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Italian Pages 279 [281] Year 2023
Diotima. Studies in Greek Philology
Tiziano Dorandi
Stobaeana Tradizione manoscritta e storia del testo dei primi due libri dell’Antologia di Giovanni Stobeo
ACADEMIA
https://doi.org/10.5771/9783985720965
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Tiziano Dorandi
Stobaeana Tradizione manoscritta e storia del testo dei primi due libri dell’Antologia di Giovanni Stobeo
https://doi.org/10.5771/9783985720965
Diotima. Studies in Greek Philology Edited by Mauro Tulli
Volume 9
Editorial Board Christian Brockmann (Hamburg) | Tiziano Dorandi (Paris) | Michael Erler (Würzburg) | Jürgen Hammerstaedt (Köln) | Philippe Hoffmann (Paris) | Olimpia Imperio (Bari) | Walter Lapini (Genova) | Irmgard Männlein-Robert (Tübingen) | Roberto Nicolai (Roma) | Stefan Schorn (Leuven) | Giuseppe Zanetto (Milano)
https://doi.org/10.5771/9783985720965
Diotima. Studies in Greek Philology
Tiziano Dorandi
Stobaeana Tradizione manoscritta e storia del testo dei primi due libri dell’Antologia di Giovanni Stobeo
ACADEMIA https://doi.org/10.5771/9783985720965
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Coverpicture: Neapolitanus III D 15, fol. 1r. © Biblioteca Nazionale di Napoli
The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.d-nb.de ISBN
978-3-98572-095-8 (Print) 978-3-98572-096-5 (ePDF)
British Library Cataloguing-in-Publication Data A catalogue record for this book is available from the British Library. ISBN
978-3-98572-095-8 (Print) 978-3-98572-096-5 (ePDF)
Library of Congress Cataloging-in-Publication Data Dorandi, Tiziano Stobaeana Tradizione manoscritta e storia del testo dei primi due libri dell’Antologia di Giovanni Stobeo Tiziano Dorandi 279 pp. Includes bibliographic references and index. ISBN
978-3-98572-095-8 (Print) 978-3-98572-096-5 (ePDF)
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Prefazione
et quod vides perisse perditum ducas
Il mio primo approccio concreto all’Antologia di Giovanni Stobeo risale a un momento non troppo lontano e tutti i miei contributi su quell’autore e la sua opera, compresa l’edizione dei primi due libri, sono stati prodotti in un lasso assai limitato di tempo, grosso modo tra il 2017 e il 2022. Il che ha i suoi vantaggi e forse ancor più i suoi svantaggi. I capitoli che compongono gli Stobaeana, come quelli del volume paral lelo dei Laertiana (2009), che accompagnava la mia edizione delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (2013), nascono in larga misura da una rielabo razione spesso profonda e rimeditata in più punti di studi già pubblicati in precedenza. Un elenco completo è accessibile nella bibliografia finale (cap. VIII). Il capitolo I riprende in una redazione in italiano alcuni elementi del mio contributo in tedesco su Giovanni Stobeo (Dorandi 2018) in una nuo va struttura con l’apporto di necessari tagli, ritocchi e soprattutto aggiorna menti bibliografici. Queste pagine non hanno pretese di originalità (anche se ho più volte preso posizione rispetto a questioni controverse) e si limita no principalmente a tracciare un succinto profilo dello Stobeo e una rapida presentazione della sua Antologia. Il capitolo II ripropone la prima parte dell’articolo La tradizione manoscritta dei libri I–II di Giovanni Stobeo. La Recensio breviata, uscito su «Eikasmós» 2020; il capitolo III si apre con un paragrafo affatto nuovo. Per il resto, è il risultato dell’accorpamento della seconda parte del precedente contributo, integrata per il codice A con quanto ho scritto ancora negli «Studia Graeco-Arabica» del 2019, nonché dei §§ 1–7 del più lungo La tradizione manoscritta dei libri I–II di Giovanni Stobeo. Sulle tracce di una Recensio plenior, che aveva visto la luce in «Me dioevo Greco» (2020). Lo completano alcune porzioni dello studio Per una rilettura degli estratti dal Timeo di Platone nell’Antologia dello Stobeo («Φιλοσοφία» 2021). Il capitolo IV riprende il resto dell’articolo di «Me dioevo Greco» (2020) con sostaziali modifiche nel contenuto di certe porzioni e ritocchi significativi negli stemmi. Nel capitolo V è rielaborata e in molti punti riorganizzata anche in maniera e misura consistenti la ricer ca Editare l’epitome dei primi due libri dell’Antologia di Giovanni Stobeo già diffusa negli «Studia Graeco-Arabica» del 2021. Il capitolo VI è inedito e 5 https://doi.org/10.5771/9783985720965
Prefazione
scritto appositamente per questo volume. Agli editori delle riviste che avevano accolto la prima stesura degli scritti qui riutilizzati va la mia riconoscenza per aver con la consueta generosità consentito a un reimpiego dei materiali per la preparazione della versione finale delle mie indagini. I capitoli VII (Concordanze), VIII (Bibliografia) e IX (Indici) sono anch’essi nuovi. È per me di primaria importanza richiamare tutta l’attenzione sul fatto che nel momento in cui ho preparato la redazione degli Stobeana ho rimeditato profondamente l’insieme delle mie precedenti ricerche dopo averle sottoposte a una attenta e rinnovata rilettura e revisione alla luce anche del progredire della mia parallela edizione di Stob. 1–2 oggi conclusa. Quello che vorrei pertanto fosse fino da ora ben chiaro è che la versione degli Stobaeana rappresenta ai miei occhi e nelle mie intenzioni il risulta to ultimo di quanto ho finora scritto sull’Antologia dello Stobeo e nello specifico sui suoi primi due libri. Tutto quello che precede questa stesura, pur costituendo l’ossatura dell’attuale volume, deve di conseguenza essere consultato solo come un documento storicamente datato a momenti di un passato non troppo lontano, ma per me talora remoto e revoluto. In queste considerazioni, si trova una delle ragioni per le quali l’articolo nel volume Tempus quaerendi (pubblicato nel 2019, ma redatto in realtà nei primi mesi del 2017), che contiene il mio primo approccio ancora balbuziente ai problemi ecdotici di Stob. 1–2, è stato qui riutilizzato solo in piccola misura qua e là aggiornato e adattato. Altri studi che ho pubblicato su singoli passi e questioni di Stob. 1–2 non ho infine ritenuto utile ristamparli in questa sede non perché li considero superati, ma semplicemente perché ho non voluto aumentare la mole degli Stobaeana con contributi il cui contenuto si allontana troppo dal loro filo conduttore. È giunto il momento per me quantomai gradito dei ringraziamenti. In primis, il mio amico di sempre Mauro Tulli che ha accettato di buon grado con la sua consueta generosità di accogliere questo volume nella Collana «Diotima» da lui felicemente fondata e diretta. La lista di tutti gli altri che mi sono stati vicini negli anni stobeani è lunga e la redigo in ordine alfabetico: Elisa Bianchi, Selene Brumana, Elisa Coda, M. Curnis, G. De Gregorio, M. Donato, L. Ferroni, Valentina Garulli, C. Giacomelli, A. Guida, V. Gysenbergh, Krestin Hadjú, D. Harlfinger, V. Hinz, Paola C. La Barbera, Alberta Lorenzoni, Margherita Losacco, W. Lapini, E. Maltese, S. Martinelli Tempesta, Teresa Martínez Manzano, M. Pelucchi, Inmaculada Pérez Martín, M. Riccardo, D. Speranzi, N. G. Wilson. 6 https://doi.org/10.5771/9783985720965
Prefazione
Fra questi, un nome si distingue, quello di M. Pelucchi. Negli ultimi due anni del suo dottorato milanese trascorsi a Parigi e in quelli successivi del suo soggiorno tra Leuven e Parigi impegnato nel progetto della continua zione dei grandiosi Fragmente der Griechischen Historiker di Felix Jacoby, ho sempre trovato in lui un lettore acuto e severo delle mie pagine in tutte le fasi della loro redazione in una sana e reciproca esperienza di un produttivo συμφιλολογεῖν. Ad maiora ! Che questo volume sia dedicato a Wanda Dorandi, sine qua non. Chartres, 15.02.2023
7 https://doi.org/10.5771/9783985720965
https://doi.org/10.5771/9783985720965
Sommario
I.
II.
Giovanni Stobeo: un breve profilo
13
1. Cenni biografici
13
2. L’opera
13
3. Lo Stobeo e la filosofia
16
4. Scopi e intenti dell’Antologia
18
Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
21
1. Lo stato del testo di Stob. 1–2
21
2. I codici della Recensio breviata
21
3. I codici delle fonti della Recensio plenior 3.1. Photius, Bibliotheca, cap. 167 3.2. Capita ex libro secundo in quarto translata 3.3. Florilegium Laurentianum 3.4. Scholia in Lucianum 3.5. Excerpta Elteriana
33 33 34 35 36 36
4. Le edizioni a stampa
37
III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
41
1. La Recensio breviata 1.1. Formazione e struttura della Recensio breviata
41 41
2. I codici indipendenti 2.1. Per una classificazione dei testimoni 2.2. I codices vetustiores: Neapolitanus III D 15 (F) e Ambrosianus A 183 sup. (A) 2.2.1. Il Neapolitanus III D 15 (F) 2.2.2. L’Ambrosianus A 183 sup. (A) 2.3. Il Parisinus gr. 2129 (P) 2.4. I rapporti stemmatici di A F P e l’identità di un modello comune (ω) 2.5. Caratteristiche di ω
42 42 43 43 44 45 47 48 9
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Sommario
2.6. 2.7. 2.8.
L’apporto di A alla constitutio textus di Stob. 1 A modello indiretto di P Proposta di uno stemma delle relazioni fra A F P
3. I codices recentiores apografi di F e P 3.1. F e la sua discendenza 3.2. Per l’identificazione con F di un Vaticanus deperditus 3.3. Il codex Augustini deperditus (Δ), le collazioni del Voss. gr. Q 48 (LV) e lo Scor. T.II.2. (T) 3.4. Un primo stemma del ramo F 3.5. P e la sua discendenza 3.6. La Canteriana e le sue fonti manoscritte 3.7. Il codice Wyttenbach 2 (LW) 3.8. Per una rappresentazione stemmatica del ramo P
61 65 66 68 71 72
4. Proposta di uno stemma della recensio breviata
73
IV. Sulle tracce della Recensio plenior
V.
50 51 53 54 54 60
75
1. La Recensio plenior
75
2. Fozio lettore dello Stobeo
75
3. Resti di Stob. 2 nella tradizione di Stob. 4 3.1. Nota sulla trasmissione di Stob. 3–4
80 81
4. Il Florilegium Laurentianum (L) 4.1. Alla ricerca dello Stobeo in L 4.2. Di Lello-Finuoli e Curnis vs Wachsmuth 4.3. Al di là del metodo di Wachsmuth e di Hense
83 85 88 91
5. Due scholia a Luciano e la dossografia stoica attribuita a Ario Didimo
96
6. Gli Excerpta Elteriana
100
7. Per una ricostruzione della più antica trasmissione di Stob. 1–2 7.1. L’ipotesi di Wachsmuth 7.2. Oltre Wachsmuth
102 103 105
Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
111
1. Considerazioni preliminari
111
10 https://doi.org/10.5771/9783985720965
Sommario
2. Il metodo di Wachsmuth
112
3. Constitutio textus e criteri di edizione di Stob. 1–2
114
4. Editare l’epitome di Stob. 1–2. 4.1. Marche di una distinzione dei capitoli in ω 4.2. Struttura dei capitoli e successione delle ecloghe in ω
120 120 123
5. Tra titoli di capitoli e lemmi di ecloghe 5.1. I titoli in ω e nella tradizione di Fozio e di L. Una scelta difficile 5.2. I lemmi come loci desperati?
123 124 127
6. Contaminazione orizzonale e interpolazioni?
132
7. Ecloghe ripetute: doppioni da eliminare o da conservare?
140
VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
143
1. I capitoli iniziali di Stob. 2 nella Recensio breviata
143
2. L’edizione dei tre gruppi di ecloghe traslocate da Stob. 2 a Stob. 4
149
3. I capitoli finali di Stob. 2 nella Recensio breviata
156
4. Considerazioni di un editore sul capitolo Περὶ τοῦ ἠθικοῦ εἴδουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ
158
5. Corollario
164
VII. Il testo della Recensio breviata. Tra rispetto della paradosi e leggibilità
167
1. Nota liminare
167
2. Stob. 1–2, Strabone e Stefano di Bisanzio
167
3. La Recensio breviata al di là di Wachsmuth
169
4. Criteri per indicare gli autori da cui lo Stobeo recuperò le ecloghe
171
5. Due postille metodologiche
171
6. Per una conclusione
173
11 https://doi.org/10.5771/9783985720965
Sommario
VIII. Bibliografia
175
IX. Concordanze
189
X.
1. Sigle dei manoscritti
189
2. Concordanze edizioni 2.1. Dorandi–Wachsmuth 2.2 Wachmuth–Dorandi
191 191 231
Indici
271
1. Indice stobeano
271
2. Altri autori
273
3. Testimonianze scritte 3.1. Manoscritti 3.2. Papiri
275 275 276
4. Copisti e possessori di manoscritti
276
5. Indice dei nomi antichi e medievali
276
6. Indice dei nomi moderni
277
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I. Giovanni Stobeo: un breve profilo
1. Cenni biografici Niente conosciamo della vita di Giovanni Stobeo.1 L’etnico Stobeo che leggiamo in Fozio e in alcuni manoscritti fa presumere che egli fosse origi nario della città di Stobi in Macedonia (oggi vicino a Gradsko nel Nord della attuale Repubblica di Macedonia). Poiché l’autore più recente citato dallo Stobeo è il filosofo e retore Temistio (morto dopo il 388 d.C.), la sua cronologia è stata collocata nel V sec. d.C. e il suo floruit intorno al 420.2 Il nome Giovanni potrebbe portare a supporre una adesione dell’autore al cristianesimo.3 La maggior parte degli studiosi moderni ammette tuttavia che egli fu un pagano e che questa è la ragione per la quale mancano nella sua opera citazioni di autori cristiani.4 Il paganesimo dello Stobeo potrebbe trovare una ulteriore conferma nella proposta di Hose secondo la quale lo Stobeo con la composizione dell’Antologia avrebbe tentato di tracciare, nel l’età del declino del paganesimo, la mappa della «infrastruttura mentale» di quel mondo per conservarne vivi i contenuti e i principi.5 2. L’opera Se prestiamo fede alla testimonianza del patriarca di Costantinopoli Fozio (ca. 810/820–893) nel capitolo 167 della Biblioteca, lo Stobeo avrebbe com posto una Antologia in quattro libri intitolata Estratti, massime e precetti 1 Brevi, ma solidi e ben informati appaiono i profili sullo Stobeo di Piccione, Runia (2001) e di Goulet (2000). Resta altresì di grande utilità quanto scrive Runia in Man sfeld, Runia (1997), 196–271. Non vale la pena di leggere il contributo di Parmentier (2015) con molte inesattezze. L’articolo di Hense (1916) può essere infine consultato con profitto nonostante l’innegabile invecchiamento. Le note che accompagnano que ste pagine sono per lo più limitate a rimandi alla bibliografia essenziale relativa alle questioni trattate alcune delle quali saranno riprese in maniera più approfondita nei capitoli che seguono. 2 Hense (1916), 2549. 3 Mansfeld, Runia (1997), 197. 4 Diels (1879), 66; Hense (1916), 2551; Fowden (1987), 197. 5 Hose (2005).
13 https://doi.org/10.5771/9783985720965
I. Giovanni Stobeo: un breve profilo
(Ἐκλογῶν, ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν βιβλία τέϲϲαρα) al fine di educare e potenziare la troppo debole inclinazione del figlio Settimio alla memorizza zione delle letture.6 La redazione originaria dell’opera è in buona parte perduta e in particolare dei primi due libri conserviamo essenzialmente una redazione epitomata in maniera massiccia in un momento imprecisato. Riusciamo tuttavia a avere una idea generale del suo contenuto grazie alla scheda di Fozio che disponeva di una edizione dell’Antologia in due tomi (ἐν τεύχεϲι δυϲί) più completa di quella che leggiamo oggi. Anche nei codici giunti fino a noi, l’Antologia è tramandata in due parti ben distinte e corrispondenti rispettivamente ai libri 1–2 e 3–4. La prima è talora citata con il titolo fittizio di Eclogae physicae et ethicae mentre la seconda con quello altresì fittizio di Florilegium o Sermones. La divisione in due gruppi di libri nacque probabilmente da ragioni pratiche di organiz zazione e copia dell’enorme mole di materiale, ma non risponde a quanto pare al piano redazionale dello Stobeo; essa dà pertanto una idea distorta della struttura primitiva dell’opera e di conseguenza anche dei criteri che l’autore si era proposti e aveva applicati nel compilarla.7 L’Antologia contava, stando alla testimonianza di Fozio, 208 capitoli tematici che riunivano a loro volta una immensa raccolta di ecloghe in poesia e prosa estratte da vari autori riunite e organizzate dallo Stobeo secondo criteri e principi ben definiti. Dopo la lettera prefatoria al figlio Settimio e l’indice sommario, si trova vano due capitoli di carattere introduttivo non più conservati. Il primo con teneva un elogio della filosofia (ἔπαινοϲ φιλοϲοφίαϲ); il secondo trattava delle diverse scuole filosofiche. Seguiva un numero impreciato di ecloghe recuperate in scritti sulla geometria, la musica e l’aritmetica. Nei codici superstiti di Stob. 1–2 questa porzione è perduta nella quasi totalità e l’Antologia comincia ex abrupto con un manipolo di ecloghe raccolte sotto il titolo περὶ ἀριθμητικῆϲ. Il primo libro continua con una serie di capitoli sulla metafisica: l’esistenza della divinità e i suoi attributi (provvidenza, giustizia divina, necessità e fortuna). Viene poi una trattazione delle ἀρχαί con la quale il discorso si sposta sulla fisica, un soggetto che continua fino ai capitoli iniziali del secondo libro. Nel resto del primo libro, trova posto una lunga sezione sui fenomeni naturali, sulla terra e sul mondo, 6 Lo stesso titolo si legge, per esempio, nell’inscriptio al secondo libro nel codice F. Nella Suda (ι 466 Adler) l’opera è conosciuta con il titolo Ἀνθολόγιον. 7 Hense (1916), 2550.
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2. L’opera
sulla cosmologia, la metereologia, la geologia, la zoologia e la botanica, l’antropologia e la fisiologia e infine la psicologia. Il secondo libro si apre con una presentazione del problema della conoscenza che l’uomo ha delle cose divine. In seguito, il discorso si sposta sulla dialettica, la retorica e la grammatica. A cominciare dal capitolo 7 del medesimo libro (nella numerazione di Wachsmuth), e per tutto il resto dell’Antologia (compresi i libri III e IV), lo Stobeo riunisce materiale sull’etica intesa nel senso più largo del termine. Il terzo libro si apre con un lungo e assai problematico capitolo sulla virtù (περὶ ἀρετῆϲ) probabilmente in più punti interpolato con testi extrastobeani. Il quarto e ultimo libro affronta ancora temi relativi in particolare alla politica (περὶ πολιτικῆϲ) e all’amministrazione domestica (περὶ οἰκονομίαϲ). Nei manoscritti bizantini dell’Antologia, tutti i capitoli hanno una strut tura assai tipica e sono composti da una serie di ecloghe estratte da autori greci che lo Stobeo cita introducendoli con brevi lemmi (autore e titolo). Troviamo capitoli di lunghezza varia, alcuni dei quali contengono diverse decine di ecloghe anch’esse di numero e estensione variabili. Le citazioni dei testi poetici precedono quelle degli autori in prosa. Un’utile presenta zione sinottica dell’insieme dei capitoli dell’Antologia che rende perspicua la struttura architettonica dell’opera e il suo contenuto è stata redatta da Piccione prendendo come punto di partenza le edizioni finora di riferimen to di Wachsmuth e di Hense.8 Oltre al sommario dei capitoli che formavano l’ossatura dell’Antologia, Fozio cita anche una lista degli oltre 450 nomi degli autori dalle cui opere lo Stobeo aveva ricavato le ecloghe. I nomi di questi autori sono suddivisi in cinque liste ognuna delle quali è organizzata in ordine alfabetico. La prima lista enumera i filosofi da Eschine socratico a Chione di Eraclea (Αἰϲχίνηϲ ὁ Ϲωκρατικόϲ–Χίων); la seconda elenca i poeti da Atenodoro a Carete (Ἀθηνοδώροϲ–Χάρηϲ); la terza gli oratori e gli storici da Aristide a Crisermo (Ἀριϲτίδηϲ–Χρύϲερμοϲ); la quarta i re e i generali da Alessan dro Magno a Carete (Ἀλέξανδροϲ–Χάρηϲ); la quinta infine una serie di autori probabilmente difficili da classificare, da Aristofane a Speusippo (Ἀριϲτοφάνηϲ–Ϲπεύϲιπποϲ) e fra questi molti medici. È assai difficile dire se le cinque liste fossero state redatte dallo Stobeo stesso oppure da un ignoto erudito, che possiamo collocare tra lui e Fozio.9 In quest’ultimo caso, quei nomi sarebbero stati recuperati dai lemmi che 8 Piccione (2010), 635–646. 9 Goulet (2000), 1012.
15 https://doi.org/10.5771/9783985720965
I. Giovanni Stobeo: un breve profilo
introducevano le singole ecloghe dell’Antologia e sarebbero stati poi classi ficati dall’anonimo di propria iniziativa in sezioni distinte sistemandoli in ordine alfabetico. Non si può neppure escludere a priori che alcuni nomi siano stati collocati al posto sbagliato per errori meccanici nel corso della trasmissione del testo. 3. Lo Stobeo e la filosofia Già da una lettura sommaria dell’insieme dei titoli dei capitoli che formano l’Antologia ci si rende conto dell’erudizione e della vastità di interessi dello Stobeo largamente incentrati sul discorso filosofico.10 Goulet ha redatto un quantomai utile elenco di tutti i filosofi citati dallo Stobeo raggruppati per categorie: i sapienti, Pitagora, i Presocratici, Socrate, Senofonte, Platone, gli Accademici, lo pseudo-Aristotele, i Peripatetici, i Cinici, Epicuro, gli Stoici antichi, Aristone di Chio, Epitteto, Plutarco, i Neopitagorici, i Neoplatonici. A queste categorie si aggiungono le citazioni dagli Inni orfici e dagli scritti del Corpus Hermeticum, nonché una lista di numerosi filosofi meno noti o conosciuti soltanto attraverso la testimonianza dello Stobeo.11 Se la filosofia in senso lato è predominante nell’Antologia, non manca comunque una attenzione da parte dello Stobeo per altri generi letterari e autori e testi fra i quali molti in versi.12 Egli cita con frequenza Menandro e Euripide, due autori per i quali è testimone di drammi perduti.13 Conosce e sfrutta abbondantemente la silloge poetica di Teognide e altri lirici greci.14 Omero è invece citato spesso dallo Stobeo in maniera indiretta all’interno di più vaste ecloghe estratte da opere di prosa. Nella scelta dei testi, filosofici o meno, lo Stobeo segue principi che appaiono in sé coerenti e che rispondono a un piano organizzativo a quanto sembra definito. Tra i filosofi, l’autore più rappresentato è senza dubbio Platone, del quale egli riproduce estratti dalla quasi totalità dei dialoghi (autentici o apocrifi) e delle lettere a lui attribuite nonché una
10 Runia in Piccione, Runia (2001), 1009–1010. 11 Goulet (2000), 1014–1016. 12 Un importante contributo a questo aspetto viene dall’insieme dei saggi raccolti da Reydams-Schils (2011). 13 Per Euripide vedi Piccione (1994); per Menandro Millis (2020) che applica tuttavia un metodo che mi pare tutt’altro che adeguato. 14 Per Teognide vedi Ferreri (2011); per i lirici Campbell (1984).
16 https://doi.org/10.5771/9783985720965
3. Lo Stobeo e la filosofia
scelta di detti.15 Un sostanziale interesse lo Stobeo mostra anche per i filosofi della successiva tradizione platonica e in particolare per Giamblico di Calcide e Porfirio, nonché per i Pitagorici (con una forte attenzione per gli scritti pseudoepigrafi)16 e il Corpus Hermeticum.17 Di Giamblico, lo Stobeo riproduce passi del Protrettico e soprattutto, a lui solo, estratti dal Περὶ ψυχῆϲ e una ampia selezione di Lettere.18 Di Porfirio, oltre alle ecloghe recuperate in alcune opere oggi perdute, egli riporta anche una scelta di Sentenze (Ἀφορμαί) in una redazione indipendente da quella trasmessa dai manoscritti bizantini. Significativa è infine la mancanza di ecloghe dal Corpus Aristotelicum autentico. Si ritrovano invece nell’Antologia estratti da opere falsamente attribuite allo Stagirita (i Physiognomonica e soprattutto il De mundo)19 nonché una Epitome di etica peripatetica che fa da pendant alla Epitome di etica stoica. Entrambe le epitomi sono attribuite a un certo Didimo da taluni identificato con il filosofo di corte di Augusto, Ario Didimo. Questi due testi sono comunemente indicati come Dossografia B e Dossografia C20 e danno una idea concreta della circolazione del pensiero peripatetico e stoico agli inizi dell’epoca imperiale.21 A Didimo non può in vece essere attribuita la cosiddetta Dossografia A trasmessa insieme alle due precedenti.22 Considerevoli e di fondamentale importanza sono altresì le larghe sezioni che lo Stobeo recupera nei Placita di Aezio che conosciamo anche attraverso la testimonianza di altri autori greci e in una traduzione araba. La ricostruzione di questo scritto complesso e intrigante è stata da poco rinnovata grazie alle fondamentali ricerche di Mansfeld e Runia.23 I loro risultati appaiono ben fondati e duraturi al di là di critiche non sempre opportune.24 L’interesse dello Stobeo per lo Stoicismo si estende fino ai rappresentanti dell’età imperiale: Epitteto, Musonio Rufo e uno Ierocle da identificare probabilmente con l’omonimino autore degli Elementi di etica 15 Curnis (2011), 71–123 e Curnis (2004a). Tra i dialoghi, un innegabile interesse è portato dallo Stobeo al Timeo (su cui vedi Dorandi 2021b) e al Fedone. Su quest’ulti mo dialogo resta importante lo studio Bickel (1902) i cui risultati ripropone Carlini (1972), 122–125. 16 Piccione (2021). 17 Goulet (2000a), 641–650. 18 Dillon (2007) e (2012) con le considerazioni di Marcos (2018). 19 Per il De mundo, vedi Dorandi (2022). 20 Hahm (1990). 21 Gourinat (2011) e Göransson (1995). 22 Bonazzi (2011). 23 Mansfeld, Runia (1997–2020). 24 Gourinat (2011) e (2018); Bottler (2014).
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I. Giovanni Stobeo: un breve profilo
trasmessi frammentari dal papiro di Berlino inv. 9780 verso.25 Anche i cinici occupano un posto importante come provano gli ampi frammenti di Telete (III s. a.C.).26 Tra gli autori che non furono filosofi di professione, ma che apportarono un contributo notevole alla conoscenza di quella disciplina, Stobeo cita a più riprese, tra gli altri, Senofonte, Isocrate e Plutarco.27 La larga presenza nell’Antologia di ecloghe recuperate nella tradizione platonica e pitagorica con una attenzione spiccata per il neoplatonismo e il neopitagorismo è stata interpretata come una prova in favore dell’ipotesi che lo Stobeo si fosse formato e avesse operato in un ambiente vicino alle scuole del neoplatonismo posteriore a Giamblico, influenzato dalla sua dottrina e dotato di una ricca biblioteca di testi.28 4. Scopi e intenti dell’Antologia Bisogna evitare la tentazione di leggere l’Antologia dello Stobeo solo come un’opera «contenitore», una miniera cioè inesauribile di citazioni erudite e una raccolta di testi non altrimenti noti o conosciuti semmai in reda zioni parallele da altre tradizioni. L’Antologia ha una sua unità e la sua redazione risponde a criteri ben definiti dall’autore, che riusciamo in parte almeno a rintracciare. È possibile ricostruire non solo alcuni aspetti del metodo compilatorio dello Stobeo, ma anche e soprattutto i principi che gli ispirarono nel corso del V secolo d.C. una così vasta operazione culturale e intellettuale.29 I metodi di costituzione dei capitoli nei quattro libri dell’Antologia varia no. Non esiste una unicità di approccio alle fonti e le ecloghe sono scelte e tagliate con criteri e modi diversi sia che si tratti di versi sia di passi in prosa. Ciò appare evidente in quei casi in cui è ancora possibile richiamare a confronto la tradizione parallela. Si individuano ritocchi, modifiche e anche tracce di una attività esegetica che non è semplice delimitare, ma che può essere attribuita in parte allo stesso Stobeo. Il risultato è una selezione assai eterogenea di ecloghe che con poche eccezioni appare finalizzata
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Long (1996). Fuentes Gonzáles (1998) e (2011). Per Isocrate, vedi Vallozza (2003); per Plutarco, Piccione (1998) e Curnis (2019). Taormina, Piccione (2010). Piccione (2003a) e (2010).
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4. Scopi e intenti dell’Antologia
alla necessità di una «facile fruizione» dell’enorme quantità di materiale raccolto.30 È bene evidente che lo Stobeo non attinse di prima mano a tutte le opere degli autori che cita e dalle quali recupera gli estratti. Per molte ecloghe singole o catene di ecloghe e forse anche capitoli interi è necessario postulare fonti intermedie che è impossibile delimitare nei dettagli nel naufragio quasi totale della letteratura antologica precedente. Dobbiamo altresì ammettere che l’operazione di lettura e raccolta del materiale da parte dello Stobeo dovette occupare molti anni della sua vita. L’enorme quantità di quei testi fu da lui forse riorganizzata solo in un mo mento ulteriore secondo criteri specifici e una struttura architetturale che per certi aspetti, e in generale nella distribuzione fra i quattro libri, risulta abbastanza chiara, almeno per gli ultimi due meglio conservati. L’Antologia appare organizzata seguendo tre grandi ambiti concettuali: metafisica e fisica (libro I), logica (inizio del libro II) e etica (dalla seconda parte del libro II al IV). Il capitolo «proemiale» che apriva l’opera e che aveva la forma di un ἔπαινοϲ φιλοϲοφίαϲ doveva servire fino dall’inizio a indicarne i principi e le intenzioni. La lettura della ben più ampia sezione etica dell’Antologia (e nello specifico dei libri III e IV) mette in evidenza una struttura nella quale i temi sono presentati applicando un procedimento che possiamo definire per opposti: virtù-vizio, prudenza-imprudenza, tem peranza-intemperanza, coraggio-codardia, memoria-oblio e via di seguito. In certi casi, si scorge anche un andamento dialettico per cui i temi princi pali sono a loro volta precisati con specifici elementi aggiuntivi: elogio della povertà-biasimo della povertà; confronto di povertà e ricchezza; la cosa migliore è sposarsi-non è cosa buona sposarsi, e così via. La successione dei capitoli e la loro organizzazione è dettata a quanto sembra da un criterio che potremmo definire didattico e paideutico che potrebbe trovare una delle ragioni d’essere (ma non la sola) nel fatto che l’Antologia era stata concepita e composta dallo Stobeo in vista dell’educa zione del proprio figlio Settimio.31 I singoli capitoli dei quattro libri sono introdotti da titoli che assumono forme differenti. Essi vennero forse scelti e apposti dallo stesso Stobeo, che, in qualche caso, poté recuperarli nell’uno o nell’altro dei suoi modelli.32 La formulazione più frequente è quella di un titolo composto da περί seguito 30 Piccione (2010), 623. 31 Cf. Piccione (2002). 32 Piccione (1999).
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I. Giovanni Stobeo: un breve profilo
dal genitivo di argomento. Né mancano casi di titoli introdotti da un ὅτι oppure da una interrogativa indiretta. Più rari invece gli esempi di capitoli il cui titolo si presenta sotto forma di un semplice nominativo. Singole ecloghe o sequenze di ecloghe non appaiono in consonanza con il contenuto indicato per i capitoli all’interno dei quali sono riuniti. Questa realtà si può spiegare supponendo che il materiale utilizzato dallo Stobeo per la redazione di quei capitoli era già andato soggetto a modifiche e a stratificazioni in momenti precedenti. Se così, non si tratta di errori nati per accidenti materiali prodottisi nel corso della trasmissione dell’Antologia e che devono essere corretti in una maniera o nell’altra, ma di una realtà (seppure erronea) già presente nelle fonti utilizzate dallo Stobeo.33 Il debito dello Stobeo (soprattutto negli ultimi due libri) nei confronti della precedente tradizione gnomologica è altresì innegabile.34 Stobeo non fu comunque soltanto un inerte copista del materiale che caratterizza que ste sezioni (prevalentemente etiche), ma è possibile che vi avesse inserito talora modifiche che rispondevano alle proprie esigenze e criteri composi tivi. In questo modo, egli sarebbe riuscito a rinnovare la struttura delle proprie fonti nel momento della redazione dell’insieme dell’Antologia. Con l’aggiunta, in particolare, delle consistenti sezioni dedicate alla (meta)fisica e alla logica (che formano il primo e i capitoli iniziali del secondo libro) e che lo Stobeo ricava da tutt’altra tradizione di quelle relative all’etica, egli riuscì infine a creare un’opera nuova non solo nella struttura, ma anche nei contenuti.
33 Piccione (2010), 627–633 e Piccione in Taormina, Piccione (2010), 442–451 n. 213. 34 Piccione (2003a) e (2004).
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
1. Lo stato del testo di Stob. 1–2 È un dato di fatto ormai acquisito che i primi due libri della Antologia di Giovanni Stobeo sono giunti fino a noi essenzialmente in una redazione epitomata preparata da un anonimo erudito in un momento imprecisato, ma precedente la fine del XIII o gli inizi del XIV secolo, data dei più antichi manoscritti che la trasmettono (A F). Ho chiamato questo stato del testo Recensio breviata. Si conservano inoltre scarse tracce di una ulteriore redazione che possiamo presumere fosse, se non quella originaria, almeno una più prossima a questa e ancora integra. Per comodità, l’ho chiamata Recensio plenior. Alla luce di queste premesse, che svilupperò ulteriormente nei capitoli seguenti, presento per cominciare una lista di tutti i manoscritti stobeani della Recensio breviata di cui ho conoscenza ivi comprese le raccolte di estratti e i testimoni perduti. Accanto a questi, in una seconda sezione, elen co i codici degli autori/fonti che tramandano resti di quello che possiamo presumere lo stato testuale della Recensio plenior. Seguirà un paragrafo con una succinta discussione delle edizioni di Stob. 1–2. 2. I codici della Recensio breviata Un primo tentativo ancora embrionale di redigere un elenco dei manoscrit ti di Stob. 1–2 dobbiamo a Heeren in un opuscolo pubblicato a Göttingen nel 1788, i cui risultati vennero integrati pochi anni dopo dal medesimo studioso nella Notitia codd. Mss. et Editionis Canteri Eclogarum Ioannis Stobaei che introduce il primo tomo della sua edizione.35 Le ricerche di Heeren furono riassunte da Fabricius e Harles,36 arricchite poi con l’appor to di un nuovo manoscritto (H) da Gaisford37 e riproposte da Meineke.38 35 36 37 38
Heeren (1788) e (1792) I/1 xxxi–xlii. Fabricius, Harles (1804), 571–572 n. aa. Gaisford (1850), i–xiii. Meineke (1860), xvi–xiii dove sono ricopiati larghi estratti letterali dell’introduzione di Heeren (1792) I/1.
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
Wachsmuth riprese infine, su rinnovate basi, l’insieme della questione e ne approfondì diversi punti cruciali: descrisse i manoscritti a lui noti, li classificò e ne studiò, con risultati in larga misura ancora validi, le relazioni stemmatiche. Gli studiosi successivi si adeguano alle conclusioni di Wachsmuth codificate da Hense.39 Così Runia,40 Piccione41 e più di recente Royse.42 Io stesso ho ribadito alcuni aspetti della ricostruzione di Wachsmuth e integrato le sue ricerche con l’apporto di un ulteriore codice primario, sebbene parziale, del solo Stob. 1 (A), già conosciuto fino da Heeren, ma a torto trascurato. Nel mio catalogo, tutti i codici vengono ordinati secondo un criterio geografico tenuto conto delle biblioteche dove sono conservati. Ogni testi mone è descritto sulla fondamento, ove possibile, di un’autopsia in loco, della verifica di riproduzioni o grazie all’aiuto prezioso di amici e colleghi. La bibliografia segnala i cataloghi dei codici e tiene conto per lo più solo di contributi su aspetti paleografici e codicologici. Nell’insieme, le schede sono così organizzate: biblioteca di conservazione, segnatura, data, materiale, misure e foliazione, filigrane (se presenti o leggibili), contenuto, indicazione dell’eventuale copista e bibliografia essenziale.43 città del vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Vaticanus gr. 201 (V) Inizi del 1552.44 Carta occidentale. 335x225 mm. ff. VIII+194. ff. IIIv, IV– VI, VIIIv, 191–194 vacua). 30 ll. Filigrane: Canart ha individuato tracce di quattro filigrane che corri spondono ai nrr. 5 («Ancre dans un cercle sommé d’une étoile»), 15 Hense (1916), 2549–2551. Mansfeld, Runia (1997), 197–204. Piccione (2010), 32–45. Royse (2018), 156–173. I rimandi al testo dello Stobeo sono fatti secondo l’edizione di Wachsmuth (volume, pagina/e e rigo/hi). Le concordanze (cap. IX) con la numerazione della mia edizione e la riproduzione in essa dei riferimenti alle pagine del Wachsmuth aiuteranno il lettore a ritrovarsi. Ho consultato gli originali dei codici F N P V e le riproduzioni digitali (integre o parziali) dei codici A H LV M PB R T Val VO Y. V. Hinz (Göttingen) ha verificato per me G sull’originale. Dettagli su A, M mi sono stati infine comunicati rispettivamente da S. Martinelli Tempesta (Milano) e Krestin Hadjú (München); su V N da G. De Gregorio. A C. Giacomelli riviene l’individuazione delle mani del codice B di Stob. 3–4; Elisa Bianchi mi ha aiutato infine con l’analisi delle mani del Florilegium Laurentianum (L). Non ho avuto ancora accesso a Go LW W e ho recuperato le relative informazioni nei cataloghi di cui disponiamo a tutt’oggi. 44 Canart (1964), 184 e 245 nr. 51 = (2008), 44 e 105 nr. 51.
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2. I codici della Recensio breviata
(«Chapeau prélatice»), 23 («Enclume et marteau dans un cercle»), 30a («Deux flèches en sautoir sommées d’une étoile») di quelle da lui reper toriate nei manoscritti vergati da Emanuele Provataris.45 Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 1r–190v). Stob. 1 (f. 1r–144v): inscriptio (f. 1r) ἰωάννου ϲτωβαίου βιβλίον πρῶτον περὶ ἀριθμητικῆϲ – incipit (f. 1r) ἦν δὲ οὐδὲν αὐτοῖϲ (I 15, 5) – desinit (f. 144v) τὴν τοῦ κενουμένου βάϲιν (I 502, 17). Stob. 2 (ff. 144v–190v): inscriptio (f. 144v) ἰωάννου ϲτωβαίου, ἐκλογῶν, ἀποφθεγμάτων ὑποθηκῶν βιβλίον δεύτερον. – incipit (f. 144v) περὶ τῶν τὰ θεῖα … καὶ ταῦτ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit (f. 190v) οὐ δὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχον ὑποβολάϲ (II 184, 17). Copista: (RGK I 254, II 350, III 418). Bibliografia: Mercati, Franchi de’ Cavalieri (1923), 243–244; Canart (1964), 184, 245 nr. 51, 266 (= 2008, I 44, 54, 88–89, 92, 105, 126); Ca nart (1977–1979), 303–304 n. 2 = (2008), 473–474 n. 2; Di Lello-Finuoli (1999), 24 n. 39, 32; Cataldi Palau (2000), 359. Vaticanus gr. 1347 (VO) ca. 1550–1554. Carta occidentale. 168x245 mm. I fogli sono solo parzial mente numerati. Contenuto: (ff. 84r–94r) excerpta poetici dallo Stobeo seguiti da un estratto dallo ps.-Arist., De mundo anch’esso trascritto dalla medesima fonte.46 Copista: (RGK III 608. Cf. RGK II 520e). Bibliografia: Di Lello-Finuoli (1999), 29–32. el escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo R.I.11. (Revilla 11) (R) a. 1579 (f. 272v e 419v). Carta occidentale. 299x205 mm. ff. III+419+III. 30 ll. Filigrane: varianti di «croix latine» (= 22, 28, 30, 51, 52 e 55 Sosower). Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 1r–370r). inscriptio (f. 1r) + ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν ἐκλογή. ff. 1r–5r (f. 5v vacat) due tavole dei κεφάλαια dell’insieme dei libri: inscriptiones e κεφάλαια τῶν ϲτωβαίου φυϲικῶν 45 Canart (1964), 221–225, 266 e 273–287 = (2008), 81–85, 162 e 133–147. 46 Come anche in Val e W. Vedi Dorandi (2022), 19–20.
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
(f. 1r) e κεφάλαια τῶν φυϲικῶν (f. 2v). Stob. 1 (f. 6r–272v): inscriptio (f. 6r) Ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν ≁ ἐκλογή ~ + περὶ θεῶν καὶ θείων. ~. – incipit (f. 6r) ζεῦϲ οὖν ὁ (sic) πᾶϲ κόϲμοϲ (I 31, 8) – desinit (f. 272v) τὴν τοῦ κενουμένου βάϲιν (I 502, 17). Subscriptio (f. 272v) τέλοϲ ϲὺν θ[ε]ῷ τοῦ αουʹ βιβλίου ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν ἐκλογή: + + ὑπὸ ἀνδρέου δαρμαρίου τοῦ ἐπιδαυρίου υἱοῦ γεωργ[ίου] ἐν τῷ ἔτει η η ʹαφοθ. νοεμβρίου κδ. : δαπάνῃ καὶ ἀναλώματι τῷ λογίῳ καὶ κυρίῳ ἀντωνίῳ τῷ κοβαρουβίῳ· ἄκρῳ ἀκροατῆϲ (sic) τῆϲ βαϲιλικῆϲ βουλῆϲ, βαϲιλέωϲ ἱϲπανῶν ≁ ἐν μαδριλλίῳ τῆϲ ἱϲπανίαϲ: ὅθεν ἡ κατοίκηϲιϲ βαϲιλέωϲ: ~. Stob. 2 (ff. 273r–370r): inscriptio (f. 273r) + ἰωάννου τοῦ ϲτωβαίου ἐκλογῶν ἀποφθεγμάτων ὑποθηκῶν βιβλίον δεύτερον: περὶ τῶν τὰ θεῖα … – incipit καὶ τ᾽ αὖ τ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit (f. 370r) αἴτιον τῶν κακῶν ταῦτα χρή:~ (II 182, 7). in fine ἐξίτηλον ἦν τὸ τέλοϲ ὑπὸ τῆϲ ἀρχαιότητοϲ:~. Seguono quattro opuscoli di Giorgio Gemisto Pletone, come in Cant. (pp. 211–218, 219–229, 230–231 e 233–236): 1. De rebus Pelo ponnesiacis orationes duo. Oratio prior (ff. 371r–384v. Ed. Lampros 1926, 246–265). 2. Oratio altera (ff. 385r–404v. Ed. Lampros 1930, 113–135). 3. Διαγραφὴ ἁπάϲηϲ Πελοποννήϲου παραλίου καὶ μεϲογείου (ff. 405r– 408v. Ed. Cant., 230–231). 4. Περὶ ἀρετῶν (ff. 409r–419v. Ed. TambrunKrasker 1987).47 Subscriptio (f. 419v) ≁ δαπάνῃ καὶ ἀναλώματι τῷ ἐκλάμπρῳ καὶ λογίῳ ἄκρῳ ἀκροατῇ τῆϲ βαϲιλικῆϲ βουλῆϲ κῷ ἀντωνίῳ τῷ κοβαρουβίῳ ≁ ἐν μαδριλλίῳ ≁ ὑπὸ ἀνδρέου δαρμαρίου· ἐν τῷ ἔτει η ηʹ ʹαφοθ. : – + νοεμβρίου κη. : – Copista: Andrea Darmarios (RGK I 13, II 21, III 23). Bibliografia: Revilla (1936), 16–17; Sosower (2004), 517 nr. 11 e 265, 268– 269, 279, 281 (facsimili). T.II.2. (Revilla 141) (T) XVI s. med. Carta occidentale. 316x210 mm. ff. 232 (la fine del f. 232r e il f. 232v bianchi). 29 ll. Filigrane: ff. 1–39 «lettre 9» Sosower (XVI med.); ff. 40–49 «armoiries 8» e «lettre 9» Sosower (XVI med.); ff. 50–169 «armoiries 9» Sosower (XVI med.); ff. 170–232 «étoile 4» Sosower (XVI med.). Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 1r–232r). Stob. 1 (ff. 1r–175v). inscriptio ἰωάννου ϲτωβαίου, βιβλίον πρῶτον, περὶ ἀριθμητικῆϲ – incipit (f. 1r) ἦν δὲ 47 «El códice parece copiado sobre la ed. cit. de Canterus [= Cant.]» Revilla (1936), 17. Le aggiunte, se non indicato altrimenti, sono mie.
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2. I codici della Recensio breviata
οὐδὲν αὐτοῖϲ (I 15, 5) – desinit (f. 175v) τὴν τοῦ κενουμένου βάϲιν (I 502, 17). Stob. 2 (ff. 176r–232r). inscriptio ἰωάννου ϲτωβαίου ἐκλογῶν ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν, βιβλίον δεύτερον:~ – incipit (f. 176r) περὶ τῶν τὰ θεῖα … καὶ ταῦτ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit (f. 232r) οὐ δὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχον ὑποβολάϲ (II 184, 17) et in mg. λείπει. Copista: (Canart). Bibliografia: Revilla (1936), 458–459; Sosower (2004), 520 nr. 141; Canart (2008) 1295–1298; Stefec (2012), 251; Martínez Manzano (2015), 123–124. y.I.6. (de Andrés 299) (Y) ca. 1554–1555. Carta occidentale. 330x227 mm. ff. I+192(+ 13). Il f. 192v bianco. 30 ll. Filigrane: ff. 1–63, 120–192 «homme 1» Sosower (a. 1552–1554), ff. 64–119 «couronne 6» Sosower (a. 1554). Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 2r–192r). Stob. 1 (ff. 2r–141r). ff. 1r–v κεφάλαια τῶν ϲτωβαίου φυϲικῶν. inscriptio (f. 2r) ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν ἐκλογή. incipit (f. 2r) Ζεῦϲ οὖν ὁ πᾶϲ κόϲμοϲ (I 31, 8); desinit (f. 141r) τὴν τοῦ κινουμένου (sic) βάϲιν (I 502, 17). Stob. 2 (ff. 141v–192r): inscriptio (f. 141v) ἰωάννου ϲτωβαίου, ἀποφθεγμάτων ὑποθηκῶν βιβλίον δεύτερον: ~ – incipit (f. 141v) περὶ τῶν τὰ θεῖα … καὶ τ᾽ αὖ τ᾽ ἶϲον (II 3, 2– 6) – desinit (f. 192r) αἴτιον τῶν κακῶν ταῦτα χρή (II 182, 7).48 Copista: (RGK I 171, II 229, III 283). Terzo periodo della sua attività scrittoria (Firenze e Bologna, 1554–1555).49 Bibliografia: de Andrés (1965), 183–184; Cataldi Palau (2000), 376–377, 391 nr. 15; Sosower (2004), 525 nr. 299. Cf. 481 e 497. Δ.I.11. (de Andrés 240) (Δ) Distrutto nell’incendio della biblioteca dell’Escorial del 7.6.1671.
48 «Contratapa M. Ϲτωβαιοϲ [sic]; en el margen inferior, concuerda con el de plantino impreso [= Cant.]» de Andrés (1965), 184. 49 Cataldi Palau (2000), 350–354.
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
«240. Recens (an. 1540 circiter), chartaceus, in folio. Ioannis Stobaei eclogarum apophtegmatum et monitionum libri 2: primus naturalia, secundus moralia continet» (de Andrés).50 Bibliografia: de Andrés (1968), 106. göttingen, Niedersächsischen Staats- und Universitätsbibliothek phil. 86 (G) post 1736. 250x19 mm. 81 ff. Contenuto: (ff. 41r–61r) «Excerpta ex Ioannis Stobaei Eclogis physicis quae non leguntur in edit. G. Canteri (1575)». inscriptio (f. 41r): «In Jo. Stobaei Physica Ecloga, edita ab G. Cantero, haec desunt, exscripta ex vet. libro Ant. Augustini Archiep. Tarracon. [= Δ] ab Andrea Schotto Tarracone».51 Bibliografia: Meyer (1893), 21; de Meyïer (1955), 157. phil. 87 (Go) ante 1736 (?). 21x16 mm. 162 ff. Contenuto: «‘J.C. Wolfii collatio codicis Augustani [= M] eclogorum Stobaei’ cum editione Canteri».52 Bibliografia: Meyer (1893), 21. leiden, Universiteitsbibliotheek Vossianus gr. Q 48 (LV) post 1575. Carta occidentale. 210x160 mm. ff. 66. Filigrane «Homme ou Femme | Pèlerin» (simile a Briquet 7590, a. 1569). Contenuto: (ff. 1r–65v) «Excerpta ex Ioannis Stobaei Eclogis physicis quae non leguntur in edit. G. Canteri (1575)». Il f. 66 è bianco. inscriptio (f. 1r) «In Jo. Stobaei Physica Ecloga edita a Guil. Cantero haec o(mn)ia desunt. exscripta e vet. [!, scriptus vero est anno 1540!] libro Ant. Augusti ni [= Δ] Archiep. Tarrac. [an manu Darmarii?] [alia manus addidit:] ab 50 È il codex Augustini, dal nome del suo primo possessore Antonio Agustín, arcivescovo di Tarragona, sul quale vedi infra 57, 61–64. 51 Vedi anche G LW(4) PB. Qui e altrove, l’aggiunta in esponente dopo la sigla LW di un numero da 1 a 5 fra parentesi tonde indica le singole sezioni di quel manoscritto miscellaneo descritto più oltre. 52 Vedi anche LW(5).
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2. I codici della Recensio breviata
And. Schotto Tarracono [est cod. 213 Augustini. olim in bibliotheca Scoria lensi adservatus, postea deperditus, ut videtur]».53 Nello stato attuale, il codice è mutilo tra il f. 5v e il f. 6r e tra il f. 8v e il f. 9r.54 Bibliografia: (1736), 181–196; Heeren (1792) I/1 xli–xlii; Fabricius, Harles (1804), 571 n. aa; Hardt (1810), 228; Ruhnkenius (1823), 902; Graux (1880/1982), 295–296; Schmidt (1886), 134; Meyer (1893), 21; de Meyïer (1955), 156–157; Di Lello-Finuoli (1999), 33–34 n. 75. Copista: (RGK I 13, II 21, III 23). Wyttenbach 2 (Geel 303) (LW) Codice composito della fine del XVIII sec. appartenuto a (e copiato da?) Daniel Wyttenbach (1746–1820). Poiché non ho ancora avuto accesso al manoscritto, riproduco qui, con pochi addenda e chiarimenti in nota, le sezioni della descrizione di Geel nelle quali si trovano effettivi o probabili riferimenti a Stob. 1–2.55 «D. Wyttenbachii Collectanea ad Stobaeum: continent 1. Ex Codd. Mss. Parisinis duobus adscripta ab Hugone Grotio exemplo servato in Bibl. Lugd. Batava.56 […] [= LW(1)] 3. Ex appendice Damasceni ad Parallela Sacra in Codice Florentino.57 53 Le aggiunte tra parentesi quadre che ho messo in corsivo sono di de Meyïer (1955), 155. Vedi anche G LW(4) PB. 54 de Meyïer (1955), 157. 55 Geel (1852), 74 (nr. 303). Vedi anche infra 71. 56 Vedi anche Wyttenbach (1772), xx: «Stobaeus Bibliothecae Leidensis, cui H. Grotius ex duobus optimis Parisinis MStis lectiones adscripserat …» (cf. 129) e Valckenaer (1767), 198–199 (= 1824, 204–205). I due esemplari parigini consultati dal Grotius [Hugo de Groot, 1583–1645] sono P per Stob. 1–2 e il Parisinus gr. 1984 (A) per Stob. 3–4. Questo materiale venne verisimilmente riunito in vista della preparazione del volume di Grotius (1623). Vedi Curnis (2008), 143–165. Come risulta chiaramente da Heeren (1792) I/1 xii e xli, che cita la testimonianza di una lettera di Ruhnkenius (ristampata in Ruhnkenius 1823, 902), l’«exemplum servatum in Bibl. Lugd. Batava» non è un codice, ma una delle edizioni a stampa dello Stobeo appartenute al Grotius e elencate da (1727), 851–852. Vedi anche Gaisford (1823) I x. Si corregga pertanto quanto scrive Curnis (2008), 180–181 e cioè che con la dicitura «Stobaeus Bibliothecae Leidensis» Wyttenbach «allude al codice Vossianus gr. O 9 (olim Q 27) di Leyden». In quel manoscritto non c’è traccia alcuna di una sua utilizzazione da parte di Grotius. Vedi de Meyïer (1955), 209–210. 57 Si tratta di una copia degli estratti dal Laurentianus 8.22 (L), il cosiddetto Florilegium Laurentianum, che Antonio Sarti aveva preparata per David Ruhnkenius (1723–1798) come risulta dalla nota autografa apposta in alto del foglio di guardia anteriore non
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
4. Eclogarum physicarum Collationem cum Cod. Augustiniano Hispanico, factam ab Andrea Schotto58 [= LW(4)]. 5. Earundem coll. cum Cod. Augustano, factam ab Wolfio Ham burgensi»59 [= LW(5)]. Bibliografia: Heeren (1792) I/1 xli–xlii; Geel (1852), 74. london, British Library Harleianus 6318 (H) ca. 1554. Carta occidentale. 315x220 mm. ff. 192 (la fine del f. 192r e il f. 192v sono bianchi). 30 ll. Filigrane: «arbalète 8» Sosower (a. 1554), «échelle 13» Sosower (a. 1554).60 Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 2r–192r). Stob. 1 (ff. 2r–140r). f. 1v πίναξ eclogarum physicarum. inscriptio (f. 2r) ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν ἐκλογή. ἰωάννου ϲτωβαίου, ἐκλογῶν, ἀποφθεγμάτων ὑποθηκῶν βιβλίον πρῶτον. incipit (f. 2r) ζεῦϲ οὖν ὁ πᾶϲ κόϲμοϲ (I 31, 8); desinit (f. 140r) τὴν τοῦ κενουμένου βάϲιν (I 502, 17). Stob. 2 (ff. 140v–192r): in cipit (f. 140v) περὶ τῶν τὰ θεῖα … καὶ τ᾽ αὖ τ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit (f. 192r) αἴτιον τῶν κακῶν ταῦτα χρή (II 182, 7). Copista: (RGK I 188, II 247, III 312). A quanto pare, da identificare con Iohannes Franciscus o Iohannes Graecus di Candia, scriptor per la Biblioteca Vaticana dal 1548 al 9.1.1555.61 Bibliografia: Gaisford (1850), ii–x (con una collazione sommaria); Pattie, McHendrick (1999), 207; Sosower (2004), 470, 490. Cf. 174, 288 e 535.
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numerato [IIIv] di L: «Sententias profanorum scriptorum, praesertim ineditas, ex hisce Ioannis Damasceni Parallelis excerpsi, descripsi, ac Davidi Ruhnkenio Profes sori Batavo novam Stobaei editionem molienti transmittendas curavi ego Antonius Sartius Canonicus Basilicae Laurentianae die XXVI Iunii anni MDCCLXXXI». Vedi Wachsmuth (1882), 1–2 e Royse (2018), 158–159. Più dettagli sul manoscritto e sul Florilegium Laurentianum (L) da esso trasmesso infra 35, 83–96. Copia di LV. Vedi infra 62–63. L’Augustanus è l’attuale Monac. gr. 396 (= M). La collazione (di mano di Wolf?) è conservata in Go. Filigrane identiche a quelle del Matr. 4748 di mano del medesimo copista. Vedi Sosower (2004), 470, 490 e cf. 174, 288 e 535. Vedi Canart (1963), 70–71 e pl. 16a = (2008), 15–16 e pl. 16a.
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2. I codici della Recensio breviata
milano, Biblioteca Ambrosiana A 183 sup. (76 Martini-Bassi) (A) XIII s. ex./XIV s. in. Carta italiana. 308x224 mm. ff. II+66+II. 29/30 ll. Filigrane: Tracce di filigrane, p. es., nei ff. 33, 34 e 41 che non trovano ri scontro, a quanto ho potuto costatare, nei repertori d’uso. Contenuto: Stob. 1 mutilus (ff. 1r–66v). incipit μὴ ἀγνοήϲαϲ, ἀκριβῶϲ δύναται (I 194, 11) – desinit οὐ τοῖϲ πρώτοιϲ δ᾽ ὁμοίουϲ (I 391, 4). Copista: Due mani coeve non identificate (la seconda ha copiato ff. 3v– 4r), che mostrano affinità con quelle di Massimo Planude e di Giovanni Zarides. Bibliografia: Dorandi (2019a). münchen, Bayerische Staatsbibliothek gr. 396 (M) ca. 1569–1570. Carta occidentale. 330x228 mm. ff. I+268 (numerati da 1 a 536) +II. La numerazione del codice aggiunta da una mano recente a penna indica le pagine (e non i fogli). Nel foglio con la fine del testo gre co leggiamo comunque «530 = fol. 265». 29 ll. Le pp. 1–6 sono gravemen te rovinate nel lato esterno; le pp. 530–536 sono lasciate bianche. Filigrane: «agneau pascal 1» Sosower (a. 1569), «ancre 27» Sosower (a. 1569). Altre filigrane sono più difficili da identificare a causa del cattivo stato di conservazione (Hadjú). Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 1–530). Stob. 1 (pp. 1–394 med.). inscriptio (p. 1) φυϲικὰ [ ] | ἰωάννου ϲτωβαίου, βιβλ[ίον πρῶτον] | περὶ ἀριθμητικῆϲ. incipit (p. 1) ἦν δὲ οὐδὲν αὐτοῖϲ (I 15,5) –desinit (p. 394 med.) τὴν τοῦ κενομένου βάϲιν (I 502, 17). Stob. 2 (pp. 394–530). inscriptio (p. 394 med.) ἰωάνου (sic) ϲτωβαίου ἐκλογῶν ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν, βιβλίον δεύτερον:~ incipit (p. 394 med.) περὶ τῶν τὰ θεῖα … καὶ ταῦτ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit (p. 530) οὐ δὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχον ὑποβολάϲ (II 184, 17). Copista: (RGK I 171, II 229, III 283). Quarto periodo della sua attività scrittoria (Roma, dicembre 1555–1573).62 Bibliografia: Hardt (1810), 228–229; Diels (1879), 45; Lorimer (1924), 15– 16 n. 1; Cataldi Palau (2000), 377–379; Royse (2018), 169–171. 62 Vedi Cataldi Palau (2000), 377–379.
