Storia della tradizione e critica del testo


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Storia della tradizione e critica del testo

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Giorgio Pasquali

STORIA DELLA TRADIZIONE E CRITICA DEL TESTO Premessa di Dino Pieraccioni

BIBLIOTHECA

GIORGIO PASQUALI

STORIA DELLA TRADIZIONE E CRITICA DEL TESTO Premessa di DINO PIERACCIONI

FIRENZE CASA EDITRICE LE LETTERE 1988

Per cortese concessione della Casa editrice Le Monnier, ristampa anastatica della seconda edizione, Firenze, 1952.

Copyright © 1988 by Casa Editrice Le Lettere - Firenze

PREMESSA Presentando nel 1952 la ristampa anastatica della sua Storia della tradizione e critica del testo, uscita nel '34 ed esaurita da tempo, Giorgio Pasquali riportava un passo del suo maestro Federico Leo (quip. XX): "Non si dovrebbe propriamente mai ripubblicare un libro costituito soltanto di ricerche. Che l’autore ha altro da fare che ricominciare da capo le ricerche terminate tanti anni prima, e tuttavia non può né passare sotto silenzio l'indagine che ha progredito per la stessa via, né nascondere ciò che si è mutato nelle sue vedute". Soltanto cedendo alle insistenze dell’editore e alle richieste particolarmen­ te di studiosi giovani, che non avevan fatto in tempo a procurarsi il libro quando era uscito la prima volta, si era deciso a una ristampa anastatica, uscita a metà del '52 con alcune correzioni e accresciuta da tre appendici. Pasquali accantonava così, almeno per il momento, il vecchio proposito di un rifacimento dell’opera, per il quale già nel '47, riprendendo la sua attività dopo la lunga malattia che lo aveva travagliato fin dai primi del '43, aveva chiesto la collaborazione dei lettori dei suoi ' 'Studi’’*.

1 «Studi ital. fil. class.» XXII, 1947, p. 261: «I miei editori mi avvertono contemporaneamen­ te che le due mie opere, Storia della tradizione e critica del testo (Firenze, Le Monnier, 1934) e Le lettere di Platone (Firenze, Le Monnier, ma ora Sansoni, 1938) sono sul punto di esauritsi, e mi offrono di ristamparle; la mia coscienza mi intima di rifarle. Io credo ora di sapere che autentiche sono parecchie altre lettere di Platone oltre quelle che quattordici anni or sono sostenevo tali; che Probo valeva molto meno e per nostra fortuna ha lasciato molto minor traccia nei testi latini di quanto ritenesse il Leo; che le due redazioni dell’Apologetico di Tertulliano non risalgono tutt’e due all'originale direttamente senza esser passate per un archetipo; che varianti di autore, frequenti in scritture medievali, rinascimentali, più moderne, in opere dell'antichità sono molto più rare di quanto allora credessi, e così via...». Nel presentare la ristampa del‘32 Pasquali si proponeva anche (qui p. XXIV) di aggiungere un volume nel quale avrebbe corretto quegli errori che la stereotipia non permetteva di correggere, aggiornando le varie questioni e aggiungendo trattazioni di problemi affini con la collaborazione di specialisti di varie specialità. Sarebbe stata (l’osservazione è di S. MARIOTTI, «Atene e Roma», 1932, p. 212) quasi un’enciclopedia di studi metodici sull’argomento. Un’analoga promessa faceva Pasquali nella presentazione dell’edizione italiana della Critica del testo del Maas, apparsa anch’essa nel ‘32 : «Ho promesso di aggiungere presto un altro volume di correzioni integrazioni sviluppi di questioni particolari. Manterrò la promessa, se non mi verrà meno la forza di lavoro e l’aiuto di compagni d’opera che me l’han fatto sperare» (p. IX).

II

PREMESSA

A distanza di trentasei anni da quella ristampa, ormai da tempo introvabile, così com’è ormai esaurita la ristampa anastatica pubblicata da Mondadori nel ’74, questa nuova edizione, che esce ora grazie all’iniziativa di una casa editrice largamente benemerita nel campo degli studi, offre a tutti, in particolare agli studiosi più giovani, la ristampa anastatica dell’edizione del '52, curata personalmente dal Pasquali e uscita nelle librerie (la prefazione reca la data del 10 giugno) poco dopo la notizia della sua tragica fine, avvenuta a Belluno il 9 luglio 1952. Ragioni di spazio (sarebbe stato anzitutto necessario dividere l’opera in due volumi), ma soprattutto la coscienza delle difficoltà di affrontare anche solo sommariamente i vari problemi, hanno ragionevolmente sconsigliato di premettere a questa ristampa un quadro complessivo del Pasquali storico e critico del testo12. Le annotazioni che seguono vogliono soltanto offrire alcune informazioni dettagliate sulla genesi del libro e anche quelle altre indicazioni che permettano a chi lo desideri di approfondire i vari problemi3. A un’opera d’insieme sulla critica del testo Pasquali pensò concretamente soltanto dopo la celebre recensione alla Textkritik di Paul Maas, uscita nel '29, dalla quale nacque, com’è noto e come lo stesso Pasquali dichiarò (qui p. IX), l’idea della Storia della tradizione. Vi lavorò accanitamente per tutto il tempo che ebbe disponibile dalla scuola e dagli altri impegni, fin dai primi del ’31, mettendo in pratica la sua lunga esperienza di critica testuale, iniziata con l’eccellente edizione di Proclo (1908, Pasquali aveva appena 23 anni) e affermatasi poi decisamente con le lettere di Gregorio di Nissa apparse nel 1925, ma in pratica mai interrotta. Basterà ricordare gli importanti contributi al testo della Vita Constantini di Eusebio (1909) o al testo dei Caratteri di Teofrasto (1926), e infine l’ampia recensione, scritta quando ormai la Storia della tradizione era quasi compiuta, a La critique des textes del Collomp (1932)4. La prima notizia ufficiale del libro giunse tuttavia soltanto nel ’31 e fu data dallo stesso Pasquali in una comunicazione all’Accademia dei Lincei, di 1 Sulle caratteristiche della critica del testo di Pasquali non esiste per ora un lavoro d’insieme. Le migliori pagine sono quelle di S. TIMPANARO, La genesi del metodo del Lachmann, Liviana Editrice, Padova, 19822 (ristampa corretta con aggiunte, 1985); notevole anche S. MARIOTTI, Rileggendo la Storia della tradizione, in «Atene e Roma», cit. pp. 213 sgg. Più importante ora la relazione di JEAN IRIGOIN al Convegno fiorentino del dicembre 1985, in Giorgio Pasquali e la filologia classica del ’900, Firenze, Olschki, 1988. ’ A questo gioverà particolarmente la recente raccolta degli Scrittifilologici di Pasquali, uscita in occasione del centenario della nascita, Fitenze, Olschki, volumi due, 1986, con un’importante introduzione di A. La PENNA (si vedano in particolare le pp. LXV sgg.). 4 Tutti questi contributi sono ora raccolti nel voi. JI degli Scrittifilologici, cit. pp. 827 sgg., pp. 841 sgg. e 919 sgg.

PREMESSA

IU

cui era socio corrispondente, nella seduta del 26 aprile. Eccone qui il testo integrale5: «Gli accademici che mi hanno preceduto, hanno avuto il vantaggio di parlare su libri compiuti e pubblicati: io oso dare all’Accademia qualche cenno di un’opera che è ancora in fieri, se pure è già tanto avanzata che io posso sperare di deporre già nel prossimo inverno uno dei primi esemplari sul banco della Vostra presidenza. Essa s’intitole­ rà: «Storia della tradizione e critica del testo», e cercherà di mostrare per mezzo di esempi quanto la disciplina della critica testuale abbia progredito, com'essa si sia trasformata dalla prefazione del Lachmann a Lucrezio, che è stata per lungo tempo considerata come il codice di questa scienza, sino a questi ultimi anni. Critica dei testi è dottrina metodica preliminare, ed essa è, in certo modo, in principio in­ dipendente dalla lingua nella quale i testi sono stati composti. Ma, poiché io sono filologo classico, i miei esempi sono presi per lo più dalle letterature greca e latina, se pure anche, non di rado, non dal periodo classico ma da quello medievale. Pure, per condizioni che noi possiamo per testi più antichi soltanto indurre, ma che per testi più recenti tocchiamo con mano, specie per rifacimenti di lettere che risalgono all’autore e in genere per doppie redazioni originali, ho tratto profitto dalla tradizione del Petrarca e del Boccaccio, ricca e contemporanea agli autori, spesso anzi autografa. Per questa parte ho chiesto non ’ «Rend. R. Acc. naz. Lincei», classe Scienze morali, voi. VII, 1931, pp. 243 sgg. Una sintesi anticipata della Storia della tradizione, che rivela anche un Pasquali capace di esporre in poche pagine l'essenziale di questa disciplina, è nella voce Edizione (critica) apparsa ndùtEnciclopedia Italiana, voi. XIII uscito nel 1932 (consegnata quindi certamente nel '31 ) ora anche in Rapsodia sul classico. Contributi all’Enciclopedia Italiana di Giorgio Pasquali, Roma, Istituto della Enciclopedia, 1986, pp. 235-267. Nella bibliografia è ancora affermato: «Un libro moderno sul metodo dell’edizione critica manca tuttora». Cenni alla laboriosa gestazione del libro sono sempre più frequenti nelle lettere di quegli anni, di cui ecco qui qualche esempio. Lettera a B. Migliorini, allora redattore àdHìEnciclopedia italiana, datata venerdì santo '31: «Non mi vorrei troppo caricare (di voci per l’Enciclopedia), specie finché combatto con questo mio lavoro su Tradizione che non vuol finire» (inedita, presso l’Archivio dell'Enciclopedia). Allo stesso il 27 aprile '31: «Un libro che mi prende tutti i momenti liberi e incatena tutto il inio interesse, quello su Tradizione, M'ero proposto di finirlo ora a giugno, dopo un anno di attività costante: invece sono solo a due terzi, e il terzo che rimane è il più difficile» (inedita, c.s.). Finalmente, in una lettera del 25 settembre '33 a M. Valgimigli (edita in Seminario Valgimigliano, Milazzo, Spes, 1980, p. 31) «Ora anche le ultime cento pagine del mio volume sono battute, ma non ancora fuse; saranno a giorni, appena finita la campagna scolastica. Poi ci sarà la correzione e, che è peggio, l'indice analitico. E poi usciremo finalmente...». Molto di più si potrà sapere dal riscoperto archivio Pasquali (1987), ora depositato all'Accademia della Crusca e in via di riordinamento, cfr. D. PlERACCIONI, Ricomparso l'archivio Pasquali, «Belfagor», 31 luglio 1987, pp. 481 s.

IV

PREMESSA

invano Vaiato di un nostro collega, Vittorio Rossi, e di Giuseppe Vandelli. «Fu fortuna che il Lachmann prendesse le mosse da tre poeti latini difficili e poco letti nel medioevo, Properzio, Catullo, Lucrezio; perché, nelle condizioni d’allora della nostra disciplina, egli, se sifosse imbattuto in tradizionipiù complicate, non avrebbe potuto, nonostante la forza del suo ingegno geometrico, scoprire le regole di quel suo metodo che operò per molti anni salutarmente. Ma a testi p. e. di poeti esametrici che nel Medioevo furono scolastici, a testi di prosatori che venivano proposti a modello stilistico quel metodo non si può legittimamente applicare. Esso suppone trasmissione meccanica o quasi: ora la trasmissione non è per lo più, per gli autori che intendo io, Giovenale, per citare un latino, e Plutarco o Eusebio, per citare due greci, niente affatto meccanica: per lo più le corruttele non derivano qui da errori di scrittura, ma da errori di pensiero. Ogni amanuense, ogni scriba innova o inconsciamente o seminconsciamente o conscia­ mente. Il Lachmann considerava le interpolazioni e la contaminazione come peculiari del Rinascimento, ma in ogni periodo nel quale ci è stato interesse per autori, nel quale quindi gli autori sono stati copiati, amanuensi dotti ed editori hanno cercato di migliorare il loro testo, sia mutando per congettura, sia collazionando esemplari che a loro parevano migliori. Spesso la contaminazione è anteriore alla nostra tradizione, sicché tutti i nostri codici sono contaminati. Al lume dei papiri e della tradizione indiretta appare chiaro che le varianti dei mss. medievali sono ben più antiche degli archetipi, che questi hanno raccolto in sé come in un bacino queste varianti e le hanno ridistribuite ai codici medievali. Il Lachmann gettava via qualunque codice presentasse interpolazioni; noi, ammaestrati dalle coincidenze dei papiri e delle testimonianze antiche con i deteriores, andiamo in cerca di tradizione genuina anche in questi, e ci sforziamo di trovare metodi che c’insegnino a sceverare ciò che deve o può essere autentico anche in documenti falsificati. Criteri interni, lectio difficilior e usus scriben­ di, riprendono così il disegno sull’autorità del singolo testimonio, alla quale spesso il Lachmann si rimetteva. Il compito del critico del testo diviene così più complicato ma anche più interessante: soprattutto egli conosce i limiti della propria opera, e non si abbandona a sicurezze fallaci».

In un primo tempo, diciamo fino alla fine del '31, Pasquali dovette pensare anche a una contemporanea edizione tedesca: nella ricordata

PREMESSA

V

recensione al Collomp, pubblicata nel ’32*6*910 , concludeva: «in un libro gii annunziato dalla Weidmannsche Buchhandlung, dove tento di collegare più strettamente la recensio con la storia della tradizione». Anche in una nota redazionale alla pubblicazione anticipata del quarto capitolo Recentiores, non deteriores, apparso sugli «Annali della Scuola Normale» del 1932, si legge l’avvertenza che la Storia della tradizione «uscirà prossimamente in italiano, e in tedesco, nella collana dei «Problemata» edita da Weidmann»1. Ma l’edizione tedesca non apparve né in quegli anni né mai. Nella ricordata comunicazione ai Lincei Pasquali dava per il suo libro il titolo giusto Storia della tradizione e critica del testo, ma l’incertezza del titolo dovette restare a lungo. Nella bibliografia alla voce Interpolazione nel volume XIX delTEnciclopedia Italiana apparso nel '33 (ma la voce sarà stata consegnata parecchi mesi prima, nel ’32, secondo le consuetudini) egli citava il suo nuovo volume col titolo Critica dei testi e storia della tradizione, Firenze, 19331. Ancora nel 1932 una pro-ékdosis, preparata dalla casa Le Monnier con le pagine 1-304 e distribuita evidentemente ad alcuni amici, recava ancora il titolo Storia della tradizione e critica dei testi’. Quando finalmente il libro uscì completo (la prefazione reca la data del Capodanno 1934, il volume fu finito di stampare il 20 febbraio di quell'anno), Pasquali aveva scelto il titolo migliore. La Storia della tradizione risentiva senza dubbio dell’insegnamento di Eduard Schwartz (a lui e al Vitelli, definiti «paterni amici» è infatti dedicato il libro) e anche dalle molte conversazioni con Wilamowitz, Jaeger e gli altri colleghi tedeschi19. Ma il libro, fin dai primi anni dalla pubblicazione, è stato letto da tutti i filologi, non solo quelli classici ma anche i filologi romanzi in generale e italianisti in particolare. Proprio nel campo dell’italianistica ‘ «Gnomon», VE, 1932, pp. 127-134, ora anche \n Scritti filologici, cit. TI, pp. 919-926. ’ «Ann. Se. Norm. Sup. Pisa*, s. II, voi. 1,1932, pp. 53-84 e 105-130. Anche il primo capitolo era stato anticipatocol titolo Teologiprotestanti precursori del Lachmann in «Studi ital, fil. class.», IX, 1931, pp. 243 sgg. ’ Ora anche in Rapsodia sul classica, cit. pp. 267-270. 9 Un esemplare di quest'edizione con un’annotazione manoscritta «Esemplare provvisorio

della prima parte», proveniente dal fondo Ojetti dèi Gabinetto Vieusscux di Firenze, fu esposto

in occasione della Mostra documentaria del centenario: il ricco catalogo a cura di Silvano Ferrone in «Quaderni dell'Antologia Vieusseux», 3, 1986, p. 41. 10 In una lettera a Giinther Jachmanndel 10 luglio 1933 (ora in S. PRETE, Tra filologie studiosi della nostra epoca, Pesaro, Tip. Belli, 1984, p. 101), Pasquali scriveva: «Il Suo Terenzio mie stato

molto utile per la stesura del mio libro sulla Tradizione nel quale sono immerso». E nella sua

relazione al Convegno fiorentino dell'85 J. Classen ha ricordato di aver visto la copia personale della Storia della tradizione conservata da Maas piena di annotazioni da servire forse per una recensione (copia ota in possesso di M.D. Reevc, Cambridge, cfr. S. TIMPANARO, op. cit, 1985, p. 153).

