Tutte le opere: Olimpiche-Pitiche-Nemee-Istmiche-Frammenti. Testo greco a fronte 8845264211, 9788845264214

Nella presente edizione vengono pubblicate tutte le opere di Pindaro, il più grande esponente della lirica corale arcaic

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Italian Pages 699 [642] Year 2010

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Table of contents :
Cover......Page 1
Frontespizo......Page 3
Copyright Page......Page 4
Introduzione di Enzo Mandruzzato......Page 5
Pindaro e il suo Tempo......Page 6
Pindaro «Arcaico»......Page 26
Nota Bibliografica......Page 50
Nota Editoriale......Page 53
Olimpiche......Page 54
Le Olimpiche......Page 55
[I] Per il «re di Siracusa»......Page 58
[II] Per Terone di Agrigento......Page 69
[III] Per Terone Nelle «Teossenie»......Page 80
[IV-V] Per Psaumide di Camarina......Page 87
[VI] Per Agesia e gli Iamidi......Page 96
[VII] Per Diagora di Rodi......Page 107
[VIII] Per Alcimedonte di Egina......Page 118
[IX] Per Efarmosto di Opunte......Page 125
[X-XI] Per Agesidamo di Archestrato. La Promessa......Page 136
[XII] Per Ergotele e per la Tyche......Page 147
[XIII] Per Senofonte e per Corinto......Page 150
[XIV] Per le Cariti e per Asopico......Page 161
Note Alle Olimpiche......Page 166
Pitiche......Page 187
Le Pitiadi......Page 188
[I] Per Ierone e per Etna......Page 190
[II] Per Ierone......Page 203
[III] Messaggio a Ierone......Page 214
[IV] Per Arcesilao re e per Demofilo......Page 227
[V] Per Arcesilao re e per Carroto......Page 254
[VI] Per Trasibulo e gli Emmenidi......Page 263
[VII] Conforto a Megacle......Page 268
[VIII] Per Aristomene e per la Pace......Page 271
[IX] Per Telesicrate di Cirene......Page 280
[X] Per Ippoclea di Tessaglia......Page 293
[XI] Per il Tebano Trasideo......Page 300
[XII] Per il Flautista Mida di Agrigento......Page 307
Note Alle Pitiche......Page 312
Nemee......Page 336
Nemea......Page 337
[I] Per Cromio e per Eracle Fanciullo......Page 339
[II] Per Timodemo di Acarne......Page 348
[III] Per Aristoclide di Egina......Page 353
[IV] Per Timasarco e per Egina......Page 362
[V] Per Pitea di Egina e gli Psalichidi......Page 371
[VI] Per Alcimida e i Bassidi......Page 378
[VII] Per Sogene di Egina......Page 387
[VIII] Per Dinide a Egina......Page 398
[IX] A Cromio di Etna......Page 405
[X] Per Teaio di Argo......Page 414
[XI] Per il Pritano Aristagora di Tenedo......Page 425
Note Alle Nemee......Page 432
Istmiche......Page 454
L‘istmo......Page 455
[I] Per Erodoto e per Tebe......Page 456
[II] Ricordo di Senocrate......Page 463
[III] Per Melisso di Tebe......Page 470
[IV] Per Melisso di Tebe......Page 475
[V] Per Filacida di Egina......Page 484
[VI] Per Filacida di Egina......Page 491
[VII] Per Strepsiade di Tebe......Page 500
[VIII] Per Cleandro di Egina......Page 507
Note Alle Istmiche......Page 516
Frammenti......Page 530
Frammenti......Page 531
Epinici......Page 533
Inni......Page 535
Peani......Page 537
Ditirambi......Page 561
Prosodi......Page 567
Parteni......Page 569
Iporchemi......Page 575
Encomi......Page 579
Lamentazioni......Page 585
Frammenti di Sede Incerta......Page 587
Note ai Frammenti......Page 616
Indice Generale......Page 640
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Tutte le opere: Olimpiche-Pitiche-Nemee-Istmiche-Frammenti. Testo greco a fronte
 8845264211, 9788845264214

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BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE direttore

GIOVANNI REALE

segretari: Alberto Bellanti Vincenzo Cicero Diego Fusaro Giuseppe Girgenti Roberto Radice

PINDARO TUTTE LE OPERE

OLIMPICHE-PITICHE-NEMEE-ISTMICHE-FRAMMENTI Testo greco a fronte

Introduzione, traduzione, note e apparati di Enzo Mandruzzato

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

© 2010 RCS Libri S.p.A., Milano 978-88-58-70121-8 Prima edizione digitale 2010 da edizione Bompiani Il Pensiero Occidentale gennaio 2010

Immagine di copertina: Raffaello, Il Parnaso, Pindaro (part.). Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani Cover design: Polystudio. Visita il sito www.bompiani.eu e diventa fan di Bompiani su Facebook (http://www.facebook.com/pages/Bompiani/111059814766) Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. E' vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

INTRODUZIONE di Enzo Mandruzzato

PINDARO E IL SUO TEMPO

La Beozia, d’estate – la stagione vera della Grecia – è un’immensa ciotola gialla e tragica, tra monti dai nomi memorabili, feconda e brulla, dove il lago Copaide – da cui si recidevano le canne per i flauti – è scomparso e quello di Ilice s’affossa netto, irregolare e atroce come una piaga. Tebe (Tive) è un villaggio rozzo e afoso, i ricordi di Orcomeno o di Cheronea o di Gla, un tempo sospesa sulle acque, sono sperduti nella calura. Il turista, quasi contento che non ci sia «niente da vedere», ha fretta di risalire gli orli della ciotola e di scorgere il mare o l’acropoli di Atene o Delfi. Anche per un turista di due millenni fa, Strabone, Tebe non aveva «neppure l’aspetto di quello che si dice un villaggio». Né Pausania più tardi la trovò molto diversa. Eppure, con l’aiuto delle guide, girò la Cadmea dalle sette porte, ricettacolo di tante memorie, vide le tombe di Melanippo, dei figli di Anfione, il luogo del loro rogo dove ancora restava la cenere, le sepolture dei personaggi del teatro attico, Giocasta e Tiresia, Eteocle e Polinice ai cui riti funebri si ripeteva ogni anno, fedele come il miracolo di S. Gennaro, il fenomeno del fumo che si divideva. Molti i templi, nei dintorni, tra cui quello caro a Pindaro di Apollo Ismenio, con opere di artisti come Prassitele o Fidia. Ma ciò che contava di più erano i ‘luoghi’: dove Cadmo vinse il Serpe, dove sedeva la profetessa Manto, dove la terra inghiottì Anfiarao, e nessun animale veniva a brucarvi l’erba né alcun uccello si posava sulle colonne che delimitavano quello spazio. Al tempo di Pausania si confondevano le rovine già mitiche, come la dimora e il talamo di Alcmena, dove fu concepito Eracle, con quelle storiche come le tombe dei morti della guerra contro Filippo o della stessa casa di Pindaro, che Alessandro Magno aveva ordinato di risparmiare dalla distruzione.

INTRODUZIONE

Pareva e pare ancora questo il prodigio della Beozia. Gli scavi non offrono che ‘luoghi’. Non si trovano pietre squadrate e si può sospettare che le famose mura di Anfione non fossero che terrapieni; del resto quelle da lui mosse per magia – «col canto» –, indicate a Pausania, erano informi. La terra – la Dea Madre – è in tutto ed eguaglia tutto. Non c’è neppure la sublime civetteria delle solitudini della campagna romana al tempo di Goethe o di Micene già al tempo di Strabone. Terra bonaria e senza tempo dove l’Ismeno si perde nella sterpaglia e tra i pollai e la fonte di Dirce, conosciuta solo dagli abitanti più umili che non si sono mai mossi di lì, si nasconde in un muretto di ciottoli come una serpe. Allora finalmente ci si può rendere conto di trovarsi in uno dei luoghi più segreti e spirituali d’Europa, nella Palestina della religiosità greca e veramente occidentale. Qui nacque Pindaro, a Tebe, la «madre mia» come diceva, e che onorò sempre con fedeltà, dolore e orgoglio; o più esattamente a Cinoscefale, nell’immediata campagna, dove la famiglia avrà avuto le sue terre ed egli avrà eretto il sacello della Dea Madre dove officiarono le figlie. A Delfi si celebravano le Pitiche; «la festa del quinto anno» – così lui stesso immaginò il suo più antico ricordo – «con i suoi cortei di bovi, quando ebbi il primo nido tra le fasce, nell’amore». Era dunque l’agosto di quel deducibile 518 a.C.1 La famiglia era una delle più illustri di tutta la Beozia, gli Egidi, venuti da Sparta, poi ancora migratori ed «ecisti», in Laconia, a Tera, a Cirene, dove il ramo dei Battìadi sopravviveva a vicissitudini secolari (P. IV). Questo significava essere di sangue reale; il vero regno, come a Sparta, era fuso con il sacerdozio e non identificato con il potere. Il 1 Le cinque magre biografie pervenute danno la sua «acme» durante l’invasione di Serse (481-479); la Suda precisa i «quarant’anni» e anche una nascita «durante la 65a olimpiade» (520-517). La coincidenza della nascita con le Pitiche, che si tenevano nell’agosto-settembre al terzo anno di ogni olimpiade, preciserebbe il 518. Altri anticipa (o meglio anticipò, perché è cronologia generalmente abbandonata) alla precedente pitiaca, il 522, ciò che lo farebbe più maturo al tempo della decima pitica, meglio contemporaneo di Eschilo (n. il 525) e sufficientemente più anziano di Bacchilide (in tal caso la notizia della Suda sarebbe da tradurre con un «circa la 65a ol.»).

PINDARO E IL SUO TEMPO

culto avito era quello di Apollo Carnèo (P. V, 79-81), del cui tempio di Tera restano i ruderi con graffiti del tempo di Pindaro, devoti ed erotici. Della parlata beote non restano in Pindaro tracce pure, e non è vero che «atticizzasse» troppo come diceva Corinna, la celebre poetessa di Tanagra; ma è vero che il linguaggio della poesia lo portò presto lontano. Le prime fonti della poesia erano in Beozia ma da secoli vi attingevano poeti d’altri paesi, e attualmente il maestro della lirica corale era uno ionio, il brillante Simonide di Ceo. Beote fu invece l’autore della Teogonia, la Genesi dei greci, Esiodo, lettura primaria come quella di Omero, ma più fidata. Nulla però lo formò come le memorie viventi, i segni di ciò che noi diciamo «mito» e che per lui e per tutti era semplicemente la verità, la «parola» che è il ricordo e il ricordo che è, come ogni verità, presenza. Il suo patriottismo restò sempre qualcosa di cultuale e di universale; Pindaro poteva sentirsi al centro dell’Ellade e perciò del mondo, come molti greci, ma con un certo privilegio anche rispetto la ben più potente Sparta e la progredita Ionia. La vicina Delfi era il centro anche geografico della terra. All’esterno, all’orizzonte, c’erano il grandioso e il favoloso: i regni d’oriente, la Lidia e l’Egitto, ora unificati nell’Impero persiano, e nell’occidente di Ulisse l’avventurosa Sicilia, gli Etruschi e i Fenici, le isole dei Beati, e le colonne di Eracle che rimasero sempre per Pindaro il simbolo del limite umano, e i remoti Cimmerii (i Celti?), ospiti di Apollo, dai quali venivano ogni anno a Delo le offerte, avvolte nella paglia.2 Della sua prima giovinezza tebana restano pochi versi e alcuni aneddoti riguardanti sempre Corinna. Pare che la poetessa, bellissima donna del resto, non lo lasciasse in pace. Lo batté in gare di poesia (merito della bellezza, dice Pausania, o forse del purismo) ed è chiaro che quando rimproverò la collega Mìrtide di mettersi in gara con Pindaro – lei, «nata donna» – nascondeva una risata impertinente. Lo incolpò anche di fare poco uso del mito; Pindaro replicò con un inno a Tebe così copioso di mitologia che Corinna esclamò: «ma con la mano si 2

Erodoto, IV, 33.

INTRODUZIONE

semina, non col sacco!», al che Pindaro sbottò in un «porca beote!» che, in italiano, non suona bene. Ma è un esempio di traduzione come calco-errore. Non solo il porco non era nell’antichità animale discriminato, ma sia l’epiteto che l’ambiguo aggettivo erano condivisi da Pindaro, con suo vero sdegno (O. VI, 141-3). Rapporti allegramente borgognoni, com’è nello stile di certe vecchie aristocrazie. Oltre i monti c’erano due grandi richiami: la sacra Delfi e la già intelligente, la già nemica Atene. Quando vi andasse Pindaro e quanto e come vi stesse è problematico, perché la guerra era scoppiata subito dopo le riforme democratiche di Clistene del 508 e durò incattivita per un numero di anni e con una conclusione che Erodoto si dimenticò di precisare. Ma non si può credere che Pindaro ci andasse prima, in età infantile; dovettero esserci schiarite che aprirono, almeno eccezionalmente, quei confini pieni di rancore comunale. Certo ad Atene ebbe il suo principale maestro, Laso di Ermione, riformatore del ditirambo, ricordato da Pindaro con considerazione. Vi conobbe forse Simonide e certo Eschilo, di cui ammirò «il linguaggio grande». Molte cose avrà ammirato ad Atene, e soprattutto gli ateniesi, la loro cultura acerba e pia, già protetta dai Pisistratidi, la loro «agorà tutta arte», come la evocò dopo la distruzione quando non poteva essere in gran parte che un indimenticabile ricordo. Ma la rivoluzione democratica non possiamo pensare che l’approvasse: una ristrutturazione numerica, che ignorava i dolci legami feudali, le tradizioni senza tempo delle fratrie, perfino i patronimici, perfino il ritmo lunare dell’anno e il sacrale numero dodici sostituiti dal computo solare e dall’aritmetico dieci. Pindaro avrà ignorato queste anticipazioni della Convention e avrà continuato a vedere «l’altra» Atene. Ma, da ragazzo e dopo, avrà anche trovata naturale la crociata del vecchio mondo, Sparta in testa, braccio secolare di Delfi, contro quella città orgogliosa. È notevole tuttavia che non dicesse mai una parola contro Atene. Potendo, loderà perfino gli Alcmeonidi, se non come democratici, almeno come esuli che avevano tanto operato per la ricostruzione del tempio del-

PINDARO E IL SUO TEMPO

fico di Apollo distrutto da un incendio. Sarà felice, un giorno lontano, di poter celebrare Atene «cittadella dell’Ellade» e – finalmente – «divina». Se di Atene fu ospite, a Delfi fu di casa. L’aureo particolarismo greco permetteva più patrie, e Delfi era quella della fede, era la città di Apollo, il Dio per cui aveva, osserva Jaqueline Duchemin, una devozione più segreta. Dobbiamo pensarlo nell’intimità sacerdotale degli hosioi («i santi»), partecipe dei segreti del santuario in cui il misticismo più sincero si fondeva con quella che diciamo la «politica», categoria di cui non solo Pindaro e il vecchio mondo, ma neppure i nuovi uomini che venivano creandola avevano la minima coscienza. Avrà partecipato alla trascrizione e alla delicata interpretazione dei messaggi del Dio, trasmessi dalla voce della Pizia. Ciò poteva far parte delle competenze di un poeta o, come ancora si diceva, d’un «cantore», aoidós. «L’esprit de Delphes», quella Empfindlichkeit, quel riformismo sottile e quasi inconscio, quell’illuminismo devoto, hanno influenzato e incoraggiato profondamente lo spirito e la poesia di Pindaro. Il culto è anche luogo, e particolarmente nel mondo antico il divino non era «dovunque». Pindaro è impensabile senza quelle pietre, quelle rovine ancora oggi incomparabili e diverse, nella valle solitaria dominata dalle Fedriadi, e soprattutto non deve essere pensato senza il suo sacerdozio, a cui l’oracolo stesso diede un eccezionale crisma3 e che sarà ricordato per secoli con un rito commosso.4 I dialoghi «delfici» di Plutarco danno un’idea chiara di quel mondo, in una fase molto più moderna ma non più interiore. Le eterne sentenze che brillavano sul tempio di Apollo erano sempre il punto di partenza di ogni meditazione. 3 «Aveva già nomea per tutta la Grecia quando la Pizia lo sollevò al culmine della gloria ordinando alla gente di Delfi di dare a Pindaro parte uguale di tutte le offerte che venissero fatte ad Apollo» (Pausania, IX, 23, 3). 4 Così ne fa cenno Plutarco, pure sacerdote di Delfi: «ricòrdati delle recenti teossenie e di quella bella porzione che si preleva e si offre a gran voce ai discendenti di Pindaro, e come la cosa ti apparve sacra, dolce... » (De sera, 557 F). Nel santuario si conservava la sedia di ferro su cui il poeta «sedeva, quando veniva a Delfi, e recitava tutti i suoi canti in onore di Apollo» (Pausania X, 24, 5).

INTRODUZIONE

La più celebre, il «conosci te stesso», o meglio il suo significato ben definito da Plutarco – la nullità del mortale di fronte all’eterno5 – appare in Pindaro non solo con frequenza, ma con la perentorietà non petita e la violenza del dogma. Così l’arte si faceva davvero servizio divino. E «servire » diventava gioia: un giorno – Pindaro era già un «celebrato profeta», aóidimos prophata – appena gli venne all’orecchio che nel santuario, per le Prossenie, mancavano i coreuti del sacro peana, Pindaro accorse «per togliere di difficoltà i fedeli»: «sono sceso col cuore di un ragazzo che obbedisce alla nobile madre» (fr. Peani 6). Sono sceso: era il termine che si usava per la Pizia,6 di regola una ragazza delle montagne intorno a Delfi, il Parnasso di Apollo, l’Elicona dove Esiodo aveva «visto» la danza delle Muse. Non può essere casuale che le prime composizioni sicuramente databili siano connesse con il santuario. La prima senza controversie è la decima pitica, in onore di un campione degli Alèuadi, la più potente dinastia della Tessaglia con gli Scopadi, commissionata dal più autorevole, Torace, «tiranno» di Làrissa. Si apre con un’invocazione o meglio un nesso quasi programmatici: «Felice Lacedèmone, / fortunata Tessaglia, / l’una e l’altra regnate da una stirpe / del sangue di Eracle dalla nobile guerra...». Era il 498 e Pindaro aveva vent’anni. E evidente l’orgoglio del giovanissimo per quella «ospitalità cortese» e sono probabili suoi disegni o speranze su quella dinastia di cui approvava senza riserve la «giustizia nella Città» o, diremmo noi, la «politica». Ma era già una pericolosa, nuovissima politica. Nel 498, senza che nessuno se ne fosse veramente accorto, il memorabile scontro «tra la Grecia e l’Asia» era cominciato. Il cinquantennio delle «guerre mediche» avrebbe trasformato nel profondo la civiltà greca, e si sa che è quasi impossibile prescindere dall’avvenuto. Perfino uno storico come Polibio rimprovera Pindaro d’avere tradito la storia, cioè la causa della Grecia, e cita questo passo di un iporchema: «dolce è la guer5 De E Delphico, 394 C. Anche un’altra sentenza, il medèn agan, «nulla, troppo», è interpretata da Pindaro in senso analogo, prima di tutto religioso. 6 V. Plutarco, De Pyth. Or., 405 C.

PINDARO E IL SUO TEMPO

ra per chi non ne ha esperienza: ma a chi la conosce ne trema infinitamente il cuore, se si avvicina...», completato da un’altra testimonianza: «ogni cittadino dia serenità alla vita pubblica e miri alla Pace, che fa grandi i cuori, che è tutta luce; tolga dalle menti il Disordine con le sue vendette, che porta povertà e nutre di odio la giovinezza...». Parole così responsabili, idealistiche e pindariche che postulano un «momento» giustificatore, in realtà non abbastanza precisato da Polibio. Ma i grecisti moderni, più patrioti dei greci, hanno calcato la mano; Ticho von Wilamowitz per esempio vide addirittura nella decima pitica un minaccioso sottinteso contro Nasso colpevole di difendersi dall’attacco persiano. Semplicemente, l’ode è al di fuori degli eventi; a parte lo spirito del ‘genere’ poetico e della gara liturgica, concepita sempre come «tregua», per Pindaro quegli eventi erano piuttosto gravi e minacciosi che giudicabili con un sentimento sicuro. Al tempo dell’ode si sapeva in concreto: che la Ionia, tributaria di Dario, il «re senza pari» come lo chiamerà un combattente, Eschilo, si era ribellata; che la rivolta era guidata da Aristagora ex tiranno di Mileto e suddito di Dario, compartecipe della spedizione contro la libera Nasso e geloso rivale dell’ammiraglio persiano; che aveva chiesto e non ottenuto l’aiuto di Sparta e che Atene ed Eretria avevano mandato alle consorelle ioniche un aiuto, poco più che formale, di dieci triremi; che i ribelli erano stati battuti e, con orrore universale, avevano incendiato il santuario della Dea Madre a Sardi. Il giudizio e il volere divino non si erano chiariti. Sui tragici sviluppi che seguirono, invece, non è pervenuta alcuna parola di Pindaro: la dura repressione della rivolta, la distruzione di Mileto che sconvolse il popolo ateniese, la spedizione punitiva di Dario contro Atene ed Eretria. Il «re senza pari» certo ebbe la mano pesante; non solo non ammise riparazioni, ma impose a tutte le Città greche una scelta tra la guerra e il vassallaggio; ma era anche vero che alla sua immensa forza univa la più provata venerazione per gli Dei della Grecia. Il mondo laico, lo stesso dualistico mondo cristiano, non può capire del tutto che cosa significasse. Ci limitiamo a riferire il

INTRODUZIONE

giudizio conclusivo che darà un politico realista e protagonista dei fatti come Temistocle: «tutto hanno fatto gli Dei e gli Eroi», e ad aggiungere che questo giudizio va inteso alla lettera. Prima di quegli eventi il volere degli Dei poteva trapelare solo attraverso le parole della profetessa di Delfi; e Delfi era estremamente prudente o, come si dirà più tardi, «medizzava». Ma sarebbe un errore pensare alla banalità del calcolo o dello spavento. Più tardi il santuario non mancherà di coraggio e di una dignità che daranno pieno credito ai miracoli tramandati da Erodoto (VIII, 36-39). Questo Vaticano greco, che non godeva dei vantaggi del razionalismo e del dualismo moderni, sentiva tragicamente la propria responsabilità. L’ammiraglio di Dario, navigando verso l’Attica, si fermò a onorare Delo, dove era «nato» Apollo. Pareva continuare, accanto alla intollerabile violenza – la hybris –, la sfarzosa pietà di Creso di Lidia, compensata da un miracolo celebrato da Bacchilide.7 Ippia, il philómusos, il pio, pareva ricondurre ad Atene nonostante tutto il buon tempo, «il tempo saturnio» come fu ricordato, di suo padre Pisistrato. Era come se gravasse sull’Ellade una forma di vita così nuova da giustificare lo sgomento e il silenzio. Tutte le scelte delle Città ebbero una riserva non propriamente politica e non si risolsero in azione, tranne quelle di Atene. Ma la vittoria di Maratona fu l’evento chiarificatore. Gli spartani, i primi soldati dell’Ellade, trattenuti senza disapprovazione di nessuno dalla particolare fase della luna, arrivarono tardi sul campo di battaglia e manifestarono una profonda soddisfazione su cui nessuno avrebbe ironizzato. Era una liberazione non solo dai persiani, ma dall’oscurità del futuro. Sul campo erano rimasti dalla parte «giusta» – come a Jemappes nel 1792 – duecento caduti. Il prudente Dario non ripeté la spedizione. Certo a Ecbàtana ci si proponeva di riprendere e risolvere definitivamente la questione greca, ma in Grecia, proprio per la grandezza del pericolo passato, si poteva pensare che fosse finito e che si fosse tornati al mondo normale. Le odi di Pindaro del 490, 488 e 486 celebrano la virtù filiale di Antìloco, il prodigio della Gorgone decapitata, la bellezza delle Càriti venerate ad Orcomeno. La demo7

Epinici, III, 25 sgg.

PINDARO E IL SUO TEMPO

crazia ha esiliato un amico, Megacle, e Pindaro è lieto di celebrarne la vittoria, a Delfi (P. VII). Sempre a Delfi ha conosciuto il giovane, meraviglioso Trasibulo, degli Emmenidi di Agrigento, vincitori alle quadrighe, ai quali il poeta rende un omaggio eccezionale (P. VI). E Trasibulo, perfetto nelle gare pubbliche, è nel convito «dolce come un favo» e la sua presenza, come quella di Attide per Saffo, dissolve i duri confini del reale in una trasfiguranione dionisiaca, leonardesca. L’«inganno» è prezioso, perciò reale, è un «grande mare d’oro» (fr. enc. 5). Nel 481, dopo una decisione travagliatissima8 e quattro anni di preparativi, il figlio e successore di Dario, Serse, riprese la marcia, con mezzi e organizzazione enormemente più radicali. Anche la preparazione politica dovette essere adeguata. La storiografia moderna nega fede sia all’alleanza preventiva con Cartagine che alle trattative per un soccorso da parte di Gelone di Siracusa, il più potente ‘tiranno’ di tutta l’Ellade; parrebbe impossibile che Gelone promettesse in buona fede 20.000 opliti mentre l’isola era minacciata dalla tradizionale nemica. Ma forse le due notizie si confermano reciprocamente: la grandiosità e l’ambizione un po’ ‘coloniale’ di Gelone erano altrettanto vere della repentinità delle alluvioni cartaginesi. Anche questa ebbe il carattere dell’imprevisto. In tal caso l’orgoglio di Sparta e Atene, che nonostante il pericolo rifiutarono l’aiuto di Gelone perché condizionato da una proporzionata partecipazione al comando generale, fu la salvezza proprio della Sicilia e perciò il trionfo completo dell’Ellade. Nulla sappiamo meglio sulla spedizione di Serse che lo spirito con cui mosse il processionale esercito asiatico, gigantesca pantomima liturgica che raffigurava la marcia stessa di Zeus, presente e non visibile sul suo carro che precedeva quello del Re dei re; la presenza e il nome stesso di Serse erano sostitutivi di quelli del Dio supremo.9 La flotta navigava di conserva all’esercito. L’uno e l’altra rappresentavano tutti i popoli, com8

Cfr. Erodoto VII, soprattutto 12-18. Come intuì uno spettatore ideale che disse: «O Zeus, perché vuoi distruggere la Grecia assumendo la forma di un persiano e il nome fittizio di Serse invece di quello di Zeus, e conducendo tanti uomini? Tu lo potevi fare anche senza di loro! » (Erodoto, VII, 56). 9

INTRODUZIONE

presi i greci dei tre principali dialetti. Dalla solita imposizione di vassallaggio discrezionale – «dare la terra e l’acqua» – furono escluse Sparta e Atene, contro cui puntava la spedizione. Per tutti gli altri popoli la scelta fu penosa e non omogenea, in particolare tra i tessali dove Torace e gli Alèuadi erano filomedi accaniti, e in Beozia. All’assemblea di Corinto, Sparta, Atene, Platea e molte città soprattutto peloponnesiache giurarono la resistenza a oltranza e imposero ad Egina la pace con Atene e ne ottennero la preziosa alleanza. Nasceva, mal definibile anche per noi, un concetto nuovo. Per tutti, Atene dimostrò una larghezza di vedute che non significava meno del suo valore militare. Fallita la difesa nella valle di Tempe, la seconda strozzatura, le Termopili, sarebbero state una difesa indispensabile ma non definitiva. Alle spalle si sarebbe fortificato l’Istmo, tagliando fuori Atene. La Pizia, con materna avvedutezza e misteriosa durezza verso i delegati ateniesi, ingiunse a questi di difendersi dietro «mura di legno». Con uguale intelligenza Temistocle interpretò giusto, trasferirsi sui mare. Quando Temistocle lo disse nell’assemblea sgomenta, si vide Cimone levarsi e appendere vistosamente il morso del suo cavallo al tempio di Pallade. Un gesto che forse spiega la ragione per cui a Posidone si sacrificavano cavalli, da tempo immemorabile, da quando i migratori si trovarono di fronte il mare. La popolazione civile fu trasferita quasi tutta a Salamina e un intero popolo si affidò alle navi. Delfi sancì il nuovo culto dei Venti; poco dopo un’eccezionale tempesta ristabilì a danno dei persiani una relativa parità di forze navali. La resistenza alle Termopili e il sacrificio di Leonida simboleggiarono la qualità del valore spartano, l’alké, la resistenza, come Salamina dimostrò quella di Atene, la vera vincitrice della battaglia e della guerra. Merito non poco contestato. E Pindaro da Egina, dove eseguiva la quinta istmica in onore di un campione della famiglia amatissima degli Psalichidi, lo rivendicava intero alle poche navi della sacra isola dorica: ma ora, in Ares, ora è testimone una terra d’Aiace, Salamina, che marinai d’Egina hanno salvata nella morte di uomini infiniti

PINDARO E IL SUO TEMPO

mentre il cielo di Zeus pioveva sangue.

Ma subito, con uno dei suoi tratti di alta eloquenza, s’interrompe: – No, spegni il vanto nel silenzio. Zeus comparte bene e male, Zeus di tutto signore...

E il futuro era davvero sulle ginocchia di Zeus: la guerra non solo non era finita, ma il destino di Tebe restava particolarmente e tragicamente incerto. L’oligarchia beote non aveva nulla a che fare con i ‘tiranni’ che si appoggiavano ai persiani contro le rivendicazioni popolari, e un « popolo» beote e patriota, vittima dell’oligarchia, dev’essere un anacronismo di Tucidide (III, 62, 4). C’era semplicemente divisione e smarrimento. La vecchia Beozia non aveva ‘accettato’ la guerra, cioè la realtà, e il sentimento dominante doveva essere stato proprio quello manifestato da Pindaro nei versi citati da Polibio. Alle Termopili molti tebani si erano battuti più come ostaggi che come alleati dei greci. Le città erano state salvate in extremis dalla rappresaglia persiana per intercessione e testimonianza dei macèdoni. Ora la Beozia aveva scelto duramente la fedeltà alla causa dell’invasore, e Tebe era divenuta il quartier generale di Mardonio che ora conduceva le operazioni. Serse, dopo Salamina, logicamente, era tornato; la cerimonia della presa di possesso, con l’alleanza di tutti gli Dei dei luoghi, si era trasformata in una guerra. Nell’anno seguente, a Platea, avvenne lo scontro decisivo, con la piena vittoria degli alleati sotto il comando di Pausania, re di Sparta. I beoti, che avevano di fronte proprio gli ateniesi, si batterono con tetro valore. Pausania assediò Tebe e impose la consegna dei responsabili dell’alleanza con Serse. Dolorosa scelta che si risolse con la loro consegna volontaria, favorita da qualche lusinga. Ma Pausania li fece uccidere tutti. La Beozia, distrutta e disonorata, era stata la maggiore vittima della guerra. Nessuno poteva capirlo più di Pindaro, ospite a Egina, insieme vicino e più staccato dagli avvenimenti. Pare che avesse anche lui i suoi morti, come quei «quattro valorosi» cui accenna nella quarta istmica, e compiangerà il comandante

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Asopodoro caduto per la causa sbagliata. Nella ottava istmica, scritta appunto ora a Egina e per un egineta, si solleva con immensa pena e volontà al mondo luminoso del mito e alla speranza: «Anche a me, / sebbene la mia anima sia triste, / domandano per lui la Musa d’oro... ». Si augurava che le due patrie, la vincitrice e la vinta, in una guerra ugualmente imposta e subita, si ricordassero di essere figlie dello stesso padre, come era avvenuto al tempo della sua infanzia. E credeva ancora, come prima, nella Hesychia, la Pace, l’Ordine. Vedeva quella che diremmo – non c’è l’espressione nelle lingue moderne – una Provvidenza dell’evento, nella liberazione dal «macigno di Tantalo» dell’annessione persiana. Ma quando più tardi nel nome di questa «libertà» – non quella della democrazia – farà l’elogio di Atene, pare che i compatrioti se ne sdegnassero e lo multassero. Gli Ateniesi invece lo compensarono col doppio dell’ammenda, con la prossenìa, una statua e soprattutto una oggettiva ammirazione. Era nello stile delle due Città. Nel 476 Pindaro andò a visitare la patria di Trasibulo, la sfarzosa Sicilia. È pensabile che viaggiasse con Agesìdamo, olimpionìca di quell’anno e dedicatario della undicesima olimpica e della futura decima, già solennemente promessa, entrambe piene di letizia; e che si fermasse ospite suo a Locri Epizefirii, dove scoprì il poeta Senocrate e il suo misterioso ritmo «locrese», una vera rivelazione per Pindaro, anzi una «provocazione» che lo lasciò felice e febbrile, simile (forse navigava) «al delfino nel mare, mosso da un dolce suono di flauto». pensabile infine che la prima tappa siciliana fosse la reggia-fortezza di Ierone a Siracusa. La vittoria di Gelone sui cartaginesi – nello stesso giorno di Salamina, dice Erodoto – aveva aperto il periodo più splendido forse di tutta la storia della Sicilia. Non solo l’incubo fenicio pareva dissipato per sempre – e in effetti per settant’anni non si fece più sentire – ma pareva realizzato un miracolo anche maggiore, l’unificazione dell’isola, sotto il duplice scettro degli Emmènidi di Agrigento e dei Dinomènidi di Siracusa, legati da studiati vincoli di matrimoni e uniti dal prestigio di

PINDARO E IL SUO TEMPO

Gelone. Il passato tempestoso – lotte spietate di classe, tirannie atroci, trapianti di intere popolazioni, costruzioni e distruzioni titaniche, uniche forse nella storia dell’antichità – pareva più remoto del mito. Gelone, eroico e democratico, saggio anche nella vittoria, riconosciuto «re» dal popolo siracusano per riconoscenza e ammirazione, aveva chiuso i tempi di Falaride e iniziato quelli di Creso. «L’abbondanza regnava ovunque», scrive Diodoro. Decine di migliaia di schiavi cartaginesi, prigionieri di guerra, lavoravano alla costruzione dei superbi templi di Agrigento e Siracusa, volti al sole nascente. Chi conosce la Sicilia ricorda i simbolici rocchi di colonne rimasti per sempre sbozzati nelle cave di Cusa. Agrigento, «la più bella delle città dei mortali», sul suo gigantesco tamburo dorato, e Siracusa, con i suoi chilometri di mura confluenti nel castello di Eurialo («la Borchia»), sono le sole città antiche che umilino anche per estensione le loro discendenti moderne. Quando Gelone morì, circa un anno prima della venuta di Pindaro, «tutta la folla dei cittadini – racconta Diodoro – l’accompagnò alla sepoltura e il popolo poi gli innalzò qui un monumento magnifico e in seguito gli decretò gli onori dovuti agli Eroi»: una vera beatificazione. Per sua precisa volontà, gli era succeduto il fratello Terone e un altro fratello, Polizalo, aveva sposato la vedova, Damarete, figlia di Terone re di Agrigento. L’ammirazione di Pindaro era legittima, e anche una certa soggezione che traspare dalla prima olimpica, sebbene fosse accolto, possiamo credere, come meritava un poeta famoso che aveva già celebrato il re morto e onorato con due odi la città e la famiglia della regina (P. XII e VI). Si sentì simile a Demodoco nella reggia dei Feaci « molto cari agli Dei », quando «staccò dal chiodo la cetra» (vv. 21-22). Sapeva che lo ascoltavano «spiriti sapienti». Forse anche Simonide? Bacchilide mandava da lontano il suo quinto epinicio. Eschilo, certo presente alla prossima rappresentazione delle sue Etnee, era almeno atteso. Lì nell’«Isola», a Ortigia, dove la fonte Aretusa sgorgava dalle acque sacre dell’Alfeo di Olimpia, la più celebre delle odi pindariche legava Ierone a Pelope, il grande regno dell’occidente alle più remote tradizioni dell’Ellade cavallere-

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sca. L’effetto sarà stato magnifico; e solenne anche fu l’ode di un grado minore per il condottiero Cromio, cognato del re, la prima nemea, evocatrice di Eracle infante. Ma poi la confidenza e l’amicizia nasceranno; due frammenti di un iporchema mostrano un Pindaro che sollecita dal re con molta grazia il dono di uno dei carri siciliani, unici al mondo. Poi, per molti anni, la distanza dello spazio e del potere faranno quell’amicizia sempre più delicata e grave. Ma ad Agrigento il poeta non fu più simile a Demodoco; qui si trovò tra amici e correligionari. Le Teossenie della terza olimpica erano un rito quasi di casa, e vi si celebravano i Dioscuri ed Elena, cioè la fraternità della giovinezza eroica e l’eterna bellezza; culto dorico che Pindaro fu commosso di riscoprire. La seconda olimpica contiene tutti i trionfi, quello dell’amicizia consolatrice, del sangue e del «mistero» comune, la sorte delle anime e la sorte di Terone. La critica tende più o meno a sentirci il neofita (e niente può essere più stonato d’un neofita) che molto avrebbe imparato nell’isola di Persefone e nella patria di Empedocle. Ma Pindaro veniva da Delfi, non meno di Eleusi e con più universale autorità madre dei ‘misteri’, L’eccezionalità del discorso non deve ingannarci. L’antico, e meno che mai del tempo di Pindaro, non nominava l’anima invano; e ancora in piena età imperiale neppure sospetteremmo nel sereno Plutarco tanta violenza mistica e un concetto dell’oltretomba così puntiglioso e addirittura medioevale se non ci fosse pervenuto il suo De sera. Quella eccezionalità ci dà invece la misura della spiritualità e della reciproca fede dell’ospitalità emmenide. Né fu la sola fraternità di spirito. La seconda istmica ci rivela a gran distanza e in certo senso per caso che Senocrate, il padre di Trasibulo, tranquillamente ignorato dalle fonti, incarnò quello che diremmo l’ideale cavalleresco di Pindaro, l’uomo «dal dolce fuoco» – glykéia orghé – che ispirava «gli affanni e gli agi» e la valorosa eleganza della vita cortese. Non mancava neppure il legame dei rifiuti e delle inimicizie comuni, quei «corvi» che «stridono contro la sacra aquila di Zeus», e in cui gli scoliasti videro – ma tacendo prove e riferimenti che sarebbero stati in grado di conoscere – e molti

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moderni vedono ancora, i rivali Simonide e Bacchilide. Proprio per quella alta ‘cortesia’ ci domandiamo se era verosimile, in quell’atmosfera sacrale e regale, una polemica così personalistica a danno di due poeti autorevoli e molto bene accolti nelle due corti. La rivalità c’era, ma bisogna vedere quale tono poteva avere; una polemica letteraria in un’età senza ‘letteratura’ non è meno anacronistica che importuna. Si pensa a un altro duale (l’uso del duale – O. II 158 – è l’argomento principe), al dantesco « giusti son due» del canto di Ciacco, così poco chiaro – e lì si poteva essere più espliciti – che neppure gli immediati lettori e posteri seppero fare nomi plausibili. L’apparente invettiva deve conservare la nobile genericità o veridicità della gnome innica. Qui si parla dei falsi «sapienti», falsi perché non hanno la sapienza nativa, evidentemente mistica, posseduta dal re e dal cantore e altri presenti e assenti. Poteva esserci posto anche per il profano Simonide e il facile Bacchilide. Il quale, del resto, imitando palesemente Pindaro nel suo terzo epinicio, ha tutta l’aria di rispondere (magari proclamandosi, a scanso di equivoci, «usignolo di Ceo») con ugualmente alta «cortesia». Non sappiamo quanto durasse il soggiorno siciliano, cioè quando e come altre gare e vittorie lontane abbiano richiamato il poeta. Non sappiamo particolarmente se nel 474 fosse a Delfi, per la vittoria del dedicatario della nona pitica, o anche a Tebe, dove è stato accusato di dimenticarsi – proprio lui – non solo della Città, ma delle sue memorie; o se era ancora in Sicilia nell’anno dei due massimi trionfi del proprio ideale e di Ierone, la vittoria sugli Etruschi a Cuma e la fondazione di Etna. Quella ripeteva Salamina, assicurando i confini dell’Ellade, questa simboleggiava – in certo senso tutti i trionfi erano simbolici agli occhi di Pindaro – l’affermazione o la restaurazione del mondo dorico. Per altri era la cacciata dei vecchi cittadini ionici di Catania e la loro sostituzione con diecimila veterani ed emigrati di origine dorica, ma per Pindaro era la continuazione della marcia dell’antico Egimio e della sua «buona legge», una di quelle che non si scrivono e non si insegnano, esse pure «innate»; e per noi non meno mute e remote

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delle lapidi anonime e dei minuti dókana della pingue Laconia. Ma anche Pindaro, come Platone tanti anni dopo e in tutt’altro modo, doveva restare deluso nel sogno d’una «eunomìa», o «buona legislazione», siciliana. Il contrario di essa, l’«isonomìa», o «la legge uguale per tutti», trionfò rapidamente nell’isola. Nel 472 morì il buon Terone e gli successe il disastroso Trasideo che mosse guerra a Ierone, fu battuto, deposto e condannato a morte. Agrigento rivendicò la sua libertà, anche se non senza la protezione del re siracusano. Non sappiamo la sorte degli altri due Emmenidi di nostra conoscenza, Senocrate e Trasibulo. Pindaro celebrò la prestigiosa vittoria di Ierone del 470 mandandogli l’attuale prima pitica, una delle sue odi più solenni e gravi, in cui paragona il re a Filottete, gli indica l’esempio di Creso e gli ricorda l’avvenire, cioè il figlio e la città dorica di cui questi era signore. Più tardi (si direbbe) gli inviò la seconda pitica, una delle più misteriose, il cui centro non è certo una vittoria agonale; forse è la comune tristezza, il solidale orgoglio di credere sempre e soltanto al proprio valore. Il paradigma non è più Creso ma Radamanto, il giusto dell’oltretomba, al di là del tempo e delle opinioni umane. Come nella seconda olimpica per Terone, crediamo che ci siano anche qui nemici comuni o meglio resi comuni dal sentimento del poeta. A loro è riservata la parte finale dell’ode, che ribadisce in tono minore e oscuro, d’intesa, ciò che è stato detto con l’affresco grandioso della prima parte. Quei «fanciulli» che prediligono le scimmie (le prepongono a un Radamanto, penseremmo, ma nessuno ha saputo spiegare definitivamente questo simbolo), e così le «volpi» calunniatrici, debbono essere i nemici del re. Con i propri, Pindaro è più iroso e pronto alla vendetta – salva sempre la legge divina – ma sa anche che la vendetta, dal caso e prima dalla cattiva coscienza, verrà certo. Pindaro, che scrive da Tebe, era stato profondamente offeso, e certo in ciò che gli era più caro. In tal caso, non tanto da un’accusa di filo-tirannia come si suppone, quanto nella sua missione di poeta dei giusti. Nel 466 il pio re morì. In quell’istante a Delfi piombò a terra uno dei suoi doni votivi, la colonna di bronzo che secoli

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dopo ancora si mostrava; così rovinò la sua signoria. Il fratello minore dovette fuggire a Locri, le istituzioni d’un tempo furono ripristinate, i vecchi cittadini di Catania scacciarono i Dori e abolirono il nome di Etna. Quella che Pindaro aveva chiamato uno «stuolo rapace» – la maggioranza popolare – tenne il potere non senza imitare anche certi abusi della democrazia, come l’ostracismo, il diritto del popolo sovrano di esiliare senza processo qualunque cittadino. Non sappiamo né quando né dove Pindaro mandò a Trasibulo la sua seconda istmica, ma crederemmo senz’altro in occasione della morte di Senocrate. E la nostra memoria non può non evocare il dantesco Guido del Duca e la sua nostalgia del buon tempo antico. Non andava certo meglio nella madre patria. Con l’espandersi della potenza ateniese la democrazia ripullulava ovunque. Dalla dorica Egina Pindaro guardava con diffidenza e a volte con dolorosa disapprovazione le vicende di quella città scandalosa. Non è da escludere che contrapponendo la solida e forte «gloria del sangue» di un campione egineta (N. III) a quell’uomo «buio» che «assaggia innumerevoli valori», pensi ad Atene, al suo sperimentalismo politico, a quella violenta dialettica troppo lontana dall’ideale pindarico della Hesychia. Certo avrà riconosciuto le benemerenze di Cimone come difensore dell’Ellade e non poteva non ammirare quell’ateniese così ‘dorico’ e così leale sostenitore della leadership a due, Sparta e Atene, «le gambe» dell’oplita greco, come diceva, in lotta contro la Persia. Nel 468, all’Eurimedonte, Cimone aveva battuto il nemico, si sarebbe detto definitivamente, e fu probabilmente allora che Pindaro levò il suo inno ad Atene, con grande sdegno dei concittadini. Ma le vittorie sul mondo extraellenico erano per lui qualcosa di sublime e negativo, il salvataggio da un male che avrebbe voluto inesistente; le celebrava ma poi tendeva a dimenticarle.10 Il suo ideale inconscio era un’Ellade articolata in spazi solenni e rispettati, dove i «fondatori di città» si avventuravano rari dietro l’imperioso consiglio di Apollo (P. IV). Soprattutto, il prestigio di Cimone era precario. Una ‘sini10

Come nella terza pitica, per esempio.

