuación al pedir consejo. En algunos casos prescinde de la CSI(verbo+que) y parece que pide ayuda de forma más tajante, más segura, como en (22, 23 y 24), apoyándose precisamente en la gran confianza que tiene en Patronio y que ha expresado previamente mediante un sintagma prepositivo. Aunque se puede interpretar como una variante en la cortesía a la hora de realizar el acto de petición, el interpelado, es decir el consejero, ante tanta confianza en él, puede verse más abrumado por la responsabilidad de dar el consejo adecuado. (22) Et por la fiuza que yo he en vós et en el vuestro entendimiento, ruégovos que me consejedes lo que faga en esto (94). (23) Et por el buen entendimiento que avedes, ruégovos que me consejedes lo que faga en esta razón (107). (24) Et agora, por el buen entendimiento que vós avedes, ruégovos que me consejedes qué manera tome con estos omnes (152).
Podemos decir que aquí ha optado por la otra máxima de competencia pragmática: la claridad. En resumen, los verbos usados por Lucanor en la CSI(verbo+que) con valor de refuerzo o evidenciales son: saber, entender y decir. Y los empleados en el operador pragmático de la modalidad epistémica: cuydar, decir, entender, paresçer, semeiar, ver, etc. 5.2. Turnos del consejero Tanto en el 2º turno, antes de anunciar un sucedido aplicable a la situación del conde, como en el 4º antes de dar el consejo final, el consejero hace previamente un anclaje del tema y suele utilizar el verbo decir como en (25), (26) y (27): (25) en esto que me dezides que queredes fazer (66). (26) esto que vós dezides que a vos contesçe […] paresçe mucho a lo que contesçió (103). (27) si queredes ser guardado deste dampno que dezides que vos puede venir (83).
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De esta manera, Patronio al fijar el tema sobre el que tiene que opinar, no dice «esto que queredes fazer» o «esto que a vos contesçe», lo cual serían asertos expresados con claridad y sin cautela, sino que se descarga de responsabilidad y la atribuye a quien es la fuente de información, a su interlocutor, gracias a la construcción modalizadora me dezides que / vós dezides que. Y algo semejante vemos en (27), no es Patronio el que señala la posibilidad de que le venga un daño, sino que se refiere a este según las palabras del propio conde. En el turno 4º, cuando Patronio, tras la narración del exemplo, sugiere o aconseja al conde un determinado comportamiento, la CSI(verbo+que) es un recurso que le permite expresar su opinión y se acerca más a lo evidencial que a la modalidad epistémica, dado que dicho consejo lo extrae como enseñanza del exemplo referido. No hay que olvidar que El conde Lucanor podemos incluirlo en un tipo de literatura didáctica7, cuyas enseñanzas sobre el comportamiento humano han de ser lo más objetivas posibles para que puedan tener un valor de aplicación universal. Sin embargo, en sus intervenciones se preocupa de dejar patente que se trata de su opinión personal y así lo manifiesta mediante el sintagma «el mi consejo es éste» (66), «al mio cuydar» (127), o con la forma verbal en primera persona con o sin sujeto pronominal expreso «yo entiendo que» (81), «tengo que» (76), o también mediante la forma pronominal átona me, o tónica a mí en una estructura impersonal: «me semeja que» (115), «paresçe a mí que» (86). Es cierto que Patronio antes de dar su opinión, que, por lo que hemos dicho, tiene que ver con la llamada evidencialidad8, se esfuerza en decir que su consejo no le hace falta al conde, presuponiendo con ello que el conde se bastaría para saber cómo actuar, pero ya que se lo pide le dirá lo que entiende. Otras veces incluso le dice que puede tener a muchos otros que le podrían aconsejar mejor y también, de forma explícita, sin presuposiciones, que Dios ha dado al conde muy buen entendimiento, por lo cual su consejo le hace poca falta. Hoy diríamos que todos estos preámbulos son políticamente correctos o formas de expresar una falsa modestia, pues se pide consejo a un sabio que además de serlo (por eso decimos falsa modestia) no está bien que él encarezca sus conocimientos (políticamente correcto). Los rasgos lingüísticos que subrayan que el grado de certeza va referida al consejero son, según hemos dicho, las formas verbales entiendo / tengo, los pronombres personales me / a mí, el sintagma el mi consejo. Además, en la propia expresión del consejo puede emplear una CSI(verbo+que) con valor evidencial orientada al interlocutor, como en (28). Repetimos que lo evidencial se aprovecha para reforzar una argumentación; el carácter argumental en este caso se ve en la causal previa introducida con pues. La evidencia lograda con esta CSI(verbo+que) va secuencialmente justo antes del consejo. En algunos casos se vuelve a repetir después del consejo, como en (30). (28) Et vós, señor conde Lucanor, […] pues beedes que aquel omne vos quiere fazer entender que avedes mayor poder et mayor onra o más vondades de quanto vós sabedes que es la verdat, entendet que lo faze por vos engañar, et guardat vos dél et faredes commo omne de buen recabdo (80).
Otras variantes verbales empleadas en esta construcción son: «bien devedes cuydar que / çierto sed / parad mientes que / cierto seed que» con el verbo habitualmente en imperativo. Hoy podríamos relacionarlo con los libros de autoayuda. RAE (2009: 1624) define la evidencialidad como «noción que designa el compromiso personal del hablante con la veracidad de la información transmitida o con la fuente de la que procede» (2009: 1624)
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(29) Et vós, señor conde, pues la formiga, que es tan mesquina cosa, ha tal entendimiento et faze tanto por se mantener, bien devedes cuydar que non es buena razón para ningún omne, et mayormente para los que an de mantener grand estado et governar a muchos, en querer sienpre comer de lo ganado; ca çierto sed que por grant aver que sea, onde sacan cada día et non ponen ý nada, que non puede durar mucho (137).
El verbo del consejo / mandato si es afirmativo en estilo directo generalmente va en imperativo, aunque también puede ser una perífrasis de infinitivo como «pod[r]edes consejar» (168), o en Subjuntivo si se trata de un consejo o mandato negativo. También se expresa en subjuntivo el consejo o mandato afirmativo siempre que se haga en estilo indirecto como en «conséiovos yo que lo fagades» (178). En (30) tenemos la CSI(verbo+que) con valor evidencial orientada al conde, que es el interlocutor, parat mientes que, y después el consejo con las variantes de imperativo por ser afirmativo guardatvos, y de subjuntivo por preceder una partícula negativa en «non querades seer su conpañero / nin ayades envidia». En este ejemplo el párrafo dedicado a la formulación del consejo es bastante extenso y por ello reitera diversas formas de imperativo abraçatvos / preciadla e incluso justifica y concluye dicho consejo repitiendo otra vez la CSI(verbo+que) de valor evidencial cierto seed que. (30) Et vós, señor conde Lucanor, parad mientes que la mentira ha muy grandes ramos […] Por ende,si aquellos vuestros contrarios usan de llas sabidurías et de los engaños de la mentira, guardatvos dellos quanto pudierdes et non querades seer su conpañero en aquella arte, nin ayades envidia de la su buena andança que an por usar del arte de la mentira, ca cierto seed que poco les durará et non pueden aver buen fin […] mas, aunque la verdat sea menospreçiada, abraçatvos bien con ella et preciadla mucho, ca çierto seed que por ella seredes bien andante et abredes buen acabamiento (155-156).
5.3. Otros personajes Hasta aquí, hemos revisado los distintos valores que la CSI(verbo+que) tiene en los personajes fundamentales, en el conde Lucanor y en Patronio, que son quienes sostienen la estructura dialogada de la obra. No obstante, dicha construcción puede ser utilizada por algunos personajes de diversos exemplos unas veces como recurso de la modalidad epistémica, y otras como evidencial. La situación comunicativa puede ser interactiva, de estilo directo como en (31) y (32) o bien en secuencias narrativas como los casos ya vistos (7) y (8), de doña Truhana y del alcalde respectivamente. (31) Et agora, sobrino, vos he dado respuesta a la tacha que el otro día me dixiestes que avía» (167). (32) también commo vos diré las aposturas que en vós entiendo, tam[bién] vos diré las cosas en que las gentes tienen que non sodes tan apuesto» (79).
En (31) don Alvar Háñez, que es el hablante, en absoluto se compromete con lo que dice su sobrino. Y en (32) el operador pragmático utilizado por el raposo, para descargarse de la responsabilidad de decirle cosas negativas al cuervo, es la inserción de la construcción del verbo tener + que, pero con un sujeto léxico explícito, las gentes, del que no forma parte el raposo. En cambio, las cosas positivas se las atribuye a sí mismo como fuente de información, empleando otra variante sintáctica.
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Igualmente, encontramos la CSI(verbo+que), como evidencial, en distintos personajes de los exemplos, y tanto en secuencias narrativas, es decir, en estilo indirecto como en (33), o bien en situaciones dialogadas como en (34), aunque al principio la forma verbal de la construcción va orientada a una tercera persona que no está presente en el diálogo, sin embargo finaliza con otra variante de la CSI(verbo+que) cuya forma verbal coincide con la persona del enunciador. (33) Et el moço dixol que, segund él cuydava, quel dizian verdat (65). (34) ¡Veed el falso del emperador, lo que me fue dezir! Porque él sabe que la sarna que yo he non es de tal manera commo la suya díxome que me untasse con aquel ungüento que él se untó […] mas de aquel otro ungüento bueno con que él sabe que guarescría, dixo que non tomasse dél en guisa ninguna […] Et so çierta que en ninguna cosa non le podría fazer mayor pesar, et por eso lo faré (159).
6. Conclusiones Aunque en principio nuestro objetivo era identificar y estudiar la presencia en El conde Lucanor de una construcción sintáctica incrustada tras un que relativo, y configurada por un verbo del tipo cuydar, creer, decir, entender etc. seguido de un que conjunción, la nueva revisión de la obra nos ha permitido ver otros recursos lingüísticos que el autor maneja de acuerdo con las intenciones de los personajes en las diversas situaciones. También hemos podido ratificar algunos rasgos ya conocidos de su sintaxis. En efecto, uno de los rasgos caracterizadores de la sintaxis de esta obra es la abundante recursividad que da como resultado oraciones complejas. En ellas hay oraciones subordinadas a algún verbo de lengua, opinión, creencia etc. mediante el uso reiterativo del transpositor que. Damos algunos ejemplos de los muchos existentes: (35) –Amigo, a mí dizen que vós que dezides que sodes rey desta tierra et que lo perdiestes» (259). (36) et rogó [el conde] a Dios quel guisase que lo pudiesse assí fazer commo Patronio dizía» (243).
En el (36) la información podría ser prácticamente la misma si suprimiéramos ‹quel guisase› dando como resultado (37) (37) et rogó [el conde] a Dios que lo pudiesse assí fazer commo Patronio dizía (243).
Pero la presencia del verbo guisar hace que la petición se personalice aún más, de forma que tanto las causas como el resultado sean de incumbencia personal, pues no sólo es que pueda hacer lo que dice Patronio, sino que pide que él pueda prepararse o estar dispuesto para poder hacerlo. Hemos visto anteriormente, en el apartado 2 de sintaxis y pragmática, que las máximas de la competencia pragmática podían quedar reducidas a dos: claridad y cortesía. Y ciertamente don Juan Manuel quiere expresarse con claridad, que en sus escritos no haya ambigüedad, pero eso lo intenta a costa de la sintaxis, encadenando unas subordinadas a otras y todas de un primer verbo regente. Nos parece que en estos casos se sacrifica alguna de las reglas de Grice, como la de cantidad. No obstante, en otros pasajes mucho más concisos sí que se cumplen, como en:
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(38) Al conde plogo mucho del consejo que Patronio le dava. Et fízolo así, et fallóse ende bien» (77).
En la obra que analizamos, su autor unas veces se inclina por la cortesía mediante el empleo de la construcción sintáctica que es nuestro objeto de estudio, como modalidad epistémica o como evidencial, y otras prescinde de ella y se inclina hacia formas más concisas y tajantes. Los personajes Lucanor y Patronio realizan dos actos de habla que son una petición y un consejo respectivamente. La petición no es exigente, sino un ruego, y el consejo también se manifiesta con elementos de atenuación. Decimos esto porque ruego, consejo y mandato representan diversos grados de una misma línea psíquica que se encuadra en los actos yusivos. Y de acuerdo con este tipo de actos se espera una reacción en el interlocutor; a la petición hay una reacción o respuesta lingüística, y el consejo parece que obtuvo un efecto perlocutivo como cuenta don Juan Manuel al finalizar cada exemplo «El conde tovo esto por buen conseio, et fízolo assí et fallóse ende bien» (200). Sin embargo, aunque sean actos de habla de carácter yusivo están mitigados por procedimientos de atenuación (en la petición: ‹vos paresçe que / vierdes que› etc., en el consejo: ‹yo entiendo que / me semeja que› etc). Por tanto, queremos resaltar el uso reiterado del operador pragmático de la modalidad epistémica CSI(verbo+que) , que fue el que llamó inicialmente nuestra atención y que es utilizado tanto por los personajes principales –Lucanor y Patronio– uno al exponer el problema «un omne que da a entender que es mi amigo» (78), y otro al aconsejar «si queredes ser guardado deste dampno que dezides que vos puede venir» (83), como también por algunos personajes de los exemplos, así el raposo decía al cuervo «también vos diré las cosas en que las gentes tienen que non sodes tan apuesto (79). Simultáneamente al empleo de dicha CSI(verbo+que) como un operador pragmático de la modalidad epistémica en cuanto a no asumir compromiso con la veracidad del contenido en la proposición, o de rebajar el tono tajante que podría tener una aserción, o expresar ‹incertidumbre›, según De Saeger (2006: 269), también es utilizada la construcción referida como una modalidad que marca la fuente de información en términos de objetividad o subjetividad, una forma de evidenciar o reforzar una información, o de expresar una ‹opinión›, como interpreta De Saeger. Y para terminar, queremos señalar que esta CSI(verbo+que) es tan frecuente en el corpus analizado que se puede considerar como un rasgo característico de la sintaxis de El conde Lucanor, pero también sigue vigente en el español actual oral y escrito, como pudimos exponer en el IX Congreso Internacional de Lingüística General celebrado en junio de 2010 en Valladolid.
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Minh Ha Lo-Cicero (Universidade da Madeira)
Le portugais et le français: la pragmatique de la linguistique contrastive, la morphosyntaxe
1. La mise en contraste de deux langues romanes: le portugais et le français Toutes les langues possèdent leurs caractéristiques propres, une originalité liée à des facteurs culturels. Le travail de traduction est ardu car le traducteur doit maîtriser tant la langue source que la langue cible. La maîtrise de la langue implique celle de la culture dans laquelle résident de multiples obstacles à la traduction, causés pour la plupart par les spécificités linguistiques pragmatiques respectives des langues, et naturellement par des faits culturels. Réaliser une étude contrastive des langues dans la perspective pragmatique vise à relever leurs traits caractéristiques, à les comprendre, afin d’améliorer l’enseignement / apprentissage des langues étrangères et/ou dans un but de traduction. La traduction en général, et la traduction des œuvres littéraires en particulier, se heurtent aux spécificités de l’écrit littéraire. L’auteur et le traducteur sont aussi créatifs l’un que l’autre. Cependant, le traducteur ne doit pas franchir les garde-fous du texte ni de la langue source. Généralement, les termes et les procédures dans le discours d’une langue se manifestent selon la représentation du monde correspondant à cette langue, à cette culture et, pour traduire et surtout véhiculer cette représentation du monde dans une autre langue, il est nécessaire de comprendre les éléments ou signes linguistiques de cette langue. Nous voudrions relever quelques phénomènes de langues du français et du portugais dans leur dimension pragmatique pour observer les caractéristiques de chaque langue qu’il est parfois difficile de maîtriser, surtout lorsqu’il s’agit d’une langue étrangère, d’une langue qu’on ne maîtrise pas. L’aspect de la morphosyntaxe est essentiel dans l’entreprise traduisante. Même si les deux langues se ressemblent par leurs caractéristiques morphosyntaxiques, elles possèdent chacune des traits linguistiques et culturels propres reflétés dans les termes et les procédures du discours de chaque locuteur pour s’adresser aux interlocuteurs –les lecteurs– car l’objectif essentiel est de pouvoir leur communiquer un contenu. Le lien étroit entre la littérature, la linguistique, la traduction et la composante pragmatique nous paraît judicieux pour approfondir nos connaissances sur le thème choisi. L’étude pragmatique via la linguistique contrastive –le français et le portugais– sous-entend dans notre étude, l’analyse, la description ou l’interprétation des énoncés en contexte, reflétés par des procédés morphosyntaxiques, et/ou autres d’une langue à l’autre à travers quelques fragments de textes bilingues. Notre propos concerne les problèmes morphosyntaxiques dans
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la perspective pragmatique que peut rencontrer le traducteur, produits par les différentes structures grammaticales spécifiques à chaque langue, à travers des exemples de traduction dans l’œuvre d’Eça de Queiroz Os Maias / Les Maia datée de 1880 (Éditions Chandeigne, 1996), afin de décortiquer le processus linguistique pragmatique. Ces problèmes morphosyntaxiques des deux langues se manifestent par le biais de quelques modalités de références de base qui nous informent sur les principales situations de communication. À cette fin, nous recourons à la traduction française de l’œuvre pour pouvoir discuter l’interprétation de ces modalités référentielles ou d’autres modalités bilingues.
2. Description linguistique pragmatique bilingue, le français et le portugais: quelques éléments morphosyntaxiques des deux langues 2.1. À propos des pronoms personnels sujets Les verbes portugais conjugués se réalisent sans pronom sujet (en comparaison avec la langue française); seules les terminaisons verbales suffisent pour indiquer les personnes. L’emploi du pronom personnel sujet en portugais est donc une redondance. (1)
–Mas não gostei disto, meu senhor, não gostei disto… (31) –Mais je n’ai pas aimé ça, monsieur, je n’ai pas aimé ça… (46)
Lorsqu’il est nécessaire, dans une formulation d’emphase, ils sont présents. (2) Fez-se uma devassa metódica, hábil, paciente… Ele, Alencar, pertencera à devassa. (26). On fit une enquête méthodique, habile, patiente… Alencar avait pris part à cette enquête. (41).
La version traduite pourrait être la suivante: (2’) Alencar, lui, avait pris part à cette enquête.
Le traducteur a jugé inutile l’emploi de lui dans la version française compte tenu de la présence du nom propre Alencar. La présence du pronom sujet en portugais est cependant nécessaire dans cet exemple: opposer les différents personnages pour désambiguïser leur identification.1 Le passage antérieur (c.f. 1) du texte portugais nous l’explique. Os rapazes, naturalmente, começaram logo a rondar o palacete de Arroios. Mas nunca naquela casa se abria uma janela. Os criados interrogados disseram apenas que a menina se chamava Maria, e que o senhor se chamava Manuel. Enfim uma criada, amaciada com seis pintos, soltou mais: o homem era taciturno, tremia diante da filha, e dormia numa rede; a senhora, essa, vivia num ninho de sedas todo azul-ferrete, e passava o seu dia a ler novelas. Isto não podia satisfazer a sofreguidão de Lisboa. Fez-se uma devassa metódica, hábil, paciente… Ele, Alencar, pertencera à devassa. (26) Les jeunes gens, naturellement, commencèrent bientôt à rôder autour du palais d’Arroios. Mais jamais une fenêtre ne s’ouvrait dans cette maison. Les domestiques que l’on interrogea dirent seulement que Mademoiselle s’appelait Maria et que Monsieur s’appelait Manuel. Enfin, une bonne, 1
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(3) Ele, Alencar, na primeira noite em que a vira, exclamara, mostrando-a ela e às outras, as trigueirotas de assinatura: (26). Lui, Alencar, le premier soir où il l’avait vue, s’était écrié, en la montrant à côté des autres, les brunes petites abonnées: (41)
La présence de lui, forme disjointe employé comme sujet dans l’exemple (3) dans les deux langues concerne plusieurs phénomènes syntaxiques, sémantiques, et le phénomène de cohérence textuelle –ici– la cataphore, un des éléments pragmatiques référentiels de base. Pour analyser l’exemple (3), excepté la mise en accentuation représentée par la forme disjointe, lui, à la troisième personne, employé comme sujet, n’est pas utilisé par hasard. La lecture du passage antérieur est exigée pour légitimer sa présence2. Lui, suivi du nom propre Alencar, la cataphore, est aussi employé déictiquement justement pour se référer au personnage. Dans le fragment étudié, l’auteur décrit l’arrivée d’une très belle jeune femme, Maria dont Pedro s’est épris follement. Alencar, son ami, entre en scène dans ce passage. La présence du pronom Ele / lui s’avère importante. L’auteur / le traducteur l’a utilisé pour une raison précise: mettre en contraste les différentes réactions des acteurs du roman, l’admiration passive envers la jeune femme, et l’exclamation très dynamique d’Alencar. ‹Lui, Alencar…› équivaut à ‹Alencar, quant à lui…›. En portugais comme en français, la présence ou l’absence du pronom sujet déictique comme facteur de cohésion textuelle se distingue par une nuance de sens: soit le choix de son emploi emphatique, soit la mise en contraste des différents personnages dans le contexte.
amadouée avec six pintos, en révéla davantage. L’homme était taciturne, il tremblait devant sa fille et dormait dans un hamac. Mais la jeune fille vivait dans un nid de soies bleu foncé, et passait la journée à lire des romans. Cela ne pouvait satisfaire l’avidité de Lisbonne. On fit une enquête méthodique, habile, patiente…Alencar avait pris part à cette enquête. (41) 2 E a rapariga principiou a aparecer tem S. Carlos, fazendo uma impressão – uma impressão de causar aneurismas, dizia o Alencar! Quando ela atravessava o salão, os ombros vergavam-se no deslumbramento de auréola que vinha daquela magnifica criatura, arrastando com um passo de deusa a sua cauda de corte, sempre decotada como em noites de gala, e, apesar de solteira, resplandecente de jóias. O papá nunca lhe dava o braço: seguia atrás, entalado numa grande gravata branca de mordomo, parecendo mais tisnado e mais embarcadiço na claridade loira que saía da filha, encolhido e quase apavorado, trazendo nas mãos, o óculo, o libreto, um saco de bombons, o leque e o seu próprio guarda chuva. (25) Et la jeune fille commença à paraître au São Carlos, faisant une impression…une impression, disait Alencar, capable de provoquer un anévrisme. Quand elle traversait le foyer, les épaules se courbaient devant l’éblouissante auréole émanant de cette magnifique créature, qui laissait traîner d’un pas de déesse la queue de sa robe de cour, toujours décolletée comme pour une soirée de gala et, quoiqu’elle ne fût pas mariée, resplendissante de bijoux. Son père ne lui donnait jamais le bras: il suivait derrière, engoncé dans une grande cravate blanche de majordome, paraissant encore plus hâlé, encore plus homme de mer dans la clarté blonde dégagée par sa fille, l’air timide et presque apeuré, tenant dans ses mains la lorgnette, le livret d’opéra, le sac de bonbons, l’éventail et son propre parapluie. (40-41)
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2.2. Obstacles linguistiques: les déictiques spatiaux d’une langue à l’autre –Por uma doirada tarde de Outono… (25) –André –gritou Pedro ao criado, martelando o mármore da mesa– retira o champanhe! O Alencar bradou, imitando o actor Epifânio:
–C’était par un soir doré d’automne… (40) –André! cria Pedro au garçon, en martelant le marbre de la table, remporte le champagne! Alencar hurla, en imitant l’acteur Epifânio:
–O quê! Sem saciar a avidez do meu lábio? Pois bem, o champanhe ficaria: mas o amigo Alencar, esquecendo que era o poeta das ‹Vozes de Aurora›, explicaria aquela gente da caleche azul numa linguagem cristã e prática!... –Aí vai, meu Pedro, aí vai!
–Quoi? sans même assouvir l’avidité de ma lèvre? Bon, le champagne resterait. Mais l’ami Alencar, oubliant qu’il était le poète des Voix de l’Aurore, expliquerait qui étaient les occupants de la calèche bleue en langage chrétien et pratique! –Nous y voilà, mon cher Pedro, nous y voilà!
Exemple 4
L’alternance entre le discours et le récit dans le roman, est intéressante à signaler. Dans l’œuvre Os Maias / Les Maia, il n’est pas seulement constitué du récit sur le plan non embrayé, de narration classique mais il est aussi doté de multiples dialogues. Les premières pages s’ouvrent sur la description de la maison des Maia, puis sur celle des personnages. Et la narration continue ainsi avec des fragments de dialogue agencés d’une manière vivante, théâtralement comme le dit Maingueneau (2003) pour animer le roman. La traduction doit produire également cet effet de théâtre pour ne pas interrompre cette ambiance narrative et d’échange de paroles. L’expression Aí vai, meu Pedro, aí vai! / Nous y voilà, mon cher Pedro, nous y voilà! dans l’exemple 4 est une expression figée dans les deux langues. Elle est figée dans la mesure où il est délicat voire impossible de changer les mots ou bien qu’il est difficile de l’analyser. L’expression Nous y voilà! a son sens bien distinct. Le contexte nous l’indique: nous y voilà (nous voilà dans la place), c’est-à-dire nous abordons enfin le problème, la question. Dans ce contexte, nous la comprenons parfaitement: Voilà, mon cher Pedro, le problème est clair, nous connaissons maintenant qui étaient les personnes dans la calèche. Peux-tu nous dire, de ton côté, ta fameuse histoire?, car Pedro, précisément a un vif intérêt concernant la jeune femme blonde présente dans la calèche. On interprète très bien le sens précis. Du point de vue de la syntaxe dans cette expression, vai du verbe ir (aller) indique la 3e personne du singulier, présent de l’indicatif. Aí / y & là est l’adverbe de lieu, le locatif, qui nous informe sur le lieu et l’espace environnemental de Pedro, son histoire, dans le passage précédent. Voilà, nous y sommes / Aí estamos et Aí está! / Voilà, c’est ça! équivalent également à cette expression. Cette locution interjective concerne en fait le rôle des locatifs déictiques dans les constructions des présentatifs. Sans le fragment textuel antérieur, il serait difficile de percevoir sa cohérence. L’emploi déictique est assez caractéristique de la cohérence textuelle; il est essentiel dans le dialogue. Il est difficile de comprendre le contexte du dialogue en lisant ce passage. Cependant, on peut facilement reconstituer le dialogue d’une manière concrète, c’est-à-dire physiquement, spatialement. La présence de l’embrayeur, de déictique spatial aide le lecteur à bien l’interpréter. Observons que Aí / y & là se réfère au passage textuel et non à un lieu proprement dit. Le sens déictique de Aí n’a de signification que dans cette situation de communication. La traduction de la locution interjective ne peut se réaliser que si le contexte nous l’indique.
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Dans ce cas, comprendre le rôle, le sens du déictique spatial ou le locatif, est fondamental dans l’interprétation, d’abord du texte source, et enfin pour pouvoir le traduire dans la langue cible, sans perturber ses structures spécifiques linguistiques et culturelles. A bela face de Maria empalideceu de cólera. (44) Julgava tudo isso de mau gosto, grosseiro, imprudente! Pedro fora realmente um doido em trazer assim para a intimidade de Arroios um estrangeiro, um fugido, um aventureiro! Demais, aquela troça em cima, entre grogues quentes, com guitarra, sem respeito por ela, ainda toda nervosa, toda fraca de convalescença, indignava-a! Apenas Sua Alteza pudesse acomodar-se com almofadas nume sege, queria-o fora, na estalagem… –O que aí vai! Jesus! O que aí vai!... –disse Pedro. –É assim.
Le beau visage de Maria avait pâli de colère. (60) Elle trouvait tout cela de mauvais goût, grossier et insolent. Pedro avait vraiment fou d’introduire ainsi dans l’intimité d’Arroios un étranger, un fugitif, un aventurier ! En outre, elle était indignée de la façon dont on plaisantait là-haut, au milieu des grogs chauds, au son de la guitare, sans égards pour elle qui était encore toute nerveuse, tout affaiblie pas sa convalescence! Dès que Son Altesse pourrait s’installer sur les coussins d’une voiture, elle voulait le voir dehors, à l’auberge! … –Comme tu y vas, mon Dieu, comme tu y vas, dit Pedro. –C’est ainsi.
