La luna sotto casa. Milano tra rivolta esistenziale e movimenti politici [1 ed.] 8888865446, 9788888865447

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, Moroni cominciò con sempre maggior frequen

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Italian Pages 248 [249] Year 2007

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Table of contents :
Copertina
Occhiello
Frontespizio
Colophon
Prefazione
La luna di tutti (John N. Martin)
Fase 1
1. Cominciava così
Il contesto politico-amministrativo
Le vicende urbanistiche
Demografia, stato delle abitazioni e fabbisogno abitativo
L'ideologia del lavoro
2. Un ragazzo di strada
Processi di formazione
Periodo di visibilità e localizzazione delle bande di quartiere
Leadership e struttura interna
Influenze politiche
Bande di quartiere e territorio
I microsistemi sociali creativi
Dinamiche di alleanza
Uso sociale dei luoghi pubblici di aggregazione
Luoghi e reti di aggregazione
Bande complesse e bande semplici
Percorsi urbani
Fase 2
3. ...Là dove c'era l'erba
L'antiurbanesimo
4. I ragazzi cattivi
L'epoca e i luoghi d'origine dei Teddy Boys
Processi di formazione: dalle bande ai Teddy Boys
Leadership e struttura interna
5. L'antisociale
I Teddy Boys: la territorialità tradita
Geografia dei Teddy Boys
Alleanze
Le nuove reti di uso sociale del tempo libero
L'opinione pubblica: punti di osservazione
Fase 3
6. Cemento armato
Le vicende amministrative e urbanistiche
Il mutamento delle dinamiche demografiche
Il contesto socio-culturale. La società massificata
7. Un ragazzo che come me
Un modello americano
Processi di formazione e localizzazione del beat a Milano
Struttura e obiettivi del beat milanese
8. Cristalli fragili
Fattori connotativi dell'azione socio-territoriale del movimento beat a Milano
L'evoluzione dell'uso creativo del territorio milanese
Manifestazioni e autorappresentazioni
L'incontro con gli studenti: il caso della "Zanzara"
Le comuni metropolitane: dalla "Casa europea dei beat" all'occupazione dell'ex Hotel Commercio
Lo spostamento nel centro città e il progetto "Barbonia City"
Dalla città alla campagna, dagli abbaini agli alberghi
Le nuove reti di socializzazione e gli incroci sociali
I grandi locali sul modello americano
Le discoteche con musica dal vivo
La rete informativa del movimento beat e la sua evoluzione
Fase 4
9. Megalopoli
Il contesto amministrativo e l'evoluzione delle lotte per la casa
Dalla nascita dei gruppi extraparlamentari all'autonomia
L'autonomia operaia organizzata
Il compromesso storico
10. Cometa rossa
La stagione creativa
Caratteristiche generali dell'underground
Caratteristiche generali della "controcultura"
1969-1973. La stagione dell'underground
1973-1976. La stagione della controcultura
11. Casa mia
La riappropriazione del territorio. "Spazi liberati" e "tempo liberato": premessa teorica
Dalle "strutture del consenso" alle prime occupazioni
I primi centri sociali autogestiti, dal 1975 al 20/6/1976
La rete informativa della controcultura: le radio private
Scritti sulla città di Primo Moroni
Un certo uso sociale dello spazio urbano
Un triangolo molti destini
Una tendenziale fine della verticalizzazione politica e la sua ricaduta sul territorio
Tallonare il capitale sul suo terreno: nascita dei centri sociali
Un finale d'epoca?
Di nuovo alla conquista del centro storico?
Militarizzazione del ticinese
Tra postfordismo e destra sociale. Ipotesi e materiali di riflessione
Premessa
Di alcune memorie recenti
1. La "nuova destra sociale": ipotesi e materiali di riflessione
2. Il lavoro "autonomo"
3. Tra lavoro autonomo e microimpresa
4. La nuova ideologia del lavoro
5. Una "nuova borghesia" e una oligarchia diffusa?
6. La crisi del sistema dei partiti, i localismi e il nuovo ceto medio produttivo
7. Inquietudini, suggestioni, corsi e ricorsi storici
8. Fuori dalle suggestioni storiche e tornando dentro la nostra realtà
9. Macroregioni economiche e risveglio neoetnico
10. Fra liberismo ed etnocentrismo
11. Un nuovo "terzo stato"
12. Cercare un'arma
Note
Fase 1
1. Cominciava così
2. Un ragazzo di strada
Fase 2
3. ...Là dove c'era l'erba
4. I ragazzi cattivi
5. L'antisociale
Fase 3
6. Cemento armato
7. Un ragazzo che come me
8. Cristalli fragili
Fase 4
9. Megalopoli
10. Cometa rossa
11. Casa mia
Scritti sulla città di Primo Moroni
Un certo uso sociale dello spazio urbano
Militarizzazione del ticinese
Tra postfordismo e destra sociale. Ipotesi e materiali di riflessione
Ringraziamenti
Indice
Colophon
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La luna sotto casa. Milano tra rivolta esistenziale e movimenti politici [1 ed.]
 8888865446, 9788888865447

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JOHN N. MARTIN PRIMO MORONI

LA LUNA SOTTO CASA Milano tra rivolta esistenziale e movimenti politici

shake

edizioni

CONTIENE CD AUDIO DI UNA CONFERENZA DI PRIMO MORONI

shake

edizioni | underground

JOHN N. MARTIN, PRIMO MORONI

LA LUNA SOTTO CASA

A CURA DI MATTEO SCHIANCHI

shake

edizioni

Copertina e progetto grafico: Rosie Pianeta

©2007 ShaKe ShaKe Edizioni Redazione e Sede legale Viale Bligny 42 -20136 Milano; tel/fax 02.58317306 Amministrazione e Magazzino Via Bagnacavallo 1/a, 47900 S. Giustina (Rimini) tel. 0541.682186; fax 0541.683556 www.shake.it; [email protected] Aggiornamenti quotidiani sulla politica e sui mondi dell’underground: www.decoder.it www.gomma.tv

Stampa: Arti grafiche del Liti, Isola del Liri (FR) ISBN: 978-88-88865-44-7

Prefazione LA LUNA DI TUTTI John N. Martin

MARISA

Quando arrivò il momento di scegliere l’argomento della mia tesi di laurea, fu un dramma. Facevo architettura da quattro anni con una buona media di voti, ma non amavo molto la progettazione e, soprat­ tutto, detestavo il concetto razionalista di città vista come “un insieme di case, abitato da persone”. Preferivo piuttosto pensare a un “insieme di persone” dove case e quartieri venissero costruiti per soddisfare i bi­ sogni della gente. Ecco perché desideravo anche approfondire come un soggetto mutasse radicalmente i propri comportamenti, conte­ stualmente alle trasformazioni del tessuto urbano. Mi sembrava una buona idea per una tesi e avevo anche in men­ te già un titolo: “La luna sotto casa”, ma non trovavo nessuno che mi desse retta. Tra l’altro, volevo svolgere l’argomento dal punto di vista delle subculture antagoniste ma, anche in questo, non fui molto in­ coraggiato. Dopo mesi di ricerche, in cui venni trattato molto antipaticamen­ te da diversi docenti, approdai al dipartimento della professoressa Marisa Bressan, allora docente di Analisi di sistemi urbani. Ci incon­ trammo nel suo studio una mattina e lei mi ascoltò molto attentamen­ te, cosa che mi sembrava di per sé già miracolosa. Come si addice a una professionista seria e rigorosa, non tradì emozioni, ma sentivo che l’argomento la stuzzicava. Mi disse schiettamente che non era una co­ sa semplice, ma fattibile. Prese il telefono senza esitazione...: “Ciao Primo, ti mando una persona che dovrebbe parlarti... ”. PRIMO

“Buongiorno signor Moroni, mi chiamo John Martin.” Sono queste le prime parole che farfugliai quando lo vidi per la 7

prima volta. Ero timidissimo, e non c’era da stupirsene. D’accordo che lui mi mise subito a mio agio, ma era pur vero che mi stavo pre­ sentando a uno dei personaggi più straordinari di tutta Milano. Era circa la primavera del 1986, o giù di lì. Primo gestiva la Li­ breria Calusca in piazza sant’Eustorgio, autentico fulcro transnazio­ nale del sapere alternativo, punk, underground e politico. La aveva aperta nei primi anni Settanta in corso Ticinese. Poi, il costante rin­ caro degli affitti lo aveva costretto a ridimensionarsi in metratura quadra, ma non nel cuore e nemmeno nelle intenzioni. Quando entrai, ebbi una percezione strana. Primo se ne stava se­ duto sul sopralzo in fondo al locale con un’aria vagamente esisten­ zialista: era elegantissimo e la sua figura si staccava decisamente dal marasma di libri e dalla penombra pomeridiana. Giacca e pantaloni neri, camicia bianca, foulard di seta e un Borsalino originale sulla te­ sta. Fumava molto e, dato che la libreria era vuota, stava pure ascol­ tandosi la sua beneamata Patti Pravo (“La più grande rivoluzionaria dopo Rosa Luxemburg”, mi disse una volta ridacchiando). Alle sue spalle troneggiava un grande quadro in bianco e nero di Fausto Pa­ gliano che gli conferiva ancora più autorità. Mi stupì il fatto che appena mi vide entrare in libreria, spense di scatto il mangianastri e lo fece con un gesto così rapido che mi sem­ brò di averlo colto in flagranza di reato. Non ho ancora capito il per­ ché... forse era geloso di Patti Pravo? Comunque, fu la più breve versione di Se perdo te che ascoltai in vita mia. Dopo i convenevoli, abbozzai qualche spiegazione: “Ehm, mi manda Marisa Bressan... sono uno studente di architettura... vor­ rei fare una tesi su Milano e i suoi movimenti sociali... giovanili... po­ trebbe aiutarmi?”. Non rispose subito, Primo. Rimase lì, un po’ in silenzio, quasi co­ me se stesse sintetizzando tutto lo scibile umano in venti secondi. Poi, terminata la concentrazione iniziale, si schiarì sonoramente la voce e partì a razzo raccontandomi ininterrottamente per oltre un’ora la sto­ ria della Milano sotterranea: dagli anni Cinquanta al Leoncavallo. Per inciso, quella che vedete sulla copertina di questo libro è una mappa ritagliata da “Tutto Città” che mi ero portato appresso quel giorno. Bene, in meno di mezz’ora era già piena di dati, percorsi, no­ mi, simboli e cifre che, senza soluzione di continuità, Primo traccia­ va velocissimamente con due grossi pennarelli: uno rosso e l’altro ne­ ro. Alla fine non ci stava più neanche una virgola. Terminato il racconto, si fermò guardandomi di colpo con un sorriso dei suoi come dire: “Allora... ti è piaciuto, eh?”. Io a quel punto ero allibito. Con due occhi strabuzzati accennai un sorriso di gratitudine.

8

“Posso tenere la piantina?”. “Certo! Se ti serve altro ripassa, io sono sempre qui.” La sera successiva all’incontro fu una delle più complesse della mia vita di studente. Cercavo di riguardare la mappa girandola e ri­ girandola più volte, prendendo appunti su quello che mi ricordavo e cercando di ricostruire almeno una parvenza di percorso. Macché, fi­ guriamoci. “Ma perché non mi sono portato dietro il walkman”, pensavo. Beh, semplice: perché non ce l’avevo. A quell’epoca facevo anche il musicista e avevo un buon impianto di registrazione domestica, ma di portatile proprio nulla. Era una lacuna che avrei dovuto colmare in fretta qualora avessi dovuto tornare da Primo... oppure... oppu­ re la grande idea! Gli telefonai qualche giorno dopo, vincendo la mia proverbiale soggezione e gli feci una proposta: “Senta, facciamo così. Visto che abitiamo vicini, le va di venire a pranzo da me così mettiamo giù il ‛racconto’ un po’ più dettagliatamente, e magari lo registriamo pu­ re... che ne pensa?” Da quel momento, furono quasi sei mesi ininterrotti di pranzi, racconti, cartine, mappe, aneddoti, percorsi, analisi, risate, confiden­ ze e confronti e, se ricordo bene, tante, ma tante sigarette. Lavoravamo nella mia camera che ormai si era trasformata in uno strano incrocio tra un laboratorio urbanistico e una camera a gas. Ogni tanto veniva mia madre a portarci un caffè e faceva un salto così, dal fumo che c’era. Mia mamma adorava Primo. Un giorno rimase quasi sedotta dall’agilità con cui sgomberò la tavola portando quattro piatti per braccio (lui era stato chef-de-rang, ma lei non lo sapeva). Dopo qualche mese, il lavoro cominciava a prendere forma: quando Primo tornava in Calusca, io accendevo il mio Apple, sbobi­ navo le registrazioni, e passavo i pomeriggi a verificarle e a elaborare nuovi dati. Le mattine mi dedicavo alle migrazioni urbane per trova­ re nuovo materiale: biblioteche, ufficio emigrati, centri stampa, eme­ roteche, altre interviste e via dicendo. Le notti a scrivere, mentre Marina, la mia compagna, disegnava alacremente. MARINA

Con Marina ci eravamo accordati quasi subito: “Io curo i testi, tu le immagini e, insieme, stiliamo la parte sociologica” (che poi fu quella che nacque prima di tutte, ma che in questo libro abbiamo preferito lasciare da parte). Studiavamo insieme architettura, intensamente. Lei abitava a Como e spesso si trasferiva a Milano per seguire le lezioni. Io la ospitavo quando era il caso. Ci innamorammo e ci lasciammo. 9

All’epoca della discussione della tesi, eravamo a un punto di col­ lisione tale che temevo che i nostri contrasti potessero compromette­ re tutto il lavoro. Ma non fu così, anche se dopo la cena di festeggia­ mento ci disperdemmo senza neppure salutarci. Allora non potevamo saperlo, ma ci saremmo ritrovati quindici anni più tardi, ciascuno reduce dai rispettivi addii. Da lì, non ci sia­ mo più lasciati. Infine, conclusi gli incontri con Primo, trascorsi ancora un anno a finire gli esami e a onorare tutti gli impegni che avevo preso come musicista e Dj, tra i quali una trasferta all’estero. Il titolo rimase La luna sotto casa, ispirato a quello di una canzo­ ne di Pierangelo Bertoli. Non che mi piacesse l’idea di associare Ber­ toli al mio lavoro, ma la poetica del titolo rifletteva bene quella “ri­ cerca del sé dentro il proprio quartiere” che era tipica delle bande giovanili degli anni Cinquanta (di cui, tra l’altro, Primo faceva parte). Da lì, rinominai tutti i capitoli con titoli di canzoni: Cristalli fragili dei New Trolls, Megalopoli degli Area ecc. La tesi venne discussa, con Primo correlatore, la mattina del 18 dicembre 1989 e valutata (alle otto di sera) con la lode. Al momento del voto, molti dei presenti salutarono a pugno chiuso. Nell’eterna attesa che ci toccò tra la discussione e il voto, facem­ mo una puntatina a un ristorante cinese, dove tutti scoprimmo che Primo odiava quella cucina! In compenso, bevve cinque sake e co­ minciò arbitrariamente a tradurre tutti gli ideogrammi che si trova­ vano sulle tovagliette. Secondo Lui, su quella della Raffaéla c’era scritto: “uccellini colorati”. C’erano, è vero, due variopinti pappagal­ lini sulla tovaglia della mia amica, ma non riuscii mai a capire se Pri­ mo stesse dicendo sul serio, o più bonariamente ci stesse pigliando tutti per il sedere. Non parlo mai della morte di Primo. È stata una lacerazione profonda e una perdita incolmabile, ma siccome so che a lui non pia­ cerebbe vederci tristi, preferisco saperlo vivo da qualche parte: ma­ gari nel mezzo di qualche rivoluzione. Oppure, fumando un sigaro, ascoltando Patti Pravo a tutto volume e spiegando ai compagni che “non serve andare a cercare la felicità altrove” perché: “Sotto l’asfal­ to c’è il mare e dietro ogni angolo, c’è sempre la Luna!”. Ottobre 2007

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Fase 1

1. COMINCIAVA COSÌ

IL CONTESTO POLITICO-AMMINISTRATIVO

Per le bande giovanili milanesi degli anni Quaranta e Cinquanta, lo scenario politico legato ai partiti e ai loro rapporti di forza rappre­ senta una sfora a cui restano sostanzialmente indifferenti. Tuttavia, è proprio l’assetto politico-amministrativo che si configura in que­ sto periodo a modificare completamente la loro esistenza e a pro­ durre quei cambiamenti che muteranno per sempre il volto dell’in­ tera metropoli. Alle elezioni amministrative milanesi dell’aprile 1946, i partiti di sinistra (Pci, Psi, Psdi) ottengono il 61,09% dei consensi, mentre la Dc si assesta al 26,87%, acquisendo così il potere politico per costi­ tuire la prima giunta milanese del Dopoguerra che sostituisce quella provvisoria istituita dal Comitato di liberazione nazionale (Cln).1 Il mandato è formalmente quinquennale, ma due avvenimenti limite­ ranno a un solo triennio la durata della giunta: il crollo delle sinistre alle consultazioni politiche del 18 aprile 1948 (il Fronte popolare composto da Pci e Psi subisce una secca sconfitta da parte della Dc) e la scissione socialista di Palazzo Barberini, che porterà alla nascita di Psi e Psli (poi Psdi). Le successive elezioni comunali del 27 marzo 1951 portano alla nascita di una nuova giunta di stampo centrista, confermando lo sta­ to di crisi dell’area laica e promuovendo il Pci a principale partito d’opposizione a sinistra. Con questo nuovo scenario politico, si pro­ duce non solo il definitivo mutamento dei rapporti di forza politici all’interno dell’amministrazione cittadina, ma anche il definitivo al­ lontanamento degli strati sociali meno avvantaggiati dalla progettua­ lità dell’amministrazione pubblica.

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LE VICENDE URBANISTICHE

Nell’immediato dopoguerra, gli interventi politici sia su scala naziona­ le sia a livello locale intendono far fronte alla pressante domanda di al­ loggi. Le leggi Tupini e Fanfani, varate entrambe nel 1949, sono l’e­ spressione più chiara di questa politica. La legge Tupini istituisce le “cartelle fondiarie”, titoli di prestito esentasse con validità venticin­ quennale destinati al settore edilizio per ricostruire o ristrutturare case “non di lusso”. La legge Fanfani istituisce “Ina Casa” (ente finanziato con proventi del patrimonio edilizio pubblico e con prelievi sulle retri­ buzioni dei lavoratori dipendenti) il cui obiettivo diretto è la costru­ zione di alloggi per famiglie a basso reddito. La realizzazione degli al­ loggi è affidata sia a organismi pubblici già esistenti (Iacp, Inail, Inps), sia a imprese private appaltatrici. In questo contesto, l’Istituto autono­ mo case popolari (Iacp) programma di realizzare in “tempi brevi” la costruzione di 211.000 vani: risultato effettivamente raggiunto solo nel 1960, quando il patrimonio dell’ente risulta costituito da 155.000 vani di proprietà e 73.000 vani in gestione per conto di altri enti.2 Prima di questi provvedimenti, era stata ugualmente decisiva l’entrata in vigore nel 1942 della legge 1150 che imponeva a tutti i co­ muni italiani di dotarsi di un Piano regolatore generale (Prg) che, at­ traverso un insieme di Piani particolareggiati (Ppa), doveva fissare le quote destinate a spazi pubblici, edilizia residenziale, aree verdi. Al Piano regolatore competevano anche la progettazione e il finanzia­ mento delle spese di urbanizzazione primaria (strade, servizi a rete, fognature, elettricità, acqua) e secondaria (scuole, mercati ecc.). A fronte di tale decreto, anche a Milano si era aperto il dibattito per aggiornare i vecchi strumenti urbanistici, in particolare il Piano Albertini entrato in vigore nel 1934 e ormai obsoleto. Il 10 novembre 1945 la giunta del Cln bandisce un Concorso di idee aperto a tutti i cittadini (a cui risponde un consistente numero di professionisti, tra cui gli architetti del gruppo AR) e promuove un Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia. Le linee generali della proposta del gruppo AR sono condivise da altri progetti e si concentrano sui seguenti punti di realizzazione: ac­ centuazione della “regionalità” con il riferimento del piano della città a uno schema territoriale regionale; allontanamento dal nucleo urba­ no delle attività produttive viste come fonte di inquinamento e de­ grado ambientale; creazione di un nuovo centro direzionale a rottu­ ra del modello monocentrico berzamino (il Piano AR lo prevede pres­ so la Fiera); applicazione dello zoning3in funzione della sua destina­ zione d’uso (residenza, industria, zone verdi, centri residenziali, cen­ tri direzionali); previsione di un efficiente sistema di penetrazione in città; necessità di realizzare un sistema di linee metropolitane per de­ 12

congestionare il traffico in superficie e consentire spostamenti rapi­ di; vincolo di zone agricole e insediamento del verde in città. Nel 1948, sull’onda delle numerose idee emerse dai progetti in concorso, la giunta aveva affidato la stesura del nuovo piano regola­ tore al comunista Mario Venanzi. I cambiamenti dell’assetto politi­ co emersi con le elezioni politiche del 1948 e le comunali del 1951 spostano verso il “centro” sia l’asse politico sia il progetto urbanisti­ co rendendo difficile il passaggio dal Piano Albertini al progetto di Venanzi. L’amministrazione cittadina adotta così un nuovo Prg “centrista” che, dopo ulteriori “aggiustamenti” dettati dalle evolu­ zioni del panorama politico ed economico, viene definitivamente adottato nel 1953.4 Con la realizzazione del nuovo Piano vengono di fatto cancellate le prospettive che animavano i progetti presentati al concorso e il progetto Venanzi. L’inquadramento regionale resta di fatto lettera morta. Non solo non vengono correlati gli sviluppi insediativi resi­ denziali e industriali tra la città e il territorio, manifestando così un aperto disinteresse per i problemi dell’hinterland, ma non vengono neppure realizzate le grandi infrastrutture di interesse regionale (gli assi di penetrazione, il canale navigabile per il Po e il relativo porto). La metropolitana, in origine strumento di collegamento tra città e pe­ riferie, resta all’interno del territorio comunale e priva del prospetta­ to allacciamento con la ferrovia. Il decentramento, previsto dal ra­ zionalismo milanese come mezzo per decongestionare e disinquinare la città, sul modello del Piano Abercrombie del 1944 per Londra, si rivela un’eccezionale occasione per la proprietà immobiliare per espellere le attività commerciali minori e sostituirle con attività ter­ La generazione del Dopoguerra

“I giovani che avevano 15 o 16 anni all’inizio degli anni Cinquanta avevano uno scarso interesse per la guerra vissuta da bambini; più che altro avevano una per­ cezione della paura, quando ne avevano una reale consapevolezza. Si trovano di fronte una società fortemente bloccata, nel senso che, a seconda della classe cui appartengono e tenuto conto del grado di istruzione e avanzamento sociale, sono destinati inevitabilmente a ripetere il mestiere dei genitori, operaio, commercian­ te ecc. In quegli anni, tuttavia, si sviluppano i primi elementi della generazione della ‘rivolta esistenziale’, ci si comincia a chiedere: qual è il senso della storia pre­ cedente? Perché le scelte individuali e collettive sembrano così predeterminate? Perché il futuro appare così ‘bloccato’? Questa situazione deve essere subita o può essere modificata. Questi giovani, in gran parte figli di proletari, frequentano le sezioni del Pci, che in quegli anni sono straordinari luoghi di aggregazione collettiva, aperte tutte le sere, generalmente con un bar, spesso con la bocciofila e la sala da ballo. Qui si mantiene, si alimenta e si sviluppa una speranza, l’utopia di cambiamento della propria condizione.”

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ziarie o quartieri di lusso. Lo sdoppiamento del centro viene vanifi­ cato dalla eccessiva vicinanza di un secondo centro commerciale po­ sto a ponente della Stazione Centrale. L’azzonamento è applicato al­ le sole zone di espansione, lasciando indifferenziate quelle dove si creano i maggiori valori immobiliari. L’espansione esterna dei quar­ tieri costituisce un’altra grave manifestazione di speculazione nella definizione delle linee di sviluppo della città. Nati nel mito dell’auto­ sufficienza, sono in concreto “sterminati quartieri dormitorio, veri e propri ghetti sociali e ambientali, che solo il lento processo di riap­ propriazione da parte dei cittadini, del loro ambiente e di autoge­ stione decentrata dà una qualche possibilità di recuperare modelli di vita meno alienanti”.5 La penetrazione del verde in città è altrettanto disattesa quanto gli altri punti. I parchi ristrutturati distano diversi chilometri dal centro storico (Forlanini, Trenno, Lambro, Nord) e le poche zone di verde cittadino create ex novo (Verziere e Parco delle Basiliche) sono eccezioni tra i tanti fazzoletti di verde nati nei posti liberi tra un insediamento e l’altro. Con lo spostamento al centro dell’asse politico milanese, nei quartieri si indeboliscono tutti gli organismi unitari che avevano ga­ rantito importanti funzioni di partecipazione collettiva sociale ed economica durante il conflitto e negli anni immediatamente succes­ sivi. Le Consulte popolari, che per alcuni anni avevano svolto fun­ zioni amministrative decentrate, interrompono progressivamente le relazioni fino ad allora strette con l’amministrazione della città. I Consigli tributari di zona, che avevano il compito di individuare gli evasori fiscali, non sono più rinnovati a partire dal 1951. L’attività dell’Associazione milanese inquilini e senza tetto (Amist), fondata nel 1946, subisce un forte rallentamento. Nel centro città viene avviata una spregiudicata politica di “epu­ razione” dei quartieri danneggiati dalla guerra assecondando la ne­ cessità di farne aumentare il valore immobiliare. Questa politica, guidata da interessi economici e priva di alcun interesse per le com­ ponenti sociali dei quartieri, porterà a demolire macrosistemi urba­ ni consolidati da secoli. Nel giro di pochi anni, gli abitanti di queste zone sono costretti a modificare il proprio uso sociale dello spazio urbano e le relazioni con l’amministrazione cittadina. DEMOGRAFIA, STATO DELLE ABITAZIONI E FABBISOGNO ABITATIVO

Secondo un’indagine del dicembre 1949, su 1.040.000 locali esisten­ ti a Milano il 1 dicembre 1942, la guerra ne aveva resi inagibili il 25%. Erano state colpite soprattutto le case delle zone centrali e del quartiere Ticinese.6 Quest’ultimo sembra sia stato sottoposto ai bom­ bardamenti più pesanti poiché, trovandosi esattamente in linea con il 14

La progettazione fordista della città

“Non è questione di essere nostalgici di una certa Milano, ma di ricordare e ca­ pire qual è stato lo sviluppo specifico della città. Negli anni Cinquanta, a Mila­ no e più generalmente in Italia, si tenta una progettazione fordista della città; at­ tenzione, dico fordista e non taylorista, ovvero con una forte dose di utopia. La città è dunque progettata a somiglianza dell’organizzazione generale del lavoro, i quartieri sono divisi per ceti, si calcolano le distanze tra luogo di lavoro e abi­ tazione. Si progetta una specifica famiglia. Si pianifica un certo tipo di abitazio­ ne: le case minime per i poveri e gli appartamenti con due o tre locali per Gra­ tosoglio o Lorenteggio. Avviene poi un tipo di decentramento, uno spostamen­ to coatto, dei soggetti del proletariato al di fuori della cerchia esterna della cir­ convallazione delle Regioni.”

punto di virata dei bombardieri, subiva, oltre alla prima scarica, an­ che un’ulteriore gragnola di bombe residue di cui gli apparecchi si li­ beravano, intrapresa la via del ritorno.7 L’indagine del 1949 indica che le abitazioni prive di acqua sono il 18% del totale, quelle prive di servizi igienici con acqua corrente il 32%, mentre il 57% sono pri­ ve di bagno. Su un totale di circa 1.200.000 abitanti per tutta la città di Milano, gli indici di affollamento medi si aggirano intorno a 1,25 abitanti per stanza, ma una valutazione disaggregata del taglio degli alloggi riporta un indice di affollamento di 3,15 per gli appartamen­ ti composti da un locale e di 1,77 per gli appartamenti di due locali.8 Tutti questi valori sono superiori agli ultimi rilevamenti del 1931 che indicavano un valore massimo di 2,01 abitanti per stanza negli appartamenti più piccoli. È dunque ovvio che, in queste condizioni, la casa diventasse un bene molto ricercato. Intorno al 1951, la do­ manda oscilla tra i 500.000 e i 600.000 vani (su base provinciale) e au­ menta in modo netto a seguito delle ondate di immigrazione del 1953 e soprattutto del 1961. La situazione demografica di Milano, dal primo dopoguerra si­ no all’avvio delle grandi opere urbanistiche di sventramento e ri­ composizione delle aree urbane più degradate (1953), è pressoché stabile. La media della popolazione residente si aggira intorno a 1.200.000 unità, seppur in progressivo aumento. Gli incrementi an­ nuali più consistenti di popolazione si verificano in corrispondenza dei grandi flussi migratori, un dato che attesta anche in termini quantitativi la città di Milano come polo d’attrazione,9 anche se al­ l’epoca la provenienza migratoria non è ancora meridionale, ma per lo più lombarda.10 Per avere un’idea complessiva della situazione, dieci anni dopo la fine della guerra, tra il 1956 e il 1960, il 57,4% degli immigrati andrà a vivere a Milano e il 42,6% nell’hinterland.11 In sostanza, la prima ondata immigratoria (che si conclude con la punta minima del 1952), vede accedere “ufficialmente” a Milano 15

circa 100.000 nuovi arrivati: giovani, si tratta di soggetti poco istrui­ ti e con forme di socialità e produttive tipiche di una realtà prein­ dustriale ancora presenti nel tessuto milanese. Contrariamente a quanto avverrà con “l’invasione meridionale” dal 1957 al 1965, l’im­ migrato della prima ondata non trova sostanziali difficoltà di inseri­ mento nel tessuto sociale. Con il modello costruttivo di edilizia pubblica degli anni Cin­ quanta, si registra il passaggio dalla tipologia urbana fascista delle “case minime” (Baggio, Bruzzano e Zama) e “ultrapopolari” (Stade­ ra, Solari e Regina Elena) al tipico modello razionalista del quartiere autosufficiente, di enormi dimensioni e periferico. Questo modello si impone anche perché le aree della cintura avevano costi inferiori ri­ spetto a quelle centrali. Una cosa che comportava, tra l’altro, la net­ ta diminuzione degli oneri a carico dell’amministrazione per le spese di costruzione, urbanizzazione ecc. In quegli anni, infatti, i costi dei terreni erano lievitati del 200% rispetto al valore originario.12 Secon­ do alcune stime, i prezzi medi al metro quadrato non edificato (espressi in lire costanti del 1962) erano passati da 147.000 lire nel 1927, a 350.000 nel 1956, a 450.000 nel 1957, per arrivare a 643.000 nel 1962.13 A fronte di questa repentina esplosione della bolla immo­ biliare, bisogna tuttavia ricordare che la realtà si muoveva più lenta­ mente e alcuni quartieri storici operai e sottoproletari restavano an­ cora relativamente vicini al centro della città, e spesso anche le fab­ briche erano una loro componente strutturale. Il modello costruttivo dei lotti delle case in affitto per ceti a bas­ so reddito porta a un livello di edificazione addirittura superiore ai parametri concessi dai regolamenti urbanistici. Prevale il tipo edili­ zio dell’immobile “a ballatoio”, edificato sul bordo stradale, alto 45 piani: le parti che si affacciano sulla strada sono sempre a corpo doppio e doppia esposizione (verso strada e verso l’interno del lot­ to), mentre le parti interne utilizzano spesso lo schema a corpo sem­ plice con esposizione sulla corte interna e parete cieca in corrispon­ denza del confine del lotto. Gli alloggi sono costituiti da 1-2 stanze di circa 15-20 mq, non disimpegnate tra loro, né rispetto all’esterno. I servizi igienici sono comuni per ogni piano, in corrispondenza del vano scale o lungo il ballatoio. Il riscaldamento avviene tramite ca­ mini e l’acqua potabile è comune, una presa per ogni piano. Spesso al piano terra sono collocati negozi (1,2 luci al massimo) per gene­ ri di largo consumo o piccole botteghe artigianali, mentre attività produttive di limitate dimensioni trovavano posto nei cortili interni e a volte nelle cantine.14 Questo tipo di edificio, di basso profilo qualitativo e studiato principalmente in funzione della riproduzione della forza lavoro, non offriva al suo interno gli spazi di socializzazione e di incontro necessa­ 16

Sembrava non succedesse nulla

“Negli anni Cinquanta la realtà operaia resta chiusa nei propri quartieri, si aveva la sensazione che non succedesse nulla. La vita era lavoro, casa, quartiere. Si ve­ niva a conoscenza di qualche avvenimento internazionale, ma non più di tanto, per esempio non si aveva la percezione esatta di cosa fosse la Guerra di Corea. La sensazione generale era quella di un futuro bloccato, dominato da eventi in gran parte incomprensibili e a cui non si poteva partecipare. Veniva dunque scaricato tutto immediatamente nella strada, nel gruppo di appartenenza, in amicizie for­ midabili. I figli degli operai e i giovani proletari mitizzavano la classe operaia in­ tesa come modello morale, ma non come modello produttivo. Si consideravano fondamentali gli operai in una prospettiva culturale e politica, ma tutto si deside­ rava tranne che andare a lavorare in fabbrica. Del resto non si può dire che lo stesso operaio avesse il mito della fabbrica, faceva le lotte sociali di tipo demo­ cratico perché il figlio non finisse in fabbrica.”

ri. Al contrario, per sua conformazione, induceva a trasferire queste necessità fuori dall’edificio, favorendo così una “cultura della strada” e modelli extradomestici di aggregazione. In queste condizioni, al di là del contesto lavorativo e scolastico, la vita si svolgeva essenzialmente in strada e nei cortili delle case di ringhiera. La soddisfazione dei biso­ gni pratici e di autorappresentazione soggettiva usciva dalle mura do­ mestiche per sfociare nella vita del proprio quartiere, puntualmente connotato da un punto di vista urbanistico ed economico e dotato di precise tradizioni che ne qualificavano la memoria. l’ideologia del lavoro

Nelle fabbriche, gli operai con stipendi molto bassi15 e altissimi livel­ li di produttività, assicurano il proseguimento della “ideologia della Ricostruzione”, sodalizio tra la progettualità borghese e quella del Partito comunista, “un universo di valori concentrato sul considerar­ si la parte sana e produttiva della nazione, opposta alla borghesia cor­ rotta, incapace e parassitaria”.16 Questa cultura si afferma a Milano in modo particolare nelle zone operaie storiche e nelle aree industriali (da Sesto San Giovan­ ni al Vigentino), producendo comportamenti specifici (gestione co­ struttiva del quartiere considerato come luogo dei propri diritti, tolleranza del diverso - sempre che questo si dimostri disposto a in­ serirsi produttivamente nel contesto - equilibrio e partecipazione della terza età alle attività sociali, scarsa mobilità fisica ecc.) di cui risentiranno molto anche le diverse bande di quartiere. Questa cul­ tura differenzia nettamente i gruppi giovanili delle zone proletarie da tutto il resto del panorama urbano e ne costruisce una forte componente ideologica. 17

È pur vero che non tutta la prima generazione operaia del dopo­ guerra farà propria la scelta del patto costituzionale del Pci con gli industriali per garantire la ripresa economica e produttiva del paese. Una parte dei combattenti vorrebbe anzi proseguire la lotta armata per passare “dalla Liberazione alla rivoluzione”. Questi soggetti, i primi a opporsi alla riconsegna delle armi dopo l’armistizio dell’8 set­ tembre 1943, si collocano nel settore politico della “Resistenza tradi­ ta” (che nel primo dopoguerra avrebbe dato vita anche all’esperien­ za della Volante Rossa)17 e saranno destinati a tornare con modalità diverse nella storia dei movimenti antagonisti.18

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2. UN RAGAZZO DI STRADA

PROCESSI DI FORMAZIONE

Per i giovani che vivono nei quartieri popolari milanesi nel periodo a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, la vita non è particolarmente ricca di prospettive interessanti. In condizioni abi­ tative disastrose, i figli degli operai, nel migliore dei casi, sanno di essere destinati alle scuole di avviamento professionale per poter ac­ cedere all’ambita “specializzazione”, mentre le ragazze hanno come orizzonte di vita le scuole commerciali per diventare impiegate. Al contrario, i figli della borghesia, terminate le scuole, caratterizzate da una forte selettività, andranno a rimpolpare i ranghi della classe dirigente. Per i giovani dei quartieri popolari, l’esigenza di formare un grup­ po nasce dal bisogno di superare la rigida predeterminazione della lo­ ro vita quotidiana. Il gruppo è dunque il “luogo” in cui è possibile soddisfare le normali esigenze e con cui si occupa il tempo libero nei modi più interessanti possibili. Il modello di queste aggregazioni gio­ vanili non differisce molto da quello descritto dai sociologi della Scuola di Chicago per le “street gang” americane1 e da quelli elaborati dall’antropologia urbana inglese dei tardi anni Cinquanta. La coesione di diversi soggetti all’interno di una sola entità du­ rante il tempo libero diventa un processo per certi versi “naturale” nel momento in cui il giovane-adolescente (tra i 14 e i 20 anni), non avendo possibilità di comunicare o di svagarsi all’interno delle mura domestiche, si inserisce automaticamente nei meccanismi sociali del­ la vita di quartiere. La morale della banda e della strada prende il po­ sto dell’educazione familiare e diventa, nel contempo, il fine e il mez­ zo della propria soggettività. La sua formazione è, di fatto, la sintesi finale di un processo di autoidentificazione soggettiva sia nei con­ fronti dei propri pari (relazioni amicali radicate dall’infanzia, sempli­ 19

ci processi di conoscenza o di solidarietà sociale), sia rispetto al pro­ prio quartiere, le cui norme sociali e la sua conformazione urbanisti­ ca rappresentano elementi determinanti per i comportamenti del gruppo. Nel caso di Milano, la genesi delle bande è fortemente legata al quartiere d’origine, ed è facilitata in modo particolare da due fattori: il debole livello di interscambio sociale tra le diverse zone della città (retaggio di forme di socialità “preindustriali” che fanno del proprio quartiere vere e proprie “cittadelle” autosufficienti, dotate di un pro­ prio specifico bagaglio culturale), ed un’esaustiva presenza di servizi e poli di socializzazione all’interno dei quartieri stessi. A queste dinamiche si aggiunge una relativa stabilità urbanistica e sociale. Almeno fino ai primi anni Cinquanta, nessuna delle zone di origine delle prime bande milanesi era stata sconvolta da piani urba­ nistici o culturalmente interessata da violenti processi migratori. In questo senso, il tessuto urbano diventa per il gruppo un preciso si­ stema di riferimento per la propria identità, “un ambiente tradizio­ nale fatto di vita di quartiere e di negozi all’angolo”.2 Qualsiasi mo­ difica del territorio che possa produrre l’annullamento di questo va­ lore “sacrale” di riferimento determina il collasso di tutto lo stile comportamentale del gruppo. La ricerca di un vissuto qualitativamente migliore, di magiche formule innovative e soprattutto di forti sensazioni emotive da con­ trapporre all’orario scolastico o lavorativo è quindi la direttrice lun­ go la quale si muovono le prime bande di quartiere della Milano an­ ni Cinquanta. PERIODO DI VISIBILITÀ E LOCALIZZAZIONE DELLE BANDE DI QUARTIERE

Per banda si intende un movimento sociale antagonista che, per sod­ disfare i propri bisogni di socializzazione, di confronto e di autorap­ presentazione collettiva, ricorre all’uso sociale dei servizi dislocati sul territorio d’origine (in questo caso il quartiere) o, più in generale, su tutto il sistema urbano. I primi gruppi milanesi del dopoguerra costituitisi in bande di quartiere sono visibili sul tessuto urbano a partire dal 1945 e lo sa­ ranno fino ai primi anni Sessanta. Anche se qualcuna si scioglierà pri­ ma, a seguito delle dinamiche sociali e urbanistiche successive all’at­ tuazione del Prg del 1953. Escluse forme di aggregazione minori (piccoli gruppi amicali, compagnie isolate ecc.) le bande “storiche” effettivamente rappre­ sentative nel territorio milanese sono ventisei e risultano così dislo­ cate: 6 entro la cerchia dei Navigli, 1 entro la cerchia dei Bastioni, 5 20

tra i Bastioni e la circonvallazione delle Regioni, 14 oltre la circon­ vallazione delle Regioni. LEADERSHIP E STRUTTURA INTERNA

La struttura interna delle bande milanesi anni Cinquanta raramente ruota intorno a una figura centrale, tipica invece di gruppi tenden­

1945-1958 ca. Bande di quartiere 1) Piazza S. Stefano 2) L.go Richini 3) Piazza S. Nazaro 4) Via Chiaravalle 5) Via Capre 6) Piazza Vetra 7) Scaldasole-Genova (Casbah) 8) Via Borsi 9) “Baia delRe'” 10) Parco Ravizza 11) Colletta-Libia 12) Via dei 500 13) Trecca

14) Castaldi-Venezia (Casba) 15) Via Crescenzago-Lambro 16) Via Casoretto 17) Gorla-Greco 18) Zuretti-Gluck 19) Riguarda 20) Bassi-Segrino-Isola (Casba) 21) Bausan-Bovisa 22) Cagnola 23) Brescia-Murillo 24) Aretusa-San Siro 25) Forze Armate 26) Giambellino 21

zialmente criminali (per esempio il Rospo della Baia del Re e il Mof­ fa della Trecca). In genere, la leadership è esercitata da un ristretto numero di membri. La scelta, a seconda delle varie situazioni, è det­ tata dalla capacità del singolo di farsi portatore di valori di primazia nelle rappresentazioni collettive: il miglior ballerino nelle sale da bal­ lo, il miglior giocatore nelle sfide a boccette o biliardo, il miglior pic­ chiatore nelle risse ecc. Solo grazie a un processo di mitizzazione ex post, operata spesso da autori di grande rilievo, molti di questi personaggi sono entrati a far parte della storia dello scenario milanese. Gli ex componenti del­ la banda del Porto Franco di largo Richini ricordano, per esempio, la grande abilità di Fulmine nel guidare il gruppo durante gli scontri fi­ sici. Un successo discografico di Giorgio Gaber ha immortalato la fi­ gura di Gino Cerruti, detto il Drago, maestro in bravate della banda del Giambellino.3 Una nota canzone del 1966 di Adriano Celentano ha celebrato le gesta di un non meglio identificato ragazzo della via Gluck trasferitosi a malincuore in città. Enzo Jannacci e Walter Val­ di hanno preso bonariamente in giro nella canzone Faceva il palo le disavventure di una piccola banda dell’Ortica che durante le rapine si serviva di un “palo sguercio”. Le compagnie di quartiere, formate mediamente da sessanta membri (ma arrivano anche a punte di centocinquanta come nel ca­ so della banda di Porto Franco), sono quasi esclusivamente maschili ed eterogeneamente composte da proletari, operai, artigiani, sogget­ ti extralegali. In certe bande del centro viene assorbita nel gruppo anche una modesta componente borghese. Alcuni gruppi, per esempio le compagnie di piazza Santo Stefa­ no, Richini-Pantano e Porto Franco, suddividono i membri per fasce d’età: 15/18, 19/23 e 24/28 anni, secondo modalità simili a quelle operate dalle bande americane (per esempio i Cobras di Manhattan). A differenza delle bande milanesi, quelle americane erano estre­ mamente gerarchiche, verticali e strettamente legate al traffico degli stupefacenti, e presentavano importanti differenze nel loro assetto territoriale e sociale. A partire dalla frammentarietà e dalla colloca­ zione urbana prodotta dai flussi migratori, le bande giovanili ameri­ cane risultano nettamente divise secondo criteri etnici piuttosto che di classe, come invece accadeva in Inghilterra. Inoltre, la difficile co­ municazione tra i diversi gruppi etnici portava ogni banda a stare raccolta in una porzione ben determinata del territorio urbano, de­ finita rigidamente come la “propria area” e difesa da qualsiasi con­ taminazione fisica o culturale non legittimata dalla cultura dei pari. La mancanza di una memoria storica e di una “cultura atavica” conduce inoltre le aggregazioni americane a dotarsi immediatamente 22

di codici di comunicazione visibili e ben definiti: abbigliamento, lin­ guaggio, trasmissione di informazioni murale scritta (graffiti), strut­ tura verticale e gerarchica ecc. La modesta coscienza politica, e so­ prattutto il disinteresse per le questioni di amministrazione della città, innescano un fondamentale distacco tra minoranze etniche e apparato governativo, annullando ogni possibilità di contatto tra bande e classe operaia locale. In questo senso le “gang”, a differenza dei gruppi milanesi che si congiungeranno nel ’68 con studenti e ope­ rai, resteranno ininfluenti nella stagione delle rivendicazioni politiche e sociali dell’America degli anni Sessanta. INFLUENZE POLITICHE

Esclusa qualche rara contaminazione, all’interno del processo di for­ mazione delle bande milanesi di quartiere l’ideologia della Ricostru­ zione nella sua matrice di sinistra legata al Pci è assente: i comporta­ menti di questi gruppi sono riconducibili a una coscienza politica in­ dipendente. Lo stesso concetto di “lotta di classe”, attorno a cui si costitui­ ranno dalla fine degli anni Sessanta gruppi estremamente radicali, è assunto dai membri delle bande in forme non rigide. Anche in que­ sto caso è possibile tracciare un parallelo con la situazione inglese in cui Murdock e Mc Cron hanno teorizzato la capacità dell’età giova­ nile di essere un “fattore di mediazione all’appartenenza di classe”,4 a meno che il gruppo non assuma, più o meno spontaneamente, una coscienza politica di tipo conflittuale.5 Per inciso occorre dire che nel caso italiano il connubio tra gio­ vani e lotte operaie non si farà attendere molto: le prime inquietudi­ ni giovanili legate ad un ambito socio-produttivo (i “giovani con le magliette a strisce”) esplodono durante gli scontri antifascisti di Genova il 25 luglio 1960. Montaldi ha interpretato questi movi­ menti come l’apoteosi del malcontento “politico” per la rigida mo­ rale operaia, per le estenuanti condizioni lavorative in fabbrica e co­ me rifiuto della produzione culturale ufficiale.6 Si tratta di un mo­ mento, non colto da molti, in cui emergono i prodromi di quel disa­ gio esistenziale che avrebbe conquistato in poco tempo la genera­ zione degli anni Sessanta. Cominciava, infatti, a farsi largo in molti giovani operai una cultura del lavoro come “fatica” e non come “emancipazione”, che affondava le sue radici nel periodo della Ri­ costruzione e nello sradicamento dalla propria terra dei primi im­ migrati meridionali. All’interno di questo contesto culturale e di questi gruppi si sarebbero poi sviluppati comportamenti che porta­ vano in sé l’idea che molte cose avrebbero dovuto essere rivoluzio­ nate, in fabbrica e altrove. 23

BANDE DI QUARTIERE E TERRITORIO

Non tutte le bande di quartiere esistenti a Milano nel periodo della Ricostruzione hanno le stesse caratteristiche o si pongono nello stes­ so modo rispetto al proprio territorio di appartenenza. Il carattere di ciascun gruppo si “modella” in modo diverso a seconda dei diffe­ renziati aspetti socio-territoriali del quartiere d’origine: tipologia, si­ to, cultura, composizione sociale, morale interna, servizi ecc. Molti fattori contribuiscono a costruire una specifica relazione tra banda e quartiere di appartenenza. 1. La persistenza di una forma di comunicazione urbana ancora rigida e chiusa di tipo “paleoindustriale”, che definisce sul tessuto urbano porzioni di territorio autonome e definite. 2. Il permanere di forme di trasmissione del sapere tradizionali non ancora “pilotate” dai media, e la funzione di modellazione svol­ ta dalla morale familiare e di quartiere. 3. La struttura rigidamente “localizzata” dei gruppi: nella mag­ gior parte dei casi, la banda è composta da soggetti nati e vissuti nel quartiere e come tali particolarmente sensibili a ogni suo minimo mu­ tamento. 4. L’esistenza in diversi quartieri di una struttura di servizi esau­ stiva, articolata e mista, tale che i bisogni del singolo individuo (dai più elementari alla socializzazione) possano essere soddisfatti attra­ verso un uso sociale degli spazi presenti nel quartiere stesso. 5. La presenza di strutture che permettono agli attori sociali la possibilità di usufruire in modo immediato dei poli di svago del pro­ prio quartiere, non appena terminato l’orario lavorativo o scolastico; Quartieri di estrazione popolare “In alcuni quartieri di estrazione popolare, Garibaldi, Ticinese, Porta Romana, Vigentina e il Centrocittà esistevano compagnie giovanili che si impadronivano della struttura del quartiere. Queste bande hanno cominciato a formarsi tra la fi­ ne degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, in concomitanza con la tra­ sformazione della realtà milanese in senso industriale: esprimono l’esigenza di non essere governate totalmente dal processo di cambiamento, diventando un luogo privilegiato di percezione dell’inquietudine del cambiamento stesso. I pro­ cessi di classe, il fenomeno dell’industrializzazione, le dinamiche del cambiamen­ to socio-economico e urbanistico pongono i soggetti di queste bande in contatto continuo con i luoghi dell’industrializzazione, con le classi sociali che detengono il potere, siano esse in ascesa o in fase di decadenza. Questi processi sono vissuti concretamente, nella quotidianità, e formano nei soggetti una percezione estre­ mamente ricca, flessibile, innovativa. In questi giovani si sviluppa un grande spi­ rito di adattabilità generato dal flusso enorme di informazioni provenienti da set­ tori diversi della società e da luoghi in rapido cambiamento e destinati, come la parte centrale della città, a essere conquistati dal capitale.”

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luoghi in cui “scaricare” l’ostilità diffusa nei confronti delle espe­ rienze di scuola e fabbrica. 6. La conduzione dei locali di svago e di socializzazione affidata a soggetti facenti parte del quartiere implica una gestione orientata a valorizzare le relazioni “amicali” invece di quelle mercantili e della speculazione economica; per esempio i negozi erano venduti con abi­ tazione annessa. 7. La scarsa incidenza di “contaminazioni” culturali dovuta alla relativa stabilità del flusso immigratorio che, per ampiezza e qualità, non intacca ancora i modelli di società “lombarda-paleoindustriale” presenti nei singoli quartieri. 8. La relativa stasi del processo urbanistico che, perlomeno fino al 1953, sancisce un effettivo e duraturo legame degli attori sociali con le “istanze territoriali” presenti sul proprio quartiere. Per esempio, in una zona urbana con una composizione sociale complessa e a contatto con il centro culturale cittadino, corrispondono effettivamente bande innovative e miste. Nelle storiche zone operaie (quindi socialmente meno ramificate della prima e con un interscambio tra classi sociali non così immediato) si sviluppano gruppi più chiusi, meno “vivaci”, e più fedeli all’ideologia del lavoro. Infine, i quartieri periferici che regi­ strano una deficienza strutturale di servizi, trasporti e/o luoghi di so­ cializzazione, ospiteranno bande segnate in modo fondamentale della violenza, con forti tendenze alla marginalità selvaggia. I MICROSISTEMI SOCIALI CREATIVI

Se si considera il modello delle “istanze territoriali” (complessità socia­ le, urbanistica, di classe ecc.) precedentemente evocate, è possibile rag­ gruppare ciascuna delle ventisei bande di quartiere presenti a Milano dal 1945 in una serie di “microsistemi sociali”7 con specifici caratteri territoriali, sociali e culturali: microsistema di via Larga, microsistema Ticinese, microsistema Vigentino-Romana, microsistema Porta Vene­ zia, microsistema Isola, microsistema integrato San Siro, Giambellino e Lorenteggio, microsistema integrato Trecca e Corvetto.

Il microsistema di via Larga Si trova nel centro città. Vi confluiscono, data la struttura radiocen­ trica di Milano, tutti gli assi di transito delle reti relazionali e delle merci. Questa zona contempla inoltre la più alta concentrazione di poli di aggregazione e di svago a livello urbano. Le cinque bande pre­ senti risentono fortemente della complessità della zona d’origine e ri­ sultano le più innovative di tutta la città. Le analisi statistiche indicano che questa area del centro storico è caratterizzata da una forte complessità sociale in cui convivono pro­ 25

fessionisti, dirigenti, lavoratori in proprio, coadiuvanti, non occupa­ ti, operai, impiegati ed extralegali. Questo microsistema si costruisce tra piazza Santo Stefano, largo Richini, piazza San Nazaro, via Chia­ ravalle, via Larga, via Capre. Lo scambio sociale interno alla zona statistica8 “Duomo Sud” è fortissimo e favorito soprattutto dal fatto che non esistono barriere né fisiche né sociali che impediscano processi sociali interattivi di scambio e conoscenza tra le diverse classi. Infatti, a differenza della zona Nord del Duomo (l’antico “Borgo nuovo”), in cui prevale la classe dirigenziale e imprenditoriale mista alla nobiltà, nella zona Sud la complessità sociale è testimoniata dalla presenza quasi paritaria delle classi più avvantaggiate, e di quattro quartieri con una compo­ sizione mista di ambienti proletari ed extralegali. Nella parte Nordest dell’area si trova una zona di insediamento di famiglie di origini nobili, analogamente all’altra zona nobiliare di via S. Antonio. Le vie Francesco Sforza, Visconti di Modrone, Borgogna, Cerva e Durini, che compongono il “Borgo nuovo”, rappresentano la zona ludica della nobiltà milanese. A Sud-ovest, proseguendo invece verso Nord, si incontrano: una zona commerciale, frutto del consolidamento di un sistema econo­ mico forte, molto articolato e integrato, fatto di scambi e di stratifi­ cazioni produttive che sin dall’età medioevale confluisce in zone pri­ vilegiate del centro grazie alle “vie d’acqua”, vie Orefici, Spadari, Speronari; una zona “confessionale”, punto ideale di intersezione della antica direttiva Sud est-Nord ovest Sempione-Romana con l’“asse liturgico” Est-Ovest, formata da piazza Duomo e via Arcive­ scovado il cui estremo si ricongiunge con il Pasquirolo; una zona di case di tolleranza collocate in via Chiaravalle e nella parte meridio­ nale del Bottonuto; la zona proletaria lungo tutta via Larga. I quartieri del microsistema di via Larga Il microsistema di via Larga è costituito da una serie di quartieri di cui si identificano qui i principali tratti urbanistici, sociali e di vita quotidiana. Il Bottonuto Nei primi anni Cinquanta ospita circa duecento famiglie di attività misto-artigiane, extralegali e venditori ambu­ lanti che operano prevalentemente in piazza Duomo. Tra le atti­ vità commerciali pubbliche si contano: 3 bar, 1 trattoria, 1 risto­ rante, 1 droghiere, 1 salumiere, 2 ciabattini, 1 barbiere, 1 casa di tolleranza. Il quartiere ha una banda composta da circa quaranta individui il cui punto di riferimento è soprattutto il bar di largo Richini. Se si esclude la socialità legata alle case di tolleranza, non esistono altre re26

Il centrocittà “Nel centro storico di Milano c’era il quartiere del Bottonuto o di via Larga. Og­ gi non ha più quella conformazione, ma questo pezzo di città rappresentava un esempio di insediamento urbano preindustriale, con una composizione di classe stratificata in più componenti e complessivamente insediata in uno spazio ristret­ to. Alla fine degli anni Quaranta, vi abitava la nobiltà dei Visconti, dei BagattiValsecchi, ma erano presenti anche insediamenti artigiani, proletari e stabili abi­ tati dal sottoproletariato. La zona attorno al teatro Lirico e dietro al municipio di Milano si chiamava Pa­ squirolo, mentre quella di corso Europa era il Bottonuto. Questi due quartieri so­ no stati distrutti per favorire una società di diritto economico-immobiliare all’i­ nizio degli anni Cinquanta con la costruzione di una strada, la cosiddetta Rac­ chetta o via Larga. È così diventata la zona dei ricchi, quella che ospita i centri di comando della finanza e dell’industria, ma nelle immediate vicinanze continua­ vano ad esistere insediamenti proletari. La conformazione urbana era ancora quella di una città preindustriale di origine medievale, non c’era stata ancora una separazione in quartieri per ceti e per classi. Dentro a questo settore della città, si concentrava all’inizio degli anni Cinquanta una popolazione eterogenea composta dalla nobiltà, da una certa forma di mala­ vita e da ambienti del sottoproletariato. Qui emergevano le nuove professioni dei commercianti, dei rappresentanti e sorgevano quelli atelier che segnavano il pas­ saggio dalla bottega artigianale alla piccola industria di quartiere. Oggi, tutta que­ sta zona fra piazza Missori, largo Augusto e attorno a via Torino ha una funzione principalmente di terziario avanzato, salvo piccoli frammenti che costruiscono un microcosmo a cavallo fra preindustriale, industriale e post-industriale. In questa zona esistevano decine di bar, due o tre sale da ballo, tre case di tolle­ ranza. C’erano tre tipi diversi di casa di tolleranza, una per il sottoproletariato, una per la classe superiore e una per i ricchissimi, le prestazioni costavano 250 li­ re, 500 lire e 1500 lire, è ovvio che quest’ultima non fosse frequentata da operai, dato che lo stipendio medio di un operaio era di 20.000 lire. Chi nasceva in questo quartiere aveva una percezione immediata e direttamente visibile delle differenze di classe e della propria identità. Da una strada all’altra poteva passare dal bar frequentato dai ragazzi della compagnia di strada, al bar frequentato dai figli dei nobili, al bar del figlio della borghesia emergente. In uno spazio urbano molto limitato si potevano percepire le differenze di classe, le ca­ ratteristiche e le peculiarità della società del capitale.”

ti informali di aggregazione. Il quartiere risente delle modifiche ur­ banistiche introdotte dal Piano regolatore generale Albertini del 1934 e da quelle causate dai bombardamenti del 1943. Il Bottonuto è uno dei rioni più antichi e tradizionali di Milano e vi si concentrano numerosi portatori di una certa memoria storica. La vivace descrizione che Paolo Valera fa di questo quartiere in Mi­ lano sconosciuta non lascia adito a equivoci: “Bisogna turarsi il naso. È un ambiente di case malfamate. Vi si vende di tutto. È una fogna, una pozzanghera. In certi momenti il vicolo delle Quaglie è un pi­ sciatoio fino in fondo. Dopo il tramonto vi confluivano una fauna va­ riopinta e squallida brulicante di ‘locchi’ e cialtroni, di manutengoli 27

e donnine senza pensieri che nelle compiacenti pieghe di quei calli avevano il fatto loro”. Strutturalmente, prima del 1934, “il Bottonuto consisteva in un modesto slargo triangolare che si apriva là dove al presente la via Lar­ ga risvolta negli Albricci. Vi convergevano a Sud le contrade del Pan­ tano e del Chiaravalle e ne usciva in direzione opposta una stradina, pure detta del Bottonuto, che andava a incrociare dopo breve tragit­ to la via Tre Alberghi, alla volta di s. Satiro dove si continuava con gli Speronari”. “Il nome v’e chi lo farebbe derivare da bottino, sorta di piccola opera idraulica che sarebbe qui servita a far defluire le acque palu­ dose a valle; oppure più semplicemente da una pusterla, diretta di­ scendente di quella ben più antica che si apriva nella cinta romana”. Altre ipotesi indicano “un mitico Pont nugo, corruzione di ‘Pons necis’ (Ponte dell’uccisore) che riecheggerebbe chissà quale nefando misfatto accaduto sul ponte che precedeva la suddetta pusterla, quando i nostri inflissero all’imperatore la batosta del 1158”.9 Tutto questo prima ancora che comparisse qui la corporazione dei fabbri-

Il microsistema di via Larga 28

canti di bottoni. Certo è che fino a due secoli prima in questo quar­ tiere si parlava il milanese più autentico, “procedendo insieme con il Poslaghetto, la rinomanza del Verziere quale scoeura de lengua (scuo­ la di lingua)”.10 Il fulcro del sistema è rappresentato dalla Contrada dei Tre Re, ri­ battezzata dai francesi via Tre Alberghi con il pretesto che “da secoli vi si trovavano altrettanti alberghi famosi, i quali a quei tempi si chiama­ vano ancora osterie; non già intese come normali mescite di vino, ma come luoghi ove si poteva mangiare e all’occorrenza anche dormire. Per i bevitori più accaniti c’erano sempre i cosiddetti ‘boeucc’, sorta di bettolini annessi all’osteria dove i proprietari confinavano di norma i clienti più rissosi al pari di certe letture ‘osée’. Una via di mezzo tra i ‘boeucc’ e la comune osteria erano le cosiddette ‘camere locanti’, riser­ vate esclusivamente al pernottamento, anche se, non di rado, con mo­ dico sovrapprezzo, si aveva diritto, con il letto, a un’aggiunta assai ap­ prezzata da certi clienti particolarmente esuberanti...”.11 Il “risanamento” del quartiere avviene a partire dal 1934 con la realizzazione di piazza Diaz, prevista dal Piano regolatore Albertini, e la distruzione delle vie Tre Alberghi e Visconti. “Parve allora che la città in un sol colpo si fosse scrollata di dosso quell’informe coacer­ vo di casupole e catapecchie che da secoli le stavano appiccicate co­ me un’infamia e che decine di piani regolatori non erano mai riusci­ te a estirpare. I benpensanti tirarono un sospiro di sollievo incuranti di quei nostalgici lai di chi nel Bottonuto ravvisava l’ultimo scampo­ lo del vecchio nucleo cittadino, tenacemente orientato sui ‘cardini’ e ‘decumani’ di romana memoria.”12 Fino al 1953, comunque, il rione resiste come sede informale di ri­ trovo, infatti “rimangono superstiti per ironia, le catapecchie che più meritavano il piccone risanatore”.13 Il suo punto di forza sta nelle case di tolleranza che fanno registrare le tariffe più popolari di tutta Milano. L’Area Richini-Pantano Comprende le vie: Pantano, Osti, Posla­ ghetto (ora coperta dalla Torre Velasca), Chiaravalle, s. Antonio, vi­ colo Santa Caterina, Larga. Vi risiedono circa quattrocento famiglie, una comunità ebraica di circa cento famiglie dedita ad attività mer­ cantili (venditori ambulanti di abbigliamento usato, oggetti ricordo ecc.) prima in piazza Duomo, poi ai grandi magazzini di abiti e ai mercati di via Sinigaglia. La composizione è mista: figli di operai, ar­ tigiani, negozianti, extralegali. Le attività pubbliche sono più nume­ rose in questa area rispetto ad altre: 4 trattorie-osterie, 1 pasticceria, 2 droghieri, 9 bar, 2 bar-tabacchi, 2 salumieri, 2 macellai, 2 edicole, 2 meccanici auto-moto, 2 cartolibrerie, 2 venditori di abiti usati, 2 mer­ cerie, 2 sarti con negozio, 2 barbieri. All’interno dei cortili si svolgo­ no altre attività: 1 laboratorio di protesi ortopediche, 1 tipografia, 2 29

falegnami, 1 minuteria metallica, 2 laboratori fotografici, 2 elettrici­ sti-idraulici, 2 muratori imbianchini, 3 ciabattini. Sono presenti anche poli privilegiati di attrazione, alcuni di essi sono sensori del cambiamento giovanile nel cuore della città: il Tea­ tro Lirico; due sale da ballo dette “esistenzialiste” (Santa Tecla Honky Tonky e Arethusa), il mercato del Verziere, gli oratori di Por­ ta Romana e Santo Stefano. In quest’area gravita una banda di circa centocinquanta giovani, divisa internamente per fasce di età: 15/18, 19/23, 23/28 anni. L’Area di Santo Stefano Comprende il Verziere, via Bergamini, via Laghetto, piazza Santo Stefano, via della Signora e la zona alta di via Festa del Perdono (ex via Ospedale). Annovera circa cento famiglie a componente impiegatizia, artigiana, commerciante facente riferi­ mento al Verziere, operaia, extralegale. Le attività pubbliche sono: 4 osterie-trattorie, 1 sarto con negozio, 2 bar tabacchi, 2 ristoranti, 1 pescivendolo, 2 macellerie, 1 meccanico, 6 bar, 2 barbieri, 3 librerie (essenzialmente universitarie). La banda di quest’area è composta da cinquanta-sessanta ele­ menti, anch’essi divisi in tre fasce di età.

Quartiere Pasquirolo È l’area compresa tra il Verziere, piazza San­ to Stefano, i bordi di Vittorio Emanuele, San Babila, via Felice Ca­ vallotti e buona parte dell’attuale corso Europa fino all’odierno mo­ numento ai Bersaglieri. La composizione è simile ai tre blocchi de­ scritti precedentemente. Conta anch’esso di una banda giovanile mi­ nore, facente riferimento al bar del Porto Franco (via Chiaravalle an­ golo Largo Richini). Sarà spazzata via dell’attuazione della “Racchet­ ta” subito dopo il 1953.

Le bande del microsistema della via Larga Non tutti i quartieri del sistema hanno una sede di ritrovo in grado di ospitare la banda locale. Per questo, le concentrazioni più forti av­ vengono solo in presenza di poli di riferimento sufficientemente grandi, da cui tra l’altro le bande attingono il nome: i tre bar nell’a­ rea Richini-Pantano (Porto Franco, Panarello, Richini) e un bar nel­ la zona di piazza Santo Stefano. Le menzionate bande minori del Pasquirolo e del Bottonuto fan­ no perlopiù riferimento al Bar Porto Franco. La banda più numero­ sa che gravita in questo sistema territoriale proletario “a quattro quartieri” è quella della via Chiaravalle con “sede” nel Bar Porto Franco. Seguono le compagnie di piazza Santo Stefano, largo Richi­ ni e piazza San Nazaro. Un sistema di alleanze interne unisce i grup­ pi del “microsistema di via Larga” alle bande di via Capre e di piaz­ 30

za della Vetra, che rappresentano in pratica gruppi “cuscinetto” tra i microsistemi del Centro e del Ticinese. Le quattro bande più rappresentative e innovative del sistema re­ stano comunque quelle facenti riferimento ai quattro bar menziona­ ti:14 banda di via Chiaravalle, banda di piazza Santo Stefano, banda di largo Richini, banda di piazza San Nazaro. La banda di via Chiaravalle o del “Porto Franco” annovera mem­ bri provenienti quasi esclusivamente dalle vie Pantano, Chiaravalle, S. Antonio e una parte di via Larga. È composta da circa cento-cen­ tocinquanta elementi tra proletari, sottoproletari, artigiani, qualche operaio specializzato ed elemento della borghesia. Elegge come “se­ de principale” il Bar Porto Franco, situato in via Chiaravalle angolo Largo Richini. Ha inoltre “tre succursali”: una a metà di via Chiaravalle, le restanti in via Larga di fronte al Teatro Lirico. La banda di piazza Santo Stefano conta circa cinquanta-sessanta persone divise in tre fasce d’età. Ha come sede un bar nell’omonima piazza e possiede anch’essa delle succursali: una in via Bergamini, l’altra in via Larga angolo via Bergamini. La banda di piazza San Nazaro è composta da cinquanta-sessanta persone, tutte facenti riferimento alla propria sede, il bar Panarello in piazza San Nazaro. La banda di largo Richini è composta da circa trenta persone aventi come sede il bar in largo Richini all’angolo di via Pantano.

Luoghi di aggregazione Oltre ai luoghi di aggregazione privilegiati dalle bande, sull’area compresa tra le vie Francesco Sforza, Pecorari, Gonzaga, Santa Tecla e corso di Porta Romana e nelle immediate vicinanze delle due aree statistiche “Duomo Nord” e “Duomo Sud”, esiste anche una solidis­ sima rete di luoghi di socializzazione per il tempo libero, frutto della massima concentrazione urbana di merci e informazioni dovuta al ca­ rattere radiocentrico della città. Si compone così una fitta rete di scambi e di trasmissione delle “tradizioni di quartiere” attorno a cui si cementa la già saldissima memoria storica. Inoltre, la gestione del­ le reti è affidata, perlomeno fino al termine degli anni Cinquanta, ad attori nati e vissuti nello stesso quartiere del negozio o del locale. In tutta questa concentrazione di reti (osterie, sale da ballo, nightclub, teatri di rivista, cinema ecc.) le bande del centro possono assu­ mere codici diversificati e questo rende più complessa la loro perce­ zione del presente. Le troviamo quindi, non solo nei loro luoghi privi­ legiati, ma anche in alcune succursali delle sedi principali, con funzio­ ne di incontro con altri gruppi e con elementi della borghesia. Questi “territori liberi” sono indifferentemente usufruiti da tutte 31

e quattro le bande e da una piccola componente borghese, che inve­ ce ha i suoi luoghi privilegiati nella Pasticceria Taveggia in via Vi­ sconti di Modrone e nei bar di via Torino: la sala di boccette e bi­ liardo in via Palazzo Reale angolo via Larga, luogo di sfide ludiche, di conflitto e di discussione, raramente violente tra i diversi gruppi; il bar Universo, in via Rastrelli angolo via Paolo da Cannobbio, tea­ tro di scontri fisici e risse furibonde tra gli attori delle bande che coinvolgono anche elementi in fuoriuscita della borghesia. Ai “territori liberi”, eletti dalle bande come luoghi primari di con­ fronto e sfida con altri soggetti, si aggiunge un lunga serie di poli di ag­ gregazione pubblici che in questa zona hanno la massima concentra­ zione su scala urbana. Agli innumerevoli cinema e postriboli si ag­ giungono: la sala da ballo Bar del Domm, la cantina-osteria Tri Basei, i teatri di rivista Lirico e Alcione, le “cave esistenzialiste” Santa Tecla Honky Tonk, Taverna Messicana (o “Messico”), Arethusa, i locali in­ novativo-trasgressivi Osteria Morigi, Pino alla Parete, Il Cantinone, Lo Scoffone, i night club Astoria, Carminati, Williams, Caprice, Moulin Rouge, Porta d’Oro, Charly Max. Per quanto riguarda la presenza di servizi e mezzi pubblici di tra­ sporto, questa porzione di territorio risulta essere una delle meglio servite: è attraversata longitudinalmente da due delle nove linee au­ tomobilistiche dell’Atm ed è il principale punto di transito, insieme al vicino largo Cairoli, di tutte le linee tranviarie a penetrazione ra­ diocentrica cittadine. Il che permette di porre in comunicazione i gruppi del centro praticamente con tutto il resto della città.

Il microsistema così configurato è frequentato da gruppi “com­ plessi”. Essi sono avvantaggiati rispetto ai corrispettivi “semplici” (per esempio bande portatrici della sola “morale operaia”) sia da una memoria storica meno recente, sia dal continuo scambio di co­ dici con gli elementi di altri gruppi e con i componenti della conti­ gua borghesia, di cui solitamente le sottoculture creative reinter­ pretano simbolicamente alcuni valori con dichiarato spirito di emu­ lazione (frequentazione di locali-chiave e autorappresentazione del proprio status attraverso segnali estetici). Inoltre, queste bande possono disporre di numerosi centri di aggregazione durante il tempo libero. La composizione sociale delle bande è pressappoco simile a quel­ la delle quattro aree che compongono il microsistema: sottoproleta­ ri, commercianti, artigiani, operai ed extralegali. All’interno dei gruppi vi sono anche componenti della borghesia, anche se la loro presenza non supera il 5 per cento. Data le contiguità e la tolleranza tra classi non esiste per ora presso i gruppi la volontà di autoidentifi­ carsi tramite segnali estetici. 32

Lo stesso uso di un argot giovanile che viene fatto proprio dalle bande come forma di autoriconoscimento affonda le sue radici in un misto di memorie e tradizioni.

