115 31
Italian Pages 116 Year 2002
VR
UIL MILL
MASSIMO PULINI
Partendo dalla scoperta di una copia che supera tutte le qualità del dipinto originale, l’autore rimette in discussione ì concetti di invenzione e dì interpretazione di un modello. Nel 1985 sul mercato antiquario londinese apparve una bellissima tela
raffigurante David con la testa di Golia, replica sconosciuta di un’opera giovanile di Guido Reni conservata al Louvre. La straordinaria qualità del dipinto indusse ì maggiori esperti a considerarla una tarda versione autografa del pittore bolognese. Massimo Pulini identifica ora l’autore în Simone Cantarini, allievo geniale e irrequieto di Guido, verso il quale covò una singolare emulazione competitiva. Dal caso di Simone Cantarinì, Pulini trae tutti gli elementi
per un suggestivo e appassionato saggio che indaga l’atto dì copiare e dì replicare nelle sue implicazioni estetiche, formali e sentimentali,
giungendo a estendere il valore dell’invenzione alle qualità espressive e linguistiche individuali di un interprete. «Questo saggio di Pulini», scrive Andrea Emiliani, «nasce
dall’intenzione dì entrare nello spossessamento con le mani della critica d’arte e insieme con le blandizie della narrazione — due mani da secoli conniventì — aggiustando tuttavia ognì lento, misurato gesto conoscitivo con il bisturi del conoscitore».
Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation
https://archive.org/details/ilsecondosguardo0000puli
Collana Le porte regali pig
© 2002 by Edizioni Medusa [email protected]
ISBN 88-88130-38-1 In copertina: Simone Cantarini (attribuito),
Davd con la testa di Golia, Collezione
Privata, già in deposito presso la National Gallery di Londra (particolare).
Massimo Pulini
Il secondo sguardo La copia e la replica tra invenzione, emulazione e agone.
Il caso di Simone Cantarini Prefazione di Andrea Emiliani
medusa
Agli studenti divenuti amici
Prefazione Andrea Emiliani
Un'avventura indiziaria, quasi sempre un sospetto metodologico indifferibile, costringono Massimo Pulini a inseguire la mobilissima poetica di un giovane pittore del Seicento, un ragazzo appena, Simone Cantarini detto il Pesarese dalla sua città di provenienza. Pulini pittore conosce le palpitazioni del labirinto cardiaco che lo scrittore deve estrarre e mettere in parole; e prova dunque a fare di se stesso il terzo protagonista di una scena in cui i drammi del barocco chiedono di essere interpretati e forse, meglio, rivelati. Il tema di scena è quello in cui — avrebbe detto Anceschi — la decisione della forma anziché indirizzarsi subito all’ardore della creatività — che pure è nel giovane eccezionale — adotta un meccanismo di accostamento e di adeguamento. Il maestro di Simone, uomo di personalità molto complessa, si chiama Guido Reni, e non è escluso che i
primi passi del suo magistero assumano presto i caratteri del plagio, dell’impossessamento. Pulini scrittore, nella dimensione critica ha un antenato
celebre, il conte bolognese Carlo Cesare Malvasia, il maggior narratore d’arte del Seicento. Nel caso di Simone, egli seppe trarre dal suo accapigliato “zibaldone” una biografia forte per esistenzialismo, scartando appena i modelli tetorici esistenti. Eppure, la retorica è densa di piste interpretative. Il “fare arte” cerca e indaga entro i vicoli di un’ermeneutica esasperata prima ancora di piegarsi alle spiegazioni del vissuto. Da lampade retoriche, a cominciare dall’immancabile Quintiliano, è illumi-
nato del resto ogni passo di Pulini scrittore ed esse si riaccendono ogni volta che il pittore pulisce i pennelli e esce dallo studio. Quella che egli ha adottato come un piacere narrativo e in-
8 / Andrea Emiliani
sieme come un diletto critico, è però alla prima apparenza una trama sapienziale, una propinazione di dettati classici dentro la quale si immergono gran parte dei gesti del giovane Simone. Questi è l’interprete che emerge da considerazioni che procedono verso il metro, il ritmo e insommala versione naturalistica della narrazione letteraria e insieme si rinchiudono gradualmente entro le latebre della Gesta/psyohologie. Giunto da Pesaro sulla Piazza Maggiore di Bologna, entrato nello studio
che guarda il Palazzo d’Accursio, davanti al plagio del maestro prende corpo nella testa del giovanissimo (vent’anni appena) l’idea di sostituirsi a lui: di calarsi insomma nelle fattezze morali di Guido Reni, un uomo che conversa solo con i grandi come Virgilio Malvezzi; di paragonarsi al pittore che, avvolto nel
suo ferrajuolo, giunto in visita alla stanza dove il Pesarese sta portando a termine una sua pala d’altare commissionata da Urbano VIII Barberini, si vede voltare la tela al muro a causa di
una difformità rilevata e suggerita. Un gesto senza paragone. Guido dovette rimanere a sua volta folgorato da questo spossessamento. E la reazione fu senza ritorno. Dai primi momenti dell’imitazione consentita — e anzi favorita — aveva infatti sentito gli occhi del giovane trascorrere alla segreta emulazione, fino a trovarsi sempre più sovente di fronte a invenzioni pittoriche che assomigliavano a trasfusioni di sangue: quel sangue sempre più esausto che la sua intima idea neoplatonica conduceva verso il sospiro, la larva, il nirvana.
L’educazione del Pesarese veniva da un naturalismo di entroterra montefeltresco e metaurense, egli s’era insomma
fatto gli occhi e le mani adolescenti sulle indicibili combinazioni consentite tra la memoria di Raffaello, Barocci e Gentile-
schi. Di Guido poi s’era fatto un modello assoluto, Bi/4 nach Bz/d, a San Pietro in Valle a Fano, ripetendo ogni gesto di quella pala miracolosa derivata dagli arazzi Vaticani di Raffaello che era la Consegna delle Chiavi; e studiando ancor più attentamente la Pala Olivieri nel Duomo di Pesaro, ogni sua molecola cenerina. Questo saggio di Pulini nasce dall’intenzione di entrare
Prefazione / 9
nello spossessamento con le mani della critica d’arte e insieme con le blandizie della narrazione — due mani da secoli conniventi — aggiustando tuttavia ogni lento, misurato gesto conoscitivo con il bisturi del conoscitore. Ci sono momenti, direbbe Nicolò Tommaseo gettando un occhio a Richardson, nei
quali la pretesa della corzozssership ostacola per freddezza scientifica le prime ragioni del cuore. E lo sapeva bene anche il Malvasia, sempre pronto a trascurare un dettaglio tecnico purché si esaltassero le venature turgide dell’esistenza. E tuttavia ora, con lui, entra in campo un altro confronto, Bi/der nach Bildern: ed è il tempo che, bruciando, deve dissolvere ogni distanza. Il conoscitore elimina sensi e sentimenti, rimane solo davanti
all’originale e finge di sostituirlo. Come si vede, ancora una volta il dettato va dall’imitazione all’emulazione.
Il secondo sguardo
L’autoritratto e la copia
...Non volle comporre un altro Chisciotte — ciò che èfacile — ma il Chisciotte... // su0 proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero — parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes. ]. L. Borges
Ho nelle mani una piccola fotografia che sembra aver catturato un movimento al rallentatore, alla maniera di quelle cartoline a doppia esposizione che, viste di sbieco, fanno muovere gli occhi al Crocefisso o cadere il ventaglio rosso a
una pin-up giapponese. Ma le due immagini del volto che osservo, tiproducono una celeberrima effigie e in verità sono immote e non contengono neppure il plissettato elisir della terza dimensione. Solo le bocche e le pupille di sinistra
dei due volti gemelli appaiono concentriche, mentre gli altri occhi si affiancano paralleli, seguendo le meridiane del naso che, ripetute, danno semmai all’insieme un vago scombinamento picassiano. È nel 1968 che Giulio Paolini, artista di diamantina
precisione concettuale, realizza quest'opera (fig.2) dove si trova sovrapposto, per mezzo di un semplice espediente fotografico, l’Autoritratto di Raffaello, conservato a Firenze negli Uffizi, alla copia che di questo fece Ingres in un suo viaggio italiano.! La raffinata suggestione che il montaggio fa emergere è tutta contenuta in una leggera ma evidente
smarginatura tra i lineamenti dei due volti. L'invenzione di Ingres ? è il titolo che Paolini pone a sibillino suggello di quel divario minimale, delineando così lo stile e lo spirito dell’artista francese che tra i primi ha incarnato la malinco-
14 / Massimo Pulini
nica e nostalgica condizione della modernità. L’opera di Paolini parla in forma straordinariamente sintetica, come solo un enunciato può fare. Dice dell’aderenza e dello scarto; dell’ammirazione e dell’individualità; del ritardo e della durata, in definitiva del dialogo incessante della Pittura con se stessa e di quant’altro può scaturire da
fattori linguistici cardinali come quelli della copza e dell’autortratto.
L'invenzione di Ingres, oltre a potersi dire una copia ‘elevata al quadrato’ del dipinto di Raffaello, diviene manifesto intenzionale dell’artista torinese, quasi un proprio autoritratto sotto le mentite spoglie di due gemelli. Sedici anni dopo, e precisamente nell’aprile del 1984, in un convegno internazionale di studi tenutosi a Urbino, lo storico Gian Lorenzo Mellini rese noto un altro Autorzfratto
di Raffaello} (fig. 1), conservato in una raccolta privata. In quella sede, e più dettagliatamente in un saggio uscito due
anni dopo*, la nuova tavola venne proposta come prototipo, quale primo modello della fortunatissima effigie di Raffaello; lo studioso riuscì anche a organizzare un vero e pro-
prio incidente probatorio (fig. 3) nel quale l’inedito venne messo a confronto diretto con l'esemplare degli Uffizi, co-
me se si trattasse di un procedimento legale e, com'era da attendersi, si interessarono della notizia anche rotocalchi di
grande tiratura.
Da quella comparazione, il venerato dipinto fiorentino, considerato fino ad allora l’originale, uscì alquanto malconcio, risultando più fragile nel disegno, nel tessuto pittorico e anche nel carattere espressivo della figura. Lasciando gli interessanti particolari al rigoroso studio del Mellini, importa qui osservare come alcune scoperte di carattere storico possano incrinare convinzioni salde e mitici feticci. Una delle ripercussioni, forse tra le più remote, di quel
ritrovamento mette curiosamente in discussione anche la forma del postulato di Giulio Paolini, che pur essendo me-
taforicamente riferito a tutta l’esperienza stilistica di Ingres,
Il secondo sguardo / 15
poggia però i suoi dati estetici e semiologici su di un’immagine che ora va ritenuta, a sua volta, una copia da Raffaello.
Mi piace osservare che, seppur con altri intenti, sia stato un artista contemporaneo a porre per primo il dito sulla ferita di una sfasatura storica. A chiusura di questa introduzione si potrebbe poi, per gioco linguistico, rispondere a Paolini provando a sovrapporre l’immagine dell’opera di Ingres al “nuovo” Autoritratto di Raffaello e magari riscontrare una maggiore adesione tra i due testi, ma per la verità ho scelto
un irapit che trovi un innesco tra contemporaneo e antico perché questo esempio contiene pressoché tutti gli elementi intorno ai quali si districherà il mio prossimo racconto.
Il doppio corretto
Breve confinium artis et falsi. Tacito
L’atto di ritrarre e quello di copiare sono fratelli germani. Uno dei lineamenti che li accomuna è la 772zesis, V’intento di assomigliare al soggetto nel massimo grado possibi-
le, aspirando al doppio. In pittura il risultato archetipico del ritrarre è lafinzione, è la traduzione in due dimensioni di un soggetto che ne possiede tre, dove la mimesi si affianca all’illusione ma presuppone, per compiersi, un unico punto di osservazione dell’opera. Anche il copiare un dipinto, nei suoi raggiungimenti estremi, mira a ottenere un doppio, che tuttavia non è tradotto in una materia differente, illusoria o sublimata, ma è fatto di una natura affine, assimilabile a quella dell’originale,
tenta così un doppio assoluto, un gemello confondibile col modello stesso. Gli intenti di questa emulazione possono essere i più vari e contrastanti: ragioni affettive e ragioni di contraffazione, di studio e di falso, di cimento con se stessi e di gara possono coesistere nelle copie.
Correggere la Natura attraverso un principio di Bellezza ideale è l’intento supremo e confessato dell’arte ellenistica e di tutta quella che si richiama ai principi di c/assico. È
possibile definire questo atteggiamento come z722tazzone competitiva con la Natura 0, se si vuole, col Dio creatore.
È su simili principi che alcuni artisti, pochissimi in verità, si sono confrontati con modelli eccelsi, tentandone un
superamento, un perfezionamento che ha agito, a seconda dei casi, sul piano formale, espressivo o concettuale, asse-
18 / Massimo Pulini
condando una precisa ezzulazione competitiva. Aggiungere una nuova perfezione, una perfezione individuale al perfetto 0ggettivo. A partire dal testo che segna la nascita della storiografia
artistica, Le vite del Vasari 5, viene riportato un episodio illuminante: nel 1524 Andrea del Sarto accetta di duplicare, in segreto, un importante dipinto di Raffaello, allora già morto da cinque anni, il Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’
Medici e Luigi de’ Rossi. La copia venne commissionata da Ottaviano de’ Medici col preciso intento di inviarlo, quale originale, a Federico II Gonzaga, che lo aveva espressamente chiesto a papa Clemente VII. Andrea eseguì una copia di tale livello qualitativo che giunse persino a migliorare il modello raffaellesco e riuscì a trarre in inganno anche il più fedele allievo del Sanzio, Giulio Romano, venendo poi per molto tempo considerata au-
tografa anche quando passò nella collezione Farnese, e solo nel XVIII secolo, “smascherata” da un colto conoscitore in-
glese, che collegò l’opera a quella citata dal Vasari notandovi l’eccesso di “perfezione” in confronto al prototipo.6
Il primo nodo da sciogliere è intrecciato sulla corda di una fionda
Explicando implicatur. anonimo
La spinta iniziale di questo libro risale a qualche anno fa, durante la visita a due tra le esposizioni più affascinanti
degli ultimi decenni: l’ampia rassegna che portò il nome: Nell’età di Correggio e dei Carracci (Bologna — New York 19861987) e la mostra monografica dedicata al sensuale artista romagnolo, Guido Cagnacci, tenutasi a Rimini nel 1993. I diversi argomenti che intendevo affrontare erano tutti al centro di un lago torbido di preconcetti, dovettero quindi subire un periodo di decantazione, passando attraverso un sentiero carsico, che li ha filtrati ma anche contaminati di elementi acquisiti strada facendo, finché non hanno ritrovato quasi naturalmente un’uscita comune. X
Il 3 aprile 1985 passò in asta da Sotheby's a Londra un David con la testa di Golia? (fig. 5), versione sconosciuta del famoso dipinto di Guido Reni (d’identico soggetto e impostazione), conservato a Parigi, presso il museo del Louvre 8 (fig. 4). L’elevatissima qualità dell’inedito finì col giustificare la quotazione record alla quale venne aggiudicato, avendo anche trovato, da subito, i favori dei più prestigiosi studiosi del genio bolognese, che videro nell’opera un sicuro au-
20 / Massimo Pulini
tografo tardo. Sin dalla scheda inserita nel catalogo della vendita, venne anche proposto di identificare il dipinto
con quello appartenente alle collezioni del duca di Modena Francesco I. Acquisito da un collezionista privato è stato posto da quel momento in deposito espositivo presso la National Gallery di Londra e l’anno seguente venne prestato all’esposizione itinerante di Bologna e New York. L’emozionante impatto visivo, al cospetto di questo di-
pinto, riscattò la tiepida impressione che l’originale giovanile di Parigi mi aveva in altri tempi suscitato. Innegabile è l’importanza della versione del Louvre, documentata, ampiamente lodata (Giambattista Marino gli dedicò un componimento) e finanche precoce (databile tra il 1605 e il 1606), ma aldilà di tutto il rispetto dovuto, mi è sempre apparsa alquanto inerte nel sentimento, in una parola: frigida.
