Tolleranza. Momenti e percorsi della modernità fino a Voltaire 8871889460


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Tolleranza. Momenti e percorsi della modernità fino a Voltaire
 8871889460

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fabrizio lomonaco

Guida

Parole chiave della filosofia Collana diretta da Giuseppe Cacciatore

Giuseppe Cantillo Antonello Giugliano 10

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https://archive.org/details/tolleranzamoment0000lomo

Fabrizio Lomonaco

Tolleranza Momenti e percorsi della modernità fino a Voltaire

Guida

© 2005, Alfredo Guida Editori Via Port Alba, 19 - Napoli www,.guidaeditori.it

[email protected]

ISBN 88-7188-946-0

Per gli ottant'anni di mia madre, Clara Fallace, con grande affetto e gratitudine

Premessa il

La parola-chiave tolleranza presuppone — già nel significato classico (ciceroniano) di virtù privata, di capacità di resistenza alle avversità fiscali o ai rigori della fame («tributa et famem tolerare») —, una disuguaglianza “oggettiva”, l’esistenza, cioè, di valori non condivisi dal tollerante che pure li lascia sussistere nel tollerato, astenendosi dal sanzionarli per prudenza o pratica convenienza. Priva di senso in

contesto di guerra, la presunta superiorità del tollerante matura solo in un clima di mediazione e di moderazione, indirettamente attestando il carattere negativo ri virtù-tolleranza, perché presuppone ciò che dovrebbe contribuire a creare. È, tuttavia, opportuno guardare più in fondo a questo primo

significato negativo del termine, peraltro assai diffuso nel linguaggio comune, evitando l'approdo ad astratte formule narrative o storiografiche come quelle, sia pure magistrali, di origine baintoniana che, nell’etichetta della «lotta per la libertà religiosa», hanno accolto irenismi, teorie ecumeniche e li-

bertarie del tutto differenti tra loro?. Se la “parola” in questione ha un’alta capacità evocativa, direttamente proporzionata al grado di indeterminatezza e ambivalenza, occorre, allora,

precisare sempre l’ambito del proprio discorso teorico, definirne i limiti cronologico-geografici, nonché i campi tematici e lessicali alla luce dei privilegiati contesti culturali, politici, religiosi e filosofici. Il ! R. H. BAINTON, The Travail of Religi e

Liberty (1951),

tr. it. di F. Medioli Cavara, Bologna, il Mulino, 1961, spec. pp. 5-22 e 247-254.

che, nel nostro caso, induce subito a precisare che la storia dei tempi “forti” e dei relativi erempla storicofilosofici della tolleranza (qui tracciata in breve e a grandi linee per uno scopo prevalentemente didattico ma non “generalistico”) è stata ripensata da un certo punto di vista. Sono stati privilegiati, cioè, un luogo e una fase della cultura occidentale moderna, quella olandese del Sei-Settecento che partecipa alla complicata transizione dalla virtus della tolleranza alla codificazione del diritto alla libertà religiosa nella dichiarazione americana di indipendenza

(1776) e in quella francese dei diritti dell’uomo e del cittadino, sancita dalla rivoluzione del 1789. Vero e proprio rifugio di filosofi, politici e

teologi dissidenti, la patria di Erasmo è stata tra i secoli xvI e xVul il paese in cui allo sviluppo economico-commerciale ha contribuito anche quella fitta trama di programmi politici e di aspre dispute filosofico-teologiche su ben determinate questioni: prospettive ireniche ed “ecumeniche” di vario orienta-

mento, proposte di tolleranza civile ed ecclesiastica, rivendicazioni di libertà di coscienza (2). La messa in ordine di tale complesso quadro problematico se ha imposto una selezione di argomenti e di autori, ha anche favorito lo studio di alcuni incroci tematici fondamentali nella storia moderna europea della tolleranza: il pluralismo religioso e le ragioni della fede tra libertà di religione e libertà di coscienza; l’esistenza della «verità» e i temi dell’«evidenza», della «credenza», dell’«errore»; i diritti dell’autorità secolare circa sacra e la definizione dei compiti e dei limiti del governo della Chiesa; il rifiuto dello

Stato confessionale e, in generale, dell'uso della forza nei «movimenti» della coscienza umana. ? Cfr. a. RoroNDO’, Europe et Pays-Bas. Evolution, réélaboration et diffusion de la tolérance aux xvite et xvme siècles. Lignes d'un programme de recherches, Firenze, Università degli studi - Dipartimento di storia, 1992, pp. 20-21. Sulle differenze

tra tolleranza, “irenismo”, “libertà di coscienza” e “concordia” si vedano rispettivamente gli scritti di G.H.M. POSTHUMUS MEYJES, B. COTTRET E M. TURCHETTI, qui citati in “Bibliografia”.

Tolleranza in età antica? 2

Appaiono indispensabili — pur nel quadro temati-

camente limitato di queste pagine — alcune riflessioni sulle radici classiche e cristiane della “parola chiave” in questione, senza presumere di poter in-

dividuare tutte le connessioni problematiche fino alla fine del medioevo. Lo scopo è, invece, di iso-

lare alcune testimonianze, segnalandone l’originalità ereditata dalla tradizione umanistica (erasmiana) e dalla Riforma protestante, vie d’accesso alla tolleranza civile ed ecclesiastica in età moderna. Nel mondo greco e in quello romano l’assenza del concetto e della pratica della tolleranza è coerente con la natura stessa dell’esperienza re-

ligiosa, contrassegno di coesione della polis e della civitas, fondate su un sistema politeistico di cre-

denze. Vera e propria istituzione pubblica, la religio antica è prerogativa esclusiva della comunità e non dell’individuo, privo di un diritto di coscienza, perché sovrano soltanto nell'esercizio delle sue funzioni pubbliche di cittadino, impegnato a identificare il benessere collettivo con la cura e l’affetto per gli dei. Ne consegue il riconoscimento di una “naturale” disposizione alla partecipazione dei riti della religione nazionale. La città antica non ha bisogno di essere “tollerante”, perché all’assen-

za di proselitismo corrisponde l'assoluta mancanza di coazione. Ogni religione è giudicata accettabile non per una presunta ortodossia da rispettare o certezza di verità assoluta, ma solo se uniformata alla fisionomia del sentimento nazionale e alla si-

curezza del popolo che la pratica. È stato magistralmente notato da Arnaldo Momigliano che in Grecia non è esistita l'eresia, perché ad agire è l'«empietà» (asebeia), termine diffuso nel vocabolario del v secolo a.C. per testimoniare più le of-

fese al costume religioso tradizionale che la negazione di ogni dogma. A tale significato è da riferire il contenuto della nota legge di Diopite che, nella società ateniese, sanziona con l’ateismo l’introduzione di nuove dottrine. È quanto, infatti, testimoniano il processo ad Anassagora (Plutarco, Pericles, 32) e, soprattutto, la condanna di Socrate. L'accusa rivoltagli di aver privilegiato nuovi «demoni», non autorizzati dal culto pubblico, col-

pisce in lui la fedeltà alla vocazione religiosa individuale, libera dalle opinioni convenzionali; la stes-

sa avversata, poi, da Platone nelle Leggi (x, 15, 908-909), preoccupato, a suo modo, di salvaguardare il legame della polis con la religione tradizionale attraverso il teorizzato «carcere correzionale» che punisce la pratica del culto privato non con-

formista con una rigidissima prigionia e, in caso di recidiva, con la pena di morte. A non smentire il sincretismo e il relativismo religiosi del mondo classico è anche l’eremplum di Roma che accoglie nel Pantheon gli dei di tutti i popoli conquistati. L'interiorità della vita religiosa si risolve nelle azioni e cerimonie rituali, compiute in ossequio all'interesse e al controllo dello Stato:

la diffusa «tolleranza della Repubblica in materia religiosa — ha scritto Théodore Mommsen - ha avuto per causa e per effetto l'egemonia di Roma. L'atteggiamento passivo dello Stato romano nei

confronti degli atti della religione nazionale e la pratica di una semplice sorveglianza di polizia sui culti stranieri, accolti o no a Roma, appartengono alle massime immutabili dell'’amministrazione ro1

A. MOMIGLIANO, Empietà ed eresia nel mondo antico,

in «Rivista storica italiana», LxxxM (1971) rv, spec. pp. 777-781.

mana»?. Testimonianze di questo «costume» si riconoscono nel celebre processo de Bacchanalibus. Celebrato a Roma nel 186 a.C. e confermato dal testo di un senatusconsultus, rinvenuto nel 1640 e già tramandato da Livio (xxxIx, 15 sgg.), il divieto, esteso ai federati italici, di praticare riti di iniziazione e cerimonie

orgiastiche straniere, è significa-

tivamente limitato dal permesso del pretore urbano di celebrarli in segreti convegni notturni, in gruppi di non più di cinque persone. Qui, a differenziare il mondo romano da quello greco è l’impostazione del rapporto individuo-religione in termini giuridici, alla luce del nuovo criterio ispiratore, quello della pax deorum che induce lo Stato romano a considerare i diritti della coscienza degli individui nel momento stesso in cui sancisce la repressione e, insieme, la limita per non violare lo ius divinum. Per tutto ciò, è possibile sostenere che l’im-

pero romano fu «il campo di battaglia tra la pace esterna dell'impero e la pace interiore del Cristianesimo»3. È quest’ultimo, invece, che introduce un momento di profonda differenziazione e di radicale cesura con il passato. Alla pacifica indifferenza della religione pagana si oppone il nuovo “verbo” incarnato di un Dio unico e universale, ereditato dal giudaismo. Matura una nuova sensibilità per il “diverso” in nome di un’auctoritas più elevata e, perciò, alternativa a quella statale: l’autorità della co-

scienza dell’uomo che con la libertà di religione e di culto introduce una critica di tutta la vita mon-

dana dell'impero. Non più concepibile soltanto ? TH. MOMMSEN, Le droit pénal romain, tr. francese di ]. Duquesne (in Manuel des antiquités romaines, par Th. Mommsen, J. Marquardt et P. Kriiger, t. xvm), t. 1, Paris, A. Fontemoing, 1907, p. 273.

3 Così A. MOMIGLIANO, La libertà dei moderni, in m., Pace e libertà nel mondo antico. Lezioni a Cambridge: gennaiomarzo 1940, con un’appendice documentaria e ventuno lettere a Ernesto Codignola, a cura di R. Di Donato, Scandicci (Firen-

ze), La Nuova Italia, 1996, p. 59:

11

come istituzione di Stato, la religione diventa esperienza costitutiva dell'individuo in un rapporto intimo e immediato con il divino. Il conflitto tra legge interna e norma esterna non si risolve più affer-

mando la superiore necessità dello Stato, ma prospettandolo alla coscienza umana, riscattata in Cristo dal peccato di giudicare e contrastare il proprio simile. Il capitolo xIv della Lettera di S. Paolo ai Romani reca, nella tradizione protestante, il sottotitolo «Precetti di tolleranza», per avvertire: «Non ci

giudichiamo [...]; ma proponete piuttosto di non porre inciampo o scandalo al fratello» (xIv, 13). «Peccando contro i fratelli — si ammonisce nella Lettera ai Corinti (1, 8, 12) — e offendendo la loro debole coscienza, voi peccate contro Cristo». Con

la proclamazione paolina dell’inviolabile libertà della fede cristiana (1 Cor, x, 27-29; 2 Cor, Il, 17) dalle prescrizioni legali del giudaismo e dall’esterio-

rità dei riti pagani un colpo definitivo viene assestato all’antica definizione della religio quale momento di dominio e controllo dell’autorità civile. Liberando da ogni influenza della natura e degli dei, il cristianesimo chiede all'uomo rinnovato dalla caduta del figlio di Dio che si è fatto uomo, il coraggio di vivere in un mondo libero e del tutto indifferente ai tradizionali vincoli materiali. «Siate adunque fermi, — scrive Paolo ai Galati (Vv, 1-6) — e non vogliate di nuovo lasciarvi impigliare dal giogo di schiavitù. [...] In Cristo Gesù nulla importa l'essere circonciso, 0 l'essere incirconciso; ma la fede operante per la carità». La scelta del cristiano è un atto libero di amore, corrispondente a quello massimo

di chi ha offerto il proprio figlio per la redenzione di tutti gli uomini nel processo rettilineo della storia, testimonianza della progressiva realizzazione del regno di Dio. In tale visione del mondo si spiega l'accento peggiorativo che grava sull’espressione hairesis, anche quando è avvertita come esperienza necessaria alla salvezza dell’eletto, «affinché si palesino quelli che tra voi sono di buona lega» (1 Cor, 12

XI, 19). I dissensi e le divisioni sono, infatti, neces-

sari a imporre i tratti caratteristici della «tolleranza» cristiana: la «carità» verso i fratelli in errore: il paziente, complicato tentativo del loro progressivo re-

cupero nella comunità e la non violenza nei casi limite di ostinata devianza che implicano l'espulsione di chi «è pervertito, e pecca» (Lettera a Tito, 1, 10-11). L'affermazione di S. Paolo ha come implicita conseguenza

la prima vera e propria distinzione

tra il significato di peccato come colpa nei confronti di Dio da quello di reato in quanto violazione delle leggi positive. Con ciò la realtà terrena inizia a es-

sere pensata scissa in due sfere distinte, la sacra e la profana, mentre la libertà religiosa diventa il pre-

supposto del principio fondamentale di rendere «a Cesare quel che è di Cesare; e a Dio quel che è di Dio» (Matteo, xxII, 21). Questa è la sentenza che chiude emblematicamente il mondo classico, perché ne infrange il monismo politico-religioso, attribuendo al potere civile un’autonoma sfera d’azione, indipendente da motivazioni spirituali. Eppure, la

proposta paolina di un’integrazione del cristianesimo nella struttura dell'impero non basta a evitare lo scontro. Il diniego di adorare l’imperatore non è

considerato un’eresia né un delitto religioso, ma un attentato all’unità civile dello Stato. Le persecuzioni del 11 secolo d.C. e gli episodi di intolleranza verso l’ortodossia cristiana provocano in quest’ultima risposte durissime, sollecitando ritorni all’originaria purezza, fonte, a sua volta, di violenti contrapposizioni. Giova molto a chiarirne la natura e i contrassegni l’esperienza del padre apologista Tertulliano di Cartagine (160-220 ca). Nell’Apologetico (197 d.C.), difendendo la «libertà religiosa» e l’«opzione nel mondo delle realtà sacre», per rivendicare ai

cristiani «il diritto di una religione propria», l’autore del De corona (211 d.C.) giudica inaccettabile l'istituzione civile del servizio militare, pagana nella

forma e anticristiana nelle motivazioni, degeneratrici della vita umana.

E, nel 212, in una lettera al 13

proconsole africano Scapula si appella alla spontaneità del sentimento religioso, richiamandolo all’autorità «humani iuris et naturalis potestatis»: Appartiene al diritto umano e alla naturale libertà di ciascuno l’adorare quello che si vuole, né può danneggiare o giovare un altro il sentimento religioso di uno. E nemmeno può essere sentimento religioso il costringere alla religione, la quale deve essere accettata spontaneamente,

non con la forza, dal momento

che anche i sacrifici vengono richiesti a un animo che li offre di buon grado. Perciò anche se ci avrete costretto a sacrificare, non farete nessun favore ai vostri dei; essi, infatti, non vorranno dei sacrifici da chi non glieli vuole offrire, a meno che non siano litigiosi; e Dio non è litigioso*.

E sono considerazioni che introducono alla

complessa questione dell’eresia che lo stesso Tertulliano affronta con formule di natura giuridica. Nel De praescriptione haereticorum (198-200 ca) il ricorso all’«exceptio iuris» serve a giustificare la tesi che gli eretici dissidenti non possono detenere il

diritto a interpretare la Sacra Scrittura in quanto

separati dalla disciplina apostolica, al punto che si «può fare un conto della natura della loro fede, desumendola dalla natura della loro condotta: la disciplina è una spia della loro dottrina [...]. La maggior parte degli eretici non hanno nemmeno delle chiese: senza madre, senza sede, senza esser creduti da nessuno, esiliati vagabondano come esposti ai fischi di tutti». Ma con ciò l'immagine del cristianesimo, religione della libertà, rispettosa della coscienza individuale e della comunità dei credenti, è destinata a complicarsi. Nel m secolo la 4 Q. SETTIMIO

FLORENTE

TERTULLIANO,

Apologeticum,

XxIV, 6, 9, tr. it. di E. Buonaiuti, intr. di E. Paratore, Bari, Later-

za, 1972, pp. 151, 153; A Scapula, 2, 2, tr. it., in Opere scelte, a cura di C. Moreschini, Torino, Utet, 1974, p. 106. Cfr. A. POR-

TOLANO, Il problema dell’obiezione di coscienza in Tertulliano e Sant'Agostino, Napoli, Federico & Ardia, 1971. SQ. SETTIMIO FLORENTE

TERTULLIANO,

De praescriptione

haereticorum, 43, 1; 42,6, in Opere scelte, cit., pp. 169, 168.

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polemica contro l’eresia impone il consolidarsi di un'organizzazione della Chiesa conforme alla sua auctoritas spirituale. Nelle tesi del De catholicae ecclesiae unitate (251 d.C.) del discepolo di Tertulliano, Tascio Cecilio Cipriano, vescovo di Cartagine (200 ca-258), ritorna l'aspirazione paolina a una

struttura unitaria e gerarchica, coincidente con l’«umanimità» della chiesa delle origini, unica istitu-

zione detentrice del monopolio della salvezza (extra ecclesiam nulla salus) che rende intollerabile ogni forma di dissenso e di pluralismo.

A questa evoluzione della potestas spirituale corrisponde la contemporanea

caduta dello Stato

romano. La soddisfatta esigenza di maggiore unità possibile, imposta dall’espansione territoriale, rende impervia ogni difesa dall’avvento del nuovo esclusivismo religioso. Alla fine — come

ha giustamente

notato il Momigliano — lo «Stato è costretto ad ac. cettare la nuova fede, accettare l’uomo cristiano come un fondamento dello Stato. La società è ora

organizzata secondo regole cristiane»9. La cristianizzazione dell'impero implica la vittoria e, insieme, la

trasformazione dei princìpi dell’orientalismo religioso. Il nuovo concetto di trascendeza divina impone l'abbandono dei vecchi riti misterici ed extraraziona-

li, per opporre al modello orientale di contemplazione mistica un autentico rapporto interiore tra il di-

vino e l'umano, nonché il valore della religione come espressione della realtà individuale. Una soluzione alla crisi politica del 1 secolo d.C. è assicurata da Costantino e dal celebre editto (sottoscritto con

Licinio a Milano nel 313) che impegna il princeps a farsi formalmente garante del principio di libertà religiosa come problema politico fondamentale:

6 Così a. momIgLIANO, Dalla libertà filosofica a quella cristiana, in 1D., Pace e libertà nel mondo antico..., cit., p. 114.

Di Cipriano si veda il noto De catholicae Ecclesiae unitate, 24-

27, ora in Il pensiero politico cristiano. Dai Vangeli a Pelagio, a cura di G. Barbero, Torino, Utet, 1962, pp. 255-256.

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Quando Noi Costantino Augusto e Licinio Augusto c'incontrammo felicemente a Milano per discutere insieme di tutti gli affari relativi all'interesse e alla sicurezza pubblica [...], credemmo di dover assegnare il primo posto a quel che riguarda il culto della divinità, accordando ai cristiani e a tutti, la facoltà di seguire quella religione che credessero, affinché qualunque sia la divinità che dimora nel celeste soggiorno, possa essere favorevole e propizia a Noi e a tutti coloro che dipendono dalla nostra autorità.

Questo testo è riportato non a caso nel De mortibus persecutorum (314-320 ca) di Lattanzio”, lo scrittore cristiano perseguitato da Diocleziano e precettore del figlio di Costantino, che, nelle Divi-

nae institutiones, oppone all’illegittima pratica della coazione in ambito religioso le prerogative di Dio, rimettendo a lui soltanto il compito di punire i crimini e le possibili deviazioni dalla vera fede, esalta-

ta nel suo carattere di volontarietà: Non è necessario adoperare la violenza e le ingiurie,

poiché la religione non può essere imposta: occorre cercare di raggiungere lo scopo con la persuasione piuttosto che con le percosse, in modo che l’adesione sia volontaria. [...] La religione deve essere difesa non uccidendo ma morendo, non con la violenza, ma con la costanza, non con la scelleratezza, ma con

la fedeltà [...]. Nulla è così volontario come la religione: essa, se l'animo di chi compie un sacrificio vi ripugna, senz'altro scompare, è distrutta. [...] Non è un sacrificio quello che si ottiene con la violenza da chi è contrario. [...] Ma noi [...] non pretendiamo che uno veneri suo malgrado il nostro Dio, il quale, si voglia o non si voglia, è Dio di tutti; e non ci adiriamo se non lo si venera. [...] E perciò quando sopportiamo azioni scellerate, neppure colle parole facciamo opposizione,

ma a Dio rimettiamo

la vendet-

tat, 7 CAECILIUS FIRMIANUS LACTANTIUS, De mortibus persecutorum, XLVII, tr. it. di F. Scivittaro, Roma, Libreria di cultura,

1923, pp. 82-83. 5 Ip., Divinae institutiones, V, 19 e 20, tr. it. di U. Boella, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 451, 453; 455, 461.

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Ma con la cristianizzazione dell'impero romano è destinata a riemergere la controversa questione delle prerogative e dei limiti da stabilire tra l'autorità spirituale e quella temporale. Lo testimonia, alla fine del Iv secolo, la polemica tra il vescovo

cristiano di Milano, Ambrogio (339 ca-397), e il senatore e prefetto di Roma, Quinto Aurelio Simmaco (340 ca-402 ca), coinvolti, entrambi, nella disputa sulla verità e la ricerca della fede. In una Relatio (384 d.C.) all'imperatore Valentiniano II, ricordan-

do il valore dell’eredità religiosa dell'impero, si chiede di ripristinare, nella Curia di Roma, l’altare della Vittoria, distrutto due anni prima in ossequio alla Chiesa cristiana, trionfante fede di Stato. Simmaco, prefetto di Roma, sostiene una tale richiesta non solo in omaggio agli antichi culti, ma, soprat-

tutto, ai diritti della coscienza dei senatori pagani e a un'idea di verità non assoluta, ricercata in forme

diverse e tutte degne di “tolleranza”: «È doveroso riconoscere che tutti i culti hanno un unico fonda-

mento. [...] Che importa se ognuno cerca la verità a suo senno? Non si può seguire un’unica strada per raggiungere

un mistero così grande»9. La rea-

zione di S. Ambrogio, immediata e vincente, mira, invece, a recuperare il valore di verità assoluta e

non dissimulata della fede in quanto parola e sapienza di Dio: «Ciò che voi non sapete, noi l’abbiamo imparato dalla voce stessa di Dio. E ciò che voi cercate per mezzo di congetture, noi lo sappiamo

con certezza dalla stessa sapienza e verità di Dio»!°. 9 QUINTUS AURELIUS SYMMACHUS, Relatio, x, ora in SANT'AMBROGIO, Opere, a cura dic. Coppa, Torino, Utet, 1969, p.

899. Sul tema si veda F. caNFORA, Simmaco e Ambrogio o di un'antica controversia sulla tolleranza e sull’intolleranza, Bari,

Adriatica, 1970. ° Ambrogio a Valentiniano 1 (384 d.C.), in Epistola

xvi, 8, ora in SANT'AMBROGIO, Opere, cit.,

p. 908. Cfr. F.E. CON-

soLino, L’optimus princeps secondo S. Ambrogio: virtù imperatorie e virtù cristiane 1) Orazioni funebri per Valentiniano e Teodosio, in «Rivista storica italiana», xCvI (1984) Ill, pp. 1025-

1045.

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È l'esito di tale polemica a spiegare le ragioni di un’intolleranza ecclesiastica che si avvarrà di tutti

gli strumenti coercitivi dell’auctoritas civile, quando la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato verrà formalmente sancita, nel 380 d.C., dal-

l’editto di Teodosio. In esso alla liquidazione del culto pagano si associa la confutazione di ogni dissidenza religiosa. Nell’eresia l'errore dottrinale si co-

niuga con la perversione morale e il «crimen publicum» contro l'ordine e la sicurezza dell'impero da sanzionare penalmente anche con la morte. Rappresentativa di tale congiuntura storica è l’opera di Aurelio Agostino (354-430) per il sostegno teorico assicurato all’azione coercitiva dell'autorità statale. Dopo l’iniziale condanna dell’uso della forza in reli-

gione, sono i crimini di diritto comune dell’eresia donatista a rendere necessario l’intervento delle

leggi imperiali. Nella celebre risposta (407-408 ca) alla lettera del vescovo scismatico Vincenzo di Cartenna viene ripresa la nota espressione compelle intrare («costringili a entrare») della parabola evangelica di Luca (xIV, 23), per accreditare in materia di fede la costrizione. Questa non è cattiva in sé, ma proficua e giustificata dal fine della Chiesa, dall’amore che spinge al bene comune per la conquista della vera libertà nell’unità del corpo di Cristo: Già comprendi dunque [...] che non deve considerarsi il fatto che uno venga costretto, ma se ciò a cui viene costretto sia bene o male. Non dico che uno possa essere buono per forza! Voglio dire che uno, per paura di un castigo che non è disposto a subire, o abbandona l’animosità che lo tiene lontano dalla verità conosciuta, o è costretto a conoscere la verità

ignorata: la paura cioè lo potrebbe spingere a ripudiare la falsità per la quale lottava, o a ricercare la verità che ignorava, e infine a sostenere volentieri come

vero ciò che prima non voleva??.

1! Agostino a Vincenzo, vescovo di Cartenna, in Epistola xcm, 5, 16, ora in SANT'AGOSTINO, Opere. Le Lettere, intr. di M. Pellegrino, tr. it. e note di L. Carrozzi, parte 11, vol. xxI, Roma, Città Nuova editrice, 1969, p. 829.

18

Conseguenze

significative, in tale contesto,

assume anche l’esegesi della parabola della zizzania (Matteo, XIII, 24-30; 36-43), metafora del male morale e del peccato che, nel commento

del vescovo

di Ippona, è conseguenza di un errore dottrinario da estirpare con la forza, risultando a tutti tanto certa la sua identità da meritare il «rigore della disciplina», senza danno per la «carità», la «pace» e

l«unità» della «moltitudine

dell'assemblea della

Chiesa»'2. Implicito corollario di questa argomentazione è l'appello al potere civile che «quando [...]

proclama la verità, per gli erranti assennati è un'utile

ammonizione,

mentre

per gli insensati

un’inutile afflizione». L'autorità della Chiesa non De alternativa a quella dell'impero, perché la difesa

dell’ecclesia agostiniana come civitas Dei è prerogativa del potere secolare che colloca l’eresia tra i crimini di lesa maestà: «Un solo gregge e un solo pa-store»!3 è il motto dell’agostinismo, destinato a conoscere significativa fortuna nelle teorie e nelle pratiche dell’intolleranza cristiana tra medioevo ed età moderna. Se nel v secolo d.C. è ancora possibile distinguere le sfere di intervento della Chiesa e dello Stato, conservando la tolerantia agostiniana il valore

positivo e moderato della patientia, dagli inizi del secolo vii, quando l'impero è solo un ricordo e si

esce dalla forma storica del cristianesimo di tipo costantiniano, la disponibilità a tolerare si dissolve.

L'equilibrio faticosamente promosso dall'esigenza di contemperare l’intransigenza dottrinale (dogma della salvezza) con il rispetto della libera volontà è infranto dal progressivo affermarsi dell’illimitata giuri-

sdizione ecclesiastica e dal consolidato potere pon2 Ip., Contro la lettera di Parmeniano, in 1D., Opere, cit., intr. di R. A. Markus, tr. it. e note di A. Lombardi, vol. xv/

1 (1998), p. 205. i 13 Agostino a Vincenzo, vescovo di Cartenna, in Epistola xcui, 6, 20; 5, 19, in SANT'AGOSTINO,

Opere. Le Lettere, cit.,

pp. 835, 833. 19

tificio di reprimere il peccato con la forza. È il modello della sovranità della Chiesa, auspicata dalla nuova teocrazia dei papi canonisti che, a partire dalla riforma gregoriana, risolve la delicata questione della coesistenza di autorità spirituale e potere temporale nell’indiscussa plenitudo potestatis del pontefice. Da Gregorio vi a Bonifacio vm la Chiesa diventa l’unica istituzione in grado di esprimere una struttura organizzativa unificante e sovrana anche

nelle questioni temporali. Nell’età del cosiddetto “agostinismo politico” il papato è destinato a interpretare, in senso totalizzante, il potere concesso da Cristo a Pietro, annullando di fatto ogni possibile distinzione tra la sfera politica e quella religiosa'4.

La decadenza dell’impero romano d’occidente e le invasioni barbariche accentuano questo processo. Dal secolo Ix l’antico dualismo di Stato e

Chiesa si trasforma nella potestas di una nuova comunità cui danno corpo le conquiste di Carlo Magno. La renovatio imperii nel giorno di Natale dell’anno 800 coincide con la nascita di una teocrazia che, modellata sulla civitas Dei, ne riproduce interamente la gerarchia dei valori. Ed è nel contesto di una teologia politica vincolata alla trascendenza che si definisce il modello politico cristiano-medievale della monarchia a sovranità limitata, in cui l’unico e

vero princeps è Dio con la sua lex assoluta e immutabile in quanto fondamento dell'ordine del mondo.

Dopo l’anno 1000, quando con le crociate l’odio religioso e l'intolleranza ecclesiastica sostituiscono all'antica immagine del dissidente-pagano quella dell’infedele, papato e impero sanciscono la loro convinta alleanza. Se l’intolleranza cristiana conosce il suo criterio-guida nel principio paolino (extra ecclesiam nulla salus), i conseguenti interventi corret14 G. FALCO, La polemica sul medio Evo (1933), poi, con un'introduzione di F. Tessitore, Napoli, Guida, 1977, p. 34: cfr.

anche il noto studio su La santa romana repubblica. Profilo storico del medio evo (1942), vm ed., Napoli-Milano, Ricciardi, 1968.

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tivi si richiamano alla dottrina giuridica medievale. Punto privilegiato di riferimento è la celebre collezione canonica di Graziano che, nel Decreto (compilato a Bologna intorno al 1140), raccoglie e ordina i passi più intolleranti degli antichi Padri e scrittori della Chiesa, assimilandone le norme al diritto ro-

mano in vista della progressiva edificazione dello ius comune

romano-canonico.

Per tutto ciò, trasfor-

matosi in una struttura sempre più gerarchica e fortemente unitaria, il cristianesimo, nella sua versione

cattolica, diventa l’unica, autentica fonte di legittimazione del potere politico, incarnandosi nel mito che un grande storico del Novecento, Giorgio Falco, ha identificato nella «repubblica romana e cristiana, erede di tutte le promesse di Cristo e dei Cesari». Testimonianza storica di ciò sono le intese raggiunte, nel 1184, a Verona tra Federico Barbarossa e papa Lucio mi, convinti della necessità di . esercitare un’intolleranza religiosa e civile contro gli eretici. Nella decretale pontificia (Ad abolendam) viene formalizzata l'istituzione, in ogni diocesi, di un tribunale episcopale permanente, specializzato

nelle pratiche di repressione del dissenso religioso e dell’eresia, una pravitas radicale, una vera e propria

devianza da Dio e dalle leges dell’impero, meritevole, quindi, di essere annientata con violenza in quanto crimine in tutti i territori della cristianità.

Lo attestano quelle disposizioni che, incrementate dalla legislazione conciliare e pontificia di Gregorio Ix e Innocenzo Iv, introducono, nel 1231, la pena di

morte al rogo per il colpevole d’eresia'5. Eppure, il cristianesimo medievale ha saputo attingere dai testi della patristica argomenti in favore dei non cristiani. Proprio il volontarismo di Ago!5 Dopo lo studio classico di F. RUFFINI (La libertà religiosa. Storia dell’idea [1901], intr. di A. C. Jemolo, Milano,

Feltrinelli, 1967, pp. 28-29), cfr. P. ZERBI, Medioevo: tolleranza 0 intolleranza religiosa?, in La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, a cura di M. Sina, Milano, Vita e Pensiero, 1991, spec. p. 18 e sgg. 21

stino, convinto che non si può costringere a credere con la forza, conserva tutto il suo valore nel se-

colo x e, in particolare, nella Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino (1225 ca-1274), secondo cui [...] Ci sono degli increduli, come i Giudei e i pagani, i quali non hanno mai abbracciata la fede. E questi non

si devono

costringere

a credere

in nessuna

maniera: perché credere è un atto volontario. Tuttavia i fedeli hanno il dovere di costringerli, se ne hanno la facoltà, a non ostacolare la fede con bestemmie, cattivi suggerimenti,

oppure

con aperte perse-

cuzioni. Ecco perché coloro che credono in Cristo spesso fanno guerra agli infedeli, non per costringerli a credere (perché anche quando riuscissero a vincerli e a farli prigionieri, li lascerebbero liberi di credere, se vogliono): ma per costringerli a non ostaco-

lare la fede di Cristo?°.