Palchetto

elemento proveniente da un’altra banda o dalla provincia. Solitamente considerato un po’ stupido

Tousan Baggian Dritto Loffio Sbarbà de vita

amica amica (volgare) furbo scadente membro giovane che ha già assimilato tutti i codici di comportamento del gruppo

Regolare

durissimo extralegale che rispetta l’etica della strada durissimo extralegale che non rispetta l’etica della strada abile ladro o borseggiatore (“ligera”) operaio punta d’urto della banda. Violentissimo nelle risse sfruttatore di donne che segue l’etica della strada sfruttatore di donne senza scrupoli

Balordo Artista Uperari Duro Garga Rucchettè

Il microsistema del Ticinese Le bande e i quartieri Il microsistema sociale del Ticinese com­ prende alcuni raggruppamenti giovanili analoghi a quelli del centro (a cui tra l’altro sono legati da dinamiche di alleanza) e differisce da quello della via Larga solo per la sua composizione sociale. Se esi­ ste, in linea generale, un sostanziale equilibrio tra impiegati, coadiu­ vanti, lavoratori in proprio, non occupati, operai, dirigenti e liberi professionisti, la distribuzione territoriale delle classi evidenzia in questa zona una vera e propria “sacca sociale” (comunemente detta “casba”) che racchiude in un quadrilatero di vie le sole classi più svantaggiate, sottoproletariato ed extralegalità “ligera”: è la “Casba di Porta Cica”, racchiusa tra viale D’Annunzio, via Ronzoni, corso Genova e via Marco D’Oggiono. La complessità di codici comportamentali dovuta al fortissimo transito di merci, persone e informazioni fa sì che le bande della “ca­ sba” arrivino ad avere una fortissima aura di magnetismo e rispetta­ bilità. Ulteriormente amplificata dalle imprese della malavita “ligera” 33

Il microsistema del Ticinese

che ivi risiede: un tipo di “mala” che usa pochissimo la violenza, pre­ diligendo furti con scasso, piccole rapine, borseggi ecc. Grazie al suo potere attrattivo, la banda della Casba di Porta Cica diventa il grup­ po di riferimento per tutti gli altri tre gruppi del Ticinese che con es­ sa sono alleati. Come il centro città, anche la storia di questo quartiere affonda le proprie radici nell’età romana, con uno sviluppo continuo che par­ tendo dal tardo Medioevo dipana un rincorrersi di memorie, tradi­ zioni e leggende che sembrano produrre una peculiare tendenza del comportamento collettivo verso la tolleranza del “diverso” e la capa­ cità dei residenti di accogliere senza discriminazioni la più variegata folla di soggetti metropolitani, producendo così l’intreccio di usi, simboli e codici più solido e affascinante di tutta la città. La competitività, l’aggressività e la vitalità delle bande di piazza Vetra, via Scaldasole, Porta Genova, via Borsi e via Palmieri è dun­ que spiegabile, da questo punto di vista, per la presenza di quell’in­ trecciato “background” di tradizioni storiche che ha prodotto collet­ tività miste, comunicative, aperte a ogni nuova esperienza. 34

La creazione di simili rapporti materiali è frutto della complessità del tessuto sociale del quartiere, che rappresenta un caso unico nella metropoli e comprende una miscellanea di memorie tipiche e uniche nel loro insieme. Di fatto la zona si caratterizza per la presenza di: as­ si mercantili navigabili, un porto, una zona di malavita nell’area del­ l’angiporto, tipologie architettoniche particolari in funzione dell’atti­ vità mercantile (le casere o città-paese e le sostre) e, da un punto di vi­ sta sociale, per la convivenza-fusione priva di conflitto tra le diverse classi residenti, il proletariato, la “ligera” e i commercianti. Da almeno due secoli, tradizioni e leggende attraversano il quar­ tiere e i suoi abitanti contribuendo a creare una memoria collettiva basata sulla tolleranza e la comprensione e che, complici le rive dei Navigli, rendono appetibile la zona per la sua trasformazione in una “rive gauche” alla milanese.15 Il Ticinese, sospeso tra i quartieri industriali del Giambellino e del Vigentino-Romana, suddiviso in tre dalla cerchia dei Navigli e dalle mura spagnole, abbraccia un insieme di straordinarie memorie sviluppate attorno ad un unico tema: comunicazione-tradizione-tol­ leranza del “diverso”. Ecco alcuni luoghi a cui sono legati specifici aneddoti, un esempio pratico di questo background popolare. La Chiesa di s. Eustorgio (che sorge nei pressi delle due più an­ tiche basiliche romane san Lorenzo e san Vincenzo in Prato) è una vera e propria leggenda, anche per il suo pulpito esterno, la “parlera de legn”. Pietro da Verona, un frate domenicano, tentava da qui di riconvertire gli eretici quando non li faceva impiccare o bruciare vivi nella vicina piazza Vetra, fino a quando a sua volta non venne marti­ rizzato a Barlassina, sul Lago Maggiore, da un capo eretico. La testa del santo dovrebbe essere quella sospesa nella cappella Portinari, fa­ mosa tra il popolo perché battendovi il capo sotto si dice non si do­ vrebbe più patire il mal di testa per tutto l’anno. La “parlera” di s. Eustorgio è il più antico arengario di Milano. Fino all’Ottavo secolo vi tengono i discorsi i vescovi appena nominati, ma serviva anche per arringare i milanesi sulle questioni politiche. Via Scaldasole, di fronte a s. Eustorgio, è invece l’ingresso stori­ co delle gabelle in città. Il suo nome deriva da un paese della Lo­ mellina, Sculdasci (che viene rielaborato dal popolo come “gu l’da­ sc” cioè “pago il dazio”) dove i longobardi, i primi esattori, avevano il castello. Nasce nel Ticinese la “società della Teppa” da cui deriva il noto termine “teppista”. “Teppa”, cioè “borracina o muschio con virtù curative”, è il nome che viene assunto da una compagnia di strada che, considerandosi la parte sana e curativa della società corrotta del Settecento, denuncia i convegni amorosi di quelle donne spagnole che erano invece solite predicare la morale sui comportamenti priva35

ti. La tradizione vuole che però, un giorno, questi “teppisti” abbiano rapito alcune di queste dame per consegnarle ad alcuni nani spagno­ li che le avrebbero poi violentate, fissando in tal modo il senso nega­ tivo del loro nome. Il vicolo Calusca è un altro caso eccezionale di reinterpretazione popolare: in origine “Cà dei Lusca” cioè casa dei Losca (nobile fa­ miglia milanese), diventa con l’andare del tempo una zona di case di tolleranza, che muta la traduzione popolare in “Cà Lusca” ossia case losche. “Andemm a Cà Lusca” significa quindi “andiamo al casino”. Via Vigevano, nata come zona prettamente operaia in base al Piano Beruto (1889), è un sistema esemplare integrato di case di ringhiera e negozi che convive perfettamente con una zona attigua di degrado e devianza. Per questa via transita tutta la forza lavoro dell’area industriale a Ovest della stazione di Porta Genova, così che, per lo svago operaio, nascono nella via alcune case di tolleran­ za. Una di queste è addirittura per metà abitazione civile e per metà postribolo. Nella “casba”, inclusa nel quadrilatero formato dalle attuali via Marco d’Oggiono, corso Genova, via Ronzoni e via Papiniano, con­ vivono senza alcun conflitto operai, proletari, artigiani, naviganti ed extralegali. I commercianti sono invece situati intorno alla zona di corso san Gottardo detto anche il “Burg dè Furmagiatt”, o borgo dei formag­ giai, che consiste in vere e proprie case-paese dette “casere” che pos­ sono essere considerate un vero e proprio microsistema commercia­ le e sociale. Molte di esse erano usate, oltre che per la stagionatura dei formaggi, come ricettacoli di refurtiva. Con il decadere della Darsena come porto mercantile, l’Albergo popolare di via Marco d’Oggiono, nato alla fine dell’Ottocento per ospitare la manodopera fluttuante dei Navigli, diviene fino alla sua demolizione (fine anni Sessanta) ricovero per marginali e “ligera”. Ancora negli anni Cinquanta si pagavano 250 lire a notte, poi 500 e La Casba

“Porta Genova e il quartiere dei Navigli sono chiamati la ‘Casba’ perché questa era la zona della malavita sviluppatasi attorno al porto di Milano, la Darsena. La Darsena era un vero e proprio scalo portuense e alla fine dell’Ottocento era ad­ dirittura il secondo porto in Italia per traffico di merci dopo Genova. Come in tutti i porti del mondo, era luogo di scambio di merci, di dogane e dazi ed era tea­ tro di traffici vari e forme di illegalità. Qui si parlava un dialetto diverso rispetto alle altre zone della città, perché influenzato dal circuito del traffico di merci pro­ venienti dalla Bassa. Il dialetto che si parlava negli anni Cinquanta a Porta Ge­ nova era influenzato dal dialetto di Vigevano, così come, per esempio, il dialetto che si parlava a Porta Romana era influenzato dal lodigiano.”

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infine 1500. Ultimo esempio, sintesi della tolleranza e della comples­ sità del quartiere, è la leggenda del commissario di polizia del Tici­ nese detto “el Dundina”, perché invece di arrestare i ladruncoli, gli dava quattro sberle facendoli appunto ‘dondare’. Si poteva poi ritro­ vare lo stesso Dundina nei casini della Calusca, come recitava la can­ zone “sonaa i v’ott, el Dundina và a Casott”.16 I luoghi di aggregazione Un altro aspetto che rende particolarmente temibili le bande del Ti­ cinese è la presenza di luoghi di aggregazione “forti” per il tempo li­ bero. Con il passare dei secoli, infatti, il Ticinese costruisce intorno a sé l’aura di un quartiere tollerante, non violento e dotato di uno straordinario sistema di reti di comunicazione, favorito, come vedre­ mo, dalla presenza di un’enorme quantità di luoghi deputati all’ag­ gregazione per il tempo libero: osterie, bocciofile, bar, sale da ballo, cinema, case di tolleranza e grandi cooperative rosse; sale da ballo (Arenella, Shanghai, Roxy Club, Principe, Stella Alpina); osterie (Briosca, Torchietto, Fraticello, Magolfa, Fogna, Pipistrello); teatro di rivista Supercinema.

Il microsistema Vigentino-Romana Le bande e le aree sociali Il microsistema Vigentino-Porta Roma­ na nasce intorno agli anni Quaranta come quartiere operaio di origi­ ne contadina, ma è a partire dal 1950 che assume una composizione operaio-impiegatizia gravitante intorno alle due enormi fabbriche, le Officine meccaniche (Om) e la Centrale del latte. Da un punto di vista della collocazione sul territorio e della socia­ lità esiste nel quartiere una separazione interna tra classe dirigente e operaia. In questa area, nel dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta, agiscono due gruppi, quello del Parco Ravizza e quello di via Colletta. Queste aggregazioni, pur trovandosi in contatto con il centro tramite l’asse del corso di Porta Romana, tendono ad autoisolarsi in ragione della rigida morale “operaia” interna al quartiere, che sembra quasi trovare esemplificazione all’interno di un’altrettanto forte suddivisio­ ne sociale e fisica del territorio che risulta così strutturato: Area del ceto dirigente, compresa tra viale Tibaldi, via Castelbar­ co, via Tabacchi e via Giambologna, che confina con un quartiere Iacp con case a riscatto costruite tra il 1926 e il 1927; Area con prevalenza di impiegati, inclusa tra via Romano, via Bel­ lezza, via Vittadini, viale Toscana, viale Isonzo, comprende il quar­ tiere Ripamonti costruito tra il 1905 e il 1906;17 Area operaia, situata tra viale Sabotino, viale Bligny, via Tadini, via Bellezza e via Romano, con una importante componente proleta­ ria e occupata da grandi industrie come le Officine meccaniche (2500 37

addetti nei primi anni Cinquanta), la Centrale del latte (500 addetti), la Brown Boeri, oltre che dal deposito dell’Atm (200 addetti). Fatta eccezione per l’area occupata dai dirigenti, in ciascuna area sono presenti almeno un circolo politico comunista e uno socialista, un oratorio e una cooperativa assistenziale. La rigida impostazione sociale, la fedeltà all’ideologia del lavoro e ai codici che ne conse­ guono maturano all’interno delle aggregazioni giovanili del Vigenti­ no-Romana un tipo di percezione “semplice” del tessuto urbano, molto lontano dalla complessità delle bande di via Larga. La prima generazione di operai del dopoguerra, altamente spe­ cializzati e politicizzati, originaria del Nord Italia e di forte cultura antifascista, si considera la parte sana e produttiva della nazione, contrapposta alla classe borghese considerata incapace, corrotta, pa­ rassitaria. Chiusi nelle loro fabbriche, orgogliosi della propria capa­ cità professionale, fiduciosi nella direzione politica del Pci, si consi­ deravano depositari di un compito storico da realizzare attraverso il mondo del lavoro: il continuo sviluppo delle forze produttive e l’at­ tuazione della Costituzione nata dalla Resistenza. Erano inoltre por­ tatori di convinzioni secondo le quali la realizzazione di una demo­ crazia avanzata (sia pure di tipo borghese) fosse inconciliabile con le esigenze dei padroni: lottare per la sua instaurazione significava an­ che lottare per il socialismo, significava prepararsi a dirigere il pro­ cesso produttivo.18 La punta di diamante del quartiere è rappresen­ tata dalla Scuola di avviamento professionale di via Giulio Romano, il Pacinotti, dove gli studenti vanno a scuola in tuta da lavoro e ven­ gono loro impartite le regole del lavoro di fabbrica e dell’ideologia del lavoro.19 Un altro caso sintomatico della morale del quartiere è l’esperien­ za dell’Istituto del Pane quotidiano di viale Toscana. Il locale è uno spazio vuoto, non molto ampio. Chi ha bisogno di mangiare non de­ ve fare altro che chiedere. Il pane, a forma tonda, viene dato al ri­ chiedente attraverso un foro nella parete della stessa misura della for­ ma. Né il donatore sa a chi dà il pane, né il richiedente subisce l’u­ miliazione di essere visto. La distribuzione del pane avviene tra le 8.30 e le 10 del mattino e prevede come razione massima 1/2 kg di pane a persona. La morale interna sembrava manifestarsi anche nella rete com­ merciale al dettaglio. Si immagini infatti il quartiere operaio come una rete microeconomica e sociale, un sistema di connessioni la cui struttura portante è il rapporto tra dimensione soggettiva e dimen­ sione collettiva, tra responsabilità e interessi individuali, tra respon­ sabilità interpersonale e collettiva. In questo senso, la rete dei negozi di prima necessità (drogherie, salumerie, panetterie ecc.), nella stra­ grande maggioranza a gestione familiare e con titolari che erano nati 38

Il microsistema Vigentino-Romana

e vivevano nel quartiere, erano “costretti” ad assumere una forma di responsabilità morale sui prezzi della merce venduta.

I luoghi di aggregazione A coronare l’atteggiamento assunto da queste bande sembra contribuire la scarsità di luoghi pubblici di ag­ gregazione di richiamo per tutta la città. Gli unici poli sono i dancing “Ragno d’Oro” e “Principe” che, per certi versi, rappresentano per i gruppi del Vigentino luoghi di interscambio con le subculture più avanzate del Centro e del Ticinese. Esistono poi altri luoghi frequen­ tati esclusivamente dalla socialità locale: il Circolo Bellezza, divenu­ to circolo Arci dopo il 1957, la Stella Alpina (luogo deputato all’in­ contro di anziani) e i cinema Carcano, Massimo, Minerva, Lux. Alcune strutture interne al quartiere Vigentino-Romana sono concepite per fini assistenziali e di solidarietà: il Dormitorio di via Colletta e la Casa dei naviganti (volute dalle strutture del Pci), l’isti­ tuto del Pane quotidiano (risultato di una petizione dei negozianti) e varie attività di inserimento produttivo per anziani.

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Porta Vigentina

“Porta Vigentina è uno straordinario quartiere operaio classico, un luogo decisi­ vo per la storia milanese. È nato attorno alla grande fabbrica dell’Om, uno stabi­ limento di tremila operai, e altre industrie come la Brown Boeri e la Centrale del latte. L’Om e la Centrale sono due grandi industrie con una componente operaia fortemente comunista. Per esempio, nel 1952 all’Om crolla un pavimento e sotto vengono rinvenute due tonnellate di armi legate ai gruppi di Togliatti, mentre nel reparto delle fresatrici vengono scoperti cannoncini e bazooka nascosti da alcuni partigiani che per molti anni avevano sostenuto l’idea della ‘Resistenza tradita’. Gli operai coinvolti in queste operazioni erano dodici, tutti iscritti al Pci alla se­ zione di via Bellezza: fanno la conta con la paglietta, i due che prendono la pa­ glietta più corta si assumono la colpa delle armi e vengono mantenuti dai com­ pagni in carcere per 7 anni. Il Vigentino è un quartiere operaio per certi versi tipico, con una grande sezione operaia (in via Bellezza) dotata di sala da ballo, due cinema, un’altra sala da bal­ lo nel cuore del quartiere e un istituto di avviamento professionale. I negozianti di quartiere si trasmettono l’attività di padre in figlio, è gente del posto: si co­ struisce dunque una rete commerciale informale che assicura la qualità, l’equità dei prezzi. L’esercente è infatti del quartiere, è a contatto con i suoi abitanti e a loro deve rispondere quotidianamente, ne condivide il destino, magari con qual­ che privilegio. Il quartiere si è costruito attorno all’Om e la strutturazione urbanistica esprime la distinzione delle professioni all’interno della fabbrica: attorno all’area Baravalle ci sono le case e le ville per i dirigenti; via Balbo, via Bellezza e i dintorni erano la zona degli impiegati; via Palladio, via Ripamonti, via Giulio Romano erano le strade degli operai.”

Gli altri microsistemi: Porta Venezia, Isola, San Siro-Giambellino, Trecca-Corvetto20 Il microsistema di Porta Venezia Come per la zona del Ticinese, anche nell’area di Porta Venezia si sviluppa una discreta complessità sociale data anche dalla presenza di un’area mista occupata da sog­ getti della classe operaia ed extralegali, quelli della “Casba di Porta Venezia”. Infatti, mentre all’interno della zona statistica viii si equili­ brano tutte le classi sociali con una netta prevalenza di dirigenti, im­ prenditori e liberi professionisti, nelle aree statistiche 50-51 e 52, quelle della casba, la concentrazione di operai è pressoché doppia ri­ spetto a tutte le restanti aree che compongono la zona. Anche qui, la banda dominante è quella della casba (via Panfilo Castaldi-piazza Oberdan), sede della malavita “ligera”, posta al pun­ to d’incrocio del principale asse di penetrazione urbano settentrio­ nale (corso Buenos Aires) con la circonvallazione dei Bastioni, en­ trambi ben serviti da mezzi pubblici.21 La banda della casba attira a sé quasi tutte le bande della zona del Nord-ovest urbano, fatta ecce­ zione per due gruppi minori (Zuretti e Gluck) con cui il legame è più debole, per via di alcune dinamiche interne e di mancati processi di 40

alleanza. Il sistema delle bande di Porta Venezia risulta quindi com­ posto dalle componenti Oberdan-Castaldi (casba di Porta Venezia), di via Crescenzago e via Casoretto. I locali privilegiati si trovano sul percorso che unisce la banda do­ minante con le bande minori, nonché nei pressi della stessa casba: i dancing Zio Tom, Polverone, il giardino Firenze e un cinema. I per­ corsi fisici, limitati a Nord (sempre per via della chiusura dei gruppi che seguono i codici della “ligera”), non di rado innestano incroci con le bande dell’Isola.

Due bande isolate: Gorla-Greco e Zuretti-Gluck L’insieme di aree in cui si aggregano le bande di via Gluck e della zona Gorla si collo­ ca nelle zone statistiche XV e XXI, rigidamente operaie (soprattutto la zona XXI Lambrate-Greco). Si tratta di aree la cui popolazione fornisce manodopera nella vicina zona industriale (Breda e Pirelli) e in questo senso caratterizzate da una cultura con una ferrea morale operaia. Di questi due gruppi si conoscono poche cose. Soprattutto la banda di Gorla risulta fortemente isolata (così come il quartiere in cui si forma) e “tagliata fuori” dal resto della città sia dall’enorme snodo ferroviario della Stazione Centrale che limita la mobilità fisica verso il centro, sia dall’assoluta mancanza di mezzi pubblici di tra­ sporto. Inoltre, le fabbriche sono a nord dell’area in cui è situata la banda e neppure la mobilità fisica, subordinata all’orario di lavoro, permette agli attori un avvicinamento al centro culturale della città. L’unico punto di ritrovo per il tempo libero risulta essere un non me­ glio specificato cinema di terza visione in viale Padova, poco più a nord del ponte della ferrovia. Più nota è la banda di via Gluck, strada diventata celebre grazie alla “poetica” interpretazione offerta da Adriano Celentano al Festi­ val di Sanremo del 1966. L’area di formazione di questa banda si col­ loca quasi a ridosso della Stazione Centrale sul suo lato occidentale. L’unico momento di visibilità dei suoi membri (tra cui osiamo sup­ porre facesse capolino anche il giovanissimo Adriano) si rileva nel circolo-balera ferroviario del Polverone posto sotto il ponte di via Tonale. Si suppone anche che, in relazione alla prevalente morale operaia-contadina degli attori, il gruppo non operasse altri sposta­ menti, nonostante la discreta presenza di mezzi pubblici di trasporto dovuta alla vicinanza della Stazione Centrale. Le due bande in questione saranno le prime a soccombere, vinte l’una dall’isolamento oltre la cinta ferroviaria (Gorla-Greco), l’altra dalle nuove costruzioni private, anch’esse funzionali all’imminente incremento dei ritmi produttivi della zona. Queste due bande non erano legate da alcuna alleanza. 41

Il microsistema dell’Isola All’interno della zona statistica IX (P. Garibaldi-Sempione), in cui la presenza operaia complessiva è con­ trobilanciata dal peso delle classi impiegatizia e dirigenziale, esiste in­ torno allo Scalo Farini una terza sacca sociale, isolata dal resto del quartiere, detta la “casba dell’Isola”. Qui la prevalenza operaia è netta, e i valori della sua concentra­ zione sono doppi rispetto al resto della zona. Per affinità elettive, la banda dell’Isola richiama a sé tutte le bande del Nord urbano (attra­ verso gli assi di viale Jenner e della Valassina) creando un microsiste­ ma così strutturato: Bassi-Segrino (Isola), Niguarda, Bausan-Bovisa, Quartiere Gagnola. I bar privilegiati del microsistema sono due: uno situato in via Bassi e l’altro in via Borsieri. Il sistema dispone anche di tre sale da ballo (Montemerlo, Meridiana e una balera in via Guglielmo Pepe), un cinema, nonché di un’osteria privilegiata dall’aggregazione del quartiere Gagnola. Isolate a nord della città, raramente le tre bande minori comunicano con altri gruppi se non quelli dell’Isola.

Microsistema integrato San Siro e Giambellino Questo insieme è costituito dalle bande dell’estremo Ovest urbano: via Aretusa, San Siro, Forze Armate e Giambellino, tutte legate da reciproci patti di alleanza. Le loro aree di formazione sono i quartieri di edilizia resi­ denziale pubblica tra i più vecchi della città, costruiti tra il 1925 e il 1939.22 Nelle immediate vicinanze delle aree di origine di questi gruppi sono stati costruiti nell’arco di poche decine d’anni, trenta al massimo, nuovi immensi quartieri di case popolari, destinati perlopiù a ospitare una popolazione costituita dagli espulsi dal centro della città e dalla forza lavoro dequalificata proveniente dal Sud Italia. Non sorprende, dunque, che una sovrapposizione rapida e violenta di culture così diverse e antitetiche rispetto a quella d’origine del quartiere abbia in breve tempo sconvolto l’identità degli attori socia­ li spingendola verso forme di autorappresentazione violente e spesso criminali. Una dinamica simile è avvenuta per le bande dell’isola, della Baia del Re e di via Borsi, anche se attenuata da una maggior apertura sociale di questi gruppi. Le bande dell’estremo Ovest urbano ruotano intorno alla banda malavitosa del Giambellino (per certi versi, anche su quella di Baggio), nota perle sue “imprese” in tuttala città. Tuttavia, esse restano perlopiù isolate e il loro bisogno di autorappresentazione si converte in necessità di sopravvivenza. Di fatto, ancora nel 1959, la zona statistica XXIV e le aree contigue registrano il più alto tasso di occupati non professionali di tutta Milano. Anche questa banda ha comunque un suo momento po­ stumo di gloria nella celebrazione mitologica musicata da Giorgio Ga­ ber della figura di Gino Cerruti detto “il drago del Giambellino”. 42

Microsistema integrato: Trecca e via dei Cinquecento al Corvetto Come la parte posta alla punta occidentale, anche il settore più orien­ tale della città ospita gruppi marginali con una matrice fortemente se­ gnata dalla violenza: si tratta delle bande di via dei Cinquecento e del­ la Trecca. Le due bande sono alleate, si collocano nell’estremo SudEst della città e agiscono nel più totale isolamento. Il loro uso del tes­ suto urbano non può nemmeno essere definito “sociale”, poiché i co­ dici di autorappresentazione di questi gruppi rispondono soprattutto a quelli della marginalità nelle forme violente. Non a caso, il capo del­ la banda della Trecca (il “Moffa”), verrà soprannominato più tardi “il Re della mala”. Le caratteristiche di queste bande rispecchiano l’im­ possibilità del confronto con gli altri settori della città. Persino le ban­ de geograficamente più vicine (Vigentino) mostrano di non avere al­ cun interesse a “mischiarsi” né con quelli della Trecca, né con quelli di via dei Cinquecento. Le dinamiche sociali interne a questi due gruppi sono segnate da una sorta di stanzialità, i loro membri sembrano tenere scarsamente in conto il fatto che esista una linea tranviaria (la numero 32) che col­ lega direttamente al centrocittà. Questo tram viene invece utilizzato per il percorso opposto, dalle bande del centro che si recano nell’e­ norme balera di via Fabio Massimo, il Parco delle Rose. Uno dei luo­ ghi di aggregazione di entrambe le bande è l’osteria Mariet di San Giuliano Milanese che, non di rado, è teatro di risse furibonde cau­ sate dalla compresenza di soggetti sociali diversi, chiusi e incompati­ bili tra loro. DINAMICHE DI ALLEANZA

Il fatto che, secondo l’analisi qui proposta, la formazione dei micro­ sistemi sociali creativi si sviluppi da dinamiche sociali e culturali spe­ cifiche del luogo in cui si forma, non deve far dimenticare che tra le diverse bande si producono dinamiche di alleanza dovute ad affinità elettive, a specifiche empatie e a rapporti personali (amicizia tra membri di due o più bande, legami sentimentali ecc.). A questo pro­ posito, storica l’alleanza che a lungo ha legato il Bar Porto Franco (via Chiaravalle) con il gruppo della Baia del Re e, di conseguenza, con quasi tutte le bande del Ticinese. Al di fuori delle dinamiche squisitamente personali, le alleanze tra gruppi diversi vengono spesso innescate dalla vicinanza dei ri­ spettivi quartieri e, in secondo luogo, dalla facilità di collegamento attraverso i mezzi pubblici di trasporto. Infatti, a parte qualche caso raro (la banda di via Chiaravalle che poteva contare su un’auto am­ miraglia, una Fiat Balilla modello Coppa D’Oro) i mezzi di sposta­ mento “in massa” delle bande anni Cinquanta si limitavano quasi 43

esclusivamente ai mezzi pubblici, tutt’al più a qualche Lambretta, ma ci si spostava soprattutto pedibus calcantibus. La geografia degli spostamenti segue dunque i principali assi del­ la viabilità urbana, che rappresentano così un fattore di “compatta­ mento” delle diverse realtà creative urbane. Per esempio, il sistema gravitante intorno alla casba di Porta Venezia rappresenta il punto d’approdo delle quattro bande che si trovano agli opposti dell’im­ maginaria ipsilon formata da corso Buenos Aires, viale Monza e via Padova. Le bande della Trecca e di via dei Cinquecento sono colle­ gate da un piccolo passaggio sotterraneo posto all’altezza dello svin­ colo ferroviario di Rogoredo. I gruppi del Giambellino comunicano con quelli di S. Siro tramite l’asse di viale Aretusa, e infine le aggre­ gazioni dell’Isola entrano in contatto tramite i viali Jenner e Zara. Gli altri gruppi costruiscono invece relazioni e alleanze a partire dalla lo­ ro vicinanza geografica.

Angelo e gli altri

“Angelo conosce otto lingue e in questo momento è qualche parte per il mondo perché si è messo a trafficare cocaina. Vittorino, detto ‘Vittorin Lambretta’, face­ va lo sfruttatore, ma la sua prostituta era una donna molto brutta e gli rendeva po­ co, così, mentre gli altri sfruttatori avevano la Maserati, lui girava in Lambretta. È diventato operaio alla Carlo Erba e oggi è un rigorosissimo e durissimo militante del Pci. Gigi, detto ‛l’interdett’ per il suo modo di guardare. Bebo a un certo pun­ to ha deciso che voleva andare in Sudamerica, ha sposato una vedova cubana, og­ gi è ricchissimo e abita a Beverly Hills, mentre suo fratello è entrato nell’esercito americano, ha fatto la guerra in Vietnam e ha preso una medaglia d’argento e una croce al valore. Raimondo Filippini, detto Otello, è stato a suo tempo candidato nelle liste del Pci, presidente della Cooperativa lombardi, organizzatore delle mo­ stre di libri in piazza del Duomo. Atos Blues notissimo teppista della banda di piazza Santo Stefano era un mitomane, diceva di essere figlio del direttore del ci­ nema Odeon ma non era vero, anche se è riuscito a farlo credere per dieci anni. Un grande ballerino, ha girato tutto il mondo e aperto una scuola di ballo a Be­ verly Hills. Torna a Milano e con tutti i soldi che ha guadagnato compra una Thunderbird bianca importata dagli Stati Uniti. Con questa macchina arriva in via Larga per andare al bar della banda, un evento mitico e indimenticabile. Ha sfa­ sciato la macchina sulla strada per Binasco dopo tre giorni. Dino Robbi, un nano a cui non piaceva essere chiamato soldo di cacio, abitava in via Pantano e faceva uno spettacolo con Marisa Maresca, una famosa soubrette che poi sposerà il con­ te Agusta. Dino era nano e stava sotto le gonne di Marisa, lei ballava e di colpo si alzava la gonna e lui veniva fuori. Gianni Bongiovanni, della banda del Porto Franco, inventa il Derby Club, forse il primo cabaret importante a livello cittadi­ no e uno dei più importanti a livello europeo. Guido e Paolo Conte, ex borseg­ giatori di grande abilità, avevano imparato la loro ‘professione’ a Porta Genova dove si imparava a rubare come nei film di Totò, non bisognava far suonare il campanellino, e adesso sono titolari di due grandi gallerie d’arte molto note.”

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USO SOCIALE DEI LUOGHI PUBBLICI DI AGGREGAZIONE

I momenti in cui la banda esprime tutta la sua energia “creativa”, forte della pressoché totale adesione dei suoi membri, sono quelli li­ berati dal lavoro e dallo studio, ossia le ore notturne e le giornate fe­ stive. La riunificazione al completo della banda, infatti, non avviene quasi mai nei giorni infrasettimanali, data la condizione professio­ nale mista di molti gruppi e il continuo sovrapporsi degli impegni individuali. Nei pomeriggi dei giorni infrasettimanali, la banda si ri­ duce soprattutto alla sua componente studentesca, raggiunta verso sera, al termine dell’orario di lavoro, dalle altre componenti, quelle composte da figli di operai e impiegati, artigiani ecc. Gli extralegali e i lavoratori in proprio, naturalmente, sono un caso a parte, in quan­ to i loro impegni sono a orari discontinui. La banda è insomma un gran viavai di gente, che solo di notte e nei giorni festivi si completa e manifesta chiaramente il proprio uso sociale e collettivo del territorio: non è difficile immaginare quindi che i luoghi dell’autorappresentazione siano quei locali il cui orario d’apertura

Schema riassuntivo delle alleanze (con indicazione delle linee di trasporto pubblico) 45

coincide con questi tempi. In ordine di importanza spiccano nettamen­ te le sale da ballo, sia per la grande capienza e il richiamo sociale, sia so­ prattutto per l’alta concentrazione femminile che stimola tutti gli attori ad agire al massimo delle loro capacità seduttive e di rappresentazione. Quasi tutte le bande preferiscono le sale da ballo innovative o le “cave esistenzialiste”. Qui, ai codici tradizionali della sala di ballo meneghina, si sostituisce la sperimentazione di nuovi generi musicali (soprattutto importati dall’estero) che comportano a loro volta dina­ miche specifiche. Sono i luoghi del rock’n’roll, del be-bop, del surf, del madison, tutti balli che sostituiscono il liscio. Il rapporto di sedu­ zione si manifesta attraverso la liberazione del corpo mossa dai ritmi musicali e non più nelle “figure” classiche della danza da balera. Nei consumi, il cocktail prende il posto del classico “bianchino”. Il look delle persone si libera dall’estetica borghese del “giacca e cravatta”. Un altro importante luogo di aggregazione è rappresentato dalle osterie, che raccolgono una variegata e abbondante clientela, nottur­ na e festiva. In alcune di esse era possibile trovarvi una grande com­ plessità sociale e per questo vengono chiamate “osterie innovative”. Per alcune di queste, il tratto distintivo dell’offerta ai clienti era dato dalla musica dal vivo. Per la banda, l’osteria o il bar di quartiere diventano spesso sede fisse di ritrovo. Sono il punto d’approdo in cui è sempre possibile pensare di poter incontrare qualcuno con cui semplicemente scam­ biare quattro chiacchiere o confrontarsi. Il bar e l’osteria in cui sono presenti il biliardo, le bocce, il “tavolo verde” diventano poi, auto­ maticamente, il luogo in cui si manifesta il confronto con le altre ban­ de: dalle relazioni amicali a qualsiasi tipo di sfida, dalle semplici sca­ ramucce alle risse violente. Un caso specifico è rappresentato dalle osterie della periferia e in genere da tutti quei luoghi di aggregazione (comprese le sale da bal­ lo) posti oltre le “porte” della città, che diventano un punto fisso di riferimento festivo su scala metropolitana. Qui si raggiunge l’apoteo­ si della complessità dei confronti. Nei giorni festivi, infatti, tutte le bande sono al gran completo e, data la maggiore disponibilità di tem­ po, spesso decidono di spostarsi al completo “fuori porta”, dove av­ vengono inevitabili incroci e sovrapposizioni tra gruppi. I cinema, pur essendo anch’essi poli privilegiati dalle bande, so­ no raramente fruiti da tutto il gruppo a causa della loro limitata ca­ pienza e della scarsa possibilità di movimento all’interno. Ciò non to­ glie che in alcune sale periferiche, specie se nella zona non esistono altre forme di attrazione, sia possibile vedere una banda al completo. Solitamente, però, questi locali sono utilizzati indifferentemente e in qualsiasi momento dai singoli membri delle bande e dalle loro even­ tuali compagne per il petting, al riparo da sguardi indiscreti. 46

L’uso sociale dei teatri di rivista e dei night club da parte dei membri delle bande è invece tutto proteso all’acquisizione del mon­ do borghese o simil-borghese. Nei primi ci si può proiettare nel mon­ do dorato delle riviste in stile Broadway, nei secondi si possono inve­ ce sognare galanti avventure con eintreineuse e ballerine. Anche in questo caso, la frequentazione della banda non è mai collettiva: non tutti i membri possono permettersi l’ingresso al night o al teatro, né la capienza permetterebbe un utilizzo diffuso del locale. Solo pochi privilegiati membri trasmettono agli altri le loro percezioni, produ­ cendo così un accrescimento della “capacità di lettura dei codici me­ tropolitani” della banda e operando inconsapevolmente una trasmis­ sione di memoria recente. Un caso a parte dell’uso del territorio da parte delle bande sono le case di tolleranza che hanno, più o meno, la stessa funzione socia­ le dei bar. Infatti, anche questi locali diventano un punto di riferi­ mento in cui sostare, parlare e in più, ovviamente, consumare e pro­ vare l’ebbrezza (anche se non sempre si rivela tale) di un pur breve accoppiamento. Quando l’azione della banda non è premeditata e organizzata, come accade il sabato notte o nei giorni festivi, in cui gli spostamenti avvengono prevalentemente con mezzi autonomi (moto e macchina), gli attori utilizzano i mezzi pubblici o vanno a piedi. La capacità delle bande di influire sugli usi sociali di un luogo interno o contiguo al proprio quartiere (fino a orientare addirittura il “look” dei locali di prossima apertura) è imputabile al fatto che anche i gestori dei poli di svago territoriali sono per la maggior parte nati e vissuti nel quartiere. Il loro atteggiamento nei confronti della clientela non ha quindi an­ cora assunto un carattere impersonale e speculativo, ma è sovente molto più attento alle dinamiche sociali che a quelle economiche. A chiarire comunque il periodo di maggiore uso sociale creativo dei singoli poli di aggregazione a livello urbano rimandiamo allo schema a pagina 48. LUOGHI E RETI DI AGGREGAZIONE

Le sale da ballo Le sale da ballo sono i principali poli di autorappresentazione dell’i­ dentità collettiva della banda. La loro frequentazione è data sia dalla loro capacità di essere luogo di richiamo, sia dalla loro localizzazione urbana. In linea di massima esiste comunque un rapporto abbastan­ za preciso tra questi due fattori. Molte sale sono effettivamente si­ tuate in posizioni “strategiche” rispetto alla loro clientela. 1. Le “balere misto a richiesta e comunicazione amicale”. Sono le sale frequentate da membri del basso proletariato, in cui prevalgono 47

Periodo di massimo uso sociale dei locali per singoli gruppi creativi

Polo aggregativo

Periodo di uso sociale Gruppi fruitori creativo

Sale da ballo

1945 - 1960-63

bande complesse Teddy Boys

Locali “trasgressivi”

1950 - 1962-65

bande complesse Teddy Boys

Cave “esistenzialiste”

1950- 1961-62

bande Incroci sociali

Cantine e osterie

1950 - 1967

bande Teddy Boys Beats

Cinema

1945 - 1965

bande Teddy Boys (Beats)

Teatri di rivista

1945 - 1960

bande Teddy Boys

Night club

1945 - 1962-63

bande

Case di tolleranza

1945 - 1948

bande

la comunicazione amicale e la musica, solitamente “ritmico-ambrosia­ na” (valzer, tango, polke e mazurke), principalmente su richiesta del pubblico. Tutti questi locali si trovano in prossimità delle circonvalla­ zioni e in aree statisticamente a maggioranza operaio-impiegatizia e sono: Il Polverone (Stazione Centrale), Il Ragno d’Oro (Porta Roma­ na), L’Arenella (Conca del Naviglio), La Stella Alpina (Ravizza). 2. Le “balere misto a richiesta-innovativa e comunicazione ami­ cale”. Sono sale in cui pur permanendo codici tradizionali (ballo a ri­ chiesta), esiste una apertura verso i nuovi ritmi d’importazione ame­ ricana e anglosassone: rock’n’roll, boogie, slow ecc. Anch’esse si tro­ vano in prossimità delle circonvallazioni, Il Principe (Ravizza), Birra Italia (Sempione), Pasticceria Colosseo (piazza Cinque Giornate). 3. Le “balere periferiche a frequentazione mista”. Sono le balere deputate a ospitare, nei giorni festivi, le migrazioni in massa delle ban­ de, in particolare quelle complesse del centro e quelle periferiche loca­ li, che vi fanno peraltro sempre riferimento. In questi locali l’azione sociale si sposa quasi sempre con il concetto di sfida. La posta in gioco sta nel guadagnare comunicazione con il sesso opposto (sempre la 48

donna), attraverso i rituali ben definiti dalla tradizione. Gli attori de­ putati a lanciare la sfida sono compagnie quasi esclusivamente maschi­ li provenienti da un altro quartiere, a cui non è concesso nel proprio territorio di corteggiare liberamente: un rapporto di coppia con una ragazza del quartiere equivarrebbe sicuramente alla promessa di ma­ trimonio. I destinatari della sfida sono dunque le ragazze del quartiere ospitante. Il “dono” consiste in un rituale preciso e piuttosto coreo­ grafico. La compagnia ospite si dirige, preceduta dal capobanda o dal migliore ballerino di turno, verso il gruppo isolato delle ragazze, soli­ tamente poste in posizione strategica in un angolo della sala; il capo­ banda chiede il ballo, e a questo punto la sfida è lanciata. Le conseguenze di queste azioni-strategie possono essere diverse. a) Scatta la seduzione e la ragazza accetta il ballo. Alla prima ra­ gazza che accetta il ballo seguono le amiche che socializzano con il resto della compagnia ospite. In vista di queste dinamiche, diversi attori, per assurgere al ruolo di capobanda nelle sale da ballo (ossia di miglior ballerino e quindi con maggiore capacità di comunicazio­ ne con il sesso opposto) si iscrivono a corsi di ballo nelle scuole o nei teatri di rivista. b) Il ballo viene rifiutato. La compagnia subisce una doppia umi­ liazione: per il rifiuto alla socializzazione e per la costrizione a ritor­ nare sui propri passi, subendo le vessazioni degli astanti (evento che può diventare un primo motivo di degenerazione della sfida). c) Il “rilancio”. Alla prima offerta di ballo, non segue una immediata risposta e il gioco passa nuovamente nelle mani della compagnia ospite, la quale ha diverse possibilità di rilanciare la partita: un secondo invito, la ripetizione del primo invito, un secondo invito diverso dal primo (per esempio un tentativo di comunicazione su un altro livello) o l’abbando­ no della sfida. È anche possibile che questa situazione porti al coinvolgi­ mento anche di altri attori, su richiesta dei primi o per meccanismi spontanei di difesa del gruppo dei pari e del territorio: in questo caso, sovente la sfida degenera. Questi locali sono: Roxy Club (Moncucco), Punta dell’Est (Idroscalo), Circolo FS (Ortica), Redecesio (Parco Rede­ cesio), Zio Tom (Lambro), Parco delle Rose (via Fabio Massimo). I locali innovativi e le “cave esistenzialiste” All’interno della città medioevale, in punti relativamente vicini al mi­ croterritorio di via Larga, nascono e si espandono velocemente nella prima metà degli anni Cinquanta le prime sale da ballo jazz, ribat­ tezzate dalla stampa le “cave esistenzialiste” e i primi locali a segno innovativo -trasgressivo. Il carattere innovativo riguarda la frequentazione sociale mista, la vicinanza di ulteriori poli di attrazione (cinema, teatri, case di tolle­ ranza), l’effettiva modificazione delle relazioni preesistenti tra gli at­ 49

tori sociali. In questi locali prevale una forma di comunicazione for­ temente innovativa e trasgressiva in cui vengono rotti tutti i codici tradizionali ed è presente una decisa tendenza ad assumere nuovi comportamenti sulla base di modelli d’importazione. La frequentazione sociale è mista, la musica viene proposta dal vivo da complessi musicali, jazz, rock, blues, be-bop, quali la Origi­ nai Lambro Jazz Band e la Milan College Jazz Society, le migliori sul­ la piazza.23 Non è un caso che questi locali si trovino tutti all’interno della

Sale da ballo 1) Polverone, via Tonale (tunnelferrovia) 2) Ragno d'oro, Porta Romana 3) AreneIla, via Arena 4) Stella Alpina, Parco Ravizza 3) Principe, Parco Ravizza 6) Birra Italia, corso Sempione, 69 7) Pasticceria Colosseo, piazza Cinque Giornate 8) Shanghai, via Col di Lana 9) Bar del Domm, piazza Duomo 10) Roxy Club, Moncucco 50

11) Giardino Firenze, via Tolentino, 4 12) Montemerlo, viale Vittorio Veneto 13) La Meridiana, via Cellini, 2 14) Fiorentina, via Sciesa 13) Parco delle Rose, via Fabio Massimo 16) Punta dell'Est, Idroscalo 17) Zio Tom, Parco Lambro 18) Dancing, via Guglielmo Pepe 19) Circolo ferroviario, Ortica 20) Redecesio, Parco del Redecesio

cerchia dei Navigli, area in cui è massima la complessità sociale, e che gli unici due periferici (Praticello e Fogna) siano considerati delle “appendici” dei primi. Di fatto il continuo interscambio tra centro e periferia, sulla linea degli assi mercantili è all’origine della nascita di numerose succursali periferiche deputate allo svago di fine settima­ na: sono i locali di Binasco, Opera, Moro Basso, Lacchiarella, in par­ ticolare l’Osteria la Folla a Mirasole e il Pelè a Vernate di Moncucco. Le “cave esistenzialiste” sono: Santa Tecla (via Santa Tecla, 3), Taverna Messicana (via S. Giovanni sul Muro), Aretusa (via Giardi­ no). I locali innovativo-trasgressivi sono: Shanghai (via Col di Lana), Bar del Domm (piazza Duomo), Osteria Morigi (via Morigi, 8), Pino alla Parete (via Borromei, 13), Il Cantinone (via Hoepli), Lo Scoffo­ ne (via Victor Hugo), La Fogna (Moncucco), Il Praticello (Moncuc­ co). A questi luoghi si aggiungono anche due night-club: Lo Scoffo­ ne (via Hugo) e Il Caminone (via Hoepli).24 Le proposte innovatrici dei nuovi locali vengono raccolte positi­ vamente anche dai componenti delle bande che non solo le fanno proprie (dalla scelta dei drink all’ascolto del jazz, all’incontro con l’arte), ma contribuiscono anche alla loro diffusione nelle proprie se­ di, tra i pari e nelle zone subalterne. Anche le “cave esistenzialiste” sono sensori del mutamento del co­ stume giovanile a Milano. Qui si rivoluziona completamente il concet­ to del ballo, eliminando la formula classica “a richiesta” e favorendo i nuovi ritmi d’importazione americana: hot jazz, be bop, rag e boogie. Si riscopre il ballo come movimento del corpo sulla base musicale, an­ nullando la differenza tra sessi (cavaliere e dama) e tra ceti, non essen­ doci obbligo né della richiesta del ballo né della presentazione. In que­ sti locali, iniziano la loro ascesa nel panorama milanese i musicisti che saranno poi chiamati i “senatori del jazz”: Gil Cuppini, Gianni Bedori, Le sale da ballo innovative

“Le sale da ballo innovative, quelle ‘esistenzialiste’, rispondono alle necessità di liberazione collettiva e di socializzazione. Certo, il rock’n’roll e il be-bop sono an­ cora balli a predominio sostanzialmente maschile, è l’uomo che guida i passi e tut­ ta la danza, non siamo ancora allo shake in cui ciascuno balla liberamente per suo conto, cosa questa che rappresenterà un cambiamento gigantesco nei comporta­ menti collettivi e soggettivi. In ogni caso, il rock e il jazz della fine degli anni Cin­ quanta sono una cosa completamente diversa dalla musica che andava per la mag­ giore. Peraltro, questo cambiamento si produce anche in una manifestazione clas­ sica come Sanremo. Quando Modugno, Mina, e più tardi Celentano, vincono o arrivano in finale al festival, si tratta di una specie di fatto culturale: non è più Nilla Pizzi che canta Grazie dei fiori, ma una canzone come Tintarella di luna (1959), seppur demenziale, ha in sé un ritmo che va di pari passo con la diversa percezione del corpo e anche del ballo.”

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Gianni Basso, Glauco Masetti e Oscar Valdambrini, per citarne alcuni. Non a caso l’Arethusa e il Santa Tecla erano stati aperti per iniziativa di alcuni jazzofili di talento: Roberto Leydi, da poco entrato nella reda­ zione di “Musica Jazz”, i pittori Enrico Baj e Sergio Dangelo e il desi­ gner Joe Colombo.25 Per merito di questi ultimi, a cui si aggiunsero lo scultore Umberto Milani e il disegnatore Tinin Mantegazza, che diede il suo contributo alla decorazione delle pareti e assunse infine la dire­ zione del locale, il Santa Tecla divenne una sorta di piccola “Cappella Sistina” alla milanese. Le “cave” sono quindi il momento di sintesi più felice tra sperimentazione di nuove forme sociali e musicali quali natu­ rale prosecuzione, in forma di struttura più “aperta”, del primo ritrovo aperto nel 1936 (Circolo Hot Jazz di via Filodrammatici), inizialmente limitato a pochi amatorie chiuso quasi subito dal fascismo.

Cantine e osterie Oltre alle osterie sinora citate, ne esistono molte altre periferiche, sempre meta di svago domenicale dei soggetti più svariati: dal basso Le relazioni tra i sessi “La formazione delle bande di strada si collocava all’interno di un meccanismo tri­ bale determinato da un’elementare esigenza di aggregazione giovanile: il rapporto con l’altro sesso. Questa necessità, tuttavia, si scontrava drammaticamente con il fatto che la gran parte delle ragazze della strada in cui abitava un giovane erano so­ relle degli amici e la morale dell’epoca imponeva che la sorella dell’amico fosse asso­ lutamente intoccabile, la si poteva solo sposare. In ogni caso, negli anni Cinquanta non si faceva molto l’amore. Con la ragazza si andava al cinema, due film costavano 80 lire, il primo film non lo si guardava mai, nel senso che si facevano altre cose, poi si guardava il secondo film. Ma, in definitiva, sul fronte della sessualità, non è che si combinasse un granché. Non avveniva sostanzialmente una scoperta dei corpi. L’unico luogo possibile in cui era possibile incontrare l’altro sesso senza infran­ gere la morale del quartiere era la sala da ballo, il grande e fondamentale luogo di incontro-confronto con l’altro sesso per tutti gli anni Cinquanta. Si andava nel­ le sale da ballo per incontrare le ragazze di altri quartieri. Ma anche loro avevano fratelli e amici, e non è detto che ci stessero, e allora capitava anche che scattas­ sero le botte. Erano vere e proprie risse tribali per l’egemonia, quella della pro­ pria ‘tribù’, e più generalmente l’egemonia maschile. In genere, le sale da ballo erano però luoghi in cui le bande e i singoli mettevano in mostra une serie di abilità straordinarie. Erano costituite da un salone gigante­ sco: i ragazzi stavano da una parte, le ragazze dalla parte opposta. Per entrare in contatto con l’altro sesso, un ragazzo doveva attraversare venti metri di sala per chiedere a una ragazza di ballare. Se questa rifiutava, bisognava tornare indietro, con la coda fra le gambe, sotto lo sguardo di altre duecento persone. Diventava necessario, vitale, imparare una serie di abilità. Chi non aveva la for­ tuna di essere il più bello o il più elegante della compagnia doveva saper ballare. Credo che uno dei motivi del grande successo, a Milano e altrove, della gare da ballo sia dovuto proprio al fatto che ballare bene fosse un elemento fondamenta­ le per entrare in relazione con l’altro sesso.”

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proletariato alla borghesia. Molte sono già sede di bande locali che spesso non possono contare su altri luoghi di ritrovo. L’intreccio co­ municativo che si produce è dunque piuttosto ampio, data la commi­ stione delle classi presenti tanto che, con il passare del tempo, conti­ nueremo a trovare in questi posti diversi elementi di svariate aggrega­ zioni creative: bande di quartiere, Teddy Boys e anche qualche Beat.

Le case di tolleranza Luoghi deputati al rapporto fisico tra sessi, sono al tempo stesso se­ de di incontro tra pari e nodi di reti di comunicazione sociale sotter­ ranea. Situate pressoché in ogni quartiere, sono polo di attrazione e “tappe” obbligate nei percorsi di transito nel tessuto urbano. La struttura-tipo del postribolo milanese è grosso modo comune a tutte le categorie. “L’atrio consiste in una grande stanza con al centro una statua, generalmente di un fauno in amore, circondata da panche su cui siedono i clienti. Le ragazze seminude vi girano intorno fino a che il cliente non fa la propria scelta. A operazione avvenuta paga e riti­ ra alla cassa la ‘marchetta’ (il numero della stanza). Esattamente do­ po cinque minuti, al suono di un campanello la ragazza termina la propria prestazione”.26 “Certi casini avevano spioncini, vetri a specchio o qualche caserec­ cio foro nelle porte, qualche buco della serratura piazzato ad altezza letto. Una trovata pratica per la folta schiera dei voyeur, allora la mag­ gioranza della clientela: una guardata costava, negli anni Cinquanta, 75 lire. Il tipo di clientela che, non avendo intenzione di ‘consumare’ usa queste strutture solo come luogo di aggregazione e di conversazio­ ne è la cosiddetta folla dei ‘flané’ o ‘flanelloni’ e dei ‘parlanti’.”27 Le case di tolleranza hanno tariffe differenziate a seconda delle categorie. Le più lussuose si trovano dislocate intorno alla zona di via Disciplini, le più economiche nei quartieri del microsistema di via Larga: via Disciplini 1500 lire con preservativo, via Chiaravalle 500 lire con preservativo, Bottonuto via Poslaghetto (noti come “La sbar­ ra”) 200 Lire con preservativo. Le tariffe orarie più utilizzate sono le marchette singole. Medio l’uso delle marchette doppie e delle mar­ chette triple. Raramente fruite la mezz’ora e l’ora. Le “case chiuse” verranno definitivamente abolite e sgomberate il 20 settembre del 1958, a seguito dell’approvazione di un progetto di legge, presentato per la prima volta il 16 agosto 1948 dall’ex par­ tigiana socialista, senatrice Lina Merlin. I cinema Nel marzo del 1950 i cinematografi di Milano sono 104: 17 di prima visione e 87 di seconda (nella carta riportiamo solo quelli privilegiati dalle bande). L’uso sociale del cinema da parte dei gruppi non si di53

scosta molto da quello ordinario, salvo per alcune forme chiassose di autorappresentazione durante la proiezione dei cult-movie di Elvis Presley, James Dean, Marlon Brando. Una forma più interessante di azione la si rileva invece nei cinema a due spettacoli. Questi sono, di fatto, i locali deputati insieme alle “cave” e alle sale da ballo a luogo di aggregazione e comunicazione tra sessi. In un clima di repressione sessuale, ogni forma di socializzazione della banda (compagnia maschile chiusa) al di fuori del bar e del quartiere diventa funzionale all’incontro con il sesso femminile. Così in questo tipo di sala cinematografica dove si proiettano due film an­ ziché uno come nei cinema ordinari e la durata dell’intero spettaco­ lo si aggira intorno alle quattro ore, si cerca, perlomeno per tutta la durata del primo film, di fare il filo alle ragazze libere. Per le coppie,

Cinema 1) Lux, corso di Porta Romana 2) Minerva, via Crema 3) Venezia, corso Venezia 4) Rossini, Musocco 5) Tirana, piazza Tirana 54

6) Padova, viale Padova 7) Puccini, corso XXII Marzo 8) Genova, corso Genova 9) Forze armate, via Forze Armate 10) Supercinema (Alcione), piazza Vetra

il cinema con la doppia proiezione diventa un luogo indisturbato per fare petting.

Il teatro di rivista È il luogo attorno a cui si costruisce un certo tipo di immaginario, quello del mondo dorato delle riviste americane anni Quaranta-Cin­ quanta di Fred Astaire e Gene Kelly, trasposte nel modello italiano, eredità del teatro popolare degli anni Trenta. Il “tempio” milanese del teatro di rivista è il Teatro Lirico di via Larga, che con una capienza di 3800 posti ospita in scena anche per tre mesi di seguito le riviste di Wanda Osiris, Walter Chiari, Macario, Carlo Dapporto, Tognazzi e Vianello.28 In un intreccio di comicità, musica, sontuosi costumi e sfarzosi apparati scenici, le commedie arrivano a durare anche tre ore e mez­ zo divise in tre tempi. La suddivisione dei posti prevede general­ mente: poltronissima, poltrona e poltroncina di platea, poltronissi­ ma, poltrona, poltroncina di balconata, piccionaia (in alto a circa 80 metri dal palco) e posto in piedi. Situato nel cuore del Bottonuto, il Teatro di Rivista è accessibile anche al giovane sottoproletario, al quale il posto in piccionaia costa 200 lire (1/100 dello stipendio operaio). Annoveriamo tra i teatri di rivista, anche se in realtà si tratta di locali ibridi, in cui la rivista se­ gue la proiezione di un film: l’Alcione Supercinema in via San Gre­ gorio e il Cineteatro Carcano, posto esattamente al bivio del percor­ so verso il Vigentino-Romano. I night club Socialmente molto più aperto rispetto a oggi, il night dà la possibilità al giovane attore sottoculturale di allacciare fittizie relazioni con il mondo privilegiato dell’alta borghesia. A livello di possibilità d’accesso in questo mondo di sensazioni forti, le bande della zona centro sono senz’altro privilegiate. Questa infatti è la sede dei night club più esclusivi: Astoria, Carminati, Wil­ liams, Caprice, Sans Souci. L’intelligenza della notte mercantile mila­ nese dei primi anni Cinquanta permette infatti a molti di fermarsi al bar e ordinare una consumazione con “birillo” (quartino di champa­ gne) a 1500 lire, equivalenti a circa 1/13 di stipendio operaio (una consumazione al tavolo costa mediamente 30.000 lire, uno stipendio e mezzo). Inoltre, all’avventore è permesso invitare un’entreineuse per consumare insieme il birillo al banco. Si tratta di un “capriccio” costoso, ma non impossibile, per i ra­ gazzi del centro che completano con questo tassello il quadro di qua­ si tutte le possibili percezioni del vissuto urbano.29

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BANDE COMPLESSE E BANDE SEMPLICI

Per composizione sociale, strutture aggregative, percorsi e culture di cui sono portatrici, le bande possono essere distinte in due tipologie, complesse e semplici.

Banda complessa Una banda “complessa”, innovativa e conflittuale su scala metropo­ litana, si caratterizza per la presenza al suo interno di una stratifica­ zione sociale complessa e di componenti di memoria storica presen­ ti sul territorio d’origine. La banda complessa rivela poi un carattere poliedrico nella rappresentazione della propria identità, anche per la contiguità con soggetti di diverso segno sociale. Queste bande emulano quindi atteggiamenti sia della borghesia sia del proletariato: dall’ostentazione del proprio status attraverso se­ gnali estetici e di linguaggio, all’elezione di propri luoghi privilegiati di ritrovo. L’insieme di codici così assimilato porta il gruppo in uno stato di equilibrio tra tradizione e innovazione. La banda complessa ricerca tutte le percezioni possibili nel vis­ suto urbano e vi si adatta con la medesima scioltezza che si trovino in un luogo di malavita o in una zona borghese. Né la ricerca di que­ ste percezioni viene limitata in senso sociale o territoriale. L’azione territoriale della banda si manifesta in un continuo giro­ vagare nelle maglie urbane alla scoperta di nuove emozioni, perce­ zioni, locali innovativi, intrecci, confronti, sfide, alleanze, e affinità elettive con altre subculture. In questo senso, si annulla la figura del­ lo sconosciuto: ogni atteggiamento comportamentale altrui diventa leggibile, e all’occorrenza è possibile inventare strategie di difesa o di attacco nel caso di ostilità. Gli stessi codici ordinari di uso sociale del territorio vengono ta­ lora modificati dai gruppi non appena si prospetti una possibilità di affinamento. La banda complessa fruisce attivamente dei luoghi di aggregazione attraverso una mutazione del comportamento sociale esistente, basata sulle proprie esigenze di modernizzazione. Per esempio, promuove i ritmi del rock’n’roll al posto di quelli canonici del ballo figurato a richiesta, affina l’arte del bere (per esempio, il cocktail anziché il bianco “spruzzato”) e della seduzione femminile. Con un tale background, non è difficile immaginare come il sog­ getto complesso non provi alcun interesse a inserirsi nelle forme uf­ ficiali di rappresentanza collettiva (partito, sindacato) e rifiuti ten­ denzialmente il lavoro normato in fabbrica, preferendo di gran lun­ ga l’autoimprenditorialità. Quest’ultima tendenza, unita al desiderio di emotività, comporta automaticamente la tolleranza e l’attrazione per l’universo marginale ed extralegale, visto dai componenti delle 56

bande come un modo diverso di “sapersela cavare” nelle maglie del vissuto urbano. Non è quindi un caso che alcune bande si sviluppino proprio a ridosso di assi a forte transito (che per natura sono ricettacoli di va­ ria umanità), e delle storiche zone di malavita “ligera” (casba): Porta Genova, Porta Venezia, Garibaldi-Isola. L’atteggiamento orgoglioso e girovago spinge i membri dei gruppi complessi a trascurare gli aspetti fisici del quartiere d’origine, per curare di più gli aspetti so­ ciali: le reti amicali, la solidarietà, la memoria, lo svago ecc. Non c’è da sorprendersi, quindi, che i quartieri del centro siano rimasti nel lo­ ro degrado originario, mentre le zone operaie del Vigentino siano co­ stantemente “curate” dai loro abitanti. E non ci si sorprenda neppu­ re per la scarsa resistenza alla distruzione dei quartieri complessi da parte del potere, e alla conseguente espulsione fisica delle bande. Nel loro orgoglio risiede l’assoluta certezza di poter ricostruire la propria identità in qualsiasi altro luogo. Bande semplici operaie Ben diverso è l’uso del territorio della banda “semplice”, in cui la composizione e la morale del quartiere è prevalentemente operaia. In questi gruppi, la trasmissione della memoria storica verte in partico­ lare su aspetti più politici che sociali. L’ideologia della ricostruzione e l’assunzione di responsabilità per la trasformazione della società at­ traverso la continua trasmissione nella memoria delle lotte, sono i cardini in cui i giovani vengono incanalati sin dall’adolescenza. La solidarietà è anche qui molto forte, ma assume un connotato di tipo moralista-operaio, e la tolleranza per i “diversi” si concretiz­ za in un recupero attraverso la morale produttivistica. Il quartiere è considerato e vissuto come luogo dei diritti della collettività, curato, pulito e in certi casi “costruito” dagli stessi abitanti. Nel Vigentino, per esempio, si creano commissioni fabbrica-quartiere per il proble­ ma della ricostruzione delle abitazioni dopo la guerra, il tutto nella direzione del mantenimento del decoro del tessuto urbano. Per i membri delle bande semplici non è un problema aderire e trovare identità nelle forme di rappresentanza collettiva: partiti, sin­ dacati, bar-trattorie-osterie con comunicazione politica, luoghi parti­ tici con strutture d’uso del tempo libero, tutti concentrati nel quar­ tiere d’origine. L’etica che ne deriva è diversa ma speculare a quella della “buona borghesia”, unita a un forte desiderio di emancipazio­ ne proletaria nella dedizione allo studio e al lavoro. L’uso del territorio delle bande “semplici” (Libia, Ravizza ecc.) è molto più limitato di quello delle bande “complesse” del centro ur­ bano. Gli stessi intrecci urbani e “l’andare per la città” sono limitati alle strutture di aggregazione presenti nel quartiere (osterie, sedi di 57

partito, oratori ecc.). Vi è insomma una forte tendenza al ripiega­ mento nel proprio quartiere e una scarsa propensione all’esplorazio­ ne metropolitana, specie in direzione del centro. Sono invece tipiche di questi gruppi le migrazioni festive nei locali del Sud urbano e del­ la “bassa” (Binasco, Opera ecc.) dove è però inevitabile il confronto con le bande cittadine del centro. Dato l’uso positivo del luogo di formazione, i soggetti del tipo “semplice-operaio” producono una fortissima resistenza all’espulsio­ ne. Con la fine delle bande del centro e l’avvio della stagione più ca­ ratterizzata in senso politico saranno infatti queste le aree più attive nella resistenza e nella trasmissione delle memorie operaie e rivolu­ zionarie. PERCORSI URBANI

Per una banda, la produzione di conflittualità e trasgressione deriva non solo dalla raccolta di percezioni all’interno del proprio microsi­ stema territoriale, ma soprattutto all’esterno del proprio vissuto. Questa qualità è molto evidente nelle bande complesse, che tendono, come si è detto, a migrare con diverse aspettative e precauzioni, in al­ tri quartieri della città alla ricerca di svago e confronti. I percorsi se­ guiti durante gli spostamenti non sono dunque affatto casuali, ma so­ no finalizzati ad aumentare al massimo il grado di complessificazio­ ne del gruppo. Vediamo allora tre esempi di percorsi fisici che negli anni Cin­ quanta collegavano e relazionavano le bande del Ticinese, di via Lar­ ga e del Vigentino. Percorso esplorativo Tracciato urbano interno alla città medioevale, diretto verso i locali “innovativo-trasgressivi”, attraverso un dedalo di vie, anch’esse ad al­ ta complessità. Percorso fisico tipico della cultura preindustriale del vicolo e del ghetto: il corpo si piega a seguire il tracciato percepito come proprio. Le nuove percezioni vengono fatte proprie dal sog­ getto e reimportate nel proprio quartiere di appartenenza. In concreto, questo tracciato, unisce l’attuale via Mazzini, limite occidentale del Bottonuto, con i locali innovativi di via Morigi (Oste­ ria Morigi) e via Borromei (Pino alla parete) e di via San Giovanni sul Muro (Taverna Messicana, Teatro dal Verme), a mezzo di viette in­ terne urbane, allora molto più concentrate di oggi e percorribili pia­ cevolmente a piedi. Percorrendo queste piccole vie (Spadari, Armo­ rari, Del Bollo, Santa Maria Fulcorina, Sant’Orsola, Della Posta, San Giovanni sul Muro), ci si trova continuamente di fronte a una serie di poli intermedi fortemente attrattivi, un night club, diverse tratto­ 58

rie e case di tolleranza per poi trovare, a fine percorso, un secondo night club in Largo Cairoli, nonché come detto, un teatro e una del­ le tre “cave esistenzialiste” (la Taverna Messicana).

Percorso di subalternità o “di alleanza” Tracciato urbano interno, verso luoghi di uguale o maggiore com­ plessità. Percorso ad alto rischio, in cui è necessario sottostare a re­ gole aliene, proprie di altre bande, con le quali si cercano accordi e alleanze. Si dirige verso Piazza della Vetra e più in genere verso tutto il quartiere Ticinese (il Borgo Vecchio). Partendo da corso di Porta Ro­ mana, confine occidentale della zona Richini-Pantano. Il tracciato passa per le vie Rugabella, Bertarelli, Disciplini e Caprara incontran­ do anche qui diversi poli attrattivi, dominio non più delle bande del microsistema di via Larga, ma di quelle del Ticinese, note per la loro durezza (bande di via Borsi, di piazza Vetra, di via Scaldasole e della Baia del Re: via Palmieri e via Montegani). Percorso di dominio-trasmissione di innovazione Tracciato verso quartieri a minore percezione del vissuto presente, cioè a struttura semplice operaia. Non presentando fattori di rischio e particolari attrazioni intermedie, il percorso si snoda più rapida­ mente coprendo tutto il corso di Porta Romana. Il tracciato che ha come destinazione i quartieri del Vigentino e della zona di Porta Ro­ mana, parte da piazza San Nazaro, limite meridionale dell’area Ri­ chini-Pantano, e arriva direttamente alla circonvallazione delle Mura spagnole subendo una vistosa ramificazione all’altezza di via Lamar­ mora, a seconda che il punto di arrivo sia il Vigentino o il Romano. Incrocia diverse trattorie, diversi bar e due cinema teatro di avan­ spettacolo (Lux e Carcano). In piazza Medaglie D’Oro, uno dei pun­ ti d’arrivo, è situata un’enorme sala da ballo, il Ragno d’Oro, depu­ tata insieme al Principe a ospitare le principali gare di ballo a riferi­ mento cittadino. La fine del percorso immette in una zona forte­ mente divisa socialmente e urbanisticamente, i cui abitanti sono fe­ deli all’ideologia del lavoro e alle strutture formali di aggregazione e le cui bande, anch’esse a struttura semplice, sono formate prevalen­ temente da figli di operai (bande di via Crema e di via Capre in Por­ ta Romana e bande del parco Ravizza al Vigentino e di via dei Cin­ quecento al Corvetto). Soprattutto nei due primi modelli di percorso fisico, è manifesto il rifiuto dei membri delle bande di percorrere le vie e i corsi princi­ pali tracciati dalla mano dell’urbanista. In alternativa, ne vengono prediletti altri, in cui il soggetto può fruire di stimoli più attraenti, portando così a termine la sua ricerca di identità al di fuori del vis­ 59

suto quotidiano, senza per questo dovere cedere alle tentazioni dalla merce borghese. Viene di conseguenza anche scartato l’uso sociale del locale a sen­ so unico privilegiato dalla borghesia, per frequentare solo quei luo­ ghi di socializzazione in cui esiste una compresenza di livelli sociali (conflitto, sfida), e una componente di trasgressione o di “rottura dei limiti di compatibilità del sistema”. Allo stesso modo se il gestore decide di situare un locale plurisocial­ mente innovativo in un’area dove esiste il massimo di complessità urba­ na, vi produce automaticamente innovazione, adattamento e flessibilità. Se ne deduce che non era possibile trovare locali innovativi-antagonisti in quei luoghi dove esisteva la supremazia di una singola classe, o dove il conflitto tendeva a degenerare nella violenza per l’assenza di tolleranza. Per il terzo tipo di percorso, il discorso è più semplice: esso è in­ fatti finalizzato semplicemente al dominio, alla ricerca del rapporto sessuale occasionale (cosa non facile all’interno del proprio quartie­ re) e alla verifica della propria superiorità. L’uso dei locali pubblici di aggregazione interni al microsistema è sfruttato al massimo in qua­ lunque momento della giornata, a differenza dei locali periferici che sono invece utilizzati prevalentemente il fine settimana. All’interno di questo microsistema, la densità di locali è altissima. Inoltre, molti tipi di poli aggregativi sono presenti solo in quest’area, fatto non fortuito data la tendenza fortemente innovativa di alcune delle bande presenti: night, cave esistenzialiste, teatri di rivista e lo­ cali innovativo-trasgressivi. Il discreto fascino della borghesia “Chi viveva in un quartiere a ‘struttura complessa’, come quello di via Larga in cui convivevano vari strati sociali, non poteva non provare un certo fascino per le classi superiori. Per esempio, le ragazze altolocate erano più belle e si vestivano meglio. Sicuramente questa bellezza aveva ragioni ‘di classe’: la generazione pro­ letaria durante la guerra è stata malnutrita e ricordo di non aver mai visto così tante ragazze con le gambe storte come all’inizio degli anni Cinquanta, mentre quelle della borghesia avevano le gambe più dritte, certamente perché vivevano in condizioni migliori. La borghesia e la nobiltà milanesi sono sempre state un po’ paternaliste e socialde­ mocratiche e non costituivano in questo senso classi sociali direttamente separate dalle altre. Per esempio, ricordo che la famiglia Visconti abitava in via sant’Antonio e veniva nelle osterie a mangiare la trippa. Per quanto mangiare trippa con i proleta­ ri potesse sembrare radicai-chic, queste pratiche nei fatti non portavano a costruire confini netti tra le diverse classi. Del resto, un parente di Luchino Visconti si era schierato dalla parte dei primi concerti rock ed era stato persino arrestato al Palali­ do perché difendeva i giovani che volevano i concerti rock: era un uomo di 1 metro e 90, coi capelli bianchi, diceva ‘sono un Visconti’, ma la polizia l’ha menato lo stes­ so. Era uno dei primi concerti del ‘molleggiato’ Adriano Celentano.”

