Verga e il naturalismo. Tra la Sicilia, Milano e l'Europa 8811674271, 9788811674276


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Italian Pages 490 [508] Year 1995

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Verga e il naturalismo. Tra la Sicilia, Milano e l'Europa
 8811674271, 9788811674276

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GIACOMO DEBENEDETTl

VERGA E IL NATURALISMO

Garzanti • Gli elefanti Saggi

Tra la Sicilia, Milano e l’Europa i nodi fondamentali del progetto artistico verista.

»

I

gli elefanti

Dello stesso autore: // romana del Novecento Poesia italiana del Novecento Pascoli: la rivoluzione inconsapevole Quaderni di Montaigne

Giacomo Debenedetti Verga e il naturalismo Prefazione di Nino Borsellino

Garanti

In questa collana Prima edizione: settembre 1993

ISBN 88-11-67427-1 ©Garzanti Editore s.p.a., 1991 Printed in Italy

Prefazione

Nel ventre della balena

La pubblicazione postuma nel 1976 dei quaderni delle lezio¬ ni che Giacomo Debenedetti dedicò a Giovanni Verga, in due corsi accademici svolti a Messina tra il 1951 e il ’53, fu una sor¬ presa, se non ricordo male, per il pubblico della critica lettera¬ ria. Esiguo quanto si vuole nel mercato librario, esso era però in continua crescita per l’opera del grande saggista dopo l’inau¬ gurazione nel ’71 della serie degli inediti col più fortunato tra tutti. Il romanzo del Novecento, da tempo anche collaudatissimo testo d’adozione universitaria. Altri nomi, non il Verga, veniva¬ no di solito evocati per i suoi interessi di «contemporaneista»: quello di Pirandello, tra gli insulari, e tra i continentali soprat¬ tutto quelli di Saba, Svevo e Tozzi, per limitarci alle competen¬ ze novecentiste del professore. Gli uditori di allora, i suoi scola¬ ri di qua e di là dello Stretto, avranno conservato il ricordo di quelle lezioni certo indimenticabili e qualcuno avrà risentito sulla pagina scritta il recitativo suadente, lo stile vocale di quel cinquantenne subalpino, da molto però, come il suo Alfieri, spiemontizzatosi. Ma gli altri? «Lui vivo, soltanto i suoi studenti possono aver saputo che esisteva un Debenedetti così», ha do¬ vuto ammettere un suo penetrantissimo lettore abituato a gio¬ care d’anticipo rispetto alla norma dei professionisti della lette¬ ratura, e quasi in fuorigioco.’ Ma come così? Alla fine del ’54 non s’erano letti i Presagi del Verga, un saggio che condensa la materia fluida che scorre senza argini nei quaderni siciliani?^ In realtà quell’articolo ne condensa solo una minima parte, per giunta controllando che la discorsività di una diagnosi psi¬ cologica ben circoscritta filtrasse il grumo della questione ver-

1 Cfr. Marzio Pieri, Fischiata XXXIII. Un sonetto di Giambattista Marino, Parma 1992. Si vedano nella conversazione con Luciana Saetti le pagine (126-29) dedicate al «corpo a corpo» di Debenedetti con il testo. 2 Pubblicato in «Nuovi Argomenti», 11, nov.-dic. 1954, pp. 87-103; poi in Saggi critici, ni serie, Milano 1959, pp. 215-31. Ili

ghisna centrale, la conversione dal tardo romanticismo al veri¬ smo, senza straripare di là da una localizzazione biografica del tema. Nei Presagi Debenedetti sviluppa la domanda che si pone all’inizio del primo corso: perché Verga da anziano nel 98 sconfessasse pubblicamente tra tutti i suoi romanzi giovanili di successo solo Una peccatrice, non Storia di una capinera, Èva, Eros, Tigre reale, altrettanto «macchiati» dal narcisismo del pro¬ tagonista e dello stesso autore, anche quando si fa doppiare, per non compromettersi con quelle torbide vicende, da narra¬ tori confidenti.* Evidentemente non si trattava di un ripudio globale, di tutta la produzione pre-verista e deir«innaturale» esasperazione passionale che vi è dovunque esibita. Secondo Debenedetti la sconfessione rivelava un residuo disagio esisten¬ ziale e insieme letterario nei confronti del primo titolo, ancora catanese, della cinquina romanzesca completata in un decen¬ nio fervido di attività compositiva tra Firenze e Milano. «In Una peccatrice», dichiara, «stava scritta, fatale, pesante, cifrata ma in¬ derogabile come in un oroscopo, la storia di Giovanni Verga ar¬ tista». Ma poi aggiunge: «Naturalmente il Verga non sapeva, o sapeva male che cosa gli raffigurasse la storia di Una peccatrice. Probabilmente ne provava solo un oscuro malessere, un senso come di vergogna sotto specie di rimorso letterario: quanto ba¬ stava per avvertirlo, senza un esatto perché, che era meglio non parlarne più». Infatti quell’oroscopo non s’era realizzato. Esso era contenuto nella storia del giovane scrittore che seduce col successo letterario una vamp dei salotti aristocratici prima per lui irraggiungibile, ma poi l’abbandona, quando è lei ad essere condizionata da quel rapporto, al punto da consumarsi con la droga. Il protagonista si chiuderà nella sua mediocrità borghe¬ se di artista fallito; Verga invece avrà successo; ma quando Una peccatrice fu ristampata senza il suo consenso, quasi a trent’anni di distanza dalla prima edizione, egli leggerà nel fallimento del giovane scrittore catanese il fallimento del suo programma 3 La sconfessione di Una peccatrice è contenuta in una lettera di Verga al¬ l’editore Treves pubblicata neir«Illustrazione Italiana» del 24 aprile 1898 per rispondere a varie critiche per la ristampa del romanzo giovanile. L’a¬ veva ristampato cinque anni prima, nel 1893, l’editore Giannetta di Cata¬ nia senza autorizzazione dell’autore, il quale già nel luglio di quell’anno lo sconfessava, deplorando l’iniziativa editoriale, in una lettera al Negro, pri¬ mo editore a Torino del romanzo. Si tenga conto che la fonte biografica di Debenedetti è la Vita di Giovanni Verga di Nino Cappellani, Firenze 1940. IV

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di artista che sa prendere le distanze dal bel mondo dell’Italia postunitaria, mai frequentato peraltro con fanatismo, promet¬ tendosi però di riconquistarlo con mezzi letterari tutti diversi dopo rimmersione nella realtà elementare della sua Sicilia. La peccatrice del romanzo avrebbe dovuto essere il simbolo di quella conquista e insieme la sua vittima sacrificale, una «vinta», in definitiva, dal progi esso della forma verghiana ottenuto ridi¬ scendendo al fondo della società per risalire alla sua sommità e compiere, in possesso di un nuovo linguaggio, il disegno della grande rappresentazione ciclica detta appunto dei «Vinti». La rappresentazione restò incompiuta rispetto al progetto, benché perfetta nelle parti eseguite, le uniche ormai coinciden¬ ti con la scoperta di quel suo nuovo linguaggio tutto immerso nei fatti e non trasferibile fuori dai confini della lotta darwinia¬ na dell’esistenza. Il maestro del nuovo stile, il profeta dell’ope¬ ra che sembrasse essersi fatta da sé praticando fino agli esiti più estremi, dell’eclissi dell’autore, il culto flaubertiano dell’imper¬ sonalità, tentava la scalata letteraria alle cime della società. Se ne era assunto pubblicamente l’impegno annunciando la serie dei titoli del ciclo, ma gli ultimi tre. La duchessa di Leyra, L'uomo di lusso. L’onorevole Scipioni, restarono inevasi per il rischio di una fatale ricaduta nelle convenzionalità passionali del roman¬ zo d’alto bordo, alla Dumas-fils, alla Feuillet, ormai rimpiazza¬ ti dallo psicologismo analitico di un Bourget, cui si sarebbe rifat¬ to il suo devotissimo De Roberto. E restava in lui la scontentez¬ za per «questo eterno tentennamento tra l’essere e il volere», come lo scrittore confidava neH”88 a un’amica lontana. «Pri¬ ma», conclude Debenedetti, «un dissidio tra la volontà che lo spinge a scrivere storie di lusso e la sua necessità di poeta. Più tardi, sarà la sua necessità di poeta a spingerlo, a trattenerlo do¬ ve la sua volontà non avrebbe voluto fermarsi: a chiuderlo, cioè, senza uscita nel giro dei capolavori rusticani». Alla luce delle argomentazioni svolte nei corsi di Messina il condensato critico pubblicato nel ’54 ci sembra ora carico di «verità», di una verità postuma allora poco riconoscibile. Altre verità in quei decenni postbellici si andavano cercando nella storia di Verga e nel mistero della sua forma, e nasceva a profit¬ to della riflessione storiografica e, per altro verso, delle analisi di lingua e di stile, una «questione» ovvero un «caso» Verga. Nella stesso anno aveva suscitato interesse una lettura di Gaeta¬ no Trombatore della novella Libertà, delle Rusticane, da allegaV

re al dossier del processo al Risorgimento di matrice gramscia¬ na.^ Ma il nuovo corso della critica verghiana si era dise^ato circa dieci anni prima, nel ’45, quando uscirono in una rivista militante gli Appunti per un saggio sul Verga di Natalino Sapegno, dove la questione Verga veniva chiarita a specchio della questione del Meridione, la più inquietante tra le tante eredita¬ te dallo stato unitario.® A giudizio di Debenedetti, nelle pagine dedicate alla storia della critica veghiana in esordio del corso, Sapegno «è tra i più decisi (di quelli che hanno la testa sul collo) a sottrarsi al magnetismo di questa idea della conversione, dato che impianta in maniera nuova il problema verghiano». Quale sia questa maniera nuova Debenedetti non precisa. Nuovo è di fatto il richiamo al contributo della pubblicistica sul problema del Meridione. Penetranti e allarmate inchieste sociologiche (di Sennino e Franchetti, di Pasquale Villari) sollecitavano soluzio¬ ni istituzionali ed economiche per colmare il divario delle due società italiane, tra nord e sud negli anni in cui Verga maturava la sua «conversione». Esse davano un rilievo etico e ideologico, e implicitamente estetico, all’epica verghiana degli umili (e in questo l’interpretazione di Sapegno assecondava quella ormai classica di Luigi Russo),® lasciando però sospesa la contraddi¬ zione tra la solidarietà artistica dello scrittore con quella realtà sociale e il suo conservatorismo politico (tema divenuto il rom¬ picapo verghiano degli anni Settanta). Va ricordato anche, fuori delle vicende della critica, la tradu¬ zione del rigore narrativo dei Malavoglia nel più rigoroso esem¬ plare del neorealismo cinematografico. Appartiene a quella stagione (1947) La terra trema, girato da Luchino Visconti nel villaggio dei pescatori siciliani, ad Acitrezza, non ancora tra¬ sformato in stazione turistica. Il film spingeva la questione sto¬ rica del Meridione verso una tensione attuale di lotta tra sfrut¬ tati (non più vinti) e sfruttatori, mentre il dialetto degli attori non professionisti, lasciato a crudo dal regista, diversamente dalla pronuncia metadialettale dei protagonisti e della voce

4 G. Trombatore, Verga e la libertà (1954), raccolto nel volume Riflessi let¬ terari del Risorgimento in Sicilia e altri studi sul secondo Ottocento, Palermo 1960, pp. 17-29. 5 N. Sapegno, Appunti per un saggio sul Verga ( 1945), in Ritratto di Manzoni ed altri saggi, Bari 1961, pp. 256-70. \ 6 L. Russo, Giovanni Verga, Napoli 1920 (ma 1919), più volte ristampato. VI

narrante del romanzo, invitava a rispondere anche al quesito posto dall’originalità della scrittura verghiana di là dalla formu¬ la deir«antiletterarietà» cara a Sapegno e prima ancora a Russo (che però in una ristampa del suo libro affrontò più in dettaglio il problema) e a Pirandello, che la sottolineò con più forza, con¬ trapponendo due categorie di scrittori italiani, di «cose» e di «parole».’ Ancora nel ’54, scartando le secche del regionalismo e riferendosi niente meno che a modalità dello stile di Proust, Giacomo Devoto analizzava la sintassi dei Malavoglia e la ricon¬ duceva a una serrata articolazione di piani narrativi piuttosto che a un registro unico, della coralità o del racconto dialogato, stando alle definizioni correnti; e due anni dopo Leo Spitzer ne correggeva le conclusioni incanalando quei procedimenti nel gran flusso del discorso indiretto libero o «vissuto», che caratte¬ rizza tanta prosa romanzesca moderna.** L’iscrizione dell’opera di Verga nel panorama della letteratura europea più innovatri¬ ce era per questo verso sancita. In mezzo a queste verità figlie del tempo, di un decennio ric¬ co di passioni e revisioni culturali, la verità di Debenedetti non poteva valere che a futura memoria, era semmai «figliuola del gran tempo», come avrebbe detto un cinquecentista appassio¬ nato di oroscopi; sarebbe stata riconoscibile nella lunga durata, ad apertura dei quaderni di scuola. Qui i presagi non sono sol¬ tanto annunci di un possibile e inconsueto ritratto del Verga, sono cartoni di composizione di una storia del romanzo euro¬ peo alla fine dell’Ottocento verificabile anche su valori estetici non rilevanti come Una peccatrice e fino a Nedda, eppure illumi¬ nanti proprio per lo scarto nettissimo con i valori del Verga maggiore. Per questo forse Debenedetti non senti il dovere di accompagnare i suoi allievi oltre la soglia dei capolavori verghiani. Essi sarebbero andati avanti per conto proprio se l’aves¬ sero desiderato, mentre in lui urgeva l’esigenza di delineare al7 Cfr. il Discorso di Catania per rottantesimo compleanno del Verga (2 set¬ tembre 1920), ripreso con qualche modifica nel ’31 per le celebrazioni del cinquantesimo anniversario dei Malavoglia nella Reale Accademia d’Ita¬ lia. Entrambi in L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio Musò, Milano 1973, pp. 391-428 della iii edizione accresciuta. 8 G. Devoto, Giovanni Verga e i piani del racconto (1954), raccolto in Nuovi studi di stilistica, Firenze 1962, pp. 202-14; L. Spitzer, L’originalità della narrazione nei «Malavoglia» (1956), in Studi italiani, a cura di C. Scalpati, Milano 1976, pp. 305-11. VII

tri quadri e altri profili tra Otto e Novecento, del romanzo an¬ cora, della poesia, di quei destini individuali che accoglievano e preparavano la modernità nell’inconsapevolezza della loro funzione: Tommaseo, per esempio, o Pascoli. Si direbbe che anch’egli inconsapevolmente delineasse con le lezioni universi¬ tarie un destino postumo di grandezza raccogliendo l’eredità dell’ultimo De Sanctis, delle lezioni napoletane dedicate alla Letteratura italiana del XIX secolo, compresi Manzoni e Leopar¬ di, che Benedetto Croce pubblicò sul finire del secolo. Altro che la cattedra che gli fu rifiutata, in cambio di un insegnamen¬ to perpetuato per incarico, gli avrebbero meritato quella sua intelligenza e quel suo impegno di critico e di storico. Se si per¬ dura e si rinnova lo sdegno per quell’episodio tanto degradante per l’università italiana, è perché l’immagine di Debenedetti che attraversa tutte le sezioni dei quaderni, non solo ovviamen¬ te dei messinesi, è tutta riempita della sua incomparabile peda¬ gogia universitaria. Essa consiste nella messa a fuoco metodolo¬ gica e storica degli argomenti da svolgere, che si alimentano delle qualità rabdomantiche del saggista ma senza trascurare le riserve della documentazione sulle fonti di studio, senza na¬ scondere i loro debiti tra incomprensibili allusioni, con «l’aria di saperla tremendamente lunga», con quella «certa saccente¬ ria» che il docente, senza risparmiare frecciate e colpi di spillo ex cathedra, non esita a rinfacciare ad altri; infine manifestando sempre intenzioni e finalità. Nella prima lezione Debenedetti dichiara la sua convinzionf;-che sul Verga «rimanga qualche cosa d’altro da dire» e che «hl'isognerà vedere di cercarlo per altra via». Sappiamo orma i di che cosa si tratta: doppiare il capo della conversione al veri; smo segnato nella mappa della critica per primo dal Capuania, ma anche quello dell’analisi estetica, impressionistica, alla^Momigliano,^' che finisce per smantellare la difficile arte dehK^erga ro¬ manziere e novelliere, salvando ciò che risponde a,F,riodalità più facili di lettura. La bussola di Debenedetti è ipivece orientata verso il nord esistenziale e psicologico dello sifrittore, sulla sua «volontà» di scrivere che lo porta al succeszso e sulla «necessità» di scrivere che gli fa scoprire il suo linguiàggio ma lascia incom¬ piuto il destino vagheggiato, il mito di se stesso a cui s’oppone «la forza del destino» che il critico evoca volentieri con tutta la 9 A. Momigliano, Dante, Manzoni, Verga, Firenze 1944. Vili

sua risonanza melodrammatica. La tesi la conosciamo; è enun¬ ciata nei Presagi e concentrata neU’inchiesta sul rifiuto di un ro¬ manzo, di Una peccatrice. Ma mancano nel saggio i sinuosi per¬ corsi analitici delle lezioni che vanno dalle prime prove catanesi, dalla trilogia dei romanzi patriottici. Amore e patria, I carbona¬ ri della montagna, Sulle lagune, alla serie dei romanzi borghesi bruciati «nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle fal¬ de dell’Etna» che illumina la figura di Nedda e apre la grande stagione del narratore realista. E manca, rifacendoci alla termi¬ nologia delle lezioni, accanto all’esecuzione del «tema» (il con¬ tenuto dettato dall’esterno, perfino dalla moda), l’orchestra¬ zione del «motivo» (la materia immedesimata neH’esperienza vissuta). Giacomo Debenedetti era un professore tutt’altro che incli¬ ne a certi vezzi demagogici dell’insegnamento umanistico post¬ bellico. Era calato in Sicilia calandosi anche nel mondo di Ver¬ ga, come se avvertisse il bisogno di una sua «conversazione in Sicilia» e forse il dovere di misurarsi con la più intensa e cele¬ brata immagine dell’isola nella letteratura italiana, ma guar¬ dandola nello specchio della letteratura europea senza «astratti furori» e senza cedere alla tentazione di un facile solidarismo meridionalistico con gli studenti saltando il fossato che separa dai romanzi di lusso la saga verghiana degli umili. Introduceva invece un metodo di psicocritica, evitando di sbandierare teo¬ rie e primati accademici, anzi riportando la verità sommersa nella palude romanzesca alla superficie di una realtà descrivibi¬ le con ampi scenari di storiografia e di sociologia. Arriva a par¬ lare della Capinera e alza il sipario su una storia della donna nel romanzo dell’Ottocento (alla quale è dedicata, ci avvertono in una nota le curatrici dell’edizione postuma, un intero quader¬ no qui non recuperato). Inaugura il primo corso richiamando l’attenzione in anticipo sul punto di svolta della storia di Verga, sul «bozzetto siciliano» Nedda, sul quale ruota il secondo corso, e apre sulla scena multipla delle abitazioni della borghesia dove il lettore e la lettrice attendono «l’ospite o l’inquilino racco¬ mandato che, nel fascino delle vicende, munito del grimaldello della fantasia, si iirtroduceva nelle case dei borghesi, durante le ore in cui il Signore del Terzo Stato celebrava, a tu per tu con se stesso, nella tipica asocialità del socievole borghese, la propria libertà di divertirsi, o di farsi o di lasciarsi piacevolmente soffri¬ re, una volta pagati i propri debiti con la lotta per la vita». Il poIX

.sto del romanzo nazionalpopolare, di azione o di «buona azio¬ ne», era stato preso da un romanzo da salotto, che «era un’ope¬ ra letteraria per appartamenti. Si rivolgeva, e dava esca, ai “sombres plaisirs d’un coeur mélancolique”». E questo era an¬ che il posto di Nedda, della miserevole ragazza di campagna, il personaggio cui Luigi Capuana, non il Verga, affidò la respon¬ sabilità di segnare l’avvento del verismo - conclusione che avva¬ lora la polemica di Debenedetti contro l’equivoco della conver¬ sione. Si dovrebbe entrare più nel merito di questa polemica. A sua volta essa è una fisima debenedettiana, una proiezione della sua volontà di critico che attua verità diverse da quelle prono¬ sticate, come Verga con l’oroscopo di Una peccatrice. Che Ca¬ puana abbia forzato la poetica inespressa nel bozzetto siciliano se non come memoria o rèverie di una tragedia della povertà vis¬ suta senza spreco di gesti e parole è vero, ma è anche vero che da convinto assertore del verismo egli rivelò all’amico la nascita di una nuova materia e di un nuovo linguaggio che prefigurava¬ no non solo il suo avvenire di scrittore, ma anche quello della letteratura d’avanguardia in attesa di un primo risultato d’arte che caratterizzasse la forma italiana del secondo realismo, do¬ po quello romantico, entro l’orizzonte del naturalismo euro¬ peo. Debenedetti fa poco conto della poetica espressa dal Ver¬ ga prima e dopo la conversione. Trascura la prefazione di Èva pur concedendo larghissimo spazio alle dissimulazioni autobio¬ grafiche del romanzo, all’eclissi ancora parziale dell’autore che non può nascondere una delega delle sue passioni personal¬ mente controllate all’incontrollato protagonista, e poi alle se¬ quenze di racconto di ritmo strofico, poco dopo cadenzate in Nedda con r«intensità» che caratterizza Vita dei campi, le Rusti¬ cane, I Malavoglia e il Mastro, in opposizione alla «concitazione» tipica dei romanzi precedenti. Gli altri documenti capitali di poetica del Verga - la lettera-programma che rivela all’amico Salvatore Paola Verdura la sua «fantasmagoria» del ciclo, allora etichettato «La marea», e la «fantasticheria» della novella omo¬ nima, inoltre la dedica al Farina che introduce L’amante di Gra¬ migna e profila l’idea di una società estetica abitata da opere non da autori; infine la prefazione ai Malavoglia che disegna in grande lo schema dei cinque romanzi del ciclo ora intitolato «I vinti» - Debenedetti non li avrebbe certo ignorati insieme ad al¬ tri documenti minori tratti dagli epistolari e dalle interviste. La X

articolatissima trattazione delle teorie e delle poetiche del na¬ turalismo francese - tra Taine, i Goncourt, Zola e seguaci più o meno ortodossi - sembra prolungarsi fino ad occupare quasi l’intero secondo corso per preparare la contestazione in linea di principio dell’ipoteca incancellata della conversione di Ver¬ ga. Ma la verifica di quella contestazione si rivela nell’ultimo ca¬ pitolo tanto capziosa e polemica nei confronti dell’interpreta¬ zione del Russo e dei suoi «pappagalli», da attribuire a Pirandel¬ lo una precedenza di intuizioni critiche che spetta invece al Russo.Il titolo del capitolo è programmatico, «Verga narrato¬ re senza “conversione”», ma si giustifica in punta di fatto non di diritto, come si direbbe per distinzioni processuali, vale a dire con un ulteriore ascolto delle modalità interne del linguaggio verghiano calate nel «collettivo» del mondo elementare dei sici¬ liani, nel «golfo mistico» di quella musica inedita. Debenedetti attribuiva al Verga un’intelligenza solo creativa; riteneva che la sua mente arrivasse fino a predicare un’esisten¬ za non un valore. A suo parere (ma era stato anche il parere di Zola) lo scrittore non aveva una mente giudicante che potesse alimentare le sue creazioni con teorie e progetti. Del resto an¬ che nella sua mente di critico i predicati d’esistenza agivano più fortemente di quelli di valore. Ma gli scrupoli del suo magistero gli imponevano esami di coscienza di questo tipo: «Il nostro la¬ voro, se ha avuto un senso e una giustificazione, li deve proprio all’avere accompagnato la ricerca dei risultati parziali, che via via potevamo ottenere dalle opere giovanili di Verga, con la ricognizione, quasi una radiografia, dei metodi impiegati». Ed è da ricondurre a questa stessa istanza metodologica la dichiara¬ zione che l’occhio del critico è focalizzato diversamente dall’ar¬ tista; è l’occhio esterno di chi abita in una quarta dimensione. Ma anche Verga non vantava la sua ottica distanziata, da lonta¬ no, e non sosteneva egli stesso con Capuana che il verismo era piuttosto un metodo anziché una teoria? Volentieri avremmo affidato al suo esame di coscienza due proposte di correzione: per prima, se non si possa dire che Verga svuota il naturalismo come ideologia per inverarlo poeticamente riempiendolo con

IOTI libro del Russo era di un anno prima. Risulta semmai evidente il debi¬ to del discorso pirandelliano di Catania nei confronti di quel libro. Cfr. l’introduzione di M. Onofri a L. Pirandello, Vergo, e D Annunzio, Roma 1992. XI

Ja scoperta di un mondo che era tanto prossimo alle ragioni pri¬ marie dell’esistenza ma tanto remoto fino ad allora dalla lette¬ ratura da dover inventare un linguaggio che rivelasse quel mondo e insieme desse al lettore l’illusione della realtà piutto¬ sto che una sua riproduzione; per seconda, se per caso quella poetica della conversione dall’artificiale al naturale non fosse il punto di forza per sostenere un progetto generale che favoris¬ se una sua esecuzione immane seppure parziale, ottenuta misu¬ randosi con un nuovo principio artistico e all’interno di un la¬ boratorio di sci'ittura verista rimasto attivo per quasi quindici anni, tra ideazioni, revisioni e rimozioni di interi strati compo¬ sitivi. Ma Debenedetti non avrebbe rinunciato alla sua tesi. Egli stesso non apparteneva a scuole e non poteva accettare una si¬ gla di scuola per Verga. Del resto la sua esplorazione dell’isola Verga portava molto lontano da quella tesi. Per orientare i suoi giovani egli esibiva un portolano segnato di molti precedenti approdi nel continente dei grandi scenari filosofici e artistici dell’Ottocento, del secolo pieno e declinante. Il destino di Ver¬ ga era segnato dal dualismo volontà-necessità, da una scissione della personalità artistica che evocava una situazione storica della cultura non appagata dalle grandi sintesi dell’idealismo e del positivismo. Ma quel richiamo non è programmato; si origi¬ na nel corso di una lezione, quando il docente si intrattiene sul¬ l’inconsapevolezza del più disarmato personaggio verghiano, sul segreto martirio della Capinera. Pur avvertendo che «a vo¬ ler leggere nei moti della Capinera l’involontaria allusione al sottosuolo della psiche, alle zone che invisibilmente comanda¬ no il visibile delle nostre sorti... sarebbe un chiedere troppo». Debenedetti era poi indotto ad aprire una digressione epocale, su una storia della coscienza dualistica che si manifesta in Scho¬ penhauer col concetto di «rappresentazione come oggettivarsi di quel motore oscuro, eterno che è la volontà», in Nietzsche nella separazione dionisiaco/apollineo, che corrisponde alla distinzione tra orchestra e scena, musica e dramma in Wagner, dove sarebbe già figurata, stando a un suggerimento di Thomas Mann, la stessa psicoanalisi freudiana: «L’inconscio di Freud, triste e magari infetto quanto si voglia, è l’orchestra, mentre i sintomi conoscibili, vistosi in cui riesce a manifestare la sua in¬ conoscibilità, sono i gesti del personaggio». La digressione è strettamente incorporata all’analisi del teXII

sto. Riempie fittamente pagine che non possono essere isolate dalla mappa di quell’esplorazione. Il dualismo verghiano è tut¬ to interiorizzato, come il suo linguaggio ritiovato e modulato su quel rapporto wagneriano tra orchestra e scena, e l’orche¬ stra nei capolavori è il collettivo dentro il quale prendono risal¬ to individuale i personaggi. Alla musica del collettivo Debene¬ detti non arrivò a dedicare che alcune note limpidissime sugge¬ rite soprattutto da quel «mistero», proprio nel senso di rappre¬ sentazione sacrificale, che è la novella Rosso Malpelo. L’immagi¬ ne dell’eclissi dell’autore è avvalorata in pieno dai Malavoglia, dove «l’identificazione è totale» (e non serve neppure dire con la materia), ma il viaggio senza ritorno del «caruso» nel ventre della zolfara conferma il rilievo di leggendarietà piuttosto che di epicità che Debenedetti assegna all’arte del Verga, «ma di una leggendarietà non superstiziosa né sentimentale, anzi rea¬ listica». Ed è una leggenda il suo viaggio di andata e ritorno nel ventre della balena che il critico narra per spiegare come nasco¬ no i capolavori del Verga. Di quella favola egli sottolinea i sim¬ boli della lotta dentro e fuori del mostro, del pezzo d’oro che l’eroe porta con sé e del suo ritrovarsi sputato sulla riva nudo, senza capelli. Sono i simboli della gestazione della verità (l’oro) e della rinascita del protagonista, in nudità e calvizie, come un infante, ed essi figurano l’arte del Verga. Ma forse non forzia¬ mo da parte nostra il gioco delle corrispondenze se diciamo che valgono anche per il critico, per Giacomo Debenedetti. Avven¬ turatosi nel ventre della balena verghiana si era trovato anche lui a lottare tra una volontà di dimostrazione e una necessità di rappresentazione e poi a scoprirsi rinato in questa sua nuova esperienza agonistica con in mano l’oro della verità nascosta. NINO BORSELLINO

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Avvertenza

I Quaderni che qui si pubblicano servirono di base alle lezio¬ ni tenute da Giacomo Debenedetti all’Università di Messina ne¬ gli anni 1951-52 e 1952-53. Servirono di base nel senso chiari¬ to dall’Avvertenza premessa al Romanzo del Novecento, Garzanti 1971 (nuova edizione negli Elefanti Saggi, 1992). 1 criteri che abbiamo seguito sono gli stessi premessi alla cita¬ ta Avvertenza alla quale rinviamo come abbiamo rinviato alla premessa alla Poesia italiana del Novecento (Garzanti 1974, nuo¬ va edizione negli Elefanti Saggi, 1993). 1 Quaderni oggi in questione, sei per gli anni 1951-52, cin¬ que per gli anni 1952-53, si presentano molto tormentati con frequenti aggiunte nelle pagine a fronte mentre il discorso pro¬ cede - come per II romanzo del Novecento - per argomenti che si accavallano e si incastrano senza nessuna divisione in capitolo e paragrafi. Tale divisione di misure molto svariate è stata tentata da noi per comodità del lettore. Ci è parso opportuno riportare in Appendice un quaderno a parte datato Valtournanche 1951 e intitolato «Sviluppo della conversione». In questo lavoro mi è stata di valido aiuto Laura Potorti, al¬ lieva di Giacomo Debenedetti all’Università di Messina. RENATA DEBENEDETTI

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meno anonimi, con quello che sarà nei Malavoglia o nel Gesualdo, il muoversi collettivo, ma insieme differenziato nelle sue voci singole, di quel coro che sarà il villaggio. Più vicina alla polifonia delle chiacchiere nei grandi romanzi è la scena del battesimo in Tigre reale, dove il pettegolezzo mondano ci avvisa della nuova situazione in cui si trova il protagonista Giorgio La Ferlita, divenuto padre per queste nozze con la buona Ermi¬ nia, dopo l’avventura con Nata, la fatalissima russa. Ma forse la verità è un’altra. Il Verga dei capolavori raggiunge, per conto suo, una tappa della grande narrativa europea: quella che mette in scena un personaggio nuovo, il personaggio che vorremmo chiamare collettivo. E che non è più il massiccio, globale addizionarsi delle voci in una sola frase, dove ciascuno si perde nel tutti, porta la sua parola o la sua sillaba, uguale a quella degli altri, come una nota nella verticalità e fusione dell’armonia, sicché il coro è un camminare di accordi. Or¬ mai, proprio perché la plebe è divenuta popolo, e popolo non è un confondersi ed eguagliarsi di esseri indifferenziati, ma un concertarsi di individui, proprio per questo il coro nuovo è un distaccarsi di pensieri singoli sullo sfondo comune. In mu¬ sica, questo si vede nel nuovo dramma popolare di Mussorgskij — il Boris o la Kovanscina — dove-, mentre la massa pronun¬ cia il suo stato d’animo collettivo, le singole voci si incidono con la loro banale, o profonda, o dolorosa, notazione personale (esempio del i quadro di Boris). Nei grandi romanzi di Verga il coro sta a questi interventi di generici personaggi collettivi dei primi romanzi, come una delle cosiddette scene corali del Boris ai soldati del Trovatore o ai concertati della Traviata. Non vogliamo esagerarci, con una discussione troppo insi¬ stita, che rischierebbe di diventare cavillosa, l’importanza di quei commenti della Perroni. Vogliamo contestare un errore di metodo e di impostazione che si riproduce in varie forme in tutta la critica verghiana e la condanna — dopo le uniche eccezioni del Capuana e del Croce — a rinunciare a una vera visione sintetica dell’arte di Verga, cioè a una vera presa di possesso del significato di quest’opera. Tutta quella critica

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rimane nell’ambito del commento al testo, della nota a pie di pagina, della sottolineatura. L’errore della Perroni è di questo tipo: e dipende da un tentativo di rivalutazione delle prime opere sconosciute, e di per se stesse abbastanza trascu¬ rabili: tentativo condotto col mostrare che Verga c’è già in quelle prime opere. Pare invece più proficuo cercare perché Verga non ci sia. Naturalmente scarteremo la risposta ovvia: Verga non c’è, perché è ancora un ragazzo immaturo. Preferiamo cercare perché le abbia scritte, così fisicamente brutte, così prive di promesse. E perché, ingenuo come vi si mostrava, pare addi¬ rittura che abbia fatto apposta, che sia andato con cocciutag¬ gine insieme e con scaltrezza a cercarsi tutte le vie più sicure per arrivare al fallimento. Questa strada ci pare la più utile per determinare gli elementi negativi da cui Verga è messo lentamente con le spalle al muro, fin che sarà costretto a creare i suoi capolavori. La caccia al fallimento è perseguita attraverso tutta una se¬ rie di contraddizioni, nelle quali si direbbe che il Verga si getti a corpo perso. Prima contraddizione: tra volontà e ne¬ cessità. C’è una indubbia, ambiziosa volontà di scrivere; una precoce smania di affermazione dell’io. Questa è comune a tut¬ ti i tentativi letterari dei giovani, anche di quelli che poi cam¬ bieranno mestiere. Nel Verga è senza dubbio accompagnata — e basta leggere quanto è pubblicato nel primo manoscritto — da una specie di fuoco vitale, di energia disponibile, che non lo lascia mai a corto di parole, lo illude di conoscere le cose di cui parla, nella maggior parte dei casi, per sentito dire. Scambia per ricchezza l’esuberanza senz’argini che lo porta a dilagare: anche questo è un equivoco comune. Ma è una volontà astratta: lo scrivere si presenta come una compensa¬ zione a qualche oscura carenza, a qualche oscuro desiderio di conferma dell’io, che forse potrebbe altrettanto bene sod¬ disfarsi con qualche altra prestazione di energia, in forme un po’ segnalate e singolari, capaci di distinguere il giovane Ver¬ ga dal resto degli uomini. È come se avesse ricevuto un torto, e volesse riscattarsene in un modo qualsiasi. Scrivendo, sarà grand’uomo. Non tanto nell’Edoardo di Amore e patria, quan¬ to nel prossimo personaggio, il Corrado dei Carbonari, vedia¬ mo i segni di questo torto: Corrado è un bastardo, che vuole con il suo valore di soldato farsi quel nome, che non ha avuto

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nascendo, e con questo conquistarsi anche il diritto all amore della ragazza nobile e ricca, per la quale ha preso fuoco e sof¬ fre. Si tratta di simboli chiaramente autobiografici: Verga, personalmente, non ha nessuna delle palesi inferiorità che at¬ tribuisce a Corrado, deve avere in se stesso il sentimento oscu¬ ro di qualcosa di equivalente. E, in corrispondenza, un biso¬ gno di eccellere, di vincere per ottenere quelle mete umane alle quali aspira e si sente inferiore. Tutto questo gli dà la concitazione attiva, quell’esuberanza, anche verbale, che ab¬ biamo chiamato volontà. Forse un altro ragazzo si sarebbe fer¬ mato a mezzo il romanzo, atterrito di quel che gli volava giù dalla penna, stanco dello sforzo di immaginare senza specifi¬ che risorse di immaginazione. Questo tipo di volontà, in un certo senso, arida, perché unicamente volta a soddisfare se stessa è quella che esclude la necessità. Il Verga del primo manoscritto non obbedisce a un interno bisogno che il suo romanzo abbia di nascere, si impone al suo romanzo, affinché nasca. Guardiamo anche il suo modo di esprimersi. Il capitolo intitolato il Corsaro co¬ mincia così : « L’Est dell’America settentrionale, quella parte ove l’immenso Oceano Atlantico ne lambisce le coste con le sue onde tempestose, offre un aspetto particolare a chi navi¬ gando l’Oceano Atlantico la vede disegnarsi sull’orizzonte co¬ me una linea turchina-oscura, poco svariata da seni e da golfi : a misura che vi si avvicina, scorgensi i capi... »“ Non occorre proseguire: quei seni e golfi, quell’entrare per avvicinamento nel paesaggio, visto dapprima in campo lungo, ci dicono che siamo di fronte a un’imitazione dell’attacco manzoniano: « quel ramo del lago di Como ». Ma proprio la goffaggine, la nessuna musicalità dell’imitazione fanno capire il partito pre¬ so: l’assenza di necessità letteraria. Quel paesaggio inventato, perché ignoto all’autore, non è neppure un’emozione lettera¬ ria, un fantasma interno che abbia tanta forza da permettere allo scrittore di adeguare un modello, da colmare un calco. Chi volesse fare qui la critica del « senno del poi » dovreb¬ be concludere che la necessità, quando finalmente si deciderà a mostrarsi nel Verga, avrà tutt’altri connotati: prima di tutto quello di escludere l’esibizione, il partito preso, da costringerlo a lavorare quasi alle soglie del silenzio, col discorso diradato e spogliato al massimo, fino a che non cadrà l’assoluto silenzio, la rinuncia a scrivere proprio perché non si riproduce più quel

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comando della necessità che oramai il Verga aveva imparato a ravvisare. Noi conosciamo le storie di artisti, partiti da una specie di volontà di affermazione, da una smania di essere subito quello che diventeranno. Per esempio, Riccardo Wagner, partito col programma di essere pittore e che viceversa, dopo un concerto beethoveniano, decide che diventerà musicista, che a quella strada chiederà lo sfogo della sua volontà 4i potenza. Ma il giovane Wagner, già quando scrive il Rienzi, l’ouverture di quest opera, inventa una melodia che potrà riadoperare, quasi immutata nei maturissimi tempi del Crepuscolo degli Dei. La sua volontà coincide subito con la sua necessità. L’am¬ bizione è subito vocazione. Non dovrà che scoprire le forme in cui organizzarla: il dramma musicale invece dell’opera, in cui la sua necessità si manifesta solo per illuminazione mo¬ mentanea. Quella del pittore non lo era. Il romanzo giovanile di Verga sta all’opera vera di Verga, come gli ipotetici dipinti di Wagner al Tristano o ai Maestri cantori. La cosa singolare in Verga è che lui adoperi, prima della vocazione, lo stru¬ mento che gli servirà al manifestarsi della vocazione. Il suo compito è proprio di eliminare la falsa vocazione a scrivere romanzi. Continuiamo pertanto ad elencare le contraddizioni con cui sbriga quel compito di eliminare l’equivoco. Volontà senza necessità costringe il Verga a una specie di opportunismo. Prende d’accatto la mitologia, le favole più comode per appagare quella sua volontà astratta. Siamo nel ’57 : la passione comune era quella dell’indipendenza italiana. I carbonari, che toccavano — tramite forse l’Abate — l’imma¬ ginazione del Verga, avevano messo l’accento sull’indipenden¬ za prima che sull’unità. Miravano a un’Italia divisa e indipen¬ dente. L’esortazione all’indipendenza, attraverso un’opera nar¬ rativa, non si poteva fare, in quel ’57, e in una Sicilia ancora borbonica, se non attraverso un romanzo allusivo. Allusivi erano stati i romanzi del D’Azeglio, allusivo l’Assedio di Firen¬ ze del Guerrazzi. L’allusione a cui si attacca il Verga è la guerra per l’indipendenza americana. L’ambiente in cui egli si stava formando era piuttosto quello che il De SancUs chia¬ ma « democratico » : la letteratura connessa a quell’ambiente dà corpo a ideali destinati a influenzare, modificare il corso della storia a loro somiglianza : a fornire insomma un modello alla realtà, ed a infiammare gli animi acciocché diano vita a

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questa nuova realtà. Letteratura costruita con Timmaginazione: e il giovane Verga per l’appunto spinge l’immagina¬ zione fino a fare il romanzo di un paese, di una guerra, di un mondo che deve inventarsi quasi di sana pianta, perché non lo conosce. Egli prende tutti gli elementi utili, tutte le for¬ mule in voga: questo è ciò che chiamiamo il suo opportuni¬ smo. Sempre si nasce scolari per diventare maestri; ma in Ver¬ ga non c’è tanto la devozione dello scolaro, la voglia di essere lui attraverso un’imitazione quanto la furia di impossessarsi di quel che va di moda, che ha fortuna. Nello stesso modo si impossesserà delle formule francesi per i suoi romanzi mon¬ dani. Finché parrà impossessarsi anche della formula verista; ma qui non si potrà più parlare di opportunismo, bensì di una specie di appassionata e vittoriosa accettazione di un li¬ mite. Non sarà più avidità, ma rinuncia che si crede momen¬ tanea, e riuscirà definitiva perché lo esprimerà, risolverà, con¬ sumerà nei capolavori. Quell’opportunismo genera altre due contraddizioni. Anzi¬ tutto quella tra impianto immaginoso del romanzo e man¬ canza di fervore immaginativo. Il « senno del poi » ci avverte fin d’ora che proprio il punto debole del Verga maggiore sarà nell’affabulazione, come si dice, nella capacità di fabbricare un intreccio a regola d’arte, con tutte le molle che scattano a dovere e gli ingranaggi che funzionano. Le sue vittorie si ce¬ lebreranno quando rinuncerà agli intrecci; scriverà romanzi a puro allineamento di fatti sulla successione del tempo. La sua trama sarà la più semplice: il corso dei giorni, dei mesi, degli anni; e una misteriosa qualità che il suo tempo ha di addensarsi, diventando tremendamente carico di eventi, o ridisciogliendosi nella monotonia del suo trascorrere. Chi può contare esattamente gli anni e le stagioni lungo cui si dipa¬ nano i Malavoglia} o le età dell’uomo che fanno da supporto alle vicende del Gesualdo} Le stesse novelle non sono un in¬ trecciarsi di storie e di combinazioni, bensì il precipitare del tempo, carico di passioni, verso il grumo di una tragedia. Co¬ munque, per tornare ad Amore e patria, rigorosamente ragio¬ nando sul dato, come se non sapessimo nulla di ciò che sarà del Verga, accettiamo le dichiarazioni della Perroni: che l’in¬ treccio è confuso e affastellato, che i fatti non si articolano, che quel romanzo è piuttosto un succedersi di quadri. Forse non era estraneo a questa tecnica, chiamiamola così, ì’Èrrico

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di Domenico Mauro, che già ci è occorso di richiamare e che sempre di più ci pare da mettersi tra le letture influitive del giovane Verga. Il romanzesco è prodotto da distacchi, sospen¬ sioni del filo narrativo: il metodo, per usare nomi grossi, dell’Ariosto, il quale sapeva però creare anche le combinazioni. Nelle scene pubblicate, il Verga produce i suoi colpi di teatro e le sue sorprese, facendo irrompere i personaggi come se li manovrasse un buttafuori, che ha come unica regola di sco¬ dellarci quello che non aspettavamo, ma proprio nel momento in cui è utile o meraviglioso che compaia. È il metodo più elementare di dare il guizzo del romanzesco, è anche il più ingenuo. Certo il Verga era un esordiente di sedici anni; ma chi nasce immaginativo ha sempre qualcosa che lo rivela, l’in¬ venzione a scatto di acciarino, il gusto dell’orologeria, la capa¬ cità di rendere irrefutabile l’arbitrio. E Verga, per di più, aveva letto Dumas, che di questo partito è il maestro. (Anche se i colpi di scena erano dei suoi negri e lui li manovrava, ma appunto trasformava i colpi di dado in colpi di immagina¬ zione, con quella ebbrezza che dà il sentire la gioia del cervel¬ lo che combina i fatti, sceneggia l’imprevisto.) L’altra antinomia che vogliamo notare è quella tra passione ed entusiasmo. Voglio dire che c’è una passione, perfino infa¬ tuata, per i personaggi e le vicende che gli fruttano il roman¬ zo. Non c’è entusiasmo oggettivo verso la loro sostanza. Si di¬ rebbe che Verga ami se stesso come autore, idoleggi la pro¬ pria facoltà più o meno autentica di suscitare quel moildo; ma non si perda, non si annulli nel mondo che va suscitando. È come una differenza tra l’amore-orgoglio e l’amore-abnegazione. In fondo, se vediamo giusto dai pochi frammenti, tutti quei fatti ed avventure sono al servizio di una apologia del pro¬ tagonista. Perfino l’assunto patriottico è subordinato all’in¬ censamento, alla glorificazione di Edoardo. Il quale, a sua volta, è uno sdoppiamento estremamente abbellito dell’au¬ tore: è un giovane abbastanza dotato e capace e fortunato per poter andare a realizzare i suoi sogni di vittoria e di do¬ minio, a conquistarsi la gloria come una potenza fascinosa che soggioga tutti e tutto. Verga non si stanca di aggiungere qua¬ lità su qualità al ritratto di Edoardo: « Nulla di più grazioso e di più simpatico dell’aspetto del giovine... poteva offrire i due tipi perfetti del giovine del bel mondo tutto grazia tutto eleganza; e dell’eroe patriotta... ai caldi sostenitori e propu-

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gnatori dell’aristocrazia poteva opporre ecc... Ai seguaci del¬ l’eroico, del profilo romano, della bellezza virile, poteva mo¬ strare ecc... Agli amatori del fasto e della ricchezza bastava vedere... Al bel sesso infine bisognava non vedere il grazioso giovine per non ammirarlo almeno. Tanta ammirazione per un proprio rappresentante idealizzato non può andare di¬ sgiunta da una sorta di autovagheggiamento, che ha la steri¬ lità della passione egoistica: la fecondità comincia quando si è almeno in due: e si trasforma l’opposizione in collabora¬ zione. L’entusiasmo è abbandono, accetterebbe i difetti, ma¬ gari cercando di abbellirli e di scusarli invece di sentire il bi¬ sogno di sopprimerli. Ma il Verga giovane ha quell’insaziàto desiderio, quella sete di una totale eredità del mondo che diventa sogno indiscriminato, fantasticheria del segreto magico che permette, in una volta sola, di conquistare tutto ciò che lusinga e accresce la vita. [Lo si è già notato a proposito di am¬ bizioni d’arte e d’amore del protagonista di Una peccatrice]. Vediamone ora il riflesso in qualcuna delle costanti, dei giri espressivi della prosa del Verga d’allora. Torniamo per un momento al profilo che il De Sanctis ha fornito della « scuola democratica ». La religione dell’ideale, la fede nella sua prossima attuazione vogliono essere travasate nell’animo dei lettori. Perciò forma splendida, fiorita, effi¬ cace; che tuttavia degenera nel rettorico, quando la passione è a freddo. Delle virtù e vizi di questo stile, il De Sanctis pone come capostipite il Foscolo: quello buono e quello deteriore. Stile, egli aggiunge, sintetico e poetico: gli scrittori di quella scuola « pronunziavano, quasi ex tripode, gli oracoli, per mezzo di massime in cui credono e in cui, mercé un certo affetto e calore, cercano di far che gli altri credano. Ab¬ biamo tutti i connotati della scrittura che il Verga tenterebbe di raggiungere in Amore e patrìh. Ma di suo, di particolare, notiamo frequentissimi periodi di questo tipo: « una figura umana in cui tutta la prostrazione delle forze fisiche, tutta la detrazione di una vita curvata sotto il peso di fatiche eccedenti le forze... sembravano essersi riunite in quell’essere degradato e prostrato... »“ Oppure : « Le sue fattezze colme di grazia si animarono di tutta l’espressione della pietà che dà un’aria sì angelica alla bellezza malinconica. » 70

Oppure: « La fanciulla... assunse tutta l’aria di una profonda rive¬ renza come se entrasse sotto le volte dorate di un tempie ecc. Sottolineiamo il ripetersi dell’aggettivo tutta. Come attra¬ verso l’eroismo del protagonista, Verga vorrebbe possedere il mondo; così con questo aggettivo tutta vuole che ciascuna del¬ le sue descrizioni, notazioni si impadroniscano della totalità delle sensazioni, dei caratteri, dei particolari, dei significati. Non siano solo sentenze o ritratto od osservazione « sintetica e poetica », come dice il De Sanctis, ma abbiano una specie di facoltà magica di contenere tutto l’aspetto dell’universo in un’unica apparizione od esempio. Dobbiamo seguitare ad analizzare con metodo analogo i romanzi del Verga prima e seconda maniera, per mostrare co¬ me egli si blocchi attraverso errori, contraddizioni, intimi in¬ successi tutte le strade che non conducono ai Malavoglia. Contrasto tra volontà e necessità, e il conseguente opportu¬ nismo nell’accogliere tutto il materiale che gli consenta di fare un romanzo capace di aver presa sui lettori, si ritrovano al fondo dei Carbonari della montagnaP Notiamo le contraddizioni, prima di tutto, nell’assunto: le ragioni di inutilità e di inefficienza del libro, che il giovane Verga accetta nel momento stesso in cui concepisce l’idea del romanzo, cioè prima ancora di mettersi a scrivere : un romanzo sul martirio e le eroiche sconfìtte dei carbonari non è più un’azione patriottica. Nel 1860, quando Verga scrive il suo libro, l’ideale storico per cui i carbonari si erano battuti — cioè l’indipendenza pura e semplice — non solo è stato con¬ seguito; ma è stato conseguito un ideale storicamente superio¬ re a quello dei carbonari: l’unità, che la Giovane Italia e Mazzini avevano aggiunto, insieme con la libertà, al program¬ ma degli affiliati alle « vendite » (Italia « libera, indipendente e una »). Verga, in realtà, rispetta più l’ideale che la storia: e attri¬ buisce ai carbonari del 1810 l’aspirazione unitaria che ani¬ mava lui, italiano degli anni 1859-61, e che rimarrà la sua fede politica per tutta la vita, fino a portarlo, per una specie di coerenza passionale più che logica, a consentire con le in¬ fatuazioni nazionalistiche del 1920; tanto che un ministro del regime fascista e quadrumviro, credo, della cosiddetta Marcia 71

su Roma potè scrivere un saggio su Verga politico,^ nel quale il nostro Poeta è considerato su per giù, e sulla base di cita¬ zioni quanto mai tendenziose, come un pioniere del fascismo, e un suo fedele e illustre gregario. Che può essere storicamente vero, guardando le cose in superfìcie, soprattutto per ciò che riguarda il gregario. Ma dipese dal fatto che il Verga vide un fascismo romantico e non si curò di approfondirne i motivi. Della sua adesione, altre sono le cause, e non coincidono con quelle che lavoravano nel sottosuolo del fascismo. Le potrem¬ mo rintracciare in qualcuno degli atteggiamenti, che cerche¬ remo subito di riconoscere alla base dei Carbonari della mon¬ tagna: il senso, come diremo, di Italia offesa, e !’« eccesso di difesa » che ne consegue. Ma questo senso di offesa appartiene a ciò che un diagnostico sommo'del corpo sociale chiama le malattie infantili di un atteggiamento politico.” È interes¬ sante, semmai, la contraddizione che nasce da tutto questo ; una di più, da aggiungersi all’elenco di contraddizioni che noi stia¬ mo facendo, e che chiuderanno al Verga ogni possibilità di avanzare lungo le vie che egli cerca, o crede, di aprirsi coi pri¬ mi tentativi di gioventù. Qui, appunto, la contraddizione sa¬ rebbe questa un sentimento patriottico e unitario sentito soprattutto come offesa per i misconoscimenti e le negazioni che gli sono stati inflitti, e che si ferma a questo stadio di ran¬ core, rimane malattia infantile.^* Qualche cosa che l’adulto avrà eliminato, oppure non è più in grado di rivedere; tanto che se quei sentimenti, o quella malattia, rimangono in lui, diventano corpo estraneo: si incistano, come direbbero i me¬ dici. E se, in anni tardi, questo medesimo uomo dovrà fare appello ai medesimi sentimenti, li troverà come li avrà la¬ sciati; infantili, in uno stato di arresto di sviluppo. Sicché, nella voce, nel timbro dell’uomo, risuonerà improvvisa, in¬ congrua, una nota infantile; che non sa di essere tale, e perciò manca di modulazione. Anzi, crede di essere adulta, e perciò è priva anche del risgorgare di una poesia infantile. Questo effetto ci faranno le affermazioni e le adesioni politiche, sem¬ pre un poco irritate e scontrose, del vecchio Verga. A noi però importa di rilevare, e perciò abbiamo fatto questa digres¬ sione, il lato contraddittorio tra gli atteggiamenti che il Ver¬ ga assumeva nei Carbonari e il temperamento personale del Verga: tanto è vero che proprio quel temperamento non gli permetterà di maturare quegli atteggiamenti. 72

Torniamo al romanzo. Il Verga terminava di pubblicarlo in quattro volumetti, a Catania, editore Calatola, nel 1862. È, nel suo profilo principale di racconto patriottico, un veemente attacco ai Borboni. Se anche cominciato a ideare, come ci assi¬ curano i biografi (per es. il Cappellani)^^ nel 1859, non pote¬ va essere reso pubblico prima della liberazione della Sicilia dai Borboni. Ma dunque, il libro è finito di scrivere, è messo in circolazione quando la battaglia perduta dai carbonari nel 1810 — e che costituisce l’asse drammatico del romanzo — ormai è stata vinta. Si domanda che cosa valga una polemica, quando ha cessato di essere di attualità: e quindi, che cosa possa aver sostenuto la volontà del Verga nel condurre a ter¬ mine questa polemica curri figuris; quale speranza di farsi un nome abbia potuto spingerlo a rendere pubblico il suo libro. Qui la risposta è facile. Considerati nel loro genere lette¬ rario, nella loro condotta e assunto, i Carbonari sono un « componimento misto di storia e di invenzione »,“ per usare la nomenclatura introdotta dal Manzoni: cioè dispongono, sviluppano, e cercano di far vivere personaggi immaginari, impiantandoli su una vicenda, in tutto o in parte, riferita dalle cronache reali. È noto come il Manzoni, dopo di avere conseguito il capolavoro, abbia dimostrato teoricamente la fallacia e l’insostenibilità del genere. E i critici, più lumino¬ samente di tutti il De Sanctis,^ hanno risposto che il Man¬ zoni, almeno per ciò che riguarda Alessandro Manzoni, aveva ragione come poeta, torto come teorico. Perché l’anima dei Promessi sposi — spiega il De Sanctis — è quello che si chia¬ ma un ideale di ritorno: la vicenda, storicamente vera — in tutto o in parte — nella Lombardia del sec. xvn, è idealmente vera nel principio del sec. xix, quando il Manzoni la scrive. Ancora vige, nell’ordine dei fatti e in quello dei sentimenti ad essi correlativi, una « provvida sventura » che colloca « tra gli oppressi » Renzo e Lucia e tutti gli altri, che cristiana¬ mente promette a loro un modesto, ma felice, ma appagante trionfo sugli oppressori. Tutto questo è tanto più sostenibile (pare a noi, venuti dopo il De Sanctis) perché i personaggi dei Promessi sposi sono tutti (o quasi tutti: vorremmo forse ec¬ cettuarne la misteriosissima Lucia) — non soltanto caratteri espressi in una somma evidenza, che a qualunque lettore li rende insieme sensibili e intelleggibili — ma figure di destino, collimanti con qualche tratto dei nostri personali destini, qua73

le potrebbe capitarci di dover vivere, se addirittura non ci è già capitato di viverlo.^^ Turbano, smuovono, o consolano, entro di noi, intime analogie. Non altrettanto si potrà dire per i personaggi dei Carbo¬ nari. Ciò che apprendiamo dellé loro vittorie, disastri o pati¬ menti — dal rozzo resoconto, meticoloso insieme e sommario, fornitocene dall’autore — non ci aiuta davvero a vivere: ri¬ guarda unicamente loro, e non sempre siamo disposti a sentir¬ celo riferire. Per immaturità dello scrittore, la storia dei Car¬ bonari non poteva dunque raffigurare un ideale di ritorno. Ma, in un certo senso, il Verga di quegli anni, aiutato anche dalla sua ancora caparbia e giovanile illusione — illusione ambiziosa e tutta di cervello — che i Carbonari gli potessero uscire un bel libro, persuasivo per tutti, si sarà senza dubbio immaginato di dar vita a un ideale di ritorno (comunque egli battezzasse nel suo intimo un tale assunto). Cioè avrà supposto che quelle stesse forze che egli metteva di fronte, i generosi carbonari patriotti e i perfidi Borboni reazionari, erano forze ancora in atto, se anche i nomi, dopo il ’60, erano mutati: sempre ancora, sconfìtti i Borboni, esistevano i reazionari bor¬ bonici, vogliosi di- una restaurazione, magari capaci di qualche colpo di mano, sfruttando ai loro fini l’ingenuità dei briganti; e contro questi retrivi occorreva che i patrioti di adesso, 1862, rimanessero vigilanti, si sentissero eredi dei carbonari: ricor¬ dassero le sconfìtte dei carbonari, e i tradimenti da loro subiti, per rimanere idealmente in armi e preparati contro qualsiasi sorpresa. In questo senso, è da ritenersi che i Carbonari con¬ servassero un’attualità polemica, anche dopo la liberazione della Sicilia e dell’Italia. Ma c’era un altro motivo, più propriamente lirico e senti¬ mentale, che poteva rendere attuale, palpitante quella storia di ieri. Forse siamo in grado di apprezzarlo proprio noi, cui è toccato di vivere un grosso e sanguinoso dramma storico, che giustamente è stato chiamato « secondo Risorgimento ». Al¬ l’indomani di questi drammi, quando la vicenda si è in qual¬ che modo chiusa col trionfo dei nostri ideali, si ripercorrono i tempi delle tenebre, della clandestinità, le nuits de colèra, come le ha chiamate un drammaturgo francese della Resi¬ stenza, e il filo di speranza che aveva percorso quelle notti, spesso aggrovigliato e invisibile allora, diventa la vera trama di quei tempi. Quella che, a viverla, era sembrata ansia si 74

muta in un’attesa piena, già illuminata dai riflessi di quel domani che le darà tregua, appagamento. Anche ciò che era parso confuso riappare gravido di senso. Il dolore, il sacrifìcio, si ripresentano nel ricordo impastati, lievitati di quella feli¬ cità che partoriranno. Le ore più tristi, perfino la paura e per¬ fino la sfiducia, diventano come quel trepidante vuoto e risuc¬ chio dei visceri con cui un giovane aspetta il primo appunta¬ mento della donna che gli era parsa inaccessibile. Noi abbiamo visto nascere tutta una letteratura ispirata da questo stato d’animo: tutti i diari, i resoconti della guerra clandestina e della Resistenza. Un’epica dell’immediato ieri, alla quale pareva bastasse l’enunciazione dei fatti, perché tutti eravamo pronti a immedesimarci con quei racconti, a collabo¬ rare, leggendo, coi nostri ricordi, ch’erano analoghi, omo¬ genei. Se nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo fe¬ lice nella miseria, nessun maggior sollievo che rivolgersi ai ricordi del buio, dalle rive della luce, luminis ora come dice Lucrezio: il poeta appunto del naufrago tratto in salvo che si volge a riguardare la tempesta: il poeta del suave mari magno. Perfino i più tragici rendiconti dei campi della morte e delle torture, a noi, che avevamo avuto la fortuna di appro¬ dare alla catarsi di quella tragedia, si rischiaravano del vitto¬ rioso finale, ci trovavano proclivi a mescolare la pietà, l’orrore e la solidarietà fraterna, veramente fisica, per le vittime con la schiarita d’alba, che era stata maturata dai loro gridi e pianti nelle tenebre. Talmente ovvia, sto per dire, era l’ispira¬ zione, la validità di una letteratura e narrativa della vigilia, scritte quando si era fatto giorno, che ad un certo punto esse divennero un partito, una ricetta troppo facile, anche se pa¬ gata carissima: e tutti, pubblico e critica, ci siamo natural¬ mente staccati da un esagerato moltiplicarsi degli esemplari, delle repliche, delle deduzioni, quantunque i sentimenti a cui quelle repliche facevano appello fossero ancora in noi vivi come prima. Bisogna anche soggiungere che il mondo era tor¬ nato difficile, e che l’ottimismo delle speranze avverate — cosa, nella vita, sempre momentanea — si era ormai turbato. Non avevamo più la catarsi in tasca. Verga, nel ’62, scrivendo il romanzo dei carbonari e di un infelice, prematuro tentativo per l’indipendenza e l’unità d Italia avrebbe potuto rendere un’emozione analoga a quella della letteratura della Resistenza: l’emozione dell’indomani. 75

quando le passioni non hanno cessato ancora di propagare la loro onda, ma già il loro fremito si associa alla bellezza di un’eco; l’energia dell’azione è ancora disponibile ma si riversa a rendere eccitata, palpitante la cronaca dell’azione : e, insom¬ ma, quello straordinario amalgama, possibile solo per un mi¬ nuto, in cui la presenza dei fatti è ancora tutta immediata, attiva, ma già infiltrata dell’alone del ricordo, di un ricordo senza rimpianti. I chimici dicono che le sostanze allo stato nascente sono le più attive : Verga, come i nostri migliori me¬ morialisti della Resistenza, aveva sottomano il ricordo allo stato nascente. Non potè utilizzarlo: perché, anche sotto questo aspetto, fjuella che sarebbe potuta diventare la sua necessità di artista, la spinta davvero lirica, era sopraffatta dalla sua volontà di scrivere il romanzo: cioè di affermarsi come uomo in quanto scrittore. Lo vediamo nelle due contraddizioni che stanno alla radice del suo libro e che sono esse stesse due rimbalzi, due riflessi prismatici di quella fondamentale contraddizione tra volontà e necessità. Prima di tutto. Verga non crede abba¬ stanza nel mondo di immaginazione che egli vuole suscitare e nemmeno nel mondo delle passioni patriottiche, che dovrebbe mettere in moto la macchina immaginativa ed avventurosa. Il vero, il buon romanzo di immaginazione, è contrassegnato da una specie di allegrezza ritmica. C’è nell’autore la gioia di ordire l’intrigo e di risolverlo, di dominare con soluzioni estrose il garbuglio dei fili, che egli stesso ha creato. Il con¬ trassegno dell’opera d’arte riuscita è nella sua capacità di can¬ tare. Un romanzo di immaginazione canta, quando i pezzi che compongono la sua meccanica vanno a prendere il loro posto, come per se stessi mossi, come calamitati a combinare l’ingra¬ naggio: e la precisione, la puntualità con cui compaiono: fanno il loro lavoro ha la persuasività del « tempo » in musi¬ ca: il tempo azzeccato. Per l’appunto, in questi romanzi, non cerchiamo le melodie, ma il tempo. E questo non va detto soltanto per i più proverbiali romanzi dell’immaginazione — cioè i romanzi d’avventura ^ dai Tre Moschettieri, che è inevitabile citare, a uno qualunque dei buoni romanzi di Jules Verne, e perfino a certe cose, per quanto infatuate e grossolane, del nostro Salgari. In questi libri le storie cam¬ minano come se le portasse un vento, di quelli che mettono di buon umore, operoso senza fatica. Ma anche in opere d’al76

tro tipo, molto più alte, dove l’immaginazione non è fine a se stessa: per esempio, nei romanzi filosofici del Voltaire, le av¬ venture, le bizzarrie, gli impensati incroci di circostanze d’uno Zadig, o di un Candide, stringono una logica che si diverte a ridere della logica quotidiana, a rendere indiscutibile la stra¬ vaganza. C’è come un ridere del cervello, quando inventa quelle avventure, ed ammicca a un iniziale arbitrio che è riu¬ scito a mettere fuori discussione, e in seguito al quale tutto appare coerente. Ma Verga proprio per la sua volontà e per il suo impegno di inventare — per quel suo sforzo di farci ritro¬ vare certe situazioni che, nei modelli del genere, erano parse interessantissime — proprio per questo accusa lo sforzo, ne¬ mico dell’immaginazione. Ed è come se eseguisse un allegro a tempo di andante : le note calano come meizzate a vuoto, con un peso che a loro non compete e fanno sentire quasi il cigo¬ lio, la ruggine della cattiva, non lubrificata orologeria, che fa battere quei grevi colpi di pendola. Si è detto che nemmeno la passione patriottica e civile gli si trasforma in qualche cosa di necessario. Sarebbe un discorso lungo, porre il problema della sincerità: crede o non crede autenticamente il Verga negli ideali dei suoi carbonari? Sfioriamo il problema che, molto più in grande, ci si ripresenterà a proposito dei romanzi mondani: crede, o non crede, il Verga nelle sue Narcise, e Nate e Vellede? Qui la soluzione può essere abbastanza semplice. Basterebbe tornare all’obiezione del ragazzo, anche se può parere sempli¬ cistica. A furia di ripetere che Verga è un ragazzo, anche quando scrive i Carbonari, finiremo col farci domandare: ma voi perché insistete a occuparvene? Aspettate che cresca. Sa¬ rebbe giusto; ma noi sappiamo perché stiamo facendo tutto questo lavoro : per andare a vedere, ripetiamolo, il sistema di posti di blocco che egli va costruendosi inconsapevolmente, per lasciarsi libero unicamente l’accesso alla propria strada. E anche questo problema della sincerità finisce coll’identificare un altro posto di blocco, un’altra barriera che Verga butta davanti ai propri passi. Lui certamente credeva negli ideali di quei Carbonari, così come glieli avevano fatti capire le vicende politiche e i fanatismi del suo maestro Antonino Abate. Ma è caratteristico di un giovane fanatizzarsi, credere nell’autenticità di questo fanatismo, e fare tutta la mimica, dire tutte le parole esterne che, in un apprezzamento un po’ 77

superficiale, esprimono un tale fanatismo. Il movimento, la concitazione a vuoto, il romanzesco vacuo, appariscente e tutto di rimbalzo che reggono i Carbonari sono la mimica di un fanatismo. E probabilmente il fanatismo è proprio tutto il contrario della convinzione. Il fanatismo non giudica e non distingue: prende per buono tutto quello che può ubriacarlo, tutti gli spunti di eccitazione che soddisfino il suo bisogno di essere eccitato. La convinzione ha scelto, conosce l’essenziale, può rinunciare all’accessorio e alle false coerenze. La convin¬ zione si sa intimamente organica e perciò sente il peso di ciò che afferma, può gettarlo sulla bilancia, e dettare lei le condi¬ zioni, senza più il bisogno di ostentarsi « tutta d’un pezzo », perché gli altri la credano vera. E allora è capace di sfumature, di mezze tinte, di modulazioni interne; Nel caso di un roman¬ ziere, per esempio, la convinzione è quella che crea i caratteri, i personaggi che testimoniano un sentimento della vita, senza doverlo dimostrare. I personaggi in cui sono possibili le con¬ traddizioni, senza che venga meno la coerenza. Uno degli enig¬ mi di Dostoéwskij, quando i lettori dell’occidente europeo co¬ minciarono a tentare di assimilarlo, fu appunto l’apparente contraddittorietà dei personaggi^ che pure erano così innega¬ bili e vivi: non c’era il buono tutto buono, né il cattivo tutto cattivo, né il savio tutto savio, né il pazzo tutto delirante. Potevano essere angeli e insieme diavoli. Invece i personaggi del romanzo francese, da Balzac a Maupassant, praticamente non avevano soluzioni di continuità nel manifestare il loro temperamento e carattere; tutti i loro atti e modi di essere erano in qualche modo una geniale deduzione da quella che potremmo chiamare la loro definizione iniziale. Quanto si voglia viventi, tuttavia erano anche teorematici. Sotto l’ispira¬ zione del poeta che li aveva creati, c’era la mentalità carte¬ siana, bisognosa del « chiaro e distinto ». Ma in Dostoéwskij c’era appunto una forma di convinzione più profonda che nei francesi. Nel nostro Verga dei Carbonari c’è anche questo conno¬ tato del fanatismo: l’incapacità di modulazioni, e tanto più vistosa in quei caratteri e personaggi a cui incombe di rap¬ presentare la tesi patriottica e civile dell’autore. Prendiamo Guiscard, che impersona il traditore della Carboneria, l’uomo insinuatosi nelle sue file per minarla; ebbene, Guiscard è il perfido senza remissione, senza un raggio di luce umana. Ve78

diamo la scena, veramente tremenda come tipo di conflitti, nella capanna del Parafanti. La figlia di lui, Rita, è impazzita d’amore per un uomo di condizione più elevata, ch’essa chia¬ ma Luigi. Sono nella capanna, dove abbiamo assistito ai deliri di Rita per quel Luigi, il padre di lei e il giovane Angelo, il contadinotto innamoratissimo di Rita, e disposto a sposarla, malgrado tuttò, se lei accettasse. Parafanti e Angelo sono due « affiliati », due carbonari, e Parafanti ha già domato in An¬ gelo ogni legittimo desiderio di vendetta contro l’uomo che ha stregato Rita, rivelando che Luigi è uno dei capi. Ecco che quel capo entra, sul cappello « le piume dei tre colori, rosso nero e turchino, che lo dimostravano uno dei capi supremi del¬ l’affiliazione. »^ È Guiscard, ed è l’uomo medesimo che Rita ha amato sotto il nome di Luigi. La ragazza irrompe, si getta ad abbracciare i ginocchi del suo adorato. Guiscard è perfet¬ tamente al corrente di tutti i rapporti umani che si stringono intorno alla sua nequizia: Parafanti che supera il proprio amo¬ re paterno per devozione verso il superiore, Rita che ha perso la ragione e che continua a credere in lui. Ma prima finge di stupirsi che Rita lo riconosca, e fin qui pazienza: poi, addi¬ rittura, « per compassione », finge di fingere di avere ricono¬ sciuto Rita e le dice di amarla ancora; mentre fa un ammic¬ camento d’intesa verso il Parafanti, padre dal cuore esulce¬ rato. Il Verga esagera di ingegnosità tortuosa, nell’ideare — non già nell’eseguire — tutti questi movimenti; ma proprio perché obbedisce al bisogno di dipingere in nero; quasi per un eccesso di fedeltà verso il suo assunto di calunniare i nemici dei carbonari. Tutto questo perché il Verga crede di credere nella causa e negli ideali dei carbonari, e le spinte che gli fanno credere di credere sono due, entrambe esterne: conformismo verso le ideologie più belle, più appariscenti e spettacolari, più nobi¬ litanti, insomma, del mondo che gli sta attorno; intuito del valore pratico, fruttuoso che possono avere per lui queste convinzioni, in quanto gli danno una materia, presumibil¬ mente accetta al pubblico, con cui si affermerà come roman¬ ziere. Conformismo e opportunismo, ancora una volta: e sono brutte parole, troppo calunniose, per dire passività. La passi¬ vità con cui il giovane accetta dal mondo esterno quello che non può ancora far scaturire, creativamente, dal proprio inti¬ mo. Si intende che tutto questo è possibile, e perfino legitti79

mo, quando la persona in causa — qui il Verga — sa di vo¬ lere (e darà le prove che non è illusione), ma non sa ancora quello che vuole. Può già dispiegare tutta l’energia occorrente, non ha ancora trovato la materia su cui applicarla. Si im¬ presta la mitologia che gli pare di più pronta riuscita: ma, appena si è sottomesso a questa mitologia, è sincero nell’entusiasmarsene : per lui, essa rappresenta una necessità vitale. L’equivoco più sottile, che lui non può ancora capire, consiste nello scambiare quella necessità vitale per una necessità ar¬ tistica. Il Gundolf ^ nel suo saggio su Goethe distingue tra temi e motivi. Raccogliamo la distinzione: temi, a nostro avviso, sono quelli accettati passivamente dall’esterno; motivi, quelli immedesimati nell’esperienza vissuta, divenuti attivi. Si può spendere sui temi un massimo di fervore; i motivi riescono a vivere di vita propria, quasi che l’artista se ne stia immobile e calmo, non sia che lo strumento con cui essi si rivelano al mondo. In generale, i giovani a cui non sia data la fortuna del capolavoro precoce, lavorano su temi. L’interesse del Verga giovanile è, appunto, di consumare in prove sterili e incomplete tutti i temi, che per lui non sono destinati a di¬ ventare motivi. Potremmo, per maggior chiarezza ma anche per gusto dello scialo, ripetere la stessa idea in altri termini. Vediamo se riescono più suggestivi. Un’altra distinzione venuta di moda in questi anni, e in fondi, abbastanza analoga alla precedente (nascono tutte e due sullo stesso orizzonte culturale), è quella proposta dallo psicologo Jung: tra la « persona » e quello che si potrebbe chiamare l’individuo; l’Io differenziato (la distin¬ zione si trova esposta al capitolo terzo del saggio L’io e l’in¬ conscio).^ Persona, dice Jung, è il nome che i latini davano alla maschera ^ dell’attore, la quale indicava la parte da lui rappresentata. È qualcosa che tutti riconoscono, che fa parte della psiche collettiva. Essa « simula l’individualità, fa cre¬ dere che chi la porta sia individuale (ed egli stesso vi crede), mentre non si tratta che di una parte recitata in teatro, nella quale parla la psiche collettiva». Insomma — dice ancora Jung — si tratta di « un compromesso tra l’individuo e la società, intorno a < ciò che uno appare > ». L’individuo vero, l’Io — sempre secondo Jung — è quello che deriva da un’a¬ nalisi e da un’assimilazione cosciente dell’inconscio personale. 80

In termini moralistici, potremmo dire che alla persona im¬ porta il « parere », all’Io importa !’« essere ». Ma lasciamo stare la psicologia di Jung: accettiamo solo la sua distinzione. Il giovane Verga è prevalentemente persona, prevalentemente, e industriosamente alacre nel trovare, nell’applicarsi la ma¬ schera che lo faccia apparire, agli occhi della società di cui cerca l’applauso, nella stimabile maschera dello scrittore. Co¬ me tutte le maschere, anche la sua è costruita con elementi della psiche collettiva. La passività del Verga nel subire, nel servire le varie mode e formule e situazioni di romanzo nasce appunto dal suo bisogno di accettare e sfruttare, ai fini della maschera, i dati collettivi. Accettando questa terminologia, la storia del giovane Verga si potrebbe raccontare ancora in altro modo. Egli modifica via via la maschera di romanziere, correg¬ gendola con sempre nuovi lineamenti, prelevati da ciò che i signori « tutti » intorno a lui mostrano di amare: i salotti, l’eleganza, le donne vittime, le donne fatali, gli eroi romanti¬ camente falliti. Non diciamo, né Jung ha mai detto, che la ma.schera sia del tutto gratuita proprio perché conformata da un moto di volontà non è figlia dell’arbitrio: l’Io profondo certo reagisce sulla maschera, ne suggestiona la scelta. Co¬ munque, il Verga via via getta e muta quelle maschere che sente in qualche modo, insopportabili. Alla fine, quando le ha gettate tutte, e il volto del suo vero Io viene fuori, succede questo fatto veramente straordinario: che sotto le successive maschere del romanziere, c’era stato un volto di romanziere. Posso finalmente risolvere, almeno per la fase verghiana che stiamo esaminando, il problema della sincerità del Verga: è la sincerità della maschera. Se ci siamo spiegati chiari, è una sincerità che va presa sul serio, una sincerità impegnativa, che talvolta può perfino diventare tragica: perché è la sincerità della parte che si rappresenta nel mondo: quella parte che è indispensabile, perché, se non la si impersona, pare addirit¬ tura di non esistere. Senza la maschera, non si è ciò che si vuole essere: ecco la necessità vitale, di cui si parlava. Queste lunghe considerazioni ci sono state suggerite dalla premessa che, nei Carbonari, la passione patriottica e civile serve alla volontà di fare il romanzo, non diventa piena e suf¬ ficiente necessità narrativa. Stavolta il senso che il tema non gli basti ci è denunziato dal Verga stesso in una specie di pre¬ messa al romanzo, che egli intitola Manifesto. Comincia con 81

un’apologià di . aspirazione e sacrificio » che « hwno et fettuata l’unità d’Italia . ; . aspirazione e sacrificio e 5»“ (s‘c) la divisa dei martiri che ce l’hanno preconizzata (inwndn l’unità d’Italia) sin da quando collo spargere il loro sang benedetto cominciarono a formare il vapore luniinoso su cui doveva splendere l’iride dei suoi tre colon. » « Aspirazione e sacrificio hanno improntato del loro nobile carattere la Car¬ boneria. » E la Carboneria, malgrado i suoi errori, espmti nelle stragi e sui patiboli, del ’IO e del ’21, è stata « 1 unica, la vera e coraggiosa manifestazione del sentimento nazionale in tempi quando italiani e stranieri si davano P" conculcarlo e deprimerlo nel modo piu turpe. » Ma darci il racconto di quelle prove eroiche non basta piu, non gli riempie tutto l’animo: non diventa quella che Valéry avrebbe chiamato l’idea fissa,indispensabile all’artista. Poche rig e dopo a conclusione del breve Manifesto, sente il bisogno di aggiungere un ma. « Ma parlando d’uomini e di avvenimenti non si deve dimenticare il cuore, il cuore che pure ci ha tanta parte... Sì, noi ci siamo internati nella vita intima di quei per¬ sonaggi — abbiamo provato un lampo delle loro emozioni ecc. È chiaro che, mentre indossa una maschera quella modellata sul patriottismo come sentimento collettivo nel momento stesso ne sente l’insufficienza, la modifica e corregge con l’altro sentimento collettivo; le vicende e i travagli del cuore. Due maschere in una volta, o due mezze maschere: e chiaro che il personaggio dell’autore risulterà scisso. Per ar¬ ricchirsi, si butta nella contraddizione. Tutta la prima parte della carriera verghiana è fatta di queste contraddizioni, di questo assumere posizioni in qualche modo antitetiche 1 una all’altra, e non mai lasciarsi rapire tutto; fin che quelle inaschere gli riusciranno insopportabili. La maschera cuore in¬ tanto prenderà il sopravvento nel prossimo romanzo Sulle lagune. Il Russo dichiara addirittura che, in questo terzo romanzo, « il quadro politico cede al racconto della favola di passione. Per dirla a mòdo nostro, saremmo già a una terza maschera: quella delle storie erotiche e mondane. Sulle lagune si svolge nel ’61 a Venezia, ancora austriaca: la stesura del libro era terminata nel ’62. Per non doverci tornare, diciamo, a titolo di cronaca, che l’intreccio è il seguente (lo riferiamo da un riassunto del Frasca,'*'* che avrà letto questo libro di cui rimane copia alla Marucelliana di Firenze, nella raccolta della 82

rivista Nuova Europa*^ dove apparve a puntate). Un giovane sottotenente ungherese, Stefano Keller, costretto a servire nel¬ l’esercito austriaco, si innamora della diciannovenne Giulia. Il padre di costei è stato imprigionato dagli austriaci perché colpevole di « relazioni coi ribelli »; il fratello di costei, per sfuggire all’arresto, è dovuto scappare in Lombardia. Giulia e la madre paralitica, per interessamento del confessore sono state affidate alla protezione del vecchio conte austriaco De Kruenn, il quale si innamora di Giulia, si ingelosisce del te¬ nero che essa nutre per Stefano, la insidia e la minaccia (se la Tosca di Sardou non fosse stata scritta dopo, si giurerebbe che c’è in questo conte De Kruenn un’ombra del famigerato Scarpia). Questo baritono ha col tenore Stefano un colloquio in cui gli spiattella il proprio amore per Giulia. E Stefano viene così a sapere che la ragazza, sebbene viva in casa del conte, non è sua figlia. Entra anche lui in sospetto: nubi tra gli innamo¬ rati. Da quel colloquio scaturisce un duello (il primo nella serie degli ormai inevitabili duelli del Verga romanziere mondano). Stefano rimane ferito, Giulia accorre a trovarlo: e al capez¬ zale di lui incontra il più fedele amico del giovane che, per combinazione, è proprio il fratello di Giulia. Scena di agni¬ zione: tutto si chiarisce, anche l’illibatezza di Giulia. Ancora qualche persecuzione del conte, poi marcia nuziale sulle la¬ gune. Ma noi dobbiamo tornare ancora, e stavolta per esaurire l’argomento, ai Carbonari. Abbiamo visto che nel romanzo è inserita una biografia, anzi vi è intercalata con una retroces¬ sione nel tempo: quel tipo di « rievocazione », a cui il cine¬ ma ci ha abituati, ma che, specie in passato, lasciava un po’ perplessi i critici letterari. Certo nel Verga rimane un vizio di composizione, visibile anche quando saprà destreggiarvisi con più bravura:, come per esempio in Èva, dove tutta la sto¬ ria del pittore Lanti e del suo rovinoso amore per la ballerina è raccontata come in una lunga parentesi, durante il veglione alla Pergola, che precede la sfida e il duello del Lanti col conte Silvani, il nuovo amante di Èva. Ma non è soltanto qiiestione di composizione. Si annunzia già quell’incertezza tra romanzo-racconto e romanzo-ritratto, che il Momigliano indicherà, più di tutti gli altri critici, e con gesto più accusatore, spingendo la sua censura fino all’or83

canismo narrativo — che vuole dire poi la coerenza tonale — del Mastro don Gesualdo (che pure, per il Momigliano, e il capolavoro). Lasciando per ora in pace il Gesualdo, e osser¬ vando che le contraddizioni del Verga sarà meglio studiarle caso per caso, e cavarne di volta in volta il frutto critico •— positivo o negativo — di cui sono capaci, diciamo qui c e l’incertezza tra racconto e ritratto è il riflesso di una contrad¬ dizione più fondamentale. Il personaggio di Corrado è spinto alla ribalta da una dop¬ pia molla. Per un verso, sotto questo personaggio c è un mo¬ vente altruistico: l’ideale di giovare alla patria — e questo anima il romanzo-racconto dei Carbonari. Per un altro verso, Corrado è animato dal movente personale, egoistico se voglia¬ mo, di conseguire la gloria per riscattare 1 umiliazione della propria nascita e rendersi degno della donna a cui aspira: e di qui si diparte il romanzo-ritratto. C è in lui, se vogliamo adoperare le parole messe in giro dal Croce, il romanzo-rac¬ conto, sorreto dal movente etico, il romanzo-biografia dal movente utilitario, individualistico, economico (in senso cro¬ ciano: cioè rivolto a un fine particolare). In questa dupli¬ cità del movente c’è la vera, involontaria (oso dire, incon¬ scia) proiezione autobiografica del giovane Verga. Il quale, per molti anni ancora, fino a Vita dei campi, lavorerà sotto un duplice movente: conseguire la gloria (movente econo¬ mico), riuscire ad esprimersi, arrivare all arte (movente eti¬ co). Tutti i dissidi, e gli scacchi correlativi, che abbiamo constatati, e che constateremo, si possono far risalire a quella duplicità, così candidamente confessata dall’impianto dei Carbonari. Parliamo di duplicità, non vogliamo stabilire una responsabilità morale. Un uomo fa quello che può, dice quel¬ lo che è: e non si può davvero accusarlo se sta lavorando, sia pure in modo torbido, per arrivare ai Malavoglia. Ci interessa piuttosto questo modo di rivelarsi senza saperlo, di dire il proprio segreto quando si crede di parlare d altro : questa specie di lapsus, o di atto mancato, che è il più forte contributo recato dai Carbonari alla comprensione del Verga e alla storia della sua formazione. Quanto alle confessioni più dirette e consapevoli, direi che ci interessano meno. Che Verga si proietti perfino in « Ritfi la pazza », quando dice di lei « aveva uno di quei cuori che fanno l’infelicità del disgraziato che lo possiede senza sa84

perne soddisfare i palpiti violenti, questo ci interessa fino a un certo punto. Ci ripete quello che già avevamo indovi¬ nato : un senso di insufficienza, quasi di tradimento da parte della vita, che spinge il Verga a cercare la propria afferma¬ zione. Ne avevamo già trovato prove indirette, che forse ci ap¬ passionano di più. E non sapremo mai a quali circostanze pra¬ tiche, dell’infanzia o dell’adolescenza, sia da riportare quel¬ l’offesa o torto che, per l’artista, diventa stimolo. Forse, se anche potessimo trovare quelle circostanze, non andremmo nemmeno a ricercarle. La critica ha diritto di lavorare con strumenti, anche psicologici, più differenziati di quanto possa essere il generico e ormai fastidioso complesso di inferiorità. Tutti hanno i loro complessi di inferiorità: nazionali o regio¬ nali, continentali o isolani, familiari o individuali. Non tutti però diventano Giovanni Verga. Piuttosto, per quei riferimenti autobiografici, vorremmo ci¬ tare un passo, che ci è accaduto di ritrovare, di Francois Mauriac nel piccolo libro Le romancier et ses personnages e che conferma singolarmente certe considerazioni che abbiamo fat¬ te sui romanzieri adolescenti. Premesso che « gli eroi dei ro¬ manzi nascono dal matrimonio che il romanziere contrae òon la realtà » il Mauriac continua: « Tutti i romanzieri, anche se non l’abbiano resa pubblica, hanno cominciato con la pittura diretta della loro bell’anima e delle sue avventure metafisiche o sentimentali. Un ragazzo di diciotto anni non può fare un li¬ bro, se non con ciò che conosce della vita, vale a dire i propri desideri, le proprie illusioni. Non può descrivere altro che l’ovo di cui ha appena rotto il guscio. Generalmente, si inte¬ ressa troppo a se medesimo, per pensare ad osservare gli altri. Solo quando cominciamo a disincantarci del nostro cuore, il romanziere comincia a prendere figura in noi. »“'* Vorrei solo aggiungere/ che dove il Verga si libera dall’im¬ pegno, quasi dal senso della vicenda e dei personaggi a cui deve sottostare per fare il romanzo, e che riempiono chias¬ sosamente il suo cervello, e lo preoccupano, allora si fa uno strano silenzio: ed è già quel silenzio naturale che occupa così larghi spazi tra le parole del Verga maggiore. Nasce già quel paesaggio-stupore, dove gli aspetti incidono in una spe¬ cie di rarefazione sgomenta. Per esempio in questa breve de¬ scrizione: « Si udiva il ronzio sì tenue eppure sì caro nel si¬ lenzio delle belle notti d’està, che annunzia che la vita non 85

è spenta nella campagna; e in lontananza il canto dolce e ma¬ linconico del chiurlo: e poi vi era là una magnifica luna c e inargentava il paesaggio. Si può dire che è ancora generico, che vi è intriso ancora troppo sentimentalismo dichiarato nelle parole anziché riassorbito negli aspetti. Si può dire che ci sono aggettivi più del necessario, che la visione non è ancora perso¬ nale. Eppure quelle notazioni sintatticamente slegate, che se¬ gnano le distanze, quel dilagare di malinconia già troppo au¬ stera per cantarsi in musica, quella capacità di osservare aspetti non privilegiati, non speciali, eppure subito essenziali : tutto questo è già il tono di Verga. Se l’è conquistato, perché in quel momento non gli occorreva la maschera. Può darsi che altri aspetti dei Carbonari ci tornino utili, come termini di raffronto, per le analisi che faremo più in la. Adesso dobbiamo proseguire: identificare le maschere suc¬ cessive, il disagio e le reazioni di questo Verga costretto ad accettare le maschere.