Se la moralità dell’atto volontario si determina secundum obiecta rappresentati alla coscienza, l’incredulità non è cosa cattiva in sé, perché essa è

l'esito di un'adesione della voluntas a un male prospettato tale dalla ragione (1-11, q. 72, a.1; q. 19, a.

5). Da ciò discende la delicata questione se sia obbligante la «coscienza erronea» e se essa «scusi dal peccato». La soluzione, già proposta, nel secolo xI,

da Pietro Abelardo (1079-1142) con l'assunzione — nell’Ethica, seu liber Scito te ipsum (1136-1139 ca) — di una morale della «buona intenzione» che identifica l’esperienza del peccato con l’andare «contro coscienza», matura, in Tommaso,

nel riconoscimen-

to dell'errore e dell'ignoranza, quest'ultima distinta negli atti volontari e involontari, per giustificare solo nei secondi la colpa di obbedire alla coscienza erronea. In un altro e ben noto “articolo” la Summa affronta il complicato tema del culto degli infedeli, per trattare (con richiami al De ordine ago© s. ToMMaso D'AQUINO, La Somma Teologica, traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, testo latino dell'edizione leonina, s.l. ma Sancasciano, A. Salani, 1966, m-11, q. 10, a. 8 (vol. xIv, p. 228).

22

stiniano) della “tolleranza” quale espediente prudenziale, per evitare un male maggiore o non impedire beni futuri: Nel governo umano chi comanda tollera giustamente certi mali, per non impedire dei beni, o anche per non andare incontro a mali peggiori. [...] Perciò sebbene gli increduli pecchino coi loro riti, essi si possono tollerare, o per un bene che ne può derivare, o per un male che così è possibile evitare.

E, tuttavia, le condizioni di tale giustificazione conoscono assai limitate possibilità di applicazione, come documenta proprio il richiamato tema dell’«ignorantia facti» che Tommaso contrappone all'ignoranza di diritto, inammissibile quando si tratta della «legge di Dio, che siamo tenuti a conoscere». Se il peccato non è soltanto rifiuto della grazia, ma violazione del fondamento divino dell’or. dine etico-razionale e di quello civile, la giustizia della Chiesa conquista un primato, risultando in grado di rappresentare e difendere tutto il diritto divino e umano. Perciò, nella risposta alla domanda «se gli eretici debbano essere tollerati», i pur condivisi appelli tradizionali alla virtù cristiana della patientia conoscono un limite insuperabile nell’ortodossia dottrinale, nella necessità di estirpare immediatamente il seme dell’eresia. Nell'uso del verbo tolerare è opportuno, allora, riconoscere l’espressione di una moderazione solo possibile, destinata a essere alterata dalla repressione del peccato anche negli infedeli non battezzati, per i quali Tommaso esclude ogni possibilità di intervento della giurisdi17 Ivi, I-II, q. 72, a. 1 (vol. x1 [1964], p. 44 e sgg.); ivi, q.

19, aa. 5, 6 (vol. vm [1959], pp. 404 e sgg., 408, 410); I-II, q. 10, a. 11 (vol. xrv [1966], p. 238). DI ABELARDO si veda Conosci te stesso 0 Etica, introduzione, traduzione e note di M. Dal Pra,

Firenze, La Nuova Italia, 1976, spec. pp. 56-59. Per le riflessioni sulle «condizioni soggettive della moralità», riformulate da

Tommaso, cfr. l’analisi fondamentale di J. LEcLER, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme (1955), tr. it. di G. Basso, t. 11, Brescia, Morcelliana, 1967 (rist. ivi, 2004), vol. 1, pp. 114-122.

23

zione ecclesiastica. La loro condizione di erranti, assimilabili agli acattolici battezzati, conferma che a mutare i termini della libertà della fede interviene

il primato della potestà ecclesiastica e della missione politica, universale del papato. Se l'incontro con la “vera” religione è un atto libero che non può essere coartato, restare nelle fede accolta è una necessità vincolante, al punto che gli «increduli, i quali un tempo hanno accettato la fede e l'hanno

professata [...] devono essere costretti anche fisica-

mente ad adempiere quanto promisero, e a ritenere ciò che una volta accettarono». Perciò, quando l'eresia minaccia una società spirituale e un intero ordine sociale e civile fondato sulla Chiesa, il com-

pelle intrare di agostiniana memoria si trasforma in un compelle remanere. Il monito biblico alla mode-

razione lascia il campo al massimo rigore possibile contro l’eretico, meritevole di più severa punizione rispetto al falsario, di subire, quindi, l’esclusione dalla comunità ecclesiale con la scomunica e, nei casi di ostinata eresia, di essere

sottoposto al «giu-

dizio civile, o secolare, per toglierlo dal mondo con la morte»!9.

Eppure, l'esigenza di preservare l'autonomia e il primato del potere spirituale anche a costo di perseguire — tra Trecento e Quattrocento — conversioni forzate è messa in crisi da un celebre trattato

del 1324, il Defensor pacis di Marsilio da Padova (1275 ca-1342 ca), rettore dell’Università di Parigi (1312-1313), costretto dalle autorità ecclesiastiche a rifugiarsi in Germania (1330). Nel Discorso rr dell’opera, trattando dell’uso della forza in materia di fede, prende lo spunto dalle testimonianze della 5 s. roMMaso D'AQUINO, La Somma Teologica, cit., 1-1, q. 19, a. 6 (vol. vm [1959], p. 410); nt, q. 11, a. 3 (vol. xv [1966], p. 254); ivi, q. 10, a. 9 (p. 232). Cfr. M. CONDORELLI, I

fondamenti giuridici della tolleranza religiosa nell’elaborazione canonistica da secoli xr-xrv. Contributo storico-dogmatico, Mi-

lano, Giuffrè, 1960, pp. 145-147. 19 $. TOMMASO D'AQUINO, La Somma Teologica, cit., 1-1, q. 10, a. 8 (vol. x1v [1966], p. 228); ivi, q. 11, a. 3 (p. 254).

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Sacra Scrittura per ribadire l'illegittimità di un’opera di proselitismo basata sulla pura violenza e per distinguere le prerogative delle leggi umane da quelle divine: Secondo la verità e la chiara intenzione dell’Apostolo e di quei Santi che furono i dottori più illustri della Chiesa o della Fede, nessuno, fedele o infedele, può essere costretto in questo mondo ad osservare i pre-

cetti della legge evangelica per timore della pena o punizione [...]; e perciò dunque i ministri di questa fede, vescovi o preti, non possono né debbono giu-

dicare, in questo mondo [...], né possono costringere nessuno, con la minaccia della pena o della punizione, ad osservare i precetti della legge divina, soprattutto senza averne avuto autorizzazione dal legislatore umano. La legge divina stabilisce infatti che un tale giudizio non deve essere né esercitato né eseguito in questa vita, ma solo in quella futura. [...] La legge evangelica non può quindi giudicare suffi-

cientemente gli atti umani secondo il fine di questo mondo. Perché, infatti, non si trovano in questa leg-

ge delle regole che misurino questi atti secondo la proporzione desiderata dagli uomini [...], tali regole sono presupposte, sono presentate e saranno presen-

tate dalle leggi umane.

Il distacco dal tomismo è qui netto nel riservare al «legislatore umano» solo il diritto-dovere di applicare la legge umana e le relative pene contro gli eretici, in quanto trasgressori dell’ordine sociale ma non peccatori contro la lex Dei: Nessuno potrà mai essere punito dal magistrato solo perché pecca contro la legge divina. Vi sono infatti molti peccati mortali contro la legge divina, come la fornicazione, che il legislatore umano permette anche se ne viene a cognizione e che il vescovo o prete non può né deve punire per mezzo del potere coattivo. Ma se il peccato dell’eretico contro la legge divina è tale da esser proibito anche dalla legge umana, allora viene punito anche in questo mondo in quanto viola la legge umana. [...] Soltanto il governante ha, secondo la designazione del legislatore umano, l'autorità di esercitare il giudizio coercitivo nei confronti di tutti gli eretici, criminali ed altre

25

persone soggette alla pena o punizione temporale; di infliggere loro pene personali, di esigere il pagamento di certe pene pecuniarie sulla loro proprietà e di applicare queste pene?°.

Sia pure regolate dall’accanita difesa della universitas civium, le questioni della tolleranza e dell’eresia restano ancora estranee alla problematica moderna della libertà di coscienza e di religione. Non si tratta, in Marsilio, di teorizzare uno Stato indipendente dalla Chiesa, perché nella ricerca della fondazione autonoma dell'ordine politico restano pure ineludibili le relazioni tra la sacralità della leg-

ge canonica e la legittimità del potere secolare. E, tuttavia, carica di ambiguità e di profonde contraddizioni, l’eredità del cristianesimo accolta dalla Riforma si nutre dell’avvertita consapevolezza, nei

Discorsi del Defensor pacis, di trasferire il potere spirituale e temporale dall'autorità del papa a quel-

la del princeps moderno, in qualità di capo della religione nel suo “territorio”?.

2° MARSILIO DA PADOVA, Defensor pacis, tr. it. a cura di C. Vasoli, Torino, Utet, 1960, «Discorso 11», capp. IX, 7, 12 (pp.

350-351, 356-357) e x, 7 ( p. 364); ivi, «Discorso II», cap. II, 30 (p. 738).

2: Di un indiretto contributo di Marsilio alla nascita dei

«diritti naturali soggettivi» ha parlato P. PRODI, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, il Mulino, 2000, p. 150.

26

Dalla virtà della tolleranza alla libertà di religione: verso Spinoza

3

Per la difesa e il consolidamento dell’unità politica dei nuovi “territori”, formatisi dopo la caduta dell’universalismo imperiale (romano prima, carolingio dopo), occorre che i sudditi condividano la stessa fede ufficializzata dal sovrano. L'antico principio dell’uniformità religiosa non è abbandonato ma aggiornato e trasformato dall’interesse pubblico che nell’unità della Chiesa riconosce la sua necessaria condizione di possibilità. È questa la convinzione

formalizzata dalla pace di Augusta (1555) tra cattolici e luterani, confermata nelle Institutiones iuris

canonici (1599) del canonista luterano, Joachim Stephani col celebre principio «cuius regio, eius religio». La risposta alla crisi della civiltà medievale è quella dell’indipendenza politica degli Stati territoriali moderni che progressivamente tendono a consolidare la propria identità, sia pure dentro l’antica cornice dell'unità religiosa, trasferita nel nuovo sistema delle Chiese nazionali indipendenti. Ma fondato sul diritto del princeps di nominare i ministri di culto e di controllare le proprietà ecclesiastiche, il carattere confessionale dello Stato è causa della rinascita del dogmatismo teologico, per il rigido criterio di inclusione dell’unica vera religione (territoriale) e di esclusione di tutte le altre “regole” di vita religiosa con mezzi leciti e illeciti di intervento. Perciò, nell'Europa tra Cinquecento e Seicento,

si apre una tragica congiuntura storica e

politica tra l'aspirazione alla pace e alla giustizia che tutte le religioni promettono e l’inevitabile lot-

27

ta che ogni Stato-territorio è costretto a scatenare IS

in difesa della propria esistenza. Non diventa, infatti, “tollerante” la Riforma che, in nome della libertà del cristiano, pretende illimitata obbedienza e giu-

stifica il ricorso alla violenza legale per abbattere ogni forma di eterodossia, scisma ed eresia. In tale

contesto, la stessa parola tolleranza nasce come intimamente legata alla questione dell’unità dottrinale e politica dell'Europa moderna. Le aperture umanistiche di Erasmo e della sua scuola alle idee

di unità nella carità e di pace universale religiosa incrociano nuove istanze alla “tolleranza” che non designano rapporti interpersonali o virtutes di matrice classica. Come testimonia, per la prima volta l’Editto di Ambois (1562), si tratta di regolare e definire le possibili relazioni dell’autorità religiosa e del potere politico con minoranze politico-religiose e gruppi di fedeli dissidenti, eredi della tradizione

ereticale medievale'. Quest’ultimi, viventi ai margi-

ni degli opposti integralismi (cattolico e protestante), condividono una concezione prevalentemente

etica e non coercitiva della religione, praticata nelle sette e nei circoli di matrice umanistica, destinati a conoscere significativo ascolto nell’Olanda moder-

na. Qui, dopo il ripristino dell’Inquisizione papale (1542) e il concilio di Trento (1545-1563), vivissima eco ha la notizia del rogo dello spagnolo Michele Serveto (1553), condannato da Calvino per le sue

“intollerabili” tesi antitrinitarie. Nel 1554, contem-

poranea alla pubblicazione della Defensio orthodoxae fidei de Sacra Trinitate è la stampa di De haereticis an sint persequendi, una raccolta di testi (dei

Padri della Chiesa, di Erasmo, degli anabattisti) a ' Cfr., in proposito, Mm. FIRPO, Il problema della tolleranza religiosa nell'età moderna. Torino, Loescher, 1978, p. 12 e se da J. LEGLER (0p. cit., p. 127 e sgg.) si veda La questione ella tolleranza. Gli autori, i dibattiti, le dichiarazioni, a cura di

M. L. Lanzillo, Bologna, CLUEB, 2002: alle pp. 244-250 si pub-

blica una traduzione italiana del testo della pace di Augusta del

1555.

28

favore della tolleranza degli eretici, curata e pubblicata da Martinus Bellius (pseudonimo di Sébastien

Castellion, 1515-1563) a Basilea in cui è sempre vivissima la lezione erasmiana. Proprio ad essa l’umanista savoiardo si ispira nel riprendere la tesi

— destinata a conoscere particolare fortuna nell’arminianesimo olandese del Seicento — della distinzione tra un ristretto nucleo di verità fondamentali della fede, unanimamente condivise, e un più vasto

campo di soggettive opinioni dottrinali, gli adiaphora, non necessari alla salvezza e, perciò, suscettibili di libera, tollerante discussione. Il riconoscimento

in materia di fede che la diversità di opinioni giova al cristiano nella ricerca della salvezza è conseguenza dell’accento nuovo posto sulla coscienza-ragione dell’uomo anche se caduta in errore, sul rispetto che la sua «natura» divina impone nella ricerca di verità liberamente perseguite senza alcuna coercizione: [...] E poi, della trinità, della predestinazione, del libero arbitrio, di Dio, degli angeli, dello stato delle anime dopo questa vita, e di altre cose di questo genere [...] non è tanto necessario conoscere per conquistare, attraverso la fede, la salvezza [...]. Questa intempestiva preoccupazione

degli uomini

è vi-

ziosa per sé e genera altri mali anche maggiori. Gonfi di questa scienza o falsa opinione di scienza, gli uomini superbamente disprezzano gli altri [...]. E poiché oggi non sono, si può dire, più numerosi gli uomini che le opinioni e tuttavia non c’è quasi una setta che non condanni tutte le altre e non rivendichi a sé solo il regno, ne nascono gli esili, i ceppi, i roghi e le croci, per le opinioni malviste dai più potenti, intorno

a cose ancora ignote, ormai

da

tanti secoli disputate tra gli uomini e tuttavia non ancora concluse in maniera certa. [...] Esamini ognuno se stesso, vaghi e indaghi severamente la sua coscienza, soppesi seriamente tutti i suoi pensieri, le

sue parole, le sue azioni: comprenderà facilmente di non poter strappare il fuscello dall’occhio del suo fratello prima di aver strappato la trave dal proprio. [...] Non dico ciò perché io sia favorevole agli eretici. Io odio gli eretici, ma vedo nella persecuzione

29

due grandissimi pericoli. Primo, che sia considerato eretico qualcuno che non è eretico. [...] L'altro pericolo sta nel fatto che qualcuno, anche se sia veramente

eretico,

venga

punito troppo

severamente

0

in modo disforme da ciò che richiede la disciplina cristiana”.

Teorizzata l'impossibilità di distinguere l’errore dalla verità teologica, la critica umanistica di matrice erasmiana diventa, in Olanda, un’arma po-

lemica contro ogni forma di ortodossia dogmatica. Dalla metà del Cinquecento la fase di più intenso sviluppo economico coincide con il radicamento di un costume di tollerante pluralismo religioso, nonostante i ripetuti rigurgiti delle lotte tra il violento autoritarismo delle regioni meridionali rurali, tradizionaliste, legate agli Orange, di fede calvinista e quelle del Nord, dominate dall’influente, ricco patriziato urbano, fatto di mercanti e banchie-

ri, imprenditori e amministratori finanziari, protagonisti del rapido processo di modernizzazione

e

di emancipazione dal dominio spagnolo. Con il trattato dell’Unione di Utrecht (1579) le Sette Province settentrionali danno vita alla repubblica indipendente, a un luogo di incontro pacifico tra le diverse confessioni; cattolici e protestanti sospendono ogni forma di persecuzione in base all’arti-

colo 13 del trattato che garantisce il libero esercizio di tutti i culti privati, delegando l'istituzione di una pubblica confessione a ogni singola provincia, legittimata anche a regolare gli eventuali conflitti con imparzialità e indifferenza “neutrale”. Nel

1597, un anno prima dell’editto di Nantes (1598) con cui la monarchia francese riconoscerà le istanze di tolleranza e di pluralismo religioso, ad Amster? M. BELLIUS [pseud. di s. CASTELLION], De Haereticis, an sint persequendi, s.i.t., 1554, tr. it. (parziale) in s. CASTELLIONE, Fede, Sabbio e tolleranza, pagine scelte e tradotte da G. Radetti, Firenze, La Nuova Italia, 1960, pp. 40, 41, 44, 45. Una

parziale traduzione italiana della Defensio orthodoxae fidei di Calvino si legge in M. FIRPO, op. cit., pp. 107-108.

30

dam il borgomastro, Hooft, può dichiarare: «Nessuno abbia a essere molestato su questioni di coscienza, bensì tutti siano tollerati con cristiana SOpportazione»3. In tale delicato momento, fatto di innovative

proposte culturali e di ripetuti ritorni alla radicale intolleranza della contemporanea ortodossia calvinista, si segnala l’attività di Dirck Volckertszoon Coornhert (1552-1590), traduttore in neerlandese de-

gli scritti postumi di Castellion, pubblicati da Fausto Sozzini4. Con le condivise tesi dell’umanista sa-

voiardo l’incisore di Amsterdam, pubblicista e segretario di Stato, coniuga lo spiritualismo mistico, coltivando la lettura degli scritti di Sebastian Eranck e accogliendone il fondamentale antidogmatismo, la valorizzazione dell’uso critico della coscienza-ragione contro l’autoritarismo dell'ortodossia tra-

dizionale. Nel Synodus of vander Conscientien

. vryheyt (1582) l'esame delle verità dogmatiche e degli errori di parte cattolica e protestante induce a mettere in dubbio il valore assoluto del verum e a contestare ogni possibile costrizione in materia di fede. L'obiettivo polemico è — come in Castellion — l'apparato ideologico e dottrinario dei teologi calvinisti cui viene contrapposta la «libertà di coscien-

za». Nelle sezioni x e x1x dell’opera essa è esaltata e ancorata a quella legge del reciproco rispetto (Matteo, VII, 12) che serve da introduzione al fon-

damentale discorso sulla non punibilità dell’eretico da parte del potere civile: 3 Cit. da H. KAMEN, The Rise of Toleration (1967), tr.it.

di G. Bernardi, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 155 (ma sulla «riscossa nazionale nei Paesi Bassi» e i «partigiani della libertà nelle Province Unite» cfr., ivi, pp. 146-156). 4 Sulle edizioni e traduzioni delle opere di Castellion in Olanda, dopo il noto lavoro di F. BUISSON (Sébastien Castellion,

sa vie et son oceuvre [1515-1563]. Étude sur les origines du protestantisme libéral frangais, Paris. Hachette, 1892, vol. Il, p. 319 e sgg.), cfr. B. BECKER, Sébastien Castellion et T hierry Coornhert, in Studia sorsi TT] in honorem Herman de la Fontaine Verwey, Amsterdam,

M. Hertzberger,

1968, pp. 11-25.

gl

Non è meno pericoloso uccidere l’eresia con l’aiuto della verità, risparmiando l’eretico, che uccidere invece un membro prezioso di Cristo, con l’abuso della spada secolare? Non conviene di più fare del

principe un fedele guardiano che protegga le sue pecore contro i lupi, piuttosto che un lupo feroce

che attacchi l’innocente gregge del Cristo? [...] In ciò che concerne la religione, proteggete i figli di Dio dalla violenza dei loro nemici [...]. L'insegnamento della teologia non ha nulla in comune con la spada, altrimenti i teologi vi chiederebbero di sostenere con le vostre armi le loro personali opinioni. Da questo conseguirebbe che i medici farebbero lo stesso, e così i dialettici, gli oratori e i rappresentanti delle altre arti liberali. Poiché voi non potete proteggere con

le armi

tutte

queste

professioni,

tanto

meno lo potete se si tratta di questioni teologiche. Ed è così per dal sentimento dei figli di Dio spada non può

tutto ciò che dipende dallo spirito e interiore. [...] Proteggete il corpo con la spada corporale, ma una tale raggiungere l’animaS.

Sintonizzate su queste tesi sono le pagine del

1590 contro i Politicorum sive civilis doctrinae libri sex (1589) del grande filologo Giusto Lipsio (15471606), deciso a difendere le ragioni dell’assoluta uniformità confessionale nello Stato; pagine raccolte, prima della morte, nel Proces vant Ketter-dooden

onde dwangh der Conscientien tusschen Justum Lipsium, schrijver van de Politien anno 1589 daer voor

e riformulate nell’Epitome processus de occidendis haereticis et vi conscientiis inferenda (1592). Qui la contestazione tocca in particolare la dottrina della punibilità dell’eresia in Bèze, per metterne in rilievo la contraddizione con il principio della predestinazione della teologia calvinista e con la moderazione dell’autentico messaggio evangelico, tipico di un modello di Chiesa immune da ogni pericolosa confusione di interessi temporali e prescrizioni spirituali: 5 D. V. COORNHERT, Synodus [...] van der conscientien vryheyt [...], in 1p., Wercken, waervan eenige noyt [...], Amsterdam, J.A. Colom., 1630, t. Il, pp. 20r, 42r, tr. it. cit. da ].

LECLER, 0p. cit., pp. 307-308.

32

Coloro che vivono ancora al di fuori della chiesa sono o possono diventare propensi ad aderire alla chiesa stessa, e ciò tanto più facilmente se vedranno che in essa è in vigore un profondo amore

reciproco

e addirittura un’universale clemenza. [...] Da quanto ho avuto modo di dire traggo la conclusione che tutte le chiese che, sotto il pretesto della religione, si rendano responsabili della morte di qualcuno che non sia un facinoroso, peccano iniquamente contro la religione divina e, al tempo stesso, anche contro tutti gli uomini. [...] Infatti, se l’eretico è soltanto una persona in errore, (la chiesa) commette una colpa nei suoi confronti, poiché esige da lui il dono della vera fede che Dio non gli ha ancora concesso e che non può essergli concesso da alcun uomo, e in questo modo gli viene sottratto il tempo della grazia, che Iddio stesso potrebbe pur sempre concedergli. [...] Si pecca anche [...] contro tutti gli uomini per i quali gli ammonimenti dell’ucciso avrebbero potuto essere

portatori di salvezza;

si pecca contro

Cristo

stesso, del cui corpo si uccide un membro; si pecca contro la religione della santa chiesa, anzi contro la chiesa stessa, uccidendo coloro dai quali essa, con suo grande vantaggio, avrebbe potuto essere censurata e stimolata, scandalizzando molte persone con un simile crudele comportamento®.

Il dibattito aperto da queste tesi, punto di confluenza del pensiero ereticale del Cinquecento e, in particolare, della cultura sociniana, conosce rile-

vanti occasioni di approfondimento nella setta protestante arminiana lungo tutto il Seicento olandese. Rappresentativa è già la posizione moderata del suo fondatore, Arminius (Jacobus Harmensz, 15601609) che alla richiesta del Concistoro di Amster-

dam di redigere una confutazione delle tesi antipredestinazionistiche di Coornhert non risponde, manifestando, così, un’indiretta ma convinta adesione alla

polemica olandese contro l’irrigidito calvinismo contemporaneo.

Rappresentativa del suo stile e della

sua proposta “irenica” resta la celebre orazione De 6 p. v. COORNHERT, Epitome processus de occidendis haereticis et vi conscientiis inferenda, Goudae, Z. Hoenius, 1592,

pp. 179-180, 184-185, tr. it. cit. da M. FIRPO, op. cit., pp. 165, 166.

33

componendo

dissidio religionis inter christianos,

pronunciata 18 febbraio 1605 nell'Università di Lei-

da con lo scopo di promuovere la convocazione di un nuovo concilio per raggiungere un accordo sugli “essenziali” articoli di fede. Enfatizzando i motivi di «carità» e di «concordia» nella ricerca del verum in religione, l’Oratio punta a esaltare il valore dell’agire responsabile del credente alla luce degli ideali difesi con esemplare impegno da Lattanzio e Tertulliano

contro ogni forma di coercizione: [...] Da un concilio [...] chiunque ha fiducia nelle promesse di Dio si deve attendere splendidi frutti. [...] Se poi dovesse accadere che su alcuni articoli di fede non si riuscisse a raggiungere un accordo, credo che allora occorrerebbe fare due cose. In primo luogo bisognerebbe vedere se non sia possibile mantenere tra le due parti una fraterna concordia in Cristo, sì che si riconoscano

reciprocamente

come

partecipi

della fede e della salvezza, quand’anche su quei punti avessero opinioni diverse. Se poi una delle parti si rifiutasse di porgere all’altra la mano della fratellanza, allora essa, per unanime volontà, dovrà dimostrare con evidenti testimonianze scritturali che quegli articoli controversi sono di tale rilevanza che quanti non concordano su di essi non possono essere uniti in Cri-

sto. E se, dopo aver tentato ogni mezzo, non si potrà

raggiungere questa fratellanza, allora si dovrà mettere in atto la seconda ipotesi, che nessuno, in alcun modo, potrà in coscienza respingere con qualche pretesto.

[...] Quanto alle decisioni prese per comune consenso, il concilio non si arrogherà il diritto di imporle con la forza: dovrà infatti sempre pensare che, per quanto gli sembri di aver fatto ogni cosa secondo coscienza, può comunque aver sbagliato. E una simile moderazione avrà una maggiore autorità nei confronti sia dei dissidenti sia di tutto il popolo dei fedeli di quanta non ne abbia una severa durezza, dal momento che

alla fede bisogna persuadere e non costringere, come dice Lattanzio, e che nulla è meno religioso che imporre la religione, come dice Tertulliano”.

7 I. ARMINIUS, Oratio de componendo dissidio religionis inter christianos [...], in Opera theologica [...], Lugduni Batavorum, G. Basson, 1629, pp. 76-78, 89-90, tr. it. cit. da M. FIR-

PO, op. cit., pp. 168, 169.

34

Se l’interpretazione moderata della dottrina predestinazionistica, conciliata, in Arminio, con la tradizione erasmiana del libero arbitrio, è duramente avversata da un altro professore leidense, Franciscus Gomarus (Gomaer, 1565-1641), sono notevoli le tesi politico-giuridiche circa il diritto del sovrano in materia di religione. Con ciò siamo all’origine di un intenso conflitto dalle note, alterne vicende e strettamente intrecciate a vicende sociali ed economiche, rappresentative dello scontro — inaspritosi dopo la morte di Arminio (1609) — tra l’oligarchia mercantile della ricca provincia d'Olanda, protetta dal “gran pensionario”, Oldenbarnevelt, e gli opposti interessi della nobiltà e dell’alleata classe contadina, tutelate dagli Orange-Nassau. Due anni prima della pubblicazione, in Olanda, del Contra libellum Calvini (la Declaratio orthodoxae fidei) di Castel-

lion, gli arminiani, nel 1610, guidati da Simon Episcopius e Jan Wtenbogaert, espongono la loro celebre «Rimostranza», ottenendo, nel 1614, un decreto

pro pace ecclesiarum che, redatto dal giurista di Delft, Huig van Groot (Grozio, 1583-1645), impone allo Stato di vigilare che i ministri del culto non trattino, nell’insegnamento pubblico, di «dispute troppo approfondite». Lo scopo implicito è di favorire una tendenza fortemente “erastiana” nello ius

circa sacra e di promuovere su questioni secondarie una tolleranza di opinioni, come nel caso della predestinazione, causa di continui conflitti e ora, invece, giudicata non fondamentale via d’accesso alla salvezza. Detentore del potere coercitivo, lo Stato

vieta ogni forma di repressione violenta del dissenso

religioso, perseguita dall’autorità ecclesiastica, garantendo la pacifica convivenza di dottrine anche diverse ma non contrastanti con «l’incolumità dello Stato e della Chiesa, [...] la tranquillità, la concordia e il bene fondamentale dei cittadini»5. Sono 8 Cfr. Decretum illustrium ac potentum Ordinum Hollandiae et Westfrisiae pro pace ecclesiarum, in H. GROTIUS, Ope-

35

queste le tesi che confluiscono nel groziano De imperio summarum potestatum circa sacra (composto nel 1614, ma, non senza significato, edito postumo,

nel 1647), per fare dello Stato l'arbitro della vita religiosa, il difensore dell'integrità della fede in base a una modica theologia. Il relativo modello di «tol-

leranza» serve a giustificare le ragioni di un’auctoritas, fondata ancora sull’istituzione divina e non sul

consensus gentium, come accade solo più tardi, nel De iure belli ac pacis. A limitare gli interventi arbitrari del magistrato in ambito religioso occorre fissare — come nel capitolo m del De imperio — i limiti della sua azione, rispettosa dell’esortazione (formulata nel capitolo vi dell’opera) alla concordia, alla

persuasione e alla prudenza nell’esercizio del «potere intorno alle cose sacre». Grozio nega che il magi-

strato possa prescrivere atti contrari al «diritto naturale o al diritto divino» e ordinare «cose vietate da Dio o vietare cose da Dio ordinate». Lo ius circa sacra non può essere assoluto. Agli uomini non è stato attribuito il potere di proibire la «predicazione» e l’«amministrazione» dei sacramenti né di definire «muovi princìpi di fede». Quello ius contribuisce solo a eliminare i contrasti e a favorire l’obbe-

dienza dei sudditi alla legge divina. Prescrive «le condizioni di luogo, i tempi, le modalità per le azioni ordinate da Dio, affinché esse siano compiute ‘in

modo decoroso e ordinato’». Tutto ciò giustifica l'accordo tra potere statale e comunità religiosa, impegnati a difendere l'origine divina di ogni aucto-

ritas e disposti a far uso della violenza in nome dei diritti divini violati. L'autorità sovrana di cui qui parla Grozio non è ancora quella dello Stato di dirum theologicorum [...], Amstelaedami, apud heredes ]. Blaev,

1679, vol. MI, p. 141, , tr. it. cit. da M. FIRPO, op. cit., p. 170; H.

croTIUS, Defensio Decreti Ordd. Hollandiae pro pace ecclesiastica [...], ivi, pp. 196-197, tr. it. cit. da M. FIRPO, op. cit., p. 173. Una traduzione (parziale) della «Rimostranza» sì legge in A. SINI, Arminianesimo

Cedam, 1969, pp. 47-51.

36

olandese

e “iura circa sacra”,

Pa Ova,

ritto, risultando lo ius del princeps «non [...] limitato dalla legge positiva». In questo senso, il fatto che la summa potestas sia riferita alla «persona» o all'«assemblea che governi su di un popolo e che non abbia che Dio al di sopra di sé» conferma l’intenzione del giurista olandese di sottolineare i caratteri e la natura dell’imperium, la sua unità, in primo luogo. A tal fine, egli non esita a evocare l'autorità dei Padri della Chiesa, rivolgendosi, in particolare, alla lezione di Tertulliano, convinto che l’unità e l’uni-

versalità della «materia [...] oggetto dell’autorità sovrana» corrispondano all’universalità del fine: l’amore reciproco tra Dio e popolo, in coerenza con il carattere religioso della civitas e con l'estensione della summa potestas «non solo in ordine alle cose profane, ma anche a quelle sacre»9. Resta nell’autore del De veritate religionis christianae (1627), pubblicato negli anni dell'esilio, dopo la sconfitta del .“partito” arminiano, l'intenzione di riconciliare il mondo cristiano, di teorizzarne l’unità sui fondamenti di una religione non dogmatica, ispirata dagli ideali di moderazione, concordia e di pace tra tutte le confessioni cristiane: [...] A tutto ciò facciamo seguire una esortazione a quella concordia reciproca, che Cristo al momento di andarsene raccomandò con tanta gravità ai suoi [...]. Il nostro sapere sia modesto, consapevole dei limiti che Dio ha assegnato alla conoscenza di ciascuno;

se certi capiscono

di meno

su ogni cosa,

la

loro debolezza va sopportata, affinché si uniscano a noi in pace e senza discussioni; se certi invece supe-

rano gli altri in intelligenza, è giusto che si distin* guano anche nello zelo verso il prossimo; quanto a quelli poi che su qualche punto la pensano diversa9 H. GROTIUS, De imperio summarum potestatum circa sacra, Commentarius posthumus (d'ora in poi si cita con De imperio), in In., Operum theologicorum [...], Amstelaedami,

apud heredes ]J. Blaev, 1679, t. III, pp. 201-291, tr. it. a cura di L. Nocentini, Tirrenia (Pisa), Edizioni del Cerro, 1993, cap. 11,

$$ m-v, xI, pp. 45-48, 54-56; cap. vi, $$ IX, x, XMI, XIV, pp. 137142 € 144-145, 146; cap. I, $ III, pp. 13, 14, 15-16, 18.