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stra’, quella del giovane Pericle e dell’odiato Efialte, guadagnava spazio, non senza l’irresistibile forza dell’imponderabile, della propaganda spicciola, dei piani inclinati. Ne era complice qualcosa di maligno che nasceva nel mondo dorico, di cui Pausania fu il terribile esempio. Non si era mai visto nella storia – ma la storiografia non era nata – un caso Pausania. Il re, il vincitore di Platea, è corrotto dallo sfarzo persiano, ha rapporti con il nemico, mira a una signoria personale, profana la tradizione, lo stile, tutto quello che Pindaro chiama «la legge di Egimio». Tucidide lo dirà chiaro che Pausania distrusse il prestigio morale di Sparta, ciò che era anche una grande forza politica. Nel 464 a Sparta ne decisero la morte. Si era rifugiato nel tempio di Pallade; i luoghi sacri godevano d’un diritto d’asilo assolutamente inviolabile. Allora si vide la madre del re, in silenzio, posare una pietra sulla soglia. Su quella fu costruito il muro e la porta bloccata; lo spiarono e non permisero che spirasse nel luogo sacro, ma il sacrilegio restò. Al quale molti, probabilmente anche Pindaro, attribuirono il disastroso terremoto che avvenne poco dopo, che rase al suolo Sparta, provocò l’insurrezione dei Messeni e degli eterni schiavi Iloti e infine causò la rottura con Atene. Mai si toccò meglio con mano quanto la serena Sparta fosse un accampamento di dominatori militari – gli Spartiati – su un mondo di schiavi pieni di odio. Cimone non tollerò, e accorse in aiuto all’assedio di Itome, la fortezza degli insorti. Non solo Itome non fu espugnata, ma gli spartani licenziarono quelle truppe, dice Plutarco, troppo ardimentose. Tornarono furiosi e la Città si vendicò dello smacco ostracizzando Cimone. La politica delle «due gambe» della Grecia era finita. Sormontò la democrazia di Efialte, che osò diminuire non poco il potere della cittadella della tradizione, l’Areopago, del quale Eschilo nell’Orestea (458) difese con energia l’origine divina. L’assassinio di Efialte non rallentò l’imperialismo democratico. Atene si lanciò in una guerra su tutti i fronti e di scala grandiosa, contro la Persia, a Cipro, in Egitto, e contemporaneamente contro i vicini, Corinto, Epidauro e naturalmente Egina. Sparta aveva rifiutato nobilmente l’alleanza proposta

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dal nuovo Re dei re, Artaserse; ma poi non poté non intervenire, prima per procura e infine direttamente. La provocazione più grave fu l’invasione da parte dei Focesi della piccola Doride, la culla della loro gente. Sparta vi mandò 11.500 opliti e pensò di fare della Beozia un antemurale contro Atene. Permise che Tebe ricostruisse le mura e diventasse ancora la capitale e la fortezza dell’antico paese. Come tanti anni prima, le due figlie dell’Asopo, come si esprimevano la Pizia e Pindaro, combattevano a fianco contro la hybris. Ma furono ancora meno fortunate. Atene batté Egina per mare e si lanciò sulla Beozia, saccheggiandola orrendamente e mirando a tagliare fuori gli opliti peloponnesiaci che marciavano per il ritorno. Ci si scontrò presso Tanagra, passata alla storia come una sconfitta di Atene perché così la definirono Tucidide (I, 108) e sulle sue orme il beote Plutarco. Ma Diodoro, che disponeva di più fonti e si pose già il problema, parla circostanziatamente di vittoria e Polieno ha letto da altre parti dettagli militari. Probabilmente Tucidide la giudicò una sconfitta nella sostanza, perché gli ateniesi, nonostante le gravi perdite, non riuscirono ad impedire il ritorno degli opliti, che durante la marcia fecero allegramente strage dei preziosi olivi attici. Ad ogni modo, solo due mesi dopo, la guerra fu decisa a Enòfita, chiara e definitiva sconfitta dei beoti, che si batterono con disperazione. In una di queste due battaglie cadde quello Strepsiade che Pindaro rievoca nella settima istmica con dolore e ammirazione. Poco dopo tramontò anche Egina, per sempre. Atene le impose il disarmo, un pesante tributo e l’«alleanza». Era il 457, Pindaro aveva superato i sessant’anni. Verrà la pace e verrà anche la rivincita, col tempo. Dopo un decennio quando Atene, domata dalla sua stessa energia, aveva stabilito un confine di zone d’influenza con la Persia (450) e una tregua con Sparta, Tebe batté gli ateniesi a Coronea (448) e tornò il centro d’una risorta confederazione beote, con la restaurazione dei suoi antichi governi aristocratici. Tre anni dopo fu sancita una «pace di trent’anni» tra Sparta e Atene. In astratto, Pindaro morì – a ottant’anni, in Argo, a fianco dell’amato, meraviglioso Teòsseno – rasserenato e vendicato.

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Nei suoi epinici la severa tristezza viene sempre velata, perché non ci si presenta in gramaglie agli Dei, e la deprecazione, non meno del dolore, si purifica nella gnome perché l’«invettiva» archilochea Pindaro si era severamente proposto di bandirla; e consigliava di chiudere nell’ombra il dolore dell’uomo. Ma sentì certo molto acutamente il tramonto di ciò che aveva amato e creduto eterno e mai veramente veduto, quello che noi diciamo troppo esternamente il suo ‘ideale aristocratico’ o, meglio, il suo arcaico mondo dorico. Soprattutto proprio nella sua apparente vittoria. Non era più il regno degli Eroi, quello di Pausania, o quello del tristo e corrotto Leotichide. I «buoni» erano spesso di là, erano un Aristide, un Cimone, un Temistocle; di là, lo sentiva, avvenivano tutti gli scandali, compresi quelli che Sofocle chiamava, con parola ambivalente e sacrale, deiná, qualcosa di terribile, bellissimo e invincibile, e nulla, aggiungeva, è più deinón dell’uomo. Di quell’uomo che per Pindaro era sempre «un sogno d’ombra», nulla senza il divino, anzi nulla proprio nella luce del divino.

PINDARO «ARCAICO»

Il tempio e l’ode, accostamento spontaneo che per primo fece Pindaro, è l’analogo della Divina Commedia come cattedrale gotica. Similitudini opposte per due poeti e due civiltà che le infinite distanze lasciano consimili. Si richiamano per la loro eccezionalità e per la comune distanza dal nostro punto di osservazione. Innanzi tutto il tempio dorico non era solo quello che vediamo, maestose colonne e misure simmetriche, l’opposto perciò del gotico. C’erano i fregi, il colore, gli ornati, il tetto – questa ovvietà così difficile da sostituire con l’immaginazione – il chiuso, il folto, l’abitato, il cultuale. Il peristilio non era che la cornice d’un quadro dominato dall’horror vacui. L’uomo arcaico colma sempre le pareti bianche. Vive in un mondo sonoro, pullulante e multicolore da cui non sa appartarsi. Si direbbe che l’avvento del razionale comporti la rarefazione e la solitudine, nel cielo e nella terra. Allora la geometria e il bianco trionfano: il Cinquecento, Versailles, i parchi all’italiana, i boulevards, le ville, i piani regolatori... A volte un incendio risolse il trapasso, come fu per la Roma neroniana. Le città moderne sono divenute tali prima delle necessità del traffico. Anche il cielo si fa spoglio, soprattutto di divinità. Sì allontanano (con i progressi dell’astronomia) e si riducono di numero. Nell’età di Cicerone, Varrone recuperò i nomi di decine di migliaia di antichissime divinità romane. I superstiti templi dell’India sovrabbondano di «Dei sconosciuti». Le odi di Pindaro avevano saghe già dimenticate nell’età ellenistica. Ogni angolo della Grecia ne era pieno, anzi del mondo. Erodoto reperiva un culto specifico nella minuscola Halo nell’Acaia Ftiotide (VII, 197). Il rapporto numerico uomo-divinità era opposto a quello delle età moderne; intorno alla coppia Ada-

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mo-Eva alitarono innumerevoli potenze, quegli «angeli» la cui sola sezione ribelle ha per sempre costituito «legione» e, come si sa, non difettò mai nel mondo; nel monologo biblico di Jahweh non mancano strani plurali, com’è noto, e Jahweh stesso, ingiungendo di non onorare altro Dio, ne ammetteva implicitamente una pluralità nel vasto mondo «delle genti», gettata nell’ombra dalla «fedeltà» del suo popolo; ma non senza difficoltà e tradimenti. Su questo politeismo esclusivista s’innesterà facilmente il monoteismo filosofico. L’uomo era minimo e bisognoso del divino anche in questa povertà numerica, oltre che nella mortalità, nella debolezza e nell’ignoranza. Il mondo divino era la realtà, non meno di quella che le età della scienza hanno chiamato la «materia», concetto molto più incomprensibile per un Pindaro che per uno Schelling. Tutto questo ricordiamo brevemente per comprendere un poco questo poeta eccezionale, non meno unico di Dante, ma non altrettanto favorito dall’equivoco di tradizioni, principi e concezioni che riteniamo uguali o simili. I santi e i dogmi di Dante restano quelli della fede tradizionale. La lingua, l’imitazione, l’abitudine e la retorica ci illudono di capirlo. A Firenze c’è la sua «casa». Dante nella vita liturgica, o il Dante che assiste a un autodafé con orrore non ideologico (Purg. XXVII, 1618), lo capiamo. Abbiamo un nome per quasi tutte le cose che furono sue, continuate o no. Ma per Pindaro non abbiamo nessun nome, neppure equivoco. Gli stessi «agoni» non esistono; ‘Dio’ si traduce in tutte le lingue moderne, ma non in greco; siamo tutti d’accordo, perfino gli atei, che il politeismo è una forma inferiore di religiosità, senza considerare che il popolo più religioso del mondo, gli indiani, è politeista e che il Mahatma, colpito a morte, cadde invocando Rama. Ma per il politeismo non c’è tolleranza neppure in questi tempi di mani tese tra fedi che si sono selvaggiamente combattute. Non c’è storico che non si rallegri di promuovere al monoteismo (o ‘quasi’) Eschilo, o Pindaro, o Seneca. I quali non avrebbero capito, esattamente come Gandhi, poiché ‘politeismo’ e ‘monoteismo’ non erano termini opposti e neppure legittimi. Il divino (to theion) era inesauribile, molto più della stessa foltis-

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sima vita. Tutti i luoghi avevano Dei e, dice Pindaro, «Dio è tutto». Ovunque si era loro ospiti e viaggiando ci si informava del loro nome «oggettivo».11 Durante la sua marcia, Serse dava ordini severi perché i luoghi sacri fossero individuati e rispettati. I più antichi abitatori erano i più informati sui loro Dei e sulle loro vicende; era questo il «mito» o il «logos», cioè la «parola» dei popoli. Da essa attingevano i logografi e la stessa «ricerca» – o in greco «storia» – di un Erodoto. Ci fu una suprema responsabilità della trasmissione della parola veridica, il logos étymos come si dirà poi, distinta dalle parole irresponsabili. Alla base del mito – come della liturgia – c’è l’orrore della smemoratezza, cioè del mito senza fede. In età mature, Cesare, a contatto con i Celti, popolo di civiltà arcaica, stupì che i loro bardi ricordassero con esattezza lunghissimi poemi, e osservò che la scoperta della scrittura aveva ridotto la capacità mnemonica. Non pensò che la perdita consapevole del proprio passato non è meno orribile per un popolo che per un individuo. Pindaro ereditò questo concetto solenne del mito come verità, cioè come «ricordo», ciò che salva dall’oblio (lethe) ed è appunto a-létheia; e perciò del dovere, indefettibile come il Giuramento (orkos), d’un’assoluta veridicità. Non c’è nessuna retorica nel suo continuo «in verità vi dico», in quella «verità» che sente inerente alle stesse gare panelleniche, che sono tradizione e rivelazione. Ascoltava certo con devozione le memorie delle famiglie, delle comunità e dei sacerdoti e ne nutriva la propria cultura, anzi, come diceva, la propria «sapienza», sophía. Sentiva troppo bene che il logos è idealmente anteriore a qualunque parola scritta, era la rivelazione data dal tempo degli Eroi, alle origini, in un tempo la cui perdita gli rendeva più preziosa la «parola» e più venerandi i segni e i simboli che erano sopravvissuti, come immagini o formule sacre, alla loro stessa intelleggibilità. Ma non senza che mancassero da parte 11

Erodoto, II, 54. O. II, 131-4. 13 Come quella famosa della prima olimpica. E anche sdegnose omissioni, come nella terza pitica il particolare del corvo che denuncia ad Apollo, all’onnisciente (vv. 49 sgg.), il fallo di Coronide. 12

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sua – il sophós è un interprete12 – cautelosi ritocchi e revisioni.13 Colla parola scritta il mito – e la liturgia, «ripetizione» del non dimenticabile – perderanno la loro vera ragione di essere. Il logos assumerà progressivamente un significato opposto. Con la verità nascerà la menzogna e il sophós diventerà un personaggio libresco, problematico e isolato, quello che diciamo l’uomo di cultura. È significativo che ci manchi la parola per il ‘medioevo’ pindarico. ‘Arcaismo’ resta il termine più accettabile, ma non riscattato dall’accezione implicita dell’incompiutezza e da quella gratuita della cupezza e della ‘barbarie’. Vico concepiva l’uomo omerico come una sorta di centauro. Tutta la secolare riscoperta e la rivalutazione dell’antichità è avvenuta in chiave di razionalismo e poi illuminismo. Perfino la nostalgia romantica della grecità era rivolta al momento più maturo del grande secolo, e il caso di Goethe, entusiasta di Euripide e non di un Eschilo, era tutt’altro che eccezionale. Eccezionale, anche in questo, fu Hölderlin. La grande filologia ottocentesca, di ispirazione positivista, cercò con venerazione intuizioni e precorrimenti scientifici, frugando e illuminando gli sparsi frantumi. Si fecero severe distinzioni fra tempi, popoli e classi, Ioni illuminati e Dori retrivi, democrazie progressiste e aristocrazie chiuse, aggrappate ai propri privilegi, «al vecchio mondo della mitologia», ai giochi panellenici e alla poesia corale. Non abbastanza il merito estetico e l’analogia ideologica – «Pindaro come Bossuet» – salvarono quel tempo corrusco e sconosciuto. Eppure ciò che più l’uomo arcaico ignora è proprio il senso dell’incompletezza, il petrarchesco e già romantico inexpletum quiddam. Le proprie esperienze, le proprie «sentenze», riempiono il mondo; neppure l’esclusione dal mistero e dall’impossibile, dalle «colonne d’Eracle» motivo così insistente in Pindaro, dà la tristezza della privazione spirituale. Il titanismo non tenta e il dottor Faust non è ancora nato. Dante si appaga senza pentimenti del «quia», del quale del resto conosce benissimo i limiti; per quanto lo riguarda, sa anche ciò che l’attende nell’al di là, un purgatorio particolarmente laborioso per ciò che concerne la «superbia» (Purg. XIII, 136-8). Solo questa

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assenza dell’indefinito rese possibile un poema esaustivo della verità, come quello dantesco. Ma non occorreva tanta scienza. Per quanto il mondo fosse lacunoso, i conti tornavano sempre. Dio era infinito e la storia era nulla. Anche per Pindaro la storia era nulla e il tempo qualcosa di unitario. C’erano due piani speculari, come il cielo e la terra, il divino e l’umano. Erodoto distingue due sole età, quella degli Dei e degli Eroi, alla quale appartiene anche Minosse, e «quella che diciamo la generazione degli uomini» (III, 123). Ma la atemporalità di quel cielo, che non si cala più all’umano, ma lo illumina e lo muove, gli comunica la stessa natura meravigliosamente fenomenica. La storia non fa, non si svolge, non ha progetti e fini. Come per Dante, dopo gli «avventi», non ci sono che eventi; per Dante, veri turni di potere14 e per Pindaro misteriosi corsi e ricorsi delle grandi casate.15 Su un piano privo della terza dimensione, gli uomini sono uguali nella virtù e nella colpa. Non c’è progresso né preistoria né «mito» (Dante non dubita della realtà storica di un Ulisse o di un Rifeo) e neppure la poesia e l’arte, come categoria pura. Al di fuori del «vero» non c’è che il presente, quel multicolore presente di cui la vista non si stancava. La vista è il sentimento principale dell’uomo arcaico; non solo Pindaro è un grande visivo. La stessa sintesi dei fatti è di regola una visione ed è inevitabile pensare alle «metope» delle sculture arcaiche, greca e romanica, agli artisti di Selinunte come a Wiligelmo o all’Antelami. Le distanze non dividono e il mondo arcaico, ripetiamolo, è l’opposto dell’uniformità. La quarta pitica, la più narrativa e la più «romantica» delle odi di Pindaro, è un immenso fregio in cui spiccano le metope dell’apparizione di Giasone o della venuta di Pelia. In Erodoto, narratore di fatti umani, sono forse ancora più evidenti. Al centro di tutta la saga shakespeariana di Cleomene, ricchissima di motivi potenzialmente psicologici e patologici, il narratore vede soprattutto un gesto, le dita del re che fanno il computo delle lune della gra14 «per che una gente impera ed altra langue», e il concetto dantesco di Fortuna, Inf. VII e altrove. 15 V. soprattutto le nemee sesta e undicesima.

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vidanza della sposa (VI, 69). L’ultima visione della saga presenta il maligno seduto sul sacco del denaro del tradimento (VI, 72). Arione appare in una prima metopa sulla poppa della nave da cui si getterà in mare e in una seconda a Corinto, già salvato da un delfino, ma in entrambe con l’abito di gala dell’aedo (I, 24). Il particolare (le dita di Cleomene, il sandalo di Giasone ecc.) come ‘centro’ visivo e sintesi narrativa ha una logica fantastica di misteriosa necessità. In Erodoto la successione degli eventi ha a volte le tipiche sequenze del Novellino.16 Cominciamo a non meravigliarci dei «voli pindarici», e vedremo che in sostanza il modo di raccontare di Pindaro non differisce molto da quello del «padre della storia». Questa gioia di guardare spiega l’amore per l’eleganza, la vita bella, l’‘oggetto’ in particolare. Erodoto, che semina lacune e le colma qualche volta per caso, descrive da tecnico la corazza di lino che fu per gli spartani (e per lui) un casus belli molto più onorevole di quello puramente politico (III, 47). (Anche Elena di Sparta fu casus belli: mai donna fu più onorata di essere oggetto.) Significativo l’episodio di Policrate, signore di Samo, minacciosamente perseguitato dalla buona fortuna. Timoroso dell’«invidia degli Dei», accettò il consiglio di sacrificare a loro «la cosa a cui più dava valore». Pensò a lungo e dovette riconoscere che era un suo splendido anello, ben descritto da Erodoto. Lo gettò in mare con profondo dolore. Fu il suo sacrificio di Isacco, anche perché l’invidia degli Dei non puniva la fortuna ma la sempre presunta autonomia umana. E come ad Abramo, il dono fu graziosamente reso (sia pure con stile occidentale, attraverso l’allegro Caso, che glielo fece trovare a banchetto nel ventre d’un pesce). Inutile ricordare, durante la «barbarie ritornata» (molto significativa l’infelice espressione del Vico), il fascino delle pietre preziose, i lucenti versi dell’Intelligenza, le «preziose gioie» del Paradiso dantesco, il suo Eden che è una prodigiosa oreficeria su un nitido smalto. Non altrimenti sentiva Pindaro. L’oro, il simbolo con cui s’apre la prima olimpica, «che la 16

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Altrettanto vorticose e, relativamente, atemporali (un es., Erodoto III,

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tarma non guasta ed è fortissimo sul cuore dei mortali», può ben essere «figlio di Zeus» (fr. inc. 97). Il simbolo della poesia, anche per Pindaro missione e allegoria di verità, è un irrepetibile manufatto che la Musa fonde in «oro e candido avorio e fiordaliso / raccolto lungo il mare alla rugiada» (N. VII, 1179). Altro che cupezza e ieraticità. L’uomo arcaico sente tutto in chiave di quella che diceva la heorté, la festa-solennità in cui l’onnipresente vita associata trionfava come la natura in una giornata di sole. Manca del tutto il concetto di festa come ‘riposo’ e non c’è niente di meno pindarico d’una «triste domenica». La festa comincia già nel concetto di dolore come una sorta di vergogna: «ed è bene nascondere nell’ombra / la sventura, divina e inaccettabile» (fr. Inni. 4), e culmina proprio nella grande gara rituale, di cui l’inno è il «fiore», per tradurre l’irrepetibile áoton, che è fiorealità ma sta ai fiori conosciuti come un animale araldico a quelli della storia naturale. Pindaro condanna con tutta l’anima «chi amministra nel chiuso della casa / la sua ricchezza, e intanto ingiuria e irride...». Tra le sue virtù cardinali c’è quella che Erodoto chiama la megaloprépeia e che si traduce perfettamente – concetto, accezioni e rilievo sociale – con la «larghezza» raccomandata da Brunetto Latini17 o la «magnificenzia» esaltata nella giornata culminante del Decameron. L’episodio erodoteo di Silosonte18 potrebbe essere benissimo di Boccaccio e molti gesti della decima giornata sono di un mondo pindarico. «Donare» è la grande virtù che Pindaro raccomanda al re Ierone (P. I, 174); e «profondere è gioia». Davvero non vede soddisfazione più schietta della «gioia di contendere / con tutti i greci, e il lusso dei cavalli» (I. IV, 51-52). Senza questo sentimento non possiamo capire come «allevare cavalli» sia virtù così alta e commovente; è il commovente del gratuito. Osservare che il cavallo è il simbolo delle aristocrazie è vero ma un po’ astratto; ed è vero anche che se lo 17 Con le altre tre da lui predilette («cui io credo ed adoro / assai più coralmente») figlie di «Vertute»: «Cortesia e Larghezza / e Leanza e Prodezza» (Il Tesoretto, vv. 1335 sgg.). 18 «O il più bennato degli uomini, tu sei quello che mi hai donato quando non avevo alcuna potenza; se era poca cosa, però la gratitudine è uguale, come se ricevessi – ora – qualcosa di ben grande!» (Erodoto, III, 141-2).

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potevano permettere solo i ricchi, come dice Aristotele, ma mettere sullo stesso piano la quadriga pindarica e la RollsRoyce non è «discrezione» di storico. L’oro, il dono, la stessa «mercede» (misthós) data al poeta – tanto rilevata da scoliasti e da critici, particolarmente italiani – fa sempre parte di quella luce, non è concetto economico; un’economia pura non esiste per Pindaro, come per Dante e perfino per Machiavelli, così medioevale di tempra e di gusto al confronto con l’amico Guicciardini. Pindaro fu certo poeta delle aristocrazie, ma con uno spirito che tutte quelle che noi diciamo classi contribuivano, secondo i ruoli, a perpetuare, nonostante certi sordi, ineguali sconvolgimenti. Le maturazioni sociali sono sempre collettive e inespresse fino alle rivoluzioni. Tutto questo reclama l’analogia con quel gotico che cori termine pindarico chiamiamo «fiorito», quando le età ferree – per Pindaro, il mondo di Esiodo – versavano la loro energia nella copiosità e la forza nella grazia o nel sorriso, senza perdere il loro massiccio patrimonio di certezze. L’analogia ci fa pensare che gli eccezionali Rinascimenti – Fidia, Sofocle o Michelangelo – sono una falda labile tra queste due lunghe età di cui, a dispetto dell’equivoco concetto di derivazione, è necessario riconoscere l’autonomia e la compiutezza. Abbiamo parlato di ‘gusti’ e ‘ruoli’ più che di personalità come ormai le intendiamo: non la scienza mancava, sebbene episodica e inseparabile da quella aneddotica esemplare con la quale è stata tramandata (il caso Talete); mancava ciò che diciamo la psicologia. Per questo non abbiamo potuto fare la storia di Pindaro, che pure fu un personaggio; lui stesso non avrebbe saputo farla. Contemporanei e posteri immediati non ci hanno 19 Tra Elicona e Parnasso fu visto e udito Pan suonare un carme di Pindaro. Nella sua infanzia, mentre era addormentato sulla pista che portava a Tespi, nella calura, uno sciame d’api fece il favo sulle sue labbra (Pausania, IX, 23, 1 sgg.). Più interessante, per chi si occupa di parapsicologia, ciò che riferisce ancora Pausania (ibid.): «Era in età già avanzata quando ebbe in sogno una visione: gli si accostò nel sonno Persefone e gli veniva dicendo che lei sola non aveva celebrato fra tutte le divinità; ma che anche per lei Pindaro avrebbe composto un canto, quando fosse venuto da lei. Presto, prima che terminasse il decimo giorno da quel sogno, egli passò di questa vita. Viveva in Tebe una donna anziana, legata di parentela con Pindaro, tutta dedita a

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tramandato di lui che miracoli,19 nomi,20 luoghi e sentenze, appunto le categorie della letteratura arcaica. Non si può parlare di reticenza, perché Pindaro non vedeva ragione di tacere di sé nonostante l’ufficialità dell’inno, né si può incolpare la pochezza quantitativa delle notizie che è di quasi tutti gli scrittori dell’antichità. Solo l’ombra dell’età si avverte, e magari a dispetto dei dati cronologici esterni: di solito fredde cifre tramandate dagli scoliasti che disponevano degli elenchi dei vincitori delle gare olimpiche e pitiche. Ne consegue che le Nemee e le Istmiche affondano quasi tutte nel buio. Le puntigliose questioni cronologiche si basano sulla scelta tra cose eterogenee, dati esterni e poesia, cifre e stile, cifre e storia interiore. Il caso più urtante è quello dell’undicesima pitica, per la quale la scelta tra il 474 e il 454 delle tabelle cronologiche significa attribuire un sentimento così eccezionalmente oraziano (vv. 85 sgg.) o a un Pindaro nel fiore degli anni o a un Pindaro vegliardo, e fare della sua inaspettata lode per la mediocritas, sociale e non, o uno stato d’animo o una sorta di estrema conversione. Per di più, il più probabile 474 non è affatto all’unisono con la Stimmung della pitica nona, certamente di questo anno. Complessivamente, tranne la breve aurora almeno riconoscibile della decima pitica, e il tardo tramonto dell’austera ottava, la poesia di Pindaro non ha storia. Analoga delusione sul piano concettuale. Si direbbe che l’uomo arcaico abbia realizzato alla lettera l’ideale storicistico più maturo, espresso da Ernesto Renan, «la convivence de touquella poesia; fu a questa anziana donna che Pindaro apparve in sogno e recitò il “Canto di Persefone”. Appena fuggito il sogno ella scrisse quel canto proprio come nel sogno l’aveva udito. Canto in cui, tra gli altri epiteti, c’è quello di “briglia d’oro”, che evidentemente allude al ratto della Fanciulla». 20 Anche della cronaca famigliare: quello del padre (Daifanto, ma con qualche incertezza), della madre, della moglie, del figlio pure Daifanto («dafneforo» in Tebe, cfr. fr. Part. 2), delle figlie (quelle che cantavano nel sacello che il poeta, dopo una visione, fece edificare? v. P. III, 126 sgg.); del fratello Eritimo, esperto di agoni e di caccia. Le cinque sommarie biografie di Pindaro, che riferiscono questi e altri particolari, sono tardive ma raccolgono i dati più antichi di cui si disponeva. C’è ricordo di una di Plutarco, purtroppo perduta. Ma Plutarco seppe scrivere biografie di Eracle, di Teseo e di Romolo.

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tes les choses». È stata molto rilevata l’osservazione di Erodoto sulla relatività della morale, passo che in realtà non ha nulla a che fare con lo scetticismo etico (III, 38). Ma Pindaro può dare sorprese anche maggiori. La sua severa dirittura non gl’impedisce di raccomandare l’adattabilità del polipo, consiglio pratico che condivide con il prosaico e rancoroso Teognide (fr. inc. 10). Nessuno più di lui onora gli Dei e la loro giustizia, ma gli capita di asserire che «nelle opere vince la Tyche, non la forza», e dobbiamo ricordarci con un po’ di sforzo che la Tyche è anche un «Dio in incognito» (fr. inc. 9); un altro frammento elogia la legge del più forte (fr. inc. 49) e una nemea asserisce che «un più forte elimina l’anteriore diritto» (N. IX, 35-6). Dobbiamo ancora ricordarci del significato sacro dell’evento, che dà luogo a una sorta di amoralismo religioso. È interessante – lo notiamo di sfuggita come un esempio – il termine «sventura» (symphoré) che Erodoto usa per ciò che noi diremmo soltanto uxoricidio (III, 50). Del resto l’aretà viene dagli Dei; l’autonomia umana, che è sempre colpa, si estende in qualche misura sul piano etico. Tutti ricordano come l’amore fosse per Elena una vera e propria imposizione della spietata Afrodite. Ma appunto, la psicologia non esiste. L’arte figurativa dà di tutto questo un equivalente in quello che diciamo il sorriso eginetico, croce del naturalismo e delizia dell’estetismo. Variabilissimo nella sua sostanza, esprime il sentimento anteriore al giudizio e all’analisi di esso. Ma è notevole che si comunichi di più e si realizzi più assolutamente in chiave di serenità e di luce. Per tutto questo la personalità di Pindaro ti attrae come quella di certi personaggi del Paradiso dantesco, un Cacciaguida o un San Pietro, la cui aureola paradisiaca non impedisce una solida umanità. Tratti umani e caserecci spiccano sul fondo grandioso dei convincimenti. C’è un candore beote, paesano e sanguigno, in contrasto col rigore o la fantasia severa di Eschilo, di cui non si può mai sorridere. C’è un fondo di letizia che fa perdonare ingenuità, grandezza ed esclusioni. C’è una meravigliosa svagatezza nei suoi grandi consensi. Questo «sapiente» sa sorridere come nessuno delle cinquanta belle

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etere che il suo inno presenta agli Dei, ma non soltanto agli Dei (fr. enc. 3). La poesia dà l’immortalità e Pindaro ne è religiosamente certo, ma nessun poeta moderno avrebbe mai paragonato la gioia dell’arte a un bel bagno caldo (N. IV, 5-7). Certi interni, soprattutto nei frammenti delle opere perdute, hanno un’intimità placida che doveva affascinare Orazio. I suoi eroi s’impongono sempre, tanto se ne intendeva, per quanto non si capisca sempre bene che cosa abbiano fatto di bello (non ne esisteva il problema), ma capita anche di trovare un Eracle piccolotto (I. IV, 96) e di sorprenderlo cucinarsi con cura la carne (fr. inc. 48). Ciò che manca è l’altra faccia del «tragico», il «satiresco», il parodistico, ma non già l’umorismo; è quello dell’ammirazione che si fa confidenziale, e che serpeggia sempre nell’epos, non solo omerico. Si rinviene anche nei Fioretti, epos dei santi umbri, d’una civiltà cioè che non possiede Sigfrido e Rolando.21 Ma nessun poeta moderno supera Pindaro nella rappresentazione dell’eroico, della morte e del divino. L’eroico è sempre giovinezza, quella dell’efebo Pelope che scende nella notte purissima a invocare da Posidone il rischio mortale per odio della vita e della morte meschine, o di Castore che supplica Zeus di condividere col fratello il giogo della morte (N. X, 144 sgg.). La morte non è mai né il nulla né – a parte il «mistero», ciò di cui si tace – resurrezione, è l’inesprimibile, austeramente surreale: pire che fumano bianche, fuori del tempo (N. IX, 53). Ignora sempre il melodrammatico, questo poeta per eccellenza musicale. La morte è sempre presente e non è né prova né dramma: è limite, è realtà. A un felice, a un vincitore, ricorda che le sue belle membra sono un mantello che dovrà mutare con quello della terra (N. XI, 24-26). Pindaro parla della mortalità con l’austera efficacia che oggi è solo dei semplici che non conoscono l’inganno e il potere delle parole. Il divino è rappresentato con una «verità» che lo riscatta da tutto il preteso antropomorfismo a cui lo inchioda la prodigio21 L’epos dei Fioretti richiederebbe lungo discorso; ma caratteristiche e ‘suggelli’ spiccano in due capitoli, X e XXVIII. Il sorriso, sottilissimo e peculiare, è soprattutto nel IX. E che dire del grido belluino di Francesco (XXXII) al di là dello stesso diapason epico, dell’ammirazíone e del sorriso?

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sa bellezza della statuaria classica. Neppure il velo magico dell’arte arcaica lo copre con più pudore della luminosa parola pindarica. Nulla negli Dei è prevedibile e perciò umano, neppure la bontà. Appaiono immediati come il pensiero ma anche con la totalità ovvia e imprescindibile del pensiero; per questo non sono mai spettacolo. L’arte di Pindaro è sempre casta, anche nel colorismo e nel barocco arcaico, mai però come nella visione e nella parola degli Dei. «Tu sei figlio mio...» dice Zeus a Polluce quando «gli andò di faccia» (N. X, 152). Resta di loro il ricordo frammentario del sogno. Epiteti e attributi sono allusioni più che particolari, e nulla è più completo del loro nome. A volte il poeta osserva le sue visioni. Quando Pallade appare in sogno a Bellerofonte per donargli il morso di Pegaso e destano all’azione, dice: «La potenza divina / edifica leggera / oltre ogni giuramento ed ogni attesa». E un sentimento arcaico ma non immaturo del divino. Così quando dice: «Dio solo compie tutto ciò che spera, / colui che coglie l’aquila nel volo / e oltrepassa il delfino sopra il mare » (P. II, 77-79), ricorda Dante, la stessa ripresa musicale del «colui che mai non vide cosa nova» (Purg. X, 94): sono, nei contesti, nei loro ritmi, riscoperte, sospiri nella luce. Anche questo può essere la gnome pindarica. A ciò che diciamo «mito» appartengono la fede teologica non meno della tradizione. Solo restituendo a questa parola la sua pregnanza, la sua totalità e il suo significato, possiamo dire che Pindaro è «il poeta del mito» come non sarà mai più, per esempio, un Ovidio e neppure un Virgilio e neppure, non lontano nel tempo, un Euripide. In quel linguaggio confluiva il suo stesso mondo interiore, dando anche al presente e perfino all’individuale e all’autobiografico qualcosa di quella assolutezza e verità. Sulla soglia del mondo della ragione, Pindaro ha consegnato questo prodotto irrepetibile d’altri tempi alla nostalgia, alla disperazione e alla incomprensione dei posteri. Massimo autore del «genere» più tipico e meno adattabile, si può considerare il vero esponente, il «documento» (la poesia può esserlo) del mondo arcaico. Non a torto Jaeger osservava che anche Omero è meno «antico» di Pindaro. Mezzo secolo

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dopo Frinico lamentò che l’inno pindarico non era più in onore. Senza contraddizione, Platone lo citava come un classico ma si permetteva di alterarne confidenzialmente i sublimi pensieri (fr. inc. 49). Non siamo più in grado di giudicare il fondo Alcmane e lo «ionico» Simonide, ma Bacchilide sì. Con tutte le comunanze del «genere», il confronto è violento, e non tanto per la distanza che intercorre tra il genio e il non genio quanto proprio per lo spirito religioso o meglio mitico. Quella che intercorre tra due minori, il candido Passavanti e Cavalca. Semplicemente, Cavalca ha trasformato il «sacco» in un saio e trova del tutto normali i miracoli.22 Non si può immaginare un mondo più fuso e unitario di quello pindarico, che pare fondarsi sulle identificazioni: verità e realtà, tradizione e poesia, poetica e morale, agonismo e liturgia. La poesia è «sapienza»; a sua volta ogni sapienza è ispirazione, partecipe della phyá, la «nascita», e così intrisa di religiosità che senza gli Dei è nulla (fr. Peani 13). Comprende in nuce quella che sarà la tripartizione classica, di Aristotele e soprattutto di Orazio, l’opera, l’attività e la personalità del poeta (póiema, póiesis, poietés). Ma Pindaro non era affatto, come il suo seguace Orazio, «staccato dalla folla», secretus populo. Ne faceva parte e la rappresentava. Se, come è stato osservato e perfino biasimato, nelle sue odi c’è poco sport, non è perché non gustasse nei particolari la tecnica del lottatore o la perizia spericolata dell’auriga.23 Nulla nel rito degli agoni valeva meno, ma la vittoria ne era come la soluzione, la catalisi, e l’inno come il momento della coscienza. Il campione che attraversa l’«arena rotonda» in un subisso di entusiasmo è già come avvolto di luce, entra nel perenne. La coralità è caratteristica 22 Cavalca ha fiducia nella fede altrui. Per fare un solo esempio del suo modo di sentire, l’untuosità dei leoni che seppelliscono S. Paolo eremita (al contrario, la verità del giubilo degli uccelli che ascoltano S. Francesco nei Fioretti. Sempre nei Fioretti, la falsità dei pesci come uditorio riminese di S. Antonio). Nello sfondo della letteratura medioevale spicca subito il colore eterogeneo dei realisti in potenza come Cavalca: Marco Polo, per esempio. 23 V. in particolare O. IX, 15-16; N. VII, 109-11; P. v, 32 sgg. (la olimpica decima evoca, con le prime gare, i gesti ideali).

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sia della liturgia che della celebrazione sportiva, perfino moderna, anche se non ci sentiamo di fare il confronto. Si riosservi il famoso «auriga di Delfi» (era quello di Polizalo, Pindaro l’avrà visto); l’efebo che raccoglie tutto il suo sforzo negli occhi e in quei piedi, spasmodicamente piazzati sul fondo del carro come sulla tolda di una nave, non esiste per se stesso, si dissolve nel suo compito. È il fratello spirituale del Carroto della quinta pitica, e come lui trionferà, avrà l’onore del ricordo nell’inno. Perché l’inno è il ricordo di tutto, anche del presente. È questo il compenso delle «opere», come le chiama Pindaro, ed è molto coerente che non ci fosse altro premio che una corona di olivo selvatico, di apio o di lauro. Quando Serse seppe che non si faticava per altro e ne rise, dimostrò di essere uno sportivo del nostro tempo; non aveva nulla da «ricordare». È singolare che proprio questa poesia, nata nel segno della globalità, sia stata come nessun’altra oggetto di accuse di slegatezza, poca unità e conseguenziale oscurità. Lasciamo anche perdere i famosi «pasticci» (galimatias) di Malherbe e di Perrault, la divertente impertinenza di Voltaire24 e l’inevitabile scontento del secolo dei lumi e della prosa; e ancora di più dimentichiamo i famosi «voli pindarici» che nell’espressione stessa rivelano una concezione del poeta affine a quella manifestata da Renzo Tramaglino nell’entusiasmo bacchico dell’osteria (i francesi dicevano più civilmente « les écarts»). La censura, dopo la scoperta romantica – ma scoperta poetica, di Goethe, Hölderlin, Foscolo – è implicita perfino nelle difese dei dotti ammiratori. Sono rimasti famosi gli abusi dell’allegorismo biografico-politico di Augusto Boeckh (1816-21) e di F. Thiersch (1820), o della astrattissima «idea summa» di L. Dissen (1830). Infelici apologie che finirono per determinare un trentennio di sgomento silenzio, dal quale si levò la voce conciliante di Alfred Croiset che invocava un po’ di «esprit de 24

«Sors du tombeau, divin Pindare, / toi qui célébras autrefois / les chevaux de quelques burgeois / ou de Corinthe ou de Mégare, / toi qui possèdes le talent / de parler beaucoup sans rien dire, / toi qui modulas savemment / des vers que personne n’entend / et qu’il faut toujours qu’on admire» (Ode XVII, strofa 1). Altrove parla del «votre inintelligible et boursouflé thébain».

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finesse». In realtà il suo era il più positivista e agguerrito «esprit de géometrie», ma con una confidenza letteraria tutta francese, capace di fraternizzare con tutti, e una chiarificazione che permetteva qualunque cosa. Infatti il secolo dell’estetica rivide, esaltò, e ancora più decisamente divise: poesia e non poesia, struttura e lirica, contingenza e liricità. La quale liricità fu universalmente riconosciuta e generalmente limitata al mito. Gennaro Perotta, lumeggiandolo con efficacia e definendo i «voli» dei passaggi intellettualistici, ha inferto all’unità pindarica il colpo più severo. Non sono mancate letture meno frontali, come quelle fini e dotte di G. Méautis e di J. Duchemin, che hanno molto contribuito a dare concretezza e conforto all’inestinguibile impressione di totalità che dà l’ode pindarica. Né è mancata, da parte d’un critico gustoso, l’inglese Gilbert Norwood, una vera «teoria» unitarista, fondata sul concetto di simbolo; ma lo stesso trionfalismo con cui il critico proclama la sua scoperta liberatrice mostra come possa essere inquietante questa poesia pindarica per un lettore moderno che rifiuti la retorica e i vuoti mentali. Niente di strano che il disagio si concretizzi nel problema dell’unità, perché essa, l’imprescindibile scoperta di Aristotele, non diviene problema se non quando denuncia un rifiuto di poesia. E perciò, come problema in re, discusso frontalmente, non promette soluzione. I simboli che Norwood rinviene e illustra sono vari, uno anzi per ogni ode (ne esamina dodici casi). La seconda olimpica è incentrata sul theta, iniziale del nome di Terone e simbolo mistico, la ruota orfica; la complicata undicesima pitica è dominata dall’ape, simbolo di poesia e di profezia;25 nella sesta olimpica c’è «l’idea dominante della dualità». La persuasività della dimostrazione è molto diseguale, e tanto meno persuade quanto più il simbolo (come nel caso del theta) si fa concreto; nel caso più astratto, il segno del due nella sesta olimpica, è 25

Tra i più tipici di Pindaro, com’è subito visibile, al punto da sopravvivere in tempi lontani, da Orazio – apis Matina – a Foscolo. «Api» erano dette anche le sacerdotesse di alcune divinità femminili; anche il più antico tempio di Delfi fu edificato dalle api (fr. Peani 12 e nota). Il miele della poesia non è dunque solo e soprattutto edonistico. Cfr. J. Duchemin (v. Bibliografia), pp. 250 sgg.