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III III D 15 (F) XIV s. in. (ca. 1320–1325). Carta occidentale. 300x215 mm. ff. I–V+210+I– XV. 29 ll. Codice composto di due parti originariamente indipendenti. Qui è presa in considerazione solo la prima parte (ff. 1r–193v) e, al suo interno, la sezione stobeana (ff. 1r–174r). Filigrane: ff. 2–77 «saucisson» (≈ Mošin-Tralijć 6946, aa. 1322– 1324); ff. 79–150 «feuille» (≈ Mošin-Tralijć 3887, a. 1320 o 3888, a. 1320); ff. 177–184, 188–189 «casque» (≈ Briquet 2885, a. 1321). La carta dei ff. 153–176 non presenta filigrane. Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 1r–174r). Stob. 1 (ff. 1r –129r med.). inscriptio (f. 1r) ἰωάννου ϲτωβαίου βιβλίον πρῶτον περὶ ἀριθμητικῆϲ. incipit (f. 1r) ἦν δὲ οὐδὲν αὐτοῖϲ (I 15, 5) – desinit (f. 129r med.) τὴν τοῦ κενομένου βάϲιν (I 502, 17). Stob. 2 (ff. 129r–174r). inscriptio (f. 129r med.) + ἰωάννου ϲτωβαίου ἐκλογῶν ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν, βιβλίον δεύτερον + περὶ τῶν τὰ θεῖα … incipit καὶ ταῦτ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit (f. 174r) οὐ δὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχον ὑποβολάϲ (II 184, 17). Diversi estratti dal De omnifaria doctrina di Psellos sono trascritti sotto forma di scholia da una mano seriore nei margini dei ff. 15r, 16r, 19v, 25v, 28r, 54v–55v, 77r–v, 81r, 85r–86r, 89r–90r, 112v, 125r, 173v–174r.63 Copista: Non identificato, ma non di origine italo-greca (Lucà, per litteras). Lo stesso vale per il copista degli excerpta pselliana. Bibliografia: Di Lello-Finuoli (1999), 29–32; Formentin (2015), 134–135. III D 16 (N) XVI s. med.64 Carta occidentale. 235x165 mm. ff. I–III+349. I ff. 346r–348v sono bianchi. 22 ll. Doppia numerazione a penna in alto a destra e a matita in basso a destra.65 Filigrane: ff. 4–78 «sirène à deux queues courbées et redressées au long du corps, tenue avec les deux mains» (≈ Briquet 13878, a. 1557), ff. 84–102 «deux flèches en sautoir» (≈ Briquet 6291, aa. 1561–1562), ff. 107–149, 240 63 Westerink (1948), 4. Il codice è qui siglato N. 64 Di Lello-Finuoli (1999), 31–32, propone una data «ca. 1546–1556» tenendo conto della attività scrittoria di Emanuele Provataris. 65 Con la Formentin (2015), seguo la numerazione apposta in basso a matita.
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2. I codici della Recensio breviata
«arbalète surmontée d’une fleur de lys» (≈ Briquet 761, a. 1533), ff. 163– 245 «ancre inscrite dans un cercle surmontée d’une étoile» (≈ Briquet 492, a. 1522), ff. 276–348 «enclume supportant un marteau» (≈ Briquet 5963, aa. 1514–1529), ma vedi anche «enclume 2» Sosower (a. 1546). Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 1r–345v). Stob. 1 (1r–260r) inscriptio (f. 1r) ἰωάννου ϲτωβαίου, βιβλίον πρῶτον. περὶ ἀριθμητικῆϲ:~. Incipit (f. 1r) ἦν δὲ οὐδὲν αὐτοῖϲ (I 15, 5) –desinit (f. 260r) τὴν τοῦ κενομένου βάϲιν (I 502, 17). Stob. 2 (ff. 260v–345v). inscriptio (f. 260v) + ἰωάννου ϲτωβαίου ἐκλογῶν ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν, βιβλίον δεύτερον:~ Incipit (f. 260v) περὶ τῶν τὰ θεῖα … καὶ ταῦτ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit mutilus (f. 345v) οὐ δὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχον ὑποβολάϲ (II 184, 17) et in mg. λείπει. Copista: (RGK I 254, II 350, III 418).66 Bibliografia: Formentin (2015), 136. paris, Bibliothèque nationale de France gr. 2129 (P) XVI s. in. Carta occidentale. 161x101 mm. ff. I+232+I. 18 ll. Codice compo sto di ventinove quaternioni numerati in greco in alto a destra del primo foglio.67 A causa della rifilatura dei margini e all’usura, in qualche caso, la numerazione è oggi scomparsa o ridotta a una minima traccia. Filigrane: «ancre inscrite dans un cercle» (p. es., ff. 21, 29, 35, 43, 44, 59, 62, 90, 97bis, 105) il cui disegno è difficile da determinare con sicurezza perché si scorge solo o la parte inferiore o quella superiore della metà de stra. Contenuto: Stob. 1–2 (ff. 1r–230v). Stob. 1 (ff. 1r–176r). inscriptio (f. 1r) ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν ἐκλογή (Px). incipit (f. 1r) ζεῦϲ οὖν ὁ πᾶϲ κόϲμοϲ (I 31, 8) – desinit (f. 176r) τὴν τοῦ κενουμένου βάϲιν τέλοϲ spatium τοῦ πρώτου βιβλίου (I 502, 17). Stob. 2 (ff. 176v–230v): inscriptio (f. 176v) ἰωάννου ϲτωβαίου ἐκλογῶν, ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν βιβλίον δεύτερον. incipit (f. 176v) περὶ τῶν τὰ θεῖα … καὶ τ᾽ αὖ τ᾽ ἶϲον (II 3, 2–6) – desinit (f. 230v) αἴτιον τῶν κακῶν ταῦτα χρή (II 182, 7).
66 L’identificazione del copista fu proposta da Canart ap. Di Lello-Finuoli (1999), 30–31. Essa mi è stata confermata da G. De Gregorio (per litteras). 67 Vedi Wachsmuth (1884) I xxvii n. 2. L’indicazione relativa al fascicolo κ è comun que al f. 200r e non al f. 250r.
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
Copista: Non identificato. Numerosi marginalia di Giano Lascaris (RGK II 197, III 245) e di Matteo Devaris (RGK II 364, III 440), che redasse anche il πίναξ iniziale (f. Ir).68 Bibliografia: Muratore (2009), 30. suppl. gr. 270 (PB) XVII s. Cartaceo. Zibaldone di testi greci in gran parte di mano di L.-É. Bigot (1626–1689). La sezione con gli estratti di Stobeo (ff. 474r–481r), l’unica di cui mi occupo, è scritta solo sul recto mentre il verso è lasciato intenzionalmente bianco. Contenuto: (ff. 474r–481r) «Excerpta ex Ioannis Stobaei Eclogis physicis quae non leguntur in edit. G. Canteri» (1575). inscriptio (f. 474) «In Jo. Stobaei Physica Ecloga edita a Gul. (sic) Cantero haec omnia desunt. exscripta ex veteri (sic) libro Antonii Augustini Arch. Tarracon. [= Δ] ab Andrea Schotto Tarracono».69 Copista: . Bibliografia: Omont (1883), 33–34. roma, Biblioteca Vallicelliana E 61 (= 75 Martini) (Val) XVI s. (post ca. 1550–1554). Cartaceo. 238x162 mm. III+184 ff. I ff. 168v, 182r–184v sono bianchi.70 21 ll. I ff. Contenuto: Codice composito. La prima parte (ff. 1r–168r) tramanda opere dello pseudo–Dionigi Aeropagita, copiate da una mano del XIII sec. (eccetto i ff. 83r–86v e 166r–168r di restauro del XVI sec.). La seconda parte (ff. 169r–181v) contiene excerpta poetici da Stobeo (ff. 169r–180v) seguiti da un ulteriore estratto dallo ps.-Arist., De mundo (ff. 181r–v) an ch’esso di derivazione stobeana.71 68 Né i marginalia di Lascaris né quelli di Devaris sono segnalati nel RGK, dove è registrato solo il breve estratto di mano di Lascaris nel foglio interno del piatto posteriore. Vedi comunque Muratore (2009), 30 e già Brigitte Mondrain ap. Di Lello-Finuoli (1999), 34 n. 76. 69 Vedi anche G LV LW(4). 70 184 e non 185 come si legge in Martini (1902), 125. 71 Come anche in VO e W. Lorimer (1924), 15–16 data erroneamente Val nella sua totalità al XIII sec. Lo stesso errore è ripetuto da Suchla (1990), 28. In realtà, al XIII sec. risale la parte del manoscritto che tramanda lo pseudo-Dionigi Areopagita con l’eccezione dei fogli di restauro (ff. 83r–86v e 166r–168r). La corretta datazione
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3. I codici delle fonti della Recensio plenior
Bibliografia: Martini (1902), 125–126; Lorimer (1924), 15–16 n. 1; Harlfin ger (1971), 409; Suchla (1990), 28 n° 106 (siglato Rd) wien, Österreichische Nationalbibliothek phil. gr. 78 (W) XVI s. (post ca. 1550–1554). Cartaceo. 298x205 mm. 19 folia (numerati da f. 42 a f. 60). 21 ll. Filigrana «cerchio» (simile a Briquet 3092: 1565– 1570 = «cercle 13» Sosower (a. 1570).72 Contenuto: (ff. 43r–57v) excerpta poetici da Stobeo seguiti da un estratto dallo ps.-Arist., De mundo anch’esso da un testimone della tradizione stobeana.73 Copista: (RGK I 13, II 21, III 23). Bibliografia: Hunger (1961), 193. 3. I codici delle fonti della Recensio plenior Elenco qui i codici che tramandano le fonti della Recensio plenior. Il loro ordine corrisponde alla successione nella quale questi autori/fonti sono pubblicati nella seconda parte della mia edizione di Stob. 1–2. Le descrizioni sono assai più sommarie rispetto a quelle dei codici della Recen sio breviata e la bibliografia più ridotta. 3.1. Photius, Bibliotheca, cap. 167 venezia, Biblioteca Marciana
al XVI sec. dei fogli recenziori e di quelli con gli estratti stobeani, già indicata da Martini (1902), 125–126, venne confermata da Harlfinger (1971), 409 che vi individuò in un primo momento la mano di Emanuele Vinvenìs (attivo tra il 1548–1556). Questa identificazione è tacitamente dismessa nel RGK III e rigettata ora dallo stesso Harlfinger (per litteras). 72 La stessa filigrana nello Scor. Ψ.ΙΙ.48 (= de Andrés 443) anch’esso di mano di Darma rios. 73 Come anche in Val e VO.
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
gr. Z. 450 (coll. 652) (A) IX ex./X in. s. Pergamena. 325/332x220/235 mm (margini rifilati). ff. 107v–109r. Bibliografia: Minunco (2016), lxv–lxvii e lxxx–lxxxi. gr. Z. 451 (coll. 537) (M) XI/XII s. Pergamena. 360x265 mm. ff. 81v–83r. Bibliografia: Minunco (2016), lxvii–lxviii e lxxxi–lxxxii. Entrambi i codici furono copiati e corretti a più riprese da diversi anonimi il cui numero e la cui identità restano ancora controversi. Per quelli di A, vedi il dibattito fra Zorzi (1998), Cavallo (1999) e Ronconi (2014) opportunamente riassunto da Minunco (2016), lxvii, lxxvi e lxxxi. Per di M, vedi Martini (1911), 18, Losacco (2014) nonché la sintesi di Minunco (2016), lxviii, lxxxi–lxxxii e infine Losacco (2018 [2020]).
3.2. Capita ex libro secundo in quarto translata el escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo Σ.II.14, ff. 259v–264r (M) XII s. Pergamena. 293x187 mm. III+332 ff. Copiato da due mani coeve. Bibliografia: Revilla (1936), 324–325; Piccione (1994), 193–194. paris, Bibliothèque nationale de France gr. 1984, ff. 156v–160v (A) ca. 1260–1270.74 Carta orientale. 280x202 mm. I+215 ff. Copiato a Costan tinopoli in gran parte da (ff. 1r–157v, 166r–169r, 214rv) insieme con due altri collaboratori anonimi (Mano B: ff. 158r– 165v; Mano C: ff. 169v–213v).75 Il codice appartenne a Giano Lascaris co me provano oltre al monocondillo Λσ numerosi marginalia di sua ma no.76 Copista: (RGK II 99). 74 La data è quella proposta da Bianchi (2022). 75 Descritto dalla Piccione (1994), 194–196. 76 Speranzi (2010), 317 n. 12; Bianchi (2022), 44–47.
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3. I codici delle fonti della Recensio plenior
gr. 1985, s. XVI, ff. 330v–335v (B) XVI s., prima metà. Carta occidentale filigranata. 310x217 mm. 420 ff. Copista: (RGK III 92), (RGK I 224, II 315, III 363) e un anonimo.77 Bibliografia: Dorandi (2023). wien, Österreichische Nationalbibliothek phil. gr. 67, ff. 137r–140v (S) X s. ex. Pergamena. 290/293x200/210 mm. I+197 ff. Sistema di rigatura 00C1 Leroy. Mutilo nella parte iniziale. Il testo comincia nell’attuale f. 6r con Stob. 3, 7, 75 (ὡρῶ δ᾽ ἔγωγε I 338, 11 Hense). Porzioni del manoscrit to furono restaurate agli inizi del XIV secolo da Giovanni Catrario.78 Bibliografia: Hunger (1961), 184; Piccione (1994), 189–193; Speranzi (2010); Ferreri (2012); Ferreri (2014), 546–548. 3.3. Florilegium Laurentianum firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana plut. 8.22 (L) Ultimo quarto del XIII s. Carta orientale. 150x220 mm. IV 1 + 189 I–III ff. La porzione che tramanda lo spezzone di florilegio, parti delle quali sono riaccostate a Stob. 1–2 (ff. 74r–189v), è scritta da due mani anonime che si alternano nella redazione delle varie sezioni senza che il cambio di ma no corrisponda sempre a una cesura testuale. La mano A (ff. 74r–74v, ll. 1–7; 126r–159v, l. 8 [ἐπϊγΐνεται]), scrive in Fettaugen con lievi contrasti di modulo). La mano B (ff. 74v, l. 8–125v; 159v, l. 8–189v) è anch’essa una Fettaugen con contrasti accentuati; tra i ff. 161r e 170r la mano B assume un ductus meno posato, ma è apparentemente la stessa.79 77 Preziose indicazioni sui copisti del codice mi sono venute da Ciro Giacomelli (per litteras). Paola C. La Barbera ha effettuato per me alcune verifiche sull’originale. Vedi Dorandi (2023). 78 Bianconi (2005), 40–42, 149, 152, 182, 250 e tav. 2; Id. (2018), 114. Ma vedi gia N.G Wilson ap. Di Lello-Finuoli (1999), 17–18. Cf. Ead. (2011), 127 n. 12 e Speranzi (2010), 322 n. 25. 79 L’individuazione delle mani per questa sezione e la loro datazione riviene a Elisa Bianchi (per litteras).
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
3.4. Scholia in Lucianum città del vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Vaticanus gr. 89 XIV s. Cartaceo. 290x210 mm. ff. 130v (Vit. auct.), 145r–147r (Bis acc.) (Va) Bibliografia: Rabe (1906), iv–v; Mercati, Franchi de’ Cavalieri (1923), 100; Coenen (1977), xxvi–xxvii (con indicazione delle filigrane); Bom paire (1993), cii–ciii. firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana conv. soppr. 77 XIV s. Cartaceo. 272x215 mm. ff. 87r–88r (Vit. auct.), 105v–106v (Bis acc.) (φ) Bibliografia: Vitelli (1885); Graeven (1896), 342; Rabe (1902), 724–725; Rabe (1906), iv–v; Bompaire (1993), xc–xci; Marquis (2017), 247–248. 3.5. Excerpta Elteriana città del vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana Vaticanus gr. 1144 XIV s. Carta orientale. f. 209v (Vat) Copista: (RGK I 57, II 77, III 97). Bibliografia: Dorandi (2009) 10; Mazzon (2021), 50, 51, 97 (con ulteriore bibliografia a 49 n. 52). firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana plut. 8.22 s. f. 144v 6–7 (L) leiden, Universiteitsbibliotheek Vossianus gr. Q 18 (Voss) Secondo quarto del XIV s. Cartaceo. ff. 8r–13r. Bibliografia: De Meyïer (1955), 112–113; Mazzon (2021), 102–105.
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4. Le edizioni a stampa
4. Le edizioni a stampa Le edizioni dell’intera Antologia dello Stobeo, con l’esclusione di quelle di Wachsmuth (per Stob. 1–2) e di Hense (per Stob. 3–4), sono state presentate e discusse convenientemente da Curnis (2008). Non ho dunque bisogno di ripercorrere nei dettagli questo cammino e, nelle pagine che seguono, sul modello della lista dei manoscritti che precede, mi limito a elencare in ordine cronologico le edizioni greche di Stob. 1–2, dall’editio princeps Canteriana (1575), fondata su due manoscrit ti oggi scomparsi (Σ e σ) e quindi da considerare instar codicum,80 a quella di Meineke (1860–1864). Per quanto riguarda invece l’edizione di Wachsmuth, non presa in conto da Curnis, ho aggiunto poche osservazioni critiche e metodologiche che consentono così di completare il panorama sulla tradizione a stampa. 1575 Ioannis Stobaei Eclogarum libri duo: quorum prior Physicas, posterior Ethicas complectitur; nunc primum Graece editi; interprete Gulielmo Can tero. Una & G. Gemisti Plethonis de rebus Peloponnes. orationes duae, eodem Gulielmo Cantero interprete. Accessit & alter ejusdem Plethonis libellus Graecus de virtutibus. Ex bibliotheca c. v. J. Sambuci, Antverpiae 1575 (Cant.). Editio princeps di Stob. 1–2. Bibliografia: Curnis (2008), 109–125 (con le correzioni segnalate infra 69 n. 174). 1792–1801 Ioannis Stobaei Eclogarum physicarum et ethicarum libri duo. Ad codd. mss. fidem suppleti et castigati annotatione et versione Latina instructi ab A.H.L. Heeren, 2 volumi in 4 parti, Gottingae 1792–1801 (Heer.) Bibliografia: Curnis (2008), 205–217. 1850 Ioannis Stobaei Eclogarum physicarum et ethicarum libri duo ed. Th. Gais ford, Oxford 1850 (Gaisf.) Bibliografia: Spengel (1850); Curnis (2008), 251–258.
80 Vedi infra 68–70.
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
1860–1864 Ioannis Stobaei Eclogarum physicarum et ethicarum libri duo, rec. A. Mei neke, Ι–II, Lipsiae 1860–1864 (Mein.) Bibliografia: Curnis (2008) 264–267. 1884 Ioannis Stobaei Anthologii libri duo priores, I–II, ed. C. Wachsmuth, Beroli ni 1884 (Wachsm. oppure W.) Bibliografia: Hiller (1884). La pubblicazione dell’edizione di Wachsmuth rappresenta un indiscutibile passo in avanti negli studi su di Stob. 1–2 e resta, a oggi, il testo di riferimento per la prima metà dell’Antologia. Essa era stata preceduta da tre studi preliminari sulla storia del testo di Stob. 1–2 pubblicati dallo stesso Wachsmuth nel 1871 e nel 1872 e riproposti dieci anni più tardi (1882) con alcuni addenda et corrigenda nelle Studien zu den griechischen Florilegien.81 Nei Prolegomena all’edizione dei Libri duo priores dell’Antologia (1884), lo studioso riprese infine l’insieme dei suoi precedenti risultati e ne rias sunse le principali acquisizioni apportandovi altresì alcune modifiche e suggerendo ulteriori riflessioni.82 Le ricerche di Wachsmuth sono caratterizzate da una eccessiva fiducia nella possibilità di ricostruire tutte le tappe della tradizione del testo di Stob. 1–2 in particolare nelle fasi che precedettero lo stato testuale quale trasmesso dai manoscritti conservati (ossia la Recensio breviata). Lo studioso parte dal presupposto che all’origine della tradizione dell’An tologia c’era un unico enorme codice che ne tramandava insieme tutti e quattro libri. Da quello sarebbe derivato da un lato il codex Photianus, in due volumi, restato senza discendenza, e dall’altro il capostipite di tutti i testimoni medievali di Stob. 1–4 ancora in un solo volume (siglato *X), mo dello in un primo momento del codex florilegii Laurentiani (L). In seguito, dopo che in *X si era verificata in due momenti distinti, l’erronea trasloca 81 Wachsmuth (1882), 1–89. Cf. Diels (1872). 82 Wachsmuth (1884) I vii–xxxiii. In particolare, Wachsmuth (x–xiii) comincia col rispondere alle critiche che Lortzing (1882) e (1883) aveva sollevato contro l’ipote si di Elter (1880). Ritorna in seguito (xiii–xv) su alcune peculiarità del modello dell’Antologia utilizzato dal redattore del Florilegium Laurentianum (L); presenta infine un breve sommario delle precedenti edizioni di Stob. 1–2 (xxiv–xxv), cui segue una dettagliata descrizione dei manoscritti da lui utilizzati (xxv–xxxi) e una spiegazione dei suoi criteri di edizione (xxxii).
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4. Le edizioni a stampa
zione di tre pericopi testuali da Stob. 2 a Stob. 4, lo stesso manoscritto avrebbe dato vita a due ulteriori testimoni ognuno dei quali conteneva due libri dell’opera: *Y con Stob. 1–2 (privo dei passi traslocati) e *Z con Stob. 3–4 (ivi comprese le traslocazioni). Da *Y, successivamente epitomato, sarebbe infine disceso il capostipite dell’intera tradizione di Stob. 1–2 (nella forma dunque della Recensio breviata). Da *Z invece gli esemplari che tramandano Stob. 3–4.83 A partire da queste premesse, Wachsmuth editò il testo di Stob. 1–2 sul fondamento di F P (F è qui per la prima volta preso in conto) i cui dati egli completò e integrò con numerosi capitoli o ecloghe trasmesse dal Florilegium Laurentianum (L) e con diversi elementi recuperati in Fozio. Per l’edizione dei capitoli di Stob. 2 traslocati in Stob. 4, Wachsmuth utilizzò quattro testimoni di Stob. 4 (S M A B) nonché l’editio princeps Trincavelliana (Tr).84 Wachsmuth ripropose in apertura del primo volume della sua edizione una buona parte della scheda di Fozio ivi compreso l’indice sommario dei 208 capitoli dell’insieme dei quattro libri dell’Antologia.85 Sul modello foziano, lo studioso reinserì poi nella struttura Stob. 1–2 i titoli dei capitoli trasmessi in quell’indice (e talora anche da L) a integrazione di quelli mancanti nei codici F P. Nel compiere questa operazione, Wachsmuth si fondò sui risultati della ricerca di Elter sul codice stobeano passato nelle mani di Fozio e cioè che quell’indice sommario risaliva all’antologista e riproduceva dunque fedel mente la successione dei capitoli nella redazione originaria dell’opera.86 Wachsmuth completo inoltre, sulla falasariga di L, le sezioni 1–8 del cap. 31 di Stob. 1 (I 242, 21–247, 13) e reintegrò nella loro interezza i capitoli 15, 31, 33 e 46 di Stob. 2 (II 185–196, 199–257, 260–264) mancanti in F P. Operazione che nella sua logica trovava una delle sue ragioni di essere 83 Wachsmuth (1882), 70–71, con uno stemma. A questo stemma si ispira quello tracciato da Mansfeld, Runia I (1997), 200 con qualche ritocco e altre sigle dei mano scritti. Ritorno più oltre (103–104) con maggiori dettagli sull’ipotesi di Wachsmuth, riproponendone anche lo stemma originale. 84 Sulla tradizione manoscritta di Stob. 3–4, affatto diversa da quella di Stob. 1–2, vedi infra 81–83. 85 Wachsmuth (1884) I 3–10. 86 Elter (1880). Vedi comunque il caveat di Diels (1881), del quale Wachsmuth (1884) I vii n. 1 è ben cosciente, e Mansfeld, Runia I (1997), 202: «It is clear that this list can render only very limited services in the reconstruction of Stobaeus’ original text … The order in Photius’ final list is not necessarly reliable».
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II. Dai codici alle edizioni a stampa di Stob. 1–2
nella presenza dei titoli di quei medesimi capitoli identici nel Florilegium Laurentianum e in Fozio.
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III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
1. La Recensio breviata 1.1. Formazione e struttura della Recensio breviata Prima di indagare la tradizione manoscritta e la storia del testo della Recen sio breviata di Stob. 1–2, è opportuno dire qualcosa sulla sua formazione e la sua struttura. L’Antologia nacque come una raccolta di numerosissime ecloghe (ἐκλογαί) in versi e in prosa recuperate in innumerevoli autori e riunite dallo Stobeo in decine di capitoli (κεφάλαια) di estensione variabile (208 secondo Fozio che conta anche i due introduttivi all’inizio), distribuiti a loro volta in quattro libri organizzati con precisi intenti che riusciamo oggi solo a intuire, ma che l’antologista doveva avere ben presentati e discussi nella perduta premessa che apriva il primo libro. A un momento sconosciuto e per ragioni imprecisate, i primi due li bri dell’Antologia vennero fortemente epitomati come prova un confronto con l’indice sommario del loro contenuto nel codice letto da Fozio. Que sta redazione che ho chiamato Recensio breviata e che è quanto resta sostanzialmente di Stob. 1–2 è giunta in una forma assai rimaneggiata e an cora più decurtata a causa di successivi accidenti che portarono alla perdita, tra l’altro, della parte iniziale del primo libro primo e della porzione finale del secondo. Poiché non restano che assai scarse e incerte tracce della versione originaria di Stob. 1–2 è impossibile determinare i princìpi seguiti dall’igno to epitomatore nella sua operazione. È comunque probabile che costui non avesse lavorato in maniera meccanica, ma secondo criteri che riusciamo talvolta ancora a intravedere con tagli di porzioni di testo e conseguenti interventi strutturali sia per quanto riguarda singole ecloghe sia per interi capitoli. Il risultato finale fu un testo che nella forma e nella struttura alme no si allontanava in diversi punti e per molti aspetti dal modello originario. Fra i motivi che portarono a questa imponente impresa di riduzione e condensazione di Stob. 1–2 ci furono senza dubbio esigenze pratiche e oggettive quali quelle di rendere più facilmente accessibili i contenuti 41 https://doi.org/10.5771/9783985720965
III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
più ostici e tecnici della prima metà dell’Antologia (riservata a argomenti più filosofici di metafisica, fisica e etica) rispetto alla seconda (concentrata su aspetti di etica più popolare, politica e amministrazione domestica) in coerenza anche con le mutate esigenze socio-culturali sviluppatesi con il passare del tempo dopo la redazione originaria di quell’opera. 2. I codici indipendenti 2.1. Per una classificazione dei testimoni Già nella Commentatio de Stobaei eclogis Wachsmuth aveva ricostruito con mano sicura i rapporti fra i manoscritti di Stob. 1–2 a lui allora accessibili.87 Lo studioso aveva provato che F e P derivano da un medesimo modello perduto (che chiama archetypus) e che il contributo di P è inferiore a quello di F perché P fu copiato quando l’archetypus aveva subito seri danni all’inizio e alla fine e era rovinato da numerose ulteriori lacune e corruttele delle quali non c’è traccia in F. Quanto ai restanti esemplari a lui noti, Wachsmuth riuscì altresì a dimostrare che derivano tutti o da F o da P e che quindi sono da degradare al rango di descripti. Da F discendono V N T; da P invece H e i due codici perduti sui quali fu preparata l’editio princeps Canteriana (Cant.). Di conseguenza, per la constitutio textus di Stob. 1–2 gli apparivano sufficienti solo F P.88 Fino da ora, è possibile dire che l’insieme delle conclusioni di Wachsmuth è confortato dal rinnovato esame dei testimoni da lui presi in conto e da altri che egli aveva trascurato o che non conosceva. Da un lato, i rapporti fra F e P e l’identificazione del loro modello comune ricevono nuova luce dallo studio di un terzo testimone (parziale) A strettamente imparentato con P, del quale è modello indiretto. Dall’altro, un ulteriore esemplare recenziore, vergato verso la metà del XVI sec. (Y), deriva anch’es so da P e gli estratti conservati da Val e da W (entrambi della metà del XVI s.) che rimontano a F attraverso VO. Qualcosa di più riusciamo inoltre a dire sulle fonti manoscritte di Cant. derivate da P. Il tutto consente di 87 Wachsmuth (1871). Il contributo è ripreso e aggiornato in Wachsmuth (1882), 55–89 (da cui cito). I principali risultati con ulteriori ripensamenti furono poi riproposti in Wachsmuth (1884) I vii–xxxiii. 88 Wachsmuth (1882), 65. Il solo che, pur ammettendo la validità delle conclusioni di Wachsmuth, ha creduto necessario riportare in apparato anche le lezioni degli apografi di F P è Huffman (1993), xvi. Ma vedi poi Huffman (2005), 225.
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2. I codici indipendenti
tracciare, per la prima volta, uno stemma complessivo dei codici finora co nosciuti di Stob. 1–2. Questo potrà forse un giorno essere ritoccato o modi ficato nella parte bassa alla luce di una collazione più ampia e di uno studio più approfondito dei recentiores.
2.2. I codices vetustiores: Neapolitanus III D 15 (F) e Ambrosianus A 183 sup. (A) I due più antichi testimoni della recensio breviata di Stobeo 1–2 sono F e A. Di questi, F è più completo, ma si conclude ex abrupto con le parole οὐ δὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχον ὑποβολάϲ (II 184, 17); A, mutilo all’inizio e alla fine, tramanda solo una larga porzione centrale di Stob. 1 (I 194, 11 μὴ ἀγνοήϲαϲ–391, 4 ὁμοίουϲ). Entrambi i codici furono copiati in Oriente, a Costantinopoli o forse a Tessalonica. L’origine orientale di A, le cui caratteristiche grafiche riportano a ambienti planudei, è indiscutibile. Lo stesso vale per F, per il quale era state ammesse in passato caratteristiche italogreche.89 Quanto alla loro cronologia, è possibile che A sia di poco più antico di F. 2.2.1. Il Neapolitanus III D 15 (F) La sezione stobeana F (ff. 1r–174r) è vergata da un’unica mano che aggiunge anche lemmi a margine con un inchiostro la cui tonalità varia dal marrone al grigio. Un rubricator inserì (non senza omissioni e errori) le let tere iniziali e i lemmi delle singole ecloghe con inchiostro carminio o rosso sbiadito e, in alcuni fogli, verde. Un’altra mano in scrittura dai tratti corsi veggianti, forse della metà del XIV sec.,90 aggiunse gli estratti dal De omni faria doctrina di Psello sotto forma di scholia sparsi nei margini dal f. 15r al f. 174r.91 89 Parla ancora di provenienza da una «area calabro-sicula» Formentin (2015), 134. 90 Così mi suggerisce I. Pérez Martín (per litteras). Per Formentin (2015), 134 la mano è coeva a quella dello scriba principale. 91 Gli scholia furono stampati anonimi da Heeren (1801) II/1 442–465 che li recuperò in F. Vedi Heeren (1792) I/1 xxxvi–xxxvii. La paternità pselliana fu rivelata da Spengel (1850), 254. Wachsmuth (1884) II 265–269 li pubblica sotto forma di collazione con l’edizione del De omnifaria doctrina di Psello curata da Fabricius (1723), 69–184 (App. 2). Cf. Wachsmuth (1884) I xxvi.
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III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
Il copista principale di F utilizza una scrittura dai tratti rigidi e tradizionali, quasi volesse riprodurre fedelmente le caratteristiche grafiche del proprio modello, per una scelta probabilmente non sua e che può dipendere dalla volontà del committente interessato a una trascrizione chiara e leggibile del manufatto e forse anche a imprimere una patina di an tichità al nuovo prodotto.92 Il che porterebbe a annoverare F tra quei ma noscritti copiati in una scrittura di imitazione puntuale di un modello con creto, e non fra gli esempi «del fenomeno della ‘reviviscenza’ e della ripresa, con esiti molteplici e di volta in volta mutevoli, di forme grafiche più anti che – specie risalenti alla piena età macedone, ma anche, probabilmente, al la prima età comnena – in manoscritti esemplati in area greco-orientale e soprattutto a Costantinopoli al tempo dei primi imperatori della dinastia dei Paleologi».93 L’importanza di F per la constitutio textus dei primi due libri dello Stobeo, negata a torto da Heeren,94 venne riconosciuta e dimostrata in maniera ineccepibile da Wachsmuth, che datò correttamente il manufatto al XIV secolo.95 A riprova della sua superiorità, è sufficiente segnalare che F conserva l’inizio del primo libro in una forma più ampia e corretta rispetto a P (niente possiamo qui dire di A perché mutilo), che non è corrotto dall’ampia lacuna comune a A P alla fine di quel libro (I 331, 1–335, 21) e che è portatore di numerose lectiones potiores spesso condivise con A. 2.2.2. L’Ambrosianus A 183 sup. (A) L’esistenza di A fu segnalata alla fine del XVIII secolo da Heeren il quale comunque, a causa di una erronea datazione del manoscritto al XV sec. e di una superficiale collazione, lo considerò un testimone «pauci pretii» e non ne tenne conto nella sua edizione.96 Fu verisimilmente in conseguenza di questo giudizio negativo che nessuno è più ricorso a A. In realtà, A è un manufatto molto più antico, copiato in milieux vicini a Planude (ca. 1255–ca. 1305), tra la fine del XIII sec. e gli inizi del XIV sec., e il suo contributo si è rivelato considerevole per la constitutio textus 92 Come mi ha fatto notare ancora una volta I. Pérez Martín (per litteras). 93 Vedi Prato (1994), 73–114 e De Gregorio, Prato (2003), 59–101 (citazione da 59) rifacendosi alle ricerche di J. Irigoin (qui citate a 59 n. 1) sulle scritture di imitazione. 94 Heeren (1787), 8 e (1792) I/1 xxxv–xxxvii. 95 Wachsmuth (1882), 58–60 e Wachsmuth (1884) I xvii–xxi, xxv–xxvii. 96 Heeren (1787), 8 e (1792) I/1 xl–xli.
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2. I codici indipendenti
di Stob. 1, del quale tramanda attualmente un ampio spezzone (da I 194, 11 fino a I 391, 4) copiato su 9 quaternioni, numerati in greco da ζʹ a ιεʹ nel margine inferiore del recto del primo foglio di ogni fascicolo e in quello del verso dell’ultimo. Lo studio dei quaternioni, quattro dei quali sono anomali, consente di determinare che A tramandava all’origine anche la parte iniziale almeno di Stob. 1. È altresì assai probabile che, oltre alla fine del medesimo libro, A contenesse anche Stob. 2 per intero.97 2.3. Il Parisinus gr. 2129 (P) Il codice P, datato dagli editori di Stobeo98 e da Omont99 al XV sec., è più tardo e risale a quanto pare agli inizi del XVI secolo. Non aiutano a meglio delimitarne la cronologia i resti di un’unica filigrana che sono riuscito a individuarvi («ancre inscrite dans un cercle»), attestata per un assai lungo periodo di tempo che si estende fino a circa la metà del XVI secolo. Un terminus ante quem può essere indicato nel fatto che il manoscritto appar tenne a Giano Lascaris († 1534), che lo postillò a più riprese in tarda età e vi aggiunse un breve estratto autografo nel foglio interno del piatto posteriore (f. 232).100 Dal f. 3r e fino al f. 56r sono indicati, apparentemente dalla mano princi pale, i κεφάλαια del I libro dal secondo (Β—ον) e fino al venticinquesimo (ΚΕ—ον), che corrispondono nell’insieme a quelli del πίναξ (κεφάλαια τῶν ϲτωβαίου φυϲικῶν) redatto da Matteo Devaris (ca. 1511–1581) e copiato nel f. 1r.101 L’inizio del codice (ff. 1r–10r 11) presenta gravi danni. Nel modello di P mancavano per un accidente materiale le prime cinque ecloghe e quelle che vanno dalla nona e fino al titolo della venticinquesima del capitolo 1 del I libro conservate invece in F (ff. 1r–5r). Inoltre i superstiti fogli iniziali, staccatisi a un momento imprecisato dal corpo del manoscritto, erano stati risistemati in maniera erronea. La struttura attuale di P è la seguente: 97 98 99 100
Dorandi (2019a), 49. Heeren (1787), 8; Wachsmuth (1882), 60 e Wachsmuth (1884) I xxvii. Omont (1898), 198. Cf. Dorandi (2019a), 51. Un utile scambio di idee sulla datazione del manoscritto ho avuto con N. Wilson. 101 Trascritto e studiato da Wachsmuth (1882), 62–63. Per l’identificazione della mano di Devaris, vedi Muratore (2009), 30. L’index si ritrova in H (f. 1v, con minime varianti), in Y (f. 1r–v), e in Cant. (p. X) senza varianti rispetto a P.
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III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
f. 1r incipit ζεὺϲ οὖν ὁ πᾶϲ = 1, 31, 8102 ff. 1r (ζεὺϲ)–3r 14 (τὸ μὲν ἕν) = 1, 31, 8–35, 17 f. 3r 15 (τὴν δὲ περὶ)–f. 5r 15 (ἔχουϲιν) = 1, 20, 3–24, 9 Quae sequuntur (= I 24, 10–31, 8) desunt f. 5r 15 (ποιητικῆϲ δὲ πρῶτον) – f. 6v 10 (νόθον) = 1, 47, 2–50, 7 f. 6v 10 (τὴν ἀνάγκην) – f. 10r 11 (οἰκουμεῖται) = 1, 35, 18–43, 26 Quae sequuntur (= I 43, 26 [κατὰ τὴν πολιτείαν]–47, 1 [πλάτωνοϲ ἐκ τοῦ ϲοφιϲτοῦ]) desunt. Dal f. 10r 11 (= I 50, 7 [ὅλωϲ]), il testo ritrova la corrispondenza con quello di F. Il codice fu vergato da un’unica mano; altre mani intervennero poste riormente non solo aggiungendo nei margini notabilia e lemmi di singole ecloghe, oltre a quelli già registrati dal copista principale, ma anche correg gendo a più riprese il testo per congettura piuttosto che per collazione con un altro esemplare: Per totum codicem persequi licet vestigia non unius sed duorum vel trium virorum doctorum, quorum scripturae et atramento lurido vel nigrescente et ipsa scribendi ratione aliquotiens bene …, saepius tamen difficile distingui possunt. Hi omnes Graecae linguae et philosophiae gnari haud raro sat felici eventu verba corrupta correxerunt; singulos tamen accuratius significare operae pretium non visum est, cum omnia e coniectura sint nata, nihil ex alia memoria haustum.103 Due di queste mani è possibile identificare con quelle dell’anziano Giano Lascaris e di Matteo Devaris.104
102 Il titolo ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν (γνωμῶν in rasura di mano seriore) ἐκλογή, aggiunto nell’alto del margine superiore da un’altra mano (Px), è fittizio. 103 Wachsmuth (1884) I xxvii. 104 Così mi ha suggerito D. Speranzi (per litteras). La mano è la stessa che Speranzi (2010), 253–265 ha individuato in altri due codici appartenuti a Lascari: Vaticanus Reg. gr. 146, ff. 3r–v, 4r, 5 r–v, 6r–v, 16v, 20v, 21v, 23r, 24r e nei ff. 7r, 78v, 79r–v, 80r, 93v, 113r, 142v, 143v del Parisinus gr. 2130 (modello del precedente). Speranzi la data al 1529/1530. Uno specimen della scrittura (Parisinus gr. 2130, f. 142v) in Speranzi (2010), tav. 3.
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Attenzione particolare richiede infine nello specifico un manipolo di interventi apportati in textu o in margine con un inchiostro marrone chiaro da almeno un ignoto corrector.105
2.4. I rapporti stemmatici di A F P e l’identità di un modello comune (ω) I numerosi errores coniunctivi significativi comuni a A F P confermano le conclusioni alle quali era giunto Wachsmuth relativamente alla discenden za di F P da un modello unico (ω): I 208, 20–21] verba μητρόδωροϲ πύρινον ὑπάρχειν τὸν ἥλιον iterantur in A F P (in P mg. μητροδώρου addito) infra ante 209, 11 I 208, 23–209, 2] ἀντιφῶν πῦρ ἐπινεμόμενον μὲν τὸν περὶ τὴν γῆν ὑγρὸν ἀέρα, ἀνατολὰϲ δὲ καὶ δύϲειϲ ποιούμενον, τῶι τὸν μὲν ἐπικαιόμενον αἰεὶ προλείπειν, τοῦ δ’ ὑπονοτιζομένου πάλιν ἀντέχεϲθαι. haec de Antiphonte memoria infra ante 209, 21 in A F P repetita est, initio ita mutato ἀντιφῶν ἔφηϲε τὸν ἥλιον εἶναι πῦρ κτλ. || περὶ τὴν γῆν F : π. τῇ γῇ A P || lemma ἀντίφωντοϲ add. P mrg., A text. : om. F I 240, 5–6] lacuna post ἁλουργέϲ in A F P I 293, 24] post πρυτανεύει add. A F P sine titulo cap. 45 Wachsm. (i.e. I 297, 15–298, 2) quod suo loco (297, 13–298, 2) cum titulo πῶϲ ηὐξήθη τὰ φυτὰ καὶ εἰ ζῷα iterant. deinde sequitur cap. 42 Wachsm. (I 294, 1–296, 25) I 319, 4/5] post αἰϲθήϲεων add. A F P πόϲα καὶ τίνα περὶ ψυχῆϲ προβλήματα : περὶ οὐϲίαϲ : περὶ δυνάμεων : περὶ ἐνεργειῶν : περὶ ἔργων : περὶ μέτρου : περὶ καθόδου : περὶ διακληρώϲεωϲ : περὶ τοῦ ἐν τῶι ϲώματι βίου : περὶ κρίϲεωϲ (π. κρ. om. P) : περὶ ἀποκαταϲτάϲεωϲ : περὶ πολυμερείαϲ : περὶ μετεμψυχώϲεωϲ. «quae patet olim a lectore male sedulo margini appicta esse qui argumentum capitis longissimi descripsit ut potuit etc.» (Wachsm. I 319 ad loc.) I 382, 5–6] ὡϲ μᾶλλον ἁρμόζουϲαν post αὐτήν (5) habent A F P : post οἳ δὲ transp. Wachsm. 105 Wachsmuth segnala con molta precisione tutti questi interventi nel suo apparato, ma li indica indistintamente con la sigla unica P2. Un occhio più esperto del mio delle scritture greche umanistiche riuscirà probabilmente a dare un nome all’uno o l’altro di questi anonimi.
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I 382, 8–11] οἳ δὲ οὐδὲν τούτων ϲυγχωροῦϲιν, ὡϲ δὲ μέροϲ τὴν ψυχήν φαϲιν εἶναι ἐν ὅλωι τῶι ζώιωι, οἳ δὲ ὡϲ τέχνην ἐμπεφυκέναι τοῖϲ ὀργάνοιϲ, ὥϲπερ εἰ ἦν ἔμψυχοϲ (add. Wachsm.) οἴαξ (11) infra post διατρίβουϲιν (23) habent A F P, transp. Wachsm. I 382, 11–16] οἱ δὲ καθαρώτεροι τῶν Πλατωνικῶν, ὥϲπερ δὴ οἱ περὶ Πλωτῖνον, ἄρχεϲθαι μὲν τῆϲ κινήϲεωϲ τὸ ὀργανικὸν ϲῶμά φαϲιν ἀπὸ τούτων τῶν μερῶν, δουλεῦον εἰϲ τὴν γέννηϲιν ταῖϲ χρωμέναιϲ αὐτῶι δυνάμεϲιν, αὐτὰϲ δὲ τὰϲ δυνάμειϲ ἀπολύτουϲ εἶναι τῶν μεριϲτῶν ϲωμάτων διιϲχυρίζονται supra ante ἤδη τοίνυν (1) habent A F P, transp. Wachsm.106 I 384, 27] post κόϲμωι clausola in A F P, in quibus κατὰ τὰ αὐτὰ (385, 1) copulata cum prioribus. Né questo risultato è compromesso dalle poche lacune peculiari di F, tutte dovute a saut du même au même: 1, 40, 10 (τὶ ἄν)–11 (πεποιήκει); 89, 13 (τοὺϲ μέν)–14 (τοῦτο); 174, 18 (τό τε)–19 (τὰν γένεϲιν); 2, 83, 2 (κινητικά)–5 (ὁρμῆϲ); 91, 1 (ὀργή)–2 (τοιαῦτα); 92, 9 (αὐτόν)–12 (ἐπιθυμεῖ) e 95, 7 (καὶ τό)–8 (ἀρετήν). Ci sono dunque elementi sufficienti per confermare, allargandole anche a A, le conclusioni alle quali era giunto Wachsmuth relativamente a F P:107 Ambo vero tam mirifice, ut nunc dilucidissime apparet …, plerumque in gravioribus levioribusque corruptelis et erroribus, quin in repetitionibus quibusdam conspirant, ut dubitari prorsus nequeat utrumque ex eodem archetypo profectum esse, immo prorsus certa ratione ille ipse possit restitui. 2.5. Caratteristiche di ω Wachsmuth aveva anche tentato, sempre sul fondamento di F P, di rico struire in maniera plausibile alcune caratteristiche specifiche di ω. I suoi risultati possono, ancora una volta, essere parzialmente integrati con dati recuperati in A. 106 Questo caso resta dubbio. Oggi credo che avesse ragione Festugière (1953), 226 nn. 1 e 2 = (2014), 1326 nn. 1 e 2 a lasciare la frase là dove è tramessa dai manoscritti, ossia a I 382, 1 ante ἤδη τοίνυν. 107 Wachsmuth (1882), 65–67, da cui la citazione che segue (65).
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Il manoscritto ω era giunto alle soglie del XIV secolo in uno stato di conservazione assai precario: aveva perduto alcuni fogli all’inizio (vi man cavano le due sezioni del proemio e la maggior parte del ‘corollario’ quali ricostruiti da Wachsmuth); alla fine, F si interrompe bruscamente con le parole οὐ δὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχον ὑποβολάϲ (II 184, 17) mentre P un paio di pagine prima con le parole αἴτιον τῶν κακῶν ταῦτα χρή (II 182, 7). Esso doveva essere inoltre rovinato dagli insetti e dall’umidità.108 Il difetto maggiore di ω erano tuttavia le numerose e palmari lacune. La presenza in F di loci fenestrati proverebbe inoltre che ω aveva zone illeggibili o (aggiungerei) lacune esplicitamente segnalate. Poiché nelle parti che F ha in comune con A non c’è traccia di questa tipologia di difetti è impossibile giungere a una conclusione univoca. Dal punto di vista testuale, è importante notare altresì la presenza in ω di doppie lezioni registrate l’una sopra l’altra o l’una di séguito all’altra. Wachsmuth richiama i seguenti casi significativi:109 1, 20, 21] πλάτεϲι καὶ πάθεϲι F P : recte βάθεϲι Plat., Leg. 747a3 1, 47, 8] ἐκ γῆϲ ἐν γῆι F : ἐκ γῆϲ ἡ γῆι P : ἐκ γῆϲ deest in Plat., Soph. 265c2 «fort. delenda ut varia lectio proximorum» (Wachsmuth) 1, 51, 1] εἰ (ead. m. οι spscr.) F : εἰ (ead. m. οἱ spscr.) P : οἱ recte codices Arrhiani. 1, 84, 11] ἄλλοϲ ἄλλωϲ F P 1, 133, 14] οὐδὲ οἱ τὰ μέρη F P1 : οἱ δὲ τὰ ἀμερῆ recte P2 et ps.-Plut. A questi possiamo aggiungere un altro esempio condiviso anche da A: I 240, 21] καὶ περὶ δύϲιν δείλην A F P : καὶ περὶ δύϲιν recte Arist., Mete. 371b 25.110 Niente di preciso sappiamo sulla data in cui ω venne approntato.111 Poiché A F P trasmettono una Recensio breviata di Stob. 1–2, la redazione di ω è ovviamente posteriore a questo intervento di epitomazione, che Wach 108 Niente possiamo dire di A che conserva solo un largo spezzone centrale di Stob. 1. 109 Wachsmuth (1882), 66–67. 110 Wachsmuth nell’apparato fa confusione fra i dati dei rr. 20 e 21. δείλην aveva probabilmente già attirato l’attenzione di un anonimo lettore di P (f. 78v), che lo ha sottolineato. 111 Wachsmuth (1882), 68 suppose inoltre ω fu copiato da una persona indotta: «habe mus apographon solum talis epitomes confectum ab homine satis inepto».
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smuth suggerì di collocare tra XI e XII secolo e attribuì al milieu intorno a Michele Psello (ca. 1018–ca. 1080).112 Niente impedisce tuttavia di supporre che l’operazione preceda questa data. L’unico dato sicuro di cui disponia mo, lo ripeto, è comunque il suo terminus ante quem prima degli inizi del XIV secolo, data dei più antichi manoscritti che la tramandano. Maggiore cautela richiede il tentativo di ricostruire, sul fondamento delle ampie lacune di P (I 188, 5–191, 19 e 331, 1–335, 21), il formato delle pagine di ω che avrebbero contenuto ciascuna, secondo Wachsmuth, l’equivalente di circa 70 linee della edizione Teubneriana di Meineke. 2.6. L’apporto di A alla constitutio textus di Stob. 1 L’apporto di A per la ricostruzione della porzione di testo del I libro che ha in comune con F e P è fondamentale. A conforta spesso lezioni superiori di F rispetto a quelle di P. Altre lectiones singulares potiores di A rispetto a F devono essere considerate come interventi ope ingenii del suo anonimo copista o del milieu nel quale lavorava piuttosto che frutto soltanto di una più attenta lettura di ω e ancora meno di contaminazione. Fra queste se ne trovano alcune che precedono interventi congetturali posteriori: I 206, 27] κρύψιν A (coni. Heeren) : καὶ κρύψιν P : κρίϲιν F I 223, 3] νεφελοειδεῖ A : νεφελοειδῆ P : -δή F I 229, 15] ἑκάϲτηι ἰδέαι A (coni. Canter) : ἑκάϲτη ἰδέα F P I 229, 21] μᾶλλον καὶ A (coni. Wachsmuth) : καὶ μᾶλλον καὶ F : μᾶλλον καὶ καὶ P I 235, 11] ἀποληφθέντεϲ A (corr. Meineke cum Cantero in interpr. lat.) : ἀπολειφθέντεϲ F P I 236, 10] κώλυμα A et coni. Meineke (1859a), 36 : κάλυμα F : κάλυμμα P I 272, 18] αὐτὴν A : αὐτῆϲ F P.
112 Wachsmuth (1884) I xvi–xvii. L’ipotesi è considerata «eminently plausible» da Mansfeld, Runia I (1997), 203, ma non ha convinto Piccione (2002), 191.
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Né mancano rari casi di lectiones singulares deteriores di A rispetto a quelle di F: I 212, 27] ἐν αὐτῶι di A è un’evidente banalizzazione di ἐν αὐτᾶι di F (lezione già di ω) che ritroviamo in P nella forma del solo αὐτῶι.113 I 302, 16] A legge κύραϲ (sic) invece del corretto κύναϲ di F. θήραϲ di P può spiegarsi come un tentativo di correzione ope ingenii del corrotto e privo di senso κύραϲ di A. 2.7. A modello indiretto di P La presenza in A di numerosi e indiscutibili errores coniunctivi con P, fra i quali in particolare la grande lacuna di I 331, 1–335, 21, prova che A e P sono legati da uno stretto vincolo di parentela. Poiché P presenta inoltre gli stessi errori di A e a questi ne aggiunge suoi propri ne possiamo a sua volta dedurre che A e non ω è il modello (diretto o indiretto) sul quale P venne copiato. La prova è offerta nello specifico dalla grande lacuna comune a P e A la cui origine è senza dubbio accidentale. In entrambi i testimoni il testo si interrompe bruscamente dopo μονοειδεῖ (I 331, 1) e riprende con πέφυκεν (335, 21) senza che nei manoscritti vi sia traccia dello iato testuale. Nella lacuna sono andati perduti, come prova il confronto con F, la parte finale di un primo estratto del Fedone di Platone (p. 80b καὶ ἀδιαλύτωι–p. 80e ὦ φίλε Κέβηϲ καὶ Ϲιμμία), un estratto dal Cratilo (p. 99d–e), uno dal Fedro (pp. 245c–246a), uno da Erodoto (2, 123) e infine l’inizio di un altro passo del Fedone (pp. 91e–93a ἁρμονία). Una peculiarità codicologica di A aiuta a spiegarne la genesi. In P la lacu na si colloca al f. 112r17, verso la fine della pagina, mentre in A essa ha inizio alla fine dell’attuale f. 44v (μονοειδεῖ è l’ultima parola del foglio) e il testo riprende a f. 45r (dove πέφυκεν è la prima parola). Poiché è evidente che il quaternione ιβʹ di A (che inizia al f. 38r e si conclude a f. 44v) è attualmente privo dell’ultimo foglio e che il successivo quaternione ιγʹ (che inizia con il f. 45r e termina col f. 51v) è privo del primo foglio e che non restano tracce di eventuali tagli dei due fogli, è lecito dedurne che questi erano caduti per un accidente meccanico (usura del tempo o altro) in un momento impreci sato fra la copia di A da ω e la copia di P da A (o da un suo apografo). Ciò è 113 Si corregga così l’apparato ad loc. di Wachsmuth dove si legge «ἐν om. P».
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confermato anche dal fatto che in questi due soli quaternioni manca la nu merazione finale del primo (cioè ιβʹ) e quella iniziale del secondo (cioè ιγʹ), la cui posizione è ovviamente da postulare rispettivamente nel margine in feriore del verso dell’ultimo foglio dell’originario quaternione ιβʹ e nel mar gine inferiore del recto del primo foglio dell’originario quaternione ιγʹ, en trambi oggi perduti. Tenuto conto che la porzione del testo in lacuna in A P è trasmessa in F, essa si trovava già in ω. F e A sono dunque gemelli e derivano dal medesimo modello ω. Di conseguenza, P per la parte di testo trasmessa da A deve essere degradato al rango di descriptus e riprende il suo ruolo primario solo là dove viene meno il contributo di A. Resta a questo punto da indagare se P fu esemplato direttamente su A oppure attraverso un anello intermedio perduto. A parte la grande lacuna, la cronologica della cui formazione è impossibile per ora determinare, ci sono elementi che corroborano l’ipotesi che P non derivi recta via da A, ma attraverso un intermediario (α) nel quale sono da presupporre taluni guasti materiali presenti in P, ma non ancora in A. Di grande importanza sono alcuni loci fenestrati in P, ma trasmessi integri in A: I 216, 5] μὲν ὑποϲκιάηιϲι Α (f. 7r) : μὲν ϲκϊά lac. 3 litt. P (f. 68r) I 225, 6] ὑετοῖο A (f. 9v) : om. P (f. 71v), in quo lacuna I 282, 27] αἴϲθηϲιϲ A (f. 27v) : lac. sex litt. et ϲϊϲ P (f. 93v) : ἁ αἴϲθηϲιϲ F I 308, 8] ἀπιάϲηϲ A (f. 37v) : ἀπιά lac. 3 litt. P (f. 103r). Altri due casi dello stesso genere sono più incerti: I 204, 9] καλου (sic) A in fine versus (f. 3v) : lac. 9 litt. P (f. 63v) : καλούμενα F114 I 293, 3] οὐ έθεν sic A (f. 32r) F : οὐ lac. 2 litt. θεν P (f. 97bisr)115. A zi seguenti: I 255, 9] titulum huius capitis περὶ τοῦ παντόϲ post lemma ἐκ τῆϲ ἀριϲτοτέλουϲ πρὸϲ ἀλέξανδρον ἐπιϲτολῆϲ (11) transponit P : capit. tit. 114 Non escludo che il copista di P abbia volontarmente omesso καλου che non dava senso. 115 In una citazione di Il. I 115: οὔ ἑθέν. Il copista di P può avere ancora una volta lasciato una lacuna perché non aveva compreso έθεν.
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ad lemma ecl. trahunt F in textu et A in mg. nota ☌ in mg. et in textu addita. È evidente che l’erronea trasposizione del titoletto in P è nata dalla falsa in terpretazione dello stato testuale di A (f. 17v15). Poiché il segno di richiamo è ben chiaro sia nel margine sia nel testo in A, è verisimile che l’errore si sia prodotto in α e che di qui sia passato in P. I 270, 10–11] P omette le parole μίξαϲα ἐν διαφόροιϲ φωναῖϲ μίαν ἀπετέλεϲεν ἁρμονίαν tramandate da F e A (f. 23r26-27) e quindi presenti in ω. Esse corrispondono forse a un rigo del modello di P saltato per un acciden te meccanico. 2.8. Proposta di uno stemma delle relazioni fra A F P Alla luce di questi risultati, così rappresenterei le relazioni stemmatiche fra i codici più antichi A F P:
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3. I codices recentiores apografi di F e P È il momento di considerare il contributo dei codices recentiores. Già Wa chsmuth aveva provato che tutti i testimoni a lui accessibili (H M N T V) compresi i due modelli di Cant. (Σ e σ), discendevano direttamente o indirettamente o da F o da P e potevano pertanto essere trascurati al momento della constitutio textus di Stob. 1–2:116 Duorum codicum solum Farnesini et Parisini quorum utrumque accurate excussi scripturis inniti debet ars critica. Nel corso delle mie ulteriori indagini non solo sono riuscito a confermare questi risultati, ma li ho anche estesi a altri testimoni finora non presi in conto, che contengano l’insieme dei due libri o raccolte di estratti. Qualche elemento supplementare è venuto alla luce per quanto riguarda anche i due modelli perduti di Cant. e la dipendenza da quest’ultima del codice R. 3.1. F e la sua discendenza Da F discendono cinque codici integri, copiati verisimilmente a Roma tra la metà degli anni Quaranta e inizi degli anni Cinquanta del XVI secolo (N T V Δ) e il 1569/1570 (M) nonché l’autografo degli estratti di Fulvio Orsini (VO). Per quanto riguarda i cinque testimoni integri ne è prova palmare un difetto codicologico comune d’origine meccanica, messo in luce da Wachsmuth, ossia l’erroneo spostamento di un foglio del quaternione che corrisponde ai ff. 153–160 dovuto all’incuria non del copista, ma del rilega tore (bibliopegi negligentia). Il passo compreso fra II 127, 11 (καὶ περὶ τὴν κτῆϲιν) e II 130, 19 (προηγουμένην) si trova attualmente in F mal sistemato dopo la parola θηριώθη in II 119, 24. La pericope testuale che comincia con καὶ περὶ τὴν κτῆϲιν e si conclude con προηγουμένην occupa per intero il f. 158r–v di F, che costituisce il sesto elemento del quaternione mentre in realtà avrebbe dovuto esserne il quarto.117
116 Cf. Wachsmuth (1882), 58–71, con un abbozzo di stemma (71). Citazione da 65. 117 Cf. Wachsmuth (1882), 59 e (1884) II 119 (ad v. 24) e 130 (ad v. 19).