37

mente, bisogna attendere sino a che Dio manifesti anche a loro la verità; nel frattempo i punti sui quali vi è accordo vanno tenuti fermi e adempiuti nell’operare [...]?°.

Non è difficile riconoscere in queste riflessioni il senso della partecipazione diretta dell'autore alla deplorevole svolta della politica olandese dopo

il sinodo calvinista di Dordrecht (1618-1619). La scomunica e l'espulsione dei “rimostranti” dalla Chiesa riformata calvinista, l’uccisione dell’Olden-

barnevelt nel 1619 e la fuga del condannato Grozio in Francia (1621) segnarono la disfatta dell’arminianesimo di primo Seicento. La vittoria del calvinismo intransigente fu assistita e incoraggiata dall’alleanza con l'aristocrazia orangista che, rappresentata da Maurizio di Nassau, durò fino all'anno della sua morte (1625), quando il successore e fratello mino-

re, Federico Enrico (1625-1647), pose fine alla politica di intolleranza religiosa e, dal 1630, consentì ufficialmente agli esiliati di rientrare in patria. In tale mutato clima politico e culturale si colloca l’opera del maggior teologo rimostrante del seminario di Amsterdam dal 1626, Simon Episco-

pio (1583-1643), impegnato a contestare al calvinista Jacques Cappel (1570-1624) le tesi sulla dottrina della predestinazione e, più in generale, quella sull’interdizione alla pubblica discussione delle argomentazioni

arminiane.

Occorre,

invece,

tute-

lare le ragioni delle dissonanti opinioni religiose, come nel giudaismo, laddove i fedeli «vivono uniti nella medesima comunione, si dividono, talvolta, in gruppi distinti, a causa di giudizi divergenti sulle verità non

necessarie»!!.

1° H, GROTIUS,

Primo

De veritate

obiettivo

teorico

religionis christianae,

in D.,

Operum theologicorum [...], cit., pp. 1-96, tr. it. di F. Pintacuda De Michelis, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 177-178.

1! s. EPIScOPIUS, Examen thesium theologicarum Jacobi Capelli [...], in m., Opera teologica [...]. Editio secunda [...],

Londini, ex officina M. Pit, 1678, p. 189, tr. it. in J. LECLER, op. cit., vol. Il, p. 347.

38

della polemica diventa la riformulazione della questione tolleranza per giustificare la limitazione dell'intervento in sacra del magistrato e il diritto del credente alla «libertas conscientiae ac prophetiae». A tale espressione si richiama direttamente l’Apologia pro confessione remonstrantium

(1629) che,

pur riconoscendo al magistrato una potestas coactiva (peraltro già ammessa da Arminio e da Grozio), la giudica limitata alla sfera dell’interesse

pubblico e inadeguata a esercitare un'influenza sulla conscientia umana e la vita religiosa. In quest'ultima l’uso della forza è respinto dalla stessa legge del Vangelo, fondata sull'amore e sulla carità, virtù opposte alla «lex de occidendis idolatris» d'origine veterotestamentaria (Deut., XII, 13-17). Il magistrato non può agire «vi coactiva», vietando

ai sudditi «religiosa exercitia», compiuti in privato per manifestare la fede e obbedire alla legge del - loro Dio e signore. Proibire o turbare «vi publica» questi culti significa - come già denunciò Tertulliano — «conscientiis vim facere» e togliere loro il necessario alimento: Questo voglio: che il magistrato non possa per nulla usare la forza per impedire ai suoi sudditi le pratiche religiose in luoghi privati ed idonei, pratiche da loro compiute per esternare ed alimentare la propria fede, e che essi credono di dover compiere per obbedienza alla legge del loro Dio e Signore. Intervenire con la forza pubblica per proibire o turbare queste azioni di culto significa far violenza alle coscienze e togliere loro il cibo necessario: come non c'è vita senza

cibo, così non

c'è religione

senza

l'esercizio cultuale??.

12 s. EPISCOPIUS, Apologia pro declaratione Remonstrantium [...], in ., Opera theologica [...], Goudae, typis G. van der Hoeve, prostant Roterodami, apud A. Leers, 1665, parte Il,

p. 239; ID., Institutiones theologicae [...] liber tertius [...], in Ip., Opera theologica [...]. Editio secunda [T-dscit.tcap. Dia; pp. 103-104, tr. it. in M. SINA, Il cammino di Locke verso la dottrina della tolleranza religiosa, in La tolleranza religiosa. Inda-

gini storiche e riflessioni filosofiche, a cura di M. Sina, Milano, Vita e Pensiero, 1991, pp. 213, 214.

39

Anche a proposito della delicata questione circa la legittimità del magistrato di condannare a morte gli eretici, il teologo olandese condivide le tesi di Coornhert, ribadendo la non volontarietà dell’eresia, causata solo «ex errore mentis» e, per-

ciò, non perseguibile come colpa da punire con pena violenta: Nessuna coercizione carnale, nessuna pena è stata decretata da Dio contro chi sbaglia, né alcun ragionevole motivo consente di farlo. [...] Chi si attribuisce il diritto di forzare gli altri, attribuisce necessariamente agli altri il medesimo diritto nei confronti di se stesso. A nessun uomo e a nessuna chiesa è stato concesso un giudizio infallibile sugli errori altrui. [...] Per ora mi limito a dire che simili violenze sono contrarie alla legge naturale e alla giusta ragione: l’errore non può essere represso tramite una forza esterna; chi sbaglia non merita pena alcuna; nessun uomo ha il diritto di esprimere giudizi perentori

in materia di errore, se non per ciò che riguarda se stesso e la sua anima [...]. Un’eresia è grave o legge-

ra a seconda dell’arbitrario giudizio di ciascuno e ha il valore che ciascuno le attribuisce. [...] Lasciate alla verità divina, re e principi, la gloria di combattere con le sue armi contro l'errore. [...] I dissensi non turbano la pace, che dipende dalla concordia degli animi, e non è il disaccordo, ma la violenza, che lacera gli animi E ciò è dimostrato dai regni e dagli stati che durano incolumi tra diversità d’opinioni d'ogni genere grazie alla sola innocenza. [...] Per cui la tolleranza dei dissidenti è il sostegno degli stati e dei regni. [...] La sicurezza dipende dalla pietà e dalla reciproca benevolenza tra i cittadini, pur in mezzo

ai dissensi in materia religiosa!9.

Della fiducia nella ragionevolezza umana e nel valore positivo del pluralismo religioso per la vita civile si nutrono le ragioni della riflessione di metà Seicento. Gli anni di Giovanni de Witt, il successore dell’Oldenbarnevelt, capo del governo e 13 s. EPISCOPIUS, Apologia pro declaratione Remonstrantium [...], cit., pp. 240-241, 252, tr. it. in M. FIRPO, op. cit., pp. 175, ‘1700177; 11798.

40

della politica estera, coincidono con un lungo periodo di sviluppo della vita politica, culturale ed economica delle Province Unite. Al regime liberale in-

terno e al rilancio della politica estera corrisponde la diffusione della filosofia cartesiana, nonché la riformulazione critica della tolleranza alla luce di

quattro, distinte eppur convergenti prospettive, se-

gnalate dallo storico Jonathan I. Israel: quella di matrice sociniana, mennonita e mistico-spiritualisti-

ca; quella moderata e repubblicana, ispirata a Utrecht dal cartesiano Lambert van Vethuysen, a Rotterdam da Adriaen Paets e a Leida dall’attività pubblicistica dei fratelli Johan e Pieter de la Court;

quella di carattere “radicale” e democratico-repubblicana, riconoscibile negli scritti di Franciscus van den Enden e Baruch Spinoza; infine, quella di tradizione rimostrante, risalente all’autorità di Episcopius!4. È un pluralismo confessionale senza prece. denti nella storia moderna d'Europa quello che si realizza nell’Olanda di metà Seicento, in «una libe-

ra Repubblica», in cui «è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa»'5. Così recita il titolo del capitolo xx del Trattato teologico-politico di Spinoza (1632-1677), pubblicato anonimo nel 1670. In esso (la sua complessità e portata non è qui neppure il caso di sfiorare) è abbandonata la tradizionale terminologia, al punto che la stessa espressione in latino tolerantia appa-

re una sola volta e nell’originario significato etimologico di «sopportazione» paziente delle avversità. Ai vecchi ideali che sottendono una tale accezione 14 |. ISRAEL, The Intellectual Debate about Toleration in

the Dutch Republic, in The Emergence of Tolerance in the Dutch Republic, ed. by C. Berkvens-Stevelinck, ]. Israel and G.H.M. Posthumus Meyjes, Leiden-New York-KéIn, Brill,

1997, pp. 24-25:

15 B. SPINOZA, Tractatus theologico-politicus, in 1D., Opera [...], hrsg von C. Gebhardt, Heidelberg, C. Winters Universitaetsbuchhandlung, s. a. (ma 1924), vol. 11, tr. it. a cura di A. Droetto e E. Giancotti Boscherini, Torino, Einaudi, 1972, cap. Xx, p. 480.

del termine il filosofo oppone la «libertà» di religione, parte della più ampia sfera di pensiero e di azione, tutelata dal diritto alla libertas philosophandi nell'uomo che si identifica con la sua potentia, espressione di quel «conatus suum esse conservandi» e «in suo esse perseverandi» che «definisce il nucleo centrale dell'essenza del diritto naturale del singolo»: Nessuno, infatti, può, né può essere costretto a tra-

sferire ad altri il proprio naturale diritto, e cioè la propria facoltà di ragionare liberamente e di esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa?9.

Dopo la guerra dei Trent'anni, conclusa con il trattato di Westfalia (1648), l'impossibilità, tragicamente vissuta, di risolvere con le armi la questione della tolleranza impone di superare i limiti di un impianto teologico tradizionale e di favorire una

soluzione giuridico-politica che sottintende un’idea dei diritti in relazione ai diversi fini della religione

e dello Stato. La questione tolleranza si pone, quindi, solo dopo l'istituzione di un potere politico aconfessionale che abbandona la tradizionale definizione della religione come instrumentum regni, presupposto della sempre possibile trasformazione di ogni controversia religiosa in disputa giuridica e conflitto politico-militare. Solo una relazione di li-

bertà tra autorità civile e vita religiosa può evitare di finalizzare al consolidamento del dominium la religione che è, invece, da regolare in base alle pratiche di culto compatibili con il buon governo di uno Stato che voglia garantirsi una pace sicura interna. Il giudizio sulla fede e il diritto di regolarne

l’attività appartengono «interamente alle sovrane potestà» solo quando la religione assume una “for!© Ivi, p. 480. Cfr. E. GIANCOTTI BOSCHERINI, Introduzione a B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, cit., p. xx. Del superamento spinoziano dell'impianto teorico della “tolleranza” ha parlato F. MIGNINI, Spinoza: oltre l’idea di tolleranzaP, in La tolfolte religiosa [...], cit., spec. pp. 195-196 e sgg. 42

ma” nel mondo e si traduce in «esercizio esterno del culto religioso». Resta, invece, inviolabile e non giudicabile il sentimento religioso interiore e personale che appartiene a quello spazio autonomo di libertà che per diritto imprescrittibile della natura è patrimonio inalienabile di ciascun individuo e non

può essergli sottratto, senza pregiudicare il patto costituente il potere politico e l’autorità di chi lo esercita. Il sovrano interviene in ambito civile e re-

ligioso solo sulle azioni che sono di diritto pubblico per garantire pace e sicurezza allo Stato: In primo luogo, infatti, intendo dimostrare che la religione acquista valore giuridico soltanto in seguito al decreto di coloro che hanno il diritto d’imperio, e che Dio non ha alcun regno particolare sopra gli uomini, se non per mezzo di coloro che governano; e in secondo luogo, che il culto religioso e l'esercizio della pietà debbono conformarsi alla pace e all’interesse dello Stato, e di conseguenza venir regolate esclusivamente dalle somme potestà, le quali, perciò, devono esserne anche le interpreti. Parlo espressamente dell'esercizio della pietà e del culto esterno della religione; non della pietà stessa e del culto interiore di Dio, cioè dei mezzi coi quali la mente

si dispone interiormente

a onorare

Dio con

integrità d'animo; giacché il culto interiore di Dio e la pietà stessa rientrano nell’ambito dei diritti individuali [...] che non si possono trasferire ad altri!7.

La trasfigurazione della virtù della tolleranza nel diritto alla libertà di religione matura alla luce della teorizzata separazione tra Stato e Chiesa e, soprattutto, per la proclamata esigenza dell’uomo moderno di non essere impedito nel pensiero, nell’esperienza religiosa come insieme di credenze e di

opinioni costitutive della vita privata dei cittadini.

17 B. SPINOZA, 0p. cit., pp. 461-462.

43

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Il primato dell'Olanda di Sei-Settecento e la lezione di Locke

4

La realtà politica e culturale dell'Olanda di secondo

Seicento non è più quella delle polemiche tra arminiani e gomaristi, della modica theologia di Grozio.

Gli sviluppi del cartesianesimo e della critica biblica con Spinoza e Richard Simon, nonché l’incontro dell’arminianesimo con il socinianesimo favoriscono la confluenza del cristianesimo erasmiano, dell’irenismo e del nicodemismo del secolo xvI in una rin-

novata teoria della tolleranza religiosa e civile. Essa ‘ si impone, oltre che per ragioni filosofiche e spirituali, anche per interessi commerciali. L'Olanda — scrive William Penn nel 1686 — è diventata grande con la tolleranza, perché «è l’unione degli interessi e non quella delle opinioni che dà pace ai regni»'. Eppure, non sono abbandonati i princìpi del sinodo di Dordrecht (1618-1619). All'indomani della revoca dell’editto di Nantes (1685) si convoca a Rotter-

dam un nuovo concilio per ribadire tutte le precedenti risoluzioni ed espellere i dissidenti che si ri-

chiamano alla lezione di Arminio e di Episcopio, riproposta da Philipp van Limborch (1633-1712). Il noto professore di Amsterdam, nelle pagine della Theologia christiana (1686), condivide con la tradizione umanistica (da Erasmo a Coornhert) la distinzione tra le verità fondamentali della fede e

quelle tollerabili perché non indispensabili alla salvezza. Egli confida nella necessità di instaurare tra

le varie sette e religioni un rapporto di mutua tole® Cit. da w.CH. BRAITHWAITE, The Second Period of Quakerism [...], London, Macmillan and Co., 1919, p. 128.

45

rantia, fondato sulla separazione senza residui tra

potere politico e autorità spirituale, tra credo pubblico e sentimento religioso interiore e personale. Nei quattro capitoli conclusivi dell’opera discendono da tale impostazione le argomentazioni dedicate all'esercizio della “pietà” e alla “promozione” della pace e della libertà di coscienza estesa all’intero genere umano. L'accurato esame delle tesi della Chiesa cattolica e dei Riformatori, dei testi evangelici e di quelli dei Padri della Chiesa conferma l’op-

portunità di condannare la persecuzione in materia di fede e l'immunità degli eretici non responsabili di crimini contro lo Stato, perché viventi in una

condizione di ignoranza, insuperabile con la forza del magistrato, estraneo ai problemi cultuali e teologici. Nelle dispute religiose risulta, infatti, efficace solo la convinctio: I pastori insegnino soltanto la parola di Dio; convincano coloro che errano con la luce del verbo divino o con l'evidenza degli argomenti; tollerino poi quanti non sono in grado di convincere, fin tanto che Dio, mosso a loro compassione mostri loro ciò che ignorano”.

Proprio all’iniziativa limburgiana e alle lunghe, complicate trattative con il potere accademico e civile si deve l’arrivo in Olanda di Jean Le Clerc

(1657-1736). Sfuggito alla rigida ortodossia calvinista di Ginevra, l’acuto filologo dell’Ars critica riprende gli studi a Grenoble e Saumur, prima di consolidare la propria formazione culturale attraverso le relazioni con l’ambiente olandese negli ? PH. VAN LIMBORCH, Theologia christiana, ad praxin pietatis ac promotionem pacis christianae unice directa, Amstelo-

dami, apud H. Wetstenium, 1686, lib. vm, cap. xx, p. 898, tr. it. cit. da M. SINA, op. cit., p. 215. Sul tema si vedano gli interessanti lavori di L. SIMONUTTI, in part. Limborch* Historia Inquisitionis and the Pursuit of Tolerance, in Judaeo-Christian Intellectual Culture in the Seventeenth Century, edited by A.P. Coudert, S. Hutton, R. H. Popkin and G.M. Weiner, Dordrecht, Kluwer Academic Publishers, 1999, pp. 237-257. 46

anni di permanenza ad Amsterdam. Qui, sin dal 1682, spera di stabilirsi per godere la tollerante

«christianam libertatem quae apud vos viget». Così scrive da Londra al Limborch che ne favorisce la nomina a professore di filosofia nel collegio rimostrante, designandolo, poi, come suo successore alla cattedra di ebraico e di storia ecclesiastica. Nella «Bibliothèque universelle et historique» (1686) diventa subito opportuno ammettere che le autorità politiche olandesi «permettono a tutti i cristiani di servire Dio, secondo i movimenti della loro coscienza». La questione tolleranza si presenta, allora, come un dato culturale largamente acquisito,

«una

materia

di così grande importanza

nel tempo in cui viviamo» e «compaiono tanti libri di controversia intorno ad essa, che [...] non si ode quasi parlare d’altro»3. Nelle pagine dello stesso periodico il critico-giornalista contesta che l’unifor-

| mità religiosa possa essere considerata funzionale al . bene dello Stato. La tesi, al centro dell’apologetica cattolica con il Bossuet della Histoire des variations des églises protestantes (1688), assume particolare rilievo nella segnalazione dell’Introductio ad historiam praecipuorum

regnorum

et statuum moderno-

rum in Europa (1688) di Samuel Pufendorf (1632-

1694) e nelle dure reazioni di questi nelle Epistolae duae super censura in ephemeridibus eruditorum parisiensibus et Bibliotheca universali (1688). Gli

interventi nella «Bibliothèque» del 1689 riproducono le linee-guida del pensiero leclerchiano, mostrando la falsità delle argomentazioni del filosofo tedesco, convinto che «in generale la diversità delle opinioni in materia di religione» sia causa di deca-

denza dello Stato. Contro tale giudizio il recensore propone le vittoriose ragioni dell’«equità naturale» 3 Jean Le Clerc a Philippus van Limborch, Londra, 9g giugno 1682, ora in J. LE CLERC, Epistolario, a cura di M. Sina,

Firenze, Olschki, 1987, vol. I, p. 45 e «Bibliothèque Universelle et Historique», I, 1686, Préface, p. 14, non numerata; ivi, v, 1687,

p. 215 e VI, 1687, p. 257 (d’ora in poi si cita con la sigla BUH).

47

e del «Vangelo», per difendere l’opposta tesi della vera tolleranza, fondata sul pluralismo religioso nello Stato, «meglio regolato» se «si tollerano differenti opinioni». A mettere in crisi la convivenza civile e l’idea stessa di Stato è il dominio assoluto degli ecclesiastici «che non vogliono tollerare nulla», come testimoniano la religione cristiana e la storia. La «vera politica», quella che ha lo scopo di favorire la pace sociale e non la «potenza» dei pochi, si accorda con la ragione e l'autentica religione, superando i contrasti causati non dalla «tolleranza» ma dall'«opinione dannosa» dei più forti che opprimono la verità con la violenza. Del resto, la storia olandese contemporanea mostra che i maggiori attacchi all’unità e alla «pace degli Stati» provengono dall’intollerante pretesa di imporre un'unica confessione religiosa, «in modo che i popoli apprendano reciprocamente a procurarsi sofferenze»4. Perciò, Le Clerc non esita a distinguere la tolleranza «ecclesiastica», esercitata in relazione alle «differenti opinioni in una stessa chiesa» dalla «tolleranza politica». Per quest’ultima è opportuno fissare rigorosamente

i contenuti e i limiti, evitando che possa risultare nociva agli interessi dello Stato. Opposti i «buoni costumi» all’ateismo «che distrugge ogni idea di vizio e di virtù», si ribadisce che la tolleranza dev'essere

«costante

variazioni come dello Stato:

e regolata»,

cioè,

«perpetua»,

senza

tutte le altre leggi fondamentali

4 BUH, VIII, 1688, pp.

pp. 249-256. Per la complessa de-

finizione pufendorfiana di tolleranza tra interesse statale e impianto teorico del diritto naturale, con riferimento alla teorizza-

ta distinzione tra Stato e Chiesa nelle ligionis christianae ad vitam civilem,

pagine del De habitu reliber singularis (Bremae,

apud A.G. Schvverdfegerum, 1687; reprint, Stuttgart-Bad Cannstatt, F. Frommann Verlag, 1972; d’ora in poi con De habitu), rinvio ai noti contributi di Fiammetta Palladini e Simon Zurbuchen, discussi nel mio volume su Tolleranza e libertà di coscienza. Filosofia, diritto e storia tra Leida e Napoli nel secolo xvm,

presentazione di G.C.].]. van den Bergh, Napoli, Liguori, 1999, spec. pp. 22-24, 51-53 e note.

48

C'è una tolleranza politica — si legge nella voce Remontrans ou Arminiens (pubblicata dal filologo ginevrino nel Dictionnaire di Louis Moréri) — che consiste nel sopportare all’interno dello Stato tutti coloro che ne osservano puntualmente le leggi civili. C'è

una tolleranza ecclesiastica in base alla quale si comunica in una stessa chiesa con coloro che sono considerati nella condizione di meritare la salvezza. E tali sono, a giudizio dei Rimostranti, quelli che professano sincera fede nel Vangelo, senza essere né idolatri né persecutori né dotati di cattivi costumi5.

Perciò, l’autore dei Parrhasiana (1701) può riconoscere che «non è certo la tolleranza, ma l’intolleranza che rovina lo Stato [...]; bisogna sopportarsi reciprocamente, osservando tutti i doveri della società civile». Coerente con tale convinzione è, sul

piano gnoseologico, il riconoscimento della «varietà delle opinioni», contrassegno fondamentale della vera vita sociale e culturale. Occorre, infatti, «distinguere le opinioni dalle persone» e rispettare la

. libertà individuale di credere nella propria «verità», alla luce di quella «diversità di educazione, o di differente disposizione mentale e di temperamento, o di passioni e di interessi», richiamati citando di

John Locke (1632-1704) l'«eccellente libro intitolato Essai philosophique concernant l’entendement humain»®. Proprio con Le Clerc, uno dei suoi primi biografi, il filosofo inglese stringe profonda amicizia dal 1683, anno in cui si rifugia in Olanda, sospettato, in patria, di aver partecipato con Shaftesbury alla congiura del duca di Monmouth. Gli anni vissuti tra Amsterdam, Rotterdam e Utrecht lo vedono, com'è 5 BUH, XII, 1689, pp. 475, 476, 478, 479, 480 e Le

Grand Dictionnaire Historique, ou Le Mélange curieux de l’histoire sacrée et profane [...], par M.re Louys Morery [...], À Amsterdam et è La Haye, aux dépens de la Compagnie,

1702,

ed. x, t. II, ad vocem «Remontrans ou Arminiens», p. 252. 6 Parrhasiana ou Pensées diverses sur des matières de

critique, d’histoire, de morale et de politique par Theodore Parrhase, Amsterdam, chez H. Schelte, 1701, t. I, pp. 299-300; t. II, pp. 4; 19; t. I, pp. 3-4.

49

noto, nei circoli dei rimostranti, ospite, in particola-

re, del Limborch. E proprio da quest’ultimo l’autore dell’Essay Concerning Toleration (1667) è con-

vinto, nell’autunno del 1685 (in occasione delle vio-

lenze esercitate sugli ugonotti francesi dopo la revoca dell’editto di Nantes), della necessità di riordina-

re le proprie riflessioni sulle ragioni teologiche e civili della tolleranza. Nasce, così, la celebre Epistola de tolerantia, pubblicata anonima a Gouda, nel

1689, e indirizzata all'amico teologo di Amsterdam. Merito dello scritto è di dar voce a temi e problemi già ampiamente discussi nella cultura olandese mo-

derna, ricomponendoli in una sintesi di ben noti motivi conduttori del cristianesimo rinascimentale risalente a Castellion e ai sociniani attraverso la tra-

dizione dell’antidogmatismo arminiano e la rielaborata cultura dell’anglicanesimo liberale e del latitudinarismo: la rivendicazione del valore tolleranza

come autentico contrassegno della libera, volontaria adesione a una chiesa; la distinzione tra un gruppo assai limitato di verità necessarie alla salvezza e gli articoli di fede ad essa indifferenti: il riferimento a Dio con le credenze essenziali che richiedono un

uso non dogmatico della ragione e l'adesione spontanea alla «buona fede» salvifica e sincera, non forzata del mondo interiore della coscienza, serutato

solo da Dio e distinto da quello esterno, oggetto di intervento politico; il rifiuto dell'uso della forza in

ambito religioso e della pratica della persecuzione, inadeguata a promuovere una vera religio; la separazione tra Chiesa e Stato e il riconoscimento delle loro rispettive,

autonome

prerogative;

l’estraneità

alla vita etico-religiosa del magistrato civile che in-

terviene in difesa dell'utile pubblico e dei diritti naturali; la legittimità politica di una pacifica e tollerante coesistenza dei diversi culti: Poiché mi chiede che cosa pensi della reciproca tolleranza tra cristiani, le rispondo [...] che essa mi sembra il più importante segno di riconoscimento di una vera Chiesa. [...] [La] vera religione [...] è nata 50

non in vista dello sfarzo esteriore, non per esercitare il dominio ecclesiastico, non infine per usare la forza, ma per regolare la vita umana con rettitudine e pietà. [...] La tolleranza di quelli che hanno opinioni religiose diverse è così consona al Vangelo e alla ragione, che sembra mostruoso che gli uomini siano ciechi in una luce così chiara. [...] Ma perché [...] nessuno, dico, come suddito fedele del principe o come sincero credente, inganni sé o gli altri, io penso che prima di tutto si debba distinguere l’interesse ‘| della società civile e quello della religione, e che si debbano stabilire i giusti confini tra la Chiesa e lo Stato. [...] Mi sembra che lo Stato sia una società di uomini

costituita per conservare

e promuovere

sol-

tanto i beni civili. [...] E compito del magistrato civile conservare in buono stato a tutto il popolo, preso collettivamente,

e a ciascuno, preso singolarmen-

te, la giusta proprietà di queste cose, che concernono questa vita, con leggi imposte a tutti nello stesso

modo. [...] Quanto diremo dimostrerà, mi pare, che tutta la giurisdizione del magistrato concerne soltan-

to questi beni civili, e che tutto il diritto e la sovranità del potere civile sono limitati e circoscritti alla cura e promozione di questi soli beni; e che essi non devono né possono in alcun modo estendersi alla salvezza delle anime. [...] La cura delle anime non può appartenere al magistrato civile, perché tutto il suo potere consiste nella costrizione. Ma la religione vera e salutare consiste nella fede interna all’anima, senza la quale nulla ha valore presso Dio. [...] Mi sembra che una Chiesa sia una libera società di uomini che si riuniscono

spontaneamente

per onorare

pubblicamente Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima. [...] Ma poiché c'è tanta sollecitudine intorno alla vera Chiesa, mi sia lecito chiedere qui, per inciso, se alla vera Chiesa di Cristo non convenga stabilire condizioni di appartenenza nelle quali siano contenute quelle cose, e quelle sole, che lo spirito Santo ha chiaramente insegnato nella Sacra Scrittura, con parole esplicite, esser necessarie alla salvezza, piuttosto che imporre come legge divina le proprie invenzioni [...] ? [...] Perciò le esortazioni, i moniti, i

consigli sono le armi di questa società, quelle con le quali i suoi membri debbono essere mantenuti entro i limiti dei loro doveri. Se con l’uso di questi mezzi i trasgressori non sì correggono e gli erranti non ven-

gono ricondotti sul retto cammino,

non resta altro

51

che cacciare ed eliminare del tutto dalla società i riluttanti e gli ostinati, che non danno speranza di poter essere corretti. Questa è la forza ultima ed estrema alla quale può ricorrere il potere ecclesiastico. Si tratta di una forza la quale dà questa pena soltanto: venendo meno la relazione tra il corpo e il membro separato, chi è condannato cessa di far par-

te di quella Chiesa”.

Per Locke, quindi, filosofo del secolo XVII, il problema centrale è ancora quello espresso nella tradizionale “formula” della tolleranza. Il valore universale del diritto alla libertà religiosa non può

essere accolto, perché il concetto stesso di libertà è riferito solo ai soggetti religiosi. Le azioni umane legittimate sono quelle regolate dalla relazione tra fede e legge morale che consente di teorizzare l'esclusione del cattolico e dell’ateo, entrambi giudicati, sia pure per motivi diversi, corruttori dell’ordine civile. Estinte le tradizionali polemiche contro

la superstizione e l’idolatria dei papisti, si tratta di denunciare tutti i comportamenti politici illeciti e sovversivi, pericolosi per la sicurezza dello Stato. Interessati a rispettare i comandi del Papa quale unica auctoritas

riconosciuta,

i cattolici si rivelano

infidi per qualsiasi altro sovrano. Non possono esse-

re tollerati, perché appartengono a una «Chiesa nella quale, chiunque vi entri, per il solo fatto che vi entra, passa al servizio e all'’obbedienza di un altro sovrano». Né sono da tollerare gli atei, inaffidabili e dannosi, perché, negata l’esistenza di Dio, invalidano la «promessa», il «patto» o il «giuramen-

to» che costituiscono «i legami della società», dissolti se «eliminato Dio, anche solo con il pensiero

[...] Inoltre non può invocare nessun diritto alla tolleranza in nome della religione chi, con l’ateismo, elimina completamente ogni religione». 7 J. LOCKE, Epistola de tolerantia ad clarissimum virum T.A.R.P.T.O.LA. Scripta a P.A.P.0.1.L.A., Goudae, apud ]. ab Hoeve, 1689, tr. it. a cura di C. A. Viano, Roma-Bari, Laterza, 1989,

pp. 144, 147, 148, 149, 150, 152, 153. 8 Ivi, p. 179. 52

Nel 1704, quando Locke muore, lasciando incompiuta la Quarta Lettera sulla tolleranza, e

cessano le lotte di religione nei paesi riformati, il pluralismo confessionale e la libertà di religione ri-

sultano saldamente radicati nel complicato processo di autonomia della ragione e della vita sociale e religiosa dal dogmatismo ecclesiastico. A cadere sono i presupposti della tradizionale ortodossia teologica cui si oppongono la difesa del diritto di professare liberamente la religione secondo i dettami di uno ius conscientiae, dei suoi contenuti razionali e della sua forma giuridica. Impraticabile dall’auctoritas del princeps, il ridefinito spazio etico e giuridico della coscienza, incontra la riflessione sul moderno diritto di natura e sulla ragione dell’uomo, aprendo la via al secolo xv e alla sua «tolleranza». L°8 febbraio del 1706, all’Università di Leida, l’insigne giurista e storico olandese Gerard Noodt

(1647-1725), concludendo il suo secondo Rettorato, ‘ recita una Dissertatio de religione ab imperio iure gentium libera che attira subito l’attenzione dei

maggiori dotti in Olanda e fuori. In una lettera, scritta a Cornelis van Eck in quello stesso giorno del 1706, il filologo Jakob Voorbroek (più noto come Perizonius) ne commenta le principali tesi, sottolineando dell’autore la forte tensione emotiva, riflessa in uno stile oratorio insolito e incompatibile con il tradizionale decoro accademico?. Noodt scrive in un momento

larmente drammatico

storico partico-

per la società olandese che,

9 G. NOODT, Dissertatio de religione ab imperio iure gentium libera, habita in Academia tati a.d. VI. ID. Febr. A. mpccvi. Cum abiret Magnifici Rectoris munere, Lugduni Batavorum, apud F. Haaring, 1706 (citata d’ora in avanti con Dissertatio, seguita dall'indicazione delle pagine del-

l'edizione in latino e di quelle — poste in parentesi quadre — della traduzione francese in Recueil de discours sur diverses

matières importantes par Jean Barbeyrac, Amsterdam, chez P. Humbert,

1731 [d'ora in avanti si cita con Recueil], t. 1, pp. 119-231). La lettera di Perizonio è quella inviata a Cornelis van

Eck, Leiden, 8 febbraio suniversiteit, ms.

1706, Utrecht, Bibliotheek der Rijk-

1000, C. 2.