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IV ■ Verso la necessità di scrivere

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La Storia di una capinera Primo episodio Le tre dimensioni del genere romanzo Romanzo e racconto Secondo episodio Dionisiaco e apollineo nella cultura dell’800 Equivoco tra concitazione ed intensità nella Capinera Terzo episodio e conclusione del romanzo La donna nella letteratura dell’800

Siamo ormai arrivati al secondo momento della vita artisti¬ ca del Verga. Lo faremo cominciare con la Storia di una ca¬ pinera. Essa era stata preceduta da Una peccatrice, scritta nel '65, probabilmente, e pubblicata a Torino, nel ’66, poi più volte ristampata ^ a Catania (’93-98-901), finalmente passata alle edizioni popolari per bancarelle. Della Peccatrice abbia¬ mo già tenuto conto, facendone una specie di involuto presa¬ gio, un simbolo rozzo, sensibile e corpulento di quella che sarà la carriera interna dello scrittore. L’abbiamo trattata come gli psicologi trattano il materiale onirico: anzi, il cosiddetto « sogno iniziale » da cui cavano le indicazioni^ per seguire, comprendere, aiutare lo sviluppo individuale del loro pazien¬ te. L’abbiamo, cioè, sottoposta a un trattamento non lette¬ rario. Potremmo fare adesso l’altra metà del lavoro: studiarla letterariamente. Vedere, cioè, ancora una volta il conflitto tra volontà di fare il romanzo e necessità che non si decide a ma¬ nifestarsi. Quantunque, nel caso della Peccatrice, quella sua natura di sogno premonitore dimostrerebbe una certa neces¬ sità, ma più appartenente all’ambito degli sfoghi, che non a quello dell’ispirazione e dell’arte. L’esplorazione delle passi¬ vità, a cui il Verga soggiace, in questo primo dei suoi romanzi mondani, dei modelli che subisce, si vedrà meglio più in là, e il discorso converrà di farlo allora, una volta per tutte. D’al¬ tronde, gli elenchi che potremo trovare sono già stati fatti con grande diligenza dai critici del Verga. Semmai, il nostro lavoro sarà di interpretare il valore di questi elenchi : cioè di studiare il come e il perché lo scrittore subisca quei modelli:'quella che oggi chiamano la sua equazione personale. La Capinera è una tappa abbastanza singolare nella storia del Verga, come l’abbiamo delineata. Ha tutta l’aria di essere un tema che si impone a lui, gli scaturisce dal di dentro. Con¬ tiene punti ed elementi, in cui pare addirittura che il tema frutti motivi, musica. In una certa sua insopprimibile mono89

Ionia meccanica, contiene situazioni, o frammenti di situazio^ ni, o scorci, di tipo inventivo, e non solo da attribuirsi alla fosforescenza cerebrale, allo scatto giovanile del Verga, e nem¬ meno a una sua precoce bravura che cominciasse a maturare ed equilibrarsi, a imparare i più redditizi procedimenti di mes¬ sa in opera del materiale. E tuttavia, in coscienza, la Capi¬ nera,^ checché se ne dica, anche da persone che se ne inten¬ dono, qualunque ne sia stato o ne rimanga il suo successo, non può ritenersi un bel romanzo. Sbarazziamoci della storia esterna di questo libro. Essa è stata riferita dal De Roberto in un articolo rimasto celebre : « Storia della Storia di una capinera », che forse doveva far parte di quella biografia del Verga, vagheggiata ma non scritta dal De Roberto,^ e che comparve sulla Lettura dell’ottobre del 1922. [La Lettura era un mensile di «varietà», come si diceva allora, emanazione del « Corriere della Sera », che era la rocca della rispettabilità borghese. Una specie di progenitri¬ ce del rotocalco di oggi, ma destinata a un pubblico molto più qualificato: la media e alta borghesia esemplata sul tipo che, a Milano, frequentava la Scala e le « prime » di prosa al Tea¬ tro Manzoni. La differenza dai moderni settimanali a rotocalco si vedeva perfino nella veste : copertine di Sacchetti, brillante e corretto disegnatore, carta patinata, copertina a macchina piana. Lettori coi baffi e bempensanti. Scrittori: le più « belle penne » d’Italia, possibilmente assimilate e fuse nel crogiuolo Milano. Vi si faceva l’aneddotica colturale, anziché quella dei briganti, mostri, avvelenatori e stupratrici. L’iniziativa coltu¬ rale era ancora tutta nelle mani dell’Europa, e Milano aveva una coscienza europea, parecchio soddisfatta di sé. Insomma: si trattava di una civiltà ancora inconsapevole di essere ero¬ sa.'* Il rotocalco di oggi che — per essere più esatti — sa¬ rebbe un incrocio di « Lettura » e « Domenica del Corriere » si è fatto imprestare dalla spregiudicatezza dei documentari americani, nata forse al tempo dei gangsters e della proibizio¬ ne, il proprio cinismo. La cosa più curiosa, ma tutt’altro che inspiegabile, è che il rotocalco si trova oggi ad essere mano¬ vrato e finanziato soprattutto dai conservatori; mentre ha sem¬ mai un inconsapevole e negativo valore rivoluzionario: per¬ ché dà atto di una società in decadenza e ribollimento anar¬ coide. Torniamo alla « Lettura » e all’articolo di De Roberto.] La Capinera è stata scritta nell’estate del 1869 a Firenze, 90

dove il Verga si era trasferito sul finire dell’aprile precedente, che segna per lui l’inizio del decisivo espatrio dall’isola, (vi ritornerà in visita, ma da allora in poi il suo domicilio, per qualche decennio, sarà Firenze prima, e poi Milano). Il Cap¬ pellani ^ suppone che una delle spinte a lasciare l’isola gli fosse venuta dal Capuana, partito per primo, e quasi clande¬ stinamente: finto viaggio ad Acireale, e di lì volo a Firenze. Il Vetro, autore di una monografia sul Capuana, citata dal Cappellani, racconta che uno zio dello scrittore, saputo di questa fuga di Luigi, avrebbe esclamato : « Dda banna o munnu! fora regnu! » Ma il Verga, a parte lo stimolo esterno che gli poteva essere venuto dalla « coraggiosa » iniziativa del Ca¬ puana, sentiva già certamente per conto proprio una specie di clausura dell’isola e la calamita del continente. E poi c’era, nella sua famiglia, il precedente di Domenico Castorina, reca¬ tosi a Tarino negli anni romantici del Risorgimento, per ac¬ quistarvi gloria di letterato. Sono notizie un po’ trite e cronistiche, che in parte abbiamo già ricordato precedentemente: qra è venuto il momento di servircene, perché possono anche funzionare come « chiave » per scoprire la genesi psicologica e segreta della Storia di una capinera. A Firenze pare ormai assodato che il Verga avesse fatto un viaggio nel maggio e giugno del ’65 : lo dimostrerebbero alcu¬ ne lettere di Giovanni alla nonna e perfino un conto di alber¬ go fiorentino.* Non siamo qui per fare dell’erudizione sulle vicende bio¬ grafiche del Verga. Tutte le notizie che si potevano racco¬ gliere sono ormai pubblicate. Altre più precise verranno fuo¬ ri, quando gli archivi Verga usciranno dalla clandestinità; e se allora ci sarà qualche cosa da imparare, che illumini la for¬ mazione e l’arte del nostro scrittore, staremo tutt’orecchi : noi, o chi per noi. Comunque, dei tre anni passati a Catania, tra il primo viaggio a Firenze e la definitiva migrazione, faremo cenno in seguito: perché pare che, durante questo periodo. Verga abbia iniziato il romanzo Èva. A Firenze, il Verga fa conoscenza o, addirittura, si mette sotto la protezione di Francesco Dall’Ongaro, che più tardi — in una lettera — egli chiamerà « il primo e più affettuoso padrino mio y>P In tutte le capitali e centri letterari, oltre gli scrittori che contano (o magari non contano) per quello che scrivono, ci sono quelli che contano per quello che fanno. Il

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DairOngaro era uno di questi, sebbene fosse anche un pro¬ duttore di letteratura, e abbastanza letto. Ma era un centro di azione letteraria, era un cordiale e attivo e servizievole pezzo grosso, un bonario padreterno. Per non aggirarci troppo tra le larve, ricordiamo che il Dall’Ongaro era un friulano (nato nel 1808), inizialmente votatosi alla carriera ecclesiastica, poi abbandonata. S’era fatto un nome come poeta patriottico, e soprattutto con certi stornelli, tra i quali era famosissiino II Brigidino, che Giuseppe Garibaldi declamava a Montevideo, imbarcandosi per le campagne d’Italia; diceva che il bianco, il rosso, il verde « è un terno che si gioca e non si perde. » Prima mazziniano, poi entusiasta di Garibaldi, di Cavour e di Vittorio Emanuele, aveva scritto nel ’61 una celebre poesia intitolata ai Volontari della morte,^ raggruppati intorno a Garibaldi. Poi, nel ’70, dopo la presa di Roma, aveva into¬ nato l’esclamazione: «Ti reco giubilando il mio saluto io che gridai coi Mille: o Roma o morte. » La raccolta delle Fantasie drammatiche e liriche,^^ di cui alcune sono dialopte e una ha squarci addirittura sceneggiati in endecasillabi, ci riporta all’altra attività che diede la maggiore rinomanza al Dall’Ongaro: quella di scrittore teatrale. Scrisse tragedie e drammi del genere più vario : uno perfino su una Sibilla etrusca sopravvissuta, nel primo secolo dell’era volgare, alla de¬ cadenza della sua nazione {L’ultima Sibilla); uno che oggi sarebbe curioso, censura permettendo, di riesumare, era inti¬ tolato I dalmati “ e s’imperniava sull’incendio di una nave, la Danae, avvenuto nel 1812 a Trieste, per vendetta nazio¬ nale {inde irae dei dalmati offesi). Tradusse anche per le scene la Fedra di Racine. Ma l’opera che gli diede maggiore celebrità fu il Fornaretto di Venezia, dramma in prosa, il cui canovaccio non cessa di eccitare la fantasia e la speranza di gua¬ dagni anche dei cinematografari d’oggigiorno. Narrava, con vicende intrecciatissime e romanzesche, la condanna a morte eseguita ai principi del sec. xvi in Venezia contro un garzone di fornaio, creduto reo d’omicidio. La macchina si scarica su uno dei più irresistibili effetti melodrammatici: il famoso « troppo tardi ». Troppo tardi, infatti, uno dei membri del Consiglio dei Dieci si confessa autore dell’omicidio contro chi gli corteggiava la moglie. Risuona allora il grido del padre del fornaretto: « Ma egli è morto, o giudici! Chi me lo rende? grido che lanciato dal grande attore Guttinelli della Compa-

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gnia Reale Sarda faceva crollare platea e loggione. Ma adesso a noi importa l’autorità che il Dall’Ongaro aveva nel mondo del teatro. Parecchie, dunque, le ragioni che per¬ suasero il Verga ad eleggerselo padrino: e prima di tutto ci sa¬ ranno state quelle autentiche, il transfert filiale, si direbbe adesso, dell’uomo giovane e di provincia verso il maestro rive¬ rito nella capitale e celebre in tutta la nazióne. Poi la con¬ sonanza delle idee politiche svoltesi lungo la medesima trafila seguita dal Verga: mazzinianesimo, garibaldinismo, poi na¬ zionalismo unitario e pugnace, di impronta, diciamo così, liberal-monarchica. Poi il fatto, e qui siamo già nel dominio della pratica, che il Dall’Ongaro si prendeva efficacemente a cuore la sorte dei giovani: come aveva dimostrato aiutando il conterraneo e allqra amico del Verga, Mario Rapisardi. Fi¬ nalmente — e ci addentriamo sempre più nei motivi pratici — i poteri che il Dall’Ongaro aveva su combinazioni e mer¬ cato e intrighi della scena, ancora più complicati che quelli dell’editoria. Trovare un capocomico era, allora come oggi, anche più difficile che trovare un editore. Dall’Ongaro era il gentile Caronte il quale — senz’altro obolo, forse, che un po’ di decorosa lusinga — traghettava copioni verso la ribalta, manoscritti verso le case editrici. A Firenze era professore di letteratura drammatica, cattedra che in seguito occupò a Na¬ poli fino al termine della sua vita. Nella sua valigia, Giovanni Verga si portava I Carbonari, Sulle lagune e Una peccatrice. Quest’ultima piacque molto al Dall’Ongaro. Nel salotto letterario della signora Swanzberg,*^ il celebre maestro esclamò (e ne fa fede una lettera del Verga alla madre) :’■* « Ho incominciato a leggere il vostro romanzo. Mi piace, mi piace davvero. Avete quel fare disinvolto che ci vuole. Non lasciatelo mai; bravo! » Il modo e le ragioni di questo giudizio positivo, anche riferiti a quella naturale im¬ mersione nei gusti del proprio tempo, la quale ci fa un po’ tutti ciechi e facili a lasciarci abbindolare quando giudichia¬ mo di contemporanei, tuttavia non depongono troppo favore¬ volmente circa la chiaroveggenza critica del Dall’Ongaro. Un giudizio che avesse puntato il groppo involuto e nascosto del romanzo, un giudizio-presagio su quel che c’era di oscuro pre¬ sagio nel romanzo, forse ci piacerebbe di più. Comunque a quel giudizio dobbiamo essere grati, perché spinse il Verga a perseverare. Il Verga lo scrive alla madre: « Per comunicarvi, »

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egli le dice, « la speranza che ora ho più forte, e Dall Ongaro mi aiuterà; per provarvi che posso fare qualche cosa, e che forse non sarà il tutto tempo perduto, perché almeno ci ho in me l’attitudine che adesso posso supporre in me. » Sulla traccia di De Roberto-Cappellani, apprendiamo che, oltre la Swanzberg, un’altra musa fiorentina di allora, e anche lei patronne — come direbbe Proust — di un salotto let¬ terario, la signora Assing, accolse festosamente il Verga, volle leggere anche I Carbonari e Sulle lagune, e scrisse sulla Pec¬ catrice una recensione su un giornale tedesco. Ma nella valigia di Giovanni Verga c’erano, se non addi¬ rittura copioni, almeno aspirazioni teatrali. Da Catania egli aveva già mandato a un concorso fiorentino una commedia, / nuovi tartufi, che non era piaciuta. Possediamo il titolo, pubblicato nel ’23 dal Niceforo, di un’altra commedia gio¬ vanile rimasta inedita: Nuvole d’estate. Finalmente una terza. Rose caduche, fu pubblicata postuma nel 1928. Il Russo ^ fa come certi critici d’arte che, in base a giudizi stilistici, datano i quadri, e conclude: Rose caduche non può appartenere al periodo dell’arrivo a Firenze: essa è del periodo di Tigre reale e di Eros, 1873-74. La tecnica dell’attribuzione e della data¬ zione è molto delicata e soggetta a equivoci, come si può rica¬ vare dal bellissimo saggio sulla connaisseurship, dove un mae¬ stro di questa tecnica nel campo figurativo, il Berenson,*^ cerca di fissarne alcune regole. Dunque, noi non giureremmo sulle parole del Russo e d’altronde, siccome facciamo qui una storia esterna, non ci importa troppo di sapere quale delle tre com¬ medie fu sottoposta al giudizio di Francesco Dall’Ongaro. Una lo fu di certo: e probabilmente uscita dai cassetti di Catania e poi dalla valigia, se il Verga, scrivendone alla ma¬ dre, afferma che essa era piaciuta al Rapisardi. Mentre ten¬ tava invano, per via di amici, di farla giungere a Tommaso Salvini, che doveva tenere uu corso di recite a Catania, il Ver¬ ga ne fa leggere una copia al Dall’Ongaro. Il quale la trova « un lavoro bellissimo [lettera alla madre del luglio ’69], c’è novità di condotta, delicatezza di disegno, e un dialogo poi stupendo davvero, quale voi l’avete e quale non l’ho trovato nei moderni poeti drammatici. Il vostro dialógo, replicò, è proprio quello che ci vuole... Il vostro lavoro... io lo metto molto al di sopra dei lavori tanto applauditi del Torelli: biso¬ gna però un pubblico scelto e intelligente che sappia capirlo

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e degli artisti che sappiano disegnare con precisione tutte le finezze... L’azione è quella che ci vuole a quel lavoro; un poco più avrebbe ingarbugliato il processo, un poco meno sarebbe stata sterile... ». Conclusione, il Verga può dire alla madre che i sacrifici da lei durati saranno presto o tardi compensati largamente: « Potrò percorrere, » dice, « con onore questa bella carriera ch’è la mia passione, e che voi possiate essere contenti di me. »” Conclusione, la commedia non fu mai rappresentata, e il Verga frattanto si proponeva di scriverne un’altra. Non sap¬ piamo se lo fece o no: in quell’estate compose la Storia di una capinera. Dev’essere stata scritta in un lampo: iniziata il 23 giugno, il 14 luglio poteva dire: « Non mi costa, adunque, che poco più di un mese di lavoro. »"* La ('.apinera doveva vedere la luce due anni dopo, nel 1871, stampata dall’editore milanese Larnpugnani, prima .sul giornale di mode e poi in volume. Di tutte le altre notizie che possediamo, singolarmente ab¬ bondanti, sulla composizione della Capinera vogliamo fare uso critico, per discutere le motivazioni del libro. Per ora, cerchiamo di vedere oggettivamente che cosa sia questo ro¬ manzo. È una serie di lettere, scritte da una monacanda, e poi novi¬ zia e poi suora, di nome Maria, a una sua compagna di con¬ vento, Marianna, che finirà col non prendere il velo Il piccolo romanzo può dividersi in quattro periodi, che di¬ segnano il succedersi di quattro diverse situazioni pratiche e correlativi stati d’animo, lungo il filo di un unico contrasto: Maria non è nata con la vocazione della suora e passa da un sentimento oscuro, quasi inconsapevole, di questa sua incom¬ patibilità di carattere col chiostro, fino alla drammatica e, in certo modo, mortale consapevolezza. Però il Verga — sebbene scriva un romanzetto schematicissimo nel meccanismo pro¬ pulsore, e fin troppo folto, in proporzione, nella veste — non riesce ad affrontare nella sua nudità quello schema di una protagonista, che progressivamente si chiarisce a se stessa. Se ci fosse riuscito, ci avrebbe dato il dramma di una volontà che, nel momento in cui capisce se stessa, e diventa attiva, non può più fare presa sulla vita, ha di fronte a sé l’irrepara¬ bile. La Capinera morrebbe eroina. Invece, muore vittima. Per questo impietosì e piacque. Ma non è neppure limpido né

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del tutto autentico il dramma opposto: quello della vittima, perché ottenuto mediante un vittimismo artificioso, procurato dall’autore con mezzi esterni e con le forzature di tono che vedremo. Primo episodio: comincia con una lettera datata 3 settem¬ bre 1854 e dura, allo stato puro, cioè senz’altri ingredienti, fino al poscritto della seconda lettera, una quindicina di giorni appresso. Maria era stata ritirata dal convento per una epide¬ mia di colera, e portata a Monte Ilice, in una villa della sua famiglia. Veniamo a sapere che dall’età di sette anni, quando le è morta la madre, è stata rinchiusa in convento, dove le han¬ no promesso che avrebbe trovato « un’altra famiglia, delle altre madri che [le] avrebbero voluto bene... »*’ Intanto il padre ha sposato in seconde nozze una ricca signora, da cui ha av,uto due altri figli, Giuditta e Gigi. Praticamente, è la prima volta che Maria si trova con suo padre, può « dire di non co¬ noscerlo intimamente che da venti giorni ».“ Eppure ha-già constatato che l’amore di una famiglia vera è un’altra cosa: il padre l’abbraccia e lei ricorda a Marianna che nessuno l’ab¬ bracciava mai laggiù (usa proprio questo avverbio laggiù, che ha un valore non soltanto topografico, si direbbe, e non di¬ pende solo dal fatto che Catania si trova più in basso). La regola (in corsivo nel testo) proibisce gli abbracci. Le due prime lettere disegnano il prorompere fisico di una creatura fino allora tenuta chiusa. Le descrizioni paesistiche sono abbondanti : e va subito rilevato che prendono una-specie di autonomia descrittiva, come se fossero le notazioni paesi¬ stiche stesse — o l’autore che le cava fuori dalla sua penna — a godersi il paesaggio. Che la libertà in questi fidenti e ameni luoghi sia gioia per Maria lo si ricava, forse, dall’esuberanza della descrizione, e da una certa tenerezza un po’ leziosa. Il Verga parla di farfalle e di fiorellini per farci credere che l’oc¬ chio che guarda è quello di Maria; in realtà è ancora il suo occhio. Il paesaggio è vissuto dall’autore, e solo attribuito alla sensibilità del personaggio. Salvo che in pochissimi punti, ci occorre di sapere che Maria è, per così dire, in libertà prov¬ visoria, per capire che quel paesaggio le pare così bello. Verga, romanziere maturo, con pennellate e tocchi molto più radi riuscirà, non solo a dipingere più concretamente, con una vi¬ sione più personale, ma ad amalgamare gli aspetti naturali con lo stato d’animo del personaggio che vi è immerso e li guarda.

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Qui l’effetto è chiesto a una giustapposizione: ci è spiegata la condizione di Maria, poi da quella dobbiamo noi dedurre il tono di cui essa investirebbe l’ambiente. E quando l’autore vuol precisare il colore psicologico che dovrebbe impregnare le cose, è costretto a imprestare a Maria una considerazione dall’esterno: « Immaginati un cieco nato che per miracolo riacquisti la vista! Ma un simile paragone non appartiene in proprio a Maria, personaggio ingenuo, che accetta, che su¬ bisce anche la felicità, senza giudicarla. Insomma, sarebbe co¬ me se un drammaturgo mettesse nella didascalia, ciò che non è riuscito a far sentire con le battute, o ad estrinsecare con l’azione. Maria trova a Monte Ilice, oltre lo sfogo fisico, muscolare, respiratorio ^ nell’aria aperta, anche lo sfogo al suo bisogno di affettività. Gli episodi sintomatici sono il sospiro involonta¬ riamente nostalgico verso la capanna del castaido, « com’è piccina ma pulita! »,^ vero nido di intimità domestica, di affetti regolari e caldi — e la storia del passero, che il padre porta a Maria, avvolto in un fazzoletto sanguinante, perché i cattivi cacciatori l’hanno colpito a una zampetta. Maria lo guarisce, lo battezza Carino, ne vince a poqo a poco la selva¬ tichezza, addomesticandolo. È già il secondo uccellino che troviamo nel romanzo intitolato alla Capinera-, e dimostra che il Verga ricorre un po’ troppo sistematicamente alla più con¬ sueta simbologia degli affetti miti e gentili. Il romanzo è tutto scritto in chiave sentimentale ed effu¬ siva. È evidente che l’ideale letterario dell’autore — la sua poetica o partito preso — sarebbe di abbandonare a se stessa la capinera, di lasciarla vivere i suoi naturali sentimenti: insomma, di abdicare alla sua vita, reazioni e giudizio di auto¬ re, per scomparire in Maria, farsene l’amanuense. Quel mazzo di lettere che egli pubblica dovrebbero essere « vere », auten¬ tiche. Si dovrebbe, al limite, poter stabilire l’identità Verga, autore di Maria = Maria. Senonché, un intervento dell’auto¬ re è indispensabile affinché quelle lettere mettano subito in evidenza un « senso »> siano gli atti e le movenze di un per¬ sonaggio dominato da una certa organizzazione narrativa. Sem¬ pre, in qualsiasi romanzo, esiste questa antitesi : il personaggio deve essere autonomo, cioè libero e come abbandonato a se stesso, a questa sua libertà; d’altronde, deve essere chiuso in una forma, e come signoreggiato, amputato dal profilo che lo

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circoscrive, e ce lo rende visibile e riconoscibile, se no, ci troveremmo di fronte a una dispersione di atomi psicologici e sentimentali. Questo conflitto tra liberta di un essere vivo e signoreggiamento della sagoma in cui esso si presenta diventa invisibile nei buoni romanzi : i quali danno al lettore la sen¬ sazione che il personaggio si muova ùnicamente secondo una propria intima legge organica e vitale: il romanziere sa chi sono, ma non dimostra di saperlo. Altra volta ci è accaduto di risolvere questo problema accennando alle teorie della mo¬ derna psicologia della forma: i punti che il romanziere lascia venire in luce sono istintivamente, genialmente, scelti in modo che suggeriscano quella linea riconoscibile, che gli psi¬ cologi chiamano « linea buona, o del comune destino ». Que¬ sto è specialmente vero per certi romanzieri moderni, di tipo analitico, come Proust o Svevo o Joyce (forse quest’ultimo un po’ meno), i quali sembrano farci perdere in un polverio, in una disgregazione atomica, e viceversa noi ci troviamo sempre in presenza di un individuo unitario, di quello che i nostri vecchi chiamavano un carattere: Swann, o il Balli o il Bren¬ tani. Turghenieff scriveva a parte la biografia dei suoi perso¬ naggi, prima di introdurli nel romanzo: voleva sapere tutto di loro, anche quello che non avrebbe raccontato, che sarebbe divenuto inutile, o impossibile a includersi, nell’economia del romanzo. Molti narratori fanno cosi. La loro bravura, o gran¬ dezza, la loro totale immersione nel flusso narrativo consiste poi nel farci dimenticare ciò che sapevano, prima ancora di impegnare il personaggio nella vita del racconto. Lavorano come se non sapessero di sapere. Solo in questo caso, nascono i grandi personaggi e le grandi, significative storie. Essi paiono prodursi ed articolarsi con l’imprevedibilità e insieme la ne¬ cessità irrefutabile della vita. Il personaggio e gli eventi si sviluppano mettendo continuamente a repentaglio la sicu¬ rezza del romanziere. Anche quando il contegno del perso¬ naggio, lo svilupparsi degli eventi coincidono con le speranze, o verificano certe ipotesi sulla vita, tuttavia il loro modo di prodursi ha sempre qualche cosa di sconcertante: la novità della cosa creata, della cosa che nasce. Il « non saper di sa¬ pere » è segno di creazione. Claudel nella sua Arte poetica fa un gioco di parole: parla di connaissance, intendendo in¬ sieme conoscimento e co-nascimento. Riprendiamolo, per dire che il personaggio deve co-nascere, affinché il romanziere pos-

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sa mostrar di conoscerlo; e che questo è il sigillo della sua vitalità. Ci saremmo espressi male, se avessimo fatto credere che un personaggio, per essere vivo, deve risultare avventuroso, pro¬ durre il colpo di scena e l’inatteso. Se queste sorprese mate¬ riali, queste incognite di intreccio o di comportamento fossero il criterio di validità e di vitalità di un racconto, allora la ri¬ lettura di un romanzo sarebbe sterile: perché noi già sap¬ piamo il divenire del personaggio. La nostra tesi è un’altra: è proprio quel tanto di ignoto, che via via si infondeva nella crescita del personaggio, è proprio quel tanto di rischio che il poeta ha corso vivendo il divenire del personaggio — sono questi coefficienti a renderlo sempre vivo, anche se lo sappiamo a memoria. Quando Julien Sorel, sul sagrato della chiesa di Verrières, spara il famoso colpo di rivoltella a M.me de Renai, noi potremmo aver letto Le Rouge et le Noir una volta al¬ l’anno, come faceva e prescriveva Ippolito Taine: tuttavia ogni volta riviviamo il dilemma delle circostanze: ogni volta, per noi, Julien potrebbe non sparare. Stendhal sapeva benis¬ simo che avrebbe portato il suo giovane eroe a quell’estremo, però scrivendo ha passato tutti i rischi di una possibilità an¬ cor evitabile che, di attimo in attimo, diventa necessità ine¬ vitabile. Così, per prendere una qualsiasi altra situazione di romanzo, vediamo nel Doktor Faustus l’apparizione del dia¬ volo Sammael al musicista Leverkuhn; il diavolo è già entrato dentro Adrian in tutti i modi, ha già imposta la sua media¬ zione e collaborazione, fin da prima, quasi, che Adrian ascolti le compromettentissime lezioni del privato docente alla fa¬ coltà di teologia: ciononostante, noi con Thomas Mann, quel¬ la sera a Palestrina, stranamente calma e soprannaturale, spe¬ riamo ancora che l’evento non si produca, fino al momento in cui Adrian è costretto a rialzarsi il bavero della giacca per l’improvvisa sensazione di freddo. Anche il Verga maggiore — nei Malavoglia, per esempio — si comporta da vero poeta creativo di personaggi, compro¬ messo a tutto rischio con l’ignoto delle loro sorti, affatto sprov¬ visto di qualsiasi prescienza circa gli sviluppi del loro destino: è come se avesse dimenticato, per esempio, che la sua ispira¬ zione, che la logica interna dell’epopea dei Malavoglia già avevano deciso che la Mena non prenderà marito, che ’Ntoni lascerà la madre e la casa con tutte le conseguenze. Si compro-

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mette con loro nel cammino verso lo sconosciuto domarli. Ma il caso del Verga maggiore va messo un po’ da parte: è pro¬ prio uno dei nostri problemi lo stabilire fino a che punto Verga è immerso, e fino a che punto tiene la testa fuori, si dà il doloroso spettacolo, per esempio, dei Malavoglia, come tra¬ gica conferma di una tesi, peraltro indecifrabile. Per chiarezza, potremmo ricorrere a un paragone fisico¬ geometrico. Immaginiamo che il personaggio, le sue avven¬ ture e insomma gli aspetti visibili del suo destino si svolgano in questo nostro mondo a tre dimensioni. Il « sapere prima » la sorte del personaggio, l’averne coscienza chiara e spiegata sarebbe come uscire da quel mondo a tre dimensioni: guar¬ dare giù, panoramicamente, da una dimensiorie esterna: da una quarta dimensione, per così dire. (Notiamo, tra parentesi, che questo « saper prima » significa possedere una coscienza oggettiva, intellettuale di ciò che sarà; è tutto diverso dal pre¬ vedere. Il prevedere rientra ancora nell’ambito dei presagi, è accompagnato da palpito, da timore di una smentita, da speranza di una conferma: prevedere comporta il bisogno di andare a vedere, che è rischio.) Buon romanziere, oserei dire, è quello che convive nelle tre dimensioni del suo personaggio. Grandissimo romanziere è quello che, possedendo la sapienza, la divinazione propria dei poeti, si è realmente innalzato nella quarta dimensione; ma che, al momento di dar corpo ai suoi fantasmi, ha schiacciato quella quarta dimensione, si comporta sinceramente come se l’avesse perduta, fosse rientrato anche lui nelle tre dimensioni del romanzo. La sua regola è: mai scoprire l’orizzonte prima del suo personaggio, vederlo insie¬ me. Ma i fisici dicono: quando una dimensione si annulla, va a zero, si trasforma in energia. È celebre l’esempio portato da Einstein nella elegante divulgazione della propria teoria scritta in collaborazione col fisico Infeld.^ Dice: la velocità massima che può raggiungere un mobile in questo nostro uni¬ verso è quella della luce. Di là da quella velocità, perde le sue dimensioni. Supponete un ascensore che corra con la ve¬ locità della luce: si ridurrebbe a un foglio di carta; anche meno, perché un foglio di carta ha ancora, per quanto sottile, una terza dimensione. Però quell’ideale superficie senza spes¬ sore diventerebbe un serbatoio di energia. Del resto, senza ricorrere ad Einstein, possiamo riferirci all’esperienza comune. Non solo dai fisici e dai matematici, ma anche dalla coscienza

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comune, il tempo, la famosa variabile t, è considerata come una dimensione degli eventi. Teniamo immutato un evento, con tutto il suo contenuto tridimensionale di fatti; accorciamo il tempo del suo prodursi, schiacciamo la dimensione t. Perce¬ piremo subito il prodursi di quei fatti come qualcosa di molto più violento: nel linguaggio comune, diciamo di più brusco, animato da un’energia maggiore. Una carezza diventa uno schiaffo. Così quando il romanziere rinuncia alla quarta di¬ mensione : occhio esterno, coscienza del personaggio come qualche cosa di alieno; quando il romanziere si tuffa, e in qualche modo si annega nel personaggio, in compenso della dimensione perduta, acquista quella particolare energia di animazione, quel senso di umana fatalità: quel che in un ro¬ manzo si chiama poesia. La quarta dimensione può, anzi deve, rimanere il privilegio del critico. Questa, anzi, a nostro avviso è la differenza tra il critico e il poeta. L’esempio per noi classico — quello che non ci stancheremo mai di esplorare e di citare —■ può trovarsi nella trasforma¬ zione veramente miracolosa, insperabile degli Sposi promessi nei Promessi sposi. E riferiamoci, come sempre, perché ci pare uno dei punti più dimostrativi, alla famosa scena di Ren¬ zo che, dopo di essersi compromesso nei tumulti di Milano e con le avventate parole pronunciate all’osteria nell’eufo¬ rico e sprovveduto benessere dello stomaco finalmente sazio e del troppo vino, fugge per il bosco verso l’Adda. Negli Sposi promessi il Manzoni conduce il giovane (che si chiama Fermo e non ancora Renzo) sapendo dove lo porta, guardandolo dalla quarta dimensione. Quando si mette a scrivere i Promessi sposi non cambia quasi per nulla la sequenza e l’ordine dei fatti : ma scrive come se non sapesse più che, di là dalla notte e dai suoi terrori, dalla capanna dove Renzo si ferma, l’alba spunterà mostrando quel barcaiolo, quel provvidenziale con¬ trabbandiere di uomini, che porterà il fuggiasco verso Ber¬ gamo, verso il territorio della Repubblica Veneta, verso lo scampo, la sicurezza, la libertà. Che se qui potessimo diffonderci ancora a parlare del Man¬ zoni e di quella sua scena, e se non avessimo un appunta¬ mento urgentissimo con Giovanni Verga, potremmo veramen¬ te constatare sulla pagina del romanzo come la dimensione perduta si sia trasformata in efficienza di poesia narrativa : cioè nel senso immanente e indecifrabile, così umano a un tempo

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e misterioso, di un destino che lavora, a volte annunziando, a volte tacendo la parola successiva, che sta per scoccare. Il poeta interroga l’oracolo insieme con Renzo. Vivere e sempre in¬ terrogare un oracolo; varia soltanto il tono della domanda, apprensione o fiducia. Viceversa, negli Sposi promessi, lo scrit¬ tore era già lui l’oracolo del suo personaggio. A paragonare le due scene, si troverebbe, per esempio, che negli Sposi promessi. Fermo avverte quasi subito il « romore del fiume », i dubbi sull’andare e sulla strada non gli diven¬ tano angoscia; egli procura di dirigersi « verso quella parte dove gli pareva che l’Adda dovesse passare. »“ Nei Promessi sposi, il cammino, condiviso dal Manzoni e da Renzo, diventa, in una condensazione particolarmente tragica, il simbolo invo¬ lontario, e perciò tanto più ricco, di questo procedere della nostra, e di ciascuna vita, verso successive rivelazioni del de¬ stino. Ed esce qui l’invenzione straordinariamente poetica, e due volte ripetuta, della « voce dell’Adda ». Voce, cioè qual¬ che cosa che parla, che è assimilabile al nostro modo di comu¬ nicare umano; e tuttavia indecifrabile, perché viene da un fiume, dall’indifferenza della natura. Appunto perché il Manzoni ha accettato l’ignoto, la sorte umana di non sapere più ciò che attende il suo personaggio, accade che, mentre il tragitto di Fermo era pura cronaca di un uomo che traversa un bosco in una certa situazione di peri¬ colo, il tragitto invece di Renzo prende una risonanza che tutti riconosciamo nel fondo del nostro essere, e smuove angoscie e paure per cui tutti siamo passati, anche se non sapevamo dirne il nome, trovarne l’immagine evidente. Ecco che quell’andare di Renzo si riconnette, vibra in rivelatrici armonie con la fa¬ vola del fanciullo nella foresta: una di quelle con cui l’uomo ha raccontato a se stesso la paura degli aspetti naturali ed estra¬ nei, del Labirinto. Una di quelle immagini che si chiamano « archetipi », perché ci pare traducano la prima, la più arcaica forma con cui quelle paure si sono rivelate all’uomo, nei primordi della coscienza. Dico che grande poesia si ottiene allorquando le immagini salgono dallo strato storico e co¬ sciente da cui il poeta è condizionato, uomo del proprio tem¬ po, che parla il linguaggio del proprio tempo, e insieme da quello strato primordiale, che risuscita qualcosa di più arcano, di più lontano, quasi il turbamento terribile dei primi in¬ contri dell’uomo col fenomeno vita, e l’apprensione originaria

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di non avere ancora capito, di essere succubi di immagini rav¬ volte nella loro corposità. Grande poesia è quella che, con una nota sola, fa vibrare quelle due casse armoniche, quei due strati : la nostra coscienza, che è sempre storicità, diversità nel tempo, e le emozioni dell’animale originario, con quell’emo¬ zione prima che si è iscritta nelle nostre fibre. La cosa è così vera che l’aver toccato un archetipo — quello del fanciullo smarrito nella foresta — risuscita per consonanza altri arche¬ tipi; giacché la zona degli archetipi rifiuta il chiaro e distinto: laggiù tutto si amalgama, tutto fa da risuonatore a tutto. La foresta, la notte, il grembo del buio, che contengono ancora inconoscibile l’avvenire, il terrore di traversare questi grembi sono l’archetipo, anche dell’iniziazione: che conduce, attraver¬ so prove tremende, a scoprire di là dal velo, nell’ultima e più vietata ed arcana cella del tempio, la faccia della divinità, la parola decreto — qui, nel caso di Renzo — la decisione del destino. E allora pare che sia proprio questo coraggio, questo accet¬ tato amore del rischio a cambiare il significato, finora ango¬ scioso, degli aspetti, a convertire la prova in rivelazione. « Cominciò a sentire un rumore, un mormorio, un mormorio d’acqua corrente. Attenti, alla progressione delle parole. Prima l’informe rumore, poi si schiarisce nel mormorio, poi quel mormorio, già chiaro come una promessa, si specifica, mantiene la promessa: è mormorio d’acqua corrente. Insisto: proprio il permeare, nelle esplorazioni che Renzo fa della propria sorte di una analoga esplorazione compiuta dall’autore, infoltisce la stoffa di queste pagine: la arricchisce di invenzioni d’ansia divenute poesia, perché non è ansia « at¬ tribuita » al personaggio, bensì un vibrare diretto di sostanza psichica — del Manzoni, di Renzo, di noi tutti — che con¬ densa i fantasmi della paura e i palpiti del presagio: insom¬ ma, quella situazione di vigilia. La bruschezza, quasi l’improntitudine narrativa con cui Fermo si salva negli Sposi promessi, dipende dal fatto che egli non può far a meno di salvarsi, in virtù di uno di quei piani provvidenziali, di cui il Manzoni voleva recare un esempio. Ma quando il Manzoni, dallo schema ancora nudo e secco che si annida sotto il folto degli Sposi promessi, passa a vivere realmente i suoi personaggi. Fermo cessa di essere una dimo¬ strazione apologetica di quei piani provvidenziali. Se, come

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credente, il Manzoni poteva addossare la responsabilità e 1 ini¬ ziativa dei fatti alla Provvidenza, come artista e come uomo deve assumersene lui la responsabilità. Quindi il rischio, ma¬ gari, di sbagliarli. Si dirà che erano già decisi dalla trama del rorrianzo: che Renzo, in qualunque modo, si doveva salvare. D’accordo: ma questo non diminuiva il rischio dell autore. Rimaneva sempre il rischio di farli accadere in maniera arbi¬ traria, non somigliante al personaggio. Personaggio vero per noi è sempre un portatore di destino. Il rischio è che porti, per errore dell’artista, un destino non suo: o, comunque, un destino che non si articoli, secondo le possibilità, secondo i connotati, interni ed esterni, di quel personaggio. La cosa diventa anche più visibile negli sviluppi successivi dell’episodio. L’Adda è ormai in vista, la salvezza a portata di mano. Come farà il protagonista a passare il fiume? L’appari¬ zione del barcaiolo, proprio perché suscitata così dalla Provvi¬ denza, potrebbe essere un deus ex machina, un espediente gratuito e romanzesco, paragonabile a quelli dei romanzieri d’appendice; i quali, avendo di nuovo bisogno di un certo per¬ sonaggio, lo fanno miracolosamente risuscitare, dopo di averlo ammazzato. Negli Sposi promessi, il Manzoni avverte questo pericolo: per scansarlo, si affida a un accorgimento di tattica narrativa: cioè nasconde, fa dimenticare sotto un discorso alieno dal romanzo la gratuità di quella apparizione. Insomma, fabbrica naturalezza. Si tratta, ci spiega, di un uomo che si presta quasi spontaneamente e per poca moneta a fare da traghettatore; giacché, dovendo vivere in quel luogo di confi¬ ne, cerca di tenersi amici birri e malandrini, e ad ogni buon conto presta servizio a Fermo. Nei Promessi sposi, queste giu¬ stificazioni sono ripetute quasi testualmente, ma più che altro per buona educazione, per correttezza, da parte di un autore alieno dall’imporsi con prepotenza alla credulità dei lettori. Ed anche per un certo gusto morale di constatare le astuzie della Provvidenza, la quale si serve delle debolezze di un uomo per farle funzionare come generosità e coraggio a favore di un altro uomo in distretta. In realtà, narrativamente parlando, stavolta, nei Promessi sposi, l’apparizione del barcaiolo è giu¬ stificata dal suo semplice apparire: quell’uomo potrebbe an¬ che essere miracolosamente uscito, con la sua barca, dalle ac¬ que dell’Adda: noi adesso accetteremmo il miracolo, che non ci apparirebbe più tale, perché è divenuto necessità di destino.

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Il rischio del Manzoni è durato esattamente come quello di Renzo. Per Renzo si scioglie nell’apparizione della barca; per il Manzoni, simultaneamente, nella sicurezza che l’apparizio¬ ne della barca era qualche cosa di necessario, anzi un bene, per così dire, inesorabile: non già un regalo dell’autore al personaggio. Questo sentimento di liberazione dal rischio si manifesta con perfetto parallelismo: in Renzo come esultanza di vita, nel Manzoni come esultanza lirica. E nasce la famosa pagina sullo schiarire dell’alba, sul sereno che riassorbe le frange di luce ancora sinistre e infocate agli orli delle nuvole. Una liberazione che il Manzoni proietta sul mondo, diret¬ tamente : e fa diventare la traduzione dei sentimenti di Renzo, in altra chiave: una chiave che non è più quella personale di Renzo, e nemmeno quella del Manzoni che con lui ha supe¬ rato il pericolo. Essa appartiene al mondo, che condivide la gioia della favorevole, benigna soluzione di un enigma del destino. Per dirla con una vecchia metafora, qui il Manzoni porta la musica dalla scena all’orchestra. Cominciano a schia¬ rirsi le vibrazioni, gli impasti, i misteriosi fruscii notturni; i toni si semplificano in un passaggio verso colori e luci sempre più definiti e benevoli : « bigio ceruleo » poi « gial o roseo » e ancora questi colori lieti sono mescolati di pennellate tetre « tra l’azzurro e il bruno » con una « striscia di fuoco » e « colori senza nome ». Mentre si sale verso il limpido squillo d’oro, gioioso e perentorio, ch’è l’equivalente di un destino ormai accertato, anche la sintassi sale, si illumina dalla incer¬ tezza, ancora, e indeterminazione dell’imperfetto: « il cielo prometteva una bella giornata » fino allo scatto irrefrenabile, irresistibile, alla certezza assoluta del presente: « quel cielo di Lombardia cosi bello quand’è bello, così splendido, così in pace ».® È un inno cosmico, ottenuto appunto con l’energia risultante dalla rinuncia alla quarta dimensione: alla dimen¬ sione del « saputo ». Riavviciniamoci alla Capinera. La digressione non sarà stata inutile, intanto per giudicare la Capinera fin dal suo primo episodio, e poi per i problemi di « intervento » e di « pre¬ senza » e di partecipazione, che il Verga ci presenterà ben pre¬ sto, coi suoi romanzi maggiori. Terminiamo dunque, con un ultimo codicillo, questa digressione. C’è una possibilità, forse, per un narratore, di rimanere ap¬ pollaiato sulla quarta dimensione. I francesi, che qualche an-

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no fa hanno molto discusso sull’arte e, per così dire, sulla tec¬ nica del romanzo, solevano distinguere tra romanzo e rac¬ conto (più chiaro dire in francese; roman e récit). Non è que¬ stione di proporzioni : intendendosi per romanzo un organi¬ smo più sviluppato e complesso, per racconto un episodio bre¬ ve. Né si vuol fare uno sterile bizantinismo di classificazioni, generi e categorie letterarie. Ma credo che siamo in grado, ormai, di definire la sostanziale differenza tra romanzo e rac¬ conto. Nel racconto, prima che l’autore prenda la penna, tutto è stato consumato. Lo scrittore non ha più bisogno di scendere nelle tre dimensioni dei personaggi e delle loro sorti: questo è già stato fatto, non si tratta ormai che di guardare e riferire. Ormai è in giuoco soprattutto l’intelligenza, la capacità di sce¬ neggiatura, di far vedere agli altri ciò che si è già visto. L in¬ tervento sentimentale è dato dalle varie emozioni che l’autore prova di fronte ai fatti che via via va riferendo. Il suo accalo¬ rarsi, costernarsi, fremere e gioire sono, per così dire, gli ac¬ centi interpretativi suggeritigli da quel testo di figure e di eventi, che egli viene abilmente dispiegando sotto i nostri occhi. In un certo senso, lo scrittore di racconti è l’interprete, il direttore d’orchestra che eseguisce una partitura già creata prima: evidentemente, creata da lui, ma in altro momento. Romanzo invece è quello in cui la posizione dell’autore è pre¬ caria quanto i destini che si stanno maturando. Il miracolo è che, vivendo in questa oscurità che di passo in passo si illu¬ mina, il romanziere riesca a farci vedere le cose: a renderle oggettive e staccate, pure essendone partecipe. Lo scrittore di racconti fa passeggiare panoramicamente un faro su una scena già disposta, con tutta la coreografia messa a punto; il roman¬ ziere, come diceva Stendhal, è, nella più favorevole ipotesi, uno specchio trasportato lungo una strada; con tutti gli incerti, aggiungeremmo noi, e le possibilità e le sorprese labirintiche della strada. Tipo di racconto quasi puro sarebbe, per esempio, la Carmen di Merimée. Lasciamo stare lo stile peculiare di que¬ sto scrittore: di una eleganza asciutta, impeccabile, capace di dissimulare per un superiore galateo le sue personali emo¬ zioni. Ma guardiamo come è fatta Carmen. Comincia con un saggio etnografico, sulla origine misteriosa, la lingua e il co¬ stume di quella particolare stirpe del popolo zingaro e gitano, che sono i baschi. Poi, come esemplificazione e caso partico-

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lare, racconta la storia della gitana Carmen e dell'ex gendarme Jose, divenuto contrabbandiere. L’autore si mette in posizione quasi scientifica: di un teorico che ha trovato un fatto cal¬ zante da addurre come prova concreta alle sue considerazioni generali. È un grande artista, non toglie nulla alla evidenza e passionalità dei caratteri; è un grande narratore: non mima ^ affatto la drammaticità del racconto. Ma il fatto è ormai un dato: lui ne ripercorre il divenire. Reca una testimonianza, non conduce una di quelle pericolose investigazioni, nelle quali 1 investigatore sembra correi'e il rischio di essere travol¬ to, ad ogni attimo, nelle vicende che appura. Il vero romanzie¬ re, al caso limite, è come Edipo; il quale, nel compiere l’inda¬ gine sulla pestilenza e maledizione che affligge la città, viene a scoprire di essere lui il colpevole. Il suo rischio, per espri¬ merci in maniera meno tassativa e più prudente, è di com¬ promettere, di autodenunciare sempre qualcosa di se stesso, qualcosa di oscuro che prende altri nomi — i nomi dei perso¬ naggi — per identificarsi. Mi sarei espresso male, se avessi fatto supporre che il vero romanzo è autobiografico: per es¬ sere esatti, sarebbe l’autobiografia dell’ombra, o, meglio, l’au¬ tobiografia di quelle possibilità che un uomo racchiude, ma che sente impossibili nella sua sorte reale. Tipo del roman¬ ziere puro, in questo senso, è Dostoewskij. Per rendere un po’ meno incompleta questa tipologia o piuttosto fenomenologia del romanzo, ci resterebbe da accen¬ nare a un caso intermedio. Ci sono romanzieri che costitui¬ scono un personaggio intermediario, un testimone, il quale riferisce la vicenda come un racconto, cioè sapendo di saperla. Ma poi, seguono il racconto di questo testimone, ignorando che cosa verrà fuori, attimo per attimo, dal suo riferire: quali inflessioni e figure di destino. Sarebbe come un racconto im¬ merso nella tonalità, nell’andare di un romanzo. Questo pro¬ cedimento, per interposta persona, è stato molto analizzato dai teorici. Chi l’ha attuato, direi sistematicamente, se questo avverbio non fosse pedante, e non escludesse l’invenzione e la creatività del grande artista, è stato il romanziere anglo¬ polacco Joseph Conrad; il quale, anzi, replica, in parecchi libri, lo stesso intermediario: un vecchio uomo di mare, di nome Marlowe, rotto ai misteri, intrighi, avventure dei porti dell’Estremo Oriente, dove appunto si svolgono parecchi dei maggiori romanzi di Conrad. Avrei soltanto la pretesa di rite-

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nere che le nostre considerazioni ci hanno abilitati a vedere un poco più chiaro in quei vari tipi di romanzo. L’incertezza tonale, gli equivoci narrativi della Stona di una capinera si possono ormai dedurre come corollari per un caso particolarmente semplice e inesperto di ciò che abbiamo messo in evidenza. L’impianto del libro, la chiave in cui esso e intonato è tutta sentimentale. Il sentimentalismo è, nella in¬ tenzione dell’autore, considerata dal suo lato più favorevole, la diretta espressione del carattere della protagonista Maria. Parla a quel modo, perché tale è il suo temperamento, la sua educazione, il suo carattere. Il modo più alto di dehnire, di far vivere un carattere, un personaggio è di impegnarlo in una azione coerente, omogenea con le sue interne possibilità di destino: e dentro questa vicenda fargli commettere gesti, atti e pronunciare parole che non possono essere se non suoi, atti compiuti di quella persona fisica, parole dette con quel timbro di voce: a questo patto nascono i capolavori narrativi, dove non si riesce più a discernere se sia la vicenda a conformare il personaggio o il personaggio a produrre la vicenda. Prendia¬ mo, per esempio, J^ausicaa nell’Odissea. Quando Ulisse, nau¬ frago e stanco, esce dal mare, e il sale che l’ha ingommato lo fa parere, ci sembra, anche più canuto, più vecchio, la fan¬ ciulla che gli appare sulla spiaggia è intenta a giocare alla palla .con le sue compagne. Quel gesto, quell’atteggiamento, basta: Nausicaa è creata, è viva. Quando queste grandi inven¬ zioni mancano, c’è un modo parecchio inferiore, più mecca¬ nico, di caratterizzare il personaggio: e consiste nell’affibbiargli un gesto, un particolare, un tic di continuo ripetuto, che ce 10 fa riconoscere, e ci dà l’illusione della singolarità di quel personaggio. Così i mediocri autori teatrali, specie di comme¬ die, credono di avere individuato un personaggio, facendolo sordo, perpetuamente in atto di portarsi la mano al padiglione dell’orecchio, oppure facendolo balbuziente, oppure dandogli un intercalare. Ed è meno che se ce lo presentassero con una carta di identità, o una tessera postale, invece di prendergli le impronte digitali. Scambiano il tipo con l’individuo. Anche 11 Verga nella Capinera ricorre a questo partito. Per esempio, il linguaggio lezioso, tutto diminutivi che attribuisce a Ma¬ ria, vorrebbe essere già definizione del personaggio: di quella piccola sentimentale, pronta ancora a illudersi, a credere nella benignità e gentilezza del mondo, per una certa sua semplicità

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di cuore e anche di intelligenza. Non si obietti che quel modo di parlare è vero: che molte signorine, o tutte, di una certa educazione, e massime a quel tempo, parlavano così. La verità fotografica, anche se sia tale, non è verità d’arte. Per uscire dal generico, sarebbe necessario scoprire quel modo unico, e nello stesso tempo evidente, di essere leziosa e vezzeggiativa, che appartiene in proprio a Maria. Perché, per esempio, il no¬ me leziosissimo di Carino, che Maria mette al suo passerotto ferito, ci dà una specie di malessere, offende quasi il nostro pudore di lettori? Ma proprio perché è un partito preso, una provocante esibizione del tenero: spinta a un eccesso quasi oltraggioso. È inventata in astratto, e non creata. Quasi che l’autore abbia pensato e sappia che qui, per presentare la protagonista, ci vuole qualcosa di gentile; e si metta ad arzi¬ gogolare, come uno che non sappia trovare la parola giusta, e ne adotti una provvisoria ed esagerata, che altera la misura e la pertinenza di ciò che vuol dire. Tutto questo dipende dal fatto che il Verga mescola nel suo libro due posizioni narrative: la posizione romanzo e la posi¬ zione racconto. La forma epistolare, come lui la riprende da una famosa e inveterata tradizione, dovrebbe fruttargli il ro¬ manzo. Esposto in prima persona, il dramma di Maria do¬ vrebbe essere la progressiva scoperta di quella impossibilità di farsi monaca, di quella sua mancanza di vocazione. E l’autore dovrebbe partecipare a quella scoperta, a quel progressivo aprirsi degli occhi della sua protagonista, se la stia figura si illuminasse al confronto con l’avversità degli eventi. Ma il Verga invece sa già tutto fin dall’inizio, e allora interviene sul romanzo come autore di racconto: e nella più diffìcile delle situazioni, perché il racconto diretto di Maria non gli lascia spazio per intromettersi. Ed allora, che cosa fa? Abbiamo già visto, nelle prime descrizioni paesistiche, come si sostituisca surrettiziamente a Maria, quante volte le impresti gli occhi. Abbiamo visto come le attribuisca frasi e giudizi discrepanti, che non possono appartenerle: per esempio, quel modo di riassumersi, paragonandosi a un cieco nato. Se l’autore di rac¬ conto è testimone che riferisce, qui il Verga fa qualche cosa di disdicevole a qualsiasi autore di racconto. Non trovando posto dove insediarsi, si colloca nella buca del suggeritore; suggerisce, per esempio, quella battuta al suo personaggio. Il malessere che proviamo allora, leggendo, è proprio come quel109

lo che ci prende a téatro allorché le parole recitate dall’attore fanno eco a quelle che vi si mescolano, provenendo sottovoce da quell’intruso, da quell’estraneo al dramma, nascosto den¬ tro la cuffia che interrompe, persino visivamente, la linea del¬ la ribalta: la quale, almeno, è una convenzione accettata, di cui non ci accorgiamo più. Vorrei quasi dire che nel Verga scopriamo qui una pre¬ coce bravura, la quale soverchia quel tanto di autentico e di necessario che è nel fondo del libro. Insomma, egli riesce a dare una vernice abbastanza omogenea e plausibile, capace di illudere un lettore semplice, e soltanto desideroso di ef¬ fetti emotivi; mentre in realtà sta perpetrando una pericolo¬ sissima contaminazione tra due forme del narrare — ripeto: racconto e romanzo, che si escludono a vicenda. Da ciò nasce, oltre a quello del suggeritore, un atteggiamento altrettanto vizioso: quello del burattinaio. Cioè, mentre simula il disor¬ dine ingenuo di sentimenti che si sfogano alla rinfusa, in que¬ sta Maria uscita dal carcere del convento — ed ecco la vernice — in realtà manovra questi sentimenti, come se tirasse i fili della sua marionetta Maria. Per esempio, ha bisogno come au¬ tore di racconto di ricordarci che Maria è uscita dal convento, è destinata a tornarvi; e allora in mezzo allo sfogo, tira il filo: ricordo del convento, rimorso di non amarlo abbastanza: « Mio Dio! Se queste gioie fossero un peccato! se il Signore si sdegnasse di vedermi preferire al convento, al silenzio, alla solitudine, al raccoglimento, la campagna, l’aria libera, la famiglia!... »^' Altra volta, deve precisare che siamo in periodo di colera, e che la sua Maria che ne gode non ha animo per¬ verso, e allora tira i due fili: buoni sentimenti e cronaca del colera: « Adesso sono allegra, felice, e mi stupisco come tutta quella gente abbia paura e maledica il colera... Benedetto colera che mi fa star qui in campagna! Se durasse tutto l’an¬ no! No, io ho torto! Perdonami, Marianna. Chissà quanta povera gente piange mentre io rido e mi diverto!... Mio Dio! Bisogna che io sia ben disgraziata se non devo essere felice che allorquando tutti gli altri soffrono!... Probabilmente, all’autore, quella bestemmia di Maria, quell’augurio che il colera duri possono essere apparsi grandi invenzioni, rivela¬ trici di carattere. In realtà, sono colpi, sono effetti, raggiunti proprio mediante una consapevolezza del « come andrà a fini¬ re » il dramma di Maria: consapevolezza che egli adopera abu-

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sivamente, prima che la sorte e il tempo abbiano maturata la vicenda e resa anche Maria consapevole della piega che pren¬ deranno per lei le cose. L’effetto è ottenuto anticipando un confronto tra il finale e l’inizio. Verga si è servito di un mecca¬ nismo facile: ha tirato un filo, come si diceva: e proprio uno di quelli che dovrebbero servire, semmai, per la mimica del¬ l’epilogo. Si intende che, in un piccolo confronto con la verosimi¬ glianza, tutti questi.moti di Maria son ben lontani dall’apparire assurdi, dovuti a capriccio dell’autore. Il Verga della Capinera è abbastanza sagace, intelligente, per essere sempre in grado di difendersi colla verosimiglianza, colla esperienza comune e quotidiana, colla solita risposta dello scrittore che non ha raggiunto l’armonia e l’assolutezza del capolavoro, e nondimeno ha fatto tutto quello che gli era umanamente pos¬ sibile. La risposta che dice, suppergiù: « La mia Maria è vera. Pensateci. Sarà successo anche a voi qualche cosa di simile? » Effettivamente, chiunque di noi, all’inizio di un bel viaggio o vacanza o soggiorno ne avrà già scontato la fine, avrà, sentito la propria felicità già mescolata alla tristezza del poi. E Ma¬ ria, da meridionale focosa ed eccessiva — obbediente a quel calco della meridionale, che piaceva a D.H. Lawrence,^ quando lodava la verità e il color siciliano della Capinera — poteva anche spingere quella paura ed apprensione del vicino rimpianto, fino a quella maledizione, a quell’egoistico e fero¬ ce: mors tua vita mea. Tutto bene; ma guardiamo una logica più profonda. Maria sa che la sua monacazione è ineluttabile, perché lei è povera, senza madre, non può usurpare un posto nella seconda famiglia di suo padre. Maria è, per ora, una ras¬ segnata, che non capisce la rivolta. Per coltivare in lei la pos¬ sibilità di rivolta, il Verga si sentirà costretto ad aggiungere una situazione njuova, il secondo episodio, l’amore per Nino. Ed allora, in questa fase iniziale della sua libertà che sa transi¬ toria, Maria non dovrebbe avere speranze — ogni rivolta è anche speranza — ma tener chiuso in sé, già pronto, come un’abitudine e quasi una seconda natura, l’adattamento all’i¬ neluttabile « dopo ». Questa sarebbe la logica profonda, la lo¬ gica artistica di quel capolavoro che la Capinera sarebbe po¬ tuta diventare. Le basta di essere verosimile, e perciò rimane un romanzetto abbastanza secondario. La vera arte, invece, è più vera del vero. Ili

In critica, tra le cose illecite, c’è il vizio di rifare i libri come li vorremmo. A lasciarci prendere da una tentazione del genere, qui in queste prime lettere della Capinera, si spererebbe di vedere soltanto 1 abbandono di Maria, la sua esplorazione di un nuovo mondo. E solo dopo, e gradual¬ mente, la scoperta che quel mondo di cui essa gode, è anche suo, è il solo in cui potrebbe veramente respirare, quello a cui per natura avrebbe diritto. Strano — ed ecco il difetto di lo¬ gica — che Maria sia così acuta nel presentare la propria con¬ danna, mentre poi è così ingenua nel percepire la realtà delle cose, delle persone, dei sentimenti, tra cui è capitata a vivere. Ma queste intime contraddizioni del personaggio si possono ancora riferire alla contraddizione insanabile tra romanzo e racconto. In altri termini: il Verga autore di romanzo vive qualche tratto ignaro del domani e tutto immerso nel pre¬ sente con la sua Capinera. Dove semmai è da criticare che le apparizioni del presente non siano abbastanza significative; cioè, nella loro innocenza e apparente felicità, oscuramente mescolate di presagi indecifrabili, di rintocchi non ancora conoscibili, e insomma di quella tragedia che portano in grem¬ bo. Ma questo di più, questa ricchezza di destino, il Verga non la può infondere nel presente, perché lui non ne è all’oscuro, lui sa già tutto: la tragicità è già decifrata, suona su un altro registro, non più amalgamabile coll’andatura narrativa tipo romanzo. Essa appartiene in proprio all’autore del racconto. Per lui non è più mistero; e non si fa mistero con quello che è già scontata evidenza. Da quei tratti in cui, autore di romanzo, convive, per così dire, coll’interno e col divenire di Maria, il Verga si stacca come autore di racconto. E si serve di ciò che sa per impre¬ stare intelligenza a Maria, come nei tratti che abbiamo citati. Mentre poi, per dominarla, tenerla sotto di sé, per saperne più di lei, la semplifica, ne fa una ingenua, fino alla cecità. Toglie a Maria anche l’oscura intelligenza della propria pre¬ destinazione, quel fiuto delle circostanze che le saranno avver¬ se. La squilibra dalla parte della sensibilità superficiale, leg¬ germente senza testa e scoperta, togliendole l’intuitività, que¬ sta specie di intelligenza che si accende sul crinale, sul punto di intersezione tra cervello e cuore. Ed ecco che mentre, con occhiate continue di intelligenza tra lui autore e noi lettori, ci denuncia l’ostilità dell’ambiente contro Maria: la cattiveria

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e quasi l’odio della matrigna, l’egoismo di Giuditta: fa che Maria ammiri e lodi quelle disposizioni avverse e quelle an¬ gherie, come altrettante prove di bontà, come aspetti di un modo di vivere privilegiato e meraviglioso, tra cui essa è capi¬ tata indegnamente, e già sembra paga di goderne la luce ri¬ flessa. Anche la buona fede di Maria vale certi suoi vezzeggiativi. « La mia matrigna è un’eccellente donna, perché non si oc¬ cupa che di Giuditta e di Gigi, e mi lascia correre per le vigne a mio bell’agio. E questo è detto senz’ombra di ironia. Più tardi, seconda lettera. Maria aggiunge, di questa matrigna che è costretta a chiamare mamma : « Spesso mentre dà un’occhia¬ ta alla cucina o alla domestica che prepara il desinare, mi rimprovera che io non son buona a nulla, nemmeno a far la cucina... Purtroppo è vero! ella ha ragione. Non faccio altro che correre per i campi, raccogliere fiorellini ecc. Stesso atteggiamento di fronte a Giuditta. Lei ha una bella camera grande, a Maria hanno dato il ripostiglio: « Ma io — spiega Maria — non darei il mio scatolino, come lo chiama celiando il babbo, per la sua bella camera: e poi ella ha bisogno di mol¬ to spazio per tutte le sue vesti e i suoi cappellini, mentre io, allorché ho piegato la mia tonaca su di una seggiola ai piedi del letto, ho fatto tutto... Lasciamo stare per ora la fac¬ cenda della tonaca: Maria ne sente l’impaccio, nella sua nuova vita, diciamo così, borghese e sospira per un altro vestito. Ma di fronte al ricco guardaroba di Giuditta, non ha una punta di invidia, non si sogna di fare paragoni. Ci si do¬ manda, come mai così rassegnata, mentre cova la rivolta. Ab¬ biamo già detto perché: la rivolta gliela fa covare Verga, mentre la rassegnazione, il non capire, il non fare confronti è di Maria. Ancora su Giuditta: « Mia sorella non è molto espansiva, perché non è pazzerella come me: rna mi vuol bene e non si lagna del disagio che io le arreco occupando quel ca¬ merino... che altre volte le serviva da guardaroba. » E ancora: « Giuditta è una signorina... è ricca della dote di sua madre... L’altro ieri, mentre si provava una veste nuova, le domandai il permesso di abbracciarla, tanto era bella! Ella non volle permetterlo, e^ a ragione, per non gualcire la stoffa. Non vede quanto la respingono verso il chiostro. Verga, facendo di Maria un’ingenua, per avere il mezzo di far trasparire, attraverso le candide ed ottimistiche constata-

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J„“eTf:rrra

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o complice, pettegola o intellettuale » vuol far nascere, invece, il personaggio lare direttamente i sentimenti di questa Maria, e no g nTrIi C oarteripazione che ci chiede è affettiva: no. dovremmo essere^ toccad dalla nostra compassione, mettendoci inge ramente alfunisono con quegli stati aTetó semi: sentire o dissentire da una definizione intellettuale dei sen menti d una monacanda per forza. Quei settecentisti a^mngevano materiale, sia pure di una specie w* jJ ì un trmté de Vhomme. erano a loro modo de, ^‘ Verga non faceva niente di tutto questo: voleva, e doveva, darci lo sviluppo organico di un destino, m chiave di vita vis suta e non di vita interpretata o giudicata. L'enLoco tra romanzo e racconto, ch'è ,1 vero punto deboli dell'esecuzione della Capinera,- si rivela troduzione del secondo episodio. Era uscito nel 1863 a Parigi Dominique, un piccolo romanzo, ma nelle zioni un libro memorabile, del pittore e critico E g mentin. Nel Dominique c'è una famosa pagina ■" f* *P^ come le notizie importanti di una lettera. mente ci stanno a cuore, si mettano nel poscritto. Non c. met teremo a congetturare se il Verga, scrivendo se, anni dopo a sua Capineri abbia potuto far tesoro di quella P— dieressione del Fromentin. Ozioso domandarci se il Verga tSetto quel romanzo, o se il contenuto d. quella pagma sui poscritti fornisse argomento alle del tempo: certo era un soggetto ideale per i « bene infor¬ mati » che tenevano circolo nei salotti intellettuali frequen¬ tati dal Verga nel suo noviziato fiorentino. Comunque stiano le cose, forse non occorreva nemmeno Fromentin per tare quell’osservazione psicologica. La psicologia fin di secolo si sarebbe incaricata di fare 1 analisi dei lapsus e degli atti mancati: cioè delle dimenticanz«a,

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provocate da un decreto dell’inconscio. L’inconscio non vuole, la vita consapevole per conseguenza non può, o non fa. Si dimentica la parola associata inconsciamente a una sensazione o un ricordo sgradevole, non si imposta la lettera scritta per dovere, e nella quale si dava una risposta che ci cuoce. Quella dei poscritti dove si dice l’essenziale, sarebbe in certo modo la compensazione di un lapstis:^ per vergogna o per timidezza o per ritegno non si è voluta mettere tra i discorsi essenziali di una lettera la notizia che si sarebbe impazienti di dare; si ripara, fingendo di aver taciuto per una svista, il che nei nostri compromessi intimi starebbe a dimostrare che la notizia non era poi così importante, se l’avevamo dimenticata. Si ripara, dando la notizia in sottordine, mettendola in posizione defi¬ lata, come direbbero gli artiglieri, dove non piovono i tiri, i colpi più forti dell’attenzione di chi legge. Viceversa si è pu¬ niti, perché quelle righe staccate, di là dallo spazio tronco sotto la firma, prendono ancora più evidenza. Il meccanismo, per chi voles,se studiarlo, è abbastanza complicato; potrebbe es¬ sere una reticenza castigata da una sincerità involontaria, ovve¬ ro la pressione di un certo contenuto interno che cerca una po¬ sizione privilegiata — il poscritto — per mettersi in rilievo, evitandoci però il turbamento di averne confessata l’importan¬ za. Comunque, quell’uso o funzione del poscritto obbedisce a una regola psicologica, a una costante del comportamento — di behaviour, si direbbe oggi — abbastanza risaputa. Il torto del Verga qui è di applicarla alla lettera, scolasticamente, co¬ me una risorsa di sceneggiatura. Anche stavolta è il marionet¬ tista che tira il filo, da cui può ripromettersi meccanicamente una certa evoluzione, e anche abbastanza effettistica, del per¬ sonaggio. Ma i grandi romanzieri — e così farà anche il Ver¬ ga quando sarà un grande romanziere — non applicano leggi psicologiche: semmai le creano col fatto. « Dostoewskij, » scriveva Nietzsche, « è il solo che mi abbia insegnato qualche cosa in fatto di psicologia... » Appunto, dai grandi romanzieri si va a scuola di psicologia: a loro non si chiedono applica¬ zioni pratiche di quello che già si sa. Il Verga ha potuto servirsi dell’espediente del poscritto perché la sua Maria è più debole di lui. L’autore, intorno a ciò che succede a Maria, è più al corrente di Maria. Può tenersi in tasca la notizia, fino al momento in cui gli fa gioco. Non specialmente dotato per inventare intrecci, il Verga si impos-

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sessa rapidamente dei metodi che gli servono per dare moto romanzesco e immaginativo, valore di apparizione e di sor¬ presa ai pochi scatti della macchina narrativa: insomma, a dare qualche impennata alla linea piana, e sempre abbastanza ovvia e prevedibile, lungo cui si svolge il filo delle sue narra¬ zioni. Quello del poscritto è già un partito abbastanza vistoso; nelle opere maggiori, si servirà spesso di partiti più semplici, ma analoghi: insomma, far cadere fuori sede la notizia deci¬ siva. Se vogliamo servirci di un linguaggio più truculento, colpire i bersagli maggiori con proiettili deviati, di rimbalzo, che parevano destinati a perdersi in un angolo morto. Fatta questa obiezione, bisogna tuttavia convenire che la risorsa del poscritto è sfruttata bene. Nella seconda lettera, con cui si conclude il preludio, è accennato a certi vicini di campagna, coi quali Maria e la famiglia passano le sere e fanno passeggiate. È detto pure che questi signori Valentini hanno una figlia. Annetta, con cui Maria ha stretto amicizia, ma non tale, naturalmente, da fare ingelosire Marianna. De¬ cisamente la piccola capinera è un tesoro di buoni sentimenti ; e anche piena di tatto e avvedutissima in ciò che non la con¬ cerne. « P.S. Dimenticavo di dirti che i signori Valentini, oltre l’Annetta hanno pure un figlio, un giovanotto ch’è ve¬ nuto spesso con sua sorella, e che si chiama Antonio; però lo chiamano Nino. Vale la pena di notare stilisticamente que¬ sto periodo. Le lettere di Maria, almeno queste prime, hanno, nel loro tono lezioso, una loro impeccabilità di vocabolario e di grammatica; perfino certi vezzi. Nel poscritto, i nessi sono trasandati; i frammenti, le proposizioni sono giustapposti, piuttosto che legati. C’è come la respirazione del parlato, con un peso, viceversa, nelle singole notazioni, che il parlato non ha. Le pause diventano spazi, e tra l’uno e l’altro, i singoli membri della frase prendono una immobilità grave come irre¬ vocabile. Lo stile delle opere maggiori sarà questo: i calchi, e giri e modi del dialetto saranno presi per ottenere cadenze di questo tipo, dove le cose dette, anche le più semplici, appe¬ na pronunciate diventano sentenza, oracolo del destino. Ma le opere maggiori saranno tutte infuse di fatalità. Se ne po¬ trebbe concludere, da questo primo esempio, o sintomo, an¬ cora lieve, che questo è il tono del Verga allorché lo invade il sentimento di una fatalità. La storia dell’amore di Maria per Nino, secondo episodio

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della Capinera, e asse di ribaltamento del romanzo, è abba¬ stanza ben condotta, se si eccettui la forzatura, che abbiamo già analizzata e motivata, di far di Maria un’ingenua a tutti i costi. Naturalmente, qui ci sarebbero parecchie giustificazioni, e anche stavolta fin troppo verosimili, di quell’apparire inge¬ nua e di quel bisogno, in Maria, di ignorarsi. È di fronte a un sentimento nuovo, che non prende subito figura, e che d’al¬ tronde la ragazza, vissuta in convento, non conosce altro che per sentito dire. Si potrebbe benissimo supporre che il giova¬ nile istinto, il vitale bisogno di amore rimanga in lei divari¬ cato dalla consapevolezza di quella cosa che si chiama amore. Insomma, da un lato c’è la parola, dall’altro i sentimenti: e Maria non ha abbastanza esperienza per sovrapporre la parola ai sentimenti, farli coincidere. Tutto questo sarebbe sosteni¬ bile e plausibile, ma in un mondo di singolare innocenza ede¬ nica. Senza dire che due mesi dopo — lettera del 20 novem¬ bre — quando esplode: « Marianna! Marianna!... io lo amo! io lo amo! Pietà! pietà di me! »'*’ con un impeto melodram¬ matico da Forza del destino, Maria mostra di conoscere be¬ nissimo, con prepotenza, la parola e il sentimento a cui essa corrisponde. Piuttosto, il bisogno di ignorarsi, quindi il suo lungo aggirarsi nel limbo di un amore che non osa confessarsi nemmeno a se stesso, dipenderà dalla paura di qualcosa che a lei è sempre stato predicato come peccaminoso e, per una ra¬ gazza destinata a prendere il velo, doppiamente interdetto. Nel campo dei desiderata, potremmo forse richiedere un amalgama più riuscito tra consapevolezza istintiva e turba¬ mento : come dire, una maggiore sapienza d’ombre nella linea in cui Maria si disegna: ancora libera e già schiava, riluttante e già preda. Ma bisogna soggiungere subito che, a un’analisi astratta dei passaggi con cui il Verga ha portato Maria alla certezza di amare, e poi a quella di essere riamata, risulterebbe che il Verga non si è risparmiato niente nella graduazione e nel crescendo dell’episodio. Ha anzi messo tutto il necessario: tutto quello che uno scrittore intelligente, accorto e fine può inventare, se gli si dia il tema: monacanda ingenua e in buo¬ na fede che innocentemente si innamora. Il difetto, semmai, è proprio in questa diligenza di esecuzione. La linea del rac¬ conto richiede certi materiali: e il Verga se li provvede, e della qualità più segnalata che gli sia possibile. Non è la vicenda, per se stessa mossa, che generi i fatti e i trapassi. La vicenda per

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sé era nuda, puro tema: era quello che il Verga sapeva: ades¬ so deve inventare per darle corpo. Insomma, conosce i due tra¬ guardi di una tappa necessaria, poi dipinge il paesaggio che si scopre lungo l’itinerario tra quei due punti. Non è l’itinera¬ rio a far nascere sotto gli occhi il paesaggio. E si tratta, quindi, di fatti di repertorio, che appena a tratti si caratterizzano, si incidono nella memoria, come succede degli episodi di ro¬ manzo veramente necessari e creati. Per coprire quei due mesi e riempire la serie di lettere, fino alla proclamazione: io lo amo, ecco che cosa succede. Prima l’innocenza felice, che ancora ride di quello che diventerà la sua condanna. Passeggiata in montagna. Giuditta e Annetta sempre impigliate nelle loro lunghe vesti. « Benedetta la mia tonaca! Il signor Nino mi ha offerto venti volte il braccio, co¬ me se ne avessi bisogno, io! I.’avrà fatto apposta per farmi ar¬ rabbiare! Maria vorrebbe sfidarlo alla corsa, quel signo¬ rino. In discesa addirittura Io sopravanza, e ne è orgogliosa. Non teme l’abbaiamento dei cani perché il signor Nino aveva « il suo bravo schioppo ad armacollo Qui c’è insieme la di¬ chiarazione di guerra, ch’è già un modo di prendere contatto, e c’è l’illusione dell’indifferenza; ma insieme il piacere di sen¬ tirsi protetta da quello « schioppo ad armacollo ». Il nome di Nino ritorna di continuo: Maria ha imparato a giocare du¬ rante le serate, e il signor Nino la consiglia e dirige, e « si contenta di non giocare lui Un vivo senso di felicità, unica nube il convento, ma adesso Maria dice « non ci pensiamo per ora Quale problema inventivo ha risolto fin qui l’autore? Ha escogitato fatti, per dipingere quel momento iniziale, incorisapevole in cui l’amore è solo esuberanza di vita, senso di pienezza euforica, che non capisce di essere provocata dalla presenza dell’altro. Poi un fatto esterno: il « peccatacelo », confessato ridendo. Maria ha ballato. È stato Nino a invitarla. Qui l’ingenua di¬ venta la candida dei romanzi libertini quando racconta le ver¬ tigini provate al sentirsi stringere tra quelle braccia. È un pezzo forzato, e facile. Poi la fanno cantare, e qui c’è un’inven¬ zione commovente, perché lei non sa che il Salve Regina. Si vergogna della presenza di Nino, lei abituata a cantare na¬ scosta nel coro. Lui la guarda con occhi commossi. E questo è un tratto veramente bello, perché nasce dalla congiunzione

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del personaggio con la vicenda, non può che appartenere a Maria. Festa del babbo. I Valentini, troppa grazia, sono venuti « sin dallo spuntar del giorno A questo punto, il Verga innesta il secondo stato d’animo; quello che nell’elenco ob¬ bligatorio viene dopo la felicità: il turbamento, l’inspiegabile malinconia; noia, stanchezza. Anche Carino si è inselvatichito. Quasi vorrebbe esser malata per ritirarsi. E di nuovo il Ver¬ ga le presta la sua vista dall’esterno di narratore, con una sentenza che vale quella del cieco nato: « Siamo degli umili fiorellini avvezzi alla dolce tutela della stufa, che l’aria libera uccide. C’è un’altra teoria psicologica, ripetuta da molti romanzie¬ ri: un sentimento non esiste fin che non lo si pronuncia. Bi¬ sogna spingere Maria a pronunciarlo. Da sola non ci riusci¬ rebbe. Occorre una spinta esterna, e questa viene da Marian¬ na, più esperta, più libera perché ormai è stato deciso che non tornerà in convento. È Marianna a mettere Maria sull’av¬ viso: le ha fatto notare che non parla più dei Valentini « nel¬ le... ultime lettere che sono si meste, mentre [glie] ne [parla¬ va] tanto nelle prime che erano cosi allegre. »”’ Cerca aiuto nell’amica per capirsi: comincia a pensare che quel Nino le fa « un certo effetto » : « non è antipatia, non è avversione... eppure lo temo... » Ma quando lui le parla, lo ascolta, pensa alle prediche sul « fascino dello spirito del male »''* e ha pau¬ ra. Nino, dal canto suo, le dice cose che la sconvolgono: la ringrazia della felicità che gli ha procurato ballando con lui; osserva: « Come vi sta bene cotesta tonaca! »'•’ Forse tutto il turbamento di Maria dipende dal fatto che in convento le hanno abituate a farsi « certe idee » sugli uomini, per cui in¬ contrandone uno, si sentono tutte sossopra. In tutto questo tratto, c’è in Verga quasi il gusto di ritar¬ dare la rivelazione di Maria a se stessa, per un compiacimento di analisi. Non riesce ad esprimere intimamente il ritegno della ragazza a capirsi: la fa piuttosto oscillare tra una note¬ vole lucidità nell’osservarsi, e una strana ottusità nel rendersi ragione di ciò che osserva. Un’altra volta, si denuncia despota del suo personaggio, padrone di non lasciarlo svolgersi a sua posta. Poi lancia Maria nel fatto. L’incontro nel castagneto: sterpi e rocce: lui le dà il braccio, lei trema, lui la prega di appog-

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giarsi. Si seggono sul muricciolo. Qui una di quelle bellissime notazioni indirette di cui Verga, al suo meglio, sara sempre più capace c « Io non vedevo che il calcio del suo schioppo che disegnava sulle zolle certe bizzarre figure. »“ Non si potrebbe, con più tatto, descrivere gli occhi bassi di questa confusa Ma¬ ria. Il cane di Nino la festeggia: « Vedete come vi vuol bene Ali? Lo amate voi? »=' Pare che precorra certe battute di D’Annunzio: ma qui c’è una verità semplice. Si direbbe che il Verga non abbia trovato di meglio, proprio perché il suo personaggio non sapeva trovare di meglio. È un abile battuta di insignificanza significativa. E Maria, dopo di avere cercato invano la risposta, balbetta : « Com’è bello il vostro cane, si¬ gnore!... »“ Se le trovassimo in Gozzano, dette da qualche amica di Nonna Speranza,^^ queste parole ci parrebbero gio¬ cate sul filo tra la parodia e la commozione nostalgica. Qui diventano ridicole e commoventi. È un romanziere inesperto, che incontra la situazione favorevole alla sua inesperienza. Maria non prova più sgomento, ma tenerezza per Nino, infe¬ lice anche lui. Sente che questi sono « peccatacci grossi » e chi sa quanto la faranno soffrire nel farne la confessione. Ma oramai è fatta. Lei lo sfugge, lui se ne accorge. Maria scrive sospirando verso una sicurezza oramai compromessa per sem¬ pre: « Oh! il convento! il convento! Ecco quello che mi abbi¬ sogna, che è fatto per me. (Tra parentesi, ricordiamoci: orrore del chiostro, bisogno del chiostro. È uno dei motivi più veramente fatali che il Verga proietta nella Capinera. Ci tor¬ neremo.) La matrigna le fa una scena per i turbamenti e gli umori variabili. Con delicatezza, il Verga non si pronuncia: non ci lascia capire se la matrigna abbia capito. Così, a questo patto, la posizione di « ingenua » attribuita a Maria può es¬ sere valida: l’ingenuità è condivisa dal narratore. Einalmente: io l’amo. Poi tutte le tormentose conseguenze. Se tutto lo svolgimento, è stato, come si diceva, intellettuali¬ stico e prevedibile, abbiamo tuttavia notato quanto di vissuto contenga questa storia d’amore. Bisognerà subito osservare, perché sarà una delle leve della nostra interpretazione dei capolavori verghiani, ch’è un amore tra due esseri che il ro¬ manziere vede all’altezza del proprio occhio, non un amoreambizione, un amore-vanità, in un mondo raffinato, in un ceto diverso da quello del Verga. C’è la piena fiducia .di po¬ tersi esprimere, di poter capire Maria e Nino: ed allora il nar-

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ratore diventa a tratti poeta, riversa nel loro idillio la freschez¬ za di un sentimento giovanile, il lirismo di cose, situazioni che lui stesso avrà provate, da cui non dissente, di cui forse lo pungono ricordo e nostalgia. E rivela le sue qualità narrative perché riassorbe l’emozione lirica nei fatti. Maria, diarista dei propri sentimenti, è fastidiosa: cronista di alcuni di quei fatti è precisa, poetica, concreta. Riesce persino a interessarci. Probabilmente il fascino di questo episodio d’amore ha at¬ tratto il Verga, e lo giustifica di aver scelto la via più semplici¬ stica per risolvere drammaticamente la storia della sua capi¬ nera. Si sono fatti tanti paragoni con la Religieuse di Diderot, e con la Monaca di Monza.^ Ma Diderot, grande racconta¬ tore tutto intelligenza, e Manzoni, grandissimo poeta, non ave¬ vano avuto bisogno dell’amore per rendere i loro personaggi ostili al chiostro, consapevoli di essere negati alla vocazione monastica. Queste sono le soluzioni più alte. Il Verga aveva cominciato, anche lui così, con tutte le contraddizioni che si sono viste; non si è sentito di portare Maria al dramma della clausura, cui il temperamento del personaggio non si può piegare. Per drammatizzare, per intenerirci, ha dovuto farla vittima di un amore spezzato. Cioè è ricorso alla più facile delle molle; la prima che viene in mente. Prendete un dilet¬ tante, prendete un principiante: la prima cosa che gli verrà in mente per combinare o sciogliere un intrigo, sarà un intrec¬ cio d’amore. Di recente, Orwell nel suo ultimo romanzo: 1984, che voleva essere una carica a fondo contro il mondo, a suo parere, livellato dal comuniSmo, non ha trovato di meglio, per fare crollare il suo eroe, che comprometterlo in un amore. E ha dimostrato all’evidenza che la paura di quel mondo da lui descritto non era una motivazione sufficiente a sostenere quel suo romanzo della paura. Nel momento in cui è ricorso alla motivazione elementare dell’idillio d’amore, che provoca la rovina del protagonista, ha confessato lo scacco del roman¬ zo. E anche la Capinera, proprio per essersi lasciata scivolare lungo la linea di massima pendenza, rimane un romanzo di second’ordine. Dal terzo episodio, comincia la catastrofe, e via via anche il peggioramento artistico, che si riscatta qua e là in due momenti precisi, e in due o tre gridi di passione esasperata. L’episodio si apre con la proclamazione: io lo amo!“ Lo stile esclamativo ha i suoi pericoli; diamo atto al Verga di esserse-

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ne accorto, quantunque l'impostazione del suo libro, ''e la sua stessa formazione letteraria — quel suo bisogno di rendere pa¬ tetica la rappresentazione anzi che di rappresentare il patetico, quella sua volontà di trasmettere il fluido dei sentimenti — lo costringa oramai a registrare tutte le esclamazioni di Maria (o quelle che lui, l’autore, suppone probabili in Maria). È quasi sempre un errore dei romanzieri (eccetto il caso che siano gran¬ di lirici piuttosto che grandi narratori) darci la corrente elettri¬ ca già distribuita lungo i fili, anziché la scarica. Il romanziere deve supporre che chi legge sia buon conduttore, e propaghi in se stesso quella scarica (cioè le conseguenze sentimentali ed affettive del fatto); diversamente, si rischia che quell’elet¬ tricità si disperda, non produca più niente: vada a massa, co¬ me dicono gli elettricisti. Comunque, Verga intuisce a tratti il pericolo, e cerca di arrestare il flusso esclamativo, darci il fatto. Ma, preso come vorrebbe essere nel tumulto sentimen¬ tale della Capinera, sembra che per reagire debba gettarsi all’estremo opposto, cioè ai giudizi e alle trovate dell’intelli¬ genza; mentre la via buona sarebbe stata quella di isolare i nuclei di energia condensata negli avvenimenti, prima che ne emanino le conseguenze affettive e sentimentali. Un esem¬ pio di queste posizioni e interventi intellettuali, (dalla quarta dimensione, dunque, dalla posizione « racconto ») è nel so¬ prassalto di Maria : « Questo è quello che al mondo chiamano amore... l’ho conosciuto; lo veggo... Onestamente, noi che, come critici, avevamo il diritto di collocarci nella quarta di¬ mensione, di osservatori esterni, avevamo potuto richiedere che il tracciato della storia d’amore di Maria, nella fase na¬ scente, fosse la progressiva scoperta che il suo turbamento coincideva, appunto, con quella cosa temuta e deprecata, di cui la piccola educanda conosceva soltanto il nome: amore. Bisognava, però, che il Verga ci desse questa progressiva scoperta tutta in sostanza di vita, cavata dall’oscuro della propria vita, e senza capacità di giudizio.^® Invece, il Verga aveva trop¬ pa consapevolezza per conto della sua eroina, sicché il giudi¬ zio, la proposizione semplice e tremenda : « questo è amore » è già come tutta anticipata tra le righe. Adesso, quando viene fuori in maniera esplicita, si riduce a una specie di piccola vittoria intellettuale del narratore, che volta la carta tenuta coperta fino a quel momento : la carta che fa il punto. Ci può essere la piccola soddisfazione del matematico che mette in

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evidenza, tira fuori della parentesi un coefficiente, che si era portato attraverso tutte le trasformazioni della sua formula. Non ce la terribile scoperta della chiarezza: una chiarezza inesorabile, contro cui non c’è più nulla da fare, e vano di¬ venta il desiderio di tornare nell’ignoranza, nel buio, nel grembo protettivo di quel « non sapere », che poteva ancora lasciar credere di essere immuni dalla condanna. La frase di Maria poteva essere un atroce risveglio; diventa invece un’in¬ gegnosità, un’acutezza del narratore, che è riuscito « facendo il punto » ad arrestare per un attimo il flusso esclamativo. Ma che questa chiarezza, questa limpidità dell’alba dopo il nau¬ fragio non basti più, lo dimostra il fatto che lo stesso Verga si sente costretto a caricare la constatazione di Maria, ad avvol¬ gerla di tutte le possibili deduzioni, per farcela apprezzare in tutta la sua portata. Si moltiplica come commentatore del testo che ha escogitato, facendolo precedere dall’esclamazione : « Tutto ciò che sento per quell’uomo è nuovo, è strano, è spa¬ ventoso... è più ardente dell’amore che porto a mio padre; è più forte di quello che porto al mio Dio!...»^ Non contento dello sbigottimento prodotto in Maria dalla rivelazione che essa sta per farsi, ha voluto darle subito una coscienza insana¬ bile di peccato; e poi insistere; « È il castigo di Dio, la perdi¬ zione, la bestemmia! »* Se invece la consapevolezza di Maria esplodesse dall’intimo, fosse davvero l’improvviso assalto della chiaroveggenza, sarebbe bastato circondarlo di silenzio; nel quale si sarebbero propagate, con effetto tanto più tragico e pauroso, tutte le sue vibrazioni. Si pensi, per esempio, a un malato che, dopo avere osservato in sé tanti piccoli sintomi ve¬ niali, tanti malesseri addomesticati e addomesticabili, si sve¬ glia un mattino constatando che tutti quei sintomi hanno un solo nome, e di una di quelle malattie il cui sinonimo è morte. Basterebbe: non ha più bisogno di aggiungere che è condan¬ nato, che percorre il cammino del varco buio, ecc. Qui c’è un episodio dislocato: uno dei pochi, tuttavia, in cui la Capinera racconti qualche cosa. È la storia di Nino, andato a Catania per certi affari: nel ritorno ha perso la,cor¬ riera. Si fa tardi, non torna, ansia generale, e Maria impazzisce di batticuore. Poteva essere l’episodio decisivo per dare il tra¬ collo alla Capinera. Effettivamente, nel tempo reale, precede il grido: « io lo amo! ». Nel tempo narrativo, però, lo segue. E questo ci dimostra che Verga non poteva, o non sapeva, con-

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durre questa lettera, decisiva di tutto il romanzo, con la sa¬ piente progressione dal narrativo all effusivo, dalla cronaca oggettiva all’esclamazione soggettiva. Prima di tutto ha biso¬ gno di esclamare, di tuffarci nello sgorgo di quel torrente che è l’anima della Capinera. Questo è forse da imputarsi a un ingenuo senso di coerenza stilistica: Verga ha raggiunto un certo diapason di concitazione, fa scrivere la sua Maria all al¬ tezza del grido, e niente è più difficile che mettere la smorza, riattaccare dal livello zero quando si è ormai sui vertici del¬ l’enfasi — molto su di giri, come si dice. Sembra un perdere di intensità, un cadere nel piatto, nel banale, nell inefficace. Il gran torto, o inesperienza, di Verga, in questo romanzetto, e poi nei successivi, è di confondere efficacia con eccessività, intensità con agitazione. È un pericolo che non si dissiperà mai completamente, per lui: vedremo perfino nel Gesualdo che la sua ansia di essere tutto vivo, di arrivare al segno, ge¬ nera una esagerazione nervosa nella mobilità, una specie di parossismo mimico. Qui l’eccesso, la falsa intensità sono ancora cercati nella ipertensione, diciamo così, acustica: nella voce sovracuta, tutta sopra il rigo, priva di note di centro, e insieme nella sovrabbondanza di quei movimenti illusori, di quei pal¬ piti vistosi e forzati che sono le interiezioni. Ma l’ipotesi è di lavorare su tali personaggi, di cui si senta addirittura — e non per metafora — battere il cuore: tanto sono eccessivi nel sentire e nel manifestarsi. Nella lettera del 21 novembre, visita di Nino alla finestra, durante una pausa — nota Maria — egli « avrà udito i battiti del mio cuore. »*' Comunque, l’episodio del ritardo di Nino e dell’attesa ango¬ sciosa, rivelatrice risulta dislocato. E quali che siano state le ragioni per cui il Verga lia costruito a quel modo, per noi si possono sempre ricondurre al compromesso tra racconto e romapzo. Il Verga, in quanto fa il racconto, è fuori della du¬ rata psicologica di Maria e del succedersi degli eventi. Può dunque traslocarli e sistemarli come vuole, tenendo d’occhio soltanto l’effetto. In quanto fa il romanzo, sarebbe lui stesso la voce di Maria (o Maria sarebbe la voce di lui, immerso in quella durata narrativa): quindi quel prorompere esclama¬ tivo di Maria, quel commento a se stessa che Maria va fa¬ cendo, così disordinatamente, gli pare la stoffa umana del per¬ sonaggio : lo mette in primo piano. Le possibilità di gioco, di manovra dalla quarta dimensione, che egli possiede come au-

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tore di racconto gli consentono di prendere la parola — a no¬ stro gusto, arbitrariamente — quando sente l’impazienza, la sollecitudine esagerata di confermare, come qui, la sua posi¬ zione di autore di romanzo. Acciuffato l’episodio, il Verga si conduce da narratore che sa il fatto suo. C’è l’invenzione delle cento avemarie: « quan¬ do avrò detto cento avemarie udrò la sua voce », e poi quel ritardare il tempo dopo le prime cinquanta; e poi, scaduta l’ultima senza che la voce di Nino sia stata udita, la speranza di avere sbagliato il computo, e finalmente quel rinnovare e mutare la posta: « Se la prima che parlerà sarà Annetta... » e dopo ancora: « Quando il vento avrà fatto stormire le foglie degli alberi dieci volte »,“ che raccontano bene una delle con¬ suete « scommesse » dell’ansia: in cui si sostituisce all’evento desiderato e fuori del nostro controllo qualche cosa più a no¬ stra portata di mano, un surrogato dell’aspettativa che valga a consumarla, ad offrire un presagio favorevole. Sono osserva¬ zioni comuni: ma il Verga ha già il coraggio di notare l’u¬ suale e di riscattarlo con la giustezza dello sguardo. E poi la delicatezza tenera, e vera anche questa, di scaricare tutto il groppo emotivo di Maria sul cane Alì, il primo ad arrivare, quasi un duplicato magico di Nino, che però non ha responbilità né pregiudizi, e perciò può subito balzare addosso a Maria, festoso come Nino non potrebbe manifestarsi; hnalmente la fuga di Maria in camera a nascondere la piena dei suoi affetti. Ed allora ci si domanda come mai questo insieme, questa somma di particolari veri non riesca a darci la verità; bensì ci lasci un’impressione di arguzia, di ingegnosa diligenza; e si con¬ clude una volta di più che dentro la Storia di ima capinera ci sono parecchi strati : una sincera emozione iniziale, e questa è la parte della necessità; un caricare l’emozione, spingerla a una specie di orgasmo, nella speranza di colpire meglio il let¬ tore, di costringerlo alla partecipàzione, e questa è la parte della volontà; finalmente l’esigenza di articolare — impresa piuttosto disperata — quella emozione tumefatta, assordante, in piccoli fatti concreti, che ingranino. Ed allora sono proprio questi due strati: il riversarsi dell’orgasmo lirico che tende ad afferrare l’illimitato dei sentimenti, l’invenzione dei fatti che tende a coagularsi nel limite circoscritto della situazione, dell’aneddoto, della notazione del vero; sono proprio questi

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due strati, fatti apposta per escludersi a vicenda, a dare il sen¬ so del non omogeneo, a gettare un sospetto di artificio cere¬ brale anche su quelle invenzioni che, di per se stesse, e isolate, sarebbero giuste e vere. E poi c’è in fondo quella necessita iniziale a farci sospettare dei nostri stessi sospetti, a mettere nel conto quel timbro indubitabile della buona fede. Senza dire che, fintanto che si rimane nella storia d’amore, i fatti sono anche giusti, cioè hanno una impronta vissuta; ma vengono da un’altra esperienza; da quella giovanile degli amori puri, degli amori ancora idealizzati anche se li muova il senso. Il dippiù, la nota che li fa apparire artificiosi è quella specifica¬ zione di Maria monacanda: i fatti rimarrebbero veri ugual¬ mente, se anche Maria fosse una ragazza che, dal chiuso di una vita familiare, prova gli scombussolamenti dell’amore, che nella sua educazione è un sentimento pericoloso e vietato. In un certo senso, per quello che il Verga sa inventare. Maria è una protagonista con un vincolo di troppo: quella condanna al chiostro. Ecco perché, analiticamente, il romanzo rigurgita di particolari che, in astratto, sembrano buoni; mentre in con¬ creto il romanzo interessa poco un lettore, come si dice, prov¬ veduto; e semmai fa impressione su chi sia ingenuamente di¬ sposto a lasciarsi travolgere dall’effetto globale. A questo punto, il Verga è costretto a rimestare, in tutta la fijnzionalità drammatica, con la sua portata, diciamo così, di intreccio, il tema della condanna di Maria al convento. Si serve del personaggio cattivo: fin qui lo aveva fatto funzio¬ nare come molestia, che peraltro l’ingenua Maria non capiva; adesso lo adopera come una leva per muovere la storia, provo¬ care la stretta drammatica. Ma nemmeno stavolta Maria capi¬ sce. Qui l’ingenuità è forzata, al punto da farci pensare che, a mantenerla così compatta, il Verga abbia altre ragioni, oltre quelle che abbiamo scoperto in principio (e consistevano nel bisogno di disporre di un personaggio che veda meno chiaro dell’autore): adesso, vien fatto di pensare che l’ingenuità di Maria gli occorra per toccare uno dei miti possibili, il più profondo e purtroppo anch’esso eluso, del suo libro: la vitti¬ ma allo stato puro. Se la Storia di una capinera fosse un romanzo più profon¬ do, più capace di toccare le radici, si penserebbe che la ma¬ trigna si presenti qui a Maria come una proiezione del suo senso di colpa. Ha appena finito di dire: « L’amo così pazza-

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mente e morrei di vergogna s’egli lo sapesse! Vorrei gettargli le braccia al collo, vorrei morire ai suoi piedi, e non oserei dargli la mano per tutto l’oro del mondo!... e se mi guarda, chino gli occhi... E pensare intanto che mio padre... che la paia matrigna, che lui! potrebbero leggermi in cuore... », ha ap¬ pena finito che, ecco, la matrigna la chiama: « ... E fissandomi con un’occhiata che sembrava mi penetrasse sino al cuore mi disse: » E poi subito, soggiunge che ha notato in Ma¬ ria, da qualche giorno, un gran cambiamento. E, senza trapas¬ si : « Ragazza mia, se l’aria della campagna ti fa male, tuo pa¬ dre non insisterà a tenerti qui, e ti permetterà di ritornare al tuo convento. »“ Le parole sono accompagnate da tale sguar¬ do e tale suono di voce, che a Maria sembrano significare: « So tutto; conosco il tuo segreto! » Ma voler leggere nei moti della Capinera l’involontaria allusione al sottosuolo della psiche, alle zone che invisibilmente comandano il visibile delle nostre sorti, questo sarebbe veramente un chiedere troppo. Effettivamente, tutto l’Ottocento, ma in maniera più orga¬ nica il secondo romanticismo, ebbe l’ambizione di penetrare il mistero che si occulta dietro i fenomeni e li plasma e li muove e li fa succedere. Mentre la scienza mirava a delucidare l’ulti¬ ma parola (e cercava di dissipare il buio del mistero, stabilen¬ do l’equazione mistero = causa, dunque il compito era di sco¬ prire la causa dei fenomeni), l’arte aspirava ad alludere a quell’ultima parola, a farci sentire la presenza e il senso del¬ l’occulto, attraverso i richiami contenuti nella rappresentazio¬ ne estetica: una rappresentazione che insieme seducesse, incan¬ tasse i sensi e destasse, come un’operazione magica, la compli¬ cità, le connivenze che ciascun essere umano ha con l’oscuro di se stesso e del mondo. Se si volesse una sommaria morfologia della cultura, con tutto quello che di astratto, grossolano, di troppo generale e forse anche di vacuo simili prospettive comportano, si potreb¬ be osservare che il secondo romanticismo, nel suo disperato sforzo di arrivare all’unità, alla conoscenza delle cause e poi della causa, in questa sua tensione ^ direbbero i filosofi — monistica, è costretto, nella esecuzione e negli stessi suoi stru¬ menti di lavoro, ad accettare il dualismo tra il visibile delle nostre sorti o di qualsiasi evento del fenomeno, insomma, cioè di ciò che appare (qjaivw) e il motore profondo, che si

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sente e non si può afferrare coi sensi. Il filosofo che in quegli anni conobbe la sua tarda ma immensa gloria, che esercitò le più diffuse suggestioni fu appunto Schopenhauer col suo dualismo di volontà e di rappresentazione:*^ rappresentazione come oggettivarsi di quel motore oscuro, eterno che è la vo¬ lontà. E la volontà, nella metafisica di Schopenhauer, è la « cosa in sé », cioè Tinconoscibile della molto più sobria e onesta — metafisica di Kant. Ma Kant, in piena coerenza, a quell’inconoscibile che le nostre categorie non afferrano, non aveva saputo, né voluto dare un nome : Schopenhauer non solo lo battezza, ma gli conferisce la forma, per così dire, dell’informe, nominandola la volontà e descrivendone il con¬ tegno cosmico. Questo era un modo di constatare (ma era an¬ che più di una constatazione) che noi ci aggiriamo in un mondo sensibile, contribuiamo ad attuarlo, ma insieme avver¬ tiamo il rintocco di quel « poter che, ascoso, a comun danno impera »,“ direbbe la disperazione leopardiana: alle comuni sorti, potremmo rettificare, intendendo per sorti le corpose, tangibili apparenze tra cui la nostra esistenza si svolge, testi¬ mone e protagonista. Quando Nietzsche separa il dionisiaco daH’apollineo, musica come ebbra esaltazione tragica e vitale da statua come plastica e luminosa sagoma di ciò che può es¬ sere affissato senza l’orgasmo del mistero, continua quel dua¬ lismo. Non è caso che l’opera d’arte più rappresentativa di quel secondo romanticismo sia il dramma di Wagner. Qui il dualismo si manifesta nella presenza, nel lavoro simultaneo, distinto e contrappuntato di scena (la statua che si muove) e orchestra (la musica, il dionisiaco che non può plasmarsi nell’articolazione discorsiva, logica e, in certo modo, apollinea della parola). Wagner può avere predicato tutte le teorie che gli pareva: la verità è che, come ogni artista sommo, operava in uno stato di cieca, esclusiva fiducia, quasi di infatuazione per quella visione del mondo ch’era, storicamente e indivi¬ dualmente, la sua: in teoria, diceva di creare la collaborazione di tutte le arti in un’opera d’arte unica e suprema; in pratica, aveva bisogno dell’orchestra per alludere, con un linguaggio senza parola, a ciò che per la parola rimane ineffabile: cioè a quel plasma vitale che nell’oscura zona delle sorgenti e delle scaturigini è impulso, volontà di prendere forma corporea, di gesto e di atto, ma insieme perpetuo rifiuto a incorporarsi in un gesto mimico, in un atto preciso e incancellabile. È estre-

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inamente esatto e indicativo il nome inventato da Wagner per il luogo dell’orchestra: golfo mistico, lo chiama. Pensiamo alla materia sostanziosa e incorporea sensuale e tuttavia inaf¬ ferrabile come larva, alla materia che svolge dentro l’orche¬ stra il suo divenire. Pare che ci guardi, è carica di intenzioni, certamente indica una sua segreta finalità, e tuttavia il suo fine non si dichiara, non si rende esplicito se non in qualche cosa di differente da lei, addirittura eterogeneo: gli aspetti scenici, i gesti e le storie dei personaggi. È una materia, un fluido sapiente — di quella sapienza che attribuiamo ai grem¬ bi, alle matrici dove si maturano i destini —- ma non intelli¬ gente: giacché ignora la nomenclatura degli oggetti distinti, quell’inventario e catalogo del mondo, che ci fornisce il reper¬ torio con cui riordiniamo e organizziamo gli aspetti, gli atti, le idee e, insomma, i fenomeni per i nostri casi e scambi pri¬ vati e sociali. La straordinaria, la gloriosa contraddizione del¬ l’orchestra di Wagner consiste nel mantenere di continuo alla presenza dei nostri sensi l’informe, lo strato germinativo degli atti, ma nell’ottenere questo effetto attraverso la musica che è forma, e nel caso wagneriano più che in ogni altro, plasticis¬ sima forma. Da un simile dissidio nel cuore dell’espressione, perpetuamente rinascente e perpetuamente risolto, nasce quel¬ la tensione, quella suggestione inesauribile che esercita su di noi: per cui ci pare senza tregua di possederla nell’attimo stes¬ so in cui ci sfugge, in cui ci consegna la sua presenza chiara, oggettiva proprio mentre denuncia la sua inesauribilità. Me¬ lodia infinita davvero, come Wagner l’ha chiamata, ma così finita istante per istante, così determinata. I nostri contatti con lei sonò come il punto in cui la tangente tocca il muo¬ versi di una curva: nell’istante medesimo della tangenza biso¬ gna già lanciare una tangente nuova, perché la curva si è di¬ vincolata, modificata. Forma dell’informe: perpetua promessa di una rivelazione fatta all’intelligenza di ciò che è al di qua, o al di là, della intelligenza: e il paradosso è stato consacrato dallo stesso Wagner, quando alle sue melodie ha dato nomi, etichette per riconoscerle intellettualmente: tema del filtro, tema della corona, dell’anello, del drago, della magia del son¬ no, o via tematizzando. Andrebbe ancora notato come la for¬ ma di linguaggio prediletta da Wagner, quella da lui spinta alle estreme audacie, al punto che dopo di lui comincia la ri¬ voluzione contro la tonalità, sia il cromatismo: cioè il perpe-

