L'approdo della letteratura. Percorsi della narrazione da Dante a Game of Thrones
 8843092707, 9788843092703

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LINGUE E LE TTERATURE CARO CCI

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Gian Mario Anselmi

L'approdo della letteratura Percorsi della narrazione da Dante a Game ofThrones

Carocci editore

A miafiglia Laura

I• ristampa, febbraio 2020 I• edizione, maggio 20I8

©copyright 20I8 by Carocci editore S.p.A., Roma Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 19 41, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

7

I.

Dante, l ' Umanesimo e l 'origine di una grande utopia

II

2.

Saggezza etica e suggestioni filosofiche tra Boiardo e Ariosto

21



Metafora, metamorfosi e conoscenza nel Rinascimento

41



Machiavelli e l'evidenza del vedere

69

Scrittura politica, riso e autoironia nell'epistolario machiavelli ano

77

6.

Guicciardini testimone e storico

89



Le istituzioni barocche tra saperi e ordinamenti

101

Il gioco della letteratura. Radici umanistiche e narrazioni del terzo millennio

III



8.

Indice dei nomi

Introduzione

Da qualche tempo scrittori, critici, docenti, uomini di cultura si interroga­ no sulla letteratura e sulla cri tica che l'accompagna da sempre. Il disagio sta crescendo : la letteratura non sta forse perdendo i territori che da O mero in poi, almeno nel mondo occidentale, la ponevano per molti versi ai vertici dei saperi e delle pratiche di conoscenza ? La critica letteraria non è forse in crisi profonda, attanagliata da un ' autoreferenzialità disarmante, incapace di dibattere del suo "oggetto" con nuove categorie e strumenti ? In Italia la questione è ancor più paradossale, perché qui lo strabismo concettuale diviene più eclatante rispetto ad altri paesi : in ogni ordine sco­ lastico la materia "italiano" è solidamente presente, eppure ciò non basta per evitare che il numero di lettori continui a calare, che la padronanza della lingua madre (come da tanti denunciato) raggiunga i minimi storici e che la frattura tra giovani generazioni e "letture ben fatte" (per dirla con un celebre saggio di Steiner ), specie dei classici, sia sanzionata in modo ir­ reversibile, almeno in apparenza. Se pensiamo poi al latino e al greco, credo che le percentuali siano impietose. In Italia, paese della cultura classica per eccellenza, non solo la conoscenza di queste lingue è propria di una esigua minoranza, ma resta minoritaria anche una conoscenza non banale di quel­ la straordinaria fase storica e culturale da cui attingiamo le nostre antiche radici identitarie. La questione in realtà riguarda tutti i paesi occidentali : i dati sulle com­ petenze linguistiche sono drammatici persino nei paesi anglofoni. D 'altro canto, che in altri paesi si legga di più è un dato che andrebbe disaggregato : si legge di più che in Italia perché vi è una maggiore tradizione di letteratura "popolare" di buon livello, che da noi ha sempre attecchito con fatica e che, quando produce esempi riusciti, amplia anche qui la platea dei lettori (cito a caso fra gli esempi degli ultimi anni : Lucarelli, Saviano, Manfredi, Ferrante, Camilleri ... ). Se ci volgiamo invece ai classici delle varie letterature, il qua­ dro diventa più grave che in Italia : negli Stati Uniti e persino in Inghilterra 7

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

riuscire a leggere Shakespeare "in originale" è appannaggio di una minoran­ za di studenti e di cittadini; infatti per avvicinarlo fioriscono adattamenti, riassunti, "traduzioni", serie TV e film, persino fumetti. Torniamo dunque alla domanda che ci eravamo posti in principio: dov 'è "finirà' la letteratura? Ha perso, come pare, la sua rilevanza sociale a scapito di altri saperi ritenuti ben più idonei a cogliere la realtà e a viverla ? Ovve­ ro - e qui torna l 'eterna domanda, che oggi però non può essere più evasa con snobistica insofferenza "alla Petrarcà' - a che "serve" ormai la letteratura? Fare spallucce a queste domande vuoi dire, da parte soprattutto di cri­ tici e docenti, aver già perso la battaglia. Sarebbe più produttivo ( se proprio si vuole ricorrere a una risposta non scontata di qualche classico) comin­ ciare allora a rileggere la Dejènce ofPoetry del grande Shelley, composta in pieno Romanticismo, o accedere ad alcune geniali dispute sul senso dello scrivere e dello stile degli illuministi (un libro fondamentale in proposito venne redatto dal nostro Cesare Beccaria ) o ripercorrere con occhio non convenzionale il senso vero e profondo del dibattito fra Pasolini e Calvino, punto altissimo dell'ermeneutica non solo italiana del secondo dopoguer­ ra, o finalmente riaprire con passione i Quaderni di Gramsci, laddove si determinano con analisi lucidissime e oggi più che mai pertinenti le linee di una modernissima "sociologia letteraria" particolarmente attenta ai ge­ neri "popolari" e al tempo stesso in rilettura non banale dei grandi classici moderni ( Machiavelli, Manzoni ) . Per non parlare delle geniali risposte di alcuni filosofi padri del pensiero contemporaneo, da Nietzsche in appren­ distato sulla "gaia scienzà' dei trovatori a Heidegger in esemplare esercizio ermeneutico attraverso la lettura di Holderlin. Il problema coinvolge tutte le cosiddette humanities, non solo la lettera­ tura : le pratiche tecnologiche e tecnocratiche, lo sviluppo del pensiero scien­ tifico, il moltiplicarsi di professionalità specialistiche, con le connesse dina­ miche lavorative, hanno come perimetrato in territori più angusti il dominio delle scienze umane tutte. Eppure, nonostante ciò, ogni risposta apocalittica o cinicamente scettica va rigettata. lnnanzitutto il rimescolamento dei saperi e delle loro gerarchie è fatto ovvio nella storia umana : che la letteratura soffra oggi di una concorrenza formidabile, ad esempio sul terreno dell'immagina­ rio, da parte di nuove forme narrative e poetiche veicolate da dispositivi altri rispetto al "libro" (cinema, televisione, internet, social, musica pop ) è incon­ testabile ed è un fenomeno tanto crescente quanto inarrestabile. La soluzione non è rifugiarsi in una sorta di lode dei tempi passati e della "carta stampata". Occorre capire se davvero la letteratura ha perso terreno o se invece, in un prorompente e inedito ( almeno in queste dimensioni ) "pat8

INTRODUZIONE

to finzionale" col pubblico (quello che nominiamo, nell 'ultimo capitolo, traendo i termini da una popolarissima serie TV, il "gioco della letteratura"), ne ha paradossalmente guadagnato laddove, a prima vista, a noi "specialisti" non pare, tutti presi come siamo dai nostri microstudi narcisistici e sovente inutilmente eruditi. Questo è il punto che affronto nel presente volume, in particolar modo nell'ultimo capitolo, a cui rimando. La letteratura in realtà si è insinuata nel territorio "barbaro" (termino­ logia cara a Baricco) e lo ha praticamente "reinventato" : ad esempio, nes­ suna delle migliori serie televisive prodotte negli ultimi anni e di grande presa popolare potrebbe essere compresa né se ne spiegherebbe il successo globale se non si tenesse conto che la loro struttura portante decisiva è data dalle straordinarie "sceneggiature" (opera di validissimi autori) ovvero dalla "scrittura" drammaturgica che le caratterizza in modo peculiare e che deriva integralmente dalla migliore tradizione dei grandi classici della letteratura (Dante, Machiavelli, Shakespeare, Stevenson, Dumas, Tolstoj e così via). La letteratura vive in molte forme tradizionali (soprattutto attraverso la pratica crescente di lunghi romanzi e la fortuna continua di generi sempre più perfezionati come il thriller o il romanzo fantasy o storico), ma vive molto anche nei territori "altri" che richiamavamo : la stessa lirica, o poesia che dir si voglia, è protagonista nella colonna sonora che continuamente e in ogni dove ci avvolge; ovvero ha conquistato un ruolo di primo piano nelle migliori serie di canzoni pop, rock, melo ecc. in cui il "testo" è decisivo per la fortuna delle stesse ed è tanto più decisivo quanto più è ancorato a solide radici e ad echi poetici/letterari. Ancora : si sta affermando con passi da gigante in tutto il mondo, per la formazione dei medici, il nesso cru­ ciale tra medicina e humanities, con un ruolo decisivo dell'apprendistato letterario (tanto che un ambito essenziale di questi studi non a caso viene definito "medicina narrativa"); senza dimenticare gli ambiti di law and li­ terature, nati dalle brillanti riflessioni di Martha Nussbaum e oggi ritenuti imprescindibili per la formazione giuridica in senso lato ... e questi sono solo alcuni dei tanti esempi che si potrebbero addurre. Insomma, cari colleghe e colleghi, professori e critici : è ora di rimboc­ carsi le maniche e lavorare alla ridefinizione del nostro oggetto di studio e delle sue vere, nuove articolazioni. Se questo appare indispensabile e urgen­ te per capire il presente, è altrettanto decisivo inventare nuove chiavi per rileggere il passato, che ci ha consegnato la tradizione letteraria di cui siamo eredi e che appunto determina e domina sia le più nuove forme espressive di massa sia le dinamiche di sofisticati apprendistati professionali. Ad esem­ pio, occorrerebbe che ci riavvicinassimo alla lezione di un grande critico 9

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

come Piero Camporesi, innovatore e inventore di inediti territori di ricerca: letteratura, antropologia, cultura popolare, paesaggio, naturalismo, cibo e "materià' composero, nelle sue indagini, una miscela esplosiva che consentì di fare della critica letteraria il grimaldello per esplorare il mondo e la sua storia concreta. Dobbiamo coniugare senza timore storia, filosofia e letteratura, pren­ dendo il meglio delle intuizioni desanctisiane e poi gramsciane. Dobbiamo reimpadronirci di ambiti decisivi che abbiamo trascurato nel nome di cro­ nologie spesso fasulle e superficiali : come ho dimostrato già nel mio volu­ me L'immaginario e la ragione\ il Settecento riformatore e l ' Illuminismo devono tornare al centro della nostra riflessione storica e letteraria nonché didattica, come nuclei imprescindibili per capire le radici del nostro tor­ mentato presente. Allora sapremo mostrare con nettezza la centralità di un discorso letterario che si fa fondante di un'epoca decisiva per l ' Occidente moderno. E se humanities debbono essere, lo siano sino in fondo : andiamo dunque alle origini e allo sviluppo della grande stagione umanistica italiana, come si prova a fare in questo volume. Indichiamo le tappe e le "stazioni" imprescindibili per riappropriarci di quel lessico e di quei codici che ci han­ no segnato, e alla fine ci scopriremo forse tutti un po' umanisti. L' Umanesimo ha un inizio, con una data precisa ( così si apre provoca­ toriamente il volume) che coincide con la composizione delle Egloge dan­ tesche fra il 1 3 20 e il 1 3 2 1 , e si dipana in tappe e sentieri fondamentali per comprendere le riflessioni che ho riservato, come già accennato, all 'ultimo capitolo : Dante, appunto, i poemi dell'immaginario moderno con Baiardo e Ariosto, Machiavelli e la scrittura della politica come vita, il farsi innova­ tivo del discorso letterario/metaforico nel Cinquecento, la straordinaria tensione storica e narrativa di Guicciardini, le istituzioni dirompenti dell'e­ tà barocca ... Paradossalmente la letteratura inizia oggi laddove credevamo finisse, e il suo inizio umanistico con Dante è strettamente connesso all' ap­ prodo cui ci portano i sentieri letterari se li sappiamo percorrere e interro­ gare con prospettive altre, con dinamiche nuove e con un senso robusto e radicale della critica come discernimento del mondo. Bologna, gennaio 2018

Note 1. G. M. Anselmi, L'immaginario e la ragione. Letteratura italiana e modernita, Ca­ rocci, Roma 201 7· IO

I

Dante, l'Umanesimo e l'origine di una grande utopia

Ci sono intrichi mai davvero risolti in alcune tappe delle periodizzazioni letterarie e storiche : uno di questi è sicuramente quello che pertiene all 'o­ rigine dell' Umanesimo. L'opinione oggi prevalente, manualistica direi, concorda n eli' attribuire a Petrarca e alla sua inquieta e moderna dimensio­ ne esistenziale e autoriale (fra volgare e latino) un ruolo fondativo dell 'età umanistica così come siamo abituati a intenderla comunemente1• Insom­ ma, nell 'età che dalla metà del Trecento volge ai primi del Quattrocento (è anche l'età del Salutati) si consolidano idee, testi, conquiste filologiche, protagonisti che si presume poi approdino alla nascita della modernità fondativa occidentale, ovvero il Rinascimento italiano. Tale acquisizione non è però affatto granitica : da sempre critici e storici (talora in dialogo con l 'altrettanto vivace dibattito apertosi fin dall 'Ottocento fra gli storici dell 'arte) hanno battagliato intorno a questi "confini", spesso tentando di anticipare l'origine dell ' Umanesimo, talvolta di posticiparla (influenzati dalle Annales e dall 'idea di un "lungo Medioevo") o persino di negare ali ' U­ manesimo e al Rinascimento un'identità precipua di epoca a sé stante, vista la lunghissima durata di una forma di produzione economica dominante fin dall'Alto Medioevo e che solo la Rivoluzione industriale settecentesca spezzerà definitivamente. Quest 'ultima posizione in realtà è andata affievolendosi : gli stessi teo­ rici delle "lunghe durate" da tempo ormai accreditano livelli di scorrimento diversi (simili a faglie del sottosuolo) della storia e dei fenomeni culturali, sicché brusche impennate e repentini cambiamenti possono realizzarsi in politica (le guerre, i mutamenti degli assetti di potere, le rivoluzioni ... ) come nell'arte e nelle dinamiche dei saperi pur in presenza di una molto più lenta mutazione delle dinamiche economiche, religiose, antropologiche, sociali. L'Umanesimo e il Rinascimento lo testimonierebbero in modo esemplare. Assodato che tale epoca davvero può essere identificata con proprie specifi­ cità, quando ha inizio ? Davvero con Petrarca ? II

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

In realtà una tuttora perdurante linea di ricerca (che in Italia trovò significativi punti di riferimento nelle riflessioni di Giuseppe e Guido Bil­ lanovich ma anche di studiosi come Ullmann, Witt o Kristeller) tende a porre l 'attenzione sul ruolo decisivo dell'approccio ai classici antichi e ai nuovi modelli culturali che nel Duecento (ma già da prima, con il prepo­ tente e innovativo emergere della Scuola universitaria di Diritto a Bologna alla fine dell'xi secolo) si venne consolidando nell 'area padana, specie tra Padova, Verona, Ravenna e Bologna. Sicché, non volendo proprio del tut­ to "detronizzare" Petrarca, si inventò l 'artificiosa e sostanzialmente infon­ data categoria di "preumanesimo" (diffidare sempre delle periodizzazioni in termini di "pre" e "post", categorie che mascherano palesi difficoltà nel riuscire a dipanare i fenomeni storici e culturali più imprendibili e com­ plessi). Il quadro si complicò ulteriormente con le vere e proprie "provoca­ zioni" di un grande filologo come Paul Oskar Kristeller : egli come pochi conobbe e censì un 'enorme quantità di testi umanistici, per poi però affer­ mare che l ' Umanesimo aveva avuto sì sostanza, ma quasi esclusivamente come pratica retorica e linguistica, come capacità di rimodellare e studiare i classici, senza che vi avesse luogo nessuna novità filosofica ed epistemo­ logica autonoma e peculiare3• Questa tesi radicale fu combattuta in campo aperto dali' illustre filosofo e filologo Eugenio Garin, il quale dimostrò in pagine memorabili e in vasti studi (straordinaria la sua interpretazione di Leon Battista Alberti) l ' ineguagliabile originalità filosofica e sapienziale dell ' Umanesimo, viatico ineludibile per comprendere il pensiero moder­ no stesso4• Oggi possiamo dire con tranquillità che le tesi di Garin hanno prevalso in modo definitivo, tanto che un recente, ponderoso saggio che Massimo Cacciari ha posto in prefazione a una significativa raccolta di scritti uma­ nistici è tutto giocato sull'assoluta dimensione filosofica moderna dell ' U­ manesimo italiano5• Eppure la domanda sull ' "inizio" continua a intrigarci : l 'insegnamento del diritto romano a Bologna, con la compresenza di studi sulla storia romana, e l 'apprendistato letterario sulla poesia latina classica, che lì si svolgeva accanto o in cooperazione con le vivacissime scuole di scrittura e composizione dei "dettatori", si possono davvero escludere dalle radici dell' Umanesimo ? La stagione culturale duecentesca di Padova, Ve­ rona, Ravenna (l 'eredità imperiale bizantina), con l'approdo alla grande personalità di Albertino Mussato, sono estranei a quello che poi seguirà in Toscana nel Tre-Quattrocento ? Infine come collocare l'ingombrante, inarrivabile Dante in queste periodizzazioni ? Così grande che già ai primi 12

I. DANTE , L' UMANESIMO E L' ORI GINE DI UNA GRANDE UTO PIA

dell 'Ottocento il geniale poeta romantico inglese Shelley (lettore e inter­ prete fra i maggiori di Dante) l 'aveva definito nella sua Dejènce ofPoetry «Un ponte gettato tra l 'età antica e l 'età moderna » , bruciando in anticipo ogni possibile disputa sul Dante medievale o protoumanista che poi, ozio­ samente, avrebbe riempito tante carte di studiosi anche illustri (che però ebbero il demerito di non aver mai letto Shelley... ) . Questa lunga premessa (di cose ben note agli studiosi) non deve ap­ parire oziosa o peregrina : mi torna utile per affermare che oggi finalmente possiamo con certezza definire (l'affermazione vuol essere ovviamente an­ che una "provocazione"), in un modo che ritengo ben poco confutabile, la data d'inizio dell ' Umanesimo. Esso è riconducibile al I 3 2 0 - 2 I a Ravenna, ovvero agli anni in cui Dante, con un colpo da maestro di classicità ine­ guagliabile, rilanciò l'egloga pastorale - un genere letterario sepolto da un millennio - e con essa quell 'intero apparato bucolico di matrice teocritea e soprattutto virgiliana che segnerà fino ai nostri giorni una delle più dura­ ture e pervasive forme di immaginario in ogni forma di arte e di pensiero utopico. Non dico a caso "fino ai nostri giorni" : è sufficiente pensare a co­ me l 'utopia bucolico-arcadica, con tutto il suo lessico idillico, sia di fatto la base di ogni pensiero diffuso oggi sulla salvaguardia della natura e del creato, sul "rifugio" dai tormenti delle metropoli (non dimentichiamo che, accanto a Virgilio, operò senz'altro in Dante anche la piena rivalutazione del mondo in chiave "creaturale" messa in campo nel celeberrimo Cantico da san Francesco). E, poi, continuiamo citando quasi a caso : si pensi ad esempio all 'ossimorico Pastorale americana, forse il maggior romanzo di Philip Roth, o al Galateo in bosco di Andrea Zanzotto. Dante dà l 'avvio a uno degli statuti letterari e immaginari che più ca­ ratterizzano l 'età nuova rispetto alle vecchie tradizioni medievali. Nella Commedia l'autore aveva già osato molto sul ritorno alla "lezione degli an­ tichi", senza comparazioni possibili con alcun "preumanesimo padovano" che dir si voglia: basti pensare alla scelta rivoluzionaria di farsi guidare da Virgilio, pagano e soprattutto poeta, non ascrivibile quindi al magistero, che sembrava invalicabile, dei filosofi e teologi cristiani. Con un gesto sim­ bolico straordinario, Dante pone al centro del suo apprendistato un poeta pagano, trascurando altre e solidissime gerarchie disciplinari e dottrinali cristiane. In Injèrno, XXVI , poi, la "riscritturà' geniale della figura di Ulisse e della sua curiositas non poteva non apparire una enorme e inaudita sfida della ragione (cara peraltro già a san Tommaso come al pensiero averroista radicale di Sigieri e altri) a ogni pigra acquiescenza verso i perimetri angusti delle cittadelle e dei fortilizi ideologici e speculativo-mistici dei secoli pre13

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

cedenti. Si potrebbe evidenziare inoltre la grande valenza ermeneutica della ovidiana "metamorfosi", che giganteggia come paradigma imprescindibile per l'ascesa a Dio nel Paradiso e fino alla fine del viaggio ultraterreno (il " trasumanar ") . È con le Egloge, tuttavia, che si concretizza il vero "strappo", l 'inizio in e­ quivoco della grande età dell' Umanesimo. Oggi possiamo fare con certezza questa affermazione grazie agli studi e alle edizioni cui attende da anni una studiosa esemplare come Gabriella Albanese, che non a caso giunge a Dan­ te dopo un lungo e importante percorso di ricerca (che tuttora persegue) nel campo della filologia umanistica. Albanese ha potuto così vedere con chiarezza ciò che ai dantisti anche illustri era sempre sfuggito nella sua ma­ croscopica evidenza, ovvero la straordinaria novità dell 'ultimo Dante, del suo improvviso e grandioso approdo alla poesia latina classica, e quindi il suo "umanesimo" sostanziale. Faccio notare, per inciso, che non mi risultano nelle dozzine di com­ menti alla Commedia che ci sovraffollano da anni, spesso apportando ben poche novità di rilievo a quanto era già noto, accenni significativi al Dante poeta latino e alle Egloge, neppure quando si commentano i quasi coevi canti del Paradiso ravennate. Invece Albanese, nella recente pubbli­ cazione delle Opere di Dante coordinata da Marco Santagata6, non solo ha sviluppato un'edizione e un commento ricchi ed esemplari delle Egloge, ma ha proprio dimostrato, nel saggio introduttivo, l ' imprevista e straor­ dinaria "aperturà' verso la poesia latina classica di un Dante che probabil­ mente avrebbe percorso originalissimi sentieri nel recupero della classicità e nell 'abbandono del latino poetico medievale (la sua morte inaspettata impedì gli esiti certo radicali che egli vi avrebbe apportato, come già aveva fatto con la Commedia in altro contesto e in volgare) : non a caso la studiosa mostra l 'assoluta padronanza del metro, dello stile e della lingua virgiliani, che dopo un millennio risorgono quasi senza "premonizioni" nella pagina dell'ultimo Dante. Per sciogliere eventuali dubbi circa quanto finora affermato, si riman­ da a un'ancor più recente edizione con ampio commento delle Egloge curata, per l ' Edizione nazionale delle opere di Dante presso la Salerno Editrice, da un altro illustre esperto di filologia umanistica e medievale, Marco PetolettF. Quest 'ultimo non può che confermare le acquisizioni di Albanese, peraltro aggiungendo ulteriori tasselli che lo inducono (dopo un grande lavoro di ricerca su tutta la poesia medievale latina) ad affermare che l'egloga si era di fatto inabissata durante i lunghi secoli medievali, salvo pochissime testimonianze di egloghe tali solo nell'intestazione, ma per lo 14

I. DANTE , L' UMANESIMO E L' ORI GINE DI UNA GRANDE UTOPIA

più impregnate di un tradizionale allegorismo molto lontano dal modello virgiliano. Certamente sullo sfondo, come ben ricostruisce Albanese, sta la laurea conferita nel I 3 IS (riesumando appositamente una cerimonia cara al mondo classico) dallo Studio di Padova ad Albertino Mussato, allora campione del poema latino medievale benché forgiato attraverso accurati apprendi­ stati sui grandi classici latini antichi. Qui si inserisce la ben nota iniziativa del maestro Giovanni del Virgilio, docente di humanae litterae a Bologna : Giovanni del Virgilio (che aveva quasi certamente potuto conoscere Dante a Ravenna fin dal I 3 I 9 ) ritiene ugualmente degno di laurea il grande fioren­ tino, allora ospite dei signori di Ravenna, e nel I 3 I 9 gli reca, attraverso una tradizionale epistola metrica molto cara al gusto dei cenacoli padovani e ispirata al ben noto modello oraziano di poetica, l' invito a recarsi a Bologna e a conseguire la meritata laurea presso l' illustre Studio petroniano; tuttavia il maestro bolognese, come è noto, amichevolmente e con garbo lamenta che un così grande poeta come Dante non si decida a lasciare il volgare (in cui pure, soprattutto nelle prime due cantiche della Commedia, le uniche note a Giovanni, aveva dato prove molto alte) per cimentarsi nella poesia latina, ben più degna del volgare di celebrare argomenti nobili e "tragici" e di consentire l'approdo alla laurea, implicitamente mettendolo quasi "in competizione" con le prove del Mussato. Dante, rompendo con ogni schema e genere medievale, non risponde secondo i canoni pretesi dalle responsive medievali tradizionali, bensì repli­ ca nel I 3 2 0 attraverso un 'egloga di pura matrice classica, ad ambientazione bucolico-pastorale e con tutta l'onomastica tipica del modello virgiliano. Non ci sono le condizioni "ambientali" adatte per una trasferta a Bologna, ma soprattutto l'autore fiorentino difende con determinazione la piena di­ gnità del volgare, portato alla sua prova suprema nel Paradiso e meritevole comunque di ogni dignità, laurea compresa, di cui soprattutto l 'ingrata Fi­ renze avrebbe dovuto farsi carico ; si mostra comunque lusingato e pieno di rispetto per l 'invito, tanto che escogita appunto una risposta fuori da ogni canone accademico e la accompagna inviando in dono alcuni canti del Paradiso (cantica che appunto, a differenza delle altre due, Giovanni non conosceva ancora), quasi a coronare con un esempio concreto il valore delle sue posizioni e delle potenzialità "sublimi" del volgare in questa sorta di elegante "disputà' di poetica con Giovanni. Nell'egloga dantesca lingua e versi latini, metro, stilemi sono perfetta­ mente consoni al livello classico e di alta fattura. In un colpo solo Dante coglie vari obiettivi : dopo un millennio resuscita un genere carissimo alla IS

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

cultura classica, anzi quasi peculiare della sua identità; recupera un Virgilio come maestro di lettere e saperi "a tutto tondo", non solo per la dimensione epica data dali 'Eneide; mostra di padroneggiare senza timori reverenziali le tecniche della poesia latina secondo procedure di finissimo conio; sbaraglia sul campo il modello "Mussato" del poetare latino, mostrandone di fatto l 'arcaicità e indicando la via della nuova poesia latina come ripresa conso­ na dei modelli antichi/virgiliani secondo quelle procedure che noi siamo abituati a considerare precipue appunto dell' Umanesimo e degli umanisti a partire da Petrarca e Salutati. Tutto, in realtà, comincia col Dante ravennate : del resto Giovanni del Virgilio, maestro tutt 'altro che secondario e anzi dotato di antenne molto vigili ( come del resto già gli studi del Billanovich hanno mostrato ) , coglie immediatamente il rivoluzionario terreno che Dante gli propone e rispon­ de con notevole perizia a sua volta con un 'egloga, facendo trasparire dai ver­ si una sorta di emozione per la piena consapevolezza di stare sperimentando qualcosa di "inaudito", per di più in dialogo col maggior poeta vivente. Il dado è ormai tratto : questo è il modo nuovo di scrivere poesia latina, questo è il modo nuovo di rapportarsi alla letteratura classica; un nuovo mondo ha inizio nel segno di Arcadia. La seconda egloga di ulteriore risposta a Giovanni mostra un Dante quasi "virtuosistico", in grado di muoversi con disinvoltura sorprenden­ te nella pluralità dei modelli bucolici classici : l 'ambientazione alle falde dell' Etna ( il mondo siciliano teocriteo ) e il timore del ciclope feroce ( Ful­ cieri da Calboli ) , che spadroneggia a Bologna e potrebbe mettere a repen­ taglio la vita stessa di Dante se quest 'ultimo abbandonasse il rifugio raven­ nate, testimoniano quanto l 'autore fiorentino abbia colto uno dei punti decisivi della poesia bucolica classica, che ne definiranno la caratura utopica e perfino ideologica nell' Europa dei secoli successivi : ovvero la sua natura di genere letterario ideale per definire da uno spazio "appartato" e da un punto di vista "straniante" i drammi del mondo e delle sue lacerazioni, da cui il poeta fugge ma di cui non può non constatare la tragicità, nell 'utopica ricerca del mondo ideale come mondo di pace e di armonico equilibrio con la natura e fra gli uomini "pastori". Dante compose questa egloga poco prima di morire ( fu suo figlio, in­ fatti, a farla pervenire a Giovanni ) improvvisamente e inaspettatamente; non possiamo perciò sapere fino a che punto egli si sarebbe spinto su questi sentieri rivoluzionari se fosse vissuto più a lungo. Gabriella Albanese giu­ stamente ci fa intravvedere uno scenario suggestivo e del tutto plausibile : Dante, sollecitato in parte dalla stessa "competizione" con Mussato e la sua 16

I. DANTE , L' UMANESIMO E L' ORI GINE DI UNA GRANDE UTOPIA

laurea, aveva deciso forse di intraprendere, da vero e proprio primo uma­ nista, una via nuova di pratica poetica, ovvero la ripresa e il rilancio dei grandi modelli poetici classici fuori da ogni convenzione consolidatasi nei secoli precedenti; il dialogo in egloghe col maestro bolognese avrebbe pro­ babilmente dovuto essere proprio il segno iniziale di questa sfida nuova cui avrebbe desiderato attendere. Infatti le due egloghe dantesche si appalesano già subito come il "nuovo che avanza" : non fu solo Giovanni del Virgilio a cogliere immediatamente l 'importanza strategica di questa operazione dantesca, tanto che la poesia bucolica e i generi e gli apparati immaginari ad essa collegati non vennero più meno fino ai nostri giorni. Si inaugurò così un percorso che, certo ognuno con le sue specificità, vi­ de precocemente in campo Petrarca e Boccaccio (quest 'ultimo fu il primo e fondamentale "editore" e commentatore, fra l 'altro, delle Egloge dantesche, contribuendo così alla loro promozione) e poi tutti gli umanisti : addirittu­ ra in certi contesti la "pastorale" divenne cifra di significative consuetudini scrittorie non meno che ideologiche e politiche, come illustra la ricchissima esplorazione nella "pastorale modenese" (col ruolo centrale di Boiardo) cui ha atteso di recente Marco Santagata8• Dante dà un nuovo inizio a un genere che, nel trascorrere dei secoli, si caricherà (nell 'infinita quantità e qualità di opere che vi faranno riferimen­ to in tutto l 'Occidente) di significati molteplici e complessi, sostanzial­ mente cementati tra loro da una possente carica utopica (in controcanto con le ferree costrizioni dell' ancien régime) e da un'in esausta ricerca di pace nell'amore e nel suo canto. A lungo fu un genere che si espresse in più codici linguistici, dal latino classico ai vari volgari : si pensi ad esempio, per citare un nome meno scontato di tanti altri, ali'enorme fortuna fino ai primi del Novecento, negli ambienti riformati di tutta Europa e degli Stati Uniti, del­ le egloghe a forte valenza religiosa, innovativa e "riformatrice" di un grande maestro bolognese del Quattrocento, Giovan Battista Spagnoli il Manto­ vano (che pubblicò le sue egloghe col titolo Adolescentia ma che fu appun­ to soprannominato "il nuovo Virgilio")9; e poi naturalmente Sannazaro, Boiardo, Ariosto, tutto il Cinque-Seicento europeo ( Spenser, Cervantes stesso, l 'infinita galassia poetica e artistica francese della Pléiade e dell'età di Luigi XIV, ecc.) fino al Settecento, agli Arcadi e oltre. Non va dimenticato, inoltre, che gli apparati della poesia bucolica nuova "inventata" da Dante hanno influito enormemente anche sulle arti figurative fino ad oggi. Non è chi non veda, quindi, come l 'ultimo Dante e la sua grande poesia latina "classica" non possano che essere considerati l'inizio della stagione umani­ stica tra il I 3 20 e il I 3 2 I. 17