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molto più che suggestivo. Ma è l’unità? L’errore è quello di parlare di «chiave», strumento ferreo e meccanico. Pindaro ignora le allegorie, le chiavi dantesche nei velami dei versi strani. Non ci sono né serrature inglesi né passe-partout, ci sono simboli, in un mondo di grandi simboli che sono anche fregi, segni, riflessi. Non costituiscono l’unità, la indicano. Del resto l’unità artistica è sempre tautologica. Il simbolo proviene dalla matrice dell’arte, ma non la porta alla luce, non ne violenta il segreto. In questo senso è invece un carattere tipico della poesia arcaica, che adora i segni esteriori, come il dantesco tre, onnipresente perfino nel metro. Ma molto più interessanti in Dante sono i simboli inconsci che tralucono come una filigrana; così il canto di Francesca da Rimini ha il suggello degli sperduti uccelli e quello di Ciacco dell’avido cane,26 emblemi che proprio perché inconsci hanno più verità degli altri corposi e vistosi. Nei Fioretti il capitolo XX è quello del «saio» e della veste, il XLII è quello dell’ascesa e delle stelle (culminante nell’hapax «o cielico...»). La poesia d’ogni tempo conosce questa iterazione interna, una sorta di rima semantica che prima o poi rivela il suo lineamento in un centro; e naturalmente quella romantica molto di più, ma anch’essa senza l’innocenza del poeta arcaico, abituato al paradigma araldico. Con questa precisazione possiamo accettare anche le suggestioni foniche proposte da Norwood, come il nesso Ismeno (il fiume) e smenos l’alveare, nell’ode dell’ape (P. XI). Piuttosto Pindaro, per quanto il barocco barbarico lo ammaliasse, non avrebbe accettato volentieri di averne coscienza. «Occasione, mito, gnome». La tripartizione, avallata da Croiset, è rimasta canonica. Ma come separarli? L’«occasione» è onnipresente, anche se si fa più esplicita all’apertura e alla fine dell’ode, sottolineandone a volte la caratteristica circolarità. Ma abbraccia il celebrato anche dove per sua gloria lo 26 I dannati del V canto sono, nella bufera, stornelli, gru, colombe; nel VI, dominato dal cane Cerbero, i dannati sono pure cani, nel fango. Il cane – spesso lurido – come simbolo d’ingordigia, secondo il bestiario medioevale, risale a Fedro, I, 4 e I, 21 (5 e 22 nella riclassificazione del mio Fedro, Rizzoli 19876).

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immerge nell’immensità della festa o lo dimentica per il cielo del mito. Tralucono sorrisi sottintesi, e il mito si riverbera sul campione, come un astro, da qualunque distanza. La famosa «sentenza» poi è la meno enucleabile che si conosca; Pindaro è tra i poeti meno citati e sfruttati per i codici di saggezza, ed è anche difficile ricordarle, le sue sentenze. Si ripetono di lui le parole esatte appunto perché non perdano l’indefinito, l’evocativo, l’irrepetibile della musica. Il rapporto del presente col mito travaglia i razionalisti che giungono a conclusioni, nei casi migliori, troppo sottili. Ma il rapporto non è sottile perché non è logico, è analogico, intuitivo e rivelato. Come non connettere Ierone con Pelope? (O piuttosto Pelope non richiama Ierone? I miti non sono repertori e l’Eroe serba sul campione l’anteriorità ideale dell’archetipo).27 Dopo, ogni altro mito non esiste più. Come non sentire che l’evocazione dei Dioscuri nella decima nemea è «connessa» con il giovane Teaio, nella cui casa essi furono ospiti? Il mitologo delle epoche non mitiche troverebbe magari di meglio e ci penserebbe su, ma Pindaro non ci pensava affatto e non si permetteva di scegliere. Questo racconto dei Dioscuri, uno dei più belli di Pindaro, è anche tra gli esempi più vistosi della sua esasperante logica narrativa, causa non ultima della famosa oscurità. Nel nostro linguaggio, questi i fatti: i fratellastri Castore e Polluce, figli della stessa madre, Leda, ma di padri diversi, rispettivamente Zeus e Tindaro (pertanto il solo Polluce può dirsi di diritto immortale), hanno commesso abigeato ai danni dei figli di Afareo, Ida e Linceo; questi, fornito di vista leggendaria, scorge uno dei colpevoli, Castore; insieme accorrono, lo sorprendono e lo eliminano. Polluce (non sappiamo bene come informato) li rincorre, li raggiunge, precisamente presso la tomba di Afareo, e uccide Linceo; Zeus, dall’alto, incenerisce Ida. Polluce va (o torna) sul luogo del primo scontro e trova il fratello in 27 Nel Simposio platonico, Alcibiade, cercando di far capire che Socrate non assomigliava a nessuno e non entrava in nessuna categoria umana (ma piuttosto assomigliava «ai Sileni e ai Satiri»), dice: «già, da come fu Achille, ci si può rappresentare un Brasida o altri...» (221 c). Noi capovolgeremmo il rapporto.

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fin di vita. Incapace di vivere senza di lui, invoca da Zeus anche per sé la morte, nel buio Ade. Zeus offre un compromesso, cioè un soggiorno a giorni alterni. L’ottimo fratello accetta senza esitare e da allora, a quanto risulta, senza il minimo pentimento. Pindaro, capovolgendo l’ordine dei particolari, aggiungendone alcuni pleonastici ed eliminando certi nessi, racconta come oggi una persona molto emozionata espone i fatti a un pubblico ufficiale che interrompe impaziente per capacitarsi. Ma Pindaro non informa, evoca; i fatti li sanno tutti e nessuno deve né chiarirli né giudicarli. I particolari, rarissimi, sono assolutamente imprescindibili: nessuno, neppure Pindaro, sa perché Castore fu visto «sul ceppo d’una quercia», sente solo la necessità di un’esattezza che potrebbe anche non avere (e non l’avrà avuta) nessuna tradizione, come quell’«oleastro duro» con cui fu ucciso il bastardo Licimnio (O. VII, 45); ma campeggia nella metopa che ha nella mente. In un’altra, domina il fumo alto degli inceneriti. Una generazione più tardi, ad Atene, dove viveva Anassagora e si svincolava, ma senza disdegni illuministici, quello che diciamo lo spirito della scienza, lo storico Erodoto raccontava ancora allo stesso modo, con l’aggravante che evocava non il noto e il divino ma le azioni degli uomini, sebbene per lui comprensibili solo come effetti di volontà divine. La cronologia, nota o no, non è il filo del suo discorso. Erodoto procede per parentesi, o meglio per evocazioni. Partito dal discorso della insurrezione ionica e perciò di Aristagora, lo accompagna a Sparta e racconta la lunga saga dello spartano Cleomene; poi va con lui ad Atene dove si ricorda dei Pisistratidi, della loro caduta e di Clistene (poche righe per la sua rivoluzione sociale e politica, che trova tuttavia ricca di curiosità), e risale à rebour la storia d’un secolo per ricongiungersi a Cleomene in Atene; qui, incontrando i tebani intervenuti contro Atene, risale alle remote contese tra questa e la sorella di Tebe, Egina, finché si riannoda a Cleomene e al presente. È perfettamente il racconto ciclico dell’ode pindarica. Dall’interno della quale non si sente, come sempre all’interno della poesia, il bisogno di un centro geometrico, di un

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berniniano punto focale. Richiami e simboli sono vari e riposanti. Ogni ode del resto ha la sua individualità. Il la si avverte presto: il giubilo, la tristezza, l’età del campione, l’atmosfera della casa o della città (come l’orgoglio di Corinto nella tredicesima olimpica). Nella regolarità apparente dell’architettura ci sono andamenti tonali molto diversi. La famosa circolarità non è la sola linea, è forse solo la più visibile; così buona parte delle olimpiche e delle pitiche sono in calando, «calano» cioè dalla luce del cielo al presente e all’umano, fragile e minacciato. È il Leitmotiv dell’umiltà religiosa. All’interno c’è un discorso musicale, un mirabile tessuto di trapassi semantici. Non sentiamo bisogno dell’innocente alibi di alcuni unitaristi, come anche Croiset, che rimpiangono la perdita della musica e della danza. Tutto è andato perduto, meno una poesia compiuta. Cioè è andato perduto il «contenuto». Da questo punto di vista Pindaro ha lasciato ben pochi messaggi. I contenuti di Erodoto, compressi, irriconoscibili, colmano buona parte della storiografia d’un eccezionale momento storico, ma Pindaro pare inutilizzabile. Si direbbe che i grandi ottant’anni della sua vita non abbiano raccolto nulla dell’avvenire. Un secolo dopo Talete interpreta un’eclissi di sole come un brutto avvertimento degli Dei e al tempo di Anassagora pone serenamente sullo stesso piano medicina e magia (P. III, 86-89). È vero che l’eclissi, che risulta del 463, coincide con l’ultimo anno della collaborazione di Atene e di Sparta, e Pindaro poteva coerentemente attribuire agli Dei le proprie razionali intuizioni, ed è anche vero che certe convivenze concettuali favorirono la famosa «armonia» del mondo greco; ma sappiamo che i moderni, come tutti gli allievi, hanno voluto i maestri a loro immagine e somiglianza. L’epigrafe di Wilamowitz ha la virtù della brutale franchezza: «il suo mondo ci è totalmente estraneo, i suoi costumi, il suo comporre e le sue aspirazioni non hanno attrattiva per noi, anche se certe volte non ci respingono...». Gaetano De Sanctis, oltre che mostrarsi implacabile verso la scontata arretratezza della concezione sociale-politica, ha trovato il modo di stroncare il poeta mitico nel campo meno sospettabile, accusandone, chissà su quali basi, la «teologia

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zoppicante». Dunque Pindaro, accolto nelle storie letterarie per necessità e per deferenza, poco operante sulle fantasie creatrici di ogni tempo con le sole straordinarie eccezioni di Orazio e di Hölderlin, – nei tempi moderni più immaginato che letto, né solo nelle traduzioni, condivide in misura minima con gli altri autori arcaici anche il privilegio di figurare nelle prime pagine dei manuali di tutte le scienze, dedicate ai preludi. Sola eccezione quelli di storia delle religioni, in cui Pindaro appare insieme ad Empedocle e in posizione minore come antichissimo testimone del pensiero orfico. Anzi, osserva bene Norwood, il primo che faccia esplicitamente dipendere l’immortalità dell’anima umana da una «origine divina». Ma non è poco; ed è certo la base di una concezione che possiamo intuire completa. Nei cinque passi espliciti28 e in alcuni probabili,29 si riflette tutta la sostanza dell’orfismo: la preesistenza dell’io, «venuto dagli Dei», la rinascita, il giudizio (krisis), la salvezza. Il premio dei giusti è concepito come uno stato di pace costante, armoniosa e attiva. Pindaro la dipinge con i colori della vita intensa e ricca – l’oro e la porpora, l’ombra che accentua la luce – e le abitudini della vita felice, i riti, la musica, i cavalli. Della dannazione non trapela nulla, per il suo orrore e la sua cecità. Il senso dell’oltremondo è preminente: all’opposto di quello cristiano, definitivo e immobile, esso è ancora decisivo per il futuro e per il sempre. Nelle tre esistenze necessarie alla salvezza – il numero può essere simbolico, – comunque si interpretino quei versi molto discussi, avvengono i momenti essenziali della vita, la conoscenza e la scelta. Nella scelta di una nuova esistenza terrena può esserci, come nel mito platonico di Er nella Repubblica, il «peccato» – la poca ambizione spirituale, quella che Dante chiama difetto «di amore» – e l’errore o il rischio, cioè una futura insufficienza, l’insolvenza di un debito contratto verso se stessi. Ma l’illuminazione dell’oltremondo può essere sovrabbondante di promesse: «felice chi vide ciò che è sotto la terra. / Sa il termine d’una vita, / sa 28 29

O. II, 8 sgg. fr. Lam. 1; 2; 6; fr. inc. 21. P. IV, 460-3; N. VI, 14-16; fr. Part. 1; fr. inc. 4 e 102 (e relative note).

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un inizio divino» (fr. Lam. 6): si direbbe das Motto della Commedia dantesca. La preesistenza dell’anima – cioè dell’«io pensante», come la definì finalmente Plutarco30 – determina la vita presente, non sappiamo in quale misura, quel «destino che nasce insieme a noi» (N. V, 73) che non è dunque estrinseco e perciò subìto; questo stato del presente è quello che Pindaro chiama la phyá, la nostra individualità stessa (N. VII, 82), il patrimonio dell’io. «Nascere» significa portare valori nostri che attendono la rivelazione – e anche le sacre gare possono esserlo – e restano affidati alla nostra fedeltà. All’uomo moderno, almeno occidentale, abituato al concetto cristiano dell’anima-vita, creazione ex nibilo, è particolarmente estranea l’idea dell’esistenza prenatale, lesiva della stessa assolutezza creativa di Dio. È significativo che Arnobio, l’apologista neofito che impostò con eccezionale lucidità la vera antitesi religiosa del suo tempo, il cristianesimo escatologico e il pitagorismo, accusò questo di presumere una affinità col divino.31 Ma è proprio così che sentiva Pindaro. Anche per lui gli Dei non sono i creatori del mondo; essi «nacquero», come l’uomo (N. VI, 1-2). Il divino è un mistero del quale l’uomo è partecipe e in modo particolare a causa della sua preesistenza a questo «mondo di Zeus»; si può ben capire la contrapposizione che Pindaro fa tra il «nascere» e «l’imparare», la superiorità trionfante (ben più che di ordine lettrario) del sapere dell’essere su quello di una breve vita terrena. Certo su questo s’innesta quella che diciamo la concezione aristocratica di Pindaro, e questo innesto, visto secondo una prospettiva unilaterale e un sentimento estrinseco, può apparire perfino come una sanzione religiosa dell’ineguaglianza. A ciò contribuisce il passo citato da Platone nel Menone, in cui si parla di reincarnazione dei giusti come «re gloriosi, dalla rapiTo; fronou'n (De sera, 563 F e altrove). Le «assurde promesse» ispirate dalla «presunzione illimitata» degli spiritualisti del tempo (neopitagorici in generale) sono semplicemente l’immortalità dell’anima. Immortale è solo Dio (II, 15): l’uomo è uno degli innumerevoli, caduchi esseri viventi (animantia) «uguale agli altri in tutto o modestamente differenziato» (II, 16), a cui Dio può donare la sopravvivenza per liberalità sua e in casi adeguatamente meritori. 30 31

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da potenza, altissimi di saggezza», i quali poi «saranno detti dagli uomini Eroi santi» (fr. inc. 21). Ma Pindaro sa benissimo, come Platone, che ci sono i pessimi re, i «tiranni», dai quali, oltre a tutto, pare che si dichiarasse orgogliosamente indipendente.32 Alcuni studiosi, come Karl Kerényi e J. Bollack, hanno troppo accentuato in generale il carattere aristocratico del misticismo preplatonico che era già aristocrazia spirituale e non sociale. Il privilegio-dono (gheras) dei re e dei sapienti – e dei poeti ispirati – non diminuiva la responsabilità, e Pindaro conosce esempi terribili di ingratitudine punita, come quelli di Tantalo e di Issione, che propone alla meditazione dei re. A fortiori, si poteva essere ingrati verso se stessi. La «grazia» è un concetto fondamentale della religiosità arcaica, anche se è stato elaborato dalla teologia più raffinata, e la phyá ne faceva parte, soprattutto perché l’aretá non era mai separata dal divino e anzi proveniva dal divino. Far risalire al passato le radici dell’Eroe divinizzato era un accrescerne il mistero ma anche il merito. Del resto l’Eroe, come il santo cristiano, non era un solo ma un primo. Certo Pindaro credeva a quella che Plutarco chiamerà «l’affinità nativa»,33 una disposizione morale ereditaria, visibile agli Dei molto più che agli uomini, né poteva pensare che un’ascendenza divina non fosse un suggello ineffabile. Ma lo spirito orfico rendeva molto meno rigido il concetto del sangue, che in Teognide ha un aspetto per noi così duramente razzistico. Nella «nascita» pindarica si fondono le due eredità, quella della disposizione alla virtù e quella del proprio passato responsabile. L’eredità etica resta, ma si fa insieme tanto più terribile quanto più giusta, o meglio viene trasformata da deterrente ad atto di espiazione. Si confronti la storia di Glauco, tramandata da Erodoto (VI, 86), con il mito creato da Plutarco nel De sera. A Glauco, che aveva commesso il più grave 32

A chi gli domandava – è detto nella Vita di Eustazio – perché non frequentasse i tiranni di Sicilia Pindaro rispose che intendeva «vivere per sé e non per gli altri», espressione troppo stoicizzante tra frange facili, ma un nucleo, rappresentativo dell’ethos storico, deve esserci. 33 JOmoiovth" suggenkhv, nel De sera (561 F), dove l’argomento è svolto con rara sensibilità religiosa.

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dei delitti, la violazione del giuramento, la Pizia prospetta la punizione che ne cadrà sui discendenti e che Erodoto è soddisfatto di poter attestare dopo generazioni, ma deve cupamente ammettere che la morte attende tutti, spergiuri e giusti, e che lo libererà dal rimorso. Al contrario, nel mito di Plutarco il colpevole «vede», dall’oltretomba, come la sua colpa gravi su tutta la discendenza. Il sereno Pindaro non dice questo, ma non dobbiamo credere che sia metafora quando rappresenta il contrario, il premio che il morto riceve nel vedere «dall’Ade» la prosperità del suo sangue, alla quale ha contribuito non solo con l’esempio, ma con il valore in sé delle sue opere (O. VIII, 89 sgg.). Pindaro accetta, con sgomento, l’ira del Dio che cade sul giusto e sull’ingiusto, che si estende all’intera comunità del colpevole «come il fuoco / scaturito da un seme / annienta molta selva alla montagna» (P. III, 63-65), ma è proprio lo spirito orfico che lo libera dalla tara più terribile della religiosità arcaica, quella ereditarietà della pena che il mondo greco non ebbe molto meno radicata di quello ebraico. Nel linguaggio della Pizia, il figlio di Glauco diviene il «figlio dello Spergiuro», e lo Spergiuro si trasforma in una sorta di Erinni che penetra nel sangue fino all’estinzione della stirpe. In fondo è questa la fisiologia primitiva. Ne sopravvivrà una traccia nel rapporto inestinguibile divino-natura, forse fino ad una già matura teologia cristiana. L’elaborazione sarà più intensa nel grande secolo e soprattutto nella grande Città (la conquista del concetto giuridico di responsabilità individuale ne è un riscatto indiretto e pratico, nello stile di Atene).34 Nel mondo ebraico, la crisi è rappresentata e non superata dal libro di Giobbe, che resta nell’ambito della fede. È il tremendo grido dell’innocente: «dicono che Dio serba per i figli la punizione dell’empio: ma punisca lui, lui stesso!». Con spirito prettamente occidentale, la stessa cosa dice il filosofo cinico Biante: «un Dio che punisce i figli dei malvagi è più ridicolo di un medico che cura il figlio o il nipote d’una malattia del padre o del nonno». L’arcaico Pindaro, non per accortezza critica ma per maturità religiosa, non si presta mai a questo ridicolo. 34

V. G. Glotz, La città greca, trad. it., Torino 1948, p. 274 sgg.

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Il «mistero» è l’unico dualismo visibile nella fusa e fluttuante concezione pindarica del mondo. È già «un altro» mondo: strani antipodi di una terra non ancora sferica, con altri Dei, più misteriosi ma più amati: si va sulla via di Zeus al «tempo» felice di Crono e della materna, dolente Persefone, bisognosa anche della consolazione umana.35 Questo Zeus, in questo diverso «giorno», si è tentati di credere che sia, per così dire, più di se stesso, «un Dio che ha di più degli Dei» (fr. inc. 27) e molto simile a ciò che Eschilo disse di Zeus, che è tutto e anche al di sopra di tutto.36 In particolare poi misterioso è il «giudice», innominato, impersonale; puro giudizio che postula un Qualcuno (tis). Una frattura nel cielo è dunque già avvenuta. Avrà proporzioni immense, dopo che Platone porterà il «mistero» all’aperto, profanandolo, e offrendolo al pensiero umano con conseguenze incalcolabili. Ma per Pindaro non c’era filosofia molto più di quanto non ci fosse biologia, «ereditarietà» nel brutale senso nostro, e la stessa parola «necessità» ha in lui un significato prettamente religioso. Non accusiamo il suo lessico promiscuo. Chiamava mortali questi uomini eterni e per «l’altra» vita ha tutti i termini più quotidiani di questa – bíotos, fren... – o espressioni didattiche, come «immagini viventi dell’esistenza». Ignorava del tutto l’orgoglio intellettuale e anche quello spirituale. Con il suo privilegio e la sua bellezza, l’uomo restava nulla per lui. Il felice soggiorno oltremondano non gli suggeriva nessun contemptus mundi. Era nato troppo presto o con una natura troppo fiorente per sentire veramente il corpo come una «prigione».

35

V. fr. inc. 21 e nota. In un frammento delle Eliadi: «Zeus è l’Etere, Zeus è la terra, Zeus è il cielo; Zeus è tutto e quanto è al di sopra di tutto». 36

NOTA BIBLIOGRAFICA

La raccolta, la sistemazione, l’esegesi, quella che diciamo l’«edizione» critica di Pindaro fu operata nell’età ellenistica, particolarmente da Aristofane di Bisanzio (III-II sec. a.C.); la celebrità e la personalità poetica dell’autore l’hanno singolarmente preservato sia dall’oblio che dalle incertezze di attribuzione. Ci fu un elenco canonico delle opere, del quale i frammenti danno una traccia; gli epinici le chiudevano. Sopravvive un quarto circa dell’intera opera originaria. Gli epinici furono ordinati secondo un criterio di appariscenza: prestigio delle gare, vistosità dei dedicatari, splendore dell’ode. Le tre ultime nemee formano una sorta di appendice ed è probabile perciò che questa raccolta, anteriormente all’archetipo dell’intera tradizione, fosse all’ultimo posto. C’è traccia d’una «nona istmica» e di altre odi perdute. Pedestre ma prezioso l’ampio apparato di note (A. B. Drachmann, Scholia vetera in Pindari carmina, 3 voll., Lipsia 1903, 1910, 1927). Nella selva dei codici (186) si distinguono i veteres: Ambrosianus e Parisinus graecus del XIII sec., Vaticanus graecus 1312 del XII, Laurentianus 32, 52, del XIV, incompleti e reciprocamente integrabili (per tutta la questione v. J. Irigoin, Histoire du Texte de Pindare, Parigi 1952). Le edizioni a stampa di Pindaro (la princeps è l’Aldina, Venezia 1513) sono state più di altre corredate da traduzioni e prolegomeni (per uno studio sulle varianti v. D. E. Gerber, Emendations in Pindar 1513-1972, Amsterdam 1976). La critica testuale moderna può cominciare con C. G. Heyne, Pindari carmina..., Gottinga 1773 e in 3 voll. Lipsia 1798-99 e Londra 1824; seguirono tra le maggiori complete: A. Boeckh, Pindari opera, Lipsia 1811-21; F. Thiersch, Pindarus Werke, Lipsia 1820; L. Dissen, Pindari carmina..., Gotha 1830 e ’34; T. Mommsen, Pindari carmina, Berlino 1864; Th. Bergk, Poetae Lyrici Graeci (3 voll., I Pindari carmina), Lipsia 1878-82; W. Christ, Pindari carmina prolegomenis et commentariis instructa, Lipsia 1896; O. Schröder, Pindari carmina, Lipsia 19232; C. M. Bowra, Pindari carmina cum fragmentis, Oxford 1935; A. Turyn, Pindari carmina, Oxford 19522; A. Puech, Pindare, 4 voll., Parigi 1961-773-7 (qui seguito); B. Snell, poi H. Maehler, Pindari carmina cum fragmentis, 2 voll., Lipsia 1975-80.5 Per un primo orientamento nell’immensa critica di ordine storico-estetico si veda D. E. Gerber, A Bibliography of Pindar 1513-1966,

NOTA BIBLIOGRAFICA

Cleveland 1969, aggiornata fino al 1985 in Studies in greek lyric poetry, «Classical World, LI 1968, LXX 1976, LXXXI 1988, oltre naturalmente la Pauli’s Wissowa Real-Encyclopädie, alla voce Pindaros (E Schwenn, 1950 e aggiornamenti) e le storie generali della letteratura greca. Ricordiamo ancora D. C. Young, Pindaric criticism, «The Minnesota Rewiew», 4, 1964; P. Bernardini, Rassegna critica delle edizioni, traduzioni e studi pindarici (1958-64), in «Quaderni urbinati» 2, 1966. Com’è noto le Années philologiques, già a cura del Marouzeau aggiornano di anno in anno la bibliografia anche minore. Tra gli studi principali, ad alcuni dei quali si è accennato, si precisa e si ricorda: A. Croiset, La poésie de Pindare, Parigi 18953; C. Gaspar, Essai de cronologie pindarique, Bruxelles 1900; G. Fraccaroli, Le odi di Pindaro e i frammenti, con comm., Milano 19132; F. Dornseiff, Pindars Stil, Berlino 1932; U. von Wilamowitz-Moellendorff, Pindaros, Berlino 1922; L. R. Farnell, The Works of Pindar, II Critical Commentary, Londra 1932; L. Illing, Zur Form der pindaroischen Erzälung, Berlino 1932; G. Perrotta, Saffo e Pindaro, Bari 1935 (19673 Messina-Firenze); G. Norwood, Pindaro (1945), trad. ital. S. Croce, Bari 1952; E. de Places, Pindare et Platon, Parigi 1949; M. Untersteiner, La formazione poetica di Pindaro, Messina-Firenze 1951; J. Duchemin, Pindare poète et prophète, Parigi 1955; J. H. Finley jr., Pindar and Aeschylus, Cambridge Mass. 1955; M. Fernández-Galiano, Olimpicas, con comm., Madrid 1956; E. Thummer, Die Religiosität Pindars, Innsbruck 1957; H. Fränkel, Wege und Formen frühgriechschen Denkens, Monaco 19602; G. Méautis, Pindare le dorien, Neuchatel 1962; E. Bundy, Studia pindarica, 2 voll., Berkeley-Los Angeles 1962.; C. M. Bowra, Pindar, Oxford 1964; E. Thummer, Pindar. Die isthmischen Gedichte, con comm., 2 voll., Heidelberg 1968-69; W. J. Slater, Lexicon to Pindar, Berlino 1969; A. Könken, Die Funktion des Mythos bei Pindar, Berlino-New York 1971; R. Hamilton, Epinikion, The Hague-Parigi 1974; G. F. Gianotti, Per una poetica pindarica, Torino 1975; G. Huxley, Pindar’s Vision of Past, Belfast 1975; M. R. Lefkowitz, The Victory Ode, New York 1976; M. Detienne, Les Maîtres de vérité dans la Grèce archaique (1967), trad. it. Roma-Bari 1977; H. Schmitz, Pindar und die Krise der archaischen Welt, Winterthur 1977; C. O. Pavese, La lirica corale greca (schedario di temi e motivi), Roma 1979; A. M. Komornicka, Studia nad Pindarem i archaiczna liryca grecka, Lódz 1979; L. Lehnus, Olimpiche, Milano 1981; A. Privitera, Istmiche, con comm., Milano 1982; M. Cannatà Fera, Threnorum fragmenta, Roma 1990. Nell’enorme messe degli studi particolari sono stati utilizzati tra gli altri J. Bollack, L’or des rois, «Revue de Philologie» 1963; B.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Gentili, Aspetti del rapporto poeta committente e uditorio nella lirica corale greca, «Studi urbinati» 39 1965; J. Defradas, Pindare poète delphique, «L’information littéraire» 1969; J. Duchemin, Pindare et la Sicile, «Hommage a M. Delacourt» 1972; A. M. Komornicka, Quelques remarques sur la notion d’ajlhvqeia et de yeu'do" chez Pindare, «Eos» LX 1972 e La notion du temp chez Pindare, «Eos» LIV 1976 (cfr. op. cit.). Segnaliamo anche le sillogi: E. G. Schmidt ed., Aischylos und Pindar. Studien zu Werk und Nachwirkung, Berlino 1981; Pindare. Entretiens sur l’antiquité classique 31, VandoeuvreGenève 1985 (in cui H. Lloyd-Jones, Pindar and the After-Life). In Italia la rivista «Quaderni urbinati», diretta da B. Gentili produce assidui contributi.

NOTA EDITORIALE

Il testo usato è quello di Aimé Puech, Les Belles Lettres, Parigi 1949-51 (III ed.; giunto nel 1966 alla VI ristampa), con rarissime eccezioni indicate in nota. Il lettore non ritrova nel testo italiano le vistose antistrofie di quello greco per la stessa ragione per cui non vi ritrova lingua, vocaboli e alfabeto (legittime solo per le vecchie traduzioni in rima, che in questo esercizio esaurivano le loro migliori risorse; ma si tollerava tacitamente che le parole rimate, tranne una, non risultassero nell’originale). Il mirabile contrappunto pindarico tra la rigidezza del metro e il liberissimo ritmo poetico-musicale deve essere restituito con altri mezzi. – Piccolo ma imprescindibile problema è piuttosto quello millenario dell’accento dei nomi propri greci, fastidio delle scolaresche e divertimento dei turisti che, con l’aggravante d’una pronuncia fraterna, ritrovano in loco il «Pelopònneso» e ammirano un «panòrama». La pronuncia «latina», fondata su un uso originario, non può estendersi a tutti i casi in cui l’uso non ci fu mai, o fu contraddetto dall’errore legittimato appunto dall’uso o da una non arbitraria tradizione poeticoumanistica (Foscolo e Monti hanno accreditato un Atrèo o un Giasòne, d’Annunzio e Pascoli un Odissèo ecc.); né la lingua italiana sente un’alternanza come Nèmea nome proprio e «nemèa» aggettivo e così via. Sono state poche volte preferite queste e consimili eccezioni a una «legge» impossibile. La numerazione nel margine destro è quella dell’ed. Heyne (1773), sempre convenzionalmente conservata per le concordanze con gli scholi, e ad essa fanno riferimento eventuali note al testo greco.

OLIMPICHE

LE OLIMPICHE

Le gare dei greci hanno tante analogie quante sono le prove sportive di tutte le civiltà – ludi e circenses, giostre e «pas d’armes» e sports... – ma nessun sinonimo: sono gli agónes. La sola espressione di unità nazionale di un popolo che aveva una superba coscienza della sua peculiarità ma non uscì mai del suo fecondo, drammatico particolarismo. Per questo divennero la più complessa, impegnata e singolare manifestazione sportiva della storia, e la storia non ha più potuto dimenticarla. Gli agoni erano numerosissimi, oltre i quattro «panellenici». Esemplarmente primi furono quelli indetti da Achille per le esequie di Patroclo (Iliade XXIII): catalisi di una tragedia, riposo dal dolore e dall’atmosfera selvaggia del rogo-vendetta; l’origine funeraria rimase impressa per sempre nelle nemee e nelle istmiche. Omero dà la chiave ideale delle gare greche, il nesso eroismo-liturgia-agonismo; per questo le più importanti, le olimpiche, furono senza contrasto attribuite a Eracle. L’olimpiade del 776 a.C., da cui comincerà il computo del tempo per il mondo greco, fu anche per i greci inizio convenzionale, la prima olimpiade in grado di tramandare un nome (Corèbo, vincitore allo «stadio»). Vere prime furono quelle che Pindaro evoca nella decima olimpica, con i cinque nomi mitici – che non significa immaginari – e il maggiore «periodonìca», vincente in tutte le gare, Eracle stesso, ovviamente. Luogo e tempo furono perfetti. Eracle, terminate le «fatiche» e prima di cominciare le grandi avventure, radunò il suo «esercito» nel luogo in cui Pelope aveva conquistato Ippodamia, nell’antica Pisa; finita la grande giornata, racconta Pindaro, si scoprì nel cielo la piena luna estiva. Intorno alla tomba di Pelope Eracle segnò l’Altis, lo spazio sacro che i secoli colmeranno di capolavori. Diodoro Siculo, cresciuto in un’isola e in una città, Agirio, che serbavano profonde tradizioni sulla saga dell’Eroe, ha trasmesso meglio di tutti lo spirito di uno dei più grandi e

PREFAZIONE ALLE

«OLIMPICHE»

fecondi simboli religiosi di tutti i tempi. Eracle, l’uomo-Dio, infranse il privilegio assoluto del divino; fu il primo uomo che «meritò» il cielo e il Dio che conobbe il dolore, la follia, lo smarrimento, l’umiliazione e soprattutto la scelta. Le sue origini, con tutta la circostanzialità e la modestia dell’umano e dello storico, sono le più nettamente evemeristiche di cui si abbia notizia. Il suo simbolo si evolse con il concetto stesso di aretà, di «valore», da quello della giusta guerra a quelli del futuro razionalismo etico. Dei personaggi storici più antichi si ricordavano le conferme degli agoni eraclei; né mancavano vere imitationes, come quella di un certo Milone, greco d’Italia, che guidava la sua truppa con la divisa al completo, corone olimpiche, pelle di leone e clava (Diodoro, XII, 9, 6). Settecento anni dopo, in piena epoca stoicizzante, gli stessi attributi – con la filosofica barba in più – adornano il signorile volto di Commodo. Olimpia non era una città ma solo un santuario, comprendente un complesso di templi in cui preminevano quelli di Zeus e di Era, molti «tesori» e gli edifici necessari al culto e all’amministrazione. La sua neutralità fu sempre rispettata e anche rigorosamente sorvegliata da Sparta. Ai giochi, che si tenevano ogni quattro anni, tra giugno e settembre secondo un lungo ciclo lunare, presiedevano gli «Ellanodíci» («giudici dei greci»), due al tempo di Pindaro, aiutati da numerosi collaboratori. Le gare venivano ufficialmente bandite per tutta la Grecia e in caso di conflitti armati si stabiliva una tregua sacra, la ekecheiría, «le mani ferme». La durata era di sette giorni, più tardi di cinque (come in O. V, 15). Erano quattordici prove, con le variazioni delle sei originarie, e cioè: le equestri (quadrighe, carri trainati da mule, cavalli montati), le podistiche («stadio» di 200 metri, «diaulo» di 400, «dolico» di 2.400); lotta; pugilato; pancrazio (lotta e pugilato insieme) e pentatlo, le «cinque prove»; è da tenere conto che stadio, lotta e pugilato erano doppi, per adulti e per «ragazzi». Il premio consisteva in una semplice corona di olivo selvatico. Naturalmente la gloria conseguita aggiungeva vantaggi lusinghieri e sostanziosi. Pindaro accenna solo a quelli amorosi, a volte. E a volte sorride sul ritorno vergognoso dei battuti. Il ‘tifo’ non mancava di

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«OLIMPICHE»

certo; ma Pindaro rappresenta l’aspetto più aristocratico e soprattutto ideale di quelle gare, con la fede che sappiamo; perfino il pubblico lo chiama, come fu quello di Eracle, «esercito». Ma quella fede ne enucleava il significato più profondo e perciò più autentico. Il successo di Pindaro fu una manifestazione inconscia di gratitudine. Questo luogo di incontro fu anche una grande fiera che rispecchiò il costume di un millennio di civiltà. Col tempo, l’aspetto laico si fece sempre più invadente e il pubblico sempre più internazionale. Ma dalle gare, come prima i «barbari» cioè i non greci, più tardi furono esclusi anche gli ex barbari, romani compresi; ciò non diminuì il loro rispetto. Orazio ne parla come se fossero ancora quelle del suo Pindaro e Nerone – unico nome straniero nell’elenco dei vincitori – si comportò (a non dar retta alle fonti romane, influenzate dal dispetto dell’aristocrazia) con impegno e umiltà. Letture pubbliche, conferenze, esibizioni di ogni genere e diatribe di filosofi ne fecero una specie di Montmartre e di Hyde Park del mondo mediterraneo. Al tempo di Luciano, il caso di Peregrino che si arse vivo per dimostrare la bontà della sua filosofia fu certo più memorabile delle venerande prove ormai troppo ginniche e, rispetto alle gladiatorie di Roma, anche povere di aretà guerriera. L’anno della loro fine fu esatto come quello dell’inizio, il 393: ultima celebrazione e immediato editto dell’imperatore cristiano Teodosio che interdiceva ogni festa «pagana». Una trentina d’anni più tardi Teodosio II ordinò l’abbattimento dei vecchi templi, compresi quelli di Olimpia. La statua di avorio e oro di Zeus, opera di Fidia, trasportata altrove, affondò in un naufragio. Il lento lavorio della vita e della natura cancellò ogni traccia visibile di Olimpia. Gli scavi furono iniziati solo dopo e poco dopo la liberazione della Grecia dai turchi, nel 1829; ma il «paesaggio delle rovine» fu creato nel pieno meriggio del glorioso storicismo e umanesimo del secolo (dopo il 1875). Nello stesso spirito fu ripristinata anche la prova sportiva internazionale, per iniziativa soprattutto di Pierre de Coubertin (1896), simbolo della solidarietà e fraternità dei popoli. Le due guerre mondiali, in cui fu ovviamente sospesa, non l’hanno fatta dimenticare.

[I] PER IL «RE DI SIRACUSA»

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OLIMPICHE, I [PER IL «RE DI SIRACUSA»]

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OLIMPICHE, I [PER IL «RE DI SIRACUSA»]

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OLIMPICHE, I [PER IL «RE DI SIRACUSA»]

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OLIMPICHE, I [PER IL «RE DI SIRACUSA»]

[II] PER TERONE DI AGRIGENTO

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II [PER TERONE DI AGRIGENTO]

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II [PER TERONE DI AGRIGENTO]

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II [PER TERONE DI AGRIGENTO]

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II [PER TERONE DI AGRIGENTO]

[III] PER TERONE NELLE «TEOSSENIE»

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III [PER TERONE NELLE

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III [PER TERONE NELLE

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[IV-V] PER PSAUMIDE DI CAMARINA

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IV [PER PSAUMIDE DI CAMARINA]

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V [PER PSAUMIDE DI CAMARINA]

[VI] PER AGESIA E GLI IAMIDI

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VI [PER AGESIA E GLI IAMIDI]

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VI [PER AGESIA E GLI IAMIDI]

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VI [PER AGESIA E GLI IAMIDI]

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VI [PER AGESIA E GLI IAMIDI]

[VII] PER DIAGORA DI RODI

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VII [PER DIAGORA DI RODI]

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VII [PER DIAGORA DI RODI]

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VII [PER DIAGORA DI RODI]

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VII [PER DIAGORA DI RODI]

[VIII] PER ALCIMEDONTE DI EGINA

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VII [PER ALCIMEDONTE DI EGINA]

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VII [PER ALCIMEDONTE DI EGINA]

[IX] PER EFARMOSTO DI OPUNTE

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IX [PER EFARMOSTO DI OPUNTE]

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IX [PER EFARMOSTO DI OPUNTE]

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IX [PER EFARMOSTO DI OPUNTE]

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IX [PER EFARMOSTO DI OPUNTE]

[X-XI] PER AGESIDAMO DI ARCHESTRATO LA PROMESSA

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X [PER AGESIDAMO DI ARCHESTRATO. LA PROMESSA]

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X [PER AGESIDAMO DI ARCHESTRATO. LA PROMESSA]

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X [PER AGESIDAMO DI ARCHESTRATO. LA PROMESSA]

[XII] PER ERGOTELE E PER LA TYCHE

[XIII] PER SENOFONTE E PER CORINTO

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XIII [PER SENOFONTE E PER CORINTO]

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XIII [PER SENOFONTE E PER CORINTO]

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XIII [PER SENOFONTE E PER CORINTO]

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XIII [PER SENOFONTE E PER CORINTO]

[XIV] PER LE CARITI E PER ASOPICO

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XIV [PER LE CARITI E PER ASOPICO]

NOTE ALLE OLIMPICHE

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[I] PER IL «RE DI SIRACUSA» L’inno per Ierone, signore di Siracusa, vincitore al «celete» nel 476, suscita come nessun altro l’immagine, cara a Pindaro, del tempio: luce meridiana, grandiosità, commossa impersonalità. Si svolge in ampie «sacre volute», si apre e si chiude con simboli di elezione: l’oro, l’acqua, le «frecce» della poesia. Vi campeggia, come nel frontone est del tempio di Zeus a Olimpia, il mito più antico tra quelli legati al santuario, quello di Pèlope; ma con una aperta revisione teologica che doveva essere, per un contemporaneo, la cosa più solenne dell’ode. La parola tramandata, il «mito», diceva che Pelope era stato ucciso dal padre Tantalo e offerto in cibo agli Dei, ospiti ignari, e che Demetra si era anche cibata del suo omero. Gli Dei punirono l’empio, e il corpo di Pelope, immerso da Cloto – una delle Dee della morte – in un lebète di bronzo, era stato ricostituito con l’omero in avorio. Questa è la visione che affiora subito alla memoria del poeta, con i rari particolari essenziali e immobili, come una metopa arcaica; su questa Pindaro getta subito un velo di illuminismo pio. Sono queste le mense degli Dei? alle quali non è sempre l’uomo, l’ospite? e Pelope non fu amato da Posidone come i fatti dimostrano? Dunque la sparizione di Pelope ebbe una spiegazione ben più logica: l’assunzione in cielo, con l’analogia di Ganimede. La hybris di Tantalo resta, più interiore, più moderna e non meno grave: l’ingratitudine. Il più beneficato degli uomini, donato dell’immortalità, rispose con la profanazione. Il furto del cibo divino, dato ai mortali, non fu per amore come quello del fuoco da parte di Prometeo, ma fu l’odio del servo offeso dalla generosità del padrone. La sua immortalità divenne, paradossalmente, dolore. Nelle teologie primitive l’inferno non è per i mortali, è per Lucifero ma non per Caino. All’opposto, la vera immortalità di Pelope fu dovuta al merito, alla sua primaria scelta eroica (vv. 113-116). Le origini paterne restano come uno sfondo buio su cui spicca la sua giovinezza luminosa. Su questo piano è posto Ierone. Forse, promettendogli la vita felice degli Eroi, Pindaro pensa a una regno oltremondano, ma non lo dice. Non c’è qui nulla della confidenza commossa né del chiaroscuro affettivo di tante altre odi. Il poeta si sente in una reggia, come quella dei Feaci, «stacca dal gancio» la lira come Demodoco, canta e augura più grandi trionfi. Nessuna allusione alle due vittorie precedenti del re, alla sua ascendenza, neppure al grande fratello Gelone morto da appena un anno. Meno che mai si accenna alle controver-

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sie dinastiche che ora probabilmente (ma le cronologie sono incerte) si erano concluse, con le nozze progettate tra Ierone e la nipote di Terone di Agrigento. Occasione che spiega molto meglio il parallelo quinto epinicio di Bacchilide. Le nozze di Pelope suggeriscono delicatamente un’analogia meno adulatrice e più lusinghiera. v. 11 spiriti sapienti: espressione cortese e generica. Non possiamo non pensare a Simonide, Epicarmo, Eschilo, anche se presenti in tempi diversi e non facilmente determinabili; e a Bacchilide che mandava da Ceo, per la stessa vittoria, il suo quinto epinicio. v. 23 Ferenico: il cavallo vincitore, in questa e nelle gare pitiche precedenti. v. 52 Sipilo: nella Lidia, presso Smirne, sul quale in età storica si indicava ancora il trono di Pelope (Pausania V, 13, 7). v. 58 Ganimede: il bellissimo efebo rapito da Zeus all’Olimpo dove ora è coppiere degli Dei. Cfr. O. X, 141. v. 85 Quarta delle sue pene: l’immortalità stessa, secondo molti commentatori; il discorso in sé fa pensare alla «pietra», cioè all’angoscia. Due pene morali che si aggiungono bene alle due fisiche con cui si sintetizza spontaneamente il famoso supplizio descritto da Omero (Odissea, XI, 582 sgg.), la fame e la sete. v. 123 cavalli alati: sulla larnax (cassa) arcaica detta di Cìpselo conservata nel tempio di Eracle di Olimpia, un fregio rappresentava «Enomao che insegue Pelope che tiene Ippodamia; ognuno ha due cavalli, ma quelli di Pelope sono con le ali» (Pausania V, 17, 7). Le figure del frontone orientale del tempio di Zeus è incerto se Pindaro abbia fatto a tempo a vederle. v. 126 sei figli: due dei quali furono Atreo e Tieste. vv. 128 sgg. con tutti partecipa: presente nel Pelopion, la tomba-santuario al centro dell’Altis di Olimpia, istituita poi da Eracle (descritta da Pausania V, 13, 17). Cfr. O. X 38 e 63. v. 148 il tuo agile carro: la vittoria alle quadrighe era la più ambita, e Ierone l’otterrà nel 468, ma verrà celebrata da Bacchilide (III epinicio).