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tuo rinvio della cadenza, cioè del risolvimento e della stasi che chiudono la forma, permettono di afferrarne il disegno. Cromatismo non solo per tuffarci nella felicità e angoscia dell’amore di Tristano e Isotta — ingannevole promessa di toccare l’infinito dell’ebbrezza, della beatitudine, dell’unità perfetta, di sopprimere tra i due nomi Tristano e Isotta la parola e — ma cromatismo anche per situazioni non ansiose, non rapite: cromatismo proprio per ottenere il massimo di presenza dell’informe, attraverso la forma. Ora questo infor¬ me è proprio il sottosuolo psichico dei personaggi, quello don¬ de si genera il loro svolgersi, il loro perché precedente a tutte le cause assegnabili con le parole del nostro vocabolario di in¬ telletto e di ragione. Ma i drammi di Wagner sono tutti dram¬ mi mitologici e leggendari: perfino i Maestri cantori^ sotto il gentile idillio d’amore e sotto la traduzione farsesca di una bega di critici e artisti (Sachs = Liszt, Beckmesser = Hanslic, Walter = Wagner), perfino i Maestri cantori sono il mito della notte e del sole nelle loro reviviscenze romantiche, sono la favola tedesca del San Giovanni e della lucciola. E mito vuol dire per noi oscuri movimenti della psiche, archetipi incorporati in racconti favolosi, perché le parole del discorso logico ed analitico, dell’intelligenza astratta rimangono ad essi eterogenee, non li sanno, né li sapranno mai riferire. Thomas Mann, ricapitolando questo bisogno, questa legge¬ comune a tutti gli artisti del secondo Ottocento: di alludere all’azione oscura della psiche, alle sue suggestioni determina¬ tive, attraverso e sotto la corporeità visibile e animata dei per¬ sonaggi artistici ricorda perfino il caso Zola, che ai suoi tempi, dai raffinati (dai Thomas Mann di allora) veniva giudicato un eloquente e facinoroso fabbricatore, piuttosto limitato a una meccanica esterna e appariscente, negato ai doppi fondi, alle complicità con l’invisibile: eppure, dice Thomas Mann, « chi vorrebbe... misconoscere nell’epopea zoliana il simbolismo, la volontà mitica che innalza le sue figure oltre il mondo della realtà? Quell’Astarte del Secondo Impero, chiamata Nanà, non è forse simbolo e mito? Di dove prende il suo nome? È un suono primitivo, un remoto balbettio sensuale dell’umanità; Nanà era anche il nome di Istar, divinità babilonese. Lo ha saputo Zola? Ma ancora più strano e significativo sarebbe se egli l’avesse ignorato ».*’ Il dualismo volontà-rappresentazione, Dionisio-Apollo, or-

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chestra-scena, si riassume, nel mondo della cultura, tenta l’ul¬ timo colpo per superare l’inconoscibile e l’informe che sta dietro i fenomeni — almeno dietro i fenomeni umani — con una teoria della nevrosi, che poi si estende a tutta la psicolo¬ gia: cioè, con Freud. Thomas Mann si limita a trovare la pa¬ rentela Wagner-Freud nel fatto che Wagner, egli dice, fa della psicanalisi avanti lettera: scopre, in particolare, la connes¬ sione tra psicologia e mito. « Quando, » scrive Mann, « nel fantasticare di Sigfrido sotto il tiglio, la nostalgia della madre si colora di erotismo, quando Mime cerca di spiegare al disce¬ polo la paura, mentre in orchestra echeggia oscuramente de¬ formato il motivo di Brunilde addormentata tra le fiamme, abbiamo Freud: psicanalisi, null’altro che psicanalisi. Vor¬ remmo permetterci di aggiungere una constatazione più gene¬ rale, che accomuna alle radici questi grandi vertici del pen¬ siero, dell’arte, della cultura romantica nel secondo Ottocen¬ to: l’inconscio di Freud, triste e magari infetto quanto si vo¬ glia, è l’orchestra, mentre i sintomi conoscibili, vistosi, in cui riesce a manifestare la sua inconoscibilità, sono i gesti’ del personaggio. La differenza, per esempio, tra il dramma wagneriano e il melodramma italiano. Oggi qualche musicologo, che è insieme interprete e direttore d’orchestra,*’ tenta, a quanto leggo, di far sentire anche il melodramma italiano come un prodursi di eventi nati dallo spirito della musica. Di far muovere il per¬ sonaggio sopra le emanazioni dell’orchestra-inconscio. Direi, invece, che i personaggi del nostro melodramma sono più fra¬ terni che simbolici : fortissimi, riconoscibilissimi perché ci so¬ migliano, hanno subito l’aria di famiglia coi nostri sentimenti e passioni. Ma non alludono all’oscuro di noi: rendono più riconoscibile, rendono palmare, quello che sappiamo, o po¬ tremmo sapere; non già quello che sospettiamo, o potremmo sospettare. La stessa disposizione dell’orchestra è indicativa: non golfo mistico, non invisibile; bensì sottolineatura lumi¬ nosa ai piedi della ribalta. Lo stesso strumentale, la stessa or¬ chestrazione sono sintomatici, nell’opera italiana. È un modo di distinguere, col colore e col timbro, le varie e non molte voci, di farle camminare sul loro sostegno armonico o ritmico, dove armonia e ritmo sono altrettanti modi di rendere percet¬ tibili e persuasive quelle voci. Le quali raffigurano e disegnano i vari, molteplici moti che cospirano, o talvolta si agitano fino

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alla dissonanza, nell’interno, nella complessità di un senti¬ mento di una passione, di uno dei nostri moti manifesti. L or¬ chestra di Wagner, invece, per quanto abilissima, dotata di un mimetismo quasi istrionico, nell’imitare quando vuole le voci della natura e della realtà, il gorgheggio di un uccello, 1 infu¬ riare di una tempesta, il fluire di un fiume, lo stormire di un bosco, o il ruggire delle fiamme, riesce sempre a trasformare questa somiglianza fisica, in una affinità, per così dire, con la psiche del cosmo, nella zona dove le cose non sono ancora cose, e tanto meno hanno un nome : oggettiva il « prima » dell og¬ gettivazione. Ma soprattutto combina, impasta i timbri e le voci, in sonorità nuove, inaudite, che si valgono del loro ine¬ sauribile fascino e magia nel lusingare l’orecchio, per far par¬ lare ciò che non era dotato di voce fisica, che accetta di essere rivelato solo a patto che se ne rispetti, vorrei dire, l’incognito. L’orchestra di Verdi adempie invece alla funzione assegnatale di sottolineatrice: precisa ciò che il personaggio dice o fa, nello stesso strato in cui questo personaggio parla o agisce; è una definizione energicissima, inequivocabile, prepotente e meravigliosamente approfondita di quegli stati d animo, im¬ pulsi, movimenti che si svolgono, per dirla coi veneziani, dal tetto in giù. Trasforma il vero del dominio storico, razionale, afferrabile coi sensi o con l’intelletto in un certo, che appar¬ tiene allo stesso dominio. Parla in nome dell’intelligenza lu¬ minosa e non di quella che chiamavamo sapienza. In nome del plastico, e non del musicale, dove per musicale intendiamo l’inesteso. La musica del nostro melodramma, che pure ha creato caratteri e personaggi tra i più profondi e vivi con cui mai l’uomo si sia specchiato nell’uomo, pure si è sempre aste¬ nuta dal patto con l’abisso, non ne ha nemmeno considerato la possibilità. C’è la famosa annotazione di Verdi sulla parti¬ tura del Lohengrin, al momento in cui arriva il cigno: « Be¬ ne, » scrive su per giù Verdi, « ma si poteva fare più semplicemente. » C’è da supporre che Verdi pensava a mezzi più sem¬ plici per un effetto acusticamente o teatralmente o magari drammaticamente analogo; ma quel più complicato di Wagner aggiunge il patto con l’abisso: in questo caso, magari, un abis¬ so di cielo, di grembi verginali ed estatici, d’amore, di eroismo cavalleresco e angelico, in cui la componente aggressiva è ri¬ solta nelle più radiose sublimazioni. Si potrebbe accogliere l’idea di Massimo Bontempelli: Giuseppe Verdi ha preso la

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musica che stava in cielo e l’ha portata sulla terra.™ D’accor¬ do, purché per cielo si intenda una profondità senza segno positivo o negativo; insomma, l’abisso che sta sopra o quello che sta sotto il cervello e il cuore. Un altro geniale contem¬ poraneo ha identificato l’itinerario del romanticismo — vo¬ glio credere: di questo romanticismo che noi vediamo rias¬ suntivamente nella volontà schopenhaueriana, nell’orchestra wagneriana, nel dionisiaco nietzscheano, nell’inconscio freu¬ diano —; l’ha identificato con gli itinerari e i luoghi di sog¬ giorno della cicogna. Pare che la cicogna eviti l’Italia nelle sue migrazioni : comunque, non vi si posa. Anche il Verga è di questi nostri paesi dove non si posa la cicogna. Il nostro problema critico — oso dire, il nostro nuovo problema — è di trovare perché nel Verga dei capolavori il fatto, fissato in una certezza plastica, da paragonarsi al gesto dei personaggi verdiani, prenda quella risonanza misteriosa, infinita, inesau¬ ribile. In parole povere: si tratta di trovare dov’è, e come suona, l’orchestra nel Verga, e quale orchestra essa sia. Im¬ presa tanto più complicata, in quanto il cantare del Verga apparentemente è tutto monodico: tanto che alcuni critici hanno creduto di appagare la loro ricerca, parlando di una cantilena (Russo, Flora).'* All’ingrosso, si potrebbe dire che troveremo le vibrazioni di una statua; ma proprio vibrazioni sonore e non solo luminose. Che le statue cantino, e non solo per metafora, ce lo assicura la leggenda egizia sul simulacro del dio Ammone, che emetteva suoni musicali, allorché lo toccava il raggio del sole. Ma con la Capinera non siamo ancora ai grandi fatti scul¬ tori dei Malavoglia: l’ambito è ancora quello dell’aneddoto e della cronaca. A maggior ragione — se tutto questo nostro di¬ gredire è servito a qualche cosa — possiamo concludere che il prorompere del dramma, in quelle parole della matrigna, « Ti lasceremo tornare in convento », non compromette il profondo, non è proiezione del senso di colpa in Maria. L’a¬ vere avuto sottomano tutti gli ingredienti esplosivi, e il non aver prodotto l’esplosione — limitandosi a lasciare quegli ingredienti l’uno accanto all’altro, abbastanza inerti — è una riprova dei limiti del Verga giovane; una premessa alle diffi¬ coltà critiche suscitate dall’artista maturo, per il quale segui¬ teranno a mostrarsi inoperosi gli schemi interpretativi, ai

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quali abbiamo accennato, della più grande arte romantica a lui contemporanea. Piuttosto, il risvolto della Capinera, il suo modo di affac¬ ciarsi al precipizio del dramma, mostra già un procedimento che diventerà tipico nel Verga, una costante del suo contegno narrativo. Lo potremmo chiamare: drammaturgia per con¬ densazione. Piuttosto scarso com’è di fatti, e costretto com è a spaziarli, quando vuole dare l’equivalente di una durata o di uno sviluppo, insomma creare tempo normale, allorché si tro¬ va a dover dare la spinta ai personaggi, stringe il tempo; cerca l’intensità in una accelerazione ritmica, con un infittirsi della frequenza dei fatti. Allorché i suoi personaggi debbono svol¬ tare sulla strada che li porterà al disastro, egli li prende di sorpresa (e prende di sorpresa anche noi); è come se cascas¬ sero in preda di un’altra forza, che non si è annunciata, non ha dato segni del suo maturare, anzi accumula in un solo punto tutto il male che può. La tragica bellezza dei grandi libri dipende dal valore oscuro, insindacabile di questa forza — da quel suo modo di non dichiarare le proprie interne fina¬ lità, producendosi anzi come odio, malefizio, torto inflitto agli uomini senza appello e senza ragione, tanto è alieno, sfuggente ad ogni giudizio, veramente agnostico, nella sua im¬ passibilità senza comunicativa. La Capinera è ancora tutta nel¬ l’ambito dell’aneddoto, nella vicenda piccola e personale, sen¬ za trasfigurazione, ma il Verga, ripetiamo, intuisce, presagisce già, come effetto, quello che sarà poi sempre in seguito il suo colpo di drammaturgo. Dunque, chiamata della matrigna, subdola proposta fatta a Maria di tornare in convento, modo di metterla fuori gioco, questa capinera che si era permessa di alzare il becco. E im¬ mediatamente, senza transizione, quasi che una mina, col solo suo spostamento d’aria, faccia esplodere un’altra mina in que¬ sto terreno già così fragile (con una di quelle che si chiamano esplosioni per simpatia), ecco sulle lacrime malcelate di Maria, sul vortice che si è fatto in lei (bisogno della sua « po¬ vera mamma » che « dorme laggiù nel camposanto!... ») ecco prorompere Giuditta tutta allegra: i Valentini li hanno invi¬ tati in casa d’altri vicini di campagna: « Si ballerà, capisci! » E la botta successiva: Annetta domanda a Maria: « Non vieni anche tu? » e la matrigna risponde: « Che cosa vi salta mai in mente?... Un’educanda!... Non ci mancherebbe altro! Sic-

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ché, un attimo dopo, quando il padre osserva che anche Ma¬ ria potrebbe partecipare alla festa, la capinera rinuncia. Non basta:»subito prima che la matrigna escludesse Maria, il Verga aveva fatto calare su di lei un’altra mazzata,' magari col maglio avvolto di feltro. Con una completa insensibilità per le rea¬ zioni di Maria, quasi si trattasse di un essere naturalmente escluso, privo del diritto ad aspirare alla felicità dei giovani, Giuditta 'ha chiamato Maria perché la pettini. I bei capelli castani della sorellastra, per intanto, provocano in Maria la solita associazione: « Penso al gran peccato che sarebbe se fossero condannati ad essere recisi come i miei. »” Il sentimen¬ talismo e la dolcezza sono quasi sempre coperture, paraventi psicologici della crudeltà. Sono modi per convivere con la nostra crudeltà, renderla tollerabile a noi stessi, senza che ci faccia fare brutte figure ai nostri occhi. Qui Maria è doppia¬ mente crudele: verso di sé, in quanto cerca di farsi soffrire; verso Giuditta, in quanto la sua vera, inconfessabile intenzione psichica è di vedere recisi quei capelli. Psicologicamente par¬ lando, il vero significato della frase di Maria sarebbe : « Ah, potessero essere recisi anche questi bei capelli castani! » È noto che noi siamo singolarmente apprensivi verso gli esseri a cui il nostro inconscio desidera del male. L’apprensività è compensazione di un’ostilità inconscia. Non occorreva dav¬ vero la psicologia dell’inconscio, perché un artista intuisse queste^cose. Ed è già molto verghiana questa capacità di con¬ densare in una notazione semplice, apparentemente lineare, un intricato groviglio psicologico. Qui poi gli funziona l’arti¬ ficio dell’ingenuità di Maria, quel candore benevolo, quell’a¬ bitudine ad esprimere sempre buoni sentimenti, contratta nel¬ l’educandato. Maria è turbata, sbriga male le sue mansioni di pettina¬ trice. Giuditta la accusa di farlo apposta, forse perché si an¬ noia a pettinarla. Maria piange. Giuditta vuol fare da sé, arriva fino a spazientirsi delle lacrime, della devozione del¬ l’altra. E qui Maria ha quel tratto estremo dell’umiliazione che si castiga umiliandosi ancora di più : chiedendo l’ulteriore umiliazione di essere creduta. Si capisce che, subito dopo, quando il padre insiste perché Maria partecipi alla festa, sia lei stessa a suggellare la propria condanna alla rinunzia. Il padre vorrebbe tenerle compagnia; ma gli viene ricordato il dovere di accompagnare la famiglia, trattandosi di una prima

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visita. Esclusa e sola. Le circostanze 1 hanno spinta nell im¬ buto, lei compie, con una specie di cieca deliberazione, 1 ul¬ timo passo per entrarvi inesorabilmente. Tutto questo si è consumato, narrativamente parlando, in quattro o cinque capoversi di una delle lettere di Maria. Per esprimerci con un’immagine, questo sistema della condensa¬ zione drammatica, dell’infittimento a gragnola dei fatti, fa pensare a certi modi della natura, vulcanici o meteorologici. Il modo di cambiar tempo, in Sicilia, è proprio come il rac¬ contare verghiano quando volge verso il dramma. In un atti¬ mo, il cielo, da sereno o misto, si fa terribilmente drammati¬ co, scarica tutto in una volta, con incredibile rapidità ed ac¬ cavallarsi di eventi, tutta la sua piena di collere, venti, ura¬ gano. Senza voler stabilire nessi deterministici, che sarebbero goffi e grossolani, non parrà poi troppo stravagante pensare che un poeta sia influenzato, nel suo modo di sentire e rap¬ presentare il mondo, da certe tipiche apparizioni con cui il mondo si è rivelato a lui. Crea le cose, o il loro divenire, a immagine o somiglianza di ciò che ha visto intorno a sé. C’è una presenza nervosa, in qualsiasi poeta, quando organizza le sensazioni che vuole trasmettere al lettore. Nessuna meraviglia che in questa organizzazione cerchi di riprodurre, in laborato¬ rio, quella disposizione ai fenomeni, da cui l’artista è stato particolarmente scosso. Sarà caso, ma non lo crediamo: il nodo drammatico dei Malavoglia è proprio un fatto meteorolo¬ gico, una tempesta. E un’altra tempesta è, poeticamente, tra i pezzi più belli del romanzo: segno, per lo meno, che questa specie di fenomeni incideva particolarmente sull’immagina¬ zione del Verga. Dunque, potrebbe avergli anche fornito un calco, un modulo ritmico, un arco dinamico per i suoi effetti più forti, più centrali. Siamo oramai nella terza parte del romanzo: quella che va dal momento in cui l’amore è constatato fino al ritorno a Ca¬ tania, poi al convento. A parte l’enfasi, patetica e sentimentale, che produce sempre nello stile una specie di fiato grosso; a parte l’eccesso, veramente idraulico, di lacrime, o siano lì tra pelle e pelle, ovvero sgorghino a rivi come in un raffreddore di testa. Verga è limpido, chiaro, ordinato, sincero perfino. Quella che gli manca è la più vera sincerità di andare alla radice, di affrontare il difficile, il romanzo profondo. Potrem¬ mo immaginarne parecchi, di questi romanzi profondi che.

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sottesi al romanzo superficiale di cui il Verga ci chiama a testimoni, darebbero la necessaria risonanza ai fatti, cui assi¬ stiamo: un’altra forza di propagazione, e perfino dispensereb¬ bero il Verga da tutto l’immaginoso, industrioso, eccitato la¬ vorio al quale deve applicarsi per escogitare fatti capaci di prendere spicco. Per esempio, ci sarebbe il romanzo profondo della pena e delle lacrime. La regola di quel tardo romanticismo a cui il Verga soggiace — un romanticismo ridotto a misura piccolo¬ borghese — si riassume nel noto e banalissimo aforisma: « Piangi, se vuoi far piangere. » Tanto per intenderci, un tardo adepto di questa regola, molto più scaltrito che il nostro giovane Verga, quantunque di statura mentale e morale assai minore, potrebbe essere Edmondo De Amicis: pensiamo, per non dire altro, ai racconti mensili del libro Cuore, a quel loro modo di forzare la lacrima ostentando la lacrima, a quel loro sadismo di volerci tutti quanti in preda ai singhiozzi. Noi parliamo da un mondo mutato, da una prospettiva diversa, e potrebbe parere soperchieria imporre al Verga un compito, una severità e controllo di gusto che non erano dei suoi tempi. Comunque, la regola che a noi piace sarebbe: non piangere, ringoia le tue lacrime, sii preciso e asciutto, se vuoi far piangere. La commozione tut¬ ta sfogata è una forza perduta, che non opera più nel di dentro del libro. Questo, per quanto concerne le possibilità di toccare un pathos profondo. L’altro romanzo profondo poteva essere quello di adom¬ brare il senso effimero di una breve vacanza. Prima che i gior¬ ni di libertà concessi a Maria siano trascorsi, ’qualcosa si mo¬ stra — un senso interno, desolato, ineluttabile — a uccidere la speranza che essi avevano destato: un indizio che quei giorni sono oramai consumati, sebbene non sia ancora scoccata la sca¬ denza. L’orizzonte si chiude: tutto si vela come di un presa¬ gio di morte; anche l’aria libera è già soffoco, anche lo schiu¬ dersi delle labbra a parole di vita fa già sentire la bocca piena di terra. Lo strano è che il Verga possiede tutto il materiale di fatti e di circostanze per dar corpo a quei significati. Ma il materiale rimane sordo, in un allineamento inerte, a cui sol¬ tanto la concitazione esterna della vicenda, quasi il gestire della vicenda, dà un’apparenza di movimento. Non è il muo-

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versi deU’onda nata dall’interno delle acque, è la piccola, cir¬ coscritta increspatura, prodotta rimestando con un remo. Il Verga possedeva anche il materiale inventivo per un altro romanzo in profondità. Ci aveva presentato Maria come inti¬ mamente rinunziataria, come dominata da un senso di con¬ danna ad essere esclusa. Avrebbe potuto tutto quel soffoco, quella prigionia che rinchiudono la protagonista farli nascere proprio come una fabbricazione spontanea e involontaria del¬ l’oscuro, indeprecabile sentimento che la ragazza ha della propria vita. Un suo gesto coatto, quello che costruisce le sbarre entro cui si trova ingabbiata. Il tremore, la volontà di sottrarci che si accompagnano ai nostri gesti coatti sono quelli che danno a tali gesti il massimo di efficienza, di spaventosa perfezione. Poi attribuiamo l’iniziativa a cause esterne, indipendenti dal nostro volere. Sarebbe stato bello, umanamente grandioso veder nascere — come l’esecuzione di una sentenza pronunciata da agenti esterni — le circostanze: Maria orfana e povera, il padre affettuoso e incapace, succubo della seconda moglie ricca, esclusivista, egoista per i propri figli — bello, dico, veder nascere di lì, dal di fuori, tutto quel dramma, del quale avremmo letto tra le righe che Maria è l’autrice incon¬ scia e deliberata. La Capinera avrebbe preannunciato una as¬ serzione che, più di settanta anni dopo, Thomas Mann doveva ricavare da tutta la psicologia e da tutte le riflessioni sull’uomo accumulatesi nell’intervallo di quasi un secolo: che il destino è una proiezione del carattere. Ad ogni modo è importante che il Verga sappia già accumu¬ lare i fatti capaci di figurare sulla soglia di quella che chiame¬ remmo la caverna dei grandi echi. Vorrà dire che ha una capa¬ cità di esperienza e di grandi riconoscimenti del reale, se anche per ora non capisca né l’una né gli altri. Ha già gli organi percettivi dell’artista di genio, quantunque per adesso il genio non lasci nemmeno intravvedere come si rivelerà. L’unica cosa che intravvediamo, per ora, è una specie di lotta, già meritoria, tra l’ovvio di una situazione tutta preve¬ dibile, già tutta votata, senza possibilità di riscatto, agli scio¬ glimenti più banali, più di prammatica e, contro tutto questo, lo sforzo di creare imprevisto, di mettere forti accenti dram¬ matici sui punti singolari che segnano il progredire della vi¬ cenda. La Capinera era arrivata a dichiararsi: io lo amo! e subito, forse per semplice coincidenza o per oscura conseguen-

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za, il suo peccato aveva generato la rinuncia, una prima re¬ clusione o clausura, pur nella libertà della villa e della vita familiare. Il successivo scatto in avanti è la non meno atter¬ rita rivelazione, delizia di peccato, orrore di rapimento e di dolcezza: egli mi ama! La notte stessa di quel ballo, da cui Maria è stata esclusa e si è esclusa. Nino arriva presso la sua finestra aperta. Sta¬ biliamo qualche paradossale equazione. La condizione di Ma¬ ria monacanda è paragonabile, come divieto di amare, a quella di Giulietta. Anche per la fanciulla veronese l’amore di Ro¬ meo è delitto e prevaricazione: l’inimicizia di famiglia tra Montecchi e Capuleti è inesorabile come i voti da cui Maria è oramai legata, come se già li avesse pronunciati. Anche Giu¬ lietta è costretta ai convegni clandestini, nei quali l’ingenuo traboccare della passione è fatto più palpitante dalla coscien¬ za della trasgressione. Gli attimi che segnano il trascorrere della notte bruciano una vacanza nell’impossibile, quel pas¬ seggero smemorarsi nell’illecito, che tuttavia pare così onesto e puro: qualcosa a cui gli amanti hanno diritto. È il dialogo al balcone. Ebbene, sia detto senza irriverenza, è purtroppo vero che il balcone di Giulietta diventa, nella Storia di ima ca¬ pinera, una finestra a pianterreno. Eppure, c’è in questo dialogo una possibilità di poesia. Quasi un fremere d’ali che non riesce a trasformarsi in volo. In un linguaggio ingenuo, impacciato, i due ragazzi si dicono l’amore attraverso cose concrete, che dichiarano il loro senti¬ mento, tacendolo. Che sarebbe, in teoria, in astratto, una delle più belle, espressive impostazioni che si possano dare a un dialogo d’amore. Nino dice a Maria che la matrigna è catti¬ va: importante constatazione; dopo la quale. Maria, che ha trascritto quelle parole nella sua lettera a Marianna, non po¬ trebbe più avere indulgenza per quella donna. Viceversa, ci ricascherà. Il Verga ha bisogno di mantenerla in quello stato di ingenuità apparente, di farle ostentare i buoni sentimenti: e non è ancora scrittore abbastanza forte, da farci sentire che quella è un’ipocrisia necessaria alla Capinera, una commedia che essa deve fare con se medesima. Nino, in questo collo¬ quio, protesta il proprio amore,’’* senza mai scoprirlo e pro¬ nunciando invece le ultime parole della vita ancora intatta, quale potrebbe essere ancora, tutta aperta davanti a Maria. Rende esplicite le cose che Maria non oserebbe mai pronun-

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ciare a se stessa: « Voi siete la vittima della vostra posizione, della cattiveria di vostra matrigna, della debolezza di vostro padre, del destino! » E Maria protesta di no. « Perche dunque siete costretta a farvi monaca? » E Maria protesta che nessuno la costringe. Che è la necessità. « Poi dopo alcuni istanti di silenzio mi domandò, ma la sua voce era rauca: < E rientrere¬ te in convento? > Esitai, ma risposi: < Sì. > Con le sue mani. Maria ha già chiuso la propria tomba. Il divieto d’amore per lei è divenuto paralisi psicologica. Amerà con tutte le sue forze, a patto di essersi reso impossibile l’esaudimento di quel¬ l’amore. Un attimo prima, aveva confessato la pienezza del suo trasporto; Nino l’aveva chiamata per nome: « Mi diceva < Maria!... > capisci? »’* Analizzando, ci sentiamo portati .ad ammirare. Nei singoli tocchi, il Verga ha ragione: è meglio che bravo. Quando veniamo alla sintesi, ci accorgiamo che di quella scena non ci importa quasi niente: che la potremmo anche dimenticare. Eppure, è condotta come le culminanti scene dell’idillio tra la Sant’Agata e Alfio nei Malavoglia-,^ si conclude con la stessa paralisi, lo stesso rinchiudersi della don¬ na in una rinuncia che potrebbe essere scongiurata, che lei stessa potrebbe scongiurare. Perché la Sant’Agata non è più una Giulietta a pianterreno? Perché Giulietta è sul balcone e Maria non lo è? Eorse, dipende dal fatto che le invenzioni con cui il Verga ci fa vivere la durata e i risalti drammatici della Capinera sono prelevate da una specie di aneddotica. Vengono da ciò che il Verga sa, o ricorda, cronachisticamente di questi amori tra ragazzi soffocati da qualche grettezza o incomprensione dell’ambiente. Maria e Nino sono ancora cronaca trascritta, adattata a diventare episodio di una trama narrativa. Sono due tra i tanti, a cui succede di trovarsi tra circostanze come quelle. Veri eroi di romanzo sarebbero inve¬ ce quelli capaci di diventare, nelle medesime condizioni, due che valgono per tutti. Il massimo di individuazione coincide allora col massimo di capacità rappresentativa. L’aneddoto sta al romanzo come la cronaca sta alla storia. Nella storia, il do¬ cumento cronistico è rivissuto nella coscienza dei suoi motivi. Nel romanzo, l’episodio di genere condensa e riassume e ri¬ schiara, senza bisogno di enunciarle in una sentenza esplicita, tutte le analogie di destino che verso di lui affluiscono, tro¬ vano in lui la loro nomenclatura, la loro figura. Ogni vera musica, per cantare in noi, dev’essere qualche cosa di più che HO

ricordata, dev essere ritrovata. Qui, pare che il Verga inventi su una falsariga, copiando un testo fornitogli da qualche suo ricordo. Fa un documentario, quindi è passivo. La sua volontà agisce dal di fuori, è volontà di mettere insieme la narrazione. Non si dica che Maria e Nino sono realistici, nel senso che ci raffigurano in modo estremamente verosimile e fedele quei ragazzi, quel momento storico, quei pregiudizi sociali, quelle superstizioni di costume, quella provincia, quella Sicilia. Tut¬ te queste cose le rappresentano, semmai, a titolo folcloristico o come una citazione diretta. L’opera d’arte realistica si pro¬ duce, quando dimentichiamo la citazione, la testimonianza, il già vissuto, e vediamo prodursi il vivente che risponde alle condizioni di un mondo che basta da solo, con le sue coerenze, a definire tutta intera la propria immagine. I pescatori di Trezza saranno uno di quei mondi: le condizioni storiche, il sostrato lo generano nell’ambito della fantasia, cosi come, nell’ambito della vita, generano certi fatti, certi sentimenti. Il Verga non avrà più bisogno di ricordare, allora, né di rife¬ rirsi agli aneddoti di taccuino: la sua memoria, semmai, sarà il crogiolo, da cui le cose nascono nuove e respirano in un’aria di rivelazione. Sarebbe sempre ancora un imporre le nostre pretese alla vera fisionomia del romanzo, il supporre che a questo nuovo peccato segua, come conseguenza psichica, la malattia di Ma¬ ria. Certo, subito dopo quella notte. Maria ha la febbre. È il primo accenno della malattia, con cui il Verga cerca di arric¬ chire i connotati patetici della Capinera, la macchina costrut¬ tiva del romanzetto, e infine prepararsi la molla da scaricare nel finale. Su questa faccenda della malattia, dovremo tor¬ narci. È uno dei tanti debiti che il Verga contrae col reper¬ torio e con le mode narrative del suo tempo. Ma che la faccia cascare a questo punto, che subito dopo la gran scena del convegno notturno accenda la nuova miccia, appartiene al suo metodo di infittimento degli eventi per produrre accelera¬ zione drammatica. Non bisogna dimenticare, il colloquio not¬ turno è stato troncato dall’improvviso arrivo del padre con Gigi. Una lunga pausa ostile. Prediche delia matrigna, indirette, torturanti; perché quella non lascia capire se sa tutto. Giu¬ ditta non si mostra. Ostilità dell’ambiente. Anche la stagione si chiude, è l’inverno. Carino è fuggito. Ricaduta, più grave.

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della malattia. Il narratore adesso ha questo bandolo, gli serve a dipanare il gomitolo : tempo e stato d animo. Xra le sue bravure, l’apparizione della confidente Marianna, di cui se¬ gnala la presenza fisica, tenendola tuttavia invisibile: perso¬ naggio che una volta sola agisce attivamente, ma senza mo¬ strarsi, allorché precipita in Maria la coscienza di essere inna¬ morata. E stavolta è venuta a visitare l’inferma, ma lei era in istato di incoscienza, non se ne ricorda. Così non vedremo mai Marianna. Il solo punto sensibile di questo pezzo di cro¬ naca è quella specie di alleggerimento, come di coscienza, che Maria prova nel giorno in cui convalescente si affaccia per la prima volta alla porta. È tornato il sole: il benessere fisico della salute che torna, della luce che splende sembra accen¬ nare a una rinascita anche morale. Verga non lo nota espli¬ citamente: ma la malattia è stata come una espiazione. Ma prevalgono poi i meccanismi, le deduzioni immediate del contrasto che il narratore ha sottomano: visite dei Valentini, loro presenza continua, ma tra Nino e Maria oramai è sceso il diaframma, non li lasciano più incontrare. Maria qualche volta ode un passo dietro la finestra, forse è Nino, e forse pensa che, lei lo sfugga. Abilità di certe notazioni: si prepara la cena di Natale, a cui Maria non prenderà parte: « Ho con¬ tato le seggiole disposte intorno alla tavola, erano otto... la mia non c’era più... »’* L’inventiva è più apparente che reale: in fondo, il Verga lavora in economia. Per esempio, in prin¬ cipio, Maria era entusiasta del suo bugigattolo, il famoso scatolino] ora che è in crisi, lo vede oscuro e malinconico. Tra le molte perplessità createci dalla Storia di una capi¬ nera è anche il contrasto tra l’immaginazione eccitata e me¬ diocre, una immaginazione del tutto conformista con moduli della narrativa patetica allora in corso, e certi trasalimenti im¬ provvisi in cui il Verga rompe la convenzione, e d’improv¬ viso nota particolari che difficilmente avrebbero ottenuto il visto d’entrata negli addomesticati romanzi d’allora. Va bene: l’immaginazione, come spesso succede nei giovani, quanto più vogliosa di escogitare lo strano e il singolare, appare stanca e forzata perché non la nutre un’adeguata esperienza, e invece di assimilare la realtà, fa come certi stomaci malati che, per eccesso di secrezioni, digeriscono se stessi. Abbiamo già notati molti meccanismi. Ne potremmo notare altri. Per esempio, a precisare il carattere e la figura di Maria, il Verga — trovan-

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dosi a corto di notazioni che individuino la figura nelle sue differenze specifiche — ricorre al genere prossimo: Maria è sta¬ ta educata in convento, è destinata a farsi suora, ed ecco tutto un repertorio di associazioni mentali, di abitudini, di costumi che sembrano definire il personaggio, dargli una carta di iden¬ tità. Ecco, come Maria si dispera: « Oh! Marianna! prega per questa peccatrice che è più debole del suo peccato; mandami l’abitino della Madonna del Carmine che fu benedetto a Ro¬ ma; »■” ecc. Quanto è più facile far del colore, dell’oleografia psicologica con questi intercalari e modi di dire ricavati dalla condizione esterna di Maria, che non trovare il vero suo grido di desolazione, quello che a lei sola apparterrebbe. Viceversa ci sono i punti in cui il Verga osa, fidandosi più dell’efficacia della verità, a lui direttamente nota, che dei modelli. Per esempio, certi fuochi di sensualità adolescente (durante il dia¬ logo d’amore) ; « Le mani potevano essere umide delle lacrime di lui che vi sentivo cadere sopra a goccia a goccia... anzi quando fui sola e chiusa nella mia cameretta... rimproverami, sgridami, se vuoi... ma io baciai le mie mani ancora umide... » E quest’altro passaggio: « Mi pareva che le anime nostre si parlassero attraverso l’epidermide delle nostre mani. Di recente, scrittori meridionali hanno confessato fuochi del sen¬ so che, a lettori abituati ad espressioni meno accese della sen¬ sualità, sono parsi perfino eccessivi, fantastici. Ma oggi molte cose sono aperte al romanzo. Ai tempi del Verga, sarebbe stato difficile trovare nella narrativa testimonianze così nude, e tut¬ tavia esenti da ogni sospetto di rettorica, perché autentiche nell’accento. C’è un certo modo, nel Verga, di star male dentro gli schemi e i modi del racconto, di esorbitare in altre tona¬ lità, che è tra i suoi indizi più promettenti; anche se, per ora, queste fuoruscite sono goffe, stranamente esasperate, entro la formula della composizione ammodo e perbene, che egli cerca di appropriarsi. La terza parte del romanzetto coi tre temi: reclusione in villa, malattia e deliri, rinfocolarsi dell’amore senza speranza, si conclude virtualmente con la brusca notazione: « Non c’è più colera! Il Verga aveva già sottomano questo risvolto, e la sua crudità, fin da quando all’inizio, aveva messo sulla bocca di Maria l’esclamazione involontariamente cinica: be¬ nedetto il colera! La partita da giocare per il romanziere sa¬ rebbe stata grossa: quel conflitto tra la jattura comune e la

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felicità di Maria. La gioca con troppa violenza; il grande ef¬ fetto drammatico, di annunziare come una catastrofe quello che è invece un sollievo per tutti gli altri, sfiora il ridicolo. Anche per il modo inarticolato con cui la cosa è detta: « Non c’è più colera! » Quanto più efficace, se avesse dato la notizia come cronaca nuda, di interesse generale, senza esclamativi, e ne avesse lasciato scaturire spontaneo il contrasto con la de¬ solazione di Maria. I Valentini partiranno. Qui l’autore ha una situazione che cammina da sola, non c’è che da lasciarla andare. È la separa¬ zione: il racconto fila abbastanza spedito, salvo certi bisogni, ogni tanto, di calcare la mano. Spasimi di Maria: perché Nino non ha trovato modo di farle un cenno di addio? E una nota¬ zione bella, « perché non ha tirato una fucilata in aria? per¬ ché non ha fatto abbaiare il suo cane?... »,“ che dipinge bene, nell’immagine che se ne fa Maria, questo Nino ragazzone; forse è il momento in cui la figura di lui ci appare più viva. Naturalmente, quando l’ansia di Maria è al colmo, qualcuno appare d’improvviso dietro i vetri: è lui. Maria risponde con un colpo di tosse. Siamo agli estremi limiti di questi senti¬ mentalismi: il Verga, forse, qui ci crede ancora, ma la carica¬ tura di questi esseri che si fanno goffamente vittime dei loro ritegni è ormai imminente. Lui depone sul davanzale una certa rosa che lei gli aveva lasciato rubare. Maria la conser¬ verà, vorrà mettersela tra i capelli, quando glieli recideranno. E alla fine suor Filomena, quella che assisterà la Capinera nel¬ l’agonia, ne troverà alcuni petali tra i poveri cimeli che man¬ derà a Marianna. La letteratura ha preceduto il floreale ar¬ chitettonico. Quanti fiori (che non sono più l’asciutta, amara e stregata rosa che Carmen lancia a Don José) faranno parte della decorazione estetizzante e squisita, di cui i romanzieri decadenti circonderanno amori e agonie. Faranno parte, come cimeli, di quelle piccole cose leziosamente tenere, atte a spre¬ mere l’ultima lacrima, come la cuffietta rosa nelle morti delle Mimi pucciniane e loro consorelle. Ma questa, delle agonie e morti di donne consunte, é un’altra storia, che dovremo rac¬ contare più per disteso. Il sole è divenuto orribile. Maria scorge sul suolo molle, sotto la finestra, le ultime orme di Nino. Finché viene anche per la Capinera l’ultimo giorno di Monte Ilice. La dispera¬ zione della protagonista è resa con il solito parallelismo: tri-

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stezza del paesaggio. Si poteva rimandare la partenza, causa il maltempo; ma la solita matrigna non vorrebbe disfare le va¬ ligie « per tutto l’oro del mondo ».*^ Si sa com’erano conge¬ stionate, macchinose le partenze nell’Ottocento: specie le par¬ tenze da e per la villa. A parte la tipica cattiveria della ma¬ trigna, che riesce a togliere a Maria anche la minima gioia di rimanere ancora un po’ in quei luoghi, quel tocco sulla pa¬ drona di casa, importante, un po’ isterica nell’esagerare le sue fatiche, protagonista, imperiosa creatrice di imbarazzi, è un vivacissimo ritratto di scorcio. Poi l’allegria di tutti àll’idea di tornare in città, che aggiunge al dramma di Maria l’umi¬ liazione di accorgersi che quel dramma non conta per nessu¬ no. Addio ai luoghi, alla finestra di Nino. E pare, a leggere queste pagine, che il Verga sia nato con la condanna a un descrivere troppo minuto: eccesso di diligenza, o incapacità di scorcio; mentre la sua grandezza sarà destinata a manife¬ starsi proprio nello scorcio. Ma forse, da quel timore di una intemperante descrittività, nascerà, come per un riscatto, il nervosismo della prosa futura, il tagliar corto, la paura del¬ l’analisi : al punto che il Momigliano potrà rimproverare una brachilogia spinta fino all’oscurità. Siamo all’ultimo movimento del romanzo. Ritorno a Ca¬ tania. All’arrivo in città, sollievo improvviso di Maria: le pare di vedere lui. Nino, in ogni passante. Anche questa nota è giusta: il Verga non perde occasione per accumulare tocchi come questi. E tuttavia si avverte il lavoro applicato, metodi¬ co, paziente di vestire la trama con tutti questi particolari: non è uno sgorgare nativo, è una ricerca ingegnosa che diventa fortunata tutte le volte che la piega del racconto coincide con un dato di esperienza più generale, che il Verga può possedere in proprio, senza bisogno di farlo nascere dall’interno del per¬ sonaggio: qui, per esempio, questa folle speranza di tutti gli innamorati, quando vanno nel paese o nei paraggi dove vive la persona amata. Come Maria precipiti verso la fine, consumata dalla clau¬ sura, dalla malattia e dall’amore è prevedibile: non conta di riferirlo. Il Verga aveva ormai i pezzi forti da eseguire: per esempio, quello dei voti, la bara, la coltre funebre, la recisione dei capelli. Ricordi e suggestioni letterarie; per esempio, i de¬ liri dtW’Ildegonda del Grossi e la segreta da riprodurre nella cella delle pazze, informazioni personali attinte da dorme di

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casa che avevano praticato i conventi forse gli avranno permes¬ so, per questa parte del romanzo, le scene più efficaci. Non possiamo negare che siano di qualche effetto nell ambito della letteratura melodrammatica e che il Verga, quantunque miri al sensazionale, riesce a difendere un certo decoro e decenza. Ma l’impressione di insieme è che proprio qui, dove aveva appuntamento col dramma, con le riuscite sicure, con gli epi¬ sodi che forse per primi lo avevano tentato a scrivere il ro¬ manzo, gli cada quell’ispirazione intima e segreta, quell’inte¬ resse vitale di cui meglio analizzeremo le radici, e che forse avrebbe potuto fare esclamare anche a lui, come al Flaubert per Madame Bovary: « la Capinera sono io! » Succede spesso che gli artisti, al momento di affrontare le situazioni in cui più speravano, le trovino già scontate. Forse esse si sono logorate in quel momento di fiducia che precede la creazione. Parevano così intense, che non è sembrato ne¬ cessario viverle a fondo: erano scene che davano, al presen¬ tarle, una tale accensione, che verosimilmente, al momento buono, si sarebbero fatte da sé, folte di particolari e di vita. Invece la vitalità del libro si è consumata prima di arrivare a quei traguardi. Può darsi che fosse un’astuzia dell’ispirazione il far luccicare quelle scene, per attrarre l’artista ad altri risul tati, in cui un’ispirazione meno palese e più autentica tendeva ad esprimersi. Fatto sta che il Verga, a questo punto, diventa l’amanuense, quanto si voglia sorvegliato e attento, di quegli episodi culminanti. Ormai è la logica del dramma che va da sé, su un suo filo arido : e adesso, a volgerci indietro, ci accor¬ giamo che il Verga era stato più poeta quando disponeva le premesse di quel dramma. Che l’interesse sia scaduto, lo dimostrano i due o tre epi¬ sodi che soli rileveremo. Nei quali si vede come l’autore, non più persuaso o commosso dalla situazione, tenti di aggiun¬ gere qualcosa di forte. E naturalmente, va a cercarlo in altret¬ tante forzature. Che Giuditta, la quale aveva già per sé la felicità della libera vita di donna, dovesse addirittura andare sposa a Nino era previsto fin dall’inizio: e spiegava molte delle cattiverie della matrigna la quale, in fondo, difendeva dalle insidie dell’innocente Maria un buon partito per la propria Hglia. Ma quella visita prima delle nozze in pompa magna attraverso la grata (« Lo vidi allontanarsi... Egli era al fianco di Giuditta: sulla soglia le diede il braccio... »), quel

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mandarle i rinfreschi della festa di nozze (« Non si rammen¬ tano che sono malata e che mi farebbero male? »),«^ quel Nino che ha tutto dimenticato con tanta disinvoltura, senza una spiegazione nemmeno per noi lettori, tutte queste sono vere indelicatezze dell’autore, che non esita davanti a nulla, pur di assestarci grossi colpi. Se in principio era Maria a non capire niente, a fare, per decreto del Verga, la parte dell’ingenua, adesso sono i parenti, e sempre per decreto del Verga, a fare la parte di chi non capisce, a inventarne d’ogni colore per ferire la povera Capinera. Insomma, vien voglia di concludere che i momenti di massima esulcerazione, in questa storia, sia¬ no tutti ottenuti a patto che ci sia qualcuno, o da una ^arte o dall’altra, che non capisce. Altra forzatura: per una di quelle combinazioni dove l’ar¬ bitrio dello sceneggiatore non tenta neppure di salvare le ap¬ parenze, Giuditta e Nino prendono casa di fronte al convento. Dal belvedere delle monache si guarda nella loro camera di sposi. E Maria vi sale di notte, premendosi il cuore perché non se ne senta il battito. Mezz’ora le costa il tragitto fino alla terrazza. Si mette a spiare. « Tu non puoi sapere, » scrive a Marianna, « quello che ci sia di ebbrezza, di rabbiosa voluttà nell’imporsi un’atroce tortura... io ho visto quell’uomo ab¬ bracciare quella donna... quell’uomo. Nino! lei, mia sorella! li ho visti sedersi accanto, parlarsi tenendosi per le mani, sor¬ ridersi, rubarsi i baci a vicenda... i miei occhi asciutti si dila¬ tavano; il mio cuore non batteva più; c’era un profumo di Satana in me... »“ Maria ha perso ogni carità. Aveva detto poco prima: « Vorrei che tutti quelli che amo soffrissero. Per cominciare, ha perduto quella prima carità che è verso se stessi. E questo è umanamente possibile. Ma la scena è otte¬ nuta con tale artificio ed eccesso di immaginazione, è sfrut¬ tata con un calcolo cosi scoperto dell’azione quasi traumatica che deve produrre sul lettore, che viene da domandarsi se quel tanto di vero che essa può contenere non sia subordi¬ nato al desiderio di colmare, a qualunque costo, una lacuna del tessuto narrativo in pericolo di illanguidirsi. C’è un gusto morale che collima col gusto estetico. Prevaricare a quel gusto è possibile solo col sublime, a cui arrivano per esempio un Dante (quello di Ugolino) o uno Shakespeare (quello del Lear o del Macbeth o dei drammi sulla storia d’Inghilterra). Altrimenti, si cade nell’intemperanza. Ed è il caso, qui, di 147

Verga che trasforma una situazione da romanzo libertino in una scena a schiaffo. Ultima forzatura, preparata più di lunga mano: quella della cella delle pazze, prima accennata con orrore, poi circon¬ data di superstizione (si dice nel convento che non debba ri¬ manere mai vuota), poi inflitta a Maria. E, con un ultima ag¬ giunta romantica ci vien detto che la pazza suor Agnese, di¬ scinta, scarmigliata, specie di bestia umana, è la sola ad aver compassione di Maria durante l’ultimo delirio. Il mostro che si impietosisce: l’inversione tipica che fa produrre a una figura il rovescio di quello che ci si aspetta da lei. Chi è la Capinera? Una rinunciataria per vocazione: una ragazza che è tentata dalla vita, solo se ha dietro di sé il rifugio del con¬ vento. Ha bisogno del convento. E viceversa è proprio que¬ sto rifugio a esasperare in lei la passione e la rivolta. Alla fine, capisce di essersi chiusa con le proprie mani: vorrebbe scappare, farebbe la bambinaia ai figli di Giuditta pur di uscire dalla clausura, arriva a dirsi che non sapeva quello che faceva quando ha varcato la soglia del monastero per cominciare il noviziato. È vittima della sua contraddittorie¬ tà, sebbene ci sia rappresentata come un’anima semplice e naturale, travolta in una vicenda lineare. Il suo vero dramma culminerebbe nel punto in cui capisce di non essere chiara con se stessa, di non poterlo essere, perché non crede abba¬ stanza in sé, è stata timida di fronte al proprio amore, non se ne è fidata abbastanza per poter osare la rivolta. Ma la con¬ traddizione non è in lei. È nel suo autore, che si è contentato della piccola emotività della storia, senza abbastanza amare il suo personaggio per approfondirlo, o d’altra parte abbando¬ nandosi a quel personaggio, che rispecchiava certe sue oscure contraddizioni. Colla Capinera ha dato una confessione, in ci¬ fra e sotto il velame, di quelle sue intime antitesi, piuttosto che affrontarle e guarirsene, espiandole attraverso la tragica chiarezza del personaggio. Quella confessione è il lievito ispiratore del romanzo. Vale la pena di esaminare la Storia di una capinera sotto questa luce, perché ci avvicinerà a capire le riuscite e i fallimenti del Verga.®’ In tutta l’analisi della Capinera — ed essa vale anche come saggio delle analisi che si potrebbero fare dei successivi romanzi mondani — abbiamo constatato l’equivoco tra concitazione e intensità. Concitato per illudersi di essere

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intenso. André Gide ** sostiene che il segno dell’autenticità di un artista è da cercarsi nello sgorgo autonomo — artesiano, egli dice — e che l’intelligenza, lo spirito critico, l’arte (meglio, forse, in questo caso, la cultura) non funzionano che come fre¬ no, elemento moderatore. Ma c’è sgorgo e sgorgo: ci può es¬ sere un riversarsi, un tumultuare del getto, che simula lo sgor¬ go (fa schiuma col bicarbonato) e trae le sue apparenze di fervore, di pienezza da un bisogno di dimostrare a se stesso di essere artesiano. Una tra le difficoltà critiche del Verga gio¬ vane è data proprio da quell’abbondanza, da quell’eloquenza che, artisticamente false, pure attestano la sincerità di un tem¬ peramento. Come risolvere questo dilemma tra falsità lette¬ raria e umana sincerità? Sarebbe facile se ci trovassimo di fronte a uno scrittore autobiografico, di confessioni. Allora potremmo ritenere che la falsità artistica, il suo sonar male, siano come l’effetto di una valvola di scarico mal fabbricata, la quale gorgoglia, rompe in singulti, brontola, stronfia, emette strani borborigmi, al passare del fiotto sincero, e sinceramente rampollato dal bisogno di sfogo. Cuor che prorompe o si con¬ sola, animo che si disacerba — se cercano solo il loro torna¬ conto — non badano a scrupoli. E questi scrupoli sarebbero, nella fattispecie, la sorveglianza della forma, il desiderio di riu¬ scire oggettivi. Sovrabbondanza ed enfasi — queste falsità — sarebbero per lo scrittore di confessioni il grafico stesso della sua sincerità. Non si può chiedere alla lancetta di un sismo¬ grafo di tracciare un bel disegno, mentre sta fedelmente re¬ gistrando un terremoto. Senza dire che quelle falsità potreb¬ bero anche essere un autentico modo di confessare un tempe¬ ramento; il quale, bisognoso di esprimersi, e non nato per farlo, si riversa in quel modo elementare delle confessioni, che è l’infanzia dell’arte : un’infanzia, nel più dei casi, proclive a girar male. (Tra parentesi, infanzia dell’arte è una contradictio in adiecto: perché l’arte parla e l’infanzia balbetta.) La scrittura-confessione appare propizia a quei tentativi di dise¬ redati dell’arte: proprio perché la buona fede offre una anti¬ cipata scusante, un margine di sicurezza, al prevedibile scacco sul piano dell’arte. Finalmente, e più in generale: le scritture autobiografiche, di cui parliamo, sono asservite alla necessità di confessarsi, sia pure in tutta sincerità: e ogni scrittura nata « al servizio di » è infimamente falsa, propriamente malnata. (La distinzione che ci sta a cuore è tra scrittura asservita e

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scrittura impegnata, la quale ultima ha come condizione che il tema sia divenuto motivo, e come connotato evidente la sin¬ cerità artistica.) Si intende che non abbiamo pensato ai grandi scrittori di confessioni — un Agostino, un Rousseau per i quali è impossibile l’obiezione di insincerità artistica, nia ai compilatori di brutti zibaldoni autobiografico-sentimentali, gli annotatori a ruota libera dei propri resoconti vittimistici, or¬ gogliosi e fallimentari, delle proprie disdette, vanità e rancori. Per esempio: l’altezzo.^ e insolente autobiografia (Les pas effacés) di Robert de Montesquiou, l’ex protettore e poi nemi¬ co di Proust. (Maurice Sachs nel Sabbaf” si appassiona invece all’immoralismo del personaggio, che vien fuori dalla sua vita: ed è artista.) Con Verga la faccenda si complica, perché l’accavallamento è più grande. La confessione in lui è sempre indiretta: passa attraverso personaggi di racconto e romanzo, i quali rivendi¬ cano la loro autonomia, e perciò si rifiutano di soggiacere alla posizione di semplici portavoce. Viceversa, nei primi lavori del Verga, la scrittura è asservita, come nelle confessioni di¬ rette: anch’essa risulta tutta vera, o quasi, se la mettiamo a paragone di una sincerità biografica, sentimentale, documen¬ taria; tutta bugiarda, o quasi, se la esponiamo a quel superiore confronto, che è il suonar giusto. Asservita a che cosa? Al bisogno, del resto abbastanza confessato, evidente per lo meno tra pelle e pelle, che il Verga ha di procurarsi la laurea di ro¬ manziere. E il problema ancor più si ingarbuglia, perché nel falso sgorgo facinoroso si mescola qualche piccola e profonda vena artesiana. I sintomi di queste scaturigini autentiche li dovremmo identificare proprio sulla risonanza e, direi, maggior purezza, timbro più vero, meno urtante, della parola e della frase. L’autenticità stilistica è, per noi, l’equivalente di un esame grafologico. Ci ricordiamo che uno dei primi tratti con cui è individuata Maria è proprio la tonaca, questo lembo di convento, questo memento, rimastole addosso durante la vacanza. Il romanzo borghese, partito con l’impresa di fare concorrenza allo stato civile, era un po’ tenuto a quell’estrema precisazione del perso¬ naggio, che consiste anche nel dirci come è vestito. Prima del romanzo borghese, il vestito era un po’ come la maschera tra¬ gica e comica del teatro classico: definiva la « posizione » del

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personaggio nella vicenda; potente o pezzente. Era fastosa decorazione o contrassegno di miserie: definiva più il genere che la specie del personaggio. Il caso di Don Chisciotte, del cjuale è descritta la minuziosa toeletta di « caballero andante » è un eccezione: l’elmo fatto col bacile da barbiere e tutti gli altri particolari fanno parte di una truccatura, non sono un vestito, sono, per Don Chisciotte, una maniera di recitare con enfasi eroicomica e patetica un brano di quei romanzi di ca¬ valleria, che gli hanno prosciugato il cervello « por mas leir ». Insomma, nel romanzo classico, il personaggio potrebbe, al li¬ mite, agire nudo, come potrebbe vivere in un paesaggio non specificamente descritto: una specie di scena astratta e spoglia, il deserto della ribalta, come nelle commedie del Molière. Il vestito, come il paesaggio, non è ancora uno stato d’animo : lo diventerà col romanticismo. E il Carlyle scriverà tutto un li¬ bro, il Sartor resartus,^' che sarà una specie di classificazione psicologica, in base al vestire. Nel Verga, abbiamo visto l’abito in funzione di costume e di enfasi e di maschera, per esempio, quando ci descriveva la penna-ciuffo dei capi-carbonari. Qui, nella Capinera, c’è qualche accenno agli eleganti vestiti di Giuditta, segni di vita felice. Non è ancora sistematico, il ve¬ stito-carattere, il vestito-stato d’animo. Ma per Maria si può dire che l’abito fa la monacanda. S’intende che questa tonaca potrebbe non essere un’inven¬ zione del poeta, ma appartenere semplicemente a quella serie di corollari, di conseguenze deduttive, che nascono dal contra¬ sto tra la posizione del personaggio e l’ambiente, e sono da attribuirsi piuttosto alla sagacia che alla fantasia del Verga. Tema: novizia all’aria libera: e l’autore tira le conseguenze, fa un diligente svolgimento. Succede però che le conseguenze siano, in questo caso, poetiche; vuol già dire che la posizione del personaggio è liricamente sentita. Anche fuor della pagina, a ripensarla, rivivendo per conto nostro il romanzo, ci par già commovente e, meglio che pittoresco, superiormente pittori¬ co il contrasto tra quella macchia nera della tonaca e l’esu¬ beranza colorata, festosa, scintillante del paesaggio. Il contra¬ sto si arricchisce, si fa teneramente spiritoso, rasenta il comico per riscattarlo in una gentilezza umoresca ed affettuosissima, quando vediamo quella tonaca scura e pesante sprigionarsi in un eccesso di movimento e fare il diavolo a quattro: e Maria saltar le siepi, dare al vento un saio greve, forse un po’

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goffo, da secoli disegnato per muoversi lento, dignitoso, guar¬ dingo fino alla sospettosità, tra i corridoi scuri di un mona¬ stero, tra il canto delle vergini e i supplicati altari. Gide, in una lettera a Guilloux, parla della vita « comica in quanto spettacolo, tragica in quanto realtà ».*■ Sostituiamo a « tragico » la parola « struggente » : avremo l’effetto che ci fa la tonaca di Maria in quell’agitarsi felice e innocentemente sbarazzino. La tonaca è per Maria, in principio, la « brutta tonaca » : le rammenta che dovrà tornare, finiti il colera e le vacanze, a Catania, in convento. E allora le viene un pensiero peccami¬ noso: « Se mi facessero una bella vestina color caffè!... senza crinolina, veh! Oh! Questo poi no!... Ma una vestina che non fosse nera! con la quale potessi correre e scavalcare i muric¬ cioli... Chiede l’uniforme della vita libera, quella che le permetta di amalgamarsi in tutto il suo empito vitale, col suo nuovo ambiente. Ma la chiede con timidezza: sa condizio¬ nata la propria libertà, non oserebbe fare mai il taglio, consu¬ mare un coraggioso divorzio dalla vita a cui si sa destinata. Non osa pensare a un vestito vivace da ragazza libera: cerca un compromesso tra il suo nativo bisogno di espandersi, la sua voglia di evasione e il compito di vita che su di lei incombe, oramai inderogabile, divenuto quasi una seconda natura. Dun¬ que, un vestitino color caffè : ed è tra gli accenti di più intima verità del romanzo. Quando Giovanni Verga giunse a Firenze quasi subito (il 12 maggio 1869: e da Catania era partito il 25 di aprile) scri¬ veva alla madre: 1) « Ieri mi sono fatto prendere la misura per un vestito da Del Lungo... Avevo preciso bisogno almeno di un vestito, perché quelli che mi portai d’està non sono da mettere ed anche i calzoni a righe bianche e turchine e l’abito a due petti, che sto usando al presente, devo farli riformare da un sarto buonissimo e di economia, per accomodare... per¬ ché il loro taglio non è più confacente per quello che qui si usa. Vi confesso ora che ho evitato di presentarmi ad alcuno dei miei raccomandati (sic) perché qui giuntomi mi sono convinto che la mia toletta non era presentabile... Lui riesce a farselo il vestito accomodato: il vestitino color caffè, per muoversi liberamente, per non sfigurare in quel mondo aperto, che era riuscito a raggiungere, scongiurando la con¬ danna di morire sepolto vivo nella provincia e nell’isola, a cui

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la sua nascita, le sue condizioni di famiglia parevano averlo condannato. Se si fosse presentato a quelli che egli chiama i suoi « raccomandati », cioè ai suoi protettori, con la giacca a doppio petto e i calzoni a righine bianche e blu si sarebbe sentito come la Capinera nella gita in campagna o come Ma¬ ria che, nella serata in cui si fa musica in villa, non sa cantare se non il Salve Regina^ Se stabiliamo un rapporto, plausibilissimo, tra isola per uno chiamato a larghe fortune letterarie (successo, per ora, si badi, e non ancora più alta ambizione all’assoluto della poesia) e convento, per una chiamata alla piena espansione della sua vita di donna, si capirà l’identificazione sottile, profonda, dif¬ ficile a dimostrarsi, impossibile a disconoscersi, tra Verga e la Capinera. Una delle ragioni di autenticità del romanzo. Ma, su questa linea spericolata, possiamo spingerci anche più in là. Abbiamo visto che, a un certo punto. Maria escla¬ ma: « Benedetta la tonaca! Le permette di saltare i rovi, a differenza degli impacciosi, civili, borghesi vestiti di Giu¬ ditta e di Annetta. E Nino ha anche detto a Maria: « Come vi sta bene cotesta tonaca! » Se ci riportiamo all’identifica¬ zione segreta tra Verga e Maria, par quasi che il bisogno di conformismo con l’ambiente nuovo, quello che è parso e pare il mondo della libera espansione, si riscatti, a intervalli, nella coscienza che l’ambiente nativo — il convento, l’isola — dia una spregiudicatezza nel muoversi, e qualcosa di più vero, di più originale, un sapore proprio che andrebbe perduto, ad essere come tutti gli altri. È come se, per riuscire, occorra buttarsi fuori, confondersi; mentre per fare qualche cosa di vero occorra rimanere se stes¬ si, coi propri limiti, che sono più vere libertà, con la propria condanna, che offre in compenso un più originale modo di essere. Osserviamo ancora Maria. C’è per lei, rispetto al con¬ vento, un nec tecum, nec sine te. Maria è scissa da un doppio bisogno: il mondo di tutti, l’aria aperta, dove essere fanciulla felice, ragazza innamorata, donna e madre con i suoi interi diritti di vita; e, per contro, la protezione del chiuso: lo scatolino, la piccola casa-nido del castaido, magari una prigione senza sbarre, ma qualcosa, co¬ munque, che la difenda da quell’avventura del mondo, cui essa agogna, con un batticuore simile alla paura e alle verti¬ gini. « Mi pare, » dice Maria, parlando della capanna del

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castaido, « che tutte queste affezioni, circoscritte fra quelle strette pareti, debbano essere più intime, più complete, che il cuore commosso e quasi sbalordito dal cotidiano spettacolo di codesto orizzonte ch’è grande, debba trovare un gaudio, un conforto nel ripiegarsi in se stesso, nel circoscriversi in un pic¬ colo spazio. »’* È paura dello spazio: sono sintomi di vera agorafobia, e non solo morale. Prova un senso di dolcezza, di rifugio alla sera, « quando il babbo chiude le porte » della casa: ma il significato di questa dolcezza è ancora molteplice. Maria paragona quella porta di casa ai cancelli del convento, quelle porte la difendono dal riversarsi nella vita, affasci¬ nante e pauroso, ma insieme anche la tutelano contro il po¬ tere del convento, le danno asilo. Più netta 1 idea del con¬ vento, come luogo di sicurezza, quando il mondo le chiede un coraggio superiore alle sue forze, il coraggio di ciò che le hanno insegnato essere peccaminoso : e, per esempio, allorché Nino cerca di toglierla dal suo guscio di paura, e le domanda. « perché ci fuggite?... perché mi fuggite? » lei pensa con no¬ stalgia al monastero « nel silenzio di quei corridoi » di estin¬ guere « il soffio tempestoso che viene dal mondo »Più ti¬ pico, il momento in cui il dramma si è già consumato, e la tentata evasione ormai è fallita: e Maria rientra in convento, avviata senza più scampo a pronunciare i voti. Tutto è per¬ duto: la speranza non ha saputo diventare coraggio, come per una infermità costituzionale: Maria ha confermato a se stessa la propria intrinseca menomazione, quella che le aveva fatto dire: « Io sono meno di una donna, io sono una povera mo¬ naca. »'®' E finalmente là, reclusa, mentre il mondo d’intorno non arriva più che come un’immagine pallida, e le sue voci come una morta risacca. Maria confessa a Marianna: « Tu avresti potuto credere che io sia triste, infelice, mentre qui, ai piedi degli altari, nelle pratiche austere del nostro rito ho trovato, se non la pace, almeno la calma del cuore. »*“ Maria,'®^ insomma, non è né tutta di qua né tutta di là da quei muri. Il suo « caso », se lo volessimo risolvere in un lin¬ guaggio sbrigativo da psichiatri, è un conflitto, un’ambivalenza di agorafobia e di claustrofobia. All’aperto, non regge; al chiuso, morrà. E dell’una e dell’altra impotenza si accusa come di una colpa: vivere e amare è la massima colpa, quella che prende addirittura il nome religioso di peccato; non sapersi adattare alla sua sorte è una specie di incapacità morale : « La

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colpa è mia, » scrive nel giorno delle nozze di Giuditta, allor¬ ché si sente offesa dall’invio dei confetti,) « che sono una povera donnicciola infermicela e uggiosa. Una terza colpa si ag¬ giunge: l’inquietudine della propria ambivalenza; quel non sapersi accettare, non saper prendere partito della propria infelicità, cioè infine non saper vivere eroicamente la propria rinuncia. Questa terza colpa. Maria non arriva a denunciar¬ sela — ed è ciò che rimpiccolisce il suo personaggio — la pos¬ siamo però scoprire noi, vedendone gli effetti. Maria si punisce ammalandosi e morendo. Ma questa è proprio la situazione di Giovanni Verga, par¬ tito a fare fortuna fuori dell’isola. Occorre dichiarare che qui stiamo parlando per letteratura, e non per biografia. Noi quella situazione la possiamo leggere tutta sui tentativi arti¬ stici del Verga, in questi suoi primi anni continentali: sarem¬ mo in grado di autenticarla, anche se della sua riservatissima autobiografia sapessimo ancora meno del pochissimo che sap¬ piamo. Anche se non avessimo sott’occhio quei frammenti di lettere alla madre, di cui il succo è suppergiù: datemi credito, sono venuto a Firenze per conquistarmi il successo nel vasto mondo, è stato un grosso colpo — la sua Capinera lo chiame¬ rebbe: un peccataccio — ma ho buoni indizi che riuscirò, me ne ha dato anche assicurazione Francesco Dall’Ongaro. Un poco di rimorso c’è, misto alla fiducia e alla speranza. Questo, aggravato, divenuto più vistoso, nel linguaggio e nella Storia di una capinera, si traduce nell’esultante orrore dell’e¬ sclamazione: io lo amo! lui mi ama! E viceversa il Verga, durante il suo agitarsi fiorentino, è preso dalla nostalgia della Sicilia, ce lo dice il De Roberto;'^ e mentre moltiplica estro, industria e diligenza per conquistarsi un posto nel teatro, sulle ribalte luminose, improvviso si interrompe, scrive un libro di fedeltà siciliana: la Capinera. Quello che avevamo visto nell’arco narrativo su cui poggia il romanzo la Peccatrice, si ripete qui nell’arco dell’ispirazione verghiana: tentativo di sfuggire verso lo splendore e la felicità della vita, verso l’affermazione di una personalità dotata per i campi di lotta più aperti, ricaduta in una rinuncia soffocante come una clausura subita senza vocazione, imposta da una specie di condanna iscritta nell’individuo. Nella Capinera si disegna come l’antitesi tra libertà e chiostro: tentazione di libertà, a cui non è consentito di scegliere la libertà. Nei ro-

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manzi successivi; Èva, Tigre reale. Eros ridiventerà, come era stata già nella Peccatrice — vera vicenda-presagio — piu espli¬ cita; antitesi tra il gran mondo con tutte le sue possibilità e promesse e, viceversa, l’ineluttabile ritorno nell’isola. Gli eroi di quei tre romanzi, dopo aver corso infaustamente le loro av¬ venture di amori adorni e squisiti di ambienti raffinati e ric¬ chi, dopo di aver tentato di mettersi alla pari con quanto di più lusinghevole potesse offrire la civiltà intellettuale e senti¬ mentale di un’Europa sempre ancora guardata attraverso un binocolo di provincia, riapprodano in Sicilia, per finirvi, morti o sconfitti. Questa la loro vera tragedia; e per questo ci sembra generico il motivo di unità stabilito dal Croce e suoi epigoni, allorché stabiliscono che tutti gli eroi verghiani, da questi primi fino a quelli dei romanzi maturi, sono dei « vinti ». Questi primi sono vinti, perché tentano di affermarsi fuori del loro mondo, gli altri cadranno vinti nel loro stesso mondo. Sono due cose estremamente diverse; i primi hanno cercato un paragone esterno, con un certo mondo convenzio¬ nale e tutto di fabbricazione umanà, al quale a priori non potranno reggere; gli altri affrontano il paragone con qualche cosa di sacro e di oscuro ; la Vita con 1 iniziale maiuscola, e i suoi decreti — specie nel caso dei Malavoglia — che non sono davvero scritti sui galatei, o sulle cronache del beimondo, o sui romanzi alla moda, dove quelle cronache erano trascritte in modo più o meno scalmanato e con una complicità più o meno credula. Quelli che il Verga chiamerà seriamente i suoi Vinti sono un’obiezione tragica della Vita, che ci fa nascere senza un pieno diritto di esistere, e in minima parte ci appaio¬ no colpevoli del disastro. Questi, dei primi romanzi, sono nettamente colpevoli di un errore di contegno; e, in fondo, di avere scambiato una loro- ambizione per un diritto o una vocazione. Il Verga stesso si sbaglierà quando, nella prefazio¬ ne ai Vinti, sembra un po’ accusare i suoi veri e grandi per¬ sonaggi di una certa cupidigia economica e voglia di salire al di sopra della loro condizione. Non è nemmeno esatto per Mastro don Gesualdo. Qui, nell’ambivalenza della Capinera, che è insieme apo¬ logia della passione e fatalità della rinuncia, troviamo proprio la radice segreta, da cui usciranno, quasi coatte, inevitabili, le trame dei prossimi romanzi. Cioè troviamo, allo stato puro, più vera della favola in cui si incarna, la conformazione senti-

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mentale del Verga: una esuberanza del sentimento, vogliosa di riversarsi, abbastanza inebriata del proprio fuoco e insieme una paura, una diffidenza circa il valore delle conquiste, delle conferme che otterrà mediante quell’esuberanza. Paura che si spinge fino a dipingergli malsane, peccaminose quelle con¬ quiste. Abbastanza fuoco e ricchezza di temperamento per slan¬ ciarsi verso ciò che gli appare piacente, appagante, vero pregio della vita; una fortissima inibizione che lo obbliga a ritrarsi. Insistiamo : di questo fatto troviamo la conferma su tutti i regi¬ stri. Su quello biografico, se vogliamo approfittarne: e il Verga va a Firenze, parte verso la gran conquista, ma subito torna idealmente in Sicilia con la sua Capinera. Su quello letterario: e i disegni dei suoi libri sono altrettante spedizioni verso la medesima conquista idoleggiata nella donna di lusso, nell’a¬ more, nell’esistenza ad alto livello di comodità e di piacevo¬ lezza, e poi seguita da una ritirata verso l’isola e l’annichilamento, verso una sepoltura da vivi o da morti. Conferma an¬ che sul piano dello stile: partito dalle grandi enfasi esclama¬ tive, dalle esuberanze perfino maldestre, il Verga si ritirerà verso una castità quasi impaurita da ogni tentazione o pericolo di eccesso, a una potenza ottenuta quasi con la diffidenza, al minimo di parole necessario per abolire il silenzio, ma già sulla soglia — e questo le fa così emotive — di una rasse¬ gnazione al silenzio. Partito dalla velleità di adeguare con una lingua nazionale, magari fiorentineggiante, il linguaggio del romanzo nazionale, si rifugerà nell’isola, plasmerà la sua scrit¬ tura sui modi siciliani: inflessioni e proverbi. La Capinera rispecchia — direi perfino: esprime — dop¬ piamente questa disposizione fondamentale del Verga. In pri¬ mo luogo per il come e il quando della sua nascita, che indi¬ cano il sollevarsi interiore, l’anelito emotivo, la premessa di poesia, cioè quel lievitare fiducioso di forza creativa che chia¬ miamo ispirazione — e tutto questo per un rifugiarsi in Si¬ cilia nel tempo dell’evasione: insomma quasi un’evasione a rovescio. In secondo luogo: per la sua favola, che racconta l’impossibilità dell’evasione, anche se sia l’unica speranza di vita. La dolcezza di un ritorno commuove l’artista, gli pro¬ mette musica, lena di scrivere, in concordia con le cose che dipingerà; la spietata certezza che quel ritorno significa falli¬ mento e fine, assicura le ombre capaci di rendere tragico quell’idillio. Questi i punti di identificazione del Verga col

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suo personaggio. Queste le vene artesiane che mescolano la loro sincerità al rampollare di un racconto così gremito, in definitiva, di note false. Un’altra di quelle vene artesiane può trovarsi nell’occasione che crea e permea il momento idillico della Capinera. Pur¬ troppo, ad enunziarla rasenta il cinico e il grottesco. Ma è im¬ possibile non vedere che Maria è felice, che tutto ride intorno a lei, che l’amore le si rivela durante — o, per essere più cru¬ damente esatti — in funzione della epidemia colerica. Abbia¬ mo già notato che il Verga stesso è costretto a capitolare in un rozzo e sgraziato cinismo, quando deve — e non può a me¬ no di farlo — fissare i termini della grande, e subito per¬ duta, stagione di Maria. « Benedetto colera! » le fa dire in principio, e poi alla fine « Non c’è più colerai «r*'® con una crudezza incapace di modularsi e di trovarvi forme indirette e più cristiane. Le stonature, queste gaffes nell’esprimersi, di¬ pendono da un eccesso di sincerità che dall’autore si trasmette immediatamente alla protagonista. Il Verga sente in quel pe¬ riodo eccezionale, in quel periodo di emergenza quasi un’in¬ frazione alle leggi che rendono monotona la vita; quasi i giorni dei saturnali in cui comandano finalmente gli schiavi di tutti i pregiudizi e divieti quotidiani. È comune nei ragazzi una specie di felicità eccitata, durante i cataclismi, che li pro¬ sciolgono momentaneamente dalla disciplina. Sappiamo che le epidemie coleriche del 1854-55 costrin¬ sero i Verga a rifugiarsi a Vizzini, poi a Tebidi. Era stato un esodo di famiglie agiate: lontano dal pericolo, ma tenuti irrequieti dalla minaccia, dovevano sentirsi particolarmente vivi. Il bisogno di passare le giornate poteva invogliarli agli svaghi: così si creava forse un’atmosfera di villeggiatura. Del resto, il Decamerone — ci dice il Boccaccio — nasce proprio come passatempo d’un periodo di pestilenza. È una legge psi¬ cologica molto precisa, quella per cui cerchiamo di darci prova di vitalità gioiosa durante le ore in cui subiamo, passivamen¬ te, senza possibilità di farci nulla, la minaccia di un pericolo da cui possiamo essere risparmiati. Durante quel periodo, il ragazzo Verga conobbe ed amò — riamato in un ideale idillio di adolescenza — una educanda quindicenne, che portava il costume delle educande della badia di S. Sebastiano e che, finita l’epidemia, tornò in convento. Questi i fatti. Ci sono stagioni della vita, in cui si riassume

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per noi la figura della felicità intatta, senza mescolanza di nu¬ bi. Nell’animo di un artista possono rimanere come il colore puro della felicità, quello in cui immergerà il suo pennello ogni volta che vuol dipingerci un tempo felice. Le situazioni favorevoli, benevole, per dare il loro più vero suono devono imprestarsi a quei luoghi, a quei tempi le circostanze, gli aspetti, perfino l’occasione. Nei musicisti, per esempio, dove il problema dei rapporti con le circostanze biografiche è più difficile, perché una melodia non somiglia mai a un avve¬ nimento cronistico, pure troviamo certi tipi melodici, certi schemi designativi, che si ripetono ogni qual volta si tratti di esprimere certe modalità, per esempio, di gioia. E in un poeta come il D’Annunzio si vede chiaro che la grande situa¬ zione, rimasta in lui come il modulo stesso della gioia, è un periodo di vacanze adolescenti sulla riva del mare, col sole, i tuffi, l’euforia di dibattersi tra le onde « come un bianco cefalo ».‘®^ Si potrebbero addirittura tracciare le tappe della maggior poesia dannunziana come un riprodursi di questa si¬ tuazione: Canto Novo, Alcyone. Poi l’ultima stagione come l’autunno di quelle meravigliose estati: Licenza, Notturno, Libro segreto. Per il Verga, comunque, l’epidemia colerica parve impri¬ mere nel suo sentimento del tempo e delle vicende il cavo di un’impronta particolarmente predisposta a colarvi la felicità. Se non altro, quella tregua, quella cessazione del ritmo dolo¬ roso, che nel ricordo diventa immagine di una stagione lieta, momenti di indulgenza della sorte. Nel Gesualdo ci sono due soli momenti, in cui la vita è buona per il protagonista: uno intensissimo, ma breve, è quello della sera con Diodata, quan¬ do il grande respiro dei campi misura la vastità di una quiete fiduciosa, in sincronismo, direi, col pacato respirare di Gesual¬ do, accanto all’umile ed amorosa devozione di Diodata, la sua vera donna. L’altro momento, più ampio, largo quanto tutta una stagione è proprio durante il colera: Gesualdo può final¬ mente godersi la sua aristocratica figlia, questa figlia che quasi non gli pare del suo sangue; può godersi anche la sua ric¬ chezza, non più scopo a se stessa ed ansiosa, implacabile avven¬ tura, ma giustificarsela come bontà, per il benessere ch’egli è in grado di procurare ai suoi. E qui i connotati della felicità sono tanto più interi, in quanto vi si mescola, come un pre¬ sagio a cui ci si rifiuta, la sua qualità transitoria, precaria.

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È Tultima sosta concessa a Gesualdo, prima che comincino per lui, come per la Capinera — a condensarsi gli eventi che 10 porteranno alla catastrofe. Nel testo della Capinera, proprio nella validità espressiva di certi accenti, si trovano le conferme di ciò che abbiamo affermato. Un artista, in una situazione che desti certi suoi echi personali, investe la materia con un tocco particolarmente intenso, la fa cantare in altro modo. I critici francesi, qualche anno fa, parlavano del doigté di uno scrittore: diteggiatura, diremmo noi. E la sua particolarità concerne, per seguitare l’immagine, non solo in un modo di percussione della falange, 11 più atto a far vibrare la materia, a trarne echi in risonanza con gli echi interni dello scrittore, ma anche il modulare,'®* le vibrazioni del polpastrello che si trasmettono, chi sa come, al tasto premuto e passano nella vibrazione delle corde. La nostalgia personale, poetica di Giovanni Verga per quella si¬ tuazione — vacanza e fuga durante l’epidemia — si riconosce in certi accenti singolari che prende la descrizione paesistica, allorché entra in rapporto con quelle circostanze. Divengono i momenti originali, i momenti suoi di quel paesaggio. Per esempio: « Tu saprai, » scrive Maria, « che i nostri contadini credono agli avvelenatori, ai razzi avvelenati, che so io... Per¬ ciò tutte le notti si veggono per le valli, sui monti, dappertut¬ to, i fuochi, i segnali delle guardie, si odono continuamente le schioppettate... Ciò è triste; ma la notte, fra il buio e il silen¬ zio, fra questa commozione generale, è anche spaventevole. Era diffìcile dire qualcosa di nuovo sull’ambiente di una pesti¬ lenza, dopo i Promessi sposi e certi tratti dell’inizio della Sto¬ ria della colonna infameé^^ Ma qui la nota è tutta diversa: l’autore non affronta neppure il tema, gli basta un accenno cronistico, senza vere responsabilità narrative: e intanto, con quel potere che ha l’espressione di rendere il sentimento, an¬ che di là dalle intenzioni, ciò che si vede di questo paesaggio ha qualche cosa di involontariamente felice: fuochi nella not¬ te, come nelle feste, e spari, come nel tempo lieto della ven¬ demmia, quando i contadini fanno la sentinella contro i ladri dell’uva. Queste, ripetiamo, le vene autentiche della Storia di una capinera. Ognuna di queste potrebbe essere la linfa di una efflorescenza lirica. Concentrarsi, od effondersi in un canto. Se il Verga fosse appunto un poeta lirico ne avrebbe avuto mate-

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ria per alcuni canti. Il procedimento fondamentale — dicia¬ mo: quel tanto di concretezza figurativa al quale giunge spon¬ taneamente l’ispirazione, senza forzare il proprio nucleo emo¬ tivo — è tipicamente da lirico. Il Verga trova alcune imma— allegorie o metafore — capaci di condensare, al mas¬ simo potenziale di pathos, i suoi stati d’animo. Sono le me¬ tafore, le allegorie di ciò che il poeta sente, i termini, gli aspetti che gli permettono di riconoscersi, anzi, di identificarsi in qualche cosa di oggettivo. E oggettività qui è garanzia di comunicabilità, di universalità: qualcosa fuori di lui che, come è capito da lui, così sarà capito da tutti. Anche perché quelle figure esterne possiedono già in se stesse certi conno¬ tati lieti o pietosi: tali che basta nominarli, non occorre più spiegarsi. Per esempio, il « passero solitario », o il « colle del¬ l’Infinito », o una qualsiasi delle presenze-immagini, che fanno da protagonisti o da motivi concreti e visibili dei grandi idilli leopardiani. Queste figure-immagini sono già leggenda, sono già proverbio di certe situazioni e degli affetti ad esse con¬ giunti; sono, se così possiamo esprimerci, luoghi comuni, ma luoghi comuni privilegiati. Il fatto ohe al poeta esse appaio¬ no, d’improvviso, per folgorazione — capaci di confessare una sua congiuntura personale, di accogliere la sua identificazione con loro — crea nel poeta la fiducia di poterle far vivere a nuovo; insomma di trasmutarle da allegorie (dove allegoria significa associazione e somiglianza meccanica) in simboli, e simbolo vuol dire analogia profonda, vitalità autonoma che allude all’altro termine, senza bisogno di menzionarlo, né esplicitamente né implicitamente, senza bisogno di riferimenti espressi o sottintesi. Le allegorie degli idilli leopardiani sono tutte trasfigurate in simboli: anche se poi, qualche volta, il poeta per il gusto di risoffrire la sua pena attraverso l’appa¬ rente, e tanto più dolente, distacco di certe eleganze gnomi¬ che, senta il bisogno di darci in tutte lettere la chiave dell’im¬ magine, di tirarne la morale: « Garzoncello scherzoso / cotesta età borita / è come un giorno d’allegrezza pieno... »"' La figura-immagine da cui il Verga si sente illuminato ed espresso è quella della malmonacata, con tutto il corteggio di lacrime che le compete, e di affetti contraddittori. Ma che la tendenza sia lirica, che il fiato stesso di questa apparizione abbia la durata di un fiato lirico, da viversi in intensità, anzi¬ ché ritmo epico da dispiegarsi in estensione, lo si vede confer-

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mato dal fatto che rimmagine della « monacanda », per ma¬ nifestare il suo senso, va in cerca a sua volta di un’altra alle¬ goria: quella della Capinera. Le grandi ispirazioni narrative e i grandi personaggi narrativi, per quanto possiamo ricordare, non accettano mai di definirsi, di contrarsi, e scaricarsi in qual¬ che figura viva, che sia la loro allegoria. Achille non è il leo¬ ne, Ulisse non è la volpe, Nausicaa non è la lodola o la cingal¬ legra... Il difetto della Storia di una capinera, sempre quello stesso che ci siamo ritrovati di fronte, potrebbe a questo punto formularsi così : un tempo, una concretezza da immagine lirica diluiti nel tempo di una narrazione. Perciò quel dissolversi effusivo della loro virtualità lirica; quella proliferazione escla¬ mativa e sentimentale, che si dilata perché si sente insaziata, che cerca la rettorica, l’esagerazione perché non ha trovato, anzi ha tradito, la propria parola: la quale doveva essere semplice, sola, come sono tutte le vere parole di poesia, nude e bastevolì a riempire tutto il silenzio in mezzo a cui sono ca¬ dute. Anche tutto il lavorio, cosi evidente, di immaginazione per trovare i fatti, il suono brusco, eccezionale, autonomo, che questi fatti prendono, bene o male che siano stati trovati, si spiega con quella contraddizione iniziale. Comunque, di una breve ispirazione di tipo lirico, il Verga, che non è poeta liri¬ co, fa un romanzo. Al simbolo Maria-Capinera non basta di mostrarsi, di apparire: dovrà svolgersi lungo il tempo, lungo il divenire della Storia di una capinera. Dico che il Verga può intraprendere questa storia, perché il suo personaggiosimbolo è in grado di ripetere un personaggio noto e divul¬ gato, del quale sono già risaputi, letterariamente sperimen¬ tati, la capacità di fascino struggente, le sollecitazioni emotive. Il Verga si accorge che può farne l’emblema di uno degli ideali — o, se vogliamo, dei miti — patetici del suo tempo. La volontà di fare il romanzo, nel giovane scrittore che sente in sé una ancora torbida e smaniosa vocazione narrativa, è bi¬ sogno di darsi una conferma di quella vocazione. La conferma non può essere che il successo, la conquista dei cuori (allora il successo si otteneva soprattutto per le vie del cuore, cosi come oggi si mira ad ottenerlo per le vie dell’intelligenza). Senza ma¬ lizia, anzi con ingenuità, la fiducia di mettersi a scrivere si appoggia su un calcolo sottinteso. Una storia come quella della Capinera valeva la pena di essere raccontata perché quel calcolo applicava una formula già controllata da una quantità

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di cqnti che tornavano. Il Verga, nello stesso momento che in¬ dicava l’operazione, che la progettava, già aveva in tasca la pro¬ va del nove. Tra i problemi che dobbiamo accuratamente evitare c’è quello se sia nato prima l’ovo o la gallina. Un problema del genere sarebbe domandarci se il Verga, in quel limbo, in quella zona psicologica insondabile, non che dal critico, ma dallo stesso autore, abbia prima trovato la sua Capinera e poi, dalla somiglianza tra questa Capinera e le eroine in voga, ab¬ bia tratto la forza di iniziativa e gli schemi di invenzione per darle una storia; o se invece siano state le eroine in voga a imporsi a lui, a invitarlo a dar loro un’altra sorella, invoglian¬ dolo col promettergli che questa sorella sarebbe stata nuova e diversa: una sorella siciliana, capace di coagulare certe emo¬ zioni e lacrime e brividi e ricordi e nostalgie che il Verga pos¬ sedeva in proprio. A noi basta di poter ammettere, per la Ca¬ pinera come per i romanzi successivi, che la volontà del Verga, che il suo bene inteso arrivismo, sono forza attiva, forza di la¬ voro già abbastanza organizzato ed efficace; ma non ancora pretta forza inventiva, non ancora capacità di schemi perso¬ nali. Si reggono su prestiti letterari, prendono il loro bene dove lo trovano. Se mai, bisognerà soggiungere che Giovanni Verga, il meno astuto dei poeti, quando sarà poeta, è invece un tempista piuttosto abile, quando ad animarlo concorre, come adesso, soprattutto la decisione, il partito preso di riu¬ scire. Ha finto per ciò che il suo tempo vuole da un letterato che sappia il suo mestiere. Si potrebbe perfino giungere ad affermare che, nella strana miscela di coraggio ispirato e di timidezza in allarme o addirittura riluttanza, ritrosia che è in qualche modo la formula personale del Verga, il bisogno di avere in tasca la prova del nove, di farsi dare ragione antici¬ pata dalle correnti più probabilmente accettate, persisterà, an¬ che quando sarà venuta l’ora delle grandi spinte autonome e soltanto sue. Ed al momento di lanciarsi nel suo vero mondo, di trovare i suoi personaggi e le sue storie, quelli che lui è na¬ to a far vivere, secondo entelechia, secondo la finalità umana iscritta nel suo destino di artista, anche allora dovrà rassicu¬ rarsi, dicendo a se stesso la parola verismo. Persuadendosi, cioè, di essere all’unisono con ciò che la migliore letteratura vuole e cerca. La Capinera nasce, per intanto, all’unisono con una certa

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storia della donna, che l’Ottocento si sentiva in debito di rac¬ contare. Fra le tante definizioni date del romanticismo c è quella che gli ascrive la novità dell’avere introdotto il fem¬ minile in letteratura. Ancora dopo il ’70, Francesco De Sanctis, grandissimo romantico, che però non si augurava una rica¬ duta nel romanticismo, nel segnare, alla fine della sua Storia, i compiti — o, se vogliamo, i contenuti « moderni » — di una nuova letteratura italiana, raccomandava: nella «ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifa¬ rà la sua coltura, restaurerà il suo mondo morale, rinfresche¬ rà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti di ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l’amore, la li¬ bertà, la patria, la scienza, la virtù, non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto. »’^ Periodo complicato, di cui è più facile capire gli intendimenti (poesia come serietà e sincerità morale nella convivenza sociale) che non la formulazione: e nel catalogo delle fonti di ispirazione ci sono, si può dire, tutti gli ideali della gente bennata; ma si nota che la donna è il primo a venire in mente al maestro. Quando all’estremo arco della parabola, già abbastanza avan¬ ti — un paio di decenni — nel nostro secolo un moralista francese — Julien Benda — acre e intelligentissimo difenso¬ re della ragione, forse per non soccombere egli stesso alle tenta¬ zioni dell’irrazionale, vorrà lanciare quasi un manifesto con¬ tro quella che gli pare la degenerescenza e deliquescenza ro¬ mantica della cultura e dell’arte moderna, andrà a mettersi sotto il segno dell’arcidiavolo Belfagor.""* E denuncia nel pat¬ to col femminile, nell’arrendersi al femminile la causa di tutta la decadenza del pensiero e dell’arte : dalla filosofia di Bergson alla musica di Debussy alle conseguenze della poesia simbo¬ lista. Facciamo subito un’osservazione. L’arte romantica, il secolo romantico sono l’arte e il secolo della civiltà borghese. Ora il borghese è essenzialmente un individuo maschile. Tutto il suo sforzo di mercante, di imprenditore, di finanziere, di indu¬ striale, tende a fondare una fortuna, a stabilizzare il possesso dei mezzi di produzione e di scambio, a diventare il padrone, il titolare di un tale possesso. Sta all’impresa da lui creata, come il patriarca sta alla famiglia da lui fondata. L’Otto¬ cento borghese è veramente una grandiosa manifestazione del

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patriarcato, nel campo-deU’economia e del lavoro: tende ad esserlo anche nel campo morale. Analizziamo l’ideologia bor¬ ghese: troveremo, al suo centro, una fortissima componente patriarcale. Analizziamo i drammi dell’Ottocento, nelle crona¬ che vissute e nelle trasposizioni artistiche: [vi] constateremo, con abbastanza regolarità, che i protagonisti cadono vittime dell’avere infranto quelli che noi chiamiamo, dalla nostra prospettiva, i pregiudizi di un certo ordine costituito, che ha come tipo l’ordine della cellula familiare, a forma di pira¬ mide con al vertice il padre, cioè il patriarca, cioè l’ideale di dominio maschile. I primi germi di rivolta consapevole e siste¬ matica si esprimono in spunti anarchici. È inutile rifare que¬ sta storia: ricadremmo sempre negli stessi nomi: per esempio Sigfrido che traveste mitologicamente quella che, in teoria, sarà la predicazione dell’anarchico Bakunin. E spezza la lancia di Wotan, il padre, sulla quale stanno scritti i « runi » : le leggi e il patto, su cui si fonda l’ordine costituito. Tutta la grandezza del padre sta nella coscienza malinconica che il suo impero, l’ordine patriarcale, non è più perenne: sta nel rac¬ cogliere la voce della Grande Madre, del grembo naturale, la quale lo avverte che ormai si avvicina inesorabile il crepu¬ scolo degli dei. È inutile soggiungere che colui che, alla fine del secolo, si presenta come il nuovo guaritore — cioè Freud — dice in sostanza che, per riconquistare la salute e la capa¬ cità di vivere, bisogna guarirsi dal padre: quello che ha tra¬ sformato la morale e l’ordine in rigore repressivo. Di Ibsen, impigliato a fondo in questa problematica, dovremo riparlare. Ci preme, per ora, di avere colto la grande contraddizione : romanticismo, arte del femminile, nuova funzione protagonistica della donna, nel secolo che celebra in tutto il suo fare, uno dei più grandiosi, forse l’ultimo, trionfo del patriarcato. La contraddizione si illumina se riusciamo a guardarla come una delle tante sfaccettature di un prisma di contraddizioni. Al centro del prisma, è la contraddizione tra il moto pro¬ gressivo e rivoluzionario con cui la borghesia ha conquistato il potere, e lo spirito conservatore a cui essa deve ridursi per conservare i privilegi raggiunti. La conquista del potere era avvenuta nel segno e nell’ideale della libertà; la conservazione del potere è possibile solo attraverso una negazione segreta, implicita, inconfessata della libertà. Tutti i cittadini sono libe¬ ri di nome: di fatto, sono liberi solo quelli che hanno rag-

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giunto un certo livello economico. Comincia a lavorare sorda¬ mente il contrasto tra uguaglianza politica e disuguaglianza economica; tra la libertà come diritto civile e la schiavitù, o l’asservimento, perpetuati nel campo sociale. Sono cose ri¬ sapute: abbiamo dovuto ripeterle alla svelta, per notare che la borghesia, sul terreno pratico, cerca di ottundere la contrad¬ dizione, di devitalizzarne il potere esplosivo, con le varie for¬ me di legislazione sociale, con l’ostentare sentimenti filantro¬ pici, di bontà, col mostrarsi entusiasta della concorrenza so¬ ciale, purché i vincitori in questa lotta siano i singoli indivi¬ dui usciti dalla classe dei diseredati, e non già la classe tutt in¬ tera, con una rivendicazione di massa. Nello stesso tempo, le punte più sensibili della intelligenza borghese — gli artisti, gli scrittori — si sentono costretti a denunciare la contraddizione, a prendere atto delle ingiustizie che la società commette verso i diseredati. Costretti, dico, a loro malgrado: valga l’esempio del reazionario Balzac che, in politica, auspicava addirittura la restaurazione monarchica, mentre poi scriveva romanzi di involontario contenuto progressivo: ad esempio quello sui Contadini. (Si veda, in questo senso, l’analisi di Lukàcs, nei suoi Saggi sul realismo.) Intendiamoci: l’intelligenza bor¬ ghese, anche attraverso quei segnali che sono gli artisti, si ser¬ ba sempre abbastanza intelligente, sensibile, avveduta, per non tradire la causa della borghesia. Ho detto che la denunzia dell’ingiustizia, cioè della contraddizione sociale, è involonta¬ ria. Posso aggiungere che quella denunzia può arrivare al mas¬ simo a risultati umanitari, e a favorire riforme e temperamenti sociali; come è il caso, d’altronde efficacissimo, di un Dickens, che riesce, poniamo, a impietosire il mondo sulle feroci condizioni del lavoro minorile. Perfino quelli che si credono decisamente rivoluzionari, come lo Zola, non arri¬ vano molto oltre questa partecipazione umanitaria. Il segreto di quell’arte, drammatica ed eloquente, così viva non solo nella rappresentazione ma nella mozione degli affetti, risiede, direi, nel compito espiatorio, che inconsapevolmente essa si assume. In un certo senso, chiede scusa ai diseredati; e quasi li consola coll’epica e col canto delle loro sofferenze, con la pietà — o anche la compassione — del loro travagliarsi su questa terra, così invano, fino a morirne vittime. Uno dei modi migliori per tacitare la rivolta dei sofferenti, e di lusin¬ gare il loro vittimismo, di aiutarli a piangere su se stessi. Sia

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detto per inciso, chi troppo insiste su Verga poeta dei poveri inserisce anche il Verga in questa schiera di amministratore, sia pure in buonissima fede, dei rimorsi borghesi, e della conseguente volontà di espiazione. In questa schiera, autore¬ vole e commossa, di fabbricanti di lenitivi. Mentre il Verga grande, quello dei vinti, prende atto della contraddizione nel momento della sua tragedia e massimo squallore; e non offre rimedi, nemmeno involontari. La sua pietà — se vogliamo par¬ lare di pietà — è di quelle così austere, e quasi impietrite, che non riescono a dare aiuto. Ma andiamo avanti nel nostro discorso delle contraddizioni, per trovare quella che autorizza e suggerisce le possibilità, per Maria la Capinera, di diventare protagonista di romanzo. Un intelligente, tendenzioso, pericoloso sociologo degli inizi del secolo, irresistibile di brio, di arguzia, formidabile nel tro¬ vare associazioni atte a convalidare le proprie idee, capace di sedurre il lettore coi riferimenti della più varia e pittoresca cultura, Vilfredo Pareto, scriveva nel 1902: « La lotta delle classi, sulla quale Marx ha specialmente attirato l’attenzione, è un fatto reale, di cui si trovano le tracce in ogni pagina della storia; ma essa non ha luogo soltanto fra due classi: quella dei proletari e quella dei < capitalisti >; essa si ritrova tra una infinità di gruppi che hanno interessi diversi... Nella maggior parte dei popoli selvaggi e forse in tutti, il sesso determina due di questi gruppi. La oppressione di cui si lamentano o si sono lamentati i proletari è nulla, in comparazione di quella che soffrono le donne dei selvaggi in Australia. Enunciato paradossale, in fondo a cui possiamo trovare un piccolo grano di verità. Più che un paragone, noi siamo tentati di trovare una connessione tra le fasi della innegabile lotta di classe e quelle della lotta tra la metà maschile e la metà femminile del genere umano. Anche la donna si chiamava « cittadina » nella rivoluzione francese. Ma tutti sanno che, vinta la sua partita attraverso la rivoluzione, la classe borghese non pensò neppure di dare alle « cittadine » l’eguaglianza di diritti, nemmeno politici, col cittadino. La capacità giuridica della donna, nel Code Napoleon, che è il codice civile uscito dalla rivoluzione francese, non è molto superiore a quella di un minorenne. Solo le codificazioni più recenti — e c’è voluto più di un se¬ colo — hanno allargato questa capacità fino quasi a una pa¬ rità coll’uomo. Lo stesso dicasi della capacità politica: da noi.