Exemple 5
L’exemple 5 possède deux faits de langue portugais et français intéressants à analyser, à propos des locatifs déictiques. Pour les étudier, le contexte est nécessaire. Maria da Gama a une angine. Elle est en train de récupérer. Cependant, Pedro da Maia, son mari, par accident est tombé, a blessé le Napolitain, un prince italien, avec son fusil de chasse. Après cet incident, Pedro da Maia décide de le loger pour le soigner, chez lui à Arroios. Maria da Gama est perturbée et en colère à cause de ce remue-ménage dans sa maison. Tout ce qu’elle souhaite est que cet étranger italien reparte immédiatement, après sa convalescence. Et l’interjection de Pedro survient: –O que aí vai! Jesus! O que aí vai! [...] / –Comme tu y vas, mon Dieu, comme tu y vas [...]. La phrase portugaise pourrait s’analyser ainsi: le terme Aí indique l’allocutaire, ‹Maria›, la personne à qui Pedro s’adresse. Aussi, nous pouvons comprendre que vai du verbe ir, 3e personne du singulier, présent de l’indicatif, s’accorde en conséquence avec aí, selon notre interprétation syntaxique. D’où la traduction la plus proche en français: Comme tu y vas! une expression très peu utilisée, pourrait avoir son équivalent Là, tu y vas fort! ou bien Là, tu exagères! En portugais aussi, on peut dire Que exageres! ou Que exagero! O que et que, comme, en tant que mots exclamatifs, marquent l’intensité dans les deux langues3. Afin de bien traduire cette phrase exclamative, l’interprétation doit être à la fois linguistique et culturelle. Ces faits de langue très intéressants, légitiment notre analyse. La singularité de l’expression portugaise réside dans l’utilisation de la 3e personne, de ‹aí› et de son verbe. Aí vai indique en réalité la 2e personne du singulier. Almeida (2000: 68) le «Que: O interrogativo ‹que› pode ser […] para dar maior ênfase à pergunta, em lugar de que pronome substantivo, usa-se o que» (Cunha / Cintra 2002: 353)
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souligne: «Le mot qui désigne par excellence l’espace de l’allocutaire est aí». Il nous semble que l’utilisation de aí convient très bien dans cette phrase. La présence de ces déictiques spatiaux dans le roman justifie bien cet effet de théâtre, à ne pas confondre avec les déictiques spatiaux indiquant la situation réelle de l’énonciation. L’essentiel est de pouvoir imaginer et interpréter virtuellement ces déictiques spatiaux. C’est pour cette raison qu’il n’est pas toujours facile de les interpréter et de les rendre ‹correctement› dans la langue cible. Le contexte favorise l’interprétation. 2.3. Points de vue grammaticaux du portugais et du français Nessa ocasião vendera-se outra propriedade dos Maias, a Tojeira: Que em Lisboa ainda se lembravam dos Maias, e sabiam que desde a Regeneração eles viviam retirados na sua Quinta de Santa Olávia, nas margens do Douro, tinham perguntado a Vilaça se essa gente estava atrapalhada. (8)
À cette occasion avait été vendue une autre propriété des Maia, la Tojeira. Et les rares personnes de Lisbonne qui se souvenaient encore des Maia, et qui savaient que depuis la Régénération ils vivaient retirés dans leur quinta de Santa Olávia, sur les bords du Douro, avaient demandé à Vilaça si ces gens-là avaient des ennuis d’argent. (22)
Exemple 6
Connaître les structures grammaticales d’une langue est fondamental dans l’opération traduisante. Néanmoins, ce n’est pas suffisant. Il faut comprendre aussi la culture car elle fait corps avec la langue. L’une et l’autre sont indissociables. La manière de concevoir les faits de langues d’un pays varie d’une langue à l’autre, mais elle peut coïncider également. Dans l’exemple 6, la forme pronominale vendera-se, de sens passif, est intéressante à comparer avec la forme verbale passive équivalente avait été vendue. Une autre proposition de traduction pourrait être formulée ainsi: Une autre propriété des Maia se vendait à cette occasion. qui est la traduction correspondante. Mais en français, on a aussi la possibilité de la rendre ainsi: À cette occasion, on avait vendu une autre propriété des Maia [...]. La version française et la version portugaise possèdent, dirons-nous, la même manière de concevoir la construction de la forme verbale pronominale de sens passif comme les cas des exemples français classiques: L’église se voit de loin. Le vin d’Alsace se boit jeune. Nous trouvons d’autres exemples du roman appartenant à cette construction syntaxique: Não tardou de resto a falar-se em toda a Lisboa da paixão de Pedro da Maia pela ‹negreira›. (28)
On ne tarda pas à parler dans tout Lisbonne de la passion de Pedro da Maia pour ‹la négrière›. (44)
Ao fundo entreviam-se os grandes bigodes loiros do Melo, que conversava de pé com o papá Monforte – escondido como sempre no canto negro da frisa. (28)
Au fond on entrevoyait les grandes moustaches blondes de Melo qui causait debout avec le père Monforte, caché comme toujours dans le coin sombre de la baignoire. (43)
Exemple 7
Dans ce cas précis, il est nécessaire de connaître et de respecter la forme verbale, pour rendre la tournure de la forme pronominale de sens passif portugaise en français. On observe que falar-
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se est à l’infinitif, et entreviam-se au preterito imperfeito d’où la traduction équivalente de la forme verbale en français: Não tardou de resto a falar-se / On ne tarda pas à parler et entreviamse os grandes bigodes loiros do Melon / on entrevoyait les grandes moustaches blondes de Melo. Autre cas de traduction intéressante à souligner. Dans les deux langues, il existe naturellement des variations de construction syntaxique, des procédés grammaticaux différents multiples pour exprimer le même sens de la phrase. […] não lhe desagradava que um sentimento qualquer, humano e forte, lhe fosse arrancando o filho à estroinice bulhenta, ao jogo, às melancolias sem razão em que reaparecia o negro ripanço… (29)
Et il ne lui déplaisait pas qu’un sentiment humain et fort, quel qu’il fût, arrachât son fils à la dissipation tapageuse, au jeu et aux mélancolies sans raison où l’on voyait réapparaître le sombre missel. (44)
Exemple 8
La forme verbale est reaparecer et n’est pas la forme pronominale de sens passif utilisée dans cette phrase (exemple 8). La version française utilise également le pronom relatif où introduisant une proposition relative, en plus de l’emploi du pronom indéfini l’on, qui, dans ce contexte, s’adapte bien. Le pronom sujet on n’est qu’un vague sujet et il est bien approprié. En effet, dans cette longue phrase, la construction subordonnée relative est introduite avec em que dans em que reaparecia o negro ripanço… dans laquelle le sujet inversé de la forme verbale est o negro ripanço. On pourrait proposer la version suivante: [...] où réapparaît le sombre missel. / [...] où le sombre missel réapparaît. fidèle à la version portugaise. La construction avec on est possible dans ce segment de proposition car en fait le sujet est indéfini, et elle est adaptée et bien meilleure à la traduction littérale. Le choix de cette traduction n’est pas un hasard. Le calcul syntaxique se réalise avec exactitude et la maîtrise des structures grammaticales de la langue source et de la langue cible chez le traducteur s’illustre clairement dans son texte. L’analyse contrastive se fait ardûment pour mieux comprendre les options du traducteur, comme nous pouvons l’observer. 2.4. Les formes verbales: les temps de la description et du récit A casa que os Maias vieram habitar em Lisboa, no Outono de 1875, era conhecida na vizinhança da Rua de S. Francisco de Paula, e em todo o bairro das Janelas Verdes, pela Casa do Ramalhete, ou simplesmente o Ramalhete. (7)
La maison que les Maia vinrent habiter à Lisbonne, à l’automne 1875, était connue dans le voisinage de la rue São Francisco de Paula et dans tout le quartier des Janelas Verdes comme la Casa do Ramalhete, ou simplement le Ramalhete. (21)
Apesar deste fresco nome de vivenda campestre, o Ramalhete, sombrio casarão de paredes severas, com um renque de estreitas varandas de ferro no primeiro andar, e por cima uma tímida fila de janelinhas abrigadas à beira do telhado,
Malgré ce nom si frais de villa champêtre, le Ramalhete, sombre bâtisse aux murs sévères, avec au premier étage une file d’étroits balcons de fer, et au-dessus une timide rangée de petites fenêtres abritées au bord du toit,
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tinha o aspecto tristonho de residência eclesiástica que competia a uma edificação do reinado da senhora D. Maria I: com uma sineta e com uma cruz no topo, assemelhar-se-ia a um colégio de Jesuítas. (7)
avait cet aspect mélancolique de résidence ecclésiastique qui convient à une construction du règne de dona Maria Ie. Avec sa cloche et la croix de son faîte, il ressemblait à un collège de Jésuites. (21)
Exemple 9
En lisant ces deux paragraphes, le tout commencement de l’histoire Os Maias / Les Maia d’Eça de Queiroz, on remarque l’absence des embrayeurs de l’énonciation. L’auteur raconte une histoire: il l’introduit avec la description de la maison de la famille des Maia / Os Maias. Les formes verbales du texte sont au passé: l’imparfait ‹ressemblait›, le passé simple ‹vinrent habiter› / o pretérito imperfeito ‹era, tinha, competia›, preterito mais-que-perfeito ‹vieram› les temps du récit. Par ailleurs, nous avons quelques noms propres: Os Maias / Les Maia ‹nom de famille›, Outono ‹temps›, rua de S. Franciso de Paula, Janelas Verdes, Casa do Ramalhete ‹lieu›, D. Maria I ‹époque›; une date: 1875. Ces indications sont des informations nécessaires à la lecture. Nous notons également la spécificité du récit, que Benveniste ‹cité par Maingueneau› (2003: 45) désigne par l’histoire opposé au discours. La distinction est évidente: le discours ou plan embrayé dans lequel les embrayeurs sont présents et l’histoire / le récit / plan non embrayé dans lesquels on constate la totale rupture avec la situation d’énonciation. Comme le souligne bien Maingueneau (2003: 38): Quand il s’agit de narration littéraire, force est de prendre en compte la relation entre le moment et le lieu à partir desquels est censé énoncer le narrateur ‹la scénographie de la narration› et le moment et le lieu des événements qu’il narre ‹histoire›. (Maingueneau 2003, 38)
Dans ce passage du récit, on observe «la dissociation complète entre le monde raconté et l’instance narrative, qui tente d’effacer toute trace de sa présence» (Maingueneau 2003: 38). Le narrateur n’y intervient aucunement. À propos du titre, Os Maias / Les Maia. Contrairement au français, le nom propre portugais s’accorde en nombre. Le nom propre français reste cependant invariable. Au premier abord, le système verbal des deux langues est, approximativement équivalent: compte tenu de la narration du roman, l’emploi des temps du passé y est exigé, pour le français, l’imparfait et le passé simple, pour le portugais, le pretérito imperfeito, les temps de la narration et de la description. Une seule différence entre le français et le portugais: o Ramalhete […], tinha o aspecto tristonho de residência eclesiástica que competia a uma edificação do reinado da senhora D. Maria I: […] le Ramalhete avait cet aspect mélancolique de résidence ecclésiastique qui convient à une construction du règne de dona Maria Ire. La valeur du pretérito imperfeito du portugais diffère de celle du présent de l’indicatif. La signification des temps verbaux des deux systèmes de langues est approximativement similaire: la 4e valeur de l’emploi du pretérito imperfeito est définie: «para designar factos passados concebidos como contínuos ou permanentes» (Cunha / Cintra 2002: 451). En français, en revanche, le traducteur a opté pour l’emploi du présent de l’indicatif. Néanmoins, nous observons que l’imparfait pourrait très bien être utilisé pour la continuité de la description de la maison des Maia du passage antérieur de l’exemple (9). Son usage du présent de l’indicatif, opposé à
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l’imparfait ([…] avait cet aspect mélancolique de résidence ecclésiastique […]) dénote sa valeur du présent de vérité générale ou générique: ‹qui convient› peut se substituer à ‹est propre à› passage dans lequel l’auteur se réfère à «une construction du règne de dona Maria Ie, reine du Portugal, période historique bien marquée». Le présent de l’indicatif, dans ce contexte, n’indique aucunement le moment de l’énonciation, n’est donc pas déictique. On peut l’interpréter également comme un présent atemporel car il réfère tantôt à un présent, tantôt à un passé ou un futur, selon le contexte. Toutefois, s’il se réfère au moment de l’énonciation, ce n’est qu’une coïncidence. (Maingueneau 2003). (10) […]: com uma sineta e com uma cruz no topo, assemelhar-se-ia a um colégio de Jesuítas. (7). Avec sa cloche et la croix de son faîte, il ressemblait à un collège de Jésuites. (21)
Dans l’exemple suivant (10), le traducteur –Paul Teyssier– n’a pas utilisé le futuro do pretérito / condicional presente assemelhar-se-ia portugais (verbo reflexivo) et a préféré l’imparfait ressemblait. Eça de Queiroz modalise son énoncé en optant pour le condicional presente / futuro do pretérito. En effet: ce temps, avec sa 2e valeur le précise: «para exprimir a incerteza (probabilidade, dúvida, suposição) sobre factos passados». Une autre proposition pourrait très bien s’adapter avec le conditionnel passé également: «Avec sa cloche et la croix de son faîte, il aurait pu ressembler à un collège de Jésuites». Néanmoins, l’imparfait a été choisi ayant une nuance: l’imparfait a sa valeur temporelle et non modale comme avec le conditionnel passé. On comprend cette nuance avec le condicional presente, utilisé par l’écrivain, dont l’avis affleure dans le récit. 2.5. Le plan embrayé (discours) opposé au plan non embrayé (récit) Dans le roman tel que celui-ci, l’interférence entre le discours et le récit est intéressante à signaler. Étant donné que le terme discours est souvent utilisé dans des cas particuliers avec leur sens bien distinct, nous employons, dans ce contexte, le terme plan embrayé à la place de discours et plan non-embrayé à la place de ‹récit› pour le désambiguïser (termes de Maingueneau 2003). Qu’advient-il des dialogues dans le roman? Pourquoi ce double usage? Dans l’œuvre Os Maias / Les Maia, le roman n’est pas seulement constitué du récit sur le plan non embrayé, de narration classique mais il est aussi doté de multiples dialogues. Les premières pages s’ouvrent sur la description de la maison des Maia, puis sur celle aussi des personnages. Et la narration continue ainsi avec des fragments de dialogue agencés d’une manière vivante, ‹théâtralement› comme le dit Maingueneau (2003) pour animer le roman. La traduction doit produire également cet effet de ‹théâtre› pour ne pas interrompre l’ambiance narrative et d’échange de paroles. –Quantos são os inimigos da alma? E o pequeno, mais dormente, lá ia murmurando: –Três. Mundo, Diabo e Carne… Pobre Pedrinho! (20)
–Combien l’âme a-t-elle d’ennemis? Et le petit, plus somnolent encore, murmurait: –Trois: le Monde, le Diable et la Chair…Pauvre Pedrinho! (35)
Exemple 11
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Chaque langue possède ses caractéristiques linguistiques propres et culturelles. Il ne faut donc pas la pertuber tout en respectant son vrai sens. L’opération traduisante littérale peut leur nuire. Si l’on respecte l’ordre de la phrase portugaise, c’est une possibilité: Combien sont les ennemis de l’âme? / Quantos são os inimigos da alma? Encore une fois, on constate bien que la phrase a été lusitanisée. Il en est de même pour la réponse du petit Pedro Pedrinho: Três. Mundo, Diabo e Carne… / Trois: Monde, Diable et Chair. On observe les majuscules et l’absence de l’article défini contrairement au français qui l’exige. En effet, la présence de l’article défini formule ‹les ennemis particuliers› avec les majuscules, comme en portugais. Mundo, Diabo e Carne s’écrivent au majuscule, sans article, pourraient être considérés comme des noms abstraits, personnifiés en portugais. Dans ce cas-là, l’absence de l’article défini est justifiée. Nous avons enfin, le nom propre diminutif Pedrinho, un fait de langue portugais. D’ailleurs, Paul Teyssier nous l’a bien expliqué en note de bas de page pour tous les noms propres diminutifs qu’il a précieusement respectés. O Sequeira ficara com a chávena de café junto aos lábios, de olho esgazado, murmurando: –Caramba ! É bonita. (31)
Sequeira, la tasse de café près des lèvres, ouvrit de grands yeux, et murmura: –Fichtre! Elle est jolie! (47)
Exemple 12
Un dernier fait de langue intéressant à observer, qui concerne également la procédure référentielle du nom commun du même type. Pourquoi Paul Teyssier n’a pas tout simplement préservé l’interjection de surprise, d’étonnement Caramba dans la version française? Car il figure dans le Dictionnaire français (Larousse, 1992): ‹Juron espagnol (1859)›. Afin de pouvoir l’expliquer, nous avions consulté le dictionnaire Português - Francês. À notre surprise, ce mot est traduit par: Sapristi, Parbleu, Fichtre (Porto Editora, 1999). Le traducteur a opté pour ‹Fichtre!›, une interjection typique française, dérivée du croisement entre deux verbes français bien familiers ‹ficher et foutre› (1808) (Larousse, 1992). Caramba, le juron espagnol n’est pas pris comme équivalent dans le contexte (12) car il n’est pas français pour les lecteurs français, selon notre opinion. Afin de véhiculer mieux le message, le traducteur a préféré le juron fichtre. 2.6. Le lexico-sémantique: le fonctionnement référentiel du nom commun Os Maias eram uma antiga família da Beira, sempre pouco numerosa, sem linhas colaterais, sem parentelas –.
Les Maia étaient une vieille maison de la Beira qui avait toujours été peu nombreuse, sans collatéraux, sans parentèle.
Exemple 13
Le traducteur français a utilisé ‹une vieille maison› pour traduire uma antiga família. En effet, le 4e sens de maison signifie, non pas maison au sens propre, mais famille au sens figuré, qui s’adapte naturellement au contexte. Étant natif de la langue, le traducteur a su maîtriser les différentes significations de maison. Chaque langue a le fonctionnement référentiel du
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nom commun ou du nom propre. Nous avons ici un exemple intéressant. Le nom commun en portugais, dans ce contexte, uma antiga família da Beira, représente un signe linguistique spécifique. Nous pouvons introduire également le signe linguistique équivalent traduit en français: une vieille famille. Cependant, en français, ‹une vieille maison›, au sens figuré, désigne également ‹une famille›, c’est-à-dire que dans la maison, les personnes qui vivent ensemble, appartiennent à la famille. La langue française a, donc, une variante de dénomination –la catégorisation– quant au terme ‹famille›: maison. «Cette opération qui consiste à classer un objet dans une catégorisation conceptuelle quelconque s’appelle la ‹catégorisation› (Gouvard 1998: 58). En effet, ‹la famille› a son sens propre, en français comme en portugais. Néanmoins, le terme maison en français, nous l’avons précisé, est employé dans un tout autre sens, au sens figuré, approprié au contexte. En résumé, c’est la procédure référentielle (le cas de famille) d’un nom commun (le cas de maison) qui est en cours dans le cas qui nous intéresse. L’auteur et le traducteur, nos locuteurs en question, s’adressent aux interlocuteurs –les lecteurs– en utilisant le signe linguistique déjà connu des lecteurs en le catégorisant: c’est le processus référentiel de son interprétation correcte. Aussi, c’est toujours le contexte –la situation de communication– qui nous informe correctement du sens des mots utilisés.
3. L’étude pragmatique de l’analyse contrastive portugais ↔ français: source de richesses linguistique et culturelle La description linguistique contrastive entre le français et le portugais illustre l’importance de la composante pragmatique à travers quelques exemples extraits de Os Maias qui reflètent bien la complexité le travail de la traduction. L’origine commune du latin aux deux langues ne dévoile pas toujours, contrairement à ce que l’on pense, les mêmes traits morphosyntaxiques, sémantiques, orthographiques ou bien lexicaux. Les points linguistiques divergent d’une manière subtile qu’il est parfois difficile de percevoir si l’on n’est pas natif de la langue - portugais ou français. C’est justement ces différences qui donnent leur couleur linguistique et culturelle. L’Écrivain possède un bagage linguistique / langue extrêmement riche et complexe qu’il n’est pas toujours aisé d’expliquer ou d’interpréter. Le Traducteur, afin de transmettre le message / contenu littéraire de l’Écrivain, doit lui aussi le respecter à tous les niveaux, linguistique, social et culturel. Nous l’avons vu, le traducteur a ses raisons propres dans ses choix et ses moyens linguistiques, qui se rattachent indéniablement à sa propre culture, à sa propre langue, en restant fidèle au texte, à l’œuvre source. Nous observons approximativement les mêmes structures syntaxiques dans les deux langues. Mais la similarité linguistique ne doit pas anesthésier la vigilance du traducteur. Dans le cas contraire, la traduction sera naturellement trop imprégnée par la langue source –portugais francisé ou français lusitanisé. La mise en parallèle entre le portugais le français à travers l’analyse contrastive aide à découvrir, du point de vue morphosyntaxique et lexicosémantique, leurs particularités linguistiques respectives qu’il ne faut pas dénaturer. À cette fin, notre étude distingue différentes structures morphosyntaxiques du portugais visà-vis du français comme les pronoms sujets en emphase, les pronoms sujets sous-entendus,
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la construction avec on de sens passif, les expressions déictiques, les formes verbales, l’utilisation ou la non-utilisation des déterminants. Aussi, la composante de la morphosyntaxe et celle de la pragmatique sont indissociables pour assurer la communication orale ou écrite. De surcroît, la traduction des œuvres littéraires ajoute à la complexité de la tâche. Comprendre et interpréter le texte de la langue de départ est une première partie de la difficulté mais le traduire dans la langue d’arrivée crée une difficulté supplémentaire. Aussi, la linguistique, la traduction littéraire, sans oublier la composante pragmatique, représentent-elles trois approches bien distinctes mais indispensables à la connaissance de la culture de l’autre, de la littérature. L’opération traduisante représente un grand défi linguistique pour les traducteurs. Les jeux de langue sont immenses: la manipulation des mots chez les écrivains et le choix des termes appropriés dans la langue cible chez les traducteurs symbolisent l’harmonie parfaite entre l’écrivain et le traducteur, qui ne font qu’un. Lire une œuvre en langue étrangère doit déclencher les mêmes émotions et les mêmes réflexions que la lire dans la langue maternelle. C’est le grand mérite des grands traducteurs. L’interprétation des différentes modalités référentielles, des formes verbales et autres via l’analyse pragmatique, dans la mise en contraste des deux langues romanes, dépendent exclusivement des types de situations de communication diverses. Comme le soulignent bien Riegel, Pellat et Rioul, dans leur fameux ouvrage Grammaire méthodique du français (1994: 25): «Les phénomènes qui manifestent ce type de régularité [les quelques éléments pragmatiques bilingues illustrés] relèvent de la langue en action et de la langue en contexte». Sans la langue en action –la langue en contexte– il serait difficile de pouvoir comprendre le texte, et plus encore le traduire dans une autre langue sans le dénaturer en raison des faits linguistiques et/ou culturels dont la composante pragmatique, propres à chaque langue.
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Marlene Loureiro (Universidade de Trás-os-Montes e Alto Douro, Portugal)
Discursos masculino e feminino em textos de opinião nos media portugueses
1. Introdução A sociedade defende, atualmente, a igualdade entre Homem e Mulher, pois acredita que eles têm as mesmas competências, atitudes, sentimentos e aptidões. No entanto, o que se tem vindo a provar é que eles são completamente diferentes, nomeadamente no que diz respeito à forma e ao modo como comunicam. Várias são as razões apresentadas para justificar as diferenças de género no que diz respeito ao uso da linguagem: 1) Alguns teóricos afirmam que as diferenças de interação entre homens e mulheres
residem nas diferenças biológicas, que fazem com que haja diferenças na aquisição da linguagem.
2) Outros apontam diferenças psicológicas, pois homens e mulheres têm diferentes
orientações relativamente aos outros: as mulheres estão mais preocupadas em estabelecer conexões e relações; os homens, por sua vez, estão mais preocupados em sublinhar a sua autonomia e o seu status, procuram a independência e focam-se nas relações hierárquicas.
3) Outros ainda sublinham a socialização como explicação, uma vez que rapazes e
raparigas têm diferentes padrões de socialização, conduzindo a que tenham diferentes formas de usar e interpretar a linguagem.
4) Por último, outra explicação atribui essas diferenças à desigual distribuição do poder
na sociedade, onde o homem tem mais poder do que a mulher, tornando-se dominante, nomeadamente na interação social.
Assim, o presente estudo visa mostrar como essas diferenças linguísticas e comunicacionais se refletem em textos escritos publicados nos media, nomeadamente em textos de opinião publicados por mulheres e por homens.
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2. Diferenças comunicativas e o género A ideia de que homens e mulheres têm estilos conversacionais diferentes já está bastante difundida, e não é raro encontrar livros de psicologia e antropologia, entre outros, a apresentarem capítulos inteiros sobre como entender o sexo oposto. Não obstante, o que nos interessa aqui é ter presente os estudos na área da linguagem e da comunicação. Assim, destacamos Robin Lakoff (1975) que, segundo Deborah Tannen (1990: 11), foi «the pioneer in linguistic research on language and gender, she provided a starting point for me, and for a generation of scholars» e, de acordo com Kira Hall e Mary Bucholtz (1995: 1), tem um ‹foundational text›, não havendo outro texto tão influente, mas também tão controverso (1995: 1). De facto, Robin Lakoff destaca-se pela obra Language and Woman’s Place, que editou em 1975, onde refletiu sobre as diferenças comunicativas de género, destacando e diferenciando a ‹women’s language›. Embora temporalmente não seja a primeira obra a abordar questões de género, é importante pelo relevo que atribui ao tema e pela importância que lhe é reconhecida por outros investigadores. A questão levantada por Robin Lakoff é uma questão de que todos se apercebem e, por isso, como diz a autora «such study is quite justifiable in its own terms» (1975: 1). De facto, o ano de 1975 foi o ano de lançamento dos estudos linguísticos sobre a relação entre a linguagem e o sexo / género, destacando-se ainda as publicações de Male / Female Language, de Mary Ritchie Key; e Language and Sex: Difference and Dominance, de Barrie Thorne e Nancy Henley. Estes livros vieram lançar as bases de investigação sobre as diferenças no modo como homens e mulheres usam a linguagem e interagem. A partir daqui, a relação entre a linguagem e o género tem vindo a ser estudada resultando numa literatura multidisciplinar. Assim, para além de surgirem várias explicações para as diferenças de género no uso da linguagem, desde razões biológicas, psicológicas, sociais e culturais, alguns investigadores procuram encontrar e expor essas diferenças. Partiram muitos deles do trabalho de Robin Lakoff (1975), que conduziu, segundo Deborah Cameron (1992), a uma série de asserções sobre o perfil do discurso feminino, as quais ainda não tinham qualquer fundamentação científica até então. Entre elas, destacamos: 1) A falta de fluência, isto é, a mulher tem problemas em comunicar na ‹linguagem masculina›, e o resultado são as hesitações e os falsos começos. 2) Frases inacabadas. 3) Discurso desordenado de acordo com as regras da lógica. 4) Uso frequente de perguntas, incluindo afirmações disfarçadas em perguntas, conotando falta de assertividade. 5) Falar menos que o homem em grupos mistos de conversação. 6) A mulher é mais conservadora. 7) Usar estratégias de cooperação e apoio na conversação, enquanto homem é mais competitivo. 8) A mulher usa mais a parataxe e o homem a hipotaxe. 9) A mulher fala mais do que o homem. 10) Entre outras.
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Também a sociolinguística, que emergiu nos anos de 1960, enquanto um ramo da linguística que se debruça sobre o estudo da linguagem / discurso no seu contexto social, contribuiu grandemente para o desenvolvimento do estudo das diferenças de género na linguagem. No âmbito da sociolinguística, as diferenças de género na linguagem inserem-se no domínio dos idioletos ou variantes diafásicas. De facto, embora inicialmente o sexo / género não fosse uma variável a ter em conta nas investigações levadas a cabo, a partir da década de 70, o sexo do indivíduo é um importante fator a ter em conta, havendo mesmo quem fale em ‹generodialetos› [tradução do termo ‹genderlects› de Deborah Tannen (1990: 42)]. A par da sociolinguística, novas disciplinas, como a análise do discurso e a pragmática, emergiram e ganharam relevo no estudo das diferenças comunicativas entre os géneros, partindo do conceito criado por Dell Hymes (1971), a competência comunicativa. Portanto, não estamos já no paradigma quantitativo, mas na etnografia da comunicação, como lhe chamou Jennifer Coates (1989b: 64), e que se preocupa com a competência comunicativa. Para Dell Hymes (1971), este termo refere tudo o que o falante necessita de saber e conhecer para ser um indivíduo comunicativo efetivo e funcional na sua comunidade. Portanto, esta competência envolve mais do que o conhecimento das regras gramaticais e fonológicas indispensáveis para falar, o indivíduo tem também de dominar normas sociais e culturais que lhe permitam usar as formas linguísticas apropriadamente, de acordo com a situação e contexto comunicacional. A noção de que homens e mulheres podem constituir-se como discursos diferenciados conduziu a investigações sobre diferenças de género na competência comunicativa e consequentemente na performance (Coates 1989b: 64). Como e porquê homens e mulheres seguem diferentes normas comunicativas é o grande problema sob investigação. Para responder a este problema confluem duas visões do estatuto da mulher na sociedade: uma que encara a mulher como um grupo minoritário, que é oprimido e marginalizado (dominance approach); outra que vê a mulher simplesmente como diferente do homem (difference approach). Sem nos fidelizarmos a nenhuma destas correntes, vamos analisar as diferenças comunicativas entre os discursos masculino e feminino em textos de opinião publicados nos media portugueses.
3. Análise de textos de opinião publicados nos media portugueses 3.1. Corpus e metodologia Como o nosso trabalho de investigação se insere no âmbito dos estudos das diferenças comunicativas de género, a escolha da metodologia revelou-se difícil, pois, tal como sublinharam Barrie Thorne e Nancy Henley (1975), «diverse disciplines, methods, and frameworks have been used for exploring the sexual differentiation of language» (1975: 9). Jane Sunderland e Lia Litosseliti (2008: 5) enumeraram sete abordagens ou metodologias para conduzir a investigação na área das diferenças comunicativas de género: «(1) sociolinguistics and ethnography, (2) corpus linguistics, (3) conversation analysis (CA), (4) discursive psychology, (5) critical discourse analysis (CDA), (6) feminist poststructuralist
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discourse analysis (FPD) and (7) queer theory». As mesmas autoras sublinharam que, atualmente, já se combinam abordagens e metodologias para enriquecer e tornar o trabalho de investigação mais produtivo. Desta forma, o nosso trabalho de investigação foi guiado por uma abordagem de análise de um corpus linguístico, a partir do qual se procura fazer uma análise de conteúdo quantitativa e qualitativa dos dados. Esta recolha e análise de dados será realizada com a ajuda de um programa informático de análise de conteúdo Tropes Semantic, software distribuído por Cyberlex, ACETIC, 1994-2004. Tendo em conta que o objetivo do nosso trabalho é verificar se existem diferenças de género na comunicação, analisámos 50 textos de opinião publicados nos media portugueses, 25 de autoria feminina e 25 de autoria masculina, publicados em jornais e revistas nacionais no ano de 2009. O critério de seleção destes textos foi a extensão dos mesmos não exceder uma página A4. Aceitando a distinção tripartida dos textos jornalísticos em três géneros, informativo, interpretativo ou de opinião e ameno-literário (Rei 2000b: 120), podemos inserir este corpus textual no género interpretativo ou de opinião, sendo que engloba crónicas, comentários, editoriais, críticas e artigos de opinião.1 Portanto, estes tipos de texto interpretam os acontecimentos da atualidade, valorizando os factos «em função de uma posição pessoal, com o objetivo de fomentar um estado de opinião favorável aos seus juízos e conclusões, quer dizer, orientar a opinião pública» (Rei 2000b: 121). Assim sendo, embora respeitem a objetividade, característica, regra geral, dos textos jornalísticos, estes textos pautam-se pela subjetividade e pelo estilo próprio de cada autor, não sendo, por isso, textos estandardizados. Por este motivo, estes tipos de texto permitem ver ideias, ideologias, crenças, maneiras de ser do seu autor. Do mesmo modo, permitem aferir as características discursivas dos seus autores tendo em conta o género. Por outro lado, sublinhamos que todos estes textos foram publicados em jornais nacionais diários (como o Jornal de Notícias e o Diário de Notícias) e semanais (Expresso) e em revistas semanais de informação noticiosa (como Visão, Sábado, Notícias Sábado, Notícias Magazine). Assim, estes textos abordam temas de interesse nacional e, por vezes, internacional, como seja política, problemas ambientais, desemprego, direito e justiça, economia nacional e europeia, etc. Por isso, têm um público-alvo bastante abrangente, todo o povo português, não se descortinando públicos específicos para determinados textos. 3.2. Análise dos dados Numa primeira fase da análise dos textos, agrupámos os 25 textos de cada género em um só texto de género, por forma a obter resultados mais globais. Assim, no total, o texto dos homens tem 12.978 palavras e o das mulheres 13.455, tornando-se um pouco mais extenso em 477 palavras. No entanto, como, numa segunda fase, analisámos os 50 textos individualmente, também nos socorremos dessa análise para complementar a análise geral das diferenças de género presentes nos textos. Se seguirmos a Escola Francesa, este corpus de textos em análise inserir-se-á no género de comentário, que concorre com o género informativo, de fantasia e ‹nobre› (Martin-Lagardette 1998: 62 e ss.).
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No que concerne os assuntos abordados (cf. gráfico 1), nota-se que os temas mais abordados, quer por homens, quer por mulheres, surgem agrupados em conceitos gerais e a vida humana. Estes desdobram-se em variadíssimos tópicos, desde a vida, a morte, a saúde, a política, a sociedade, etc. Estes são também temas que vão ser específicos, sendo aí que se nota a diferença. Desde logo, se nota uma maior percentagem masculina no que diz respeito a assuntos como política, geografia, sociedade, desporto e lazer e negócios, realçando o forte pendor do homem para as atividades realizadas fora de casa, no mundo exterior e dos negócios. Por sua vez, a mulher fala mais de sentimentos, da família e de saúde, conotando a preocupação das mulheres com o estabelecimento e o bem-estar das suas relações, tal como havia defendido Lakoff (1975). Entre os sentimentos e emoções que predominam, destacamos a tristeza, a insatisfação e o medo, revelando uma certa insegurança e instabilidade da mulher, asserção feita também para caracterizar a linguagem da mulher. Por outro lado, também se nota uma forte preocupação com o emprego e o trabalho, revelando que a mulher já não se cinge ao reino doméstico, tendo já conquistado um lugar no mundo do trabalho, dominado anteriormente pelo homem (Spender 2001). Nesta ordem de ideias, a mulher aparece também mais preocupada com o direito e a justiça social, pois já tinha sido considerada um grupo minoritário e oprimido por uma sociedade patriarcal (Lakoff 1975; Spender 2001).
Gráfico 1. Principais assuntos abordados.
Assim, em sentido lato, o estilo geral dos textos masculinos é descritivo e o dos femininos é narrativo (cf. gráfico 2). Enquanto o estilo descritivo se caracteriza por o autor descrever, identificar ou caracterizar uma realidade, acontecimento ou pessoa; o narrativo caracteriza-se pela existência de um narrador que expõe uma série de acontecimentos que se sucedem num dado momento e num certo lugar. Efetivamente, estamos perante textos jornalísticos não padronizados, em que o estilo é livre e a subjetividade do seu autor está presente. Destaca-se ainda o uso do estilo argumentativo em alguns textos, revelando que o sujeito argumenta, explica ou critica para tentar persuadir o seu interlocutor ou interlocutores. O uso deste estilo argumentativo é maior nas mulheres, a que se juntam dois textos em estilo enunciativo, ou seja, um estilo em que o autor traça e revela o seu ponto de vista (cf. gráfico 2).
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Gráfico 2. Estilos dominantes nos textos.
O estilo dominante nos textos sublinha uma maior subjetividade no discurso da mulher, que é corroborada pela existência, em vários textos, de um narrador subjetivo (cf. gráfico 3) e pelo maior recurso ao pronome pessoal ‹eu› (cf. gráfico 4). Por sua vez, nos textos de autoria masculina predomina uma encenação verbal dinâmica e ativa, comprovada pela existência de verbos de ação. Mais uma vez, esta subjetividade vai ao encontro das asserções feitas sobre a ‹woman’s language›, que se caracteriza por ser subjetiva e sentimental (Lakoff 1975), enquanto o homem aparece como mais objetivo e ativo.
Gráfico 3. Encenações verbais.
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Gráfico 4. Pronomes pessoais.
No que diz respeito às classes de palavras, destaca-se o uso superior de adjetivos por parte da mulher relativamente ao homem, que, por sua vez, usa mais nomes (cf. gráfico 5). No entanto, apesar desta distribuição, é curioso verificar que o estilo predominante nos textos masculinos é o descritivo e nos femininos é o narrativo, pois, regra geral, é no estilo descritivo que dominam os adjetivos, usados para descrever e caracterizar, e no narrativo, os nomes. Tal resultado vem acentuar, mais uma vez, o pendor subjetivo da mulher que, como já referimos, usa mais do que o homem o pronome pessoal ‹eu› (cf. gráfico 4), recorrendo também ao ‹tu› para estabelecer maior proximidade com o interlocutor, estratégia usada como forma de influência.
Gráfico 5. Distribuição das palavras por categorias.
Mesmo no que diz respeito ao uso dos adjetivos, as autoras femininas preferem os adjetivos subjetivos, como sejam novo, grande, bom, melhor, importante, social, maior, capaz, mau, excelente, normal, diferente, triste, entre outros (cf. gráfico 6). O homem usa adjetivos mais específicos dos assuntos que trata, como, por exemplo, social, último, global, europeu,
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político, nacional, democrático, ambiental, económico, civil, orçamental, institucional, municipal, etc. Obviamente os textos masculinos também têm adjetivos subjetivos como grande, bom, novo, difícil, fácil, forte, diferente, deprimente, etc.
Gráfico 6. Uso dos adjetivos.
No atinente aos verbos (cf. gráfico 7), quer nos textos masculinos, quer nos textos femininos, predominam os verbos factivos, que exprimem ações (como fazer, dar, chegar, entrar, pôr, etc.). No que concerne aos verbos estativos (como ser, ter, estar, etc.), que exprimem estados ou noções de posse, as mulheres destacam-se com maior número de uso. Do mesmo modo, também sobressaem no uso de verbos declarativos, que exprimem uma declaração sobre um estado, um ser ou um objeto (como dizer, pensar, etc.). No entanto, as diferenças de uso dos verbos, na generalidade, não são muito discrepantes.
Gráfico 7. Categorias de verbos.
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No atinente às modalizações (advérbios ou locuções adverbiais), estas permitem ao autor implicar-se no discurso ou situar o que diz contextualmente através de noções de tempo, lugar, modo, afirmação, dúvida, negação e intensidade. Da análise dos resultados obtidos (cf. gráfico 8), nota-se a maior preocupação feminina em situar o seu texto no tempo e no espaço através do uso de advérbios de tempo e lugar, bem como de conectores de lugar. Também não se pode esquecer que o estilo textual predominante é o narrativo. Por outro lado, convém realçar o elevado uso, por ambos os géneros, de modalizações de negação e de intensidade, que conotam uma dramatização do discurso, subjacente ao facto de serem textos jornalísticos do género interpretativo. Curioso é também o igual número de usos de advérbios de dúvida. De facto, tanto as mulheres como os homens recorreram 10 vezes a modalizações de dúvida. As mulheres utilizaram talvez (6 vezes), se calhar (2 vezes), provavelmente (1 vez) e por acaso (1 vez). Os homens utilizaram talvez (5 vezes), provavelmente (3 vezes), quiçá (1 vez) e porventura (1 vez).
Gráfico 8. Modalização.