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3. I codices recentiores apografi di F e P
Lo schema tracciato da Wachsmuth (che riproduco) dà una idea chiara della situazione:118
Questa traslocazione si ritrova in V (ff. 171v11–172v17), N (ff. 310r21–312r21), T (ff. 208v4–209v26) e M (pp. 475, 2–478, 10) e appare più che verisimile che fosse anche in Δ. Ne consegue quindi che tutti quei testimoni discen dono direttamente o indirettamente da F e che il terminus ante quem del guasto risale a una data precedente gli anni Quaranta/Cinquanta del XVI secolo. A riprova della dipendenza di quei recentiores da F, Wachsmuth ri chiamò altresì all’attenzione la presenza in M e V di tracce degli scholia Pselliana trascritti nei margini di F da una mano seriore:119 nonnulla (scil. scholia) in Vaticano [V] et Augustano [M] in ipsum con textum sunt recepta, velut in libri primi capitum 11 et 14 titulis (1 p. 84, 19 et 92, 3 Mein. [I 130, 21 et 140, 11 W.]). In realtà, questa situazione è propria solo di V (f. 30r11–23 e f. 33r9–21).120
118 La parte superiore dello schema descrive come avrebbe dovuto essere organizzato il quaternione; quella inferiore come si presenta in realtà. 119 Cf. Wachsmuth (1882), 59, da cui la citazione che segue. Le piccole aggiunte esplicative fra [] sono mie. Per la collocazione degli scholia in F, vedi supra 30, 43 n. 91. 120 Nel primo passo leggiamo περὶ ὕληϲ εἰ κακὸν ἡ ὕλη dove περὶ ὕληϲ corrisponde al lemma di Stobeo (I 130, 22) e εἰ κακὸν ἡ ὕλη costituisce il titoletto di Psell., Omn. doctr. 100, capitolo ricopiato di séguito per intero. Nel secondo, è trasmessa la sequenza περὶ ϲωμάτων καὶ τῆϲ περὶ τούτων τομῆϲ καὶ περὶ ἐλαχίϲτου· εἰ ἐν τόπωι τὸ ἀϲώματον, dove περὶ ϲωμάτων—περὶ ἐλαχίϲτου corrisponde al lemma di Stobeo
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In M (pp. 81r e 89r) non c’è infatti traccia degli scholia almeno in quei due luoghi. Il secondo scolio era invece presente nella stessa forma e estensione anche in Δ stando almeno alla testimonianza del suo apografo parziale LV (ff. 12v–13r).121 In quel periodo, F era nella biblioteca dei Farnese a Roma.122 La loro raccolta libraria, iniziata dal cardinale Alessandro Farnese (1468–1543), poi papa con il nome di Paolo III (dal 1534), era nel frattempo passata nelle mani dei suoi nipoti i cardinali Alessandro (1520–1589) e Ranuccio Farnese (1530–1565), che consentirono a più riprese la riproduzione dei codici in loro possesso. V e N furono vergati da Emanuele Provataris. La copia di V risale agli inizi del 1552 e fu eseguita per conto della Biblioteca Vaticana, dove il codice entrò nel mese di marzo.123 Più difficile datare con precisione N. Le filigrane registrate dalla Formentin non aiutano, trattandosi di disegni che vanno grosso modo dalla metà degli anni Dieci agli anni Sessanta del XVI secolo. L’arco temporale può tuttavia restringersi tra il 1546, quando inizia l’attività di Provataris come copista, e il 1556, data a partire dalla quale Provataris lavorò quasi esclusivamente per la Biblioteca Vaticana, sebbene con qualche deroga.124 Intrigante resta comunque la presenza di N nella biblioteca dei Farnese accanto a F.125 T fu eseguito da Francesco Zanetti intorno alla metà del XVI sec. per un ignoto destinatario, verisimilmente a Roma.126 Il medesimo Zanetti copiò
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(I 140, 11–12) mentre le parole εἰ ἐν τόπωι τὸ ἀϲώματον costituiscono il titoletto di Psell., Omn. doctr. 99, capitolo ricopiato anch’esso di séguito per intero. Il medesimo testo ritroviamo in G (f. 45v) e PB (p. 478), apografi entrambi di LV. Non ho ancora avuto modo di verificare LW(4) anch’esso esemplato su LV. Non possiamo dire se in Δ c’era anche il primo scholion venendo a mancare la testimonianza di LV. Pernot (1979), 493 con le rettifiche di Di Lello-Finuoli (1999), 31–32. Riprendo più oltre (59–61) la questione dell’identità di F con un Vaticanus deperditus di Stob. 1–2 sostenuta dalla Di Lello-Finuoli (1999), 13–36. Canart (1964), 184 e 245 nr. 51 = (2008), 44 e 105 nr. 51. Canart (1964), 192 e 231 = (2008), 52 e 91. Altri con maggiore esperienza paleografica potranno affinare le date tenendo conto della periodizzazione dell’attività scrittoria di Provataris definita da Canart. Di Lello-Finuoli (1999), 31–32 suggerisce che N fu forse approntato perché i Farnese volevano avere accanto al composito F un codice con il solo Stobeo, sul modello di V. Ritornerò sulla questione infra 59. L’identità dell’«Anonimo ἐπὶ», con Francesco Zanetti riviene a Canart (2008) 1295– 1298. L’identificazione della mano del copista di Τ è di Martínez Manzano (2015), 124 e n. 18.
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anche lo Scor. Σ.II.2. (Damasc., Princ.) le cui filigrane «étoile 4», «armoiries 5» e «aigle 10» Sosower (a. 1551–1559) riportano anch’esse alla metà del XVI sec. Entrambi i codici appartennero a un certo momento all’erudito e filo sofo Francesco Patrizi (1529–1597), che appose marginalia (RGK III 604) sul f. 74r di T e sullo Scor. Σ.II.2. ff. 1–27, e entrarono in séguito nella Biblioteca dell’Escorial.127 È da escludere l’identificazione di T con il perdu to codex Augustini (Δ)128. M fu copiato da Giovanni Mauromates verso il 1569–1570 a Roma, durante il quarto periodo della sua produzione scrittoria (dicembre 1555– 1573), per un ignoto destinatario.129 Quanto a Δ, infine, esso venne allestito per Antonio Agustín (1517–1586), arcivescovo di Tarragona dal 1574, che dal 1544 aveva soggiornato per un lungo periodo a Roma (come uditore del tribunale della Rota Romana), dove si era fatto ricopiare numerosi manoscritti greci. La data di Δ è pertanto posteriore all’arrivo di Agustín a Roma.130 Il codice fu distrutto nell’incendio della biblioteca dell’Escorial del 7 giugno 1671, ma riusciamo a avere una idea di alcune porzioni del suo contenuto grazie una raccolta di estratti copiati in LV e nei suoi due apografi G e PB, il primo, a sua volta, modello di LW(4). I cinque testimoni M N T V e Δ si collocano approssimativamente tra il 1544 e il 1570. È inoltre interessante notare che i tre i copisti finora identificati di M N T V lavoravano tutti in quel periodo a Roma nello stesso milieu: Mauromates e Francesco Zanetti come collaboratori di Provataris e
127 Cf. Martínez Manzano (2015), 119–147. Patrizi possedette un secondo manoscritto stobeano scomparso anch’esso nell’incendio dell’Escorial (Δ.IV.19. de Andrés 261) e così descritto dal de Andrés (1968), 115 «261. Recens chartaceus, in quarto. (F. 1) Ioannis Stobaei eclogae morales in epitome redactae sine titulo et cum dictis septem sapientium in principio». Si tratta con buona probabilità di un esemplare abbreviato di Stob. 3–4, sui vedi Jacobs (1908), 41 nr. 5; de Andrés (1964), 160 nr. 286; Stefec (2012), 249 nr. [87]. Sulla possibilità che Patrizi avesse avuto accesso anche a un ulteriore manoscritto di Hermetica recuperato in un monastero cipriota che conteneva il lungo testo intitolato Κόρη κόϲμου conservato anche in Stob. 1, vedi Dorandi (2021a). 128 Vedi infra 63–64. 129 Le pagine di Royse (2018), 169–171 su M contengono inesattezze e ingenuità e non apportano molto di nuovo se non pochi e spesso insignificanti ritocchi agli apparati di Wachsmuth (1884). 130 Così può essere precisato quanto scrive de Andrés (1968), 106 «Recens (an. 1540 circiter) chartaceus, in folio».
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quest’ultimo e Zanetti anche per conto del futuro cardinale (1565) Gugliel mo Sirleto (1514–1585).131 Riusciamo a averne una prima idea ancora in fieri dei rapporti stem matici fra i testimoni del ramo di F grazie all’analisi di una breve, ma significativa porzione di testo. Ispirandomi al criterio adottato dalla Di Lello-Finuoli,132 ho preso in considerazione i versi dell’Inno a Zeus di Cleante (I 25, 3–27, 4) un testo conosciuto unicamente grazie allo Stobeo e trasmesso nei codici F (f. 3r–v), N (ff. 5r–6r), M (pp. 7–9), T (ff. 3v–4r) e V (f. 3r–v).133 I risultati della collazione sono i seguenti: I 25, 8 (v. 5) ὅϲα FV : om. MNT I 26, 4 (v. 15) δαῖμον FVp.c. : δαίμων Va.c. MNT I 26, 6 (v. 17) ἀνοίαιϲ FV : εὐνοίαιϲ N : ἐννοίαιϲ MT I 26, 21 (v. 32) ζεῦ FV : ζεύϲ MNΤ Poiché M N Τ condividono gli stessi errores coniunctivi rispetto a F V (che trasmettono la lezione corretta) se ne deduce che M N Τ formano un gruppo a sé rispetto a F V.134 Un elemento ulteriore porta inoltre a accostare a V anche Δ. In entrambi i testimoni è infatti presente, nella stessa forma e estensione, il secondo
131 Canart (1964), 203 e 212 = ( 2008), 63 e 72. Sul Sirleto, vedi Clausi, Lucà (2018). Per l’importanza del codice che Sirleto fornì al Sambucus per la preparazione del modello manoscritto di Cant., vedi infra 69–70. Niente possiamo dire del copista del perduto Δ, ma è verisimile che appartenesse allo stesso milieu. 132 Di Lello-Finuoli (1999), 29–33. Vedi alla fine di questo paragrafo e a 60–61. 133 Non è possibile ricostruire il testo di Δ perché in LV i versi di Cleante sono andati perduti nella lacuna dopo il f. 5v (di conseguenza, essi mancano anche in G e PB), né si può tenere conto della testimonianza di (1736), 188 perché costui in terpola quel testo da M, come risulta da una nota sul f. 43r di G: «Ex cod. Schotti [LV] unum alterumque folium abscissum est. Possunt vero ex cod. Augustano sup pleri ad hunc modum … Deinde vero in edd. pag. ead. 3 versu a fine tertio haud exigua est lacuna, post οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουϲιν, quam ex cod. Augustano supplevit Wolfius in Obs. Miscell. Amstel. vol. 7. Tom. 2. p. 188. Incipiunt … ἡ μὲν κηϲῆϲαι θνητὸν βροτὸν. Desinunt: Ζῆνα δὲ νόμιζε τοῦτο, ὅθεν ἔχομεν ἀεὶ Ζῆν» (ringrazio V. Hinz per la trascrizione della nota). Ne consegue che G (posteriore al 1736) costitui sce il terminus ante quem per la formazione della lacuna di LV. 134 Non do importanza al solo errore separativo di I 26, 6 (v. 17) ἀνοίαιϲ FV : εὐνοίαιϲ N : ἐννοίαιϲ MT probabilmente poligenetico considerato il facile scambio αν/εν/ευ nella minuscola.
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scholion Psellianum erroneamente infiltratosi dal margine nel testo.135 Se escludiamo che si tratti di un errore poligenetico, si prospettano due pos sibilità: o Δ V derivano entrambi da F attraverso un anello perduto (δ) oppure Δ discende direttamente da F e V da Δ. Quanto invece a M N Τ possiamo suggerire che N fu copiato su F e dette poi origine a M Τ oppure postulare ancora una volta un intermediario tra F e N e che da questo derivarono direttamente o indirettamente M N Τ. Meno probabile mi sembrerebbe invece una derivazione indipendente da F di N Τ e poi di M da N.136 Poiché in quel periodo N era nella biblioteca dei Farnese accanto a F è probabile (anche se non provato) che i Farnese (o Orsini, loro bibliotecario), da un certo momento in poi, mettessero a disposizione di chi chiedeva una riproduzione di Stob. 1–2 N piuttosto che il vetustior (e forse già in cattivo stato) F. È, ne sono consapevole, solo una ipotesi che potrà o meno essere confermata o smentita alla luce di più approfondite collazioni di questo manipolo di codici e soprattutto, nel secondo caso, da una più precisa datazione di N rispetto almeno a quella di Τ (metà del XVI sec.). Direttamente da F discendono infine anche gli estratti riuniti da Fulvio Orsini (1529–1600: bibliotecario di Casa Farnese già dal 1554 e poi ufficial mente dal 1567) in VO, come ha dimostrato con solidi argomenti la Di Lello-Finuoli contro Zuntz.137 Questi estratti furono utilizati da Orsini per la compilazione della sua opera intitolata Carmina, pubblicata nel 1568 presso Christophe Plantin a Anversa138 e vennero anche copiati in Val139 e, da Andrea Darmarios, in W.140 A sua volta, da M deriva Go e da questo LW(5).
135 Per la derivazione di quegli scholia da F vedi supra 55–56. 136 Negli stemmi che seguono (65 e 74) ho dato, per il momento, la preferenza alla prima eventualità. 137 Di Lello-Finuoli (1999), 23–32 e Zuntz (1958), 304 (ad v. 6). Entrambi gli studiosi utilizzano ancora per i due codici le vecchie sigle (che risalgono a Heeren) A e B invece di F e N. 138 Orsini (1568). Su cui Di Lello-Finuoli (1999), 23–36. 139 Vedi supra 32–33. La corretta datazione di Val a un momento posteriore a VO destituisce di ogni valore tutte le illazioni di Lorimer (1924), 15–16 n. 1. Vedi Doran di (2022), 19–20. 140 Secondo Di Lello-Finuoli (1999), 34 n. 75, per conto dell’arcivescovo di Tarragona Antonio Agustín: «al cui servizio [Darmario] operava, come copista e solerte com pratore se non intercettatore di manoscritti, più o meno dal 1563».
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3.2. Per l’identificazione con F di un Vaticanus deperditus Strettamente legata alla tradizione di F è la dibattuta questione della iden tificazione di un Vaticanus deperditus dello Stobeo indagata dalla Di LelloFinuoli. Ne riassumo di séguito le principali acquisizioni. Negli inventari della Biblioteca Vaticana del 1475 e del 1484 è attestata l’esistenza di un codice che conteneva rispettivamente Ioannis Stobei (sic) de opinionibus variis. Ex papyro in rubeo oppure Ioannes Cobeus (sic) de opinionibus.141 Fino alle entrate fra il 1552 e il 1555, questo sarebbe stato l’unico Stob. 1–2 integro posseduto dalla Vaticana al quale si affiancavano gli Excerpta ex Stobeo (sic) trascritti in un codice miscellaneo insieme a ps.-Plutarco, Vitae X oratorum; ps.-Aristotele, De mirabilibus auscultationi bus et Physiognomica; Eliano, Variae historiae; Eraclide Lembo, Politiae e Ateneo, Deipnosphistae, andato perduto probabilmente durante il sacco di Roma del 1527.142 Dal 4 aprile 1555, era conservato in Vaticana anche un Jo. Stobeus (sic) de arithmetica a sua volta scomparso a un momento indeterminato e che conservava verisimilmente Stob. 1–2143 come si deduce dall’indicazione de arithmetica che traduce περὶ ἀριθμητικῆϲ delle inscrip tiones di F (e dei suoi apografi M N T V). La Di Lello-Finuoli144 non solo esclude formalmente che il Vaticanus deperditus fosse un esemplare con Stob. 3–4, come potrebbe portare a supporre il titolo Ioannis Stobei (sic) de opinionibus variis con il quale il codice è talora indicato nei registri di prestito, ma suggerisce che si trattasse di un testimone di Stob. 1–2 da identificare con F. Questo codice altro non sarebbe che lo Stobȩus grȩcus de rebus variis che venne dato in prestito, sotto il pontificato di Alessandro VI (1492–1503), al cardinale Alessandro Farnese (futuro Paolo III), che non lo avrebbe mai restituito. Il che spiega perché qualche decennio più tardi F si trovava nella biblioteca di casa Farnese ereditata dai nipoti di Paolo III, i cardinali Alessandro e Ranuccio Farnese, e affidata alle cure di Fulvio Orsini. La Di Lello-Finuoli conforta questa ipotesi grazie all’analisi delle varian ti significative dell’Inno a Zeus di Cleante (sopra esaminate) che Orsini 141 Di Lello-Finuoli (1999), 17–36. L’inventario del 1484 ripete quello del 1481 dove si legge Ioannes Cobeus (sic) de opinionibus variis, ex papyro in rubeo. Cf. Devreesse (1965), 91 nr. 208 e nr. 56, 129 nr. 267 e nr. 207. 142 Sul manoscritto e la sua posizione nella storia del testo dello ps.-Aristotele, vedi Giacomelli (2021), 249–258. 143 Devreesse (1965), 428. 144 Di Lello-Finuoli (1999), 13–22.
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copiò di propria mano insieme con altri estratti poetici nell’attuale VO di rettamente da F, privilegiato rispetto a N conservato anch’esso nella biblio teca dei Farnese, in vista della preparazione dei Carmina (1568).145 Né que sto è il solo caso della consuetudine di Orsini con F, un testimone scoperto già «molti anni prima dell’edizione sia del Virgilius illustratus sia dei Car mina, entrambi lavori di lunga gestazione». Lo provano le sue note auto grafe nei margini del «Virgilio dell’edizione di Vascosan»146 dove «fin da giovanissimo aveva trascritto testi greci di riferimento» e in particolare «i carmi II–III Gow di Bione [di Smirne]» noti anch’essi solo grazie allo Sto beo (rispettivamente I 101, 11–102, 6 e I 112, 7–10).147 L’argomento più forte a favore della ipotesi della Di Lello-Finuoli è ovviamente quello filologico relativo ai versi di Cleante. Se F non era nella biblioteca dei Farnese, bisognerebbe infatti spiegare come e dove Orsini avesse avuto accesso a quell’esemplare, a meno che non si voglia supporre che il suo modello fosse stato piuttosto V da lui consultato in Vaticana in una data posteriore al marzo 1552. Con questo, la ricostruzione delle vicende dei Vaticani perduti presenta ancora zone d’ombra e merita di essere ripresa nel suo insieme soffermandosi sul miscellaneo con Ateneo, Eliano e Stobeo che avrebbe potuto tramandare non estratti di libri dello Stobeo, ma piuttosto la recensio breviata di Stob. 1–2 e sui rapporti (e forse identità?) fra il codice intitolato de opinionibus variis e quello con il titolo de rebus variis.148
3.3. Il codex Augustini deperditus (Δ), le collazioni del Voss. gr. Q 48 (LV) e lo Scor. T.II.2. (T) Il codice (Δ) che Antonio Agustín si fece allestire verso la metà degli anni Quaranta del XVI secolo a Roma direttamente su F andò distrutto 145 Possiamo supporre che quando Orsini cominciò a frequentare Stob. 1–2, N non fosse ancora stato copiato e che in séguito egli avesse continuato a utilizzare F consapevole del fatto che N ne era un apografo. Per l’importanza dell’esame dei versi di Cleante, vedi supra 58. 146 Si tratta dell’esemplare dell’edizione di Virgilio pubblicata in tre volumi da M. Vascosan (1500–1577) a Parigi tra il 1543 e il 1549, appartenuto a Orsini e ancora conservato. Vedi de Nolhac (1887), 271. 147 Di Lello-Finuoli (1999), 23–36. Citazioni da 26–27. 148 Come mi ha suggerito Alberta Lorenzoni, con la quale ho avuto un proficuo scam bio di idee durante la redazione di questo paragrafo.
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nell’incendio dell’Escorial.149 Riusciamo tuttavia a avere una idea seppure assai parziale del suo contenuto grazie alla testimonianza di LV (e dei suoi apografi) e al breve estratto dal De Styge di Porfirio (I 66, 26–70, 13 = fr. 7 Castelletti = 376F Smith) nell’edizione che ne curò il gesuita fiammingo André Schott (1552–1629).150 Poche osservazioni sul contributo di LV e sulla presunzione di identifica re il perduto Δ con T completeranno pertanto lo studio dei testimoni della famiglia F. LV conserva una serie di excerpta stobeani mancanti nella editio princeps Canteriana (Cant.) del 1575 «exscripta e vet. libro Ant. Augustini Archiep. Tarrac. [Δ]», che una mano seriore mette in relazione con André Schott, «ab And. Schotto Tarracono».151 La copia di LV è correntemente attribuita a Andrea Darmarios.152 Se Darmarios è il copista di LV e se questo era realmente destinato a Schott bisogna presupporne una data tra il 1575 e il 1582 anno in cui i rapporti fra i due si ruppero in maniera definitiva.153 Non possiamo tuttavia nemmeno escludere che Darmarios avesse esemplato 149 Corrisponde al codice nr. 213 del catalogo della biblioteca di Agustín pubblicato da López de Vaillo (1586): «Liber in charta, annorum XL, forma folii». 150 Vedi Schott (1615), 229–230: «quod caput olim e bibliotheca Ant. Augustini, Tarra conensis Archiepiscopi describendum curavi». 151 Negli apografi di LV, l’operazione di Schott è talora indicata in maniera diversa: in PB è mantenuto exscripta, che diviene descripta in G, mentre in LW si legge «collatio … facta ab A. Schotto». In una nota autografa a firma di J. Christian Wolf (1690–1770) redatta su un foglietto volante che, secondo la testimonianza di Hardt 1810, 228 che lo trascrive, era conservato in M leggiamo «Has Stobaei eclogas a Guil. Cantero editas And. Schottus contulerat cum vetere libro Ant. Augustini archiep. Tarraconens. …». Attualmente, il foglio non è più nel manoscritto monacense e di esso si è perduta a quanto pare traccia, come mi ha cortesemente comunicato K. Hadjú (per litteras). 152 Così Graux (1880/1982), 295–296 e Schmidt (1886). Il codice non sembra, se ho visto bene, sia stato considerato da Kresten (1967). La suggestione della Di Lello-Fi nuoli (1999), 34 n. 75 che LV fosse di mano allo stesso Schott è dovuta a un frainten dimento di Omont (1887), 186 le cui osservazioni si riferiscono non a LV (= Voss. gr. Q 48), ma al Voss. gr. F 48. Lo stesso errore si ritrova in Vogel, Garthausen (1909), 23 e n. 16, ma vedi de Meyïer (1955), 55–56. 153 Carlucci (2012), 276–277 con ulteriori dati anche sulla cronologia dell’ultimo sog giorno di Darmario in Spagna almeno fino al 1591. Per Schott, Darmario aveva copiato, ancora una volta prima del 1582, anche il cap. 239 della Bibliotheca di Fozio (Crestomazia di Proclo) conservato attualmente nel fascicolo autonomo inserito tra i ff. 42 e 43 del secondo tomo del Palat. Vat. gr. 421–422 (ff. 42a–n). Su questo ultimo esemplare, vedi Losacco (2001), 389 nn. 40–41 (bibliografia sul soggiorno di Schott a Tarragona) e 424–425 (descrizione del fascicolo del codice palatino) i cui risultati sono da integrare con quelli di Carlucci (2012), 268–277.
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LV in un altro momento, forse posteriore, e che Schott avesse reperito quell’esemplare a Tarragona tra i libri di Agustín del quale fu ospite dal 1584–1585 alla morte dell’arcivescovo il 31 maggio 1586. Comunque i fatti si siano svolti, quello che è importante e acquisito è che LV fu copiato su Δ e che resta pertanto il testimone privilegiato per avere una idea sebbene assai parziale del suo contenuto. Una larga porzione di LV venne diffusa nel 1736 da J. Christian Wolf in un articolo pubblicato anonimo.154 In relazione con l’operazione di Wolf è da considerare G copiato, a sua volta, su LV e che tramanda oltre alla sezione relativa allo Stobeo anche altro materiale recuperato anch’esso nel Fondo Vossiano conservato a Leiden. Stando a quanto Wolf annota nel foglio inserito in M appena citato è probabile che la copia di G sia di sua mano:155 Excerpta illa [scil. Cod. Augustini] extant hodie in bibl. Leidensi inter libros Vossianos. Itaque consultum putavi, inde initium operis hic de scribere, quoad illud in prioribus duobos huius codicis [scil. M] foliis, vetustate et usu detritis mancum admodum legitur. Lo stesso vale anche per Go che tramanda «‘J.C. Wolfii collatio codicis Augustani eclogarum Stobaei’ cum editione Canteri».156 Vengo, per concludere, alla postulata identificazione di Δ con T. Se potessimo prestare fede a quanto Heeren scriveva presentando i manoscrit ti di Stob. 1–2 conservati nella Biblioteca dell’Escorial157 «in Hispania, in bibl. Escurialensi codex unus, qui olim erat Augustini Tarraconensis Archie piscopi […] Integram habeo codicis collactionem», Δ non sarebbe perito nell’incendio dell’Escorial del 1671, ma sarebbe ancora esistito alla fine del XVIII secolo. In realtà, Heeren possedeva una collazione di T e l’identifica zione di questo testimone con il codex Augustini è un’illazione che trova 154 (1736). La paternità di Wolf è confermata da Ruhnkenius (1828), 721–722 e dal medesimo in una lettera indirizzata a Thomas Tyrwhitt (1783) riproposta da Curnis (2008), 184–185. 155 Vedi supra n. 65. Una conferma potrà venire eventualmente dal confronto fra le mani che hanno copiato G e Go e quella del foglietto autografo monacense, se un giorno sarà ritrovato. 156 Meyer (1893), 21. 157 Heeren (1787), 9 (da cui la citazione) e Heeren (1792) I/1 xxxviii–xxxix. Dal secondo luogo apprendiamo che la collazione gli era stata procurata da C. T. Tychsen, inviato in missione in Spagna dal re di Danimarca per ricerche sui manoscritti greci. Vedi Adler (1916).
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la sua probabile origine nel fraintendimento della nota anonima nel piatto anteriore di T: «concuerda con el de Antonio Agustín número 213»158 e che fu apposta prima dell’incendio da un ignoto bibliotecario che aveva notato la somiglianza di T con Δ non ancora distrutto.159 L’altra soluzione sarebbe quella di ammettere (ma è ancora tutta da provare e mi appare meno probabile) che T fosse stato a sua volta esemplato su Δ. In tal caso, T sarebbe un gemello di LV e consentirebbe di avere una idea completa di Δ.
158 Revilla (1936), 458–459. 159 Come mi ha suggerito T. Martínez Manzano (per litteras). Per un’indicazione simile vedi la descrizione di Y, supra 25.
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3.4. Un primo stemma del ramo F Alla luce di questi risultati, così proporrei di rappresentare sotto forma di uno stemma la discendenza di F:
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3.5. P e la sua discendenza P ebbe una discendenza più limitata di quella di F, ma il testo da esso trasmesso si diffuse in misura molto più capillare perché un suo apografo perduto (Σ) fu il modello principale dell’editio princeps (Cant.).160 Ai due codici H e Σ, la cui derivazione da P era stata provata da Wachsmuth,161 si aggiunge Y, da me per la prima volta preso in conto. La dipendenza da P di H Y e Σ (= Cant.) è confermata da alcuni errori congiuntivi significativi: innanzitutto i tre testimoni condividono con P le ampie lacune che corrispondono a I 188, 5–191, 19 (H f. 44r dopo 27; Y f. 43r dopo 17; Cant. p. 49) e I 331, 1–335, 21 (H f. 88v dopo 19; Y f. 86r dopo 7; Cant. p. 97); presentano inoltre la medesima successione disordinata dei capitoli all’inizio del I libro; riproducono infine in apertura dell’opera la li sta dei κεφάλαια τῶν ϲτωβαίου φυϲικῶν redatta e copiata in P (f. Ir) da Matteo Devaris. Ulteriori elementi consentono di tentare una sia pure provvisoria classi ficazione stemmatica dei recentiores H Y e Σ all’interno del ramo di P, che si rivela più complessa di quanto era apparso a Wachsmuth. H Y trasmettono una redazione di Stob. 1–2 con specifiche caratteristiche che condividono con Cant. (e quindi già con Σ), indice di uno stretto legame di parentela fra i tre testimoni. La peculiarità principale consiste nell’omissione, soprattutto nelle citazioni platoniche, della parte centrale dei singoli estratti ridotti così all’inizio e alla fine e accompagnati spesso dalla formula εἰϲ τὸ τέλ(οϲ) registrata in textu o in margine.162 Ho reperto riatο una ventina di tali casi solo in Stob. 1. Poiché il fenomeno si riscontra in questo unico gruppo di manoscritti, ne consegue che H Y Σ non derivano direttamente da P, ma da un modello comune intermedio perduto (π), la cui esistenza è confortata dall’errore congiuntivo comune a H Y Cant.. (= Σ) ossia l’omissione di I 64, 17 (καὶ μέϲα)–66, 23, accompagnata in Y e Cant. (= Σ) dalla formula εἰϲ τὸ τέλ(οϲ). Il fatto che, nella quasi totalità dei casi restanti, Y, Cant. (= Σ) e H trasmettono talora un testo leggermente diverso fra loro e caratterizzato da aggiunte o tagli più o meno estesi all’interno di una medesima citazione 160 Niente di sicuro riusciamo a dire invece del secondo modello perduto di Cant. (σ), anche se appare molto verisimile che discenda anch’esso da P. Vedi infra 69–70. 161 Wachsmuth (1882), 60–65. 162 Correttamente intesa da Wachsmuth (1882), 61, contro la falsa interpretazione di Cant. nel margine di p. 3. La formula εἰϲ τὸ τέλοϲ è sistematicamente aggiunta in Y.
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3. I codices recentiores apografi di F e P
non è di per sé un ostacolo alla postulata esistenza di π, come prova lo studio del seguente caso significativo. In I 66, 24–70, 13, dopo la citazione dell’inizio di Plat., Leg. 715e (ὁ μὲν δὴ θεὸϲ—τελευτήν),163 H (f. 9v–11r) tramanda per intero un lungo frammento del De Styge di Porfirio (fr. 7 Castelletti = 376F Smith) introdotto dal lemma πορφυρίου ἐκ τοῦ περὶ ϲτυγόϲ (= F P). In Y (f. 9r) e in Cant. (p. 10 = Σ) il testo platonico è un poco più ampio e comprende I 64, 16–18 (περιπορευόμενοϲ)–66, 23 (in Cant. si interrompe a 22 πάντων), accompagnato in margine dal consueto εἰϲ τὸ τέλοϲ, mentre la citazione da Porfirio si riduce all’inizio (I 66, 26–67, 2 ἐξηγήϲαντο) e alla fine (I 70, 13 ἀρύϲαϲθαι) questa volta senza la formula εἰϲ τὸ τέλοϲ. Dal che si deduce che π tramandava la citazione platonica nella forma più ampia e il frammento del De Styge nella sua integralità. I ritocchi peculiari sia di Y Σ sia di H sono quindi verisimilmente frutto di scelte volontarie operate di volta in volta da singoli copisti al fine di riadattare attraverso un processo di riduzione o di ampliamento talune ci tazioni già manipolate in π. Questa spiegazione non solo conferma l’ipotesi della discendenza di H Y Σ da π, ma evita altresì di postulare un ulteriore stadio πʹ, ossia un perduto modello derivato da π e capostipite a sua volta di Y Σ. Il caso appena esaminato porta altresì a escludere l’identificazione di Σ con π (o eventualmente con πʹ), perché altrimenti non si capirebbe dove H avrebbe recuperato il testo integrale del frammento porfiriano. Quanto finora proposto potrà essere confermato o meno solo dopo avere proceduto a una collazione completa di H Y e a un confronto di questi dati con Cant. (Σ).164 La cronologia di π è legata alle vicissitudini di P. Proprietà di Giano Lascaris, P era passato nelle mani del cardinale Niccolò Ridolfi.165 Alla mor te di quest’ultimo (1550), la sua biblioteca fu messa in vendita e acquistata in un primo momento dai fratelli Lorenzo († 1571) e Ruberto Strozzi († 1566) nel 1553, e poi, nel dicembre 1555, da Pietro Strozzi (1510–1558) mare sciallo di Francia. Dopo la scomparsa di Pietro (1558), i codici restarono ancora in Italia e a Roma dove erano ancora nel gennaio 1560 e giunsero
163 La parte omessa (I 64, 17 καὶ μέϲα–66, 23), come abbiamo appena visto, è invece condivisa con H Y Cant. (= Σ). 164 Una prima collazione parziale di H venne divulgata da Gaisford (1850), ii–x (Lectio nes e codice ms. Harleiano excerptae). 165 Le vicende della biblioteca del Ridolfi sono ricostruite da Muratore (2009), 315–336, che qui riassumo per sommi capi.
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III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
in Francia ereditati da sua cugina Caterina de’ Medici solo a cavallo tra il 1561–1562.166 H fu copiato verso il 1554 da , probabilmente da identificare con Iohannes Franciscus o Iohannes Graecus di Candia, scriptor della Biblioteca Vaticana dal 1548 al 9 gennaio 1555. Più o meno coevo è Y assegnato al terzo periodo della attività scrittoria di Giovanni Mauromates (1554–1555), quando era attivo tra Firenze e Bologna,167 senza con ciò escludere che il manufatto abbia potuto essere approntato a Roma dove il copista giunse nel dicembre del 1555. Niente possiamo dire del perduto Σ. Da tutto ciò si può dedurre con buon margine di sicurezza che il termi nus ante quem per la confezione di π è la metà degli anni Cinquanta del XVI secolo. Quanto al luogo dove venne eseguita, Roma resta ancora una volta la sede più probabile. 3.6. La Canteriana e le sue fonti manoscritte Prima di tentare di tracciare uno stemma del ramo di P, è necessario riprendere la questione di Cant. e delle sue fonti manoscritte. L’editio princeps di Stob. 1–2 (Cant.) vide la luce nel 1575 a Anversa presso Christophe Plantin (1520–1589). Erano trascorsi circa quaranta anni da che il testo di Stob. 3–4 aveva cominciato a circolare nell’editio princeps Trincavelliana (1536) curata da Vettore Trincavelli (1491–1563) e intitolata Collectiones sententiarum,168 e nella successiva edizione di Conrad Gesner (1516–1565) accompagnata dalla sua traduzione latina e intitolata Kέραϲ Ἀμαλθαίαϲ. Ἰωάννου τοῦ Ϲτωβαίου ἐκλογαὶ ἀποφθεγμάτων, Ioannis Sto baei Sententiae ex thesauris Graecorum delectae (1543, ristampe nel 1545, 15492, 15593).169 Il testo di Stob. 1–2 era seguito in Cant. da quattro opuscoli di Giorgio Gemisto Pletone (1355–1452), come già esplicitato nel titolo:170 166 Muratore (2009), 325–330. 167 Y appartenne e fu forse preparato per Juan Páez de Castro († 1570) i cui libri furono ereditati da Filippo II di Spagna e da lui ceduti in parte alla Biblioteca dell’Escorial. Vedi Sosower (2004), 17, 2 e Domingo Malvadi (2011), 208 C [47] e 231 E [24]. 168 Sulla quale, vedi Sicherl (1993), 53–57. 169 Vedi Curnis (2008), 11–107. Le date di Trincavelli fornite da Curnis (2008), 38 n. 42 «(1491–1593)» sono da correggere come indicato. 170 Maggiori dettagli nella descrizione di R supra 23–24.
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3. I codices recentiores apografi di F e P
Joannis Stobaei Eclogarum libri duo: quorum prior physicas, posterior ethicas complectitur; nunc primum graece editi; interprete Gulielmo Cantero. Una & G. Gemisti Plethonis de rebus Peloponnes. orationes duae, eodem Gulielmo Cantero interprete. Accessit & alter ejusdem Ple thonis libellus Graecus de virtutibus. Ex bibliotheca c. v. J. Sambuci. Dalla dedica al cardinale Sirleto scritta da Plantin e dagli In Stobaeum Prolegomena di Willem Canter (1542–1575) che seguono la dedica del me desimo a Igram van Achelen, senatore di Frisia per conto di Filippo II di Spagna,171 apprendiamo importanti informazioni sulla genesi e le vicende della preparazione della Cant. che possono essere completate da alcune lettere di Johannes Sambucus (János Zsámboky: 1531–1584) indirizzate tra il 1568 e il 1576 a diversi personaggi, fra i quali spicca Piero Vettori (1499– 1585), raccolte e annotate da Gerstinger172. Richiamo di séguito solo i dati relativi ai codici utilizzati per la prepara zione dell’editio princeps.173 Dalla dedica al Sirleto apprendiamo che per l’allestimento di Cant., Sambucus aveva utilizzato, per cominciare, un ma noscritto di Stob. 1–2 in suo possesso (Σ) assai malconcio e con numerose lacune e passi corrotti (maculosa multa & locis quibusdam hiulca). Lo stesso Sambucus, prima di inviare il testo a Plantin, era comunque riuscito a correggerlo in più punti collazionandolo con un esemplare di migliore qualità e più completo (σ) che era stato messo a sua disposizione dal Sirleto (p. [vii]):174 longe emendatius apographum […] ex quo suum deinde librum lacunis aliquot expletis integriorem, et maculis non paucis elutis nitidiorem nobis (scil. Plantin) transmisit (scil. Sambucus)». 171 Rispettivamente Cant. [iii]–[v] (dedica di Plantin), [vi] (dedica a Igram van Ache len), [vii]–[viii] (Prolegomena). Le frasi più significative della dedica di Plantin furono riprodotte da Wachsmuth (1882), 61. I Prolegomena sono poi ristampati per intero da Curnis (2008), 112–117, dopo che Heeren (1792) I/1 xlviii–li ne aveva già citato larghi estratti. 172 Gerstinger (1968), 83, 98–99, 103, 125–126, 143–144, 148–149, 165–166, 167, 173–174, 202 e 315–316. 173 Almási, Kiss (2014) non discutono delle fonti manoscritte di Cant. 174 Heeren (1792) II/1 xlvii; Wachsmuth (1882), 61–62 e Gerstinger (1968), 316. A torto, Curnis (2008), 114 n. 7 (cf. 115 n. 8) scrive, «nobis (scil. Plantin) transmisit (scil. Canter)». Le pagine di Curnis, peraltro convincenti, contengono anche altre imprecisioni a proposito delle vicende della preparazione di Cant. ben ricostruite invece da Gerstinger (1968), 315–316 che Curnis (2008), 121 n. 18 cita, ma non sfrutta in maniera adeguata.
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III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
Nei Prolegomena, Canter conferma che il modello di Cant. è Σ corretto con σ e dichiara di avere completato ope ingenii l’operazione di emendamento del testo stobeano migliorando inoltre le citazioni di Aezio grazie all’appor to di un ulteriore codice dei Placita dello pseudo-Plutarco (p. [iv]): Cum Graecus Sambuci codex mendosissime descriptus esset, nec in terpunctis ullis notatus, nos et errata omnia leviora per contextum sustulimus, relictis tamen iis, quae non uno modo corrigi poterant, et in terpuncta suis locis apposuimus. Et quoniam Physicorum pars aliqua de Plutarchi libro περὶ τῶν ἀρεϲκόντων a Stobaeo fere ad verbum desumpta est, quae ex eius collatione potuerunt a nobis corrigi, Graeco codici suis locis adiunximus. Il testo di Σ, abbiamo visto, non doveva troppo discostarsi da quello di H Y. Più difficile, se non impossibile, è determinare l’apporto di σ all’emenda mento di Σ e la sua eventuale identificazione. Canart aveva prudentemente proposto («à titre purement hypothétique»), che σ potesse essere un codice vaticano di cui «les bibliothécaires auraient accepté de se défaire parce qu’il faisait double emploi avec le Vat. gr. 201 [V]?».175 Più di recente, la Di LelloFinuoli176 ha suggerito, concludendo tuttavia con un non liquet, che σ fosse o V o il perduto «Jo. Stobaeus de arithmetica» giunto in Vaticana il 4 aprile 1555 e andato perduto in un momento che non possiamo determinare. Nel caso si fosse trattato di V, tuttavia, Sambuco non avrebbe fatto «un buon uso» dell’apporto di questo esemplare derivato dalla più ricca e corretta tradizione di F.177 Lo stesso discorso vale per il perduto «Jo. Stobaeus de arithmetica», anch’esso derivato apparentemente dal medesimo ramo.178 L’ipotesi più probabile è dunque che σ fosse anch’esso un apografo perduto diretto o indiretto di P.179 Da un esemplare di Cant., infine, Darmarios copiò nel 1579 l’attuale codice R.180
175 Canart (1977–1979), 303–304 n. 2 = (2008), 473–474 n. 2. 176 Di Lello-Finuoli (1999), 24 n. 39. 177 Con un rimando a Heeren (1792) I/1 xlvii–xlviii. In realtà, Heeren escludeva proprio per questa ragione l’identificazione di σ con V. 178 Supra 60. 179 In teoria, σ può essere stato copiato su P o su π. 180 I rapporti di Darmario e la Biblioteca dell’Escorial sono indagati da Domínguez Domínguez (2017).
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3. I codices recentiores apografi di F e P
3.7. Il codice Wyttenbach 2 (LW) Poche parole infine per riassumere brevemente la questione dei model li delle singole sezioni di LW, uno zibaldone di materiale stobeano appartenuto a (e forse messo insieme da) Daniel Wyttenbach.181 Modello di LW(1) sono le collazioni di testi poetici da Stob. 1–4 fatte da Grotius nei margini di una edizione stobeana in suo possesso sul fondamento, per Stob. 1–2, di P.182 Il modello di LW(2) sono le trascrizioni di passi del Florilegium Laurentianum (L) che Antonio Sarti aveva preparato nel 1781 per Ruhnkenius che progettava una nuova edizione di Stobeo (mai comple tata) e conservate nella Universiteitibliotheek di Leiden.183 La sezione LW(4) deriva da LV che, a sua volta, è modello anche di G e di PB. Infine LW(5) riproduce il materiale raccolto da Wolf in Go frutto di una collazione di M.
181 Per una descrizione sommaria del manoscritto, supra 27–28. Sull’interesse di Wyt tenbach per lo Stobeo, vedi Curnis (2008), 179–183. 182 Vedi supra 27 n. 56. 183 Curnis (2008), 183–187. Per Sarti, vedi supra 27–28 n. 57.
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III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
3.8. Per una rappresentazione stemmatica del ramo P In conclusione, così rappresenterei i rapporti stemmatici dei discendenti di P:
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4. Proposta di uno stemma della recensio breviata
4. Proposta di uno stemma della recensio breviata Alla luce dei risultati fin qui raggiunti, è possibile proporre un primo tentativo di stemma codicum completo dei testimoni della recensio breviata. Nella parte bassa dello schema e in particolare per quanto riguarda i rap porti fra i testimoni discendenti di F P, i risultati sono ancora provvisori sia perché fondati su una collazione assai limitata di questi codici sia a causa delle incertezze presenti relative alla cronologia di alcuni di essi. Quello che risulta fin da ora evidente è comunque che il contributo dei recentiores alla costitutio textus di Stob. 1–2 non va al di là degli eventuali interventi congetturali di cui questi sono portatori. I criteri ecdotici stabiliti da Wachsmuth restano pertanto immutati e possono così essere riformulati integrando, per la porzione centrale di Stob. 1, il contributo di A:184 Trium codicum solum Farnesini, Ambrosiani et Parisini quorum accurate excussi scripturis inniti debet ars critica.
184 Wachsmuth (1882), 65.
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III. La Recensio breviata: Tradizione manoscritta e storia del testo
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IV. Sulle tracce della Recensio plenior
1. La Recensio plenior Dopo avere classificato i manoscritti dei primi due libri dell’Antologia dello Stobeo e averne indagato le loro relazioni per la Recensio breviata, prendo in considerazione le testimonianze che possono dare una idea seppure vaga della struttura e del contenuto di Stob. 1–2, se non nel suo stato originario, almeno in uno più prossimo a questo, ossia la Recensio plenior. Non tutti i testi che sono stati finora indicati e utilizzati a questo fine hanno ovviamente lo stesso valore testimoniale, ma in una fase preliminare è opportuno riproporne uno attento studio alla luce dei progressi della ricerca e delle convinzioni che ho raggiunto preparando l’edizione di Stob. 1–2 per determinare, nei limiti del possibile, una gradazione di affidabilità. 2. Fozio lettore dello Stobeo Il capitolo 167 della Biblioteca di Fozio rende conto della lettura e schedatu ra che il patriarca aveva fatto dell’insieme dei quattro libri dell’Antologia dello Stobeo.185 Questa scheda dà una idea della struttura e dei contenuti sommari dei capitoli di Stob. 1–2 in una redazione più ampia di quella della Recensio breviata, come mostrò, nonostante qualche esagerazione, Elter.186 Fozio inizia la sua presentazione descrivendo l’esemplare stobeano al quale aveva avuto accesso e nel quale i quattro libri di Estratti, massime, precetti occupavano due tomi distinti (112a14–16): ἀνεγνώϲθη Ἰωάννου Ϲτοβαίου ἐκλογῶν, ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν, βιβλία τέϲϲαρα ἐν τεύχεϲι
185 Phot., Bibl. 112a13–115b31 Bekker (1824) = Henry (1960) II 149–159, con traduzione francese e qualche nota. Le citazioni sono fatte con le pagine e i righi dell’edizione di Bekker. La traduzione è quella di M. R. Acquafredda, in Bianchi, Schiano (2016), 202–207 e 1058–1059 (note). 186 Elter (1880). Cf. Diels (1879), 44: «quattuor librorum corpus integrum vidit et accuratissime descripsit Photius c. 167». Vedi anche Mansfeld, Runia I (1997), 200– 202.
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IV. Sulle tracce della Recensio plenior
δυϲί.187 Il che lascia supporre una suddivisione dell’Antologia in due parti materialmente distinte e corrispondenti a Stob. 1–2 e Stob. 3–4, come nei codici di cui oggi disponiamo. Lo Stobeo aveva dedicato e riunito la sua raccolta a suo figlio Settimio:188 La collezione è costituita da poeti, oratori e uomini politici illustri, dei quali, come egli stesso afferma, ha raccolto degli uni estratti, degli altri massime e talvolta precetti, per educare e potenziare la troppo debole inclinazione del figlio alla memorizzazione delle letture.189 Segue un dettagliato sommario del contenuto dei quattro libri per ognuno dei quali Fozio indica il numero dei capitoli (κεφάλαια) e il loro titolo: Stob. 1 conteneva sessanta capitoli; Stob. 2 ne contava quarantasei; Stob. 3 quarantadue, mentre Stob. 4 cinquantotto per un totale di duecentootto capitoli.190 In questi, continua Fozio, «Giovanni presenta opinioni, citazio ni e frasi celebri provenienti da raccolte di estratti, massime e precetti (ἐκ τε τῶν ἐκλογῶν καὶ τῶν ἀποφθεγμάτων καὶ τῶν ὑποθηκῶν δόξαϲ τε καὶ χρήϲειϲ καὶ χρείαϲ)». L’ipotesi di Elter191 che questa suddivisione in capitoli e il regesto dei titoli non fosse opera di Fozio, ma che costui l’avesse recuperata da un pinax che il medesimo Stobeo aveva apposto all’inizio della propria opera appare plausibile192 anche se non è a priori escluso che il pinax fosse stato redatto solo in un’epoca successiva allo Stobeo da un ignoto gramma tikos.193
187 Sul significato di τεῦχοϲ in Fozio, vedi Ronconi (2008), 7–9. Il ‘titolo’ riferito da Fo zio corrisponde all’inscriptio del secondo libro nei due manoscritti indipendenti (F P) di Stob. 1–2: ἰωάννου ϲτωβαίου ἐκλογῶν, ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν βιβλίον δεύτερον (F f. 129r; P f. 176v). Manca la subscriptio perché il modello di F P era mu tilo. L’inscriptio del libro I è invece ἰωάννου ϲτωβαίου βιβλίον πρῶτον περὶ ἀριθμητικῆϲ in F (f. 1r) e ἰωάννου ϲτωβαίου φυϲικῶν γνωμῶν (ex corr. in ras.) ἐκλογή in P (f. 1r), ma qui di un’altra mano non identificata (Px). A è mutilo sia all’i nizio sia alla fine. La Suda (ι 466 Adler) s.v. Ἰωάννηϲ, ὁ ἐπονομαζόμενοϲ Ϲτωβεύϲ conosce infine l’insieme dei quattro libri con il titolo Ἀνθολόγιον. 188 Questa informazione è messa in dubbio da Piccione (2002). 189 Phot., Bibl. 112a14–24. L’integrazione di (112a18) venne proposta da Elter (1880), 17 e mi appare necessaria. 190 Phot., Bibl. 114a15–17. Vedi Wachsmuth (1882), 47. 191 Elter (1880), 16–17. 192 Wachsmuth (1882), 47 n. 1; Mansfeld, Runia I (1997), 201. 193 Ristampando la scheda di Fozio, Wachsmuth (1884) I 3–10 accompagna il πίναξ con opportuni rimandi, capitolo per capitolo, alla sua edizione di Stob. 1–2 e a quella
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2. Fozio lettore dello Stobeo
Alla fine della presentazione dei capitoli di Stob. 1, Fozio aggiunge un breve paragrafo con importanti informazioni relative alla struttura di quel libro (112b37–113a5): Questi dunque sono i capitoli del primo libro e tale il loro contenuto; è chiaro che trattano della fisica, eccetto alcuni fra i primi [sc. i capitoli 1–10 del suo computo], che uno annovererebbe piuttosto tra quelli sulla metafisica. E, come abbiamo detto, in questi presenta le opinioni degli antichi, sia quelle concordi, sia quelle divergenti. E inoltre in questo libro, prima di affrontare i capitoli di cui si è parlato, antepone due capitoli, di cui uno è una lode della filosofia (e questo capitolo è stato imbastito dall’antologista sulla base di quanto si trova in autori diversi), l’altro delle diverse correnti filosofiche; in questo annota anche opinioni antiche su geometria, musica e aritmetica. La principale informazione che ricaviamo dalla testimonianza è che il primo libro dello Stobeo si apriva con una lettera prefatoria indirizzata dall’antologista al figlio Settimio alla quale seguivano due capitoli con funzione proemiale. Nei codici che trasmettono la Recensio breviata di Stob. 1–2 restano solo poche pagine della sezione finale del secondo capitolo sulla aritmetica (ἀριθμητική = I 15–22). Non è possibile dire se quei due capitoli iniziali e la lettera prefatoria (il cui contenuto venne ricostruito ipoteticamente e nelle grandi linee da Wachsmuth194) fossero scomparsi nel momento dell’epitomazione di Stob. 1–2 oppure (almeno in parte) solo più tardi per un accidente materiale che si ampliò poi di più in più con la perdita di altri fogli in F e soprattutto in P.195 La sezione conclusiva del lungo capitolo di Fozio contiene un detta gliato elenco degli oltre 450 autori dai quali lo Stobeo aveva recuperato l’immenso materiale della sua antologia (114a18–115b17). La struttura di questo indice e i principi a partire dei quali esso era stato redatto, furono individuati da Elter, che vi scorse la presenza di cinque liste distinte. La prima è quella dei filosofi (114a18–b27) nella quale, per ragioni a noi ignote, i cinici sono relegati in un paragrafo conclusivo separati dagli altri (114b23–25). La seconda comprende i poeti (114b28–115a24). Vengono poi Meineke (1855–1857) per Stob. 3–4, ora sostituita da Hense (1894–1912). Utile risulta altresì l’analisi dettagliata di Hense (1916), 2553–2563. 194 Wachsmuth (1884) I 13–14. 195 A, lo ripeto, è mutilo all’inizio.
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IV. Sulle tracce della Recensio plenior
annunciati i retori, gli storici, i sovrani e i generali (115a 25), autori che a loro volta sono suddivisi in due liste: la terza con i retori e gli storici (115a25–35), la quarta con i sovrani e gli strateghi (115a35a–b5). Segue, senza una apparente soluzione di continuità con quelle che precedono e senza essere stata preannunciata, la quinta lista (115b6–17) dove ritroviamo i nomi di diversi medici. È probabile che essi occupassero questa posizione marginale perché il redattore dell’elenco non era riuscito a trovare loro una sistemazione conveniente negli elenchi precedenti. In ogni lista, i nomi sono collocati in ordine alfabetico sulla base della sola lettera iniziale; se ne è dedotto che il redattore avrebbe registrato il nome degli autori/fonti su singoli fogli bianchi suddivisi in sezioni distribuendoli sotto la lettera appropriata nel momento in cui lo aveva reperito per la prima volta nei margini del suo modello dell’Antologia, libro dopo libro. L’indice non è completo né privo di errori. Resta difficile dire se all’origine di tali difetti ci siano danni materiali (lacune o altro) prodottisi nel corso della trasmis sione (come suppone Elter) oppure inavvertenze dovute al compilatore della lista (Diels), che Elter individua nello stesso Fozio o in uno dei suoi collaboratori. Le parole con le quali il capitolo foziano si chiude (115b18–31) riassumo no il giudizio del patriarca sull’opera dello Stobeo e sulla sua utilità sia «per coloro che hanno letto le opere di questi autori, in quanto aiuta a far riaf fiorare il ricordo» sia per coloro «che non ne hanno avuto esperienza, in quanto facendone pratica assidua, in poco tempo potranno trarre memoria, seppure sommaria di molti, pregevoli e vari concetti». Inoltre, l’opera non è inutile nemmeno per «coloro che si occupano di retorica e scrittura». In un articolo uscito immediatamente dopo la pubblicazione della dis sertazione di Elter, Diels mise in evidenza alcune incertezze della sua ricostruzione, pur condividendone nell’insieme i risultati.196 Diels insiste sull’apporto concreto che può venire da Fozio alla propria ipotesi di rico struzione dell’opera di Aezio,197 ma critica la tendenza alla normalizzazione di Elter e il fatto che costui postula un po’ troppo spesso lacune e errori nel manoscritto stobeano utilizzato da Fozio o già nello Stobeo senza tenere
196 Diels (1881), 343–350. Cf. Wachsmuth (1881) I vii n. 1. 197 Vedi Diels (1881), 349–350 e le ulteriori considerazione di Mansfeld, Runia I (1997), 267–269.
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2. Fozio lettore dello Stobeo
adeguato conto della possibilità che alcuni errori potevano invece risalire al patriarca o a un suo collaboratore.198 L’ipotesi di Elter trovò in seguito una applicazione concreta e capillare nella ricostruzione della struttura e dei contenuti in particolare di Stob. 1–2 a opera di Wachsmuth, nonostanti alcune critiche di Lortzing,199 e di essa tenne largamente conto anche Hense per Stob. 3–4.200 In particolare, Lortzing aveva messo in dubbio, da un lato, l’ipotesi che Fozio avesse avuto a disposizione un esemplare completo di Stob. 1–4 e aveva avanzato critiche anche relativamente all’idea che i κεφάλαια ripro dotti nella Biblioteca erano già stati redatti in quella forma dal medesimo Stobeo. Dall’altro, aveva ripreso la questione della forma dell’archetipo di tutta la tradizione stobeana supponendo che anche questo fosse suddi viso in «quattro libri in due volumi» (βιβλία τέϲϲαρα ἐν τεύχεϲι δυϲί), conformemente alla descrizione che ne fa Fozio (112a15), e non in uno solo come postulato da Wachsmuth.201 Wachsmuth rifiutò la prima obiezione.202 Quanto alla seconda, pur non negandola a priori, egli restò convinto della sua precedente proposta in ragione delle tre traslocazioni testuali da Stob. 2 in Stob. 4, che si sarebbero prodotte assai presto in un manoscritto unitario indipendente da quello letto da Fozio.203 Se è vero che la testimonianza di Fozio e in particolare il regesto dei singoli κεφάλαια dei quattro libri resta indispensabile alla ricostruzione dello stato testuale dell’antologia stobeana quale fu letta dal patriarca lo è altrettanto il fatto che il suo compilatore: «ran out of room under particu lar letters on a number of occasions, so that the order in Photius’ final list is not necessarily reliable».204 Le porzioni del capitolo foziano corrispondono alla sezione A delle Re censionis plenioris reliquiae della mia edizione.
198 Elter (1880), 6–7: «itaque non id egit Photius ut indicem “fontium” Stobaei confice ret omnibus codicum erroribus purgatum, sed indices sunt eorum nominum quae singulis excerptis adscripta erant in “Stobaei codice Photiano”. … immo Stobaeum et ipsum interdum errasse et aliorum errores propagasse credendum est». 199 Lortzing (1882), 163–170 e (1883), 683–705. 200 Wachsmuth (1884) I vii–ix; Hense (1894–1912). 201 Wachsmuth (1882), 69. 202 Wachsmuth (1884) I x–xii. 203 Wachsmuth (1884) I xii–xiii. 204 Mansfeld, Runia I (1997), 202.
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IV. Sulle tracce della Recensio plenior
3. Resti di Stob. 2 nella tradizione di Stob. 4 Un elemento di capitale importanza per la ricostruzione della protosto ria della trasmissione dell’Antologia dello Stobeo venne individuato da Wachsmuth nella traslocazione di tre pericopi testuali di Stob. 2 in Stob. 4, comune a tutti gli esemplari di quel libro oggi conservati:205 la prima corrisponde, nelle moderne edizioni fino a quella di Meineke, a 4.80, 1–14; la seconda a 4.80, 15–81, 16 e la terza a 4.81, 17–82, 16.206 Wachsmuth suggerì che la prima porzione fosse da ricollocare in Stob. 2, all’interno dell’ecloga 18 del cap. 1 (II 6, 20 dopo ὄρεξιϲ–14, 1), là dove non solo i manoscritti della recensio breviata (F f. 130r 1–2; P f. 177v 7–8), ma an che il Florilegium Laurentianum (= L 169r 14–15) tramandano un testo dub bio e incerto variamente raffazzonato fino a Wachsmuth. La seconda avreb be trovato posto in Stob. 2 cap. 4 (II 26, 8–32, 24) reintegrando così le pri me 17 ecloghe di questo capitolo perdute in F (f. 131v 5) e P (f. 179v 2). La terza infine andrebbe risistemata in Stob. 2 cap. 2 (II 18, 11–24, 14) dove re stituirebbe le ecloghe 5–25 di quel capitolo, anch’esse mancanti in F (f. 131r 17) e P (f. 179r 8).207 Per spiegare questo accidente, Wachsmuth suppose che, accanto al codex Photianus in due tomi, fosse esistito un altro testimone in un solo volume anch’esso perduto, che chiamò «Stobaei anthologium quattor librorum» e che siglò *X.208 Le tre traslocazioni si sarebbero prodotte in momenti cronologicamente distinti in quell’enorme codice, la cui confezione risale a prima della preparazione della Recensio breviata.209
205 Il fenomeno era già stata individuato da Diels (1879), 44, ma riviene a Wachsmuth il merito di averne trovata la corretta spiegazione. Per maggiori dettagli su queste tre pericopi testuali e sui criteri ecdotici da seguire in una nuova edizione dei Stob. 1–2, vedi infra 143–156. 206 Seguo la numerazione di Gaisford (1823–1824) e di Meineke (1855–1857). Hense (1894–1912), che accetta i risultati di Wachsmuth, non riproduce infatti questi capitoli nella sua edizione di Stob. 4 e, alla fine di 4.25, 54 (II 649 ad v. 9), annota: «quae autem sequuntur in SMA cum prioribus coniuncta τῶν δὲ φιλοϲοφηϲάντων ἔνιοι κτἑ., ea duobos foliis in archetypo traiectis huc ex Stobaei libri II capite primo translata esse perspexit Wachsmuth … ubi vide». 207 Wachsmuth (1884) I xxix–xxxi con qualche complemento rispetto a Wachsmuth (1882), 43–54. 208 Wachsmuth (1882), 70. 209 Wachsmuth (1882), 45–54 e 70–71; Wachsmuth (1884) I xxix–xxxi e II 6 (ad v. 20), 13 (ad v. 18) e 26 (ad v. 8).