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[II] PER TERONE DI AGRIGENTO Olimpiade settantasei (476 a.C.), quella dei vincitori memorabili, Ierone di Siracusa (v. O. I) e, ora, Terone signore di Agrigento vincitore alle quadrighe. Pindaro è venuto a celebrare il fratello dell’amico Senocrate (v. P. VI, del 490) e zio dell’amato Trasibulo (v. I. II, del 470), divenuto il maggiore degli Emmenidi e uno dei signori più grandi dell’Ellade, soprattutto dopo la memorabile vittoria di Imera sui Cartaginesi (480). Ma non sono mancati i contrasti e i dolori; recentemente, il figlio Trasidèo era stato malamente cacciato da Imera, perduta per la signoria Emmenide, e il genero Polizalo aveva preso le armi contro di lui e il proprio fratello Terone; il poeta Simonide aveva portato pace, ma il Tempo – un motivo che aleggia sempre intorno all’ode – aveva mostrato la sua onnipotenza e imprevedibilità. Questo sa bene Terone, che è vecchio ormai, troppo sensibile alla vanità delle rivincite. Si deve pensare a cose più grandi, molto più grandi del presente e di una vita mortale; alla stirpe, che attinge all’origine assoluta del mito, e che ha provato tutte le vicissitudini della sorte; ma più ancora a se stessi, alla suprema realtà dell’anima. Mai Pindaro ha parlato con tanta ampiezza e commozione di questo «mistero» per cui non c’è mai abbastanza degno silenzio. Ed ha cura di rappresentarlo soprattutto come un Wahlhalla, dove vivono gli Eroi, come Cadmo, capostipite comune, o Achille. Non si parla delle imprese di Terone, di ciò che «ha fatto», ma di ciò che «è», del suo «essere» guerriero. Concezione non così arcaica o unica; anche il cristiano Dante privilegia così, fin che gli è possibile, i santi del cielo di Marte o la stirpe imperiale che deriva il suo diritto dalla «virtù» guerriera dei Romani (De Monarchia, II, 3). Poesia, fede e spirito eroico si trovano così congiunti che forse l’ira di Pindaro verso i «dotti rapaci» non è tanto personalistica o letteraria come si è creduto. La scienza «nativa» non è solo il moderno genio; resta confusa col destino trascendente trasparito come una visione. vv. 2-3 un Dio, un Eroe, / un forte?: climax decrescente e risposte scontate (il pronome dell’originale non presuppone una «scelta»): essi saranno, rispettivamente, Zeus, Eracle e Terone. v. 18 Figlio di Crono e di Rea: Zeus. v. 36 figlie di Cadmo: Sèmele, che volle vedere Zeus – da cui aveva concepito Dioniso, «il figlio cinto d’edera» – in tutta la sua luce e ne fu folgorata, ma poi venne assunta nell’Olimpo; e mo (v. 45), che si gettò in mare col figlio Melicerte e vennero trasformati in divinità marine, Leucotea e

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Palemone. v. 59 il figlio tragico di Laio: Edipo. Invano Laio, a cui l’oracolo delfico aveva predetto la morte per mano di un figlio, cercò di eliminarlo alla sua nascita. Molti anni dopo, questi, ignaro, uccise Laio in una rissa, gli successe come re di Tebe, ne sposò la vedova, cioè la propria madre Giocasta, ne ebbe quattro figli, Antigone, Ismene, Eteocle e Polinice. Alla rivelazione della verità Giocasta si uccise e Edipo si accecò. La maledizione delle Erinni continuò sui figli maschi, che si combatterono e si odiarono per il regno e si uccisero reciprocamente. È la saga che ha ispirato Eschilo (Sette contro Tebe), Sofocle (Edipo re e Edipo a Colono) ed Euripide (Le Fenicie). Il discorso, senza accennare alla nobiltà catartica di Antigone, prosegue diritto e rapido sul motivo del ghenos, che rigermogliò con Tersandro, figlio di Polinice e di una figlia di Adrasto re di Argo e avo lontano di Terone. v. 72 il figlio di Enesìdamo: Terone. Cf r. O. III, 15. v. 76 ai due fratelli: Terone e Senocrate, vincitore questi a Pito (nel 490) e sull’Istmo. vv. 134 sgg. Si contrappongono i poeti della verità – simili all’aquila di Zeus, e tale è lui, Pindaro – «miti» nel cuore e dotati di «sapienza» nativa, a quelli che poeti non sono perché avidi e «striduli». Che questi fossero precisamente e precipuamente Simonide e Bacchilide è opinione antica e diffusa, corroborata dal duale dei codici (espunto però nel testo qui seguito). v. 145 nei suoi cento anni: la fondazione di Agrigento veniva datata nel 582.

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[III] PER TERONE NELLE «TEOSSENIE» Sono le «Teossenie» – festa conviviale a cui assistevano, visibili nelle loro immagini, gli Dei – nell’anno della grande vittoria olimpica di Terone, il 476 (v. O. II), quasi certamente nella sua dimora agrigentina. Gli Dei presenti sono quelli particolarmente cari ai Dori di Sparta, Elena e i Dioscuri. E da loro, il poeta lo sente, provengono le vittorie e la gloria degli Emmenidi. Le Teossenie si tenevano alla luna nuova. Le gare di Olimpia al plenilunio. La luna, astro e divinità, visitata da Eracle, avvicinata dal mito, domina il cielo dell’ode. v. 17 l’uomo dell’Etolia...: il giudice delle gare, l’«ellanodico», conservava idealmente la patria dell’etolo Ossilo a cui gli Eraclidi donarono la regione di Olimpia, l’Elide. v. 27 il luogo di Zeus: o il «bosco» di Zeus, l’Altis, lo spazio dove sorgeva il complesso degli edifici sacri di Olimpia. E allora, appena istituito, non aveva che le are di Zeus: Eracle lo provvide delle indispensabili piante (non dimentichiamo che le gare si tenevano in piena estate), per le quali rifece il viaggio al Danubio. v. 44 Zeus, padre segreto di Eracle, gli aveva imposto, per mezzo dell’oracolo, l’assoluta obbedienza a Euristeo che lo sottopose spietatamente alle famose «prove», con le quali l’eroe meritò l’immortalità. Una di queste fu la cattura della cerva che Taigeta, figlia di Atlante, aveva consacrato a Ortosia, la luna divina, o Artemide («figlia di Leto» dice Pindaro con una insistenza rituale per noi inerte).

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[IV-V] PER PSAUMIDE DI CAMARINA Psàumide di Acrone ha vinto nel 456 la corsa dei carri trainati da mule (V, 6); nello stesso anno o nell’Olimpiade seguente (452) quella delle quadrighe (IV, secondo il titolo dei manoscritti, notizia però messa molto in dubbio. A complicare le cose è stata non meno messa in dubbio la stessa autenticità dell’ode, su cui la tradizione antica non fu concorde). Pindaro è dunque vecchio; e il felice Psaumide non è più giovane. Il mito è un aneddoto, la risposta che Ergino, il più anziano tra gli Argonauti, diede a Ipsìpile che, con le altre donne, si preparava a fargli onta per le sue chiome grige; le parole, o meglio il sorriso animoso che s’indovina e che un autore più moderno avrebbe sentito il bisogno di dire, confermarono, non meno della vittoria, la sua giovinezza. Si pensa per un attimo a certe vecchiezze cavalleresche, al motto di Maestro Alberto in Boccaccio. Ma veramente giovane è la patria, Camarina, antica colonia siracusana dalle drammatiche vicende, che Pindaro, vent’anni prima, aveva visto (si direbbe dalla familiarità con cui parla dei luoghi) distrutta e spopolata. Rinasce, nutrita dall’acqua e dagli Dei. [IV] v. 29 il figlio di Climeno: Ergino. Il «motto» avvenne alle gare indette da Ipsipile a Lemno in onore della memoria del padre Toante. [V] v. 4 figlia dell’Oceano: Camarina è una ninfa, eponima della città. v. 11 dei sei duplici templi: di Olimpia (Zeus-Posidone, Era-Atena, ErmeteAfrodite, Canti-Dioniso, Artemide-Alfeo, Crono-Rea). Cf r. O. X, 37 e 66. vv. 20-21 stazzi / di Pelope e di Enomao: la gara mitica è evocata da Pindaro nell’olimpica I, 94 sgg.

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[VI] PER AGESIA E GLI IAMIDI Agesia di Sòstrato, vincitore col carro delle mule, della stirpe particolarmente illustre e diffusa degli Iàmidi, eredita – dall’origine – «l’oracolo del fuoco» a Olimpia, discende da un ecista di Siracusa, è luogotenente di Ierone; troppe coincidenze, diremmo noi, mirabile coerenza di cose, diceva Pindaro; e la completa. Per parte di madre, Agesia si ricongiunge a Stìnfalo (ai piedi del monte Cillene) e perciò al culto e alla protezione di Ermete, e a Metòpa, madre perenne della patria di Pindaro; Stinfalo, con Siracusa, è una delle due principali ancore che tengono ferma la nave di Agesia in caso di tempesta. Non sappiamo se l’immagine fosse allusiva e augurale. Ma pare che niente facesse prevedere la tragica fine del luogotenente alla morte di Ierone (466). Né sappiamo l’anno dell’ode, cioè se il 468 (olimpiade 78) o il 472. (Certo non il 476 in cui Pindaro si trovava a Siracusa.) All’origine dei legami di familiarità sacrale e favolosa c’è una nascita, quella del capostipite, Ìamo, figlio di Pìtane e di Apollo, contrastata e divina come quella di Pitane stessa, generata da Evadne e Posidone. Nascita segreta, senza testimoni, circonfusa di una luce straordinaria che la isola per sempre: è una luce di viole, perché il nome ha questo significato. Anche un contrasto di ritmi di movimento lo chiude come in una grotta: intorno è irruenza, ira, viaggi, appelli, odio e pacificazione divina; all’interno, la rarità dei gesti e degli oggetti (l’urna, la cintura). Il secondo quadro – non si sa, non c’è, non manca altro di Iamo – è altrettanto intenso: un immenso notturno, in cui l’efebo domanda o esige dall’avo una missione. Sarà una missione religiosa. Per sempre, dietro al velo sacro, resterà l’eredità eroica. vv. 1-5 L’inno sarà un palazzo (mègaron) vistoso, di cui, subito, si offrono (come un protiro, il portico antistante) i titoli – veramente eccezionali – del campione. vv. 18 sgg. Agesia, indovino e campione, ha il suo modello in Anfiarao, indovino e guerriero, il più spesso evocato da Pindaro tra i sette Eroi della spedizione che è argomento dei Sette contro Tebe di Eschilo e delle Fenicie di Euripide. Adrasto, re di Argo,fu l’unico superstite; Anfiarao non cadde sotto le mura ma fu inghiottito dalla terra (con questo, le pire restano sette, come anche in N. IX, 54). Questo capitolo della complessa saga tebana fu più volte richiamato dal poeta, a un uditorio a cui era familiare, per scorci ricchi di pathos (v. P. VIII, 55 sgg.; N. IX, 37-61 e note; N. X, 15-17). vv. 33 sgg. Finti: l’auriga vittorioso. Ora, col poeta, continuerà la corsa, oltre

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lo stadio, lontano nello spazio e molto di più nel tempo: fino all’Eurota, a Sparta, all’origine del «sangue», cioè nel luogo in cui Pitane concepì Evadne. E poi si andrà all’origine degli avi materni di Agesia, a Stìnfalo, che ora è città e lago e fu ninfa, madre di Teseo; e non ci si avvede che a volte, nel percorso mitico, si è tornati dove si era, ai piedi del Cronio. v. 39 Pitane: ninfa eponima di uno dei sei quartieri di Sparta. v. 46 al figlio di Èilato: è Epito, re dell’ignota Fèsana in Arcadia. In età storica se ne indicava la tomba alle falde del Cillene (Pausania VII, 4 e 1617). v. 65 Ilitia: la divinità che presiede alle nascite. vv. 72 e 86-87: veleno d’api: un prodigioso miele, suggerito probabilmente dalla falsa etimologia di Iamo da iós (veleno), che non contrasta con quella di íon, la viola, ma la completa: così si fondono l’idea del serpe ctonico e quella del miele, entrambi profetici, e si accentua e si svaria il colorismo della visione. v. 102 duplice tesoro di profezia: la voce del Dio e la divinazione per mezzo delle fiamme delle vittime arse (la «empiromanzia»); «tesori» inesauribili (e, ovviamente, tutt’altro che in concorrenza) piuttosto che poco precisabili. v. 107 del Padre: Zeus, da cui Alcmena, sposa di Anfitrione figlio di Alceo, concepì l’eroe divinizzato. v. 139 e ora, Enea: probabilmente il maestro del coro (ed era quasi certamente di Stinfalo e pare appartenente agli Iamidi). Dimostrerà con i fatti l’ingiustizia dell’espressione «scrofa tebana» indirizzata ai compatrioti di Pindaro (della proverbiale ottusità dei Beoti è rimasto fino ad oggi il ricordo). vv. 151-153 Il colorismo, intonato all’ode, allude a particolari dell’iconografia sacra.

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[VII] PER DIAGORA DI RODI Il pugile Diàgora fece notizia: di statura gigantesca, vittorioso a tutte le quattro gare, padre di un campione altrettanto gigantesco e pure onusto di vittorie, e zio di altri due campioni, impose onori eccezionali: statue per lui e la famiglia, un trionfo famoso ancora al tempo di Cicerone (Tusculanae I, 16), e il privilegio concesso a sua figlia di assistere ai giochi, unica fra le donne. Diagora viene da Rodi e appartiene alla famiglia degli Eratidi, possiamo credere risalente all’invasione dorica, se viene evocata la memoria tragica di Tlepòlemo, che emigrò per un delitto commesso. Delitto dovuto all’ira, atto isolato nel mito come un lampo nella notte; e il mito, senza spiegarlo né giustificarlo, lo ha purificato. Fu l’oracolo a indicargli la grande meta, Rodi, la più privilegiata delle isole, possesso particolare del Sole, sorta dal mare dopo che tutte le terre erano state divise tra gli altri Dei. Il sole dona; e a Rodi ha donato, più che imposto, il culto di Pallade, quando la Dea nacque e nell’isola avvenne esattamente una grande pioggia d’oro. I felici abitatori obbedirono, ma dimenticarono – non era poco – il fuoco rituale; fu premiata anche la smemoratezza e Pallade stessa donò il genio della tecnica gratuita, leonardesca. L’ultimo verso ricorda che anche i fiori cadono, che il sole può velarsi; averne coscienza, è il prezzo e la condizione della felicità solare. (Gli scolî informano sulla data della vittoria – la 79ª olimpiade, in cui vinse pure Senofonte di Corinto, cfr. O. XIII; anno 464 – e sull’onore eccezionale che l’ode ricevette, di essere trascritta in lettere d’oro nel tempio di Atena a Lindo.) vv. I sgg. Al rito delle nozze il padre della sposa libava in una coppa d’oro e poi la donava al genero. Così il coro disposa la poesia ai vincitori che celebra. vv. 25-26: presso l’Alfeo / e la fonte Castalia: a Olimpia e a Delfi. vv. 28-29 innanzi al promontorio / dell’Asia vasta: dunque a Iàliso, quella delle tre città principali e originarie dell’isola che è di fronte al promontorio chiamato Cinossema (Strabone XIV, 2, 14). vv. 34 sgg. Tlepolemo: già in Omero (Iliade II, 635-670) figlio di Eracle, uccisore del vecchio Licimnio, poi fuggiasco per timore della vendetta e infine colonizzatore e sovrano di Rodi. In Pindaro c’è il particolare, di stile arcaico, dell’oleastro, l’ira oscura, l’oracolo e, soprattutto, il mistero e perciò anche la provvidenzialità degli eventi. E così il racconto è « più vero » (v. 33).

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vv. 54 sgg. di andare...: quella che in Omero è una fuga «travagliosa», qui è un itinerario sicuro, anche se verso una terra ancora senza nome e indicata da un prodigio, la pioggia d’oro avvenuta alla nascita di Pallade (dal capo di Zeus, percosso dalla scure di Efesto); «segno» che le consacrò l’isola, famosa per «l’arte» (restava il ricordo di statue «vive», quasi semoventi; una leggenda diceva che venivano legate perché non fuggissero). v. 124 il riscatto di Tlepolemo: ci fu un culto associato a gare funebri, ma non c’è ricordo di un suo sepolcro (del resto, secondo Omero, l’eroe morì a Troia, v. Il., V, 655 sgg.). vv. 134-139 Le vittorie secondarie sono indicate dai premi che venivano conferiti; il «suffragio delle steli» allude all’uso di incidere su pietre i nomi dei vincitori. v. 141 Atabirio: il monte più alto di Rodi, su cui sorgeva un tempio di Zeus. v. 151 Callianatte: personaggio fondamentale e per noi ignoto della ascendenza del campione.

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[VIII] PER ALCIMEDONTE DI EGINA Inno per la vittoria (alla lotta) di un ragazzo, Alcimedonte, della famiglia dei Blepsìadi di Egina, avvenuta (attestano gli scolî) nel 460. È il fratello di Timòstene, già vincitore a Nemea. Il padre, Ifìone (non può essere altri l’ombra che nell’Ade comunica la lieta notizia), è morto. Il nonno dei due giovani è sopravvissuto; e per consolare quella vecchiezza è anche giusto che quattro ragazzi sconfitti tornino desolati, cercando di non farsi riconoscere, alle loro patrie. Il luogo del canto è controverso. Olimpia, così esaltata, o Egina? Ma i particolari minori e inavvertiti, che non ricevono altra luce che dal reale – questa città, qui presso l’Istmo – accertano un’ambientazione a Egina che dà un significato ai grandi quadri e ai grandi sottintesi. La piccola isola, «difesa dal mare», si fa il centro di un mondo, anzi del mondo giusto, illuminato da quelle vittorie di Olimpia, dall’antichità della tradizione – con Eaco si va anche oltre i confini della storia – e da un augusto presente: la missione di giustizia internazionale che Egina rappresenta. Tutto questo è detto in faccia ad Atene e al suo minaccioso espansionismo. Ma nella città della giustizia non si può non essere sempre giusti, e bisogna riconoscere anche il grande merito dell’aliptes, Melesia, che è ateniese. L’inno assume improvvisamente un tono minore, addirittura grazioso; e alla fine si sente che a questo grande educatore di atleti dorici viene ufficialmente perdonato di essere un compatriota di Pericle. v. 3 profeti: della stirpe Iàmide, celebrata nella O. VI. L’apertura in chiave di «verità» non può essere casuale né generica, anche se è vero che le gare rivelano l’autentico valore degli uomini. Ma qui si parla anche d’una «grazia» del futuro concessa per buone intenzioni; forse al giovane orfano i segni profetici avevano, eccezionalmente, fatto balenare un’approvazione o un incoraggiamento alla gara. v. 24 Temide: Dea della giustizia, figlia e páredros di Zeus. vv. 35 sgg, Eaco: figlio di Zeus, l’eroe egineta per eccellenza, e anteriore alla colonizzazione dorica (perciò la preposizione ejx dell’originale è spesso tradotta con «dopo»; Pindaro non parla di discendenza ma di epoca. Qui l’eroe è strettamente associato a due divinità, Apollo che profetizza per lui, Posidone che lo riaccompagna, entrambi che lo vogliono con loro all’edificazione delle mura di Troia («Pergamo», V. 47). Subito fu rivelato il destino dell’opera, la sua distruzione, ma per glorificare la discendenza di Eaco, i figli («i primi»), Telamone e Peleo, che aiutarono Eracle

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alla prima espugnazione, e poi Neottolemo «i quarti») che dopo la morte del padre Achille ebbe parte fondamentale nella distruzione definitiva di Troia e fu l’uccisore di Priamo (Apollo «vede» le quattro generazioni e perciò conta pure Eaco, rispetto a cui i figli sono ovviamente «i primi» ma i pronipoti «quarti»). I tre serpi simboleggiano, a una intuizione immediata, gli assalti, cioè le vicissitudini e la lunghezza della lotta. Secondo molti, forse con astrazione teologica poco greca e per tutelare l’infallibilità del divino, i serpenti rappresenterebbero le tre parti dell’opera, di cui solo quella umana può essere abbattuta. v. 93 l’Annuncio: personificato, come altrove, nell’Olimpica XIV, 26, la Eco. v. 94 Callimaco: un altro illustre e sconosciuto morto dei Blepsiadi. v. 99 Nemesi: l’oscura, pessimistica «vendetta» che la sorte opera sulla fortuna umana.

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[IX] PER EFARMOSTO DI OPUNTE Il campione celebrato non difetta certo di meriti: è un «periodonìca», un vincitore di tutte le prove. Ciò che difetta è l’ambiente e il momento: la vittoria olimpionica (468) è passata da due anni e la celebrazione è fatta a Opunte, cittadina della Locride di fronte all’Eubea, della quale non solo l’archeologia tace, ma gli antichi stessi non possono ricordare di notevole che i begli alberi qui esaltati da Pindaro (il turista, che passa sull’autostrada, non vede più neppure quelli). È pensabile che il poeta senta che questo pubblico paesano, credendosi sproporzionato allo sfarzo dei miti, li aspetti con un po’ d’ironia. E Pindaro sta al gioco. Il «canto d’Archiloco» – il minimo della celebrazione olimpionica – bastò a Olimpia; qui ci sarà ben di più. Una pioggia di «strali» di poesia minaccia gli obiettivi più ardui; e infatti, dopo la scontata gnome, una grandiosa, inattesa guerra di Eracle contro gli Dei...; gioco scoperto. Invece, proprio a questo punto, l’imprevisto: si spengono le luci, si tace, si nega il già detto: errore, blasfemia. Ecco a che cosa porta la fantasia incontrollata, alla «triste sapienza» degli empi o, diciamolo pure, dei razionalisti. Un tratto di alta eloquenza sacra, alla Bossuet. Il pubblico è rimasto épaté, oltre che edificato. Il motivo dell’antifantasia riprende (vv. 96-99) e domina tutta l’ode. Ciò senza alcun contrasto con il mito (il diluvio, la coppia superstite che riproduce gli uomini con un lancio di pietre, la nascita – questa non miracolosa – di Protogenìa, l’intervento di Zeus per continuare la stirpe...); miti locali, immersi nel folclore, «visibili» nei luoghi, non erano certo «fantasia». Non sono però, quei miti, troppo chiari per i moderni. Pare che Protogenia avesse da Zeus un figlio, Opunte I, padre di una Protogenia II che a sua volta ebbe da Zeus un Opunte II, adottato da Locro con commozione (ed è bene ricordare che a Opunte vigeva, ancora al tempo di Pindaro, il matriarcato). Ancora meno chiaro il rapporto tra questi eroi eponimi e il presente, in particolare la famiglia di Efarmosto. Si pensa generalmente che questa ascendenza fosse notissima agli uditori e perciò taciuta; ma forse a torto. Perché tanta insistenza nell’esaltare la «nascita», la phyà? Forse la poca nobiltà di sangue del campione dimostrava, appunto, che tradizione, «insegnamento», ereditarietà, possono essere sostituiti dalla nascita privilegiata, dal «demone», intervento più diretto del divino. E anche con il gesto finale dell’offerta della corona ad Aiace d’Oileo (dall’ascendenza ben meno

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illustre del suo omonimo) si sottolinea l’ethos d’un eroe «nuovo». v. 1 il canto di Archiloco: un inno di Archiloco in onore di Eracle e di Iolao (nel quale ritornava la triplice invocazione kallìnike, «dalla bella vittoria»), era di prammatica per tutti i vincitori delle gare. v. 9 cima d’Elide: il Cronio, conquistato da Pelope (v. O. I). vv. 34-43 I miti che sembrano suggeriti da un «demone» sono inauditi: ma subito il poeta dirà che, in realtà, sono falsi; e tutti i loro singoli attributi (il Tridente, la verga con cui Ade accompagna i morti...) sono abusati. v. 51 la rocca di Protogenia: la città di Opunte, naturalmente. vv. 57-58 popolo di pietra: c’è una paretimologia non traducibile direttamente in italiano: laós (popolo) da láas (pietra). v. 60 Proverbio che probabilmente allude alla novità dell’argomento cantato. v. 66 Iàpeto: progenitore di entrambi i superstiti, Deucalione e Pirra; ma c’è un’altra ascendenza non preteribile sebbene molto imprecisa (almeno per noi), quella di Zeus (i «Cronidi»): pare che nati da lui fossero Locro (asserisce uno scolio) e anche Protogenia. Il plurale ad ogni modo estende il patronimico a molti discendenti, a tutto il ceppo antico. vv. 85 sgg. Il figlio suo: Patroclo. Si allude a una prima e mancata spedizione contro Troia, in cui i Danai, facendo tappa in Misia, «nella piana di Teutrante», vennero respinti da Telefo; ma in questa occasione Achille vide e conobbe il valore di Patroclo e lo scelse compagno e alunno. Fatti narrati nel poema perduto delle Ciprie. v. 101 Lampromaco: parente di Efarmosto e «prosseno» (ambasciatore) di Opunte a Tebe, come informano gli scolî, e lui pure vincitore insieme al celebrato (v. seg.). A tanta e pericolosa abbondanza di argomenti il poeta ostenta di rimettersi in carreggiata ricordando il suo preciso fine e dovere; e accumula subito le glorie di Efarmosto. vv. 120-121 la calda medicina...: il mantello di lana dato in premio ai vincitori delle gare di Pellene; probabilmente espressione popolare.

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[X-XI] PER AGESIDAMO DI ARCHESTRATO. LA PROMESSA Agesidamo ha vinto (al pugilato dei giovani) nell’olimpiade memorabile del 476 (v. O. I, II, III...). Pindaro lo ha visto nel fulgore della vittoria (X, 137) e forse allora, a Olimpia, fece la grande promessa, scrisse cioè l’XI. Poi – congetturiamo – partì per Siracusa, «dunque» non portò con sé le grandi odi celebrative, «forse» fu ospite della famiglia del giovane a Locri (X, 10). Ma la promessa non veniva mantenuta. Il debito cresceva, e con esso, come sempre con i debiti d’affetto, la memoria. La decima lo salda festosamente. Il giovane campione pare non avesse molto alle sue spalle, né prosapia né tradizione; ma c’è il futuro (di cui l’aliptes Ila è garante come Achille di Patroclo), e l’esempio incomparabile di Eracle. Anche allora, all’istituzione delle gare, tutto fu così nuovo, così affidato al tempo, nuovi i campioni, nuova, giovanissima la letizia del convito, quando il cuore si dilatò e scoprì, nel tramonto del giorno, la grande luna. [X] vv. 53 sgg. un frutto: l’interesse dovuto al creditore; ma anche in greco il termine ha i due valori dell’italiano, ora, con gioioso gusto barocco, compresenti. Analogo gusto è nell’immagine seguente: i «ciottoli» suscitavano l’Idea di un conto (come in latino i calculi) che ora il mare sommergerà per sempre. vv. 19-20 Locri d’occidente: o Locri Epizefirii (popolo e città), che sorgeva presso il cosidetto Capo Zefirio, che ha l’approdo esposto ai venti occidentali, da cui il nome, come scrive Strabone (VI, 1, 7); e – aggiunge – «si crede che per primi abbiano fatto uso di leggi scritte», attribuite al sapiente Zaleuco di cui parla molto Diodoro Siculo. È questa «l’esattezza» cui allude Pindaro, comprensiva anche della parola data e della correttezza commerciale. Né ai Locresi mancavano virtù militari e tradizioni poetiche (v. anche qui fr. inc. 2); perciò è in onore la musa Calliope. v. 38 Pelope: v. O. I. vv. 39 sgg. È la quarta impresa di Eracle, secondo Diodoro, e precisa il «momento» della fondazione delle gare. Augia, re degli Epei dell’Elide, rifiutò a Eracle il dovuto compenso per la pulitura delle sue scuderie, e della hybris furono complici i figli di Posidone (e Molione) Cteato e Eurito, prima vittoriosi ma poi eliminati; e la città di Augia fu distrutta. Così si compì la Ate, la giusta pena. v. 63 Altis: v. O.I., 127 e nota.

NOTE ALLE OLIMPICHE

v. 78 la festa del quinto anno: secondo il modo di contare antico; le Olimpiche si celebravano ogni quattro anni, diremmo noi. v. 108 nome della vittoria: come significa «epinicio». v. 116 Dirce: la fonte di Tebe. «Fuori tempo»: nota personale, fugace e, soprattutto per noi, oscura. [XI] v. 19 Locri d’occidente: v. n. a O. X, 1920.

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[XII] PER ERGOTELE E PER LA TYCHE Ergòtele, che ha vinto a Pito nel 470 confermando il trionfo di due anni prima, è di Imera. Troppe cose sono avvenute a Imera in soli dieci anni: la mala tirannia di Tersillo, cacciato da Terone, poi, sotto le sue mura, il trionfo dei Greci sui Cartaginesi con cui cominciò il tempo della giustizia e della pace, tutelato dalle due dinastie alleate e imparentate; la sventurata signoria di Trasidèo, figlio di Terone, e lo sdegno dei cittadini che si appellarono al padre; Trasideo che prese le armi contro di lui e si alleò con Polizalo, fratello e rivale di Terone di Siracusa, e la sua saggezza e durezza, necessarie perché Terone ristabilisse la pace. Ma dopo la sua morte Trasideo non provocato mosse guerra a Ierone ed è stato battuto, deposto e fatto morire. L’amata, antica, consanguinea dinastia degli Emmenidi si è oscurata; ad Agrigento e nella stessa Imera la generosità di Ierone ha concesso l’insicura democrazia. Eventi dolorosi e misteriosi che attestavano la potenza dell’imprevedibile, della Tyche. Ma la Tyche non è per Pindaro quella che sarà per il razionalismo «socratico», il male, perché il bene non era nel Logos ma nell’onnipotenza degli Dei, e il «caso» era abbastanza simile a quello che un cristiano del nostro tempo ha detto «Dio in incognito». Il bene perciò può tornare e tornerà. La sorte di Ergotele, il valoroso che non avrebbe conosciuto la gloria se non fosse stato bandito da Cnosso, è un simbolo e un augurio. v. 6 agorài: l’agorà, la «piazza», come è noto, era il centro della vita pubblica cittadina. v. 7 Le speranze...: anch’esse simili a navi; tutto il periodo poetico insiste sul motivo – che avrà una fortuna singolare in età posteriore – del «mare» della Tyche. vv. 17 sgg. il gallo battagliero...: da combattimento (e il gallo era anche il simbolo della città, impresso sulle monete). vv. 22-23 Cnosso: a Creta. Pare che la partecipazione dei cretesi alle gare panelleniche fosse scarsa. Con tutta probabilità Ergotele fu tra quei «Dori e nuovi cittadini di altro ceppo» che Terone attrasse a Imera alla ricostruzione della città (nel 476 secondo Diodoro, XI, 49: data discussa). La casa del campione doveva essere però a Terme (l’attuale Termini Imerese, 55 km a ovest, dove le famose sorgenti calde sgorgarono per ristorare Eracle da una delle sue imprese siciliane (racconta Diodoro).

NOTE ALLE OLIMPICHE

[XIII] PER SENOFONTE E PER CORINTO La doppia vittoria di Senofonte alla 79ª olimpiade (464, allo «stadio» e al «pentatio»), che fece epoca e sarà ricordata da Diodoro, Dionisio di Alicarnasso e Strabone, è degna degli Oligetidi e di Corinto, città notoriamente sfarzosa e rigogliosa; Senofonte stesso offrì per la vittoria cento etere al tempio di Afrodite, offerta celebrata da Pindaro con un sorriso inesprimibile (è il frammento enc. 3). Le vittorie della stirpe sfidano, senza menzogna, l’iperbole, il mito rasenta, senza varcarlo, ignorandolo o volendolo ignorare, il confine dell’abuso, della contraddizione e della follia. Per un attimo Senofonte si identifica con la sua gente e il «genio» di essa – il daimon genethlios – e con quella di Corinto. E l’antichissima città dorica unifica nel mito la sua storia, la sua potenza, la sua civiltà, le sue gloriose istituzioni civili. La storia per Pindaro è rivelazione, è tutta nelle scaturigini. L’ormai araldico Pègaso, tornato al cielo nelle inesprimibili scuderie di Zeus, testimoniò un giorno il valore e il privilegio del primo eroe corinzio, Bellerofonte, che lo domò con l’aiuto di Pallade e lo cavalcò per lungo tempo. Se il cavallo, per tutte le aristocrazie indoeuropee, fu all’origine il simbolo della gloria guerriera, nessuno mai ebbe cavallo così «demonico». Ma Bellerofonte non conobbe la misura, e lanciandolo al cielo ne fu disarcionato. Orazio, che certo predilesse questa ode, ci vide il simbolo del limite umano. E la tristezza del mondo moderno e «romantico», per il quale il mito è nostalgia, le leopardiane «meravigliose larve». Pindaro invece non vuole ricordare quella morte. La verità è luce, e la duplice vittoria che si moltiplica nei ricordi riconferma l’onnipresenza ideale degli Eroi. v. 1 tre volte: due Senofonte (allo stadio e al pentatlo) e una, quarant’anni prima, il padre Tessalo. v. 5 protiro: cioè il vestibolo della casa greca. E Corinto è come il vestibolo della «casa» che è insieme il tempio e la sede del Dio del mare. vv. 7 sgg. la buona legge...: valori e disvalori sono personificati, come entità in lotta. Temide è la divinità della giustizia. v. 22 Alete: l’eroe dei Dori di Corinto. v. 26 atti di sapienza: le invenzioni-rivelazioni: il ditirambo, dovuto ad Arione, l’arte del cavalcare (nel simbolo di Pegaso), il timpano dei templi, che allude a un’aquila dalle ali aperte. v. 37 innocente: secondo altri in senso passivo, che non può ricevere danno, incrollabile.ù

NOTE ALLE OLIMPICHE

v. 61 del leone: di Nemea, vinto da Eracle. vv. 70-71 Sisifo... Medea: sia il personaggio incomparabilmente astuto e avido, colpito dalla punizione eterna già nell’Odissea, che la terribile maga, sono depurati da tutte le superfetazioni negative della leggenda. vv . 75 sgg. a reciderne il capo: per decidere l’interminabile guerra di Troia, guerrieri di Corinto intervennero, alcuni a favore dei Troiani e altri dei Greci, come Glauco figlio di Bellerofonte che vanta i guadagnati possessi paterni tra cui la fonte Pirene. vv. 126 sgg. I «dardi» della poesia debbono colpire, come era nell’intenzione del poeta, oggetti più prossimi: cioè le innumerevoli vittorie della stirpe, in ogni luogo (tra cui sei a Delfi, «sotto il ciglio del Parnasso» e ancora a Egina, «il santuario degli Eacidi»...).

NOTE ALLE OLIMPICHE

[XIV] PER LE CARITI E PER ASOPICO Asopico, vincitore allo «stadio», è giovanissimo, è orfano, è quasi compatriota e viene da Orcòmeno, la cui grandezza è la memoria dei favolosi Minii e del più antico culto delle Cariti (le Grazie: Foscolo ricordò questa preziosa nozione di storia e fantasia data da Pausania, IX, 35, 39). Nome o patria del campione non risultano per le olimpiadi 7578a (480-468). La cifra data dagli scolî (ol. 76ª, cioè 476) dunque errata: lo sbaglio paleograficamente più probabile della tradizione manoscritta darebbe il 488. v. 2 Cefiso: fiume della Beozia, omonimo di quello di Atene. vv. 8-9 saggezza, bellezza / e luce: secondo il significato dei tre nomi delle Cariti, rispettivamente Eufrosine, Talia (la «fiorente») e Aglaia. v. 20 con gravi pensieri: se si possono interpretare così, nel loro significato usuale e non letterario, le melevtai del testo. Forse personali o forse di tutti, della loro comune, molto provata in questi anni, terra di Beozia; in ogni caso tinta scura che rileva, come quella dell’ombra paterna, quasi altrettanto fugace, la giovane bellezza di Asopico.

PITICHE

LE PITIADI

Se Olimpia ha l’oro della luce e delle messi, Delfi ha il colore del ferro, della roccia e del cielo: dominano il tempio e il folto santuario murato le Fedrìadi, rupi verticali che ancora oggi, come al tempo dello Ione euripideo, crocidano di uccelli rapaci. Un paesaggio di montagne profonde, sacre a divinità profetiche, il Parnasso e l’Elicona, chiude il più antico e misterioso dei luoghi sacri della Grecia. Strane capre dagli occhi spiritati attirano l’attenzione del turista. Diodoro dice che osservando quelle capre demoniache si scoprì il potere mantico della terra, la «prima divinatrice», come dice Eschilo. Da una fenditura uscivano esalazioni inebrianti. Il famoso tripode non era che un supporto, divenuto poi sacro e di forma immutabile, che sospendeva la Pizia tra questi vapori; invasata dal Dio, la profetessa rendeva responsi che i sacerdoti raccoglievano, almeno al tempo di Pindaro e per molte generazioni ancora, in forma ritmata. Il nome del luogo – Pytho – ricordava a un greco insieme la radice di «conoscere» e l’immagine del serpe Pitone che l’avvento o la «vittoria» di Apollo, Dio della luce e della profezia, non dannò ma chiuse nel suo segreto ctonico. La morte era bandita. Gli agoni di Delfi erano i soli a cui mancava ogni memoria funeraria. Questo spirito può aver favorito la crescita di quell’antichissimo seme misterico che in Plutarco sarà esplicito: «Apollo non può ingannare i suoi devoti». La mantica stessa era divenuta una testimonianza dell’immortalità dell’anima. E qui scrisse e ambientò i Dialoghi pitici. Le Pitìadi si celebravano nel terzo anno di ogni olimpiade, in agosto-settembre. Erano aperte da gare musicali e, dopo le consuete prove ginniche, si chiudevano con la corsa delle quadrighe. Al tempo di Pindaro si tenevano nella spianata di Crisa, non sotto il monte dove oggi c’è lo stadio. Erano amministrate da una «anfizionia delfica» a cui partecipavano molte città

PREFAZIONE ALLE

«PITICHE»

della Grecia centrale e settentrionale – tra cui la lega beotica , rappresentate da Hieromnèmones che si riunivano due volte all’anno. Il luogo prestigioso era stato duramente conteso tra i piccoli municipi locali – Delfi, Cirra e Crisa – prima di trovare, all’inizio del sesto secolo, un modus vivendi, ma le mire delle Città non cessarono, e scoppiarono altre «guerre sacre» per l’interessata ma appassionante influenza sul santuario. C’era la solita procedura: l’annuncio, la tregua, i riti, il premio di una corona di alloro, la pianta apollinea, appositamente colta nella valle di Tempe.