La nuova tela si presenta invece estremamente vissuta nella pittura, sollecitata dal palpito di un vibrante e trasudato
pennello: una stesura partecipata che crea in luogo delle superfici levigate e quasi diligenti della prima versione, una
epidermide calda non solo nei toni cromatici ma anche nel sentimento, attraverso campiture macerate da una frantu-
mazione della pennellata che vista da vicino è corsiva eppure mai casuale, sempre dominata, gestita nei limiti di una ro-
busta ma disgregata materia, che lascia trasparire la rossa preparazione, come un polso fa intravedere le vene. Una materia non troppo lontana da quella che si può ri-
trovare in alcuni dipinti di Velàzquez, quelli, tanto per intenderci, a metà strada tra la prima sua maniera compatta, densa e l’ultima, crepitante, quasi stenografata che si direbbe dipinta a occhi socchiusi. Questa espressiva esecuzione del dipinto londinese impedì a tutti gli specialisti di datare l’opera a ridosso del giovanile originale, venne quindi sensatamente inoltrata negli anni, anche qui a metà percorso tra il primo e l’ultimo stile di Guido Reni, quello sublimamente moderno e larvale, quello del disfacimento degli angeli.
AI solito l'inserimento cronologico, nel catalogo di un
Il secondo sguardo / 21
autore, per un dipinto che non ha circostanziati appigli documentari, avviene attraverso l’ancoraggio di stile ad altre
opere conosciute, ma la proposta di Stephen Pepper? (autore della monografia più completa su Guido Reni), di datare il nuovo David tra il 1627 e il 1628, non può assecondare questo metodo, perché sono di quegli stessi anni dipinti co-
me L'Immacolata Concezione (New York, Metropolitan Museum of Art), La Vergine col Bambino dormiente (Roma, Galleria
Doria Pamphilj), La Vergine col Bambino (Raleigh, North Carolina Museum of Art) o la Maddalena (Quimper, Musée des Beaux-Arts) che nulla hanno a che vedere con la maniera pittorica che ho descritto, ma vivono nella loro eterea e impalpabile eleganza, nel loro distacco divino e ineffabile, sia
nello spirito del soggetto che nel trattamento. Ma non vale posticipare di qualche anno l'esecuzione
del quadro per trovare similitudini condivisibili, perché ogni compagno che gli si propone dichiara immancabilmente una temperatura più bassa, un intento più algido,
una superficie più porcellanata, oppure, nell’epilogo dell’autore, un disincanto così evidente che conserva anche nella pennellata più gestuale la lontananza di un freddo monologo eremitico e un ventaglio cromatico che insiste sui toni del pastello gessoso e della cenere. Stiamo invece cercando una pittura che assomigli al senso di una presenza, vivida ed energica, calda e fin quasi sospitante come la bocca schiusa del nostro Davd dichiara. Francesca Valli, in un testo relativo al Davd (non a caso, la versione del Louvre), riporta un brano di Gnudi, ge-
niale nella sua semplicità, per comprendere un aspetto dominante del programma stilistico reniano e, nello specifico, dell’autografo giovanile. Gnudi sostiene che «le persone diventano in Reni personaggi», si astraggono cioè dalla condi-
zione individuale per interpretare impassibilmente una figura retorica, di seguito la Valli integra la frase definendo quanto essi «respirino solo nello spazio della pittura».!0 Reni attuò così un principio che si può dite raffaellesco nell’eludere il rischio di rappresentare “attimo dell’uomo”.
22 / Massimo Pulini
L’intento fu quello di giungere a un’idea di bellezza per via di sottrazione, mitigando l’eccesso di umanità e di senti mento nella figura dipinta, al fine di rifondare quella divina
imperturbabilità propria dell’arte ellenistica. Quel David (il primo) non viene certamente presentato come un giovane intraprendente che col proprio coraggio ha osato sfidare il terribile gigante riuscendo a vincerlo con un’abilità manuale degna di un monello di Twain; non ha
certamente neppure l’impeto o il turbamento di chi ha appena ucciso il mostro, mozzandogli bruscamente, brutalmente
la testa, prima che si potesse riavere dal colpo. Quel Davzd è un impassibile ragazzo di-buona famiglia, dagli impenetrabili pensieri, che contempla svagato l’immensa testa recisa, ancora sanguinante, con lo stesso spirito col quale un moderno damerino cingerebbe un casco da motocicletta giocherellando annoiato con le chiavi di casa nell’altra mano. Trovo davvero straordinario come il secondo Davd,
pur avendo la stessa posa apollinea, pur essendo vincolato nel medesimo registro iconografico, riesca a capovolgere il senso del testo originario, osandone direi un’intima contestazione. Non solo “l’attimo dell’uomo” è tornato a dare pulsazione alla carne, non solo il “personaggio” è ridivenuto “persona”, ma questa persona dimostra, comunica un afflato sentimentale e languido di emozionante intensità.
Queste differenze potrebbero apparire sfumature non discriminanti l’autografia reniana, che — già si sarà inteso — voglio ricusare per la tela londinese, ma ritengo siano argomenti sui quali l’autore del secondo David abbia intenzional-
mente speso le proprie elevate addende stilistiche nell’altrimenti pedissequo lavoro di copista. È tempo che si giochi a carte scoperte e che si sappia il nome dell’artista che ritengo autore del dipinto di Londra,
opera che andrebbe posta così ai vertici di quel maltrattato ma affascinante mondo della copia, o se si preferisce del d'apròs. Immagino che il lettore avrà anche compreso come sia diametralmente opposta, dall’intento di questo mio scritto,
Il secondo sguardo / 23
la detrazione o il declassamento di quello che considero un
capolavoro assoluto, e nella fattispecie un capolavoro di Simone Cantarini (Pesaro 1612 - Verona 1648). Nel suo catalogo si ritrovano opere dall’analoga temperatura espressiva, a partire dagli esordi, dalla Sanza Rita da Ca-
scia (Pesaro, chiesa di Sant'Agostino), da l’Autoritratto (Roma, Palazzo Corsini) (fig. 6), ma è così anche in dipinti maturi quali il Sar Pietro che risana lo storpio (Fano, Pinacoteca Civica) eseguito intorno al 1640 o estremi come l’Incoronazione della Vergine e i Santi Vincenzo e Benedetto di Gandino (fig. 7).
La vita dispersa e quella spezzata
Licet ipsa vitium sit ambitio,
frequenter tamen causa virtutum est. Quintiliano
La Vita di Cantarini è andata dispersa, forse giace, na-
scosta e non riconosciuta, in una cantina polverosa. Il libro che conteneva la Vita di Simone, scritto da Gio-
seffo Montani!! sulla raccolta di testimonianze dirette, era già conosciuto e apprezzato da Carlo Cesare Malvasia, ma rimase accessibile anche all’Orlandi, ai tempi dell’Oretti, e fu perfino consultato dall’abate Lanzi che scrisse la sua Storia pittorica verso la fine del Settecento.!2 Poi del volume, inspiegabilmente, si sono perse le tracce e ora possiamo ricostruire i dati biografici di Cantarini utilizzando esigue citazioni, sparse so-
prattutto nella Felsina Pittrice, all’interno della quale però il Malvasia si limita quasi essenzialmente a riportare episodi e commenti del suo periodo bolognese, dando inoltre privilegio ai rapporti che intrattenne con Guido Reni. È certamente la parte di vita più utile a quest'occasione e si è portati a definirla centrale di tutta l’esistenza artistica del Pesarese, spingendo a una deduzione che è comunque arbitraria.
Simone Cantarini nasce a Pesaro intorno alla metà di
agosto del 1612 e pare abbia appreso i rudimenti della professione dal conterraneo Giangiacomo Pandolfi, ma il primo vero maestro, che lascia segno visibile sulle opere, va ti-
conosciuto in Claudio Ridolfi (Verona 1560-Corinaldo 1644), che da tempo si era trasferito nelle Marche e teneva
26 / Massimo Pulini
bottega a Corinaldo. È dalla sincera adesione del veronese alla poetica degli affetti coniata dall’urbinate Federico Barocci (morto nell’anno di nascita di Simone), che il nostro giovane Pesarese acquisisce i fondamentali caratteri della migliore tradizione artistica marchigiana, manifestando da subito una spiccata vocazione al disegno.
Ma il vecchio Ridolfi, settantenne, ancora legato a stilemi tardomanieristici, per quanto riscattati da un’eleganza affabile e da una spedita franchezza, non riuscì a soddisfare le aspettative di formazione che Simone coltivava per sé, nella
prospettiva di far fruttare il proprio talento. Così come Guercino scelse quale maestro e modello stilistico un dipinto, che Ludovico Carracci aveva eseguito per Cento di Ferrara, dichiarando
esplicitamente di aver
“preso il latte” da questo!3, Cantarini mise programma alla propria educazione in faccia ai dipinti che Guido Reni aveva inviato nelle sue terre. Da questo all’aspirazione di divenire allievo diretto il passo fu breve, ma per essere accolto in bottega, dovette celare le proprie già elevate qualità, riducendosi età e cultura,
spacciandosi insomma pet un giovane ancora tutto da plasmare. Malvasia esemplifica il carattere di Simone “sotto Reni”, attraverso un’aneddotica di frizioni e bisticci intercorsi con gli altri allievi, a introduzione di quelli che matureran-
no col maestro stesso. Sono gli elementi utili, al cronista bolognese, per descrivere la «naturale alterigia per tanto tempo oppressa dall’insopportabil peso di una accidentale necessità».!4 In seguito all'ennesimo scontro, Cantarini abbandone-
rà l’atelier di Reni, iniziando la piena indipendenza professionale in quello che sarà anche l’ultimo decennio della sua breve vita.
Lo aspettano anni in cui raccoglie stime incondizionate e adulazioni di profittatori, che metteranno alla prova un ca-
rattere anarchico e sicuramente egocentrico, che gli fece spendere male anche le migliori protezioni.
Il secondo sguardo / 27
Dopo alcuni soggiorni in patria e a Roma, riuscì ad aprire una propria bottega a Bologna ma, come era da immaginare, solo dopo la morte di Guido Reni. Il brusco epilogo della vita di Simone è avvolto in quell'alone di mistero che lascia il dubbio su una morte per avvelenamento, durante un breve periodo mantovano del pittore presso la corte dei Gonzaga. Troppe biografie di artisti registrano omicidi nati dalle invidie di colleghi, che si sentivano defraudati dal nuovo pittore chiamato ad assolvere ambiti incarichi. Ma unendo il talento indiscusso di Cantarini col suo proverbiale, scontroso carattere, questa mitografia potrebbe non essere troppo lontana da una realtà che forse non conosceremo mai, neppure quando riaffiorerà la
biografia del Montani. Comunque sappiamo che Simone ebbe il tempo di riparare a Verona, chiedendo soccorso al fratello, un monaco
agostiniano, che si trovava in un convento della città veneta. Furono però quattro giorni di agonia, prima della morte, avvenuta nel suo trentasettesimo anno di vita, in ossequio alla
cabala che unisce il tumulto del genio a un preciso e breve tratto di esistenza.
Invenzione e paternità
L'opera preesiste all'intervento dell'artista
(che è ilprimo a poterla contemplare). Giulio Paolini
Vi sono termini che trovandosi impigliati ad altri s’illuminano di una chiarezza originaria, facendo riemergere l’etimo che l’uso corrente ha offuscato.
Ricordo lo stupore, anche se sono passati molti anni, nel leggere per la prima volta la didascalia in calce alla riproduzione di un dipinto di Piero della Francesca: L'invenzione
della Vera Croce.!5 Ovvio è il legame tra il termine invenzione e l’azione del ritrovamento (la parola latina inverzo significa: trovare, imbattersi, vedere), ma questo non impedì il divagare dei pensieri sull’ambiguo significato e sul dubbio filosofico connesso al senso di originalità che si attribuisce abitualmente all’invenzione. “Inventare la Croce” sulla quale trovò la morte il Cristo, è un’espressione che accentua il potere enigmatico delle paro-
le e dei loro divergenti sensi. Quella di “nvenzare i Vero” si inoltra addirittura verso i territori dell’iperbole linguistica. Ancora più acuto e in equilibrio sul crinale di opposti
versanti, può risultare l’uso del termine invenzione se applicato nei campi dell’arte o della scienza. X*
«Abbiamo
tutti la convinzione di essere gli autori dei
nostri pensieri» e che le idee ci appartengano in primogeni-
30 / Massimo Pulini
tura, ma sospetto, senza la necessità di ricorrere al trascendente, che la gran parte di esse stiano nello sterminato cane-
stro di una raccolta giornaliera di suggestioni e spunti, di letture o momenti di vita dei quali siamo spettatori e che vengono da ognuno tradotti in un vocabolario individuale,
anch’esso costituitosi pezzo a pezzo nell’arco della nostra esistenza, che è sempre erede, diretta o indiretta, di coloro che ci hanno preceduto.