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

Il modo e i luoghi in cui trovò forma questa rivoluzionaria pagina dan­ tesca non sono però affatto secondari. Anche qui ci soccorrono i recenti, esemplari saggi che Gabriella Albanese, insieme a Paolo Pontari, dedicano a un ulteriore approfondimento su genesi e significato delle Egloge dante­ sche, specie in riferimento ali ' ambiente bolognese e ravennate, alle figure dei maestri dello Studio e alle feroci vicende politiche che segnarono la città petroniana in quegli anni tormentati, con al centro il crudele ed efferato Fulcieri da Calboli (la cui vicenda bolognese è ricostruita dai due studiosi con inedita documentazione archivistica di prima mano)10• Viene illumi­ nata così di fonti nuove e di prima mano, in particolare, tutta l ' in tessitura della II egloga e pienamente dispiegata l 'importanza dei cenacoli bolognesi e notarili, per comprende meglio anche "questo" Dante poeta latino e la sua precoce diffusione in tali ambienti grazie proprio allo stesso Giovanni del Virgilio, il coprotagonista delle Egloge. Andando a fondo nel tessuto di Bologna in riferimento all'ultimo Dante, i saggi fondamentali di Albanese e Pontari consentono di rafforza­ re ulteriormente quanto il sottoscritto e qualche altro studioso sostengono da anni con convinta determinazione\ ovvero la centralità ineludibile di Bologna come crocevia decisivo di saperi a partire dalla fondazione dello Studio nei pressi del 1088: è incomprensibile come in certa vulgata manua­ listica con vene di pretenziosità si continui ad ignorare il ruolo fortemen­ te centrale e innovativo di questa città tra Medioevo e Umanesimo. Tutti transitano o si confrontano in questo crocevia per secoli, e proprio da qui occorre partire per capire certa cifra decisiva della fondazione umanistica tra Dante e Salutati. Ravenna e le altre città emiliane e romagnole, del resto, pur nella orgo­ gliosa difesa della propria identità, sul piano letterario, culturale, artistico e architettonico gravitano intorno a Bologna e al suo Studio, ai suoi maestri di diritto (veri viatici per comprendere la storia romana con le sue leggi e le sue storie), alle innovative pratiche glossatori e che daranno vita fino ad oggi a quell 'in esausta forma ermeneutica che è il "commento", di cui i maestri bolognesi di diritto come di humanae litterae furono fondatori indiscussi per il mondo intero (si pensi al tracciato che dai glossatori giuristi passa per un Giovanni del Virgilio, un Pietro da Moglio e giù fino al Beroaldo o a Giovan Battista Pio y�. Dante "sapeva" insomma che l' invito di Giovanni veniva da un centro di spicco (nel quale del resto in epoca più giovanile aveva studiato e ave­ va concepito suoi testi decisivi, come di recente ha ben mostrato Mirko Tavoni)13; perciò la sua risposta si dispone all'altezza di quella tradizione 18

I. DANTE, L'UMANESIMO E L'ORIGINE DI UNA GRANDE UTOPIA

illustre, ne è come pretesa; al tempo stesso Dante sollecita gli uomini di cultura bolognesi a praticare, con coraggio degno della loro fama, sentieri mai esplorati. Solo Bologna (dove già precocissimi avevano riscosso succes­ so tra notai e ceti colti i versi della Commedia) poteva essere la città ideale a partire dalla quale diffondere un modo nuovissimo di praticare la poesia latina e di inaugurare un'inedita stagione di letteratura e di saperi, quella che noi chiamiamo Umanesimo. Note 1. Importante punto critico in L. Chines, FrancescoPetrarca, Pàtron, Bologna 20I 6 ; cfr. sempre F. Rico, Il sogno dell'Umanesimo. DaPetrarca a Erasmo, Einaudi, Torino I998; inol­ tre S. Nobili, La consolazione della letteratura. Un itinerariofra Dante e Boccaccio, Angelo Longa Editore, Ravenna 20I 7· 2. Per tutto quanto qui si argomenta cfr. G. M. Anselmi, Letteratura e civilta tra Medioevo e Umanesimo, Carocci, Roma 201 1 ; per la "cifra ovidianà' della metamorfosi tra Dante e Rinascimento cfr. Id., Gli universi paralleli della letteratura. Metamorfosi e saperi tra Rinascimento e crisi del Novecento, Carocci, Roma 2003; G. Billanovich, Petrarca e il primo Umanesimo, Antenore, Padova 1 9 9 6 ; Id., Dal Medioevo all'Umanesimo, CVSL, Milano 2001. 3· P. O. Kristeller, A. Gargano, Retorica efilosofia dall'antichita al Rinascimento, Bi­ bliopolis, Napoli I98I. Ma la produzione di Kristeller è vastissima, a cominciare ovviamente dal suo monumentale Iter italicum, grandiosa investigazione dei manoscritti umanistici per lo più inediti che egli andava via via censendo negli anni. 4· Nell'amplissima produzione di E. Garin segnaliamo almeno un testo esemplare per rigore metodologico e acume esegetico : Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Laterza, Roma-Bari I97S· S· R. Ebgi (a cura di) , Umanisti italiani. Pensiero e destino, con un saggio introduttivo di M. Cacciari, Einaudi, Torino 2016. 6. Dante Alighieri, Opere, vol. II: Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge, ed. diretta da M. Santagata, Mondadori, Milano 201 4. 7· Dante Alighieri, Nuova edizione commentata delle opere di Dante, vol. v: Epistole, Egloge, Questio de aqua et terra, a cura di M. Baglio, L. Azzetta, M. Petoletti e M. Rinaldi, introduzione di A. Mazzucchi, Salerno Editrice, Roma 20I6. 8. M. Santagata, Pastorale modenese. Boiardo, i poeti e la lotta politica, Il Mulino, Bo­ logna 2016. 9· G. B. Spagnoli, Adolescentia, a cura di A. Severi, B UP, Bologna 20IO. Inoltre è inte­ ramente dedicato al genere bucolico tra Quattro e Cinquecento il volume xx di "Italique" ( 201 7 ). IO. G. Albanese, P. Pontari, Il notariato bolognese, le Egloge e ilPolifemo dantesco: nuo­ ve testimonianze manoscritte e una nuova lettura dell'ultima egloga, in "Studi danteschi", LXXXI, 2016, pp. I 3-I30; Id., Il cenacolo ravennate di Dante e le Egloge: Fiduccio de' Milotti, Dino Perini, Guido Vacchetta, Pietro Giardini, Menghino Mezzani, in "Studi danteschi': LXXXII, 2017, P· 311 -427. I I. Molti i saggi, i volumi, i convegni internazionali con relativi atti prodotti negli 19

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

ultimi anni a partire dai centri di ricerca bolognesi. Ricordiamo solo i fondamentali tre volumi su "Bologna crocevià' dall' Umanesimo al Settecento ( esiti di congressi di grande rilevanza) curati da S. Frommel per la casa editrice BUP, Bologna lOIO (vol. 1 ) , lOil (vol. l ) , lOI3 (vol. 3 ) . 12. G. M. Anselmi, Lefrontiere degli umanisti, CLUEB, Bologna 1988; Id., L'eta dell' U­ manesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell'Europa moderna, Carocci, Roma loo8; L. Chines, La parola degli antichi. Umanesimo emiliano tra scuola e poesia, Carocci, Roma 1998; A. Severi, Filippo Beroaldo il Vecchio, un maestro per l'Europa. Da commentatore di classici a classico moderno (I48I-I550), Il Mulino, Bologna lOI S. 13. M. Tavoni, Qualche idea su Dante, Il Mulino, Bologna lOI S.

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Saggezza etica e suggestioni filosofiche tra Boiardo e Ariosto

, Non credo sia azzardato proporre per due maestri indiscussi dell arte nar­ rativa, dell 'invenzione fantastica, dell'avventuroso come Boiardo e Ariosto un angolo di osservazione che ne colga elementi attinenti alla cifra etica e filosofica, senza ovviamente pretendere di imbrigliare i loro testi entro ma­ glie improprie. Del resto molti studi critici, soprattutto negli ultimi anni, hanno già offerto varie suggestioni per tale prospettiva, alle quali vorrei aggiungere qualche ulteriore elemento di riflessione. Maria Corti, seppur discorrendo di Dante, aveva potuto affermare : « L' immagine artistica fonda un sapere, estende la nostra conoscenza del mondo [ ] Ogni invenzione artistica offre una nuova mappa del mondo, , ce la offre parlando d altro » . Ancor prima di lei, Cesare Segre ebbe modo di parlare del «Furioso come atlante della Natura umana, il culmine della scoperta dell 'uomo (nella sua libertà e nelle sue determinazioni causali) portati a conclusione dal pensiero filosofico del Rinasciment0» 1• Segre, in quello stesso contesto, ribadiva come nel Furioso i temi propriamente filo­ sofici della follia e del senno si intrecciassero assieme a quelli, ben cari già all'Innamorato di Boiardo, della memoria e dell'oblio. La ricerca del senno che regola a buon fine le cose umane (istanza anche presente in L. B. Alberti) è del resto motore centrale sia di molte riflessioni ariostesche ad apertura di vari canti del Furioso sia di cruciali trame narrati­ ve del poema (e non solo per l 'episodio di Astolfo sulla Luna). Per comprendere l ' importanza dello snodo rappresentato da Boiar­ do e Ariosto, basti pensare al rilievo che il dibattito sulla poesia epica e , sul poema eroico assumerà nel primo Cinquecento, a partire dali ampia messe di riflessioni attivate dalla lettura, dalla chiosa, dai commenti al­ la Poetica di Aristotele. Quel dibattito, infatti, aprì un fronte cruciale nel territorio delle gerarchie disciplinari, degli assetti conoscitivi, delle , frontiere dei saperi, laddove ad esempio alla metafora e ali invenzione del poeta veniva dai più ribadita una piena legittimazione sul terreno della ...

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' L APPRODO DELLA LETTERATURA

conoscenza : non a caso Tasso riterrà particolarmente adatta ai filosofi la "dilettevole cognizione" proposta dai poeti e dal loro universo metafori­ co3. Tale esito del dibattito cinquecentesco, poi ovviamente amplificato in tutto il contesto europeo da tante poetiche barocche, sembrerà infondato alla filosofia razionalistica di ascendenza cartesiana più radicale ; tuttavia è pur vero che, ammaestrati dalla filosofia illuministica del "sublime", e poi romantica e novecentesca, sappiamo che tale universo parallelo dei saperi a matrice letteraria ha acquisito ormai piena dignità nella cultura contemporanea4• Boiardo e Ariosto, ciascuno con modalità proprie e articolate diversa­ mente nelle loro opere, si pongono in un ben preciso punto di osservazione : quello del "mondo sublunare", costantemente scompaginato dagli influssi naturali e astrali, in perenne trasformazione e trasmutazione ( la fontana dell'Innamorato), illusorio e inafferrabile nel suo fine ultimo ( il castello di Atlante ) . Un punto di osservazione che, nel rinunciare a ogni ambizione metafisica, pure pretende di interpretare il mondo e di indicare al saggio le vie per dipanarne profili accettabili, con un'ansia al tempo stesso filosofica ed etica : torna così la centralità della politia litteraria come dote essenziale del saggio maturato dall 'ormai secolare apprendistato umanistico e filolo­ gico sui testi; torna la centralità della voluptas come divina voluptas, ovvero felicità del conoscere, contigua del resto ai concetti albertiani di felicità nell'onore. Tutto ciò era ben connaturato nella grande cultura quattrocen­ tesca ferrarese : già Eugenio Garin indicava in Cosma Raimondi, in Palin­ genio Stellato, in Pellegrino Prisciani, nel Decembrio, in Ludovico Car­ bone, fra gli altri, i maestri di un sapere a forte caratura naturalistica - ora a precisa matrice epicurea ( mediata dalla lezione del Valla) , ora intrisa di saperi astrologici - intenti a fornire le chiavi di orientamento dell 'uomo nel mondo intricato e labirinti co della "realtà sublunare"s. Se pensiamo poi che a Ferrara tali saperi si intrecciano con la pedagogia filologica e attenta al valore mitopoietico delle lettere di un Guarino Veronese, possiamo ben comprendere la peculiare cifra cui attingono le esperienze e la formazione di Baiardo e Ariosto, essi stessi raffinati umanisti, in giovanile apprendista­ to sulla poesia latina. Se quanto fin qui detto è fondato, occorre ben precisare quali testi clas­ sici si qualificano come decisivi per il crogiuolo poetico, e al tempo stesso etico e filosofico, dei due grandi poeti. I maestri privilegiati non sono filo­ sofi in senso proprio, bensì scrittori, "poeti del cosmo", "poeti del mondo" : innanzitutto Ovidio, Orazio, Lucrezio, Apuleio, poi gli elegiaci, piuttosto che Aristotele, Platone, Plotino, Cicerone6• Non è una scelta di campo irri22

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO

levante, specie se percepiamo quanto di quei testi classici venga trasformato in mappa sapienziale ed ermeneutica. Per entrambi gli autori giocano un ruolo essenziale le Metamorfosi di Ovidio, testo magistrale per ripercorrere la natura perennemente "trasmu­ tante" di uomini e cose del mondo. L'universo parallelo a matrice ovidiana, esplosivo nella cultura rinascimentale (ma già fin da Dante, Petrarca e Boc­ caccio), è fondamentale per la struttura dei due grandi poemi cavallereschi. Accanto ad Ovidio, i due poeti privilegiano poi loro peculiari testi "ma­ gistrali": Baiardo, specie negli Amorum libri, dialoga costantemente con Lucrezio e, nell'Innamorato, con la grande tavolozza narrativa di Apuleio (essa stessa intrisa, nei nuclei essenziali, di "metamorfosi" ) ; Ariosto, invece, nelle Satire ma anche nel Furioso, in particolar modo agli esordi dei canti, dipana un memorabile ordito intertestuale con Orazio, consacrandolo de­ finitivamente grande maestro della moderna « morale mondana europea » (come già da tanto ci indicò Antonio La Penna}7. È interessante poi notare, per entrambi i poeti, accanto alle radici uma­ nistiche ferraresi di cui dicevamo, il legame con molteplici temi morali e sapienziali derivati soprattutto da Valla ed Erasmo : ovvero l 'adesione a una ben precisa linea, inquieta e criticamente mobile nella sua irriverenza, an ti dogmatica e riformatrice, della tradizione umanistica (centrale anche nella finitima Bologna, tra Beroaldo, Codro, Galeotto Marzio, Giovanni Battista Pio). Non a caso, seppure per via del fratello Galasso, come ben documentato anche in un valido contributo di Gigliola Fragnito8, non è affatto da sottovalutare la contiguità di Ariosto con ben determinati circoli riformatori. Infatti nel Furioso e nelle Satire si affacciano costantemente i temi inquietanti (che diverranno ansiosi e predominanti nei Cinque canti) della corruzione religiosa, dell 'insania della guerra, della prevaricazione dei potenti (da leggere in parallelo alla costante difesa, cara ad Ariosto, delle "deboli" donne e del loro valore), della crisi drammatica degli Stati italiani, delle loro corti, di certi loro nefasti costumi "cortigiani". Sono gli anni in cui Machiavelli, autonomamente ma - come sappia­ mo - da attento lettore del Furioso, muove il passo per le sue ardite rifles­ sioni da un punto di vista altrettanto pessimistico ; nella Satira IV del I523, Ariosto si giova proprio di una terminologia fra le più care al segretario fiorentino nel descrivere il duca di Urbino Lorenzo de ' Medici (guarda caso il dedicatario del Principe, davvero singolare coincidenza) : « comincia volpe, indi con forze aperte l esci e leon, poi c ' ha 'l popol sedutto l con li­ cenze, con doni e con offerte : l l' iniqui alzando, e deprimendo in lutto l li buoni, acquista titolo di saggio, l di furti, stupri e d'omicidi brutto » (vv. 23

L'APPRODO DELLA LETTERATURA 97-103). In questo passo sono rilevanti sia la presenza delle celebri metafore ferine sia il concetto stesso della "simulazione" della saggezza e dell'onestà, nuclei fondamentali per il cruciale XVI I I capitolo del Principe. Senza ipo­ tizzare ovviamente una conoscenza da parte di Ariosto del Principe, resta l 'interessantissima contiguità lessicale, concettuale, etico-politica fra i due autori, simboli di una temperie laica e disincantata del tutto precipua di certo nostro Rinascimento. L'apprendistato e la produzione di Matteo Maria Boiardo sono esem­ plari di queste peculiarità umanistiche e rinascimentali : è persino ovvio il rinvio alla sua giovanile produzione latina o ai raffinati Amorum libri, testi nei quali appare evidente proprio quell 'insieme di coordinate, di punti, di suggestioni che materiavano la formazione culturale del ceto dotto ferrare­ se e di cui già abbiamo fatto cenno. Si volga però l 'attenzione anche alla sua attività di "volgarizzatore", in realtà ancora da studiare a fondo, che accom­ pagna il Boiardo ben oltre la giovinezza, durante le prime tappe di stesura dello stesso Innamorato, dopo il 14 7 6 : la Vita degli eccellenti capitani di Cor­ nelio Nepote, la Ciropedia di Senofonte, l ' /storia imperiale di Riccobaldo, le Storie di Erodoto, l'Asino d'oro di Apuleio. Necessità di venire incontro alle esigenze della corte, avida di conoscere testi in modo "accessibile" ? Senza dubbio. Apprendistato consueto per chi intendesse cimentarsi con la stessa lingua volgare, verificandone le potenzialità "illustri" in gara coi modelli classici ? Certo, specialmente se si rammenta che già il Boccaccio aveva inaugurato simile costume sulle pagine di Livi o o di Valerio Massimo. Eppure v 'è altro, e macroscopico, nell'intrapresa boiardesca. Anzitutto l' interesse viene spostato sulla "storia" : i testi vulgati sono "storie" ( anche medievali ) , in una trafila che, senza soluzione di continuità, va dal "vero" di Erodoto alle Jabulae di Apuleio. La scelta di campo del Baiardo è molto chiara : l 'apprendistato letterario va condotto nell 'ambito dell'universo narrativo, universo nel quale possono convivere storiografia, biografia illustre, romanzo, senza percezione di fratture. Boiardo "dislocà' se stesso e la letteratura sul terreno della narrativa e lo fa a partire da una consapevole e precisa scelta di testi da far entrare nel circuito di fruizione di corte. In questo "spostamento" è già evidente il paradigma della "commi­ stione" : il fluire degli eventi, il dominare dell'apparenza ( Codro, appunto, non riproporrà in altri termini tale questione ? ) legittimano la letteratura e il testo come luoghi della condensazione difabula e storia, come punti in cui mito e realtà, fantastico ed ethos convergono in una discorsività del tutto laica, antimetafisica e antiteleologica ( la storia senza fini "ultimi" ) 9• In questo contesto Riccobaldo può convivere con Erodoto e Apuleio, le 24

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO

armi trovano spazio accanto ad avventure e amori (non è già - paradossal­ mente - l'operazione dell'Innamorato condotta sotto la specie del "tradur­ tore "�. ) . Qui l'Asino d 'oro non può terminare con l 'iniziati ca, allegorica, metafi­ sica rinascita del libro XI: Baiardo, infatti, cassa clamorosamente quel libro e lo sostituisce con la ben più laica e disincantata conclusione del Lucio del­ lo Pseudo-Luciano. L'intero volgarizzamento dell'Asino si determina sulla falsariga dell 'eccellenza del narrare, sul privilegio accordato allafabula di amore e di armi, sulla rimozione degli episodi troppo iniziatici ed allegorici. Ciò che ai critici è apparso per lungo tempo sciatteria nel tradurre (questo vale anche per gli altri testi) va forse anzitutto letto come scelta consape­ vole, come spregiudicata "rilettura" dei classici. Ancora : tutti questi testi, alcuni più di altri, propongono, attraverso la "storia", percorsi di formazione di eroi, modelli atti a statuire la fisionomia del signore, la cui identità va co­ lorandosi del senso dell'avventura, del senso del proprio destino (la quete ), squisita percezione del reale attraverso la colta stimolazione della potenza immaginativa. Anche in questa "serie" Riccobaldo, fondatore di un ' iden­ tità della storia ferrarese, può allora stare accanto a Senofonte, maestro per quei signori d' Este che vogliono raccogliere l 'eredità di tale storia. Ancora di più : la letteratura e i suoi testi narrativi (di ogni "serie" narrativa) possono così accreditarsi come fondamenti legittimatori del potere stesso, della sua storia, dei suoi eroi-signori. La letteratura è ancora al centro a Ferrara: e questa volta al centro stesso della moderna dinamica signorile. Ma con una sottile e inquietante ambi­ guità : se il poeta-cantore legittima la fondazione stessa del potere (l 'emble­ matica figura di Ruggero nell'Innamorato e nel Furioso), per un verso è la letteratura il luogo ultimo di ogni statuto e per l'altro la mitica storia del potere è una tra le Jabulae illusorie di cui la letteratura stessa è in tessuta. Vendetta sublime del poeta-cortigiano ! Chiamato ad operare per la gloria del signore come unica garanzia della sua salvaguardia di artista, proprio in virtù delle sue "invenzioni" disvela, nel segno della metamorfosi, l 'illu­ sorietà di ogni potere e di ogni sapere che si pretendono totali, fondanti, teleologici. Se guardiamo in quest 'ottica alle cosiddette parti "encomiastiche" dell'Innamorato e del Furioso, ben possiamo cogliere di quanta materia sia­ no intessute e ripensare a certa episteme padana, filosofica e letteraria cui accennavamo precedentemente; o rammentarci di Beroaldo e Codro e ri­ correre alla lezione del Valla e di certi classici antichi. Si comprenderà infine come Apuleio, Luciano, Lucrezio e Ovidio, ad esempio, insieme con Pro25

L'APPRODO DELLA LETTERATURA perzio e Orazio, contribuiscano a fondare non solo un costume letterario ma una gnoseologia, un approccio conoscitivo, di cui la letteratura padana di fabula metamorfica è il grande centro irraggiante. Tale tradizione lette­ raria padana è prima di tutto forgiata sulla tradizione epico-cavalleresca : l 'approdo di Boiardo all'Innamorato non è perciò l'inevitabile omaggio al genere egemone a corte, bensì il concreto misurarsi con tutte quelle po­ tenzialità che prima richiamavamo e che nel poema cavalleresco, nel fuoco della vicenda ferrarese, sembrano dilatare la loro portata, trascinando nel "centro" non più un "poeta canterino" ma un poeta mallevadore di sapere e tessitore di mondi. Di qui la forza, la consapevole vitalità delle "invenzioni" boiardesche : l 'avventura è concepita come esplorazione e rivisitazione di luoghi e spazi geografici vicini e lontani, suggestivi richiami atti a dissolvere ogni solida colonna d' Ercole di menti troppo attente a baluardi dogmatici tanto ferrei quanto illusori. L'amore si presenta come fuoco e motore dell'esistenza, tanto indomabile quanto mutevole, proteico e metamorfico, alacre, doloro­ so e, come la vita, continuamente inafferrabile (al pari di Angelica, dunque, o Morgana). La guerra è dipinta come cimento glorioso dell'eroe, come amplificazione di res gestae tanto spavaldamente esibite nella loro millan­ teria da "suscitare" quasi il sorriso, come ironico controcanto a tante storie ufficiali (e di corte! ) pronte ad avallare il gesto eroico fuori misura, il falso evidente dell'encomio. Il Boiardo, in definitiva, scompone le regole del vecchio codice caval­ leresco : non più la storia (vera o presunta) dei paladini legittima l'epos, ma accade l'opposto. Il testo poetico legittima il viaggio nel mitico passato, che esiste solo in quanto vissuto nel testo. In questo illusorio gioco di "doppi" e di "specchi" il nuovo principe costruisce il suo apprendistato : solo la pre­ sa d'atto della realtà come proteiforme mutevolezza e l 'acquisizione della paradossale "verità'' del poeta consentono un ruolo alla virtù rispetto alla fortuna. La storia della vicenda poetica e letteraria di Matteo Maria Baiardo è perciò, se la si volesse compendiare in una formula parziale ma effica­ ce, la storia di una continua, raffinatissima, originalissima commistione di modelli, di suggestioni, di ispirazioni; punto alto di un percorso, quello della civiltà estense quattrocentesca, in cui la fioritura dei generi letterari in volgare graditi alla corte e al suo pubblico si annoda, come si diceva, alla splendida stagione umanistica, filologica e pedagogica inaugurata dalla scuola di Guarino. I percorsi formativi di Baiardo e di Ariosto pongono robuste radici in

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO tale terreno; ci troviamo di fronte ad esperienze che, lungi dal poter esse­ re confinate nei termini dignitosi ma un po' angusti dell"'apprendistato", materiano in realtà l 'intera fattura dei grandi poeti estensi, forgiandone la stessa originale fisionomia. Sicché l'Innamorato e poi il Furioso esibisco­ no uno statuto in cui l 'intreccio tra il ciclo bretone e quello carolingio, ad esempio, non è che l'epifenomeno di un più complesso, profondo ordito, di una commistione totale, che va ben oltre i confini delle letterature romanze per radicarsi nel crogiuolo, tipicamente quattrocentesco e ferrarese, alimen­ tato dalla disposizione umanistica allo studio dei classici, da certo abito di lettura pulsante e vorace di tanti testi antichi. Sarebbe facile - e da tempo già si è provveduto - delineare le coordi­ nate familiari dell 'apprendistato di Baiardo (il nonno Feltrino, lo zio Ti­ to Vespasiano Strozzi), perfino quelle geografiche (certi viaggi, nel I47I a Roma, nel I473 a Napoli) : in ogni caso a balzarci innanzi è la figura di un precoce e brillante lettore-poeta, assiduo frequentatore di biblioteche familiari e di corte, teso costantemente a far rivivere, a ripensare quelle sue letture non tanto attraverso il tramando allusivo e prezioso di un Po­ liziano, ad esempio, quanto piuttosto attraverso una sorta di "riscrittu­ ra" - quasi di "immersione" - nelle fonti antiche (fino a giungere, non a caso, ali 'esperienza di volgarizzare i classici, di tradurli) , rendendo le così statuto fondante non solo delle prove in latino ma della stessa matrice poetica volgare. Non è perciò casuale che l 'esordio giovanile e latino dei Carmina de laudibus Estensium e dei Pastoralia si leghi alla frequentazione dell ' auctor per eccellenza, quel Virgilio che, più di altri, può aiutare il giovane Baiar­ do a districarsi nei fragili meandri dell'encomio dinastico e dell'intratte­ nimento "idillico-pastorale" (impegno d'obbligo per il poeta di corte de­ buttante) ; nesso delicato, questo, collocato fra istanze della committenza, pressioni encomiastiche e "fughe" nell'immaginario, che Baiardo risolverà con originalità assoluta nell'Innamorato e che, agli esordi, non può intra­ prendere che sotto la guida di Virgilio. Nei Carmina, accanto a Virgilio, è possibile rintracciare un intarsio che rimanda anche alle Metamorfosi avi­ diane, a Tibullo e alla paradigmatica ode I, I di Orazio, con una padronanza già consumata del tipico gusto umanistico per la mutatio. Per ciò che concerne l 'importante esperienza nel genere pastorale, non dobbiamo dimenticare che Ferrara accoglieva il gruppo di poeti bucolici forse più significativo della prima metà del Quattrocento, sia per quantità sia per qualità di testi. Virgilio era appunto uno degli autori più cari alla scuola di Guarino : se non bastassero le testimonianze dell'Epistolario e del27

L'APPRODO DELLA LETTERATURA la Politia, sarebbe sufficiente rammentare come il primo lessico umanistico fondato su di un solo autore fosse proprio quello guariniano su Servio. Sappiamo meno invece della conoscenza e dell 'insegnamento guarinia­ no su Teocrito, autore fondamentale per il recupero dell'idillio classico e dei suoi accenti più umili e quotidiani : è noto però che la scuola di Guarino formò Martino Filetico, il quale tradusse in versi esametri i primi sette idilli teocritei, e che lo stesso figlio di Guarino, Battista, compose la prima egloga umanistica in cui può forse dirsi che il modello teocriteo in parte soppianti quello virgiliano. Di là da ogni considerazione, resta comunque il fatto che uno degli snodi più rilevanti nella cultura ferrarese e nelle articolazioni della sua fru­ izione dei classici è rappresentato dall'apprendistato bucolico-pastorale : le egloghe del Tribraco, di Boiardo, di Battista Guarino e dello Strozzi sono legate tra loro da continui rimandi e allusioni e formano, nonostante le inconfondibili peculiarità di ciascun autore, un ricco tessuto connettivo. In Boiardo, il più giovane di questa sorta di accademia bucolica, la ri­ presa virgiliana è sistematica: troviamo apporti anche di Ovidio e Tibullo ma non, ad esempio, del più "umile" modello teocriteo. Al poeta infatti - e qui sta anche la sua originalità - interessa innanzi tutto sottolineare il tema dell'età dell'oro in cui trasfigurare esperienze e vicende sue, dei suoi amici, del suo principe : se ci si decidesse a guardare senza remare al complesso ma­ crosistema del genere bucolico-pastorale, latino e volgare, della tradizione moderna come a uno dei maggiori referenti della letteratura d'utopia, anzi come a uno dei canali privilegiati della sua grande capacità pervasiva, un po­ sto non secondario per tutto ciò andrebbe riservato proprio a Boiardo ( non dimenticando, fra l 'altro, neppure la sua tarda Pastorale, le dieci egloghe in terza rima) . Egli, con originalità, amplifica le massicce suggestioni utopiche presenti in Virgilio ( ma anche in un originale e ben noto poeta neolatino come Giovan Battista Spagnoli il Mantovano) , laddove necessario anche riprendendo spunti dalle più innovative ricerche che la scuola guariniana aveva effettuato su autori del teatro antico : non a caso nella prima egloga la presentazione del dio Pan arieggia certi prologhi di commedie plautine. Del resto già Virgilio, nella terza bucolica, aveva quasi suggellato la commi­ stione dialogica e teatrale che doveva caratterizzare il genere. Non va dimenticato che siamo intorno agli anni della riscoperta di Plauto avviata dal Pontano : si pensi al ruolo eccezionale che il termine Jacetudo assume nel De Sermone, quasi anticipazione della cinquecentesca "dilettevole cognizione" e apprendistato per la divina voluptas di valliana memoria, in un tragitto che, ancora, dal Castiglione al Guazzo, individua

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO nella "facezià' (altro ineludibile apparentamento) l'arte del dire, del dia­ logare, della centralità della parola, come parola che "ordinà' il mondo a partire dalla Corte. Intorno a Plauto, a fine Quattrocento già prontamente chiosato e ripreso nei cenacoli umanistici bolognesi e ferraresi, si dirama perciò una costellazione di questioni essenziali per la letteratura "sapien­ ziale" e per il teatro come suo possibile epicentro dagli sviluppi decisivi nei secoli successivi in tutta Europa (il teatro moderno non nasce forse a Ferrara con Ariosto ? )10• È particolarmente affascinante notare allora come Baiardo, da raffinato lettore prima ancora che poeta, sappia ben cogliere questa complessa matrice della letteratura pastorale, giocandone la pecu­ liarità dialogica e teatrale proprio mentre delinea un tracciato fatto di ansie di pace, di solidarietà amicale, di equilibrio tra uomo e natura. La cultura estense, luogo per eccellenza deputato al risorgere in forma moderna del teatro classico, non casualmente vede maturare il primato di una letteratura a spiccata vocazione "dialogica': capace di leggere in modo innovativo alcuni grandi testi del passato, come viatico per un approccio tollerante alla realtà, non dogmatico, non normativa, e peculiare perciò della letteratura e dell 'arte (e questa è sicuramente una delle carte d'identità più pregnanti con cui accedere al Rinascimento padano, soprattutto ai suoi vessilliferi, da Bo i ardo ad Ariosto fino a Tasso) . Più tardi, il gusto sapido della battuta e dell 'osservazione di costume lo conduce alla composizione degli Epigrammata e alla consuetudine con un altro autore caro al suo "catalogo", Marziale, e con un genere, l' epigram­ matico, di gran moda fra gli umanisti. Ma il paradigma della commistio­ ne boiardesca raggiunge una sfera eccellente, di consumata sapienza, negli Amorum libri tres (noti anche come Canzoniere), ovvero nella raccolta di componimenti in volgare della cui originalità formale, metrica, tematica hanno già da tempo messo in luce gli aspetti tanti critici11• Qui conta sottolineare che il vero nucleo ispiratore del Canzoniere del Baiardo va ricercato probabilmente oltre Petrarca, ovvero nella grande pro­ duzione elegiaca latina, e in particolare in Ovidio, Properzio, Catullo. Pe­ trarca e la stessa illustre produzione lirica toscana sono rivisitati attraverso l 'ottica elegiaca latina: di qui lo "scarto", spesso rilevato, rispetto al model­ lo petrarchesco, certa tensione naturalistica, ora gioiosa, ora drammatica, permeata di "storia d'amore", certa propensione allo sperimentalismo e al preziosismo, certo erotico "laicismo" di fondo, a volte quasi disincantato e scettico, ben lontano dall'etico rovello cristiano-esistenziale del Petrarca ma anche da certo esasperato formalismo della tradizione provenzale. Il Canzoniere boiardesco si configura infatti come un complesso te29