53

negli anni di Guglielmo m d’Orange (1689-1702), assiste all'esplosione della guerra di successione

spagnola e all’alleanza con l'Inghilterra contro l’assolutismo monarchico della Francia di Luigi xrv. Le argomentazioni iniziali della Dissertatio, rivolte contro ogni forma di violenza, esprimono con efficacia l'indignazione che in Noodt riaffiora con il ricordo delle vicende personali e della storia olandese contemporanea. L'assolutismo politico e il fanati-

smo religioso di inizio secolo sono stati sperimentati dal giovane Gerard nella città natale di Nijmegen. Qui, per l’inasprimento della lotta antirimostrante voluta dal Principe Maurizio, la sua famiglia arminiana ha assistito alle restrizioni, imposte nel 1622, alla nonna materna, Willemken van Wanrade. Minacciati dall'autorità politica centrale, i suoi concittadini sono progressivamente allontanati da tutti gli uffici pubblici e sottoposti a violenze di ogni

tipo che ne rendono impossibile la sopravvivenza in patria. Tra il 1642 e il 1644, il padre Peter, dopo un lungo esilio — iniziato negli anni Venti —, può rien-

trare nella Chiesa riformata ed essere rieletto alle cariche pubbliche della città!°. Ma stimoli diretti a intervenire giungono dall'ambiente culturale lei-

dense, contrassegnato dalla tollerante lezione dei maestri

arminiani

Wtenbogaert,

di primo

Episcopio,

Seicento:

riammessi

Arminio,

ufficialmente

in patria dal 1630, dopo l’indebolimento dell’ortodossia gomarista e del bellicoso orangismo. E, tuttavia, — come ha bene documentato Jonathan Israel — nella società olandese, certamente più libera

dopo il 1630, l'intolleranza teologica e politica risulta ancora molto potente e bene organizzata. Particolarmente attiva è l'opposizione al culto cattolico

praticato in larghi settori della popolazione e ogget‘° Una documentata ricostruzione di «Life and Career»

di Noodt si legge nella fondamentale monografia di G.C.].]. van DEN BERGH, The Life and Work of Gerard Noodt (1647-1725).

Dutch Legal Scholarship between Humanism and Enlightenment, Oxford, Clarendon Press, 1988, spec. pp. 8-28.

54

to di grande attenzione da parte dei reggenti armi-

niani. Bisognerà attendere gli anni dell’occupazione francese (1672-1674) per assistere al maturare di una generale pace religiosa, con chiese cattoliche e riformate tollerate e operanti pubblicamente: quelle principali di Armhem, Nijmegen, Zutphen, Deventer e Zwolle sono tolte ai riformati e riconsacrate alla religione cattolica, mentre nelle città di Utrecht e Nijmegen molto espliciti risultano i segnali di ripresa della militanza cattolica popolare. Fin dalle prime argomentazioni, la Dissertatio mostra che non è permesso a nessuno di «comandare o interdire ad altri la professione di una qualunque religione e di costringerli o punirli, in caso di rifiuto, con le armi o con il braccio secola-

re»!2. Da questo punto di vista, l'opera può apparire poco originale. Le tesi esposte nei capoversi ini-

ziali seguono la falsariga delle formule di tolleranza già note ai teorici del secolo xv. Tuttavia, da un esame più dettagliato del testo si è subito indotti a constatare che il termine tolleranza è assente nel significato etimologico tradizionale di «sopportare» eventi giudicati dannosi. Oggetto di riflessione diventa la libertà religiosa, destinata a suscitare l’irri-

tazione dei teologi contemporanei. È una conseguenza inevitabile, come

Limborch

dichiara nel

1707, all'amico Noodt, confermando l’acuto giudizio di Perizonius'3. Noodt si esprime in un linguag-

gio dai forti toni accademici ma non da iniziati. Le questioni esaminate

non

sono

esposte con distacco

o sdegnosa sufficienza, perché prevalgono la semplicità e la forza di una cultura convinta di dover considerare la libertà religiosa in una prospettiva 1! |. ISRAEL, The Dutch Republic. Its Rise, Greatness,

and Fall 1477-1806, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp. 637638, 643; sulla diffusione dell’arminianesimo a Nimega nel primo Seicento e sulla «rivoluzione calvinista dei contro-rimostran-

ti (1618-1621)» si vedano le pp. 427, 464 e 468. 1? G. NOODT, Dissertatio, p. 3 [p. 119]. 13 Jacobus Perizonius a Cornelis van Eck, Leiden, 8 febbraio 1706, cit., c. 2. 55

storico-giuridica. A sostenere l'impianto teorico dell’opera sono, innanzitutto, le esperienze di teori-

co e storico del diritto dell'autore, impegnato a verificare i concetti della scientia iuris nella realtà

politica e religiosa dell'Olanda contemporanea. Nelle pagine iniziali la difesa «libertatis Batavae» e la memoria della gloria degli avi risultano subito messe in relazione al diritto, quale prima e suprema fonte della convivenza umana. Per teorizzare la

libertà di religione in termini rinnovati rispetto alle tradizionali impostazioni teologiche, Noodt ricorre alle tematiche del giusnaturalismo moderno. Richiama l’attenzione sul carattere di universalità deducibile «dal santissimo diritto di natura e delle

genti» che, preesistente a ogni legge scritta, regola l’azione umana a garanzia del bene comune.

Cen-

trale diventa il ruolo da riservare al principio «giusto» ed «equo» di libertà d'azione che l’uomo deve rispettare se non vuole abdicare alla più autentica legge di natura'+. Nel nuovo naturalismo, guida del diritto moderno, ritorna il motivo fondamentale dello stoicismo antico, diffuso, come è noto, nei circoli umanistici olandesi del Seicento, grazie alla tra-

dizione erasmiana (riproposta dagli scritti di Giusto Lipsio e Gaspare Scioppio, di Gerardus Ioannes Vossius e Daniel Heinsius) e, più in generale, al contributo del calvinismo leidense. Ma nella riflessione di Noodt la presenza del modello stoico non è solo la testimonianza di un'educazione umanistica, di una sincera ammirazione per le virtù dell’etica antica. La natura cui si riferisce il diritto non è la natura in senso fisicomateriale, bensì quella razionale, specifica dell’uomo. L'invito a vivere in armonia con la natura e la ragione è il messaggio fondamentale dello stoicismo, accolto da Noodt e filtrato dalla lezione del giusnaturalismo moderno. Di Ugo Grozio possono essere condivise la definizione dello ius naturale, 14 G. NOODT, Dissertatio, p. 7 [pp. 125, 127]. 56

quale «dictatum rectae rationis»!5 e la distinzione —

prospettata alla luce di note indicazioni ciceroniane (De finibus, n, 5; De off., 1, 4) — tra i princìpi natu-

rali-istintivi del comportamento animale e quelli intellettivi. Su questi ultimi si regolano, per definizione, le azioni dell’uomo, collocato «molto al di sopra delle bestie», perché destinato a scoprire nei «lumi della ragione» un efficace correttivo delle inclinazioni naturali, una norma stabile e durevole di orientamento'8. Per Noodt il diritto di natura deV'essere messo in relazione «magnifico ac sapientissimo rerum opifici Deo», richiamato, in tale conte-

sto, per garantire soltanto il carattere di obbligatorietà della norma, la cui scoperta è un fatto esclusivamente umano e terreno. Il diritto naturale è l’espressione, sotto forma di legge, di un ordine valido solo per la natura razionale dell’uomo, l’unico essere vivente in grado di comprenderne il significato divino e razionale. Tutto ciò si rivela di estrema | importanza per la definizione della libertà religiosa. Attraverso il diritto, la ragione umana scopre che i

suoi poteri sono tutelati dall’autorità divina contro ogni possibile arbitrio. Consapevole di non possede-

re alcun potere sulla propria mens, l’uomo non può illudersi di dominare i suoi simili, perché rettore, signore e arbitro di tutte le menti resta Dio. Identificata la fonte suprema del diritto e degli umani doveri, Noodt riconosce che elementi costitutivi dell’atto di fede autentico sono la libertà e l’interiorità del sentimento religioso, fondato su una relazio!s H. croTII De iure belli ac pacis libri tres, in quibus

ius naturae et gentium, item iuris publici praecipua explicantur [...] [1625], Hagae Comitis, apud A. Leers, 1680, lib. 1, cap. 1,

x, p. 6 e Prol. vii (d'ora in poi si cita con De iure belli ac pacis). La Biblioteca univesitaria

di Leida conserva un manoscritto del

1708 che riproduce alcune delle lezioni private tenute da Noodt sull'opera groziana (Leida, Universiteitsbibliotheek,

Colle-

gium Grotianum seu explicatio et interpretatio Grotii de iure elli ac pacis H. Gockinga, ms. BPL. 191b, cit. da G.C.J.J. VAN DEN BERGH, op. cit., p. 283).

16 g. NOODT, Dissertatio, p. 8 [pp. 128-129].



ne diretta tra l’essere assoluto e il singolo uomo che, nell'intimità del proprio essere, ha assunto la

sua decisione, in piena libertà: «Ma quando si tratta di religione, che consiste essenzialmente in una santa relazione tra Dio e l’uomo, tutto è inutile e illecito se ad agire è la forza». La libertà di fede pre-

scrive di non imporsi mai con la violenza, giacché le questioni religiose sfuggono, per loro stessa natura, a qualsiasi atto coercitivo. Scopo di ogni comunità

religiosa è «summam atque aeternam invenire felicitatem». La disciplina ecclesiastica non può, quindi, esercitarsi con autorità dispotica o «domini supercilium sumere». Conferme, in tal senso, si trova-

no, secondo Noodt, nella storia ecclesiastica, soprattutto nelle testimonianze

dei Padri della chiesa.

Egli non esita a esaminarle, ispirandosi al noto giudizio di Lattanzio, secondo cui «non è con il carcere, gli attacchi, i tormenti, lo spargimento di sangue, le violenze che si agisce efficacemente sulla

volontà»!7. Prodotta da atti esterni, la forza non può generare un’autentica esperienza religiosa che, in quanto dono di Dio, si manifesta in forme mai contrastanti con la libertà individuale e il diritto di ogni uomo di tutelare i princìpi della propria vita interiore. Da questo punto di vista, il diritto alla libertà

religiosa non implica soltanto l'adozione di un selezionato modello di convivenza, ma rappresenta l’unica, possibile risposta all'esigenza di affermazione della fede come fatto etico, assolutamente incoercibile. L'appartenenza a una Chiesa deve essere,

infatti, l'espressione di una libera scelta, fondata sul volontario consenso dei suoi membri ai quali la disciplina ecclesiastica non impone altra forza che quella dettata dai «consigli, dalle esortazioni, dalle

istruzioni dolci e tranquille»'5. La religione si nutre 17 Ivi, pp. 8, 11, 16, 17, 18 [pp. 128, 145-146, 148, 149]. ‘8 Ivi, p. 18 [p. 150]. Cfr, Di ultimo, J. VAN EIJNATTEN,

Gerard Noodt's Sonno in the Eightenment-Century Dutch Debates on Religious Freedom, in «Dutch Review of Church History», LXXIX (1999) 1, pp. 74-98.

58

essenzialmente di tale persuasione soggettiva e interiore dell’uomo, libero di venerare il proprio Dio. Le motivazioni individuali e puramente devozionali liberano la fede da ogni influenza e costrizione

esterne che mortificano il sentimento religioso, regolandone l’esistenza in funzione di interessi terreni. Non occorre molto per scorgere in queste pagi-

ne della Dissertatio temi e problemi già centrali nell’Epistola di Locke, diffusa tra gli arminiani d'Olanda fin dall’anno della sua pubblicazione. Entrambi gli scritti si richiamano agli stessi princìpi

etico-religiosi: l'efficacia dell’intima persuasione opposta alla dannosa coazione e al dogmatismo teologico; l’estraneità del magistrato civile alla vita spirituale e la legittimità di una pacifica coesistenza dei diversi culti'?. Del resto, dettagliate informazioni

sull’Epistola possono essere ricavate dalle segnalazioni della «Bibliothèque universelle et historique»

di Le Clerc che, negli interessanti giudizi sull’edi| zione latina del 1689, non esita a richiamare l’attenzione dei lettori sulle questioni religiose “indifferenti” agli interessi della «società civile» e al«approvazione del principe»?°. E sono, queste, tematiche già ampiamente discusse nella cultura olandese di fine Seicento, come testimoniano le Conversations sur diverses matières de religion, pubblicate, nel 1687, in collaborazione con Charles Le Cène. Nella «Bibliothèque» dello stesso anno il re19 Nelle note di commento

alla traduzione

francese

(1707) della Dissertatio, Barbeyrac insisterà sulla dipendenza da Locke: cfr. c. nooDT, Discours sur la liberté de conscience

(d’ora in poi citato con Discours), in Recueil, t. 1, pp. 146-147, 152-153, 170-171, 175, 198, 204, 214-215. 2° BUH, XV, 1689, p. 408 e xIx, 1690, pp. 364-391. Cfr. Conversations sur diverses matières de religion, où l’on fait voir

la tolérance que les chrétiens de divers sentiments doivent avoir les uns pour l’autres; et où l’on e

lique ce que l'Ecriture

Sainte nous dit des alliances de Dica. de a justification et de la certitude du salut; avec un Traité de la liberté de conscience dedié au Roi de France et è son conseil, Philadelphie, chez Thimothée de St. Amour [Amsterdam, P. Savouret|], 1687, in BUH, V (1687), p. 187.

59

censore sottolinea l’importanza delle tesi impegnate a sostenere le ragioni della «persuasione» contro l’uso della «forza», «delle pene corporali, di quelle infamanti o pecuniarie per ricondurre alle proprie opinioni coloro che se ne sono allontanati». In Noodt la riflessione su questi stessi temi

comporta l'abbandono della tolleranza come passiva sopportazione dell’altro. Implica, invece, un atteg-

giamento di fiducia nel diritto dell’uomo religioso ad autodeterminarsi in modo autentico, secondo le proprie convinzioni, conciliate con le esigenze e le

finalità degli altri. Contro ogni forma di imposizione prevale la volontà di rivendicare i diritti della ragione umana che, senza eccezioni, regolano anche la libertà religiosa. In fondo, le distinzioni teorizzate da Locke non sono finalizzate alla realtà

giuridica dello Stato ma alla sicurezza della civitas tollerante. Punto di riferimento teorico resta, invece, per Noodt, lo ius naturale moderno, razionale e universale, «immutabile» e autonomo dalla teologia, secondo la nota «definizione del diritto naturale» in Grozio che, nella Dissertatio, conosce una significa-

tiva applicazione alla questione religiosa: [...] Se un furioso tiranno mi ordinasse, per esempio, di credere che due e tre fanno otto e seppur mi minacciasse con le più dure torture [...], mai potrò [...] immaginarmi che due e tre facciano più di cinque. [...] Mi posso sbagliare, posso mentire [...] ma non mi risulta assolutamente possibile pensare ciò che è così contrario alle mie idee. Lo stesso accade in materia di religione [...]. Spargere sangue, tor-

mentare, saccheggiare, confiscare beni, maltrattare popoli, perseguitarli, non significa difendere la religione, significa, invece, disonorarla, macchiarla, pro-

fanarla?,

All’elaborazione di tali giudizi contribuiscono certo i contatti con l’ambiente arminiano di fine Seicento e, in particolare, le relazioni con il già ri?! G. NOODT, Dissertatio, p. 38 [pp. 192-194]. 60

cordato van Limborch che, ricevuta la Dissertatio dall'amico Abraham van den Ende, ne condivise i princìpi ispiratori, manifestando all'autore, nel 1707, il suo convinto apprezzamento??, E, tuttavia, le riflessioni di Noodt sulla libertà religiosa non si sintonizzano fino in fondo sulla dottrina arminiana.

Sua esigenza fondamentale è di impostare l’indagine sulla libertà religiosa in una prospettiva di carattere giuridico. Al dogmatismo teologico oppone la libertas ancorata al diritto naturale e fondata sulla

ragione, poiché solo dove c’è razionalità può esserci libertà. Confinare la possibilità di quest’ultima — come fecero gli arminiani — in un atto antecedente

a quello del pensiero significa isolarla in un ambito astratto e privarla della necessaria relazione con l’azione umana.

Del resto, la realtà olandese nel-

l’età di Noodt non è più quella attraversata dalle polemiche tra rimostranti e gomaristi del sinodo di Dordrecht. Né per il giurista di Nijmegen si tratta | più di sottolineare, in base all'antica legge di Dio, la compatibilità tra il modello etico cristiano e l’autorità civile, prospettata, come è noto, da Episcopio nel Tractatus brevis (1620)?3. Lo stesso Grozio cui l’autore della Dissertatio si riferisce con consapevole scelta critica è più quello del De iure belli ac pacis che del De imperio. Nell'opera del 1625 ritornano le considerazioni sul diritto dello Stato circa sacra ma all'intero di un progetto volto a distinguere la funzione divina della Chiesa da quella iure naturali della sovranità?4. Il consolidamento delle 2 Cfr. Philippus van Limborch a Gerard Noodt, Amsterdam, 6 aprile 1707, Amsterdam, Universiteitsbibliotheek, 1

DI zo 23 s. EPISCOPIUS, Tractatus brevis, in quo expenditur uaestio, an homini christiano liceat gerere Magistratum

(1620), poi in n., Opera teologica [...]. Editio secunda [...], cit., cap. x, pp. 88-91.

24 Sul tema si è soffermato G. SOLARI (Il ‘ius circa sacra’

nell’età e nella dottrina di Ugone Grozio [1931-1949], poi in 1p., La filosofia politica, a cura di L. Firpo, Roma-Bari, Laterza, 1974, vol. I, pp. 125, 130). 61

grandi monarchie e il frazionamento sempre più netto dell’auctoritas tradizionale nel potere civile e

religioso rendono ormai improrogabile una riformulazione

della tolleranza religiosa. Ai caratteri

dello Stato confessionale si oppone la moderna determinazione dei diritti in relazione alle funzioni e

agli scopi differenziati dell'autorità religiosa e del potere civile. Se l’azione statale risulta finalizzata

alla promozione e alla conservazione dei beni materiali e terreni, la Chiesa resta una comunità regola-

ta dagli interessi spirituali di fede e di culto, indifferenti ai contenuti della vita civile. Perciò, la libertà di religione non si richiama più alla «buona volontà» del tollerante, ma invita a riconoscere tra i diritti individuali quelli in grado di regolare le

espressioni spontanee del sentimento religioso. La libertà dell'individuo non è concessione o atto discrezionale del sovrano: è un preciso ius, rivendicato dal cittadino nei confronti dello Stato. Se c'è un

ambito che, più degli altri, deve garantire una maggiore libertà, è proprio quello religioso. Esso non coinvolge direttamente il cittadino ma la persona umana nei suoi rapporti con Dio e la comunità dei

credenti alla quale ha deciso di aderire: In effetti, la religione, per sua natura, (tende) più

alla perfezione e all’eterna bontà dell'anima che alla prosperità e alla felicità temporale delle società civili.

La libertà religiosa nasce dal diritto dell’uomo di adorare Dio nei modi e nelle forme che ogni coscienza giudica più adeguati alla cura dell’anima, in vista della vita eterna, distinta, per definizione, dagli interessi civili. I limiti di questi ultimi, in ambito religioso, sono definiti dalle finalità della

società umana organizzata. Scopo della civitas è, infatti, di garantire agli uomini la libertà esterna «con la quiete pubblica, e la conservazione dei beni del corpo o della fortuna». Il magistrato non ha il potere di adottare 62

strumenti

esteriori e coercitivi

di persuasione al fine di condizionare l'intimo convincimento che è alla radice di ogni pratica religiosa. Compito dell'autorità civile non è di salvaguardare la vita dell'anima ma di promuovere azioni coerenti con il «fine» della civitas e fondate sulla disciplina della «comune utilità». Il princeps non interviene nelle scelte religiose dei sudditi né ha il

compito di «malos mores consilio et disputatione ad virtutem elicere». Resta indifferente ai vizi e ai peccati morali, fintanto che non attentino agli in-

teressi della vita civile («publicae tranquillitati et civili omnium coniunctioni») per la cui tutela è stata istituita l’auctoritas?5. In tale contesto, può risultare interessante — dal punto di vista teorico e in considerazione della documentazione storica adottata — il confronto con le tesi di Samuel Pufendorf. Questi, nel 1687, ragionando De habitu religionis christianae ad vitam civilem, contesta la legittimità dell’intervento sovrano nella sfera religiosa, netta‘ mente differenziata da quella statale. Al princeps si riserva soltanto il diritto di disciplinare i comportamenti lesivi dell'ordine civile e contrastanti con

gli scopi dell’azione politica: Non solo è dovere dei sovrani che la religione naturale sia praticata onestamente dai cittadini, ma essi possono sancire con delle pene che nessuno commetta atti esterni in contraddizione con i principali capisaldi della religione naturale. E infatti gli atti interni, nella misura in cui non conducono ad atti esterni, sono esenti da pene umane. Cioè gli atti che consistono in un moto interno dell’animo, che deve manifestarsi per un impulso interiore, ricusano la coazione esterna?5.

Scritto alla luce di una particolare realtà sto-

rico-politica, quella prussiana del Grande Elettore Federico Guglielmo, il De habitu è dedicato a lui, 25 G. NOODT,

Dissertatio,

pp. 24-25,

22, 23 (pp. 164,

163, 159, 160, 161]. 26 s. PUFENDORFII De habitu, $ vu, tr. it. in A.L. SCHINO, Il

pensiero politico di Pufendorf, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 190. 63

in quanto difensore della legge di natura e della li-

bertas philosophandi dalle invadenze della teologia riformata. Con ciò, il problema della tolleranza conosce una complessa ridefinizione di carattere prevalentemente giuridico; si inscrive nell’aggiornata concezione politica di Pufendorf, prospettando la complessa tensione tra la volontà di teorizzare la netta distinzione dello Stato dalla Chiesa e il riconoscimento della nuova realtà storico-politica emersa dagli accordi di Westfalia che attribuiscono poteri ai sovrani anche in ambito religioso. Lo scopo di Pufendorf è di conciliare le prerogative della giurisdizione sovrana nei singoli stati territoriali con le istanze di una «religione pubblica» e con i doveri di quella cristiana, non delegabili alla summa potestas: Né, con l'aggiunta della religione cristiana, lo stato subisce alterazioni o viene abolito; bensì il potere sovrano rimane tale con tutti i suoi diritti, e i citta-

dini rimangono tali con tutti i loro doveri e obbligazioni. [...] E soprattutto se si comprende come la Chiesa e lo Stato abbiano fini diversi e si occupino di cose diverse, anche se non escludentesi vicendevolmente, da questo non può derivare che la chiesa debba convertirsi in uno stato, cioè a dire che l’attività di diffondere, conservare e praticare la religione cristiana debba tramutarsi in un regime politico. Se tutto un popolo col suo sovrano abbraccia la religione cristiana, lo stato considererà la chiesa come un collegio di cui fanno parte tutti i cittadini e lo stesso principe, senza alcuna collisione, o emulazione, 0 pregiudizio per i propri diritti, e senza alcuna confusione?7,

Per la religione naturale l'intervento civile o quello ecclesiastico a sostegno dell’ortodossia e della persecuzione sono del tutto arbitrari, giacché la proibizione dell'uso della forza nell’esperienza di fede non è imposta dalla rivelazione nel verbo della Sacra Scrittura ma dalla autoderminazione degli uomini. L'esercizio del potere civile sui comporta27 Ivi, pp. 196-197.

64

menti giudicati lesivi della pace e della sicurezza sociale appare giustificato dagli stessi fini per i qua-

li quel potere è stato istituito. Perciò, quando una religione si manifesta in forme e azioni invalidanti gli interessi della vita civile, è compito del principe, quale che sia il suo personale giudizio, limitarne o reprimerne l’attività. Se la salvezza spirituale dei sudditi non rientra nei doveri del principe, alla sua auctoritas è, però, affidato il compito di promuovere una «pubblica formula di fede» in base alla quale può essere negato il «diritto di cittadinanza» ai sudditi ribelli: a meno che altri interessi statali non consiglino una diversa condotta e sempre che i «dissidenti religiosi» siano rispettosi dell'ordine sociale e dell’auctoritas: Può

capitare che i sovrani,

senza venire

meno

alla

propria coscienza, possano e talvolta addirittura debbano tollerare i dissidenti che si sono staccati dalla religione da loro stessi professata. Talora infatti il numero dei dissidenti è così grande che essi non possono essere espulsi senza una considerevole diminuzione della popolazione dello Stato, oppure senza che venga un grosso danno se si trasferiscono in un altro Stato. [...] E fuor di dubbio che ai sovrani spetti il diritto di estirpare tali dogmi e i loro propagatori, in quanto

essi non

appartengono

a una

religione,

bensì sono sudiciume riversato sulla religione da uomini malvagi. Pertanto anche questo rientra nei doveri dei sovrani, e cioè, laddove venga tollerata più di una religione, proibire che i dissidenti a causa delle loro dispute si assalgano reciprocamente con ingiurie o si rivolgano contumelie, tutte cose dalle quali non può non provenire un inasprimento degli animi e uno stimolo a divisioni, offese e disordini interni. Ancora di più i dissidenti religiosi devono essere tollerati qualora abbiano stipulato la libertà religiosa nel momento in cui per la prima volta sono stati accettati nello Stato, oppure qualora la abbiano ottenuta con patti pubblici, editti, leggi fondamentali e capitolati, che i principi devono rispettare non meno scrupolosamente di quanto i sudditi non mantengano serupolosamente l'obbedienza promessa loro?5. 28 s. PUFENDORFII De habitu, pp. 197-198.

65

Per confermare le sue tesi, l’autore si richiama alla storia romana antica, ricordando che gli

impuri riti dei Baccanali sono stati condannati dal Senato

romano.

Una testimonianza

ricorrente

an-

che nella Dissertatio di Noodt che, parafrasando la comune fonte classica (Livio, Ab urbe condita, XXXIX, 18), giudica la religione in sé non dannosa al «genere umano». Può, invece, rivelarsi pericolosa la libertà di culto che non si riferisca a un sentimento

interiore della coscienza umana ma alla pratica visibile della fede. Questa è sottoposta ad attenta sorveglianza giuridica se trascende la sua sfera d’azione e minaccia di turbare la «disciplina e [...] il fine del consorzio civile». Perché la libertà possa conservarsi nella vita pubblica, è necessario che l’attività religiosa sia giuridicamente limitata alla sfera priva-

ta dell’umana esistenza. Lo attestano proprio i Bacchanalia, regolati con «equità» e «saggezza» dal Senato romano, rispettoso della volontà di coloro che non possono «in coscienza dispensarsi dal consacrare solennemente a Bacco un certo tempo»?9. Giuri-

sta e storico del diritto, Noodt complica il proprio

quadro dei riferimenti teorico-storiografici, integrando la lezione del giusnaturalismo moderno. Esamina i caratteri della «società civile», identificandone l'origine «non nella religione e nel culto di Dio» ma nel bisogno di sicurezza generato dal «timore degli insulti». È «humanae metus iniuriae» il contrassegno della condizione presociale. Come la società ecclesiastica, così l'ordine statale non è un dono della natura, non nasce dalla naturale tenden-

za dell’uomo alla società, dall’appetitus societatis, secondo la nota formula groziana (De iure, Prol., vi). Al contrario, la socievolezza dev'essere ricondotta alla volontà umana di evitare i pericoli dello stato di natura, in cui «nessun uomo può legittimamente erigersi a giudice sovrano dell’idea che si deve avere della divinità e sul culto da renderle» né 29 G. NOODT, Dissertatio, pp. 40-41 [pp. 198, 199, 200].

66

può «costringere gli altri con la forza, la guerra e le armi di sottomettersi ciecamente

alle sue decisio-

ni»3°. In proposito, Jean Barbeyrac (1674-1744), nelle note di commento alla sua traduzione (1707) della Dissertatio, sottolinea la vicinanza delle tesi di Noodt a quelle di Pufendorf che introducono al

confronto indiretto con un altro grande maestro della cultura europea del secolo xvi,, Thomas Hobbes (1588-1679). Per uno studioso della scientia iuris tra Sei e Settecento, l’opera del filosofo inglese,

messa al bando dalle autorità olandesi nel 1674 (insieme al Tractatus spinoziano), esercita un’indubbia e costante forza d’attrazione. Se del De cive ha fatto largo uso Pufendorf, in Noodt la definizione del-

lo stato di natura presuppone il rifiuto delle conclusioni di Hobbes, tese a identificare nella legge imperativa dello stato assoluto l’unica garanzia di conservazione della vita individuale. Per il giurista olandese il processo generativo dell’esistenza in so-

cietà, scaturito dal «timore», dalle esperienze passionali degli uomini, non produce conflitti ma un'esigenza di ordine. Lordo civilis non è la negazione delle libertà naturali, al fine di neutralizzare

— come in Hobbes — la coscienza religiosa e di eliminare la scissione tra l'opinione privata degli individui e quella pubblica dei cittadini. Lo Stato noodtiano non nasce con il compito di eliminare tutte le tracce dello stato di natura ma si propone di conferire stabilità e sicurezza a tutte le sue conquiste. Perciò, il passaggio dalla vita naturale a quella civile crea nuovi rapporti solo dal punto di vista formale. Consolida, invece, la validità degli inalienabili diritti naturali che il sovrano non ha il potere di elidere. Se nello stato di natura a nessun indivi-

duo è attribuito il diritto di giudicare Dio e la religione, non è giusto assegnare prerogative «di diritto civile al principe» più di quelle riconosciute agli «individui dalla legge di natura». Svincolato dalla 3° Ivi, p. 20 [pp. 155, 153).

67

teologia e dall’etica scolastiche, il diritto naturale razionale giustifica il potere sovrano, limitandone, nello stesso tempo, l’azione in ambito religioso.

Qui, il princeps è uguale a tutti gli altri uomini, ha i loro stessi diritti e doveri né può arrogarsi il potere, mai conferitogli, di occuparsi della salvezza del-

l’anima. L'auctoritas pubblica oltrepassa i limiti del mandato,

quando ritiene di poter prescrivere per

legge i contenuti del sentimento religioso individuale. Se un magistrato considera legittimo imporre una fede e una pratica religiose, estende illecitamente il proprio diritto, annientando, da tiranno, la vita privata dei sudditi: Negli affari civili, l’autorità del principe è senza dubbio molto estesa e superiore a ogni altra; ma quando si tratta di religione, (il principe) non ha più potere di un semplice uomo particolare, al punto che se prescrive un certo culto con leggi accompagnate da pene contro coloro che resistono a obbedirgli [...], egli lede gli altrui diritti, usurpa un imperium che appartiene esclusivamente a Dio; e non soltanto ha

poco successo volendo così forzare le coscienze, ma, inoltre, non saprà discolparsi dall'accusa di esercitare un atto di tirannia3?,

In polemica con la diffusione di un sapere dogmatico in campo religioso, la riflessione di Noodt partecipa al clima culturale olandese di fine Seicento, permeato, com'è noto, di influenze cartesiane. Al giurista di Nijmegen — come già a Pierre Bayle e a Le Clerc — appare rilevante il contributo offerto dal cartesianesimo teso, soprattutto, a fornire indicazioni metodologiche. Con Descartes e la affermazione del valore della libera attività del soggetto conoscente si sono, infatti, poste le condizioni di vita e di sviluppo di un'autentica esperienza religiosa: La conservazione e i progressi della vera religione dipendono dall’uso di una sana e tranquilla ragione, 3 Ivi, pp. 20, 25 [pp. 154, 165]. DI BARBEYRAC, cfr. Recueil, t. I, p. 155, nota.

68

da un buon senso purificato e da una raffinata saggezza, da una conoscenza chiara e distinta. [...] Esaminate la natura e le proprietà dell'intelletto umano [...]: esso dà, senza esitare, un pieno consenso a una proposizione di cui gli è dimostrata la verità, ma, fintanto che non ne è convinto, nessun apparato di crudeltà riuscirà mai a sradicarglielo.

La polemica è rivolta a quei tentativi — indipendenti dalle intenzioni di Descartes — di estende-

re alla vita religiosa il principio dell’evidenza. Una soluzione, questa, favorita dal cartesianesimo ortodosso (d’intonazione soprattutto malebranchiana),

diffusosi in non poca cultura neerlandese del secondo Seicento. Interpretando, a suo modo, il cartesiano criterium veritatis, Noodt affronta con originalità

la complessa questione della verità o falsità impostasi nel moderno dibattito sulla libertà religiosa. Dal suo punto di vista, precisa che Dio non ha voluto trasmettere a tutto il genere umano un’identica formula religiosa né ha attribuito alla religione un «gra-

do di evidenza» che conduce «tutti a una stessa fede, così come abbiamo tutti una stessa aritmetica». In ambito religioso bisogna, perciò, rispettare la libera

volontà di tutti. La ricerca di una verità non solo

matematica è la stessa via che — pur con elaborazioni e finalità autonome — già Antoine Arnauld e Pierre Nicole indicano sulla scia di Pierre Gassendi. An-

che per questi pensatori occorre riformare dall’interno la prospettiva del cartesianesimo ortodosso di matrice malebranchiana, attraverso il riconoscimento di validità e autonomia delle certezze morali, rintracciabili nella storia sacra e profana. Da qui la ricerca di una soluzione intermedia tra il riduzionismo matematico cartesiano e lo scetticismo libertino. È, in fondo, la scelta di un metodo congetturale 3° G. NOODT,

Dissertatio, pp. 37-38,

13 lPp. LOSMLOZ,

139]. Sulla diffusione del cartesianesimo nell’Olanda di Noodt e Barbeyrac rinvio — anche per una più ampia discussione sulla relativa letteratura — al mio Tolleranza e libertà di coscienza [...], cit., pp. 46 sgg. e 76 sgg.