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Fase 2

3. ...LÀ DOVE C'ERA L'ERBA

l’antiurbanesimo

Da un punto di vista urbanistico, il decennio che ha inizio con l’ap­ provazione del Piano regolatore del 1953 è sostanzialmente segnato da due grandi processi: la sua attuazione concreta, con la conseguen­ te espulsione del proletariato verso la periferia, e il definitivo conso­ lidarsi di una dimensione extraurbana rappresentata dai quartieri periferici a edilizia residenziale pubblica. Entrambi gli aspetti sono interpretabili come conseguenza diretta della trasformazione del go­ verno del territorio, orientato in senso decisamente speculativo. In questo senso vengono privilegiate principalmente quelle aree in cui confluisce il maggior transito di informazioni e merci (quindi quelle centrali), o dove esistono imprese “trainanti”, in grado di sviluppare un sistema di industrie fortemente interconnesse tra loro.1 L’aspetto più macroscopico prodotto da tale orientamento è il consolidamento di una politica territoriale “dicotomica” che da una parte insiste sulla valorizzazione del centro della città inteso come “cervello” delle attività terziarie e di comando, e dall’altra su­ bordina a un ruolo marginale la dimensione extraurbana e i suoi nuovi abitanti. Milano diventa una città-bersaglio in cui le aree cen­ trali sono occupate in maggioranza da dirigenti e professionisti, mentre quelle della periferia divengono ricettacoli di varia umanità frammentata: manovalanza specializzata, forza lavoro dequalificata, nuovi soggetti immigrati e attori espulsi dal centro in quartieri ben lontani dalla precedente complessità sociale e culturale. I rapporti sociali (ma sarebbe meglio dire i “non-rapporti”) che si instaurano nei quartieri-satellite, non sono sufficienti né a produr­ re un movimento sociale, né tantomeno aggregazioni creative. Alla crescita di popolazione nei quartieri e alla maggior complessità in termini di provenienza geografica e sociale, non corrisponde di fatto 61

alcuna eterogeneità socio-culturale, che anzi risulta fortemente di­ sgregata anche nelle modalità di utilizzo del tempo libero. Si attiva­ no soprattutto forme conoscitive di tipo privato, relazioni amicali, ma siamo ben lontani dalla costruzione di uno scenario volto all’a­ zione collettiva. Non di rado si assiste a manifestazioni folcloristiche, che sono semplicemente il sintomo della separazione delle diverse componen­ ti sociali. Inoltre, la convivenza forzata di “residenti originari” e “cit­ tadini spostati” innesca attriti e resistenze. I quartieri sembrano pia­ nificati per ordinare e suddividere le stratificazioni di classe e bloc­ care le dinamiche collettive di rappresentanza e scambio sociale. Di fatto, il disagio sociale sembra aumentare in relazione all’indice di sfruttamento delle singole aree.2 Inizialmente progettati come auto­ sufficienti, i quartieri si configurano come operazioni sovrastrutturali, producono falsi processi di emancipazione e contribuiscono a diffondere timori e ansie collettive, rispecchiate a loro volta da pen­ sieri e forme di azione “antiurbane”.3 In questi luoghi mancano non solo centri di socializzazione, ma anche le condizioni per permetterne la creazione. La scarsità dei ser­ vizi e dei mezzi di trasporto per raggiungere il centro, fa sì che gli in­ dividui non siano incentivati ad allontanarsi dalle loro abitazioni e si abbassi sistematicamente il loro livello di partecipazione alle vicende della città. La gravità della situazione dei nuovi quartieri-ghetto4 sta anche nell’annientamento di ogni forma di identità e partecipazione al vissuto urbano: si denunciano la mancanza di memoria, tradizioni, culture, socialità, reti microeconomiche e servizi. Tale situazione di disagio è fortemente sentita dall’intellighenzia

La Racchetta “A un certo momento, a qualche urbanista, viene in mente di progettare una via a traffico veloce che collegasse il sud con il nord della città aggirando il centro. È la Racchetta, perché ha la forma di una racchetta da tennis, il cui manico è in cor­ so Buenos Aires, prosegue in corso Venezia, gira su per corso Europa, tocca via Albricci per rientrare da piazza Duomo. La Racchetta avrebbe dovuto frantuma­ re i quartieri medievali del centro tanto che addirittura sembrava si dovesse de­ molire una parte della città. C’è chi dice che hanno interrotto il progetto per man­ canza di soldi, c’è chi dice perché si sono ravveduti, non so bene, suppongo sia stato per mancanza di soldi. In ogni caso, la modernizzazione della città è passa­ ta, come una scure, sopra il tessuto sociale e le vite degli individui. Questi sog­ getti si sono come polverizzati, sono stati decentrati per tutta la città, però a dif­ ferenza di altri soggetti di quartieri popolari distrutti e spediti nelle periferie, non sono rimasti silenziosi per molto tempo, ma sono stati in grado di trovare le ri­ sorse per confrontarsi in modo intelligente con la distruzione provocata dal pro­ cesso di modernizzazione della città.”

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dissidente che si fa portatrice di una nuova corrente di pensiero “an­ tiurbana”. A questa si aggregano, talvolta, anche gli stessi abitanti dei quartieri che non cessano di rivendicare il loro diritto alla vita, pro­ spettando nuove forme di organizzazione urbana nella “costruzione di comunità contrarie all’anonimato metropolitano come effetto del­ la nascita di borghi residenziali rigidamente funzionali alle indu­ strie”.5 (Questi processi assumeranno tuttavia una forza e una valen­ za organica, con una capacità di coordinamento, solo alla fine della “fase di ambientamento” dei residenti nei quartieri una fase durata circa venti anni). Le “movenze antiurbane” rappresentano un fronte d’accusa sul diffuso degrado delle nuove aree, sulla loro mancanza di autonomia e sullo sradicamento sociale dei nuovi insediati. Si sostiene che la dimensione suburbana è stata inclusa nella progettualità quando si è persa la capacità di un intervento su scala metropolitana. Il quar­ tiere dovrebbe essere una specie di mitica unità di riferimento capa­ ce di assorbire culture differenti e ricreare qualche opportunità par­ tecipativa. Questa dimensione non può così riscattarsi dalla sua condizione di subordinazione perché come tale è stata ideata, orga­ nizzata e progettata. Il motivo principale di questa azione proget­ tuale sta nella lievitazione del valore del suolo in maniera differen­ ziata e dunque nell’aumento di plusvalore per quelle élite che trag­ gono dalla rendita fondiaria la loro più rilevante forma di dominio. Immediata conseguenza è la suddivisione del territorio in zone: e non solo quello urbano, ma anche quello dello stesso quartiere. Sul tessuto metropolitano si individuano zone privilegiate della borghe­ sia, della classe impiegatizia e delle classi meno abbienti; nei quar­ tieri sono invece visibili agglomerati anch’essi divisi per possibilità economiche. “Il principio del localismo che avrebbe dovuto morire col passaggio dall’ambiente rurale a quello industriale, torna invece a rinascere dentro la metropoli”.6 Si denuncia lo sradicamento dei nuovi insediati dalla cultura d’origine: la produzione sociale di un quartiere periferico, perlomeno fino alla seconda metà degli anni Settanta, resta legata all’invenzione soggettiva di forme di autorico­ noscimento. In ogni caso sono riconoscibili dei comportamenti ste­ reotipati per lo più riconducibili alla presenza diffusa di alienazione e anomia. La condizione dell’immigrato (che svolge quasi sempre ruoli oc­ cupazionali alienanti) si configura come quella di uno “sradicato so­ ciale”, una figura la cui psicologia è posta fuori dai codici condivisi nel borgo d’origine e nel contempo protesa fortemente a nuove for­ me di integrazione sociale, qualsiasi esse siano. Terminata la giornata lavorativa (che oltre al lavoro in quanto tale comprende l’andata e il ritorno a casa), va in cerca di socializzazione che lo porta a riunirsi 63

Già contenuta nel Prg del 1934, ma rimasta sulla carta fino al 1953, la “racchetta” se­ gna la fine delle bande di quartiere: progettata come asse di collegamento tra via Vin­ cenzo Monti e via Larga, viene realizzata solo in parte con la dilatazione di quest’ulti­ ma e il suo collegamento con piazza Missori tramite via Albricci. Quanto basta per di­ struggere i microsistemi del Pasquirolo e del Bottonuto. Quest’ultimo sarà sostituito nel 1938 da un unico edificio (la Torre Velasca a opera dello studio BBPR), mentre l’a­ rea Richini-Pantano verrà fortemente terziarizzata.

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con soggetti a lui pari. Si tratta di una dinamica che produce deter­ minati comportamenti sociali come: l’allontanamento dalla città nel fine settimana (più tardi facilitata dalla conquista sindacale della set­ timana corta) e la chiusura altrettanto difensivistica in strutture of­ ferte dalla chiesa cattolica (oratori, circoli ecc.), o dalla sinistra marxista (circoli, bocciofile, sedi partitiche). La costruzione di rapporti interpersonali e amicali al posto di quelli “funzionali” (i rapporti di lavoro) è comunque piuttosto lenta e difficile. Non sarà difatti questo tipo di soggetto a portare a termi­ ne il processo di ricostruzione di una identità collettiva all’interno dei quartieri. Questo si realizzerà invece grazie alla spinta politica delle sinistre negli anni Settanta, animata da soggetti più giovani, vittime coscienti dalla immobilità dei loro luoghi d’origine. Per ora, la città è un magnete sociale, e come tale diventa il prin­ cipale teatro deputato a ospitare ogni nuova forma di autorappre­ sentazione e di riconoscimento sociale di tutti gli attori che ne hanno possibilità: prima solo di quelli urbani, poi lentamente anche di quel­ li extraurbani. Tra i fattori che insistono su questo “potenziale ma­ gnetismo” possiamo citare soprattutto l’allargamento del tessuto ur­ bano verso la dimensione metropolitana, la presenza di nuove com­ plessità sociali dovute alle correnti immigratorie, lo sviluppo di gran­ di linee di comunicazione ed allacciamenti a carattere nazionale, l’u­ nione sociale e territoriale di alcuni centri minori funzionali alle esi­ genze propulsive della città principale e la novità apportata dal cre­ scente sviluppo del settore terziario in quanto generatore di un nuo­ vo soggetto sociale. L’evoluzione dell’edilizia residenziale pubblica Il decennio 1953-63 è il periodo delle grandi trasformazioni edilizie e urbanistiche che investono il territorio urbano, dello sviluppo del settore terziario, dei tentativi di programmazione della spesa pubbli­ ca e di avvio della grande operazione di edilizia residenziale pubbli­ ca. L’impianto legislativo non riesce a frenare (anzi, in certi casi in­ centiva) uno sviluppo a senso unico: intenso sfruttamento del centro storico tramite violenti processi di sostituzione del vecchio patrimo­ nio edilizio; collocazione degli interventi di edilizia pubblica all’e­ strema periferia o al di fuori del territorio comunale; saturazione del­ le aree intermedie da parte dei privati, con interventi che utilizzano le infrastrutture primarie predisposte dall’ente pubblico; totale cari­ co sullo stato delle spese di gestione urbanistica, a vantaggio di be­ nefici goduti al fine da pochi. Nei fatti, solo un lavoratore su venti ottiene un alloggio Ina-Casa.7 Nel 1953 è approvato il Piano regolatore, e per almeno tutto il decennio seguente, fino alla mini-riforma del ministro democristia­ 65

no dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo (legge 167 del 18/4/1962) non vengono formulate leggi decisive per tentare di frenare la sel­ vaggia “rapina dei suoli”.8 Il fallimento della politica democristiana Ina-Casa può essere individuata nei principi ispiratori di fondo del­ la legge stessa. Per Fanfani e la Dc nel suo complesso, la cosa im­ portante non era tanto garantire gli alloggi a chi ne avesse realmen­ te bisogno, ma fare in modo che “tutti” avessero una casa in pro­ prietà, pagata subito o a riscatto.9 La convinzione che l’assegnazio­ ne della case a riscatto influisse “moltissimo sulla psicologia morale e politica dell’assegnatario”10 (soprattutto politica, essendo le ele­ zioni ormai vicine) è di fatto alla base del Decreto presidenziale n. 2 del 17/1/1959, su iniziativa del ministro Togni, con cui si decide di cedere a riscatto l’intero parco alloggi di proprietà degli enti pubblici, delle case popolari e degli istituti autonomi agli assegna­ tari che ne avessero fatto richiesta. La vicina scadenza elettorale porta anche la Gescal, che già pre­ vedeva perdite superiori ai 1000 miliardi per lo stato,11 a estendere la politica della casa incentrata sul riscatto su tutto il territorio nazio­ nale. I primi due tentativi di frenare questo disastro economico sono del 1962-63 con la legge 167/1962 (poi “ritoccata” con la 904/1965) e con la Proposta di legge dell’aprile 1963. Con la legge 167, previa elaborazione di Piani di zona (anche det­ ti Peep) validi per dodici anni, si consente ai comuni di espropriare terreni da urbanizzare per edilizia economica e popolare e ricederli a operatori pubblici e privati affinché realizzino abitazioni popolari e servizi. Le aree cedute ai privati sarebbero dovute tornare alla collet­ tività in un periodo compreso tra i 60 e i 99 anni. I problemi ineren­ ti l’indennizzo del proprietario, che secondo la 167, doveva essere ri­ sarcito in base al valore delle aree prima dell’esproprio, “bloccano sul nascere” la legge che non riuscì mai ad avere grande impatto. Con la legge 904/1965 si decide che l’indennizzo doveva essere la media fra il valore di mercato e quello dei fitti dell’anno precedente. I fi­ nanziamenti previsti per la 167, ottenibili attraverso un’imposta sugli incrementi del valore delle aree fabbricabili, non sono mai stati ade­ guati alle spese. Non ha esiti migliori la Proposta di legge dell’aprile 1963, imperniata sulla falsariga della 167, incentrata sull’acquisizione da parte del comune di tutti i terreni da dotare di urbanizzazione pri­ maria (strade, acqua, luce e fogne) inclusi nel Piano regolatore, da ri­ cedere poi ai privati (non in proprietà ma in concessione) a un prez­ zo che tenesse conto delle opere svolte. Minata da una feroce cam­ pagna della stampa, capeggiata dal quotidiano di destra “Il Tempo”, la nuova proposta non riuscirà mai ad arrivare all’esame del Consi­ glio dei Ministri.

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“Verso la metropoli”: il contesto socio-territoriale Il decennio 1953-1963 segna per Milano il passaggio da un modello socio-territoriale preindustriale (con forti radicamenti socio-cultura­ li “locali”), a un assetto capitalista maturo. La trasformazione politi­ ca, sociale e territoriale privilegia fortemente le classi agiate, a danno del proletariato e degli strati sociali più deboli. Conformemente a queste complesse mutazioni che sul fronte urbano coinvolgono di­ verse sfere (sociali, legislative, politiche, demografiche e abitative), si assiste anche a una trasformazione dei gruppi creativi. Le vecchie bande di quartiere, un tempo fondate su modelli di relazione e co­ municazione per certi versi “prebellici e di tipo operaio”, ormai ana­ cronisticamente legati a una specifica dimensione del territorio, si trasformano, proporzionalmente alla frantumazione del loro habitat (inteso come insieme di memorie, tradizioni ecc.), in gruppi trans­ metropolitani con forti connotati di violenza e trasgressività. Il mutare del contesto sociale e territoriale del tessuto urbano svolge dunque un ruolo importante nei processi di strutturazione e rappresentazione dei gruppi creativi e in alcuni casi ne modifica am­ piamente l’uso sociale della città. Ci sembra quindi opportuno anticipare alcune considerazioni inerenti le modalità di trasformazione delle bande in nuove aggrega­ zioni creative, disaggregandole in relazione alle vicende socio-territo­ riali che investono la città in questa fase storica. Il governo del terri­ torio, che ha il suo fulcro politico nella Democrazia cristiana, si fa promotore di una politica aggressivamente speculativa orientata ver­ so l’aumento della produttività e accompagnata da processi di ri­ strutturazione socio-territoriale: disgregazione dello storico tessuto urbano a modello proletario preindustriale, redistribuzione delle classi meno abbienti verso la periferia, creazione di grandi bacini in­ dustriali ai margini del territorio comunale e trasformazione del cen­ tro urbano in funzione del controllo sociale e produttivo. L’attenua­ zione dei processi collettivi di coesione fondati sulla presenza di me­ morie storiche smembra alla base la solidità dei gruppi e le loro di­ namiche di alleanza, producendo un’azione sociale sempre più fram­ mentata e indifferente rispetto al tessuto sociale urbano. Conformemente a quanto avviene in altre grandi metropoli del Nord che perseguono la medesima politica, il richiamo produttivo incrementa il saldo migratorio: giocoforza i nuovi immigrati devono collocarsi nei quartieri popolari periferici andando a sovrapporsi con le culture preesistenti (dal 1940 in poi i quartieri di edilizia residen­ ziale pubblica vengono tutti costruiti oltre la terza cintura e corri­ spondono ai luoghi di destinazione dei proletari sfollati dalle aree centrali). La qualità di questa seconda ondata immigratoria a preva­ lenza meridionale è però radicalmente differente dalla prima, che in­ 67

vece aveva richiamato in città culture più simili al modello sociale lombardo preindustriale (Tre Venezie, province lombarde ecc.). Mol­ te aggregazioni di quartiere (specie quelle che vedono affiancarsi al­ le aree d’origine nuovi enormi quartieri destinati ad ospitare i nuovi arrivati) vengono sconvolte dall’innesto, spesso indesiderato, di sog­ getti a cultura completamente diversa. Questo processo catalizza anomalie sociali, provocando la trasformazione delle vecchie compa­ gnie in gruppi che spesso esaltano l’aggressività come forme di auto­ difesa, sia a fronte della mancata integrazione con le nuove culture sia per la disintegrazione della propria. A ciò concorre la politica di pianificazione settoriale (zoning) che attenua i processi di comunicazione sociale interattivi tra i di­ versi soggetti sociali. Per molte aggregazioni questo significa lo spo­ stamento della propria azione sociale verso modelli più “chiusi” e isolati che si richiamano alla cultura dei padri. Non essendo però la famiglia un valido polo di riferimento, per molti nuovi gruppi la ghettizzazione genera l’innesco di atteggiamenti tipici della devian­ za marginale. L’incremento della mobilità propria del capitalismo maturo, che limita i processi di comunicazione alle sole aree centrali, unito ad un maggiore controllo sociale e produttivo (in parte dovuto al fallimento dell’ideologia della Ricostruzione), è percepito dai gruppi creativi co­ me un limite alla propria volontà di autorappresentazione. Questa as­ sume maggiore visibilità attraverso una forte trasgressione estetica, gestuale e verbale che, non a caso, si manifesta con un chiaro rovescia­ mento dei canoni estetici stereotipati propri della cultura provinciale e sonnolenta: abiti in pelle, whisky e rock’n’roll. La fine delle culture locali a carattere paleoindustriale si manife­ sta anche con la modifica di molti poli pubblici di aggregazione, la cui gestione inizia ad anteporre un uso mercantile del locale, a scapi­ to della creazione di rapporti sociali tra i clienti. I soli luoghi che con­ tinuano a favorire l’incontro tra gli attori sociali restano i locali del­ l’estrema periferia e, più in centro, le sedi ricreative partitiche, non fruite però da coloro che non vogliono pagarne il prezzo ideologico. Se quindi le bande precedenti non avevano alcuna necessità di ap­ propriarsi e delimitare il loro quartiere, in quanto esso era stato co­ struito in funzione dell’uso sociale di coloro che vi risiedevano, le nuove aggregazioni tendono fortemente a “firmare” le loro azioni in modo tale che il gesto possa restare impresso in qualche modo sul tessuto urbano, ora anonimo e impersonale, per esempio graffitando i muri, rompendo le vetrine, colpendo e molestando i passanti. Le aree urbane preferite dai membri dei nuovi gruppi per la loro auto­ rappresentazione sono quelle a superiore transito di merci e infor­ mazioni, in luoghi cioè dove l’azione sociale ha maggiore possibilità 68

di ottenere risonanza a livello di opinione pubblica. Il massimo risul­ tato viene ovviamente raggiunto quando la “bravata” viene riportata dalla stampa. I gruppi delle aree centrali che riescono a sopravvivere a questi processi di ricomposizione urbana sono esclusivamente quel­ li dotati di una forte coesione interna e toccati ancora solo marginal­ mente dallo sconquasso urbanistico. Per esempio, il Vigentino e il Ti­ cinese (che però verrà presto investito dalla variante del Piano Rego­ latore nel 1961) rimangono arroccati nel loro territorio senza pro­ durre nuove forme di aggregazione creativa, ma procrastinando, per quanto possibile, i precedenti usi sociali. Per questo definiamo que­ ste porzioni di territorio “tessuti di resistenza”. Tra i gruppi periferici si salvano solo quelli legati a organizzazio­ ni sovrastrutturali rispetto al territorio, ossia quelli la cui azione so­ ciale è legata storicamente ai codici della malavita. Quest’ultima non viene affatto scomposta dalla turbolenza urbanistica e sociale, anzi essa affina i suoi mezzi per dare vita a forme criminali più organizza­ te. Scompare così lo storico modello extralegale “di quartiere” della malavita “ligera” insieme alle forme meno aggressive di extralegalità. Lo sfaldamento di queste reti affiancherà all’azione sociale dei Teddy Boys anche un discreto numero di anonime bande di teppisti che ge­ nereranno, a livello di opinione pubblica, una notevole confusione.12 Dinamiche demografiche Il decennio 1953-1963 rappresenta il periodo della grande ondata migratoria. La media della popolazione, che si aggira intorno alle 1.400.000 unità, conosce uno straordinario incremento per l’incede­ re del saldo migratorio. A partire dal 1958 con una percentuale di in­ cidenza del saldo sui residenti del 2,71%, l’ondata immigratoria in­ veste Milano sino a raggiungere il limite di 81.862 unità nel 1961 (in­ cidenza del 3,68%): un record che non sarà mai più superato.13 Anche l’incremento massimo della popolazione residente corri­ sponde al massimo picco immigratorio: in effetti alla fine del 1961, con 1.587.211 residenti, si registra un aumento di 65.730 persone ri­ spetto all’anno precedente: anche questo exploit non avrebbe più avuto eguali in seguito. Ai dati ufficiali sulla popolazione residente occorre però rilevare che, secondo una stima, nel 1960 circa 120.000 persone abitano e operano in città senza averne la residenza, e que­ sto soprattutto a causa della mancata denuncia da parte degli affittacamere, sui quali peraltro il comune non esercita il pieno controllo: pare infatti che ai 9000 regolari, se ne possano aggiungere almeno al­ tri 10.000 clandestini.14 Nel decennio 1951-1961 gli addetti al settore manifatturiero pas­ sano da 365.817 a 484.198 unità nel comune di Milano, e da 141.550 a 484.198 nell’hinterland, mentre sono ancora limitati i casi di de­ 69

centramento di impianti industriali al di fuori dei confini comunali, sebbene in alcuni casi si tratta di complessi di enormi dimensioni co­ me la Bianchi o la De Angeli Frua. Lo stesso aumento percentuale ri­ guarda gli addetti al terziario e al commercio. Si altera pertanto in modo significativo la composizione del mondo del lavoro: i nuovi abitanti non sono solo operai, ma appartengono anche al ceto medio, calamitato dall’incremento delle attività terziarie, la cui sede natura­ le diviene il centro della città. La provenienza immigratoria vede tra il 1955 e il 1959, e in par­ ticolare tra il 1955 e il 1957, un fortissimo afflusso dalle regioni me­ ridionali. Tuttavia, su una media eseguita sul totale delle immigrazio­ ni tra il 1951 e il 1958, l’area di provenienza del massimo afflusso de­ gli immigrati, rispetto al totale del movimento, resta ancora la Lom­ bardia, esclusa la provincia di Milano, con una percentuale del 24,4%.15 Seguono la provincia di Milano (17,28%), le regioni meri­ dionali (14,6%), le Tre Venezie (12,3 %), l’Emilia Romagna (8%), l’I­ talia centrale (7,12%), il Piemonte (5,16%), l’estero (3,6%) e la Li­ guria (2,4%). Se si disaggrega il movimento immigratorio rispetto al­ la classe professionale, si nota una netta prevalenza di soggetti senza particolari professionalità per una media del 49,43% tra il 1953 e il 1962. Gli operai immigrati aumentano sensibilmente a partire dal 1955 fino a raggiungere nel 1962 un valore del 35,06%.16 Seguono stabili gli impiegati (mediamente 13%), gli artigiani (in ascesa dal 1959, con valori oscillanti tra il 4,4 e il 3%), i liberi pro­ fessionisti (2 %, in declino), e addetti al settore primario per un 0,5 % del totale immigratorio. Dato il basso livello di acculturalizzazione degli immigrati meridionali, unita alla forte domanda di manodope­ ra non qualificata, i migliori settori d’impiego vengono occupati da soggetti provenienti dalle regioni settentrionali: Liguria, Piemonte, Lombardia e Toscana in testa. Gli immigrati dal Sud trovano posto nell’attività edilizia (soprat­ tutto calabresi e lucani) e in fabbrica. La popolazione immigratoria della seconda ondata (1955-59) è composta per grandi linee da sog­ getti giovani, nonché poco istruiti: l’età media dei nuovi arrivati si ag­ gira infatti tra i 25 e i 44 anni (circa il 44% del totale immigratorio), mentre circa il 20% oscilla tra i 15 e i 24 anni.17 Pochissimi soggetti hanno conseguito un titolo accademico, e an­ cor meno a sud del Lazio, salvo una trascurabile percentuale dalla Ca­ labria che però detiene anche il primato degli immigrati senza alcun titolo. Una notevole eccezione è rappresentata dagli immigrati dalla stessa Lombardia che rafforzano, dal Nord, la percentuale di soggetti non culturalizzati. La popolazione immigrata della seconda ondata va a collocarsi in prevalenza nei settori industriali del Nord-est (Lam­ brate-Greco) e del Sud-ovest urbano (S. Siro-Lorenteggio).18 70

Una discreta concentrazione si nota anche nella zona statistica II (Duomo Sud) per la presenza di vecchi isolati in corso di distruzio­ ne, pensioni e affittacamere, che offrono una buona possibilità di sta­ zionamento. La tendenza generale della distribuzione a seconda del­ le regioni di provenienza (che è direttamente proporzionale all’au­ mento del livello di istruzione, via via che ci si sposta verso il Nord), è testimoniata dal fatto che gli immigrati meridionali vanno a stabi­ lirsi principalmente all’esterno della III circonvallazione, mentre quelli con superiore livello di istruzione (quindi abituati a tenori di vita più alti) si concentrano massimamente entro i Bastioni. Si osser­ va anche una concentrazione di soggetti dell’Italia insulare al Ticine­ se, a ovest della Basilica di S. Lorenzo. Il contesto culturale Il decennio 1953-63 può essere considerato un periodo di transizione a tutti i livelli: storico, sociale e territoriale, cui corrispondono relative modificazioni nei modi prevalenti di partecipazione, tra cui l’organiz­ zazione di correnti all’interno dei partiti, rappresentate da élite politi­ che, che delegano a terzi il rapporto con la base degli elettori.19 Nella scuola e nelle università si assiste a un lenta transizione dal­ la vecchia struttura piramidale basata su di un’ideologia burocraticoaccademica, al ruolo attivo delle associazioni studentesche tradizio­ nali con attività modernizzanti. La novità maggiore è comunque rap­ presentata dall’unificazione della scuola media nel 1962. Anche la chiesa cattolica viene investita da quest’aria diffusa di trasformazione sociale: dagli ordini religiosi tradizionali gerarchici, accentratori e “neocostantiniani”, si assiste all’affermarsi di movi­ menti di ambiente e iniziative autonome parzialmente sottratte alla gerarchia ecclesiale, che poi assurgeranno a nuova importanza dopo il Concilio Vaticano II. La fabbrica, pur essendo ancora calata nel modello ideologico del­ la Ricostruzione, fedele all’ideologia del lavoro e in molti settori pro­ duttivi intollerante verso i sindacati, conosce fenomeni di unità sinda­ cale. Comincia a emergere un’unità di base operaia, anche sulla spinta dei nuovi comportamenti “importati” dai lavoratori immigrati. Que­ sti ultimi tendono sempre più soventemente a essere protagonisti nel­ le rivendicazioni di fabbrica, per il salario, per l’orario lavorativo, per le condizioni di lavoro e contro le forme di controllo sempre più pres­ santi esercitate sugli operai. L’intreccio della condizione economicoproduttiva si riflette anche nella quotidianità. “L’altissima produtti­ vità e i bassissimi salari avevano permesso verso la fine degli anni Cin­ quanta un accumulo capitalistico enorme che necessitava di una ri­ strutturazione produttiva per entrare sui mercati internazionali e in­ crementare i consumi interni, fungendo così anche da strumento di 71

controllo della sempre maggiore insofferenza delle nuove generazioni e degli stessi operai per le condizioni di vita date”.20 Non sorprende dunque che l’Italia del boom economico sia col­ pita dalla febbre degli acquisti a rate di ogni tipo di prodotto: da una indagine del 1963 risulterà che il 41% delle famiglie avevano com­ prato almeno un’auto, una televisione e una lavatrice.21 La sensazione di vivere in una società in continua evoluzione e cambiamento, volta verso modelli di benessere o comunque di rottu­ ra verso lo status quo precedente si esprime anche in termini politici e artistici, come testimonia una serie eterogenea di espressioni. La vi­ talità culturale della nuova produzione nazionale cinematografica e letteraria (dal Neorealismo ai film di Antonioni, Visconti, Fellini ecc.), la tendenza dei teatri, come il Piccolo di Milano, a mettere in scena opere a forte impegno politico (Brecht) o opere classiche in chiave moderna come l’Amleto, l’Otello o lavori su Sacco e Vanzetti. Le modificazioni della musica leggera sull’onda del rock’n’roll d’im­ portazione, con il lento distacco dagli stereotipi melodici classici me­ diterranei (Pizzi, Villa...). L’arrivo a Sanremo degli urlatori, Mina in testa, e dei primi rocker (Celentano). Le innovazioni nel ballo (na­ scita del Piper a Roma) e nel vestire. Le grandi battaglie democrati­ che per le riforme delle parti più oscurantiste delle leggi e da una ten­ denziale diffusione della cultura dell’egualitarismo (le prime batta­ glie sul divorzio hanno inizio proprio alla fine degli anni Cinquanta). Le rivelazioni di Kruscev al XX Congresso del Pcus (destalinizza­ zione) e gli esiti della Rivoluzione d’Ungheria del 1956 condurranno in pochi anni dapprima alla rottura definitiva della stagione frontista tra Pci e Psi. In seguito, alla scissione del Psiup in contemporanea con la partecipazione socialista al primo governo di centro-sinistra. E in parallelo segnaliamo la nascita dei “Quaderni Rossi”, la rivista che anticiperà l’intuizione che stesse arrivando sulla scena politica e so­ ciale un nuovo soggetto politico: l’operaio massa. Il diffondersi della cultura beat-underground. L’attenzione per alcune rivoluzioni (pri­ ma quella algerina, poi quella cubana, e la resistenza vietnamita che “può essere considerata a tutto diritto il presessantotto”).22 La vita­ lità della produzione internazionale, dai film americani ancora in odore di New Deal o al contrario pessimista e di rifiuto (Kerouac, On the Road), alla produzione letteraria inglese e francese (Beckett, Sar­ tre, Robbe Grillet, Osborne...) espressione di contestazione e rifiuto, di denuncia del depauperamento e della standardizzazione dell’uo­ mo vissuta nella società neocapitalistica. Agiscono quindi su un piano parallelo, la rabbia esistenziale e quella politica, a cui viene negata forma di rappresentanza politica, seppur promessa, anche se utopisticamente, dalla ideologia della Ri­ costruzione. Ambedue queste disillusioni emergono in questo perio­ 72

do con modalità identiche, ossia tramite il ricorso a specifici segnali estetici di autorappresentazione simbolica: si parla infatti di “rivolta nello stile”23 per il movimento giovanile creativo, e dei “giovani con le magliette a strisce” per il movimento rivendicativo-politico culmi­ nato con gli scontri di Genova nel luglio 1960. Il quadro generale che emerge è quello tipico di un settore gio­ vanile in transizione, sospeso tra innovazione e conservazione, tra ur­ la e silenzi. Come avremo modo di osservare in seguito, anche le mu­ tazioni strutturali dei luoghi di aggregazione e uso del tempo libero imporranno limiti e direttive al nuovo uso sociale del territorio.

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4. I RAGAZZI CATTIVI

L’EPOCA E I LUOGHI D’ORIGINE DEI TEDDY BOYS

Con l’avanzare dell’industrializzazione in città, si assiste all’adatta­ mento di molti membri superstiti delle bande in nuove modalità ag­ gregative molto violente e con forti tinte estetiche e trasgressive. Na­ scono i “Teddy Boys” (o “Teds”).1 La presenza visibile dei Teddy Boys a Milano va da circa il 1956 fino ai primi mesi del 1961.2 Si tratta di un “movimento” non parti­ colarmente numeroso, tra i cinquecento e gli ottocento individui, ma particolarmente visibile per via del loro abbigliamento che ri­ prende il modello “selvaggio” di Marlon Brando, James Dean ecc. Se oggi questo look può apparire ordinario, per quegli anni in cui non si tollera neppure la minigonna, esso è particolarmente scioc­ cante per l’opinione pubblica. Tra l’altro, i Teddy Boys nascono in concomitanza con i primi studi sulla devianza giovanile di gruppo in Italia, catalizzando dunque l’attenzione di psicologi, antropologi, sociologi e criminologi. La visibilità dei Teds si rivela soprattutto nel centro città e nei nodi nevralgici della socialità e dell’economia, cioè nei luoghi dove le cosiddette “bravate” possono risultare più visibili all’opinione pubblica. Bisogna dissipare però ogni confusione tra i Teds e le ano­ nime bande di teppisti, frutto perlopiù della disgregazione delle reti di rappresentanza e confronto delle culture locali. Noi invece ci fo­ calizzeremo su quei gruppi che, oltrepassando le norme condivise e a partire dalla trasgressione simbolica, producono un uso sociale del territorio. Le aree in cui si formano i Teds collimano con i quartieri d’origi­ ne delle vecchie bande di quartiere periferiche a composizione mista operaia-impiegatizia, sopravvissute ai processi di ricomposizione del­ la città, e sufficientemente complessificate dal contatto con i codici 74

Teddy Boys 1959-1961

1) Lorenteggio-Zara 2) Baia del Re 3) Ripamonti-Ortles

4) Argonne-Corsica 5) Piazza Oberdan-Castaldi (Casba) 6) Casba dell’Isola

dell’extralegalità: Giambellino-Lorenteggio, Baia del Re, Via dei Cin­ quecento, Trecca, Casba di Porta Venezia, Casba dell’Isola.3 Dai dati in nostro possesso, non risulta che si formino gruppi di Teddy Boys né all’interno delle cerchia dei Navigli, peraltro sconvolta dall’attuazione del Prg del 1953, né tantomeno al Vigen­ tino in cui la rigida morale operaia non tollera, né sopporterebbe, le forme di autorappresentazione dei Teds, troppo aliene rispetto al modello positivo proposto dall’ideologia del lavoro. La stessa cosa avviene presso le numerose bande periferiche operaie della zona Nord-est, che si estinguono inesorabilmente nell’isolamento fisico e nella “spersonalizzazione” dovuta agli incroci con la cultu­ ra degli immigrati. La produzione di comportamenti sociali in queste zone genererà al più un tipo di devianza marginale di grup­ po, che più tardi tanto allarmerà l’opinione pubblica al principio degli anni Sessanta. 75

PROCESSI DI FORMAZIONE: DALLE BANDE AI TEDDY BOYS

Molte delle ragioni che sottendono alla scomparsa delle bande di quartiere al contempo stanno alla base della formazione dei Teds. Si può affermare infatti che il processo di distruzione urbanistico-cul­ turale dei microsistemi popolari più innovativi prodotto della “Rac­ chetta” abbia causato il disfacimento di molte strutture aggregative, facendo sì che molti dei componenti delle ex bande assumessero at­ teggiamenti trasgressivi e violenti. Di fatto, la perdita di “gruppi di riferimento” (strade, piazze, lo­ cali, individui, affetti, amicizie ecc.) è secondo diversi studiosi di psi­ cologia sociale - tra cui Amerio, Bussotti, Arnione ecc. - la causa fon­ damentale per proiettare il soggetto in uno stato confusionale, in una “situazione ansiogena di ambiguità”, che lo rende incapace di porta­ re a termine un’azione con la propria volontà.4 In questo caso, il sog­ getto può diventare sia un “elaboratore di informazioni” (G. Lindsey e D. Norman), per cui egli tende a ricorrere a miti religiosi e totaliz­ zanti su cui fondare la propria identità, divenendo così preda di mo­ de e condotte di aggregato (fenomeno detto dell’“utopia regressi­ va”),5 sia secondo l’ipotesi di Merton, collassare e recedere a model­ li di comportamento deviarne.6 In quest’ottica, è possibile affermare che la contaminazione cul­ turale con i nuovi modelli comportamentali, importati dai soggetti immigrati, abbia contribuito a minare i gruppi di riferimento che persistevano da secoli nei quartieri storici della città. Non a caso, il fenomeno del “teddyboysmo” si sviluppa proprio nei quartieri con maggiore densità di popolazione immigrata (Sud-est e Nord-ovest della città). Quasi tutte le bande della zona Nord e Nord-ovest ven­ gono infatti investite e sopraffatte dalle nuove costruzioni che ne di-

Whisky-a-gogo

“Negli anni Sessanta chiude una serie di sale da ballo e nasce un nuovo tipo di lo­ cale, il whisky-a-gogo. La caratteristica fondamentale di questi luoghi è che biso­ gna entrare accompagnati. Bisogna essere in coppia. Dunque non ci si può en­ trare per “cuccare”, per cercare la ragazza, per avere un incrocio con l’altro ses­ so. Sono ovviamente favoriti i giovani che hanno una frequentazione scolastica e un circuito amicale: è poco piacevole andarci con la sorella... Nei whisky-a-gogo il costo di ingresso comprende una consumazione, l’ambiente è elegante, la mu­ sica è riprodotta con i dischi, non c’è più l’orchestra che prima era sempre pre­ sente nelle sale da ballo. Nei quartieri popolari, la nascita di questi locali è inter­ pretata come genericamente classista, anche se non con un significato politicoideologico, i vetri di alcuni di questi locali (in Duomo e in piazza Biancamano) nei primi mesi di apertura vengono presi a sassate.”

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struggono la vecchia identità storica, oppure vengono modificate dall’incrocio con le culture degli immigrati, portatrici di codici com­ portamentali non sempre in linea con l’ideale del conflitto di classe. A ciò si deve aggiungere anche la trasformazione dei locali di ag­ gregazione che, quando non chiudono, diventano dei veri e propri filtri sociali destinati esclusivamente alla borghesia (whisky a go-go, night club), la cui gestione antepone un uso strumentale e speculati­ vo del locale alla creazione di reti di comunicazione, alla rappresen­ tanza e allo scambio sociale tra i clienti. Un caso esemplare sono i “whisky a go-go”, che consentivano l’ingresso solo alle coppie, favo­ rendo così la borghesia che, solitamente, aveva più possibilità d’in­ crocio con l’altro sesso. Le poche bande che sopravvivono al macroscopico processo di riorganizzazione della città sono, non a caso, solamente quelle dota­ te di una complessa coesione interna (i gruppi del Ticinese e del Vi­ gentino), ovvero proprio quei gruppi storici che resisteranno ancora a lungo, almeno sino a che non saranno anch’essi sconvolti da nuovi processi materiali di riorganizzazione del territorio. Nella lista dei sopravvissuti figurano soprattutto i gruppi la cui esistenza è storicamente legata a organizzazioni extralegali (“ligera” e crimine organizzato) e collocati nei quartieri: Trecca, Porta Vene­ zia, via dei Cinquecento, Giambellino e Baia del Re. Quest’ultima forma di azione sociale, sovrastrutturale rispetto ai cambiamenti ur­ banistici, consuma il passaggio dalla cultura “di quartiere” alla fase del capitalismo maturo mantenendo intatti i codici di comunicazione dei gruppi delle zone a cui fanno riferimento. In ogni caso, in questi quartieri si produce un duplice livello di mutazione sociale: la vec­ chia malavita “ligera” si trasforma lentamente in una struttura extra legale più raffinata e organizzata,7 mentre i membri non coinvolti nel­ l’extralegalità accettano di rendersi interpreti di nuovi codici aggre­ gativi basati sulla violenza “dura” e su di una rappresentazione ispi­ rata a nuovi modelli trasgressivi di importazione diffusi dai media, ci­ nema e riviste in testa. L’azione sociale collettiva dei Teds è comunque molto più vicina alla devianza organizzata che non a un movimento sociale. Questi gruppi infatti non mettono in discussione la legittimità delle norme e della cultura vigenti, ma le affrontano senza alcuno spirito critico, individuando solo vagamente un avversario sociale o un insieme di risorse o valori per cui battersi. L’uso da parte di alcuni membri dei vecchi gruppi extralegali dei codici del teddyboysmo (travestimen­ to, violenza) è comunque riconducibile a una reazione verso alcuni fenomeni che accompagnano il rinnovarsi della base produttiva su scala urbana. “L’atteggiamento duro”, l’isterica avversione per la classe diri­ 77

gente e intellettuale, nonché la continua frequentazione del centro città, suppliscono alla progressiva perdita di rappresentanza del proletariato nelle fasce urbane interne e alla perduta accessibilità a molti locali pubblici di aggregazione. La scelta di un “abbigliamen­ to trasgressivo e vistoso” che si rifà al look dei “selvaggi” americani (jeans e giubbotto di pelle) è un chiaro segnale di dissenso verso la sintesi culturale prodotta dai codici imposti dalla industrializzazio­ ne avanzata. In particolare contro l’omogeneizzazione dei codici di comunicazione e la spersonalizzazione dell’individuo durante l’ora­ rio di lavoro. L’occupazione del territorio attraverso “raid” e “azio­ ni teppistiche” segna la fine del “localismo” delle vecchie bande di quartiere a vantaggio di un’azione territoriale a carattere transme­ tropolitano. L’uso sociale del territorio da parte dei Teds segna dunque la fi­ ne delle culture locali di banda e la sovrapposizione di queste ultime con culture geograficamente e culturalmente distanti. Questa dina­ mica si colloca proprio nell’epoca delle forti ondate migratorie del periodo 1953-1963. I rari fenomeni di forte legame con il proprio quartiere d’origine avvengono solo nell’utilizzo dei poli di aggregazione periferici. Di fatto, questi ultimi sono ancora tra i pochi che mantengono una for­ ma di gestione del locale tollerante e positiva nei confronti dell’inne­ sco di processi interattivi tra individui. Viceversa, nel centro urbano i vecchi luoghi di rappresentazione delle bande di quartiere si tra­ sformano lentamente in direzione di una gestione funzionale all’ac­ cumulo del capitale (osterie, balere e night). Addirittura, molti scom­ paiono del tutto per venire sostituiti da centri commerciali e uffici. Fortunatamente, da altri locali arrivano i primi segnali di reazione a questa situazione con l’apertura di poli con connotazioni fortemente trasgressive (i cabaret), e con la programmazione nei cinema e nei teatri delle nuove produzioni di critica sociale: Brecht, Antonioni, Fellini, Pasolini ecc. È tuttavia necessario precisare che i Teddy Boys, pur anticipando con le loro elaborazioni comportamentali la grande rivolta esisten­ ziale del Beat, lo fanno ancora con scarsissima coscienza dei più com­ plessi problemi politici. La loro azione sottende una totale incapacità di dotarsi di obiettivi precisi, restando quindi fortemente isolata ed esposta al crucifige dell’opinione pubblica. Quest’ultima non man­ cherà di essere fagocitata da criminalizzanti campagne-stampa che tra l’altro invocheranno espressamente, a partire dal 1959, severe leg­ gi repressive. Queste campagne avranno un tale successo da deter­ minare nel giro di tre anni la definitiva scomparsa del fenomeno.

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LEADERSHIP E STRUTTURA INTERNA

La tipologia strutturale dei gruppi di Teds ricalca i codici della “mala” e, a differenza delle vecchie bande di quartiere, si dotano di un capobanda. Questa strutturazione è probabilmente l’unica soluzione possibile per mantenere la coesione interna in un gruppo di fatto pre­ cario, disomogeneo, caratterizzato da una scarsa memoria storica dei componenti e una fortissima soggettività. Anche il criterio di elezione del capobanda muta rispetto alle ban­ de di quartiere, che sceglievano un capo di volta in volta a seconda delle situazioni, mentre per i Teddy Boys il “capo” rappresenta una vera e propria figura di riferimento in qualsiasi evenienza. La sua aura è legittimata dall’essere stato in galera, dall’essersi scontrato con la po­ lizia, dall’aver commesso furti o rapine, “qualità” che avrebbero inve­ ce discreditato chiunque presso una vecchia banda di quartiere. Un modello così diverso di strutturazione collettiva comporta an­ che differenze nei valori che sanciscono l’espressione del gruppo su scala urbana: per la banda “locale”, essere “conosciuta” a livello cit­ tadino corrispondeva all’abilità dimostrata in alcune specifiche pro­ ve (ballo, sfide a biliardo, conflitti verbali e fisici). Per i Teddy Boys invece la competitività assume connotati negativi: più l’azione viene portata oltre la morale comune e travalica il semplice conflitto ver­ bale, più la banda si eleva nella scala dei valori della sottocultura. Ov­ viamente, il massimo traguardo è rappresentato dalla pubblicazione sulle pagine di cronaca quotidiana delle varie “bravate”, cosa che rie­ sce spesso soprattutto ai gruppi della Baia del Re e della Trecca. La composizione sociale dei gruppi di Teddy Boys non differisce di molto da quella delle bande di quartiere. Al loro interno si anno­ verano componenti operaie, sottoproletarie ed extralegali. Anche se la stampa vorrebbe far credere il contrario, le testimonianze raccolte per questa ricerca smentiscono la presenza di elementi della borghe­ sia, che rivestirebbero comunque una percentuale di presenza insi­ gnificante.

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5. L'ANTISOCIALE

I TEDDY BOYS: LA TERRITORIALITÀ TRADITA

Se per le bande degli anni Cinquanta si poteva utilizzare l’accezione di territorialità “concreta”, in quanto esisteva un rapporto simbioti­ co e reale con il proprio quartiere, modellato dalle istanze territoria­ li, e catalizzato dalla presenza di poli di aggregazione, servizi e tra­ smissione di memorie, per i Teddy Boys questo rapporto si dissolve. Infatti, per questo nuovo tipo di soggetto creativo, la soluzione dei propri bisogni di autorappresentazione non passa più per il proprio quartiere, ma viene riversata esclusivamente sulle capacità di espres­ sione individuali, cariche di disperazione e angoscia e spesso mutua­ te dalle nuove mode di importazione angloamericana. Il territorio viene considerato dal Teddy Boy come un’entità osti­ le, che gli si è rivoltata contro per via di processi che non compren­ de, non approva e non capirà mai, e contro i quali non può far altro che dare vita ad azioni rabbiose e violente. Inoltre, subisce l’atteg­ giamento ostile dell’opinione pubblica che non afferra i motivi del suo comportamento. Il Ted, che nella maggior parte dei casi è un ex componente di una banda di quartiere, si sente insomma “tradito” dal suo territorio e, per reazione, lo combatte danneggiandolo. La convinzione che questo nuovo tipo di relazione gruppi-tessu­ to urbano sia effettivamente causata dall’incedere di dinamiche che scollegano l’attore dal proprio humus territoriale è suffragata da di­ versi fattori. 1. Memoria storica. La distruzione del tessuto proletario nel cen­ tro urbano e la ricomposizione urbanistica, funzionale ai processi di terziarizzazione entro la cerchia dei Navigli, determinano la scom­ parsa sia delle bande di quartiere, fondate su modelli prebellici ope­ rai, sia la distruzione di un sistema integrato di trasmissione di cultu­ re e memorie. Internamente a questo processo, si aggiunge la scom­ 80

parsa degli elementi fondamentali della creatività milanese degli an­ ni Cinquanta (le bande complesse di via Larga) che, per la loro aura, erano in grado di cementare le diverse realtà sociali in città, e funge­ re da punto di collegamento. la. La costruzione di immense propaggini ai margini della città, per accogliere sia i nuovi immigrati (in prevalenza meridionali) sia gli ex residenti del centro città determina una cultura del “non luogo” (E. Tedeschi), ovvero una sovrapposizione di culture regionali fortemente differenziate e distanti tra loro, marginalizzate dalla mancanza di mez­ zi di trasporto e servizi, dalla distanza dal centro culturale urbano e dall’impossibilità di comunicare con le altre realtà creative urbane. In questo senso vengono a mancare gli stimoli per l’innesco di processi di alleanza tra gruppi, e la ricerca di affinità elettive. 1b. Le sole aggregazioni che sopravvivono alla distruzione del tessuto socio-urbanistico sono quelle a trasmissione di memoria più rigida e chiusa, che non hanno ancora subito lo choc del processo di ricomposizione urbana. Tra queste i gruppi del Vigentino, arroccati in una solida morale operaia; il Ticinese, tradizionalmente flessibile e tollerante, nonché colpito molto lentamente dalla ricomposizione ur­ banistica, e infine, le bande delle “casbe”, la cui struttura interna (re­ golata dai codici dell’extralegalità) si colloca su un piano sovrastrut­ turale rispetto ai mutamenti fisici e urbanistici. 2. Stratificazione sociale. All’interno di un più ampio progetto di pianificazione, il disordinato insediarsi delle attività secondarie oltre la terza cintura, e di quelle terziarie nel centro, definire una sorta di “città-bersaglio”. Dai dati del 1959 risulta chiara la tenden­ za verso una stratificazione sociale “radiocentrica”: si parte da un massimo di complessità sociale nel centro città (dove però i processi fisici avevano già compromesso ogni relazione creativa), sino ad ar­ rivare a zone esclusivamente operaie oltre la terza cintura (i quartie­ ri ghetto). In questo senso, la composizione sociale perde ogni com­ plessità, limitando per tutti i gruppi i gradi di apertura sociale, sicu­ rezza e dinamismo. 2a. Un evento corollario che però contribuisce a irrigidire la com­ plessità sociale urbana è dovuto al fatto che i soggetti espulsi dalla città verso i comuni limitrofi perdono il diritto di voto per l’amministrazio­ ne milanese. Questo determina inesorabilmente uno spostamento “verso l’alto” del corpo elettorale urbano che in sede elettorale non può che ripercuotersi negativamente sugli strati meno avvantaggiati. 3. Elementi formali. Verso la fine degli anni Cinquanta, scom­ paiono o si trasformano in più punti della città i sorpassati simboli fi­ sici della cultura “localizzata” di quartiere (per esempio le case di tol­ leranza). Vengono a mancare di colpo all’attore sociale quei poli fisi­ ci di riferimento la cui mancanza, come dimostrano tanti studi di psi­ 81

I Teddy Boys “Nel 1960, mentre a Genova i giovani contestano il sistema dei partiti e si op­ pongono al governo Tambroni, a Milano si sviluppa una nuova forma di aggre­ gazione giovanile, quella dei Teddy Boys. Questi gruppi sono l’immagine della di­ struzione territoriale e sociale dei quartieri e nascono al Giambellino, alla Baia del Re, in zone storicamente segnate dalla malavita, tra gli sfrattati del centro espulsi nel quartiere dell’Ortica. I Teddy Boys non sono durati molto, ma hanno avuto una incredibile celebrità e attorno a questo fenomeno sono stati fatti diversi con­ vegni. Giravano in moto, con giubbotti tipo chiodo, ma erano in realtà vecchie giacche di pelle da operaio che avevano recuperato per imitare lo stile di Marlon Brando ne Il selvaggio. Le bande degli anni precedenti, sostanzialmente, cercano al proprio interno una identità di gruppo, mentre i Teddy Boys erano giovani ‘ar­ rabbiati’ alla ricerca della rissa, reagivano all’emarginazione con la violenza e dal­ la periferia raggiungevano il centro della città. La loro connotazione politico-cul­ turale era confusa, avevano di certo la consapevolezza di essere stati buttati fuori dai luoghi della cultura dell’innovazione per essere gettati allo Stadera, al Giam­ bellino, all’Ortica. Calavano la sera verso il centro di Milano, in cui c’era una vi­ ta notturna molto intensa, puntavano quelli vestiti bene, scendevano dalla moto, li menavano senza motivo, poi se ne andavano. Così come erano apparsi miste­ riosamente, sono altrettanto misteriosamente scomparsi.”

cologia sociale, provoca sensazioni di smarrimento e paura, tali da deviare l’attore verso comportamenti anomali, di violenza e oblio. Nel caso dei Teddy Boys, possiamo parlare di “utopia regressiva”, vi­ sta l’identificazione in base a: visualità, abbigliamento, gestualità, idolatria, panico ecc. 4. I luoghi del tempo libero. A smembrare l’antica ossatura so­ ciale della cultura di quartiere si aggiunge anche la trasformazione dei luoghi di socializzazione nel tempo libero. Molti di questi poli scompaiono incalzati dalla rampante febbre edilizia, e molti mutano la loro condizione originaria (cave, balere, osterie). Da terreni di con­ fronto per le differenti realtà del quartiere, si trasformano in poli in­ differenziati di ritrovo su scala transmetropolitana, votati alla mera speculazione commerciale. 4a . A ciò si aggiunge il fatto che la gestione dei locali non è più così spesso affidata a gestori nati e vissuti nello stesso quartiere, ben­ sì a capaci imprenditori in grado di trasformare il locale in fulcro di attrazione urbana: whisky a go-go, cabaret ecc. 4b . Con l’allontanamento delle fabbriche dai luoghi di residenza cessa di esistere anche la dimensione “dopolavorista” degli attori so­ ciali creativi: in questo senso si disperde anche il dibattito politico al­ l’interno dei quartieri, per essere proiettato all’interno delle fabbriche. Dall’analisi dei dati sinora forniti, possiamo affermare che l’effet­ to dello scollamento attore-quartiere, prodotto dal vasto processo di 82

ricomposizione urbanistica, ha influito sui gruppi creativi in due mo­ di: da una parte ha sancito la fine di una cultura “localizzata” e dal­ l’altra ha prodotto una nuova territorialità, che pone in relazione at­ tori e tessuto urbano in modo differente. A seguito della perdita di memoria storica, di complessità sociale e tolleranza tra ceti, si assiste ad un azzeramento del grado di apertura sociale dei nuovi gruppi, suddividendoli a loro volta nettamente per singole aree di formazio­ ne, quasi mai interconnesse tra loro. Nel perdere insieme alla memoria storica anche ogni substrato culturale coesivo, i Teddy Boys non hanno indipendenza ideologica. Per questo, la loro visibilità è legata a modelli d’importazione (per esempio James Dean) e il loro atteggiamento territoriale ricalca le di­ namiche della marginalità più isterica. Il tutto indipendentemente dalla morale della loro area di formazione. Tale indifferenza si esten­ de anche nei confronti della presenza nel quartiere di linee di tra­ sporto urbano o di servizi. Il carattere chiuso e circoscritto dei gruppi di Teddy Boys limita ai soli incroci occasionali le dinamiche di alleanza. Queste perlopiù avvenivano su scala soggettiva. Nessuna testimonianza parla di al­ leanze tra gruppi di Teds. La rappresentazione collettiva del gruppo non è quindi finalizzata ad alcun tipo di innovazione, quanto piutto­ sto all’autocelebrazione. Una grande risonanza a livello di opinione pubblica (giornali, radio ecc.) viene considerata il massimo risultato ottenibile. Data la trasformazione dei locali pubblici di aggregazione, (che diventano veri e propri filtri sociali), l’uso di queste reti da par­ te dei Teds resta limitato ai locali privilegiati, posti spesso nella stes­ sa area di formazione. In questo senso, gli incroci con altri gruppi creativi rimangono limitati. GEOGRAFIA DEI TEDDY BOYS

A questo punto appare opportuno schizzare una geografia più preci­ sa. Essa è costruita sempre a partire da una ricerca operata direttamente sul campo a contatto con i soggetti che hanno fatto parte del­ le bande di Teddy Boys, dunque con tutte le ricchezze e i limiti che ciò comporta. Il fine è conoscere meglio le zone urbane d’origine e alcune caratteristiche peculiari delle singole aggregazioni.

Teddy Boys. Subsistema 1: Giambellino- Lorenteggio La vasta area del Giambellino-Lorenteggio, situata a Sud della zona statistica 17, è attraversata tra il 1953 e il 1963 da una fitta attività ur­ banistica che affianca allo storico quartiere di edilizia residenziale pubblica del Lorenteggio (ultimato nel 1944), almeno sei nuovi quar­ tieri comunali. Primaticcio (1953), Corba (1954), Barona (1955), Lo­ 83

renteggio (1956 casette a schiera ex minime), Giambellino (1957), san Cristoforo (1958), Inganni (1962).1 Tutti i nuovi agglomerati so­ no di dimensioni minori rispetto al quartiere storico, escluso Prima­ ticcio che, costruito in due tempi, lo supera per dimensioni ma non per numero di locali affittati. La coesione degli attori nel quartiere storico della zona resta quindi immune dall’invasione dei nuovi arrivi, e le bande che vi fanno riferimento non mutano sostanzialmente la loro azione socia­ le. Quest’ultima rimane di fatto sospesa tra la conservazione della morale operaia e le complessificazioni apportate sia dal contatto con i membri dell’extralegalità sia con i nuovi modelli sociali d’im­

Teddy Boys (Subsistema 1) Collocazione rispetto alla rete dei trasporti pubblici

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portazione. Rispetto al totale della popolazione attiva della zona statistica la componente operaia aumenta fortemente rispetto al precedente rilevamento del 1959: dal 38.52% al 49.22%.2 Il feno­ meno si spiega con la ricerca di manodopera da parte dei numerosi cantieri attivi in tutta la zona, nonché per la localizzazione periferi­ ca dell’area. Gli impiegati subiscono invece una leggera flessione ri­ spetto al totale della popolazione attiva della zona 17, passando dal 37.64% al 33.18%. L’azione sociale dei Teds della zona Giambellino-Lorenteggio non godrà di una grande notorietà nel panorama urbano: la loro fre­ quentazione si limita alla sola area d’origine. Sporadiche penetrazio­ ni verso il centro vengono tuttavia favorite dalle tre linee tramviarie presenti: 1’8, il 28 e il 19. La banda di Teddy Boys al Giambellino conta circa 60 elementi.

Teddy Boys. Subsistema 2: Baia del Re La Baia del Re, ossia quella porzione di territorio urbano che insiste sull’area dello storico quartiere Stadera (ultimato nel 1929), viene in­ vestita in questa soglia storica dal generale fermento costruttivo. An­ che in questo caso le parti nuove costruite sono comunque propor­ zionalmente minime rispetto al quartiere storico, si tratta dei lotti Montegani I (ultimato nel 1949), Montegani II (1951), Medeghino (1955), Meda (1958). Non si registrano cambiamenti né negli atteggiamenti trasgressi­ vi delle bande precedenti, né nella composizione sociale dell’intera zona. Rispetto al totale della popolazione attiva della zona statistica 18, gli operai si attestano su una media del 56%, mentre gli impiega­ ti aumentano di circa il 5% rispetto al 1959, in ragione della desti­ nazione dei nuovi agglomerati residenziali. La Baia del Re vera e pro­ pria rimane comunque quella di sempre: “una zona nera e taciturna, con certe magre carcasse di automobili che affiorano nell’acqua, e il muso arrugginito di un camion sul marciapiede, e dove si riuniscono le bande di teppisti del quartiere”.3 Le bande di Teddy Boys della Baia sono senza dubbio tra quelle con il tasso maggiore di competitività urbana: sia per la loro compat­ tezza e numerosità (circa 120 membri) non ancora minacciata da pro­ cessi di ricomposizione del territorio,4 sia per una solida forma di al­ leanza che le lega alla banda del Porto Franco in via Chiaravalle (in­ debolita ma sempre attiva), sia per la possibilità di penetrare nel cen­ tro attraverso i corsi del san Gottardo e del Ticinese (linee tramvia­ rie 3, 15, 9, 2 e bus B), ma soprattutto per la notorietà data loro dal­ l’aver girato un film sul sottobosco milanese con due allievi di Paso­ lini: La vita urlata di Gian Rocco e Paolo Serpi. Per Pasolini i Teddy Boys erano “precoci, sensuali, belli, male85

Teddy Boys (Subsistema 2) Collocazione rispetto alla rete dei trasporti pubblici — tram

ducati, aridi, avidi, spiritosi. I ragazzi dettano legge con l’autorità del­ la gioventù, della bellezza, dell’incoscienza...”. Il film non è mai usci­ to con la sceneggiatura originale voluta da Pasolini, in quanto gli at­ tori scelti tra i Teds furono arrestati il giorno prima dell’inizio delle riprese per aver “festeggiato” troppo spavaldamente la loro assun­ zione (furto d’auto, percosse a una prostituta e offese a pubblico uf­ ficiale, dirette all’allora capo della mobile Mario Nardone). In galera finirono anche i due capibanda dei Teds della Baia del Re, Pietro Marconi detto “Rospo” e Carlo Bezzi detto “il Selvaggio”. 86

Teddy Boys. Subsistema 3: via dei Cinquecento L’area di formazione della banda di via dei Cinquecento, ossia il quartiere Mazzini al Corvetto (ultimato nel 1931), è quella che insie­ me alla Trecca subisce tra gli anni 1950 e 1960 la più violenta so­ vrapposizione con le culture degli immigrati e con i nuovi codici im­ portati dalla classe impiegatizia. Di fatto, in queste due zone vengo­ no affiancati agli storici quartieri di edilizia residenziale pubblica nuovi agglomerati di dimensioni molto maggiori, e praticamente in­ collati ai primi, Gabrio Rosa (ultimato nel 1951), Barzoni (1953), Omero (1955). La prima conseguenza di tutto ciò è il sovvertimento delle pro­ porzioni nella composizione sociale della zona statistica 12 per cui, se la classe operaia si mantiene stabile rispetto al totale della popo­ lazione attiva (dal 54,59% nel 1959 al 53,72% nel 1961), quella impiegatizia aumenta in soli tre anni del 10%: dal 23,24% nel 1959 al 33,51% nel 1961. A fronte di ciò si verifica anche uno spo­ stamento delle aggregazioni creative (sempre meno interessate a ri­ manere nel quartiere d’origine e probabilmente anche poco tolle­ rate) dalla vecchia sede di via dei Cinquecento, in un bar in via Ri­ pamonti angolo viale Ortles dietro gli stabilimenti O.M. e più vici­ no ai gruppi della Baia del Re. I Teds di viale Ortles oscillano tra i 70 e i 90 elementi. Teddy Boys. Subsistema 4: Trecca La zona statistica 20, e in particolare lo storico quartiere della Trec­ ca, rappresenta il caso limite per quanto concerne la sovrapposizione di culture storiche con la memoria recente. Di fatto accanto al pic­ colo agglomerato di case minime, edificato nel 1934, vengono co­ struiti due quartieri di enormi dimensioni, a carattere prevalente­ mente impiegatizio: Mecenate (ultimato nel 1952), Forlanini nuovo (1958). A questi si aggiungono contemporaneamente due ulteriori quartieri altrettanto ampi e anch’essi nati per ospitare principalmen­ te la classe impiegatizia, Bonfadini (1958), Taliedo (1961). Anche qui, come per il Corvetto la popolazione operaia rimane stabile al 67% della popolazione attiva, mentre gli impiegati aumen­ tano del 10,81% in tre anni, per raggiungere nel 1961 una percen­ tuale del 24,39%. Anche in questo caso la vecchia banda di quartiere (ora di 80/90 membri) si sposta alla ricerca di affinità, alleanze e una maggiore li­ bertà d’azione: la nuova sede viene trovata in un bar tra viale Corsi­ ca e viale Argonne, più vicina alla Casba di Porta Venezia e a ridos­ so della zona popolare di piazza Grandi. Quest’ultima sede è anche più fornita della vecchia di mezzi pubblici (tram 21, 38, 24; bus T). Molti nuovi membri di questa banda verranno reclutati durante i 87

numerosi passaggi dei Teds in direzione centro, nella zona di corso XXII marzo.

Teddy Boys. Subsistema 5: Casba di Porta Venezia Non c’è molto da dire sulla Casba di Porta Venezia, la cui situazione urbanistica e sociale resta pressoché stabile rispetto al precedente rile­ vamento del 1959. L’unica nota da segnalare è l’aumento percentuale della popolazione operaia rispetto alla popolazione attiva della zona statistica 8 (dal 32,43% al 41,76%) anche in ragione della vicinanza dei cantieri che in centro stanno completando la “Racchetta”. La classe impiegatizia resta stabile al 30%, seppur in leggera flessione. Il numero dei Teds a Porta Venezia è piuttosto basso e si aggira sui 30 elementi. Teddy Boys. Subsistema 6: Casba dell’Isola (via Borsieri) La Casba dell’Isola non è propriamente da considerarsi un’area di formazione dei Teddy Boys, in quanto il numero di membri dell’ex banda Barbieri che si è convertito al teddyboysmo è proprio esiguo (non più di 20 unità). La trasformazione è avvenuta probabilmente per spirito di emu­ lazione della più competitiva Baia del Re, con cui il capo dei Teds dell’Isola (William detto “il ras della Bovisa”) è alleato. La visibilità di questo gruppo resta quindi minima. La zona è tra l’altro segnata da fortissimi problemi di non occu­ pazione, il cui indice sale dal 54,64% (percentuale calcolata su tutta la popolazione residente) al 86,44% in soli tre anni, corrispondenti al massimo valore urbano. Questa piccola banda di Teds passa co­ munque alla storia del sottobosco milanese per avere inaugurato, nel proprio bar di via Borsieri, una pratica creativa che sarà destinata a diventare famosa: il graffito. I componenti della banda dipingono in­ fatti, sulle pareti interne del bar, una scena “americana” under­ ground che raffigura, sullo sfondo dei grattacieli di Manhattan, vari soggetti in perfetto stile Marlon Brando. ALLEANZE

Intorno alla fine degli anni Cinquanta, diversi fattori intervengono violentemente a rompere gli schemi di allenza che legavano in pre­ cedenza le bande. La distruzione del microsistema di via Larga che, in pratica, cementava le relazioni con tutti i gruppi a maggior “spes­ sore” creativo su scala metropolitana (Ticinese e Vigentino). La mo­ difica, o la scomparsa, dei precedenti poli di ritrovo ad uso del tem­ po libero, che quindi non rappresentano più un solido terreno di confronto per le aggregazioni presenti in città (come le cave e i loca88

Teddy Boys 1959-1961 - Schema delle alleanze

li trasgressivi). Al più sopravvivono come tali solo i locali periferici, che però diventano automaticamente poli privilegiati dei Teds pre­ senti in zona (che limitano così i loro percorsi fisici, diminuendo le possibilità di incrocio con altre realtà). È la crisi della cultura “di quartiere” basata su modelli interattivi di comunicazione tra le di­ verse bande, catalizzata anche da un uso diffuso dei poli di aggrega­ zione ad uso del tempo libero. La sola alleanza che permane resta quella “storica” tra le zone del Vigentino e della Trecca. Per il resto continuano anche forme di comunicazione sotterranee tra le casbe, che però sono circoscritte all’ambiente della “mala” e non coinvol­ gono i gruppi creativi. LE NUOVE RETI DI USO SOCIALE DEL TEMPO LIBERO

La percezione del contatto quotidiano con una metropoli in transizio­ ne orienta i nuovi attori sociali verso inediti riferimenti per l’occupa­ zione del tempo libero. Il polo cittadino di rappresentazione dell’in­ novazione si sposta dalla zona di via Larga a quelle porzioni di territo­ rio rimaste inattaccate nella loro tradizione storica, e ancora social­ 89

mente complesse e tolleranti: Ticinese, Garibaldi, Brera. Queste aree diventano, insieme alle zone industriali di Sesto (la “Stalingrado d’Ita­ lia”) e del Vigentino-Romana, forti tessuti di resistenza alla frammen­ tazione sociale del territorio imposta dal tardo industrialesimo. Di fat­ to, nel resto della città le vecchie strutture aggregative ad uso del tem­ po libero si trasformano lentamente in luoghi funzionali all’accumulo di capitale. Parallelamente, scompaiono altre storiche reti di comuni­ cazione (le case di tolleranza) che, sparse per tutta la città, avevano ca­ talizzato con la loro presenza ideali percorsi fisici e sociali alternativi alle grandi arterie di rappresentazione delle merci. Decadono quasi tutti i “luoghi di culto” degli anni Cinquanta: il teatro di rivista e l’avanspettacolo lasciano il passo alla nuova comme­ dia musicale americana e il night club assurge al ruolo di ritrovo di lus­ so. I locali fortemente trasgressivi degli anni Cinquanta quali le cave e le osterie “innovative” perdono a poco a poco il loro smalto. Quella che pochi anni prima si definiva “trasgressione” risulta adesso appiat­ tita dall’evolversi dei costumi. Quasi a volere seguire il processo di frammentazione sociale, do­ vuto all’intensificarsi delle specializzazioni in campo produttivo, an­ che i cinema (nei primi anni Cinquanta solo di prima e di seconda vi­ sione) si suddividono in tre categorie a seconda della programmazio­ ne e del prezzo: nel marzo del 1959 si possono trovare a Milano 15 sale di prima visione, 19 di seconda e 94 di terza. Anche i prezzi dei nuovi locali aumentano in proporzione rispet­ to alle vecchie reti di aggregazione: se consideriamo l’esempio di un operaio qualificato (30.990 lire/mese nel 1950), risulta che l’accesso nel 1950 al Teatro Lirico in un posto di piccionaia incideva dello 0,64% sulla sua retribuzione mensile, mentre se avesse voluto con­ sumare un panino in un whisky a go-go nel 1959, la spesa avrebbe in­ ciso per il 2,36% del suo stipendio (42.275 lire). A fronte di questo periodo di relativa sicurezza economica (la di­ soccupazione è ridotta quasi a zero e incide nel 1960 per lo 1,06% sulla popolazione residente), ma di grande smarrimento esistenziale, i nuovi locali “innovativi” che aprono a Milano sono tutti orientati o in direzione del recupero di processi interattivi tra soggetti (i collet­ tori notturni), o di denuncia verso il nuovo status sociale (i cabaret). Da segnalare anche il fenomeno delle feste private nel fine setti­ mana organizzate da giovani proletari, come reazione “creativa” al perduto accesso ai luoghi di migliore socializzazione. In questo pe­ riodo sono numerosissime. È un fenomeno che si ripresenterà con una frequenza impressionante nel momento in cui il capitale e il po­ tere avranno terminato la loro opera di ricomposizione sociale e ter­ ritoriale dopo il 1977. Per quanto concerne i Teddy Boys, essi utilizzano soprattutto le 90

reti a loro disposizione nelle proprie aree di formazione: bar privile­ giati, cinema, sale da ballo. Li si può trovare però anche nei poli del centro urbano. In questi casi però il loro comportamento è decisa­ mente più aggressivo, proteso verso la massima visibilità sull’opinio­ ne pubblica.

La modifica delle sale da ballo e gli “hi-fi whisky a go-go” Le sale da ballo “misto richiesta e comunicazione amicale” cedono il passo a quelle che prevedono una forte soggettivizzazione o un rap­ porto rigidamente di coppia. Nel primo gruppo rientrano le balere a richiesta (“dancing”) nelle quali è il singolo attore a dover oggettiva­ re abilità e seduzione. Nel secondo gruppo annoveriamo le balere a ballo ambrosiano figurato (rigidamente di coppia) e quelle a ballo moderno (boogie, rock, be-bop), uno stile che richiede grande abi­ lità, ma che è anch’esso di coppia a guida maschile. Nascono gli “hi-fi whisky a go-go”, le prime discoteche nel vero senso della parola: l’orchestra è sostituita da un disc-jokey e la musi­ ca è “straight” con nuovi ritmi d’importazione americana (madison, shake, surf...). Il locale è strutturato esclusivamente per le coppie e l’accesso è vietato ai single. I prezzi delle consumazioni si aggirano in media tra le 1000 e le 1500 lire.5 Il whisky a go-go rappresenta un’autentica tragedia, sia per i gio­ vani proletari sia per i componenti delle bande rimaste. Essi si vedo­ no estromessi da una grossa fetta del circuito del dancing notturno milanese da una politica mercantile che favorisce i figli della borghe­ sia, più possibilitati a intessere relazioni con l’altro sesso sia per fre­ quentazione di luoghi a commistione di sessi (scuole superiori, uffi­ ci), sia per uno status estetico più favorevole.