VI

PREMESSA

Pasquali ha aperto vie nuove agli studi di critica testuale, richiamando l’attenzione (l'osservazione è di un fedele scolaro di Pasquali, Lanfranco Garetti, per la ricorrenza del centenario), attraverso le opere del Boccaccio e del Petrarca, sulla massiccia presenza nella tradizione manoscritta medievale e umanistica di quelle «varianti di autore» che risultano invece tanto più scarse nella tradizione classica. Nemico di ogni procedura meccanica, Pasquali ha impresso una svolta decisiva a quella che poi Michele Barbi definì «la nuova filologia», richiamando a servizio del restauro e dell’interpretazio­ ne dei testi ipiù validi strumenti operativi, linguistici, stilistici e metrici, oltre a quelli concretamente storici. Chiunque oggi voglia pubblicare o emendare testi, chiunque si occupa di problemi di critica testuale o di storia della tradizione, non può fare a meno di quest’opèra. Molte delle formulazioni di Pasquali: «tradizione orizzontale», «recensione chiusa» e «recensione aperta» (nonostante i dubbi, non tutti infondati, di G.B. Alberti)", recentiores, non deteriores, ormai sono nel linguaggio comune di tutti gli studiosi. Il famoso «dodecalogp per editori di testi classici» (qui a pp. XVsegg., e a parte in «Leonardo» V, 1934, pp. 97 sg.) costituisce (il giudizio è di A. Dain) «un corpo di dottrine a cui ogni filologo moderno può e deve sottoscrivere». E un più giovane studioso, Martin West, nella nota bibliografica premessa al suo volume Textual Criticism and Editorial Technique (Stuttgart, B.G. Teubner, 1973) raccomanda agli studenti soltanto tre opere, il noto Manuel di Havet (1911), la Storia della tradizione di Pasquali e /Tinleitung di Hermann Frdnkel all’edizione di Apollonio Podio (1964)u e aggiunge: «Ciascuna di queste opere può essere letta con considerevole profitto, specialmente la dotta opera di Pasquali». Nella sua importante relazione al più volte ricordato Convegno fiorentino del 1983, Giorgio Pasquali storico e critico del testo”, Jean Irigoin, ricordando i cinquantanni ormai trascorsi dalla pubblicazione della Storia della tradizione, un periodo di tempo che segna di solito, e talvolta anche prima, per un libro il tempo dell’oblio, concludeva: «Ma l’opera di Pasquali rifugge dalla regola comune, ... e la sua influenza dura e si prolunga anche oltre quanto il suo autore aveva previsto, ma nella linea che con mano maestra egli aveva tracciato con vigore e sicurezza. Continuità e fecondità, queste le due caratteristiche generali, che assicurano al libro di Pasquali una attualità indiscutibile». Dino Pieraccioni " G.B. ALBERTI, Problemi di critica testuale, Firenze, Nuova Italia, 1979, pp. 1-18, cfr. anche S. Timpanaro, op. cit. p. 101 n. 51. 12 Ora in traduzione italiana, Testo critico e critica del testo, 2‘ ediz. a cura di C.F. Russo, trad. di L. Canfora, Firenze, Le Monnier, 1983. 13 In Giorgio Pasquali e la filologia classica del ‘900, cit.

AI MIEI PATERNI AMICI

EDOARDO SCHWARTZ GIROLAMO VITELLI

PREFAZIONE Questo libro è nato da una recensione : quando, nel 1927, venne alla luce la Textkritik di P. Maasx), il redattore respon­ sabile del Gnomon, R. Harder, mi offrì di parlarne nella sua rivista. Accettai di buon grado. La mia recensione fu pubbli­ cata nel Gnomon 5, 1929, 417-435 e 498-521. Essa, contro tutte , le regole, era riuscita parecchio più lunga del libro o meglio opuscolo recensito, quanto ricco, altrettanto conciso. Ma io di- ’ scorrevo dell’opera del Maas solo nelle prime undici pagine del mio articolo ; di lì in poi passavo a considerare un problema, in che mai la critica del testo, quale essa si riflette nelle norme di quel libriccino e quale la concepiamo e trattiamo noi mo­ derni, si distingua dalla critica del testo classica, lachmanniana, quella critica di cui le prime pagine del commento a Lucrezio sono insieme il codice e il più illustre esempio. Tale trattazione sarebbe riuscita forse inintelligibile, certo inutile, se io non l’avessi corredata di esempi. Appunto gli esempi do­ vevano dimostrare che non può ricostruire, per mezzo del con­ fronto e della valutazione delle testimonianze della tradizione, dunque di recensio, il testo originale di un’opera letteraria tramandata a noi dall’antichità classica, se non chi conosce le vicende che quell’opera subì successivamente alla sua pubbli­ cazione, per secoli e secoli, fino ai testimoni conservati. Ohi mira a trasformare un complesso di norme logiche e quindi astratte in un metodo di lavoro storico, non deve avere paura del particolare. Quindi l’ampiezza di quella recensione. Per una questione speciale, le «varianti di autore», io già allora superavo senza scrupolo i confini dell’antichità classica e attingevo esempi da scrittori molto più recenti per i quali tali varianti sono rigorosamente documentate, sono evidenti, 1) A. Gereke und Ed. Norden, Einleitwng in die Altertumswi88en8chaft I 2 ; P. Maas, Textkritik, Leipzig und Berlin, Teubner 1927 ; pp. 18.

X

PREFAZIONE

dai nostri grandi del Trecento, Petrarca e Boccaccio ; anzi, per mutamenti nei nomi propri, voluti per ragioni artistiche, « este­ tiche», dall’autore, discendevo già allora siino ad Alessandro Manzoni e ai Promessi Sposi. Quella recensione interessò e piacque più che non mi aspet­ tassi. Parecchi filologi (non soltanto filologi classici, ma anche romanisti e germanisti) tedeschi, inglesi, americani, anche italiani mi scrissero proponendomi di ripubblicarla quale li­ bretto per sè, in servigio degli studiosi giovani e degli stu­ dienti, lasciandolaimmutata o aggiungendo qualche altro esem­ pio là dove pareva più necessario. Dopo un anno d’intervallo dato ad. altri studi mi rimisi di buona voglia al lavoro ; ma mi accorsi presto che trasformare una recensione in manuale è impresa disperata, e risolsi di rifarmi da capo e scrivere in ita­ liano un libro nuovo e, in certo senso, sistematico. Dal prin­ cipio del 1931 in poi ci ho impiegato tutto il tempo che mi lasciavan libero il mio ufficio di maestro e molteplici impegni e interessi. Ho dovuto talvolta sospendere la stesura per setti­ mane e mesi ; ma ci sono sempre ritornato appena ho potuto. E, siccome ho avuto chiaro sin da principio il disegno comples­ sivo, confido che il volume non risenta troppo di questo suo esser cresciuto a poco a poco, quasi giorno per giorno. Della recensione originaria è nel volume definitivo rima­ sto ben poco : oltre qualche esempio qua e là, quasi soltanto le parti sul Petrarca e sul Boccaccio. Ma neppur queste sono immutate : proprio sui testi del Petrarca e del Boccaccio è stato lavorato molto, con ottimo frutto, in questi ultimi anni, sicché io ho avuto non poco da fare per mettere al corrente questi paragrafi ; ed essi si presenterebbero con tutto ciò molto più imperfetti, se non fossero stati riveduti rispettivamente dà V. Bossi e G. Vandelli. Viceversa, ho rifuso senza scrupolo alcuno nel libro articoli miei apparsi già negli Studi Italiani (Zi Filologia Classica, nella Cultura, nella Nuova Antologia, nel Pègaso, nel Leonardo, restituendo così loro nell’organismo dell’opera quel posto che io ad essi, già pensandoli, avevo asse­ gnato x). 1) Il capitolo quarto, per preghiera di Giovanni Gentile, fu dato da me in forma già poco men che definitiva agli Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, che lo pubblicarono nel I volume della II serie, 1032.

PREFAZIONE

XI

Non mi so rammaricare di non aver nè potuto nè, in fondo, voluto dare al mio libro tono normativo, sebbene io gli desi­ deri pur sempre lettori giovani, principianti, sebbene mi sia studiato in loro servigio di scrivere più piano che potevo, di presupporre quante meno cognizioni potevo. Ma venticinque anni di esperienza magistrale mi 'hanno insegnato che i gio­ vani e più i migliori odiano l’insegnamento catechistico e pre­ dicatorio (cioè il manuale parlato), mentre prendono interesse alla lezione, se il professore, rifacendo dinanzi a loro il proprio ragionamento, presentandolo alla loro critica, li chiama a partecipare al proprio lavoro d’indagine. Maestri che ascoltano la propria voce e non si curano di quel che gli scolari pensino, di come ragionino, sono meritamente derisi e dispregiati. Chi nel presente libro cercasse una ricetta universale per l’edizione critica, si troverebbe deluso : io sono convinto ohe essa, do­ vunque la tradizioni non è puramente meccanica, dovunque l’amanuense (o, come questo libro mostra, più spesso l’editore antico o medievale) ha creduto d’intendere, non è possibile, non esiste1). Io ho voluto nel presente libro raccogliere quanti più esempi potevo di tradizioni manoscritte istruttive, ordinan­ doli come meglio potevo in tipi. So benissimo che tale classifi­ cazione è empirica, ma quasi altrettanto empiriche, arbitrarie, convenzionali sono le classificazioni di tipi biologici : esse sono ,giustificate, come la mia, da fini di economia di lavoro. Io saròpago se chi avrà letto questo libro, rimarrà convinto che a ri­ costruire di sui manoscritti il testo originario di uno scrittore antico occorre fin da principio esercitare il giudizio e che questa facoltà non può essere sostituita da alcuna regola mec­ canica, e non crederà più a chi, in buona o in mala fede, gli vuol dare a intendere che meccanica sia l’attività dell’edi­ tore critico. No, essa è metodica, che è quasi l’opposto. Nella pagina più viva (perchè più storica) del suo libro il Maas con­ frontava la tradizione a un corso di’ acqua che, ricevendo affluenti e filtrando per terreni d’ogni genere, perda il colore genuino, ne acquisti di spuri. Per eliminare questi, occorre

i) Non mi ha persuaso del contrario il libriccino, ben intenzionato e chiaro ma insomma meschino, di P. Collomps, Oritique des textes, Parigi 1931» uscito mentre io giù attendevo al mio : cfr. Gnomon 8, 1932, 127 segg.

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PREFAZIONE

conoscere la composizione chimica dell’acqua di quegli affluenti e la natura geologica e chimica di quei terreni : fuor di me­ tafora, occorre conoscere le civiltà che su ogni tradizione hanno lasciato le loro impronte; occorre, dunque, dottrina storica. Ma a ricostruir l’originale, anche soltanto per mezzo di procedimenti recensori (ma io credo anche all’emendazione, la ritengo legittima e necessaria), è necessàrio sin da princi­ pio applicare il criterio della lectio difficilior e quello dell’usus scribendi (inteso questo in un senso larghissimo, che comprende anche, per esempio, osservanze prosodiche e ritmi­ che) ; è necessario cioè saper intendere, interpretare gli autori e conoscer bene le lingue antiche in genere, la lingua e lo stile di ciascun autore in particolare. Appunto perchè la critica del testo, intesa così, è una disci­ plina diffìcile, io non dubito menomamente che questo libro conterrà molti errori. Io dovevo, rifacendo il lavoro di nume­ rosissimi predecessori così come vorrei che i miei lettori ri­ facessero il mio, portar giudizio su innumerevoli passi di autori non tutti e forse neppure i più a me familiari. Avrò spesso sbagliato ; ma, se non mi fossi rassegnato sin da prin­ cipio a errare nei particolari, non avrei potuto mai finire ■quest’opera, non l’avrei, forse, neppur potuta incominciare. ■Credo fermamente eh’essa sia la prima del suo genere, o al­ meno la prima di qualche ampiezza ; confido che non sia l’ul­ tima : tali libri si scrivono nella speranza che siano presto su­ perati. Qualche errore e molte più lacune dipenderanno dalla mancanza di libri specialmente della prima metà del secolo XIX nelle biblioteche di Firenze. Esclusivamente a Firenze ho la­ vorato. Debbo riconoscere con animo grato che i direttori della Biblioteca Nazionale, di quella della mia Facoltà, della Tnranzinna,, della Marucelliana hanno gareggiato nell’aiutarmi largheggiando nel prestito, facendo venir libri di fuori o acquistandoli quand’era possibile; che l’istituto Archeolo­ gico Germanico di Roma, con una liberalità che io conosco fin da quando, trénta anni fa, ero studente, mi spedì opere che non avrei trovato altrove ; che mi procurarono in prestito li­ bri da Roma L. De Gregori, da Torino L. Ginzburg, da Halle C. Wendel. Senza l’aiuto degli ordinatori, distributori, cu­ stodi della nostra biblioteca di Facoltà, sempre solleciti a ri-

PREFAZIONI)

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cercarmi e a mettermi insieme i numerosi libri di cui avevo bisogno, avrei impiegato molto più tempo a finire il mio lavoro,, o forse avrei desistito dal proposito, per disperazione. Ma nes­ sun aiuto poteva cavar di sotto terra, per virtù d’incanto, libri che in Italia mancano; e non tutto le biblioteche stra­ niere mi potevano mandare in prestito, nonostante la buona volontà dei loro direttori. Che di opere uscite quando la stampa era già incominciata, io non abbia sempre potuto tener conto, che il mio libro qua e là in punti particolari rispecchi una situazione ormai su­ perata, perdonerà facilmente chi s’intenda di arte tipografica. La stampa è durata questa volta particolarmente a lungo, più di un anno, per colpa mia e delle mie occupazioni, non certo della tipografìa, quasi altrettanto sollecita quanto accurata'. E del resto devo dichiarare esplicitamente che non credo che particolari errati o comunque imperfetti alterino essenzial­ mente il quadro generale, del quale soltanto qui a me im­ porta. Sono forse peggiori degli errori le omissioni ? Io non ho voluto, perchè non potevo, èssere «completo». Ma posso con­ fessare qui senz’ambagi e senza vergogna che la mia scelta ha molto di arbitrario e per sin di casuale. Ogni lettore filologo deplorerà la mancanza di esempi particolarmente illustri e istruttivi, di esempi a lui particolarmente noti e cari. Mi serva di scusa l’ignoranza. Io non potevo indagare la tradizione di ogni testo trasmesso a noi dall’antichità greca e latina, sia perchè non sarebbe stato sufficiente quel poco di vita che mi rimane, sia per la deficienza dei sussidi (specialmente quanto agli scrittori greci). Così ho dovuto limitarmi agli esempi che mi porgeva la mia memoria, sorretta talvolta dal consiglio di amici. Ancor meno pavento un altro rimprovero, quello di avere « sconfinato », di avere trattato, non solo nell’ultimo capitolo, per opportunità metodiche ohe già più sopra, in questa stessa prefazione, ho cercato di chiarire, dei testi del Petrarca, del Boccaccio, di Marsilio da Padova, ma anche altrove di testi appartenenti al Medioevo, sia bizantino sia occidentale, del Bizantino Epifanio e, ripetutamente, della Regola di San Be­ nedetto, in un’appendice persino del Milione di Marco Polo. In

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primo luogo io sono convinto che almeno nelle scienze dello spirito non esistano discipline severamente delimitate, « scom­ partì», Facàer, ma solo problemi che devono essere spesso affrontati, contemporaneamente con metodi desunti dalle più varie discipline. Qui, in particolare, vale la considerazione che le condizioni di propagazione dei testi non sono essenzial­ mente mutate dalla tarda antichità per tutto il Medioevo sino alla diffusione dell’arte della stampa. Da ultimo, io sono fermamente convinto che questo libro di un filologo classico che non si vergogna della sua filologia, troverà risonanza an­ cor più tra medievalisti, romanisti, germanisti, storici, di­ plomatisti che tra filologi classici. A quelli io ho voluto mo­ strare in qualche esempio la sostanziale identità dei problemi testuali nostri e dei loro, convinto che essa apparirà in mag­ gior luce se a molti più testi medievali saranno estesi i metodi che nella filologia classica, sia pure imperfettamente appli­ cati, sono già in uso da più di un secolo. Qualcuno anche tra’ dotti che vanno per la maggiore, si chiederà o mi chiederà se valesse poi la pena di faticar tanto per disegnare metodicamente una disciplina di fini così mode­ sti, se mettesse conto di stillarsi il cervello per stabilire se anche in un grande scrittore sia vera, genuina piuttosto una paroletta che un’altra. Questo stato d’animo è diffuso tra noi : un romanista di larghi studi si meravigliava anni sono che si spendessero ancora danari per edizioni critiche. Uno studioso che ha fama di giudice sicuro (a me pare che quando deve giudicare di scrittori moderni per i quali manca ancora un giudizio canonico, talvolta sbalestri) concepiva stranamente le alterazioni insinuatesi man mano nel testo, non so bene se di Dante o del Petrarca, quali « il contributo dei secoli alla bel­ lezza dell’opera d’arte». Ma questi stessi critici si adirano se un loro articolo è pubblicato con errori di stampa, mostrano cioè per la prosa propria quella sensibilità che rifiutano di considerare legittima quando si rivolge a opere classiche. E naturale, perchè essi sentono direttamente lo stilè moderno e proprio, non l’antico ; ma questo sdegno basta a confutare la loro obiezione. Il Governo italiano è di parere diverso dal loro, se spende fior di denari per l’edizione nazionale di Dante, del Petrarca., del Foscolo, dei classici greci e romani. Da Carlo-