69

che ricorda il probabilismo accademico di Carnea-

de, esaltato dal Dictionnaire bayliano per il suo carattere pratico e conoscitivo, lontano dalle dimostra-

zioni apodittiche della ratio philosophandi. Estimatore della filosofia di Descartes, studiata ed elogiata in gioventù, N oodt teorizza in campo giuridico una

soluzione alternativa al principio cartesiano dell’evidenza, ricorrendo — nei Probabilium iuris civilis libri quatuor (1691) — al criterio del probabile nell’in-

vestigatio di selezionate questioni dello ius civile. L'appello al probabile e al verisimile non è un capriccio del giurista, perché risponde alla volontà di riconoscere al ragionamento giuridico una capacità di prudentia, attenta più alla particolarità delle situazioni umane concrete che alle verità generali e

assolute. Un indiretto sostegno a tale esigenza matura, nella Dissertatio del 1706, a proposito della rivendicata libertà di religione. Il campo d'azione del

probabile può essere esteso dalla sfera giuridica a quella religiosa e proposto come alternativo all’ontologia scolastica, alle sue dimostrazioni apodittiche, utilizzate dall’auctoritas ecclesiastica per imporre la verità della fede. Non si tratta, per Noodt, di difendere quest’ultima dallo scetticismo né di negarne l’esistenza, bensì di mostrarne il rapporto di autenticità con la coscienza. In materia di religione, la verità può essere colta solo se si traduce nei termini e nelle modalità scelte dalle libere individualità, lontano da ogni astratto modello imposto. L'«evidenza» in religione è un dato interiore che può coincidere con l'opinione probabile, non imputabile a cattiva volontà. Irrangiungibile per gli uomini nella sua assolutezza, la verità richiede un continuo confronto e ri-

spetto delle libere opinioni individuali. Queste rappresentano un punto di vista sufficiente alla comprensione dell’azione morale anche dinanzi a Dio che, nel giudizio sull'uomo, tiene conto delle sue limitate facoltà conoscitive. L'adesione a un credo religioso non implica il dominio statale né il dogmati-

smo teologico. Essa resta un fatto privato della co70

scienza del singolo, considerato che solo Dio ha il

potere di «punire le offese che si presume abbia ricevuto, e di infliggere la pena, così pure di conoscere il crimine». Parafrasando un’acutissima osservazione di Tacito (De moribus Germanorum, xxxIv, 2),

l’argomentazione di Noodt si sofferma sui caratteri della natura umana, per osservare che «pochi sono nella condizione di giudicare rettamente se una religione è buona o cattiva: la maggior parte si immagina che c'è una pietas più disposta a credere in cose rivelate senza intenderle che a esaminarle, e ad accoglierle solo su prove solide e convincenti». Da qui, l'intenzione di opporre all'impostazione dogmatica del gomarismo il senso della diversità e della pluralità, riscontrabile anche in ambito religioso. Se l'intolleranza presuppone l’unilateralità della verità,

la libertà religiosa implica insieme alla consapevolezza della relatività del vero, il valore positivo della pluralità: [...] Una sola via [...] conduce alla salvezza; poiché non ci accordiamo su qual è tale via, e se ne prospettano parecchie, ognuna delle quali è considerata e proposta come la migliore dai suoi seguaci, vi è il minimo dubbio che io non debba comportarmi secondo i lumi della mia ragione, ma in base a quelli degli altri, in una questione come la mia salvezza che mi interessa senza alcun dubbio particolarmente più di ogni altra?33

Così, Noodt supera l’obiezione di coloro che

considerano l’uniformità religiosa, imposta anche con la forza, una condizione

necessaria all’ordine

civile. Nella Dissertatio del 1706 il teorizzato diritto alla libertà di religione sancisce il definitivo tra-

monto dell’antica virtù della tolleranza. Prospetta, cioè, l’ideale di un nuovo ordine che al relativismo oppone il senso della diversità e all’uniformità la varietà delle esperienze religiose, singolarmente li33 G. NOODT, Dissertatio, pp. 31, 10, 27 (pp. 177, 132-

133, 168].

71

mitate ma tutte funzionali all'esistenza umana.

Il

giurista che teorizza la libertà religiosa come diritto naturale dell'uomo non si riferisce a un’astratta norma razionale. Non si chiede più qual è il diritto dell’universale natura umana, perché intende conoscerla nella storia, garantendone l’attività creatrice di religio. Impegno fondamentale diventa quello di verificare la possibilità dell'accordo tra i princìpi normativi dello ius naturae e l’esperienza storica per ritrovare il modello di quelle leggi in grado di tutelare l’ordine civile e il sentimento religioso. È, infatti, il mondo storico a provare che la varietà è una delle costanti dell’esistenza umana. Alla libertà di religione non si possono riferire i contrasti causati nella vita civile dalla libera azione dei «dissidentes christianorum antistites» e dall’in-

sorgere di diverse fedi, giacché proprio quando fu tollerato il pluralismo religioso, minori si rivelarono «civiles discordiae». Lo confermano le note vicende della storia romana antica che Noodt richiama, soffermando la sua attenzione sui problemi politico-religiosi dell'impero. Utilizza, in particolare, la testimonianza dello storico Ammiano Marcel-

lino (xxII, 5) per ricordare la personalità di Giuliano, le cui virtù, insofferenti a ogni forma di fanatismo religioso, rappresentano un'ideale reazione della tradizione romana alle tendenze autocratiche e orientalistiche. Fedele alle annotazioni psicologiche della fonte ammianea, Noodt esalta dell’optimus imperator i contenuti della politica religiosa, giudicando la libertà concessa alle confessioni dissidenti una misura utile a salvaguardare l'integrità statale34. Sul testo ammianeo (xxx, 9) l'interprete si sofferma anche per elogiare la politica religiosa di Valentiniano I, distintosi per la sua moderazione «inter religionum diversitates», contro ogni forma di fanatne Al virtuoso imperatore romano dedica pagine significative anche il De imperio di Gro4 Ivi, pp. 41-42 [pp. 203-204].

72

zio, con lo scopo, tuttavia, di rivendicare l’autono-

mia del princeps nel governo di tutta la politica religiosa35. Diversa è la prospettiva interpretativa di Noodt che loda Valentiniano per il rispetto e la

tolleranza garantiti alle diverse religioni nell’impero. Facendo prevalere in ambito religioso il criterio della libera scelta, il princeps evitò di ingerirsi nelle questioni ecclesiastiche né volle che ne fossero giudici i suoi magistrati. Persino la “tolleran-

za”, riferita all'arte degli «aruspici», attesta le virtù dell’imperatore contrario soltanto a quelle manifestazioni della divinazione che contaminano i valori fondamentali della vita civile. Né al criterio di valutazione storica può sottrarsi la legislazione mosaica, utilizzata arbitrariamente fin dai tempi di Calvino e di Beza per giusti-

ficare la condanna a morte degli eretici. Analizzando il contenuto dell'Antico Testamento, Noodt spiega le violente repressioni dell’idolatria attraver‘ so il ricorso alla storia del popolo ebreo, mostrandone la coerenza con la sua inimitabile costituzione

teocratica, fondata su un pactum, stipulato direttamente con Dio che della «nazione giudaica [...] volle essere [...] il sovrano temporale, a condizione che essa gli fosse fedele, senza prestare alcuna attenzione alla forma di governo e di religione, cui ognuno s'era sottomesso per bocca di Mosè»85. Per

tale vincolo politico-religioso e di «diritto pubblico», l’idolatria rappresenta la rottura della «conservazione» e della «prosperità» di un popolo «caro al Cielo», risultando, perciò, paragonata dai profeti al-

l’adulterio, il peggiore dei delitti, punito con la morte. La disposizione alla verifica storica regge la

polemica contro ogni interpretazione dogmatica dei contenuti storico-giuridici imposti dall’ortodossia 35 Ivi, pp. 52, 53 [pp. 225, 227-228]. Cfr. H. croTIUS, De imperio, cap. VII, $ IV: «Si narrano i casi in cui tali culti idolatrici vennero Teca sussistere e vincolati da regole», p. 161 e sgg. 36 G. NOODT, Dissertatio, pp. 52-53, 51 [pp. 227, 223-

224].

73

religiosa. Stimolato dal pensiero moderno, l’intervento di Noodt contribuisce a riformulare il discorso sulla certezza del consensus gentium; una sua negazione rischia di invalidare lordo elaborato sui fondamenti del diritto romano dalla scienza giuridica tardomedievale e umanistica. Il giurista esamina il contenuto del testo mosaico con la stessa volontà di capire sperimentando che anima l’azione trasformatrice della nuova scienza. Mostra che non c'è un ordine dato cui poter ricondurre «tutti gli uomini, tutti i luoghi e tutti i tempi», così come

«un unico

farmaco non può guarire tutte le malattie»: ogni realtà della storia umana va spiegata con iuxta propria principia, rivelatisi a una ratio non ordinatrice ma rispettosa della mutevole natura del mondo indagato. La ratio per essere umanissima ragione dell’uomo, deve potersi riconoscere come storica. Per-

ciò, l'intolleranza dello Stato di Israele nell'Antico Testamento — espressa emblematicamente nella condanna a morte dell’«adulterio» — riflette costumi ed esigenze politico-religiose non trasferibili ad altri popoli né riferibili al presente37. A queste tesi e alla sottostante definizione di tolleranza — che attirano l’attenzione e il convinto consenso del recensore Le Clerc — reagiscono con fermezza i «Mémoires» di Trévoux. Nella segnalazione dell'edizione francese della Dissertatio, l'anonimo recensore accusa l’autore di estendere «la tolleranza anche al maomettismo e all’idolatria». È, quella avanzata da Noodt,

un'interpretazione

poco

rassicurante

per

l’apologetica e la difesa dell’ortodossia religiosa, impegnate a regolare le scelte culturali del periodi-

co. Il punto di vista dei gesuiti resta inconciliabile con quello del giurista olandese, sollecitando il giornalista a sostenere il valore di «una sola religione vera [...] contro la licenza delle opinioni particolari, e [a] sopprimere ciò che egli chiama libertà di coscienza». La tutela dell’ortodossia vieta che 97 Ivi, pp. 51, 49-50 [pp. 224, 220, 221].

74

ognuno possa considerare vera la propria religione,

«giacché quella che in effetti lo è, si distingue dalle false per caratteri eclatanti che non lasciano alcun dubbio in coloro che l'hanno trovata e accolta»88, Per Noodt abbandonare ogni prospettiva dogmatica nel discorso giuridico e religioso significa mettere in crisi le fondamenta dell’antico ordine politico-sociale. Significa, cioè, superare gli arcana iuris e il concetto tradizionale di verità che neppure il giusnaturalismo groziano ha rimosso fino in fondo. Umanamente razionalizzata, la ratio non è una facoltà astratta, carica di precostituiti assoluti; è una ragione aperta all'imprevedibile che è in ogni attività umana, pronta a mutare in base alle modificabili esigenze del soggetto agente. Anche in ambito religioso, la ragione umana riconosce che non esistono cer-

tezze assolute, fondate metafisicamente sulla bontà e verità di Dio. La ricerca della verità è, infatti, un processo perennemente aperto al dominio dell’appa| renza e del relativo, alla possibilità del dubbio e dell'errore, insuperabili con strumenti coercitivi: E poi, che ne sapete se quelli che credete in errore non appartengono, in fondo, al partito della verità?

Quante volte accade che ciò che si giudica per lo più vero, si rivela falso; o, al contrario, ciò che si considera falso si riconosce vero? [...] Il cammino della verità è molto oscuro, sfuggente, difficile [...]39.

Non a caso, la Dissertatio identifica la causa

dell’intolleranza nel concetto assoluto e astratto di verità. Sul tema si esprime, a Rotterdam, nell’imminente revoca dell’Editto di Nantes (1685), l’ugonot-

to Henri Basnage de Beauval (1656-1710), sostenendo la non punibilità dell’errore con le armi della violenza e riscontrando la difficoltà di «distinguere 38 «Mémoires pour l’histoire des sciences et des beaux arts», maggio 1709, pp. 781,782 (d’ora in poi si cita con «Mémoires»). Per Le Clerc il riferimento è alla «Bibliothèque cho-

isie», XI (1707), pp. 253-254, 255. 39 G. NOODT, Dissertatio, pp. 32-33 [p. 180].

19

la falsa sicurezza che dà l'errore» dalla «sincera fiducia che dà la verità». Se quest’ultima è sempre sintesi di dati parziali, la tolleranza e la pacifica coesistenza di vari culti non sono soltanto un dovere morale ma una necessaria manifestazione di moderazione, utile per osservare come dall’eresia altri possano

trarre tanta sicurezza

e cogliere «questo

grande evento dell’eternità senza turbamento e inquietudine!» Ripudiato il dogmatismo, bisogna esaltare la «buona fede» dell’essere umano, rintracciabile anche nella coscienza errante che non è un male in assoluto perché le lotte di religione, in molte circostanze, hanno risvegliato il sentimento religioso e lo studio del sacro. Senza più nemici la Chiesa rischia il dissolvimento, «perché immagina di non poter più cadere»#. Nella monumentale Histoire de la religion

des Juifs depuis Jésus-Christ jusqu’à present (17061707) di suo fratello Jacques (1653-1723), autore della prima storia moderna dell’ebraismo post-biblico dal punto di vista olandese, la critica alle persecuzioni antiebraiche si fonda sul principio della rigorosa separazione tra autorità spirituale e potere tem-

porale, nonché

sulla convinzione

dell’insufficienza

di ogni pratica esteriore disgiunta da autentica fede interiore. In particolare, è notevole la critica alle conversioni che, imposte con la forza, conducono

a

una dannosa simulazione. È il caso dei «nuovi cristiani», gli ebrei spagnoli che, una volta convertiti, esprimono fedeltà alle leggi dei padri, «effetto naturale che produce violenza in materia di religione»4. 4° H. BASNAGE DE BEAUVAL, Tolérance des religions, Rot-

terdam, chez H. de Graeff, 1684, rist., London and New York,

Johnson, 1970, introduzione di E. Labrousse, pp. 65-67. 4 ]. BASNAGE, L’Histoire des Juifs, depuis Jésus-Christ jusqu’à présent, pour servir de supplément et de continuation à

l’histoire de Joseph [...], La Haye, H. Scheurleer, 1716, t. v, pp. 1673, 1907, 1905, cit. da M. SILVERA, L’ebreo in Jacques Basnage: apologia del cristianesimo e difesa della tolleranza, in «Nou-

velles de la République des Lettres», 1 (1987), spec. pp. 110112 (d’ora in poi si cita con NRL).

76

Eppure, la forza e l'originalità dell’argomentazione di Noodt non stanno tanto nella ripresa o nel consenso a queste tematiche comuni alla cultura olandese di secondo Seicento, quanto nella capacità di introdurre nuove motivazioni nel contemporaneo dibattito sulla libertà di religione. Nella Dissertatio

del 1706 matura la convinzione che il significato dell’esperienza religiosa includa il riconoscimento del “diritto” all'errore, soggettivamente vissuto in modo

autentico. Lo scopo è di legittimare il principio di libertà, attribuendo alla coscienza umana una dignità che, nella ricerca della verità, essa merita anche se caduta in errore. Per Noodt, l’errore in ambito reli-

gioso non è generato da una predisposizione al male morale, ma dalla radicale «debolezza» della ragione umana che «non enim suo vitio errat; sed infirmitate». Perciò, l’uomo sa di poter fare a meno delle false sicurezze e di dovere accettare il rischio dell'errore, radicato nella coscienza di chi non ha avuto la fede o ‘ la fortuna di riconoscere l’unica, vera e certa salvezza. Se non vi è assoluta garanzia per l’esperienza religiosa, l'errore non solo è sempre possibile, considerati i limiti delle facoltà umane, ma è anche da ritenere moralmente non imputabile alla volontà né perseguibile dalle leggi. La mancanza di fede non è una colpa, poiché Dio stesso ha voluto così e non si può certo conoscere «quod eum scire noluit Deus». Ma-

tura, in tale giudizio, un attacco diretto alla violenza

esercitata dal dogmatismo teologico che impone dall'esterno la presunta evidenza delle verità essenziali all’eterna salvezza. Il riferimento è, in particolare, alla nota dottrina agostiniana che, imputato l’errore di fede a motivazioni individuali e volontarie, tutte radicate nell’originaria colpa morale, sostiene la legittimità del ricorso alla coercizione nelle questioni

religiose. Si confondono, a giudizio di Noodt, «legis et religionis officia [...] quae ratio distinguit»4. L'in4 G. NOODT, Dissertatio, pp. 33, 26, 32, 39 [pp. 181182, 180, 195].

Ver

terpretazione agostiniana del precetto evangelico compelle intrare (Luca, XIV, 23), invocato a sostegno

della moderna intolleranza verso gli eretici, risulta estranea a Noodt e alla sua formazione, sintonizzata

sulle proposte del giusnaturalismo groziano#9. Ma, al di là dell'accordo, più o meno documentabile, con le argomentazioni del De iure belli

ac pacis, si avverte nella Dissertatio un’eco profonda del dibattito olandese sulla «liberté de conscience», maturato nelle Conversations sur diverses ma-

tières de religion che Charles Le Cène e Jean Le

Clerc pubblicarono nel 1687: un annus mirabilis —

come opportunamente l’ha definito Antonio Rotondò — nella storia dei rapporti tra tolleranza e libertà

di coscienza; un anno segnato dall’edizione del Traité de la liberté de conscience di Noél Aubert de Versé (1645-1714), il teorico — ne Le Protestant

pacifique (1684) — della necessaria interdipendenza tra la tolleranza «civile» e quella «ecclesiastica», poste a fondamento della pacifica, ordinata convivenza di tutte le confessioni e le sette religiose*. Per tutto ciò, il dibattito entra in una fase decisiva.

Proprio sollecitato da Pierre Jurieu (1637-1713), capo degli ugonottti francesi in esilio, il sinodo di

Amsterdam, nell'agosto del 1690, condanna le moderne «proposizioni» assimilabili all’idea di tolleranza: esse tanto «più pericolose», perché «sotto le denominazioni ostentate della chiarezza e della tolleranza |...] tendono a far scivolare nell'animo degli uomini semplici il veleno del socinianesimo e l’in4 H. GroTII De iure belli ac pacis, lib. Il, cap. xx, pp. 345-402 e XLVII, pp. 396-398 («Bella iuste non inferri iis qui christianam religionem amplecti nolunt»). Sul tema ha richiamato l’attenzione ]. LECLER, op. cit., t. Il, pp. 349-350. 4 A. ROTONDÒ, Europe et Pays-Bas

[...], cit., p. 46 (con

ampia, ragionata bibliografia a p. 83). In un utile contributo L. SIMONUTTI (Da Bayle a Voltaire. Teorie politiche e tolleranza nel pensiero ugonotto tra Sei e Settecento, in «Dimensioni», nn. 5455, 1990, pp. 105-129) ha giustamente insistito sull'esperienza

di Aubert de Versé, partendo dall’analisi delle tesi di Henri Basnage de Beauval (ivi, p. 105).

78

differenza delle religioni». Tra i nove «errori» denunciati, il sesto e il settimo sono formulati in termini significativi, per condannare quelle proposizioni in base alle quali «la pietà e la ragione richiedono la tolleranza civile ed ecclesiastica verso tutte le eresie; il magistrato non ha diritto di impiegare la sua autorità per abbattere l’idolatria e impedire il progresso dell’eresia». Né meno rappresentativo delle.tendenze di fine secolo è l’attacco ai metodi «rilassati» in teologia, rivolto da Pierre Jurieu (in Des droits des deux souverains en matière de reli-

gion, la conscience et le prince [1687]) al Bayle (1647-1706) dei primi tomi del Commentaire (1686) e al gruppo dei teologi razionalisti protestanti. In essi spicca la personalità di Elie Saurin (1639-1703), pastore della Chiesa vallone di Utre-

cht e la sua tentata mediazione — nelle Réflexions sur les droits de la conscience (1697) — tra le pratiche di tollerante “indifferenza”, effetto delle tesi di

Bayle, e l’estremismo intollerante di Jurieu*5. Sebbene non risulti mai agevole ricostruire il quadro delle fonti della Dissertatio, è, tuttavia, interessante confrontare, con opportuna cautela critica, l'impostazione di Noodt al problema della verità e dell’errore in religione con la relativa riflessione di Bayle e le tesi da lui indirettamente suggerite

alla cultura europea seisettecentesca.

Nel 1684,

dando notizia della Tolérance des religions di Basnage de Beauval, non esita a enfatizzare le tesi di quest’ultimo sulla «coscienza errante», riportandone 4 Synode d’Amsterdam

[aoft 1690], Règlement pour

maintenir l’orthodoxie, art. xxvI, cit. da F. PUAUX, Les précurseurs frangais de la tolérance au xvire siècle, Paris, G. Fischbacher, 1881, p. 200. Su Saurin e le tematiche qui privilegiate si

veda M. TURCHETTI, La liberté de conscience et l’autorité du magistrat au lendemain de la Révocation. Spera du débat

touchant la théologie morale et la philosophie politique des réformés: Pierre Bayle, Noél Aubert de Versé, Pierre Jurieu, Jacques Philipot et Elie Saurin, in La liberté de conscience

(xvie-xvire siècles), Actes du Colloque de Mulhouse et Bale (1989), réunis par H.R. Guggisberg, F. Lestringant et ]J.-C. Margolin, Genève, Droz, 1991, pp. 289-367.

70,

il giudizio sul fatto che quelli «nutriti delle più false religioni, le credono buone con grande since-

rità». Perciò, «nessuno dev'essere violentato e [...] l'esempio di tanti erranti in buona fede ci deve

ispirare non so quale diffidenza ad agire con alterigia contro coloro che crediamo eretici»4°. Dal teorico della tolérance civile, quale garanzia del plurali smo religioso opposto all’intolleranza ecclesiastica, Noodt può mutuare la teoria della conoscenza «relativa». Essa è stata applicata, com'è noto, in ambito religioso fin dalle Nouvelles lettres de l’auteur de

la Critique générale de l’histoire du calvinisme (1685), per sostenere il diritto sia della verità «respective» che dell’«errore» a vincolare la coscienza individuale, in opposizione al modello di verità as-

soluta imposto dalla teologia tradizionale. In Bayle come in Noodt, l'adesione a una religione matura non in base ad astratte ragioni con la pretesa di

giungere all’unica e certa verità ma attraverso «la forza della persuasione che ci fa agire e non per le ragioni che abbiamo di essere molto persuasi»47. Un’affermazione, quest’ultima, di grande rilievo teorico sulla quale i due studiosi concordano, memori

delle dolorose esperienze personali e degli attacchi dell'ortodossia calvinista, ancora incisivi negli ultimi anni del secolo xvi. A farsi valere è l'esigenza di confutare il principio dogmatico di subordinazione della vita etico-religiosa a un comando arbitrario 4 NRL, mois de juin 1684, n, p. 418. Cfr. H. BOTS, Le plaidoyer des journalistes de Hollande pour la tolérance (16841750), in De l'’Humanisme aux Lumières, Bayle et le protestan-

tisme. Mélanges en l'honneur d’Elisabeth Labrousse, textes recueillis par M. Magdelaine, M.-C. Pitassi, R. Whelan et A. Mckenna, Paris-Oxford, Universitas-Voltaire Foundation, 1996,

p. 549.

47 P. BAYLE, Nouvelles lettres de l’auteur de la Critique

générale de l’histoire du calvinisme [1685], poi in In., Oeuvres

diverses, La Haye, chez P. Husson [et autres], 1727, reprint, Hildesheim-New York, G. Olms, 1965-1982 (d’ora in poi si cita

con la sigla op), t. n, lettre IX, pp. 219a-222a e 228a; ID., Critique générale de l’histoire du calvinisme de Mr. Maimbourg 11685), lettre xx, in oD., t. 1, p. 86a.



che concepisce la fede come

adesione alla rivela-

zione del tutto incontrollabile dalla ragione. Il grado di verità con cui il fatto religioso si impone al-

l’uomo non ha una dimensione puramente speculativa, ma una qualità «relativa», dipendente, cioè,

dalla prospettiva soggettiva di osservazione dell’oggetto in esame. Irriducibile a un'evidente conoscenza razionale, tale prospettiva conquista il senso

etico della religione lontano da ogni codificata astrazione. È, infatti, solo una certezza morale che,

indipendente dai dogmi positivi tradizionali, può introdurre nell'uomo un’intima persuasione e atti-

vare quella legislazione immanente della ragione, perché coerente con lo scopo di esaltare il valore dei principi applicabili in forma universale ai diversi contenuti particolari. Con ciò, se l'impegno della

ragione è assimilabile a quello delle stesse leggi divine, morale e teologia non fede soprasensibile, imposta .vate forme di autoritarismo intellettualistico a una verità mento

si conciliano più nella dalle vecchie e rinnoné nel passivo ricorso astratta, ma nel riferi-

a una «rivelazione» naturale.

Si tratta, cioè,

per Bayle di riprendere l'esigenza, già matura in

Malebranche, di cogliere le possibili relazioni della vita etica all'ordine, trasferendone il significato metafisico in una nuova morale dell’«intenzione». Questa, infatti, è la sola in grado di trasformare il senso della religione, trasferendone il valore dai contenuti, oggetto di sempre possibile riduzione

dogmatica, a una dimensione soggettiva e interiore#. Ed è proprio per la trasfigurazione del principio razionalistico dell'ordine etico in una trama di relazioni formali-intenzionali che si definiscono le prerogative e i diritti della coscienza individuale come autentica «voce» di Dio, fondamento della vita morale in quanto norma dell’azione, costitutiva 4 Su questo motivo si veda l’acuta analisi di G. PAGANINI, Analisi lo fede e critica della ragione nella filosofia di Pierre Bayle, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 47-74. 135174. 81

dell’umana condizione di libertà. Per non risultare inattuale e ancora condizionato dal ricorso al principio tradizionale di tolleranza, l’uso del termine conscience deve, soprattutto in campo religioso, richiamare l’attenzione sull'idea moderna di libertà. Così, la questione della tolleranza si riconosce in una concezione

filosofica rinnovata, in una direzio-

ne che non è più quella del rispetto dell’altrui volontà, ma dello svuotamento della verità stessa, divergente dall’inappellabile assoluto imposto dal-

l’esterno. La svolta conosce decisivi approfondimenti, com'è noto, nel Commentaire

philosophi-

que, pubblicato (per i primi due tomi) nel 1686, dopo la revoca dell’editto di Nantes, con lo scopo di mostrare la falsità dell’interpretazione letterale del passo evangelico di San Luca «costringili ad

entrare» (xIV, 23), già utilizzato da Sant'Agostino e riproposto, in età moderna, dagli apologisti cattolici francesi di fine Seicento, quando «la religione, per garantirsi prosperità temporale, autorizza oggi ogni

tipo di crimine immaginabile, l'omicidio, il brigan-

taggio, l'esilio, il rapimento, ecc., che producono ulteriormente un'infinità di altre aberrazioni, quali l'ipocrisia, la profanazione sacrilega dei sacramenti, ecc.»49. L'esercizio della violenza in ambito religioso potenzia nell'uomo l'«amor proprio» e l’azione del peccato originale, avvalorando il «senso letterale» del messaggio evangelico contro i princìpi della «religione naturale» e lo «spirito dominante ed essenziale di questo stesso Vangelo e del suo Autore». Bayle, al contrario, si impegna a rivendicare la legittimità dei diritti della coscienza — anche di quella erronea —, criterio di giudizio di ogni azione umana, vera e propria «luce che ci dice se una tal cosa è buona o cattiva»: 49° P. BAYLE, Commentaire philosophique sur ces paroles de Jésus-Christ, Contrain-les d’entrer [...], Canterbury, chez Th. Litwel, 1686 e Rotterdam, Fritsch et Bohm, 1713 (d’ora in poi con Commentaire),

Discours préliminaire, in OD., t. Il, p.

366b, tr. it. (parziale) in La questione della tolleranza, cit., p.

129. 82

La coscienza erronea deve procurare all’errore le stesse prerogative, garanzie e favori che la coscienza

ortodossa procura alla verità. [...] Concludo quindi legittimamente [...] che il primo e più indispensabile di tutti i nostri doveri è quello di non agire contro l'ispirazione della coscienza e che ogni azione fatta contro i lumi della coscienza è intrinsecamente malvagia, tanto che, così come la legge di amare Dio non tollera mai deroga alcuna poiché l'odio di Dio è un atto intrinsecamente malvagio, allo stesso modo la legge che vieta di contrapporsi all’illuminazione della propria coscienza è tale che Dio stesso non può esentarcene, poiché ciò significherebbe in realtà consentirci di disprezzarlo o di odiarlo, atto criminale intrinsece e di sua natura. Esiste dunque una legge eterna e immutabile che obbliga l’uomo, a scanso di commettere il più grave peccato mortale che sia possibile, a non fare nulla in dispregio o malgrado i dettami della sua coscienza?°.

Tale riconoscimento implica l'indicazione di un criterio giudicante in religione e la trasformazio-

ne stessa della relazione uomo-Dio. Quest'ultimo non obbliga alla ricerca di verità assolutamente cer-

te ed evidenti ma invita al rispetto del vero sentimento religioso: quello interiore che si manifesta, cioè, alla coscienza individuale, riflesso della lex aeterna. Il soggettivismo approda alla consapevolezza che la coscienza si identifica, senza residui, con «le sentiment intérieur» della verità. È questa, per ogni uomo, «la regola di ciò che si deve credere e fare»,

al punto che la fedeltà agli «istinti della sua coscienza» rende un’azione malvagia più tollerabile e penalmente non perseguibile. Da questo punto di vista, il preteso diritto di perseguitare con violenza l’errante, contraddetto dalle raisons di tutte le religioni, è immorale e contrario a Dio, perché incom-

patibile con il libero manifestarsi del convincimento interiore: 5° P. BAYLE,

Commentaire,

parte II, cap. VI, pp. 415a-

419b, tr. it (parziale) in M. FIRPO, 0p. cit., pp. 280, 281. Su questo tema sia consentito rinviare dn letteratura citata nel mio Tolleranza e libertà di coscienza [...], cit., p. 61 sgg. e note.

83

[...] La sola via legittima d’ispirare la religione è di produrre nell’animo dei giudizi e dei movimenti della volontà relativamente a Dio. Orbene, dato che le minacce, le prigioni, le multe, gli esili, le bastonate, i supplizi e generalmente tutto ciò che rientra nel significato letterale della costrizione, non possono formare nell’animo i giudizi della volontà relativi a Dio, che costituiscono l’essenza della religione, è chiaro che questa via per far accettare una religione è falsa e, di conseguenza, Gesù Cristo non l’ha comandata. [...] Se infatti Dio avesse comandato ai seguaci della verità di perseguitare i seguaci della menzogna, quest'ultimi, apprendendo tale ordine, sarebbero obbligati a perseguitare i seguaci della verità, e farebbero molto male a non perseguitarli; e sarebbero senza colpa agli occhi di Dio, purché l'ignoranza nella quale si trovano non sia né ostentata né maliziosa [...]®.

Non è, perciò, contraddittorio pensare che: Dal momento che ogni chiesa si ritiene quella vera [...] è impossibile che pensi che certi comportamenti da parte della vera chiesa siano volontà di Dio, senza poi credersi obbligata in coscienza a metterli in pratica. [...] Ogni chiesa, pertanto, è indispensabilmente obbligata e detiene un diritto inalienabile di attuare tutto ciò che sa essere ordinato da Dio alla vera chiesa. Dunque non è affatto per malizia [...], che noi rendiamo odioso il senso letterale della parabola supponendo che essa autorizzi le persecuzioni delle false religioni contro la vera; non si tratta per nulla - lo ribadisco — di una supposizione né falsa né strumentale: è la pura verità.