Modifica delle cantine e delle osterie Gli intrecci però non mancano e la rabbia giovanile di allora, oltre agli estremismi dei Teddy Boys, ha modo di esprimersi in altre ma­ niere: il magico vissuto del quartiere complesso, preindustriale, di­ venta nostalgia nella rivisitazione delle vecchie osterie un tempo fre­ quentate dalla mala milanese e ora nuovi luoghi di incrocio tra le classi proletarie, extralegali, medio e piccolo borghesi. Aperte fino al­ le 3 del mattino, sono il “prime time” delle nottate milanesi dei pri­ mi anni Sessanta.6 Il tipo di azione-comunicazione sociale che avviene in questi locali a carattere prevalentemente proletario, ma frequentati anche dalla media-borghesia, è incentrato nella sfida non violenta: un cantante, accompagnato solitamente da una chitarra, nel rielaborare i testi delle canzoni del cabaret, vessa pesantemente e ironicamente gli stereotipi borghesi. Questi ultimi rispondono sportivamente alla sfida: il loro 91

scopo è quello di ricreare il clima perduto del bar di via Palazzo Reale e di provare il “brivido” di trovarsi in una situazione solo in apparenza pericolosa. I “collettori notturni” A partire dal 1962 per circa tre anni, nel centro città e in estrema pe­ riferia si verifica un fenomeno singolare: l’apertura dei cosiddetti “collettori notturni”. Sono locali-cantina aperti dalle 4 del mattino si­ no a mezzogiorno e costituiscono il proseguimento della notte brava dopo la chiusura delle cantine. Il luogo di raccolta intermedio tra la chiusura delle cantine (h. 3) e l’apertura dei “collettori” (h. 4) è il Bar

Cantine e osterie 1) Tri Basei, via Vaipetrosa, 5 2) La Fogna, Moncucco 3) Ca’ Brusada, san Siro 4) Mariet Bacalsu’, san Giuliano 5) Magolfa, via Magolfa 6) Pino alla parete, via Borromei, 13 7) La Folla, via Ripamonti 8) Lo Scoffone, via V. Hugo 92

9) La Briosca, via Ascanio Sforza 10) Torchietto, via Ascanio Sforza 11) Il Praticello, Molino Ceresa-Moncucco 12) Osteria, via Erodoto 13) Il Risveglio, Binasco 14) Osteria, Qt. Cagnola 17) Osteria, via Ornato

Commercio in piazza Duomo e il bar della Stazione Centrale. Senza soluzione di continuità, questi locali7 offrono a tutta la gioventù iti­ nerante urbana (soprattutto Zio Cesare, il Commercio e il Pioverà per il loro sito migliore) senza discriminazione di ceto e ideologie e per qualsiasi portafoglio, una notte piena di nuovi intrecci e com­ plessità, ricreando idealmente il mito di via Larga, in un clima profondamente mutato e proiettato verso un futuro incerto. Un posto a parte tra i locali lo merita il Vera Cruz di via Fogaz­ zaro: gestito da una ex camicia nera, è la prima sala da ballo-bar gay a comparire a Milano. Agisce nella più totale clandestinità. L’impegno politico e civile: i cabaret e i teatri A partire dal 1959, all’interno dei poli di aggregazione la rabbia po­ litica ed esistenziale si esprime ironicamente nei cabaret al ritmo del­ le canzoni e degli sketch di Nanni Svampa dei Gufi, Dario Fo, Gior­ gio Gaber, Enzo Jannacci e molti altri artisti.8 La parola d’ordine è ironia, ma è già manifesto seppur in modo embrionale l’impegno ci­ vile e politico di alcuni. Il cabaret è probabilmente il luogo dove più intensamente ven­ gono rappresentate le contraddizioni di un’era di generalizzato be­ nessere, ma di forte smarrimento esistenziale. La sua frequentazione però non riguarda le bande, né i Teddy Boys, ma è ristretta ad una élite a composizione prevalentemente borghese-intellettuale. Sul piano più specificatamente artistico vi sono invece i teatri, nei cui programmi si alternano piéces oscillanti tra recupero delle tradi­ zioni e spregiudicatezza delle innovazioni: dal revival nostalgico del­ le canzoni della “mala” di Ornella Vanoni al Piccolo Teatro, alle cau­ stiche commedie di Osborne, Beckett e Brecht, alle rivisitazioni in chiave rock dell’Amleto e dell’Otello o le opere su Sacco e Vanzetti.

Le feste private dei giovani proletari L’organizzazione di feste private è l’unico tentativo di reazione dei giovani proletari al loro allontanamento dalla rete sociale dei locali pubblici. In questo periodo il loro numero aumenta a tal punto da di­ ventare un vero fenomeno, destinato però a estinguersi in breve tem­ po, parallelamente all’inarrestabile frantumazione delle reti sociali sottoculturali imposta dal nuovo capitalismo. Queste occasioni si configurano come catalizzatori di incontro-comunicazione e rappor­ to tra sessi e si pongono, in quanto meccanismo sociale autonomo, in opposizione ai limiti di coppia imposti dal whisky a go-go. Si cerca sostanzialmente l’altro sesso per accoppiarsi e legittima­ re un rientro nel circuito della vita notturna milanese. A questo sco­ po nelle feste dai proletari e dai giovani operai vengono invitati que­ gli attori sociali che hanno a loro volta più possibilità di invitare le ra­ 93

“Collettori notturni” 1) Piovera, corso XXII marzo (att. Rolling Stane) 2) Zio Cesare, corso Italia 3) Maria la Rossa, Gratosoglio

4) Cascina della Zia, largo Marinai d'Italia Sala da ballo (gay) 5) Santa Cruz, via Fogazzaro

gazze: impiegati, studenti della compagnia approdati al liceo, ami­ che... A sedi delle feste si prestano sia luoghi formali sia informali: ca­ se private, retri di bar presi a nolo, oratori ecc. In un fine settimana il fenomeno è quantificabile intorno alle 50/60 feste per zona.

Uso sociale dei poli di aggregazione ad uso del tempo libero I Teddy Boys manifestano spontaneamente il loro dissenso verso i nuovi modelli sociali e territoriali della città con un uso “antisociale” del territorio, e in particolare dei luoghi di aggregazione ad uso del tempo libero. Un chiaro segnale sta nel rifiuto dell’utilizzo delle neo­ nate reti sociali di aggregazione, frutto del passaggio dalla cultura prebellica di quartiere (non si dimentichi che allora vigeva l’uso di vendere i negozi con annessa abitazione) all’era delle comunicazioni impersonali del capitalismo maturo. Ma il fatto che la nuova gestio­ ne anteponga un uso speculativo e mercantile alla creazione di pro94

cessi interattivi tra soggetti, non è la sola ragione a far scaturire il mal­ contento dei gruppi. Per esempio, si dovrebbe sottolineare come molti locali scompaiano dalla circolazione (per esempio le case di tol­ leranza nel 1958, o più silenziosamente l’avanspettacolo nei primi an­ ni Sessanta), per essere sostituiti da altre reti più funzionali al ciclo ri­ produttivo del capitale: banche, supermarket ecc. E non solo. L’atomizzazione sociale imposta dalla politica urbanistica sul tessuto urbano seleziona automaticamente la composizione sociale della clientela stessa del locale a seconda della collocazione del me­ desimo. Così, salvo rarissime eccezioni, i locali del centro diventano “off limits” per i nuovi “creativi”: non solo per i prezzi e le limita­ zioni messe in atto, ma anche per un crescente disinteresse, a causa della loro semplificazione sociale che non offre più né stimoli né possibilità di conflitto. E per queste ragioni per esempio che i Teddy Boys non mettono piede nei whisky a go-go, in cui non vi è neppu­ re la possibilità di “filare” le ragazze, essendo l’ingresso limitato al­ le sole coppie. Non vi è eccessiva frequentazione nelle cave esistenzialiste, che tra l’altro perdono un po’ della loro pulsione innovativa, sopraffatta nei primi anni Sessanta dalle nuove mode d’importazione americane e inglesi, nonché dall’attenuazione della complessità sociale della clientela. Anche i cabaret (limitati fino al 1964 al solo Derby) resta­ no perlopiù ad appannaggio dei cosiddetti “incroci sociali”, frutto della sovrapposizione dei membri delle vecchie bande di quartiere con altri soggetti sociali meno complessi (impiegati, borghesia), o co­ munque per palati più fini che non quelli dei Teddy Boys. L’uso sociale dei poli pubblici di aggregazione da parte dei Teddy Boys resta così limitato alle sole reti che ancora permettono l’attuazio­ ne della rappresentazione. Dove cioè non vi siano limiti alla mobilità (sale da ballo, in particolare quelle periferiche: meno controllate dalla polizia, più vicine ai quartieri d’origine e con maggiore possibilità di trovarvi gruppi di pari); dove insista una certa complessità dove trova­ re anche avversari sociali e venga tollerata la trasgressione (osterie, cantine e locali trasgressivi); e infine i luoghi pubblici di un certo inte­ resse di tipo spettacolare in cui attuare una rappresentazione meno mobile ma altrettanto rumorosa (cinema, teatri di rivista). Un classico esempio è l’invasione in massa nei cinema in cui si proiettano i film de­ gli idoli americani. A queste reti di riferimento aggiungiamo natural­ mente le sedi privilegiate dei gruppi (bar, sala biliardo ecc.) situate nel­ le rispettive aree di formazione: sono i punti più utilizzati. In questo frangente la coesione di gruppo è massima, amplifica­ ta tra l’altro dal credo collettivo nei codici d’importazione. Tuttavia, i rapporti con il resto dei residenti della zona si rivela di solito pessi­ mo. Per il resto, l’azione sociale dei Teddy Boys si limita alla migra­ 95

zione verso il centro. Non per utilizzare socialmente questa porzione di territorio (o le sue reti di aggregazione), ma perché l’autorappre­ sentazione, spesso violenta e di stampo teppistico, possa avere mag­ giori possibilità di essere notata e riportata dei media. Il tutto poiché il centro viene giustamente percepito come la zona a più alto transi­ to di informazioni e merci. La rappresentazione è spesso limitata ad antipatici atti di teppismo o comunque legata a una gestualità evi­ dente e chiassosa. È forse per questa sua limitazione nell’azione so­ ciale che i Teddy Boys alla fine non saranno altro che una piccola me­ teora nell’universo delle aggregazioni giovanili milanesi. L’OPINIONE PUBBLICA: PUNTI DI OSSERVAZIONE

Gli effetti destabilizzanti del passaggio dalla cultura “di quartiere” a quella tardo-industriale spingono in breve tempo i soggetti più sen­ sibili a riformare dei gruppi, allo scopo di riprendersi quell’identità strappata loro dai processi di trasformazione attivati dal capitale. A partire dal 1956 fino ai primi mesi del 1961, i Teddy Boys mi­ lanesi, riconoscibili da precisi segnali estetici, che si rifanno al look di Marlon Brando nel film Il selvaggio (1954), manifestano con azioni radicali tutte le contraddizioni esistenziali della società in transizione. Non a caso, abbiamo detto che i gruppi più rappresentativi nascono proprio in quei quartieri direttamente minacciati, se non addirittura stravolti socialmente, dai processi urbanistici: quelli destinati a ospi­ tare gli sfollati del Centro città e gli immigrati meridionali e quelli in cui le precedenti aggregazioni della “ligera” avevano dovuto cedere il passo a forme di “mala” più organizzata. L’azione sociale dei Teds (corrispondente a quella dei loro pari inglesi tra il 1953 e il 1962) esteriorizza pienamente la rabbia, l’in­ certezza sul futuro, l’alienazione, l’assenza di stabili reti di riferimen­ to socio-territoriali, e certamente anche il decadere dei valori della morale cristiana, della famiglia e della scuola; temi, tra l’altro, sui quali sociologi, criminologi e psicologi si accanivano senza tregua. Per restare nei termini dell’azione sociale, quello che fa dei Teds un movimento violento è l’assenza di conflitto: manca una posta in gioco. La battaglia per il mantenimento di strutture di comunicazio­ ne e confronto è già persa nella ghettizzazione forzata. Mancano an­ cora gli avversari sociali: nei quartieri i rapporti interattivi di comu­ nicazione tra classi sono attenuati dai processi di specializzazione e non esiste interazione tra le singole classi sociali.9 Si vive cioè nella to­ tale mancanza di quel confronto-conflitto in grado di dare a qualsia­ si movimento un substrato antagonista distogliendolo così dalla mar­ ginalità violenta. A fronte della ghettizzazione e del processo di appiattimento 96

identitario operato dal capitale, i Teds ricorrono allora inconscia­ mente all’utopia regressiva, al mito come riferimento “religioso” to­ talizzante su cui fondare la propria identità.10 Ricorrono al travesti­ mento come palliativo all’impossibilità di godere di identità colletti­ ve, di riconoscersi tra uguali e nei vincoli amicali radicati sin dall’in­ fanzia, e come risposta all’anonimato in una società in cui invece “quello che conta è riuscire, avere successo”, “in cui quello che con­ ta è avere un nome. Un nome quale che sia, raggiunto comunque col furto, col carcere, con la prostituzione, poco conta, purché sia tale che tutti lo conoscano, lo ripetano, che se ne interessino come della cosa più importante che ci sia”.11 Riguardo a quest’ultimo aspetto, anche i territori e i soggetti pre­ scelti dai Teddy Boys per sfogare la loro rabbia non sono affatto ca­ suali. I Teddy Boys seguono fondamentalmente due percorsi: il pri­ mo li porta verso il centro città, ossia la ex zona in cui le bande gio­ vanili avevano vissuto il loro periodo aureo e in cui cercano ancora solidarietà e affinità con le poche bande superstiti (per esempio il Porto Franco), peraltro non trovandone poi molta. Il secondo percorso li porta invece in quei luoghi in cui transita il massimo delle merci e delle informazioni (quindi quasi sempre il centro, ma anche luoghi pubblici, conferenze ecc.) in modo che la lo­ ro azione trasgressiva abbia il massimo della risonanza. Ci riescono senza dubbio il primo agosto del 1959, e sono stati “premiati” il gior­ no dopo da un articolo sul “Corriere” intitolato “Nove giovani Teddy Boys ballavano sulle strisce riservate ai pedoni”.12 L’oggetto della frustrazione del giovane Ted rimane comunque pur sempre la società del nuovo capitale che egli non può capire ma solo rifiutare. Ogni simbolo vivente o meno della ricchezza e del po­ tere deve essere colpito: vetrine di lusso, persone eleganti o distinte, agenti di polizia, monumenti, palazzi moderni, automobili ecc. Non mancano in ogni caso le eccezioni come negli attacchi contro donne, passanti isolati, coppie, prostitute ecc. Il momento più creativo del Ted si dà comunque all’interno di un luogo privilegiato e più genericamente nei bar e nelle sale da ballo, in cui cercano di portare avanti in modo relativamente costruttivo mo­ delli d’importazione americana, il più delle volte riflessi anche nel­ l’abbigliamento: ascolto del rock’n’roll e pratica del ballo, scelta dei dischi da mettere nel juke box, nuovi modelli di comunicazione ba­ sati su un linguaggio e una gestualità fuori dall’ordinario. Proprio per la sua componente di trasgressione estrema il caso dei Teddy Boys stimola l’interesse pubblico al punto di coinvolgere i media per far luce sul caso. Tutta la stampa si scaglia contro la ban­ da: sia quella conservatrice, che la accusa di essersi allontanata dalla morale cristiana e dal “vivere civile”, sia quella comunista, che vede 97

i Teds come la negazione vivente dell’“ideologia del lavoro”. In sin­ tesi, secondo una pratica comune di fronte a fenomeni di questo ti­ po, la stampa, così come l’opinione pubblica, si divide in due: chi pur non facendo l’apologia della banda cerca di attenersi a una linea ana­ litica il più possibile obiettiva e chi, invece, si lancia a capofitto in de­ monizzazioni e anatemi, “Corriere della Sera” in testa. A partire dal 1959, quest’ultimo avvia una vera e propria campagna-stampa fina­ lizzata a leggere i Teds come il prodotto più deteriore della società. Il tutto però senza un minimo di base analitica che non oltrepassasse la “classica” colpevolizzazione della famiglia.13 Lo stesso “Corriere” si fa promotore di una campagna repressi­ va: lo stato era “troppo clemente” di fronte del fenomeno (“Corrie­ re”, 27 agosto 1959). La sua linea viene seguita a ruota prima dal “Tempo” poi più concretamente dalla richiesta di provvedimenti del­ l’on. Brusasca imperniati sulla “difesa della patria potestà”,14 e infine dalla proposta di legge Quintieri (De) imperniata su una repressione poliziesca a tappeto. Dello stesso livello è il tono della conferenza di Nicola Pende al Lyons Club di Roma dai cui atti emergono frasi del tipo: “Così que­ ste pianticelle umane mal concepite, male allevate crescono come piante selvatiche e diventano facilmente velenose per i propri simili”. Frasi seguite da una serie di proposte che riducono il fenomeno Teddy Boys a cause meramente biologiche oppure legate a luoghi co­ muni (scuola, famiglia, morale, patologia mentale, leggi inadeguate ecc.), evitando di prendere in considerazione i problemi collegati al­ lo scollamento sociale. Il principio giuridico fondamentale deve essere quello che: nessun giudizio il magistrato può pronunciare contro un criminale di età minore [...] senza che un comitato di medici e di psicopatologi e di criminologi clinici abbia esaminato profondamente e soprattutto dal lato cerebrale e neuro-ormo­ nale e con i moderni mezzi di indagine, come la radiologia clinica e l’elet­ troencefalografia, il soggetto del delitto. [...] Un terzo principio giuridico che vorrei vedere introdotto è quello riguar­ dante l’incriminazione dei genitori colpevoli di abbandono e di non curan­ za dell’allevamento ed educazione dei figli con incitamento dei medesimi al vagabondaggio. [...] Occorrono poi a questi principi giuridici, leggi statali che istituiscano un accertamento precoce diagnostico di questi ragazzi traviati nelle famiglie e nella scuola. Occorrono numerosi - almeno uno in ogni provincia - centri di osservazione medicopsicologica di tutti i ragazzi dell’età della scuola pri­ maria e secondaria: e ciò come mezzo fondamentale di medicina somatica e psichica. [...] Occorre poi che lo stato provveda a costruire istituti numerosi capaci di rico­ verare migliaia e migliaia di questi ragazzi giudicati dal tribunale dei minori. [... ] Quivi uno dei mezzi di rieducazione e redenzione sarà il campo del lavo­ ro, così come già si fa negli Stati Uniti, lavoro vigilato e possibilmente in am­ biente campestre o forestale. È forse il lavoro vigilato che potrà socializzare e

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far maturare meglio d’ogni altro mezzo la personalità antisociale e immatura di questi adolescenti. Devo qui accennare all’esempio della Russia che per questi ragazzi traviati e per il loro giudizio ha adottato Tribunali amichevoli, come li chiamano, e Commissioni cittadine di profilassi morale.15

Lo stesso tipo di discorso è tenuto da Annibale Puca, direttore dell’Ospedale psichiatrico Santa Maria Maggiore di Aversa, che dopo un’analisi moderata sulle cause del fenomeno in cui rimpiange la sere­ nità del nucleo familiare preindustriale, accusa la vorticosità del post­ industriale di portare nausea e angoscia, e colloca i Teddy Boys nella schiera delle vittime della società prodotte dalle trasformazioni del­ l’ambiente. Ma si sbilancia improvvisamente augurandosi che venga al più presto varata una legge per cui: “Tutti i ragazzi adolescenti e giovani che fanno parte di squadre teppistiche vengano passati al va­ glio delle leggi di P.S. e prima di essere rimandati alle famiglie dovran­ no subire una osservazione medica di almeno un mese in ospedale psichiatrico”.16 Ma se si dipinge il Teddy Boy come vittima di agenti oggettivi esterni, è pensabile potergli restituire un’identità tramite la strumento repressivo? Oppure occorre intervenire su quei fattori og­ gettivi che concorrono al formarsi del fenomeno? È su questa linea di pensiero che si schierano fortunatamente le coscienze più illuminate. Lo stesso “Osservatore Romano” del 1 luglio del 1959, pur se molto “impressionato e preoccupato” si dimostra subito restio “ad invocare i provvedimenti di polizia contro i delinquenti già formati, quanto evitare le cause e arrestare (fermare) in tempo i delinquenti in poten­ za”, e in tali “cause” rientra pure “il mondo del lavoro”.17 L’analisi più lucida porta la firma di Luigi Volpicelli che estende le cause della disgregazione familiare, morale ecc. soprattutto a fat­ tori legati all’ambiente e alle mutazioni della società postindustriale. Se la comune delinquenza giovanile ripete le sue cause, almeno per la più parte, dalle stesse ragioni che determinano quella adulta: i fattori sociali della miseria e della disoccupazione, quelli ambientali dell’alcolismo, della promiscuità e della carenza della vita, il fattore biologico dell’ereditarietà delle nevrosi e simili”. [...] [Volpicelli demitizza quanto scritto finora dalla stampa] La questione, però, è da sfrondare di tutta la montatura e, si vorrebbe dire, di tutta la re­ clame che ne han fatto i giornali, il cui gusto pesante e l’affannoso bisogno di scandali non poco l’hanno inflazionata, con il risultato di confondere l’effettiva prospettiva e la reale consistenza del fenomeno. Notizie di cro­ naca riportate in modo sempre più vistoso che hanno finito per abbattersi e sciogliersi in convegni e dibattiti dove non sempre accade che parlino so­ lo coloro che, avendo capacità di pensare, hanno qualcosa da dire. [...] [Infine propone un quadro complessivo] I Teddy Boys sono comuni a tutto il mondo d’oggi, indipendentemente dalla religione, dal regime politico, dal­ l’ordinamento sociale. Pure un avvio dovrebbe esserci offerto dal fatto che si tratta sempre di paesi a livello della civiltà moderna e della rivoluzione indu­ striale; mentre il fenomeno non tocca, o insensibilmente, le zone depresse, le 99

regioni a economia essenzialmente agraria, dove assai più tenacemente resiste la tradizione. Queste due considerazioni ci richiamano decisamente, credia­ mo, ai mutamenti operati dalla rivoluzione industriale nell’ordine dei valori morali, e quasi vengono a collocarci il fenomeno nell’incertezza spirituale di un mondo in bilico tra un passato che ha perso tutto il suo mordente, e un fu­ turo che non ha ancora rivelato quali potranno essere i suoi fondamenti.18

Contemporaneamente a Volpicelli, dal convegno “Come si forma un Teddy Boy” svoltosi all’istituto di indagini psicologiche di Mila­ no, emerge una ulteriore ipotesi formulata da Marco Marchesan che potrebbe essere vista a tutto diritto come l’ideale chiusura delle as­ serzioni precedenti: “Su questo sfondo inquieto operano poi le so­ vreccitazioni ambientali moderne in cui i concetti di spazio e di mo­ to nello spazio hanno un influsso su cui troppo si sorvola”; “È ben più logico adeguare l’‛organismo’ psichico all’ambiente in modo che ne tolleri bene la mutata situazione, che reclamare, rimproverare, esortare a reazioni che il giovane nella sua situazione non può realiz­ zare”.19 Queste opinioni non saranno ascoltate. Le strutture di polizia concludono intorno al 1961 le azioni di repressione contro i Teddy Boys che escono definitivamente di scena poco dopo. Interessante annotare come ancora prima del formarsi del fenomeno era stata promulgata una legge “contro gli oziosi e i vagabondi”, nota anche come “Legge del Foglio di Via” quale previsione da parte dello stato dell’aumento di reati comuni, proprio negli stessi anni di attuazione degli sventramenti. In sintesi, la Legge 1423 del 27/12/1956 legittima la polizia ad adottare una serie di provvedimenti restrittivi della libertà personale, sulla base di un proprio giudizio di pericolosità e sul semplice so­ spetto che degli individui possano commettere reati. In particolare, il questore può applicare la “diffida”, con cui ingiunge di cambiare comportamento; il “foglio di via obbligatorio” con cui impone l’ob­ bligo di tornare al luogo di residenza con contemporanea diffida a fa­ re ritorno nel comune dal quale si è stati allontanati; la “sorveglianza speciale” e il “divieto o l’obbligo di soggiorno” in un determinato co­ mune (imposti dal tribunale su proposta del questore).20 Lo scopo della legge non andrà certo disatteso, e la sua funzione avrà ancora modo di manifestarsi massicciamente con l’esplosione delle rivolte esistenziali e politiche degli anni Sessanta e Settanta, qualcuna già vi­ sibile, le altre già in embrione.

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Fase 3

6. CEMENTO ARMATO

LE VICENDE AMMINISTRATIVE E URBANISTICHE

All’inizio degli anni Sessanta, parallelamente al nuovo orientamento del governo nazionale (1963), anche l’amministrazione milanese è retta da una giunta di centro sinistra, già varata da due anni (21 gen­ naio 1961). Il corpo elettorale milanese dei primi anni sessanta con­ ferma la Dc alla guida della giunta con il 23,96% delle preferenze, se­ guita da Pci e Psi che ottengono rispettivamente il 21,96% e il 15,90% dei voti. L’area laica registra episodiche impennate, che però restano insufficienti a sancire un oggettivo controllo sulla ammini­ strazione cittadina.1 La novità del comportamento elettorale è rappresentata dalla for­ te spinta a sinistra nei piccoli comuni industriali a nord della città, esi­ to della redistribuzione della classe operaia dal centro verso la perife­ ria e nei comuni limitrofi. La perdita del diritto di voto per l’ammini­ strazione urbana da parte dell’elettorato emigrato nei comuni ex­ traurbani di fatto riversa il voto proletario nei nuovi comuni di resi­ denza, che assurgono ora al ruolo di vere e proprie roccaforti rosse. Anche se i tempi non sono ancora maturi per forme innovative di rappresentazione creativa, occorre tuttavia tenere presente che in questi tessuti periferici si va lentamente formando una coscienza po­ litica molto forte e omogenea che si estenderà, ed esploderà, al mo­ mento del contatto con i movimenti antagonisti già operanti in città. Per quanto concerne l’attività urbanistica, la fase storica in que­ stione corrisponde a un periodo di fitta attività edilizia. Nel 1963 viene approvato il primo Piano di edilizia popolare (Peep) della città sotto gli auspici della legge 167/1962. La localizzazione dei 160.000 vani prevista si disaggrega inizialmente per quattro quartieri di 20.000 vani l’uno: Olmi, Gallaratese, Rozzano e il mastodontico Gratosoglio. A questa prima ondata seguono altre realizzazioni meno imponenti: 101

Sant’Ambrogio, Chiesa Rossa, Lavagna, Tessera, Quarto Cagnino, via Alba II, Fulvio Testi II, Monlué e Taliedo. Tre quartieri previsti dal Peep devono invece essere stralciati dal piano perché giudicati troppo periferici e lontani dalle linee di sviluppo insediativo. Parallelamente alla costruzione di questi nuovi insediamenti all’estrema periferia ur­ bana, si provvede anche ex lege a un radicale rinnovamento delle aree già edificate nelle cinture interne, previo rispetto del solo regolamento edilizio, altezze e delle distanze tra edifici. Si ripropone ormai la consolidata consuetudine di demolire e ri­ strutturare quel che resta dei pochissimi tessuti proletari della città (quartieri Isola e Garibaldi), con conseguente espulsione proletaria in ulteriori ghetti periferici e sostituzione del precedente tessuto con reti terziarie, uffici, servizi di lusso ecc. Molti dei quali, afferma il Giustiniani, sarebbero stati subdolamente edificati con le “briciole” del patrimonio Gescal: 280 miliardi.2 Ad amplificare ulteriormente la condizione del centro quale po­ lo di comando delle attività economiche, il 1 novembre 1964 viene aperto il primo tronco della metropolitana, con un tracciato iniziale di 12,300 chilometri e 21 stazioni, a cui si aggiungerà nell’aprile 1966 il tronco Pagano-Gambara. Sul tessuto urbano continua la forsennata caccia al suolo edifica­ bile, ma cominciano a farsi sentire le prime voci di dissenso alla si­ tuazione urbanistica sostenute dall’Apicep e dai comitati di inquili­ ni.3 Intanto, il Comune propone nuovi “aggiustamenti” al Prg, in ra­ gione anche dell’elevato costo degli oneri di urbanizzazione comple­ tamente a suo carico e non più sostenibili. Nel 1968 si vara la legge 765 o “legge ponte” con cui si impone al proprietario una tassa da pagare sul costo complessivo dell’urbanizzazione. Di contro, gli vie­ ne garantita una quota di 18 mq per abitante/piano di servizi sociali così divisi: 9,9% verde; 4,4% asili e scuole; 2,5 % parcheggi; 2,2% at­ trezzature. Purtroppo, come noto, la legge 765 viene prorogata di un anno causando nel 1969 (“anno di moratoria”) un’autentica caccia alla licenza edilizia esentasse che, da una indagine successiva, frutta alla speculazione privata la bellezza di 4000 miliardi di lire e che vie­ ne bloccata solo nel 1970 da una seconda legge, giustamente defini­ ta “legge tappo”. Il 1969 è anche l’anno della definitiva revisione del Piano 167 a opera del Consorzio per l’edilizia economica popolare (Cimep): un insieme di 60 comuni dell’hinterland che, a fronte del riversamento della domanda abitativa sulla provincia, propone di promuovere e coordinare l’attuazione dei Piani di edilizia economica e popolare su scala comprensoriale. Anche in questo caso il Cimep non riuscirà a fare fronte né ai problemi economici né a quelli tecnici: la capacità insediativa da oltre 200.000 si riduce a 152.00 stanze e i lotti costrui­ 102

ti, di piccole e medie dimensioni, vengono edificati a contatto di par­ ti già costruite della città che, essendosi ulteriormente estesa, sposta sempre più in periferia il sito delle nuove costruzioni, non miglio­ rando affatto la già precaria condizione socio-territoriale dei residen­ ti. Di fatto il Cimep costruirà solo 4000 vani interni alla città localiz­ zati sulla circonvallazione esterna. Finalmente, sotto la spinta delle lotte sindacali diffuse, la “con­ traddizione-casa” comincia ad essere avvertita dalle masse in modo omogeneo e rilanciata in modo offensivo. La lotta è finalizzata a pro­ muovere una “legge per la casa” che ponesse fine a una politica ur­ banistica che, nel frattempo, aveva annientato ogni forma di comu­ nicazione sociale che non fosse funzionale a logiche esclusivamente di tipo produttivo. Questo primo periodo di lotte ha come risultato l’approvazione della legge 865 nel 1971 (abolizione di numerosi enti appaltatori, valorizzazione delle cooperative ecc.). Con l’avvento del centro-sinistra, si assiste a una serie di innova­ zioni a livello di pianificazione che comportano, sia a livello urbano sia extraurbano, nuove modalità tipologiche e sociali nell’abitare. Le disposizioni previste dalla neonata giunta, che seguono ancora i cri­ teri di massima produttività varati in precedenza dalla Dc, deve ade­ guarsi ai nuovi problemi che investono il tessuto urbano. Il primo no­ do da risolvere consiste ancora nella forte richiesta di abitazioni, espresse da gran parte dai ceti meno abbienti. Di fatto, nei primi an­ ni Sessanta il fabbisogno abitativo dovuto a sovraffollamento è di 330.000 vani (tanti quanti ne occorrono per portare l’indice medio a 1 abitante per vano),4 mentre il fabbisogno arretrato ammonta anco­ ra a 250.000 vani. La soluzione del problema è delegata ai due principali strumenti urbanistici di questa fase: la legge 167 (Peep), che prevede la costru­ zione di 160.000 stanze, e il Piano quadriennale (1962/65) che ne prevede invece 120.000. Tale necessità resta tuttavia largamente di­ sattesa, almeno sul fronte dell’edilizia residenziale pubblica (orche­ strata dalla Gescal) che in sei anni di attività costruisce solamente 40.000 case, mentre contemporaneamente la speculazione privata ne edifica quasi un milione.5 A questo problema, tamponato qualche anno dopo dall’inversio­ ne naturale del saldo migratorio, si aggiunge il dilemma di completare il dislocamento degli strati meno avvantaggiati verso la periferia, nella maniera più rapida possibile. Infatti, pur subendo una leggera flessio­ ne, nei primi anni Sessanta, la differenza tra immigrati ed emigrati si mantiene ancora su valori piuttosto elevati (+25.894 unità nel 1963), mentre il movimento della popolazione resta in costante aumento (picco di + 30.000 unità tra il 1962 e il 1963). La risposta amministra­ tiva a questo problema non si discosta molto dalla politica preceden­ 103

te: spostamento del proletariato in periferia e costruzione di nuovi ul­ teriori quartieri a esso destinati, lasciando al centro urbano la funzio­ ne di cervello delle attività terziarie e di controllo. Vi sono però fondamentali differenze che distinguono i nuovi ca­ sermoni popolari degli anni Sessanta dai primi quartieri Ina-Casa. La localizzazione dei quartieri Gescal è notevolmente più periferica: nessun nuovo quartiere viene costruito all’interno della terza cerchia. Del resto, la speculazione privata ha ormai raggiunto nelle cinture in­ terne un tale livello di aggressività, da costringere l’amministrazione pubblica a edificare i nuovi quartieri quasi a ridosso dei confini co­ munali e addirittura su aree riservate al verde agricolo. Non è quindi sorprendente che in tutte le aree statistiche della corona gli indici di affollamento oscillino intorno a 1,35 abitanti/stanza con punte mas­ sime di 1,6 abitanti/stanza (Comasina). A fronte dell’ultimo picco immigratorio e della pressante domanda (che include anche il fabbi­ sogno arretrato), vengono adottati, rispetto alle costruzioni Ina-Casa, accorgimenti tipologici e tecnici innovativi atti a snellire e velocizza­ re il processo costruttivo. Al posto dei lavorati in opera si ricorre al­ le tecnologie proprie del prefabbricato: il controllo del lavoro e l’as­ semblaggio dei pezzi viene supervisionato da una sola impresa-madre che orchestra più enti sub appaltatori che lavorano rapidamente e con ritmi altissimi di produzione. Le tipologie dei nuovi quartieri si differenziano quindi da quelle dell’Ina-Casa, soprattutto per l’au­ mento dell’indice di sfruttamento delle aree: scompare la casa a due piani (in cui di solito veniva preferito il piano terreno, per un curio­ so senso di attaccamento alla terra da parte degli immigrati di origi­ ni contadine) per fare posto a strutture più elevate ed edificate con il criterio della prefabbricazione e poco flessibili rispetto a ogni esi­ genza collettiva. La necessità di collocare subito i nuovi arrivati è ta­ le che questi uniformi, ripetitivi e irriconoscibili ghetti sono edificati e abitati con abbondante anticipo rispetto alle opere di urbanizza­ zione. Come abbiamo già rilevato, anche la situazione sociale incide sull’aumento del malessere nei nuovi quartieri. Si deve qui rammen­ tare che la nuova ondata immigratoria a prevalenza meridionale im­ portava codici estremamente diversi dalla prima ondata a prevalenza lombarda e veneta. Il tutto ad amplificare fenomeni di separatezza e intolleranza che dilatano i tempi di coesione collettiva. Se si uniscono poi tutti questi fattori con l’alto costo degli affitti, le disastrose condizioni dei servizi pubblici, nonché le precarie con­ dizioni igieniche, amplificate nel tempo dal deterioramento di mate­ riali costruttivi di seconda qualità, si ottengono però anche sufficien­ ti motivi di mobilitazione sociale. Si tratta ancora di fenomeni atte­ nuati da una scarsa coscienza collettiva e dalla mancanza di mezzi in­ terattivi di comunicazione sociale con il resto della città. Infatti, a 104

parte alcuni timidi tentativi, come quello della Associazione inquilini delle case popolari (Apicep), che invita gli inquilini a non pagare un mese d’affitto all’anno, il resto dei tentativi di riappropriazione del­ l’identità collettiva territoriale (manifestazioni folcloriche ecc.) non sono sufficienti a configurare veri e propri movimenti sociali. Per assistere a una vera e propria azione sociale dotata di una connotazione conflittuale, occorrerà attendere che gli strati più gio­ vani (ora adolescenti) assumano una solida coscienza politica e terri­ toriale attraverso l’adattamento del territorio alle proprie esigenze tramite forme di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, la creazio­ ne di poli di aggregazione ad uso del tempo libero e punti di riferi­ mento e comunicazione sociale, nonché la creazione di una memoria collettiva basata sull’innesco di forme di comunicazione collettiva mista e solidale. Questo avverrà solo a partire dalla fine degli anni Sessanta (sciopero generale per la casa) e occuperà la scena politica fino alla fine degli anni Settanta (termine del periodo delle grandi oc­ cupazioni) in cui non solo muteranno i rapporti di forza sotto la spin­ ta delle nuove sinistre, ma giungeranno anche a maturazione proces­ si di riappropriazione organica e collettiva del territorio, vissuto fi­ nalmente come luogo dei propri diritti. IL MUTAMENTO DELLE DINAMICHE DEMOGRAFICHE

Il quinquennio 1964-68 segna la definitiva inversione del saldo mi­ gratorio, dovuto principalmente all’esodo trans-metropolitano pro­ vocato dalla ricerca di spazi abitabili oltre la città ormai congestiona­ ta. Non a caso, una breve risalita del trend immigratorio si avrà solo nel momento in cui l’offerta di case avrà una momentanea impenna­ ta nella fase terminale della Gescal (1968-1972). Assestatosi il movi­ mento migratorio, è da segnalare in questi anni l’aumento del movi­ mento naturale della popolazione che, in valore assoluto, si aggira or­ mai sul milione e settecentomila unità in costante aumento. Per ve­ dere all’opera un effetto “emigratorio”, con conseguente calo dei re­ sidenti, occorrerà aspettare il 1976, in cui le partenze dalla città toc­ cheranno il picco storico di 46.862 unità, per un’incidenza negativa del saldo sulla popolazione residente del -1,02%.6 IL CONTESTO SOCIO-CULTURALE. LA SOCIETÀ MASSIFICATA

Se il periodo precedente è stato definito di “transizione-adattamen­ to” della percezione sottoculturale giovanile a fronte dei grandi scon­ volgimenti urbani, gli anni tra il 1964 e il 1968 sono a pieno diritto quelli della rivolta esistenziale in opposizione alle nuove forme di controllo politico e sociale imposte dal neocapitalismo. Il tessuto del­ 105

le relazioni umane e sociali dei quartieri a struttura misto artigianale e piccolo borghese nel centro cittadino viene definitivamente di­ strutto. Sono travolte o profondamente alterate le efficaci reti di luo­ ghi di aggregazione informale e di trasmissione di memoria genera­ zionale (bar, osterie, bocciofile, balere...). E di conseguenza vengono spazzate via in pochi anni anche le residue “culture” delle compagnie di strada. I ceti popolari sono definitivamente espulsi dal centro sto­ rico (per fare posto alla dilatazione delle attività terziarie di coman­ do) verso zone residenziali per i ceti impiegatizi e ghetti periferici per il proletariato. Ad accelerare le dinamiche di separatezza (già visibili peraltro nel periodo precedente, come nel caso dei whisky a go-go) si sostitui­ scono nuove reti commerciali di massa, come i supermarket o i cash & carry, ai negozi di quartiere mentre sul territorio diventano fisicamente evidenti la separazione tra le classi e gli squilibri di reddito e di benessere. Il capitale industriale pare insomma essersi assestato dopo il boom e aver trovato il suo modello di sviluppo. Gli assi portanti sono innanzitutto il “ciclo dell’automobile”, con la conseguente costruzione di strade e autostrade, ormai diventate ca­ tene di trasporto della forza lavoro, e la produzione di nuove auto. La Fiat 500, progettata appositamente per la famiglia media, vale 8 sti­ pendi operai ed è acquistabile a rate. Se nel 1957 circolavano in Italia 1.300.000 automobili, nel 1967 si arriverà a 8.000.000 di veicoli. Seguono poi la produzione di beni di consumo (soprattutto elet­ trodomestici, in particolare televisori); la dilatazione del credito alle aziende e, di riflesso, le vendite rateali ai lavoratori; l’ampliamento della base monetaria, che si traduceva alla fine per gli operai in un au­ mento dei ritmi e della produttività; una costante innovazione tecno­ logica che riduce l’operaio a semplice appendice del processo pro­ duttivo. Il circuito dei mass-media assicura al neocapitalismo un con­ senso generalizzato, promuovendo l’immagine della “società del be­ nessere” e reclutando nuovi adepti del consumo: nei fatti la pubbli­ cità televisiva, soprattutto il “Carosello” delle ore 20.30, diviene mat­ tatrice di questa operazione. La televisione però, oltre a innescare nuove forme di collettività, inchiodando decine di milioni di persone davanti al piccolo schermo, non solo nelle case, ma anche nei bar e nelle sale cinematografiche (che diffondevano i segnali dall’etere pri­ ma del film in programma), contribuisce a creare una “coscienza pla­ netaria dell’informazione e del costume” e nuovi modelli di riferi­ mento: si esaltano nell’immaginario la differenze tra nord e sud e tra centro e periferia. Il mezzo televisivo è però, soprattutto nell’immaginario giovanile un’arma a doppio taglio. Al contempo accelera la trasformazione dei costumi, ma riflette anche malesseri e preoccupazioni amplificandole 106

su un nuovo piano. In Italia le inchieste Viaggio nel Sud di Virgilio Sa­ bel e La donna che lavora di Salvi e Zatterin segnano la cultura della parte più intelligente degli ascoltatori. E se dall’Inghilterra arriva la minigonna di Mary Quant, la grande rivoluzione musicale dei Beatles e la moda dei capelli lunghi, giungono anche le immagini di migliaia di giovani guidati dal vecchio e ieratico filosofo Bertrand Russel che cir­ condano pacificamente le centrali atomiche in segno di dissenso. I media creano miti, ma ne riportano pure la fine: Kennedy viene ucciso dopo aver dato il via alla Guerra del Vietnam e aver favorito le mano­ vre contro la Rivoluzione cubana; Kruscev viene travolto dalle lotte interne alla nomenclatura sovietica, Papa Giovanni XXIII costruisce una visione molto più profonda e popolare del cattolicesimo. La generazione giovanile degli anni Sessanta, nata quindi nel­ l’immediato dopoguerra e distante dall’ideologia “della Ricostruzio­ ne”, ha per la prima volta la percezione di essere una entità partico­ lare, dotata di un superiore spirito critico nei confronti dello status quo esistente. Nelle letture giovanili ci sono Sartre e Camus, il vissu­ to quotidiano è visto come ricerca di sbocchi, culture e pratiche di vi­ ta comune. In questo senso, l’unificazione della scuola media (1963) operato dal governo delle “blande riforme” di centro-sinistra avrà un esito rilevante: favorire il contatto tra i figli della borghesia e quelli degli operai. I giovani in Italia cominciano a diventare una questione proble­ matica, appannaggio della sociologia (seppur con dieci anni di ritardo sugli Stati Uniti). Per la nuova generazione, infatti, la società delle merci e del benessere, che occulta squilibri e ingiustizie, non può che essere vissuta come intollerabile e falsa. È diffuso il bisogno di “gran­ di ideali” che suffraghino il senso dell’esistenza, unito al rifiuto di tut­ ti i modelli di vita che vengono proposti. Si vedrà in seguito come questo bisogno avrà modo di concretizzarsi a livello giovanile controculturale sia con la nascita di gruppi antagonisti di studenti marxistileninisti ma soprattutto con l’esplosione dell’esperienza Beat.

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7.

UN RAGAZZO CHE COME ME

UN MODELLO AMERICANO

Se, come affermava Valcarenghi, “tutti i movimenti che nascono per esigenze reali vanno alla ricerca, in un secondo tempo dei padri fon­ datori”,1 così i nuovi giovani antagonisti italiani degli anni Sessanta si preoccupano di fare proprie anche le produzioni dei padri del movi­ mento beat americano. Si scoprono così autori come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, che comin­ ciano a essere diffusi sia da chi aveva importato le loro opere dall’e­ stero, sia faticosamente nelle prime riviste autoprodotte, anch’esse stimolate dall’esigenza di un’informazione meno rigida e più affine ai problemi della nuova generazione. Le origini del beat risalgono all’immediato dopoguerra, agli esor­ di della Guerra fredda e sotto lo spettro atomico. La strategia della Guerra fredda e della contrapposizione tra opposti blocchi produce negli Stati Uniti la psicosi collettiva del nemico da stanare: i gover­ nanti e soprattutto i capi militari del Pentagono vedono comunisti in­ filtrati dappertutto e gli intellettuali di sinistra che negli anni Trenta avevano dato un fondamentale contributo alla realizzazione del New Deal rooseveltiano, creando una produzione cinematografica e lette­ raria a forte impegno civile e sociale, ora diventano tutti potenziali agenti del comunismo. L’istituzione tra il 9 febbraio del 1950 (data del primo discorso programmatico del senatore Joseph McCarthy) e la primavera del 1954 (culmine delle inchieste con i famosi interrogatori televisivi) di una commissione inquisitoria detta “Commissione McCarthy”, da­ vanti alla quale avrebbero dovuto presentarsi registi, scrittori ecc. so­ spetti di comunismo, provoca alla fine un’ondata di ripulsa. Ma è l’e­ poca della “caccia alle streghe”. La logica dell’inquisizione è dura: chi si rifiuta di comparire dinnanzi alla Commissione incorrerà in 108

una dura punizione. Tra le vittime vi sono D. Hammett, che viene ar­ restato, D. Trumbo e J.H. Lawson a cui verrà impedito di lavorare, Ch. Chaplin e B. Brecht che abbandonano poi gli Stati Uniti per pro­ testa. Molti altri artisti invece abiureranno il loro passato (Dos Pas­ sos, Steinbeck), alcuni denunciando oltretutto colleghi ed amici (tra questi Elia Kazan), contribuendo a legittimare una cultura politica del pentimento e dell’abiura che comparirà ancora nella storia delle democrazie occidentali. Le uniche voci di dissenso a questa pagina nera della storia ameri­ cana sono gli allora giovani e sconosciuti poeti underground che na­ scono proprio dal rifiuto degli stereotipi american way oflife, ba­ sata sul benessere, e codificata dalla burocrazia tecnocratica. Rinnega­ no i modelli di produzione letteraria che avevano segnato la generazio­ ne degli anni Trenta (Caldwell, Dos Passos, Steinbeck ecc.) per la loro ambigua pratica di collaborazione politica con il potere e affermano di battersi contro l’alienazione, la “meccanicizzazione delle anime”, l’au­ tomatismo politico, la spersonalizzazione tecnologica, il veleno del consumismo e la sclerosi intellettuale.2 All’interno della gioventù bor­ ghese e amorfa degli anni Cinquanta, la voce dei primi beat è l’unica a manifestare dissenso contro il neofascismo di derivazione maccartista, assieme a quelle di Arthur Miller e dei primi folk singer. I primi beat sono fondamentalmente poeti, e, secondo Fernanda Pivano, “viene dalla poesia la proposta di una via d’uscita al neoma­ terialismo consumistico dell’amministrazione Eisenhower: una pro­ posta radicata in esperienze decondizionanti di ispirazione orientale, e intrisa dell’antica ansia libertaria che ha sempre condizionato la ve­ na autoctona della letteratura americana”.3 Non a caso Allen Gins­ berg comincia a studiare Zen nel 1953, Gary Snyder nel 1956. Mi­ chael McClure pubblica nel 1959 Poesia di Peyote in onore del cac­ tus contenente il principio attivo psichedelico e nel 1959 si ha noti­ zia delle prime riviste underground fondate nelle università del Wisconsin e di Chicago: la satirica “Realist” di Paul Krassner e la pa­ cifista “Liberation”. I riferimenti letterari, come ovvio, non possono che provenire dalla produzione antagonista delle generazioni precedenti. Questi nuovi scrittori “vanno alla ricerca soprattutto dei “maudits” Henry Miller e William S. Burroughs (che si erano estraniati dal clima col­ laborativo del New Deal) e, ancora più a ritroso, del poeta Walt Whitman che aveva cantato la libera America degli individui e degli spazi alla fine dell’Ottocento: “Foglie d’erba è il canto di un grande individuo collettivo, popolare, uomo o donna”.4 In sostanza l’idea che alla teoria andasse anteposta l’esperienza, e all’ideologia l’azione, proveniva loro dalla tradizione pragmatista d’America e dal clima preparatorio alle imminenti rivoluzioni cubana e cinese.5 109

Anche lo stile di vita proposto dai beat fa riferimento a modelli antagonisti precedenti, cioè quello delle minoranze nere riunite in­ torno al jazz di Charlie “Bird” Parker. A livello planetario, e quindi anche in Italia, il movimento beat (assumiamo anche noi per como­ dità questa definizione data a posteriori dalla stampa, ricordando che però l’appellativo non era del tutto gradito dai diretti interessati) vie­ ne percepito inizialmente come modello letterario, per diventare so­ lo in seguito un vero e proprio modello di vita. Sono stati infatti i modelli letterari della seconda ondata a propor­ re un modello di vita sociale comunitario: Jack Kerouac (On theRoad e Underground) e William Burroughs nella prosa, Allen Ginsberg (Urlo) nella poesia, e gli artisti facenti riferimento alla City Lights Book, la casa editrice di Lawrence Ferlinghetti che ha stampato in proprio, e per primo, le opere dei poeti beat. In sintesi, si può dire che il beat sia stata la filosofia, e che il model­ lo comportamentale che ne è scaturito sarebbe stato poi definito degli stessi protagonisti, nella seconda metà degli anni ’50, “Beatnik” (con chiaro riferimento allo “Sputnik”: il primo satellite artificiale lanciato dai sovietici, che aveva lasciato costernati gli industriali, i politici ame­ ricani e il Pentagono). Diversi sono i canali che si innestano sulla pro­ posta Beatnik: il “movimento dei pacifisti” capitanato da A.J. Muste, gli Sncc o Snick, futura culla del Black Power, e l’associazione studen­ tesca democratica, la SDS (Students for Democratic Society) che dal 14 settembre 1964 al 4 gennaio 1965 si trova in prima linea a Berkeley, in California, nella prima rivolta studentesca universitaria di massa. Contemporaneamente nascono l’Off-off Broadway Theatre e il New American Cinema e, fondamentale, il Peace and Love Movement fon­ dato da Allen Ginsberg e Timothy Leary, il primo esperimento di fon­ dare una comunità basata sulla meditazione psichedelica con l’Lsd.6 Di riflesso, con l’arrivo dell’Lsd come modello di ispirazione lettera­ ria, cambiano anche le strutture-base dei modelli di aggregazione. Quest’ultima fase del beat americano è ancora ben descritta da Fer­ nanda Pivano: I beat solitari e introversi, coi loro vestiti laceri e dimessi, i loro joint di ma­ rijuana cospiratori, fumati in “pad” desolati, ma dotati di hi-fi sempre a pieno volume, sono sostituiti da giovani borghesi che ripudiano famiglie e università, riprendendo il tema beat della povertà volontaria e facendo il “drop-out” per andare a vivere in gruppi di “Figli dei Fiori”, La Scena del­ l’Amore... Il loro profeta è Timothy Leary, il loro mezzo espressivo è l’aci­ do lisergico (Lsd), il loro abbigliamento è uno sgargiante miscuglio di co­ stumi indiani e abiti dell’Ottocento, con molte collane portate da uomini e donne nel trionfo dell’unisex in ragazzi sempre bellissimi e sognanti, stre­ mati dalla fame, intenti solo a “vivere”, etichettati ottusamente dalla stru­ mentalizzazione brutale dei media come “hippy”, e presto vittima del cri­ minoso mercato della droga.7 110

Tra il 1967 e il 1968 il mondo guarda ad altro e del Flower Power e della rivoluzione della Summer of Love californiana dell’estate del 1967 non si parla più. È un momento storico cruciale: la nuova stali­ nizzazione dell’Unione sovietica, della Cecoslovacchia, la Rivoluzio­ ne culturale cinese, il Terzo mondo brulicante di colpi di stato, il Me­ dio Oriente e l’Africa devastati dalla guerra, l’America Latina con i suoi martiri politici, gli assassinii di Che Guevara, Robert Kennedy, Martin Luther King e la Guerra del Vietnam monopolizzano magne­ ticamente l’attenzione di tutti. Pare insomma che ci si sia dimenticati del beat. Ma nel maggio di Parigi, come più tardi a Milano o a Roma compaiono cartelli e scrit­ te sui muri contro la società del consumo e del potere8 proprio a fian­ co delle iscrizioni canoniche delle rivolta studentesca, quasi a voler testimoniare invece che il Beat non era mai morto e che anzi è anda­ to complessificandosi, crescendo interiormente e creando nuovi in­ trecci e alleanze nella realtà sociale. PROCESSI DI FORMAZIONE E LOCALIZZAZIONE DEL BEAT A MILANO

Non ci è stato possibile appurare con certezza come si sia formato il movimento beat milanese e italiano in generale a causa di una so­ stanziale vaghezza delle interpretazioni in merito. La nostra interpre­ tazione si basa sul fatto che all’interno del “villaggio globale” dei pri­ mi anni Sessanta avesse acquistato peso, presso le componenti giova­ nili più innovative, la coscienza che fosse arrivato il momento propi­ zio per sovvertire il rigido sistema delle comunicazioni sociali, allora platealmente retto da un piano di rapporti gerarchici e di forza, e i cui risultati venivano diffusi in ogni angolo della Terra dal media te­ levisivo: dalla caccia alle streghe di McCarthy, alla Guerra del Viet­ nam, dalla crisi sinosovietica alla rivolta di Berkeley. Nel caso italiano, il fenomeno della crisi familiare (avvertita prin­ cipalmente nel sottoproletariato) e delle fughe dei minorenni da ca­ sa si unì magicamente alle vulcaniche spinte dei movimenti antimili­ taristi e pacifisti americani e dei provocatori olandesi,9 imitandone in un certo senso motivazioni, finalità e stile. I tratti salienti del feno­ meno sono chiari: concentrazione nella metropoli, vista come il tem­ pio della società consumista,10 conseguente innesco di vistose e paci­ fiche forme di autorappresentazione per ottenere una maggiore riso­ nanza sull’opinione pubblica, uso di una visualità comune in antitesi a quella delle divise militari (jeans, capelli lunghi ecc.), debole di­ stinzione nel look tra i sessi, rifiuto del lavoro normato, fuga dalla fa­ miglia patriarcale, sostanziale cooperativismo nella gestione delle at­ tività collettive, costruzione di una solida rete controinformativa di base. Questi motivi di fondo restano quanto di più positivo il beat 111

Mondo Beat

“Si afferma attorno al 1965-66 e non è un fenomeno di esclusiva matrice milane­ se, si tratta, più che altro, di un affluire verso la città, la metropoli, di soggetti pro­ venienti dalla provincia e totalmente sfiduciati dal meccanismo politico-sociale italiano. Anche se vengono costruiti una serie di ‘quartieri artificiali’, se si co­ struiscono supermercati al posto dei negozi, se nascono quartieri dormitorio, la metropoli continua a esercitare un fascino straordinario, perché luogo del cam­ biamento, dove si produce ricchezza, dove arrivano gli immigrati in cerca di la­ voro, dove confluiscono giovani dell’hinterland e della provincia per ricevere una serie di sollecitazioni. Mondo Beat mutua sicuramente alcuni modelli americani, quello degli hippy che reagiscono a una società eccessivamente militarizzata, quello contro il maccarti­ smo e l’oscurantismo culturale americano. Si rifà a Ginsberg, Kerouac ecc., a un certo tipo di poesia e musica. Se in America non c’era più speranza nel progres­ so generale della società americana, qui non c’era più speranza nella gestione del­ la politica operaia, né in quella borghese, si perde fiducia nella trasmissione dei valori della Costituzione nata dalla Resistenza. Si tratta di una rivolta generazio­ nale che cerca di appropriarsi della città, che sceglie l’avventura dell’esistenza co­ me ricerca del sé, che abbandona la famiglia e rifiuta l’omologazione della società, sia il modello operaio sia quello dei consumi. Sulla scorta dello slogan ‘i beat stanno alle periferie ma conquistano il cuore, l’ani­ ma della città, il centro’, i beat milanesi che inizialmente si aggregavano nella peri­ feria, in due giorni si trasferiscono in Piazza Cordusio, occupano il mezzanino del­ la metropolitana e ci fanno la redazione di ‘Mondo Beat’, sono un centinaio, con la macchina da scrivere. La polizia li pesta frequentemente, loro sono pacifisti, strac­ ciano il passaporto e la carta d’identità in piazza Duomo perché sono cittadini del mondo. Ovviamente, quando devono mostrare i documenti non ce li hanno e ven­ gono portati in galera, ma il gesto è clamoroso. Tentano una vita comunitaria, por­ tano i capelli lunghi, le casacche, le collanine, un modo di vestire per riconoscersi tra eguali. Conciati in quel modo non si poteva essere assunti in nessun posto, con il corpo si mostrava dunque non solo la crisi della forma di rappresentanza, ma an­ che un impegno totale, radicale, soggettivo e irreversibile. I beat sono anche portatori di un bagaglio culturale complesso che mette in di­ scussione alla radice tutta l’organizzazione della società, il lavoro operaio e le ideologie, la cultura della famiglia e la sessualità, il rapporto uomo-donna, la guerra. Si collocano nel cuore della città nel tentativo di costituire una provoca­ zione e un punto di riferimento generale, simbolico, ma nello stesso tempo reale e vissuto direttamente esistenzialmente contro qualsiasi altra mediazione che pos­ sa essere esercitata anche da un movimento progressista o democratico.”

abbia espresso negli anni più forti della sua visibilità. Anche a Mila­ no, intorno al 1964, confluirono spontaneamente da tutta Italia cen­ tinaia di giovani attori sociali, attratti in città dal fatto di potere in qualche modo fare sentire la propria voce antagonista. Resta da dire il motivo per cui il movimento Beat non si formi al­ l’interno della metropoli, ma ne viene semplicemente attratto. Intorno a questo interrogativo le ipotesi abbondano: partendo dall’analisi dei dati raccolti sinora sull’evoluzione del tessuto sociale e urbano della 112

città, non è azzardato supporre che la formazione di un nuovo gruppo antagonista in città non fosse allora possibile. In questo senso, diversi fattori successivi ai processi di riorganizzazione urbana che abbiamo in precedenza descritto sorreggono questa ipotesi interpretativa: la violenta metropolizzazione, la “Racchetta”, il decadere dei poli di ri­ ferimento a uso del tempo libero, la spersonalizzazione delle reti so­ ciali e fisiche di confronto tra attori e, non ultima, la repressione a tap­ peto e il successivo azzeramento della memoria delle due precedenti aggregazioni creative: le bande di quartiere e i Teddy Boys. Il movimento beat non si forma quindi nelle città, ma vi accede con l’intento di far circolare con maggiore efficacia il proprio mes­ saggio. All’interno del tessuto urbano milanese i primi capelloni ini­ ziano a comparire timidamente intorno al 1964-65 ritrovandosi nella zona di piazzale Brescia, fino a divenire poi chiaramente visibili in­ torno al 1966. Nell’estate di quell’anno si dotano di un polo di ritro­ vo denominato dalla stampa la “Casa europea dei beat”: un apparta­ mento-ricovero preso in affitto da Umberto Tiboni (futuro fondato­ re del giornale “Mondo Beat”). Nell’autunno del 1966, il movimen­ to si sposta in Piazza Duomo, sotto il monumento a Vittorio Ema­ nuele II, occupa stabilmente dal settembre 1966 la stazione del Me­ tro 1 di Cordusio, e si riunisce intorno a due figure fondamentali: Gennaro Miranda e Vittorio di Russo. Contemporaneamente ha ini­ zio l’esperienza del primo giornale creativo mai uscito a Milano: “Mondo Beat”. Sede ufficiale, il sagrato di piazza Duomo. Nell’au­ tunno del 1967 i Beat affittano come sede operativa uno scantinato in via Vicenza, a Porta Vittoria, detto “la Cava”, che diventa allo stes­ so tempo il punto principale di riferimento del beat italiano e la nuo­ va sede di “Mondo Beat”. L’apertura di una tendopoli, definita dalla stampa “Barbonia City” o “Nuova Barbonia” nella primavera del 1967, nella zona di via Ripamonti, ovvia al problema del sovrannumero dei beat che, nel frattempo, contavano nella sola Milano circa 200 unità: numero che ovviamente la Cava non poteva ospitare. Dopo il violento sgombero della tendopoli (il primo della storia e di una lunga serie) il 12 giugno 1967, l’esperienza beat si concluderà con pochi sopravvissuti nella comunità degli abbaini di via S. Maurilio 10. STRUTTURA E OBIETTIVI DEL BEAT MILANESE

Fino al 1966, anno in cui i beat iniziano a dotarsi di precisi poli di ri­ ferimento (Casa europea dei beat, occupazione del metrò di Cordu­ sio ecc.) e a cui seguono necessariamente forme di gestione e leader­ ship più complesse, non esistono precise forme organizzative o strut­ turali che configurino esattamente il movimento. In sostanza, si può 113

dire che dal 1964, anno in cui la storia orale riporta l’apparizione dei primi beat a Milano, al 1965,11 si verifica semplicemente un afflusso continuo di nuovi attori sociali provenienti da ogni parte del mondo senza inneschi di gerarchie o altre complessificazioni. La composizione sociale di questi nuovi attori è mista: studenti ed ex studenti, ex operai, sbandati, pacifisti e soprattutto ragazzi scappati di casa, tra cui diversi minorenni. Dal ’66 in poi, pur man­ tenendo il movimento una solida struttura comunitaria, iniziano a farsi luce le prime figure carismatiche: Vittorio di Russo, Melchiorre Gerbino detto “Paolo” e Umberto Tiboni, più tardi redattori e fon­ datori di “Mondo Beat”.12 Il movimento beat milanese, se prima del 1966 era riconducibile a una sterile imitazione dei modelli stranieri, inizia a dotarsi in quel­ l’anno di una propria metodologia di azione. Il tutto viene catalizza­ to dalla frangia operativa del movimento, che assume lo stesso nome dei pari olandesi, i provos.13 Il 4 novembre 1966, infatti, i provos e i beat manifestano per la prima volta in piazza per una dimostrazione antimilitarista, occasione di cui Vittorio di Russo approfitterà per stracciare pubblicamente il passaporto e dichiararsi cittadino del mondo, collezionando così il primo di una lunga serie di fogli di via. Contemporaneamente a questi fatti, il secondo dei due gruppi ope­ rativi del movimento beat (i filo-situazionisti dell’“Onda Verde”) ini­ zia la sua attività il 10 novembre 1966 distribuendo un volantino in cui illustra, per la prima volta in Italia, le linee di programma di un gruppo giovanile creativo. I punti del volantino originale verranno poi accettati ampiamen­ te all’interno dell’intero movimento, complessificati, e legittimati dal­ la pubblicazione sul numero 1 del quindicinale “Mondo Beat”. Si tratta di: individuazione dei bisogni esistenziali, individuazione del­ l’avversario sociale, individuazione delle linee generali di program­ ma, proposte di intervento pratico sul tessuto metropolitano, defini­ zione dei gruppi affini ideologicamente.14 Data l’importanza di questo movimento e del suo programma culturale e sociale è opportuno riportare un brano tratto dal primo numero di “Mondo Beat” (marzo 1967). Onda Verde Provo. Metodologia provocatoria dell’Onda Verde Marco Daniele Perché Onda Verde? Il movimento della nuova generazione in Italia deve affrontare alcuni rischi che si combinano poi in uno solo: il riassorbimen­ to. Proviamo ad elencarne alcuni: 1) Elevata frammentazione in gruppi. Può significare scarsa capacità di concentrare le forze, frammentazione dell’operare, confusione e sovrappo­ sizione delle etichette, non comunicazione tra i gruppi. Ma è anche un da­ 114

to molto interessante che implica il rifiuto dell’organizzazione burocratica e dell’accentramento del potere, l’assenso alla responsabilità diretta, all’au­ togestione delle decisioni, un intervento puntuale e in situazione. 2) Strumentalizzazione da parte di forze politiche organizzate. Un’opera­ zione di questo tipo è particolarmente adatta al Pci, con relativa perdita da parte nostra dall’autonomia di movimenti e riduzione a pedina di manovra. 3) Strumentalizzazione da parte di gruppi culturali e di potere economico. Riassorbimento in cultura e in mercato. È il pericolo portato da una bor­ ghesia particolarmente esperta e attrezzata in simili operazioni. 4) Confusione nei programmi e scarsa consapevolezza dei metodi e dei ri­ sultati dell’operare sociale. Per affrontare questi rischi Onda Verde: si assume l’incarico di portare avanti un consapevolezza generale dei metodi e dei risultati. Una base comune di metodo per ogni tipo di operare. La vecchia generazione che detiene o sostiene o subisce il controllo sociale e la repressione, deve morire prima di noi! Operazioni programmate: 1) Manifestazioni di massa mediante disobbedienza civile e resistenza pas­ siva. 2) Metodi di provocazione ironica o sarcastica diretta a dimostrare la rea­ zione isterica o violenta. 3) Manifestazioni permanenti, manifestazioni spettacolo. Il centro cittadi­ no nelle ore di punta verrà percorso alla spicciolata da persone con scritte sugli abiti: “Correte a casa, tra poco c’è Carosello!” “Amico, la guerra è un buon affare, investi tuo figlio!” 4) Appello allo strato giovane all’interno della scuola con metodi nuovi quali l’avviso telefonico, il manifestino inchiesta, l’happening politico... 5) Il programma di sabotaggio mediante l’infiltrazione provocatoria delle associazioni giovanili scolastiche e confessionali che strumentalizzano i gio­ vani come massa di manovra, castrandone l’azione in proprio. 6) Proposta di “Piani Bianchi” (Pb) che affrontino questioni di fatto, es.: Pb per l’“età bianca” - nuova legislazione sui minori; Pb per i “camini bianchi” contro l’inquinamento; Pb per l’“uomo bianco” - diffusione degli anticoncezionali e libertà ses­ suale.

I metodi dei Beatnick e dei Provos non sono molto lontani fra loro e sono sempre complementari nella nostra situazione: - I Beat sono ragazzi che scappano di casa, i disadattati che si rifiutano di vivere come la società del benessere prescrive. E questo è necessario! - I Provos si preoccupano di tenere alta la temperatura sociale attraverso la provocazione impedendo al movimento dei giovani di diventare un vaso chiuso che la società possa facilmente isolare, ignorare e digerire. Pure que­ sto è necessario! - Pure l’Onda verde assume il metodo della provocazione ma “in situazio­ ne” ha due altri compiti: portare avanti il discorso sui metodi e sulla loro consapevolezza generale per evitare stupidi contrasti; coprire nelle scuole lo spazio lasciato libero da un Movimento Studentesco veramente incisivo e svincolato dai partiti.

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8.

CRISTALLI FRAGILI

FATTORI CONNOTATIVI DELL’AZIONE SOCIO-TERRITORIALE DEL MOVIMENTO BEAT A MILANO

Nonostante la novità rappresentata dall’apertura democristiana alle sinistre per dar vita al governo delle “blande riforme”, non muta so­ stanzialmente l’aspetto speculativo della politica territoriale: si com­ pletano infatti in questa fase sia i processi di re distribuzione del pro­ letariato e delle classi meno avvantaggiate verso la periferia, sia l’o­ pera di riorganizzazione dei residui microtessuti urbani, incentrati ancora su modelli di comunicazione prebellici. In questa ottica, la città si trasforma in un magnete sociale, fulcro di ogni attività pro­ duttiva, inadatta però a produrre da sé movimenti giovanili creativi. Persi quindi quelli che potremmo definire, mutuando la defini­ zione dalla psicologia sociale, i “gruppi di riferimento territoriale”, non solo non possiamo più considerare il tessuto urbano come ge­ neratore di movimenti creativi, ma forme di utopia regressiva. In­ fatti, i nuovi attori creativi degli anni Sessanta, i beat, non nascono all’interno del tessuto urbano, ma ne vengono attratti quale palco­ scenico della propria autorappresentazione; ricorrendo ancora vol­ ta al travestimento quale forma di autoriconoscimento e di trasgres­ sione, ispirandosi ai modelli della contestazione americana e nor­ deuropea tanto da subire, secondo alcuni sociologi (Rositi e Galli),1 addirittura l’influenza delle mode e dell’industria del consumo che stava per mercificare quegli stessi modelli visuali e simbolici della ri­ volta giovanile. Tuttavia, la cultura beat che si sviluppa a Milano tra il 1966 e il 1968 si distinguerà fortemente sia da quella dei creativi precedenti (Teds) per una maggiore coscienza delle questioni politiche e sociali, sia dai contemporanei modelli stranieri, producendo forme autocto­ ne di sincera rivolta, che non mancheranno di incrociarsi con quasi 116

tutte le più importanti realtà sociali in transizione: fabbrica, famiglia, scuola, arte, informazione e soprattutto politica. Conveniamo infatti con A. Rita Calabrò,2 nel momento in cui afferma che i giovani degli anni Sessanta, non avendo ancora conosciuto la mobilità sociale (bloccata dalla rigida selezione operata dal sistema scolastico ed eco­ nomico, che permetteva l’accesso alle carriere superiori solo a una élite sociale), diventavano più critici nei confronti del sogno ameri­ cano e più sensibili ai temi della lotta di classe. Se quindi per i Teddy Boys l’autoidentificazione nei miti di Ja­ mes Dean ed Elvis Presley era totalizzante, il maggiore senso criti­ co presente nel beat permetteva al movimento di oltrepassare l’o­ stacolo dell’idolatria per produrre forme conflittuali autonome ca­ late nella realtà. Non a caso, la componente situazionista del beat si collegherà direttamente al nascente movimento studentesco, dando vita a strumenti di contestazione che Giorgio Galli definirà “metapolitici”.3 Le tematiche avviate nella fase 1963-68 e amplificate dai media su scala mondiale (Guerra del Vietnam, antimilitarismo, dissidenza a si­ nistra, libertà sessuale, libertà religiosa, libertà di insegnamento e, in generale, di espressione) non mancano infatti di suggerire veri e pro­ pri modelli di pratica controculturale: manifestazioni antimilitariste, pacifiste, antinucleari, fughe intellettuali in Oriente, vagabondaggi ecc. Tutte queste azioni vengono immediatamente assimilate dall’ala più disinibita che si orienta decisamente su rivendicazioni di ordine sociale. Per esempio, se con l’aumento dell’eterogeneità sociale e cul­ turale si assiste a una complessificazione delle reti di trasporto infor­ mative e delle merci, anche le nuove sottoculture si dotano per con­ tro di strumenti informativi propri, in opposizione al monopolio del­ la cultura ufficiale, stabilendo contatti con il resto delle culture alter­ native del pianeta. Inizialmente, ci si limita soltanto alla redazione di ciclostilati in proprio o di piccoli giornali, ma queste forme di comu­ nicazione antagonista saranno destinate ben presto ad evolversi su scala sempre più vasta, fino a culminare, nella metà degli anni Set­ tanta, nell’apertura delle prime radio private. Se la crisi della famiglia mononucleare borghese e proletaria si concretizza nell’inquietante fenomeno delle fughe di casa, il beat ne diventa il vero sensore, dal momento che il movimento è composto perlopiù da ragazze e ragazzi fuggiti dal focolare domestico. Inoltre, il malcontento per le dinamiche familiari si riproietta nella società gra­ zie alla stessa filosofia degli attori antagonisti. Si tratta di vere e pro­ prie regole di vita che si incrociano, con il malcontento degli studenti delle medie superiori, nel momento in cui se ne presenta l’occasione: molti sono infatti i fronti d’accusa contro l’autoritarismo della “scuola dei padroni”. Per esempio con il caso “Zanzara” al Liceo Parini, in cui 117

i beat solidarizzano con gli studenti, distribuendo volantini sul tema della liberta sessuale. Ancora, molti soggetti sociali tra cui disoccupati, studenti e ope­ rai non mancano di incrociarsi con i modelli del “dolce far niente” sostenuti dal beat e quelli più eversivi del situazionismo. Queste for­ me di opposizione si catalizzano dopo il 1968 nella più grande occu­ pazione europea di un edificio nel cuore della città: l’ex Hotel Com­ mercio in piazza Fontana. Nel frattempo, la comunicazione nei nuovi quartieri-ghetto pe­ riferici risulta sempre più flebile a causa dell’assenza di coesione tra gli attori sociali, che soffrono di un aggregazionismo frammentato, aggravato tra l’altro da un alto tasso di pendolarismo che subordina gli intrecci sociali alla sola attività lavorativa. Tuttavia, a lungo anda­ re le molteplici e pesanti cause di malessere innescano forme di mo­ bilitazione a carattere rivendicativo, che culmineranno con lo scio­ pero generale per la casa nel 1969. Questi movimenti risultano però indifferenti alle realtà creative urbane che, pur avendo acquisito una maggiore coscienza dei problemi politico-sociali rispetto ai loro predecessori, tendono invece a occuparsi di altre tematiche a più ampio respiro. Contestualmente possiamo anche definire la territorialità dei sog­ getti legati al movimento. Innanzitutto, si può notare come, all’inter­ no di tutti i punti di presenza del beat, vi sia una forte distanza tra il sito delle sedi sociali (“Casa europea dei beat”, Cava di via Vicenza e tendopoli di via Ripamonti), tutte poste al di fuori della circonvalla­ zione dei Bastioni e tutte regolarmente affittate, e le sedi operative (“redazione del giornale “Mondo Beat”, centro di raccolta nel metrò di piazza Cordusio, Brera) che invece sono collocate nel centro della città. Anche in questo caso quindi, la dinamica territoriale del beat non si discosta di molto da quella dei precedenti Teddy Boys, che percepivano il centro come il punto di massimo transito delle merci e delle informazioni, ossia quindi il miglior punto di partenza per un’azione che doveva risuonare in modo forte a livello di pubblica opinione. In questo caso l’importanza del territorio non sta tanto nel “ge­ nerare” o catalizzare un movimento, quanto nell’“accoglierlo” e nel farne circolare le pulsioni. In questo senso, la percezione creativa ur­ bana degli attori creativi degli anni Sessanta, li porta a scegliere co­ me fulcro territoriale di rappresentazione antagonista proprio i feudi della memoria storica, in cui è massima la concentrazione delle reti informative e delle merci e in cui sono più evidenti gli elementi for­ mali connotativi della società di massa, e dove è più presente una complessità sociale (pur se ramificata e separata).