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magno (v. p. 120) in giù sono gli uomini d’azione quelli che sentono più il rispetto alla genuinità sia del documento, sia dell’opera d’arte. Qui potrei finire, se non mi volessi una volta tanto piegare a una consuetudine che, introdotta da grandi filologi del pas­ sato, è stata rinnovata da studiosi moderni : quella dei deca­ loghi. Io destino il mio libro, grosso com’è, alla lettura conti­ nuata : scolari miei di Firenze e di Pisa mi hanno assicurato di averne letto intieri capitoli non certo « come un romanzo » ma senza annoiarsi ; e io li conosco abbastanza bene per esser certo che essi non mi hanno voluto lusingare mentendo. Ma non ci sarà nulla di male, se io qui dinanzi al mio volume, non già per scansare ai pigri la fatica di leggerlo, ma per invo­ gliare qualcuno cui la mole fa paura, formulerò brevissima­ mente non certo norme, ma conclusioni generali che credo di aver raggiunto con perfetta sicurezza e che vorrei che qualun­ que studioso di tèsti antichi tenesse presenti. E anche poco male, se il decalogo riuscirà di dodici articoli. 1) Non sempre la tradizione medievale dei testi greci e latini risale a un archetipo esso stesso medievale o apparte­ nente al periodo più tardo dell’età antica, a un unico esem­ plare già sfigurato da errori e lacune. In rari casi i manoscritti risalgono recto, via all’originale dell’autore; più spesso essi proseguono, direttamente o indirettamente, varie edizioni an­ tiche. Si ritiene in generale che i dotti bizantini dèi IX se­ colo si siano presi molto di rado la briga di trascrivere un ma­ noscritto antico, maiuscolo, cioè capitale o più spesso onciale, introducendo la distinzione delle parole, corredando ciascuna di accènto, quelle che cominciavano con vocale anche di spi­ rito. Tale presunzione non vale per la tradizione latina, in cui accenti e spiriti mancano. Ma anche nella tradizione greca essa è talvolta smentita dai fatti. E nulla vieta in genere di sup­ porre che copie di un archetipo medievale siano state colla­ zionate, certo per lo più soltanto saltuariamente, con altri codici antichi che nè saranno stati subito distrutti, nè saranno scomparsi per incanto per virtù di quell’unico archetipo mi­ nuscolo.

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2) In Oriente l’età bizantina, in Occidente l’età carolin­ gia e il Rinascimento possedettero molti più manoscritti di classici tuttora conservati di quanto non si soglia supporre. Ancora il Cinquecento e il Seicento francesi e fiamminghi hanno sciupato, perduto, distrutto codici preziosissimi. Chi consideri questo, dovrà ritenere meno frequente che non si creda il caso di manoscritti che risalgano tutti a un archetipo conservato, ed esigerà prove più sicure che non si usi, per 1’ eliminatio codicum descriptorum. Nella prima metà del XIX secolo la dipendenza di un manoscritto più recente da uno più antico di simile tradizione era troppo spesso piuttosto presunta che dimostrata. Coincidenza in errori ovvi e in « trivializzazioni » non prova parentela. E in genere non prova parentela la coincidenza di diversi testimoni in lezioni genuine, perchè la lezione genuina si può essere conservata indipen­ dentemente in rami diversi della tradizione. In pari modo la glottologia si serve ormai, per classificare lingue derivate dal medesimo ceppo, soltanto di coincidenze nelle innovazioni. Ma converrà stabilire una distinzione tra codici greci e codici latini : di un’opera greca diffusa in Oriente è spesso giunto in Occidente un esemplare solo ; biblioteche claustrali ricche di codici si sono qui in Occidente perdute di rado senza lasciar traccia ; molti testi erano diffusi nel Medioevo latino in centinaia di esemplari, perché servivano all’uso scolastico. Si ha ogni ragione di presumere che la tradizione di autori la­ tini sia in genere meno ristretta di quella di autori greci.

3) Per le medesime ragioni nella tradizione di autori la­ tini è sempre probabile « a priori » che testimoni tardi dipen­ dano, totalmente o parzialmente, da fonti diverse da quella da cui sono discesi i testimoni più antichi. Un recentior non è per ciò solo un deterior. L’autorità di un testimonio è indi­ pendente dalla sua antichità. 4) Quel che qui si dice di manoscritti recenti vale nello stesso modo di collazioni umanistiche e di edizioni a stampa per le quali siano stati anche soltanto consultati codici ora perduti; tranne che specialmente quest’ultimo genere di te­ stimonianze esige particolari cautele metodiche e ingegno cri­ tico, qual è concesso soltanto a pochissimi tra i filologi.

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5) Alterazioni arbitrarie e persino falsificazioni conscie non bastano ancora a squalificare un manoscrittp recente, una collazione umanistica, un’edizione a stampa della quale non siano conservate tutte lfe fonti. Ohi, come il Lachmann, rifiuta di servirsi degli interpolati, rischia di lasciar perdere anche tradizione genuina. Anche a questo compito sono necessarie cautele speciali e doni di natura rarissimi. 6) È un pregiudizio credere che la tradizione degli autori antichi sia sempre meccanica; meccanica è solo dove l’ama­ nuense si rassegna a non intendere. Numerose età e numerose cérehie non si sono rassegnate a lasciare il testo quale lo ave­ vano ricevuto, ma lo hanno reso più chiaro, adattato al pro­ prio gusto, abbellito. Da questa verità deve trar profitto non soltanto la recensio ma anche 1’emendatio : la congettura pa­ leograficamente più facilfe non è in testi trasmessi non mecca­ nicamente quasi mai la più probabile. Quanto alla recensio, solo nei casi, relativamente rari, di tradizione meccanica è possibile, se i nostri codici risalgono a un archetipo, appli­ care i criteri, essi stessi meccanici, della recensione chiusa, formulati dal Lachmann ; dove la recensione è aperta, valgono solo criteri interni. 7) È un pregiudizio credere che la trasmissione dei testi sia unicamente «verticale»; essa è spesso, e in testi molto letti e in testi propriamente scolastici si potrebbe dir sempre, « trasversale » o « orizzontale » ; vale a dire varianti buone o cattive, anche errori che a noi parrebbero evidenti, penetrano spesso nei manoscritti per collazioni. Solo le lacune sono, al­ meno di regola, trasmesse direttamente.

8) Come nella linguistica è ormai pacifico che gli stadi più antichi si conservano più a lungo in zone periferiche, e che quindi coincidenza di due zone periferiche lontane l’una dall’altra in un fonema, una forma, un vocabolo, un costrutto garantisce la loro antichità, così anche coincidenza di lezione in codici scritti in zone lontane dal centro della cultura e lontane tra loro costituisce una presunzione per la genuinità di questa lezione. Spesso di testi molto letti sia nell’antichità, sia nel Medioevo, si è formata una vulgata che, come suole la moda, progrediva da un centro verso la periferia, ma non

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sempre la raggiungeva. Questo «metodo geografico» è pur troppo di rado applicabile alla tradizione greca, perchè non sappiamo ancora distinguere scritture provinciali ; esso è pa­ ralizzato in Occidente dalle relazioni vive tra conventi di re­ gioni diverse ma appartenenti al medesimo ordine. Qui al « metodo geografico » si sostituisce il «criterio geografico », che tenta di districare il complicato sviluppo di tali relazioni tra convento e convento. L’applicazione di esso sarà tanto più facile e tanto più sicura quanto più progredirà la storia della cultura ecclesiastica (cioè della cultura in genere) dell’Alto Medioevo. 9) Le varianti, anche erronee, possono essere molto più antiche dei manoscritti che le presentano, anche se questi si possono dimostrare derivati tutti da un archetipo conservato persino medievale. Archetipi medievali possono aver conte­ nuto varianti alternative, come già ne presentano i papiri, e vanno in tal caso considerati come bacini di raccolta di tali varianti. Varianti possono anche, come abbiamo veduto, essere penetrate in copie singole dell’archetipo per collazione con ma­ noscritti da esso indipendenti. Più comune ancora è il caso, giè considerato, che le famiglie di manoscritti medievali prose­ guano (o contaminino) più edizioni antiche. 10) I papiri per la tradizione greca, le citazioni antiche per la latina mostrano che già nell’antichità per autori molto letti ogni esemplare rappresenta in qualche modo un’edizione particolare, cioè una miscela ogni volta variamente graduata di varianti preesistenti, genuine e spurie. Già nell’antichità era cominciato il processo di contaminazione, di conguaglia­ mento fra tradizioni diverse, il processo che talvolta sbocca nella formazione di una «vulgata». Tali condizioni spiegano come papiri che restituiscono in un punto la lezione genuina oscurata nella tradizione medievale, coincidano poi con rami e ramoscelli di essa in corruttele particolari. 11) Non vi sono esempi certi di archetipi appartenenti ancora all’antichità per la tradizione greca ; per la tradizione latina non pare che tali archetipi possano esser negati. Essi apparterranno agli anni che tengon subito dietro al periodo più

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turbolento insieme e più squallido dell’età imperiale, quello tra la caduta dei Severi e la fondazione del dominato, 235-284. 12) Lo studio delle testimonianze antiche e di pochi pa­ piri autografi, l’analisi di opere storiche (o contenenti accenni storici) conservate in forma diversa in diversi manoscritti, l’analogia di testi medievali per i quali possediamo una tradi­ zione contemporanea agli autori, specialmente dei testi del Pe­ trarca e del Boccaccio, legittimano l’ipotesi Ohe varianti di natura particolarissima (un gruppo molto interessante for­ mano le varianti in nome proprio vero o fittizio) possano an­ che in opere dell’antichità essere ricondotte agli autori me­ desimi. In alcuni casi quest’ipotesi può essere dimostrata ri­ gorosamente.

A me resta ora il grato ufficio di ringraziare tutti coloro che mi aiutarono nel lavoro per questo libro. Dei meriti verso esso e me di V. Rossi, di G. Vandelli, di bibliotecari e im­ piegati di biblioteche di Firenze e di fuori Firenze ho già detto sopra. A molti più, Italiani e stranieri, dovrei una pa­ rola di ringraziamento per avermi spedito opuscoli ed estratti loro che altrimenti mi sarebbero rimasti ignoti o inaccessibili. Di problemi particolari ho discorso spesso con i miei colleghi romanisti M. Barbi, M. Casella, G. Mazzoni. Hanno richia­ mato la mia attenzione su autori e tradizioni che mi erano sfuggiti D. De Bruyne, Ed. Fraenkel, H. Frankel, P. Frac­ caro, P. Maas, quello stesso P. Maas che mi ha dato l’occa­ sione e la spinta al presente lavoro. Ma più di tutti mi ha beneficato il mio vecchio amico L. Castiglioni, non disde­ gnando pur tra le molte sue occupazioni di leggere nelle bozze di stampa tutto il libro, e corredandolo di osservazioni preziose, dalle quali ho tratto quanto più profitto potevo. Gran parte delle bozze stesse ha letto un altro mio amico, il coltissimo pittore M. Bocchelli; tratti vari sia delle bozze in colonna sia dell’impaginato hanno letto successivamente i miei scolari V. Cajoli, G. Clapis, A. Ronconi, A. Tenca. Gl’indici sono fatica intelligente del mio scolaro G. Ugolini, cui mi lega da ormai quindici anni un’amicizia che non è stata mai turbata.

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Perchè io abbia voluto che la mia opera fosse dedicata ad Ed. Schwartz, resulta dal libro stesso : egli, pur senza preoccu­ parsi di dare una teoria generale, è stato il pioniere della nuova critica testuale : la sua edizione della Storia Ecclesia­ stica di Eusebio rimarrà, per tal genere di indagini, para­ digmatica. Ma anche se non fosse così, io avrei voluto consa­ crare un libro al maestro tedesco che mi si mostrò benevolo fin da quando, venticinqu’anni fa, io fui suo scolaro a Got­ tinga; soltanto per un semestre, ma quel semestre fu indi­ menticabile. È congiunto con lui sul foglio di dedica il dotto che, ritirandosi in età ancor fresca, mi volle suo successore sulla cattedra fiorentina, G. Vitelli : a lui io, quale uomo e quale studioso, devo tanto quanto a nessun altro. E gli auguro di tutto cuore che possa continuare per anni a produrre con freschezza giovanile, come fa tuttora, come fa ora a quasi ottantacinqu’anni forse più di prima. In lui io venero il mag­ gior conoscitore di poesia greca fra tutti i viventi.

* * * Un mio maestro ha scritto: «Non si dovrebbe propria­ mente mai ripubblicare un libro costituito soltanto di ricerche. Chè l’autore ha altro da fare che ricominciare daccapo le ricerche terminate tanti anni prima, e tuttavia non può nè passare sotto silenzio l’indagine che ha progredito per la stes­ sa via, nè nascondere ciò che si è mutato nelle sue vedute. Così deve per forza venir fuori qualcosa che è per metà vec­ chio e per metà nuovo, e il nuovo libro, almeno in quanto libro, riuscirà inferiore al vecchio ». Tuttavia il Leo si indusse non certo a rifare ma ad aggiornare le Plautinischc Forschungen. Io presento qui soltanto una ristampa anastatica del mio volume del 1934, esaurito da tempo e richiesto particolarmente da studiosi giovani, non soltanto, se pur prevalentemente, connazionali, che non avevano fatto a tempo a procurarselo quando uscì la prima volta, o cui allora non potevano per l’età neppur balenare siffatti problemi; anastatica, ma emendata e soprattutto accresciuta, come spiegherò di qui a poco.

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Mi pare di poter asserire senza taccia di'vanità che il libro ebbe successo, come testimonia non soltanto lo smercio. Certi termini, o coniati da me, o da me adoprati sistematicamente come sino allora non si era ancor fatto, per esempio trasmis­ sione orizzontale e trasversale, recensione chiusa e recensione aperta, si sono tanto diffusi, e non solamente tra filologi clas­ sici, che chi li adopra spesso ignora donde gli provengano. Io prevedevo già allora (pag. xiv) che la mia trattazione avreb­ be trovato risonanza ancor più tra medievalisti, romanisti, germanisti, storici, diplomatisti che tra filologi classici, e quanto almeno a medievalisti e romanisti, particolarmente a quella specie di romanisti che si chiama italianisti, sono lieto di non essermi ingannato. Mi sento di poter dire che le inda­ gini testuali degli Spongano, Caretti, Folena, e nomino tre dotti coi quali sono stato e sono in stretta relazione d’amicizia, senza quel libro sarebbero forse state, ma presenterebbero un aspetto un po’ diverso. Se non erro, anche nella filologia clas­ sica lavori di storia del testo sono in questi ultimi anni cre­ sciuti di numero e specialmente di consapevolezza metodica. Particolarmente que’ dodici princìpi che formulavo nella pre­ fazione originaria quasi come conclusione delle mie indagini, paiono accettati non dirò universalmente, ma da molti e mólti studiosi, paiono a molti e molti esser penetrati nel sangue. Anzi mi sarà lecito confessare che del principio che non a caso avevo collocato ultimo dei dodici, la possibilità di varianti d’autore, sembra a me si sia, particolarmente da classicisti intelligenti e ingegnosi ma senza intimità con la tradizione, abusato an­ che là dove le condizioni della tradizione non consentivano di usarlo legittimamente. E proprio qui già io stesso avevo pro­ babilmente ecceduto : così forse per Marziale e Giovenale, fors’anche per Lucano. Tradizioni così ricche, così vicine (o talvolta identiche) agli originali, così autentiche, come quelle di certi scritti del Petrarca e del Boccaccio, anche del Parini e del Foscolo, suscitano problemi di tal genere che sarebbe temerario porli a manoscritti disgiunti dall’originale da inter­ valli di secoli e secoli. Qui l’apparato non mira a fornire mate­ riali per la ricostruzione di un originale, ma a porre sott’oc­ chio diversi originali successivi o un originale nei suoi stadi successivi : elaborerà questa differenza in un articoletto teo-