Destituita del suo tradizionale significato di colpa, l'eresia è conseguenza di un errore che conosce, così, un diritto all'esistenza per la naturale

debolezza dell’umana natura, per quell’«ignoranza invincibile» che è il vero contrassegno della co5! P. BAYLE, Commentaire, parte Il, pp. 440b, 432a, 3714, 443b, tr. it (parziale) in c. SENOFONTE, Pierre Bayle dal calvinismo all’illuminismo, Napoli, ESI, 1978, p. 56 e in M. MARILLI, Cartesianesimo e tolleranza: il Commentaire Philosophique di Pierre Bayle, in «Rivista di storia della filosofia», n.s., LI (1996)

3, P. 578. 84

scienza errante da vincere perfezionando la propria educazione e vincendo ogni ostinata tendenza al male identificato con l’agire contro la propria coscienza: La prima cosa [...] che si deve dire a un eretico è di cercare la verità e di non ostinarsi a credere di averla già trovata [...]; ma, dopotutto, in fatto di religione non si può passare tutta la vita facendo lo scettico e il pirronista; occorre attaccarsi a qualche convinzione e agire secondo le norme che ci si è dati. Del resto, che ci si attesti sulla verità o sulla menzogna, in ogni caso è certo che è necessario compiere azio-

ni virtuose e ispirate all'amore di Dio ed evitare la colpa gravissima di agire contro la propria coscienza.

Qui si consolida il vero spirito di tolleranza, testimoniato e incrementato dal pluralismo delle credenze che Bayle teorizza, estendendolo a tutto il mondo cristiano se è vero che «un papista, un tur-

‘co, un ebreo sono altrettanto soddisfatti della loro fede quanto noi della nostra». Nel capitolo vi della

parte Il dell’opera, dopo aver precisato che la «molteplicità delle religioni» è un danno solo dal punto di vista dell’intollerante, non esita a riconoscere che la tolleranza della diversità e della relatività delle religioni produce una nobile «emulazione» al bene, che certo non nuoce alla sicurezza dello Stato: Si dice che non vi sia pestilenza più pericolosa che l’esistenza di uno Stato connotato dalla molteplicità delle religioni [...]. Io rispondo invece che questo è un argomento talmente sbagliato da non poter essere usato contro le mie parole poiché risulta, al contrario, una delle prove più importanti a favore della tolleranza. Se la molteplicità delle religioni nuoce a uno

Stato, è solo perché l’una non vuole tollerare

l’altro, ma vuole inghiottirlo attraverso la strategia della persecuzione. [...] Se ciascuno praticasse quel5° P. BAYLE, Commentaire, parte 11, pp. 426b, 427a-b [ma cfr. anche, ivi, pp. 3744, 422b, 374b, 360b, 368b], tr. it (parziale) in Mm. FIRPO, op. cit., pp. 284, 285, 286.

85

la tolleranza che io sostengo, vi sarebbe la medesima concordia all’interno di uno Stato diviso fra dieci religioni di quella che esiste in una città nella quale le diverse categorie di artigiani collaborano vicendevolmente. Tutto ciò che potrebbe accadere non sarebbe che un’onorevole emulazione nei confronti di colui che più si segnalasse per pietà, costumi onesti e scienza [...]; e le religioni si ostinerebbero ancora di più a dimostrare l'attaccamento alla patria, se il sovrano le proteggesse tutte quante, e le tenesse in equilibrio fra di loro con la sua equità. [...] Per quanto riguarda il fatto che si pretende che la tolleranza nasca dalla grande varietà di sette che sfigurerebbero la religione, dico che la tolleranza è un male minore

e meno

vergognoso

per il cristianesimo

dei

massacri, delle forche, delle dragonate e di tutte le crudeli esecuzioni, per mezzo delle quali la Chiesa di Roma ha cercato di conservare l’unità, senza peraltro riuscirvi. Chiunque sia in sé e usi la propria

ragione rimarrà più sconvolto dal leggere nella storia del cristianesimo questa lunga scia di omicidi e violenze, di quanto non lo sarebbe nel vederlo diviso in mille sette. Infatti egli considererebbe che è umanamente inevitabile che gli uomini vissuti in diverse

epoche e in diversi paesi considerino la religione in maniera

diversa e che interpretino l’uno in un

modo, l’altro in un altro ciò che è suscettibile di ave-

re sensi diversi53,

All’intollerante che giustifica l’uso della forza per combattere l’«ostinazione» dell’errante e costringerlo all’assenso Noodt come Bayle oppone che lo stato di coazione esclude la possibilità di un sereno e libero esame. Troppo spesso si scambiano la «costanza» e le salde «convinzioni» per «tenacia e [...] inflessibile ostinazione degli erranti». In pro-

posito, il giurista olandese reagisce all’antica consuetudine di identificare la religione di un popolo

con la vetus religio e di giudicare ogni novità con diffidenza, autorizzandone l’annientamento con la

forza. All’integrità della vita civile e dello Stato nes53 P. BAYLE, Commentaire, parte n, pp. 438a, 415b, 418a-b, tr. it. (parziale) in M. FIRPO, op. cit., p. 277 e in La questione della tolleranza, cit., pp. 130-131, 134-135.

86

sun danno può derivare dalla presenza di una nuova religione, rispettosa dei «buoni l’«autorità del sovrano», meritevole, re bandita «non perché è nuova, ma alla vita sociale54. Eppure, i molti

costumi» e delinvece, di esseperché nociva» luoghi tematici

comuni alla Dissertatio noodtiana e al pensiero di Bayle non possono far trascurare gli interessanti motivi di divergenza né confondere i tratti caratteristici del diverso impegno teorico e metodologico. Se nel giurista di Nijmegen il riferimento alla libertà di religione poggia sul diritto, quale principio es-

senziale della retta condotta di vita, in Bayle il ricorso alla legge si traduce nelle intenzioni soggetti-

ve dell'individuo. La lex appare, cioè, come fatto della conscience che conserva il duplice significato di legge morale e di «sentimento» interiore. Da questo punto di vista, l'appello alla coscienza, che tollera e giustifica l’errante, presuppone l’esistenza di una morale innata universale e attesta, nello stesso tempo, l'impossibilità di identificare coscienza e legge etica, autorizzando, sul piano politico, anche l’adesione all’assolutismo. L'approdo alla “tolleranza civile”, nella sua più ampia e generale accezione, risulta l’unico in grado di tutelare la convi-

venza civile e l'ordine pubblico amministrato dall’assolutismo

monarchico,

responsabile solo del-

l'esercizio esteriore e pubblico dei diritti della coscienza religiosa, ma legittimato a punire ogni fede religiosa che prescriva leggi ingiuste, contrarie, cioè, a quella véritable raison cui ogni princeps così come ogni uomo deve adeguarsi in quanto condi-x zione indispensabile a un pacifico ordinamento. È 54 G. NOODT, Dissertatio, pp. 36, 42 [pp. 187, 204]. Si

confronti questo brano con la parte i del Commentaire philosophique, a Bayle risponde all’«obiezione»: «Non si usa violenza per ostacolare la coscienza, ma per risvegliare coloro che si rifiutano di esaminare la verità. Illusione di questo pensiero. Esame di ciò che si chiama ostinazione» (P. BAYLE, Commentaire, parte II, cap. I, in OD., t. II, ia 393-397). Cfr. il commento

di Barbeyrac nelle note alla traduzione francese della Dissertatio: cfr. Recueil, t. 1, pp. 186-187 e note.

87

in tale contesto che la questione della tolleranza

impone limiti «politici» ai cattolici e agli atei; i primi, perché in possesso di convinzioni incompatibili con la sicurezza pubblica, al punto che, conquistato

il potere, «non tollererebbero affatto il partito avverso, ma farebbero violenza alla sua coscienza»; gli altri, perché non credono in nessun principio superiore vincolante la coscienza e tendono, perciò, a minacciare la tranquillità dello Stato e a sovvertirne le leggi. Eppure, diversamente da ciò che sullo

stesso tema scrive Locke, non si tratta di repressione violenta ma di quella non tolleranza che prescrive il divieto di associazione e di propaganda, senza

negare, però, il diritto di espatrio e il possesso dei beni personali55. A tale esito è, invece, estraneo il pensiero di Noodt, impegnato a giustificare la libertà di religione come diritto in funzione di una scelta etico-razionale e nel rispetto delle essenziali virtù civili. Lo riconoscono significativamente le «Nouvelles de la

république des lettres». Nel maggio del 1706 (sotto la direzione di Jacques Bernard) offrono ai lettori europei un resoconto della Dissertatio apparsa agli inizi dell’anno. Nell’accurata ed esauriente esposizione dell’opera, il recensore richiama la recente

storia anglosassone e olandese, disposto a riconoscere che non ci sono paesi più felici di quelli in cui vivono inglesi e olandesi, in cui «non si costringe nessuno in fatto di religione»59. Coerentemente, la Dissertatio, ribadito che «in religionem esse Dei imperium, hominum non esse», si chiude con un appello a preservare la legge della ragione e «avitam libertatem»57, i due principali valori trasmessi da Noodt in eredità al maturo Settecento.

55 P. BAYLE, Commentaire, parte 11, pp. 411b-413a, 431,

tr. it. in G. MORI, Introduzione a Bayle, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 66, 69-70.

:

5° Cfr. NRL, xxxvI (1706), pp. 586, 585. 57 G. NOODT, Dissertatio, pp. 54, 55 [pp. 230, 231]. 88

Da Barbeyrac a Voltaire dalla «tolleranza» alla «rivoluzione»

5

Nel lungo, complesso tragitto dalla ragion di Stato all’Illuminismo, ai mutamenti storici e istituzionali

corrispondono rinnovate elaborazioni dei principi di tolleranza. Nel complicato processo di laicizza-

zione della cultura e della politica istanze «positive» e riformatrici sostengono la riflessione olandese e, in particolare, quella di Noodt sulla libertà religiosa che conosce ampia fortuna critica grazie soprattutto

all'opera di divulgazione compiuta da Jean Bar‘ beyrac. Questi, abbandonata, nel 1717, l'Accademia di Losanna che, nel 1711, lo vede professore di storia del diritto, si trasferisce in Olanda, nell’Ateneo di Groningen, dopo essere stato accolto con entu-

siasmo a Amsterdam da Le Clerc e Noodt. Di quest'ultimo, prima di pubblicare, nel 1731, un docu-

mentato Eloge historique, traduce in francese (1707) la Dissertatio del 1706 sulla libertà di religione, assicurandole un’ampia diffusione nella cultura europea contemporanea. Ripubblicato nel

1714 e nella Recueil de discours del 1731, il testo è

corredato di un ricco apparato di note che, come la versione francese del De iure naturae et gentium di Pufendorf (1706), esibisce l'interessato commento critico del traduttore*. Già nella traslazione francese del titolo a imporsi è il moderno concetto di li! Cfr. Discours sur la liberté de conscience; où l'on fait voir, que, par le Droit de la Nature et des Gens, la religion n'est

point sotimise à l’autorité humaine, in Recueil, p. 119. [ivi, cfr. anche p. xIv a proposito di Noodt]. L'Eloge historique de Monsieur Noodt, mort professeur en droit dans l’Université de Leide fu pubblicato in Recueil (t. 1, pp. xxxIv-xc) e ristampato in lati-

89

berté de conscience che include, riformulandola, la nozione di libertà di religione teorizzata dal giurista

di Nijmegen. L'emozione suscitata dagli orrori delle persecuzioni di Luigi xv contro la dissidenza ugonotta rende i temi esaminati di vivissima attualità e di analisi non più differibile. Nessuno meglio di

Barbeyrac, costretto all'esilio come tutti gli ugonotti della diaspora, può difendere la causa della libertà

dalle pretese della teologia dogmatica tradizionale e, in particolare, dell'ortodossia svizzera di imporre la Formula consensus ecclesiarum helveticarum, la confessione pubblica di fede nell’ortodossia calvini-

sta antisociniana e antiarminiana (adottata nel 1675 dai cantoni svizzeri riformati e nel 1679 dai pastori ginevrini) richiesta a tutti i professori universitari. A Losanna, controllato dall’oligarchia di Berna, il traduttore di Grozio e di Pufendorf si rifiuta di impor-

re il Consensus senza restrizioni. Nel 1715 accetta

la proposta dell’Accademia di sottoscrivere la formula con la riserva «quatenus

Sanctae Scripturae

consentit», applicata per la prima volta nel 1682. Ma il tentativo di conciliare il principio della libertà di coscienza con le esigenze dell'ortodossia fallisce,

suscitando proteste ufficiali fin dal 1715°. Giunto a Groningen, guarda con interesse agli esiti del dibattito maturato in Olanda dove, all'indomani della revoca dell’editto di Nantes, la causa della libertà e della coscienza è stata definitivamente vinta dagli interventi di Bayle, Locke e Le Clerc.

no, nel 1735 e nel 1767, come introduzione a G. NOODT, Opera omnia,

ab ipso recognita,

aucta, emendata,

multis in locis,

atque in duos tomos distributa [...], Lugduni Batavorum, apud J. van der Linden, iuniorem.

? Per queste vicende la fonte più documentata resta PH. MEYLAN, Jean Barbeyrac (1674-1744) et les débuts de l’enseignement du droit dans l’ancienne Académie de Lausanne. Contribution à l'histoire du droit naturel, Lausanne, F. Rouge & C. S.A., 1937, pp.36 sgg. e 104 sgg. L'impegno di Barbeyrac nella lotta contro il Consensus Helveticus è stato sottolineato da H.R.

TREVOR-ROPER, Religion, the Reformation and Social Change (1967), tr. it. di L. Trevisani, Bari, Laterza, 1972”, p. 259.

90

Sintonizzata sulla cultura d’ispirazione olandese di fine Seicento, la riflessione di Barbeyrac matura in una prospettiva teorica originale. La sua impostazione poggia sui motivi centrali della tradi-

zione ugonotta, condividendone l'impegno a liberare la coscienza individuale e collettiva dal dogmatismo dell’ortodossia religiosa. Scopo fondamentale diventa, quindi, quello di garantire senso ai conte-

nuti soggettivi di tale coscienza attraverso il riconoscimento di una legislazione immanente alla ragio-

ne, capace di diventare criterio regolativo anche per la fede. Da qui, allora, l'esigenza di esaminare il problema della libertà di coscienza nell’orizzonte teorico e storico del diritto naturale moderno, uti-

lizzando e rielaborando l’esaltante modello giusnaturalistico seicentesco fondato da Grozio e da Pufendorf. In una delle prime note alla traduzione

francese del De officio hominis et civis (1707) Bar. beyrac si impegna a ridefinire la nozione di coscienza, integrando Pufendorf, l’ammirato maestro che nessun rilievo le ha attribuito: L'autore doveva definire la coscienza. È un’omissione rilevante. Per rimediarvi, diciamo che la coscienza è il giudizio che ognuno dà delle proprie azioni, confrontate con le idee che ha di una certa regola, chiamata legge; in modo tale da poter autonomamente concludere se tra loro si dia o no conformità8.

La linea interpretativa dominante è tutta fondata sul riferimento al diritto. La coscienza fa da legame tra azione e lex. È giudizio che orienta al necessario collegamento tra l'agire individuale e la

legge etico-giuridica. Il ricorso all’autorità della coscienza rende indispensabile il richiamo alla dimensione normativa della lex naturae.

Essa, in quanto

3 Les devoirs de l'homme et du citoyen, tels qu'ils lui sont prescrits par la loi naturelle, traduits du latin du Baron de Pufendorf, par Jean Barbeyrac [...], Amsterdam, chez la veuve de P. de Coup, & G. Kuyper, 1735, V ed. (d’ora in avanti citata con Devoirs), lib. 1, cap. I, $ v, nota 1 (t. I, p. 4).

Q1

universale, è la misura fondamentale della «natura» umana. Non è mero principio fisico di sviluppo comune agli uomini e alle bestie ma criterio regolativo, rivolto solo alla coscienza umana.

Quest'ultima,

delineata attraverso il riferimento al diritto natura-

le, è considerata da Barbeyrac in una sfera più ampia di quella della socialità, rappresentandone il fondamento e il principio intrinseco. Da questo punto di vista altre correzioni e integrazioni richiedono le tesi di Pufendorf che, adottata la socialità

quale principio unico e sufficiente del diritto, non è, poi, riuscito a giustificare «i doveri della legge naturale». Nella prima nota al libro 1 del De iure naturae et gentium (cap. I, $ 15), Barbeyrac ne contesta la deduzione da un «unico principio», denunciando la dannosa enfatizzazione dell’utilitas4.

Ammettere che questa possa essere il fondamento della vita associata significa condividere le pericolose tesi di Thomas Hobbes e, in particolare, la sua definizione di «droite raison», quale atto del «raisonnement» egoistico-individuale. Tale filosofia è, a giudizio di Barbeyrac, inaccettabile anche alla luce della rischiosa adozione che ne tentano le formule giusnaturalistiche di Pufendorf. In nessun caso, infatti, possono risultare idonee all’individuazione

della vita sociale e alla giustificazione dei relativi doveri che esigono, invece, la rinuncia alla ricerca dell’utile individuale. L'essere dell’uomo si costituisce attraverso l’«uso» dei valori morali, esiste e agisce solo in relazione ad essi. La coscienza autentica

4 Le droit de la nature et des gens, ou Système général

des principes les plus importants de la morale, de la jurisprudence, et de la politique, par le Baron de Pufendorf, traduit du latin par Jean Barbeyrac a Amsterdam, chez la veuve de P. de Coup, 1734, v ed. (d’ora in poi si cita con Le droit), lib. n, cap. I, $ xv, nota 1 (t. 1, p. 222). Sul commento di Barbeyrac è

intervenuta F. PALLADINI (Samuel Pufendorf discepolo di Hobbes. Per una reinterpretazione del giusnaturalismo moderno, Bologna, il Mulino, 1990, p. 273 e sgg.) che ne ha sottolineato la «mentalità antihobbesiana» con acute considerazioni anche sulla relativa letteratura critica.

92

è quella morale che si realizza nel dovere, nella

comprensione di ciò che il soggetto agente deve volere.

Introducendo alla lettura del giurista tedesco, Barbeyrac rivolge acute obiezioni allo scetticismo moderno, accusato di negare certezza alla coscienza morale.

La polemica si concentra

sugli

scritti di Pierre Bayle definiti, nel 1706, «più pericolosi [...] dei libri di Hobbes e di Spinoza»5. E, nello stesso anno, a Pierre Des Maizeaux denuncia

il Dictionnaire historique et critique e le tesi, ivi riproposte, dei precursori dello scetticismo seicentesco, tutte da rifiutare per le dannose influenze sulla vita morale®. Agli occhi dell’interprete la rivendicazione bayliana della coscienza individuale,

quale unico principio dell’agire etico, e l'elevazione della ragione a valore morale assoluto procurano conseguenze negative sul piano etico-giuridico. Il rischio è di trasformare la vita morale in una trama . di pure relazioni formali, incapaci, per il loro valore universale e assoluto, di garantire certezza all’agire. Il contenuto dell’azione passa in secondo piano,

quando è la direzione della coscienza soggettiva a imporre sufficiente valore etico-religioso e a diventare l’unica intermediaria tra uomo

e Dio. Perciò,

del pirronismo bayliano Barbeyrac non condivide, soprattutto, le conclusioni fideistiche. La mancata distinzione degli ambiti di applicazione della ragione e della fede ha condotto all’incertezza della vita morale e obbligato ad accettare solo le verità della religione rivelata come unico criterio dell’agire

umano. Nella Préface al De iure di Pufendorf il traduttore, riconosciuti i veri princìpi della morale

«che si fondano sulle idee generali della religione», ne denuncia la pericolosa degenerazione. Dopo aver intensamente lavorato a indebolire i «lumi del5 Jean Barbeyrac a Jean Le Clerc, Berlin, 10 aprile 1706, ora in J. LE CLERC, Epistolario, cit., vol. n (1994), p. 14. $ Jean Barbeyrac a Pierre Des Maizeaux, Berlin, 22 dicembre 1706, Londra, British Library, Add. ms. 4281, c. 21r.

93

la ragione», i pirronisti rinviano a quelli della fede «per risolvere i nostri dubbi», come se le «lumières de la foi» non presupponessero quelle della ragione, e le prove della verità dei fatti «sui quali è fon-

data la rivelazione» fossero «più evidenti» delle massime della «retta ragione riguardo ai nostri doveri, e dei loro autentici fondamenti». La rivelazione non è stata concessa agli uomini per comunicare

in modo definitivo «tutto ciò che dovevano sapere». Essa, al contrario, presuppone «alcune conoscenze»

possedute o acquisite e la facoltà di trarre conseguenze «dai princìpi conosciuti o attraverso i soli

lumi della ragione, o per opera della Sacra Scrittura»7. Scopo di Barbeyrac è riconoscere alla religione cristiana il significato di un'esperienza universa-

le, rivolta agli uomini che hanno il potere e la volontà di far uso della ragione. Nella sua interpretazione si riflette una delle fondamentali esigenze dell’epoca «illuminata» che al progressivo dissolversi dell’auctoritas istituzionale reagisce rivalutando l’uso della ragione critica anche nella sfera religiosa. Confrontando le verità del cristianesimo con le origini dell'umanità, Barbeyrac giunge a documen-

tare la compatibilità tra ragione e religione rivelata. Si richiama, in proposito, all'autorità degli scrittori sacri, elogiandoli per aver riconosciuto l’ordine razionale del mondo e parlato a uomini «che hanno il potere e la volontà di far uso della loro ragione». Da qui la teorizzata correlazione tra verità raziona-

le e verità rivelata, percepibile soprattutto nella parola dell'apostolo Paolo. Prendendo spunto da un celebre passo delle Lettere ai Romani (x1, 1), Barbeyrac giudica la pratica delle virtù cristiane «un ? Le droit, Préface du traducteur, $ xxx1l (t. 1, pp. cx,

cxm). Per la polemica antibayliana di Barbeyrac cfr. l’aggiornato studio di T. HOCHSTRASSER, The Claims of Conscience: Natural Law Theory, Obligation, and Resistance in the Huguenot Diaspora, in New Essays on the Political Thought of the Huguenots of the Refuge, edited by ]. Ch. Laursen, Leiden-New YorkKéln, Brill, 1995, spec. pp. 37-46.

94

culte raisonnable» da quando i doveri prescritti dal divino sono fondati sulle «invariabili massime della ragione»È. Con ciò si impianta una riflessione di grande importanza teorica e culturale, sollecitata dalla contemporanea meditazione di impronta deistica. Nel-

la «Bibliothèque raisonnée» del 1731-1732, segnalando l’opera di James Foster (1697-1753) sull’Utilité, la vérité, et l’excellence de la révélation chrétienne (1731), ne difende le tesi fondamentali contro Matthew Tindal (1653-1733) che «vuole esplicitamente riferire il genere umano alla sola religione naturale; e se mette in rilievo le forze della ragione, è solo per indebolire o distruggere interamente l’uso della rivelazione». Al primato della ragione deistica il recensore, d'intesa con Foster, oppone i valori positivi della religione rivelata, indispensabili al potenziamento della razionale natura umana e del suo diritto. La salvaguardia di tale natura in ‘ambito religioso non comporta la negazione della rivelazione. L'«eccellenza» di quest’ultima sta soprattutto nell'aver richiamato la ragione ai suoi doveri morali attraverso i precetti evangelici disponibili per tutti gli uomini. Perciò se delle argomentazioni di Forster si possono condividere gli esiti coerenti con il razionalismo “teologico”, occorre respingerne le conclusioni sulla funzione negativa delle istituzioni, corruttrici dei princìpi della religione naturale. Il cristianesimo, invece, conserva tutto il suo valore, nonostante l’antica e moderna corruzione. L'essenziale della vera religione è e sarà sempre

nella «créance

de certains principes»

e nella pratica dei doveri, «fondati sulla natura e

la ragione delle cose». Si tratta di una religione universale (accordata con il diritto naturale), eter8 Traité du jeu, où l'on examine les principales questions de droit naturel et de morale qui ont du rapport à cette matière par Jean Barbeyrac [...], Amsterdam, chez P. Humbert, 1737, ll ed., t. I, pp. 43, 42.

95

na e immutabile, di cui nessuna rivelazione potrà

«sospendere, alterare, o contraddire gli obblighi». L'adesione ai valori della religione rivelata implica il

ricorso a una fede essenzialmente etica nella quale possono confluire la verità evangelica e la ragione

in opposizione ai contenuti dogmatici della vita ecclesiastica. Il Vangelo esige il rispetto dei «doveri morali», lasciando a ognuno la «libertà di inventare a sua fantasia» i mezzi utili agli scopi della religione. Essi, stabiliti da Dio, non possono essere che

«saggi» e «razionali». Se gli uomini comprendono la rivelazione con onestà e intendono seguirne le «istruzioni», al «fanatismo» resta sbarrata ogni porta di ingresso: ognuno è libero di agire in base alle sue opinioni e al «suo particolare umore»,

seguen-

do «le impronte delle proprie paure» e le idee stravaganti che si è fatto della divinità?. E, quindi, la riaffermazione della religione in senso morale a mettere in luce i diritti della coscienza umana. Nel-

le segnalazioni della «Bibliothèque raisonnée» l’appello ai doveri, al carattere etico dell'esperienza religiosa culmina in una difesa della «libertà di coscienza» e dei poteri della ragione opposti ai princìpi del dogmatismo religioso. Non a caso, le ultime pagine della dettagliata presentazione delle obiezioni di Foster al deismo tindaliano consentono di ribadire polemicamente che l’uso della violenza nell'esame e nella discussione di questioni religiose

non è solo un attentato ai «diritti naturali più sacri di tutti gli uomini ma anche un disonore per la stessa religione»!°. 9 «Bibliothèque raisonnée des ouvrages des savants de l'Europe» (rist. Genève, Slatkine, 1969; d’ora in avanti citata con

la sigla BR), VII, 1731, parte Il, pp. 298-299; ivi, IX, 1732,

i

T bp. 6, 37-38. Queste pagine sono state richiamate, con

inezza,

da A. ROTONDÒ,

Europe et Pays-Bas l'ad cità pp. 56-

58. Dello stesso Autore si veda anche il contributo, Stampa periodica olandese e opinione pubblica europea nel Settecento. La “Bibliothèque raisonnée” (1728-1753), in «Rivista storica italiana», CX (1998) I, spec. pp. 214-221. 1° BR, VII (1731), p. 295.

96

All’anonima traduzione in olandese dei Ser-

moni forsteriani (Zestien predikaetsien over zeer gewichtige stoffen del 1737) è da avvicinare il cosiddetto «Stinstra affair», occasionato dalla richiesta, nel 1740, della libertà di coscienza rivolta agli Stati della Frisia. Il pastore mennonita Johannes Stinstra di Harlingen è identificato tra i principali protagonisti della petizione di «mutua christiano-

rum tolerantia». L'iniziativa attira, tra il 1740 e il 1745, l'interesse di tutte le facoltà teologiche d'Olanda per l’accesa controversia circa la possibilità di difendere pubblicamente — contro la posizione dominante della chiesa calvinista — la libertà assolu-

ta di religione, nonché di rendere conseguentemente privi di significato i limiti tra le diverse chie-

se e, quindi, ogni intervento dell’autorità civile. Riconosciuto al centro della fede il criterio della «sincerità» nell’interpretazione della Sacra Scrittura, si

tratta di sostenere che solo la ragione naturale può svelarne l'essenza, conforme alla coscienza dell’uomo e alla sua conoscenza razionale’. Nessuna veri-

tà imposta dall’esterno può erigersi a modello di regola pratica, perché l'autentica libertà sta nel ri-

spetto della propria coscienza. E una conclusione condivisa da Barbeyrac che ne traduce il senso nelle finalità del suo programma di insegnamento a

Losanna. Nel 1711, all'’amico Jean-Alphonse Turrettini che gli prospetta i pregiudizi destinati a gravare sul suo stile di vita, confessa: [...] La mia libertà consiste [...] nel confermare il naturale privilegio che ognuno ha di pensare per sé ciò che gli sembra buono, contro le stupide pretese d’infallibilità che alcuni hanno [...] e grazie alle quali vorrebbero dominare le coscienze’?. 1 Cfr. J. VAN EJNATTEN, Mutua Christianorum Tolerantia. Irenicism and Toleration in the Netherlands: the Stinstra Affair. 1740-1745, Firenze, Olschki, 1998, p. 81 e sgg. (ma si vedano — anche per Noodt e le relazioni tra Barbeyrac e Foster — le pp. 41-51, 64-72).

!: Jean Barbeyrac a Jean-Alphonse Turrettini, Lausan-

ne, 14 agosto 1711 cit. da PH. MEYLAN, 0p. cit., p. 92.

97

Nel Discours sur la permission des loix (1715), la prospettiva dalla quale Barbeyrac guarda al problema della legislazione impone l’esigenza di distinguere il rapporto giuridico da quello etico-religioso, i diritti alla libertà di coscienza dalle prerogative della vita civile. La legislazione tutela

solo le azioni rilevanti per l’ordine civile, trascurando ogni adesione di carattere interiore. Volendo mostrare — come recita il sottotitolo del Discours — «che non è sempre giusto e onesto ciò che

è permesso dalle leggi», l’autore osserva che scopo delle leggi non è quello di rendere virtuosi gli uomini ai quali sono imposte. Per assolvere tale

finalità, esse dovrebbero regolare «l’interiorità degli uomini», riservata solo allo «scrutatore infinito

dei cuori». La civitas non è più regolamentata dalle virtà umane.

È una costruzione artificiale che di-

sciplina gli egoismi individuali mediante l’istituzione di un potere coattivo. L'autorità legislativa opera in maniera legittima se si limita a regolare le azioni

esterne,

senza

pretendere

di comminare

sanzioni alla coscienza. I vizi e le virtù morali in-

teressano al magistrato solo se condizionano «la quiete sociale». Della vita interiore egli non si occupa quando proibisce e punisce le azioni viziose,

perché nocive all’interesse pubblico e a quello individuale. E, al contrario, quando prescrive «atti di virtù», lo fa «per gli scopi del governo civile». Il

magistrato ha certo il dovere di reprimere le «dottrine sediziose» che minacciano l’integrità dell’or-

dine civile ma non può imporre ai sudditi le sue opinioni morali. Sottratta al vincolo della coazione

giuridica, l’attività etico-religiosa della coscienza è lecita perché non vietata né ostacolata naturale. Per prevenire ogni possibile quindi, necessario che l’auctoritas dei non si estenda fino a proibire «tutto ciò

dal diritto abuso, è, legislatori che giudi-

cheranno contrario a qualche virtù». Il diritto regola solo le azioni degli uomini. Al princeps terreno deve risultare indifferente la motivazione 98

dei

doveri giuridici e di tutti gli atti che non produco-

no alcun effetto sulla realtà. Solo per le azioni contrarie allo ius naturae il magistrato deve intervenire sull’intenzione dell'agente. A differenza della

iurisprudentia è la teologia morale a scrutare gli atti interiori e a condannare quelli esteriormente legittimi ma compiuti da un animo perverso. La

coerente conclusione del Discours — apparsa ad Alfred Dufour sotto l'influenza di Christian Thomasius — è che le leggi civili e quelle della virtù si riferiscono a due «giurisdizioni separate». Esse possono bene procedere unite fino a un certo punto «ma più oltre la virtù resta sola, e comanda in

modo assoluto»'3. Tracciando questa distinzione, Barbeyrac sottopone a una revisione il rapporto tra legge civile e legge naturale in sintonia con la

matrice giusnaturalistica del suo pensiero. La legge positiva del magistrato deriva dal carattere obbligante della lex naturalis. È in virtù di questa che la legge civile si impone alla coscienza. Diritto delle genti e legge positiva sono una proiezione, un'estensione della legge di natura. Quest'ultima resta la condizione di validità dell’ordine civile e ne costituisce la vera misura. Per rimediare allo scarto tra natura umana e lex, le istituzioni politiche debbono restaurare e riprodurre le norme

naturali, presupposto della loro esistenza. Se per la sua effettualità la legge naturale

è imposta

dall’auctoritas delle leggi civili, queste debbono riconoscere nella lex naturalis la condizione della loro applicabilità. L'osservanza di questa lex diventa la premessa non solo sufficiente ma necessaria per

la libertà degli uomini nella vita civile. La concentrazione di potere nella summa potestas non com13 Discours sur la permission des loix, où l’on fait voir, que ce qui est permis par les loix, n'est pas toùjours juste et Bibi par Jean Barbeyrac (1715), MI ed., in Devoirs, t. II, P. 449, 451, 452, 453, 455. Cfr. A. DuFOUR, Le mariage dans ’école romande du droit naturel au xvine siècle, Genève, Librairie de l’Université Georg & c.s.A., 1976, pp. 21-26.