[I] PER IERONE E PER ETNA

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[II] PER IERONE

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[III] MESSAGGIO A IERONE

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[IV] PER ARCESILAO RE E PER DEMOFILO

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[V] PER ARCESILAO RE E PER CARROTO

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V [PER ARCESILAO RE E PER CARROTO]

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V [PER ARCESILAO RE E PER CARROTO]

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V [PER ARCESILAO RE E PER CARROTO]

[VI] PER TRASIBULO E GLI EMMENIDI

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VI [PER TRASIBULO E GLI EMMENIDI]

[VII] CONFORTO A MEGACLE

[VIII] PER ARISTOMENE E PER LA PACE

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VIII [PER ARISTOMENE E PER LA PACE]

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VIII [PER ARISTOMENE E PER LA PACE]

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VIII [PER ARISTOMENE E PER LA PACE]

[IX] PER TELESICRATE DI CIRENE

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IX [PER TELESICRATE DI CIRENE]

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IX [PER TELESICRATE DI CIRENE]

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IX [PER TELESICRATE DI CIRENE]

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IX [PER TELESICRATE DI CIRENE]

[X] PER IPPOCLEA DI TESSAGLIA

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X [PER IPPOCLEA DI TESSAGLIA]

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X [PER IPPOCLEA DI TESSAGLIA]

[XI] PER IL TEBANO TRASIDEO

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XI [PER IL TEBANO TRASIDEO]

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XI [PER IL TEBANO TRASIDEO]

[XII] PER IL FLAUTISTA MIDA DI AGRIGENTO

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XII [PER IL FLAUTISTA MIDA DI AGRIGENTO]

NOTE ALLE PITICHE

NOTE ALLE PITICHE

[I] PER IERONE E PER ETNA È il poema della potenza e dell’armonia. Tutto le simboleggia: il luogo, l’occasione, il poema stesso, il suono delle cetre. La musica ascolta se stessa, si celebra, si trasporta nel regno degli Dei, dove la lira di Apollo glorifica Zeus e la pace. Così è in terra nella nuova città di Etna, fondata da Ierone alcuni anni prima secondo una costituzione rigidamente dorica, e dove è re il figlio Dinòmene uscito ora dalla buona tutela di Cromio. È il 470, l’anno della vittoria alle quadrighe del «re di Siracusa» a Delfi; ma la gara è quasi dimenticata. Anche il nesso col mito è più in chiave di simbolo morale che di gioia fantastica: Tifone, Filottete, rappresentano il male vinto e il dolore domato. Il mostro è visibile, udibile, sotto l’Etna; c’è l’idea insieme ovvia e irrazionale che bisogna sempre meritare la sua sconfitta ammonitrice e minacciosa. La parte gnomica finale è la più calda e severa che si ritrovi nella lirica pindarica e si associa alla preghiera a Zeus perché non riporti le prove già gloriosamente superate. L’esempio di Filottete è quasi spontaneo per il condottiero ammalato, trasportato in lettiga sul campo di battaglia, dove il nemico – Trasideo – poteva essere debellato solo da lui e con la sua presenza. E la felicità che l’ora promette è severa, s’identifica con la virtù e con la coscienza di essa e perfino con il suo ricordo. Probabilmente per questa austerità, più moderna e anche più laica, per questa poesia più vicina alla storia che al mito, la tradizione ha dato all’ode il primo posto tra quelle ispirate alle prove di Delfi. vv. 9 sgg. Nell’Olimpo, dove suonano Apollo e le Muse, la musica rapisce tutti gli Dei e assopisce la minaccia (il fulmine, l’aquila) e la violenza (Ares, Dio della guerra). v. 26 le Pieridi: le Muse, che ebbero il primo culto nella Pieria, a nord dell’Olimpo. v. 30 Tifone: il più mostruoso dei nemici domati da Zeus. Il vinto, richiuso nella terra – e sempre connesso con fenomeni vulcanici – fu riconosciuto in vari luoghi dell’Asia. Il poeta ora lo riscopre sotto l’Etna, dove una visita diretta dà perfino oggi la singolare impressione di una presenza animale. E dev’esserci il ricordo recente d’una eruzione (del 475, secondo Tucidide). Cfr. anche i magnifici versi di Eschilo, Prometeo 351 sgg. vv. 59-64 l’araldo annunciò Ierone: con l’epiteto – informano gli scòli – di «Etneo». Augurale avvio, come il buon vento per la nave che salpa. v. 84 le guerre e le battaglie: le più memorabili furono le vittorie di Imera sui Cartaginesi (480) e di Cuma sugli Etruschi (474). vv. 91 sgg. Filottete: figlio di Peante; durante la spedizione di Troia restò a

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Lemno perché piagato a un piede; ma il suo arco (v. 97) era necessario e si dovette supplicare l’ntervento dell’eroe. Argomento della tragedia omonima di Sofocle. La guerra cui allude Pindaro dev’essere quella che fu mossa dal degenere Trasideo (v. O. XII). Chi coprisse il ruolo degli ambasciatori («eroi simili a Dei» nel mito, e furono vari, da Diomede al più adatto Ulisse) non sappiamo e neppure il poeta forse voleva troppo precisare: certo molti, certo la «necessità». «Il grande cuore» che «adulò» (adulazione che l’onorava) dev’essere un intimo: diremmo il cognato Cromio, a cui fu affidata per qualche tempo la città nuova e il figlio. vv. 110 sgg. La fondazione di Etna (o meglio rifondazione della ionica Catane), che fu infatti popolata da 10.000 peloponnesiaci la metà dei quali Dori, continua idealmente la memorabile marcia di Illo figlio di Eracle e di Panfilo figlio del re dorico Egimio. La catena del Pindo è la più lontana e perciò la più antica delle tappe di quella marcia secolare; la sacra Amicla, presso Sparta, li fece vicini dei Dioscuri (i «Tindaridi»), naturalmente anteriori agli uomini e, da allora, culto nazionale dei Dori (v. O. III). v. 127 Amena: che scorre presso Catania. vv. 133-fine: L’ode si chiude con due «lasse» solenni: quella delle vittorie panelleniche, in cui si associano Cuma e Imera a Salamina e Platea («davanti al Citerone»), da celebrare ad Atene e a Sparta (ma prima, a Imera, quella di Ierone); e l’altra della gnome, culminante nei due esempi maggiori: il generoso, favoloso Creso e l’atroce Falaride.

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[II] PER IERONE Ode senza data e senza collocazione. La vittoria ricordata non può essere una pitica perché a Pito non c’era la gara dei puledri (v. 14), e neppure olimpica perché Ierone non risulta tra i vincitori alle quadrighe (v. 8). La vittoria fu in qualche gara secondaria che Pindaro, significativamente, non precisa. Ma fu pretesto più che sufficiente per un saluto d’ammirazione, di nostalgia e di speranza. Quale speranza? Quella dell’affetto, che Ierone fosse all’altezza del suo potere. Per questo, di tante glorie, è ricordato esplicitamente solo il suo intervento che impedì ad Anassilao signore di Reggio di aggredire Locri. Le donne locresi gli sono ancora grate. Ciò era avvenuto nell’anno 477, che si ritiene generalmente la data approssimativa dell’ode; a torto, perché l’annosità della gratitudine la avvalora e l’esempio resta sempre attuale. Piuttosto è da notare che l’azione di Ierone era stata squisitamente politica, mentre per Pindaro era, o meglio gli ricorda che fu, un atto di giustizia. Tutta l’ode è una confessione di idealismo; «sia tu come nel canto ti conosci». In nome di esso il più potente degli uomini e il poeta s’accordano e hanno nemici comuni, o meglio denigratori comuni; «scimmie». Ma senza astio. Nessuno dei famosi trapassi (o «voli») pindarici è così aspro e quasi astratto: la scimmia e Radamanto, cioè l’irresponsabile e il venerabile, il caduco e l’eterno, il nulla nella vita e il trionfo anche al di là della vita. Non è la contrapposizione del male e del bene come negli altri simboli dell’ode, ma dell’essere e del non essere. Esiste solo l’aretà, di cui la storia è semplicemente il terreno (per questo non si fanno nomi storici di vittorie) su cui si è uguali. Uguaglianza che non abolisce la solitudine della responsabilità morale. vv. 10-11 Ortigia...: l’«isola» di Siracusa, dove era anche il tempio di Artemide «dell’Alfeo» per il culto che aveva anche alle foci di questo fiume di Olimpia (perciò «fluviale») che varcava intatto il mare e riaffiorava nell’isola. v. 23 il Dio...: Posidone, dagli attributi male traducibili e, più ancora per un antico, misteriosi. v. 27 Cìnira: mitico re di Cipro e sacerdote di Afrodite; e anche i Dinomenidi avevano il sacerdozio di Demetra e Persefone (Erodoto, VII, 153). Si contrappongono a Issione dei vv. 37 sgg. v. 32 la vergine locrese: di Locri Epizefirii, che l’intervento di Ierone aveva salvato dall’occupazione di Anassilao.

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vv. 38 sgg. Issione: è «l’eroe» particolarmente messo alla prova: uccisore efferato del suocero Eioneo, fu purificato da Zeus e ne fu ospite; e insidiò Era. Anche il falso congiungimento – invece della Dea era una forma aerea – più che un inganno fu una estrema prova. La Ate, la pena, è accennata dopo: con le membra avvinte ai quattro raggi di una ruota, gira vorticosamente e – dantescamente – ammonisce per sempre i mortali. v. 68 la desolata: la «forma» di Era, creatura divina, in qualche modo non fu mera parvenza. Il testo ha «senza Cariti», privazione che dà idea – i termini classici non la rendono più – della ricchezza che esse rappresentavano per l’uomo antico. La contraddizione e la mostruosità di Centauro passarono ai discendenti omonimi, in Pindaro ancora vaghi tra la nube, l’uomo e il cavallo. Precisa invece la sede, le falde del Pelio in Magnesia. vv. 84-85 Archiloco: di Paro, il poeta dell’invettiva, è del sec. VII: Pindaro lo vede perciò «da lontano» nel tempo, ma anche lo «vede» idealmente, come un exemplum; esempio appunto di una colpa che non vuole commettere e di una pena che non avrà (è un po’ quella del Capaneo dantesco, che si punisce col suo odio: Archiloco, l’affamato, col suo rancore). vv. 106-7 ritmo / di Castore: un canto guerriero in uso a Sparta. È dubbio che possa identificarsi con la presente ode. vv. 1103 La scimmia e Radamanto (il re giusto, divenuto sovrano giusto tra i morti) fanno un bel contrasto. v. 124 siepe: della rete. v. 140 che frena: ajnevcei, forse meglio che nel senso, un po’ tautologico, di «solleva». vv. 143 il segno / retto del filo a piombo: immagine oscura e diversamente interpretata. Il «filo a piombo» (o anche la cordicella con cui si segnava una linea diritta, su una parete o sul terreno) è immagine usata più volte da Pindaro nel senso d’una rigorosa giustizia, ispirata dai grandi esempi (v. per es. P. I, 112 e fr. epin. I). v. 147 il giogo: il nobile giogo, coerentemente, del proprio compito.

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[III] MESSAGGIO A IERONE Ode per l’ormai vecchio, sofferente, lontano Ierone. L’affetto e l’ammirazione dell’amico debbono adeguarsi al «condottiero e signore», e si traducono in parole di grandezza, di rassegnazione e di saggezza. Chirone, Asclepio, i meravigliosi guaritori, non sono più; anche la salute dei corpi fu un privilegio dell’età del mito. Ma anche allora gli uomini si mostrarono indegni della vicinanza degli Dei: Asclepio stesso prevaricò, come la madre Corònide. Ierone invece accetterà il dolore e la sorte da forte e da saggio; sa quale glorioso credito di bellezza e di fortuna è stata la sua vita. Sa anche che così si eleverà a quel mondo perduto e parteciperà, per opera della poesia e dell’amico poeta, di quell’immortalità. Solo così si vince la morte; e accettarla è religiosità e conquista. Nessun dato sicuro sulla cronologia dell’ode; il silenzio sulla vittoria olimpica del 476 la farebbe anteriore alla conoscenza personale del re. Ma non si parlerebbe mai così a chi non si fosse conosciuto che da lontano e solo come re. Piuttosto la data dev’essere abbassata il più possibile verso la sua morte (467-6). Del resto il silenzio si estende a tutte le sue vittorie e i suoi trionfi, e non si ricordano che i bei tempi lontani («un giorno») dell’invincibile Ferenìco (vv. 122123). Ma qui non si tratta dei «fatti», che vengono celebrati nelle odi ufficiali, ma dell’«essere» stesso del re, di cui quei fatti furono i segni e gli episodi. v. 8 Chirone, il centauro benefico, è già nell’Iliade. In Pindaro, v. P. IV, 1604; N. III, 88 sgg.; N. IV, 74... v. 12 Asclepio: il Dio della salute che aveva un culto particolare a Epidauro. v. 27 di nascosto dal padre: dunque senza la costrizione, e forse la giustificazione, di nozze regolari. v. 46 il Lossia: Apollo. Notevole rettificazione del mito: in Esiodo (Eoiai) il Dio era stato informato da un corvo. v. 115 etneo: v. P. I, 110 sgg. e nota. v. 123 Ferenico: il famoso cavallo delle lontane vittorie, v. O. I, 23. vv. 126-130 «attraversando la Dirce, dunque, ci sono le rovine della casa di Pindaro, e il sacello della Madre Dindimene, dedicato da Pindaro; l’immagine è di Aristomede e Socrate, artisti tebani. C’è l’uso di aprire il sacello un solo giorno dell’anno e non di più. A me è avvenuto di arrivarci proprio in quel giorno, e vidi l’immagine che è di marmo del Pentelico, e così anclìe il trono» (Pausania, XX, 25, 3). Culto assodato a quello di Pan e delle Cariti; v. fr. part. 3. Personalissimo culto; ed è pensabile che «le vergini» officianti siano le figlie stesse del poeta.

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[IV] PER ARCESILAO RE E PER DEMOFILO La quadriga vincitrice del 462 quella del giovane re di Cirene, Arcesilao IV discendente di Batto. Una dinastia avvolta di memorie e di dramma, e soprattutto straordinariamente legata all’oracolo delfico. L’emigrazione nell’ignota terra africana e la fondazione di Cirene da parte di Batto (intorno al 630) erano state letteralmente imposte e ostinatamente guidate dal Dio. Erodoto che ne parla diffusamente (IV, 153 sgg.) enumera ben nove interventi divini. Nella evoluzione istituzionale delle generazioni posteriori il Dio si era pronunciato sempre per soluzioni moderate e, diremmo noi, non assolutistiche. La ribellione al suo volere era costata stragi, dolori e orrori, ultimi dei quali l’assassinio di Arcesilao III e la vendetta della madre di questi, troppo atroce per non sdegnare gli Dei ed esasperare i rancori; l’attuale re ha i suoi nemici e i suoi sbanditi, uno dei quali è Demofilo, ospite del poeta in Tebe. Questi ne invoca il ritorno e prega per una conciliazione probabilmente non solo pia ma anche realistica, capace di salvare la tradizione e il titolo simbolico piuttosto che il vero potere regio. Non è da escludere che interpretasse così una profezia che annunciava questo Arcesilao come l’ultimo dei re di Cirene; la missione delle «otto generazioni di uomini» poteva terminare con la pace. Non era, nell’immensità del tempo, che una fase della vita della stirpe. La «storia» – come la intendeva Erodoto – sapeva che Batto era discendente diretto di Eufemo, uno dei Minii che, già profughi da Lemno, dopo una breve e burrascosa permanenza in Laconia, parteciparono con Spartani guidati da Tera alla colonizzazione dell’isola che da lui prese il nome. I Minii si erano presentati in Laconia come in un’antica patria in quanto discendenti degli Argonauti, tesi che gli Spartani, memori dei Dioscuri, accettarono senz’altro. Che tra gli Argonauti ci fosse un Eufemo la «storia» non dice, ma – con un po’ di quella che Vico disse la «boria delle famiglie» – si poteva facilmente pensare a uno dei soliti nomi ereditari per quel capostipite magari solo immaginario, ma necessario e inevitabile. Da questa favolosa certezza, dal doloroso presente e dall’ottimismo etico, nacque questa saga straordinaria, che pare riunire in sé quelle che saranno le massime e mal conciliabili ambizioni della poesia romantica: la leggenda popolare, la verità delle convinzioni e – soprattutto – l’avventurosa fantasia del Märchen. Quando – qui a Pito – la sacerdotessa vaticinava le imprese di Batto, ricordava, «raccontava» Medea, la ripeteva e si identificava con lei.

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Medea profetizza il futuro ma sa, ha veduto, ha scorto, cose essenziali del presente che agli altri sfuggono non meno del futuro: quello di Medea è un altro piano, è piuttosto la successione atemporale del reale che non la semplice anticipazione del tempo. Ora sono a Tera: lei ha guidato gli Argonauti, compagni di Giasone, l’eroe da lei amato, alla vittoria e poi al ritorno dalla Colchide: immenso ritorno lungo i mari del sud e per terre africane dove la nave fu portata a braccia, fino a ritrovare il nostro mare presso la palude Tritonia. Qui è accaduto ciò che nessuno ha visto. Due piccoli, preziosissimi atti. Forse tutti i presenti erano intenti all’ormeggio quando apparve il Dio del luogo e offrì agli ospiti una zolla: uno strano dono. Ma Eufemo subito capì e la ghermì; ebbe fede, intese le cose divine. Era la zolla dell’investitura del paese; certo per il futuro. Quale futuro? Medea lo sa: alla quarta generazione. Ma sapeva anche che la zolla dell’investitura doveva essere deposta al Tènaro, alla soglia del mondo dei morti. E la custodì; eppure la zolla si perdette. La veggente non bastò al caso, alla minuta banalità delle cose che sul piano religioso, dove tutto è insieme rigore e mistero, si fa il massimo dei misteri. La zolla fu perduta appunto qui, in questo attimo del tempo, in questo luogo, nelle acque di Tera. Ma il fato divino non viene vanificato, come in una fiaba; viene modificato solo nelle forme e nel tempo sebbene in misura immensa per l’uomo. L’emigrazione dorica della quarta generazione avverrà ma si fermerà qui, a Tera. La terra promessa sarà raggiunta più tardi, quando l’annuncerà Febo. E avverrà infatti – Medea non è più – con Batto, che quando andrà a Delfi per chiedere consiglio sul male che gli colpiva la voce sarà salutato dalla Pizia «re di Cirene». Un altro piano: quello della «storia», cioè del ricordo, del mito. Ora interviene il poeta, gli uomini che raccontano e che ascoltano, provocati. La storia degli Argonauti nel suo fulcro. Il fulcro è subito intuito: l’apparizione di Giasone. In termini nostri, la rivendicazione di un regno, quello di Iolco usurpato da Pelia; il diritto, naturalmente, coincide con l’evento e con la predestinazione la quale ha ovviamente il suo segno (conosciuto solo da Pelia), «l’unico sandalo» (questo particolare domina la «metopa»). Ma l’evento non è intero e ha una grande condizione, così assoluta che nessuno ne dubita, la conquista del vello d’oro. Dal v. 298 è descritta l’avventura; il successo è assicurato non tanto dal merito (che è sempre scontato, ontologico) quanto dall’amore di Medea. E alla maga è dovuto anche il ritorno. Ci si ricongiunge alla profezia, alla successione necessaria degli eventi, al presente.

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In questo presente, tra le tombe secolari e le corone lontane, il poeta può tranquillamente raccomandare un atto di alta, cortese conciliazione o, per usare il linguaggio dell’uomo non più arcaico, di politica. v. 8 tra due aquile di Zeus: «Si credette che Delfi fosse nel centro dell’intera Ellade, di qua come di là dell’Istmo, anzi del mondo abitato e la dissero “l’ombelico”, aggiungendovi un mito che racconta Pindaro, cioè che lì appunto s’incontrarono due aquile lanciate da Zeus, l’una da occidente e l’altra da oriente (per altri, due corvi). E si mostra un “ombelico” (omphalós) nel tempio, cinto di tenie, e presso ci sono le due immagini del mito» (Strabone, IX, 3, 6). vv. 12 sgg. la sua isola; Tera (attuale Santorino). La città costruita sul colle bianco («la mammella luminosa») è Cirene. vv. 24-25 Libia, figlia di Èpafo nato da Zeus e Io; divinità e luogo. La «radice di città» non dev’essere una ripetizione di Cirene, ma quelle che con linguaggio molto estraneo diremmo le «premesse» della colonizzazione. Tutto è più vago e più ignoto: più antico. Non ci sono ancora nomi umani, e i luoghi si indicano con quelli degli Dei (Zeus era venerato col nome di Ammone nell’ignota Africa). v. 34 Eufemo: figlio di Posidone e di Europa e nato sulle rive del beotico Cefiso (cfr. vv. 70-73). Erodoto non parla di questo Eufemo argonauta, ma di un omonimo avo di Batto, uno dei «Minii» che, cacciati da Lemno, emigrarono in Laconia dove vantarono diritti sul paese in quanto discendenti degli Argonauti. Vennero accolti e sposarono donne locali; ma presto scoppiò la discordia e dovettero lasciare di nuovo il paese. Parte di loro seguì Tera, re spartano discendente del tebano Cadmo, nella sua colonizzazione dell’isola che da lui ebbe il nuovo nome (cfr. qui, v. 402); mentre restò in patria un Oiolico padre di Egeo capostipite degli Egidi, «il grande clan spartano» (Erodoto IV, 150) da cui Pindaro discendeva. vv. 35 sgg. lago di Tritonide: nell’attuale Tunisia. Le paludi che si inoltravano verso ovest si pensava sboccassero nell’Oceano; l’intero percorso degli Argonauti fu dunque circolare: da Iolco (nel luogo dell’odierna Volo) percorsero tutto il mar Nero (Ponto Eusino, cioè «ospitale», ma chiamato ancora Axeinos, l’Inospitale, v. 314) fino alla Colchide, nell’estremo est; da qui raggiunsero l’Oceano e poi circumnavigarono, diciamo così, l’Africa, ma senza imboccare un passaggio marino (vv. 41-43; già noto invece a Erodoto) Diodoro riferisce un altro ritorno, opposto, verso nord (XV, 56, 3). Il Dio che compare nell’aspetto di Euripilo figlio di Posidone è quello del luogo; un incontro con Giasone è riferito anche da Erodoto, ma non durante la spedizione di Argo (IV, 179). v. 74 nella bocca dell’Ade...: il Tènaro, da cui si discendeva nell’Ade; oggi il capo Matapan nell’estremità meridionale della Laconia. vv. 80-81 in letti di donne straniere...: a Lemno; cfr. i vv. 390-4. In entrambi i

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casi un momento essenziale della saga degli Argonauti, la tappa a Lemno dove si unirono con le donne locali che avevano ucciso i loro uomini, è lasciata nel vago. Altre fonti precisano, con banale ovvietà, che la tappa avvenne nell’andata e che ci fu per Eufemo una sola consorte. v. 89 tèmenos: spazio sacro. E quasi tutta l’Africa pare un temenos divino. vv. 94-101 Così parlò la Pizia a Batto («figlio di Pollinnesto»), con la voce «ignara» senza sapere cioè che cosa, attraverso la sua bocca, il Dio realmente diceva. Erodoto racconta che questi si recò a Delfi per consultare l’oracolo sulla sua menomazione, ma non ebbe altra risposta che questa, sempre ripetuta: «Batto, per la voce venisti: ma Febo Apollo, il sovrano, in Libia ti invia nutrice di mandre, a edificare». Ma il segreto era che Batto – spiega del suo Erodoto – se in greco significava «balbuziente», in libico equivaleva a «re» (IV, 155); è questo il «saluto» del Dio. Anche per Plutarco Batto era un soprannome (Mar. Cor. XI) ma Pindaro aveva saputo il nome vero, Aristotele (P. v. 84). v. 105 all’ottavo posto: dopo Batto successero, fino ad Arcesilao, otto generazioni in cui i due nomi si alternarono. vv. 110-1 I Minii sono un antichissimo popolo della Beozia, qui identificati con gli Argonauti; senza i quali non sarebbe avvenuta la fortuna dei Battiadi. Tutto si rivela provvidenziale, e il nesso non è fantastico o esteriore, ma rigidamente religioso. v. 112 il viaggio: la spedizione degli Argonauti; Argo all’origine di tutta la vicenda: il procedimento del racconto è dunque a ritroso. vv. 116 sgg. degli Eolidi: cioè della famiglia materna. Questa è la genealogia: Eolo Creteo

Salmoneo

Esone

Fere

Amitaone

Tirò

Giasone

Admeto

Melampo

Pelia

Atamante Frisso

tutti presenti, meno Eolo e i suoi figli, in questa saga. Tirò è donna e generò Pelia da Posidone. Pelia usurpò il regno di Iolco e Giasone verrà a rivendicarlo. La morte però non gli verrà da lui né appare nel fascio di luce di questa storia. Sarà poi Medea a farlo uccidere dalle figlie quando, al ritorno dalla spedizione, non manterrà la promessa e violerà i patti (di cui ai vv. 244-62). v. 119 madre arborea: la terra, dalle cui profondità salivano i vaticini delfici. vv. 126 sgg. La «metopa» dell’apparizione di Giasone: vi domina l’eroe della cortesia (è l’attributo principale del suo ethos) e, tra particolari di signi-

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ficato negativo (tali da non confonderlo con Apollo o con Ares), è vistosissimo quello dell’unico sandalo. – Oto e Efialte sono «i più grandi e più belli dopo il glorioso Orione» (Odissea XI, 309 sgg.). Titio tentò di fare violenza a Latona madre di Artemide. vv. 149 sgg. La «metopa» della venuta di Pelia (ethos arrogante, l’opposto di quello di Giasone). Abbonda la folla. Tutto si svolge nella piena chiarezza. v. 162: Càriclo è la moglie e Fìlira la madre di Chirone (cfr. P. III). vv. 169-170 nel cuore bianco: forse indica la glacialità di un calcolo, ma l’espressione, poco chiara anche per gli antichi, può essere volutamente ambigua e suggerire, secondo lo spirito del discorso, una misteriosa giustificazione dell’evento. v. 192 i due fratelli: di Èsone. Dopo i due grandi quadri, il discorso è in chiare di movimento e di svolgimento. vv. 215 sgg. delle Rocce: con questo epiteto si ricordava il varco che Posidone aprì al Pelo, salvando la Tessaglia (v. Erodoto, VII, 129). L’eroe cortese saluta subito l’aspro Pelia con tutti gli attributi della nobiltà e dell’affinità di sangue (la «giovenca» è Enarea, sposa di Eolo). vv. 248 sgg. Frisso: figlio di Atamante (v. nota al v. 115), era morto esule nella remota Colchide, dove fu portato dall’ariete dal vello d’oro. Per «richiamarne» lo spirito in patria – era sempre necessario un rito «anacletico» – in questo caso occorreva, come aveva detto il sogno e confermato l’oracolo, il recupero del vello. Trattandosi di un congiunto, soprattutto dell’ascendenza di Giasone e costretto all’esilio dall’«empia matrigna» Ino (v. 253), era dovere impreteribile non meno che seducente. vv. 266 sgg. Gli eroi sono distribuiti (il poeta ha la visione della nave, anche se parla della loro venuta) secondo una rigida simmetria: dopo Eracle, le due coppie dei Dioscuri e dei discendenti di Posidone; così dopo Orfeo (eroe particolare come Eracle), altre due coppie, i figli di Ermete e quelli di Borea. I patronimici sottolineano la gloria e la giovinezza. Questi dieci non sono tutti quelli della tradizione: dei quali Pindaro stesso ricorda Ergino, ma non era un giovanissimo (O. IV). Accurate anche le provenienze: importante quella di Eufemo, il Tènaro (v. nota al v. 74) il monte Pangeo (v. 280) è a est della Calcidica. v. 292 il più splendido dei farmachi: capace perfino di ridare, con la gloria, nuova vita ai morti. v. 314 mare Inospitale: v. nota al v. 35. vv. 316 sgg. Il luogo dello «spazio sacro», indicato da quei «segni», fu collocato sulla costa asiatica, secondo molte fonti. v. 322 degli scogli: le Simplègadi, scogli cozzanti tra loro; il prodigio cessò con il passaggio di Argo. vv. 329 sgg. Afrodite, che in quella occasione, a vincere la maga, suscitò l’incantesimo amoroso della torquilla, un uccello che veniva legato per le ali

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e le zampe ai quattro raggi di una ruota (resta nel folclore per molto tempo: cfr. L’incantatrice di Teocrito). L’uccello, folle (come i coribanti, v. 334) ispira follia. vv. 372-373 figlio / del sole: Eeta. vv. 374 sgg. Frisso: che aveva scuoiato l’ariete e posto il suo vello in un luogo selvaggio tutelato, com’è normale per i tesori, da un drago. Ma qui la saga si chiude; delle seguenti sono dati solo i grandi argomenti: forse anche perché altri continui, nel senso del dantesco «di retro a me con miglior voci...»? (Par. I, 34-36: cfr. qui il v. 384). vv. 407 sgg. L’esule è, in quanto tale, una quercia trasformata in trave, che si arde o che fatica reggendo un tetto straniero. Ma anche «testimonia di sé» cioè denuncia la sua sorte. Così «l’enigma», a una lettura immediata e poeticamente sufficiente. Arcesilao può medicare la pianta mutilata; ed è il «momento giusto», quello in cui si consolida o si dà nuova forma al suo potere. v. 432 Batto: si direbbe Batto III, padre di Arcesilao, se ha conosciuto e apprezzato Demofilo. vv. 436-437 Fa orfano...: toglie alla malizia potere e autorità. Questo e tutti gli altri elogi fanno pensare che Demofilo meritasse di essere molto più che un semplice privato (ciò che ribadiscono soprattutto i vv. 440-445).

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[V] PER ARCESILAO RE E PER CARROTO Per Carroto, l’auriga di Arcesilao, che dopo la vittoria cantata nell’ode precedente torna a Cirene. Nessun auriga ha mai avuto tanto onore; e per quanto fosse il cognato del re non è celebrato se non come il guidatore perfetto che in una gara disastrosa, con quaranta carri distrutti, ha portato al traguardo il suo, intatto com’era al momento del corteo. Non si può non pensare («con la tua mente ferma e senza tema...») al famoso e coevo bronzo del Museo di Delfi, ascetico e tecnico, con tutto lo spirito nello sguardo e l’immane sforzo concentrato nei garretti e nei piedi che fanno presa sul pavimento del carro come sulla tolda d’una nave. Ma ora Carroto può riposare e godere della festa sacra – devono essere le Carnee – nella quale presto si confonde e su cui torna a prevalere il volto sereno del re; ma dall’alto e su tutto domina Apollo. Fu lui a volere Cirene, a scegliere quegli antichi che ora dormono nelle tombe secolari e comunicano coi viventi (come non pensare al poema di Foscolo?), e infine a concedere una vittoria agonale che pare una riconciliazione e una promessa. Il poeta è rimasto a Delfi ma è presente con qualcosa di più del canto e della letizia. Non può tacere che tra quegli antichi guidati dal Dio c’era qualcuno della sua gente, degli Egidi; senza nessuna albagia aristocratica, perché ricordare è tutto, è costruire, permettere il presente. v. 7 Castore: protettore delle gare equestri. v. 8 gli alti gradini...: come fosse asceso ad un piano più alto, quello di un «tempo» sicuro, che chiude un brutto «inverno» politico di cui non siamo informati. Di solito si interpreta «i primi gradini». vv. 24-25 Non si direbbe che il poeta fosse presente alla festa né è accertato un «giardino» sacro della Dea: ma la traduzione ha dovuto scegliere (per l’assenza e per il giardino. Secondo altri è la Libia). vv. 31 sgg. Epimeteo è il fratello caricaturale di Prometeo (il «previdente» e il «provvido»: il prefisso capovolge il significato del nome, il «pensa dopo», il senno del poi). Carroto non porta con sé il solito compagno degli sconfitti, ma i fatti, il suo carro intatto, e serbato a memoria devota e testimonianza in una sala di cipresso dove si serbava pure un antico xóanon (per altri popoli diremmo «feticcio») pure di legno. Il percorso cui si allude è evidentemente il corteo dei carri prima della gara. vv. 60-66 All’apparire dell’inviato da Apollo, al suono della lingua greca, tutto ciò che è belluino e barbaro logicamente fugge. Pindaro non pensa neppure alla storiella, sebbene pia, di Batto che – all’opposto – guarì della balbuzie (v. P. IV, 94-101 e nota) per lo spavento che gli fecero i leoni (Pausania X, 15, 7).

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vv. 72-74 Gli Eraclidi ed Egimio, antichissimo re dei Dori, occuparono quelle sedi, anche loro, per ordine di un oracolo delfico. vv. 79-81 Le Carnee, in onore di Apollo, erano tradizionalmente doriche. Vi si celebrava un éranos, banchetto in cui i convitati portavano e donavano cibi. Nell’originale la precisazione ora manca. vv. 84 sgg. I primi colonizzatori discendevano dai figli di Antenore, fuggiaschi da Troia, e accolsero ospitali i nuovi venuti condotti da Batto, chiamato qui col nome di Aristotele, con ogni probabilità quello originario. Batto fu un soprannome, attesta Plutarco, Mar. Cor. XI. v. 100 altri re sacri: altre tombe dei Battiadi. vv. 127-128 L’augurio si avvererà tra poco, nel 460. Ma pochi anni dopo anche, alla lettera, la profezia della Pizia – il «vento dell’inverno» qui deprecato, – cioè la caduta e la morte di quell’ottavo Battiade.

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[VI] PER TRASIBULO E GLI EMMENIDI Anno 490. Ad Atene ci si prepara alla difesa disperata dall’attacco persiano, che verrà spezzato a Maratona fra pochi mesi, e anche Sparta è pronta. A Delfi si celebrano in serenità le gare e per Pindaro è una giornata felicissima, che ha visto la vittoria alle quadrighe del giovanissimo, amato Trasibulo (I. 11 e fr. enc. 5). Ufficialmente, data l’età, era la vittoria della famiglia, gli Emmenidi di Agrigento, del padre Senocrate e soprattutto dello zio Terone, i cui nomi furono infatti proclamati. Con questa lode ispirata dall’amicizia e dalla gioia comincia il lungo legame del poeta con la grande famiglia. Tutto è ascensionale, il corteo, che sale dall’ippodromo al tempio e alla cittadella dove brillano i «tesori», il futuro del vincitore e la celebrazione del poeta che durerà più di quelle pietre e la stirpe e il mito stesso, l’ideale a cui Trasibulo si ispira, quell’Antiloco figlio di Nestore che sacrificò la vita per la salvezza del padre. Ma ora non si pensa alla morte, a quella tragedia di «antichi tempi». L’Antiloco presente e analogo è quello delle gare indette da Achille per le esequie di Patroclo (Iliade XXIII), che la spuntò su Menelao, pure alle quadrighe, con una slealtà così spericolata e accattivante da ispirare sia al suscettibile re che al disperato Achille un sorriso di indulgenza. v. 2 cuore, rugghiante, del mondo: Delfi, l’ompbalós (v. nota a P. IV, 8) della terra, dal cui profondo vengono gli oracoli. v. 5 tesoro: così erano detti i famosi sacelli, alcuni dei quali ancora visibili, eretti dalle Città lungo la Via Sacra, e dove si serbavano le spesso preziosissime offerte votive. Questo è un «tesoro» di poesia che serba per sempre le glorie degli Emmenidi. vv. 23 sgg. un comandamento: personificazione, analoga a quella della Vittoria che, in certe raffigurazioni, incoronava il campione. Il comandamento doveva appartenere ai perduti Insegnamenti di Chirone attribuiti ad Esiodo. v. 31 un tempo: il comparativo dell’originale deve riferirsi al presente – e perciò anche a Trasibulo – e non ad Achille, amico più maturo di Antiloco, che perciò non fu educato «prima». Il sacrificio di Antiloco era in uno dei perduti «poemi ciclici».

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[VII] CONFORTO A MEGACLE Una grande famiglia e una grande città, gli Alcmeonidi e Atene – per noi, in assoluto, la più grande famiglia e la più grande città della Grecia – entrano nella luce di Delfi con la vittoria di Mègacle. La sua persona è immersa, ma non confusa, nella gloria della tradizione e della casa. Ma di suo ha il dolore e l’ingiustizia subita; come informa la aristotelica «Costituzione degli Ateniesi», Megacle fu bandito con l’ostracismo nel 487, un anno prima della vittoria (secondo la data trasmessa da uno scolio). La democrazia, dopo Maratona, comincia a colpire, forse un po’ alla cieca, i suoi nemici più o meno potenziali delle famiglie aristocratiche. Opera così una selezione e forza un indirizzo a proprio favore. Pericle, che ora ha pochi anni, imparerà poi la lezione. Pindaro non vede in questo un atto politico ma un’azione immorale, l’offesa a un benemerito del vecchio, eterno mondo, in cui gli Alcmeonidi hanno ben figurato, e in particolare il padre dell’esiliato, quell’Ippocrate per la cui morte Pindaro aveva composto una «lamentazione» oggi perduta. Non si poteva essere meno profetici, ma il poeta è profeta delle rivelazioni divine e non degli eventi umani che non dipendono dagli uomini. Quest’anno è morto Dario, e anche ciò pare mettere un velo sulle benemerenze di Atene democratica. vv. 9-11 i concittadini di Eretteo: quegli ateniesi – Eretteo è il re mitico di Atene – che riedificarono il tempio di Apollo a Delfi distrutto da un incendio, v. Erodoto V, 62, 2.

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[VIII] PER ARISTOMENE E PER LA PACE Vittoria alla lotta del giovane Aristòmene, del grande casato egineta dei Midìlidi, ricco di tradizioni. Gli scòli danno una data univoca, il 446; la celebrazione è di qualche tempo posteriore al trionfo delfico. Non possiamo fissare un esatto rapporto cronologico con gli eventi. Forse era già prevista quella che si dirà la «pace dei trent’anni», cifra che nel linguaggio della politica internazionale significa un tempo indefinito. Non si può non pensare alla Hesychía con cui si apre l’ode, la «quiete», ma con una accezione attiva e spirituale che ha piuttosto per noi la parola cristiana «pace». Una pace «figlia della giustizia», questo tiene a dire Pindaro; e totale come una immensa città. Gli scòli accennano a inquietudini – probabilmente insurrezionali – in Egina, ma qui non si respira una piccola atmosfera municipale; Pindaro, ormai molto vecchio, pensa a una «Ellade delle patrie», dove certo Egina, già da molti anni vinta e «alleata» coatta di Atene, ritroverà la sua «libera marcia» nel mondo. Ma gli avvenimenti sono ben più estesi. Nel 448 le città della Beozia si sono ribellate insieme alla democrazia e alla soggezione ad Atene. Gli ateniesi, guidati da Tolmide, erano stati duramente battuti a Coronea e Lebadea; Tolmide stesso e Clizia, padre di Alcibiade, erano rimasti sul campo. Contemporaneamente erano insorte l’Eubea e Megara; di più, Sparta aveva mobilitato e veniva ristabilendo ovunque gli aristocratici scacciati. Come non pensare agli Epigoni, i figli dei «Sette», cinque dei quali perirono sotto le mura della città usurpata da Eteocle e dalla sventura, e che ora vengono a liberare, purificati, protetti da Anfiarao, il veggente? Era uno dei grandi miracoli e dei grandi culti della patria; e Pindaro questa sola volta accenna pubblicamente a un fatto segreto quale può essere una rivelazione mistica. Che cosa gli ha rivelato il figlio di Anfiarao? Non diremmo, in un’ode di così grande respiro politico e religioso, la vittoria del giovinetto Aristòmene. Piuttosto, la «pace» di tutte le città, il ritorno di tutte le tradizioni. Ciò non significava necessariamente la fine di Atene; Pindaro certo non se l’augurava e forse non gli dispiaceva che le «lunghe mura» erette dai capi democratici rendessero inespugnabile questa «divina città» che pareva nata – come dissero i suoi vicini – «per non stare in pace e per non lasciare in pace nessuno». v. 7 e ti fa onore: secondo altri, all’opposto, l’onore viene reso al campione vincitore. v. 16 Porfirione: «il re dei Giganti», come è detto al v. 25, quelli che assalirono gli Olimpici e ne furono battuti.

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v. 23 Tifone: v. P. I, 30 sgg. v. 52 Teogneto, vincitore nel 476 a Olimpia, dove Pausania vide la sua statua (VI, 9, 1). vv. 55 sgg. la parola di Anfiarao...: (il testo ha la perifrasi «figlio di Oicleo», allora ben più familiare che per noi). L’indovino guerriero aveva partecipato con i «Sette» alla guerra contro Tebe; tutti vi lasciarono la vita meno Adrasto. Anfiarao, che era partito controvoglia sapendo il futuro che lo attendeva e solo a causa delle male arti della moglie Erìfile, fu inghiottito dalla terra in un luogo della Beozia variamente precisato dove continuò il suo potere oracolare e il culto (prevalse l’Amphiaraion, annesso poi dagli Ateniesi: v. Pausania I, 34, 1; ne restano impressionanti rovine). Più tardi, i figli dei Sette, i cosiddetti Epigoni, rifecero la spedizione ed espugnarono la città; ma Adrasto vi perdette un figlio, unica perdita tra gli Argivi (vv. 7576: Abante era un antico re di Argo). v. 79 Alcmeone: figlio di Anfiarao. È presumibile un heroon in suo onore; ma è notevole che non ve ne sia altro ricordo e che anzi Pausania dica esplicitamente che fu escluso da ogni culto a causa dell’uccisione della madre Erifile (I, 34, 3), sebbene compiuta per volontà di Apollo, come precisa Diodoro (IV, 66, 3). Probabilmente Pindaro associa anche il figlio al culto dell’Amphiaraion, tipicamente beote («il Vicino mio») e particolarmente connesso con l’ispirazione onirica (Pausania I, 34, 5); al suo sacrario il poeta, in questi tempi che possiamo credere difficili, aveva affidato «tutti i suoi averi». v. 89 gli: il soggetto visibile, il vincitore Aristomene. E poi, due versi dopo, i soggetti grandi, presenti («feste vostre»), Apollo e Artemide; e poi il primo di loro, Apollo, «signore». vv. 112 sgg. Aristomene ha avuto quattro scontri, durante la gara. Ora i vinti tornano tristi e di soppiatto e le loro madri li accolgono severe (cfr. O. VIII, 76 sgg.). v. 127 un pensiero: divino, diremmo.

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[IX] PER TELESICRATE DI CIRENE Ode luminosa ed enigmatica. La patria del vincitore alla corsa degli opliti nel 474, Telesicrate, ispira la più antica delle leggende di Cirene, quella dell’amore di Apollo per la fanciulla eponima; ma la scelta non era necessaria e convenzionale. Tutta l’ode è dominata dal motivo dell’amore e anche delle nozze: il campione è desiderato come sposo, la sua è la patria delle donne desiderabili, e soprattutto c’è l’esempio dell’avo Alessìdamo; esempio inedito, troppo scopertamente imitato da quello di Danao e ricondotto al motivo della «corsa» per non apparire un’onesta, graziosa, allusiva invenzione. C’era un’altra corona per Telesìcrate, più privata di quella d’alloro che ora riceveva? Ipotesi non austeramente dimostrabile, ma neppure sostituibile se non da una sospensione di giudizio. La stessa gnome, al centro, cerniera tra le parti mitiche dell’ode, è di una oscurità sospetta e con tutta probabilità provocatoria. Il sorriso di Pindaro si cela dietro quello incomparabile di Chirone, questa volta maestro di ciò che non s’insegna, medico di una piaga felice e, per un attimo, molto più antico del Dio onnisciente e inesperto dell’amore. v. 3 dallo scudo bronzeo: la più vistosa delle armi di cui erano carichi gli atleti in questo genere di corse. v. 4 Cirene: immediatamente la città, entrando nel piano del mito, diviene l’antica figlia di Ipseo re dei Làpiti, figlio del fiume Peneo a sua volta figlio di Oceano (perciò «il secondo eroe», v. 22). v. 12 terza radice della terra ferma: terzo dei continenti, con l’Asia e l’Europa. v. 26 Gaia: o Gea, o Ge, nome greco della Terra. v. 47 l’odio: dell’animale, primitivamente umanizzato. vv. 59 sgg. La «persuasione» della fanciulla toglie al connubio con il Dio l’aspetto della violenza, ne costituisce «le nozze». v. 80 un popolo isolano: i Teri condotti da Batto (v. P. IV). v. 100 Agrea e Nomio, od Aristeo: i primi due sono attributi di Apollo, il terzo epiteto di Zeus: in realtà il nuovo Dio non si stacca del tutto dalla paternità apollinea. vv. 116 sgg. Trapasso oscuro e discusso: quali sono le «piccole cose» (o «il minimo» nella presente trad.) e perché si loda il «momento opportuno» (il kairós) e soprattutto come tradurre il pronome indicativo (nin)? Se inteso come neutro («questa verità») come si legge generalmente, non è chiaro come l’aver ucciso Euristeo – il persecutore di Eracle e poi degli eraclidi – ritrovando miracolosamente la giovinezza, sia una «opportunità».