Estas expressões de dúvida foram apresentadas por Jennifer Coates (1996) como uma outra característica feminina. São chamados ‹hedges›, ou seja, expressões ‹barreira› com talvez, do tipo, provavelmente, quero dizer, bem, penso que, acho que se calhar, tu sabes que… Para Coates (1996), estas expressões permitem evitar que se diga algo de definitivo e definido, deixando as nossas opções em aberto. Por isso, atesta que este tipo de expressões é frequentemente usado pelas mulheres nas suas conversas (Coates 1996: 152), sendo usado quando existe dúvida ou falta de confiança no que se está a dizer, para não ferir suscetibilidades ou os sentimentos dos outros, quando não se encontra a palavra certa ou ainda para evitar ser-se tido como perito no assunto. Porém, como se nota, também os homens usam o mesmo tipo de expressões quando o tipo de discurso assim o exige, ou seja, quando faltam certezas sobre o que se diz ou quando não se pretende ferir suscetibilidades, como é o caso destes textos jornalísticos. Não esqueçamos que os textos jornalísticos do género interpretativo são subjetivos, mas devem respeitar a honra e o bom nome das pessoas e instituições (Rei 2000b: 121). A análise do tipo de conectores utilizado (cf. gráfico 9) é também importante para diferenciar os estilos discursivos masculino e feminino. De facto, referimos que, a par do
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estilo narrativo, os textos femininos eram também dominados pelo estilo argumentativo e existiam dois textos em estilo enunciativo. A ocorrência destes estilos pode ser explicada pelo maior uso, por parte dos textos femininos, de conectores de causa e de condição, que permitem construir um raciocínio. Acrescente-se ainda o significativo recurso a conectores de oposição, que permitem, em especial, argumentar, relativizar ou apresentar pontos de vista opostos, ao mesmo tempo.
Gráfico 9. Tipos de conectores.
Ainda no que diz respeito aos conectores, sobressai grandemente a utilização, em ambos os géneros, de conectores de adição, que permitem enumerar factos e características. Porém, tanto homens como mulheres usam sempre o mesmo conector de adição, a conjunção coordenativa copulativa e. Esta semelhança no uso dos conectores acontece também com os restantes conectores, uma vez que são usados os mais comuns e correntes. Assim, por exemplo, tanto homens como mulheres usam esmagadoramente se como conector de condição, mas como conector de oposição, como como conector de comparação, ou como conector de disjunção, quando como conector de tempo, onde como conector de lugar, porque como conector de causa, e para que como conector de fim. Não obstante, não podemos esquecer que estes textos foram publicados em jornais e revistas com um público-alvo bastante alargado e heterogéneo, sendo, por isso, utilizado um registo de língua corrente.
4. Conclusões Do exposto, podemos concluir que detetámos diferenças entre os discursos masculino e feminino nos textos de opinião analisados. Primeiramente, sobressai uma diferença na escolha dos assuntos a tratar. Apesar de o ano de 2009 ser um ano de eleições legislativas e autárquicas, as mulheres não abraçaram o tema da política como os homens. Enquanto estes preferem discutir temas relacionados com a política, o desporto, problemas sociais e negócios; a mulher prefere falar da família, de saúde, de sentimentos e de problemas com o emprego e injustiças sociais.
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Por outro lado, o discurso feminino revela mais subjetividade do que o masculino. Primeiramente, pelos assuntos abordados, a partir dos quais a mulher expressa mais emoções e sentimentos. Seguidamente, pelo facto do estilo de texto seguido. Embora os textos masculinos sejam maioritariamente descritivos e os femininos narrativos, é nos textos femininos que abundam os adjetivos, especialmente adjetivos de cariz subjetivo. A isto acrescenta-se o recurso a um narrador subjetivo e à maior percentagem de uso do pronome pessoal eu. Por último, destaca-se a maior preocupação feminina em contextualizar o seu texto no tempo e no espaço, bem como com a construção de raciocínios lógicos, capazes de argumentar e defender pontos de vista. Confirma-se, assim, a existência de diferenças comunicativas e discursivas entre homens e mulheres em textos dos media.
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Eva Martínez Díaz (Universitat de Barcelona)
El componente pragmático en el uso de ‹deber (+ de) + infinitivo› en sus valores modales deóntico y epistémico
1. Introducción Tras revisar las gramáticas elaboradas a lo largo de la historia de la Real Academia Española, es a partir de 1888 cuando la Institución, de manera explícita, establece por vez primera la necesidad de distinguir en el uso las dos construcciones con verbo común ‹deber›: ‹deber + de + infinitivo› con el significado de ‹suposición› y ‹deber + infinitivo› con el significado de ‹obligación›. De este modo la Academia se esfuerza desde su obra gramatical en dejar claras las diferencias y la proximidad entre ambas estructuras, insistiendo en la presencia / ausencia de la preposición ‹de› como rasgo pertinente para diferenciar los dos sentidos diferentes del verbo ‹deber› cuando a este el sigue un infinitivo: la ‹suposición› frente a la ‹obligación›. Sin embargo, la Academia le reconoce que la confusión siempre ha existido, y que los usos equivalentes de ambas estructuras se han documentado ya en el español medieval y clásico (Lapesa 2000: 880). Precisamente es esta realidad del uso la que ha motivado que algunos estudiosos –destaquemos el trabajo pionero de Alicia Yllera (1980: 2.2.1.7)– se atrevan a calificar de artificial la distinción significativa que impone la gramática académica entre ‹deber + infinitivo› y ‹deber + de + infinitivo›. Así pues, a pesar de los consejos prescriptivos de la Gramática de la Real Academia Española desde su publicación de finales del siglo XIX, así como en sus sucesivas ediciones, ante el hecho de intentar establecer una clara diferencia entre el uso de valor déontico para la perífrasis verbal ‹deber + infinitivo› y el valor epistémico para ‹deber + de + infinitivo›; el uso real de la lengua que se hace del sistema perifrástico modal de obligación difiere bastante. No obstante, tal es su variabilidad en los diferentes usos de la lengua española, no solo contemporánea sino también de épocas anteriores, que en la edición del Diccionario panhispánico de dudas (22006), la Academia ya se ha visto obligada a modificar parte de esa norma. Tres años más tarde, con la publicación de la Nueva gramática, la RAE marca entre paréntesis el nexo preposicional dando a entender que el uso de la preposición ‹de› no es relevante para la interpretación de la modalidad epistémica. De este modo, al no observar ninguna correspondencia unívoca en el uso real de la lengua con la norma en cuestión, y debilitándose con el paso del tiempo el valor que le asigna la norma al nexo preposicional en esta estructura perifrástica, con la presente comunicación nos cuestionamos lo siguiente: ¿cuál es el factor determinante para que al auxiliar ‹deber›
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se le dé una adecuada interpretación para cada una de las intenciones comunicativas del hablante? Para obtener una ajustada respuesta partimos de la siguiente hipótesis de trabajo: únicamente las diferentes variables que configuran el componente pragmático son el factor decisivo para que en un acto comunicativo el valor modal del auxiliar ‹deber› no comporte ambigüedad interpretativa, independientemente del uso o no del nexo preposicional. Y para ello nos basamos en el análisis de muestras de lengua (escrita y hablada), recogidas desde los inicios de la lengua española hasta nuestros días proporcionadas por el CORDE y el CREA. Así pues, a través de estos corpus se prestará atención a aquellos factores determinados por la contextualización del discurso –explícitos o no–, y que son fundamentales para la expresión precisa de sendas modalidades. Asimismo, analizaremos la disposición discursiva y todos los elementos de interés que aparezcan en el propio discurso, cuestiones que solo pueden justificarse y entenderse a través de la Teoría de la Argumentación y del Principio de Relevancia, surgidos desde la Pragmática.
2. El mecanismo ostensivo inferencial para la interpretación de la modalidad De acuerdo con el resultado de las revisiones realizadas a lo largo de la historia de la lengua española hasta llegar a la época actual, se distinguen dos tipos de perífrasis verbales modales de infinitivo: las que expresan modalidad deóntica (o radical) y las que expresan modalidad epistémica. Asimismo, la explicación dada para la intepretación de la modalidad a través de cualquiera de las perífrasis que conforman el paradigma modal perifrástico viene argumentada por razones morfológicas del propio verbo auxiliar, o bien por la naturaleza morfológica del auxiliado, así como por el sujeto seleccionado por este último verbo (cf. RAE 2009).Y, ciertamente, ante la mayor parte de las ocurrencias de estas perífrasis en el proceso de la comunicación tanto el oyente como el hablante coinciden en sus procesos de ostensión e inferencia respectivamente sin que ello comporte –la mayor parte de las veces– ambigüedad comunicativa en el proceso de la descodificación. Posiblemente, sea una reflexión oportuna plantearse aquí el hecho de que la selección interpretativa de uno de esos usos modales no solo venga determinado por los límites estructurales de la propia perífrasis, sino también por factores discursivo-pragmáticos que acaban de matizar cuál es la intención comunicativa más relevante por parte del emisor (Sperber / Wilson 1994: 195). De este modo, parece oportuno extraer aquellos mecanismos propios del discurso motivados por el componente pragmático de la comunicación cuando los argumentos estructurales no acaban de explicar que cierta perífrasis exprese una determinada modalidad; o lo que es lo mismo, cuando un mismo auxiliar perifrástico puede remitir a una u otra modalidad, independientemente de los rasgos morfológicos y/o sintácticos del verbo. Cabe recordar que el estímulo ostensivo tiene como objetivo atraer la atención sobre las intenciones del emisor, de este modo la intención informativa es la que estará manifiesta de manera mutua y en donde el destinatario tendrá que identificar el conjunto de supuestos, que será inferido gracias a la presunción de relevancia óptima. En ese proceso el oyente determina si el estímulo ostensivo merece ser procesado y, por lo tanto, si dicho estímulo es
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el más relevante. Es aquí, precisamente, tratándose del uso de las perífrasis del paradigma en estudio, donde el hablante empleará mecanismos explícitos o implícitos para la expresión de una de las dos modalidades, y su interlocutor los procesará de manera adecuada. Es, pues, en ese momento cuando el éxito de la comunicación llega a buen término.
3. Antecedentes y estado de la cuestión de los conocimientos científicos sobre la modalidad epistémica y deóntica La evolución de numerosos verbos modales (y ya no solo verbos auxiliares en estructuras perifrásticas) en diferentes lenguas sigue una línea recurrente que lleva desde significados físicos, pasando por sentidos deónticos, hasta el terreno de los valores epistémicos, relacionados, pues, con el mundo del pensamiento. Todo ello da como resultado que en un corte sincrónico se observe que en una misma estructura perifrástica se puedan dar lecturas que remiten al mundo externo, e interpretaciones que remiten al mundo interno (emocional y psicológico). Esta evolución regular, es decir, que el sentido epistémico surja del devenir de un sentido deóntico y que, previamente, la modalidad deóntica sea el resultado de sentidos no modales, se da en cualquiera de las perífrasis que componen el paradigma modal perifrástico. Ya desde época latina, el verbo ‹debeo› remitía al sentido de ‹deuda material› asumible por un sujeto volitivo, o bien a una obligación moral; sentidos, por otra parte, conservados desde el latín hispánico hasta nuestros días. Este verbo podía regir verbo o bien nombre (en caso ablativo), con el sentido etimológico de ‹deuda›. Más tarde, en el castellano medieval este verbo se asocia también a sujetos agentivos y humanos que se ven impelidos (forzados, presionados o influidos) a realizar una acción de manera voluntaria (modalidad factual fuerte). Pasemos a ver la evolución semántico-referencial: sentido de ‹deuda material› > sentido de ‹deuda moral› > uso de valor deóntico ‹obligación› > uso de valor epistémico ‹probabilidad›. Asimismo, Givón (1988) explicó la relación entre los diferentes significados en términos de fuerzas y barreras: la obligación, la necesidad, la posibilidad y la probabilidad podrían entenderse metafóricamente o bien como la existencia de una fuerza que impulsa a realizar una determinada acción, o bien como la ausencia o la presencia de una barrera. Es decir, cuando la perífrasis ‹deber + infinitivo› expresa un sentido obligatorio, expresa la existencia de una fuerza que impulsaría metafóricamente a realizar la acción expresada por el infinitivo. En cambio, los valores epistémicos de probabilidad señalan la ausencia de barreras y la acción de fuerzas, ahora ya no son sociofísicas, sino vinculadas al mundo del pensamiento, al ámbito cognitivo. La obligación mental que expresa el valor modal de la probabilidad es el resultado de las operaciones inferenciales y cognitivas que realiza el hablante (cf. Sweetser 1991). En definitiva, el pensamiento del ser humano se estructura a partir del mundo externo. Las fuerzas, las obligaciones o las barreras en el mundo físico y real que rodean el significado de los verbos modales, interfieren metafóricamente sobre los niveles más abstractos de razonamientos y creencias del hablante. Y es que, ciertamente, con el paso del tiempo y tras estas operaciones regulares de la mente humana, en el caso particular que nos ocupa, los verbos modales no son ambiguos sino polisémicos, cuyos diferentes significados están estrechamente relacionados con el contexto conversacional y con los demás factores pragmáticos.
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Asimismo, sobre esta tesis que sostiene la aparición y la evolución de los modales epistémicos en términos metafóricos, Elvira (2004: 10) matiza que «con mucha frecuencia el sentido epistémico de una oración modalizada no es explícito sino que está implicado o se deduce contextualmente a partir del valor deóntico». En suma, el proceso de la modalidad habría que considerarlo como una convencionalización de implicaciones conversacionales, a través de los constituyentes pragmáticos de la información transmitida por el discurso. (Grice 1981; Sperber / Wilson 1994 y Levinson 1989). Pero, ¿de qué forma la gramática descriptiva actual plantea la polisemia modal en las perífrasis verbales de infinitivo? Si se revisan los manuales escolares y académicos, las gramáticas didácticas1 o, incluso, los manuales de estilo de los diferentes medios de comunicación2 tan solo se apunta, por poner un ejemplo, a la capacidad que tiene la perífrasis ‹deber (+ de) + infinitivo› de recoger dos sentidos modales, sin precisar ninguna otra diferencia. Por otra parte, no cabe insistir más sobre la prescripción académica de 1973. Es cierto que sobre modalidad se ha escrito mucho; la bibliografía sobre el uso y la prescripción del sistema perifrástico modal de la lengua española es bastante extensa. Aún más, cabe destacar que sobre este último aspecto los estudios se han basado, principalmente, en extraer tendencias generales a través de los rasgos morfosintácticos tanto del verbo auxiliar como del verbo auxiliado, si bien este es un largo camino ya labrado que nos facilita la tarea de intentar establecer a través de esta comunicación los rasgos, o mecanismos, más comunes situados en el nivel discursivo.
4. La modalidad deóntica como responsable del origen de la modalidad epistémica Como ya se ha apuntado anteriormente, la modalidad epistémica se documenta con posterioridad, concretamente a través del auxiliar ‹deber› ya gramaticalizado, pues su origen se debe, precisamente, al sentido modal de obligación (o de modalidad deóntica). De hecho, como hace notar Cuervo en su Diccionario de construcción y régimen de la lengua castellana (1872-1983: 807), la evolución formal y semántica sufrida por la perífrasis ‹deber + infinitivo› viene motivada por un proceso de analogía con la perífrasis ‹haber + (de) + infinitivo›, perífrasis del paradigma modal español muy temprana y de uso frecuente. Cuervo, a su vez, justifica la presencia de la preposición ‹de› en la perífrasis ‹deber + de + infinitivo› por analogía con la perífrasis ‹haber + de + infinitivo›, continuidad del sentido de obligación que tenían tanto ‹deber + infinitivo› como ‹haber + de + infinitivo›. Solo más tarde ‹deber + de + infinitivo› adquiría el sentido de ‹conjetura›. De nuevo, es Cuervo (1872-1983: 808) quien señala que ese nuevo sentido se empleaba en un primer estadio por analogía con la construcción ‹haber + de + infinitivo›, que además de ‹obligación› y ‹posibilidad› significaría con el paso del tiempo también ‹probabilidad› o ‹conjetura›. Cf. Gómez Torrego (1989; 1998; 2006); Marsá (1990); Martínez de Sousa (1987); Seco (1972; 1986); Montolío (1999), por citar solo algunos. 2 ABC (1993); El País (2002); EFE (2004); La Vanguardia (2004). 1
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Llegados a este punto, se entiende, en primer lugar, por qué tras la documentación revisada, esta perífrasis con preposición tiende a encontrarse en inferior número de frecuencia que la perífrasis sin preposición; y, en segundo lugar, por qué se documenta el sentido de modalidad deóntica en mayor número de veces a lo largo de la historia del español, y sin cambio significativo. Con estas dos conclusiones se puede ya partir de la siguiente hipótesis de trabajo: la modalidad epistémica, surgida a expensas de la deóntica, actúa a modo de satélite reforzada por otros rasgos (o componentes) discursivos con el objetivo de no confundirse con el sentido deóntico. O dicho de otra forma: es la modalidad marcada, ya que su correcta interpretación no solo depende de factores del enunciado, sino también de la enunciación. De hecho, como se demostrará más abajo, es la modalidad epistémica la que precisa de mayor ayuda externa para su propia configuración semántica. En definitiva, como ya apuntaba Sweetser (1991), el valor modal de la probabilidad no puede llegar ni a justificarse ni a interpretarse como se debe, si no es a través de las operaciones inferenciales y, por lo tanto, cognitivas adecuadas. Y es por ello, además, por lo que Papafragou (2000) basa las relaciones de inferencia en los valores modales de la hipótesis.
5. Rasgos pragmáticos en la identificación de la modalidad: del enunciado a la enunciación Tras la revisión del corpus consultado con el fin de extraer el componente pragmático decisivo para acabar de poder comunicar e inferir la modalidad pertinente, es preciso proceder al análisis de la perífrasis en cuestión desde el enunciado, como punto de partida, hasta llegar a la enunciación como meta. Es por ello por lo que se parte de la naturaleza semántica del verbo auxiliado que, por cierto, no difiere en absoluto en el devenir de los tiempos. Así pues, la tendencia general es encontrar, en los corpus seleccionados, infinitivos que presentan rasgos semánticos de acción, sugerencia, consejo; sentidos cognitivos y volitivos; performativos y de enunciación; interpretados todos ellos a través del sentido deóntico. Sin embargo, la mayor parte de las ocurrencias de aquellos infinitivos auxiliados que remiten a un sentido epistémico subcategorizan complementos del siguiente tipo: sustantivos determinados por cuantificadores; sustantivos que expresan medida y duración; sustantivos no determinados en plural, que denotan, en su mayoría, conceptos abstractos ; y sustantivos no contables en singular. Veamos algún ejemplo. (1) Estuve poco humano. Casi me pesa. Una broma pesada... Pero ése no venía sin los pagarés. Estuvo bien haberle parado en seco. ¡Un quiebro oportuno! Y la deuda debe de subir un pico... Es molesto. Es denigrante. Son irrisorios los sueldos de la Carrera. (Ramón María del Valle Inclán, Tirano Banderas, 1927) (2) Las desavenencias a que alude entre Aragón y Castilla deben de ser hacia 1191-1195. (Ramón Menéndez Pidal, Poesía juglaresca y juglares. Orígenes de las literaturas románicas, 1924-1957)
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Y así éstos, mostrando tener invidia a la buena dicha déste, no embargante que este tal no muestre tener cosa por donde merezca ser amado, dan a entender con sus palabras que él debe tener algunas gracias secretas con las cuales alcanza el amor de tantas mujeres; y así aquellas que oyen todo esto dél muévense con esta opinión a amalle. (Juan Boscán, Traducción de El cortesano de Baltasar de Castiglione, 1534)
Por otra parte, es interesante señalar que la mayoría de esos verbos auxiliados que expresan modalidad epistémica se corresponden con verbos estativos como: tener, poseer, ser, estar, entre los más representativos; si bien pueden llegar a expresar obligación cuando el estado o la cualidad se deben al efecto de una acción o de una actitud volitiva. Veamos dos ejemplos opuestos sin necesidad de contexto para poder observar a qué modalidad se refieren: (4) ‹Debes ser amable› frente a ‹Debes tener sueño›. Asimismo, y debido a la etimología del propio verbo ‹deber› y el rasgo semántico de ‹deuda›, es frecuente encontrar, independientemente de la época en que se documente el texto, verbos relacionados con ese mismo campo semántico: pagar, cobrar, heredar, recibir… con el sentido único y desambiguado de obligación. Puesto que estos valores modales se basan en la estructura propia del enunciado, es decir, de la naturaleza semántica del verbo auxiliado, donde el contexto no es demasiado determinante; cabe destacar que la naturaleza morfológica y sintáctica del verbo, tanto auxiliar como auxiliado, pueden llegar a ser factores decisivos. Por ejemplo, en (5) ‹Debe irse›, el sentido deóntico se transforma en epistémico si el auxiliado es compuesto: ‹Debe haberse ido›; en cambio, si se modifica el tiempo verbal, la modalidad epistémica pasa a ser deóntica, o contrafactual: ‹Debería haberse ido›. No obstante, y debido a que en la perífrasis ‹deber + infinitivo› la modalidad epistémica es posterior en el tiempo que la deóntica, creemos necesario afirmar que esta modalidad depende mucho más de factores de contextualización con el fin de evitar casos de ambigüedad inferencial. De ahí que tienda a depender, por ejemplo, de paráfrasis como los adverbios o las locuciones modales de la enunciación. (6)
Pues vender los oficios de la república por tales precios y a tales personas que probablemente se deba creer que han de procurar pagarse y ganar con extorsiones a costa del reino, los derechos lo condenan, y Sancto Tomás aconsejó a la duquesa de Brabante que no lo hiciese, aunque por justo precio no fuese el venderlos contra justicia, y especialmente a personas que bien los ejercitase. (Juan de Pineda, Diálogos familiares de la agricultura cristiana, 1589)
Ahora bien, ello no quiere decir que la obligación, en algunos contextos, no venga apoyada por elementos de enunciación para evidenciar el tipo de modalidad expresada. De este modo, se han encontrado documentados operadores como necesariamente, de forma obligada, sin lugar a dudas (…). (7) Porque he visto en los pocos barrios por donde me has encaminado muchas de soberbia estatura, que exceden en grandeza y elevación a las más costosas de mi tiempo; y en él aún no podía el monarca contribuir para tales excesos, y sin duda ahora debe de ser accesible a cualquiera hombre emprehender y costear tales fábricas. (Diego de Torres Villarroel, Visiones y visitas de Torres con Don Francisco de Quevedo por la corte, 1727-1728)
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A pesar de que la expresión epistémica precisa de mayores elementos externos a la propia estructura perifrástica para poder inferir su valor modal correctamente, se puede ya confirmar que los valores morfosintácticos de los verbos auxiliar y auxiliado son determinantes en última instancia, pues son, sobre todo, los que determinan el valor deóntico. Así pues, en el corpus vaciado es común encontrar la perífrasis verbal ‹deber (+ de) + infinitivo› insertada en estructuras que dependen de verbos y sustantivos epistémicos con el sentido de opinión o de hipótesis y, sin embargo, el valor modal no siempre implica un valor hipotético. Veamos algún ejemplo: (8)
Marques Delche, y Conde de Benabente parecenos mui bien, lo que ha dicho el Sr. Duque, el Condestable dixo bien lo ha dicho el Sr. Duque, mas primero me parece, que se debe de saber que cantidad monta lo que pide su Magd., fue respondido que los juros vendidos, y lo que debe por razon de los cambios, que pagan un millon, respondió el Condestable: ansi lo han dicho, mas todabia me parece que se debe de saber bien primero, y luego dixo el Marques de los Velez, bueno es lo que ha dicho el Sr. Duque de Vejar, mas platiquese primero, que beneficios ha de recibir este Reyno en recompensa de lo que ha de servir. (Anónimo, Cortes de Toledo 1538, 1538-1539)
En este último contexto, por ejemplo, el valor modal es deóntico debido, principalmente, a la estructura de impersonalidad refleja en la que se inserta la estructura perifrástica. Es por ello por lo que el valor modal deóntico se descubre sin ninguna información satélite, o periférica. Veamos los siguientes ejemplos: (9) –Creo que debes andar mucho (modalidad deóntica) / –Creo que debes andar mucho, cuando por la noche llegas y te metes enseguida en la cama (modalidad deóntica)
En tal caso, en el primer ejemplo se le podría dar el sentido epistémico (además del deóntico sin necesidad de información inferida) dentro de un contexto muy ajustado a través de inferencias implícitas proporcionadas por el circuito de la comunicación. En cambio, en el segundo caso el valor epistémico viene determinado por factores pragmáticos explícitos en el marco de la enunciación, como elementos periféricos que ayudan a la correcta comunicación. Siguiendo, pues, con la misma hipótesis de trabajo, la modalidad, sobre todo epistémica, precisa de mayor contextualización argumentativa con el fin de conseguir una óptima comunicación entre el hablante y el oyente. Fijémonos en el siguiente ejemplo: (10) El embajador del Emperador ha partido de Madrid para venir á dar priesa á la resolucion de ciertos negocios graves de S. M. Serenísima, que aquí no acaban de tomarla en ellos, y deben ser de importancia, pues con la edad que el embajador tiene y rigor del tiempo se ha puesto en camino para venir á ello. (Luis Cabrera de Córdoba, Relación de las cosas sucedidas en la corte de España desde 1599 hasta 1614, c. 1599-1614)
La perífrasis, sin lugar a dudas, expresa modalidad epistémica, y su interpretación viene motivada a través de la argumentación lógica recogida a través del segundo polo de una estructura causal de la enunciación. En este caso, el emisor conjetura que los negocios son importantes, a pesar de la edad y del tiempo del embajador. Es esta una deducción determinada por la orientación de ciertas operaciones inferenciales que lleva a cabo el emisor, en donde las
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barreras sociales y físicas desaparecen para dar paso al mundo del pensamiento del hablante, responsable de sus propias emociones y reacciones cognitivas ante una realidad externa. Pues bien, este tipo de modalidad es afín a todos aquellos contextos en los que los razonamientos coinciden con las deducciones del propio conocimiento que ha ido adquiriendo el emisor, de modo que no deja de ser común que se documente en otro tipo de estructuras cuya finalidad ilocutiva es la explicación, la justificación o la conclusión formuladas por el emisor, esto es, el responsable del acto de habla. (11) Al segundo capitulo declararon que el dicho pueblo es tan antiguo que no hay memoria de otra cosa al contrario, e que no hay memoria de quien lo fundo, ni cuando se gano de moros, e que debio ser cuando se gano Toledo. [1575-1580, Anónimo, Relaciones histórico-geográficas-estadísticas de los pueblos de España. Reino de Toledo]
Sin embargo, en aquellos casos documentados en los que la causa-efecto no es el resultado de una deducción subjetiva del propio emisor (es decir, se trata de una estructura causal del enunciado), la interpretación modal que se ofrece solo puede ser deóntica. Veamos algún ejemplo: (12) y como quiere que por parte del dicho Alonso Sanchez haya seydo muchas vezes recorrido a vos, para que le mandassedes restituyr los dichos sus pannos, por lo procehido dellos, offreciendo se demostrar y prouar aquellos ser suyos, diz que fastaqui no lo ha podido alcançar, en mucho danno suyo. Y porque, por ser nuestro subdito e official, deuemos proueherle de algun justo remedio, acordamos de hazer la presente, rogamos vos con toda affeccion que mandeys y prouehays que, demostrando el dicho lugarteniente de nuestro thesorero general los dicho pannos ser suyos, ge los mandeys luego restituiyr o el valor dellos; en lo qual, allende que se hara cosa conforme a justicia, y se dara occassion que no se empache el comercio entre nuestros subditos y los vuestros, por ser el dicho Alonso Sanchez official nuestro, que mucho amamos nos lo recebiremos en gran complacencia. [Don Fernando al rey de Tremecén, exponiendo mande restituir a Alonso Sánchez, Anónimo, 1514] (13) La ley trece, que habla del trabajo y huelga, parece que se debe de enmendar porque el tiempo del trabajo es muncho [sic]. (Fray Bartolomé de las Casas, Historia de las Indias, c 1527-1561)
Asimismo, en el ejemplo (14) el valor deóntico, además, viene estimulado por el verbo auxiliado ‹emmendar›, que apunta a un sentido de obligación externa, impulsada por el cumplimiento que supone cierta ley. La misma obligación se documenta cuado la perífrasis en estudio se encuentra inserta en el polo en el que se introduce la consecuencia, precedida por un argumento coorientado de causalidad. (14) Viendo el duque que Galter así se le iva fuyendo, y que no le podía tomar, començó a llamar a Lucifer que le ayudase, y que si él le podía matar y escapava bivo, que él se tornaría moro y tomaría a él por señor. Oyendo Galter las palabras que el duque d’Estarlique dezía, le dixo: –¡O malvado enemigo de Dios! Tú bien conoces que eres muerto, por que te devías arrepentir de todos tus pecados y pedir merced a Dios. Ca de mis manos no puedes escapar bivo. [Libro del esforzado caballero Arderique, Juan de Molina, 1517]
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O bien cuando la consecuencia viene determinada por un razonamiento deducido por una lógica argumentativa y motivada por una estructura comparativa de igualdad. (15) Así como la pintura, imitando a la naturaleza, debe distribuir con arte la luz y la sombra, así la historia por amor de la verdad debe de oír lo bueno y lo malo de cada personaje, siquiera sea un tirano. (Manuel Colmeiro, Introducción a las cortes de los antiguos reinos de León y Castilla, 1883-1884)
Por otra parte, para Elvira (2004) el contexto hipotético que crean las estructuras condicionales favorece una lectura epistémica cuando el modal está situado en la apódosis. Sin embargo, a pesar de la escasa representación de esta estructura en el corpus consultado, solo nos hemos encontrado casos en los que la oración condicional debe ser interpretada como deóntica, si bien es cierto que en tales ocurrencias el auxiliar de la perífrasis está conjugado en condicional simple, tiempo verbal que una vez más permite defender que la morfología prima por encima del componente pragmático. Valga como representación el siguiente ejemplo: (16) ¿Y vosotros de qué os reís, idiotas? ¡Llorar deberíais si usarais de vuestra cabeza! ¡Mirad, miraos los unos a los otros, tristes fantasmas harapientos! Os reís de mí y no veis que soy un espejo de vuestra propia imagen. [La verdad sobre el caso Savolta, Eduardo Mendoza, 1975]
6. Modalidad discursiva Otro componente pragmático que determina la correcta interpretación de sendas modalidades es la tipología textual en que se insertan. De este modo, del corpus consultado es interesante destacar que la mayor parte de las ocurrencias encontradas de la modalidad categorizada como deóntica, o de obligación, se encuentran en documentos notariales, ordenamientos y códigos legales, así como tratados jurídicos (un 60% de las ocurrencias documentadas); o bien en tratados técnico-científicos (un 20% de las ocurrencias documentadas). Sin embargo, la probabilidad (recordemos que siempre en frecuencias inferiores) se encuentra en aquellos textos en los que se recoge la postura más subjetiva y personal del narrador, por ejemplo en textos argumentativos, como en la modalidad propia de los géneros periodísticos, de novelas y ensayos en los que son los personajes y / o narradores los que toman sus propios posicionamientos y sienten la necesidad de justificar, o argumentar, la propia visión del contenido. Llegados a este punto, se debe matizar que la mayor parte del corpus sobre el que se fundamentan las diferentes hipótesis de trabajo, sobre todo el CORDE, está conformado por textos de orden jurídico. Por consiguiente, la conclusión a la que se llega debe ponerse en tela de juicio.
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7. Conclusiones Así pues, tras la revisión realizada podemos llegar a diferentes conclusiones que confirman que, efectivamente, el factor pragmático es decisivo para la correcta interpretación modal. No obstante, todo ello se basa en el proceso de enunciación que es el condicionante decisivo para la correcta interpretación de conjetura, aunque no tanto para la de obligación. Tal vez sea, en primer lugar, porque es la modalidad epistémica la que se incorpora más tardíamente en la estructura de la perífrasis ‹deber (+ de) + infinitivo›, ya que cabe recordar que en su etimología el verbo ‹DEBEO› solo expresaba el sentido modal de obligación. Y, en segundo lugar, porque, debido a la incorporación posterior del sentido modal de la probabilidad en el mismo verbo ya gramaticalizado, el soporte para su correcta interpretación se corresponde con ciertos componentes pragmáticos. Sin embargo, cuando la estructura ‹deber (+ de) + infinitivo› se refiere al sentido de obligación, su correcta interpretación se basa en mayor medida a factores morfosintácticos. De este modo la modalidad epistémica vendría a estar representada como una modalidad periférica, tras quedar la deóntica neutralizada. Esta modalidad, basada en factores de enunciación, viene determinada, por un lado, por factores discursivos, debido a la tipología textual; y por otro, basado en el propio entramado argumentativo, donde las diferentes formas de modalización, la articulación discursiva y la categorización de ciertas estructuras bipolares juegan un papel fundamental con el fin de que el interlocutor interprete de modo correcto el valor epistémico, sin olvidar la propia naturaleza semántica de ciertos verbos auxiliados que subcategorizan complementos cuantificables. En suma, son esos factores los que se encuentran en el marco de la contextualización, o en la periferia del enunciado, y que deben quedar mucho más explícitos en este tipo de modalidad. Por otra parte, la modalidad deóntica viene motivada por la morfología del verbo auxiliar (persona, tiempo y número, principalmente), así como la categorización semántica del verbo auxiliado. Es más, el uso etimológico del sentido modal de obligación queda tan sedimentado en la gramaticalización del verbo ‹deber› que, a pesar de que aparezcan elementos del componente pragmático explícitos en el marco de la enunciación, los factores morfológicos y sintácticos del verbo auxiliar y auxiliado determinan que el sentido de la obligación prevalezca por encima del sentido de la hipótesis.
8. Bibliografía Anscombre, Jean Claude / Ducrot, Oswald (21983): L’argumentation dans la langue. Lieja: Mardaga. Barcelona, Antonio (2003): The Cognitive Theory of the Metaphor and Metonymy. In: Barcelona, Antonio (ed.): Metaphor and metonymy at the crossroads: a cognitive perspective. Berlin / New York: Walter de Gruyter. Bybee, Joan / Perkins, Revere / Pagliuca, William (1994): The evolution of grammar: tense, aspect and modality in the languages of the World. Chicago: University of Chicago Press. Bybee, Joan / Fleischman, Suzanne (1995): Modality in Grammar and Discourse. Amsterdam / Philadelphia: John Benjamins.