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3. Resti di Stob. 2 nella tradizione di Stob. 4
Dal punto di vista codicologico, l’eventualità di un manoscritto unitario con l’intera opera (*X) non sembra di per sé impossibile. A riprova possia mo richiamare all’attenzione alcuni codici pergamenacei della tarda anti chità, di poco precendenti lo Stobeo, le cui dimensioni potrebbero corri spondere a quelle che dovremmo presuppore per una edizione completa di Stob. 1–4. A parte i grandi esemplari della Bibbia — il Sinaiticus (IV sec.) il Vaticanus (IV sec.) e l’Alexandrinus (IV sec.) — , di grande interesse è anche il codice con l’edizione degli opera omnia di Platone la cui esistenza è stata postulata con argomenti convincenti da Maria Jagoda Luzzatto.210 Se un si mile manoscritto fu realizzato per un autore profano come Platone, non sa rebbe da escludere un prodotto simile anche per l’immensa antologia sto beana.211 3.1. Nota sulla trasmissione di Stob. 3–4 Poiché le ecloghe traslocate sono tramandate dai codici di Stob. 3–4, la cui trasmissione è sostanzialmente diversa da quella di Stob. 1–2, è oppor tuno presentare brevemente la storia del testo anche della seconda parte dell’Antologia. Hense, l’ultimo editore di Stob. 3–4, suggerì di ripartire i tre codici indi pendenti in due rami (S e M A) sul fondamento delle frequenti divergenze sia nel numero sia nella successione dei capitoli e delle ecloghe all’interno di quei libri. Egli considerò altresì il ramo S come più autorevole rispetto al ramo M A.212
210 Luzzatto (2010). 211 Abbandono la suggestione avanzata in Dorandi (2019), 24–25, che quei tre passi fossero all’origine addenda non ancora sistemati dallo Stobeo o schede con note o estratti frutto di letture successive trovate fra le sue carte e introdotti al posto sbagliato. Il che porterebbe fra l’altro a presupporre l’intervento di un lettore o un editore tardo-antico che avrebbe operato motu proprio e in maniera erronea per motivi e con criteri che ci sfuggirebbero. 212 Per le relazioni fra i codici dei Stob. 3–4 vale ancora l’indagine di Hense I (1894), vii–lxvii i cui risultati sono sintetizzati in Hense (1916), 2550–2551. Essi furono poi rivisti da Delatte (1942), 5–21. In tempi più recenti, si collocano i contributi di Piccione (1994), 188–216 e Ead., in Taormina, Piccione (2010), 36–42. Un rinnovato studio dell’intera tradizione, ivi compresi i testimoni della famiglia dei Trincavellia ni, è una esigenza quanto mai auspicabile e ineludibile. Una descrizione dei codici S M A nel cap. I 34–35.
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IV. Sulle tracce della Recensio plenior
Accanto a questi, Hense prese in conto per la contitutio textus il contributo dei cosiddetti codices Trincavelliani, ossia un gruppo di mano scritti recenziori strettamente imparentati fra loro che indicò con la sigla comune Tr.213 Essi prendono il nome da Vettore Trincavelli (1491–1563) che fondò l’editio princeps (1536) di Stob. 3–4214 proprio su uno di essi, il Marcianus gr. IV 29 (coll. 1063), copiato da Demetrio Damilas alla fine del XV sec. sul Laurentianus 58.11 a sua volta copiato a Roma nel 1493 da Giovanni Roso sul Vaticanus gr. 954 (D), vergato a Creta da Michele Apostolio negli anni successivi alla caduta di Costantinopoli215 e capostipite presunto dell’intera tradizione. D è a sua volta imparentato con S e, a quan to pare, copiato su questo in uno stato meno rovinato di quello attuale.216 D’abitudine, i testimoni trincavelliani sono trascurati e riportati semmai al rango di portatori di congetture umanistiche.217 Un discorso a sé richiede infine la questione del contributo che può venire dall’apporto di diversi florilegi, alcuni dei quali sacro-profani e fra questi L e il Bruxellensis 11360– 63 (Omont 39) XIV sec. nei quali è stata presuposta la presenza di materiale di derivazione stobeana. Nella sua edizione delle pericopi traslocate, Wachsmuth, in più di S M A, utilizzò sporadicamente anche il Parisinus gr. 1985 (XVI sec.: B).218 Queste tre serie di ecloghe, al di là delle incertezze che rimangono sulla loro precisa posizione all’interno dei primi capitoli di Stob. 2, possono esse re considerate, insieme alla testimonianza di Fozio, le sole porzioni sicure 213 La nomenclatura codices Trincavelliani e la sigla Tr risalgono a Hense I (1894), xxii–xxxix. Wachsmuth li indica con la sigla T, mentre Delatte (1942), 7–14 usa la sigla r (recentiores). 214 Vedi Sicherl (1993), 53–57. 215 Come attesta la subscriptio al f. 417v riprodotta, per esempio, da Piccione in Taormina, Piccione (2010), 42 n. 50. 216 Vedi i contributi di Speranzi (2010); Ferreri (2012) e (2014), 546–548, 599–600 con ulteriore bibliografia. 217 Sulla questione, per certi aspetti ancora sub iudice, dopo le ricerche di Hense e Delatte, vedi Di Lello-Finuoli (1977–1979) e (2011); Ferreri (2012) e Ranocchia (2011), 348–352. Sull’ultimo contributo, vale comunque l’opportuno caveat di Ferre ri (2012), 108. 218 Wachsmuth (1884) I xxix–xxxi. Vedi anche Hense I (1894), xxv e già Id. (1884), 368; (1886), 64–65 e ap. Wachsmuth (1884) I xxx. B fu rivalutato a torto da Delatte (1942), 16–18 come un codex mixtus. In realtà è un codice composito copiato in parte su un testimone della tradizione di Tr e in parte su A privo pertanto di qualsiasi valore testuale se non come latore di eventuali congetture nate ope ingenii. Vedi Dorandi (2023). Nella nota 2 di questo articolo il rimando a Ferreri va corretto in Ferreri (2012), 108.
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4. Il Florilegium Laurentianum (L)
derivate da uno stato testuale dell’Antologia precedente l’epitomazione. Es se sono riproposte nella sezione B delle Recensionis plenioris reliquiae. 4. Il Florilegium Laurentianum (L) Un problema più complesso e per molti aspetti ancora controverso, che si estende all’insieme dei quattro libri dello Stobeo, è quello dell’apporto che può venire alla ricostruzione della loro struttura e del loro contenuto dai resti di un ampio «Florilegio damasceniano» tramandato solo in misura molto parziale dal codice L.219 Il codice conserva resti più o meno ampi di tre florilegi distinti.220 Il primo (ff. 1r–45v) corrisponde a una porzione di una recensione dei Sacra Parallela attribuiti a Giovanni Damasceno simile a quella del codice Rupe fucaldinus, ora Berolinensis Phillipps 1450 (gr. 46), del XII secolo, chiamata Florilegium La da Holl.221 Il secondo (ff. 46r–73v) consiste in una sezione dell’altra recensione dei Sacra Parallela trasmessa anche dal Parisinus gr. 923 (s. IX) e dal Marcianus gr. 138 (coll. 596) del s. X med., chiamata Florilegium PMLb da Holl.222 Il terzo infine (ff. 74r–189v) è il cosiddetto Florilegium Lc (Holl) o Florilegium Laurentianum (Richard), preso in conto dagli editori dello Stobeo.223 In questa ultima raccolta, i capitoli sono disposti in ordine alfabetico e riuniti in stoicheia secondo il sistema comune ai florilegi «damasceniani», ma a differenza di questi il redattore del Florilegium Laurentianum ha te nuto conto nella classificazione dei capitoli anche della seconda lettera del l’alfabeto. È stato supposto che la raccolta venne messa insieme riunendo fonti diverse sacre e profane: una o più recensioni dei Sacra parallela (per Richard solo il Florilegium Hierosolymitanum224), la recensione interpola 219 Vedi Richard (1964/1976), 476–486 e Declerck (2015) con sostanziali osservazioni anche sulle due prime sezioni di L. Cf. Kinzig, Brüggemann (2017), 750–758. Una descrizione dettagliata di L si legge in Ihm (2001), lxiv–lxvi. Per una più succinta presentazione del. codice, vedi supra 35. 220 Vedi Holl (1897), 139–59 i cui risultati sono stati riproposti e aggiornati da Richard (1964/1976), 495; Ihm (2001) e Royse (2018), 154–173. Per la sezione stobeana, resta ancora di riferimento quanto scrive Wachsmuth (1882), 1–44, 83–89 e (1884) I xxviii–xxix. 221 Holl (1897), 42–68. Cf. Richard (1964/1976), 482. 222 Holl (1897), 68–114. Cf. Richard (1964/1976), 482–483. 223 Holl (1897), 139–159. Cf. Richard (1964/1976), 495. 224 Sul quale vedi Holl (1897), 114–132 e Richard (1964/1976), 483–484.
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IV. Sulle tracce della Recensio plenior
ta dello ps.-Massimo (MaxII nella nomenclatura della Ihm), estratti dal De natura animalium di Eliano225 e dall’Antologia dello Stobeo. L’opera originaria era, a quanto sembra, copiata in due volumi il primo dei quali conteneva gli stoicheia Α–Μ e il secondo gli stoicheia Ν–Ω. Ne restano in L solo tre porzioni disordinate, che così si susseguono:226 ff. 74r–125v: capitoli corrispondenti alle lettere Ν αʹ–Ω εʹ. Probabilmente quanto resta del secondo volume del florilegio originario. Poiché il f. 125v termina a metà di una citazione di Eliano, è verisimile che la parte finale sia andata accidentalmente perduta.227 ff. 126r–134r: indice dei titoli delle lettere Α–Μ disposti su due colonne. Siamo di fronte probabilmente al πίναξ che apriva il primo volume del florilegio.228 Questo indice ha la seguente struttura: lettera Α 96 capitoli e 43 παραπομπαί;229 lettera Β 17 capitoli e 6 παραπομπαί; lettera Γ 31 capitoli e 4 παραπομπαί; lettera Δ 41 capitoli e 11 παραπομπαί; lettera Ε 46 capitoli e 24 παραπομπαί; lettera Ζ 10 capitoli (senza παραπομπαί); lettera Η 5 capitoli e 2 παραπομπαί; lettera Θ 13 capitoli e 5 παραπομπαί; lettera Ι 10 capitoli (senza παραπομπαί); lettera Κ 24 capitoli e 11 παραπομπαί; lettera Λ 6 capitoli e 1 παραπομπή; lettera Μ 21 capitoli e 19 παραπομπαί. ff. 134v–189v: capitoli corrispondenti ai titoli Α αʹ–Α μδʹ, cioè i primi 44 capitoli della lettera Α.230 È l’inizio del florilegio che nel primo volume si trovava dopo il πίναξ. I capitoli seguono l’ordine del πίναξ all’eccezione 225 Gli estratti di Eliano furono indagati e parzialmente pubblicati da De Stefani (1904), 149–150 (descrizione del manoscritto, siglato εf), 165 (rapporti stemmatici di εf con il manoscritto L di Eliano = Laurentianus 86, 7, XII s.), 169 (stemma codicum) e 171–173 (edizione di una scelta di estratti). Si noti che l’errore di De Stefani (1904), 149) «Laur. 822» in vece di «Laur. 8, 22» ritorna pari pari in García Valdés, Llera Fueyo, Rodríguez-Noriega Guillén (2009), ix. 226 Vedi Wachsmuth (1882), 2–4 e Holl (1897), 42–45. Più sommarie le descrizioni di Ihm (2001), lxiv–lxv e di Royse (2018), 161–162. 227 Wachsmuth (1882), 41–43. Ultima edizione (provvisoria) in Meineke IV (1857), 147– 182, con il titolo ϲτοιχεῖον α.ʹ 228 Esso fu pubblicato e commentato per la prima volta in maniera eccellente da Wach smuth (1882), 5–37 dopo avere collazionato il codice a Firenze nel febbraio 1862. Vedi Wachsmuth (1882), 2. Holl (1897), 139–142 riproduce l’edizione di Wachsmuth accompagnata (142–159) da qualche osservazione. 229 Introdotte dalla formula completa ἐντεῦθεν αἱ παραπομπαὶ τῶν τίτλων τῶν ἀπὸ τοῦ αὐτοῦ ϲτοιχείου ἀρχομένων καὶ ἀλλαχοῦ κειμένων τε καὶ εὑριϲκομένων (f. 127v, per lo ϲτοιχεῖον Α) o semplificata ἐντεῦθεν αἱ παραπομπαὶ τῶν τίτλων (nel seguito). Sulle παραπομπαί («rinvii con parole chiave» o «titoli di rimando») nella tradizione dei florilegi «damasceni», vedi Odorico (1990), 16–17. 230 Ultima edizione (provvisoria) in Meineke IV (1857), 183–246, con il titolo ϲτοιχεῖον β.ʹ
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di due soli casi: il cap. 16 (περὶ ἀγγέλλοντοϲ κτλ.) è collocato fra il cap. 8 (περὶ ἀγαθοεργίαϲ κτλ.) e il cap. 9 (περὶ ἀγγελίαϲ κτλ.) ripristinando così l’ordine alfabetico turbato;231 dopo il cap. 25, viene poi un capitolo anepi grafo che Wachsmuth,232 in considerazione del contenuto e della successio ne alfabetica, suggerisce di intitolare περὶ αἰτημάτων sul fondamento della quattordicesima delle παραπομπαί; per Holl233 si tratterebbe invece di un capitolo saltato nell’index e intitolato περὶ αἰτούντων. Inoltre, non tutti i ti toli del πίναξ sono poi riprodotti nel testo e, nello specifico, i capitoli 15–21 e 23–44 ne sono privi. La parte finale della sezione è in più caduta per un accidente meccanico. Quanto alla formazione dell’originario Florilegium Laurentianum, Diels suggerì di collocarla cronologicamente nel X o XI secolo,234 approvato da Wachsmuth.235 Con maggiore prudenza, la Di Lello-Finuoli ritiene man chino elementi probanti per determinarne con sicurezza la data.236 4.1. Alla ricerca dello Stobeo in L Il contenuto del Florilegium Laurentianum cominciò a circolare negli anni Ottanta del XVIII secolo grazie a David Ruhnkenius, impegnato allora in una nuova edizione di Stob. 1–2 e che dal giugno del 1781 fu in possesso di una trascrizione (seppure imperfetta) di L procuratagli da Antonio Sarti.237 Ruhnkenius considerava i testi di L come «un supplementum rispetto allo Stobeo conosciuto, ossia una redazione accresciuta e non sovrapponibile all’edizione di Canter» e a quella dei codici propriamente stobeani.238 Il suo progetto non andò in porto e l’apographon Sartianum passò poi nelle mani di Daniel Wyttenbach e di Jacob Geel i quali ne trasmisero copie a Gaisford che ne curò a due riprese l’edizione. Una prima volta, in maniera molto imperfetta, nella Appendix ex cod. ms. Florentino Parallelorum Sacro
231 232 233 234 235 236 237
Holl (1897), 142–143. Wachsmuth (1882), 3. Holl (1897), 147–148. Diels (1872), 191. Wachsmuth (1882), 108–109 e (1884) I xv. Di Lello-Finuoli (1967), 148 n. 35. A quanto ricaviamo dalla nota autografa di Sarti apposta in alto della guardia anteriore non numerata [iiiv] di L. Vedi supra 27 n. 57. 238 Curnis (2008), 183–187. Citazione da 186.
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IV. Sulle tracce della Recensio plenior
rum Ioannis Damasceni che conclude la sua edizione di Stob. 3–4;239 una seconda, con lo stesso titolo e pochi ritocchi e aggiunte, nell’appendice alla fine dell’edizione di Stob. 1–2.240 Da Gaisford dipende Meineke, che ripubblicò il materiale di L migliorandone il testo ope ingenii in diversi luoghi corrotti nell’appendice, intitolata anch’essa Appendix ex cod. ms. Florentino Parallelorum sacrorum Ioannis Damasceni, che conclude la sua edizione di Stob. 3–4.241 Una svolta decisiva nell’interpretazione e nell’utilizzazione del contributo di L si ebbe infine con Wachsmuth.242 Lo studioso critica Meineke per non avere compreso il reale apporto di L alla ricostruzione dell’antologia di Stobeo («in rationem quae inter hoc gnomologium et Stobaeanum aliaque intercedat omnino animum non videtutur intendisse», 2) e per avere considerato, come già Gaisford, quel materiale come un sup plementum utile per ricostruire uno Stobaeus amplior, e quindi da relegare in una appendice. Wachsmuth sostiene invece che L tramanda materiale genuinamente stobeano perduto che è possibile reintegrare di volta in volta a complemento della tradizione non solo di Stob. 1–2, in larga misura decurtato dall’epitomatore, ma anche di Stob. 3–4. Sul fondamento di queste premesse, Wachsmuth e poi Hense ricorsero a L per restaurare in innumerevoli luoghi il testo e la struttura dei quattro li bri dello Stobeo. Se il contributo di L si rivelò più importante e consistente per Stob. 1–2 giunto essenzialmente in una forma abbreviata, molto fu
239 Gaisford IV (1824), 1–80. Per questa edizione egli utilizza il materiale messo a sua disposizione dal Wyttenbach. Vedi Gaisford I (1823), viii. 240 Gaisford (1850) II 686–776. Qui egli utilizza il materiale ricevuto dal Geel come leggiamo in Gaisford (1850) I xii. Per le edizioni di Gaisford, vedi Curnis (2008), 251–258. Sulle infelicità dell’Appendix, insiste Cobet (1854, 18732), 10–11, il quale sottolinea anche: «Is homo (sc. il redattore del Florilegium Laurentianum) bonam partem ex Stobaei libris descripsit et cum scriptorum Christianorum locis compo suit. Nactus Stobaei Eclogas multo integriores quam ad nos pervenerunt permultos locos veterum egregios ab interitu servavit». Il maiuscoletto e il corsivo sono di Cobet. Cf. Curnis (2008), 261–263. 241 Meineke IV (1857), 145–246. Sulle edizioni di Meineke, vedi Curnis (2008), 264– 267. Un paio di passi di L attirarono l’attenzione di Halm (1841–1842), 1, 58, su cui Curnis (2008), 259–261. 242 Vedi in particolare Wachsmuth (1882), 1–44 e 71–89 (i due articoli qui ristampati con aggiunte e correzioni risalgono al 1871), i cui risultati sono ribaditi in Wach smuth (1884) I xxviii–xxix e accolti da Hense (1884) e I (1894), xxxxiv–xxxxviii.
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4. Il Florilegium Laurentianum (L)
possibile guadagnare anche per Stob. 3–4243 per la cui ricostruzione Hense ebbe accesso altresì a altri florilegi più tardi partendo dal presupposto che avrebbero derivato una parte almeno del loro materiale direttamente dallo Stobeo.244 Mi limito di seguito al solo Stob. 1–2. Gli interventi di Wachsmuth sono di duplice natura. Da un lato, egli cercò di migliorare il testo di alcuni capitoli tramandati oltre che da F e da P anche in L; dall’altro, completò grazie a L ulteriori capitoli assenti nella loro totalità o in parte nella tradizione di F P.245 In questa operazione, egli prese come modello, sulla falsariga delle conclusioni di Elter, la successione dei capitoli quale risulta dal codice stobeano di Fozio. A titolo di esempio, cito, per la prima tipologia di interventi, il capitolo 1, 1, 13 (I 137, 7–140, 9) presente in F P e in L (ff. 165v 28–166v 32 [litt. Α κθʹ]); per la seconda, il capitolo 1, 1, 31 (I 242, 21–247, 13), dove Wachsmuth rein tegra da L (ff. 90r 32–90v 11 [litt. Ν ϲʹ]) le sezioni da 1 a 8 e il capitolo 1, 1 38 (I 252, 13–253, 3), dove aggiunge sempre sul fondamento di L (f. 182r 16–35 [litt. Α ληʹ]) le sezioni 2, 3, 4 nonché in particolare i capitoli 15, 31, 33 e 46 del secondo libro tutti recuperati nella loro interezza (II 185–196; 199–254, 31; 255, 4–257, 24; 260–264, 4) in L (rispettivamente ff. 99v 1–101v 15 [litt. Ο βʹ]; f. 145r 25–153v 33 [litt. Α ιδʹ]; ff. 104v 10–105 r. 7 [litt. Ο εʹ] e ff. 144r 9– 144v 5 [litt. Α ιαʹ]).246
243 Sulla questione assai controversa è sufficente, per il momento, riportarsi, dopo Hense I (1894), xxxxiv–xxxxviii, alle considerazioni di Di Lello-Finuoli (1967), 141– 143 n. 13. 244 Per un primo orientamento è sufficiente riportarsi a Piccione in Taormina, Piccione (2010), 38–40 con ulteriori rimandi bibliografici. 245 Una lista completa in Wachsmuth (1882), 72–89 con una discussione dei criteri adottati. Si noti che in queste pagine i rinvii sono ancora fatti alle edizioni di Stob. 1–2 di Gaisford (1850), Meineke (1860–1864) e Heeren (1792–1801). Il che rende complicato ritrovare i passi in questione nella successiva edizione di Wachsmuth (1884). 246 Royse (2018), che condivide il metodo e i risultati di Wachsmuth, ha preso in condiderazione le sezioni derivate da Aezio. Su Stob. 2, 31 si tenga anche conto delle osservazioni critiche della Di Lello-Finuoli (1967), 157–173 e di Curnis (2011), 94–103 relative queste ultime alle sole sezioni 101–110k (II 219, 6–223, 10). Non si deve prendere invece in conto Stob. 2, 46 (II 260–264) capitolo intitolato Περὶ ἀχαριϲτίαϲ sul quale ho insistito a torto in Dorandi (2019), 21.
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4.2. Di Lello-Finuoli e Curnis vs Wachsmuth I criteri applicati da Wachsmuth appaiono leciti e coerenti con l’idea che egli si era fatta della trasmissione del testo dello Stobeo tra la tarda antichità e il momento dell’epitomazione di Stob. 1–2 alla luce della testimonianza di Fozio. A priori, non ci sono argomenti decisivi né per rinunciare alla sua seppure ipotetica ricostruzione né tantomeno per difenderla nella sua inte gralità e si ha come l’impressione che ci troviamo di fronte a una situazione di non liquet assai inquietante, se non a un vero e proprio circolo vizioso. Eppure non sono mancati tentativi, per certi aspetti solidi e concreti, di smantellare i principi teorici e i conseguenti risultati di Wachsmuth (e Hense) esperiti nello specifico dalla Di Lello-Finuoli e da Curnis. La Di Lello-Finuoli ha consacrato al Florilegium Laurentianum un con sistente contributo nel quale critica severamente i principi metodologici e ecdotici stabiliti e messi in pratica da Wachsmuth e, al suo seguito da Hense, tenendo opportunamente conto della realtà storica dei florilegi sacro-profani e indicando utili spunti di ricerca che poi non ha purtroppo mai sviluppato né approfondito.247 La studiosa richiama l’attenzione sui liberi procedimenti di redazione di simili raccolte e sul «fenomeno della transferibilità del materiale … risultato di un metodo di lavoro istitutivo» che ha come conseguenza la sua assimilazione nei nuovi prodotti che genera.248 Una analisi puntuale in particolare del capitolo Περὶ ἀγωγῆϲ καὶ παιδείαϲ perduto nella recensio breviata di Stob. 1–2 e che Wachsmuth restaurò come cap. 31 del secondo libro recuperando materiale nella lunga sezione di contenuto sacro-profano di L (ff. 144v–154v),249 consente alla Di Lello-Finuoli di mettere in evidenza alcune falle nelle argomentazioni di Wachsmuth. In particolare, essa insiste sulla «non reperibilità nel contesto di una gnomologia degli schemi singoli e originari delle sue fonti per la loro assimilazione nelle risultanze della trasferibilità del materiale» giudicando «artificiosa e sospetta ogni regola che voglia distinguere nelle parti non
247 Di Lello-Finuoli (1967). 248 Di Lello-Finuoli (1967), 156. 249 Il testo di L è per la prima volta trascritto dalla Di Lello-Finuoli (1967), 165–173 «nella sua struttura unitaria di excerpta sacri e profani in uno schema di lemmi e riscontri». Il titolo è ricavato dal πίναξ di L (Α ιδʹ) e da Phot., Bibl. 113a33–34. In Dorandi (2019), 22 in vece di «l’analyse du chap. II 46», si legga «l’analyse du chap. II 31».
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teologiche del Laurenziano una fonte quale è quella di Stobeo».250 La Di Lello-Finuoli ritiene di conseguenza inaccettabile l’ipotesi di considerare L «come rappresentazione di Stobeo, che vi sia o non vi sia il riscontro con la tradizione manoscritta» e rileva la «meccanicità delle regole istituite da Wachsmuth per isolare dal resto [del materiale trasmesso da L] un corpus stobeano». È «assolutamente indimostrabile» infatti che il redattore di L «seguisse pedissequamente Stobeo nella struttura dei capitoli, come vorrebbe Wachsmuth, … anzi a rigore dimostrabile verrebbe ad essere proprio il contrario, e non solo in base agli esami dei capitoli sacro-profani, che ovviamente hanno una struttura particolare, ma soprattutto di quelli di contenuto puramente profano».251 Anche a Curnis l’utilizzazione della testimonianza di Fozio e di quella di L da parte di Wachsmuth appare per diverse ragioni discutibile.252 Lo studioso affronta la questione a due riprese. Una prima volta, egli prende spunto da una analisi del problematico capitolo 2 di Stob. 1 (I 51, 18–52, 15) che non si legge né in F P né in L, ma la cui esistenza Wachsmuth presup pose e ricostruì sul fondamento della testimonianza di Fozio (112a32–34) e al quale pose come titolo Περὶ τῶν νομιζόντων μὴ εἶναι πρόνοιαν καὶ ἑπομέναϲ ταύτηι θείαϲ ἐπὶ τῆι τοῦ παντὸϲ διοικήϲει δυνάμειϲ. L’operazione di Wachsmuth «impeccabile su di un piano di economia filologica di impronta tutta positivista, si appoggia però ad alcuni presupposti che da ipotetici diventano, all’atto ecdotico, completamente metodologici» (101– 102) e che presuppongono due assiomi. Il primo è che il codice utilizza to da Fozio come il modello di L conservavano entrambi il testo dello Stobeo nella sua integralità con una consistenza ben superiore a quella trasmessa dalla Recensio breviata e che di conseguenza i due testimoni assurgessero non solo al rango di «strumento indispensabile a ricostruire l’ossatura e i contenuti del compendio stobeano» originario, ma anche che il «fantomatico epitomatore avrebbe proceduto tagliando naturalmente singole egloghe all’interno dei vari capitoli, e soprattutto interi capitoli con la loro inscriptio» (102–103).253 Il secondo assioma consiste nella fiducia 250 Di Lello-Finuoli (1967), 156–173. Citazione da 157. Sulla sezione finale del capitolo ritorna anche Curnis (2011), 94–103. 251 Di Lello-Finuoli (1967), 158–159, dalla quale cito. 252 Curnis (2004), 101–107, da cui le citazioni che seguono. 253 Utilizzando la formula «fantomatico epitomatore», Curnis (2004), 102 n. 62 si allinea all’ipotesi (che personalmente non condivido) di Giusta (1964) I 40 che una parte almeno della riduzione del materiale che leggiamo attualmente in Stob. 1–2 fosse già stata effettuata in una fase anteriore alla sua raccolta (Giusta si riferisce
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incondizionata che Wachsmuth (a séguito di Elter) aveva nella possibilità di restituire in maniera meccanica le inscriptiones dei vari capitoli perduti nell’epitome basandosi sugli indici di Fozio «più che sul materiale offerto dalla scrittura dei codici». Per Curnis, questa ipotesi resta tutta da provare e anzi sembra, almeno in questo caso specifico, compromessa dal fatto che i vari indici conservati da Fozio e da L «offrono … tre diverse redazioni dello stesso titolo, evidentemente incentrato sulla πρόνοια divina nei confronti del cosmo». Ne consegue il cauto e opportuno invito da parte di Curnis a prestare attenzione alla «non totale affidabilità di indicazioni desunte dal pinacografo foziano sull’opera di Giovanni Stobeo (o meglio: della necessità di essere più cauti a ricostruire l’edizione delle Eclogae basandosi esclusivamente sulla griglia strutturale di Fozio)» (105). L’altro esempio preso in considerazione da Curnis è ancora una volta il finale del lungo cap. 31 Wachsmuth del secondo libro già studiato nel suo insieme dalla Di Lello-Finuoli e che egli indaga relativamente alle sole citazioni platoniche.254 Curnis ammette che, in questo caso, all’origine di L si possa presupporre una pluralità di testi sia sacri sia profani e che non tutti gli estratti platonici in esso presenti risalgano necessariamente al modello stobeano. Alcuni di questi passi potrebbero derivare infatti da altre raccolte antologiche o da una letteratura gnomologica differente. L’analisi dell’insieme delle citazioni platoniche porta Curnis a escludere che la redazione di questa sezione risponda a un preciso criterio di una loro classificazione. Né si può stabilire se la presenza o l’assenza di didascalie a introduzione dei singoli estratti siano dovute «al redattore del Florilegium Laurentianum, oppure se esse fossero già presenti o assenti nei modelli utilizzati» (98). Donde la critica a certi arbitri da parte di Wachsmuth nel ripristinare taluni lemmi senza tenere conto della colometria marginale di tutte le ecloghe peculiare di L. In conclusione, appare quindi «evidente l’etereogenità del materiale plato nico raccolto in questa sezione» (100) di L che porta a presupporre che sia «legittimo parlare di vera e propria ‘tecnica critica’ dei florilegi operanti sul resto del testo platonico a loro disposizione, con lo scopo di produrre contenuti nuovi e sintetici» (102). Curnis, attraverso una analisi strutturale precisa di 2, 31, 111a (II 221, 1–16 con il lemma Πλάτωνοϲ Νόμων ζʹ) in particolare agli estratti di Didimo in Stob. 2. Sui quali vedi infra 158–163). La questione del modus operandi dell’excerptor dovrebbe essere riesaminata nell’orma di quanto qui osserva Curnis pur nella consapevolezza che spesso è ben difficile, se non impossibile, giungere a conclusioni univoche. 254 Curnis (2011), 94–103, da cui le citazioni che seguono.
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ricostruisce infine questa tecnica in tre fasi di destrutturazione e successiva ricostruzione di quel materiale: 1. Selezione del testo di base, 2. Selezione dei testi secondari e 3. Ricomposizione delle selezioni. Queste osservazioni, sebbene fondate sullo studio di due soli capitoli (Stob. 1, 2 e Stob. 2, 31) assai singolari nella tradizione stobeana, hanno il merito, come d’altronde la ricerca della Di Lello-Finuoli, di riproporre sotto un innovativo angolo di lettura la vexata quaestio dell’uso che un editore dello Stobeo deve fare della testimonianza preziosa, ma per più aspetti infida e sdrucciolevole, sia del capitolo di Fozio sia del contributo dello florilegio trasmesso da L. 4.3. Al di là del metodo di Wachsmuth e di Hense Accanto alle critiche di per sé fondate e incisive della Di Lello-Finuoli e di Curnis, dobbiamo considerare un elemento che potrebbe essere richiama to eventualmente a favore dell’ipotesi che L conservi tracce di materiale derivato in maniera e in misura diversa dall’Antologia dello Stobeo. Mi riferisco alla presenza sia nel Florilegium Laurentianum sia nella Recensio breviata di identiche ecloghe comuni estratte da opere della perduta lettera tura greca e conosciute solo grazie a quelle due fonti. Fra queste spiccano quelle con passi dalle Lettere e da alcuni capitoli del Περὶ ψυχῆϲ del filosofo neoplatonico Giamblico di Calcide (ca. 250–300 d.C.).255 Proprio a proposito delle Lettere che è già stato sottolineato che la loro presenza «lega fortemente il Florilegio Laurenziano all’Anthologion, avvalorandone il ruolo di testimone … In casi come questo sarebbe arduo ipotizzare una derivazione extra-stobeana del materiale».256 Oltre a questi casi, in un primo momento,257 avevo richiamato l’attenzio ne anche su quello assai più complesso delle numerose ecloge derivate dai Placita di Aezio alcune delle quali, andate perdute nell’operazione di abbre viazione che dette vita alla Recensio breviata, sarebbero state conservate soltanto nella tradizione di L.258 Il tutto nella piena consapevolezza che 255 Per le Lettere, vedi Taormina, Piccione (2010); per il De anima, Finamore, Dillon (2002) e Martone (2014). 256 Piccione in Taormina, Piccione (2010), 39. 257 Dorandi (2020a), 75–78. 258 Nella ricostruzione delle sezioni aeziane, Wachsmuth condivide i risultati di Diels (1879). Vedi Mansfeld, Runia I (1997), 203–204: «It is of vital importance to recog
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l’opera Aezio, a differenza di quelle di Giamblico, ebbe una ben più larga diffusione nell’antichità. Stando alla ricostruzione di Diels e di Wachsmuth, gli estratti mancanti nella redazione della Recensio breviata, ma reperibili in quella di L avrebbe ro sia formato diversi nuovi capitoli di Stob. 1–2 (p. es.: I 137, 8–140, 9 = cap. 1, 13 W.) sia ne avrebbero integrati altri mutili (p. es.: I 252, 13–253, 3 = cap. 1, 38 W.). A sé vanno invece considerati quei casi in cui L restituisce passi noti anche attraverso F A P (p. es.: I 200, 13–201, 20 = cap. 1, 23 W.). Qui L assurge infatti al ruolo di ulteriore testimone indipendente utile per il restauro di singole sezioni della Recensio breviata.259 Se avevo richiamato l’attenzione su questo copioso materiale era perché allora mi apparivano scontati i risultati raggiunti da Mansfeld e Runia relativi al modus operandi dello Stobeo nel redigere i capitoli formati di ecloghe aeziane nella sua Antologia.260 Secondo i due studiosi, lo Stobeo aveva avuto a disposizione un esemplare integro dei Placita di Aezio che aveva consultato di prima mano allo stesso modo dello pseudo-Plutarco redigendo i Placita e Teodoreto di Cirro per la Graecarum affectionum curatio.261 A a differenza di questi due ultimi autori, che erano rimasti assai fedeli al dettato e alla struttura dell’opera originale di Aezio e alla successione dei lemmi dei singoli capitoli, lo Stobeo era invece intervenuto volontarmente e in maniera sensibile sul testo originario di Aezio sisteman done i contenuti secondo criteri e principi specifici a lui solo.262 Mentre lo pseudo-Plutarco aveva preparato un compendio dei Placita di Aezio, lo Stobeo aveva citato verbatim i passi che lo interessavano e li aveva riorganizzati applicando ai singoli lemmi di determinati capitoli aeziani e anche al materiale che gli era derivato da altre fonti con un metodo che Mansfeld e Runia definiscono di coalescenza. Nelle ecloghe stobeane si distinguerebbero due diverse tecniche di coalescenza alle quali l’antologista ricorse nel combinare insieme passi estratti da differenti sezioni dei cinque libri dell’opera aeziana. La prima consiste nell’accorpare singole porzioni di
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nize that the critical edition of Stobaeus we have at our disposal is not a witness to Aëtius indipendent of Diels’ source hypothesis» (204). Il corsivo è nel testo. Una lista completa in Royse (2018), 162–163, che integra quella di Wachsmuth (1884) I xv. Mansfeld, Runia I (1997), 196–271. Per Teodoreto condivido le posizioni di Mansfeld (2016) e Id. in Mansfeld, Runia IV (2018), 174–195 e V (2020), 62–64. Mansfeld, Runia I (1997), 213–244 che riassumo per sommi capi.
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testo o gruppi di doxai da capitoli distinti e separati, ma che si riferiscono a un unico filosofo. I lemmi costituiti dalle doxai di quel filosofo sono così organizzati nella forma di grappoli (clusters). D’abitudine, lo Stobeo vi avrebbe mantenuto l’ordine dei lemmi del capitolo principale e avrebbe aggiunto caso per caso altre doxai sempre aeziane ai name-labels. La secon da consiste invece nel connettere fra loro interi capitoli o gruppi di doxai senza modificarne la sequenza interna. In più, lo Stobeo stesso avrebbe integrato la tradizione aeziana con materiale allotrio recuperato in Ario Didimo e in anonimi Homerica nonché con passi dal Timeo platonico:263 Stobaeus’ method of dealing with his source is double-sided, perhaps even somewhat paradoxical. As an anthologist he takes great liberties with the text, often simplifying or adapting it in accordance with his aims and Platonizing biases. At the same time, when it suits him … he shows himself to be very thorough and even exhaustive in his appropriation of the original source. This latter aspect completely escaped Diels’ notice. It will be of considerable significance when we attempt to make a full reconstruction of parts of Aëtius’ work. Questa delicata operazione di adattamento, gestita assai bene dallo Stobeo, rispecchiava lo scopo che egli si era prefisso nella sua operazione di redat tore di una antologia e che consisteva non nel riprodurre un vecchio libro, ma nel crearne uno nuovo a partire dai dati a lui accessibili: Stobaeus must be above all understood in the light of his practice as an anthologist, which is best seen as a mixture of freedom and subservience. There is subservience because what he basically does is write out texts.264 Sul fondamento di questi risultati, avevo dunque postulato che, qualora il medesimo metodo attribuito allo Stobeo come redattore dei capitoli aeziani, fosse apparso identico o simile in quelli conosciuti grazie al solo Florilegium Laurentianum (L) e in quelli che L condivide con i testimoni della recensio breviata (F A P) avremmo avuto una prova complementare di una loro derivazione da un testimone perduto dell’Antologia, seppure in
263 Mansfeld, Runia I (1997), 327–332 (con l’utile schema a 328). La citazione che segue è da 331. I risultati sono ribaditi con ulteriori considerazioni in Mansfeld, Runia V (2020), 59–62. 264 Mansfeld, Runia I (1997), 269. I corsivi sono nel testo.
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qualche raro caso contaminato almeno in L, non sappiamo né quando né da chi, con la tradizione dello pseudo-Plutarco.265 Sennonché oggi sono convinto che sia possibile ritoccare l’ipotesi di Mansfeld e Runia relativa al ruolo che lo Stobeo avrebbe avuto nella redazione e riorganizzazione delle ecloghe aeziane e di riconsiderare di conseguenza l’importanza del suo intervento su quel materiale limitandolo in maniera consistente.266 In breve, ferma restando la realtà che i Placita aeziani furono a un certo momento rimodellati e integrati secondo i criteri che appaiono nella tradizione stobeana, ritengo più palusibile che colui che applicò per primo quel metodo e che intervenne come sopra indicato non fu lo Stobeo stesso, ma piuttosto un anonimo autore a lui precedente che considero come fonte comune perduta delle sezioni dell’Antologia e del Florilegium Laurentianum e il cui terminus ante quem colloco prima del V sec. d.C. Contro l’ipotesi di attribuire allo Stobeo quel ruolo primario nella par ticolarissima rielaborazione e redazione del materiale aeziano richiamo l’evidenza che interventi simili così profondi e mirati nella riorganizzazione delle fonti — bene inteso quelle per le quali disponiamo di una o più tradizioni parallele — non si ritrovano mai nell’insieme dei quattro libri della Antologia. Tenuto altresì conto della mole imponente che l’Antologia aveva raggiun to nella sua redazione originaria, credo sia più che verisimile supporre che lo Stobeo aveva spesso lavorato (e non solo per Aezio) su precedenti cresto mazie o raccolte più o meno estese e talvolta già organizzate tematicamente ritoccandone talora i contenuti con tagli, spostamenti, aggiunte dando vita così a un prodotto la cui realizzazione si estese per un lungo periodo di tempo e che si concretizzò in un manoscritto d’autore dalla struttura complessa e dalla leggibilità stessa forse non sempre agevole. La perdita della quasi totalità della tradizione antologica e gnomologica nei secoli prima dello Stobeo ci priva purtroppo di elementi di confronto probanti.267 Diversi gnomologi o florilegi più tardi danno tuttavia una idea a posterio 265 Così Diels (1881), 349–350, sviluppando una idea di Elter (1880), 73–74. Ma vedi Mansfeld, Runia I (1997), 267–269. Hense I (1894), xxxxvi–xxxxviii è eccessivo nel postulare una ampia contaminazione extra-stobeana in L estendendola anche a Stob. 3. Sarei tuttavia meno critico nei suoi confronti della Di Lello-Finuoli (1967), 143 n. 15. 266 Ripropongo nel seguito i risultati raggiunti in Dorandi (2021b), 159–164. 267 I resti papiracei di questa tradizione sono ora comodamente accessibili nel CPF II.3 (2017). Utile resta ancora lo studio della Piccione (1994a).
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ri di come a sua volta il materiale di singoli libri stobeani fu ripreso e reimpiegato ottenendo così prodotti nuovi per forma, struttura e contenuto sebbene fondati su un sostrato comune. Questo è palmare soprattutto in Stob. 3–4.268 Il metodo che presuppongo lo Stobeo avrebbe applicato nel riunire le ecloghe aeziane mi pare corrisponda a quello che venne messo in pratica anche da uno degli anonimi redattori della Suda (X sec.) nel momento in cui, qualche secolo più tardi, si occupò di integrare in quell’immenso lessico ‘enciclopedico’ i numerosi lemmi relativi al dominio della filosofia utilizzando quella che la Adler designò come Philosophische Hauptquelle.269 Questi lemmi della Suda sono a più riprese costituiti da definizioni compo site di un medesimo concetto filosofico riunendo e amalgamando materiale reperito in due o più autori diversi: Alessandro di Afrodisia e Diogene Laerzio; Alessandro di Afrodisia e Filopono; Alessandro di Afrodisia, Dio gene Laerzio e Filopono. La struttura di alcune definizioni è addirittura a incastro in una successione: Diogene-Alessandro-Diogene, AlessandroDiogene-Alessandro, Filopono-Diogene-Alessandro. Uno sforzo palese e costante di organizzazione del materiale, frutto di lettura attenta e meditata delle fonti, è evidente un po’ dovunque. Lo provano non solo i casi con la struttura a incastro, ma anche quelli la cui organizzazione segue l’ordine dei modelli oppure quelli in cui due passi di Diogene tratti rispettivamente da libri diversi e lontani sono tra loro sono riuniti e riaccostati. Anche in questo caso, resta da chiedersi in quale momento tale operazione venne programmata e eseguita. Sono ancora oggi convinto che la spiegazione più semplice per spiegare il fenomeno sia quella che l’anonimo redattore della Suda avesse trovato quei lemmi così organizzati già nella sua philosophische Hauptquelle e come tali li avesse riprodotti al momento della compilazione dell’immenso lessico. Una ipotesi che appare confortata anche dal dato di fatto ormai acquisito che i redattori della Suda ebbero in generale assai raramente accesso diretto ai testi originari delle loro fonti.270 Va da sé, che l’accettazione della mia proposta relativa al metodo che lo Stobeo avrebbe impiegato nel redarre le ecloghe aeziane, non ha alcuna ripercussione sull’edizione dei Placita di Aezio pubblicata da Mansfeld e Runia, che resta pienamente convincente. 268 Si deve comunque rinunciare all’ipotesi troppo riduttiva di Bernhardt (1862) che lo Stobeo avesse avuto accesso (almeno per i libri 3–4) soltanto a due Urflorilegien, come ha ben ribadito Piccione (1994a), 296–298. 269 Adler (1928), xxi–xxii e (1931), 710–711. 270 Per maggiori dettagli, vedi Dorandi (2009), 141–149.
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Per concludere, alla luce dell’insieme dei risultati fin qui raggiunti credo ci siano elementi sufficienti per escludere l’eventualità che il compilatore del Florilegium Laurentianum avesse avuto accesso a un testimone più completo e quindi più prossimo all’originale dell’Antologia stobeana e privilegerei piuttosto l’ipotesi dell’esistenza di una fonte comune allo Sto beo e al compilatore della raccolta tramandata da L. Ciò non impedisce di per sé di supporre che una parte almeno del materiale trasmesso nelle sezioni profane di L fosse presente, in una forma e in una organizzazione che non è possibile determinare con sicurezza allo stato attuale, anche in uno stadio della trasmissione dell’Antologia nel quale i primi due libri non erano ancora stati epitomati. È la ragione per la quale, al di là delle ragioni che me ne hanno fatto escludere una origine attraver so lo Stobeo, ho ritenuto opportuno di riproporre, alla fine, il materiale del Florilegium Laurentianum affatto scorporato dallo stato testuale della Recensio breviata nella sezione C delle Reliquiae della Recensio plenior. 5. Due scholia a Luciano e la dossografia stoica attribuita a Ario Didimo I tre lunghi compendi dossografici delle dottrine etiche dei Platonici, degli Stoici e dei Peripatetici riprodotti in Stob. 2 senza il nome dell’autore (almeno nello stato attuale del testo) rispettivamente in 2, 7, 1–4 (II 37, 15–57, 12); 2, 7, 5–12 (II 57, 13–116, 18) e 2, 7, 13–26 (II 116, 19–152, 25)271 rientrano nella categoria di quei testi che sono conosciuti esclusivamente attraverso la testimonianza dell’Antologia.272 Wachsmuth, riprendendo una ipotesi di Meineke, suggerì che tutti e tre gli estratti derivassero dalla Ἐπιτομή di quel Didimo dalla quale lo Stobeo 4, 39, 28 (III 918, 15–919, 6 Hense) tramanda un breve estratto sulla εὐδαιμονία introdotto dal lemma ἐκ τῆϲ Διδύμου Ἐπιτομῆϲ e propose di identificare il loro autore con Ario Didimo, filosofo di corte dell’imperatore Augusto.273 La questione della paternità dei tre compendi non è purtroppo
271 Con Hahm (1990) designo le tre sezioni rispettivamente Dossografia A (Platonici), Dossografia B (Stoici) e Dossografia C (Peripatetici). 272 Sui problemi relativi all’edizione di queste porzioni, vedi infra 158–163. 273 Wachsmuth (1884) II 37 (ad v. 16) richiamandosi a Meineke (1859), 563–565. La Ἐπιτομή è da identificare con il Περὶ αἱρέϲεων citato da Stob. 2, 1, 17 (II 6, 13) Διδύμου ἐκ τοῦ Περὶ αἱρέϲεων. Vedi Algra (2018), 64–70.
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5. Due scholia a Luciano e la dossografia stoica attribuita a Ario Didimo
così semplice e non può essere qui discussa nemmeno nelle grandi linee.274 Quello che è sicuro è che la Dossografia A va distinta dalle due successive e che, in questo caso almeno, il suo autore è destinato a restare anonimo dopo che l’attribuzione a Eudoro di Alessandria è stata rigettata con argo menti convincenti.275 Un aiuto alla constitutio textus di un paio di pagine del compendio di etica stoica (Dossografia B), trasmesso in uno stato testuale assai corrotto, potrebbe venire da due scholia a Luciano, qualora fosse provato che questi derivano in parte almeno da un testimone stobeano meglio conservato del capostipite della Recensio breviata (ω).276 Il primo (= Sch. A) è un lungo scolio a Luciano, Bis acc. 22 (140, 15–144, 23 Rabe); il secondo (= Sch. B) uno più succinto a Luciano, Vit. auct. 21 (127, 10–128, 17 Rabe). Gli scholia sono conservati nei due codici φ Va.277 In φ, il primo scolio inizia nel margine esterno del f. 87r e continua in quello inferiore e poi in quelli superiori dei ff. 87v–88r. Lo scolio di Bis acc. 22 è nel margine esterno del f. 105v e prosegue, con una disposizione a corona, nei margini dei ff. 106r–106v. In Va, lo scolio a Vit. auct. è mutilo alla fine. Esso è copiato nel margine sinistro del foglio in corrispondenza al § 19 del dialogo (39, 13 Ma cLeod). La scomparsa del resto dello scolio è dovuta alla perdita della sezio ne corrispondente ai §§ 20 (des. τὴν ἀγορὰν)–27 (inc. ἄξιον χρὴ φάναι) del Vit. auct. (40, 7–49, 15 MacLeod) al posto della quale si trova posto per er rore l’attuale f. 131rv corrispondente ai §§ 9–14 (31, 23–35, 8 παρεόντα) che deve essere pertanto risistemato tra il f. 129 (des. ἡγήϲηι: § 9, 31, 22) e il f. 130 (inc. οὐ δοκέω μεγάλα: § 14, 35, 8).278 Lo Schol. A è senza dubbio il più interessante. Esso venne utilizzato da Meineke per emendare alcuni punti corrotti nella tradizione dello Stobeo
274 Per una discussione dell’insieme dei problemi, è sufficiente rimandare a Göransson (1995), 182–226 (che nega l’identificazione di Didimo con il filosofo Ario: 211–218) e ai successivi interventi di Mansfeld, Runia I (1997), 238–266; Gourinat (2011); Hahm (2018) e Algra (2018), 58–78 (favorevole all’identità fra i due autori). 275 Bonazzi (2011). Vedi anche infra 159 n. 410. 276 La migliore presentazione della questione, anche se talora non convincente, è quella di Hahm (1990), 2947–2974. 277 Per le sigle dei manoscritti, vedi Rabe (1902), 724–725 e Rabe (1906), iv–v. Ho comunque qui siglato il codice Vaticano Va e non V per evitare confusione con il Vaticanus gr. 201 di Stob. 1–2. 278 Vedi Mercati, Franchi de’ Cavalieri (1923), 100: «folia exciderunt post 130, cui praeit 131 glutinatoris errore; vv. desunt ἀπηντηκότων—ταῦτα· πόϲου».
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(II 69, 17–83, 7).279 Wachsmuth si mostrò invece molto critico a partire dal presupposto che lo scolio avesse subito troppe manipolazioni da parte di un bizantino affatto ignaro della filosofia stoica per risultare di una qualche utilità concreta nel restauro del dettato stobeano se non in II 79, 10–11 dove la lezione dello scolio è confortata dal parallelo di Diogene Laerzio 7, 104.280 Un giudizio assai positivo sul valore dello scolio ha infine espresso Hahm,281 pur nella consapevolezza che lo scoliaste taglia circa la metà del testo stobeano e che ne parafrasa il resto per trasformare quell’estratto in una nota a Luciano. Nonostante le manipolazioni, ci sono tuttavia elementi che sembrano rispecchiare lo stato testuale del modello e che quindi meritano grande attenzione. Fra questi, le aggiunte in particolare di exempla che Hahm non esista a considerare genuine sul fondamento di un confronto con passi paralleli di Diogene Laerzio e di Sesto Empirico. Lo studioso insiste anche sulla riscrittura, all’inizio dello scolio (140, 15–141, 5 Rabe), della presentazione della dottrina stoica relativa ai tre significati del termine ἀγαθόν completata da una serie di esempi che mancano nei manoscritti della Recensio breviata dello Stobeo.282 Più complesso è il caso dello Sch. B, che si presenta sotto forma di una breve dossografia stoica.283 Innanzitutto, Hahm fa notare che la parte centrale dello scolio (127, 18–28 Rabe) contiene la stessa divisione degli indifferenti (ἀδιάφορα) in προηγμένα e ἀποπροηγμένα dello Schol. A (143, 3–30). Poiché tuttavia il testo relativo agli ἀποπροηγμένα è qui parafrasato in maniera diversa da quello dello Sch. A e si presenta in una forma più vicina a quella dei manoscritti stobeani, egli rigetta la filiazione di uno dei due scolî dall’altro. Più intrigante gli appare infine il fatto che la prima parte dello Sch. B (127, 10–18) è una citazione, integrata con sue aggiunte specifiche negli esempi, dell’inizio Manuale di Epitteto (1, 1) di cui non troviamo traccia alcuna nella tradizione stobeana.284 Hahm esclude che 279 Meineke II (1864), clxiii. 280 Wachsmuth (1884) I xxii–xxiv: «sed haec additamenta si quis paullo accuratius examinaverit, verba et commenta magistelli Byzantini agnoscet qui plerumque ne sententiam quidem Stoicorum adsecutus sit» (xxii). Il giudizio è ripreso da Rabe (1906), 140 (ad v. 15). 281 Hahm (1990), 2949–2964. 282 Hahm (1990), 2955–2963. I risultati sono opportunamente sintetizzati nello schema a 2963. 283 Hahm (1990), 2964–2974. 284 Hahm (1990), 2965–2966 n. 65. Lo Stobeo cita altrove a più riprese, talora in una redazione che si allontana da quella dei codici medievali il Manuale. Vedi Boter (2007), xiii–xi e nell’Index auctorum, s.v. Stob., 59.
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5. Due scholia a Luciano e la dossografia stoica attribuita a Ario Didimo
questa riscrittura del luogo di Epitteto sia dovuta allo scoliaste e preferisce pensare che sia Epitteto sia lo scoliaste risalgano a una terza fonte perdu ta. Dal che egli giunge alla conclusione che il secondo scolio a Luciano è «a relatively accurate record of a lost Stoic text which Epictetus also adbriged and adapted to his own philosophical objectives».285 L’ulteriore e più sostanziale conseguenza che Hahm trae dalla propria ipotesi è che quella realtà testuale corrispondeva all’originale dello Stobeo prima che questo subisse durante le fasi della epitomazione perdite irreparabili non solo di una parola o di una frase qua e là, ma anche di «entire paragraphs including some philosophically important material».286 Il ragionamento di Hahm è in entrambi i casi ben condotto e i suoi argo menti sono coerenti; mancano tuttavia (né poteva essere altrimenti) prove concrete e dirimenti per dimostrare che gli scolî trasmettono materiale genuino derivato da un testimone dello Stobeo più integro. Quello su cui vorrei in particolare insistere è che gli interventi coinvol gono sempre le serie degli exempla e per di più in sezioni dalla struttura fortemene diairetica, ossia aperta in quanto tale a aggiunte, tagli e manipo lazioni di questo genere che avrebbero potuto verificarsi in un qualsiasi momento della trasmissione e a opera di chiunque avesse una sufficiente conoscenza della filosofia stoica. Il che mi porta, anche in questo caso, a escludere la derivazione da un perduto testimone meglio conservato dell’Antologia e a postulare piuttosto l’esistenza di una fonte comune (qualunque essa sia) alla quale avrebbero attinto, in momenti distinti e imprecisabili, sia lo Stobeo sia lo scoliaste.287 Una volta ammessa l’esitenza di una fonte comune, resta da spiegare la presenza negli scolî di porzioni di testo che che non hanno parallelo nella Recensio breviata. Una risposta univoca è impossibile. L’ipotesi di Wachsmuth (e di Rabe con lui) che fossero aggiunte tarde senza valore delle quali un editore dello Stobeo non deve tenere conto mi appare la più probabile. Meno mi convince invece l’eventualità che quelle porzioni di testo, già nella fonte comune, fossero state eliminate da Stobeo e mantenute dallo scoliasta. Ancor più escluderei infine che le omissioni fossero da imputare all’estensore della Recensio breviata, pur non negando che costui
285 Hahm (1990), 2965–2967. Citazione da 2967. 286 Hahm (1990), 2967–2974. Citazione da 2974. 287 Il modello potrebbe essere la Ἐπιτομή di Ario Didimo o una sua redazione posteriore contaminata con materiale allotrio e manipolata.
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fosse qualche volta intervenuto sulla struttura e sui contenuti di singole ecloghe. Anche se non derivano da un codice meglio conservato dell’Antologia dello Stobeo, i due scolî presentano numerosi e innegabili punti in comune che portano a presumere una comunanza di fonte. In qualche punto inol tre, se utilizzati cum grano salis (al di là degli eccessi di Hahm), possono aiutano ripristinare se non lo stato testuale della Recensio breviata alme no quello dell’originale al quale attinsero indipendentemente lo Stobeo e l’anonimo scoliasta. È alla luce di queste considerazioni, pur restando fermo nella mia con vinzione che le due note non derivano dall’Antologia, ancora una volta, ho preso la decisione di riproporle fra le Reliquiae della Recensio plenior. Gli scolî sono ristampati nell’edizione di Rabe nella sezione D.
6. Gli Excerpta Elteriana Ulteriori tracce riconducibili a suo parere a una redazione più completa dell’Antologia vennero infine indicate da Elter in una trentina di ecloghe sia in L sia altri due codici bizantini fino allora inesplorati. Lo studioso propose in un primo momento di restituire alla fine di Stobeo 2, 46 (dopo l’ecloga 22 W.; II 264, 4), là dove il testo si interrompe bruscamente nei testimoni della Recensio breviata, due ecloghe che numerò 23–24. Sono due corte sentenze contigue attribuite a Socrate (lemmi: Ϲωκράτουϲ e τοῦ αὐτοῦ) trasmesse da L a conclusione del capitolo Περὶ ἀχαριϲτίαϲ (f. 144v 6–7 = Α ιαʹ).288 I testi erano già stati divulgati da Mei neke,289 ma la loro derivazione dallo Stobeo fu negata da Wachsmuth290 poiché entrambi si ritrovano identici nello pseudo-Massimo,291 che le attri buisce a Plutarco e non a Socrate. 288 Elter (1900), 24 e (1901), 90. Le sentenze trovano corrispondenza negli Gnomica homoeomata nr. 6 e nr. 145 quali ricostruiti da Elter. Ne accoglie i risultati Hense III (1912), v–vi, xiii. 289 Meineke IV (1857), 187, 25–30. 290 Wachsmuth (1882), 90 e 183 (ad 103). 291 Ps.-Max. 8.22/24 e 8.23/25 Ihm, nel capitolo Περὶ εὐεργεϲίαϲ καὶ χάριτοϲ. Le mede sime sentenze sono presenti anche in altre raccolte gnomologiche con differenti at tribuzioni registrate da Ihm (2001), 193 nonché, nella stessa sequenza, nella silloge trasmessa dal codice di Londra, Addit. 10072, f. 94v (s. XV) edita da Krumbacher (1897), 330, 20–21. Vedi Elter (1901), 90.