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La corsa al centro

“Mondo Beat è l’ultimo grande tentativo di appropriarsi del centro della città da parte di movimenti non istituzionalizzati e provenienti dalla ‘periferia’. Successi­ vamente il Partito comunista aprirà la Casa della Cultura, in via Borgogna, non certo vicino alla Breda. Il Partito socialista si colloca al Ticinese. Il prestigio cul­ turale tende dunque a rappresentarsi verso il cuore e l’anima della città. Certo, in periferia ci sono le sezioni di partito, ma nei ‘luoghi di rappresentanza’ i soggetti sociali sono esclusi.”

L’EVOLUZIONE DELL’USO CREATIVO DEL TERRITORIO MILANESE

L’azione territoriale sul tessuto urbano milanese del movimento beat, provo e Onda Verde, può essere individuata in due aspetti fonda­ mentali. Il primo consiste di azioni capillari di diffusione della pro­ pria cultura, attraverso le pratiche della protesta e della provocazio­ ne non violenta. Il secondo, nella ricerca di sedi stabili di ritrovo col­ lettivo. La fusione di queste due forme di rappresentazione darà vita a un sofferto incrocio sia con i cittadini, che per la prima volta ven­ gono a contatto con i programmi di una controcultura creativa, sia con la popolazione studentesca. Quest’ultimo legame verrà catalizza­ to da forme di solidarietà (caso della “Zanzara”), e in seguito in ma­ niera più concreta sino ad arrivare all’occupazione dell’ex Hotel Commercio. MANIFESTAZIONI E AUTORAPPRESENTAZIONI

L’azione territoriale dei Beatnick sui pericoli della massificazione non si limita alle sole azioni spettacolari, ma porta in piazza un vero e pro­ prio modo di vita coordinato e compatto fatto di autogestione, infor­ mazione, produzione di artigianato, musica, poesia, pittura, teatro. Il tutto in modo capillare, incisivo, organizzato, non violento, provoca­ torio e ravvicinato nel tempo. Oltre che autorappresentare la propria identità di minoranza an­ tagonista non violenta, le manifestazioni hanno come fine di avvicina­ re la massa studentesca e di sensibilizzare la popolazione sui problemi politici e sociali a livello globale: il disarmo universale, lo scioglimento delle caste militari, gli schemi strutturali che basano la loro esistenza sul principio dell’autorità.4 Gli slogan sono tutti sull’incomunicabi­ lità, il militarismo e il potere. Non era infatti raro vedere i provos, se­ duti in corso Vittorio Emanuele, con impermeabili trasparenti, sui quali comparivano, a vernice, scritte del tipo: “Correte a casa c’è Ca­ rosello”, “Sorpresa Americana, dentro l’uovo di Pasqua un piccolo napalmizzato”, oppure “Io porto la zazzera contro l’attuale conformi­ 119

smo che opprime la società”. Formidabile fu la manifestazione del 6 maggio 1967, durante la quale ondaverdini e provos trascinarono per tutto il centro cittadino delle bare bianche in cartone e delle lunghe catene, in segno di protesta contro la Guerra del Vietnam.5 L’INCONTRO CON GLI STUDENTI: IL CASO DELLA “ZANZARA”

Il primo caso di incontro delle sottoculture con gli studenti avviene in occasione del caso della “Zanzara”, il giornale dell’elitario liceo Parini di via Goito a Milano. È questo l’episodio che avvicina studenti e beat, i quali fino ad allora non avevano mai avuto alcuna forma di alleanza politica e sociale su scala metropolitana.6 Nel febbraio del 1966 il giornale del liceo Parini pubblica un’in­ chiesta intitolata “Che cosa pensano le ragazze d’oggi” su temi quali l’insegnamento della religione, l’educazione sessuale, i rapporti pre­ matrimoniali e il rapporto amore-religione. Le loro risposte sono si­ gnificative del cambiamento di mentalità che era avvenuto tra i giova­ ni: “Se mi offrissero una vita solo dedita al matrimonio, alla casa e ai fi­ gli, piuttosto di vivere così mi ammazzerei”, oppure “La religione in campo sessuale è apportatrice di complessi di colpa, quando esiste l’a­ more non possono e non ci devono essere freni religiosi”. Ma la “gra­ vità dell’offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune” (da un volantino di GS) provoca la violenta reazione del gruppo Gioventù Studentesca diretto da don Giussani (futuro fondatore di Comunione e Liberazione) e causa l’arresto dei tre redattori dell’articolo. Il passaggio da un episodio di intolleranza provinciale a caso na­ zionale, con il coinvolgimento del Parlamento e della presidenza della Repubblica, avviene a seguito del rifiuto di uno dei tre autori dell’arti­ colo, Claudia Beltramo Ceppi (gli altri sono Marco Poli e Marco Sas­ sano) di sottoporsi dopo l’arresto a un’umiliante visita medica resa ob­ bligatoria da una circolare fascista del 1933 e rispolverata per l’occa­ sione dall’inquirente dott. Carcasio. Dopo aver provocato un putiferio a livello nazionale, il caso finisce giuridicamente nel nulla, con l’asso­ luzione a formula piena dei tre imputati e la sconfitta in Parlamento della Dc e del Msi, gli unici partiti schierati contro gli studenti. La sollecitazione a schierarsi sul problema delle libertà democra­ tiche provocate dal caso della “Zanzara” causa a livello metropolita­ no la formazione di un fronte compatto a favore dei tre arrestati, in­ nescando quella che sarà la prima forma di alleanza simbolica tra controcultura e studenti, i cui effetti saranno destinati a esplodere poco tempo più tardi nel 1968. I beat distribuiscono volantini ironici di solidarietà con gli stu­ denti davanti al liceo e gruppi di pacifisti legati al Partito radicale più alcuni militanti del Centro antimperialista milanese e della Lega 120

marxista leninista fanno altrettanto, ponendo l’accento sull’antimili­ tarismo e avvicinandosi per certe posizioni alla stessa filosofia Beat. Verranno tutti arrestati, processati e assolti con formula piena. Con l’arresto di questi militanti diventa così visibile al grande pubblico l’esistenza di una dissidenza a sinistra del Pci. LE COMUNI METROPOLITANE: DALLA “CASA EUROPEA DEI BEAT”

all’occupazione dell’ex HOTEL COMMERCIO

I primi punti di aggregazione riconosciuti dei beat milanesi sono due: un negozio con scantinato, affittato dai redattori di “Mondo Beat” in viale Montenero intorno al novembre 1966 dopo una brevissima per­ manenza in piazzale Brescia, e un appartamento preso in affitto dal so­ lo Tiboni a Cinisello Balsamo, detto anche la “Casa europea dei Beat”. Di queste due prime roccaforti beat, Ferradini ricorda: “In viale Mon­ tenero i beat possono radunarsi per parlare e dormire. Un negozio più scantinato. In poche settimane la voce si sparge come un tam tam e so­ no centinaia le persone che vengono a vedere”.7 “Casa europea dei beat” era invece il nome dato dai giornali a un appartamento preso in affitto nel 1966 da Umberto Tiboni a Cinisello, vicino a Milano, che fungeva da dormitorio e ricovero per Beatnick.8 I “capelloni” arrivano a Milano in massa a partire dal 1966 dalle province italiane più lontane o dall’estero, specie dal nord Europa e in particolare da Amsterdam, dove era già nato il movimento provo. Cito per tutti l’esempio del leader carismatico Vittorio di Russo, sici­ liano, trasferitosi in Svezia e tornato in Italia per fondare “Mondo Beat” con Gerbino e Tiboni. La loro forma di sostentamento è prin­ cipalmente basata sulla vendita di artigianato autoprodotto: collani­ ne, amuleti e sul commercio di tessuti importati dall’Oriente (sarà per questo che molti beat non potranno sopportare che Feltrinelli smerci gadget e iconografie beat prodotti su scala industriale).9 La prima sede stabile “organizzativa” del movimento è la “cava” di via Vicenza e un bar nelle immediate vicinanze che chiuderà non molto dopo. Il quartiere di rappresentazione della propria identità è invece Brera, nei cui locali i beat improvvisano reading, happening e piccoli spettacoli musicali, e dove vi è anche una sede minore: la lat­ teria tabaccheria di via Solferino. LO SPOSTAMENTO NEL CENTRO CITTÀ E IL PROGETTO “BARBONIA CITY”

Con il continuo complessificarsi del fenomeno e l’aumento della po­ polazione beat in città (circa 7000 in Italia), sotto la spinta di Vitto­ rio Di Russo e di Gennaro Miranda, un “generoso napoletano che 121

predicava la sua versione del buddhismo dal basamento del monu­ mento a Vittorio Emanuele II in piazza Duomo”,10 il movimento at­ tua una duplice strategia: innanzitutto sposta il centro di ritrovo da piazzale Brescia e da piazza Duomo alla stazione del metrò di piazza Cordusio, (operazione che produce l’incrocio dei beat con la com­ plessità del centro cittadino e soprattutto con le problematiche del­ l’enorme massa degli studenti della vicina Statale), in secondo luogo si dota di un punto stabile di riferimento metropolitano dove si pos­ sa, oltre che produrre controinformazione, anche abitare, vivere, dormire, insomma una vera e propria comune metropolitana. L’operazione senza precedenti a Milano viene portata a termine ver­ so la fine dell’aprile 1967 con l’allestimento di una tendopoli ai bordi della città in via Ripamonti, altezza Molino della Valle-Roggia Vettab­ bia, subito battezzata dalla stampa “Barbonia” o “Barbonia City”.

La tendopoli di via Ripamonti “La tendopoli di Via Ripamonti è la presenza palpabile di un dissen­ so radicale che la società italiana non riusciva a contenere nei limiti geografici della politica spettacolare. Nonostante l’ala moderata del­ la borghesia italiana canti le odi di costume di questi ragazzi (Camil­ la Cederna su l’‛Espresso’, Giorgio Bocca su ‛Il Giorno’), la nascita di Barbonia City come zona liberata nel cuore di Milano, è conside­ rata alla stregua di un vero e proprio atto di guerra. La repressione a mezzo stampa confortata dall’incalzante teppismo provocatorio del­ le destre, orchestrata dal "Corriere della Sera’ (che scrive tra l’altro: "questo è il più pericoloso focolaio d’infezione biologica e morale della città’), cresce d’intensità fino a chiedere la liquidazione di que­ sti ragazzi, la cui unica colpa è quella di aver chiesto di poter gestire la propria vita”.11 Il pretesto per lo sgombero del terreno e l’intervento della poli­ zia (che giorni prima aveva diffuso la falsa notizia di avere arrestato un noto stupratore di minorenni all’interno della tendopoli) si pre­ senta quando la signora Emma Giovannini, madre di un ragazzo scappato di casa, trova come unica soluzione al rifiuto del figlio di tornare al carcere minorile di avvertire le forze dell’ordine. Di fron­ te alle violenze che il ragazzo subisce da parte degli agenti per esse­ re caricato sul cellulare, alcuni amici presenti cominciarono a prote­ stare contro la polizia per i suoi metodi brutali, mentre altri si sdraiavano davanti alle ruote della vettura per impedirne la parten­ za. Accorrevano così 21 “pantere” gremite di poliziotti. Tutti i ra­ gazzi venivano così prelevati e portati in questura. Tutti quelli che ad arbitrario giudizio della polizia furono ritenuti i responsabili del gruppo finirono a S. Vittore (17 persone), per gli altri una pioggia di fogli di via e di diffide.12 122

“Barbonia City” “Nella fase finale del movimento, i Beat milanesi creano un grande accampa­ mento in fondo a via Ripamonti, ai bordi del grande quartiere operaio Vigentina, che loro immaginavano per natura tollerante. Affittano (sono dunque nella lega­ lità) un grande prato sulle rive del torrente Vettabbia e vi insediano una tendo­ poli per praticare vita comunitaria. La provocazione e l’affronto di una situazio­ ne simile sono tali che il ‘Corriere della Sera’ avvia una campagna che definisce il luogo ‘Barbonia City’, denuncia la vicenda come sacrilega, parlando di libero amore. Gli occupanti vengono poi sgombrati con la forza dalla polizia e l’accam­ pamento viene distrutto. Siamo nel 1967 e questo è, sostanzialmente, l’ultimo grande episodio in cui si afferma a Milano la crisi delle forme di rappresentanza e la rivolta giovanile di carattere esistenziale. Prima di questo episodio che ne se­ gna la fine, ‘Mondo Beat’ era entrato in relazione anche con la ‘Zanzara’ del Pa­ rini, con quelli del Carducci e del Leonardo.”

La decisione definitiva sul destino della tendopoli non tardò ad arrivare, semplice e drastica: distruzione della tendopoli per motivi igienico-ecologici. Il 12 giugno 1967 (alle 5,30 del mattino) un plo­ tone di polizia, armi alla mano, assistito dalle unità di disinfestazione del Comune di Milano, muove all’attacco sorprendendo nel sonno circa cinquantaquattro ragazzi infreddoliti, facendoli sgombrare e dando alle fiamme tutte le tende e gli oggetti, anche quelli di coloro che non erano presenti. Nei giorni successivi, seguirono altre retate per prelevare coloro che erano tornati al campo a riaffermare il diritto di restare in una proprietà da loro regolarmente affittata. Due giorni dopo lo sgom­ bero si conteranno tra i beat 79 arrestati e un totale di 200 fogli di via emessi. Questi giorni rimarranno nella memoria dei gruppi beat di Milano come “la settimana del terrore”.13 “Così, conclude Simonet­ ti, il primo tentativo di comune urbana muore vittima di uno scontro a cui per motivi storici e culturali non ha saputo militarmente ade­ guarsi, pagando il lusso che ci si era presa di non considerarsi una roccaforte d’assalto del paesaggio urbano, ma una dolce, un po’ sto­ nata isola giovanile.”14 DALLA CITTÀ ALLA CAMPAGNA, DAGLI ABBAINI AGLI ALBERGHI

La delusione per la cacciata da via Ripamonti, la rabbia per la conti­ nua repressione poliziesca a colpi di fogli di via, la fine di “Onda Ver­ de” il 18 luglio 1967, spinge il movimento a operare ancora una vol­ ta in due direzioni ma questa volta opposte. La prima scelta, fortemente antiurbana, spinge centinaia di beat ad allontanarsi dalla città per trasferirsi in comuni periferiche: anche in questo caso, non senza incontrare problemi con le autorità. (Citia­ 123

mo tra tutte, la Comune di Ovada nel Monferrato che, aperta nel­ l’inverno del 1970, subisce un primo tentativo di sgombero il 7 set­ tembre del 1971). La seconda, a carattere più urbano, riallaccia i po­ chi Beat rimasti a Milano (che nel frattempo si erano trasferiti negli abbaini di via San Maurilio 10) con le lotte del movimento degli stu­ denti, tentando un’ultima mossa di autorappresentazione: l’occupa­ zione dell’ex Hotel Commercio in Piazza Fontana, già da tempo in disuso, che diventò in breve tempo, secondo il Simonetti: “la più grande occupazione di edificio non solo italiana, ma anche europea, sia per la sua posizione nella topologia cittadina, che per il tempo di occupazione”.15 Lo spazio viene effettivamente occupato il 28 no­ vembre 1968 dopo una manifestazione per le strade del centro urba­ no, da studenti di Città Studi, delle facoltà umanistiche, della Catto­ lica e migliaia di studenti medi. Sulle motivazioni dell’occupazione venne diffuso un volantino nel quale si esprimeva con precisione e chiarezza la grave situazione di disagio degli studenti lavoratori e la denuncia del fatto che in quei giorni, oltre 300 di loro erano stati respinti dalla Casa dello Studente di viale Romagna. In quel volantino era scritto tra l’altro: “A Milano ci sono 2300 posti letto per più di 20.000 studenti fuori-sede. Più di 1800 hanno rette superiori alle 60.000 lire al mese e arrivano fino a 110.000 lire. Dei 2300 posti letto solo 900 sono statali. Chiediamo una nuova casa e una nuova mensa, ma ora sono finiti i tempi in cui le masse accettavano passivamente le condizioni di vita che altri impo­ nevano loro! Oggi è giusto ribellarsi e tutto può essere criticato. La lotta dei nostri 300 compagni è la lotta di tutti gli studenti”. Un’analisi più “territoriale” sul senso dell’occupazione viene svolta da Giuseppe Natale (più avanti sindacalista nella scuola) sui “Quaderni Piacentini”, esprimendo proprio quelle contraddizioni nel funzionamento della città capitalista, che sarebbero poi stati i principali catalizzatori del gesto di sfida del movimento. Di quell’ar­ ticolo riportiamo il seguente ampio stralcio. L’occupazione dell’Hotel Commercio a Milano

Giuseppe Natale Il Piano regolatore prevede di razionalizzare il centro della città in quello che è già: centro di direzione politica, amministrativa e culturale: il cervel­ lo della città capitalista. Il Piano è la razionalizzazione classista della città. È la stessa logica della fabbrica: la città divisa come in reparti. Bidonville, mostruose abitazioni popolari, abitazioni rispettabili, quelle di lusso: tanti distinti vestiti per i paria, per la classe lavoratrice sfruttata, il ceto medio, l’alta borghesia: il tutto urbanisticamente ben distribuito, il tutto deve ruo­ tare intorno al centro che deve essere stanza dei bottoni e paradiso bor­ ghese. Tutto questo noi lo scopriamo dal 28 novembre 1968. Eravamo in viale Romagna, a Città Studi, il nostro reparto della Milano-Fabbrica, ma 124

non conoscevamo, almeno molti di noi, altri reparti, o perlomeno il repar­ to centrale: il cervello e il cuore di questo organismo mostruoso. La politi­ ca di emarginazione delle Case dello Studente, il dividere gli studenti delle facoltà scientifiche da quelli delle facoltà umanistiche ecc., tutto questo era già stato verificato durante le lotte del 1967 alla Casa dello Studente di via­ le Romagna, ma si rimaneva nei limiti del corporativismo, della rivendica­ zione sindacale, senza sbocco politico. Quest’anno invece ci si proiettava all’esterno, si mettevano le mani sulla città.16

Se quindi nel 1967 si era di fronte a due tipi di impostazioni diver­ se: quella politica legalista del “chiedere” e quella subculturale della provocazione non violenta, a partire dall’episodio dell’Hotel Com­ mercio si sviluppa la linea del “prendere” piuttosto che “chiedere ciò che spetta di diritto”. Condividiamo quindi l’ipotesi di Natale, secon­ do la quale è proprio in quell’anno che emerge la linea del “ribellarsi è giusto e che tutto può e deve essere criticato”, che sarà anche il fulcro dei movimenti creativi successivi al beat. Già nel senso generale del­ l’occupazione si intravedono nuove linee di progetto e analisi che non hanno più nulla a che vedere con l’utopia della non violenza. Sta vol­ gendo al termine l’epoca dei grandi ideali, e il panorama delle aggrega­ zioni controculturali va sempre più affinandosi nell’analisi e nell’iden­ tificazione del nemico da abbattere (l’occupazione dell’ex Commercio viene tra l’altro definita come “un pugnale nel cuore della città capita­ lista”) lasciandosi alle spalle l’utopia non violenta del Beat, e comples­ sificandosi in una critica nuova, radicale e innovativa. Anche la commistione politica degli occupanti, l’interesse che su­ scita l’occupazione sulla Facoltà di Architettura, che fin dal 1967 cer­ ca al di fuori dell’università di collegarsi ai problemi del territorio, sono già di per se stessi sintomo di nuove complessità nascenti. Alla componente proletaria del Movimento studentesco si uniscono, al­ l’interno del Commercio occupato, molti giovani lavoratori immigra­ ti ed esponenti dell’area della controcultura che manterranno il con­ tatto con la nascente Unione inquilini e con gli sfrattati del quartiere Isola-Garibaldi. Gli ambienti interni vengono resi vivibili con il contributo di cooperative comuniste, dell’Unione donne italiane (Udi) e degli or­ ganismi di base dell’Atm (Cub Atm). Ci si sforza di mantenere i con­ tatti con le lotte esterne, intervenendo nel ghetto-dormitorio di Ci­ nisello Balsamo, complessificando i contenuti delle lotte alla Casa dello Studente di viale Romagna e collegandosi con i Cub (Comita­ ti unitari di base) all’interno delle fabbriche. Frattanto, alcune coo­ perative comuniste, alcune commissioni interne dei tranvieri e altre organizzazioni sindacali prendono posizione in favore dell’occupa­ zione del Commercio e offrono contributi e aiuti per rendere l’al­ bergo abitabile. 125

La stampa borghese, anche quella meno progressista, si limita a constatare l’esistenza di alcuni universitari “disagiati”, mentre il sin­ daco “socialista” promette agli studenti di venire loro incontro per le più impellenti necessità e il 13 dicembre 1968 invia, mediante l’Uffi­ cio d’igiene, materiale disinfettante con la raccomandazione di “non berlo” perché velenoso. I mesi di dicembre e di gennaio sono caratterizzati soprattutto dal­ la necessità di approfondire il significato politico dell’occupazione e dal tentativo di generalizzarlo. Vengono presi numerosi contatti e allo stesso tempo si cerca di adeguare le modalità pratiche di un’ospitalità, che andava sempre più allargandosi a frange proletarie emarginate della città. La storia di questa “Casa dello studente e del lavoratore”, “pugnale nel cuore della città capitalista” degenera tuttavia sul volgere di questi mesi, pagando da una parte lo scotto a una violenza psicolo­ gica che la stampa non aveva mai cessato di esercitare e dall’altra ca­ dendo vittima della miseria delle lotte intestine fra i vari gruppi politi­ ci, che non sanno reggere all’urto della pratica della teoria rivoluziona­ ria. Alla primitiva esplosione creativa non segue una corretta strategia, fino all’affermazione di una burocrazia e di un dirigismo che portano al soffocamento dello slancio espansivo che animava questa grande occupazione. Primo Moroni sintetizza così questo concetto: Le contraddizioni interne all’occupazione vengono determinate dalla ten­ denziale ideologizzazione e dal contrasto tra linee politiche di settori del Movimento studentesco. In particolare dall’impossibilità (che si sarebbe continuamente ripetuta negli anni successivi) di conciliare il bisogno di or­ ganizzazione con la ricchezza e la spontaneità della composizione sociale interna ai movimenti. La pratica dell’avanguardia esterna alle masse, soste­ nuta in questo caso dal Pcd’I (m-1), non poteva che scontrarsi con la ten­ denziale pratica politica della base maggioritaria che si ispirava piuttosto al­ le tesi de “Il Potere Operaio” di Pisa, che sosteneva le tesi dell’avanguar­ dia interna alle masse e quindi una critica della forma-partito verticale. L’e­ sistenza di un centro di agitazione sovversiva nel cuore delle città era chia­ ramente inconciliabile in una fase in cui praticamente ogni giorno il centro era attraversato da cortei di studenti e operai in continua agitazione. Al di fuori di queste querelle ideologiche, che rimarranno drammaticamente ir­ risolte, lo scontro interno delle occupazioni non poteva che indebolire la gestione di massa delle stesse.17

Nel luglio dello stesso anno, inaugurando una pratica che diverrà costante negli anni a seguire (in piena estate, con le università chiuse e gli studenti assenti), centinaia di agenti e carabinieri assediano e rioccupano la casa per consegnarla direttamente alle squadre di de­ molizione del Comune di Milano. La fine di questa occupazione se­ gnerà anche la fine dell’era del beat e l’inizio della stagione dei grup­ pi extraparlamentari. Ancora, secondo Moroni: “L’occupazione del Commercio resta probabilmente il risultato di dieci anni di rivolta 126

esistenziale e di ricerca di identità e soggettività di carattere generale metropolitano, nel momento in cui sono andati distrutti i modelli di aggregazione informale dei quartieri del centro”.18 Finita l’occupazione, restano sul tappeto i problemi irrisolti, le analisi nel frattempo fatte e una forza di agitazione che avrebbero portato lo scontro con le istituzioni a ben altro livello durante “l’au­ tunno caldo” del 1969. Fino alla seconda metà degli anni Settanta, non si potrà più parlare di aggregazioni giovanili spettacolari come prodotto esclusivo di mutazioni sociali o territoriali. Nel periodo tra il 1969 e il 1976 “il personale è politico”: le bande anni Cinquanta, i Teddy Boys, e i primi capelloni sono già lontani: è arrivato il mo­ mento dei “collettivi” e dei “movimenti”. LE NUOVE RETI DI SOCIALIZZAZIONE E GLI INCROCI SOCIALI

La rinnovata imprenditorialità mercantile dei primi anni Sessanta, abbandonata definitivamente la dimensione “localistica” dei primi ri­ trovi del dopoguerra, tende fortemente in questa fase a riappropriar­ si e a riproporre, adeguandolo ai tempi, il mito degli anni Cinquanta in tutte le sue forme rappresentative. In questo contesto un po’ retro, si crea l’illusione di ricreare i “mix innovativi” di classi sociali nella reinvenzione delle osterie e delle cave, nonché nelle atmosfere go­ liardiche dei cabaret, e nella riproposta in chiave edulcorata delle vecchie canzoni della “mala” milanese (Strehler e Vanoni). L’operazione resta, per così dire, a suo modo sovrastrutturale, e non viene accettata da tutti: i primi a rifiutarla sono in particolar mo­ do i beat. Infatti, i giovani antagonisti nati o cresciuti a Milano, stan­ chi della ripetitività degli ideali mai realizzatisi della Resistenza o del­ la Ricostruzione, poco propensi ai recuperi culturali, alla società dei consumi e alla cultura di massa, operano una personale rielaborazio­ ne del presente. E creano essi stessi una cultura a sé, prendendo a modello i canoni liberatori del primo beat americano e reinterpre­ tandolo in chiave italica (Corvi, Ricky Maiocchi, I Ribelli, Jonathan ecc.) e frequentando quei locali che danno visibilità a queste forme di comunicazione: le discoteche con musica dal vivo, battezzate allo­ ra dalla stampa i “locali ye ye”. I GRANDI LOCALI SUL MODELLO AMERICANO

Parallelamente al recupero dei modelli “classici” dei locali milanesi (alcuni nati da influenze mitteleuropee), aprono in centro i primi lo­ cali dichiaratamente di stampo americano: sono gli antesignani degli odierni fast-food, impersonali e con un altissimo turn-over. Ospitano dalle 700 alle 1000 persone e offrono, oltre ai nuovi modelli alimen­ 127

tari d’importazione (tramezzini a più piani, milk-shakes ecc.), anche la semplice pizza e il pasto completo.19 LE DISCOTECHE CON MUSICA DAL VIVO

Nei nuovi locali con musica dal vivo, corrispettivi del Piper di Roma, paiono risolversi i nuovi bisogni delle frange giovanili più innovative della metà degli anni Sessanta: una cultura esclusiva opposta a quel­ la di massa, il riconoscersi comunemente in un ideale, l’autorappre­ sentazione usando il linguaggio del corpo come strumento di comu­ nicazione sociale senza obblighi di coppia, e soprattutto la conferma di essere rappresentati da una corrente musicale ad alto impegno so­ ciale (il beat), i cui rappresentanti principali si esibiscono periodica­ mente nel locale.20 Guardando all’uso sociale delle reti di aggregazione pubblica si hanno i primi segnali di comunanza tra le frange creative più radicali e il resto della popolazione giovanile che non faceva parte del movimen­ to beat. Per esempio, per quanto concerne le discoteche “live”, anche se la musica era di stampo diverso (quella dei locali è spesso mutuata da esigenze commerciali, come I Giganti, Ricky Shaine, Caselli ecc., men­ tre quella prediletta dei beat era più “pura”: Jonathan, Corvi, Noma­ di...) , i motivi di fondo per cui la si ascoltava erano grosso modo gli stes­ si: rifiuto della società dei consumi, liberazione del corpo, rottura della rigidità dello schema di coppia ecc. Per cui, si può dire che la fascia gio­ vanile antagonista che elegge, per affinità elettive, le grandi discoteche innovative con musica dal vivo come luogo di autorappresentazione e comunicazione sia piuttosto ampia, e abbia in comune il rifiuto per la rielaborazione conservatrice dei locali classici e per i nuovi impersonali modelli americani di ristorazione e di svago. Per inciso, diciamo che la presenza dei beat non è mai stata significativa all’interno di questi “lo­ cali ye ye”, vedendoli un po’ come l’edulcorazione borghese dei loro stereotipi. In compenso non era raro vederli quando si esibivano can­ tanti o complessi “accettati” all’interno del movimento. Mai come in questo periodo, musica, ritmo, movimento, segno del corpo e impegno sociale saranno così in simbiosi. La nuova mu­ sica sembra voler superare le barriere del banale e rifiutare di inca­ nalarsi col tempo nei binari del mito (in cui erano finiti i ribelli ame­ ricani Elvis Presley e James Dean), per calarsi invece tra i giovani: per scendere nelle piazze e dare voce e ritmo all’incedere dei cortei, co­ niando così nuovi slogan e nuovi inni. In questo senso, anche traen­ do a modello stereotipi stranieri, la musica italiana si differenzia dal­ le altre nazioni, creando una vena originale e interpretando sponta­ neamente (anche se in maniera un po’ provinciale) la rinnovata di­ mensione esistenziale della condizione giovanile. 128

In realtà c’era già stata una rottura alla fine degli anni Cinquan­ ta. L’apparizione sulla scena di cantanti come Mina, Celentano e prima ancora Modugno aveva inferto un serio colpo alla tradizione melodica di derivazione napoletana, e l’arrivo del rock’n’roll era per l’italietta del boom economico quello che era stato il boogie per la generazione del dopoguerra: un veicolo per evadere la realtà di tutti i giorni in una illusione di rivolta, magari solo contro le strut­ ture ufficiali del ritmo e delle liriche. “E se l’esplosione rock negli Usa — come si sottolinea nello splendido Libro bianco sul pop in Ita­ lia — poteva essere riportata alla tendenza tipica di quella società, per cui gli stati di crisi venivano spesso incanalati e riportati in altri settori (così che eventi drammatici come il maccartismo e la Guerra di Corea vengono confinati nei binari stretti di una pura contrap­ posizione generazionale), placati con miti e riti (giacconi, moto, rock’n’roll) e infine, riciclati a vantaggio del mercato, in Italia il rock assume sempre più significati di diversità e rivolta, e nelle sue versioni nazionali radicalizza e interpreta reali esigenze di identità e ribellione.”21 Non a caso nel 1961 Adriano Celentano pone fine a modo suo con il modello “cuore, amore, mamma, capanna”, e circa sei anni dopo, la canzone-chiave del beat italiano, Dio è morto, scritta da Francesco Guccini e interpretata dai Nomadi, sarà censu­ rata dalla Rai. LA RETE INFORMATIVA DEL MOVIMENTO BEAT E LA SUA EVOLUZIONE

A concretizzare una prima rete ufficiale informativa del movimento, i beat ciclostilano in proprio con tecniche molto creative un giorna­ le, “Mondo Beat”, che cambierà spesso nome (“Urlo Beat”, “Grido Beat”) sia per sfuggire all’obbligo di avere un direttore responsabile (usando la dizione “numero zero in attesa di autorizzazione”) sia per successive scissioni interne alla redazione. Il primo numero di “Mondo Beat” esce il 15 novembre del 1966 ed è a tutti gli effetti il primo periodico underground italiano. La re­ dazione è composta da nomi storici del movimento: Gerbino, Di Russo e Tiboni. “La mescolanza culturale che si deduce da questo giornale è una singolare fusione tra istanze anarchiche, filosofie orientali, rivolta esistenziale e battaglia contro il razzismo nel nome di Malcolm X, già leader dei Black Muslim americani. Se infatti mol­ ti capelloni arrivano dalla provincia e si arrangiano a vivere venden­ do collanine e altro (sul modello equivalente inglese e americano), chiunque arrivi alla sede di “Mondo Beat” trova fratellanza e appog­ gi comunitari. “Mondo Beat” diventa rapidamente il foglio di colle­ gamento e comunicazione dei vari gruppi operanti in Italia, fra cui il preminente, per spessore culturale e progettualità, resta senza dub­ 129

bio “Onda Verde”, frangia fondata da Andrea Valcarenghi, poi pro­ motore di “Re Nudo” e per lungo tempo uno dei principali espo­ nenti dell’area della controcultura italiana. “Mondo Beat”, nella sua versione originale autoprodotta, uscirà con quattro numeri, copren­ do gli anni più belli del movimento, seguendone direttamente gli svi­ luppi, nonché promuovendone le linee di pensiero.22 L’avventura di “Mondo Beat”, come si è detto, catalizza e unifica tutto il movimento e propone nuove direttive. Nella sua scia si mol­ tiplicano infatti sia le iniziative “spettacolari” del movimento a Mila­ no e in altre città sia la produzione di testate informative under­ ground a scala nazionale. A fine novembre 1966 “i tre gruppi mila­ nesi Provos, Beat e Onda Verde decidono di agire comunemente in base al metodo non violento” e in seguito a questo accordo il 28 no­ vembre suggellano insieme l’evento ammanettandosi tutti insieme al­ le ringhiere della metropolitana di San Babila. Le azioni sul territorio metropolitano si susseguirono pressoché ininterrotte fino allo scio­ glimento del movimento beat-provo il 15 settembre 1968 e, ancora prima, dell’Onda Verde il 5 luglio 1967. Lo scioglimento del beat è testimoniato da un documento, “La Carta di Valfurva” elaborato nel luglio 1967 (immediatamente dopo lo split di Onda Verde) stilato il 15 settembre 1967 durante una riu­ nione segreta in Toscana, e pubblicato definitivamente il 31 dicem­ bre 1968, a fronte di un movimento già frantumato. Oltre a decreta­ re la fine del movimento, la “Carta” auspica per il futuro: “il lancio su diversi fronti di una ‛politica dei giovani’ che, tenuto conto delle passate esperienze, si proponga con una metodologia d’azione più ricca e consapevole”.23 A partire dall’ottobre 1967, sarà questo il credo della corrente si­ tuazionista e la sua testata “S” (tiratura 5000 copie a 27 lire l’una) re­ datta da componenti fuoriusciti dell’ex Onda Verde: condurre azio­ ni coordinate “in situazione” nei licei e nelle università, e promuove­ re l’incrocio tra studenti e sottocultura. Nata originariamente in Italia nel 1957 e subito esportata in Francia nel 1958, la corrente situazionista è inizialmente legata ad avanguardie artistiche e letterarie: lettrismo, surrealismo, dadai­ smo... Più avanti incrocia il pensiero filosofico di “Socialismo o Bar­ barie”, il consiliarismo tedesco, il comunismo di sinistra e dei co­ munisti libertari. Lo scioglimento dell’équipe tecnica di “S” avvie­ ne il 24 dicembre 1967 in maniera “suicida”, in segno di protesta per la repressione che si era scatenata contro il Situazionismo su tutto il territorio nazionale: “I cervelloni vengono aggrediti dalla pratica del movimento reale che li coglie impreparati. Il gruppo de­ cide un’ultima mossa che lo conduce al suicidio politico: farsi as­ sorbire dalla industria culturale. L’ultimo numero uscirà come in130

serto a ‛Quindici’, la rivista del Gruppo ’63. Per dare luogo secon­ do una tipica tattica situazionista a un "‘decentramento program­ mato delle attività”24 e per dare maggiore respiro al sogno sessan­ tottino, il gruppo si mantiene attivo in tutta la penisola tramite un Comitato di collegamento. Riapparirà sia durante l’autunno caldo di Genova nel 1969 con ""Il bollettino d’informazione” (successiva­ mente “Ludd” e “Ludd-Consigli Proletari”) sia in un grande tenta­ tivo di recupero di massa della cultura situazionista durante il mo­ vimento del 1977. Qui di seguito l’elenco delle testate autoprodotte in Italia tra il 1966 e il 1971.25

anno

titolo

luogo edizione

primo numero

1966

Mondo Beat

Milano

Novembre

1967

Off limits

Torino

Aprile

Urlo Beat

Milano

Luglio

The beatnik

Monza

Il Ribelle

Monza

Stampa libera

Cinisello Balsamo Settembre

Grido Beat

Milano

Uomini

Torino

“S”

Milano

Pensiero Beat

Cinisello Balsamo Novembre

Pianeta fresco

Milano

Dicembre

Provo

Milano

Dicembre

Urlo e grido Beat

Milano

Dicembre

Esperienze due

Lucca

Dicembre

Pensiero

Brescia

Dicembre

1968

1969

Settembre

Ottobre

I lunghi piedi dell’uomo Milano

Voce Beat

Cinisello Balsamo Marzo

Mai

Milano

Luglio

I quaderni del dialogo 66 Milano

131

Sedici

Fano Milano

Internazionale situazionista Milano 1970 Paria

Luglio

Lugano

Manifesto

Roma

Marzo

Hit

Milano

Settembre

L’uccellino impiccato

Milano

Vcf

Macerata

Novembre

Ubu

Milano

Novembre

Re nudo

Milano

Novembre

Milano

Marzo

Controcampo

Roma

Marzo

Quinta liceo

Londra

Aprile

Puzz

Milano

Aprile

Roma sotto

Roma

Aprile

Bleu

Mantova

Maggio

Controticino

Lugano

Giugno

Re nudo, consiglio del gobbo

Milano

Giugno

Re nudo, rana di pechino

Milano

Luglio

il gobbo internazionale

Milano

Novembre

Brigate rosse

da qualche parte d’Italia

1971 Il giornale sotterraneo

132

Primavera

Fase 4

9. MEGALOPOLI

IL CONTESTO AMMINISTRATIVO E L’EVOLUZIONE DELLE LOTTE PER LA CASA

Il periodo 1969-1977 rappresenta il momento più delicato di tutta la storia dell’amministrazione milanese, e italiana in generale, ed è se­ gnato dalla più importante avanzata elettorale amministrativa mai re­ gistrata fino ad allora delle sinistre. A seguito di un incremento elet­ torale del Pci del 7,55%, si costituisce a Milano nel 1975 la prima giunta “rossa” e, in quello stesso anno fa la sua comparsa tra le liste elettorali Democrazia Proletaria1 che ottiene 43.537 voti, pari al 3,73% delle preferenze elettorali. Con lo sciopero generale “per la casa e per le riforme” del 19 di­ cembre 1969 erano emersi di colpo e con devastante visibilità tutti i problemi irrisolti accumulatisi in mezzo secolo di attività di edilizia pubblica. Secondo Valeria Erba “le cause della mancata attuazione di un’organica politica edilizia sono ricercate nella gestione scoordinata e inefficiente dei fondi statali, distribuiti fra più di 100 enti settoria­ li, nella inesistente programmazione democratica di questi fondi, nel­ la carenza di strumenti di intervento capaci di assicurare la pianifica­ zione e la realizzazione di case popolari”.2 Del resto, la gestione del Prg del 1953 non è stata certo migliore del piano stesso, ma anzi attuata secondo Ferrante con una “disin­ voltura incosciente” nel concedere varianti che garantissero di edifi­ care aree già vincolate. Per non parlare della geniale trovata delle li­ cenze in precario (anche note come “rito ambrosiano”), in base alle quali migliaia di metri cubi di quartieri residenziali erano costruiti con gli stessi iter amministrativi usati per il montaggio di chioschi, edicole o tettoie.3 Nei primi anni Settanta la situazione abitativa milanese si man­ tiene ancora su livelli qualitativi mediocri, specie per ciò che concer­ 133

ne la qualità degli insediamenti, l’affollamento e il fabbisogno (che ruota intorno alle 383.000 stanze) riflettendo sostanzialmente la ten­ denza politica di privilegio verso le classi più avvantaggiate (lo con­ ferma la diminuzione della popolazione operaia che tra il 1961 e il 1971 cala di 700.000 unità). Amplificati da una dissennata gestione del tessuto urbano, questi problemi costringono la giunta a emanare misure di salvaguardia sem­ pre più restrittive, arrivando così alla totale paralisi della produzione edilizia: nel 1971 i vani costruiti in Italia con investimenti pubblici e privati saranno infatti circa la metà di quelli edificati nel corso del boom edilizio del 1969. Fortunatamente, la coscienza sviluppatasi ne­ gli anni Sessanta sul problema sempre più grave della casa porta a un forte aumento di partecipazione delle masse a quanto avviene in cam­ po urbanistico. Dal 1968 in poi infatti, diversi organismi di base manifestano la ferma intenzione di non lasciarsi sfuggire nulla di quanto avviene nel settore, promuovendo mobilitazioni e schierandosi anche sul piano propositivo sulle nuove proposte legislative. In questo senso vengono istituiti i Consigli di Zona quali organi decentrati per la gestione del territorio comunale, a cui sono poi da sommare l’intervento di decine di comitati di quartiere spontanei e delle forze sindacali. Un primo ri­ sultato viene proprio da uno di quei quartieri maggiormente minaccia­ ti dalla speculazione edilizia: il Garibaldi, il cui Comitato di quartiere, fiancheggiato dal CdZ 1, fa approvare in Consiglio comunale un lotto da risanare in base alla legge 167 per complessivi 3500 abitanti.4 Nonostante la continua mobilitazione popolare, il progetto urba­ nistico però non si democratizza. Il dibattito avviato negli anni Ses­ santa sul recupero dei centri storici a fini residenziali attraverso un’o­ perazione di risanamento e di rinnovo da attuare con un intervento pubblico, negli anni Settanta si estende al recupero del patrimonio edilizio degradato del centro e dell’estrema periferia. Si ritiene che questi obiettivi debbano essere perseguiti insieme ad un affinamento del quadro legislativo in materia. L’approvazione della legge 865/1971 risolve in parte alcune delle questioni più scottanti, istituendo un unico momento di program­ mazione nazionale dei fondi e un solo strumento di attuazione dei programmi a edilizia sovvenzionata. Conformemente a questo nuovo strumento si attua l’accentramento delle funzioni di controllo in un unico centro programmato rio nazionale (Cer), e di una sola serie di centri di pianificazione a livello locale, la soppressione di tutti gli en­ ti pubblici per l’edilizia (ex Dpr 1036/1971), il trasferimento della materia di programmazione edilizia alle regioni che sinora si occupa­ vano solo di edilizia sociale (legge 382/1975 e decreto 616/1977).5 Non mancano sicuramente gli ostacoli per la concretizzazione su 134

un piano pratico delle lotte popolari: il blocco dei contratti del 1969 si oppone per esempio agli sfratti e alle disdette di contratto, e il pro­ blema delle vendite frazionate degli alloggi (che trova un ampio ri­ scontro, data la forte domanda), riversa sugli acquirenti, in genere a reddito medio-basso, il costo insostenibile del risanamento e quindi l’impossibilità di accedervi. Nel frattempo, dopo quattro anni di stasi (1971-74), l’apparato Iacp ritrova una certa consistenza, pur se inferiore al boom del 1968, ma proporzionalmente superiore alle edificazioni private, la cui pro­ pulsione era andata esaurendosi dopo l’anno di moratoria. La parte del leone la conduce, come sempre, il Gallaratese che raggiunge i 60.000 abitanti, pur gravato da una seria mancanza di servizi. Ulte­ riori iniziative di lotta, promosse dai quartieri, dai loro comitati e dai Consigli di zona, ottengono ancora due vittorie popolari. La prima consiste nell’approvazione del Piano integrativo per l’edilizia econo­ mica e popolare del 29/4/1975, firmata dal democristiano Velluto (con il voto favorevole dell’opposizione comunista) che sottolinea elementi di “salvaguardia sociale” e strumenti operativi per il risana­ mento dei vecchi quartieri “nell’intento di raggiungere obiettivi di pianificazione generale alternativi allo sfruttamento privato della ren­ dita urbana”.6 La seconda è il ritiro della nuova proposta di Piano re­ golatore (il Prg del 1953 è ormai stravolto per le innumerevoli modi­ fiche e varianti subite in quasi vent’anni) del democristiano Canna­ rella, che prevedeva un eccessivo sviluppo del settore terziario. L’11 dicembre del 1976 si perverrà infine al successo dell’azione dei Consigli di Zona con la definitiva approvazione della variante al Prg del 1953 che si presenterà come un progetto di gestione del ter­ ritorio, stabilendo il tetto invalicabile di 1.800.000 abitanti (cioè a sviluppo zero), prevedendo per le aree centrali il recupero del co­ struito preesistente e per quelle periferiche 450.000 metri cubi di ter­ ziario e 2.000.000 di aree industriali. Sostanzialmente: - Azzonamento applicato all’intero territorio comunale con una determinazione capillare delle destinazioni d’uso presenti o previste. - Necessità di ottenere l’autorizzazione comunale per qualsiasi variazione d’uso degli edifici esistenti con la quasi assoluta subordi­ nazione dei nuovi interventi edilizi a strumenti di attuazione partico­ lareggiata. La concessione semplice si riduce alle sole “piccole ope­ re” o a lotti inferiori a 5000 mq. - Creazione dei Piani di inquadramento operativo (Pio) che si pongono come obiettivi: delimitazione delle diverse unità di inter­ vento e le specifiche forme di intervento cui esse vanno assoggettate; localizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria at­ traverso pianificazioni particolareggiate; realizzazione di una rete in­ frastrutturale e definizione di eventuali lotti minimi di intervento. 135

- Rinuncia a un sistema di penetrazione dei traffici in città basa­ to sul potenziamento di alcune direttrici fondamentali per favorire invece una penetrazione “a pioggia” con interscambio con i mezzi pubblici. - Potenziamento delle linee di superficie (opposto al faraonico programma di linee metropolitane degli anni Cinquanta) con diffu­ sione generalizzata di corsie preferenziali. Il giudizio che Ferrante riporta del Piano è sospeso tra la positi­ vità per quanto ottenuto, in parte anche grazie alla mobilitazione del­ le masse, e la sostanziale attesa per gli sviluppi futuri: “Il Piano è per­ tanto visto come attività dinamica gestita democraticamente: quanto retinato sulle tavole o scritto nella normativa non è e non vuole esse­ re altro che il bilancio su cui muovere il contributo collettivo alla ge­ stione. La scelta metodologica è corretta e al passo coi tempi. Certa­ mente però - conclude sempre Ferrante: ‛un bilancio sarà tracciabi­ le solo a esperienza consumata’”.7 Vengono poi progettati ulteriori aggiustamenti legislativi verso la fine degli anni Settanta con le leggi 10 del 1977 (“legge Bucalossi”) e 865 del 1978. Occorre comunque puntualizzare che non tutti avran­ no la qualità di migliorare il già precario assetto pianificatorio e legi­ slativo. Per esempio, la legge 10 resta solo un tentativo di varare un provvedimento che non comprenda più, insieme alla proprietà del suolo, il diritto a edificare, stabilendo tra l’altro dei Piani plurienna­ li di attuazione (Ppa) in base ai quali verranno definite le aree edifi­ cabili nel triennio o nel quinquennio successivo. DALLA NASCITA DEI GRUPPI EXTRAPARLAMENTARI ALL’AUTONOMIA

Nel corso degli anni Sessanta, si è detto che si verificano due pre­ valenti processi sociali di ampio respiro che hanno profonde con­ seguenze nella formazione dei nuovi movimenti socio-politici. 1) L’attivazione del circuito dell’emigrazione dal Sud al Nord, forte­ mente incentivata dal padronato che crede così di assicurarsi ma­ nodopera priva di tradizioni politiche e facilmente subordinabile (ma che in realtà si rivela fortemente conflittuale, capace di mette­ re in crisi il modello produttivo, e in grado di dirottare le lotte dal­ la fabbrica alla città). 2) Il definitivo processo di maturazione della scolarizzazione di massa, avviato con l’unificazione della scuola media (1963). La fusione di questi due elementi, congiuntamente alla crisi del­ le istituzioni della fine degli anni Sessanta, genera due processi fon­ damentali, di cui il primo è l’esplosione del movimento studentesco culminato nel 1968. Il secondo, che si protrae come elemento inno­ vativo fin verso l’autunno del 1969, è la tendenza degli operai meri­ 136

Il Ticinese negli anni Settanta

“Negli anni Settanta, molti membri che appartenevano alle varie bande del cen­ tro si erano sparpagliati per tutta la città, ma soprattutto si erano trasferiti nel Ti­ cinese. Il Ticinese era un quartiere con caratteristiche urbane simili al centro e con una struttura sociale ugualmente simile, fatta di tolleranza e forme di irrego­ larità, un quartiere di operai, artigiani, contrabbandieri, ladri. È qui che i mem­ bri delle organizzazioni politiche vengono a chiedere case. Lotta continua, il Mo­ vimento studentesco, l’Mls vengono a chiedere in affitto locali e magazzini di­ smessi per le loro sedi. Per i titolari e i proprietari di questi spazi, i membri dei gruppi politici erano dei “diversi”, come i contrabbandieri, i ladri e le puttane, dare proprio loro questi luoghi era la “logica conseguenza” della destinazione de­ gli spazi di un quartiere rovinato e disastrato. Da piazza XXIV maggio alle Colonne di San Lorenzo c’era la più alta concentrazio­ ne di sedi politiche extraparlamentari d’Europa. Ci sono proprio tutti, il manifesto, Avanguardia operaia, Lotta continua, le femministe, gli anarchici di Scaldasole (quelli del mio amico Pinelli, morto ammazzato in Questura) e anche il primo, sto­ rico e sconosciuto covo delle Brigate rosse. Questi gruppi costruiscono relazioni complesse con il tessuto sociale locale e con il tessuto extralegale della casba di por­ ta Genova. Qui si ottiene, a Milano, il massimo dei voti per Valpreda. Questo è un quartiere che vive attorno alla Darsena e ai Navigli e che riproduce a proprio modo dinamiche che si verificano nel resto della città. Corso san Got­ tardo è una via dello shopping di tipo medio-basso, non c’entra nulla con corso Buenos Aires, corso Vercelli, via Paolo Sarpi, corso Vittorio Emanuele, via Tori­ no, perché al centro di un sistema essenzialmente popolare.”

dionali con poca o nessuna esperienza organizzativa, e collocati ai li­ velli più bassi della manovalanza, a prendere la direzione delle lotte di fabbrica. Si tratta di un nuovo soggetto operaio non scolarizzato e svilito dal senso del processo produttivo, in grado sia di percepire la fabbrica come invivibile luogo di sfruttamento (la precedente gene­ razione operaia la vedeva invece come luogo fondamentale della pro­ duzione), sia di recepire fin da subito i problemi fondamentali della sopravvivenza quotidiana (costo della vita, disumanità dei ritmi di la­ voro, problema degli affitti, impossibilità di vivere dignitosamente al­ l’interno della società capitalista ecc.), un soggetto politico che ela­ bora risposte nette, radicali e pratiche: egualitarismo, rifiuto dell’au­ mento del salario in percentuale, abolizione delle qualifiche, insu­ bordinazione alla disciplina di fabbrica. L’intervento degli studenti reduci dalle lotte esistenziali introdu­ ce nell’azione operaia un nuovo filone antiautoritario che intrecciato con la spontanea antistituzionalità dei comportamenti degli operai immigrati (inaspriti dall’estraneità verso il tessuto politico e sindaca­ le delle città, che li accoglie tra l’altro senza molta simpatia) innesca, a partire dal 1969, una nuova linea di condotta: il “rifiuto del lavo­ ro”, ossia, secondo quanto puntualizza Primo Moroni: “Uno schema interpretativo dell’intero processo nel quale si intrecciano lotte ope­ 137

raie e sviluppo capitalistico, insubordinazione e ristrutturazione tec­ nologica. Una coscienza diffusa, un comportamento sociale antipro­ duttivo una difesa della propria libertà e della propria salute; una co­ scienza che diviene fortissima e costituisce praticamente la base inat­ taccabile della resistenza operaia contro i tentativi di ristrutturazione capitalistica fino a metà del 1970”.8 Su queste basi, a partire dall’inizio del 1969, l’insubordinazione studentesca e operaia si diffonde per tutta la penisola, mentre le forze di polizia (fiancheggiate e coperte sia dallo stato sia dai gior­ nalisti) intervengono con crescente brutalità per reprimere il dis­ senso. Contemporaneamente alla vasta offensiva operaia ormai di­ spiegata, le avanguardie studentesche cominciano nel 1969 a verti­ calizzare e a ideologizzare le strutture di contropotere interne alle università. Le tendenze risultanti si possono grosso modo suddividere in due parti: 1) In un senso si assiste alla formazione di un nuovo ceto politico che rivaluta figure ed epoche storiche del movimento comunista ita­ liano (da Gramsci alla Resistenza); emargina violentemente tutta l’a­ rea operaista classica, situazionista e i gruppi marxisti-leninisti più in­ transigenti; rifiuta le ipotesi creative del 1968-69, ed elimina tutta l’a­ rea creativa ed esistenziale (libertaria, beat, underground, situazioni­ sta) dal terreno universitario, a favore della divisione del movimento in gruppi e partitini (come il Psiup nato come scissione del Psi all’ini­ zio del 1960) i cui modelli organizzativi, rimasti di tipo tradizionale, non reggeranno alle nuove necessità imposte dallo scontro di classe. 2) Dall’altra parte nascono invece gruppi extraparlamentari, frutto di una combinazione storica eccezionale tra radicale rivolta esistenziale e rifiuto di qualsiasi modello politico precostituito. Questi gruppi (Movimento lavoratori per il socialismo, Lotta continua, manifesto, Autonomia operaia ecc.) ripropongono modelli ultrabolscevichi o, secondo Valcarenghi, “modelli togliattiani verni­ ciati di maoismo”. Secondo Moroni: In quest’ottica, lo straordinario successo degli scritti di Marcuse, di Laing, Cooper ecc., lo sforzo di conciliare la “liberazione” individuale con la lotta contro le istituzioni totali e la schiavitù del lavoro salariato (Marx, Bakunin, Rosa Luxemburg e il Lenin della “spontaneità operaia”), il desiderio, la scelta di mettere in discussione il proprio corpo nello scontro con il potere (il “Che” ma anche Reich e i fratelli Jackson), sono indicatori di una tensione utopica e soggettiva difficilmente riducibile anche nelle stesse linee qui indicate. Il periodo che assiste alla formazione dei gruppi è tuttavia confuso, ma sen­ za dubbio è qui che si attua forse il massimo della convergenza tra la stra­ tegia organizzativa dei gruppi e le forze antifasciste istituzionali, tanto che i primi vengono riassorbiti nel sistema dei partiti al punto di varcare la so­ glia dell’area parlamentare e dar vita all’esperienza di Democrazia proleta­ ria o riversare i voti sul Pci come Lotta continua.9

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Queste organizzazioni, come vedremo, sviluppano anche un arti­ colato intervento sul territorio, contribuendo a restituire identità al­ le strutture presenti nei quartieri ghetto, ma con modalità verticisti­ che, opposte a quelle perseguite dai collettivi operai, che tendono a fondere fabbrica e sociale in un unico progetto. La definizione di un programma pratico d’azione che pone ai gruppi il problema della propria soggettività, viene però ostacolato dall’isterico clima di re­ pressione che si viene a creare dopo la “strage di stato”, accelerando e radicalizzando le originali linee di progetto. Il violento ritorno a schemi terzinternazionalisti conduce le orga­ nizzazioni a perdere una visione lucida dello scontro in atto nelle fab­ briche: la tesi “luxemburghiana ” secondo cui la classe si muove spon­ taneamente e crea essa stessa i propri strumenti di lotta è contraddi­ zione e limite invalicabile per le organizzazioni extraparlamentari. Pressati continuamente dalle scadenze contro la strategia della tensio­ ne, esse concentrano le forze su importanti battaglie democratiche e per i diritti civili (come nella vicenda del divorzio), mentre pochi si ac­ corgono della lenta marcia del sistema dei partiti dentro la fabbrica in quanto coperta da una spessa cortina vertenziale. I gruppi non hanno una strategia di fabbrica, i loro militanti so­ no esposti all’epurazione, spesso vengono licenziati o si licenziano. A questo proposito Primo Moroni sostiene: Bisogni ed esigenze così profonde necessitavano di ritmi di maturazione e sviluppo più lenti nel tempo. Necessitavano di scadenze di lotta e confron­ to con lo stato e la repressione meno pressanti e determinate da esigenze reali. Ma ciò non avvenne e non era di fatto possibile che avvenisse. La ri­ sposta del sistema dei partiti, della magistratura, della polizia, divenne sem­ pre più dura e sorda a queste esigenze di cambiamento. La borghesia neo­ capitalista con la strategia della tensione, la politica delle “bombe” e delle “stragi” scelse di porre il conflitto sul piano militare. Si aggiunge l’interven­ to terroristico dei servizi segreti e dei livelli di clandestinità dello stato con probabile impiego di manovalanza fascista a tutte le operazioni già note sul corpo centrale della fabbrica operaia. È principalmente dallo shock provo­ cato dalla repressione diffusa che nasce il bisogno dell’“organizzazione”, che si comincia a discutere della necessità del “partito rivoluzionario”.10

All’interno della “strategia della tensione” si consuma così l’ulti­ ma generazione dei militanti formatisi durante il ’68: dopo la paren­ tesi operaia vengono così riproposti i vecchi schemi di partito, la tat­ tica dell’antifascismo e la conquista del potere grazie alle pratiche elettorali. La radicalizzazione del dibattito è accelerata anche dalla posizione del sistema dei partiti che non si presenta ancora nella for­ ma-stato, ma sotto figura conflittuale di violenta opposizione tra un potere esecutivo che ha scatenato i livelli clandestini dello stato e una opposizione che ripropone i valori democratici della Resistenza, la­ 139

sciando sottorappresentate le componenti più a sinistra del Pci che, dopo l’occupazione di Mirafiori del 1973, si sgretoleranno progressi­ vamente. Rimarranno soli i nuclei centrali dell’area operaista - Pote­ re operaio e Collettivo politico metropolitano - i quali, avendo indi­ viduato i limiti politico-istituzionali della marcia attraverso il salario in fabbrica, scelgono drasticamente la battaglia per la militarizzazio­ ne del movimento puntando su tutti i livelli di militanza e sulla for­ mazione di quadri. La decisione è senza dubbio fomentata, oltre che dal caso italiano dei Gap di Giangiacomo Feltrinelli (che, nel timore di un colpo di stato di destra spinge il movimento a dotarsi di strut­ ture militari), anche dalla situazione internazionale che vede compa­ rire gruppi armati un po’ ovunque, in Germania (Raf), in Palestina, negli Usa (Weather Underground) e nell’America Latina (in partico­ lare i Tupamaros). Assumono pertanto grande importanza modelli storici assunti acriticamente e si recupera tutta la tradizione terzinternazionalista. Il problema centrale diventa quello rappresentato dal terrorismo di sta­ to e dal “marciume” presente nella macchina statale. Questa analisi farà in modo di accentuare ancor più il carattere leninista delle orga­ nizzazioni. Un esempio tra le scelte più radicali è rappresentato dal Collettivo politico metropolitano. Il Cpm nato dalla scissione dei Comitati unitari di base (Cub) della Pirelli di Milano, al cui interno militano Renato Curdo e altri esponenti dell’Uni­ versità negativa di Trento, sarà la base teorico-ideologica delle Brigate ros­ se. Propugna dal 1971 attraverso i bollettini “Sinistra Proletaria” prima e “Nuova Resistenza” posizioni che appartengono sia pure in modo diverso a Lc e a Potere operaio: l’autonomia, cioè l’indipendenza dal sindacato e dal partito è la condizione preliminare perché si ponga la lotta contro chi rifiuta l’aspetto di rottura e tenta di recuperare e sfruttare le possibilità di una “restaurazione politica”.153

Di lì a poco, la radicalizzazione ideologica condurrà alle prime azioni delle Brigate rosse,12 le lotte dei carcerati, dei Nuclei armati proletari e diversi attentati dinamitardi, in uno dei quali muore in cir­ costanze misteriose Giangiacomo Feltrinelli (15 marzo 1972). All’in­ terno dei gruppi, la morte di Feltrinelli ha un effetto devastante: in­ nesca la rottura tra democratici e movimentisti (Autonomia operaia esce dal “Comitato di lotta contro la Strage di stato” accusando Lc e PotOp di fare una “folle analisi della situazione italiana e dei compi­ ti del movimento e di trattare come compagni i Gap e le Br”), inne­ scando la paranoia di un “nemico interno”. Spezzato il tessuto di collaborazione tra “democratici” e “movi­ mentisti”, le reazioni saranno opposte: o riconfluire, organizzandosi negli apparati democratici e sostenendo la politica delle alleanze (nel frattempo promossa dal Pci con il “compromesso storico”), oppure 140

optare per la clandestinità armata (molti dei Gap si uniranno alle Bri­ gate rosse frantumando definitivamente la base dei gruppi extraparla­ mentari). Mentre la vittoria sulla strategia della tensione e il forzato abbandono della manovalanza fascista da parte della Dc vengono scambiati dai gruppi come segni di una crisi del regime, la forma-stato interna ai partiti si prepara in realtà a una ricomposizione ancora più autoritaria e, a seguito di una violenta repressione, Potere operaio si scioglie dopo l’occupazione di Mirafiori del 1973, Lotta continua en­ tra rapidamente in crisi e Avanguardia operaia dopo varie scissioni si indirizza verso la nascita di Democrazia proletaria. I marxisti-leninisti di Servire il popolo si frantumano, per ritrovarsi poi a operare nell’a­ rea della più vasta Autonomia operaia organizzata. l’autonomia operaia organizzata

“Si potrebbe dire che nel 1973 emersero una tendenza neoleninista militarista che si configurò come Autonomia operaia organizzata, e una tendenza creativo-desiderante che privilegiò la diffusione socia­ le dei comportamenti alla loro organizzazione politica.”13 Ma sareb­ be una semplificazione inadeguata. In realtà, la difesa dell’identità politico-culturale del movimento fu conclusa con la rigidità della composizione sociale della forza lavoro, e il rifiuto di adeguarsi alle nuove forme tecnologiche dell’organizzazione del lavoro. Non a caso è intorno al 1974 che comincia a comparire all’interno dei posti di lavoro una “quarta generazione politica operaia”, formatasi nei quartieri e del tutto nuova rispetto alle precedenti. La prima era comparsa nell’immediato dopoguerra e la muoveva un modello positi­ vo del lavoro, fedele all’ideologia della Ricostruzione. La seconda, all’i­ nizio degli anni Sessanta non crede già più nell’ideologia del lavoro e si incrocia con la disillusione della classe operaia precedente. È la genera­ zione colta che porterà a privilegiare l’unità di base operaia (la cosid­ detta “unità sindacale”) alla iscrizione ideologica di vertice. La terza, più colta e politicizzata, è composta da tecnici, impiegati e studenti la­ voratori che entrano a far parte del mondo del lavoro intorno al 196768, portando all’interno delle fabbriche l’inquietudine del malessere sociale ed esistenziale. La pratica fatta propria da questa generazione è guidata dal rifiuto del lavoro e porterà alla formazione dei consigli di fabbrica. La quarta invece entra nel posto di lavoro nel momento in cui il capitale capovolge la sua offensiva inglobando la spinta dei gruppi antagonisti. Essa si incrocia con la crisi dei movimenti e subisce lo scac­ co dovuto all’impossibilità di esercitare contropotere. È la generazione che porta lo scontro sul piano del sociale a partire dai quartieri, poiché in quei luoghi si è formata ed è lì a prendere coscienza dell’impossibilità di concludere in modo positivo lo scontro in fabbrica. 141

Proprio approfittando di questa fondamentale impotenza delle basi dell’Autonomia di riportare lo scontro in fabbrica, il padronato inizia a ridefinire profondamente l’intero assetto produttivo italiano tramite la marginalizzazione del lavoro, il blocco delle assunzioni e del turn-over, l’introduzione di tecnologie di labour-saving, lo scorporo delle unità produttive e l’espansione dei cicli del lavoro immateriale. IL COMPROMESSO STORICO

Il 1973 rappresenta anche un anno chiave nel processo di divarica­ zione tra le avanguardia operaie e il Pci. Se le avanguardie dimostra­ no con l’occupazione di Mirafiori di potere occupare la più grande fabbrica italiana senza l’ausilio né del partito, né del sindacato, di­ versamente il Pci interpreta in senso difensivista il colpo di stato fa­ scista cileno. “Non è possibile andare a uno scontro frontale con la borghesia perché questo provocherebbe una reazione di tipo fascista, e dunque bisogna proporre al maggior partito della borghesia un compromesso che rappresenti la congiunzione fra tutte le forze so­ ciali del paese in una prospettiva di solidarietà.”14 La divaricazione tra Pci e avanguardie operaie diventa così vio­ lenta e irreversibile. Non solo. Si tratta di una linea politica che con­ tribuirà ad allargare un’ulteriore frattura tra proletariato garantito (spesso operai anziani legati al Pci, il cui posto non viene messo in di­ scussione dagli effetti della ristrutturazione e della riduzione della forza lavoro per la politica produttiva e tecnologica degli anni Set­ tanta) e proletariato non garantito (disoccupati, studenti, giovani in cerca di prima occupazione e fasce di nuovo lavoro operaio più espo­ ste alla ristrutturazione). La politica del Pci di fronte all’emergere di un movimento dei non garan­ titi, che ne 1977 si manifestò in tutta la sua ampiezza e in tutta la sua po­ tenza distruttiva, fu tale da accentuare in modo provocatorio la contrap­ posizione, e da spingere, indirettamente, alcune frange significative delle avanguardia operaie verso la lotta armata. Quando nel 1977, le assemblee operaie autonome prima, poi le istanze del movimento, poi addirittura un’assemblea nazionale e anche ampi settori del sindacato lanciarono la pa­ rola d’ordine: ‘lavorare meno, lavorare tutti, riduzione dell’orario di lavo­ ro, parità di salario’, il Partito comunista respinse questa prospettiva come se si trattasse di una provocazione. Pagò questa chiusura e questo servili­ smo filopadronale quando solo tre anni dopo, il padrone Agnelli - ormai rinfrancato perché i comunisti lo avevano aiutato a espellere dalla fabbrica “il fondo del barile” (espressione del comunista antioperaio Adalberto Mi­ nucci) - cacciò fuori 40.000 operai e distrusse l’organizzazione operaia e l’intera forza dello stesso Partito comunista. Ha inizio in quel momento la crisi senza sbocchi del Partito comunista italiano.15

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10.