Un solo esempio specifico: qualche tempo fa mi è capitato, cercando una stazione radiofonica, di captare, per pochi secondi, una voce che parlava proprio di questo. Solo una frase: «Abbiamo tutti la convinzione di essere gli autori
dei nostri pensieri...», subito dopo il segnale radio è uscito dal raggio della mia auto, ma quelle poche parole, sospese su di un'illusione e destinate a rimanere anonime, hanno aggiunto una tessera fondamentale a un mosaico di convinzio-
ni sommerse, e il mio terreno di pensieri ha accolto spontaneamente la germinazione di quello che molto tempo dopo
(ora?) sarebbe divenuto un capitolo di questo testo. Eppure sono ugualmente certo che un’idea nu0v4 possa scaturire anche dalla semplice manipolazione di pensieri mutuati: Raffaello è già sul proprio geniale solco stilistico e
inventivo, anche quando sembra solo correggere le scelte formali del Perugino. C'è stato un tempo in cui il primo significato della pa-
rola autore era “colui che aggiunge”. Anche in questo caso l’antica lingua latina ci restituisce un’accezione che torna a disilluderci sull’idea di paternità, come se non esistesse alcuna paternità assoluta, ma
solo infinite, perenni figliolanze, solo un passare del mondo e della vita di mano in mano, e in quel breve passaggio ci fosse concesso unicamente di smussare o aggiungere, di
rimodellare una materia e una forma che si tramandano e che forse preesistono a ognuno.
L’Arte incarna magistralmente questo assunto e spattisce qualcosa con l’archetipo sommo del nutrimento umano: il pane.
Il secondo sguardo / 31
Quando ancora questo alimento si faceva con le mani, il lievito, che miracolosamente gli permetteva di crescere e
di farsi soffice, non era altro che un tozzo dell’impasto del pane precedente, lasciato a fermentare avvolto in un panno
e recuperato ogni volta per formare una nuova opera. Ogni nuova pagnotta conteneva una piccola componente del pane più antico, reiterando una sorta di infinita partenogenesi. L’Arte, per lievitare, attinge ogni giorno al proprio corredo genetico, nutrendosi delle espressioni, delle forme e delle materie che l'hanno preceduta, ma ci sono artisti che hanno fatto di questa condizione il preciso manifesto del
proprio stile.
In una delle sue conversazioni pubbliche, sempre generose di illuminanti osservazioni, Jorge Luis Borges, rispondendo a chi gli chiedeva il suo approccio alla creazione di un poema, confessò: «Mi pongo in una situazione passiva e
aspetto. Aspetto e la mia unica preoccupazione è di mettere tutto in bellezza... Ho la sensazione di ricevere un dono,
non so bene se dalla mia stessa memoria o qualcosa altrui. E cerco di non intervenire troppo».!9
L'invenzione di Cantarini
...far scorrere un po’ del sangue di Dioniso nelle vene organiche di Apollo. Gilles Deleuze
Chiedo nuovo prestito al titolo dell’opera di Giulio Paolini: L'invenzione di Ingres. Se l’aggiunta di Jean-AugusteDominique Ingres va valutata nel recupero di quel lievito raffaellesco e nello scarto formale consumato ai margini di un voto neo classico, quella di Simone Cantarini riesce a distinguersi nella trama pittorica e in quella sentimentale an-
che là dove è assente l’invenzione compositiva; entrambi trovano una propria, distinta posizione nel mirare un interlocutore ideale da porre in asse tra sé stessi e il mito ellenistico. Tra il presente e l'archetipo.
Una volta svelate le mentite spoglie di «debil scolaro», Malvasia ci informa dei comportamenti più irregolari di Can-
tarini all’interno della bottega di Reni, alcuni dei quali giunsero ai limiti della spavalderia, spingendolo in un’occasione a posizionare sul cavalletto del maestro un proprio dipinto, un San Girolamo, che aveva «bozzato in poche ore di nascosto», lasciandolo esposto al giudizio degli altri giovani allievi. Ed essi, pensando di osservare l’ultima mirabile prova di Guido, non fecero che lodarla, assecondando, a detta del cronista, la già riconosciuta superbia di Simone.!7 l’emulazione competitiva, come la definì Francesco Arcangeli!8, spinse Cantarini a quello che nessun altro allie-
vo di Reni osò: tentare un superamento espressivo e perfino
34 / Massimo Pulini
una più alta scioltezza esecutiva, rispetto a quella del maestro, questo all’interno della sua bottega e in date nelle quali
lo stile del gigante bolognese non si era spinto ancora alle estreme dissolvenze.
Spigolando dai numerosi saggi di Andrea Emiliani dedicati a Cantarini si ottengono esemplari viatici per la rotta intrapresa. «Ora è dunque il sentimento, dimensione inusitata, che sostituisce l’innovazione... Dentro la dimensione dell’eclet-
tismo prende corpo il rilancio delle esperienze, si promuove la citazione a livello di invenzione, purché sostenuta passionalmente... La memoria lavora ormai costante come fosse uno strumento di novità... Il nuovo metodo appare ormai di cultura programmatica ed è calato entro meccanismi di moderna poetica... Il regime retorico di Simone non è più garantito dalla vecchia accoppiata dell’arte come imitazione
(del reale), ma piuttosto dell’arte come emulazione (dell'arte). Imitatio ed aemulatio, si direbbe riprendono la loro pendolarità che nulla esclude tra antico e moderno, ma che muta notevolmente il campo della stessa osservazione... Proiettata sul futuro e sul passato simultaneamente, la pittura recu-
pera spazi più mobili e vasti, accomuna invenzione e meditazione, innovazione
e memoria...
Carlo Cesare Malvasia
chiamava “retentiva” questa virtuosità (4 cantariniana) di trattenere le idee per poi rielaborarle fino a individuarne un nuovo livello di espressione. Questo meccanismo che andava avanti e indietro come un naspo sul telaio aveva effetti singolari sul sistema che chiameremo dei ricorsi nella memoria e del loro trasferimento dal passato al futuro».!9 L’invenzione di Simone, dunque, è coltivata nella me-
moria, nel sentimento e coincide con la stessa qualità, la stessa serena facilità dell'esecuzione. Cantarini non esclude
a priori la primogenitura compositiva, come invece in modo più paradigmatico sembra avvenire nella pittura di un altro marchigiano, Giambattista Salvi detto il Sassoferrato. Nel
discorso del Pesarese, interrotto dalla precoce e violenta
Il secondo sguardo / 35
morte, non mancano certamente le idee inedite per iconografia, disposizione e forma. Così, il sorprendente numero
di disegni pervenutoci, testimonia un indefesso e fantasioso cimento progettuale che non trova pari tra icontemporanei né per qualità, né pet numero di prove che scandagliano con ostinazione un pensiero visivo. Bisognerebbe riandare al conterraneo Federico Barocci, l’altro suo maestro ideale,
per trovare paragoni calzanti. La decisione e la velocità indiziata dal tratto grafico di Simone, la precisa idea di bellezza che costantemente abita
in corpi affusolati che quasi sempre prescindono da modelli in posa, ci restituiscono un miracoloso virtuosismo mne-
monico che permette comunque all’artista di fermare, in quel vibrato traffico di segni, momenti di delicata umanità, così sinceri e felici da non poterli sfrattare dalla casa del naturalismo.
La rotta di collisione
Emendatio pars studiorum longe utilissima Quintiliano
Aveva ancora l’asta d’appoggio nella mano sinistra, un pennello tra i denti e altri tre nella destra, per poter cambiare rapidamente il colore nel ritocco e nel dar di lume alla te-
sta del Gesà trasfigurato (fig. 8), che ormai appariva risolta. Si, alcuni pennelli nella stessa mano, così spesso lo si vedeva nell’atto concitato del suo dipingere: teneva ben fermo quello che stava usando con tre dita, mentre riusciva a reggere, senza più badarvi, gli altri legni intinti, negl’incavi tra indice, medio e anulare. Fra in piedi sull’ultimo piolo dello scaletto di legno che
gli permetteva di fronteggiare quel melanconico volto splendente, quando sentì il vociare studentesco e i toni zelanti che
seguivano sempre gli spostamenti del grande maestro e insieme, da lontano, lo annunciavano.
Passare in rassegnai labirintici stanzoni di via Clavature assegnati agli allievi, era per Guido Reni una prassi settimanale ed è fin troppo facile per noi immaginarlo al pari di un medico, un primario di ospedale che, col suo seguito, passa di camera in camera facendo diagnosi pompose dopo fugaci e distratti controlli. Simone, prima che il gruppo entrasse nella stanza, staccò gelosamente i disegni che si trovavano ancora puntati da qualche spillo in varie parti della tela, per lo più vicino alle figure. Non aveva mai amato troppo quella commessa che pu-
re per il suo prestigio aveva inacidito di invidia i bolognesi
38 / Massimo Pulini
esclusi. Come? La più importante e ricca richiesta, giunta
dall'ambiente del papa Barberini direttamente a Reni, veni va passata a tre forestieri? A Michel Desoubleay il San'Urbano, a Pierre Dulauvier il San Michele Arcangelo e all’impertinente Cantarini, non ancora venticinquenne, l’opera più
complessa: la 1rasfegurazzone. Ma mentre i primi due, pur provenienti d’oltralpe avevano mutato a Bologna il loro nome in Michele Desubleo e in Pietro Lauri, Simone continuava a venir detto con distaccCOMilsesaresei
Non era entusiasta di quel compito per Fort Urbano di Castel Franco, perché sentì d’esser stato messo ancora una volta con le spalle al muro, era già da un po’ che prediligeva, per sé, colori terrosi e ombre sanguigne, i bruni caldi dell’imprimitura lasciati scoperti a rivelare finzione e gesti sa-
pientemente interrotti. Sapeva che i suoi bozzi spavaldi, toccati con una precisione da spadaccino, erano intimamente ammirati da Guido, ma come se lo facesse di proposito, il maestro gli richiedeva da qualche tempo solo temi lumine-
scenti e superfici smaltate. E cos’era la Trasfigurazione, se non una parabola sulla purezza della luce? Per giunta la riparti-
zione a doppio registro, che l’episodio evangelico imponeva, era quanto di più reniano potesse esserci, e a lui incominciava a stare stretta anche la definizione di «miglior scolaro».
La bisbigliante ronda stava entrando nella stanza di Cantarini per giudicare la pala che Simone aveva annunciato come «quasi finita», riservandosi, opportunamente, di met-
tere ancora mano a qualche piccolo particolare. Pur non avendola fatta con passione era contento del risultato, del tono di gloria e di mistero che l’insieme ispirava. Questa volta non doveva sbagliare l'esame, ma non era tranquillo, la faccenda era partita col piede storto e il suo otgoglio era stato ferito da subito, quando sottoponendo a Reni i bellissimi disegni preparatori venne irriso, da un allievo bigotto, forse l’acerrimo nemico Sirani, che rimarcò un
errore di cultura (un errore che ora si direbbe filologico):
Il secondo sguardo / 39
rappresentare il Ges? frasfigurato nei panni discinti di un Rzsorto°% (fig. 10) con tanto di ferita nel costato, quando il mitacolo verificatosi sul monte Tabor, alla presenza degli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, avvenne prima della Passione,
come riportano i Vangeli. Un piccolo inciampo in fase preliminare, che infastidi-
va però l’amor proprio di Simone, una svista nella foga creativa, accentuata forse dal già avvenuto isolamento nell’ambiente di quella scuola competitiva, che lo privava di amici sinceri e di referenti paritari coi quali confidarsi prima degli esami.
Insomma questo doveva essere lo spirito, teso e vibrante, che Simone covava in quel momento dimostratosi poi epocale nella sua breve esistenza. Si era preparato a ricevere un altro rimprovero sulla scarsa luminosità dell’opera, risolta ostinatamente da un esteso controluce, e aveva studiato risposte appropriate, ma ormai erano conosciute le sue posizioni, né Reni aveva intelletto facilmente prevedibile. Il grande quadro dominava fieramente lo spazio e dalle nere nuvole disposte a golfo scendeva incombente il manto immacolato che aderiva leggero alle forme sinuose del Gesù, rendendolo avvenente, sensuale. Dopo aver lasciato passare lunghi, interminabili minuti di silenzio, che avevano imbarazzato un po’ tutti i presenti, con gesto altero e sacrale Guido afferrò un gesso tozzo che si trovava sul tavolo e tracciò il disegno di una nuova gamba
sopra quella più lunga dipinta da Cantarini nella figura distesa del San Pietro, sentenziando quanto se ne dovesse taglia-
re per una giusta proporzione del corpo. A quella plateale correzione, fatta volutamente più di gesti che di parole, Simone rispose muto: con calma sconcertante, voltò contro il muro la pesante tela, in una lenta
eppure inesorabile rotazione del telaio, dal cui raggio il maestro dovette scansarsi per non venire investito e magari lor-
dato dal colore ancora fresco. Fatto questo, il giovane putosangue voltò anche lui le spalle a tutti, liberando negli attoni-
40 / Massimo Pulini
ti spettatori un forte brusio di disapprovazione e di scandalo. Il silenzio di Simone stanò quello di Guido: «Non potendo... senza discapito di sua reputazione tollerare questo fatto così pubblico, se ne risentì con parole acti e mordaci: riuscirgli egli un impertinente: sino che si era contentato di portargli il dovuto rispetto, essere un valentuomo, ora che ardiva usare simili tratti, essere un goffo; che però mai più avesse atdire di chiamarlo a giudicar le sue cose, anzi di capi-
targli avanti, già che si pretendeva in posto di non poter più errare ed essere corretto».2!
Il magistero e l’alunnato
... e forse perché le poche cose che saranno andate fuori d'Italia saranno non sue, ma di Guido riputate.
(dall’introduzione dell’ A/b4 Homé)
Tra il 1630 e il 1637, anno dell’ormai leggendario scontro che segna la rottura insanabile del rapporto tra il “superbo” allievo e il “divino” maestro, come li definisce Carlo Cesare Malvasia, Simone ricevette più di un incarico pervenuto all’atelier di Guido Reni. Tra i molti committenti che si rivol-
gevano al maestro, i più si vedevano costretti, di fronte alla prospettiva di una lunga attesa e di esorbitanti costi, ad accet-
tare realizzazioni di scuola, all’interno della quale vigeva una rigida struttura piramidale che graduava qualità e compensi. In qualche misura il venerato artista bolognese, oltre alla sua diretta attività, più o meno coadiuvata dagli aiuti, si doveva comportare anche come un moderno gallerista, un mercante che disponeva di una collaudata seuderza di giovani artisti ai quali affidava richieste di variabile prestigio e remunerazione.