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6. Gli Excerpta Elteriana
Elter segnalò in séguito tracce di altro materiale affine e riconducibile allo Stobeo in una raccolta di trenta o trentadue massime trasmessa nei due codici Vat e (a cominciare dalla quarta) Voss e ne pubblicò l’editio princeps.292 Elter insisteva sul fatto che le ultime cinque massime (26–30) si ritrova no identiche e con gli stessi lemmi in Stobeo 2, 31 (26 = 2, 31, 42; 27 = 2, 31, 31; 28 = 2, 31, 44; 29 = 2, 31, 45 e 30 = 2, 31, 54), un capitolo intitolato Περὶ ἀγωγῆϲ καὶ παιδείαϲ che, si ricordi, manca nella Recensio breviata e che Wachsmuth aveva ricostruito nella sua interezza esclusivamente sulla base del Florilegium Laurentianum (L ff. 145r–153v). Poiché la successione delle ecloghe nei tre testimoni (con l’eccezione della 27) è la stessa e poiché le due massime socratiche (28–29) sono di nuovo registrate l’una di seguito all’altra anche in Vat e Voss, Elter postulò che le prime venticinque ecloghe (1–25) derivassero dall’Antologia dello Stobeo e ne propose una sistema zione all’interno del secondo libro in considerazione dei loro contenuti. Nella ricostruzione di Elter, le massime 17–25 (περὶ φιλίαϲ) sarebbero state recuperate da Stobeo 2, 32–39; il gruppo 6–14 da Stobeo 2, 11, un capitolo intitolato ὅτι χρὴ ϲέβειν τὸ θεῖον; con la 10 è necessario tuttavia presupporre una nuova sezione del capitolo che avrebbe trattato πῶϲ χρὴ εὔχεϲθαι θεῶι. Le massime 5–16 riporterebbero infine a Stobeo 2, 40 (περὶ ἔχθραϲ). Di conseguenza, resterebbe incerta soltanto la collocazione delle attuali ecloghe 1–4.293 Hense approfondì i risultati di Elter alla luce dei progressi negli studi sul la tradizione gnomologica e della sua edizione di Stob. 3–4. Lo studioso ri condusse tutto quel materiale a sezioni oggi perdute del solo secondo libro dello Stobeo giustificando i due casi (3 e 16) che presentano consonanze con Stob. 3, 1, 89 e 3, 20, 62 come esempi di massime citate espressamente dallo Stobeo due volte in due luoghi distinti dell’Antologia. Di fronte a questo tipo di materiale, è davvero difficile prendere una de cisione univoca relativamente alla sua origine e lo stesso Elter, pur convinto di una derivazione di quegli estratti dallo Stobeo, alla fine aveva optato per una forma di prudenza:294 292 Elter (1892) e (1892a). L’edizione di Elter (1882, 130–134) venne riproposta sul fondamento di quei due manoscritti e migliorata da Hense III (1912), vi–xii, che sintetizzò di seguito (xii–xv) gli argomenti del predecessore. Una ulteriore edizione parziale venne infine approntata da Schenkl (1916), 476–477. Vedi Fuentes Gonzáles (2011), 431. 293 Vedi comunque le considerazioni di Hense I (1894), xiii–xiv. 294 Elter (1892), 137.
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Sollte es aber trotz alledem kein echter Stobaeus sein — nun, so könnte es nur der Reste eines der vorstobaeischen Gnomologien sei, aus denen Stobaeus sein Werke compilierte. Conclusione che non convinse comunque Hense:295 quod autem coniecit Elter fieri posse ut in sylloge, quam ille Stobaeo et maximam partem secundo eius libro adsignavit, potius cum gnomolo giorum Stobaeo antiquiorum reliquiis nobis res sit quam cum Stobaeo demum, id vide ne cautius ille quam rectius suspicatus sit. Per quanto mi riguarda, preferisco attenermi in generale alla cautela di Elter piuttosto che alla spigliatezza di Hense, in sé lecita, ma più intuita che dimostrata, e questo soprattutto in ragione delle specificità e delle caratteristiche della letteratura gnomologica. Questo è il caso più dubbio fra quelli finora esaminato. Se ho deciso infine di riproporre anche quei testi è esclusivamente per ragioni di com pletezza nel mettere a disposizione dei lettori tutto il materiale al di là delle forti incertezze che persistono. Le trentadue ecloghe sono riproposte nell’e dizione di Hense (confrontata là dove possibile con quella dell’editio maior di Epitteto di Schenkl) nella sezione E delle Recensionis plenioris reliquiae. Nell’apparato, ho registrato essenzialmente le varianti dei codici Vat Voss e L. Ho invece rinunciato a segnalare le attestazioni della tradizione parallela (gnomologica o altro) e ho indicato solo l’eventuale presenza dell’uno o dell’altro testo altrove in Stobeo o nella tradizione di L. 7. Per una ricostruzione della più antica trasmissione di Stob. 1–2 Alla luce dei risultati fin qui raggiunti possiamo cercare ora di ripercorrere alcune tappe della trasmissione più antica dell’Antologia e di gettare uno cauto sguardo al di là dello stato testuale di Stob. 1–2 quale trasmesso dalla Recensio breviata. Fozio ebbe a disposizione un codice in due volumi con l’insieme di Stob. 1–4 nel quale i due libri iniziali erano in una forma non epitomata. Le tre traslocazioni testuali da Stob. 2 in Stob. 4 risalgano a un momento diverso nel quale l’intero Stob. 1–4 era ancora integro e copiato apparente mente in un unico volume. Una derivazione da un testimone più completo dell’Antologia è invece da escludere per le sezioni profane del Florilegium 295 Hense III (1912), xv.
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7. Per una ricostruzione della più antica trasmissione di Stob. 1–2
Laurentianum trasmesse da L, per i due scolî a Luciano e per gli excerpta Elteriana. Per queste tre porzioni bisogna piuttosto privilegiare l’ipotesi che sia lo Stobeo sia i loro anonimi redattori avessero attinto a una fonte comu ne. 7.1. L’ipotesi di Wachsmuth Nel proporre la sua ricostruzione di quella che riteneva essere la facies di Stob. 1–2, se non quella originale almeno una a questa più prossima, Wachsmuth era partito da tre presupposti:296 1. Fozio, nel IX secolo, disponeva di una copia completa dei quattro libri dell’Antologia suddivisa in due tomi. In questo codice, l’opera contava 208 capitoli i cui titoli Fozio trascrive sotto forma di un indice sommario libro dopo libro. Una larga parte dei capitoli dei primi due libri andò nel frattempo perduta. Scomparve, fra l’altro, la premessa con la dedica di Stobeo al figlio Settimio e insieme una larga porzione delle sezioni introduttive dell’Antologia dove si trovavano gli elogi della filosofia e diversi estratti relativi alla geometria, la musica e l’aritmetica. L’esempla re in due tomi di Fozio, rimasto senza discendenti, era stato compiato dal medesimo modello (una edizione completa di Stob. 1–4) dal quale sarebbe derivato anche l’archetipo di tutta la tradizione medievale (*X). 2. Nell’archetipo *X, i quattro libri erano riuniti in un solo volume come proverebbe la traslocazione di diversi fogli di Stob. 2 finiti per errore in Stob. 4. Sul manoscritto *X, dopo quell’accidente, venne preparata una edizione divisa anch’essa in due tomi, il cui primo (*Y) conteneva i libri 1–2 e il secondo (*Z) i libri 3–4 (ivi compresi i fogli mal piazzati). Wachsmuth ammette inoltre che *X è il modello indiretto anche del cosiddetto Florilegium Laurentianum (L). Il testo dei due primi libri, tra smesso da *Y sarebbe stato in seguito epitomato. Da questo esemplare ri dotto (ulteriormente corrottosi) discese il capostipite dei due manoscritti indipendenti ancora oggi conservati (F P) di Stob. 1–2 e, di conseguenza, tutti i loro apografi. 3. Il codice L trasmette solo una porzione dell’originario Florilegium Lau rentianum. Wachsmuth suppose che il modello di L sarebbe stato esem plato sul perduto codice *X dell’Antologia dopo l’erronea traslocazione dei fogli da Stob. 2 a Stob. 4, ma prima che Stob. 1–2 fosse epitomato. 296 Wachsmuth (1882), 66–71 con un primo tentativo di stemma.
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Di conseguenza, sarebbe possibile recuperare in L un buon numero di capitoli o ecloghe che in seguito scomparvero durante l’operazione di epitomazione e che di conseguenza mancano oggi nei codici stobeani di cui disponiamo. Così Wachsmuth rappresentò schematicamente i propri risultati:297
297 Riproduco lo stemma qua e là semplificato e con pochi aggiornamenti tra parentesi quadre (che indicano per lo più i rimandi all’edizione di Wachsmuth invece che a quella di Meineke) e limitandomi alla parte alta fino al modello della Recensio breviata (ω).
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7. Per una ricostruzione della più antica trasmissione di Stob. 1–2
7.2. Oltre Wachsmuth Nella prima redazione di questo capitolo, quando ero ancora convinto che una parte delle ecloghe profane del Florilegium Laurentianum derivasse realmente da una redazione più completa dell’Antologia stobeana, avevo accolto, a parte qualche dettaglio, l’insieme della ricostruzione stemmatica di Wachsmuth.298 Là dove me ne distaccavo era a proposito della genesi e dalla cronologia delle traslocazioni testuali nonché della posizione del Florilegium Laurentianum nello stemma. In primo luogo avevo notato che il fatto che in L c’è traccia solo della prima delle tre traslocazioni testuali non costituisce di per sé e da solo una prova sufficiente per presupporre che l’accidente si fosse prodotto in due momenti cronologicamente distinti. In secondo luogo, per quanto riguarda le ecloghe stobeane presenti in L, avevo suggerito che tra L e il suo modello dell’Antologia era necessario am mettere l’esistenza di un ulteriore testimone intermedio (che indicavo con la sigla λ) dove il materiale sacro e profano sarebbe stato per la prima volta riunito (a meno che λ non sia da identificare con quello che Wachsmuth chiama codex florilegii Laurentiani). Infine, avevo insistito sull’ambiguità di che cosa lo studioso intendesse con Stobaei anthologium quattuor librorum, modello di *X e del codex Photianus, giungendo alla conclusione che si trat tava dell’esemplare definitivo messo in circolazione dallo Stobeo piuttosto che di uno successivo fedele, nei limiti del possibile, al modello originario. Di conseguenza, avevo raffigurato la parte alta della trasmissione di Stob. 1–4, restringendo poi la discendenza ai soli testimoni di Stob. 1–2, sotto forma del seguente stemm
298 Dorandi (2020a), 85–88.
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Il tutto avevo così interpretato: Χ, un codice in un solo volume, esemplato non sappiamo né quando né attraverso quali e quanti modelli sull’edizione curata dallo Stobeo, e archetipo di tutta la tradizione di Stob. 1–4, dette vita a due subarchetipi Φ (in due volumi, stando alla testimonianza di Fozio che l’utilizza) e Ψ (in un solo volume). Il primo subarchetipo rimase senza discendenza. Il secondo è da considerare invece come capostipite dell’intera tradizione dell’Antologia. Ψ dette vita da un lato a un esemplare dell’opera completa in due tomi: H (Stob. 1–2) e Θ (Stob. 3–4). Dall’altro lato, a Ψ attinse anche ξ (fonte di λ per gli excerpta profana); ξ e ζ (fonte del medesimo λ per gli excerpta sacra) produssero il modello (λ) dal quale si sarebbe formato il Florilegium Laurentianum conosciuto parzialmente grazie a L. Η è da considerare l’esemplare sul quale venne approntata la Recensio breviata di Stob. 1–2 (ε) che che noi possiamo restaurare nella forma di ω, modello di tutti i codici posteriori di questo stato testuale. La trasposizione delle ecloghe da Stob. 2 a Stob. 4 avrebbe avuto luogo in Ψ. Chi infine avesse ammesso che i due scholia a Luciano e gli excerpta Elteriana tramandassero anch’essi materiale recuperato in Stob. 1–2 prima dell’epitomazione, avrebbe potuto collocare la loro formazione in un mo mento imprecisato da X, attraverso Ψ oppure Η. La convizione che ho nel frattempo maturato che i capitoli profani di L non derivano da un testimone più completo dell’Antologia, ma piutto sto da un modello comune (e lo stesso vale ancor più per gli scholia a Luciano e per gli excerpta Elteriana) mi porta oggi a modificare in parte quello schema, che ne risulta molto più semplificato per quanto riguarda la discendenza del ramo Ψ, fermi restando i risultati in precedenza raggiunti relativi alla sua discendenza.299 Dall’edizione originaria curata dallo Stobeo (Stobaei anthologium quat tor librorum) derivò (forse indirettamente) un modello a quanto sembra ancora in un unico volume (Χ) archetipo dell’intera tradizione. Da que sto discesero due esemplari (subarchetipi) dell’intera Antologia entrambi perduti Φ e Ψ. Uno di questi (Φ), modello del codice letto e riassunto da Fozio, era diviso in due tomi. L’altro (Ψ), poteva essere ancora in un solo volume oppure anch’esso già in due tomi. Da Ψ derivarono Κ e Θ capostipiti (perduti) rispettivamente di Stob. 1–2 (Κ) e di Stob. 3–4 (Θ). Su 299 Nello schema che segue inoltre al fine di evitare confusione fra la sigla Η (lettera greca eta maiuscola) che avevo in precedenza utilizzato con quella (h latina maiu scola) che indica il codice Harleianus della Recensio breviata, l’ho sostituita con un K (kappa greco maiuscolo).
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Κ venne condotta in un momento indeterminato l’opera di epitomazione (ε) la cui fase più recente e la sola ricostruibile con una certa fedeltà è per noi rappresentata da ω quale riusciamo a ricostruire attraverso F A o F P. Se ammettiamo che Ψ fosse ancora in un solo volume è probabile che le traslocazioni testuali avessero avessero avuto luogo in questo esemplare; se invece era già in due tomi, è verisimile che quell’accidente si fosse già prodotto in un momento precedente e cioè in Χ. La testimonianza di Fozio è troppo sintetica per dedurne qualcosa in più sulla presenza o meno delle traslocazioni anche in Φ. Come risulta evidente, da questa ricostruzione scompare, per le ragioni già esposte, L. Nella mia ricostruzione né gli scholia né gli excerpta Elteriana dipendo no dalla tradizione stobeana e risalgono a una fonte comune o a una tradizione parallela.
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7. Per una ricostruzione della più antica trasmissione di Stob. 1–2
Il tutto può essere così rappresentato sotto forma di un nuovo stemma:
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
1. Considerazioni preliminari Nei due capitoli precedenti ho presentato i risultati delle mie ricerche sulla formazione e la trasmissione della Recensio breviata di Stob. 1–2 e delimitato i confini e i contenuti di una Recensio plenior di quei medesimi libri. Il momento è venuto ora di dettagliare i principi e i criteri che ho seguito nel preparare la mia nuova edizione che si distinguono in larga misura da quelli applicati da Wachsmuth. Per quanto riguarda la constitutio textus della Recensio breviata, essa si fonda sui tre manoscritti indipendenti F A P, ai quali si affianca L per quei capitoli che esso ha in comune con i precedenti testimoni e Φ. Ho rinunciato invece a reintegrare, con Wachsmuth, direttamente nel tessuto della Recensio breviata ecloghe o interi capitoli recuperati in L, sequele di titoli di capitoli a partire da Fozio (e talora anche dall’index di L) e i tre gruppi di ecloghe traslocate per un accidente meccanico da Stob. 2 in Stob. 4. Tutto questo materiale, insieme ai più dubbi scholia a Luciano e excerpta Elteriana, trova posto in una sezione a sé rispetto all’edizione della Recensio breviata, che ho intitolato Recensionis plenioris reliquiae. Se ho deciso di tenere distinti i due stati testuali è soprattutto perché, an che ammettendo che una parte delle ecloghe raccolte fra le Reliquiae poteva all’origine trovarsi i capitoli perduti di Stob. 1–2, sono altresì convinto che non ci sono elementi determinanti per stabilire quali e quante fra esse ne facevano parte né dove erano realmente sistemate nonostante l’apporto che può venire dalla testimonianza di Fozio. Gli interventi dell’ignoto redattore dell’epitome e l’innegabile fluidità che caratterizza tutte le tradizioni gno mologiche o antologiche, sottoposte a continui rimaneggiamenti di ogni sorta, talora evidenti, ma molto più spesso subdoli e sotterranei, provano a essi soli l’incertezza se non l’arbitrarietà di tentativi, di per sé coerenti e ben esperiti, come quello di Wachsmuth. Nello stesso tempo, essi sono un indice significativo della nostra impotenza a ammettere e a gestire, nello stato attuale delle conoscenze, soluzioni di tal genere che poterono, a una certa epoca e in certi ambienti, apparire allettanti e perfino lecite.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
Il risultato tangibile della mia operazione è, almeno lo spero, una presen tazione più chiara e oggettiva di quanto resta a tutt’oggi dei primi due libri dell’Antologia. 2. Il metodo di Wachsmuth Punto di partenza e di confronto obbligato è l’edizione del Wachsmuth. Ac canto a questa, è opportuno prendere in conto in particolare la precedente edizione di Meineke300 la cui facies, anche se per motivi affatto indipenden ti da quelli che sono sottesi alla mia operazione, risulta molto più vicina allo stato testuale della Recensio breviata. All’origine della sostanziale differenza fra le due edizioni, sta il fatto importante e significativo che a Meineke, pur consapevole della forma epi tomata di Stob. 1–2, non era ancora affiorata l’idea che si potesse tentare di ricostruire se non il testo originale di quei due libri, almeno una redazione più completa e più prossima di quanto non lo fosse quella che egli leggeva nei manoscritti di cui disponeva.301 Questa nuova via si era nel frattempo aperta dopo la pubblicazione della dissertazione di Elter sul codice dello Stobeo passato fra le mani di Fozio (Φ) e gli studi pionieristici di Wachsmuth su L e sulle ecloghe traslocate.302 Sarà appunto Wachsmuth a seguirla in maniera sistematica e coerente e a portarla fino alle estreme conseguenze nella sua edizione di Stob. 1–2, mentre Hense la estenderà all’edizione di Stob. 3–4, due libri tramandati in una forma a quanto sembra pressoché integra, sebbene a più riprese ritoccati e interpolati nel corso della trasmissione.303 La caratteristica principale e nello stesso tempo la più problematica e discutibile dell’edizione di Wachsmuth consiste proprio nel suo impegno costante di cercare di restaurare uno stato del testo di Stob. 1–2 che vada al di là di quello trasmesso da F P304 e che si avvicini fin dove possibile a quello originale. 300 Meineke (1860–1864). 301 In particolare Meineke non aveva ancora accesso né a F né a A. Ancor meno l’idea di ricostruire un presunto testo originale era affiorata nelle precedenti edizioni, dall’editio princeps Canteriana (1575) a quelle di Heeren (1792–1801) e di Gaisford (1850). 302 Elter (1880); Wachsmuth (1882), 1–89 e (1884) I xxix–xxxi. 303 Hense (1894–1912). 304 Wachsmuth non tiene conto di A.
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2. Il metodo di Wachsmuth
Wachsmuth è convinto che il confronto del testo trasmesso da F P con l’indice sommario dei capitoli in Fozio e in parallelo con l’indice dei capitoli del florilegio di L dia una idea sufficiente di quella che doveva essere l’ossatura di Stob. 1–2, che lo studioso completa integrando in quella struttura, di volta in volta, capitoli interi o all’interno di singoli capitoli gruppi più o meno estesi di ecloghe che l’epitomator avrebbe volontaria mente tagliati o che avrebbero potuto cadere nel corso della trasmissio ne.305 A parte i tre gruppi di ecloghe traslocate da Stob. 2 a Stob. 4, il grosso del materiale è recuperato in L. Esempi del modus operandi di Wachsmuth possono essere indicati nell’attuale cap. 2 del primo libro da lui ricostruito ex novo nonché nel suggerimento che dopo 1, 49, 27 (I 357 post 22) fossero andate perdute alcune ecloghe con dottrine relative all’anima:306 post Aesarae fragmentum (ignotum tamen quo loco) excerpta intercide runt, quibus philosophorum quorundam de anima sententiae contine bantur, inter eos probabiliter Aristander numerandus, cuius doctrinam novimus ex Procli comm. in Timaeum p. 187B; minus certa sunt quae praeterea disputavit Elter, de Stob. cod. Phot. p. 26 sq. In altri casi, capitoli o porzioni di capitoli sono poi integrati da Wachsmuth (nell’orma anche dei suoi predecessori a partire da Heeren) spesso sotto forma del solo titolo accompagnato dall’indicazione «deest», che egli recu pera in Fozio o nell’indice di L.307 Né mancano infine casi in cui il titolo nella redazione di F P viene modificato o completato con il confronto ancora una volta della testimonianza di Fozio o del πίναξ di L.308 Se l’operazione di ricostruzione dei capitoli mancanti appare meno inva siva e problematica, più discutibile è invece quella della ricomposizione sistematica delle ecloghe perdute (o presunte tali) all’interno di capitoli
305 L’indice di L fu pubblicato da Wachsmuth (1882), 1–44. Quello di Fozio è ristampato, dopo Bekker (1824), da Wachsmuth (1884) I 3–10 con le corrispondenze con i capitoli della sua edizione. 306 Wachsmuth (1884) I 357–358 (ad loc.). Il rimando finale è a Elter (1880). In maniera simile, Wachsmuth (1884) II 15 (ad v. 13) operò con i capitoli 2–6 del secondo libro, sui quali vedi il prossimo capitolo. 307 Vedi, p. es., 1, 33–35 (I 248, 12–21); 1, 42, 8–13 (I 296, 6–17); 1, 44 e 46 (I 297, 9–11 e 298, 3–5); 2, 16–30 (II 197, 1–199, 11). 308 Posso citare 1, 22 (I 195, 2) περὶ τάξεωϲ τοῦ κόϲμου· ; 1, 26 (I 217, 18–20) περὶ ϲελήνηϲ οὐϲίαϲ καὶ μεγέθουϲ καὶ ϲχήματοϲ (add. Wachsm. duce Heeren). Sul primo luogo, vedi infra 124.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
che sarebbero stati decurtati nella Recensio breviata stando almeno alla testimonianza di ω.309 Wachsmuth procede in maniera rigorosa e sistematica nell’integrare il tessuto di ω con materiale che deriva da Fozio e da L, che egli riorganizza secondo criteri assai rigidi che corrispondono all’idea che si era fatto della successione delle ecloghe nella redazione originaria della Antologia. Così, di fronte a capitoli che in ω si presentano sotto la forma di macrostrutture che Wachsmuth interpreta come il risultato di un possibile accorpamento da parte dell’epitomatore di più ecloghe all’origine separate, egli interviene suddividendole in diverse e singole unità. Queste nuove microstrutture so no da lui numerate aggiungendo là dove necessario una lettera dell’alfabeto a seguito del numero attributo a ognuna delle nuove ecloghe, nella forma 1, 1 a, 1b, 1c ecc., ma anche 1a, 1b; 2a, 2b, 3 ecc. oppure 1, 2, 3, 4. Inoltre egli reintegra in maniera sistematica entro parentesi angolari (< >) i lemmi di tutte quelle ecloghe che ne sono attualmente prive. Né questi sono i suoi soli interventi. Un altro tipo consiste, per esempio, nell’aggiunta in alcune ecloghe di Hermetica in forma di dialogo del nome dei personaggi, che Wachsmuth eredita dall’edizione di Heeren attraverso Meineke. Così in 1, 18, 2 (I 157, 6–160, 4) e 1, 19, 2 (I 163, 14–165, 13) sono in tegrati i nomi di Ἑρμῆϲ e ’Αϲκληπιόϲ nelle forme corrispondenti e mentre in 1, 48, 3 (I 310, 25–312, 3) quelli di Ἑρμῆϲ e Tάτ nelle forme e . Queste indicazioni, assenti in ω, devono essere soppresse come prova anche il fatto che i nomi dei personaggi non sono mai indicati nelle restanti numerose ecloghe estratte dai dialoghi platonici né in quelle di frammenti drammatici.310 3. Constitutio textus e criteri di edizione di Stob. 1–2 Per la constitutio textus della Recensio breviata di Stob. 1–2 sono prioritari i due codici F P. Sennonché, in una ampia porzione di Stob. 1, P cederà il posto al suo modello indiretto A (ignoto a Wachsmuth e da me per la prima volta rivalutato) modello indiretto del precedente. Tutti i recentiores di cui ho conoscenza si confermano essere copie dirette o indirette di F o P. Questa solo apparente semplicità della trasmissione non facilita 309 Curnis (2004), 103 parla con efficacia di «una sorta di horror vacui» da parte di Wachsmuth. 310 Sulla questione è sufficiente rimandare al contributo di Jadzewska (2018).
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3. Constitutio textus e criteri di edizione di Stob. 1–2
certo l’opera dell’editore in ragione del fatto che all’origine di tutti i testi moni completi della Recensio breviata (F A P) c’era un solo e medesimo testimone assai corrotto e malconcio (ω) rispetto a quello della redazione originaria dell’epitome (ε). Il che significa, in pratica, che messi a parte i pochi capitoli che F A P hanno in comune con L, è come se lavorassimo un codex unicus, con tutti i problemi e i rischi e pericoli che una tale situazione presenta. Quanto alle testimonianze derivate dalla Recensio plenior, dobbiamo procedere autore per autore. Per gli excerpta trasmessi da L, ho effettuato una loro nuova collazione limitata agli excerpta profana. Nel caso delle tre traslocazioni testuali, ne ho stabilito il testo principalmente sul fondamento dei codici indipendenti di Stob. 3–4 (S M A) di nuovo collazionati. Infine, per Fozio, gli scholia a Luciano e gli excerpta Elteriana sono ricorso alle edi zioni di riferimento, verificando, là dove necessario, i testimoni manoscritti. I criteri generali di edizione che intendo applicare nella preparazione della mia edizione essi non si allontanano mutatis mutandis da quelli che avevo messi in pratica nell’edizione delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio.311 Un aspetto sul quale mi preme particolarmente insistere è il seguente: nel momento in cui lo Stobeo riunì e dette forma ai quattro libri della sua monumentale antologia, aveva davanti a sé i risultati dell’enorme impegno di letture e di ‘schedatura’ che aveva condotto in precedenza su innumere voli fonti. Non conosciamo nei dettagli il metodo di lavoro che lo Stobeo praticò in queste fasi preliminari, ma è verisimile che per alcuni aspetti almeno non fosse troppo lontano da quello praticato da altri autori dell’an tichità per i quali siamo meglio informati: Filodemo di Gadara, Plutarco, Plinio il Vecchio, Aulo Gellio, Macrobio.312 Se è probabile che lo Stobeo avesse letto lui stesso direttamente una buona parte delle fonti, è altrettanto sicuro che spesso egli avesse avuto ricorso anche a differenti antologie di taglia variabile e arrangiate con criteri e fini diversi e che le avesse ricopiate per intero o per singoli capitoli senza riportarsi in questi casi almeno alle opere originali sulle quali esse erano state compilate. A monte di tutte le fonti consultate e ‘schedate’, è necessario altresì presupporre, vicine o lontane, una o più ‘edizioni’ di quei singoli autori 311 Per Diogene Laerzio, vedi Dorandi (2013), 45–52; per lo Stobeo, Dorandi (2019), 25–34. 312 Per una visione d’insieme, vedi Dorandi (2007). Il metodo di lavoro dello Stobeo è stato studiato, dopo Luria (1929) — i cui risultati sono riproposti e condivisi da Hahm (1990), 2940–2943 —, da Piccione (2010) con prospettive promettenti.
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conservate in una o più biblioteche, che fossero pubbliche o private, di una città del bacino mediterraneo che non riusciamo a identificare. È ovvio che lo Stobeo ebbe talora accesso a edizioni dotte, frutto dell’attività di un filologo dell’antichità, talaltra a edizioni di livello meno accurato e di qualità testuale inferiore che trasmettevano stati testuali distinti di un opera specifica; né possiamo a priori nemmeno escludere che egli avesse avuto qualche volta a disposizione non una sola, ma più copie o edizioni di un singolo libro o di un’opera intera. Lo spettro delle possibilità è davvero vasto e imprevedibile e richiede pertanto grande cautela, ma l’aspetto sul quale ritengo si debba portare la massima attenzione è che ogni copia o ‘edizione’, qualunque sia la sua cronologia e la sua qualità filologica, rappresenta sempre uno stato del testo dell’opera che tramanda tale quale si era fissato in un momento specifico della sua trasmissione. Fatta questa premessa, il primo criterio su cui vorrei soprattutto richia mare l’attenzione è che compito dell’editore dei libri stobeani è quello di restituire lo stato del testo delle singole fonti quale possiamo presumere si trovava negli esemplari consultati e ‘schedati’ dall’antologista o forse (ma questo caso è certo molto più raro) del testo che in casi specifici lo Stobeo poteva avere lui stesso stabilito dell’una o dell’altra fonte attraverso una operazione più o meno rigorosa di collazione e di revisione di più copie qualora ne fosse giunto in possesso. Il tutto avendo ben presente l’innegabile evidenza che innumerevoli furono le corruttele che si infiltra rono e contaminarono successivamente e a più riprese il testo dello Stobeo deteriorandolo in progressione geometrica nei circa otto secoli che vanno dalla redazione e pubblicazione dei quattro libri dell’Antologia ai più anti chi codici conservati che li trasmettono. Il che significa che in tutti casi in cui il testo di un’ecloga trasmesso dai manoscritti stobeani appare palesemente erroneo, l’editore ha il dovere di porsi, prima di qualsiasi intervento, la domanda se tale situazione era già quella del modello utilizzato dallo Stobeo oppure se essa non sia piuttosto il frutto di un accidente della trasmissione. Ossia operare una distinzione fra errori di secondo livello o errori di trasmissione, e errori di primo livello, quelli appunto già presenti nei modelli dello Stobeo. Non mi sfugge che spesso è assai difficile dare una risposta univoca o definitiva e che il rischio di correggere indebitamente un testo sano o di piegarsi di fronte a forme di Korruptelenkult è omnipresente e in agguato. Vale comunque la pena di interrogarsi e di rifletterci sopra.
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3. Constitutio textus e criteri di edizione di Stob. 1–2
Se il testo dell’edizione dal quale lo Stobeo avevo recuperato uno o più estratti era già corrotto (e sono consapevole, lo ripeto, che esso si sia ancora più guastato nei tempi successivi alla messa in circolazione di quei libri) è evidente che l’antologista si veniva a trovare in una situazione davvero penosa che poteva sfociare talora in una situazione più di «impotenza» che di «asineria»:313 copiarlo tale e quale o tentare di correggerlo vuoi ope ingenii vuoi grazie al confronto con un altro esemplare se ne esisteva uno a portata di mano o se riusciva a procurarselo altrove. Senza dimenticare, ancora una volta, le infinite e aleatorie deformazioni e rimaneggiamenti specifici della letteratura gnomologica e antologica di ogni epoca e di ogni origine che si aggiungono alle alterazioni più comuni della trasmissione di tutti i testi. Questo criterio era già balenato a Wachsmuth, anche se poi in pratica non lo aveva costantemente applicato:314 Primum enim in afferendis verbis eorum scriptorum, quorum libri ipsi aetatem tulerunt, hanc normam tenui, ut non ea quae ipsos scripsisse probabile esset, sed ea tantum quae in exemplo suo Stobaeus videretur restituerem. Ammesso questo principio, ho altresì riflettuto sulle strategie da applicare di volta in volta nella costituzione del testo delle ecloghe e che variano in considerazione delle differenti tipologie di trasmissione dei singoli au tori/fonti: citazioni da opere conosciute solo attraverso la testimonianza dello Stobeo; citazioni da opere trasmesse da una tradizione «diretta» indi pendente; citazioni infine di testi noti anche attraverso redazioni parallele talora divergenti. Di ciascuna di queste tre tipologie discuto di seguito un paio di esempi significativi. Opere conosciute solo attraverso la testimonianza dello Stobeo. Ho già accennato alle numerose ecloghe estratte dalle Lettere e dall’opera Sul l’anima del neoplatonico Giamblico di Caldide.315 Significativi sono anche i ventinove estratti dagli Hermetica, ventisette dei quali in Stob. 1–2. Gli editori di quei capitoli nelle moderne raccolte degli scritti ermetici sono riusciti spesso a migliorare per via congetturale lo stato tradizionale spesso corrotto di F P (e ora anche di A per gli estratti da 11 fino a 22) con lo sguardo rivolto, per lo più, alla constitutio textus degli ipsa verba Hermetis, 313 Recupero i concetti di «impotenza» e di «asineria» da Lapini (2015), 219. 314 Wachsmuth (1884) I xxxii. 315 Supra 91.
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ma senza porsi in realtà e in maniera concreta la questione di quale doveva essere il testo tramandato dal modello che possiamo presumere fosse stato utilizzato dallo Stobeo e che è il solo che conta per un editore della sua Antologia.316 Un altro genere di problemi si presenta quando ci troviamo di fronte a citazioni derivate da opere conosciute anche attraverso una tradizione indipendente. Penso, tra gli altri, ai numerosissimi estratti dai dialoghi platonici317 o alle estese citazioni dal De mundo pseudo-aristotelico.318 Lo stesso vale altresì per Plutarco.319 È indiscutibile che i manoscritti nei quali lo Stobeo recuperò i luoghi di Platone, di Plutarco e dello pseudo-Aristotele erano di molti secoli più antichi di quelli di cui disponiamo attualmente e, di conseguenza, è ovvio che spesso trasmettano un testo meno corrotto e più vicino a quello originale dei singoli autori. Gli editori di questi autori troveranno dunque nella tradizione dello Stobeo varianti che sono superiori a quelle dei manoscritti della loro tradizione «diretta» e che si riveleranno pertanto utili per stabilirne il testo in più casi, senza tuttavia dimenticare anche l’eventualità della presenza di altre lezioni palesemente inferiori. L’editore dello Stobeo dovrà invece fare prova di maggiore ocula tezza evitando di correggere in maniera sistematica la paradosi di F A P (in Stob. 1–2, ma lo stesso discorso si estende a Stob. 3–4) sul fondamento della tradizione platonica, pseudo-aristotelica o plutarchea se non in quei casi eccezionali dove si può supporre che ulteriori errori si siano infiltrati in una maniera o nell’altra in quei testi nel momento della loro copia o della loro successiva trasmissione all’interno dell’Antologia stobeana. Una terza categoria, che non si allontana troppo dalla seconda, è rappresentata infine da quei testi (frammentari o completi che siano) trasmessi oltre che dallo Stobeo anche attraverso una o più tradizioni parallele in redazioni che talvolta possono non corrispondere fra loro. La lista è lunga, ma qui qui è sufficiente richiamare oltre a Aezio il caso delle
316 L’ultima e più affidabile edizione critica è quella di Festugière (1954), con nuove congetture, ma anche con assai opportuni e eccellenti tentativi di difesa del testo tradito ai quali è necessario che l’editore di Stob. 1–2 porga la necessaria attenzione. 317 Per Platone, vedi Curnis (2011); per gli pseudo-Platonica, Piccione (2005). 318 Il De mundo è riprodotto per quasi due terzi in Stob. 1. Vedi Dorandi (2022). 319 In piena coscienza non prendo invece in conto autori come Euripide o Menan dro la cui diffusione capillare nella tradizione gnomologica li rende assai meno significativi. Per Plutarco vedi la bibliografia citatata supra 18 n. 27; per Euripide e Menandro, 16 n. 13.
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3. Constitutio textus e criteri di edizione di Stob. 1–2
Sentenze (Ἀφορμαί) del filosofo neoplatonico Porfirio di Tiro (ca. 233–ca. 301–305 d.C.). Per Porfirio, posso entrare più nei dettagli.320 La trasmissione delle Sentenze è triplice: una quindicina di manoscritti bizantini, i più antichi dei quali (W U N) risalgono ai secoli XIV e XV, la Recensio breviata di Stob. 1–2, e infine le citazioni di Michele Psello (ca. 1018–1078).321 Lamberz ha mostrato che W U N sono i soli testimoni indipendenti della tradizione «diretta» porfiriana e che risalgono tutti a uno stesso modello (ω). I restanti sono apografi dell’uno o dell’altro di loro.322 Psello cita inoltre le Sent. 9 e 29 delle quali non c’è traccia in ω323. Questo prova che il suo modello, nonostante i molti punti in comune con ω, non era il medesimo e che la redazione di ω risale quindi con verisimiglianza a un’epoca posteriore a Psello, ossia tra XI e XII secolo. Delle quattordici Sentenze che leggiamo attualmente nell’Antologia dello Stobeo, quattro (9, 14, 29 et 43) mancano in W U N. Ancora una volta, il modello utilizzato dallo Stobeo non era dunque quel codice, un risultato che viene altresì confermato dalle varianti fra la paradosis di ω e quelle dei manoscritti stobeani. Sul fondamento di questi dati, Lamberz riuscì a risalire un po’ più in alto nella storia antica della trasmissione delle Sentenze. È verisimile che i quat tro testi conosciuti solo attraverso la testimonianza dello Stobeo fossero all’origine intercalati tra altri trasmessi dal modello di W U N, che appare probabile dunque fosse il risultato di una epitomazione di una raccolta più ampia prodottasi in momento posteriore al testimone utilizzato dallo Stobeo. Dobbiamo dunque postulare l’esitenza di un modello comune che tra mandava un corpus più completo delle Sentenze (Ω), archetipo di tutta la tradizione, la cui costituzione risale a un periodo assai antico che si colloca tra Porfirio e lo Stobeo. Da Ω discendono due rami indipendenti: il modello dello Stobeo e il capostipite dell’intera tradizione medievale e di Psello (ω).324 320 Per Aezio, vedi supra 17 321 Riassumo, adattandolo al nuovo contesto, quanto ho scritto in Dorandi (2005), 275–284. 322 W = Marcianus gr. 519 (coll. 773), s. XV med.; U = Vaticanus gr. 237, s. XIV ex.; N = Neapolitanus III E 19, s. XV med. Ulteriori informazioni in Lamberz (1975), v–lxxi. 323 La numerazione delle Sentenze è quella di Lamberz (1975) ripresa in Brisson al. (2005). 324 Vedi lo stemma di Lamberz (1975), liii riproposto in Dorandi (2005), 279.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
Limitandomi alla tradizione stobeana, è pertanto evidente che l’editore delle Sentenze ne trarrà un consistente apporto recuperandovi quattro capitoli assenti in W U N e in Psello e migliorando grazie a esso il testo di altri passi corrotti. L’editore dello Stobeo pubblicherà invece il testo delle Sentenze da lui trasmesse attenendosi il più possibile alla paradosi di F P (A manca per queste sezioni) sanandone, là dove necessario, solo gli errori nati nella fasi successive alla pubblicazione dell’Antologia.325 4. Editare l’epitome di Stob. 1–2. Una lettura più approfondita della struttura e dei contenuti di Stob. 1–2 mi ha consentito di sviluppare ulteriori e puntuali considerazioni criticoesegetiche che tengono di volta in volta conto della Recensio breviata e dei resti di una Recensio plenior. Chi metta in dubbio l’operazione editoriale di Wachsmuth volta al restauro di Stob. 1–2 in uno stadio se non originale almeno anteriore alla epitomazione e si impegni nella pubblicazione della Recensio breviata in quanto tale, deve seguire principi affatto diversi da quelli del predecessore. La prima tappa da raggiungere consiste nella ricostruzione dello stato testuale ω che rappresenta, pur con tutti i suoi difetti e le sue mende, la testimonianza più antica e coerente dello stato della Recensio breviata in un momento specifico della sua trasmissione e che spesso possiamo presumere identica o vicina a quella di ε. Questo è possibile per ω attraverso un confronto tra l’insieme dei dati trasmessi dai due codici F A oppure F P in quelle sezioni nelle quali il contributo di A viene meno. 4.1. Marche di una distinzione dei capitoli in ω Il solo A presenta, nei primi fogli conservati (ff. 1r–14v), una mise en page originale e singolare. Essa è caratterizzata da una serie di fregi ornamentali complessi e di forma sempre diversa disegnati all’orizzontale a quanto pare dal copista principale con lo stesso inchiostro del testo. La loro funzione è quella di delimitare singoli capitoli (κεφάλαια) del libro e per questa ragione sono collocati prima o dopo il titolo dei medesimi seguendo criteri che ci sfuggono e che non dipendono solo dalla gestione della superficie 325 Maggiori dettagli in Dorandi (2019), 32–33.
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4. Editare l’epitome di Stob. 1–2.
scrittoria. È altresì impossibile sapere a cominciare da che punto i fregi era no stati introdotti, perché non vennero sistematicamente apposti e perché a un certo momento furono abbandonati. Ogni speculazione mi appare inutile e preferisco limitarmi a presentare i dati di fatto disponibili. Il primo fregio è al f. 1r e delimita il cap. 22 del primo libro (I 195, 2); il titolo è trascritto prima del fregio nella forma περὶ τάξεωϲ τοῦ κόϲμου. Il secondo è al f. 2r e delimita, stando alle edizioni moderne, una sezione interna al medesimo cap. 22 introdotta dal titoletto εἰ ἓν τὸ πᾶν collocato questa volta dopo il fregio (I 198, 18). Il terzo è al f. 2v e delimita il cap. 23. Il titolo nella forma περὶ τῆϲ οὐρανοῦ οὐϲίαϲ καὶ διαιρέϲεωϲ è posto dopo il fregio, seguito dal lemma ἀναξιμένουϲ καὶ παρμηνίδου (I 200, 13). Il lemma ritorna in P, ma manca in F. Il quarto è al f. 10r e delimita il cap. 28. Il titolo nella forma περὶ κομητῶν καὶ διαττόντων καὶ τῶν τοιούτων è dopo il fregio seguito anche qui dal lem ma πυθαγορείων (I 227, 5). Il lemma ritorna in P, ma manca in F. Il quinto e ultimo è al f. 14v e delimita il cap. 30. Il titolo precede il fregio e occupa l’ultimo rigo del f. 14r nella forma περὶ ἴριδοϲ περὶ ἅλω καὶ παρηλίου καὶ ῥάβδων (I 238, 21). Oltre a questi, si conserva ancora un breve decoro che segue l’indicazio ne περὶ ηλίου (sic) καὶ ϲελήνηϲ posto nel centro del margine superiore del f. 9v, scritto da una mano che non mi sembra quella del copista principale. Siamo all’interno del cap. 26 e verso la metà dell’ecl. 5, intitolata περὶ δὲ τῶν ἀποϲτημάτων e costituita di materiale derivato da Aezio. Il titolo manca in F, ma riappare nella forma περὶ ἡλίου καὶ ϲελήνηϲ· ἐμπεδοκλῆϲ in P (f. 71r) che lo deriva dalla tradizione di A. Wachsmuth, che non conosceva A, sup pose che «verba περὶ ἡλίου καὶ ϲελήνηϲ huc procul dubio delapsa pertinent ad initium huius eclogae supra v. 10, ubi item Empedoclis mentio fit», ossia Ἐμπεδοκλῆϲ διπλάϲιον ἀπέχειν †τῆϲ ϲελήνηϲ ἀπὸ γῆϲ ἤπερ ἀπὸ τοῦ ἡλίου† (Aet., Plac. 2, 31, 1 Mansf.–Ru.). Se così, ne potremmo concludere che la sua corretta posizione in A avrebbe dovuto essere alla fine del f. 9r, prima del r. 26. Non è comunque neppure da escludere che si tratti di una annotazione di un ignoto lettore per indicare in maniera sommaria il contenuto di quel la porzione di testo.326
326 Wachsmuth (1884) I 223 (ad v. 23). Quanto segue riprende e integra quanto avevo scritto in Dorandi (2019a), 49–50.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
La prima costatazione che possiamo trarre da questi dati è che in A mancano fregi che indichino gli inizi dei capitoli 24–27 e 29 dell’edizione di Wachsmuth. Quanto al resto della tradizione, P non conserva traccia alcuna di questo tipo di decoro. In F troviamo invece un fregio stilizzato in inchiostro rosso in alto del f. 1r prima del titolo del libro I e un altro sotto forma di una suc cessione di segni ondulati che terminano col motivo vegetale di due foglio line al f. 129r prima dell’inizio del secondo libro scritto con lo stesso inchio stro del testo. Su un ulteriore ornamento, assai più interessante, tornerò al la fine di questo paragrafo. L’assenza dei fregi propri di A in particolare in F porta a chiederci se il ricorso a simili decori con la funzione ben specifica di delimitare la scansione dei capitoli fosse una peculiarità unica di A assente nel loro capostipite comune, ω. Dare una risposta a questa domanda è impossibile per la scarsità del testo conservato da A che impedisce un confronto con F in altri luoghi che avrebbero potuto rivelarsi significativi. Possiamo tuttavia mettere in evidenza almeno un elemento significativo che lascia presupporre una probabile presenza di paratesti ornamentali già in ω. In favore di questa ipotesi richiamerei un dato codicologico proprio del solo F (f. 25v) che ho messo per primo in luce e che consiste in un piccolo ornamento simile a quelli di A, ma tracciato in maniera molto più semplice. Siamo agli inizi del cap. 11 del primo libro (I 130, 22), il cui titolo περὶ ὕληϲ è precededuto in F (f. 25 r. 10) da un fregio, assente in P (la porzione con servata di A comincia molto più oltre) che interpreterei come un residuo fossile di questo genere di decorazione derivato meccanicamente da ω in F.327 Se così, il fatto che in A i fregi tuttora conservati e limitati a primi quattordici fogli e a un totale di quattro capitoli (uno, il 22, ulteriormente diviso in due) sui nove in cui questa porzione di testo è organizzata nelle edizioni moderne, potrebbe spiegarsi nella stessa maniera. Ma prudenza è ancora una volta d’obbligo.
327 Vedi Dorandi (2021), 101 con una riproduzione dell’intero foglio di F (tav. 1, p. 122). Il che è confortato dall’ulteriore fregio simile (che qui segnalo per la prima volta) nel margine sinistro del medesimo foglio in corrispondenza del r. 12 dove inizia l’ecl. 2 di quel capitolo con il lemma ἑρμοῦ ἐκ τῶν πρὸϲ τάτ (I p. 131, 1).
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5. Tra titoli di capitoli e lemmi di ecloghe
4.2. Struttura dei capitoli e successione delle ecloghe in ω In F A (e poi in P) la successione dei capitoli e delle ecloghe è puntuata da segni distintivi che non si allontanano dalla prassi tradizionale. In A, l’inizio dei capitoli, che siano o meno distinti da un fregio, è segnalato da quattro punti in una forma di rombo talora accompagnanto da ulteriori piccoli ornamenti. Lo stesso segno romboidale indica anche l’inizio di singole ecloghe. La fine dei capitoli è inoltre marcata da un segno che può essere interpretato come una successione di croci legate concluse da un ghirigoro spesso semplificato e ridotto a due punti seguiti da un trattino allungato che si conclude con un ricciolo. La fine delle singole ecloghe è invece indicata con un dicolon seguito da un trattino orizzontale talora curvato verso l’alto. In F, viene adottato il medesimo sistema, ma in una forma più stilizzata e semplificata per cui l’inizio dei capitoli non è mai messo in evidenza con un segno specifico (i quattro punti in forma di rombo di A), mentre la fine è indicata con un dicolon seguito da una o più crocette il cui numero può variare. Qualche volta riscontriamo anche un dicolon seguito da una barret ta orizzontale diritta. Dopo la fine del capitolo è talora lasciato un vacuum e il capitolo seguente inizia con la riga successiva. Le singole ecloghe sono distinte da un dicolon seguito da un trattino orizzontale. Questo sistema è meno pratico di quello messo in atto in A e può creare confusione quando le lettere iniziali dei titoli dei capitoli non sono scritte in F in maiuscola e con inchiostro verde o rosso (come spesso anche le iniziali dei nomi propri). 5. Tra titoli di capitoli e lemmi di ecloghe Una delle caratteristiche della Recensio breviata, conseguenza ovvia del processo di epitomazione, è la mancanza di molti capitoli interi o parziali rispetto a quelli che Fozio aveva letto nel suo esemplare di Stobeo 1–2 (Φ) e che si ritrovano talora attestati anche nel πίναξ del codice L. In parallelo, sono andati perduti anche i titoli o intertitoli di quei rispettivi capitoli e di altri ancora.328 328 Il contributo di Searby (2011) ricco di suggestioni e di risultati nuovi presuppone, almeno per quanto riguarda Stob. 1–2, uno stato testuale che poteva essere quello che precedeva l’epitome.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
5.1. I titoli in ω e nella tradizione di Fozio e di L. Una scelta difficile Wachsmuth, abbiamo visto, reinserì nel tessuto della Recensio breviata tutti i titoli mancanti seguendo pedissequamente l’ordine trasmesso da Fozio. Per lo più, lo studioso ne riproduce la forma trasmessa da Fozio e eventual mente da L. Così, nel primo libro, i capitoli 23–25 (I 248, 13–21) e nel secondo libro i capitoli 16–30 (II 197, 1–199, 11), 32 (II 255, 1–3), 34–45 (II 258, 1–259, 20). Altrove Wachsmuth va ben più lontano e, oltre al titolo, aggiunge anche interi capitoli che recupera in L a partire dal presupposto che modello di quel florilegio era una testimone perduto dell’Antologia dello Stobeo. Ne sono esempi tangibili i capitoli 31, 33 e 46 del secondo libro (II 199, 12–254, 31; 255, 4–257, 24 e 260, 1–264, 4). Né mancano capitoli giunti in ω solo in misura estremente ridotta che vengono completati a loro volta con materiale recuperato in L. È il caso di 1, 42 (I 294, 1–296, 25) e 50–54 (I 472, 3–493, 24). L’esempio più singolare e inquietante è quello del capitolo 1, 2 (I 51, 18–52, 15) completamente assente in ω e L e del quale lo studioso si sforza di ricostruire non solo la struttura, ma di divinare anche il contenuto di alcune ecloghe. A sé deve essere infine considerato il caso della trasposizione per un accidente meccanico di un gruppo di ecloghe da Stob. 2 in Stob. 4 e che Wachsmuth reintegra al posto che avrebbero dovuto occupare nella redazione originale della Antologia. Tutto questo materiale è estraneo allo stato testuale di ω e presumibil mente anche di ε e come tale sarà preso in conto e pubblicato fra i resti della Recensio plenior. Il florilegio di L potrà semmai rivelarsi utile, là dove questa raccolta conservi porzioni di testo comuni a quelle che leggiamo in F A P, per restaurare qualche luogo corrotto in ω. Ma anche in simili casi e in altri in cui disponiamo in più della testimonianza di Fozio (questa relativa ai soli titoli di singoli capitoli), è necessario intervenire di volta in volta in maniera non meccanica. Di seguito, la discussione di qualche passo per rendere più chiaro il mio pensiero. Comincio con il titolo di 1, 22 (I 195, 1–200, 11). In F P (= ω) l’intero capitolo è intitolato περὶ τάξεωϲ τοῦ κόϲμου (I 195, 2), ma prima dell’ecloga 3 (I 198, 18), i medesimi codici aggiungono l’ulteriore titoletto εἰ ἓν τὸ πᾶν. Sul fondamento di questi dati, Wachsmuth sulle orme di Heeren completò così il titolo iniziale Περὶ τάξεωϲ τοῦ κόϲμου· richiamando a confronto la testimonianza di Fozio (112b7–8) Περὶ τάξεωϲ τοῦ κόϲμου· 124 https://doi.org/10.5771/9783985720965
5. Tra titoli di capitoli e lemmi di ecloghe
εἰ ἓν τὸ πᾶν. Se consideriamo tuttavia il parallelo dell’indice dei capitoli di L (ind. cap. Κ 14), dove leggiamo περὶ κόϲμου τάξεωϲ· ἐν αὐτῶι καὶ τάδε· εἰ ἓν τὸ πᾶν, ossia Sull’ordine del mondo. In questo capitolo c’è anche questo: Se il tutto è uno, è possibile suggerire una proposta alternativa che bene si adatterebbe almeno allo stato della Recensio breviata. Intenderei περὶ κόϲμου τάξεωϲ come il titolo complessivo del capitolo e εἰ ἓν τὸ πᾶν come un sottotitolo che designava una sezione del medesimo e che poteva di conseguenza mancare nel titolo principale. Una prova a conferma della mia ipotesi viene dall’analisi di 1, 26 (I 217, 17–225, 19). Il capitolo ha in F P (quindi ω) il titolo abbreviato περὶ ϲελήνηϲ οὐϲίαϲ καὶ μεγέθουϲ καὶ ϲχήματοϲ, mentre in Fozio (112b12–13) è tramandato nella forma più estesa περὶ ϲελήνηϲ οὐϲίαϲ καὶ μεγέθουϲ καὶ ϲχήματοϲ φωτιϲμῶν τε καὶ περὶ ἐκλείψεωϲ καὶ ἐμφάϲεωϲ καὶ περὶ ἀποϲτημάτων καὶ ϲημείων. Donde la proposta già di Heeren, migliorata da Wachsmuth, di completare il testo dei codici integri dello Stobeo in περὶ ϲελήνηϲ οὐϲίαϲ καὶ μεγέθουϲ καὶ ϲχήματοϲ .329 Anche in questo caso, nell’edizione della recensio breviata, si deve mantenere la versione corta del titolo περὶ ϲελήνηϲ οὐϲίαϲ καὶ μεγέθουϲ καὶ ϲχήματοϲ a partire dal presupposto che la seconda parte del medesimo era riutilizzata dall’epitomatore per indicare sotto forma di sottotitoli singole sezioni del medesimo capitolo: così l’ecloga 2 ha come titoletto περὶ δὲ φωτιϲμῶν αὐτῆϲ (I 220, 3); la 3 περὶ δὲ ἐκλείψεωϲ ϲελήνηϲ (I 220, 23); la 4 περὶ δὲ ἐμφάϲεωϲ αὐτῆϲ (I 222, 1); la 5 περὶ δὲ τῶν ἀποϲτημάτων (I 223, 8) e la 6 infine ϲημεῖα ϲελήνηϲ (I 224, 1). Più complessa è la situazione in cui sono tramandate le ultime pagine di Stob. 1, A partire da 1, 50 e fino alla conclusione del libro (I 472, 3–502, 17), il testo originario dell’Antologia venne seriamente decurtato e si presenta, almeno in ω (forse anche in ε), in una forma non sempre fedele alla struttura originaria dell’Antologia, come provano le numerose porzioni di testo in F P prive di indicazione del titolo dei capitoli e dei lemmi delle ecloghe. Siamo in una sezione sulle sensazioni che segue il lunghissimo capitolo 49 intitolato περὶ ψυχῆϲ (I 318, 16–472, 2). Essa comincia ex abrupto dopo l’ultima ecloga del cap. 49 senza segno di transizione evidente né in F (f. 123r) né in P (f. 169r). Solo leggendo la successione delle ecloghe ci si rende 329 Nelle edizioni di Heeren, Gaisford e Meineke viene omesso, a torto, καὶ ἐμφάϲεωϲ tramandato dal codice A di Fozio e confermato dal corrispondente sottotitolo in F P.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
conto che l’argomento cambia e che non riguarda più la ψυχή, ma ormai le αἰϲθήϲειϲ. Più nei dettagli, almeno in ω mancavano i titoli dei capitoli 50–55, 58, 60 del primo libro, mentre erano presenti quelli dei capitoli 56–57, 59. È assai difficile dire se lo stato ω rispecchia quello originario della Recensio breviata (ε) oppure se il testo sia stato soggetto a ulteriori corruttele fra le quali la caduta di alcuni titoli prima registrati. Wachsmuth (in parte a séguito di Heeren), non solo reintegrò tutti i titoli mancanti sul fondamento di Fozio e dell’indice di L, ma completò al tresì il testo di alcuni capitoli con aggiunte recuperate nelle corrispondenti sezioni del medesimo L. L’editore della Recensio breviata deve ovviamente seguire un cammino diverso restando il più vicino possibile allo stato ω pur nella piena consape volezza che alcuni titoli almeno poterono cadere nello spazio di tempo che separa questa redazione da quella dell’originaria epitome (ε). Lo provano i tre titoli superstiti dei capitoli 56–57, 59. Nel primo caso (cap. 56), περὶ ἁφῆϲ è aggiunto in F nel margine (ma in textu in P) accanto all’unica ecloga del capitolo; nel secondo, il titolo del cap. 57 è trasmesso in F P in una forma abbreviata περὶ φωνῆϲ καὶ εἰ ἀϲώματοϲ ἡ φωνὴ καὶ τί αὐτῆϲ τὸ ἡγεμονικόν (mantenuta fino a Meineke), che Wachsmuth corresse in περὶ φωνῆϲ καὶ εἰ ἀϲωματοϲ ἡ φωνὴ καὶ τί αὐτῆϲ τὸ ἡγεμονικόν.330 Nel terzo (cap. 59), infine, περὶ δόξηϲ è scritto in textu in F P. I tre titoli trovano una corrispondenza in Fozio (112b33–34); l’ultimo anche nell’indice di L (ind. cap. Δ 34). Quanti titoli possano essere andati perduti nel lasso di tempo fra la pre parazione della Recensio breviata (ε) e ω quale ne fosse la forma eventuale è questione che resta in sospeso. La perdita per un accidente meccanico sembrerebbe a prima vista probabile per il titolo del cap. 50 visto il cambio sostanziale di tema rispetto a quello del cap. 49. Quale fosse la forma di quel titolo nella Recensio breviata e se esso avesse inglobato anche i due titoli dei capitoli 51 e 52 sono domande che restano comunque senza risposta. L’indicazione περὶ ἁφῆϲ accanto al cap. 56 potrebbe portare a supporre che siamo di fronte a una situazione per certi versi simile a quella già notata per 1, 22 (I 195, 1–200, 11) e 1, 26 (I 217, 17–225, 19). In questo caso, περὶ ἁφῆϲ avrebbe indicato la sezione sul tatto di un più vasto capitolo sui cinque sensi alla quale riporta il titolo dell’attuale cap. 51 che Wachsmuth 330 Wachsmuth (1884) I x–xi.