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vv. 152 sgg. Riprende, calando sull’umano, il motivo sorridente dell’amore. La seconda saga ripete l’episodio di Danao e delle sue figlie, via via concesse al pretendente che vinceva la gara. Ma era Danao e ciò avveniva ad Argo (Pausania III, 12, 2), mentre qui c’è Anteo, il re libico vinto da Eracle e c’è Irasa, la deliziosa città libica (Erodoto IV, 158), e soprattutto c’è un avo del campione: tutto troppo scoperto per essere un falso e non una favola sorridente.

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[X] PER IPPOCLEA DI TESSAGLIA Il vincitore delle gare dei giovani del 498 Ippòclea di Pelinneo in Tessaglia, figlio di un campione già famoso. Il commissionario è Torace, degli Alèuadi di Làrissa, vicini più potenti degli Scopadi di Crannon già celebrati da Simonide; la discendenza da Eracle imparentava la loro terra con il mondo tebano e dorico. C’era tutto per accendere l’entusiasmo di Pindaro, anche l’ambizione: la chiusa (soprattutto al v. 87) fa pensare a una sorta di offerta di servigi, che fortunatamente non ebbe seguito. Si era alla vigilia, anzi, secondo la nostra prospettiva, era già cominciato l’immane conflitto con l’Asia, nel quale gli Aleuadi si schiereranno, sempre più decisamente, con l’invasore. Ma Pindaro è estraneo a quelle scelte ingenerose che gli eventi trasformeranno in infamie (v. Introduzione, pp. 11-12). Non la storia domina l’ode ma il mito, che può essere non meno attuale; né è del tutto da dimenticare l’età del vincitore e del celebratore, adattissima alla festa e all’evocazione dell’avventurosa vicenda dell’avo Perseo. Quella giovinezza può essere reperibile anche nella qualità dell’ode, non tanto per ciò che ha quanto per ciò che non è ancora; e forse per l’accenno troppo crudo e innocente al motivo arcaico dell’«invidia degli Dei». vv. 1-4 Sia le due famiglie con titolo regio di Sparta che gli Alèuadi derivano da Eracle, a sua volta discendente da Danae madre di Perseo. vv. 14-16 Forse sottinteso un «detto antico» riferito da Erodoto: «il fine non si mostra intero insieme all’inizio» (VII, 51); i due termini, telos e arché, uguali nei due testi, sono qui strettamente legati dalla congiunzione. Cioè: l’inizio non dice la fine – tipico motivo pindarico ed erodoteo – ma in questo caso, esclama la giovinezza di Pindaro, c’è la responsabilità (evidente) d’un Dio (Apollo). vv. 21 sgg. nelle armi d’Ares: le corse con l’armatura. A Cirra (a Delfi) ci fu invece una vittoria nella corsa normale. v. 43 Iperborei: «il popolo d’Apollo» (v. O. III, 25 e I, VI, 35), che viveva, in un favoloso nord, una vita di spensieratezza e di perfetta innocenza (v. 58): la Dea della punizione, Nemesi, non li tocca. Della permanenza di Perseo tra loro non c’è altra testimonianza. v. 62 la Gorgone: la decapitazione della Gorgone, la cui vista pietrificava (v. 65, «una morte di pietra»), è la maggiore impresa dell’eroe (v. P. XII). Ma il racconto è bruscamente interrotto (vv. 69 sgg.), come ad evitare uno scoglio pericoloso a fior d’acqua. v. 75 gli Efirei: i Tessali (oscuro il legame, forse di ascendenza leggendaria, con Efira, città dell’Epiro).

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[XI] PER IL TEBANO TRASIDEO Canto per la Città e per la solitudine. L’occasione è pubblica e impreteribile, la vittoria d’un concittadino nella sacra Delfi; ma quel luogo evoca subito un delitto remoto e la propria città ispira i pensieri del culto e della casa: valori umbratili e longevi, addirittura «quotidiani» e, insieme, grandi; si pensa vagamente a Orazio o piuttosto a Tolstoj. Solo un attimo, ma certo il motivo sotteso dell’ode è la casa, «l’intérieur». Il delitto di Clitennestra avvenne nelle case del re e da quel terribile interno fu sottratto il ragazzo Oreste, dalla sua nutrice, poi fu ospite non lontano da Delfi nella casa di Strofio dove maturò l’orribile punizione; la deprecazione delle donne è nel segreto delle loro umili case e la pace del poeta sarà pure tra quelle sue mura che poi per secoli saranno indicate fuori delle porte Neiste, presso il sacello da lui edificato per la Grande Madre (Pausania, IX, 25, 3). Trasideo, secondo gli scòli, ha riportato due vittorie, una nel 474 e l’altra vent’anni dopo. La prima potrebbe connettersi con il ritorno dalla Sicilia, non senza dissapori, si è pensato, e perfino accuse ideologiche in patria; cose vaghe su dati cronologici fragili. Piuttosto si penserebbe a una sorta di abdicazione, che può equivalere anche a un’autoaccusa; espressioni come «voce mercenaria» o «confusione di argomenti» sono di una scontrosità umile, della quale non sapremmo la ragione, ma non è detto che ci fosse un’oggettiva ragione. vv. 1 sgg. Figlie di Cadmo e di Armonia (v. 12): v. O. II, v. 36 e nota. La «madre di Eracle» è Alcmena. Melia ebbe da Apollo Ismeno, da cui deriva il nome del famoso tempio, sede d’un oracolo. Temide è divinità della giustizia. La cerimonia della dafneforia si teneva, al tempio, di sera (v. 19). v. 23 una terza corona: le altre due erano state vinte dal padre. v. 24 ricchi seminati: presso Delfi, dove era la casa di Strofio (v. 62); l’amico unico, Pilade, era suo figlio. vv. 55-60 Poco prima è detto che Cassandra fu uccisa da Clitennestra; ora – né era necessario in ogni caso ribadirlo – la sua morte è attribuita al re. Penseremmo perciò che questa sia la versione del bisbiglio popolare, analogo all’avventata asserzione di «uno dei vicini tristi» di O. I, 62; e

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probabilmente non meno calunniosa. Pindaro scagiona l’eroe da un delitto odioso. E ostile è anche il tocco finale, la gloria guerriera del re sentita come crudeltà e devastazione. – Ad Amicla, presso Sparta, è immaginata la reggia. vv. 100 sgg. Iolao, compagno di Eracle, è l’eroe della fedeltà; Castore e Polluce della fraternità (v. N. X).

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[XII] PER IL FLAUTISTA MIDA DI AGRIGENTO Epinicio per un artista, il solo. Mida ha vinto due volte, informano gli scòli, nel 490 e nel 486: il silenzio su una vittoria anteriore decide per la prima data e ambienta felicemente l’ode. Dunque, nell’anno della rivelazione di Trasibulo (cfr. la sesta pitica), un altro agrigentino si è fatto onore, e anche questo è un messaggio da inviare alla sua città, salutata con l’ammirazione del desiderio, oltre che un secondo omaggio – indiretto – agli Emmenidi. Anche qui c’è una gioia sottesa e l’amicizia è abbastanza dimostrata dalla gnome, proprio perché, dall’esterno, troppo fredda e generica; ci debbono essere sottintesi confidenziali che non afferriamo appunto perché tali. Non crediamo che si alluda, come crede uno scoliaste, a un incidente, la caduta della lamina del flauto, superato pare con apprezzato virtuosismo. L’episodio sarà vero ma la gnome non vi corrisponde con naturalezza. Piuttosto Mida deve nutrire grandi speranze, così difficili che è già un augurio permettergliele e tali da suggerire il sorriso, tra il saggio e l’umoristico, con cui l’ode si chiude. Il mito è quello del «ritmo dalle cento teste», una melodia triste, forse simile a quella della cornamusa, ispirata a Pallade dal lamento di una Gorgone, crinita di serpi, sulla morte di Medusa. Canto di vittoria, dolore e purificazione. v. 3 dimora di Persefone: secoli dopo il siciliano Diodoro scriveva: «i Sicelioti hanno sempre udito dai loro vecchi, per una plurisecolare tradizione, che l’isola fu dedicata a Demetra e Persefone...» (V, 2, 4). v. 21 Perseo gridò di giubilo: il momento culminante, della vittoria e della vendetta. Perseo nato da Zeus (sceso in forma di pioggia d’oro, vv. 32-34), abbandonato al mare con la madre Danae in un’«arca ben lavorata» (secondo un famoso frammento di Simonide), fu salvato e crebbe nell’isola di Serifo; il cui re Polidette, che teneva schiava la madre (v. 29), gli impose, quando ne temette la forza, di recare al banchetto dei vassalli il capo di Medusa, una delle tre Gorgoni, il cui sguardo pietrificava. Ma Perseo ebbe l’aiuto di Pallade, e spenta la vista delle mostruose Forcidi, come era necessario, tagliò il capo di Medusa e con esso distrusse Polidette. vv. 42-43 gote / agili della Gorgone: nel testo è nominata Eurìala, nome familiare agli uditori ma non più a noi. L’aggettivo (karpalismov") sfuggente, quasi onirico, evita la fissità grottesca della raffigurazione arcaica (famosa la metopa di Selinunte) e s’avvia alla mortale bellezza che il volto di Medusa acquisterà nell’età classico-ellenistica. vv. 52-53 Cefìside: lago e ninfa (lo stesso che Copaide), sulle cui rive sorgeva la città delle Cariti, Orcomeno (v. O. XIV).

NEMEE

NEMEA

Dell’antica Nemea resta poco più delle tre colonne scure che spiccano tra le vigne e le erbe aspre, sulla strada asfaltata tra Argo e l’antica Cleone che al tempo di Pausania era la «strada Adrastea» (II, 15, 2-3). Il tempio di Zeus, a cui appartenevano le tre colonne, era già in grave decadenza, ma le gare si celebravano ancora. Ciò che contava erano i luoghi: lì presso c’era l’antro del leone ucciso da Eracle e lì, in una radura del bosco di cipressi ricordato da Pausania, morì un infante, il figlio di Licurgo, Ofelte, il cui nome ricordava il serpe; e un serpe l’aveva morso in un momento di disattenzione della nutrice, durante la spedizione dei Sette contro Tebe. Anfiarao consigliò e Adrasto istituì quei giochi propiziatori. L’infante fu chiamato l’Archémoros, che si traduce senza ragione come il «morto bambino»: fu «il primo morto». Per la mitologia ebraica la morte – sempre lenta ad apparire, non originaria – fu l’effetto del peccato, della disobbedienza. Per quella greca, o meglio per quei greci d’un angolo della tragica Argolide, la morte cominciò con il primo infante che entrò nella sua sfera. In memoria sua gli Ellanodici di Nemea portavano il lutto. Il luogo apparteneva alla città di Cleone, fino al 460, quando Argo conquistò la città. Le gare si tenevano in luglio, ogni due anni, secondo e quarto di ogni olimpiade, e comprendevano le solite prove, premiate con corone di apio. Naturalmente anche per esse c’era la tregua sacra. Nemea fu legata con Egina e per opera di Pindaro ha conservato questo stretto legame. Tre quarti delle Nemee autentiche (le ultime tre erano una sorta di appendice) sono dedicate a campioni egineti. La tradizione locale, di cui Pindaro era partecipe, aveva le sue radici nella storia e nell’affinità etnica, che trovarono la loro espressione nel mito, in quella che si potrebbe dire la «geografia viva» della Grecia arcaica. Egina era il corpo tangibile d’una entità divina, nata da Asopo, nume evo-

PREFAZIONE ALLE

«NEMEE»

cato da vari nomi di acque correnti, a Nemea innanzi tutto e anche in Beozia. Da Egina e a Egina era nato quell’Adamo senza pecca – «il più giusto degli uomini», ricorda Plutarco (Thes. X) – che fu Eaco. Questi ebbe sposa Endaide figlia di Chirone nato da Crono; da loro nacquero Peleo, padre di Achille, e Telamone, padre di Aiace e di Teucro. Dinastia drammatica e non priva di ombre (v. N. v. 26 sgg.) che «rifletteva l’ideale», dice Méautis, di questo piccolo popolo testardo e prodigioso, discendente dei Mirmidoni, suscitati da Zeus perché quei re non fossero privi di sudditi. Pausania non vide, come noi, che un’isola «di difficile approdo», col terreno ricoperto da uno strato roccioso che avrebbe spiegato il mito dei Mirmidoni («le formiche»); vide intatti gli edifici e i templi, di cui quello di Afaia dà ancora un’idea, ma era già cominciata l’«archeologia».

[I] PER CROMIO E PER ERACLE FANCIULLO

PINDARO

NEMEE, I [PER CROMIO E PER ERACLE FANCIULLO]

PINDARO

NEMEE, I [PER CROMIO E PER ERACLE FANCIULLO]

PINDARO

NEMEE, I [PER CROMIO E PER ERACLE FANCIULLO]

[II] PER TIMODEMO DI ACARNE

PINDARO

NEMEE,

II [PER TIMODEMO DI ACARNE]

[III] PER ARISTOCLIDE DI EGINA

PINDARO

NEMEE,

III [PER ARISTOCLIDE DI EGINA]

PINDARO

NEMEE,

III [PER ARISTOCLIDE DI EGINA]

PINDARO

NEMEE,

III [PER ARISTOCLIDE DI EGINA]

[IV] PER TIMASARCO E PER EGINA

PINDARO

NEMEE,

IV [PER TIMASARCO E PER EGINA]

PINDARO

NEMEE,

IV [PER TIMASARCO E PER EGINA]

PINDARO

NEMEE,

IV [PER TIMASARCO E PER EGINA]

[V] PER PITEA DI EGINA E GLI PSALICHIDI

PINDARO

NEMEE,

V [PER PITEA DI EGINA E GLI PSALICHIDI]

PINDARO

NEMEE,

V [PER PITEA DI EGINA E GLI PSALICHIDI]

[VI] PER ALCIMIDA E I BASSIDI

PINDARO

NEMEE,

VI [PER ALCIMIDA E I BASSIDI]

PINDARO

NEMEE,

VI [PER ALCIMIDA E I BASSIDI]

PINDARO

NEMEE,

VI [PER ALCIMIDA E I BASSIDI]

[VII] PER SOGENE DI EGINA

PINDARO

NEMEE,

VII [PER SOGENE DI EGINA]

PINDARO

NEMEE,

VII [PER SOGENE DI EGINA]

PINDARO

NEMEE,

VII [PER SOGENE DI EGINA]

PINDARO

NEMEE,

VII [PER SOGENE DI EGINA]

[VIII] PER DINIDE A EGINA

PINDARO

NEMEE,

VIII [PER DINIDE A EGINA]

PINDARO

NEMEE,

VIII [PER DINIDE A EGINA]

[IX] A CROMIO DI ETNA

PINDARO

NEMEE,

IX [A CROMIO DI ETNA]

PINDARO

NEMEE,

IX [A CROMIO DI ETNA]

PINDARO

NEMEE,

IX [A CROMIO DI ETNA]

[X] PER TEAIO DI ARGO

PINDARO

NEMEE,

X [PER TEAIO DI ARGO]

PINDARO

NEMEE,

X [PER TEAIO DI ARGO]

PINDARO

NEMEE,

X [PER TEAIO DI ARGO]

PINDARO

NEMEE,

X [PER TEAIO DI ARGO]

[XI] PER IL PRITANO ARISTAGORA DI TENEDO

PINDARO

NEMEE,

XI [PER IL PRITANO ARISTAGORA DI TENEDO]

PINDARO

NEMEE,

XI [PER IL PRITANO ARISTAGORA DI TENEDO]

NOTE ALLE NEMEE

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[I] PER CROMIO E PER ERACLE FANCIULLO Cromio, già generale di Gelone e con lui vincitore dei siracusani nella battaglia sull’Eloro che iniziò la potenza dei Dinomenidi, cognato di Terone, tutore del figlio minorenne di questi e signore di Etna – la nuova Catania dorica «rifondata» ora, nel 476 – è piuttosto coreggente che suddito del re. Pindaro è suo ospite, nell’Isola siracusana, e sente il desiderio e la necessità dell’omaggio. La vittoria olimpica alle quadrighe, nel suo caso, è un’occasione e un episodio un po’ scontato su cui non si insiste. L’ufficialità non esclude la sincerità della celebrazione e dell’evocazione. Cromio, che tanto ha operato col senno e con la mano, è partecipe della virtù di Eracle. Le prospettive degli uomini sono comuni; ma Eracle è l’eccezione. Il discorso non è sottile, è umile, acuto e sacro. Che significa? che gli uomini avranno la felice sorte dell’Eroe? Pindaro non ha le grossolanità dei dogmatici o dei propagandisti. Ma «pensa» a un uomo che la virtù ha fatto eterno. Un uomo che la Dea «regina» ha odiato dalla nascita e che terminò, solo per la sua «innata virtù», nella giovinezza celeste. Anche Anfitrione non sapeva, non credeva, e scoprì il misterioso, «faticoso piacere» della speranza mistica. Si può ben capire perché Pindaro non nomini nessuna delle glorie di Cromio, ciò che ha sugterito a qualche critico di alzare la data a tempi anteriori all’evidente presenza del poeta (il 476). Pindaro non ebbe il gusto odierno dei diplomi e dei titoli; l’uomo è per lui interezza, al di sopra degli eventi che hanno un nome. v. 1 Ortigia: l’Isola (nesos) di Siracusa. Qui l’Alfeo di Olimpia sgorgava nella fonte Aretusa ristorandosi dal lungo viaggio; e c’era un tempio di Artemide, sorella di Apollo. Entrambi nacquero a Delo, ed è questo il legame di fraternità fra le due isole, ribadito dall’antica omonimia: Ortigia fu anche il primo nome di Delo, v. fr. peani 11. v. 18 Zeus, donava a Persefone: con tutta la Sicilia. «Alcuni poeti hanno narrato che Zeus per lo sposalizio di Plutone con Proserpina diede quest’isola come dono di nozze alla sposa», scrive Diodoro, (V, 2, 3) con molti particolari su questo culto e sulle imponenti tradizioni ancora vive nella Sicilia del suo tempo. vv. 33-35 Passo e testo controversi fin dall’antichità. È spesso sembrato strano che l’acqua elimini íl fumo, invece di alimentarlo. Ma dipende da quanta se ne versa. Cioè: la fiamma dell’opposizione è stata spenta, e non resta che un fumo offuscatore che va con gli stessi mezzi soffocato. v. 50 il viaggio del domani: cfr. N. VII, 46-47; un destino comune di speranze e di incertezze.

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v. 74 Cadmei: cittadini della città di Cadmo, Tebe. v. 76 Anfitrione: il padre putativo di Eracle; ora sente, con gioia e angoscia, l’estraneità del figlio. v. 85 le parole dei messi: quali messi? Non se ne era parlato né ce n’era bisogno per un evento, dal punto di vista fantastico, immediato; e l’espressione ha una sua enfasi grave. Penseremmo che si alluda ai messaggeri che annunciarono al re, ancora in guerra con i Teleboi, la nascita, avvenuta o prossima, del figlio (cfr. N. X, 27; e anche nell’Amphytruo plautino, parodie a parte, Alcmena è vicina al parto al ritorno dello sposo). Il miracolo gli «dice» che quell’annuncio non fu vero, che il nato non è suo perché non è un mortale; e nulla di più degno che appellarsi all’interprete degli Dei, Tiresia. Il quale non ripeterà ciò che è già chiaro, ma gratificherà il re di tutta la prodigiosa storia del fanciullo. La reggia si colmerà di miracolo e di privilegio.

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[II] PER TIMODEMO DI ACARNE Per un ateniese del «demo» di Acarne, ma nativo (o forse colono) di Salamina, alla sua prima vittoria. Le altre verranno, certe come, subito dopo le Pleiadi, l’apparire del più luminoso Orione. E così avverrà, informa uno scolio, perché Timodemo vincerà il pancrazio a Olimpia, non sappiamo però con quale intervallo di tempo. Il suo nome non risulta tra i vincitori degli anni 480-464. La data della battaglia (480) non dovette essere vicina, e il silenzio su di essa lo conferma; non dimostra però l’anteriorità dell’ode. Poteva essere più naturale e non meno attuale invece il ricordo di Aiace Telamonio e di una sua memorabile frase, che un giovane di Salamina non poteva non conoscere (vv. 22-23 e nota). vv. 1-2 L’apertura nel nome di Zeus era di prammatica per i rapsodi (etimologicamente, «cucitori di canti»). v. 7 nel bosco: ancora al tempo di Pausania esisteva questo bosco di cipressi, intorno al tempio ormai cadente di Zeus (II, 15, 2). v. 19 Pleiadi montane: prima di essere trasformate in stelle, insieme a Orione loro antico persecutore, furono ninfe abitatrici del monte Cillene in Arcadia. vv. 22-23 e udì bene: Ettore sfidò a singolare tenzone un campione greco: fu sorteggiato Aiace Telamonio che ne giubilò e si promise la morte del nemico, vantandosi degnamente nato e nutrito in Salamina (Iliade, VII, 195-9).

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[III] PER ARISTOCLIDE DI EGINA Ode gioiosa e orgogliosa per un vincitore al pancrazio, Aristoclide figlio di Aristofane, e per Egina sua patria. Il poeta è assente (v. 124). Il messaggio che «invia» è, diremmo, il presente testo, le parole, pronte per un coro impaziente. Ma c’è una sinaolare aporia nell’occasione dell’ode. I versi sulle tre età dell’uomo (114-123) possono certo far pensare a un’età grigia, inconciliabile con una prova diretta e così dura come il pancrazio; ne è nata la convinzione antichissima e generale che la vittoria sia lontana già di molti anni. Infatti il poeta parla di ritardo (v. 128). Ma per quanto l’aquila pindarica sia un campione veloce (vv. 128-131), lo sforzo di recuperare uno svantaggio di partenza di molti anni ci pare metta troppo a dura prova il senso umoristico del poeta non meno della pazienza del committente; meglio pensare a un’anzianità sportiva da record, se indispensabile, in coincidenza con un’età florida di cui si può ancora lodare la bellezza (v. 30) e in cui si è giunti alle «colonne d’Eracle» delle speranze umane (vv. 31 sgg.). Del resto il senso del presente (la «quarta virtù») può essere precoce. Ma il centro vero e implicito dell’ode non è Aristoclide né la sua vittoria, è una legge del sangue, la virtù perenne e diciamo pure ereditaria di cui Egina è un glorioso esempio. Ella è figlia di Asopo, sorella di Tebe, madre di Eaco, padre questi di Telamone e Peleo, e questi di Achille: successione e identificazioni di luoghi, Eroi e valori, tutto un popolo, tutta una realtà. Una grande realtà dorica. Anche il motivo delle tre età è dorico. In un coro nazionale spartano riferito da Plutarco (Licurgo, 21) le tre generazioni – ragazzi, uomini e vecchi – alternavano i loro vanti pieni di giuramento. Continuità, perpetutà, sicurezza. È questo che Pindaro celebra nell’emblema della vittoria di Aristoclide. v. 7 Asopo: padre di Egina ninfa e isola – e di Tebe, ninfa e città, e di Nemea stessa: c’è dunque da scegliere. Ma è anche «l’Asopo» fiume o meglio fiumi: uno in Beozia (e molti ipotizzano che Pindaro abbia allestito qui il coro che invia), uno presso Nemea e infine un terzo ad Egina stessa, ma non attestato che da Didimo e probabilmente in omaggio alla tesi della vittoria lontana. La stessa tesi esclude la divinità e il fiume di Nemea. Qui è tradotto come nome divino; e le sue acque possono essere anche non quelle d’un introvabile torrente, ma del mare, il «mare dorico» di Egina (cfr. fr. peani 6, 90). v. 21 Mirmìdoni: suscitati da Zeus per popolare l’isola di Eaco. Forse Pindaro li apparenta con gli omonimi sudditi di Achille.

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vv. 59 sgg. Telamone: insieme a Iolao, compagno fedele di Eracle, compì la prima distruzione di Troia, di cui era re Laomedonte (cfr. N. IV, 31 sgg.). v. 73 Fìlira: madre del centauro, Chirone. v. 93 la figlia di Nereo: Tetide, madre di Achille. Lo sposo è Peleo (v. I. VIII, 38-78). v. 112 Teario: sede di un collegio di sacerdoti di Apollo, i theorói.

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[IV] PER TIMASARCO E PER EGINA Canto di vittoria, di dolore e di fierezza. La luce del successo di Timasarco, che conferma gli altri e rievoca la tradizione, insieme agonale e poetica, della famiglia, è contrastata da ombre profonde: la morte, l’esilio e l’offesa. Il campione stesso è orfano, morti sono lo zio e il nonno, e degli Eacidi sono ricordate solo tombe e tutte in terra straniera. L’offesa, troppo ingiusta per essere taciuta, troppo dolorosa per non occupare uno spazio superiore a quello che si addice a un epinicio, riguarda il poeta. Non sappiamo quale, ma non possiamo pensare a una calunnia politica e meno ancora a una censura poetica; qui è in questione la virtù, l’aretà stessa di Pindaro (v. 51), quello che possiamo ben chiamare la sua missione. Eppure di tutte queste ombre si trionfa; i morti odono, nell’Ade, e gioiscono; le tombe straniere degli Eacidi regnano nel culto dei nuovi popoli, e il più innocente di loro, Peleo, dopo dure prove, ha veduto gli Dei e fu assunto alla eterna giovinezza celeste; e certo il poeta avrà soddisfazione piena. Forse anche fuori di Tebe, se l’offesa viene di là; ed Egina, di cui si evocano tutti i legami con Tebe – le origini, la fraternità d’armi degli Eroi, le stesse vittorie del suo Timasarco – può ben essere una nuova patria. Ma per chi ama la propria «madre», per chi ha detto di voler soprattutto «piacere alla sua gente» (N. VIII, 61), anche Egina può evocare il motivo dell’esilio. vv. 15-16 A Egina esisteva una sorta di tribunale sovranazionale, che rendeva giustizia a non egineti. vv. 23 sgg. Cleone: la città al cui territorio apparteneva Nemea. –Timasarco ha trionfato in Tebe, alle gare in onore di Eracle (presso la «corte di Eracle», probabilmente il luogo delle gare). v. 31 sgg. È evocata la fraternità d’armi tra l’Eroe tebano e uno egineta, Telamone. Alcionèo è uno dei Giganti. v. 42 un novilunio: probabilmente quello della celebrazione della vittoria. vv. 43-46 È lo stato d’animo dell’ottava istmica (cfr. i vv. 8 sgg.). Varie le interpretazioni, e perciò anche diverse le traduzioni possibili, di questo «mare»: reale per alcuni, tra cui gli scoliasti (il mare cioè che «sta in mezzo» tra il poeta e il dedicatario o anche i suoi nemici), metaforico per altri, nonostante la difficoltà data dalla mancanza del pronome personale, nel testo. In ogni caso si esclude che Pindaro vi stia, in questo mare, «a metà corpo», situazione, anche per un misero naufrago, troppo umoristica. v. 56 Enona: l’antico nome di Egina. v. 57 sgg. Cipro: dove l’Eroe ha la sepoltura, che sebbene in terra straniera è

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oggetto di culto: così ancora regna. Lo stesso per gli altri Eacidi, disposti in ordine di glorificazione e non di successione (Peleo, l’ultimo, è fratello di Telamone, padre di Achille e nonno di Neottolemo). vv. 68 sgg. Acasto tentò di far morire Peleo, suo ospite, calunniato da Ippolita sua moglie (v. N. V, 46 sgg.), esponendolo disarmato ai terribili Centauri (cioè avendogli sottratto la spada magica forgiata da Dedalo: arma che però ha tale rilievo nel racconto da far pensare a particolari a noi ignoti del mito). Il giovane fu salvato dal centauro sapiente, Chirone. Poi fece le vendette, conquistò Iolco e l’affidò agli Emoni (i tessali). Poi avrà Tetide, figlia di Nereo, che gli resisterà trasformandosi in forme di belve e di guerrieri. Ma le sue nozze saranno eccezionalmente onorate. v. 106 il Dio profondo: Posidone, in onore del quale si facevano le gare istmiche, in cui il vincitore veniva incoronato di apio. v. 113 Melesia: il nome dell’allenatore. Ma c’è una sfumatura di ironia nel tono. Celebrare è facile quando si è calmi, e Pindaro ora lo è poco.

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[V] PER PITEA DI EGINA E GLI PSALICHIDI La famiglia degli Psalìchidi, una delle maggiori dell’isola (Erodoto, IX, 78, 1), festeggia la vittoria al pancrazio di uno dei suoi membri più giovani, Pitea, fratello del Filàcida delle future quinta e sesta istmica, ancora bambino. Gli Psalìchidi non hanno grandi precedenti agonali, e Pindaro non ricorda che i successi degli avi materni del ragazzo, ma è molto grato al padre per le nobili spese che ha voluto affrontare (I., VI, 13). Un omaggio speciale è poi dovuto, per autorevolezza e amicizia, al nonno materno Temistio, per cui il poeta dice espressamente di essere venuto. L’ode ha un tono di letizia confidenziale che contrasta con la celebrazione in piena regola fatta, per la stessa occasione, da Bacchilide (epinicio XII). Pitea è trattato come un ragazzo a cui si vuol bene, senza adulazioni; il parentado serba la sua preminenza, e il mito stesso è intriso di sorriso. Della saga obbligatoria degli Eacidi, escluso dichiaratamente il dramma (vv. 26 sgg.), la fantasia evoca un episodio giovanile del gradevole ethos di Peleo, quando, ospite di Acasto re di Magnesia, fu insidiato dalla bella e perfida sposa sua, Ippolita. Ardenti proposte che a Peleo parvero «erte», come una montagna; al rispetto della santa ospitalità (l’astinenza non era ancora una virtù) si mescolavano il timore del padre Zeus che la tutelava e una buona dose di inesperienza. Ma Zeus fu soddisfatto e premiò d’urgenza (v. 63) virtù, inesperienza e spavento. Posidone accettò benevolmente l’improvvisa parentela e cominciò a frequentare l’Istmo, il luogo delle future gare. Concludendo, il vero premio di Pitea è in tutto questo futuro che gli viene promesso, gare istmiche da vincere e (lo stesso motivo è anche in Bacchilide) il matrimonio-amore: per tutta l’antichità le nozze di Tetide e di Peleo furono la festa nuziale per eccellenza. L’ode è certamente anteriore a Salamina (480). Nel decennio precedente i rapporti tra Atene ed Egina erano stati molto ostili, ma anche più complessi di quanto ne sappiamo; la lode dell’allenatore ateniese e delle palestre ateniesi può anche essere stata – senza bisogno perciò di alzare troppo la data – una proposta disinvolta di tregua, fatta da un ospite e da un artista, nel nome di valori veramente vissuti da tutti i greci. v. 14 seminati...: v. la genealogia nell’Introduzione alle Nemee. v. 20 Zeus Ellenio: v. l’Introduzione alle Nemee. vv. 22 sgg. Si allude a un fosco particolare della saga degli Eacidi che però mette in luce la perfetta giustizia del padre loro: quando Telamone e

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Peleo, nati da Endaide, uccisero il fratellastro Foco, nato dalla ninfa Psamatea, Eaco li scacciò per sempre dall’isola gloriosa (che portava ancora il nome di Enona). vv. 39 sgg. L’eccezionale volo annuncia la scena, improvvisa e fragorosa, delle nozze di Peleo, incentrata tutta nella straordinaria orchestra, il coro delle Muse guidato da Apollo in persona; e l’elogio della virtù del ragazzo parrebbe addirittura, dal contesto, già nell’esordio del coro, subito dopo la lode obbligatoria di Zeus. Il canto sarà continuato, ma tace nell’ode, in cui il racconto – al solito, à rebour – si fa narrativo. v. 67 Ege: non la cittadina dell’Acaia, come s’interpreta generalmente, ma la dimora misteriosa che il Dio ha in fondo ai mari: «Ege, dove per lui furono costruite mirabili case, nelle profondità delle acque, splendenti d’oro, inconsumabili nel tempo» (Iliade, XIII, 21-22). v. 75 Eutìmene: zio materno di Pitea, vincitore in gare locali. v. 80 la luna: il mese, nel testo, ma è mese lunare e ha nome locale; la luna, più che l’astratto tempo numerico, ha portato la vittoria. v. 83 Niso: antichissimo re di Mègara. v. 87 Menandro: l’allenatore, un ateniese.

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[VI] PER ALCIMIDA E I BASSIDI Occasione dell’ode, una vittoria al pugilato di un Bàsside, il giovanissimo Alcìmida. I Bassidi erano famiglia così illustre di Egina che i suoi silenzi, le sue assenze dalle gare, erano vistose, gravi e quasi misteriose. L’ode di Pindaro pare tra le più specificamente apologetiche: in poche invece il fatto è così secondario rispetto al suo significato esemplare e ideale. Il ritorno dei Bassidi, nella persona di Alcimida, dono il silenzio del padre Teone, ritorno che ripete quello dell’avo Prassidamante dopo il silenzio del bisavolo Saoclide (e altre pause sono indicate dagli altri nomi e vittorie sparse, genealogicamente non chiare e forse neppure note agli ascoltatori), conferma una legge generale: l’intermittenza, e perciò l’eternità, del privilegio del sangue. «Stirpe», «sangue», sono parole che ricorrono in questa ode numerose e perfino apparentemente pleonastiche («l’avo di eguale sangue»). Nelle odi senili le certezze di Pindaro si fanno oggettive e definitive. E questa che vede è la legge della storia, i suoi «corsi e ricorsi»; di più, il divino nella storia, cioè il rapporto, la «somiglianza» tra il divino e l’umano. I due mondi, uniti dall’origine (anche gli Dei «nacquero») sono divisi dalla prova solo umana della morte (v. Introduzione, pp. 47-48), ma a quella perpetuità assomiglia la continuità della stirpe. Per la «senilità» dell’ode, pur nell’assenza di una certezza esterna, gli indizi sono molti, ma primo resta il tono, distaccato, severo e scontato, che ricorda quello della pitica ottava. In quanto ai Bassidi, i loro primati sono confermati dalle fonti. Il numero delle vittorie – venticinque, di cui sedici precisate – è davvero eccezionale, e Prassidamante, primo olimpionìca di Egina, ebbe anche per primo in Olimpia l’onore di una statua (lignea, la più antica là veduta da Pausania, VI, 18, 7). Ii ramo dell’albero genealogico che Pindaro ha messo in luce è questo: Agesimaco Saoclide Prassidamante Teone (ricordato dagli scholi) Alcimida

«i tre atleti» del v. 39

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A cui sono da aggiungere Callia e Creontide (ritmicamente connessi nell’ode) probabilmente più in alto di Agesimaco, e Politìmide, a fianco di Alcimida, probabilmente cugino. vv. 36-38 la smemoratezza: come se l’antico Saoclide avesse trascurato, distratto in altro, di far valere il suo merito agonale (l’a[ta del testo ha prevalentemente un senso attivo. In genere s’interpreta in senso passivo: «ruppe l’oblio» in cui era immerso). v. 50 mandagli: sia al vincitore che a tutta la stirpe. v. 66 sgg. Il «ponte» è l’Istmo; subito comprensibile per un greco, nell’originale è il soggetto della frase. v. 71 l’erba: l’apio che cresceva dove passò il leone di Nemea e di cui si facevano le corone dei vincitori. v. 76 il poeta che ricorda e narra: il lovgio" dell’originale ha un voluto senso vago e pregnante. v. 83 Mèmnone: figlio dell’Aurora, ucciso da Achille. v. 94 doppio carico: l’elogio di Alcimide e quello dcl suo allenatore, Melesia, con cui si chiude l’ode: elogio rapido quanto effìcace. Cfr. O. VIII, 60 sgg. vv. 97 sgg. quinto elogio: enfasi numerica, molto naturale: dopo il record di «venti vittorie» si è potuto contare ancora fino a cinque, e continuerà. Se Olimpia è sempre mancata, la colpa fu del caso, che non riflette.

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[VII] PER SOGENE DI EGINA Pindaro è a Egina, ospite di Tearione degli Eussenidi, nella casa che sorge tra templi, in un insieme architettonico che gli ricorda la quadriga. È venuto tra questi amici per celebrare la brillante vittoria al pentatlo del figlio dell’ospite, Sògene, così a lungo atteso (attesta uno scolio) che alla sua nascita fu salutato come «salvatore della stirpe» (così significa il suo nome). Come non ringraziare Ilitia, Dea delle nascite? E anche «consigliera delle Parche», Dee della morte. Le due realtà sono fuse, la vita è una, è notte e giorno (vv. 5-6). Non è questo il motivo dell’ode, è lo sfondo, la sentenza implicita, abbastanza vasta e solenne per rifletterne lo stato d’animo, complesso, doloroso, universale e personale. Pindaro deve difendersi o meglio deve difendere con se stesso la poesia cui serve e la verità cui crede. Proprio qui, tra gli egineti; il suo sesto peana li aveva offesi. In quel canto pio ed esuberante il racconto di Neottolemo era stato caricato di tinte cupe: l’eroe «possente», che aveva compiuto ciò che al padre era stato impedito dall’insuperabile intervento di Apollo – la presa di Troia –, aveva ucciso Priamo già rifugiatosi sull’ara del Dio; questi lo punì con pari spietatezza uccidendolo nel suo santuario di Delfi, dove era venuto a rendergli la dovuta parte delle spoglie della città. È l’episodio raccontato mirabilmente e realisticamente nell’Andromaca di Euripide. Per sempre, era rimasto nelle memorie il particolare d’una rissa dentro il santuario. Pindaro non fa una palinodia. Non si smentisce; anzi completa. È vero che Apollo vuole la morte dell’Eroe, ma perché lo voleva per sé. Puniva un atto dell’Eroe, ma esaltava l’Eroe. Il fato non era compiuto con la caduta di Troia. Il suo espugnatore «doveva» peccare perché «doveva» essere per sempre onorato proprio nel santuario del protettore della città distrutta, di cui veniva quindi suggellata la fine e chiuso il destino. I due «doveva» uniscono due giudizi diversi della Parola, perché del Fato non si dà giudizio. Ma certo fu così e fu «giusto». La prova? Il fatto stesso, il culto, la presenza di Neottolemo, a Delfi! «Tre voci» lo dicono, implicite in quel culto: «il Testimone» (Neottolemo), Zeus, Egina! Pindaro scandisce lentamente un semplice attributo, lo scioglie nei suoi elementi. Non si può dire che manchi di eloquenza «alla Bossuet». Ma il problema è esteso, riguarda la poesia, la celebratrice. È un mirabile gioiello (vv. 116-118) che può ingannare, perché «il cuore degli uomini è cieco». Aiace, suicida per un giudizio ingiusto, ne è l’esempio terribile. L’arte è un rischio, e proprio per la sua preziosa finzione, perché «collabora» col divino e ne proviene. Pindaro lo

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asserisce in modo indiretto e implicito, ma il concetto stesso gli è «implicito» ed è evidente in tutta la sua opera: ai vv. 47-49 non dice, con l’incredulo Orazio, «tutti muoiono, ma la poesia salva», cioè salva la memoria di qualcuno; dice «tutti muoiono, ma c’è un culto che salva», ne salva cioè il «racconto», un logos di cui il poeta è lo strumento «che il divino glorifica», cioè ispira. Anche l’esempio di Omero ci pare meno offensivo per la poesia di come s’interpreta; egli non ha esagerato l’oggettiva grandezza di Ulisse, ha fatto «la sua leggenda maggiore (o più “lunga”) della sua sofferenza», cioè ha vinto le sue pene caduche eternandone la memoria. Certo l’arte è «magia» (N. IV, 41), è anche «menzogna», secondo non solo l’estetica classica ma anche il moralismo di tutti i tempi: «una felicissima illusione» che sembra realtà, dice Orazio con stupore. E Platone e Tolstoj, come tutti sanno, preferirono mettere al bando un medicamento così a doppio taglio come l’arte. Pindaro non lo può, perché non conosce voce migliore per la verità, sul piano umano, e dà la colpa dei danni all’uomo. Non lui, di questo è sicuro. Forse degli egineti calunniatori, ma ora le cose sono state messe a posto. L’ode fremente finisce con una letizia un po’ trionfalistica. Difesa brillante, e si pensa a certa sottigliezza consueta alla Scolastica medioevale. Né manca un minimo di pia astuzia nei particolari. Altro è dire che «Apollo uccise» e altro che «qualcuno» uccise, e sostituire l’ira in atto del Dio con un consenso provvidenziale. Anche la contesa con quei «servi» del peana è opportunamente abolita. Il nesso Egina-Delfi poi (come potevano dimenticarlo?) o l’accenno alla prossenia in una terra dell’Eroe, sono colpi magistrali. (La data è incerta. Alle già gravi aporie dell’ode si è aggiunto l’errore grafico della data riferita – unica per le Nemee – dagli scoliasti; discussioni non placate dall’ipotesi paleografica che restaurerebbe un 467.) v. 50 A questo venne: per essere, appunto, oggetto di eterno culto. v. 56 Sciro: patria di Neottolemo. Efira era antichissima città della Tesprozia (vicina non forse a caso al Nekromanteion dell’Acheronte, di cui restano impressionanti reliquie), mentre la Molossia pare molto all’interno; vagamente a est di Dodona invece la colloca Pindaro nella quarta nemea, ricordando il «regno» di Neottolemo che continua nei suoi discendenti. Altrettanto vaga è la collocazione della prossenia di Pindaro (v. 96), soprattutto con l’aggettivo generico e ambiguo di «acheo». vv. 65 sgg. Pausania (X, 24, 4-6): «Sempre qui [nel tempio di Apollo in Delfi] si può visitare l’ara presso la quale il sacerdote di Apollo uccise Neottolemo figlio di Achille (ma i particolari della morte di Neottolemo sono già stati detti altrove). Non lontano c’è il seggio di Pindaro; è un

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seggio di ferro, sul quale secondo la tradizione Pindaro, tutte le volte che veniva a Delfi, usava sedere e cantare ogni suo carme per Apollo. Nella parte più interna del tempio, e dove pochi accedono, si trova anche un’altra immagine d’oro di Apollo. Uscendo dal tempio e voltando a sinistra c’è un peribolo, e in esso la tomba di Neottolemo di Achille; e in suo onore i Delfii fanno riti funebri annuali». v. 78 da qui, da questa mancano nell’originale, ma noi, non presenti all’esecuzione dell’inno, dobbiamo precisare. vv. 106-8 Immagine sportiva molto familiare a Sogene e comprensibile anche per noi; il poeta non ha mai commesso slealtà. vv. 109-112 Fu dunque una vittoria rapida, anche se non facile. v. 118 fiordaliso: il leivrion a[nqemon è certo fiore (e non il corallo come qualcuno propone) al quale l’attributo della realtà botanica è il meno necessario; molto di più, piuttosto, il colore, anche se, niente di strano, viene taciuto. vv. 132 sgg. abiti in te: nel Dio, sotto la sua tutela. Ma quale Dio? Si pensa a Eracle. Ma il pensiero è piuttosto vicino a Zeus, al quale particolarmente si addice il titolo di vincitore dei Giganti. In Pausania non c’è ricordo di un tempio di Eracle a Egina, mentre sull’attuale Oros (monte), allora chiamato «di Zeus Panellenio», sorgeva un suo tempio, il principale dell’isola, dedicato da Eaco stesso, presso quello famoso della divinità locale di Afaia (Pausania, II, 30, 3-4), celebrata anche da Pindaro. Gli scavi confermano. Dobbiamo pensare che ci fosse un complesso di edifici dove, sullo sfondo della dimora degli Eussenidi, dominavano quattro tetti che suggerivano l’immagine di quattro dorsi di cavalli. v. 153 espressione proverbiale, detta di chi si vantava troppo ripetendo troppo (come pare avessero fatto i cittadini di Corinto nei riguardi di Megara) le proprie benemerenze.