Per quella Trasfigurazione, Simone venne liquidato di quanto gli spettava, ma presumibilmente essa rientrava nelle pertinenze della bottega reniana; il mistero di una
versione notevolmente più chiara e diligente (fig. 9), che in antico si trovava presso il Santuario di Fornò nel forlivese
e ora nei depositi di Brera, va interpretata non come variante autografa di Simone??, ma come copia fatta fare sulle volontà e sul gusto di Reni, forse dopo l’uscita di Simone dall’azelier di via Clavature. Per quanto riguarda il nuovo Davzd, sarà necessario
42 / Massimo Pulini
porlo all’interno del primo periodo bolognese 1630-1633, oscillante, in apparente contraddizione, tra una fiorita indi-
pendenza e la massima adesione di Cantarini al linguaggio reniano.
È possibile figurarsi Simone, in quel tempo, pensando a un musicista che lavora in una importante orchestra, all’interno della quale riceve incarichi da solista, ma sempre sotto
il fermo ordito tracciato dal famoso direttore. Eppure parallelamente il giovane compone e arrangia per proprio pensiero opere che segnano un marcato stile e un sentimento individuale. Uno scorcio temporale, questo, che infatti annovera
al suo interno opere anche molto diverse tra loro a prova di alterni sentimenti, di giornate che presagivano la fuga. Lo sdegnoso sfogo di Simone riportato con la consueta parzialità dal cronista bolognese e che qui si è voluto rivedere, immaginare, ci permette di prospettare motivazioni che vanno ben aldilà dello stizzoso carattere attribuito al giovane Pesarese. Non è solo un'ipotesi, infatti, ma una certezza, che qualche opera condotta da lui venisse venduta come autografo di Reni stesso?3, e credo che questo sia difficil-
mente sopportabile da chiunque non limiti la propria passione per la Pittura al mero lavoro. Inoltre le riconosciute doti incisorie del Pesarese suscitarono l’interessata attenzione del maestro che vi vedeva la buona opportunità di diffondere, attraverso un’elevata traduzione grafica, le sue innumerevoli e fortunate icone. Sappiamo dai fatti che Cantarini eluse questa richiesta, ma forse
non senza un ulteriore carico di tensioni.?* Ovviamente poi
tutto quello che vado dicendo, si basa sugli sparsi appigli che abbiamo a disposizione per capire le ragioni di un disamore, appigli provenienti per di più da una fonte che, pur riconoscendone le altissime qualità, non fu mai troppo magnanima
nei confronti di Cantarini. Sempre il Malvasia ci ricorda altri piccoli dinieghi di
Simone tra le mura del “collegio” reniano, come il rifiuto di partecipare alle sedute collettive di disegno col modello
Il secondo sguardo / 43
in posa, preferendo quella sua straordinaria memoria “retentiva” delle immagini e dei corpi, che gli permetteva, nella tranquillità della propria stanza, una posizione mediana tra naturale e ideale.?5 Reni era invece abituato a scolari ossequiosi e dipendenti. Sarebbe interessante tracciare una storia del magistero
artistico, per verificare le variabili del rapporto tra maestro e allievo, ma ritengo che anche a distanza di secoli si possano ritrovare alcune costanti nell’educazione alle arti.
In particolar modo i rapporti conflittuali, sono spesso ancora retti da dinamiche e moventi tra i più vari, vi sono in-
segnanti che usano l’autorità senza autorevolezza, chiedendo e ricevendo incondizionate adesioni di stile, rigide di fronte al mutare delle generazioni, e altri che sotto il tono di-
spotico covano la speranza di un figlio ribelle, di un discepolo che sappia reggere lo sguardo ed esprimere la propria marcata autonomia nella forma e nello spirito, ma forse non sapremo mai quali atteggiamenti dominavano il rapporto tra Reni e Cantarini.
È molto probabile che anche il nostro Davd con la testa di Golia muovesse da un’altolocata richiesta a Guido Reni in persona e al suo sommo pennello, con la precisa clausola di replicarlo dal famoso originale, è altresì plausibile che lo stesso passasse poi l’incarico, nel segreto del proprio studio, al migliore dei suoi allievi. Episodi del tutto analoghi si ritrovano nella bottega mantovana di Domenico Fetti che addirittura inviò inequivocabili copie, dichiarandole quali suoi autografi, a destinatari del calibro di regnanti.
Dal temperamento che ormai conosciamo di Simone Cantarini consegue come la richiesta del maestro venisse accolta al pari di una sfida, quell’emulazione competitiva trovò il suo terreno ideale in una partita che avrebbe messo alla
prova, oltre alla mano, anche qualità e tenuta psicologica. È di certo una coincidenza che il tema del compito pat-
44 / Massimo Pulini
lasse di un’altra sfida, tta un gigante e un ragazzo, che Reni
aveva già ritratto come spocchioso, forse a questo probabilmente il vecchio artista non fece caso, ma sono certo che nel
silenzio e nel lungo tempo della concentrata esecuzione, Simone abbia meditato sorridendo alla bizzarria di un simile fato. Il giovane avrebbe tenuto in pugno la testa del gigante, l’allievo quella del grande maestro. Una metafora condotta in punta di pennello e di sentimento. In ogni quadro che viene dipinto si impastano pensieri insieme ai colori e celati desideri che forse qualcuno un giorno comprenderà. Le percepibili differenze di fisionomia tra il volto del primo David e quello del secondo possono intendersi come l’enigmatica chiave di lettura di tutta la vicenda: Simone sostituisce intenzionalmentei caratteri di un viso inespressivo e generico con i propri, ritratti nello scorcio di una posa ac-
corata e struggente.
Replica e variante
Soffia il caldo e ilfreddo dalla medesima bocca Erasmo
Se, come ho accennato, l’atto di rifrarre contiene numerose analogie con quello di copiare, duplicare una propria opera, una propria creazione, dovrebbe spartire qualcosa col ritrarre se stessi, dunque con la realizzazione di un autoritratto.
Escluse le repliche che trovano motivazione nel guada-
gno (sicuramente la maggioranza), contenenti tutta la noia della copia scolastica e obbligata, fare una replica fornita di una sincera tensione qualitativa, equivale quantomeno a parlare con se stessi, è un modo di riflettere su quanto si è
fatto, di analizzare le forme, i contenuti e le espressioni delle
proprie idee, oltre a essere l'occasione per correggerle, petfezionarle. In quest’ultimo caso ovviamente si dovrebbe parlare di
variante anziché di generica replica. Innumerevoli e innumerabili sono i casi di varianti che
superano per qualità le prime idee di un artista e anche l’incontentabile e irrequieto Cantarini ha nelle sue abitudini
la continua correzione di sé, come dirò più avanti, nel capitolo dedicato alla Pittura pentita. Ho dato conto delle schermaglie con Guido Reni, che
dovettero essere numerose e sempre più frequenti intorno al 1637. Alcune opere testimoniano in modo esemplare quel doppio registro stilistico coltivato da Simone in parallelo, nel
46 / Massimo Pulini
tempo in cui, da un lato assolveva incarichi interni alla botte-
ga e dall’altro misurava il polso della propria indipendenza. Sono due dipinti assolutamente autografi di Cantarini
conservati entrambi a Roma, ed entrambi raffiguranti la Sacra Famiglia, uno (presso la Galleria Colonna) (fig. 12) è tornito, compatto e teso nella pittura, smaltato come un rame, modulato su una scala di colori freddi, lucenti, in dichiarata direzione purista, in sintesi: quanto di più aderente
alle direttive del maestro. L’altro (conservato a Palazzo Barberini)?” (fig. 13), è identico al primo nella disposizione delle tre figure e nel loro dialogo affettuoso, ma è ambientato in un interno, in una penombra che soffonde le linee. I corpi si trovano accanto a una fioca fonte di luce, ambrata e tiepida come emanasse da un focolare, ma più del contesto ambientale, è il dettato pittorico a marcare le distanze, nella sciolta pennellata e nel crepitio di ombre che la incalzano e la assorbono.
La stessa invenzione è quindi sottoposta a due interpretazioni che si direbbero eseguite da mani differenti se
non fossimo informati dei valori stilistici paralleli e a tratti contradditori di Cantarini, nel tempo in cui si trovava alla
corte di Reni, in oscillazione tra servizio e cospirazione. Simone, nell’assoluta fedeltà alla propria indole, non replica mai fedelmente le sue idee, ma le sottopone a variabili formali o stilistiche che rendano il senso delle infinite possibilità.
Una bellissima tela pubblicata di recente come variante autografa del tondo Puskin di Cantarini?8 (fig. 14), va invece espunta dal catalogo del Pesarese, ma costituisce una mirabile riprova della storia che si rigenera, di quell’im-
pasto messo da parte perché qualcun altro possa far lievitare il proprio pane. È anch'esso, come in una metafora botgesiana, un di-
pinto circolare (fig. 15), maggiore nelle misure e molto più marcato nelle ombre. Non è precisamente una copia della Sacra Famiglia con Sant'Anna e San Giovannino, ma più verosi-
Il secondo sguardo / 47
milmente un gioco ad incastro, che credo sia stato realizzato da Flaminio Torri, recuperando idee estetiche e sentimentali del suo amato maestro Cantarini.29
Riprendendo alcune figure dal dipinto, ora conservato in Russia, e altre dalla calcografia che ne inverte la posizione,
sostituendo anche i panni di San Giuseppe con quelli di Sant'Anna, l'allievo costruisce un piccolo labirinto compo-
sitivo nel quale dà prova elevata di cultura pittorica, lasciando, come avrebbe fatto lo stesso Simone, il marchio del proprio stile, sono ben visibili infatti, nel tondo di collezione
privata, i precisi colpi ritmici di pennello che lumeggiano e fanno vibrare in modo particolare le luci nei dipinti sicuri di Flaminio. Tutto suo è il deciso contrasto creato da una infuocata e bituminosa imprimitura, che spesso, come ricordano molte fonti antiche, fu causa del precoce adombratsi delle tele di Torti.
Una leggenda sudamericana, ripresa dallo scrittore Sa-
ramago, narra di un bravissimo vasaio che prima di morire regala al suo migliore allievo il vaso più bello che avesse fatto, rempendolo davanti al giovane e chiedendogli di sparge-
re i cocci all’interno delle opere che avrebbe realizzato nell’arco della sua vita. L'allievo Simone, nella pur breve esistenza, divenne a sua volta un maestro, Flaminio Torri e Lorenzo Pasinelli sono gli esiti più rilevanti di questo insegnamento. Se solo si tracciasse la storia del disegno bolognese, il ruolo di Cantati-
ni spiccherebbe a un livello di vero caposcuola per tutta la seconda metà del Seicento, ma il suo primato si riscontra anche nel secolo successivo, fino all’avvento dei Gandolfi.
Esa TE. ui
+ 0 sine
n
Raffaello
Sanzio, Autoritratto, Firenze, Collezione privata
Giulio Paolini, L'invenzione di Ingres,
1968
Confronto tra le due opere attribuite a Raffaello (a sinistra quella degli Uffizi, a destra quella di collezione privata).
Guido
Reni,
David
con ta lesta di Golia.
Pai 191,
Louvre
Simone
Cantarini, da Guido
Reni, David con la testa di Golia, Collezione
già in deposito presso la National Gallery di Londra (qui attribuito).
Privata,
Simone Cantarini, Autoritratto,
Roma, Galleria
Nazionale di Palazzo Corsin
Simone Cantarini, /mcoronazione della Vergine, San Vincenzo e San Benedetto, Gandino (Bergamo), Basilica di Santa Maria Assunta.
simone Cantarini,
7rasfigurazione,
Città del \ attcano, Musei Vatic ani.
Anonimo reniano da Simone Cantarini (Ercole De Maria?), Trasfigurazione, Milano, Pinacoteca di Brera.
Simone
Cantarini, Studio
per Trasfigurazione,
Monaco,
S taatliche Sammlung.
Simone Cantarini, Lot e lefiglie, già Bologna, collezione privata.
simone
Cantarini, Sacra Famiglia,
Roma,
Galleria Colonna
Simone Cantarini, Sacra Famiglia,
Roma,
Palazzo Venezia.
Simone
Cantarini,
Sacra Famiglia con
Sant'Anna
e San
Giovannino,
Mosca,
Museo
Puskin.
aminio Torri, da Simone
Cantarini,
Sacra Famiglia con
Sant'Anna
Collezione privata (qui attribuito).
e San Giovannino,
liziano Vecellio, Incoronazionedi spine, Parigi, Louvre
Tiziano Vecellio, Incoronazione di spine,
Monaco, Alte Pina
XN LS NS
SN
Guido
Reni, Flagellazione.
Bologna,
Pinacoteca
Nazionale.
=
Guido Reni, Sacra Famiglia con S. Elisabetta e San Giovannino, Collezione privata.
simone Cantarini,
Maddalena penitente. ( ollezione privata
D. i S
da Ù
>
Apro
4
Federico Barocci,
San Girolamo penitente, Roma, Galleria Borghese.
*
Federico Barocci, Studi per San Gerolamo penitente, Firenze,
Gabinetto dei disegni e delle Stampe degli Uffizi.
2387
N&
Cantarin
, Padre Eterno con Crist o morto,
Edimburgo,
National Gallery
of Scotland
stmone
Cantarini,
Allegoria della Pittura
San
Marino,
Cassa di Risparmio
TORE RE
IM
Ea
SIE: VESTolio e i
e
ca
è
ss
Fs L adr >
““
ara
I
cia
#
riga dpi
SANE
a
E di ea A
[Sifra
Simone
Cantarini, Due studi di figure, Milano,
Pinacoteca cli Brera.
Simone
Cantarini.
Erodiade
con
la testa del Battista,
Collezione
privata
(qui attribuito)
Simone Cantarini,
Studio per Erodiade, Windsor, Royal Library (qui attribuito).
Guido
Cagnacci, Maddalena portata in cielo da un angelo, Monaco, g Staatsgemaldesammlungen, Schloss Schleissheim
Cristoforo Savolini, da Guido Cagnacci,
Maddalena portata in cielo da un angelo,
Firenze, Palazzo Pitti, (qui attribuito).
Cristoforo Savolini.