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retico Lanfranco Caretti. Per gli antichi invece io temo che la mia opera abbia per questo rispetto più ancora nociuto che giovato, e sento il dovere di ammonire principianti, anche principianti annosi, fyi/ia&eie di tale filologia, a essere cauti. Un libro invecchia tanto più rapidamente quanto maggior influsso esso ha esercitato sugli studi : è impossibile che dotti acuti e diligenti, riprendendo in mano ciascuno una delle molte questioni da me presentate, non abbiano quasi sempre superato, spesso corretto, talvolta anche confutato la mia trat­ tazione. Aggiungi errori miei, necessariamente numerosi, dei quali mi sono accorto da me : in quel libro non potevo, se vo­ levo finire, se volevo giungere a conclusioni, cioè fornir lavoro utile, non potevo lavorar sempre di prima mano. Se rifacessi quel libro, dovrei in primo luogo tener conto degli insigni lavori che al Petrarca, quale a un nodo della nostra tradizione di classici latini, ha consacrato e va tuttora consacrando il miglior conoscitore di questi problemi, Giuseppe Billanovich (quando sarà egli restituito alla patria e acquistato all’inse­ gnamento superiore italiano?) ; e non meno, delle ricerche che sulla storia delle interpolazioni nella trasmissione delle lette­ rature greca e latina ha già presentate, e va tuttora conti­ nuando, l’amico con il quale sono congiunto negli studi fin da quando eravamo giovanissimi, già dal comune semestre di Got­ tinga, Gunther Jachmann. Più insigni tra le insigni le me­ morie sul testo di Omero e di Platone ; e poco importa se an­ che qui non mi sentirei di consentire alla sua soluzione per ogni singolo passo, ma affratellati rimangono i nostri studi, come fraterni erano, sono, divengono sempre più gli animi. Ma quel libro non posso ora rifare, mentre l’editore insiste per ristamparlo. Tuttavia non ho voluto che il lettore vecchio o nuovo non trovasse qui qualcosa di nuovo; ho emendato dunque la stereotipia, dovunque potevo, da errori di stampa o di cifre che avevo osservato o che mi erano stati fatti osser­ vare, e ho corretto nell’errata corrige due sviste più vergo­ gnose. Ho aggiunto tre appendici : la prima fu originaria­ mente una recensione al libretto utile e intelligente di Alan Dain, scritta in tedesco per il Gnomon (23, 1951, 233 sgg.) : la versione italiana è di Sebastiano Timpanaro. Particolar­ mente mi ha colpito l’ipotesi che già sullo scorcio dell’anti-

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chità, nel terzo secolo, in connessione con il trapasso dal rotolo al codice, si fosse formata una minuscola primitiva, che si sa­ rebbe svolta ininterrottamente sino ad Alcuino : ne consegue che una translitterazione generale di codici antichi al tempo di Carlomagno non ci sarebbe stata, o almeno non è neces­ sario ci sia stata : questo in opposizione alla tradizione greca. Ma che le due tradizioni non fossero parallele, avevo già accennato chiaramente e ripetutamente nel mio libro. An­ cora : il Dain crede che durante il cosiddetto Rinascimento bizantino, all’epoca di Fozio, molti manoscritti fossero con­ trollati, regolati su esemplari depositati in grandi biblioteche di Costantinopoli, così come nell’età alessandrina esemplari per esempio di Omero erano stati regolati sulle èxdóaeig del Museo. Io non so ancora se questa ipotesi regga : cercherò* di farla verificare da miei scolari non impari al compito. Al secondo posto ristampo qui, quasi raddoppiato, un mio articol'etto su «Congettura e probabilità diplomatica», che apparve per la prima volta negli Annali della Scuola Nor­ male di Pisa (17, 1948, 220-23). Qui cerco di mostrare che anche scritti moderni, specialmente articoli pubblicati in pe­ riodici o quotidiani che non mandano bozze all’autore, si corrompono, prima meccanicamente, poi per opera di corret­ tori o redattori, i quali notano la corruttela, ma non restitui­ scono il testo originario, e invece la curano con congetture errate, cioè interpolazioni, sì da rendere irricostruibile l’ori­ ginale. A me importa qui l’analogia colle condizioni antiche. La terza appendice è versione italiana, questa volta mia, di quei « Schicksale der antikcn Literatur in Byzanz » di Paul Maas, die apparvero già quale appendice alla terza edizione (1927) del Gercke-Norden, 3, 183, ma che non ebbero molta dif­ fusione, consistendo di un foglietto staccato di quattro pa­ gine, con numerazione particolare, destinato immancabilmente a perdersi prima che il libro fosse rilegato. L’articolo è stato rielaborato, aggiornato, raddoppiato dall’autore per il pre­ sente volume. Chiudono il libro, ed è complemento quanto faticoso, altrettanto utile, anzi necessario alla consultazione, tre nuovi indici elaborati da Onorio Lelli. Memore del monito del Leo se mi sono talvolta proposto

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prefazione;

di rifare il volume, più spesso ho promesso, e riprometto qui so­ lennemente, di pubblicare un libriccino nel quale correggerò quegli errori che la stereotipia non mi consentiva di emendare, s’intende errori, i più, non di stampa. Aggiornerò le questioni che più mi stanno a cuore, segnando come esse abbiano pro­ gredito dopo il mio libro, e aggiungerò trattazioni di problemi affini. Meno che mai rispetterò il confine, anzi la muraglia cinese, che serra e soffoca la filologia classica. Non tutti i saggi saranno miei : mi hanno promesso la loro collaborazione spe­ cialisti di varie specialità ; io confido che manterranno la pa­ rola, quantunque mi crucci di vedermi ogni volta chiedere rimandi. Un ringraziamento per la sua infinita pazienza e indul­ genza spetta al direttore della Casa editrice Le Monnier, Vieri Paoletti, che continua così quell’amicizia che mi legava a suo padre, l’indimenticabile Armando. Firenze, 10 giugno 1952.

Giorgio Pasquali.

I. IL METODO DEL LAOHMANN.

H commento a Lucrezio fu pubblicato nel 1850, quando il Lachmann aveva già cinquantasett’anni, soltanto un anno prima della sua morte : qui il filologo principe, riconosciuto tale concorde­ mente dai contemporanei, espone concisamente il suo metodo sen­ z’ombra di polemica. Certo, giudizi duri non mancano ; ma si sente subito ch’egli li profferisco dall’alto della cattedra, di là dove non ginngono miserie umane, mentre polemizzare non si può se non con i propri pari. Anche lo Btile è quello di un uomo che non ha bi­ sogno di alzar la voce, perchè sa che, anche se parla piano, gli ascol­ tatori tenderanno l’orecchio per non perder nulla del discorso. Per­ fino di un termine, in questo senso, nuovo, necessario e felice, ar­ chetipo, egli non fa pompa : ne UBa prima come di sfuggita ; subito dopo in una parentesi confessa, con modestia apparento, oh’ è sua abitudine dir così : id exemplar ceterorum arohetypon (ita appellare solco).... Qui il Lachmann è ormai fuori della mischia : egli sento di parlare specialmente- per i posteri. La prefazione al Properzio, pubblicata nel 1816, è datata Got­ tinga 1815 : il Lachmann, ventiduenne, dice chiaro che cosa egli qui combatte : il sistema, ancora consueto al suo tempo1), di ri­ pubblicare un autore, prendendo a fondamento, cioè per lo più mandando in stamperia, un’edizione autorevole, ma mutandola, nel testo o sotto, dovunque un codice noto all’editore presentava Una lezione più seducente. H Lachmann si accorse che questa era la via dell’abisso: le lezioni seducenti potevano sempre essere, saranno per lo più state congetture, tanto più che gli editori tedeschi non avevano spesso a disposizione se non copie tarde di manoscritti ita­ liani, umanistici i più e sciaguratamente interpolati. Quest’origine del metodo del Lachmann da una reazione spiega x) Lo seguono anche dopo il Lachmann Bino a oggi alcuni editori inglesi e americani, da qualche anno in qua purtroppo anche certi italiani, come mostrano alcuni tra i più antichi volumi del nuovo corpus paraviarnim, pubblicati quand’esso non era retto dall’energia metodica di Luigi Castigiróni : un insegnante medio confinato in una città picoola, diciamo Lucca, non sapeva di qual nuovo contributo fregiare l’edizione di cui era incari­ cato, poniamo delle Metamorfosi ; andava in biblioteca e immancabilmente scovava un codice. Questo diventava necessariamente di grande impor­ tanza, e se l’editore fosse vissuto a Bergamo invece che a Lucca, importante sarebbe stato il codice di Bergamo. Ma il malvezzo già passa.

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CAPITOLO PRIMO

certe particoiarita eiie gu sono rimaste attaccate sino nella sua forma più elaborata, nella prefazione al Lucrezio. Il Lachmann, uomo di giudizio perspicace e che nel proprio giudizio, ogniqualvolta doveva emendare un testo, correggerlo per congettura, aveva fiducia, diffida invece e sparla del iudicium, ogniqualvolta esso deve servire a sce­ gliere tra due lezioni testimoniate. DLfronte all’abuso rovinoso della critica soggettava (« questa , lezione mi pare più elegante di quest’altra ») egli va jn cerca di criteri che siano oggettivi, e die quindi si possano seguire con rigore. H rigore diventa talvolta meccanico. « H tal codice presenta interpolazioni evidenti : dunque non gli si può credere neppure nel resto, perchè nessuno garantisce che le lezioni che esso offre, per quanto possibili in sè, siano genuine ». Al criterio del valore della lezione singola si sostituisce quello della credibilità della testimonianza. Questo procedimento contiene in sè una rinunzia e insieme una semplificazione. H Lachmann rinunzia già in principio e ancor più nella pratica a esaminare tutta la tradizione manoscritta del suo autore. Sui codici umanistici pesa per lui, sino a prova contraria, il sospetto della interpolazione. A che, dunque, darsi da fare per raccogliere lezioni che in ogni caso si dovranno considerare sospette e quindi a priori scartare) Questo procedimento-è, a rigore, errato ; errato perchè incauto : non si può mai escludere la possibilità che un codice sconosciuto, anche recentissimo, sia copia di un mano­ scritto che conteneva il testo in forma più genuina di tutti quelli sinora noti. Ma bisogna anche dire che per testi poco o punto letti nel Medioevo, quali i poeti latini pubblicati dal Lachmann, Pro­ perzio e meglio ancora Catullo e Lucrezio, questa, probabilità si pa­ lesava già allora minima1). E d’altra parte, se il Lachmann non si fosse per Properzio limitato ad adoperare il codice della vicina Wolfenbtìttel, messo a sua disposizione a Gottinga, il quale è veramente superiore a ogni altro, e a servirsi inoltre solo di un rappresentante scelto un po’ a caso dal resto della tradizione, egli, giovane venti­ cinquenne, legato alla sua università, non avrebbe probabilmente compiuto nè presto nè mai l’opera sua. Lo stesso vale pel Catullo e, sino a un certo segno, anche per il Lucrezio. In molti casi è an­ cora vero che la metà è più dell’ intero. Allora un viaggio in Italia era infinitamente più disagiato e più costoso che ora ; in compenso esso probabilmente non avrebbe approdato a nulla. Le nostre biblioteche erano irragionevolmente gelose dei Ioto tesori, come ora non sono : esservi ammessi a lavorare, non era facile ; gli orari di apertura, dove c’erano, dovevano essere piuttosto ristretti. Cataloghi a stampa, pochi ; gli indici manoscritti, 1) Che il Lachmann aveva davvero fatto questa riflessione, sappiamo dà una testimonianza di M. Haupt, presso Belgor, Moritz Haupt als akademischer Lekrer (Berlino, 1879), p. 121.

IL METODO DEL LACHMANN

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incompleti, e spesso non era permesso consultarli : un mio vecchio amico tedesco ha conosciuto ancora un prefetto della Vaticana, che, quando gli si chiedeva se quella biblioteca possedesse manoscritti di un dato autore, guardava lui nel catalogo, ma, poco pratico delle lettere greche, lo afferrava spesso alla rovescia. Convien dire che per i cataloghi di codici latini si sta ancor male in tutto il mondo, ma soprattutto in Italia. Ne ha colpa non neghittosità di uomini, ma la ricchezza e l’antichità della nostra cultura europea e italiana. I codici latini formano nelle nostre biblioteche anche minori masse enormi : che cosa non è codice latino dai frammenti virgiliani della Laurenziana e della Vaticana sino agli appunti messi insieme da un gesuita del XVIII secolo per il suo corso di logica ? - Da questa limitazione, volontaria insieme e necessaria, del Lachmann deriva un’altra lacuna ch’egli non ha riempito neppure più tardi. Un’operazione alla quale noi filologi più recenti sogliamo attribuire un’ importanza particolare, l’eliminatio codicum descripto­ rum, l’eliminazione delle copie di manoscritti conservati, egli non ha avuto, che io sappia, occasione nè di praticare nè di trattare teoricamente. Anche questo è naturale : poiché della tradizione più recente egli sceglieva di regola pochi rappresentanti, non era proba­ bile che questi fossero legati da vincoli di discendenza diretta. Anche qui poco male sia per Properzio, sia specialmente per Catullo e Lu­ crezio : in questo i codici umanistici hanno parte secondaria nella ricostruzione dell’archetipo, in quello esso è così vicino1), che è quasi indifferente se per ricostruirlo ci si giovi di una copia piuttosto che di un’altra2).

* * * C’ è di più. Il metodo esposto nel modo più completo e nella forma più didascalica nella prefazione al commento a Lucrezio è per la comune dei filologi senz’altro il « metodo del Lachmann ». Ma il Lachmann, uomo d’ingegno superiore e, come tale, pochis­ simo proclive a farsi ripetitore meccanico delle proprie formule e sempre pronto a riconoscere l’individualità di ciascun problema, aveva un’altra volta affrontato un testo di tradizione diversa, ben più antica e ben più larga, il Nuovo Testamento greco, con tutt’altri J) Che a Verona, e solo a Verona in tutto il mondo medioevale, ci fos­ sero due codici di Catullo indipendenti tra loro, non mi so ancora indurre a credere, nonostante Lenchantin, Il libro Catullo Veronese (Torino, 1928), p. xlv. 2) Qui per vero il Lachmann non ebbe la mano molto felice nella scelta dei codici fondamentali : i due manoscritti da lui prediletti sono, pare, fortemente interpolati (vedi da ultimo, per il codice D, Lenchantin, p. l), ma essi erano per il Lachmann comodi, perch’erano andati a finire a Berlino.