L'APPRODO DELLA LETTERATURA stuale a parti tura stratificata, passibile di più livelli di decodifica, materiato di quella dialogicità molteplice e polifonica che è propria della maggiore tradizione rinascimentale. In effetti è bene cominciare a leggere quel testo anche, se non soprat­ tutto, come un grande libro di filosofia e di saggezza, imperniato sull'etica laica dell 'amore che, ben diversamente che in Petrarca, fa "conoscere", non fa "perdere". Si veda in I, 15 un vero e proprio manifesto in tal senso, che si annuncia anche nella scelta di un lessico filosofico-teoretico che celebra la potenza di Amore : a seguire, si colga in I, 23 l 'originalissima rivisitazione del tema elegiaco di Amore come virtus (quasi precedendo la machiavel­ liana "virtù" ) nella sua dimensione vitalistica e sensuale (del resto ribadita in tutto il primo libro, come ad esempio in I, 27 ) . Ma tale filosofia laica dell'amore, essa stessa materiata di un'etica nuova (apparentemente con­ tigua a quell 'etica non cristiana che Berlin ha magistralmente indicato per Machiavelli e semmai precipua di certo epicureismo lucreziano e di certo averroismo ) , si inarca in I, 28, 29, 30 e soprattutto 3 3, laddove, in probabile dialogo con le posizioni cavalcantiane, si ribadisce che l 'amore è virtuo­ so di là dall'intellettou. Letteratura e amore vanno perciò componendo una vera e propria gnoseologia del saggio rinascimentale : in I, 43 l'Apollo dafneo di marca ovidiana e petrarchesca indica le "beatitudini" di Amore calcandole sulla serie enumerati va di quelle evangeliche, attraverso intrecci metamorfico-metaforici che abbiamo ormai visto come cifra ineludibile della moderna letteratura. Nei libri secondo e terzo la rappresentazione del volto doloroso dell'a­ more (la lacerazione, la gelosia, il topi co accostamento alla morte ) presenta comunque un nucleo generativo mai neoplatonico, fortemente ancorato a dinamiche ovidiane e lucreziane per un verso e al modello fondamentale del Roman de la Rose o a certa laica tradizione trobadorica per l 'altro. Se vogliamo poi ulteriormente esemplificare, basti osservare in che mo­ do, fin dal primo libro e per tutta l 'opera, si va delineando l'esaltazione di Antonia, le cui "metamorfosi" si compiono attraverso l 'omologazione alle figure più tipiche della mitopoiesi pagana e cristiana : Venere (I, 6 e I, 9 ) , Be­ atrice (I, 13), Pasitea (I, 30 ) , ad esempio, mentre l ' identificazione con Laura è ovviamente costante nei componimenti di più stretta imitazione petrar­ chesca. La stessa natura fisica di Antonia - la sua bellezza - segue la topica metaforica consolidatasi nei modelli ellenistici e latini, che Petrarca aveva provveduto a recuperare dopo la parziale eclissi trobadorica e stilnovista. L'originalità della ricezione boiardesca dei classici, e in particolare degli elegiaci latini, si fa però davvero dirompente nella natura stessa degli Amo30

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO

rum libri, nella loro peculiare caratteristica di autobiografia amorosa, di vera e propria "storia d'amore", ora passionale e sensuale, ora tormentata e difficile, ora gioiosa e radiosa, ora degna di trasfigurarsi in mito, essa stessa ormai matrice di mitopoiesi. È quasi inutile rammentare l' importanza della geniale rilettura che Baiardo opera di Properzio ( che proprio allora, nella finitima Bologna, un grande umanista come Beroaldo andava proponendo in un memorabile commento ) , di Catullo, di tutto l ' Ovidio elegiaco ed erotico ( particolarmente degli Amores e delle Heroides), finalmente spo­ gliato di tanti allegorismi moralizzanti di ascendenza medievale; né va mai scordato Virgilio, così come non va dimenticato che certa domestica quo­ tidianità delle piccole gioie d'amore ci riporta a Tibullo, a certo Orazio. In sostanza, nel Canzoniere boiardesco aleggia una robusta tensione natu­ ralistica, una laica e disincantata rappresentazione di Amore che, su piani ben diversi rispetto a quelli petrarcheschi, ci riconduce fino al cuore della grande poesia latina, oggetto da tempo delle cure dei maggiori umanisti e delle loro scuole. Non a caso si affaccia ormai anche in Baiardo l 'inquieta e tesa pagina di Lucrezio, la cui diffusione ( benché riscoperto da Poggio fin dal I4I8 ) va accentuandosi proprio nella seconda metà del secolo. L'epicureismo lucreziano, nella sua accezione più superficialmente vulgata, si lega negli Amorum libri all 'idea di una nuova vita da orientarsi legittimamente verso una felicità tutta terrena. Così è lucreziana l ' invocazione ad Amore in I, 9: «Alto diletto che rallegri il mondo » ; ancora in I, 4 « l'alto diletto » dona­ to da Natura all 'uomo coincide con la persona di Antonia. È interessante notare che l 'apostrofe - che utilizza lo stesso modulo espressivo per saldare la figura della donna a quella d 'Amore - sia la stessa rivolta da Lucrezio a Ve­ nere nei primi versi del De rerum natura, « hominum divumque voluptas » . L a corrispondenza s i arricchisce così di un terzo elemento, e l'asse An­ tonia-Amore-Venere è a sua volta ricollegabile con la visione della donna in I, 6 (vv 9-I4 ) , in cui la raffigurazione della protagonista letificante è riconducibile al modello mitologico della nascita di Afrodite, con i fiori che sbocciano laddove la dea ha occasione di passare. Antonia è, inoltre, al v. 6, colei « che vuoi che 'l mondo se innamori » . Ancora : i vv I-4 di I, 9 sono una riscrittura di celebri versi lucreziani; infatti « e le tempeste e i venti fai restare » corrisponde al « te fugiunt venti, te nubila caeli l adventumque tu­ um » , così come il v. 3 riassume i « tibi rident aequora ponti l placatumque nitet diffuso lumine caelum » insieme al « tibi suavis daedala tellus sum­ mi tti t flores » . L a seconda quartina del sonetto amplifica poi con esempi mitologi.

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L'APPRODO DELLA LETTERATURA ci il motto virgiliano « Omnia vincit Amor et nos cedamus Amori », che Baiardo ritraduce a più riprese sia nel Canzoniere sia nell'Innamorato ( lo stesso invincibile paladino è appunto vinto d'Amore ) . Un naturalismo di ascendenza epicurea, ora a venature lucreziane ora a venature virgiliane, si accampa perciò nel cuore stesso della fucina ideativa del Baiardo. La concezione lucreziana era inoltre in grado di fornire un fondamen­ to teorico essenziale al binomio Natura-Amore che, già ben presente in Petrarca come uno dei fulcri del suo cristiano rovello esistenziale di fronte alla invincibilità di Eros, si moltiplica a raggiera negli Amorum libri come accettazione senza traumi (diversamente appunto che in Petrarca) di que­ sto "inizio" in cui si radicano l 'uomo e il cosmo stesso. Si guardi a III, II, vv. s-8: «Vogliàn noi creder che Natura faza l da tanto fredo uscir tanto calore ? l On ver che la possanza sii d'Amore l che l 'ampio mondo e la Natura abraza ? » ; qui si esprime quella stessa gerarchia che pone Amore al di sopra della Natura, coniugando indissolubilmente le due forze come motori del mondo, già espressa in I, 10, vv. 12-14: «Natura tal beltà non può creare, l ma quel tuo gentil lustro vien da Amore, l che sol, che tanto puote, te 'l pò dare » . Nel sonetto III, II la fisica epicureo-lucreziana si contamina con l 'ossimoro petrarchesco "ardere-agghiacciare", sviluppando per ciascun verso della prima quartina i due campi metaforici : Antonia è il monstrum, l 'essere portentoso che Amore, contravvenendo alle leggi di Natura, ha creato con atomi ( i lucreziani primordia rerum) di origine diversa ( forse è presente anche la connotazione latina di ostilità) , facendoli coesistere nel medesimo essere per dimostrare all'uomo la sua potenza assoluta. L'allusività lucreziana, così preziosa e raffinata, non è solo indice della perfetta padronanza da parte di Boiardo dei più consumati canoni umani­ stici : essa è interessante anche perché mostra come, nel pieno dell 'esplosio­ ne emotiva del dolore amoroso, il poeta tenti una spiegazione "meccanici­ stica" e razionale che possa fornirne una giustificazione rasserenante, nello spirito della stessa tradizione epicurea e lucreziana. Di là, comunque, da queste significative reminiscenze, resta fondamentale negli Amorum libri il modello dei "romanzi" amorosi degli elegiaci: basti pensare al ricorrere di temi emblematici quali la simulazione e la perfidia della donna, la sensualità della passione, i pegni amorosi, la figura del rivale, la separazione dali 'ama­ ta, in cui, pur spesso mediati dalla lezione petrarchesca, ricorre la più varie­ gata e ricca topica cara ai poeti latini. Da ricondursi alla matrice ovidiana, specie deli'Ars amatoria, è anche la concezione dell'amore come servitium, già ben presente nella poesia dello Strozzi, ad esempio. Interessante poi è la consuetudine boiardesca di "tradurre" le riprese classiche con stilemi dan32

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO teschi e petrarcheschi, in una sorta di doppia parti tura testuale ( Dante, ad esempio, aiuta Baiardo a "citare" Virgilio in n, 44 o Ovidio in I , I3 ) . La costituzione del testo boiardesco si realizza così all' incrocio delle reminiscenze tratte dai due sistemi culturali e letterari, in una preziosa e puntigliosa pratica di intarsio. È possibile individuare un ulteriore segno di questa raffinata trama scrittoria nel modo stesso con cui egli si giova del riferimento mitologico : i motivi trascelti ( specie da Ovidio e Properzio ) sono di supporto a significati profondi, legati alla riflessione sul percorso della vicenda amorosa ed esistenziale (così è per Orfeo, Narciso e Filamela, ad esempio ) e fortemente incardinati nel sistema lirico-espressivo. Ancora una volta, insomma, assistiamo al primato della "letterarietà'' e della sua mitopoiesi, che caratterizza la squisita identità culturale delle corti padane e soprattutto di quella estense. In questa allusività raffinatissima, in questo gioco di decodifica delle stratificazioni molteplici del testo, caro al cortigia­ no colto, Baiardo ricerca il suo pubblico ideale, il suo referente privilegiato, in grado di percepire tutta la preziosa fattura degli Amorum libri: quello stesso pubblico a cui, fra l 'altro, egli indirizza un testo emblematico come i Tarocchi. Nell'Innamorato infine prende corpo in modo decisivo il modello avi­ diano e metamorfico : anzi nel vorticoso narrare di Baiardo tutto muta e si trasforma in una serie costante di varietas e trasmutazione, cui può far fronte solo l 'eroe dotato di magnanimità generosa. Il codice metamorfico va così legandosi a magia e alchimia ed è attivato anche dalla potente dia­ lettica tra Memoria e Oblio ( la celebre fontana! ) . Dalla "smemoratezzà' nel castello di Dragontina alla figura di Astolfo, al senso metamorfico e vorticoso delle sequenze belliche, alla fata Morgana, ai travestimenti, le ma­ schere e i nascondimenti di Origilla e ancora alle mutazioni di Balisardo, domina il disincanto ironico del poeta affabulatore e intanto interprete dei labirintici sentieri propri dell 'uomo nel mondo sublunare ( anche in ciò vi è una precisa impronta ovidiana ) . Per quel che qui si è detto e per quel che potrà dirsi anche di Ariosto, certo non pare più di tanto presente ai due poeti il topos umanistico dell'uo­ mo come "microcosmo"13. Tra il labirinto "defettivo" del mondo sublunare e della sua incessante cifra metamorfica e il sereno, perfetto mondo degli astri e del cosmo, sembrano essere evidenti solo la separatezza e l 'incom­ mensurabilità degli ordini (come già in Plinio ) . Anzi è proprio l'ordine superiore che scompagina, con i suoi influssi astrali, il mondo sublunare ( si sillaba con procedure laiche ciò che già la cosmologia angelica dantesca aveva suggerito in memorabili terzine della Commedia) : la virtus e l'etica 33

L'APPRODO DELLA LETTERATURA degli uomini boiardeschi e ariosteschi sono della tempra machiavelliana, ovvero dell'operare nel mondo confidando nelle proprie forze, nel proprio apprendistato eroico (sorta di archetipo dei moderni "romanzi di formazio­ ne"), nella propria saggezza che, ovidianamente, è essenzialmente peculiare dei poeti più che dei filosofi speculatori o dei teorici di armonie ireniche e perfette tra micro e macrocosmo, tanto affascinanti quanto lontane dalla "verità effettuale" delle cose umane. Nell 'accostarci ad Ariosto, possiamo affermare che la cosiddetta "ar­ monià' del suo mondo appare piuttosto come il frutto di una riflessione pensosa e tesa sul ruolo dell ' "arte" rispetto alla "natura" ; se di quest'ulti­ ma, infatti, si riconosce il movimento impetuoso e vitalistico, spesso in de­ terminabile, alla prima può competere il difficile compito di riequilibrare il posto dell'uomo nel mondo, ricostituire la sua "naturalità" senza rinun­ ciare all ' inventio. Laddove il Cortegiano del Castiglione sembrava ormai sancire l 'egemonia dell'arte, in un progetto di limitazione delle pulsioni della natura, l 'Ariosto postula ancora la possibilità di un equilibrio, ap­ punto di un "'armonia", che gli appare, poi, l 'unico spazio di autentica libertà e liberazione concesso all 'uomo : nessun ottimismo di maniera, ma una pensosa consapevolezza della difficile costruzione, nella libertà, e non nelle artificiose maglie del vivere cortigiano, del rapporto del l 'uomo col mondo, con la natura. In ciò egli è certo più vicino, di quanto non appaia a prima vista, a Machiavelli piuttosto che ai trattatisti di corte del tempo. Condizione di tutto è, ovviamente, la strenua difesa del poeta, del suo ruolo, della letteratura : ciò appare evidente in quelle vere e proprie "com­ medie" - testi "dialogici", come le definisce Segre - che sono le Satire, gran­ di n eli ' indicare non solo gli irrinunciabili spazi del poeta rispetto ali ' inva­ denza insidiosa del paradigma cortigiano, ma anche, in piena coerenza con la tradizione ferrarese, il primato fondante e legittimante della letteratura. Un Orazio vero, vivo, finalmente riletto in tutte le sue possibili latitudini circola nelle Satire come in certe ottave "riflessive" del Furioso: un altro grande classico che va ad affiancarsi a Ovidio e Apuleio come "maestro di pensiero" della più vivace cultura rinascimentale. Accanto ai latini, solo apparentemente imprevedibile, si percepisce la continua, viva presenza in Ariosto di Dante : in quanto maestro di "linguà' e di "metrica", certo, serbatoio di stilemi (anche bonariamente rovesciati in ironia), ma anche, più di quanto non sembri, fondatore della letteratura come centro del sapere, strenuo difensore della libertà del poeta e del suo difficile compito. Non si potrebbe discorrere compiutamente del Furioso, 34

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO come già del Decameron, senza la Commedia, senza la familiarità che quei veri, grandi poeti e "lettori" di testi ebbero con Dante. La potente tradizione padana filtra anche nell'Ariosto "lettore" di Ora­ zio e di Dante, nell'A riosto capace di reinventarne la lezione, di penetrare con nuove chiavi esegetiche in quei testi, scoprendone ulteriori voci in un vero, grande circuito ermeneutico. Se questo orizzonte di assorta e consape­ vole lettura è l'orizzonte ariostesco, non sorprende che forse la "gionta" dei dolenti Cinque canti non sia poi troppo tarda (come si era soliti ritenere ) quanto a ideazione e composizione : essa rispecchia un cammino da sempre tormentato di Ariosto verso l' "armonia", un terreno in cui la laceratafocies del mondo emerge con continuità. Se i Cinque canti denunciano come la guerra non sia poi solo uno spavaldo e paradossale torneo (come ancora a volte appare nel Baiardo ) , un gioco da poeti, insomma, ma spesso sia un vero massacro senza senso, questo testimonia che le linfe di Alberti, Valla, Erasmo, Beroaldo circolano fin nel cuore della riflessione letteraria cinque­ centesca. Nel Furioso del IS32 Ariosto non rimuove questi "mostri", non ambisce a superare le contraddizioni della natura ( i gioiosi impulsi dell 'amore accan­ to alla cieca brama di morte ) : semmai li esorcizza con la sublime invenzione ( tutta sua) dell'ironia, dello scarto retorico, sottile velo che, nel volgere gli eventi in sorriso, pur fa balenare ( come già in Codro ) il "doppio" inquie­ tante. La vita sta nell 'accettazione di questa ambiguità, nella presa d'atto della sua scorrevole mutevolezza, in una proteica difformità che solo "arte" e "ironià' possono rendere in "armonià' : compito ultimo, ma fondante, del­ la letteratura, del suo poeta-ermeneuta. Se questo è il punto, allora anche lo stesso proteico intreccio del Furioso che tanto ha mobilitato critici e lettori di ogni tempo ha un suo possibile "allogamento": nell'opera ariostesca si manifesta appunto, in tutta la sua disarmonica armonia, il "mondo sublunare", proprio nell 'accezione che le concezioni astrologiche medievali e rinascimentali (così care, fra l 'altro, alla cultura ferrarese) riservavano a tale insieme ( a cominciare dall ' « aiuola che ci fa tanto feroci » del Paradiso dantesco ) . La rappresentazione del mondo sublunare torna del resto in tanta iconologia e grafica delle stesse scuole pit­ toriche rinascimentali ferraresi e bolognesi : ovunque i segni mitici, i trofei allusivi, le figure metamorfico-metaforiche ovidiane richiamano contem­ poraneamente alla guerra e all 'amore, alla pace e ai disordini, alla ferinità e alle discipline atte a indicare le vie della saggezza. In queste raffigurazioni non c 'è armonia oggettiva nell 'inevitabile disordine della realtà scomposta dagli influssi astrologici : l 'unica armonia è riconducibile all'occhio dell'ar35

L'APPRODO DELLA LETTERATURA tista che "ordinà' sulla scena, prospetticamente, la difformità metamorfica del mondo e l 'ardua "scelta" dell'uomo. Quante variazioni iconologiche sul tema allegorico di "Ercole al bivio", caro a Panofsky, proprio tra Bologna e Ferrara ! E quanti "Ercole al bivio" nel poema ariostesco ! In un mondo in cui l 'identità consiste proprio nell'i­ nafferrabilità della sua sostanza, nelle incessanti mutazioni del suo divenire, nell 'apparenza che non rimanda ad alcuna risposta antologica (è persino inutile rammentare tutte le emblematiche valenze di cui si carica, in tale ot­ tica, la splendida invenzione del castello di Atlante), nella "follià' di timbro erasmiano, gli eroi si muovono tra boschi fatati, mostri terribili, lusinghe amorose, ambizioni di gloria, senza percepire a priori il senso ultimo della scelta. La quéte mistica e obbligata dei paladini dei poemi medievali è ormai stravolta : l'orizzonte non è più metafisica, è "solo" fantastico : ovvero miti­ co, ovvero, ancora e sempre, letterario. Solo al poeta è permesso muoversi nel labirinto della realtà sublunare, manifestandola senza apriorismi teleo­ logici o metafisici. Solo a lui è concesso "salire sulla Luna", luogo deputato, nel Furioso, a raccogliere il senno che si perde sulla Terra: dalla Luna (come già per Dante dall'ottavo cielo) la vanità e l 'illusorietà del divenire uma­ no si manifestano appieno. L'Astolfo che sale sulla Luna scende anche agli Inferi, ad evocare, da altra prospettiva, i fantasmi dell'esistenza : la quéte di Astolfo è la vera quéte del poeta-ermeneuta che, nel fissare i limiti cosmici e inferi del mondo umano, ne statuisce definitivamente la natura "subluna­ re", ovvero priva di attese escatologiche o messianiche. Di questo mondo, di questa natura è data la "parola" solamente : la parola delleJabulae, di un apprendistato retorico ed ermeneutico che, in un letterato come Ariosto, si fa grande poesia. Se abbiamo sottolineato con particolare insistenza l 'aspetto "pensoso", la ricchezza ermeneutica di un poema come il Furioso, non è stato certo per sottovalutarne l 'assoluta festevolezza narrativa; centrali nella letteratura, per Ariosto, sono anche e soprattutto la gioia del narrare, il gusto e il piacere del testo, il narrare della gioia e del piacere : gli stessi precetti di quel bona­ rio epicureismo oraziano (certo non lucreziano !) che permea la sua stessa formazione e quella dei cenacoli della corte estense, ambiente al quale egli è legato, ai cui gusti si sa rapportare con ironia ma da cui orgogliosamente, come già il Boiardo, sa difendere il suo spazio, rivendicando appieno la fun­ zione legittimante che leJabulae esercitano nei confronti del Potere. Il poeta sa che quel potere è parte della vanità complessiva del mondo sublunare e, nel discorrerne origini e fasti, induce nel lettore l 'ottica stessa

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO

del "disvelamento" dei limiti ad esso intrinseci ( Guicciardini e Torquato Accetto non sono poi così lontani ... ) : la "storià' di Ruggero e Bradamante è al tempo stesso storia di un amore, di una mitica legittimazione dinasti­ ca e di una messa in fabula dell'apprendistato eroico del signore e del suo potere. Le suggestioni di Baiardo si dilatano così con pienezza nelle ottave di Ariosto. In questo contesto è soprattutto importante rilevare il ruolo giocato dalle ottave d'esordio dei vari canti del Furioso, vere e proprie "forme brevi" di tenore gnomico, sentenzioso o aforismatico nel lungo corpo narrativo del poema14• Il lettore è spesso chiamato ad una cooperazione attiva con l 'autore : al lettore stesso pertiene la necessità della metamorfosi per gio­ care senza remare la sua partita tra immaginario e saggezza, quest 'ultima materiata dall'infinita varietà dei casi umani (il terreno caro a Bandella e al Lasca), cui occorre guardare con l 'arte dell ' "esperire': della curiosità, della prudenza (e questo è il terreno proprio di Guicciardini)15• Il fine è il piace­ re al suo livello magnanimo, la divina voluptas - di cui già si diceva - che fugge gli eccessi e gli estremi (la saggezza oraziana che tenta di dipanare il groviglio metamorfico e proteico della continua avventura umana di segno ovidiano) . Tra memoria e oblio, amore e follia, sogno e favola, fortuna e virtù la dialettica è continua, l 'equilibrio difficilissimo16• Ma la posta in gioco è al­ tissima: ovvero chiamare ogni lettore all'A stolfo che vive in lui per sfidarlo sul terreno della vera conoscenza17, che è appunto consapevolezza delle illu­ sorietà e conquista dell'equilibrio fra gli estremi. Da qui conseguono anche le dure polemiche che in molti canti, specie nella seconda parte del poema, denunciano gli eccessi di violenza dei tiranni e delle corti e le divisioni ferali che attraversano il tessuto connettivo dell ' Italia del tempo e della stessa Europa (questo sguardo europeo del padano Ariosto è, ad esempio, nitido in XXVI, 3I ss.). Se la perenne trasformazione di cose, vicende, eroi, mostri e prodigi è cifra del mondo nel suo apparire fenomenico, la saggezza oraziana porta Ariosto a una vera precettistica laica, a un'etica del comportamento virtuoso. Orazio accompagna Ariosto (già mostrai in altra sede ampia mes­ se di riscontri) a risillabare in modo originale topoi precipui dell'etica classi­ ca: la critica alla vita di corte; il rovesciamento della prassi encomiastica più ipocrita; le dinamiche del desiderio umano (il machiavelliano "appetito") ; l a tensione tra quete materiale e quete intellettuale ; l a varietas interiore; l'accecamento delle passioni; la "bestia crudele", l 'avarizia; l 'equilibrio del saggio e i saperi specifici, letterari in primis, che gli sono convenienti18• Questa è l 'armonia profonda che presiede alla formidabile parti tura 37

L'APPRODO DELLA LETTERATURA metrica, ritmica e stilistica delle ottave ariostesche, questa è la difficile e fragile "misurà' della civiltà rinascimentale e del Furioso. La "dismisurà: l 'eccesso, l 'insaziabilità saranno da altri e in altri tempi legittimate. La mo­ rale classica e laica di Ariosto e di Boiardo - molto vicina a quella che Berlin delinea per Machiavelli e, si potrebbe dire, per Guicciardini - traccia un percorso (tra l' ovidiano Proteo e il machiavelliano centauro, si direbbe ) de­ cisivo per la civiltà culturale europea e per l 'universo amplissimo di lettori che frequentò i loro testi. Si profila così un apprendistato etico del saggio e del "gentiluomo", a cui Boiardo e Ariosto prestano una voce poetica me­ morabile e peculiare, che si nutre anche di altre linfe : dalla trattatistica sul comportamento e sulla "civil conversazione" (fin dalle memorabili consi­ derazioni del De sermone di Pontano ) all'esercizio poetico volgare e neola­ tino nel grande crogiuolo del petrarchismo europeo, ali' arte del novellare fino alla pratica bucolica come utopia di un sé dialogico in armonia con la natura. I due poeti si collocarono così allo snodo di quella moderna morale mondana che conobbe esiti poi radicali tra il mito di Don Giovanni, la filosofia sensistica e libertina e gli approdi inappellabili di Nietzsche, che peraltro invitava a resuscitare la "gaia scienzà' dei trovatori, maestri laici di un'etica dell 'amore nel cuore della cristianità medievale, così cara infatti a Boi ardo e Ariosto, ali 'umanesimo estense : in altre parole, ci balza innanzi un universo etico parallelo non sempre riconosciuto nella sua rilevanza ma che ci ha "coabitato" senza sosta dal Rinascimento ad oggi19• Note 1. Cfr. M. Corti, Percorsi dell 'invenzione. Linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino 1993, pp. 2.2. e 2.5; C. Segre, Introduzione, in L. Ariosto, Orlandofurioso, a cura di C. Segre, Mondadori, Milano 1982.3, p. XXI. 2.. Sempre bene partire da G. Della Volpe, Poetica del Cinquecento. La "Poetica" ari­

stotelica nei commenti essenziali degli ultimi umanisti italiani con annotazioni e un saggio introduttivo, Laterza, Bari 1954; L. Castelvetro, Poetica d'Aristotele. Vulgarizzata e sposta, 2. voli., a cura di W. Romani, Laterza, Roma-Bari 1979. Cfr. anche CAP. 3· 3· Cfr. S. Miano, Le postille di Torquato Tasso alle Annotazioni di Alessandro Piccolo­ mini alla Poetica di Aristotele, in "Aevum", LXXIV, settembre-dicembre 2.ooo, pp. 72.1 -50. 4· Cfr. A. Battistini, Il Barocco, Salerno Editrice, Roma 2.ooo; nonché : l. Berlin, Le radici del Romanticismo, Adelphi, Milano 2.001. Inoltre si tengano presenti i tanti, impor­ tanti contributi di C. Magris. s . Per stare, nella vastissima bibliografia, ai grandi studi "canonici", cfr. E. Garin, La culturafilosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Sansoni, Firenze 1979; Id., Storia dellafilosofia italiana, voli. I e n, Einaudi, Torino 1966; P. O. Kristeller, La tradizione

2. SAGGEZZA ETICA E SUGGESTIONI FILOSOFICHE TRA BOIARDO E ARIOSTO

classica nel pensiero del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze I9753• E inoltre : F. Rico, Il sogno dell'Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Einaudi, Torino I998. 6. Per ogni approfondimento in merito rimando a: G. M. Anselmi, Lefrontiere degli umanisti, CLUEB, Bologna I988; G. M. Anselmi, A. Bertoni, Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, CLUEB, Bologna I997· Per il paradigma "ovidiano", cfr. B. Guthmiiller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Bulzoni, Roma I 997· nonché l'edizione dell' Ovidio Metamorphoseos vulgare di G. Bonsignori, a cura di E. Ar­ dissino, Commissione per i Testi di Lingua, Bologna 2001. Per il contesto bolognese ed emiliano, fondamentali le edizioni e i molti saggi curati nel tempo da L. Chines. 7· Cfr. A. La Penna, Orazio e la morale mondana europea, Sansoni, Firenze I969. 8. G. Fragnito, Intorno alla "religione" dell'Ariosto: i dubbi del Bembo e le credenze ereti­ cali delfratello Galasso, in "Lettere italiane': XLIV, I992, pp. 20 8-39. Più in generale, prezio­ so : A. Prosperi, L'eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Feltrinelli, Milano 2000, soprattutto per quanto sostenuto circa il contesto padano e ferrarese. Per quanto successivamente suggerisco su Machiavelli, rimando a: G. M. Anselmi, La saggez­ za della letteratura. Una nuova cronologia per la letteratura italiana, Bruno Mondadori, Milano I998 (con la connessa bibliografia), punto di partenza comunque per molte mie riflessioni di queste pagine. 9· È bene avere sempre presenti i fondamentali studi di E. Raimondi, da Codro e l'U­ manesimo a Bologna, Il Mulino, Bologna I987, a Rinascimento inquieto, Einaudi, Torino I994· aPolitica e commedia, Il Mulino, Bologna I998. IO. Per il contesto di riferimento: G. M. Anselmi (a cura di), Mappe della letteratura europea e mediterranea, 3 voll., Bruno Mondadori, Milano 2000-01 ; Id., L'eta dell'Uma­ nesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell'Europa moderna, Carocci, Roma 2008. I I. Fondamentale l'edizione messa a punto da T. Zanato, Einaudi, Torino I998, da cui traiamo le citazioni. Per il contesto : l. Pantani, "Lafonte d'ogni eloquenza': Il Canzo­ niere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocentojèrrarese, Bulzoni, Roma 2002. Di M. Santagata, Pastorale modenese. Boiardo, i poeti e la lotta politica, Il Mulino, Bologna 20I 6. I2. Cfr. G. Inglese, L'intelletto e l'amore. Studi sulla letteratura italiana dal Due al Trecento, La Nuova Italia, Firenze 2000. Di l. Berlin, per Machiavelli, cfr. Controcorrente. Saggi di storia delle idee, Adelphi, Milano 2000. I 3. Cfr. F. Rico, L'uomo come microcosmo. Lafortuna di un'idea nella cultura spagnola, Il Mulino, Bologna I 994· Sul "percorso" dantesco cui si fa cenno poco dopo è esemplare : E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Bruno Mondadori, Milano 2001. I4. Su aforismi e "forme brevi", sono importanti studi e raccolte a cui da tempo lavora G. Ruozzi. Tra i tanti, cfr. G. Ruozzi (a cura di), Epigrammi italiani. Da Machiavelli e Ario­ sto a Montale e Pasolini, Einaudi, Torino 2001. Inoltre : G. Forni, Forme brevi della poesia. Tra Umanesimo e Rinascimento, Pacini, Pisa 2001. I5. Utile C. Dini, Ariosto: guida all'Orlando furioso, Carocci, Roma 2001, dotato di documentata bibliografia anche su alcuni temi qui affrontati. Fondamentale, poi, per molte nostre riflessioni, ciò che argomenta C. Bologna nel saggio dedicato all' Orlandofurioso in A. Asor Rosa (a cura di) , Letteratura italiana. Le opere, vol. n, Einaudi, Torino I993· Sempre imprescindibili inoltre gli studi di L. Caretti e di W. Moretti. Si segnala anche J. E. Everson, The Italian Romance Epic in the Age ofHumanism: The Matter of Italy and the World of Rome, Oxford University Press, Oxford 2001. Cfr. ora M. C. Cabani, Ariosto, i volgari e i latini suoi, Pacini Pazzi, Lucca 20I 6. 39

L'A PPRODO DELLA LETTERATURA 16. Sulla dialettica tra memoria e oblio, centrale in Baiardo e in Ariosto, è bene consul­ tare H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell'oblio, Il Mulino, Bologna 1999. 17. È in definitiva il lettore "sublime" ed eroico cui allude G. B. Conte nei suoi vari studi, di grande rilevanza metodologica generale (specie in relazione ad autori come Lu­ crezio e Plinio) . 18. Cfr. gli studi citati supra, nota 6. 19. Sulla morale mondana del Rinascimento A. Quondam ha scritto, in più di una sede, pagine rilevanti; ma già prima, in riferimento alla ricezione di Orazio nel contesto europeo moderno, ne delineò una celebre interpretazione A. La Penna (cfr. supra, nota 7). Ottimi spunti anche in U. Curi, Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Bruno Mondadori, Milano 2002.