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Eva Martínez Díaz
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Caterina Molina
Enunciats de la publicitat televisiva catalana: una anàlisi1
1. Presentació La comunicació analitza diferents espots televisius dels anys 1992 i 1993, i dels anys 1998 i 1999 d’acord amb aspectes teòrics tractats per Dominique Maingueneau i per Catherine Kerbrat-Orecchioni. Del primer, la seva noció d’escenografia. «Un discurs imposa d’entrada la seva escenografia: però, per altra banda, l’enunciació, al desplegar-se, s’esforça a justificar el seu propi dispositiu de parla. Estem, doncs, davant un procés en forma de rínxol: en emergir, la paraula implica una determinada escena d’enunciació que, en realitat, es valida progressivament a través de l’enunciació mateixa.» L’elecció d’una escenografia en cada espot pretén assignar a cada destinatari una identitat en una escena de parla. Validació de l’escena enunciativa i marca d’identitat es realitzen a partir de diferents estratègies. Seguint les aportacions de KerbratOrecchioni, pararé esment, sobretot, en els adjectius que s’assignen als productes segons que el destinatari sigui masculí o femení. Així, per exemple, quan s’anuncien màquines del tipus cotxe, d‘home (veu en off) a home (destinatari portador del cotxe), se les descriu amb adjectius com total, plena, irresistible, gratis, equipaments excepcionals, oportunitat única, irresistible sèrie, superdotat, mentre que el tipus de màquina rentadora, dirigit a dones, pensada per homes, pel que diu la veu en off masculina a la destinatària dona, és d’estalvi segur, o liquadora petita, fàcil de netejar. Les cremes de bellesa actuen des de dins, són ideals, reconstituents, integrals, i et posen guapa. Y els aliments, descrits també per homes per a elles, tenen qualitats com dolça, nova temptació, deliciosa pasta, o plats complets; els articles de neteja que la veu masculina en off adreça a elles són descrits amb metàfores bèl·liques: armes definitives. De la definició de Maingueneau, es desprèn que l’enunciació, realitzada majorment en masculí, es valida, per 1
El grup d’investigació Llengua i publicitat es va constituir l’any 1998 al si del Departament de Filologia Catalana de la Universitat de Barcelona i ha rebut les subvencions següents: 1) PB98-1250, de la Dirección General de Enseñanza Superior e Investigación Científica del Ministerio de Educación y Cultura, amb càrrec al «Programa Sectorial de Promoción General del Conocimiento»; 2) BFF200203588, de la Dirección General de Investigación del Ministerio de Ciencia y Tecnologia, en el marc dels projectes d’I+D dels Programas Nacionales del «Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica» i del «Fondo Europeo de Desarrollo Regional FEDER», 3) HUM2006-06976/ FILO, de la Dirección General de Investigación del Ministerio de Educación y Ciencia, en el marc dels projectes d’I+D dels Programas Nacionales del «Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica 2004-2007» i del «Fondo Europeo de Desarrollo Regional FEDER»
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un costat, pel fet mateix de ser en masculí. Imaginem que la fes una dona: tindria el mateix efecte? I per un altre costat, es valida pel tipus d’atributs personificadors atribuïts al producte i distribuïts segons el sexe a què va adreçat. Imaginem que les propietats de la màquina del tipus rentadora fos irresistible, total, plena, superdotada i el cotxe, d’estalvi segur. La comunicació es proposa, doncs, analitzar l’enunciació que despleguen els anuncis televisius, parant atenció sobretot en els adjectius usats, majorment avaluatius no axiològics i afectius, i a vegades axiològics, amb les seves implicacions i connotacions, a través de les quals es normalitza un tipus d’interacció social entre sexes que reforça els estereotips de gènere existents i s’oposa, així, al canvi social.
2. Materials Els materials escollits per a l’exposició, extrets del corpus Llengua i publicitat a la televisió i format actualment per anuncis emesos per Televisió de Catalunya SA durant la dècada 1991-20002, són, concretament, dos sobre alimentació, un dels quals s’emeté el 1992 (mousse Chamburcy), i un altre (pasta La família), el 1999; tres sobre automòbils (Renault 19, Seat Toledo i Volvo); els dos primers, del 1993; i el darrer, del 1998. En fer la tria dels espots, he buscat contrastos per tal que es vegi millor la relació entre producte anunciat, escenografia i ethos, i marques subjectives de l’enunciat, parant especialment atenció en els adjectius usats. D’aquesta manera podrem veure les estratègies discursives que operen en la construcció identitària del coenunciador. 2. 1. Alimentació: escenografies i adjectius subjectius 2.1.1. Mousse Chamburcy (1992) a. Escenografia. Com diu Maingueneau (2005: 71), tot discurs, pel seu desplegament mateix, pretén convèncer instituint l’escena d’enunciació que, alhora, el legitima. Parlant de publicitat, el receptor no rep el missatge com a publicitat, sinó com l’entrada en un joc determinat; des del moment que el toca, que accepta el lloc que se li assigna en aquesta escenografia, aquesta es legitima en l’enunciació mateixa que té lloc en el seu interior. A l’anunci de la mousse Chamburcy se’ns mostra l’interior d’un apartament dúplex, luxós i amb decoració minimalista: parquet, pocs mobles (només un sofà i una tauleta baixa), quadres a les parets, una escultura abstracta d’inspiració africana, llum tènue, una escala que porta a un nivell superior obert, del qual només es veu la barana metàl·lica pintada de blanc, com de vaixell. Apareix una dona jove, que baixa del pis de dalt, deixa uns papers a sobre la taula i s’asseu al sofà. Porta un vestit fosc i sabates de taló. Una cabellera llarga li tapa una mica la cara. Comença a menjar-se un iogurt amb evidents mostres de plaer. La càmera es recrea intercalant primers plans del seu cos (cames, ulls, boca, coll...) amb imatges del producte que permeten Web del grup http://www.lipgrup.cat/. Web del corpus http://www2.ub.edu/liptv/
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veure’n la textura i el procés d’elaboració. Els moviments i els gestos que fa la dona posen de manifest el plaer que sent en menjar-se el iogurt (llepa la cullereta amb lentitud; s’acarona el coll per dins del vestit, amb la mà dreta, on porta l’aliança). L’ambient és luxós i bastant fosc, encara que les ombres hi són molt marcades. L’anunci té un to marcadament eròtic. L’enunciador, una veu masculina en off ens diu, entre els segons 0 i 26: No deixis veure aquest anunci als nens, conté escenes exquisidament fortes. # Imagina’t-ho. És la mousse Chamburcy, amb deliciosa xocolata batuda, molt suau, molt lleugera. # Els nens ja tindran temps per descobrir-la.# Mmm, les mousse Chamburcy. # ssss, no en digueu res als nens.
I després, del segon 27 al 28, una veu femenina en off canta el jingle:3 És Chamburcy
Aquí veiem, seguint l’autor esmentat abans, que l’escenografia no és simplement un marc, una decoració –una decoració de la qual formaria part la dona–, sinó el lloc d’on ve el discurs i, ahora, allò que l’articula. Aquest discurs amb ressonàncies eròtiques no s’ha improvisat a l’interior d’aquest espai. L’enunciador és masculí, el sentim però no el veiem perquè parla en off. De l’escenografia sorgeixen els enunciats, els quals són coherents amb l’entonació, entre còmplice i paternal, i amb les qualitats d’una veu masculina adulta. A través de l’ethos, definit per Barthes com els trets de caràcter (conjunt de trets psicològics) que l’orador mostra al seu auditori per causar bona impressió, o ser versemblant, «l’orador enuncia una informació i al mateix temps diu: sóc això, no sóc això altre» (Maingueneau 2005: 80). L’eficàcia d’aquest ethos rau en el fet que, tot i ser present en l’enunciació, no s’explícita en l’enunciat. Al mateix temps, i tractant-se de publicitat audiovisual, l’ethos de l’enunciador es fa palès a través d’elements paralingüístics i cinèsics, com el to de la veu en off, l’entonació i la corporalitat dels personatges, és a dir, a través de la seva manera de moure’s, de vestir. El coenunciador incorpora, així, una manera de dir i de ser. b. La subjectivitat a través dels adjectius. D’acord amb les categories d’adjectius establertes per Catherine Kerbrat-Orecchioni, podem distingir, en el marc de l’enunciació, les següents marques de subjectivitat: conté escenes exquisidament fortes deliciosa xocolata batuda4, molt suau, molt lleugera mousse Chamburcy
L’adjectiu fortes, aplicat a escenes, entraria en la categoria d’avaluatiu no axiològic, i també suau i lleugera, ja que, segons els criteris de l’autora, el seu caràcter és graduable (l’escena és forta, molt forta, poc forta, o xocolata poc suau, molt suau, xocolata lleugera, poc lleugera, molt lleugera), i, a més, hi ha la possibilitat de ser emprat en l’estructura exclamativa: Que fort/a!, Que suau!, Que lleugera! Jingle: el text oral de l’anunci és cantat i és propi del producte anunciat. L’adjectiu batuda es consideraria objectiu, pel fet que la mousse és xocolata batuda; per tant, no hi entra la interpretació, la subjectivitat del locutor.
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A diferència dels axiològics, en què hi ha un judici de valor (bo, dolent) i, a diferència dels afectius, en què hi ha un compromís afectiu del locutor, a fortes («Capaç de fer un gran efecte, una pregona impressió», o bé: «Que ateny un alt grau d’intensitat, de concentració»)5 hi ha una avaluació quantitativa i qualitativa de l’objecte denotat pel substantiu escenes, el qual determinen. Escenes fortes significaria, en aquesta escenografia proporcionada per un ambient on una dona es menja una mousse amb mostres visibles d’un plaer que ultrapassa el mer sentit del gust, plaer eròtic i, a causa d’aquest plaer fort, els nens podrien quedar profundament afectats. Per tant, No deixis veure aquest anunci als nens (perquè), com si es tractés d’una seqüència pornogràfica, hi ha escenes eròtiques reservades al adults. Fortes compliria la doble norma proposada per l’autora per als avaluatius no axiològics: interna a l’objecte suport de la qualitat, i específica del locutor (perquè ens prepara amb una valoració explícita de les imatges que veurem), i en aquesta mesura es podria considerar subjectiu. Segons Kerbrat-Orecchioni (2009: 97), l’ús d’un adjectiu avaluatiu: «és relatiu a la idea que el locutor es fa de la norma d’avaluació per a una categoria d’objectes donat». Si el locutor diu: escenes fortes és perquè té una idea del que serien les escenes normals –que podrien veure els nens–, idea que es basa en l’experiència personal de l’enunciador. Les escenes fortes de l’enunciador de Chamburcy només les poden veure els adults. És com si Chamburcy digués que el seu producte està marcat amb una X. El valor subjectiu d’aquests avaluatius, diu l’autora, fa que aquests adjectius siguin més informatius que els equivalents objectius. Hi identifiquem un significat intrínsec i un significat personal del qui parla. La subjectivitat ve donada també per l’ús d’exquisidament6, adverbialització d’exquidit (escenes fortes de manera exquisida) que, encara que modifiqui fortes, evoca el plaer associat al menjar (menjar exquisit: la mousse), i per tractar-se d’unes escenes fortes d’una manera exquisida suggereix l’assoliment d’un plaer eròtic intens derivat de les escenes, amb la qual cosa obliga a veure-les a tot aquell que cerqui plaer eròtic i que estigui casada –per l’anell visible– dins la franja d’edat de la protagonista. Doblement afectiu, per tant, perquè s’enuncia una propietat del procediment (són fortes d’una manera exquisida) i una reacció / compromís emocional del subjecte pel fet que està vinculat a la seva manera de viure l’experiència proposada. El valor afectiu és inherent a l’adverbi i, a més, solidari d’un significant sintàctic i prosòdic determinat: escenes exquisidament fortes. El joc de l’anunci podria ser, tanmateix, ambigu pel fet que un infant pot menjar una mousse i també perquè pot veure l’anunci, atès que no hi ha escenes sexuals explícites; ara bé, en anunciar les escenes fortes oralment i per escrit (Estrictamente reservado para adultos / Mousse chocolate Chamburcy / Chamburcy / Camburcy / Mousse chocolate Chamburcy), amb música ambient de jazz a ritme lent i veu femenina taralejada, selecciona un target, un al·locutor o receptor adult que estigui disposat a investir d’erotisme l’estímul associat a la mousse Chamburcy. Deliciosa xocolata batuda, molt suau, molt lleugera
Segons el Diccionari de la llengua catalana de l’Institut d’Estudis Catalans: http://dlc.iec.cat/ Segons el DIEC, exquisit: Que plau d’una manera singular pel seu sabor, per la seva delicadesa, finor, excel·lència. Una menja exquisida. Una flor exquisida. Una poesia exquisida. Un poeta exquisit.
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L’adjectiu deliciosa7 està carregat de valor afectiu pel significat inherent, i per l’anteposició de l’adjectiu, molt semblant al de l‘adverbi descrit. Qui diu que alguna cosa és deliciosa, enuncia una propietat de l’objecte (que causa delícia, plaer), i una reacció emocional o un compromís afectiu. És impossible que algú digui: És deliciós, però no m’agrada. En canvi, podria dir: És deliciós, però indigest. Com hem dit més amunt, suau i lleugera, com fortes, serien adjectius avaluatius no axiològics, és a dir, que impliquen, d’una banda, una avaluació qualitativa o quantitativa de l’objecte (xocolata batuda) i, de l’altra, la idea que el locutor es fa de la norma d’avaluació per a l’objecte. A través del context particular de l’enunciació i de l’entonació, aquests adjectius prenen un valor afectiu afegit, marcadament sexual en aquest cas. El jingle del final de l’anunci (mousse Chamburcy), dit per una veu femenina en off, veu que identifiquem amb la dona que és mostrada menjant allò que la veu masculina en off ha enunciat, és una mena de constatació o verificació subjectiva doble: la relacionada amb una mousse que té totes les característiques proposades pels adjectius analitzats (Chamburcy és una cosa d’adults, deliciosa, suau, lleugera, apropiada per a moments forts) i la que es desprèn de l’experiència proposada en l’escenografia, amb la qual es poden identificar, sobretot, les dones que comprin Chamburcy. Des del punt de vista pragmàtic, escenografia i enunciació tenen una intencionalitat triple: Compra tu, dona (implícit: la dona compra), associa aquesta compra amb sensualitat i sexualitat (implícit: tu busques aquest joc), implica-hi el marit o fes-lo còmplice del que saps a través de l’anunci (implícit: Chamburcy t’ajuda a seguir sent la temptadora).8 2.1.2. Pasta La familia (1998)9 a. Escenografia: La càmera segueix en picat l’entrada d’un home encorbatat en un saló bastant barroc. Entra cridant i ensenyant les dents, fent gestos amenaçadors, mentre ella se’n riu burleta a dalt de l’escala. En una altra escena, ell serra els talons de les sabates de dona. Ella li porta un plat de pasta tot somrient malèvolament. Quan ell la prova, torna a cridar amb desaprovació mentre tomba la taula parada en la qual veiem uns canelobres clàssics. El plat de pasta es dirigeix aleshores a mode de projectil giratori en direcció al coll de la dona. A continuació, se’ls veu al fons barallant-se mentre, en un primer pla, apareixen quatre productes La familia a mode de solució de baralles. L’únic text escrit: La familia. Si comparem aquest text amb l’anterior, ens adonem que, tot i tractar-se d’alimentació, l’escenografia és del tot diferent, encara que l’acció sigui també a l’interior d’un espai DIEC: Que causa delícia (delícia: plaer exquisit, intens, que transporta). Una olor deliciosa. És un vi deliciós. Canta d’una manera deliciosa. O bé: Ple de delícies. És una noia deliciosa. És un paisatge deliciós. 8 Aquesta intencionalitat triple fa visible el condicionament del femení entre un enunciador masculí Chamburcy i el consumidor que li porta ella un cop ha acceptat la construcció que li proposa la marca. 9 M’agradaria comentar que mentre Chamburcy s’emetia en una època de pit i cuixa i d’expansió pornogràfica, que coincideix amb el govern socialista, el que s’introdueix ara s’emeté en època dels populars. De vegades, he observat que, en alguns anuncis, hi ha una relació estreta entre ideologia i política, i escenografies i actes de parla. Vegeu Molina (2003). 7
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domèstic. Tot passa ràpid (en 10 segons), en contrast amb els 30 de l’altre anunci. En un ambient casolà, un home es mostra molt enfadat i venjatiu (serra els talons de les sabates, símbol sexual potenciat pels mitjans)10, perquè la dona no li ha servit la pasta que ell desitja. L’enuig va pujant de to, tal com indiquen la corporalitat del personatge masculí i la música de suspens. Diàleg: Home: El que m’has fet no té nom! (cridant) Dona: Mmmh Home: Se’n recordarà, aah! # No és La familia! (cridant) Veu masculina en off: La familia, reconeguda per la seva qualitat (conciliador)
b. La subjectivitat a través dels adjectius. Aquí no hi ha adjectius, encara que no té nom equivaldria semànticament a un adjectiu avaluatiu axiològic. Quan diem que una cosa no té nom volem significar que és tan inqualificable o tan indignant que qualsevol comparació és ociosa. Aquí veiem que l’avaluació subjectiva es fa d’acord amb una norma d’avaluació familiar (i ideològica) a l’enunciador, a la seva competència cultural, però no a l’objecte a avaluar. A més, l’univers del discurs és particular per a la norma comparativa. Parafrasejant el que diu el personatge, on observem la dixi de persona i de temps: (Jo dic ara que) És tan dolent, tan indignant, tan inqualificable, el que (tu) m’has fet que no hi ha comparació possible. El personatge masculí, el locutor, s’adreça primer en primera persona a un al·locutor femení i, després, parla com si s’ho digués a si mateix i/o a un tercer (se’n recordarà). Els implícits són clars: tu, dona, compres, fas el menjar, el serveixes, i si a mi –home familiar— no m‘agrada, puc agredir-te i amenaçar-te. És interessant veure la correspondència entre la manca d’adjectius i els actes de parla que es donen en l’enunciat: acusació (El que m’has fet no té nom!), càstig immediat (serra els talons) i amenaça d’un càstig futur (Se’n recordarà (perquè) no és [cal llegir: no m’ha servit] La familia). I també és interessant l’homonímia entre el nom de la marca (La familia) i el model de família que l’enunciador té al cap. L’enunciador ens mostra un rols estereotipats de dona i d’home que van de la servitud a la violència, i les naturalitza en presentar-les com a modèliques. Tenint en compte el context d’enunciació, la marca La familia, tot identificant-se amb el personatge masculí de l’anunci, s’adreça a les dones i, mitjançant els il·locutius esmentats i l’escenografia, assenyala una intenció pragmàtica global d’amenaça: Si tu dona no compres (i et comportes segons el model) La familia, patiràs acusacions, agressions i amenaces. Després d’això, l’eslògan del final no pot ser més paradoxal: La familia, reconeguda per la seva qualitat. El temps breu i la falta d’adjectius serien dos altres elements que se sumarien a l’efecte colpejador que persegueix l’anunci.
Cosa que podem interpretar com un càstig: no hi haurà jocs eròtics.
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2.2. Automòbils: escenografies i adjectius subjectius 2.2.1. Renault 19 (1993) a. Escenografia. L’espot comença amb una mena de flash back de la vida d’una dona des d’abans de néixer fins que es compra el cotxe que s’anuncia. La veu en off diu que sempre havia sigut la més ràpida, que havia tingut les millors comoditats, la que agradava als nens a l’escola. El pentinat i la diadema ens permet identificar-la en l’etapa de nena i la d’adulta, quan està asseguda al seient de conducció d’un automòbil. Al final, la veiem al seu cotxe parlant amb un home amb el mateix model d’automòbil. L’ambient de nena és dels anys 6070, i, després, contemporani. El vehicle recorre espais urbans. Una veu masculina en off diu tot el temps que dura l’anunci. Quina culpa en tens tu, si ja vas néixer accelerant? # Si amb el xumet eres la més ràpida de tota la colla? # Mai no hi ha hagut seients tan anatòmics com els teus, ni carrutxes tan ben equipades. # Si fins i tot els vailets et miraven a l’escola. Quina culpa en tens tu, si t’agraden les coses bones? # Ara, amb aire condicionat de franc. # Renault dinou. Quina culpa en tens tu, si t’agraden les coses bones? Des d’un milió tres-centes noranta mil pessetes.
L’enunciador en off (jo anunciant) s’adreça a un tu explícit (coenunciador a l’interior de l’anunci, mirall del coenunciador receptor), en el moment actual (dixi de temps). El coenunciador de l’anunci té, des de sempre, una sèrie de virtuts que la fan especialment adequada per ser portadora d’un cotxe que comparteix, com una identificació, les seves mateixes qualitats (accelerada, ràpida), amb mobiliari extensiu del jo que també comparteix les propietats del cotxe anunciant (seients tan anatòmics, carrutxes ben equipades). En definitiva, al tu femení exigent nascut a la dècada dels seixanta, li agraden les coses bones, com el cotxe Renault 19. b. Adjectius subjectius. Veiem una sèrie d’adjectius avaluatius no axiològics definits amb la doble norma, interna a l’objecte suport de la qualitat, i específica del locutor. El locutor s’ha fet una idea de la norma d’avaluació per a la categoria cotxe, d’aqui que digui: ràpida, anatòmics, equipades, aire condicionat de franc (gratuït). Els avaluatius axiològics, en canvi, són portadors d’un tret avaluatiu del tipus bo / dolent, afectant l’objecte denotat per la unitat mateixa i/o per un element cotextualment associat. Bones seria l’adjectiu axiològic. Com s’ha dit més amunt, hi ha una identificació entre les qualitats de la noia (i les del noi quan s’adreça a ell) i les del cotxe. Hi ha també l’implícit que les dones que trien coses bones (coses condensades en el Renault 19: acceleració, rapidesa, comoditat), són excepcionals i susceptibles de sentir-se culpables (Quina culpa en tens tu, si t’agraden les coses bones?, repetit dos cops), quan aquestes qualitats, atribuïdes al cotxe però extensives al jo, estan culturalment associades al masculí. 2.2.2. Cotxe Seat Toledo (1993) a. Escenografia. En un entorn rural mediterrani, avança l’automòbil en qüestió, conduït per un personatge que veiem en la primera escena; un home atractiu i elegant segons els cànons
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occidentals a cavall entre els trenta i els quaranta anys. A continuació, un seguit de preses del vehicle en acció, avançant tranquil·lament per les carreteres d’aquest paratge, fins que, al final, el veiem aturat al costat del mar, amb un veler al fons. El vehicle circula per paratges rurals sense trànsit, molt tranquils. La sensació és de llibertat i de relaxament. Es juga amb els contrallums, especialment al final de l’anunci, per emfasitzar les propietats suggerides per l’entorn escollit i l’enunciació que fa una veu masculina en off durant 20 segons. Qui ha dit que no es pot tenir tot en aquesta vida? Seat Toledo. Gaudeix-lo. Sistema de frens ABS. # Direcció assistida. # Aire condicionat. Seat Toledo. Des d’un milió cinc-centes noranta mil pessetes. Qui ha dit que tenir un gran cotxe # costa més?
L’escenografia s’adiu amb les qualitats que es volen emfasitzar del cotxe. Es tracta d’un cotxe que, segons els avenços tècnics del moment, ho té tot (sistema de frens ABS, direcció assistida, aire condicionat) i, a més, és econòmic. Qui ha dit que tenir un gran cotxe # costa més pressuposa que és barat. Qualitats tècniques i bon preu s’adiuen amb una personalitat exigent amb recursos limitats. L’anunci juga amb la pressuposició que la masculinitat a qui va dirigida ho vol tot i que el cotxe satisfà aquesta fantasia quan li fa la pregunta retòrica Qui ha dit que no es pot tenir tot en aquesta vida? Que el locutor contesta, parafrasejant: El Seat Toledo és tot allò a què pots aspirar en aquesta vida, perquè ho té tot. b. Adjectius subjectius. L’únic adjectiu subjectiu que hi trobem és gran a un gran cotxe, on gran, anteposat al nom que determina, significa: que ultrapassa els nivell ordinari quant a qualitat o mèrits. En aquest enunciat es compleix la doble norma, interna a l’objecte suport de la qualitat, i específica del locutor. El locutor s’ha fet una idea de la norma d’avaluació per a la categoria cotxe: és un gran cotxe, no un cotxe gran. L’adjectiu anteposat, hi afegeix, a més, càrrega afectiva. Pel que fa a l’aspecte performatiu, la marca convida (Gaudeix-lo) a sentir les sensacions suggerides a l’escenografia. Si l’ethos del coenunciador és tocat per aquesta representació, la intenció primària de vendre el Seat Toledo tindrà èxit. 2.2.3. Volvo (1998) a. Escenografia. Surt un text que anuncia el que vindrà, mentre una veu en off repeteix el text escrit, i hi afegeix una novetat mentre es veuen diferents plans del cotxe. Torna a sortir un altre text escrit i, com en el primer cas, la veu en off el repeteix i hi afegeix noves característiques, i tornen a aparèixer més imatges del cotxe. Finalment, surt el logotip de Volvo escrit i una veu masculina en off que descriu, en un to molt contundent, l’última característica de l’automòbil. Aquesta és l’última aportació de Volvo al món de l’automòbil: # Menys consum de gasolina. # I aquesta és l’última aportació de Volvo a tot el món: Menys consum d’oxigen. # Volvo essa quaranta u punt vuit, injecció directa de gasolina.
L’escenografia minimalista pretén posar en relleu allo més innovador d’un cotxe que no necessita promocionar-se gaire, atès que gaudeix de prestigi al si del món automobilístic, d’aquí la concisió en la descripció de les qualitats del nou model. Aquesta concisió es veu confirmada pel text escrit del final: Volvo. Respuesta segura.
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b. Adjectius subjectius. Veiem dos adjectius avaluatius no axiològics: menys (menor quantitat de, menor nombre de, element que expressa la comparació d’inferioritat), i última (la darrera, la que té els avenços actualitzats). Aquest darrer carregat afectivament, ja que determina aportació a tot el món, aportació relacionada amb les exigències ecològiques del canvi climàtic. Volvo pressuposa un coenunciador sensible a la problemàtica climàtica. Així, no li cal parlar de res més, ja que, això implica que la marca és sensible a totes les necessitats dels seus usuaris, fins les que ultrapassen l’estricta esfera individual. Sembla que digui: Volvo pensa en tu i en el món. Se li pot demanar res més a un cotxe?
3. Discussió i conclusions Sovint, veient les escenografies i l’enunciació desplegada, m’he preguntat què es venia. El fet que producte, escenografia i enunciat estiguin tan estretament embullats, em fa pensar que el dispositiu mateix de l’anunci és, bàsicament, ideològic. La gent necessita coses. En els llocs on no hi ha un sistema de mercat, es guia pel que respon a necessitats bàsiques. Però, en un sistema complex de mercat, la publicitat esperona el consum tocant el coenunciador en el que té de vulnerable i, així, a través d’un joc múltiple d’identificacions, reforça els seus constructes, les conductes estereotipades, els prejudicis. Ho veiem, per exemple, a través de l’enunciació masculina (en off: absent físicament), adreçada a un coenunciador també masculí: hi predominen els adjectius avaluatius no axiològics, que no són ni afectius ni axiològics, perquè s’adiu amb el tarannà de la masculinitat occidental, que no es vol ni afectiva ni explícitament dirigida quan es tracta de plaers mundans. D’aquesta manera, el fa particep de la il·lusió que és amo del seu destí. El mateix passa quan es tracta de convèncer la dona que continuï fent els papers que el sistema occidental li té reservat: de complicitat amb determinats desitjos masculins (compradora, consumidora, temptadora), d’esclava maltractada de la «família» o, si fa algun pas en una direcció «agosarada» com comprar-se un cotxe, que es disposi a sentir una veu masculina que en to paternal li digui que no s’ha de sentir culpable si li agraden les coses que a ell li agraden. En resum, encara que el món de la publicitat el faci una determinada masculinitat, l’adreça majorment a la dona per recordar-li el paper que té cadascú. Per això, l’enunciador és gairebé sempre masculí, i l’escenografia que va dirigida a ella s’adiu amb els adjectius afectius i axiòlogics que es fan servir en els enunciats. Ara bé, no em satisfà la consideració segons la qual la veu masculina en off o la femenina de l’actriu podrien ser possibles enunciadors. I per això parlaré breument de l’enunciador, perquè em sembla un punt important. En un primer moment em va semblar que hi havia, a grans trets, dues menes d’enunciadors i, per tant, d’enunciació: una seria ideològica, estereotipada, fixa, de la qual els anuncis en proveeixen exemples, i una altra que no coincidiria amb les formes estereotipades. Kerbrat-Orecchioni (2009: 199) recull la problemàtica del subjecte de l’enunciació quan cita Oppel: «No hi ha subjecte del discurs (cosa que destrueix la il·lusió de l’individu com a font). No hi ha més que agents que revesteixen la forma de subjecte». O quan cita Ducrot: «hi
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ha dues nocions de subjecte, una en sentit fort (veritable instància productora on s’origina el sentit), i una altra en sentit feble (individu susceptible de representar-se la significació i fins i tot el sentit de les paraules)»; en aquest sentit feble, el locutor seria considerat, així mateix, com un subjecte (Kerbrat-Orecchioni 2009: 199). M’agrada aquesta matisació de la polisèmia de «subjecte» de l’enunciació. Perquè el subjecte d’Oppel i el subjecte en sentit feble de Ducrot s’avenen bé amb la definició de gestor o agent que fa el sociòleg Raymond Williams (Raymond Williams 1974: 449-450): el gestor és qui se subordina a un govern, a una firma comercial, a un propietari d’un diari. Els subjectes dels anuncis, siguin anunciants, agència publicitària o actors i locutors estarien supeditats a una marca comercial, a unes «intencions no obertament declarades»; és a dir que, entre experiència i expressió, s’interposaria una fórmula, la creença que als altres se’ls ha d’ensinistrar, condicionar en el sentit que beneficiï la marca, el govern, la institució, i aquí s’alimentaria l’estereotip, la forma fixada i, de retop, les enunciacions dels subjectes en un sentit feble, o dels gestors o dels agents de Williams; s’alimentaria l’activitat de comprar a costa de la disminució de l’activitat del subjecte, a costa de recordar-li com s’ha de comportar. Els anuncis que hem vist juguen amb les formes fixades a través de les escenografies, de l’enunciació i del tipus d’adjectius: la mirada que projecta la veu enunciadora masculina en off a Chamburcy, ¿no fa de la dona un mer recurs per aconseguir vendre? Però, alhora, la interacció entre veu i dona en aquella escenografia, ¿no suggereix una relació existent socialment on ella és el pretext d’un protagonisme entre bastidors del qual la veu en off és l’únic indici? Deu ser rellevant en aquest sentit que els adjectius més nombrosos siguin avaluadors no axiològics, com indicant que hi ha un suposat algú, un subjecte en sentit feble, un gestor que procura que arribi efectivament la feina que es fa entre bastidors. O a La familia: no veiem allí un model d’interacció coneguda, socialment molt discutida, caduca, però ideològicament activa? Què es ven? Una pasta? O un model d’interacció? Perquè si, i només si, el model d’interacció que expliciten escenografia i enunciat estigués en retrocés, es vendria La familia? L’enunciació als anuncis de cotxes es fa també segons aquest model especular que Ruth Amossy (1999: 133), parafrasejant Perelman, assenyala: «l’auditori és sempre una construcció de l’orador (...). Es pot dir que la contrucció discursiva de l’ethos es fa a mercè d’un veritable joc especular. L’orador construeix la seva propia imatge en funció de la imatge que es fa del seu auditori». Tot i que aquest subjecte de l’enunciació que hem vist fins ara pugui considerar-se «com el representant i el portaparaula d’un grup social, d’una instància ideològico-institucional» (Kerbrat-Orecchioni 2009: 203), hi ha la possibilitat, almenys així ens ho recorden alguns autors, de considerar un subjecte de l’enunciació en sentit fort, o origen. D’aquesta possibilitat, se n’escapen els anuncis televisius analitzats perquè, a part del que hem dit fins ara, ser origen sí que suposa ser d’alguna manera la font dels continguts. Aquesta capacitat de ser la font ens la recorda Hanna Arendt (2001: 202) quan diu: «Si l’acció com a començament correspon al fet de néixer, si és la realització de la condició humana de la natalitat, aleshores el discurs correspon al fet de la distinció i és la realització de la condició humana de la pluralitat, és a dir, de viure com a ésser diferent i únic entre iguals». O Raymond Williams a través de la seva noció d’origen, un subjecte enunciador capaç de posar en pràctica convicció i comunicació, experiència i expressió (1974: 449-450). O el subjecte de què ens parla Michel de Certeau (2006: 177), que sent la necessitat de «fundar el lloc des del que parla»: «aquest lloc no està garantit per enunciats autoritzats (o ‹autoritats›) sobre els quals recolzaria el
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discurs, i tampoc per un estatut social del locutor en la jerarquia d’una institució dogmàtica (...) El valor d’aquest discurs resideix únicament en el fet que es produeix en el lloc mateix des del que parla el Locutor, l’Esperit, ‹el que parla›. Només l’autoritza el fet de ser el lloc d’aquesta enunciació ‹inspirada›, també designada amb el terme ‹experiència›. Pretén posar en escena un acte present de Dir. En el text, el ‹jo› esdevé progressivament l’indici, a la vegada que l’instrument de la qüestió, també inicial, que el discurs místic ha de prendre a càrrec seu: Qui parla, i des d’on?» Hi ha, doncs, un subjecte enunciador origen. Martin Buber (1994: 73) assenyala el conflicte de l’ésser humà independent modern justament des de l’enunciació: «(l’home independent modern) no parla d’ell mateix, sinó ‹a partir d’ell›. El Jo que parla i escriu és el subjecte gramatical necessari de les seves afirmacions i ordres, ni més ni menys: no té subjectivitat, però tampoc autoconsciència que s’ocupi de la seva manera de ser així, i encara menys, no té la il·lusió de l’aparença de si mateix». El tema del subjecte de l’enunciació és central, sempre que es tingui en compte, com diu Buber, i altres, que l’enunciació és alguna cosa més que la presència gramatical del subjecte. Amb la qual cosa, podríem treure les nostres pròpies conclusions respecte de l’enunciador que es desplega a la publicitat.