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CAriTOLO PRIMO

metodi; e anche di questi metodi, se non data una teoria didattica, aveva per lo meno reso conto con chiarezza e ampiezza perfetta­ mente sufficienti1). Qui dov’era insieme possibile e utile, egli-scrive per sommi capi la storia elei suo testo, inquadrandola nella storia della coltura, in questo caso della cultura e dell’uso ecclesiastico. Qui, dove i manoscritti antichi abbondano e possono essere control­ lati a ogni passo con la tradizione indiretta, il Lachmann non parla più di corruttela meccanica, non ragiona più con il criterio della pro­ babilità paleografica. Qui le varie forme del testo sono identificate con l’uso delle varie provincia ecclesiastiche, in conformità di due passi di Girolamo che attestano, come la Bibbia, e non Bolo il Vec­ chio Testamento, corresse ai Buoi tempi in tre recensioni differenti, delle quali l’una era in uso in Egitto, l’altra a Costantinopoli e in Anatolia, un’altra in Palestina, e di ognuna delle quali bì identifi­ cava ’o si credeva d’identificare 1’auctor. Qui è presentata una teo­ ria « locale » del testo della Bibbia greca, e si sfruttano per la localiz­ zazione le antiche traduzioni (il Lachmann si servì per allora solo della latina). Che importa di fronte alla fecondità del principio, se ora un esame ben più largo dei codici dell’originale e delle versioni (quale è consentito dalle condizioni migliori dei trasporti, dalla fotografia bianco su nero e anche dalla maggior liberalità delle biblioteche, che incominciano finalmente ad accorgersi che i loro tesori non si svalutano per essere conosciuti e riprodotti) mostra che la storia del testo del Nuovo Testamento greco è parecchio più complicata di quel che il Lachmann non credesse f Se ora dobbiamo forse con­ venire che delle grandi recensioni nominate da Girolamo è ricostrui­ bile esattamente solo una, quella detta alessandrina o (dal nome delTauetor) esichiana, e oltre.a questa solo la recensione che divenne dominante nella chiesa bizantina, e che gli altri testi si possono sì aggruppare variamente, ma non ricondurre con sicurezza a una re­ censione unica *) 1 Se ora siamo costretti a supporre che Girolamo x) Appunto Rechenschaft ùber Laohmanns Ausgabe des Neuen Testamenta si intitola un articolo del ’30, ristampato ora nelle Kleinere Schriften, n (Berlino, 1876), p. 250 sgg., ma molto più ricche appaiono le considera­ zioni nella prefazione al primo volume del Novum Testamentum grasce et latine (Berlino, Reiiner, 1842). Io adopro questo libro in un esemplare della biblioteca Universitaria di Halle, resomi accessibile dalla cortesia del diret­ tore, C. Wendel. L’edizione in dodicesimo del ’31 è trascurabile per i no­ stri fini. 2) Almeno secondo Hans von Soden, Gnomon, VI, 1930, 204 sgg. Diversamente A. Vacuari, nella lucida esposizione in Enciclopedia italiana, VI, 889 sgg. Egli distingue quattro famiglie : una nata, pare, ad Antiochia verso il principio del IV secolo, giunta presto a Costantinopoli e di lì diff u­ sasi per tutto l’impero bizantino. Essa presenta un testo morfologicamente

IL METODO DEL LACHMANN

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abbia ritenuto poco importanti, perchè poco diffuse, e abbia quindi passato Botto silenzio altre forme, forme più antiche dalle quali quelle tre erano sorte, ma che, come erano servite di fondamento alle antiche versioni, così seguitarono poi a essere copiate, sicché ne abbiamo ancora esemplari nei nostri codici ? Importa il principio « locale », importa il concetto della tradi­ zione, che si rivela qui molto più adeguato alla complicatezza di essa che negli altri lavori critici del Lachmann : questi mostra qui, per esempio (p. xm), di saper molto bene che esemplari copiati da un manoscritto furono in ogni tempo, tranne forse nei più bar­ bari, riconfrontati con altra tradizione : così qui parecchi dei codici della versione latina sarebbero stati ricorretti di su esemplari greci di altri gruppi. E importa soprattutto la squisitezza di certi canoni critici che sembra precorrere i tempi : il Lachmann ha osservato che innovazioni vittoriose si irradiano per lo più da un centro verso la periferia e non sempre giungono a toccarla, sicché se una lezione è attestata in due punti, rispetto al centro, periferici, essa ha molta probabilità dì essere l’originaria non ancora sopraffatta dall’ inno­ vazione : egli scrive (p. vm) : « porro maius in testium ex diversis più corrotto, sintatticamente più preciso e più chiaro, stilisticamente più fluido : dunque una « vulgata » migliorata arbitràriamente per avvicinarla all’uso classico. Al polo opposto è una piccola famiglia, distinta per dicitura più popolare, per morfologia e sintassi più vicina ai documenti ohe le sco­ perte moderne hanno trovato nei papiri ; per l’immunità da almeno alcune delle contaminazioni armonistiche di un Vangelo con l’altro ; per omis­ sione di allargamenti inutili : in essa manca anche la fine di Marco (XVI, 0-20) e la pericope dell’adultera in Giovanni (VII, 63-Vili, 11). Questa famiglia, la più autentica, risalo ad Alessandria. Fin qui l’accordo con la testimonianza di Girolamo è perfetto. Ma il Vaccari ammette che a mezza via tra le due famiglie ce ne siano altre due : una poco numerosa ma impor­ tante, costituita dal celebre codex graecolniinus Bezae, che otu è a Cambridge, e da manoscritti della antiche versioni lutine pregeronimiane, conservati ora per lo più in biblioteche dell’Alt’ Italia : questa redazione, la cosiddetta « occidentale », è spesso spalleggiata dalla versione siriaca. Caratteristici di essa sono da una parto allargamenti parafrastici e aggiunte di fatti o cir­ costanze singolari e miracolose, dall’altra piccole omissioni significative. L’altra famiglia lia in comune con questa le parafrasi e l'armoni6tica, mi presenta lezioni proprie : purtroppo ognuno dei suoi rappresentanti porta tracco di contaminazione con manoscritti di altro tipo. I più dei manoscritti di questa famiglia sono stati scritti nell' Italia Meridionale tra il secolo X o il XII (gruppo Ferrar) ; si aggiunge un manoscritto di Koridethi nel Cau­ caso e il purpureo scritto per Teodora, moglie dell’ imperatore bizantino Teofilo (842-850). Hermann von Soden comprendeva queste due famiglie in­ sieme con altri tipi minori in una « forma ■ che chiamava gerosolimitana, ma ohe ora si localizza piuttosto in Cesarea di Palestina.

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CAPITOLO PRIMO

regionibus coactorum concordia firmamentum est quam ab aliquot popularibus vel neglegentia vel quasi compacto ab illis discedentibus periculum », se pure aggiunge cautamente : « sed ancipitia sunt te­ stimonia, cum longinquorum testium consensus aliorum item locis disiunctorum in diversa testificatione consensu elevatur ». Il cri­ terio qui enunciato è quello che i neolinguiati hanno introdotto da qualche anno nella loro disciplina e chiamano il criterio dèlia « fase conservata in aree laterali»1* ). Il riscontro non è fortuito : quel criterio si scopre di necessità, appena si introduce quale risolutiva la considerazione geografica in discipline che sino allora non la co­ noscevano, nell’un caso la linguistica, nell’altro la diplomatica. Ora come mai la prefazione al Nuovo testamento, tanto più ricca di quella al Lucrezio, è rimasta ignota ai filologi sino, si può dire, a oggi8)) La colpa di quest’ignoranza è, credo, tutta della specializzazione. La metà del secolo XTX fu il tempo dei classicisti puri e dei latinisti puri : chi_si-occupava di Catullo, sdegnava di leggere e studiare il Nuovo Testamento. E d’altra parte i teologi, anche quelli protestanti, non avevano interesse per le quisquilie della storia dei testi. Tutto questo è una prova di più che nella filo­ logia là specializzazione non può che nuocere. * **

La prefazione del Lachmann al Nuovo Testamento è secondo noi più feconda che quella a Lucrezio ; originale essa è molto meno. Assolutamente nuovo è il criterio delle aree laterali ; tutto il resto è sistematizzazione di principi e procedimenti già allora non ignoti ai migliori critici del Nuovo Testamento. Sempre per colpa della maledetta specializzazione gli storici della filologia, anche quelli di maggiore levatura, non sembrano essersi accorti che i metodi più raffinati e più moderni della critica testuale hanno la loro radice in studi di. pii teologi protestantLdel secolo XVIII ; che quanto alla recensio la philologia profana, dove non applica il metodo meccanico del Lachmann a tradizioni, meccaniche o no, è ancor sempre, senza saperlo, tributaria della philologia sacra. È naturale e necessario sia così : nessun altro testo greco è tramandato così riccamente e così credibilmente come il Nuovo Testamento ; e nessun altro scritto importava più ricostruire nella forma autentica, originale quanto la « parola di Dio ». Gli uomini che a questo fine dedicarono la vita, 1) M. Bartoli, Introduzione alla neolinguistioa (Ginevra, 1925), p. 6 sgg. s) Il sommario che di queste pagine dà il Bnraian nella sua nota Geschiohte der klaasteohen Philologie (Monaco, 1883), p. 789, mostra che egli le ha lette si, ma senza capirle : tutto quello che in esse è caratteristico,

è soppresso !

IL METODO DEL LACHMANN

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dovettero possedere non solo potenza d’ingegno ma anche forza d’animo non comune : le chiese riformate avevano canonizzato il testo, fondato su codici di poco valore, che del Nuovo Testamento aveva dato Erasmo di Rotterdam, e vigilavano l’integrità di esso con cura ancora maggiore e ancora più sospettosa che non i cattolici quello dell’edizione Sistina della Vulgata. Anche s’intende che sia stato cosi : per la Riforma, diversamente che per il cattolicismo, il libro sacro è l’unica fonte di verità, ed è insieme, ben altrimenti che nel cattolicismo, runica lettura di tutto il. popolo. Ohe avverrà, se la certezza prima, quella dalla quale sgorgano tutte le altre, di* verrà incertat Ohi, spinto da senso storico e insieme animato da una più alta religiosità, la quale sapeva distinguere lo spirito dalla lettera, aveva il coraggio di combattere contro questo pregiudizio, si esponeva consapevolmente a perdere l’ufficio, cioè troppo spesso il pane e la patria, come capitò proprio a uno di questi neotestamen* tari più benemeriti, il basilese Giovanni Giacomo Wettstein (16931.754)1). Le scoperte maggiori anche nel campo così tecnico della critica testuale sono per lo più opera di magnanimi. Il principio locale è, in conformità con Girolamo, asserito chia­ ramente già nel 1737 dal pastore svevo Giovanni Alberto Bengel2) : « totum genus documentorum ex quibus variae lectiones colliguntur et deciduntur, in duas quasi nationes distrahitur, Asiaticam et Afri­ canam » : l’africana è quella eh* è detta più tardi alessandrina ; l’asiatica corrisponde grosso modo alla bizantina. Giovanni Salomone Semler, professore in Halle, in una pubblicazione del 1765 sostituì a nationes il termine eh’ è ancor oggi in uso, recensiones : egli distinse non più due, ma tre di queste recensiones : l’alessandrina, l’orientale o antiocheno-costantinopolitana, e l’occidentale. Già nel 1734 il Bengel aveva dichiarato che un’edizione perfetta del Nuovo Testamento supponeva una classificazione dei codici secondo le loro relazioni genealogiche, come diremmo noi uno « stemma » (egli parla di tabula genealogica) : « PosBet variarum lectionum ortus per singulos codices, per paria codicum, per syzygias minores maioresque, per familias, tribus, nationesque illorum in­ vestigari et repraesentari : et inde propinquitates discessionesque codicum ad schematismos quosdam reduci, et schematismorum ali­ quae concorduntiae fieri ; atque ita res tota per tabulam quondam quasi genealogieam oculis subici, ad quam tabulam quaelibet va2) Queste condizioni esterne spiegano come gli editori del Nuovo Te­ stamento, sino al Griesbach compreso (1745-1812), spesso non abbiano osato inserire nel testo lezioni che pure essi sapevano e sostenevano superiori a quelle del receptus. Diversamente il Lachmann. 2) Per il Bengel e il Semler, le cui opere non mi sono accessibili, sono ridotto ad adoprare le citazioni in C. R. Gregory, Textkritik des neuen l'estamentes, li (Lipsia, 1902), pp. 908 sgg.

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CAPITOLO PHIMO

netas insignior cum agmine suorum codicum, ad convincendos etiam tardissimos dubitatores, exigeretur ». Noi sappiamo ora che proprio per il Nuovo Testamento l'esigenza di un àlbero genealogico non potrà praticamente essere adempiuta, ma essa vale, in astratto, per ogni testo. Pochi anni più tardi, nel 1766, il Semler rincalzava il criterio genealogico, insegnando che ima lezione non merita pre­ ferenza solo perch* è tramandata in più manoscritti12). H Quentin ha pur ora ®) messo in luce l’importanza dei Prolegomena del professore di Jena, J. J. Griesbach, alla sua seconda edi­ zione del Nuovo Testamento (Halle, 1786). Anche secondo me le regole da lui formulate nella Sectio tertia (p. lix sgg.) meritereb­ bero di essere ristampate e diffuse tra studiosi e studenti di filologia quasi un catechismo. Qui forse pei* la prima volta è enunciato (p. lxi) nel modo più generale quel criterio della lectio difficilior, che, come tutti'sappiamo, è essenziale per la recensio di ogni testo tramandato non meccanicamente : a Difficilior et obscurior lectio anteponenda est ei, in qua omnia tam plana sunt et extricata, ut librarius quisque fàcile intelligere ea potuerit ». il Wettstein già nel 17303) aveva enunciato principi o affini o anche che di quel criterio formano quasi una sottospecie ; ed è interessante che il Griesbach stesso trascriva questi paragrafi dal Wettstein alla lettera o quasi4) : Wettstein, p. 179.

Inter duas variantes lectiones, si quae est evtpcovÓTeQOQ aut planior aut Graecantior, alteri non protinus praeferenda est, sed contra saepius.

Wettstein, p. 184. Lectio exhibens locutionem mi­ nus usitatam, sed alioqui subjectae materiae convenientem praeferenda est alteri, quae, cum aeque conve-

GniESBAcn, p.

lxi.

Durior lectio praeferetur ei qua posita oratio suaviter leniterque fluit. Durior autem est lectio ellipti­ ca, bebraizans, soloeca, a loquendi usu Graecis consueto abhorrens, aut verborum sono aures offendens. Guiesbach, p. LXII.

Insolentior lectio potior est ea qua nihil insoliti continetur. Voca­ bula ergo rariora, aut hac saltim si­ gnificatione, quae eo de quo quao-

*) Al criterio della maggioranza dei testimoni s’inchina ancora il Wettstein, nei Prolegomena ad Novi Testamenti graeei editionem accuratis­ simam (Amsterdam, 1730), dove pure, come si vedrà subito, sono contenuti principi di grande novità e importanza. L’opera è, com’è noto, anonima. 2) Essais de critigue textuelle (Parigi, 1926), p. 30 sgg. 3) Prolegomena, cit., p. vii. 4) Che la formula del Wettstein sin spesso più timida, si Bpiega ripen­ sando ai pericoli dai quali era minacciato.

IL METODO DEI. LACHMANN

alene Bit, tamen phrasim habet mi­ nus insolentem ueuque magis tri­ tam, eoque confidentius, si ne com­ mode quidem respondeat altera rei subjectae locutio.

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ritur loco admittenda esset, rarius usurpata phrasesque usu minus tri­ tae, praeferantur vulgatioribus. Pro exquisitioribus enim librarii usita­ tiora cupide arripere, et in illorum locum glossemata ac interpretamen­ ta (praesertim si margo aut loci pa­ ralleli talia suppeditarent) substitue* re soliti sunt.

E spiega : Vulgare indoctorum librariorum id - vitium est, ut verba quae non intelligebant, notioribus aliis et ra­ riora consuetis permutarent.... Cur quis rarius vocabulum cum usita­ tiore permutaret, causa apparet, cur contra pro usitatiori vocabulo ra­ rius substituere vellet, causae nihil reminisci licet. Wettstein, p. 184.

Geiesbach, p. LX.

Inter duas variantes lectiones non protinus amplior atque prolixior breviori est praeferenda, sed contra potius.

Brevior lectio, nisi testium vetustorum et gravium auctoritate penitus destituatur, praeferenda est verbosiori.

Che il Griesbach fosse tal uomo da intender molto bene il senso più profondo della regola così da lui formulata, non si può dubitare. Chi scriveva (p. lxii) : « Praeferatur aliis lectio cui sensus subest apparenter quidem falsus, qui vero re penitius examinata verus esse deprehenditur », sapeva bene perchè la lectio difficilior è di re­ gola la migliore. Ed egli precorre una regola alla quale recensori e peggio critici conservatori moderni sogliono dare sin troppa impor­ tanza, là dove scrive (p. lxiii) : « E pluribus eiusdem loci lectionibus ea praestat quae velut media inter caeteras interjacet, hoc est ea quae reliquarum omnium quasi stamina ita continet, ut hac tanquam primitiva admissa, facile appareat, quanam ratione, seu potius quonam erroris genere, ex ipsa caeterae omnes propullularint ». AI Wettstein rimane il merito di aver enunciato (p. 188) che tra due lezioni quella che è più simile a un altro passo, che può cioè derivare da interpolazione armonistica, è da rigettare : « Ubi éx duabus variantibus lectionibus una totidem iisdemque verbis expri­ mitur atque in alio Scripturarum loco ea lem sententia expressa legitur, altera vero discrepantibus, illa huic nequaquam praeferenda

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est ». JS.al WettBtein rimane soprattutto la gloria di aver formulato esattamente il secondo dei due criteri che la recensio moderna ado-, pra ogniqualvolta il metodo meccanico, cosiddetto « lachmanniano », non serve, quello dell’«s«« scribendi, se pure egli nota onestamente che esso era già allora noto e di applicazione corrente : « Lectio cum Btylo cujusque scriptoris maximo omnium consentiens ceteris pari­ bus praeferenda est ». Forse non sarà inutile rammentare che egli conobbe il grande Bentley e fu da lui incitato all’opera*). Il Qriesbach scrive (p. lxxi) : « Nos quidem in ea haeresi noB esse profitemur, quae nulli libro aut librorum generi soli confidit, sed genuini textus particulas, ubicumque, critica arte facem prae­ ferente, detegantur, ultro amplectitur ». Questa fede è legittima, dovunque l’archetipo non è conservato e la trasmissione non è meccanica. 2) Vedi sul Wettstein l’articolo di C. Bertheau nella Real-Encykl. fììr protestawtiicKe Theologie, 21, 198.

II.