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Metafora, metamorfosi e conoscenza nel Rinascimento

La cultura umanistica del Quattrocento pone al centro della sua riflessione la "parolà' come atto fondativo del conoscere e il "dialogo" come funzione essenziale di ogni atto ermeneutico (temi già sostanzialmente dispiegati in alcune pagine memorabili del Petrarca latino). I nuovi assetti del sapere, perciò, ruotano intorno alla retorica e alla letteratura: si va costituendo una enciclopedia "orizzontale" e aperta, del tutto diversa dai modelli medievali, in cui una laica curiositas, poco intimorita da pregiudiziali colonne d' Erco­ le, esplora il reale supportata da una robusta rimeditazione dei fondamenti retorici classici. Ciò premesso, va però immediatamente ricordato che il percorso degli umanisti non è affatto lineare né omogeneo e le posizioni in campo, anche rispetto agli amati modelli antichi, sono differenziate, nella consapevolezza di trovarsi di fronte ad una partita decisiva nella tumultuosa ridefinizione dei parametri epistemici che consegue dalla crisi dei modelli medievali. Già Dante, del resto, ponendo al centro della sua esperienza il fare letterario e implicitamente rimescolando le gerarchie disciplinari della scolastica e de­ gli stessi disciplinamenti universitari del suo tempo, aveva messo all 'ordine del giorno l' inadeguatezza di quegli statuti e aperto la strada ad almeno due fondamentali modelli classici, uno non meno eclatante e significativo dell 'altro, anche ai fini del nostro discorso : Virgilio e Ovidio1• Il dibattito che attraversa l ' Umanesimo quattrocentesco è sostanzial­ mente riconducibile al tema dell 'arte retorica e della sapienza letteraria come "ornato" o come "conoscenzà'. Va detto che la Poetica di Aristotele viene tradotta in latino nel 149 8, la prima edizione del testo greco è del 1508 e il primo commento latino, di Robortello, è del 1548. Il discorso quat­ trocentesco prescinde perciò di fatto dalla Poetica, ma mette in campo (la conoscenza della produzione letteraria aristotelica era ampia) questioni che diverranno poi decisive nei dibattiti cinquecenteschi. Non v 'è dubbio che la posizione certo più originale e innovativa si at41

L'APPRODO DELLA LETTERATURA testa su un crinale che, tra Lorenzo Valla, Poliziano, Ermolao Barbaro e Pontano, a gran voce reclama per la retorica e per le sue figure (in primis i traslati e perciò la metafora) una vera e propria funzione conoscitiva : in al­ tre parole, una "retorica della verità" (espressamente teorizzata in premessa a molti testi storiografici umanisti) ancorata agli esempi di Tucidide, Ari­ stotele, Tito Livio, Quintiliano. Va pur ricordato, tuttavia, che la rigorosa ricerca della Verità presente nei testi platonici (trasmessa attraverso quell'e­ laborazione altissima della lingua letteraria che fu propria del grande filo­ sofo) e il richiamo costante dell'esule in terra alla "cara patrià' dell ' Uno, di plotiniana memoria, non sono affatto estranei a questi sviluppi del sapere rinascimentale. Come molti hanno richiamato, il sincretismo di certa cul­ tura rinascimentale fu episodio vero e non riducibile a facile irenismo bensì collegato a una risoluta esigenza di forgiare strumenti conoscitivi nuovi, allineando alcune essenziali coordinate del pensiero classico al tema del "linguaggio" e della "verità" ovvero dell 'onestà intellettuale della saggezza laica1• Del resto anche coloro che tendevano a collocarsi su altre posizioni e su altri modelli non lo facevano in un 'accezione riduttiva della funzione lette­ raria, ma ne amplificavano le potenzialità "dilettevoli" come condizione di un accesso mitopoietico al sapere, i cui viatici erano soprattutto affidati ai poeti latini o alla mirabile prosa dell 'amato Cicerone. L'appello a Cicerone del resto era, nei più avveduti umanisti, non un mero riferimento all 'onore di un glorioso modello di cursus stilistico, bensì un'arma efficace per ri­ badire la centralità della "parolà' e per legittimare appieno la dignità del sincretismo filosofico, dell 'ermeneutica come "dialogo" : una ormai neces­ saria riscrittura del ciceronianesimo moderno dovrebbe attuarsi del tutto e far perno intorno a testi come il Definibus o il De legibus per dar conto di ciò che rappresentò il pensiero di Cicerone nel più rilevante percorso della tradizione occiden tale3• È quindi entro questi picchetti che andrebbe colto il dibattito di fine Quattrocento tra Poliziano, grande erede della linea valliana, e Cortese, interprete forte del ciceronianesimo umanistico : momento culminante di posizioni di ampio respiro, autenticamente complesse e volte a cogliere le vie moderne del sapere, il nesso con i modelli antichi, la funzione cono­ scitiva della retorica. La stessa linea valliana, tradizionalmente oggi consi­ derata vinta ed emarginata dal classicismo ortodosso e controriformistico, andrebbe forse rivalutata alla luce del dibattito cinquecentesco sulle poe­ tiche e sulle funzioni retoriche della lingua, così da coglierne una fortuna (evidente soprattutto in campo storiografico e filologico) meno "reclusà'

3· METAFORA, METAMORFOSI E CONOSCENZA NEL RINASCIMENTO

di quanto fino ad oggi si è creduto (e con il fondamentale connesso ruolo della lezione di Quintiliano ) 4• La sostanza, alla fine di tutto, è data dalla grande ricchezza del dibattito umanistico quattrocentesco : è vero che, più che a organiche trattazioni, occorre per quel periodo rifarsi soprattutto alla varietà dei testi poetici e letterari, latini non meno che volgari, in cui quel dibattito fruttificò. Avvicinandoci così al cuore della nostra trattazione, osserveremo che l 'uso della metafora come essenziale strumento conoscitivo è connaturato ad autori fra loro diversissimi : basti pensare, nel secondo Quattrocento, alle liriche volgari di Pico della Mirandola, ove un complesso sistema metafori­ co dà conto, per conoscerla, della contradditoria fenomenologia amorosa; oppure, altro esempio, si pensi al Canzoniere boiardesco, vero trattato laico sull 'amore e sull'etica di vita che se ne può trarre, in cui l 'apparato metafo­ rico svolge un ruolo essenziale di reinvenzione, anche in chiave filosofica lucreziana, del linguaggio lirico. E che dire, ancora, di grandi testi poetici latini di umanisti come Marullo, Pontano, Sannazaro, Basinio Basini, in cui l 'uso della metafora e la sua stretta connessione con poetiche legate all'avi­ diana arte della "metamorfosi" (sul nesso inscindibile fra metafora e meta­ morfosi nella cultura rinascimentale diremo poco oltre) affinano un 'eccel­ lenza della parola come vertice ineludibile di ogni pratica di conoscenza ? È vero, peraltro, che all 'interno dell 'Umanesimo non mancarono voci autorevoli intente a contestare !"'arbitrarietà" del linguaggio, il suo possibi­ le uso "doppio", il rischio di usarlo come "mascherà' della realtà o lenocinio formale tirato per ogni dove a seconda delle convenienze : raffinatissimo umanista, erede coerente della linea valliana della "retorica della verità", Era­ smo più volte denunciò tali rischi con grande perizia, soprattutto in uno dei suoi (sempre troppo poco letti) Colloqui, non a caso intitolato Cose e

vocaboli5• Non lontano dalla posizione erasmiana si colloca la serie di paradossali argomentazioni che il grande umanista bolognese Antonio Urceo Codro conduce nei suoi Sermones: la realtà è fabula ingannevole, tutto è gioco illusorio di rimandi, ogni conoscenza che non sia fondata sulle Jabulae è arrogante prevaricazione. L'arte retorica del poeta ( Codro fu un abilissimo manipolatore di metafore/metamorfosi) è l 'unica in grado di conoscere un mondo illusorio, nella consapevolezza della sua stessa illusorietà di fondo. È, tutto sommato, un percorso che porta all 'idea di metafora come "ma­ schera", che sarà consona al Caro e che apre la strada sia alla via del rigoroso razionalismo antiretorico e antimetaforico di Ramo sia alla linea popolare, paradossale (tutta volta a demistificare l 'arbitrarietà della parola figurata 43

L'APPRODO DELLA LETTERATURA barocca) propria (siamo ancora a Bologna !) di un Giulio Cesare Croce e del suo geniale personaggio Bertoldino: il quale, non comprendendo le meta­ fore e interpretandole alla lettera, intende tutto « alla riversa » , al rovescio, mostrando l 'esile confine tra realtà e verità, maschera e menzogna che coe­ sistono all'interno del linguaggio delle élites dominanti6• In questo complicato ordito di posizioni, emerge alla fine la centralità della parola figurata, del linguaggio letterario e della figura principe del suo articolarsi, la metafora: di ciò occorre discutere per gli uomini dell' U­ manesimo e del Rinascimento ed è per questo che, in altra occasione, ebbi proprio modo di parlare dell'emergere rivoluzionario di un'episteme im­ perniata sulla saggezza della letteratura, di lunga durata, fondativa almeno fino all'epoca romantica nei termini posti dalla cultura rinascimentale7• Per quanto qui si vuole argomentare, un'essenziale funzione di snodo resta consegnata a testi del Pontano di grandissima rilevanza per la storia letteraria e culturale, I 'Actius e soprattutto il De sermone. In quest 'ultimo testo, la centralità conoscitiva del parlare e del conversare è il cuore della trattazione : si pongono le fondamenta di una vera e propria antropolo­ gia della parola, del gesto, del comportamento, del senso di sé rispetto agli altri, che conoscerà sviluppi decisivi nella cultura italiana ed europea dei secoli successivi, dal Bembo al Castiglione, al Casa, al Guazzo. I termini chiave dell'argomentazione pontaniana sono urbanitas, nel primo libro, e facetudo, nel terzo. Si ponga particolare attenzione al secondo dei due vo­ caboli :facetudo indica per Pontano ben di più (e di più complesso) rispetto a una semplice capacità di in trattenimento fondata su bei motti e su argute narrazioni. Essa abbraccia un'area semantica molto vicina a quella "dilet­ tevole cognizione" di cui, nel tardo Cinquecento, e proprio a proposito di linguaggio letterario e di metafora, argomenterà Tasso in dialogo col Piccolomini8• La conoscenza è "dilettevole", è piacere, è la forma più elevata della vo­ luptas di cui, non a caso, proprio Lorenzo Valla discettava nel suo giovanile De voluptate, audace riscrittura umanistica di antiche partiture epicuree e lucreziane. Né va dimenticato che a Pontano dobbiamo una delle prime esegesi umanistiche a Plauto : intorno all'opera plautina, al suo lessico, alla funzione primaria da assegnarsi a quellajàcetudo si cimenteranno i migliori umanisti, in particolare a Bologna (da Beroaldo al Pio) . Il tassello è di gran­ de significato e rinvia ad una riflessione pontaniana sullajàcetudo saldamen­ te ancorata all'esplorazione pionieristica di testi capitali della letteratura latina (P lauto rimette in gioco anche il problema della "mascherà' e dei volti molteplici della conoscenza, quale il teatro per antonomasia rappresenta). 44

3 · METAFORA, METAMORFOSI E CONOSCENZA NEL RINASCIMENTO

La parola "ornata" è perciò, in Pontano, del tutto intrinseca al conosce­ re, al piacere, allo stare nel mondo, ed è quindi intrinseca ali' urbanitas, alla nuova società cittadina e cortigiana che si andava affermando nei principali centri italiani ed europei (come non pensare, per quel periodo, ad esempio alla raffinatissima corte borgognona?). Il "senno" preteso dali' urbanitas è faceto, è dilettevole, invita alla curiosità laica per il conoscere, attraver­ so forme molteplici di raffinate esperienze letterarie, quali ad esempio il narrare "dilettevoli istorie", come teorizzeranno Castiglione e in seguito il Guazzo, ma come poi di fatto si affermerà con il pieno espandersi della novellistica volgare nel Cinquecento e oltre. Anche attraverso questo nostro particolare percorso, abbiamo potuto percepire in tutta la sua evidenza il rapporto fortemente innovativo che la cultura umanistica intrattiene con i modelli classici greci, con un ruolo de­ cisivo di testi riscoperti di Tucidide, Platone, Aristotele ; fortuna di Aristo­ tele che, specie in connessione con il dibattito cinquecentesco sulla Poetica, si rafforzerà ulteriormente. Ma è ancora essenziale la grande mediazione dei classici latini : Cicerone, certamente, Quintiliano, caro per eccellenza a Valla e Poliziano, ma anche i grandi poeti maestri di saggezza9• Si pensi ali' influenza di Lucrezio e Orazio, decisiva, come si è visto, per comprendere l 'elaborazione etica e paideutica di autori come Baiardo e Ariosto. Sempre in chiave sapienziale, si pensi ovviamente a Virgilio, a Seneca, al dettato d'amore degli elegiaci, mitografi e mitopoieti al tempo stesso ; di P lauto e del teatro già si è detto. Questo magistero sapienziale, che percorre tanti filoni poetici e tanti generi letterari, è tenacemente intreccia­ to alla lezione dei grandi scrittori affabulatori, costante anche per tutto il Medioevo e ripresa e rinnovata nell'ambito umanistico e rinascimentale. Intrecci, storia, esiti sapienziali, ricerca di verità sfuggenti, riti iniziatici ed esoterici, proteico dipanarsi della realtà stanno al centro di due testi capitali per la tradizione occidentale, l'Asino d 'oro di Apuleio e le Metamorfosi di Ovidio. Capolavori indiscussi di letteratura, continui referenti per ogni for­ ma di apprendistato sapienziale, difficilmente oggi si riesce a comprendere a fondo quanto questi testi abbiano davvero rappresentato per la fondazio­ ne della cultura europea. Se l 'allego resi sapienziale applicata alla Bibbia, ai testi sacri, alla patri­ stica è filone indispensabile per definire, come tanti del resto hanno più volte ribadito, le radici cristiane ed ebraiche dei nostri saperi (Pico della Mirandola l 'aveva già mirabilmente colto), è altrettanto indispensabile co­ niugarvi il tracciato classico cui abbiamo appena accennat010• In particolare, per il discorso che qui vogliamo sviluppare intorno alla 45

L'APPRODO DELLA LETTERATURA metafora, occorre fare una pausa e ripartire da Ovidio e dalle sue Metamor­

fosi. Non è un caso che grandi autori del Novecento, da Canetti a Borges, da Ungaretti a Calvino, per citare solo alcuni nomi, abbiano spesso fatto riferimento al testo ovidiano nel parlare di letteratura, di metafore, di miti, come da tanto ci andava ricordando Ezio Raimondiu. Canetti, in partico­ lare, felicemente affermava che lo scrittore è custode delle metamorfosi e delle grandi immagini mitiche. Il testo ovidiano percorre l 'intera storia della tradizione occidentale, dalla tarda antichità al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco, fino for­ se alla moderna avanguardia. Come comprendere Ariosto, Tasso, Marino, senza il grande poeta latino ? Ovidio si accampa anche nel cuore del Can­ zoniere petrarchesco, dove alcune grandi canzoni sono appunto canzoni di metamorfosi ; ma già in Dante è auctor fondamentale, con peso crescente fin nel Paradiso ( si pensi al "trasumanar': cristiana metamorfosi del Dan­ te viator ultraterreno) : l' intreccio fra metamorfosi, metafora e allegoria è esemplare nell'opera dantesca. La stessa riflessione novecentesca - lo osser­ vavamo - torna sul tema del nesso col passato in chiave "ovidianà': se per Canetti e Borges si può conservare solo quel che si trasforma e soltanto ciò che si trasforma è vera esperienza, ben si comprende l 'affermazione bor­ gesiana secondo la quale, forse, la storia dell'umanità è la storia di alcune metafore, laddove per "metaforà' si intende qualcosa che continuamente si trasforma. La metafora è appunto una trasformazione : noi stessi siamo la trasformazione di qualcosa che c 'era un tempo. È evidente perciò che tra metafora e metamorfosi c 'è un rapporto mol­ to stretto, basato sul principio di trasformazione ( Proteo, la figura cara agli umanisti ) . Del resto anche il genere letterario moderno per eccellenza, il roman­ zo - come ci ha insegnato Bachtin -, è predestinato alla "metamorfosi", al mutamento, assume regole e leggi per trasformarle continuamente, è mo­ dello di se stesso, in un continuo divenire. Metamorfosi e metafora indicano l 'universale trasformarsi che è alla base di tutto (questo è il senso dell'ultima parte del poema ovidiano ) : nella struttura profonda dell'uomo certe metafore non hanno più un mero va­ lore letterario, ma rappresentano il modo stesso di rapportarsi alle cose, di reinventare e rimodellare continuamente spazio e tempo invece di subirli passivamente. Tali radici profonde sono il nucleo essenziale della pratica di alcuni grandi autori : da Dante a Tasso e oltre ( l 'età della "saggezza della letteratu-

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rà', appunto) la metafora organizza, anche mentre emerge, i nuclei segreti di tutta la poesia, in una sorta di osmosi col procedimento metamorfico ovidiano. In questo modo le metafore divengono anche "maschere" (tema caro al dibattito cinquecentesco ma anche, in altra veste, postmoderno), immagini teatrali o nuclei di soluzioni visive in stretta correlazione tra scrit­ tura e figura (le imprese, l 'emblematica, fino alla moderna pubblicità)u. Siamo giunti a uno snodo decisivo per rapportarci a temi cruciali del dibattito critico. Nella stessa grande tradizione otto-novecentesca, come magistralmente ci ha insegnato Claudio Magris, la materia va definendosi come una sorta di dominio di Proteo, molteplice e inafferrabile, ovvero dominio della metamorfosi; proprio questa consapevolezza del mutamento perenne, del frazionamento dell' lo stesso, della molteplicità rifratta mette in crisi il grande stile classico aprendosi alla "dissoluzione della totalità" che è poi la cifra dell 'epoca nostra : se tutto ciò è fondato, allora la linea ovidiana della tradizione occidentale assume un valore eccezionale; a partire da essa occorrerebbe forse riscrivere la stessa storia del classicismo, ulteriormente risillabando le ben note suggestioni care alla filosofia nicciana. L' intreccio tra metamorfosi e metafora infatti non inerisce solo a una questione di poetica o di fare letterario : indica un abito che ha attraversato la cultura occidentale, ponendola sempre sul crinale della destabilizzazione dell'ordine classico13• Eugenio Garin e altri studiosi, del resto, avevano da tempo avvertito della contraddittoria complessità di Umanesimo e Rinasci­ mento, per nulla riconducibili a vetusti modelli di irenico equilibrio e di ar­ monia delle parti14• Proteo convive accanto a Platone, il "razionale" Alberti porta in scena le maschere irridenti del Momus e delle Intercoenales, il sapere mitografico e mitopoietico vive accanto al ramismo, Adone accanto a Gali­ lei e Vico; in piena stagione illuministica si fanno i conti con miti, metafore, saperi poetici e retorici (Apollo e Dioniso... ?). Ovidio allora ha da sempre attivato un'altra storia, è stato mallevadore di un universo parallelo che ha coabitato con le misure classiche, le filosofie razionalistiche, il grande stile ; ha determinato la complessità irriducibile dei maggiori classici. Dalla ine­ sausta e funambolica massa della sua "narrazione infinita" (per riprendere non a caso una terminologia legata a Wagner, il mitografo per eccellenza della modernità, insieme a Nietzsche) emerge il controcanto necessario per leggere davvero l' "armonica disarmonià' di Boiardo o Ariosto, la potenza inventiva di Dante, le maschere di Machiavelli e del grande teatro secente­ sco europeo, la stessa cifra genetica del romanzo moderno. Verrebbe da dire : chi ne ha la forza riprenda le Metamorfosi e riscriva la storia della nostra tradizione, in parallelo a ciò che a suo tempo ci sug47

L'APPRODO DELLA LETTERATURA geriva già Berlin15; la crisi del grande stile così chiaramente affrontata da Magris, ovvero la "dissoluzione della totalità': forse finirebbe con l 'apparire come l'emersione e la legittimazione piena di un paradigma ovidiano per eccellenza, collocato tra metamorfosi, metafora e trasformazione, allogato, almeno dal Trecento in poi, nel "cuore parallelo" (decisiva "antimaterià' coessenziale alla "materia" classica) della cruciale tradizione occidentale. Bella questione, questa, che ci imporrebbe davvero e definitivamente nuove cronologie di lunga durata, rivisitazioni delle gerarchie disciplinari consoli­ date (il primato della letteratura, di umanistica memoria, assumerebbe uno spessore epistemologico decisivo), attenta esplorazione dei nessi profondi del linguaggio poetico. Il gemmare della metafora come metamorfosi sembra costituirsi infatti nel nucleo del linguaggio poetico tra Medioevo e modernità ovvero del lin­ guaggio come tale, origine (ci si consenta un uso alla Cacciari di questo ter­ mine) di quella riflessione che, da parallela e coesistente con il classicismo, si farà mallevadrice della modernità, della crisi finale di una "coabitazione" ormai impossibile, messa in campo di una proteica, inafferrabile moltepli­ cità, di una ovidiana "leggerezza" (il tema non è caro solo ai "filosofi della crisi': ma è stato genialmente risillabato - com'è noto - da ltalo Calvino) che ha frantumato ogni pretesa egemonica dei saperi totalizzanti16• Lo scenario di queste dinamiche è del tutto aperto e indecifrabile nei suoi possibili sviluppi : certamente alcuni saperi nuovi, come quelli sernio­ logici, hanno posto in essere un lessico che ben rappresenta le potenzialità epistemiche e conoscitive oggi di fronte a noi. Umberto Eco ci parla di enci­ clopedie "aperte", "a rizomà', "orizzontali", "alternative all 'albero di Ramo"; di una semiosi che si ancora ai testi, di procedure descrittive "a mappa" che ricollocano e rilegittimano le vie analogiche, mitopoietiche, metamorfiche proprie del linguaggio letterario17• È bene a questo punto tornare a Ovidio, alla genesi di tutto quanto fin qui esposto. Nei vv. 2 3 0- 2 5 2 del libro I delle Metamorfosi è rappresentata la prima delle innumerevoli trasmutazioni individuali allestite dal poeta nel suo irrefrenabile e funambolico spettacolo narrativo : la trasformazione del feroce Licaone in lupo, voluta da Giove proprio per punire la sua efferata crudeltà. È stato ben detto : « L'uomo feroce come un lupo diviene un lupo vero e proprio. È interessante notare che, in questa prima metamorfosi del poema che riguarda un singolo individuo, è una specifica metafora a con­ figurarsi come il nucleo generativo della trasformazione » 18• Il crogiuolo del processo metamorfico è dunque strettamente correlato all 'essenza me­ taforica di cui si nutre. Fra l 'altro, sia detto per inciso, l 'area semantica che

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pertiene alla ferinità umana, alla sfera istintiva delle pulsioni più profonde e devastanti, non conoscerà altro lessico efficace, specie in politica, prima di Freud, che quello metaforico-metamorfico attinto dal mondo animale, come è clamorosamente evidente ad esempio in Dante e Machiavelli e come è ancora attestato nella geniale favola di metamorfosi moderna di Jekyll e Hyde, metafora memorabile del nostro "doppio". La forte valenza poetica delle metamorfosi animali è uno dei più rile­ vanti nuclei dell'opera ovidiana, tale da veicolare una pressante consapevo­ lezza della realtà come trasformazione perenne, del mutamento come sta­ tuto frammentario e incessante delle cose, degli uomini, della natura (ben l 'aveva colto Dante nella sua "garà' con Ovidio !), esso stesso propugnatore di inesauribili serie metaforiche. Cervi, orsi, cornacchie, ragni, centauri so­ no il mondo di Atteone, Callisto, Aracne e tanti altri personaggi del mito ovvero della favola : la favola è il luogo della trasmutazione e il poeta che ne narra è il vero artefice della sapienza fuggevole del tutto, come ben coglierà il grande umani sta bolognese Codro. Non vanno però dimenticate altre co­ stellazioni metaforiche che trapassano dal mondo metamorfico di Ovidio : difficile non pensare alla sconfinata serie di sequenze poetiche e allegoriche cui ha dato vita, per secoli e per impulso determinante di Petrarca, la favola di Dafne tramutata in alloro, metamorfosi/metafora preminente nella mi­ topoiesi lirica europea. E ancora: il mito tragico di Fetonte non penetra for­ se fin nei discorsi di certe avanguardie novecentesche, come il futurismo ? Il grandioso apparato scenografico ovidiano, che si dipana tra Sole, lu­ ce, costellazioni, Aurora, ore, stagioni in tanti punti del suo testo (e spes­ so in opposizione alle tenebre della morte, come mostra la stessa favola di Proserpina, altro mito essenziale per la nostra cultura), produce serie me­ taforiche senza fine e nuclei poetici dal sapore iniziatico e sapienziale che, da Dante a Marullo, a Bacchi, a Milton, celebrano ancora i loro fasti con Il flauto magico di Mozart e giungono a Rilke o a Célan19• Ancora, nel testo ovidiano troviamo la personificazione di vizi (memorabile la rappresenta­ zione dell' "invidià') o metamorfosi individuali, come quella di Narciso, ancora oggi essenziale per designare con metafore i nuclei più complessi e problematici del nostro Io. Né va dimenticato che sempre ad Ovidio dob­ biamo, nel libro V I I I , la descrizione di Proteo, figura metaforica cara come poche alla cultura umanistica ma - come si è visto - ancora decisiva nella cultura novecentesca per "sceneggiare" la sconvolgente, inafferrabile fram­ mentazione di ogni certezza, quale emerge dalla grande crisi intellettuale, epistemica, politica dei primi decenni del secolo. Si potrebbe proseguire a lungo : la serie di esempi che si possono elen49

L'APPRODO DELLA LETTERATURA care coincide di fatto con l' intero testo delle Metamorfosi. Le conseguen­ ze sul piano della ricostruzione dell'identità letteraria occidentale sono perciò - e già lo dicevamo - di enorme rilevanza : l 'universo metamorfico ovidiano, parallelo e coessenziale agli altri universi letterari europei, non solo si attesta all 'origine stessa delle procedure metaforiche e della loro valenza conoscitiva, come speculum di una inesausta curiositas umanistica, ma delinea anche una funzione complessivamente gnoseologica del poeta affabulatore. La messa in scena dellafobula, del mito, è la messa in scena stessa della frammentaria e proteica trasformazione del mondo, al suo fondo di realtà inconoscibile se non in quei tratti di vita, di natura, di divino che incrocia­ no l 'esistenza dell'uomo e che dominano le pagine delle Metamorfosi. Una funzione gnoseologica che non ambisce a ricostruire la totalità ma inces­ santemente tesse la tela di una enciclopedia letteraria aperta, orizzontale, senza gerarchie verticali, estranea a ogni forma di tassonomiche imperative. L'esistere di questo universo letterario, di questo enciclopedismo affa­ bulatore, di quest 'ansia esplorativa che pure sa di non poter trovare approdi finali, talora intrisa di vene ora epicuree ora cinico-scettiche, è connesso ad un vero e proprio universo parallelo che giganteggia, ad esempio, nel­ la cultura cinquecentesca. Se per certi versi vi si può ascrivere di diritto il disincanto di Guicciardini, con ancora più evidenza ne rintracceremo le spoglie in Rabelais, nei novellisti ( soprattutto il Bandella ) , nei poligrafi provocatori come l 'Aretino o il Berni, nei teorici del comportamento, nei Folengo o nei Doni fino al Tasso dei Dialoghi e certamente nel grande, moderno pensiero di Montaigneo. Ma si pensi anche a un terreno di solito poco praticato, eppure di ampia circolazione fra le élites cinquecentesche : la produzione di testi cavallereschi in quel mezzo secolo che separa Ariosto da Tasso. Grandissima è la mole di testi che vi si possono ascrivere ; nessuno certamente è un capolavoro, ma ciò che più colpisce in essi è proprio l' irru­ zione definitiva e completa della "funzione Ovidio"11• Il valore metaforico-metamorfico delle narrazioni prevale su tutto e la tradizionale quete cavalleresca si espande in una infinità di suggestioni favo­ listiche e mitologiche. L'Adone del Marino ma anche parte consistente di certa funambolica creatività barocca europea hanno sempre questo Ovidio alle spalle. L' intuizione ariostesca della inespugnabile varietas del mondo subluna­ re, del suo disordine, del suo proteico affanno è cifra essenziale della cultura cinquecentesca, e la "funzione Ovidio" ne dà piena ragione : il razionalismo classicistico non espugna i saperi analogici, che sembrano depositari delle so

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uniche chiavi per cercare di giungere alle verità più arcaiche e profonde, matrici peraltro del perenne mutamento del mondo sublunare. Se tutto ciò è già evidente in umanisti come Pico, Marullo, Sannazaro, Galeotto Marzio, Beroaldo o Codro, tanto più tende ad "esplodere" in uno dei generi più alla moda nel secondo Cinquecento, già avallato dalle Symbo­ licae quaestiones del Bacchi, ovvero l 'impresistica e l 'emblematica. lmmagi­ ne mitopoietica, motto sapienziale, allusività cifrata si nutrono pienamente di un sapere letterario (fin dal Quattrocento rapidamente transitato nelle maggiori esperienze pittoriche e figurative) che significa e nomina il mon­ do, fin dove è possibile, fin nelle sue scaturigini più riposte, attraverso le ovidiane procedure metaforico-metamorfichel. Che il quadro del nostro Rinascimento fosse tutt 'altro che uniforme e lineare già lo sapevamo (e del resto l 'affresco di Burckardt l 'aveva a suo tempo e a suo modo ben colto) ; che in tale complessità si pongano le radici di molti tracciati della modernità da tempo, senza voler per forza passare da Nietzsche, lo sosteniamo in tanti ; che tutto ciò passi per un percorso "ovidiano", per un universo parallelo di affabulazione letteraria collocato tra Dante, il Barocco e Foscolo e oltre, questo invece va detto ora con for­ za e assunto come elemento decisamente caratterizzante della tradizione occidentale, fra gli "occulti" promotori della sua stessa crisi, come sostrato clamoroso e ineludibile per chiunque voglia affrontare il pensiero della crisi o, per dirla con Magris, della fine del grande stile. Ovidio, del resto, non è stato mai (neppure ai suoi tempi) maestro di stile elegante e armonico in senso stretto, prototipo dell'aurea misura classicista. Altri erano i modelli : O mero, i lirici greci, Virgilio, Orazio, gli elegiaci. L'enorme, ininterrotta fortuna di Ovidio sta proprio nella sua proteica invenzione narrativa, nella sua laica curiositas, nella sua dissonante (anche in certe scelte stilistiche o metriche) intrusione tra divino e umano, tra il­ lusione e realtà (questo vale anche per altre sue opere, specie per ciò che concerne i Tristia e le Heroides, ad esempio)l3• Se però vogliamo ulteriormente cercare di comprendere la centralità di questo particolare punto di vista in epoca rinascimentale, è bene non trascurare l 'esperienza poetica e gnoseologica (come illustrato nel capitolo precedente) che si snoda a partire da Baiardo e Ariosto, esempi singolari (e di ampio successo) di molte questioni qui affrontate, di altre ancora che occorre verificare, di modalità precipue con cui l' intertestualità preziosa e ricchissima di quei poeti sa navigare, ad esempio, tra Ovidio, Apuleio, Vir­ gilio, Lucrezio ed Orazio, come osserveremo in pagine successive. SI