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[VIII] PER DINIDE A EGINA La più severa e dolorosa delle odi, tra le pochissime in cui manchi sia lo splendore del mito che il diffuso sorriso latente di tanta poesia pindarica. L’invocazione con cui si apre mette in rilievo questo tono. La «Bellezza» – Pindaro suscita una visione volutamente vaga – non è umana, è quella che avvolse, qui ad Egina, l’amore di Zeus; ma per gli uomini la luce si spegne e per loro volontà. Non è il buio della morte, è l’«opaco» (v. 54) dei valori negati. In questo epinicio non ci sono che vinti, e Aiace ne è il simbolo. Il poeta continuerà a non mentire e innalzerà la sua «stele» alla virtù; ma l’immagine è mortuaria. Per tutto questo non l’accosteremmo, con Aimé Puech, alla nemea settima né alle altre odi polemiche, tutte combattive e vitali. Qui c’è un motivo addirittura nuovo, sebbene velato perché estraneo alla coscienza: quello che diciamo «l’unità dell’Ellade». Troppo forti i versi che ricordano la lotta di tutti i greci intorno al cadavere di Achille, quando affondavano le lance nella carne calda del nemico (poi per le spoglie, sulle sue spoglie, «si insinuò» la menzogna); troppo rilevata la dolce sudditanza di Atene e Sparta, nomi violenti, al giustissimo Eaco figlio di Zeus. Viene in mente che nell’imminenza di Salamina «si invocò l’alleanza degli Eacidi», «si mandò una nave ad Egina per Eaco» (Erodoto, VIII, 63): non era lui il simbolo e il protettore dell’unità dei greci, della vera «libertà», che Pindaro sente molto di più ora che è perduta che non al tempo dell’ottava istmica? Ecco perché, nel suo santuario, lo supplica e ne abbraccia le ginocchia (v. 19). Quando Pindaro avrà vista perduta quella pace e quella libertà? Si penserebbe dopo Itome (462), al tempo della rottura tra Atene e Sparta e della più spericolata politica di Atene, delle minacciose alleanze, della feroce distruzione di Micene – rimasta per sempre un cumulo di rovine – da parte di Argo. Ma prima che nella discordia generale fossero coinvolte Egina e Tebe (458) e minacciate le loro esistenze, risvegliando l’invincibile vitalità del poeta. v. i Bellezza: nell’originale è Hora, eccezionalmente al singolare. Le Ore, affini alle Grazie, sono divinità della primavera e della bellezza. L’«inesprimibile» del momento è suggerito anche dal silenzio sui «ministri» (nel testo, pastori-signori), che offrono i doni di Afrodite in questo che è il più eletto e regale degli amori. v. 57 rocciosa: è l’epiteto di Atene in Aristofane (Uccelli, 123). Si pensa all’Acropoli e al Licabetto, veri «scogli» sulla pianura.

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vv. 19-20 Dunque la cerimonia si svolge in un luogo sacro a Eaco, cioè nell’Eacèo, dove c’era anche l’immagine dell’Eroe (Pausania, II, 29, 6-8). v. 22 diadema di Lidia: il poeta allude a un ritmo «lidio», ma pensa a un gioiello dalla luce cangiante. v. 28 Cìnira: v. nota a P. II, 27. Di Cipro, contesa alla Persia, si parlava molto al tempo di questa ode. vv. 30 sgg. ecco, e sospiro: l’ajmpnevwn dell’originale fa pensare al «prender fiato» e così viene più o meno tradotto generalmente. Ma occorreva, per uno sdegno così immediato? Era opportuna l’enfasi, con un’ira così severa? Penseremmo che in questo contesto Pindaro – «appresso d’un pio sospiro», come Beatrice in altro caso – trascorresse dalla preghiera all’amara invettiva, dal divino al mondo. Non dimentichiamo che abbracciava le ginocchia di Eaco: ora si leva in piedi. Anche qui, come nell’ottava istmica, avrebbe preferito tacere. – «La parola è cibo / dell’invidia»: penseremmo che sia questo il «rischio», l’azione tutta in perdita, di cui si parla (qualcuno ha pensato a una sorta di «discorso ingiusto» rivolto ai sofisti; ma non si vede che luogo abbia qui ed è pensabile che Pindaro fosse troppo lontano da loro per temerli abbastanza. Il suo «discorso giusto» è un altro, è il solito, la poesia. Essa non giova se non ci sono i cuori adatti ad ascoltarla). vv. 41 sgg. Si allude al suicidio di Aiace, che non sopportò l’ingiusto giudizio che assegnava ad Ulisse le armi di Achille. v. 71 Mega: il padre morto del dedicatario Dinide.

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[IX] A CROMIO DI ETNA Messaggio a Cromio, cognato di Ierone (v. N. I) e ora signore di Etna, la «nuovamente fondata». L’occasione, una vittoria a Sicione, secondaria e già lontana nel tempo (v. III), è poco meno d’un pretesto. La bella sentenza che accompagna l’ode (vv. 12-14) sa di giustificazione non richiesta. Certo e vero è l’allarme del poeta per un pericolo imminente di cui le fonti non informano; Pindaro parla di Cartaginesi e depreca una guerra offensiva forse desiderata dalle truppe mercenarie, ma è probabile che temesse soprattutto la fragilità politica della signoria dinomenide, a cui una guerra esterna sarebbe stata fatale; e che tra non molto sarebbe infatti caduta senza bisogno dei Cartaginesi. Si dovevano difendere le cose raggiunte, tutto il passato; la preghiera a Zeus con cui l’ode si chiude è anche un ammonimento agli uomini. Il mito stesso è un ammonimento, quello di non ripetere Adrasto – il fondatore delle gare – che distrusse una potenza ricostituita con la concordia e le grandi nozze, per sordità al volere di Zeus. Ciò che in termini razionalistici si dice appunto errore e irrazionalità. vv. 2-5 Un itinerario ideale, dal luogo (o si direbbe dal tempo) della vittoria a Etna, la vecchia Catania ripopolata di nuovi cittadini, in gran parte mercenari dorici; ma il termine greco si associa all’immagine della «costruzione». v. 10 la Madre: Latona, madre dei gemelli Apollo e Artemide. vv. 29 sgg. Una vicenda politica in chiave mitica. Adrasto di Argo, uno dei figli di Talao, lasciò la città per l’ostilità di Anfiarao e si rifugiò a Sicione dove fondò i giochi. Poi avvenne la riconciliazione, di cui furono pegno le nozze con Erìfile sorella dell’esule, e ciò ne risollevò la potenza. Entrambi poi parteciparono alla tragica spedizione dei Sette contro Tebe. vv. 37-38 Di quel forte, Anfiarao, fu più forte la sposa, causa della sua rovina, in quanto, approfittando di un giuramento che la faceva arbitra delle controversie tra i due clan, gli impose di partecipare a un’impresa di cui il guerriero indovino prevedeva l’esito. Pindaro non accenna al particolare, e forse lo rifiuta, secondo cui Erìfile era stata corrotta da un meraviglioso monile. vv. 55 sgg. Il terrore di Anfiarao potrebbe essere psicologico; Pindaro preferisce attribuirlo a un intervento divino, altrettanto ingiudicabile di quello di Zeus che lo salva dal disonore (razionalmente insussistente) e ne esalta la memoria, perpetuando l’oracolo nel luogo dove la terra lo inghiottì.

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vv. 87-88 Sull’Eloro, in una località non identificata («il guado di Rea»), avvenne la battaglia con cui cominciò la fortuna congiunta dei Dinomenidi e di Cromio. v. 108 i calici d’argento: evidentemente il premio che si usava dare nelle gare di Sicione.

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[X] PER TEAIO DI ARGO Un singolare canto di nobile ambizione. La doppia vittoria di Teaio (alla lotta) negli Heraia – dopo una lunga serie – esaspera la speranza, come se mancasse un solo gradino per giungere alla cima d’una scala; «alla vetta delle gare», naturalmente a Olimpia. Teaio non osa chiederlo; lo chiede il poeta per lui, come si può pregare qualche volta il divino, al limite tra la giustizia che l’uomo comprende e quella che solo il divino può giudicare. È il segreto psicologico dell’ode. Ma Teaio ne soffre (v. 57), in questo giorno della sua festa. Se Teaio «tace», il poeta è di un’estrema discrezione con Zeus, come con un sovrano; il nome di Olimpia è appena sfiorato e subordinatamente al nome di Eracle (v. 61). Ma è come una cerniera dell’ode. Dopo, come se il poeta fosse se non esaudito certo già «udito» dal Dio, risale lietamente ai gloriosi precedenti, a tutte le vittorie del campione e della ascendenza. Ma ci fu un segno ancora più esplicito della benevolenza divina, l’ospitalità dell’avo Panfae ai Dioscuri. Era probabilmente una tradizione un po’ segreta della casata, ma gli Dei sanno tutto; e sono «fedeli». Il «patto» – la diatheke – col divino è sempre fondato sulla sudditanza umana, sull’assoluta discrezionalità divina e su un codice. La saga dei Dioscuri, evocata con particolare commozione, dà lo spirito di questa «fedeltà» e restituisce all’occasione, agli Heraia di Argo, ispirati alla tradizione guerriera, il suo più alto significato: la sublimazione di questo spirito, diciamo pure di questa Kamaradschaft, la fraternità, il dono di sé. Il momento storico che si offre spontaneo è quello della pace di Cimone del 451, quando Atene e Sparta deposero le armi e Argo tornò nell’alleanza con la città dei Dioscuri. In questa cerimonia antichissima, al santuario di Era – circa otto chilometri dalla città – al quale si andava in perfetta tenuta di guerra e in cui si dava come premio al vincitore uno scudo di bronzo, Pindaro ricorda che c’è qualcosa che va oltre e corona i dolorosi «grandi fatti» (v. 123) e le sventure della guerra (era avvenuta da circa sei anni la disfatta di Egina e di Tebe). L’«ambizione» di Teaio, che dev’essere abbastanza spirituale da permettere un «diritto», cioè una preghiera come questa, è nell’ethos dei divini ospiti. v. 2 cinquanta regali fanciulle: le Danaidi, che il padre guidò ad Argo per mare fuggendo dall’Egitto per orrore delle nozze con i cinquanta figli del re eponimo del paese. È l’argomento delle Supplici di Eschilo (e della perduta Danaide, poema certo noto a Pindaro). Danao rivendicava ed

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avrà il possesso di Argo (di cui è re, per Eschilo, Pelasgo, per Pausania un discendente della dinastia remota di Foroneo, alla quale appartenne Io, la perseguitata da Era). Ebbero diritto d’asilo, ma i figli d’Egitto le raggiunsero e imposero le temutissime nozze; Danao ordinò alle figlie di uccidere gli sposi durante la prima notte. Una disobbedì, Ipermestra (vv. 10-12), sposa di Linceo. Fu consiglio d’amore; ma dovette affrontare il giudizio del padre e del popolo, che infine, non senza l’intervento di Afrodite, perdonarono e lodarono (ancora al tempo di Pausania – II, 20, 7 – si indicava il luogo in cui, con questa sentenza, si riconobbero i diritti dell’amore e della vita). v. 7 Perseo [di cui v. P. XI] era oggetto di particolare culto in Argo (Pausania, II, 18, 1), sebbene il suo mito fosse soprattutto legato a Serifo (v. P. XII). v. 9 Èpafo: figlio di Io e di Zeus. Il richiamo evoca le insistenti tradizioni dei rapporti tra Argo e il mondo egiziano, nel modo più rapido e anche più onorifico. v. 14 Diomede non era di Argo, ma fu genero del re argivo Adrasto. E soprattutto non ebbe l’immortalità: Pindaro deve avergliela attribuita per necessità logica: non poteva non essere partecipe del divino chi si misurò con gli Dei, al punto che secondo Omero – ma Pindaro questo non l’avrà accettato – «ferì» e vinse Ares e Afrodite. v. 17 Anfiarao: anche lui «divinizzato» da una divinità, la Terra che lo accolse in sé. v. 25 Anfitrione: di origine argiva, poi emigrato a Tebe; e qui la sua sposa, l’argiva Alcmena, ricevette Zeus e concepì Eracle. v. 51 piana venerabile: di Nemea. vv. 66-68 L’anfora piena d’olio, premio nelle Panatenee. v. 72 Fusione di bellezza e spirito eroico (i Tindaridi erano Castore e Polluce, il cui mito chiude grandiosamente l’ode). vv. 73-74 Trasiclo e Antia: ascendenti materni del vincitore. v. 77 Preto: nipote di Linceo e re di Tirinto. vv. 82 sgg. argentei: come illuminati dall’argento delle coppe che si davano ai vincitori delle gare di Sicione. Così a Pallene si donava un mantello e qui ad Argo uno scudo di bronzo, e altri premi bronzei venivano dati a Clitone e a Tegea (in Arcadia) e in altri luoghi non precisati. v. 110 Terapne: luogo presso Sparta, dove erano le sepolture di Menelao e di Elena. V., per lo svolgimento dell’episodio, l’Introduzione alle pp. 43-44). v. 118 Linceo: famosa (e magica, perché penetrava anche gli oggetti solidi) la vista di Linceo (da non confondere con quello del v. 23).

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[XI] PER IL PRITANO ARISTAGORA DI TENEDO Per Aristagora figlio di Agesilao, che entra in carica come pritano annuale, la massima magistratura della sua piccola patria, l’isola di Tènedo di fronte alla Troade. C’è un innegabile contrasto nella sua sorte. Al valore – confermato da sedici vittorie – e alla ascendenza eccezionale, per parte paterna da Pisandro, colonizzatore dorico di Tenedo a fianco di Oreste, e da parte materna dal tebano Melanippo, non corrisponde la consacrazione delle gare panelleniche. Ne fu causa la troppa prudenza dei genitori, dice esplicito il poeta, che con la stessa senile autorevolezza si fa garante del merito. C’è un problema che potremmo dire teologico, quello del «rischio»: fino a che punto si può provocare la «Tyche divina»? Dov’è la giusta misura tra la temerarietà e la troppa prudenza, che può contribuire ai misteriosi oscuramenti periodici delle sacre casate? Pindaro non risolve, ma ha il suo punto fermo: l’«approdo» giusto, la via giusta che ha sempre indicato e celebrato. Anche dove c’è l’errore, la «follia», è sempre minore follia. L’età avanzata del poeta, più che dalla patria che il campione ha in comune con Teosseno, amato dal poeta neiili ultimi anni (fr. enc. 4), è avvertita dal tono di questa ode pura, fedele, esplicita e mortale (vv. 24-26). v. 1 Estìa: Dea del focolare, della continuità della casa e della città. La sua immagine era nel pritaneo di Tenedo come in quello di Atene, e come in questo (Pausania, I, 18, 3) ornata di scettro (v. 6). Le spettavano i primi omaggi cultuali (vv. 9-11). v. 36 d’un ragazzo: come pritano, probabilmente Aristagora non è più ragazzo; Pindaro parla del ragazzo di un tempo, frenato da questi genitori che, senza colpa, sbagliarono. vv. 51 sgg. Pisandro: non è altrimenti conosciuto e anche la colonizzazione dell’Asia eolica da parte di Oreste è singolare; probabilmente sono gelose tradizioni della famiglia, da Pindaro accettate con rispetto. v. 5 Melanippo: difensore di una delle sette porte aggredite dai campioni della spedizione celebrata nei Sette contro Tebe (cfr. vv. 407-416). v. 70 non sente vergogna: nel senso, penseremmo, della sua terribile imprevedibilità: come la morte non guarda in faccia a nessuno (v. la chiusa della decima pitica, dove nell’originale c’è lo stesso aggettivo, ajnaidhv"), così la speranza esalta o annulla.

ISTMICHE

L’ISTMO

Le gare dell’Istmo sono connesse intimamente col mare: sacre a Posidone, uniche tra le panelleniche non celebrate nel retroterra, non prive di tracce di gare nautiche, fondono il motivo funerario con quello dei culti marini: da quel luogo, «nell’ombra di pini fittissimi» (Strabone, VIII, 6, 22), Ino, atterrita dall’improvvisa follia dello sposo Atamante, si gettò in mare con il figlio Melicerte, per essere trasformati entrambi in divinità marine, Leucotea e Palemone, trasparenti nomi greci che cancellano le tracce semitiche del nome primitivo del figlio. Al solito, altre leggende, ispirate dalla «boria delle nazioni», si associarono a questo nucleo. Il «marmo di Paro» stabilisce per una prima fondazione una data corrispondente al 1259 a.C. «L’era istmica» si faceva cominciare dal 582-1. Il prestigio era notevole e la durata si prolungò almeno fino al tempo dell’imperatore Giuliano (v. Epist. 35). Minime le tracce archeologiche del santuario, presso la costa del Saronico sulla riva occidentale dell’attuale canale di Corinto. E l’immensa pineta è scomparsa. I giochi furono amministrati da Corinto, fino alla distruzione della città da parte di Mummio (146 a.C.) e poi ancora dal tempo di Cesare; anche Atene però aveva diritti. Si celebravano ogni due anni, secondo e quarto di ogni olimpiade, in primavera al tempo di Pindaro, si aprivano con un sacrificio a Posidone nel suo antico tempio, ligneo e policromo, e duravano più giorni. Comprendevano il pentatlo, il pancrazio, il «dolico», le corse dei cavalli e dei carri. Una peculiarità, le prove per gli «imberbi», intermedi tra i «ragazzi» e gli adulti (c’era un pancrazio per loro). L’antica corona di pino, sostituita già al tempo di Pindaro con l’apio «dorico», fu dottamente ripristinata in età imperiale.

[I] PER ERODOTO E PER TEBE

PINDARO

ISTMICHE, I [PER ERODOTO E PER TEBE]

PINDARO

ISTMICHE, I [PER ERODOTO E PER TEBE]

[II] RICORDO DI SENOCRATE

PINDARO

ISTMICHE,

II [RICORDO DI SENOCRATE]

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II [RICORDO DI SENOCRATE]

[III] PER MELISSO DI TEBE

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ISTMICHE,

III [PER MELISSO DI TEBE]

[IV] PER MELISSO DI TEBE

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ISTMICHE,

IV [PER MELISSO DI TEBE]

PINDARO

ISTMICHE,

IV [PER MELISSO DI TEBE]

PINDARO

ISTMICHE,

IV [PER MELISSO DI TEBE]

[V] PER FILACIDA DI EGINA

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ISTMICHE,

V [PER FILACIDA DI EGINA]

PINDARO

ISTMICHE,

V [PER FILACIDA DI EGINA]

[VI] PER FILACIDA DI EGINA

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ISTMICHE,

VI [PER FILACIDA DI EGINA]

PINDARO

ISTMICHE,

VI [PER FILACIDA DI EGINA]

PINDARO

ISTMICHE,

VI [PER FILACIDA DI EGINA]

[VII] PER STREPSIADE DI TEBE

PINDARO

ISTMICHE,

VII [PER STREPSIADE DI TEBE]

PINDARO

ISTMICHE,

VII [PER STREPSIADE DI TEBE]

[VIII] PER CLEANDRO DI EGINA

PINDARO

ISTMICHE,

VIII [PER CLEANDRO DI EGINA]

PINDARO

ISTMICHE,

VIII [PER CLEANDRO DI EGINA]

PINDARO

ISTMICHE,

VIII [PER CLEANDRO DI EGINA]

NOTE ALLE ISTMICHE

NOTE ALLE ISTMICHE

[I] PER ERODOTO E PER TEBE Ode di rivendicazione serena, quanto appassionata è quella duplice per Melisso (I. III-IV). Anche qui l’occasione è una vittoria, per non dire una rivincita, di Tebe, attraverso il successo di Erodoto (si parla anzi di sei vittorie, non sappiamo come accumulate, dalla città s’intende, in queste splendide istmiche). Quali nel tempo? Non ci sentiamo di non identificare Asopodoro, il padre del campione, con il valoroso capitano della cavalleria tebana a Platea (v. Introduzione, p. 20). Dopo il «naufragio» fu esule ad Orcomeno (dove c’erano possessi della moglie, informa uno scoliasta), e la sventura l’aveva fatto «preveggente», cioè nei termini della cronaca gli avrà dato occasione di dimostrare quella avvedutezza pratica che spesso caratterizza i militari che lasciano il servizio. I successi del figlio, culminanti in questa vittoria, sono la dimostrazione esemplare che le disfatte non impediscono le grandi tradizioni e le nobili ambizioni, quelle che hanno la loro ricompensa in se stesse e nella disinteressata poesia. Si sfiora una radicale polemica contro l’utilitarismo. Anche il guadagno vile ha in sé la sua ricompensa e a difesa del gratuito c’è la morte, anch’essa gratuita. In termini nostri Asopodoro è un esempio di comportamento di fronte alla nobiltà imborghesita. Placidamente e trionfalmente, si può risalire all’origine, all’alleanza ideale di Castore e Iolao – cioè di Sparta e di Tebe –, grandi aurighi e campioni per eccellenza delle gare che continuano. Viene opportunamente ricordato che esse sono rito e che cosa significa la musica tradizionale del «canto di Castore». Nulla è mutato, anche se il fatto è così memorabile che la stesura d’un peana per Ceo (l’attuale quarto) viene precipitosamente rimandata (vv. I-II). vv. 2 sgg. Il poeta è impegnato in un inno per Apollo (possiamo pensare al IV peana, di cui resta un frammento, cfr. p. 95) che deve rimandare a causa di questo epinicio dovuto alla patria e a Strepsiade: e Delo, dove è nato e onorato Apollo (apollinea) perdonerà, per questo amore filiale, il ritardo. Anche perché le due opere appariranno idealmente unite, «aggiogate) come cavalli d’una quadriga. Se ad ascholla diamo il senso etimologico, tradurremmo «del tempo avaro», con minore chiarezza. v. 7 Cariti: il compimento, il fine, télos, che è una duplice opera di poesia, parrebbe ancora meglio attribuibile alle Cariti che alla cortesia del poeta (come però interpretano Puech e Privitera). vv. 13-15 il figlio è Eracle, ricordato per un’impresa sola ma tra le più remote e ultime (la decima, secondo Diodoro Siculo), cioè l’abigeato delle vacche del mostruoso Gerione nel lontano occidente (v. anche il fr. inc. 49). La mandra era difesa da un cane bicipite, secondo la tradizione vulgata.

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v. 18 Erodoto guidò il carro con le sue mani, senza servirsi, com’era uso, di un auriga. Merito che non andava, per delicatezza, troppo sottolineato, ma notato certamente. vv. 19-20 l’inno di Castore era cantato in onore del vincitore (cfr. P. II, 1067); qui vi è associato, non senza intenzione, Iolao il figlio di Ificle (v. 38), il fratello mortale di Eracle e suo alunno e compagno. Forse, con questo perfezionamento, l’inno tradizionale s’identifica con l’ode presente. v. 30 tempestose di opliti e di pavesi: era l’imponente corsa dei campioni con l’armatura di guerra. v. 39 Sparti: gli uomini «seminati» (come significa la parola) dai denti del drago di Cadmo; dai pochi sopravvissuti alla loro reciproca distruzione sono discesi i Tebani. v. 41 Terapne: luogo elevato vicino a Sparta. v. 44 rive d’Onchesto: sul lago di Copaide sorgeva la città di Onchesto, e in essa il santuario di Posidone, già salvatore del «naufragio» (v. 49), che crediamo metaforico, e ora autore primo della vittoria. Orcomeno sorgeva nelle immediate vicinanze. Al Dio sono rese grazie dopo (vv. 75-79) senza ovviamente dimenticare né Eracle né «Ermete agonio». vv. 80 sgg. Sono i sei luoghi delle vittorie di Erodoto alle quadrighe, nominate secondo gli eroi a cui erano dedicate, meno uno, l’Eubea, sacra all’infausto Ade. Minia è l’eroe mitico di Orcomeno e a Protesilao erano dedicate le gare di Filace (presso Tebe dell’Acaia Ftiotide, non quella di Beozia). v. 96 ingiuria e irride coloro che vivono gli ideali cavallereschi simboleggiati dagli agoni.

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[II] RICORDO DI SENOCRATE Un canto di nostalgia orgogliosa e rivendicatrice. Un canto o meglio un messaggio, recato dall’amico Nicasippo, all’amato Trasibulo della sesta pitica e di quel quinto encomio di cui sopravvive un frammento gioioso. Non sappiamo dove e quando. La lontananza è decisiva, senza accenni a un rivedersi; certo il padre Senocrate è morto e la felicità d’un tempo è finita. Più finita che morta. Nonostante l’amarezza per la volgarità del presente, incapace di gratuito, le glorie, anzi la gloria del padre deve, dunque può essere difesa; il ricordo è una forza, un’asserzione. Gli esempi ideali non muoiono, finché l’ideale è condiviso; e anche Trasibulo è chiamato «saggio», l’attributo della poesia e di quel vivere. La morte di Senocrate dev’essere recente, appena annunciata, ma non ne conosciamo l’anno; dopo la caduta degli Emmenidi (c. 471), e diremmo pure dei Dinomenidi, la data può essere anche di molto abbassata. vv. 6-7 stagione: il greco ha opora, la tarda estate, quando la frutta (cfr. il tedesco Obst!) matura, come maturano gli efebi (inni paideloi, precisa il testo). Privitera parafrasa «la dolce maturità dell’estate»», ma purtroppo la doppia immagine è impossibile in italiano. – la regina: nel testo «dal bel trono», come l’Afrodite della prima ode di Saffo ha un «trono variopinto»: espressioni senza equivalente nell’immaginazione religiosa moderna. vv. 9 sgg. senza compenso: nell’originale «artigiana», che non ha corrispondenza attuale e tradurrebbe qualcosa di opposto a ciò che sente Pindaro; lo stesso termine usa Callimaco a proposito di Simonide di Ceo (fr. 77) e non a caso, ma ciò non significa che Pindaro pensasse troppo a questo evidente esempio; il suo pensiero era tutto nell’esempio contrario. – Per argentata cfr. P. XI, 74 («mercenaria»). vv. 1315 Questo argivo secondo gli scòli sarebbe un certo Aristodemo, ricordato anche da Alceo ma come spartano. vv. 30-31 Nicomaco fu l’auriga di quella lontana vittoria olimpica, già celebrata da Simonide; essa fu annunciata come al solito dagli spondofori («portatori di tregua», la tregua sacra delle gare) elei, già ospiti suoi. Il particolare, in sé ovvio, preannuncia il motivo della letizia e della «venerazione»» che pareva accompagnarla. v. 39 i figli d’Enesidamo: Terone (O. II e III) e Senocrate. vv. 55-56 detto proverbiale, attestato anche in Bacchilide, IX, 40 sgg. e in Euripide, Andr. 650 sgg. Al tempo di Pindaro il Fasi (nell’estremità orientale del difficile e settentrionale Mar Nero), e il Nilo, rappresentavano i punti più remoti di una navigazione possibile. Il significato, intuibile e insieme impreciso, esalta, con enfasi quasi popolare, l’estrema disponibilità di quel grande ospite. v. 63 fraterno: ethaîos era termine particolarmente usato tra fratelli, come osserva Georges Méautis con fini illazioni.

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[III-IV] PER MELISSO DI TEBE Poche odi come la quarta sono così cariche di sottintesi, di cui ai lontani, ai quali non è nel suo intimo rivolta, non è dato capire che il sentimento. Forse basterebbero questi versi per dire quale fu la patria di Pindaro. L’occasione è una vittoria al pancrazio di Melisso, della grande famiglia che discendeva dall’antico Cleonimo e per parte materna dai re, i Labdacidi, la gente di Edipo. Il valore di Melisso non è solo di vecchia data (vv. IV, 126-7), è scontato; la sua corona di mirto è già superata. Il discorso è un altro. Quale, non saprebbe dirlo bene neppure Pindaro, e infatti non lo ha detto. È Tebe. È la città loro, distrutta dopo Platea, è quel mondo cavalleresco dai «carri curvi» sempre presenti, che ha i suoi lunghi «sonni». Quale più lungo di questo, dopo il tempo di Cleonimo, celebrato dai «poeti di allora»? Non ci meraviglieremmo affatto che Pindaro non sapesse chi mai erano. Certo è solo questo, che il mondo bello non muore, che la poesia lo eterna e che è indispensabile alla sua vita. Anche qui non ci meraviglieremmo se non l’avesse mai pensato prima d’ora, con paragonabile certezza (vv. IV, 73-77). Onnipotenza della Ventura – come tradurremmo qui la Tyche – il Caso per i filosofi del futuro, il segreto più difficile della provvidenza per i fideisti d’ogni tempo e anche per Pindaro; ma qui sentiamo che l’occhio è più fermo sull’umano che levato al cielo, è con quei «quattro morti», con tutte le ingiustizie subite (v. IV, 59-61), con Aiace suicida perché giusto, vittima di «tutti i greci», con Eracle parricida per follia, vittima del divino, non meno degli otto figli per i quali la fiamma del sacrificio «scalcia» rabbiosa. Melisso e Pindaro, i due vicini di dimore, di patria e di spirito» si capivano bene, e quella lotta rivendicatrice, in cui il campione poco vistoso s’era fatto «golpe e lione» e per il fine giusto aveva usato tutti i mezzi, è rappresentata con troppa energia per avere solo il suo significato sportivo e letterale. (È questione se si tratta di due odi o di una sola, come proverebbe il metro uguale, caso unico in Pindaro. Per la divisione milita, oltre gli scòli e parte della tradizione manoscritta, un doppio baricentro: rispettivamente una vittoria nemea, con la quadriga e una istmica al pancrazio. Inoltre nella quarta non è ricordata tra le vittorie del passato quella molto prestigiosa della terza; ciò confermerebbe l’ipotesi della posteriorità di questa, che dunque risulterebbe, a rigore, una breve, forse frettolosa, ode nemea).

NOTE ALLE ISTMICHE III

v. 15 Cariti: al solito, le divinità e insieme le opere loro, in questo caso la cortese ode, duplice come la vittoria di Melisso (sull’Istmo e a Nemea, dove Eracle vinse il leone «dal petto profondo»: la sensazione più immediata che ispira il suo ruggito). IV

v. 14 prosseni: il pròsseno, all’opposto del console moderno, rappresentava non i concittadini all’estero, ma i cittadini stranieri nella città: i quali così gli dimostravano la loro fiducia e considerazione. Pindaro stesso era stato riconosciuto prosseno, evidentemente in Tebe, dagli ateniesi, dai molossi (v. N. VII, 96) e pare da altri. vv. 26-29 I quattro uomini forti sono evidentemente quattro caduti delle due famiglie celebrate, possiamo credere nella infelice battaglia di Platea (479 a.C.). vv. 34 sgg. Chi muove la terra è Posidone, in onore del quale si celebravano le Istmiche; lui ha dato a Melisso la vittoria e al poeta il canto. La dimora di Onchesto è naturalmente il suo tempio. Il giaciglio dove dormono tante glorie è la memoria della stirpe. vv. 62 sgg. Evocazione del suicidio di Aiace, che non volle sopravvivere all’ingiustizia quando le armi di Achille furono assegnate a Ulisse. Un tocco di immaginario realismo arcaico è l’ora del fatto: la notte tarda, non molto prima cioè che venisse l’alba, la luce temuta; così quella forza che nessuno aveva vinto fu troncata dalla sua stessa spada (se phoínion non dipende da alkàn). v. 8 si rovescia: cioè resiste all’assalto dell’aquila non facendosi prendere sulla schiena, ma rovesciandosi sul dorso e battendosi col morso e le unghie: valorosa non meno che accorta e lucida. Similitudine realistica quanto calzante, perché proprio nel pancrazio era lecita e usata una mossa analoga. vv. 90 sgg. Melisso non aveva la natura (nella sua accezione primaria di «taglia») del gigantesco cacciatore Orione. Così Eracle non aveva quella di Anteo, battuto con la forza e l’astuzia: Anteo attingeva la sua forza inesauribile dalla terra, ed Eracle lo soffocò tra le braccia senza permettergli di toccare il suolo (viene in mente il famoso quadro del Pollaiolo agli Uffizi). Il selvaggio Anteo offriva le teste tronche dei vinti, blasfemicamente, a Posidone. vv. 153 sgg. le porte Elettre erano a sud-est della Cadmea tebana, dove doveva trovarsi la casa del celebrato, presso le tombe dei figli che Eracle ebbe da Megara e uccise quando fu colpito dalla follia. Non ci sono prove che al tempo di Pindaro mancasse alla saga di Eracle questo orribile, fondamentale momento. – di bronzo diremmo le loro immagini. v. 124 bianco: il colore della fioritura del mirto. v. 130 Orsea: l’allenatore.

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[V] PER FILACIDA DI EGINA L’ode fu composta e va letta dopo quella che segue nell’ordine tradizionale, la sesta. La distanza di tempo è breve e forse brevissima, ma c’è stata di mezzo l’invasione, la «defezione» di Tebe, la battaglia di Salamina del settembre 480. La vittoria qui celebrata avrebbe dovuto essere stata nell’aprile dello stesso anno; l’ode parrebbe dunque in ritardo e l’occasione forse è fittizia. Le parole austere e dolorose che alludono alla sorte di Tebe, «spegni il vanto nel silenzio» (v. Introduzione p. 20), sono anche una giustificazione. Del resto il successo agonale è secondario e gli Psalichidi per primi sanno di non essere al centro di tutto. Ma non si può non continuare il discorso «di prima». Dunque Zeus era stato troppo «tentato». Pindaro lo ammette ricordando ciò che senza questo sottinteso sarebbe troppo ovvio e detto con troppa violenza, cioè che «non siamo Lui». La sua volontà è stata del tutto imprevedibile; ma al solito, la fede non ha avuto torto. Si era sperato negli Eroi, e questa è ancora l’ode degli Eroi; si era parlato della nascita di Aiace, e qui Aiace è il protagonista, il vincitore di Salamina, l’isola sua, attraverso i marinai di Egina dove ci fu il segno (I. VI, 67 sgg.). E sono tutti gli Eroi, quelli delle città confederate, delle neutrali come Argo e delle collaborazioniste come Tebe. Il giudizio di Pindaro è filoegineta, ma coincide con quello generale dato da Temistocle (v. Introduzione p. 16). Anche la misteriosa, ardente invocazione a Teia deve avere questa ragione più grande (un suo culto in Egina, anche se fosse dimostrato, sarebbe molto più banale); l’antica divinità testimoniata dal beote Esiodo, madre del sole, è la luce del successo; mentre Zeus è la volontà imperscrutabile, essa è l’evento felice. Di fronte a tanto, la speranza «di prima», in una vittoria olimpica, è addirittura dimenticata. v. 1 Teia: nella Teogonia di Esiodo è sorella e sposa del titano Iperione e madre del Sole (vv. 371 sgg); più simbolo (come conferma il nome molto generico, «la divina») e «frutto di speculazione mitologica» (Privitera) che non divinità oggetto di un culto preciso, forse rappresenta la passione umana, gloriosa e pericolosa, di assomigliare agli Dei; quella che fa onorare come sacro ma anche troppo venerare l’oro. v. 21 Pìtea: fratello di Filacida e figlio di Lampone. v. 23 Eaco: eroe egineta, particolarmente venerato da Pindaro, è figlio di Zeus e padre di Peleo (a sua volta padre di Achille) e Telamone. vv. 30 sgg. – Al tempo degli Eroi...: il testo dice «i valorosi degli Eroi» con significato dunque partitivo: ma c’erano Eroi non valorosi? Psicologicamente indica tutta l’epoca gloriosa in cui nacquero i veritieri racconti

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che i poeti hanno raccolto e continuano in onore dei loro discendenti, ideali o dinastici. Prezioso accenno alla fedele tradizione, vangelo di quegli eventi. vv. 37 sgg. Eroi ricordati dalle loro patrie, come Egina (che Pindaro chiama con l’antico nome di Oinona). Telamone aiutò Eracle in una prima distruzione di Troia, e Achille l’espugnò la seconda e ultima volta, trovandovi la morte; nella stessa spedizione spense, oltre ad Ettore, Cicno e gli altri campioni. v. 55 nuova parola: il rarissimo aggettivo artiepés parrebbe di significato così generico e sbiadito che si è preferito tentare l’interessante valore etimologico. v. 75 l’intelligenza: si pensa al «Llanto por Ignacio» di Lorca: «la madurez insigne de tu conocimiento».

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[VI] PER FILACIDA DI EGINA Gli amati Psalìchidi di Egina hanno ancora vinto nella persona del fratello minore di Pitea (v. N. V), Filacida. La gioia si fa soprattutto speranza, quella della vittoria suprema a Olimpia (vv. 10-12). Pindaro viene da Tebe recando l’acqua delle Muse (vv. 106-110), di cui irrora quella terra di Eaco (vv. 29-31). E ripensa a un altro viaggio, a quando vi giunse il tebano Eracle, da Tirinto, a prelevarvi il figlio di Eaco, Telamone, per un’altra impresa, la giusta vendetta contro Laomedonte re di Troia, due volte spergiuro. Anche allora era festa, e anche allora si provocò Zeus con la speranza. Eracle gli invocò per l’ospite, nuovo sposo, un figlio simile a sé, e Zeus dal cielo diede un segno. Non si poteva partire con più ricchezza di futuro. Troia fu espugnata, Laomedonte e i figli, meno Priamo, furono spenti, e nel ritorno furono abbattuti i Meropi di Cos e Alcioneo a Flegra. È in questa temerarietà della speranza, in questa violenza della fede al giusto Zeus, lo spirito dell’ode, composta poco prima dell’invasione persiana, probabilmente nel 482; certo in un tempo di minaccia, in cui la perpetua ostilità con Atene si complica di prospettive molto più vaste e oscure. Bisogna più che mai ricordare quella fraternità d’armi, tra il tebano e l’eacide, che assicurò vittorie impreviste. v. 2 un secondo cratere: il primo fu la quinta Nemea. v. 22 il figlio di Cleonìco è Lampon, padre di Pìtea e Filàcida. Non è dunque identificabile con l’omonimo di cui parla Erodoto (IX 78), figlio del Pitea che propose lo scempio del cadavere di Leonida, ma la parentela è molto probabile. v. 25 Cloto è una delle Parche, Dee della morte, qui identificate con le Moire. v. 43 sgg. La scena, splendida, del convito, evoca l’incontro di Eracle con Telamone mentre questi celebrava il convito delle nozze. Lo sposo gli offre una coppa, e l’eroe, libando, augura, o meglio annuncia – subito assicurato da un segno di Zeus (vv. 69-71) – l’eccezionale frutto di quelle nozze, il figlio Aiace. Entrambi gli eroi partirono per la prima spedizione contro Troia, il cui re Laomedonte aveva rifiutato il compenso pattuito per l’edificazione delle mura di Troia; Posidone gli avventò un mostro dal quale lo salvò Eracle, ma anche questa volta mancò di parola, non dandogli le promesse cavalle immortali. Troia dunque fu punita di antiche colpe, mito che serpeggerà a lungo, culminando, con pregnanti significati attuali, in Orazio (Carm. III, 3, 21-24). Il figlio predestinato fu chiamato Aiace (Aias) dal nome greco di aquila, aietós, il «segno» di Zeus. Eracle appare alla reggia di Telamone, a Egina, nel suo aspetto tradizionale, coperto dalla pelliccia del leone ucciso a Nemea.

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v. 83 Eutìmene: zio materno di Filacida e vincitore nemeo (cfr. anche N. V, vv. 75-76). v. 93 Temistio: vincitore a Epidauro nel pugilato e nel pancrazio, già ricordato nella quinta Nemea (v. 90); era una delle glorie della famiglia, ma non bene individuabile nell’albero genealogico degli Psalichidi. v. 96 la parola di Esiodo: «non rimandare al domani e al dopo...», Op. 410.

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[VII] PER STREPSIADE DI TEBE Nessuna notizia del tempo e delle circostanze per questo vincitore tebano. L’unica cosa certa è la morte eroica del giovane zio omonimo, che lasciò un ricordo di dolore e di ammirazione di cui il poeta è profondamente partecipe. Ma quando? Le «ultime speranze» hanno fatto pensare a una sconfitta: dunque Enofita, del 457, dalla quale la Beozia non si riprese fino a Coronea (448-7). D’altra parte, come chiamare «felice» la patria sconfitta? Qualcuno pensò perciò a Tanagra, anteriore di due mesi (Tucidide, I, 108), vittoria vanificata dall’abbandono da parte di Sparta (a cui alluderebbe l’amara sentenza; «gli uomini non hanno ricordo...», v. 27). Un malaugurato scolio che attesterebbe la morte dello zio «durante la guerra peloponnesiaca» ha complicato tutto: o respingere lo scolio senza spiegarlo o spiegarlo con la guerra, addirittura, del 506, la «crociata» di Cleomene di Sparta e alleati peloponnesiaci e tebani contro l’Atene democratica di Clistene (tesi sostenuta soprattutto da Gaspar). Pindaro ringiovanirebbe fino ai sedici anni (e con la nascita 522!) e l’ode, di conseguenza, si rifarebbe immatura, con i chiari segni dello stile copioso (di cui rise Corinna, v. Introduzione p. 13) e con l’arcaico concetto dell’«invidia degli Dei», che si ritrova solo nella giovanile decima pitica. «Des arguments véritablement infantins», dice glaciale Georges Méautis. Non a torto. Tuttavia non proporremmo la data 456 di Méautis e neppure un’altra; ciò di cui non dubiteremmo è l’età avanzata del poeta, abbastanza avanzata da poter scrivere con tanto distacco, abitudine al genio e indifferente sicurezza. La situazione esterna, politica, è del tutto inafferrabile. La «felicità» di Tebe non è quella di ora, è quella del mito; certo, Pindaro non l’avrebbe pronunciato con la città invasa e dilaniata, come era stato dopo Platea. Ma Enofita non portò questo disastro, né al contrario è così certo che Tanagra fosse una sconfitta ateniese (v. Introduzione, p. 25). In quanto alla «guerra peloponnesiaca» dello scoliaste, se dobbiamo dargli qualche peso, poté ben dirsi tale anche questa, in cui il Peloponneso era stato invaso e gran parte della Grecia era stata coinvolta. Inoltre non sappiamo quanto tempo sia trascorso dalla sventura che ha colpito la famiglia di Strepsiade e dai brutti giorni di quella guerra, in cui, se Tebe si salvò, la Beozia venne umiliata e tremendamente saccheggiata (Diodoro, XI, 82, 5). Anche anni (chissà perché si vuole che la disgrazia sia recente) e forse molti; al limite, quel «tempo sereno» portato da Zeus potrebbe proprio essere quello della rivincita di Coronea, un decennio dopo, né l’espressione deve sembrarci

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troppo blanda; gli antichi erano molto meno retori di noi e quella vittoria non poteva essere più, per Pindaro, il ritorno dei tempi felici. Non lo erano né per lui né per il mondo. La «felicità» di Tebe apparteneva a un tempo di cui «gli uomini non hanno ricordo». Ma nella poesia, Pindaro ne è certo, vivono sempre. E la vittoria agonale di Strepsiade, che porta degnamente il nome del grande morto, merita la poesia e perfino la speranza. Per tutto questo nell’ode non c’è, eccezionalmente, la presenza del mito. vv. 5-6 Dioniso nacque dalla tebana Sèmele, figlia di Cadmo, e il suo culto fu associato a quello di Demetra Achaia (Erodoto V 61). I suoi riti erano accompagnati dal frastuono dei cembali di bronzo, come quelli della Dea Madre, a cui Pindaro dedicò un sacello; è probabile che Demetra fosse identificata con la Dea frigia (e in Frigia è attestato da un’epigrafe il suo carattere di páredros). vv. 7 sgg. il più forte degli Dei è naturalmente Zeus, qui evocato nella sua discesa, in forma di neve d’oro, nel grembo di Alcmena (come in quello di Danae, madre di Perseo), sposa di Anfitrione re di Tebe. Ciò avvenne a metà di quella notte sacra, che la leggenda arricchì e la letteratura involgarì in mille modi; in Pindaro il prodigio conserva ancora la sua sublime indeterminatezza. Passando nel mondo moderno, con l’Amphitruo di Plauto (che il commediografo definì bene una tragicomoedia), cominciò una storia di profanazioni, di paradossi filosofici e di ironia decadente (rispettivamente soprattutto con Molière, Kleist e Giraudoux, Amphitryon 38, 1929). – perché Eracle nascesse: vorremmo conservare l’indeterminatezza dell’espressione greca («nascimenti eraclei»). v. 15 Per gli Sparti v. nota a I., I 39. vv. 16 sgg. Ricordo della vittoria di Tebe e di Eteocle sulla spedizione dei «Sette» della tragedia di Eschilo, partiti da Argo, tra i quali figurava il fratello di Eteocle, Polinice. Adrasto fu l’unico superstite della disfatta, evocata con una sorta di devoto eufemismo. vv. 20 sgg. Sembrano distinti i due momenti, un’emigrazione di dori provenienti da Tebe e la specifica fondazione di Amicla, presso Sparta, da parte degli Egìdi, avi di Pindaro. vv. 54-55 Tre eroi giovani e aureolati di tristezza: Meleagro che muore piangendo la sua giovinezza, come lo raffigura Bacchilide (Epin. V 151-4), Ettore che non salva la patria, Anfiarao travolto consapevolmente dagli avvenimenti (v. N. IX, 31-61). vv. 77-78 Per il mito di Pegaso, v. O. XIII.