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5. Tra titoli di capitoli e lemmi di ecloghe
restaura sulla falsariga di Fozio (112b30) e dell’indice di L (ind. cap. Α 28) nella forma πόϲαι εἰϲὶν αἱ αἰϲθήϲειϲ καὶ ποίαϲ οὐϲίαϲ καὶ ἐνεργείαϲ ἑκάϲτη. Si tratta, bene inteso, solo di una speculazione e come tale deve essere giu dicata. In considerazione di tutto ciò, credo che la scelta più onesta per l’e ditore della Recensio breviata sia ancora una volta quella di riprodurre lo stato di ω nella sua forma indubbiamente caotica e di segnalare in apparato la probabile caduta del titolo del cap. 50.331 5.2. I lemmi come loci desperati? I lemmi sono senza alcun dubbio tra i paratesti più problematici con i quali si trova confrontato l’editore dell’intera Antologia dello Stobeo, che sia nella forma della Recensio breviata dei primi due libri o in quella che possiamo presumere integra, anche se manipolata e contaminata, degli ultimi due. Sistemati nel margine accanto all’ecloga cui sono riferiti o nel testo stesso subito prima della medesima, i lemmi sono soggetti non solo a slittamenti da un’ecloga all’altra (soprattutto se collocati nei margini), ma possono anche essere portatori di erronee attribuzioni la cui origine è estremamente difficile determinare. In tutti questi casi, è necessario ricorrere alla massima prudenza prima di intervenire con correzioni che talvolta, a prima vista, potrebbero apparire evidenti. Così, quando un lemma dello Stobeo attri buisce a uno specifico autore uno o più versi o un passo in prosa, che altre fonti riferiscono invece (con maggiore verisimiglianza) a uno differente, in principio, è immetodico correggere il testo dello Stobeo perché tale attribuzione, seppure falsa, potrebbe essergli derivata dal proprio modello e quindi è da accogliere come tale, almeno da parte dell’editore della Antologia. È l’eterno dilemma di tutta la tradizione gnomologica e non solo. La tipologia dei lemmi è varia e dipende con buona probabiltà anche dalle fonti utilizzate dallo Stobeo. Il che incita, ancora una volta, l’editore a mantenersi il più possibile vicino ai dati della tradizione.332 La situazione diviene molto più drammatica (e talvolta caotica) per chi si appresti a una edizione della Recensio breviata perché a questo livello bisogna tenere conto anche di altri fattori oltre a quelli tradizionali sopra elencati. Agli errori relativi ai lemmi, che si siano prodotti a un qualsiasi momento della loro trasmissione per accidenti che siano o me 331 Per altri esempi dal secondo libro, vedi il capitolo seguente. 332 Vedi l’abbondante materiale raccolto e discusso da Piccione (1999), 139–175.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
no meccanici, si aggiungono infatti quelli che possono derivare da scelte volontarie dell’epitomatore che può averne soppressi alcuni, interpolati o modificati altri in ragione delle proprie esigenze. È essenzialmente su questi problemi che intendo soffermarmi alla luce dei dati dello stato ω. Nella porzione conservata di A, i lemmi sono copiati in textu dalla mano principale. Nei primi fogli di F, da 1 a 29r, i lemmi si alternano sia in textu sia nei margini e fino al f. 19r essi sono nella maggioranza dei casi riversati nei margini e talora ripetuti in parallelo nel testo. Nel seguito, essi scompaiono quasi del tutto dai margini e si ritrovano generalmente nel testo. Tutti i lemmi, a quanto posso giudicare, sono della mano del copista principale, ma talvolta la loro iniziale in maiuscola e in inchiostro verde è aggiunta dal rubricator. Pochi altri sono vergati in maiuscola (ff. 4v, 7v, 21r, 22v, 23r) an cora con inchiostro verde da una mano che richiama ancora quella del ru bricator. Ai ff. 73r e 130r ve ne sono infine alcuni scritti in verde, ma in una minuscola di taglia maggiore con l’iniziale in maiuscola, probabilmente la stessa mano che ha copiato i precedenti. In P, i lemmi sono per lo più nel testo; talvolta ritornano anche nei mar gini anche se si ha spesso l’impressione che questi vi siano stati aggiunti so lo in un secondo momento come indicazioni utili al reperimento delle cita zioni nel corpo del testo o come richiami degli autori citati. Ne troviamo un esempio palmare nel f. 3r dove alcuni lemmi in textu sono stati sottolineati e riprodotti in margine da una mano che non è quella del copista principa le. Né mancano lemmi trascritti solo nel margine, per esempio nei ff. 24v– 25v. Poiché nella sezione che F A hanno in comune la presentazione dei lem mi è identica, ne possiamo dedurre con buon margine di probabilità che questo era già lo status di ω. Il che porterebbe di conseguenza a supporre che la posizione predominante per i lemmi nella Recensio breviata doveva essere nel testo e non nei margini. Purtroppo la perdita della parte iniziale di A impedisce di allargare il confronto con i primi fogli di F, il che avrebbe aiutato a comprendere se la presenza in quest’ultimo di numerosi lemmi in margine era una sua peculiarità o rispecchiava anch’essa una realtà già presente in ω. Più difficile utilizzare l’apporto di P, là dove A manca. P è infatti un manoscritto molto più tardo e, pur derivando (indirettamente) da A e presentando nella porzione comune caratteristiche simili, è stato troppo manipolato per meritare una fiducia assoluta che rifletta sempre la facies di A. 128 https://doi.org/10.5771/9783985720965
5. Tra titoli di capitoli e lemmi di ecloghe
In conclusione, non ci sono elementi sufficienti per avere una idea com pleta e sicura della mise en page nella sequela testo, titoli e lemmi in ω e, di conseguenza, ancora meno in ε. Di fronte a questa realtà, dobbiamo dunque di volta in volta valutare i dati di cui disponiamo nel rispetto delle loro specificità. Il restauro dei lemmi qualora non siano più presenti o la loro valutazione qualora siano conservati, è pertanto uno dei problemi più gravi con il quale l’editore si trova confrontato. È infatti spesso impossibile decidere se uno o più lemmi erano stati mal sistemati oppure se la loro assenza sia dovuta a una perdita accidentale oppure a un’omissione volon taria e a quale livello della trasmissione questi interventi abbiano avuto origine. Altrettanto complessi sono i casi in cui ci troviamo di fronte a lemmi che accompagnano una ecloga senza che vi sia una corrispondenza di contenuto fra i due testi. Niente impedisce di supporre che si tratti di errori nati per accidenti meccanici della tradizione, il che si spiegherebbe assai bene per quei lemmi che a un certo momento erano collocati nei margini accanto all’ecloga alla quale si riferivano. In occasione della copia di un esemplare su un altro, una differente mise en page del testo avrebbe potuto facilmente ingenerare slittamenti o inversioni di lemmi nei margini. Ma niente impedisce neppure di andare più lontano e immaginare che tale situazione potrebbe riflettere lo stato testuale che lo Stobeo aveva trovato nella sua fonte. Questo soprattutto se si ammette, come è necessario, che egli ebbe assai spesso accesso a precedenti raccolte più o meno estese nell’impossibilità di recuperare direttamente l’insieme delle infinite ecloghe della sua raccolta monumentale nelle loro fonti originarie.333 Né si deve infine trascurare l’evidenza che in una redazione epitomata certe scelte po tevano dipendere anche dalla volontà di colui che aveva presieduto alla sua realizzazione. Di conseguenza, molte volte (e non solo nell’edizione della Recensio breviata) ci dovremo rassegnare a forme non troppo soddisfacenti, ma realiste di non liquet per l’ovvia mancanza di elementi sicuri a favore dell’una o dell’altra eventualità. Un primo caso utile per rendere più concrete le mie osservazioni teori che è quello del lemma Φιλολάου ἐκ Βακχῶν che costituisce attualmente quanto resta dell’ecloga 1, 25, 9 (I 214, 21). In A (f. 6 v), il lemma è in textu al centro del rigo marcato da i quattro punti in forma di rombo e seguito da due croci. Viene dopo (I 214, 22–217, 16), senza lemma, ma preceduta da 333 Condivido le osservazioni di Piccione (1994a), 281–317, ribadite in numerosi studi successivi.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
una figura romboidale nella sua forma più elaborata, una lunga citazione dai Fenomeni di Arato (vv. 822–891) che costituisce l’attuale ecl. 9. In F (f. 46r) il lemma è invece nel margine destro in corrispondenza del primo verso arateo e l’ecloga non è indicata da nessun segno. È difficile dire quale era la posizione originaria del lemma e a quando risalga la caduta del corrispondente testo di Filolao. Quello che appare sicuro è che quella ecloga mancava già in ω. Al tutto si aggiunge un ulteriore dato di fatto e cioè l’esistenza di un’altra ecloga con un lemma simile (φιλολάου βάκχαι) copiata alla fine del precedente capitolo 15 (I 15, 7; I 148, 4 = Philol., VS 44 B 17 = fr. 17 Huffman) senza che si possa stabilire se vi sia una relazione fra le due e se si, quale.334 In parallelo, potremmo domandarci quando scomparve il successivo lemma relativo ai versi di Arato, che Gaisford (Meineke) ricostruì e Wachsmuth e se quei versi era no già nella redazione originaria dello Stobeo e in quel punto preciso dell’Antologia. Quello che è intrigante è la presenza di un’ecloga in versi alla fine di un capitolo che conserva, nella prima parte, la sequenza convenzio nale di estratti prima in versi e poi in prosa. Poiché ci sono altri esempi di una simile anomalia nella trasmissione dell’intera Antologia, è opportuno essere assai prudenti. Qualcosa di simile si ritrova alla fine del capitolo 1, 26, costituito da una serie di ecloghe in prosa suddivise in più sezioni introdotte da sottotitoli e concluso da una ecloga in versi ancora da Arato, Phaen. 778–817 con il lemma ἐκ τῶν ἀράτου φαινομένων (1, 26, 6; I 224, 1–225, 19).335 Un altro esempio di lemma non seguito dalla rispettiva ecloga è in 1, 15, 3a (I 145, 3). Siamo all’inizio del capitolo intitolato in F P περὶ ϲχημάτων. Dopo una prima ecloga col lemma ὁμήρου (Θ 16), seguono due versi ade sposti attribuiti dalla critica recente a Empedocle (VS 31 B 28)336 e una terza ecloga in prosa ϲχῆμά ἐϲτιν ἐπιφάνεια καὶ περιγραφὴ καὶ πέραϲ ϲώματοϲ, che un lemma nel margine di F P attribuisce a Porfirio: πορφυρίου. Diels la restituì a Aezio (Plac. 1, 14, 1 Μansf.–Ru.) con il confronto della tradizione 334 Se ho ben visto, Wachsmuth non dice niente a proposito di questa situazione. Huffman (1993), 270 si chiede se il lemma Φιλολάου ἐκ Βακχῶν non sia stato mal collocato e appartenesse all’origine alla precedente testimonianza (A19 Huffman) riferita in 1, 25, 3d (I 210, 8–15). Il tutto a partire dal presupposto del medesimo Huffman (1993), 202–230 che nelle Βακχαί di Filolao fossero discussi argomenti cosmologici. 335 Ho analizzato la struttura di questo capitolo supra 125. 336 I versi sono copiati di seguito e separati da una ano stigmé e da un piccolo vacuum.
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5. Tra titoli di capitoli e lemmi di ecloghe
parallela dello pseudo-Plutarco. Resta da spiegare il πορφυρίου nel margi ne. Si tratta di un vero e proprio lemma o di resti di un notabile? L’ecloga corrispondente di Porfirio, se mai era esistita, cadde per un accidente nel corso della trasmissione? Questa seconda ipotesi è quella privilegiata da Wachsmuth.337 Istruttivo è infine il caso delle due ecloghe 1, 6, 12–13 (I 86, 1–11). In F (f. 16r 17) nel margine, in corrispondenza dell’ecloga 12, c’è il lemma Εἰϲχύλου (Ε add. rubr., lege Αἰϲχύλου) e al rigo successivo, in corrispondenza dell’i nizio dell’ecl. 13, il lemma ριϲτοτέλ, lege ’Αριϲτοτέλουϲ. In P (f. 22r 14) ritroviamo solo Αἰϲχύλου in textu spostato prima dell’ecl. 13. Wachsmuth restituisce l’ecl. 12 a Euripide sul fondamento della testimonianza degli Σ BDPU Pind., Nem. 1, 13a Drachmann e vi aggiunge il lemma (= Eur. fr. 1017 Kannicht), ma nega che il lemma successivo ἀριϲτοτέλουϲ indichi l’autore dell’ecl. 13. A partire da queste premesse, lo studioso propo ne una ricostruzione assai audace relativa all’attribuzione dell’insieme degli estratti da 13 a 17a: ecloga 12 Euripidea est, 13 certe lyrici, 14a et b Menandri […], 15 in FP Chaeremoni adscribitur; itaque Αἰϲχύλου ad eclogam 16 adespotam retulerim, ἀριϲτοτέλουϲ ad initium ecl. 17a i. e. placitum Aristotelicum.338 Ricostruzione che mi appare almeno in parte ostacolata dalla ripetizio ne nel margine di F (f. 16r 26) e nel testo di P (f. 22v 4) del lemma ἀριϲτοτέλουϲ. In ogni modo, in una edizione della recensio breviata è necessario restare il più possibile aderenti a ω pur nella consapevolezza che è impossibile condividerne tutte le attribuzioni presupposte dai suoi lemmi. Da parte mia, propongo dunque di assegnare all’ecloga 12 il lemma Αἰϲχύλου già presente in ω.339 Per l’ecloga 13, mantengo poi Ἀριϲτοτέλουϲ di F a partire dal presupposto che quei versi sicuramente lirici avrebbero potuto essere stati riferiti a Aristotele (lui stesso poeta) a un certo momento della trasmis sione.340 337 I 145 (ad loc.): «huius eclogae nihil praeter lemma in FP mrg relictum est» richia mandosi a Diels (1879), 48 n. 1. Cf. Curnis (2004a), 209–210 n. 26 con uno status quaestionis non sempre chiaro. 338 I 86 (ad loc.), da cui la citazione. 339 Si noti che l’attribuzione del verso τὸν εὐτυχοῦντα καὶ φρονεῖν νομίζομεν è con troversa e che esso è trasmesso anche tra i Monosticha dello ps.-Menandro (726 Pernigotti). 340 Così fino alla seconda edizione di Bergk (1853), 521 (fr. *8).
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
Nella realtà, l’attribuzione in particolare dei versi lirici resta assai contro versa. Meineke suggerì il nome di Bacchilide scorgendo in Αἰϲχύλου una corruttela di Βακχυλίδου.341 Wachsmuth con maggiore prudenza li assegnò a un .342 Per quanto riguarda infine il loro testo, in una edizione dello Stobeo possiamo rinunciare alle proposte di correzione del v. 8 di Wilamowitz343 (ἐν ϲκότῳ, προφερεϲτάτα) e di Page (ἐν ϲκότεϊ, προφερεϲτάτα) dettate entrambe da esigenze metriche. Niente impedisce infatti, per chi ammetta la difficoltà metrica, che essa fosse già nel modello dello Stobeo e fosse stata da quest’ultimo recepita.344 6. Contaminazione orizzonale e interpolazioni? Che un’opera «per così dire aperta» come l’Antologia dello Stobeo andasse soggetta a un processo di «proliferazione gnomologica autonoma» è una acquisizione che si fa sempre più strada negli studi recenti consacrati in particolare a Stob. 3–4.345 In questi libri, l’uno o l’altro testimone (S M A) poté infatti fin da un’epoca molto antica recepire indipendentemente ecloghe interpolate frutto di intervenute innovazioni e contaminazioni orizzontali da altri materiali gnomologici, ma non solo da essi. Il feno meno, opportunamente richiamato da Ferreri a proposito delle citazioni stobeane dalla silloge teognidea,346 può essere esteso anche a altri luoghi di Stob. 1–2 nonostante il caveat che impone il processo di epitomazione al quale questi due libri furono sottoposti. Qualora riuscissimo a provare che alcune almeno fra le probabili forme di contaminazione orizzontale o interpolazioni sono interventi dello stesso epitomatore, potremmo fare un ulteriore e concreto passo in avanti nel cercare di delimitare e definire specifiche caratteristiche del suo metodo di lavoro. 341 Meineke (1859a), 4. Contra Wachsmuth, ad loc. 342 A séguito della terza edizione di Bergk (1867), 1352 (fr. adesp. 139). Oggi i versi sono raccolti come PMG 1019, adesp. 101 Page. 343 Wilamowitz (1932) II 303 n. 2. 344 Il migliore commento (qua e là da completare) è quello di Davies (2021), 345–348. Vedi anche quanto osservo in Dorandi (2023a). 345 Di Lello-Finuoli (1971), 6 e Ead. (1967), 142–143 n. 3. Da questi contributi vengono le due precedenti citazioni. Vedi anche Ead. (2011), 137–138 dove a n. 52 è bene precisato «Aperta cioè a un gran numero di esiti». Ulteriori utili considerazioni in Piccione (2003), 248–251. 346 Ferreri (2011), 293–296.
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6. Contaminazione orizzonale e interpolazioni?
Discuto di séguito qualche caso esemplare. Comincio con l’inizio del primo libro e con quella sezione che Wachsmuth, sulla base della testimonianza di Fozio, designa come «Corol larii ultima pars». Essa è conservata dal solo F (f. 1r–v) con il titolo περὶ ἀριθμητικῆϲ. Le mie considerazioni riguardano le cinque ecloghe iniziali, delle quali le prime due sono poetiche e le altre tre prosastiche (I 15, 3– 19, 18). Il primo testo che leggiamo in F è costituito da 10 versi (trimetri giambici) introdotti dal lemma dalla struttura anomala posto nel margine αἰϲχύλου ἐκ προμηθέωϲ, | φιλολάου. In realtà, solo i primi sei versi trovano una corrispondenza nel Prometeo attribuito a Eschilo (vv. 454–459),347 mentre i restanti quattro derivano apparentemente da un’altra tragedia, come suggerì G. Hermann,348 che vi scorse un frammento del Palamede di Euripide.349 Wachsmuth difense invece l’origine eschilea di quei versi e li attribuì al Palamede del medesimo (fr. **181a Radt) richiamando a confronto il fr. 182 Radt di Eschilo nonché Platone, Resp. p. 522d e aggiungendo addirittura il lemma che sarebbe caduto . Nell’apparato egli annota inoltre: «num φιλολάου quod supra … additum est in F, corruptum ex παλαμήδουϲ?».350 Se non sembra sussistano dubbi che all’origine i versi formavano due ecloghe distinte, il loro accorpamento in un unico estratto poté avere luogo al momento dell’epitome o forse anche prima; in ogni modo come tale era in ω e quindi nella recensio breviata e come tale deve essere pubblicato nell’edizione di quest’ultima.351 Che il lemma φιλολάου nasconda il nome corrotto di Palamede è assai improbabile. A titolo di ipotesi, proporrei che quel lemma si riferisca piuttosto alla attuale ecloga 3, che tramanda diversi estratti attribuiti al filosofo pitagorico, dopo un’ecloga (2) con Homerica che Wachsmuth, a 347 Il finale della prima ecloga ritorna in una forma diversa (= Prom. 459–461) in 2, 4, 2 Wach. (II 26, 18–27, 1). Il luogo fa parte delle ecloghe di Stob. 2 traslocate in Stob. 4 e è da me riproposto fra le Recensionis breviatae reliquiae (sezione C). 348 Hermann teste Matthiae (1829), 247 e poi in Hermann (1852), 93 (ad Prom. v. 460). Heeren I/1 (1792), 5 n. † aveva già avanzato la possibilità di separare le due serie di versi, ma alla fine preferì scorgere nell’intera ecloga tracce di una redazione più ampia del Prometeo eschileo altrimenti ignota e espunse il v. 6 che avrebbe formato un doppione con il v. 10. 349 Kannicht non li prende in conto nella sua raccolta dei frammenti di Euripide. Nauck (18892) li recensisce come Adespoton 470. 350 Wachsmuth (1884) I 15 (ad loc.). 351 Maggiori dettagli in Dorandi (2023a).
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
seguito di Diels, riconduce a un trattato che mostra innegabili affinità con lo pseudoplutarcheo De Homero 145 (donde l’aggiunta del lemma ). Questo a partire dal presupposto che quell’ecloga come le altre con Homerica (tramandate sempre senza lemma) comuni a Stob. 1–2, siano aggiunte posteriori di incerta cronologia nate per contaminazio ne orizzontale in un momento identerminato precedente il capostipite ω della redazione epitomata.352 In questo caso, il lemma φιλολάου che segue quello di Eschilo rispecchierebbe la successione originaria delle ecloghe in questo inizio di capitolo prima della Recensio breviata, quando l’ecloga di Homerica mancava ancora. Un’altra possibilità è che φιλολάου non si un lemma, ma piuttosto una indicazione marginale di un ignoto lettore che avrebbe segnalato la consonanza di quanto dice Prometeo con la dottrina di Filolao sui numeri.353 Un esempio simile indicherei in 1, 10, 11ab (I 121, 10–122, 10) un’ecloga che in F P si presenta come un’unica pericope testuale priva di lemma (ἐμπεδοκλέουϲ aggiunto da una seconda mano nel margine di P è piuttosto un notabile che un vero e proprio lemma). In realtà, siamo di fronte a due unità testuali, la prima delle quali è una citazione di quattro versi di Empedocle all’origine separati (VS 31 B 6 e B 36), mentre la seconda è di nuovo un Homericum che Wachsmuth separa dal precedente aggiungendo vi il lemma fittizio . Questo passo in prosa, che richiama ps.-Plutarco, De Hom. 99–100, potrebbe bene intendersi come una forma di ‘esegesi’ dei (o di ‘parallelo’ ai) versi di Empedocle che precedono e essere inteso anch’esso come una interpolazione seriore. Vengo a 1, 1, 13–4 (I 27, 5–20). Queste due ecloghe vanno studiate insie me. Anch’esse sono trasmesse dal solo F (f. 3v 10–16) in una maniera all’ap parenza confusa subito dopo la citazione dell’Inno a Zeus di Cleante (SVF I 537) senza che sia indicata la fine del precedente testo e senza alcun lemma. In F, a un primo verso tragico in trimetri giambici, seguono tre esametri omerici (ρ 485–487) a loro volta seguiti da una sequela di altri sette trimetri tragici. Tutti i versi sono attualmente privi di lemma, ma sono separati in F o da un dicolon o da una ano stigmé. Già Heeren suggerì che i versi 352 Vedi quanto osservo in Dorandi (2021b), 165–166. La questione è discussa, dopo Kindstrand (1990), xlviii–xlix, da Hillgruber (1994), 54 n. 195 e Mansfeld, Runia I (1997), 211–223. 353 Come mi ha suggerito (per litteras) A. Guida, che ringrazio. Contro l’eventualità che φιλολάου sia un lemma può essere richiamato il fatto che l’ecl. 3 è preceduta dal lemma φιλολάου in textu. Ma non mancano casi di doppi lemmi, uno in textu e uno in margine.
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6. Contaminazione orizzonale e interpolazioni?
di Omero erano mal collocati e che dovevano essere risistemati dopo la sequenza degli otto trimetri che lui considera un blocco unico (numerato 13 e indicato con il lemma complessivo di Versus monostichi). Essi vennero a formare quindi una nuova ecloga con il lemma Homeri numerata 14. Que sta scelta fu adottata da Gaisford e da Meineke. Wachsmuth invece accettò lo spostamento dei tre versi omerici, ma rinunciò all’idea che i restanti otto trimetri formassero una unità e li separò l’uno dall’altro indicando le singole unità con le lettere dell’alfabeto (13a–13h) introdotte ciascuna da un suo specifico lemma. Ho anche io, seppure con esitazione, seguito l’idea di Heeren a partire dal presupposto che i versi omerici possono essere considerati una aggiunta seriore (dalla cronologia incerta) collocata nel margine accanto ai versi tragici e entrata nel testo al posto sbagliato (tra la produzione della Recensio breviata e ω o già in ε?). Per quanto riguarda invece l’ecloga 13, l’opzione di Wachsmuth, se coglie nel segno, potrebbe semmai corrispondere a quella che era forse la struttu ra originaria dell’ecloga prima dell’epitomazione e in questo è conforme ai suoi criteri editoriali. In una edizione della Recensio breviata si deve comunque mantenere il testo quale trasmesso da ω. Simile, ma non identico, è il caso di 2, 1, 5 (II 4, 7–14). Qui in F P sono trasmessi in una struttura unitaria di 5 trimetri giambici nella stessa successione della Comparatio Menandri et Philistionis 2, 77–81 (106 Jäkel), ma con il lemma complessivo φιλήμωνοϲ.354 Nell’edizione di Wachsmuth, l’ecloga è suddivisa a torto in tre unità (5a, 5b, 5c) le prime due sotto forma di un distico, la terza di un monostico. Qui è probabile che già nella redazione originale dello Stobeo i versi formassero una sola ecloga.355 L’ecloga 1, 8, 40a–e (I 102, 7–104, 11) è conservata in F P senza lemma e ha una strana struttura composita, che portò Wachsmuth a suddividerne il materiale in differenti pericopi (40a–e). Dopo una serie di dicta di filosofi sul tempo (due attribuiti a Talete e uno a Periandro) e di un medico Euri fonte (40a), segue un estratto da Aezio (40b = Aet., Plac. 1, 21,1 e 3–22, 2–8 Mansf.–Ru.) e tre ulteriori passi che vengono riportati ai Physica di Ario Didimo (40cde = fr. 6, 7 e 27 Diels). Se la successione di testi di Aezio e di Ario Didimo è corrente in altre ecloghe di Stob. 1,356 perplessi lascia invece la presenza dei dicta iniziali per i quali non escluderei che ci troviamo 354 E non al poeta comico Filemone. È sufficiente rimandare a Kassel, Austin (1989), 317. 355 Vedi Piccione (1999), 168–169. 356 Vedi Dorandi (2021b), 165–166.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
di fronte a un ulteriore esempio di aggiunta allotria per contaminazione orizzontale, senza poter decidere a quale momento si sia prodotta. L’ecloga 1, 1, 31a–b (I 38, 17–39, 8) occupa una posizione all’apparenza anomala all’interno del cap. 1 (I 23, 2–51, 17). Questo capitolo inizia, come di consueto, con una serie di ecloghe in versi (1–24) seguite da altre in prosa (25–30). Con le attuali ecloghe 31ab e 32 riprende una serie in versi che continua a sua volta con estratti in prosa (33–40). La seconda delle ecloghe poetiche (32) è una citazione dal poeta comico Filemone (fr. 95 K.-A.) che ritroviamo con qualche variante come ecloga 10 del capitolo 10 (infra 140–141). Fra queste, merita attenzione l’ecl. 31 che in F P si presenta come una unità di dieci versi, che Meineke suggerì di dividere in due parti numerate da Wachsmuth 31a e 31b.357 La prima sarebbe un poemetto in nove esametri (con il lemma ), la seconda un unico verso adespoto in metro lirico incerto (con il lemma ). Questa operazione non mi convince né a livello della Recensio breviata né a quello della redazione originaria. Siamo di fronte infatti, come spero di avere dimostrato, a un componimento unitario, frammento di un più lungo Inno a tutti gli dèi nel quale il v. 10 aveva la probabile funzione di ritornello che scandiva il passaggio da un gruppo di divinità a un altro.358 Sempre in relazione con questo gruppo di ecloghe, è lecito chiedersi se sia possibile spiegare la ragione della presenza dei due estratti in poesia (31ab e 32) in questo punto preciso collocati fra due blocchi di ecloghe in prosa. Si tratta di una interpolazione rispetto alla originaria struttura del capitolo? Oppure siamo di fronte a un indizio che potrebbe essere interpre tato come un residuo della porzione iniziale del capitolo 2 di cui non è traccia in F P e dunque già in ω? In questo caso, la mancanza del titolo di quel capitolo si potrebbe spiegare più che per la volontà dell’epitomatore di fare dei capitoli 1 e 2 una sola unità, come un accidente meccanico della trasmissione forse precedente ω. Stando a Fozio (112a32–4), il capitolo 2, aveva come titolo περὶ τῶν νομιζόντων μὴ εἶναι πρόνοιαν καὶ ἑπομέναϲ ταύτῃ θείαϲ ἐπὶ τῇ τοῦ παντὸϲ διοικήϲει δυνάμειϲ. Perduto in ω, esso era presente in L come si deduce dal titolo (più ampio) registrato nell’indice (ind. cap. Α 65): περὶ τῶν ἀπρονόητον εἶναι τὸν κόϲμον λεγόντων καὶ τὰ κατ᾽ αὐτὸν πράγματα καὶ μὴ εἶναι πρόνοιαν καὶ ἑπομέναϲ ταύτηι ἐπὶ τῇ τοῦ παντὸϲ διοικήϲει δυνάμειϲ.
357 Meineke (1863), 373. 358 Dorandi (2020b).
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6. Contaminazione orizzonale e interpolazioni?
Wachsmuth tentò con un tour de force di ricostruirne l’ossatura e di indicare anche alcuni dei testi che avrebbero dovuto farne parte (1, 51, 18–52, 15). Curnis non ha avuto difficoltà a smantellare questa fantasiosa ricostruzione in una sana revisione del reale apporto di Fozio e di L alla ri costruzione della struttura originaria di Stob. 1–2 alla luce di una innovativa lettura della tecnica compositiva dell’epitomatore.359 Lo studioso parte dal presupposto che l’anonimo redattore della Recensio breviata avrebbe proceduto non solo omettendo numerosi capitoli e i rela tivi titoli, ma recuperando altresì «in altri spazi della sua nuova antologia singole ecloghe dei capitoli omessi» (103. Il corsivo è nel testo). Uno di questi casi è individuato nella attuale ecloga 40 del cap. 1 (lemma Ἀρριανοῦ Ἐπικτητείου ἐκ τοῦ Περὶ εὐαρεϲτήϲεωϲ. 1, 12, 1–7 Schenkl) nella quale egli scorge un residuo appunto del perduto cap. 2 rifluito nel cap. 1.360 L’ultimo esempio che ho scelto è 1, 5, 10–13 (I 76, 8–77, 5). Le numerose e non ancora tutte risolte difficoltà di questo gruppo di quattro eclogle in versi richiede una trattazione un po’ più lunga e puntuale di quella che ho dedicato alle precedenti. F (f. 14r 15–22) e P (ff. 18v 19–19r 7) trasmettono quelle ecloghe sotto forma di un testo unitario ben delimitato, all’inizio e alla fine, in F da un dicolon seguito da una crocetta e in P da un dicolon preceduto e seguito da un vacuum. La situazione è tuttavia complicata dalla presenza di tre lemmi in F e di due in P. In F P, il primo lemma εὐριπίδου πηλεῖ è in textu. Il secondo e il terzo sono nel margine. In F, il secondo lemma ϲοφοκλέουϲ | (ἐ)κ φαίδραϲ è scritto in corrispondenza del rigo che termina con αἶϲα (l. 17 = 76, 14) e è seguito dal terzo ϲοφοκλῆϲ | φαίδραι sistemato più basso accanto al rigo (21) dove ha inizio (ἔζηϲ) l’ecl. 13; in P (f. 19r 1–3), è registra to invece un solo lemma (ϲοφοκλέουϲ | vacat | ἐκ φαίδραϲ) che si estende
359 Curnis (2004), 101–107. 360 In realtà, l’ipotesi era già stata avanzata, a séguito di Fabricius, da Wachsmuth (1884) I 50 ad loc., che l’aveva comunque scartata: «eclogam Arrhiani olim cum Fabricio capiti alteri tribui quod nunc minus placet». A Curnis, al quale è sfuggita la nota di Wachsmuth, va riconosciuto il merito di avere cercato le prove necessarie per confermare l’originaria presenza di I 1, 40 nel perduto cap. 2. Lo stesso Curnis (2006), 280–282 ha suggerito addirittura di vedere tracce di un intervento della mano dello stesso Stobeo in 1, 1, 28. Al di là della sua peregrinità, questa ipotesi che non trova riscontro in quello che sappiamo del metodo di lavoro dello Stobeo, si deve tenere conto, ancora una volta, dello stato epitomato di Stob. 1–2 assai lontano dal presunto originale e quindi da utilizzare con la massima cautela.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
nel margine in corrispondenza di tre righi il primo dei quali comincia con περιώϲι᾽ (76, 12) mentre l’ultimo si chiude con ὦ πανδεί|μαντοι (76, 19).361 Nelle edizioni dello Stobeo fino a quella di Wachsmuth sono distinte all’interno della pericope testuale quattro ecloghe (10–13): la prima (κλῦτε —ἑζόμεναι) è assegnata al Peleo di Euripide; la seconda (περιώϲι’—αἶϲα) alla Fedra di Sofocle; la terza (Κλωθὼ—ϲυντυχιᾶν) a un poeta lirico ignoto e la quarta (ἔζηϲ—βιάζεται) ancora alla Fedra di Sofocle. Fra queste, solo l’attribuzione a Sofocle dell’ultima non ha mai posto problemi.362 Tale struttura e le conseguenti attribuzioni vennero messe in discussione da Wilamowitz363 il quale suggerì che il primo lemma nel margine di F (ϲοφοκλέουϲ | (ἐ)κ φαίδραϲ), identico a quello di P, fosse stato collocato qui fuori posto e che fosse in realtà un doppione del lemma che segue da riferire anch’esso all’ultima ecloga (13), questa senza dubbio estratta dalla Fedra di Sofocle. Lo studioso propose pertanto di distinguere non quattro ecloghe, ma tre: la prima derivata dal Peleo di Euripide, la seconda, che avrebbe inglobato le attuali due che seguono (περιώϲι’—ϲυντυχιᾶν), da un testo lirico che egli suggerì di attribuire a Simonide di Ceo; la terza infine estratta anch’essa dalla Fedra di Sofocle. Nauck364 fece un ulteriore passo e avanzò l’idea che tutta la prima parte (κλῦτε—ϲυντυχιᾶν), che corrisponde alle ecloghe 10–12 Wachsmuth, formasse un unico frammento che niente aveva a vedere con la tragedia, ma derivava piuttosto da una composizione di un poeta lirico anonimo. Il lemma εὐριπίδου πηλεῖ doveva essere riportato alle due ecloghe precedenti 8–9 (due trimetri giambici adesposti). Gli studiosi successivi che si sono occupati della restituzione dei versi originari al di là della redazione trasmessa dallo Stobeo, hanno optato ora per la proposta di Nauck ora per quella di Wilamowitz, che ha trovato una consacrazione nell’edizione di riferimento di Page (PMG 1018ab) interinata dal recente commento di Davies.365 Se Page scriveva in maniera perentoria «causam invenio nullam cur κλῦτε—κεκρίϲιν Euripidis Peleo abiudicentur», l’attribuzione al poeta tragico è stata invece rigettata da Kannicht.366
361 362 363 364 365 366
La descrizione di Mantziou (1986), 54 n. 4 è in più punti imprecisa. Vedi Radt ad Soph. fr. 686 (p. 479). Wilamowitz (1886), 16 n. 2. Nauck (1889), xx (epimetrum 3). Davies (2021), 343–345. Così anche Ucciardello (2020), 46–47. Vedi quanto scrive Kannicht ad Eur. fr. 620 (p. 617).
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6. Contaminazione orizzonale e interpolazioni?
La migliore presentazione dei numerosi problemi dell’insieme di questi versi leggiamo nell’articolo della Mantziou, anche se la sua conclusione che le ecloghe 10–12 siano tutte estratte da opere drammatiche ha suscitato per diverse ragioni la perplessità degli studiosi.367 Lascio a altri l’impegno di riprendere, se mai sarà possibile risolverla, la questione dell’autore (o degli autori) dei versi e quella se si tratti di un unico testo o di resti di due o più frammenti distinti. Le poche osservazioni che seguono hanno piuttosto lo scopo di rendere conto delle mie scelte ecdotiche in quanto editore di Stob. 1 nella sua versione epitomata. L’unico dato sicuro è quello della paternità sofoclea e dell’appartenen za alla sua Fedra dei due versi dell’ecl. 13. Essi devono essere pertanto separati dal resto seguendo l’indicazione del lemma ϲοφοκλῆϲ | φαίδραι correttemente sistemato da F nel margine accanto a ἔζηϲ—βιάζεται. Più difficile decidersi a proposito degli altri due lemmi che attribuiscono il primo gruppo di versi al Peleo di Euripide e il secondo anch’esso alla Fedra di Sofocle. Tenuto conto dei dati testuali di F P che possiamo presumere rispecchino almeno lo stato di ω, si prospettano due possibilità: seguire la scelta di Meineke e Wachsmuth oppure fare dell’insieme dei versi delle ecloghe 11–12 un unico frammento il cui lemma era Εὐριπίδου Πηλεῖ. In tal caso, il lemma ϲοφοκλέουϲ | (ἐ)κ φαίδραϲ che segue sarebbe fuori posto e consisterebbe (come suppose il Wilamowitz) in un doppione di quello che introduce l’ecloga 13. La prima opzione è quella che ho infine ritenuto. Ho diviso pertanto l’intera pericope testuale di F P in quattro ecloghe 10–13. Ho mantenuto la prima ecloga (10) sotto il lemma εὐριπίδου πηλεῖ, la seconda (11) l’ho lasciata con il lemma ϲοφοκλέουϲ | (ἐ)κ φαίδραϲ di F, mentre la terza (12) l’ho pubblicata senza lemma. Per l’ecloga 13 ho mantenuto l’attribuzione alla Fedra di Sofocle. Questa scelta non ha come conseguenza che dobbiamo condividere le attribuzioni attestate dai lemmi per le ecloghe 10–12 in F P (= ω) né che il testo dei versi rispetti in tutto il dettato originario dei loro autori, chiunque essi siano. È alla luce di queste premesse che nella constitutio textus e nella ricostruzione della struttura metrica soprattutto dell’ecloga 12 (con una pre dominanza di dattilo-epitriti368) quali trasmessi da ω, ho talora fatto scelte diverse da quelle degli editori dei singoli frammenti interessati a restituirne la redazione originaria. Incertezze continuano ovviamente a sussistere e fra 367 Mantziou (1986), 51–72. Questo importante contributo è a quanto pare sfuggito a Ucciardello (2020) e a Davies (2021). 368 West (1982), 139–140.
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
queste la più intrigante è quella relativa alla posizione di αἶϲα alla fine di 11 o all’inizio di 12. La soluzione di Bergk di aggiungere all’inizio di 12 resta ancora attraente:369 «conieci Αἶϲα καὶ Κλωθὼ Λάχεϲίϲ τε, ut tres Parcae invocentur, facile autem haec duo vocabula potuerunt oblitterari cum praecedens Sophoclis fragmentum terminetur voce αἶϲα». 7. Ecloghe ripetute: doppioni da eliminare o da conservare? Un fenomeno frequente nell’intera Antologia è la presenza di ecloghe ripetute in capitoli e libri diversi. Per spiegare questi doppioni, si può postulare a priori l’utilizzazione da parte dello Stobeo di precedenti colle zioni o raccolte tematiche che riunivano indipendentemente l’una dall’altra un numero di egloghe identiche anche se talvolta divergenti in qualche dettaglio testuale in ragione appunto della disparità dei modelli. Né è da escludere, ancora una volta, in alcuni casi, che siamo di fronte a tracce di una contaminazione orizzontale e pertanto a ecloghe interpolate. In Stob. 1–2, resta inoltre aperta l’eventualità, anche se difficile da dimostrare, che alcune di queste ecloghe siano state aggiunte addirittura forse dallo stesso epitomatore e questo a partire dal presupposto che il suo intervento non sottrasse soltanto molti testi dalla redazione originaria, ma poté anche aggiungerne altri. Pure nella piena consapevolezza delle reali difficoltà a trovare una risposta univoca e soddisfacente al fenomeno e alle sue cause, mi soffermo di séguito su qualche caso meno dubbio. Ho già avuto modo di segnalare la presenza in 1, 1, 32 (I 39, 9–19) di un estratto senza lemma di una commedia incerta di Filemone (fr. 95 K.-A.). Il medesimo frammento, introdotto, questa volta, dal lemma φιλήμονοϲ è ripetuto in 1, 10, 10 (I 120, 17–121, 9).370 I due luoghi si distinguono non solo per significative varianti, che provano l’origine delle due ecloghe da due fonti diverse, ma anche per errori comuni. Fra le varianti, è sufficiente citare l’omissione del v. 6 ἐνταῦθ’ ἐν Ἀθήναιϲ, ἐν Πάτραιϲ, ἐν Ϲικελίαι nella prima occorrenza; fra gli errori, la presenza dell’intero v. 2 οὐδ᾽ αὖ ποιήϲων οὐδὲ πεποιηκὼϲ πάλαι probabilmente interpolato nonché delle
369 Bergk (1882), 733. 370 Si corregga così Wachsmuth (1884) I 39 in apparato invece di «cap. X 8».
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7. Ecloghe ripetute: doppioni da eliminare o da conservare?
parole πανταχοῦ παρών, alla fine dell’ultimo verso.371 Come editore dello Stobeo, ritengo immetodico reintegrare il verso 6 nella prima occorrenza. Il v. 2, considerato autentico nei modelli dell’antologista è invece da conserva re. Nell’ultimo verso infine, le parole πανταχοῦ παρών sebbene non diano un senso soddisfacente e debbano essere espunte o corrette in una raccolta dei frammenti di Filemone, sono altresì da mantenere nella Recensio brevia ta.372 Quanto alla questione dell’origine del doppione, senza negare che una delle due ecloghe possa rientrare fra le interpolazione post-stobeane, sarei più propenso a credere che la medesima ecloga fosse stata recuperata dall’antologista da modelli distinti che a loro volta le avevano sistemate indipendentemente in due contesti differenti. Un altro esempio interessante è rappresentato da 1, 59, 3 (I 499, 4–15), un breve estratto da Platone, Resp. pp. 412e 9–413a10 che in ω (= F P) era ripetuto con qualche variante un’altra volta dopo 2, 7, 4b (II 57 post v. 12) dove è introdotto dalle parole περὶ δόξηϲ· πλάτωνοϲ πολιτείαϲ γ e termina a p. 413a9 (fino a ὀρθῶϲ λέγειϲ). Wachsmuth pubblica l’ecloga solo nel cap. 59 del primo libro e indica in apparato le varianti del secondo luogo con le sigle FII e PII. In una edizione della Recensio breviata, è lecito riproporre il passo in entrambi i luoghi sul fondamento dello stato ω. A parte questo, può apparire verisimile che una delle due occorrenze sia una interpolazione, forse aggiunta all’origine in margine e poi infiltrata nel testo. Se così, resta da capire quale delle due e a che momento della tradizione nacque.373 Lo stesso discorso vale per 1, 17, 4 (I 155 post v. 14), dove alla fine dell’ecloga estratta dai Physica di Ario Didimo (fr. 28, 463 Diels), si legge in F P (= ω) un testo relativo a Posidonio (fr. 96 Kidd) che ritroviamo in una forma più breve, fino alla parola ἀνάλυϲιν, in 1, 20, 7 (I 177, 21–179, 17). Questa volta, Wachsmuth pubblica quel passo solo nel capitolo 20 completandolo nella parte finale con il contributo della prima occorrenza. 371 Tutti i dettagli utili alla constitutio textus di questo frammento nell’apparato critico dell’edizione di Kassel, Austin (1989). Sul v. 2 vedi ora anche Mastellari (2020) le cui conclusioni non mi sento di condividere. 372 Va tuttavia notato che Meineke (1841), 31 le mantenne nel testo sia dell’edizione dei frammenti di Filemone (fr. inc. fab. 2) sia in quella dello Stobeo (1860–1864). Solo nella Adnotatio critica a questa ultima (II xix), egli suggerì «praestat οἶδ᾽ ἁπανταχοῦ». Inoltre al v. 2 nello Stobeo almeno si può conservare ἄν di F P corretto in αὖ da Wakefield. Vedi Moorhouse (1946), 5. 373 Wachsmuth (1884) II 57 (ad loc.) si limita a scrivere: «quod quo casu huc delatum sit nos fugit».
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V. Stob. 1–2 tra Recensio breviata e Recensio plenior
A fondamento di questa scelta è la costatazione che risale già all’editio princeps Canteriana che il contesto porti a credere che la sua posizione cor retta doveva essere nel cap. 20 e che, per una ragione a noi ignota, l’ecloga fosse stata riprodotta anche nel cap. 15. Di nuovo, pur nella consapevolezza che ci sfuggono le ragioni di questa ripetizione (interpolazione? parallelo aggiunto in margine?) ribadisco che in una edizione della Recensio breviata (almeno nello stato ω), non c’è ragione di espungere l’una delle due occor renze. Più difficile da valutare è l’inizio di 1, 25, 1e–f (I 208, 20–209, 2) dove due pericopi testuali sono ripetute a breve distanza una dall’altra in F A (= ω): 208, 20–1 verba μητρόδωροϲ πύρινον ὑπάρχειν τὸν ἥλιον iterantur in FA (in P mg. μητροδώρου addito) infra ante 209, 11 208, 23–209, 2 ἀντιφῶν πῦρ ἐπινεμόμενον μὲν τὸν περὶ τὴν γῆν ὑγρὸν ἀέρα, ἀνατολὰϲ δὲ καὶ δύϲειϲ ποιούμενον, τῶι τὸν μὲν ἐπικαιόμενον αἰεὶ προλείπειν, τοῦ δ’ ὑπονοτιζομένου πάλιν ἀντέχεϲθαι. haec de Antiphonte memoria infra ante 209, 21 in FA repetita est, initio ita mutato ἀντιφῶν ἔφηϲε τὸν ἥλιον εἶναι πῦρ κτλ. L’ipotesi di un «pasticcio» intervenuto tra la redazione dell’epitome (ε) e il suo stato ω non è da escludere, anche se non possiamo scartare la possibilità che ω rispecchi invece la realtà testuale del proprio modello presupponendo che l’epitomator non aveva ancora ben chiaro come rior ganizzare questi gruppi di ecloghe e che di conseguenza li avesse lasciati entrambi. Nel dubbio, propongo ancora una volta di mantenere il testo quale trasmesso da ω.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
1. I capitoli iniziali di Stob. 2 nella Recensio breviata Il secondo libro sofferse molto più del primo dei tagli e delle manipo lazioni dell’epitomatore e anche dei danni successivi della trasmissione dell’epitome nel passaggio da ε a ω; è per questa ragione che richiede una discussione a parte più approfondita. Uno dei problemi maggiori riguarda la ricostruzione dei capitoli iniziali e il restauro di quelli finali dal cap. 8 (Wachsmuth) in poi. Difficoltà sono comunque presenti anche nella parte centrale del medesimo libro che nella tradizione della Recensio breviata consiste in un lunghissimo capitolo (7 Wachsmuth) il cui titolo in F P è Περὶ ἠθικῆϲ καὶ τῶν ἀκολούθων, ma che Fozio (113a12) e il redattore dell’indice dei capitoli di L (litt. H 1), ammesso che costui si riferisca realmente con questo titolo a quella specifica sezione di Stob. 2, conobbero nella forma Περὶ τοῦ ἠθικοῦ εἴδουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ. Se si presta fede a Fozio, il secondo libro dell’Antologia contava nel codi ce da lui letto 46 capitoli (τὸ δὲ βʹ βιβλίον ϲυμπληροῦται μὲν κεφαλαίοιϲ ϛʹ καὶ μʹ) e si apriva con i seguenti (113a6–11): περὶ τῶν τὰ θεῖα ἑρμηνευόντων, καὶ ὡϲ εἴη ἀνθρώποιϲ ἀκατάληπτοϲ ἡ τῶν νοητῶν κατὰ τὴν οὐϲίαν ἀλήθεια· εἶτα περὶ διαλεκτικῆϲ· καὶ περὶ ῥητορικῆϲ· καὶ περὶ λόγου καὶ γραμμάτων· περὶ ποιητικῆϲ· περὶ χαρακτῆροϲ τῶν παλαιῶν· Nella Recensio breviata (ω = F P), la struttura della prima parte del libro è ben diversa da quella testimoniata da Fozio. Sia in F (ff. 129r18–133r5) sia in P (ff. 176v1–181r14) non c’è traccia infatti della suddivisione in differenti sezioni e tutto il materiale, che aveva certamente subìto nel frattempo con sistenti tagli rispetto alla versione originaria nel momento dell’epitome, è riunito insieme sotto un unico titolo complessivo che corrisponde a quello che in Fozio designava il primo della serie di quei capitoli: Περὶ τῶν τὰ θεῖα ἑρμηνευόντων, καὶ ὡϲ εἴη ἀνθρώποιϲ (om. FP : ex Photio add. Heeren) ἡ τῶν νοητῶν κατὰ τὴν οὐϲίαν ἀλήθεια.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
Se è lecito presupporre con verisimiglianza che questo fosse già lo stato testuale di ω, è invece impossibile dire se l’accorpamento dei capitoli inizia li in un unico blocco fosse stata introdotta in ω oppure se risalisse più oltre al momento cioè della redazione dell’epitome (ε). Nella mia edizione della Recensio breviata, ho deciso di riprodurre la struttura tramandata da F P nel rispetto dello stato di questa tradizione (ω). Diversamente, avevano operato i precedenti editori di Stob. 1–2 a co minciare da Heeren.374 Se con Heeren e, al suo seguito, con Gaisford e Meineke, questi interventi furono tuttavia assai limitati riducendosi per lo più all’aggiunta dei titoli presunti perduti e recuperati attraverso la testimo nianza di Fozio,375 la situazione cambiò drasticamente con Wachsmuth. In questa ultima edizione, i primi capitoli di Stob. 2, numerati da 1 a 6, occupano una trentina di pagine (II 3, 1–37, 13) e si presentano con una struttura ben diversa da quella rappresentata dallo stato testuale ω. Non solo Wachsmuth vi aggiunge i cinque titoli mancanti dei capitoli da 2 a 6, ma anche e soprattutto integra il tessuto di ω con le ecloghe riconducibili a tre capitoli che lo studioso aveva recuperato in Stob. 4 dove sarebbero finite in un momento indeterminato della trasmissione a seguito dell’erronea traslocazione di diversi fogli di Stob. 2. All’interno di questo materiale, Wachsmuth intervenne ulteriormente ridistribuendo alcune di quelle ecloghe da un capitolo a un altro rispetto all’originaria collocazione che occupano nei codici di Stob. 4. Vorrei cominciare col presentare e discutere, capitolo per capitolo, i criteri seguiti dal Wachsmuth nel suo tentativo di restaurare la struttura di quella porzione di Stob. 2 sulla falsariga della testimonianza di Fozio. Il capitolo 1 (II 3, 1–15, 10), il cui titolo, come abbiamo visto, è il solo tramandato in ω, si compone nell’edizione di Wachsmuth di trentatré ecloghe. Esso si apre con una serie di dieci estratti poetici (il quinto suddi viso in tre unità numerate 5a, 5b, 5c) seguiti da altri in prosa secondo la 374 Non prendo in conto l’editio princeps Canteriana, che riproduce pedissequamente sotto questo aspetto lo stato dei suoi modelli, tutti apografi di P (supra 68–70). 375 Heeren (1801). Vedi poi Gaisford (1850) e Meineke (1860–1864). Per avere un’idea di questo modus operandi, è sufficiente citare quanto scrive Heeren (1801), 22 n. *: «Nullum hic nec in Cant. ed. nec in codd. quotquot exstant novi capitis signum. Secutus sum Photii auctoritatem, qui in capitum recensu caput II de dialectica, (sensu strictiori), fuisse testatur; in locis enim quae sequuntur de dialectica agitur; quare loca haec ad illud pertinere, (fortasse autem olim plenius lectum fuerit;) nemo dubitabit». Vedi anche Id., 26 n. *, 29 n. *, 30 n. * e 31 n. †.
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1. I capitoli iniziali di Stob. 2 nella Recensio breviata
struttura usuale nella letteratura antologica e nello Stobeo. Una parte delle ecloghe di questo capitolo è trasmessa oltre che da F P anche da L (ff. 168v 19–169, 29: cap. Α 31). In tutti e tre questi testimoni leggiamo le ecloghe che corrispondono a 1–17 e 31–33 nell’edizione di Wachsmuth (in L, 31 è tuttavia più completa che in F P). All’interno di questa serie, e precisamente dopo l’ecloga 17, Wachsmuth inserì il primo gruppo di ecloghe reperite in Stob. 4 numerandole 18–31 (II 6, 19–14, 1).376 Il capitolo 2 (II 15, 11–24, 23) ha una struttura assai particolare. Innanzi tutto, Wachsmuth reintrodusse a séguito di Heeren il titolo recuperato in Phot. 113a9 nella forma , che egli preferisce a quella più estesa dell’indice di L (litt. Δ 17) Περὶ τῆϲ διαλεκτικῆϲ διάφοροι δόξαι τῶν παλαιῶν τῶν μὲν αὐτὴν ἀναγκαίαν, τῶν δὲ ἀνωφελῆ ἀποφηναμένων.377 Al titolo, lo studioso fece seguire l’indicazione Pars prior, che così giustifica:378 parte priore congestae erant sententiae eorum qui dialecticam ut neces sariam artem laudarunt; probabiliter singularis ei addita erat inscriptio aut congrua cum titulo ind. Laur. aut simplex ἔπαινοϲ διαληκτικῆϲ … sive etiam simplicius ὑπὲρ διαληκτικῆϲ … . Vengono poi riunite venticinque ecloghe, la prima serie delle quali (1–7) in prosa, le restanti (8–25) alternanti ecloghe in versi (8–10) a altre di nuovo in prosa (11–25) e introdotte da un ulteriore titoletto εἰϲ τὸ ἐναντίον (2, 21, 15). Dell’insieme di queste venticinque ecloghe che leggiamo nell’edizione di Wachsmuth, solo le prime quattro sono tramandate in ω a séguito del drastico intervento dell’epitomatore. Si tratta di tre estratti platonici (Resp. p. 533b–c, p. 534e e Phaedr. pp. 225c–266c) e di uno dal Περὶ τοῦ ὄντοϲ attribuito a Archita di Taranto (20 Thesleff). Il resto delle ecloghe (compreso il titoletto εἰϲ τὸ ἐναντίον) corrisponde invece alla terza serie di testi traslocati in Stob. 4: «ab hac ecl. [5] incipit supplementum huius capitis ex ‘florilegio’».379 Attenzione va portata subito all’intrigante εἰϲ τὸ ἐναντίον per il quale fino da ora escluderei l’ipotesi di Wachsmuth che risalga allo stesso Sto
376 Gli altri due gruppi di ecloghe, che secondo Wachsmuth sarebbero finiti anch’essi nel quarto libro, sono ricollocati dal medesimo nei capitoli 2 e 4 del secondo libro. 377 Wachsmuth (1884) II 15 (ad v. 12): «Qui num Stobaeo ipsi reddendus sit dubito; fortasse tamen est conflatus ex singularibus duarum partium inscriptionum». 378 Wachsmuth (1884) II 15 (ad v. 13). 379 Wachsmuth (1884) II 18 (ad v. 11).
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
beo.380 Nei manoscritti di Stob. 4, la sua posizione è fluttuante.381 In S (f. 140r) εἰϲ τὸ ἐναντίον è scritto nel margine superiore centrato senza alcun segno specifico che consenta di determinare a prima vista a quale gruppo di ecloghe si riferisca.382 Quello al quale viene correntemente riportato (ossia le ecloghe 11–25) è copiato in S a cominciare dal r. 20 del medesimo foglio. In M (f. 263v 18) questa espressione fa invece parte del lemma che introdu ce la prima ecloga del medesimo capitolo ossia εἰϲ τὸ ἐναντίον Εὐριπίδου Ἱππολύτου inteso come un titolo e come tale scritto in rosso; mentre in A (f. 160r 14) è riportata a seguito dell’ultima ecloga (Iambl., epist. 286–289 Taormina, Piccione) del capitolo precedente qui numerato 72 (πβʹ). In B (f. 335r 15) infine essa è collocata al centro del rigo con evidente funzione di titolo. Comunque lo si voglia interpretare, εἰϲ τὸ ἐναντίον è problematico in questo contesto almeno in Stob. 2. La forma che il capitolo 2 verrebbe infat ti a avere, se si seguisse la ricostruzione di Wachsmuth, è affatto estranea a quella abituale dei primi due libri dell’Antologia. Nel resto dell’opera, qualcosa di simile si ritrova soltanto altre due volte in Stobeo 4, 15 e 4, 18. Il cap. 15 (II 376, 1–393, 4 Hense), intitolato Περὶ γεωργίαϲ ὅτι ἀγαθὸν è suddiviso da Hense in una Pars prior con il medesimo titolo e in una Pars altera indicata appunto dei manoscritti εἰϲ τὸ ἐναντίον. Il cap. 18 (II 406, 1– 4 21, 5 Hense) intitolato Περὶ τεχνῶν è suddiviso anch’esso da Hense in una Pars prior con il medesimo titolo e in una Pars altera indicata di nuovo εἰϲ τὸ ἐναντίον. Tale struttura in forma di ϲυγκρίϲειϲ, con o senza l’espressione εἰϲ τὸ ἐναντίον, è d’altronde specifica di diversi altri capitoli di Stob. 3–4, ma di nessuno dei primi due. Non è pertanto da escludere che l’indicazione 380 Wachsmuth (1884) II 21 (ad v. 15): «quod fortasse profectum a Stobaeo ipso». L’ipotesi seduce Curnis (2011/2012), 109–110 che accoglie in toto la ricostruzione del capitolo proposta da Wachsmuth pur facendo notare che: «Certamente, il capitolo sulla dialettica non si presenta nei manoscritti superstiti [sc. F P] secondo la struttu ra usuale della maggior parte delle sezioni dell’Anthologion, ed è fondato ritenere che – per interpolazione di redattori successivi o per guasti di origine meccanica – la versione originale stobeana sia stata sensibilmente adulterata» (110). Vedi anche quanto osservo più oltre a proposito del cap. 3. 381 Vedi Wachsmuth (1884) I xxxx n. 1 e II 21 (ad loc.). Lo studioso registra le lezioni di M nei Corrigenda et Addenda in I xxxviii. Nell’orma di Wachsmuth, ho io stesso collazionato di nuovo i manoscritti S M A e, sporadicamente, B. Accanto a questi testimoni ho tenuto conto dell’editio princeps Trincavelliana (1536) e delle altre edizioni antiche. Maggiori dettagli su questi testimoni e un breve cenno sulla trasmissione di Stob. 3–4 supra 34–35, 39. 382 Nelle edizioni che precedono quella di Wachsmuth leggiamo εἰϲ τὸ ἐναντίον περὶ γραμμάτων.