99

porta la mortificazione o la cancellazione dei diritti soggettivi. Contribuisce, invece, a formare lo spazio della coscienza individuale, ponendo le condizioni giuridiche di esistenza nel mondo. L'obbligo di obbedienza alla legge civile esterna non contrasta con la libertà interiore dell’uomo. I diritti della coscienza rappresentano un limite nell’esercizio della sovranità, la condizione necessaria per essere tutelati dai possibili abusi del princeps. Perciò, la difesa dello ius naturale si affida al diritto di ricorrere, in casi estremi, al giudizio inappellabile della propria coscienza. Il suddito non deve, però, accontentarsi

di una

«resistenza»

interiore,

perché è in grado di manifestare apertamente il dissenso. Dall’affermazione del diritto individuale alla «libertà di coscienza» deriva il riconoscimento dello ius resistendi al sovrano che governa da tiranno per imporre con la forza i propri interessi, annullando, così, i princìpi universali del diritto naturale e della morale: «Non si deve mai obbedire ai superiori, a danno del proprio dovere. [...] A meno

di trovarsi in una totale impotenza a resiste-

re, bisogna mostrare un nobile coraggio per impedire con tutte le proprie forze che essi opprimano

l’innocente». Qui, il riferimento alla lezione di Pufendorf matura anche alla luce dell’influenza di Locke che, nell’uso del diritto di resistenza, ha raccomandato prudenza e moderazione. Del filosofo inglese Barbeyrac, nel commento al De iure naturae et gentium, cita le celebri tesi del Second Treatise (XVII, $ 209), per opporre al «vile popolaccio», all’ indifferenziato, «piccolo gruppo di sediziosi» la parte più sana dei sudditi, l’unica idonea a definirsi popolo e a promuovere l’atto di legittima ribellione contro la tirannide*4. Con ciò, le cor14 Le droit, lib. vm, cap. 1, $I, nota 2 e $vi, nota 4 (t. n, PP. 430, 441); lib. vil, cap. vm, $vi, nota 1 (t. I, p. 404). Sull’incontro tra motivi pufendorfiani e lockiani nel «diritto di resistenza» di Barbeyrac tra le alternative teorie dell’assolutismo e della

sovranità popolare, rinvio agli studi ben noti di Ehrard e Dera-

100

rezioni e le integrazioni al modello pufendorfiano, attraverso l'utilizzazione critica della lezione lockia-

na, sono da ricondurre agli argomenti di etica religiosa e civile che ispirano la vicenda biografica

dell’esule. Egli ha sempre presente la giustificazione, in termini religiosi, che dello ius resistendi han-

no dato prima i monarcomachi e, poi, gli ugonotti, richiamandosi ai diritti della coscienza dei sudditi contro i privilegi di una sovranità dispotica e

intollerante. Eppure, dai corifei del partito ugonotto, come Jean Claude e Pierre Jurieu, lo allontana

l'intenzione di riesaminare il problema della «libertà di coscienza» alla luce del diritto naturale. Col-

legata allo ius naturae, la nozione di coscienza perde la giustificazione di carattere religioso, di luogo privato dell’azione divina cui fanno riferimento le già ricordate pagine di Jurieu del 16875. La definizione del diritto di resistenza, funzionale

al teorizzato principio della liberté de conscience, conduce alla messa in discussione della teologia dogmatica tradizionale. Già nella Préface a Pufendorf è assai violenta la denuncia dei «Ministri pubblici della religione», «dei Padri della Chiesa» e «degli ecclesiastici e teologi protestanti», tutti responsabili di aver sottomesso la «scienza morale»

al potere di un intollerante modello etico-religioso. A quest’ultimo Barbeyrac contrappone l’opera positiva ed esaltante del giusnaturalismo moderno,

finalizzata all’emancipazione del diritto naturale dalla tutela del dogmatismo teologico e all’evoluzione della conoscenza noma

e sistematica.

giuridica in scienza auto-

In proposito,

l'elogio si con-

centra su Grozio che «ha rotto il ghiaccio» e avviato uno studio metodico del diritto, offrendo, per

thé, nonché agli aggiornati studi di Zurbuchen, discussi nel mio Tolleranza e libertà di coscienza [...], cit., pp. 109-110 e note. 15 In proposito, sono utili le considerazioni di M. TUR-

CHETTI, La liberté de conscience [...], cit., pp. 317-319.

101

la prima volta, «un sistema di diritto naturale». Ad

abbandonare il linguaggio e le ridicole sottigliezze degli scolastici, «da cui Grozio aveva purgato la sua opera», contribuì, poi, Pufendorf. Egli riuscì, in-

fatti, a scalzare il giogo tirannico «di un così dannoso costume» e a seguire con coraggio le tracce

del grande predecessore, conquistando «un’'immortale reputazione».

Constatata,

poi, l'accoglienza

negativa riservata dall’Inquisizione romana e dai teologi protestanti svedesi e tedeschi agli scritti dei due maestri, Barbeyrac conclude, avvertendo che

«la morale così trascurata e quasi bandita dal mondo per opera dei ministri pubblici della religione, si è rifugiata presso i laici». Nell’Introduzione del 1706 all'edizione francese delle Dissertationes accademiche di Noodt sulla lex regia e sulla libertà di religione, il traduttore mostra, con efficace stile oratorio, che dispotismo politico e persecuzione religiosa sono facce insidiose di una stessa medaglia. L'attacco polemico si

concentra sugli argomenti giusnaturalistici riproposti dal giurista di Nijmegen in direzione antihobbesiana. Lo scopo è di denunciare i «falsi spiriti» che non si rassegnano «a ignorare ciò che Dio ha ritenuto bene di nascondere alla loro conoscenza». Essi discutono sulle gerarchie e le funzioni delle «celesti intelligenze», senza potere o voler riconoscere «i diritti naturali degli uomini» alla libertà e

all'eguaglianza. Non concesso da Dio né giustificato dal consenso degli uomini, il potere dispotico, sostenuto dagli ecclesiastici «furbi» e «interessati» si innalza con la forza «al di sopra delle leggi». In tal caso, la resistenza all’auctoritas arbitraria si esprime nell'impegno a diffondere «scintille di verità» che, nei paesi dominati illegalmente, spingeranno i sudditi ad abbattere il potere illegale o a ritirarsi in «paesi di libertà», condannando, così, gli «incorreg1) Le droit, Préface du traducteur, $$ vi, 1x, xI, xxIx, XXX, XII (t. I, pp. XXII-XXV, XXVII-XXXVII, LIN-LVI, CIV, CVI-CVII, IVI).

102

gibili tiranni a regnare con i loro seguaci su estese terre di solitudine»'7. Esaltata con rigore critico, la

riflessione di Noodt ha, per Barbeyrac, il vantaggio di indicare come si possa conciliare l’idea di libertà individuale con la nozione di un’auctoritas legale, non arbitraria né dispotica: quella, cioè, di un sovrano che in ogni circostanza non ha mai più potere di quanto non ne richieda «il bene pubblico», la cui negazione rappresenta il punto di partenza dell'intolleranza politica e religiosa. L'autonomia del potere civile da quello religioso viene difesa con particolare rigore a Gronin-

gen. Qui, come a Losanna e già in precedenza a

Berlino, Barbeyrac diventa l'avversario degli ecclesiastici ortodossi e intolleranti, schieratisi sempre

più numerosi contro di lui. Il Discours sur la question, s’il est permis d’échafauder en chaire le magistrat, qui a commis quelque faute? (pronunciato nel

1721, in occasione della nomina a Rettore dell’Ate-

‘neo olandese) poggia sulla tesi che i «predicatori o i ministri pubblici della religione» sono sudditi dello Stato ospitante e debbono, quindi, rispettare la volontà di «un magistrato legittimamente istituito; in modo tale che, finché egli è nelle sue funzioni, non si possa violare questo rispetto né con azioni

né con parole». Barbeyrac contesta la presenza nello Stato di un’altra sovranità rivale di quella politica. Gli stessi principes e magistrati, diventati membri della Chiesa, non smettono di «essere su17 Préface du traducteur sur les deux Discours de Mr. Noodt, in Recueil, t. 1, pp. 4, 2, 3, 5, 6. 18 I. BARBEYRACII Oratio de magistratu, forte peccante, e

pulpitis sacris non traducendo (1721), 1 ed. in Le droit, t. ul (Appendice,

pp. 39-52), tr. fr. in Recueil, t. 1, pp. 238, 239. Sul

tema si è soffermato, da ultimo, J. VAN EIJNATTEN, Swiss anticle-

ricalism in the United Provinces. Jean Barbeyrac's oratio de magistratu, forte peccante, e pulpitis sacris non traducendo, in La formazione storica dell’alterità. Studi di storia delle tolleranza nell’età moderna offerti a Antonio Rotondò, promossi da H. Méchoulan, R. H. Popkin, G. Ricuperati, L. Simonutti, Firenze, Olschki, 2001, pp. 861-886.

103

periori e, quindi, di aver diritto al rispetto, così come un uomo non cessa di essere suddito, quando è nominato pastore di un gregge». L'esito del Discours mette definitivamente in crisi la funzione

della Chiesa come organo di controllo politico attestato dalla tradizione. La stessa costituzione della

società civile esige che il rispetto dovuto al magistrato non sia rivolto solo alla sua persona fisica ma,

soprattutto, all'autorità pubblica che egli rappresenta. Perciò, gli ecclesiastici debbono astenersi da ogni censura pubblica degli atti del princeps. È

questo l'atteggiamento più coerente con gli scopi del magistero cristiano e il più idoneo a garantire la «pace pubblica» e la «libertà di coscienza», a tentare «di convertire i sudditi e i sovrani» con la «forza della persuasione [...] esercitata sui loro cuori»!9. La definizione dei compiti e dei limiti della legislazione ecclesiastica non sottrae Barbeyrac alla complessa indagine sui diritti del potere sovrano in campo religioso. È un problema direttamente intrecciato alla riflessione sul diritto di libertà di coscienza dell'individuo da tutelare contro l’invadenza del modello hobbesiano di Stato assoluto. Nella

Préface al De iure naturae et gentium rifiuta le tesi vincolanti il fenomeno religioso all’autorità del princeps, quale unica regola della coscienza religiosa, finalizzata all’esclusivo interesse politico. «Gran matematico» e profondo conoscitore dei «fondamenti della politica», Hobbes, secondo il giudizio del traduttore francese, attribuisce ai re «un’autorità senza limiti» negli affari di Stato e nelle questioni religiose. Nel Leviathan si afferma che la «volontà del sovrano» autorizza non solo il giusto o l’ingiusto ma la stessa religione «e che nessuna rivela-

zione divina può obbligare la coscienza, all'infuori dell’autorità, o piuttosto del capriccio del suo Leviatano, cioè della potenza sovrana e arbitraria, cui 19 I. BARBEYRACII Oratio de magistratu [...], cit., pp. 286-287, 292 e 297-298.

104

egli attribuisce il governo di ogni società civile», dandole «forza di legge»?°. In un contesto politicoculturale assai differente da quello hobbesiano, Barbeyrac identifica, invece, in Locke e in Noodt le fonti principali della sua riflessione. Dal punto di

vista etico-politico l'esigenza comune è quella di respingere sia l’intransigenza religiosa della monarchia assoluta francese di fede cattolica sia l’autoritarismo del calvinismo ginevrino, riaffermando le ra-

gioni della libertà e della coscienza dell’uomo moderno. E, nel 1731, proprio in una nota alla Disser-

tatio de religione ab imperio iure gentium libera, il traduttore, commentando l’indagine di Noodt sui poteri e i limiti della sovranità in campo etico-religioso, rimanda al contenuto dei Discours sur la

permission des loix e Sur le benefice des loix. Una citazione cade anche sul capitolo x del Traité de la morale des Pères de l’Eglise (1728) che attribuisce una decisiva funzione educativa al sovrano, in grado di sostenere «la parte del galantuomo e del cristiano», di operare con strumenti destinati alla «istruzione» e alla «persuasione»,

senza, perciò, esercita-

re «alcuna costrizione». Egli può meglio di ogni altro individuo favorire, conservare, incrementare e introdurre «istituzioni utili e durevoli». Può, con il suo esempio, impartire lezioni di vita molto efficaci

per l'emulazione che ispirano. Se gli è concesso finanche il diritto di rendere dominante la religione che giudica migliore, non deve, però, «né forzare le coscienze né privare qualcuno dei suoi sudditi — con il pretesto della non conformità con la religione dominante — dei diritti che essi hanno, del resto, in quanto uomini e cittadini». Il suddito è respon-

sabile delle sue convinzioni interiori solo dinanzi al giudizio di Dio e della propria coscienza. L'interio-

rità si sottrae alle sanzioni della legge civile, presentandosi come luogo di affermazione della libertas. Escluse dal modello hobbesiano di Stato, le 2° Le droit, Préface du traducteur, $ xxx (t. 1, pp. CV, CVI).

105

opinioni private e interiori della coscienza umana sono reintrodotte a pieno titolo in quanto testimonianza del valore morale dell’esistenza. Ai sudditi «naturali dello Stato» o a quelli che «sono stati naturalizzati» il princeps non può impartire violenza

fisica né imporre alcuna privazione di beni e di diritti comuni o personali, per non aver aderito alla religione dominante. In caso contrario, l’auctoritas

del sovrano diventa illegale, il suo «pieno potere diventa illecito», risultando «ognuno [...] nell’indi-

spensabile obbligazione di seguire i lumi della propria coscienza in materia di religione»?*. Ritorna, in tale giudizio, il tema latitudinaristico (di derivazione rimostrante) dell’illegittimità della forza in am-

bito etico-religioso: la fonte principale di Barbeyrac è l’Epistola de tolerantia di Locke, letta, molto probabilmente, nell’accurato resoconto redatto da Le Clerc per la «Bibliothèque universelle et historique» (1689). In un’ampia nota al De iure pufen-

dorfiano Barbeyrac cita con favore il filosofo anglosassone accanto al De habitu di Pufendorf, alla Dis-

sertatio noodtiana del 1706 e al suo Traité del 1728, ribadendo l’inefficacia della forza e delle vessazioni sulla coscienza?3. In una nota all'edizione francese della Dissertatio, il traduttore richiama finanche l'autorità del Commentaire philosophique (parte n, art. IM e sgg.) del criticato Bayle, concordando sull’illegittimità della persecuzione della «coscienza errante»?4. In proposito, rimanda ai capitoli 2! G. NOODT, Discours, in Recueil, t. I, pp. 159, nota 1, 160, nota 1. Il riferimento è al Traité de la morale des Pères de l’Eglise: où en défendant un article de la Préface sur Pufendorf, contre l’Apologie de la morale des Pères du P. Ceillier [...], on fait diverses réflexions sur plusieurs matières importantes, par Jean Barbeyrac [...], Amsterdam, chez P. de Coup, 1728 (d’ora in avanti si cita con Traité), cap. xl, $$ LMI, XXXVII, pp. 194, 184. Sempre utili restano le considerazioni svolte da F. PUAUX, op. cit., pp. 161-169. 2 BUH, XV (1689), pp. 402-412 (ma cfr. anche ivi, xx, 1690, pp. 364-391). 23 Le droit, lib. vi, cap. Iv, $ x1, nota 2 (t. 1, pp. 324-326). 24 G. NOODT, Discours, p. 182, nota 2.

106

XII e XVI del suo Traité, dove molto aspra è la criti-

ca della «crassa ignoranza» dei Padri della Chiesa e dei loro divulgatori «in fatto di diritto naturale e di morale, così come

in materia di critica», secondo

quanto si legge in un’autorecensione, pubblicata nella «Bibliothèque raisonnée» del 1728?5. Qui, in

opposizione alle argomentazioni del dotto benedettino Dom Remi Ceillier, autore, nel 1718, di un’Apologie de la morale des Pères de l’Église con-

tre les injustes accusations du Sieur Jean Barbeyrac [...], si denuncia, nell’opera dei Padri, la progressiva corruzione dei precetti morali e l’avvento di un'etica rigida e astratta, testimoniato, del resto, dalle tesi patristiche in materia di matrimonio, poli-

gamia e divorzio. Tutto ciò ha ostacolato ogni riferimento possibile al diritto naturale moderno e oppo-

sto alla guida della coscienza-ragione il principio dell’autorità intollerante. Ma le pagine del Traité, citate nel commento alla Dissertatio noodtiana, si . soffermano, in particolare, su sant'Agostino, il

«grande patriarca dei persecutori cristiani» che, in opposizione al dettato originale della Sacra Scrittu-

ra, ha invocato le celebri espressioni del Vangelo di Luca («compelle intrare», xIv, 23) per giustificare

l’uso della violenza e della persecuzione in ambito religioso: E tutti gli apologisti della persecuzione non fatto altro che scimmiottare le perversità e i [...], per stabilire una massima contraria a lumi del buon senso, all’equità naturale, alla alla buona politica, allo spirito del Vangelo.

hanno sofismi tutti i carità,

Il rispetto della propria e dell’altrui coscienza è fondato sulla conoscenza e sulla tutela dei princìpi dell’equità e del diritto naturale che la costitu25 BR, I (1728), parte II, p. 318. Su questa recensione si è soffermato B. LAGARRIGUE, Un temple de la culture européenne (1728-1753). L'histoire externe de la Bibliothèque raisonnée

des ouvrages des savants de l'Europe, Proefschrift Katholieke Universiteit, Nijmegen [s.e.], 1993, pp. 55-56. 107

zione razionale della natura umana impone con l'obbligazione delle leggi. A conferma di questi giudizi Barbeyrac ripropone motivi. centrali nella riflessione di Locke e di Noodt, sostenendo l’ineffi-

cacia della forza a condizionare i «movimenti» della coscienza che, sottratta alla giurisdizione dell’auctoritas civile, è comandata legittimamente solo da Dio. Atto interiore e personale, la sua voce si sottrae, per definizione, a ogni coazione. La persecuzione violenta non è solo un abuso da condannare

ma un espediente inefficace, perché non esistono «giudici visibili» in grado di stabilire la verità di una religione. Anche l'individuo non ha potere decisionale, giacché la sua coscienza dipende dal Sommo

Bene. Servire Dio, seguendo le luci della coscienza, è un principio contro il quale nessuna autorità terrena può prevalere. La «libertà di coscienza», analizzata come un diritto che appartiene alla natura

etico-religiosa dell’uomo, è attribuibile al solo dominio di Dio che trionfa sugli errori umani con «armi non materiali». Da ciò si conclude che ognu-

no dev'essere garantito nella libertà di credere e di rispettare le proprie convinzioni religiose. Nessuno può mettere in pericolo questa «libertà», senza usurpare i diritti di Dio, il «solo maestro delle nostre coscienze». È certo — continua Barbeyrac, riproducendo espressioni già adottate nel Discours del 1715 — che [un uomo] deve [...] agire secondo i propri lumi, fintantoché sia disilluso dei suoi errori. Tocca allo scrutatore dei cuori vedere se essi derivano o da negligenza

o da qualche altro malvagio principio [...]?S.

In Barbeyrac e in Noodt, nei loro interessi per le tematiche politico-religiose, è possibile leggere la progressiva emancipazione dei problemi di libertà e di coscienza dai vincoli teologici tradizio20 Traité, cap. XVI, $ XXIX, p. 304, cap. xII, $ XXIX, È 180; cap. xII, f xxIx, p. 180 e $ xx, p. 177. Cfr. Discours sur la permission des loix, cit., p. 449. 108

nali alla luce del costante richiamo ai moderni modelli della razionalità e del diritto naturale. Come il giurista di Nijmegen, Barbeyrac limita, con fine

scelta teorica, il significato della libertà religiosa a quelle azioni che toccano la sfera dell’interiorità e

che, perciò, si sottraggono al controllo della dogmatica tradizionale. È la via del rispetto della coscienza umana,

regolata solo dalla libera «persuasione»,

in ossequio alla fonte privilegiata che è, anche in questo caso, Locke e il suo The Second Treatise (1v, 23), citato in una nota al De iure pufendorfiano e

nel Traité del 1728, per ribadire che un uomo non può mai conferire ad altri un «potere arbitrario sulla sua vita, di cui non è lui stesso padrone»?7. Nei primi decenni del Settecento, in un’età di ritrovato equilibrio politico — come quella vissuta

da Barbeyrac — religioni e ordinamenti diversi coesistono ormai pacificamente. Si assiste, infatti, alla | messa in discussione di ogni prospettiva di potere

dispotico intollerante e di monarchia universale. Quest'ultima, riproposta in Francia da Luigi xIv, è messa in discussione agli inizi del secolo «illuminato» dalla rivendicazione dei diritti della coscienza,

destinati a contrassegnare il nuovo concetto di tolleranza. Nelle note alla Dissertatio noodtiana del 1706, Barbeyrac, infatti, prende spunto dalle tesi sulla non coercibilità della coscienza per rinviare alla definizione di tolleranza elaborata nel capitolo x1I del Traité de la morale des Pères. Qui, distinta la «tolleranza civile» da quella «ecclesiastica», attribuisce alla prima il compito di «lasciare in uno Stato la libertà di coscienza» a coloro che non hanno accolto la confessione dominante o che sono stati

espulsi per le loro convinzioni religiose. Ridefinire i caratteri e i limiti della tolleranza civile dal punto

di vista della libertà di coscienza significa qualificare lo Stato come realtà fondata su leggi che consentono l’uso della forza e della violenza, incompatibili 27 Traité, cap. XII, $ xxx, p. 180. 109

con il «legittimo scopo delle leggi ecclesiastiche». Lo Stato ha il dovere di essere tollerante; la tolleranza civile è il suo interesse, come testimonia la storia dell’Inquisizione, denunciata, nel 1728, con l’efficace immagine della solitudine, già utilizzata

nella Préface del 1706 alla traduzione delle Dissertationes noodtiane: L'Inquisizione ha [...] ridotto in estese terre di solitudine i più bei paesi del mondo. E [...] si riconoscerà quanto sia costato aver costretto un'infinità di

popoli alla necessità di abbandonare tutto, per andare a servire Dio altrove, tranquillamente secondo i 28 lumi della loro coscienza?4.

La tolleranza diventa un limite imposto all’invadente azione statale e all’organizzazione dogmatico-ecclesiastica, per sostenere la loro reciproca indi-

pendenza. Tutto ciò conferma che il punto di vista di Barbeyrac, l'orientamento prevalente della sua riflessione sono di carattere giuridico e non teologico. Il tentativo, prospettato nel Traité del 1728, è quello di emancipare la giurisprudenza dalla fede, di dare,

cioè, impulso al processo di secolarizzazione dell’autorità politica e, più in generale, della vita civile. A

differenza della tradizionale «libertà di religione», quella della coscienza autorizza a scelte più vaste. Aiuta a identificare la posizione e i compiti dell’uomo in questo mondo, a stabilire il raggio d'azione che in esso Dio e la sua natura razionale gli hanno destinato. La tutela del diritto alla libertas conscientiae viene sottratta, senza più residui, alla giurisdizione ecclesiastica. Il problema della libertà si inscrive, infatti, nella vita politico-giuridica come questione fondamentale della convivenza civile, laicizzata nelle sue funzioni e opposta alla tirannide temporale e spirituale, denunciata da Barbeyrac contro i gesuiti dei «Mémoires» di Trévoux. Le «loro vane declamazio25 |. BARBEYRAC, Recueil, t. I, p. 149, nota 1 e sgg, Il riferimento è al Traité, cap. x, $ Ix, p. 172 e $ oca, p. 181.

110

ni», sostenute con «forza» e «artificio» ma prive della necessaria «equità», giungono a qualificare Noodt un

«facitore» di «discorsi sediziosi». La pericolosa, «intollerabile» novità consiste — a giudizio dei gesuiti — nell’aver identificato l’eticità con l'autonomia della coscienza umana, senza alcuna subordinazione alla «vera pietà» della morale patristica?9. In proposito, la risposta di Barbeyrac è di rigore e coerenza esemplari, come documentano le ultime recensioni scritte

per la «Bibliothèque raisonnée». Nel 1740, segnalando l'Anti-Machiavel di Federico II di Prussia, ne riporta con favore la tesi che per allontanare dallo Stato gli attacchi dello «spirito dogmatico dei teologi», il sovrano deve «sostenere il governo civile con vigore

e lasciare a ognuno la libertà di coscienza, essere sempre re e giammai fare il prete»3°. Denunciando il

carattere dogmatico di ogni giudizio che pretenda di vincolare la coscienza, queste riflessioni attestano emblematicamente la distanza del loro autore dai ‘contenuti del dibattito seicentesco sulla tolleranza. L'epoca delle lotte religiose è finita. Crollato il vecchio ordine di dogmi e di formule politico-confessionali, matura l’età della ragione moderna, dello spiri-

to laico e della libertà. Grande merito di Barbeyrac è di aver intuito e, nei limiti delle sue capacità specula-

tive, teorizzato il passaggio dall'idea di libera religio a quella di libertas conscientiae. Con ciò egli personifica efficacemente la transizione dal razionalismo

giusnaturalistico all’illuminismo. Il cambiamento radicale dell'immagine del mondo, la fondazione del metodo scientifico, la separazione del “privato” dal “pubblico”, l'emergere

dell'individuo come nuovo soggetto politico, il definitivo abbandono

della concezione

aristotelica

29 ]. BARBEYRAC, Recueil, t. 1, pp. 39-40, nota. Il riferimento è ai «Mémoires», maggio 1709, pp. 778, 780. 3° BR, XXV (1740), parte II, p. 392. Su questo periodico e

la difesa della tolleranza contro l’ortodossia religiosa (il «faux zèle de religion»), si vedano le documentate osservazioni di H.

BOTS, Le plaidoyer des journalistes, cit., pp. 557-559:

111

della polis e della natura avviano, nel Settecento,

un passaggio lento ma decisivo dall’antica virtus della tolleranza ai moderni diritti delluomo. Nei primi decenni del secolo xvi a risolversi sono le

ambiguità stesse della soluzione groziana, di un diritto di natura, cioè, modellato su quello divino, ma

autonomo per il sostenuto criterio-guida della ragione, etiamsi daremus non esse Deum.

Cadute le

utopie ireniche, indeboliti i progetti ecumenici, affiora un nuovo

ordine di valori con la tolleranza

civile che acquista significativo rilievo nella rivendicazione del moderno diritto alla coscienza-ragione contro ogni forma di fanatismo, di superstizione religiosa e di autoritaria ingerenza della Chiesa nella vita politica e sociale. Al di là dei contributi critici promossi dai più noti periodici eruditi tra Seicento e Settecento, qui sopra segnalati, i motivi

del nuovo «radicalismo politico-religioso» assumono significativa centralità nei grandi dizionari a carattere enciclopedico?*. Con il Nouveau Dictionnaire di Chauffepié, pubblicato ad Amsterdam dal

1750, al fine di difendere il cristianesimo dal deismo e dal pirronismo, siamo già in una congiuntura culturale e politica che richiede una nuova forma espressiva a un’opera non «di controversia, ma di storia, di critica, di letteratura»3?. Dei fermenti di questo spirito laico e razionalistico l’Illuminismo francese, in particolare, si impegna a radicalizzare la dimensione polemica, enfatizzando la tolleranza quale momento di un più esteso 8! Di «radicalismo politico-religioso» nella storia della tolleranza ha trattato, con acutezza, A. ROToNDÒ, Tolleranza, in L’Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Roma-Bari, Laterza, 1998

p. 70 e sgg. (con particolare

riferimento a Noodt e Barbeyrac ale pp. 71-72). 8° Nouveau Dictionnaire historique et critique, pour

servir de Supplément ou de continuation au Dictionnaire historique et critique de Mr Pierre Bayle. Par Jaques George De Chaufepié. Tome premier [...], À Amsterdam, chez Z. Chate-

lain [et autres] - A La Haye, chez P. De Hondt, 1750, Préface (Amsterdam, 15 aoùt 1750), p. xIl.

112

progetto di emancipazione dell’uomo, fondato sulla forza della ragione. Nel maturato passaggio dalla critica storico-teologica dell’intolleranza alla lotta giuri-

dico-politica contro di essa il primo posto spetta alle folgoranti pagine di Voltaire (1694-1778), il corifeo della crisi dell'alleanza tra monarchia e intolleranza

religiosa negli anni Sessanta-Settanta del secolo, l'editore dell’Anti-Machiavel (1740) che del tradut-

tore di Pufendorf ammira la grande capacità di divulgazione e di originale riflessione teorica33. La riflessione sulla «tolleranza» attraversa tutta la sua va-

sta produzione, dalle Lettere filosofiche del 1732 —

composte dopo l'esilio inglese — fino ai più noti scritti degli anni Sessanta, il Trattato sulla tolleranza e il

Dizionario filosofico o i pamphlets satirici dedicati alle Riflessioni per gli sciocchi e alla Pace perpetua, completati negli anni della battaglia contro l’infàme. Quando

si pubblica,

anonimo,

il Traité

sur

la

tolérance nel 1763, Voltaire ha già maturato un giu-

dizio positivo sull’Olanda del suo tempo. Egli vi ha soggiornato a lungo nei primi decenni del secolo (dal 1713 al 1743, in cinque distinte occasioni), dedicando nei suoi scritti numerose pagine alla vita politicoreligiosa. Già nei primi viaggi egli resta favorevolmente colpito dal clima di tolleranza condiviso da tutti i rifugiati, sia cattolici che protestanti, «ministri calvinisti, arminiani, sociniani, rabbini, anabattisti che si esprimono a meraviglia, e che, in verità, hanno tutti ragione»34. 33 Barbevrac è «le seul commentateur

dont on fasse

plus de cas que A son auteur. Il traduisit et commenta le fatras de Preda mais il l’enrichit d’une préface qui fit seule débiter le livre» (in Oeuvres de Voltaire, Paris, Garnier, 1877-1883, t. XXVI, p. 505).

34 Voltaire à la Marquise de Bernières, La Haye, 7 otto-

bre 1722, poi in VOLTAIRE, Correspondance, texte établi et annoté par Th. Besterman, vol. 1, Paris, Gallimard, 1963, p. 84. Sul tema cfr. j. vercrursse, Voltaire et la Hollande, Genève, Droz, 1966, p. 16 e sgg. Dello stesso Autore si veda anche una sintesi efficace e aggiornata, La legon hollandaise, in Etudes sur le Traité sur la Aia de Voltaire, sous la direction de N.

Cronk, Oxford, Voltaire Foundation, 2000, pp. 205-213. 113

Nelle Oeuvres inédites, la riflessione sulla

tolleranza si collega strettamente a quella sulla libertà politica nell’identificazione dell'Olanda con un modello politico «si bénéfique», ma dagli esordi non sempre esaltanti: La Germania, l'Inghilterra. l'Olanda, la Svizzera provano che un buon governo può coesistere con la libertà di coscienza. Sembra che gli uomini siano potuti giungere alla pace solo attraverso la guerra e che le tempeste

siano necessarie per portare tranquillità

[...]. Il male — si legge nell’Essai sur les moeurs (1756) — è talmente mescolato al bene, gli uomini tra-

lignano così spesso dai loro principi, che quella repubblica fu sul punto di distruggere da sé la libertà per la quale aveva combattuto, e l’intolleranza fece scorrere il sangue presso un popolo la cui felicità e le cui leggi erano fondate sulla tolleranza. [...] Gomar e Arminio disputarono furiosamente a Leida su ciò che non intendevano e divisero le Province Unite. [...] E alla fine, da una controversia scolastica si formarono due partiti nello Stato. Il principe d'Orange, Maurizio, era alla testa dei gomaristi; il pensionario Barneveldt favoriva gli arminiani.

Quest'ultimo incarna l'esempio emblematico del clima d’intolleranza del suo tempo, vittima del

fanatismo politico e religioso con cui Voltaire — nel Dictionnaire — spiega la leggendaria morte del condottiero, giudicandola un «assassinio giuridico». Ma

a chiarire meglio il senso della storia olandese moderna è il grande capitolo cxL dell’Essai che, trattando «Dell’Inquisizione», ne esamina le possibili conseguenze negative in città come

Londra o Amster-

dam: «Infatti, quando Filippo Il volle introdurla nelle province di Fiandra, l’interruzione del commercio fu una delle principali cause della rivoluzione»35. Un

giudizio avvalorato, poi, dalle osservazioni contenute 35 VOLTAIRE, Remarques pour l’histoire universelle, ms.

in Bibliothèque municipale Saint-Fargeau, t. I, f°. 33, poi in ID., Euvres inédites, Mpa

par F. Caussy, t. I, Paris, Librai-

rie ancienne H. Champion,

1914, p. 249; ID., Essai sur les

maeurs e l’esprit des nations et sur les principaux faits de l’hi114

nella vi delle Lettere filosofiche e riformulate nella voce Tolérance del Dictionnaire philosophique (1764): Nella Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat, di Bassora, il ghebro, il baniano, l'ebreo, il musulmano, il deicola cinese, il bramano, il cristiano greco, il cattolico romano, il cristiano protestante, il cristiano quachero trafficano l’uno con l’altro: nessuno leverà ; il pugnale su altri per guadagnar anime alla propria

religione. Perché dunque ci siamo scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea in poi?3°

Tale diagnosi, che coincide con l’approfondimento della questione tolleranza negli scritti voltairiani degli anni Sessanta, presuppone il venir meno della fiducia nel dispotismo illuminato (di Federico II, in particolare) che il filosofo francese nutre fino

agli inizi degli anni Cinquanta. Egli agisce e scrive in una Francia toute catholique e fanaticamente intollerante, segnata dalla persistenza dell’assolutismo d’ancien régime, personificato da Luigi xIV e fondato sulla santa alleanza con i dogmi della Chiesa cattolica. Perciò, la battaglia contro l’infàme che si identica nel rifiuto di un dispotico apparato di Stato, alleato del potere secolare e del fanatismo intol-

lerante. Per raggiungere tale finalità è necessario stringere alleanze più estese di quelle assicurate dal circolo intellettuale della capitale, conquistando al

parti philosophique il consenso dell’opinione pubblica. Dalle argomentazioni di Bayle e di Locke il stoire, depuis Charlemagne jusqu’àè Lowis xt, Genève, Cramer, 1756, tr. it. di M. Minerbi, prefazione di M. Pavan, Milano-

Novara, Edizioni per il Club del libro 1967, cap. cLwxaxviI, vol. IV (1967), pp. 319-320; Cap. CXL, vol. m (1967), p. 311; ID., Dic-

tionnaire philosophique portatif (1764), tr. it. in ID., Scritti filosofici, a cura di P. Serini, Bari, Laterza, 1972, ad vocem «Athéisme», vol. II, p. 58. 36 m., Dictionnaire philosophique portatif, cit., vol. 1, p.