Lucrezia, ubicazione
Ignota
Cristoforo Savolini, Studio di testa femminile, Mosca, Musco Puskin (qui attribuito).
Cristoforo
Savolini,
San
Giovanni
Battista
nel deserto,
Cesena,
Fondazione
Cassa
di Risparmio
La poetica dell’appunto
... Vorrei fosse un'unica figura la gemma che ancora dura e chiusa ilgiardiniere stacca e si regala. Valerio Magrelli
È noto che Tiziano Vecellio, sul finire dei suoi anni replicò, con mutato stile, alcune sue famose composizioni.
Sembra di vederlo il decrepito, il burbero, il “pittor grave”, ruminare la pittura come un toro che a tarda ora, rigurgitando il bolo, porta ai denti il fieno inghiottito la mattina. Richiamare a sé le proprie invenzioni e masticarle nuovamente, per poi dipingere come se a ogni segno dovesse pulire il pennello incrostato sulla stessa ruvida tela, sputando e
imprecando nel gelo dello studio. Eppure nasceva lî, a Venezia intorno al 1570, con le lacche di garanza impastate al catarro, l’idea più lungimirante ed energica di tutta la pittura del Vecchio Continente. Per la prima volta, Tiziano fa di una pennellata l’interprete principale di un dramma, il tessuto pittorico di un dipinto assume su di sé il dolore del tema restituendo un urlo
che vibra potente e alto come quello di un coro greco. Tra le due Incoronazione di spine, quella del Louvre (fig. 16) e quella di Monaco®° (fig. 17), corrono molti anni e il pittore non torna sui suoi passi per riverite una fortunata icona, né tanto meno per correggere forme non convin-
centi; torna per guardare con occhi diversi un’idea antica, quasi per fermare un ricordo in quanto tale, nelle appropriate vesti del passato: sfuggente e trasognato, raggrumato e imperfetto.
50 / Massimo Pulini
Quei conati di colore, tra loro disgregati e indifferenti al decoro, non sono neppure imparentati coi mirabolanti e pirotecnici effetti diJacopo Tintoretto, virtuosi colpi di fioretto adeguati alle vastità scenografiche, raggiungono invece
attraverso la materia ciò che diversi decenni più tardi Rembrandt cercherà per mezzo della luce (lui novello Diogene): parlare tra sé; definire le forme di un monologo; indagare le viscere del lavoro. Cosa significa infatti anche il semplice atto di separare le pennellate tra loro, nella seconda metà del XVI secolo, se non rendere protagonista il processo esecutivo di un’opera? Se non lasciare traccia del proprio movimento, del proprio sentimento? 7 È la Pittura che si emancipa e in qualche misura rende astratto il contesto. Costringe l’occhio ad avvicinarsi e a osservare una porzione di dipinto informe. A scorrere le miriadi di singoli brani pittorici che sono contenuti nel tessuto
della vasta sinfonia. Quel «tremendo impasto»3!, arrabbiato e senza più un’ombra di grazia, ci parla dell’autore più di quanto non abbiano fatto tutte le opere che lo avevano consacrato. Che incommensurabile distanza dal purismo di Raffaello che tendeva a sublimare i manufatti rendendoli cristallini, impedendo al nostro occhio, e spesso anche alla lente, di penetrare il tragitto della sua mano; di ricostruire il gesto
dell’uomo, ed è su questo terreno che l’urbinate si guadagna l’appellativo di Divino, lasciato poi in eredità a Guido Reni. Eppure proprio Guido, anche lui a un passo dalla morte, lascia un testamento pittorico di sconcertante e ossessionata modernità che trova dialogo con quello di Tiziano. Nelle sue ultime tele le figure divengono larve di angeli,
fuochi fatui e solo perduta parvenza del cristallino disegno classicheggiante (fig. 18, 19). Ma c’è da domandarsi come arrivò un impeccabile pet-
fezionista, sostenitore di una pittura di norma che sovente sfiora la pedanteria, a sfociare nell’apoteosi del frammento,
Il secondo sguardo / 51
a dare dignità di opera alla sinopia? È stato anche di recente ribadito che i tanti dipinti lasciati incompiuti alla morte da Guido Reni, avessero origine dalla pressante necessità di soldi, indotta dai ripetuti debiti contratti al tavolo delle carte.
Mostrare abbozzi ai committenti significava poter ricevere sostanziose capartre a buon conto, in attesa dell’o-
peta finita. Se questo rispondesse ad assoluta causa, dovremmo constatare che uno strano destino si è preso gioco (è il caso di dire) della gloria postuma di Guido. Tutta la storiografia del Novecento avrebbe poggiato la piena rivalutazione estetica di Reni su di un equivoco? Scambiando per subli-
me scelta stilistica ciò che invece era un espediente veniale, labile tampone di una bassa dipendenza verso il demone’ del gioco? Certo è assodato che quegli abbozzi fossero già caparrati da vari signori, bolognesi e non, che ne rivendicarono la
proprietà, ma è altrettanto certo (e perfino commovente) che questi pretendenti non trovarono nessun allievo disposto a ultimarli, anche dietro lauti compensi}, lasciando intendere il diffuso rispetto di quelle opere come florilegio de-
gli ultimi pensieri di un genio. Poco impotta fossero boccioli o rose spampanate.
È in qualche modo questo gesto etico degli allievi ad assolvere lo scandalo, se scandalo era, e a ristabilire assoluta legittimità artistica a quelle opere moderne oltre misura.
Simone anticipa Guido
Homines dum docent, discunt. Seneca
Non molto tempo fa è stata avanzata un’ipotesi coraggiosa, che curiosamente non ha suscitato il clamore che ci si
sarebbe aspettati. Anna Colombi Ferretti, all’interno di un
saggio?4, che indagava alcuni dipinti incompiuti di Simone Cantarini, ha espresso la convinzione (da me condivisa) che questi precedessero di qualche anno la svolta che portò Reni alla pratica del ron finito. Opere come Lote lefiglie (già Bologna, collezione privata) (fig. 11), Autoritratto (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica) (fig. 6), San Girolamo nel deserto (Bologna, collezione privata), il superlativo Padre Eterno con Cristo morto di Edimburgo (fig. 23) e altre, sono inequivocabili esempi di una precedenza del ron finito cantariniano su quello del maestro. In più vorrei dimostrare come anche la Maddalena penitente (fig. 20), da me scoperta e segnalata alle mostre monografiche dedicate a Simone Cantarini (tenute a Pesaro e a Bologna, entrambe nel 1997)35, e lì considerata tra le ultime opere eseguite dal pittore, sia in realtà frutto giovanile che
precede perfino l’entrata del Pesarese nella bottega reniana. Ma per far questo è necessario fare un passo indietro, a prima della nascita di Simone. È già apparso in queste pagine il nome di un altro grandissimo urbinate: Federico Barocci. Era un pittore di intelletto e sentimento sopraffino, che riscosse in vita una fama e un rispetto fuori dal comune, grazie alle sue indubbie quali-
54 / Massimo Pulini
tà, ma anche a caratteri che lo resero quasi leggendario: un
eccezionale scrupolo professionale, prossimo all’ossessione, e una marcata ritrosia, che lo spinse, nel pieno della sua catriera, a rifiutare il successo mondano per ritirarsi nella sua arroccata Urbino. Il Barocci si sottoponeva, di fronte ad
ogni incarico, ad una interminabile pratica elaborativa che prevedeva fasi estenuanti di studio e di riesame della verosimiglianza, fisica e sentimentale, delle bistorize che andava re-
alizzando. Insistenti come un ritmo di percussioni, appaiono certi suoi studi di figura eseguiti a carbone o a sanguigna, nei quali la posizione di un arto viene spesso ripetuta per varie volte sullo stesso foglio, creando immagini cinetiche, di elevatissima suggestione e.modernità. I disegni di Federico Barocci, numerosissimi e tutti di altissima qualità, divennero oggetto di collezionismo e commercio. È risaputo che, alla morte dell’artista, una quantità elevatissima rimase a Urbino, in mano al fratello Simone Barocci. Non sappiamo se appartenessero a questo gruppo al-
cuni fogli ora conservati nel Gabinetto degli Uffizi, ma è indubbio che Cantarini poté studiarli direttamente, dato che la
sua Maddalena penitente è liberamente ispirata agli schizzi di Barocci (fig. 22) che organizzano la posa di un Sar Girolamo penitente (fig. 21).Vi sono particolari presenti in questi disegni che si ritrovano nel dipinto di Cantarini ma che non vennero riportati da Barocci nella versione pittorica, ora a Ro-
ma, nella Galleria Borghese?”, osservando il foglio 11302 del Gabinetto degli Uffizi emergono precise concordanze tra le linee che tracciano il manto attorno alla mano sinistra del santo e quelle presenti nel dipinto 77 fieri di Simone. Anche le fisionomie della Maddalena, il suo volto ovale, un po’ manierato nell’espressione e nei caratteri che hanno
fatto pensare al nome di Scarsellino (Daniele Benati, comunicazione orale), vanno letti nel segno di una ancora recente frequentazione dello studio di Claudio Ridolfi, a conferma
della datazione giovanile, similmente ad altre opere che Cantarini eseguì nel suo primo periodo marchigiano, quali la
Il secondo sguardo / 55
Sacra Famiglia con Santa Marta (Collezione Banca Popolare dell’Adriatico) o la Beata Rita da Cascia (Pesaro, chiesa di Sant'Agostino). È dalla profonda conoscenza dei disegni di Federico Barocci che Simone formò il proprio segno franto e corsi-
vo, che acquista velocità senza cedere eleganza, e che racconta col solo accenno, senza sostare in descrizioni. Da
quei fogli dovette germinare anche la sua indole di pittore dell’incompiuto. Cantarini opera, nel disegno, una fusione mnemonica tra Raffaello e Barocci. Anche nei più veloci schizzi di Simone si percepisce il facile accesso alla grazia, ma assieme, la
precisa volontà di non chiudere la forma, di non completarne il perimetro. È come se un disegno di Raffaello si disgre-
gasse, si trovasse sospeso nell’attimo seguente all’esplosione dei segni e delle linee che lo compongono. Ma ai nostri occhi la sospensione è osservata nel rovescio della sequenza, e quei tratti di sanguigna non giungeranno mai a comporre una forma chiusa.
Il non finito di Cantarini è frutto pittorico di questa prassi disegnativa virtuosa e spavalda, nella quale l’autore si separa dall’opera non appena la grazia dimostra di essere stata intuita, e sembra rifiutare la compiutezza come fosse un retaggio scolastico. Ho già accennato al rifiuto di Simone a partecipare alle sedute di disegno dal vero, preferendo l’elaborazione rievocata nella riservatezza della propria stanza, ma non dobbiamo pensare all’incompiuto del Pesarese come a una scorciatoia, un atto di mancata applicazione, perché il suo lavoro creativo, subiva un cosciente e faticoso processo di sublimazione, molto simile, anche nell’organizzazione, all’estenuante
pratica messa a punto dal Barocci. Alla morte di Cantarini furono trovati infatti nello studio bolognese più di cento sue piccole sculture in terracotta di corpi nudi, utilizzate dall’artista, come faceva l’urbinate, quali modelletti da rivestire con panneggi di carta bagnata, utili per essere ritratti da differenti angolazioni.3*
56 / Massimo Pulini
Cantarini dunque fu uno studioso indefesso, in piena coerenza con quel volontario e doppio alunnato che in qualche modo gli fece investire quel poco tempo di vita a disposizione, quasi interamente nella prolungata emulazione di un modello mitizzato, forse in preparazione perfezionistica di una prova generale che non venne mai. I dati sono però questi e siamo tenuti a cercare il tutto,
nel frammento incompiuto, come nei suoi disegni, come nelle tele non finite. Ma se anche avesse dipinto solamente il David con la testa di Golia di Londra, Cantarini avrebbe lasciato un documento sufficiente, che contiene interamente il
programma e il risultato del suo pensiero artistico.
La Pittura pentita
Nbil peccat, nisi quod nihil peccat. Plinio il Giovane
Anche molti dipinti finiti di Simone hanno elementi sui quali riverbera il processo irrequieto, instabile e perennemente inappagato che li ha prodotti. Un capolavoro ritrovato di recente, un’ineffabile A/le-
gorta della Pittura (San Marino, Cassa di Risparmio)? (fig. 24), contiene un vasto e visibile pentimento che interessa l’intera figura protagonista del quadro. Nella prima idea dell’autore,
la donna era ritratta frontalmente e non di tre quarti come vediamo nella versione finale.
A un veloce sguardo sembrerebbe che questa figura, condotta già a livelli di finitezza, sia riemersa in superficie,
come a volte capita in certe pitture, quando la seconda stesura subisce nel tempo un parziale assorbimento a favore di quella sottostante. In realtà, l’opera finale offre prove che
permettono di comprendere come la visibilità (anche se parziale e attenuata) della prima idea sia stata, in un secondo momento, coscientemente calcolata da Simone, il quale riabilita il pentimento con un espediente geniale. Dato che l’allegoria in oggetto impersona la Pitura,
Cantarini non ha fatto altro che porre in penombra la prima figura, velandola con un colore bruno, facendola divenire così un quadro nel quadro, la tela che la Pittura sta di-
pingendo. Ma passando in rassegna i disegni conosciuti di Simone
è possibile ritrovare un sommario schizzo che ci permette di comprendere quale fosse per intero la prima idea abbando-
58 / Massimo Pulini
nata del quadro.4 Il foglio conservato a Brera (fig. 25) è curiosamente diviso in due riquadri, in uno è tratteggiata la
donna che verrà poi occultata, mentre alla sua destra, in un vibrato di segni, si scorge una figura sospesa in un limbo in-
definito, dal quale potrebbe indifferentemente fuoriuscire un San Giovanni Battista o, come sarà accaduto in verità, la se-
conda e definitiva idea dell’ A/egoria della Pittura. X*
Le modifiche, i pentizenti che si dimostrano eseguiti in corso di stesura su un dipinto, vengono abitualmente e comprensibilmente considerati quali elementi determinanti l'originalità di un’invenzione.
Quando due o più versioni di una stessa composizione si contendono la primogenitura, la precedenza d’esecuzione
(anche qualora siano assimilabili nella qualità) viene assegnata a quel dipinto che contiene pentimenti visibili a occhio nudo o recuperabili attraverso l’uso della radiografia.