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Petições iniciais em processos judiciais cíveis: um estudo sobre o uso de polidez à luz da teoria de Brown e Levinson
1. Introdução De acordo com Escandell (1996), entende-se por pragmática o estudo dos princípios que regulam o uso da linguagem na comunicação, ou seja, as condições que determinam tanto o emprego de um enunciado específico por parte de um determinado falante numa situação comunicativa específica, como sua interpretação por parte do destinatário. Assim, pode-se dizer que sem a pragmática, fenômenos como a polidez, objeto do presente estudo, ficariam sem explicação, ou com explicação inadequada, motivo pelo qual a escolhemos como fonte deste trabalho. O conceito pragmático de polidez vem sendo estudado com critérios das teorias fundadoras (Lakoff, 1973; Leech, 1983; Brown / Levinson, 1987). Dentro da pragmática, utilizamos elementos da Teoria da Polidez de Brown / Levinson (1987). No entanto, alguns autores criticam essa teoria por não contemplar as variáveis socioculturais, como Bravo (2005), as quais pretendemos observar no decorrer da exposição. Nossos objetivos são os de analisar as estratégias e conceitos de polidez trazidos pelos autores Brown / Levinson (1987), utilizando-nos destes como parâmetro para um estudo preliminar em um corpus limitado, institucional e familiar às analistas. Observaremos as críticas sobre a universalidade defendida por esses autores e estaremos atentos quanto à presença de impolidez encontrada em Bernal (2010), não considerada como tema central em Brown / Levinson. Consideraremos também os conceitos de atenuação trazidos por Albelda (2010). Pretendemos estudar as noções de imagem pública apresentadas na revisão de literatura, comparar as atitudes linguísticas na petição inicial no discurso jurídico, analisar se a relação de poder entre os interlocutores dentro de um processo judicial influencia nas escolhas das estratégias de polidez, bem como concluir quais estratégias de polidez prevalecem no discurso jurídico em petições cíveis na língua portuguesa, a fim de estabelecer o que prevalece, se pedido ou exigência. O corpus deste trabalho é constituído de sete petições iniciais de processos judiciais cíveis, colhidas no Tribunal de Justiça do Estado do Paraná, Brasil. Escolhemos petições da área cível do Direito para termos dados da mesma área e que tivessem a possibilidade de variação em relação à presença de estratégias de polidez, ou de impolidez. Deixamos de lado, assim, petições de ações de outras áreas do Direito, a fim de termos dados homogêneos e comparáveis.
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No decorrer do trabalho abordaremos noções de polidez, teoria de Brown / Levinson e suas estratégias, ajustes sugeridos por alguns autores para a aplicação desta teoria e, para finalizar, a análise dos resultados obtidos na pesquisa e considerações finais.
2. Noções gerais sobre polidez A ideia de polidez se desenvolveu a partir da noção de imagem de Goffman (1971). Para Goffman, há dois conceitos para a palavra polidez: o primeiro, sendo um conjunto de normas sociais, estabelecidas por cada sociedade, que regulam o comportamento adequado de seus membros; e o segundo, como estratégia conversacional, nosso objeto de estudo. Segundo Kerbrat-Orecchioni (1992), a polidez é inerente às relações humanas, nas mais variadas instâncias em que o ser humano vive, e tem como função geral possibilitar uma gestão harmoniosa da relação interpessoal. A polidez se manifesta por atos linguísticos e não linguísticos, certamente com a prevalência dos primeiros, já que as relações humanas, na sua maioria, ocorrem linguisticamente, ou, no mínimo, são acompanhadas de atos linguísticos. Para Brown / Levinson (1987) a comunicação é um tipo de conduta racional, que busca a máxima eficácia. Assim, a comunicação está sujeita ao princípio da cooperação de Grice (1975), o qual é entendido como o marco socialmente neutro no qual se desenvolvem os intercâmbios comunicativos, e que pressupõe sua racionalidade e eficácia. Para Escandell (1996), supõe-se também que somente nos apartamos dele quando se tem uma boa razão para fazê-lo, e a polidez –a necessidade de manter as relações sociais– pode ser uma destas boas razões. Bravo (2001) propõe quatro qualificativos para a polidez: linguística, comunicativa, conversacional e estratégica, e comenta que a linguística, desde o começo da pragmática, reclama a polidez como objeto de estudo, mas que a própria linguística se vê impelida a trabalhar com esse fenômeno na intersecção de outras disciplinas sociais. Mills (2003), por sua vez, sugere a ampliação das definições de polidez e impolidez e cita autores que opinam nessa mesma direção: «In contrast to a great deal of research in this area, I believe that impoliteness has to be seen as an assessment of someone’s behaviour rather than a quality intrinsic to an utterance». Encontramos em Briz (2004) uma proposta de distinção entre a polidez codificada e interpretada e entre polidez do falante (monológica) frente a polidez do ouvinte (dialógica), que o autor considera básica para a análise e explicação da atividade polida ou impolida numa língua, como também para localizar as diferenças intra e interculturais. Partindo de um conceito amplo, a polidez é um conjunto de estratégias que usamos quando falamos, para que a comunicação seja harmoniosa e fluida. Como atividade social, é um mecanismo mediante o qual asseguramos o equilíbrio entre falante e ouvinte ou escritor e leitor. No nosso caso, escritor e leitor (advogado e juiz). Kerbrat-Orecchioni (2004) aceita a polidez como sendo universal e também não universal, na medida em que suas condições de aplicação variam sensivelmente de uma sociedade para outra.
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Locher (2004), ao tratar de poder e polidez, define polidez como: My definition of politeness calls for a qualitative approach to data that takes the dynamics of an interaction into account. Politeness cannot be investigated without looking in detail at the context, the speakers, the situation and the evoked norms. In the end, however, politeness will always be identified and evaluated by both the speaker and the hearer as norm-based and, in this sense, ultimately also moralistic.
Bravo (1998 e 2005) sugere que os pesquisadores devem ter dificuldades para interpretar polidez se não pertencerem à mesma comunidade de fala que o falante cujas produções comunicativas estão sendo objeto de estudo. Em nosso caso, temos a experiência, como advogada e juíza, da primeira autora.1 Em Bravo (2008 e 2009) há experimentos que levam à indicação de que a polidez deve ser estudada sob uma pragmática de orientação sociocultural e consequentemente as premissas socioculturais devem ser consideradas indispensáveis para o estudo da polidez.
3. O modelo de Brown / Levinson Eelen (2001) diz que os nomes Brown / Levinson podem ser considerados como sinônimos de polidez, uma vez que a maioria dos estudos de polidez baseia-se nesses autores. Ademais, Kerbrat-Orecchioni (1997) afirma que «it is impossible to talk about it without referring to Brown & Levinson’s theory». No entanto, esses autores sugerem que o sistema de Brown / Levinson deve passar por ajustes. A noção de imagem social de Goffman (1967) foi retomada por Brown / Levinson (1987) na obra Politeness: some universals in language usage, como ponto de partida para a sua proposta. A ideia de polidez, em Brown / Levinson (1987), baseia-se em duas noções: a) a noção de que a comunicação é uma atividade racional que tem algum objetivo; e b) a noção de que cada indivíduo deseja preservar a sua face, ou seja, a sua imagem pública. A noção de racionalidade implica o fato de que os interlocutores pensam estrategicamente e que têm consciência de suas escolhas linguísticas. A imagem pública consiste em dois tipos de desejo: a) o desejo de autoafirmação, de não querer receber imposições, ter liberdade de ação: imagem negativa; e b) o desejo de ser aprovado, aceito, apreciado pelo(s) parceiro(s) da atividade comunicativa: imagem positiva. O termo em inglês face é empregado em sentido metafórico, referindo-se à personalidade do homem como membro individual da sociedade da qual forma parte. A imagem de cada ser humano se compõe de dois fatores complementares, marcados com os termos positivo e Mariana Paula Muñoz Arruda é advogada e já exerceu o cargo de Juíza Leiga no Juizado Especial Cível de Rio Branco do Sul – Paraná – Brasil, durante quatro anos.
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negativo. O primeiro fator representa a imagem positiva que o indivíduo tem de si mesmo e que aspira seja reconhecida e reforçada pelos outros membros da sociedade. O segundo se refere ao desejo de cada indivíduo de que seus atos não sejam impedidos por outros. Brown / Levinson (1987) assumem que, em princípio, tanto o falante como o ouvinte, em situações comunicativas, desejam manter a sua própria imagem e a do interlocutor. Entretanto, no mesmo ato da comunicação, a imagem pública nunca é estável e fica constantemente ameaçada pelos fatores linguísticos disponíveis. Frequentemente os interlocutores são levados a cometer atos de ameaça à imagem (Face Threatening Acts ou FTA’s). A necessidade de produzir um enunciado que ameace a imagem do ouvinte e o desejo de não feri-la, como também não ferir a sua própria, estão sempre em conflito, o que leva às várias atenuações dos atos de fala. Três fatores sociais, ou três variáveis, estabelecem o nível da polidez e o consequente risco à manutenção da imagem: a) o poder relativo do ouvinte sobre o falante e vice-versa – P (O, F); b) a distância social entre os dois – D (F, O); e c) o grau de imposição do próprio ato comunicativo, ou seja, o risco de ter a imagem ameaçada em um contexto cultural específico - Rₓ. A soma desses fatores determina o peso (Wₓ) de um FTA e, assim, determina também a escolha de uma estratégia verbal. Brown / Levinson (1987) apresentam a seguinte fórmula: Wₓ = D (S, H) + P (H, S) + Rₓ. Assim, nessa fórmula, Wₓ (weightness) é o peso de um FTA, D (distance) é a distância social entre falante e ouvinte, S (speaker) é o falante, H (hearer) é o ouvinte, P (power) é o poder e Rₓ (rating of imposition) é o grau de imposição do ato comunicativo. Desse modo, o conceito de imagem pública é o elemento principal da teoria de Brown / Levinson. Da necessidade de salvaguardá-la é que derivam todas as estratégias de polidez. Kerbrat-Orecchioni (1997), considerando que certos atos sejam elogiosos para a imagem dos participantes de uma interação, introduz os FEA’s (Face Enhancing Acts), literalmente atos que melhoram a imagem. Goffman (1971), em cuja obra temos que buscar as origens do conceito de imagem, como categoria pragmático-linguística, considera a exortação como um ato do falante, cuja finalidade é pedir licença ao interlocutor para infringir esses direitos. Para ele, um pedido é: «asking license of a potentially offended person to engage in what could be considered a violation of his rights». Brown / Levinson (1987) definem polidez da seguinte forma: Central to our model is a highly abstract notion of face which consists of two specific kinds of desire (face-wants) attributed by interactants to one another: the desire to be unimpeded in one’s actions (negative face), and the desire (in some respects) to be approved of (positive face).
Para Brown / Levinson (1987), os quais vem recebendo muitas críticas por parte dos estudiosos atuais de polidez, principalmente os não anglófonos, a imagem pública é uma noção abstrata e universal, que inclui dois tipos de desejos: o de não ser incomodado (imagem negativa) e o de ser apreciado (imagem positiva). Assim, a interação é considerada como um elemento potencialmente ameaçador da imagem (perder a imagem), e a obrigação dos participantes no evento comunicativo é de preservá-la (salvar a imagem) dos atos
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potencialmente ameaçadores (FTA’s), mediante o trabalho de manter a imagem (ou facework). Desta perspectiva, o ato de emitir uma opinião crítica, por exemplo, constitui um ato potencialmente ameaçador para o amor próprio do criticado. Para evitá-lo, é necessário o trabalho de reparação da imagem (facework), que consiste em dois tipos de estratégias, positiva e negativa. A noção de universalidade de Brown / Levinson vem sofrendo críticas à medida que progridem os estudos sobre polidez. Bravo (2003 e 2004) e Mariottini (2007) observam que uma ação verbal não é polida ou impolida, mas que adquire esses valores na interpretação e nas ações de resposta dos interlocutores. Segundo Haverkate (1994), a maior parte dos estudos dedicados ao conceito de imagem está centrada na análise das estratégias que servem para proteger a imagem negativa do interlocutor. O foco de interesse está, portanto, nas normas de interação que estabelecem que os atos do indivíduo não sejam impedidos injustificadamente. 3.1 As estratégias de polidez de Brown / Levinson Brown / Levinson (1987) distinguem uma série de estratégias conversacionais usadas pelos interlocutores para atenuar as ações ameaçadoras. Os tipos de estratégias existentes e as circunstâncias que determinam a escolha de uma ou outra estratégia de polidez são cinco, segundo Brown / Levinson (1987): a) aberta e direta, sem reparação (on record, without redress): o falante mostra abertamente o desejo de transmitir sua intenção e não quer neutralizar um dano potencial (Ex.: Leia a petição); b) aberta e indireta, com reparação e com polidez positiva (on record, with redress, with positive politeness): o falante formula um enunciado por meio de uma pergunta e mostra que deseja as mesmas coisas que o ouvinte; dirige-se à imagem positiva do ouvinte (Ex.: Pode ler a petição?); c) aberta e indireta, com reparação e com polidez negativa (on record, with redress, with negative politeness): neste caso, além de formular uma pergunta, o falante insere um elemento de negação, uma expressão de gentileza e o verbo está no futuro do pretérito. O falante busca satisfazer a imagem negativa do ouvinte (Ex.: Você não se importaria de ler a petição, por favor?); d) encoberta (off record): o falante não evidencia sua verdadeira intenção, não se comprometendo com a interpretação realizada pelo ouvinte (Ex.: A petição não foi lida); e) evitar completamente a realização do ato ameaçador: o falante evita ofender seu interlocutor, não se evidenciando marca linguística de interesse. As estratégias apresentadas a seguir incluem vários recursos lexicais, gramaticais e discursivos, e também a entonação e as formas de tratamento, em diferentes em diferentes línguas e culturas. Brown / Levinson (1987) consideram 15 estratégias de polidez positiva, listam 10 estratégias de polidez negativa e 15 off record.
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3.1.1 Bald on Record A estratégia chamada bald on record supõe que a intenção comunicativa do falante está bem clara e que ele observa as máximas do princípio de cooperação de Grice (1975). Essa estratégia é usada em circunstâncias específicas: quando existe alguma urgência ou emergência e a preocupação com a imagem fica em segundo lugar; quando o enunciado é proferido para atender os interesses do ouvinte e não requer os sacrifícios da imagem do falante; quando o poder social (status) do falante é muito superior ao do ouvinte. 3.1.2 Polidez Positiva As estratégias da chamada polidez positiva são baseadas na aproximação entre falante e ouvinte. Ao usar a polidez positiva, a polidez da solidariedade, o falante procura o acordo com seu ouvinte. Isso pode ser feito demonstrando o interesse pelas coisas do interlocutor, a simpatia por ele, manifestando os interesses e conhecimentos comuns por pertencer ao mesmo grupo: 1. Perceba o outro. Mostre-se interessado pelos desejos e necessidades do outro. 2. Exagere o interesse, a aprovação e a simpatia pelo outro. 3. Intensifique o interesse pelo outro. 4. Use marcas de identidade de grupo. 5. Procure acordo. 6. Evite desacordo. 7. Pressuponha, declare pontos em comum. 8. Faça brincadeiras. 9. Explicite e pressuponha os conhecimentos sobre os desejos do outro. 10. Ofereça, prometa. 11. Seja otimista. 12. Inclua o ouvinte na atividade. 13. Dê ou peça razões, explicações. 14. Simule ou explicite reciprocidade. 15. Dê presentes. 3.1.3 Polidez Negativa As estratégias de polidez negativa procuram evitar conflitos e se dirigem à imagem negativa do interlocutor. Essas estratégias incluem vários tipos de expressões que evitam conflitos e outros meios para minimizar a imposição (Rx): 1. Seja convencionalmente indireto. 2. Questione, seja evasivo. 3. Seja pessimista. 4. Minimize a imposição. 5. Mostre respeito. 6. Peça desculpas. 7. Impessoalize o falante e o ouvinte. Evite os pronomes eu e você. 8. Declare o FTA como uma regra geral. 9. Nominalize. 10. Vá diretamente como se estivesse assumindo o débito, ou como se não estivesse endividando o ouvinte.
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3.1.4 Off Record Há também as estratégias chamadas de off record ou encobertas. Com o uso desse tipo de estratégia, a intenção comunicativa do falante está longe de ser clara, e o ouvinte terá que se esforçar para ativar os mecanismos de inferência e tentar descobrir as intenções do falante. São elas: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.
Dê pistas. Dê chaves de associação. Pressuponha. Diminua a importância. Exagere, aumente a importância. Use tautologias. Use contradições. Seja irônico. Use metáforas. Faça perguntas retóricas. Seja ambíguo. Seja vago. Hipergeneralize. Desloque o ouvinte. Seja incompleto, use elipse.
4. Análise do corpus Para a análise do corpus, utilizaremos subsídios retirados do levantamento teórico, tais como conceitos e estratégias de polidez, noções de imagem, poder e distância, encontrados em Brown / Levinson (1987) e na bibliografia que trata e desenvolve a teoria. A polidez varia de acordo com o tema e com o deslinde do processo. O objeto em si, se cível ou criminal, por exemplo, pode demonstrar essa variação. No entanto, não é só isso: a diferença de estar no polo ativo (autor) ou no polo passivo (réu) da demanda jurisdicional pode acarretar o uso de um ou de outro recurso linguístico. O autor da ação expõe, por meio do seu advogado, na petição inicial, em resumo, os fatos e os fundamentos do seu pedido, bem como as provas pelas quais pretende demonstrar o seu direito. Nos trechos analisados, temos exemplos de estratégias on record, de polidez positiva, de polidez negativa, off record, e, ainda, de impolidez. Observamos que, apesar de os autores da ação necessitarem e almejarem um provimento jurisdicional a seu favor, utilizam-se, através de seu advogado, de algumas estratégias que, a princípio, poderiam ferir as regras dos manuais mais utilizados no Direito. No entanto, tais estratégias que aparecem como imposições, são, na maioria das vezes, amenizadas, como veremos. Assim, a princípio, há distância social entre os interlocutores (advogado dos autores da ação) e juiz. Pode-se dizer que o advogado ostenta menos poder, já que depende de uma
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decisão (sentença) que será dada pelo juiz. Não há relação de hierarquia juridicamente, no entanto socialmente o advogado ostenta menos poder em relação ao juiz, em razão do poder que este tem de decidir no processo. Com a análise da incidência das estratégias, chegaremos à conclusão do que prevalece no corpus escolhido. Observamos que nesta análise, quando falamos em imposição, estamos nos referindo aos atos de ameaça à imagem (FTA’s), estudados no levantamento teórico. Transcrevemos alguns trechos, e após cada um deles, comentamos. Tendo em vista o descaso e pouca consideração da REQUERIDA, quanto a cobrar valores abusivos e exagerados, os REQUERENTES não vislumbram outra alternativa, senão o ajuizamento da presente ação.
A parte autora, através de seu advogado, inicia a petição afirmando e justificando o ajuizamento da ação, ao explicar o porquê, ou seja, ‹o descaso e pouca consideração›. Aqui está sendo direta, sem rodeios, tentando proteger a sua face, e ferindo a face negativa da outra parte, ao usar palavras impositivas. A petição já inicia, então, com exemplo de imposição. Haveria manutenção da distância social e inverte-se o poder, já que o advogado investe-se na função de juiz ao julgar a outra parte, havendo inversão de papéis em relação ao poder. No entanto, na segunda parte em destaque, afirma que os requerentes não vislumbram outra alternativa a não ser o ajuizamento da ação, ou seja, o advogado está utilizando-se de estratégia de polidez negativa (subestratégia 4), minimizando a imposição feita anteriormente. Sendo assim, o caráter impositivo da primeira parte é abrandado pela segunda parte. Desse modo, a imposição fica abarcada pela estratégia de polidez negativa. Com isto, mantém-se a distância e a relação de poder entre advogado e juiz. Assim, o princípio pacta sunt servanda (os contratos devem ser cumpridos) sofre um abrandamento, daí havendo a necessidade de intervenção do Poder Judiciário, de modo a restaurar a igualdade contratual entre as partes.
Nesse trecho, o autor minimiza a imposição ao juiz, ao se apoiar em um princípio para fazer seu pedido, estratégia de polidez negativa (subestratégia 4). Afirma que há a necessidade de intervenção do Poder Judiciário, ou seja, está dizendo de maneira encoberta que é necessária a atuação do juiz a quem faz o pedido, fazendo-o com respeito e impessoalizando a figura do juiz (subestratégia 7 de polidez negativa). Ainda, o advogado emprega ‹de modo a restaurar›, com o verbo no infinitivo, o que minimiza a imposição (subestratégia 4 de polidez negativa). Poderia ter escrito ‹para que o Judiciário restaure...›, o que seria caso de imposição. Nos três casos acima, há preservação da distância e do poder. De plano, mister citar as doutas lições do mestre ARNALDO RIZZARDO, em Contratos de Crédito Bancário, Editora RT, p. 239, relativamente à capitalização de juros: ...
Presente nesse exemplo a impessoalização do advogado, que diz ‹mister citar› e não ‹cito›, estratégia de polidez negativa e sua subestratégia 7.
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Também configura estratégia de polidez negativa o uso da subestratégia 5, em ‹as doutas lições do mestre...›, mostrando respeito ao poder do mesmo. A figura de presença ‹doutas lições› encaixa-se no enunciado de polidez negativa, deixando de configurar estratégia off record, enfatizando a relação de poder do outro. Em ambos os trechos citados acima há permanência da distância social entre interlocutores, bem como do poder. E tal se dá em função de que o Tribunal Regional Federal da 4ª Região, devidamente instado, reprimiu o valimento constitucional da autorização legislativa provisória. Com efeito, a decisão de incompatibilidade constitucional da Medida Provisória n. 2.170-36/2001 veio embasada no desrespeito a requisito formal para a adoção do texto provisório, qual seja, a imprescindível situação de urgência (art. 62, caput, da CF/88).
No trecho em destaque ‹E tal se dá em função de que...› há o emprego de estratégia de polidez positiva, de solidariedade (subestratégia 13). O advogado dá explicações, razões. Assim, há diminuição da distância social e preservação do poder do juiz. No entanto, há uma sobreposição de estratégias, pois no segundo trecho sublinhado o advogado recorre novamente a uma decisão de um tribunal, minimizando a imposição, utilizando-se da subestratégia 4 de polidez negativa. Já, no que se refere ao disposto no inciso I, do artigo 273 (Código de Processo Civil), em relação à constatação de fundado receio de dano irreparável ou de difícil reparação, os REQUERENTES informam que há notícias de a REQUERIDA já haver procedido a inclusão dos seus nomes nos cadastros de inadimplentes/mau pagdores [sic] junto à SERASA.
O advogado está sendo convencionalmente indireto, ao afirmar que ‹há notícias...›, caracterizando estratégia de polidez negativa e sua subestratégia 1 (seja convencionalmente indireto). Há, assim, preservação da distância e do poder.
5. Resultados Após a análise e contagem das incidências das estratégias de polidez de Brown / Levinson no nosso corpus, temos o seguinte resultado: 1 caso de estratégia on record, 91 de polidez positiva, 273 de polidez negativa, 3 de estratégias off record e 10 de impolidez. Os resultados da análise do nosso corpus mostram claramente que, prevalecendo as estratégias de polidez negativa, dessa são utilizadas somente as subestratégias 1, 4, 5 e 7, ou seja, o repertório é limitado. A subestratégia mais utilizada foi a 4 de polidez negativa, seguida pela 13 de polidez positiva e pela 7 de polidez negativa. Observamos que alguns casos de imposição que aparecem no corpus não podemos considerar como estratégias on record, abertas, tal como propostas pela teoria apresentada. Por esse motivo preferimos usar o termo imposição. Além disso, alguns casos de estratégias off record foram computados pela subestratégia que prevaleceu no enunciado.
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Ressaltamos que em situações em que encontramos sobreposição de estratégias, optamos sempre pela que prevalece. Além disso, observamos que deixamos de analisar as estratégias ocorridas em citações como doutrina e jurisprudência, bem como em questões direcionadas ao perito, uma vez que nosso propósito foi o de analisar a voz dos advogados escritores das petições.
6. Considerações finais Encontramos na análise realizada estratégias on record, de polidez positiva, de polidez negativa e off record, estas últimas em número muito pequeno. Alguns casos de impolidez também foram encontrados. Independentemente do mérito, ou seja, do resultado do julgamento, é importante ressaltar que, aos olhos do juiz, é muito relevante que não haja imposições na petição inicial, ou se houver imposição, que seu grau seja limitado. Assim, como vimos nos exemplos analisados, o uso constante de imposição pode causar estranhamento e como consequência provocar efeitos indesejáveis. Dessa maneira, a grande maioria das imposições encontradas foi atenuada pelo uso de estratégias de polidez negativa, o que nos mostra ser essa característica relevante nos textos jurídicos estudados. Isso porque a imposição pode causar impressão errônea do leitor da petição (juiz), ou seja, a quebra das regras de acordos sociais específicos pode interferir no bom andamento da interação social. Assim, esse efeito de um ato linguístico ser polido ou impolido tem a ver com a existência de uma norma cultural específica. Há uma forma relativamente fixa de expor os fatos e fazer o pedido na petição inicial de um processo jurídico na área cível, o que foi estrategicamente seguido na maioria dos exemplos do nosso corpus. As imposições ocorridas ficam na maioria das vezes atenuadas pelo uso da polidez negativa. Portanto, se a nossa pergunta foi se a petição inicial pode ser vista como um pedido ou uma exigência, é possível agora concluir que esta é um tipo de pedido, mas com exigência implícita, abrandada pela utilização predominante de estratégias de polidez negativa. O propósito desse estudo foi aplicar a Teoria da Polidez proposta por Brown / Levinson (1987). Entretanto, a petição inicial, como gênero textual específico, coloca desafios para a teoria, pois como o texto da petição consiste em períodos bastante longos, apesar da prevalência das estratégias da polidez negativa, aparecem sobreposições de outras estratégias. Esse fenômeno merece futuros estudos.
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Paraná (2009): Apelação Cível n° 554.691-2 da 13ª Câmara Cível. Relatora Desembargadora Rosana Andriguetto de Carvalho. Curitiba: Tribunal de Justiça. — (2009): Apelação Cível n° 555.902-4 da 13ª Câmara Cível. Relatora Desembargadora Rosana Andriguetto de Carvalho. Curitiba: Tribunal de Justiça. — (2009): Apelação Cível n° 578.319-7 da 13ª Câmara Cível. Relatora Desembargadora Rosana Andriguetto de Carvalho. Curitiba: Tribunal de Justiça. — (2009): Apelação Cível n° 603.386-9 da 13ª Câmara Cível. Relatora Desembargadora Rosana Andriguetto de Carvalho. Curitiba: Tribunal de Justiça. — (2009): Apelação Cível n° 605.070-4 da 13ª Câmara Cível. Relatora Desembargadora Rosana Andriguetto de Carvalho. Curitiba: Tribunal de Justiça. — (2009): Apelação Cível n° 611.312-4 da 13ª Câmara Cível. Relatora Desembargadora Rosana Andriguetto de Carvalho. Curitiba: Tribunal de Justiça. — (2009): Apelação Cível n° 618.086-7 da 13ª Câmara Cível. Relatora Desembargadora Rosana Andriguetto de Carvalho. Curitiba: Tribunal de Justiça.
Inmaculada Penadés Martínez (Universidad de Alcalá)
Información pragmática en la definición de las acepciones de locuciones verbales1
1. Introducción En obras de referencia sobre lexicografía, publicadas en España en fechas relativamente recientes, es habitual ocuparse de la relación de la lexicografía con las disciplinas lingüísticas de la lexicología, la semántica y la gramática (cf. Porto 2002: 16-34; Azorín 2003: 47-52), sin tratar la posible vinculación de aquella con la pragmática. Esta particularidad contrasta con el hecho de que, al referirse a la definición de las unidades en la microestructura de los diccionarios, los lexicógrafos (cf. Medina 2003: 129-132) se afanan en precisar que el diccionario no recoge significados lingüísticos, sino sentidos, usos, variantes de significado, acepciones, en cuanto sentidos consolidados por el uso y aceptados por la comunidad de hablantes, que son las que realmente se definen. De este modo, de rechazo, se da entrada a la pragmática en el diccionario, pues no en vano su misión es estudiar no el significado lingüístico, sino el significado de las palabras usadas en actos de comunicación. Sin embargo, paradójicamente, para ciertos cultivadores de la pragmática (cf. Reyes 1998: 7-9), el diccionario informa sobre el significado lingüístico de la palabra aislada de contexto, frente a la pragmática, que estudia los principios regulares que guían los procesos de interpretación lingüística de las palabras y de los enunciados utilizados por los hablantes en un contexto. Con todo, la finalidad de esta comunicación no es subrayar la relación entre lexicografía y pragmática –cuestión que, si bien no ocupa un lugar en la teoría lexicográfica española, sí es objeto de análisis por los cultivadores de la crítica metalexicográfica– ni buscar soluciones a la contradicción planteada en el párrafo anterior en torno a cuál deba ser la naturaleza del significado de las unidades definidas en el diccionario: o bien el significado como concepto o bien el significado como información referencial o intencional. El objetivo de este trabajo es mucho más preciso y consiste en observar cómo algunas definiciones de locuciones verbales en diccionarios del español, y de otras lenguas románicas, contienen partes, fragmentos o datos que no se corresponden con el uso de la locución en cuestión en distintos ejemplos y que pueden ser deducidos, justamente, por el contexto lingüístico que la envuelve o por el conocimiento enciclopédico de los hablantes. Esta comunicación se enmarca en el proyecto de I+D+i «Fraseografía teórica y práctica. Bases para la elaboración de un diccionario de locuciones» (HUM2007-60649), financiado por el Ministerio de Educación y Ciencia.
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2. Cuestiones previas Antes de abordar de manera específica el tema de la comunicación, conviene establecer unos puntos básicos. Independientemente de la disparidad de términos que existe para denominar las que genéricamente pueden llamarse unidades fraseológicas, parto de la asunción de que hay una clase, la de las locuciones, que, siguiendo al lexicógrafo español Casares (1950: 170), se define como: «combinación estable de dos o más términos, que funciona como elemento oracional y cuyo sentido unitario consabido no se justifica, sin más, como una suma del significado normal de los componentes». Además, dentro de las locuciones se diferencian varias clases, una de ellas correspondiente a las locuciones verbales. Y, justamente, sobre su definición en los diccionarios gira el problema que aquí va a plantearse. Por otra parte, sabido es que, al redactar la definición lexicográfica de cualquier unidad, uno de los principios que se intenta seguir es el de la identidad categorial entre definido y definidor. Con todo, en el caso particular de las locuciones, no parece adecuado, desde la perspectiva del usuario, preservar la identidad categorial entre ambos elementos, pues conduciría a definir una locución mediante otra, sino que es más conveniente, por contra, la definición de la locución verbal a través de un verbo o de un sintagma cuyo núcleo sea un verbo. Junto a ello, la teoría lexicográfica (cf. Porto 2002: 239-249; Medina 2003: 139-140) distingue dos tipos de metalengua en la elaboración de las definiciones: la de contenido y la de signo, propia esta última de la definición funcional, en la que el definido se explica desde el punto de vista de su funcionamiento gramatical, contextual o pragmático. Las definiciones funcionales pragmáticas son aplicables a unidades fraseológicas como las fórmulas oracionales, dada su equivalencia con distintos tipos de actos de habla. Sin embargo, las locuciones verbales, por su identidad funcional con unidades de la clase verbo, deben ser objeto, en principio, de una definición conceptual ya sea esta sinonímica, es decir, hecha con un sinónimo perteneciente a la clase verbo, o perifrástica, en cuyo caso una frase o un sintagma analizan el contenido de la locución verbal que es objeto de definición. Así pues, parto de que una locución verbal equivale a un verbo que, además, sirve para parafrasear el contenido de la locución cuando esta se define en el diccionario. Asimismo, considero que el verbo se constituye en núcleo de una predicación que, para el caso que voy a tratar, se corresponde, justamente, con la paráfrasis definitoria de la locución en cuestión. De este modo, caer del cielo, en el diccionario de Seco, Andrés y Ramos (2004: 280), equivale a ‹Surgir [alguien o algo] de forma inesperada y gralm. muy oportuna›, donde el verbo ‹surgir› es el núcleo del predicado, ‹alguien› o ‹algo› el argumento que exige y ‹de forma inesperada y gralm. muy oportuna› un complemento adjunto de modo. Pues bien, cuando la definición de las locuciones verbales se hace mediante una frase o un sintagma que expresa su contenido conceptual, se origina la situación que se plantea en el siguiente apartado.
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3. Ilustración del problema El desarrollo de un proyecto de investigación que tiene como objetivo último la redacción de un diccionario de locuciones idiomáticas del español actual (cf. Penadés 2008; Penadés 2010), ha determinado que, en estos momentos, esté llevando a cabo un análisis de las definiciones que distintos diccionarios del español ofrecen de las locuciones verbales, clase por la que se va a iniciar la confección del mencionado diccionario. Las obras lexicográficas que están siendo objeto de investigación son de distinta naturaleza, unas constituyen diccionarios generales de lengua: el de la Real Academia Española (DRAE) y los de uso de María Moliner (DUE) y Aquilino Sánchez (GDUEA). Otras son diccionarios orientados, más específicamente, a la enseñanza de la lengua, en concreto el dirigido por Moreno Fernández (DIPELE) y el realizado bajo la dirección de Gutiérrez Cuadrado (SALAMANCA). Por último, hay dos específicamente destinadas a recoger unidades fraseológicas, el diccionario de Varela y Kubarth (DFEM), y el de Seco, Andrés y Ramos (DFDEA).2 Partiendo de cada una de las locuciones verbales registradas en este último, el análisis que se hace consiste, entre otros aspectos, en contrastar las definiciones de las obras lexicográficas citadas con un amplio conjunto de ejemplos obtenidos, fundamentalmente, de los dos corpus de la Real Academia Española: el CREA y el CORDE3, y también con ejemplos de ese mundo lingüístico que es Internet, y en redactar la definición de la locución analizada. Y, precisamente, en el examen que contrasta las definiciones de los diccionarios con ejemplos de uso, se ha observado un hecho recurrente, no aislado ni ocasional, que, además, afecta a los siete diccionarios tomados como referencia. En efecto, en muchas ocasiones, la definición de determinadas locuciones verbales en los diccionarios incluye informaciones que pueden considerarse de naturaleza circunstancial por referirse a nociones como ‹modo›, ‹causa›, ‹finalidad› o ‹situación espacio-temporal›. Veamos algunos ejemplos tomados del diccionario de Seco, Andrés y Ramos. La locución echar el anzuelo se define como ‹Poner una trampa o tratar de conseguir algo con habilidad o engaño› (cf. DFDEA: 146), donde ‹con habilidad o engaño› constituye el elemento adjunto que indica el modo o la manera de tratar de conseguir, mientras que ‹algo› representaría a uno de los argumentos exigidos por esta locución. Por su parte, dar diente con diente significa ‹Tiritar de frío o de miedo› (cf. DFDEA: 393), y la parte de la definición ‹de frío o de miedo› explicita la causa de la sensación fisiológica o del estado psicológico experimentados. En echar un cable, que tiene como definición perifrástica ‹Prestar[le] ayuda para que salga de una situación difícil› (cf. DFDEA: 221), encontramos, además del predicado ‹prestar ayuda›, el argumento ‹le› y el adjunto con valor final ‹para que salga de una situación difícil›. Por último, las circunstancias de espacio y tiempo que pueden enmarcar como adjuntos cualquier predicación quedan ilustradas en las locuciones haber de todo como en botica y dar en la cresta; la definición de la primera de ellas es ‹Haber [en un lugar] gran surtido o variedad de cosas› (cf. DFDEA: 201), donde ‹en un lugar› establece el marco espacial; por su parte, la segunda, al definirse como ‹Humillar[le] o desengañar[le] cuando está seguro o satisfecho de sí mismo› (cf. DFDEA: 332), contiene el marco temporal ‹cuando está seguro o satisfecho de sí mismo› de la predicación ‹humillar o desengañar›. A partir de ahora me referiré a ellos con las denominaciones indicadas entre paréntesis. Con la salvedad para este último de que no se tienen en cuenta ejemplos anteriores al 1900.