507. L'argomentazione è già matura nelle Lettres ii ques ((1733-1734), in n., Scritti politici, a cura di R. Fubini, Torino, Utet, 1964 (sixième lettre), p. 234.

115

Traité sur la tolérance non mutua il solido e rigoroso impianto teorico. Esso ha, invece, il pregio del-

l'ironia e dell’immediatezza polemica, introdotta per denunciare l’anacronismo storico dell’intolleranza, di una vera e propria malattia dello spirito umano, tipico di un’età di barbarie, non più tollerabile dall'uomo moderno che ha scelto di fare buon uso della propria ragione. E, non a caso, Voltaire scrive sull'onda dell’impressione suscitata dall’orribile quanto ingiusta esecuzione di Jean Calas, un ugonotto di Tolosa, reo di aver assassinato il figlio che intendeva convertirsi al cristianesimo; un reato

cancellato, poi, dalla sentenza del Consiglio del re,

nel 1764, cui seguirono l'annullamento della con-

danna, la riabilitazione della memoria del presunto colpevole e l'assoluzione dei familiari dall’accusa di complicità. Già l'esito della vicenda mostra che la persecuzione e la violenza contro singoli cittadini in nome di un’assoluta ragione vera produce conseguenze nefaste. Gli errori diventano reati quando

alterano l'equilibrio della vita sociale, violentata dal fanatismo e dallo zelo persecutorio che sono la vera e propria eresia, in cui, per secoli, «ci siamo stermi-

nati per dei paragrafi»37. L'intolleranza è generata dal fanatismo, a sua volta radicato nella superstizione, inseparabile dal dogma e inversamente proporzionale alla religione, «come l'astrologia, figlia pazza d'una madre saggia, sta all'astronomia». Perciò,

la riflessione sulle conseguenze giuridiche del caso - descritto nel capitolo 1 dell’opera — trascende subito le circostanze che l'hanno provocato. Diventa, infatti, un affare d’«interesse del genere umano», inscrivendosi in una generale ridefinizione dei rapporti tra politica e religione, in una più ampia ma non generica riflessione sulle origini storiche e giuridiche della tolleranza (capitoli rv-vi), disposta, infine, a mostrare che la convivenza di diverse fedi 97 1p., Traité sur la tolérance (1763), in m., Scritti filo-

sofici, cit., vol. 1, pp. 376-378, 399.

116

religiose in uno Stato non è fonte di disordini o di guerre se regolata nei limiti di “giuste leggi”: Il furore ispirato dallo spirito dogmatico e dagli abusi della religione cristiana mal intesa ha fatto spargere tanto sangue

e prodotto tanti disastri in Germa-

nia, in Inghilterra e persino in Olanda quanti in Francia; tuttavia, oggi, in quegli Stati, la differenza delle confessioni non causa nessun torbido: l’ebreo, il cattolico, il luterano, il calvinista, l’anabattista, il sociniano, il mennonita, il fratello moravo e tanti altri vivono come fratelli e contribuiscono egualmente al bene comune. Non si teme più in Olanda che le dispute di un Gomar sulla predestinazione faccian tagliare la testa al grande pensionario. [...] In breve, la tolleranza non ha mai provocato una guerra civile, mentre l’intolleranza ha coperto la terra di eccidi. [...] Quanto più le sètte sono numerose, tanto meno ognuna di esse è pericolosa. La molteplicità le indebolisce; tutte sono contenute da giuste leggi che vie-

tano le assemblee tumultuose, le ingiurie, le sedizioni, e che vengon sempre fatte valere con la forza della coazione.

Ripercorrendo la storia dell’intolleranza occidentale, dalle «false leggende» sui martiri cristiani — condannati per ragioni politiche — fino alle persecuzioni contro le sette nell’età della Riforma protestante (capitoli 11-x1), la polemica si volge contro le

forme istituzionalizzate del cristianesimo, la religione che, contro il comandamento dell'amore, ha dif-

fuso solo guerre e violenze con la forza del dogmatismo teologico: Lo dico con orrore, ma la cosa è vera: noi cristiani siamo stati persecutori, carnefici, assassini! E di chi? Dei nostri fratelli. Noi, con il crocifisso o la Bibbia in mano, abbiamo distrutto cento città, e non abbiamo smesso di versare sangue e di accendere roghi, dal regno di Costantino sino ai furori dei cannibali delle Cevenne38.

35 Ivi, pp. 467, 378, 387-388, 393, 394, 420. Tg,

All’intollerante

superstizione causata dalla

religione cristiana Voltaire oppone l’«estrema tolleranza degli ebrei». Nei capitoli xn e xm dell’opera, pur mostrando l’arretratezza e l'ignoranza del giu-

daismo per i «castighi temporali» della legge mosaica, ne rivaluta, tuttavia, l'adesione spontanea all’idea di una religione “naturale”, non dogmatica,

indulgente con i culti stranieri e vivente in una «felice [...] contraddizione che reca con sé miti costu-

mi, quando si hanno leggi di sangue». Con ciò l’argomentazione si fonda sulla rivalutazione storica dell'Antico Testamento nella sua autonomia dal Nuovo e sulla moderna critica biblica, trasformata in vera e propria arma della polemica politica con-

tro il potere ecclesiastico. Questo nasce da un’erra-

ta lettura del messaggio di Cristo, piegato alla necessità imposta ai popoli di garantire il diritto della Chiesa cattolica, di praticare l'Inquisizione e perseguire la conversione degli eretici anche con mezzi violenti. Nel capitolo xIV («Se l'intolleranza sia stata insegnata

da Gesù

Cristo»)

si commenta,

respin-

gendola, la celebre interpretazione agostiniana della parabola evangelica di Luca come esortazione

alla coazione in materia di religione. Il compelle intrare è, invece, l’espressione autentica di una preghiera a favore della reciproca indulgenza e benevolenza tra gli uomini: Si è sin troppo abusato delle parole: ‘Costringili a entrar; ma è evidente che un solo servitore non può

costringere con la forza tutti coloro in cui s'imbatte a recarsi a cena dal suo padrone. D'altra parte, dei convitati costretti in questo modo non renderebbero molto piacevole la cena. ‘Costringili a entrar’ significa semplicemente, secondo i commentatori più accreditati: ‘Pregate, scongiurate, insistete, ottenete!” Che rapporto c'è, vi domando, tra questa preghiera e la cena e la persecuzione ?39

99 Ivi, pp. 438, 439, 440, 441, 442. 118

Nel quadro dell’insistente richiamo a una religione “naturale” non dogmatica né violenta si esprime in una teorizzata pratica morale e razionale

che richiede agli uomini di essere giusti e indulgenti, al punto di riconoscere il valore della tolleranza

anche al di fuori del mondo cristiano. Se cadono i dogmi delle singole sètte, la tolleranza — come titola il capitolo xxl dell’opera — è universale, disposta, cioè, ad accettare le diversità dei culti contro tutte

le religioni storiche produttrici di violenta intolleranza: Non ci vuole una grande arte, né un’eloquenza molto ricercata per provare che i cristiani debbono tollerarsi a vicenda. Dirò di più: vi dirò che bisogna considerare tutti gli uomini come nostri fratelli [...]

tutti figli dello stesso padre e creature dello stesso Dio. [...]. O seguaci d'un Dio clemente, se aveste un cuore crudele; se, pur adorando Colui la cui leg-

ge sta tutt'intera nelle parole: ‘Amate Dio e il vostro prossimo’, aveste sommerso questa legge pura e santa sotto sofismi e dispute incomprensibili; se aveste attizzato la face della discordia, ora per un vocabolo di nuovo conio ora per una sola lettera dell'alfabeto; [...] io vi direi, piangendo sul genere umano: ‘Trasportatevi insieme con me nel giorno in cui tutti gli uomini saranno giudicati, e Dio rimunererà ognuno

secondo le opere sue’.

Qui, il recupero latitudinaristico di un ampio

assetto pluralistico delle credenze si coniuga con un cosmopolitismo, fondato sull’accertabile fondo naturale comune che rende gli uomini uguali, con-

trassegnati da un costitutivo interesse alla vita giuridico-politica. La tolleranza si trasforma, allora, nell'affermazione di un diritto essenziale all'umanità, di un primo principio della legge di natura a fondamento di tutti i diritti umani. L'insistente richiamo

alla condizione di “fraternità” assume, in questo contesto,

un significato tutto nuovo

e concreto

per

4° Ivi, pp. 473, 476. 119

il valore tipicamente illuministico di una vita in comunità, condivisa da chi rifiuta la concezione teolo-

gica e dogmatica della religione e la riconduce alla giustizia, alla scoperta della reciproca pietas, fondata sul rispetto di tutte le opinioni. Così, la battaglia per la tolleranza, trasferita dal piano etico a quello politico, non sottende più un significato negativo come concessione o sopportazione del diverso. Assume, invece, un valore in sé e per sé positivo, in

quanto cardine dell’azione politica e dell'autorità civile, il punto d’approdo di tutta la teoria voltairia-

na dello Stato: [...] Perché un governo non abbia il diritto di punire gli errori degli uomini, è necessario che questi errori non siano delitti; tali essi sono quando turbano la società, e turbano la società appena ispirano il fanatismo. Per meritare la tolleranza, bisogna, quindi, che gli uomini comincino col non essere fanatici. [...] Osiamo credere, a onore del secolo in cui viviamo, che non vi sia in tutta Europa un solo uomo illuminato che non consideri la tolleranza come un diritto di giustizia; un dovere prescritto dall’umanità, dalla coscienza, dalla religione; una legge necessaria

alla pace e alla prosperità degli Stati.

Per tutto ciò, nel conclusivo capitolo xxni, la «preghiera a Dio», all'essere lontano e inattingibile, eppure garante di una rinnovata humanitas, è tutta giocata sul riconoscimento della radicale disparità tra l'ordine perfetto dell’universo e la debole, incostante finitezza delle «creature, sperdute nell’immensità e impercettibili dal resto dell’universo», ma invitate

a riconoscersi

e a rispettarsi

anche

nelle

«piccole differenze» di lingua, usanze, leggi e opinioni, non più «segnacoli di odio e di persecuzione»4. «Che cosè la tolleranza? — si chiede Voltaire

4 Ivi, pp. 460, 477 e l'«Avvertimento degli editori» delle Opere di Voltaire, a Kehl tra il 1784 e il 1789, ora in voLTa-

IRE, Trattato sulla tolleranza, prefazione di S. Veca, tr. it. e cura di L. Bianchi, Milano, Feltrinelli, 1996*, p. 25. 120

nel Dictionnaire — È il retaggio dell'umanità. Noi

siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre corbellerie, è la prima legge di natura. [...] La discordia è il flagello del genere umano e la tolleranza ne è il solo rimedio. [...] Ma è più evidente ancora che ci dobbiamo tollerare a vicenda, perché siamo tutti

deboli, incoerenti, soggetti all’incostanza e all’errore»4. Quanto tale originale posizione di intransigente antidogmatismo, fondata su un’acuta sensibi-

lità filosofica (tipicamente settecentesca) per la storia dell'umanità, sia stata in grado di trasmettere una significativa eredità, lo mostra, nella matura cultura illuministica europea, l'impegno di Jean-

Edme Romilly (1739-1779). Nell’articolo del 1765 per l’Enciclopedia, il richiamo ai «principi universali della tolleranza e dell'umanità» rende esperti i lettori delle tesi di Voltaire e Rousseau, di Bayle e Montesquieu,

commentate

per mostrare

la signifi-

| cativa dilatazione teorica della parola chiave tolle-

ranza in un senso civile e pratico, corrispondente al definitivo ridimensionamento della dimensione religiosa-ecclesiastica: La tolleranza è in generale la virtù di ogni essere debole, destinato a vivere con esseri simili a lui. L'uomo, nonostante la sua grande intelligenza, è così limitato dai suoi errori e passioni, che non è mai

troppa la tolleranza e sopportazione che gli si infonde riguardo agli altri, e della quale ha tanto bisogno per se stesso, e senza la quale non vi sarebbero sulla terra che disordini e discordie [...]. Se tutti gli uomini, adottando i nostri principi, [...] deponendo le loro ostinate convinzioni, si spingessero fino ai confini del mondo per comunicarsi in pace sentimenti e opinioni, pesarli imparzialmente nella bilancia del dubbio e della ragione, non credete invece che, nel silenzio unanime delle passioni e dei pregiudizi, si vedrebbe la verità riprendere i suoi diritti, ampliare

4 Dictionnaire philosophique portatif, cit., ad vocem «Tolérance», vol. Il, pp. 507, 511, 514.

121

insensibilmente il suo potere, e le tenebre dell’errore svanire e fuggire davanti a lei, come ombre lievi che scompaiono all’approssimarsi della fiaccola del giorno? [...] Dunque non si giungerà mai al punto cruciale della questione, se non si distingue anzitutto lo Stato dalla Chiesa, e il prete dal magistrato. [...] In effetti la salvezza delle anime non è affidata al magistrato dalla legge rivelata, né dalla legge naturale, né dal diritto politico. [...] Noi sosteniamo la tolleranza pratica e non quella speculativa; e ben si capisce quale differenza corre tra il tollerare una religione e l’approvarla. Rimandiamo i lettori curiosi di approfondire questo argomento al Commentario

filosofico di Bayle, ove, secondo noi, quel genio ha superato se stesso43.

Alla fine del Settecento, la questione della pratica religiosa si ripropone in Europa con urgen-

za e in forme nuove, in vista, cioè, di una non più

rinviabile riforma sociale ed economica, in uno spazio politico nuovo, quello dello Stato moderno, fondato su una garanzia costituzionale. Alla tolleranza come disponibilità a rispettare culti religiosi diversi da quello dominante si sostituisce progressivamente la pratica di un diritto alla libertà religiosa in una società segnata dalla separazione di Chiesa e Stato e dal pluralismo dei culti, coerente con il carattere non confessionale dell’auctoritas civile. È in tale contesto che maturano, com’è noto, le solenni «Di-

chiarazioni» dei diritti (1776) in America e, nel 1789, in Francia. Raccolta l'eredità dell’illumini-

smo, gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità della rivoluzione d'oltralpe ne portano a compimento il disegno fondamentale, rivendicando, nel preambolo, «i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo» di pensiero e di pubblica opinione, non 4 ]. E. ROMILLY, Tolérance (1765), in Encyclopédie, ou

Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une société de gens de lettres. Mis en ordre et publié par M. Diderot [...], et quant à la partie mathématique, par M. d’Alembert [...], vol. xvi, Paris, Briasson-David-Le Breton-Du-

rand, 1751-1765, tr. it di P. Casini, Bari, Laterza, 1968, pp. 900, 908, 911, 915-916.

122

senza annoverare il principio della libertà religiosa come «legge scritta», recepita dall’articolo 10 della Dichiarazione dell’uomo e del cittadino (1789): Nessuno deve essere molestato a causa delle sue opinioni, anche religiose, purché la professione che ne fa non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge*4.

Introdotta nella costituzione dello Stato mo-

derno, la parola tolleranza conosce attualità ed efficacia, perché si traduce nel principio giuridico di libertà. Essa cessa di essere la conseguenza di una pace religiosa o di un editto concesso o imposto da un sovrano,

per diventare

un vero e proprio diritto

dell’uomo-cittadino a perseguire i suoi fini nella civitas, sottratta alle violenti

e dogmatiche influenze

della teologia tradizionale e della giurisdizione ecclesiastica. Se l'antico ideale virtuoso della temperanza tollerante dell'errore altrui presuppone una verità teologica, unica e assoluta, c'è nel moderno diritto un atteggiamento attivo di comprensione che anche del contemporaneo scetticismo relativistico è disposto a condividere tutte quelle motivazioni che non sfociano in una passiva indifferenza.

A emergere nell'uomo è, soprattutto, la fiducia nella propria e altrui ragionevolezza a perseguire gli interessi personali alla luce di quelli generali. Non più individui religiosi tollerati, ma cittadini e soggetti politici attivi; non più richieste di “tolleranza”

ma diritti naturali alla libertà di pensiero e di religione, inalienabili e da riferire a tutte le confessioni, non più concessi ma giuridicamente riconosciu-

ti. La moderna costituzione non “tollera” la libertà dei cittadini, perché la garantisce con la solennità della lex. L’inclusione dell’antica virtus della tolle44 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, proclamata dall’Assemblea nazionale francese (26 agosto 1789), in TH. PAINE, I diritti dell’uomo e altri scritti politici, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 186.

123

ranza tra i diritti costituzionalmente garantiti, la rende in qualche modo superflua. E, infatti, il di-

battito politico-culturale di fine secolo giunge, con Victor Riqueti de Mirabeau (1715-1789), nel 1789,

alla critica e all’erosione della stessa parola-chiave: Io non vengo a predicare la tolleranza», perché «la più illimitata libertà di religione è per me un diritto così sacrosanto, che la parola tolleranza, che vorrebbe esprimerlo, mi sembra sia, in qualche modo, tirannica essa stessa. [...] L'esistenza dell’autorità che ha il potere di tollerare attenta alla libertà di pensiero pel fatto stesso che essa tollera, e che dunque potrebbe non tollerare#.

Limiti alla vecchia idea di tolleranza, questi,

denunciati anche da Thomas Paine (1737-1809) a

proposito della Costituzione francese del 1791, che, riconoscendo diritti universali, rende vana ogni tradizionale aspirazione: La Costituzione francese ha abolito e ripudiato insieme la tolleranza e l'intolleranza, ed ha istituito il diritto universale di coscienza. La tolleranza non è l'opposto dell’intolleranza, bensì il suo travestimento. Entrambe sono dei dispotismi. L'una si arroga il diritto di togliere la libertà di coscienza, e l’altra di concederla. L'una è il papa armato di torce e fascine, e l’altra è il papa che vende o concede indulgenze. La prima è Chiesa e Stato, e la seconda è Chiesa e commercio#5,

È significativo che, dopo la rivoluzione francese, non si discuta più di “tolleranza” anche in

Olanda. Qui viene definitivamente chiusa la cosiddetta “guerra socratica”, ispirata ai toni fondamen45 H.-G. DE RIQUETI MIRABEAU, Sur la liberté des cultes, séance du 22 aott, in 1D., Euvres, vol. vi. Discours et opinions,

Paris, Brissot-Thivars, 1825, tr. it (parziale) in Discorsi alla Costituente, Torino, Gheroni, 1946, p. 37. 4 TH. PAINE, The Rights of Man (1791-1792), tr. it. in

Ip., I diritti dell’uomo e altri scritti politici, cit., p. 162. 124

tali del Traité di Voltaire e dichiarata, nel 1768, da Jean-Frangois Marmontel (1723-1799) con l'elogio

nel suo Belisaire (tradotto e pubblicato ad Amsterdam) della tolleranza civile e religiosa, incarnata

nel virtuoso eroismo pagano di Socrate e opposto al tradizionale primato teologico della rivelazione cristiana, difesa dalla reazione del calvinismo. Le violente riserve del teologo e storico dell’Accademia di Rotterdam, Petrus Hofstede e del suo The Belisarius Judged (1769), assicurano un iniziale successo

e impeto alla polemica antisocratica, annoverando Marmontel tra i pericolosi “pelagiani naturalisti”47. Alla fine del secolo, la rivoluzione batava chiude definitivamente la lunga battaglia tra patrioti e orangisti, trasformando la lotta per la mutua christianorum tolerantia nella moderna rivendicazione dell’eguaglianza dei diritti umani e nella risoluta

abolizione dei tradizionali privilegi politico-ecclesiastici. È quanto testimonia la celebre dichiarazione

‘del 1795 che precede di un solo anno la formale

proclamazione della separazione tra Stato e Chiesa, il riconoscimento dei diritti civili agli ebrei, nonché lo Staatsregeling del 1798, la prima costituzione che nessuna attenzione riserva alla materia religiosa, ammettendo l’implicita eguaglianza di tutti i cittadini protestanti e romano-cattolici#8. Nella moderna cultura europea anche l’esperienza olandese mostra che la storia della parola-chiave Tolleranza si conclude con lV’illuminismo. Alla consolidata affermazione del diritto positivo e delle costituzioni nazionali come sistema di

garanzie interne allo Stato non partecipa la vecchia 47 Sui contenuti e le fasi di questa controversia -

presso-

ché sconosciuta alla storiografia italiana - si veda ora il documentato contributo di E. VAN DER WALL, Toleration and Enlightenment in the Dutch Republic, in Toleration in Enlightenment Europe, edited by O.P. Grell and R. Porter, Cambridge, climi

| Press, 2000, pp. 114-132.

4 Ivi, pp. 116, 127. Cfr. E. H. KossMann, The Low

Countries.

1780-1940, Oxford, University Press, 1978, pp. 82-

102. 125

polemica religiosa con la relativa questione della repressione della tolleranza. La battaglia fondamentale diventa quella per la moderna libertà, sollecitata dai grandi dibattiti che si aprono tra Ottocento e Novecento

sulle nuove

religiose dell’indipendentismo,

esperienze politico-

conseguenti

alla

conquista coloniale o alla lotta razziale: un orizzonte di temi e di problemi che impegna, però, riflessioni da estendere ben oltre il limitato raggio d’azione di queste pagine.

126

Bibliografia

Considerata l'ampiezza del contesto filosofico, giuridico, politico, religioso e storico della “parola chiave”, questa bibliografia non contiene saggi o volumi sui singoli autori, bensì si limita a segnalare studi di carattere generale ma non generico e lavori monografici sulle tematiche privilegiate.

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Glossario

Adiaphora argomenti di riflessione non necessari alla salvezza e, perciò, oggetto di libera e tollerante discussione. Anabattismo

Braccio secolare è il potere della Chiesa di rendere esecutivi i provvedimenti dei tribunali ecclesiastici e di applicarne le pene.

movimento

religioso che, sorto nella Riforma protestante, nega validità al battesimo dei neonati. Antitrinitari coloro che negano la dottrina della trinità e difendono l’unità divina.

Apologetica cristiana parte della teologia che esalta il carattere di verità rivelata dei

principi e dei dogmi del cristianesimo.

Arminiani/Rimostranti seguaci del

Cesaropapisti sovrani che esercitano la propria autorità in campo spirituale e civile, richiedendo l’osservanza di norme ai sudditi anche in quanto

appartenenti

a una

confessione religiosa. Concordia ideale di vita e di pensiero di alcuni cattolici riformisti e protestanti della seconda metà del Cinquecento che auspicano la riunificazione di tutti i fedeli nel cor-

pus unitario del cristianesi-

(arminianesimo)

mo.

teologo Jacobus Arminius contrari alla dottrina calvinista della predestinazione e osteggiati dai gomaristi (controrimostranti, seguaci del teologo Gomaer) nel sinodo di Dordrecht (1618).

«Cuius regio eius religio» principio — coniato alla fine del Cinquecento — secondo cui la confessione religiosa di ciascuno degli Stati tedeschi diventa l’unica religione legittima.

Baccanali riti notturni per iniziati (aperti in origine solo alle donne), celebrati a Roma in onore di Bacco.

Decretali norme emanate dal pontefice nell'esercizio del suo potere legislativo.

139

Decretalisti giuristi medievali, glossatori e commentatori, che succedono ai decretisti nello studio delle fonti canonistiche posteriori al Decreto di Graziano.

Decretisti giuristi che, pri-

Donatisti seguaci del movimento religioso, fondato da Donato, predicatore del Iv secolo d.C., per esaltare il martirio e respingere qualsiasi compromesso sulla fedeltà

alla disciplina. Tra il Iv e il v secolo coltivano istanze socia-

ma dell’avvento del Liber Extra di Gregorio IX (1234), privilegiano come oggetto di studio il Decreto di Graziano.

li e politiche, al punto da es-

Deismo concezione di origine inglese, sviluppatasi tra Seicento e Settecento, che, prescindendo da qualsiasi rivelazione, rifiuta delle religioni storiche tutto ciò che non si accorda con la ragione naturale.

compiute

sere, poi, perseguitati come eretici.

Dragonate persecuzioni

Diritto canonico è l’insieme delle norme stabilite dalla

Chiesa cattolica per disciplinare la propria attività e regolare le relazioni intraecclesiali e quelle con la società

Empietà atteggiamento ir-

religioso di chi non solo non pratica un culto, ma si vanta di ciò a disprezzo di ogni forma di religione; nella teologia cat-

tolica l'empio è privo di grazia, perché caduto in peccato mortale. Erastianesimo

dottrina

princìpi anteriori a ogni leg-

che attribuisce la direzione della Chiesa al potere civile; essa prende nome dal teologo svizzero-tedesco, Th. Lieber (1524-1583), che grecizzò il

ge positiva e di questa nor-

suo cognome in Erastus.

esterna.

Diritto naturale designa i

mativi, derivati, a seconda delle concezioni, dalla volontà divina, dall’istinto comune a tutti gli esseri animati o dalla ragione costitutiva dell’uomo. Dogma indica un principio certo e una verità definitiva, inconfutabili da ogni autonoma sione.

140

contro i calvinisti

francesi dai “dragoni” dell’esercito di Luigi xIV.

riflessione o discus-

Fresia è, letteralmente, una scelta unilaterale, una deviazione da un complesso di verità rivelate e, in particolare, dall'ordine dottrinale della Chiesa. Nel movimento ereticale dell’x1 secolo si distingue l'eresia catara, fondata sul dualismo assoluto di bene e male con una rigida pratica ascetica, perseguita

dai seguaci, detti anche buoni cristiani”. Fanatismo

adesione

«

“i

in-

condizionata ed entusiasta a

un'idea o a una fede che implica la più assoluta intolleranza dell'opinione altrui.

Idolatria culto fondato sull’adorazione di immagini, simulacri o astrazioni, separati dalla realtà concreta e dalla ragione umana, per dar vita a un processo conoscitivo alter-

nativo, fonte di possibili pregiudizi. Irenismo movimento che lavora per la riunione delle varie confessioni nella Chiesa di Roma alla luce di condivisi articoli di fede

Latitudinarismo corrente di pensiero nata nell’anglicanesi-

mo anglosassone del secolo xvI che, in religione, mira a favorire l'accordo sugli argomenti fondamentali della fede e giudica possibile la tolleranza sugli altri aspetti, considerando legittima la molteplicità di dottrine teologiche nelle diverse confessioni.

Libero arbitrio la libertà di decidere in merito a una volizione o a un’azione indipendentemente da qualsiasi movente.

Mennoniti membri di una setta anabattista, fondata dal riformatore olandese del se-

colo xvi, Menno Simonsz, sostenitori della libertà di coscienza, antischiavisti e contrari al servizio militare.

Nicodemismo denominazione tratta dalla figura evangelica di Nicodemo, per indi-

care una pratica religiosa attenta a disciplinare la vita esteriore di una confessione,

contrastante con quella perseguita interiormente nella coscienza.

L'espressione fu

utilizzata da Calvino per dissimulare l'atteggiamento di quei sostenitori ufficiali della Riforma che, in segreto, aderivano al cattolicesimo. Ortodossia convinta adesione ai principi e alle regole di una professione di fede, in particolare, alle regulae dei

primi sette concili ecumenici, nonché alla teologia e alla prassi ecclesiale e liturgica del I millennio. Padri della Chiesa scrittori cristiani dei primi secoli (dell'epoca patristica), dotati di comprovata ortodossia e santi-

tà di vita, confermate dall’approvazione ecclesiastica.

Predestinazione indica, nel Nuovo Testamento, la decisione con cui Dio dall’eternità ordina gli eletti alla salvezza. Probabilismo dottrina filosofica (nata nell’antica Accademia) che, nell’impossibilità

141

di raggiungere il vero, accredita l'opinione più probabile; in età moderna è fatta valere in ambito morale, per decidere a favore della liceità di un’azione anche se la sua ratio appare incerta o dubbia. Scisma separazione dalla Chiesa per ragioni di disciplina o di liturgia, senza divergenze sulle verità essenziali della fede.

Scomunica pena che com-

porta l'esclusione dai sacramenti e dalla pratica liturgica di coloro che hanno peccato in modo scandaloso nella morale o nella fede e non se ne pentono.

sto Sozzini, contrassegnato

dal rifiuto del dogma trinitario e dalla difesa dell'unità di Dio.

Superstizione insieme di formule e riti che, in opposizione alla religione tradizionale, attribuiscono la comprensione della realtà a cause non naturali né razionali. Teocrazia forma di governo in cui il potere politico si identifica con l’autorità religiosa, esercitata da una persona 0 da una casta che si considerano investite direttamente ed esclusivamente da Dio.

Ugonotti appellativo in Secolarizzazione processo

di emancipazione dell’uomo dal controllo 0, comunque, dall'influenza ecclesiastico-religiosa.

Setta libera unione di fedeli che si distaccano dalla Chiesa ufficiale, per condividere e praticare un rigorismo

etico e un radicale egualitarismo in piccole comunità; scelgono di vivere

separati

dal mondo, per essere rigenerati non dall'azione della grazia ma dal restaurato ordine cristiano di vita, fondato sull'amore, premessa e attesa dell'imminente regno di Dio.

senso dispregiativo assunto dai calvinisti in Francia, protagonisti delle guerre di reli-

gione, culminate nella notte di S. Bartolomeo (1572) e negli anni successivi alla revoca dell’editto di Nantes (1685). Zizzania pianta graminacea, comune nei campi e fa-

cile a confondersi col grano; è ricordata nel Nuovo Testamento (Matteo, 13, 24-30,

36-46) dalla parabola in cui Gesù si riferisce a una zizza-

nia particolarmente nociva, emblema dell’errore e del male, impossibile, perciò, a

estirparsi senza ledere il graSocinianesimo

(sociniani)

prende nome da Lelio e Fau142

no cui è legata in un inestricabile groviglio.

Indice

Premessa

Tolleranza in età antica? Dalla virtù della tolleranza alla libertà di religione: verso Spinoza Il primato dell'Olanda di Sei-Settecento e la lezione di Locke

Da Barbeyrac a Voltaire, dalla «tolleranza» alla «rivoluzione» 127

Bibliografia

139

Glossario

143

Parole chiave della filosofia

MAURIZIO FERRARIS, Ontologia, 2003

GIUSEPPE ACOCELLA, Etica sociale, 2003

ROSSELLA BONITO OLIVA, Soggettività, 2003 GIOVANNI CASERTANO, Morte, 2003 EMILIA D'ANTUONO,

Bioetica, 2003

ENRICO BERTI, Filosofia pratica, 2004 GIOVANNI CASERTANO, Sofista, 2004 ELIO MATASSI, Musica, 2004

PIO COLONNELLO, Melanconia, 2004

Finito di stampare dalle Arti Grafiche «Il Cerchio» - Napoli

aprile 2005

Fabrizio Lomonaco Tolleranza

La parola chiave in questione è stata ripensata privilegiando la cultura storico-filosofica olandese del Sei-Settecento, nella lunga e complicata fase di transizione dalla virtus della tolleranza alla codificazione del diritto di libertà religiosa nelle rivoluzioni americana e francese di fine secolo XVIII. Prospettive ireniche ed “ecumeniche” di vario orientamento, proposte di tolleranza civile ed ecclesiastica, rivendicazioni di libertà di coscienza si collocano al centro di alcuni incroci tematici privilegiati: il pluralismo religioso e le ragioni individuali della fede; l’esistenza della “verità” e i temi dell’“evidenza”, della “credenza”, dell’“errore”; i diritti dell'autorità secolare circa sacra

e la definizione dei compiti e dei limiti del governo della Chiesa; il rifiuto dello Stato confessionale e, in generale, dell’uso della forza nei “movimenti” della coscienza umana. Fabrizio Lomonaco (1959) è professore ordinario di Storia della Filosofia dell’Illuminismo e di Storia della Storiografia Filosofica nell’Università degli Studi di Napoli “Federico Il”. Le sue ricerche si sono concentrate sulla cultura storico-filosofica dell’Europa di Sei-Settecento con saggi e monografie su Grozio e Perizonio, Noodt e Barbeyrac, Gravina e Vico, Pagano e Bertòla, Herder e Kant. Oltre a vari interventi in riviste e Atti di convegni nazionali e internazionali, nel 1999 ha pubblicato la monografia su 7olleranza e libertà di coscienza. Filosofia, diritto e storia tra Leida e Napoli nel secolo XVIII.

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