Questo semplice principio è oggettivamente accolto in sede di filologia storico-critica. Trattando l’argomento dell’originalità e della copia, non potevo eludere un aspetto così importante, ma vi sono episodi singolari che smentiscono l’assolutezza di questo postulato, anche se in forma di eccezione. La Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barbe-
rini conserva una copia della Vestizione di San Guglielmo di Guercino, che ora sappiamo eseguita da Giuseppe Maria Crespi nel 1708 per il Granduca Ferdinando di Toscana, ma che per lungo tempo era stata ritenuta un bozzetto autografo della pala realizzata intorno al 1618 da Guercino. Ebbene la copia, toccata velocemente con la spavalda qualità di un vero modelletto, contiene visibili pentimenti che
aggiustano, qua la testa dell’angelo, là le mani di alcuni personaggi. Va da sé che non si può applicare alla lettera il principio appena descritto, senza integrarlo con altri fattoti, stilistici, documentari o quant’altri, che ne confortino la
Il secondo sguardo / 59
tesi di originalità o di dipendenza. Anche il David di Londra possiede piccoli aggiustamen-
ti (si guardi pet esempio l’avambraccio sinistro, vicino al gomito), che non giungono, ovviamente, a invalidare la prece-
denza del dipinto del Louvre.
L’emulazione di un altro Guido
Dal singolare ai plurali Romeo Casalini
Se il David e Golia di Guido Reni costituisce una delle invenzioni più note e importanti dell’artista bolognese, è altrettanto vero che ne rappresenta solo un breve e circoscritto periodo creativo, influenzato dalle novità caravaggesche,
alle quali aderì in modo tangente e fugace, prima di mettere a punto il proprio aulico programma, che trova simbolo in opere più mature, in composizioni più solari, ma allo stesso tempo, come ho già detto, più gelide.
Avvicinandomi alla conclusione di questo saggio che ha centrato i suoi argomenti sul rarissimo caso di una copia
che supera per qualità oggettive e per espressione il proprio modello, fornisco un altro esempio straordinario che punta nella medesima direzione, con la differenza che il di-
pinto in questione è comunemente considerato, a tutt’oggi, il vertice assoluto di un artista che, per pura combina-
zione, ha anch’esso gravitato intorno al sole freddo di Guido Reni: un altro Guido, Cagnacci (Santarcangelo di Romagna, 1601-Vienna, 1663). Cagnacci non può certo dirsi “freddo”, anzi in tutto il XVII secolo è oggettivamente difficile trovare un artista più sensuale, carnale e scandaloso di lui. Eppure, nella sua radicale indipendenza, nonostante la formazione autodidatta e irregolare, ha indubbiamente subito il fascino della grande
concettualità di Reni e, per un certo tempo, le figure langui-
62 / Massimo Pulini
de e voluttuose del romagnolo sono state investite da una
luminosità algida e rivestite da un’epidermide perlacea proveniente da quella fonte.
La Maddalena portata in cielo da un angelo 4° è certamente
l’opera più esemplare nella poetica dei sensi di Cagnacci. È un dipinto che punta dritto sulla seduzione, come a sottolineare che la figura della santa, nonostante la piena conversione e la dura ascesi eremitica, conserva un’ineludibile e immanente bellezza, fino all’ultimo volo ascendente. Per quanto blasfema possa apparire, è la purezza naturale e terrena della sessualità che viene in questo quadro elevata in cielo, un cielo che d’altro canto sembra disporre di anime egualmente fornite di sensi e di fisicità. L'angelo solleva senza sforzo la giunonica Maddalena, eppure la sua posa, il suo capo riverso, oltre il letto della nuvola, richiama una
spossatezza delle membra. Le sue gambe, parimenti femminili, raddoppiano, come fossero un pentimento compositivo, quelle della santa, creando uno spiazzamento conturbante e interrogativo nel fruitore.
Le due versioni conosciute della splendida invenzione iconografica, considerate finora autografe di Cagnacci, divergono tra loro per impasto cromatico, per luminosità e contrasto, ma si direbbe anche per condizione meteorologi-
ca 0 quanto meno per una diversa collocazione dell’evento nell’arco temporale del giorno. Alla tela di Firenze (Palazzo Pitti)4 (fig. 29) è sempre stata data una precedenza cronologica d’esecuzione, nell’implicita constatazione di un livello superiore rispetto al dipinto
di Monaco di Baviera (Staatsgemaldesammlungen)* (fig. 28). In realtà, nell’agone tra i due esemplari, non è possibile parlare di supremazia qualitativa in senso assoluto di uno sull’altro, semmai le diverse eccellenze esecutive e le scelte espressive dei due quadri possono dividere i pareri, schierando i sosteni-
tori di una pittura energica ed emotiva dalla parte della ver-
Il secondo sguardo / 63
sione fiorentina, mentre i cultori della politezza formale e di un'arte più lucida e mentale, dovrebbero meglio riconoscersi nell’opera bavarese. Ma è forse utile esplicitare le non poche differenze: il dipinto di Monaco può dirsi dichiaratamente reniano, nella luce limpida, tersa, che dal celeste della parte inferiore trascolora in una delicata intonazione dorata che investe le nuvole più alte e fa brillare le lunghissime chiome dei capelli di Maddalena. Nella tela di Pitti l'evento sembra invece svolgersi al tramonto, nel vespro che inonda di rubino i cumuli di nubi e ne illividisce le ombre, le quali, anche sui panneggi e sugli in-
carnati, divengono peste. Qui i più rari punti di luce piena contribuiscono a un maggiore sbalzo volumetrico dei corpi. Le carni, velate, raggiungono curiosamente un effetto più
tattile e sensuale rispetto al quadro tedesco, le gambe dell’angelo appaiono come avvolte da calze di seta che scontornano il piede in modo particolarissimo, un controluce che non ha eguali nella pittura italiana del Seicento, forse solo alcune
opere del romano Spadarino# raggiungono simili livelli di incarnato “polveroso” e accarezzato. Le punte delle dita della Maddalena di Firenze sembrano chicchi di melagrana trasparente, così anche gli occhi sono più arrossati, come per un pianto da poco asciugato.
Plumbea è la somma apertura di cielo, che non promette lo stesso paradiso del dipinto di Monaco. L'energia espressa e la corposità pittorica della tela di Palazzo Pitti vanno a mio avviso ricondotte alla mano virtuosistica, ma ancora poco conosciuta di Cristoforo Savolini
(Cesena, 1639-Pesaro, 1677), che fu seguace innamorato dello stile di Guido Cagnacci. Non è il primo caso di opere attribuite a Cagnacci, che si dimostrano infine eseguite dal pittore cesenate, ma questo sarà certamente l’evento più clamoroso. Una bellissima
Lucrezia! (fig. 30), purtroppo di ubicazione ignota, passò sul mercato antiquario come appartenente a Guido Cagnacci, così anche un San Giovanni nel deserto*8 (fig. 32), che
64 / Massimo Pulini
ora si trova nella collezione della Cassa di Risparmio di Cesena dopo essere stato restituito giustamente a Cristoforo. Ma per lunghissimo tempo, nella Cattedrale di Santarcangelo era conservata come rara reliquia del pittore genius loci un Sant'Ignazio di Loyola! identificato da me come opera di Savolini. In tutti i dipinti conosciuti di Cristoforo, finora malauguratamente esigui, si evincono caratteri di una temperie emotiva d’estremo valore, manifestati da una fisica e incontenuta energia che emana da ogni personaggio, ma anche riverberata dal moto dei panni e dall’acuto naturalismo ottico attraverso il quale è descritta ogni cosa.
Questi in fondo sono gli elementi sostanziali che distanziano la tela fiorentina da quella bavarese e la visione ravvicinata del dipinto, durante la mostra riminese del 1993
dedicata a Cagnacci, ha permesso di valutare quanto questi dati differiscano dalla stesura pittorica solitamente vellutata e pastellata delle opere mature di Guido. Anche fattori filologici, e non solo di pura interpretazione stilistica, contribuiscono in questo caso a confermare
il cambio di attribuzione. In un inventario della collezione di Ludovico Ugolini, illustre avvocato cesenate (1653-Imola 1728), viene ricordata una «S. Maria Madalena in atto d’ascendere al Cielo
portata dà un Angelo, quali figure sono del naturale di mano di d.o Sig.r Chris.ro Savolini, copiata dà una del Cagnacci
che fu mandata in Francia et hà una cornice nera con qualche regoletto, e rabesco di color d’oro».59
Questo documento, anche se porta una data tarda (1720), è preziosa testimonianza del cimento di Cristoforo sulla mirabile invenzione di Guido.
Equazioni
Proprio del simulacro è non d'essere una copia,
ma di rovesciare tutte le copie, rovesciando anche i modelli: allora ogni pensiero diviene un'aggressione. Gilles Deleuze
In un primo tempo questo libro doveva intitolarsi Equazioni pittoriche. Cantarini sta a Reni, come Savolini sta a Ca-
gnacci. Al pari di in un’equazione numerica, il fattore costituito da un dipinto di Guido Reni trova un valore aggiunto nella
copia eseguita da Simone Cantarini, in un rapporto non troppo dissimile da come un’invenzione di Guido Cagnacci diviene modello dialettico nella prova emulativa del suo seguace Cristoforo Savolini.
Siamo di fronte a esempi eccelsi di copie aderenti e insieme znterpretative, che accrescono il valore dell'invenzione. È curioso verificare che in altri campi dell’arte, come per esempio quello della Musica, l’esecuzione di un’opera, cot-
retta e esaltata dal virtuosismo di un interprete (strumentale o vocale), sia un evento tutt’altro che raro. Quelle arti che sono naturalmente collettive e legate alla “messa in scena”, hanno portato alla separazione dei valori compositivi da quelli esecutivi. Nessuno si stupisce se Mina interpreta la canzone //
cielo in una stanza, scritta e musicata da Gino Paoli, portando la composizione a un livello di eccellenza che non ha paragoni con la prima versione incisa dallo stesso autore, piatta e melensa, da risultare quasi fastidiosa, giungendo
66 / Massimo Pulini
anzi a influenzarlo nella sua seconda versione.?! Incredibilmente, nella millenaria storia della Pittura oc-
cidentale l’interpretazione di un’invenzione altrui si è sem-. pre trascinata un senso di colpa, un tabù. Parlo di Occidente, perché persino il vicino Oriente della cristianità ortodossa ha coltivato tradizioni che sembrano agli antipodi del no-
stro concetto di copia. Basti pensare alle icone e all’aspirazione trascendentale affidata alla pratica di ripetere, fino all’infinito, la medesima immagine sacra. Le icone sono, per questo, uno straordinario esempio di fossile vivente, opere rituali al pari di una messa cantata e, come il biascicare cantilenato di un rito religioso, non hanno quasi più nulla a che vedere col linguaggio parlato, ma si astraggono dal contingente, «dall’attimo dell’uomo». Tuttavia questa abitudine alla continuità, propria delle icone, riduce al minimo indispensabile il lascito individuale,
la traccia interpretativa dell’esecutore. Quasi condividesse qualcosa con la tecnica e la pratica del mosaico, dove il gesto meccanico del posizionamento delle tessere sulle linee del cartone, giunge a prosciugare quasi ogni individualismo. In
tutto questo, nelle icone e nel mosaico, vi è la persistenza mummificata e ieratica della cultura bizantina. Il racconto in veste di saggio che J. L. Borges scrisse nel 193952: Prerre Menard, autore de I/ Chisciotte, segna una svol ta concettuale affascinante nell’idea di invenzione e di duplicazione. L’iperbole dello scrittore argentino di immagi-
nare (ma è poi inventare) un autore del Novecento che affronti, con cimento epico, l’immane impresa di scrivere, ex novo, un altro Don Chisciotte che risulti «parola per parola, ri-
ga per riga» identico a quello di Cervantes, è una metafora suprema che afferma l'impossibilità di un doppio assoluto e insieme la considerazione che ogni copia, essendo eseguita in un tempo differente dall’originale, non può che essere un’opera a sé stante, diversa da quella, motivata da
contesti e sentimenti che non potranno mai coincidere con quelli del prizzo sguardo. Per congegnare questo caso, Bot-
Il secondo sguardo / 67
ges si prende la licenza di trasformare la Letteratura dalla sua condizione di arte allografica, come la definisce Nel-
son Goodman®ì, in un’arte autografica come è la Pittura. Non ho volutamente aperto il parallelo e sterminato tema della falsificazione, non era oggetto né interesse della
mia ricerca, ma in questo frangente vorrei ricordare un esempio di invischiamento temporale involontario, offer-
to dall’esperienza di un famosissimo falsario. Un pittore olandese, Han Anthonius
van Meegeren
(1889-1947)54, produsse negli anni Trenta del Novecento un gruppo di falsi Vermeer, che per un certo periodo vennero ritenuti autografi e acquistati da importanti musei statali,
tra i quali quelli del Terzo Reich. Queste opere andavano astutamente a soddisfare le aspettative di vari studiosi, speranzosi di rittovare una produzione sacra dell’artista, praticamente sconosciuta fino ad allora. Ebbene, riguardando ora le modeste e burattine figure che popolano i falsi eseguiti da van Meegeren, oltre a stupirci della scarsa levatura dell’inganno, si è spinti a constatare che quelle opere erano inconsciamente ma nettamente influenzate da alcune correnti
artistiche del primo Novecento europeo e in particolare italiano. Sembrano infatti più vicine alle tele di Felice Casorati
(1883-1963) e di Antonio Donghi (1897-1963) di quanto non lo siano a quelle del grande pittore di Delft. Neppure nel caso più intenzionale, come può essere ‘quello di un falsario, è possibile spogliarsi totalmente dei condizionamenti culturali ed estetici della propria epoca, né
è possibile cancellare in assoluto le tracce della propria individualità, sia nell’atto di imitare che in quello di copiare. Non è azzardato affermare che tutti gli artisti, anche i massimi, sono stati almeno in una occasione dei copisti. Il percorso formativo dell’arte ha sempre contenuto le tappe di un apprendistato tecnico ed espressivo che si avvale di modelli, di grandi esempi che vengono assunti quali referenti dialettici per elevare le qualità di un giovane artista. Anche
68 / Massimo Pulini
là dove manca fisicamente un maestro, lo abbiamo visto nel
caso di Guercino, è un’opera sua a sostituirlo. Un’opera che diviene una montagna da scalare, un testo sacro da imparare a memoria, una sfinge da consultare. Nel 1625, il cardinale Federigo Borromeo, illustrando il
suo museo ideale usa termini e concetti, per definire la copia, che risultano di grande attualità: «... Prima di parlare delle copie credo opportuno di rivolgere una parola a quegli schizzinosi e superbi che, per farsi credere acutissimi critici, non appena vedono un quadro ricavato da tali capolavori, subito lo disprezzano e rigettano, quantunque di squisita fattura. Dico dunque a costoro che tutte le cose umane sono
caduche e in breve spazio di tempo si guastano e periscono; perciò era da desiderarsi per il bene dell’umanità, che come giunsero a noi le copie dei libri antichi, così giungessero quelle degli antichi quadri più famosi... È quindi lodevol cosa il procurare delle copie, quando però sieno lavorate con
estrema diligenza e si ricavino dai modelli più perfetti, preferendo i più esposti al pericolo di essere distrutti, o per essere già guasti o per altra ragione». Tali parole, molto illuminate ma principalmente rivolte
alla salvaguardia di un patrimonio di invenzioni e di concetti enucleati nelle immagini più somme, vengono espresse in un momento storico che sta tra l’invenzione del David di Reni e l’interpretazione, sentimentalmente emancipata, che ne fece Cantarini. L’aspirazione di Simone era così indicibile, lungimirante
e paziente da aver saputo attendere più di tre secoli e mezzo. In ogni mitologia c’è un giovane intraprendente che am-
bisce ad andare oltre la montagna, che osa correggere, secondo i propri pensieri, il testo sacro e scaglia un sasso all’indirizzo della sfinge, mirando dritto alla fronte, come David.