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Nada hay que objetar, en principio, a estas definiciones hasta que se contrastan con ejemplos de uso. Así, de echar el anzuelo tenemos: (1)
El Bologna FC italiano fue el primero que echó el anzuelo a este defensa cuando era un jugador juvenil.
(2)
El ir y venir de actores entre series de cadenas rivales es una constante en televisión. Así, Telecinco también ha echado el anzuelo a actores de Antena 3.
Ninguno de los dos justifica que la definición de la locución deba incluir la circunstancia de modo ‹con habilidad o engaño›, y eso es así aunque en otros ejemplos, como (3), sí puede considerarse que la acción de echar el anzuelo se ha realizado de esa manera: (3)
la Susi ha pescado un bonito de concurso. Es un bonito de nacionalidad rumana y se llama Severo. Me cuenta que le echó el anzuelo en los aledaños del kilómetro cero […] y parece que tuvo que comprar las cosas más inverosímiles en todos los comercios de los alrededores y tener un pretexto para pasar mil veces por delante del bonito rumano y reclamar su atención.
Es el contexto lingüístico en el que se inserta la locución verbal el que permite deducir que Susi ha actuado con habilidad para echarle el anzuelo a un rumano. Pero el hecho de que existan ejemplos en los que esa circunstancia no se da lleva a pensar que la información modal que la definición contiene no se corresponde con todos los usos de la locución, y, en consecuencia, el diccionario no debería recogerla en su definición, sino todo lo más ilustrarla con algún ejemplo. Lo mismo ocurre con la expresión de la causa en la locución dar diente con diente. Los ejemplos (5) y (6) contextualizan su uso de manera suficiente para deducir que es el frío la causa de sufrir el proceso fisiológico de tiritar, por lo que sería redundante la información indicada en la definición con ‹de frío›: (5)
el frío de los barracones era tan vivo que debían dormir con las botas y el gorro puestos […] Pasaban la noche dando diente con diente, transformados en carámbanos.
(6)
Le cubrió con una manta y un edredón. Daba diente con diente.
Por su parte, en (7), el contexto, especialmente el adjetivo medroso, indica, sin ningún género de duda, que el miedo causa u origina el estado padecido, hasta tal punto que este no es ya el proceso fisiológico de tiritar, sino, precisamente, el psicológico de experimentar miedo, de ahí que, frente a única acepción registrada en el DFDEA, haya que distinguir en la locución dar diente con diente dos acepciones: una para ‹Tiritar›4, sin ninguna información adicional, y la otra para ‹Sentir mucho miedo›: (7) Los acompañó al medroso ascensor y los dejó en camino. Llegaron a la última planta dando diente con diente, porque el ascensor se las traía para los no habituados.
Si no aparece ninguna referencia bibliográfica tras la definición de una locución, debe entenderse que esa definición corresponde a la redactada para el Diccionario de locuciones idiomáticas del español actual (DILEA) ya mencionado.
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En cuanto a la circunstancia de la finalidad, la parte de la definición ‹para que salga de una situación difícil› de la locución echar un cable no siempre es válida en los ejemplos en que esta se utiliza. Así, (8) permitiría que la definición incluyera esa circunstancia; sin embargo, (9) lo imposibilitaría: (8)
Este club abría sus puertas semanalmente a personas que se acercaban a contar sus buenas obras («he echado un cable a fulanito; salvé de la ruina a menganito»); seres humanos que querían mostrar al mundo que la parábola del buen samaritano y otras afines podían hacerse realidad.
(9)
lo que necesitaría saber es a quién pertenece un apartado de correos en la oficina central de Vía Layetana. Número 2321. Y, a ser posible, quién recoge el correo que llega ahí. ¿Cree usted que podría echarme un cable?
Si bien, como el contexto que rodea al enunciado «he echado un cable a fulanito» de (8) permite deducir que la persona a la que se ayuda está en una situación difícil, no es necesario que la definición explicite una circunstancia final que no siempre se cumple. Algo semejante ocurre con las circunstancias de lugar y tiempo. La de lugar no siempre se da en el uso de la locución haber de todo como en botica como prueba (10) frente a (11), donde aparece el complemento circunstancial En el teatro: (10) Hubo inversiones escandalosas y grandes dispendios de dinero en iniciativas que nunca tuvieron el apoyo de las comunidades mientras que otros fueron pequeñas victorias en la gran lucha contra la pobreza. Hubo de todo, como en botica. (11) En el teatro, igual que en cualquier otra parte, hay de todo como en botica.
Y la de tiempo: ‹cuando está seguro o satisfecho de sí mismo›, de dar en la cresta, tampoco, pues, aunque en (12) podría pensarse que el personaje Ary, cuando sea arquitecto, humillará a la persona denominada con el sintagma este viejo gallo, o sea, cuando Ary esté seguro y satisfecho de sí mismo, en (13) ningún elemento contextual permite esa interpretación: (12) MIRTILA: […] Y tú, Ary, ahora mismo te pones a estudiar esa carrera […] ARY: Pero, madre ¡en tres semanas! Ya no puedo más. Me siento agotado […] MIRTILA: ¿Qué va a ser de tu madre si no le das en la cresta a este viejo gallo? Rechazaste su oferta. Ahora tu responsabilidad es estudiar arquitectura. La mía, prepararte buenas tazas de café. (13) esa rara obstinación que tenemos los españoles por cumplir reglamentos para darle en la cresta al prójimo, nada más que para eso.
Como ha podido comprobarse en los casos explicados, no todos los ejemplos de uso de las locuciones justifican la inclusión de estas informaciones circunstanciales en su definición, y, por otra parte, en ocasiones, el propio contexto en que se incluye el enunciado que contiene la locución permite deducir la información de naturaleza circunstancial. Al papel que desempeña el contexto hay que añadir el que juega el conocimiento enciclopédico del usuario del diccionario. La locución dar dos tiros, y las variantes dar cuatro tiros, dar un tiro, son definidas en el DFDEA: 976 como: ‹Matar[le] disparando contra él›.
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Bastaría, sin embargo, con definirla como ‹Matar a una persona›, dado que, al incluir el lema de la locución el sustantivo tiro, el usuario del diccionario puede deducir por su conocimiento del mundo que la acción de matar se realiza disparando.5 En este caso, pues, la información sobre el modo de la acción es redundante por el conocimiento que se tiene de la realidad. También lo es la especificación de la combinatoria sintagmática de la locución dar tierra, de la que se dice: ‹[a un muerto]. v Enterrar[le]› (cf. DFDEA: 967); ‹[a un muerto]› se puede suprimir, porque ya se sabe que se entierra a los muertos, y de ahí que, solo en caso contrario a lo naturalmente esperable, se diga de alguien que lo enterraron vivo. La situación descrita en esta comunicación es más frecuente de lo que a primera vista pudiera parecer. Por razones de espacio no voy a presentar detalladamente la manera de proceder de cada uno de los diccionarios anteriormente citados, por lo que me referiré solo a la locución echar el resto, pues se da la circunstancia de que las definiciones del DUE, del SALAMANCA, del GDUEA y del DFEM contienen una parte relativa a la expresión de la finalidad, ‹para conseguir algo›6, que está presente en el contexto que rodea a la locución y, en consecuencia, es deducible a partir de él, tal como confirman los fragmentos en cursiva de estos dos ejemplos: (14) Si queremos ganar –señaló Arsenio– hay que correr mucho. Al equipo no le queda más remedio que echar el resto. Correr y pelear. (15) Se consumó el fichaje del siglo. Los Angeles Lakers decidieron echar el resto en busca de revivir su época más dorada de los ochenta. Shaquille O’Neal, definitivamente, jugará las próximas siete temporadas en el Forum de Inglewood a cambio de ¡121 millones de dólares!
De modo que bastaría con definir la locución así: ‹Hacer el máximo esfuerzo o poner todos los medios de que se dispone›. 3.1. El caso de otras lenguas románicas La lexicografía de otras lenguas románicas no es ajena a este hecho. Por lo que se refiere al catalán en su variedad valenciana, el Diccionari valencià (DV) dirigido por Lacreu (1996), por ejemplo, define la locución petar de dents como ‹Fer batre les dents unes contra les altres pel fred, per la por, etc.› (cf. DV: 610), donde ‹pel fred, per la por, etc.› indica que las causas de la acción de tiritar son variadas, como manifiesta sobre todo el etcétera que cierra la paráfrasis definitoria. Ahora bien, los ejemplos de uso de la locución atestiguan Piénsese que una de las acepciones de tiro en el diccionario es ‹Disparo de un arma de fuego› (cf. DRAE: 2182). 6 En efecto, echar el resto es definida del siguiente modo en esos diccionarios: ‹Poner todos los medios de que se dispone para conseguir una cosa› (cf. DUE: 1022); ‹Poner todos los medios de que dispone para conseguir una cosa› (cf. SALAMANCA: 1388); ‹emplear alguien todos los medios a su alcance para conseguir algo› (cf. GDUEA: 1780), y ‹Hacer todo lo posible para conseguir algo› (cf. DFEM: 244). En cambio, el DRAE: 1961 la define, en su acepción 2, como ‹Hacer todo el esfuerzo posible›; esa misma definición es la del DIPELE: 1003, y, finalmente, el DFDEA: 883 ofrece como definición ‹Hacer el máximo esfuerzo, o poner todos los medios a su alcance›. 5
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suficientemente que la circunstancia de causa puede ser bien el frío, en (16), bien el miedo, en (17), o incluso la tristeza a partir de lo indicado en el ejemplo (18): (16) el dia de l’estrena de Galatea –segona quinzena de desembre–, es produí un fred insòlit; al Victoria no hi havia calefacció suficient, i el públic sense treure’s els abrics petava de dents. (17) L’article és molt interessant... Si Flandes s’independitzés dins la UE seguint les normes de Montenegro seria la bomba! Tremolor de cames, petar de dents, delíriums trèmens generalitzats. (18) I a l’escena darrera apareix tota una nòmina de lèxic d’ambient trist que porta a l’accident i a la cloenda del relat: primavera plujosa i humida, gris clar i argentat, pàl·lid, cara blanca, ulls rígids, com la cara d’un mort... tremolava i petava de dents violentament... Dues llàgrimes baixaven lentament sobre les galtes pàl·lides.
En consecuencia, el significado de la locución debería restringirse a ‹Tremolar› o, de manera análoga a la locución española equivalente, dar diente con diente, extenderse a una segunda acepción relativa a experimentar estados psicológicos negativos, de modo que se dé cabida al miedo o la tristeza. Véase ahora lo que pasa con esta otra locución: parar la mà, definida en el mismo diccionario como ‹Demanar diners, béns, etc., especialment estenent-la amb el palmell cap amunt› (cf. DV: 1260). La circunstancia de modo recogida en ‹estenent-la amb el palmell cap amunt› no es aplicable a todos los usos de la locución como atestiguan los ejemplos (19) y (20), donde el pronombre tothom y el colectivo gent, sujetos genérico e inespecífico, respectivamente, de los enunciados en que la locución funciona como predicado, favorecen una lectura universal, dicho de otro modo, impiden que quien enuncia el texto pueda referirse a esa circunstancia de modo por la imposibilidad real de constatar fehacientemente que todo el mundo y determinada gente de los partidos lleva a cabo el gesto de extender la mano con la palma hacia arriba cuando realiza la acción de pedir dinero: (19) Els socialistes li foten canya a en Millet i fan molt ben fet, perquè aquest home és el paradigma del que ha estat la sociovergència dels negocis, la corrupció i, en bona part, ‹l’oasi català› on, com tothom parava la mà, mai passava res. (20) Ara resulta que era veritat el que sospitavem tots: que els nostres polítics tots roben, i que a l’hora de la veritat gent d’un i altre partit parava la mà. No era un 3%. Era un 5% o més.
Por el contrario, cuando el sujeto de la locución no tiene ese carácter genérico o inespecífico, sino que designa un individuo determinado, puede interpretarse que se da la circunstancia de modo, como ocurre en (21), donde se describe el hecho de que los niños de un pueblo lo recorren cantando una canción y pidiendo dinero por ello, acción que muy bien puede ir acompañada del gesto con la mano que describe la definición de la locución: (21) Els nens recorren el poble trucant a les portes i cantant una cançó, i els adults els donen alguna moneda […] Aquí va la meva lletra, ja que cadascú te la seva versió […] (A continuació es parava la mà).
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O bien puede entenderse que seguramente la acción de pedir dinero, por su carácter habitual, reiterativo, no va a la par del gesto, interpretación más probable para el ejemplo (22): (22) És clar, com que ell havia estat sempre l’amo absolut de les seves finances, la mama, a la lluna de València! Ella parava la mà per a les despeses de la casa, i a callar.
Por otra parte, nuestro conocimiento enciclopédico nos indica que existe toda una casuística gestual relacionada con el tipo de petición descrito por parar la mà, pues puede intervenir, efectivamente, una mano extendida con la palma hacia arriba, pero también las dos manos formando un cuenco con las palmas y, asimismo, sobre todo cuando el acto de pedir se corresponde con la petición de limosna, una serie de objetos en los que depositar el dinero o los bienes solicitados: cajitas de distintos materiales, un simple cartón colocado en el suelo, prendas de vestir como un delantal o un sombrero e incluso los serones de una caballería, procedimiento este último utilizado antiguamente en un pueblo del sur de la provincia de Valencia para recoger donativos con el fin de subastarlos y obtener dinero para la celebración de la fiesta de San Antonio Abad.7 En cualquier caso, lo que queda claro es que la definición de la locución no debe referirse a uno solo de los múltiples gestos que pueden acompañar a la petición de dinero.8 La explicación de este dato, de naturaleza enciclopédica, específicamente cultural, corresponde, más bien, a un diccionario de gestos. La lexicografía sobre el portugués hablado en Brasil ofrece, asimismo, casos de esta manera de definir las locuciones verbales. El diccionario Aurélio (cf. Ferreira 2004) indica de la locución bater o queixo que significa ‹Tremer de frio ou de medo›9, aunque la circunstancia de causa es superflua porque los ejemplos de uso de la locución ya la muestran explícitamente: (23) Vem comigo. E seguiu à frente, com as mãos sob as axilas, quase a bater o queixo, arrepiada de frio. (24) É um vulto. Caminha entre as árvores. Veio cedo. É ele. Madame Vargas (Cai na poltrona sentada, batendo o queixo no auge o pavor) – É ele! É ele! É ele! Carlos –(tirando o revólver do bolso da calça e colocando-o no bolso do casaco)–.
En relación con la circunstancia de modo, la locución meter mãos à obra se define en los diccionarios Houaiss y Aurélio, respectivamente, como ‹Lançar-se com resolução e ânimo ao trabalho› y ‹Atirar-se com afinco a um trabalho, a uma atividade›. Ahora bien, tal información modal en algunas ocasiones se puede deducir del contexto en el que se incluye la locución: (25) No mercado nacional é muito difícil encontrar palmeiras na escala 1/35, logo, a solução é meter mãos à obra e criar as nossas próprias palmeiras, o que até dá muito mais satisfação do que comprá-las já feitas, e, ainda por cima, sai mais barato.
Me refiero a la ciudad de Albaida y debo el dato a Reme Albert Navarro, cuya familia paterna, Maquita, colabora tradicionalmente en la organización de la festividad del santo. 8 Bien es verdad que el DV: 1260 matiza la circunstancia de modo con el atenuador ‹especialment›, procedimiento lexicográfico que, a pesar de ser muy común en los diccionarios, es calificado de confuso para muchos lectores del diccionario por Hanks (1987: 116 y 125). 9 Sin embargo, el diccionario Houaiss (2008) la define simplemente como ‹Tremer de frio›. 7
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En otras, por el contrario, no se tienen datos para saber si el trabajo al que se refiere la locución debe llevarse a cabo con resolución, ánimo o ahínco: (26) A questão não se resume em a equipe de governo, influenciada por tal exortação, meter mãos à obra, e, por sua vez, produzir a proposta tão prometida e esperada.
4. Conclusiones Los ejemplos de lo que se ha explicado podrían multiplicarse, pero los presentados muestran suficientemente que determinadas partes en las entradas de algunas locuciones verbales, relativas especialmente a informaciones circunstanciales de la definición, y, asimismo, a su combinatoria sintagmática, no son necesarias10 porque se pueden deducir ya sea por el contexto lingüístico en el que la locución se incluye cuando esta se ilustra con ejemplos, ya sea por el conocimiento enciclopédico con que cuenta el usuario del diccionario.11 Tales fragmentos de la definición son incluso incorrectos, porque no se corresponden con muchos de los usos de la locución. Puesto que el contexto lingüístico y el conocimiento enciclopédico forman parte del uso de la lengua, no de su sistema, y son objeto de análisis para la pragmática (cf. Escandell 1993: 16), me ha parecido conveniente utilizar el calificativo pragmático para especificar la naturaleza de estos datos, de estos fragmentos de información que facilitan las entradas de los diccionarios y que surgen, justamente, del contexto lingüístico o del conocimiento del mundo.12 También desde la lexicografía que se basa en la semántica de marcos de Fillmore (cf. Atkins / Fillmore / Johnson 2003), los elementos no nucleares de un marco no son relevantes desde el punto de vista lexicográfico. Estos elementos no nucleares son adjuntos correspondientes a modificadores adverbiales que pueden aparecer en cualquier expresión de un evento (adjuntos de tiempo y lugar) y a modificadores adverbiales de un acto intencional (finalidad, manera, por ejemplo), curiosamente los mismos tipos de elementos que aquí se han considerado informaciones circunstanciales. Asimismo desde la semántica de marcos, Hanks (2002: 163) apunta que para los redactores de diccionarios es a menudo difícil decidir cuánto saber puede ser asumido por parte del lector y cuánto contexto explícito es necesario en una definición; de todos modos, citando a Wierzbicka, Hanks (2002: 174) se inclina por la definición breve para no caer en el defecto que ya señaló Aristóteles: cada palabra superflua en una definición es una trasgresión importante. 11 La idea ya fue apuntada, de algún modo, por García Benito (2002-2003). En concreto, esta autora se refiere al hecho de que la definición atienda al qué del significado, evitando el cómo, el cuándo, el dónde, elementos a los que denomina circunstancias de lo enciclopédico. Sin embargo, el desarrollo de ese trabajo dista mucho de las ideas aquí expuestas. 12 No debe, pues, confundirse el término información pragmática con el uso que de él hace Escandell (1993: 37). Tampoco debe entenderse en el sentido que habitualmente tiene en lexicografía, es decir, como la información relativa a las etiquetas o marcas de uso de las unidades léxicas (cf. Burkhanov 2003), ni siquiera desde la concepción amplia de información pragmática en lexicografía sustentada por Yang (2007). 10
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Sin embargo, propongo la supresión de esta información pragmática de las definiciones que la recogen, dado su carácter inferencial. La mejor prueba de que debe procederse así es la imposibilidad de sustituir la locución verbal por una paráfrasis definitoria que incluya tales informaciones, por el carácter parcialmente redundante del resultado. Por ejemplo, guardar cama se define en el DFDEA: 232 como ‹Permanecer sin levantarse de la cama durante cierto tiempo a causa de una enfermedad›; si esta paráfrasis definitoria sustituye a la locución en el ejemplo (27a) el resultado, (27b), sería una secuencia de todo punto inaceptable: (27a) A los siete años –cuenta su madre– tuvo que guardar cama varios meses debido a una hepatitis. (27b) *A los siete años –cuenta su madre– tuvo que permanecer sin levantarse de la cama durante cierto tiempo a causa de una enfermedad varios meses debido a una hepatitis.
Claro está que no toda la información circunstancial contenida en las definiciones debe eliminarse sistemáticamente. En ocasiones es necesaria, sobre todo en aquellas locuciones verbales con una fuerte carga cultural como, por ejemplo, dar el paseo, cuya comprensión cabal por parte del usuario del diccionario exige indicar las circunstancias de modo, lugar y finalidad señaladas en cursiva en la siguiente definición: ‹Llevarse por la fuerza a una persona a las afueras de una población para matarla sin juicio previo›. Por el contrario, la explicación de naturaleza temporal que ofrece el DFDEA: 746 en cursiva antes de la propia definición: ‹En la Guerra Civil de 1936: Llevárse[lo] por la fuerza y matar[lo] sin juicio previo›, así como la marca de ámbito (hist)13 con que se caracteriza, no son apropiadas porque el uso de la locución se ha extendido a situaciones ajenas a la Guerra Civil, como se observa en ejemplos como: (28) si la tienen allí, fastidiándolos y arriesgándose, es justamente porque ellos no son chinos. Los chinos, con una duda, le habrían dado el paseo. Ésta es la diferencia.
También son imprescindibles estas informaciones circunstanciales cuando actúan de semas diferenciadores de una locución frente a otras unidades con las que contrae alguna clase de relación semántica. Por ejemplo, abrir el pico, darle a la lengua o despegar los labios significan simplemente ‹Hablar›, frente a alzar la voz (‹Hablar a una persona con insolencia, sin respeto›), bajar el tono (‹Hablar con menos altivez o arrogancia›), cantar las verdades (‹Hablar claramente a una persona haciéndole los reproches que se merece›), cantarlas claras (‹Hablar claramente aunque moleste lo que se dice›), cortar un traje (‹Hablar mal de una persona›), dar cuatro gritos (‹Hablar en tono enérgico›), dar el mitin (‹Hablar en tono polémico o de propaganda›) o gastar saliva (‹Hablar inútilmente›). Los rasgos semánticos presentados como informaciones circunstanciales de modo en las definiciones de estas últimas son fundamentales para diferenciarlas en cuanto locuciones verbales hipónimas de las primeras, que se constituyen en hiperónimas de las presentadas en último lugar, cohipónimas estas, además, entre sí (cf. Penadés 2000). Así pues, compete al lexicógrafo aquilatar la conveniencia o no de incluir tales datos. Seco / Andrés / Ramos (2004: XXX) definen el término histórico como ‹Uso que se refiere a una realidad perteneciente a época anterior a la aquí estudiada›.
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En cualquier caso, que se anulen esas partes de la definición no significa una pérdida en la información ofrecida por el diccionario, pues los ejemplos de uso que, ya de manera habitual, forman parte de las entradas de los diccionarios permiten proporcionarla de manera implícita. Sí supone, sin embargo, una revisión de las definiciones de las locuciones verbales, al menos del español, el catalán y el portugués, en las obras lexicográficas que las recopilan, o, dicho de otra manera, hay que tener en cuenta la pragmática a la hora de definir, al menos, las locuciones verbales. Un diccionario no deja de ser un determinado género textual y una entrada lexicográfica, un acto comunicativo emitido por el autor del diccionario y recibido por el usuario.14 No debe resultar, pues, extraño que la pragmática juegue un papel en la actividad comunicativa que se inicia con la redacción del diccionario y finaliza con su consulta, así como en el análisis posterior de esta interacción.
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La idea no es, por supuesto, nueva; véase, por ejemplo, Albert Galera (1996).
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Letícia Marcondes Rezende (Universidade Estadual Paulista Júlio de Mesquita Filho – UNESP)
Opérations prédicatives et énonciatives: une étude sur la nominalisation
Introduction Ce texte présente une sélection d’une recherche plus ample dont le principal objectif était l’étude de la relation entre nominalisation et transitivité en langue portugaise. En s’appuyant sur la théorie des opérations prédicatives et énonciatives d’A. Culioli (1990, 1999a, 1999b), nous passerons d’une analyse statique et descriptive de la langue, dans laquelle ces questions jouissent d’une certaine visibilité, à une étude qui prenne en considération l’articulation du langage avec les langues naturelles. Cette seconde approche dilue la spécificité de ces deux questions grammaticales et les oriente vers des espaces de réflexion plus abstraits et communs à quelconque problème grammatical, tels que la causalité, la propriété différentielle et la construction de domaines notionnels.
La lexis: le point zéro de l’assertion (discours), de l’orientation (sémantique) et de l’ordination (syntaxique) Nous proposons l’existence d’un schéma abstrait de relations entre notions1, appelé schéma de lexis2, et nous posons que la causalité, ou transitivité, est un circuit de forces qui traverse ce schéma, engendre des transformations et offre des résultats. En conséquence, nous parlerons de propriété transitive de la lexis, de réversibilité, de voix passive et de négation. Et finalement, nous posons une question centrale: le dialogue qui existe entre chaque situation discursive spécifique (instable) et la relation prédicative ou logique (stable). L’énoncé présente un troisième plan, comme résultat de ce dialogue, qui redéfinit le domaine notionnel provisoirement offert par les interlocuteurs. Nous donnerons plusieurs exemples en langue portugaise dans lesquels les explications causales jouent le rôle de redéfinition notionnelle. Normalement, les explications causales (adverbe, propositions subordonnées et dans le cas de ce texte, nominalisation) sont des éléments thématisés. Pour la compréhension des concepts de notion présenté dans ce texte, voir Culioli (1990: 47-65, 78, 79 et 204; 1999a: 24, 34, 100, 130; 1999b: 17-33). 2 Pour une comparaison du concept de lexis avec d’autres théories, voir Desclés (1995). 1
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L’assertion joue un rôle fondamental en tant qu’opération et marque vive du sujet énonciateur, le sujet qui parle et qui met en relation, au moyen d’une analogie avec son monde expérientiel, les deux parties fondamentales d’un énoncé: l’argumentale ou désignative et la prédicative ou propositionnelle. Les formes verbales finies ou personnelles portent par excellence la marque de l’assertion. En outre, en tant que notions sémantiques, elles font d’abord partie du prédicat ou du deuxième argument. Mais, à partir de la propriété transitive de la lexis, de telles notions peuvent aussi faire partie du premier argument. La propriété transitive nous dit la chose suivante: à partir d’une relation entre a/r et r/b, nous devons établir une relation entre a/b. Cette propriété appliquée à la lexis, qui contient des notions, car a, r, b, doivent être remplis par des notions, offre un résultat ou projette un résultat possible ou probable. Ce résultat, ou ce résultat probable, peut être réversible. Nous pouvons alors affirmer que le résultat peut mettre en évidence soit une prédominance ou une projection de prédominance de /a/ sur r/b, soit une prédominance ou une projection de prédominance de /b/ sur r/a. La propriété transitive est à la base d’un circuit causal entres les termes de la lexis. Ce concept plus abstrait de transitivité, en tant que synonyme de causalité, nous permet une approche différente de celles qui classifient les verbes ou les procès en transitifs, intransitifs ou bi-transitifs, comme c’est le cas dans la tradition grammaticale, ou même de celles, plus 3 actuelles en linguistique, qui offrent des échelles ou des gradations raffinées de variations du phénomène de la transitivité. La réversibilité est le corollaire de la causalité, car toute force déclenchée par une origine doit cheminer vers une finalisation et donc présenter un résultat qui pourra être évalué comme bon ou mauvais. La réversibilité ne doit pas être confondue avec la valeur de la voix passive. Soit l’énoncé: (1)
O menino comeu a maçã.
La forme réversible serait: (2)
A maçã comeu o menino.
La forme passive serait: (3)
A maçã foi comida pelo menino
Hopper / Thompson (1980) parlent d’un plus grand ou d’un plus petit degré de transitivité dépendant de quelques facteurs, tels que: un ou plusieurs participants, perfectivité du verbe, intentionnalité, modalité, individuation et affectation de l’objet, etc. Lazard (1995) propose une conception de transitivité scalaire et aussi un ensemble de facteurs dont le plus grand ou le plus petit degré de présence affecte la transitivité: définitude, intention, thème, etc. Il propose un concept de distance actancielle qui serait la distance entre le verbe et ses compléments. Il remarque la proximité entre l’objet et les adverbes et dit qu’en arabe classique, ces deux fonctions sont marquées par un même cas. Selon notre perspective, l’objet et l’adverbe quantifient, dans des occurrences singulières (quantitatif prépondérant), des occurrences génériques (qualitatif prépondérant) ou encore des occurrences mixtes, la notion verbale.
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Du point de vue cognitif, c’est-à-dire du point de vue du langage, nous ne pouvons pas aboutir à (3) sans être passés par (2) et par sa négation. C’est exactement parce que la pomme n’a pas mangé le garçon, ou ne lui a pas opposé de résistance, mais l’a plutôt et surtout attiré, que le garçon a mangé la pomme et, par conséquent, que la pomme est mangée par le garçon.
Opération de prédication et organisation notionnelle Soit l’énoncé: (1)
O menino comeu a maçã.
Nous pouvons dire que dans cet énoncé, il y a une identification entre garçon d’un côté et pomme de l’autre. D’une certaine façon, garçon définit pomme, étant donné que pomme est un terme qui renvoie à une notion selon laquelle il est possible qu’elle soit mangée par le garçon. D’une façon symétrique, en tant qu’opération pouvant toutefois offrir comme résultat des dissymétries, garçon est un terme qui renvoie à une notion de possibilité de ( ) manger la pomme. Comme ce ne sont pas seulement les garçons qui peuvent manger la pomme et que la pomme peut être mangée par d’autres individus qui ne soient pas des garçons, nous n’avons pas une identification stricte et totale entre ces deux termes, mais une identification partielle (dissymétrie), qui suppose aussi une différence. Cette différence entre les termes permet l’existence même de la prédication. La prédication ne serait pas nécessaire s’il y avait identification totale entre les deux termes. La prédication exige toujours qu’une différence minimum entre les termes mis en relation soit posée. Les termes, même identifiés au moyen de la prédication, ont des propriétés et, par conséquent, des combinaisons différentes dans d’autres contextes. Nous avons comme résultat la valeur d’appartenance. Si dans le cas de l’énoncé affirmatif (1) le garçon a mangé la pomme, nous pouvons dire que la prédication finit par offrir une définition possible, encore que non exclusive, de garçon comme étant celui qui a mangé la pomme, et de pomme comme l’élément qui a la propriété d’avoir été mangé par le garçon, dans l’énoncé négatif, nous avons une situation tout à fait différente. Par exemple: (4)
O menino não comeu a maçã.
(4) porte en lui plusieurs chemins à partir desquels nous pouvons lui donner une valeur. Comme par exemple la négation d’éxistence (le vide). Mais, pour notre discussion dans ce texte, la négation aspecto-modale est très importante, comme: Du côté du garçon, nous pouvons avoir: (5a) O menino não comeu a maçã / porque ele não quis / porque ele não pôde / porque ele não conseguiu / porque ele não deve / porque ele está com a boca machucada / porque a sua mãe a escondeu / porque o seu irmão a comeu / etc. /.
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Du côté de la pomme, nous pouvons avoir: (5b) O menino não comeu a maçã / porque ela está verde / porque ela está dura / porque ela está azeda / etc. /.
Nous pourrions penser dans un premier temps que l’énoncé négatif (4) et surtout l’explicitation de la cause (dans ce cas, une subordonnée causale), qui exhibe le moyen par lequel la prédication en question n’a pas réussi à obtenir des états résultants, ne nous aideraient pas à construire la représentation garçon et pomme. Cependant, ces subordonnées causales présentes en 5 (a) et (b) nous permettent de remonter aux origines-causes qui soutiennent la construction d’une représentation et, au moyen d’une propriété différentielle caractéristique de la notion-type, mais absente de la prédication première et présente dans l’explication causale, de mieux caractériser la notion ou la représentation en question. Nous avons alors en 5 (a) et 5 (b) un éloignement entre l’occurrence spécifique d’une notion type et la notion à laquelle renvoie l’occurrence en question. De cette façon, en 5 (a), la notion type garçon correspond à une entité qui, pour atteindre l’objectif de manger de la pomme, a besoin de jouir de la propriété animé, qui signifie à son tour faire preuve de volonté, force, mouvement, intention, unicité, direction. Ces propriétés engendrent vitesse et détermination pour atteindre l’objectif. De cette façon, si le garçon jouissait de toutes ces propriétés à un degré élevé, il n’y aurait pas d’autre entité animée, comme la mère ou le frère, pouvant arriver avant lui à l’objectif pomme, qui en premier lieu appartenait au garçon. En 5 (b), la notion type pomme renvoie à une entité qui, pour être mangée par le garçon, a besoin d’avoir les propriétés suivantes: non verte (être mûre), non dure (croquante), non acide (sucrée), etc. D’une façon toute à fait différente, nous pouvons noter qu’un énoncé positif et sans explication causale comme (1) O menino comeu a maçã suppose une conformité entre l’occurrence spécifique de garçon et de pomme et les notions types correspondantes auxquelles renvoient ces occurrences spécifiques. En d’autres mots, il y a pour cet énoncé une superposition ou une conformité (au lieu de la distance des exemples précédents avec une négation) entre l’une des possibilités formelles d’interprétation de cet énoncé et une adéquation empirique spécifique. Cette expérience est implicite dans le cadre de l’attribution de la valeur. La valeur de l’opérateur, qui met d’abord les termes en relation en les repérant, c’est-à-dire qui établit une différence entre garçon manger ( ) et ( ) manger pomme, et qui dans un second temps identifie partiellement ces deux relations, c’est la valeur de x appartient à y ou y contient x, responsable à son tour de la construction de classe. Cette valeur polarisée, ainsi que sa négation, représentent à peine deux des valeurs possibles des énoncés. La polarisation entre le positif et le négatif, l’analyse statique de la langue et la notion de classe (appartenir à ou ne pas appartenir à) ne permettent pas la visualisation du continuum des opérations et des valeurs que nous offrent les énoncés en transformation. En d’autres termes, nous n’arrivons pas à appréhender les énoncés en familles paraphrastiques. L’énoncé négatif (4), et surtout l’explication des causes montrant la façon dont la prédication en question n’a pas réussi à atteindre d’états résultants au moyen d’une subordonnée causale (5a et 5b), nous permettent de remonter aux origines-causes qui soutiennent la construction d’une représentation, comme la représentation de ce que peut être garçon ou de ce que peut être pomme. Ces origines-causes soutiennent aussi l’énoncé affirmatif, même si elles ne sont pas aussi visibles que dans l’énoncé négatif. De cette façon, nous pouvons avoir:
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(6) O menino comeu a maçã / porque quis / porque a mãe permitiu / porque não estava com a boca machucada / obrigado pelo pai / contra a sua vontade / forçadamente / espontaneamente / ou / porque a maçã estava apetitosa / etc /.