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in Italia, la donna elettrice non ha che 5 anni di età storica (ricordiamoci che noi stessi, di frónte ai primi manifesti elet¬ torali rivolti alle donne, eravamo attratti a leggere, con mera¬ viglia, l’insensato vocativo « donne elettrici », tanto poco si era avvezzi alla parola « elettrici »). Ma la disuguaglianza agi¬ va soprattutto, e più profondamente, nel campo dei valori, sul diritto che la donna ha di disporre, moralmente e fisicamente, di se stessa. Anche oggi, nella nostra società rimasta borghese, perfino gli uomini che si vantano, o si vogliono piu spregiudicati, in tema di libertà della donna, predicano bene e razzolano male: specie se siano padri o figli o mariti, o tito¬ lari di altri rapporti strettamente personali. Sta di fatto che la sorte della donna rimane, per la borghe¬ sia che ha conquistato il mondo, un debito inespiato, come la sorte dei diseredati. Sono contraddizioni simultanee nel cuore della borghesia : e si potrebbe anche arrivare a dimostrare che sono aspetti della medesima contraddizione, tanto è vero che i sistemi proposti, o attuati, per risolvere l’una, superano anche l’altra. In arte il femminilismo romantico, apparentemente inspiegabile in una civiltà patriarcale, è parallelo all’umani¬ tarismo sociale: l’interpretazione che abbiamo dato della let¬ teratura che fa posto alla classe dei diseredati, vale anche per quella che crea nuovi altari terrestri all’eterno femminino, e incensa questi altari di bellezza patetica, pietosa, appassionata, tenera e rapita. Verso questa donna defraudata della pienezza dei diritti umani — e verso se medesimi oscuramente colpevoli di avere perpetrato la frode — ci si scagiona idealizzando la donna, facendone creatura di carne vera, e insieme idealizzandola. Si può dire che a questa idealizzazione collabora tutta la poesia, lirica e romanzo e musica, dell’Ottocento. Ricostruire il ri¬ tratto di quell’ideale equivarrebbe a raccontare daccapo un secolo di poesia, e spesso quale poesia. Contentiamoci di af¬ ferrare alcuni connotati. Primo: se ne è fatta la vestale del¬ l’amore, questa specie di apparente inhnito del sentimento, questo dominio che, nella sviscerata apologia dell’amore fatta dal romanticismo, non conosce limiti, e dovrebbe compensare, appunto, con la sua vastità e la sua importanza, di tutti gli altri domini e possibilità perduti. Ma vediamo a quali e quanti divieti soggiace quella vestale. Essa deve tenere acceso quel fuoco d’amore, versandovi senza risparmio l’anima sua.

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tutta la propria dedizione, abnegazione, sottomissione, rinun¬ cia, deve salvaguardarne la purezza senza peccato. Deve mo¬ strarsi non solo intemerata, ma fortissima in questo compito; mentre poi la sua bellezza deve essere fatta di fragilità: cioè non risultare armata, minacciosa, capace di rivolta. Solo quan¬ do è madre, le è concesso di diventare lottatrice, magari di mostrare le unghie, ma in prò dei suoi figli, cioè di questi concreti simboli del suo essere vissuta al servizio di quell’uni¬ co amore che è concesso alla sua vita. Fanciulla e pura, deve far nascere l’amore, essere capace di suscitare la scelta, di di¬ ventarne l’oggetto. Deve condividere, se occorre, fino al pa¬ rossismo la passione che ha suscitata; ma rimanendo, per così dire, attiva solo come oggetto mai come soggetto. Se questa forza di passione diventa autonoma, se la donna che la coltiva in cuore se ne fa padrona e arbitra, se insomma vuol diven¬ tare lei il soggetto, in quel momento firma la condanna a morte. Questo è il secondo tratto dell’eroina romantica: quan¬ do si mette a volere, quando cessa di essere semplicemente vo¬ luta, allora è votata alla distruzione. Ecco l’Ildegonda del Grossi, che se non è riuscita come figura d’arte, certo è un prototipo di questi connotati: Ildegonda che vuole l’amore contro il suo destino. Ed ecco Ermengarda. Il Manzoni deve la sua grandezza alla complessità delle reazioni morali, di cui è capace: la sua generosità non esclude che egli si senta com¬ plice delle miserie, voce anche del male di vivere e, talvolta, crudele nel gustarlo. Forza di poeta è, in lui, la capacità di comporre in nobiltà di figure quell’impasto perfino ambiguo, canto d’angeli e stridor di denti. Questa è l’umanità del Man¬ zoni: uomo anche lui, come tutti, per nostra fortuna. Nel raf¬ figurare Ermengarda, mentre plasma un personaggio di pu¬ rezza bianca, di sofferenza che è già redenzione, mentre raffi¬ gura l’eroina in cui il delirio d’amore è sublimità, tutto un assolo sulle corde più alte, il Manzoni paga il suo tributo al culto romantico della donna dannata al vittimismo, espia an¬ che lui l’inconsapevole rimorso della nuova società borghese verso la grande tradita. Ermengarda muore, direi, se anche è paradosso, per avere osato pretendere l’amore dall’uomo, quan¬ do l’uomo non voleva più darle amore. Non Carlo, l’ingiusto, muore; ma lei. Guardando sottilmente, la morte di Ermen¬ garda scaturisce da quell’essersi ostinata nella passione, pur così umanamente giusta, ma femminilmente senza scampo:

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dall’averla trascinata « nelle insonni tenebre, / pei claustri solitari, / tra il canto delle vergini, / ai supplicati altari, dal portarla fin quasi alle soglie della trasfigurazione in Dio. col grido « amor tremendo è il mio, gettato pochi attimi dopo Tessersi già ricomposta nella rassegnazione, tra quella dolce luce d’aprile, pochi attimi prima di tornare a ricomporsi in un’altra speranza, non più di questo mondo: « Parlatemi di Dio, sento ch’Ei giunge. »*“ Si potrebbe perfino essere ten¬ tati — malgrado le teorie del Manzoni sulla storia e sulle invasioni barbariche — di leggere una trasposizione della fa¬ tale, indeprecabile sorte della donna, in quel tentativo ^che il Manzoni fa di consolare Ermengarda, affidandole la passiva espiazione di un’altra condanna storica: « te dalla rea proge¬ nie / degli oppressor discesa, / cui fu prodezza il numero, / cui fu ragion l’offesa, / ... te collocò la provvida / sventura in fra gli oppressi... Si dirà che questa di Ermengarda — morire di un amore ripudiato o respinto — non è la sorte particolare della donna: pochi anni prima della sua morte, nella storia della poesia, anche Werther, anche l’Ortis erano caduti per non aver potuto fare di Carlotta o di Teresa le loro donne. Ma Werther, ma l’Ortis si erano uccisi perché, liberi di decidere sulla loro disponibilità d’amore, avevano deciso male, scelto l’impossibile. La differenza, sottile quanto volete, ma vera, è che in fondo lldegonda o Ermengarda non avevano diritto di disporre in proprio di un amore, che a loro era già stato concesso. La contraddizione è che la donna doveva essere maggiorenne e responsabile nel ricambiare l’amore, era minorenne nel disporne, mentre poi l’amore era l’unico cam¬ po di azione a lei concesso. Il romanticismo, che con Novalis intitola Inni alla notte una delle sue prime pagine di poesia, è un immenso notturno. Per il romanticismo la notte è privilegiata, è il luogo dove le anime si incontrano, si dicono le parole dell’incomunicabile. E l’al di là del giorno, il suo grembo, che cancella le appa¬ renze, è già un grembo del mistero: nell’incantesimo della luna, le cose perdono consistenza, non offendono più: nell’o¬ pacità delle tenebre, solo i sentimenti regnano. Si è immersi nell’infinito Tutto, o nell’infinito Nulla. Non occorrono trop¬ pe spiegazioni: abbiamo le voci dei poeti, abbiamo tutte le eredità romantiche ancora in noi sopravviventi, per rivelarci la parentela tra notte e morte, la capacità dell’una di simbo-

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leggiate l’altra, e viceversa. Bellezza della notte, quindi, bel¬ lezza della morte. Dare la morte a un eroe è riscattarlo, cir¬ confonderlo di sublimità. Ecco perché l’eroina romantica deve morire. È un altro modo di farla bella, di ripagarla del non averla lasciata vivere. Ma dovrà morire in bellezza, cantando il peana della propria morte. Allora il romanticismo le regala ancora un’altra delle sue ghirlande : la malattia poetica, la con¬ sunzione. Solo i tardi romantici, gli ultimi eredi, Proust o Thomas Mann, faranno della malattia una forma privilegiata di sensibilità, un modo più acuto di ottenere le rivelazioni della vita, e del rovescio della vita. A questo punto, si potran¬ no denunciare anche le miserie fisiche, gli orrori della malat¬ tia: e Thomas Mann, nella Montagna incantata, mentre esalta il valore della malattia, scopre anche la sordidezza fisica di quella che per' i romantici era stata una delle malattie più idealizzate: la tisi. Ma, nel secolo romantico, morire di mal sottile era stato una specie di progressiva levitazione di là dalla carne, uno scomparire del peso, un farsi anime, senti¬ menti, passioni, ancor vivi e accesi, drammaticissimi e assolti dal dramma, liberi e quasi mondi di ogni ingombro terrestre. La tisi era il modo migliore di morire in bellezza. Tutto il secolo aveva cantato di queste agonie, di questi deliri: sprigionarsi dei sentimenti in una specie di assoluto, parecchi palmi al di sopra del suolo, aboliti i vincoli della consuetudine, della ragione, delle responsabilità. Ricordia¬ moci, nel melodramma italiano, il vaneggiare della Sonnam¬ bula (una malattia, anche questa, identificata con una condi¬ zione di bellezza poetica) o quello della Lucia. Verso la metà del secolo, Dumas fils era stato — dice Bourget — il « maitre exceptionnel et inquietant qui a secoué plus qu’aucun autre les nerfs malades de notre generation. » Avere — dice sempre Bourget — il « dono prezioso di svegliare l’eco... il dono della risonanza immediata, elettrica... Ed era stato lui, nella Signora dalle camelie, a riassumere tutti i connotati dell’e¬ roina romantica: la limitazione dei diritti perfino nell’amore (Marguerite Gauthier inasprisce la condizione di minorità col presentarsi come una condannata a priori dal giudizio sociale e da quello morale: lei, la fuorilegge dell’amore), la tisi, la morte in bellezza, rassegnata a tutti i sacrifici e alle rinunce che le erano stati chiesti, incapace di sopravvivere, quando finalmente la dura società patriarcale si è impietosita di lei. 171

ha deciso di fare un’eccezione in suo favore. Su questo con¬ densato dell’eroina romantica, Verdi aveva scritto quello che, fino alle opere della vecchiaia (e forse anche al di sopra di quelle), giustamente appariva il suo capolavoro: La traviata. E nelle cantilene di Violetta era riuscito, più che mai, a con¬ vertire in pietà, in lacrime, in una struggente, perduta deso¬ lazione la grande inflessione della sorte che 1 Ottocento aveva assegnata alla donna. Pensiamo a quelle melodie, così spia¬ nate, sorrette sul nulla, che sono insieme lacerazione, fluire disteso di un pianto, e trasfigurazione-memore della carne da cui si distaccano: quando salgono sono il grido assurdo, inu¬ mano di una tortura che si trafila in un canto: « Dite alla giovane sì bella e pura... » con quel singhiozzo che diventa disegno, « cui resta un unico raggio di bene... La storia della donna non finisce qui. Fin dal principio del secolo, una delle eroine di passione, la Pentesilea di Kleist era morta della sua sola volontà di estinguersi: aveva inven¬ tato la morte d’amore, in cui finirà Isotta. Ma queste fanciulle nordiche, queste donne vichinghe nascono dal mondo, dove proromperà la protesta e il femminismo: l’articolo sull’Emancipazione della donila pubblicato nel 1851 dallo Stuart Mill sulla « Westminster Review »,*^ l’interesse di Ibsen, le grandi nuove eroine: Nora di Casa di bambola, Hedda Gabler, Re¬ becca di Rosmersholm, la signora Alving degli Spettri. Ma questa è un’altra storia. Noi abbiamo voluto interpre¬ tare certi connotati femminili, che facevano della donna vit¬ tima d’amore fino alla consunzione, al delirio, alla morte, una creatura poetica per consenso comune, per plebiscito. Questo il sostegno, la garanzia a cui il Verga si affida: e può mettersi a scrivere la Capinera. I romanzi che seguono conservano questa tematica fondamentale, intrecciandola con altri di questi temi circolanti o, ripetiamo, temi-garanzia, temi-sostegno: insomma, contenuti che, da soli, dovrebbero bastare a fare poesia di racconto e di romanzo.

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V ■ Ancora della necessità di scrivere

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Èva: i modelli della femme galante II personaggio narrante Soggettività e oggettività stilistica La strofe narrativa il mondo di lusso e il mondo rusticano 'Tigre reale ed Eros

Cerchiamo di procurarci un ritratto, il più possibile scru¬ poloso, dei tre romanzi che il Verga scrive dopo la Capinera. Su questi vedremo la funzionalità dei criteri di interpreta¬ zione verghiana che siamo riusciti a isolare nel nostro lavoro fin qui. Il primo di questi tre romanzi è Èva. Se rion ci fossero le date a parlare — Èva pubblicata nel ’73, Nanà ’ nell’SO — potremmo anche dire che la ballerina, protagonista del nuovo romanzo verghiano, è una parente di Nanà, nel suo aspetto, almeno, di idolo del lusso e del piacere, ma una cugina più mite, e quasi provinciale, e sta a Nanà come Firenze, capitale provvisoria e transitoria del recente regno d’Italia, sta a Pa¬ rigi, capitale del Secondo Impero. In altri termini la fatalità di Èva, anche nei suoi momenti implacabili, in cui diventa strumento inconsapevole di devastazione, di un mondo dan¬ nato a pagare il suo eccesso di lavoro, di avidità e di sfrutta¬ mento con una specie di dorato e molle cupio dissolvi, anche in quei momenti è una fatalità più mite, perfino bonaria, e riflette una società che, nella sua arretratezza, ha minore auda¬ cia anche nella corruzione e nel peccato. Un mondo' che, proprio per i molti pregiudizi economici e sociali, per la forte impronta in cui lo tiene chiuso il cattolicesimo romano e con¬ troriformato, come non è riuscito a produrre una vera e gran¬ de borghesia, così nella sua vita intima preferisce i compromes¬ si e gli manca il coraggio delle grandi tragedie. Quei due per¬ sonaggi che il Giusti satireggia col nome di Taddeo e Vene¬ randa,^ figurano tra i ritratti di famiglia dei giovani scavezza¬ colli, o dei mondani, che qui in Italia appaiono gli eroi della dissipatezza e del vivere brillante. Una società che non ha bi¬ sogno di eccessi neppure nell’ozio e nel piacere, perché da al¬ cun; secoli non commette eccessi nemmeno nel lavoro e nel pensiero e nella politica. Hanno, insomma, le mediocri virtù dei loro mediocri difetti. Se Èva non dipende da Nanà, ma potrebbe essere una Nanà 175

anticipata in Italia, e rabbonita e tanto più innocua autrice, semmai, di mali involontari, rimane però vero che le loro eventuali somiglianze sono da attribuirsi alla comune discen¬ denza da un moderno prototipo, che è la femme galante, o, come dirà il D’Annunzio, la « donna d’amorosa vita » del sec. XIX, la grande nemica dell’ordine familiare della pace dei cuori, la semente di rovina, la dissipatrice di patrimoni, il fla¬ gello di quel decoro e di quella rispettabilità che, nel secolo borghese, erano l’equivalente, spesso ipocrita, spesso pura¬ mente di facciata, delle virtù morali, con cui la borghesia s era conquistata autorità e fortune: virtù morali, delle quali giu¬ stamente si faceva un merito e anche un argomento difensivo, tanto che ne ostentava, allorché sentiva sgretolarsene l’auten¬ tica consistenza, almeno i simulacri : decoro, per l’appunto, e rispettabilità. Nel genere « donna d’amorosa vita », una delle specie che ebbe più successo, e proprio negli anni in cui il Verga scrive la sua Èva, fu quella della donna di teatro. Successo nella vita, e successo nella letteratura che voleva prendere atto della-vita. Ci capiterà, senza dubbio, di tornare sulla « cristallizzazione » (per usare la parola di Stendhal) che poeti e romanzieri e pit¬ tori fecero di questa donna. La ribalta era la grande vetrina: dónde appariva, lusingata dalle luci e più bella del vero, don¬ de lanciava il più provocante richiamo del suo corpo, che si esponeva, pareva facile, accessibile; mentre poi faceva pagare, con denaro e lacrime, quella facile e gioiosa accessibilità che aveva promesso. Non era lontano il tempo in cui agli attori era negata la sepoltura in terra consacrata. E le donne di tea¬ tro, da quel loro non remoto passato, forse conservavano an¬ cora una seduzione perfida e dannatrice di carne destinata a perire come se non l’avesse lavata il battesimo: il peccato era un loro modo di essere, la loro bellezza era illecebra, tenta¬ zione e fascino dell’amore peccaminoso. Non so, ma non posso escludere, che la coscienza, o i pregiudizi di coscienza, negli uomini che si dedicavano a quelle donne, non si sentissero per metà assolti dal fatto che se essi, gli uomini, commettevano in proprio un peccato, almeno facevano commettere peccato alla loro collaboratrice, a questa viva esca, ch’era già una crea¬ tura perduta. In sostanza, quei piccoli ed egoisti maramaldi della vita godereccia, uccidevano una donna morta. Tra le donne di teatro, quelle che meglio si prestavano a 176

questo ufficio di sacerdotesse degli amori illegali e dissipati, antagoniste di romanzi di gioia bruciata e di sicuro detri¬ mento, impure spose di ingiuste nozze, era la ballerina, o la canzonettista o l’attrice di varietà. Le grandi tragiche, le gran¬ di cantanti fruivano di un’altra leggenda, forse perché nelle loro interpretazioni aleggiava quello che si chiama lo Spirito, e in fondo l’Ottocento è un secolo spiritualista; forse perché nel loro lavoro era visibile l’arte, e l’Ottocento, che bistrattava i creatori dell’arte più grande, era tuttavia fanatico dell’arte. Per la ballerina, per la canzonettista lo sfolgorio scenico, que¬ sto eccezionale scialo di luce in un tempo in cui l’illuminazio¬ ne usuale era più modesta che oggi, diventavano un eretico e sontuoso altare, su cui era offerta all’adorazione la bellezza fisica, e una relativa nudità, tanto più provocante quanto più la moda femminile copriva e mascherava e corazzava le forme della donna. (Argutamente, Jean Cocteau ha detto che la prima guerra europea ha tolto la corazza alla donna: leggi il busto di balene. Noi abbiamo visto gli anni successivi fare il resto; un buon terzo dei libri di Alfredo Fanzini, per esem¬ pio, dal primo dopoguerra in poi, scaturisce da uno stupore un po’ allarmato, un po’ costernato, moltissimo magnetizzato da questo progressivo mostrarsi della donna nel vestito sempre più succinto. Una simile evoluzione del vestire può essere salutata come un indice di progresso: quasi il sintomo della liberazione di una schiava e l’instaurazione di rapporti più leali tra uomo e donna. Per contro, e senza essere laudatores temporis acti, possiamo deplorare in questa evoluzione tutto ciò che è compiacimento provocatorio, elogio di saturnali quotidiani, al punto da essersi imprestato, con una sincerità che va oltre le intenzioni, il nome di un flagello: Bikini.) Ma torniamo alle nostre ballerine. In una rigorosa e completa storia del costum^e, che a nostro avviso costituisce la premessa di una storia del gusto e dell’arte, in una rassegna dei più sintomatici e vistosi esemplari della vita, destinati soprattutto a trasfigurarsi in personaggi di romanzo, bisognerebbe tener conto di un altro aspetto della ballerina, esaltata anch’essa co¬ me artista, da un pubblico in cui la percezione delle movenze, dei virtuosismi, dei valori espressivi di una plastica in movi¬ mento era alienatissima, suscettibile e sottile quanto può es¬ serla, oggi, quella degli spettatori cinematografici per i mini¬ mi accenti dello schermo. Il balletto, con tutti i portenti, i 177

passi di repertorio e quelli nuovi, della prima ballerina era obbligatorio nell’opera, distingueva anzi il grand-opera. Qui cadrebbe tutta una storia del ballo, della danza classica, sulle punte, ripresa a Londra dall’italiano Cecchetti, fino al balletto russo come nuovo spettacolo coreografico e musicale. E fino all’apoteosi della danza e della danzatrice per opera dei poeti: tipico, in quel grandissimo epigono, e sottile e bravissimo divulgatore di squisitezze che è Paul Valéry, il dialogo L’Ame et la danse,^ dove la ballerina ha nome Atikte, « sottratta al fato ». Ma nelPEt-a del Verga, c’è l’altra ballerina, la procace « ma¬ liarda » (per usare la parola di allora). Ci è già capitato di citare l’interpretazione mitica e simbolica che Thomas Mann dà al nome di Nanà. Il Verga che, meno ancora dello Zola, ha intenzioni simboliche e se, per caso, nel corso di questo romanzo sfiora significati simbolici lo fa senza premeditazione e senza avvertirlo, adopera un nome dal potere allusivo quanto più vasto, tanto più spicciolo e, direi, più ingenuo: un nome dalle risonanze così ovvie e proverbiali, che quasi non se ne sente più il valore di proverbio e non desta davvero risonanze oscure. Ma non manca di osservare: « Si chiamava Èva, o alme¬ no si faceva chiamare così, e quel nome era forse un epigram¬ ma. »■* Nel corso del romanzo, si dimentica in ogni modo di farci sentire che è lei a tentare un ingenuo Adamo, e che a lei per prima il serpente ha comunicato il segreto del bene e del male, soprattutto una sapienza e ragionevolezza, che sono dive¬ nuti istintivo adattamento, e anche rimedio, alla fatica di vi¬ vere. Quella conoscenza del mondo che chiamiamo senso della realtà. Tutto questo c’è nel romanzo, ma per vedercelo in questi termini di grande leggenda umana, di mito che si rein¬ carna continuamente nelle nostre storie di uomini, bisogne¬ rebbe guardare per trasparenza, in controluce, la filigrana del romanzo. Una filigrana che Giovanni Verga, uomo fedelmente immerso nel suo tempo, nelle storie che portavano la data del sùo tempo, non solo non ha mai fatto vedere, ma nemmeno ha mai guardato, e forse nemmeno supposto che ci fosse. Tenia¬ mo fermo invece che, come la Capinera tfaeva alimento di personaggio, e la fiducia necessaria a distendersi lungo una vicenda, dalle proprie somiglianze con l’eroina romantica, così. Èva appoggia il suo carattere e il sùo divenire a una certa va¬ riante dell’eroina romantica che cerca di zavorrarsi con una 178

saggezza concreta e positiva. Conserva, di quell’eroina, ancora il fascino di una femminilità fragile e fatale, quel suo potere di bellezza, di felicità e di morte, ma li mescola con un terre¬ stre buon senso. Certo, quando ci appare, è la meteora abbagliante, la sfida alla ragione: un velo fluttuante che fugge, una dolcezza dia¬ fana e un fluido stregato. È la mirabile farfalla, nata da tutti i sogni romantici con la desinenza in a: ma una farfalla dalle ali insieme eteree e incombustibili : invece di bruciarsele, sarà lei a incenerire quanti le si avvicineranno, attratti da una illu¬ sa e deliziata volontà di immolarsi. Tutte queste antitesi non siamo noi ad accumularle: è il narratore stesso a suggerirle, che esordisce in prima persona, aprendo il romanzo con due successive, e fuggitive, e sensa¬ zionali apparizioni di Èva. Una volta l’ha incontrata sui Lun¬ garni, lei era su un elegante legnetto, guidava una bella pari¬ glia di cavalli inglesi, aveva una « cert’aria graziosa ed ardita », un « sorriso negli occhi più che sulle labbra »,^ che a guardarla faceva sorridere di piacere. L’altro incontro è avvenuto alle Ca¬ scine, in un viale fuorimano: Èva, chiusa nell’imbottitura di seta della sua carrozza, intenta a leggere un libro. Essa alza ap¬ pena gli occhi, quando il narratore passa in fiacre con Vittorina, un suo facile e rapido amore di venticinquenne: « Larva di un di quei giorni in cui si prodiga tanta parte di cuore come se non dovessero tramontare giammai. Chi sa perché, il nar¬ ratore ci parla di questa Vittorina e di quel suo mattino gaio. Forse per contrapporre Vittorina cinguettante, piccolo amore senza conseguenze, ad Èva, in quel momento, solitaria e pen¬ sosa lettrice: e dal contrasto far scendere su Èva un’ombra di fatalità. Certo, in tutto il romanzo è la sola volta che il nar¬ ratore ci confidi un suo fatto personale. Vedremo che alla fine lascia sospettare di avere incontrato personalmente Èva, di averle parlato, forse, di cose dolorosissime, di scottante inti¬ mità; però non ce ne dice niente, non ci permette neppure di avventurarci di là dalla semplice, e non confermata, ipotesi che siano avvenuti quei suoi dialoghi con Èva. Nel corso del romanzo, il narratore è un personaggio passivo, personaggioschermo, che si limita a ricevere il racconto del protagonista, a manovrarne gli stacchi con un’agile tecnica nel presentare gli episodi. E colorisce, giustifica la sua presenza e la sua fun¬ zione, dandosi il minimo indispensabile di connotati umani: 179

cioè qualche brevissima, e quanto mai generica, reazione di pena, o di pietà, o di angoscia di fronte alle confidenze che gli vengono comunicate, ai fatti di cui è testimone. Eppure, questo narratore ci interessa proprio come perso¬ naggio. Ha un modo di essere partecipe, ripeto, passivamente; di segnare una sua presenza tutt’insieme viva e assente, di non compromettersi e di non intervenire, che, a volerli riassumere, a volerne fare un precipitato, si finisce col tirarne fuori una strana figura d’uomo che si sforza di apparire gelido, estraneo, forse perché è stranamente implicato, quasi teme una compli¬ cità, soprattutto diffida di parole, che potrebbero sfuggirgli fuori tono o troppo ambiziosamente tentate da una velleità di concludere. Parole, forse, che lo denunzierebbero, smaschere¬ rebbero affinità, lati di carattere, che egli ha domato con fa¬ tica, con arduo lavoro di lima sul proprio temperamento e che adesso, se fuoruscissero da una incontrollata abbondanza del cuore, finirebbero col tradirlo. Inevitabilmente, si pensa al « signor Verga », a quello che, dopo essersi avventurato, im¬ pegnato nella storia dei suoi personaggi, storie tali da scoprire, più che se li aprissero in pieno sole, quegli organi in cui se¬ condo gli antichi era riposta l’ultima sincerità vitale: cioè il fegato e la milza dell’uomo che ha fantasticamente vissuto in sé — immutate — quelle storie, pure voleva ritrarsi dal suo lavoro, abbandonarlo come cosa fatta quasi all’insaputa del¬ l’uomo di tutti i giorni. Voleva essere il Signor Verga, sem¬ plicemente: l’elegante e sobrio gentiluomo che assisteva, più di quanto vi partecipasse, alla vita letteraria di Milano; il riservato galantuomo di Catania, forse persino un po’ òstico nel suo partito preso di non comunicarvi troppo, di far rispet¬ tare la propria condizione di « uomo privato ». Nel perso¬ naggio del narratore c’è forse anche qualcos’altro: il timore o l’incapacità di enunciare un giudizio esplicito su quanto viene narrando, cioè su quanto la sua fantasia viene produ¬ cendogli in una diretta, immediata evidenza di fatti : come og¬ getto di visione drammatica e narrativa, prima e meglio che come oggetto di riflessione. Vedremo che, alla fine di Èva, tenta un giudizio, più che altro per ragioni costruttive, perché si illude di trovare in un disperato riassumersi del suo perso¬ naggio, quella cadenza, quella chiusa, che invece è altrove. E allora si mette lui, il narratore in prima persona, a fare da antagonista: interviene a provocare con un suo giudizio, un 180

altro giudizio da parte del suo eroe. Ma risulterà singolar¬ mente stonato. Vedremo che, uscito dalla sua parte, terminato il libro, vuole mettersi al di sopra, guardarne in una specie di prospettiva dall’alto, le giustificazioni morali. Ma risulterà singolarmente contraddittorio: e ancora più rettorico di quan¬ to sarà più tardi, allorché tenterà la stessa impresa giudi¬ cante di fronte al ciclo dei Vinti, nella troppo famosa e, direi, troppo presa in parola prefazione ai Malavoglia. Il Verga autentico è proprio nei limiti in cui confina il personaggio del romanziere in Èva. La sua sagacia di artista nel profilare quel personaggio, gli fa intuire i veri connotati del romanziere Ver¬ ga: cioè uno che capisce, con una straordinaria sensibilità morale, il gioco dei sentimenti, delle responsabilità, delle con¬ traddizioni, delle generosità, degli errori, quando questo gioco si produce immerso nei fatti. Ma poi è incapace di estrarre la parola della lucidità intellettuale, che pronunci il senso e il valore di quei fatti. Quell’operazione che, in matematica, si chiama mettere in evidenza un coefficiente comune in un poli¬ nomio gli è interdetta. La sua è una intelligenza implicita, che fa corpo, per così dire, con le cose rappresentate; e non diventa mai l’intelligenza esplicita del moralista, quella cioè che rie¬ sce a dare concretezza ai nomi astratti delle passioni, ad arti¬ colarli in un discorso che la ragione, il moto di scoperta per opera della ragione facciano vivo e rivelatore, quanto uno snodarsi di fatti o di cose. Insomma, la sua mente arriva al predicato di esistenza (e quale esistenza, tradotta in evidenze inesorabili), non arriva al predicato di valore. E se adesso qual¬ cuno chiedesse a noi di mettere un predicato di valore, cioè di stabilire se valgano di più le menti capaci di enunciare resi¬ stenza o quelle che arrivano a enunciare il valore, dovremmo rispondere che la richiesta è mal fondata, perché si risolve nell’assurda pretesa di trovare a tutti i costi tutto il novero delle facoltà in tutti gli uomini che hanno dato insigne esem¬ pio di sé: che sarebbe come chiedere a una bella donna, pro¬ prio perché è bella, di essere insieme bionda e bruna. E a Giovanni Verga, perché in due o tre libri si è dimostrato un genio, e in parecchi altri — Èva compresa — un grande scrit¬ tore, di essere anche un uomo intelligente: nel senso che al¬ l’intelligenza si dà di intelletto ragionante e giudicante. La difficoltà dei suoi capolavori sta proprio nell’essere così netti, che si vedono e si toccano da tutte le parti, e viceversa nel non 181

rivelare il loro senso; ma al punto, che tentare noi di estrarlo, finisce sempre col ridursi a una semplice congettura, e spesso parziale, e sempre monca. Comunque, qui in Èva il perso¬ naggio del narratore, proprio per questa sua capacità di ve¬ dere e di far vedere, scompagnata da quella di giudicare, prende questa singolare caratteristica : di essere che riferisce tutto, eppure d’improvviso ha uno strano bavaglio, si muove quanto occorre, ma lascia il senso di essere paralizzato. Proprio per questo ha richiamato la nostra attenzione, in quanto per¬ sonaggio; mentre, dal punto di vista narrativo, dovrebbe pas¬ sare abbastanza sotto silenzio. Anzi, che non intervenga, ai fini dell’economia del racconto, è molto giovevole. Ma una volta che questo personaggio del narratore ci ha interessati a lui, proprio per il suo così tipico modo di essere inerte, proprio per il suo rifiutarsi a certi tasti, sara difficile abbandonarlo, senza cavargli qualche altro segreto. Colpa sua, se ci ha parlato di Vittorina, se per un istante ha subito la tentazione di scoprirsi più di quanto gli era richiesto. Queste cose non succedono mai senza un motivo: appartengono a quel tipo di movimenti involontari, di sviste che ci svelano un uomo, di là da ogni sua intenzione. Lui stesso è stato co¬ stretto a commettere quelle sviste da qualche cosa più forte di lui, che gli ha poi anche impedito di controllarne la por¬ tata. In realtà, questo personaggio riservato, che si astiene, è lui a descriverci, come abbiamo detto, le prime apparizioni di Èva. Esse occupano il primo paragrafo del romanzo. Che po¬ trebbe anche essere scoraggiante: vi troviamo infatti, con ap¬ pena un poco più di lavoro di lima ed esperienza letteraria, lo stesso vago, lo stesso farnetico, che ci scoraggiava in Una peccatrice e nei tratti più enfatici della Capinera: parlerà, per fare un solo esempio, del « corruscare di un’esistenza pro¬ cellosa che era piena di attrattive. »’ Di fronte a notazioni come queste, che si moltiplicano a mitraglia, affastellate con un ritmo da batticuore nel giro di due o tre pagine, dobbiamo concludere che il narratore, cioè il Verga, appena entra in con¬ tatto con questo tipo di donna fatale, di donna di lusso, perde le staffe, la lingua gli si imbroglia, la parola si fa sovraccarica, smaniosamente. Vuol dire che quel tipo di donna è ancora per lui un’aspirazione di vita, un sogno pratico che egli insieme anela e dispera di poter coronare. Questo lo mette in uno stato 182

di agitazione, in una specie di febbre di attività, che si molti¬ plica proprio perché ignora i mezzi con cui raggiungere il suo fine. La sua parola ha l’andamento irregolare di questa feb¬ bre, è una specie di registrazione diretta del suo batticuore. Non è più uno scrittore, è un animale che si fa irto e tempe¬ stoso, in procinto di dace battaglia. Vorrebbe rappresentarci quella donna, non riesce che a rappresentarci il proprio tur¬ bamento di fronte a lei ; questa insaziabilità e disperazione di fronte a un miraggio. E quando cerca di prendersi la rivincita su questa smania di vita, che non riesce a placarglisi in una netta immagine, non trova altra risorsa che mo¬ strarsi brillante, spiritoso, arguto, epigrammatico; cerca di conciliarsi il lettore, mostrandosi più bravo del proprio or¬ gasmo, ostentando spavalderie saccenti, abbagliando coi lu¬ strini di un mediocre giornalismo; il quale, come succede quasi sempre al giornalismo, sfugge all’obbligo di approfon¬ dire, mostrando di saperla più lunga. Per esempio, queste bat¬ tute: un « sorriso di vergine in cui lampeggiava l’immagi¬ ne di un bacio », oppure « una febbre di giovanotto fatta donna. »* Quante cose ci ha detto di sé, questo romanziere che voleva eclissarsi. Ci ha detto soprattutto che Giovanni Verga non è ancora guarito da quella malattia della personalità che aveva ingenuamente vissuto attraverso il personaggio di Pietro Bru¬ sio, il protagonista di Una peccatrice. Bisogno, dicevamo allo¬ ra, di una conferma del proprio io, attraverso la conquista di qualcuna delle cose che impongono al mondo, che danno al cospetto degli altri un diploma di conquistatore: successo nell’arte, amore di una donna di lusso. Qui siamo daccapo con la donna di lusso. E, come nella Peccatrice, troviamo, ac¬ canto al miraggio della conquista, una critica anticipata sul merito di ciò che conquisterà: una specie di usura e logora¬ mento preventivo dell’idolo. Come Narcisa Valderi contessa di Prato, la protagonista di Una peccatrice, non era bella in se stessa, ma diventava affascinante per la cornice della sua vita, così qui il personaggio del narratore, prima ancora di darci la sua convulsa, rapita pittura dell’idolo Èva, ascolta il rodio del tarlo, che distruggerebbe la conquista, una volta rag¬ giunta. Nella seconda riga, avverte subito: « Non era più bella di tutte le altre, né più elegante, ma non somigliava a nessun’altra. »’ Che non è solo un modo per caratterizzare la 183

bizzarrìa di un fascino, fatto di un « non so che ». È anche un modo di presentire che, una volta raggiunta, quella donna non avrebbe più i mezzi per tenere avvinto a sé l’uomo che 1 ha tanto desiderata. Cose simili, specie per la bellezza, non le aveva certo dette per Maria la Capinera: e della sua inelegan¬ za, di quella tonaca di cui era vestita, aveva creato un motivo di tenera, patetica seduzione. Maria è la donna che egli po¬ trebbe amare, per sincera vocazione di cuore e affinità di istin¬ to, senza diffidenze, senza presagi di smentite; le altre — da Narcisa, a Èva, alle donne dei romanzi successivi — sono quelle che lui ha bisogno di amare — o meglio, le donne da cui ha bisogno di farsi amare — per sentirsi in pareggio con la vita. Arida impresa, in fondo, che esige un febbrile dispen¬ dio di energia, e da cui si torna inesorabilmente battuti, anche dopo un’apparente vittoria, e col cuore vuoto, amaro. Traspo¬ niamo queste mete sul piano letterario, avremo la carriera di Verga: i personaggi che ha bisogno di rappresentare, di domi¬ nare facendone « cose sue » sulla pagina, per potersi dire di essere scrittore. Presso certe tribù primitive vige il divieto di saltare sull’ombra di un individuo, perché si ritiene che con questo ci si impossessi magicamente della sua anima. Il gio¬ vane Verga, perfetto gentiluomo, ma invaso dall’ambizione letteraria, salta sull’ombra dei personaggi a cui vuole adeguar¬ si, da pari a pari, e nel mondo dei quali vuole ottenere il suo successo di artista. Mentre in quell’ideale ritorno alla Sicilia, più sincero e necessario umanamente che poeticamente, aveva già trovato il personaggio dei suoi amori. Quando sarà costret¬ to a quel ritorno, ancora più duramente che dalle sue nostal¬ gie di giovanotto espatriato sul continente, troverà i perso¬ naggi della sua vocazione poetica. È già chiaro, ormai, quanto il personaggio del narratore sia implicato nella vicenda. Solo dopo di avere analizzato il decor¬ so di questa vicenda, i caratteri dei personaggi a cui egli la fa vivere, saremo in grado di concludere fino a che punto egli riesca a espiarvi il suo tormento di artista ancora inespresso e tuttavia già fin troppo bravo per poter sperare di esprimersi di più e meglio, i suoi dissidi d’uomo terribilmente sedotto da un mondo che non lo convince, che egli adora insieme e disprezza. Èva è uno strano esperimento che il Verga fa, attra¬ verso un personaggio che gli somiglia e lo atterrisce: un espe¬ rimento — e bisogna continuare a esprimerci per antitesi.

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visto che il Verga giovane vive su una serie di antitesi — un esperimento aggressivo, disperato, mortale, ma estremamente timido, guardingo, circondato dalle più accorte precauzioni. La prima delle quali consiste proprio nel far figurare, entro il romanzo, come individuo staccato il personaggio del roman¬ ziere, quello che dice io, per dimostrarsi che tra romanziere e protagonista non c’è nessuna coincidenza, nemmeno il peri¬ colo: che anzi il romanziere è diverso dal protagonista, un temperamento opposto, sorvegliato, quasi glaciale, che non cadrebbe mai nell’avventura di Enrico Lanti, e al posto di lui si regolerebbe in tutt’altro modo, che insomma non ne condivide i moti, se non per una generica compassione, e che anzi è in grado di giudicarlo. Sebbene poi, come si è detto, non riesca a giudicarlo. La sua presenza cosi distaccata può anche indicarci che il Verga sente, con la storia di Enrico Lanti, di potersi offrire uno spettacolo esemplare.“ Che non ci riesca, che non sappia distaccarsene, malgrado il sacrifizio di Enrico, è la ragione che lo costringe a seguitare: Tigre reale, Eros. Ci sono romanzieri che scrivono per offrirsi le gioie e i dolori, i successi e magari le sconfitte che la vita a loro non dà : esem¬ pi grandissimi. Boccaccio o Stendhal. E il Verga degli amori di Enrico Lanti potrebbe essere in questo caso: sebbene nel libro ci sia qualche cosa di ancora troppo vissuto, per essere il contrario dell’autobiografia pratica. Ci sono romanzieri che portano a fondo, sulla pagina, un’avventura, per guarirsene: esempio classico, il Goethe del Werther. E il Verga, consu¬ mando la storia d’amore fino alla sconfitta di Enrico Lanti, potrebbe avere più o meno consapevolmente tentato questo rimedio. Ma non poteva uscirne guarito: il rimedio non era stato adoperato con sufficiente chiarezza terapeutica. La morte distrugge Enrico Lanti, non riesce a distruggere quelle possi¬ bilità di essere Lanti che si annidano in Giovanni Verga. La storia vera e propria comincia subito dopo la presenta¬ zione di Èva, col veglione alla Pergola, in cui si incunea tutto l’antefatto cioè, in pratica, quasi l’intero racconto. Per essere esatti, il nuovo capitoletto si riallaccia al precedente, con una terza apparizione di Èva, sempre ancora circonfusa da quel rapimento che la rappresentazione tenta di adeguare con un analogo rapimento stilistico, e che riesce soltanto a una specie di infatuazione. Èva, dunque, è scesa dalla carrozza « con quella altera civetteria che non si cura dello sguardo indi185

screto, o gli getta come una limosina 1 onda vaporosa della batista e il lucido riflesso dello stivalino. »“ Non credo che, in questo momento, il Verga voglia farci detestare Èva. du¬ rante tutto il veglione, una certa tenerezza verso questa donna prevale sulla polemica contro un costume che 1 autore, sia direttamente nella prefazione sia indirettamente, attra¬ verso molte battute del protagonista, dichiarerà spregevole. Ma, se avesse voluto farci odiare definitivamente Èva, non avrebbe potuto scrivere con più efficacia. Probabilmente, il nostro malessere proviene da un residuo passivo che lo stile del Verga si porta ancora dietro dalle prime prove giovanili : ed è l’ambizione — meglio si direbbe, l’avidità — di non darci solo la rappresentazione della cosa, ma insieme la pienezza del sentimento, anzi di tutta la gamma di sentimenti, che la cosa dovrebbe indurre nel nostro aninio. Per quanto concerne la comunicazione dei sentimenti, lo stile, che sia davvero stile, è sempre indiretto. Il suo risultato è di trovare la cosa, 1 evi¬ denza, l’immagine che, col solo suo presentarsi, desti il senti¬ mento : in tal caso la sua possibilità di propagazione, di vibra¬ zione, di echi, è, praticamente, incalcolabile. E non farà na¬ scere in noi soltanto il sentimento provato, o magari scon¬ tato, dell’autore, ma altri ancora, e dall’autore stesso impre¬ vedibili. Questo è il valore di dilatazione sentimentale di una immagine, che si può paragonare soltanto — sebbene sia un trito paragone — all’ampliarsi dei cerchi intorno al sasso ca¬ duto nell’acqua. Muore solo nei cerchi più vasti, divenuti im¬ percettibili, ai confini estremi della nostra sensibilità. E come si può teoricamente supporre che quei cerchi dilaghino, in onde oramai infinitesimali, fino a diffondersi in tutto l’ocea¬ no, così le vibrazioni di sentimento, che non avvertiamo più, pure continuano ad agire. Influenzano tutti i nostri sentimenti successivi, e il nostro modo d’essere futuro, così come quello passato, al suo rinascere nella nostra memoria ormai trasfor¬ mata da quella nuova commozione. Stiamo guardando le cose al microscopio, proprio per valutare la portata di quella che abbiamo chiamata espressione indiretta dei sentimenti, attra¬ verso la presenza oggettiva della cosa, che ne è sorgente. An¬ che i poeti, del resto, fanno così, non solo i romanzieri. Il Petrarca, poeta che tiene una cronaca di tutte le sue inflessio¬ ni e trascoloramenti d’anima e che si rivolge soprattutto alla influenzabilità sentimentale dei lettori, pure trova la cosa. 186

rimmagine, e la comunica limpida, visibile, lasciando che ope¬ ri da sé, fidandosi della commozione con cui ha pronunziato le parole. E quando, poniamo, vuol darci il senso di abban¬ dono orfano, desolato, d’un ripiombare nella solitudine e nel buio, dopo l’estasi che l’ha riportato presso Madonna Laura, nel terzo cerchio del Paradiso — « Levommi il mio pensier in parte ov’era » — anche li trova una movenza concreta, una immagine in atto, quasi una cosa vista: « Deh perché tacque et allargò la mano? »,'^ dove il rimpianto della infles¬ sione interrogativa quasi scompare di fronte all’evidenza del gesto. Troviamo spesso nei critici la frase pronunciata con accento di lode: « Qui il poeta ti dà la cosa, col sentimento della cosa », ma, se la lode è meritata, vuol dire che il proce¬ dimento è stato diverso da quello che ci infastidisce nel Verga. Vuol dire che ha trovato la musica, il gioco di vocali, di ac¬ centi, di sillabe che disegna la curva, su cui il nostro stato d’animo si modula, per simpatia. Tanto è vero che, in una de¬ rivazione estrema di queste possibilità della poesia, i simboli¬ sti tentarono di darci la pura suggestione musicale, avulsa da ogni plausibilità della cosa: vedi Mallarmé che si ipnotizza e ci ipnotizza sulla frase, in se stessa priva di significato logi¬ co: La penultième est morte. Perché la musica, per quanto ne sappiamo, è suggestione, precisa fin che si vuole, di senti¬ menti, ma non è definizione categorica, imprescindibile, co¬ me può essere la parola. Il famoso andante del quartetto Op. 132 di Beethoven, dove l’estasi è così celestiale e pure così memore della terra da cui si innalza, dove la luce della gioia fa vibrare lacrime così cocenti, tali da scavare addirittura un solco che brucia, questo andante può bene precisare il suo sentimento nella didascalia che dice: Canzona di ringrazia¬ mento o, per essere più esatti, « canto sacro della riconoscenza di un convalescente alla Divinità, nel modo lidio »; ma non ci impone di associare a quel canto una nostra specifica grati¬ tudine, possiamo sentirlo come un aprirsi dell’anima verso qualche cosa di alto — Divinità, se vogliamo chiamarla così — ma non un Dio teologicamente o dogmaticamente o confes¬ sionalmente definito. Tutto questo per arrivare a concludere che il nostro Verga sbaglia, e proprio perché fa tutto il con¬ trario. Lui prepotentemente decide quale sentimento dob¬ biamo provare — senza dubbio, il suo — e allora, invece di darci la causa di quel sentimento, cerca di imporcene subito 187

l’effetto, accerchiando, alonando o, in pratica, facendo smar¬ rire la cosa entro le vibrazioni che essa dovrebbe produrre. È come se il pugno, invece di picchiare, gridasse 1 ahi del dolore che vuole infliggere. Questo vizio, nato nella prima for¬ mazione del nostro scrittore, si perde non appena egli riesce a trovare le cose che davvero lo esprimono, quelle con cui coincide in pieno, oggettivamente, e che non gli lasciano conti in sospeso, né gli rammentano suoi rapporti ancora irrisolti con la vita. Qui in Èva i due stili sono giustapposti, visibili nella loro differenza: per fortuna, prevale quello oggettivo. Nei capolavori, esso vincerà. Più tardi, perduta la grande ispi¬ razione, il Verga, oramai maestro nel fare letterario, e avverti¬ to del suo vecchio pericolo, cercherà di infittire le cose, quasi per non lasciare più fessure, attraverso cui possa intromettersi la vecchia maniera soggettiva. Ma allora gli si sentirà un po’ il fiato mozzo, il ritmo troppo frequente, proprio per non darsi tempo di ricadere. È questa la ragione, che ci fa parere un po’ strane certe simpatie del Momigliano per le novelle mila¬ nesi della piccola gente, da lui messe alla pari (certune almeno) con quelle della Sicilia rusticana. Le novelle mila¬ nesi, le migliori, tentano soltanto di ripetere un segreto stili¬ stico, di cui al Verga sembra di possedere la chiave, e di appli¬ care un modo di osservazione, divenuto metodo; ma c’è la maniera, c’è più che altro la bravura, acquisita dal Verga, di evitare certi suoi difetti : e per di più manca il sostegno musi¬ cale e sintattico, gli intervalli melodici, quella specifica inter¬ punzione di silenzio intorno alla parola, che gli erano dati da una riscoperta tutta sua, tutta trasposta e divenuta stile, dei moduli del dialetto siciliano. Torniamo al veglione. Èva si appoggia al braccio di un elegante trovatore, è seguita con insistenza, perfino ostentata, da un arlecchino. Questi le domanda ogni volta: « Ti diverti, mascherina? Sotto questo tono e timbro contraffatti da ma¬ schera, è la prima volta che sentiamo la voce di Enrico Tanti, la quale poi, tornata umana, ci reciterà quasi tutto il romanzo. Einalmente Èva, spazientita, gli butta in faccia: « Noioso! » Enrico allora, senza più contraffare la voce, esclama: «Ah! è lei! e si allontana. Breve intermezzo. Anche Èva e il trovatore si sono perduti di vista. Il narratore riempie l’intervallo, il passaggio di tempo, sempre difficile nel romanzo, con una descrizione dell’atmo188

sfera del veglione. E qui dobbiamo notare quanto sia già matura, nel modo di composizione e nello scandire gli epi¬ sodi, l’arte del Verga narratore. Ha già trovato il suo respi¬ ro : a brevi e concisi e intensi capitoletti, vere e proprie strofe o lasse narrative, che gli permettono di procedere per episodi essenziali, tutti midollo. Nel loro succedersi, ciascuna di que¬ ste porta il suo contributo, aggiunge una cosa importante, fa andare avanti il romanzo. Gli stacchi netti lo costringono a circoscrivere ogni episodio, a risolverlo senza sbavature, in quella misura asciutta, intensa e succinta del bozzetto, che per lui è la più favorevole e veramente congeniale. Gli spazi bian¬ chi tra l’una e l’altra strofe assorbono, quasi sostituiscono quel tempo amorfo, di pura maturazione, o di pausa, senza eventi nuovi o significativi, dei quali pure il romanziere è tenuto a dar conto, perché un romanzo è anche una durata, un’esten¬ sione nel tempo, e nessun romanziere può esimersi dal ren¬ derne conto, sotto pena di inverosimiglianza, di innaturalezza, o addirittura di lasciarci sospettare che, nel frattempo, i suoi personaggi gli siano sfuggiti, abbiano compiuto atti o gesti che ne smentirebbero la coerenza. Un romanziere cava perso¬ naggi e vicende dalla sua esperienza o memoria o passione o fantasia; ma il tempo lo riceve in consegna dalla natura, o da Dio. Può deformarne la durata psicologica, dosarne varia¬ mente la densità, può fare che alcuni attimi, specie se dram¬ matici, consumino una tremenda ricchezza di eventi, che mesi o anni lascino colare un tempo povero, monotono, deserto; non può frodare la continuità del tempo. Il discontinuo, cioè le accelerazioni e le crisi che fanno bello, emozionante, dram¬ matico, rivelatore un romanzo, si rileva proprio sulla conti¬ nuità del tempo. Verga ha trovato un modo elegantissimo e snello di darci l’equivalente di questa continuità, evitandone la molestia, quando attraversava zone infruttuose. Ce ne offre un surrogato, per così dire, spaziale; ce lo mette sotto l’oc¬ chio, simboleggiato in quelle isole di spazio bianco. Quello che succede durante quella pausa si può indovinare dalla si¬ tuazione precisa, e quasi sempre gravida di sviluppi in cui li abbiamo lasciati. All’inizio della strofe successiva, se un’infor¬ mazione va data per capire il seguito, la fase nuova del rac¬ conto, allora la nervosità del piglio permette di fare il punto in poche parole, o eventualmente di sfogliare il calendario. Personaggi che non incontriamo mai per più di pochi minuti 189

o di poche ore, e soltanto quando hanno davvero qualche cosa da fare, vivono con noi una storia di molti mesi e noi siamo perfettamente informati della data in cui li ritroviamo. Nem¬ meno nei romanzi maggiori, il Verga riuscirà a conciliare così bene la sua vocazione di bozzettista con la sua respirazione di romanziere. Il conto del tempo, nei Malavoglia e nel Ge¬ sualdo, è difficilissimo: si misura a stagioni, di cui ciascuna simboleggia molte altre: ritorni della primavera o dell’inver¬ no, raccolti, tempeste, carestie, abbondanze, sovvertimenti eco¬ nomici o civili. Vero è che, nei due grandi romanzi, e massime coi Malavoglia (il Gesualdo è soprattutto misurato da una vita: giovinezza intraprendente, maturità fattiva che raccoglie e declino) entriamo in un campo epico : e come nelle leggende epiche un succedersi di generazioni è addirittura un succedersi di evi, così qui un avvicendarsi di stagioni diventa un giro di anni. Non ci importa di sapere quanto tempo dopo ’Ntoni, uscito di galera, torni alla casa del nespolo. È passato tanto tempo: sentiamo la gravità inesorabile di quel consumarsi di destini senza un approdo, finché verrà la morte, e forse nem¬ meno la morte sarà un approdo. E bella ancora, funzionalmente bella, se vogliamo esprime¬ re in modi tecnici quelli che sono risultati artistici, l’elasti¬ cità di queste strofe : alcune brevissime, due righe, una battu¬ ta, e hanno già soddisfatto al loro compito architettonico ed espressivo, altre di varia lunghezza, ma con una estensione in¬ terna indipendente dalla loro misura: sicché una potrà se¬ guire tutto un dialogo bene innervato come una scena di teatro che davvero getti nuova luce sui caratteri, o mandi avanti l’azione, altre esaurire di scorcio, in un resoconto strin¬ gatissimo, ma esauriente, ma non cronistico, la materia di un intero romanzo: ad esempio, quella in cui sono narrati gli amori, il carattere, e la morte del protettore di Enrico, un per¬ sonaggio comparso poche righe prima, e subito vivo. Dicevamo che il Verga, dopo il primo contatto tra i prota¬ gonisti, li ha fatti scomparire. Sente il bisogno che passino le ore, che arrivino le due del mattino. Teniamo conto che l’a¬ zione, qui alla Pergola, si concluderà alle cinque. Dando solo tre ore a tutti i fatti che deve ancora raccontare, gli pare forse di giustificare meglio la lunghissima confessione di Enrico. Scrive un romanzo a ritroso, a rievocazione: bisogna che il tempo vasto dell’antefatto riferito dal protagonista possa en190

trare nel tempo più breve possibile, sia reso plausibile dalla concitazione febbrile, rotta con cui Enrico farà la sua narra¬ zione. Bisogna, affinché il lettore si raccapezzi, che i margini della ferita praticata nel tempo del veglione da quell’ampia escursione attraverso un passato di giorni e di notti, settimane e mesi, che quei margini siano tenuti il più possibile accosti per poterli facilmente suturare, ristabilire la durata omoge¬ nea e ininterrotta di quella notte di veglione. Per fare passare le ore, dunque, il Verga (o per lui il nar¬ ratore) descrive l’atmosfera del veglione. Poche righe, ma van¬ no notate: « Il veglione era animatissimo. Si vedeva anche qualche domino elegante quasi smarrito in mezzo alla folla. Fra il chiasso e la calda atmosfera s’indovinava come un fiore di serra o di salone che passava, al profumo, al fruscio parti¬ colare della veste, a certe leggiadre esitazioni, al guanto grigio che si stringeva timidamente alla manica di una giubba. Però la bella mascherina e il suo trovatore non si vedevano più; erano forse partiti. Verso le due vedemmo bensì l’arlecchino tutto solo, grullo, smarrito, volgendo di qua e di là occhiate da matto. Dava e riceveva con la stessa indifferenza spintoni da orbo. »'^ Forse un cronista mondano, e non dei meglio dotati, avrebbe saputo dirci qualcosa di più vivo. Ma la gran vita rimette il Verga in quello stato di palpitazione, di anneb¬ biamento visivo, come la donna di lusso. Li avrà visti certa¬ mente, quei veglioni. Ma è rimasto il provinciale, che ne ha letto i resoconti sulle gazzette, infatuandosi come i ragazzi su un romanzo di avventure. E ancora adesso quelle immagina¬ zioni vaghe e accese si frappongono fra lui e lo spettacolo. Ci sono di mezzo le sue tentazioni, velleità di vivere, la soggezio¬ ne e insieme il desiderio di parità verso quel mondo di cui so¬ gna gli applausi. Il veglione rimarrà, per il Verga, uno dei luoghi deputati in cui la gente di leggiadra vita incrocia i suoi amori e i suoi drammi; così come i duelli, questi tornei della borghesia raffinata e dell’aristocrazia ottocentesca, rimarranno una delle soluzioni, uno dei risvolti per eccellenza dei suoi conflitti d’amore. Quanti veglioni e quanti duelli nell’opera di Verga. E se i veglioni scompariranno col mutar dell’ambiente, i duelli si trasformeranno, ma allora con altra necessità, in tutte le varianti della cavalleria rusticana. Altra riprova, che l’immaginazione, le risorse inventive, la capacità di ideare e 191

rinnovare le situazioni, la meccanica della vicenda non sono tra le facoltà eminenti, del Verga. Enrico, che prima seguiva Èva « come un cane allampa¬ nato colla coda attaccata al ventre e l’occhio bramoso intento al tozzo di pane che indovina nella tasca del padrone, » adesso riappare « tutto solo, grullo, smarrito, spingendo a de¬ stra e a sinistra » e « volgendo di qua e di là occhiate da mat¬ to ».'* Senza che il Verga ce lo descriva, sentiamo aleggiare in¬ torno a questo personaggio quell’aria torva e contraffatta, tru¬ culenta e surrealista che danno le maschere, appena la gioia e l’ilare pazzia cessino di giustificarle: un travestimento, un volto coperto, come di chi sta per compiere un misfatto. Il so¬ lito grottesco della pietà umana sotto la smorba immobile di cartapesta. Un gruppo di giovani provoca l’arlecchino. Sono artisti o mondani, lui li conosce tutti, rinfaccia, deridendole, le loro opere, al narratore le sue fiabe (questo nome fiabe ci fa supporre un modo, ironico e orgogliosamente bonario, da parte del Verga, di considerare, minimizzandolo, il proprio lavoro: così come certi scultori chiamano le proprie statue « i miei pupazzi »). Con un dialogo un po’ artificioso nel suo ingranaggio, che mira soltanto a essere veloce, si arriva subito alla scommessa: una cena da mille lire, se l’arlecchino riuscirà a dare un bacio alla mascherina accompagnata dal trovatore. Il suo pegno di 500 lire, l’arlecchino lo dà al narratore; dice di averlo conosciuto a Catania. Breve passaggio di tempo. Poi l’arlecchino si presenta al narratore, lo prega di salire con lui in un palco. Quando si toglie la^ maschera, l’autore non lo riconosce (ritratto in pal¬ lore e lividezza, baffetti biondi).- Ma Enrico Lanti (così si pre¬ senta l’arlecchino) ha, per così dire, certificati irrefutabili. So¬ no stati compagni di scuola : allora il narratore aveva una giac¬ chetta con bottoni d’oro, che faceva la sua‘ disperazione, per¬ ché tutti lo canzonavano; quanto a lui, l’arlecchino, i condi¬ scepoli lo chiamavano badduzzaP E questo della affliggente giacchetta coi bottoni d’oro, tratto personale che il narratore si lascia sfuggire tra le righe, è uno degli elementi da tenere in serbo, per quando conchiuderemo sul romanzo Èva. Va ricongiunto a una delle invenzioni, che nella Capinera ci ave¬ vano colpiti: la tonaca di Maria tra i vestiti borghesi che la circondano, il desiderio del vestitino color caffè. Più di una volta, accanto al soffoco dell’isola, alla paura che la provin192

eia originaria sia fuori del mondo, marchio di arretratezza e di inferiorità, ci è accaduto di sospettare nel Verga un’offesa più strettamente personale, di cui ci sfuggiva la causa e vede¬ vamo soltanto gli effetti. Probabilmente se potessimo indagare quella causa — indagine male impiantata, perché su materia sfuggente e non documentabile — non troveremmo fatti vi¬ stosi, ma solo scalfitture, come questo avvilimento di una giac¬ ca risibile. La psiche usa strani strumenti, quando trasporta nel suo grembo le emozioni superficiali — quelle che la vita nel suo corso ordinario sembrerebbe dover smaltire con la massima facilità: una scalfittura, appunto, può diventare un profondo solco, di quelli che lasciano la loro forma sulle opere uscite da quel grembo. Ma tutto questo capitoletto di Èva — l’inizio del dialogo nel palco — è pieno di tratti indicativi. Non bisogna dimenti¬ care il sottile, oscillante, continuamente variabile giuoco di metamorfosi e insieme di disgiunzione che avviene qui tra romanziere e personaggio. In Enrico Lanti il romanziere con¬ suma un processo, un fallimento, una condanna, di cui per¬ sonalmente egli teme rasentare la possibilità, ma nello stesso tempo dimostrarsene immune. Mettiamo che Enrico Lanti sia il capro emissario mandato a perire nel deserto col carico dei peccati, di cui il romanziere corse il pericolo. Il capro è certa¬ mente dissimile dal peccatore; ma nella sua disponibilità al peccato, ad accollarsi il peccato, deve pure avere qualche cosa, anzi parecchio, di comune con lui. Sta di fatto che sono entrambi siciliani, entrambi artisti, entrambi emigrati nel continente, anzi a Firenze la capitale, per trovarvi un’aria confacente al loro sogno d’arte, e una piattaforma per il successo. Sono anche stati compagni di scuo¬ la: cioè, in certo modo, hanno avuto la formazione in comu¬ ne. È propria delle minoranze su cui grava una certa ombro¬ sità e, forse mania della persecuzione, una specie di certezza di intendersi a volo, una automatica, preventiva abolizione della diffidenza. Si possono toccare i tasti scottanti, senza il greve, rimescolante bisogno di spiegarsi. Enrico ha appena finito di ricordare quel ridicolo che ha afflitto le loro adolescenze, che spiega perché nel palco ha chia¬ mato proprio il siciliano e il condiscepolo: ha paura che gli altri ridano di lui. Superfluo sottolineare tutti gli echi, le ri¬ spondenze che legano tra loro questi accenni. 193

Adesso, fa una specie di testamento, l^a mòrte per lui è ine¬ vitabile: se non di spada, morrà di tjualcosa d’altro. Glie l’hanno detto i medici. Ogni sera ha la febbre. E d’altronde il narratore stesso nota ripetutamente gli accessi di tosse che interrompono le parole di Enrico e gli accendono, sulle guan¬ ce, « fiamme di malaugurio ».“ Il duello, dunque, non è nem¬ meno un’alternativa: è uno dei due itinerari per la còrsa al¬ l’abisso. È anche un modo per finire in bellezza, romantica¬ mente incensando .la morte e gettando contro le offese della vita questa specie di vendetta. È abbastanza cutioso — e si po¬ trebbero fare alcune variazioni in base agli schemi moderni di animus e anima — come ad Enrico, nel romanzo, tocchi un po’ la parte della donna: sia lui anima, rtieritre Èva, più ragio¬ nevole, sia abbastanza animus. Insomma, la morte di consun¬ zione in questo libro toccherà all’eroe. Tutti questi connotati, naturalmente, sono quelli con cui il Verga cerca di segnare in più vistosa maniera la sua separazione dal protagonista. Di mostrare che non fa causa comurte: di stendere un cordone sanitario. Ma gli invisibili e prepotenti incontri delle radici, questi modi di echeggiarsi a vicenda si avvertono tutto intorno al cordone sanitario. Una certa maniera di ricordare la famiglia come un rimorso, come un affetto tradito, come la vittima di una rottura dolorosa consumata dal figliuol prodigo. Enrico ha paura che la famiglia, da cui si è staccato pariandó di ideale e promettendo la gloria, gli leggerebbe addosso il peccato. Non vuol rivedere i suoi: « Se sapessi come sono fatti gli occhi della madre che ti affissano in volto in certi momenti e ti chie¬ dono certe cose! È straordinario come questi ragazzi, partiti per fare l’arte, concepiscano il lavoro come un debito: come non accettino che, per produrre arte, sia pur necessario com¬ promettersi con la vita. Che cosa chiedevano al mondo? Per lavorare nel campo, dei sogni senza mescolanza, rimanere fi¬ glioli modello, bastava l’isola. Ecco, più sottilmente, un altro aspetto del contrasto tra bisogno di spazio e di vita e paura dello spazio e della vita. Altro vicendevole echeggiarsi, la maniera di parlare della Sicilia, sentendo improvvisa la struggente poesia delle idee, e, magari, pregiudizi locali; parlandone con una superiorità che vorrebbe essere un giudizio e invece è un tremito: in quella specie di testamento che Enrico fa, affida al narratore l’inca194

rico, quando lui sarà morto, di andare in Sicilia. Ma, in caso di disgrazia, non racconti come è morto: « Di’ che son morto di tifo, di miliare [febbre petecchiale] in una buona casa; ché in Sicilia l’idea dell’ospedale stringe il cuore. E racconti anche che, intorno al suo capezzale, erano gli amici. Insomma, una scena di agonia quale la famiglia vorrebbe e, in realtà, quale lui stesso la vorrebbe. Disancorarsi è stato un gran ge¬ sto: sono rimasti ancorati. E della loro presunzione di potersi staccare, sono stati puniti col fallimento. E, infine, una delle frasi più compromettenti del libro; un assillo, una domanda, a cui il romanzo vorrebbe poter rispon¬ dere, se fosse capace di risolversi con una morale. Ma abbia¬ mo già detto che l’autore non arriva a giudicare la situazione. La domanda è fatta in termini passionali, può suonare come la più rozza, plateale contraddizione da enfant du siècle del se¬ colo romantico: ultima eco delle Niiits mussettiane;^^ e in¬ fantile nella scarsità di cervello che la suggerisce. Dunque, Enrico che ama perdutamente Èva, ma che insieme la detesta, e vorrebbe morderla e schiaffeggiarla e pestarla sotto i piedi, pone la domanda così : « Dimmi come pur sputandole in fac¬ cia tutto questo odio e questo disprezzo si possa morire per lei, si possa sacrificarle l’onore, la vita, la famiglia, la giovinezza, l’arte... Trasportiamoci da questo piano di vita vissuta a quello dell’opera artistica: è esattamente la domanda che do¬ veva aggirarsi nel cuore di Giovanni Verga, il quale sconfes¬ sava — e lo dice nella prefazione, e lo fa ripetere da Enrico lungo il romanzo — quel mondo dominato dall’avidità del denaro e dei piaceri, da un lusso senza cuore, eppure voleva servirlo per ottenerne l’amore e l’ammirazione, e a questo ser¬ vizio stava sacrificando anche lui certe dolcezze casalinghe, familiari, gli affetti del luogo d’origine e forse, nel suo risen¬ tito orgoglio, qualcosa che somigliava alla dignità. Quante volte, è facile supporlo, gli sarà sembrato di umiliarsi, accet¬ tando le regole del gioco, che aveva intrapreso: cioè subendo tutte le concessioni, diminuzioni, ipocrisie, false modestie, astuzie che erano come il pedaggio che doveva pagare all’am¬ biente in cui voleva farsi largo. Scavando àncora di più, nei moventi autentici di quella domanda un po’ infantile, si trova addirittura il tema fondamentale del Verga, quello da cui sarà portato, per dispera¬ zione, al mondo rusticano. Ecco l’antitesi: perché sacrificare 195

l’arte, che è positività, a personaggi negativi? D’altra parte, perché e come condannare quei personaggi, che 1 autore stra¬ namente ancora ama, con i quali non ha risolto ancora i suoi rapporti, dato che per lui essi rappresentano tuttavia un idea¬ le, almeno, pratico? Nella prefazione ai Malavoglia dirà del¬ l’artista: « che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione ».^ La sua posizione, d’ora in poi, sarà: schiaccerei sotto i piedi tutte queste Ève e compagnia; e in¬ tanto è inevitabile ch’io li adori fino a morirne. Ecco, a nostro avviso, la chiave del processo con cui Verga arriva, per disperazione, ai Malavoglia. Per disperazione e per un’ardua consolazione d’uomo che ha mancato il suo primo scopo. Naturalmente, tutto questo non è che un enunziato: bisogna svilupparlo e inverarlo nell’analisi. Certo, fin dall’autopresentazione di Enrico Lanti, par di ve¬ dere che il Verga, nella misura in cui affida al suo personaggio il compito di ingrandire drammaticamente e di portare al castigo le sue proprie apprensioni e possibilità di sbagliare, sfiora una certa lucidità — forse la lucidità della paura — circa l’antitesi che abbiamo enunciato, tra le attrattive che quel mondo esercita e negatività del giudizio che vien fatto di darne tra ambizioni e ideale. Enrico non crede più all’arte. Sa di avere abbandonato la famiglia per inseguire nient’altro che larve. « E allora, » dice, « ho dovuto chiedermi quale di cotesti due affetti fosse il vero... ha vinto il più turpe; ha vinto il sensuale nella mia anima che viveva in un mondo ideale. Non credo di forzare il senso di questa frase, leggendo in essa la paura che quel mondo, di cui l’arte dovrebbe dare la rap¬ presentazione, piaccia ed attiri soprattutto come un mondo da viverci praticamente dentro, da spenderci e consumare la vita : un mondo che appaga la sete di piaceri o l’ambizione, ma uc¬ cide l’ideale. Comunque, questo Enrico ingrandisce la situazione di Ver¬ ga, o per meglio dire: la esaspera. Se Giovanni Verga è parti¬ to di casa come un fìgliol prodigo abbastanza munito di bi¬ glietti di andata e ritorno, abbastanza garantito contro l’av¬ ventura e i rischi del fallimento -— perché la sua famiglia, a quanto sappiamo, agiata non si era dovuta svenare per lui, e quindi l’insuccesso poteva essere cocente smentita, ma non rovina --- invece Enrico è partito pensionato dal suo comune, da cui riceve una borsa di 150 lire al mese, e non ha scampo 196

altro che nella vittoria: perché il comune ha affrontato la spe¬ sa « allo scopo di aumentare il numero dei suoi grandi uo¬ mini (parole testuali). Verga, in fondo, dei giudizi favo¬ revoli e delle lodi che l’avevano incoraggiato neU’ambiente nativo faceva ormai il giudizio che si meritavano, e in ogni caso aveva preso su di sé le illusioni, ne doveva rispondere solo a se stesso o, semmai, a una famiglia che, comunque fossero andate le cose, era pronta a riaccoglierlo e a perdonargli l’er¬ rore giovanile. Land no: anche se non arriva a dichiararselo, esplicitamente, è in una condizione più terribile e paraliz¬ zante, perché le sue smentite diventerebbero un fatto pub¬ blico. Agisce allo scoperto e deve rispondere, in un certo sen¬ so, delle illusioni altrui. Compagni e professori l'avevano in¬ coraggiato, egli spiega, e subito soggiunge: « È vero che c’era poco da fidarsi di loro, che avevano in corpo le stesse maga¬ gne. Deduciamone che difficilmente gli avrebbero perdo¬ nato di dimostrare con l’esempio che quelle erano « maga¬ gne ». Fallito lui, erano falliti tutti. Nel sussidio comunale c’è una vistosa generosità, ma in corrispettivo c’è intolleranza, meno bontà, e meno lungo credito, che nell’appannaggio fa¬ miliare. E poi, sempre a proposito di questo ritratto di Enrico — che potremmo chiamare un ritratto delle vertigini di Giovan¬ ni Verga ai suoi primi confronti con l’ambiente donde vuole ricavare ed a cui deve affidare la propria opera — possiamo mettere a partitg l’analisi che avevamo fatto dei primi ronianzi, o abbozzi isolani e siciliani. Avevamo detto che il Verga nasceva seguace di quella che il De Sanctis chiama scuola de¬ mocratica, o scuola dell’ideale. Una letteratura, che voleva proporre magnanimi e generosi modelli. Nei suoi tardi e pro¬ vinciali seguaci, quella letteratura pone l’ingenua, conseguenza morale che bisogni identificarsi con queU’ideale. Che bisogni portare l’ideale nelJa vita, non già ottenerlo come lotta sulla vita e, magari, contro la vita. Insomma, per quegli adepti gio¬ vani insieme ed attardati, l’ideale diventa una specie di forza ascetica e privativa, che dovrebbe alimentarsi del solo suo fuo¬ co, e non^accettare confronti con la realtà. La situazione curio¬ sa, e che li dimostra storicamente attardati, è che poi essi van¬ no cercando proprio la vita com’è, sentono il bisogno di uscire dall’isolamento, di emigrare a Eirenze. Ma appena quella vita a cui hanno anelato chiede di correggere l’originaria purezza. 197

di alimentare il sacro fuoco con un combustibile che in qual¬ che modo sporca le mani, allora protestano. E quella vita, di cui sono costretti — come uomini, ad essere partecipi, come artisti ad essere testimoni — la denunciano come qualche cosa di impuro, come un’offesa ai loro principi!, come una semente di perdizione. Non solo, ma qui subentra, come coefficiente personale e psicologico, la loro natura orgogliosa, facile a ri¬ sentirsi e, come già si notava, diffidente. In quel mondo egoi¬ stico, in quella società corrotta dalla febbre di arricchire, da un lussurioso amor del piacere, vedrà lo scherno contro chi si ostina nella purezza dell’ideale. Questo giovanotto, bruciato e distrutto dalla prima prova a cui quegli ambienti hanno sot¬ toposto la sua un po’ astratta ricerca dell’assoluto, crede di aver raggiunto la saggezza in una amara e scettica negazione; solo il denaro conta, i sentimenti non valgono nulla, una spe¬ cie di gretto materialismo è la sola legge: « Non c’è altro di vero che le modificazioni dei nostri nervi e la temperatura del nostro sangue. »” Se ci guardiamo meglio è una protesta in¬ fantile; è quella del bambino che si ritrae sdegnato nel suo rifiuto « non gioco più. » Ma il narratore se la lascia rinfac¬ ciare quasi come un’obiezione alla quale lui, più nuovo, più difeso, forse più cauto, non sia ancora arrivato: « Io chiamo follie quelli che tu chiami nobili affetti... », « Quanto guada¬ gni con la tua arteì... le tue idee, nelle quali non vuoi mi¬ schiare del denaro non valgono nulla... cotesta gente che si affretta verso la Borsa, riderà di te... perché il tuo cervello e i tuoi nervi sono in uno stato di esaltazione morbosa... » Per ora, il romanziere non sa che cercare di schermirsi. Ri¬ sponde all’amico che quello è un avere « il cuore ammala¬ to... », che è un modo di essere « molto sventurato », che sono riflessioni di « un giorno di febbre o di sconforto!... », che si tratta di scienza desolante, di « scienza del nulla ».* Vicever¬ sa, tutte queste obiezioni, che qui aveva respinto, se le accolla, a romanzo finito, nella prefazione, e quasi con le stesse parole di Enrico, là dove scaglia il romanzo come un atto di accusa contro la società, e fa quella che egli chiama la « sfuriata posta in capo alPEufl ».^‘ « La civiltà è il benessere; e in fon¬ do ad esso... non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo — mettiamo pure l’arte scioperata — 198

non c’è infine che la tavola e la donna. » E l’arte finisce col non essere che la « manifestazione di questi gusti ». « I Greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il cancan litografato sugli scatolini dei fiammiferi. » Conclusero: « Non accusate l’arte, che ha il solo torto di avere più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. »“ Cioè, Verga, come lo vediamo da questo documento, ha un solo vantaggio su Enrico Lanti : questo paga con l’arte e con la vita la sordità e l’edonismo deliranti di un mondo che non può capire la purezza dell’ideale. Verga paga semplicemente con un romanzo. Dove Lanti sacrifica tutto se stesso. Verga sacrifica un personaggio, e l’affetto che può nutrire per questo personaggio. Ma il giudizio e la protesta sono ugualmente infantili, in Lanti e in Verga. Semmai, il Verga — sembrerà paradossale — ha la forza di essere più incoerente, più scisso che Enrico Lanti; il quale, con una specie di coerenza cieca, coll’illusione di serbarsi fedele tutto di un pezzo a quel tor¬ bido e ottuso pasticcio che egli chiama l’ideale, gli si immola. Il Verga prende atto che nemmeno in arte si può salvare l’ideale, che bisogna fare la litografia sulla scatola di fiammi¬ feri. E che semmai la forza, la vera moralità contrapposta agli ipocriti moralismi, consiste nel saper mettere cuore e com¬ passione, dove la corrotta società non mette altro che cinismo. Ma il vero, l’implicito riscatto, quello che Verga non enunzia, quale sarebbe? La difesa dell’ideale, ottenuta con una autenti¬ ca testimonianza del controideale. Deluso nelle sue fedi, nelle sue aspirazioni di creare più maturamente gli eroi che aveva rozzamente plasmato in Amore e patria, nei Carbonari, adesso dovrebbe in qualche modo adempiere al suo compito coi non¬ eroi, coi falliti. Cioè dall’impianto con cui aveva iniziato: arte ideale, gli è rimasta l’aspirazione a creare dei modelli. Anche se capisce bene che non hanno da essere modelli didattici, da libro di lettura, si ricava da una sua lettera a Ferdinando Mar¬ tini, proprio a proposito di Èva: « Io non credo che l’arte ab¬ bia l’obbligo o il potere di raddrizzare le gambe ai cani — non ci riuscirono i romanzi del Bresciani! — ma non mi era parso nemmeno di avere inneggiato alle gambe torte. (Èva infatti era stata accusata di immoralità.) ^ Quando si dice mo¬ delli, si intende figure cavate da una certa idea della vita, o visione del mondo, capaci di fornirne una manifestazione di199

mostrativa, e di funzionare sul lettore come persuasioni attive, mozioni degli affetti. Purtroppo, si vede costretto a dare dei modelli negativi, con una sottintesa speranza che funzionino tuttavia come esempi da sfuggirsi, come eroi di un « non dover essere », laddove gli eroi sognati q sperati erano quelli del « dover essere ». Ma ci si domanda: perché allora non evade da quel mondo? Perché ne subisce le leggi? Perché, pur detestandolo, fa quell’arte — a suo avviso, spregevole — quella litografia da « scatole di fiammiferi » che esso chiede? Ma proprio per quel senso di inferiorità, che gli fa adorare, nella realtà vis¬ suta, quegli ambienti a cui non riesce ad assimilarsi, e che moralisticamente condanna. Ha bisogno di prendersi una ri¬ vincita, di rigirarsi tra le dita quegli uomini e quelle donne, che forse, incontrandolo, lo guarderebbero dall’alto in basso. Ha bisogno di piegarli all’applauso, di farne cosa sua: sebbe¬ ne già sappia che, dopo di averli conquistati, non gli riuscirà di vivere tra loro. Sfruttiamo ancora, in questo senso, il ritratto di Lanti. Ci racconta, forse, con quali occhi il giovane Verga abbia guar¬ dato Firenze: « Ero felice di passeggiare per le vie di Firenze, come se andassi a braccetto con Raffaello o con Michelangelo. Mi pareva di respirare l’arte a pieni polmoni; e avevo in cuore tutti gli entusiasmi, le antipatie, gli affetti della mia illu¬ sione. Vivevo come in un’atmosfera del Cinquecento che mi rendeva idolatra dei palazzi anneriti dal tempo, (strano che cerchi il color lava, un colore siciliano e un peso barocco a Firenze) delle gronde sporgenti e malinconiche. »^ Ma soprat¬ tutto ci racconta le sfide lanciate al suo riottoso orgoglio dalla grande città, e da quella vita superiore, irraggiungibile, feli¬ ce; Enrico dice che vedeva « come in nube » i piaceri citta¬ dini e che si rifugiava nell’arte (quell’arte di cui si era por¬ tato l’ideale dalla Sicilia), quando di quei piaceri provava la curiosità « con amaro sentimento di privazione. »^ Sono sentimenti riferiti in un autobiografismo astratto, un po’ declamato, ancora una volta patetico nella sua sincerità più di quanto sia persuasivo nella sua verità. Ma diventano veri, ricevono questo superiore collaudo della verità, allorché li vediamo concretarsi in un momento vissuto del personaggio. Ecco Enrico seduto alla Pergola, quella prima volta che si de¬ cide a entrare a questo costoso teatro d’opera e a fare quel 200

« buco nel [suo] bilancio », che avrà per lui conseguenze fatali. È entrato presto, prima che si accendano le luci, per accapar¬ rarsi un buon posto in platea: « E li, » racconta, « nella semioscurità, col mio paltò piegato sulla spalliera, l’ombrello tra le gambe, il cappello suH’ombrello, l’occhio intento, stavo a godermi il mio biglietto di ingresso esaminando tutto: le dorature dei palchi, il leggio del suggeritore ecc. Forse non occorreva premettere altro: tutto Enrico è qui, la sua ne¬ cessità di rifugiarsi nei sogni un po’ titanici, quel suo sentirsi dentro di sé un leone dell’ideale, appunto perché è schiac¬ ciato, tenuto in soggezione dal mondo della realtà, come un bambino di fronte a una vetrina di giocattoli troppo costosi. E quel suo disprezzo amaro, la condanna con cui cerca di pol¬ verizzare un mondo a lui precluso, questo buon figliolo di mamma, che, accuratamente, piega il suo paltò sulla spalliera per non sciuparlo. C’è una pagina commovente dei diari di D’Annunzio: dove racconta del suo lavoro al Trionfo della morte. E mentre pensa di descriverci non solo il suo lavoro implacabile, quasi eroico — è la verità — in termini che ri¬ valeggiano, che so io, la fusione del Perseo celliniano, o la pit¬ tura della volta della Sistina, dice di una sua tregua: si sdraia sul divano, si concede una sigaretta. Forza dell’Italia provin¬ ciale, economa, semplice, che costituì la profonda, ricca riserva fisica (e anche morale) di questi artisti e permise loro di muo¬ vere alla conquista: D’Annunzio quasi sempre vuole ignorar¬ lo, quella modesta sigaretta è una svista in un racconto di ma¬ gnificenze. Verga ha troppa nostalgia di casa per non sentire, con istintività di artista, il patetico di quella figura di ragazzo povero e pulito nel paese delle meraviglie sfarzose e per lui crudeli. Nel paragone, chi ha torto? Le meraviglie della Per¬ gola o la modestia intimidita del ragazzo? Verga conduce il ragazzo alla rovina, cioè in pratica gli dà torto; ma vice¬ versa la sua polemica si sferra contro quel mondo di inganni. La verità è che lui stesso riuscirà a vincere, quando si metterà di fronte a un mondo, che non gli infliggerà più alcun senso di tenerezza impietosita verso se stesso, se anche automaticamente, per un gesto abituale, piegherà il paltò sulla spalliera: e il suo tener da conto non sarà più umiliato dal paragone con un disinvolto sciupio. Enrico ha ancora un gesto rivela¬ tore: quando i palchetti si popolano di donne meravigliose, che gli paiono tutte belle, e di signori « così ben vestiti e così 201

ben rasi, e colle testine così ben pettinate, ricciutelle e lucide, che quelle belle donne dovevano al certo guardarli con tanto d’occhi spalancati, istintivamente egli si nasconde le mani nude sotto il cappello. Ci spiega dopo il perché: si vergogna di essere senza guanti. I suoi sogni d’arte evidentemente non gli servono piu, né le sue ambizioni, ne 1 orgogliosa coscienza di valere più di quella gente: vorrebbe essere come loro. Tutta questa storia di Enrico è una serie di errori; altri ne aggiungerà, e più gravi. Purtroppo, 1 educazione, il tempera¬ mento, i limiti stessi delle sue possibilità di artista e della sua magnanimità gli rendono inevitabile tutta quella catena di errori. E nello stesso Verga, che li narra, c e una strana reti¬ cenza:^’ sembra capire quegli errori e insieme parteggiare per essi. Il suo giudizio è come inibito. Oramai sappiamo il per¬ ché: questo perché è contenuto nel tema fondamentale, che siamo andati scoprendo in questo nostro studio sul Verga. Egli stesso, come artista, è costretto a errori analoghi a quelli che Enrico sta compiendo nella vita. Per non nascondere le mani, si mette i guanti: lui, nato a scrivere con le mani nude. Ed Èva è un libro eccezionalmente riuscito perché è la storia di questo errore, scontato come una ineluttabilità di destino: e rappresentato con una oggettività ingenua, materia di visione e di sofferenza, prima che diventasse materia di giudizio. È l’errore stesso che ci appare; gli altri romanzi. Tigre reale e, peggio. Eros sono molto meno belli, perché conseguenze del¬ l’errore, impregnati di quell’errore. Invece che romanzo di un errore, errore di un romanzo. Notiamo le tappe successive del romanzo. È la prima volta, si è visto, che Enrico mette piede alla Pergola. È frequentatore di teatro — grande attrattiva della città sui provinciali, em¬ blema di successo — ma va a spettacoli meno costosi. Sta¬ volta, gli è successo che il giorno prima ha terminato un lavoro di cui è contento, ha riscossó il vaglia mensile, e il sole di quella domenica gli pare in festa come il suo cuore. Perciò si permette la deroga. Moralisticamente parlando, se invece di un romanzo verghiano avessimo sott’occhio un dramma ibseniano con una rigorosa, implacabile contabilità di cause ed effetti morali, diremmo che proprio quell’abdicazione di En¬ rico, quel cedere a se stesso, è la cagione o il sintomo dell’in¬ crinatura del carattere, entro cui la vita — questo processo, questo giudizio — infila tutta la serie di prove cruciali, con 202

cui trasformerà il protagonista in un accusato, poi in un con¬ dannato. Il momento, per usare il termine ibseniano, in cui viene caricato il morto nella stiva. Ma Verga non è Ibsen — lo vediamo soprattutto nel Mastro don Gesualdo. E allora conten¬ tiamoci di ammirare la sapienza di romanziere con cui crea un momento di euforia e di baldanza per cacciare il suo Enrico nel labirinto mortale. Il destino opera su di noi mettendoci sotto narcosi. Su una ribalta di apoteosi, appare Èva, la prima ballerina. Una pagina che merita di essere letta, fin dove gradua e pre¬ para quell’apparizione fatale. E merita di essere letta, ma in altro modo, dove è descritta Èva: con quella solita sfocatura aionata e palpitante di Verga, dove i turbamenti dell’uomo, ancora in credito verso le sue accese e torbide fantasticherie di adolescenza, fanno tremare la mano dell’artista. Enrico esce dallo spettacolo con la testa in delirio: barcolla, pesta nel vestibolo gli strascichi delle signore, rischia di « get¬ tarsi » (forse vuol dire cadere) sotto i piedi dei cavalli. La notte, non riuscendo a esprimersi con la pittura, butta giù un focoso articolo che — tramite un amico, apprendista teatrale, felice di risparmiarsi la fatica di un altro resoconto — finisce sul giornale, poi tra le mani di Èva, la quale si commuove degli elogi — probabilmente nuovi, nella loro sincerità — e vuole conoscerne l’autore. Enrico è restio ad accettare l’appuntamento. Bisogna che intervenga, a dargli la spinta, il so¬ lito pubblicista: un personaggio che poi subito scomparirà, ma qui era necessario a fare da pronubo, o da piccolo diavolo. È giusto che Enrico tema di deflettere da quella linea di pu¬ rezza e di idealismo che s'è portato dall’isola. Egli non ha mai amato — così ci racconta — semmai ha dissociato le sue aspi¬ razioni tra impassibili duchesse, i cui « piedi non si erano mai posati sul lastrico delle vie, » le cui mani « nessuno aveva visto senza guanti » all’infuori di lui; tra queste duchesse, dunque, e i biondi capelli — « i soli capelli » — della came¬ riera di fronte: e a proposito di questi vagheggiamenti, molto più terreni, aveva dato una giustificazione appariscente ma tortuosa e probabilmente ingannevole: « Nella comprensione dell’arte c’è una squisita sensualità; la bellezza plastica che compenetravasi nel bello ideale aveva per me certi affascina¬ menti, ancora verginali ma potentissimi. »* Stanno preparan¬ dosi quelle giustificazioni dell’artista esteta, che Verga non 203

sarà, che sarà D’Annunzio. Comunque, Enrico è sulla difen¬ siva: nel suo repertorio di ragazzo provinciale che deve fare onore a una borsa di studio, ci sarà stato certamente 1 afori¬ sma che l’amore distrae dal lavoro, truccato sotto la più rac¬ comandabile ed estetica veste che la realtà distrae dai nobili sogni. Insomma, è logico che l’invito di Èva, per quanto inno¬ cente, scateni in lui l’istinto di difesa, oltre a mettere in allar¬ me la sua timidità. Si potrebbe perfino supporre che proprio per l’eccessiva importanza che Enrico gli annette, quell’incon¬ tro diventi così pericoloso. Finalmente, mettiamo nel bilan¬ cio un dato più specifico e verghiano : quella specie di imbambolamento, impaccio, sentenza, goffaggine dell’uomo, che non sa e non vuole fare il primo passo: sicché l’iniziativa rimane di Èva, come nel Paradiso terrestre. Più in grande, più in net¬ to, più in vero, questa situazione dell’uomo di fronte all’ag¬ gressività della donna, la ritroveremo nella Lupa: « Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonnq, trovando¬ sela dinnanzi, ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. Comunque, Enrico va a teatro. Vede il rovescio di quel palcoscenico, che dall’altra parte è una visione di rapimento: « Tutto polveroso, unto, sudicio, dove stavano a chiacchierare alcuni macchinisti in maniche di camicia, e un pompiere fa¬ ceva la corte a una figurante lercia, seduta a cavalcioni su una seggiola zoppa. Sappiamo come Verga logori in anti¬ cipo, faccia l’obiezione distruttiva a quel mondo in cui sarà travolto: possegga l’argomento che gli permetterà di logorarne il fascino, appena ne avrà ottenuta la conquista. Sa che non può credere a quel mondo, ché nel di dentro esso è bacato — « tutto polveroso, unto, sudicio », « figuranti lerce e seggiole zoppe », ma appena quel mondo riappare nella sua bella fac¬ ciata, erge la sua abbagliante messa in scena, lui torna a sen¬ tirsi provocato nel suo senso di inferiorità, è pronto a dan¬ narsi per ripartire alla conquista. Nella Peccatrice non tanto ci aveva fatto meraviglia che il protagonista Pietro Brusio si staccasse da Narcisa, dopo che nella vita in comune si era sciu¬ pata e dispersa la polvere che faceva meravigliose le ali della farfalla: che Narcisa non fosse bella, Pietro lo sapeva, ma ne aveva ugualmente subito il fascino, le sete, le gemme; non tanto il distacco, diciamo, ci aveva fatto meraviglia, quanto l’ultima proposta di Pietro, per rigenerare l’amore ormai di204

strutto: torna ad allontanarti, torna a circonfonderti di lusso e di inaccessibilità, e forse io ritornerò il tuo adoratore di pri¬ ma. Qualcosa di perfettamente analogo si produrrà, più tardi, anche in Enrico. Comunque, adesso egli ha la rivelazione di ciò che distruggerà Èva: egli la vede fuori dell’apparato di splendore, nella sua miseria di donna stanca, che si stinge anche su quei veli e su quel costume che in scena la ren¬ dono irresistibile, e che adesso appaiono ali afflosciate, cenci, ciarpami di uno squallido sgombero. Come se Rinaldo, prima di entrare nel giardino di Armida,'*^ lo vedesse con gli occhi di dopo, snebbiati dall’incantesimo. Enrico sa già, in teoria — o almeno ha già tutti gli elementi per sapere —- come farà Èva a non piacergli più. Ma ha come il bisogno interno, oscuro, di dominare anche l’altra faccia di Èva; il suo splendore, quasi di riuscire lui a metterla in quello stato di squallore, per sen¬ tirsi pago. Comunque, eccola, come gli appare Èva. « Ahimè! un sorriso stanco, distratto, reso sgarbato dalla respirazione accelerata. I capelli le cadevano sul petto senz’arte; alcune stille di sudore rigavano il suo belletto; le sue candide braccia, vedute così da vicino, avevano certe macchie rossastre, e nello stringere i legaccioli vi si rivelavano i muscoli che ne altera¬ vano la delicata morbidezza. È davvero così brutta, questa donna, come Enrico crede, o ci Vuole far credere? Lasciamo da parte l’ingenuità — benissimo resa — di Enrico, nuovo a questi retroscena, fanaticamente convinto che la bellezza apparsagli sulla ribalta sia qualche cosa di permanente, inalterabile, una qualità propria della sostanza — se così possiamo dire — di Èva. Ma a noi, così come la vediamo, quella donna appare bella, nella sua fatica, nella sua corporeità tefrestre, di animale a cui è negato il volo, di cigno divenuto papera. A vederla bella non ci hanno insegnato soltanto i pittori, e Degas per primo, con le sue poe¬ ticissime ripetizioni del tema ballerina o del tema Classe de danse: con quelle ragazze che hanno ritrovato il loro peso, la loro malagrazia incantevole di adolescenti, anche se il tutù conservi intorno ai loro corpi una leggerezza di libellula, un residuo di vaporosità incorporea. Hanno le caviglie ingrossa¬ te, fatte grevi dagli scarpini senza tacco, di cui si chinano a legare i lacciuoli, proprio come fa Èva. Il Verga fa dire al suo Enrico, mentre descrive questa Èva fisicamente umiliata: « io parlo da pittore », ed effettivamente rivaleggia con la pittura 205

di Degas. L’emozione dell’artista è stata più forte della ripu¬ gnanza dell’esteta o del sognatore di mondi impossibili. La ri¬ pugnanza è un accento volontario, messo li per ottenere una certa situazione psicologica; la tenerezza che sgorga, così invo¬ lontaria, cosi inconsapevole, è invece autentica. Verga poteva credere sul serio di averci dato un ritratto s^adevole. Soltanto le poetiche venute dopo di lui potevano insegnarci a capire quel ritratto. E questo è uno dei pochi casi in cui si potreb¬ bero mettere d’accordo due poetiche, postume a Verga: quella del decadentismo di ieri, quella del realismo di oggi. Perché appartiene al decadentismo l’occhio impressionistico che ri¬ vela l’intensità spirituale ed espressiva, l’emozione vitale at¬ traverso linee e superfici in piena rottura con le armonie pla¬ stiche, gli equilibri strutturali, la bellezza obbediente a certi canoni di riposo, di stasi, di ostentata serenità, che erano stati gli ideali classici. Appartiene al realismo di oggi, a questo no¬ stro nuovo umanesimo, la scoperta della nobiltà, anche figu¬ rativa, dell’essere umano nell’adempimento dei compiti e del lavoro che spettano alla sua vita: affettuosamente bello, nella solidarietà che ci ispira, quale lo vide il Baudelaire: « fréle athlète de la vie È sentenza vera, fino a essere divenuta banale, che la misura di un’opera d’arte, o di un frammento, è data dalla sua capacità di serbarsi viva col mutare dell’ottica, di rigenerarsi e, direi, di motivare a nuovo la sua bellezza col variare storico, ed evolversi delle poetiche, in base alle quali la gustiamo o la interroghiamo. Non vorrei sembrare troppo solenne o esagerato, ma il frammento che abbiamo let¬ to, sulla ballerina dietro le quinte, beneficia di questa capa¬ cità superiore. Il Verga forse non poteva capire quello che il suo occhio e la sua sensibilità gli rivelavano. La sua poetica era antecedente a quelle che oggi ci permettono di capire questa sua pagina. Era la poetica che in fondo è sopravvissuta in certe, più o meno larvate, correnti retrive della critica d’arte, massime delle arti plastiche, pronte a scandalizzarsi di fronte a certi ispirati dinamismi espressivi, o a certe deformazioni li¬ riche: quella che in nome della verosimiglianza si chiede perché Cézanne incurvi a onda la spalliera della poltrona die¬ tro la testa di un suo ritratto, o perché Modigliani affili gli ovali dei suoi volti, iscrivendoli in acuti angoli curvilinei. La tendenza che, anni fa, si è riassunta nell’aforisma polemico di Ugo Ojetti, abile e aggiornatissimo nell’informazione, nell’on206

nipresenza di giornalista, quanto conservatore e pigramente estetistico nel gusto. L’aforisma suonava: il brutto è bello. Lo stesso dissidio estetico che abbiamo trovato sulla pagina, diventa dissidio, o interrogativo morale, quando consideria¬ mo la pagina come un episodio, carico di conseguenze nel ro¬ manzo. Un problema morale, che Verga lì per lì non si po¬ ne — e non già che gli si chiederebbe di porselo in termini espliciti, bensì di farcelo sentire — ma ne subirà le conseguen¬ ze, sebbene non arrivi a precisarle. Un problema morale è sempre un problema di responsabilità: e abbiamo già detto a sufficienza come il Verga non sia in grado di decidere da che parte stiano le responsabilità nel dramma di Enrico e di Èva. Forse la grandezza di un artista consiste soprattutto nel pren¬ dere atto di quel mondo che la sua fantasia ha creato, senza dirimerne i valori : ma questa è un’opinione, che non ci piace molto di condividere. Comunque, il problema morale è que¬ sto: se Enrico arrivasse a capire la bellezza di Èva, sarebbe salvo. Se potesse amarla per ciò che essa è come creatura umana, la catastrofe si eviterebbe, o, in caso contrario, biso¬ gnerebbe che Enrico avesse l’energia morale di prendere riso¬ lutamente partito della propria momentanea repugnanza, giu¬ sta o sbagliata che sia, e quindi di non lasciarsi più abba¬ gliare dall’altra Èva, quella dei lustrini e degli splendori, delle pellicce, delle carrozze, del nido di lusso. Soggiungia¬ mo tuttavia, per un ulteriore chiarimento, forse oramai su¬ perfluo, che proprio a questo residuo di indeterminatezza mo¬ rale, di intima confusione o discordia, il Verga deve l’impulso a seguitare la sua opera, l’insoddisfazione che lo spinge ad esplorare ancora, in altri romanzi, quel mondo, e quella co¬ siddetta bella società. Il fatto singolare è che egli si salverà fuggendo, senza avere ben deciso, per una sorta di stanchezza o nausea di dover decidere, con forse la speranza — certo il proposito — di affilare armi più acute per tagliare il nodo della questione. E il grande artista salterà fuori proprio in quella momentanea tregua: quando il problema di cui muore Enrico Lanti sarà accantonato. S’intende bene che quel fa¬ stidio, quel bisogno di accantonare il problema è una impli¬ cita soluzione negativa. Ma Verga non avrà mai la forza di confessarsela, di renderla esplicita : non scriverà i romanzi dei « vinti » dell’alta società e delle classi di lusso. Ogni tanto tornerà episodicamente a lanciare un’occhiata nei loro salotti. 207

e non gli varrà di essere diventato un maestro: nel suo stile riappariranno, più o meno brillantemente mascherate di arti¬ fici, la nausea, la stanchezza, che avevano appesantito il ro¬ manzo Eros. Romanzando un poco, per amore dell’evidenza, si potrebbe, come epigrafe critica dei capolavori verghiani, scrivere il verso: «perché taccia il rumor di mie catene». Comunque, in Enrico Lanti, dopo quella prima visita si forma il proponimento di non rivedere più Èva, subito con¬ traddetto dal falso scopo di tornare in teatro, per ridere del proprio dispetto d’avere visto crollare l’idolo. Così torna a teatro. Èva lo scorge in platea: gli manda, avventura incredi¬ bile, un inserviente con un biglietto: « Aspettatemi nel vesti¬ bolo. Durante l’attesa, una notazione che dimostra non soltanto l’acume d’osservatore del Verga, ma la sua bravura nel col¬ mare un tempo vuoto, nel tessere sostanziosamente la stoffa dei quarti d’ora psicologicamente intensi, eppure privi di av¬ venimenti. Il fanale di un fiacre « e il lampione di un fiacre che si riverberava sull’invetriata del vestibolo. Avrai osser¬ vato come in certi momenti eccezionali un oggetto insignifi¬ cante assorbisca tutta la nostra attenzione e s’inchiodi nel no¬ stro cervello... si fissa con insistenza nella deserta, distratta attenzione di Enrico. È tipico come certi particolari insignifi¬ canti ci colpiscano, mentre stiamo vivendo con inerzia e pas¬ sività un momento decisivo della nostra vita. Èva arriva, tutta infagottata di sciarpe e di pellicce, e al cocchiere ordina di con¬ durli alla passeggiata dei Colli. Già durante il primo incontro, Èva aveva guardato Enrico con un’occhiata di ingenua curiosità. E adesso, durante la pas¬ seggiata, recita, ma non per gioco, bensì per sincero bisogno, la parte di ingenua. Sarebbe un delizioso, anticipato capitolo di una specie di Livre de Monellef'^ che Verga non era dav¬ vero nato a scrivere: forse ne abbiamo un accenno nella no¬ vella Primavera — quella dèi piccolo idillio, o meglio: fine di idillio — tra la modista e l’artista bohème-, ma là ciò che per il Verga conta è l’amarezza, subito disincantata, di questi brevi amori senza un impegno essenziale. A questo punto, in una critica-pettegolezzo, dovremmo ri¬ cordare che, alla base- del personaggio di Èva, taluni vogliono vedere una sartina francese che aveva negozio in via Etnea a Catania. Probabile che negli amori vissuti con questa sartina. 208

il ragazzo Verga abbia scoperto le improvvise freschezze e in¬ genuità di queste donne, che conservano ancora tutta viva la linfa vitale del popolo, il suo intatto amor della vita, e una specie di facoltà di creare la gioia di vivere, di spontaneità negli abbandoni del sentimento. Sono i motivi che hanno fatto la fortuna della tenue commedia Addio, giovinezza!, col pic¬ colissimo personaggio di Dorina, così vivo tuttavia e sincero e preciso nel vivere i moti di quella tenerezza sorgiva, nel creare una specie di intimità birichina e tenace e perfino contagiosa. Comunque, ricordiamoci che la sartina di via Etnea era fran¬ cese, e forse portava una nota di lusso: forse aveva anche con¬ notati di mistero, di esotismo e di eleganza corrispondenti a quelli che rendono Èva fatale per Enrico. L’intenzione di Èva è probabilmente di accordarsi un ca¬ priccio non impegnativo, ma sincero, di togliersi una curiosità ma con tenerezza e con rispetto verso quel ragazzo, così nuovo per lei, così diverso dai ricchi e blasonati uomini che la, cor¬ teggiano perché è di moda, perché è facile, perché è costosa, perché è ballerina. In un certo senso, anche Enrico è miste¬ rioso per lei, perché artista, perché così ingenuo. E forse c’è anche, in Èva, non dichiarata l’attrattiva di togliere a Enrico una curiosità, di regalarglisi per gustare la gioia di vederlo raggiungere, insperatamente, un essere da lui creduto così pre¬ zioso. Verga indovina benissimo questo tratto di psicologia delle « donne galanti » : nel suo tratto, nel suo dialogo così elementare, così di primo grado, troviamo anticipate le sco¬ perte che, con esperienza tanto più profonda e rivelatrice, Proust farà su Odette de Crecy nei suoi primi dialoghi — in carrozza, anche questi — con Swann. In quel momento, Èva, prima ancora di cedere, si consegna indifesa a Enrico: si di¬ chiara stanca, dice (e questa è civetteria, per non dare impor¬ tanza alla passeggiata in cui l’ha voluto compagno) che i suoi giri in carrozza sono il suo modo di riposarsi. Soprattutto ri¬ vela il suo intuito, la sua sagacia senza illusioni : « Perché non siete più venuto a trovarmi?... Voi non mi avete trovata più cosi bella, da vicino! » E non permette che Enrico pro¬ testi: si direbbe che lo esige sincero, soprattutto che detesta di essere illusa da lui. Poi getta la conversazione in un giro disordinato, capriccioso, frivolo, di gentili moine; gli do¬ manda se la Sicilia è più lontana di Napoli, dice che dovrà andare a Napoli, vuol sapere se i siciliani sono gelosi. « Aveva