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[VIII] PER CLEANDRO DI EGINA A Egina – dove si trova il poeta – sono giunte notizie insieme gloriose e terribili: la vittoria di Platea (478), con cui venivano battuti e scacciati i persiani da tutto il territorio dell’Ellade, e la disfatta, più ancora morale che politica, dell’aristocrazia tebana, che era stata «collaborazionista». A stento si salvò la città dalla distruzione. Ma ai vincitori si dovettero estradare un certo numero di oligarchi che furono condannati a morte. È questo – si può congetturare ragionevolmente – il dolore di Pindaro: la sconfitta della sua piccola patria, della sua casta, del suo mondo. Così forte dolore che lentamente e penosamente partecipa, rientra nel trionfo della patria più grande: e se non crede alla libertà delle democrazie, crede a quella dello straniero. E occasione per sperare può essere anche la vittoria del giovane Cleandro, che tuttavia è celebrata con insolita sbrigatività. L’amata Egina, alleata degli spartani e degli ateniesi, è dunque tra i vincitori di Tebe. La speranza significa perciò più che mai la «pace», anzi la riconciliazione. Bisogna ricordare che le due città nacquero gemelle, amate da Zeus. E che anche gli Dei conobbero la discordia, ma l’hanno placata, sacrificando proprio il primo degli Eàcidi, Achille. Cupo eroe, questo operaio della guerra, come atroci sono stati gli eventi ora conclusi e che debbono portare anch’essi frutto di «sapienza e d’intelligenza». v. 1 Cleandro: vincitore al pancrazio all’Istmo, forse nel 480 (come suppone il Privitera), cioè già da un paio d’anni. Era figlio di un Telesarco e la sua famiglia, di antico ceppo egineta, vantava altri successi (tra cui uno del cugino Nìcocle) (v. 105). v. 8 anche a me: per quanto non egineta e, soprattutto, sofferente per la sua patria: ma è dovere verso l’amata isola e le sue dure e gloriose prove nella guerra. v. 17 il macigno di Tantalo: la minaccia persiana; per il macigno, cfr. O. I, 7981. Ma il nome del grande colpevole sottintende riserve, se non sulla causa giusta, almeno sulla bontà della parte vittoriosa. Ci sono, infatti, mali da sanare (vv. 25-26), che non possono essere quelli di Pindaro, ma sono di tutti i Greci. v. 35 Enopia: come Enona, nome antico di Egina. v. 38 Eaco: il più giusto dei mortali, nato da Zeus in Egina, come sappiamo, cfr. N. VIII. vv. 45 sgg. La glorificazione di Achille è data, in modo indiretto, da un mito

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che riconferma il ruolo eccezionale di Tetide, di antichissima e oscura origine: si sa dall’Iliade come Zeus la prediligeva. Ma un giorno l’amò e fu rivale di Posidone per la sua mano. Sottopose il giudizio all’assemblea degli Dei, vegliata da Temide, Dea dell’Ordine (un ruolo così eccezionale ha anche nel Prometeo di Eschilo), che rivelò il destino: Tetide avrebbe generato un figlio più forte del padre, armato o di un fulmine o di un Tridente più forte di quelli di Zeus e Posidone. Queste armi – metaforiche e simboliche – restano in misura eccezionale, ma umana e perciò mortale, anche in Achille. v. 70 Il centauro Chirone è divino, e «inestinguibile», eterna è la sua grotta. Probabilmente Chirone consiglierà Peleo per la conquista della fanciulla: e poi avrà cura del figlio che nascerà. v. 72 suffragi di discordia: l’uso di foglie per il voto delle assemblee è attestato (c’era a Siracusa un «petalismo» invece di un «ostracismo»); ma il passo è molto discusso. v. 73 Nel plenilunio, al vespero...: l’ora, unica, magica, del grande concepimento (come nella settima istmica fu a metà della notte). v. 74 le... briglie s’abbandonino: come quelle della puledra lanciata. vv. 83 sgg. Le imprese principali di Achille: prima la vittoria su Telefo re della Misia (in Asia), quindi l’abbattimento di Ettore, i «tendini» di Troia (che la sua forza reggeva come i tendini reggono il corpo); quindi, in ordine di tempo, l’uccisione del potente Memnone, re degli Etiopi (oltre Omero, Pindaro ha presenti tradizioni raccolte nelle Ciprie perdute, di cui resta un riassunto di Proclo). L’apoteosi di Achille, che morì, secondo Omero, per una freccia di Paride durante l’espugnazione della città, è nel lamento delle Muse sul suo cadavere. v. 105 Nicocle, cugino di Cleandro (vv. 111-2). v. 114 giochi d’Alcàtoo: si tenevano in Megara, patria di questo Eroe.

FRAMMENTI

FRAMMENTI

I «frammenti» pindarici sono stranamente sfuggiti all’epoca del frammentismo poetico, o poesia pura, al limite anche scaturita dal caso. Ora, senza perdere il loro fascino, sono restituibili più alla nostra nostalgia che alla loro vita. Attestano un Pindaro più complesso, più intimo e più «moderno»; doveva essere soprattutto qui il Pindaro «inimitabile» di Orazio. E ne attestano la fortuna, sia i frantumi papiracei che le citazioni. Citazioni miti e suggestive di Plutarco, provocatone di Platone, eleganti del più elegante degli apologisti cristiani, Clemente Alessandrino, e infine le grette schegge del grammatico; per questo, perché responsabili e significative, le fonti sono sempre citate in nota. La nota anche sostituisce il frammento troppo illeggibile o estraniato, che risulta mancante nel testo, di cui è stata rispettata la numerazione del Puech. I titoli – uno solo è originario, fr. dit. 2 – compaiono a volte per subito illuminare certi frammenti. L’ordine è quello delle «Vite» Ambrosiana ed Eustaziana (tranne gli epinici) che precisano il numero dei libri e quindi l’estensione delle sillogi. Un libro di inni in onore degli Dei e uno di peani, in onore di Apollo; due di ditirambi liberi e accesi, per Dioniso, ammiratissimi da Orazio; due di «prosodi», canti di supplicazione eseguiti in processioni sacre; tre di partèni o «canti verginali», caratteristici delle città doriche, dove l’ethos del sesso e della città è molto riconoscibile; due di iporchèmi o «canti di danza», mimati; uno rispettivamente di «encomi» (lodi corali, eseguite nei conviti, mentre lo skolion era individuale) e di «lamentazioni» per i morti, quelle che più si prestavano alla meditazione e alla speranza umana. Tutti dunque inseparabili dalla musica, dalla vita associata e dal rito. È sorprendente che con questo la pura parola, isolata e scolorita, conservi tanta forza espressiva e perciò, nonostante tutto, compiutezza.

PINDARO

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PINDARO

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NOTE AI FRAMMENTI

NOTE AI FRAMMENTI

EPINICI [1] Apertura di una perduta nona istmica, come risulta dall’unico codice che la conserva, il Laurenziano. Vi si esalta Egina, oltre che per le sue virtù tipiche, la giustizia e il culto della poesia, di più e prima di tutto per l’origine dorica, la colonizzazione di Illo e di Egimio (cfr. P. V, 72-75 e P. I, 117-8). [2] (Scolio a un passo di Luciano). Secondo Plutarco (Consol. ad Apoll. p. 109) «il consiglio» di Apollo fu quello di premiare i due primi architetti del suo tempio con un grande dono, la morte. [3] (Scolio alla quinta istmica.) [4] (Apollonio Discolo, De synt. frase sono le Nereidi.

II

p. 156, e altrove.) Soggetto della

[5] (id., De pron. p. 368 – Omesso. Il fr. 6: Eustazio nel commento dell’Odissea e altrove cita espressioni e vocaboli, di minimo interesse, non reperibili nelle opere superstiti.)

INNI [1] (Pseudo-Luciano, Encom. Dem. – per i vv. 1-7 – e Clemente Alessandrino per i seguenti.) Secondo la testimonianza di Plutarco (De gloria Athen. 4 p. 348 A) sono i versi che suscitarono le ironie di Corinna (v. Introduzione, pp. 9-10). [2] (Aristide, II, 383 Dindorf.)

NOTE AI FRAMMENTI

[3] (Vita Ambrosiana). Invocazione a Persefone (v. Pausania (cfr. Introduzione, p. 34 nota 19).

IX,

23),

[4] (Stobeo, Floril. CIX, 1.) – Il fr. 5 consta di termini isolati di inni, citati da fonti diverse (omessi).

PEANI [1] (I frammenti 1-12 appartengono ai papiri di Ossirinco.) v. 8 le Ore: v. N. VIII, 1 e nota.

[2] Abdera – colonia ionica della costa tracia, a nord-est dell’isola di Taso, ebbe destino particolarmente drammatico. Fondata dai Tei su un territorio fertile ma aspramente conteso dai Traci, dovette conquistare duramente e non senza sconfitte il suo retroterra, fu più volte rifondata e infine dovette sottomettersi ai Persiani, prima con Dario e poi con Serse. La sua liberazione coincise con il momento più fortunato della controffensiva greca, particolarmente con Cimone (il 476 può essere il terminus post quem del peana). Dopo l’invocazione all’eroe eponimo e ad Apollo e Afrodite, presenti nei loro templi, parla la città stessa, «nuova» dopo tante vicissitudini, e dice le azioni degli avi e le speranze presenti. v. 15 la madre di mia madre: Atene, madrepatria di Teo distrutta da Serse. v. 22 Oh peana...: più grido che parola, scandiva tradizionalmente il peana per Apollo. vv. 24 sgg. Segue a questa chiara strofa, connessa col resto del peana, una seconda strofa e parte dell’antistrofe sostanzialmente illeggibili (e perciò omesse) nonostante gli scòli marginali (che parlano di «buone speranze di vittoria» riposte nella cavalleria). vv. 30 sgg. L’invidia maligna...: l’ingiusto giudizio sui primi coloni, battuti per fatalità e per scarso armamento; erano sempre i fondatori di una colonia ben scelta e avevano lottato bene contro i barbari (i Peoni, che indicano, come in Omero, tutti i rivieraschi del paese).

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v. 38 oltre l’Atos: la famosa penisola della Calcidica, vista secondo le abituali rotte costiere. – Omettiamo il frammento 3 che fa parte dello stesso peana, perché non ricostruibile e meno ancora traducibile.

[4] Si direbbe questo il «grande impegno» a cui si allude nell’apertura della prima istmica, rimandato in omaggio a Tebe. Per la cronologia non ci sono elementi, se non il fatto stesso che i Ceii abbiano commissionato il peana a Pindaro e non a Simonide e a Bacchilide, concittadini illustri e quest’ultimo anche celebratore dell’isola: è perciò probabile che fosse avvenuta anche la sua morte (452). Parla l’isola stessa: minuscola e povera, esalta la povertà e la letizia; già distrutta da un cataclisma, vi trova argomento di sicurezza; sono le ragioni del cuore. – La parte tradotta corrisponde al primo epodo e alla seconda triade. La prima strofe e antistrofe sono praticamente illeggibili e perciò omesse: ma vi campeggiano le parole: «non la cambierò con Babilonia...». v. 12 Melampo era augure in Pilo, e non volle lasciarla per regnare in Argo. Esempio ancora migliore, quello dell’eroe cittadino Eussantio (di cui accenna anche Bacchilide nel primo epinicio) che rifiutò un regno in Creta, l’isola delle «cento città» (v. 30).

[5] Committenti e soggetto dell’evocazione sono gli Ateniesi. v. 8 corpo di Asterie: la Dea Asterie fu tramutata nell’isola di Delo.

[6] Per le Teossenie (di cui v. la terza olimpica) a Delfi mancò il coro ed è stato invocato il soccorso di Pindaro, che arriva sollecito (vv. 715). II rito evocava la cessazione miracolosa d’una eccezionale carestia estesa a tutta la Grecia e placata dall’intercessione dell’egineta Eaco. Le due città sono perciò oggetto di celebrazione particolare, e in onore di Egina il poeta si effonde in tutta la saga di Achille e di Neottolemo suo figlio. Ma proprio qui il poeta sbagliò e offese gli egineti, a cui dovrà rispondere con la settima nemea. Con tutto questo la cronologia dei due componimenti resta incerta: «mare dorico» (v. 90) si può dire quello di Egina, con espressione ideale e rivendicativa, anche al tempo della supremazia ateniese, fino alla scomparsa politica dell’isola; il poeta – comunque s’interpretino gli «onori» del

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v. 13, timaiv, se ricevuti dal poeta o se resi invece, con la poesia, agli Dei – è celebre (ajoivdimo"), ma la sua celebrità fu precoce. vv. 34-35 Dopo «fame», carestia, il papiro si fa illeggibile e perduto per 15 versi della seconda strofe. – Secondo Pausania si vedevano ancora nell’Eacèo le immagini mandate dalle città come ringraziamento. vv. 36-40 Importante innovazione nella saga di Achille, che secondo Omero sarebbe caduto durante la guerra di Troia, per una freccia di Paride. In realtà nelle forme di Paride si celava Apollo, che ferì l’eroe per difendere l’amata città. Ma Zeus non volle che destino e giustizia non si compissero: l’assenza di Achille rimandò la conquista, ma fu effettuata dal figlio Neottolemo dopo la precoce morte del padre. Poi anche lui fu punito, ancora da Apollo («il Saettatore»), per l’empia uccisione di Priamo, venendo ucciso a sua volta, senza rivedere la patria, dai cittadini di Delfi («l’umbone della terra», perché al centro del mondo, come l’umbone è il centro dello scudo). – L’ultima parte è lacunosissima: le «infinite virtù», la «città di Troia» e gli altri frustuli non compongono un senso traducibile (neppure nella lettura di Snell-Maehler).

– (Il peana 7 è omesso per la sua illeggibilità). [8] Dagli scòli leggibili nel papiro risulta che il passo profetico era inserito in una saga di Ergino re di Orcomeno (cfr. O. IV), in un’ambientazione beotica. – Gli ultimi tre versi non danno senso («prodigio«, «preveggenza»...); nel Puech segue un fr. di sei versi non traducibili e da altri editori collocato altrove. [9] Peana famoso, citato da Dionisio di Alicarnasso (Dem. 7) e altri, poi restituito da un papiro. Due eclissi possono averlo occasionato, degli anni 478 e 463. – Notevole l’accenno alla propria consacrazione, nel luogo in cui dalla ninfa Melia e da Apollo nacque Tènero, profeta e poi oracolo. [10] È tradotta la parte più leggibile del papiro; la prima parola è congetturale.

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[11] Mito di Asterie, amata da Zeus, e trasformata nell’erratica isola di Ortigia, poi detta Delo. Cfr. fr. Pros. 1. – I primi versi, troppo frantumati, non danno una traduzione («del giaciglio, che crederò?... lei, non volendo... la figlia di Coio... temo, cose non credibili...»). Figlia di Coio è Asterie. [12] Da un peana (attesta Gallieno, ricordato anche da Pausania), di cui è tradotta la parte più integra. Il tempio è quello di Apollo a Delfi, di cui Pausania vide un’ultima (né quella di cui vediamo i ruderi noi) edificazione. La prima fu una capanna di lauro di Tempe, dice, la seconda di cera delle sacre api poi inviata (dal Dio) agli Iperborei; la terza di bronzo (ciò che può spiegare il «cielo di bronzo» pindarico e oraziano; e sussisteva un tempio bronzeo di Pallade). [13] (Stobeo, Ant. II, 1, 8 e altri.)

DITIRAMBI – Dei primi tre frammenti papiracei una parte leggibile è solo nel secondo. [2] Eracle o Cerbero è titolo (il solo, almeno per i frammenti) che risale a Pindaro stesso. Il papiro ha restituito l’inizio, guastato nei primi versi che sono citati da Strabone, Dionisio d’Alicarnasso e Ateneo. Secondo quest’ultimo pare che Laso di Ermione, maestro di Pindaro, avesse un complesso verso la s e che provò a comporre ditirambi dove la sibilante mancasse. Probabilmente quello di Pindaro è un ricordo indulgente. – Subito si assiste a una celebrazione dionisiaca nell’Olimpo (gli Dei hanno tutti i loro attributi; Enialio, s’intende, è Ares). – (Il ditirambo 3 è illeggibile).

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[4] (Dionisio d’Alicarnasso, De comp. verb. 22.) Celebrato nell’agorà di Atene, a primavera. Metricamente libero, giustifica i «numeri lege soluti» che l’esperto Orazio attribuisce ai ditirambi pindarici (Odi, IV, 2, 11-12). [5] (Scolio ad Aristofane, Ach. 674 e Nub. 299 e altrove.) [6] (Plutarco, Glor. Athen. e altrove.) [7] (ibid.: pare dal contesto un altro frammento dello stesso ditirambo in onore di Atene). «Il grido di guerra» è l’alalà. – Il fr. 8 del Puech cita: «Pindaro negli Iporchemi dice che il ditirambo fu scoperto a Nasso, nel primo libro dei ditirambi, invece, a Tebe», osserva uno scolio a O., XIII, 25 (del testo), dove invece è attribuito all’inventiva dei corinzi (vv. 27-29). [9] (Etym. Magnum 460, 35.) [10] (Strabone VII, 321 e altre fonti.) Cfr. O. VI, 142 e Introduzione, p. 9. [11] (Aristide, II, 70 Dindorf.) [12] (Scolio alla seconda pitica.)

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PROSODI [1] Due frammenti (dallo Pseudo-Filone, De incorr. mundi 23, e da Strabone, X, 485) che hanno un reciproco richiamo non esteriore ma intimo, non tanto metrico quanto musicale. – La figlia di Coio è Latona, che a Delo (v. fr. Peani II) partorì Apollo e Artemide. Un antico nome di Delo è Asterie (v. fr. Peani II), che significa «stella» e richiama l’a[stron del frammento precedente. È il momento in cui l’isola viene fermata e si offre allo sguardo perenne (non s’estingue l’aspetto incoativo dell’aoristo) della Dea. [2] Scolio ad Aristofrane, Eq. 1263. – I frr. 3-4 sono citazioni generiche e imprecise: Porfirio (De abst. 16): «Pindaro nei prosodi fece gli Dei, quando furono inseguiti da Tifone, non trasformati in uomini, ma in esseri irrazionali». Un’altra fonte dà le parole «si ricordi d’un canto...». III,

PARTENI [1-2] Un papiro di Ossirinco, molto guastato, conserva i soli frammenti possibili di uno di quei parteni pindarici di cui si aveva notizia. Sono stati sollevati pochi dubbi sull’attribuzione, ma nessuno sul genere. Restano frammenti di parteni di Alcmane: cori di fanciulle deliziosi di freschezza e allegria giovanissime, mal contenute dalla disciplina del rito. Erano caratteristici del mondo dorico; questo, meno vivido di quelli di Alcmane, fu cantato a Tebe, certamente in una di quelle «dafneforie» di cui Proclo dà una descrizione dettagliata. A Tebe si celebravano ogni otto anni, e consistevano in una lieta processione in onore di Apollo, il Lossia, guidata da un giovane armato di una sorta di tirso, avvolto di lauro; e un ramo portava anche ogni fanciulla. Come in Alcmane, c’era una corega, di cui era di prammatica fare la lode (è l’Andesìstrota del v. 70), e c’era un committente, pare Pagonda figlio di Eòlada, comandante tebano nella

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battaglia di Delion del 423, nominato sia nel primo che nel secondo troncone (prova principale dell’unità del partenio). Le allusioni alla vita interna della città non mancavano in componimenti del genere: qui le fanciulle lamentano l’invidia e l’ostilità di «certi signori», nate dal ben fare di Pagonda. – All’inizio, dopo una lunga lacuna, si legge solo «come indovino compirò, sacerdote», allusione al poeta (nel resto, la prima persona è riferita, come al solito, al coro, che irrompe nella seconda parte animoso, frettoloso, con voci acutissime: ma si propone di frenare la sua esuberanza canora (vv. 30-37). – Gli ultimi versi del fr. 2 non danno un pensiero sufficientemente compiuto e le molte congetture non chiariscono, anche se la strofe 6 parla, suggestivamente, di «nettare», di «sete», di una «fonte mia» (del poeta?), e parrebbe consigliare di non «andare» ad altra fonte, «salmastra»... [3] La Vita Ambrosiana informa che Pindaro compose questi versi (un partenio, precisa un’altra fonte) per Pan, dopo che fu visto (il Dio) cantare un suo peana. [4] (Aristotele, Rhet. II, 24.) [5] (Scolio a Teocrito, I, 2.) – (I frr. 6-11, omessi, sono citazioni indirette, meno il primo frustolo: «Il coreuta più perfetto fra gli Dei».)

IPORCHEMI [1] (Scòli a P. II, 127 e N. VII, 1 del testo, e altre fonti.) [2] (Ateneo I, 28, che l’attribuisce erroneamente ad una «pitica per Ierone».)

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[3] Stralci dei famigerati versi – un iporchema, informa Stobeo – che Polibio accusò di filomedismo (IV, 31, 6). [4] (Pseudo-Socrate, p. 610 Hercher.) [5] (Eroziano, Gloss. Hyppocr. p. 49 Klein.) Forza erculea, su una vittima ignota. [6] (Ateneo, XIV, 631 c.)

ENCOMI [1] Sono scòli a più passi della seconda olimpica; il primo pare avulso dal contesto («voglio ai figli degli Elleni»). [2] (Scolio a N. VII, 1; Dione di Prusa, Or. II, 33; Dionisio d’Alicarnasso Dem. 26.) Questo Alessandro, re di Macedonia, fu detto meritatamente «amico dei greci» e si onorò di partecipare alle gare panelleniche (Erodoto lo cita più volte). C’è notizia insistente d’un viaggio di Pindaro alla sua reggia. [3] (Ateneo XIII, 573 e.) Questo sfarzoso Senofonte, donatore di cento etère al tempio di Afrodite, è quello della tredicesima olimpica. Mai la prostituzione fu più autenticamente smentita dal costume, dall’eleganza e dal sorriso d’un poeta.

NOTE AI FRAMMENTI

[4] (Ateneo XIII, 601 d, id. 564 e.) Secondo una tradizione Pindaro sarebbe morto, nel teatro di Argo, col capo appoggiato sulla spalla di questo efebo. [5] (Ateneo XI, 480 c.) È il Trasibulo della sesta pitica e della seconda istmica. [6] (Ateneo XIV, 641 b.) [7] (id. 635 b. e XII, 512.) [8] (id. XIII, 601 c.) [9] (id. X, 427 d.) Il còttabo era un particolare gioco conviviale di origine siciliana.

LAMENTAZIONI [1] (Plutarco, Consol. ad Apoll. XXXV p. 120, integrato da De latent. viv. VII p. 1130.) V. Introduzione, p. 47. [2] (ibid.). [3] (Stobeo, Floril. 103, 6.)

NOTE AI FRAMMENTI

[4] (Scolio a O. I, 127 del testo.) Si tratta del numero dei pretendenti uccisi da Enomao; il quattordicesimo è ovviamente Pelope. [5] (Aristide, II p. 215 Keil). Citazione imprecisa e imprecisabile. [6] Clemente Alessandrino, Strom. III, 518, cita precisando: «Pindaro, sui misteri di Eleusi». Si è pensato di attribuirlo al «treno» per Ippocrate, di cui informa uno scoliasta (v. l’introduzione alla settima pitica).

FRAMMENTI DI SEDE INCERTA [1] Come il fr. 2, sono papiri di Ossirinco, molto mutili e in buona parte illeggibili; all’inizio (omesso) appare il nome di Eracle e si accenna a un primo momento della sua spedizione contro Laomedonte: il re troiano, ancora una volta spergiuro, gli aveva negato le pattuite cavalle immortali. Nella parte conservata e tradotta il poeta si rivolge ad Apollo, al quale aveva consacrato un’ara durante il viaggio. [2] Si parla di «uno di Locri» nella parte meno leggibile, con precisazioni di luoghi, l’«Ausonia» e il «colle presso lo Zefirio». Siamo dunque, idealmente o non, nella patria di Agesidamo della decima e undicesima olimpica. [3] (Scolio sul canto XXI dell’Iliade.) – Un «Fiume Nero» è reperibile in vari luoghi della Grecia. [4] (Plutarco, Quaest. Plat. VIII, 4 p. 1007.)

NOTE AI FRAMMENTI

[5] (Efestione p. 51, 16, Consbruch.) [6] (Plutarco, Consol. ad Apoll. XXVIII, p. 116 e altri.) [7] (Efestione p. 51, 7). [8] (Scolio pitico IX, 89 e Pausania IX, 16, 1.) Ammone è Zeus onorato in Africa. [9] (Aristide II, 334.) [10] Consiglio di Anfiarao al figlio (Ateneo, XII, 513); già in Teognide, v. 215. Con l’avallo di Pindaro, più volte citato nell’antichità (e, nel mondo moderno, trasfigurato da Hölderlin, Pindar-Fragmente, 1). [11] (Strabone IX, 2, 33, integrato da uno scolio a Pausania IX, 23, 6.) v. 1 Il Dio: Apollo IX. v. 6 la fanciulla: dalla quale Apollo avrà un figlio, eponimo della montagna beote, tra il lago di Copaide e quello di Ilice. v. 9 si parla di Tènero. – Il fr. 12 Puech contiene citazioni indirette di Pausaoia (X, 16, 3) e Strabone (v. nota a P. IV, 8) sull’omphalós di Delfi e sulla mitica lotta tra la Terra e Apollo, che conquistò il santuario (scolio a Eschilo, Eum. v. 2).

[13] (Diooe di Prusa, Or. XII, 81-2.) [14] (Scolio a N. II, 17.)

NOTE AI FRAMMENTI

[15] (Filodemo, De Piet. 19, 14). – Il 16 Puech non è tradotto: riferisce che secondo una testimonianza di Erodiano Pindaro fa derivare il nome di Dioniso da Diós (genitivo di Zeus) e «dalla montagna Nisa perché in essa fu generato». Naturalmente, luogo e divinità insieme; e il luogo, in età storica, pare assolutamente irrecuperabile. – Nel 17 Puech è riferito questo passo di Pausania (II, 30, 3): «Ad Egina, andando verso il monte di Zeus Panellenio, c’è il santuario di Afaia, in onore della quale anche Pindaro compose per gli Egineti un canto». [18] (Strabone XIII, 4, 6). Frammenti diversi citati a proposito della collocazione, estremamente problematica, sia di Tifone che degli omerici Arimi (Il. II, 783) dell’ultimo verso. [19] (Clemente Alessandrino, Strom. V, 708, che non fa il nome di Pindaro; l’attribuzione ha però altre conferme.) [20] (Efestione, p. 44 Consbruch.) «Guida alle Muse», è il Musagete, Apollo. [21] (Platone, Men. 81 b-c.) Per i primi versi è accolta l’interpretazione di J. Bollack, che mirò a risolvere l’aporia di poinav, tradotta non persuasivamente da Puech con «chagrin». Persefone, rapita da Plutone agli inferi, è la dolorosa che riceve consolazione (un «compenso, riscatto») dai suoi fedeli, e degnamente fedeli. [22] (Scolio a Euripide, Reso v. 895, di difficilissima lettura e ricostruzione). Sono le «origini» dei canti, di cui gli ultimi tre sono particolarmente ignoti. – Al v. 6, «smaniosi e accesi» allude al ritmo ditirambico; al v. 15 la traduzione «nella stessa rete» interpreta (dubitosamente) il significato di bovlo" (lancio, soprattutto della rete) della parola composta (un a{pax). Al v. 16: il figlio di Eagro è Orfeo.

NOTE AI FRAMMENTI

[23] (Clemente Alessandrino, Strom. V, 726.) [24] (Clemente Alessandrino, Strom. V, 726.) e Didimo, De Trin. III, 1. [25] (Plutarco, De superst. VI, p. 167.) [26] (Scolio ad Aristofane, Equit. 621.) – Il 27 Puech riferisce un testo che traduciamo: «Egli (Zeus), che possiede cominciamento e termine e misura e tempi del tutto, dominatore assoluto di tutto, il solo che può dire di sé ciò che gli è dovuto, è un Dio che ha sortito di più: giacché su Zeus non è stato detto nulla di più bello che queste parole di Pindaro». (Aristide, 346-7 Keil.) [28] (Scolio a Iliade, XXIV, 100. Attribuzione data da Plutarco, Quaest. conv. I, 2, 4 p. 617.) [29] (Clemente Alessandrino, Strom. I, 383.) [30] (Ateneo, I, 22 d). – «Di lui (Apollo) Pindaro dice gustosamente: “fu condannato ad essere dolcissimo per i mortali” (Plutarco, De E delph., 394 A.) [32] (Eustazio, Il. p. 9, 40.) [33] (Eustazio, ibid.)

NOTE AI FRAMMENTI

[34] (Cramer, Anec. Ox. I, 285, 19.) [35] (Plutarco, De Is. et Osir. p. 365.) [36] (Ateneo V, 591 f.) [37] (Pausania, III, 25, 2.) [38] (Scolio ad Aristofane, Nub. 223.) [39] (Scolio a P. IV, 104.) [40] (Dionisio di Alicarnasso, De orat. ant. 2.) [41] (Stobeo, Flor. 126, 2.) [42] (Erodiano, I, 489, 15.) Forse si tratta dei Cercopi, sorta di spiriti folletti, catturati da Eracle e così raffigurati in una famosa metopa di Selinunte. [43] (Cramer, Anec. Ox. I, 201, 14.) Pare si tratti di due dei giganti che assalirono l’Olimpo, Oto ed Efialte.

NOTE AI FRAMMENTI

[44] (Ateneo, IV, 154 f.) [45] (Scolio ad Apollonio Rodio II, 477 e altrove.) Si parla di una driade. [46] (Ateneo XI, 476 b.) [47] (Scolio ad Apollonio Rodio 57, 61.) Ceneo, capo dei Lapiti, così è annientato nella lotta contro i Centauri. [48] (Ateneo, X, 411 b.) Testo molto corrotto e lettura incerta; questa si discosta da quella del Puech e tiene conto del realismo dell’operazione. Ateneo parla di Eracle; chi sia il compagno non è detto; possiamo pensare al fedele Iolao. Filostrato (Imag. II, 24) parla di una pittura ambientata a Lindo, raffigurante un famoso pranzo dell’eroe, che pure si limitò a un bue solo, divorato con tutte le ossa, non curando le sassate del legittimo proprietario. [49] (Scolio a N. IX, 35; Aristide II, 68.) Passo ricordato due volte in una pagina famosa del Gorgia di Platone (484 b) – in cui Callicle sostiene, disprezzando la filosofia e i suoi paradossi, che il diritto positivo è creazione e pretesa «dei deboli e dei molti», mentre la legge della natura è la forza – e nelle Leggi (714 e), con la stessa intepretazione. La quale fu certo impensabile per Pindaro, che oltre tutto sapeva bene come Eracle obbedisse alla legge di Zeus e come gli fosse imposta la dura soggezione alla volontà di Euristeo. – Il 50 Puech riporta parole di Pindaro, in Strabone III 3, 7: «[i Lusitani] fanno ecatombi all’uso greco come anche disse Pindaro: sacrificare cento tutti insieme».

NOTE AI FRAMMENTI

[51] (Scolio a Iliade X, 255. Probabilmente la follia che colpì Eracle sotto il peso dell’ingiunzione di Zeus e del suo fato; nella follia uccise i figli, meno uno. Solo dopo, racconta Diodoro Siculo, cominciarono le tremende prove. [52] (Scolio a Euripide, Andromaca 796.) – I frr. 53-57 Puech, non riprodotti, sono, nell’ordine: una citazione di Strabone, XII, 3, 9 («e Pindaro dice che le Amazzoni guidavano l’esercito sirio dalle ampie lance»); una di Prisciano (Gr. lat. III 247 Keil) di sei versi pindarici, senza reciproco rapporto, d’interesse metrico e di senso vago e incompiuto; un altro sempre di Prisciano, Gr. lat. III 428 Keil («udendo il suono dei nomoi di divina esecuzione»); un frustolo papiraceo accenna al metro d’un partenio; uno scolio a N. VII, 116 («Tesso per gli Amitaonidi un diadema variegato»). [58] (Clemente Alessandrino, Strom. I, 345.) [59] (Scolio a N. VII, 89.) [60] (Aristide, II, 238 Keil.) [61] Il soggetto è Fenice, che Omero non ricorda come capo dei Dolopi; Strabone adduce la testimonianza di Pindaro (IX, 5, 5). [62] (Erodiano II, 659, 26 Lenz.) [63] (Cramer, Anec. Paris. IV, 35, 18 e Etym. Gud. 321, 54.)

NOTE AI FRAMMENTI

[64] (Apollonio, Synt. p. 138 B, con il nome di Pindaro come glossa.) [65] (Plutarco, Quaest. Conv., II, 10, 1.) [66] (Strabone, XXV, 1, 28.) [67] (Scolio ad Aristofane, Vesp. 306.) L’Ellesponto varcato in folla allude probabilmente al passaggio di Serse. – Il 68 Puech cita uno scolio a P. VIII, 53: «per lui la stirpe di Midilo...». [69] (Scolio a P. II, 127, dato come esempio di «ritmo eolico». Allusione oscura.) [70] (Scolio a P. IV, 4.) [71] Nella Vita Ambrosiana; passo citato anche da Plutarco, Quaest. Conv. VIII, 1, 1. V. Introduzione, p. 12. [72] (Aristide, II, 159 Keil.) [73] Secondo Aristide (ibid.) Pindaro avrebbe alluso a uditori poco attenti e coscienti. -. [74] (Scolio a P. II, 25.)

NOTE AI FRAMMENTI

[75] (Scolio alla seconda pitica.) [76] Citato più volte da Crisippo (v. Bergk, Kleine Phil. Schr. II, senza nominare l’autore.

III)

[77] (Ateneo, II, 41.) «Anche Pindaro» scrive Strabone (IX, 2, 27) «chiama questa palude (Copaide) Cefisside e vi colloca la fonte Tilfossa, che scorre sotto il monte Tilfossio» (una trentina di km. a ovest di Tebe). Vi aveva bevuto Tiresia e lì presso c’era il suo sepolcro (Pausania, IX, 33, 1). [78] (Plutarco, Vita di Licurgo, XXI.) [79] (Strabone XVII, 1, 19 e altre fonti integrative.) [80] (Scolio a P. IV, 206.) [81] (Zenobio III, 23, a proposito del proverbio «lo scita e il cavallo».) [82] (Scolio alla seconda pitica.) [83] (Stobeo, Flor. XI, 18 Hense.) [84] Verso divenuto proverbiale, reperibile in varie fonti, tra cui Plutarco, Vita Nic. 1.

NOTE AI FRAMMENTI

[85] (Plutarco, Cons. ad Ap. VI, p. 104.) [86] (Stobeo, Ecl. II, p. 7, 19 Wachsmuth e Vita Ambrosiana p. 4, 6 Drachmann.) [87] (Plutarco, De cohib. ira, VIII, p. 457.) [88] (Plutarco, De sera, XIX, p. 562.) [89] (Plutarco, De inim. ut. X, p. 91.) [90] (Platone, Rep. II, 365 b e altri.) [91] (Platone, Rep. I, 331 A e altri.) [92] (Cramer, Anec. Par. II, 154, 13). Cfr. l’analogo, e molto più famoso passo erodoteo III, 38 (Introduzione, p. 36). [93] (Clemente Alessandrino, Paed. III, 295.) [94] (Etymologicum Magnum, 178, 10.) [95] (Plutarco, Quaest. Conv. VII, 5, 3.)

NOTE AI FRAMMENTI

[96] (Sesto Empirico, Hypp. Pirr. p. 20 Bekker.) Viene subito in mente l’attacco della prima ode oraziana. [97] (Scolio a P. IV, 407.) L’idea del «dominio» è nell’altra citazione, Proclo, ad Hesiod. Op. 430. [98] Si tratta degli avari, asserisce Teodoro Metochite (tra 13° e 14° sec.), p. 562. [99] (Scolio a Iliade XVII, 98, con ricostruzione testuale molto dubbia.) [100] (Scolio a O. II, 42.) [101] (Aristide, II, 238 Keil.) [102] (Clemente Alessandrino, Strom. IV, 86.) [103] (Plutarco, An seni I, p. 783.) [104] (Scolio a O. VIII, 92). – Il 105 Puech riferisce una citazione generica di Libanio (Ep. 1044, p. 491 W), «camminare appoggiandosi a un bastone fragile», detto proverbiale che si trovava anche in Pindaro. [106] (Scolio a N. VII, 87.)

NOTE AI FRAMMENTI

[107] (Plutarco, Vita Marcelli XXIX.) [108] (Clemente Alessandrino, Paed. III, 307.) [109] (Plutarco, De virt. mor. p. 451 e altrove.) – Il 110 Puech riferisce uno scolio a Odissea X, 240: «i delfini non lasciarono il loro vivere amico dell'uomo». [111] (Scolio a P. II, 31.) [112] (Erodiano, De fig., Rhet. gr. III, 100 Spengel.) – 113: uno scolio a O. X, 62 cita un passo poco plausibile in cui Boeckh leggerebbe: «non sia immerso nel silenzio». [114] (Ateneo VI, 248 c.) [115] (Scolio ad Aristofane, Pax 250.) [116] (Erodiano, De fig., Rhet. gr. III, 100 Spengel.) – 117: l’Etymologicum Flor. e il Magnum sostengono che la lettura «Cidalia» (nome di ninfa ricordata da Pindaro) è da sostituire con Acidalia. [118] In un passo insensato (Cramer, Anec. Ox. I, 95, 5) e probabilmente corrotto.

NOTE AI FRAMMENTI

[119] (Lesbonatte, De fig. 44-45 Müller.) Dato come esempio metrico, è di attribuzione più probabile che utile. [120] (Plutarco, De adulat. p. 68.) – il 121 consiste in una suggestiva ma non precisa citazione di Platone (Teeteto, 173 c): «in realtà soltanto il corpo [del filosofo] sta lì [nella città] e vi abita, ma il pensiero, valutando tutte queste cose piccole o nulle, le disdegna e vola in ogni luogo – come dice Pindaro –, nelle profondità della terra, e ne misura la superficie e vaga tra le stelle sù, nel cielo, e indaga tutta e ovunque la natura delle realtà, ognuna nel suo tutto, senza mai porsi sul piano di ciò che gli è vicino».

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INTRODUZIONE di Enzo Mandruzzato PINDARO E IL SUO TEMPO PINDARO «ARCAICO»

NOTA BIBLIOGRAFICA NOTA EDITORIALE OLIMPICHE LE OLIMPICHE [I] Per il «Re di Siracusa» [II] Per Terone di Agrigento [III] Per Terone nelle «Teossenie» [IV-V] Per Psaumide di Camarina [VI] Per Agesia e gli Iamidi [VII] Per Diagora di Rodi [VIII] Per Alcimedonte di Egina [IX] Per Efarmosto di Opunte [X-XI] Per Agesidamo di Archestrato. La promessa [XII] Per Ergotele e per la Tyche [XIII] Per Senofonte e per Corinto [XIV] Per le Cariti e per Asopico NOTE ALLE OLIMPICHE

PITICHE LE PITIADI [I] Per Ierone e per Etna [II] Per Ierone [III] Messaggio a Ierone [IV] Per Arcesilao re e per Demofilo [V] Per Arcesilao re e per Carroto [VI] Per Trasibulo e gli Emmenidi [VII] Conforto a Megacle

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[VIII] Per Aristomene e per la pace [IX] Per Telesicrate di Cirene [X] Per Ippoclea di Tessaglia [XI] Per il tebano Trasideo [XII] Per il flautista Mida di Agrigento NOTE ALLE PITICHE

NEMEE NEMEA [I] Per Cromio e per Eracle fanciullo [II] Per Timodemo di Acarne [III] Per Aristoclide di Egina [IV] Per Timasarco e per Egina [V] Per Pitea di Egina e gli Psalichidi [VI] Per Alcimida e i Bassidi [VII] Per Sogene di Egina [VIII] Per Dinide a Egina [IX] A Cromio di Etna [X] Per Teaio di Argo [XI] Per il pritano Aristagora di Tenedo NOTE ALLE NEMEE

ISTMICHE L’ISTMO [I] Per Erodoto e per Tebe [II] Ricordo di Senocrate [III] Per Melisso di Tebe [IV] Per Melisso di Tebe [V] Per Filacida di Egina [VI] Per Filacida di Egina [VII] Per Strepsiade di Tebe [VIII] Per Cleandro di Egina NOTE ALLE ISTMICHE

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FRAMMENTI FRAMMENTI Epinici Inni Peani Ditirambi Prosodi Parteni Iporchemi Encomi Lamentazioni Frammenti di sede incerta NOTE AI FRAMMENTI

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