L'APPRODO DELLA LETTERATURA Preme puntualizzare ora che le suggestioni complesse presenti nei testi di Boiardo e Ariosto non sempre sono state tutte sottolineate a fondo, quasi a voler privilegiare l' indubbia festevolezza narrativa di quei testi, la loro armonia elegante (specie per Ariosto) : ma quell'universo parallelo di cui parlavamo come opera in questi autori, così fondanti di una certa nostra identità letteraria? È possibile che nei padri della nostra narrativa cavallere­ sca e romanzesca la funzione ovidiana (ben intesa già da tempo e da molti studiosi come fonte di tanti episodi), mescolandosi ad altre, innesti un par­ ticolare abito gnoseologico di rilevante importanza, vista l 'ampia influenza che essi esercitarono per secoli sull'intera letteratura europea (si pensi solo a personaggi decisivi come Spenser e Cervantes). Procediamo con ordine, a partire dalle fonti classiche che prima citava­ mo : la tensione narrativa e metamorfica di Apuleio (anch 'essa tanto signifi­ cativa per la cultura occidentale) procede verso un fine salvifico e iniziatico ; in Lucrezio, Virgilio e Orazio è possibile dipanare il percorso di una filo­ sofia epicurea, più o meno accentuata, che in un caso (Lucrezio) comporta una riflessione cosmogonica e antropologica universale (anche qui vi è un incessante divenire, quello degli atomi, dei primi elementi), mentre negli altri (Virgilio e Orazio soprattutto) comporta piuttosto un livello prag­ matico e civile di vera e propria "etica mondana". Baiardo e Ariosto hanno piena consapevolezza di questa variegata tavolozza : sicché la metamorfica affabulazione di Ovidio (essenziale per entrambi) si coniuga soprattutto con Apuleio e Lucrezio in Boiardo (si perdonino queste grossolane schema­ tizzazioni di comodo, che nulla vogliono togliere ovviamente alla ricchezza di quegli intarsi intertestuali e intratestuali che molti studi da tempo hanno mostrato) e con Virgilio e Orazio in Ariosto. Le modalità attraverso cui questo universo classico interagisce, nei due poeti, con la grande tradizione volgare francese, provenzale, padana, toscana sono fra i temi più tradizio­ nalmente affrontati dalla critica boiardesca e ariostesca14• La tradizione di studi peraltro ha permesso di rilevare anche in Boiar­ do e Ariosto l' idea di una letteratura come in esausta fonte di conoscenza non dogmatica, ma definibile in base a termini come "mappa" o "atlante", ovvero "orizzontale", "curiosà', una sorta di "enciclopedia apertà', come già richiamavamo ; una conoscenza in grado di cimentarsi con grandi questioni etiche, epistemiche e filosofiche anche "parlando d'altro". Questi aspetti sono particolarmente evidenti negli Amo rum libri tres, il già citato canzoniere amoroso in volgare del Boiardo. Strano destino, quel­ lo del canzoniere boiardesco: da sempre ammirato per la sua originalità eppure da sempre al centro di un costante (e dovuto) raffronto con il Can52

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zoniere di Petrarca, salvo poi sistematicamente mettere in luce le profonde, strutturali differenze fra le due opere. Sicché, molto insistendo sui "nuclei lirici" del testo boiardesco, alla fine è come se si imboccasse un labirinto : Petrarca, gli stilnovisti e i provenzali sono presenze costanti, ma Boiardo è anche in palese contraddizione con molti assunti di quelle tradizioni poe­ tiche, persino per certe scelte linguistiche, stilistiche e metriche. Ci sembra di cogliere un bandolo più efficace quando vengono messi in campo gli amati modelli classici (Boiardo, come Ariosto, compie raffi­ nati studi umanistici, di cui dà conto in originali prove latine) : gli elegiaci, soprattutto Properzio, Ovidio, Lucrezio rivisitato con grande originalità. La cifra del canzoniere boiardesco è, per quanto se ne voglia dire, più la­ tina che provenzale : la commistione, l ' intreccio di queste due esperienze, qualora alla prima si sappia dare il rilievo che merita, aiutano certamente a rendere meno indecifrabile il senso ultimo dell 'intrigante lavoro lirico del Boiardo. Forse occorre una sorta di rovesciamento di prospettiva : gli Amorum libri sono innanzitutto un grande libro di filosofia e di saggezza etica. Tut­ ta l 'opera ruota appunto intorno all 'idea di un 'etica laica dell'amore : non ha nulla da spartire con le sublimazioni stilnovistiche di maniera, molto invece con !"'intelletto" cavalcantiano nei suoi nessi con l 'idea di Amore5• Il capolavoro di Boiardo è distante dalle tenzoni provenzali, estenuate dagli artifici dello stile, ma ha molti aspetti in comune con il Roman de la Rose, imprescindibile enciclopedia laica della saggezza amorosa e letteraria (così decisiva anche per Dante e per un certo Petrarca, ovviamente) ; con Ovi­ dio e Lucrezio, i più originali e profondi punti di riferimento delle scelte boiardesche; con certa tradizione filosofica umanistica, tesa, tra Platone e Aristotele e con la mediazione di Platino, a rintracciare, con le chiavi di Amore, i nessi delle trasmutazioni segrete e profonde tra le cose e tra queste ultime, gli uomini e il cosmo : verso quell'unità propria del divino che non alberga certo nel mondo sublunare, scompaginato da passioni, metamorfo­ si, mutamenti, influssi astrali, il mondo di Proteo dell 'inafferrabilità di ogni cosa, quel mondo del fluire così caro a Ovidio. Questo universo si accampa come decisivo ali' interno delle invenzioni boiardesche dell'Innamorato, ove i paradigmi metamorfico (per un verso) e apuleiano (per l 'altro) sono costitutivi del nucleo generativo del poema stesso. Nel Furioso, poi, ancora di più la distanza tra il mondo sublunare di Pro­ reo e degli affanni umani e il mondo imperturbabile degli astri (interpre­ tazione antropologica e cosmologica al tempo stesso epicureo-lucreziana e ovidiana) apparirà in tutta la sua evidenza. 53

L'APPRODO DELLA LETTERATURA Nella complessa partita che si giocherà tra questi poemi e il Tasso, d'al­ tra parte, si andrà dipanando un doppio registro, non casualmente parallelo a quello in atto nello stesso periodo tra gli esegeti della Poetica aristotelica: ovvero il desiderio di attestarsi al "romanzesco" ( la "funzione Ovidio", la mitopoiesi narrativa) di contro alle spinte verso l 'esemplare e "razionale" poema "eroico". Ancora una volta torna in campo l 'esistenza di universi let­ terari paralleli e coessenziali, fortemente ancorati nel crogiuolo della nostra tradizione rinascimentale2.6• Prima di affrontare i teorici cinquecenteschi, però, è bene soffermarsi su un autore la cui collocazione al confine tra i due universi è esemplare, ovve­ ro Machiavelli. Nel memorabile XVIII capitolo del Principe, infatti, l 'autore fiorentino si trova a dover delucidare un ambito inaudito e sconvolgente ( mai da alcuno "trito", per usare la sua nota affermazione ) , ovvero quello della "ferinità'' dell 'uomo, della sua ineludibile matrice animale e istintiva. Bisognerà attendere Nietzsche e Freud per trovare chi tenterà di dare simile voce a questo "fondo" dell 'uomo. Machiavelli non ha a disposizione terminologie adeguate e collaudate per esplorare questo "doppio" che è intrinseco alla natura umana e che egli, lungi dal voler demonizzare, vuole invece fare emergere come dote potente e positiva, se opportunamente compresa e usata. Né il pensiero classico né tantomeno quello cristiano avevano osato tanto : il primato andava sempre e comunque ricondotto alla ragione, tanto più nell'agire politico. La stessa definizione di "animale politico" cara ali 'Aristotele dell'Etica nicomachea non ha il valore dirompente che il richiamo all 'animalità ha nel XVIII del Principe ( e in altri testi: basti pensare, fra tutti, all 'Asino ) . Vero è che, come già Raimondi e Sasso hanno ampiamente dimostra­ to, la sintonia tra Machiavelli e una certa tradizione aristotelica radicale di ascendenza averroistica e naturalistica è molto forte ( ragguardevoli i riscontri che a suo tempo Raimondi individuò tra la terminologia di Pomponazzi e quella di Machiavelli in alcuni casi ) 2.7• È evidente quindi che l 'attenzione rivoluzionaria di Machiavelli per l 'alterità ferina dell 'uomo e per la sua potente radice naturalistica è in debito nei confronti dell 'ari­ stotelismo. Ma Machiavelli procede oltre : la ferinità non solo è dote po­ sitiva per il politico, ma va definita in tutte le sue latitudini e complessità ( non è di un solo "colore" ) . Di qui il germogliare, nel XVIII del Principe, della celebre serie metaforica "centauro, leone, lupi, volpe", memorabile per efficacia, decisiva per dotare di un lessico idoneo e senza preceden­ ti ciò di cui non era di soli to "bene parlare", ovvero la natura animale dell 'uomo : 54

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Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede, per esperienza ne ' nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare e ' cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete, adunque, sapere come sono dua generazioni di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l'uomo. Que­ sta parte è suta insegnata a' principi copertamente dagli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuoi dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l 'una sanza l'altra non è durabile. Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e lio­ ne a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanza li torni contro e che sono spente le cagioni che la fecio­ no promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono, ma perché sono tristi, e non la osservarebbono a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancarono cagioni legittime di colorire la inosservanzia2.s.

In questo brano il ricorso a un apparato metaforico è consustanziale alla fondazione di un nuovo sapere. La metafora è essa stessa conoscenza: l 'u­ na non si dà senza l 'altra. Memorabile esempio davvero della grandezza rinascimentale di uso conoscitivo della metafora, per di più in una pagina fondativa per il pensiero occidentale ! Non a caso Machiavelli, a partire proprio da questa rivoluzionaria atti­ tudine gnoseologica, nello stesso capitolo affronterà il terribile ma in eludi­ bile problema dell'altro "doppio" oscuro dell'uomo politico ovvero dell'uso del "male" : A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qua­ lità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole sempre, sono dannose; e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato con l'animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi ad intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso ss

L'APPRODO DELLA LETTERATURA necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo ch 'e ' venti della fortuna e le variazioni delle cose li co­ mandano, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato2.9•

Non si "entra nel male" a caso, senza conoscenze, ignorando contesti e ne­ cessità : vi si entra "sapendo" e "necessitati". Nessuno di questi termini (pe­ raltro illustri nella tradizione filosofica aristotelica) è usato con leggerezza da Machiavelli. Egli vuole proprio ribadire che ogni azione politica, anche la più dura, esige un suo "sapere" e una sua "necessità'', figli di quelle ardite esplorazioni metaforiche che prima aveva enunciato. Machiavelli non solo, come magistralmente aveva già avvertito Berlin30, si pone su un suo percor­ so etico alternativo a quello "cristiano" e riconducibile piuttosto a quello "romano" (dove quella etica e quella politica possono convivere e non sono corpi separati), ma individua, attingendo all 'universo letterario parallelo di cui dicevamo, l 'universo antropologico parallelo di cui è materiata la natura umana. Qui si individua una delle postazioni fondative della mo­ dernità, la cui cifra eclatante è collocata al crinale di un "doppio" decisivo che percorre la natura umana e la cui conoscibilità è affidata all 'universo, altrettanto parallelo rispetto ai saperi "normativi", dell' affabulazione meta­ forica e mitopoietica. Non sarebbe possibile comprendere la potenza evocativa delle imma­ gini machiavelliane se il loro impasto metaforico non venisse pienamente ricondotto non tanto alla favolistica popolare di ascendenza medievale (certamente ben presente a Machiavelli per le figure del leone, del lupo e della volpe) quanto alla grande lezione metamorfica a matrice ferina di ascendenza ovidiana. Il principe, infatti, deve divenire centauro, volpe, leone, non lo è già di suo; deve sapere mutare la sua natura, conoscendo pienamente il suo "doppio" animalesco, appropriandosi dell 'audacia, della forza, della metis astuta del predatore che è in lui. L'uomo politico e nel suo trasformarsi nell'animale che è in lui, di cui il centauro è simbolo perenne. Qui davvero l'universo ovidiano penetra nella geniale riflessione machia­ velliana, fornendo immaginario, lessico, spessore ermeneutico e, appunto, inventiva metaforica a chi si appresti ad esplorare il terreno sconosciuto e inquietante della più sommersa natura umana. La familiarità del letterato fiorentino con lo statuto del sistema avi­ diano e apuleiano a matrice metaforico-metamorfica è evidente nell 'Asino, un'opera solo apparentemente "minore" ma in realtà essenziale per affrons6

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tare certe procedure machiavelliane : in essa lo statuto della metamorfosi è la base stessa dell 'invenzione della "favolà'; la figura del porco, la sua al­ locuzione, il tragitto laico e disincantato del protagonista, "alla rovescià' rispetto a ogni filosofia neoplatonica o mistico-iniziatica, definiscono il territorio in cui si alloga il dirompente apprendistato "letterario" che ha nu­ trito il grande Machiavelli "politico". Il vitalismo insieme colto e popolare del linguaggio machiavelliano sembra quasi evocare ante litteram quell'idea ricca, polifonica, drammatica di lingua su cui molto tempo dopo si soffer­ merà, fra gli altri, un teorico dello spessore di Humboldt31• In Machiavelli statuto della politica e statuto della metafora, statuto del saper "mutare", del sapere come trasformazione si accampano fin dalla Dedica del Principe, laddove, adducendo la famosa similitudine del car­ tografo - che sarà approfondita nel prossimo capitolo -, egli enuncia la prospettiva del rapporto tra governante e governati, l' "abito" e il punto di osservazione che occorre assumere per la comprensione "dialogica" della realtà, mettendosi in gioco nelle metamorfosi più idonee al conoscere : Né voglio sia reputata presunzione se uno uomo di basso ed infimo stato ardisce di­ scorrere e regolare e' governi de ' principi; perché, così come coloro che disegnano e' paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de ' monti e de ' luoghi alti, e per considerare quella de ' bassi si pongono alti sopra e' monti, similmente, a conoscere bene la natura de ' populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de ' principi, bisogna essere populare�l.

Il sapere politico è inteso come una sorta di "mappa" : la "spazialità" del­ la politica è tema inaugurato da Machiavelli ( come ben intese molti anni addietro Althusser ) ed è oggi al centro di alcune brillanti riflessioni filo­ sofiche e politologiche, ma il tema della "mappaturà' dei saperi in senso machiavelliano era già ben presente al d 'Alembert del discorso introduttivo all' Encyclopédie"; quell 'Encyclopédie che, non a caso, alla voce Machiavéli­ sme, redatta da Diderot, consegnerà la più autorevole rivalutazione del pensiero machiavelliano che potesse inaugurare la modernità. Machiavelli, von Humboldt, d'Alembert, Diderot: ovvero un percorso della cultura oc­ cidentale al crinale tra più saperi decisivi per i suoi passaggi epocali e allo snodo di fondanti costellazioni metaforico-conoscitive. Un percorso che in Italia conosce, dopo Machiavelli, protagonisti di assoluto rilievo in questo senso con Bruno, Campanella, Torquato Accetto, per giungere poi, non casualmente, alla grande lezione di Vico. Fin dalla prima del metà del Cinquecento si apre un grande dibattito teorico tra letterati, poeti, filosofi, che non è di poco conto per simili snodi 57

L'APPRODO DELLA LETTERATURA e che ha la sua cifra nelle riflessioni e discussioni che si innestano intorno alla Poetica di Aristotele. È del 149 8 infatti, come si diceva, la prima tra­ duzione latina della Poetica; del 1508 la prima edizione del testo greco ; del 1548 il primo commento sistematico, in latino, del Robortello. Gli anni Cinquanta rappresentano una sorta di svolta nella teoria della letteratura del nostro Cinquecento, e per circa quarant 'anni si inarca una riflessione sul testo aristotelico di grandissima importanza per le poetiche della mo­ dernità (a partire da quelle barocche) che fa perno su osservazioni capitali intorno alla metafora, proprio nelle accezioni finora esaminate; il tutto è preceduto da considerazioni non peregrine del Nifo, risalenti al 1521. Se si presta attenzione alla sequenza dei commentatori aristotelici, si ricava un quadro di impressionante continuità esegetica, la cui rilevanza fu messa in luce, fra i primi, in anni ingrati per queste ricerche, da studiosi come Benja­ min, Szondi o Della Volpe'\ non a caso sempre attenti, nelle loro esplora­ zioni, ai nessi tra linguaggi estetici, ermeneutici, letterari e filosofici; per poi giungere alla più recente fortuna degli studi retorici e di poetica retorica tra Barthes, Fumaroli, Eco, Raimondi e Battistini'5• Torniamo dunque alla sequenza, attenendoci alle date delle edizioni a stampa dei commenti e degli interventi più significativi : 1548, Robortello ; 1559, Minturno ; 156 0, Bartolomeo Cavalcanti; 1561, Scaligero ; polemica tra Caro e Castelvetro tra il 1558 e il 1559 ; 1570, Castelvetro; 1572, Alessandro Piccolomini; 1589, Scipione Bargagli; né sono da dimenticare le cruciali osservazioni di Tasso sulle Annotazioni del Piccolomini. Sembra che la questione della metafora per i teorici del Cinquecento si possa impostare nei termini di uno slittamento da un modello statico a un modello dinamico. Da una parte vi è l 'idea di metafora come "sostituzione del nome appropriato": il termine metaforico è un termine sostituito che non contiene un supplemento di significato, ma ha valore ornamentale (e Nifo potrebbe assumersi come il primo a distinguere un uso retorico della metafora, secondo i principi di convenienza e decoro, da un uso poetico, che è altra cosa e che egli non approfondisce) ; concezione statico-orna­ mentale è anche quella del Minturno, generalmente povero di intelligenza speculativa. Si prendano due brani significativi tratti dagli Epitomata di Nifo : Quarto accidere potest frigiditas mataphorarum dissonantia : aut quondam ridicu­ lae: quibus comici utuntur: aut quondam nimis inflatae ac tragicae: hoc est graves quibus utuntur aliqui eroici : aut quondam metaphorae sunt obscurae ac remotio­ res: ut utebatur Gorgias cum dixit: virides res atque exangues quas turpiter semiss

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nasti: perperam messuisti: vel falcala incidisti. Hoc nam (ut Aristoteles inquit) : valde poeticum est. Cuncta enim haex parum credibili a: quondam nimis poetica36• Dilucidum igitur iocundum ac perspicuum afert metaphora cum ipsa non ab ali­ quo quemadmodum vestis: ut enim iuveni purpuream sic seni quopiam alio colore conveni t: non enim eadem utrisque decora est vestis37•

In un passo dell 'Arte poetica Minturno ritiene la metafora « vago e leg­ giadro ornamento » 38, che nasce «dalla povertà de ' vocaboli » 39; i traslati «dalla vista » sono « di maggior gagliardezza » 40• La metafora riguarda una parola: « non altra differenza è tra la similitudine & il trasportamento ; se non che questi si fa in una parola, quella in molte » 41• Il Minturno però non distingue più, a differenza del Nifo, metafora retorica conveniente e metafora poetica ardita o dissonante: « niuno però sì ardito fia, né sì presuntuoso; che stime a' nostri tutto esser lecito, come a' Greci; la cui lingua sostenea, che 'l Re da Homero pastor di popoli fosse detto » 41• Dali ' altra parte emerge un modello dinamico, interessato invece al processo della trasposizione : la metafora non è più sostituzione lessicale/ ornamentale, bensì composizione o interazione di elementi, fenomeno di­ scorsivo, trasferimento di senso di là dall'ambito del nome. In questa prospettiva, un episodio cruciale, in gran parte giocato sul problema teorico della metafora, fu la polemica tra il Caro e il Castel­ vetro (l'Apologia del Caro è a stampa nel I S S 8 e le R agioni del Castelve­ tro nel I S S9 = se si guarda alle date, è tale polemica a mettere la questione all 'ordine del giorno ) . Il Caro ripropone la teoria, diciamo, sostitutivo­ decorativa ( la metafora è una "maschera" ) e il Castelvetro, confutandola, va ben oltre. Si propongono di seguito i punti salienti dell'Apologia del Caro43: la metafora è "ornamento" volto a dilettare e a raffigurare : le metafore 1. sono nate « primieramen te per necessità » e si fingono «per vaghezza e per diletto, e talora per rappresentar meglio » . Come le maschere « si frequen­ tano più, e con maggior licenza si fanno di Carnevale che negli altri tem­ pi » , così le metafore «più spesso e più licenziosamente s 'adoprano nella poesia che nell'altre composizioni » ; 2 . la metafora è una maschera delle cose: « si può dire che la maschera sia una metafora delle persone, e la metafora sia una maschera delle cose : vede­ te come la maschera serve per metafora, e la metafora per maschera » ; la metafora si applica al nome singolo : « non aggiungendo, ma scam­ 3· biando, cioè levando di quelle parole proprie che vi sono, e trasportandovi 59

L'APPRODO DELLA LETTERATURA dell 'altro [ ... ] ; facendo la mia o le mie traslazioni, secondo che una o più saranno le voci che io scambierÒ » 44• Si vedano ora le considerazioni sulla "condizione degli effetti" avanzate nelle Ragioni dal Castelvetro. Il filologo modenese discute qui la definizio­ ne della metafora come maschera: egli sostiene che quella del Caro non solo è una definizione metaforica, ma anche una metafora malfatta e confusa. La sua posizione è illustrata in diciassette conclusioni, tra cui mi sembrano fondamentali due negazioni: 1. la metafora non riguarda solo la poesia o l 'ornamento : « ma la maniera poetica ossia narrativa, ossia rappresentativa, e la maniera non poetica han­ no indifferentemente a sé sottoposta la traslazione, a quale imprime meglio nella mente nostra ciò che prende a significare, che non fa il proprio » 45; 2. la metafora non è una pura sostituzione lessi cale (e invece questo e anche

quello) : La quattordicesima conclusione è, che le traslazioni proportionevoli, quale è quella famosa Lo scudo e la coppa di Marte e la coppa e lo scudo di Bacco, hanno in ciascuna di loro cosa propria et differente da quella deli' altra, et con la loro cosa propria rappresentano ciascuna di loro due cose distinte, et differenti, cioè con lo scudo si rappresenta prima lo scudo di Marte e poi ancora la coppa di Bacco e con la coppa prima la coppa di Bacco e poi ancora lo scudo di Marte. Sì che le livree e le traslazioni proportionevoli non hanno tra sé quella proporzione che dice il Caro46•

Va peraltro detto che il paragone del Caro tra livree e metafore di propor­ zione è il primo accenno di una riflessione sul rapporto tra metafora e im­ presa, tema che poi sarà sviluppato da Bargagli. Si consideri ora la Poetica d:Aristotele volgarizzata e sposta; per il Ca­ stelvetro di tratta qui di esaminare « le figure delle parole in quanto significano» 47, mentre vi è una « maniera di parole » , l 'ornamento, che « non è trovata per significare più, ma soltanto per ornare » 48• Perciò : 1. l a comparazione fonda l a metafora: « le parole comperative [ . . .] non solamente sono maniera, ma sono ancora madri delle traslate» 49; 2. l 'efficacia della metafora non risiede nella « proportione », ma nella « comunità nella quale concorrono ugualmente le due cose diverse » 50• La prospettiva del Castelvetro si coglie meglio se la si confronta con quella di Alessandro Piccolomini, che nella Piena e larga parafrase nel terzo libro della retorica d:Aristotele a Theodette (1 572: due anni dopo la Poetica del Castelvetro) include una digressione sulla metafora51, poi riassunta nelle sue Annotationi alla Poetica d:Aristotele del 1 57551• Da una parte abbiamo un 'idea "funzionale" della metafora (Castelve6o

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tro), dall 'altra un 'idea "icastica" (Piccolomini). L'esempio dello "scudo di Bacco" e della "tazza di Marre" ci permette di comprendere meglio questa dicotomia: per il Castelvetro, che nella poetica preferisce modernizzare la tazza in un "fiasco", la similitudine fra i due oggetti è fondata sulla funzio­ ne; per il Piccolomini è invece fondamentale la "somiglianza di figura o di forma" tra tazza e scudo (entrambi rotondi e incavati). Per questa via il Pic­ colomini può così riconciliare "cognizione" e "ornamento", "somiglianzà' e "diletto". Egli assume il modello statico della metafora come sostituzione lessicale, ma ne ricostruisce la percezione nei termini del riconoscimento (l 'esempio è quello di un quadro che rappresenta una persona che cono­ sciamo), cioè di un sillogismo quasi istantaneo (accenno sviluppato poi ap­ punto da Scipione Bargagli, suo allievo, che fu il primo a descrivere il genere dell'impresa come oggetto metaforico). Riportiamo di seguito un fondamentale enunciato del Piccolomini, cui altrove abbiamo indirettamente fatto riferimento : Essendo cosa naturalissima all' huomo il desiderio di sapere, in quanto tale; e per conseguente essendo, se per accidente non accascherà il contrario, dilettevol la co­ gnitione; e divenendo le cose più conosciute e più largamente intese con le parole metaforiche, che con le appropriate loro, per cagion di quella somiglianza che si trova tra le cose, donde tai parole son trasportate e le cose a cui si trasportano, com 'è detto di sopra; ne segue, che siccome la locution metaforica cagionata da tai parole, porta seco maggior cognitione et notitia, cosi parimente porti maggior diletto B.

Prendiamo ora in esame un altro autore già richiamato, ovvero Scipione Bargagli, che nella Prima parte dell'imprese affronta alcuni nodi teorici ri­ levanti : 1. prende in esame le varie definizioni dell'impresa; 2. le trova definizioni insufficienti, che non descrivono la forma dell'og­ getto; 3· la forma dell'impresa è infatti metaforica : « quello che [ ... ] dona l 'a­ nima e la vita all' Impresa [ ... ] è la similitudine o la comparazione » 54• Di conseguenza : « Si patria forse delle buone Imprese dire che in esse fosse traslazione, ovvero che le stesse in certo modo traslazioni fossero, o metafo­ re del loro autore o portatore » 55• Ovvero : « la comparazion [ ... ] è la forma sostanzial dell' Impresa » 56; 4· conduce un esame teorico della metafora, sulla scorta del Piccolomini57• La metafora insegna e perciò diletta. C 'è una gioia del guadagno conosci­ tivo : nell'espressione metaforica accade infatti che « io vada per me stesso 61

L'APPRODO DELLA LETTERATURA con velocissimo discorso, e quasi silogismo, guadagnandomi tal notizia [ ... ] poiché quelle parole spressamente non me lo scoprono » 58• Sicché « viene a generar in me maggior notizia la parola metaforica che l'appropriata non fa » s9; S· vi è qui un passaggio decisivo : dall 'idea della metafora come sostituzio­ ne di una parola ali' idea della metafora come composizione; non a caso di qui parte la riflessione del Tesauro, che loda il Bargagli come il più acuto teorico delle imprese. Sono numerosi gli autori che intendono la metafora come forma di co­ noscenza a tutti gli effetti; un elenco delle loro posizioni non può qui essere esaurito. Basti pensare ancora allo Scaligero (che si riferisce in primo luogo ad Omero, quell'Omero maestro di sapienza già così caro al Codro e alla cultura quattrocentesca) ; al Robortello ( « et certe ex notis rebus analogia, seu similitudo ducidebet in translatione facienda; nam duobus in primis de causis translatione utimur; rum ut res clarior fiat, ut magis aliquid signifi­ cetur, quod alioqui satis esprimi non posset propriis vocabulis. Addo etiam propter brevitatem ; in translatio enim verbo uno multa insint oportet, quae audientis animum pungano et oblectent, simulque admiratione afficiant quod vi unius verbi traslati potuerint tam multa proferri » 60); a Bartolomeo Cavalcanti ( « e per accorre più sustantialmente le virtù della metafora, dico che ella da al parlare chiarezza e splendore grande, percioché la similitudine ch'ella porta seco e nella quale è fondata, fa che le cose siano più chiare e più aperte. Né solamente ne diviene il parlare così chiaro, ma anche molto dilettevole e suave; e questo avviene percioché essendo l 'acquistare cogni­ tione cosa la quale per sua natura diletta gli uomini, e significando i nomi qualche cosa, quei nomi senza dubbio sono dilettevoli e suavi, i quali ci porgono qualche cogni tione » 61). Il quadro si fa perciò chiaro. La metafora è fonte di conoscenza; è es­ sa stessa statuto di mutamento, è contigua alla metamorfosi, è "dilettevole cognizione". Il Tasso addirittura la giudica strumento di grande efficacia ermeneutica per i filosofi, ovvero per i saperi deputati al conoscere per ec­ cellenza62. Lo stesso riferimento ad Omero, in Tasso come nello Scaligero come in tanti altri, legittima lo studio teorico della poesia e la piena centra­ lità delle figure del discorso. Il consolidamento del paradigma aristotelico procede perciò parallelo ali 'universo ovidiano : da questa contiguità esaltata dalla complessa tavoloz­ za del Cinquecento italiano attinge radici un insieme di tracciati precipuo della modernità e già eclatante in età barocca. Se la "metafora dipinta" di imprese ed emblemi frutterà a lungo nei dispositivi pittorici delle arti vi-

3· METAFORA, METAMORFOSI E CONOSCENZA NEL RINASCIMENTO sive fino al neoclassicismo, altrettanto l'area metamorfica e mutante della "metafora-maschera" non può che evocare il cuore del genere per eccellenza dominante nella grande cultura europea moderna, ovvero il teatro. Perciò l 'originale riflessione del Tesauro o la dirompente funzione ovidiana della narrativa mitologica nell'Adone - ma anche gli stessi percorsi filosofici di Bruno e di Vico - non sorgono all'improvviso, ma si innestano in seno a riflessioni teoriche, pratiche poetiche, dispositivi ermeneutici propri del mondo rinascimentale italiano, nonché a quella grande fucina metaforico­ metamorfica rappresentata, ad esempio, dalla stessa lirica petrarchista fran­ cese e dall'esperienza della Pléiade63• La stessa svolta sette-ottocentesca, anche alla luce di importanti sug­ gestioni di George Steiner64, andrebbe allora riletta con ottica multipla : l ' idea di "mescolanzà' cara a Goethe come a Schleiermacher, il binomio talora oppositivo talora dialettico tra normatività classica e storicità mo­ derna ( l ' ingenuo e il sentimentale ) , l ' inquieta ricerca di Winckelmann come di Canova sembrano collocarsi in quella tensione dinamica tra gli universi letterari paralleli di cui a lungo abbiamo fin qui discusso, anche accennando a certi esiti novecenteschi e alla crisi del cosiddetto "grande stile". Il Rinascimento italiano, con il suo grande enciclopedismo letterario, è crocevia ineludibile : per usare una terminologia cara ad Umberto Eco, la metafora come conoscenza additiva e non semplicemente sostitutiva, capa­ ce di far interagire veri e propri sistemi di idee in un complesso andirivieni ermeneutico, è connaturata con la nostra tradizione umanistica e rinasci­ mentale e ci parla da sempre dell'universo metamorfico e ovidiano cui si lega indissolubilmente, un universo parallelo che da tanto, e non sempre consapevoli, coabitiamo. Note 1. Cfr. E. Pasquini, Dante e lefigure del vero. Lafabbrica della Commedia, Bruno Mon­ dadori, Milano 2001. 2. Cfr. F. Rico, Il sogno dell'umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Einaudi, Torino 1998; L. M. Batkin, Gli umanisti italiani. Stile di vita e di pensiero, Laterza, Roma-Bari 1990. Importanti, sempre sulla retorica degli umanisti, gli studi di Ernesto Grassi, Paul Oskar Kristeller, ovviamente, e Cesare Vasoli. 3· Cfr. U. Dotti, La citta dell 'uomo. L'umanesimo da Petrarca a Montaigne, Editori Riuniti, Roma 1992. 4· Cfr. quanto argomentato in G. M. Anselmi, P. Ferratini, Letteratura italiana: secoli ed epoche, Carocci, Roma 2001, specie nel capitolo S·

L'A PPRODO DELLA LETTERATURA S· Si vedano l'ottima traduzione curata da G. P. Brega, Garzanti, Milano 2000 e la fondamentale edizione a cura di A. Prosperi e C. Asso, Einaudi, Torino 2002. Dei Sonetti di Pico si veda l'edizione a cura di G. Dilemmi, Einaudi, Torino I994· Degli Amorum libri del Baiardo cfr. l'edizione a cura di T. Zanato, Einaudi, Torino I9 98. 6. Su Codro e l'umanesimo bolognese sono prioritari gli importanti e pionieristici studi di E. Raimondi. Si vedano poi G. M. Anselmi, Le frontiere degli umanisti, CLUEB, Bologna I988; L. Chines, La parola degli antichi. Umanesimo emiliano tra scuola e poesia, Carocci, Roma I998, nonché la sua edizione critica dei Sermones (I-IV), curata insieme a A. Severi, Carocci, Roma 20I 3. Su Giulio Cesare Croce, cfr. E. Casali, B. Capaci (a cura di), Lafesta del mondo rovesciato, Il Mulino, Bologna 2002. 7· G. M. Anselmi, La saggezza della letteratura. Una nuova cronologia per la letteratura italiana, Bruno Mondadori, Milano I998. 8. Si veda, del testo del Pontano, la bella edizione curata da A. Mantovani, Carocci, Roma 2002. Per i trattati del Guazzo e del Castiglione, si consultino i preziosi commenti approntati da A. Quondam. Per il Tasso cfr. infra, nota 62. 9· Nell' Institutio oratoria, nel Proemio al libro I, I8-lo, Quintiliano pone un punto centrale per la riflessione umanistica e per la concezione della "parolà' ornata come saggezza preliminare e fondativa: « Si t igitur orator vir talis qualis vere sapiens appellari possit, nec moribus modo perfectus (nam id mea quidam opinione, quamquam sunt qui dissentiant, satis non est), sed etiam scientia et omni facultate dicendi; qualis ferrasse nemo adhuc fue­ rit, sed non ideo nimis nobis ad summa tendendum est: quod fecerunt plerique veterum, qui, etsi nondum quemquam sapientem repertum putabant, praecepta tamen sapientiae tradiderunt. Nam ut certe aliquid consumata eloquentia neque ad eam pervenire natura umani ingegni prohibet. Quod si non contingat, altius tamen ibunt qui ad summa nitentur quam qui praesumta desperatione quo velint evadendi protinus circa ima substiterint » . D eli' Institutio si veda l'edizione con ampio commento e traduzione a cura di A . Pennacini, 2 voli., Einaudi, Torino 2001. IO. Prezioso il testo di G. M. Vian, Bibliotheca divina. Filologia e storia dei testi cri­ stiani, Carocci, Roma 2001. Spunti di grande interesse si trovano in un volume a più voci, Il libro sacro. Letture e interpretazioni ebraiche, cristiane e musulmane, Bruno Mondadori, Milano 2002. Inoltre : K. Safa, L'humanisme de Pie de la Mirando/e. L'esprit en gioire de métamorphoses, Librairie philosophique J. Vrin, Paris 2001 ; P. C. Bori, L'interpretazione infinita. L'ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna I99I; Id., Pluralita delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignita umana diPico della Mirandola, testo, versione e apparato a cura di S. Marchignoli, Feltrinelli, Milano 2ooo; R. L. Guidi, Il dibattito sull'uomo nel Quattrocento, Tiellemedia, Roma I999; e già W. Ullmann, Radici del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari I98o. II. Il punto più recente in E. Raimondi, La retorica d'oggi, Il Mulino, Bologna 2002. Da ricordare, sempre per Il Mulino, studi come Il colore eloquente, I99S e i tre volumi dei Sentieri def lettore, I994· 12. Su questi percorsi è fondamentale A. Battistini, E. Raimondi, Lefigure della reto­ rica. Una storia letteraria italiana, Einaudi, Torino I990. Cfr. anche A. Angelini, Sapienza, prudenza, eroica virtu. Il mediomondo di Daniele Barbaro, Olschki, Firenze I999 e X. Bon­ nier (dir.), Le Parcours du comparant. Pour une histoire littéraire des metaphores, Garnier, Paris 201 5. I 3. Fra tutti: C. Magris, L'anello di Clarisse, Einaudi, Torino I9991• I 4· E. Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Laterza, Roma-Bari I975; Id. (a cura di), L'uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari I98o.