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la voce sonora, di quella sonorità ch’è dolce come una musica » ricorda Enrico, e spiega: « Era una conversazione bizzarra, in cui le parole avevano tutt’altro significato di quello letterale, e nell’accento della voce erravano certi suoni che ricercavano le più intime fibre del cuore. Èva qui pare .persuasa di pre¬ sentarsi disarmata, di non adoperare gli strumenti della pro¬ pria pericolosità (e sono quelli che essa adopera con gli uo¬ mini che sanno reagire a quel « pericolo », gli uomini con cui essa è in guerra, proprio per conquistarsi i mezzi di vivere), è stupita che si possa ancora arzigogolare su di lei, quando il suo modo di essere le pare così semplice: « Ditemelo francamente: voialtri non vi montate la testa da per voi quando pensate tante belle cose di una donna? »“ Si è anche troppo insistito sulla accortezza e sagacia, sul senso della realtà, che sarebbe il principale connotato di Èva. Quando la sentiamo fare una do¬ manda simile, lèi che vede gli uomini rovinarsi per le donne, lei che anzi deve mettere, sia pure senza cattiveria, le vittime umane tra i suoi trofei, allora dobbiamo insistere piuttosto su un certo candore in buona fede, per cui crede veramente di non aggredire Enrico. A un’analisi morale un poco affilata,^* questo è anzi uno degli equivoci. Uno dei torti, con cui Èva collabora alla cata¬ strofe. In fondo, crede soltanto di non aggredire Enrico, in realtà vuole conquistare l’inriocenza, l’inesperienza di questo ragazzo. E il suo candore, il suo « vide cor meum » sono anche giochi di una superiore, involontaria civetteria. Istintivamente, Èva, presentandosi così semplice, adopera gli strumenti più adatti per far capitolare Enrico. Conclusione, se vogliamo par¬ lare per morale: appunto perché Èva è così pratica della vita dovrebbe in un certo senso prevedere l’incendio quasi incon¬ trollabile che scatenerà in Enrico. Le sue responsabilità, in questo momento, si potrebbero riassumere nel proverbio: chi ha più giudizio lo adoperi. L’egoismo prevale sul giudizio. A meno che non si voglia far giocare, fin d’ora, la grande giusti¬ ficazione romantica: l’amore assolve tutto. E Èva, fin d’ora, è innamorata. Ma, il suo amore, per adèsso almeno, è il con¬ trario di quell’amore romantico che assolve tutto. È un piccolo elogio della pazzia, il suo, è una evasione da una vita dove tutto, compreso il teatro, l’annoia. « Allora per¬ ché non lo lasciate? » le domanda Enrico, che fin d’ora, con questa sola domanda, le dovrebbe pericolosamente scoprire la 210

propria ricerca dell’assoluto. « Ella mi guardò sorpresa, con quei suoi grandi occhi spalancati di bambina, e mi disse inge¬ nuamente: < Ma è il mio mestiere, signore! > » Risposta natu¬ rale: l’ingenuità con cui è data dimostra però che Èva ha ca¬ pito la fragilità di Enrico come gentile preda, preda che lei non vorrebbe distruggere, non ha capito la vulnerabilità di Enrico, o non la ammette. Poco prima, gli aveva detto : « anche voi mi piacete » «e con tal franchezza e tal semplicità come se [fossero] fratello e so¬ rella »,“ dopo la corsa al freddo per i viali, si era stretta a lui sui cuscini della carrozza, aveva voluto dividere con lui mani¬ cotto e mantello, aveva moltiplicato le moine; adesso, in fon¬ do, propone un durissimo patto d’amore. Offre un amore sotto condizione, un amore ipotecato. E questo, comunque Èva agi¬ sca con tenera dolcezza e senza oscure intenzioni di male, questo è sempre, in materia di amore, un patto diabolico. Sottilizzando sempre più, diciamo che a questo punto si assi¬ ste a un vero e proprio rovesciamento dei caratteri: Èva, la chiaroveggente, fa credito a Enrico di un senso del limite, e proprio di tutte quelle virtù di autocontrollo, che sono il contrario di quelle per cui egli le è piaciuto; Enrico, l’inge¬ nuo, sa tutto, almeno di se stesso, vede in uno scorcio di spaventosa chiarezza, che il patto di Èva è inaccettabile. Lui si è risentito nel vedere le finestre di Èva illuminate; sono i visitatori di dopo teatro saliti ad aspettarla. Èva crede di medicare quel risentimento, rispondendo: « Fra le visite che mi piacciono c’è anche la vostra. » In anche, inac¬ cettabile da Enrico, c’è l’errore di Èva. E c’è l’errore, altresì, di credere che Enrico possa arrendersi ad argomenti pratici: « Se chiudo la porta in faccia a tutti quei signori sarò fischia¬ ta. » Anche se dettati da un’acuta intuizione di quel che Enrico ama e cerca in lei, qui la consapevolezza di Èva, il suo invito alla ragione giocano come un ricatto: —• fischiata, abbandonata dai miei ammiratori, caduta in miseria « a voi pel primo non sembrerò più bella. Trascritta su una corda sentimentale, questa frase potrebbe essere una dichia¬ razione d’amore: « Lasciami alla mia vita: la faccio per pia¬ certi. » Enrico fin qui era riuscito a dissociare abbastanza bene la fantasmagorica donna della scena dalla piccola, troppo umana, Èva del retroscena: la farfalla, come egli dice, dal bruco. La 211

prima lo metteva in orgasmo con una specie di dispetto per l’irraggiungibile, la seconda gli ispirava ripugnanza senza nemmeno il correttivo della comprensione e della pietà. La farfalla era anche per lui un simbolo di quell’abbaglio men¬ zognero con cui il gran mondo cittadino lo provoca e lo tenta quel mondo di cui era partito alla conquista, parten¬ do dalla Sicilia. Ma la .conquista egli non può compierla se non dalla roccaforte del proprio ideale, della propria purezza. Ora l’altra faccia di Èva, il bruco, è una smentita di quell’i¬ deale.^^ Al bruco non può associare la propria forza: il bruco non gli serve, lo avvilisce. Qui, ancora una volta, Enrico raf¬ figura l’impresa di Verga romanziere: arrivare a dominare la società, cioè i cattivi sentimenti, vestiti di fascino e di attrat¬ tiva, in nome dei buoni sentimenti. La Èva, piccola donna, non può concentrare i buoni sentimenti, diventarne l’emble¬ ma. La dose di torto che Enrico versa in questo momento nella miscela, conturbando e confondendo in tal modo la propria chiarezza iniziale, è questa: invece di far leva sulla propria forza, di diventare magari il Don Chisciotte del proprio ideale, più o meno balordo, cerca di puntellare quella forza con una debolezza: cioè, per resistere, fa appello al proprio senso di inferiorità. Ed ecco che quando Èva, congedatasi davanti alla porta, gli ha dato appuntamento per l’indomani, poi lo richia¬ ma ancora, vuole il suo indirizzo, Enrico si ferma solo sotto le hnestre illuminate, si paragona con quelle ombre felici che vede passare nella luce, si sente incapace di disputare Èva a quegli uomini: « Vidi come un baleno dell’avvenire: mi tro¬ vai povero, solo, meschino, ridicolo, abbandonato su quella soglia, tremante di freddo e divorato dall’invidia!... Ebbi pau¬ ra, e l’orgoglio mi diede la forza di giurare che mai più avrei riveduto quella donna, la quale si sarebbe vergognata di con¬ fessare il suo amore per me. Proprio gli argomenti che si è dato per resistere — l’orgoglio, la paura del ridicolo, il ti¬ more che Èva si vergogni di lui — sono quelli che lo per¬ dono. È chiaro che quest’uomo non avrà pace, hnché la con¬ quista di Èva non gli avrà medicato, magari velenosamente, quelle ferite ch’egli ha nel sentimento della propria persona. Se con la più accurata abilità si fosse messo a costruire l’autoinganno necessario per tranquillarsi e potersi cosi lanciare airinseguimento di Èva, non avrebbe potuto fabbricare un meccanismo più sapiente. Questa, dicevamo, è la prima colpa 212

di Enrico.^^ Se potessimo imprestarci il linguaggio implaca¬ bile dei confessori, il dito teso, diremmo: questa è la men¬ zogna di Enrico. Il torto di Èva si aggrava subito. Perché decide lei di dare il tracollo alla situazione. Enrico, la sera dopo, resiste, chiuso in camera sua, fa passare l’ora delPappuntamento, è già ebbro di vittoria, di nuovi sogni di gloria, quando uno squillo del campanello lo fa sussultare « come se il filo... fosse attaccato al [suo] cuore. » È Èva, naturalmente: si presenta semplice, tranquilla: è venuta a farsi « perdonare l’altra sera. Ha considerato — dice — il motivo per cui Enrico non si è pre¬ sentato ed è venuta lei stessa. Crede veramente che la sua ve¬ nuta basti a medicare l’orgoglio di Enrico. Viceversa, a guar¬ darci meglio, è una risolutezza quasi implacabile in questa donna, decisa a passarsi il capriccio. Inventa i pretesti, e ha l’istintiva astuzia di inventarli rassicuranti. Certo ha l’oscura certezza di adoperare l’argomento più irresistibile: porta nella povera stanza di Enrico l’emblema di quella vita che lo faceva soffrire di avidità, dispetto e rabbia; mette ai suoi piedi questa vita. È la regina con tutte le dolcezze, le umiltà di Ceneren¬ tola. Èva in realtà ignora del tutto il cuore di Enrico: non sa che Enrico giocherebbe la sua vita per poter abbracciare la sua veste, e che la sola difesa di Enrico è di poter credere anco¬ ra che in quella veste non c’è un cuore. E lei lo inganna, con la sola scusante che inganna anche se stessa: gli mostra sotto quella veste un semplice cuore, un cuore che potrebbe battere all’unisono con quello di Enrico. Nel nascere di quasi tutti gli amori, ci sono due avidità, due egoismi che si incontrano. Anche qui. Ma di solito quegli egoismi si illudono di essere due dedizioni. Qui, nel momento iniziale, Èva mette quasi come condizione di salvare le esigenze del proprio egoismo. « Vi amo, » gli dice, « perché vi piaccio tanto. » Distingue l’amore di Enrico da quello dei tanti che dicono di impazzire per lei: ad Enrico lei crede. Ma subito si pone una domanda, che solo per un malinteso si può interpretare come prova di saggezza, come sorriso disincantato di donna troppo esperta della vita: « Quanto durerà codesta impressione in voi? Chi lo sa! Ma non importa. È pur dolce l’averla destata, anche per un momento solo. »” E certo si sbaglierebbe a sospettare si¬ stematicamente della sincerità degli esseri umani. Ma par diffi¬ cile qui non radiografare questo sospiro di Èva sulla transito213

rietà delle passioni, questo suo corrivo adattarsi : e come una garanzia anticipata di potersi impegnare, perché questo amore non sorpasserà, per intenso che possa essere, i limiti dell av¬ ventura. Domani — dirà poco dopo — a lei piacerà forse di più la cravatta di un bel giovane, a lui le mani rosse di una sartina. Ma adesso ' bisognerà prenderlo, questo momento di felicità. Le riserve non potrebbero essere più esplicite. L’insieme di questa scena è una replica, eseguita con grazia, brio, tenerezza, di una ipotetica, ma nota, « scène de la vie de Bohème »,* con una Musetta profumata e in pelliccia che capita a fare l’affettuosa pazzerellona nella gelida soffitta del¬ l’artista. Si sente nella rapida, ma partecipe scrittura la com¬ mossa sorpresa di un narratore che vede risgorgarsi sotto la penna i particolari di un episodio che gli piace di scrivere. quasi la contentezza che gli sviluppi del suo romanzo gli ab¬ biano offerto una così plausibile occasione di scriverla. Fa freddo: Èva, con molta delicatezza, nasconde il proprio tre¬ mito per non umiliare Enrico; lui naturalmente — come ogni degno Rodolfo di « vie de Bohème » — spezza il cavalletto per accendere il camino, asciuga col proprio mantello gli sti¬ valetti di Èva incipriati di neve, le stende il mantello sotto i piedi. Ed Èva par quasi ostentare la sua curiosità per gli artisti : « Come fate a creare tante belle cose? » Vuole un quadro di Enrico. E lui le regala un paesaggio siciliano, i Ciclopi e le spiega: « Si chiamano così certi scogli giganteschi sulla spiag¬ gia di Aci Trezza. Questo particolare si legge con struggi¬ mento. Non è un’assurda, superstiziosa mistica il credere che il destino ci dia qualche presentimento. E che il Verga potesse presentire un fatale, decisivo appuntamento con la sua Sici¬ lia, è un fatto che abbiamo già motivato, e che non ha niente di misterioso, se non per quel tanto di mistero che c’è nel formarsi di un’ispirazione, nell’imporsi ancora oscuro di una necessità del temperamento. Abbiamo visto come la Sicilia l’avesse richiamato con la Capinera: vedremo come essa gli offra un luogo propriamente deputato per risolvere i suoi tre romanzi mondani, da Èva a Eros: risolverli, che in lingua povera vuol dire uscirne. Presentimenti di questo genere, d’al¬ tronde, non sono senz’altri esempi: e altrettanto, se non più, patetici. Così ci commuove, poniamo, nelle Confessioni di un italiano^ di Ippolito Nievo la pagina subito dopo l’idillio 214

con la Pisana nel castello di Fratta: quando il protagonista si avventura, passo dopo passo, e raggiunge la vista del mare. E saluta lo spettacolo nuovo con un inno, dove l’abbandono, lo stupore, quasi un annegarsi dell’essere intridono note di elegia. E noi sappiamo che per Ippolito Nievo, morto naufra¬ go, il mare sarebbe stato la tomba. Qui il nostro Verga fa of¬ frire gli scogli di Aci Trezza come un pegno d’amore. L’avve¬ nire di Giovanni Verga, il suo momento di grandezza saranno quando riscatterà questo paesaggio, che ha dissipato in un’av¬ ventura. Quando da Èva si farà restituire gli scogli, la marina, la spiaggia di Aci Trezza. L’amore non è una società a responsabilità limitata. Né En¬ rico potrebbe mai accettarlo. Ma Èva, con la sua astutissima innocenza, muove ancora una pedina. Dice, in sostanza, a Enrico: accetto tutto di voi. Mi piacete « perché non siete ric¬ co, perché non siete elegante, perché avete in cuore tutte le follie dell’arte.» Dice di più: «Anch’io divento come voi, non mi riconosco più! » Accetta perfino la gelosia di Enrico, nel senso che gliela dimostra ingiustificata: « Vedete che se vi parlo con tanta franchezza avete torto di essere geloso. Corrispettivo: Enrico dovrà, dunque, accettare tutto di lei. Se non con le parole, questo corrispettivo Èva lo esige subito coi fatti : il passaggio narrativo che avviene qui, senza transi¬ zione, è di un acutissimo signihcato. Nella camera di Enrico fa freddo, lei propone che si vada a prendere il tè a casa sua. Ed Enrico, senza quasi reagire, incantato dalla passeggiata a piedi sotto la neve, dalla timidità con cui Èva bussa alla pro¬ pria porta, parla sottovoce alla cameriera, si lascia nascondere nella camera di Èva. Ha messo ormai la sua hrma al patto. Questa camera, descritta con occhi da collegiale, le cortine del letto che parevano « i vapori di un sogno d’amore è però subito, affettuosamente, fiduciosamente definita uno scatolina. È la parola che la Capinera usava per il suo bugigattolo in villa, nei giorni in cui vi si sentiva felice. Troviamo, dunque, la conferma di uno dei temi che già eravamo riusciti a isolare nel Verga: quel bi,sogno di intimità chiusa, tutrice, riparatri¬ ce. Il motivo che sbrigativamente avevamo chiamato dell’ago¬ rafobia. Per la Capinera lo scatolino era il rifugio, il nido rassicurante che le calmava il palpito di soverchia felicità da¬ tole dal mondo aperto; le tentazioni di evasione, e dunque di peccato. Anche per Enrico questo scatolino è il mondo di lusso 215

concentrato in un asilo che gli calma 1 agorafobia, il timore di smarrirsi, di compromettersi. Questo lo aiuta a ingannare la propria malafede, o bisogno di credulità, nel momento in cui, uomo nato per le passioni intere, esclusive, accetta un amo¬ re dimezzato: lui che, per temperamento, si sentirebbe in di¬ ritto di pretendere tutta la vita di Èva, si impegna a conten¬ tarsi soltanto della sincerità di Èva. La sincerità, specie nel momento iniziale e roseo dell’amore, può sembrare che basti, perché è l’essenziale. In realtà l’amore, per definizione, preten¬ de tutto. Di qui comincia il lungo periodo — mesi — in cui Enrico vive il suo amore, imprigionato nello scatolino, mentre nelle sale accanto Èva riceve i signori del bel mondo, che scherza¬ no, ridono, si prendono delle familiarità con lei. È l’intensa ebbrezza dei minuti rubati, quando Èva dai salotti fugge, ecci¬ tata, felice, nello scatolino. Poi, partiti gli ospiti, vengono le ore della rapita solitudine in due. Una felicità piena, una feli¬ cità bacata. Sono brevi « strofe », come le abbiamo chiamate, in cui riesce a fabbricare intensità, coi nonnulla di una situa¬ zione sempre identica a se stessa, e riesce a incidere le lievi variazioni significative, le piccole oscillazioni della lancetta, mentre il barometro sta sul bello costante. A decifrare però il romanzo, come abbiamo fatto finora, nella sua trama morale — lo scopo è soprattutto di mettere in luce i temi che, col loro vario lavoro, modificano, matura¬ no l’ispirazione del Verga — a decifrarlo così, il romanzo ci rivela un segreto, drammaticamente assai fecondo, mutar della direzione nella psicologia dei protagonisti. Perché Èva ed En¬ rico partiti da un quasi inconsapevole malinteso, e dopo di aver accettato la complicità di una malafede quanto mai sot¬ terranea, adesso si mettono a comportarsi, ciascuno dei due, con la più assoluta buona fede. Enrico fabbrica i più facinorosi, convulsi pretesti, per rimet¬ tersi d’accordo col proprio temperamento : si fa vittima, si tor¬ tura, si distrugge per poter far valere i suoi diritti a tutta la vita di Èva. Èva, dal canto suo, varca i limiti che forse si era promessi al principio dell’avventura, per trasformarsi in una continua dimostrazione vivente che la sincerità deve bastare. L’altra sua vita, che ad Enrico pare così inaccettabile, deve funzionare proprio come garanzia che Èva accetta con sacri¬ ficio i mezzi necessari per assicurare ad Enrico tutta il suo 216

amore e, si vorrebbe proprio dire, la purezza del suo amore. « Se vuoi essere felice, » gli ripete, « contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo... », « Tu sai che cosa sono: mi hai amata appunto per questo... per essere quella che sono, bisogna che mi rassegni a siffatte visite. Sono due coerenze in antitesi. E come succede quasi sempre, la più astratta delle due, quindi la più capace di impennate caparbie come un ca¬ priccio, risulta la più forte. Èva, per mantenersi di parola, rinuncerà alla propria coerenza, defletterà dalle condizioni ini¬ ziali che avevano creato la possibilità del legame. In un certo senso, sarà proprio il bisogno di dimostrare la propria coe¬ renza, a renderla incoerente. Se volessimo qui tagliar netto il torto e la ragione, chi ha torto è Enrico. La sua focosità, il suo bisogno di assoluto lo rendono incomprensivo e ingene¬ roso. Èva ha una specie di magnanimità: si trattiene fino al¬ l’ultimo dal rinfacciare a Enrico che tutte quelle smanie e reazioni erano previste e, per così dire, prevenute in anticipo dal loro patto. Semmai, il peccato è di iniziare un amore, met¬ tendosi in serbo per il domani l’amara prescienza del: — ba¬ da, te l’avevo detto... — A onor del vero, Èva fa l’impossibile per risparmiarsi questa frase. 411arghiamo l’orizzonte: usciamo dal romanzo, per inter¬ pretare gli stati d’animo, le posizioni, come travaglio morale nell’ispirazione del Verga, artista in divenire. Si direbbe che, attraverso queste figure e vicende, egli consumi proprio la sua sete di assoluto, il suo impegno con l’ideale. Gli si viene chia¬ rendo, attraverso l’ineluttabilità della rappresentazione, che tra la sua sete di assoluto e il mondo concreto che dovrebbe appagargliela l’antitesi è senza rimedio. La sete di assoluto si raffigura in una intemperante, fanatica, contraddittoria febbre di autodistruzione, in una impossibilità di capire il vero: è il dramma che porta Enrico alla rovina. D’altra parte, quel mondo che pareva la meta, l’oggetto magnifico da afferrare, si inaridisce, si accartoccia al contatto di quella febbre. È qualcosa, di cui ci si domanda se valga la pena. Dall’altra è pronto a risorgere, di nuovo tentatore, se ci si distacca da lui. Queste sono le vertigini di Giovanni Verga divenute romanzo. È certo che gli ideali da cui è partito sono ideali sbagliati, che lo porteranno all’aridità. Eppure sente di non poter evi¬ tare quel destino di fallimento: che la sua opera deve patirlo fino in fondo. Enrico sbaglia tutto: eppure il suo romanziere 217

gli vuole ancora bene, lascia che i fatti gli diano torto, lui forse lo assolverebbe. Vuol dire che Timpresa per cui Enrico si perde, per quanto infondata, serba ancora il suo fascino. In termini astratti, il problema sarebbe di trasformare quei perso¬ naggi, così, belli e fascinosi a guardarsi, in personaggi positivi, che non diano una smentita all’ideale. Bisogna arrivare al punto, che quei personaggi belli non incantino più. Verga non sa ancora chi rimarrà dopo quel crepuscolo degli idoli, se potrà entusiasmarsi di personaggi che non siano più quelli. Non sa neppure se l’ideale sopravviverà, o uscirà corretto dalle delusioni. Proverà a evitare il confronto con l’ideale: lasciato morire Enrico, non mescolerà più a quel mondo di splendori il personaggio dell’ideale impossibile. Li esplorerà ancora, obbedendo al loro fascino, attraverso romanzi, dove tutti i personaggi siano tolti dal mondo della ricchezza e del lusso. Andrà a vedere che cosa succederà dei loro sentimenti, consi¬ derati in se stessi, fuori del confronto. Questa l’origine di Tigre reale e di Eros, messa a nudo attraverso un meccani¬ smo un po’ teorico, un po’ da laboratorio. Vediamo ora nel dettaglio — come direbbero i cronisti sportivi — quale sia il contegno di Enrico. Ubbriaco della felicità che Èva sa dargli, illuso di .^ver toccato il suo sogno, compie un’abiura, una specie di attentato contro se stesso. Rinuncia ai suoi buoni sentimenti. È un’operazione che gli costerà cara, e gli renderà intollerabile quella vita. L’abiura consiste nel bestemmiare gli affetti familiari, nel costringersi quasi sadicamente a una scelta — che Èva non gli chiede — tra lei e le proprie fedeltà affettive: quasi i simboli dell’idea¬ le. Èva non gli costa nulla; ma lui si sente curiosamente im¬ pegnato a fare una vita di agi e di lusso: abiti nuovi, acqua di Colonia per lavarsi le mani, essere bene alloggiato, pran¬ zare in trattorie di lusso. Non gli bastano naturalmente le 150 lire mensili del comune. Inganna doppiamente i suoi, scri¬ vendo che è malato: cioè li deruba e li mette alla dispera¬ zione. Riceve un vaglia di 125 lire, chi sa come racimolate, con una lettera del padre che lo scongiura di tornare subito a casa. Riscuote il vaglia, strappa la lettera, e tira diritto. Ma si mette a congiurare contro se stesso — o meglio a preparare la botta a fondo — con mezzi anche più pericolosi. Alimenta, cioè, la propria gelosia. Una sera perhno, dalla ca¬ mera, guarda nel salotto attraverso il buco della serratura. 218

E si sente come schiaffeggiato al vedere che quei gentiluomini buttano il fumo dei loro sigari in faccia a Èva. È una torbida maniera di accumulare argomenti. Èva, dal canto suo, avendo preso il partito della since¬ rità, rinuncia a capire la piccola regola che la vera sincerità, quando occorre, va difesa con piccole menzogne. Questa ra¬ gazza, così navigata, ha goffaggini da principiante. Una sera, rientra in camera turbatissima, sembra « voglia impedir[gli] di udire, o... nasconder[gli] qualche cosa ». Poi eccede isteri¬ camente nelle manifestazioni d’amore: « aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza » : evidentemente vuole offrirgli un compenso. .Scene: è lei a dire: « non mi ami più »,** di fronte alle stranezze cupe, sospettose di Enrico. Ma Enrico dichiara: non teme di essere ingannato, è geloso di lei in altro modo, non le dirà mai quale. Ma forse Èva aveva già indovinato: geloso del teatro, di tutto ciò che gli ha fatto perdere la testa per lei; e questo è il grande argomento della donna: gli ricorda che si era innamorato di una ballerina, che la donna dietro le quinte l’aveva fatto scappare. « Senza i miei costumi, » dice, « sarei una modesta operaia con le dita punzecchiate dall’ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio. Comunque, promette: « Piuttosto che cessare di amarmi... domandami quel che vuoi... Ti giuro che lo fa¬ rò! »** Perché Èva giura? Conoscendo il seguito del romanzo, si direbbe che muova una pedina, non per conto proprio, ma per conto dell’autore: per aiutarlo a preparare i suoi sviluppi. Ma questa incoerenza di Èva, questa prontezza ad accettare una situazione fuori dei patti indica una profonda intuizione morale in Verga: quel mondo disprezzato, appena accetti la sincerità, è capace di una fermezza, di una forza ideale, che il famoso Ideale coll’i maiuscola degli Enrichi forse non trove¬ rebbe mai. L’ideale di Enrico è rettorico di fronte alla capa¬ cità di abnegazione di Èva. Enrico in fondo è stato attratto dall’ambiente di Èva; lei invece è capace, per Enrico, di ab¬ bandonare il proprio ambiente, con tutti i vantaggi che le reca, tra i quali va contata anche la possibilità di amare En¬ rico e di esserne amata. Le sviste di Èva si accumulano. Verga qui prepara un ef¬ fetto di quella sua drammaturgia che abbiamo chiamata tem¬ poralesca. Viene la sera della beneficiata di Èva. Enrico vuole andare a teatro: cosa che non faceva più, perché lo feriva 219

troppo. Qui si rovescia una pagina che circola attraverso il romanzo del secondo Ottocento : tanto che quando poi D An¬ nunzio la riprenderà nel Fuoco gli verrà rinfacciata come uno dei suoi plagi più smaccati. È la famosa pagina sulla psicologia di chi si innamora di un’attrice; per poter fare orgogliosamente suoi quel fascino, quella magia, che hanno inebriato, fatto fremere di desiderio le moltitudini. In Enrico succede il contrario: appena si mostra sulla ribalta, quella donna che pure gli appartiene così gelosamente, gli pare la donna di tutti. Farnetica sul « sorriso sfacciato » e sulla « nu¬ dità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passio¬ ni », impazzisce per « quei cannocchiali che sembravano ba¬ ciarla con lingue di fuoco. »™ Non regge, scappa, va ad aspet¬ tarla a casa: quando lei rientra, la abbraccia freneticamente. Lei, esaltata per il trionfo, crede che Enrico condivida la sua gioia, non si accorge di come è stralunato. Arrivano le solite visite, Èva vuol fare uscire Enrico 'dal salotto, nasconderlo come tutte le altre sere. Lui invece se ne va. Èva, ebbra, di¬ stratta, non lo capisce, non cerca di trattenerlo, gli dà appun¬ tamento per rindomani. Per istrada, Enrico piange come un bambino. Notte di in¬ sonnia, l’indomani mattina corre da lei. Qui il temporale si scatena. Èva sta leggendo una lettera: all’entrare di Enrico, la butta. Qui, per l’uomo, una serie di umiliazioni: la corda a cui egli è più sensibile. Intanto: mentre gli occhi di Enrico cercano la lettera, Èva crede che si fissino su un braccialetto ricevuto in dono — spiega — per la beneficiata. Una cosa preziosa: Enrico la valuta 200 lire. Èva sorride — ne varrà almeno 2000. Ed Enrico si umilia di non sapere nemmeno apprezzare il valore di quel gioiello, che lui — altra umilia¬ zione — non sarebbe mai in grado di regalare. Vorrebbe che Èva lo restituisse. La donna risponde: in teatro non si usa. Enrico si avvilisce; sono uno sciocco, un provincialetto. Parla della lettera, lei la butta nel fuoco, dicendo che oramai l’ha letta. È del conte Silvani: è stato lui a mandare il braccialetto. Èva tenta ancora di giocare la sua solita carta: « La mia franchezza dovrebbe disarmarti. » Enrico vuole il litigio, per potersi meglio esasperare, non lo ottiene. « Scacciatemi, » le dice. « Oh, no! ti amo troppo! Per amore è arrivata a mentire, a dissimulare (l’ha fatto male, troppo tardi). Enrico le risponde che il suo volto è una ma220

sellerà, che l’ha vista già hngere sul palcoscenico. Lei si alza pallida, gli domanda quale prova gli basterebbe. « Dovresti abbandonare il teatro, venire a vivere con me. » « Non lo farò mai, perché ti amo!... Tu pel primo te ne pentiresti, tu! » Lui scappa. La notte, rincasando, trova Èva sulla porta: « L’hai voluto... ti ho obbedito. Questo è un vero finale d’atto. Il Verga aveva uno spunto serio* se ne è servito con serietà, ma non ha perduto l’occasione di soddisfare gagliar¬ damente la sua vena di drammaturgo. La situazione che si apre a questo punto è una specie di esa¬ me di maturità per un romanziere: specie per uno come Ver¬ ga, che proveniva da un gusto per il generico, per l’effuso, per il declamato. Qui deve descrivere la fine di un’esaltazione, il disincantamento: soltanto i piccoli particolari veri lo possono aiutare, in questa cronaca di uno sgretolamento, di una pol¬ verizzazione. Fine di un sogno d’amore nella prosa di una po¬ vera vita in comune, di una intimità desolata, in ciabatte, che non permette di nascondersi a vicenda' l’umano, troppo uma¬ no, che è in ciascuno dei due. Fin che la psicologia dell’amore, con tutti i suoi derivati e la sua casistica, è stata il grande argomento del romanzo e del dramma borghese, quel tema, fine dell’amore, è stato uno dei temi più squisiti, uno di quelli ritenuti più degni di lusingare l’intelligenza degli auto¬ ri e del pubblico. F nei primi decenni del secolo il .sagace ed elegante commediografo Henry Bataille vide i clamorosi suc¬ cessi della sua Marcia nuziale-.'’'^ storia di una damigella ari¬ stocratica, che fugge con il suo maestrino di pianoforte e fini¬ sce suicida, attraverso le delusioni e gli avvilimenti della me¬ diocrità. Di .solito, in queste storie, il crollo, il dramma era di quello dei due che aveva ceduto a promesse infondate. Verga si trova, portato dalla logica del suo racconto, di fronte a un caso più difficile: il crollo qui tocca al vincitore, Enrico: a quello che, in fondo, non aveva niente da perdere. Resiste invece Èva, che ha rinunziato a una vita sontuosa per affron¬ tare un’esistenza di ripieghi. Enrico in principio si crede felice: ha raggiunto il suo sogno. Ma quale sogno? Ce lo riferisce in termini così enfa¬ tici e sbalestrati, che si capisce subito come quello sia stato un sogno impossibile, un vaneggiamento. A noi sarebbe difficile dire se sia la penna del Verga, ripresa dall’orgasmo, a darci involontariamente quel senso di irrealtà; o se il Verga per 221

partito preso, cosciente dei mezzi che doveva adoperare, sia riuscito a ottenere quella scrittura, quella melanconica ed esal¬ tata parodia di un sogno. Bisogna quasi credere che la forza vitale di un’opera d’arte sia qualche cosa di così prepotente che riesce a servirsi perfino delle incapacità e manchevolezze di uno scrittore. Èva ha freddo, lui non ha che il proprio paltò per co¬ prirla. I lavori di casa la rendono sciatta: si sporca le mani per accendere il camino, non si pettina per fare il caffè. « Mi parve ■— dice Enrico — che la fata fosse svanita, e non rima¬ nesse più che, una bella donnina — di quelle che piacciono — ma io avevo bisogno di adorarla! Comoda ipocrisia, questa di farsi bello colla necessità di nutrire passioni sublimi ed eccessive: « Io avevo bisogno di adorarla. » Sarebbe bastato che l’amasse veramente, che amasse in lei la donna reale, non la fata immaginaria. Qui afferriamo sempre meglio il tipo di intelligenza del Verga, che scompare nel dato, non ha bisogno di annunziare di aver capito, si appaga di scoprire, come fatto, ciò che per¬ metterà a noi di arrivare alla comprensione intellettuale. È chiaro che un simile artista abbracci la teoria dell’impersona¬ lità: gli ripugna o gli sfugge la presenza giudicatrice o defini¬ trice in prima persona. Forse, se volesse enunziare lui in una sentenza quello che a noi è dato di comprendere attraverso la sua oggettiva testimonianza, quella sentenza gli uscirebbe ov¬ via e ottusa. In questo caso di Enrico, Verga non si pronuncia. Ce ne dice però abbastanza perché noi possiamo concludere che quello non è un uomo capace di vero amore, è semplicemente un assetato di conferme clamorose della propria perso¬ nalità. Viene la miseria. La presenza di questa Èva dimessa, non stimola davvero Enrico al lavoro: lo fa anzi fuggire di casa per paura di spoetizzarsi. Di chiedere aiuti ai suoi non se la sente più: non ama più Èva abbastanza, per sacrificare i genitori. Ha parole dure, quando la donna cerca di dividere i suoi guai. Per tirare avanti, Enrico si rassegna a dipingere oleografie. Scenate: e i dialoghi sono quasi tutti belli perché vivi, pieni di battute concrete e dinamiche: che aggiungono qual¬ che cosa, tendono il dramma verso un progressivo incalzare, dipingono i caratteri. Per esempio, quando Enrico viene a sapere che Èva, per rimediare, ha venduto i pochi gioielli che 222

si era portata con sé, le sole cose che possedesse, se ne adonta, ed Èva: « Non mi ami più?... perché quello che io ho fatto ti dispiace... Io non mi sono vergognata di quello che hai fatto per me. » « Ma io sono un uomo. » « È lo stesso quando si ama. Breve attimo di tenerezza: e lei così pateticamente gentile, con le ciocche bionde che le escono da una cuffietta sbiadita. Enrico ha le più stordite, grossolane reazioni di orgo¬ glio. Viene il momento in cui, purtroppo, Èva deve prorom¬ pere: te l’avevo detto! Enrico assapora la propria viltà, quan¬ do le propone di tornare alle scene. Ma Èva non può più : ha interrotta la carriera, dovrebbe ricominciare. Enrico decade sempre di più. Accetta un impiego da ritoccatore di fotogra¬ fie: i guadagni sono insufficienti. Nell’atonia che lo ha preso, non si cura di capire come mai, qualche giorno dopo, Èva è tornata allegra, si è rimpannucciata. Una sera, rientrando, trova la porta aperta, una pacata lettera di addio, un biglietto da 500 lire. Sollievo, propositi di rimettersi al lavoro. L’ana¬ lisi morale di Verga è finissima, se anche talvolta le manca il linguaggio per definire ed enunziare i sentimenti, ed è co¬ stretta a ricorrere a immagini troppo vistose, corpulente. Così quando dice che, nel sollievo, Enrico sente le serpi dei bassi fondi limacciosi. Ma poi troviamo subito una notazione acutissima: Enrico è geloso dell’altro, non della donna che ha perduta. Insisto piuttosto su questi aspetti, perché il racconto dell’incanaglirsi di Enrico, della sua fame e dei suoi stupori vuoti è celebre, per le abbondanti, giustamente ammirate sottolineature che ne hanno fatto i vari critici. Dopo eroici propo¬ siti di restituire le 500 lire, Enrico le spende per sfamarsi. Gli ultimi spiccioli, li getta sul tavoliere di una bisca: la ten¬ tazione è stata troppo forte, nel Verga, di annettere al suo ro¬ manzo la famosa scena iniziale del tripot nella Peau de chagrin di Balzac. Enrico va alle Cascine, per ammazzare il tempo. Vede pas¬ sare al galoppo Èva, splendida, accanto a un giovane quanto mai vantaggioso. Dev’essere Silvani : Enrico aveva scoperto nel camino i brandelli di una lettera di Silvani a Èva. Ma, sebbene quella sia di nuovo la- donna fulgida per cui era im¬ pazzito, non sente più desiderio di lei. « Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l’avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà... quando ella avesse svoltato 223

l’angolo del viale!... » Ricorda il suo passato con Èva, come cosa accaduta ad altri. L’ha amata « quando la [sua] immagi¬ nazione e il [suo] cuore potevano permettersi questo lusso. La gelosia richiede almeno amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico tra i due rivali. Ed Enrico aveva fame. L’analisi di questi stati è accurata, esce talvolta — come quell’aforisma sulla gelosia — in formule precise, da morali¬ sta, non molto consuete al Verga, che semmai, nei capolavori, affiderà il succo della sentenza, non alle parole, ma alla loro inflessione, o le riassorbirà in un gesto, in un atteggiamento, in un aspetto condreto. Adesso, chi crede di poter risolvere il maggior Verga nel poeta della roba, o del disagio economico, o addirittura della « povera gente » (come si è tentato di re¬ cente, riducendo la critica in moneta troppo spicciola, e soprat¬ tutto spesa alla carlona), chi crede a questo, sarà padrone di vedere un presagio in questo attutirsi dei sentimenti di Enrico sotto il dominio della fame. L’esuberanza sentimentale è un lusso, un lusso la libertà di troppo ascoltare il proprio cuore: l’estrema semplificazione dei Malavoglia — questa loro monumentalità così parca di moti — potrebbe essere un effetto dell’indigenza economica: e il Verga aveva sviluppato, appro¬ fondito, riesplorato seriamente ciò che qui scopre in Enrico. Una sera, all’uscita della Pergola, Enrico tende la mano. Un elegante giovane dall’aspetto felice (accompagna una don¬ na) si stupisce che un ragazzo sano chieda l’elemosina. Gli dà cinque lire, poi diventa suo protettore, si fa fare il ritratto, lancia Enrico. Ma dopo breve tempo viene ucciso in duello da un grossolano rivale, che Enrico vedrà al braccio della don¬ na per cui il suo protettore si è fatto ammazzare. L’episodio è raccontato in poche righe: Verga aveva il senso di doverlo restringere, per non farlo pesare come digressione, o compia¬ cenza di un 1 acconto vistoso, facile e superfluo nel corso ra¬ pido del suo racconto. Ricordiamoci che le misure sono strette ed esigentissime: tutta questa parte del romanzo è narrata da Enrico nel palchetto, durante qualche mezz’ora del veglione. Perché allora il Verga, pur prendendo tutte le precauzioni di brevità, ha accolto questa ulteriore storiella del protettore e del duello? Direi per i valori suggestivi, influitivi che essa eser¬ cita, quasi per telepatia, sullo sviluppo del romanzo. Il duello del protettore rimane come una seduzione oscura, come un paradigma di destino nel cuore di Enrico. Lo possiamo anche 224

scoprire nel paragone che Enrico fa tra Èva che smunge le borse e quella donna del suo protettore, che smunge i cuori. Inoltre, lo spettacolo di quella donna così presto e stupida¬ mente consolata dà ad Enrico la spinta che gli occorre verso la fase di cinismo, in cui adesso sta per entrare. Sarebbe facile dire che questo cinismo è la maschera sarca¬ stica, lo sberleffo e la smorfia per camuffare, anche a se stesso, una riaccensione dell’amore. È una hgura tipica del basso romanticismo quella del ghigno che stride sul cuore che san¬ guina. Non per niente, la più bassa cucina di quel basso ro¬ manticismo finirà coll’ammannirci il « ridi pagliaccio sul tuo cuore infranto ». Enrico, proprio secondo i suoi aforismi, ha recuperato, anzi ha raggiunto come non mai le condizioni, da potersi permettere il lusso di amare nuovamente Èva. Ea un’ar¬ te falsa, a cui il pubblico (naturalmente ipocrita e perver¬ tito) batte le mani. I dieci mesi passati con Èva e dopo, l’hanno caricato di vita, che egli riversa in quella fatua e fortunata produzione. Si gode la vita, grandi dame lo ricercano: e ap¬ punto si trova in un palchetto con una di queste altere dame, che si benigna di ascoltarlo, quando il binocolo della donna stessa si appunta su un altro palco, che risponde « come una pistola da duellante dice Enrico. In quell’altro palco, è Èva con Silvani. All’uscita, Èva nota Enrico: sorveglia l’ef¬ fetto su di lui delle proprie manovre di civetteria. Quante volte abbiamo già notato che l’inventiva del Verga, in fatto di episodi, non è né ricca né varia. Ha a disposizione un numero piuttosto limitato di risvolti, di passaggi, di molle: cerca di riscattarne la limitatezza, di farne dimenticare la mo¬ notonia, con il modo di usarle, pertinente, tempestivo. Una prima volta era stata Èva a venire da Enrico, la seconda volta, quando aveva abbandonato il teatro, s’era trovata sulla porta della casa di lui. E anche questa terza volta, stesso meccani¬ smo. Il giorno dopo quell’incontro alla Pergola, Èva appare nello studio di Enrico: leggera, svolazzante, affettuosa, since¬ ramente interessata di lui, orgogliosa del suo successo. Gli accende il sangue, confessa di essere venuta perché era gelosa di quella donna, gli si concede ancora una volta, poi dichiara ch’è stato un capriccio, conchiude: mai più! Ed esce stringen¬ dosi nella veste per non toccarlo. Se sia amore, o ritorsione, se Èva finga e quando finga non si deve capire. Qui il Verga accarezza una figura di donna 225

fatale e, come direbbe con Enrico, « maliarda » per compia¬ cimento di dipingerla, quasi di studiare certi aspetti che am¬ plificherà in Nata, la protagonista di Tigre reale. Soprattutto adopera la scena per ottenere un forte rimbalzo drammatico, prepararsi il finale. Dopo quella visita, Enrico ripete tutte le pazzie che, più distesamente ed ingenuamente, ci erano state narrate a proposito di Pietro Brusio in Una peccatrice. Va sotto le finestre, che gli vengono chiuse in faccia. Segue la carrozza. Manda una lettera che gli viene respinta con questo motto: « Una follia non si fa due volte, o diventa una scioc¬ chezza, che potremmo accettare veristicamente come sinto¬ mo di quel che pareva arguzia e sapienza nel bel mondo di allora (ma i commediografi francesi ce ne hanno lasciati esem¬ pi assai migliori: si pensi a tutto il florilegio dellMmt des femmes),^ o magari come sintomo della poca letteratura e degli imparaticci del non profondo cervello di Èva. Ma una sentenza come quella, a noi richiama le carte da cioccolatino. Per arrivare ai grandi aforismi dal suono profondo bisognerà che Verga torni in Sicilia, riecheggi i proverbi popolari. Nelle sue pazzie, Enrico una sera, uscendo di teatro, siccome Èva non lo guarda fa « stridere la seta della sua veste imprigio¬ nata sotto il [suo] piede. »*' In parole povere, le pesta lo stra¬ scico. Come gesto di rabbia offesa e impotente vorrei che si ricordasse quello di Emilio Brentani in Senilità^ di Svevo: quando, nella notte, scaglia la manciata di pietruzze dietro Angiolina. Ben altrimenti profondo: Enrico è soltanto un monello arrabbiato, e rasenta il ridicolo, lui, che tanto lo teme. Così si torna al veglione. Quella lunga parentesi di ante¬ fatto, che è poi tutto il romanzo, si chiude. Ci troviamo nel palchetto, dove d’altronde eravamo rimasti, mentre sfilava quella successione di vicende. Sappiamo anche come Enrico è arrivato alla scommessa, dopo un breve dialogo che ha rubato a Èva durante il veglione. È l’ultima verità di Èva: il cuore messo a nudo. Questa donna dalla testa chiara forse ama ancora: ma non ha più coraggio di ricominciare. Per la prima volta, dice pa¬ role di rimpianto, di amarezza: per la prima volta, come un estremo rimedio si decide a rinfacciare ad Enrico il proprio sacrificio: « Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia gio¬ vinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che A

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avete messo alla porta quasi in cenci!... Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa; abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore... Tecnicamente, adesso, il Verga giustifica il suo procedi¬ mento a ritroso, a rievocazione, incaricando il narratore, il proprio portavoce di rendere plausibile con un ritratto umano di Enrico quella confessione a valanga: « ...mi aveva rove¬ sciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta d’un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con pa¬ role rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa mettere fuori... Segue la sfida. Ma qui il modello della scena è chiaro: terzo atto della Traviata, con quel movimento di sestine che Verdi ha inventato a rendere passioni e batticuore, quella grande melodia distesa che è come il pallore, lo sgomento di Violetta. Anche qui c’è il pallore mortale di Èva: un pallore che canta nella violenza della scena. Si aggiungano, a far colore, i costu¬ mi e le maschere. E poi, dalla romanzeria elegante Secondo Impero — mettiamo Georges Ohnet — la brillante spaval¬ deria del conte, il suo ardimento spiritoso e freddezza di fronte al rischio: tutto ciò che fa bello un perfetto gentiluomo in una simile occasione: insomma, quello che oggi, coll’anglo¬ mania imperversante nel nostro linguaggio, si chiama il fair play. La rilegatura in marocchino stemmato del codice caval¬ leresco. È appena l’alba, gli avversari si trovano sul terreno. Si capi¬ sce quale artista sia Verga, a leggere queste pagine, che in se stesse, nel contenuto, sono da romanzo per signore. Ma nella breve misura che si è concessa, lo scrittore trova il modo di aprire un bellissimo paesaggio d’alba invernale; trova modo di rifare esemplarmente la descrizione di uno scontro d’armi: questa riesumazione, nel romanzo borghese, dei grandi epi¬ sodi, celebri e obbligatori, del romanzo cavalleresco. Impec¬ cabile, meglio di un direttore di scontro, nella conoscenza tec¬ nica dei colpi e delle scherme, precisissimo nel linguaggio, il Verga trova modo di individuare anche lo stile dei due avver¬ sari, con notazioni che fanno suo questo episodio di reperto¬ rio : « Enrico avea la guardia un po’ spavalda, ma ferina come il bronzo, che gli spagnuoli ci hanno lasciato a noi del Mez¬ zogiorno. »“ Enrico è ferito, il conte ucciso. Qualche tempo dopo, in 227

Sicilia il narratore,' che si trova a vSant’Agata-li-Battiati riceve, portato da un contadino, un biglietto urgente di Enrico: accorra ad Aci, per rendergli « quest’ultimo servigio Enrico agonizza su una poltrona in giardino. Veramente, la tisi non gli accorda che poche ore. Allontana la madre, allon¬ tana tutti: voleva sapere se il narratore avesse ancora veduta Èva. « < No! > risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì e sorrise ironicamente. < Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi! > y>^ E veramente Enrico ha ragione: il narratore, in fondo, aveva fatto un monumento ad Èva, e adesso la chiama «tal donna».®* La verità è che Verga non sa risolversi: è l’apologeta dei buoni sentimenti, adesso, cerca di sconfessare Enrico, mescolando i tratti commoventi di quell’agonia, con ultimi sproloqui del moribondo che adesso vorrebbe difen¬ dere il diritto alla follia, esaltare le menzogne e le illusioni quando sono belle. « Qual è l’amore vero, quello che muore o quello che uccide? »*’ Ed estrae di sotto la camicia una pic¬ cola miniatura di Èva, su cui delira un’ultima volta: poi la affiderà all’amico, perché la consegni insieme con certe carte a Èva. La catarsi per questa via è irraggiungibile, proprio perché Verga dentro di sé non l’ha raggiunta : non sa ancora da quale parte stia il giusto. Per altra via, forse inconsapevolmente, invece il dramma si placa. Quando noi vediamo il paesaggio di Aci, quale Verga in pochissimi tratti ce lo descrive (la « vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare ») e la casa nativa dove Enrico è venuto a morire (« la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra »)^ sentiamo che lì è l’ap¬ prodo. Sentiamo che se Èva condensa e raccoglie nelle sue figure le vertigini di un Verga, che si è preso la responsabilità di allontanarsi di casa, di tentare l’avventura dell’arte, così pericolosa, così minacciosa di riuscire menzognera, qui l’ani¬ mo gli si distende, qui potrebbe risolversi, forse nel silenzio, forse nella morte, se l’arte e la vita avranno mentito, ma in pace con se stesso. In fondo, lo è anche Enrico, in quel suo canto di morte: « Domani... fra due giorni... quando quel bel sole farà scintillare l’immensa pianura d’acqua che si stende laggiù e colorirà del suo bell’azzurro questo cielo. Si torna 228

a respirare, 1 ansia è cessata. 11 protagonista può beneficiare di quella che, nella tradizione romantica, è la morte in bel¬ lezza. Ma Verga va in cerca di un’ultima parola che non può tro¬ vare, perché non ha capito che quella è la vera risoluzione del dramma. Ha già tutte le indicazioni, e come l’anelito che lo porterà a obbedire ad esse — il cuore che gli si gonfia — ma trascrive, commosso, quelle indicazioni, e non ne vede il senso. Deve ancora arrabattarsi lontano, nei falsi dilemmi che Enrico aveva espressi commentando il periodo dei suoi fatui successi fiorentini: « La contraddizione che c’era nella mia esistenza tra le passioni e il sentimento si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell’arte com’ero fuori dal vero nella vita — e il pubblico mi batteva le mani. Dove vorrei leggere anche un’altra vertigine del Verga: la paura della facilità, del pron¬ to, mimetico talento che permette a lui, come a Enrico, dota¬ tissimi figli del Mezzogiorno, di assecondare, magari con una punta di malafede, i gusti del pubblico, dargli la falsa arte a cui esso batte le mani. Verga dovrà lottare ancora contro quella facilità, contro quel successo che permette di godere la vita. Impiegherà, appunto, in questa lotta, che apparentemen¬ te è un cedere, che è invece un provocarsi a reagire, i due ro¬ manzi che gli restano ancora da scrivere, prima di vedersi co¬ stretto a fuggire nel mondo rusticano. Anche Tigre reale, come. Èva, è un romanzo, in parte, riferito da un romanziere-personaggio confidente che dice « io ». Ma è interessante vedere come questo romanziere, in confronto con quello che figurava in Èva, si attutisca, perda di importanza, si riduca a puro personaggio di comodo, com¬ paia solo a intermittenze, quando serve; prima di scomparire del tutto, come succederà in Eros. In Èva il narratore in prima persona sedeva sul banco dei testimoni, dissimulando il proprio turbamento di complice, ostentando impassibilità, per scongiurare una chiamata di correo. Era artista e siciliano come il protagonista Enrico Lanti, condivideva le accuse di Enrico contro la società divo¬ ratrice. E questa è la « necessità » che suscita il romanzo di Èva — e lo permea — dandogli un suono di insieme che gli altri romanzi mondani del Verga non hanno. Si potrebbe perfino supporre che sia stato proprio uno smarrimento di gio229

vane uomo, espatriatosi, buttatosi a un avventura malfida per le sue illusioni di artista e le sue ambizioni e arrivismi mon¬ dani: che sia stato proprio quello smarrimento a precisare (o a suggerire), ancora sentimentalmente, ancora in abbozzo quella paura del mondo che si fara idea del destino. Quella che il Verga tenterà di enunziare nella novella Fantastiche¬ ria: « Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace eh egli è, se lo ingoiò. Soltanto, al tempo di Èva, il V erga non era arri¬ vato ancora a vedere che quella era una legge elementare, sperimentabile nei destini più semplici: il mondo « pesce vorace » lo vedeva solo nei suoi incubi di artista, nei suoi sgo¬ menti di uomo ambizioso, prima di diventare una spaventosa limpida constatazione, quella era ancora una sua angoscia personale, sentimentale, autobiografica. In Tigre reale si allontana da questa legge, che è la sua verità di poeta. Il romanziere non è più implicato: si limita a guardare un mondo, in cui guizzano o si muovono pesci tutti della stessa famiglia, e se uno divora l’altro, si tratta di uno strano fenomeno di cannibalismo ittico, degno davvero di romanzo, non già del fatto che quello che soccombe sia dive¬ nuto preda per ambizione o altre smanie. Nel dramma narra¬ toci in Tigre reale sarebbe davvero difficile di stabilire quale dei due, Giorgio La Ferlita o la fatale Nata, rappresenti il mondo « pesce vorace » : e sarebbe insieme troppo sottile e troppo semplicistico pensare che i disastri di Giorgio dipen¬ dono dall’avere scioccamente o smaniosamente, per ambizione mondana o vanità dongiovannesca, contravvenuto al prover¬ bio: « moglie e buoi dei paesi tuoi », dall’avere insomma aspi¬ rato a una creatura troppo fatale. Ché, semmai, quella che soccombe — quella che reincarna ancora una volta la « Si¬ gnora dalle camelie », trasportandola dal demi-monde al gran mondo — quella è proprio la donna-pericolo, cioè la minac¬ ciosa e pericolosa Nata. In Tigre reale, il personaggio che riferisce in prima per¬ sona non giustifica più con alcuna affinità (se non quella re¬ gionale, ormai vaga, dato che siamo in ambiente, a suo modo, cosmopolita) la sua posizione tra di confidente e di spettatore. Non cerca di dare spiegazioni plausibili alle coincidenze per 230

cui si trova sempre presente nei momenti e luoghi impor¬ tanti della storia (è a Firenze in principio, è in Sicilia al mo¬ mento del battesimo del figlio di Giorgio, vive all’albergo di Acireale durante le settimane in cui Nata viene a morirvi). 11 suo mondo, il suo ambiente sono quelli stessi dei suoi per¬ sonaggi: è uno di loro, ha accettato le loro regole di vita, non può più essere un obiettore di coscienza. Semmai, l’obie¬ zione sarà contro l’eccessività dei protagonisti: fatta in nome di quelle regole alle quali il narratore si è accomodato. Nel solo punto, in cui pare assumere un atteggiamento critico, potrà arrivare a dire (quando già ci ha fatto conoscere i ritratti di Giorgio e di Nata): « Dall’incontro di questi due prodotti malsani di una delle esuberanze patologiche della civiltà, il dramma doveva scaturire naturalmente, dramma o farsa, come daH’urto di due correnti elettriche. Nella quale osserva¬ zione, ci sarebbero parecchie cose da notare: a) il Verga sembra quasi prendere atto di una legge morale immanente nella vita e nel consuntivo dei destini umani. Una severa contabilità fa scontare con la catastrofe, col « dramma » le trasgressioni a quella legge. Si porrebbe quasi il problema della responsabilità dei protagonisti, se l’autore non la elu¬ desse parlandoci di « prodotti malsani ». Un prodotto è qual¬ che cosa di determinato, di non libero: e dove non c’è libertà, non ci può essere responsabilità né colpa. Il cosiddetto « mo¬ stro di natura », l’animale o il frutto difettoso non possono rispondere delle storture con cui sono nati. Ci toccherebbe qui di tornare a tirare in ballo Ibsen, come esempio di un artista in cui il rigore morale non si arrende di fronte alla responsabilità di ciò che viene al mondo già determinato e ir¬ rimediabile. Ibsen risale la catena delle determinazioni, fino a trovare la radice della colpa, il momento dell’errore, il mor¬ to nella stiva. Osvaldo degli Spettri è certo un prodotto mal¬ sano: tornato da Parigi nella casa della madre, Elena Alving, compie inconsapevolmente azioni nefande, e finirà coi primi sintomi della paranoia e della paralisi progressiva; ma dietro di lui ci sono appunto i fantasmi, gli spettri: la colpa della madre che si è venduta al bel tenente Alving, affetto da ma¬ lattia che non perdona agli eredi. I drammi di Ibsen sono al¬ trettanti giorni del giudizio: il poeta stesso, nello scriverli, progredisce verso la lucidità morale, che trasmette ai perso¬ naggi come la più tragica delle espiazioni. Il Verga non co231

struisce, per ora, giorni del giudizio ma serate del bel mondo. E noi stessi, suoi lettori, dovremo vincere una certa perples¬ sità, il timore di una certa tracotanza, quando, di fronte ai Malavoglia, ci parrà di scoprire un « giorno del giudizio » nel naufragio della Provvidenza. Per in tanto, in Tigre reale il Verga parla di prodotti malsani, e non va molto in la nel risalire la catena delle colpe. b) Infatti. Prodotti malsani delle « esuberanze patologiche della civiltà ». Eccolo, come è ambiguo. Esuberanze è una pa¬ rola a doppio taglio: mista col senso di disordine, comporta sempre anche un’accezione positiva, favorevole, di rigoglio. Verga la corregge, chiamando patologiche quelle esuberanze. Ma di quella patologia non risale le cause. In Èva c’era stato il tentativo di rinfacciare alla società, al costume tutto il loro male. Adesso, il testimone è preso da pigre connivenze: sa che qualche male c’è, ma lui stesso ne gode i benefìci. Non vuole apparire del tutto cieco, né insensibile; ma non partirà più in guerra. Appena cadutagli dalla penna la grossa parola « dramma » — inevitabile conseguenza dell’incontro tra quei due protagonisti bacati — si fa premura di insinuare : « dram¬ ma o farsa», come soggiungere: prendetela come volete, ri¬ deteci o piangeteci, a me non ne importa di più che a voi. E vorrebbe essere scetticismo amaro e brillante: in verità, facile scetticismo, ancora più facile amarezza. È una maniera di disinteressarsi dei suoi personaggi, di mostrarsi indifferente al loro dolore, alla loro crisi perfino mortale. Un piglio salot¬ tiero, da elegante conversatore che racconta l’aneddoto, ma¬ gari tragico, per intrattenere la bella brigata. È un atteggia¬ mento, questo, che rimbalza su tutto il romanzo: il Verga, in¬ fatti, è diviso tra il suo bisogno di appassionarsi e di appassio¬ narci, e l’ambizione di riuscire narratore disinvolto: perhno, dove occorra, caustico. Accumula, per ottenere passione, fatti perfino truculenti; e attinge nel repertorio del commovente, e si spinge addirittura a qualche escursione nel Paese del Te¬ nero. Viceversa, per sfoggiarsi brillante, riferisce in tono pet¬ tegolo un mondo dove il gioco dei sentimenti e la sostanza dei fatti sono, in prima istanza, materia di pettegolezzo. Prolunga il pettegolezzo di quel mondo nel sùo pettegolezzo d’autore, godendo di mostrarsi ammesso nell’alta regione, nell’Olim¬ po — fino a ieri per lui inaccessibile — di quelle chiacchie¬ re tra gente blasonata, ambasciatori, persone di gran vita. 232

« Dramma o farsa » : quella perplessità, quel fingere di non aver capito, quando invece ha già dato il giudizio, sarebbe forse un modo di strizzarci l’occhio. Effettivamente, il Verga sembra fare il burattinaio, il regista di un balletto di carica¬ ture, quando prende personaggi proverbiali, prefabbricati, dai gesti e dalle battute obbligatorie, estremamente ligi alla loro parte, e pronti a spingerla fino all’automatismo, fino alla buffoneria: il visconte e la viscontessa de Rancy, questi mez¬ zani di bella vita, la signora Ruscaglia, suocera di Giorgio, famosa guastamestieri e un po’ mezzana anche lei, perfino Carlo, il cugino di Erminia La Ferlita, il bell’ufficialetto di marina. Ma poi si direbbe che provi una grande soddisfazione di amor proprio a poter muovere, proprio lui, quei personag¬ gi: muoverli da eguale, da persona ammessa nel loro giro; e raccontarli da eguale, coi romanzieri più in voga, da scrittore ammesso nella loro corporazione. Nello stridore, un po’ ca¬ chinno, di quell’inciso « dramma o farsa » par di sentire lo sfrigolio aspro, irritante dell’ideale che si spegne nell’ambi¬ zione. c) In realtà, quell’aria di giudicare i due « prodotti malsa¬ ni », piuttosto che indizio di un impegno morale, da parte del portavoce di Verga, pare piuttosto una modulazione, o transi¬ zione, narrativa per poter riassumere ancora una volta, e con caratteri più generali, i due ritratti antiteci dei protagonisti, prima di rilanciarli nell’azione. Nel seguito, questo portavoce del Verga si dimenticherà quasi sempre di continuare a giudi¬ carli: ancora una volta, si sottrarrà e ci sottrarrà al giudizio su quale dei due abbia torto, o ragione. (Semmai, ha ragione Nata, più consapevole della propria fatalità, più capace di lottare contro la propria passione; più generosamente capace di abbandonarlesi, una volta che l’abbia accettata: ma, anche per lei, sorge l’obiezione: è vera generosità di abbandono quella di una donna che non ha più niente da perdere, che è, e si sa, condannata a morte?) Comunque, il portavoce del Verga sembra persuaso che, per uno ormai accreditato nel gran mondo, sia boti ton, superiore galateo mostrarsi di ma¬ nica larga: sono storie che capitano, quando si vive a un certo livello. Su un altro registro, più umano, potrebbe forse giu¬ stificarli con l’amore-passione, alla Stendhal: con la veemenza delle loro gesta: ma allora dovrebbe farci perdonare le loro vigliaccherie: Nata che si lascia condurre via dal marito. 233

quando questi viene a prenderla a Firenze; Giorgio che non la segue, mette su famiglia, e non è capace, a Un certo mo¬ mento, di calpestare i suoi affetti onesti, di tipo più indiffe¬ renziato, sacrificandoli alla passionale singolarità del proprio amore. Ma lasciamo stare Stendhal: un critico come il De Micheliscrede di poter dire che un’influenza stendhaliana si esercita su Eros', semmai bisognerebbe vederla qui; ma pro¬ prio il fatto di non arrivare allo stendhalismo, di salvare i suoi personaggi — cioè, Giorgio — quando tornano nella re¬ gola e nell’indifEerenziato, è una delle obiezioni contro Ver¬ ga; una di quelle che, dall’interno, gli debbono aver fatto sentire l’inesorabilità del fallimento, qualora si fosse ostinato ad essere il romanziere di quella gente, che non poteva né del tutto condannare, né del tutto assolvere. Piuttosto: una do¬ manda. È proprio necessario che un romanziere sia anche il giudice istruttore dei suoi personaggi? Potrebbe anche esserne il medico, o il direttore di coscienza: uno che, di fronte a loro, ha cura d’anime. E, se non pronuncia esplicitamente la parola che li riscatta o li giustifica o li spiega, per lo meno fa sentire di averla pronunciata dentro di sé: dal modo come li guarda, anzi li sorveglia. Infine, dall’eclissarsi del romanziere si potrebbe ricavare una conferma a un’opinione molto dif¬ fusa tra i critici e, per troppa sistematicità, portata quasi al¬ l’assurdo dal Cappellani:^ che il Verga sia, cioè, un verista nato. E che, in fondo, quel ritrarsi nell’ombra del roman¬ ziere sia già, di fatto, un anticipo della poetica espressa nel¬ l’amante di Gramigna (con quell’introduzione al racconto in forma di lettera a Salvatore Farina),^’ dove è detto che il ro¬ manzo deve sembrare essersi fatto da sé, senza intervento del¬ l’autore: dunque, la poetica dell’impersonalità, complemen¬ tare a quella del verismo. Tutto questo, come risposta alla domanda che avevamo formulata. Ma, quanto più tende al¬ l’impersonalità, tanto meno il romanziere deve giudicare. Il difetto di Tigre reale è che, nel momento da noi segnalato, era intervenuto in veste di giudice. Da quel momento in poi, la sua astensione è incoerenza. Soprattutto poi quando non sia vera astensione; anzi, manifesti un certo compiacimento di essere della partita, guardi con una certa indulgenza, così in contrasto con quella facile e disinvolta occhiata dall’alto, che gli aveva permesso di parlare di « prodotti malsani » e di « patologia ».

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In Èva, il personaggio del romanziere ci aveva interessati per ciò che svelava di se stesso, nonostante lo sforzo di appa¬ rire insignificante. In Tigre reale, si potrebbe dire il con¬ trario: il personaggio del testimone, che non dice di essere scrittore, ma quasi presume lo si sappia, ci interessa proprio per quel che non è, nonostante la sua presenza, nonostante lo sforzo di essere qualcuno. Come carattere, come tipo umano, il testimone di Èva e quello di Tigre reale si somigliano. Nei due casi, un uomo signorile, riservato, abbastanza difeso da una certa agiatezza, molto tutelato da una sua regola istin¬ tiva di diffidenza, forse, e comunque di prudenza, che gli con¬ sente di vivere tra i pericoli degli ambienti di lusso, senza la¬ sciarsi travolgere nei drammi. Se non saggio, cauto. Sarebbe difficile, questa volta, supporre che si confronti con l’avven¬ tura di Giorgio La Ferlita; che la senta come un rischio perso¬ nale, dal quale vuole immunizzarsi. Si considera soprattutto come un osservatore privilegiato che, per le sue relazioni col bel mondo, per la vita che conduce, è in grado di sapere i fatti che ci riferisce. Un Verga, dunque, completamente addomesticato? ormai messosi al servizio delle cronache romanzesche del bel mondo, delle avventure bizzarre e lussuose, di quei personaggi che an¬ cora in Èva non riusciva a descrivere, se non palpitando di sedotta ripugnanza e di ansioso desiderio? Se così fosse davve¬ ro, il Verga non avrebbe più sviluppo. Ma non dimentichiamo che il tipico protagonista del Verga — quello che nella sua vicenda umana presagisce e sconta la vicenda artistica del¬ l’autore — ha sempre un attimo in cui crede di essere felice, allorquando raggiunge il suo sogno, allorquando ha cattu¬ rato la farfalla, in cui pure aveva già visto il bruco. Solo in un secondo tempo il bruco gli riappare, gli rende intollera¬ bile la farfalla. Nella sua parabola di artista, il Verga di Tigre reale vive il momento in cui ha catturato la farfalla. Per adesso, se la gode: ha dimenticato di averci visto il bruco. Che la cattura sia avvenuta — o almeno che il Verga se ne illuda •— risulta chiaro dal piglio narrativo e descrittivo. Or¬ mai, egli può rappresentarci quelle donne, quei cavalieri, quei salotti, quei teatri, quei balli, senza più il tremito rivelatore che lo confondeva nei libri precedenti. Potrà essere goffo, potrà anche darci noia per la sua pretesa di apparire troppo al corrente, ma insomma la vista non gli si appanna più. Che 235

quella cattura sia valsa ad appagare, almeno per un momento, un certo bisogno di conferma dell’io, si può controllare dalla soddisfazione con cui l’autore innesta la sua presenza nel ro¬ manzo: vuol farci vedere che c’è anche lui in quel mondo, che ci si muove arzillo e disinvolto come un pesce nell acqua chiara. A guardarci bene, si vedrà infatti che la sua presenza è introdotta e sottolineata, quantunque non sia funzionalmen¬ te necessaria al dipanarsi del racconto. Lasciamo da parte 1 ini¬ zio, dove un certo, e voluto, scompiglio nella sequenza dei fatti, quasi un grande anacoluto della sintassi narrativa, un concitato rimescolamento del prima col poi, esigeva l’inter¬ vento semplificatore di qualcuno che tenesse il bandolo, per farci raccapezzare le fila annodate, contorte, sconvolte, impe¬ dire che ci di.sorientassimo. Un inizio cosiffatto ha lo scopo di gettarci subito in medias res: una delle difficoltà di un ro¬ manziere è quella di interessarci subito, di vincere la nostra resistenza di fronte alle prime pagine, in cui vediamo muo¬ versi personaggi ancora estranei, dei quali non ci importa an¬ cora. Verga risolve il problema con la vecchia regola di tuf¬ farci subito nel flusso caldo. Alla quale si aggiunge anche il suo gusto più personale per una rapidità elastica, per una condensazione della durata storica entro un tempo più breve: se ne è visto l’esempio nella tecnica adottata per Èva (tutta la storia rievocata in un racconto di un paio di ore), qui in Tigre reale tenta di fare lo stesso: il narratore riceve l’invito alle nozze di Giorgio La Ferlita, ricorda alcuni fiorentini in¬ contri col giovane amico diplomatico, segnatamente una vi¬ sita che costui gli aveva fatto per averlo padrino in un duello. Il narratore aveva rifiutato: due giorni dopo aveva saputo che egli era a letto, ferito. Era andato a trovarlo durante la convalescenza: un mattino l’aveva sorpreso intento a farsi le valigie. Partiva per Napoli, e intanto gli mostrava un biglietto con una corona comitale, il nome raschiato col temperino, e le parole: « Vi amo, parto, addio. » Due mesi dopo era ricom¬ parso a Firenze, con la ballerina Paimira, « che aveva rapito ai trionfi del San Carlo poi si era di nuovo eclissato. Il narratore lo rivede adesso nella chiesetta di Tremestieri: sta conducendo all’altare la ricca signorina Erminia Ruscaglia « un po’ imbarazzata dall’aria signorile dello sposo ». Men¬ tre la carrozza si allontana dal sagrato, portando la coppia ver¬ so il viaggio di nozze, il narratore rievoca « dopo tanto tem236

po », apostrofando i ricordi degli sposi, la gran crisi, e la figura misteriosa di donna, che diventerà protagonista del ro¬ manzo. Di qui il racconto dovrebbe svolgersi disteso, nella sua normale successione: qualche piccolo andirivieni, però, si produce ancora. .Si intende che, per un simile gioco, un depo¬ sitario della normale sequenza dei fatti era indispensabile. Ma, per il resto, non occorre più. Abbiamo già notato che, verso la chiusa, funziona un po’ da ufficiale di collegamento, per ristabilire i contatti fra Giorgio e Nata, la « tigre reale ». Ma la storia potrebbe anche fare a meno di lui. Questo alienarsi del mondo a cui ha tanto aspirato, questo presentarglisi come è, non più febbrilmente investito dalla sua passione, questo cessare dell’impegno della conquista, cor¬ risponde alla fase in cui Pietro Brusio convive, senza più un problema personale di successo, con Narcisa, Enrico Lanti, senza più un problema personale di gelosia, con Èva. È la fase di logoramento. Nella storia artistica del Verga si consumerà con Eros, dove la storia si svolge interamente per conto pro¬ prio e il romanziere in prima persona non si mostra più. Eros è il libro, in cui la farfalla si lascia palpare le ali, e ridiventa bruco : il successo non conta più, perché è noia, è mestiere let¬ terario, in un certo senso, posseduto e non amato. E lo spetta¬ colo di quel mondo non è che un ripetersi monotono di situa¬ zioni e di psicologie che non riescono più a incuriosire. Non mettiamo neppure il problema delle ripugnanze morali per quella gente: il Verga lo manifesterà in modo esplicito solo nel momento in cui si affaccerà al suo nuovo mondo. Ma qui, discordiamo dalla sicurezza di Luigi Russo, che parla di una « genesi polemica dei Malavoglia ».^ Il nostro problema consisterà proprio nel discernere se quella polemica parte dal fondo, o non sia un pretesto, una maschera di una diversa stanchezza e accoramento. Comunque, ecco la storia di Tigre reale. I due prodotti malsani sono Giorgio La Eerlita e la moglie di un diplomatico russo, che viene a svernare in Italia (non si capisce perché a Eirenze, centro mondano e capitale del regno, ma clima assai controindicato) per raggiungere, finché dura, un compromesso con una malattia di petto. Sul passaporto deH’eroina roman¬ tica, il primo dato obbligatorio — la malattia poetica — sta già scritto: non occorre più farla ammalare. Il Verga aveva ragione di semplificarsi il compito: gli rimaneva abbastanza 237

lavoro da fare per aggiungere dosi e ingredienti nuovi : un tipo di fatalità che egli adopera per la prima volta: l’amal¬ gama diavolo-angelo, aridità-passione, perversità-sacrificio, cru¬ deltà-dedizione; insomma, trasportare nell’alta società la don¬ na di perdizione e foderarla di sincerità sublime, di una dispe¬ rata capacità di abbandono. Tipo della donna fatale, comin¬ ciava a essere la slava. Gide, nel suo studio su Dostoewskij, si è dato parecchio da fare, per spiegarci la contraddittorietà dei personaggi slavi: dipenderebbe, se riusciamo a tradurlo con chiarezza, da un’amministrazione antieconomica, follemente dissipatrice di quel gruzzolo di bene o di male che è largito a ciascuna vita: spendersi tutti, spendere tutto nell’attimo che ne vale la pena, celebrare l’unicità del momento, quando quel momento ci è concesso. La psicologia della vecchia Europa occidentale sarebbe invece quella del risparmio, del tenere in serbo. Quel conto corrente di affetti e sentimenti non prodi¬ gati, quella specie di disponibilità liquida, garantisce la coe¬ renza affettiva, così come il conto in banca garantisce la sol¬ vibilità. Proprio da quell’apparente incoerenza del personag¬ gio slavo, da quel suo ingenuo, elementare e complicatissimo potere di sconcertare la nostra logica di personaggi occiden¬ tali, direi che deriva alla donna slava, nel giuoco delle parti, la sua parte di paradigma della donna fatale. Questa parte diventerà un ritornello, hno quasi a morire in caricatura nel luogo comune e posciadistico del « fascino slavo ». Verga si trova agli inizi, alle prime grandi migrazmni e stragi della donna slava tra i personaggi occidentali. Nella Francia di Flaubert e dei Goncourt e del Secondo Impero — quella che, letterariamente, è maestra a Verga come a tutta l’Europa — Turghenieff, che passava per cosmopolita, era riuscito ad ac¬ climatare il personaggio russo valendosi della tecnica fran¬ cese. È chiaro che la « fatale » russa viene al Verga dalla lette¬ ratura, anche se l’occasione di Tigre reale possa essere stata qualche aneddoto dal vero, che d’altronde ci rimane ignoto. Questa assunzione della letteratura fa sì che la russa fatale, in Verga, sia già alquanto proverbio, luogo comune. (Destino dei personaggi: partire da un tipo rigido — che negli imi¬ tatori li fa sembrare proverbi — maturare hno alla verità in¬ dividuale, specihca, reale; poi anchilosarsi, e ridiventare pro¬ verbi. Il Verga prende la « russa » nella prima fase.) ™

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1952-1953

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VI ■ Nedda

243-246 La trama 246-254 Le « lasse »' narrative 254-270 Umiliati e offesi

Parrebbe un po’ strano, a un anno di distanza, riprendere il discorso con la frase di prammatica: « la scorsa volta abbia¬ mo detto... », come se il filo non fosse stato spezzato. Perciò, invece di riassumerci, cerchiamo di raccapezzarci, col fare un esame di coscienza. Forse riusciremo a stabilire quale sia, nel nostro bilancio verghiano, l’attivo che siamo in grado di portare a nuovo, come direbbero i ragionieri. Il nostro la¬ voro, se ha avuto un senso e una giustificazione, li deve pro¬ prio all’avere accompagnato la ricerca dei risultati parziali, che via via potevamo ottenere dalle opere giovanili del Verga, con la ricognizione, quasi una radiografia, dei metodi impie¬ gati per ottenerli. Il nostro treno merci, col suo carico, quale che fosse, di successive approssimazioni al Verga, non si per¬ metteva di dirigersi a nessuna delle stazioni intermedie, senza che noi esaminassimo, contemporaneamente, il binario su cui stavamo camminando. Sdoppiavamo il nostro lavoro tra quello del macchinista e quello del cantoniere che sorveglia la linea. Critici anche degli altri critici, per vedere di isolare, e poter garantire, la nostra critica del Verga, abbiamo via via adope¬ rato gli strumenti estetici e quelli psicologici, per finire con l’accorgerci che ci sentivamo più tranquilli, quando riusciva¬ mo a seguire uq metodo storico, che vorremmo chiamare in¬ tegrale, in quanto si proponeva di tener conto delle strutture sociali e umane su cui il Verga si impianta, e insieme dell’ori¬ ginalità del Verga: cioè dello « specifico » verghiano, come direbbe certo gergo oggi di moda. Adesso che dobbiamo riprendere il discorso, piuttosto che di fronte alla scelta di un metodo, ci troviamo di fronte a una necessità di tecnica spicciola: una necessità, per così dire,'di pratica e di mestiere. Essa si presenta normalmente ai critici, quando arrivano al nodo della loro questione : ed è proprio il punto in cui ci troviamo adesso noi, obbligati oramai a risol¬ verci ed a concludere sui capolavori del Verga. In simili circo243

stanze, il critico deve fare come il sarto, quando mette in prova il vestito che ha tagliato e imbastito. Prende i lembi di stoffa, sulle maniche, sulle spalle, lungo i fianchi, dove già parevano avere la sagoma del vestito finito, e strappa e appun¬ ta alla meglio, goffamente, quasi distruggendo la forma che aveva già data. Un’operazione che, ogni volta, preoccupa il cliente. Anche noi stracceremo a lembi ciò che avevamo sago¬ mato nel corso delle nostre analisi e sintesi parziali. E ci parrà di buttare via tante cose, che con pazienza avevamo accumu¬ late. E qualcuno si domanderà, forse, se tutto quel lavoro non sia stato ozioso, inutile compiacimento di analisi, di piccole trovate o vanamente ingegnose o sterilmente arroganti. Per questo, ho parlato di .un esame di coscienza. Rassicuriamoci : se anche parecchie cose, in apparenza, sembreranno da sacri¬ ficare, da ritagliare avaramente sui profili, lasciandone fuori le frange e i risvolti più lussureggianti, niente andrà perduto. Tutt’al più, rimarrà tra le cose taciute, che arricchiranno di certezza, di interiore convincimento, le affermazioni più sec¬ che, perentorie, a cui bisognerà pur giungere. Anche noi siamo d’accordo che la serie dei capolavori verghiani — o per lo meno la maturità dell’opera del Verga — debba farsi iniziare con Nedda, bozzetto siciliano, anche se Nedda non è ancora un capolavoro. Nedda, la incontriamo intorno al grande focolare della fat¬ toria del Pino, alle falde dell’Etna, dove memoria o fantasti¬ cheria hanno riportato il narratore, per dissolvenza incro¬ ciata con le fiamme di un altro caminetto, più da salotto. Sfu¬ mata la nebbia della dissolvenza, subito la figura di Nedda si precisa, tra il coro delle compagne, lì riunite in quella fatto¬ ria, per qualche giornata di lavoro — raccolta delle olive — e quel giorno costrette a starsene inerti, al chiuso, perché piove. È anzi il coro delle compagne a indicare Nedda, a far conver¬ gere gli sguardi degli spettatori (dei lettori) su di lei ; con uno di quei procedimenti da sceneggiatura di melodramma di cui il Verga volentieri si vale, come già altre volte abbiamo vedu¬ to, e che segnano i limiti e le fonti della sua cultura (una cul¬ tura che vorremmo chiamare tutta « di mestiere »). La vicenda di Nedda si articola nei seguenti episodi, che indicheremo sommariamente, solo per aiutare e rinfrescare la memoria dell’argomento, prima di addentrarci nell’analisi. Particolare situazione di Nedda: poverissima, senza pane 244