COMETA ROSSA

LA STAGIONE CREATIVA

Nell’area della produzione giovanile creativa, il periodo che va dalla fine dell’autunno caldo del 1969 al 1976 è alimentato da forti pulsio­ ni e da un grande fermento rivoluzionario, analogamente a quanto avveniva nel mondo del lavoro. Centrale in questa area creativa è la rivista “Re Nudo”, guidata dal suo fondatore Andrea Valcarenghi. Almeno nel suo intento originale i gruppi dell’underground e della controcultura (questi i nomi delle due grandi fasi della creati­ vità renudista) erano sia conflittuali e orientati verso la trasformazio­ ne di precise dinamiche sociali, sia trasgressivi nell’aspetto e nel lin­ guaggio, e soprattutto non verticalizzati o facenti parte di strutture partitiche. Quest’ultima considerazione è senza dubbio valida alme­ no per il periodo dell’underground. Suddividiamo il periodo di questa area creativa dal 1969 al 1977 in due momenti distinti, che definiamo per comodità descrittiva rispetti­ vamente “underground e controcultura”. La loro distinzione è in realtà necessitata dal loro diverso modo di rapportarsi ai gruppi extra­ parlamentari (1969-73) e all’Autonomia operaia organizzata (19741977). CARATTERISTICHE GENERALI DELL’UNDERGROUND

La scena underground è protagonista negli anni che vanno dal 1969 al 1973. Si assiste al tentativo di costruire nell’ambito giovanile un “rapporto ritrovato”, frutto della concrezione di più istanze conflit­ tuali. Compare una prima coscienza dell’impossibilità di affiancare le nuove proposte creative alla linea dei gruppi extraparlamentari e della sinistra tradizionale, ai quali si rinfaccia di “considerare solo la giornata dell’operaio di otto ore”1 e di trascurare le altre sedici. Con 143

questo si voleva significare il diritto del soggetto lavoratore a soddi­ sfare le sue necessità personali di riposo, di relazioni sociali, di diver­ timento, di relax, di impegno sociale e di intimità di coppia. Questa elaborazione teorica comporterà il progressivo allontanamento del­ l’area creativa-esistenziale (beat e situazionisti) e di quella operaista classica (operaisti, m-1, anarco-consiliari ecc.) che porta il movimen­ to ad agire in un clima di “splendido isolamento”. Inoltre, si assisteva alla produzione di una vasta rete informativa su argomenti specifici (cultura, musica, psichedelia, informazione...) che si rifanno graficamente al tardo beat psichedelico e la cui principale testata diventa “Re Nudo”, fondata anch’essa da reduci del movimento beat, con Valcarenghi in testa. Infine vi è la ridefinizione critico-teorica di ar­ gomenti inerenti la sfera del tempo libero (musica rock, droghe, fa­ miglia, habitat ecc.) che nei movimenti politici più tradizionali appa­ re decisamente assente. Vi è coscienza della necessità di riappro­ priarsi della vita e della propria identità anche all’interno delle aree più degradate, ponendosi come obiettivo la costituzione di reti infor­ mali di aggregazione, centri sociali, cooperative, freeclinic. Suo co­ rollario è l’assunzione dell’ideologia della festa quale momento di ri­ trovo collettivo a carattere nazionale in un luogo specifico al di fuori della metropoli. CARATTERISTICHE GENERALI DELLA “CONTROCULTURA”

Nel 1973, quando la tensione tra democratici e movimentisti produ­ ce la crisi dei gruppi verticali di base, mutano anche la composizione e i temi del settore creativo che si trova così a operare a fianco della più vasta area dell’Autonomia operaia organizzata. Si produce un de­ finitivo disorientamento nell’area operaista a favore delle forze poli­ tiche che operano più direttamente nel sociale (Dp, Unione inquili­ ni, AutOp, Collettivi giovanili, Comitati di quartiere). In molti casi si è di fronte a un totale svincolamento dagli stereotipi capitalisti attra­ verso pratiche radicali come espropri, autoriduzioni, rifiuto del lavo­ ro, e la creazione di strutture alternative (centri sociali autogestiti a partire dal 1975 e mercatini rossi ecc.). Si politicizza e si rivisita l’un­ derground nel tentativo di costruire strutture alternative interne alla lotta di classe. Si rifiuta ogni forma di ortodossia marxista e di verti­ cismo. Questa area controculturale accetta la presenza di un’area creativa leninista a fianco di quella politica, ma opera uno sposta­ mento della rappresentazione simbolica delle lotte dentro la città (co­ me per certi versi testimoniano i Festival del Parco Lambro 1974, 1975 e 1976). Prosegue nella costruzione di reti di aggregazione informale soprattutto nelle aree più degradate, ma questa volta con l’aiuto delle forze politiche operanti nel sociale. Il tutto si concretiz­ 144

za nella pratica della occupazione di case sfitte da adibire a centri so­ ciali (sia all’interno della metropoli sia nei quartieri periferici) in stretto contatto con il quartiere di radicamento attraverso il ricerca­ to contatto con gli abitanti e la promozione di strutture assistenziali alternative e di attività di svago). Il fallimento del Festival del 1976, la delusione per i risultati del­ le elezioni del 20 giugno 1976, la comparsa di posizioni filostaliniste nei Centri autogestiti in crisi, la violenta repressione poliziesca nella città, le operazioni di riassetto produttivo padronale che minano alla base la classe operaia, e il completo disinteresse del Pci verso le fran­ ge più a sinistra (testimoniata da una politica di alleanze al centro, quale il “compromesso storico”), costringono sia il movimento poli­ tico sia quello giovanile a un’immediata ridefinizione organizzativa, che avrà modo di rendersi decisamente visibile proprio nel vasto mo­ vimento del ’77. 1969-1973. LA STAGIONE dell’underground Il numero zero di “Re Nudo” esce nel novembre del 1970 e vende 8000 copie. Tutte a Milano. Le pagine centrali sono dedicate a un test ironico sulla marijuana. Desta scalpore la presa di posizione in favore dell’ergastolano Sante Notarnicola. Il giornale viene immediatamente attaccato sia dalla sinistra tradizionale sia dal Movimento studente­ sco, confermando pertanto la distanza esistente tra l’area creativa e quella politica extraparlamentare, rappresentata sul territorio dai cir­ coli Ottobre di Lotta continua, dai circoli Gramsci dell’Unione co­ munisti e i Circoli La Comune. La coscienza diffusa dell’impossibilità di affiancare le nuove so­ luzioni controculturali all’area politica extraparlamentare, e il chiaro disinteresse della sinistra tradizionale a elaborare una cultura alter­ nativa a quella della borghesia, conduce alla spontanea formazione di un movimento puntiforme a se stante, scollegato dal movimento ri­ voluzionario generale: era la scena underground. La rete informativa dell’underground rappresentata in primis da “Re Nudo” con sede a Milano in Via Maroncelli2, risulta composta da giornali anch’essi fuori-linea, diversi negli argomenti trattati: “Pa­ ria” (£ 200), “Puzz” e “Roma Sotto” sono la fonte informativa del beat psichedelico; “PLM” (£ 100) “Get Ready” (£250), “Freak” (£ 200), “Off Limits” (£ 100) sono i giornali a carattere musicale; “Con­ troticino” è un esempio di foglio di informazione locale; “Fallo!” (£ 300) assume posizioni di destra all’interno dello stesso movimento. Poi ci sono “Fuori” (£400), “Al Femminile”, “Atma” e “Carta Stam­ pata” (£ 250), “Ufo”, “Sator” e “Roman High” (£ 200), “OM” e “Pantere Bianche” (£ 100). 145

È evidente la distanza che separa il movimento underground dal resto del dibattito politico: il tema delle lotte esistenziali era passato in secondo piano durante le lotte studentesche e operaie del 1968-69, così come la cultura alternativa non politica, la musica, la mistica, l’a­ limentazione, il rapporto donna-uomo, l’aborto, il divorzio, l’omo­ sessualità, la situazione carceraria, la condizione di vita nei quartieri periferici, la vita in comune. L’insieme dei soggetti giovanili controculturali che conducono queste lotte nella metropoli, definiti da Simonetti come “popolazio­ ni artificiali temporanee”,2 si concretizza visibilmente nelle manife­ stazioni di rabbia e gioia che caratterizzano questo breve periodo prepolitico dell’underground milanese e italiano: le autoriduzioni sui prezzi (specialmente concerti rock ma anche cinema, Atm, generi ali­ mentari ecc.), nell’organizzazione dei quartieri ghetto e nei grandi ra­ duni giovanili da parte di “Re Nudo”. Nella percezione giovanile controculturale, la musica rock, diffu­ sasi in Europa con una velocità e una capillarità impressionante, do­ po aver radicalizzato centinaia di migliaia di giovani in America, co­ mincia a essere interpretata nei primi anni Settanta come possibile terreno di nuove lotte. Queste lotte non sono solo finalizzate alla ri­ duzione dei biglietti dei concerti da 2000/1500 lire a 500, ma estese a un contesto sociale più ampio che è chiaro nel testo di una lettera pubblicata su Lotta continua nel novembre del 1972: In cambio di un’ora o due di musica si strappano a noi studenti e ai prole­ tari due o tremila lire, quando siamo noi che abbiamo tutti i diritti in que­ sta società. In compenso i padroni ci derubano tutto della nostra voglia di amare, di giocare, di suonare, di essere contenti succhiandoci la vita fino al midollo e facendoci diventare vecchi a trent’anni. Compagni, parliamo­ ne di queste cose, scriviamole le ingiustizie a cui siamo soggetti non solo in fabbrica o a scuola ma dappertutto. La lotta di classe passa anche attra­ verso il settore importantissimo della musica: e Lc non può trascurare questo settore.3

Secondo Simonetti, gli scontri in occasione dei concerti pop cul­ minanti con la notte del Vigorelli durante il Cantagiro alla presenza dei Led Zeppelin nel luglio del 1971 sono significativi della consape­ volezza del proletariato giovanile, non solo del diritto ad avere la “musica gratis”, ma del suo diritto a vivere. Le occasioni di forma­ zione di “popolazioni artificiali temporanee” innescano infatti una serie di rapporti ritrovati fra i soggetti: le relazioni interumane che spontaneamente si radunano in occasione di questi pow-wow sono più forti della logica dello spettacolo. “Lo spettacolo moderno esprime ciò che la società può fare, ma in questa proposizione ciò che è permesso si oppone in modo asso­ 146

luto al possibile. Lottare contro questo impossibile è appunto ciò che di pratico resta da fare di fronte ai fantasmi della separazione.”4 La formidabile intellighenzia prepolitica dell’underground co­ mincia a intuire anche che la riappropriazione esistenziale e fisica delle aree più degradate del territorio urbano è condizione fonda­ mentale per la prosecuzione delle lotte, così come riportato su un ar­ ticolo di “Re Nudo” del 1971: I capitalisti degli anni ’50 alleati ai nuovi, ultima generazione dei padroni, si sono alleati per programmare un mondo di merda, dove far affogare il popolo salvando la loro cricca. La città come grande metropoli fatta per an­ nullare l’uomo e la sua dimensione è il centro di questo mondo pianificato dai padroni; i “quartieri popolari” sono concepiti come campi di concen­ tramento dove milioni di schiavi vengono ammassati in giganteschi cubi di cemento, sono la grande riserva di lavoro meridionale che i vecchi e i nuo­ vi capitalisti hanno chiamato dal Sud. Ma questi campi di concentramento non ce li danno loro, siamo costretti a prenderli per non morire di freddo nelle baracche. A questo assurdo ci spingono i padroni. Quale deve essere in questa situazione la risposta di tutti i proletari? Ab­ biamo detto nello scorso numero che la comune di quartiere deve diventa­ re l’alternativa immediata dei proletari più coscienti e avanzati: centro di lotta per cambiare le cose, per cambiare la vita. A livello di massa è ancora valido il sistema di occupazione della casa, dello sciopero dell’affitto. Nel­ la società che costruiremo non dovranno sopravvivere né i padroni né i lo­ ro aborti in cemento. La fabbrica, la casa, il carcere, la scuola, i quartierighetto sono le principali componenti della metropoli e sono i principali momenti di lotta contro il sistema: distruggere il sistema quindi significa soprattutto distruggere i suoi prodotti di sfruttamento. Che fare subito per rendere programma politico d’azione questa parola d’ordine? Non siamo in grado né vogliamo ora elaborare un programma complessivo che solo un’avanguardia complessiva potrà elaborare. Quello che ci sentiamo in grado di fare ora e che crediamo sia fondamentale ora per la ricostruzione del movimento è portare delle tematiche, delle scelte di lotta, di vita che siano discriminanti per capire chi è all’interno del movi­ mento e chi è all’esterno del movimento. Se è vero che la condizione am­ bientale dei quartieri delle piccole città è diversa da quello delle metropo­ li è anche vero che il prodotto culturale ideologico della città è universale; cioè i modelli di vita, le aspirazioni, i miti e i tabù sono gli stessi. La costruzione di strutture alternative è un obiettivo interno a “distruggia­ moci la città”: tutti i compagni del movimento devono porsi l’obiettivo del­ la costruzione di sedi, centri alternativi, freeclinics, trattorie rosse, coope­ rative alternative, comuni nei quartieri. Le strutture alternative servono per dare forza ai compagni nella lotta contro i padroni e far crescere la co­ scienza di classe contro l’ideologia della città, la funzione principale rima­ ne comunque la facilitazione per realizzare la nostra “rivoluzione cultura­ le. Per trasformare tutti i proletari e noi stessi.5

Assume quindi importanza l’istituzione di spazi di autogestione temporanea al di fuori della metropoli, quali momenti di riappro­ priazione della propria identità e di promozione della comunicazio­ 147

ne interrelazionale. In sintesi, 1’“ideologia della festa” o retrospetti­ vamente “Gioia e Rivoluzione” (Area, 1975). Questi raduni sono inizialmente gestiti da “Re Nudo”, per di­ ventare a partire dal 1974 le “feste del proletariato giovanile”. Il pri­ mo festival pop di “Re Nudo” ha luogo il 25 e il 26 settembre 1971 a Ballabio (Lecco), dura 36 ore, e sono presenti 10.000 persone. Ri­ corda Valcarenghi: Certo non c’erano gli Who e i Rolling Stones, ma proprio per questa man­ canza del mostro mito, dello spettacolo boom sul palcoscenico, è stato pos­ sibile incontrarsi con compagni che si trovavano con una sigaretta in boc­ ca per la prima volta e parlare con freaks venuti da mille chilometri di di­ stanza. Entrata gratis, panini a 100 lire, Koka Kola idem. Un disastro eco­ nomico insomma. Ma era bello. L’indomani a festival finito, davanti ad al­ meno mille persone che non se ne vogliono andare, capiamo che erano ma­ turati i tempi per una tre giorni e tre notti tipo piccola-Woodstock...6

La “tre giorni di festa”, ossia il Re Nudo Pop Festival n. 2 si svol­ ge in effetti a Zerbo (Pavia) il 16-17 e 18 giugno del 1972. È l’ultimo festival “prepolitico” in cui “masse di giovani s’incontrano per stare insieme, ascoltare musica, per ritrovarsi in tanti “diversi”, padroni della propria diversità per gestire sia pure brevi momenti di tempo li­ berato. Poi, afferma tortuosamente Simonetti: “Arriva il momento in cui dal comportamento nasce la ideologia del comportamento: un si­ stema di comportamenti che deformano i comportamenti unitari spontanei degli anni precedenti”.7 Dopo Zerbo, durante nove mesi “caldi” (morte di Giangiacomo Feltrinelli, esplosione dello spontaneismo armato, Compromesso storico, occupazione di Mirafiori, scontri di Milano in largo Cairoli e “assalto al "Corriere della Sera’”, lo shock petrolifero e le prime gior­ nate di blocco della circolazione automobilistica), l’underground è oggetto di pesanti critiche da parte dei gruppi extraparlamentari in crisi. Per la politica rivoluzionaria cercare di vivere la realtà del pro­ prio desiderio significa una fuga dal reale, mentre per il femminismo l’atteggiamento underground è un “intimismo piccolo-borghese” da trattare con un atteggiamento paternalista al preciso scopo di “redi­ mere i fuoriusciti”. Si forma la coscienza dell’impossibilità di “modificare alla radice la mili­ tanza e la concezione della pratica separata e in questo senso anche Re Nu­ do in quegli anni ammette in forma autocritica di non aver portato alle estreme conseguenze la critica radicale alla pratica politica dei gruppi del­ la nuova sinistra, favorendo così l’illusione di una integrazione che ha ge­ nerato il consumismo del militante che-fuma-come-se-andasse-al-cinemao-a-fare-un-weekend, separando ancora una volta questo embrione di esperienza psichedelica dal lavoro politico”.8

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Dopo un angoscioso dibattito che ben traspare dai libri di Valca­ renghi Underground a pugno chiuso e Non contate su di noi, si giun­ ge alla conclusione che la creatività vada assunta come momento complementare alla militanza tradizionale, in particolare a fianco del­ la nascente Autonomia operaia organizzata. Intorno al marzo del 1973 Valcarenghi pone fine al movimento underground nella sua pri­ ma fase. La politicizzazione del suo quadriennale bagaglio di espe­ rienze darà allora vita in Italia alla stagione della controcultura.

1973-1976.

LA STAGIONE DELLA CONTROCULTURA

Mentre in “Re Nudo” è in corso un processo di maturazione che da una parte ne favorisce la crescita ideologica e dall’altra individua il criterio di una produzione autonoma di cultura alternativa, in diver­ si organismi culturali della nuova sinistra “si va affermando il princi­ pio generale della necessità di costruire un fronte culturale alternati­ vo alla dominazione della borghesia”.9 La necessità di elaborare una linea politica relativa al dopo-un­ derground porta “Re Nudo” a recuperare tutti i gruppi esistenzialradicali ora confluiti nell’Autonomia operaia organizzata per stilare un programma politico di rottura con le nuove tendenze: rifiuto di ogni forma di ortodossia marxista, rifiuto del verticismo dei gruppi (anticipato dal femminismo e per altri versi dallo scioglimento del Circolo Gramsci), recupero e critica del patrimonio della controcul­ tura americana (costruzione quindi di strutture alternative ma non esterne alla lotta di classe), stretto contatto con le forze politiche che operano in campo sociale, continua discussione del proprio ruolo e delle proprie tesi (“vivere politicamente” non “fare politica”), perse­ guimento quotidiano e sistematico di quanto progettato. “Le nostre scadenze - afferma Andrea Valcarenghi - sono i giorni della settima­ na; ogni nostra scelta deve essere il prodotto di una scelta rivoluzio­ naria. In questo senso per noi la rivoluzione è ancora e sempre al­ l’ordine del giorno.” La politicizzazione dell’area controculturale e la lotta per la crea­ zione di una struttura nazionale di circoli alternativi complessifica anche le originali basi su cui si era mosso l’underground (tempo li­ bero, habitat, feste, musica ecc.). Per esempio il tempo libero (le “se­ dici ore” underground) assume il più complesso significato di “tem­ po liberato”. La sua nozione passa cioè da semplice occupazione cul­ turale delle ore libere dal lavoro allo svincolamento totale dagli ste­ reotipi capitalisti, includendo significati più ampi: vita in comuni ur­ bane e costituzione di spazi di ritrovo autogestiti. Si tratta di una prassi che pone al centro la critica politica di ogni forma di merce im­ posta dal capitale. 149

Le basi teoriche della controcultura traggono origine anch’esse da “Re Nudo” che propone una radicale svolta anche nel modo stes­ so di porsi delle manifestazioni, con striscioni del tipo: “Facciamo sì che il tempo libero diventi tempo liberato!” Il tutto potrebbe sem­ brare forse nebuloso se alcuni concetti non fossero stati espressi con chiarezza su un numero di “Re Nudo”: Il proletario non fa l’amore. Non ha tempo. Il proletario va di sesso. La don­ na proletaria nelle borgate romane non raggiunge quasi mai l’orgasmo. La maggior parte muore senza aver MAI goduto. Chi lavora 10 ore al giorno più due di trasporto e figli non PUÒ fare l’amore. È necessario lavorare di meno. Vivere in comune: spendi di meno, lavori di meno e non fai gli straor­ dinari. L’utilizzazione del tempo libero che ci vuole imporre la borghesia è funzionale all’utilizzazione che la borghesia vuol fare di questa società. L’uo­ mo a una sola dimensione: la dimensione del capitale. Liberare il nostro tempo libero è il compito che ci siamo dati. Organizzare pop-festival, circo­ li dove si dia spazio alla libera collettività creativa, operare una scelta tra “cultura” e kultura è un aspetto fondamentale del tempo liberato.10

Sulla spinta di queste basi teoriche, cambia anche l’assetto fisico delle sedi: il centro culturale di “Re Nudo” e più avanti anche il Co­ mitato Vietnam si dotano di nuovi arredi e persino di un palco per sperimentazioni rock, folk ecc., a testimonianza che “le barricate non sono più solo nella strada, nella fabbrica, nella scuola, nel quartiere, nel carcere”11 ma anche e soprattutto dentro i singoli soggetti. L’edi­ toriale del n. 18 di “Re Nudo” che s’intitola “La politica al primo po­ sto” definisce la distanza nei riguardi del Movement americano: “...A differenza del movimento americano le cui radici erano studente­ sche, in Italia le radici dell’underground nascono nel proletariato. Fernanda Pivano ricorda spesso come i primi beat del 1966 erano operai. Con queste fondamenta, con il livello di politicizzazione che in Italia hanno espresso le forze sociali in generale e specificatamen­ te i giovani operai, proletari, studenti, negli anni 1968-69, l’under­ ground che su questa base sociale nasceva, non poteva non politiciz­ zarsi più rapidamente di quanto non sia avvenuto negli Stati Uniti. Oggi all’ordine del giorno abbiamo l’obiettivo dell’integrazione del­ le tematiche del Movement con la lotta di classe sviluppata dalla nuo­ va sinistra e con le battaglie per i diritti civili. Questa mediazione, questo processo in atto e il terreno su cui ci muoviamo si chiama con­ trocultura. Il nostro obiettivo è la rivoluzione culturale in Italia.” - sulla musica rock: “Non diciamo che la musica pop sia la nuova ricetta per fare la rivoluzione, ma è una componente importante in quel processo di cambiamento radicale nel costume e quindi nella cultura di vita. Chi si sente di escludere che queste componenti, affiancate da un inter­ vento politico che implichi una gestione politica rivoluzionaria del fe­ 150

nomeno culturale, non possano trasformarsi in un elemento unifi­ cante che coinvolga masse giovanili altrimenti preda della gestione qualunquistica dell’imperialismo? Dobbiamo costringere la borghe­ sia a darsi la zappa sui piedi. L’industria discografica ha bisogno di mostri che influenzino i gusti e il comportamento dei giovani. La nuova politica sarà quella di trasformare i mostri acquiescenti al si­ stema, in tanti Frankenstein che contro il sistema prendano coscien­ za e diventino così mostri ribelli a quello stesso sistema che li ha co­ struiti.” - sulle droghe: “Se è vero che l’allucinogeno non è un fatto di classe, ma al mas­ simo rappresenta un conflitto generazionale, è pur vero che la re­ pressione ha invece un marcato carattere di classe. È certo che per fa­ re la rivoluzione non c’è bisogno della droga, ma la droga può aiuta­ re a fare la rivoluzione” - sul rapporto con la vecchia generazione proletaria: “Fare capire al vecchio proletario (senza il quale però non si fa la rivoluzione) che la musica, l’erba, la comune quando sono ‛unite’ al­ la lotta e non "alternative’ alla lotta di classe, sono "roba comunista’ è fondamentale.”12 Muta anche la concezione del festival pop. Per il terzo pop festi­ val di “Re Nudo” le intenzioni sono quelle di superare l’evento mu­ sicale inteso come esibizione di cantanti e complessi, per trovare nuove forme musicali e non, in grado di esprimere i nuovi contenuti della controcultura. A livello organizzativo i preparativi vengono svolti, oltre che da “Re Nudo”, dal nuovo circolo Lunga marcia e dal Comitato Vietnam. Il festival, che nei fatti si tramuta in occupazione, a seguito della negazione delle concessioni, avviene tra il 16 e il 18 giugno all’Alpe del Vicerè (Como). Solo la rinnovata autoimprenditorialità e la forte carica ideologica del movimento tramutano il festival da incubo (per la spada di Damocle dell’intervento della polizia) in un successo di partecipazione (oltre 15.000 presenti) e di massa. Dopo l’occupazio­ ne del Vicerè, i tempi sembrano ormai maturi per lo spostamento del festival dentro la metropoli. In effetti dopo il 1973 sembrano essere giunti a maturazione tut­ ti quei processi promossi dalla controcultura a favore della metropo­ lizzazione del movimento: 1) L’interazione tra autonomia e creatività, che ha generato un movimento misto e complesso in grado di accedere senza problemi nell’ambito politico e sociale delle città. 2) La formazione nei quartieri ghetto di consistenti strati giovanili che iniziano a dare vita, sotto la spinta dei creativi e dell’Autonomia, a forme spontanee di aggregazione a partire dalla critica della miseria 151

del loro esistente e per risolvere il problema del tempo libero visto an­ cora come “obbligo coatto al vuoto, alla noia, all’alienazione”. 3) La nascita nei quartieri e nella metropoli di numerosi Circoli del Proletariato giovanile che nell’arco di pochi mesi, a partire dal 1975, promuovono decine di occupazioni di case da adibire a Centri sociali autogestiti. Questi ultimi a loro volta attivano forme di comu­ nicazione e di rappresentanza con i rispettivi quartieri di insedia­ mento (Saggio, Bovisa, Garibaldi, Ticinese, Barona, San Giuliano, Cologno, Lorenteggio...): feste, strutture alternative culturali e di svago, lotte contro il caro affitti, promozione di occupazioni e crea­ zione di strutture alternative, asili antiautoritari, librerie e mercatini rossi, concerti... “Re Nudo” vede nei Circoli la realizzazione concreta del suo or­ mai quasi decennale impegno controculturale e pubblicizza ogni ini­ ziativa, reinventando e rinnovando i classici strumenti di con­ troinformazione, attingendo ispirazione soprattutto dai modelli sto­ rici della stampa underground. 4) La compresenza all’interno dei gruppi che fanno riferimento ai Circoli e ai Centri di una complessità sociale che li rende flessibili a ogni situazione metropolitana. “La composizione sociale dei circoli comprende una maggioran­ za di giovani operai, apprendisti, impiegati delle piccole fabbriche dell’hinterland e una minoranza di disoccupati e di studenti delle scuole professionali, ma ci sono anche semplici compagnie di giova­ ni che si avvicinano alla politica per la prima volta, gruppi che si stac­ cano dagli oratori, collettivi giovanili che si organizzano su lotte o bi­ sogni precisi ed ancora organismi culturali di base, gruppi teatrali, musicali e collettivi di varie espressioni artistiche.”13 Questa componente altamente conflittuale, si riversa dalle peri­ ferie al centro non più a bande o a piccoli gruppi per frequentare gli angoli delle piazze, i giardinetti, i luoghi di spaccio, i cinema di terza visione e le discoteche, ma per suonare e ballare in massa; per scon­ trarsi e rivendicare il loro diritto a riunirsi e far festa. È sulla rinno­ vata ideologia del diritto alla festa (con cui si conclude tra l’altro an­ che il testo del programma dei Circoli giovanili) che proseguono i fe­ stival di “Re Nudo”, ora “Feste del Proletariato giovanile”, cogestiti dagli stessi circoli. La quarta edizione del 1974 e la quinta del 1975 si tengono am­ bedue a Milano: durano rispettivamente tre e cinque giorni, e sono quanto di meglio il movimento controculturale e dei Circoli espri­ merà negli anni Settanta. Ben diverso il discorso sul successivo festi­ val del 1976, sempre al Parco Lambro di Milano, dove l’indiscrimi­ nata massificazione, l’assurda gestione di vendita delle merci, il de­ grado del luogo, nonché le contraddizioni politiche e culturali inter­ 152

ne al movimento e ai suoi spezzoni organizzati, si fonde in una mi­ scela che esplode violentemente rivelando di colpo “i limiti dell’i­ deologia della festa”. Ci si rende conto di fronte all’evidente falli­ mento del Festival (già anticipato dalla defezione degli autonomi e dei Circoli in crisi dai lavori di preparazione, e da un profetico stri­ scione affisso davanti alla libreria Calusca che ne prospettava la so­ spensione per incidenti) che quello stato fatto di solitudine, emargi­ nazione e separatezza politica, emerse al Lambro ma moltiplicate per 100.000 presenze, non è più gestibile con l’“ideologia della festa”. In questo senso, dopo il Festival, il movimento si pone immedia­ tamente di fronte a nuove prospettive dopo aver vagliato con atten­ zione le autocritiche più illuminate. Eccole attraverso le testimonian­ ze di Franco “Bifo” Berardi e Gianfranco Manfredi. “L’ideologia del­ la festa e della vita quando il nuovo soggetto non riesce a compren­ dere se stesso come figura interna alla composizione di classe in mo­ dificazione, è un’ideologia consolatoria, cattolica, e in ultima analisi funzionale al disegno di ghettizzazione ed emarginazione degli strati di tempo sociale liberato dal lavoro.”14 “La merce è là, non bisogna averne paura né esorcizzarla, anche perché ci conviviamo; bisogna frequentarla, amarla e assumerla ma non come valore. “La merce esce dal ciclo (l’ha detto Marx) quando uno la man­ gia, la consuma, la usa, quando ridiventa una cosa, buona o cattiva. Il rito politico non può più permettersi di nascondere questa realtà, anche questa ambiguità al Lambro è stata rivelata.”15 In questo senso “le occupazioni di case, le appropriazioni nei su­ permercati, le lotte per il salario, l’organizzazione contro lo spaccio dell’eroina, i movimenti di liberazione, l’esplosione del movimento femminista” entrando “come protagonisti in questa festa hanno de­ cretato la morte del festival di Re Nudo”. La crisi della militanza e il duro bilancio tra esigenze soggettive e oggettive di una pratica politica che non era riuscita a rinnovarsi, né a misurare la propria tattica sulla strategia dell’avversario, hanno poi particolarmente colpito questo terreno avanzato della esplicitazione dei bisogni e dei desideri. La tensione è rivolta a uscire dall’incubo Parco Lambro per por­ tare le lotte e la festa non più in spazi circoscritti, diventati ormai ghetto, ubbidendo al diktat di scadenze annuali, ma all’interno della metropoli. Il processo, accelerato vistosamente dalla delusione per le elezioni politiche del giugno 1976, dalla violenta repressione polizie­ sca, dalle operazioni di riassetto del ciclo produttivo che trasforma­ no alla base la precedente composizione operaia e la collusione del Pci che ne favorisce l’attuazione con la politica del Compromesso storico, porta in brevissimo tempo a stilare una linea di programma che spianerà la strada al movimento del ’77. 153

La rivista “Rosso” di Milano ne traccia con chiarezza le linee nel luglio del 1976: c’è “la consapevolezza di riunificare in forme di lot­ ta e di organizzazione i bisogni espressi dal proletariato giovanile al Lambro con le lotte degli operai contro il lavoro, con le lotte dei di­ soccupati contro il salario, con l’attacco dei carcerati allo stato re­ pressivo, con il rifiuto dell’oppressione maschilista da parte delle donne. Torniamo nei quartieri e nelle fabbriche perché il fiore di ri­ volta sbocciato al Lambro si moltiplichi in cento fiori di organizza­ zione, in mille episodi di riappropriazione, in solide basi di contro­ potere. In capacità di organizzare per il prossimo anno una grande festa: la festa contro la metropoli.”16 Con il giro di boa del giugno del 1976 si trasformano anche i vecchi Circoli del Proletariato giovanile, svuotatisi dopo la crisi. In­ torno al novembre del 1976 compaiono infatti i nuovi circoli giova­ nili, che “rifiutano l’aggettivo "proletari per distinguersi dai circoli preesistenti”. Sono il frutto della trasformazione degli ormai decaduti “Comi­ tati antifascisti di quartiere”, uno dei bracci politici del Movimento lavoratori per il socialismo (Mls), che pur avendo una posizione filo­ stalinista (e quindi contraria ai “creativi”), rilancerà in un primo mo­ mento il movimento, prima di sprofondare in una insanabile crisi. “Per un paio di mesi il movimento rinasce geometricamente, come funghi i nuovi circoli nascono in decine di quartieri: Apache, Occhio, Falce e Mirtillo si affiancano ai vecchi Bovisa, Ticinese, Quarto Og­ giaro, Chiesa Rossa e Lotto”.17 Molti di questi non svolgono più attività legate al quartiere di ap­ partenenza, ma si fanno promotori di azioni territorialmente genera­ li. Assumono sempre più peso i giovani delle “riserve metropolitane” che come gli indiani d’America (si definiscono infatti “indiani me­ tropolitani”) si sentono criminalizzati ed emarginati dal processo produttivo, ma allo stesso tempo ribelli e orgogliosi. Viene promossa e praticata la campagna per l’autoriduzione del biglietto del cinema a 500 lire nelle sale di prima visione e contro la distribuzione dei film di terza categoria nei circuiti periferici, si diffondono le pratiche di esproprio nei supermercati, mentre sul piano delle trattative si sotto­ pone alla giunta comunale una lista di richieste tra le quali l’espro­ prio ufficiale di spazi sfitti da adibire a centri sociali. Non a caso il manifesto dell’Happening del Proletariato giovani­ le promosso dai nuovi circoli il 27-28 novembre all’Università Stata­ le di Milano, che ospita tutta la gioventù creativa, è sovrastato dall’e­ norme tomahawk degli Indiani metropolitani che dichiarano “Ab­ biamo dissotterrato l’ascia di guerra!” Dopo questo convegno la strada del ’77 è spianata. Dal docu­ mento conclusivo emerge una linea che non lascia adito a equivoci: 154

“È necessario aprire uno scontro, liberare le contraddizioni. Uno scontro per affermare i bisogni reali dei giovani, per definire e con­ quistare una vera autonomia, per battere una concezione della poli­ tica e della militanza intesa come negazione di se stessi e come paura di esprimere i propri bisogni di vita. Perché nel movimento i giovani non sono ancora tutti uguali perché differenti sono i bisogni, perché sta uscendo la coscienza che la soluzione è solo nelle nostre mani.” La dichiarazione di guerra dei Circoli culmina nell’assalto alla Prima della Scala la sera del 7 dicembre 1976, già progettata e resa nota a tutti durante l’Happening. Ma è un bilancio da sconfitta mili­ tare: 250 fermati, 30 arrestati e 21 feriti di cui alcuni gravi, chiudono sul nascere l’ultima sfida violenta dei Circoli alle istituzioni e al pote­ re politico milanese. E se l’iniziativa politica a Milano subirà un len­ to sgretolamento per scivolare verso il “no future” degli anni Ottan­ ta, l’iniziativa del movimento si sposterà prima a Roma e poi a Bolo­ gna nel 1977 a rivendicare il diritto alla vita.

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11.

CASA MIA

LA RIAPPROPRIAZIONE DEL TERRITORIO.

“spazi liberati” e “tempo liberato”: premessa teorica

Abbiamo finora visto come la nuova intellighenzia antagonista degli anni Settanta leggesse il territorio in diversi modi: come un dato strutturale dell’organizzazione del capitale, come nuovo soggetto po­ litico emergente nonché come nuovo terreno di lotta. A queste con­ clusioni si arriva per l’estendersi dello scontro di classe sul terreno del sociale, e osservando le oggettive condizioni di vita imposte dal capitale ai lavoratori. Riattivare processi di comunicazione e confronto intersoggettivi a partire dalla messa in discussione delle condizioni della propria vi­ ta materiale (problema degli affitti, degrado dei quartieri, diritto alla casa per le coppie non sposate...) sono tutti elementi che vanno a sommarsi in un’unica sintesi: creare degli “spazi liberati” in cui po­ ter vivere i rapporti tra uomo e donna, tra individuo e natura, tra vi­ ta privata e vita sociale, tra lavoro e tempo libero. La pratica dell’autogestione nasce quindi come momento risoluti­ vo all’ingovernabilità da parte del potere dei conflitti emergenti sul ter­ ritorio, ed è preceduta da un’analisi di tipo materialista sulle relazioni tra sviluppo del territorio e modo di produzione capitalista. Come osserva Moroni: “Questa teoria ha demolito irreversibil­ mente il castello disciplinare che la cultura borghese ha costruito per mascherare e confondere in cento aspetti settoriali la logica comples­ siva che guida lo sviluppo capitalistico, smascherando nello specifico il mantenimento del sistema borghese attraverso l’esercizio del pote­ re con il controllo e la repressione sulla classe operaia.”1 In sostanza, l’apparato istituzionale frantuma, smembra, partico­ larizza la globalità della esperienza della vita dell’individuo in mo­ 156

menti separati funzionali alle esigenze del processo capitalistico. Su questo Claudia Sorlini dice: All’esigenza concreta dell’impossessamento globale dell’uomo in tutte la sue manifestazioni, la logica del capitalismo risponde percorrendo la stra­ da tattica della proliferazione dei luoghi dello scontro di classe: dal topos del momento produttivo a quello parcellare delle istituzioni sociali in cui racchiude singoli frammenti del suo sistema globale di dominio fino a sot­ tomettere tutta la vita fisica e sociale al bisogno di valorizzazione del capi­ tale, fino a che tutto il tempo di vita delle masse diventa tempo socialmen­ te necessario alla creazione e alla realizzazione del plusvalore.2

Ma se da un lato la progressiva espansione del capitale sul terre­ no urbano richiede che ogni aspetto sociale sia sottomesso ai suoi processi di produzione e valorizzazione, dall’altro la diffusione delle lotte anticapitaliste ed esistenziali di cui sopra, costringono il capita­ le a concentrarsi esclusivamente su certe porzioni di territorio imme­ diatamente funzionali alla sua logica, lasciando le altre in una condi­ zione di “anarchia paleocapitalista”, in cui è demandato al ruolo re­ pressivo dello stato mantenerne i limiti di compatibilità (repressione che urbanisticamente si concretizza nella formazione di “isole terri­ toriali” del capitale, nella nuova pratica dello zoning, e nel vecchio “risanamento” delle aree meno redditizie, ora complicato dalle lotte degli inquilini). Così questa pratica della “città-bersaglio” voluta dal capitale in cui le aree più vicine al centro hanno un valore superiore a quelle periferiche, lascia dei vuoti e dei tessuti di resistenza, che non a caso si concentrano in punti ben definiti: - Nei quartieri-ghetto creati dal capitale per accogliere la forza lavoro residuale a esso funzionale per la sua produzione e valorizza­ zione. (Quarto Oggiaro, Quarto Cagnino, Baggio, Barona, Lorenteg­ gio, Ortica). - Negli stessi quartieri in cui erano state create delle “strutture di consenso” (i circoli Iacp) come pacificatori sociali, poi smascherate e trasformate dall’intelligenza delle forze politiche e giovanili in sedi di opposizione al modo di vita urbana in quanto prolungamento dello sfruttamento in fabbrica. (Rozzano, Tessera, Gallaratese, Quarto Og­ giaro...) - Nei vecchi quartieri a forte coscienza operaia. (Sesto San Gio­ vanni, Padova-Crescenzago, Vigentino-Romana, Porta Genova). - Nelle zone centrali a componente studentesca, artigianale e pic­ colo borghese appena lambite o minacciate dal processo di terziariz­ zazione, dove ci si batte contro il servizio istituzionale attaccandone la gestione e contrapponendone una alternativa. (Garibaldi, Isola). - Nelle aree a più forte memoria storica e a più forte tolleranza tra classi sociali (Ticinese, Genova). Inquadrati territorialmente iluo­ 157

ghi in cui sono destinati a sorgere i nuovi Centri, il problema diven­ ta ora sul come utilizzare il “tempo liberato” in relazione al nuovo “spazio liberato”. Su questo l’area dell’underground aveva già espresso la necessità di un impiego più umano del tempo libero proletario, promuoven­ do la vita in comune, anche attraverso la pratica delle feste. La con­ trocultura affronta la questione alla base. Essa si rende conto che i tempi lasciati vuoti dalla produzione del plusvalore diventano com­ plementari per chiudere il ciclo di accumulazione capitalista. Nel tempo libero si vorrebbe insomma imporre al proletario di “resti­ tuire nel sociale in denaro al proprio sfruttatore quello che gli è sta­ to estorto come plusvalore in fabbrica”.3 Ma se questi erano i pro­ grammi del capitale, essi finiscono per suggerire ai nuovi movimen­ ti di lotta (e anche ad altri strati intermedi non direttamente pro­ duttivi) le linee di occupazione territoriale e politica dello spazio e del tempo “liberati”: - riappropriazione diretta della casa, della città e del territorio, ri­ fiutandone il valore di scambio e imponendone i propri valori d’uso. - trasferimento della battaglia sul terreno del salario reale, coin­ volgendo nello scontro di classe anche quei settori sociali che in va­ ria misura avevano accettato il raggiro ideologico capitalistico, collo­ candosi volontariamente - a differenza del proletariato che ne cono­ sce il suo volto più brutale e violento - nell’area della sua egemonia (per esempio coloro che avevano preso per buone certe strutture “del consenso”, come i Decreti delegati nella scuola o il decentra­ mento amministrativo ecc.) È alla luce di queste riflessioni che i Centri sociali assumono una propria collocazione all’interno della logica spazio/tempo “liberati” e in un più complessivo discorso di riappropriazione della vita: come episodio esemplare di lotta maturata nel contesto specifico dello scontro di classe sul territorio nelle sue manifestazioni più avanzate, per rimettere in discussione la natura capitalistica della città e av­ viarne il processo di restituzione ai valori d’uso. DALLE “STRUTTURE DEL CONSENSO” ALLE PRIME OCCUPAZIONI

I centri sociali autogestiti nascono anche per colmare il vuoto la­ sciato dalle strutture associative tradizionali. La loro origine risale al dopoguerra ed è connessa alla nascita e alla crescita dei giovani par­ titi e delle organizzazioni di massa: Società di mutuo soccorso, Cir­ coli cattolici dell’opera dei congressi, Case del popolo del movi­ mento socialista... Le strutture di ricreazione più prettamente popolari che durante il fascismo costituiscono l’Opera nazionale del dopolavoro, dopo la 158

Liberazione si trasformano in Enti nazionali di assistenza ai lavorato­ ri (Enal), e consistono inizialmente di circa 15.000 Circoli ricreativi aziendali (Cral). I Cral che offrono una serie di vantaggi (riduzioni del 30% sui cinema e altre manifestazioni culturali e sportive) sono visti inizialmente dalle sinistre (Pci e Psi) nell’ottica della “ideologia della Ricostruzione”, cioè come momento unitario di lavoro politico. Molti militanti si impegnano così nelle basi dei Cral e nella direzione dell’Enal per influenzarne politicamente le iniziative. Ma i rapporti tra la direzione Enal, democristiana, coadiuvata da altre strutture di tipo confessionale (Adi, Coldiretti, Endas, Commissariato delle Gio­ ventù italiana ecc.) e le nuove tendenze moderniste dei Cral non tar­ dano a degenerare. È la spinta delle giovani generazioni insoddisfatte dalle cooperati­ ve dei circoli aziendali e dalla noia mortale dei quartieri a spingere la Fgci nel 1957 a dotarsi di una struttura propria, l’Arci, rinunciando a investire energie nella rigida struttura dell’Enal. Mentre i circoli Cral scendono da 16.000 nel 1950 a 9000 nel 1960, l’Arci nella totale diffi­ denza del Pci inizia a definirsi come struttura innovativa di coordina­ mento accogliendo circoli, associazioni ed enti culturali, ricreativi, mutualistici, sportivi, turistici ecc. Gli obiettivi sono legati al particolare impegno all’assistenza le­ gale dei circoli affiliati, alla creazione di una cineteca nazionale e alla promozione di iniziative teatrali. Ma è proprio un caso nato riguardo a un’iniziativa teatrale (lo scontro tra il gruppo teatrale di Dario Fo e il Pci su uno spettacolo in cui si accusava l’Urss di avere fornito armi alla Grecia dei colonnelli, vicenda che porterà il gruppo a abbando­ nare l’Arci) che di colpo l’Arci palesa i suoi limiti rivelandosi vertici­ stica e più attenta a moltiplicare il numero degli iscritti che non alla loro composizione di classe, tanto da essere etichettati dalle frange anarchiche “i burocrati della cultura” al servizio del capitalismo.4 “Quello che l’Enal affossò e che l’Arci non riuscì a recuperare, spie­ ga Srolini, cioè l’autogestione del proprio tempo ai fini di coltivare la creatività, restò un vuoto che i centri sociali cercarono di colmare, non solo come produzione e diffusione di cultura proletaria e popo­ lare, ma anche reinventando la capacità di comunicare anche sul pia­ no umano, come alternativa all’alienazione.”5 Parallelamente alla nascita dei circoli Arci intanto si sviluppano con ben altre intenzioni centri sociali gestiti dall’iniziativa pubblica: i circoli Iacp di cui venivano dotati a partire dagli anni Cinquanta gli insediamenti di edilizia pubblica residenziale. Questi circoli so­ no progettati in modo tutt’altro che innovativo, fungendo anzi da “strutture del consenso”, funzionali cioè al mantenimento della pa­ ce sociale proprio nei luoghi a più alta emarginazione. Il primo è al Lorenteggio, poi nel Corvetto e nei vecchi quartieri di via Varesina, 159

Barilli e viale Molise. Altri sorgono nel 1958 alla Comasina (proget­ tata come città satellite ma rimasta isolata) e nei grandi ghetti (Ol­ mi, Gratosoglio, Gallaratese, Rozzano, Tessera e Quarto Oggiaro). Sono proprio questi circoli Iacp che permettono di inquadrare al meglio la fase di passaggio da una gestione tutta rivolta all’interno dell’assistenza pubblica a una lenta riappropriazione da parte della base della propria autonomia. È infatti negli stessi quartieri Iacp, che nel 1968-69 si sviluppa lo sciopero per la casa; che alla fine del marzo 1968 nascono centri di dibattito sulla contestazione (Bovisa e Stadera) e che, a partire dal 1969, sorgono negli stessi centri Iacp i luoghi di riunione della Nuova sinistra, fino a svuotare compietamente nel dicembre 1970 i centri istituzionali, che diverranno poi i servizi decentrati dei consigli di zona. L’insufficiente risposta data ai problemi posti sul terreno dei servizi dalla giunta rossa nel 1975, non fa che accelerare il processo già in corso di occupazione dei Centri sociali. I PRIMI CENTRI SOCIALI AUTOGESTITI, DAL

1975 AL 20/6/1976

Le prime strutture autogestite che compaiono a Milano e nei quar­ tieri nel 1975-76 presentano allo stesso tempo affinità e alcune diver­ sità “soggettive”. “Comune denominatore potrebbe essere la generi­ ca esigenza di spazi associativi dove praticare una modifica di rap­ porti personali, interpersonali e sociali”:6 spazi dove praticare e con­ solidare operazioni di attacco alle contraddizioni capitalistiche uo­ mo-donna, personale-politico, lavoro-tempo libero, dove si ponga in concreto il problema della cultura alternativa. Ed è soprattutto nel vissuto quotidiano dei quartieri marginali (contatto con la disoccu­ pazione e il lavoro nero, sbriciolamento di ogni modello di riferi­ mento e di identità), che sta il nuovo punto di partenza dei nuovi Centri sociali. È in queste strutture che si evidenziano le differenze rispetto al ’68, già a partire dagli stessi nomi dei collettivi, come per esempio “Falce e Mirtillo” al posto di Falce e Martello. Se nel ’68 il punto di partenza era rappresentato dalla fabbrica e dalla scuola, ovvero i luoghi dove emergevano le contraddizioni del­ la condizione soggettiva di lavoro e di studio e dove si coglieva la propria condizione sociale nella dimensione collettiva, questa con­ dizione al contempo non permetteva di contrapporvi un progetto al­ ternativo, parziale ma praticabile fin da subito, di relazioni umane li­ berate, incentrate su una concezione antagonista della vita quotidia­ na, della solidarietà e dell’amore. I Centri sociali del 1975 recuperano queste esigenze, articolan­ dole con modalità differenti: condizioni fisiche del luogo occupato, precarietà dell’occupazione, natura dell’occupazione (e di chi l’ha 160

promossa), livello degli organismi di base presenti, livello di gestione del centro, capacità politiche, capacità di coinvolgimento di tutto il tessuto del quartiere. Il combinarsi di questi elementi produce da una parte una spinta organizzativa immediata, ma dall’altra una serie di dinamiche improntate alla separatezza e distanza politico-cultura­ le dall’area operaia, che già prefigurano l’incerto futuro del movi­ mento. Alcuni di questi centri nascono dall’impegno dei comitati di quartiere di fare qualcosa di diverso dal lavoro svolto comunemente dai comitati stessi. Il tentativo è di entrare in contatto con i proletari del quartiere, i giovani, le donne e gli anziani in modo non conven­ zionale attraverso questionari, dibattiti e attività varie.181 Altri centri nascono per la spinta di forze politiche, collettivi di giovani e di donne, organismi politico-culturali di base, con l’esigen­ za di creare degli spazi in cui organizzare attività culturali e ricreati­ ve, tra cui la costruzione di un comitato di quartiere. Per esempio il Centro sociale Leoncavallo copre quasi subito un notevole arco di attività (scuola e doposcuola popolare, un gruppo di teatro, un altro di animazione per bambini, uno di cinema, un laboratorio di foto­ grafia, uno di grafica, una palestra e un’officina tipografica) e crea conseguentemente più spazi differenziati. Nel Centro sociale Isola nasce uno dei comitati di quartiere più vecchi e significativi di Mila­ no e viene gestito, oltre che da un certo numero di componenti di base, anche da soggetti che cercano di sperimentare, tramite la “mi­ litanza” nel Centro, una nuova sintesi tra dimensione personale e impegno politico (qui nasce un asilo-nido autogestito in un quartiere dove non esistevano asili-nido comunali). Nel Centro Santa Marta, dov’è egemone il Circolo La Comune di Dario Fo, si organizzano la­ boratori di produzione (grafica, cinema, audiovisivi, maschere) e corsi di insegnamento (teatro, musica e animazione) il cui scopo è quello di formare operatori culturali che possano essere funzionali anche ad altri centri. Per questo il Centro Santa Marta diviene fin da subito un polo di attrazione a livello cittadino, trascendendo i limiti del proprio quartiere (il Centro) fino allo sgombero nell’agosto ’77, secondo i canoni della ben nota pratica “estiva” della repressione. In alcuni centri il Comitato di quartiere nasce a seguito dell’occupazio­ ne del centro sociale stesso. Il tipo di intervento descritto privilegia le tradizionali attività di agitazione e propaganda a scopo di recluta­ mento: autoriduzione dell’affitto, mercatini rossi, vertenze con il Cuz e il Comune. Altri centri nascono con notevoli problemi di fon­ do (stabile particolarmente degradato, problemi di gestione, scarsa credibilità agli occhi del quartiere...) che diventeranno in seguito in­ gestibili. Ci sono poi strutture che si collegano direttamente all’area giovanile ma senza stabilire con l’esterno null’altro che rapporti me­ 161

diati o saltuari. Infine, esistono centri dediti ad attività di quartiere, con spazi di discussione e partecipazione di base, alla ricerca di lega­ mi concreti tra centro e sociale (produzione-ricerca e sperimentazio­ ne culturale di portata cittadina). Da un’indagine pubblicata nel 1978,8 da cui abbiamo estratto la maggior parte del materiale fin qui riportato, risulta che i centri so­ ciali aperti nel 1975-76, prima della crisi del 20 giugno 1976 sono 24. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24.

Ex Caserma di Baggio, maggio 1975 Ex Cinema all’aperto, Cologno maggio 1975 C.S. via Pianelli, 15 maggio 1975 C.S. Brasili di via Saponaro, 8 giugno 1975 C.S. di via Moroni, 5 giugno 1975 C.S. di via Bovisasca, giugno 1975 C.S. Palazzina Nuova di viale Puglie, 33 giugno 1975 C.S. Santa Marta di via Santa Marta, 25 settembre 1975 C.S. Isola di via de Castilla, 11 settembre 1975 C.S. di via Pezzotti, settembre 1975 C.S. di Villa Cacherano, San Giuliano di Cologno, settembre 1975 C.S. Leoncavallo, di via Leoncavallo, ottobre 1975 Fabbrikone di via Tortona, ottobre 1975 C.S. La Cascina (Barona, novembre 1975 C.S. di corso Lodi 95, dicembre 1975 C.S. Villa Gioiosa, Ospitaletto di Cormano, dicembre 1975 C.S. Vigentino, dicembre 1975 C.S. di corso Garibaldi, inverno 1976 C.S. San Giuliano, marzo 1976 C.S. di via Sammartini, 31 febbraio 1976 C.S. Ponte Lambro di via Bonfandini 272, febbraio 1976 C.S. di via delle Rose (Lorenteggio), febbraio 1976 C.S. di via Argelati, primavera 1976 C.S. di via Correggio 18 (ex Mellin), aprile 1976

Con l’avanzare delle esperienze però, alcuni centri imposteranno una vertenza rivendicativa con il comune di Milano. Molti elementi concorrono verso questo esito: la precarietà dello stato di occupazio­ ne, la mancanza di garanzie relativamente a un lavoro continuativo, il problema dei rapporti con la proprietà, la questione del possibile sgombero, l’inadeguatezza di certi stabili e il loro degrado, il rifiuto dei collettivi femministi verso qualsiasi pratica politica tradizionale che reimpostasse in termini di scadenze esterne o di efficientismo la pratica politica (esemplari in questo senso sono la costituzione ac­ canto al Leoncavallo di un centro autonomo di sole donne in via 162

Mancinelli e le occupazioni di sole donne in via Rugabella), l’incapa­ cità da parte del Pci di cogliere quanto di positivo poteva provenire da queste forme associative che esprimevano comunque una reale esigenza di partecipazione. Tutte queste problematiche, come già ac­ cennato in precedenza, portano circa dieci centri del Coordinamen­ to autonomi ad aprire nella primavera del 1976 una vertenza con il comune di Milano sulla base di una piattaforma in tre punti, di cui solo il primo verrà parzialmente affrontato, vertenza che porterà allo scioglimento del coordinamento. I tre punti erano: 1) garanzia asso­ luta dagli sgomberi, con richiesta di intervento della Prefettura per fermarli; 2) requisizione o assegnazione degli stabili occupati; 3) fi­ nanziamento per le attività culturali. L’insoddisfazione dovuta al fallimento della vertenza del Coordi­ namento dei centri sociali con la giunta comunale rappresenta una delusione per i militanti dei centri, ma soprattutto finì con l’impedire che questi si sviluppassero in una direzione più costruttiva. Il colpo di grazia alla prima stagione dei centri sociali arriva il 20 giugno del 1976 con le elezioni politiche anticipate. La delusione per la tenuta della Dc (che si pensava fosse in fase di irreversibile declino dopo la sconfitta referendaria sul divorzio e sull’aborto), per i modesti risul­ tati di Democrazia proletaria e per il relativo cambiamento del qua­ dro politico, rispetto alle aspettative, inducono a una profonda tra­ sformazione dei centri sociali. Per un periodo che dura fino all’autunno del 1976 questi “si svuotano, cessano le loro attività, subiscono una forte crisi di iden­ tità e di riferimenti e vengono usati, nei casi migliori, in modo pri­ vatistico o per attività accidentali”. “Le mura delle case diventano barriere di isolamento dal quartiere e dal resto del tessuto disgrega­ to e i centri delle strutture, come tante altre senza nessuna vitalità di segno contrario.” Rinasceranno nell’autunno 1976 con altre caratteristiche (dibat­ tito sulla funzione della cultura, sul costo e la programmazione degli spettacoli cinematografici, sul decentramento culturale e sull’inter­ vento pubblico in questo settore) che per certi versi saranno la nega­ zione del centro sociale così come era stato concepito nel 1975. Molte sedi dei vecchi centri chiuderanno, per spostarsi in luoghi più funzionali alla nuova linea, ma perdendo il senso del quartiere di ap­ partenenza. Questi nuovi centri coinvolgeranno direttamente l’area giovanile, ma perderanno i vecchi militanti della Nuova Sinistra. Si concentreranno su tematiche estremamente specifiche, promuoven­ do e coltivando i futuri movimenti antagonisti giovanili, ma perde­ ranno identità e contatto con il reale fino a fare proprio il “no futu­ re” del punk. Ma tutto ciò rientra nel più vasto turbine del movimento ’77. 163

LA RETE INFORMATIVA DELLA CONTROCULTURA: LE RADIO PRIVATE

I “privati” dell’etere fanno la loro comparsa in Italia nei primi mesi del 1975 con le prime trasmissioni di Radio Parma in gennaio e di Ra­ dio Milano International e Radio Emmanuel di Ancona in marzo. Inizialmente operanti nella totale incostituzionalità, le radio e le tele­ visioni private vengono successivamente legalizzate il 26/6/1976 per effetto di una sentenza della Corte costituzionale dopo un lungo braccio di ferro con lo stato, detentore sino ad allora del monopolio della diffusione radiotelevisiva. Con la liberalizzazione dell’etere del giugno 1976, perle 200 emit­ tenti private esistenti in Italia (67 nel novembre 1975) svanisce anche l’incubo, concretizzatosi più volte, del sequestro delle apparecchiatu­ re da parte della Escopost o, nel migliore dei casi, dell’ingiunzione al silenzio radio. E anche se, una volta “libere”, la stragrande maggioran­ za delle emittenti opta per la pur professionale pratica dell’arrembag­ gio all’audience, finendo con l’imitare il mummificato stile dell’ente statale, un manipolo di radio “democratiche” (Radio Canale 96 e Ra­ dio Milano Centrale di Milano, Radio Alice di Bologna, Radio Brà Onde Rosse, Radio Cuneo Democratica, Radio Città Futura di Roma, Radio Maria Giovanna di Rimini ecc.) si pone invece il problema di fornire all’utenza una vera e propria alternativa alla Rai, a partire so­ prattutto dalla gestione degli spazi riservati alla cultura e all’informa­ zione. E non solo... Nel palinsesto delle radio democratiche non mancano aggiorna­ menti sulla cronaca cittadina, i notiziari sindacali, rubriche per la don­ na e gli studenti, spazi aperti alle minoranze, programmi di arte e mu­ sica alternativa e, come per Radio Alice di Bologna, radiocronache in diretta degli scontri di piazza, con elargizione di consigli utili ai dimo­ stranti (fatto che motiva la definitiva disattivazione degli impianti e il loro relativo sequestro da parte dell’Escopost il 12 marzo 1977).9 Fatte queste considerazioni, non deve sorprendere come in una radio a intrattenimento spettacolare (Milano International, Montestella) la percentuale di musica trasmessa si aggiri intorno al 70%, per scendere al di sotto del 30% per le radio “democratiche”. Tanto basta perché una radio spettacolare, che impiega DJ professionisti e trasmette dischi regalati dalle stesse case discografiche, venga pron­ tamente riassorbita dalla strategia capitalista, mentre un’emittente “libera” continui ad assumersi in prima persona le spese e i rischi del­ la propria programmazione che, in alcuni casi, oltrepassa il limite della costituzionalità. A Milano le prime voci tese ai problemi di autentica gestione al­ ternativa dell’informazione e a fatti essenziali della vita cittadina con svelti e sintetici notiziari su problemi sociali e sindacali sono dal 1975 164

Canale 96 e Radio Milano Centrale, seguite nell’autunno del 1976 da Radio Popolare, fondata con l’unificazione delle due diverse espe­ rienze. Dal testo di Marco Gaido sulle radio private in Italia alla fine degli anni Settanta ci giunge anche una breve descrizione dei pionie­ ristici capisaldi dell’informazione democratica via etere: - “Radio Milano Centrale alle origini disponeva di una catena di informazioni di vita cittadina attraverso un costante collegamento con i tassisti democratici di Milano, ed era quindi in grado di forni­ re tempestivamente notizie su manifestazioni e cortei in ogni parte della città. Si collegava con fabbriche occupate e dava ampio spazio alla condizione della donna e alla voce delle minoranze. Anche la pubblicità è in qualche modo alternativa: reclamizzava la catena Coop e i negozi che offrivano beni a prezzi popolari. Il suo indice massimo di gradimento è raggiunto da "Il giornale della donna’ e dai notiziari delle 7,30 e delle 13, con punte d’ascolto di 196.000 perso­ ne e 94.000 di media. - “Radio Canale 96 (dotata parallelamente una frequenza televi­ siva) trasmette ‛otto notiziari, servizi sulle fabbriche, scuole, sui pro­ blemi della donna e un rotocalco radiofonico di cultura e spettacolo alternativo’ - “Radio Popolare, nata nell’autunno 1976 e tutt’ora esistente, pur non definendosi "la radio del Movimento’ per evitare di essere fraintesa come la "portavoce delle assemblee giovanili’, cerca di "toc­ care, oltre naturalmente ai giovani, una vasta fascia di casalinghe e la­ voratori dai 25 ai 50 anni che non necessariamente fa dell’attivismo politico ma che, orientata a sinistra, cerca uno strumento di comuni­ cazione e di informazione più vicino al suo modo di pensare’.” Fermo restando la validità delle radio democratiche nell’ambito dell’informazione, soprattutto in seno al vasto movimento del ’77 molte di queste emittenti non sono sopravvissute a lungo, probabil­ mente per la stessa ragione che aveva portato allo sfascio la contro­ cultura: la grande separatezza con i rispettivi quartieri. “Cosa se ne fanno” si chiede Gaido “Roma e Milano di 30 emittenti troppo stac­ cate dal tessuto sociale in cui lavorano? ...mentre una sola emittente cittadina potrebbe sintetizzare tutto, “con minore dispersione dell’u­ tente e minore dispersione della stessa su 4 o 5 emittenti simili.” In sintesi è questo il motivo per cui oggi a Milano sopravvive tra le ra­ dio “democratiche” la sola Radio Popolare. A ciò si deve però ag­ giungere anche la crescente e spietata concorrenza delle radio spet­ tacolari, ormai arrivate a un livello di integrazione totale con la stra­ tegia capitalista delle merci, con una programmazione musicale fles­ sibilissima (dediche a richiesta, hit parade, classifiche personali, ac­ celerazione programmata del ricambio musicale ecc.) e notevoli ca­ pitali alle spalle. 165

SCRITTI SULLA CITTÀ di Primo Moroni

UN CERTO USO SOCIALE DELLO SPAZIO URBANO1 Primo Moroni

Abbiamo visualizzato sulle “cartine” topografiche che seguono lo spostamento dei movimenti nello spazio urbano di questa città. Sappiamo che il vezzo di tracciare mappe, gerarchie, discendenze, profili, è quasi sempre piuttosto arbitrario. Questa rapida visualiz­ zazione dei topoi dei movimenti degli ultimi decenni non ha un ca­ rattere esaustivo né tantomeno ambizioni di teoria generale, ci è sembrata però utile per mostrare come il muoversi nel tessuto urba­ no dei movimenti antagonisti si incroci con le differenti forme del “fare politica”, con i modi di fare rappresentanza di sé nei confronti dei “luoghi del potere” e con i differenti modi di organizzarsi e di rendersi visibili. Sappiamo che, per larga parte, questo aspetto del racconto di sé incrociato con il racconto del territorio non viene quasi mai avverti­ to - per l’importanza che gli compete - nelle sue valenze spontanee dagli stessi soggetti che ne sono protagonisti, ma sappiamo anche che l’intelligenza collettiva che si mobilita nei territori urbani ha - al con­ trario - quasi sempre chiari sia i processi sia gli obiettivi che ne de­ terminano le dinamiche interne. La mappa n. 1 visualizza un certo momento di organizzazione che i movimenti rivoluzionari degli anni Settanta si erano conquista­ ti all’interno delle “gerarchie” territoriali della metropoli milanese. Siamo nei primi anni Settanta, la stagione movimentista del ’68 appare piuttosto “sfumata” mentre le lotte straordinarie dell’“autun­ no caldo” hanno posto con forza la centralità della classe operaia co­ me motore fondamentale di qualsiasi trasformazione possibile dello “stato di cose presente”. Dopo la “strage di stato”, la “strategia del­ la tensione” appare a tutti come una delle armi più insidiose e odio­ se messa in atto dalla borghesia. Molti sono convinti che i padroni, 168

1. Sedi politiche del triangolo urbano della zona Sud (Ticinese e dintorni) 1972-79

C.R.M.P. (Centro ricerche modi di produzione) COMITATO VIETNAM COLLETTIVO AUTONOMO TICINESE C.A.F. (Comitati antifascisti) C.R.A.A.P. (Centro comunista ricerche sull’autonomia proletaria poi “Wobbly/Collegamenti”) 6) AVANGUARDIA OPERAIA 1) 2) 3) 4) 5)

7) REDAZIONE “CONTROINFORMAZIONE” 8) AUTONOMIA OPERAIA - REDAZIONE “ROSSO” 9) CENTRO DOCUMENTAZIONE SCUOLA (c/o Calusca) 10) SEDE ANARCHICI via Scaldasole 11) LIBRERIA CALUSCA (vicolo Calusca) 12) “IL MANIFESTO” 13) LOTTA CONTINUA 14) PDUP (Partito di unità proletaria) 15) COMUNE LIBERTARIA 16) COMUNE LIBERTARIA 17) SCUOLA POPOLARE 18) COMUNE OPERAIA 19) COCULO (Comitato comunista di unità e di lotta) 20) SCUOLA POPOLARE 21) REDAZIONE EDIZIONI ORIENTE 22) LIBRERIA SAPERE 23) EDIZIONI SAPERE 24) EDIZIONI MAZZOTTA 25) COOPERATIVA PUNTI ROSSI 26) PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALISTA 27)MOVIMENTO STUDENTESCO DELLA STATALE 28) CIRCOLO LA COMUNE 29) STABILE OCCUPATO 30) COMUNE URBANA 31) RADIO CANALE 96 EX ALBERGO SIVIGLIA OCCUPATO 32) LIBRERIA CLAUDIANA COM-NUOVI TEMPI 33) COLLETTIVO LAVORATORI A.T.M. 34) COLLETTIVO LAVORATORI-STUDENTI FELTRINELLI 35) LIBRERIA CALUSCA 2 (c.so di P.ta Ticinese, 48) 36) OCCUPAZIONE VIA TORRICELLI e csoa anarchico 37) OCCUPAZIONE VIA CONCHETTA e csoa anarchico 38) ASILO ANTIAUTORITARIO AUTOGESTITO (ERBA VOGLIO) 39) ASILO FEMMINISTA AUTOGESTITO via Verga 40) COLLETTIVO BAMBINI MANO IN ALTO via Torino

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nell’impossibilità di controllare e addomesticare l’ondata di rivolta, abbiano deciso di spostare lo scontro anche sul “piano militare”. E questa convinzione (si badi bene non l’unica motivazione, ma una delle molte e diversificate) avrà una sua incidenza nella decisione di passare da “movimento” a organizzazione. E fare organizzazione si­ gnifica avere sedi politiche, sezioni sparse sul territorio, presenza or­ ganizzata nei luoghi di lavoro. Significa avere militanti fedeli, diri­ genti, segreterie, ma significa anche porsi in conflitto con le organiz­ zazioni ufficiali dei partiti di sinistra, con i sindacati ufficiali, con l’in­ tero sistema dei partiti e anche con le sedi di rappresentanza e pote­ re dove gli stessi controllano il governo della città. Significa in defi­ nitiva passare da un modello movimentista, assembleare, orizzontale, a una struttura verticale e centralizzata. Appare quindi ovvio che le cosiddette “formazioni extraparla­ mentari” decidessero di muoversi nel territorio urbano alla ricerca di luoghi dove aprire sedi politiche che avessero le caratteristiche di esse­ re il più possibile vicino al centro storico cittadino e, particolarmente nel caso milanese, al cuore del potere politico e finanziario. Questa dinamica che tende a incrociare la “verticalizzazione or­ ganizzativa” con un’equivalente verticalizzazione territoriale verso e contro i luoghi del potere costituito, si ripeterà con caratteristiche di­ verse negli anni successivi, ma non raggiungerà mai più né la con­ centrazione del periodo 1972-76 né il significato simbolico prece­ dente. E non si ripeterà proprio perché andranno in crisi tutti i mo­ delli organizzativi precedentemente conosciuti. A questa breve e sintetica premessa metodologica è necessario aggiungere una riflessione connessa allo sviluppo squilibrato che la metropoli milanese ha avuto nel suo evolversi produttivo e indu­ striale. A chiunque capiti tra le mani una pianta topografica della città risulta evidente come la stessa abbia avuto nel corso dei decen­ ni uno sviluppo squilibrato tra la sua parte Nord e la sua parte Sud. Nel Nord e nel Nord-est la città si è dilatata ben oltre i confini co­ munali e nelle stesse zone si è avuta la massima concentrazione di svi­ luppo industriale, il risultato visibile e percepibile è quello che vede i grandi quartieri operai e popolari della zona Nord-nord-est (Lam­ brate, Crescenzago-Padova, Gorla e, via via, fino a Sesto S. Giovan­ ni ecc.) assai più distanti dal centro storico di quanto lo siano quelli della zona Sud (Ticinese-Genova, Romana-Vigentina ecc.). Ma i pri­ mi non sono solo topograficamente più distanti. Sono anche colloca­ ti in una situazione urbana che vede più “ostacoli”, più territori “ne­ mici” tra gli abitanti di questi “luoghi”2 e la fruizione del centro sto­ rico, “anima” pulsante, centro di potere e luogo di innovazione del­ la vita della città.