Dans un énoncé positif comme (1) O menino comeu a maçã, l’altérité est prise en considération et est ensuite supprimée ou masquée. Tautologie, qui signifie altérité considérée et ensuite supprimée ou annulée, et altérité considérée sont les deux pôles d’un jeu de centralisation moi et de décentralisation l’autre au sein de la construction de la représentation. La subordonnée causale ou l’adverbe présents en (6) se constituent en un troisième argument, qui doit à son tour se constituer en relation énonciative (parce qu’elle est thématisée) effectuée sur une relation prédicative o menino comeu a maçã. Ce troisième argument, qui est le résultat d’une relation œuvrant sur une autre, recouvre une altérité ou une agentivité dotée d’une plus grande force que l’altérité ou l’agentivité de la relation primitive et prédicative. En d’autres mots, c’est parce que ni o menino comeu a maçã ni a maçã comeu o menino qu’un troisième argument causal-par se superpose pour faciliter ou compliquer, au bénéfice ou au détriment de, ou encore en tant qu’instrument ou moyen pour que la relation prédicative initiale se stabilise ou non pour offrir des valeurs référentielles. Lorsque nous avons un troisième argument, c’est parce que ni la voix active ni la voix passive, et encore moins la réversibilité, ont eu lieu. Une nouvelle origine, plus origine et 4 plus causale, entre alors en scène en tant qu’élément déclencheur du circuit causal antérieur (relation prédicative). Voyons maintenant quelques exemples.
Explications causales: syntagmes nominalisés, thématisés comme explication causale (7)
A permissão da mãe fez que ele comesse a maçã.
(8)
O azedume da maçã impediu que o menino a comesse.
Nous avons pour (7) et (8) un état initial constitué par une relation primitive menino, comer, maçã. Si dans ces énoncés nous ne prenons en considération que les propriétés adéquates et attendues des notions présentes dans la relation entre les termes, celle-ci ne s’effectuera cependant pas au sein d’une hypothétique relation prédicative. Pour que le processus de transformation se déclenche il faut qu’une propriété quelconque des termes en relation se détache, comme par exemple dans le cas d’une intensification (gradation) de quelques-unes des propriétés des termes (un excès, un manque, etc.). De cette façon, la force causale qui va permettre le déclenchement du processus réside dans une relation complexe d’intériorité et d’extériorité avec les termes de la relation primitive. Cette force, qui intègre ou désintègre des propriétés, permettra toujours de les définir comme les notions qu’elles sont. Nous voyons que la superposition des deux relations (prédicative et énonciative) permet d’organiser des domaines notionnels. Nous avons utilisé le terme circuit pour la transitivité à partir de la traduction de Bernard (1995) qui emploie les termes câble, câblage, câblée.
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Processus d’adéquation culturelle et organisation de domaines notionnels A. Culioli, dans sa tentative d’écrire l’histoire du concept de notion, cite Hegel, qui aurait défini la notion comme étant «la multiplicité développée et en même temps l’unité retrouvée» (CULIOLI, 1997: 12). Le prédicat-origine, premier et causal, se constitue en désignation grâce à un jeu de miroir entre identité et altérité. L’altérité peut faciliter ou compliquer l’agrégation (un) ou la dispersion (multiple) de la représentation, car il se peut que ce soit l’agrégation qui stabilise la représentation, ou encore la dispersion qui, par la déstabilisation qu’elle provoque, agrège ou stabilise. Même avec la dispersion, nous avons toujours une construction et jamais une déconstruction. L’énoncé (2) la pomme a mangé le garçon peut ressembler à une plaisanterie, mais il s’agit d’un énoncé important pour nos analyses. En effet, pour que le garçon ait mangé la pomme, celle-ci a dû montrer des propriétés attrayantes pour être mangé. Par exemple, si nous avons l’expression fruits comestibles, comestible est-il simplement une propriété des fruits ou est-ce aussi une propriété du sujet qui les mange? C’est dans l’espace ouvert par la non-occurrence de l’énoncé (1) le garçon a mangé la pomme, c’est-à-dire grâce à l’occurrence de l’énoncé négatif (4) le garçon n’a pas mangé la pomme, que nous pouvons reconstruire les points en parallèle d’un processus de construction de valeurs, un véritable éventail de familles paraphrastiques. C’est donc dans l’espace formel laissé vacant par (1) le garçon a mangé la pomme ou par sa négation (4) le garçon n’a pas mangé la pomme que nous obtenons des énoncés complètement ou partiellement réversibles. Si nous prenons l’énoncé négatif (4) le garçon n’a pas mangé la pomme, nous pouvons engendrer l’énoncé métaphorique, parce qu’inusité, (2) la pomme a mangé le garçon, dont la négation, (9) la pomme n’a pas mangé le garçon, soutient à son tour la construction de toute l’altérité possible. Nous pouvons ainsi dire que toute combinaison de lexis, ou encore l’existence de deux plans dans les énoncés créant un troisième plan, soit par des processus de coordination ou de subordination, soit par des processus de thématisation, occupe: 1o la place de l’énoncé négatif; 2o la place de la réversibilité. Nous essayerons maintenant d’exemplifier les points continus (en famille) de la construction de quelques énoncés importants pour notre étude.
Nominalisation et thématisation du troisième argument: redéfinition notionnelle (anti-)cause: la valeur de concession (10) O menino comeu a maçã embora ela estivesse verde.
La valeur de concession est construite sur la base d’une négation de possibilité d’existence qui n’a pas été respectée (prohibition). Avant la construction de la valeur de concession, nous avons deux préconstruits juxtaposés:
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(10a) O menino não deve / não pode comer a maçã verde; (10b) A maçã verde não deve/ não pode comer o menino.
Nous voulons montrer avec notre argumentation la façon dont un énoncé avec une valeur de concession est dérivé d’une réversibilité cognitivement possible, mais dans la plupart des cas culturellement impossible ou arborant une valeur inusitée ou métaphorique. De cette façon, l’énoncé Le garçon a mangé la pomme bien qu’elle soit verte signifie: *(10c) O estado-de-ser verde- da maçã impedia que o menino [ ] comesse [a maçã]
ou *(10d) A verdura da maçã impedia ...
Nous voyons dans ces constructions métalinguistiques, c’est-à-dire explicatives, que la pomme jouissant de la propriété d’être verte est le terme qui porte la force causale. La valeur de concession est construite en ne respectant pas cette force causale, c’est-à-dire qu’elle se constitue en anti-cause. Nous pouvons encore dire que garçon définit pomme comme un terme qui renvoie à une notion de possibilité d’être mangée par le garçon, et que pomme définit garçon comme un terme qui renvoie à une notion de possibilité de manger des pommes. Mais la propriété différentielle de pomme, qui est d’être verte, déséquilibre l’organisation notionnelle que délimitent ces deux termes en relation. La propriété d’être verte, présente dans la subordonnée concessive engendre une inadéquation notionnelle (culturelle) ou implique une instabilité en essayant de réorganiser le domaine notionnel des termes en question. En résumé, l’énoncé (10) Le garçon a mangé la pomme bien qu’elle soit verte dérive de (9) la pomme n’a pas mangé le garçon, ou mieux, de *(10e) la verdeur de la pomme n’a pas la force suffisante pour empêcher que le garçon mange la pomme avec son vert. Les énoncés (1), (2), (4), (9), (10) a, b, c, d, e, sont en relation paraphrastique et offrent ainsi des points continus ou un ensemble de construction de valeurs.
Cause: constructions adverbiales et adverbes Nous voulons montrer ici la proximité avec d’autres constructions grammaticales et surtout avec la nominalisation en tant que processus de thématisation du troisième argument ou d’un terme plus causal, plus origine, que les termes présents dans la relation primitive (sémantique) et dans la relation prédicative (syntaxique) des énoncés. Nous voulons surtout montrer que c’est ce troisième argument qui permet l’existence d’une altérité dont la force vient exactement occuper l’espace d’une force originelle qui n’a pu être déclenchée. Cette force seconde, superposée, plus causale que la première, est toujours représentée par une propriété différentielle. Nous construirons ci-après cinq groupes d’exemples. Dans le premier, nous proposons les constructions grammaticales de départ; les quatre autres groupes sont métalinguistiques, c’est-
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à-dire qu’ils se constituent en manipulations explicatives. De cette façon, dans le deuxième groupe, nous présentons des processus de thématisation de la cause; dans le troisième, nous établissons des rapprochements entre la nominalisation et les valeurs adverbiales; dans le quatrième, nous montrons le rapport entre les valeurs adverbiales et le complément d’agent; dans le cinquième, nous essayons d’expliciter ce que sont pour ces constructions l’altérité première et celle plus primitive encore. 1o: Constructions adverbiales et adverbes (point de départ) (11) O menino vai comer a maçã se ela estiver madura (12) O menino vai comer a maçã quando ela estiver madura. (13) A maçã precisa estar madura para que o menino possa comê-la. (14) O menino comeu a maçã porque ela estava madura (15) O menino comeu a maçã vorazmente (16) O menino comeu a maçã lentamente. (17) O menino comeu a maçã sem culpa. (18) O menino comeu a maçã tranquilamente. (19) O menino comeu a maçã agradecidamente. (20) O menino comeu a maçã obrigado.
2o: Thématisation de la cause et nominalisation *(11a) O estar-maduro da maçã será uma condição necessária para poder comê-la. *(12a) O estar-maduro da maçã será um momento que deverá ser esperado para poder comê-la. *(13a) O estar-maduro da maçã será necessário para que o menino possa comê-la. *(14a) O estar-maduro da maçã fez que o menino comesse a maçã / *a madureza / *a maturidade / *a maturação (15a) A voracidade com que o menino comeu a maçã mostrou / revelou / evidenciou / fez, etc. (16a) A lentidão com que o menino comeu a maçã mostrou / revelou / evidenciou / fez, etc. (17a) A não-culpabilidade do menino ao comer a maçã mostrou / revelou / evidenciou / fez, etc. (18a) A tranquilidade com que o menino comeu a maçã mostrou / revelou / evidenciou / fez, etc. (19a) A gratidão com que o menino comeu a maçã mostrou / revelou / evidenciou / fez, etc. (20a) A obrigação do menino em comer a maçã mostrou / revelou / evidenciou / fez, etc.
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3o: Cause thématisée, nominalisation et valeurs adverbiales (la façon d’être de la représentation) 5
*(11b) O modo de ser /inadequado / da maçã não impediu que o menino a comesse. 6
* (12b) O modo de ser /adequado / da maçã será obtido em um momento que deverá ser esperado para que ela possa ser comida. *(13b) O modo de ser /adequado/ da maçã será necessário para que o menino possa comê-la. *(14b) O modo de ser /adequado/ da maçã fez que o menino a comesse. *(15b) O modo de ser de /o menino comeu a maçã/ /em excesso, e, portanto, inadequado/ mostrou, revelou, evidenciou, fez ... /vorazmente/ *(16b) O modo de ser de /o menino comeu a maçã/ /em falta, e, portanto, inadequado/ mostrou, revelou, evidenciou, fez ... /lentamente/ *(17b) O modo de ser de /o menino comeu a maçã/ /não em excesso, e, portanto, adequado/ mostrou, revelou, evidenciou, fez ... /sem culpa/ *(18b) O modo de ser de /o menino comeu a maçã/ /não em excesso, e, portanto, adequado/ mostrou, revelou, evidenciou, fez ... /tranquilamente/ *(19b) O modo de ser de /o menino comeu a maçã/ / não em falta, e, portanto, adequado/ mostrou, revelou, evidenciou, fez ... /agradecidamente/. *(20b) O modo de ser de /o menino comeu a maçã/ /em excesso, e, portanto, inadequado/ mostrou, revelou, evidenciou, fez ... /obrigado/.
4o: Valeurs adverbiales et complément d’agent * (11c) O menino poderá comer a maçã desde que o modo de ser dela / estar madura/ permita isso. Se essa condição não for preenchida, o menino está impedido de comer a maçã pelo modo de ser dela. *(12c) O menino poderá comer a maçã em um momento em que o modo de ser dela permita isso. Antes desse momento, o menino está impedido de comer a maçã pelo modo de ser dela. *(13c) O menino poderá comer a maçã pelo modo de ser dela. *(14c) O menino comeu a maçã pelo modo de ser dela. *(15c) Tal fato aconteceu .../ Ficou evidente tal coisa pelo modo (em excesso) como o menino comeu a maçã. *(16c) Tal fato aconteceu .../ Ficou evidente tal coisa pelo modo (em falta) como o menino comeu a maçã. *(17c) Tal fato aconteceu .../ Ficou evidente tal coisa pelo modo (não em excesso) como o menino comeu a maçã. Inadéquat – être verte. Adéquat – être mûre.
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*(18c) Tal fato aconteceu .../ Ficou evidente tal fato pelo modo (não em excesso) como o menino comeu a maçã. *(19c) Tal fato aconteceu.../ Ficou evidente tal fato pelo modo (não em falta) como o menino comeu a maçã. *(20c) Tal fato aconteceu.../ Ficou evidente tal fato pelo modo (em excesso) como o menino comeu a maçã.
5o: Force ou cause superposée (et donc plus forte) à la force ou à la cause originelle. Processus d’adéquation notionnelle (culturelle?) Nous avons tout d’abord une force ou une cause originelle menino / comer / maçã . Ensuite, une force ou une cause superposée, plus causale et plus origine que la force originelle qui s’en trouve affaiblie. Par exemple: la façon d’être inappropriée de la pomme qui est verte ou n’est pas mûre pour les énoncés 11d, 12d, 13d, ou la façon d’être appropriée de la pomme qui est mûre pour l’énoncé 14d. Ou encore: nous avons une force ou une cause originelle donnée par menino / comer / maçã. Ensuite, nous avons une force ou une cause superposée: en excès (voracement) pour l’énoncé 15d; en défaut (lentement) pour 16d; ni en excès ni en défaut, donc adéquate (sans culpabilité) pour 17d; ni en excès ni en défaut, donc adéquate (tranquillement) pour 18d; ni en excès ni en défaut, donc adéquate (avec reconnaissance) pour 19d; en excès (obligé) pour 20d; De quelle façon des tels adverbes, au-delà, en-deçà et conformément aux attentes (adéquat) renvoient-ils à l’altérité? L’adverbe voracement peut être le résultat d’un manque de contrôle de l’agent garçon sur lui-même, par exemple, il ne contrôle pas sa faim; lentement, au contraire, peut révéler, dans le cas de manger, le contrôle du sujet sur lui-même pour pouvoir, par exemple, savourer l’aliment, ou parce qu’il a une blessure à la bouche; sans culpabilité peut être le résultat du dépassement d’un obstacle créé par le sujet lui-même ou par un autre; avec reconnaissance et obligé renvoient sans aucun doute respectivement à un autre qui donne la pomme ou qui oblige à la manger; tranquillement présuppose un dialogue, une contradiction et une épaisseur dialogique au sein desquels d’autres rythmes pour manger ont été mis en comparaison et pris 7 en considération. Par exemple, si nous avons un enfant qui mange tranquillement, il se peut qu’il mange de cette façon non par dépassement des autres rythmes, mais naturellement. Cependant, la présence du terme tranquillement dans un énoncé constitue sans aucun doute le résultat de procédures d’évaluation et d’appréciations mises en œuvre par celui qui énonce, même lorsque l’on dit que l’enfant mange tranquillement. La propriété différentielle (l’altérité) facilite et permet la finalisation du processus déclenché et l’obtention des états résultants. Cette même propriété peut aussi compliquer et empêcher la finalisation du processus déclenché et l’obtention de résultat. Si nous avons seulement Il a mangé la pomme, il nous faut supposer que les autres rythmes ont été pris en considération et abandonnés. La possibilité de mesurer la vitesse de l’acte de manger constitue une propriété sémantique, déjà potentiellement présente dans la relation primitive des notions, elle-même projetée vers d’autres niveaux de construction de l’énoncé.
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Conclusion L’étude que nous avons mise en œuvre soutient que l’état résultant ou la finalisation d’un énoncé offrent des valeurs polaires (l’assertion positive et la négative) et que ces valeurs ne sont que deux valeurs parmi d’autres que permettent les énoncés en transformation. Nous pouvons dire que dans les valeurs polaires, l’on arrive à une finalisation parce que l’altérité en tant qu’obstacle a été soit prise en considération et dépassée, soit tout simplement abandonnée, non pas par dépassement, mais par suppression ou annulation pure et simple. Les valeurs polaires représentent la contraction en un point ou en une seule valeur (c’est ou ce n’est pas) de l’épaisseur dialogique, ou des valeurs en contradiction (c’est et ce n’est pas en même temps), créées par les marques aspecto-modales qui dilatent le prédicat et qui sont exactement les propriétés différentielles dont traite ce texte.
Références bibliographiques Bernard, G. (1995): Modéliser la transitivité verbale. In: Bouscaren, J. / Franckel, J. J. / Robert, S. (edd.): Langues et langage. Problèmes et raisonnement en linguistique. Mélanges offerts à Antoine Culioli. Paris: PUF, 5-16. Culioli, A. (1990): Pour une linguistique de l’énonciation. Vol. 1: Opérations et représentations. Paris: Ophrys. ― (1997): A propos de la notion. In: Riviere, C. / Groussier, M. L. (edd.): La Notion. Paris: Ophrys, 9-24. ― (1999a): Pour une linguistique de l’énonciation. Vol. 2: Formalisation et opérations de repérage. Paris: Ophrys. ― (1999b): Pour une linguistique de l’énonciation. Vol. 3: Domaine notionnel. Paris: Ophrys. Desclés, J. P. (1995): Schéma de Lexis. In: Bouscaren, J. / Franckel, J. J. / Robert, S. (edd.): Langues et langage. Problèmes et raisonnement en linguistique. Mélanges offerts à Antoine Culioli. Paris: PUF, 57-71. Hopper, P. J. / Thompson, S.A. (1980): Transitivity in grammar and discourse. In: Languages, 56, 251-299. Lazard, G. (1995): La notion actancielle. In: Bouscaren, J. / Franckel, J. J. / Robert, S. (edd.): Langues et langage. Problèmes et raisonnement en linguistique. Mélanges offerts à Antoine Culioli. Paris: PUF, 135-146.
Emilio Ridruejo (Universidad de Valladolid)
La focalización del contraste negativo
1. Introducción Un asunto ampliamente tratado en la sintaxis románica es el del origen y desarrollo de los esquemas adversativos y, especialmente, el del origen de las principales conjunciones que entran en ellos. Varios de los trabajos clásicos sobre esta cuestión (Tobler 1908/1971; Melander 1916, Moignet 1973) se ocupan de la configuración de los nuevos instrumentos románicos, más, pero, sino, etc. para expresar la relación de oposición entre dos proposiciones. En esta comunicación también vamos a centrarnos de un aspecto que atañe en parte a este asunto, pero a partir de otro enfoque. Tomamos en consideración el hecho de que en la constitución en las lenguas románicas de nuevos instrumentos para marcar la relación adversativa tiene una importancia central la expresión del contraste de la exclusión o del contraste de la negación y de cómo se focaliza ese contraste. Se trataría, en definitiva, de plantear que en el origen de las nuevas conjunciones adversativas interviene la expresión de una función pragmática, la denominada de foco de la negación. Se puede focalizar la negación estableciendo un contraste mediante la formulación con polaridad negativa de una proposición seguida de una presentación positiva que contradice a la primera, pero también puede hacerse –y es lo más frecuente– que el foco recaiga sobre un segmento de la proposición insertado en el ámbito de la negación, mediante la aportación de una información distinta que no es afectada por la negación: No ha venido Pedro, sino Luis (Real Academia Española 2009: 40.6c). El mero contraste de dos proposiciones o de dos constituyentes con la misma información, solo que uno positivo y otro con inversión de polaridad, ya puede suponer por sí mismo la existencia de un proceso de focalización en cuanto que implica la existencia de alguna redundancia, dado que una parte de la información es presentada de manera repetida y tal repetición que se produce en la construcción indicada es ya suficiente para realzar el contraste propuesto.1 La focalización del contraste negativo supone, consiguientemente, tomar en consideración todo un conjunto de alternativas in absentia y realizar la mención de una de ellas, pero aludiendo simultáneamente aquella o aquellas que se descartan, lo que es una característica de los procesos de focalización (Gutiérrez 2006; Zubizarreta 1999: 4224-425). Este hecho se percibe con claridad cuando el contraste negativo alcanza a un componente de la predicación, de manera que el resto de esa predicación bien puede reiterarse o bien puede elidirse: No trajo sombrero, sino que trajo boina / No trajo sombrero, sino boina. No obstante, cuando se produce la elipsis, no es posible hablar de redundancia, aunque la información elidida pueda siempre ser reconstruida.
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2. Coordinación adversativa excluyente La formulación sintáctica del contraste negativo puede revestir la forma de coordinación adversativa del tipo denominado excluyente, pero también se puede realizar mediante proposiciones simplemente yuxtapuestas.2 En latín, la formulación más frecuente del contraste negativo entre predicados completos o entre elementos de un predicado se realiza mediante una oración adversativa coordinada con otra de polaridad negativa. La conjunción adversativa utilizada suele ser sed, que introduce el elemento positivo, mientras que la negación puede ir reforzada con otra partícula, modus, solum, etc. (Leumann / Hofmann / Szantyr 1965/1977: 518): (1a) Neque tamen Catilinae furor minuebatur, sed in dies plura agitare: arma per Italiam locis opportunis parare, pecuniam sua aut amicorum fide sumptam mutuam Faesulas ad Manlium quendam portare, qui postea princeps fuit belli faciundi. (Salustio, Catilina, 24) (1b) non illi imperium pelagi saevumque tridentem, sed mihi sorte datum. (Virgilio, Eneida I, 139) (1c) Est igitur haec, iudices, non scripta, sed nata lex quam non didicimus, accepimus. (Cicerón, Pro Milone, 9) (1d) Non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem cogitat. (Horacio, Ad Pisones, 143)
Hay que tener en cuenta que la coordinación adversativa por sí misma no implica contraste negativo, pues cabe diferenciar en las coordinadas adversativas dos funciones distintas, una es la limitadora, mediante la cual una oración coordinada adversativa simplemente expresa el rechazo de una expectativa que resulta presupuesta de otra oración, con independencia de que esta aparezca negada o no: (2a) Non ego, ne pecces, cum sis formosa, recuso. Sed ne sit misero scire necesse mihi.
(Ovidio, Amores, III, 14) (2b) Es rico, pero generoso.
La otra función de la construcción adversativa es la polémica o excluyente en la que se formulan, en forma negativa y afirmativa, dos proposiciones lógicamente contrarias, aunque ciertamente no faltan casos de ambigüedad. Aunque la limitación puede darse tanto en entornos negativos como positivos, la exclusión solo se da, lógicamente, cuando uno de los predicados es negativo. Además, cuando la relación de contraste se hace con predicados que, por los supuestos implicados, o por su sentido codificado, son contradictorios, no puede haber propiamente limitación.
Los aspectos discursivos de la coordinación adversativa en español han sido tratados recientemente por Bañón (2003). Este autor considera acertadamente que ya Melander en su investigación sobre MAGIS tuvo en cuenta componentes discursivos.
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3. MAGIS Aunque la yuxtaposición y la coordinación de predicados o de elementos contradictorios expresan por sí mismas el contraste negativo, es posible también emplear partículas de modalidad que destaquen la preferencia o la prioridad que el emisor atribuye a la proposición afirmativa, frente a la negativa, sin que exista formalmente coordinación. Ya en latín se emplean en esta función adverbios como POTIUS y, especialmente, MAGIS. Las lenguas románicas poseen los procedimientos que se empleaban en latín, pero algunos de sus componentes quedan gramaticalizados como conjunciones. En el caso de los derivados de MAGIS, por su extensión a todos los romances (excepto los orientales), así como por su comportamiento sintáctico en francés medieval, se puede deducir que el proceso de gramaticalización ya había tenido lugar en latín. Corominas y Pascual (1980 s.v. mas) suponen que el valor de conjunción adversativa de más ‹multiplicitat›..........................................................................................
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Almudena Soto Nieto Metonimia y metáfora en los sentidos polisémicos de rojo........................................
403
Adriana Stoichiţoiu Ichim Réflexions sur le sémantisme du lexème roum. joc vs. fr. jeu....................................
417
Taula general
731
Sanne Tanghe El aspecto deíctico de los verbos de movimiento y de sus interjecciones derivadas.....
427
John Bassett Trumper Problemi di adstrato e di sostrato nel romanzo di Calabria e Salento: quale greco?......
439
Hélène Vassiliadou La formation de c’est-à-dire (que) et de ses correspondants dans les langues romanes: quelques remarques.....................................................................................
453
Secció 5 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: formació de mots Teresa Cabré Presentació................................................................................................................
463
Julia Alletsgruber Vers une exploitation des données morphologiques du FEW au service de l’étymologie: le module de repérage affixal.............................................................
469
Elisenda Bernal / Carsten Sinner Neología expresiva: la formación de palabras en Mafalda.......................................
479
M. Teresa Cabré Castellví / Alba Coll Pérez / M. Amor Montané March La composició patrimonial en les llengües romàniques: un recurs en recessió?......
497
Maria do Céu Caetano Os sufixos -ncia e -nça em português.......................................................................
511
Paolo D’Achille / Maria Grossmann I composti ‹colorati› in italiano tra passato e presente.............................................
523
Antonella d’Angelis Formación y usos de los diminutivos italianos -etto, -ino, -uccio y sus equivalentes españoles..............................................................................................
539
Floricic Franck Impératif et ‹Mot Minimal› en catalan......................................................................
551
Daniela Marzo / Birgit Umbreit La conversion entre le lexique et la syntaxe.............................................................
565
732
Taula general
Olga Ozolina La formation des mots dans le français médiéval et contemporain..........................
577
Isabel Pereira Processos residuais de formação de palavras em português: a siglação / acronímia................................................................................................
587
Rui Abel Pereira Polifuncionalidade e cofuncionalidade afixal...........................................................
595
Maria Stanciu Istrate Considérations sur les mots composés avec atot dès les premières traductions roumaines jusqu’à l’époque moderne.......................................................................
607
Jaroslav Štichauer La dérivation suffixale nominale en français préclassique.......................................
617
John B. Trumper La formazione di un lessico fitonimico, apporti complessi e problemi di etimologia remota.....................................................................................................
629
Alina Villalva Estruturas convergentes............................................................................................
643
Ioana Vintilă-Rădulescu Le Parlement Européen face à la féminisation des noms de fonctions, grades et titres en roumain et en français.................................................................................
653
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
665
Taula general ...........................................................................................................
673
Taula general
733
Volum IV
Secció 4 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: lexicologia i fraseologia Elisabetta Jezek Presentazione..............................................................................................................
3
Vicente Álvarez Vives Fundamentos metodológicos para el estudio histórico de las unidades fraseológicas: propuesta de análisi............................................................................
5
Maria Celeste Augusto Estar grávida no espaço românico: aspectos cognitivos e motivacionais da designação...................................................................................................................
19
Gemma Boada Pérez / Xavier Serrano Aspa Anàlisi metafòrica del poema Scachs d’Amor............................................................
31
Hélène Carles Pour un Trésor Galloroman des Origines: les lexèmes vernaculaires et les toponymes délexicaux dans les plus anciennes chartes originales latines..................
39
Emili Casanova L’adverbi intensificador mateixa ‹même, mismo, mateix›, una particularitat romànica del valencià.................................................................................................
51
Isabel María Castro Zapata «Miope de razón, clarividente de intuición». El participio de presente en la formación de algunos compuestos léxicos del español...............................................
65
Adrian Chircu Une concordance modale et/ou adverbiale romano-roumaine: fr. guise, sp., cat., port., it. guisa = roum. chip et fel................................................................................
79
Marius-Radu Clim Neologismul: istoria termenului în lexicografia românească (accepţii, diferenţe, tendinţe)......................................................................................................................
91
Viorica Codita Sobre los usos de las locuciones prepositivas en textos del siglo XIII.......................
101
734
Taula general
Carla Cristina Almeida Coelho Verbos denominais em -ar e sequências fazer+sn em português................................
113
Dolores Corbella / Rafael Padrón El Ensayo de un vocabulario de Historia Natural de José Clavijo y Fajardo............
125
Maria Teresa De Luca Osservazioni sulla terminologia linguistica in Lingua Nostra....................................
139
Daniela Dincă Deux langues romanes en contact: les emprunts roumains au français......................
147
Gabriela Duda La Révolution néologique dans le langage poétique roumain d’après Eminescu......
157
Temistocle Franceschi / Matteo Rivoira Segar el trigo – segare il grano...................................................................................
169
Lúcia Fulgêncio Expresiones fijas: falsas ideas.....................................................................................
181
José Enrique Gargallo Gil Del ALEANR a BADARE: refranes meteorológicos, geoparemiología romance.....
193
Simona Rodina Georgescu Mozo, mocho y muchacho, ¿palabras sin etimología?................................................
203
Salud Ma Jarilla Bravo / Ma Antonella Sardelli El Refranero multilingüe. Las nuevas tecnologías aplicadas a la ‹traducción paremiológica›............................................................................................................
217
Olga Lisyová Algunas reflexiones sobre la creación popular de los nombres de plantas.................
229
Clarinda de Azevedo Maia Sobre a perda de palavras medievais e os comentários metalinguísticos dos primeiros gramáticos portugueses...............................................................................
243
Mª Jesús Mancho Aproximación a una serie numeral fraccionaria en textos científico-técnicos del Renacimiento..............................................................................................................
257
Taula general
735
Aurora Martínez Ezquerro La composición binominal de los términos referidos al ámbito de la moda actual: análisis y clasificación.................................................................................................
269
Francine Melka Certains idiomes sont plus idiomatiques que d’autres................................................
281
Dinu Moscal Le champ lexical et la lexicographie..........................................................................
289
Francho Nagore Laín La reflexión metalingüística en A bida en a montaña, de Lorenzo Cebollero, como fuente de definición léxica para el conocimiento del aragonés popular de Arguis (Prepirineo aragonés)..................................................................................................
299
Francisco Núñez Román La metáfora del viaje en las unidades fraseológicas en italiano y español.................
313
Ana Paz Afonso Entrar en batalla: aproximación a las relaciones léxicas entre el verbo entrar y el léxico del siglo XIII....................................................................................................
327
Cristina Piva Verbi e perifrasi verbali nel lessico italiano................................................................
339
Mihaela Popescu Une notion-clé dans la lexicologie roumaine: ‹l’étymologie multiple›......................
351
Voica Radu Influence de l’anglais sur le vocabulaire du roumain actuel.......................................
363
Gabriela Scurtu Les reflets de l’influence française sur le lexique du roumain....................................
375
Ana Serradilla Castaño Unidades fraseológicas con verbos de movimiento en español medieval..................
385
Aina Torrent Estructura presuposicional e implicaturas de la locución marcadora evidencial ni que decir tiene.............................................................................................................
399
Shiori Tokunaga Una red de significados: un estudio sobre el verbo salir en español..........................
411
736
Taula general
Anna Urzhumtseva Sobre los préstamos léxicos de las lenguas cooficiales de España en el lenguaje político español...........................................................................................................
423
Santiago Vicente Llavata Notas de Fraseología hispánica medieval. A propósito de la impronta catalanoaragonesa en la obra literaria de don Íñigo López de Mendoza.................................
431
Secció 15 Llatí tardà i medieval i romànic primitiu Sandor Kiss Présentation...............................................................................................................
445
Marta Andronache Le statut des langues romanes standardisées contemporaines dans le Dictionnaire Étymologique Roman (DÉRom)...............................................................................
449
Daniele Baglioni Scampoli di latino d’Oltremare.................................................................................
459
Florica Bechet Une carte qui parle. Informations dialectales sur le nom roumain de la cornemuse ................................
471
Myriam Benarroch L’apport du DÉRom à l’étymologie portugaise........................................................
479
Frédérique Biville «Bassus id est ‹grassus›», «bissum, quod ‹integrum› significat» (Martyrius, GL 7,176,14 et 177,9). Glossaires latins et lexiques romans .........................................
493
Olivia Claire Cockburn Los sufijos verbales -ficare e -izare (-issare, -idiare) y su propagación en el español......................................................................................................................
505
Ioana Costa Inflexibilia: propensioni indoeuropee, realtà romanze..............................................
513
Joseph Dalbera Le parfait de l’indicatif dans l’écriture autobiographique des Confessions de Saint Augustin et le jeu sur l’identité des instances narratives.................................
521
Taula general
737
Robert de Dardel / Yan Greub Analyse spatio-temporelle des composés nominaux prédicatifs en protoroman......
531
Benjamín García-Hernández Innovaciones latinas y románicas en el campo léxico de sūs (‹cerdo›)....................
543
Berta González Saavedra Procesos de lexicalización en latín vulgar y tardío. Causa, gratia y opera en los corpora de Plauto, Marcial y Petronio........................