« di suo », a differenza delle compagne. E per di più il pen¬ siero della madre moribonda nella vicina Ravanusa. (L’ha do¬ vuta lasciare, perché non può fare a meno del lavoro. Primo accenno a zio Giovanni, suo rozzo benefattore: in caso di una Cattiva notizia, sarebbe lui a fargliela sapere.) Altra giornata di pioggia. Discussione tra le ragazze. Loro idea sulla propria condizione in rapporto a quella del fattore e del padrone. Viene il sabato: giorno delle paghe. Meno del previsto, per le due giornate e mezza di riposo forzato. Nedda non protesta: ma ha gli occhi pieni di lacrime. Il figlio del padrone propone le sia pagata l’intera settimana, ma il fattore rifiuta: tutti i vicini si ribellerebbero se si facessero « delle novità ». Nedda, sola, nella notte, verso Ravanusa. Paura di quel cammino, accresciuta a intermittenze dall’angoscia per la ma¬ dre. Rintocco dell’orologio di Punta, che la rincuora: è arri¬ vata. Incontro con Janu, che torna coi buoi dalla Piana: il ragazzo la rassicura. La madre non è peggiorata. Gioia di Nedda (e si intende: non solo per le notizie, ma per chi glie le ha date). Domenica. Visita del medico: nessuna speranza. Poi l’olio santo. Ma il medico ha prescritto ancora qualcosa. I.o zio Gio¬ vanni vuole andare lui in farmacia. Le ultime parole della moribonda sono per sapere a quanto è salito il debito con lo zio Giovanni. Dieci lire, ma Nedda non vuole che la madre se ne impensierisca: lei lavorerà. Giornata dopo i funerali. A sera, visita dello zio Giovan¬ ni : non vuol denari, dice solo che ad Aci Catena pagano una lira al giorno per incartare le arance. Nedda partirà l’indo¬ mani. Lo zio Giovanni le ha portato anche un pane. Alla messa per la morta, ha provveduto lui: non occorre che Nedda vada a lavorare gratuitamente dal curato. Maldicenza delle ragazze e predica del curato; perché Ned¬ da è andata a lavorare il giorno dopo la morte della madre, e perché l’hanno vista cucirsi di domenica il grembiule tinto in nero per il lutto. Una sera sente la canzone di Janu. All’indomani mattina — domenica — lo vede tutto vestito a festa. L’hanno licenziato alla Piana, perché si è buscato la malaria. Dialogo a reticenze. Il paesaggio dice il. resto. Nedda cerca di sottrarsi: deve an¬ dare a messa. Janu le regala il fazzoletto. Uscita dalla messa: 245

il fazzoletto è ammirato dalle ragazze. Con un pugno e una pacca, il dialogo tra Nedda e Janu riprende, presso la casa di lei. Janu decide di andare anche lui, all’indomani, a Bongiardo, dove Nedda adesso lavora. Alla sera zio Giovanni 1 av¬ verte: la Nedda è sola, e tu sei un bravo giovanotto « ma in¬ sieme non ci state proprio bene. »' Janu promette che, dopo la messe, fatto il gruzzolo, la sposerà. A Bongiardo c è lavoro, e ben pagato: si trasforma un uliveto in vigna. Piccola in¬ chiesta sulla situazione dei poderi e dei braccianti. Dormono alla rinfusa. Janu dà la sua casacca a Nedda, e cerca di alle¬ viarle il lavoro. Il soprastante ne approfitta per ridurgli la paga di dieci soldi. Domenica. I due tornano insieme a Ravanusa. Si fermano all’ombra per mangiare pane e cipolle. Rozza dichiarazione d’amore. Janu ha un fiasco di vino. Il bere, la bella giornata, e tutto il resto, portano la fatale conseguenza. Pasqua. Nedda non riceve l’assoluzione. Tutti la sfuggono. Fattori e padroni le diminuiscono la paga. Il fidanzato è alla Piana per la mietitura: deve « raggruzzolare i quattrini per mettere su casa e pagare il curato. Una sera si vede davanti Janu sfigurato. Alla Piana lo hanno ripreso le febbri: s’è mangiato i quattrini. Nedda vuole scu¬ cire il pagliericcio. Janu non accetta. All’indomani partirà per Mascalucia: c’è la rimondatura degli olivi. Nedda teme che non reggerà sui rami alti. È un presagio forse troppo preciso. Notare un’altra simmetria: Janu ha il capo avvolto in un fazzoletto. Tre giorni dopo lo riportano a casa. È cascato da un ulivo. Ha la testa avvolta in un fazzoletto tutto sporco di sangue. Nedda sente muoversi in grembo il ricordo lasciatole da Janu. Nessuno le dà più lavoro: non perché sia colpevole, ma per¬ ché non rende più come prima. Si mangia i suoi pochi soldi. Lo zio Giovanni l’aiuta come può. Nasce una bambina « ra¬ chitica e stenta»; ma Nedda non vuole che sia portata alla Ruota. Non ha latte per nutrirla, perché a lei manca il pane. La bambina deperisce: una sera d’inverno fissa gli occhi vitrei in quelli della mamma. Nedda cerca invano di farla rivivere con l’alito e con i baci. Poi si inginocchia accanto al piccolo cadavere: « Oh! benedetta voi. Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me! »^ A parte l’introduzione, che vogliamo ancora tenere da parte. 246

per cavarne qualcosa di particolare, la struttura di questo racconto — che il Verga ha chiamato bozzetto — ci pare di riconoscerla/ Il Verga aveva già distribuito la sua materia con un metodo, una linea di condotta apparentemente uguale quando scriveva il breve romanzo — o per meglio dire, quasi sempre, lungo racconto di Èva. Èva è del 1873 : precede Nedda di un anno. Noi avevamo notato che anche là il Verga aveva trascelto i momenti funzionali della vicenda a cui voleva farci partecipare: li aveva scanditi in brevi, intensi episodi, che noi avevamo chiamato « strofe » narrative. E ci era parso che, con Èva, con quelle « strofe » il Verga avesse trovato propriamente la metrica confacente, appropriata al suo respiro narrativo. Quel Verga che nella vita ci è stato descritto come uomo la¬ conico, perfino avaro di parole, non spreca il fiato a descri¬ vere l’itinerario dei suoi personaggi : ne identifica le tappe e le svolte, quanto basta per far capire di dove sono passati, per dove decidono di passare nel momento in cui il loro destino sembra costringerli a una scelta. Anche dove sembra subire i meandri e gli andirivieni di quei personaggi — ricordiamo certe scenate tra il pittore Enrico Lanti e Èva, ricordiamo anche certi resoconti di periodi abbastanza estesi della vita di Enrico: fallimenti, avvilimenti o amari trionfi — il Verga sceglie sempre la prospettiva di scorcio, la veduta a picco sui fatti e sentimenti di quei personaggi. E questa che ora fac¬ ciamo sarebbe un’osservazione ovvia, parecchio banale, se non ci affrettassimo a soggiungere che la veduta a picco, e partico¬ larmente nel Verga, esclude al massimo la pittura, la resa dell’ombra. Questa è, semmai, l’osservazione che dobbiamo tenere da conto: ci servirà, quanto prima, di aiuto. Ma se, da Èva e Nedda, la scansione, lo sgranarsi delle stro¬ fe, con l’interpunzione delle pause, dove sarebbe inutile par¬ lare, ci pare la stessa — se in Nedda il Verga ha l’aria di uti¬ lizzare quello che, attraverso prove oramai abbastanza varie e insistite, ha capito di se stesso, tenacemente, e del miglior uso da fare delle proprie doti narrative, nel regime,^ nella con¬ dotta così somiglianti, si instaura una differenza che mi sembra fondamentale. D'accordo: Èva gli ha reso certo quel¬ lo che la Capinera con la sua forma epistolare (cioè ad epi¬ sodi chiusi e, al loro m.eglio, già strofici) gli aveva fatto presagire: narrare per lui non è sposare la durata del tempo, ma saltarne fuori e piombare sui gangli, sui centri nervosi, che 247

ne riassumono e ne determinano il fluire.* Si è già notato — parlando della Capineva — come la sua drammaturgia si arti¬ coli e si pronunci a somiglianza delle sorprese atmosferiche, degli imprevedibili temporali siciliani. Il Verga non ha in prevalenza il senso delle maturazioni organiche, ha piuttosto quello delle crisi. Non è vero che narri per accumulazione, come i naturalisti, narrerà piuttosto per condensazione. Solo la crisi gli pare degna di essere presa in considerazione: e que¬ sto, se volessimo farci qualche indiscrezione psicologica, ci autorizzerebbe a supporre che il riservato sigrior Verga fosse soprattutto un timido. Quasi che non si sentisse il coraggio di usurpare l’attenzione altrui, se non aveva da dire qualcosa di veramente singolare, fuor dell’ordinario. Di solito — visto che ci siamo lasciati tentare a questa parentesi sui tipi psico¬ logici — il cosiddetto narratore nato è un uomo di altra pasta. È un uomo sorretto dall’assiomatica, incredibile fiducia nella propria capacità di tenere incatenato l’uditorio: qualunque sia il fatto che intraprende a narrare, e sia pure di menoma importanza. È sicuro dei propri effetti: tono e varietà della voce, colorito delle parole, ritmo e articolazione degli episodi, dosaggio della sorpresa. E si compiace talmente di starsi a sen¬ tire, che non può a meno di credere che anche gli altri lo sta¬ ranno a sentire col medesimo piacere. Sono famose le chiac¬ chierate di Balzac, quando usciva nel mondo e nei salotti, do¬ po le ascetiche reclusioni nel suo laboratorio, dove pure aveva sfogato il fantastico potenziale del suo temperamento in valan¬ ghe di parole, decine o centinaia di pagine di un nuovo ro¬ manzo, decine o centinaia di fogli di bozze corrette o, per me¬ glio dire, completamente riscritte. L’irruenza, il tumulto, l’inesauribiiità della conversazione di Balzac — questo che vor¬ remmo chiamare il suo egocentrismo di conversatore — erano tali da farlo giudicare dai suoi interlocutori, ridotti press’a poco al silenzio, un grossolano, un invadente, un infatuato perfino ridicolo. (Vero è che il confronto con una esuberanza geniale provoca volentieri, in chi ne è testimone, e non può mettersi in gara, un gusto della misura e un senso del comico, pronti a sentirsi — per un istintivo bisogno di compensazio¬ ne — raffinati e superiormente intelligenti.) Ma, a parte Bal¬ zac — del quale si trovano riferite quelle orge di conversa¬ zione in alcuni dei tratti meglio condotti a termine della bio¬ grafia che Stefan Zweig ^ lasciò incompiuta — a parte Balzac, 248

chi per esempio abbia conosciuto Italo Svevo ricorda bene come egli pasteggiasse, con gioia di buongustaio, quasi con un implicito schioccar della lingua, ogni più minuto aned¬ doto o fatterello, come lo sospende5se lentamente, abilmente sulla stretta finale, sulla conclusione, come ammiccasse di con¬ tinuo ai significati che quel fatterello si prestava a deluci¬ dare e gli ascoltatori frattanto, divertiti e al tempo stesso ama¬ bilmente catechizzati, si domandavano se quel fatterello va¬ lesse per la spassosità o commozione del racconto a cui for¬ niva spunto, o per i giudizi umani, i commenti illustrati alla propria morale, che Svevo si proponeva di farne emergere. Per rimanere un altro poco in compagnia di questi uomini pia¬ cevoli, se gli esempi non bastassero ancora, si ricordi Stendhal. Che certamente fu un conversatore sfolgorante, di un brio ir¬ resistibilmente lucido, non appena gli era riuscito di rompere il ghiaccio, e dopo che avesse compiuti col debito successo i riti — che egli stesso ci ricorda — cui si sentiva costretto per superare il senso di paralisi, che lo coglieva nell’entrare in un salotto. Ma, oltre la conversazione parlata, ci ha la¬ sciato per iscritto queirimmensa, e mai finita di esplorare, conversazione che sono i diari e i libri di viaggio. Nei quali si vede come il narratore nato non abbia alcun bisogno che la vita si contragga, entri in crisi, condensi la sua portata signifi¬ cativa per diventare narrabile: ché, anzi, scava il narrabile anche nell’uniformità dell’esistenza: sa mettere lui quegli ac¬ centi, che la vita non aveva creduto il caso di mettere. E, in¬ somma, se vogliamo trovare anche fuori del mestiere lettera¬ rio, di che cosa e come sia fatto il loquace e cordiale piacere di narrare, per cui il racconto è anche sempre d’occasione, un po’ come il Goethe diceva che lo è ogni poesia, ma con la differenza che, per il raccontatore istintivo ogni occasione è buona, rileggiamoci il ritratto che Carlo Dossi, nella Rovaniana, traccia del signor Gaetano, il padre di Giuseppe Rova¬ ni: «Se... il signor Gaetano frequentava assai volentieri le osterie dalle isole ai boeucc, c’era un’altra ragione, oltre quella del vino bianco e del rosso. L’osteria era il luogo dei suoi quotidiani trionfi... Egli aveva una tal vis narrativa che lo scettro della conversazione, come direbbe un letterato in mar¬ sina, o il mestolo, come diciamo noi in giacchetta, cadeva sem¬ pre in man sua. Se egli avesse saputo bagnare di inchiostro, come bagnava di vino le sue parlate, avrebbe certo preoccu249

pato al figliolo la celebrità... Fin nei suoi ultimi anni il padre del nostro Rovani serbò fama di novellatore impareggiabile. Allorché entrava in qualche taverna o caffè del vecchio suo giro era pregato, sollecitato perché narrasse qualcosa, qualsiasi cosa: gli astanti gli si affollavano intorno, montavano sulle sedie, e sui tavoli per meglio udire, e, quando incominciava a parlare or di tragedia or di commedia, si faceva un silenzio quale nessun oratore, per quanto parlamentare, ebbe' mai. »® Il Verga non si fidò mai che la gente montasse sulle sedie per fargli cerchio d’intorno, allorché si metteva a narrare qual¬ cosa, qualsiasi cosa. Tanto poco si fidava, che quando si prova con l’aneddoto, con la « qualsiasi cosa », ha bisogno di pimen¬ tarlo con un giro bizzarro, misterioso, stravagante, con un romanzesco che denuncia l’elucubrazione, la voglia di far col¬ po. Si vedano le novelle riunite nella raccolta che comprende Nedda e si intitola Primavera e altri racconti, pubblicata a Milano, dal Brigola, nel 1876. Salvo il racconto Primavera (1875) che meriterà un accenno a parte, gli altri come Certi argomenti, X, La coda del diavolo, tutti scrìtti nel periodo dopo Nedda, tra il ’74 e il ’76 accattano eccezionalità psicolo¬ gica e di intreccio alle influenze della « scapigliatura mila¬ nese ». E anche le Storie del castello di Trezza, scritte nel ’75 e riunite nello stesso volume, seguono questa ricetta, nono¬ stante il prestigio dello sfondo — Trezza — che appare fatale, adesso, a noi; ma del quale l’autore, in quel momento, non dava segno neppur di sospettare la fatalità; nonostante — o forse proprio per — l’infelice e goffo pastiche del linguaggio secentesco. Ma perché quelle stranezze, perché quel granello di incenso bruciato alla scapigliatura milanese? Noi sappia¬ mo che il Verga continuava a lavorare con l’illusione di una « disponibilità », di una capacità di tutto fare, molto più lar¬ ghe di quelle che (per sua fortuna) gli erano state concesse. E questo, insieme con le lusinghe del successo ch’egli stava inseguendo sul continente, lo rendeva facilmente tributario alle mode. Ma il discorso si potrebbe anche rovesciare. Non tanto il Verga si asservisce a certi schemi e gusti della scapi¬ gliatura, quanto li prende a suo servizio — veleni, capricci, modi di vetrioleggiare il lettore — per dare piccante, per dare dignità di essere narrati a certi aneddoti che, ridotti a una loro semplicità più quotidiana, non basterebbero per metterlo in vena. Né la singolarità artificiosa delle vicende gli basta an250

cora: vuole essere cordiale, espansivo, fare il narratore di ve¬ na, e non riesce ad altro che a una petulanza, una biricchineria, un verso che non farebbe per lui : quasi crepitii di risa¬ tine fuori di una dentiera. Ed oggi, a rileggerlo, si prova come un malessere per lui, che ci si è abbassato. Ugo Ojetti, nelle Cose viste,^ dopo di avere detto degli implacabili, impenetrabili silenzi di Giovanni Verga, anche nella vita, a Milano, tra il crocchio degli amici al Cova; e di come fosse impossibile cavargli « giudizi su un libro o su un uomo », conclude e ricorda; « Gli occhi lucenti di un azzurro cupo, d’un taglio da statua antica, il colorito abbronzato, i folti capelli già brizzolati, i baffi morbidi e castani, egli era per noi non soltanto il siciliano leggendario, misterioso e fa¬ tale, gelo e fuoco come sull’Etna, ma era lo stesso eroe dei suoi primi appassionati racconti, lo studente di una Peccatrice, il pittore di Èva, il marchese Alberti di Eros. Non aveva ucciso nessuno in duello, non s’era per fortuna ucciso; ma che fosse anche allora, sui cinquanta, capace di suscitare tragedie e d’ab¬ bandonare tutto, anche l’arte sua, per una donna, di seguirla in capo al mondo, di seppellirsi con lei in solitudine fino alla morte, di questo nessuno dei suoi amici milanesi dubitava. » (Sarà; ma forse quegli amici milanesi che avessero letto, o ricordato, meglio che Ugo Ojetti quei romanzi giovanili, in questo caso non li avrebbero citati: perché quei romanzi de¬ nunziano, con tutte le implicazioni che già abbiamo tratte, l’impossibilità, veramente contraddittoria, di seppellirsi con una donna, Narcisa o Èva o Nata, o Velleda, fino alla morte. Comunque, l’Ojetti continua, ed è questo il punto che ci inte¬ ressa) : « E che a un certo punto egli si fosse volto al verismo, a rappresentare nei romanzi la vita così duramente, con uno stile concitato, tutto fatti, cercando di nascondere sotto il ci¬ piglio impassibile la naturale bontà, ci sembrava anche questo un dramma che gli andasse a pennello, la scena dell’innamo¬ rato che chiude la porta a chiave, si pianta dinnanzi all’amante che trema, e le domanda: < dimmi tutta la verità. Poche pa¬ role; la verità >. » Ci sono parecchie inesattezze di storia della letteratura in questo apologo immaginario dell’Ojetti; il quale, tutto all’op¬ posto del Verga, era parecchio innamorato della propria lo¬ quacità discreta, spiritosa ed elegante. E qui accompagna di molti « olà » e di molti « in guardia » e tinnire scintillante 251

del fioretto le proprie cavate « a fondo » di schermitore del ritratto giornalistico, di spadaccino dell aneddoto. Ma dall apologo ojettiano noi possiamo cavare un argomento di più sulla condotta della narrativa del Verga. Non la donna, ma la vita lui chiudeva a chiave e la affrontava con quell intimazione, la verità. Con l’aggiunta che la verità non poteva essere se non una rivelazione decisiva, il nodo drammatico, la crisi. E tutto il resto, davvero, era silenzio. Cosa da lasciare indovinare, o da far capire negli spazi tronchi tra 1 una e 1 altra crisi. per¬ ché la temperatura della vita, in quelle fasi intermedie, non basta a sgelare la voce, né la mano che conduce la penna. Non vale la pena che vi si spendano parole, che si metta nero sul bianco. Il Verga non ha fantasia, non ha immaginazione, per scoprirci abbastanza movfmento e interesse. È della famiglia veramente paradossale dei romanzieri che non amano narrare. Si direbbe che gli manchi quel tanto di narcisismo necessario a volersi bene, e perciò a sentirsi accalorato, quando parla della vita, apparentemente, su un piede di ordinaria ammi¬ nistrazione. È fondamentalmente un taciturno: tanto e vero die, per le molte circostanze che abbiamo già detto e quelle che aggiungeremo, lo aspetta, da vivo, il varco del silenzio. Al limite del Verga, proprio per la sua incapacità di parlare se non nelle ore o nei minuti di incontro con certi punti singo¬ lari, al suo limite è il silenzio. Le psicologie di articolazione pili complessa, che richiedono un resocontista o un interprete capace di appassionarsi e rivelarle singolari anche al di fuori dei loro punti singolari, lo faranno ammutolire. Del resto, e in un modo assai diverso, anche il Manzoni apparteneva alla famiglia dei taciturni. Nei suoi scritti posteriori al romanzo (eccettuato l’inizio della Colonna infame, anche narrativamente formidabile), nei colloqui “ con lui, riferiti dal Borri e più pungentemente dal Tommaseo, troviamo sempre un uomo che, per sopravvenuta incapacità nervosa o per pudore e gelosia di se stesso (che è il medesimo), si rifiuta di appassio¬ narsi narrativamente ai fatti. Dà giudizi, che spesso nella con¬ versazione sono argutissimi epigrammi, ragiona, cava fuori idee generali. Va ricordato, a proposito, perché significante e pateticissima la risposta a un visitatore che, nella villa di Brusuglio, ammirava alcuni alberi, sotto cui il Manzoni stava se¬ duto: « Che bella pianta don Alessandro! » E il Manzoni: « I hoo piantaa mi. Ma lor seguiten a vegni mèi, e mi vece e 252

secch. » Questo è il Manzoni, di là dal traguardo del silenzio. Naturalmente, era sempre più cordiale e conversevole che quello del Verga: era un silenzio che, se non altro, esprimeva argutamente se stesso, una cessata volontà di parlare. Ma il Manzoni, poeta di romanzo, aveva manifestato anche il suo gusto di partecipare a tutta la vita: alti e bassi, curve e retti¬ linei. Possiamo rubare al Borgese un’immagine un po’ ardita: dopo la scena delle tentate nozze notturne, i Promessi sposi per un buon tratto di capitoli hanno la sagoma, i profili di un altopiano. E il Manzoni davvero non si annoia, né ci annoia, nel descrivere quei profili senza cuspidi. Il Verga, in un caso simile, si sarebbe annoiato. E ci avrebbe annoiato come ci mo¬ strano fin troppi esempi, che già abbiamo incontrati e ancora incontreremo. E quel ch’è peggio, avrebbe simulato la viva¬ cità per partito preso, per impegno e coscienza di mestiere, per non darsi vinto, forse per disperazione. Tutta questa di¬ gressione, sui loquaci e sui taciturni, e il confronto con l’altro grande taciturno, per cercare, anche dal didentro, in una spe¬ cie di tipologia psicologica, i motivi che conducono il Verga a quella tale condotta e cadenza strofica: e ogni strofa nasce su un momento di crisi. Sappiamo, dunque, perché, imbattutosi in Nedda, figura e vicenda che stranamente lo appassionano, riprenda quella ca¬ denza strofìca che in Èva lo aveva rassicurato su una sua pri¬ ma maturità, gli si era rivelata consentanea col suo tempe¬ ramento. Ma le strofe di Nedda sono diverse, abbiamo detto: più giustamente si meriterebbero il nome di « lasse » come nei cantari dei trovieri e nelle epopee. Le strofe di Èva nasco¬ no, anch’esse, sulle fasi acute del tempo dei protagonisti. Ma quello è un tempo che coincide suppergiù col calendario nor¬ male dei mesi e dell’anno. Supposto che conoscessimo l’anno in cui il Verga immagina lo svolgersi della vicenda di Èva, po¬ tremmo quasi di ogni scena segnare press’a poco il giorno, la settimana, il mese. Per Nedda, teoricamente, la cosa pare quasi altrettanto possibile: ma ci accorgiamo che sarebbe uno sbaglio farlo, qualcosa che ci metterebbe fuori del valore poe¬ tico di quelle giornate. Perché ognuna delle strofe di Nedda sembra coincidere, piuttosto che col calendario ufficiale di un determinato anno, col succedersi degli eventi naturali, che conosce magari il ritmo delle stagioni e perfino quello delle settimane — giorni feriali, di lavoro, le domeniche — ma 253

colorisce, ma impronta, ma identifica un ripetersi di cicli, come un ricorrere di epoche. Dove Nedda è grande potrebbe essere come uno di quegli eroi eponimi, che prestano la loro biografia a una serie di fatti che potrebbero aver lasciato me¬ moria di sé, accaduti a grande lontananza 1 uno dall altro, nel corso di parecchie generazioni, e che poi il racconto epico raduna in un solo personaggio. Non che Nedda non sia im¬ piantata, con una certa precisione, nel suo tempo : è una brac¬ ciante siciliana, anzi dei paesi intorno Catania, negli anni poco dopo l’unità italiana. Guardata all’ingrosso, la storia della ra¬ gazza di Viagrande, della varannisa, somiglia, quasi da con¬ fonderla, alle più autentiche storie verghiane: nell’intreccio, se di intreccio si può parlare, e nei personaggi. Incontriamo la protagonista accoccolata (atteggiamento tipico, s’era già no¬ tato) su un fascio di legna presso il grande focolare della fat¬ toria del Pino, alle falde dell’Etna. Tiene il mento sui ginoc¬ chi, alle provocazioni delle compagne risponde con « un’oc¬ chiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda. »“ È una rassegnata per abitudine, perché c’è su di lei, e su tutta la gente come lei, una sopraffazione della vita, contro cui non si può discutere. Ma, per temperamento, ed entro i limiti en¬ tro cui è lecito reagire, è una passionale, capace di rivoltarsi, o almeno sordamente stimolata a farlo. Per adoperare la ter¬ minologia dostoevskiana, è insieme umiliata e offesa. Umi¬ liata, finché si rimane nell’ambito delle potenze contro cui non vale ribellarsi. Offesa, nell’ambito in cui le è concesso di accusare i colpi. Ho nominato Dostoevskij. Secondo Gide, l’umiltà, con le situazioni complementari e opposte, cioè umi¬ liazione e offesa, sarebbero le chiavi di Dostoevskij. Tentia¬ mo una breve digressione, per vedere se ci sarà utile a indi¬ viduare la famiglia dei personaggi verghiani. A proposito de¬ gli umiliati di Dostoevskij, Gide diceva: « L’uomo, che l’u¬ miltà inclinava, l’umiliazione all’opposto lo fa impennarsi. L’umiltà apre le porte del paradiso: l’umilia^;ione quelle del¬ l’inferno. L’umiltà comporta una specie di sottomissione vo¬ lontaria; è liberamente accettata; prova la verità delle parole del Vangelo: < Chi si abbassa, sarà innalzato). L’umiliazione al contrario avvilisce l’anima, la incurva, la deforma, la pro¬ sciuga, la irrita, la gualcisce, produce una specie di lesione mo¬ rale assai difficile a guarirsi. » 254

Questa pagina del moralista Gide, qui al suo meglio, potrà far nascere per lo meno una preoccupazione.' Si è umili, per temperamento o per disciplina: in ogni caso, l’umiltà dipende da noi. L’umiliazione, invece, ci viene dagli altri, dipende dal contegno altrui. E ci butta nell’inferno. Terribile pensare che, se anche abbiamo in noi, tutte le disposizioni, e i meriti e anche la necessaria buona volontà per andare in Paradiso — chi si abbassa, sarà innalzato — basti l’intervento di un pazzo, di un ignorante, di un cattivo, di un imbecille, per dannarci all’inferno. Morali e catechismi, la saggezza religiosa e quella laica, vanno d’accordo nel dire che, contro l’iniziativa avver¬ saria e dannatrice, un’arma ci resta: il perdono. Non è com¬ pito nostro indagare se l’ultima parola di Dostoevskij non sia appunto il perdono, simboleggiato dal gesto dell’uomo puro che si inginocchia davanti al criminale. Gide, nel passo da noi citato del suo studio su Dostoevskij, va in cerca di qualcosa che spieghi il comportamento dei personaggi dostoevskiani più incalcolabili (per un occidentale e particolarmente per un francese di allora, 1922). E conclude: « Non c’è, credo, una sola delle deformazioni e deviazioni di carattere — che ci fanno parere tanti tra i personaggi di Dostoevskij così inquietanti, così morbosamente bizzarri — che non tragga origine da qualche umiliazione iniziale. Ma ai personaggi umili di Giovanni Verga non è davvero promesso il regno dei cieli, e neppure quella riconciliazione con la vita, qui in terra, che anche il Manzoni, con colori me¬ no contrastati e burrascosi, con una fede in apparenza tanto più serena, aveva garantito ai suoi « umili ». Ai personaggi del Verga non serve di essere umili : voglio dire che non lucrano la loro umiltà, perché nessuna gloria o risarcimento o com¬ penso li attende. (A meno che non si voglia, con Massimo Bontempelli,’^ vedere « vittoriosi » quelli che il Verga chia¬ mava «vinti», e tipicamente i Malavoglia buoni: «vitto¬ riosi » in una specie di al di là di giustizia e riconoscimenti morali, una vittoria che solo noi possiamo vedere e loro vice¬ versa non riusciranno mai a scorgere, vittoriosi, perché vinti ma non schiavi; « lucenti paradigmi di libertà », dice testual¬ mente il Bontempelli: e allora tradurremmo: umili, ma non umiliati, e ne conchiuderemmo che questa interpretazione è più affascinante che letterale. I personaggi del Verga sono umili, come si diceva, e anche umiliati.) Anche la loro umi255

liazione appare infruttuosa. Perche non sembra capace di f^rli reagire, di scatenarli all’azione, di mettere in loro la rabbia di sottrarvisi, magari col cambiare il mondo, 1 ordine delle cose che li umilia. Mi si dirà che questo non è vero: che il vecchio Malavoglia combina l’affare dei lupini proprio per mutare la sorte umiliata della suà famiglia. Mi si dirà che il Verga stesso vede una insofferenza alla base delle iniziative dei suoi personaggi, una velleità di sfuggire alle costanti del loro de¬ stino, e trasformarle; e questo afferma nella famosa frase della prefazione al ciclo dei Vinti, dove parla della « perturbazio¬ ne » che arreca « in una famiglinola vissuta sino allora felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio ».'■* Ma attenzione, però: prima dei Vinti, alla donna cui indirizzava Fantasticheria aveva scritto: « Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se 10 ingoiò e i suoi più prossimi con lui. Ma qui proprio, in quella « perturbazione » come in quell’essere ingoiati, si vede chiara una punizione ineluttabile a chi voglia trarsi dalla condizione di inferiorità, dalla naturale umiliazione. E il mo¬ vente, dal Verga stesso, è veduto come vizioso, segno di po¬ chezza: parla di deboli, di incauti, di egoisti. Mentre sembra impietosirsene, li bolla. Vera virtù (o saggezza) o capacità di vivere è non ribellarsi, accettare l’umiliazione, non cercare 11 meglio. Il contrario è peccato, lo dice ancora la prefazione ai Vinti-, « Altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimmate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. »’* Sarebbero virtù se fosse possibile ribellarsi; diventano peccato, in quanto la ribellione è impossibile. C’è dunque una legge autorevole e misteriosa che tiene quella gente attaccata alla propria condizione di umiltà, alla propria umiliazione. Ed è la legge che dobbiamo capire se vogliamo oltrepassare l’ultimo diaframma che ancora ci separa da una precisa, esplicita intelligenza di quello che è il mondo verghiano. (Altrimenti, non ci rimane che adularne passivamente la grandezza.) Una legge che non ha niente che vedere con l’amore della roba, su cui ha voluto far perno Luigi Russo. Lasciamo poi stare il melensò commento che un dichiarato 256

seguace del Russo, il Nardi, appone al passaggio che abbiamo letto or ora:-'« Anche questa, » scrive il Nardi, con un tono da omelia spregiudicata, « è concezione pessimistica, come se dal successo dipenda la valutazione: peccato pel vinto, virtù pel vincitore. Purtroppo — sospira questo Nardi a uso delle scuole — l’esperienza immediata ci dice che è così. E guai se non ci fosse la possibilità di una revisione storica dei valori. »" Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza: i posteri che, in questo caso, saranno gli alunni delle scuole medie. Ma anche Bontempelli, con il suo ingegno scintillante, ha cercato di fare una revisione dei valori, tentando il riscatto dei « vinti » su un altro piano, in una specie di teodicea laica. Salta fuori — sen¬ za che Bontempelli se ne accorga — una specie di morale man¬ zoniana rovesciata sulla terra: « Te collocò la provvida sven¬ tura / intra gli oppressi. » Lasciamo stare. Cerchiamo di vedere il primo dei perso¬ naggi che si presentano in quella condizione singolare, gra¬ vati di quella legge: cerchiamo di vedere Nedda. Avanti che il Verga ne faccia oggetto della propria osservazione, applichi a lei la propria sagacia di narratore, il momento in cui ne ri¬ ceve l’urto, in cui il personaggio è ancora nativo, obbediente alla sola sua legge, esso appare nell’atteggiamento tipico del¬ l’umiliazione: accoccolato. Ricadrà di continuo in questa po¬ sizione. Constatiamo in Nedda una completa impossibilità di rea¬ gire ai colpi, quando le vengono da ciò che si chiama oscura¬ mente e collettivamente la vita, o da ciò che è l’insindacabile organizzazione del mondo in cui lei si trova immersa. L umi¬ liazione fa talmente parte della sua natura che non è più stato d’animo, di cui sia consapevole, è un modo di essere, di cui non aspira a prendere coscienza: come non si ha coscienza dei propri organi, del fegato o della milza. Si deve essere ispes¬ sita nel corso di intere generazioni, al punto da diventare una specie di callosità morale, insensibile quando le circostanze, che a giudizio comune (di noi, spettatori) potrebbero parere umilianti, premono più forte, dovrebbero farla risentire. (La pianta del piede molto incallita, nei contadini che vanno a piedi scalzi, non accusa il ciottolo, nemmeno se puntuto.) Dia¬ mo qualche esempio di questa situazione interna. Neanche la fame crea a Nedda un diritto. Basta, a questa bracciante di Viagrande, avere lavoro: cioè entrare nel rap257

porto consacrato: io dò la mia fatica, il mondo mi dà il nutri¬ mento. Sulla qualità e quantità di questo nutrimento, quasi non fa obiezioni. L’umiliazione cronica e ancestrale 1 ha av¬ vezzata ad avere il peggio, ad avere il minimo, anche in fatto di nutrimento. A voler sottilizzare, si direbbe che c’è in lei un comando autoritario e inflessibile, e autentico anche (que^ta autorità senza viso né voce, che è dentro di lei) che esige il rispetto del ciclo fatica-pane: lei soddisfa a questo impera¬ tivo come a un rito, a una superstizione che la farebbe sof¬ frire oscuramente, se non le fosse prestata la debita osservan¬ za. Il bisogno di lavorare non è solo un ricatto dell’ordine co¬ stituito, è una superstizione. Quando la castalda distribuisce la broda di fave, Nedda si presenta ultima: « Nedda sporse la scodella, e la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era molto. « < Perché vieni sempre l’ultima? Non sai che gli ultimi han¬ no quel che avanza? > le disse a mo’ di compenso la castalda. La povera ragazza chinò gli occhi sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il rimprovero, e andò pian pianino perché il contenuto non si versasse. »** Ma qui si direbbe addirittura che l’umiliata cerchi, masochisticamente, la riprova della propria umiliazione. Si sente reietta, e assume il personaggio della reietta: se le si potesse imputare un barlume di coscienza un po’ diabolica, quasi si penserebbe a una compiacenza di darsi in spettacolo a se stes¬ sa, di torturarsi con questo spettacolo, o forse di voler rinfac¬ ciare vendicativamente la propria sofferenza. (Al limite, anche l’estremo male fatto a se stessi, il suicidio, è un modo di rin¬ facciare agli altri la propria pena esasperata.) Nessuno impe¬ direbbe a Nedda di farsi avanti tra le prime, a prendere la broda. Ho citato l’episodio, perché è estremo: e, oso dire, appartiene piuttosto alla coscienza che il Verga ha dell’umilia¬ zione di Nedda, che non direttamente a quella umiliazione. Forse, qui il Verga — non che sbagli, non che segni un tratto falso — ma carica la mano nel caratterizzare il personaggio. Ci sono altri esempi, meno scoperti, più significativi, di quella umiliazione. Quando Nedda perde la madre: « Le ragazze del villaggio sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della vecchia, e per¬ ché non aveva messo il bruno; e il signor curato la sgridò for¬ te, quando la domenica successiva la vide sull’uscio del caso258

lare, mentre si cuciva il grembiule che aveva fatto tingere in nero, unico e povero segno di lutto, e prese argomento da ciò per predicare in chiesa contro il mal uso di non osservare le feste e le domeniche. »'’ Forse, qui si può notare che il Verga insiste, con una certa pedanteria, o eccesso di diligenza, quasi partito preso, nel far apparire cattivo il mondo verso la sua povera Nedda. Si. teme che collabori un po’ a vittimizzarla. Ma a noi interessa il modo come Nedda reagisce — o meglio: non reagisce — a quelle che per un altro sarebbero esacerbazioni, graffi sulla ferita. « La povera fanciulla, per farsi perdonare il suo grosso pec¬ cato, andò a lavorare due giorni nel campo del curato, acciò dicesse la messa per la sua morta il primo lunedì del mese; e la domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti di festa, si tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i gio¬ vanotti, all’uscire di chiesa, le dicevano facezie grossolane,^® ella si stringeva nella sua mantellina tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero amaro ve¬ nisse a turbare la serenità della preghiera; — ovvero diceva a se stessa a mo’ di rimprovero che si fosse meritato: < Son così povera! > ecc... Badate che Nedda non ha un pensiero di sollievo religioso, e forse nemmeno Verga: non si tratta dell’umiliazione che vieppiù si umilia, perché sarà esaltata. Si direbbe che anche quel più di male, accumulatole addosso dall’autore, Nedda lo trovi giusto — e non in nome di una legge mistica per cui il male e il torto contengano già in se stessi una riparazione per chi lo snbisce; ma per un’altra legge, più oscura ed esosa, la quale esige da quella gente, in quelle condizioni, un accoc¬ colarsi, un accasciarsi di fronte ai torti. L’umile viene umi¬ liata. E lei risponde, dando il suo lavoro al curato: perché così vuole quella legge, che lei subisce, senza capirla: come una specie di regolamento, a cui Nedda adempie con una per¬ fezione automatica, sebbene non se ne sia resa ragione. Un’au¬ torità misteriosa — forse è la vita, forse è l’ordine costituito — li mette sempre in contravvenzione, per il solo fatto che sono al mondo. E loro pagano, quasi prima che la contravvenzione sia stata intimata. (Quanti invisibili semafori, quanti invisi¬ bili vigili urbani lungo l’esistenza di quella gente, che è un incessante attraversare crocicchi!) E quando Nedda si restringe in sé, esclama: « Sono cosi povera! » non ci vedo rassegna-

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zione (che sarebbe un illecito estendere il manzonismo a Ver¬ ga, paragonare i suoi umili a quelli del Manzoni). Ci vedo piuttosto l’ossequio a una inalienabile, imprescrittibile situa¬ zione di fatto. È come pagare un pedaggio, una taglia al fatto di esistere. L’esistenza non dà diritti, la forma umana (non parliamo d’anima e di spirito, perché sarebbe un trasgredire il livello di coscienza del personaggio) non contiene per loro, nel suo disegno che dicono divino, la postulazione a rompere l’asservimento alla regola oscura. Poi Nedda è incinta, senza ancora avere sposato Janu. « ... fu vista allontanarsi piangendo dal confessionario, e non comparve tra le fanciulle inginocchiate dinanzi al coro che aspettavano la comunione. Da quel giorno nessuna ragaz¬ za onesta le rivolse più la parola, e quando andava a messa non trovava posto al solito banco, e bisognava che stesse tutto il tempo ginocchioni...^ E quelli che le davano da lavorare ne approfittavano per scemarle il prezzo della giornata. » E fin qui, si dirà, niente di straordinario. Il mondo di Ned¬ da era fatto così, allora, a quei tempi (diciamo: allora, per carità verso il tempo nostro). La non-reazione la vediamo me¬ glio dopo, allorché Janu è morto, e la maternità di Nedda si è fatta più avanzata, più greve.“ « Adesso, quando cercava lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola. Siamo partiti dall’idea di un’umiliazione cronica insita in questa creatura, umiliazione da cui essa non riesce neppure a distinguersi (a oggettivarla); sempre più ci accorgiamo che si tratta di una servitù, simile alle servitù feudali, ma delle quali si sia perduta la formula, il testo che le costituisce. E noi, per conquistare la piena lucidità critica, per sapere veramente il segreto del personaggio di Nedda, dovremmo poter formulare quella legge. Ma, se anche ne abbiamo qualche barlume, se anche ci pare di averne indovinato abbastanza per poterla rendere esplicita, preferiamo per ora riservarci, contenere la nostra impazienza di sputare il nocciolo della questione. Que¬ sta non è tattica di critici, volta a riservarci, teatralmente, per un finale a sorpresa, la rivelazione che incominciamo a illu¬ derci di avere captato. Non è nemmeno prudenza. È rispetto

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per il personaggio di Nedda, la voglia di lasciarlo vivere an¬ cora per qualche minuto, come si è presentato, più immediato e autentico di quanto il suo stesso autore sapesse; qualche mi¬ nuto ancora, prima di sopraffarlo con la nostra, purtroppo, in¬ dispensabile intelligenza di critici. (Sia lecito chiamarla così, non abbiamo altre parole più modeste.) O forse è inconfessata astuzia: non vogliamo turbare Nedda, per non spaurirla, per farla ancora parlare, affinché la nostra conclusione, quando arriverà, disponga di maggiori elementi. Nedda vive in obbe¬ dienza a una legge, di cui non sa resistenza, soltanto la subi¬ sce. Una legge che non fu mai detta, eppure non solo è stata promulgata, ma è entrata in vigore a una data inaccessibile nel tempo, tanto che chi vi è sottomesso crede che essa stabilisca un certo ordine del mondo, immutabile da sempre e per sem¬ pre. Se potessimo portare Nedda, per assurdo, in un clima alla Kafka, la vedremmo soggetta ai dettami senza deroga di un invisibile, inaccessibile signore del castello. La differenza è che Nedda non chiede nulla a quel signore: non suppone neppure l’esistenza di un signore o di un castello. E questo signore, nella concezione di Nedda, nata cristiana e battezzata, non è poi nemmeno il Signore Iddio. Continuiamo, per ora, a esplorare la legge attraverso il per¬ sonaggio. C’è una zona precisa in cui l’umiliazione, e l’obbe¬ dienza cieca che ne consegue, cessano di essere connaturate con Nedda. Una zona in cui Nedda reagisce e si risente. Cessa lo stato di umiliazione cronica, subentra la suscettibilità uma¬ na alla ferita, all’offesa. Facciamo precedere gli esempi, per arrivare a definire quale sia quella zona. Ecco una reazione di odio represso, quando le compagne di lavoro accennano, con superficialità o indifferenza o frivo¬ lezza, al peso che lei ha nel cuore: la madre moribonda. « < Ha la mamma che sta per morire > rispose (spiegando alle altre il chiuso contegno di Nedda) una delle sue compa¬ gne, come se avesse detto che aveva male ai denti. « La ragazza (Nedda) che teneva il mento sui ginocchi alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi piedi nudi. » Subito dopo, la domanda stolta : « O allora perché hai lascia¬ to tua madre? » come se le altre non capissero ch’è stato per trovare lavoro e poi l’uscita insolente di « Una delle spiritose.

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la figlioccia del castaido, che doveva sposare il terzo figlio di Massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d’oro al collo. » Saputo che sta a Ravanusa, costei dice, « volgendole le spal¬ le: < Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l’uccello. > « Nedda le lanciò dietro un’occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda. »“ Questa volta Nedda esprime una rivolta. Anche se non la traduce in azione, anche la sua unica azione è quella di rima¬ sticarsela. Verga la paragona al cane che, per istinto, si slancerebbe, abbaierebbe contro gli zoccoli che lo minacciano; anche se, poi, è stato addomesticato a non rivoltarsi. Ma ci sono casi in cui il cane lecca la mano che lo offende, così come Nedda va a lavorare gratuitamente dal curato, che ha predicato con¬ tro di lei, cioè contro la sua condizione ineluttabile. La legge oscura, quella che si traduce in umiliazione permanente, è ana¬ loga alla legge per cui il cane lecca il piede che gli ha dato il calcio. È stata stabilita nella stessa maniera, ormai immemora¬ bile, non si sa quando né da chi; ormai fa parte di un ordine costituito, che si accetta per il solo fatto di venire al mondo, così come si è venuti. E chiedere perché la si sia accettata sa¬ rebbe come chiedere perché si è accettato di venire al mondo. Pure, se anche il paragone del cane è calzante, non posso condividere appieno il giudizio del Momigliano, quando cir¬ coscrive il mondo del Verga o, per meglio dire, quel territorio di umanità dove il Verga bandisce le leve dei suoi personaggi. Dice il Momigliano: « I personaggi più caratteristici del Ver¬ ga hanno una psicologia ridotta, ancora vicina a quella del¬ l’animale. La loro anima tenace, fedele, umile ricorda l’asino che porta il basto con l’occhio malinconico, e il cane che sop¬ porta le bastonate del padrone e gli si accovaccia ai piedi. Più di rado si accosta a quella di una fiera ^ — per esempio nella protagonista della Lupa ecc. Cioè il Momigliano, in cerca di un motivo unitario, di un denominatore comune a tutti i personaggi verghiani, si contenta di una nota che tutti li ugua¬ glia: la loro umiliazione, quella che noi chiameremmo la loro cieca, inconscia servitù alla legge. Ea come un entomologo, o un botanico, che descriva una famiglia di insetti o di piante; e ci dica che cosa è da intendersi per acero oppure per scara-

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faggio. Ma l’artista comincia, quando crea l’esistenza irrefuta¬ bile, unica di quell’acero, che potrà quanto si vuole somi¬ gliare alla famiglia degli aceri, ma è lui, diverso da tutti gli altri aceri. Il Momigliano ha cercato il « tipico » che accomu¬ na tutti quei personaggi: e li ha guardati come da un altro mondo, distinto dal loro, senza simpatia: ha visto il gruppo, non li ha ascoltati individualmente. È certo — traduciamo nel nostro linguaggio il giudizio del Momigliano — è certo che il maggior numero dei grandi personaggi verghiani condivi¬ dono uno stato di umiliazione, sono proni alla « legge ». Quei personaggi .scattano, si differenziano, sono se stessi, per altri connotati, che li fanno essere un acero, quell’acero, e non un indistinguibile rappresentante della famiglia degli aceri. Se avesse ragione il Momigliano, si potrebbe — da un giudizio come il suo — dedurre paradossalmente tutto un saggio sul Verga maggiore, applicando la teoria psicologica dei riflessi condizionati.^® Anche Pavlov nel formulare questa teoria ha dovuto supporre, per esempio, che tutti i cani fossero uguali, indiscriminati rappresentanti della famiglia dei cani, senza soffermarsi, nemmeno per un momento, sull’idea che il cane su cui egli compiva le sue ricerche fosse un individuo singo¬ lare. Tutti i cani, sottoposti al controllo sperimentale della teoria (o ipotesi) dei riflessi condizionati, debbono mettersi a secernere succhi gastrici, quando sentono squillare la cam¬ panella che abitualmente li richiama al pasto. Il Momigliano certo non avrebbe applicato la teoria dei riflessi condizionati, anche se l’avesse conosciuta, cosa impossibile nel ’22, quando scrisse il suo saggio sul Verga. Era troppo amante delle belle lettere, troppo naturalmente devoto 2l\Vesprit de finesse, trop¬ po lettore coscienzioso e squisito delle parole e dei sentimenti: lo diciamo in suo onore, perché era il meglio che si potesse fare a quel tempo, e da uomini della sua generazione, alla con¬ fluenza un poco ambigua di impressionismo critico e di cro¬ cianesimo; ed egli, d’altronde, il Momigliano, seppe quel me¬ glio farlo per il meglio. Per tornare a noi, il Momigliano, pur col suo garbo timido e prudente, prende troppo in parola il Verga, in quei paragoni tra il contegno dei personaggi e il comportamento degli animali più asserviti, e soprattutto gene¬ ralizza troppo la diagnosi che ne discende — personaggi come asini o come cani — e la rende troppo tassativa. Se le cose fos¬ sero così, a parte la teoria dei riflessi condizionati, che abbia263

ino citata per rendere più vistosa la nostra riduzione all as¬ surdo, quei personaggi sarebbero tutti prevedibili i:on un cal¬ colo degli istinti e dei riflessi: una psicologia povera, bestiale e quasi senza sorprese. E, a darci ragione, sopravviene, poche righe più sotto, una conclusione dello stesso Momigliano: lo stile del Verga « non è suscettibile di uno svolgimento inde¬ finito. Direi che la forma del Verga è costituzionalmente poco feconda. A parte che la cosa è detta un po’ pericolosamen¬ te; perché di nessuno scrittore, nemmeno dei più ricchi e mol¬ teplici — un Dante, uno Shakespeare, un Cervantes — lo stile è suscettibile di svolgimenti indefiniti; rimane il fatto che quando il Momigliano parla di stile, di forma del Verga, così pronti a esaurirsi, l’imputazione di cortezza, di infecondità, di arresto di sviluppo, risale alle determinanti dello « stile » e della « forma », cioè al mondo e ai personaggi. Del resto, quando il Momigliano si ferma al « tipico » dei personaggi, e lo determina in base a uno degli aspetti più visibili — quel¬ lo che noi chiamiamo l’umiliazione — e si limita al « come », senza cercare un « perché » — e in ciò elude il più vero com¬ pito del critico — il Momigliano è in buona compagnia: ha con sé lo stesso Verga, come vedremo: dico, il Verga che scrive Nedda. Valga, a riprova, il fatto che, proprio su Nedda, il Momigliano ha scritto non solo le pagine più giuste di tutto il suo saggio, ma anche le più giuste che, in tutta la cri¬ tica verghiana, siano state scritte su Nedda. Peccato che non le abbia sapute superare, per capire i capolavori dopo Nedda. Lui stesso lo sa, e chiede continuamente scusa, a ogni tappa del suo saggio, di riuscire così avaro e limitativo nei confronti del Verga. Nedda umiliata, abbiamo detto, è passiva; ma. con una spe¬ cie di sicurezza di ciò che deve fare e subire nella sua passi¬ vità. Attua, abbiamo dettò, i regolamenti e gli articoli di quella legge, della quale non conosce il testo, e neppure cono¬ sce l’esistenza. Nedda offesa, invece, reagisce. Bisogna che guar¬ diamo ancora meglio l’ambito di quelle offese e di quelle rea¬ zioni, perché ci aiuteranno à definire la circonferenza umana, morale entro cui Nedda può permettersi di essere se stessa, di vivere la sua sorte individuale: affetti, passioni, amori, smen¬ tite e drammi. C’è, intanto, il risvolto immediato dell’offesa: l’incapacità di ricevere il beneficio. Nell’interpretazione amara, potrebbe 264

essere rancore per i tanti benefici negati, che adesso si rivolta contro queU’unico che le fa capire quanto sia stata sempre frodata della benevolenza cui avrebbe diritto, come creatura umana. Nell’interpretazione più accorata e benigna, è timore di un’indegnità, concresciuto in Nedda attraverso l’abitudine di non ricevere mai nessun regalo: né dalla sorte, né dagli uomini. (Ci sono gli aiuti di zio Giovanni, ma questi li osser¬ veremo a parte.) E poi ci potrebbe essere il pudore di sentire dalla propria voce parole di gratitudine, che la bocca non sa pronunciare, che uscirebbero informi, offensive per chi le pronuncia. Questo, vorrei paragonarlo al malessere del rustico che, portato in società, deve fare un inchino o un baciamano. Un risentirsi preventivo, quasi una preventiva offesa contro di sé, che tiene dell’orgoglio: ma qui, nel caso di Nedda, non è un sentimento meschino. Vorrei dire che il balsamo momenta¬ neo sull’offesa provoca, per una specie di rispondenza organica, una sensibilità d’improvviso acuta e quasi consapevole, una suscettibilità — una manifestazione allergica, direbbero i me¬ dici — nello strato, per cosi dire, parente di quello che riceve l’offesa: lo strato dell’umiliazione. Diciamo ancora, se occorre spiegarci, meglio: Nedda convive con l’umiliazione in una simbiosi incallita, che non si accorge nemmeno più dell’esi¬ stenza di quell’ospite abituale — si tratta, ripetiamo, di una umiliazione che ha dimenticato, anzi che non ha mai cono¬ sciuto il trauma iniziale: adesso, nella dolcezza, subito respin¬ ta, di sentirsi medicata l’offesa, avverte l umiliazione. Il tratto narrativo, da cui abbiamo fatto tutto questo discor¬ so, in apparenza sproporzionato, è molto semplice. Si produce quando una delle compagne, avendo saputo che Nedda non ha pane « di suo », le offre un po’ di minestra. « < To’ prendi dalla mia scodella. > < Non ho più fame > ri¬ prese la varannisa ruvidamente, a mo’ di ringraziamento. Questa sfera, dove la reazione è possibile, è abitata da altre braccianti, da ragazze, suppergiù della condizione di Nedda. Magari sono un po’ più favorite dalla sorte comune: hanno pane di loro, una vita meno tetra, qualcuna avrà anche un fidanzato, e poi il grado di miseria è più sopportabile: non le costringe ad agucchiare la domenica. Sono varietà individuali, che Nedda avverte; le ispiravano perfino un impulso, più o meno sottinteso, di protesta, malgrado il suo atteggiamento morale cosi tipicamente accoccolato, accovacciato. Perché con265

tro di loro ci si può offendere? Perché i loro moti, le loro ini¬ ziative, il loro modo di fare male a Nedda, sono spiegabili. Proviene da un mondo, da una psicologia, da un giro di senti¬ menti e di affetti uguale a quello di Nedda: soprattutto da una zona, dove tutte sono libere di agire e di sentire come preferiscono, e perciò potrebbero anche comportarsi in altra maniera, con più rispetto e riguardo verso la varannisa. Pro¬ viene da un mondo, dove vigono leggi umane, comprensibili, e non solo nella convivenza da pari a pari — con la gente, insomma, di cui si capisce l’animo, e si può decifrare il conte¬ gno — ma anche nella convivenza con se stessi. Nedda ha, a suo modo, una intelligenza morale, una consapevolezza entro questa sfera. Può dire « io », affermare la propria personalità. E di conseguenza avvertire le ferite infette a questa persona¬ lità, da chi pretende farle subire, anche in questa sfera, un prolungamento di quella umiliazione congenita. È anche la sfera dove Nedda è se stessa, e può amare Janu, perfino con¬ tro le prevenzioni del villaggio e i pregiudizi, infrangere gli idola pecus, esprimere la sua riottosa tenerezza, allungando un pugno al suo « patito », scappare come una gazzella inse¬ guita, ma far capire la voglia di essere raggiunta, ricevere il dono del fazzoletto, pavoneggiarsi di fronte alle altre ragazze, lasciarsi travolgere dall’euforia del pasto all’ombra e del vino insieme tracannato, per poi abbandonarsi. Notiamo quel mo¬ vimento, quando torna a casa dopo il fatto con Janu: « Quan¬ do fu per svoltare l’angolo della sua casuccia si fermò un momento trepidante, quasi temesse di trovare la sua vecchiarella sull’uscio deserto da sei mesi. »^’ (Lasciamo quell’abbondanza di diminutivi: la casuccia, la vecchiarella — veramente un po’ troppo latte ai gomiti — fanno parte del tono sentimentale, della canzonetta, della ap¬ pesantita mozione degli affetti : e sono difetti dello stile, della impostazione narrativa, che discuteremo tutti insieme in que¬ sto Verga di Nedda. Ci riveleranno, credo, parecchie cose.) Ma quel movimento di trepidazione — vergogna della madre, paura che la madre sappia e se ne adonti, e ne soffra — tutto questo denuncia in Nedda il senso di un rapporto personale, soggettivo con le norme del vivere : lei potrà anche contravve¬ nire, ed è in grado di aggiustare i conti, aspettandosi — sia pure con timore, con trepidanza — la sanzione che glie ne verrà. Entra perfino in uno stato superstizioso: vuol dire che 266

ha turbato un ordine, ma vuol dire insieme che su quell’or¬ dine ha una possibilità, di intervento; anche se questo inter¬ vento sia infrazione, peccato. Ecco la sfera dell’offesa nei rap¬ porti con gli altri; del soffrire nei rapporti coi propri affetti e vicende. L’altra sfera invece — quella dell’umiliazione congenita — non dipende da Nedda, né dai suoi pari. Non c’è che subire, in uno stato di « non-resistenza ». Quando le pagano la setti¬ mana decurtata delle due giornate e mezza di riposo forzato: « La povera ragazza non osò aprir bocca. Solo le si riempirono gli occhi di lagrime. » Interpretare quel movimento di affli¬ zione come una protesta è un’iniziativa del fattore: « E laméntati per giunta, piagnucolona! »,^ è anche un’iniziativa del Verga per vittimizzare la sua protagonista, conciliare su di lei la nostra compassione. Nedda soffre, perché ha bisogno di quel denaro; ma sa che non c’è niente da fare per averlo. E quando le muore la bambina e Nedda ringrazia la Vergine che glie l’ha tolta « per non farla soffrire come lei » c’è sì, la rivolta, l’offesa negli affetti; ma c’è, sotto, la certezza che la vita non può essere se non il costante sottomettersi degli umiliati: un subire. L’inesorabile male di cui non si sa il perché. Nedda, abbiamo detto, ignora la legge a cui .sottostà con una disci¬ plina perfetta come se la conoscesse. Ma abbiamo indizi pre¬ cisi del sentimento che Nedda e tutti i suoi pari hanno di qualche cosa di inesorabile: e che tutti i loro atteggiamenti ne sono conseguenze. Il Verga arriva al punto — e ne vedremo i motivi — che, dove non riesce a rappresentare in atto quella cieca obbedienza, e l’oscura rigorosità di un dovere, ci spiega lui, intervenendo, che a queste vittime l’esosità del subire si manifesta come una coerenza. Essi riscontrano in tutti i bal¬ zelli che sono loro imposti una specie di logica, e provano una specie di piacere nel riscontrare che tutti gli effetti si producono, proprio come essi se li attendevano. Il piacere che proveremmo noi, quando un calcolo torna, un’equazione: con la differenza che quelli non sanno, né si curano di sapere, che esiste una matematica, un sistema in virtù del quale il calcolo dà quei risultati perfetti. C’è una parola, con cui il Verga, in mancanza di un più netto modo di rappresentare dall’interno e in atto quel piacere di constatare la collima¬ zione dei fatti con un ordine prestabilito e insindacabile, lo esprime dall’esterno. È la parola trionfare, il senso di trionfo 267

che egli vede in (^uei contadini, allorché si sentono intelli¬ genti perché, in un momentaneo barlume, riescono a leggere nei fatti la concordanza con la legge ignota. Il significato del trionfare, e dei suoi aggettivi, per dipin¬ gere una soddisfazione, un po’ orgogliosa, e che tutti natural¬ mente devono condividere, lo vediamo stabilito la prima volta che la parola esce, in questo bozzetto di Nedda: « < Le vostre scodelle, ragazze! > gridò la castalda, scoper¬ chiando la pentola in aria trionfale. C’è gioia, fatuità, bo¬ nomia. E vediamo ora le applicazioni di questa parola ai casi che ci interessano. Nel dialogo sulle olive che cascano a terra e vanno perdute; ma le ragazze non possono prenderle per accompagnarle al loro pane asciutto, se no sentiranno il fattore. E dice una: « < È giusto, perché le olive non sono nostre! > « < Ma non sono nemmeno della terra che se le mangia! > « < La terra è del padrone, to’! > replicò Nedda trionfante di logica, con certi occhi espressivi. Notiamo che, nel corso del racconto, è la prima volta che Nedda ha un moto così vi¬ vace e allegro: ed è per constatare la ferrea inderogabilità, che a lei pare logica, di quel sistema, che considera la fame dei contadini meno legittima che il guasto dei vermi o delle in¬ temperie, su quelle olive ormai perdute. L’importante è che non si deroghi al principio: e Nedda ha, per un attimo, l’in¬ tuizione di quel principio. La fame, la miseria, il vivere gra¬ mo, che non si riconoscono diritti, e nemmeno il diritto di aspirare a qualche miglioramento •— badiamo che il divieto di raccogliere qualche oliva era stato riconosciuto poco prima come un dato di fatto e non diventava motivo di una protesta — tutto ciò è bene il sintomo di una umiliazione cronica, con¬ genita. Un’umiliazione ciecamente vissuta. Su un altro pia¬ no — sul piano, per così dire, deU’intelligenza — si ricono¬ sce « con logica trionfante » l’ordine da cui quell’umiliazione dipende: nella sua estrema arbitrarietà, vi si riscontra una lo¬ gica, cioè qualche cosa che non può non essere così, che è sem¬ pre stato e sempre sarà. Logica: cioè una coerenza infrangi¬ bile, più salda che qualunque tentativo di mutarla. Non può neanche venire in mente che quella vita cambi: quand’anche una simile idea potesse formarsi in quelle teste, sarebbe ca¬ priccio o stramberia. Giro faticosamente intorno a questi motivi, di cui sento che 268

si potrebbe trovare un enunciato più luminoso, meno pede¬ stre. Forse dovrò valermi di qualche immagine. Ma, prima, voglio ricordare un altro esempio di ciò che il Verga intenda, a nome proprio o dei suoi personaggi — qui la sua posizione di narratore è un po’ ambigua — per « logica ». È quando Janu offre a Nedda il fazzoletto di seta. « < Prendi, ti ho portato codesto dalla città > le disse il gio¬ vane sciorinando il suo bel fazzoletto di seta. « < Oh! com’è bello! Ma questo non fa per me! > « < O perché? Se non ti costa nulla! > rispose il giovanotto con logica contadinesca. »^^ Logica è, dunque, quella che scopre la vera, giusta connes¬ sione delle cose. Nedda apparentemente non ha parlato del costo di quel regalo: ha soltanto avuto un moto di modestia e di civetteria: le sue parole hanno fatto mostra di dire sem¬ plicemente che quel fazzoletto è troppo bello per lei. Janu ha scoperto che una cosa è troppo bella, solo quando è irrag¬ giungibile, perché è troppo cara (è la logica degli umiliati). Ecco, il vero rapporto logico, in queste battute pregnanti, intensissime. E logico significherà, di conseguenza, anche inop¬ pugnabile: qualcosa contro cui non c’è niente da fare. E Ned¬ da infatti accetta il regalo (moriva dalla voglia, non le man¬ cava che la giustificazione). Mi sono ripromesso di chiarirmi meglio con qualche imma¬ gine. Quei contadini vivono passivamente la loro umiliazione. Diventano attivi in certi momenti di lucidità, per prendere atto di qualcosa di inderogabile che li tiene in quello stato. E provano una specie di gioia a constatare un’inderogabilità (la logica, come dice Verga per loro). Quel momento attivo, circoscritto nella sfera della loro incolta intelligenza, serve solo per capire. È un capire che ribadisce le catene della pas¬ sività. Non un capire per mutare le cose, per servirsi dell’a¬ vere capito; ma un rendersi conto che niente si può mutare. D’altronde, non ne avrebbero neanche la voglia. Ma questa è una strana situazione. Vivono la loro esistenza di umiliati cronici, quasi indolenti, come se fosse la loro stessa condizione umana. Ora proprio questa formula « condizione umana », divenuta molto popolare dopo che ha intitolato uno dei romanzi di André Malraux,^ ha in sé qualche cosa di con¬ traddittorio. Non si può mai parlarne — è stato detto — perché vi siamo immersi, quindi non possiamo guardarla dal di fuori. 269

come qualche cosa di visibile, di oggettivo. Questa osserva¬ zione è di un sociologo americano, James Burnham, un disce¬ polo e collaboratore dell’ultimo Trotzki. E conchiude un libro, che ha goduto parecchia celebrità: La rivoluzione dei tecnici {The Managerial Revolution). Dice il Burnham: « Io non vedo che senso ci sia a chiamare tragica o comica la situa¬ zione umana nel suo insieme. La tragedia o la commedia han¬ no luogo soltanto dentro le condizioni umane. Non esiste uno sfondo, di contro al quale si possa guardare la condizione uma¬ na nel suo insieme. Essa è quella che è. E noi, nel nostro caso molto specifico, dovremmo concordare col Burnham. I contadini del "Verga non riescono a giudicare, a isolare quello stato di umiliazione, che è la loro stessa condizione umana. Ne sentono il peso, ma non sanno neppure lamentarsene. Colla differenza, però, che esiste per loro un’altra sfera di vita: quella più individuale, che abbiamo chiamato della libertà. E questa dà loro un margine di movimento, da cui possono con¬ statare l’ordine, la logica a cui essi soggiacciono nella propria umiliazione. Allora, per chiarirci meglio, con un’altra imma¬ gine, diremo: questi contadini vivono come se una potenza oscura, insindacabile li tenesse sotto il coperchio di quell’umi¬ liazione. Ogni tanto tirano fuori la testa, per riconoscere che c’è il coperchio. Ed allora, potremmo immaginarli chiusi in un mondo dominato da una ferrea costituzione trascendente. Mo¬ mentanee illuminazioni — come dell’intelletto o dell’intuito — concedono loro di constatare che quel potere trascendente nell’esigere ciò che esige è giusto, organico, non fa una grinza. Esattamente come se un credente, il quale non deflet¬ ta mai dalle regole della sua osservanza, di tratto in tratto ac¬ quistasse un intelletto da teologo, o una visionarietà da mi¬ stico, per riconoscere che quel che Dio fa è ben fatto, e le cose di quaggiù non possono andare diversamente. Queste immagini ci hanno, in apparenza, parecchio allontanati dai contadini di Verga. Ma non è vero. Hanno saldato, un poco illuminan¬ dolo, il problema in cui ci siamo ravvolti fin qui, a un altro problema, che tra poco dovremo risolvere: quello stato di umiliazione dipende da un ordine di cose che per quei conta¬ dini è come una trascendenza. Ma — ed è questo il punto su cui dovremo impegnarci — una trascendenza che non ha nulla di sovrannaturale.

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VII ■ Struttura e sovrastruttura del mondo verghiano

273-281 II feudalesimo baronale in Sicilia come tabù •281-288 11 fato dei greci

Vediamo quali elementi, tra loro analoghi, stretti da un’af¬ finità, che pernlette di scambiarli tra loro come altrettanti sim¬ boli di una medesima sostanza, si connettano e si avvicendino nell’esercitare la pressione che tiene quei contadini cosi umi¬ liati. Il padrone significa la terra, la terra significa il lavoro e i mezzi di sussistenza. In economia — e trattandosi qui di un’economia contadina, terriera — quelli non sono altro che i mezzi di produzione e gli uomini, o la classe padronale, che detiene i mezzi di produzione. Ma l’impero assoluto, eserci¬ tato in nome di un totale sequestro dei mezzi di produzione, al punto da annullare ogni esigenza e ogni protesta da parte di chi lavora e ne trae un po’ o parecchio meno del necessario per vivere, tutto questo caratterizza la società feudale. La vita stessa, il diritto di esistere, diventa qualcosa che si acquista, che si riscatta mediante il pagamento di un pedaggio o di un balzello, contro cui non si discute. Tutt’al più si arriva a pro¬ nunciare la legge inesorabile che ha stabilito quei balzelli. Così iscritta nell’ordine delle cose, da parere giusta. È proprio, se non erro, la situazione dei nostri contadini: e, nel campo morale, si traduce in uno stato di accettazione del peso, cioè di umiliazione cronica. Ma nel feudalesimo storico, quello del medioevo, il servo della gleba aveva certi compensi alla sua condizione di servitù. Qui non ci sono più. Sono scómparsi giuridicamente anche i feudi e i baroni, sebbene abbiano la¬ sciato dei surrogati nel latifondista, nel padrone, nel gabellotto, nel borghese, nel fattore. Ma a noi interessa quel solco psichico, quell’abitudine psichica formatasi nel contadino si¬ ciliano, a vivere sotto la soggezione di una baronia. Per quei contadini, queste cose sono divenute più che una seconda na¬ tura. Si identificano con la loro struttura umana. Ricordiamoci, perché può chiarirci molte cose, di quello che avvenne quando il marchese Caracciolo, campione del paternalismo illuminato, e deciso avversario del feudalesimo 273

baronale e di ciò ch’egli chiamava il « magnatismo », fu vi¬ ceré della Sicilia, negli anni tra il 1781 e il 1786. Il racconto lo troviamo nella seconda serie di Uomini e cose dello, vecchio Itolio del Croce, dove al marchese Caracciolo è dedicato uno dei più bei ritratti letterari che ài possano leggere: una tren¬ tina di pagine capaci, nel loro genere, di rivaleggiare con le migliori che, nel suo genere, abbia scritto il Sainte-Beuve. Da poco arrivato a Palermo, nel dicembre 1781, il Carac¬ ciolo, in una lettera al Galiani, faceva questa analisi della Sicilia: « È abitata la Sicilia da gran signori e da miserabili, senza classe intermedia, vale a dire è abitata da oppressori e da oppressi, perché le genti del foro servono qui all istrumento dell’oppressore. Nel regno di Napoli vi è lo stesso vizio radicale di costituzione, perché qualche negoziante ric¬ co, che di tempo in tempo sorge, si pone subito anch’esso nel rango dei signori; e, nonostante, costà il Pagliettismo è quello che sempre per addietro si è opposto e fa ardine alla violenza dei prepotenti, per la qual cosa si è più conservato un tal quale equilibrio nella vita civile... »‘ Teniamo presente que¬ sta mancanza di un cuscinetto, di un diaframma, tra chi eser¬ cita il potere e chi lo subisce. Questo toglie, in chi subisce, la possibilità e, alla lunga, perfino l’iniziativa e l’idea di cor¬ reggere la legge, promanata da un ordine, da cui non ci si può far sentire, contro cui non c’è ricorso. La legge è come scritta in un cielo duro, metallico, dove ogni movimento di chi le soggiace è già previsto, non rimane più niente da fare. Dobbiamo immaginare che ci siano due linguaggi: uno delle sfere alte, l’altro di chi serve.^ E il primo, nel contenuto e nelle forme, è indecifrabile per chi pratica il secondo, e sa soltanto una cosa: che le norme, le decisioni oscure pronun¬ ciate nel primo agiscono su di lui, lo costringono a una mano¬ vra, un contegno inderogabile, coatto. Gli egiziani antichi avevano tre alfabeti: uno geroglifico, cioè iniziatico; l’altro ieratico, che era quello dei sacerdoti, in grado di leggere, in¬ terpretare e far valere presso gli uomini il geroglihco; final¬ mente, il demotico: quello che trascriveva il parlar comune, della gente. La mancanza, tra baroni e contadini, di una classe intermedia è come l’assenza del ieratico: cioè del linguaggio, che traduce in liturgia accessibile al volgo i misteri del ge¬ roglifico. 274

Sarebbe afFascinante — e anche utile — Fare una storia del baronaggio in Sicilia, per stabilire come i contadini, la gente della terra, sentisse su di sé questo potere. È un lavoro che ci porterebbe troppo lontano, anche perché i contadini non la¬ sciano testimonianze dirette, coscienti. Bisognerebbe, dalle pressioni feudali, dalle condizioni oggettive create alla gente della terra poter risalire all’idea soggettiva che la gente della terra poteva essersi fatta circa il proprio stato. Insomma, da cronache difficili a rintracciarsi (ammesso che ci siano), da gesti e azioni minute e quotidiane ormai inghiottite dal tem¬ po, da parole perdute bisognerebbe, in una « guerra .illustre contro il tempo » e contro « gli anni già fatti cadaveri in un giro lungo di età, bisognerebbe ricostruire l’immagine che i contadini si erano fatti del barone, e di chi lo rappresen¬ tava, e magari di quel simbolo concreto del barone, che era la terra. Credo che queste immagini si collegherebbero, con¬ fluirebbero nella figura, più o meno inespressa, di un tabù. Stavo seguendo questa pista, proprio per rispondere alla do¬ manda come mai i divieti, le costrizioni a cui i contadini del Verga sono soggetti paiano emanare da un potere trascenden¬ te, e tuttavia non sovrannaturale, quando mi sono tornate alla memoria certe definizioni fornite dal Freud nel suo libro Totem e tabù. Eccole: « Le limitazioni imposte dal tabù sono ben differenti dai divieti religiosi e morali. Esse non sono fatte risalire a un comandamento divino, ma si impongono da sé; né sono come i divieti morali, inquadrate in un sistema, il quale consideri necessarie certe astensioni, dandone magari i motivi. I divieti del tabù difettano di qualsiasi indicazione; sono di provenienza ignota; incomprensibili agli estranei essi sembrano naturalissimi a coloro che ne subiscono il domi¬ nio. Pare di vedere fotografata la situazione di Nedda e dei suoi pari. Obbedisce a certe limitazioni, di cui non sa la provenienza. E quando crede di darne i motivi (la terra è del padrone), si riferisce a un principio, incomprensibile agli estra¬ nei, e che lei crede di enunziare, ma non sa veramente enunziare. E Ereud spiega ancora, a proposito dei tabù: « Si tratta dunque di una serie di limitazioni a cui questi popoli primi¬ tivi vengono sottoposti: essi ignorano le ragioni di questa o quella proibizione e mai si domandano una spiegazione in proposito; essi si sottomettono come ad un fatto naturale, con¬ vinti che una trasgressione porterebbe con sé una dura puni275

zione. »5 E anche questo ci pare molto simile al contegno di Nedda. Che cosa è un tabù? Il dizionario americano del folclore dà una definizione, di cui cito le parti per noi più istruttive: tabù è un sistema di interdizioni e divieti religiosi e sociali. Il tabù isola una persona, un luogo, un oggetto, un nome (talvolta persino una sillaba tipica e distintiva di questo no¬ me), considerandolo intoccabile, innominabile (o ineffabile), e, se si tratti di un atto, ineseguibile. Il tabù può assumere questa qualità per una serie di motivi : a) Il suo valpre sacrale. b) Un potere misterioso a lui inerente. c) Il fatto che sia come contagiato da un Mana, o potere magico, che gli ha conferito il proprio potere misterioso (tali, per esempio, i re, i capi ecc.). d) La sua impurità. e) La sua pericolosità. f) Il suo potere di far conseguire uno scopo o un hne. g) La facoltà di proteggere da certi danni. Ci sono due classi di tabù ; 1) quelli imposti da re o da sacerdoti e stabiliti con rituali; 2) quelli inerenti a capi dotati di poteri sovrannaturali. Contegno tipico del tabù : quando sia violato, si vendica da sé, senza interventi dell’uomo. Parecchi connotati coincidono coll’immagine che il conta¬ dino poteva avere del barone. Intanto il potere, che egli aveva, di divieto. Preziosa per noi è la situazione, in Nedda, delle olive intoccabili, e la spiegazione che Nedda dà alle compa¬ gne, quando esse dicono che le olive sono della terra: « Ma la terra, » risponde Nedda, « è del padrone! ».‘ Quanto dire che la terra, che pure essi, i contadini e i braccianti, trattano familiarmente, quando la devono lavorare cessa di essere toccabile, lei e i suoi prodotti, allorché la si vede come cosa del tabù, come proprietà del padrone, che direttamente o in¬ direttamente eredita, o rappresenta, i poteri del barone. Altro connotato: il potere sacrale, o l’investitura da parte di qual¬ cuno che possiede quel potere sacrale. Possiamo supporre una memoria ereditaria, ancestrale, depositatasi — vorrei dire, con 276

parola di Jung — neirincoiiscio collettivo: e questa memoria, che più non affiora, che non è più capace di articolare il pro¬ prio contenuto, oscuramente ricorda che il barone è stato crea¬ to dal re, o è egli stesso un re (perché in Sicilia molte grandi baronie si atteggiavano a stati sovrani). Finalmente, la man¬ canza di quella classe di mezzo, legali o intellettuali, che avreb¬ be potuto fare da tramite, spiegare in un certo modo il baro¬ ne ai contadini e dimostrare che il suo potere non era poi così indiscutibile, dà a questo potere quella qualità misteriosa, che è propria del potere di un tabù. E non va dimenticata la pericolosità di chi detiene quel potere: anche qui un’oscura memoria, che supponiamo fissata in un solco, in una disposi¬ zione psichica poteva benissimo contenere l’antico ricordo che il barone amministrava la giustizia, aveva diritto di vita e di morte, e questo in virtù di certe leggi e privilegi, di cui gli oggetti, la gente della terra che subiva, non conosceva mai l’e¬ satta formulazione, e quindi la temeva illimitata, insindaca¬ bile. E ancora ai tempi di Verga sopravviveva quel diritto di vita e di morte: mediante il ricatto del lavoro e della fame. Non importa che la figura del barone giuridicamente fosse cancellata, col cadere — in gran parte teorico — del feuda¬ lesimo. 11 contadino, di queste nuove strutture economicosociali non aveva coscienza. E semmai è sintomatico che nel nuovo padrone borghese o ex contadino veda sussistere i pri¬ vilegi e i poteri del barone: vuol dire che nel contadino l’im¬ magine del baronaggio, della propria situazione di dipenden¬ za dal baronaggio, è rimasta intatta. D’altronde, per più di un secolo il contadino aveva sentito pesare su di sé il gabellotto, cioè quello che deteneva in affitto e come in appalto il latifon¬ do e con questo ne possedeva anche i privilegi, che il barone gli aveva ceduto, mentre per la parte che il barone aveva con¬ servato, era sempre ancora il gabellotto a farli valere. Vuol dire che, anche scomparso il barone, come figura fisica e pre¬ senza diretta, era rimasto qualcuno che, per il contadino, era come il barone. Del tabù, il barone — o chi per esso — ha anche il potere di scongiurare certi danni: quello di morire di fame, soprattutto; perché il lavoro, il mangiare, lo si ottie¬ ne soltanto da lui. E non dimentichiamo la possibilità arcana che ha il tabù di vendicarsi, quando sia violato. Tutte cose che diventano tanto più tremende, quando il tabù si sia fatto 277

invisibile, agisca come un tabù, determini un immagine ine¬ spressa e inconscia. Altro che la « roba » del Russo! La « roba » e come un corollario materiale, un segno che il tabù non è violato, la radice del sentimento e del contegno dei contadini siciliani, come il Verga li assume nei suoi racconti, è molto più pro¬ fonda, difficile a identificarsi. Noi ne possediamo, ne vediamo il sintomo: quel particolar tipo di dipendenza da un potere dall’immagine, ripeto, di un potere tremendo e quasi sacrale _che abbiamo identificato con uno stato permanente di umi¬ liazione, la quale sussiste, anche dopo scomparso dalla me¬ moria — si dica pure: rimosso — l’episodio, il momento in cui si è prodotta l’umiliazione. Va tenuto conto anche del modo come il baronaggio lotta per conservare i suoi privilegi, soprattutto anzi, in .Sicilia, esclusivamente — contro il suo maggiore avversario, che e il re. Nel regno di Sicilia, par difficile sostenere che ci sia mai stata monarchia assoluta, nel senso preciso di questa forma istituzionale, che si stabilisce proprio attraverso un abbassa¬ mento, assorbimento, o quanto meno controllo, da parte del monarca, dei privilegi e delle pretese feudali. Comunque, il baronaggio, quando fiuta i pericoli, trova sempre qualche espediente astutissimo per eludere l'avversario e salvare le pro¬ prie posizioni. Noi che non facciamo una trattazione di storia politico-economica, ma cerchiamo semplicemente nella storia i criteri per capire un fatto letterario — il mondo e i perso¬ naggi del Verga — possiamo permetterci di generalizzare. E dire, per esempio, che il baronaggio salta indietro o avanti, nella mentalità di ieri o in quella del domani (beninteso, non con intenti progressivi, ma conservatori), pur di sfuggire alle istanze, per lui pericolose, del presente. E, per esempio, al tempo del riformismo illuminato, mobilita tutta la pubblicistica e la cultura per revocare i diritti medioevali, diventa subito dopo entusiasta del costituzionalismo inglese, contro il giacobinismo.'^ Questa lotta contro la storia è un modo di sfuggire alle esigenze del tempo, di costituirsi quella atempo¬ ralità, quella perennità che sono proprie del mito. Il quale si rafforza, accresce il proprio prestigio psicologico, rendendo irreperibili le proprie origini, fasciandole di un colore di leg¬ genda. Tipica, appunto, e leggendaria la falsificazione a cui il baronaggio ricorre, a partire dal ’500, per salvare le proprie 278

prerogative feudali, sostenendo — cito dal libro di Rosario Romeo, Il Risorgimento in Sicilia,^ — che « il feudalesi¬ mo in Sicilia aveva preceduto la conquista normanna; che i compagni del conte Ruggiero avevano somministrato a lui parte dei mezzi occorrenti alla spedizione nell’isola, e ave¬ vano perciò partecipato a pari titolo con lui alla ripartizione dei frutti della vittoria, sicché l’investitura valeva come sem¬ plice riconoscimento di un diritto preesistente: che < catione oboedientiae vassalli Baronis magis tenentur oboedire Baroni, quam Regi... > ». A noi tutto questo deve servire semplicemen¬ te come motivazione di un’immagine psicologica: insieme con la pressione economica, il baronaggio crea, in virtù di quei mitici poteri, la figura che abbiamo chiamata del tabù. Il con¬ tadino sente e sa che c’è qualche Cosa e qualcuno a cui deve pagare tributo, anche morale, qualche cosa da cui dipendono, in una certa zona di obblighi e di contegno, le sue condizioni di esistenza. Questa soggezione, venuto meno il rapporto di¬ retto tra chi la esercita e chi la subisce: divenuta per così dire parte integrante dell’aria che si respira, vincolo nei modi di pensare e di agire, si trasforma in uno stato permanente di umiliazione. Aveva in antico le proprie radici e fondamenti storici: adesso si è evoluto — o involuto — in qualcosa di congenito, e tanto più oppressivo, in quanto si è dimenticata del suo perché. Esistono, senza dubbio, delle azioni reciproche tra gli uo¬ mini; alle quali non occorre di esprimersi con le parole per produrre il loro effetto. Dirò di più: non occorre nemmeno che certi stati d’animo altrui si oggettivino in una rappresen¬ tazione, per agire su di noi. Per chiarire col caso più semplice questo fatto psicologico di esperienza comune, riferiamoci ai nostri rapporti con gli animali domestici : il gatto, il cane di casa intuiscono perfettamente le nostre intenzioni nei loro confronti, prima che noi abbiamo compiuto qualsiasi, anche piccolo, gesto per manifestargliele. E nello stesso modo noi sentiamo, come si dice, nell’aria le loro disposizioni, i loro umori. Del resto, i cacciatori o gli esploratori ci raccontano, in molti casi, di non avere avuto dubbio su ciò che le belve volevano fare di loro: se aggredirli, o lasciarli andare. E tutto questo, ripeto, senza scambio di comunicazioni dirette. E ades¬ so prendiamo il più elementare degli aggregati umani: la famiglia. Possediamo davvero i raggi che attraversano le pa279

reti, per captare e subire gli umori dei genitori, del coniuge, dei figli. Si dice; telepatia, e l’aver messo lì una parola simula, pili o meno ipocritamente, una spiegazione. Certo, la telepatia è un fatto, e Bergson lo studia nel libro di saggi che porta il significativo titolo L’energia spirituale? Potremmo dire che si tratta di un modo di comunicare « mistico », per adoperare estensivamente la parola nel significato datole da Lucien LevyBruhl nei suoi studi sull’anima e sulla mentalità primitiva, dove questi rapporti non articolati in parole e veramente pre¬ logici si osservano con maggiore estensione ed evidenza. Non tocca a noi, qui, di cercare una spiegazione. Telepatia o comu¬ nicazione mistica è vero che ciò che un altro pensa o sente o vuole nei nostri riguardi è capace di influenzarci a distanza. E ci trova tanto più ricettivi, muniti di antenne più pronte, quanto più concerne i nostri istinti vitali o il senso della no¬ stra personalità. Siamo, cioè, prontissimi, e quasi infallibili, in quelle registrazioni, allorquando il contegno dell’altro matura, nei nostri riguardi, qualcosa di favorevole o di nocivo, e quando il suo giudizio deprime o esalta il nostro io. Ora andiamo a vedere qualche giudizio dei baroni siciliani, o di chi per loro, intorno ai contadini. Il De Cosmi nel Commen¬ tario alle riflessioni sull’economia ed estrazione dei frumenti in Sicilia, pubblicato a Catania nel 1785, spiega la miseria del contadino anche col fatto che egli « è obbligato ad arare e se¬ minare la terra altrui sotto condizioni così atroci, che non gli è permesso giammai di uscire dallo stato compassionevole in cui passa i suoi miseri giorni. »“ 11 La l.oggia,” che pure vuole essere un riformatore, nel Saggio economico politico per la facile introduzione delle principali manifatture e ristabilimen¬ to delle antiche, nel Regno di Sicilia, edito a Palermo nel 1791, propone che la mano d’opera venga reclutata tra i con¬ dannati e, in un secondo tempo, tra i vagabondi e i mendicanti a cui si possono corrispondere bassissimi salari. Ora, a parte i motivi di economia e di sottocosto del lavoro, questa propo¬ sta fa capire molto bene in che conto venisse tenuto il lavora¬ tore; la sua capacità, la sua dignità umana e morale non ve¬ nivano tenute in conto alcuno, tanto è vero che gli elementi asociali o antisociali o sclassificati erano ritenuti adatti a reclu¬ tarvi la mano d’opera. Ma facciamo parlare, personalmente, un barone; il Lanza di Trabia nella Memoria ragionata in favore dei baroni del Regno di Sicilia (il titolo, almeno, è 280

senza perifrasi; dice chiaro e tondo ciò che l’autore desidera). Secondo questo difensore dei baroni, l’impossibilità di rinno¬ vamento è tutta colpa dei contadini, proprio della loro tem¬ perie umana, di come sono fatti. « L’impegno di molti Pro¬ prietari del Regno, » sostiene il Lanza di Trabia, « di suddi¬ videre le loro terre a’ contadini con discrete condizioni non è stato mai bastante per superare la diffidenza e la infingardag¬ gine di costoro. » Certo i contadini sentivano di essere giudi¬ cati così male. Le condizioni economiche, i patti — chiamia¬ moli così, ma meglio sarebbe dirli: ricatti — di lavoro li te¬ nevano in uno stato di subordinazione e paura. Una paura che, in altri momenti, era stata immediatamente fisica: delle punizioni corporali e della morte, allorquando il barone era giudice nel suo feudo. Adesso, era ancora paura, sebbene in¬ diretta, di disagio corporale e, alla lunga, di morte per fame. Si aggiungeva quel senso di essere disprezzati; l’azione a di¬ stanza, per telepatia, per comunicazione mistica, di quei giu¬ dizi così avvilenti. Ce n’è abbastanza per capire donde venga l’umiliazione di Nedda, la giovane donna che possiamo con¬ siderare madre inconsapevole di tutta la progenitura dei con¬ tadini verghiani. Vedremo come in una società, giuridicamen¬ te mutata, ma non economicamente — e questo è il punto — possa sopravvivere questo complesso di umiliazione, che chia¬ meremo complesso-base dei personaggi verghiani. Lo vedremo nel personaggio di Mazzarò, lo vedremo in Mastro-don-Gesualdo. A questo punto, contro eventuali obiezioni su questo so¬ pravvivere dell’immagine jdel barone-tabù, quando la legisla¬ zione, al tempo di Verga, dopo l’unità d’Italia è mutata, pos¬ siamo rispondere in due modi. Verissimo che le immagini psi¬ cologiche fanno parte di quella che si chiama la soprastrut¬ tura o l’ideologia. Verissimo che l’ideologia è condizionata dalla struttura economica. Ma, prima di tutto, per il conta¬ dino siciliano, al tempo di Verga, l’economia non era ancora mutata. E, in secondo luogo, non tutti gli elementi dell’ideo¬ logia si muovono e mutano insieme. Ci sono delle persistenze, specie nelle immagini psicologiche, molto più tarde a subire la trasformazione. Questa è la ragione per cui credenze, riti, su¬ perstizioni, folclore e perfino — per andare più in su — modi e ideali del gusto e dell’arte sopravvivono nei mondi in crisi, o in mondi addirittura mutati. Questa è la ragione per cui le 281

rivoluzioni sono costrette a metodi spesso giudicati sbrigativi e crudeli: per superare quelle vischiosità di certi aspetti del¬ l’ideologia che, non riuscendo a mettersi al passo con la realtà storica, minacciano di influenzare pericolosamente il consoli¬ darsi dei nuovi assetti. . Per renderci conto della costellazione psichica, che si mani¬ festa nel contadino siciliano del Verga, abbiamo fatto ricorso a un archetipo primitivo, anteriore a quella che noi occiden¬ tali chiamiamo con una certa arroganza la nostra « civiltà » . ci siamo valsi di un paragone col rapporto che lega la tribù e i singoli componenti di questa — nella misura in cui si sen¬ tono individui autonomi — al tabìi. Abbiamo postulato un come se: come se quei contadini fossero soggetti a un tabù, che condiziona tutta una sfera del loro comportamento, ma del quale essi non possiedono una rappresentazione visibile e conscia. (Acquistare coscienza, vedere questo tabù nella sua realtà oggettiva e sensibile sarebbe capire la possibilità di ab¬ batterlo, di ribellarsi. Una volta veduto, non sarebbe più tabù. Questa la singolarità della situazione.) Possiamo ricorrere, adesso, ad archetipi forse più diretti, per un contadino sici¬ liano. Si dice comunemente che in Sicilia sopravviva, su strati più o meno affioranti, l’eredità della Grecia. Si parla pure, a proposito dei contadini e pescatori del Verga — soprattutto come si vedono nei Malavoglia — di un sentimento fatali¬ stico della vita. Combiniamo queste due affermazioni, che sono state adoperate per lo più in modo generico ed evasivo; e do¬ mandiamoci se il famoso « fato » dei greci non sia rimasto, come deposito ereditario, ancestrale, a condizionare quell’at¬ teggiamento pratico, di umiliazione, che è uno dei connotati di famiglia dei maggiori personaggi verghiani, da Nedda in poi. Che cosa era il « fato » per i greci? Anche qui, come già per la storia del baronaggio, dovremo limitarci a pochi cenni, il più possibile suggestivi: come per un matematico indicare il calcolo, che altri potrà eseguire. I greci non ci danno una definizione del fato. Esso fa parte delle loro credenze religio¬ se; le quali non furono mai assoggettate a elaborazioni teolo¬ giche, dommatiche o comunque teoretiche e speculative. I greci vivono, esprimono — nella loro religiosità — certe irnmagini, che a loro bastano per cogliere, interpretare, illumi¬ nare il senso dell’esistenza umana e naturale. Non hanno 282

bisogno di astrarre da queste immagini idee o concetti; di por¬ tarle neirintelletto, e tanto meno poi di organizzarle in un sistema. Religione per loro può essere sapienza, non è mai dot¬ trina. Una dottrina, o qualche cosa che le somigli, possiamo tentare di combinarla noi, sulle testimonianze del loro mon¬ do, adesso, dopo tanti secoli, perché la nostra civiltà non è tranquilla di avere capito, finché non elabora una dottrina il più possibile coerente, immune da contraddizioni. Siamo strani chimici, noi altri, che di un liq uor vitale vogliamo ottenere il precipitato, dominarlo scrivendone la formula. Una di queste formule, il più possibile rispettosa, attaccata ai fatti senza l’ambizióne di forzarli, anzi rispettando anche i pericoli di contraddizione, è quella esposta da Walter F. Otto nell’ultimo capitolo del suo libro Gli dei della Grecia. Secon¬ do Otto, che parla sempre sulla scorta dei documenti, esistono due fasi in questo sentimento del destino: una arcaica, pre¬ omerica, che egli chiama anche popolare. In questa fase le potenze del Destino, del Fato (il destino ha in greco due no¬ mi: poipa e aloia) sono plurali e personificate. Tante o parec¬ chie moire, e talvolta si può anche supporre: a ciascuno, la sua. In Omero la personificazione è rara, saltuaria; Otto crede che si tratti di una specie di tributo a un bisogno di plasticità, e comunque di una sopravvivenza di vecchie immagini non più attuali per il poeta: « Per Omero non è persona, se pur a dire il vero egli parla sovente... dell’azione da lei esercitata come se lo fosse da un essere personale e agente. Ma tutte que¬ ste espressioni, e in particolare le più plastiche: < potente >, < costringente >, < distruggitrice > e poi ancora Moira < che fila >, sono pure formule e indicano molto più una rappresentazione coniata nei tempi arcaici che non un’omerica. Fuor dal campo delle formule, la Moira non viene mai pensata come persona, in nessun rapporto vivo... »'^ La polpa o Faitra è unica per tutti, uomini e dei, e non si mostra personalmente come ile altre divinità. C’è perfino il dubbio se essa agisca direttamente, o se non agisca per l’intermediario degli dei come si vede nel più dei casi: per esempio, nell’errore di Agamennone, nella fuga di Elena, e soprattutto nelle morti dei tre più celebri eroi dell’Iliade: Patroclo, Ettore e Achille. Tipica, tra tutte, la morte di Ettore, come rivelatrice di ciò che è la polpa e del come il mondo degli dei e degli uomini la subisce. Zeus sape¬ va che Ettore era prossimo a morire: privilegio degli dei è 283

di conoscere le decisioni della Moira, non già di influenzarle o di mutarle. Quando viene il momento stabilito, a Zeus si spezza il cuore, perché Ettore gli ha sempre reso i giusti omag¬ gi. Allora domanda agli dei se non si possa salvare 1 eroe. E Atena — il suo cervello, la sua coscienza, che decifra quanto ci sia di disordinato, di cieco nel puro volere e desiderare risponde al padre: « Che parola pronunci? Un uomo mortale votato da lungo tempo al suo destino di morte, vorresti ora sottrarlo alla morte crudele? » Zeus tranquillizza Atena; non aveva parlato sul serio. Il destino fa la sua strada, e al mo¬ mento decisivo deve manifestarsi. Perciò Zeus prende la bilan¬ cia d’oro e vi mette le due sorti di Achille e di Ettore', il piatto su cui è posto l’ato’iixov TÌp,£pai; il « giorno fatale » di Ettore tracolla verso l’Ade.In questo momento. Apollo ab¬ bandona Ettore che fino allora aveva protetto, Atena si mette al fianco di Achille. Ma ci si domanda: a che, dunque, la bi¬ lancia d’oro, se la decisione irrevocabile della Moira era già presa, ed era nota agli dei? Walter Otto risponde : Omero ri¬ prende l’antichissima immagine della bilancia dei destini, so¬ lo per rendere visibile la necessita che fa scoccare 1 ora de¬ stinata. La deduzione, per noi importante, è questa: la tristezza provata dagli dei davanti all’ineluttabilita della Moira, poi il loro abbassare il capo, consentire, se anche ne soffrono: che tra dei e fato c’è una diversità. Si tratta di due regni comple¬ tamente distinti. Agli dei sono dati i domini della vita: lì in¬ tervengono, lì aiutano l’uomo: e perfino quando l’uomo è già sul traguardo segnato dalla Moira, ma ancora agisce come vivo, possono — se quell’uomo è caro ad essi — dargli la morte bella, attiva, gloriosa dell’eroe. Ma il segno della Moira, nel sentimento greco, è contraddistinto dalla sua negatività. Que¬ sta la conclusione illuminante e veramente esplicativa del¬ l’Otto. Intanto, dall’esame delle teogonie, risulta che già la reli¬ gione arcaica aveva fatto delle Moire — anche quando le vedeva molteplici e personificate — le figlie e le parenti delle divinità buie, della Notte. « Si può dedurre chiaramente, » dice Otto, « che abbiamo a che fare con membri di quel mondo antichissimo di dèi, che si distinguono nettamente dagli Olimpici per la loro terrestrità, per il loro essere vin¬ colati alla terra. Come molte altre figure di questa sfera grave 284

e tetra, sono anche le Moire reggitrici di un ordinamento sacro e implacabili vendicatrici delle infrazioni fatte ad esso. Il nome Moira, come si sa, è legato a p,óp&;, parte, ha il signi¬ ficato di chi distribuisce e divide. Ma il senso proprio di quello spartire e dividere che è nel loro nome è: « destino di mor¬ te ». Nell’antica religione di Gea, la Terra, le Moire sono le oscure potenze del destino di morte. Si direbbe che per i greci la parte attiva, vitale, luminosa, bella e creatrice della sorte umana non sia destino. Per loro il senso del destino si associa colla più tremenda ineluttabilità, quella che nega la vita, che pone la non-vita, cioè la morte. La Moira omerica non dà il bene e il male, come facevano le Moire della più antica cre¬ denza, delle quali ancora ci parla Esiodo. « I decreti della Moira omerica sono senz’altro negativi, » insiste l’Otto, « [Es¬ sa] decreta la decadenza, la fine... Il [suo] motto è: No! Questo dir di no pone la morte — il < giorno del destino > (aKaipiov, jjLÓpcruiJoov, •^piap) è la morte —, ma seco porta le gran¬ di catastrofi e gli smarrimenti. Nel caso migliore, il « desti¬ no » può segnare un ostacolo, un momento di arresto. A Me¬ nelao, per esempio, non sarà concesso (non sarà Moira, desti¬ no) di rivedere la patria, se prima non avrà affrontato i peri¬ coli del viaggio in Egitto, e là sacrificato agli dei. « Non prima di... » altro motto della Moira: il suo decreto è sempre ne¬ gativo. Ancora « il contenuto del < destino > è sempre un < no >, quindi una caduta o una deroga dolorosa; ed essa non toglie, ma inasprisce ciò che la oltrepassa. La formula non suona < contro il destino >, ma < ancora al di là > [del de¬ stino] (ÙTzsp pópov, ÙTcàp p-oipav) Cioè, non si va contro il destino, ma si varca dolorosamente qualche cosa di destinato, cioè di calamitoso, se intendiamo giusto il pensiero dell’Otto. « Il divino per chi è toccato dal destino si fa demoniaco »,'’ cioè da potenza e aiuto nella vita si trasforma in inganno, av¬ versità. Tipico l’inganno di Atena che prende le forme di un compagno d’armi per spingere Ettore al duello contro Achille; ma poi, nel momento del confronto, allorché Ettore avrebbe fatto assegnamento su quel compagno, scompare. Citiamo an¬ cora dagli Dei della Grecia : « Divinità e pienezza di vita sono una sola e identica cosa. Non appena la divinità si acco¬ miata, la vita, se non è ancora del tutto cessata, ha però perduto della sua genialità. Il negativo dell’esistenza la ricopre già della sua fredda ombra. Immediate conseguenze ne sono i 285

pensieri errati e gli abbagli. »'« Allora, deduciamo noi, questo senso negativo del destino fa sì che temere il destino sia an¬ che temere il momento in cui non si è più capaci di difendersi dall’errore, dai passi falsi, dalle valutazioni e dal contegno sbagliati. Non voglio troppo precipitarmi sulle conclusioni, ma ci era capitato di vedere in Nedda e nei personaggi verghiani l’osservanza rigorosissima di un codice di contegno di fronte alle potenze che li tengono soggetti. Nedda sa sempre quello che deve fare, abbiamo detto, in questa sfera della sog¬ gezione: non sarebbe per caso il modo di scongiurare lo sba¬ glio, che sarebbe indizio di essere segnati dal destino? Prima di tornare dal mondo degli eroi a quello dei nostri braccianti e pescatori siciliani, diamo le conclusioni di Walter Otto nel loro enunciato più esplicito. L’idea del destino « po¬ ne due mondi l’uno staccato dall’altro: il mondo della vita, dello svolgimento, del sì; il mondo della morte, dell interru¬ zione, del no. Solo il primo è formato, attivo, personale; il regno della negazione non ha né forma né personalità: pone confini e taglia bruscamente arrestando lo svolgimento e la vita. Gli dei non han nulla da ribattere. Servono al compi¬ mento del destino ma solo come la vita piena e custodita deve servire alla rovina della vita declinante e improtetta... è desti¬ no della vita che non si raggiunga a volte questo o quello, che qui o là si cada e infine — si perisca — ossia si debba passare all’altro lato dell’essere, che non conosce né vita, né fiorirle, né dei, sibben solo necessità e limitazione... E allora: se vero, e nella misura in cui il siciliano porta in sé un’eredità greca, possiamo supporre che sia rimasto in lui questo sentimento negativo del destino: come catastrofe ine¬ luttabile e, infine, annullamento. Metteteci sopra un feuda¬ lesimo lunghissimo, opprimente, quel tanto di impersonale con cui lo strapotere del barone si esercita nei confronti di chi da lui dipende per la vita e per la morte, vedrete che le due immagini potevano assimilarsi. L’assoggettamento alla servitù poteva conformarsi psichicamente, costellarsi secondo il modello dell’obbedienza al.destino. Obbedienza, abbiamo detto, senza ricorso: le potenze benefiche, gli dei non pote¬ vano farci niente. E anche contro il barone, contro le sue leggi capricciose, che si riassumevano però in una — e ferma, que¬ sta, e univoca, e indubitabile: servire in miseria — anche contro il barone non c’era niente da fare, non c’era ricorso. 286

Ma il greco aveva tutto il campo della vita, in cui compensarsi del decreto di morte, e delle calamità destinate. Il contadino siciliano non ha di questi compensi. La sua nascita è già, su¬ bito, destino in senso negativo. Su di lui può avere agito anche l’esempio del fatalismo arabo; ma nel fatalismo arabo c’è una speranza, vorrei dire un senso finalistico, che il siciliano non può nutrire. Ci sono, viceversa, al punto in cui noi lo incon¬ triamo, raffiguratoci dal Verga, 16 o 17 secoli di cattolicesimo: il quale, da un certo momento in poi, si esprime nelle parole del prete. E il prete è dalla parte del barone, delle potenze a cui si obbedisce (ricordiamoci di Nedda che vuole dare lavoro gratuito come obolo, come sacrificio per lavare l’anatema get¬ tatole dal parroco). Il prete predicherà sottomissione e rasse¬ gnazione. Fato greco come potenza ostile e indeprecabile, più sottomissione cristiana: ecco due componenti che possono an¬ che produrre, nel parallelogrammo delle forze e delle imma¬ gini psichiche, quello stato d’animo che abbiamo riconosciuto di umiliazione cronica. Quel comportamento da umiliati. Si potrebbe ancora approfondire il rapporto tra un’idea del fato e la pressione del baronaggio. Un intelligentissimo filo¬ logo inglese, George Thomson, nel suo libro su Eschilo e A tene ha straordinariamente illuminata la connessione tra la Moira, destino, e la struttura economica della società in cui quell’idea si afferma. Alle sue conclusioni, il Thomson “ arriva, facendo collaborare filolbgia, antropologia (o etnologia) e analisi storico-economica della società. Comincia a stabilire il significato della parola moira: « Il significato fondamentale della parola moira è parte o porzione. Secondo quanto ha os¬ servato Giovanni il Diacono nel suo commentario a Esiodo, le Moirai (o dee del Destino) sono < distribuzioni > o < divi¬ sioni >. A moira si associa un’altra parola, Idchos, che significa porzione data o ricevuta in seguito a sorteggio. Una delle tre Moirai si chiamava Lachesi, ed era la dea preposta al sorteg¬ gio (che stabiliva il termine della vita). In questo senso Idchos è sinonimo di kléros, che generalmente è usato per indicare un terreno estratto a sorte o posseduto per eredità, ma origi¬ nalmente stava a indicare un pezzo di legno usato per le ope¬ razioni di sorteggio. » Ora nelle fasi successive di sviluppo si sorteggiò il cibo, quando si viveva di caccia; poi si sorteggiò il bottino, la preda della guerra « che era una derivazione della caccia » ; infine si sorteggiò la terra da coltivare tra le 287

tribù, le quali poi sorteggiavano la loro porzione, moira, tra le « famiglie » o clan, che venivano così ad avere ciascuno la sua moira. « La pratica del sorteggio — aggiunge il Thom¬ son — era considerata un’operazione magica, quasi un appello alle Moirai, o spiriti del Destino, che determinavano la parte di spettanza di ciascun uomo. »^' Noi potremmo già fermarci qui : a questa associazione tra i beni della terra e 1 immagine del Destino. La « roba », di cui parla il Verga, sarebbe dunque il segno tangibile della sorte. Chi non ha roba, non ha destino suo, gli tocca di subire quello fissato dagli uomini che hanno un destino. Ricordiamoci per il Mastro-don-Gesualdo: la sua fame di roba, la sua attività, la sua stessa ambizione diventano poesia, in quanto si legano ad archetipi, a immagini profonde dell’uomo che vuole conquistarsi un destino. Ma, nei casi che ora stiamo esaminando, il barone — in una concezione oscu¬ ra, inarticolata — è colui che ha avuto la Moira, possiede il destino, quindi il potere di far curvare le spalle al sottoposto, che è oggetto e non soggetto di destino. Direi che troviamo così, proprio alle origini, il carattere dell’umiliazione che ab¬ biamo scorto nei personaggi verghiani: umiliazione come im¬ possibilità di ribellarsi a un fato. Senso pessimistico del fato e schiavitù al feudatario, a questo punto, diventano sinonimi. Non si cesserebbe di inseguire le affascinanti considerazioni del Thomson, il quale riesce anche ad affacciare luminose ipo¬ tesi del perché le Moire siano filatrici, pensando alle donne del clan totemico e matrilineo, che filavano e tessevano per i nascituri, così come le Moire — proiezione di queste madri — filano la sorte al momento della nascita. Ma queste per noi sarebbero tentazioni della curiosità, e ci porterebbero fuori dell’argomento. Basti notare col Thomson che l’idea di Moira è tipica della società tribale, e va impallidendo col costituirsi dello stato. Se la nostra non è imprudenza, se non è semplice gusto di trovare analogie arrischiate, si potrebbe notare che anche il baronaggio, anche la società feudale è in opposizione a quella forma di stato centrale che è la monarchia assoluta. Quindi una società, in qualche modo, simile a quella in cui si formò l’idea di Moira. E i baroni che lottano contro il re difendono le loro moire. Il che, nello strato delle immagini, si potrebbe tradurre: difendono il loro privilegio di personi¬ ficare il destino.