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1. I capitoli iniziali di Stob. 2 nella Recensio breviata
εἰϲ τὸ ἐναντίον mancasse nella redazione originaria di quel capitolo in Stob. 2 e che essa vi fosse introdotta solo dopo che quel materiale era stato erroneamente inglobato in Stob. 4. La questione resta, almeno per me e nonostante gli sforzi esegetici di Wachsmuth, senza risposta donde la mia decisione di mettere fra croci εἰϲ τὸ ἐναντίον non fosse altro che per attirare l’attenzione sulle difficoltà fin qui notate. Nell’edizione della Recensio breviata, rispettando lo stato testuale di ω (F f. 130r21–6; P f. 178r, 3–7) ho poi lasciato a conclusione del capitolo 1 le due ecloghe platoniche (24–25), che Wachsmuth (II 24, 15–23) considerava fuori posto («falso loco») e che collocava di conseguenza alla fine del secondo capitolo. Il brevissimo capitolo 3, che conta solo quattro ecloghe (II 25, 1–26, 5), è assai problematico per diverse ragioni bene presentate da Curnis.383 Delle quattro ecloghe, le prime due derivano da dialoghi di Platone, la terza in versi da una commedia del poeta omonimo (fr. 202 K.–A.). Infine, la quarta tramanda un dictum in prosa attribuito allo stesso Platone (65a Stanzel).384 L’ecloga poetica, restituita a Platone comico per la prima volta dal Porson,385 fu senza motivo suddivisa dal Wachsmuth in due estratti (3a: vv. 1–4 e 3b: v. 5). Nella sua analisi del capitolo, Curnis fa notare l’evidente anomalia di questo segmento «se la sua estensione è confrontata con i capitoli che precedono e che seguono» (108) e in particolare con quello dedicato alla dialettica (cap. 2 Wachsmuth) nel quale «non solo si susseguono numerosi estratti perfettamente coerenti rispetto al titolo, ma il lettore coglie anche un evidente criterio alla base di quasi tutte le citazioni» (109). Sul fondamento di queste osservazioni e di un confronto con quella che lo studioso definisce «tradizione diretta del passo corrispondente» (ossia Platone) nonché «eventualmente con il ricorso ad altre attestazioni dello stesso titolo di provenienza» e con la «comparazione strutturale dei testi del capitolo con quelli di altre parti dell’Anthologion, grazie al criterio oggettivo presumibilmente alla base della scelta (presenza e collegamento di segnali lessicografici)» (110), Curnis giunge alla conclusione che forse già nella «redazione originaria» dei primi capitoli del secondo libro, lo Stobeo 383 Curnis (2011–2012), 105–118. Se ne correggano en passant un paio di imprecisioni. A 105 n. 6 il Florilegium L non è di «Giovanni Damasceno» ma di tradizione «damasceniana»; il codice Bruxellensis 11360 non tramanda estratti da Stob. 1–2, ma da Stob. 3–4; 108 n. 11 la congettura del Porson risale al 1801 e non al 1824. 384 Vedi Curnis (2004), 211–213. 385 Porson (1801) ad v. 139.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
«filtrava i testi relativi alle discipline letterarie con l’intento di sminuirle in confronto alla filosofia. Supporre, però, che tali capitoli fossero strutturati già in partenza così come si presentano oggi non è sostenibile: sarebbe suf ficiente richiamare la mancata alternanza di passi in poesia e in prosa, oltre alla disomogeneità, alla difformità dei segnali lessicografici, alla confusione lemmatica (il nome di Platone di II 3,3a), per convincersi del contrario» (114). Questa proposta di lettura, seppure bene argomentata, è indebolita dal fatto di non tenere conto in maniera adeguata del fatto che di Stob. 1–2 conserviamo essenzialmente una redazione epitomata (e per di più forse a sua volta in più punti manipolata) e di prendere come punto di partenza come riferimento l’edizione di Wachsmuth. L’estrema stringatezza del capi tolo sulla retorica, e ancora più di quelli successivi intitolati Περὶ ποιητικῆϲ e Περὶ χαρακτῆροϲ τῶν παλαιῶν (5 e 6 Wachsmuth) dipende in larga misu ra dalle scelte dell’epitomatore e forse anche da eventuali ulteriori danni della trasmissione. Lo stesso confronto con il cap. 2 (Περὶ διαλεκτικῆϲ) non è probante solo che si consideri che la struttura che questo assume nell’edizione di Wachsmuth è anch’essa il frutto delle sue scelte editoriali non sempre né tutte accettabili per le ragioni già richiamate. Il capitolo 4 (II 26, 6–35, 9) costituisce una ulteriore novità rispetto alle edizioni precedenti, frutto ancora una volta dell’ingegno del Wachsmuth e nasce a seguito della sua ricostruzione del capitolo 3 intitolato Περὶ ῥητοκικῆϲ. Nelle edizioni da Heeren a Meineke, il materiale trasmesso da F (ff. 131v 5–132r 9) e da P (ff. 179v 3–180v 11) e dal quale Wachsmuth aveva ricostrui to il suo capitolo 3 Περὶ ῥητοκικῆϲ era invece ricondotto a due distinti capitoli intitolati rispettivamente Περὶ ποιητικῆϲ e Περὶ χαρακτῆροϲ sulla falsariga della testimonianza di Fozio (113a11). Al primo sono riportate le due ecloghe iniziali del cap. 3 Wachsmuth, al secondo le restanti tre (3a, 3b, 4). Il capitolo che, stando a Fozio (113a10–1), avrebbe dovuto precedere questi due, intitolato Περὶ λόγου καὶ γραμμάτων, è considerato perduto («λείπει») da Heeren e omesso senza altra indicazione da Meineke. L’ipotesi che il capitolo Περὶ λόγου καὶ γραμμάτων fosse scomparso non convinse Wachsmuth che, forte della scoperta della traslocazione testuale di parti di Stob. 2 in Stob. 4, si impegnò a ricostruirne sebbene in misura parziale la struttura e il contenuto numerandolo cap. 4. Lo studioso fece precedere le due ecloghe iniziali del capitolo Περὶ χαρακτῆροϲ delle edizio ni da Heeren a Meineke, da lui riferite al Περὶ λόγου καὶ γραμμάτων e
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2. L’edizione dei tre gruppi di ecloghe traslocate da Stob. 2 a Stob. 4
numerate 18–19, dalle diciassette ecloghe della seconda porzione dei testi (in versi e in prosa) traslocati in Stob. 4 che formarono così l’inizio (1–17) del capitolo.386 Questa soluzione portò Wachsmuth a ritoccare di conseguenza la strut tura dei successivi capitoli 5 e 6. Al capitolo 5 (II 35, 10–37, 8 con il titolo Περὶ ποιητικῆϲ) egli ricondusse, oltre alle due ecloghe platoniche già riunite fin da Heeren, una terza (Plat., Ion pp. 533d–534d) che nelle precedenti edizioni era collocata nel successivo capitolo Περὶ χαρακτῆροϲ. A quest’ultimo, il sesto della sua edizione (II 37, 9–13), intitolato a séguito di Fozio (113a11) Περὶ χαρακτῆροϲ τῶν παλαιῶν, Wachsmuth riportò infine una unica brevissima ecloga con un dictum di Platone (*82 Stanzel) intro dotto dal lemma πλάτωνοϲ in F e τοῦ αὐτοῦ in P, entrambi nel margine:387 Πλάτων τὰ πολλὰ ὧν τινεϲ ϲυγγράφουϲι τοῖϲ Ἀδωνιακοῖϲ (Heeren : ἀδωναικοῖϲ FP) κήποιϲ εἴκαζεν, οἳ τὴν χάριν ἐφήμερον ἔχοντεϲ ῥαιδίωϲ μαραίνονται. 2. L’edizione dei tre gruppi di ecloghe traslocate da Stob. 2 a Stob. 4 L’edizione dei tre gruppi di ecloghe traslocate in maniera accidentale da Stob. 2 a Stob. 4 richiede qualche osservazione complementare che espongo di seguito.388 In tutti i codici di Stob. 4 ai quali ho avuto accesso, il lungo brano con i testi traslocati inizia ex abrupto aggregato all’ultima ecloga (54: Ξενοφῶντοϲ ἐν τῷ βʹ Ἀπομνημονευμάτων [2, 2]) del capitolo intitolato ὅτι χρὴ τοὺϲ γονεῖϲ τῆϲ καθηκούϲηϲ τιμῆϲ καταξιοῦϲθαι παρὰ τῶν τέκνων καὶ εἰ ἐν ἅπαϲιν αὐτοῖϲ πειϲτέον numerato 25 da Hense (II 619, 1–649, 9) e 79 da Meineke (III 81, 19–103, 3) che si conclude con le parole εἰ γάρ ϲε ὑπολάβοιεν πρὸϲ τοὺϲ γονεῖϲ ἀχάριϲτον εἶναι, οὐδεὶϲ ἂν νομίϲειεν εὖ ποιήϲαϲ χάριν ἀπολήψεϲθαι {ϲοφίαϲ} (secl. Gesner2). Il testo che vi leggia mo (S f. 137r 25–6; M f. 259v 21–3; A f. 156v 9–12) è palesemente estraneo all’ecloga senofontea.389
386 Wachsmuth (1884) II 26 (ad v. 8). 387 Il τοῦ αὐτοῦ in P si spiega tenendo presente che l’ultima ecloga del capitolo precedente (2, 5, 3; II 35, 25–37, 8) è estratta da Platone, Ione pp. 533d–534d. 388 Questo paragrafo completa quanto ho già scritto supra 81–83. 389 Per maggiori dettagli, vedi quanto segue.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
Viene subito dopo una serie di altre quarantanove ecloghe (in versi e in prosa) che nelle edizioni di Stob. 4 che precedono quella di Hense (che non le riproduce, come abbiamo visto, convinto dalla dimostrazione di Wachsmuth) sono distribuite in tre capitoli forniti di titoli indipendenti mantenendo la successione delle ecloghe trasmessa dai codici di volta in volta utilizzati. Il primo capitolo, intitolato in quelle edizioni Περὶ θεῶν καὶ τῆϲ περὶ τὸν οὐρανὸν καὶ κόϲμον φυϲιολογίαϲ (4, 80 Meineke; III 103, 4– 109, 2), conta quindici ecloghe a cominciare da quella sopra trascritta (S ff. 137r 25–138v 10; M ff. 259v 21–261r 32; A ff.156v 9–158r 22). La quindicesima è una citazione (senza lemma) di Esiodo, Theog. 85–92, la sola in versi. Il secondo capitolo, intitolato Περὶ γραμμάτων (4, 81 Meineke; III 109, 3–116, 9), riunisce diciannove ecloghe le prime dieci in versi e le restanti in prosa (S ff. 138v 10–140r 20; M ff. 261r 32–263v 18; A ff. 158r 22–160r 14). La prima è introdotta dal lemma Αἰϲχύλου Προμηθέωϲ (vv. 459–461); l’ultima con il lemma ἐν τῶι αὐτῶι è un estratto dalla lettera di Giamblico a Soprato Sulla dialettica (290 Taormina, Piccione). Il terzo e ultimo capitolo intitolato Εἰϲ τὸ ἐναντίον {Περὶ γραμμάτων} (4, 82 Meinek; III 116, 10–118, 21), riunisce infine sedici ecloghe (S f. 140r 20–140v 8; M ff. 263v 18–264r 21; A f. 160r 14– 160v 12). Le tre iniziali sono in versi, le restanti in prosa. La prima ha il lem ma Εὐριπίδου Ἱππολύτωι (fr. 439 Kannicht); l’ultima il lemma Ἐκ τῶν Ἀρίϲτωνοϲ ὁμοιωμάτων (SVF I F 394 = fr. 5 Ranocchia).390 La successione delle ecloghe venne manipolata, come abbiamo visto, nell’edizione di Wachsmuth che le riorganizzò distribuendole tra i capitoli 1, 2 e 4 di Stob. 2. Un primo gruppo di ecloghe che corrispondono al cap. 80, 1–14 Meine ke, ma con l’esclusione dell’ecloga 15 ossia l’estratto da Esiodo (S ff. 137r 25– 138v 5; M ff. 259v 21–261r 27; A ff.156v 9–158r 18),391 viene collocato a metà 390 Meineke (1855–1857). Le indicazioni dei numeri dei capitoli che leggiamo in S M A non corrispondono a quelle delle edizioni moderne e sono sempre aggiunte, per lo più nei margini superiori, da mani a quanto pare diverse da quella principale. In S A sono sicuramente interpolazioni seriori; per S, vedi infra n. 393. In M nel mrg. sup. dei ff. 260r, 261r, 262r ricorre sempre οζʹ (= 77). In A leggiamo ξθʹ (= 69) nel mrg. sup. del f. 156r, οʹ (= 70), nel mrg. sup. del f. 157r (qui preceduto da un ξθʹ biffato) e poi dei ff. 158r, 159r e 160r. Vedi Bianchi (2022), 43. Quanto fin qui osservato correg ge tacitamente i dati registrati da Wachsmuth (1884) I xxix. 391 L’ecloga esiodea, priva di lemma, segue immediatamente quella di Arriano/Epitteto (2, 1, 31; II 13, 3–14, 1) nei codici S (f. 138v 6), M (f. 261r 27), A (f. 158r 18). In B (f. 332v 7) i versi di Esiodo sono invece spostati (senza alcun dubbio ope ingenii) all’inizio del capitolo successivo, come poi nell’edizione di Wachsmuth (1884) II 26, 9–16. L’inizio della citazione esiodea è chiaramente interpolato in B con l’aggiunta
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2. L’edizione dei tre gruppi di ecloghe traslocate da Stob. 2 a Stob. 4
dell’ecloga 17 del cap. 1 di Stob. 2 dopo la frase ἡ μὲν γὰρ φιλοϲοφία θήρα τῆϲ ἀληθείαϲ ἐϲτὶ καὶ ὄρεξιϲ (II 6, 19–20), là dove nel capostipite della Re censio breviata (ω) il testo continuava in maniera palesemente corrotta con le parole καὶ τῶν ϲυγχορευτῶν καὶ τῆϲ πρὸϲ αὐτοὺϲ ϲυμφωνίαϲ; κτλ. (II 14, 1–8).392 Un secondo gruppo che corrisponde ai cap. 80, 15 (Esiodo)–81, 16 Mei neke (S ff. 138v 6–139v 10; M ff. 261r 27–262r 20; A ff.158r 18–159v 2) è siste mato a formare la parte iniziale del cap. 4 a integrazione delle sole due eclo ghe trasmesse da ω (II 32, 25–35, 9). Un terzo infine che corrisponde ai cap. 81, 17–19 e 82, 1–16 Meineke (S ff. 139v 11–140v 8; M ff. 262v 23–264r 21; A ff. 159v 2–160v 12) è utilizzato per restituire la parte centrale del cap. 2 (II 18, 11–24, 14) dopo le ecloghe 1–4 e prima delle ecloghe 24–5 (II 15, 14–8, 10 e 24, 15–23), le sole conservate in ω. A parte questi interventi, si deve richiamare l’attenzione su altri due aspetti. Il primo è costituito dai titoli. Di essi non c’è traccia in M A, mentre in S ritroviamo solo l’indicazione Περὶ γραμμάτων nel margine superiore del f. 138v e quella Εἰϲ τὸ ἐναντίον nel margine superiore del f. 140r. En trambi gli interventi sono di mano del copista principale che li verga con lo stesso inchiostro in una scrittura più formale e con elementi maiuscoli co me altrove in quel manufatto. Nel f. 138v, il piccolo fregio decorativo appo sto nel margine sinistro a livello del r. 10 e in corrispondenza della citazione di Eschilo (2, 26, 17), questa preceduta da due crocette, può avere la funzio ne di segnalare il punto i cui iniziava, nelle intenzioni del suo estensore, il capitolo al quale si riferiva il titolo Περὶ γραμμάτων.393 Tutti e tre i titoli compaiono per la prima volta per congettura nel capostipite dei codici trin della fine del v. 84 οἱ δέ νυ λαοὶ prima di πάντεϲ scritto da una mano recenziore (λαοὶ πάντεϲ sono in rasura). En passant, nell’apparato ad loc. dell’edizione esiodea di Solmsen si sopprimerà a proposito della lezione οἱ δέ νυ l’indicazione «Stob.». 392 Ritorno con maggiori dettagli su questo caso infra 153–156. 393 Non tengo conto invece dell’indicazione περὶ θεῶν nel mrg. sup. (dove non è segui ta da οεʹ come pretende Wachsmuth (1884) II 7 ad loc.) del medesimo S (f. 137r) aggiunto da una mano recenziore né del περὶ θεοῦ nel margine destro verso la metà del medesimo foglio di mano di Lauro Quirini come segnalato da Speranzi (2010) 234 n. 31. Alla mano di Quirini sono da attribuire anche il numero del capitolo che segue οδʹ (84) e quelli οεʹ (85, nel f. 138v in mrg.) e οϲʹ (86, nel f. 140r in mrg.). Nel mrg. sin. del f. 156v di A in corrispondenza dell’inizio del primo estratto si legge di mano di Giano Lascaris περὶ θεῶν (postmodo deleto) καὶ ἐπιϲτημῶν καὶ διαλεκτ(ικῆϲ). Vedi Wachsmuth (1884) I xxix–xxx e xxxvii. L’identificazione della mano di Lascaris devo a S. Martinelli Tempesta. In B (f. 330v 16) infine la prima
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
cavelliani (D) e da questo giungono poi all’editio princeps (Tr).394 Si noti tuttavia che per il primo capitolo, Tr ha solo Περὶ θεῶν e che καὶ τῆϲ περὶ τὸν οὐρανὸν καὶ κόϲμον φυϲιολογίαϲ è introdotto soltanto nella seconda edizione di Gesner (1549). Ho deciso pertanto di mantenere solo i titoli tra smessi da S (Περὶ γραμμάτων e Εἰϲ τὸ ἐναντίον), ma ho messo fra croci il secondo che giudico incomprensibile in questo contesto.395 Non credo sussistano dubbi sull’effettiva esistenza delle tre traslocazioni, qualunque sia la loro origine. L’accidente si era prodotto presto e di sicuro in un momento precedente la formazione della Recensio breviata come prova l’analisi della prima ecloga di quel gruppo.396 Wachsmuth (abbiamo visto) indicò la posizione originaria di questa pericope testuale all’interno di un luogo senza dubbio corrotto del capitolo iniziale del secondo libro trasmesso oltre che da F P (= ω) anche da L (2, 1, 18; II 6, 20 dopo ὄρεξιϲ–14, 1). Le difficoltà cominciano in realtà con l’eclo ga precedente (2, 1, 17; II 6, 13–17, 4), introdotta dal lemma ξενοφάνουϲ in F P e da quello ξενοφῶντοϲ in L. Vi leggiamo: ξενοφάνουϲ (FP : ξενοφῶντοϲ L) ξενοφάνουϲ (om. L) πρώτου λόγοϲ ἦλθεν εἰϲ τοὺϲ ἕλληναϲ ἄξιοϲ γραφῆϲ, ἅμα παιδιᾶι τάϲ τε τῶν ἄλλων τόλμαϲ ἐπιπλήττοντοϲ καὶ τὴν αὑτοῦ παριϲτάντοϲ εὐλάβειαν, ὡϲ ἄρα θεὸϲ μὲν οἶδε τὴν ἀλήθειαν, δοκὸϲ δ’ ἐπὶ πᾶϲι τέτυκται. διδύμου ἐκ τοῦ περὶ αἱρέϲεωϲ (αἱρέϲεων Heeren). Meineke397 suggerì che il lemma originario dell’ecloga fosse stato piutto sto quello trascritto alla fine della medesima, ossia διδύμου ἐκ τοῦ περὶ αἱρέϲεων (Heeren); Wachsmuth (2, 6, 13 ad loc.) affinò questa proposta
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serie di estratti ha come titolo θεῖα, la seconda (f. 332v 6) γράμματα, mentre la terza (f. 335r 15) ha εἰϲ τὸ ἐναντίον. Il Vaticanus gr. 954, copiato da Michele Apostolio in Creta dopo la caduta di Costantinopoli (1453), sul quale fu esemplato, attraverso il Laurentianus 58.11 (co piato a Roma nel 1493 da Giovanni Roso), il Marcianus gr. IV 29 (coll. 1063) della fine del XV sec. di mano di Demetrio Damilas e modello di Tr. Vedi supra 81–83. Sul quale vedi appena detto. Vi aveva già attirato l’attenzione Wachsmuth al fine di provare (senza necessità) che la traslocazione dei tre gruppi si era prodotta in due momenti distinti. Vedi supra 80. Meineke (1860–1864) II clii. Gourinat (2011), 150 si mostra favorevole alla trasposizione del lemma.
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indicando in ξενοφάνουϲ un falso lemma «ex primo eclogae vocabulo perperam petitum»: Così il testo continua in F (f. 130r 1–6), P (f. 177v 7–11) e L (f. 169r 14–18) con una evidente corruttela comune ἡ μὲν γὰρ φιλοϲοφία θήρα τῆϲ ἀληθείαϲ ἐϲτὶ καὶ ὄρεξιϲ· καὶ τῶν ϲυγχορευτῶν καὶ τῆϲ πρὸϲ αὐτοὺϲ ϲυμφωνίαϲ φηϲίν; εἶδεν αὐτὴν. εἰ δὲ ϲτρατιώτη, πότερον οὖν ὁ ἄνθρωποϲ αὐτόϲ, ὑφ’ αὑτοῦ πεποιῆϲθαί ϲοι δοκεῖ ζῶον ἢ πρὸϲ κοινωνίαν ὑπὸ τίνοϲ ὑπὸ τῆϲ φύϲεωϲ. τίνοϲ οὔϲηϲ καὶ πῶϲ διοικούϲηϲ τὰ ὅλα, καὶ πότερον οὔϲηϲ ἢ μή, ταῦτα οὐκέτι ἀναγκαῖον πολυπραγμονεῖν. 1 ἡ om. L, sed add. in mrg. manus recentior || θήρα PL : θύρα F || 2 αὐτοὺϲ ϲυμφ. φ. om. L in quo lac. || αὐτὴν PL : αὐτὴ F || 3 αὑτοῦ FP : αὐτοῦ L || πεποιῆϲθαί ϲοι PL : πεποιεῖϲθαιϲο sic F || 4 pro τίνοϲ οὔϲηϲ in L legitur :~ et vacuum, i.e. finis eclogae || 5 οὐκέτι L : οὐκ ἔτι F: οὐκ ἔϲτιν P. Poiché L trasmette, eccettuati piccoli dettagli, il medesimo testo di F P se ne deduce che i guasti si erano prodotti in un’epoca più antica non solo di ω, ma anche di ε e del modello di L. Di conseguenza, le ecloghe traslocate mancavano già sia nell’esemplare dell’Antologia utilizzato per la confezione della Recensio breviata sia nel modello di L.398 Il fatto che l’insieme del materiale traslocato mancasse nella Recensio breviata non costituisce ovviamente una prova che fosse presente nella redazione originale dell’Antologia. Anzi queste ecloghe sono, con la scheda di Fozio, le uniche due porzioni sicure derivate da una Recensio plenior di Stob. 2. Molto più difficile è semmai determinare in quali punti precisi di quel libro le tre pericopi si trovassero all’origine. Il tentativo operato da Wachsmuth, al di là della legittimità di reinserirle nel tessuto dello stato della Recensio breviata, è ingegnoso e ben argomentato, ma è impossibile da confermare nei dettagli con prove concrete e presenta un punto debole sostanziale. Mi riferisco alla necessità di dover manipolare la successione dei tre gruppi quale trasmessa nei testimoni di Stob. 4, che Wachsmuth ammette in considerazione anche della sua ipotesi che la traslocazione aveva avuto origine in due momenti differenti e diacronici. 398 Questo errore congiuntivo potrebbe a priori essere preso in conto da chi sostenga che L aveva avuto accesso a un codice stobeano. Troppo poco comunque (a mio avviso) per dargli una importanza decisiva nel dirimere la fin troppo dibattuta questione.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
Là dove credo che Wachsmuth poté essersi avvicinato di più alla realtà è nella sistemazione della prima serie di ecloghe; ma anche qui al prezzo di costose manipolazioni. Lo studioso, abbiamo già visto, aveva individuato il punto del loro inserimento a seguito delle parole ἡ μὲν γὰρ φιλοϲοφία θήρα τῆϲ ἀληθείαϲ ἐϲτὶ καὶ ὄρεξιϲ· nell’ecloga 17 del cap. 1 della sua edizione. Qui egli aveva introdotto, considerandola come la parte conclusiva della medesima ecloga, la frase che leggiamo nei codici di Stob. 4 (S M A) immediatamente dopo 4, 25, 49 Hense (II 619, 1–649, 9) priva di lemma399 τῶν δὲ φιλοϲοφηϲάντων ἔνιοι εὑρεῖν φαϲι τὸ θήραμα, ὡϲ Ἐπίκουροϲ καὶ οἱ Ϲτωικοί· οἱ δὲ ἀκμὴν ἔτι ζητεῖν ὥϲ που παρὰ θεοῖϲ ὄν, καὶ τῆϲ ϲοφίαϲ οὐκ ἀνθρωπίνου χρήματοϲ ὄντοϲ· οὕτωϲ ἔλεγε Ϲωκράτηϲ καὶ Πύρρων. Dopo Πύρρων, in S c’è una clausula (:–) seguita da un vacuum e il rigo suc cessivo è occupato per intero da un fregio ornamentale che indica l’inizio di una nuova ecloga.400 La stessa tipologia, ma senza il fregio si ritrova in A; in M nel vacuum che segue la clausula fu sistemato il lemma dell’ecloga successiva Πλάτωνοϲ ἐκ τοῦ Τιμαίου (p. 29 c–d, che Wachsmuth pubblica come 2, 1, 19; II 7, 5). Seguono altre tredici eclogle (19–31 nella numerazione di Wachsmuth) recuperate anch’esse in Stob. 4. Il testo trasmesso da F P L si sareb be poi riallacciato a quello di S M A a metà dell’ecloga 31 dopo ἐπιϲτραφῆναι (II 13, 18–14, 1). Quest’ultima ecloga, introdotta dal lemma che Wachsmuth ricostruì nella forma Ἀρριανοῦ Ἐπικτητείου Πρὸϲ τὸν περὶ οὐϲίαϲ avrebbe così continuato (II 14, 1–7) καὶ τῶν ϲυγχορευτῶν καὶ τῆϲ πρὸϲ αὐτοὺϲ ϲυμφωνίαϲ φηϲίν; εἰ δὲ ναύτηι; εἰ δὲ ϲτρατιώτηι; πότερον οὖν ὁ ἄνθρωποϲ αὐτὸϲ ἐφ’ αὑτοῦ πεποιῆϲθαί ϲοι δοκεῖ ζῶιον ἢ πρὸϲ κοινωνίαν; — — ὑπὸ τίνοϲ; — ὑπὸ τῆϲ φύϲεωϲ. — τίνοϲ οὔϲηϲ καὶ πῶϲ διοικούϲηϲ τὰ ὅλα καὶ πότερον οὔϲηϲ ἢ μή; — ταῦτα οὐκέτι ἀναγκαῖον πολυπραγμονεῖν;401 Il risultato tangibile consisteva nel recupero, in più delle ecloghe interme die perdute in F P (L), di un frammento Ario Didimo (ecl. 17) e di uno di 399 Vedi l’apparato di Wachsmuth (1884) ad loc. (II 7). 400 Un ornamento simile si ritrova anche nel margine sinistro del f. 138v di S in corri spondenza di quello che possiamo presumere sia l’inizio di un nuovo capitolo. 401 Il testo è quello di Wachsmuth (1884). Esso venne migliorato in più punti da Schenkl (1916), 455–456 al cui apparato rimando per i numerosi e spesso inutili tentativi di correzione.
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Epitteto (ecl. 31 = fr. 1 Schenkl) entrambi in una redazione più completa di quella trasmessa da F P L. Al di là di questo, è cruciale decidere come quel passo debba essere pub blicato nell’edizione della Recensio breviata. Alla luce delle considerazioni fin qui sviluppate e una volta ammesso che ε era già privo delle pericopi traslocate in Stob. 4, questo è il testo che ho stabilito: [17] Ξενοφάνουϲ Ξενοφάνουϲ πρώτου λόγοϲ ἦλθεν εἰϲ τοὺϲ Ἕλληναϲ ἄξιοϲ γραφῆϲ, ἅμα παιδιᾶι τάϲ τε τῶν ἄλλων τόλμαϲ ἐπιπλήττοντοϲ καὶ τὴν αὑτοῦ παριϲτάντοϲ εὐλάβειαν, ὡϲ ἄρα θεὸϲ μὲν οἶδε τὴν ἀλήθειαν, δοκὸϲ δ’ ἐπὶ πᾶϲι τέτυκται (VS 21B34.5). 1 lemma ξενοφάνουϲ habet F in textu, P in marg. : ξενοφῶντοϲ L omisso ξενοφάνουϲ v. 2 «quod (sc. lemma) delendum est ut ex primo eclogae vocabulo perperam petitum; sed infra ante verba ἡ μὲν γὰρ, quae tamen arcte cohaerent cum antecedentibus, in textu alterum lemma addunt FPL, quod huc recte traxit Heeren. est vero hoc: δίδυμοϲ L, διδύμου ἐκ τοῦ περὶ αἰρέϲεωϲ FP, ubi αἰρέϲεων correxit Heeren» Wachsm. [18 = 17+31 W.] Διδύμου ἐκ τοῦ Περὶ αἱρέϲεων. ἡ μὲν γὰρ φιλοϲοφία θήρα τῆϲ ἀληθείαϲ ἐϲτὶ καὶ ὄρεξιϲ καὶ τῶν ϲυγχορευτῶν καὶ τῆϲ πρὸϲ αὐτοὺϲ ϲυμφωνίαϲ; — φηϲίν. — εἰ δὲ ναύτηι; εἰ δὲ ϲτρατιώτηι; πότερον οὖν ὁ ἄνθρωποϲ αὐτὸϲ ἐφ’ αὑτοῦ πεποιῆϲθαί ϲοι δοκεῖ ζῶιον ἢ πρὸϲ κοινωνίαν; — — ὑπὸ τίνοϲ; — ὑπὸ τῆϲ φύϲεωϲ. — τίνοϲ οὔϲηϲ καὶ πῶϲ διοικούϲηϲ τὰ ὅλα καὶ πότερον οὔϲηϲ ἢ μή, ταῦτα οὐκέτι ἀναγκαῖον πολυπραγμονεῖν; 2 lac. post ὄρεξιϲ signavi || 3 εἰ δὲ ναύτῃ Wachsm., praeeunte Cant. : εἶδεν αὐτήν PL : εἶδεν αὐτή F || 4 ἐφ’ Cobet (1854), 9 : ὑφ᾽ FPL || 5 πρὸϲ κοινωνίαν add. Heeren || 6 πῶϲ FPL : ποίαϲ Meineke. Nella lacuna che ritengo necessario presupporre dopo ὄρεξιϲ era caduta (a un momento imprecisato della trasmissione di ε) una porzione di testo sulla cui estensione niente sappiamo, ma che avrebbe potuto contenere la fine del frammento di Didimo e l’inizio di un probabile frammento di Epitteto, compreso il lemma sul modello forse di quanto leggiamo oggi nei codici di Stob. 4. Per prudenza (eccessiva?) ho preferito tuttavia non reintegrare infine né l’uno né l’altro testo nello stato testuale della Recensio breviata che riusciamo a ricostruire con una certa verisimiglianza, ossia in ω. 155 https://doi.org/10.5771/9783985720965
VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
Lo spezzone di ecloga τῶν δὲ φιλοϲοφηϲάντων ἔνιοι εὑρεῖν φαϲι τὸ θήραμα—καὶ Πύρρων troverà dunque anch’esso posto fra i resti della Re censio plenior insieme agli altri resti di Stob. 2 traslocati e trasmessi dai co dici di Stob. 4 (sez. B1 1).
3. I capitoli finali di Stob. 2 nella Recensio breviata Molto più breve può essere la discussione relativa alla struttura della parte finale di Stob. 2 nella tradizione della Recensio breviata (II 184, 18–264, 4) In F P (e quindi già in ω), il libro si interrompe ex abrupto con l’ecloga 8 del capitolo 9 (II 184, 17),402 quest’ultimo tramandato in F P senza titolo. Quello che leggiamo nelle edizioni, da quella di Heeren in poi — ὅτι οὐδεὶϲ ἑκὼν (ἄκων falso coniecit Heeren) πονηρόϲ — è restituito sulla falsariga della tradizione di Fozio (113a13) alla quale Wachsmuth accostò anche quella dell’index di L (litt. Ε 10) περὶ τοῦ ὅτι οὐδεὶϲ πονηρόϲ.403 Per spiegare la mancanza del titolo nella Recensio breviata, qualora non si voglia presumerne la caduta accidentale, si potrebbe, ancora una volta, invocare la prassi dell’epitomatore di accorpare per motivi che ci sfuggono più capitoli in precedenza separati senza tenere troppo conto del loro effettivo contenuto.404 Un numero imprecisato di ecloghe di questo capitolo andarono perdute nella lacuna finale dovuta sicuramente a un accidente meccanico; altre all’i nizio erano già state escluse dall’epitomatore, senza che possiamo dire né quante né quali al di là di una speculazione gratuita di Meineke tacitamente riproposta da Wachsmuth.405 402 In F (f. 174r) il libro si conclude con la frase ὅτι ἐκείνων μὲν οὐδενὸϲ φύϲει τῶι ἀνθρώπωι μέτεϲτιν, οὐδὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχων ὑποβολάϲ (II 184, 17). In P (f. 230v) il testo si interrompe un po’ prima (II 182, 8) con le parole ταῦτα χρή per la perdita nel suo modello di un foglio in più rispetto a quello dell’antigrafo di F (cioè ω). ω era mutilo anche all’inizio di Stob. 1 sfigurato da una lacuna di origine meccanica. 403 Per l’assenza di ἑκών in questo titolo, vedi Wachsmuth (1882), 24 n. 1 e Id. (1884) II 176 (ad v. 23). 404 Nella mia edizione ho optato per questa scelta ben cosciente che questo capitolo non ha molto in comune con il precedente intitolato Περὶ τῶν ἐφ᾽ ἡμῖν. 405 Meineke (1860–1864) II cciii e poi Wachsmuth (1884) II 176–177 (ad v. 23) suppo sero che in questo capitolo fosse contenuto anche il trimetro giambico anonimo οὐδεὶϲ ἑκὼν πονηρὸϲ οὐδ’ ἄκων μάκαρ (Adesp. trag. *75a) citato nello pseudoplato nico de iusto p. 374a (ma in realtà anche da altri autori).
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3. I capitoli finali di Stob. 2 nella Recensio breviata
La quantità di testo mancante alla fine di Stob. 2 è indubbiamente con sistente. Se prendiamo come modello la testimonianza di Fozio (113a13–113 b5), mancano ben trentasette capitoli (10–46) dei quali il patriarca trascrive solo i titoli. Heeren li riprodusse a seguito del cap. 9, a completamento della sua edizione. Gaisford e Meineke li omisero e si fermarono alla frase ὅτι ἐκείνων μὲν οὐδενὸϲ φύϲει τῶι ἀνθρώπωι μέτεϲτιν, οὐδὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχων ὑποβολάϲ (II 184, 17). Fedele alla sua strategia ecdotica, Wachsmuth andò invece ben oltre nel tentativo di restaurare il più possibile il testo originario di quel libro. Lo studioso non solo prese come modello la successione dei titoli in Fozio, talora confermata nella sua ipotesi dall’index di L, ma integrò questi titoli con ampio materiale recuperato ancora una volta nella tradizione di L, che gli consentì di rimpinguare con numerose ecloghe almeno quattro dei capitoli conclusivi fino allora considerati perduti. Wachsmuth riusci va così a proporre una ricostruzione del capitolo 15 (II 185, 15–196, 25) intitolato (in Fozio e in L) περὶ τοῦ δοκεῖν καὶ τοῦ εἶναι καὶ ὅτι οὐ τῶι λόγωι χρὴ κρίνειν τὸν ἄνθρωπον, ἀλλὰ τῶι τρόπωι· ἐκτὸϲ γὰρ ἔργου πᾶϲ λόγοϲ περιττόϲ (ἐκτὸϲ—περιττόϲ om. Photius); del 31 (II 199, 12–254, 31) intitolato (in Fozio e in L) Περὶ ἀγωγῆϲ καὶ παιδείαϲ;406 del cap. 33 (II 255, 4–257, 24) intitolato (in Fozio e in L) ὅτι ἡ ὁμοιότηϲ τῶν τρόπων φιλίαν ἀπεργάζεται e infine del 46 (II 260, 1–264, 4) intitolato (solo in Fozio) Περὶ ἀχαριϲτίαϲ (A: εὐχαριϲτίαϲ M).407 Nella mia edizione della Recensio breviata non sono andato oltre la frase ὅτι ἐκείνων μὲν οὐδενὸϲ φύϲει τῶι ἀνθρώπωι μέτεϲτιν, οὐδὲ ἥκει εἰϲ τὸν βίον ἔχων ὑποβολάϲ con la quale si conclude F e non ho riportato né la sequela dei titoli dei capitoli conclusivi presenti nell’esemplare utilizzato da Fozio (Φ) né le ecloghe conosciute esclusivamente attraverso L. Questo nella piena consapevolezza che la lacuna finale può avere inghiottito un numero indeterminato di altri capitoli a loro volta ridotti a una scelta più o meno ampia di ecloghe il cui numero non è possibile stabilire, alcune delle quali potevano essere in ε in uno stato testuale più completo e migliore di quello rappresentato da ω, il solo che possiamo attualmente ricostruire, per Stob. 2, grazie a F P. 406 Le numerose difficoltà poste da questa ricostruzione sono ben discusse da Di Lello-Finuoli (1967), 157–173. 407 Il titolo manca in L. Le varianti dei codici di Fozio si spiegano con un banale errore di minuscola α/ευ. Non si tenga pertanto conto di quanto scrivevo a proposito di questo titolo in Dorandi (2019), 21.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
4. Considerazioni di un editore sul capitolo Περὶ τοῦ ἠθικοῦ εἴδουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ Il capitolo 7 Wachsmuth (II 37, 14–152, 25) non solo è il più lungo di Stob. 2, ma presenta anche una struttura anomala rispetto a quella di altri capitoli nella disposizione e nella successione delle ecloghe, almeno nella redazione della Recensio breviata. Se prendiamo come punto di partenza questa edizione, il capitolo risulta composto da una serie di ventisei ecloghe di lunghezza variabile, a loro volta ricondotte a tre unità separate, precedu te da una breve introduzione. In F P il titolo è περὶ ἠθικῆϲ καὶ τῶν ἀκολούθων. Esso venne restaurato da Heeren nella forma Περὶ τοῦ ἠθικοῦ εἴδουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ sul fon damento della testimonianza di Fozio (113a12) che corrisponde a quella dell’index di L (litt. Η 1). Pur essendo convinto che la versione di Fozio e di L sia più verisimile, ritengo che nell’edizione della Recensio breviata debba essere conservato il titolo περὶ ἠθικῆϲ καὶ τῶν ἀκολούθων di ω introdotto probabilmente dall’epitomatore. Molto più incerto sarei invece per quanto riguarda l’aggiunta proposta da Wachsmuth come lemma della ecl. 1 (II 37, 16) a séguito dell’intrigante congettura di Meineke che tutto il lungo cap. 7 derivi dall’opera perduta di Ario Didimo, figura di filosofo dai contorni ancora vaghi.408 Le tre sezioni in cui si declina il capitolo costituiscono altrettante dosso grafie differentemente organizzate, la prima delle quali espone le dottrine etiche dei Platonici (con particolare attenzione a Filone di Larissa e a Eudoro di Alessandria), la seconda quella di Zenone di Cizio e degli Stoici e la terza quella di Aristotele e dei Peripatetici. Esse vengono d’abitudine designate come Dossografia A, Dossografia B e Dossografia C seguendo l’utile classificazione di Hahm.409 Più nei dettagli e prendendo come punto di partenza la ricostruzione del capitolo proposta da Wachsmuth, la Dossografia A che lo studioso ritiene una sorta di introduzione e che intitola Prolegomena (II 37, 17) si distingue dalle restanti per la struttura e il contenuto singolari che possono lasciare a prima vista sconcertati. In realtà, la natura frammentaria e eterogenea di questa sezione si spiega senza difficoltà supponendo che sia il risultato 408 L’attribuzione di questi testi a Ario Didimo è controversa. Maggiori dettagli sulla dibattuta questione della autenticità degli ulteriori titoletti che introducono sezioni dell’esposizione delle dottrine etiche del Peripato (2, 7, 13; II 116, 19–152, 25) intitola ta Ἀριϲτοτέλουϲ καὶ τῶν λοιπῶν Περιπατητικῶν περὶ τῶν ἠθικῶν, infra 162–164. 409 Hahm (1990).
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4. Considerazioni di un editore sul capitolo Περὶ τοῦ ἠθικοῦ εἴδουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ
dell’opera di epitomazione di un testo originario ben organizzato, forse anche ulteriormente corrottasi nel corso della tradizione. Come tale essa deve essere editata e valutata. Wachsmuth distribuisce il materiale della Dossografia A in quattro ecloghe, la terza e la quarta delle quali a loro volta suddise in più paragrafi distinti con le lettere dell’alfabeto, da 3a a 3i e 4a–b. La prima ecloga (II 37, 18–39, 18) è trasmessa priva di lemma. Essa si compone di una serie di definizioni di aspetti dell’etica e di altri termini relativi alla morale (ἦθοϲ, πάθοϲ, ἠθοποιία, ἐθικὴ ἀρετή) talune citate anonime, altre attribuite a Platone, Aristotele a Zenone di Cizio o più in generale ai Peripatetici e agli Stoici. Segue una seconda ecloga (II 39, 19–45, 10) questa fornita del lemma Διαίρεϲιϲ ἠθικοῦ τόπου. Vi leggiamo una prima divisione dell’etica attribuita a Filone di Larissa (II 39, 19–42, 6) e una seconda riferita a Eudoro di Alessandria (II 42, 7–45, 10).410 Delle successive ecloghe 3–4 (II 45, 11–57, 12), la terza porta sul fine (τέλοϲ) come indica il lemma Περὶ τέλουϲ, mentre la quarta avrebbe come oggetto sia i beni e i mali, Περὶ ἀγαθῶν καὶ κακῶν (lemma di 4a), sia la questione se il bello è da scegliere di per sé, Εἰ πᾶν τὸ καλὸν δι᾽ αὑτὸ αἱρετόν; (lemma di 4b). È possibile, come è stato suggerito,411 che la Dossografia A fosse all’origine più ampia e che vi si trattasse anche di altri argomenti affini. Se aveva già tale forma nella redazione originaria di Stob. 2, il responsabile dell’impoverimento del capitolo sarebbe ancora una volta l’epitomatore. Dal punto di vista ecdotico, a parte la mancanza di un titolo della Dossografia A, che avrebbe potuto essere simile a quelli che introducono le due Dossografie B e C e che può essere caduto per ragioni meccaniche oppure essere stato omesso al momento dell’epitome, il testo stabilito da Wachsmuth è assai rispettoso della struttura quale trasmessa da ω e quindi può essere preso nel suo insieme come punto di partenza nell’edizione del la Recensio breviata. A differenza di Wachsmuth, ho comunque evitato di frantumare in ulteriori sezioni l’ecloga 3 mantenendone la forma compatta attestata in ω e la cui unità appare garantita dal lemma (περὶ τέλουϲ) che la 410 La presenza del nome di Eudoro ha dato origine a una lunga e complessa discus sione sull’influenza che questo filosofo platonico avrebbe esercitato, tramite Ario Didimo, sull’intero capitolo dello Stobeo. Non è necessario ripercorrere qui il dibat tito ben studiato da Bonazzi (2011), le cui conclusioni (volte a limitare drasticamente la presenza e il ruolo di Eudoro) mi sembrano pienamente condivisibili. Se nella mia edizione della Dossografia A ho segnalato di volta in volta i (veri o presunti) ri mandi all’edizione di Eudoro curata da Mazzarelli (1985) e (1985a) ciò non significa ovviamente che io condivido tutte queste attribuzioni. Per le dottrine di Filone, vedi anche l’articolo di Van der Meeren (2011), 457–484. 411 Vedi Bonazzi (2011), 447 e n. 20.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
introduce e la designa nella sua integralità in questa redazione. Per quanto riguarda l’ecloga 4, invece di suddividerla in due sottosezioni (4a e 4b) come fa Wachsmuth in considerazione della connessione fra le due parti che portano sui beni ne ho riferito il contenuto a due ecloghe distinte (4–5) in ragione dei lemmi Περὶ ἀγαθῶν καὶ κακῶν e Εἰ πᾶν τὸ καλὸν δι᾽ αὑτὸ αἱρετόν; in ω. La questione relativa a questo tipo di titoletti è assai complessa e dubbi rimangono ancora se essi fossero già nella redazione originaria dello Sto beo (che poteva altresì recuperarli nei suoi modelli) oppure se fossero stati aggiunti al momento dell’epitome. In ogni modo, in una edizione della Recensio breviata mi sembra sia lecito mantenerli là dove sono trasmessi nel rispetto dello stato testuale di ω.412 I problemi si complicano con la Dossografia B, consacrata alle dot trine etiche degli Stoici. Questa lunga presentazione (II 57, 13–116, 18) è introdotta da un titolo a sé (II 57, 13–14) Ζήνωνοϲ καὶ τῶν λοιπῶν Ϲτωικῶν δόγματα περὶ τοῦ ἠθικοῦ μέρουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ, che corrisponde nella forma a quello relativo a Aristotele e ai Peripatetici (II 116, 19–20) Ἀριϲτοτέλουϲ καὶ τῶν λοιπῶν Περιπατητικῶν περὶ τῶν ἠθικῶν della Dos sografia C. Wachsmuth ritagliò nella Dossografia B otto eclogle di estensione variabile (numerate da 5 a 12) la maggior parte delle quali egli suddivise a loro volta in numerose sottosezioni distinte con lettere dell’alfabeto e talora numeri, che possono risultare utili al moderno lettore, ma delle quali non c’era traccia almeno in ω.413 Ancora una volta, ho rinunciato a questi interventi non per cieca osservanza nei confronti dei manoscritti, ma perché sono convinto che così il testo si presentava nella Recensio breviata anche al di là di ω, ossia in ε. A parte il titolo iniziale, nella Dossografia B, a differenza della Dossogra fia A e soprattutto della Dossografia C, resta traccia di un solo titoletto in termediario, il περὶ αἱρετῶν καὶ φευκτῶν trasmesso da F P all’interno della lunga ecloga 5 (= 5h; II 72, 14) nella quale Wachsmuth supponeva a torto una traslocazione testuale di una porzione di testo. Esso venne soppresso dallo studioso in quanto aggiunta di un copista ignorante («titulum […] 412 Ritorno sulla questione infra 162–164. 413 L’ecloga 5 ne offre un esempio sufficiente e significativo. Non solo essa è suddivisa in quattordici sottosezioni (indicate con le lettere a–o), ma alcune di queste sono a loro volta suddivise con l’aggiunta di un numerale dopo la lettera dell’alfabeto. Così la 5b è spezzettata in ulteriori tredici microtesti nella forma 5b1, 5b2 … 5b13.
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4. Considerazioni di un editore sul capitolo Περὶ τοῦ ἠθικοῦ εἴδουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ
delevi ut ineptissime in media expositione de boni malique divisionibus a libraio adiectum»). Nella mia edizione della Recensio breviata, l’ho mante nuto considerandolo come il titolo di una nuova ecloga (8 Dor.) in ragione non solo della possibiltà che esso risalisse all’intervento dell’epitomatore, ma anche e soprattutto perché non ci sono ragioni valide per ammettere qui la necessità della traslocazione testuale introdotta da Wachsmuth.414 Il testo della Dossografia B è il peggio conservato delle tre (forse perché già malconcio nel modello dello Stobeo) e richiede ancora molte cure soprattutto da parte di chi ne preparerà una rinnovata edizione sotto il nome di Ario Didimo, suo vero o presunto autore.415 Anche l’editore dello stato testuale della Recensio breviata si trova tuttavia spesso confrontato a scelte non facili e questo in particolare nei numerosi casi di errori verisimil mente di origine meccanica e più nello specifico quelli dovuti a sauts du même au même. Simili lacune possono infatti essersi verificate a qualunque momento della tramissione di quel testo e di conseguenza talvolta ben al di là dello stato ω quale si riverbera poi nei suoi apografi diretti e indiretti: nell’originale della Recensio breviata (ε), in quello dello stesso Stobeo se non addirittura essere già nel suo modello. Una scelta univoca e coerente in tutti questi casi è impossibile e incongruenze appariranno senza dubbio nella mia edizione. Molto più semplice (almeno sul piano metodologico) sarà invece il cammino dell’editore di «Ario Didimo» nel senso che, per esempio, di fronte a quelle che giudicherà lacune nate verisimilmente per omoioteleuto egli avrà il diritto e il dovere di intervenire là dove necessario per restaurare lo stato testuale originale.416 Per dare un’idea concreta delle difficoltà reali della constitutio textus della Dossografia B ho scelto un solo caso significativo. Chi legga la lunga ecloga iniziale (5; II 57, 13–75, 6) nell’edizione di Wa chsmuth si trova di fronte a una pesante manipolazione del testo trasmesso da F P e quindi già da ω. Lo studioso traspone infatti all’inizio dell’ecloga 414 Ci ritorno con maggiori dettagli alla fine del paragrafo seguente. 415 L’ultima edizione curata da Pomeroy (1999) lascia assai perplessi. Vedi Boeri (2000); Mansfeld (2000), 737–740 e Dorandi (2000), 586. 416 L’ipotesi di Wildberger (2012), 167–77 che questa Dossografia sia un «‘collage a più livelli’, composto da fonti e testi diversi, nella cui produzione metodi definiti come copia-e-incolla sono stati usati con notevole cura e raffinatezza» (167), interessante nel suo insieme, sarà eventualmente valutata dal futurus editor di «Ario Didimo». Essa non apporta niente di concreto all’editore della Recensio breviata dello Stobeo. Né è da scludere a priori che certe peculiarità rilevate dalla studiosa risalgano o si siano amplificate nel momento dell’intervento dell’anonimo epitomatore.
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
(dopo 5b; II 59, 3) una consistente porzione di testo che in F (ff. 140r 24–143r 5) e P (ff. 189v 14–192v 20) è copiata verso la fine della medesima e numera questi paragrafi 5b1–13 (II 59, 4–68, 23). In questo modo, a una prima divisione delle cose che sono (ὄντα) in beni (ἀγαθά), mali (κακά) e indifferenti (ἀδιάφορα), per cui alcuni tra i beni sono virtù (ἀρεταί), altri no, così come alcuni tra i mali sono vizi (κακίαι), altri no e che dei beni alcuni li posseggono tutti i saggi (φρόνιμοι) e sempre, altri no (5a–5b; II 57, 18–59, 3), seguirebbe immediatamente una esposizione delle virtù che risale forse a Crisippo (5b1–13). Wachsmuth giustifica il suo intervento supponendo che quella pericope era finita per errore («sine ulla ratione») fra le sezioni (5g e 5h) e cioè prima di una seconda divisione dei beni e dei mali, qui distinti in τελικά e ποιητικά nonché in δι᾽ αὑτὰ αἱρετά e ποιητά.417 I solidi argomenti avanzati contro questo intervento sul testo tràdito indipendentemente da Mansfeld e da Algra sono più che sufficienti per rinunciare a questo costoso e non necessario intervento e non solo nell’edi zione delle Recensio breviata.418 Vengo alla Dossografia C. La recente edizione della Tsouni, messe da parte alcune ingenuità dal punto di vista ecdotico, rappresenta un reale progresso rispetto a quella del Wachsmuth.419 Fra le novità più importanti c’è la difesa delle forme di verbo προηγέομαι tràdite da F P (= ω) e corrette sistematicamente da Wachsmuth nelle corrispondenti forme del verbo χορηγέω in questo testo e nella precedente Dossografia A.420 Ma l’aspetto più significativo per il mio discorso consiste nella decisione della Tsouni di mantenere nel testo i numerosi titoletti che delimitano e deter minano diverse sezioni della Dossografia e che erano stati invece espunti dal Wachsmuth come aggiunte allotrie di un ignoto copista, quasi glosse marginali che sintetizzavano il contenuto di singole porzioni della presen tazione dossografica.421 Tsouni difende addirittura la presenza di questi 417 Wachsmuth (1884) II 59 (ad v. 4). Le illazioni che lo studioso trae sul numero dei fogli dell’archetipo che questa porzione di testo avrebbe occupato e sulle conse guenze che se ne potrebbero trarre per la ricostruzione della forma e della struttura del medesimo archetipo, sono aleatorie anche per chi ammetta che l’ipotesi della traslocazione sia corretta. 418 Mansfeld (2000), 737–738 e con maggiori dettagli Algra (2018), 85–88. 419 Tsouni (2018), 1-67. Cf. Dorandi (2018a). 420 Per le ragioni addotte in Wachsmuth (1884) II 50 (ad v. 12). Tsouni (2018), 7–10 era stata in questo preceduta da Moraux (1976), 309 n. 17. Moraux aveva anche proposto altre interessanti correzioni a quel testo purtroppo non prese in considera zione dalla Tsouni. 421 Wachsmuth (1884) II 124 (ad vv. 15–17).
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4. Considerazioni di un editore sul capitolo Περὶ τοῦ ἠθικοῦ εἴδουϲ τῆϲ φιλοϲοφίαϲ
titoletti già nella redazione di «Ario Didimo». Il che è possibile, anche se mi appare più verisimile scorgervi piuttosto interventi dell’anonimo autore della redazione abbreviata.422 Nella mia edizione della Dossografia, ho inoltre lasciato la divisione del materiale in quattordici ecloghe talora scandite dalla presenza dei titoletti di cui sopra e non quella in 27 Sections introdotta dalla Tsouni semmai più consona alla struttura originale di «Ario Didimo», ma contraria alle indicazioni dei paratesti di ω, che deve essere rispettata almeno in questa fase. La discussione sulla presenza dei titoletti della Dossografia C mi dà l’occasione di soffermarsi in parallelo anche su altri paratesti simili presenti in alcune ecloghe dell’immenso capitolo 49 del libro I dell’Antologia.423 Verso la metà dell’ecloga 44 (I 385, 11–407, 14), intitolata Ἑρμοῦ Τριϲμεγίϲτου ἐκ τῆϲ ἱερᾶϲ βίβλου ἐπικαλουμένηϲ Κόρηϲ κόϲμου, i due codici F (f. 97v 23) e P (f. 138r 10) marcano una clausula (:+) e aggiungono (397, 5 dopo ἐφώνηϲεν) il lemma λόγοι τοῦ θεοῦ. Nella successiva ecloga 45 (I 407, 15–414, 13), intitolata ἐν ταὐτῶι (ossia l’opera sopra citata di Ermete Trismegisto) il fenomeno si ripete a tre ripre se. A 409, 16 dopo διηγήϲω F (f. 102r 6) e P (f. 143v 5) indicano una clausula e aggiungono πῶϲ γίγνονται εὐγενεῖϲ ψυχαί; a 410, 2 dopo ψυχαί; F (f. 102r 13) e P (f. 143v 12) indicano una clausula e aggiungono πῶϲ ἀρρενικαὶ καὶ θηλυκαὶ γίγνονται ψυχαί (ψυχαί om. F); a 410, 19 dopo ῏Ιϲιϲ F (f. 102r 26) e P (f. 144r 4) indicano una clausula e aggiungono πῶϲ γίγνονται (γίγνεται P) αἱ ψυχαί. Infine, nell’ecloga 68 intitolata Ἑρμοῦ λόγοϲ Ἴϲιδοϲ πρὸϲ Ὧρον (I 459, 7) dopo ἐμόϲ, F (f. 118v 28) e P (f. 144r 13) indicano ancora una clausula e aggiungono quello che potremmo considerare anch’esso un lemma ποῦ τῶν ϲωμάτων ἀπολυθεῖϲαι διατρίβουϲιν αἱ ψυχαί. In tutti questi casi è difficile decidere in maniera univoca se siamo di fronte a veri e propri lemmi aggiunti dall’anonimo epitomatore oppure a glosse o notabilia che dal margine si sono poi infiltrati nel testo. Se nel primo caso (λόγοι τοῦ θεοῦ) e nell’ultimo (ποῦ τῶν ϲωμάτων ἀπολυθεῖϲαι διατρίβουϲιν αἱ ψυχαί) l’ipotesi di notabilia o di glosse mi sembra la più 422 Favorevole a mantenere i titoletti è Fortenbaugh (2018), 76 n. 4, 84 n. 21, 86 n. 29 e 91 n. 43, ma lascia aperta la questione della loro presenza già in «Ario Didimo». 423 Wachsmuth (1884) I 318, 16–472, 2. Il capitolo è trasmesso senza titolo dai mano scritti della Recensio breviata (F P), ma è comunemente intitolato Περὶ ψυχῆϲ fino da Heeren (1792–1801) sulla base della testimonianza di Fozio 112b29 e della indicazione latina (de anima) che si legge nell’editio princeps Canteriana (1575).
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VI. Struttura e contenuti di Stob. 2
plausibile, nei tre seguenti dell’ecloga 45 sussistono dubbi. A favore dell’i potesi che siamo di fronte a notabila richiamerei comunque e soprattutto il fatto che i tre paratesti riprendono sempre letteralmente porzioni del testo come risulta dalla seguente tabella: marginalia
testo
πῶϲ γίγνονται εὐγενεῖϲ ψυχαί
καλῶϲ, εἶπεν Ὧροϲ, ἅπαντά μοι, ὦ τεκοῦϲα, πῶϲ δὲ εὐγενεῖϲ γίγνονται ψυχαί, οὐδέπω μοι διηγήϲω
πῶϲ ἀρρενικαὶ καὶ θηλυκαὶ γίγνονται (add. Wa ψυχαί chsm.) ἀρρενικαὶ καὶ θηλυκαὶ γίγνονται ψυχαί πῶϲ γίγνονται αἱ ψυχαί
πῶϲ γίγνονται αἱ ψυχαὶ ϲυνεταί, ὦ τεκοῦϲα;
Seppure con qualche incertezza residua, l’ipotesi che anche in questi tre casi ci si trovi di fronte piuttosto glosse o notabilia marginali mi appare la più probabile e di conseguenza ho io stesso espunto quei paratesti. 5. Corollario I casi che ho fin qui analizzato e studiato (e altri avrei potuto aggiungerne) danno una idea concreta delle serie difficoltà che intralciano ancora il cammino dell’editore della Recensio breviata di Stob. 2. Se le numerose ecloghe erroneamente traslocate nel libro quarto aiuta no a avere una idea un poco più chiara di quella che doveva essere la forma e la struttura dei capitoli iniziali di Stob. 2 che non solo erano stati fortemente decurtati, ma anche rimaneggiati nel momento dell’epitome, la situazione è molto più oscura per quanto riguarda il finale del libro. Non è infatti possibile determinare in questo caso quanti e quali capitoli erano già stati esclusi (o ridotti) dal redattore della Recensio breviata e quanti erano scomparsi nella lacuna dei manoscritti condivisa da F P e quindi già in ω. L’ipotesi di ricostruzione di questa sezione proposta dal Wachsmuth si fonda ancora una volta su due presupposti che lasciano perplessi e deve pertanto essere guardata con diffidenza. Il primo è che tutti i capitoli (da 10 a 46) fossero presenti in quell’ordine e in quella forma nel mano scritto dell’Antologia passato fra le mani di Fozio (Φ). Il secondo è che il compilatore del florilegio Laurenziano (L) avesse attinto a un codice 164 https://doi.org/10.5771/9783985720965
5. Corollario
perduto della versione originale e completa di Stob. 1–2 identico nella sua struttura a Φ.
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VII. Il testo della Recensio breviata. Tra rispetto della paradosi e leggibilità
1. Nota liminare Penso ci siano ormai elementi sufficienti per provare che il metodo editoriale di Wachsmuth e la sua presentazione e organizzazione di Stob. 1–2 non danno una idea conveniente della realtà fattuale di quei due libri della Antologia né nel loro stato attuale di conservazione (Recensio breviata) né in quello che possiamo presumere fosse più prossimo alla redazione originale. Il tentativo di ricostruzione di un testo unificato di Stob. 1–2 alla maniera di Wachsmuth, mescolando i dati della Recensio breviata con elementi di quanto resta di una recensione più ampia (Recensio plenior), è dunque improprio e deve essere evitato. Donde la scelta di separare in maniera netta e tangibile nella mia edizione lo stato testuale della Recensio breviata dai resti derivati in misura più o meno probabile da una Recensio plenior, senza con ciò negare l’importanza di quel materiale per avere una idea di Stob. 1–2 prima che i libri fossero epitomati.
2. Stob. 1–2, Strabone e Stefano di Bisanzio La storia del testo di Stob. 1–2 quale ho tentato fin qui di ricostruire presen ta parallelismi con quella della Geografia di Strabone e degli Ethnica di Stefano di Bisazio che mi sembra opportuno richiamare qui all’attenzione e studiare in questo senso per la prima volta.424 424 Similitudini si riscontrano anche con le tradizioni dei Deiponosfisti di Ateneo e delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, ma sono meno significative perché di quelle due opere sono conservati ancora per intero o comunque nella quasi totalità sia l’originale sia l’epitome. Una rinnovata edizione della redazione integra di Ateneo (da 3, 74a), accompagna da quella dell’epitome, è stata di recente curata da Olson (2019-); per i primi due libri, tramandati solo nella redazione epitomata, dobbiamo ancora ricorrere all’edizione di Desrousseaux (1956). L’unica edizione dell’epitome laerziana, come testo indipendente, è quella di Marcovich (1999) II 144–320; per l’opera integra, vedi invece Dorandi (2013).