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UN TRIANGOLO MOLTI DESTINI

Parafrasando l’Umberto Eco di Diario minimo3 appare evidente che Milano ha una struttura circolare spiraliforme. E altrettanto ovvio (assumendo i concetti euclidei di geometria piana) che una simile struttura costringa i suoi abitanti a muoversi principalmente me­ diante triangolazioni i cui vertici si insinuano nel centro storico men­ tre le basi conseguenti si dilatano nelle periferie. Ovviamente i trian­ goli sono più di uno, ma ai fini di questo racconto se ne possono de­ scrivere due. Il primo, quello della zona Sud, ha il proprio vertice collocato grosso modo dalle parti di via Torino (tra il Carrobbio e piazzetta S. Giorgio) e quindi nel cuore della “città dell’eccellenza”, mentre ilati scorrono l’uno verso Sud inglobando corso di Porta Ro­ mana, il Corvetto, Porta Vigentina, Opera, Pieve Emanuele e l’altro verso Sud-Ovest inglobando Porta Genova (la “casba” della tradi­ zione popolare), Porta Ticinese (“Porta Cica”), il Giambellino, la “Baia del re” (ovvero il quartiere Stadera), la Barona, Gratosoglio e, quindi, Corsico, Rozzano, Trezzano sul Naviglio ecc. (mappa n. 2). La dorsale di questo triangolo è costituita dal corso S. Gottardo, che è una delle vie dello “shopping” (o “asse commerciale attrezzato”)

2. Il triangolo Sud

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della città, che prosegue poi nel corso di Porta Ticinese per conflui­ re appunto in via Torino. Per chiunque conosca la città appare evidente che gli abitanti del­ la città dell’”abbandono” (le periferie) della zona Sud si trovino ad avere un avvicinamento al centro storico per larga parte “amicale” e conviviale. Amicalità e convivialità assicurate sia dalla catena dei ne­ gozi per larga parte di profilo medio-basso - e quindi corrispondente al potere d’acquisto degli acquirenti provenienti dalle periferie - sia dall’ininterrotta serie di locali di aggregazione e intrattenimento (oste­ rie, trattorie, bar, bocciofile ecc.).4 Il secondo triangolo è invece interamente collocato nella zona Nord-nord-est e ha il proprio vertice collocato in piazzale Loreto e il lato Ovest che è segnato interamente da viale Monza verso Sesto S Giovanni, Cinisello ecc., mentre il lato Est corre attraverso via Por­ pora, ingloba Lambrate, il parco Lambro, Segrate, Pioltello ecc. Al­ l’interno di questo triangolo ci sono storici insediamenti operai come quelli di Crescenzago-Padova, Gorla, Precotto e, via via, fino a Sesto S. Giovanni, la “Stalingrado d’Italia” (mappa n. 3). Questo esemplare triangolo connotato da storiche “residenze operaie”5 ha, al contrario del primo, il proprio vertice decisamente molto più “periferico” di quello della zona Sud e ha un lungo “asse commerciale attrezzato” (il più americano della città e anche uno dei più intolleranti) come il corso Buenos Aires che lo collega a corso Ve­ nezia (deserto e inospitale) e quindi a San Babila, una delle piazze più elitarie e nemiche di tutta la metropoli. Di conseguenza gli abitanti del triangolo Nord non hanno un avvicinamento né amicale né con­ viviale verso il centro storico. A queste caratteristiche che connotano la diversa collocazione ur­ bana dei due triangoli, va poi aggiunta la storia particolare della zona Ticinese-Genova (vertice e cuore del triangolo Sud) che è una delle zo­ ne più antiche della città (tracce della città romana, di quella medioeva­ le, di quella spagnola e i quattro Navigli navigabili)6 da sempre caratte­ rizzata da una composizione sociale mista tra artigianato, fabbrica dif­ fusa, ceti popolari legali e extralegali (da cui l’appellativo popolare di “casba”). Ragione per cui il microsistema sociale Ticinese-Genova fini­ sce per diventare un’esemplare zona di frontiera urbana tra centro e pe­ riferia, ma anche e contemporaneamente un sistema sociale di frontiera tra le classi e i ceti che storicamente hanno prodotto un’abitudine alle forme di convivenza tra modelli e stili di vita diversi. Ed è per la somma di tutte queste caratteristiche che il vertice del triangolo della zona Sud diventerà nei primi anni Settanta il quartie­ re d’Europa a più alta intensità di sedi politiche extraparlamentari. E se la singolare vicinanza territoriale ai luoghi del potere istituzionale era probabilmente intenzionale, cosciente e progettuale, la facilità di 172

3. Il triangolo Nord-est

ottenere le sedi in affitto e l’accettazione popolare delle stesse erano tutte conficcate nell’intera storia sociale di questa porzione di terri­ torio urbano. La mappa n. 1 evidenzia questo radicamento e la sua appendice (richiami n. 27,28,29,30,31,32) dimostra visivamente sia la vicinan­ za con piazza Duomo sia quella con le sedi politiche intorno all’Uni­ versità Statale. UNA TENDENZIALE FINE DELLA VERTICALIZZAZIONE POLITICA

E LA SUA RICADUTA SUL TERRITORIO

La storica “cittadella” raccolta intorno ai Navigli diventerà per qual­ che anno fiammeggiante di bandiere rosse e rossonere. Ai luoghi sto­ rici da leggenda metropolitana si aggiungeranno altri luoghi forse al­ 173

trettanto leggendari. Forse li c’è stata anche la prima sede delle Bri­ gate rosse (così dice Franceschini nel suo libro ma non ne dice l’ubi­ cazione, mentre “rivela” invece una serie di altre sciocchezze), ma si­ curamente in via Maderno, al Ticinese, vengono arrestati Renato Curcio e Nadia Mantovani. Così le antiche osterie dei “lavoratori dei Navigli” diventeranno aggregazioni politiche e comunicative altret­ tanto importanti delle sedi politiche e dove si mischieranno le canzo­ ni di lotta con quelle della tradizione malavitosa. Con le sedi politiche arrivano anche migliaia di militanti prove­ nienti da tutta la città. Si installano nelle case sfitte, guidano le occu­ pazioni di interi stabili, aprono attività di autofinanziamento, inva­ dono le antiche trattorie e osterie. Per qualche anno lo zenit del trian­ golo della zona Sud sarà una zona rossa, militante e liberata. Sulla porta d’ingresso del mitico bar Rattazzo (in corso di Porta Ticinese) qualcuno scriverà: “Questo è il territorio dei diversi e tutto ciò che è diverso è bello”. La crisi del modello verticale organizzativo comincerà a essere evi­ dente verso il 1974-75. Cominceranno a sciogliersi o ad andare in crisi molte organizzazioni extraparlamentari. Si parlerà lungamente della “crisi della militanza” e dell’emergere contraddittorio di nuove “sog­ gettività”. Nelle fabbriche il padronato aveva dato vita a una violenta offensiva ristrutturatrice che si protrarrà per molti anni (simbolicamente e concretamente raggiungerà il suo apice alla Fiat nel 1980, con la manifestazione reazionaria dei 40.000 quadri e bottegai torinesi e la messa in cassa integrazione di 23.000 operai mai più reintegrati). L’o­ biettivo dei padroni è quello di eliminare progressivamente tutte le avanguardie di lotta formatesi nel quinquennio precedente. Decentra­ mento produttivo, ovvero esternalizzazione di parti della produzione; “uso politico della cassa integrazione”, che colpisce principalmente gli operai più combattivi; introduzione di nuove tecnologie che ingloba­ no “sapere operaio” ed eliminano forza lavoro; progettuale delegitti­ mazione dei consigli di fabbrica, sono tra le armi più efficaci messe in campo dai padroni, frequentemente in accordo strategico con i sinda­ cati ufficiali e lo stesso Partito comunista. È la rigidità e la forza della “centralità operaia” che si vuole fare a pezzi. Nei territori urbani e nel grande hinterland metropolitano intere porzioni di organizzazione sociale e operaia cominciano a collassare sotto i colpi di un attacco così violento. Il decentramento produttivo comincia a frantumare la fabbrica su aree vastissime di territorio. E “decentramento” vuol dire essenzialmente piccole fabbriche con la­ voratori privi di diritti e rappresentanza. Vuol dire “lavoro nero” sot­ topagato che nella pubblicistica ufficiale viene eufemisticamente de­ finito e glorificato come ciclo del sommerso. Sia pure nella sua estrema sintesi legata a questo intervento, è 174

dentro questo scenario che prova a muoversi e autodeterminarsi una nuova composizione giovanile scaturita sia dalla dilatazione dei con­ fini metropolitani sia dall’estendersi smisurato dell’hinterland. Han­ no tra i 15 e i 18 anni, sono nati nei quartieri-dormitorio costruiti ver­ so la fine degli anni Sessanta, sono frequentemente figli dell’immi­ grazione interna, hanno avuto principalmente insegnanti di sinistra impegnati e generosi che rientravano nella più generale e mutata fun­ zione del ceto intellettuale che tendeva a rifiutare il “ruolo di tecni­ co” per scegliere piuttosto quello di “ceto politico”. Un ceto politico tutto particolare ed extraistituzionale. Sono rimasti “silenziosi” per anni: il tempo di prendere confi­ denza con il territorio e di provare ad “addomesticarlo” e piegarlo ai propri bisogni. Come abbiamo visto, fino a quel momento le sedi politiche dei gruppi extraparlamentari si sono concentrate verso il centro storico della città, si sono mosse per “mangiare il centro”, per fare, nella sfe­ ra delle rappresentanze, concorrenza alle sedi politiche istituzionali, per conquistare “spazio” nella città dell’eccellenza per poi muoversi verso le periferie e le zone industriali. La pratica era rimasta quella dell’avanguardia esterna che interviene da un luogo “centrale” sui processi e sui bisogni disseminati sul territorio. Molti dei soggetti sociali che vivono nelle grandi periferie e nel­ l’hinterland sono studenti lavoratori sono all’interno del settore “sommerso” e sono inesorabilmente destinati all’economia informa­ le. Ed è da questi bisogni, da questa condizione sociale ed esistenzia­ le che rinascono, dopo molti anni, le compagnie di strada sia nei quartieri dormitorio sia nella miriade di piccoli comuni del sistema industriale milanese e lombardo. Si formano così nuove aggregazio­ ni e nuovi luoghi di riferimento. Ma questa volta sono “luoghi terri­ torializzati” e disseminati sul territorio, così come disseminata co­ mincia a essere la fabbrica e la struttura produttiva. Nasceranno così, tra il 1975 e il 1976, cinquantadue circoli del proletariato giovanile per la quasi totalità collocati nei quartieri vici­ ni ai confini comunali e nei comuni immediatamente limitrofi (map­ pa n. 4). La visualizzazione grafica rende immediatamente conto delle dif­ ferenze dell’“uso del territorio”. La rappresentanza verso i “luoghi deputati del potere” è diventata irrilevante. La realizzazione di sé non può che avvenire nei territori del proprio vissuto quotidiano. Il “cielo della politica”7 è ormai largamente offuscato, il luogo centralizzato della militanza non restituisce più identità, realizzazio­ ne di sé o appartenenza. I giovani dei circoli sono per la stragrande maggioranza figli di proletari, molti di loro sono stati avviati prestissimo (14-15 anni) al 175

4. Circoli del proletariato giovanile (1977-77) *

1) ROZZANO 2) GRATOSOGLIO 3) BARONA 4) BARONA - S. AMBROGIO 5) STADERA 6) CORVETTO 7) RONCHETTO S/N 8) BAGGIO 9)TREZZANO S/N 10) CORSICO 11) GIAMBELLINO/LORENTEGGIO 12) GALLARATESE 13) PERO 14) RHO 15) QUARTO OGGIARO 16) LIMBIATE 17) S. SIRO 18) BOLLATE 19) PIAZZA MERCANTI (aggregazione di strada) 20) S. DONATO

21) ROGOREDO 22) S. GIULIANO 23) VIALE UNGHERIA 24) LAMBRATE 25) PORTA VITTORIA 26) VIA FOGAZZARO 27) CITTÀ STUDI - ORTICA (Cascina Rosa) 28) CASORETTO 29) CRESCENZAGO 30) VIA FELTRE 31) SESTO S. GIOVANNI 32) MONZA 33) CINISELLO 34) LAMBRATE 35) COLOGNO 36) PALMANOVA - CIMIANO 37) VIA CIOVASSINO COORDINAMENTO CITTADINO DEI CIRCOLI PROLET. GIOVANILI SEDE GIORNALE “VIOLA”

* in alcuni casi questi luoghi sono incrociati con le strutture dell’Autonomia operaia

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lavoro. Il quartiere li riconosce come propri. Spontaneamente avver­ tono che qualcosa si è concluso. I loro padri e i loro fratelli maggio­ ri hanno memorie di lotte e immaginari di utopie lontane da realiz­ zare in un dopo indefinito. Ma a loro sembra che la memoria imme­ diata del ciclo di lotte precedente non abbia cambiato poi granché delle loro prospettive future e del loro bisogno di felicità. Non han­ no e non credono più in orizzonti futuri: desiderano quasi spasmo­ dicamente la realizzazione “qui e ora” di “spazi” di felicità e di co­ municazione piena, diretta, consapevole. Si può dire che l”’invenzione del presente” cominci proprio con loro e si prolunghi nel tempo e per tutti gli anni Ottanta. I circoli sono “orizzontali”, diffusi. Ogni tanto provano a dar vi­ ta a un coordinamento delle varie esperienze, ma i vari tentativi si susseguono senza determinare una struttura stabile e, anzi, la sensa­ zione diffusa è che un organismo di questo tipo non lo vogliano, a causa degli intrinseci rischi di burocratizzazione. Così, e a partire dal gennaio 1976, dieci coordinamenti nascono e altrettanti si sciolgono. I circoli sembrano trascurare il centro cittadino come luogo do­ ve rappresentarsi. Ogni tanto fanno delle puntate nel cuore della città creando delle situazioni all’aperto (per esempio in piazza Mer­ canti), ma soprattutto “vanno in centro” per praticare autoriduzioni nei cinema di lusso e nelle pizzerie. Tutta la tensione è rivolta a con­ quistare un uso creativo, ricco e sociale dello spazio urbano. Le stes­ se “discese” verso la città dell’eccellenza sono permeate da una di­ vertente ironia nei confronti della generazione anticonsumistica del ’68. Durissima e beffarda è invece la polemica con il sindacato e il Pci sulla tematica dei sacrifici: I giovani rifiutano i “sacrifici” necessari. Siamo qui a denunciare la “società dei sacrifici”, come nel ’68 eravamo da­ vanti alla Bussola e alla Scala a denunciare la “società dei consumi”. Siamo qui oggi a riaffermare il diritto di tutti i proletari di prendersi ciò che i borghesi hanno riservato per sé: lussi, privilegi, teatri, cinema, ristoranti, sale da ballo. Ribadiamo il diritto di poter usufruire degli stessi privilegi che la borghe­ sia tiene per sé. Il diritto al lusso, al piacere, alle rose, e non solo al pane. Chiediamo che la Giunta rossa e il prefetto impongano il prezzo politico di 500 lire nei cinema di prima visione, che vengano finanziati le decine di centri culturali giovanili di base, i centri sociali, i centri autogestiti di lotta all’eroina. Chiediamo un incontro con la Giunta comunale e provinciale per discute­ re il senso, i tempi e le modalità di tali finanziamenti.8

Come si deduce da questo volantino, distribuito durante una del­ le tante autoriduzioni, il problema non è più quello di “fare concor­ renza” alle istituzioni politiche, ma quello di rivendicare diritti, spa­ zi e territori da autogestire. La direzione che prende il movimento 177

degli spazi sociali autogestiti è tutta e interamente inserita nelle na­ scenti pratiche di “contropotere territoriale” e il “territorio” è tutta la città e non solamente una sede istituzionale da conquistare nella città dell’eccellenza. Il “movimento delle occupazioni” iniziato alcuni anni prima tal­ lonava il capitale immobiliare sul suo stesso terreno, opponendosi al piano istituzionale che tendeva a liquidare il modello di Milano co­ me città operaia. L’obiettivo piuttosto evidente era quello di favorire il ripopolamento dei quartieri da parte di strati proletari ostili alla mobilità territoriale. Era evidente che la logica politica che muoveva questo ciclo di lotte era sostanzialmente speculare alle lotte di fab­ brica tutte protese a difendere la “rigidità” e la stabilità di luogo e di mansione del “corpo centrale della classe operaia”. Ma l’azione marciante del capitale appariva assai difficile da con­ tenere. Il decentramento produttivo portava la produzione direttamente nei territori urbani e extraurbani. Intere porzioni di città ve­ nivano ridisegnate dalla “messa in produzione” del territorio da par­ te delle grandi immobiliari. I circoli avvertono direttamente e quotidianamente la forza di questi processi. La loro idea di “contropotere territoriale” cerca di adeguarsi ai nuovi scenari: con l’anticipazione repressiva del capitale con il decentramento produttivo non si può più: intendere il contropotere come una trincea da scavare sul posto di lavoro e la trattativa come modo di imporre i bisogni operai: il contropotere diven­ ta immediatamente lo scontro con il capitale, uno scontro quotidiano e continuato che vede nel territorio l’unico campo di battaglia, senza più li­ nee di demarcazione e mediazione tra capitale e proletariato... Costruire le ronde proletarie che vadano a visitare l’organizzazione del lavoro e la com­ posizione di classe territoriale, far nascere commissioni e gruppi di inter­ vento che vadano a scovare i covi del lavoro nero, gli spacciatori di eroina che seminano morte; formare commissioni di controinformazione per ave­ re la conoscenza totale della militarizzazione cui siamo sottoposti; ronde contro il carovita che impongano il controllo dei prezzi e la qualità delle merce venduta dai bottegai; vari gruppi di studio che analizzino la nocività metropolitana...9 TALLONARE IL CAPITALE SUL SUO TERRENO:

NASCITA DEI CENTRI SOCIALI

Insieme alla riflessione indotta dall’offensiva capitalistica, la “crisi della militanza” dei soggetti politici più adulti sarà invece il serbatoio di risorse umane che finirà per ridisegnare le “geometrie urbane” di un altro percorso della sovversione politica (le varie componenti del­ l’Autonomia operaia organizzata e di quella “diffusa”), mentre molti altri militanti delusi dall’esperienza “gruppettara” e convinti, a loro 178

volta, che la nuova frontiera del conflitto fosse interamente connessa al “territorio” ritorneranno nei quartieri e nelle zone di appartenen­ za abitativa per inventare i “nuovi luoghi” del progetto e dell’inter­ vento politico. Nascerà così, a fianco dei circoli e spesso sovrappo­ nendosi e incrociandosi a questi, il lungo e ininterrotto ciclo dei cen­ tri sociali. I centri sociali sono “luoghi” più “grossi” dei circoli. Sono quasi sempre inseriti nel territorio urbano più denso di insediamenti produttivi e occupano quasi sempre strutture industriali dismesse al­ l’interno di quartieri operai e popolari. Nasceranno tra gli altri a partire dal 1975, l’oggi molto famoso Centro sociale Leoncavallo (1975), il Fabbrikone, la Fornace (1977), il Csa Sempione (1978), il centro sociale di via Argelati (1977), il Col­ lettivo autonomo ticinese (1977) e via Santa Marta (1978). Alcune occupazioni riguardano invece interi stabili con un mix di abitazioni e spazi sociali. Hanno queste caratteristiche via Correggio (1975), via Conchetta 18 e via Torricelli (1976), corso Garibaldi (1976) e la casa occupata-collettivo di via dei Transiti (mappa n. 5). Questi luoghi dell’autogestione sono tutti inseriti in territori me­ tropolitani segnati dalla storia operaia e popolare: il Leoncavallo e la casa occupata-collettivo di via dei Transiti al Casoretto e nella zona Crescenzago-Padova, da sempre “residenza operaia” e nel vertice del triangolo della zona Nord-Est; il Fabbrikone, l’Argelati P38 (deriva­ to, ironicamente ma non del tutto, dal numero civico della via), Con­ chetta, Torricelli e il Collettivo autonomo ticinese, la Fornace (vicino ai confini comunali verso Corsico) nella zona Ticinese-Genova, vale a dire nel cuore o lungo i lati del triangolo della zona Sud, mentre il Santa Marta nascerà proprio nello zenit dello stesso triangolo; il Ga­ ribaldi ai bordi di Brera, ma idealmente e politicamente collegato al­ le lotte del popolare quartiere Isola.10 In un certo senso sono anoma­ le, invece, le occupazioni di via Correggio e di corso Sempione nella zona della Fiera Campionaria, anche se Correggio occupa la sede di­ smessa della fabbrica Mellin e nella zona resisteva, al tempo, una cer­ ta composizione popolare. I centri sociali si affiancano al movimento dei circoli e, come que­ sti, sono spazi di aggregazione politica completamente nuovi. Anche qui, non abbiamo più sedi politiche centrali di organizzazione, ma spazi autodeterminati, assembleari e autogestiti da ex militanti, ope­ rai, neofricchettoni, femministe, occupanti di case ecc. Più “serioso” e politico è il Leoncavallo, dove prevale la componente di ex mili­ tanti dei “gruppi” (anche se, fin dall’inizio, sono molto attivi alcuni militanti di Avanguardia operaia) unitamente ai comitati di quartiere operai-inquilini; decisamente “autonomo” e movimentista è il Fab­ brikone (al suo interno trovano spazio gli operai dell’Assemblea au­ tonoma Alfa Romeo, il Comitato inquilini zona Sud, ma anche mol­ 179

to “movimento” controculturale); c’è via Correggio, con decine di famiglie di immigrati (che adattano gli spazi ad abitazione), una scuola popolare, il Coordinamento lavoratori precari, alcuni colletti­ vi femministi e, più tardi, la sede di riferimento per una parte cospi­ cua della componente libertaria milanese; c’è la fortemente politiciz­ zata via dei Transiti; la poetica, metropolitana, controculturale For­ nace; decisamente duri, autonomi, politicizzati sono sia l’Argelati P38 sia il Collettivo autonomo ticinese; Conchetta e Torricelli sono anarchici e libertari e convivono con il Collettivo lavoratori ospeda­ lieri, il Comitato di lotta per la casa e sono alla ricerca di nuove for­

3. Centri sociali (1973-78)

1) LEONCAVALLO 2) COLLETTIVO AUTONOMO TICINESE “PANETTERIA OCCUPATA” ALLE COLONNE DI S. LORENZO 3) CORREGGIO 18 4) CSOA S. MARTA 5) VIA CONCHETTA 18 e CSOA ANARCHICO 6) VIA ARGELATI 38 (P38) 7) VIA TORRICELLI e CSOA ANARCHICO

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8) CSOA SEMPIONE 9) LA FORNACE 10) CSOA QUARTIERE ISOLA 11) VIA LESSONA - QUARTO OGGIARO 12) FABBRIKONE VIA TORTONA 13) CASA OCCUPATA E COLLETTIVO VIA DEI TRANSITI 14) CASA OCCUPATA CORSO GARIBALDI 89

me di “sindacalismo”; infine, già crinale tra i circoli e il nascente mo­ vimento punk, troviamo il Santa Marta. Si può dire che la definizione di centro sociale, relativamente al territorio milanese, nasca proprio da queste esperienze originarie che segnano anche un diverso “uso del territorio” e un diverso modo di fare politica e organizzazione. Ai fini del racconto precedente abbiamo inserito la mappa n. 6 che visualizza topograficamente l’attività del Comitato di lotta per la casa Torricelli-Conchetta, perché evidenzia e sottolinea l’inesausta capa­ cità del triangolo Sud di “fare rete”, ma anche perché esemplifica un uso concreto della lotta territoriale che, a partire da un luogo di autor­ ganizzazione, costruisce ininterrottamente altri spazi da sottrarre alla speculazione e al dominio istituzionale cercando di realizzare “comu­ nità reale e territoriale”. Molti altri e altrettanto importanti sono stati gli organismi che hanno portato avanti le lotte per la casa.11 Appare evidente che a diverse collocazioni territoriali corrispon­ dono tendenzialmente un diverso modo di fare laboratorio politico, alleanze, intervento. Così il Leoncavallo, verso la fine degli anni Set­ tanta, troverà e rinnoverà continuamente sinergie con la complessa composizione operaia del triangolo Nord-Est, caratterizzandosi co­ me una delle “frontiere” dure di resistenza e difesa della “centralità operaia”, mentre gli organismi sociali disseminati nel triangolo Sud avranno evoluzioni di carattere “controculturale” e una diffusa ade­ sione alle pratiche dell’autonomia operaia organizzata o diffusa.12 UN FINALE D’EPOCA?

I circoli cominciano a entrare in crisi verso la fine del 1976 e alla vi­ gilia dell’esplosione del movimento ’77 nelle altre città. Milano è uno dei punti focali dell’offensiva ristrutturatrice e il tessuto dei circoli si rivela troppo fragile rispetto alle forze in campo. La componente militante dei giovani operai delle fabbriche si appre­ sta a fare delle scelte molto radicali e la stessa pratica delle “ronde proletarie” si incrocia frequentemente, per mezzi e obiettivi, con le dinamiche di clandestinizzazione di una parte degli storici militanti formatisi nel quinquennio precedente. L’eroina avanza senza sosta (Milano diventerà la capitale del consumo e dei morti di eroina e manterrà questo primato per tutti gli anni Ottanta) e per molti la scelta armata assume i contorni di una necessità esistenziale, di un ge­ sto di rigore per reagire alla distruzione dei fragili legami sociali ap­ pena costruiti. Molti luoghi si chiudono in se stessi. Rimangono nelle periferie e nell’hinterland alcuni circoli che consumeranno con forza e dignità la loro esperienza. Una parte degli stessi centri sociali diventa abba­ isi

6. Ciclo delle occupazioni del comitato di lotta per la casa di via Conchetta-Torricelli (1978-88)

1) PIAZZA XXIV MAGGIO 2) VIA GORIZIA (poi sede Adrenaline) 3) CORSO S. GOTTARDO 4) VIA GENTILINO 5) VIA PAVIA 6) VIA ASCANIO SFORZA 7) ALZAIA NAVIGLIO PAVESE

8) 9) 10) 11)

12) 13) 14) 15) 16)

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VIA SCALDASOLE VIA BERGOGNONE VIALE BLIGNY (poi sede U.S.I. e successivamente SQUOTT) VIA ORTI (poi Virus Diffusioni e successivamente Tattoo Club) VIA PONTIDA VIA DELLA PERGOLA (poi sede Pergola Tribe) PIAZZA DATEO VIA TORRICELLI (poi sede Centro sociale anarchico e Tattoo Club) VIA CONCHETTA (poi sede di Cox 18 e Calusca City Lights)

stanza silenziosa, altri chiuderanno tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Ma l’esperienza dei circoli e dei centri sociali ha segnato definiti­ vamente i modi nuovi di intervento territoriale. L’autodeterminazio­ ne di ogni singola esperienza, l’autogestione, l’esigenza del radica­ mento territoriale, il rifiuto, spesso radicale, della delega, la perce­ zione di un processo sociale che tende inesorabilmente a emarginare i soggetti non disciplinati, la caduta della speranza degli “orizzonti ultimi” come programma, lo spostamento dei propri universi vitali e conflittuali dal problema del tempo a quello dello spazio e il bisogno di felicità qui e ora”: sono frammenti di un mosaico che segnerà tut­ te le esperienze successive.13 La “politica dell’emergenza”, autentico sostegno dell’offensiva anti-operaia, che sarà la forma di governo degli anni Ottanta, non la­ scia spazi possibili di ricomposizione. Lentamente l’azione dei circo­ li sfuma nella separatezza, abbandonando i luoghi dell’azione terri­ toriale e sostanzialmente si distacca dai processi produttivi in corso. Intorno alle ceneri dei circoli rinascono aggregazioni di strada che si riconoscono quasi esclusivamente nell’autoreferenzialità amicale del proprio piccolo gruppo. Ma il bisogno di produzione di “senso” per darsi nuove forme di “identità” a fronte del vissuto esaurimento di tutte le precedenti favorisce, abbastanza rapidamente, la penetrazio­ ne delle pratiche e degli stili di vita punk.14 Nell’esperienza punk confluiscono sia una parte degli “sconfitti” provenienti dai circoli sia coloro, tra i più giovani, che “sentono” il bisogno profondo di un’azione collettiva, separata e fortemente rico­ noscibile dai segni, dai modi e dallo “stile”. La mappa n. 7 evidenzia come il movimento punk abbia sostan­ zialmente origine dove era nato il movimento, dei circoli. Il centro storico della città appare “ripulito” e lo stesso triangolo della zona Sud ha perso la gran parte dei suoi luoghi politici,15 men­ tre quello della zona Nord-Est dispone di due autentici baluardi di resistenza che sono il Leoncavallo e la casa occupata di via dei Tran­ siti, che dispone di un collettivo politico assai riflessivo e combattivo. DI NUOVO ALLA CONQUISTA DEL CENTRO STORICO?

Di nuovo alla conquista del centro storico? A giudicare dalla mappa n. 8 parrebbe di sì. In realtà la dinamica che porta di nuovo a “mangiare il centro” ha caratteristiche evidentemente diverse sia da quelle delle se­ di politiche dei primi anni Settanta (concorrenza verticale con le sedi istituzionali), sia dalla pratica dei circoli (si cala in “centro” per riven­ dicare un uso ricco della città). I punk conquistano agibilità invece in spazi privati (bar e simili), nelle strade, nelle piazzette e lo fanno “pro­ 183

7. Punk, area di origine (provenienza) 1978-80

1) BAGGIO 2) FORZE ARMATE 3) GIAMBELLINO - LORENTEGGIO 4) TREZZANO S/N 5) BUCCINASCO 6) CORSICO 7) RONCHETTO S/N 8) BARONA 9) GRATOSOGLIO 10) ROZZANO 11) CORVETTO 12) S. GIULIANO 13) ORTICA

14) SEGRATE 15) PALMANOVA - PADOVA 16) COLOGNO 17) SESTO S. GIOVANNI 18) MONZA 19) BICOCCA 20) BRUZZANO 21) QUARTO OGGIARO 22) BOLLATE 23) GARBAGNATE 24) GALLARATESE 25) S. SIRO

vocatoriamente”, usando il “corpo” come un medium che fa circolare messaggi di rifiuto, diversità, separatezza. Ma appare evidente che il “palazzo”, il luogo delle rappresentanze istituzionali è ormai privo di un qualsiasi significato, è un luogo lontano, separato, che riproduce se stesso, ma che, forse, non governa praticamente più nulla. I poteri veri sono altrove e le nuove tecnologie flessibili rendono per larga parte superfluo il concentrarsi della direzione dei processi produttivi nel centro storico. Quelli del “palazzo” sono, al più, dei semplici servitori 184

prezzolati dei poteri reali. Gli stessi “triangoli” urbani che consentiva­ no di leggere una certa storia del territorio urbano tendono ormai a decomporsi e a frantumarsi. Si potrebbe certo rivendicare un’orgogliosa appartenenza alle pe­ riferie, ai luoghi della memoria dei circoli, ma la centrifuga della spe­ culazione immobiliare espelle, decentra, distrugge interi microsistemi sociali. Trecentocinquantamila cittadini vengono sradicati dai propri quartieri e scaraventati chissà dove. Altri perdono in continuazione posizioni territoriali per essere a loro volta dislocati nelle prime peri­ ferie oltre la terza circonvallazione. Tutto sembra diventare confuso e invivibile.

8. Nomadismo punk (esodo verso il centro) 1980-82

1) PIAZZA S. GIORGIO (via Torino - negozio dischi NEW KARY) (aggregazione di strada) 2) BAR MAGENTA 3) BAR CONCORDIA 4) CENTRO SOCIALE SANTA MARTA 5) PARCO SEMPIONE 6) LOCANDA (Baggio)

7) COLONNE S. LORENZO (aggregazione di strada) 8) BAR POLINESIA 9) FIERA DI SENIGALLIA (aggregazione di strada) 10) VIALE MONZA 11) CORREGGIO 18 - VIDICON 12) LA FORNACE 13) PIAZZA MERCANTI (aggregazione di strada)

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I punk sentono come irrinunciabile il bisogno di radicamento in zone socialmente più dense di opportunità, incroci, visibilità. Sarà così che per affinità, come in Correggio, o attraverso conquiste suc­ cessive che inizierà la fase del radicamento dalla periferia verso altre zone. E sarà un’autentica e inesausta pressione/invasione di spazi preesistenti, come viene visualizzato nella mappa n. 9. Tornando al presente, se avessimo visualizzato una mappa dei centri sociali e della loro collocazione territoriale fino al 1989, l’ef­

9. Radicamento punk (1982-89)

1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13)

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VIRUS 1 via Correggio 18 (capannone 1981-1983) VIRUS 2 via Correggio 18 (ex Vidicon 1983-1984) VIRUS 3 viale Piave 9 (1984-1985) VIRUS 4 corso Garibaldi 89 (1984) VIRUS 5 piazza Bonomelli (1984-1985) VIA ORTI 10 (VIRUS DIFFUSIONI 1984-1986) LEONCAVALLO HELTER SKELTER (1985-1988) CALUSCA 1 corso di Porta Ticinese CALUSCA 2 piazza S; Eustorgio CONCHETTA 18 BAR QUADROTTO ROGOREDO

TRANSITI PIAZZA DATEO VIA SCALDASOLE VIA PORPORA VIA QUADRIO MONZA (CITTÀ) COLONNE DI S. LORENZO (aggregazione di strada e bar Pois) 21) PARCO DELLE BASILICHE 22) ALCIONE 23) RICHARD 14) 15) 16) 17) 18) 19) 20)

fetto topografico sarebbe stato abbastanza singolare. Tutti i luoghi dell’autogestione risultavano collocati nelle sezioni Nord-est e Sudest della città. Una linea invisibile che partendo idealmente da Corsi­ co e trasversalmente attraversava la città verso Sesto S. Giovanni ta­ gliava in due la città dei luoghi dell’autogestione da quella silenziosa delle zone Nord-ovest e Sud-ovest. Nella mappa n. 10, che pubbli­ chiamo, risulta invece molto evidente che ben diciotto spazi di atti­ vità autogestiti sono comunque collocati tra Sud e Nord verso Est, mentre quattro dei restanti cinque collocati a Nord-ovest sono nati molto recentemente. La spiegazione di questa anomalia apparente è tutta inserita nel­ la storia industriale della città che nel suo Nord-est ha avuto il terri­ torio a maggiore intensità e insediamenti produttivi. E, anzi, l’asse del Nord-est è attualmente il principale polmone dello sviluppo tec­ nologico della città stessa. E ovvio che in questo territorio la ristrut­ turazione abbia agito più in profondità che altrove, ed è altrettanto ovvio che i soggetti sociali siano stati quindi costretti a dare conti­ nuamente risposte vitali al piano del capitale, che siano stati costret­ ti a inventarsi spazi di appartenenza e di progetto. Si potrebbe osservare che nella zona Nord-ovest ci sono stati, e ci sono tuttora, vasti agglomerati popolari (si pensi a Baggio, a sua volta storica “residenza operaia”16 o alla zona intorno a S. Siro (le vie Aretusa e Selinunte ecc.), ma in realtà la differenza di fondo consiste nel ruolo diverso che hanno i quartieri monoclasse (solo impiegati, solo operai o solo dirigenti) con quelli a composizione mista. I primi restituiscono un vissuto e un’appartenenza univoca e bassa flessibi­ lità, mentre i secondi favoriscono la formazione di un soggetto socia­ le con una più ricca percezione delle differenze e delle opportunità. A questo si può aggiungere che il sistema sociale urbano e industria­ le del Nord-est/Sud-est è stato storicamente un’esemplare miscela di insediamenti industriali, di supporto terziario e di strutture residen­ ziali che alternavano in continuazione ceti popolari e strati di classe (operai, impiegati, media e piccola borghesia). Il ragionamento sarebbe piuttosto lungo, ma per concludere, e nei limiti di questo intervento, si possono fare alcune ultime osserva­ zioni inerenti le memorie e le forme di azione e resistenza che si svi­ luppano nel conflitto urbano per ciò che riguarda un “certo uso so­ ciale del territorio”. La prima e abbastanza evidente è che permane una certa funzione di penetrazione verso il centro storico del triangolo della zona Sud. Gli esiti storici (e le memorie delle lotte chi vi permangono) della sua diver­ sa collocazione urbana rispetto al centro storico, continuano a funzio­ nare come universo che determina un singolare segmento di “resisten­ 187

za” contro la tendenza generale che dilata sempre più la città dell’ec­ cellenza oltre la prima cerchia dei Navigli (da piazza Cadorna a piazza Cavour) per invadere lo spazio tra la stessa e quella delle mura spagno­ le (corso di Porta Vercellina-Papiniano-D’Annunzio-Gian GaleazzoBeatrice D’Este-Filippetti-Caldara-Regina Margherita-Bianca MariaViale Maino-Bastioni fino a piazza della Repubblica) per proseguire “invasivamente” verso la circonvallazione delle Regioni (però in parti­ colare nella zona Sud-Sud-est).17 10. Centri sociali (anni Novanta)

1) CSOA COX 18 2) ACQUARIO (1989) 3) ADRENALINE 4) SQUOTT 5) LABORATORIO ANARCHICO 6) CASCINA VAIANO VALLE 7) CSOA LEONCAVALLO 1 via Leoncavallo (19751994) 8) CSOA LEONCAVALLO 2 via Salomone (1994) 9) CSOA LEONCAVALLO 3 via Watteau 10) PERGOLA TRIBE 11) S. ANTONIO ROCK SQUOT via Garigliano 12) CSOA TORKIERA 13) CSOA DEL GALLARATESE (KANTIERE) 14) TRANSITI (CON AMBULATORIO AUTOGESTITO)

188

15) 16) 17) 18) 19) 20) 21) 22) 23) 24) 25) 26) 27) 28)

CSOA MICENE NOVATE - BAKEKA CSOA GARIBALDI CENTRO ANARCHICO DI VIA TORRICELLI ETEROTOPIA (S. GIULIANO) CORTE DEL DIAVOLO (SESTO S. GIOVANNI) (1992) CSA DEL GRATOSOGLIO via dei Missaglia ASSOCIAZIONE GOLGONOOZA CSA VITTORIA PONTE DELLA GHISOLFA - BAR ZABRISKIE POINT VILLA AMANTEA PANETTERIA OCCUPATA CASCINA NOVELLA P.ZA ASPROMONTE

La seconda è che appaiono in formazione nuove autodetermina­ zioni territoriali sia nella parte Sud-est sia nella parte Nord-ovest del­ la città. La terza, infine, riguarda la verticale verso Nord, dal quartiere Garibaldi attraverso l’Isola fino a Greco. Anche questo è uno storico triangolo che era rimasto in parte silenzioso dopo le grandi lotte del 1968/1973 e che ritornò ad avere un cuneo organico di penetrazione a rete dentro il tessuto cittadino. In realtà l’importanza del centro storico come luogo della possi­ bile rappresentanza appare attualmente depotenziato di un qualsiasi significato. E ciò a dispetto di alcune frustrazioni dei centri sociali per le proibizioni connesse alla sua agibilità. La frontiera della possibile rappresentanza è in tutta evidenza l’intero territorio cittadino strutturato nelle sue gerarchie di classe e di fruizione. L’intelligenza possibile potrebbe proprio consistere nel­ la conoscenza profonda, leggera e dialettica delle gerarchie territo­ riali. Non si tratta tanto di avere nostalgia delle pratiche di “contro­ potere”, ma di costruire spazi di sperimentazione lontano e contro l’istituzione, ovvero rapportandosi alla stessa esclusivamente per ri­ badire “diritti negati”. Costruire spazi-laboratorio, indispensabil­ mente in rete tra loro, come un reticolo ostile, ma progettualmente dentro i processi stessi di uso speculativo o localistico del territorio urbano. L’agire metropolitano non potrà che essere continuamente dentro il continuo ridisegnarsi della città dell’eccellenza, di quella di “frontiera” e di quella dell’“abbandono”. E lo potrà fare solo co­ struendo reti, alleanze, contaminazioni, forme di convivenza oriz­ zontali e paritarie. Qualsiasi desiderio di “centralità” al di là del suo possibile realizzarsi non potrebbe, nel tempo, che rivelarsi un errore imperdonabile.

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MILITARIZZAZIONE DEL TICINESE * Primo Moroni

Una piazza piena di gente come non se ne vedeva da tempo. Giova­ ni della zona, da ogni parte di Milano, talvolta da altre città della Lombardia o da addirittura dal centro-sud d’Italia. Il piacere di ve­ dere che, piano piano, le persone si riappropriano di una struttura ar­ chitettonica nata per essere punto d’incontro, e ne rinnovano cultu­ ralmente l’atmosfera. Contro lo squallore delle strade di Milano i graffiti sui muri che si rinnovano ogni settimana; contro il rumore del traffico radioregistratori al massimo volume; contro l’emarginazione imposta il tentativo di ricomporsi spontaneamente superando le dif­ ferenze del modo di vestire e di vivere; contro l’assurda legislazione sugli stupefacenti centinaia di spinelli accesi; contro le mode ameri­ cane ingresso vietato ai “paninari”... zona franca o zona liberata? Ci si vendevano le fanzine appena uscivano, partivano al sabato le ma­ nifestazioni non autorizzate, gli assalti al tram quando c’erano i con­ trollori, una BMW bianca presa a sassate da punk più skin più dark più studenti più disoccupati, un povero poeta mentecatto che si esi­ biva per il Comune di Milano viene colpito da oltre cento gavettoni d’acqua e scacciato dalla piazza tacciato di tradimento; fino ad arri­ vare al punto che la gente si portava da bere da casa per evitare di re­ galare milioni ai gestori dei bar circostanti... Tutto questo finché un giorno dai giornali si scopre che quella è la più grossa piazza d’eroina di Milano tra lo stupore di tutti quelli che provengono da zone realmente spacci d’eroina. Poi iniziano le retate quotidiane incentivate dai commercianti della zona eccezio­ nalmente riuniti dietro il sacro stendardo della liberazione della zona dai tossici che inquinano la nostra sana società. La paura di cadere nel vittimismo paranoico tipico di certe aree cul­ turali (estrema sinistra e affini) mi ha portato qualche giorno a credere che nelle intenzioni dei crociati ci fosse anche solo qualcosa di sincero. * da “Decoder”, n. 1, 1987.

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Ora il Ticinese è zona militarizzata e morta... e le nostre indagini ci hanno portato a un ben diverso risultato... La prossima volta che avrò la possibilità di gestirmi una piazza sarò molto più cattivo... DALLA TRASMISSIONE “TENSIONI RADIOZINE”1

Conduttore: Storia delle colonne infami e sono proprio infami queste Colonne di S. Lorenzo dove da oltre due mesi la polizia presidia, do­ ve da molti giorni un cellulare staziona per molte ore al giorno, dove ci sono i ‘baschi neri in tenuta di guerra’. Storia delle Colonne Infa­ mi è anche un articolo del quotidiano “La Notte” di Martedì 11 Mar­ zo 1986 ripreso in maniera più blanda dalla pagina milanese di “Re­ pubblica” alcuni giorni dopo. Articoli deliranti e criminalizzanti: “i commercianti hanno paura... una notte fra balordi e spacciatori...”. Oramai sembra di essere nel Bronx. Questa sera abbiamo intenzione di dedicare a questo problema gran parte della trasmissione. Il tema generale sarà quindi Colonne di S. Lorenzo e repressione nel Ticinese. I nottambuli lo assediano e il piazzale comincia a pullu­ lare di folla, contemporaneamente dalla vicina via Torino arrivano i punk, i dark, mentre dalla periferia calano i metallari e i ragazzi di “borgata”. Le colonne sono comode, c’è spazio per fare gruppo, creare compagnie e inneggiare all’aggregazione. Non facili all’amici­ zia si presentano anche gli skinhead: teste rapate con il chiodo fisso dell’Inghilterra. La “mossa” sulle prime è simpatica. Da tempo la no­ stra città non assaggiava il piacere dell’ammucchiata tra ragazzi in spazi urbani aperti, poi però i giovani si sa, è la cronaca a insegnarlo, si lasciano tentare dai misteri dei cosiddetti “paradisi artificiali”. Sui marciapiedi le prime siringhe abbandonate, tra i presenti i primi vol­ ti allucinati dei tossici. La polizia organizza qualche retata, poi final­ mente da qualche settimana si mostra con frequenza a dare un occhio alla situazione. Molto però resta da fare. In questa ottica si inserisco­ no alcuni tentativi organizzati dai commercianti del Ticinese di rac­ cogliere firme per una petizione popolare contro l’invasione del quartiere da parte di queste “strane creature” diverse e forse “de­ viami”. L’iniziativa viene assunta dall’assessore socialista Schemmari che nei panni più di abitante della zona che non di politico, ma for­ te appunto di questo, ha inviato di recente al questore e alla vigilan­ za urbana un appello perché le Colonne vengano recuperate e resti­ tuite alla gente normale e ai turisti, certo non sarebbe male. Questa sera ai microfoni con noi abbiamo Primo Moroni della Libreria Calusca che esiste nel quartiere da 15 anni. Un commer­ ciante del Ticinese che penso non abbia paura di parlare fuori dai denti a ruota libera della questione del Ticinese militarizzato. Però avrei un paio di cose che ti chiederei di sottolineare. Innanzitutto, di 191

fare una piccola storia del Ticinese e poi se tu vedi qualche respon­ sabilità dei commercianti del Ticinese nella destrutturazione e deca­ denza dei valori culturali del quartiere e della sua tradizione. Inoltre, quali sono le ragioni per cui ogni qualvolta i giovani si danno come punto di riferimento una piazza, un luogo scattano meccanismi, re­ pressione e così via. Primo Moroni: Bisogna dire che la questione della storia del Tici­ nese è già stata fatta un paio di volte negli anni scorsi a Radio Popo­ lare producendo una serie di polemiche, finite addirittura in prima pagina sul “Corriere della Sera” ecc.. Il quartiere Ticinese unito al quartiere Genova è un agglomerato urbano notoriamente chiamato la “Casba”, Porta Cicca ecc. chiamato insomma in tanti modi diver­ si ma tutti ricollegabili a una specificità, si era formata attraverso gli anni una diversificata composizione di comportamenti collettivi che fondevano, senza conflitto, il legale con l’extralegalità, malavita “leg­ gera”, artigiani e proletari. Quello che è certo è che in termini di me­ moria storica il Ticinese si identifica con il vecchio Borgo interno ed esterno alle mura spagnole e gravitante intorno alla Darsena dei Na­ vighi che può essere considerata il porto di città almeno fino alla fi­ ne degli anni Trenta. Una caratteristica comune a tutte le zone di or­ to (per quanto questa particolarmente originale perché derivante dal sistema dei navigli). Di conseguenza quello che è stato per tanti anni, per duecento anni, il suo valore straordinario è questa accettazione dei “diversi”, della complessità delle vite individuali, della compren­ sione dei percorsi soggettivi. Nel quartiere hanno convissuto e con­ vivono tuttora strati della “leggera”. Con questa definizione si inten­ de (come per esempio in Montaldi) un tipo di “mala” che usa po­ chissimo la violenza, che fa qualche furto con destrezza, piccole truf­ fe, contrabbando, ricettazione. Questo tipo di composizione, di com­ portamenti metropolitani ha sempre convissuto senza particolari conflitti insieme ad artigiani, strutture della fabbrica diffusa, ceti po­ polari di vario tipo. Di fatto il quartiere ha prodotto una cultura. Una cultura dell’accettazione della diversità dentro una società metropo­ litana un po’ infame, un po’ crudele, spesso intollerante e che invece in questo quartiere ha avuto una sua radice antitetica ai modelli do­ minati che è stata decantata da poeti, scrittori ecc.. Poi il quartiere negli anni Sessanta-Settanta ha subito (come mol­ te altre zone) una speculazione selvaggia, le vecchie strutture popo­ lari che c’erano in piazza Vetra o Conca del Naviglio sono state so­ stituite da attici e superattici con degli inquilini che volevano avere il privilegio di abitare con la vista sul parco delle Basiliche, vicino alla Milano romana e romanica e magari con un po’ di brivido per la con­ tiguità con il ghetto della Casba con un tessuto di comportamenti 192

collettivi visti magari con sospetto ma anche con una sorta di attra­ zione piccolo-borghese. La zona della Rosetta del Verz è (ricordate la canzone prima della mala e poi dei Cabaret radicai anni sessanta “abita in piazza Vetra batte alla Colonnetta”) quella del mitico Com­ missario di polizia detto “el Dundina” perché invece di arrestare i la­ druncoli dava loro quattro sberle facendoli appunto “dondare”. Zo­ na di case di tolleranza come il vicolo Calusca per cui la canzone del Dundina suonava “sonaà i v’ott el Dundina va’ a Casott”. Tutte sto­ rie della tradizione che contribuivano a creare una sorta di memoria collettiva basata sulla tolleranza e la comprensione e che complici le rive dei Navigli rendevano appetibile la zona per la sua trasforma­ zione in una specie di “rive gauche” alla milanese. A questa ultima variazione ha contribuito negli anni Settanta l’insediamento nel quartiere della massima concentrazione di sedi politiche della città: la sede del manifesto in corso s. Gottardo, quella di Lotta continua in via Col di Lana, quella di Avanguardia operaia in via Vetere (poi Democrazia proletaria). Inoltre, molte se­ di di riviste da “Controinformazione” a “Primo Maggio” fino ai col­ lettivi femministi e ai Circoli del proletariato giovanile. I motivi di fondo di questo fenomeno pressoché unico in Italia affondano an­ ch’essi nella memoria del quartiere. Gli stessi proprietari di casa cioè erano talmente abituati ad affittare a “diversi” che l’arrivo dei “politici” venne considerato una variabile della complessità della memoria del quartiere. Ma intanto la città si trasformava. Nascevano i grandi quartieridormitorio come Gratosoglio-Chiesa Rossa-Rozzano-S.AmbrogioBarona fino a Corsico e Tre Zingone (per limitarci alla zona Sud). Il Ticinese attraverso una serie di direttrici di traffico viene così a tro­ varsi come ai vertici di un triangolo la cui base affonda negli hinter­ land dei ghetti e il cui vertice, a due passi dal Duomo, è proprio la zona delle Colonne e del Parco delle Basiliche. Le due direttrici prin­ cipali di questo affluire verso la zona “critica” sono rappresentate da corso di Porta Genova e da corso di Porta Ticinese, come logico pro­ lungamento del percorso dei due Navigli. Sui Navigli nascono deci­ ne e decine di locali “alternativi” aperti per la gran parte da ex mili­ tanti della sinistra-extra. Vendono una merce particolare a metà stra­ da tra la memoria degli anni Settanta e il surrogato delle perdute af­ fettività delle sedi politiche. I due corsi principali verso il centro si trasformano radicalmente: scompare rapidamente il vecchio tessuto dei negozianti di quartiere per essere sostituito da attività commer­ ciali a forte significato simbolico o di status symbol. Gli affitti com­ merciali salgono alle stelle, le vendite “frazionate” di case completa­ no l’opera di destrutturazione della rete delle relazioni sociali. Il mo­ dello pare essere quello americano della zoning. Sul corso principale 193

lo sfolgorio delle merci, dietro, nei vicoli, il ghetto con la sua econo­ mia e le sue leggi non scritte. Cominciano, a partire dagli inizi degli anni Ottanta, i primi epi­ sodi di intolleranza. Clamorosa nell’1981 la serrata di quasi tutti i ne­ gozianti del Ticinese contro la presenza degli eroinomani nel Parco delle Basiliche. Era un sabato di luglio scena spettrale con il Ticine­ se deserto, le mamme dei “tossici” in corteo, i poliziotti dappertutto e poi giornalisti, televisioni locali e nazionali che intervistavano i quattro che si erano opposti alla serrata. Il risultato pratico di quel­ l’iniziativa fu immediato e radicale. Per una quindicina di giorni squadre di agenti di polizia iniziarono il rastrellamento del Parco del­ le Basiliche chiudendo tutte le strade di accesso e “randellando” chiunque si trovasse nel perimetro e non avesse un aspetto per così dire “normale”. Estendendo così la categoria di “eroinomane” a chiunque dimostrasse un aspetto esteriore poco “produttivo” o co­ munque di “trasgressore della norma”. I “diversi” del Parco delle Basiliche vennero eliminati duramente e rapidamente con grande soddisfazione dei “signori dei superattici” i quali finalmente poteva­ no godersi i prati e le geometrie romaniche di s. Eustorgio quasi co­ me un pagamento della loro privilegiata proprietà privata. A dimo­ strazione del diritto a questa esclusività gli stessi inquilini si oppose­ ro sia alla manifestazione di Milano Suono sia al Festival della Fgci svoltasi in periodi successivi. Gli eroinomani si spostarono 2-300 me­ tri più in là nel quadrilatero della vecchia Casba dove sono tuttora, però nascosti agli occhi della gente, nel ghetto e dietro la facciata “sberluscente” dei grandi corsi mercificati atti al drenaggio del red­ dito della forza lavoro del grande hinterland metropolitano. In un primo momento la Casba reagì con perplessità alla presenza di que­ sta nuova devianza. D’altronde si sa che il “tossico” è una cultura li­ mite della devianza: non ha regole di comportamento così come è tutto proteso alla caccia della dose giornaliera sarebbe pronto a fre­ gare anche il migliore amico. Ma poi anche gli eroinomani si ade­ guarono ad alcune regole minime e, d’altronde, la loro presenza, una volta accettata, cominciò a produrre ricchezza nell’economia del ghetto. Il calcolo è molto semplice 2-300 eroinomani che spendono mediamente 40-50.000 lire al giorno per la dose sono costretti a ru­ bare merci per un importo di 3-4 volte superiore. Le merci si river­ sano sia nel circuito della ricettazione professionale sia in quello di ti­ po soggettivo, spontaneo o casuale, complessificando così l’econo­ mia del tessuto extralegale ma alterandone anche la fisionomia e le vecchie leggi. Per i negozianti e gli abitanti dei corsi il problema poteva dirsi ri­ solto. Si potevano organizzare feste popolari, far nascere associazioni commerciali strada per strada, dare impulso e sollecitazioni ai consu­ 194

mi, creare un piccolo mito della festa-continua e ciò su tutte le direttri­ ci di drenaggio delle merci in tutta città: da corso Buenos Aires a Paolo Sarpi, dal Garibaldi a Coni Zugna, dal Ticinese a via Torino. L’ammini­ strazione comunale poteva dirsi soddisfatta. Queste associazioni ga­ rantivano una linea di consenso diffuso. Il compito di far rispettare l’ordine veniva direttamente introiettato dal singolo cittadino. Per il Ticinese, poi, l’immaginario è ancora più forte. Tutti im­ maginano di ripetere la “meravigliosa” operazione del quartiere di Brera degli anni Sessanta. Creare, cioè, un artificiale quartiere alter­ nativo (e che un tempo alternativo era veramente) per chi non ama l’eccesso di lusso e di separatezza delle varie Milano Fiori, ma che aspira ad abitare in un quartiere che abbia il sapore dell’antico ri­ strutturato, del popolare ripulito dai suoi veleni trasgressivi, imbal­ samato dentro una melensa milanesità. E allora alle vecchie osterie si sostituiscono le “paninoteche” (mangiare in piedi per produrre di più) e i “piano bar”. Si sognano zo­ ne pedonali, si scava per far riemergere la vecchia Arena romana, al posto dei Cinema di terza visione si installano le banche o si concedo­ no licenze edilizie per costruire “residenze”. Però questi quartieri hanno ereditato dalle vecchie strutture medioevali o semplicemente popolari: piazze, piazzette, luoghi urbani che piacciono anche alle nuove aggregazioni giovanili. E visto che l’amministrazione comunale non è molto disponibile a concedere spazi autogestiti ai giovani o a coloro che ritengono di avere il diritto di avere dei luoghi di autoge­ stione della propria intelligenza, della propria cultura e, perché no, delle propria vita; gli stessi sono costretti a darsi dei punti di riferi­ mento all’aperto, di fronte ai locali. E così come alcune frange di “pa­ ninari” per affinità scelgono il Vittorio Emanuele o S. Babila anche come proiezione del loro bisogno di integrazione, al contrario le altre aggregazioni giovanili scelgono le vecchie zone popolari per esprime­ re, come già fanno nel vestire e nel comunicare, anche in questo modo il loro rifiuto dell’omologazione o la loro diversità culturale. Ma questa scelta disturba il progetto generale di innalzamento del livello commerciale della zona, di innalzamento del livello medio della clientela dei locali. Produce insomma un modello che entra in contraddizione con le aspirazioni speculative del nuovo tessuto eco­ nomico e abitativo del quartiere. Si vorrebbe probabilmente un mo­ dello che pur mantenendo le precedenti strutture del quartiere, ve­ nisse usufruito dalla nuova borghesia emergente e dove i “diversi” si lasciassero osservare come bestioline allo zoo ma “senza rompere le balle perché mi me sbatti’ tucc’ el dì e sti sballàa me rappresent nient o nagoot”, e quindi ragazzi “telare”, passi lunghi e ben distesi. A ciò si aggiunga che la Basilica di S. Lorenzo con le sue com­ plesse strutture è diventata uno dei principali centri di agitazione di 195

Comunione e liberazione della zona Sud di Milano con periodiche processioni di sapore medioevale (fiaccole e simili) da s. Eustorgio a s. Lorenzo e viceversa. Il conflitto con il modello del “salvare le ani­ me perse” di Cl e l’evidente aspetto trasgressivo delle “strane creatu­ re” che si aggirano intorno alle Colonne è quasi inevitabile, anche se limitato a qualche scritta pagana sui muri e a un breve raid dentro la chiesa stessa con il danneggiamento di alcuni paramenti. Azione cer­ to discutibile ma comunque successiva all’inizio della militarizzazio­ ne delle Colonne stesse e comunque con un rapporto di causa-effet­ to di un clima generale instauratosi in questa città negli ultimi mesi. Basta scorrere i giornali “400 giovani rastrellati in piazza Leonardo da Vinci”, “300 giovani rastrellati in via Torino, emessi molti fogli di via”, “storia delle Colonne infami” ecc. ecc.. Il conflitto è oramai in­ nescato, la categoria criminalizzante è il “tossico”, l’eroinomane. Ini­ zia una nuova raccolta di firme promossa dai negozianti del quartie­ re e sponsorizzata dal socialista Schemmari. Arrivano i poliziotti, i cellulari, il trattamento duro, occorre fare pulizia. Si chiudono le strade di accesso, si accendono i fari dei gipponi: tutti contro il mu­ ro, gambe aperte, perquisizioni personali accurate e guai a chi prote­ sta, potrebbe finire a fare il “gioco della paletta”: paletta fermatraffi­ co tra i denti, pugno nello stomaco, la paletta vola via e si ricomincia da capo. I negozianti per facilitare l’opera chiudono alle otto di sera, gli abitanti dalle finestre sono lì per applaudire. È stato messo in moto un meccanismo perverso, la società delle merci produce intolleranza, emarginazione. La grande tradizione di accettazione della “diversità” che resisteva oramai solo in questo quartiere viene attaccata dalle fondamenta. Più in là nel quadrilatero della Casba tutto prosegue come prima: alla sera dalla “casa dei tra­ vestiti” escono nei loro tragicomici abbigliamenti i lavoratori della prostituzione maschile. Sono discreti, gentili e accettati. Usufruisco­ no di una clientela impiegatizia piccolo-borghese che pratica la tra­ sgressione della norma come ultima spiaggia dell’eccesso di informa­ tizzazione del vissuto quotidiano. Agli angoli delle strade barcollano i “tossici” in attesa del “pusher”. Professionisti del furto e ricettato­ ri osservano con distacco non disgiunto da una punta di orgoglio per la loro extralegalità. Sui due corsi principali l’ordine pare ristabilito. Domina un si­ lenzio tombale alle Colonne di S. Lorenzo semideserte. Dopo avere effettuato centinaia di perquisizioni personali l’eroina non è stata tro­ vata, al massimo si è scoperto “l’acqua calda” che i giovani si spinel­ lano. Ma tutti appaiono soddisfatti, la facciata della Milano europea produttiva e ordinata è stata salvata ancora una volta. Punk, metalla­ ri, dark, skin ecc. si interrogano sul da farsi. Un altro piccolo crimi­ ne silenzioso è stato portato felicemente a termine. 196

TRA POSTFORDISMO E DESTRA SOCIALE. IPOTESI E MATERIALI DI RIFLESSIONE * Primo Moroni

PREMESSA

I materiali, i riferimenti e le riflessioni contenuti in questo articolo so­ no soprattutto una sollecitazione a seguire percorsi di lettura, itine­ rari bibliografici e a dotarsi di “strumenti di lavoro” adatti a consen­ tire la conoscenza delle profonde trasformazioni in atto in una parte consistente della società italiana e di converso del suo porsi nell’Eu­ ropa delle grandi strategie economiche. Nell’intenzione, quindi, ma­ teriali problematici e sicuramente non esaustivi così come sono lega­ ti a ricerche sul campo e a letture d’appoggio. In definitiva queste no­ te vogliono essere una sollecitazione a tornare a “fare inchiesta e ri­ cerca” partendo dai propri ambiti di lavoro e utilizzando Marx & Co. come una “cassetta degli attrezzi” con la quale scardinare i sistemi di falsificazione dell’avversario di sempre. Il lettore troverà quindi in queste note possibili “ripetizioni” e percorsi apparentemente con­ traddittori (specialmente nelle parti finali) ma, appunto, l’intenzione è quella di produrre materiali relativi a ricerche e percorsi tuttora in corso e tutt’altro che conclusi. DI ALCUNE MEMORIE RECENTI

Gli anni Ottanta appena conclusi sono stati un periodo oscuro e tor­ mentato del paese Italia. Molte sono state le mistificazioni e le ideo­ logie a occultare i processi reali (fra tutte “il pensiero debole”, le pa­ gliacciate del “nuovo rinascimento”, l’Italia come grande paese in­ dustriale ecc.). In realtà, sono stati anni in cui il capitale a livello na­ zionale e internazionale si ristrutturava e operava una profonda ride­ finizione interna che molti definiscono un’autentica “rivoluzione”. Intorno a questi processi “alti” il grande ciclo dell’eroina, il dilatarsi * 1993

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del “capitale illecito”, la distruzione processuale delle soggettività, le generose e drammatiche risposte delle controculture giovanili metro­ politane e infine il mondo del lavoro, gli operai chiusi nelle fabbri­ che, impotenti e attanagliati dall’angoscia per il proprio futuro. Si può partire da alcune esperienze dirette di ricerca sul campo che abbiamo realizzato insieme al Consorzio Aaster di Milano. Lapo Ber­ ti così le riassume e qui liberamente possono essere riportate: la ri­ cerca di cinque anni fa (1984-85) ci pose davanti agli occhi un am­ biente sociale devastato, un immaginario collettivo ridotto in frantu­ mi, delle identità individuali svuotate. Ricordo la frase esagerata, ma significativa, di un lavoratore an­ ziano: “Siamo come gli ebrei; ora ci aspetta la "soluzione finale’”. A quella ricerca mai pubblicata, avremmo voluto dare il titolo “La pau­ ra operaia”. La paura, infatti, sembrava essere la tonalità emotiva do­ minante, la Stimmung prevalente tra quei lavoratori che si vivevano come un gruppo di naufraghi. Il loro orizzonte era pesantemente oc­ cupato dal problema della droga, di cui quasi tutti, sorprendente­ mente, mostravano di avere avuto esperienza diretta (ovviamente tra i più giovani) o indiretta per il tramite di parenti o conoscenti (ciò an­ che a sfatare le banalità che riconducono il problema droga esclusi­ vamente alle fasce marginali giovanili). L’immagine dell’ambiente di lavoro appariva dominata dall’irruzione dell’innovazione tecnologi­ ca, percepita nella sua brutale quanto reale valenza di sostitutrice del lavoro umano. Qualche anno dopo, nel 1988, ci occupammo di un ambiente di lavoro del tutto diverso, quello di una “fabbrica” terziaria, la Ciba Geigy di Origgio, in cui gli operai rappresentavano una ridotta mi­ noranza. L’atmosfera riscontrata era molto diversa, presumibilmente per la forte presenza di tecnici e di quadri, ma a livello operaio ri­ spuntavano, seppur in qualche modo attutiti, i sintomi del disagio. Il reddito considerato insufficiente, la scarsa soddisfazione rispetto al lavoro, la percezione di occupare una posizione sociale stazionaria, se non in regresso, il timore che l’innovazione tecnologica minacciasse il posto di lavoro. Il risvolto di questa condizione soggettiva sul pia­ no della rappresentazione sociale era, e in parte rimane, una sostan­ ziale assenza del soggetto operaio anche se si intuivano i segni di una rinascente mobilitazione che in qualche modo si sarebbe rivelata al­ cuni anni dopo sia pure pesantemente condizionata dalle culture ma­ terializzate precedenti. Ma questa perdita di protagonismo, questo silenzio del mondo del lavoro non potevano che porre domande profonde sulle loro origini e sui processi di trasformazione produttiva intervenuti a partire dagli anni Ottanta (ma in realtà iniziati già a metà degli anni Settanta). Riflettere sul silenzio politico e culturale che avvolgeva il mondo 198

dei lavoratori dipendenti allora e sulle difficili risposte che vengono date oggi, significa, quindi, interrogarsi sulla natura e il senso dei cambiamenti che sono avvenuti sotto i nostri occhi e che ci hanno coinvolti e trasformati. Significa, anche, interrogarsi sulla natura del­ la società in cui viviamo e sulle forme di convivenza che essa esprime o cancella. Tra la fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta si è compiuta in Italia una trasformazione epocale che ha messo tenden­ zialmente fine al precedente assetto produttivo e ha nel contempo ri­ disegnato larga parte delle culture sociali di intere regioni del paese. Come è ovvio questa mutazione del modo di produrre ha inevitabil­ mente sconvolto universi di riferimento, comportamenti collettivi e relazioni intersoggettive. Ha altresì messo in crisi l’intero sistema del­ le forme di rappresentanza politica che si erano formate nel prece­ dente trentennio e che nella “verticalità” del sistema dei partiti assi­ curavano una relativa dialettica tra maggioranza e opposizione. Si può collocare l’inizio di questa mutazione , anche se ciò può appari­ re paradossale, nel biennio 1975-76 e cioè proprio quando la sinistra istituzionale di opposizione raggiunse il suo massimo storico di forza elettorale. Io credo che quel biennio abbia avuto (nella sfera politica e nelle sue conseguenze o ricadute nel sociale) un’importanza di va­ lore strategico tale da richiederne, prima o dopo, un’analisi ben più approfondita di queste brevi citazioni. Qui, e per adesso, si può dire che un vasto mandato popolare e classista, che si tradusse in un voto massiccio per il Pci berlingueriano e altre forze di sinistra, auspicava un ricambio radicale del governo della società e che nel mito del “sorpasso” (e cioè del superamento dei voti delle forze centriste e moderate) trovava la parola chiave nell’immaginario collettivo. Come è noto quel grande risultato non venne “rispettato” dalle dirigenze comuniste le quali optarono per un accordo con la Democrazia Cri­ stiana e le altre forze moderate. Nacquero così i governi di “unità nazionale” o di “solidarietà na­ zionale”. Un orrendo pasticcio politico che favorì il perpetuarsi del­ la logora e precedente “classe dirigente”, mentre fece venir meno la prospettiva di fondare una riforma delle regole del gioco sull’assun­ zione diretta di responsabilità di governo da parte delle forze che rappresentavano il mondo del lavoro dipendente. Noi scrivemmo, al tempo, che con quella scelta il Pci si era praticamente “suicidato”, at­ tirandoci la derisione di sciocchi “gazzettieri”, anche se non molti an­ ni dopo gli stessi dovettero trasformare i loro poco attraenti ghigni in smorfie attonite e beote. Le conseguenze di quelle scelte politiche di vertice sono note, il Pci e il Sindacato gestirono in prima persona la repressione dei mo­ vimenti antagonisti e fecero letteralmente “fuori” la grande esperien­ 199

za dei “consigli di fabbrica” mentre il padronato espelleva più o me­ no violentemente dalle fabbriche decine di migliaia di avanguardie che si erano formate in due decenni di lotte. In questo modo la ri­ strutturazione produttiva poté marciare speditamente a tutto vantag­ gio delle élite capitalistiche. Si trattò indubbiamente di una svolta au­ toritaria che senza l’aiuto del Pci e del sindacato sarebbe stata molto più problematica e, in ogni caso, compito della “sinistra” sarebbe sta­ to quello di governare e contrattare conflittualmente la transizione produttiva. Una svolta che con la parola chiave “emergenza” avreb­ be dominato poi il quindicennio successivo e che nella violenta mo­ difica delle regole democratiche (a partire dalla sfera del diritto e dal­ la conseguente trasformazione della magistratura in “braccio secola­ re” del potere politico ed economico) trovava il sostegno per ribadi­ re la propria legittimità trasformando l’“emergenza” in forma di go­ verno. Alla luce odierna molte delle nostre analisi di allora appaiono in parte limitate perché se pure avevano colto che era in corso una “rivoluzione interna” del sistema politico, forse non avevamo colto appieno che quella era una necessità intrinseca della sfera della pro­ duzione. Ci fu probabilmente un’enfasi eccessiva nell’indagare e nel sottolineare il ruolo repressivo del sistema politico e in particolare del sostegno che a questo veniva offerto dalla sinistra istituzionale, ma non venne colto appieno che stava avvenendo un’autentica svol­ ta epocale nelle strategie complessive del capitalismo maturo. È evi­ dente che l’aver capito, o cominciato a capire, oggi la profondità di questa mutazione aggrava e non diminuisce le responsabilità del Pci e del sindacato. Ma anche da parte della sinistra extrasistemica i li­ miti di analisi furono molti e contribuirono a non poche scelte sba­ gliate. Ciò a partire, per esempio, dal concetto di “sconfitta operaia” che indubbiamente ci fu, ma che era la conseguenza di più profonde implicazioni e che così ridotta finiva per cogliere esclusivamente la dimensione politica di quello che, in realtà, e, prima di tutto, era e ri­ mane un gigantesco processo di trasformazione sociale indotto pura­ mente e semplicemente dalla necessità di cambiare in profondità il modo di produrre. Una necessità che nel caso italiano interveniva con un considerevole ritardo se rapportata ad altre aree economiche capitalistiche e il ritardo era stato causato principalmente dalla capa­ cità conflittuale e dalla maturità raggiunte sia dai movimenti antago­ nisti sia, soprattutto, dalla forza organizzativa del corpo centrale del­ la classe operaia. In questo senso era comprensibile che la mutazione assumesse in Italia contorni molto più drammatici che altrove e che per realizzarsi “dovesse far fuori” sia i movimenti antagonisti sia la stessa centralità operaia. Probabilmente non avevamo riflettuto a sufficienza su quanto era successo negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Sessanta, 200

quando il processo di “dismissione” dei grandi impianti industriali aveva radicalmente trasformato la fisionomia di intere aree sociali del paese. Per fare l’esempio più conosciuto si può ricordare la vi­ cenda di Detroit (che è stata la storica capitale del mitico ciclo del­ l’automobile e che ha segnato l’immaginario di molte generazioni di militanti di sinistra, ortodossi o eretici) e dei processi di deindu­ strializzazione che vi si verificarono. Detroit non è più una città in­ dustriale da molti anni e la sua storica classe operaia nera e bianca, violenta e intelligente, si è dissolta nelle pieghe immense del merca­ to del lavoro statunitense. In un certo senso è praticamente scom­ parsa forse anche a causa della sua ingestibilità, ma soprattutto per­ ché le grandi holding o corporation dell’automobile optarono per un formidabile decentramento produttivo consentito o facilitato dall’irruzione sempre più massiccia delle nuove tecnologie. Ricerca di manodopera poco conflittuale a basso costo e nuove tecnologie determinarono lo spostamento, in una prima fase, di una parte rile­ vante della produzione dei processi di fabbricazione nel sud degli Usa e negli anni Ottanta direttamente in Messico o in altri stati. Lo stesso fenomeno si sarebbe poi verificato per altri settori della pro­ duzione industriale determinando una radicale deindustrializzazio­ ne degli Stati Uniti di cui l’esternalizzazione della produzione è il fattore più visibile. All’interno la fabbrica taylorista e fordista è sta­ ta trasformata grazie ai robot e all’informatica, spesso “impiantati” in nuovi, più piccoli stabilimenti costruiti nelle aree meno sindaca­ lizzate del paese. Poi è stata ulteriormente traslocata in Corea del Sud, a Singapore, Hong Kong, Formosa, nelle Filippine e così via. Gli effetti sono noti: impoverimento in quelli che erano i centri pul­ santi della produzione e della vita operaia, con conseguente loro de­ grado a periferie economico-sociali, e “arricchimento” delle nuove enclaves legate alla produzione industriale. Ed è in queste aree che si assiste alla rinascita di ideologie legate ai particolarismi etnici e razziali e al consolidarsi dei “piccoli nazionalismi” dei diseredati. L’approfondirsi dell’impoverimento etnico e razziale ha lasciato ai più giovani di ciascun gruppo ben pochi obiettivi, al di là della difesa del proprio territorio. Sono ideologie mistificate, che indiriz­ zano odi e risentimenti verso il più vicino socialmente e territorial­ mente.1 Per parlare quindi della realtà attuale occorre partire dai processi strutturali della seconda metà degli anni Settanta e dalla violenta of­ fensiva che era, oltre al resto, resa necessaria dalla inaffidabilità dei nuovi soggetti giovanili che si affacciavano al mercato del lavoro,2 ma che era altrettanto non rinviabile per gli intervenuti processi concor­ renziali determinati dall’irruzione delle tecnologie flessibili nel modo di produrre le merci nelle società del capitalismo maturo.3-4 201

1.