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vili ■ Il naturalismo

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II «verismo» verghiano La parola naturalismo Germinie Lacerteux l Goncourt e Zola La scuola naturalista Balzac: realismo e naturalismo

In tutto questo lungo discorso noi abbiamo discusso le ca¬ ratteristiche dei contadini di Verga, appoggiandoci a elementi storici o psicologico-sociali, come se si trattasse di personaggi realmente esistiti. Dunque, prima ancora di pronunciarci sul verismo verghiano, ne abbiamo accettato le conseguenze. È come se avessimo già detto che, anche per noi, e fin da Nedda, quella del Verga è narrativa di osservazione e di documenta¬ zione, trasporta sulla pagina la famosa tranche de vie, il bra¬ no, o frammento, di vita, che costituiva il solo assunto degno di essere perseguito per quella particolare specie di veristi, contemporanei al Verga, e battezzatisi naturalisti. Ma noi non siamo cosi matematicamente sicuri che il Verga sia stato vera¬ mente un naturalista, anche se abbia creduto di esserlo, o vo¬ luto esserlo. Siamo poi sicurissimi che Nedda, in particolare, non nasce ancora nelle intenzioni e nello spirito naturalistici. Ma arrivati qui, anche a costo di passare da una digressione all’altra, dobbiamo intenderci su quello che significhi, nella storia del romanzo, il naturalismo. E quali siano i suoi rap¬ porti col realismo, con cui spesso viene confuso. In una simile ricerca, bisogna mettere da parte la semplificazione, troppo olimpica e sbrigativa, del Croce nel saggio, appunto, sul Ver¬ ga. « Verismo » per il Croce è un termine privo di significato in estetica. (Il Saggio sul Verga — ricordiamocene — è scritto nel 1903, cioè subito dopo la prima Estetica — Estetica come scienza dell’espressione — nella quale il pensiero del Croce era ancora tassativo, schematico: arte è arte, e di lei non si può dire se non che è arte.) Ma i termini che non hanno va¬ lore nella filosofia — ammette il Croce — possono averne uno nella storia. « Il verismo, quando vuole essere una < formula > estetica, è assurdo, come ogni formula estetica; ma nella sto¬ ria non è formula o precetto, e designa un fatto o un gruppo di fatti. »‘ Storicamente parlando — spiega il Croce — veri¬ smo è una parola riassuntiva, per indicare un certo moto 291

« di storia deirimmaginazione (attenti qui come il Croce sta guardingo con le parole, e imputa al contenuto, all immagina¬ zione, ciò che non può attribuire all arte, sotto pena di con¬ traddirsi. Se dicesse < un moto di storia dell arte > riconosce¬ rebbe che l’arte ammette una qualificazione: per esempio, qui, arte verista), un moto di storia dell’immaginazione, svoltosi nella seconda metà del secolo decimonono e correla¬ tivo allo svolgimento delle scienze naturali, psicologiche e so¬ ciologiche •»? Poi contrappone l’arte precedente, la quale « versava più volentieri sugli ideali dell’umanità », a quest al¬ tra che più volentieri guarda « agli uomini in quanto non rag¬ giungono, e quasi non sospettano, ciò che nell’uomo è d’ideale; in quanto non sono davvero, o non sono più, uomini. » E l’antitesi prosegue, si sfaccetta, e dice cose giustissime, citate coll’acutissima intelligenza sintetica e insieme con la sobria scrupolosità di informazione, che erano proprie del Croce. L’arte di prima aveva considerato, nella passionalità, l’aspetto intellettuale, morale; il verismo invece, « quel che v’ha di misero, di egoistico, di comune, di stupidità e di meccani¬ smo... »’ Neli’una, preferenza per le classi sociali superiori; neH’altra. preferenza per la borghesia affaristica poi «quella meschina e magra » e gli operai e i contadini le plebi abbru¬ tite e gli irregolari e i rifiuti della società. Nota poi ancora come « il movimento psicologico, sociologico e naturalistico del quale è ora concomitante ora fattore ora riflesso il veri¬ smo in arte »'' non è in Italia un indirizzo autoctono, origi¬ nario, per la buona ragione che, dal Cinquecento, l’Italia non fu più « iniziatrice » in letteratura; e nemmeno, i grandi moti culturali e di pensiero, le grandi correnti moderne eb¬ bero più origine tra noi. Ma questo non esclude i risultati positivi del verismo italiano, se anche esso fu di importazio¬ ne: tante cose l’Italia risorgimentale e post-risorgimentale do¬ vette importare, appunto perché « partecipava alla vita mo¬ derna... 1 precedenti stranieri in letteratura hanno per l’Ita¬ lia nuova lo stesso valore dei precedenti politici ed economici nelle altre parti della vita: non sopprimono né la persona¬ lità nazionale, né l’originalità individuale. Ma questo problema dell’importazione, dell’adattamento della lingua ai nuovi generi, dell’originalità e di tutto quel senso di inferiorità che non cessò di affliggere i nostri dottri¬ nari del naturalismo, per ora non ci interessa. Lo risollevere292

mo a suo tempo. Quello che ora ci importa è di sottrarci alla troppo categorica disinfezione che il Croce fa del termine; ve¬ rismo (o naturalismo), facendone una semplice etichetta sto¬ rica. Si sa che con questo eccesso di rigorismo e di antisepsi il Croce impedisce di stringere da vicino le differenze spe¬ cifiche, individuali dell’opera d’arte, di riconoscere il terreno germinativo, l’aria influitiva che un certo ambiente morale, mentale, intellettuale e artistico costituisce per il poeta, e non solo perché lo orienta a scegliere certe forme (il dramma oppure il sonetto, l’ottava oppure la stanza libera, la disserta¬ zione fantastica oppure il romanzo) ma anche perché ha un’a¬ zione, diciamo così, genetica sui suoi fantasmi, ne determina in modo certo, seppure spesso incalcolabile, l’atteggiarsi, la vita prenatale. Non per niente, la gran difficoltà di tutta la critica, che prende le mosse dal Croce, è proprio di superare quella specie di condanna al silenzio, a cui il Croce, teorica¬ mente, l’avrebbe costretta, dopo raggiunta la discriminazione tra poesia e non poesia. E si sono visti, nella stirpe crociana, i figliuoli prodighi, tipo Alfredo Gargiulo,^ mettersi a lavo¬ rare, perfino con spirito di rivalsa, perfino con rancore pole¬ mico, sulla distinzione tra le arti e sui mezzi di estrinsecazione propri a ciascuna arte, per potere afferrare la fisionomia delle singole opere, i vincoli e le libertà che stimolano o fanno util¬ mente soffrire l’ispirazione in via di concretarsi. E si sono visti crociani di stretta osservanza, come Lionello Venturi,’ rivendicare l’ambiente, la scuola proprio come criterio, o stru¬ mentale, per la valutazione estetica. Notissima, appunto, del Venturi la dottrina del gusto, ch’egli presentava come sussi¬ diaria della critica di tipo crociano: il gusto, dal Venturi de¬ finito, come l’insieme delle preferenze, nel mondo dell’arte, che contraddistinguono un artista o un gruppo di artisti. Per essere semplici, noi parleremo del naturalismo come di un gusto: cioè non solo come di una preferenza storica per certi « mondi » e contenuti in confronto con altri; ma anche come di certe modalità stilistiche, criteri di controllo dell’ispira¬ zione, riscontri del consenso con queste ispirazioni, cioè della fiducia nella loro dignità di essere portate alla luce. Erano, e si sentivano, artisti quei romanzieri : e ciò che il Croce con¬ sidera una mentalità storicamente definibile e caratterizzata era per loro un modo di dar vita al bello, di riconoscere il bello allo stato nascente, il che è sempre decisivo, per un’opera 293

d’arte. Il naturalismo non era soltanto una volontà di esplo¬ rare certi aspetti del mondo, dell uomo, della società, che quella generazione, o quelle generazioni, di artisti sentivano particolarmente, elettivamente affidate alle loro cure, era an¬ che un modo, quasi una tecnica, per esplorarli, e proprio coi mezzi dell’arte. Il naturalismo, per adoperare una parola più recente, sentiva di essere un linguaggio. E per quanto diffi¬ cile, magari disperato, possa riuscire per noi il delinearne la fisionomia, il naturalismo era come una tonalità collettiva, in cui tutti quegli artisti si sentivano immersi, volevano essere immersi, e che poi ciascuno differenziava col suo tono di voce personale. Mi autorizza a questo tentativo di sintetizzare una storia del naturalismo l’idea del De Sanctis nel suo Studio sopra Emilio Zola del quale riparleremo. « La storia psicologica, » dice il De Sanctis, « è divenuta una storia naturale, dove resta assorbita l’anima stessa. Come questa trasformazione sia avve¬ nuta anche nell’arte, e per quali gradazioni, e con quali strani miscugli di panteismo e di materialismo, riflettendo in sé in modo grezzo e talora contraddittorio tutto il movimento intel¬ lettuale di questo secolo, sarebbe un lavoro critico interessan¬ tissimo e sperabile, se i nostri letterati, sperduti nella critica spicciola e giornaliera, e spesso frivola, si volgessero a queste altezze. »* Ci accompagni almeno, senza orgogli, la speranza dell’altezza. La prima volta o, certamente una delle prime volte, che ve¬ diamo la parola « naturalismo » applicata alla letteratura è in un saggio di Ippolito Taine su Balzac, apparso nel febbraio 1858 sul «Journal des Débats » : «È un artista,» diceva il Taine, « poderoso e ponderoso, che ha, come servitori e pa¬ droni, gusti e facoltà di naturalista. » Taine è stato veramente il primo ad applicare alla lettera¬ tura la parola « naturalismo »? Champffeury che con Duranty è il capo del cenacolo realista che si rifa direttamente a Bakac, allorché nel 1847 rivendicava Balzac all’ortodossia della scuola, applica già a lui la parola naturalismo. Era, d’altronde, lo stes so Balzac ad autorizzarla, con la prefazione alla Comedie humaine, dove annunzia il proposito di scrivere una « storia na¬ turale » dell’uomo. Un’aspirazione, che durerà per parecchi de¬ cenni del sec. xix: e lo stesso Sainte-Beuve dirà più tardi di 294

aver voluto, con la sua critica, fare una storia naturale degli spiriti. Comunque, Taine parla di Balzac come di un « naturali¬ sta », riferendosi appunto a quella storia naturale. E poi trat¬ teggia un carattere del naturalista, nel quale si vedono già iso¬ late alcune tendenze e preferenze, su cui il naturalismo, costi¬ tuitosi a scuola, impernierà i propri programmi. Tra queste tendenze: il determinismo di tipo scientifico, il coraggio di af¬ frontare temi sordidi, il divorzio dall’ideale. Ascoltiamo Tai¬ ne: « Agli occhi del naturalista, l’uomo non è una ragione indipendente, superiore, sana di per se stessa, capace di rag¬ giungere col suo solo sforzo la verità e la virtù, ma è una qua¬ lunque forza, dell’ordine di tutte le altre, la quale riceve dalle circostanze il suo grado e la sua direzione. Egli (il naturali¬ sta) la ama per se stessa (questa forza): e perciò la ama in tutti i suoi gradi, in tutti i suoi modi di impiego; pur di vederla agire, è contento. Seziona altrettanto volentieri il polipo e l’e¬ lefante: scomporrà altrettanto volentieri il portinaio e il mini¬ stro. Per lui (il naturalista) non ci sono sozzure. Capisce e maneggia le forze; questo il suo piacere, non ne ha altri; non dice: che bello spettacolo! ma: che bel soggetto! E bei sog¬ getti sono gli esseri curiosi importanti nella scienza, capaci di mettere in rilievo qualche tipo notevole, qualche deforma¬ zione singolare, suscettibile di rilevare leggi estese e nuove. Di purezza, di grazia, non si preoccupa più che tanto; ai suoi occhi, un rospo vale una farfalla, il pipistrello lo interessa più che l’usignolo. Se siete delicati, non aprite il suo libro: vi descriverà le cose come sono, cioè molto brutte, crudamente, senza fare cerimonie né abbellire; e se abbellisce, lo farà in uno strano modo; siccome ama le forze naturali e non ama che quelle, offre in spettacolo le deformità, le malattie e le mostruosità grandiose che queste producono a ingrandirle. « Manca l’ideale al naturalista; manca ancor più al natura¬ lista Balzac... È pesante, paurosamente e ostinatamente affo¬ gato nel suo letamaio scientifico, occupato a enumerare le fi¬ bre che seziona, con un tale ingombro di utensili e di prepa¬ razioni ripugnanti che, quando esce dal suo sotterraneo e tor¬ na alla luce, conserva l’odore del laboratorio in cui si era se¬ polto. Gli manca la vera nobiltà, le cose delicate gli sfuggono, le sue mani di anatomista macchiano le creature pudiche: imbruttisce il brutto. »’ 295

Il saggio di Xaine, nel suo insieme, da un prepotente, lumi¬ noso ritratto di Balzac; ma questo particolare profilo del ro¬ manziere naturalista — un naturalista avanti lettera — è un Balzac a uso della generazione del 1870, quella che capirà Taine, per la quale Taine scriverà i suoi libri di filosofia e di storia. Agli occhi dei naturalisti, il realismo di Balzac appa¬ rirà un fenomeno ormai chiuso. E nel Balzac vivo e grande, parrà ad essi di trovare una precoce e geniale applicazione del¬ la loro formula. Viceversa il realismo, come disposizione uma¬ na e come risultati artistici, travalica di gran lunga la formu¬ la naturalista: perché il naturalismo vuole essere realista, ma 11 realismo non ha bisogno di essere naturalista. Comunque, cercheremo più in là la differenza tra realismo e naturalismo, che è un bel problema di storia letteraria: noi oggi siamo in grado di vederla abbastanza chiara, mentre i naturalisti fanno una grande confusione tra i due « ismi ». Ma è singolare che sia stato Taine a rilanciare autorevol¬ mente la parola. Quando il naturalismo sarà più adulto, con¬ sapevole dei suoi programmi — e Taine si mostrerà alquanto mal disposto nei suoi confronti — esso naturalismo metterà tra i canoni della sua poetica anche il gusto per i casi clinici, le sue ambizioni scientifiche prenderanno volentieri a mo¬ dello — come vedremo — la scienza medica. Ora l’articolo di Taine, che abbiamo ricordato, è del ’58. Nel ’57 coi Filosofi francesi del sec. XIX aveva inventariato le posizioni prece¬ denti e circostanti, prima di mettere a punto il suo sistema. 12 anni dopo (1869), Taine pubblicherà la prima parte delVIntelligenza,che sarà quel sistema: una specie di rullo com¬ pressore che, per alcuni decenni, farà giustizia del precedente spiritualismo francese. Su che cosa è fondata quella Intelli¬ genza? Tutto il suo rifornimento scientifico è preso dagli An¬ nali medico-psicologici,^^ dal lavoro dei medici. Così, il primo critico che parla di naturalismo, per una strana affinità di de¬ stino, sarà poi anche l’uomo che, nella critica e nella dottri¬ na, sfrutterà uno degli elementi, su cui gli scrittori naturali¬ sti, sto per dire parallelamente, impiantano, la loro poetica. La parola, di Taine o di altri che fosse, non fece fortuna tanto rapidamente. Sappiamo che Zola si presenta personal¬ mente a Flaubert nel 1866, quando il maestro aveva terminato di scrivere la seconda, e definitiva Édiication sentimentale] che, per testimonianza dello stesso Zola, doveva tanto contri296

buire a « liberare dal guazzabuglio della vita la formula sem¬ plice del naturalismo » : tale giudizio è espresso nel saggio zoliano sul Naturalismo a teatro}^ Ma, in quell’anno ’66 la pa¬ rola « naturalismo » non era ancora arrivata a imporsi — così conclude un diligente e informato storico della scuola, Léon Deffoux.''* Parola e cosa presero consistenza soprattutto per contraccolpo alle polemiche dei loro oppositori. Ma cosa intendevano, per naturalismo, gli scrittori che fan¬ no testo sulla questione, i campioni di quella scuola? Vedre¬ mo, a suo tempo, quel che ne dirà Zola. Ma una definizione utile e probabile si trova, per esempio, nella prefazione, che Edmond de Goncourt nel 1879, molti anni dopo le maggiori battaglie della scuola, pone al proprio romanzo Les frères Zemganno, dove parla di realismo e di naturalismo, confon¬ dendo i due termini, e tuttavia spiegando: naturalismo, « étude d’après nature en littérature ».'^ Dunque: studio dal vero, e allora avevano ragione i nostri italiani che, nell’assimilare la scuola, la chiamavano « verismo ». Ma, per capire qualcosa, sarà utile ricordare qui la cronaca dei fatti. Emilio Zola aveva la passione dei gruppi artistico-letterari, delle alleanze, delle forze organizzate in vista delle battaglie e polemiche. Non andiamo a indagare se ci fosse, più o meno istintiva, più o meno calcolata, l’idea di farsi, di quei gruppi, un piedestallo. Certo è che, appena sbarcato a Parigi dalla nativa Aix-en-Provence, ed era un giovane romantico, ignaro degli sviluppi tutti opposti che avrebbe poi preso la sua arte, tentò subito di creare un gruppo coi pittori suoi coetanei, tra cui Cézanne, ma la cosa gli fallì. Qualche anno dopo — e il suo « credo » romantico e so¬ gnante era già cambiato — egli vide in un romanzo uscito nel ’64 non solo l’opera che precisava ed esprimeva alcuni aspetti della sua poetica in formazione, ma anche il primo spunto per dare battaglia e collegare le forze. Questo romanzo era la Germinie Lacerteux dei fratelli Goncourt. Zola che, oltre a fare lo scrittore e il giornalista — teneva quindicinal¬ mente la critica letteraria per la « Salut public » di Lione — si aiutava a sbarcare il lunario come capo della pubblicità (oggi diremmo: ufficio stampa) dell’editore Hachette, chiese per re¬ censione il libro agli autori. E scrisse un lungo, entusiastico saggio, che raccolse poi l’anno dopo, 1866, nel volume Mes Haines. 297

Che cosa era questa Germinie} Per la cronaca diciamo che era prima di tutto un romanzo a chiave, come tutti quelli dei Goncourt. Germinie ricalca la vita di una loro serva, della quale essi avevano appreso, dopo che lei era morta, una se¬ conda vita segreta. M.lle de Varandeuil, l’altro personaggio principale, era una zia dei Goncourt. Questi celebri letterati, che si vantano gli inventori del « documento umano » in let¬ teratura, in realtà prendono sempre dal vero le loro storie, che sono tutte « documenti » romanzati. Anche 1 isteria di Germinie va legata, forse, alla nevrosi di Jules de Goncourt (la quale è anche romanzata nel Charles Demailly): toccava a Charcot, psichiatra francese del loro tempo, di estendere il nome, intimamente femminile, di isterismo, anche a certe ne¬ vrosi maschili. Germinie è, dunque, la storia di una serva, venuta adole¬ scente dalla provincia a Parigi, dopo che le è morta la mam¬ ma, che aveva per lei, ultima nata, una speciale tenerezza; e le è morto il padre, uno scioperato; e le è morto di consun¬ zione anche il fratello maggiore, buono e saggio e laborioso, e a lei molto legato. Le sorelle che l’hanno preceduta a Pa¬ rigi le trovano posto in un caffè. In Germinie si sta abboz¬ zando la donna; questa maturazione si misura dagli approcci insolenti, dalle scurrilità di cui gli altri camerieri cominciano a farla segno. C’è tra quelli un anziano, che ha l’aria di pro¬ teggerla: sarà proprio lui ad abusare di Germinie. Maternità, scenate delle sorelle, lese nel loro sentimento dell’onore. Ger¬ minie viene ritirata presso una vecchia bigotta, che la catechiz¬ za coi terrori dell’inferno. Nasce un morticino. Germinie si rimette a fare la serva, passa di padrone in padrone, finché en¬ tra in casa della vecchia M.lle de Varandeuil. Di questa vec¬ chia signorina, sappiamo tutto: i Goncourt ce ne danno per disteso la biografia. E non solo per lo scrupolo di far concor¬ renza allo stato civile, di mettere in piedi e portare all’estrema e più diligente finitezza tutti i personaggi, ch’è una regola del romanzo dopo Balzac e della narrativa dove i « caratteri » pre¬ dominano sull’intreccio. I Goncourt hanno forse più ingegno¬ sità che vera immaginazione: nell’insistere sul personaggio di M.lle de Varandeuil si propongono un calcolatissimo effetto di simmetria e di contrasto nella composizione della Ger¬ minie: effetto che alla fine risulterà più mirabile come trovata cerebrale che come vera suggestione poetica. 298

In M.lle de Varandeuil, messa accanto a Cierminie, fatta convivere con Germinie, i Goncourt vogliono farci vedere che un essere umano che ha gli stessi bisogni affettivi di Germinie, ma con una differente educazione e temperamento, li converte in una superiore, quasi aspra dignità di vivere, laddove in Ger¬ minie quei bisogni affettivi diventano causa di decadenza mo¬ rale e di degenerazione. Quel turpe e doloroso inizio ha svegliato male, in Germi¬ nie, la donna, che poi viceversa si manifesterà di avido, focoso temperamento. Soprattutto non si è potuto associare a quel bisogno sentimentale di prodigarsi nel voler bene, di farsi alacremente vittima nella dedizione, che sarà per Germinie il pretesto, o il motivo, o la giustificazione di quelle altre esu¬ beranze, e appetiti famelici, del temperamento. Così, nei pri¬ mi tempi che è a servizio da M.lle de Varandeuil, Germinie vive in apparente torpore e indifferenza dei sensi. Ma devia quei suoi ardori, a lei stessa ignoti, verso quello che oggi si chiamerebbe un surrogato. La chiesa, la religione, il mistici¬ smo, l’odor di incenso le procurano le necessarie esaltazioni. La confessione, soprattutto. Germinie non capisce cosa sia quella sua felicità di abbandonarsi al confessore, di riversarsi in lui. Lo capisce il confessore, soprattutto dopo una specie di scenata di gelosia che Germinie gli fa attraverso la grata, quando teme che altre penitenti la defraudino. E questo con¬ fessore deve allontanarla. Germinie è di nuovo sola. A poco a poco cessa di frequentare la chiesa. Qualche tempo dopo M.lle de Varandeuil la vede rifiorire, riattaccarsi alla vita. Germinie si è fatta un pomposo, sgar¬ giante vestito per andare alle nozze di una sua amica. Così, in pompa magna, essa rivela l’esuberanza femminile, che si è maturata in lei, non bella, grossolana, ma animalescamente magnetica. M.lle de Varandeuil glielo spiattella: altro che andare alle nozze di un’altra, è lei, Germinie, che ha bisogno di un marito. Ma intanto le è morta una sorella. Germinie si attacca mor¬ bosamente alla nipotina, malaticcia; spende pazzamente, rie¬ sce a rimetterla in salute. Ma il cognato, che ha ripreso moglie, si arruola per certo lavoro in Africa, e si porta via la bam¬ bina: sa che con questa potrà ricattare Germinie, e infatti ci riesce. Poi Germinie, che aveva deliberato di andarsene in Africa anche lei, viene a sapere di aver mandato gli ultimi 299

sussidi, spremendosi il sangue, quando già la bambina era morta. Si vede in questo episodio la passionalità affettiva ** di Germinie, che si manifesta come pura dedizione, senza quella morbosità di sensi affamati, che le è complementare. I Goncourt dicono di studiare in questo romanzo un caso di isterismo. Per ragioni, più o meno consapevoli di metodo, o più ancora, forse, a motivo del loro temperamento più fatto per l’osservazione dell’episodio e del particolare che per le costruzioni di insieme, per la loro scarsa capacita di sintesi e di idee generali, studiano il loro caso analiticamente: che è, d’altronde, nell’esaminare i fenomeni, la via corretta. Qui, di fronte all’isterismo affettivo-amoroso di Germinie, fanno una vera e propria analisi clinica: studiano prima la « valenza » affettiva, a cui aggiungeranno poi la « valenza » erotica, per ottenere l’unità e, in certo modo, la storia di quel composto organico, che si chiama Germinie. Si intende che questa è una nostra interpretazione del loro procedimento. I Goncourt erano più cerebrali e studiosamente ipersensibili che non dav¬ vero intelligenti; quindi niente in loro era così programma¬ tico. È appunto la « valenza » affettiva a impegnare Germinie nell’avventura che travolgerà poi anche l’altra «valenza», e porterà la storia del suo caso alla conclusione drammatica e miseranda. Adesso Germinie sostituisce la nipote con un altro bambino: il figlio di una certa Jupillon, che ha rilevato una cremeria vicina alla casa dove abita M.lle de Varandeuil. La Ju¬ pillon è un po’ paesana di Germinie: non si erano mai viste, ma hanno una quantità di conoscenze comuni. Incontrarsi per loro — ma principalmente per l’ingenua Germinie — è una rimpatriata. Germinie diventa la frequentatrice assidua della cremeria. Il figlio della vedova Jupillon è interno in un collegio reli¬ gioso a modicissima retta. A poco a poco, Germinie si sostitui¬ sce alla madre — in un primo tempo impedita da una infer¬ mità — nelle visite settimanali. Quel ragazzo povero riceve dalla tenerezza della visitatrice tutte le costose attenzioni di cui può essere colmato un signorino. Ma il tempo passa, il ragazzo si fa quasi uomo, la tenerezza di Germinie, senza sua saputa, si trasforma. E un giorno, quando il giovanotto ormai è tornato a vivere in casa, Germinie « è meno forte contro se stessa di quanto fosse stata sino allora ».'^ A darle il tracollo. 300

ha aiutato la gelosia per una certa Adele, spregiudicatissima cameriera di una mondana che abita nello stesso palazzo di M.lle de Varandeuil. Per sorvegliare le temute intimità tra Adele e il ragazzo, Germinie si è messa di mezzo, ha fatto la terza nei loro in¬ contri e passeggiate. E adesso sono venute le conseguenze. Una metamorfosi si opera nella donna: una improvvisa, stra¬ ripante, felice pienezza di vita si impossessa di lei. La vedova Jupillon lascia fare: quella devozione di Germinie le è utile, le fornisce un alacre e gratuito aiuto in casa e nella cremeria, senza contare che Germinie è un tipo da sfruttare. Ma il ra¬ gazzo ha abusato di Germinie solo per una cattiva, cinica ■curiosità della donna, un gusto malvagio e vizioso di domi¬ nare. Nel frattempo, la pettegola Adele, per capire che cosa ci sia realmente tra Germinie e il ragazzo, si è servita del so¬ lito metodo di ingelosirla, dicendole che la sua padrona si è incapricciata di Jupillon. E Germinie, naturalmente, confessa la propria passione. Jupillon comincia a sfuggirla. Germinie viene a sapere che il giovanotto, che ha anche una fatua convinzione della pro¬ pria irresistibilità, frequenta certe sale da ballo popolari, dove miete grandi successi. Germinie si mette a inseguirlo per quei locali, dove i frequentatori, e più le frequentatrici, la sbeffeg¬ giano, la deridono, la insolentiscono. Si pianta in un angolo, impavida, giunge fino a pagare le consumazioni alle donne che Jupillon invita al proprio tavolo. Per mettersi alla pari con le rivali, fa da sola esercizi di ballo nella sua camera di serva. Una sera si lancia sulla pista: è un fiasco clamoroso. (È una delle pagine migliori del romanzo, raggiunge quasi quel patetico, che ai Goncourt è abbastanza negato.) Di qui, il romanzo è difficile da riassumere, proprio perché ai Goncourt è stato difficile inventarlo. Intendiamoci su que¬ sta difficoltà: non che la materia episodica mancasse, si poteva anzi moltiplicare. Ma, purtroppo, non poteva riserbare più sorprese — dico, sorprese nel senso migliore — cioè, quegli imprevisti in cui la fantasia si sente felice, perché scopre qualche cosa che essa stessa non si aspettava, e che tuttavia è coerente con le premesse, somiglia ai personaggi, o al perso¬ naggio, a cui quell’invenzione è attribuita: come dire che è sicura di essere nel vero. Non nego che i fatti escogitati dagli autori per mandare 301

avanti la storia, e la malattia, di Germinie siano fatti grossi, vistosi. Ma, in fondo, sono sempre lo stesso fatto, lo stesso mec¬ canismo che si ripete aggravato, in circostanze di poco mutatè. Quella di Germinie è una malattia di tipo nevrotico, una malattia del temperamento: non può quindi che riprodurre sempre la stessa manifestazione, lo stesso sintomo: identico a se stesso, se anche peggiorato, di mano in mano che le resisten¬ ze della salute si vanno logorando. D’altronde, le malattie, tutte le malattie, sono monotone : riproducono, a cicli simme¬ trici, sempre la stessa manovra, sempre la stessa strategia di una forza di distruzione che aggredisce, con le sue armi cieche, abitudinarie, con i suoi automatismi, le forze della vita. Fac¬ ciamo il caso più semplice: quello di una malattia da microbi. I microbi non sanno certo creare, minuto per minuto, un nuovo contegno. Fanno il lavoro che è nella loro natura, come operai coscienziosi e cocciuti, ammaestrati a compiere un solo movimento, proprio come gli operai di certe lavorazioni a catena, la cui produttività è affidata proprio all’automatismo, al ritmo cieco, meccanico, con cui premono sempre quella leva, spostano sempre quell’ingranaggio. Quell’istinto vitale, per cui i microbi ci appaiono, oltre che potentissimi, anche insidiosi, dipende dal fatto che riescono a trovarsi sempre nuovi campi di battaglia nell’organismo che vogliono disinte¬ grare: spostano il teatro del loro attacco, quando occorre, ma non i loro piani di attacco. Consiste anche nel fatto che i loro eserciti si moltiplicano quasi incalcolabilmente, che le loro riserve, poiché non si trova il modo di paralizzarle, sono inesauribili. Semmai, le sorprese, gli imprevisti li crea il loro avversario: cioè quella vita organica in cui sono scesi a dare battaglia. L’altro impre¬ visto potrebbe essere il cosiddetto fatto nuovo: cioè, una ma¬ lattia che, approfittando dello stato di debolezza in cui si trova il nemico — l’organismo attaccato —, viene ad allearsi alla precedente: proprio come una nazione che dichiari guerra ad lina nazione, quando è logorata da altri invasori. La malattia del temperamento — l’isterismo di Germinie, per esempio — si comporta come un’affezione da microbi. Le turbe del tem¬ peramento lavorano come gli eserciti dei microbi, senza curar¬ si di modificare la loro tattica. È come se sapessero che la loro tenacia, la loro ostinazione finiranno col trionfare della vitti¬ ma. È come se sapessero che la vittima non si stancherà mai 302

di compiere gli atti, a cui essi la costringono per domarla: non si stancherà mai di passare per le stesse strade. E, in ogni caso, provvederà lei, la vittima, a truccare, con una decorazio¬ ne, con una scenografia apparentemente nuova, quei vicoli cie¬ chi in cui continua a infilarsi. Questa vittfma è pronta sempre a collaborare : mentre le turbe nevrotiche, isteriche adempiono al loro dovere, producono a macchina gli effetti che sono nate a produrre, imposti dalla loro stessa organizzazione, e avan¬ zano indifferenti, noncuranti dei danni che producono, verso un traguardo di rovina che poi non li riguarda — alla natura non importa mai di distruggere, perché possiede sempre, altro¬ ve, le necessarie riparazioni — mentre le turbe producono i loro perniciosi effetti, la vittima aggiunge, insperata e assurda collaborazione, la coscienza della loro inevitabilità. La vittima prova una specie di momentanea gioia autolesionista nell’obbedire. Che se si avvede della monotonia delle situazioni e risolvimenti a cui è costretta, allora diventa dolorosamente fatalista: si sente perseguitata da un destino contrario, che è ancora un modo di accettare l’obbedienza. « Sono uno scia¬ gurato, ma, appunto perché nato sotto cattiva stella, non posso fare a meno di cascare in questa situazione, di darmi la soddi¬ sfazione di questo tormento. » Per usare uno schema, una fraseologia- escogitata in anni molto più vicini a noi, potrem¬ mo parlare collo psicologo e psicoterapeuta Alfred Adler di arrangement nevrotico: diciamo in italiano, se abbiamo ca¬ pito l’idea, compromesso nevrotico. È quella specie di astutis¬ sima sistemazione del mondo e delle persone circostanti, con cui l’ammalato riesce sempre a crearsi le occasioni per ripetere i sintomi, le manifestazioni della propria malattia. La nevrosi è un problema ndn risolto nei confronti con la vita: e tutti sanno, anche coloro che tengono la corrispondenza coi lettori sui giornali a rotocalco, che i problemi di vita non risolti si ripresentano sempre identici, come gioco di rapporti e con dati sempre analoghi, ma in forma più severa, perché hanno imparato che possono infierire. Ecco la ragione della povertà inventiva, degli, episodi insistiti, anzi replicati, in un romanzo come Germinie Lacerteux. Né gli autori potevano introdurre l’imprevisto, cioè la complicazione di una nuova malattia: avrebbero intorbidato l’evidenza, la purezza del « caso » che si proponevano di descrivere. Queste considerazioni andavano fatte, perché segnano il limite della narrativa naturalista, in303

tesa come scuola, come poetica dai procedimenti e dagli as¬ sunti segnati con rigore programmatico : nella misura in cui il romanzo naturalista vuole essere, come vedremo, romanzo cli¬ nico si preclude la libertà, la coincidere lo sviluppo della nar¬ razione col decorso, necessariamente monotono, di una malat¬ tia. Cioè si condanna alla noia, al grigiore, all esaurimento. Nel caso dei Goncourt, che sono tra i primissimi ad attac¬ carsi alle risorse del « romanzo clinico », l’assunto si fa ancora più pericoloso, data la loro particolare natura e inclinazione di scrittori. Non molto ricchi di carica vitale e visionaria, per inventarsi la strada davanti al procedere dei propri passi, facil¬ mente dove avessero trovato un sistema erano attratti a vincolarvisi, a irrigidirlo. Qui l’isterismo di Germinie fabbricava per conto loro quel minimo di casi e di incidenti necessari al¬ l’azione. E quei casi, tutti prevedibili, tutti di uno stampo, non davano agli scrittori la felicità della scoperta, che nutre, infoltisce, rigenera di continuo l’ispirazione, da il piacere di narrare. Più che i fatti, già scontati, al gusto e alla disposizione ana¬ litica dei Goncourt piacevano gli stati d’animo, capaci di col¬ mare la durata, di ragguagliarci sulla durata tra l’uno e 1 altro dei fatti, in se stessi corti, subito esauriti. La difficoltà, che dicevamo, di riassumere Germinie — e che ci ha condotti alle precedenti considerazioni — non è una dif¬ ficoltà materiale. Dipende dal fatto che le descrizioni di stati d’animo non si riassumono, sotto pena di impoverirli, sche¬ matizzarli, renderli insignificanti. Mentre il puro resoconto dei pochi fatti, senza le lunghe connessioni intermedie degli stati d’animo che li alternano, sembra lasciar fuori il meglio del romanzo. Gomunque, nella loro ciclica ripetizione, i fatti sono i se¬ guenti. La valanga affettiva di Germinie è sempre, e rimarrà, sdoppiata tra Jupillon, verso il quale la dedizione è vera vo¬ lontà di mettersi sotto i piedi dell’uomo, e M.lle de Varandeuil, verso la quale Germinie ha un trasporto di figlia accom¬ pagnato dalla gioia di servire e dalla coscienza che nel vivere con la padrona, e con quella padrona, c’è una specie di riscatto ai segreti vergognosi della sua vita. Germinie riuscirà, fino all’ultimo, e con una forza nervosa che ha del miracolo, a na¬ scondere a Mademoiselle la sua seconda vita, la sua vita turpe e notturna. Jupillon prescinde, con sfacciata disinvoltura, dal304

1 amore di Germinie; la quale però, nella sua smania di pro¬ digarsi (e forse anche per tenersi attaccato il giovanotto), gli mette su, dando fondo a tutti i risparmi, una bottega-laborato¬ rio da guantaio. Breve felicità, in chi ha dato, ancor più che in chi ha ricevuto, quasi come se gli spettasse di diritto. E ades¬ so Germinie è madre: e, col solo vincolo di mantenerla segreta alla padrona, prova orgoglio di questa maternità: non si cura di nasconderla alla gente del rione, bottegai e serve, anche se ne scapiti il suo buon nome, la sua fama di donna intemerata, sulla quale si riflette anche il prestigio aristocratico della pa¬ drona. Scappa di casa durante il pranzo dell’Epifania, per an¬ dare all’ospedale (pretesto, un malessere) a mettere al mondo una bambina. Da notare, che i Goncourt rincarano la dose, facendo che Germinie capiti in corsia durante una epidemia di febbre puerperale, forse per aggravare l’accusa contro le misere condizioni in cui la società lascia vivere il popolo, forse anche per fare del tragico pittoresco, ma non riescono a coagu¬ lare né un motivo, né l’altro: e l’accusa contro l’indifferenza della borghesia se la tengono in serbo per poi lanciarla, a in¬ vettiva spiegata, nel finale del romanzo, dinanzi la fossa comu¬ ne del cimitero di Montmartre: pagina su cui i Goncourt fa¬ cevano senza dubbio assegnamento, anche musicalmente, forse, per accrescere il sinfonismo a piena orchestra del finale — la perorazione, come si dice — ma che riesce parecchio stirata e rettorica, anche perché questi scrittori non hanno abbastanza cuore, riescono frigidi — da veri intellettuali — nel patetico. Così la febbre puerperale serve tutt’al più per mettere in luce la straordinaria resistenza di Germinie, che ne esce illesa. Avrebbero anche potuto aggiungere che i nevrotici hanno, fino a un certo punto, di queste immunità contro i mali fisici. Segue, per Germinie, un periodo di più salda felicità. I.a maternità le permette di esaurirsi tutta nella valenza affetti¬ va: a essere pedanti, si domanderebbe che isterica è, se il più normale, il più giusto degli affetti di donna basterebbe a gua¬ rirla. I Goncourt potrebbero rispondere che è isterica, perché reagisce patologicamente alla mala sorte, che la priva degli af¬ fetti capaci di equilibrarla. Comunque, dopo alcuni mesi illu¬ minati dalle domeniche trascorse con un Jupillon abbastanza bonario nella casa di campagna dove la bambina è a balia, quella bambina muore. 305

Si veda il ritmo : distensione-crisi, tipico di questo romanzo. Anche il nostro Verga costruisce con questo ritmo a due, specialmente nei Malavoglia: in questo il Verga, che non è un immaginativo, accetta la poetica del tempo, la quale esclu¬ de dal romanzo l’immaginazione. In questo almeno, il dia¬ gramma narrativo, la curva del romanzo ad alti e bassi, co¬ stanti, regolari si presentano nel Verga analoghi a quelli del romanzo naturalista. Ma abbiamo visto che il Verga conduceva già così il proprio narrare, anche prima della creduta, o pre¬ tesa, conversione al naturalismo. In quelle somiglianze este¬ riori, analogie della dinamica considerata solo nel suo profilo, bisognerà vedere le differenze. Si è già detto che il naturali¬ smo modella le vicende delle sue narrazioni sul decorso di una malattia: la quale presenta, per natura, remissioni e re¬ crudescenze. Ma il Verga non è romanziere di casi clinici. Dunque, neanche in questo il naturalismo e la sua poetica saranno capaci di fornirci — come vedremo -- schemi idonei a decifrare l’arte verghiana. Finiamola, con Germinie. La donna si mette a bere. Riesce naturalmente a nascondere alla padrona anche le sue plumbee sbornie. Intanto, per consiglio anche della madre, Jupillon la mette completamente in disparte. Si è incapricciato, tra 1 altro, di una fresca cuginetta, sanamente campagnola, arrivata dal paese per servire nella cremeria. Ma un giorno riacciuffa Ger¬ minie. Alla leva, ha estratto un numero basso; gli toccherà di andare soldato, se non troverà il denaro per riscattarsi. Na¬ turalmente, glie lo trova Germinie, quasi senza chiedergli che torni ad amarla, per pura prodigalità di se stessa. Lo trova, caricandosi di debiti e di cambiali, con i bottegai del quartiere, col portinaio, con tutti quanti: ha ipotecato interamente il suo avvenire. Non le basterà la vita, per togliersi questa ipoteca. Il resto si potrebbe dedurre senza leggere il libro, quando si sanno le simmetrie con cui è condotto, la fatalità uniforme dei suoi eventi. Germinie è di nuovo madre: questa volta, però, non riesce a portare la creatura fino al momento della nascita. Germinie torna a bere. Germinie torna a seguire, a cercare Jupillon, con una ostinazione che sarebbe prepotente, se non fosse anche umiliata, da animale avvilito, avvezzo alle pedate. Una volta pedina il ragazzo e la cuginetta fin quasi sulle soglie della camera dove i due si rinchiudono. Lì, fuor dell’uscio, delira, con furore allucinatorio, di vetrioleggiare 306

la ragazza. Arriva fin dal droghiere; poi, al banco, non osa di farsi dare il caustico. E tuttavia, qualche tempo dopo, aven¬ dole Jupillon chiesto venti franchi, e lei non sapendo più dove battere la testa per farseli imprestare, li ruba nel cofano della padrona. È, per lei, il tracollo più terribile: la padrona rap¬ presenta l’altra metà della vita, dove tutto è pulito, e l’abne¬ gazione è pura, è un sentimento che le conferma la sua di¬ gnità. Poi entra in uno stato di depressione fisica, morale: perfino intellettuale. Non ricorda più niente, lei che era così pronta, non riesce neppure più a leggere il giornale a Mademoiselle. Anche i suoi vestiti sono sporchi, strappati, puzzano: Germinie era stata finora la cameriera modello, con cuffie e colla¬ rini sempre candidi. Una notte, parla nel sonno: e Mademoi¬ selle, nel rincasare da un pranzo, la sorprende. (Curiosa pa¬ gina, in cui i Goncourt trasfigurano il declamato, diciamo così, onirico di Germinie nella recitazione limpida, altera, squil¬ lante di una grande attrice; anzi — per bocca di Mademoi¬ selle de Varandeuil — la paragonano a Rachel.) Per fortuna, Germinie non ha detto nulla di compromettente; il suo segre¬ to rimane indenne. La paura di essersi lasciata sorprendere determina una crisi benefica. Germinie ha una ripresa. Pare che abbia dimenticato Jupillon. Una domenica, d’improvviso, decide di accompagna¬ re la cameriera Adele in una scampagnata a Vincennes. Cono¬ sce lì un attempato e mezzo alcolizzato pittore di insegne: un divertente, spiritoso tipo di parigino mezzo artista e tutto bohème. Si lega con lui. Il gioco delle due « valenze » è sem¬ pre uguale. Una dedizione veramente disastrosa: Germinie tutte le notti, pioggia o neve, sul Boulevard, dove i passanti le mancano di rispetto, n sulla scala, dove i casigliani la insul¬ tano, aspetta quel suo Gautruche, che non le può dare le chia¬ vi della propria stamberga. Lui torna ubriaco, a ore impossi¬ bili : Germinie gli porta sempre cibi e vini costosi, che s’è procurata, sempre più ingolfandosi nei debiti. E un’abiezione ,di sfrenatezze, per quanto riguarda l’altra «valenza». Il fegato di Gautruche comincia a ribellarsi a tutto quel vino., avverte il pittore ,che bisogna cambiar vita. E il pittore propone a Germinie — che crede in possesso di qualche ri¬ sparmio — di mettersi .-insieme, faceudcde anche balenare la promessa di un matrimonio. A Gautruche pareva una buona 307

proposta. Ma Germinie, alla sola idea che le si offra di ab¬ bandonare la sua padrona, diventa una vipera. Insulta Gautruche, lo copre di sarcasmi. Gli grida che lui non e mai stato il suo uomo, che è stato un ripiego qualunque: il suo uomo era un altro. È la rottura. Germinie, irreprensibile in casa durante il giorno, si mette a fare, di notte, il marciapiede. Ancora le due « valenze » : quella affettiva è saziata ora dal gusto di avvilirsi. Una notte, rivede Jupillon. Gli chiede la restituzione del proprio denaro, alza la voce: una guardia la invita bruscamente a circolare. Ma quell’incontro l’ha rifatta schiava dell’uomo. « Il suo pri¬ mo amore, » spiegano i Goncourt, « era lui. Essa gli apparte¬ neva, contro se medesima, per tutte le debolezze del ricordo, per tutte le viltà dell’abitudine. Da lei a lui correvano 'tutti i legami di tortura che avvincono per sempre una donna, il sacrificio, la sofferenza, la bassezza. Lui la possedeva perché aveva violato la sua coscienza, calpestate le sue illusioni, mar¬ tirizzato la sua vita. Apparteneva a lui, a lui per sempre, come al signore di tutti i suoi dolori. E si rimette ad aspettarlo, a sorvegliarlo. Una notte di piog¬ gia rimane incollata alle finestre dell’appartamento di Jupil¬ lon: dentro si canta, si fa bisboccia. All’indomani, si manifesta la flussione al suo petto già malato. M.lle de Varandeuil le impone di curarsi, la assiste, le chiama un medico: Germinie si ostina a rimanere in piedi, a fare i servizi. Mademoiselle la porta in campagna, e Germinie — che dapprima ha avuto qualche beneficio — si prodiga come in città. Non è mai stata così devota, premurosa, sollecita, filiale. Tornano a Parigi: il medico esige che Germinie sia portata all ospedale, dove essa muore in uno sbocco di sangue. Solo dopo la sua morte, M.lle de Varandeuil viene a sapere chi era stata veramente Germinie, tutti i debiti che ha lasciato. La maledice, si rivolta contro la sua memoria. Poi quella memoria torna, quell im¬ magine di generosità nell’attaccamento e nel sacrificio. E in un mattino di neve, M.lle de Varandeuil va al cimitero di Montmartre: cerca, non trova, si inginocchia tra due tombe recenti, senza nome e senza croce: una, forse, è quella di Germinie. Questo il romanzo dei Goncourt, del quale Zola, impiegato di libreria, cronista di giornale, e autore finora di romanzi ro¬ mantici e sentimentali, chiede di fare la recensione: ha subo308

dorato un esempio di quei principi d’arte, che vanno matu¬ rando in lui; forse, l’occasione di dare una battaglia per quello che sarà domani il suo credo di romanziere. I Goncourt avevano fatto precedere il romanzo da una prefa¬ zione: in cui enunziavano il loro programma: ed erano già, più che per i tre quarti, i punti, che i naturalisti — divenuti scuola — avrebbero enunciato alcuni anni dopo. Forse dice di più c lic la stessa prefazione tracciata da Zola, nel 1869, per i suoi Ruugon-Macquart. Zola e i naturalisti .saranno più categorici, meno generici su certi argomenti — soprattutto sul valore della scienza in rapporto alla narrativa — potranno aggiun¬ gere qualche cosa, rincarare certe dosi: ma il più è già detto. Nei naturalisti i principi avanzati dai Goncourt saranno più « idee fisse », forse i Goncourt si limitano, per ora, a questo particolare romanzo, mentre i naturalisti affermeranno che il romanzo sarà così, o non sarà (diciamo la cosa sullo stampo di una famosa frase zoliana). Che cosa dicono i Goncourt? Rileggiamo le loro frasi più categoriche: « Il pubblico ama i romanzi falsi: questo romanzo è un romanzo vero. « Ama i libri che fanno finta di andare nel gran mondo: questo libro viene dalla strada. « Ama le piccole opere mascalzoncelle... quella che leggerà è severa e pura. « Non si aspetti la fotografia scollacciata del Piacere: lo stu¬ dio seguente (notiamo la parola studio) è la clinica del¬ l’Amore. « Il pubblico ama altresì le letture anodine e consolan¬ ti... questo libro, col suo triste e violento modo di distrarre, è fatto per contrariare le sue abitudini e nuocere alla sua igiene. »“ E danno i motivi di quel loro modo di lavorare contro cor¬ rente, che ricordano di avere già tentato tre anni prima (1861) con l’umile (sottolineiamo l’aggettivo) Soeur Philomène. Il secolo XIX è un tempo di suffragio universale, di democrazia, di liberalismo: perciò loro, i Goncourt, si sono domandati se « < le basse classi > (messe da loro tra virgolette) non abbiano diritto al Romanzo;... se debbano rimanere gravate dall’inter¬ detto letterario » che è pesato fino a quel momento sul popolo. « Ci siamo domandati se ci siano ancora, per lo scrittore e il lettoré, in questi anni di uguaglianza in cui viviamo, classi

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indegne, disgrazie troppo basse, drammi troppo male infilati, catastrofi di un terrore non abbastanza nobile. » Poi la loro educazione di letteratissimi sposta il piano del discorso, lo fa solenne, istituisce un confronto con le forme illustri del¬ l’arte: « Ci è presa la curiosità di sapere — proseguono se quella forma convenzionale di una letteratura dimenticata e di una società scomparsa, la Tragedia, fosse definitivamente morta. » In parole povere, sapere se la tragedia fosse possibile solo con personaggi illustri. Ma il discorso non è approfondito, perché la tragedia qui è intesa solo come sorgente di commo¬ zione e di patetico, e tutto si risolve nella frase col tremolo: curiosità di sapere « se le lacrime che si piangono in basso possano far piangere come quelle che si piangono in alto. Piuttosto c’è un punto di vista sul Romanzo, che potrebbe essere l’epigrafe di tutti i manifesti, e di tutte le dichiarazioni dei naturalisti. E che non si sarebbe mai potuto esprimere, senza l’esempio dei romanzi di Balzac (e poi di Flaubert, che aveva già scritto la Bovary e stava scrivendo — uscirà nel 18G8 — VÉducalion sentimentale-, ma Flaubert era più pronto a enucleare massime artistiche e di mestiere letterario, propria¬ mente di fattura, che non a prescrivere al romanzo questi o quegli interessi, e sono piuttosto rare in lui certe frasi che ci¬ teremo e che sembrano apparentarlo alle convinzioni dei natu¬ ralisti). Dicono, dunque, i Goncourt: « Oggi che il Romanzo (maiuscolo nell’originale) si allarga e cresce, che comincia ad essere la grande forma seria, appassionata, viva, dello studio letterario e deU’inchiesta sociale, che diventa, con l’analisi e la ricerca psicologica, la storia morale contemporanea, oggi che il romanzo si è imposto gli studi e i doveri della scienza, può rivendicarne (anche) le libertà e la franchezza. E che cer¬ chi l’Arte e la Verità... che abbia la religione che il secolo scorso chiamava coll’ampio e vasto nome: Umanità] questa coscienza gli basta: quelli sono i suoi diritti. »“ Potevano essere più precisi, in questa dichiarazione dei di¬ ritti del romanzo; un po’ sono frastornati dalla smania di far sentire nel pistolotto finale la parola Umanità. L’importante è che qui ci sia, in ogni modo, una nuova dichiarazione dei diritti del romanzo; un’asserita dignità del genere che, se ascoltiamo Brunetière, era considerato fino a Balzac un « ge¬ nere inferiore ».^ L’importante è che quella dichiarazione si fondi su alcuni principi: l’accesso di una nuova categoria

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di personaggi, quelli di bassa estiazione; la rivendicazione dei diritti che hanno i drammi del popolo ad apparire sulla ribalta narrativa; e che tutto questo muova da un desiderio di rappresentare la Verità (parola su cui bisogna intendersi), e di condividere le conclusioni, i doveri, i metodi della scienza. Quello che i Goncourt ancora non vedono, o non afferma¬ no, è la connessione tra la scelta del popolo come protagonista e l’alleanza con la scienza, come teorie e come metodo: una connessione, che noi dovremo capire. E sebbene in un punto parlino di scienza, in un altro parlino di clinica dell’Amore, non vedono che la scienza egemone, l’unica che davvero in¬ fluenzerà il romanzo nuovo sarà la medicina, cioè la scienza che più da vicino tocca resistenza dell’uomo, il vivo, l’orga¬ nico e l’organizzato della vita. E rimane generico il loro dire .che il secolo offre un tema nuovo: le classi popolari, perché è il secolo della democrazia e dell’uguaglianza. È anche il secolo della sociologia, e della scienza positiva e soprattutto del so¬ cialismo; il che significa che quella materia di osservazione, la società, estesa fino a una nuova classe — il popolo — che acquista dignità di essere osservato si impone simultaneamente ai filosofi, agli scienziati, agli artisti. I Goncourt non hanno sentito questa solidarietà, al tempo loro, delle menti umane nell’oggefto di osservazione e di studio, che ha radici storiche ben più profonde di quella solidarietà compassionevole verso i diseredati. Zola capirà molto di più. Ma, naturalmente, coi Goncourt rimane un sospetto: erano disperatamente alla ri¬ cerca dell’arte e del nuovo in arte. Ecco che si presentava loro una materia nuova: il popolo. Alla mentalità del loro tempo, a una certa sensibilità che a noi può parere demagogica, al co¬ raggio di guardare nel fondo della società, chiedevano una giustificazione seria e umana di quello ch’era anche un’inte¬ ressata avidità di scrittori: la scoperta di un motivo che ringio¬ vanisse una letteratura stanca, possedesse in se medesimo l’at¬ tuazione di un argomento di attualità, fornisse un largo campo al virtuosismo descrittivo in gara coi pittori, e finalmente fa¬ vorisse quello strano amalgama di linguaggio prezioso e di linguaggio corsivo, di parole sapienti e di parole pescate dal vero o addirittura coniate con un non sempre felice estro linguistico: insomma quella che essi chiamavano ì’écriture artiste. Già i Goncourt tentano la fotografia, o la registrazione

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diretta del parlare popolaresco: molto più ardito e capace di loro sarà lo Zola, soprattutto de VAssommoir: e l’assunto può sembrare uguale a quello del Verga rusticano, ma si vedrà che il Verga, anche in questo, è un’altra cosa. Non dimentichiamo, infine, che i Cioncourt andavano ansiosamente cercando il loro bene nell’esotismo: esotismo, per così dire, nel tempo coi loro studi sul secolo xviii: esotismo vero, nello spazio, col saggio Hokusai e la giapponeseria. Forse è una tarda maligni¬ tà, la nostra: ma il popolo, per loro raffinatissimi, può avere lo stesso richiamo di quelle altre avventure esotiche. A noi preme di precisare quello che ha veduto Zola nel romanzo di Germinie e nella prefazione. La recensione di Zo¬ la — a quel tempo le recensioni potevano concedersi l’agio di diventare lunghi, esaurienti saggi — è quella di un uomo calamitato da alcuni motivi; ma non ancora maturo a isolarli come spunti programmatici. Vi riscontriamo le predisposi¬ zioni psicologiche, le premesse mentali a quelle che saranrio domani affermazioni tassative. Si direbbe che Zola senta una chiamata, ma non conosca ancora la strada per seguirla. E frattanto, istintivamente, sgombra il terreno, per dove passerà la strada, della quale per il momento ignora il tracciato. Si può addirittura supporre che, più tardi, rileggendo il suo articolo su Germinie, Zola abbia avuto un movimento, come a tutti capita di avere, quando ritrova i suoi presagi giovanili, le cose dette senza capirne la portata impegnativa e addirittu¬ ra compromettente: quando insomma ravvisa i luoghi ameni tra cui si sono svolte, come baldanzose scampagnate, le sue prime partite di caccia, inconsapevoli d’essere ricognizioni in vista di future battaglie. Zola, rileggendosi, si sarà potuto di¬ re; « Ero profeta. Capivo già tutto. » Ma noialtri, senza quello che verrà dopo, non capiremmo la portata di quelle afferma¬ zioni e negazioni. Perché l’articolo comincia proprio con una negazione, con una polemica. Zola vuole spazzar via, j>er cominciare, tutti i pregiudizi — per lui divenuti convenzioni — che impedi¬ scono ai critici e ai lettori di accettare una materia inconsue¬ ta, e magari urtante, e magari ripugnante. « Nulla mi sembra più ridicolo di un ideale in materia di critica. Voler ricon¬ durre tutte le opere a un’opera-modello, domandarsi se un libro risponde a queste o quelle condizioni, è il colmo della puerilità, a mio vedere. Non posso capire questo furore di

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mettere a disciplma i temperamenti, di fare la scuoletta allo spirito creatore. »“ Queste parole potevano essère scritte 40 o 50 anni prima, al tempo delle romanticomachie. Sono tipiche delle rivoluzioni del gusto; quando si introducono nell’arte nuovi mondi e i linguaggi competenti a questi mondi: le abi¬ tudini di prima sono una remora, paiono ostacoli puerili, bi¬ sogna travolgerli nel disprezzo e nel ridicolo. La materia nuo¬ va, a cui Zola vuole così aprire un credito illuminato, è la verità, quale si può cogliere nel mondo contemporaneo. Que¬ sta verità è ingrata; non importa. Zola è d’accordo coi Goncourt: non bisogna preoccuparsi di turbare il sonno e la di¬ gestione dei benpensanti. Seguono e si intrecciano, a questa polemica, le tesi positive: quelle che riguardano, in particolare, il romanzo di Germinie: e quelle che difendono il nuovo genere letterario, a cui Ger¬ minie si può ascrivere. Quelle particolari, Zola le enuncia decisamente in prima persona. Sono i motivi che, a suo avviso, fanno di Germinie un bel libro. « Debbo dichiarare, » dice subito, « che tutto il mio essere, i miei sensi e la mia intelligenza mi portano ad ammirare l’opera eccessiva e febbrile, della quale sto per fare l’analisi. Adopera due aggettivi che potrebbero essere di biasimo, e lo sarebbero senza dubbio per un critico ligio alle belle maniere e alle concezioni letterarie. Ma Zola apprezza precisamente quello che nel romanzo dei Goncourt c’è di non conformista; anzi, squilibra il proprio giudizio verso l’accetta¬ zione di tutto ciò che è irregolare, aggressivo, malato in quel¬ l’opera. Si schiera dalla parte degli autori, fa suo il loro difet¬ to, se è difetto; soggiunge, con un tono che è insieme sarca¬ stico e giovanilmente generoso, quasi di avvocato difensore che salti nella gabbia dell’imputato, gridando: « Se quello è reato, ebbene sono anch’io colpevole, e me ne glorio! » soggiunge: « Il mio gusto, se si vuole, è depravato: mi piacciono le pie¬ tanze letterarie fortemente drogate, le opere di decadenza dove una specie di sensibilità malata sostituisce la salute rigo¬ gliosa delle età classiche. Io sono del mio tempo. »” Dove un critico dello Zola può già vedere la difesa di quello stile, di quella poetica personale che raggiungerà la propria matu¬ razione nei più riusciti romanzi dei Rougon-Macquart: cioè la pietanza letteraria fortemente drogata: l’abbondanza di co¬ lore, l’esuberanza del movimento destinato a produrre, quan-

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do va bene, la buona eloquenza; e quando va male, la conci¬ tazione enfatica. Ma chi voglia abbozzare, come noi stiamo facendo, una storia del naturalismo, noterà, per ora, in quelle righe una strana contraddizione col futuro credo del natura¬ lismo. Questa scuola certo si proporrà di denunciare, di met¬ tere in istato di accusa le malattie, le decadenze della società — le sue tare e la sua corruzione — ma si guarderà bene dal desiderare che il contagio si appiccichi anche all opera. Ro¬ manzo e romanziere avranno missione di' medici : e nessuno si è mai sognato di pretendere che il medico condivida l’infer¬ mità del paziente. Opere sane che diagnostichino la malattia, ed eventualmente ne aiutino la cura: questa sarà una delle imprese del naturalismo. Per adesso, Zola è troppo preso dal fascino della materia nuova, e cerca, per così dire, lo stesso fascino nell’artista che la tratta. Deve, in fondo, stabilire 1 equazione, inevitabile ad ogni sorgere di un nuovo linguaggio e di un nuovo gusto; l’equazione che dice il brutto e bello, o più esattamente : è divenuto bello quello che fino a ieri, e oggi ancora alle menti troppo timorate, appariva brutto. E allora afferma: anche lo stile dei Goncourt mi piace perché ha la stes¬ sa bruttezza di quel brutto che dipinge. E non si preoccupa se l’occhio che scopre la piaga sia infetto della stessa piaga; per eccesso di difesa dice che la piaga è bella in se stessa. I grandi novatori della seconda metà dell’Ottocento'; quelli che, dal¬ l’interno del mondo borghese giunto al suo massimo di po¬ tenza, mettono fuori la testa, per vedere il guasto che oramai si è formato in quel mondo trionfante, e designare i nuovi orizzonti dell’uomo, e insegnare i mezzi per raggiungerli; quei Maestri hanno — come si è detto di Marx — un pessimismo dell’intelligenza accompagnato da un ottimismo della volon¬ tà. Qui Emilio Zola, incensando il decadentismo dei Gon¬ court illustratori di un mondo di decadenza, si mostra ancora impigliato in una fase, che egli poi supererà, nella quale il pessimismo deH’intelligenza è pessimismo anche della vo¬ lontà. Vero è che tutto questo potrebbe essere ascritto a una spe¬ cie di tattica aggressiva, diretta a imporre il libro: un espe¬ diente, insomma, di recensore pugnace e favorevole. Tanto è vero che, poco dopo, lo stesso Zola incide su quanto c’è di risanatore, e proprio di antidecadente, nel fondo del libro che esamina: « Si tratta, » dice, « di un gravè dibattito, esi-

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stilo in tutti i tempi, tra le fortificanti brutalità del vero e le dolciastre banalità della menzogna. E, nello stile e nella condotta del libro, mette in luce qualità tutt’altro che decadentistiche; e parla, appunto, di « verità del racconto... per¬ fetta deduzione dei sentimenti... arte vigorosa e viva che mi renderà realisticamente uno dei casi della vita umana, la sto¬ ria di un’anima perduta tra le lotte e le disperazioni di questo mondo. Non mi credo in diritto di chiedere più che un’opera vera ed energicamente creata. Sia detto tra noi: ma Zola aveva più ragione quando parlava di decadentismo. Nel deca¬ dentismo c’è sempre anche una simpatia verso i contenuti morbosi, una complicità, una voglia di smuovere i segreti e le compiacenze egoistiche e malsane del lettore: un’arte di oc¬ chiate. « Hypocrite lecteur, — mon semblable, — mon frère! diceva Baudelaire al principio delle Fleiirs dii mal, e questo potrebbe essere il più conciso manifesto del decadenti¬ smo. I Goncourt sono irrimediabilmente falsi, malgrado la sapienza letteraria con cui truccano la loro rettorica, quando escono nelle tirate contro la società soverchiatrice del misero popolo, contro Parigi città di lusso che pompa la sua gioia e la sua brillante vita da quegli anonimi sacrifici. I Goncourt si sono aggiustati il personaggio di Germinie a propria imma¬ gine e somiglianza, per potersi poi crudelmente compiacere di atroci raffinamenti isterici, in cui si possa trovare una eco deU’autobiografia loro e di quella dei loro più sottili e ammor¬ bati lettori. Germinie diventa anche un portamantello vistoso per agganciare certe neurastenie e complicazioni del tempera¬ mento e del vizio, che forse non si oserebbe imputare ai pro¬ pri uguali. La sua condizione di popolana permette di ingran¬ dire le cose, di farle più concrete. Torna a mente la famosa, un po’ sfacciata giustificazione che Hector Berlioz adduceva dall’aver portato in Ungheria il suo Faust, quello della Danna¬ zione: « Perché l’autore, dicono, ha fatto andare il suo perso¬ naggio in Ungheria? Perché aveva voglia di far sentire un pezzo di musica strumentale di tema ungherese. » Perché i Goncourt, si potrebbe domandare analogamente, hanno fatto della loro Germinie una popolana? Per poter descrivere chiare e tonde certe aberrazioni, certi inverecondi estremi dei sensi e del cuore, che l’ipocrisia di gente più altolocata saprebbe ca¬ muffare. Zola vede benissimo il trucco, quando si lascia sfug¬ gire l’ammissione: « Germinie ha i nervi di una gran dama.

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Dunque, Emilio Zola, critico e lettore, aveva capito benissimo il decadentismo dei Goncourt. Quello che pare strano è che lui, futuro dottrinario del naturalismo, qui lo accetti. Ma poi si spiega anche questo, quando si passa dalla difesa del romanzo, alla difesa dei principi generali, che quel ro¬ manzo permette di proclamare. Bisogna ammettere la riuscita del libro, se si vogliono salvare i principi a cui esso si ispira. E allo Zola, per ora, importa soprattutto di mettere in salvo il diritto di scrutare la verità, nuovo compito del romanzo. Più tardi, quando sarà lui il romanziere della verità, e si bat¬ tezzerà romanziere naturalista, preciserà meglio in che con¬ sista quel compito di testimoniare il vero, e quale sia quel vero, e quale il metodo per farsene, con la narrativa, i bandi¬ tori socialmente utili- e artisticamente felici. Per il momento, la difesa del decadentismo dei Goncourt gli serve per asserire che la verità su cui il romanziere deve affissarsi è la verità at¬ tuale, del proprio tempo. E stabilisce, appunto, quella specie di solidarietà tra secolo ammalato e stile che, per la sua stessa capacità di aderirvi, è anch’esso malato. « C’è, senza dubbio, un’intima relazione tra l’uomo moderno, quale lo ha fatto una civiltà avanzata, e questo romanzo del rigagnolo, dalle ema¬ nazioni aspre e forti. Questa letteratura è uno dei prodotti della nostra società, in preda alle scosse incessanti di un ere¬ tismo nervoso. Siamo ammalati di progresso, di industria, di scienza: viviamo nella febbre, e abbiamo il gusto di scavare nelle piaghe, di scendere sempre più in basso, avidi di cono¬ scere il cadavere del cuore umano. Se le intenzioni dello Zola sono chiare, non altrettanto sono precise le sue idee. Più in là, si guarderà bene dal considerare il progresso e la scienza come malattie del secolo. Semmai, li venererà come strumenti per guarire il secolo dalle sue malattie. Per ora, prosegue: «Tutto soffre, tutto si lamenta nelle opere del tempo; la natura è associata ai nostri dolori, l’essere si straccia da sé le sue vesti, si mostra nella propria nudità. I signori de Gon¬ court hanno scritto per gli uomini dei giorni nostri; la loro Germinie non sarebbe potuta vivere in altra epoca che la nostra; è figlia del secolo. » Ed ecco il passaggio da materia a stile: « Lo stile stesso degli scrittori, il loro procedimento ha qualcosa di eccessivo che rivela una specie di esaltazione mo¬ rale e fisica; è tutt’insieme un amalgama di crudità e di deli¬ catezze, di leziosaggini e di brutalità, che somiglia al linguag-

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gio dolce e appassionato di un infermo. »“ Questo, se capisco bene, è uno scambiare la simpatia, la partecipazione, magari ridentificazione necessarie al buon narratore con un senso di complicità. Tutto questo, ripeto, ha in Zola una finalità più o meno consapevole, magari un po’ vaticinante : gli serve per occupare una terra, un fondo letterario, in cui forse confusamente sa di doversi mettere lui a costruire: costruire che cosa? probabil¬ mente, ancora non lo sa. Mette in salvo alcuni canoni di una futura poetica del romanzo: primo: la verità; secondo: una verità che sia contemporanea, di osservazione diretta; terzo: che quel vero investa la sintomatica della società e non solo dell’individuo; quarto: che l’osservazione di quel vero sia di tipo scientifico; quinto: che la scienza presa come esempio e come guida sia quella che ha rivolto sull’uomo il metodo di indagine oggettiva, la scienza che gode il massimo prestigio, che fa — sia detto tra parentesi — del suo adepto una specie di nuovo sacerdote tra la pena degli uomini : cioè la medicina. Il medico ha sempre ereditato, nella coscienza degli uomini, i poteri e l’ascendente dello stregone nelle tribù. Adesso — tempo di Zola — quello stregone possiede i criteri, i controlli della scienza. Per asserire e mettere al sicuro tutti quei canoni della nuova narrativa Zola fa i passaggi che abbiamo già visto. Stile malato dei Goncourt perché il loro romanzo ha il pregio di discutere una malattia. Zola mette energicamente in evidenza quello che i Goncourt sfiorano ed accennano: « Una fondata riserva, » egli dice, « che può essere mossa a Germinie Lacerteux, è quella di essere un romanzo da medici, un caso curioso di iste¬ rismo. Ma io davvero non credo che gli autori sconfessino nemmeno per un minuto la parte eminente da loro accordata all’osservazione fisiologica. La difesa che egli fa è strana: « Che c’è di male, ditemi? Un romanzo non è forse la pittura della vita, e questo povero corpo è così condannabile perché non ci si debba occupare di lui? Recita una tal parte nelle cose di questo mondo, che si può concedergli un po’ di attenzione, massime quando conduce un’anima alla sua perdita, quando è il nocciolo stesso del dramma. Come si vede la motivazione è ancora fragile; quello che conta è che sia salvo il principio. In queste prime tavole di quella che sarà domani la legge del romanzo naturalista, va ancora messo in rilievo il nettissi-

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mo rapporto stabilito tra romanzo vero, o romanzo dal vero, e romanzo delle classi diseredate, romanzo a contenuto parec¬ chio maleodorante: « A quelli che ritengono che i signori de Goncourt si sono spinti troppo oltre risponderò che non si può in linea di massima mettere un limite nello studio della ve¬ rità... Il delitto sarebbe dunque d’aver proclamato ad alta voce quello che gli altri pensano tra sé e sé. I timidi opporranno M.me Bovary a Germinie Lacerteux. Una donna sposata, la moglie di un medico, pazienza; ma una domestica, una vecchia ragazza di 40 anni, questo è intollerabile. E poi gli amori degli eroi, di Flaubert sono ancora eleganti e raffinati, mentre quelli dei personaggi dei Goncourt si trascinano nel fango. In una parola, noi siamo in presenza di due mondi diversi : un mondo borghese, che obbedisce a certe convenienze, mette una certa misura nel lasciarsi travolgere dalle proprie passioni, e un mondo operaio, meno coltivato, più cinico, nell agire e nel parlare. Secondo il nostro tempo ipocrita, si può illustrare il primo, non bisognerebbe occuparsi dell’altro. Domandate il perché, facendo notare ' che in fondo i vizi sono perfetta¬ mente gli stessi. Non si saprà che rispondere. Anche qui, l’ultima motivazione è fragile. Importante è l’affermazione della parità dei diritti, da parte dei due mondi, di fronte al¬ l’epica, Il naturalismo più maturo accorderà poi alle classi diseredate qualcosa di più che una parità di diritti: quasi un diritto privilegiato. Lasciamo stare il paragone con Flaubert; che vince per la sua superiorità di artista. Vince anche per una poetica più ricca, di un potenziale superiore: la poetica del realismo, confrontata con quella del naturalismo. Ma, per ora, non insistiamo sulla distinzione. Zola non c’è ancora arrivato. E siccome noi facciamo la storia del natura¬ lismo, quindi anche del suo nome — cioè anche della coscien¬ za che ne hanno i suoi adepti — diciamo subito che, nell’an¬ no 1865, per Zola quell’esempio dei Goncourt, tanto utile per autorizzare domani gli sviluppi del naturalismo, è ancora un esempio di realismo. Zola non distingue ancora tra reali¬ smo e naturalismo: non si è ancora accorto di una differenza specifica. E per lui saranno nemici della Germinie i detrattori del « realismo » : quanto dire, che Germinie è un romanzo realista. Mentre le ragioni per cui interessa Zola sono quelle di una derivazione dal realismo, con già quelle stigmate che costituiranno la pericolosa e precaria originalità del naturali-

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smo. Ecco quello che dice Zola : « Certuni si attaccheranno al genere in se stesso, pronunceranno con una quantità di sospi¬ ri la parola realismo e crederanno immediatamente di avere fulminato gli autori. Altri, più avanzati e più coraggiosi, la¬ menteranno soltanto l’eccesso della verità, e domanderanno perché mai si scenda così basso. Altri, infine, condanneranno il libro, accusandolo di essere stato scritto da un punto di vista unicamente medico e di ridursi al racconto di un caso di isterismo. « Non so se debbo disturbarmi a rispondere ai primi. Quello che ancora ci si compiace di chiamare realismo, lo studio pa¬ ziente della realtà, l’insieme ottenuto con l’osservazione dei particolari, ha prodotto, nei tempi recenti, opere così notevoli, che il processo oggigiorno dovrebbe essere passato in giudi¬ cato. Ma sì! brava gente, l’artista ha il diritto di scavare nella piena natura umana, di non velare nulla del cadavere umano, di interessarsi ai nostri minimi particolari, di dipingere gli orizzonti nella loro minuzia e di farli partecipare alle nostre gioie e dolori. È una autorevole definizione del realismo, formulata da uno scrittore ancora vicino al fenomeno; eppure contiene molte note che non appartengono più a una rigorosa e veramente comprensiva definizione di quel tipo di narrativa che Balzac aveva esemplificato e indicato e ch’era, in verità, molto più ampio. Vorrei aver dimostrato che, se da Germinie Lacerteux il maestro della scuola naturalista può prendere le mosse, se Ger¬ minie Lacerteux diventa per lui un esempio e un punto di ri¬ ferimento, questo avviene in grazia a una serie di equivoci. Zola capisce il libro come vuole lui, loda cose fatte per non piacergli completamente, attribuisce ai Goncourt intenzioni ch’egli spingerà all’estremo, e che i Goncourt avevano sfiorate solo con un certo dilettantismo di esteti. Nel rovescio, nella trama della storia del naturalismo corre un filo che potremmo chiamare il malinteso Zola-Goncourt, originato da quella ini¬ ziale alleanza voluta da Zola. E se Zola cercherà di rnantenersi, e si dichiarerà, fedele alle proprie dichiarazioni del ’65, c non cesserà di riconoscere il debito del naturalismo ai Gon¬ court, questi viceversa si sentiranno traditi : Edmond de Gon¬ court, sopravvissuto a Jules, lascerà capire che tra lui e quel che Zola ha dedotto da quel primo incontro non c’è quasi più nulla di comune, che lui non è un seguace della scuola, che

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in fondo Zola si è abusivamente servito di Germinie e delle opere di quel tempo a fini opportunistici, da quel gran mesta¬ tore di cose letterarie che si è poi rivelato, a detta dei suoi nemici e di chi invidiava i suoi clamorosi successi. Zola comincia a far sua la parola naturalismo, a scriverla sulla propria bandiera di romanziere nella premessa ^ alla se¬ conda edizione di Thérèse Raquin (1868). (La prima era uscita nel ’67.) Il romanzo è la descrizione di un caso di rimorso. Il « caso » non è ancora « scientifico », cioè non appartiene ancora alle scienze naturali; è puramente psicologico. Teresa, nipote di M.me Raquin, una piccola bottegaia trasferitasi dal¬ la provincia a Parigi, ne ha sposato il figlio Camillo, debole e infermo. Si innamora di un amico di lui, Lorenzo, pittore un po’ velleitario. I due impiantano e conducono la loro relazione nella casa stessa di Camillo. Poi arrivano all’idea di sbaraz¬ zarsene : cosa che avviene durante una gita in barca sul fiume. Lorenzo è assolto, perché tutte le testimonianze sono a lui favorevoli. La vecchia Raquin pensa di trovare in lui un nuo¬ vo figlio. Comincia allora nei due amanti l’odissea del rimor¬ so: Teresa pensa di liberarsene, legalizzando e ripulendo la situazione col matrimonio. Ma le angosce si fanno più oppri¬ menti nella camera matrimoniale. M.me Raquin, divenuta paralitica, appare come uno spettro, un’incarnazione del rim¬ provero. I due, a poco a poco, nel vicendevole tormento, arri¬ vano ad accusarsi l’un l’altro davanti a lei. La vecchia ha la rivelazione; ma la paralisi, che rende impotente il suo odio — la sua mano non riesce neppure a scrivere una denuncia — fa più paurosa la sua figura. Teresa, per dimenticare, si butta a una vita perduta. Va a finire che lei e Lorenzo, tentati cia¬ scuno di uccidere l’altro, si avvelenano insieme sotto gli occhi della vedova. Che Zola mettesse in pratica quel coraggio dello sgradevole, del ripugnante, predicato dai Goncourt e da lui ribadito nei propri articoli di critica, lo si vede fin dai contrassegni esterni del libro, dall’insistenza in un linguaggio sistematicamente offensivo, indelicato. I primi critici e lettori lo notarono su¬ bito. L’« Année littéràire con un articolo a firma Vapereau loda i progressi dimostrati dall’autore nell’arte del romanzo, ma ne biasima il cattivo uso e l’eccessiva insistenza sulla parola

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carne. E Sainte-Beuve scrive a Zola, dicendo che il libro può far epoca nel romanzo contemporaneo, ma l’abuso delle parole vautrer (rivóltarsi nel fango) e briital sottolinea con esagera¬ zione una nota che già predomina nel racconto. Nel ’68, lo Zola manda avanti di pari passo la propria atti¬ vità di romanziere e di critico-polemista. Romanziere, scrive Madeleine Ferat, dove già impernia il racconto su una dottri¬ na scientifica: quella della impregnazione. Come polemista, prende la controffensiva contro le resistenze psicologiche della società, impaurita di un’arte che ostentava di denudarne il fondo più limaccioso. Ma chi difende una posizione è natural¬ mente portato a irrigidirla: questo tipo di polemica favorisce, in Zola, l’enunciato più assiomatico di alcuni dei canoni natu¬ ralisti, con un’accentuazione più appassionata, ardente. La società si tutelava, incriminando e perseguendo coi tribunali le opere che le parevano minacciare il suo ordine. Nel periodo di cui stiamo parlando, si infittiscono i processi di questo tipo : celeberrimi, quelli contro \ar Bovary ^ e le Fleurs du mal. Ma una quantità di altre opere, molto meno famose, corsero la stessa sorte. Il capo di accusa era di solito : oltraggio al pudore, Certo, la « verità » che i romanzieri naturalisti si proponevano era sempre il brutto, il miserando, il morboso, il maleodo¬ rante. La società aveva buon gioco a identificare i pudori, i malesseri che ciascuno prova individualmente di fronte alle miserie morali, agli abbassamenti, agli aspetti ripugnanti del¬ l’uomo con il pudore collettivo, conformista. Questo pudore collettivo non è altro che una difesa dell’ordine costituito: come un divieto di guardare il rovescio della medaglia, di appurare ciò che costano certi privilegi, certe apparenze di benessere. Nell’intenzione dei naturalisti, quando mostravano le brutture, c’era una denuncia della corruzione sociale. La società si difendeva attaccando: denunziava i denunziatoti. Ecco le origini di tutti i processi di allora contro i romanzi e le opere d’arte (fossero o no realmente opere d’arte). Zola, nel rispondere, ha due argomenti : primo, il diritto dell arti¬ sta, di quel particolare artista che ha come mezzo e come scopo la verità, la verità « scientifica », e questo lo porta a cristalizzare sempre più programmaticamente, sempre più aggressiva¬ mente la sua poetica. Secondo argomento: dare torto alla so¬ cietà, mostrare che, con quel modo di difendersi, essa scopre sempre più le proprie magagne, la propria corruzione, e anche

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questo era un modo di rinsaldarsi nel proprio assunto di scrittoré, di credere sempre meglio alle convinzioni che gli tanno fremere la penna. Sta maturando, infatti, i Roiigon-Macquan, nella prefazione dei quali scriverà tre anni dopo (1871): « Da tre anni, raccoglievo i documenti di questa grande opera, e il presente volume (il primo: La fortune des Rougon) era già scritto allorché la caduta dei Bonaparte, della quale avevo bi¬ sogno come artista, e che sempre fatalmente trovavo alla con¬ clusione del dramma, senza tuttavia sperarla così prossima, e venuta a darmi lo scioglimento terribile e necessario della mia opera. »'" La rivolta contro i vizi di un ordine politico-sociale che,' offendendosi, cercando di punire, accusava il colpo e sco¬ priva la propria debolezza, questa rivolta faceva parte dell ispi¬ razione, chiamiamola così, dello Zola, era uno dei suoi motori. e aiutava anch’essa a sempre meglio precisare, affilare i proce¬ dimenti narrativi, capaci di mettere in opera, appunto, questa rivolta. Cioè, i principi e i metodi della narrativa naturalista. Ma noi qui non possiamo insistere sulle spinte personali che portano Zola alla promulgazione del naturalismo. Ci importa il naturalismo come scuola, per la propagazione che ebbe, e per gli effetti. Ci importano quei canoni naturalisti che ven¬ gono fuori, sempre più nettamente, da questa fase polemica dello Zola. Il quale, nel rispondere al Tribunale della Senna che lo aveva invitato a sopprimere certi passi troppo audaci di Madeleine Ferat, scriveva: « Come sarebbe a dire? Non ven¬ gono incriminati quei libri sciapi che presentano il vizio sotto un aspetto galante e poi ci si attacca all’opera in cui l’autore scopre le piaghe dell’uomo con mano severa e convinta... « L’ora è venuta di studiare tutto, di tutto dire. Quando una società è in putrefazione, quando la macchina sociale si gua¬ sta, il compito dell’osservatore e del pensatore è cjuello di notare ogni nuova piaga, ogni scossone inatteso... Viviamo sul¬ le rovine di un mondo. Abbiamo il dovere di studiare queste rovine, studiarle con franchezza, senza timore né menzogne, per trarne gli elementi del mondo a venire. La scienza ci gui¬ da; sta diventando universale, da mezzo secolo ha invaso la letteratura, rinnovando la storia, la critica, il romanzo. Perché si vorrebbe impedirci di conoscere le realtà umane? »“ Mentre il polemista lanciava queste invettive, il critico si sceglieva gli esempi concreti, per dimostrare come l’arte, e in

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particolare il romanzo, fosse di fronte al solito dilemma zo¬ llano: essere naturalista, o non essere. Si potrebbe analizzare tutta questa attività critica dello Zola, e segnatamente il suo saggio sui Romanzieri contemporanei,*^ una specie di giudizio universale dove i reprobi e gli eletti sono divisi con la spada del naturalismo. L’attività del critico si di¬ lata oltre lo stretto giro di anni, che stiamo ora tenendo sotto l’obiettivo, e che sono quelli in cui sotto la parola naturalismo si solidifica il programma. Ma, per ciò che adesso vogliamo sa¬ pere, l’esame particolareggiato dello Zola critico, anche di pit¬ tura, non ci darebbe elementi nuovi: ritroveremmo i principi, che già abbiamo enucleati. E la curiosità di come articola i suoi giudizi, di quello che lui trova nei libri, come legge e come giustifica i risultati delle sue letture, dobbiamo metterli da parte : se no studieremmo Zola, e non quel tanto del movimen¬ to naturalista, che ci interessa per capire il Verga. Tra parentesi, come aneddoto per alleggerire il discorso, ricorderemo soltanto che, quegli articoli, lo Zola li andava scrivendo e pubblicando, prima che in Francia, su una rivista russa di Pietroburgo, de Saint Pètersbourg: « Il Messaggero d’Europa ». E questa collaborazione gliel’aveva procurata, per aiutarlo economicamente, il Turghenieff, che per lo Zola aveva un debole, come racconterà molti anni dopo Edmond de Goncourt: « Nel nostro mondo, solo Flaubert e Zola gli piacevano completamente, Zola soprattutto... Cosa strana e che ho notata, quell’uomo così fine, delicato, femminile (parlo di Turghenieff) si compiaceva soprattutto della compagnia di gente grossolana... » Che paiono parole dettate, più che da un ricordo, da una voglia di ferire lo Zola, a costo di coinvolgere anche Flaubert. Gli incontri con Turghenieff avvenivano durante i cosid¬ detti « pranzi Flaubert », in cui alcuni vedono — cito Léon Deffoux — « la riunione più significativa del naturalismo ai suoi inizi, perché fa vedere come le < campagne > di Emilio Zola reclutavano arbitrariamente Flaubert, e soprattutto di E. de Goncourt, al sistema < lanciato > da Zola e come i clamo¬ rosi successi del discepolo abbiano potuto urtare — mettendocisi di mezzo il sistema — coloro ai quali, non senza ragione, egli si faceva risalire. Queste importanti riunioni — se vogliamo credere al Dia¬ rio Goncourt — ebbero inizio il 14 aprile 1874 (l’anno di

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Neddaì) in una certa trattoria Riche/^ e furono anche battezzate « i pranzi degli autori fischiati », per via dei fiaschi de Candidai di Flaubert, di Henriette Maréchal^ dei Goncourt, degli Héritiers Rabourdin di Zola e dell Arlesienne di Daudet. I convitati erano appunto Flaubert, Goncourt, Zola, Daudet e Turghenieff, ch’era stato condotto da Flaubert. E Daudet ricorda Fimbarazzo suo e di Zola, allora, per trovare i 40 franchi della cena: « Vedo ancora Zola che cercava laborio¬ samente i suoi 40 franchi nel fondo delle tasche e Turghe¬ nieff, che non trovava altro da dirgli, con la sua flemma slava e la voce nasale ; < Zola, fate male a non mettervi le bretelle, non è carino... >. », Sarà vero, o sarà un’altra malignità del Diario Goncourt: pare che, all’indomani del successo deWAssommoir (1877), avendo Flaubert attaccato prefazioni, dottrine, professioni di fede naturaliste dello Zola, « non senza grandi scappellate all’ingegno dell’autore », Zola avrebbe risposto: « Me ne rido quanto voi di questa parola naturalismo, e tuttavia la ripeterò perché occorre battezzare le cose, affinché il pubblico le creda nuove. Ma sono alzate, paradossi detti forse per compiacere Flau¬ bert. Il quale, d’altronde, malgrado le impazienze, malgrado i suoi sfoghi al discepolo Maupassant:'*'' « Non mi parlate del realismo, del naturalismo o dello sperimentale. Ne ho piene le tasche. Vuote inezie! » (lettera del 21 ottobre ’79), oppure: il naturalismo è « un’inezia dello stesso calibro che il Rea¬ lismo, o piuttosto, è la stessa inezia » (lettera 25 dicembre ’76), malgrado questi sfoghi, aveva proclamato nel ’52 : « Il tempo del < bello > è passato. Più camminerà, più l’arte sarà scientifica; così come la scienza sarà artistica: si congiungeran¬ no sulla cima, dopo di essersi separate alla base » (che è di un piglio oracolare un po’ vacuo, ma sul punto della scienza come nuovo modello dell’arte parla molto chiaro, e ancor più quan¬ do dice : « la letteratura prenderà sempre più il piglio della scienza: sarà soprattutto espositiva, il che non significa di¬ dattica ».) Certo, Zola poteva, per un riguardo all’autore della Bovary, esprimere a voce, e forse con ostentato cinismo e buf¬ foneria, quelle mezze ritrattazioni: ma al dire di certi testi¬ moni non cessava di rimpiangere quegli atteggiamenti di Flaubert contro la « scuola » : « Avrei desiderato, » diceva, « che Flaubert si rendesse conto dell’evoluzione, della quale

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era uno degli agenti più poderosi e mi faceva pena di imbatter¬ mi in un romanziere che sbraitava contro le strade ferrate, i giornali e la democrazia. Dove si vede che, a tutti gli altri connotati del naturalismo, qui si aggiunge esplicita anche l’in¬ tenzione di fiancheggiare apologeticamente i progressi tecnici e sociali dell’epoca. La « scuola » vera e propria — con Zola capo riconosciuto — si può dire che abbia una data ufficiale di inizio: il ’77, anno di uscita dell’Assommoir. Si era in un momento di rea¬ zione politica e sociale: parevano tornati i tempi del Secondo Impero, tornati i processi contro la stampa, e il giornale « La Tribune », a cui Zola collaborava, era stato citato « per oltrag¬ gio alla religione cattolica ». L’avvocato generale aveva detto della « Tribune » : « Occupa il primo posto nella stampa rivo¬ luzionaria, socialista, comunista e antireligiosa. Le due prime pagine sono dedicate ogni giorno all’esame delle questioni so¬ ciali! »^’ Non bisogna perdere di vista la connessione tra l’at¬ testarsi della scuola, come scuola (e non solo come poetica) e la volontà di denuncia e di protesta contro certi fenomeni di reazione. Un dato che manca, o è meno esplicito, nel natura¬ lismo italiano. Nell’idea della critica e di una parte del pub¬ blico, il naturalismo era quel modo di attacco brutale alla società costituita, ed era d’altra parte la « scuola del docu¬ mento umano » (cosa che offendeva Edmond de Goncourt il quale rivendicava a se stesso e al fratello — nella prefazione della Faustin^ (1882) — la frase «documento umano», e l’idea di utilizzare questi documenti nella narrativa). Era final¬ mente, secondo alcuni giudici, letteratura orientata secondo la dottrina del Taine: tale, cioè, che considerava la vita come dominata dalle fatalità fisiologiche e dalle influenze dell’am¬ biente, senza che l’autore mostrasse là resistenza umana a quella fatalità in nome di una morale perenne e comunemente ammessa. Quello che poi più tardi tutti definiranno: fare il romanzo dei temperamenti, anziché dei caratteri. Vediamola, questa scuola, giudicata da due poeti, i più opposti possibile, e proprio in base all’opera più vistosa, dove tutto il programma pareva espresso e attuato: VAssommoir. Giudizio di Victor Hugo, riportato da Alfred Barbou nel libro Victor Hugo et son siècle.^^ Il Barbou faceva osservare al poeta che, dopo tutto, VAssommoir, con quel suo « quadro

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impressionante dei pericoli dell’alcoolismo, riusciva di grande utilità sociale. » E Victor Hugo: « È vero, ma è un cattivo libro. Mostra, come se ne godesse, le piaghe schifose della miseria e dell’abiezione, a cui i poveri si riducono. Le classi nemiche del popolo si sono pasciute di quel quadro. Eccoli come sono tutti quanti, dicono, e sono loro che hanno fatto il successo del libro. » (Che lo Zola aves¬ se calunniato il popolo era un abile e diffuso argomento di stroncatura.) « E tuttavia, maestro, » risponde Alfred Barbou, « l’autore del libro ci mostra dapprima una famiglia onesta, felice nel¬ l’ordine e nel risparmio, poi, a titolo di insegnamento, de¬ scrive la miseria e l’abiezione create dall’ozio e dall’ubria¬ chezza. » « Non importa. Ci sono quadri che non bisogna fare. Non mi venga a dire che è tutto vero, che le cose vanno così. Lo so, sono disceso anch’io fra tutte quelle miserie, ma non voglio che siano date in spettacolo. Non ne avete il diritto, non avete il diritto di nudità sulla sventura. » Victor Hugo, su quest’ultima formula, si accende.^ Sa che i naturalisti qualche volta hanno invocato l’esempio dei Misérables: « Io non ho avuto paura di mostrare il dolore e la vergogna dei Miserabili. Ho preso come personaggi un forzato, una ragazza di strada, ma ho scritto il libro col pensiero continuo di sollevarli dalla loro abiezione. Non gli sono venuto meno neppure per un attimo. Sono penetrato in quelle miserie per addolcirle, per guarirle. Vi sono penetrato da moralista, da medico » (nota: ma sono proprio gli argomenti dello Zola!) « ma non voglio che ci si introduca da indifferenti o da curiosi. Nessuno ne ha il diritto. « E allo stesso modo non ho esitato a spingere lo scrupolo della verità fino a una parola che tutti sanno e nessuno scrive. L’ho fatto perché era la miserabile delle parole e ciò le dava diritto di figurare nel mio libro, consacrato a tutte le miserie; ma ho scelto il momento in cui la sua trivialità diventava su¬ blime, quando il patriottismo ne faceva la disperata protesta per la caduta della grande armata... « Ma le idee elevate non sono meno vere e, per mio conto, le preferisco. » Qui Victor Hugo metteva all’estremo cimento il naturali-

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smo che, nato con una specie di affinità elettiva coi drammi dei diseredati, doveva dar prova della sua capacità, come metodo e come poetica, di affrontare anche le vicende delle classi alto¬ locate. È un’esigenza che Goncourt crede di avere sentita, e risolta: per cui rinfaccerà al naturalismo l’incapacità di tirarsi fuori dal fango. E, nella misura — discutibilissima — in- cui Verga può essersi lasciato, esteriormente, suggestionare dalla propaganda e dalla moda naturalista, la sua adesione rimane condizionata alla capacità di risalire dai pescatori alle duchesse, agli onorevoli, agli uomini di lusso. Ma ascoltiamo ancora Victor Hugo: « Esaminate questo semplice esempio: Shakespeare, nel Mercante di Venezia, fa dire da Shylock, parlando degli ebrei e dei cristiani : < Vivono come noi e noi moriremo come loro. > Ecco la realtà nella sua più semplice espressione; ma io posso idealizzarla senza che cessi di essere reale e senza che sia meno vera. « Dirò: « sentono come noi, e noi pensiamo come loro « soffrono come noi, e noi amiamo come loro. Immaginiamo, all’opposto, la gamma discendente. Direm¬ mo allora: « dormono come noi, e noi camminiamo come loro « tossiscono come noi, e noi sputiamo come loro « mangiano come noi, e noi beviamo come loro. « Continuate per conto vostro... Ecco, che non andate fino in fondo. Non potete andare fino in fondo. Ma poi verrà un altro, che non avrà paura di farlo, e qualcuno più spavaldo andrà più lontano, forse. Ora questo non è che sporcizia; e dopo la sporcizia c’è l’oscenità, e io intravvedo un abisso del quale non posso scandagliare il fondo. « Così nella questione delle arti (figurative). Courbet, che aveva un grande ingegno e che non mancava di intelligenza (ci sono artisti dallo spirito limitato), un giorno Courbet mi diceva : < Ho fatto un muro vero, assolutamente vero; per farlo mi sono tormentato quanto ha potuto penare Omero per de¬ scrivere lo scudo di Achille e, parola d’onore, il mio muro vale il suo scudo, a cui mancano un sacco di cose. > « < Ebbene! > gli ho risposto, < io preferisco lo scudo di Achil¬ le, prima di tutto perché è più bello che il vostro muro e poi perché qualche cosa manca anche al muro. >

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« < E che cosa? > « < Quello che spesso si trova ai piedi dei muri e che qual¬ cuno, un giorno o l’altro, finirà col metterci, per essere più realista di voi. > » Victor Hugo contrapponeva dunque l’ideale, i ceselli dello scudo di Achille, sebbene non negasse l’istanza del vero e quel¬ la dello scandaglio sociale. Ma, romantico fiorito nel primo romanticismo, voleva il bello, lo « spiritualizzato ». Quel Courbet, contro cui egli polemizza, è il pittore che, nel ’52, aveva detto : « Sono un realista e contro l’ideale ho alzato la mia ba¬ lestra; fare vero non è ancor niente, quel che occorre è fare brutto. » Hugo invece vuol fare bello, anche moralmente bel¬ lo, soprattutto se il bello morale diventi bel gesto. Più tardi la polemica contro il naturalismo sarà fatta nuovamente in nome dell’ideale, ma questo ideale del poi sarà estetico. L’altro giudizio, che volevamo ricordare suir^55ommoir (e quindi, sul naturalismo), è del poeta agli antipodi di Hugo: Mallarmé.^^ In una lettera a Zola dice: « Ecco un’opera dav¬ vero grande; e degna di un’epoca in cui la verità diventa la forma popolare della bellezza. » (Strano, che Mallarmé, per dare un giudizio positivo si sia espresso a questo modo : per lui non esiste, poeticamente parlando, una forma popolare della bellezza; e ci sarebbe da dubitare che la lode sia ambigua, scritta con inchiostro simpatico, se la lettera poi non conti¬ nuasse): « Quelli che vi accusano di non avere scritto per il popolo si ingannano in una certa direzione quanto quelli che rimpiangono un vecchio ideale; ne avete trovato uno moder¬ no, ecco tutto. La fine cupa del vostro libro e il vostro ammi¬ revole tentativo di linguistica, grazie al quale tanti modi di espressione spesso impotenti, coniati da poveri diavoli, assu¬ mono il valore delle più belle formule letterarie, visto che arrivano a farci sorridere o quasi piangere, noialtri letterati, questo mi dà la massima commozione... » Pare un’involontaria risposta a Victor Hugo, dove parla di un « moderno ideale », cioè trova la giustificazione estetica dei romanzi naturalisti, quando sono belli: direi, la giustificazione che vale anche per il Verga dei capolavori; della quale però, forse, il Verga non si sarebbe contentato, perché rimaneva in lui, come ambizione, anche l’altro ideale, quello che aveva perseguito durante la giovinezza. È più impressionante ancora, per noi che studiamo il Verga, l’apologià dell’ammirevole tentativo di linguistica

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compiuto dallo Zola; tanto più che nello Zola il prestito dalla lingua del popolo rimane un fatto di imitazione e di intelli¬ genza e di volontà, un « color locale » sia pure ottenuto con registrazioni spesso giustissime e felici del vero; mentre nel Verga è autentica « ricreazione », istintiva: coincide col fondo stesso dell’ispirazione, si produce nel medesimo strato in cui prendono vita i fantasmi. Il fatto collettivo, il raggruppamento di artisti, più o meno stabilmente collegati dalla stessa poetica, per cui il naturali¬ smo prende, nel modo più vistoso ed esteriore, l’aspetto di una « scuola » letteraria si produce nello stesso anno ’77. C’è, an¬ che questa volta, una riunione intorno a un tavolo di tratto¬ ria: un pranzo « chez Trap »,^ di cui fu Maupassant a pren¬ dere l’iniziativa. Fu all’indomani dell’uscita àéìYAssommoir i giornali vollero vederci una manifestazione di solidarietà col naturalismo dello Zola. Al pranzo erano presenti Flaubert e Goncourt, Maupassant, Huysmans, Henry Céard, Leon Hénnique, Paul Alexis, oltre lo Zola, naturalmente. Tolti Flaubert e Goncourt, gli altri sei costituirono il cosiddetto « Gruppo di Médan », così chiamato perché a Médan lo Zola aveva una casa, dove si ritirava a lavorare, e lì venivano a trovarlo gli amici più fedeli. Ora Léon Hennique propose di riunire in un volume sei racconti, uno per ciascuno, tutti riguardanti la guerra del ’70. Huysmans voleva intitolarlo “ VInvasion comique.^ Prevalse invece il titolo Les soirées de Médan, pro¬ posto da Céard per rendere omaggio « alla cara casa dove M.me Zola ci trattava maternamente e si rallegrava nel tra¬ sformarci in grandi ragazzi viziati. » Si tirò a sorte l’ordine da dare alle novelle, mettendone i titoli in un cappello. La sorte fu veramente illuminata,-' perché scelse per primo il capola¬ voro della raccolta, e uno dei capolavori di tutta la narrativa dell’Ottocento: Baule de suif di Maupassant. La prefazione, brevissima, scritta da Céard “ giustifica la raccolta in nome dell’idea unica, da cui muovono le sei novelle, e noi diremmo piuttosto, comune argomento: quella guerra, quella disfatta. La giustifica in nome di una' « filosofia comune » e noi direm¬ mo « comune visione della vita », ma questa pare più proble¬ matica. Poi precisa il fronte comune contro « la malafede e l’ignoranza di cui la critica corrente ci ha già dato — dice il breve testo — tante prove. » E finalmente proclama non solo una « vera amicizia » tra gli autori, ma il desiderio di « affer-

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mare pubblicamente » le loro « tendenze letterarie ». Curio¬ so, questo plurale che vorrebbe, e dovrebbe, essere un singo¬ lare : visto che qui si voleva manifestare una sola, e concoide, « tendenza letteraria». Ma se è un lapsus, o una riserva di prudenza, è un lapsus felice, una giusta riserva; dato che i tre scrittori veramente importanti del gruppo, cioè Maupassant, Huysmans, Zola hanno tutt’altro che la stessa tendenza, o si possono avvicinare solo in base a criteri molto generali: il loro incontro nelle Soirées rimane piuttosto momentaneo. Co¬ munque, le Soirées rappresentano l’ora in cui la poetica natu¬ ralista assume l’aspetto di una « scuola ». Tutto questo appar¬ tiene alla storia esterna e aneddotica; magari va ascritto alle capacità tattiche di Zola in quegli anni fortunati della sua battaglia. E forse anche al fatto che le spinte ideologiche, le correnti di pensiero, quelli che vorrei chiamare « gli stati d’a¬ nimo della coltura » erano in quegli anni così cospiranti, così propizi ai caratteri di un’arte come quella naturalista, da pro¬ vocare il formarsi di un organismo in cui quei caratteri si riunissero, quasi una fisionomia visibile che adunasse in sé tutti quei connotati: un partito con una bandiera, una « scuo¬ la » insomma. Meno aneddotici, e più significativi per la storia delle cor¬ renti letterarie, i fatti che ci fanno assistere al disintegrarsi del naturalismo, cioè al venir meno del suo ascendente sugli scrit¬ tori, sulla coltura, sul pubblico. Lasciamo stare gli screzi, le differenze politiche (Zola era troppo più fervente repubblicano che i suoi compagni del gruppo e un tipo, per esempio, come Maupassant era abbastan¬ za indifferente su queste materie), lasciamo stare le vie tutte diverse, e per Zola preoccupanti, che andava prendendo lo Huysmans, soprattutto nel romanzo A rebours, che è del 1884. Vent’anni dopo, scrivendo una prefazione per questo romanzo, Huysmans constatava che neir84 la situazione era la seguente: « Il naturalismo si sfiatava a girare la macina sempre nello stesso cerchio. La somma di osservazioni che ciascuno aveva messo in serbo, prelevandole su se stesso o sugli altri, comin¬ ciava a esaurirsi. Zola, ch’era un bel decoratore di teatro, se la cavava spennelleggiando tele più o meno precise; sugge¬ riva benissimo l’illusione del movimento e della vita; i suoi eroi erano privi di anima, condotti alla buona da impulsi e da istinti, il che semplificava il lavoro di analisi. Si davano da

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fare, compivano alcuni atti sommari, popolavano di sagome piuttosto alla brava certi scenari che diventavano i personaggi principali dei loro drammi... Ma Zola era Zola, cioè un’arti¬ sta un po’ massiccio, ma dotato di polmoni poderosi e di grossi pugni. « Noi altri, di spalle meno larghe e preoccupati, di un’arte più sottile e più vera (nota: una nuova esigenza del vero, dunque), dovevamo domandarci se il naturalismo non finiva in un vicolo cieco e se non saremmo andati ben presto a finire contro il muro di fondo. Il primo colpo grosso, la rivolta pubblica, da parte di gente che pareva più o meno seguace della scuola, come dire l’insurrezione uscita da una congiura di palazzo, avviene nell’S?, in occasione dell’uscita di uno degli ultimi volumi dei Rougon: La Terre. È un attacco pub¬ blicato sul « Figaro », e noto col nome di « Manifesto dei Cin¬ que s,"* dal numero dei suoi firmatari. La cosa era tanto più grave perché, sebbene le loro firme non apparissero, pare oggi assodato che le eminenze grigie furono Edmond de Goncourt e Alphonse Daudet: e subito, fin da allora, si intuì da dove par¬ tiva il colpo. Il « Manifesto » è un attacco personale, ad homi¬ nem, contro Zola; ma sotto le ragioni di odio e di rivolta contro l’invadenza del maestro del naturalismo, il suo modo forse sgarbato di coltivare e sfruttare il proprio successo, c’è anche l’inquietudine, la stanchezza, la paura di non poter più cavare nulla dalla formula naturalista. Il « Manifesto » è firma¬ to da gente più giovane di Zola, in generale, che forse si preoc¬ cupavano di proseguire una carriera letteraria ancora agli esordi e ai primi sviluppi e sentivano che il gomitolo messo tra le loro mani dallo Zola, del quale erano tutti un poco se¬ guaci, non aveva più molto filo da svolgere. Tra loro c’erà anche Bonnetain, tipo scorbutico, che il suo carattere forzava alla solitudine e ad una misantropia mal tollerata, e che co¬ munque aveva imparato a proprie spese, col tristemente fa¬ moso Charlot s’amuse, dove portasse il naturalismo, a dedurne le conseguenze più impudiche, turpi e oscene: a confondere verità e scienza con una specie di compiacimento vizioso e per¬ vertito di squadernare le più fallimentari bruttezze del per¬ sonaggio. Ma, insomma, è difficile che una conventicola, anche provvisoria, di artisti si riduca a una pura e semplice associa¬ zione a delinquere, specie quando è in grado di attestarsi con un documento pubblico, come quel « Manifesto dei Cinque ».