551
Sándor Kiss Univers discursif et diachronie: les chroniques latines médiévales entre tradition et innovation..............................................................................................................
561
Sylviane Lazard Le développement de la séquence [DÉT + N] dans la scripta (Italie, VIe-IXe siècles)..............................................................................................
569
Luca Lorenzetti / Giancarlo Schirru Sulla conservazione di /k/ nel latino d’Africa...........................................................
585
Witold Mańczak Une linguistique romane sans latin vulgaire est-elle possible?................................
597
Vicente J. Marcet Rodríguez Las sibilantes en la documentación medieval leonesa: los textos latinos (siglos X-XII)................................................................................
603
Christian Schmitt Le latin et la propagation du vocabulaire d’origine populaire..................................
615
Rémy Verdo Un des plus anciens témoignages du dialecte picard? Le cas d’un jugement carolingien (Compiègne, 861)...............................................
625
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
639
Taula general ...........................................................................................................
647
738
Taula general
Volum V
Secció 6 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: onomàstica (toponímia i antroponímia) Enzo Caffarelli Presentazione..............................................................................................................
3
Xaverio Ballester Teresa y Otros Nuevos Étimos Hespéricos.................................................................
7
Eduardo Blasco Ferrer Iberia in Sardegna. La decifrazione del Paleosardo....................................................
19
Llum Bracho Lapiedra Criteris de denominació toponímica al País Valencià: el cas de la Gran Enciclopedia Temática de la Comunitat Valenciana......................
27
Claude Buridant L’onomastique dans la Chronique des rois de France................................................
35
Daniela Cacia Riflessi galloromanzi nell’antroponimia cuneese (XII-XVI secolo)..........................
49
Marina Castiglione / Michele Burgio Poligenesi e polimorfia dei ‹blasoni popolari›. Una ricerca sul campo in Sicilia a partire dai moventi......................................................................................................
61
Chiara Colli Tibaldi L’indicazione di mestiere nei secondi nomi dell’Astigiano (1387-1389)...................
75
Anna-Maria Corredor Plaja Antroponímia i creativitat: l’exemple dels sobrenoms de Portbou (Alt Empordà)........
87
Rocío Dourado Fernández Aproximación á zootoponimia do Concello de Ribadeo (Lugo)................................
99
Nicolae Felecan Corelaţia nume oficial / nume neoficial în zona Ţara Oaşului....................................
111
Taula general
739
Oliviu Felecan Il contatto linguistico romeno-romanzo attuale riflesso nell’antroponimia................
123
Vitalina Maria Frosi Os hodônimos de Caxias do Sul.................................................................................
135
Sarah Leroy Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre.....
147
Michela Letizia Nomi propri nella poesia catalana medievale.............................................................
159
Giorgio Marrapodi I suffissi -ano e -iano nei deonimici italiani...............................................................
171
Paulo Martínez Lema Rou, T(h)oar, Trunco: algúns exemplos de substitución toponímica na comarca de Fisterra (Galicia).........................................................................................................
179
Ruth Miguel Franco El cartulario Madrid, AHN, 996B y los documentos originales del Archivo Capitular de Toledo: aportaciones al estudio de la onomástica..................................
189
Maria Mihăilă Aspects actuels de l’anthroponymie roumaine...........................................................
201
Olga Mori Acerca de la especificación de los nombres propios...................................................
209
Ángel Narro Mítica de los moros y moras de la toponimia peninsular...........................................
219
Teodor Oancă / Ramona Lazea Dai nomi comuni moldavi al cognome.......................................................................
229
Elena Papa Riflessi delle attività pastorali nella toponomastica alpina del Piemonte: varietà e diffusione della terminologia legata all’insediamento stagionale................
235
Alda Rossebastiano Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana.....................................................
247
Stefan Ruhstaller / María Dolores Gordón Criterios para la normalización de la toponimia andaluza..........................................
259
740
Taula general
Patxi Salaberri Los nombres vascos vistos desde el romance: breve recorrido histórico...................
267
Moisés Selfa Sastre Algunes aportacions a l’onomàstica catalana medieval: estructura, formació i filiació lingüística de l’antroponímia dels Privilegis de la Ciutat de Balaguer (anys 1211-1352)..................................................................................................................
275
Vicent Terol i Reig Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida (segles XIII-XVI)...........................................................................
283
Joan Tort i Donada Toponímia, paisatge i ús del medi. Un estudi de cas a la regió de Ribagorça (Catalunya-Aragó)......................................................................................................
297
Federico Vicario Lo Schedario onomastico di Giovanni Battista Corgnali...........................................
311
Secció 9 La pragmàtica de les llengües romàniques Emilio Ridruejo Presentación..............................................................................................................
319
Hiroshi Abé A propos de l’hétérogénéité de la phrase contradictoire en français........................
331
Giovanna Alfonzetti I complimenti in italiano. Riflessioni metapragmatiche...........................................
343
José María Bernardo Paniagua La Lingüística en la ‹Sociedad red›..........................................................................
353
Francesco Bianco Il cum inversum fra italiano antico e moderno..........................................................
365
Ana I. Campo Hoyos Concordancia y variación en el uso de fórmulas de tratamiento a través de un corpus teatral francés-español en los siglos XVII y XVIII..................................
377
Taula general
741
Laura Cîţu Formes sapientiales et discours sentencieux. L’adage dans le langage législatif français, du droit coutumier au droit contemporain..................................................
391
Adriana Costăchescu Avant vs. après: contenu conceptuel et contenu procédural.....................................
403
Santiago del Rey Quesada Fórmulas de tratamiento en los diálogos de Alfonso de Valdés.......................
415
Mats Forsgren Passé simple et imparfait, ordre des mots et structure informationnelle: observations et remarques sur le cas de figure proposition principale – subordonnée temporelle en quand / lorsque / au moment où en français écrit.........
427
Xosé Ramón Freixeiro Mato Conectores consecutivos en galego-portugués: da época medieval á actualidade......
437
María Pilar Garcés El proceso evolutivo de los marcadores en todo caso y en cualquier caso..............
449
Joaquín Garrido Niveles de organización en las relaciones interoracionales: discurso y texto...........
461
Patrick Gililov Intonosyntaxe du message: regard contrastif sur le marquage de la visée communicative en français et en roumain................................................................
473
Miguel Gonçalves Éléments pour une tipologie des représentations discursives. La contribution da la conception polyphonique du discours...................................................................
483
Gerda Haßler Polifonía y deixis en las lenguas románicas.......................................................
493
Anja Hennemann Siempre habla ‹una fuente›. El (ab)uso de los marcadores evidenciales por los periodistas.................................................................................................................
505
Carmen Hoyos Hoyos Revisión de una construcción de sintaxis histórica desde la pragmática............
517
742
Taula general
Minh Ha Lo-Cicero Le portugais et le français: la pragmatique de la linguistique contrastive, la morphosyntaxe.............................
531
Marlene Loureiro Discursos masculino e feminino em textos de opinião nos media portugueses.......
543
Eva Martínez Díaz El componente pragmático en el uso de ‹deber (+ de) + infinitivo› en sus valores modales deóntico y epistémico.................................................................................
555
Caterina Molina Enunciats de la publicitat televisiva catalana: una anàlisi.................................
567
Mariana Paula Muñoz Arruda / Elena Godoi Petições iniciais em processos judiciais cíveis: um estudo sobre o uso de polidez à luz da teoria de Brown e Levinson.........................................................................
579
Inmaculada Penadés Martínez Información pragmática en la definición de las acepciones de locuciones verbales...
591
Letícia Marcondes Rezende Opérations prédicatives et énonciatives: une étude sur la nominalisation................
603
Emilio Ridruejo La focalización del contraste negativo...................................................................
615
Teresa María Rodríguez Ramalle Las sintaxis de las conjunciones que y si en oraciones independientes y su relación en el discurso...............................................................................................
627
Angela Schrott Consejos y consejeros: Tradiciones del consejo como secuencia ilocutiva en textos medievales......................................................................................................
639
Elena Siminiciuc Approches de l’ironie dans la rhétorique antique et moderne..................................
651
Franciska Skutta Références pronominales ambiguës........................................................................
663
Teresa Solias Arís Proceso de introducción de marcadores gramaticales en el aprendizaje bibligüe de primeras lenguas castellano-catalán en entorno monolingüe castellano..............
671
Taula general
743
Margherita Spampinato La violenza verbale in un corpus documentario del tardo Medioevo italiano: aspetti pragmatici......................................................................................................
683
Izabela Anna Szantyka Tra deissi, anafora ed empatia: l’analisi degli aspetti pragmatici nell’uso degli aggettivi e dei pronomi dimostrativi italiani.............................................................
695
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
709
Taula general ...........................................................................................................
717
Volum VI
Secció 8 Aspectes diatòpics de les llengües romàniques Francisco Moreno Fernández Presentación................................................................................................................
3
Giovanni Abete Metafonia e dittongazione spontanea nel dialetto di Belvedere Marittimo (CS): dati empirici e implicazioni teoriche...........................................................................
5
Vanderci de Andrade Aguilera Reflexões sobre a variação lexical no campo da fauna nos dados para o Atlas Linguístico do Brasil...................................................................................................
17
Xosé Afonso Álvarez Pérez Cartografía lingüística de Galicia e Portugal: presentación dun proxecto e estudo de dous casos...............................................................................................................
29
Ramón de Andrés Díaz Tractament horiomètric i dialectomètric de noves isoglosses a la frontera entre el galaico-portuguès i l’asturlleonès...............................................................................
41
Dorothée Aquino-Weber / Sara Cotelli / Christel Nissille Les cacologies, un genre textuel? Essai de définition à partir du corpus suisse romand........................................................................................................................
53
744
Taula general
Ilona Bădescu Remarques sur deux particularités morphologiques héritées du latin dans les parlers d’Olténie..........................................................................................................
65
Luminiţa Botoşineanu / Florin Olariu / Silviu Bejinariu Un projet d’informatisation dans la cartographie linguistique roumaine: Noul Atlas lingvistic român, pe regiuni. Moldova şi Bucovina en format électronique (e-NALR) – réalisations et perspectives.....................................................................
75
Inés Carrasco / Mª Luisa Chamorro / Livia C. García Aguiar El proyecto CORAMA: el contexto -st- en el habla de Málaga.................................
85
José Ramón Carriazo Ruiz ¿Cómo ha salido la Dialectología Románica del refugio etnográfico (Diego Catalán)? Un modelo etnolingüístico para el estudio del vocabulario riojano del Siglo de Oro........
95
Esteve Clua / Esteve Valls / Margalida Adrover Tractament quantitatiu de la variació dialectal i anàlisi lingüística: noves perspectives a partir de les dades del COD......................................................
107
Sheila Embleton / Dorin Uritescu / Eric Wheeler Continuum et fragmentation géolinguistiques d’après l’Atlas linguistique de la Crişana en ligne...........................................................................................................
119
Carmen Maria Faggion Aspectos morfossintáticos do vêneto do Sul do Brasil...............................................
131
Hans Goebl La dialectometrización del ALPI: rápida presentación de los resultados...................
143
Cristina Matute Martínez Hacia una caracterización dialectal de la interpolación en el castellano de la Edad Media.................................................................................................................
155
Jacyra Andrade Mota A pluridimensionalidade no Atlas Linguístico do Brasil............................................
165
Lourdes Oliveras Avolla. Una forma en recessió en el català central de les comarques de Girona. Treball de síntesi dialectològica..................................................................................
173
Marcela Moura Torres Paim O Projeto Atlas Linguístico do Brasil (ALiB) e a identidade social de faixa etária: uma questão de tempo nos dados das capitais do país................................................
187
Taula general
745
Ana Yantzin Pérez Cortés / Alejandro Velázquez Elizalde Procesos de sustitución léxica en el español americano: el caso de coger y agarrar......................................................................................
197
Nadia Prantera / Antonio Mendicino Il complementatore mu / ma / mi nei dialetti meridionali estremi d’Italia: un caso complesso tra morfologia e sintassi...............................................................
209
Valentina Retaro Perfetti Imperfetti. Sull’origine dei perfetti in -v- in alcune varietà dialettali dell’Italia meridionale.................................................................................................
221
Natacha Reynaud Oudot Las sibilantes en documentos ecuatorianos de los siglos XVI-XVIII........................
233
André Thibault Grammaticalisation anthropomorphique en français régional antillais: l’expression de la voix moyenne (ou: Dépêche ton corps, oui!)................................
243
Esteve Valls / Esteve Clua Distància de Levenshtein vs. «mètode COD»: dos sistemes de mesura de la distància fonètica aplicats al Corpus Oral Dialectal...................................................
255
Floarea Vîrban Forme rare dell’articolo indeterminativo nel rumeno antico. Fra storia della lingua rumena e geografia linguistica romanza.....................................................................
269
Mª Esther Vivancos Mulero Fuentes para el estudio de los caracterizadores morfológicos dialectales del murciano. La literatura menor del siglo XVIII: Las labradoras de Murcia...............
281
Inka Wissner L’utilisation discursive de diatopismes du français dans un corpus littéraire (l’œuvre d’Yves Viollier, écrivain vendéen du XXe siècle).......................................
293
Teodor Florin Zanoaga Présences explicites et implicites des interjections et des onomatopées dans un corpus de littérature antillaise contemporaine............................................................
305
Alina Zvonareva Il dialetto catalano della città di Alghero (Sardegna) e la lingua dei canti religiosi algheresi (goigs)..........................................................................................................
317
746
Taula general
Secció 10 Análisi del discurs i la conversació. Escrit i oral. Llengua dels mitjans de comunicació Vicent Salvador Presentació................................................................................................................
331
Giovanni Agresti / Lucilla Agostini Mesurer l’efficacité de l’écriture web: le langage de la promotion touristique........
333
Diana Andrei A peut-être B soit la supériorité argumentative de peut-être....................................
347
Donella Antelmi Notizie in 2 minuti: densità informativa e testualità in un genere giornalistico.......
359
Maria Helena Araújo Carreira La construction de la relation interpersonnelle dans le discours écrit.....................
371
Diana Luz Pessoa de Barros Provocação e sedução na conversação......................................................................
377
Elena Carmona Yanes Marcadores discursivos de interacción e incorporación del receptor al texto en cartas al director...................................................................................................
389
Luminiţa Chiorean / Eugenia Enache La rhétorique du discours journalistique ou de la la métaphore / la relation de métaphorisation & ethos...........................................................................................
401
Cecilia Condei Figurer le pouvoir politique dans le discours des écrivaines francophones..............
417
Elena Diez del Corral Areta La partícula (y) así en cartas oficiales ecuatorianas (XVI-XVII).................................
429
Isabel Margarida Duarte Titres journalistiques et dialogisme: la ‹une› du quotidien Público.........................
441
Melania Duma / Cristian Paşcalău Les stratégies de ‹définir› dans les mots-croisés et le forum roumains....................
451
Daiana Felecan Aspetti della cortesia e della scortesia verbale nei dibattiti e nei comunicati stampa televisivi (il caso della campagna elettorale presidenziale della Romania, 2009).......
463
Taula general
747
Dolors Font-Rotchés / David Paloma Sanllehí Ramon Pellicer vs. Xavi Coral. Caracterització de l’entonació dels titulars televisius...............................................
475
Esther Forgas Berdet Ideología y lenguaje periodístico: los titulares en la prensa hispana........................
487
Catalina Fuentes Rodríguez Las «oraciones» de comentario en español...............................................................
499
Carla González / Isabel Olid La llengua als programes informatius de Canal 9: una aproximació crítica a la llengua com a element clau en la manipulació política......................................
511
Alice Ionescu Marqueurs évidentiels dans la presse écrite roumaine..............................................
525
Thomas Johnen «Eu desde pequeno ajudava a minha mãe a limpar a casa e a gente levantava o sofá para varrer – no governo de vocês não faziam isso»: Do ethos em (inter-) ação de Lula e de Alckmin no primeiro debate do segundo turno das eleições presidenciais brasileiras de 2006..............................................................................
533
Ana Kuzmanović-Jovanović Variedades lingüísticas especializadas y / o su omisión: una estrategia discursiva al servicio de objetivos ideológicos..................................
545
Eva Lavric El tiempo, el dinero y las novias – Usos aproximativos e hiperbólicos de los numerales en las conversaciones españolas..............................................................
555
Audria Leal / Carla Teixeira Da aplicabilidade da noção de figura de acção. Análise de textos de autor.............
569
Véronique Magri-Mourgues ‹Presque› et la catégorisation: presque outil comparatif et polyphonique................
583
Carlos Meléndez Quero La locución adverbial por suerte: propiedades sintáctico-distribucionales, instrucciones discursivas e intenciones argumentativas...........................................
595
Noelia Micó Romero La cohésion temporelle et autres aspects discursifs dans les articles d’opinion: une étude contrastive français-espagnol..................................................
607
748
Taula general
Mihaela Mitu «Poftim» et ses hétéronymes français.......................................................................
619
Ricard Morant Marco / Arantxa Martín López El lenguaje de la gripe A en la prensa española durante el año 2009.......................
631
Franca Orletti / Laura Mariottini Las narraciones de acontecimientos traumáticos: la guerra civil y el campo de concentración.....................................................................................
639
Gemma Peña Martínez Chaînes hiérarchiques, chaînes de référence: quelques aspects fonctionnels et contrastifs (français-espagnol)..............................................................................
651
Bernardo E. Pérez Álvarez Progresión temática en la sintaxis oral......................................................................
663
Myriam Ponge Le dire entre guillemets: étude d’une stratégie discursive de distanciation en espagnol et français contemporains.....................................................................
673
Andreea Teletin Etude comparative (portugais / roumain) de la communication touristique: marques énonciatives et intersubjectives..................................................................
685
Cristiana Teodorescu Marques de l’intolérance dans le discours médiatique roumain...............................
693
Cristina Vela Delfa El papel de las actitudes lingüísticas en los procesos de intercomprensión en lenguas románicas................................................................................................
705
Jakob Wüest «Suivez le guide». Les actes directifs dans les guides de voyage............................
717
Antje Zilg Je ne vois que toi! – La télévision locale comme vecteur de proximité et d’identite....
727
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
739
Taula general ...........................................................................................................
747
Taula general
749
Volum VII
Secció 11 Filologia i lingüística dels textos i dels diccionaris de les llengües romàniques. Variacions diasistemàtiques en època antiga Gilles Roques Présentation.................................................................................................................
3
Silvia Nicoleta Baltă Culorile cailor apocaliptici în tradiţia biblică românească Între fidelitate şi infidelitate semantica..................................................................................................
7
Ana Paula Banza O silêncio dos manuscritos: para uma edição crítica da História do Futuro, de Padre António Vieira...................................................................................................
19
Marcello Barbato Come abbiamo imparato a scrivere in toscano...........................................................
27
Clara Barros A estruturação discursiva de versões portuguesas da legislação de Alfonso X: afinidades e discordâncias...........................................................................................
39
Anders Bengtsson La polynomie dans le ms. 305 de Queen’s College (Oxford).....................................
53
Micaela Carrera de la Red Parámetros de variación morfosintáctica en textos clasificados como «Autos» en la Nueva Granada del siglo XVIII..................................................................................
63
Eleonora Ciambelli La stratificazione lessicale submersa in un Codice diplomatico normanno...............
77
Chiara De Caprio / Francesco Montuori Copia, riuso e rimaneggiamento della Quarta Parte della Cronaca di Partenope tra Quattro e Cinquecento...........................................................................................
89
Elena de la Cruz Vergari Li sens dans l’œuvre de Jehan Renart: étude sémantique...........................................
103
750
Taula general
Antonio Augusto Domínguez Carregal Doo no léxico do sufrimento amoroso da lírica profana galego-portuguesa..............
115
Vicent Josep Escartí Els usos lingüístics dels memorialistes valencians, de l’edat mitjana a la renaixença...................................................................................................................
125
Antoni Ferrando Francés Interés de la versió aragonesa del Llibre dels feits del rei en Jaume en la fixació del text català..............................................................................................................
139
Mar Garachana Camarero Ço és (a saber). La reformulació als textos catalans antics........................................
151
Rosalía García Cornejo La organización textual en los documentos notariales de la primera mitad del siglo XIII....................................................................................................................
163
Adela García Valle Oralidad y escritura a finales del s. XIII: algunos grupos consonánticos en la documentación notarial castellana y de Sahagún........................................................
177
Martin-D. Gleßgen / Claire Vachon (†) L’étude philologique et scriptologique du Nouveau Corpus d’Amsterdam................
191
Maria Filomena Gonçalves / Ana Paula Banza Da antiga à nova Filologia: o Projecto MEP-BPEDig................................................
205
Elisa Guadagnini Per una nuova edizione della Rettorica di Brunetto Latini.........................................
211
Josep Guia Traduccions i versions prosificades de l’Espill, obra catalana en vers del segle XV. Una anàlisi fraseològica..............................................................................................
223
Alexander Ibarz Blatchford La última fase de la koiné occitano-catalana: los provenzalismos en Ausiàs March..........................................................................
235
Alicja Kacprzak De la variation diasystémique et de ses fonctions dans la nosologie du XVIIIe siècle..............................................................................
249
Taula general
751
Dumitru Kihaï Le scribe bilingue dans les productions documentaires oïliques: étude d’un cas concret.................................................................................................
257
Dorothea Kullmann Le pseudo-français des épopées occitanes..................................................................
267
Bohdana Librova Le fonctionnement de l’adverbe or dans les sermons médiévaux en langues d’oïl et d’oc.........................................................................................................................
279
Sergio Lubello Il testo in movimento: il De arte coquinaria di Maestro Martino e le riscritture del libro d’autore...............................................................................................................
293
Marco Maggiore Varianti diasistematiche in una scripta meridionale antica: sui verbi del commento al Teseida di provenienza salentina (II metà del XV secolo)......................................
301
Simone Marcenaro Per uno studio della polisemia nei trovatori occitani. Questioni preliminari.............
311
Antonio Montinaro La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali........................................................................................
323
Ricardo Pichel Gotérrez Notas sobre braquigrafía galega medieval. Sinais abreviativos especializados.........
335
Miguel Ángel Pousada Cruz «Ũa pergunta vos quero fazer». Fórmulas metaliterarias para introducir os debates galego-portugueses.....................................................................................................
347
Honorat Resurreccion Ros Orientacions diferents en les traduccions medievals, a l’occità i al català, de la Vita sancti Honorati...........................................................................................................
359
Paola Scarpini / Erika Cancellu Il potere delle parole nella Follia Tristano di Oxford: l’abito fa il matto? Tra cognitivismo e narrativa.......................................................................................
371
Cristina Scarpino Fonti prossime e remote del Ricettario calabrese di Luca Geracitano di Stilo (1477).............................................................................................................
383
752
Taula general
Lydia A. Stanovaïa Étude verticale et horizontale de manuscrits de l’ancien français..............................
397
Nadine Steinfeld La traque des mots fantômes à travers les terres de La Curne et de Godefroy: un tableau de chasse chargé de trophées pittoresques extraits du Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio..............................................................................
411
Emanuela Timotin Le roumain en deux miroirs: le latin et le slavon. Les mots roumains dans deux dictionnaires bilingues du XVIIe siècle.......................................................................
423
Giulio Vaccaro Tradizione e fortuna dei volgarizzamenti di Vegezio in Italia....................................
433
Paul Videsott Quand et avec qui les rois de France ont-ils commencé à écrire en français?............
445
Rémy Viredaz Est-alpin ARTĪCŎRIUM ‹regain›...............................................................................
459
Aude Wirth-Jaillard Des sources médiévales méconnues des linguistes, les documents comptables.........
469
Secció 16 Història de la lingüística i de la filologia romàniques Margarita Lliteras / María José Martínez Alcalde / Pierre Swiggers Présentation...............................................................................................................
481
Craig Baker Auguste Scheler (1819-1890) et la philologie française en Belgique.......................
489
Aitor Carrera Quatre regles de gramàtica aranesa. Aportacions de la gramàtica inèdita de Jusèp Condò a l’estudi de l’aranès contemporani.....................................................
501
Daniel Casals / Neus Faura El ressò del VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica (Barcelona, 1953) i del XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques (Mallorca, 1980) a la premsa coetània......................................................................
513
Taula general
753
Anamaria Curea Le facteur affectif dans les conceptualisations du langage, de la langue et de la linguistique chez Charles Bally et Charles-Albert Sechehaye..................................
525
Ricardo Escavy Zamora La concepción del signo lingüístico en la obra de Eduardo Benot (1822-1907)......
537
Gonçalo Fernandes A Arte para en breve saber Latin (Salamanca 1595) de Francisco Sánchez de las Brozas e a Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim (Lisboa 1610) de Pedro Sánchez...........................................................................................................
549
Maria Filomena Gonçalves Sobre a projecção do método histórico-comparativo na gramática elementar portuguesa: a Gramatica Portugueza Elementar, fundada sobre o methodo historico-comparativo (1876)...................................................................................
561
Rolf Kemmler Para a Receção da Gramática Geral em Portugal:a tradução portuguesa da Grammaire générale de Nicolas Beauzée................................................................
573
Margarita Lliteras Contrastes románicos en el proceso de codificación del español.............................
585
Teresa Maria Teixeira de Moura Rudimentos da Gramatica Portugueza (1799) de Pedro José da Fonseca entre a GRAE (1771) e os ideólogos Franceses...................................................................
595
Kerstin Ohligschlaeger Idée, signes et perfectionnement de la pensée dans trois mémoires du concours académique sur l’influence des signes sur la pensée (1799).....................................
607
Claudia Polzin-Haumann Norme et variation dans la tradition grammaticale française et espagnole..............
617
Marta Prat Sabater Los pronombres de tratamiento en la tradición gramatical hispana.........................
629
Carmen Quijada Van den Berghe El modelo griego en la caracterización del artículo español: ¿un proceso de deshelenización?..............................................................................
641
754
Taula general
Sara Szoc / Pierre Swiggers Au carrefour de la (méta)lexicographie, de la terminographie, de la grammaticographie et de la linguistique contrastive: La terminologie grammaticale dans les grammaires de l’italien aux Pays-Bas..................................
653
Josep L. Teodoro Peris (Universitat de València) El Saggio sopra la necessità di scrivere nella propia lingua (1750) de Francesco Algarotti. Una aportació a la Questione della lingua i al debat sobre l’ús literari del llatí...................................................................................................
667
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
683
Taula general ...........................................................................................................
691
Volum VIII
Secció 12 Recursos electrònics: diccionaris i corpus. Lexicografia Pietro Beltrami Presentazione..............................................................................................................
3
Manuel Alvar Ezquerra Las guías políglotas de Corona Bustamante y sus nomenclaturas..............................
7
Marcello Aprile La lessicografia etimologica in Italia..........................................................................
19
Paloma Arroyo Vega Un problema de fronteras intercategoriales: el tratamiento del participio en el Diccionario del castellano del siglo XV en la Corona de Aragón (DiCCA-XV)............
31
Elena Artale Funzioni grammaticali e valore verbale in lessicografia. Alcuni casi di gerundio nel TLIO: lemmatizzazione e redazione...............................
43
Sylvie Bazin-Tacchella / Gilles Souvay Le Dictionnaire du Moyen Français: la version DMF 2010......................................
55
Taula general
755
Ma. Teresa Beltrán Chabrera / Ma. Teresa Cases Fandos Una nova proposta en lexicografia didàctica...............................................................
67
Esther Blasco Mateo Determinados complementos predicativos y el corpus del Diccionario del castellano del siglo XV en la Corona de Aragón (DiCCA-XV).....................................
79
Cesáreo Calvo Rigual I regionalismi nei dizionari monolingui italiani e spagnoli attuali.............................
91
Adriana Cascone Questioni pratiche e teoriche di lessicografia dialettale..............................................
103
Maria Sofia Corradini / Guido Mensching Nuovi aspetti relativi al «Dictionnaire de Termes Médico-botaniques de l’Ancien Occitan» (DiTMAO): creazione di una base di dati integrata con organizzazione onomasiologica.................................................................................
113
Elena Dănilă Corpus lexicographique roumain essentiel. Les dictionnaires de la langue roumaine alignés au niveau de l’entrée......................
125
Debora de Fazio Il trattamento delle unità polirematiche nel Dizionario della Lingua Italiana di Tommaseo-Bellini.......................................................................................................
135
Alessandro Di Candia Diatopia e diacronia nel Vocabolario romanesco di Filippo Chiappini......................
147
Ana Fernández-Montraveta / Gloria Vázquez / M. Elena Beà SenSemCat: Corpus de la lengua catalana anotado con información morfológica, sintáctica y semántica..................................................................................................
159
Mercedes García Ferrer Análisis contrastivo de las herramientas lexicográficas para enseñar y aprender latín.........................................................................................................................
171
Jacinto González Cobas Hacia un tratamiento sistemático de los nombres de instrumentos musicales en los diccionarios............................................................................................................
183
Pierre Kunstmann / Hiltrud Gerner / Gilles Souvay Le Dictionnaire Électronique de Chrétien de Troyes (DÉCT1): révision et élargissement.............................................................................................
195
756
Taula general
Clara Inés López-Rodríguez / Miriam Buendía-Castro Aplicación de la Lingüística de corpus en la didáctica de la Traducción científica y técnica.........................................................................................................................
205
Mar Massanell i Messalles / Joan Torruella Variació geolectal i cronolectal en les denominacions catalanes del crepuscle a partir dels materials aplegats en el corpus geolingüístic ALDC i en el corpus documental CICA..................................................................................................
217
Nicolas Mazziotta Traitement de la coordination dans le Syntactic Reference Corpus of Medieval French (SRCMF)........................................................................................................
229
Rocco Luigi Nichil Starace e Mussolini. Lessico fascista e retorica di regime nell’anno XVI E.F. (29 ottobre 1937- 28 ottobre 1938)...................................................................................
239
Mario Pagano / Salvatore Arcidiacono Corpus Artesia (Archivio Testuale del Siciliano Antico)............................................
253
Mª Nieves Sánchez González de Herrero / Juan Sánchez Méndez / Ingmar Söhrman / Mª Jesús Torrens Álvarez La Red CHARTA: objetivos y método.......................................................................
263
Pedro Sánchez-Prieto / Micaela Carrera / Carmen Isasi / Paul Spence El corpus de CHARTA................................................................................................
275
Gilles Souvay / Sylvie Bazin-Tacchella Construction assistée de glossaires à l’aide des outils du DMF.................................
291
Stefano Vicari Emotions euphoriques et dysphoriques dans les discours métalinguistiques ordinaires....................................................................................................................
301
Federico Vicario Il Dizionario storico friulano......................................................................................
313
Taula general
757
Secció 13 Traduccions en la Romània i traduccions latino-romàniques Brigitte Lépinette Présentation...............................................................................................................
323
Chiara Albertin Le traduzioni italiane cinquecentesche della Crónica del Perú di Pedro de Cieza de León.....................................................................................................................
329
Gorana Bikić-Carić Un regard sur les couples virtualité / réalité et subjonctif / indicatif en français, espagnol, portugais et roumain................................................................................
341
Miriam Bouzouita La influencia latinizante en el uso del futuro en la traducción bíblica del códice Escorial I.6............................................................................................................
353
Clara Grande López Traducciones en la baja Edad Media de un tratado de cirugía: Chirurgia Magna de Guy de Chauliac. Textos en latín, castellano y catalán..............................................
365
Marta Marfany Simó La llengua poètica del segle xv a través d’una traducció: Requesta d’amor de Madama sens merce...............................................................
375
José Antonio Moreno Villanueva Sobre el origen y la evolución del término pila en español....................................
385
Gemma Pellissa Prades La forma francesa del París e Viana, l’elaboració literària d’un conte?..................
397
Silvia Peron Le Coplas por la muerte de su padre di Jorge Manrique tradotte da Giacomo Zanella......................................................................................................................
409
Cinzia Pignatelli TRANSMEDIE: un projet de recensement des traductions médiévales en français............................
421
Delia Ionela Prodan La literatura catalana d’autoria femenina i la seva traducció a l’espai romanès. Anàlisi del període 1968-2008..................................................................................
433
758
Taula general
Ursula Reutner Spécificités culturelles et traduction: l’exemple de Bienvenidos al Norte................
445
Rafael Roca Ricart Les traduccions catalanes de Teodor Llorente: gènesi i model lingüístic.................
457
Michela Russo / Teresa Proto Interferenza germanica e frammentazione linguistica della Galloromania: modelli diglossici e bilinguismo nei Pariser (altdeutsche) Gespräche (Conversazioni di Parigi).........................................................................................
469
Simone Ventura Fra lessico geografico e geografia linguistica: il libro XV de l’«Elucidari de las proprietatz de totas res naturals».........................
489
Secció 14 Llengües criolles amb base lèxica romanç i contactes lingüístics extra i intraromàmics Jürgen Lang Presentación..............................................................................................................
503
Mònica Barrieras i Angàs La còpula locativa sai en saamaka, crioll angloportuguès del Surinam...................
509
Maria Concetta Cacciola Neoformazioni participiali nel greco di Calabria......................................................
519
Manuela Casanova Ávalos Valencianismos en el léxico disponible de Castellón...............................................
531
José M.a Enguita Utrilla La concordancia de número verbal en la Relación de Cristóbal de Molina el Cuzqueño (BNE, ms. 3169)
545
Mauro A. Fernández Los marcadores TMA y el origen de los criollos hispano-filipinos: el caso de de / di / ay.................................................................................................
559
Javier García González Los arabismos en los primitivos romances hispánicos.............................................
571
Taula general
759
Joaquim Juan-Mompó Rovira La interferència lingüística en l’obra editada de Teodor Tomàs...............................
583
Stefan Koch Sobre el contacto del leonés con el castellano en la Edad Media. Estudio preliminar de ocho documentos de San Pedro de Eslonza (1241-1280).....
595
Jean Le Dû / Guylaine Brun-Trigaud Présentation de l’Atlas Linguistique des Petites Antilles (ALPA)............................
609
Francesc Llopis Rodrigo / Joaquim López Río Transferències lèxiques en els estudiants valencians................................................
617
Jean-Louis Rougé / Emmanuel Schang Ce qu’enseigne la comparaison des créoles portugais d’Afrique.............................
629
Angelo Variano Prestiti d’America di trafila spagnola nei dizionari italiani dell’uso........................
641
Lenka Zajícová Formas de hispanización en el checo inmigrante en Paraguay.................................
653
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
663
Taula general ...........................................................................................................
671