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VII. Il testo della Recensio breviata. Tra rispetto della paradosi e leggibilità
Dei diciassette libri della Geografia di Strabone, si conserva una redazio ne completa (a parte la perdita accidentale della fine del settimo libro (7.12 p. 329 C.), una epitome e una crestomazia. L’epitome è tramandata dall’u nico codice Vaticanus gr. 482 ff. 145v-204v (s. XIV: E) scritto dall’epitoma tore di propria mano; il testimone più completo della crestomazia è invece il Palatinus Heid. gr. 398, ff. 60r–156r (s. IX: X), al quale si affianca il Parisi nus gr. 571, ff. 418v–430r (fine del s. XIII), derivato da una tradizione indi pendente da quella di X.425 Radt ha a ragione pubblicato i tre stati testuali separatamente. Solo nel settimo libro, là dove i codici integri presentano la lacuna, lo studioso ha preso la decisione forte di completare la porzione mancante aggiungendo direttamente nella sua edizione del testo tramanda to dai manoscritti integri una serie di trentacinque Fragmenta/Testimonia tratti da diverse fonti e che Radt distingue in due serie: «A. Pro certo ad librum VII referenda» (fr. 1–29) e «B. Fortasse non ad librum VII referen da» (fr. 30–35). I frammenti derivati dall’epitome (fr. 1–22) non sono ripro posti nell’edizione della medesima, dove leggiamo un semplice rimando a quella del libro settimo.426 Una struttura più vicina a quella di Stob. 1–2 ritroviamo per gli Eth nica di Stefano di Bisanzio, nel senso che questo monumentale lessico geografico è giunto fino a noi essenzialmente in una recensione fortemente epitomata e solo per una minuscola porzione in una redazione più ampia che potrebbe essere quella originaria. L’epitome è tramandata da diciotto testimoni manoscritti i cui più antichi esemplari si collocano nella metà del sec. XIV. Solo quattro di questi sono considerati primari per la costituzione del testo dagli ultimi editori dell’opera.427 Accanto all’epitome sulla cui formazione (probabilmente passata attraverso più fasi) e sulla cui cronolo gia restano ancora dubbi,428 si conservano i pochi articoli copiati da un altrimenti ignoto Teofilo (RGK II 182) su un quaternione (ff. 116r–122v) del codice composito fattizio Parisinus Coislinianus 228 (= S) del sec. XI. 425 L’edizione di riferimento della Geografia è quella eccellente in dieci volumi curata da Radt con traduzione e commento (2002–2011). Il libro settimo è pubblicato nel secondo volume (2003). L’epitome e la crestomanzia sono presentate a sé nel nono (Radt 2010), 9–238 (epitome), 239–346 (crestomanzia). Per le fonti manoscritte e i criteri editoriali di queste due redazioni, vedi Radt I (2002), X–XI e IX (2010) 9 (epitome), 241–242 (crestomanzia). 426 Radt (2010), 65: «fol. 155r 29–157v 23: vide fragmenta 1–22 libri VII». 427 Billerbeck (2006), 5*–49*. Queste pagine sono da integrare con le puntuali e con vincenti osservazioni di Neri (2008) e Valente (2009). 428 Vedi l’informato articolo di Bouiron (2012).
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3. La Recensio breviata al di là di Wachsmuth
La sezione corrisponde alla porzione finale del testo della lettera δ (13 articoli da Δυμᾶνεϲ a Δώτιον) e uno (Ἔαρεϲ) della lettera ε (δ 139–151 e ε 1).429 Segue in S il pinax di una parte degli articoli della lettera ε. Il fatto che gli Ethnica sono un lessico alfabeticamente organizzato ha facilitato il reperimento del punto preciso in cui i passi trasmessi da S dovevano trovarsi all’origine. Per questa sezione, gli editori hanno pubblicato il testo di Stefano su due colonne parallele; quella di sinistra presenta il testo di S, quella di destra quanto resta nell’epitome. Non è possibile entrare qui in merito alla questione se il metodo editoriale seguito da Radt per Strabone e da Billerbeck e Zubler per Ste fano di Bisanzio sia quello più opportuno o se non fosse stato meglio non reintegrare il materiale della redazione epitomata in quella integra. Personalmente, sono convinto che per quelle due opere almeno la scelta sia lecita e efficace. In entrambi i casi, sappiamo infatti con sicurezza a che punto il materiale supplementare deve essere sistemato e siamo abbastanza certi, per ragioni oggettive, della sua derivazione da una redazione più completa delle due opere. Con Stob. 1–2, resto invece convinto che la mia decisione di separa re nettamente i due stati testuali sia la sola soluzione conveniente in considerazione soprattutto dello specifico genere letterario dell’Antologia e, più in generale, di tutta la produzione gnomologica e delle sue caratteri stiche portanti. 3. La Recensio breviata al di là di Wachsmuth Per quanto riguarda la struttura generale della Recensio breviata di Stob. 1–2, nella mia edizione mi sono mantenuto il più vicino possibile allo stato testuale trasmesso da ω, nell’impossibilità di risalire al livello di ε. In questa fase, la prima difficoltà alla quale mi sono trovato confrontato è stata quella della successione dei capitoli e della organizzazione delle ecloghe che li compongono. Ho evitato non solo tentativi come quello esperito da Wachmuth della ricostruzione ex novo dell’intero cap. 2 del primo libro che mancava almeno in ω, ma anche l’introduzione dei titoli dei capitoli omessi dall’epitomatore (o presunti perduti) sulla falsariga del sommario di Fozio e dell’indice di L oppure la correzione sistematica del titolo di altri. Ho al tresì rinunciato a reintegrare tutti quanti i lemmi a partire dal presupposto 429 Billerbeck (2006), 5*–6* e Billerbeck, Zubler (2011), 68, 4–124, 5.
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VII. Il testo della Recensio breviata. Tra rispetto della paradosi e leggibilità
che essi precedevano ogni ecloga almeno nella redazione originale. E que sto pur non potendo escludere che alcuni lemmi (ma quali?) siano caduti per semplici errori meccanici e non tagliati per un intervento volontario nel momento della redazione dell’epitome (ε) e della sua trasmissione in ω. Assai più molesta e ambigua è risultata la questione della contaminazione orizzontale e delle interpolazioni e in parallelo quella delle ecloghe ripetute (da mantenere o da sopprimere?). Se in più punti è verisimile postulare l’esistenza di simili fenomeni, resta spesso impossibile stabilire il momento in cui essi si produssero e quindi determinare se si collocano a monte o a valle della strettoia della epitomazione. Nell’incertezza, la soluzione meno rischiosa è quella di mantenere ancora una volta la facies di ω e segnalare aporie e eventuali soluzioni caso per caso in apparato. Per quanto riguarda infine le ecloghe traslocate da Stob. 2 in Stob. 4, ho rinunciato a reintegrarle nel tessuto della Recensio breviata in considerazione dell’acquisizione che quell’accidente si era prodotto prima dell’allestimento dell’esemplare su cui venne eseguita l’epitome e quindi sia della loro estraneità a quello stato testuale sia delle incertezze a determinarne con sicurezza la posizione al suo interno. La mia edizione della Recensio breviata di Stob. 1–2 presenta di conse guenza una struttura e contenuti molto diversi rispetto a quella di Wach smuth e questo non solo per una maggiore fedeltà allo stato ω, ma anche, lo ripeto, per una minore fiducia nell’apporto che può venire dal contributo di Fozio e di L (e ancora più degli altri testimoni di una Recensio plenior) a una ricostruzione della redazione originale (o a questo più prossima) dell’Antologia. Tutto il materiale è sistemato fra le Recensionis plenioris reliquiae suddiviso in più senzioni (da A a E) introdotte dalle necessarie indicazioni secondo i criteri sopra esposti. Una serie di concordanze aiuterà il lettore a ritrovare l’insieme delle corrispondenze dei testi dei due stati testuali quali presentati nella mia edizione in rapporto a quella di Wachsmuth. Il risultato finale può apparire a taluni deludente se confrontato con quello raggiunto e presentato da Wachsmuth, la cui edizione era nata co munque in un’altra epoca e in altri ambienti dominati da una visione molto più ottimista delle capacità della scienza filologica di restituire ciò che purtroppo, almeno per ora, è irrimediabilmente perduto. Tale è comunque
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5. Due postille metodologiche
la realtà di fronte alla quale ci troviamo e che abbiamo il dovere di rispetta re.430 4. Criteri per indicare gli autori da cui lo Stobeo recuperò le ecloghe In un punto almeno ho ritenuto necessario accogliere una innovazione di Wachsmuth rispetto ai suoi predecessori. Sulla sua falsariga, ho registrato per ogni ecloga o porzione di ecloga (qualora esse siano state a un certo momento accorpate a livello della Recensio breviata), l’indicazione del vero o presunto autore dell’estratto e il rimando al luogo dell’opera dalla quale si ammette che esso derivi oppure la corrispondenza nella raccolta dei frammenti di riferimento nel caso di citazioni da scritti non più conservati per intero. Per una volta, non credo si tratti di una interferenza editoriale abusiva, ma di una forma di compromesso che rende possibile a un lettore moderno di ritrovarsi, senza troppa pena, nell’immensa quantità dei testi che compongono l’Antologia dello Stobeo. I rimandi interni nel caso di «citazioni» all’interno di singole ecloghe, sono inseriti invece direttamente nel testo. La sola eccezione è nelle ecloghe per le quali si può presumere una derivazione dai Placita di Aezio. In questo caso, per non appesantire eccessivamente il testo o gli apparati, il lettore troverà tutti i riferimenti alle raccolte dei frammenti degli infiniti name-labels ivi citati all’edizione di Mansfeld e Runia.431 5. Due postille metodologiche Due postille generali di ordine metodologico e legate fra di loro comple tano il quadro che ho fin qui delineato. La prima potrà essere ripresa e approfondita a più larga scala solo una volta che disporremo di una edizione rinnovata e stabilita con criteri moderni dell’intera Antologia. Innanzitutto, la scelta di registrare ogni ecloga, anche se trasmessa adespota o anepigrafa, sotto il nome di un determinato autore e di indi carne altresì, fin dove possibile, il titolo dell’opera alla luce dei risultati comunemente recepiti, non deve portare a credere che a tale autore o opera 430 È quanto avevo già cercato di mettere in evidenza in maniera per certi aspetti ancora embrionale in Dorandi (2019), 15–34. 431 Questo paragrafo riscrive e rimpiazza quanto avevo suggerito in Dorandi (2021), 154 (§ 8.1).
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VII. Il testo della Recensio breviata. Tra rispetto della paradosi e leggibilità
quella ecloga fosse già attribuita esplicitamente dallo Stobeo o da una delle sue fonti. Di conseguenza, sarebbe erroneo ritenere che nel momento in cui lo Stobeo cita i numerosi estratti che gli studiosi riconducono oggi, per esempio, a Aezio o a Ario Didimo, egli fosse cosciente, con il rigore moderno, che proprio di quell’autore e della sua opera, egli riproduceva in quel punto un determinato estratto. La sua testimonianza non può dunque essere richiamata da sola a dirimere questioni di attribuzioni e identità come appunto quelle dei Placita di Aezio o del compendio di fisica e delle «dossografie» di etica peripatetica e stoica attribuite a un Ario. E ovviamente neppure di numerose altre ecloghe in versi o prosa. Un esempio significativo è rappresentato dalle ecloghe 39–42 del cap. 8 del secondo libro (2, 163, 16–173, 2) intitolato Περὶ τῶν ἐφ’ ἡμῖν. L’ecl. 39 è introdotte dal lemma Πορφυρίου περὶ τοῦ ἐφ’ ἡμῖν e le restanti da quello ἐν ταὐτῶι. È la ragione per la quale, fino all’edizione dei frammenti di Porfirio curata da Smith (1993), quei frammenti sono stati ricondotti a un’opera perduta del filosofo neoplatonico intitolata appunto Περὶ τοῦ ἐφ’ ἡμῖν (268F–271F). Sennonché Taormina ha provato con argomenti convincenti che περὶ τοῦ ἐφ’ ἡμῖν non è un titolo, ma indica piuttosto il contenuto di quei frammenti che derivano in realtà dal perduto commentario di Porfirio al mito di Er nel decimo libro della Repubblica di Platone (617e-620e).432 In secondo luogo, il fatto che Wachsmuth non abbia marcato una netta distinzione fra i due stati testuali in cui Stob. 1–2 è accessibile nella mia ri costruzione (Recensio breviata e Recensio plenior) e non abbia debitamente insistito sull’evidenza che quei due libri sono nella quasi totalità soltanto una epitome assai malridotta, ha portato fino a tempi recenti a dimenticare che ben poco conosciamo della struttura e dei contenuti originari della prima metà dell’Antologia. Molte delle conclusioni alle quali si è giunti e delle illazioni che si è creduto poter trarre da quell’ammasso di rovine, considerato purtroppo sempre alla stregua di Stob. 3–4 (questi non epito mati, ma probabilmente talora interpolati), appaiono di conseguenza spes so affrettate e inappropriate non solo per quanto riguarda la ricostruzione dei metodi compositivi dello Stobeo, ma anche e soprattutto in relazione all’interpretazione e all’utilizzazione di molti testi per i quali l’antologista è spesso per noi l’unica fonte.
432 Taormina (2013), (2013a) e (2014).
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6. Per una conclusione
6. Per una conclusione C’è materiale sufficiente, credo, per riproporre una nuova edizione di Stob. 1–2, dopo quella epocale e ancora utile, ma ormai invecchiata, di Wach smuth senza dimenticare il parallelo lavoro titanico di Hense su Stob. 3–4, che richiede a sua volta rinnovate cure approfondite diverse nei dettagli, ma simili nel fondo a quelle da me applicate ai primi due libri. Se i criteri e il metodo che ho applicati differiscono assai da quello dei miei predecessori (e in particolare Wachsmuth), il loro lavoro resta sempre un prezioso e imprescindibile punto di partenza:433 La gratitude de tout éditeur qui acceptera le défi de rééditer l’Antholo gie, ou seulement une partie de celle-ci, envers Wachsmuth et Hense demeure totale et non seulement pour l’œuvre immense d’exploration et de classification des manuscrits, pour le travail de bénédictin de colla tion presque toujours impeccable, pour le repérage des innombrables conjectures de leurs prédécesseurs et pour celles qu’ils ont eux-mêmes proposées afin d’en améliorer le texte trop souvent corrompu. Au-delà de quelques divergences dictées par une vision différente de la science de l’Antiquité et par l’application de nouvelles méthodes et stratégies ecdotiques, l’opération d’édition des Dioscures de Stobée reste inébran lable. Sans leur engagement une nouvelle édition de l’Anthologie ne serait même pas envisageable. […] Wachsmuth et Hense continueront à rendre un énorme service à tous ceux qui travaillent sur la littérature grecque en large partie perdue.
433 Cito da Dorandi (2019), 34.
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188 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
1. Sigle dei manoscritti Codices Recensionis breviatae A
Ambrosianus A 183 sup. (76 Martini–Bassi), s. XIII s. ex./XIVin.
F
Neapolitanus III D 15, s. XIV in. (ca. 1320–1325)
G
Gottingensis phil. 86, post 1736
Go
Gottingensis phil. 87, ante 1736 (?)
H
Harleianus 6318, ca. 1554
LV
Vossianus gr. Q. 48, post 1575
LW
Wyttenbach 2 (Geel 303), s. XVIII ex.
M
Monacensis gr. 396, ca. 1569–1570
N
Neapolitanus III D 16, s. XVI med.
P
Parisinus gr. 2129, s. XVI in.
PB
Parisinus suppl. gr. 270, s. XVII
R
Scorialensis R.I.11. (Revilla 11), a. 1579
T
Scorialensis T.II.2. (Revilla 141), s. XVI med.
V
Vaticanus gr. 201, inizi del 1552
Val
Vallicellianus E 61 (= 75 Martini), s. XVI (post ca. 1550–1554)
VO
Vaticanus gr. 1347, ca. 1550–1554
W
Vindobonensis phil. gr. 78, s. XVI (post ca. 1550–1554)
Y
Scorialensis y.I.6. (Andrés 299), ca. 1554–1555
Codices deperditi α
fons codicis P
Δ
Scorialensis Δ.I.11. (post 1543) = Codex Augustini
π
fons codicum HY
189 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
Σ
codex J. Sambuci
σ
codex G. Sirleti
ω
archetypus recensionis breviatae
Codices Recensionis plenioris reliquiarum Photius A
Marcianus gr. 450 (coll. 652), s. IX ex./X in.
B
Marcianus gr. 451 (coll. 537), s. XI/XII
Capita ex libro secundo Anthologii in quarto translata A
Parisinus gr. 1984, ca. 1260–1270
B
Parisinus gr. 1985, s. XVI in.
M
Scorialensis Σ.II.14, s. XII
S
Vindobonensis phil. gr. 67, s. X ex.
Florilegium Laurentianum L
Laurentianus 8.22, s. XIII3/4
Scholia in Lucianum Va
Vaticanus gr. 89, s. XIV
φ
Laurentianus conv. soppr. 77, s. XIV (pars recentior)
Excerpta Elteri Vat
Vaticanus gr. 1144, s. XIV
Voss
Vossianus gr. Q 18, s. XIV2/4
Codices antiquiores Anthologii nunc deperditi Κ
fons codicum Stob. 1–2
Θ
fons codicum Stob. 3–4
Φ
codex Photianus, hyparchetypus prior (Stob. 1–4)
Χ
archetypus (Stob. 1–4)
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2. Concordanze edizioni
Ψ
hyparchetypus alter (Stob. 1–4)
ε
epitome Stob. 1–2
ζ
fons auctorum sacrorum Florilegii Laurentiani
λ
fons codicis L (Stob. 1–4)
ξ
fons auctorum prophanorum Florilegii Laurentiani
2. Concordanze edizioni* 2.1. Dorandi–Wachsmuth Dorandi RB
Wachsmuth Liber primus
Cap. 1
Corollarii ultima pars
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Cap. 2
Cap. I
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3 * RB = Recensio breviata; RPR = Recensionis plenioris reliquiae
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IX. Concordanze
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2. Concordanze edizioni
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Cap. II Wachsm. deest in Dor.
Cap. 3
Cap. III
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2. Concordanze edizioni
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Cap. 4
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IX. Concordanze
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Cap. 6
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Cap. 7
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Cap. 8
Cap. VIII
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IX. Concordanze
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Cap. 9
Cap. IX
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IX. Concordanze
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Cap. X
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15
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16a-c
Cap. 11
Cap. XI
1
1
2
2
3
3
200 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
4
4
5
5a-c
Cap. 12
Cap. XII
1
1a-b
2
2a-b
3
3
Cap. 13
Cap. XIII
1
1a-d
2
2
Cap. 14
Cap. XIV
1
1a-l
2
2
Cap. 15
Cap. XV
1
1
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2a-b
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3a
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5
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6
5
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6a-e
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Cap. 16
Cap. XVI
1
1
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201 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
Cap. 17
Cap. XVII
1
1
2
2
3
3
4
4
Cap. 18
Cap. XVIII
1
1a-e
2
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3
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Cap. 19
Cap. XIX
1
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7
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Cap. 20
Cap. XX
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2. Concordanze edizioni
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Cap. 21
Cap. XXI
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3a-c
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5
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6a-f
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Cap. 22
Cap. XXII
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1a-f
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Cap. 23
Cap. XXIII
1
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Cap. 24
Cap. XXIV
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IX. Concordanze
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Cap. 25
Cap. XXV
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1a-i
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Cap. 26
Cap. XXVI
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Cap. 27
Cap. XXVII
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204 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
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Cap. 28
Cap. XXVIII
1
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Cap. 29
Cap. XXIX
1
1
2
2
Cap. 30
Cap. XXX
1
1
2
2
Cap. 31
Cap. XXXI
1
9
Cap. 32
Cap. XXXII
1
1
Cap. 33
Cap. XXXVI
1
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2
2
Cap. 34
Cap. XXXVII
1
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205 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
2
5
Cap. 35
Cap. XXXIX
1
1
Cap. 36
Cap. XL
1
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Cap. 37
Cap. XLI
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Cap. 38
Cap. XLV
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Cap. XLII
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206 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
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Cap. 40
Cap. XLIII
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Cap. XLVII
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Cap. XLVIII
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IX. Concordanze
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Cap. 44
Cap. XLIX
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2. Concordanze edizioni
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70
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Cap. 45
Cap. L
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2a-b
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2. Concordanze edizioni
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Cap. 46
Cap. LI
1
3
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5
3
6
Cap. 47
Cap. LII
1
7
2
9
3
19
4
20
Cap. 48
Cap. LIII-LVI
1
LIII 4
2
LIII 5
3
LIV 4
4
LV 1
5
LV 2
6
LV 3
7
LVI 1
Cap. 49
Cap. LVII
1
1
Cap. 50
Cap. LVIII
1
1
211 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
Cap. 51
Cap. LIX
1
1
2
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3
3
Cap. 52
Cap. LX
1
1
Liber secundus
Cap. 1
Cap. I
1
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2. Concordanze edizioni
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17+31
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Cap. II 24
22
II 25
23
II 1
24
II 2
25
II 3
26
II 4
27
Cap. III 1
28
III 2
29
III 3a-b
30
III 4
31
Cap. V 1
32
V2
33
Cap. IV 18
34
IV 19
35
Cap. V 3
36
Cap. VI 1
Cap. 2
Cap. VII
1
1
2
2
3
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4a
5
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vide ad p. 57, 12 W.
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5h-n
213 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
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26
Cap. 3
Cap. VIII
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5
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214 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
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IX. Concordanze
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Cap. IX 1
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7
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8
Dorandi RPR
Wachsmuth
Liber primus
C4 1
Cap. XXXI
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2. Concordanze edizioni
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IX. Concordanze
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Cap. LI
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IX. Concordanze
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Cap. XXXVIII
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Liber secundus
B1
Cap. I
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2. Concordanze edizioni
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Cap. IV 1
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Cap. IV
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2
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Cap. II 5
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IX. Concordanze
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C4 2
Cap. XV
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2. Concordanze edizioni
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IX. Concordanze
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49
C4 3
Cap. XXXIII
1
1
2
2a-b
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15a
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C4 6
Cap. XLVI
1
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224 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
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C4 7
Cap. XXXI
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225 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
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2. Concordanze edizioni
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62
227 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
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2. Concordanze edizioni
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103
104
104
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107a
107a
107b
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110a
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110b
110b
110c
110c
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110e
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110f
110g
110g
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IX. Concordanze
110h
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110i
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110m
110m
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110o
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110q
110q
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110r
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110s
110t
110t
110u
110u
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110w
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128
129
129
130
130
2.2 Wachmuth–Dorandi Wachsmuth
Dorandi
Liber primus
Corollarii ultima pars
Cap. 1
1
1
2
2
3
3
4
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5
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231 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
Cap. I
Cap. 2
1
1
2
2
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6
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2. Concordanze edizioni
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40
40
Cap. II
deest
Cap. III
Cap. 3
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2
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IX. Concordanze
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55
55a
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55b
57
55c
58
56
Cap. IV
Cap. 4
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2a
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2c
4
2d-e
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7a-b
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235 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
Cap. V
Cap. 5
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Cap. VI
Cap. 6
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Cap. VII
Cap. 7
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Cap. VIII
Cap. 8
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2. Concordanze edizioni
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40a-d
40
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41
42a-c
42
43
43
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45
45
Cap. IX
Cap. 9
1
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2a-b
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4a-b
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IX. Concordanze
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Cap. X
Cap. 10
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11a-b
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16a-c
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240 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
Cap. XI
Cap. 11
1
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3
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5a-c
5
Cap. XII
Cap. 12
1a-b
1
2a-b
2
3
3
Cap. XIII
Cap. 13
1a-d
1
2
2
Cap. XIV
Cap. 14
1a-l
1
2
2
Cap. XV
Cap. 15
1
1
2a-b
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3a
3
3b
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6a-e
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241 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
Cap. XVI
Cap. 16
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Cap. XVII
Cap. 17
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3
3
4
4
Cap. XVIII
Cap. 18
1a-e
1
2
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3
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4a-d
4
Cap. XIX
Cap. 19
1
1
2
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3
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5
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Cap. XX
Cap. 20
242 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
1a-g
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6
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8 et 9a-b
8
10
9
Cap. XXI
Cap. 21
1
1
2
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3a-c
3
4
4
5
5
6a-f
6
7a-d
7
8
8
9
9
Cap. XXII
Cap. 22
1a-f
1
2
2
3a-d
3
Cap. XXIII
Cap. 23
1
1
2
2
243 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
3
3
Cap. XXIV
Cap. 24
1a-o
1
2a-e
2
3
3
4
4
5
5
Cap. XXV
Cap. 25
1a-i
1
2
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3a-k
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5
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9
Cap. XXVI
Cap. 26
1a-l
1
2
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3
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6
Cap. XXVII
Cap. 27
244 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
1
1
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Cap. XXVIII
Cap. 28
1a-b
1
2
2
Cap. XXIX
Cap. 29
1
1
2
2
Cap. XXX
Cap. 30
1
1
2
2
Cap. XXXI
Cap. 31
1
RPR C4 L 1.1
2
RB 2
3
RB 3
4
RB 4
5
RB 5
6
RB 6
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RB 7
245 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
8
RB 8
9
RB 1
Cap. XXXII
Cap. 32
1
1
Cap. XXXIII–XXXV
desunt**
Cap. XXXVI
Cap. 33
1
1
2
2
Cap. XXXVIII
Cap. 34
1
RB 1
2
C4 11 2ab
3
C4 11 3
4
C4 11 4
5
RB 5
Cap. XXXIX
Cap. 35
1
1
Cap. XL
Cap. 36
1
1
Cap. XLI
Cap. 37
1
1
** hic et postea in libro secundo tantum titula ex Photio petita (vide RPR A) dat Wachsmuth.
246 https://doi.org/10.5771/9783985720965
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Cap. XLII
Cap. 39
1
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2
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3
3
Cap. XLIII
Cap. 40
1
1
Cap. XLIV
deest
Cap. XLV
Cap. 38
1
1
2
2
Cap. XLVI
deest
Cap. XLVII
Cap. 42
1
1
247 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
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15
15
Cap. XLVIII
Cap. 43
1
1
2
2
3
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4
4
5
5
6
6
7
7
8
8
Cap. XLIX
Cap. 44
1a-b
1
1c
2
2
3
248 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
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IX. Concordanze
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2. Concordanze edizioni
58
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64
62
65
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66
64
67
65 (66 deest)
68
67
69
68
70
69
71
Cap. L
Cap. 45
1
C4 8. 1
2a-b
RB 1
3
C4 8. 3
4
C4 8. 4
5
RB 2
6
C4 8. 6
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C4 8. 7
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C4 8. 8
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C4 8. 9
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C4 8. 10
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C4 8. 11
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C4 8. 12
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C4 8. 13
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C4 8. 14
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C4 8. 15
16
C4 8. 16
251 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
17
C4 8. 17
18
C4 8. 18
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RB 3
20
C4 8. 20
21
C4 8. 21
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C4 8. 22
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C4 8. 23
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C4 8. 24
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C4 8. 25
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C4 8. 26
27
RB 27
28
C4 8. 28
20
C4 8. 29
30
C4 8. 30
31
C4 8. 31
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C4 8. 32
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C4 8. 33
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C4 8. 34
35
C4 8. 35
36
RB 5
37
RB 6
38
RB 7
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RB 8
40
RB 9
41
RB 10
Cap. LI
Cap. 46
1
C4 9. 1
2
C4 9. 2
252 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
3
RB 1
4
C4 9. 3
5
RB 2
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RB 3
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C4 9. 7
Cap. LII
Cap. 47
1
RB 7
2
C4 4. 2
3
C4 4. 3
4
C4 4. 4
5
C4 4. 5
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C4 4. 6
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C4 4. 7
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C4 4. 8
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RB 8
10
C4 4. 10
11
C4 4. 11
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C4 4. 12
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C4 4. 13
14
C4 4. 14
15
C4 4. 15
16
C4 4. 16
17
C4 4. 17
18
C4 4. 18
19
RB 3
20
C4 4. 20
21
C4 4. 21
253 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
Cap. LIII-LVI
Cap. 48
LIII 1
C4 10. 1
LIII 2
C4 10. 2
LIII 3
C4 10. 3
LIII 4
RB 1
LIII 5
RB 2
LIV 1
C4 5. 1
LIV 2
C4 5. 2
LIV 3
C4 5. 3
LIV 4
RB 3
LV 1
RB 4
LV 2
RB 5
LV 3
RB 6
LVI 1
RB 7
Cap. LVII
Cap. 49
1
1
Cap. LVIII
Cap. 50
1
1
Cap. LIX
Cap. 51
1
1
2
2
3
3
254 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
Cap. LX
Cap. 52
1
1
Liber secundus
Cap. I
Cap. 1
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2
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16
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17+31
18
17(–18)
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IX. Concordanze
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RB 19
33
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CAP. II
1
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5
B2. 17
6
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2. Concordanze edizioni
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RB 22
Cap. III
1
RB 27
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3
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Cap. IV
1
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IX. Concordanze
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RB 33
19
34
Cap. V
1
RB 31
2
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3
35
Cap. VI
1
36
Cap. VII
Cap. 2
1
1
2
2
3
3
4a
4
4b
5
6 (vide ad p. 57, 12 W.)
5, 5a-g
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2. Concordanze edizioni
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Cap. VIII
Cap. 3
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9–9a
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IX. Concordanze
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2. Concordanze edizioni
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Cap. IX
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Capita X–XII
desunt
Cap. XV
C4 2
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IX. Concordanze
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2. Concordanze edizioni
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Capita XVI–XXX
desunt
Cap. XXXI
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IX. Concordanze
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2. Concordanze edizioni
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266 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
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101
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106
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107a
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110a
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110c
110c
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110f
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110g
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110i
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110k
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110l
110m
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110o
110p
110p
110q
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110r
110r
110s
110s
267 https://doi.org/10.5771/9783985720965
IX. Concordanze
110t
110t
110u
110u
110v
110v
110w
110w
110x
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110y
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130
130
Cap. XXXII
desinit
268 https://doi.org/10.5771/9783985720965
2. Concordanze edizioni
C4 3
Cap. XXXIII
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15a
16
16
Capita XXXIV–XLV
desunt
C4 6
Cap. XLVI
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IX. Concordanze
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22
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X. Indici
1. Indice stobeano* Liber primus – 1, 28: 137 – 15, 3–19, 18: 133 – 20, 3–24, 9: 46 – 20, 21: 49 – 23, 2–51, 17: 136 – 24, 10–31, 8: 46 – 25, 3–27, 4: 58 – 25, 8: 58 – 26, 4: 58 – 26, 6: 58 – 26, 21: 58 – 27, 5–20: 134 – 31, 8–35, 17: 46 – 31, 8: 24, 25, 28, 31 – 35, 18–43, 26: 46 – 38, 17–39, 8: 136 – 39, 9–19: 140 – 40, 10–11: 48 – 43, 26–47, 1: 46 – 47, 2–50, 7: 46 – 47, 8: 49 – 50, 7: 46 – 51, 1: 49 – 51, 18–52, 15: 137 – 64, 16–18–66, 23: 67 – 64, 17–66, 23: 66 – 66, 24–70, 13: 67 – 66, 26–70, 13: 61 – 66, 26–67, 2: 67 – 70, 13: 67 – 76, 8–77, 5: 137 – 84, 11: 49 – 86, 1–11: 131 – 89, 13–14: 48 – 101, 11–102, 6: 61 – 102, 7–104, 11: 135 – 112, 7–10: 61 – 120, 17–121, 9: 140 – 121, 10–122, 1: 134 – 130, 22: 55, 122 – 133, 14: 49
– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –
137, 7–140: 87 137, 8–140, 9: 92 140, 11–12: 55, 92 145, 3: 130 148, 4: 130 157, 6–160, 4: 114 163, 14–165, 13: 114 174, 18–19: 48 188, 5–191, 19: 50, 66 194, 11–391, 4: 29 195, 1–200, 11: 124, 126 195, 2: 113, 121, 124 198, 18: 121, 124 200, 13–201, 20: 92 200, 13: 121 204, 9: 52 206, 27 : 50 208, 20–209, 2: 142 208, 20–21: 47 208, 23–209, 2: 142 209, 11: 47, 142 209, 21: 47, 142 210, 8–15: 130 212, 27: 51 214, 21: 129 214, 22–217, 16: 129 216, 5: 52 217, 17–225, 19: 126 217, 18–20: 126 220, 3: 125 220, 23: 125 222, 1: 125 223, 3: 50 223, 8: 125 223, 23: 125 224, 1–225, 19: 125 224, 1: 125 225, 6: 52 227, 5: 121 229, 15: 50 229, 21: 50 235, 11: 50
* I luoghi dello Stobeo sono indicati con la pagina e il rigo delle edizioni di Wachsmuth per i libri 1-2 e di Hense per i libri 3–4.
271 https://doi.org/10.5771/9783985720965
X. Indici – 236, 10: 50 – 238, 21: 121 – 240, 5–6: 47 – 240, 21: 49 – 242, 21–247, 13: 39, 87 – 248, 12–21: 113 – 248, 13–21: 124 – 252, 13–253, 3: 87, 92 – 255, 9: 52 – 270, 10–11: 53 – 272, 18: 50 – 282, 27: 52 – 293, 3: 52 – 293, 24: 47 – 294, 1–296, 25: 47, 124 – 296, 6–17: 113 – 297, 9–11: 113 – 297, 13–298, 2: 47 – 297, 15–298, 2: 47 – 298, 3–5: 113 n. 307 – 302, 16: 51 – 308, 8: 52 – 310, 25–312, 3: 114 – 318, 16–472, 2: 125, 163 – 319, 4–5: 47 – 331, 1–335, 21: 44, 50, 51, 66 – 335, 21: 51 – 382, 1: 48 n. 106 – 382, 5–6: 47 – 382, 8–11: 48 – 382, 11–16: 48 – 384, 27: 48 – 385, 1: 48 – 385, 11–407, 14: 163 – 397, 5: 163 – 407, 15–414, 13: 163 – 409, 16: 163 – 410, 2: 163 – 459, 7: 163 – 472, 3–502, 17: 125 – 472, 3–493, 24: 124 – 499, 4–1: 141 Liber secundus – 3, 1–37, 13: 144 – 3, 1–15, 10: 144 – 4, 7–14: 135 – 6, 13–17, 4: 152 – 6, 13: 96 n. 273 – 6, 19–20: 151 – 6, 19–14, 1: 145 – 6, 20: 80, 152 – 6, 20–14, 1: 80 – 7, 5: 154 – 13, 3–14, 1: 150 n. 391 – 13, 18–14, 1: 154
– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –
14, 1–7: 154 15, 11–24, 23: 145 15, 13: 145 15, 14–18, 10: 151 18, 11–24, 14: 80, 151 21, 15: 80 24, 15–23: 147, 151 25, 1–26, 5: 147 26, 6–35, 9: 148–149 26, 8–32, 24: 80 26, 17: 151 26, 18–27, 1: 133 32, 25–35, 9: 151 35, 10–37, 8: 149 35, 25–37, 8: 149 n. 387 37, 9–13: 149 37, 14–152, 25: 158–164 37, 16: 158 37, 17: 158 37, 18–39, 18: 159 39, 19–45, 10: 159 39, 19–42, 6: 159 42, 7–45, 10: 159 45, 11–57, 12: 159 57, 12: 159 57, 13–116, 18: 96 57, 13–75, 6: 161 57, 13–14: 160 57, 18–59, 3: 162 59, 4–68, 23: 162 69, 17–83, 7: 98 79, 10–11: 98 83, 2–5: 48 91, 1–2: 48 92, 9–12: 48 95, 7–8: 48 116, 19–152, 25: 96 116, 19–20: 96 119, 24: 54 127, 11–130, 19: 54 163, 16–173, 2: 172 182, 7: 24, 25, 28, 31, 49 182, 8: 156 184, 17: 23, 25, 29, 30, 31, 43, 49, 156, 157 184, 18–264, 4: 156 185, 15–196, 25: 157 197, 1–199, 11: 113, 124 199, 12–254, 31: 157 219, 6–223, 10: 87 221, 1–16: 90 255, 1–3: 124 255, 4–257, 24: 87, 124 258, 1–259, 20: 124 260, 1–264, 4: 124, 157 264, 4: 100
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2. Altri autori Liber tertius – 3–177: 87 n. 243 – 338, 11: 35 Liber quartus – 376, 1–393, 4: 146
– 406, 1–421, 5: 146 – 619, 1–649, 9: 149, 154 – 918, 15–919, 6: 96 inscriptiones librorum 1–2: 76 n. 187
2. Altri autori* Adesp. trag. – *75a: 156 n. 405 Aeschylus – Prometheus – 454–459: 133 – 459–461: 133 – Fragmenta – fr. **181a Radt: 133 – fr. 182: 133 Aetius – Placita – 1.14, 1 Mansf.-Ru.: 130 – 1.21, 3–22, 2–8: 135 – 2.31, 1: 121 Aratus – Phaenomena – 778–817: 130 – 822–891: 130 Archytas Tarentinus – p. 20 Thesleff: 145 – Aristo Chius – SVF I F 394 = fr. 5 Ranocchia: 150 Aristoteles – Meteorologica – 371b 25: 49 Arius Didymus – Physica – fr. 6, 7, 27, 28 Diels: 135 Cleanthes – SVF I 537: 134 Comparatio Menandri et Philistionis – 2.77–81 (106 Jäkel): 135 Diogenes Laertius – 7.104: 98 Empedocles – VS 31B6: 134 – VS 31B28: 130 – VS 31B36: 134 Epictetus – Dissertationes
– 1.12, 1–7: 137 – Encheiridion – 1, 1: 98 – fr. 1 Schenkl: 154–155 Euripides – fr. 439 Kannicht: 150 – fr. 620: 138 n. 366 – fr. 1017: 131 Gnomica homoeomata – 6: 100 n. 288 – 145: 100 n. 288 Hesiodus – Theogonia – 85–92: 150 Homerus – Θ 16: 130 – I 115: 52 n. 115 – ρ 485–487: 134 Iamblicus – Epistulae – p. 286–289 Taormina-Piccione: 146 – p. 290: 150 Florilegium Laurentianum (L) – Index capitum (Wachsm.) – litt. Α 28: 127 – litt. Α 65: 136 – litt. Δ 34: 126 – litt. Ε 10: 156 – litt. Η 1: 143, 158 – litt. Κ 14: 125 Lucianus – Vitarum auctio 9–14: 97 Philemo comicus – fr. 95 K.-A.: 136, 140 Philolaus – VS 44A19: 130 n. 334 – VS 44B17 = fr. 17 Huffman: 130 Photius – Bibliotheca – 112a13–115b31: 75 n. 185
* Vengono segnalati solo i luoghi che sono stati discussi nel volume. Un elenco completo degli autori delle ecloghe di Stob. 1–2 sarà pubblicato alla fine dell’edizione dei medesi mi libri.
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X. Indici – 112a14–16: 75 – 112a18: 76 n. 189 – 112a32–34: 89, 136 – 112b7–8: 124 – 112b12–13: 125 – 112b30: 127 – 112b33–34: 126 – 112b37–113a5: 77 – 113a6–11: 143 – 113a10–11: 148 – 113a12: 158 – 113a13: 156 – 113a13–b5: 157 – 113a33–34: 88 n. 249 – 114a15–17: 76 n. 190 – 114a18–115b17: 77 – 114b28–115a24: 77 – 114a18–b27: 77 – 115a25–35: 78 – 115a25: 78 – 115a35a–b5: 78 – 115b6–17: 78 – 115b18–31: 78 Plato – Crat. – 99d–e: 51 – Ion – 533d–534d: 149 – Leg. – 715e: 67 – 747a3: 49 – Phaed. – 80b–80e: 51 – 91e–93a: 51 – Phaedr. – 225c–266c: 145 – 245c–246a: 51 – Resp. – 412e 9–413a: 141 – 522d: 133 – 533b–c: 145 – 534e: 145 – 617e-620e: 172 – Soph. – 265c2: 49 – Tim. – 29c–d: 154 Plato com. – fr. 202 K.–A.: 147 PMG – 1018ab, adesp. 100 Page: 138 – 1019, adesp. 101 Page: 132
Porphyrius – De Styge – fr. 7 Castelletti = 376F Smith: 61-62 – Sententiae – 9: 119 – 14: 119 – 29: 119 – 43: 119 – Fragmenta – 268F–271F: 172 Posidonius – fr. 96 Kidd: 141 Ps.-Maximus – Loci communes – 8.22/24 Ihm: 100 n. 291 – 8.23/25: 100 n. 291 ps.-Menander – Monostica – 726 Pernigotti: 131 ps.-Plato – Dicta – 65a Stanzel: 147 – 82: 149 ps.-Plutarchus – De Homero – 99–100: 134 – 145: 134 Psellus – De omnifaria doctrina – 99: 55 n. 120 – 100: 55 n. 120 Scholia in Lucianum – Bis accusatus 22 – 140, 15–144, 23 Rabe: 97 – Vitarum auctio 21 – 127, 10–128, 17: 97 – 127, 10–18: 98 – 127, 18–28: 98 – 140, 15–141, 5: 98 – 143, 3–30: Scholia BDPU in Pindarum – Nem. 1, 13a Drachmann: 131 Sophocles – fr. 686 Radt: 138 n. 362 Stephanus Byzantius – Ethnica – δ 139–151:169 – ε 1: 169 Suda – ι 466 Adler: 76 n. 187 Xenophanes – VS 21B34.5: 155
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3. Testimonianze scritte
3. Testimonianze scritte 3.1. Manoscritti berlin Staatsbibliothek zu Berlin (Preussischer Kulturbesitz) – Phillipps 1450 (gr. 46): 83 bruxelles Bibliothèque Royale Albert Ier (KBR) – 11360–63 (Omont 39): 82 el escorial Real Biblioteca del Monasterio de San Lo renzo – R.I.11. (Revilla 11) (R): 23 – T.II.2. (Revilla 141) (T): 24 – y.I.6. (de Andrés 299) (Y): 25 – Δ.I.11. (de Andrés 240) (Δ): 25 – Δ.IV.19. (de Andrés 261): 25–26 – Σ.II.2 (Revilla 82): 56–57 – Σ.II.14 (Revilla 94) (M): 34 – Ψ.II.48 (de Andrés 443): 33 n. 72 firenze Biblioteca Medicea Laurenziana – conv. soppr. 77 (φ): 36 – plut. 8.22 (L): 35, 36 – plut. 58.11:82, 152 n. 394 – plut. 86.7: 84 n. 225 göttingen Niedersächsischen Staat- und Univer sitätsbibliothek – phil. 86 (G): 26 – phil. 87 (Go): 26 heidelberg Universitätsbibliothek – Pal. Heid. gr. 398:168 leiden Universiteitsbibliotheek – Voss. gr. F 48: 62 n. 152 – Voss. gr. O 9: 27 n. 56 – Voss. gr. Q 18 (Voss): 36–37 – Voss. gr. Q 48 (LV): 26–27, 61–64 – Wyttenbach 2 (Geel 303) (LW): 27–28 london British Library – Addit. 10072: 100 n. 291 – Harleianus 6318 (H): 28 madrid Biblioteca Nacional de España – 4748: 28 n. 60 milano Biblioteca Ambrosiana – A 183 sup. (76 Martini–Bassi) (A): 29, 44– 45
münchen Bayerische Staatsbibliothek – gr. 396 (M): 29 napoli Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III – III D 15 (F): 30, 43–44 – III D 16 (N): 30–31 – III E 19: 119 n. 322 paris Bibliothèque nationale de France – Coisl. 228 (S): 168 – gr. 571: 168 – gr. 923: 83 – gr. 1984 (A): 34 – gr. 1985 (B): 35, 82 – gr. 2129 (P): 31–32, 45–47 – gr. 2130: 46 n. 104 – suppl. gr. 270 (PB): 32 roma Biblioteca Vallicelliana – E 61 (= 75 Martini) (Val): 32 vaticano, città del Biblioteca Apostolica Vaticana – Reg. gr. 146: 46 n. 104 – Vat. gr. 89 (Va): 36 – Vat. gr. 201 (V): 22–23 – Vat. gr. 237: 119 n. 322 – Vat. gr. 421–422: 62 n. 153 – Vat. gr. 482: 168 – Vat. gr. 954: 52 n. 394 – Vat. gr. 1144 (Vat): 35 – Vat. gr. 1347 (VO): 23 – Vaticanus deperditus: 59–61 venezia Biblioteca Marciana – gr. Z. 138 (coll. 596): 83 – gr. Z. 450 (coll. 652) (A): 34 – gr. Z. 451 (coll. 537) (M): 34 – gr. Z. 519 (coll. 773) (V): 119 n. 322 – gr. IV 29 (coll. 1063): 152 n. 394 wien Österreichische Nationalbibliothek – phil. gr. 67 (S): 35 – phil. gr. 78 (W): 33
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X. Indici
3.2. Papiri PBerol. – inv. 9780: 17–18
4. Copisti e possessori di manoscritti Agustín, Antonio: 26, 57, 59, 61–64 Apostolio, Michele: 82, 152 Balsamone, Giorgio: 35 Bigot, Louis-Émery: 32 Caterina de’ Medici: 68 Catrario, Giovanni: 35 Damilas, Demetrio: 82, 152 Darmarios, Andrea: 24, 27, 33, 59, 62, 70 de Castro, Juan Páez: 68 n. 167 Devaris, Matteo: 32, 45, 46, 66 Farnese, Alessandro (papa Paolo III): 56 Farnese, Alessandro (cardinale): 56 Farnese, Ranuccio: 56 Filippo II di Spagna: 68 n. 167, 69 Franciscus, Iohannes s. Graecus: 28, 68 Galesiotes, Giorgio: 36 Gregorio II di Cipro: 34 Lascaris, Giano: 34, 45, 46, 67, 151 n. 393 Mauromates, Giovanni: 25, 29, 57, 68 Mesobotes, Costantino: 35 Orsini, Fulvio: 23, 54, 59, 60, 61
Patrizi, Francesco: 57 Planude, Massimo: 29, 44 Provataris, Emanuele: 23, 30, 31, 56, 57 Quirini, Lauro: 151 n. 393 Ridolfi, Niccolò: 67 Roso, Giovanni: 82 Sambucus, Johannes (János Zsámboky): 57, 58, 69–70 Sarti, Antonio: 27, 71, 85 Schott, Andrea: 27, 28, 32, 58, 62 Sirleto, Guglielmo: 58, 69 Strozzi, Lorenzo: 67 Strozzi, Pietro: 67 Strozzi, Ruberto: 67 Teofilo: 168 Vinvenìs, Emmanuel: 33 n. 71 Wolf, J. Christian: 26, 27, 28, 58 n. 133, 62 n. 151, 63, 71 Wyttenbach, Daniel: 27, 71, 85, 86 n. 239 Zanetti, Francesco: 25, 56, 57 Zarides, Giovanni: 29
5. Indice dei nomi antichi e medievali* Aezio: 17, 70, 78, 87 n. 246, 91, 92, 94, 95, 118, 119 n. 320, 121, 130, 135, 171, 172 Alessandro di Afrodisia: 95 Alessandro Magno: 15 Arato: 130 Archita di Taranto: 145 Ario Didimo: 154, 158, 159 n. 410, 161, 163 Aristofane: 15 Aristone di Chio: 16 Aristotele: 131, 158, 159, 160 Aristotele (ps.): 16, 60, 118 Arriano: 150 Ateneo: 60, 61, 167 Atenodoro: 15 Augusto (imperatore): 17, 96
Aulo Gellio: 115 Bacchilide: 132 Bione di Smirne: 61 Carete (poeta drammatico): 15 Carete (generale): 15 Chione di Eraclea: 15 Cleante di Asso: 15 Crisermo storico: 15 Diogene Laerzio: 95, 98, 115, 167 n. 424 Dionigi Areopagita (ps.-): 32 n. 71 Eliano: 60, 61, 84 Empedocle: 130, 134 Epitteto: 16, 17, 98, 99, 102, 150, 155 Eraclide Lembo: 60
* Non è compreso nella lista Giovanni Stobeo.
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6. Indice dei nomi moderni Ermete Trismegistro (Corpus Hermeticum): 163 Erodoto: 51 Eschilo: 133–135, 151 Eschine (socratico): 15 Esiodo: 150, 151 Eudoro di Alessandria: 97, 158, 159 Euripide: 16, 118, 131, 133, 138, 139 Filemone comico: 135 n. 354, 136, 140, 141 Filodemo di Gadara: 115 Filolao di Crotone: 130, 134 Filone di Larissa: 158, 159 Fozio: 13, 14, 15, 39, 40, 41, 62 n. 153, 75–79, 82, 87, 88, 89, 90, 91, 102, 103, 107, 108, 111, 112, 113, 114, 115, 123, 124–127, 133, 136, 137, 143, 144, 148, 149, 153, 156, 157, 158, 164 n. 423, 165, 169, 170 Giamblico di Calcide: 17, 18, 91, 92, 117, 150 Giovanni Damasceno: 83, 147 n. 383 Giovanni Filopono: 95 Ierocle stoico: 17 Isocrate: 18 Luciano: 96–103, 107, 111, 115 Macrobio: 115 Massimo, Confessore (ps.): 84,100 Menandro comico: 16, 118 n. 319 Menandro (ps.): 131 n. 339
Musonio Rufo: 17 Omero: 16, 135 Pitagora: 16 Platone: 16, 51, 81, 118, 133, 141, 147, 148, 149, 159, 172 Platone comico: 147 Pletone, Giorgio Gemisto: 24, 68 Plinio il Vecchio: 115 Plutarco di Cheronea: 16, 18, 100, 115, 118 Plutarco (ps.): 60, 70, 92, 94, 131, 134 Porfirio: 17, 62, 67, 119, 130, 131, 172 Proclo di Atene: 62 n. 153, 113 Psello, Michele: 30, 43, 50, 119, 120 Senofonte di Atene: 16, 18, 149 Sesto Empirico: 98 Settimio (figlio dello Stobeo): 14, 19, 76, 77, 103 Socrate: 16, 100 Sofocle: 138–139 Speusippo: 15 Stefano di Bisanzio: 167–169 Strabone: 167–169 Telete di Megara: 18 Temistio: 13 Teodoreto di Cirro: 92 Teognide: 16, 132 Zenone di Cizio: 158–159
6. Indice dei nomi moderni* Acquafredda, M. R.: 75 Adler, A.: 14, 63, 76, 95 Algra, K.: 96, 97, 162 Almási, G.: 69 Austin, C.: 135, 141 Bekker, I.: 75, 113 Bergk, Th.: 131, 132, 140 Bernhardt, O.: 95 Bianchi, E.: 6, 22, 34, 35, 150 Bianchi, N.: 75 Bianconi, D.: 35 Bickel, E.: 17 Billerbeck, M.: 168, 169 Boeri, M. D.: 161 Bompaire, J.: 36 Bonazzi, M.: 17, 97, 159 Boter, G.: 98 Bottler, H.: 17 Briquet, C. M.: 26, 30, 31, 33 Brisson, L.: 119
Brüggemann, T.: 83 Brumana, S.: 6 Canart, P.: 22, 23, 25, 28, 31, 56, 58, 70 Canter, W.: 21, 24, 26, 32, 50, 62, 63, 68, 69, 70, 85, 112 Carlini, A.: 17 Carlucci, G.: 62 Castelletti, C.: 62, 67 Cataldi Palau, A.: 23, 25, 29 Cavallo, G.: 34 Clausi, B.: 58 Cobet, C. G.: 86, 155 Coda, E: 6 Coenen, J.: 36 Curnis, M.: 6, 17, 18, 27, 37, 38, 63, 68, 69, 71, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 114, 118, 131, 137, 147 Davies, M.: 132, 138, 139 de Andrés, G.: 25, 26, 33, 57 De Gregorio, G.: 6, 22, 31, 44
* Ho escluso dalla lista C. Wachsmuth e i riferimenti nella Bibliografia finale.
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X. Indici de Meyïer, K. A.: 26, 27, 36, 62 de Nolhac, P.: 61 De Stefani, L.: 84 Declerck, J.: 83 Delatte, L.: 81, 82 Desrousseaux, A.-M.: 167 Devreesse, R.: 60 Di Lello-Finuoli, A. L.: 23, 27, 30, 31, 32, 35, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 70, 82, 85, 87, 88, 89, 90, 91, 94, 132, 157 Diels, H.: 13, 29, 38, 39, 75, 78, 80, 85, 91, 92, 93, 94, 130, 131, 134, 135, 141 Dillon, J. M.: 17, 91 Domingo Malvadi, A.: 68 Domínguez Domínguez, J. F.: 70 Donato, M: 6 Dorandi, T.: 5, 6, 17, 23, 29, 35, 36, 45, 57, 59, 81, 82, 87, 88, 91, 94, 95, 105, 115, 118, 119, 120, 121, 122, 132, 133, 134, 135, 136, 157, 161, 162, 167, 171, 173 Drachmann, A. B.: 131 Elter, A.: 38, 39, 75, 76, 77, 78, 79, 87, 90, 94, 100, 101, 102, 112, 113 Fabricius, J. A.: 21, 27, 43, 137 Ferreri, L.: 16, 35, 82, 132 Ferroni, L.: 6 Festugière, A. J.: 48, 118 Finamore, J. M.: 91 Formentin, M. R.: 30, 31, 43, 56 Fortenbaugh, W. W.: 163 Fowden, G.: 13 Franchi de’ Cavalieri, P.: 23, 36, 97 Fuentes Gonzáles, P. P.: 18, 101 Gaisford, Th.: 21, 27, 28, 37, 67, 80, 85, 86, 87, 112, 125, 130, 135, 144, 157 García Valdés, M.: 84 Garulli, V.: 6 Geel, J.: 27, 28, 85, 86 Gerstinger, H. G.: 69 Gesner, C.: 68, 152 Giacomelli, C.: 6, 22, 35, 60 Giusta, M.: 89 Göranson, T.: 17, 97 Goulet, R.: 13, 15, 16, 17 Gourinat, J.-B.: 17, 97, 152 Graeven, H.: 36 Graux, C.: 27, 62 Grotius H. (Hugo de Groot): 27, 71 Guida, A.: 6 Gysenbergh, V.: 6 Hadjú, K.: 6, 22, 29, 62 Hahm, D. E.: 17, 96, 97, 98, 99, 100, 115, 158 Halm, K. F.: 86 Hardt, I.: 27, 29, 62 Harles, G. Chr.: 21, 27
Harlfinger, D.: 6, 33 Heeren, A. H. L.: 21, 22, 27, 28, 37, 43, 44, 45, 50, 59, 63, 69, 70, 87, 112, 113, 114, 124, 125, 126, 133, 134, 135, 143, 144, 145, 148, 149, 152, 155, 156, 157, 158, 163 Henry, R.: 75 Hense, O.: 13, 14, 15, 22, 35, 37, 77, 79, 80, 81, 82, 86, 87, 88, 91, 94, 96, 100, 101, 102, 112, 146, 149, 150, 154, 173 Hermann, G.: 133 Hiller, E.: 38 Hillgruber, M.: 134 Hinz, V.: 6, 22, 58 Holl, K.: 83, 84, 85 Hose, M.: 13 Huffman, G. A.: 42, 130 Hunger, H.: 33, 35 Ihm, S.: 83, 84, 100 Irigoin, J.: 44 Jacobs, E.: 57 Jadzewska, K.: 114 Kannicht, R.: 131, 133, 138, 150 Kassel, R.: 135, 141 Kidd, I. G.: 141 Kindstrand, J. F.: 134 Kinzig, W.: 83 Kiss, F. G.: 69 Kresten, O.: 62 Krumbacher, K.: 100 La Barbera, P. C.: 6 Lamberz, K.: 119 Lampros, S.: 24 Lapini, W.: 6, 117 Lehmann, J. J.: 27 Leroy, J.: 35 Llera Fueyo, L.: 84 Long, A. A.: 18 López de Vaillo, M.: 61 Lorenzoni, A.: 6, 61 Lorimer, W. L.: 29, 32, 33, 59 Lortzing, F.: 79 Losacco, M.: 6, 34, 62 Lucà, S.: 30, 58 Luria, S.: 115 Luzzatto, M. J.: 81 MacLeod, M. D.: 97 Maltese, E.: 6 Mansfeld, J.: 12, 17, 22, 39, 50, 75, 76, 78, 79, 91, 92, 93, 94, 95, 97, 161, 162, 171 Mantziou, M.: 138, 139 Marcovich, M.: 167 Marquis, E.: 36 Martinelli Tempesta, S.: 6, 22, 151 Martínez Manzano, T.: 6, 25, 56, 57, 64 Martini, E.: 29, 32, 33, 34
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6. Indice dei nomi moderni Martone, L. I.: 91 Mastellari, V.: 141 Mazzarelli, C.: 159 Mazzon, O.: 36 McHendrick, S.: 28 Meineke, A.: 21, 37, 38, 50, 77, 80, 84, 86, 87, 96, 97, 98, 100, 104, 112, 114, 125, 126, 130, 132, 135, 136, 139, 141, 144, 148, 149, 150, 151, 152, 155, 156, 157, 158 Mercati, G.: 23, 36, 97 Meyer, W.: 26, 27, 63 Millis, B. W.: 16 Minunco, S.: 34 Mondrain, B.: 32 Moorhouse, A. C: 141. Moraux, P.: 162 Mošin, V. A.: 30 Muratore, D.: 32, 45, 67, 68 Nauck, A.: 133, 138 Odorico, P.: 84 Olson Douglas, S.: 167 Omont, H.: 32, 45, 62, 82 Orsini, F.: 23, 54, 59, 60, 61 Page, D. L.: 132, 138 Parmentier, É.: 13 Pattie, T. S.: 28 Pelucchi, M.: 6 Pérez Martín, I.: 6, 43, 44 Pernot, L.: 56 Piccione, R. M.: 13, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 22, 34, 35, 50, 76, 81, 82, 87, 91, 94, 95, 115, 118, 127, 129, 132, 135, 146, 150 Plantin, Chr.: 59, 68, 69 Pomeroy, A. J.: 161 Porson, R.: 147 Prato, G.: 44 Rabe, H.: 36, 97, 98, 99, 100 Radt, S.: 133, 138, 168, 169 Ranocchia, G.: 82, 150 Revilla, A.: 23, 24, 25, 34, 64 Reydams-Schils, G.: 16 Riccardo, M.: 6 Richard, M.: 83 Rodríguez-Noriega Guillén, L. A.: 84
Ronconi, F.: 34, 76 Royse, J. R.: 83, 84, 87, 92 Ruhnkenius, D.: 27, 28, 63, 71, 85 Runia, D. T.: 13, 16, 17, 22, 39, 50, 75, 76, 78, 79, 91, 92, 93, 94, 95, 97, 134, 171 Schenkl, H.: 101, 102, 137, 154, 155 Schiano, C.: 75 Schmidt, L.: 27, 62 Searby, D. M.: 123 Sicherl, M.: 68, 82 Smith, A.: 62, 67, 172 Solmsen, F.: 151 Sosower, M. L.: 23, 24, 25, 28, 29, 31, 33, 56, 57, 68 Spengel, L.: 37, 43 Speranzi, D.: 6, 34, 35, 46, 82, 151 Stefec, R. S.: 25, 57 Suchla, R. B.: 32, 33 Tambrun-Krasker, B.: 24 Taormina, D. P.: 18, 20, 81, 82, 87, 91, 146, 150, 172 Tralijć, M. J.: 30 Trincavelli, V.: 68, 82 Tsouni, G.: 162, 163 Tulli, M.: 6 Tychsen, C. T.: 63 Tyrwhitt, Th.: 63 Ucciardello, G.: 138, 139 Valckenaer, L. C.: 27 Vallozza, M.: 18 van Achelen, I.: 69 Van der Meeren, S.: 159 Vascosan, M.: 61 Vitelli, G.: 36 Vogel, M.: 62 Wakefield, G.: 141 West, M. L.: 139 Westerink, L. G.: 30 Wilamowitz-Moellendorff v., U.: 132, 138, 139 Wilson, N. G.: 6, 35, 45 Wolf, J. Chr.: 26, 27, 28, 58, 62, 63, 71 Wyttenbach, D.: 27, 71, 85, 86 Zorzi, N.: 34 Zuntz, G.: 59
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