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E lo Zola, d’altronde, non era una qualsiasi testa di turco, con¬ tro cui si potesse impunemente, senza un qualche senso di responsabilità, correre la chintana. Lo Zola, in quell’anno 1877, era un uomo in piena produttività, tutt’altro che diser¬ tato dal successo, e teneva saldamente in pugno, per qualsiasi controffensiva, la penna che sapeva le tempeste. Voglio dire insomma che, sottratto tutto il veleno personale, anche il « Ma¬ nifesto dei Cinque » è una prova di quell’esaurimento del na¬ turalismo, del quale farà fede anche lo Huysmans nella prefa¬ zione che abbiamo ricordata. Il « Manifesto » si apre con la stessa contrapposizione, su cui farà leva anche lo Huysmans, tra lo Zola del naturalismo trion¬ fante e quello che si appesantiva a tirare avanti la serie dei Rougon, destinata a proporsi come monumento esemplare di quella poetica. « Ancora di recente Emilio Zola poteva scrivere, senza su¬ scitare serie recriminazioni, di avere con sé la gioventù lette¬ raria. Troppo pochi anni erano trascorsi dall’apparizione delVAssommoir, dalle forti polemiche che avevano consolidato le basi del naturalismo, perché la generazione in ascesa potesse pensare alla rivolta. Quegli stessi che si sentivano più partico¬ larmente infastiditi dall’irritante ripetizione di quei calchi ricordavano troppo bene l’impetuoso sfondamento compiuto dal grande scrittore e la disfatta dei romantici. » Segue il paragone col lavoro successivo dello scrittore, si¬ mile a uno « di quei generali rivoluzionari, di cui il ventre ha esigenze incoraggiate dal cervello ». Insomma, tutto il rinno¬ vamento che Zola aveva promesso nel teatro e nella letteratura era rimasto lettera morta: il maestro aveva disertato, rinchiu¬ dendosi a Médan per attendere alla propria opera, anziché creare un organo di lotta e di consolidamento delle posizioni. E, pazienlza ancora questa diserzione fisica; peggio era di dover constatare « il tradimento dello scrittore di fronte alla propria opera. » « Zola... ogni giorno più era spergiuro al suo programma. Incredibilmente pigro agli esperimenti personali» (nota: prendevano o fingevano di prendere in parola la teoria del romanzo sperimentale, ch’era appunto la più impossibile delle costruzioni teoriche escogitate dallo Zola per fondare, come visione della vita e come metodo di lavoro, il romanzo natura¬ lista. Sfidavano il maestro a mantenere una promessa sbaglia-

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ta, per poterlo accusare di slealtà. O forse volevano vedere alla prova un sistema in cui avevano creduto e che non riuscivano a rendere applicabile. Comunque, seguitavano): « armato di documenti di scarto racimolati da terze persone, pieno di una ampollosità jiigolesca, tanto più irritante in quanto predicava aspramente la semplicità, con un suo continuo crollare nelle rifritture e negli stampi a ripetizione, sconcertava i suoi disce¬ poli più entusiasti. » La serie di accuse si aggrava, fino ad attribuire le oscurità che, secondo i Cinque, riempiono il romanzo La Terre a ra¬ gioni autobiografiche e patologiche — addirittura alla malat¬ tia renale! —- dello scrittore. Ma quello che interessa nel documento è la dichiarazione che il naturalismo non si salva nemmeno a staccarlo dal cattivo uso fattone dallo Zola. Abilissima, rettoricamente parlando, la rievocazione, in tono accorato, dei supremi tentativi di fedeltà alla scuola: « Era duro abbandonare la bandiera! e i più co¬ raggiosi osavano appena mormorare che, dopo tutto, Zola non era il naturalismo e che non si inventava lo studio della vita reale dopo Balzac, Stendhal, Flaubert e i Goncourt; ma nes¬ suno osava scriverla, una tale eresia. » Che equivale a insinua¬ re che Zola non ha inventato niente, che ha soltanto sfruttato, con molto vento, le invenzioni altrui. E tuttavia, sia pure con falso scopo, per battere indirettamente il bersaglio Zola, quello che si sgretola qui è il naturalismo, la possibilità di crederci, da parte di artisti più giovani. Ecco: « Ripudiamo energicamente questa impostura della lette¬ ratura veridica, questo sforzo verso la grossolanità, misto di un cervello invasato di successi. Ripudiamo quei fantocci di rettorica zoliana, quelle sagome enormi, sovrumane e bislac¬ che, prive di complicazioni, brutalmente gettate, in masse gre¬ vi, tra ambienti visti per caso dai finestrini di un direttissimo... La nostra protesta è il grido di probità, dettame di coscienza di giovani preoccupati di difendere le proprie opere — buone o cattive — contro una possibile loro assimilazione alle stor¬ ture del Maestro... « Ci sono compromessi impossibili: la qualifica di natura¬ lista, spontaneamente affibbiata a qualsiasi libro attribuito alla realtà, non può più fare per noi. Coraggiosamente, faremmo fronte a qualsiasi persecuzione per difendere una causa giusta:

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ci rifiutiamo di partecipare a un inconfessabile processo dege¬ nerativo. » Un simile ripudio non si sarebbe prodotto se la teoria e la poetica del naturalismo avessero esercitato ancora un ascenden¬ te. I giovani erediteranno qualche parte del credo naturalista — alcuni contenuti polemici: per es. l’antimilitarismo, alcuni aspetti del linguaggio — ma naturalisti lo saranno sempre me¬ no, e soprattutto cesseranno di proclamarsi tali. Noi vogliamo attenerci al naturalismo in senso stretto, al naturalismo più florido e sicuro di sé, perché questo solo — per ragioni di data e di prestigio — potè avere un’influenza, posto che l’abbia avuta, sul Verga e agire su di lui, secondo sostiene il Croce, come « spinta liberatrice ». Ma la vera, esplicita liquidazione del naturalismo avvenne nel 1891 con l’inchiesta di Jules Huret ?,u\YEvoluzione lette¬ raria. Essa comparve suir« Echo de Paris » dal marzo al luglio di quell’anno: e ha importanza non solo per la storia del gusto nella narrativa, ma anche perché rimbalzò subito in Italia, imitata da Ugo Ojetti nella serie di interviste poi raccolte sotto il titolo Alla scoperta dei letterati (dovremmo riparlarne; contiene una importante dichiarazione del Verga). Nel ’91 si assiste già allo sfruttamento dei contenuti parti¬ colari, periferici, pittoreschi, lasciati in qualche modo dispo¬ nibili dalla vendemmia naturalista, e adatti a essere osservati con piglio naturalista. Per esempio, in quell’anno, Albert Aurier pubblicava Le Vieux, dove è toccata la vita dei cahotins, dei guitti: argomento che il nostro Verga aveva già visto affacciarsi nel Gesualdo, durante tutto l’intermezzo della tresca tra il baronello Rubiera e Aglae, l’attricetta straccioncella. E che tornerà, più stanco, quando anche il mondo verghiano sta dissolvendosi, nelle novelle di Don Candeloro e C. Ma nel ’91 un nuovo gusto era ormai subentrato, e calami¬ tava la narrativa: il simbolismo, che un fedele Médonieu chiamerà la scuola degli « apostoli dell’immateriale ». Comun¬ que, Jules Huret, nel corso della sua inchiesta,*^ intervistò tut¬ ti quanti gli scrittori in vista. Ne venne fuori che il naturali¬ smo mieteva un sacco di voti sfavorevoli. Anatole Trance dice¬ va che il romanzo naturalista era morto, che ormai esso sarebbe stato sostituito dal romanzo psicologico: i naturalisti si erano allontanati il pubblico delle lettrici per la troppa compiacen¬ za alle bassezze e immondizie della vita. « Ha fatto il suo tem-

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po, » incalzava Lemaitre. « La sua ora è passata, » ripeteva Edouard Rod, « perché è stato l’espressione di un movimento letterario positivista e materialista che non risponde più ai bisogni attuali. » E Barrès gli rimproverava la volgarità. E Mallarmé, pure ammirando Zola, chiedeva una letteratura più intellettuale. Charles Murice, il teorico del simbolismo, sen¬ tenziava: « Il naturalismo non ha avuto un poeta, questa la sua condanna. » Rémy de Gourmont chiedeva un po’ di in¬ censo, un po’ di preghiera, un po’ di latino liturgico. Francois Coppée riassume e giudica soprattutto il fenomeno di tattica letteraria: « Goncourt, Zola, Daudet si sono schierati sotto la bandiera di Flaubert — e hanno fatto bene perché Flaubert è uno scrittore mirabile — ma lo scopo era unica¬ mente di far plotone. » E via discorrendo. E allora Huret si volge a quelli che dovrebbero essere i superstiti paladini del naturalismo; a questi rivolge la domanda se accettino la de¬ cadenza da tutti decretata. Goncourt aspettava una simile occasione, per ribadire il suo distacco, la sua differenza da Zola. Risponde : « Questo ci per¬ metterà di farla finita con l’etichetta di < naturalisti >, che è stata incollata sui nostri cappelli, un po’ contro il nostro vo¬ lere. » Maupassant e Hennique rifiutano di rispondere. Huysmans dice: « Certo, il naturalismo c finito... Era un vicolo cieco, un tunnel chiuso. » Più grave l’affermazione di Zola: « Ma, che cosa ci si offre per sostituirlo? Il Simbolismo? Se ne avrò il tempo, io lo farò, quel che vogliono i simbolisti. » Per finire con una battuta di spirito, c’è il telegramma del fedelissimo Paul Alexis: « Naturalismo non morto. Segue let¬ tera. » La lettera seguì; ma non aggiungeva niente al tele¬ gramma. Nello stesso anno, Pierre Loti era eletto dall’Acca¬ demia francese a occupare la poltrona di Octave Feuillet: una poltrona a cui anche Zola aveva aspirato in uno dei suoi nu¬ merosi, e vani, tentativi di scalata all’Accademia. Nel « di¬ scorso di ricevimento », Loti paragonava il naturalismo ad « un gran fuoco di paglia impura, che gettava uno spesso fumo, troppo invadente. » Nel ’93, che è l’anno della morte di Taine e quello in cui si completa, col Docteur Pascal, la serie dei Rougon-Macquart, Zola pronuncia un discorso agli studenti." « Dicono che il na¬ turalismo sia morto e sotterrato, » egli nota, parlando della 335

nuova pittura e poi ammette che lui e i suoi amici avevano chiuso troppo l’orizzonte, col volere che l’arte si attenesse alle verità dimostrate. Adesso, perché il nostro discorso abbia un senso, e ci aiuti a capire meglio il Verga nuovo e originale — da Vita dei cam¬ pi al Gesualdo — dobbiamo rispondere ad alcune domande; 1) Che senso ha, artisticamente parlando, il movimento na¬ turalista? Voglio dire, non già quali opere produsse, e di che valore; ma da quali bisogni, aspirazioni e magari ambizioni di artisti nasce la spinta a formulare la poetica del naturali¬ smo. Insomma: a che serve questa poetica come strumento? 2) Qual è il vero rapporto tra realismo e naturalismo? 3) Come fu veduto, capito, assimilato in Italia, dai teorici, dai critici e dagli artisti, il naturalismo? In altri termini : qua¬ le diritto di cittadinanza gli poteva accordare la nostra cul¬ tura? Prima risposta. Il naturalismo, nell’arte narrativa, può for¬ mularsi come metodo, in conseguenza di un certo modo, senza dubbio riduttivo, e ai nostri occhi anche sbagliato, di leggere Balzac e di far tesoro del suo esempio. Questi fraintendimenti di un artista, quéste prospettive più o meno unilaterali di fron¬ te all’opera di un caposcuola, non sono mai casuali : rispondo¬ no sempre a un bisogno. Diremo dopo quale fosse questo biso¬ gno. Vediamo ora che interpretazione si diede di Balzac. Si cercò soprattutto di prendere in parola quella specie di bi¬ glietto da visita, che egli stesso si era fabbricato, autobattezzandosi « dottore di scienze sociali ». Torniamo per un mo¬ mento a quel saggio del Taine, dal quale già ci siamo mossi per cercare gli esordi della parola « naturalismo ». È un sag¬ gio pieno di responsabilità (1858) su quello che si sarebbe svolto negli anni successivi. Il Taine non vi è ancora sistema¬ tico, come diventerà in seguito. Non si irrigidisce ancora su quello che diventerà il tipico schema dei suoi saggi di lettera¬ tura e di storia: davanti a un uomo, trovare la facullé mai¬ tresse, la facoltà dominante e a questa richiamare, da questa far dipendere tutto quello che un uomo ha detto o prodotto. (Che è poi, secondo Faguet, vedere in ogni uomo intellettual¬ mente produttivo un Ippolito Taine, che era tipicamente uo¬ mo a faculté maitresse^} In questo saggio si vede ancora 336

l’appassionata ricerca dei fatti, che vengono poi riordinati in alcuni profili emergenti dell’uomo e dello scrittore Balzaci profili, per questa volta, lasciati abbastanza liberamente con¬ vivere e respirare, senza ricondurli, con ingegnose forzature e freddi entusiasmi, a un solo denominatore. Ma c’è uno di questi profili che compromette fortemente Balzac, rispetto ai romanzieri dell’indomani. In parte l’abbiamo già visto, quan¬ do leggevamo la pagina su Balzac naturalista, e le sue immense soste e raccolte di materiale in un laboratorio del disgustoso e dell’orrendo. Questa è la raffigurazione enfatica, l’ipotiposi, di un Balzac scienziato e fanatico del documentario. Taine par¬ la, qualche volta, anche del medico: ma medico soprattutto, se intendiamo giusto, come fisiologo e patologo da laboratorio, piuttosto che come guaritore. Il medico è una delle tante figu¬ re, delle tante « specialità » che Balzac assomma in sé, per integrare la propria enorme statura di investigatore del mon¬ do moderno. « C’era in lui, » dice espressamente il Taine, stu¬ diandone lo specifico ésprit, cioè il modo caratteristico e con¬ sueto di pensare, « c’era in lui un archeologo, un architetto, un tappezziere, un sarto, un venditore d’abiti, un usciere, un fisiologo e un notaio. Questo dice Taine, e i suoi contem¬ poranei e successori, i dottrinari e i narratori del naturalismo, potranno poi, tra tante attività che costituiscono lo strumen¬ tale del grande romanziere, scegliere soprattutto quella dello scienziato: e, tra i vari rami della scienza, scegliere la medi¬ cina, iscriversi in medicina. Taine, personalmente, potrà an¬ che lui avere per la medicifia una simpatia personale: in que¬ sto momento, non si sente di tradire Balzac e di farne espres¬ samente e unicamente un medico. Però, se vogliamo fare i sottili, estorcere confessioni a Taine nei momenti in cui è trop¬ po ingegnoso per essere vero, e perciò scopre il suo debole, vedremo che anche lui volentieri strizza l’occhio al medico. E, per esempio, se vuole spiegare nella Recherche de l’Absolu il momento religioso-superstizioso del personaggio Balthasar Claès, quando ha salvato la moglie dalla esplosione del labo¬ ratorio, ecco come giustifica la frase mistica, il pensiero di gra¬ titudine ai Santi, che in quel momento esce dalle labbra del¬ l’ateo Balthasar. Nel momento di prostrazione « l’uomo adulto è scomparso, le sole superstizioni infantili sono sopravvissute... Ci sono di fatto molti esempi di commozione cerebrale che, sopprimendo la conoscenza delle lingue imparate, non lasciano 337

la memoria se non della lingua nazionale; crollano le idee so¬ vrapposte; non rimangono che i vecchi fondamenti. » Inter¬ pretazione tanto speciosa, che lo stesso Taine ne chiede scusa, soggiungendo : « Qui apparentemente Balzac non pensava af¬ fatto a quel particolare di patologia; ma l’ispirazione è divina¬ zione. Insomma, in questo momento, nelle mani di Taine, Balzac è divenuto, come lo Sganarello di Molière, médicin malgré lui. Ma, salvo questo spiraglio momentaneo, la premessa stabi¬ lita dal Taine rimane molto più generale. Il grande roman¬ ziere Balzac è specialista di tutte le specialità in cui si è sud¬ diviso il fare e il pensare dell’uomo moderno. Traduciamo in altri termini : Balzac è un enciclopedico, è una somma di tut¬ te le varietà dell’uomo moderno. Ciascuna di queste varietà è impersonata, ripeto, da uno specialista. E ciascuno di questi specialisti che Balzac aduna in sé gli serve per raccogliere, vagliare, capire con competenza i documenti, i fatti, le sco¬ perte, le deduzioni attinenti a ciascuna branca dell’attività pratica o scientifica. Ecco intanto stabiliti due elementi, di cui i naturalisti potranno fare tesoro, restringendoli magari a propria immagine e somiglianza : primo, la competenza dello specialista; secondo, la religione del documento, coltivata con tenacia e fedeltà di storici, per quella particolare storia con¬ temporanea, che è il romanzo. Questa nuova incarnazione del romanziere non sarà soltan¬ to funzione del genio di Balzac. A questo genio, il Taine dà tutti i meriti e le responsabilità che gli competono. Egli, il Taine, non è ancora arrivato, nemmeno in quest’ordine di co¬ se, alla rigida teoria dell’ambiente, del milieu (del « miluo¬ go », come traduceva spassosamente il Carducci). Non ha an¬ cora scritto la formula : « 11 vizio e la virtù sono due prodotti come il vetriolo e lo zucchero. »“ Però l’abbozzo di una cau¬ salità, di una determinazione dovuta all’ambiente c’è già, fin da ora. Il romanziere risponde alla società, e se impone ai let¬ tori il proprio stile, produce anche uno stile condizionato dal gusto, dalla capacità di lettura — e di sopportazione — dei let¬ tori a cui si rivolge. Queste considerazioni sono svolte dal Tai¬ ne nei paragrafi dedicati, appunto, allo stile del Balzac. Pro¬ pone di sperimentare alcune frasi di Balzac su un ipotetico lettore educato sui classici. Costui getterebbe orripilato i vo¬ lumi della Comédie humaine. Giusto, risponde il Taine, ma 338

questo sdegno rivelerebbe una coltura di tipo settecentesco, quella che trovava il suo ideale nelle eleganze delle conversa¬ zioni da salotto. Una coltura e un modo di esprimersi fondati su questi elementi : il bon ton, cioè le grazie di una comuni¬ cativa lucida, garbata, spiritosa; lo spirito analitico, cioè l’abi¬ tudine mentale di osservare ed esporre fatti e idee per gradi — passo dopo passo — senza saltare nessun anello intermedio. E poi ancora la convenienza del linguaggio, la sua forbitezza ri¬ guardosa verso chi ascolta. E le belle maniere. Ma al tempo di Balzac, le cose sono cambiate. « Mettete al posto di un salotto, un circolo (un club) di affari politici, » dice Taine, per farci capire con un solo esempio la trasfor¬ mazione della società e del gusto dei lettori. Anche qui abbia¬ mo un amalgama, un incontrarsi e scontrarsi di specialisti; ma ciascuno porta e mette a contributo la propria competenza, le notizie o le idee o le scoperte di cui dispone: e tutti gli altri le assimilano rapidissimamente, con una lucidità, una tensione, una prontezza febbrile. Il Taine crea questa immagine della società sull’esempio di quel vulcanico crocicchio di coltura ch’era Parigi, dove la circolazione e lo scambio delle idee av¬ venivano con velocità persino patologica. L’esame è anche sta¬ volta incompleto: si dovrebbe andare alle radici, alle ragioni intime di questa società, della sua febbre e avidità e intelli¬ genza. A noi basta isolare il fatto che, per difendere lo stile di Balzac, il Taine [debba] riconoscere che Balzac postula e insieme presuppone un nuovo tipo di lettore, pronto ad assi¬ milare i linguaggi specializzati, desideroso di sentirsi parlare questi linguaggi, rapido nell’afferrare le nuove combinazioni, quasi i nuovi gerghi che risultano dal fondersi di quei linguag¬ gi nell’opera d’arte, sensibile a tutte le allusioni, echi e riso¬ nanze che possono risultare dall’associarsi di quei linguaggi, dall’estensione della gamma. La cosa curiosa è che, dovendo portare un esempio della nuova capacità di attenzione di cui è fornito questo nuovo pubblico, il Taine si sarebbe potuto rivolgere a qualsiasi ramo dello scibile: dall’archeologia, alla chimica, alla finanza, alla tecnica bancaria. E invece l’esempio più illuminante ed esplicito lo va a prendere, anche stavolta, dalle scienze mediche: « Se non fossimo, » dice, « tutti plebei dilettanti di scienza avremmo piantato subito Goriot agli inizi della sua apoplessia sierosa. »*’ Notate i « plebei », cioè la clas¬ se nuova — non più aristocratica, diciamo: borghese — ac339

canto a quei « dilettanti di scienza ». Così, in uno dei profili di questo Balzac del Taine, i naturalisti potevano trovare l’indi¬ cazione anche del loro pubblico, eh era poi anche la società donde prelevare i loro personaggi; e il coraggio di parlare di fatti specifici, di osservazione, col linguaggio competente.^ Anche qui i naturalisti sfronderanno, limiteranno : e da quella presenza e partecipazione della società si autorizzeranno alle loro predilezioni sociologiche; da quella possibilità di parlare per scienza si autorizzeranno a imitare la scienza prediletta non da Balzac, ma dal suo esegeta Taine e da loro stessi; cioè, la medicina. Il passo decisivo verso un impianto scientifico del romanzo, Taine lo accenna parecchie volte nel corso del suo saggio, ma specialmente dove insiste sui modelli che Balzac si proponeva nel tracciare schemi e metodi della sua opera. È lo stesso Bal¬ zac a dargliene l’idea, con la prefazione alla Comédie. E Taine spiega : « Cominciava al modo non degli artisti, ma degli scienziati... Allievo di Geoffroy Saint-Hilaire (è Balzac in per¬ sona a citare, in questo studioso di scienze naturali, uno dei suoi maestri) annunziava il progetto di scrivere una storia na¬ turale dell’uomo; è stato composto il catalogo degli animali: lui voleva fare l’inventario dei costumi. E l’ha fatto; la storia dell’arte non ha mai offerto, a tutt’oggi, un’idea così estranea all’arte. Eermiamoci qui. Una scuola artistica non si fonda sul postulato del genio diffuso in tutti i suoi adepti. Molto più facile fondarla su qualche cosa che risponda alle aspirazioni dell’epoca, ma che sia raggiungibile coll’intelligenza, con la volontà, con lo studio. Era come dare un formidabile « via » alla scuola, spiegare che l’arte capostipite, quella di Balzac, era nata da un’idea estranea all’arte. Non occorreva, in par¬ tenza, la scintilla dell’ispirazione. Bastava l’argomento e il me¬ todo: e questi la scuola poteva darli. Tra le note intime dello Zola ce n’è una rivelatrice. Porta la data del 1868, anno della Fortune des Rougon e mostra co¬ me il punto di partenza scientifico — e per Zola, in particolare, medico — l’idea, insomma, estranea all’arte, sia indispensa¬ bile, al punto che non occorre nemmeno che sia vera: basta che ne esista un enunciato e che questo si possa assumere come fondamento dell’opera narrativa. Dice quella nota: « È in¬ differente che il fatto generatore sia riconosciuto come assolu¬ tamente vero; sarà (deve; dev’essere) soprattutto un’ipotesi 340

scientifica tolta in prestito ai trattati di medicina. »™ Ed è inte¬ ressante, nell’aneddotica del naturalismo, la risposta ricevuta da Zola allorché andò a consultare uno scienziato, il profes¬ sore Gustave Pouchet, sulla teoria dell’eredità: «C’è, vedete, nella scienza, tra il noto e l’ignoto, una larga striscia di ter¬ reno, lasciata libera dall’arte. Circa l’eredità non si sa niente di più che 25 anni fa. Una cosa è certa: che non vi potrà mai capitare di sbagliarvi più di quanto ci sbagliamo noi. »’’ Il maestro del naturalismo era, in fatto di scienza, più realista del re. Voleva possedere una fiducia, lui artista, che nemmeno gli scienziati possedevano. E gli scienziati spiritosamente gli ribat¬ tevano: « Ma noi, in fondo, siamo artisti. » L’altro elemento che il Taine porge, già abbastanza for¬ mato, alla futura scuola, è la visione deterministica del mon¬ do. Voglio dire che il Taine trasporta il rigido schema della causalità tutta conoscibile, tutta spiegata dall’uomo della vita al personaggio della finzione. Per un determinista implacabile, come sarà il Taine all’apogeo della sua elaborazione dottrina¬ ria e della sua influenza letteraria, l’uomo è tutto spiegabile: si tratta di andare a ritrovare la causa dei suoi modi di essere e di comportarsi. Queste cause sono tutte conoscibili. Teori¬ camente, non c’è margine di mistero. (Strano pensarlo di fron¬ te a Balzac.) Quando Balzac è riuscito a raccogliere, a schie¬ rare — magari con pedanteria, magari sopraffacendo il letto¬ re — la sua enorme, implacabile congerie di documenti, que¬ sta congerie gli dà — e dà a noi lettori — la realtà irrefuta¬ bile del personaggio. « Come lo si conosce, » esclama il Taine con slancio ditirambico, « in tutte le sue azioni e in tutte le sue parti! come diventa realeì con quale precisione ed ener¬ gia si impianta nel ricordo e nella credibilità! come somiglia alla natura e come crea l’illusione. È chiaro che un simile fervore di ammirazione, e i motivi su cui esso si sostenta dipen¬ dono dalla sicurezza teorica che, quando si possiede tutto l’insieme delle condizioni, ambientali, fisiologiche o altre che siano, e dei precedenti e delle cause, la visione e la conoscenza degli effetti diventano categoriche, inoppugnabili, Post hoc, ergo propter hoc-, il Taine è troppo intelligente, e anche trop¬ po fine (checché ne dicano, oggi, i suoi detrattori) per cascare nella scoperta accettazione di collegamenti, dipendenze così semplicistiche, per far coincidere la causalità con la successione nel tempo; è lettore troppo attento e devoto, per escludere 341

rimprevisto del genio di Balzac; pero afferma, già abbastanza nettamente, il gioco serrato e reciproco, vicendevole e sensi¬ bile, delle cause e degli effetti : « L’uomo interno lascia la propria impronta sulla vita esterna, sulla sua casa, sui suoi mobili, sui suoi affari e gesti e linguaggio; bisogna spiegare questa molteplicità di effetti per esprimerlo intero. » Attenti a quel verbo: spiegare', un critico meno infatuato dell onni¬ potenza della legge di causalità si sarebbe contentato di dire che bisogna rappresentare, che bisogna prendere atto. Poi vie¬ ne subito la reciproca: « E, viceversa, bisogna raccogliere quel¬ la molteplicità di cause per comporlo (l’uomo) tutto inte¬ ro. Già comincia ad abbozzarsi, a trapelare il famoso, e or¬ mai inevitabile, slogan tainiano sul vizio e la virtù che sono prodotti come il vetriolo e lo zucchero. Quello che i positivi¬ sti più grossolani esaspereranno fino a proclamarsi padroni della formula, della causalità dell’opera di genio: «Ditemi che cosa mangiava Beethoven, e vi spiegherò il perché della sinfonia eroica. » Xaine si limita a dire, per il momento: « I cibi che vi nutrono, l’aria che respirate, le cose che vi circon¬ dano, i libri che leggete, le più lievi abitudini a cui vi la¬ sciate andare, le più insensibili circostanze da cui vi lasciate premere, tutto contribuisce a fare di voi l’uomo che siete;’'* una infinità di sforzi si sono concentrati per formare il vostro carattere... la vostra anima è una lente che concentra nel suo foco tutti i raggi luminosi slanciati dall’universo senza limi¬ ti... Come si vede, il Taine ha ancora una riserva di pru¬ denza: parla di raggi provenienti dall’universo senza limiti; e come si farà a raccoglierli tutti? Dunque, il quadro delle cau¬ se è impossibile a ricostruirsi nella sua interezza. Parla anche di carattere; cioè di quello che si sviluppa nella storia perso¬ nale di ciascun uomo, dal momento della sua nascita, con un preciso punto di partenza nello spazio e nel tempo, un terminus a quo, dal quale è teoricamente possibile tener conto di tutto quello che è avvenuto per plasmare quell’uomo. Non parla del temperamento, cioè della parte innata, nuova che sia o ancestrale o soggetta a oscure leggi di genetica: tempera¬ mento, a conoscere il quale in modo deterministico, nel totale gioco delle cause, bisognerebbe risalire un’impossibile storia senza fine di generazioni perdute veramente nell’abisso del tempo. Ma, comunque, Taine ha posto il principio: il personaggio 342

si può costruire, conoscere, rappresentare deterministicamente. Di qui, partiranno i naturalisti, con una specie di implaca¬ bile entusiasmo consequenziario e diranno: il personaggio, tutto il personaggio, si può costruire come effetto delle cause e delle condizioni in cui è nato e si è svolto: carattere e tem¬ peramento. Anzi, proprio il temperamento li interesserà di più, come effetto, per così dire più puro, nel quale si può stare tranquilli che non interviene l’imponderabile della volontà e dell’iniziativa personale. E faranno, o cercheranno di fare, co¬ me riconoscono tutti gli storici del movimento naturalista, i romanzi del temperamento, più che del carattere. Ma le cause del temperamento non si possono afferrare, ammesso che sia possibile, se non risalendo l’eredità del soggetto. Ed ecco Zola, in una specie di fanatismo logico, o forse preso in trappola dalla sua fedeltà di primo e più solerte discepolo di se stesso, impiantare il suo ciclo proprio sulla teoria dell’eredità. Ma la rigidità zoliana era fatta proprio per forzare le auto¬ rizzazioni concesse da Taine, da costringere perfino Taine a spiegarsi meglio, a dire che non era stato così assoluto. Si sa che, dopo di aver visto Zola usare come epigrafe per la Thérèse Raquin la famosa frase sul vizio e la virtù, dopo di aver sentito che all’Assemblea nazionale il deputato Naquet si ser¬ viva della stessa frase per spiegare il proprio materialismo, si sa che Taine cercò di chiarire: « Dire che il vizio e la virtù sono prodotti come il vetriolo e lo zucchero, non è già dire che siano prodotti chimici come il vetriolo e lo zucchero; sono prodotti morali, che certi elementi morali creano col loro com¬ binarsi, e così, come occorre, per fare o disfare il vetriolo, cono¬ scere le materie chimiche di cui esso si compone, altrettanto, per creare, nell’uomo, l’odio della menzogna, è utile cercare gli elementi psicologici che, con la loro unione, producono la veridicità. Ma è un chiarimento un po’ sottile, e infirmato da una punta di malignità. Lo slancio era dato. Ed era riba¬ dito da una affermazione ancora più incoraggiante del saggio su Balzac : « Se è così forte (Balzac), lo deve all’essere sistema¬ tico; ecco un secondo tratto che completa lo scienziato; in lui / il filosofo si aggiunge all’osservatore. Vede, coi particolari, le leggi che li incatenano. » Le parole suggestive, per i naturali¬ sti, ci sono già tutte: l’osservazione, la scoperta o la verifica di una legge che colleghi i fatti (dunque, l’esclusione di rap¬ porti suscitati dalla immaginazione e dalla fantasia). E final343

mente l’elogio della sistematicità, come strumento di riuscita, ricetta di grandezza. Ma una scuola non domanda che di essere sistematica: ha successo quando può proporre, ai suoi accoliti, qualche cosa che somigli a un sistema. E, con quelle premesse, il sistema poteva addirittura essere raccomandato come garante di buoni, di « forti » risultati artistici. Per tenerci ai fatti più ricchi di conseguenze, l’ultimo inco¬ raggiamento che questo Balzac tainiano ^ dà alla pratica, alle impostazioni dei naturalisti è l’esempio, la validità della gran¬ de costruzione ciclica. Direi in primo luogo che questa ammi¬ razione del Taine per il Balzac ciclico, che riesce a fare (noi oggi diremmo: a credere di fare, o a farlo credere) un unico romanzo, è legata all’ammirazione per una coerenza di tipo scientifico. Il Taine comincia a lodare questa coerenza nella struttura dei personaggi: « Tutto si incatena in essi: c è sem¬ pre qualche passione o situazione che li fonda e ordina tutto il resto. » Cioè, se leggiamo giusto, ogni loro momento si può dedurre, come in una costruzione scientifica, more geometrico da quella legge che li governa, sia essa una passione o una situazione. Ogni loro momento entra, per così dire, in un nes¬ so causale, alle cui origini è quella passione o situazione. Poi dai personaggi si passa ai loro rapporti, cioè ai fatti con cui vengono in contatto, si incontrano, agiscono e reagiscono gli uni sugli altri : « È occorso un potere straordinario di com¬ prensione per legare tutti quegli avvenimenti. In altre epoche storiche e orizzonti culturali, si sarebbe parlato di un potere della fantasia, che crea i fatti a somiglianza dei perso¬ naggi, pertinenti ai personaggi, e articola questi fatti e li ren¬ de credibili. Il Taine parla invece di « potere di comprensio¬ ne ». Non è uno che adoperi le parole a casaccio: compren¬ sione, per i logici, è l’ambito di un concetto, l’insieme delle implicazioni contenute in un concetto, ciò che vi si può sceve¬ rare mediante l’analisi. È ancora il concetto, dunque, dei per¬ sonaggi e delle situazioni a permettere a Balzac le sue costru¬ zioni : ancora una genialità da scienziato il quale capisce pro¬ fondamente, con sorprendente lucidità, i concetti di cui si vale, e può quindi collegarli tra loro, far rientrare in essi le nuove associazioni, ingranare tutti i fenomeni nella trama di quel tessuto logico che è la sua scienza. Finalmente si arriva alla grande impresa, al collegamento (tei singoli romanzi nella Comédie humaine. E qui il Taine finge di ignorare tutto quel344

lo che c’è di voluto, di artificioso, di sovrapposto, di appa¬ rente nell’unità, o unificazione, della Comédie. Non sono solo aneddoti biografici quelli che si raccontano sul Balzac che, finalmente, scopre di poter fare l’edificio, e per esempio un giorno, allorché ha inventato di legare tutti i suoi romanzi, irrompe sfolgorante di chiassoso entusiasmo a rue Poissonnière in casa di M.me Surville, sua sorella, la quale racconta: « Entra, facendo gesti da tamburo maggiore col suo grosso ba¬ stone di canna dal pomo di corniola, su cui aveva fatto inci¬ dere in turco il motto di un sultano: Je suis briseur d’obstacles, e, dopo di avere imitato il boum-boum della musica mi¬ litare e i rulli del tamburo, esclama gioioso: < Salutatemi, per¬ ché sono semplicemente sulla strada di diventare un ge¬ nio >. Direi che in questa storia si vede piuttosto l’entusia¬ smo dell’organizzatore che l’intima felicità dell’artista. Ma il Taine non tien conto del posticcio ch’era nello schema unita¬ rio, e rimasto in gran parte ineseguito, della Comédie, per no¬ tare l’eccellenza delle opere cicliche: « Ciò che veramente in lui (Balzac) completa il filosofo e lo mette all’altezza degli ar¬ tisti più grandi, è la riunione di tutte le opere in un’opera unica... A ogni pagina, voi abbracciate tutta la commedia umana. È un paesaggio disposto in modo da essere veduto tut¬ to intero a ogni svolta. Dove potremmo discutere la confu¬ sione e imprecisione degli argomenti elogiativi; ma soprattutto ci importa di rilevare che la grandezza dell’artista, ancora una volta, è fatta coincidere con una capacità di organizzare il pen¬ sato secondo i paradigmi della logica scientifica e deduttiva. È il privilegio, l’eleganza di una scienza ben costruita, senza lacune, quella di permetterci da ogni suo punto — teorema, o lemma, o corollario — di abbracciare tutto il resto, nel senso che tutto lì si incatena, e ogni passo, « ogni svolta » — per dirla con Taine — presume tutto ciò che viene prima, impli¬ ca tutto ciò che vien dopo: impone la presenza dell’intero pa¬ norama. Ma, oltre questo presupposto dottrinario, che suonerà così propizio all’orecchio dei naturalisti, c’è nell’ammirazione del Taine anche un presupposto sentimentale, uno stato d’a¬ nimo, che riempie di persuasione il suo elogio tanto da farlo tirar via sulla fragilità degli argomenti. Quel presupposto è l’ambizione, tipica del secondo romanticismo e dell’apogeo borghese, di dar fondo, con l’opera d’arte, a tutto lo scibile, 345

a tutto l’universo nella figura ch’esso aveva allora assunta. Ma di questo dobbiamo riparlare. Prendiamo, adesso, l’altro estremo dell’arco, quando la fase del romanzo naturalista è già superata. Ritroveremo, e proprio in un critico che vuol essere lo storico e un po’ il dottrinario a posteriori dei generi letterari, un ritratto di Balzac, ancora deformato e come rasciugato in quel più arido e sistematico profilo, che i naturalisti se ne erano foggiato, per farsene l’e¬ sempio e il maestro. Un Balzac, per così dire, dopo l’uso: e consumato da quell’uso, irrigidito nel gesto delle sue presta¬ zioni utilitarie. Questa immagine la troviamo nel libro, ap¬ punto, sul Balzac, scritto al principio del nostro secolo (pub¬ blicato nel 1905) da Ferdinand Brunetière. Ha bene un senso che questo si trovi in un libro del Brunetière. Questo grande cattedratico ed altissimo funzionario della letteratura francese è uno di quegli storici, che non si contentano di rappresen¬ tare, narrare, capire i fenomeni letterari: vogliono accompa¬ gnarli anche con una certa « dottrina » della letteratura, che sarebbe insieme la causa del loro sorgere e della quale essi sarebbero la manifestazione e la controprova. Gli scritti del Brunetière sono sempre « teoria e storia della letteratura », per usare una frase che è stata adoperata anche da chi ha rac¬ colto le lezioni giovanili del nostro De Sanctis, quando era più hegèliano e « begriffo ». È un po’ .magister Gradus ad Parnassum, quel Brunetière. Ma una dottrina, una teoria della lette¬ ratura vale quanto dire un manifesto a posteriori, che invece di precedere o accompagnare le opere, le segue, a cose fatte. Che il libro del Brunetière ci restituisca Balzac, con i conno¬ tati di cui si avvalsero i naturalisti, significa che la dorsale eminente del romanzo francese nell’SOO, quella su cui meglio si potrà assidere una teoria e storia del romanzo, corre proprio sulla direttrice che dal realismo scende verso il naturalismo. Che l’immagine del Balzac più operosa, quella che si impone al critico che vuol capire il seguito e stabilire i rapporti di causa e d’effetto, è ancora l’immagine derivata dal ritratto del Taine. Il libro del Brunetière giustifica a posteriori la nostra tesi : che il romanzo naturalista si rifaccia a una certa deforma¬ zione di Balzac, punto di vista o prospettiva parziale su di lui.®* Ma l’impianto del Brunetière, per noi così utile, pro¬ prio perché risponde all’esigenza dottrinaria e viziosa di darci un « Balzac e il romanzo » anzi che un semplice « Balzac », 346

come deve vederlo un critico, quell’impianto era fatto appo¬ sta per irritare, per esempio, un Croce, cioè un partigiano della storia letteraria fatta per monografie, nelle quali ogni artista sia guardato, storicamente, sì, ma in se stesso. Se tro¬ veremo Croce irritato, vuol dire che il Balzac di Brunetière fa proprio il servizio che noi crediamo di scorgere, una matassa da cui si dipana il filo della « storia letteraria » continua. Il dissenso, quanto più acerbo, di Croce costituirà per noi una conferma. E noi questa conferma, la possediamo. Il libro manda in furore il Croce e gli irrita la penna, quan¬ do nella serie di note sulla letteratura europea del sec. xix — quelle raccolte sotto il titolo Poesia e non poesia — arriva il turno del Balzac. E il Croce se la cava in poche pagine piut¬ tosto infastidite, donde l’artista Balzac esce alquanto malme¬ nato, e forse proprio per l’involontaria colpa di avere ispirato il libro del Brunetière. È noto, ed è anche logico, il sospetto del Croce contro la critica francese, priva a suo giudizio di salde basi estetiche o dominata, dove ne abbia, « da quello spirito intellettualistico e dommatico che forma ostacolo alla comprensione dell’arte. Ma noi invece abbiamo l’impres¬ sione che il libro del Brunetière, ove sia preso per il suo giu¬ sto verso, possa leggersi con curiosità, non solo, ma con estre¬ mo profitto. Perché il Brunetière, che non era tenero per il romanzo naturalista e odiava lo Zola, qui eredita proprio il Balzac dei naturalisti e di Zola, cioè quella metà del ritratto dipinto dal Taine, che noi abbiamo testé isolato dal saggio del Taine. Perché nel saggio del Taine esiste l’altra metà del ritratto, la quale dal punto di vista di una spregiudicata e più intera critica del Balzac è di estremo interesse, quantunque non si saldi chiaramente, non se ne veda bene la dialettica o il giun¬ to, col profilo del Balzac scienziato e dottore di scienze sociali. Il Taine vede benissimo che, per spiegare l’artista Balzac, non basta l’enorme capacità di documentazione, e l’interesse ar¬ dente e meticoloso, e la curiosità dell’analista e notomista e la perizia in ogni ramo dello scibile. E allora cerca di creare il passaggio ad un Balzac che sulla congerie dei documenti accende il fuoco, lo fa avvampare sotto il crogiolo; fa, direm¬ mo noi italiani e lettori del Cellini, la sua fusione del Perseo. Quello che non si vede bene, nel Taine, è se la grandezza di Balzac sia nel liberarsi delle fantasie da tutta quella ricchezza 347

di materiale che le ha attizzate e nutrite, o sia nella diligenza. Se l’accento vada messo sul visionario, o sullo scienziato ed erudito e filosofo. Certo è che il Croce, quando vuole cogliere il vero Balzac, il Balzac artista non è poi lontano come crede da quel Taine, che volentieri egli mette in fascio col Brunetière tra i critici che non gli piacciono., E adotta anche lui l’immagine di un Balzac che fanaticamente si accende — una immagine molto simile a quella metà del ritratto tainiano la¬ sciata inoperosa dai naturalisti — e forse arriverebbe, per que¬ sta strada, a un giudizio molto più positivo, se la presenza del Brunetière non l’avesse messo di malumore. E se Croce non fosse Croce, cioè non fosse portato dalla sua filosofia dell’arte a cercare i risultati estetici fuori e prima di qualsiasi elabora¬ zione di pensieri e di dottrine e di ideologie, si direbbe che stavolta è proprio il suo furore contro Brunetière a fargli sco¬ vare la luminosa pagina del Baudelaire, dove è vivacemente raffigurato, in una specie di ritratto poetico ed eroico, l’altro Balzac: « Molte volte mi sono stupito che la gloria di Balzac sia stata di passare per un osservatore: mi era sempre parso che il suo merito principale fosse di essere visionario e visio¬ nario appassionato. Tutti i suoi personaggi sono dotati del¬ l’ardore vitale di cui era animato egli stesso. Tutte le sue invenzioni sono profondamente colorate quanto i sogni. » E la pagina continua negando l’osservazione, l’imitazione scru¬ polosa dal vero, perché tutto in Balzac è più eccessivo di « quanto ci mostri la commedia del mondo vero. Tutto e tutti sono Balzac in persona. Cioè, secondo Baudelaire, che an¬ che lui ha perfettamente ragione, siamo agli antipodi di un romanziere naturalista. Questa è l’altra, l’opposta, immagine di Balzac, fatta per autorizzare tutte le ribellioni, tutte le ri¬ scosse contro la poetica naturalista, tutte le stanchezze che già abbiamo visto provocate dal metodo, dal sistema, dalla scien¬ za applicata alla narrativa. Ma su questa immagine si può fon¬ dare una controscuola, una critica alla scuola, perché in essa c’è la postulazione del genio: qualche cosa che nessuna scuola potrà mai dare. È un’immagine, principalmente contenuta anche nel saggio del Taine; ma molto meno servizievole, di quella che i naturalisti terranno nei loro cenacoli o sulle loro scrivanie. Albert Thibaudet nella Storia della letteratura francese nel sec. XIX quando arriva a Balzac ha una delle sue trovate .^48

scintillanti. Vede alle radici del genio balzacchiano una mi¬ stica della paternità. Scopre nel Pére Goriot, già contenuti in questo personaggio, quasi tutti i personaggi-chiave di Balzac, e poi procede con quel suo stile inventivo che è come un « fugato » di idee, osservando che il Pére Goriot non poteva essere creato « che dal padre del Pére Goriot, che questo < Cristo della paternità > non poteva nascere che dalla pater¬ nità del genio e dal genio della paternità. Non lasciamoci tentare a inseguire Thihaudet. Contentiamoci di avergli pre¬ sa quest’idea. La vocazione di Balzac alla paternità si mani¬ festa non solo in quella figliolanza che sono i suoi personaggi e in quell’altra figliolanza che sono i suoi romanzi e tutta la sua opera, ma in quella discendenza che è la storia del ro¬ manzo borghese. Tanto è vero che realismo e poi naturalismo e poi anti-naturalismo sono in diritto di appellarsi a lui come ad un padre, di rintracciare nei suoi tratti i loro connotati. Noi intanto dobbiamo finir di vedere come il ritratto dipinto dal Taine serve ai naturalisti da ritratto del capostipite. E Brunetière, quando tutto è stato consumato, volendo fare di Balzac il padre di tutti i romanzieri, per una strana ottica influenzata ancora dal Taine — sebbene egli affetti verso il saggio del Taine una superiorità disinvolta — ne fa il padre di un tipo di romanzo, molto simile a quello attuato dai natu¬ ralisti. Del resto, uno degli séopi dichiarati del libro è pro¬ prio di mostrare « per che qualità o, se si vuole, per che difetti, l’imitazione di Balzac si fosse imposta da 50 anni a tutti i ro¬ manzieri venuti dopo di lui. Ha detto anche: difetti. Sente che forse il suo Balzac darà ragione a una scuola, il naturali¬ smo, pochissimo fatta per piacere a lui, Brunetière. Ma certe comunanze di origini e di intenti finiscono sempre col costrin¬ gere a strade analoghe, col far nascere parentele, anche se inconfessate e ostili. Brunetière, che inventa la teoria della evoluzione dei generi letterari, fa anche lui un prestito dalla storia naturale, dell’evoluzionismo darwiniano. C’è in lui un fondo di mentalità naturale, che si rifletterà nel suo modo di vedere Balzac, e che finirà col somigliare al modo come l’ave¬ vano veduto i naturalisti. D’altronde nella parte centrale del saggio, per costruire positivamente il suo autore e contrap¬ porlo, vero controaltare, ai romantici (contro cui egli è in polemica) il Brunetière lo proclama esplicitamente un « natu¬ ralista ». Ma parte da una definizione del « naturalismo » che 349

non è quella della scuola cristallizzatasi intorno a Zola, la quale — egli dice — « ha snaturata, singolarmente ristretta e mutilata la sua (di Balzac) concezione del romanzo » “ Si direbbe che faccia del Balzac un naturalista, per contrapporlo ai naturalisti, per insegnare che cos’è il naturalismo. E il bello è poi che gli dà tutte le qualità, i caratteri, che i naturalisti si sono appropriati, per svilupparli. Ma di questo dovremo riparlare dopo, quando ci toccherà di distinguere naturalismo da realismo. Se il Brunetière fosse stato maturo per la distin¬ zione, avrebbe forse detto che Balzac era un realista, e avreb¬ be insistito su quel margine, su quel di più, su quel diverso che rimane in Balzac, dopo di avere elencato i connotati, che egli impresta ai naturalisti. Brunetière non poteva perché la sua comprensione di Balzac gli viene da ciò che hanno capito i naturalisti. 11 suo saggio è tributario di quello del Taine: e ci interessa proprio perché, scritto 50 anni dopo, è sotto l’in¬ fluenza, inconfessata, involontaria, di un Taine, per così dire, applicato, messo in opera dai romanzieri coi loro manifesti programmatici e coi loro libri. Balzac, dice Brunetière, è il romanzo stesso. Balzac conqui¬ sta l’autonomia del genere romanzo, come Molière nel gran secolo aveva creato il genere commedia. Tesi, tutte e due, dif¬ fìcili da sostenere: e vediamo brevemente come fa il Brunétière a cavarsela, per il caso del romanzo. Si potrebbe già dire, a priori, anche senza leggere avanti, che la cosa gli riu¬ scirà solo a patto di far collimare la definizione del romanzo col modulo di romanzo creato dal Balzac; far coincidere, in¬ somma, l’esigenza di esprimersi per via narrativa colla neces¬ sità di rispondere a certe premesse culturali e sociali, di soddi¬ sfare a certe istanze creative che maturano solo ai tempi del Balzac, e delle quali Balzac riesce a prendere coscienza. Ma allora occorre che il Brunetière minimizzi — come oggi si dice — tutto quello che, nel campo del romanzo, è avvenuto prima del Balzac. E Brunetière si assume questo compito, a costo di massacrare capolavori — tra cui, nella sola Francia, ci sono una Princesse de Clèves, una Manon Lescaut, un Paul et Virginie (del quale Brunetière nemmeno si ricorda) e poi magari i romanzi di Rousseau, e forse anche Atala e Réné, e certamente VAdolphe, per dire solo i massimi. E in Germania c’era stato per lo meno il Werther. E in Inghilterra la Clarissa Harlowe e il Vicario di Wakefield e le opere di Defoe e di 350

Sterne, e poi era venuto Walter Scott, uno dei Santi Padri di Balzac, esplicitamente nominato nella prefazione della Comédie humaine. E in Italia, anche a non voler capire, a conside¬ rarli un rimbalzo dei romanzi di Scott, c’erano i Promessi' sposi, usciti quando Balzac non aveva ancora 30 anni, né aveva cominciato a far sul serio e a disimpegolarsi dai romanzi neri e truculenti e d’avventure, dalle sue varie e numerose Ereditiere di Birague, Argow il pirata, Gianna la pallida.'Ma. Brunetière si svincola da queste obiezioni, dichiarando che il romanzo va considerato un genere inferiore: lo si leggeva per diporto, per il gusto delle avventure, o di quanto contenevano di cronistico e di memorialistico. Semmai, i capolavori — sembra che dica — si sono cominciati a capire, dopo che i ro¬ manzi del Balzac avevano insegnato a leggere un romanzo: e Manon Lescaut, per esempio, deve la sua vera gloria letteraria (non il successo, che subito fu molto grande) a noi, posteri relativamente tardi; e delle Liasons dangereuses (nientemeno) non ci si era accorti. Tutta la narrativa, prima di Balzac, con¬ teneva, semmai, a uno stato inconsapevole, alcuni elementi* che solo Balzac avrebbe portato consapevolmente a fruttifi¬ care, fondendoli nell’autonomia del romanzo vero e proprio, nato col senso di essere se stesso, investito di tutta la dignità e importanza toccate fino allora soltanto ad altri generi. E qui un rapido excursus attraverso i tempi e i titoli delle opere. Due erano i tipi di romanzo noti fino al sorgere di Balzac: il romanzo personale e il romanzo storico. Romanzo personale, cioè racconto di avventure, delle quali il narratore si pone come protagonista. Forse è una definizione un po’ corta: in fondo si riduce a costruire una specie lette¬ raria (un’ipostasi, se vogliamo usare parole grosse) mettendo insieme opere che hanno solo una somiglianza esteriore : nel fatto che il loro protagonista dice « io », parla in prima per¬ sona, il che potrebbe essere un semplice espediente letterario. Ma Brunetière trae partito da questa definizione, fa del Ro¬ manzo personale, così inteso, uno scalino al futuro romanzo¬ romanzo, al romanzo-Balzac-è-il-romanzo. « I narratori di se stessi, » dice, « sono come altrettanti < testi > del proprio tem¬ po, che vengono a deporre. » E, per questa via, si introduce nel romanzo « un accento di realtà che lo avvicina alla sua de¬ finizione. Sostituite la parola «.realtà » con la parola « ve¬ rità » : vi accorgerete che anche i naturalisti avrebbero potuto 351

appropriarsi di quella affermazione, se avessero voluto costrui¬ re una genealogia delle loro imprese. Senonché, per far confluire nel romanzo di tipo balzacchiano l’utile apporto, le vantaggiose premesse del romanzo per¬ sonale, il Brunetière deve scavalcare una fase, per lui inaccet¬ tabile: il romanticismo strettamente inteso, il romanticismolirismo, esplosione e apoteosi dell’io. Brunetière è antiroman¬ tico, le tavole del suo gusto sono scritte nel secolo xvii. Perciò deve stroncare, umiliare una particolare forma assunta dal ro¬ manzo personale: il romanzo epistolare. Egli vede, in quella forma, un lievito rivoluzionario, un eccesso di orgoglio, deri¬ vanti dal fatto che i romanzi epistolari assumono come tema casi eccezionali,'in cui l’io si sente tradito, deluso, incompleto, e cerca di riparare in qualche modo quegli scompensi. Tutto questo è molto generico, molto discutibile. Comunque, pro¬ prio negli anni più romantici, il Brunetière riesce a saldare la catena, che i romanzi epistolari avevano interrotta. Egli la¬ vora qui come gli evoluzionisti nelle scienze naturali, nella zoologia: un Cuvier o un Darwin, i quali a un certo momento sono costretti a introdurre forme ipotetiche, gradi non docu¬ mentabili, a fabbricare forme di ossa, per esempio, che in na¬ tura non sono ancora state trovate, per ricostruire, in tutti i suoi passaggi, la continuità, la logica, nell’evoluzione di una specie. La convinzione fondamentale di quegli scienziati era che natura non facit saltus. Si direbbe che, analogamente, per il Brunetière, litterae non faciunt saltus. Ma, con un po’ di buona volontà, forzando un poco le cose, il Brunetière riesce a trovarli, quegli anelli indispensabili all’evoluzione del gene¬ re, in due opere realmente esistenti: la Corinne di M.me de Staci, Les Martyrs di Chateaubriand. Malgrado ciò che hanno di troppo personale (il Brunetière non manca di notarlo), quei due libri costituiscono i ponti di passaggio al romanzo vero e proprio: l’uno, Corinne, mediante l’esotismo {Corinne Oli l’Italie); l’altro, mediante la storia. E così si arriva all’altra delle forme, chiamiamole così, incomplete, embrionali, rudi¬ mentali, che preparano l’avvento del romanzo propriamente detto. Questa forma è il romanzo storico, di cui Walter Scott è l’alfiere. Balzac, come già si è ricordato, ne aveva capito tutta l’importanza. « Se il signor Zola se ne stupisce, » dice a questo punto il Brunetière, approfittando dell’occasione per lanciare una frecciata contro lo scrittore che, viceversa, ha 352

tanto contribuito a sceverare queU’immagine di Balzac, che Brunetière sta fissando in un esemplare ne varietur « se il si¬ gnor Zola se ne stupisce, è perché non ha il senso della storia ». E che cos’è, per Brunetière (lo era anche per Taine), il senso della storia? È « la percezione delle differenze che distinguono le varie epoche ».** Col romanzo storico — e questo è rap¬ porto di Scott e di Chateaubriand — si affermano l’impegno, lo studio di rendere il « colore delle epoche », differenziato, preciso come il « color locale ». La conquista di questi due colori, con tutte le loro sfumature e digradazioni, costituisce una tappa fondamentale nell’evoluzione del romanzo. (Non staremo qui a fare la battaglia della coerenza. Quei due « co¬ lori », storicamente parlando, appartengono all’attivo del bi¬ lancio romantico. E qui si domanderebbe come l’antiromantico Brunetière accetti così grossi debiti verso il romanticismo.) Qui, a volerci contentare di lineamenti anche più sommari di quelli che ci siamo proposti, potremmo già contentarci di quanto ormai il Brunetière ci ha dato. Basta, insomma, accet¬ tare che quei due « colori » siano due note decisive nella defi¬ nizione del romanzo, per conchiudere che l’idea del romanzo come adesso il Brunetière la appura, fondandosi su Balzac, è proprio quella di cui i naturalisti avevano bisogno per tro¬ vare il coraggio e la chiarezza di enunziare la loro poetica, di scrivere i loro libri. Col possedere, col maneggiare il colore storico si può infatti affrontare la società cosi com’è: hic et nunc, quale si arriva a conoscerla attraverso l’osservazione e il documento. Col colore locale, si possono identificare tutti i contorni, gli accidenti, i frastagli, le strutture di quella parti¬ colare geografia sociale che nasce dalla diversità dei ceti e delle classi. Ci sono tutti gli elementi per soddisfare a quella che è l’ambizione conclamata dei naturalisti; la verità. Ma seguiamo più da vicino, ancora per un po’, le argomen¬ tazioni del Brunetière. Più che come rigorosi risultati, o con¬ clusioni, di storia letteraria — sulle quali sarebbe per lo meno prudente riservare l’assenso — ci serviranno come controlli a posteriori delle ragioni su cui è maturata la poetica del natu¬ ralismo, come testimonianza delle suggestioni, dell’ottica che il naturalismo aveva lasciato dietro di sé. Il romanzo storico, osserva il Brunetière, doveva i suoi suc¬ cessi a una fedele imitazione del passato. L’aveva ottenuta con la rigorosa riproduzione di particolari, di tutti gli aspetti. 353

anche i più minuti, della vita, quale si era manifestata nelle epoche via via rappresentate. Ora facciamo una sostituzione, al modo dei matematici : invece che « fedele imitazione del passato diciamo: imitazione della realtà del passato. La deduzione del Brunetière diventa evidente. Quando dalla sto¬ ria passata si passa alla storia contemporanea, i metodi per riuscire fedeli saranno gli stessi. Il romanzo storico aveva inse¬ gnato al romanzo vero e proprio tutti quei metodi. Ciò che ravvivava il quadro del passato èra buono a ravvivare anche quello del presente. E che cos’era se non il coraggio delle mi¬ nuzie, della osservazione estesa a tutta la gamma, a tutti gli aspetti della vita? Il romanzo storico ha insegnato quell’esat¬ tezza, quella scrupolosità della rappresentazione, ne ha fatto dice esplicitamente il Brunetière — una delle leggi del genere romanzo.’® E anche qui ci potremmo fermare: quella legge è stata un altro pilastro dell’edifizio naturalista. Il Brunetière qui diventa un vero fanatico della dottrina dell’evoluzione. Per lui, il romanzo storico non aveva, nella storia della letteratura, altro scopo che quello di insegnare al romanzo realistico lo scrupolo della fedeltà nell’imitazione della vita. Adempiuto questo compito, eseguita questa con¬ segna, che ci stava più a fare nel mondo dell’arte? Tutt al più, sarebbe rimasto lì a disturbare il signor Brunetière, costrin¬ gendolo a intorbidare la matematica purezza delle sue classi¬ ficazioni, a tener conto di un tipo di romanzo, che non era il romanzo propriamente detto, eppure anch’esso era romanzo. Un guastamestieri, meglio che si eclissasse. E il romanzo sto¬ rico, obbediente a Brunetière, grande regista dei generi lette¬ rari, scompare modestamente tra le quinte, exit, lui che dopo tutto non può vantare che roba ibrida, incompleta come quel tale romanzetto — avrebbe detto il Giusti — « dove si tratta di Promessi Sposi ». « Il romanzo storico, » proclama Brune¬ tière, « è stato un prodotto, una specie di transizione. Ci so¬ no, nell’evoluzione letteraria, come nella natura, dei generi o delle specie... che muoiono della propria vittoria. »’* Ecco l’epitaffio del Brunetière, l’ingrato, a quel romanzo storico, che tanto gli ha fatto gioco. Ma un passo rimaneva ancora, ammessa quell’eredità del romanzo storico. Cerchiamo di dirimere il problema per con¬ to nostro, perché il Brunetière supera la difficoltà con uno scatto, con un gioco di prestigio. Il tempo lava la realtà, la 354

consacra. Il male, le turpitudini del passato ci toccano meno, ci sembrano più facili da assolversi. Le brutture degli uomini ormai scomparsi pare — mi si perdoni la frase — che non puz¬ zino più. Si possono rappresentare, ravvicinarle, riviverle come fatti umani — e nil hiimani alienum — senza che ci pesi addosso, a contatto fìsico, l’appiccicaticcio, il fastidioso dell’u¬ mano troppo umano. E poi — questo è il Brunetière a no¬ tarlo — mentre i particolari, anche minuti, del mondo che non è più ci interessano, perché non sapevamo, quelli triti e meschini del nostro mondo ci sono conosciuti : notarli, ci pare superfluo. A quest’ultima obiezione, Brunetière risponde col¬ l’argomento dell’autorità; il romanzo storico ha fatto così, ed è riuscito a interessarci, noi dobbiamo fare altrettanto. Quello che ravviva il passato, deve ravvivare anche il presente. Non è detto. Il modo di accendere la lampada della sera potrà ravvivare un racconto che si svolge nel medioevo: il modo di premere il pulsante dell’interruttore elettrico, e come l’e¬ nergia porti la lampadina all’incandescenza non ravviverà affatto un racconto contemporaneo di Thomas Mann' o di Scott Fitzgerald o di Sartre. Interesserà, semmai, qualche let¬ tore del 2300, lo commuoverà sulle semplici usanze del poeti¬ co, lontano xx secolo, quando gli uomini- erano tanto buoni e veri. Forse il Brunetière sarebbe stato nel giusto, se avesse parlato, non dell’osservazione realistica come in se stessa ravvivatrice; ma della fiducia, acquisita dagli scrittori, nella loro possibilità di ravvivare l’osservazione realistica, se avesse par¬ lato di uno spostamento del limite tra oggetti degni ed oggetti indegni di ottenere cittadinanza sulla pagina dello scrittore. A vero dire, questo argomento lo sfiora; ma più che altro, per rispondere al primo quesito: le miserie, gli aspetti meno no¬ bili dell’esistenza, come hanno cessato di ripugnarci nel ro¬ manzo storico, dove però li filtrava il tempo, così, e su quel¬ l’esempio, hanno avuto accesso, e senza che più destino ripu¬ gnanze, nella rappresentazione del contemporaneo. E qui ve¬ ramente il Brunetière va vicino al più vero argomento: quello della trasformazione sociale, che autorizza gli scrittori a un nuovo contenuto, e soprattutto a nuovi rapporti col contenuto. Rapporti' che noi moderni chiamiamo più sinceri, forse sol¬ tanto perché rispecchiano meglio la nostra mentalità. Anche gli antichi erano, a loro modo, sinceri: dispiegavano tutta la sincerità consentita o richiesta dal loro tempo. Purtroppo, il 355

Brunetière si contenta di girare intorno al problema: non sa, o finge di non sapere, uscire da una considerazione strettamen¬ te letteraria ed estrinseca. Dice che è venuto meno il carattere aristocratico della letteratura, e identifica questo carattere con l’ideale tragico, per cui i protagonisti dovevano essere perso¬ naggi illustri, re di corona. Avrebbe dovuto approfondire di più, e invece di tenersi all’aspetto negativo: tramonto della letteratura aristocratica, afferrare quello positivo: sorgere di una letteratura borghese e democratica. Di qui si potevano trarre tutte le conseguenze che si volevano. Mostrare, per esem¬ pio, che la paura del turpe e del volgare nasce anche da un pregiudizio persistente, quando già i contenuti della narrativa si sono cambiati. E il pregiudizio è questo: che il turpe, lo schifoso diventino ripugnanti allorché appartengono a perso¬ naggi in se stessi considerati vili, ignobili, incapaci, per così dire, di difendere quelle bassezze fisiche o morali col loro bla¬ sone di casta. Si tratterà di « memorie », che anche il Brune¬ tière riconosce essere state maestre del vero in letteratura; ma ci sono nei Mémoires^ di Saint-Simon ritratti ed episodi di certi gentiluomini e dame della corte del Re Sole che fareb¬ bero torcere, e non per metafora, il naso a qualunque più spa¬ valdo lettore dello Zola o magari del famigerato Bonnetain. Il pregiudizio durerà per tutto il secolo xix, anche quando i con¬ tenuti nuovi saranno redenti nella più ardua, incorruttibile bellezza formale. Testimone il Sainte-Beuve che, per scorag¬ giare Baudelaire dal porre la propria candidatura all’Acca¬ demia, gli diceva mellifluo, con vigliacca bonomia: « Ma, mio povero amico, vous parlez, vous pétrarquisez sur l’horrible. » La pressione del contenuto era cosi forte, la spinta della nuova struttura sociale così irresistibile, che la letteratura fu quella che doveva essere, malgrado il pregiudizio, talvolta perfino in polemica contro la propria vitalità. Per riassumere epigrammaticamente, senza altre analisi, che cosa era successo, per cui il romanzo poteva e doveva calare i suoi scandagli in una materia fino allora rimasta tabù (anche perché non si era ancora imposta e differenziata come materia, anche perché le classi nuove non avevano ancora abbattuto la Bastiglia letteraria, non si erano ancora conquistate il diritto di essere protagoniste), per riassumere tutte queste novità, ba¬ sterebbe rileggere una noticina, perfida e canaille come sanno esserlo certe insinuazioni del Sainte-Beuve, che figura al piede 356

di una pagina dello Chateaubriand et son groupe littéraire sous l’Empire. Sta citando un passaggio di M.me de Staci sulle conseguenze della Rivoluzione: «Alla lunga,» dice questo passaggio, « la Rivoluzione può illuminare una più vasta massa di uomini; ma, per molti anni, la volgarità del linguag¬ gio, dei modi, delle opinioni, deve far regredire, sotto molti aspetti, il gusto e la ragione. » Sainte-Beuve si ferma subito sulla parola volgarità, la sottolinea nel testo, e poi si butta giù, in picchiata, nella nota: « È stata lei (M.me de Staci) a rischiare per la prima volta questa parola; diventava indi¬ spensabile per designare il nuovo abito sociale. La parola urba¬ nità era stata messa in circolazione e penetrata nella lingua, al principio del sec. xvii; era giusto che la parola volgarità vi penetrasse alla fine del xviii. »’^ Era, dal punto di vista reazionario, bollato con parole di intenzioni spregiative, non tanto un nuovo abito sociale, quan¬ to l’entrata, come soggetti di storia, di una nuova classe di pro¬ tagonisti. Si esprimevano a modo loro, dovevano essere espressi nella loro realtà: sono interessanti perché nuovi. E diventa¬ vano a loro volta una specie di schermo stranamente traspa¬ rente che lasciava guardare ciò che stava sotto: le classi dise¬ redate, fondo che prima non si vedeva, perché occultato da ciò che adesso era diventato la superficie: insomma, la pic¬ cola e media borghesia, fino allora intravista come sottosuolo delle aristocrazie, adesso scopriva il sottosuolo. Di qui, tutta la grande, nuova esplorazione aperta ai romanzieri, e il mu¬ tarsi dell’idea letteraria della società. Prima aveva significato il « bel mondo »; adesso significa quella sovrapposizione di strati, tutti in vario modo impegnati nella lotta per resisten¬ za. « Lotta per l’esistenza » : altra idea, che si impone nell’Ot¬ tocento, attraverso la dottrina dell’evoluzione e della selezione naturale: e certo non si svolge sempre con armi raffinate, sco¬ pre visi contratti, gesti non tutti di perfetto galateo, emana, quando occorre, un lezzo di sudore. Volgarità, parola nuova, nata per battezzare una cosa nuova, che allarga il campo della letteratura. Passa più di un secolo, e Brunetière, studiando Balzac, con¬ stata che la volgarità aveva diritto di entrare nella letteratura. È un po’ sbrigativo; ma, insomma, ragiona che, se l’arte può e deve rappresentare tutta la vita, allora le tocca di renderne tanto la bellezza, quanto la « volgarità ». E se i particolari 357

« volgari » erano quelli che già, nel romanzo storico, anima’ vano i quadri del passato, allora non sono più « volgari ». La parola « volgarità » diventerà sinonimo di una « verità più umile, più intima ».^ Non dice giusto, il Brunetiere, non dice abbastanza; ma insomma ribadisce che il genere romanzo è definito anche da quel diritto, che i naturalisti reclamavano. il diritto alla verità, costi quel che costi. Le opere e le prefa¬ zioni dei Goncourt, le opere, i manifesti, le polemiche, i saggi dello Zola si facevano forti di un precedente stabilito dal Balzaci da quel Balzac come essi lo vedevano, e di cui ora il Brunetière tira le somme. E noterà che proprio lui ha vinto la paura o la diffidenza del volgare, con « la riabilitazione, se così può dirsi, deW’umile verità, della verità quotidiana, di quella verità a cui la stessa commedia, e il vaudeville, e il ro¬ manzo, fino a Balzac, non si erano ispirati, tanto la trovavano volgare! se non con un’intenzione di caricatura e di satira evidente. »’^ Per i naturalisti, si tratterà, dopo Balzac, di difendere la cosidetta volgarità bene intesa, cioè il coraggio di guardate tutto, contro l’accusa di trivialità, di sordidezza, di gusto per il ripugnante. Certo, il limite è difficile da stabilire : nella vita è segnato dal discernimento morale, nell’arte dalla vali¬ dità estetica, e bisognerà, caso per caso, sul fatto e sull’opera, vedere come e quando questo limite sia stato travalicato. Per lo meno curioso che, mentre capisce Balzac e la « volga¬ rità » attraverso le prospettive aperte dai naturalisti, il Bru¬ netière tiene a sottolineare che al naturalismo non perdona: e qualifica la Rabouilleiise come il più « naturalista » dei ro¬ manzi di Balzac forse perché è uno dei meno « morali (è lui a mettere la parola tra virgolette). Si intende, che tutto questo porta un mutamento nei criteri del bello artistico. E anche le rivendicazioni, da parte dei naturalisti, di un nuovo diapason per giudicare dell’arte, di un criterio non più estrinseco ed accademico, ma tratto dall’in¬ terno dell’opera, può far appello a Balzac, come adesso lo met¬ te in luce il Brunetière, influenzato dall’uso che di lui ave¬ vano fatto i naturalisti. Quel criterio intrinseco, competente all’opera, era già la richiesta della critica romantica. Abbiamo visto come Zola lo reclami, con che furore polemico, nella re¬ censione a Germinie. Adesso, il Brunetière dice che era una giusta pretesa, competente al genere romanzo come l’aveva sta358

bilito il Balzac (il Balzac, inutile ripeterlo, che dà l’aire ai naturalisti). I romanzi di Balzac — egli nota — sono incompa¬ rabili con quelli dei suoi contemporanei, perché non derivano dallo stesso sistema estetico. O, per meglio dire, Les parents pauvres o Eugénie Grandet non derivano, per essere giusti, da alcun sistema artistico, ma da una intenzione generale di « rappresentare la vita », sia pure a discapito di quello che fino a Balzac era stato chiamato arte. L’equazione il brutto è bello, staremmo noi per dedurre, non è vera soltanto nel campo mo¬ rale, nel contenuto, ma anche nel campo cosiddetto della for¬ ma; può diventare bello ciò che, alle superstizioni edonistiche e del vecchio anchilosato buon gusto, appare brutto, estraneo all’arte. Taine aveva detto, andando alle origini: Balzac non parte dall’arte. Brunetière conclude, guardando le conseguen¬ ze: « L’indifferenza alla questione dell’arte è proprio... uno dei motivi del valore del romanzo di Balzac. Una forza come quella non ha bisogno d’arte. Fra Taine e Brunetière c’erano stati, appunto, i naturalisti, che avevano fatto leva su quella rivoluzione del gusto. Ora Brunetière può pacificamente ac¬ cettarla; addirittura celebrarla con formule un po’ parados¬ sali e provocatorie, che possono essere scambiate per una apo¬ logia del brutto. Diciamo almeno; di un brutto funzionale. Non manca, naturalmente, la difesa del determinismo, ap¬ plicato con rigore sistematico alla motivazione dei personaggi e delle vicende. Il Brunetière si scusa di usare queste solenni parole filosofiche; ma riconosce che si riesce, ormai, più chiari a servirsene che ad evitarle con le perifrasi. Perfino nelle de¬ scrizioni dei luoghi Balzac è determinista. La fa finita con la descrizione poetica e romantica (quella che Hugo prolunga nei suoi romanzi, e per esempio in Notre-Dame) che è « di se stessa la propria ragion d’essere e il proprio scopo, il mezzo e il fine » tanto che, quando il poeta si esalta sul suo tema, a noi non importa più che « il principio di questa esaltazione sia nella bellezza del tema, o nell’intensità della sua commozione personale». Invece le descrizioni di Balzac «hanno sempre qualche ragion d’essere al di fuori di se stesse; e questa ragion d’essere, agli occhi e nell’intenzione di Balzac, essendo sempre esplicativa delle cause che, nel corso del tempo, hanno model¬ lato gli esseri e i luoghi, le descrizioni di Balzac, non fosse che per questa ragione, sono sempre storiche ».^® Si vede però an¬ che da questo passo che Brunetière attribuisce a Balzac un

359

determinismo storico, che va alla radice delle cause, dietro an¬ che il gioco delle cause apparenti, e differenzia gli effetti a secondo degli individui. « Sarebbe facile dimostrare, » affer¬ ma, « che proprio da lui, Balzac, e non da altri, filosofo o storico, tutta una scuola moderna ha preso in prestito questa concezione della storia. Determinismo per determinismo, i naturalisti si erano volti a quello delle scienze naturali. Ma il principio veniva sempre da Balzac. Due parole su un altro elemento che il Brunetière sottoli¬ nea in Balzac, e che è stato anch’esso costitutivo della poetica naturalista. Chiamiamola l’estensione geografica del romanzo. Nella Comédie c’è tutta una geografia della Francia}^ Questo significa l’annessione della provincia al territorio del romanzo. Brunetière loda il senso geografico di Balzac con lo stesso argo¬ mento con cui ne elogia il senso storico: anche se non tutte le descrizioni fossero esattissime, fotografiche, l’autore della Comédie ha la percezione delle differenze locali. Ma la grande scena dei romanzi era stata di solito Parigi. Deduciamone che la provincia viene a contestare a Parigi la sua esclusività di protagonista. Si rifletta quanto e come questo fenomeno sia parallelo all’avvento delle nuove classi sociali in confronto e contro i vecchi protagonisti privilegiati. Qualcuno ha detto che tutta la storia di Francia si può spiegare come la dialettica e la polemica della provincia contro Parigi. Parallelamente, noi potremmo dire che tutta la storia moderna si spiega con la dialettica della lotta di classe. Del resto, per continuare nel paragone, il provinciale ha, se rimaniamo in Francia, paese centralizzato da secoli, un complesso di inferiorità analogo a quello che il proletario aveva inizialmente di fronte al bor¬ ghese. Con un gioco di parole, potremmo dire che, nel feno¬ meno di cui stiamo parlando, capitale e capitalismo davvero si somigliano. Come c’è una sperequazione della geografia, c’è una geografia delle sperequazioni sociali: e questi sono-due nuovi oggetti di osservazione per il romanzo naturalista, due domini annessi al romanzo. Bisogna compensare le sperequa¬ zioni geografiche, studiando la provincia, bisogna denunciare i dislivelli di quell’altra geografia delle sperequazioni, studian¬ do la miseria. Quando Brunetière, accentuando in Balzac tutti gli aspetti che erano serviti al naturalismo, segnala anche que¬ sta estensione geografica, cioè l’annessione della provincia — perché proprio di questo si tratta — rende un grande servi-

360

gio anche a noi che dobbiamo chiarirci i fenomeni del natu¬ ralismo italiano. Il Russo crede che questo nostro naturalismo di riflesso, il verismo insomma, abbia trovato una delle pro¬ prie originalità nel diventare romanzo della provincia e ro¬ manzo provinciale. Non può nascondersi che in ciò ha fatto di necessità virtù, visto che l’Italia non aveva ancora una ca¬ pitale come Parigi, dove si concentrassero tutti i problemi an¬ che sociali. Ma ha concluso troppo in fretta; la nostra origi¬ nalità è stata senza dubbio, dove c’era, originalità d’arte; non originalità di impianto, di oggetto, di contenuto. Anche l’e¬ splorazione della provincia ci è venuta, di riflesso, dal natura¬ lismo francese, è una delle deduzioni che il naturalismo aveva ricavato dall’esempio di Balzac.

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297,

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HUYSMANS Joris-Karl

325, 327-9, 331, 335, 470”, 471", 471 «■‘, 471 ” Hokousai 312, 471 ” Journal des Goncourt (Diario dei

329-330, 332,

335, 472 ” A rebours 330, 472 ”

Goncourt) 323-4, 471

iBSEN Henrik

165, 172, 203, 231 Alving (signora) 172, 231

La Faustin 325, 471

Casa di bambola 172

Les frères Zemganno 297, 470 “

Gli Spettri 172, 231 Hedda Gabler 172

GONCOURT Jules de 298, 319

(les frères) de 238, 297304-5, 307-8, 309-323, 324,

GONCOURT

301,

Nora 172 Osvaldo 231

333, 335, 358, 471 ”, 471 Charles Demailly 298 Germinie

I.acerteux

Rebecca 172 Rosmesholm 172 297-309,

Illustrazione italiana (L’) 475 ’

482

« Indipendente (L’) » 459 ‘ Leopold (e A. Einstein) 100, 462“

INFELD

L’evoluzione della fisica 462 “

€ Italia Letteraria (L’) » 458 462 462 " '

335 André 269, 469“ 469 “ Manifeste de Cinq contre la Terre 331-2, 472“ MANN Thomas 99, 130-1, 138, 171. 178, 355, 372, 374, 376, 389, 463473“ 474", 474“ 474’ Altezza Reale (Novelle e raccon¬ ti) 389, 474’ Doktor Faustus 99 La montagna incantata 171 MALRAUX

457

La condition humaine

€ Journal des Débats » 294, 470’, 472» JoviNE Francesco 53 Signora Ava 53 Joyce James 98 Jung Cari Gustav 80-1, 277, 418, 461 “ L’io e l’inconscio

80, 461 “

Dolore e grandezza di R. Wag¬ ner (Nobiltà dello spirito)

Immanuel 128, 369 KLEisT Heinrich 172 Pentesilea 172 KANT

Un

Chapeau

458 LACLOS de

463"*, 473“, 474", 474“ Alessandro 134, 25, 28, 40, 44, 59-61, 73, 101-5, 169, 170, 252-3, 255, 260, 386, 409, 429, 459 460 “, 462 “ 462 “ 465 465 Adelchi 465 ’ Del romanzo storico 460“ Ermengarda 169, 170 Gli sposi promessi 40, 1014, 462“ I Promessi sposi 13, 40, 73, 1012, 104, 160, 253, 351. 354, 462", 462”, 465'“, 469’

MANZONI

Eugène (e Marc Michel)

LABicHE

de

paille

(P.A.-Fran^ois)

d’Italie

Chaderlos

38, 114 M.-M. Pioche de la Vergne, madame de La princesse de Clèves 350 LA LOGGIA Gaetano 280, 470 " Saggio economico-politico 280, 470 “ LAWRENCE David Herbert 111, 462“ Selected literary criticism 462 “ LEMAÌTRE Jules 335 LENIN Vladimir Ilic 460 ® Les liaisons dangereuses

LA

FAYETTE

L’estremismo malattia del comuniSmo 460 ”

infantile

Giacomo 463 465 *" / Canti 463 465 « Lettura (La) » 90 LEVY-BRUHL Lucien 280 LiszT Franz 130, 376 LOTI Pierre 335 LUCREZIO T. Caro 46, 75 LUKACS Gyòrgy 166, 465 Saggi sul realismo 166, 465

Lettera

NicCOlÒ 465

Firmin 471

marchese

D’Azeglio

Storia della colonna infame

160,

252, 464 '“ MARC Michel (e E. Labiche) Un

Chapeau

de paille

d’Italie

458 “ Ferdinando 199, 456 ”, 466 “, 466 “, 475 ‘

MARTINI

432,

un sigaro e l’altro 456 ”, 475 ‘ MARX Karl 44, 167, 314 MAUPASSANT Guy de 78, 324, 329, 330, 335 Baule de suif 329 MAURiAC Francois 85, 461 “ Fra

Le romancier et ses personnages

Belfagor-arcidiavolo 465 MAiLLARD

al

459 “ Lucia 73 Renzo 73, 101-5

LEOPARDI

MACHIAVELLI

471 “ Stéphane 41, 187, 328,

La cité des intellectuels MALLARMÉ

85, 461 “



483

Domenico 53, 69 Errico 53, 68 MAZZINI Giuseppe 60, 71, 368 MEDONIEU 334 Meridiano di Roma 456 *, 461 MERiMÉE Prosper 106 Carmen 106 « Messaggero d’Europa (II) » 323 MiLL STUART John 172, 466 The Subjection of women 466 MODIGLIANI Amedeo 206 MOLIÈRE, Jean-Baptiste Poquelin (detto) 151, 338 MOMIGLIANO Attilio 25-8, 834, 188, 2624. 406-7, 417, 430, 457 461 «, 466“, 469“ 474“ 475’ Dante Manzoni Verga 457 461 «, 466“, 469“ 469“ 474“ 475’ MONTESQUiou-FEZENSAc Robert de 150 Les pas effacés 150 MORicE Charles 335 MURGER Henri 467 “ Scènes de la vie de Bohème 467 “ MussET Alfred de 466 “ Les Nuits 466 “ MussoRGSKij Modest 64, 411-2, 474“ Boris Godunov 64, 412, 474“ Kovanscina 64 MAURO

Piero 257, 439, 469 ", 476 “ I Malavoglia (commento) 439, 469", 476“ NERVAL Gérard de 398 Les filles de feu 398 NIETZSCHE Friedrich Wilhelm 34, 115, 128, 369, 473 ‘ II Caso Wagner 369, 473 ‘ La nascita della tragedia 34 NiEvo Ippolito 214-5, 467“ Le confessioni di un Italiano 214, 467 “ « Nouvelle revue fran^aise (La) » 464 ”, 474 “ NovALis (pseud.), Hardenberg Friedrich-Leopold von 170, 465 ‘“ Inni alla notte 170, 465'“ NARDI

« Nuova Antologia » 475* « Nuova Europa (La) » 461 *’ Jacques (e H. mieux) Orfeo all’inferno 458 " OHNET Georges 227, 433 ojETTi Ugo 206, 251, 334, 468’, 472“, 476“ Cose viste 251, 468’, 476“ Alla scoperta dei letterati 472 “ OMERO 62-3, 327 Achille 162 Elena 63 Iliade 41 Nausicaa 108, 162 Odissea 41, 108, 426 Ulisse 108, 162 ORWELL George 121 1984 121 OTTO Walter F. 283-6, 470 " ’ Gli dei della Grecia 283, 470 " ’ oxiLiA Nino (e Camasio S.) Addio Giovinezza! 209

OFFENBACH

Cre-

450,

334,

285,

Alfredo 177 Vilfredo 167, 465 "* I sistemi socialisti 465 "* PASCOLI Giovanni 19 PAVLOV Ivan Petrovic 263, 469 “ I riflessi condizionati 469 “ PERRONi Lina 51-3, 57-9, 62, 64-5, 68, 457 ”, 458 *. 459 ', 462 ”, 476 " Studi verghiani, I 457 ’, 460 “, 474 “, 476 “ Studi verghiani, II-III: Ricordi di D’Artagnan 458 *, 459 460 460 460 “ 461 « PERRONI Vito 462 ” PETOARCA Francesco 466 " Le rime 466 " PIRANDELLO Luigi 404, 409, 417, 421, 474 “-’, 474“ Così è se vi pare 405 Giovanni Verga 474 “ ’, 474 “ poucHET Gustave 341 PRATI Giovanni 13 Armando 13 FANZINI

PARETO

484

PREVOST d’exiles

Antoine-Frangois

Le sventure della virtù - « Ju¬ stine » 476 *

Martori Lescaut 350-1

Marcel 42-3, 94, 98, 150, 171, 209, 3734, 396400

PROUST

Charles-A. de 14, 274, 294, 321, 356, 386, 473”

SAINTE-BEUVE

A la recherche du temps perdu

Chateaubriand et son groupe littéraire sous l’Empire 357, 473 ” Volupté 14

43, 396 A proposito dello stile di Flau¬ bert 474 “ Du cóté de chez Swann 398 La Prisonnière 373, 473 “ PUCCINI

Giacomo 15

RADIGUET

Le

bai

Raymond 56, 460 ’ du comte

d'Orgel

56,

Etienne Geoffroy 340 Louis de 356, 473” Mémoires 356, 473” SALGARI Emilio 76 sALVINI Tommaso 94 SAND George 366 SAPEGNo Natalino 25, 457 " SAiNT-HiLAiRE SAiNT-siMON

460’

Appunti per un saggio su Verga

Le diable au corps 56, 460 ’ RANC

Arthur 471 ”

Émile Zola et VAssommoir 471 “

Mario 934, 458 ‘ H.B.-Constant de Adolphe 350 « Revue de Paris » 470 RicHARDSON Samuel Clarissa Harlowe 350 Risorgimento 457 " ROD Edouard 335 ROMEO Rosario 279, 469 *

RAPisARDi

REBECQUE

Il mondo come volontà e rappre¬ sentazione 463 “ SCHWOB

Walter 351-3 Ermanno 475 ’ Verga 475 ’ SERAO Matilde 434 SHAKESPEARE William 63, 147, 264, 327, 372 Amleto 63 Giulietta 139 Macbeth 147 Mercante di Venezia 327 Re Lear 147 Romeo 139 sisMONDi J.-C.-L.-Simone de 13, 455^ Epistolario 455 ’ Soirées de Médan (Les) 329, 472 “ sTAEL, madame de 352, 357 STENDHAL (pseud.), Beyle Henri 99, 176, 185, 233-4, 333 Le Rouge et le Noir 99 STERNE Laurence 351 STRAPAROLA Giovan Francesco 465 Le piacevoli notti 465 svEVo Italo 98, 226, 249, 468 Senilità 226, 468 SCOTT

scuDERi

469 ‘ Giovanni 40 Jean-Jacques 150, 350, 464*’ Les Confessions 464 *’ ROVANI Giuseppe 249, 250 RUSSO Luigi 22-5, 59, 82, 94, 133, 237, 256-7, 278, 361, 394, 417, 421, 430, 433, 438-9, 457“’, 457 457 457 “ ’, 459 461”, 462”, 463", 468”, 476” Giovanni Verga 457 “, 457 " 457“, 457“ ’, 459”, 461", 462 ”, 463 ", 468 ”, 476 ” 7 Narratori 457 ” ROSiNi

ROUSSEAU

Umberto 22, 456 "

e raccontini 22, 456“ SACHS Maurice 150, 464’° Le Sabbat 150, 464” SADE A.-F., marquis de 444, 476 ’ Scorciatoie

Marcel 467 ’*

Livre de Monelle 208, 467 ’*

Il Risorgimento in Sicilia 279,

SABA

25, 457 “ Jean-Paul 83 Tosca 83 SARTRE Jean-Paul 355 SCHOPENHAUER Arthur 128, 463 “ SARDOU

485

SWANZBERG swEDENBORG

(signora) 94, 461 “ Emanucl 372

VERDI

Hippolyte 99, 294-6, 325, 335, 336-359, 367, 470’, 472 472 «, 472472”, 472” “ De Vintelligence 296, 470 “

TAiNE

Violetta 172 Giovanni

Histoire de la littérature anglaise 472 “ Les philosophes classiques du XX‘ siede en France 296, 470 “ Nouveaux essais de critique et d'histoire 472 ” 473 “

VERGA

Amore e patria 51-71, 199, 445 Don Candeloro e C. 334 Eros 16, 24, 31, 46, 94, 156, 185,

Torquato 467 ’’ Armida 205

TASSO

Gerusalemme liberata 467 ”

Rinaldo 205 Albert 348-9, 459”, 470”, 473“

THiBAUDET

459 ”,

Histoire de la littérature frangaise de 1789 à nos jours 348,

459 ”, 459 ”, 473 “ Le centenaire de Faine 470” TOLSTOJ

Lev Nikolaevic 432

Guerra e pace 39 TOMMASEO

Niccolò 14, 252, 468 *°

Colloqui col Manzoni 468 “ Fede e Bellezza 14

George 287-8, 470“ '

TOMSON

Eschilo e Atene 287, 470“ ' ToNELLi

Alla

Luigi 475’ ricerca

della

personalità

475’ TORELLI

Achille 94 Francesco 59 G.-Lanza di 280

TORRACA TRABiA

Giuseppe 132, 172, 465 ”*

Emani 446 Falstaff 446 Il Trovatore 64 La forza del destino 117 La Traviata 64, 172, 227, 465 ”* Un ballo in maschera 446

Memoria ragionata in favore dei baroni del Regno di Sicilia 280

« Tribune (La) » 325 Lev Davidovic 270 TURGHENiEFF Ivan Sergeevic 98, 238, 3234 TROTZKi

Paul 82, 178, 461 ", 466’ Atikté 178 L’Ame et la danse 178, 466’ L’idée fixe 461 VENTURI Lionello 293, 470’ Il gusto dei primitivi 470’

VALÉRY

486

202, 208, 214, 218, 229-237, 251, 382, 410, 466'“, 467 467", 467 ”, 467 “, 467 " 467 " 467 467 “, 467 “ 467 “, 467"*, 467™’, 467”’, 468”’, 468*', 468*’-’, 468*’-” Èva 13, 18, 26, 35, 46, 83, 91, 175-229, 230, 232, 235-6, 247, 251, 253, 382, 384, 387, 402-3, 456 '’, 466 ”, 466 '', 466 466”, 466’*-“, 466”, 466”” I Carbonari della montagna 53, 55. 65, 71-81, 83-86, 93-4, 199, 433, 455', 459*, 460”, 461”, 461”, 461", 476’”, 476*’, 476’-”, 476'’-“, 476”-’ II marito di Elena 26-7, 32, 476 " 7 Malavoglia 17, 21, 23, 26, 31-3, 45, 58, 64, 68, 84, 99, 100, 133, 136, 140, 156, 181, 190, 196, 224, 232, 237, 282, 306, 388-9, 394-5, 401, 408, 409, 426, 430, 439, 448-9, 457'-’, 458’, 458'“, 466”, 469”, 469 '*■’ I nuovi tartufi 94 Mastro don Gesualdo 26-7, 32-3, 64, 68, 84, 124, 159, 190, 203, 334, 336, 408, 430 Nedda 13. 15, 17-8, 20, 23-5, 244-266, 276, 291, 324, 381, 383384, 386, 391, 394-6, 398, 401, 405409, 430, 460”, 468'’, 468", 469'*’, 469’'’, 469’*-’. 469“’ Novelle Rusticane 33, 58-9, 395, 408, 426 Nuvole d’estate 94 Pane nero 24 Per le vie 408

Primavera e altri racconti 250 Certi argomenti 250 La coda del diavolo 250 Le storie del castello di Trez¬ za 250, 433 Primavera 208, 250

WAGNER W. Richard 67, 128, 131132, 372-6, 463“, 474” Beckmesser 130 Il Crepuscolo degli 'dei 43, 67 I Maestri cantori di Norimberga

67, 130, 463“ Isotta 172 Lohengrin 132

X 250 Rose caduche 94 Storia di una capinera

18, 24, 36, 46, 89-97, 105, 108, 111-4, 117-126, 133-4, 138-163, 172, 175, 182, 192, 214, 247-■8, 382, 387, 402, 414, 432, 455 ‘ , 460“, 462 462 “, 462 462 “ 462 463 *'■” , 463“ 463 463 463“’, 463 ”•*, 463 464 " 464 ”■*, 464 464 464 i«, 4g5 IO, Sulle lagune 82, 93-4, 455 ', 461 “ Tigre reale 13, 16, 24, 46, 64, 94, 156, 185, 202, 218, 226, 229238, 384, 392, 403, 466“ 468”, 468” Una peccatrice 24, 34-8, 70, 89, 93-4, 155-6, 182-3, 204, 226, 251, 401-2, 455 ', 461 ‘ Vita dei campi 15, 17, 23, 26, 84, 336, 395, 413, 426, 430 Cavalleria rusticana 417, 423, 426, 475 Fantasticheria 17, 23, 230, 256, 401, 430, 468”, 469“ Jeli il pastore 423, 426, 475 “, 475 La lupa 204, 262, 422-3, 467 ”, 475“ 475 “ L’amante di Gramigna 17, 234, 383, 411, 468”, 474“ VERNE Jules 76 VETRO Pietro 91 VICO Giambattista 369 VICOLO Giorgio 411, 474“ Saggio introduttivo ai Sonetti del Belli 411, 474“ VIRGILIO

P.-M. 475 ^

Le Georgiche 475 ^

Arouet (detto) 77 Candide 77 Zadig 77

VOLTAIRE,

L’Oro del Reno 376, 474 " Rienzi 67

Sachs 130 Sigfrido 131 Tristano e Isotta 67 Walter 130 « Westminster Review (The) » 172, 466 ■”

Émile 130, 166, 178, 296-7, 309-23, 324-6, 328-33, 335, 340-1, 343, 347, 352-3, 356, 358, 372, 376, 384, 457470”, 471“’, 471 31-*, 47 j« 471 43_ 472» 472 63_ 472 ™, 474 ■’ L’Assommoir 312, 324-5, 328-9, 332 Discours aux étudiants 335, 472 “ Docteur Pascal 335, 457 ’ La fortune des Rougon 322, 340, 471” La réve 376, 474 ” La terre 331, 333 Le naturalisme au théatre 297, 470 “ Les héritiers Rabourdin 324

ZOLA

Les romanciers contemporaines

323, 471 ” Les romanciers naturalistes 471 ",

472“ Madeleine Férat 321-2 Mes Haines 297, 471 “’, 471“” Nana 175, 466 ‘

Nana 130, 175, 178 (ciclo) 309, 313, 322, 331-2, 335, 372, 457* Thérèse Raquin 320, 343, 471 “ zoTTOLi Angelandrea 59, 460 “ Rougon-Macquart

Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni 59, 460“

Fran^ois-Marie

ZWEIG

Stefan 248, 468’

Balzac. Le roman de sa vie 468 ’

487

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