LA “NUOVA DESTRA SOCIALE”: IPOTESI E MATERIALI DI RIFLESSIONE

La sconfitta del “corpo centrale della classe” simbolizzata dalla Fiat nel 1980, dalla marcia dei 40.000 “quadri intermedi” o “colletti bianchi” e dai 23.000 licenziamenti,5 significava proprio questo, vo­ leva dire che insieme alle culture e alle forme di lotta della classe ope­ raia più moderna e matura del dopoguerra, decadeva anche il modo di produzione di cui quelle pratiche di conflitto erano la risposta spe­ culare. In un certo senso era il tramonto del modello fordista-taylo­ rista di organizzazione della produzione delle merci e della vita dei lavoratori. In ogni caso è comunque indubbio che la transizione dal modello della “produzione di massa” alla cosiddetta “produzione snella” è un fatto consolidato, non solo nei settori della meccanica leggera, ma nel complesso della struttura industriale. E che essa ha al centro il tentativo di superare alcuni dei caratteri qualificanti del mo­ dello organizzativo fordista e taylorista, che ha segnato la storia in­ dustriale per buona parte del Novecento.6 Accennavo alla conflittualità operaia degli anni Settanta, alla pra­ tica conflittuale che abbiamo conosciuto come “centralità della fab­ brica” con le sue pratiche di “rigidità” e di democrazia dal basso espressa dal “movimento dei consigli”. Sostanzialmente intendo rife­ rirmi al grande ciclo di lotte dell’“operaio massa” e alla cultura dif­ fusa che quel ciclo aveva innestato in tutta la società. Indubbiamente le élite capitalistiche si sono trovate nella condi­ zione di “smontare”, distruggere quel ciclo che minacciava sempre più il “comando” sui processi lavorativi e su tutto il resto della società; ma, come sempre, i processi di trasformazione interna del capitalismo sono sì la risposta speculare all’offensiva operaia, ma non possono es­ sere letti solo in termini di conflittualità. Il conflitto di classe, infatti, è, come noto, un motore dello sviluppo e comporta di conseguenza una rivoluzione tecnologica del modo di produrre le merci. Intendendo dire con questo che il movimento dei consigli di fabbrica, che il ruolo politico della “centralità operaia”, sono sì decaduti in seguito ai pro­ cessi repressivi; ma che nel contempo la risposta padronale ha avuto la possibilità di avere successo non solo per la forza e la capacità innova­ tiva determinate dal consolidarsi delle nuove tecnologie flessibili, per cui si può contemporaneamente affermare che il movimento dei “con­ sigli di fabbrica” è scomparso insieme al modello di organizzazione del lavoro di cui era espressione speculare. Innovazione tecnologica e processo di globalizzazione dell’economia sono due fenomeni strettamente interrelati che incidono profondamente sul terreno socio-cul­ turale e stanno determinando una torsione concettuale che investe i fondamenti stessi del “nostro essere nel mondo”. Citando ancora Lapo Berti, si può concordare con le sue affer­ 202

mazioni quando nel saggio Sull’invisibilità del problema operaio nella società postindustriale,7 afferma: “È semplicemente mutato il modo di produrre. Si è instaurato un nuovo universo di rapporti. Sono emer­ se nuove configurazioni (...). Non staremo qui a rifare la storia del de­ centramento produttivo e della corsa verso la flessibilizzazione dei processi produttivi su cui tanto inchiostro è stato versato in questi anni. È sufficiente ricordare come questi processi abbiano avuto due effetti dirompenti sulla composizione sociale che deriva la sua ragion d’essere dalla configurazione del sistema produttivo. Da un lato, so­ no stati smantellati, in maniera più o meno drammatica, i grandi blocchi omogenei di lavoratori che erano connaturati alla configura­ zione fordista. Per questa via sono state dissolte le basi materiali del mondo della classe operaia quale l’abbiamo conosciuto in questo do­ poguerra. Le forme della cooperazione nella grande fabbrica fordista nonché i modi della socializzazione del lavoro operaio erano la gran­ de matrice dei comportamenti che poi davano luogo alla "società so­ lidale’. Con esse sono scomparse anche le ragioni della solidarietà nel senso tradizionale del termine. Dall’altro, l’area sterminata del lavo­ ro dipendente è stata progressivamente erosa dall’emergere di posi­ zioni professionali indipendenti che hanno enormemente dilatato la sfera del lavoro autonomo. È stata questa, probabilmente, la trasfor­ mazione economica dalle conseguenze più vaste e rilevanti. Siamo ancora ben lontani dall’averne compreso e valutato la portata”. Il mondo del lavoro dipendente è stato, per così dire, invaso e di­ sarticolato dalla ""logica d’impresa”, dando luogo alla grande simula­ zione di una miriade di microimprese individuali che nascondono nuove forme di cooperazione e subordinazione e che, comunque, di­ stillano un clima sociale diverso da quello generato dalla configura­ zione fordista della cooperazione sociale.8 Vi è certamente molta enfasi e molta falsificazione nelle analisi di quegli economisti e di quei sociologi che parlano tout-court di una società dalla produzione immateriale o che riassumono nel termine ""terziarizzazione” (senza precisarne i contenuti) le trasformazioni produttive in atto. Negli anni Ottanta abbiamo assistito a una gigan­ tesca opera di "‘occultamento del lavoro”. In realtà, la quota dei la­ voratori manuali non è cambiata granché dagli anni Cinquanta a og­ gi (circa cinque milioni di persone) e l’innovazione tecnologica - no­ nostante le indubbie implicazioni strategiche - è molto meno profon­ da di quanto non si voglia far credere9 e, anzi, nel caso italiano si può parlare caso mai di un processo di innovazione marcata che, unita­ mente al mito della pace sociale, ha contribuito a determinare la pro­ duzione industriale più scadente del panorama europeo. È stata invece profondamente modificata la dislocazione dei fatto­ ri produttivi con effetti di dispersione e invisibilità del mondo del la­ 203

voro rispetto alle isole sindacalmente organizzate mentre i profili pro­ fessionali sono stati frequentemente sconvolti.10 La liberazione dal la­ voro che era stata il filo conduttore, ora dispiegato ora nascosto, di tut­ ti i conflitti innescati dall’operaio fordista appare ora (per quote consi­ stenti) paradossalmente realizzata, sotto forma di simulacro, in questa opera gigantesca di rimozione sociale. Siamo nel pieno di quella misti­ ficante narrazione che va sotto il nome, appunto, di “terziarizzazione” e che vorrebbe descrivere l’esodo dall’oppressivo lavoro di fabbrica verso la terra promessa del lavoro libero e indipendente.11 Appare evidente che non è esattamente così, ma ciò nonostante centinaia di migliaia di soggetti produttivi la “vivono” emotivamen­ te, materialmente e individualmente in questo modo, con effetti di profondo spaesamento dentro i confini e i profili della classe. 2. IL LAVORO “AUTONOMO”

Nel suo recente Problematiche del lavoro autonomo in Italia,12 Sergio Bologna elabora una prima analisi in profondità di questa, per larga parte, nuova figura sociale sia in termini quantitativi sia qualitativi. Rinviandovi alla lettura di questa analisi estremamente complessa e documentata, posso qui citare alcuni passaggi illuminanti ai fini del nostro ragionamento e per spiegare dove voglio andare a parare con questo intervento relativo al formarsi di quella che molti del “movi­ mento” definiscono “nuova destra sociale”: “Il lavoro autonomo co­ stituisce una specie di "secondo livello della flessibilità del lavoro’, es­ sendo il primo rappresentato dalla quota di lavoro la cui flessibilità è regolamentata contrattualmente o giuridicamente e il terzo rappre­ sentato dall’intero universo del lavoro nero o "non ufficiale’.” Generalmente il lavoratore autonomo assume il profilo giuridico della “ditta individuale” anche se per molte non è obbligatoria la regi­ strazione alle Camere di commercio. Anche se il livello di conoscenza sull’universo delle imprese individuali è molto limitato, si può formu­ lare l’ipotesi che un gran numero di “lavoratori autonomi” esegue mansioni semplici lontano dalle unità di produzione che le ha commis­ sionate, che il loro salario è rappresentato dalle fatture che presentano secondo una periodicità variabile per il lavoro fornito e che i vincoli posti alla loro prestazione dal committente sono sempre più rigidi. Secondo le stesse Camere di commercio le imprese registrate sa­ rebbero solo il 50-55 per cento di quelle effettivamente in attività e cio­ nonostante assommano ad alcuni milioni di unità (nella sola Lombar­ dia sono circa 400.000). A questa categoria vanno poi aggiunte le im­ prese artigiane che nel 1988 erano 1.385.116 di cui ben 703.506 costi­ tuite dopo il 1980 (!).13 Certamente dentro questo universo ci sono an­ che le decine di migliaia di bottegai, ma la quota di coloro che lavorano 204

per le imprese (che fanno parte quindi delle cosiddette “imprese a re­ te”) o che sono produttori di merci e servizi si è tuttavia enormemente dilatata fino a rappresentare un fattore determinante dell’universo del lavoro. L’analisi delle diverse caratteristiche di questo universo sarebbe troppo lungo e noioso e vi rimando quindi all’articolo citato, qui posso osservare che moltissimi di loro sono lavoratori monocliente (che svol­ gono servizi o producono merci per un solo committente) e in quanto tali “Essi non sono altro che forza lavoro desalarizzata, non si pongono in maniera autonoma in rapporto a un mercato pluricliente (un’altra quota consistente ha invece queste caratteristiche) e tuttavia, poiché debbono rispettare tempi e modalità di servizio rigidamente determi­ nate, non sono detaylorizzati; quindi rivestono sì la forma di microim­ presa, in realtà sono il nuovo operaio-massa dell’impresa a rete”.14 Sostanzialmente si è dato vita in questi anni a quella che gli econo­ misti chiamano una protoindustria: legata al locale, alla famiglia, alla autoimprenditorialità, alla microimprenditorialità. Lo sviluppo dei ser­ vizi, che è il fatto nuovo, si è basato sulle strutture primarie: la famiglia e le reti parentali (il discorso vale anche per la Francia), reti che consen­ tono uno sviluppo forte dell’economia informale. Si può dire che le fa­ miglie diventano negli anni Ottanta degli agenti dello sviluppo.15 D’altronde lo stesso Andrè Gorz nel suo Metamorfosi del lavoro afferma che “Le grandi imprese hanno imparato a decentrare e su­ bappaltare, secondo il modello giapponese, il maggior numero pos­ sibile di produzioni e di servizi servendosi di imprese satelliti - per­ lopiù minuscole - composte al limite di un solo imprenditore-arti ­ giano che lavora esclusivamente per la grande azienda con capitale prestato dalla stessa azienda”.16

3.

TRA LAVORO AUTONOMO E MICROIMPRESA

Volendo citare un caso in grande ci si può riferire alla attuale strut­ tura produttiva della Fiat Auto: “Un auto Fiat è infatti composta da circa 5000 pezzi che sono in gran parte prodotti esternamente alla Fiat Auto: il 25 per cento delle forniture è acquistato da aziende stra­ niere (perlopiù europee), un altro 25 per cento proviene direttamen­ te dalla componentistica Fiat (circa 45.000 addetti), il rimanente 50 per cento da piccole aziende indipendenti (l’indotto) che producono esclusivamente per la Fiat. Molte di queste ultime unità produttive sono sorte per iniziativa di ex dipendenti Fiat (perlopiù quadri e ca­ pi), alcune anche grazie a partecipazione di capitale Fiat a cui sono legate non solo economicamente ma anche culturalmente. Esse oc­ cupano 150.000 addetti (un numero superiore di circa 10.000 unità a quello dei dipendenti della Fiat Auto nel suo complesso) e la loro produzione è estremamente specializzata.17 205

Qualcosa di molto simile avviene in altri settori produttivi (cele­ bre, per esempio, è il modello Benetton e nel settore agricolo il mo­ dello Ferruzzi)18 e questa profonda trasformazione è stata resa in­ dubbiamente possibile, o fortemente facilitata, dall’irruzione massic­ cia delle tecnologie flessibili che permettono una continua interazio­ ne tra la fabbrica centrale e le migliaia di unità produttive disperse sul territorio. È in effetti noto che l’innovazione tecnologica è di­ scretamente diffusa nelle piccole imprese, e ciò per molti ordini di ra­ gioni tra cui la ridotta economia di scala e la necessità di continua in­ novazione non sono tra i minori. Innovazione dei processi lavorativi e modifica continua del prodotto sono infatti le caratteristiche prin­ cipali di questo ciclo produttivo. Per esemplificare questo concetto si può dire che la produzione precedente (quella che si è affermata negli anni Trenta fino ai primi anni Settanta) era di tipo essenzialmente unilineare e quantitativo. I settori dominanti erano quelli dei beni finali durevoli indifferenziati (come auto ed elettrodomestici). Erano prodotti nuovi e desiderati che andavano a soddisfare svariate esigenze domestiche o soggettive. Non c’era una grande esigenza di qualità in questi prodotti, l’impor­ tante era averli. Quando a livello multinazionale (ovviamente nei paesi a capitalismo sviluppato) si è giunti a soglie di saturazione di questa esigenza, si è cominciato a giocare sulla qualità. Oggi il mi­ glioramento della qualità è lo strumento necessario per accelerare le sostituzioni. Ciò avviene tramite soluzioni sempre più orientate alla personalizzazione dei beni e servizi. La tecnologia diventa in questo senso risorsa indispensabile, permette la continua differenziazione del prodotto e ciò è tanto più possibile quanto più la produzione possa essere organizzata per piccole unità produttive adatte a valo­ rizzare e “controllare” le risorse umane e le singole abilità lavorative integrate creativamente con le tecnologie stesse.19 D’altronde l’evoluzione degli ultimi anni mostra che, da un lato, le nuove tecnologie forniscono le opportunità per uno sviluppo delle re­ lazioni tra imprese e unità operative della stessa impresa, dall’altro che l’enorme quantità di opzioni tecnologiche rendono impossibile per una azienda, per grande che sia, il controllo di tutte queste opportu­ nità. Di qui, la necessità da parte dell’impresa di assumere “configura­ zioni a geometria variabile” con confini mobili. La dimensione orga­ nizzativa di ogni area decisionale varia a seconda della tipologia del problema da gestire: la soluzione non è più sempre e comunque lascia­ ta al centro, ma si demanda al sottosistema più idoneo all’invenzione di nuove aggregazioni o alleanze con altre imprese.20 Siamo quindi in presenza di un nuovo paradigma tecnologico che tende a distruggere i cicli industriali precedenti creando nuove figu­ re sociali e produttive dislocate in aree territoriali molto vaste che se 206

da un lato danno luogo a macroregioni sovranazionali21 interconnes­ se tra loro, dall’altro consolidano una miriade di “società locali” do­ ve si sviluppano forme di cooperazione sociale tra imprese. La tec­ nologia informatica è, in questo caso, la rete “virtuale” di collega­ mento tra tutte queste realtà produttive. Essa permette infatti la tra­ smissione di informazioni e istruzioni a un costo molto basso, so­ stanzialmente indipendente dalla distanza. Diviene così possibile predisporre numerose varianti di un prodotto di base per le necessità di aree geografiche e di categorie socioeconomiche anche molto li­ mitate: “Si osserva, pertanto, la parallela estensione di un medesimo processo produttivo a varie aree del pianeta (la cosiddetta “globaliz­ zazione” della produzione) e l’adattamento a esigenze di piccoli gruppi di varianti di un modello di base”.22 4.

LA NUOVA IDEOLOGIA DEL LAVORO

Se ci sembrano convincenti queste riflessioni appare evidente come le nuove tecnologie e la profonda ridislocazione dei fattori produtti­ vi siano state indubbiamente una risposta padronale alla ingestibilità del corpo centrale della classe, ma che questa risposta sia stata resa possibile o, dialetticamente, necessaria dalla irruzione delle tecnolo­ gie flessibili. Essa ha inciso in maniera profonda sulla modifica dei territori industriali, ha ridisegnato le geometrie della composizione sociale di intere regioni, ha trasformato le caratteristiche del mercato del lavoro che si è massicciamente territorializzato e localizzato fuo­ ri dalle grandi metropoli, dentro i piccoli centri di provincia delle re­ gioni produttive del centro-nord. L’espulsione dei lavoratori dalle grandi fabbriche metropolitane ha determinato il loro ritorno nelle società locali da cui provenivano tramite il ben noto fenomeno del “pendolarismo”.23 Una parte di loro si è trasformata in imprenditore di micro-im­ presa, altri in lavoratori autonomi, moltissimi in forza lavoro flessibi­ le e disponibile ad alto contenuto di skill (destrezza, abilità). Da uno studio Nomisma (relativo al modello pratese e alle ma­ glierie di Carpi) si ricavano utili indicazioni sui ritmi di lavoro de­ gli artigiani e delle micro-imprese. Molti di loro - e i loro dipen­ denti - sono costretti a lavorare anche sedici ore al giorno, così co­ me sono tenuti a rispettare il just in time, vale a dire che l’artigiano deve non solo eseguire la lavorazione con il massimo di rapidità, ma consegnare la merce all’ora stabilita, in modo che essa entri di­ rettamente nel ciclo dell’assemblatore e/o di chi commercializza.24 Inutile dire che se trasferita nel modello Fiat (o consimili) la situa­ zione non cambia. Gli stessi lavoratori autonomi a carattere individuale (cioè senza 207

dipendenti) registrano, come dato immediato della propria indipen­ denza desalarizzata, un formidabile aumento della giornata e della settimana lavorativa. Siamo in presenza quindi di uno straordinario processo di valorizzazione della forza lavoro o di una sua continua contrattazione nel caso dei lavoratori delle microimprese. Per cui si può affermare, nell’ambito di un intervento a carattere parziale (o di ricerca), che siamo in presenza non solo di uno sconvol­ gimento dei profili della classe, ma anche e soprattutto di quello delle élite dirigenti. Qui il discorso si fa particolarmente complesso e le ana­ lisi a disposizione frammentarie. Ma ciò proprio perché questa “rivo­ luzione” interna del capitalismo è tuttora in corso e tutt’altro che con­ clusa e, come è noto, le transizioni da un modello produttivo a un altro sono sempre lunghe, incerte e contraddittorie. Mi diverte qui ricorda­ re come Mario Deaglio (ex direttore de “Il Sole 24ore” l’organo di Confindustria) nel testo che ho citato più volte (La nuova borghesia e la sfida del capitalismo) si diverte, a sua volta, intelligentemente a cita­ re Marx quando nel Manifesto del Partito Comunista afferma: “La borghesia non può esistere senza provocare una continua rivoluzione nei mezzi di produzione e per conseguenza nei rapporti di produzione e con essi nell’intera gamma dei rapporti sociali. La conservazione dei vecchi modi di produzione in forma immutata è stata, al contrario, la prima condizione dell’esistenza di tutte le precedenti classi industria­ li. Una costante rivoluzione nella produzione, una perturbazione inin­ terrotta di tutti i rapporti sociali, una perenne incertezza e agitazione distinguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti”. 5. UNA

“nuova

borghesia” e una oligarchia diffusa?

Con una punta di ironia possiamo prendere atto che abbiamo il di­ scutibile vantaggio di vivere una transizione epocale, una “rivoluzio­ ne” interna del capitalismo maturo e che molti dei nostri strumenti insieme al formidabile bagaglio di memoria vanno decisamente riaf­ filati e complessificati. Tornando a “navigare” con pochissimi skipper amicali ed equi­ paggi dotati indubbiamente di grandi capacità emotive e di conside­ revoli risorse di soggettività, ma non ancora in grado di essere équi­ pe fredde e determinate, possiamo tornare al ragionamento princi­ pale e aggiungere altre considerazioni ai processi in atto. Io credo che per dare consistenza, contenuto, alla definizione, per alcuni aspetti di tipo “ideologico”, di “destra sociale” occorra riflette­ re non solo sulle interpretazioni fin qui citate, anche se apparentemen­ te trattavano processi più vasti, ma anche e soprattutto di alcune que­ stioni che, per adesso, porrò in forma interlocutoria e cioè con mate­ riali grezzi su cui ragionare e lavorare politicamente. 208

Abbiamo fin qui delineato un’ipotesi che attiene alla tesi del ten­ denziale e ormai largamente affermato tramonto del modello taylori­ sta-fordista. Un tramonto che trascina con sé interi universi sociali che sono statila base politica e culturale dell’ultimo secolo. A fronte di ciò vediamo emergere nuove figure sociali e produttive. Si stanno forman­ do una nuova borghesia e una nuova composizione di classe e molto altro ancora se inseriamo questi cambiamenti nel mutato quadro inter­ nazionale. Su questo ultimo punto, e per inciso (e per parlarne occor­ rerebbe un seminario apposito), non c’è dubbio che il tramonto dei paesi a socialismo reale abbia rimescolato e fatto cadere molte “appar­ tenenze”, azzerando per molti gli orizzonti di riferimento e di trasfor­ mazione, “liberando” un’enorme massa di voti moderati che possono assumere - potenzialmente - valenze più progressiste o, come è pro­ babile, tonalità più “reazionarie”. E anche per questa ultima conside­ razione che diventa determinante l’analisi dei processi materiali che inducono sia le tonalità emotive sia le scelte politiche.25 Mario Deaglio nel testo citato delinea un quadro della nuova bor­ ghesia facendone risalire la sua nascita al periodo 1975-84 (grosso modo, come si diceva prima, al periodo iniziale dei processi ristrut­ turativi con le conseguenti politiche emergenziali e i governi di unità nazionale). Caratteristiche peculiari di questi nuovi quadri dirigenti diffusi attengono alla notevole attenzione posta nei confronti delle nuove tecnologie, al loro dare importanza prioritaria al capitale uma­ no, alla capacità di dare vita a imprese di piccole dimensioni ma estremamente produttive e, fondamentalmente, come effetto del nuovo modo di produrre, alla tendenza-capacità di ridurre conside­ revolmente le suddivisioni tra imprenditore e dirigente, tra dirigente e lavoratore autonomo, quando non sia direttamente dipendente. In linea generale si può affermare che i nuovi processi produttivi ri­ chiedano a un tempo quote crescenti e un diverso tipo di “capitale umano”, ossia di abilità, esperienza e nozioni. Quindi la partecipa­ zione adesiva del lavoratore al processo produttivo è determinante sia se posta in rapporto alle caratteristiche delle tecnologie flessibili sia come gratificazione e autorealizzazione del lavoratore stesso (ma anche del dirigente o dell’imprenditore). Non c’è dubbio che le società locali del nord del paese (ridise­ gnate dal decentramento produttivo) dove i rapporti di lavoro sono per la gran parte familiari, parentali, o amicali sono imprenditoriali nel mentre modificano in profondità l’orizzonte di appartenenza dei lavoratori. E ciò anche se questa ultima conseguenza viene vissuta dai soggetti stessi come recupero di autonomia e come valorizzazione del proprio skill. Ma questa falsificazione del proprio vissuto non è ovviamente priva di conseguenze. Occorre dire infatti, che la consapevolezza di 209

essere in possesso di un capitale umano immateriale (abilità, destrez­ za, flessibilità, capacità decisionale, ovvero il vero significato del ter­ mine skill se rapportato alle nuove tecnologie) separato dall’universo di quella che noi chiamiamo “coscienza di classe” determina una fi­ gura sociale che di per sé tende ad annullare sia le differenze con l’imprenditore sia - attraverso un processo di autofalsificazione - la storica alienazione operaia: La consapevolezza del processo di capitale umano implica quindi che i comportamenti del lavoratore, relativamente non solo ai consumi e rispar­ mi, ma anche a scelte di carriera, di ulteriore istruzione e simili, siano mo­ dulate secondo un ‘piano di vita’ e non sulla base dei redditi istantaneamente percepiti: implica altresì che, nella formulazione e nelle modifica­ zioni di questo piano di vita, vengano accettati l’incertezza e il rischio. Que­ sta consapevolezza è da considerarsi come elemento oggettivo, verificabile dai comportamenti del lavoratore; è quindi cosa diversa dalla ‘coscienza di classe’. L’esistenza e l’entità del capitale umano si inferiscono dalla capacità di reddito riconosciuta dal mercato ai lavoratori che ne dispongono. Quan­ to maggiore è la capacità di un individuo di operare con processi produtti­ vi moderni, e quindi la sua disponibilità di capitale umano, tanto maggio­ re è, per conseguenza, il suo interesse per un sistema di mercato libero che gli permetta la piena valorizzazione economica delle proprie capacità.26

Ma in un largo comparto del mondo del lavoro un humus sociale e culturale così connotato ha tra gli esisti non secondari l’effetto di ge­ nerare un rifiuto “spontaneo” di qualsiasi regolazione del mercato del lavoro che imponga trasferimenti di reddito di natura solidaristi­ ca dai lavoratori con redditi più elevati ai lavoratori con redditi più bassi, o dall’insieme dei lavoratori al resto della società. Parallelamente le centinaia di migliaia di “nuovi imprenditori” che alcune definiscono “nuova borghesia” (M. Deaglio) e altri “oli­ garchia diffusa” (G. Gario, Rapporto Irer 89), non hanno nessun le­ game con le precedenti borghesie industriali in decadenza (nel caso lombardo-milanese sostanzialmente dissolte nel giro di pochi anni) e sono totalmente privi di un qualsiasi referente ideologico culturale non riconoscendosi compiutamente in alcune delle grandi correnti politiche, religiose, filosofiche. 6.

LA CRISI DEL SISTEMA DEI PARTITI, I LOCALISMI E IL NUOVO CETO MEDIO PRODUTTIVO

Sembra persino ovvio osservare che i territori privilegiati del formar­ si e del dispiegarsi di questa, per molti versi, nuova “configurazione socio-economica” sono stati quelli compresi nelle regioni del centronord industriale. Queste aree che sono state il cuore dello sviluppo industriale nazionale assumono oggi nuove valenze e significato pro­ prio a seguito delle trasformazioni produttive in atto. 210

Come infatti si può dedurre dai lavori citati di Deaglio, Polo, Berti e Bologna e come diventerà, spero, ancor più chiaro nel corso dello svolgimento del mio discorso, l’enorme sconvolgimento inter­ venuto nell’universo del lavoro ha ridisegnato i confini simbolici de­ gli “stili di vita” dando luogo a nuove gerarchie e nuove forme di cooperazione sociale, che fanno del territorio in un senso ampio una risorsa strategica. Oggi il posizionamento territoriale diventa fattore strategico della produzione ovvero “l’essere padano significa anche avere la possibilità di produrre meglio”. Appare quindi comprensi­ bile che queste aree siano le più interessate al fenomeno della pro­ gressiva crisi del tradizionale sistema dei partiti.27 Una crisi che, date le premesse e le ipotesi interpretative sopra descritte, è sintetizzabile nell’incapacità dei partiti stessi di “fare presenza” dagli interessi e dagli universi culturali di questa nuova “oligarchia nascente”. Ed è dentro questo vuoto di rappresentanza che si è determinato il feno­ meno leghista con tutti i suoi contorni contraddittori. Un fenomeno elettorale tra i più grandi del dopoguerra europeo e che, se indub­ biamente ha il “merito” di avere “sbrinato” il sistema politico italia­ no, pone nel contempo inquietanti interrogativi sul futuro degli spa­ zi democratici in questo paese. Ma sembrerebbe un errore pensare che quelli che vengono defi­ niti i “localismi politici” e i “localismi economici” siano caratteristi­ che peculiari del solo paese Italia. In realtà processi consimili sono ampiamente diffusi nella Repubblica federale tedesca, in cantoni svizzeri, in Austria e in alcune zone particolarmente sviluppate degli ex paesi socialisti (l’Ungheria e la Slovenia per esempio). Non deve quindi sorprendere che esistano a livello Cee progetti ormai operan­ ti di macroregioni europee sovranazionali che includono le aree geoeconomiche citate, mentre nelle stesse si verificano fenomeni po­ litico-elettorali consimili al leghismo che assumono frequentemente (per esempio nel Baden Wuttenberg e in alcuni land austriaci che hanno notevoli somiglianze con la struttura economica lombardo-ve­ neta) colorazioni di estrema destra. Per cui si potrebbe affermare pa­ radossalmente che, per alcuni aspetti, la “Lega Nord” è persino un contenitore di una spinta sociale che avrebbe connotati ancora più politicamente definiti.28 In realtà e per adesso il fenomeno leghista è più “movimento” di quanto non sia “organizzazione” e sarebbe un errore leggerlo esclu­ sivamente attraverso la roboante figura di Umberto Bossi suo leader carismatico. Ma questo suo essere “movimento” non può ovviamen­ te durare a lungo e già nell’ultimo anno la Lega ha cominciato a do­ tarsi delle strutture tipiche dei grandi partiti di massa (scuole quadri, federazioni giovanili, sezioni di studio, ecc.)

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7. INQUIETUDINI, SUGGESTIONI, CORSI E RICORSI STORICI

Tutti i governi della Repubblica tedesca dopo il settembre 1930 rap­ presentavano un regime presidenziale piuttosto che un governo par­ lamentare. Essi governavano con decreti d’emergenza invece che con la normale procedura parlamentare. Questo enorme aumento del potere d’emergenza era naturalmente in flagrante contraddizione con lo spirito della Costituzione benché forse non andasse contro la sua lettera... Nel suo primo periodo esso servì principalmente per investire le au­ torità esistenti di poteri straordinari per sopprimere quella che a tor­ to o a ragione era considerata una minaccia o un pericolo per l’ordi­ ne repubblicano. Questa fu certamente l’epoca in cui tutte le forze, che più tardi avrebbero potuto opporsi alla vittoria della controrivo­ luzione fascista, furono represse nel modo più energetico con uso privilegiato del potere esecutivo sia civile che militare, con tribunali speciali e da una generale sospensione dell’amministrazione ordina­ ria nei tribunali... Karl Korsch, Scritti Politici, Laterza, Bari 1975

E se è vero che indubbiamente la “sirena” leghista coagula anche una quota di voti di protesta popolari e proletari,29 è indubbio che ciò che la rende forte è il dato strutturale, il suo essere forma di rappresen­ tanza di un esteso e aggressivo ceto medio produttivo (oligarchia dif­ fusa). D’altronde, i suoi esponenti più preparati ribadiscono in con­ tinuazione il ruolo di rappresentanza della piccola e media impresa. Così per esempio Franco Castellazzi che a “Il Giorno” dell’1/3/91, dichiarava: “Noi siamo per il liberismo della piccola e media impre­ sa, a fianco del siur Brambilla, per dire, e non a quello di Gardini. Perché è nel modo di produrre della piccola e media impresa che noi ci riconosciamo, in cui troviamo i valori di vita, le tradizioni, la cura dell’ambiente che ci appartengono”.30 Lo stesso sen. Umberto Bossi è ancora più chiaro quando affer­ ma che “Noi siamo ostili ai grandi gruppi, ma vogliamo che il libera­ lismo conviva con la società. Non abbiamo nulla contro il capitale multinazionale, vogliamo salvare altri valori” (“Corriere della Sera”, 7 novembre 1990) e, successivamente e più chiaramente (su “Rina­ scita”), “Il problema politico che abbiamo di fronte è dividere la rap­ presentanza della piccola e media impresa dal grande capitale”. Del resto al Congresso della Lega nord, la piccola e media impre­ sa veniva assunta come “base sociale e civile contro l’inciviltà dei par­ titi” e considerata “la spina dorsale dell’economia italiana” (spina dorsale sarebbe appunto, secondo la Lega, i lavoratori autonomi, gli artigiani, i commercianti, i liberi professionisti, gli imprenditori indi­ viduali; per i lavoratori dipendenti nel paradiso leghista non c’è po­ sto).31 Anche se è opportuno osservare che Moioli nel commentare le 212

dichiarazioni leghiste si riferisce a una figura di lavoratore dipenden­ te legato al precedente ciclo produttivo non avendo riflettuto sull’e­ mergere di un tipo di lavoratore in possesso di quel “capitale umano” che al contrario potrebbe benissimo essere conciliabile con i pro­ grammi leghisti e, d’altronde, le recenti ricerche hanno evidenziato come vedremo in seguito - che anche una certa quota di lavoratori “tradizionali” per motivi diversi sono attratti dall’ipotesi leghista. Indubbiamente, gli esponenti leghisti hanno un “buon polso” dei loro votanti così come è confermato da approfondite ricerche nel loro universo elettorale. Si veda a questo proposito, Una tipologia dei sim­ patizzanti della Lega di Ilvo Diamanti.32 Secondo questa ricerca i sim­ patizzanti leghisti apparterrebbero per il 16% ai ceti medi di matrice urbana e industriale (piccoli imprenditori e lavoratori autonomi del­ l’artigianato e del commercio), per il 15 % alla borghesia industriale e terziaria cresciuta in questi anni nei centri medi della provincia, per il 10% alle frazioni “rampanti” delle generazioni più giovani e quindi ai figli della piccola e media borghesia urbana e industriale e che sono per buona parte ancora inseriti nell’esperienza degli studi, per il 13 % “rivelano un profilo dai contorni assai netti e riconoscibili: prevalente­ mente maschi, anziani contro un marcato radicamento nella classe operaia e nel lavoro autonomo agricolo della pianura. Presentano inol­ tre livelli di istruzione molto bassi, un forte legame con la tradizione cattolica e un orientamento politico sensibilmente piegato a destra. La ricerca cita poi un ulteriore 42% di difficile definizione e raccolto sot­ to la dizione di “disincantati” su cui occorrerebbe una riflessione più approfondita e meno generica. In assenza di ricerche più approfondite si può però affermare che questa ulteriore e consistente quota del 42 % comprende sicuramente settori assai consistenti della classe operaia che praticano la “doppia appartenenza” (il sindacato in fabbrica e il voto alle leghe nelle scadenze elettorali).33 Ma come è ovvio la rappresentanza (così come la intende, o di­ mostra di volerla interpretare, la Lega nord) di questa complessa e diffusa nuova configurazione economica non può che tendenzial­ mente confliggere con gli interessi della grande impresa che sull’im­ presa a rete, sulla fabbrica integrata, sulla “disponibilità” del lavoro autonomo ecc. fonda una parte rilevante della propria progettualità. È avvenuto cioè, dopo aver atteso per anni (secondo i suoi raffinati esegeti) l’avvento di un “nuovo rinascimento” e la crescita di una nuova cultura industriale e democratica basata sul ruolo della gran­ de impresa e del “terziario avanzato”, ci si trova davanti a una (ap­ parentemente) repentina rivolta di un “nuovo ceto medio” che inve­ ce denota una consistente antipatia per la grande impresa e un di­ sprezzo ancor più grande per qualsiasi forma di conflitto classista an­ nichilendo i cantori della “nuova modernità”. 213

Indubbiamente questa possibilità conflittuale non può che sug­ gerire suggestive analogie storiche con il sorgere del fascismo e del nazismo. Volendo seguire queste suggestioni si può ricordare quanto scrive Wilhelm Reich in Psicologia di massa del fascismo:34 “Dal punto di vista della base sociale, il nazionalsocialismo era inizialmen­ te un movimento piccolo-borghese, e questo ovunque si manifestasse. Que­ sta piccola borghesia, che prima stava dalla parte dei diversi partiti demo­ cratici borghesi,35 doveva aver subito necessariamente un processo di tra­ sformazione interna, che le aveva fatto cambiare politica. La condizione so­ ciale e la corrispondente struttura psicologica della piccola borghesia for­ niscono una spiegazione sia delle sostanziali uguaglianze che delle diffe­ renze fra l’ideologia liberal-borghese e l’ideologia fascista”.36

E, ancora, “senza la promessa di combattere il grande capitale Hi­ tler non avrebbe mai guadagnato alla sua causa gli strati del ceto medio. Essi lo hanno aiutato a vincere perché erano contro il grande capitale”. Ancora più radicali sono le considerazioni di Karl Korsch quando (nel suo Preludio a Hitler, la politica interna tedesca 1918-1933)37 afferma: Quelle forze che conquistarono lo stato tedesco alla dittatura nazista nel 1933 nacquero e crebbero insieme allo sviluppo di quel sistema politico che generalmente si presumeva fosse uno stato repubblicano moderno. Sebbene il nazismo non fosse né socialista né democratico, tuttavia nu­ trendosi degli errori e delle omissioni dei cosiddetti “politici del sistema” ottenne alla lunga l’appoggio della maggioranza della nazione. Risolse sia nel campo politico che in quello economico una quantità di problemi con­ creti che erano stati trascurati o frustrati dal comportamento non socialista dei socialisti e dal comportamento non democratico dei democratici. Così una certa parte dei compiti che “normalmente” sarebbero stati assolti da un movimento autenticamente progressista e rivoluzionario, fu assolta in ma­ niera distorta, ma ciononostante realistica, della vittoria transitoria di una con­ trorivoluzione non socialista e non democratica, ma plebea e antireazionaria.

Se per Reich era difficile spiegare e contestare l’opinione di colo­ ro che erano “sbalorditi dal fatto che il ceto medio, in quanto non di­ spone né dei principali mezzi di produzione né lavora con essi, e per­ ciò (N.d.R.) alla lunga non può fare la storia perché deve necessaria­ mente oscillare tra capitale e classe operaia”; oggi che questa configu­ razione socio-economica intermedia è integrata nel nuovo modo di produrre le merci, nel mentre possiede quote non indifferenti dei nuovi mezzi di produzione (nel senso che la sua funzione appare indi­ spensabile a molte delle grandi imprese nel mentre rappresenta una quota rilevante del Pil nazionale) le sue riflessioni sono qualcosa di più che semplici suggestioni legate alla memoria storica. E se per Rei­ ch era assurdo che loro (quelli che non capivano il ruolo del ceto me­ dio) non capissero “che il ceto medio, anche se non per sempre, alme­ no per un periodo storicamente limitato può ‘fare la storia’ e la fa ef­ 214

fettivamente”; noi possiamo per adesso osservare come l’emergere dei localismi politici ed economici un suo piccolo pezzo di storia lo ha segnatamente caratterizzato negli ultimi anni nel nostro paese e in gi­ ro nell’Europa delle regioni economiche più sviluppate. Come è ovvio stiamo giustamente parlando di semplici e un po’ ar­ bitrarie suggestioni storiche e ricorsi non del tutto probabili poiché Bossi non pare davvero avere la statura (ma nemmeno la progettualità) dell’“imbianchino” nazista né il pur esperto costituzionalista Gian­ franco Miglio può illudersi di sfiorare l’imbarazzante grandezza di Carl Schmitt.38 D’altronde appare decisamente una forzatura applica­ re alla Lega nord la categoria storica di “modernismo reazionario” (che esprimeva ben più profonde implicazioni filosofiche). Di conver­ so, e per tornare al caso italiano, i governi di emergenza nazionale (con contenuti ogni volta rinnovati) degli ultimi quindici anni, il governare per decreti, la dissoluzione miserrima del sistema dei partiti, la distru­ zione violenta e non delle opposizioni di sinistra, le sorprendenti sim­ patie diffuse per la magistratura (che agisce quasi sempre in deroga dello spirito della Costituzione)39 e il profondo sconvolgimento avve­ nuto nella sfera della produzione - a cui non fa riscontro una modifica democratica del sistema della rappresentanza - inducono dubbi sul futuro democratico di questo paese e in generale dei futuri assetti eu­ ropei.40 Di questo pare essere convinto anche Sergio Bologna quando (forse ricordando Karl Korsch) scrive: “Il risveglio prepotente dei mo­ vimenti di destra, la loro capacità di penetrazione negli strati popolari e marginali (caso Germania), il riemergere di movenze ‛operaiste’ nel­ le ideologie di estrema destra, la presa delle tematiche leghiste presso i lavoratori del post-fordismo, sono il segno che qualcuno sta racco­ gliendo la bandiera del lavoro lasciata cadere dalla sinistra”.41

8. FUORI DALLE SUGGESTIONI STORICHE E TORNANDO DENTRO LA NOSTRA REALTÀ Ed è sui nuovi processi produttivi e sulla conseguente socialità de­ privata che essi inducono che occorre fermare l’attenzione evitando di interpretare i “nuovi particolarismi” esclusivamente attraverso le categorie suggerite dalle suggestioni e dalle inquietudini storiche o dare soverchia importanza a tutto il “rumore” (peraltro non sempre inutile per quanto concerne alcune approfondite ricerche sui “locali­ smi”)42 che è stato fatto in questi anni su una pretesa e profonda ne­ cessità da parte delle società locali del nord del paese di “ritornare al­ le origini”, di riscoprire l’oscura e inquietante profondità del “san­ gue” e del “suolo” quando non il riemergere prepotente delle “pic­ cole patrie”, scomodando magari le ricerche di Eric J. Hobsbawn su “L’invenzione della tradizione”.43 215

Alla radice di queste riflessioni era e rimane evidente il tentativo di dare una risposta interpretativa ai fenomeni di riterritorializzazione, ai particolarismi e all’emergere dei localismi economici e politici che an­ davano via, via verificandosi nel corso degli anni ottanta. Il nucleo for­ te di questi tentativi di interpretazione dei processi che Guattari defi­ niva di “riterritorializzazione conservatrice della soggettività”, si rife­ riva (e si riferisce) all’emergere di una paura, di un horror vacui di fron­ te ai processi di mondializzazione e globalizzazione in atto nei sistemi occidentali. A questi processi le “società locali” reagirebbero, quindi, riscoprendo le “comunità” e, per questa via, le radici, le origini, le “piccole patrie” e le etnie. Spaesamento e sradicamento diventano quindi le parole chiave attraverso le quali interpretare le nuove ed emergenti tonalità emotive di vasti strati delle società locali e regionali del nord del paese Italia e, per affinità, di altre piccole patrie austria­ che, tedesche, svizzere, belghe (fiamminghe o vallone) ecc. Seguendo questo percorso era ovvio che riemergesse l’oscura me­ tafora del “sangue e del suolo” (Blot und Boden). Metafora tanto più pericolosa quanto più evocatrice delle tetre contro-utopie del germa­ nismo e della piccola e media borghesia mitteleuropea (quella sì im­ paurita) che rivolgeva al passato uno sguardo ansioso di riscoprire i fondamenti morali minacciati dalla socialdemocrazia. In quel mo­ mento storico, che sfocerà nel nazismo, la libertà, l’unità etnica e la memoria dei “padri” e dei “popoli” veniva paradossalmente con­ trapposta alla libertà dell’individuo costitutiva (almeno formalmen­ te) delle democrazie borghesi occidentali. Il fascismo e il nazismo degli anni Venti e Trenta furono fenomeni estremi, terminali illiberali e repressivi dell’invadenza raggiunta dalla forma-stato. In questo senso lo stalinismo, il nazismo e il fordismo po­ litico (anche nella sua formulazione new-dealista) furono fenomeni speculari. Li accomunava il ruolo programmatore e pianificatore rag­ giunto dallo stato, il suo porsi come creatore/formatore della compo­ sizione di classe che, nel caso del nazifascismo, portava alla “naziona­ lizzazione delle masse”. Sostanzialmente l’esatto opposto di quanto avviene oggi (di quanto è avvenuto negli ultimi decenni) attraverso le politiche di deregulation, il mito del primato del mercato, la disloca­ zione extranazionale delle economie, la crisi tendenziale degli statinazione così come si erano formati nell’ultimo secolo (e si badi bene degli stati-nazione e non dello stato tout-court che nel caso italiano, giapponese e in parte tedesco continua ad avere un ruolo determinan­ te nella produzione delle rispettive economie). Qui occorre precisare che, specialmente nel caso Italia, si assiste a una singolare confusione tra le definizioni di stato-nazione, di sta­ to o di nazione. Ciò soprattutto per quanto concerne la sfera dell’intervento sta­ 216

tuale nell’economia. E in realtà il “caso” del capitalismo italiano ha una sua singolarità. Basti pensare che circa il 60% dell’intero Pro­ dotto interno lordo viene realizzato da imprese statali e che quindi molti e ripetitivi (o propagandistici) discorsi sulla “privatizzazione” o sulla decadenza dell’“interventismo” sono privi di senso. Nel caso Italia si può dire (un po’ banalmente) che abbiamo da un lato un soli­ do “capitalismo di stato” (tre aziende pubbliche nei primi quattro posti, che hanno un fatturato globale che supera di gran lunga quello delle prime trenta aziende private messe assieme), in mezzo alcune grandi imprese private che godono di ampie protezioni statali e infi­ ne milioni e milioni di “sciur Brambilla” delle piccole e medie impre­ se. In realtà, continua ad avere ragione Lapo Berti quando sostiene che “lo stato è intervenuto (continua a intervenire) nel settore pro­ duttivo come regolatore (norme e condizioni che limitano e indiriz­ zano l’attività produttiva dei soggetti economici), come erogatore (trasferendo risorse alle imprese), come banchiere (accesso al credi­ to da parte delle imprese), come committente (soggetto attivo di contratti e commesse), come imprenditore (produttore diretto di be­ ni e servizi)”. D’altronde, è bene sottolineare che la lunga fase del tatcherismo e del reaganismo appare avviata al tramonto e che, caso mai, oggi in Europa si assiste piuttosto a una diminuita importanza del ruolo della nazione e che questo processo è indotto esclusivamente dalla macroregionalizzazione sovranazionale delle economie e della tendenziale dislocazione extranazionale della “sovranità”. Tornando alle “piccole patrie” appare evidente che tematiche di questo genere sono particolarmente agitate da larghi settori della nuova destra radicale che del mondialismo (ovvero nei processi di globalizzazione) vede il suo nemico principale.44 Ed è nel più vasto scenario della rinascita dei micronazionalismi (ricordando però che ciò avviene quasi esclusivamente nei paesi ex socialisti ed è il prodot­ to di un preciso fallimento storico-politico, mentre appare una neces­ sità congiunturale determinata dall’inaffidabilità del potere centrale)45 che si formano le ambiguità interpretative che a loro volta favoriscono la confusione con le teorizzazioni di destra. Qui, e rife­ rendoci al fenomeno della Lega nord, si può precisare che i processi di trasformazione produttiva, ampiamente accennati nel corso di questo intervento, e la crisi del sistema dei partiti hanno prodotto una formazione politica che, unificata dal federalismo, riesce a fare sintesi del voto di protesta e degli interessi di una classe estesa quanto mai in precedenza di imprenditori e di lavoratori autonomi che socia­ lizzandosi al rischio di impresa, alle categorie del mercato e alla com­ petizione internazionale cercava ovviamente nuove regole della poli­ tica, mentre la sfera dei partiti storici manteneva sostanzialmente in­ tatte le proprie forme di rappresentanza basate sulla riproducibilità 217

dall’alto al basso degli stessi assetti organizzativi, sulla governabilità di tipo consociativo, sul partito come cardine dell’agire politico ecc. Lo spaesamento di questa nuova classe (o nuova borghesia, o oli­ garchia diffusa) può essere al massimo riferito al clima culturale e psi­ cologico (se riferito agli individui) in cui vivono i soggetti nell’epoca del tramonto dell’utopia, del ritrarsi dei fini ultimi come guida e fon­ damento dei comportamenti. Ma se ciò è vero non ci sono dubbi che questa condizione è simile per tutto il resto della società leghista o meno, nazionale o internazionale.

9.

MACROREGIONI ECONOMICHE E RISVEGLIO NEOETNICO

Ci sembra quindi fuorviante e politicamente improduttivo, se non funzionale alla “esorcizzazione” del fenomeno, applicare alla Lega nord, o assegnare alla stessa, il bagaglio ideologico-culturale della nuova destra radicale con il suo contorno neoetnico che non riman­ da, si badi bene, al “sangue e al suolo” ma bensì all’ipotesi differen­ zialista e culturalista. Seguendo questo percorso si attua una interes­ sante falsificazione che vorrebbe spiegare l’emergere del leghismo con le categorie storico-politiche proprie della destra radicale46 e non si vuole capire che caso mai i movimenti di destra vivono in modo concorrenziale l’emergere leghista e tentano di cavalcare il fenomeno per ritagliarsi all’interno dello stesso uno spazio di manovra sicura­ mente approfondito di alcune non del tutto minoritarie componenti sociali della base leghista. Debolezze che via, via, a mio giudizio, la dirigenza leghista tende a eliminare dal proprio bagaglio di propa­ ganda e di progetto47 rischiando consciamente un’emorragia di voti sulla sua destra. D’altronde, lo stesso Miglio (che è più ambiguo in questa direzione) afferma che “Quella lombarda appare come una popolazione poco incline a riconoscere e affermare la propria iden­ tità e alla quale non resta altra scelta razionale disponibile che inte­ grarsi nell’area e nella mentalità mitteleuropea”.48 Di nuovo siamo quindi alle grandi regioni economiche sovrana­ zionali (Alpe Adria e simili) e cioè all’Europa delle macroregioni vo­ luta dall’espertocrazie europee. E d’altronde, “chi ha tirato la corsa” per il Mercato comune europeo sono sicuramente i grandi e piccoli imprenditori manifatturieri. Non si è certo mosso il terziario dei ser­ vizi (che come è noto non sono esportabili e che comunque nel no­ stro caso sarebbero più scadenti degli equivalenti esteri), né le gran­ di banche, né gli enti finanziari. Questi si trovano nella stessa situa­ zione dell’industria degli anni settanta: eccedenza di manodopera, crisi di transizione di tipo tecnologico, grossi investimenti che devo­ no essere ripetuti ecc. (Giuseppe Gario) Nell’ipotesi leghista la creazione di una macroregione produttiva 218

nel nord del paese sarebbe un passo indispensabile per reggere il con­ fronto con altre macroregioni economiche europee e, in questa dire­ zione, non si vede la differenza con la progettualità delle più raffinate dirigenze di Bruxelles o con alcuni prestigiosi statisti tedeschi di cui Hans-Dietrich Genscher (ex ministro degli Esteri e possibile futuro presidente della Repubblica) è punta di diamante quando afferma con sicurezza che l’Europa futura sarà certamente (e in parte è già) quella delle regioni economiche che si aggregherebbero su processi econo­ mici affini: “Nel Duemila tutta la regione del Baltico, con la sola ecce­ zione della Russia, farà probabilmente parte della Cee, e allora si for­ merà una vasta zona, che includerà la Germania del Nord ma anche gli stati scandinavi, e la Polonia, con interessi comuni, che saranno diversi da quelli diciamo, della Germania meridionale. Un’altra regione sarà quella che comprenderà la Renania, il Benelux e il nord della Francia. Una terza quella cui potrà appartenere la Baviera, l’Austria l’Alsazia e l’Italia settentrionale ecc. Ci sono persone, specie in Italia, che quando parlano di un’Europa delle regioni, si riferiscono a entità che non ten­ gono alcun conto delle frontiere nazionali: una zona industriale occi­ dentale, una dell’Europa centrale, una delle Alpi. Per quanto riguarda l’Italia, io penso che la sua parte settentrionale scoprirà di avere molti più interessi in comune con la Germania meridionale che non con l’I­ talia meridionale”.49 Si vede che l’unica differenza con le tesi leghiste è più che altro un problema di “stile” della “cultura politica” con cui l’ipotesi viene presentata. Ma nessuno si sognerebbe di accusare Genscher di “at­ tentare all’unità nazionale” o di voler disgregare i fondamenti della democrazia”. D’altronde una progettualità geopolitica così concepita pone non pochi problemi se rapportata alla decadenza della sfera della “sovra­ nità” così come si è formata e sedimentata nelle culture politiche del­ l’Occidente. La dislocazione in un “altrove” indefinito della “sovra­ nità”, la sua perdita di “confini” identificabili non può che determina­ re (insieme alla globalizzazione) il riaffermarsi, il riemergere, di anti­ che appartenenze etnoregionali sia pure per larga parte totalmente reinventate. Risulta quindi comprensibile l’affermazione leghista (M. Formen­ tini al primo Congresso della Lega nord) secondo cui: “il Governo del­ l’economia viene (debba venire, N.d.R.) affidato alle comunità nelle quali per etnia, tradizione, cultura, identità di interessi, si riconoscono le popolazioni”, anche se lo stesso appare difficilmente conciliabile con lo sfrenato neoliberismo leghista perché fino ad oggi (almeno) si è constatata l’impossibilità della sintesi tra liberismo ed etnocentri­ smo.50 Un’impossibilità che dovrebbe costringere la dirigenza leghista a una progressiva minimizzazione delle componenti neoetniche e delle 219

tendenze “separatiste” in senso stretto per optare ancora più decisa­ mente per la macroregionalizzazione europea. Però tutto questo non eliminerà la tendenza strutturale a riconoscersi nel territorio locale in cui l’etica del bene comune viene ridimensionata nel “qui e ora” delle risorse personali, ma anche nel sistema sociale locale, dotato di rela­ zioni sociali sistemiche definibili nel tempo e nello spazio.51 Ed è probabilmente su questo percorso che si potranno verificare le novità più consistenti nell’universo leghista; novità che - secon­ do gli analisti più avvertiti - rischiano di sovvertire molte delle affer­ mazioni degli studiosi delle culture di “comunità”. Se è vero infatti che il liberismo leghista è anche il prodotto (come afferma Pier Pao­ lo Poggio) della caduta dell’idea di “trascendibilità del reale”, e quin­ di di qualsiasi ipotesi di trasformazione del sistema capitalista, anche l’impossibile sintesi tra liberismo ed etnocentrismo verrebbe a cade­ re per trasformarsi in sinergia necessaria. “La pratica anti-universali­ stica, localistica, etnocentrica in politica e l’accettazione totale di for­ me di liberismo spinto in economia, sarebbero quindi due aspetti speculari in cui l’assolutizzazione comunitaria del primo serve ap­ punto a compensare gli effetti di straniamento e le sfide all’identità generati dal secondo livello, secondo una logica che caratterizza le più recenti tendenze del capitalismo, in cui liberismo e ipergoverno, mondializzazione e messa a valore della comunità si intrecciano e si alimentano a vicenda”.52 Sostanzialmente è in questa direzione, l’aspirazione all’autogo­ verno delle regioni del nord sarebbe fondamentalmente il prodotto delle necessità, della volontà dei nuovi ceti produttivi di integrarsi (mantenendo una propria “identità” local-regionale) al massimo li­ vello nella geopolitica più avanzata e realistica dell’Europa degli an­ ni a venire e cioè nella tanto dibattuta e controversa questione del­ l’Europa “a due velocità” o a “cerchi concentrici”. Che i partiti sto­ rici borghesi, e la stessa sinistra istituzionale e non, non abbiano col­ to questi processi reali è tutto un altro problema, caso mai utile a spiegare in parte la loro decadenza. In particolare appare evidente l’incapacità e la carenza di analisi della “sinistra” istituzionale (ma ancor più di quella neoistituzionale), nel comprendere le caratteristi­ che e l’humus politico-culturale del lavoro postfordista. Che, invece, la destra radicale tenti di cavalcare queste esigenze operandovi una torsione neoetnica è abbastanza evidente come del resto confini di inquietante ambiguità sussistono tra le rivendicazio­ ni economico-localistiche e gli intenti neoetnici della destra radicale. Non c’è dubbio infatti che questa progressiva regionalizzazione del­ le economie consente (come ampiamente spiegato sopra) ambigua­ mente di ridisegnare, rileggere antiche appartenenze che, sorrette dai rinati vincoli familisti53 indotti dal decentramento produttivo, attra­ 220

verso suggestioni e falsificazioni, portano a sostenere la rinascita del­ l’autodeterminazione etnica e dentro questa la ripresa di vigore della xenofobia di cui si vogliono interessatamente occultare le radici eco­ nomiche che sono per larga parte inscritte nella riterritorializzazione dei processi produttivi e nella crisi e decadenza del welfare e dello “stato sociale”, nella felina concorrenza per l’accesso alle risorse o al­ la prestazione di servizi.54 Anche se, come è ovvio, la “deriva neoetnica” cerca di darsi un qualche spessore storico a partire da un “vissuto”, più o meno co­ sciente, che tiene presente i pericoli di possibili sovradeterminazioni agite dalle destre radicali e istituzionali. Come giustamente osserva Pier Paolo Poggio nel lavoro citato, alle origini abbiamo una “cesura segnata dagli esiti della Seconda guerra mondiale e dall’affermarsi ge­ neralizzato di un paradigma unilineare della modernizzazione; la sconfitta del nazismo e del fascismo, che aveva fissato in termini im­ presentabili l’equivalenza razza-nazione respingendo ai margini ogni discorso sulle etnie e il concetto di popolo”.55 Ma indubbiamente il generico cosmopolitismo che ne è seguito, pur avendo i suoi cantori negli scrittori della “modernità”, e avendo nel contempo una sua ba­ se storico-economica nell’affermata superiorità dello sviluppo tecnologico-industriale che avrebbe inesorabilmente demolito ogni forma di etnocentrismo arcaico, non teneva presente le profonde e squili­ brate forme della diffusione industriale (e quindi le culture sociali che ne discendevano) che andavano a creare gerarchie di reddito e percezioni diverse del mondo all’interno degli stessi ambiti naziona­ li. Opportunità, squilibri e differenze che prima venivano “sfumate” dall’organizzazione verticale ed egualitaria della società fordista che le riassorbiva (o cercava di farlo) nelle forme della rappresentanza (di classe, di interessi, di ceto ecc.) e che oggi riemergono prepotentemente e orizzontalmente ridisegnano i confini di quegli stessi stili di vita che sono il prodotto del “posizionamento territoriale come fat­ tore strategico del produrre”. Ed è per questa via, e in concomitanza con la decadenza della società solidale (descritta brevemente all’ini­ zio dell’articolo nella citazione di Lupo Berti) che nella dialettica na­ zione-classe assicurava anche la metabolizzazione delle differenze in­ site nelle “culture popolari”, che i nuovi ceti medi produttivi recu­ perano, e diffondono socialmente, teorizzazioni e “vissuti” neoetnici e, in maniera più inquietante, tendenze al “razzismo differenzialista”, magari recuperando impropriamente (ma non tanto) le teorizzazioni di Claude Levi-Strauss (vedi Razza e cultura in Lo sguardo da lonta­ no) che fanno perno non sulla gerarchia biologica (tipica del nazifa­ scismo) ma sulla salvaguardia della differenza culturale.56 Lo stile di vita e i livelli di benessere diventano, attraverso questa torsione, ca­ ratteristiche insite “naturalmente” nell’etnia, così ridisegnata, e non prodotti storicamente determinati.57 221

E in effetti il nuovo razzismo oggi è interamente “culturalista” e non basato sulle gerarchie biologiche, e questo cambiamento mette in grave difficoltà l’intero universo delle culture antirazziste delle si­ nistre che soprattutto negli ultimi anni hanno adottato il concetto di “differenza” come uno degli orizzonti di riferimento. Il “differenzia­ lismo” è in effetti un fenomeno sociale del nostro tempo di enorme portata e i cui effetti sono tutt’altro che compresi e indagati.58 Nei limiti di questo intervento si può dire che la storica rivendi­ cazione della sinistra che optava per il diritto dei popoli (in specie quelli coloniali ed ex coloniali) a vivere e a “svilupparsi” secondo le proprie culture e il proprio stile di vita, che lottava quindi contro l’o­ mologazione al modello occidentale ha subito, a seguito dei processi di globalizzazione, una mutazione singolare che sposta la precedente “verticalità” (per esempio “sviluppato” o “non sviluppato”) basata sull’eguaglianza in una “orizzontalità” che riconosce a tutti i gruppi (etnie o sessi) pari dignità e il diritto (la necessità?) di non mischiarsi. Ed è per questa via che il “differenzialismo” viene fatto proprio dalla nuova destra e da altri movimenti sociali che elaborano una teoria di opposizione all’“imperialismo etnicida” (alla mondializzazione). È quindi praticamente scomparso il razzismo basato sul “sangue e suo­ lo” per far posto all’insorgente razzismo differenzialista (forte soprat­ tutto in Francia, ma con ampie risonanze in Germania e Gran Breta­ gna) che riconosce il diritto di tutte le etnie di mantenere integra la propria identità culturale, ma afferma che questo diritto non può es­ sere salvaguardato se esistono più etnie sullo stesso territorio (euro­ peo). Basti pensare a tutte le singolari preoccupazioni che attraversa­ no gli organismi del “privato sociale” (laico e cattolico) nel loro voler difendere e preservare le differenze etnico-culturali degli immigrati, differenze che sarebbero minacciate dal pericolo dell’integrazione e che al contrario occorrerebbe preservare in funzione del radioso fu­ turo di una società multi-razziale. Discorso questo generoso ma privo di senso perché, come è noto, caso mai gli “immigrati” di tutti “i sud del mondo” nelle società occidentali producono piuttosto una “terza cultura” che è il prodotto del ricordo di quella originaria “contami­ nata” con quella incontrata nei nuovi paesi di “accoglienza” (basti pensare ai “beurs” parigini o ai “rasta” londinesi). E mi sembra di po­ ter dire che l’originalità e la forza espressiva di queste culture “diver­ se” risieda proprio in questa “contaminazione” e non in una preser­ vazione museale delle origini, che laddove fosse possibile si incroce­ rebbe in modo inesorabile con le teorizzazioni della destra. Sostanzialmente il discorso della nuova destra dice le stesse cose che per anni ha sostenuto la nuova sinistra e le porta, secondo Taguieff, a una dignità formale che nella nuova sinistra non è mai stata raggiunta.

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10. FRA LIBERISMO ED ETNOCENTRISMO

Scendendo a livelli più locali del Nord del paese Italia, e uscendo da­ gli orizzonti neoetnici, diventa quindi più comprensibile l’operazio­ ne “leghista” che “rovescia” e si appropria di alcune categorie stori­ che della sinistra. Così il leghista pone al primo posto dei valori la professionalità, l’efficienza, la famiglia e l’ideologia del lavoro. Categorie queste che per lungo periodo sono state anche il patrimonio della sinistra e del movimento operaio organizzato come del resto alla stessa memoria appartiene la valorizzazione delle culture popolari delle società loca­ li59 che i leghisti “usano” per restituire o legittimare i vissuti quotidia­ ni dei loro elettori. Il leghismo riconosce questi substrati sociocultu­ rali della “sinistra” dentro il panorama del liberismo sfrenato e del mercato, che sfocia nella piena accettazione della società e dell’eco­ nomia capitalistica mentre, come è noto, sia la cultura del lavoro sia il localismo non hanno sostanza senza la dimensione dell’antagonismo e del rifiuto del dominio del capitale - proprio tutto ciò che le leghe vogliono e ancor meno hanno mai voluto i cattolici.60 Ma si tratta, oc­ corre ribadirlo, di risposte, di necessità insite nel profondo sconvol­ gimento intervenuto nell’universo della produzione, delle professio­ ni e, in definitiva, nella capacità agita dal capitale di intervenire sulla “classe” dei produttori scomponendola e rideterminandola altrove e “involontariamente” creando un’apparente contraddizione al pro­ prio interno. Una contraddizione che va molto al di là del fenomeno “localistico” perché tende a investire il più vasto strato degli addetti alla produzione di qualsiasi ordine e grado. Tende, cioè, a essere l’e­ spressione politica di quella che abbiamo fin qui definito “nuova configurazione economica”. Fino alla necessità di interrogarci sulla possibilità che la fine del sistema fordista non produca in sé un oriz­ zonte dominato, questo sì, da “un tratto fisiognomico” che potrem­ mo definire, insieme a Paolo Virno, “fascismo postmoderno”: “il fa­ scismo europeo di fine secolo è il fratello gemello, ovvero il ‘doppio’ agghiacciante, delle più radicali istanze di libertà e di comunità che si dischiudono all’interno della cooperazione lavorativa postfordista... non è un feroce addentellato del potere costituito, ma una possibile configurazione del ‘potere costituente’ popolare... il fascismo post­ moderno ha la sua radice nella distruzione della sfera lavorativa in quanto ambito privilegiato della socializzazione e luogo di acquisi­ zione dell’identità politica”.61

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11. UN NUOVO “TERZO STATO”

All’interno di questi esiti si produce la crisi storica delle “forme di rappresentanza”, del “sistema dei partiti” e del concetto di “sovra­ nità” così come li abbiamo conosciuti e vissuti nell’ultimo secolo. Crisi puntualmente registrata (e con largo anticipo) dalle élite so­ vranazionali se un grosso esponente della Trilateral Commission come S.P. Huntington poteva affermare nel lontano 1975:62 [...] I sintomi della decomposizione dei partiti potrebbero essere interpre­ tati come presagio, non tanto di un nuovo schieramento dei partiti nel qua­ dro d’un sistema in sviluppo, quanto piuttosto d’un fondamentale deperi­ mento e d’una potenziale dissoluzione del sistema partitico. Sotto questo profilo, si potrebbe affermare che il sistema partitico ha attraversato un processo lento, divenuto oggi più rapido, di disgregazione. Per suffragare questa proposizione, si potrebbe sostenere che i partiti rappresentano una forma politica particolarmente adatta alle esigenze della società industriale (così come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo secolo, N.d.R.) e che quindi l’avanzata di una fase diversa di organizzazione della produzione implica la fine del sistema dei partiti politici quale finora l’abbiamo conosciuto.

In questa direzione gli obiettivi dei leghisti sono ambiziosi e tendono a porsi quasi come classe generale ricordando, nel loro essere separatisti le tesi del buon Edmond Joseph Sieyès63 quando nel difendere le ra­ gioni della borghesia (del Terzo stato) affermava che la Francia non era una nazione perché le leggi erano stabilite dal “sistema della corte” mentre il funzionamento dello stesso era assicurato per i nove decimi dall’esistenza, appunto, del terzo stato. Quindi si tratterà di dire come farà il terzo stato: “Noi non siamo che una nazione in mezzo ad altri in­ dividui. È vero. Ma la nazione da noi costituita è la sola a poter effetti­ vamente costituire la nazione. Noi non costruiamo, da soli, la totalità del corpo sociale. È vero, ma siamo capaci di garantire la funzione to­ talizzatrice dello stato. Noi forse siamo capaci d’universalità statale”. Basta sostituire la nobiltà, l’arbitrio reale di Sieyès con il corrotto siste­ ma dei partiti e la critica al “centralismo”, che l’ingenuo e però efficace background leghista trova un qualche insospettabile antenato. E in effetti il leghismo dopo aver pericolosamente (e rozzamente) cavalcato una tendenza scissionista (peraltro frequentemente agitata), ha cominciato a porsi proprio come forza rinnovatrice della “demo­ crazia” contro il precedente “sistema” corrotto e in decadenza. Gli stessi tentennamenti tenuti dalla dirigenza leghista nella Commissione bicamerale per le riforme assumono proprio questa torsione neode­ mocratica e liberista che rimanda ancora a Sieyès. Ormai non è più sulla base o in nome d’un diritto passato (quello “vecchio” del sistema dei partiti) che si articolerà la rivendicazione. La rivendicazione potrà articolarsi piuttosto su una virtualità, su un 224

avvenire che è imminente e già inscritto nel presente. Nelle intenzio­ nileghiste questa funzione viene vissuta come già operante, assicura­ ta da una “nazione” nel corpo sociale, e che proprio in nome di ciò chiede che il suo statuto di nazione unica sia effettivamente ricono­ sciuto e riconsiderato nella forma giuridica dello stato. Ma sono i contenuti di questa supposta “nazione” a essere in­ quietanti. Soprattutto in alcuni percorsi “colti” di Gianfranco Miglio da dove traspare un’implicita volontà a negare in tutto o in parte il progetto di emancipazione della modernità (l’universalismo dei dirit­ ti e il nucleo normativo dell’89); “a negarlo in primo luogo per "gli al­ tri’, ma in una certa misura anche per sé, come condizione per il re­ cupero di quella identità collettiva, di quell”appartenenza’, conside­ rata evidentemente come un valore politico superiore”.64 Il federalismo rivisto diventa così un utile passe-partout per vei­ colare progetti molto più ambiziosi.65 Progetti che riguardano l’as­ setto complessivo dello stato (come nella teoria delle tre Leghe, nord, centro, sud): “È assurdo e offensivo per i suoi aderenti sostenere che essi non sanno o non sono consapevoli del radicale mutamento nel­ l’assetto statale perseguito dal movimento di cui, a vario titolo, fanno parte. Non è questione di ingegneria costituzionale o di tattica poli­ tica, il problema riguarda lo stato così come risulta dai programmi, dalla strategia e dall’azione concreta della Lega”.66 La crisi irreversibile della democrazia rappresentativa è interpre­ tata, in Italia, dalle Leghe e dal composito schieramento referenda­ rio. Sono risposte tra loro diverse, anzi concorrenziali, ma, entrambe fanno coincidere il deperimento della rappresentanza con il restrin­ gimento della democrazia tout court. Non si tratta certo di posizioni “fasciste”, bensì di progetti che, nella misura in cui si realizzano, de­ terminano uno spazio vuoto, o meglio, una terra di nessuno in cui il fascismo postmoderno può crescere.67 12. CERCARE UN’ARMA

La nave dello spettacolo viaggia solo a pieno carico: abbandonarla è il solo modo praticabile per farla marcire.

da Critica del Presente, di Anonimo, Milano, ottobre 1992

Probabilmente se avessimo la capacità di pensare globalmente per agi­ re localmente, e non viceversa, alcune anguste analisi ed altre ancestra­ li paure svanirebbero costringendo tutti ad affrontare il nuovo con quegli strumenti rinnovati e le intelligenze rigenerate indispensabili a individuare i “luoghi” possibili del conflitto senza il quale l’iniziativa rimarrà comunque all’avversario di sempre. In questo senso le “no­ stalgie” per le “comunità reali” perdute e il rimpianto per “come era­ 225

vamo bravi, determinati e intelligenti” appaiono come inconsce o con­ sce falsificazioni regressive. L’autodeterminazione passa oggi per sen­ tieri angusti e impervi a partire dal riconoscimento delle differenze di identità che aspirino, però, a processi continui di “contaminazione” quindi dalla ricerca di un modulo di cooperazione che esuberi lo scambio contrattuale tra eguali, ma non si annichilisca nella elimina­ zione reciproca delle differenze (P. Virno, Op. cit.) -, da forme di “de­ mocrazia senza maggioranza” (e di conseguenza di democrazia non rappresentativa) da sperimentare quotidianamente in ogni sia pur pic­ colo luogo di aggregazione e sperimentazione sociale. Inventando i nuovi percorsi della cooperazione dentro e contro le precedenti “ap­ parenze”. Di nuovo con Paolo Virno (e ricordando dialetticamente Marx), oggi bisogna dire: “la forza lavoro postfordista non può perde­ re le sue qualità di non lavoro ossia non può smettere di partecipare a una forma di cooperazione sociale più larga della cooperazione capita­ listica - senza smarrire a un tempo le sue virtù valorizzatrici”. Le illusioni di “incontaminata” e drammatica separatezza creati­ va delle”opposizioni ’80” sono state indubbiamente una generosa ne­ cessità, sono state “il sale della terra” di un sociale distruttivo domi­ nato dalla transizione postindustriale; una loro riproposizione com­ piaciuta, narcisistica e impotente non potrà che essere una tragedia della marginalità. E se è indubbiamente motivo di orgoglio e di identità la constata­ zione che le “culture del ghetto” hanno innovato la scena morente del­ la comunicazione artistica e musicale; ciò nondimeno il loro zenith di affermazione e il loro massimo di “recupero” segnano la soglia oltre la quale occorre riattivare il “divenire” dei soggetti verso nuove “fughe” e “fratture” con l’esistente. E, in effetti, “Il grande errore, il solo erro­ re, sarebbe quello di credere che una linea di fuga consista nel fuggire la vita; la fuga nell’immaginario o nell’arte. Ma fuggire al contrario si­ gnifica produrre il reale, creare vita, trovare un’arma”.68Con ciò man­ tenendo, ovviamente, una serena e profonda diffidenza.

Ci ricorda Daniel Guérin nel suo La peste bruna: E infatti, quando le luci non saranno ancora spente, si leverà nella camera­ ta, da cinquanta petti sonori, un vecchio canto di vagabondi, che il nazista intona con uguale convinzione del socialista o del comunista:

Quando noi camminiamo fianco a fianco e cantiamo le nostre vecchie arie, che i boschi ci rimandano in eco, allora lo sentiamo, bisogna che succeda: Assieme a noi vengono i tempi nuovi! Assieme a noi vengono i tempi nuovi!

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NOTE

FASE 1 1. COMINCIAVA COSÌ

1 N. dalla Chiesa, Il comportamento elettorale dal 1946 al 1963, in G. Petrillo, A. Scalpel­ lo (a cura di), Milano anni Cinquanta, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 546-582. 2 M. Boriani (a cura di), La costruzione della Milano moderna: casa e servizi in un secolo di storia cittadina, Clup, Milano 1982, p. 302. 3 La zonizzazione (in inglese zoning) è una modalità dell’urbanistica consistente nel sud­ dividere il territorio in aree omogenee secondo determinate caratteristiche. 4 M. Venanzi, G. Pesce, Il piano regolatore in alto mare: miseria in periferia, s.n., Milano 1955. [N.d.C] 5 G. Della Pergola, La conflittualità urbana. Saggi di sociologia critica, Feltrinelli, Milano 1972, pp. 82-106. 6 “Città di Milano”, n. 12, dicembre 1949, p. 190. 7 A. Rossari, Appunti sul Ticinese, Dispensa 1983/84, Facoltà di Architettura di Milano. 8 “Città di Milano”, op. cit., p. 195. 9 Il saldo migratorio fa registrare un picco importante nel 1946 quando supera per la pri­ ma volta l’incidenza dell’1% sulla popolazione residente, aumenta di 20.072 unità rispetto al­ l’anno prima, e realizza un altro importante incremento nel 1948 (incidenza 0,57%) mentre la popolazione aumenta di 9873 abitanti (Comune di Milano, Servizio statistiche, Serie quaderni di documentazione e studio, n. 12). Disaggregato per classe professionale, il saldo migratorio in­ dica per oltre la metà del totale soggetti in condizioni non professionali (54%), a cui fanno se­ guito: operai (25% in costante aumento), dirigenti e impiegati (13%), liberi professionisti (15% nel 1946, in forte flessione, 1% nel 1955), artigiani (3%) e addetti al primario (