01 FU SEMPRE UN ARCHETIPO?

11 Lachmann fondava il suo metodo sul presupposto che la tradizione di ogni autore risalisse sempre e in ogni caso a un unico esemplare già sfigurato di errori e lacune, quello ch’egli chiamava archetipo^Che sia per lo più così, nessuno dubita, come mostrano evidenti errori nel testo, si può dire, di ogni autore antico, comuni a tutta la tradizione ; e se non fosse così, non sarebbe mai sorta la critica emendatoria, perchè recensendo, cioè pesando l’una contro l’altra le varianti, si potrebbe risalire sino all’originale. E a spiegare perchè debba essere così, sono stati portati in campo di recente ar­ gomenti non privi di valore. A chi ben consideri deve sembrare in­ verosimile che ogni volta di ciascun’opéra tuttora superstite si fosse salvato nel Medioevo (occidentale e bizantino) un solo esemplare, mentre tutti gli altri erano andati a fondo con la caduta della ci­ viltà antica. Si è osservato con ragione *) che non c’ è nessun mo­ tivo d’immaginarsi questo procedimento così : se di un testo sussi­ stevano tuttora parecchi esemplari, era naturale che, quando sor­ geva il bisogno di mss. nuovi, se ne scegliesse e trascrivesse uno (per lo più il più facile) e che quali fonti servissero da allora in poi queste copie. Analogie del Rinascimento confermano questo ragionamento : di alcuni mss. conservati, per esempio, di Apollonio Rodio abbiamo ancora copie numerosissime, di altri un’unica o nessuna. Per la tradizione greca si è fatto per giunta valere 12) che già prima del 900 tutti i classici greci oggi superstiti (si eccettuano naturalmente i testi ritrovati in papiri) furono tradotti dalla maiu­ scola in minuscola, e a un tempo corredati degli accenti e degli spi­ riti ormai obbligatori. Un lavoro di tal genere, lungo e fastidioso, non si fa due volte senza necessità. Chi voleva avere un esemplare di un autore, avrà più facilmente fatto trascrivere una copia in minu­ scola di quel che sia risalito allo stesso o ad altri esemplari maiuscoli. Ma questo ragionamento è in certa misura stringente solo per testi difficili (il Maas stesso non osa parlar altro che « della maggior parte »), per esempio per Eschilo, per il quale 1* ipotesi di un archetipo è inevi­ tabile per un’ infinità di altre ragioni3). Dovè il testo non presentava 1) H. Frftnkel, Oòttìnger Nachriohten, 1929, 189, n. 1. 2) Maas, Schiclsale der antìken I/iteratur in Byzanz (appendice alla seconda edizione dell’FinZcitun^ di Gercke e N ordon, 3, 1.83), p. 3. 3) Vedi la prefazione del Wilamowitz, p. xxvi ; un passo ohe il Maas aveva certo presente.

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CAPITOLO SECONDO

particolari difficoltà esegetiche, come in moltissimi scritti di prosa, si può persino immaginare che quell’operazione sia stata eseguita indipendentemente su più esemplari. E l’argomento del MaaB non può essere applicato al latino, dove non ci sono nò accenti nè spiriti. Io credo che il Maas vada troppo oltre, là dove afferma x) che non c’ è testo classico di certa estensione per il quale gli apografi risalgane», direttamente all’originale senz’essere passati por un ar­ chetipo; Io credo di poter dimostrare, anzi di aver già dimostrato *2), che i mss. di un’operetta di un padre della Chiesa che, se non è un classico nel senso estetico della parola, è tuttavia un antico e quindi appartiene di pieno diritto alla filologia classica, risalgono all’ori­ ginale dell’autore veda via, non attraverso un’unica copia già mac­ chiata di errori. Intendo parlare dellSlpolopriico di Tertulliano. IYApologetico ci è, come è noto, conservato in due redazioni così dif­ ferenti e così essenzialmente differenti tra loro, come nessun altro antico testo letterario (letterario nel senso più stretto della parola). Anche le condizioni esterne nelle quali queste due redazioni si pre­ sentano, non Bono delle più comuni. Una, la cosiddetta Vulgata, è conservata in un numero piuttosto notevole, forse una trentina, di mss., che non si allontanano gli uni dagli altri più che non sia con­ sueto nella storia di antichi testi letterari diffusi. Ma l’altra era contenuta in un codice di Fulda eh* è andato perduto durante, pare, il secolo XVII e che noi ricostruiamo, non Benza dùbbi, da colla­ zioni del secolo XVI3). Ora a uno studioso Bvedese, G. Thfimell 4), è riuscito pochi anni or sono di porre sur un nuovo fondamento il problema delle relazioni tra Fuldense e Vulgata. Egli l^a por primo escogitato un metodo scientificamente rigoroso, che trae profitto per la storia del testo dal fatto, notorio, che YApologetico è rifacimento di un’opera anteriore più estesa, i libri ad Nationes. Qualora in caso di coincidenze assai precise, quasi letterali, l’una redazione si allon­ tani costantemente o quasi costantemente un po’ più dell’altra dalYad Nationes, bì dovrà concludere che la redazione più conforme all’od Nationes è più antica, l’altra più recente. Applicando cauta­ mente tale canone, il Thòmell è riuscito alla conclusione che il Ful­ dense è la redazione più antica, la Vulgata la più recente dell’Apologetico. Osservazioni sulla finitezza stilistica della Vulgata, spesso superiore a quella del Fuldense, confermano la legittimità della con­ clusione. Agli argomenti del Thòrnell, che sono di natura specificamente J) Texlkrìtik, § 14. 2) Studi ital., N. S.. 7, 1929. 13-67. 3) Qui, dove importano solo questioni di principio, mi sia lecito astrarre da un frammentino appartenente alla stessa redazione del Fuldense, super­ stite ancora in un antico ms. .*) Studia Tertullianea, IV, in Uppsala Universitets ùrsskrijt, 1926, 3.

CI FU SEMPRE UN ARCHETIPO ?

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grammaticale e stilistica, io ne ho aggiunto uno di tutt’altro genere. Nell’ad Nationes 1, 11, p. SO, 25, Tertulliano aveva citato un passo delle Historiae di Tacito (V, 3) su Mosè che sulle tracce di una man­ dria di asini selvatici scopri una fonte, ma lo attribuiva erronea­ mente al quarto libro. Nel passo corrispondente dell’Apologetico (89, 24) x) è rimasto nel Fuldense in quarto Historiarum suarum. La Vulgata ha invece, correttamente, in quinto- Ohi può aver emendato se non Tertulliano medesimo ? Io non mi so immaginare uno scri­ vano die abbia sistematicamente compulsato i testi citati per ri­ scontrare le citazioni, ciò che, fin quando non fu introdotto il nostro sistema moderno di numerare capitoli e paragrafi, non era nemmeno tanto agevole. Si aggiunga che Tacito fu anche poco noto o almeno poco diffuso nella tarda antichità e nel Medioevo. ■ La prova del Thòmell è stringente, la sua conclusione sicura. Ma essa stessa implica non solo, com'abbiamo veduto, che ambedue le redazioni risalgano a Tertulliano, ma anche — ed è strano ohe il Thòrnell non paia essersene accorto — che esse risalgano a lui recto via. In una tale tradizione non c' è posto per un archetipo. Eppure, 6© non badiamo bene, corriamo rischio di trovarci di fronte a un'antinomia di difficile soluzione. Tutta la tradizione, Fuldense e Vulgata, concorda in un piccolo numero di errori evi­ denti. Ora da corruttele comuni di manoscritti indipendenti il Lachmann induceva regolarmente resistenza di un archetipo. A me quella proposizione sembra illegittima : legittima diviene soltanto, se si limita a corruttele non ovvie. Che una serie di parole possa cadere per omeoteleuto in due manoscritti, che una frase di senso compiuto possa essere tralasciata volontariamente da due scribi, senza che sia necessario ogni volta pensare a origine comune della lacuna, è ormai riconosciuto quasi da tutti. Ma anche altri errori possono pro­ dursi indipendentemente — come si suol dire, per caso — in codici diversi. Che peculiarità ortografiche non provano nulla, è risaputo a), ma certi sbagli, come confusioni di una parola con'una più nota, sono poco più che errori ortografici. L'uomo moderno di tali svarioni ha maggior esperienza che quello.di cinquant’anni or sono, grazie all'uso di far ricopiare i mas. a macchina. Io mi sono servito succes1) Cito VApologelioo con i numeri delle pagine e delle righe del­ l’edizione di Liegi del 1819, curata dal Waltzing. L’edizione delle Bèlle* Lettre* (Parigi, 1920), curata dal medesimo e da A. Severyns, dev’essere considerata quale minor. 2) Specie da filologi romanisti e germanisti, che hanno osservato come un testo si modernizzi nell’ortografia senza che per questo bisogni Supporrò l’opera conscia di un amanuense ; l’ortografia dipende almeno altrettanto dal tempo della copia che da quello degli originali da oni furono copiati : essa non appartiene alla tradizione se non là dove contrasta con le abitu­ dini delle scuole scrittone, dunque arcaizza.

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sivamente di parecchie dattilografe, ma non ne ho trovato nessuna che regolarmente non scrivesse traduzione per tradizione, dovunque tradizione aveva il significato tecnico, diplomatico della totalità delle testimonianze sur un testo. Che la dea Era divenga Èva, gli spiriti dell'ortografia greca diventino spunti, è quasi altrettanto regolare. Altrettanto poco contano assimilazioni di caso, modo, tempo x). Si può procedere oltre. H. Kantorowicz a) ha dimostrato speri­ mentalmente come il « caso » possa fuorviare nella recensio : egli, nel 1914, fece trascrivere un testo a lui ignoto e rispettivamente le Bue copie in ordine di successione a lui ignota da più persone, autorizzate a introdurvi piccole modificazioni ; egli tentò poi di ri­ costruire mediante recensio l’albero genealogico delle copie e quindi il testo ; la ricostruzione fu riconfrontata con F originale. Ebbene, in circa un decimo dei casi egli aveva errato nella ricostruzione, perchè i trascrittori di due classi (talvolta persino di tre) avevano indipendentemente modificato il loro testo nello stesso modo, per esempio sostituito nello stesso modo parole prettamente tedesche ad altre di origine straniera, parole più comuni a parole più rare abbreviate nello stesso modo. Ma neO.’Apologetico le poche corruttele comuni rientrano nelle due categorie più sicure : due negli errori ortografici o quasi ortografici. FuldenBe e Vulgata si accordano in Laurentinae per Larentinae e si aliis per Saliis 123). Ora proprio per queste due corruttele che hanno 1) Merita una speciale menzione la prudenza e l’acutezza di H. Sjògren, il quale, confrontando due famiglie di codici delle epistole ciceroniane a Bruto, al fratello Quinto, ad Attico e trattando dei codici contaminati {Com­ mentationes Tullianae, Uppsala, 1910, pp. 72 sg. 89), esclude dal novero delle prove di contaminazione una serie, piuttosto lunga, di tali errorucci comuni a singoli rappresentanti delle due famiglie, i quali « fortuita esse nemo non videt ». Tale possibilità di coincidenze in errori aveva già consi­ derato A. Luche, nei Prolegomeni alla'sua edizione dei libri XXV-XXX di Livio (Berlino, 1879), p. xxxv. Forse la migliore e più larga formulazione del principio in Quentin, Dfémoire sur l’établissement du texte de la Vulgate (« Collectanea biblica latina », 6), Roma-Parigi, 1922, p. 233 : « Une menue différence d’orthographe doit ótre négligée. De meni e on ne doit pas tenir compte de particularités provenant de la mauvaise prononciation de colui qui dictait, ou d’usages nationaux, ou de ressemblances paléographiques engendrant facilement des méprises ». E più sotto (p. 234) : « C’est ausai que nous ne tiendrons nui compte des nome propres. Tout copiste ou correcteur eBt supposé avoir des idées à lui sur la manière d’écrire Sara ou Abraham, idées qui l’auront porte à substituer, au moins un certain nombre de fois, son orthographe préférée à celle du manuscripte qu’il copie ». Il Quentin nota ancora che coincidenza in omissione di membro di senso com­ piuto può non significar nulla. 2) Einjuhrung in die Textkritik (Lipsia, 1921), p. 48. 3) L’indicazione dei passi nella mia memoria, p. 46 sgg.

CI FU

SEMPRE UN ARCHETIPO ?

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colpito nomi propri, cioè la classe grammaticale destinata inevitabil­ mente a essere sfigurata, esempi strettamente analoghi mostrano che l’errore è ovvio e quasi inevitabile. La prima corruttela si ritrova due volte in luoghi dello stesso testo in singoli sottogruppi della Vul­ gata : amanuensi cristiani, scrivendo il nome dell* ignota dea romana, pensavano al nome cristiano Laurentius o forse al Laurentum virgi­ liano ; la seconda corruttela riappare nell’od Nationes. Un’assimilazione è quae ignoratis et deseritis (per desertis) et observatis his praemia destinarit : l’amanuense ha inteso la prima e la terza forma quali presenti indicativi invece che come participi, e ha di conseguenza, Bemi-incosciamente, mutato la seconda. Del pari è assimilazione, se pure un po’ diversa, nihil hosticum de ipso senatu, de cquite, de castris, de palatiis ipsis spirant (per spirat) : soggetto logico sono, in certa maniera, gli ablativi plurali rètti dal de. Un po’ più complicato pare a prima vista un altro caso : quid de tabella recitatis illum « Christianum » f cur non et « homicidam » si homicida Christianus f cur non et « incestum » vel quodoumque aliud esse nos creditis t Qui incestum, che è congettura, e sottintende recitatis, è veramente necessario, mentre se si legge con i mas. in­ cestus sottintendendo est, non Jia più senso vel quodeumque aliud esse nos creditis. Ma è naturale che qualunque scriba, poiché precedeva si homicida Christianus, intendesse si homicida, cur non et incestus 1 Anche quest’errore è assimilazione, e anche questo è ovvio x). Dunque : per VApologetico la natura peculiare della tradizione, due redazioni che risalgono all’autore, esclude l’archetipo ; le cor­ ruttele comuni a tutta la tradizione, talmente ovvie che possono essersi prodotte indipendentemente anche in mss. indipendenti, par « poligenesi », non lo richiedono. L’antinomia è così superata 1 2). 1) Due altre corruttele, oedderii per occiderint (p. 47) e prohibentes per prohibentem (p. 44), non mi paiono certe ; quanto a un'altra, temperatur per temperantur (p.47), non so come leggesse l’archetipo della Vulgata.il Fuldense combina anche in tre errori non più. con la Vulgata, ma con una sottofami­ glia di essa. Anche qui le coincidenze saranno fortuite : nominum per nu­ minum ; le due parole erano destinate a confonderai in tempi come la tarda antichità e il medioevo, nei quali Roma era pronunziata .Ruma (cfr. Rajna, Biblioteca delle scuole italiane, 111, nT. 19) ; cadem (per eaedem) voces sonant : troppo ovvio cercare nella prima parola l'oggetto di sonanti unum tempus est divinationi futura praefandi (per praefariti) : la confusione di d con t, consueta in tutte le posiziopi in codici scritti in paese tedesco (Havet, Critique verbale, § 1080), era qui particolarmente facile ; e la frase letta isolatamente, come di necessità fa chi copia, dà con praefandi senso buono e fatale. 2) Il Moas, letto il mio articolo, mi propose un’altra spiegazione {Studi it., N. S„ 7, 1929, p. 322) : Tertulliano si sarebbe servito per la se­ conda redazione di un esemplare dèlia prima nel quale per colpa degli amanuensi si erano già insinuati errori. Questo è possibilissimo : il Goethe,

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CAPITOLO SECONDO

Tramandate recta via devono essere almeno parti considerevoli della Vulgata geronimiana. Ancora l’ultimo editore, il Quentin12), crede, per l’Octateuco, di poter dimostrare che vi fu un archetipo. Ma gli esempi da lui portati non provano il suo assunto *) ; il solo passo da cui, se fosse davvero errato, si potrebbero trarre conseguenze sicure, sarebbe Gen. 24,32 : et introduxit eum in hospitium, ao destravit camelos, deditque paleas et jaenum et aquam ad lavandos pedes came­ lorum et virorum qui venerant cum eo. Qui il contesto doveva sembrare assurdo, sinché si era costretti ad ammettere chel’acqua fu data per lavare i piedi degli uomini e dei cammelli. Ma è stato dimostrato dì recente 3), con largo corredo di esempi, che secondo l'usus scribendi di Girolamo 1* intero passo significa « dette la paglia e il fieno por i cammelli e rispettivamente acqua per lavare i piedi degli uomini », ecc. Dunque anche qui basta la recensio 4). che per tutta la sua vita non cessò mai di limare le sue opere e di sorve­ gliarne le edizioni, introduceva i suoi miglioramenti in esemplari di pessime stampe, pubblicate contro il suo volere (G. Witkowaki, Teztkritik und JBditionstechnik neuerer Bdhrifttoerke, Lipsia, 1924, p. 9), e di molti errori non si è mai accorto. E le corruttele comuni a tutta la tradizione di Tertulliano, poiché non dipendono da un dato tipo di scrittura, possono essersi prodotto in ogni tempo. Ma questo archetipo del Maas sarebbe, in certo senso, ante­ riore alVóriginale, a uno dei due originali, tutt’altra cosa, insomma, che l’archetipo dell’ortodossia lachmanniana. x) Quentin, JHémoire (citato a p. 18, n. 1), pp. 479, 483, 484, 486 e specie 488 sg. 2) Como avvertirono presto i recensori, specie Rand, Harvard theolog. Review, 17, 1924, 256 sgg. il quale nota, p. 261, quanto poco probabile sia che un testo diffusosi presto in filoni separati sino alla periferia del mondo civile risalga a un unico archetipo giacente in Italia. In Exod., 2, 22, manca nella Vulgata tutt’un inciso sul secondo figliolo di Mosè ; ma l’inciso manca parimenti nell’ebraico, nella Vetus latina, in molti codici dei Settanta. Dunque sarà mancato anche nel modello di Girolamo : Rand, ibid., p. 233. 3) A. Vaccaia, Biblica, 7, 1926, 439 sgg. Il Vaccari ha anche elimi­ nato altre due difficoltà che sembravano condannare la forma tradizionale del passo : si aspetterebbe dedit paleas et faenum camelis, e non camelorum, ma in un altro passo (3 Reg., 4, 28) Girolamo scrive hordeum quoque et paleas equorum et iumentorum deferebant. Il testo ebraico fa menzione del capo della carovana, il servo principale di Abramo. Il Vaccari, in una nota sup­ pletiva (Biblica, 8, 1927, 94), mostra che anche in un altro passo (2 Reg., 17, 12) Girolamo per « non lasceremo di lui nè di tutti gli uomini che stanno seco, neppur uno » scrive et non relinquemus de viris qui cum eo sunt, ne unum quidem. Cosi in greco ol negl tòv Kvqov significa « Ciro e i suoi ». 4) Il Quentin ribadisce tuttavia la sua opinione nei Prolegomeni alla sua edizione : Bibbia Sacra iuxta latinam vulgatam recensionem (Romae, 1926), 140.