3· METAFORA, METAMORFOSI E CONOSCENZA NEL RINASCIMENTO 15. l. Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, Adelphi, Milano looo; Id., Le radici del romanticismo, Adelphi, Milano lO O I. 1 6. Spunti vari in G. M. Anselmi (a cura di), Mappe della letteratura europea e mediter­ ranea, 3 voli., Bruno Mondadori, Milano looo-OI. 17. U. Eco, Semiotica e filosofia de/ linguaggio, Einaudi, Torino 19973 e Id., I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 19993• Un raffronto andrebbe operato anche con altri ambiti: cfr. L. Formigari, G. Casertano, l. Cubeddu, Imago in phantasia depicta. Studi sulla teoria dell'immaginazione, Carocci, Roma 1999. 1 8. Ovidio, Opere, vol. n : Le metamorfosi, a cura di G. Paduano, A. Perutelli e L. Ga­ lasso, Einaudi, Torino looo, p. 766 (il commento è di L. Galasso) : edizione e commento davvero preziosi per frequentare l'universo ovidiano. Altrettanto prezioso è il primo volu­ me di questa edizione delle Opere di Ovidio, con gli altri testi del poeta, a cura di P. Fedeli, G. Leto e N. Gardini, Einaudi, Torino 1999. Il discorso metaforico e metamorfico insieme potrebbe applicarsi anche agli eroi "positivi" come Ercole, Ulisse, Achille, Enea, cui per­ tiene, nel testo ovidiano, una sorta di "trasumanar" virtuoso e divino, se volessimo usare il lessico dantesco appunto calcato su Ovidio. 19. Sulla fortuna del paradigma ovidiano non mancano gli studi: G. Demerson (dir.), Poétiques de la métamorphose, ouvrage publié par l'équipe "Poétique" de l'Association Réforme, Humanisme, Renaissance, Publications de l' Université de Saint-Etienne, Saint­ Etienne 1981 e B. Gutmiiller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinasci­ mento, Bulzoni, Roma 1997. Un contributo importante è fornito dall'edizione critica di G. Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos vulgare, a cura di E. Ardissino, Commissione per i testi di lingua, Bologna lO O I. Si vedano inoltre gli studi citati supra, tra le note 11 e 1 6. lO. Cfr. Anselmi, La saggezza della letteratura, cit.; Id., L'eta dell'Umanesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell'Europa moderna, Carocci, Roma loo8; A. Serrai, Sto­ ria della bibliografia. Le enciclopedie rinascimentali, 3 voli., a cura di M. Cochetti, Bulzoni, Roma 1988-91. li. Si vedano : Z. Rozsny6i, Dopo Ariosto. Tecniche narrative e discorsive nei poemi postariosteschi, Longa, Ravenna lO O l ; S. ]ossa, Lafondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Carocci, Roma lO O l; F. Sberlati, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Bulzoni, Roma lO O I. E già: A. N. Mancini, I capitoli letterari di Francesco Bolognetti. Tempi e modi della letteratura epica fra !:Ariosto e il Tasso, Federico & Ardia, Napoli 19 89. l l. Per tutti questi snodi e per la relativa bibliografia è imprescindibile S. Giambi, Libri e pulpiti. Letteratura, sapienza e storia religiosa nel Rinascimento, Carocci, Roma lO O I. Per tutto ciò che si argomenta in questo capitolo restano punti di riferimento essenziali i molti studi di M. Fumaroli, a cominciare dall'ormai classico e finalmente tradotto L'eta dell'elo­ quenza, Adelphi, Milano 2002 (ed. or. Genève, 1980). Così dicasi per R. Klein, Laforma e l'intelligibile, Einaudi, Torino 1975. l3. Cfr. supra, nota 18. l4. Cfr. G. M. Anselmi, A. Bertoni, Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, CLUEB, Bologna 1997. Importanti anche le voci dedicate ai capolavori dei due poeti nelle Opere della Letteratura italiana Einaudi e nel Manuale di letteratura italiana edito a suo tempo, per generi, da Bollati Boringhieri. E anche : C. Berra (a cura di), Fra satire e rime ariostesche, Cisalpino, Milano looo. l5. È bene tenere presente G. Inglese, L'intelletto e l'amore. Studi sulla letteratura ita­ liana del Due e Trecento, La Nuova Italia, Firenze lo o o. l6. Cfr. supra, nota li. 6s

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA 27. N. Machiavelli, Opere, a cura di E. Raimondi, Mursia, Milano 1966; G. Sasso, Ma­ chiave/li e gli antichi e altri saggi, 4 voli., Ricciardi, Milano-Napoli 1987-97. E inoltre G. M. Anselmi, P. Fazion, MachiavelliJ !:Asino e le bestie, CLUEB, Bologna 1984. 28. N. Machiavelli, Le grandi opere politiche, a cura di G. M. Anselmi e C. Varotti, 2 voli., Bollati Boringhieri, Torino 1992-93, vol. I, pp. 101-2. A questa edizione si fa riferimen­ to sia per i saggi introduttivi sia per il commento e la bibliografia. Molto efficaci i commenti alPrincipe curati da R. Rinaldi, UTET, Torino 1999 e da R. Ruggiero, BUR, Milano 2008. 29. Machiavelli, Le grandi opere politiche, cit., vol. I, pp. 10 3-4. 30. Berlin, Controcorrente, cit. 31. Fondamentali le osservazioni di E. Raimondi in Scienza e letteratura, Einaudi, To­ rino 1978. Per ciò che argomentiamo subito dopo: L. Althusser, Écrits philosophiques et politiques, vol. n, Stock/IMEC, Paris 1997, pp. 39-168; C. Galli, Spazi politici. L'eta moderna e l'eta globale, Il Mulino, Bologna 2001. 32. Machiavelli, Le grandi opere politiche, cit., vol. I, pp. 26-7. 33· Discorso preliminare, in Enciclopedia (17 s 1), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2003, pp. V-VIII, su cui Eco, I limiti dell'interpretazione, cit., pp. 11 1-3. 34· Per ricostruire la complessa fisionomia di Benjamin, cfr.: G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della jèlicita, Einaudi, Torino 2001; P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, a cura di R. Gilodi e F. Vercellone, Einaudi, Torino 2001; G. Della Volpe, Poetica del Cinquecento. La "Poetican aristotelica nei commenti essenziali degli ultimi umanisti italiani con annotazioni e un saggio introduttivo, Laterza, Bari 19S4· 3S· Il percorso critico è ben ricostruito da O. Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mu­ lino, Bologna 1996 ed è sempre presente in Battistini, Raimondi, Lefigure della retorica, ci t. 36. A. Nifo, Epitomata rethorica ludicra ad Balthasarum turinum pontificium data­ rium integerrimum, a Philippo Pincio Mantuano impressum, Venetiis MD XXI, c. 8r. 37· lvi, c. 8v. 3 8. A. Minturno, L'arte poetica, per Gio. Andrea Valvassori, in Venetia MD LXIII, pp. 308-1 1. Il passo è del tutto simile a Id., De Poeta, Venetiis MDLIX, pp. 4 s 4-6. 39· lvi, p. 308. 40. lvi, p. 310. 41. lvi, p. 308. 42. lvi, p. 311. 43· A. Caro, Apologia degli accademici di banchi di Roma contra M Lodovico Castelve­ tro da Modena, Risentimento del Predella, XVI. 44· I passi citati sono tratti da A. Caro, Opere, a cura di V. Turri, Laterza, Bari 1912, pp. 86-93. In generale, su questa fase di passaggio della nostra letteratura, cfr. M. Sarnelli, «Col discreto pennel d'alta eloquenza». «Meraviglioso» e classico nella tragedia (e tragicommedia) italiana del Cinque-Seicento, Aracne, Roma 1999. 4S· L. Castelvetro, Ragioni d'alcune cose segnate nella Canzone di Messer Annibal Caro. Venite a l'ombra de gran Gigli d'oro, appresso Andrea Arrivabene, in Venetia MDLX, c. 81v. 46. lvi, c. 83r. 47· L. Castelvetro, Poetica d'Aristotele volgarizzata e sposta, vol. n, a cura di W. Romani, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 28. 48. lvi, p. 46. 49· lvi, p. 29. s o. lvi, p. 40. SI. A. Piccolomini, Digressione seconda nel secondo capo intorno alla Metafora e varie spetie di quella, in Id., Piena e larga parafrase nel terzo libro della retorica d'Aristotele a The­ odette, per Giovanni Varisco & compagni, in Venetia MD LXXII, pp. 44-86. 66

3· METAFORA, M ETAMORFOSI E CONOSCENZA NEL RINASCIMENTO 52.. Su questo dibattito e su Castelvetro in particolare, cfr. E. Raimondi, Rinascimento inquieto, Einaudi, Torino 1 9941• Inoltre : G. Forni, Forme brevi dellapoesia tra Umanesimo e Rinascimento, Pacini, Pisa 2.001; Sberlati, Il genere e la disputa, ci t. Ringrazio in particolare Giorgio Forni per le molte, preziose indicazioni fornitemi mentre attendevo a questo lavo­ ro. Si veda anche L. G. Giraldi, Due dialoghi sui poeti dei nostri tempi, a cura di C. Pandolfi, Corbo, Venezia 1999. S3· A. Piccolomini, Annotationi allaPoetica di Aristotele, Venezia 1572., p. 32.0. S4· S. Bargagli, La prima parte dell'imprese, appresso Francesco de ' Franceschi, in Venetia MD LXXXIX, p. 2.3. SS· lvi, p. 2.4. s 6. lvi, p. S4· s 7· Cfr. ivi, pp. 45-7. s 8. lvi, p. 46. S9· lvi, p. 47· 6 o. F. Robortello, In librum Aristotelis De arte poetica explicationes, in Officina Lau­ rentii Torrentini, Florentiae MDXLVIII, pp. 2.48-9. 61. B. Cavalcanti, La retorica divisa in sette libri, appresso Gabriel Giolito de ' Ferrari, in Vinegia MDLX. 62.. S. Miano, Le postille di Torquato Tasso alle Annotazioni di Alessandro Piccolomini alla Poetica di Aristotele, in ''Aevum': LXXIV, 3, settembre-dicembre 2.0 00, pp. 72.1- s o. 63. Cfr. A. Battistini, Il Barocco, Salerno Editrice, Roma 2.000. Ma già W. Tega ( a cura di ) , Le origini della modernita, 2. voli., Olschki, Firenze 1998-99. 64. G. Steiner, Le Antigoni, Garzanti, Milano 1995.

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Machiavelli e l'evidenza del vedere

È assunto ormai consolidato negli studi quello che indica l'insorgere del moderno pensiero scientifico in uno spostamento epistemico di grande portata che, a partire dal Rinascimento, venne collocando il senso della "vi­ sta" e del "vedere" in posizione centrale e primaria in luogo di altre pratiche percettive che si presumevano più "sensoriali" e fallaci rispetto all 'occhio indagatore, capace di sintesi astratte e di complesse procedure conoscitive del reale illuminato dall 'evidenza inconfutabile della "vista" : insomma uno dei grandi mutamenti di paradigma di cui ci parla Thomas Kuhn. È un paradigma che di fatto ancora ci costituisce e che culminò in pagine bril­ lanti di tanti illuministi, che costruirono la loro stessa identità di pensatori e innovatori, consapevoli mallevadori della modernità (Kant), proprio su questi campi metaforici che intrecciavano "vistà' e "vedere" con la "luce" del pensiero capace di rischiarare le tenebre1• Non a caso Voltaire, sulla scorta di Cartesio, si preoccupava innanzi tut­ to di battersi per discernere il vero dal falso con razionale e inconfutabile evidenza: la parola chiave risulta appunto "discernimento", oculata proce­ dura conoscitiva etica non meno che scientifica, in grado di "illuminare" i campi di indagine attraverso un'evidenza del "vedere" e dell ' "osservare", che rinvia sì alle procedure dello scienziato ma anche al comune "buon senso" o "senso comune", che il filosofo deve essere sempre in grado di percepire. Questa sorta di "saggezza mondana", su cui tornerà anche Hegel, com­ porta le armi dell'ironia e del sarcasmo (di cui Voltaire fu maestro indiscus­ so), chiavi moderne e straordinarie con cui menzogne e ipocrisie vengono svelate dall 'occhio implacabile e dall'evidenza di "ciò che si vede", di cui il filosofo appunto si serve; con conseguenze tanto più eclatanti se applicate all 'analisi del potere, ai soprusi dei tiranni, alla ingannevole congerie delle superstizioni religiose con i loro apparati di fanatismi intolleranti. Occorre forse però retrodatare, rispetto alle consuete analisi, il primo emergere di questi campi metaforici/conoscitivi, che hanno radici molto

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

antiche. Senza spingerei nel mondo classico (su Aristotele o Plinio accorre­ rebbero lunghi discorsi in proposito), basta, come sempre, cominciare con Dante : nel Paradiso il "volare alto" comporta continuamente l'evidenza di ciò che il viator riesce ad osservare dilatando la "vista" alle estreme possibili­ tà che il "trasumanar" (la grande metafora metamorfica di marca ovidiana) gli consente. Da un lato Dante può osservare dall'alto la Terra, l ' « aiuola che ci fa tanto feroci » , nella sua limitata dimensione rispetto all 'immensità dei cieli e del Paradiso : un'evidenza che coglie "vedendo", appunto. Dall 'al­ tro il suo occhio si "affigge" in Dio (il vero « geométra » del tutto) per vedere il senso ultimo della Rivelazione e delle cose, nel tentativo immenso di riportarle alla parola "finirà' del poema nell 'ultimo canto. Quel "vedere" è il "conoscere" stesso proprio dell ' uomo2• Nel De remediis Petrarca affida all'occhio interiore di ciascuno, appunto a Ratio, il difficile compito di "discernere" ciò che l 'uomo deve perseguire per non essere travolto dagli estremi di Fortuna3• Tali campi si impennano poi in uno dei maggiori umanisti, Leon Battista Al berti, il quale, com'è no­ to, aveva forgiato come proprio simbolo ! ' "occhio alato" accompagnato dal motto « qui d tum ? » . Si è molto discusso e si discute del senso da attribuire alla simbologia albertiana e soprattutto al motto che accompagna la cen­ tralità del "vedere". Non dimentichiamo che l 'Alberti, più di tanti umanisti (e in questo è fonte diretta di Machiavelli), si è sempre domandato come "arginare" l ' irriducibilità di senso del mondo e della morte : il Momus e ln­ tercenales come Defunctus, Somnium, Fatum et Fortuna declinano in modo radicale l' insensatezza apparente dell'agire umano e "di svelano" con ironia e sarcasmo (proprio come accadrà nel Settecento) gli inganni tragici della natura umana e della sua ferocia. Negli stessi anni, implicitamente, Al berti sembra voler instancabilmen­ te indicare i possibili "argini", gli evidenti "saperi" che possono salvarci dalla Natura e da noi stessi. Occorre "edificare': costruire, osservare (il model­ lo è Plinio), contenere le falle perseguendo con determinazione caparbia i saperi "che danno senso" alla breve meteora dell 'esistenza : il De pictura, il De architectura, i Libri dellafamiglia, il De iciarchia (è lì la memorabile metafora della tela che il ragno sa costruire con infallibile sapienza) sono il controcanto ("leopardiano"... ) dell'uomo Alberti che tenta di "arginare" le falle del male di vivere dotandosi dell'occhio attento e osservatore del pittore, dell'architetto, del buon padre di famiglia dedito ai commerci e alle "masserizie". L'"occhio alato" è tutto questo : è l 'occhio che indaga "vedendo", che promulga l 'indispensabilità di osservare a fondo (ad "occhi aperti" e non 70

4· MACHIAVELLI E L ' EVIDENZA DEL VEDERE

chiudendo lo sguardo al conoscere la natura di Dio e del mondo) per "go­ vernare" ed "edificare", evocando nella sua stessa immagine anche il pos­ sente "occhio di Dio" - l 'unico in ultima istanza a poter vedere davvero il disegno del tutto -, con cui noi dobbiamo saper interloquire nell 'in esausta ricerca della veritas... Quid tum? Che cosa, allora, si domanda e ci domanda Alberti, sta alla radice dell 'occhio umano e divino ? Ciò che Dio può, a noi non è dato finché saremo nella nostra finitezza (come non cogliere l 'eco di Cusano, della sua "dotta ignoranzà' ?) : non c 'è risposta per l 'uomo (come nel grido lacerante di Giobbe a Dio). Il buon architetto costruisce ma non può avere risposte finali; perpetuamente "interrogà' (quid tum?) e perpe­ tuamente vede e agisce con l'occhio del discernimento umano, ma non si illude di avere le risposte che sono solo sopra e oltre di lui (è come se Alberti premonisse l 'arroganza di certo scientismo moderno, che non va confuso con la vera scienza, quella del dubbio, quella appunto del quid tum?)4• Alberti pone quindi sul tappeto questioni decisive per la scienza e la filosofia moderne, secondo una chiave che Montaigne e Cartesio faranno propria (il dubbio) ma che avrà un 'audace articolazione anche in Leonar­ do, l'altro grande "edificatore" e instancabile osservatore della Natura e dell'uomo, peraltro lettore attento dell'Alberti. Leonardo prima "vede" e poi "progettà': binomio indissolubile che lo rende di fatto uno dei padri della scienza moderna (conosciuto senz'altro di persona da Machiavelli ... e su questo ancora molto bisognerebbe indagare). Machiavelli si inserisce in questo nodo concettuale/metaforico (lo si accennava nel precedente capitolo) e lo sviluppa innanzi tutto nel secondo e quarto paragrafo della magistrale dedica a Lorenzo de ' Medici il Giovane che precede Il principe: La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausole ampie o di parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio e ornamento estrinseco, con e' quali molti sogliano le loro cose descrivere e ordinare, perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del su bi etto la facci grata. Né voglio sia imputata presunzione se uno uomo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare e' governi de ' principi; perché così come coloro che disegnano e' paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de ' monti e de' luoghi alti e, per considerare quella de ' luoghi bassi, si pongono alto sopr 'a' monti, similmente, a conoscere bene la natura de ' populi, bisogna essere princi­ pe, e, a conoscere bene quella de ' principi, conviene essere populare ... E se vostra Magnificenzia da lo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna5• 71

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

L'autore fiorentino contrappone alla retorica vacua e fallace dei cortigiani e dei letterati sterili la sua "evidenza" di implacabile "osservatore" della verità delle cose, colta con occhio sgombro da ipocrisie e perciò prezioso per chi davvero voglia discernere la natura della politica, del potere, delle dinami­ che sociali per governare al meglio ( il grande tema del Principe stesso) . La metafora usata è fortemente innovativa e ricca di molteplici impli­ cazioni. Nella temperie in cui opera Machiavelli si era affacciata prepoten­ temente ( grazie all'ausilio decisivo della stampa ) una nuova, fertilissima era della cartografia, favorita dall'interesse crescente per i nuovi mondi da poco scoperti e dalla curiositas di tanti esploratori e navigatori al servizio di sovrani o di ricchissime compagnie commerciali, nonché dalla necessità di "mappare" i territori con precisione sia per scopi civili sia, ancor più, per esigenze imposte dalle campagne militari; insomma una nuova articolazio­ ne del « buon geométra », che aveva nei laboratori cartografici di Bologna un centro fra i principali in Europa. Machiavelli, evidentemente colpito da questa forma di osservazione e trascrizione della realtà, la tramuta in una decisiva metafora dei "punti di vista" indispensabili al politico. Per « di­ segnare e' paesi » occorre osservare e vedere come un cartografo, e perciò tener conto di due punti di vista entrambi indispensabili e non separati da alcuna gerarchia : solo chi sta in basso ( il popolo, fra cui si pone Machiavelli stesso) può vedere e giudicare al meglio chi governa ( come il cartografo può disegnare i monti solo stando in pianura) ; solo chi governa può, dall'alto, vedere a sua volta e valutare al meglio le dinamiche complessive dei gover­ nati, del popolo ( come il cartografo che può disegnare il piano solo salendo sui monti ) . Non è chi non colga, in apertura del Principe, le radicali, impressionanti novità contenute in questa pagina machiavelliana : il primato dell'osservare e del vedere come presupposti dell'azione politica volta al giusto governo; la sostanziale dignità e valore di entrambe le articolazioni dello Stato, go­ vernati e governanti. I secondi non hanno una dignità maggiore dei primi, ma solo un altro punto di vista, indispensabile alla pari di quello dei gover­ nati ( che è davvero una bella e spregiudicata sfida da porre all'inizio di un trattato de principatibus!). Basso e alto ( la grande dicotomia cara a Lotman ) non si configurano più come poli gerarchicamente disposti, ma come differenti e paritari punti di vista e di osservazione dell' "occhio politico" ( al pari dell'occhio di Alber­ ti, sempre fonte essenziale di Machiavelli ) . Popolo e principe, in sostanza, necessitano della reciproca legittimazione: la storia della politica moderna e della grande stagione illuministica - ma anche della scienza sperimentale 72

4· MACHIAVELLI E L ' EVIDENZA DEL VEDERE

"galileiana" - ha qui la sua radice fondante. Non a caso, in conclusione alla Dedica, Machiavelli invita il signore a « volgere li occhi » verso i luoghi bas­ si in cui lo stesso autore si trova : la richiesta di aiuto e protezione non è fine a se stessa, non è la petizione di routine di tanti letterati e umanisti, ma è l 'e­ sito coerente di quanto detto prima, è l 'espressione della piena dignità ( non subalterna) di chi dal basso "vede" e "sà' quello che il signore "è" e quello che potrebbe divenire, grazie ad avveduti consigli e all'evidenza veritiera dell ' "osservazione", non offuscata dal lenocinio interessato e fuorviante del cortigiano o del retore vacuo6• Se la Dedica al Principe è forse la pagina più eclatante di Machiavelli per l 'ambito che stiamo esaminando, va ricordato che l 'area semantica del "ve­ dere" ritorna continuamente nelle sue opere, a cominciare da quell 'espres­ sione così tipica, « come si vede ai nostri tempi » , indice dell 'infaticabile opera di osservazione della realtà da parte del letterato fiorentino, perno del suo stesso pensiero politico non aduso a sterili sogni ma ben ancorato alla dura e in eludibile « verità effettuale della cosa » 7• O ancora si guardi, nel Decennale secondo, ai significativi vv. 1 84-192: Tanto v 'accieca la presente sete l che grosso tienvi sopra gli occhi un velo l che le cose discosto non vedete. l Di quinci nasce che ' l voltar del cielo l da questo a quello i vostri stati volta l più spesso che non muta e 'l caldo e 'l gelo, l che se vostra prudenzia fussa volta l a cognoscer il mal e rimediarne, l tanta potenza al ciel sarebbe tolta8•

È bene confrontare questo passo con Il principe, I I I : Perche e ' Romani feciono, in questi casi, quello che tutti e ' principi savi debbono fare; li quali, non solamente hanno ad avere riguardo agli scandali presenti, ma a' futuri, e a quelli con ogni industria obviare; perché, prevedendosi discosto, facil­ mente vi si può rimediare; ma, aspettando che ti si appressino, la medicina non è a tempo, perche la malattia è divenuta incurabile. E interviene di questa, come dicono e' fisici dello etico, che, nel principio del suo male, è facile a curare e difficile a conoscere, ma, nel progresso del tempo, non l'avendo in principio conosciuta né medicata, diventa facile a conoscere e difficile a curare. Così interviene nelle cose di stato; perché, conoscendo discosto ( il che non è dato se non a uno prudente ) e ' mali che nascono in quello, si guariscono presto ; ma quando, per non li avere conosciuti, si lasciano crescere in modo che ognuno li conosce, non vi è più reme­ dio. Però e' Romani, vedendo discosto gli inconvenienti, vi rimediorno sempre9•

Il ricorso alla metafora del medico, che attrae il governatore di Stati entro la sfera dello scienziato, svela che la "prudenza" di cui parla Machiavelli, 73

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

di grande rilievo nel suo ragionare intorno all 'arte della politica, va intesa non già semplicemente come una misura di avvedutezza pratica, ma come il presupposto metodologico di una gnoseologia che diventa poi un'etica del comportamento. Il primato attribuito al senso della vista, proprio della mentalità scienti­ fica moderna, sostituisce la disposizione "adesiva" o "animistica" (di immer­ sione nel mondo degli oggetti) con un rapporto "a distanzà' tra il soggetto senziente e l 'oggetto della sua percezione; se si tiene poi anche conto del fatto che i termini "vedere" e "sapere" derivano dalla medesima radice indo­ europea, non si può non considerare con la debita attenzione la stretta rela­ zione stabilita tra "vedere discosto", "prudenzà' e "conoscere discosto" nei testi machiavelliani. Machiavelli, educato da buon umanista alla scuola dei classici, percepiva nitidamente il nucleo etimologico della parola e sapeva bene che il termine "prudenza" appartiene al campo semantico del "vede­ re", essendo la prudentia, letteralmente, un providere, un vedere da lontano, un "vedere discosto", appunto, come traduce egli stesso, esercitando questa volta il suo costume rigoroso di analista sul corpo dei vocaboli. L'operazione machiavelliana che configura la prudenza in una prospet­ tiva intellettuale, come procedura conoscitiva prima ancora che operativa, va riportata a un paradigma di ascendenza classica. Basti qui ricordare Ci­ cerone, De ojjìciis, 43, 153, e De inventione, 53, 1 6 6. Ma si può forse anche chiamare in causa la ph ronésis aristotelica o lo stesso Livio (xLII, 62-64), che nel contesto militaresco di una sua pagina stabilisce una decisa relazione tra "prudenzà' e "fortuna": « Modum imponere secundis rebus nec nimis cre­ dere serenitati praesentis fortunae prudentis hominis et merito felicis esse » ( « saper moderare l'eccesso della fortuna e non affidarsi troppo all'euforia del momento era proprio dell 'uomo prudente e perciò giustamente for­ tunato» ). Difatti, il rapporto polare tra prudenza, intesa appunto come "vedere primà', e instabilità, istituito ai vv. 1 84-192 del Decennale secondo, delinea una filigrana di inequivocabili spie sintagmatiche e lessicali : « 'l voltar del cielo » ; « da questo a quello i vostri stati volta l più spesso che non muta e 'l caldo e 'l gelo » ; « cognoscere il mal e rimediarne » ; « tanta potenza al ciel sarebbe tolta » ; va ricordato che, nell'universo ideologico machiavelliano, mutamento e volubilità pertengono congiuntamente alla sfera della natura e a quella della fortuna. Si delinea così proprio il rapporto tra prudenza e fortuna; la prima si palesa come quella virtù, di cui a lungo si discorrerà soprattutto nel Principe, che nell'esercizio del suo « governo » può imporre un argine, un limite a quella « incostante dea e mobil diva » che « va tramutando le cose del mondo » ( la Fortuna appunto). 74

4· MACHIAVELLI E L' EVIDENZA DEL VEDERE

In definitiva, nei Decennali, come in tanti altri testi, la narrazione si di­ spiega secondo un ritmo incalzante e serrato, in una condensazione espres­ siva che agevola l 'invenzione metaforica del "vedere", il gusto dell'epigram­ ma incisivo e sarcastico, della sentenza rapida e precisa : sono le armi a cui Machiavelli affida i destini del moderno sapere politico. Note 1. G. M. Anselmi, L'immaginario e la ragione. Letteratura italiana e modernita, Ca­ rocci, Roma 201 7· 2. E. Pasquini, Dante e lefigure del vero. Lafabbrica della Commedia, Bruno Monda­ dori, Milano 2001. 3· L. Chines, Francesco Petrarca, Pàtron, Bologna 201 6. 4· A. G. Cassani, L'occhio alato. Migrazioni di un simbolo, con uno scritto di M. Cac­ ciari, Aragno, Torino 201 4; Anselmi, L'immaginario e la ragione, cit. S· N. Machiavelli, Il principe, a cura di R. Ruggiero, BUR, Milano 2008, pp. 47-9. 6. Cfr. G. Sasso, G. Inglese (a cura di), Machiavelli. Enciclopedia machiavelliana, 3 voli., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 201 4. 7· Machiavelli, Il principe, cit., xv capitolo. 8. N. Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971. 9· Machiavelli, Il principe, cit., pp. 63-4.