Note
! J. Dominique Ingres eseguì una copia del (presunto) Azsorizratto di Raffaello intorno al 1824, l’opera, che misura cm. 43 x 34, è conservata presso il Musée Ingres di Montauban. 2 L'invenzione di Ingres, eseguita nel 1968, è pubblicata in GIULIO PAOLINI, Ide, Torino 1975, p. 37.
? L’opera scoperta da Gian Lorenzo Mellini è conservata in una collezione privata fiorentina, misura cm. 46,3 x 35,5 ed è eseguita a tempera grassa su tavola di pioppo. Attraverso una indagine radiografica (ma in parte anche a occhio nudo) so-
no state rilevate tracce di vari pentimenti che confortano l'originalità dell’invenzione, oltre alla sua evidente superiorità qualitativa sul dipinto degli Uffizi. * GIAN LORENZO MELLINI, Raffaello a sua immagine, in “Labyrinthos”, 9, 1986, pp. 76-111. ° GIORGIO VASARI, Le Vate de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568 (ed. a cura di C. L.Ragghianti, Milano 1945; ed. a cura di P. Della Pergola, L. Grassi, G. Previtali, Milano 1969). L’opera di Raffaello si trova alla Galleria degli
Uffizi, mentre la copia che ne fece Andrea del Sarto è conservata a Napoli, presso il Musco
di Capodimonte,
dopo essere transitata dalla collezione mantovana
dei
Gonzaga a quella parmense dei Farnese. © I] Richardson identificò l’opera di Andrea del Sarto nel 1702. In realtà il Vasari ricorda di aver riconosciuto la copia eseguita da Andrea del Sarto quando questa si trovava ancora a Mantova e, parlando di se in terza persona, dice: «... ma capitato a Man-
toa Giorgio Vasari, il quale, essendo fanciullo e creatura di messer Ottaviano, aveva veduto Andrea lavorare quel quadro, scoperse la cosa» (VASARI, Le Vite, 1568 V, pp. 41-43, Ciononostante, in seguito a ognuna di queste identificazioni, l’opera continuò a essere ritenuta di Raffaello, per via della sua altissima qualità. Meriterebbe riflettere , sul puntiglio nella resa dei particolari del quadro di Napoli, che è quanto di più lonta-
no dallo stile rasato e scarno di Andrea, per comprendere quale sforzo stilistico avesse dovuto sostenere, il pittore fiorentino, nell’impresa di eseguire una copia così fedele, Pierluigi Leone de Castris, in una sua dettagliata e preziosa scheda sul dipinto (alla quale si rimanda), giustamente commenta: «Nella nostra copia tutto è più preciso, chiaroscurato e disegnato... è necessario sottolineare proprio l’intento e lo sforzo d’una fedeltà totale al prototipo messi in opera dal “copista”, anche al di là dell’ovvia
richiesta in tal senso dei committenti», (in AA. VV. Muse eGallerie Nazionali di Capodimonte. Ia Collezione Farnese, Napoli 1995, pp. 83-84). ? Sotheby's, Londra, 3 aprile 1985, lotto 9. Questa versione del Davzd con la testa di
Golia misura cm. 218 x 143, Stephen Pepper ha tentato di ricostruirne la vicenda, ricollegandolo a quello citato in una lettera che il cardinale Bernardino Spada, già legato di Bologna, inviò all’abate di San Luca, agente per conto della regina di Francia Maria
de’ Medici, nella quale si legge: «... e tra l’altro havevo trovato un Dad, fatto nuovamente da Reni, e venduto 200 ducatoni su l’andar del p.mo; ma secondo ch'ei dice,
70 / Massimo Pulini assai più bello; e con q.sto occasione havevo imparato, che, se bene il quadro del The-
odosio Porta era stato ritoccato da Guido, a ogni modo non era il vero originale, il q.le professa, che si trova in Genova» (DIRANI, 1982-83, p. 85). Secondo Pepper, il “vero
originale” al quale si riferisce lo Spada è quello ora al Louvre, mentre non è al momento identificabile l’opera un tempo posseduta da Teodosio Porta. Per ulteriori in-
formazioni si rimanda alla monografia: STEPHEN PEPPER, Guido Reni. L'opera completa, Londra 1984, tr. it. Novara 1988, pp. 336-337. Dalla lettera dello Spada abbiamo conferma (ma ne parla anche il Malvasia) della pratica, in uso nella bottega reniana, di
far eseguire opere agli allievi, ritoccate o no dal maestro in fase di ultimazione. Il David con la testa di Golia di Londra è stilisticamente affine a diverse opere di Si-
mone Cantarini. Stringenti connessioni, per fare solo qualche esempio, si possono instaurare con il San Pietro che risana lo storpio della Pinacoteca Civica di Fano o con l’Incoronazione della Vergine e i santi Benedetto e Vincenzo della Basilica di Santa Maria Assunta di Gandino (fig. 7), la cui identificazione venne operata congiuntamente da me e da Marina Cellini, che la pubblicò nel 1987 (MARINA CELLINI, Ur ruovo Cantarini, in “Paragone”, XXXVIII, 445, 1987, pp. 40-44). 8 Guido Reni, David con la testa di Golia, Parigi, Musée du Louvre. L’opera, che misura cm. 220 x 160, è comunemente datata tra il 1605 e il 1606, in stretto rapporto col periodo definito ‘““caravaggesco” di Reni, cioè in stretta connessione con la
Crocefissione di San Pietro della Pinacoteca Vaticana. ° S. PEPPER, Op. cit., 1988, pp. 336-337. 10 FRANCESCA VALLI, scheda in catalogo all’esposizione a cura di AA. VV. Gy do Reni. 1575-1642, Bologna, Los Angeles, Fort Worth, 1988-1989, p. 44. La citazione di Cesare Gnudi, riportata da Francesca Valli è ripresa dal catalogo della mostra a cura di C. GNUDI-G.C. CAVALLI, Gdo Reni, Firenze 1955. !! Per la biografia eseguita da Gioseffo Montani, andata dispersa, si veda ANNA
COLOMBI FERRETTI, Stone Cantarini, in “La Scuola di Guido Reni” a cura di E. Negro e M. Pirondini, Modena 1992, p. 109. 12 LUIGI LANZI, Storza pittorica della Italia, Bassano 1795-1796.
13 Per la dichiarazione di Guercino riportata da Malvasia, si veda il catalogo della mostra a cura di M. PULINI, Guercino, Racconti di paese, Cento 2001, pp. 26-28.
1#MALVASIA 1678, ed. 1841, p. 376. !5 L’opera di Piero della Francesca è inserita nel Cielo della Vera Croce affrescato ad Arezzo nella chiesa di San Francesco. E” convenzione tradizionale titolare come
Invenzione della
Vera Croce le opere che rappresentano l’episodio del ritrovamento, da
parte di Sant'Elena, delle croci del Calvario. 16 È GIULIO
PAOLINI a restituirci questo frammento di conversazione, raccolto
durante una conferenza romana dello scrittore argentino e riportato dall’artista torinese in una preziosa raccolta di suoi scritti Lezione di Pittura, Ravenna 1995, pp.15-16.
17 MALVASIA, Op. cit., II, p. 376. !8 FRANCESCO ARCANGELI, S7720ne Cantarini, due dipinti, in “Paragone” 1950, I,
7, pp.38-42.
!° Le citazioni di Andrea Emiliani, sono tratte dai cataloghi della mostra curata dallo stesso EMILIANI: Si0ne Canzarini detto il Pesarese. 1612-1648, Bologna 1997 e
da quella curata da A. Emiliani, A.M. Ambrosini Massari, M. Cellini e R. Morselli: Simone Cantarini nelle Marche, Pesaro, 1997. Per un approfondimento del problema relativo al rapporto tra Reni e Cantarini si rimanda alla lettura dei due saggi, estremamente ricchi di informazioni, analisi e commenti di elevato acume e raffinatezza.
Il secondo sguardo / 71 È da questi ed altri scritti di Andrea Emiliani che ho tratto le prime riflessioni e le suggestioni che hanno fatto nascere questo mio testo. 20 Quanto detto in questo punto del racconto si deduce, anche se finora non è mai stato rilevato, dall’osservazione dei disegni preparatori della pala, nei quali si distingue chiaramente la nudità di Gesù e la ferita nel costato che lasciano intendere come Simone avesse in un primo tempo inserito l’immagine di un Cristo risorto. I
fogli sono conservati presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro e presso Monaco di Baviera (Staatsgemaldesammlungen). 21 MALVASIA, Op. cit., II, pp. 375-376. 22 Per l’intera vicenda legata alle due versioni della Trasfigurazione si veda la lunga ed esauriente scheda nel catalogo della mostra bolognese (A. EMILIANI, a cura di,
Op. cit., 1997, I, pp. 96-102). Concordo con l’opinione di ANGELO MAZZA (comunicazione orale) e di DANIELE BENATI (in Pinacoteca di Brera, Scuola Emiliana, Mila-
no 1991, pp. 152-153) che la versione di Brera sia una copia seicentesca della pala di Cantarini ora ai Musei Vaticani, va però rilevato, e finora non è stato fatto, che tale
copia, notevolmente più chiara dell’originale, fosse molto più aderente alle direttive tracciate da Reni nella propria bottega, ritengo dunque che il vero scontro tra Can-
tarini e il suo maestro avvenne più che sulle propotzioni di una figura, come notoriamente riporta Malvasia, sulla intonazione luminosa che Simone intese quale cupo controluce e che Reni avrebbe voluto tersa e chiara. 2 RAFFAELLA MORSELLI, Prozettori, mercanti, collezionisti: la Bologna di Simone Cantarini, in A. Emiliani (a cura di), Op. e. 1997, pp. 50-69.
24 MALVASIA, Op. cit., II.
25 MALVASIA, Op. cit., Il. 26 E. SAFARIK (catalogo della mostra, Mantova 1996, a cura di), Dozzenico Fetti.
1588/89-1623, Milano, 1996.
27 Per maggiori informazioni sulle due versioni della Sacra Fazziglia, si veda A. EMILIANI (a cura di), Op. ct., 1997, I, pp. 162-164 con le schede dei dipinti curate ri-
spettivamente da Anna Maria Ambrosini Massari e Marina Cellini. 28 Simone Cantarini, Sara Famiglia con Sant'Anna e San Giovannino, Mosca, Museo Puskin. Per ulteriori informazioni si veda A. EMILIANI (a cura di), Op. cit, 1997, I,
pp. 156-157. 29L’opera è pubblicata come appartenente a Simone Cantarini da Claudio Giardini nel catalogo della mostra a cura di C. Giardini, E. Negro e N. Roio, /sersze/e vir tà. Ricerche sulla pittura del ‘700 a Pesaro e Provincia, Pesaro 2000, pp. 42-43.
30 La tavola ora al Louvre venne dipinta da Tiziano negli anni Quaranta del Cinquecento per la chiesa di Santa Maria delle Grazie di Milano mentre la versione ora all’Alte Pinakothek di Monaco è da sempre considerata un’opera estrema, degli anni Settanta. 31 Questo termine venne usato dal De Dominici a proposito della materia pitto-
rica diJosepe de? Ribera, ma vale qui mutuarlo anche per le ultime opere di Tiziano. 32 Dell’argomento si sono occupati diversi studiosi, si rimanda alla monografia
già citata di Pepper, cfr. nota n. 7. 33 Vedi SCOTT SCHAEFER, Io Guido Reni Bologna:”L'uomo e l'artista” in AAVV. Guido Reni 1575-1642, catalogo della mostra di Bologna, Los Angeles e Fort Worth,
1988/1989, p. CXVII. 34 A. COLOMBI FERRETTI, Syz0ne Cantarini, in “La Scuola di Guido Reni” a cura di E. Negro e M. Pirondini, Modena 1992, p. 109-154. 35 Collezione privata, sia nel catalogo della mostra di Pesaro (A. Emiliani, A.M.
72 / Massimo Pulini Ambrosini Massari, M. Cellini e R. Morselli, a cura di, Sizone Cantarini nelle Marche,
Pesaro, 1997 pp. 112-115) che in quello dell’esposizione di Bologna (A. Emiliani, a cura di, Op. cit., 1997, I, pp. 203-204), le schede del dipinto sono di Marina Cellini al-
la quale segnalai l’opera, fino ad allora inedita. La segnalazione comprendeva anche lo stretto collegamento dell’opera col prototipo di Barocci del quale si riferisce alle note seguenti. 36 Federico Barocci eseguì il San Giro/azzo ora conservato presso la Galleria Borghese di Roma, intorno all’ultimo decennio del Cinquecento, come ritenuto da Andrea Emiliani (A. EMILIANI, Federico Barocci, Bologna 1985, vol II, pp. 302-305).