CI FU

SEMPRE UN ARCHETIPO ?

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Altri testi che siano tramandati recta via, non ne conosco ; ri­ tengo probabile che lo stesso sia avvenuto, 8e non per tutto Virgilio, almeno per interi libri dell' Eneide. Ohe i casi, cercando, si molti­ plichino, non crederei ; essi sarebbero da cercare piuttosto nella tradizione latina che in quella greca, per la ragione accennata poc’anzi (p. 16). Non nego che tutta questa questione particolare abbia piuttosto interesse teoretico che valore pratico ; ma importante anche pratica­ mente mi pare il canone prudenziale che dall’esame dell’Apologetico, dove l’archetipo era a priori escluso, abbiamo ricavato : da coinci­ denze in corruttele ovvie non è lecito concluder nulla quanto a pa­ rentela di mss. Persino una lacuna comune a tutta la tradizione non mi spaventa, ogniqualvolta si può mostrar probabile ch’essà è conse­ guènza di omeoteleuto. Questo canone contiene una condanna di quei certi metodi che sul fondamento di una o due corruttele eliminano lesti lesti un ms. quale copiato da un codice conservato o quale ap­ partenente a una famiglia già anche troppo nota e rappresentata. Di ciò subito nel capitolo prossimo. * He Ht

Un altro caso è comunissimo, specie nella tradizione greca dei prosatori classici e in quella latina dei poeti dell’età imperiale. Le varie famiglie di codici mcdioevali proseguono ciascuno un’edizione antica. È evidente che, se anche qui tutti i mss. presentano, come per lo più presentano, errori comuni, il concetto di archetipo, non è qui di alcuna utilità. Le edizioni antiche che noi ricostruiamo, non hanno tra loro le stesse relazioni che codici medievali copiati meccanicamente. Gli editori avevano dinanzi a sé un corredo di varianti, tra lo quali sceglievano. Possono, spesso, avere scelto indipendentemente l’uno dall’altro la stessa variante errata; pos­ sono per ignoranza aver contribuito alla formazione, « per conver­ genza », di una vulgata. Ma questo genere di propagazione è tutt’altro dalla derivazione meccanica ; c un albero genealogico non lo può simboleggiare adeguatamente. Di ciò molto più nei capitoli seguenti.

III.

ELIMINATIO OOpiCUM DESCRIPTORUM.

Il Lachmann, come abbiamo veduto di sopra, ebbe di rado, o non ebbe affatto, occasione di praticare quest’operazione : chi li­ miti lo studio della tradizione a pochi manoscritti più antichi e come tali esenti, a ragione o più spesso a torto, dal sospetto d’interpolazione, andrà di rado a dar del capo in codici copiati uno dall’altro ; e anche chi rincalzi i migliori con due o tre rappresentanti dei deterio­ res, scegliendoli, per esempio, col criterio della maggiore accessibi­ lità, cioè a caso, non è verosimile s* imbatta proprio in esemplari congiunti tra loro da vincoli di figliolanza. Ma già la generazione immediatamente susseguente al Lachmann nfiettè sul metodo di questo, e già per via puramente logica giunse alla conclusione che esso non era sicuro, poiché niente escludeva che manoscritti^più recenti fossero copiati da esemplari perduti più antichi e degni di fede che quelli conservati. Intanto, nonostante le difficoltà opposte dalla gelosia occhiuta e miope delle direzioni delle biblioteche, BLcominciava a scoprire l’Italia bibliotecaria, l’Italia dei manoscritti greci e latini, e diveniva man mano evidente die almeno la tradizione degli scrittori letti nella scuola medioevale, sia in Occidente sia in Oriente, era più complessa di quel che si fosse sin allora creduto. La generazione susseguente al Lachmann si dovette porre il problema che si ripresenta alla nostra : per dare edizioni veramente critiche conviene esplorare sistematicamente le biblioteche, specie italiane, e determinare il valore di ogni manoscritto classico. Ma_ questo problema, oggi ancora non risoluto ma tale tuttavia che s’intrawede come risolverlo, era allora affatto insolubile : a una pubblicazione dei cataloghi delle maggiori biblioteche italiane, specie della Vati­ cana e delTAmbrosiana (quest’ultima inceppata anche da una dispo­ sizione illiberale e irragionevole di Federigo Borromeo), erano ostili le direzioni, e non vi erano studiosi che bastassero a catalogare nè quelle nè le minori ; chèla prima parte del XTX è in Italia un periodo di depressione degli studi di filologia classica, specie greca. Inoltre molti dei propriotari dello raccolte private erano restii a concedere agli studiosi anche soltanto l’adito e l’uso fuggevole di eBse. H de­ siderio è spesso il padre di conclusioni che paiono rigorose e sono frettolose. La generazione susseguente al Lachmann confessò a se stessa che per lo più occorreva, prima di eliminare un ms., dimo­ strare che esso era copiato da imo più antico superstite ; ma ritenne che nelle tradizioni dove esiste accanto a un piccolo numero di co­ dici antichi una grande massa di più recenti, fosse per lo più così.

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CAPITOLO TERZO

Questa conclusione si rivela, in genere, ogni giorno più errata. E non era stato possibile trarla, se non perchè si era arbitrariamente separata la storia dei testi dalla storia della fortuna degli autori, cioè dalla storia della cultura. Non è credibile che di testi che èrano letti nelle scuole del nostro medioevo occidentale si fossero salvati per caso proprio tutti gli esemplari ohe servirono di modello ai co­ dici più recenti : è naturale che di ogni tradizione una parte, la parte forse maggiore, vada perduta per mera incuria. E lo stesso ragionamento si applica, con qualche variante, ai manoscritti greci delle nostre biblioteche. La grande massa di questi è lentamente defluita dall’oriente in Occidente dal principio del XV secolo in poi. Ora di parecchie tragedie di Eschilo e Sofocle noi possediamo, oltre a un famoso Laurenziano scritto verso il 1000, numerose copie anteriori al XV secolo, dunque scritte in Oriente, fornite per lo più di commenti evidentemente destinati a scuole greche. Con tutto ciò è stato sostenuto per parecchio tempo (ed è stato creduto da tutti grazie all’autorità di chi lo sosteneva, un buon conoscitore di biblio­ teche italiane e un emendatore ingegnoso, per quanto eccessivo ed eccessivamente analogetico nella sua critica congetturale, l’olan­ dese Cobet) che tutti i manoscritti superstiti risalissero, direttamente o indirettamente, a quell’unico Laurenziano. Bisognava dunque cre­ dere che l’unico codice dal quale il medioevo bizantino avrebbe at­ tinto la sua conoscenza dei due più antichi tragici, si fosse per caso singolarissimo salvato dalla rovina della civiltà bizantina e avesse trovato asilo in Occidente. Bella fortuna, tanto bella che si rivela subito incredibile ! E più incredibile parrà a chi rifletta che secondo i medesimi critici l’Apollonio Rodio contenuto nello stesso mano­ scritto sarebbe stato del pari l’unico genitore di tutti gli Apolloni Rodi superstiti nelle nostre biblioteche. Naturalmente nessuno crede ormai più a questa favola. Anzi ci si domanda con maraviglia come essa sia potuta nascere. E con­ viene rispondere che ogniqualvolta v’era da una parte un codice antico e dall’altra un certo numero di recenti dèlio stesso contenuto, quella generazione tendeva a derivare questi da quello, e. non si peritava di abusare senza scrupolo dei mezzi tecnici di prova, o per parlar più chiaramente, si contentava di dimostrazioni prive di va­ lore. Induce già a sospettò che il solo che alla prova dell’unicità del Laurenziano per Eschilo x) consacrò una ricerca sistematica * 2), Gu­ glielmo Dindorf, prenda le mosse non dalla triade per la quale i mss. bizantini abbondano e risalgono in parte al secolo XIII, Pro­ meteo, Sette a Tebe, Persiani, ma da una delle tragedie di tradizione più ristretta, YAgamennone. S’egli avesse scelto le Supplici o le Coefore, la dimostrazione sarebbe stata non soltanto persuasiva ma Mi limito, per risparmio di spazio, a trattaro del solo Eschilo. 2) Philologus, 18, 1862, 55 sgg. ; l’articolo continua nei volumi 20 e 21.

ELIMINATIO CODICUM DESCRIPTORUM

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anche giusta, perchè quelle tragedie appaiono veramente tramandate soltanto nel Mediceo. Per VAgamennone, nonostante la scarsità dei testimoni, essa par credibile soltanto perchè il Dindorf tende a pro­ vare : 1) che le corruttele del codice più antico si ritrovano per la maggior parte nei mas. più recenti ; 2) ohe là dove questi dànno al posto delle corruttele lezioni giuste, queste possono esser frutto di ermgettura. È evidente che, ancorché queste due proposizioni fos­ sero dimostrate rigorosamente, la prova della dipendenza degli altri mss. da M non sarebbe ancora raggiunta ; si potrebbe solo conclu­ dere che nulla si oppone a supporre che quei mss. dipendano da M, che una prova diretta di quell’asserto è ammissibile : questo e nulla di più. E già proprio la seconda proposizione si scopre subito non dimostrata, non soltanto perchè questi Bizantini, dei quali pure il Dindorf, com’era moda al suo tempo, sparlava, avrebbero, divinando, prevenuto, si può dire in tutto, i maggiori filologi del Rinascimento e delle età successive, il che non è credibile ; ma anche per un errore metodico nel quale cadono ancora studiosi più recenti, che si direb­ bero più. scaltriti del Dindorf. C’onvien chiedere non Bòlo se è possi­ bile che una data lezione possa essere frutto di divinazione, ma anche se un Bizantino o un umanista si sarebbe accorto della corruttela. Subito al v. 26, dove, mentre M dà ’Aya/ze/zvovoc yvvatxi arifialvat zoQ&g, tutto il resto della tradizione ha ar]fiav&t il fnturo è proba­ bilmente giusto, perchè segue, a qualche verso di distanza (v. 31) ma congiunto da una particella che suole legare strettamente, un secondo fnturo. Ma c’è da scommettere che uno scrivano ordinario, che un or­ dinario maestro di Bcuola bizantino, che un umanista un po’ fretto­ loso (i più degli umanisti erano frettolosi in quel primo periodo in cui importava conoscere e far conoscere testi estesissimi) non si sarebbe accorto di quella che si può a mala pena chiamare una scon­ cordanza. Come congettura uruxavàs è facile, ma mancava lo stimolo a congetturare. Ma ragionamenti sottili non sono qui necessari. I manoscritti di Eschilo sono corredati di scoli! ; ora già il Dindorf dovè impiegare molta buona volontà (cioè volontà d’ingannar Be stesso) per dimo­ strare che i numerosissimi scolti dei codici inferiori non. hanno altra fonte che i radi di M ; che tutto il resto è sgorgato dalla fantasia pedantesca di maestri di scuola bizantini, che non conoscevano altro esemplare di scolli di Eschilo che Jf. Eppure quella dimostrazione fu creduta per trent’anni (creduta è ancora, temo, da qualche pro­ fessore di Bcuole medie italiane, commentatore frettoloso di Eschilo), finché nel 1890 il Wilamowitz1) dimostrò che Jf talvòlta dà soltanto degli estratti, privi di senso, di quegli scolii più recenti che dovrebbero derivare da esso. Un esempio solo può bastare : il v. 618 dei Sette a Tebe et xagnóg èatt (oppure eazat) •frea (paraci Aogfov è parafrasato x) Herm., 25, 161 sgg.

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CAPITOLO TERZO

più volte di Beguito in un manoscritto recente eì » probabilmente a torto, per il rò x&ti’ ax’ del resto della tradizione; al v. 381, dove ha un erroneo xoix IxnovoH/iev con la seconda mano di L, mentre tutti gli altri codici hanno oìx èxjtovotifuev senza xaì, e subito dopo omette un necessa­ rissimo ò’, anche con Lfi, ma questa volta anche con V e con un altro ms. di poco conto. Un papiro del V secolo (Oxyr. 1370), che contiene pochissimi versi della Medea, legge al v. 58 Mrfielac; xvxhq con L ; Seanoirry; per offrono AB, e lo scolio al v. 1 delle Fenicie in B ; V ha tutt’e due le lezioni, tutt’e due, dicono, di prima mano. Dal testi­ monio più antico, Ennio, non mi pare che si possa ricavar nulla, perch’egli poteva tradurre (Scaen. 258) Medeai miserias, anche so il suo esemplare portava derniolvrfc. E sebbene la scelta sia diffì­ cile, deanolvìjQ pare a me giusto, perchè corrisponde meglio all’IjOos della nutrice, e perchè la sostituzione del nome proprio al comune s’intende meglio che il procedimento inverso. Dunque anche qui un papiro del V secolo bì accorda con parte della tradi­ zione in una variante inferiore. Nello stesso papiro si leggono brani più lunghi dell’Oreste. Qui almeno una volta un miglioramento al nostro testo : al v. 1340, dove i codici medievali leggono àAA’oi x(.a? introdotta, addirittura impossibile. Per la prima parola è evidente che la lezione di Esahine è genuina. D’altra parte èrqótpEfiEV di Eschine è forma nihili, perchè la vocale dell’aoristo forte passivo ha sempre grado lungo. Ma non meno inaccettabili sono anche le due lezioni tra le quali è divisa la nagaSoaiq : da una parte, il singolare ètQduprp detto di due e accompagnato da d/zov è ancora una volta impossibile; dall’altra, la cancellazione del neQ è un peggioramento. È evidente che queste due lezioni sono state escogitate per eliminare l’impossibile èr(>dq>e/iev o un’altra forma simile del pari inaudita, sia pure a costo di una posizione di parole dèi tutto contraria all’uso. E sul testo di Eschine, relativamente originario seppur corrotto, converrà si fondi l’emendazione: se n’ac­ corse il vecchio Filippo Buttmann e congetturò 12), ed è congettura palmare, ó>q ó/jlov èTQÓtpo/jiév ztep : l’aoristo attivo di questo verbo è usato così, intransitivamente, inB 661,0279, E 555, 199,2'436, y 28, ma in parecchi di questi luoglii, dovunque era possibile per il metro, la tradizione mostra il tentativo di sostituire alla forma non più intesa il medio o il passivo. In altri passi questo tentativo è riuscito vittorioso. Dunque una lezione d’immenso valore, perchè scor­ retta (e quindi certo non congetturale), ma vicinissima al testo au­ tentico. Purtroppo citazioni così lunghe e feraci sono in scrittori precllenistici una rarità ; le prò sono brevi, sicché suscitano il sospetto di esser fatte a memoria. Spesso i versi omerici sono adattati libe­ ramente al contesto ; si aggiunga che per lo più ritornano sempre gli stessi pasBi, come ora nelle citazioni dalla Divina Commedia. In queste condizioni assumono per noi grande valore le imitazioni. Tutti i poeti greci, da Esiodo in poi, hanno saputo Omero a memoria e hanno inserito, lievemente modificati, passi omerici nei loro carmi. Quello stesso Eschilo, che aiuta a scegliere tra daira e nàat nel proe1) Che alcuni codici abbiano conguagliato con la vulgata, era da at­ tendersi. 2) AìisfiUirliche Sprachlehre II (Boriino, 1839), 308 n.