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Scrittura politica, riso e autoironia nell'epistolario machiavelliano

Il Machiavelli "maggiore", autore dei grandi testi politici, del capolavoro storiografico (le !storiefiorentine) o delle bellissime commedie, si radica in una continua, pulsante, molteplice attività scrittoria, che è possibile riper­ correre per molti sentieri. Uno di questi è senz'altro rappresentato dal suo epistolario, non solo perché è uno dei più belli e significativi in assoluto della nostra letteratura, ma perché si configura proprio come un viatico essenziale per chiunque voglia davvero avvicinarsi a questo autore, esplo­ rando contestualmente i tanti arcipelaghi della sua scrittura e l 'intensità del suo tracciato biografico. L'epistolario machiavelliano copre esattamente un trentennio : si snoda infatti dal 1 4 9 7 al 1 5 27, anno stesso della morte del Segretario. Delle circa 3 40 lettere di cui si compone (allo stato attuale dei rinvenimenti e delle ricerche) più di 8o sono scritte da Machiavelli e le altre dai vari suoi inter­ locutori : una raccolta epistolare ampia, quindi, che negli ultimi vent 'anni si è arricchita gradualmente in virtù delle esplorazioni - fra gli altri - di Bertelli, Gaeta, Ridolfi, Martelli, Bausi, Marchand, soprattutto per ciò che attiene al manipolo di lettere dei corrispondentP. Ne deriva uno spacca­ to ampio, articolato, vivacissimo non solo della biografia e del pensiero di Machiavelli, ma anche di molti aspetti pubblici, quotidiani e privati della vita del tempo. Uno dei motivi del fascino e dell 'interesse suscitati da queste lettere è che esse non costituiscono un epistolario organico e "costruito" come tale dai corrispondenti (secondo quelle regole, esplorate dagli studi di Ame­ deo Quondam, che lungo il Cinquecento codificheranno le stesse raccolte epistolari come genere) ; sono invece mis sive eterogenee tra Machiavelli e amici, familiari, conoscenti, potenti, tali da scandire le varie fasi, pubbli­ che e private, della sua esistenza. Ne emerge una sostanziale impressione di verità, di freschezza, di profonda umanità, per cui esse possono a giusta ragione considerarsi la più significativa e sicura testimonianza su Machia77

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

velli e la sua vita, nonché punti alti di una certa nostra grande tradizione letteraria2.. Va peraltro sottolineato un aspetto di notevole rilevanza ma spesso non adeguatamente messo in luce dagli studiosi : l 'epistolario machiavelliano non va solo correlato alla produzione trattatistica e letteraria più nota del Segretario, ma strettamente connesso al vastissimo pelago delle sue Lega­ zioni e commissarie, il cui corpus può oggi essere avvicinato compiutamente grazie soprattutto agli sforzi che da decenni vi dedica Jean-Jacques Mar­ chand3. La caratura cancelleresca, ufficiale, di governo e spesso formulare di quegli scritti, dispacci diplomatici e note epistolari non deve far dimentica­ re che in moltissimi di essi giocano un ruolo di primo piano le osservazioni originali di Machiavelli e le sue personali annotazioni e valutazioni di fatti, uomini e dialoghi intercorsi in una miriade di incontri, con clausole stili­ stiche e retoriche tutte sue. Ci troviamo cioè di fronte a un "insieme" che occorre esaminare in tutta la sua vasta latitudine per comprendere appieno le complesse trame dialogiche e antropologiche della scrittura machiavellia­ na e del suo stesso continuo e assillante interrogarsi sul mondo e sulla natura politica ed etica degli uomini. Epistolario vero e proprio, scritti di governo e missive/dispacci come quelli delle Legazioni e commissarie si tengono quindi fra loro strettamen­ te : questo aspetto rimanda alla tradizione epistolare e scrittoria dei grandi umanisti fiorentini con incarichi politici e istituzionali, i "cancellieri" ben noti a Machiavelli, come Coluccia Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Brac­ ciolini, Bartolomeo Scala e altre figure minori, i cui "insiemi" di scritti di governo ed epistolari presentano forti somiglianze di struttura e comples­ sità con quello machiavelliano4• Del resto già l 'amplissimo epistolario di Petrarca condensava in sé tutte queste caratteristiche, laddove alle episto­ le più private e affettive si intrecciavano le tante missive ufficiali, sovente relative a vicende politiche e a incarichi diplomatici e istituzionali5• Solo nel pieno Cinquecento, come già accennato, il genere epistolare assumerà una configurazione più definita e specifica, divenendo uno spazio letterario ben distinto dalla produzione formulare e burocratica delle scritture can­ celleresche e da quella di minuziosa osservazione e documentazione delle scritture e dei dispacci diplomatici, di cui furono maestri fin dal Medioevo gli ambasciatori e i legati veneziani6• Si torni ora all'epistolario machiavelliano vero e proprio. Nell 'insieme di queste missive spiccano almeno tre nuclei fondamentali : il manipolo di lettere fra amici di cancelleria prima del 1 5 1 2 ; la folta corrispondenza col

5· SCRITTURA POLITICA, RISO E AUTOIRONIA IN MACHIAVELLI

Vettori dopo il I S I 2 ; il breve ma intenso scambio epistolare col Guicciardini negli ultimi anni di vita. Al primo nucleo appartengono scritti (soprattutto ad opera dei corrispondenti di Machiavelli) che ci aprono vivacissimi squar­ ci sulla vita della cancelleria fiorentina, dei suoi uffici, dei suoi protagonisti. Accanto alla quotidianità spigolosa e uggiosa delle incombenze, delle pic­ cole rivalità, degli umori (di cui il fedele amico e collega Biagio Buonaccorsi tiene sempre informato Machiavelli quando questi - e capita sovente - è lontano per delicate missioni diplomatiche), si manifesta un reticolo vi­ vace e scherzoso di amici, in sodalizio continuo tra beffe, battute, ritrovi, ammiccamenti. Questa cifra di pluralità di registri, di commistione conti­ nua (com 'è propria di ogni genuino scambio epistolare) fra preoccupazioni pubbliche, ragionamenti elevati e vena scherzosa, beffarda, "carnevalescà', accompagna tutte le lettere di Machiavelli ed è forse uno degli elementi che più fornisce loro un fascino unico. Di grande tensione letteraria nonché particolarmente suggestivo è il più cospicuo aggregato di corrispondenza, quello con Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma: esso si snoda negli anni forse più tristi della vita di Machiavelli, gli anni dell'allontanamento dagli uffici, dell'ar­ resto, dei sospetti, dei difficilissimi (e per molto tempo inutili) tentativi di riconquistare una credibilità politica presso i nuovi reggitori di Firen­ ze, i Medici. Eppure sono anni di grande vena creativa ed elevato livello progettuale, dato che ad essi sono ascrivibili l 'ideazione e la composizione delle maggiori opere politiche e letterarie, che faranno poi di Machiavelli un ascoltato maestro per alcune giovani generazioni fiorentine radunate intorno agli Orti OricellarF. Lo scambio di missive col Vettori rappresenta più di un 'eco di tutto ciò, ne è anzi un corposo contrappunto, un ricchissimo scenario : provoca­ to dall'amico, Machiavelli analizza infatti la situazione politica del tempo, fornisce ipotesi, azzarda suggerimenti in una griglia concettuale che sovente richiama le pagine del Principe e sembra dialogare con le analisi dei Discorsi, delle !storie, dell'Arte della guerra. Il Vettori, per certi versi, è un interlocutore ideale : scettico, disincanta­ to, a volte quasi cinico, sostanzialmente legato a quel clima di tardo aristote­ lismo/averroismo (si pensi al Pomponazzi) e di crescente naturalismo cui si era educato anche Machiavelli, egli sembra (com 'era tipico della tradizione diplomatica) analizzare minutamente la realtà, senza soverchie illusioni di poterla dominare nei suoi incessanti mutamenti o di poterla inquadrare in una ratio plausibile (esiti illustri di questo filone di pensiero già tracciato dall 'Alberti si consolideranno nel Guicciardini)8• 79

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

Machiavelli dialoga col Vettori quasi con trastivamente : pur in una peno­ sa condizione soggettiva di emarginazione politica, egli ha fiducia profonda nella virtus, nella capacità dei soggetti di orientare la realtà, vincendone la Fortuna. Nelle lettere all'ambasciatore fiorentino tracima evidente questa tensione, che fa da contrappunto al disincanto provocatorio dell'amico. Se per un verso, perciò, le lettere politiche di Machiavelli (specialmente quel­ le col Vettori) possono essere interpretate come una sorta di officina o di laboratorio in cui prendono corpo, si chiariscono e si sedimentano tanti temi cari alle opere maggiori, per l 'altro esse hanno una loro valenza di per sé, una loro autonoma forza concettuale che non le rende affatto mera appendice di altri testi. Anzi, la suggestione maggiore di alcune memorabili lettere al Vettori consiste proprio nell'implicito richiamo (sotterraneo e pulsante) alle intelaiature di varie opere machiavelliane (specie Il principe e i Discorsi), pur in un contesto epistolare che tende a mantenere con vigore la sua autonoma specificità, nonché a far risaltare il suo spessore espressivo : perché quella pluralità dei registri che prima si richiamava giunge a pun­ ti letterari altissimi nella corrispondenza col Vettori. A lettere politiche si alternano missive in cui predomina la sfera del privato, con i pettegolezzi, le beffe o le suggestive confessioni di un Machiavelli maturo innamorato di una giovane cantante (Barbara Salutati) e sorprendentemente pronto a dichiararsi "vinto d'Amore", quasi a risarcimento di una vita pubblica che era stata fonte di tante amarezze. Questo tassello autobiografico e il modo particolare in cui l 'autore fio­ rentino ne tratta, direttamente nelle lettere e indirettamente in altre opere (sicuramente la Clizia ne è influenzata), ci mostrano una notevole padro­ nanza di un lessico amoroso tutt 'altro che banale, sicuramente attento alla declinazione comico/naturalistica e boccacciana ma anche al modello pe­ trarchesco, che a quel tempo cominciava ad affermarsi : in definitiva, Ma­ chiavelli contrae debiti non scontati (mai davvero esplorati a fondo dalla critica) nei confronti di tutta la produzione letteraria di Petrarca, sia volgare e "amorosa" sia latina "etica" e "politicà', cui l 'autore fiorentino deve moltis­ simo (la citazione della canzone Italia mia in conclusione del Principe non è affatto retorica; coglie anzi un punto di riferimento essenziale per la cultura del suo tempo, al cui centro si colloca l ' intera produzione petrarchesca, latina e volgare, cosa di cui Machiavelli si mostra pienamente consapevole). A volte i diversi registri si contaminano volutamente nella medesima lettera (memorabile quella del 21 gennaio IS IS). Ed è opportuno qui ricor­ dare che appunto a questo manipolo di missive al Vettori appartiene pro­ prio la celeberrima lettera del 1 0 dicembre 1 5 1 3 in cui si annuncia la quasi av8o

5· SCRITTURA POLITICA, RISO E AUTOIRONIA IN MACHIAVELLI

venuta composizione del Principe. Questa lettera, infatti, è importante non solo per la citazione del Principe, ma perché è una delle pagine più impor­ tanti della nostra letteratura e un esempio mirabile del procedere epistolare precipuo di Machiavelli : l 'affresco vivace e pulsante del degrado « gagliof­ fo » verso cui procede la vita dell 'esiliato nel borgo rurale « da taverna » si alterna alla sua solenne pratica di lettura dei classici e della storia antica, Livi o in primis, fino allo squarcio aperto sul proprio laboratorio/ scrittoio ideativo al culmine della stesura del trattato De principatibus. L'antico topos del loqui cum libris, potentemente rilanciato da Petrarca (autore di riferi­ mento insieme a Dante e all 'Alberti), trova in questa epistola una delle sue formulazioni più pregnanti e più letterariamente e filosoficamente alte : la metafora dell'indossare i «panni curiali » per avvicinarsi alla « lezione de­ gli an tiqui » in drammatico dialogo con la « esperienza delle cose presenti » resta una delle memorabili intuizioni machiavelliane, che poi si sostanzierà sempre anche nelle sue opere maggiori9• La sfera privata domina anche il carteggio con Francesco Guicciardini. Divenuti rapidamente amici, il sodalizio fra i due si manifesta in un 'intensa corrispondenza, appena venata, di tanto in tanto, da qualche residuo di rispettosa soggezione : del più giovane ma potente e fortunato Francesco verso il più "debole" ma geniale Niccolò; del più maturo ma "subalterno" Niccolò verso il rampollo di una casata illustre, precocemente assurto a ele­ vate cariche. Nonostante ciò, l 'intesa amicale fra i due è perfetta: lo si può intuire, ad esempio, dalla beffa ai danni dei frati di Carpi, dalle attenzioni con cui Guicciardini - pur preso da tante incombenze pubbliche - si dedi­ ca all'allestimento di una recita della Mandragola, dall 'impegno profuso da Machiavelli nell'eseguire incarichi di fiducia assegnatigli dal Guicciardini (l' ispezione di un podere da poco acquistato o i sondaggi per collocare in matrimonio una figlia) . Le lettere di Machiavelli - lo si diceva - raggiungono livelli intensi di espressività. Sapientemente orchestrati non sono solo i registri alti, che si intrecciano e si contaminano con i registri di un basso irriverente e libe­ ratorio che mai cessa di pulsarvi (significativi, in questo senso, i rappor­ ti possibili con l'Asino)10; lo sono anche i rimandi, gli echi, le in tessiture delle fonti e delle suggestioni di tante letture : dagli amati classici antichi, in cui Livi o è affiancato, ad esempio, da Tibullo o Ovidio, ai testi ormai canonici della tradizione volgare toscana, fra cui Dante - sempre in primo luogo -, Petrarca, Boccaccio, Burchiello, Pulci. Molte lettere sembrano consolidarsi intorno al dialogo con questi interlocutori ideali ; altre sono sigillate o cadenzate da citazioni (il più delle volte a memoria) dai testi 81

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

più amati, quasi a rimarcare una familiarità non pedante né polverosa ma viva e pulsante con un passato di cui si coglie la linfa ad alta significazione comunicativa, ovvero letteraria, e nello stesso tempo ricca di densa parte­ cipazione emotiva. Dagli scambi epistolari emerge una caratura scrittoria di duplice sta­ tuto. Il primo pertiene al gusto della narrazione, del "novellare" così pre­ cipuo della tradizione fiorentina boccacciana ma anche quattrocentesca. La straordinaria capacità narrativa di Machiavelli, evidente nei Discorsi e nelle !storiefiorentine ( in cui egli domina pienamente le raffinate strategie della dispositio) , nelle lettere sa commisurarsi con molteplici temi narrativi, talora fra loro intrecciati : la quotidianità dell'esistenza, gli amori, le bef­ fe ( si pensi alla notissima lettera in cui Machiavelli narra la sua sarcastica, degradante avventura con la vecchia prostituta veronese, in realtà vera e propria, magistrale novella) , le grandi strategie di Stati e signori, il ruolo dei protagonisti della storia come dei popoli, con la trama delle loro vicende. Davvero Machiavelli è maestro nel narrare la "Storià' come le "storie"11• Vi è però un 'altra tensione molto presente nell 'epistolario machiavelliano, già a suo tempo analizzata con estrema finezza da Ezio Raimondi : la "disposizio­ ne" teatrale di Machiavelli. L'articolazione dei corrispondenti, degli amici e dei personaggi menzionati, nonché delle loro "parole", richiama spesso le partiture sceniche, animate e dialogiche ( grande è certo la lezione della coeva rinascita, per mano dell'Ariosto, della commedia classica e del teatro tout court, ma anche di quel Dante che Auerbach ci ha insegnato a leggere nella sua dimensione appunto realistica e "teatrale" ) Sicché l 'approdo alle commedie e al teatro da parte di Machiavelli, con singolare perizia e asso­ luta originalità, passa anche certamente per questo implicito apprendistato delle scritture epistolari. Petrarca, Boccaccio e, soprattutto, Dante svolgono un ruolo primario nelle lettere così come in tanti altri testi machiavelliani. Ma anche altre let­ ture e altri autori, non sempre citati esplicitamente, trapelano fra le righe : un certo Cicerone accanto all 'Apuleio da poco chiosato dal Beroaldo, a Lu­ ciano, a Plauto ; certi umanisti "latini", dal Salutati al Bruni, al Bracciolini, all'Alberti (del Momus come delle lntercenales) e al Pontano1\ accanto ai ri­ matori e ai novellatori volgari della tradizione comica tre-quattrocentesca, con i loro repertori di beffe, facezie, strambotti, stornellate14• Non va trascurato neppure l 'apporto del mondo teatrale (da Aristofa­ ne a Plauto, a Terenzio, fino all'Ariosto ) , il cui fascino, che a lungo sedur­ rà Machiavelli, emerge - come già si sosteneva poco prima - da certa sua "scenicà' capacità di orchestrare e raffigurare dialogati, battute, personaggi Il.

5· SCRITTURA POLITICA, RISO E AUTOIRONIA IN MACHIAVELLI

di un quotidiano la cui traduzione in cifra teatrale è tentazione costante per l 'autore fiorentino ; cosicché è possibile individuare, come già fece Ezio Raimondi, continui lacci, stilemi, "riporti" tra epistolario e opere teatrali, tra vita e scena15• Nell'epistolario c 'è un 'altra dimensione essenziale, che non va dimen­ ticata e che attraversa anche altri testi machiavelliani : il "riso", il gusto vitale della risata e del comico, cui già si accennava in precedenza. Prima dell'esi­ lio, del resto, le lettere dei suoi compagni di cancelleria mostrano lagnanze quando Machiavelli è assente da Firenze, perché si sente la mancanza delle sue trovate, del suo gusto mordace per le battute e per le beffe, della sua risata liberatoria. Abbiamo quindi testimonianze dirette e inequivoche di questo aspetto di Machiavelli : ed egli è ben pronto ad assecondare le chiacchiere dei suoi amici, tenendosi sempre informato di quanto accade di semiserio in Segreteria, dei pettegolezzi, degli scherzi orditi fra amici. Ma tutto ciò si ripete anche nelle corrispondenze successive all'esilio, nei corpus ricchi e straordinari di lettere con Vettori e Guicciardini, in cui accanto alle missive di tono politico e storico compaiono quelle ricche di battute, scherzi, distaccata ironia. Si tenga conto, come già anticipato ali ' inizio del nostro discorrere, che l 'epistolario machiavelliano, a differenza di quelli di tanti altri umanisti (a cominciare da Petrarca), era "privato", non destinato a un "pubblico"; quindi sostanzialmente è un carteggio moderno, autentico, senza "filtri" particolari, dal quale inoltre emerge, come sempre quando c 'è di mezzo l 'autore fiorentino, una straordinaria peculiarità davvero di caratura mo­ dernissima: l'autoironia. Prima di Ariosto e Machiavelli è molto difficile parlare di "ironia" in senso moderno e ancor più di "autoironia", quest 'ulti­ ma del tutto sconosciuta tra Medioevo e Umanesimo se non in testi che si presentano esplicitamente come "giochi letterari", in cui comunque prevale piuttosto la notazione comica tradizionale applicata a se stessi (certi sonetti della tradizione toscana fino a Pulci, certe pagine di alcuni umanisti, Codro fra tutti, qualche testimonianza boiardesca e poi folenghiana). Machiavelli invece, con assoluta naturalezza e senza intenti letterari di secondo livello, ama prendersi in giro, rappresentarsi come vittima di scherzi e beffe, ama insomma ironizzare sulla propria condizione. La novità è di una portata incredibile ed è altrettanto incredibile che mai, nella vastissima bibliografia machiavelliana, se ne sia fatto cenno finora! Siamo direttamente in quel percorso maestro che porta dritto a Spinoza, a Voltaire, a Goldoni, a Svevo, a Pirandello fino ai nostri giorni, in letteratura come in filosofia. Machiavelli insomma non si sente un "classico" magister o un auctor per

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

eccellenza (né poteva immaginare come e quanto lo sarebbe divenuto) : si arrabatta nella sua vita difficile e, pur consapevole di percorrere vie « mai da alcuno trite » , a differenza di Dante o Petrarca non ha nessuna certezza che verrà "ascoltato", se non forse, tardivamente, nelle sue conversazioni coi giovani a casa Rucellai. Nasce anzi il sospetto che la sua ben nota lagnanza verso l 'Ariosto, per non averlo inserito nel canone degli autori famosi del tempo nel Furioso, non sia altro che una sua peculiare e ben riuscita forma di autoironia, di amabile sorriso rivolto alla propria pratica letteraria (pe­ raltro al tempo ancora molto limitata, sovrastato com'era dai suoi molti impegni nell'attività quotidiana in cancelleria; poco più di un passatempo, insomma). Le lettere in cui questa modernissima caratura autoironica di Machia­ velli emerge sono molte e tutte di alto livello scrittorio : basti ricordare, ad esempio, il racconto dell 'avventura maldestra con la vecchia prostituta veronese ; oppure la celeberrima lettera, di cui già si è detto, com posta in esilio nel dicembre 1 5 1 3 , nella quale (annunciando en passant di aver ter­ minato la composizione di un trattato de principatibus, vero esempio di understatement) descrive in termini autoironici la sua giornata fra la caccia agli uccelli e l' ingaglioffarsi nei giochi di carte in osteria fra vocianti po­ polani. Ancora, si rammentino le lettere più tarde in cui prende in giro se stesso con l 'amico Vettori per un suo senile innamoramento (alla radice probabilmente del personaggio patetico e autobiografico di Nicomaco, il vecchio invano infatuato di una giovane, nella Clizia) ; oppure il gustoso scambio di missive con Guicciardini in merito allo scherzo ordito ai danni dei frati di Carpi, in cui proprio Machiavelli dichiara come i frati lo abbia­ no alla fine "scoperto". Si potrebbe continuare in questa galleria che dipinge un Machiavelli aperto al riso anche nelle circostanze più dure della sua esistenza e sem­ pre pronto a mettersi alla berlina, quasi inscenandosi come personaggio da commedia : l 'epistolario ci testimonia insomma non solo lo straordinario e ardito sguardo autoironico di Machiavelli, ma anche la naturalezza dell'ap­ prodo alla commedia (lo dimostrò benissimo Ezio Raimondi) e a vari testi comici in cui, fra le righe dei testi e le figure dei personaggi, è possibile cogliere il Machiavelli che espone se stesso allo scherno. Con una ulteriore notazione, che si collega a una delle riflessioni antro­ pologiche e politiche più importanti delle sue opere maggiori : Machiavelli ammira i giovani, portatori non solo di indispensabile audacia politica ma anche di riso, di sfrontatezza vitale e di gioiosa sessualità (le allegre brigate di boccacciana memoria o i "garzonacci" evocati nella Mandragola come

5· SCRITTURA POLITICA, RISO E AUTOIRONIA IN MACHIAVELLI

irrequieti, allegri e disinibiti protagonisti delle notti fiorentine tra beffe, bevute e bordelli ) . Il giovane audace, che in chiusa del xxv capitolo del Principe è l 'unico in grado di sottomettere la giovane donna/Fortuna, fa il paio ( e secondo un topos caro alla commedia antica ) con i vecchi beffati in amore sia nella Mandragola che nella Clizia, figure senili in cui non è difficile scorgere Machiavelli stesso, innamorato della cantante Barbara ( o Barbera che dir si voglia) Salutati. Si pensi, inoltre, alla novella Be/fagor arcidiavolo ( una delle più belle e argute fra le novelle cinquecentesche ) , in cui Machiavelli introduce tra i primi la figura del "buon diavolo': ossimorica, dissacrante e comica rappre­ sentazione del temuto demonio trasformato da uomini e donne in vittima, che diverrà così cara a tanta tradizione successiva da vestire i panni di una fortunata, popolare espressione comune. Anche qui, come non intravedere in controluce, attraverso la sagoma del "buon diavolo" Belfagor, l 'autoiro­ nica figura di Machiavelli ? Non a caso, Guicciardini aveva ben colto nel profondo questa natura "comica" e saggia al tempo stesso del caro amico Machiavelli : in una lettera del I8 luglio I 5 2 6 indirizzata a Roberto Acciaiuoli, nel riflettere su come Machiavelli, presente con lui sul campo della Lega di Cognac, fosse sicuro di non riuscire a riordinare con onore le truppe in campo, vista la loro cor­ ruzione e inadeguatezza, Francesco concludeva con un sorriso che Niccolò « starassi a ridere degli errori degli uomini, poi che non gli può correggere » . Il comico i n Machiavelli s i associa poi, ovviamente, anche alla gioiosità sessuale ( cara a tante novelle del tempo, come a quelle di Boccaccio) , che egli mostra apertamente nella parodia dantesca dell'Asino o negli allegri Can­ ti carnascialeschi. Proprio questo sguardo comico, questo sorriso beffardo, questa insistita autoironia, cifre peculiari di tutta la vita di Machiavelli, così come si delineano nell'epistolario, dovrebbero renderei cauti circa letture troppo allegoriche o allegorizzanti di opere come la Mandragola, di moda soprattutto qualche anno fa: Machiavelli non persegue intenti allegorici di alcun tipo, bensì sceglie un percorso caro alla sua natura, che si snoda at­ traverso il comico e l 'autoironia, per rappresentare un plot e un mondo che facciano innanzi tutto ridere il pubblico ( questo è il vero obiettivo di Ma­ chiavelli, non riduciamo la straordinaria Mandragola a un erudì to catalogo di frigide allegorie ! ) ma che non rinuncino, come egli dice nel Prologo, a un sano «dir male » (di aristofanesca memoria) , ovvero a una critica serrata delle ipocrisie del ceto dirigente fiorentino e italiano, delle sue apparenti virtù pubbliche e dei suoi imperdonabili vizi privati (così accade anche nei Decennali, nei Capitoli o nel discorso finale dell'Asino, affidato al porco) . ss

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

Un « dir male » comico e talora grottesco che nulla ha in comune con quel «dir male » distruttivo della dignità politica, infamante, livoroso e capace di minare alle radici il consorzio civile (oggi diremmo daJake news) contro cui Machiavelli esplicitamente si scaglia in Discorsi, I, 7· Non a caso Machia­ velli non pratica mai il genere dell' invectiva in quanto tale (pur così caro ai classici antichi e, in pagine memorabili, a Dante, Petrarca, Valla, Poggio, Alberti e molti altri), ma piuttosto generi in cui il rovescio comico e carne­ valesco consente una dissacrante disamina della realtà politica del tempo proprio traducendola in riso e beffa, a lui sempre carP6• Come si è avuto modo di osservare, l ' intero corpus delle lettere machia­ velliane non è solo una preziosa miniera da cui estrarre dati e curiosità sulla biografia di Machiavelli, sulla genesi di certe sue opere, sul suo ambiente po­ litico e culturale. Tutto questo c'è ed è di grande rilievo (basti solo pensare agli accenni utili a datare alcuni capolavori, come Il principe, o a seguirne tappe di composizione, come per le !storie fiorentine), ma le lettere sono qualcosa di più : sono l 'immagine stessa di un'esistenza, sono l 'espressione di una polifonica tonalità di approccio al mondo, che grandeggia in Ma­ chiavelli ed è tessuto connettivo fondamentale della sua biografia e di tutta la sua produzione, "carne e sangue" che materiano e danno spessore unico alle sue pagine. Note 1. Cfr. N. Machiavelli, Opere, vol. 3: Lettere, a cura di F. Gaeta, UT ET, Torino 1984. 2. A. Quondam (a cura di), Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunica­ zione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, Bulzoni, Roma 1981; G. M. Anselmi, Leggere Machiavelli, Pàtron, Bologna 2014; G. Sasso, G. Inglese (a cura di), Machiavelli. Enciclopedia machiavelliana, 3 voll., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2014. 3· L'edizione critica coordinata da J. J. Marchand, intitolata Legazioni. Commissarie. Scritti di Governo, è stata completata in sette tomi (l'ultimo nel 2012 ) presso l' Edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli, Salerno Editrice, Roma. 4· Sugli umanisti cancellieri fiorentini cfr., fra i tanti contributi: R. Cardini, P. Viti (a cura di), Le radici umanistiche dell'Europa. Coluccio Salutati cancelliere e politico, Polistam­ pa, Firenze 2012; R. Witt, Sulle tracce degli antichi.Padova, Firenze e le origini dell'umane­ simo, con un saggio introduttivo di G. Pedullà, Donzelli, Roma 2005; J. G. A. Pocock, Il

momento machiavelliano. Il pensiero politicofiorentino e la tradizione repubblicana anglosas­ sone, 2 voll., Il Mulino, Bologna 1980; Q Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, vol. I: Il Rinascimento, Il Mulino, Bologna 1989; F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Einaudi, Torino 1970; C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento. DaPetrarca a Machiavelli, Bruno Mondadori, Milano 1998. E inoltre : J. M. Najemy, Storia di Firenze. I200-I5J5, Einaudi, Torino 2014. 86

5· SCRITTURA POLITICA, RISO E AUTOIRONIA IN MACHIAVELLI 5· Cfr. F. Petrarca, Lettere dell'inquietudine, a cura di L. Chines, Carocci, Roma 2004; le edizioni delle epistole di Petrarca curate e tradotte negli anni da U. Dotti; F. Rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Antenore, Roma-Padova 201 2. 6. Preziosa, ad esempio, risulta la consultazione del ricchissimo fondo Dispacci, IJ2I­ I7!J7 conservato presso l'Archivio di Stato di Venezia, dotato di una Guida generale e otti­ mamente catalogato. 7· Cfr., anche per un'ampia rassegna bibliografica, G. M. Anselmi, L'eta dell'Uma­ nesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell'Europa moderna, Carocci, Roma 2008; e inoltre : N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, a cura di G. Inglese, BUR, Milano 2002. 8. E. Raimondi, Politica e commedia, Il Mulino, Bologna 1972; N. Machiavelli, Opere, a cura di E. Raimondi, Mursia, Milano 1966; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voli., Ricciardi, Milano-Napoli 1987-97. 9· Oltre a quanto già suggerito nelle note precedenti, cfr. il fondamentale C. Dioni­ sotti, Machiavellerie, Einaudi, Torino 1980; nonché il recente Scritti in poesia e in prosa, vol. II delle Opere letterarie nell' Edizione nazionale delle opere di Machiavelli, coordinato da F. Bausi, Salerno Editrice, Roma 2013, da cui prende le mosse per acute notazioni N. Bonazzi, Utopia e disincanto in Machiavelli, in "Studi e problemi di critica testuale", 89, ottobre 201 4, pp. 185-209. Inoltre, anche per i nessi con Petrarca e Alberti, cfr. i miei studi citati supra, note 2 e 7· 10. Cfr. G. M. Anselmi, P. Fazion, Machiavelli, fAsino e le bestie, CLUEB, Bologna 1984; N. Bonazzi, Dalla parte dei sileni. Percorsi nella letteratura italiana del Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 2012; Id., Asino chi legge. Elogi dell'asino e altre "asinerie" del Rinascimento italiano, Pàtron, Bologna 2015. I I . Cfr. G. M. Anselmi, Narrare Storia e storie. Narrare il mondo, FrancoAngeli, Milano 201 3; E. Menetti, La realta come invenzione. Forme e storia della novella italiana, Franco­ Angeli, Milano 2015. 12. Cfr. supra, nota 8; E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1956), 2 voli., Einaudi, Torino 2000. 13. Cfr. supra, nota 3 e G. Pontano, Dialoghi, a cura di L. Geri, BUR, Milano 201 4. 1 4. Cfr. supra, nota II. 15. Cfr. supra, note 8 e 9· 16. Cfr. supra, note 7, 9 e 10. Sempre indispensabile, per quanto qui si argomenta, rifarsi agli straordinari e sempre attuali saggi di M. Bachtin. Insuperabili, soprattutto, le suggestio­ ni (che mi trovano da sempre concorde ) intorno alla Mandragola, allegorie improbabili e riso di R. Ridolfi, Studi sulle commedie del Machiavelli, Nistri-Lischi, Pisa 1968.