37 Diversi studi preparatori conosciuti del Sar Girolazzo di Barocci sono conservati a Firenze nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, in particolare il foglio inventariato al n. 11302 F (recto), presenta diversi particolari che ricorrono puntualmente nel dipinto di Cantarini ma che vennero modificati dal Barocci nell’opera pittorica della collezione Borghese. 38F. BALDINUCCI, Nozizze dei Professori del Disegno, 1681, ed. 1846, IV, pp. 48-49. Il bellissimo dipinto, riemerso di recente, è stato per la prima volta commentato
da Andrea Emiliani in una scheda interna al catalogo della mostra T'erpzo dell'Arte. Dipinti emiliani e romagnoli dal XVI al XVII secolo, a cura di Daniele Benati, Bologna, Galleria Fondantico, 2000/2001 pp. 57-60. Va sottolineata che l'affascinante caso di riu-
tilizzo della prima versione abbandonata dell’opera, come fosse la tela che la pittrice sta dipingendo, giunge a creare un labirinto di significati, nel quale una Allegoria della Pittura viene ritratta mentre dipinge un’altra A/legoria della Pittura. Colgo l’occasione per rendere nota un’altra attribuzione a Cantarini di un dipinto già assegnato a Guido Reni, si tratta di un’opera dall’iconografia inconsueta, interpretabile come Erodiade con la testa del Battista (fig. 26), anche se la scena si svolge alla presenza di altre tre figure femminili, con le quali la protagonista sta colloquiando. La tela, che misura cm. 110 x 89 è conservata in collezione privata ed è stata pubblicata da Nicosetta Roio come opera di Reni nel catalogo della mostra a cura di A. Cottino, E. Negro, M. Pirondini e N. Roio, Carraca e dintorni, Torino 1996, p. 50.
Del dipinto ho rintracciato anche un puntuale disegno preparatorio, conservato nella Royal Library di Windsor (inv. 3484, cat. 570), fig. 27, che è ulteriore conferma
all’attribuzione qui proposta. 40 I] foglio, che misura mm. 108 x 203, è conservato a Milano, nel fondo di dise-
gni provenienti dalla collezione della famiglia marchigiana Acqua (inv. 62), è stato pubblicato nel catalogo della mostra di Pesaro (AA.VV., Op. ai. 1997, pp. 166-167). Il collegamento tra questo foglio e lA/egorza della Pittura di Simone, è riportato qui
pet la prima volta. 4 Giuseppe Maria Crespi,
Westizione di San Guglielmo, Roma, Galleria Nazionale
d’Arte Antica, Palazzo Barberini, inv. 1993, olio su tela cm. 95 x 65, la più recente
pubblicazione dell’opera, alla quale si rimanda, è nel catalogo della mostra a cura di Claudio Strinati e Rossella Vodret, Guercino e la pittura emiliana del ‘600, Padova
2000/2001, pp. 62-63, scheda n. 16 redatta da Rossella Vodret.
1° Di questa invenzione iconografica appartenente a Guido Cagnacci sono finora ritenute autografe due versioni: una conservata a Monaco di Baviera presso lo Staatsgemaldesammlungen e l’altra a Firenze in Palazzo Pitti, per la quale qui si proporrà un’attribuzione diversa (vedi note seguenti). 4 Si ha parziale memoria dei passaggi di proprietà di entrambi i dipinti. L’opera ora a Monaco, fino ai primi anni del Settecento si trovava a Bologna, presso la collezione del senatore Angelelli, dove venne acquistata dal “Serenissimo Elettor Palati-
Il secondo sguardo / 73 no” (G.P. ZANOTTI, Storia dell’Accademia Clementina, 1739 p. 127). La ricordata qualità, filo-reniana di questo esemplare indurrebbe a pensare che anche la sua originale
esecuzione sia avvenuta nel periodo emiliano di Cagnacci, immediatamente succes-
sivo al soggiorno forlivese che si colloca intorno al 1640. Della versione fiorentina si sa che venne acquisita a Venezia, anch’essa ai primi del XVIII secolo, da un agente, il pittore Nicola Cassana, intermediario del Gran Principe Ferdinando de’? Medi-
ci. Nel 1705 venne accolta con grandi elogi nelle collezioni di Palazzo Pitti. In una lettera inviata al Cassana, Ferdinando de’ Medici (G. FOGOLARI, Lestere pittoriche del Gran Principe Ferdinando di Toscana a Niccolò Cassana, in “Rivista del R. Istituto di Archeologia e di Storia dell’Arte” VI p. 185) commenta l’opeta al suo attivo a Firenze definendola “ben conservata di colore freschissimo e ben disegnata”, per maggiori informazioni si rimanda alla scheda che Alessandro Brogi ne redasse per il catalogo della mostra a cura di Daniele Benati e Marco Bona Castellotti, Guido Cagnacci, Rimini 1993, pp. 140-143; ma per ulteriori commenti sulla provenienza
dell’opera fiorentina si veda /nfra la nota n. 50. 4 Vedi nota precedente. 4 Gian Antonio Galli detto lo Spadarino (Roma, 1585-ante 1653). 46 La vicenda artistica di Cristoforo Savolini è ancora in gran parte da recuperare, dopo le illuminanti aperture di Francesco Arcangeli, forse troppo precoci per essere filologicamente corrette, la prima vera ricostruzione del succinto catalogo del pittore cesenate si deve a MARINA CELLINI, Per Cristoforo Savolini: “brillante e ingegnosa meteora della pittura cesenate del ‘600”, in Atti e memorie della Accademia Clementina,
Bologna 1986, XIX, pp.51-58, che pubblica ricerche alle quali collaborai attivamente. Un altro importante intervento si deve a GIAMPIERO SAVINI, Cristoforo Savolini detto Cristofanino, pittore, in “Romagna Arte e Storia”, 30, 1990 pp. 53-72, del quale riferirò alla nota n.50. Per ulteriori informazioni si veda anche M. CELLINI, Appunti per il contesto romagnolo, in D. Benati e M. Bona Castellotti, Op. 24 1993, pp. 45-54. 47 Vedi M. CELLINI, Op. cit. 1993, p. 51, foto n. 27. L’opera passò in un’asta di Semenzato (Milano) il 23 novembre 1989, con un’attribuzione a Guido Cagnacci. 48 Il San Giovanni nel deserto della Fondazione Cassa di Risparmio di Cesena è stato acquistato, su mia segnalazione, dopo essere transitato sul mercato antiquario del Principato di Monaco, con una attribuzione a Guido Cagnacci. 49 L’attribuzione a Savolini venne da me segnalata a Marina Cellini che la rese nota nel catalogo della mostra dedicata a Cagnacci (M. CELLINI, Op. cit. 1993, p. 51,
foto n. 28), in precedenza era sempre stata ritenuta di Cagnacci. In seguito a questo cambio di paternità andrà spostata nel catalogo di Savolini anche uno studio per la Testa di Sant'Ignazio, conservato presso la Pinacoteca Civica di Rimini e ivi ritenuto ancora del pittore santarcangiolese. Tra l’altro tale abbozzo è già citato come lavoro di Cristoforo Savolini, nell'inventario Ugolini, di cui si parlerà alla nota seguente. Per ulteriori informazioni sul rapporto Savolini-Cagnacci si veda anche un mio recente saggio (M. PULINI, Guido Cagnacci disegnatore, in “Accademia Clementina” , 2001). 50 Il testamento, che è stato reso noto da GIAMPIERO SAVINI, Op. e. 1990, p.
71, porta una data tarda (1720), ma l’inventario allegatovi, nel quale è riportata la citazione del dipinto di Savolini, non è datato e si intuisce antecedente all’atto notarile. Nonostante ciò, al momento attuale non è facile identificare l’opera ricordata con quella ora a Firenze, che come si è detto è da sempre collegata alla lettera del
1705 (si veda nota n. 43), a meno che non si riesca a dimostrare che la missiva di Ferdinando de’ Medici non si riferisse al dipinto che ora si trova a Monaco. A favore di questa tesi, obiettivamente complessa da ricostruire, può soccorrere la citazio-
74 / Massimo Pulini ne dello Zanotti nella quale si rileva che quella versione «venne acquistata dall’elettore Palatino» nei primissimi anni del Settecento (si veda sempre la nota 43), ebbene, anche il Granduca di Toscana vantava l’appellativo di e/ezfore Palatino. C'è una
possibilità dunque che le due citazioni, quella riportata da Zanotti e quella che vuole l’opera acquistata a Venezia col tramite di Cassana, si riferissero in realtà alla stessa versione (quella ora a Monaco), mentre per l’altra, si potrebbe ipotizzare una acquisizione alla Galleria Palatina di Firenze, successiva al 1720. Ricapitolando sospetto che dopo la morte del cesenate Ugolini, al Granducato fosse giunta notizia di un’altra versione dell’opera di Cagnacci, ancora più bella e disponibile sul mercato. Al momento attuale non mi è stato ancora possibile verificare se, negli archivi medicei,
è riportata l’eventuale “seconda” acquisizione. Comunque sia, l'importante testamento Ugolini attesta inequivocabilmente che Savolini fece una copia a grandezza naturale del dipinto di Cagnacci e non è da escludere neppure che ne avesse prodotta un’altra, la quale già sin dai primi anni del Settecento si poteva trovare sul merca-
to antiquario veneziano e lì acquistata dal Cassana. ° Ho volutamente scelto questo esempio, di musica “leggera” contemporanea, essendo verificabile, attraverso la sequenza di incisioni e pubblicazioni dell’opera,
un'influenza dell’interprete sulle successive varianti dell’autore. 2 Il racconto di J. L. BORGES è pubblicato in Ficciones, 1955 (tr. it., Finzioni, Milano 1974, pp. 31-40). 53 La Letteratura, così come la Musica sono arti a//ografiche nel senso che ogni copia esatta dei testi (siano questi partiture o libri) è considerata autentica a tutti gli effetti, come correttamente chiarisce NELSON GOODMAN nel suo Languages ofart, 1968 ( trad. it. di Franco Brioschi, I linguaggi dell'arte, Milano 1976, p.100). L’intero capitolo, di questo saggio di Goodman, intitolato Arze e autenticità risulta di partico-
lare interesse per le diramazioni del nostro argomento. Ringrazio Sandro Pascucci per avermelo gentilmente segnalato. 54 Per la vicenda dei falsi Van Meegeren e del relativo processo si veda AA.VV. Vermeer in “Classici dell’Arte Rizzoli”, Milano 1965, pp.100-102. * Devo la conoscenza dello scritto di Federigo Borromeo dall’essere riportato in un bel saggio di LUISA VIOLA, Dall'inzitazione alla copia (in Lucia Fornari Schianchi, a cura di, “Galleria Nazionale di Parma, catalogo delle opere. Il Cinquecento”, Parma 1998, pp.
238-239), ricco di spunti e riflessioni che sono in parte confluiti nel mio testo. Ringrazio Luisa Viola anche per l’utile scambio di pareri sugli argomenti trattati.
Legenda delle citazioni all’inizio dei capitoli
Pag. 13: ]. L' BORGES, Pierre Menard, autore del Chisciotte, (1939) in Fin-
uni (1955), tr. it, Mondadori, Milano 1974, p.34. Pag. 17: Minimo è il confine tra arte e falso (TACITO, Ann, 4, 58)
Pag. 19: Sevogliendo si complica (motto anonimo inciso in un emblema del XVII secolo) Pag. 25: Benché l'ambizione sia un vizio, spesso è causa di virtà (QUINTILIANO, De znstit. orat., 1, 2, 21)
Pag. 29: G. PAOLINI, Ide, Einaudi, Tortino 1975. Pag. 33: G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, 1968, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 338.
Pag. 37: La correzione è una parte utilissima dell’insegnamento (QUINTI. LIANO, De znstit. orat., 10,4, 1).
Pag. 41: Anonimo, dall’introduzione del cosiddetto A/buz Horne (Firenze, Museo Horne) contenente una raccolta di disegni di Simone Cantarini.
Pag. 45: Ex eodem ore calidum et frigidum effalre ERASMO, Adagia, p. SUO Pag. 49: V.MAGRELLI, Ora serrata retinae, Einaudi, Torino 1980, p. 9.
Pag. 53: G4 uomini mentre insegnano imparano (SENECA, Epist., 7, 8).
Pag. 57: Non è difettoso se non ciò che non ha difetti (PLINIO IL GIOVA-
NES
|
26,1).
Pag, 61: Inedito gentilmente concesso dall’autore. Pap705: G-DELEUZE
Op. a p.3:
RINGRAZIAMENTI
L’autore ringrazia con affetto: Orietta Benocci Adam, Romeo Casalini, Maurizio Cecchetti, Anna Cola, Andrea Emiliani, Carlo Falciani, Sabrina Foschini, Eleonora Frattarolo, Sir Denis Mahon, Angelo Mazza, Mauro Mazzali, Sandro Pascucci, Michela Ravaglia, Graziano Spinosi e Luisa Viola.
Indice
Pieno
dedalo Bali
E udeptato
Si
a Cop,
RODE
i
n
ci
ne
13
Ian
10%
Il primo nodo da sciogliere Choffcsciaro sualla'corda dina fionda. sirtot. nas sa.
19
lean dispersa
DÒ
ea
«quella spezzata... ibi aa
DGCE PACI MATT, nora
CAIO
ri
20
ROIO ni
33
Eolie
ZE
ioserotelalunnato:
rea
RE
a
Eoporiesdeliappiato Sen
fed Guido
IE
E
MO
49
Lite
RR SIA
55
E
3
dira
pr
41 45
rali
laaazione diantaltto Guido PORZIO
ione E
37
57
Rio
61
io rire
65
IRR
ri
69
Nella stessa collana:
PAVEL FLORENSKI]
I/ valore magico della parola José BERGAMIN Frontiere infernali della poesia ROSARIO ASSUNTO L'antichità come futuro
JEAN-LOUP CHARVET L'eloquenza delle lacrime MARISA VOLPI Fuoco inglese
BERNARD EDELMAN . Addio alle arti. 1926: l'«affatre» Brancusi Marc LE BoT La vita degli animali illustri
SALAH STÉTIÉ Rimbaud, l'ottavo dormiente ROSITA COPIOLI
La previsione dei sogni JAROSLAV PELIKAN Faust teologo
Finito di stampare nel marzo 2002 Ingraf srl - Milano
Massimo PULINI, artista, storico
dell’arte, è docente presso
‘PAccademia di Belle Arti di Bologna. Come storico si ricordano molti saggi sulla pittura italiana del XVII secolo con sostanziali aggiunte ai cataloghi
di Lorenzo Lotto, Guercino, Bartolomeo Manfredi, Giuseppe Vermiglio, Pietro Ricchi, Alessandro Turchi e altri. È sua la cura e l’ideazione dell’ultima esposizione dedicata a Guercino (Guercino. Racconti di paese, Cento 2001).
€12,50.