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Guicciardini testimone e storico

Vi sono molte chiavi di lettura possibili per un'opera vasta e complessa co­ me la Storia d 'Italia e, a dire il vero, non ne sono state praticate tante quante davvero meriterebbe : l 'eccezionalità dell 'esperienza storiografica, il sagace e originale uso delle fonti di prima mano, la pertinente ricostruzione di un grumo di decenni decisivi per l ' Italia e l ' Europa restano gli aspetti certo messi più in luce. Nel tessuto dell 'opera si intrecciano molte trame, ora rilevanti ora più sottili, che occorrerebbe rivisitare. Lo sguardo della storia, infatti, si delinea nelle pagine della Storia d 'Italia come lo sguardo del saggio per eccellenza, forse dell 'unico saggio possibile : di chi, nel mare incontrolla­ bile e inconoscibile della realtà nel suo cuore più profondo ( lo scetticismo dei Ricordi), ricostruisce e narra il passato non certo per trarne esempi ( la polemica sui "romani" cari a Machiavelli ) , ma per definire la tavola di un ancoraggio ermeneutico. Il passato è trascorso, è conoscibile, l 'uomo può cogliervi il percorso che lo consegna al presente con un unico vero monito : l'ethos del saggio narratore sa osservare oltre l'apparente fluire delle cose e la realtà, pur fortemente segnata dalla casualità, ha scarti riconducibili alle scelte dei soggetti in campo, segue tortuosi ma non peregrini processi di aggregazione e disgregazione dettati da logiche di convenienza, di utile, di potere, da profonde trasformazioni antropologiche degli stessi bisogni essenziali, in un intreccio inestricabile di "naturà' e "politica". Chi vuole operare in politica sa che il suo percorso è essenzialmente dislocato fra queste strettoie ineludibili; strettoie che lo storico, saggio per eccellen­ za, sa riconoscere nel passato come cifre stesse dell 'identità del mondo e dell 'uomo nel mondo. È improprio perciò, salvo si guardi solo agli esiti più radicali dei Ricordi, parlare di un "antiumanesimo" di Guicciardini : forse è più pertinente ri­ condurlo nell'alveo di quella grande riflessione rinascimentale a vocazione erudita ed enciclopedica, di marca letteraria, tesa a delineare un percorso di

L 'APPRODO DELLA LETTERATURA

saggezza non necessariamente condizionato dalle perentorie tassonomiche della filosofia tradizionale. L'umanesimo di Guicciardini è della tempra di quell 'umanesimo disincantato e scettico, ma inguaribilmente "curioso", dell'uomo nella storia e nella natura, che era proprio di un Alberti, di un Galeotto Marzio e della sua polimateia, di tanto umanesimo padano e, per certi versi, ovviamente dello stesso Machiavelli1• La curiositas di Guicciardini è costantemente rivolta alla storia, indaga­ ta senza soste e con più testi e più prove dalla giovinezza fino alla morte. E il saggio che guarda al passato e ai suoi protagonisti sovente riproduce l'ethos che si può cogliere in pagine straordinarie del Dialogo del reggimento di Firenze. Nella Storia d'Italia Guicciardini sembra individuare un costante articolarsi di un conflitto perenne e a molteplici livelli (dall 'uomo fino al cosmo e ai suoi influssi) tra forze che "costruiscono" e forze "distruttive". Nelle prime, e nei loro eroi, è connaturata la prudenza, il controllo di sé, la discrezione; nelle seconde vi è il trionfo delle passioni, della cupidigia, della dantesca "avarizià', risillabata come incontrollata sete di potere fine a se stesso, destinata a perdere alla fine tutto e tutti. Sono temi cari alla riflessione classica (Orazio e il Plutarco dei Moralia andrebbero riletti anche per Guicciardini, e poi Tucidide, naturalmente) e a quella rinascimentale, ad autori in apparenza fra i più disparati (da Ban­ della ad Aretino a Tasso), ma soprattutto a Leon Battista Alberti, autore di riferimento per Machiavelli e Guicciardini - e proprio nelle accezioni che qui richiamavamo -, nelle cui opere appare costante l' irrisolto conflitto dell'uomo tra "distruzione" e "costruzione", tra dissipazione cruenta e saga­ ce apprendistato deljàber. L'uomo del Rinascimento sta appunto al centro di questo conjligere (il magistrale nocciolo poetico della Liberata) e la sua storia è la storia di un inarrestabile conjligere. La Storia d'Italia vuole cogliere un momento emblematico di questo perenne e radicale sommovimento (Tasso, in altra temperie, sceglierà l 'e­ vento della conquista di Gerusalemme) : ovvero le vicende che hanno por­ tato l ' Italia, nella prima metà del Cinquecento, alla sua crisi più profonda, fino al riassetto nuovo degli imperi europei, di cui gli Stati italiani saranno sempre più "provincià'3. Qui si innesta una ulteriore peculiarità di Guic­ ciardini : molti degli eventi di cui narra lo hanno visto testimone e protago­ nista, da certi anni in poi proprio nella veste di luogotenente di Clemente VI I , con responsabilità dirette nell'organizzazione della Lega di Cognac, il cui esito fallimentare avrebbe portato al sacco di Roma del 1 5 27 e al defini­ tivo consolidarsi del potere imperiale di Carlo v. E da lì in effetti comincia, irreversibile, la parabola discendente della carriera politica di Guicciardini : 90

6. GUICCIARDINI TESTIMONE E STORICO

di quegli anni terribili e di quel fallimento, con l 'esito traumatico del sacco, Guicciardini si fa interprete dapprima a caldo con scritti quali la Consola­ toria, l'Accusatoria e la Dejènsoria. Lo sguardo è quello di chi ha creduto di tentare l 'ultima carta per cercare di arginare lo strapotere di Carlo v, vincitore già su Francesco I nella battaglia di Pavia e pronto ormai a far sue Italia ed Europa, conducendo definitivamente ai margini le realtà italiane, papato compreso. Nell'esito infausto di quella contesa, Guicciardini vede ancora il conca­ tenarsi confuso di eventi che avrebbero potuto cambiare direzione grazie a scelte militari più opportune e audaci del papa e dei confederati di Cognac. Non c 'è in tutto ciò solo la naturale necessità di difendersi rispetto ad esiti così gravi di una politica che Guicciardini aveva fortemente voluto e di cui restava uno dei principali imputati, ma anche la difficoltà del testimone di­ retto di elaborare la sua esperienza personale con lo sguardo più distaccato dello storico, forse senza ancora percepire in tutta la sua terribile valenza simbolica il "traumà' del sacco stesso ( non tutti, peraltro, percepiranno su­ bito il sacco del I 5 27 come episodio di valenza simbolica e politica epoca­ le : molti lo assimileranno ai tanti saccheggi che le guerre d' Italia avevano già conosciuto, come è facile veder attestato ad esempio nelle Novelle di Bandello, che dal Nord guarda al sacco di Roma senza particolare enfasi, mostrandosi ben più inorridito per quel che vari anni prima era successo a Brescia) . Ciò avverrà per Guicciardini più tardi, con la stesura della Storia d'Italia, quando lo sguardo del testimone si farà consapevolmente, sulla scorta di Tucidide, "autoptico" in senso ermeneutico e storiografico, di "te­ stimone dissimulato" fra le pagine della Storia ( come ben argomenta Carlo Varotti ) e davvero in grado di narrare l 'impari partita in atto fra poteri imperiali e debolezze irreversibili degli Stati italiani, inesorabilmente desti­ nati al tramonto sulla scena politica e militare europea, una sorte di cui il sacco e l 'incoronazione imperiale successiva di Carlo v, a Bologna nel I 5 3 0, divengono la più eclatante dimostrazione. Gli accurati studi di Ridolfi hanno dimostrato da molto tempo che il nucleo originario di stesura della Storia d 'Italia sta proprio in quei Com­ mentari della luogotenenza scritti subito per riflettere sul triennio I 5 2 5- 27, dalla battaglia di Pavia al sacco di Roma: anni ed eventi che divengono poi, per l 'occhio dello storico che ha dismesso i panni ormai del "testimone" a caldo, il vero perno interpretativo e la vera chiusa di una partitura tragica ( sostiene giustamente Mario Pozzi ) che si era aperta, come solennemente Guicciardini stesso dichiara all 'inizio della Storia d'Italia, con la morte di Lorenzo de ' Medici e la discesa in Italia di Carlo VIII. Si configura così un 91

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

ruolo chiave per i libri XV-XV I I I della Storia, scritti appunto per primi e germinati dall'esperienza diretta e drammatica dei Commentari. La duris­ sima esperienza personale di quegli anni si era dilatata fino a configurare le dimensioni ultime della tragedia italiana, papale e fiorentina. È infatti da questo viluppo di problemi, da questa complessa valenza di Guicciardi­ ni testimone e storico che, nel suo memorabile studio sul sacco di Roma, André Chastel prende le mosse e articola il suo filo di ricerca, dichiarando fin dall'inizio dell'opera un debito nei confronti di Guicciardini e del suo metodo storico. Il sacco è appunto lo spartiacque, anche per Chastel, per comprendere un'epoca storica, un tramonto italiano, un profondo mutarsi di prospettive culturali, artistiche, etiche non meno che politiche, sulla scia delle suggestioni guicciardiniane4• Non è un caso che uno dei più geniali (e sempre attuali) filoni inter­ pretativi praticati da Guicciardini riguardi la crescente contrapposizione, che è al tempo stesso il costituirsi di precise identità, tra l ' Europa degli Stati e degli imperi e l ' Italia delle città. Lo storico fiorentino coglie, aven­ dolo anche vissuto appunto da protagonista, nel suo farsi, questo grandioso riassetto degli equilibri del mondo occidentale, con lucidità e originalità che non hanno precedenti e a cui ancora noi oggi dobbiamo attingere per comprendere le radici lontane dell ' Europa moderna stessa. Né è un caso che, in apertura di vari libri, sovente Guicciardini torni a uno sguardo ge­ nerale sull' Italia, sempre più lamentando le infelici condizioni degli Stati italiani (in una sorta di crescendo tragico che si inaugura fin dal libro I con la calata di Carlo VI I I e si chiude sull'ordine imperiale imposto al mondo da Carlo v ) . Lo sguardo di Guicciardini è infatti sempre "europeo" : rimarcare la sconfitta dell ' Italia delle città, già di fatto compiuta, come ben è messo in luce nella Storia, prima ancora dell'avvento di Carlo v, significa al tempo stesso ribadire la nuova identità del mondo occidentale, dell' Europa degli Stati e degli imperi, addirittura volta a dilatarsi verso i confini inusitati del nuovo mondo (il famoso capitolo 9 del libro VI)5• Tra i libri v e VI I I Guicciardini va delineando la potenza di aggrega­ zione dei grandi Stati europei, facili vincitori dell 'intrinseca disgregazio­ ne delle città italiane, divise, governate da esasperate logiche di tatticismi localistici, incapaci di esprimere ceti dirigenti (''saggi") adeguati, ovvero il grande tema caro anche al Guicciardini del Dialogo del reggimento di Firenze. Guicciardini, prima di Max Weber, è forse stato l 'unico a porsi con tanta insistente caparbietà il problema della selezione delle leaderships e dei gruppi dirigenti : sicché, nella Storia, se le dinamiche di lotta politica

6. GUICCIARDINI TESTIMONE E STORICO

interne alle città italiane conoscono l 'esito della disgregazione, sullo sce­ nario europeo, con altri protagonisti, si va articolando il processo opposto. Machiavelli, in un certo senso, aveva già posto la questione, ragionando sulle lotte politiche nell 'antica Roma e nella sua Firenze e mettendo cruda­ mente in luce gli esiti diversi che avevano prodotto nelle due città. Guicciar­ dini si lega a questo ragionamento ( il dialogo intrinseco e di fatto fra i due è costante ) e lo colloca nell' Europa del suo tempo6• Non è un caso che lo Stato su cui Machiavelli aveva particolarmente posto l 'attenzione, coglien­ do le radici inequivoche di un "nuovo" che andava emergendo, ovvero la Francia, anche nelle pagine di Guicciardini mostri una straordinaria capa­ cità di tenuta di fronte alle prove più difficili (come la cattura di Francesco 1). Onde d'urto di questo tipo invece andavano via via piegando le realtà italiane : ancora, non è un caso che nel libro VIII Guicciardini dedichi pa­ gine mirabili alla sconfitta veneziana per opera della Lega di Cambrai - in un certo senso per opera dell'intera Europa. Il crollo di Venezia, favorito dal papa e dagli stessi altri Stati italiani in una spirale perversa di processi disgregativi, è delineato da Guicciardini co­ me esemplare ed emblematico evento che di fatto sancisce, nel corpo della sua protagonista più antica e più forte, più europea e mediterranea, la fine del primato dell' Italia delle città, ancora così saldo al tempo di Lorenzo il Magnifico, l 'epoca d'oro con cui non a caso Guicciardini apre la sua Storia. Allora il baricentro, quasi il centro del mondo, era a Firenze. I processi dege­ nerativi interni alla compagine fiorentina e il ridimensionamento di quella centralità operato di conseguenza dagli altri Stati italiani ed europei sono come il primo atto di un'azione teatrale tragica che si inarca con la sconfitta di Venezia, l'ultima respublica veramente autonoma e forte dello scacchiere italiano, governata però da un ceto dirigente arrogante e incapace di com­ prendere, come tutti in Italia, gli scenari nuovi che si andavano costituendo. A partire da qui innanzi tutto Guicciardini marcherà il processo di "derivà', rispetto allo scenario europeo, delle città italiane : del resto già al capitolo 7 del libro VII Guicciardini aveva fatto pronunciare all 'imperatore Massi­ miliano un discorso alla Dieta tedesca in cui, con grandissima lucidità, si delineava la vera dinamica dei nuovi poteri forti europei, dislocati intorno al conjligere dell' Impero "tedesco" con la Francia. In questa occasione l ' Ita­ lia è citata ormai solo come "teatro", come luogo simbolico per procedure di legittimazione ( ad esempio l ' incoronazione imperiale ) , privo di poteri intrinseci. Occorre rimarcare un 'altra modernissima linea interpretativa persegui­ ta da Guicciardini entro questo più ampio schema : lo scacco subito dall' Ira93

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

lia è uno scacco, peraltro, alle idee stesse di respublica e di libertas che nelle istituzioni di alcune città ( Firenze, Venezia e in parte Genova) tenacemente sopravvivevano di fronte al fragore dei potentati signorili ed assolutistici dei nuovi Stati. È per questo che, specie nei capitoli introduttivi ai vari libri, le pensose riflessioni sull ' Italia sono spesso abbinate a idee forti del tradi­ zionale dibattito repubblicano, specie fiorentino e machiavelliano, come ad esempio patria o liberta?. Ovvero, la crisi dell' Italia delle città appare anche come la crisi irreversibile degli ideali repubblicani di fronte al potere stra­ ordinario degli imperi europei. Lo storico fiorentino coglie l 'importanza epocale di questo evento ed è su questo punto innanzitutto che, con pun­ tigliosa acribia e determinazione, segue la storia e le vicende della sua città e di Venezia in particolare, mettendole a specchio dello scenario europeo. Nell'importantissimo capitolo 2 del libro I Guicciardini, riarticolando in modo asciutto ed esemplare il dibattito del Dialogo del reggimento di Firenze, analizza le posizioni in campo a Firenze, scrivendo una pagina me­ morabile della storia del pensiero politico e costituzionale moderno. Attra­ verso l'esposizione delle diverse opinioni e curando al meglio le suggestioni metodiche tucididee, Guicciardini dà conto delle residue ragioni di un pos­ sibile repubblicanesimo, fortemente ancorato all'idea libertaria e dialettica della patria (cara, ad esempio, al Machiavelli del Discursus ) e governato dai cittadini savi e sperimentati: ragione, prudenza, esperienza, giudizio, ovve­ ro controllo delle passioni irrazionali e distruttive, come in Alberti, vanno delineando le qualità di un ideale ceto dirigente chiamato a guidare una repubblica lungimirante. L'aristocratico che riflette sui limiti della "demo­ crazia larga" con toni modernissimi aveva infatti già colto nell 'esito radicale savonaroliano le radici dell'indebolimento progressivo di Firenze e del suo scacco di fronte ai potentati europei8• La malattia di Firenze è individuata proprio nel radicalismo degli esiti delle sue dinamiche politiche : il sovver­ sivismo degli oligarchi ( più volte denunciato da Machiavelli ) si accoppia all 'estremismo piagnone e produce nei fatti la fine della repubblica. Guicciardini, in definitiva, col concetto cardine di "prudenzà' e con l 'uso proprio dell 'idea di "magnanimo': pensa alla medietas e alla saggez­ za: la sconfitta a Firenze di tutto ciò è come un colpo mortale all'ultima possibile via di sopravvivenza del repubblicanesimo. Carlo v chiuderà bru­ talmente e definitivamente una partita il cui esito è già tutto nel sofferto e drammatico scontro politico delineato nel libro I9• Del resto la stessa sconfitta veneziana, che occupa pagine importanti del libro VIII, è ricondotta in parte da Guicciardini a un vizio di estremismo : nel caso del ceto dirigente veneziano siamo di fronte all'eccesso di presun94

6. GUICCIARDINI TESTIMONE E STORICO

zione di sé, della propria inviolabilità, senza aver compreso il radicale muta­ mento di forze che lo scenario italiano ed europeo ha ormai imposto. Pure, trovandosi di fronte al tracollo di una città emblematica per la tradizione repubblicana, Guicciardini evoca con forza il senso forte della patria e della libertà presente a Venezia, non accodandosi ma anzi polemizzando con chi in Italia, nell' invidia degenerativa delle sue divisioni (tema già drammati­ camente posto da Dante, Petrarca, Alberti, Machiavelli), aveva applaudito a quella sconfitta. Guicciardini sa (il "saggio" sa ) che quella sconfitta va ben oltre Venezia e segna un definitivo tramonto delle autonomie italiane10• Venezia, ricondotta brutalmente entro i propri limiti, prospererà anco­ ra libera a lungo, perdendo però gradualmente il ruolo egemone che aveva conquistato tra Europa e Mediterraneo. Sintomatica è del resto l 'attenzione che Guicciardini con continuità presta ad un'altra antica repubblica mari­ nara, Genova : il dissolvimento dell 'orgogliosa e antica libertà, il devastante crescendo delle divisioni interne, la resa alle ragioni dei signori europei so­ no ulteriori tasselli a riprova della crisi irreversibile dell' Italia delle città a fronte dell 'Europa degli Stati e degli imperi11• Dietro questo martellante e sofferto insistere sulla crisi delle città ita­ liane non possono non cogliersi echi antichi, danteschi. Le città romagna­ le, toscane, venete ... quante invettive cruente e quante digressioni tragiche sulle "ferite" che lacerano e piagano il corpo d' Italia sono presenti nella Commedia, fino a diventarne quasi un'emblematica marca stilisticaP2. C 'è questo Dante senz 'altro dietro questo Guicciardini, dietro questa indagine retrospettiva e spietata delle radici antiche delle divisioni italiane. Oppure le città divengono luoghi di teatro, snodi emblematici ove in­ trecciare incontri, trame diplomatiche, cerimonie simboliche tra i grandi potenti d' Europa, i papi e i signori italiani. È esemplare il caso di Bolo­ gna, cui al capitolo 3 del libro VII Guicciardini dedica un ampio excursus, particolarmente elogiativo della ricchezza e della bellezza della città, la più importante per lo Stato pontificio. In seguito, a Bologna si torna costan­ temente come luogo di incrocio di papi, re, imperatori, fino all'apoteosi celebrativa dell'incoronazione di Carlo v nel IS3013• La città in questo mo­ do manifesta un potere solo virtuale : di fatto è luogo simbolico e centrale di percorsi europei ali' incrocio con quelli papali. Guicciardini, del resto, a lungo in posizioni di rilievo nella guida dello Stato pontificio, conosceva bene e dali ' interno tali dinamiche ; è appunto a partire da questo privilegia­ to punto di osservazione che si articolano le sue osservazioni sull'operato dei papi e sulle vicende dello Stato della Chiesa. La complessità irriducibile della storia e della realtà ancora una volta 95

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non sfugge a Guicciardini : sicché, se nella memorabile digressione sulla storia antica della Chiesa e del suo potere temporale (nel capitolo 12 del libro IV ) avvertiamo il piglio storiografico e polemista del Machiavelli delle !storiefiorentine, con un sostanziale disagio e con avversione di fronte al­ l"'anomalià' di uno Stato ecclesiastico, pure gli esiti cinquecenteschi di quel potere così anomalo e dei suoi protagonisti sono ripercorsi con assoluta ori­ ginalità. Quello che Guicciardini mette in luce, in modo del tutto laico e di­ sincantato, soprattutto riferendosi a figure come Alessandro VI e ancor più Giulio I I , è che paradossalmente i pontefici appaiono gli unici protagonisti fra gli Stati italiani capaci di intuire la portata dello scontro in atto, tanto da collocarvisi come potenze alla pari di quelle europee. I papi rinascimentali, fra l 'altro, giocano spregiudicatamente sul piano diplomatico e militare il peso del carisma pontificio, che è per definizione appunto universale, non solo italico14• In modo perverso e conflittuale essi sono al tempo stesso, e questo ben si coglie nella fitta trama della Storia, fra gli artefici primi della rovina e della divisione d' Italia (si pensi alla Lega di Cambrai contro Vene­ zia) ma anche gli unici, per qualche tempo, pronti a misurarsi alla pari con Francia e Impero. Questa anomalia, però, questo "eccesso", questo uscire di misura perdono anche i papi, in un crescendo tragico che non a caso vede il debole e incerto Clemente VII soccombere a inarrestabili onde d'urto, con il culmine epocale del sacco di Roma15• Il "saggio" Guicciardini, che pure ha lavorato al fianco di questi papi, non può non coglierne, di fronte all 'esito della storia, tutti i limiti, che la storia stessa del potere temporale della Chiesa rende inevitabili. Ancora una volta lo scenario cinquecentesco sembra essere l'esito finale di una parti tura tragica dalle radici antiche. Lo stesso scenario europeo che, come in contrappunto, Guicciardini tesse nell'intreccio con la storia italiana, pur apparendo vincente, è esso stesso inquieto e mobile : Guicciardini delinea, soprattutto nella parte fi­ nale dell'opera, un dislocarsi di poteri egemoni fra di loro costantemente pronti al conjligere. La cupidigia, l 'eccesso, le spinte centrifughe agiscono all 'interno delle grandi potenze europee, vincitrici dell' Italia; esse non sfuggono a nubi nere di conflitti per il primato, ben evidenti dalle pagine che costantemente Guicciardini dedica agli scenari di scontro tra Francia e lmpero16• La storia europea successiva, tragica e inquieta, confermerà del resto l'impianto ermeneutico guicciardiniano. Se la storia quindi rivela questo ineludibile nocciolo di conflitto, di rapina, di insania, la saggezza dello storico è l'unica risposta possibile : il suo ethos non può certo governare (ma governa davvero, il politico ?) ciò

6. G UICCIARDINI TESTIMONE E STORI C O

che è ingovernabile e sotto il dominio della casualità inconoscibile, ovvero la "scena'' degli eventi e della realtà, come ad esempio in quel momento prolungato di confusione ( come dice Chastel ispirato da Guicciardini ) che accompagnò la vicenda del sacco di Roma. Lo storico però può conoscere, trapassare con lo sguardo, esibire; può intuire le strettoie in cui l 'uomo, il politico, il governato e il governante possono definire un tracciato di dia­ logica civiltà17• Lo storico può soprattutto "narrare", ordinando sulla pagina, attraverso rigorose procedure di dispositio (come già Machiavelli con le /storiefioren­ tine aveva insegnato ) , l' intreccio delle vicende, sospese tra storie parziali e individuali e la grande storia degli Stati e delle civiltà : è evidente che ogni moderna procedura narrativa ( a cominciare dal romanzo ) dovrà fare i conti con questa straordinaria lezione della storiografia rinascimentale italiana, ed è altrettanto evidente che da simile miscela riprenderà del tutto vigore la categoria chiave per definire ogni atto narrativo ancora oggi, ovvero il "verosimile". C 'è insomma in Guicciardini una ratio dello storico rinasci­ mentale che non abdica, nonostante tutto, di fronte al fluire casuale e pro­ teico delle cose. L'opera storica allora si presenta come narrazione materiata di memo­ ria, una memoria che forse è l 'unica tassonomica enciclopedica possibile del mondo; la parola narrante e l 'arte retorica, la letteratura dialogica a parti­ tura drammatico-teatrale ( i discorsi diretti e indiretti presenti nella Storia sono in ciò memorabili ) , i profili dei protagonisti/personaggi (veri cammei narrativi e psicologici che tanto influenzeranno il genere biografico, Vasari compreso, dal Cinquecento in poi ) sono le indispensabili procedure er­ meneutiche e sapienziali che rendono infine agibile il territorio storico e storiografico18• È quello che appunto finirà con l'accadere tra storiografia e narrativa moderne con altri autori e altri testi, emblematici, quanto Guic­ ciardini, di una intera stagione rinascimentale italiana e di una delle sue cifre più significative. Note 1. Cfr. le edizioni della Storia d'Italia a cura di S. Seidel Menchi, 3 voli., Einaudi, To­ rino 1971; a cura di E. Mazzali, introduzione di E. Pasquini, 3 voli., Garzanti, Milano 1988; a cura di U. Dotti, 3 voli., Aragno, Torino 201 5. Sempre utile per un avvio alle questioni storiografiche F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Einaudi, Torino 1970. Una puntualizzazione complessiva, anche per la bibliografia in merito, in M. S. Sapegno, Storia d'Italia, in A. Asor Rosa ( a cura di ) , Lettera97

' L APPRODO DELLA LETTERATURA

tura italiana. Le opere, vol. II, Einaudi, Torino I993; C. Berra, A. M. Cabrini ( a cura di ) , La Storia d' Italia di Guicciardini e la suafortuna, Cisalpino, Milano 2012. Ma sempre fonda­ mentali, per tutto quanto qui si argomenta, sono gli studi e le edizioni di Roberto Ridolfi, decisivi per ricostruire la fisionomia complessiva di Guicciardini. Rimandiamo almeno a R. Ridolfi, Studi guicciardiniani, Olschki, Firenze I978; Id., Vita di Francesco Guicciardini, Roma, Belardetti, I96o (nuova ed. Rusconi, Milano I982 ) . 2. Di chi scrive, cfr. Ricerche sul Machiavelli storico, Pacini, Pisa I979, nonché i con­ tributi sul Rinascimento padano in A. Asor Rosa ( a cura di ) , Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. II : L'eta moderna, t. I, Einaudi, Torino I988; G. M. Anselmi, L'eta dell'Uma­ nesimo e del Rinascimento. Le radici italiane dell'Europa moderna, Carocci, Roma 200 8; Id., Narrare Storia e storie. Narrare il mondo, FrancoAngeli, Milano 20I 3· 3· Sullo sfondo "imperiale" dell' Europa e del Mediterraneo e sulla collocazione italiana in esso, restano sempre essenziali i rimandi ai tanti studi di F. Braudel. Per certi apparati ide­ ologici e mitologici connessi, sono da ricordare almeno : F. A. Yates, Astrea. L'idea di impero nel Cinquecento, Einaudi, Torino I990; Y. M. Bercé, Il re nascosto, Einaudi, Torino I996. 4· A. Chastel, Il Sacco di Roma. I527, Einaudi, Torino I9 83. E inoltre : V. De Caprio, La tradizione e il trauma. Idee del Rinascimento romano, Vecchiarelli, Manziana I99I, con ampie analisi e bibliografia sulle problematiche del sacco. Cfr. poi gli studi citati infra, note I e 7· S· Si veda l'acutezza con cui Guicciardini, nel rilevare la grandezza dell'evento e la felice curiositas di Colombo, pure mette in campo le ombre prevedibili dell'approccio ai nuovi mondi: lo scatenarsi della distruttiva cupidigia di possesso ( tema caro all'ethos della saggezza guicciardiniana) , la crisi delle antiche certezze religiose, il senso di crescente e incontrollabile vastità della geografia e della storia dell'uomo (prefigurazione di ciò che accadrà con Galileo e la sua esplorazione dell'universo) . 6. Cfr. sempre i tanti, fondamentali contributi di G. Sasso su Machiavelli. 7· Cfr. quanto già argomentavo, anche per le notazioni bibliografiche, in Anselmi, L'eta dell'Umanesimo e del Rinascimento, ci t. 8. Cfr. supra, nota 6. In particolare cfr. F. Guicciardini, Dialogo del reggimento di Fi­ renze, a cura di G. M. Anselmi e C. Varotti, Bollati Boringhieri, Torino I994; C. Varotti, Francesco Guicciardini, Liguori, Napoli 2009; sempre a cura di C. Varotti, l'edizione e com­ mento esemplari dei Ricordi, Carocci, Roma 201 3· 9· Cfr. libro I, soprattutto tra il capitolo I4 e la fine. IO. Cfr. particolarmente i capitoli dal 7 al IO. 11. Cfr., particolarmente e a titolo esemplare, i capitoli s e 6 del libro VII. I2. Su ciò cfr. quanto sviluppavo in G. M. Anselmi, Lefrontiere degli umanisti, CLUEB, Bologna I988, pp. 73-86 e, più in generale, sul pensiero storiografico da Dante in poi, in Id., Il tempo ritrovato. Padania e Umanesimo tra erudizione e storiografia, Mucchi, Modena I992, nonché nei testi citati supra, nota 2. I 3. Su Bologna in particolare, a titolo esemplare, cfr. il capitolo 3 del libro VII, vari passaggi tra i libri IX e x e i due libri finali, specie a partire dal capitolo I6 del libro XIX. Cfr. E. Pasquini, P. Prodi ( a cura di ) , Bologna nell'eta di Carlo v e Guicciardini, Il Mulino, Bologna 2002, importante per molti altri temi qui affrontati. I 4. Ovvio il rimando ai fondamentali studi di P. Prodi sul "sovrano pontefice". IS. Cfr. Chastel, Il Sacco di Roma, cit. e, sulle guerre d' Italia, i tanti e importanti con­ tributi di A. De Benedictis. I6. Una particolare inarcatura di questo scenario è ovviamente colta da Guicciardini con l'avvento al trono di Francesco I in Francia, ovvero a partire soprattutto dal libro XII.

6. G UICCIARDINI TESTIMONE E STORI C O In questi libri sovente egli si sofferma a valutare la nuova tipologia di sovrano europeo e imperiale che va emergendo in implicito contrappunto con le incoerenze, le incostanze, l'arretratezza dei signori italiani e dei papi stessi: soprattutto, a Guicciardini preme sottoli­ neare l'efficacia dell'uso accorto della saggezza prudente e dell'arte diplomatica coniugata con una rinnovata, potentissima macchina bellica. Anche qui è implicito il dialogo col Machiavelli maggiore ma anche col Machiavelli precocissimo e attento scrutatore delle vicende di Francia e della "Magnà'. Cfr. N. Machiavelli, Le grandi opere politiche, 2 voli., a cura di G. M. Anselmi e C. Varotti, Bollati Boringhieri, Torino 1 992-93, e in particolare, nel vol. 11, il mio saggio Un itinerario machiavelliano. E soprattutto : N. Machiavelli, Opere storiche, 2 voli., a cura di G. M. Anselmi, A. Montevecchi e C. Varotti, Edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli, Salerno Editrice, Roma 2010. 17. Cfr. in particolare i libri xv e XVI, specialmente i capitoli di apertura. Soprattutto nel capitolo 2 del libro xv Guicciardini, attraverso i discorsi dei senatori veneziani Andrea Gritti e Giorgio Cornaro messi a confronto, dispiega tutta la drammatica dilemmaticità e tutta la difficoltà di quali scelte opportune in tale temperie è dato praticare a chi governa, a chi, con saggezza, non vuole perdere i valori fondanti della libertas e della respublica. Il Cornaro: «Grande certamente, prestantissimi senatori, e molto difficile è la presente deliberazione ; nondimeno, quando io considero quale sia ne ' tempi nostri l'ambizione e la infedeltà de ' principi e quanto la natura loro sia difforme dalla natura delle republiche, le quali, non si governando con l'appetito di uno solo ma col consentimento di molti, pro­ cedono con più moderazione e maggiori rispetti, né si partono mai sfacciatamente,come fanno essi, da qual che ha qualche apparenza di giusto e di onesto [ ... ] . Però per fuggire i pericoli che dalla invidiosa e fraudolente vicinità de ' principi grandi ci sarebbono del continuo imminenti siamo necessitati » (Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di E. Mazzali, cit., vol. III, pp. 1 6 55-6). In questo passo è macroscopica la ripresa del lessico "naturalistico" e "repubblicano" di Machiavelli, fin negli stilemi più tipici ( « nondimeno » , « appetito» , l'essere « necessitati » ecc.). Così, giocando sempre tra la propria lucidissima in terpretazio­ ne di storico e il lessico machiavelliano, Guicciardini ribadisce direttamente, in apertura del libro XVI, lo strettissimo passaggio che lo strapotere crescente di Carlo v ormai impone a tutti: « non si potrebbe esprimere quanto restassino attoniti tutti i potentati d' Italia; a' quali, trovandosi quasi del tutto disarmati, dava grandissimo terrore l'essere restate l'armi cesaree potentissime in campagna, senza alcun ostacolo degli inimici: dal quale terrore non gli assicurava tanto quel che da molto era divulgato della buona mente di Cesare [ ... ] quanto gli spaventava il considerare essere pericolossissimo che egli, mosso da ambizione, che suole essere naturale a tutti i principi, o da insolenza che comunemente accompagna la vittoria [ ... ] voltasse, in tanta occasione bastante a riscaldare ogni freddo spirito, i pensieri suoi a far­ si signore di tutta Italia; conoscendosi massime quanto sia possibile a ogni principe grande, e molto più degli altri a uno imperadore romano, giustificare le imprese sue con titoli che apparischino onesti e ragionevoli » (ivi, pp. 1 767-8). 18. Per il genere biografico e autobiografico tra narrativa e storiografia, si confrontino i molti importanti studi di Battistini, Guglielminetti, Mattioda, Montevecchi, Fournel, Zancarini; più di recente, l. Tassi, Specchi del possibile. Capitoli per un'autobiografia in Italia, Il Mulino, Bologna 2008 e V. Caputo,