VARIANTI ANTICHE E ANTICHE EDIZIONI

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mio dell’ Iliade, scrive in principio del Prometeo (v. 7) tà aàv yàg fy■&OQ, navtéxyov ^QÒq aéèas, ha dunque letto12 ) in I 212 aùràg àtei jh>gd$ dvtìos ànénxata, naèaato òè èrtole;) gli scolti AT ed Eustazio, ma anche Plutarco de facie in orbe lunae 934 B e), e non già avtàg ènei xatà nòg èxdri xai q>èò^ èpagdvdti^ e neppure avtào ènei xatà ntig èpagijvato, nastrato dè òexdxtp òè nóA.iv alg^aopsv eUgvayvtav. Ebbene, àyoéco è un verbo estraneo all’attico, prettamente eolico : donde può averlo preso Eschilo se non dal suo Omero ? Egli ha letto àyg^oofiev, e un eolismo in Omero dev’essere genuino 4). Altre volte non a un singolo passo ma a una singola parola, modernizzata in più o in tutti i passi dove compare nel nostro testo omerico, il riflesso di questi in poeti posteriori serve a rendere la forma genuina oscurata. lP 264,513 menzionano un Tolnoò1 wtcóevta : la forma non pare legittima, perchè Omero adopra sempre ovatos ovata ovaai, solo una volta nell’odissea, p 200, co et. L’editore di Omero, *) Rilevato da Wilamoivitz, II. u. Hom., 67, n. 2) Ancora un esempio di lezioni genuine conservate in un esemplare a periferico » : vedi Bopra, p. 214 n. 3, 221. 3) Un altro simile, dove imitazioni sofoclee decidono contro Aristarco in P 244, in Wackernagel, Sprachl. Unters., 164. 4) Wackernagel, 166. Anche poeti ellenistici, interrogati cosi, rivelano lezioni genuino ora scomparse: Apollonio Rodio, I, 304 Bcrive: prfi' dgvig àetxeAdri nèìe vrft, dunque m Q 210 egli leggeva pt]òé poi aètfj SgviQ évi psydgoiai xaxàs nèèe, non nèlev . La forma nèlé ci mostra l’antica indifferenza diatetica dell'imperativo, la quale qui ha dovuto cedere dinanzi alla propensione omerica per il medio in questo verbo ; essa restituisce un iato in dieresi bucolica, che pare legittimo (nonostante Meister, Bomcrisehe Kunstsprache, 252).

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CAPITOLO SESTO

Antimaco fr. 61 ha xaAalfooTra? ovaroéavai;. Già Simonide fr. 246 Bergk awótpov oia.TÓ&nat Callimaco fr. 320 ■d^g ovazóstg. Essi hanno letto ancora nel loro Omero diorama x). L’inno « omerico « a Hermes (v. 254) avrà il suo arcaico xaTÓxeicu da Omero, ma in Omero noi leggiamo ora solo xelaat xeìo *2*). Omero chiama il gi­ gante beota ’fìgltov ; ma Pindaro e Corinna s) Io nominano ’fìaglwv con forma evidentemente, rispetto all'omerica, originaria. Giacché 1 due Beoti possono avere attinto qui al dialetto indigeno, si resta in dubbio. Ma non possono aver preso dal beotico nè Euripide (Hec., 1104 ’DagZwi’) nè i poeti ellenistici, Callimaco (Art. 265 'Qaoltu/v) 4) e Nicandro (Tlier., 15 'Qaglcovi). ’fìaglwv l’editore dovrà restituire in tutti i passi omerici in cui quel nome compare. Farà difficoltà che di tale forma non sia rimasta casualmente traccia nella tradizione diretta (chè, a dir cosi, la lingua poetica greca è tutta tradizione indiretta di Omero) f La forma agxòs per l’accusativo del pronome duale di seconda persona è ancora in due passi omerici attestata da grammatici ellenistici -, il corrispondente vàie è adoprato nei loro versi, certo per influsso omerico, dall’omerista Antimaco c da Co­ rinna5). Dovremmo noi, con strana inconseguenza, restituire in Omero aq>&e e non vate per questa differenza prettamente casuale ? Almeno dall’ultimo venticinquennio del secolo decimonono linguisti che sono insieme filologi consumati, si sono incamminati sistemati­ camente per questa via della restituzione del testo omerico ; dai saggi del Wackemagel e dal libro dello Schulze 6) in poi l’impegno degli studiosi è divenuto sempre maggiore, i resultati sempre più ricchi e più sicuri ; nuova ricca messe porta anche l’opera ultima del Wackemagel citata cori spesso in queste pagine. Sarebbe strano che gli editori del testo omerico non profittassero di tali ricerche. Lasciamo stare che parecchie di tali conclusioni sono ricavate con un metodo documentario, « recensorio » ; trascuriamo la distin­ zione tra « storia generale del testo » ed emendazione, e ammettiamo che tutte quéste proposte rientrino nell* emendazione : qual mai edi­ tore si fermerebbe per altri classici alla recensio ricusando d* inse­ rire nel testo congetture evidenti f Qual mai editore di autori latini arcaici si appagherebbe delle forme medievali e non cercherebbe, con l’aiuto delle epigrafi, di risalire a quelle genuine, non le restitui­ rebbe al lettore f Si dirà ohe un testo cori costituito sarà di diversa x) Wackernagel, 168. а) Waokernagel, 169. 8) Wackernagel, 168. 4) Dalla Chioma di Berenice di Callimaco Catullo, 66, 94 : qui pur­ troppo il papiro fiorentino non ci ha reso l’originale calliinacheo. б) Wackemagel, 161, n. 1. ®) Quaestiones epicae (Giitersloh, 1892).

VARIANTI ANTICHE E ANTICHE EDIZIONI

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qualità secondo che per singoli passi e singole forme soccorrano o non soccorrano le antiche testimonianze ? Nessuno rinunzia alV emendatio solo perchè questa non può se non essere sporadica. E in tutti gli scritti che sono tramandati diversamente nelle diverse parti, il valore del testo è diverso da pagina a pagina. E chi non ci dice che anche dove la nostra tradizione è una, gli scritti ch’essa raccoglie non abbiano in un periodo anteriore subito vicende diverse? La storia, per esempio, del testo dei tragici sta proprio a dimo­ strar l’opposto. Ricostruire il testo alessandrino, può esser utile per certi fini, quelli dello storico dell’antica grammatica ; ma non può essere se non una prima tappa. Sarebbe strano rinunziare a risalir oltre, qui dove i mezzi abbondano eccezionalmente.

3. Platone è forse, dopo Omero, il classico greco di tradizione più ricca. Ma mentre per Omero, se manca ancora un’edizione esem­ plare dei due poemi, la tradizione dell’ Iliade, diretta e indiretta, è raccolta sufficientemente e segnata chiaramente sotto ogni passo dall’Allen, per Platone il lavoro critico, che nella seconda metà del secolo XIX aveva imboccato una via troppo facile, ma sba­ gliata, ha dovuto ricominciar di bel nuovo negli ultimi anni prima della guerra, ed è ancora ai principi. Ci sono un’ infinità di studi speciali, per lo più assennati e utili, e ci sono anche due opere mag­ giori che tentano di delineare la storia del testo, pur nella piena consapevolezza di non poter fornire se non resultati provvisoriJ). Manca ancora un’edizione che raccolga e ponga sott’occhio la tra­ dizione : quella eh’ è ancora nelle mani dei più, ed è tutto sommato la più ragionevole, del Burnet (Oxford, Clarendon Press), non regi­ stra se non le lezioni di un numero ristrettissimo di codici; ed è poi, •*) H. Usener, Unser Platotcxt, Góttinger Nachrichten, 1892, ora ri­ stampato in Kleine Schriften, III, 104 sgg., propose per la prima volta il problema generale della tradizione antica e delle sue relazioni con quella medievale, e questo è grande merito : le soluzioni da lui escogitate erano, come si vedrà meglio poco sotto, troppo semplici e inadeguate. Immisch, Philologische Studien zv. Plato, II: de recensionis platonicae subsidiis atque rationibus, Lipsia, 1903 : questo libro dette un nuovo indirizzo agli studi sul testo platonico, e rimane sempre, nonostante i progressi, fondamentale; H. Aliine, Histoire du texte de Platon (BibliotMque de l’éeoledes haute» études, Sciences historiques et philologiques, 218, Parigi, 1915): il contributo perso­ nale è qui minore. Importanti le poche pagine su « critica del testo » in Wilamowitz, Platon, II, Berlino, 1919, 323 sgg.

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quanto alla tradizione indiretta, insufficientissima e anche poco chiara, chè non è mai indicato di dove cominci e fin dove giunga nna testimonianza. Alcuni dei papiri più importanti non erano poi, quando essa fu pubblicata, ancora stati scoperti. L’edizione della Société des Belles Lettres, ancora incompleta, à più ricca, ma non segna nè dappertutto nè per ogni verso un bìcuto progresso sul Bumet. In Platone, poiché i dialoghi saranno Btati si spesso letti in co­ mune da consorzi di filosofi, ma non sono mai stati appresi a me­ moria e recitati da rapsodi, tornano in vigore quei criteri diploma­ tici comuni, ohe per Omero valevano solo con certe restrizioni : anzi qui ci sentiamo, quanto ai criteri, ancor più Bicuri che nella tragedia attica, dove l’influsso di rifacimenti d* impresari e di at­ tori. buI testo è quanto sporadico altrettanto evidente. Ogni inno­ vazione qui non può esser che errore, e si darà per lo più a divedere per tale. I codici medievali di Platone non sono singolarmente abbon­ danti. Essi scarseggiano particolarmente per l’ultima tetralogia, sia perchè, come in ogni altra opera troppo lunga, parecchi copisti si sa­ ranno stancati e avranno cessato prima della fine, sia perchè le Leggi non attiravano i lettori bizantini quanto altre opere più astratte, più metafisiche1*). Qui tutti i codici, compresa una versione armena del Minos e delle Leggi, che apparterrebbe del resto all* XI secolo a), risalgono a un archetipo munito di varianti34 *), riprodotto abba­ stanza fedelmente e ricostruibile con sicurezza, dunque vicino : nella migliore delle ipotesi a un unico manoscritto dell’ultima an­ tichità, ma più probabilmente alla « translitterazione » che bo ne fece nel Rinascimento bizantino del IX secolo *). Dà questa tetra­ logia toma conto qui astrarre del tutto, anche se, com’ è stato so­ stenuto 6), i marginali dell’archetipo contenevano la collazione di un altro manoscritto ; toma conto astraine, perchè le altre tetra­ logie forniscono esempi più evidenti. Ma anche il Testo dell’opera J) Non sarà caso che un manoscritto importante, il Vindobonense F, abbia il Minos, ma non le Leggi. a) Immisch, 27 ; Alline, 202. 8) Che le varianti stesse risalgano molto in bu, è per alcune certo ; nell’epiat. VII 338 e 2 la lezione genuina è conservata dal margine di AO i yq. $ei toO: il testo ha la corruttela $yeiro. HLEITOY-HTEITO è variante di maiuscola ; ma la confusione di o con ov può dipendere da falsa interpetrazione dell’originale, perchè Platone ha scritto o per ov : cfr. sotto molti esempi. 4) Wilamowitz, Platon, II, 331 ; Howald, Brieje Platone, Zurigo, 1923, 3 sgg. Howald, 6.

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è tramandato inegualmente : neppure un grosso codice medievale, nonché un rotolo antico, è normalmente in grado di contenere tutto Platone, e dei due volumi di ciascun esemplare spesso l’uno o l’al­ tro è andato perduto. Ma anche qui alla tradizione dei codici medievali si aggiunge tradizione antica, diretta e indiretta : 1) I papiri: i noti elenchi deli’ Oldfather1), che sono del 1923, ne registravano soltanto 22. Almeno un altro se ne è aggiunto più di recente, non molti a ogni modo. Primi a essere scoperti furono proprio i più antichi, del HI secolo a. 0., provenienti da Gurob e contenenti tratti del Fedone e del Lachete 2), e dettero subito l’ab­ brivo alle indagini feconde dell* Usener 3). Ma forse più importanti per i nostri problemi sono papiri dell’età, imperiale, del H o HI se­ colo dell’èra cristiana, quali quelli assai estesi del Simposio (Oxyrh., V, 843, H d. 0.) e quelli numerosi ed estesi del Fedro (OxyTh., VII, 1010, IH d. 0. ; Oxyrh., VH 1017, H-LU d. 0. ; XVII, 2102, Il d. 0.) 4*), e il minore del Protagora (Oxyrh., XIII, 1624, IH d. 0.). 2) Se i papiri scarseggiano in confronto di Omero, abbonda invece la tradizione indiretta. In primo luogo le citazioni : esse hanno in massima maggior valore per la storia del testo, sono più degne di fede che quelle omeriche. Innanzi tutto, di un testo in prosa si citano molto meno tratti minimi, e quindi a memoria6* ), che di un poeta versi singoli. Certo anche di Platone erano celebri frasi che nella letteratura greca, per esempio nelle orazioni e ne’trattati della cosiddetta Seconda Solìstica, ritroviamo a ogni posso con o senza il suo nome. Ma per lo più gli scrittori di erudizione dell’età imperiale, pagani e, altrettanto e più, cristiani, inseriscono nelle loro opere lunghi passi platonici ; e nessuno, credo, ha mai supposto che Eusebio nella Preparazione Ecclesiastica citi Platone a memoria. Fonte singolarmente feconda è l’Antologia di Stobeo, che dà excerpta numerosi e lunghissimi ; ed è naturale che una delle indagini più penetranti sulla storia del testo platonico, quella del Bickel8), abbia preso le mosse proprio dagli estratti del Fedone in Stobeo.

1) Ch. IT. Oldfather, Greek literary texis tram Grcco-roman Egypt, Madison, 1923, 52. 2) Flinders Pctrie Papyri, I 5-8 e II 50 : copiosa bibliografia su essi in Alline, 68 n. 1, 69 n. 1-2. 3) Vedi Bopra, p. 247, n. 1. 4) Quest’ultimo ancora ignoto all’Oldfathor. 6) Vedi sopra, p. 248. 8) E. Bickel, de Iohawnis Stobaei excerptis platonicis de Phaedone (Jahrbucher fiir Jclass. Philol., Suppl.-B., 28, 1903, 405 sgg.).

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Qui abbiamo, staccatisi dalla tradizione diretta di Platone già nel V secolo, tratti che superano di molto l’estensione di qualsiasi pa­ piro platonico scoperto sin ora. Ohe il testo dei mss. di Stobeo sia più corrotto di quello platonico, non può rattenere l’indagatore, perchè importa qui solo che le due tradizioni non coincidano per caso nelle corruttele, il che sarà avvenuto, caso mai, molto di rado 1). 3) I commenti a Platone sono cominciati molto presto : se i più. antichi sono perduti, è conservato a noi buon numero di quelli neoplatonici dal V secolo in giù, di Ermia, Proclo, Olimpiodoro, Damaselo, ai quali si aggiunge il frammento di un commentario platonico al Parmenide, conservato in un palimpsesto di Bobbio, che era a Torino, del VI secolo 2). Se parecchi di questi commenti non sono che raccolte di appunti presi da scolari su corsi di ese­ gesi simbolica, o anche filze di studi su singoli problemi e punti, se quindi in essi il testo non è per lo più che citato qua e là o anche solo parafrasato un po’ da lontano, se questi Neoplatonici, rive­ lando anche in ciò che lo spirito greco era ormai orientalizzato, dispregiano l’interpretazione letterale e le questioni testuali come qualcosa d’inferiore, se essi mancano proprio del senso del docu­ mento, tuttavia alcuni di questi commenti premettono ai singoli tratti dell’ interpretazione « filosofica », cioè arbitraria e fantastica, i lemmi. Sull’originalità di questi lemmi bì è discusso, ed è infatti in astratto possibile 3), a norma di quel che si è osservato in un ca­ pitolo precedente (p. 101), che essi siano stati allargati o modificati in un periodo posteriore, già medievale, della tradizione, natural­ mente di su codici platonici. Ma proprio per il commento di Proclo più fecondo e più continuo, quello al Timeo, l’editore E. Diehl ha dimostrato in una memoria speciale 4) l’autenticità procliana dei lemmi. È vero, le due famiglie dei manoscritti di Proclo divergono in ciò, che la prima, la quale in genere è la più credibile, segna più Bpesso dell’altra solo principio e fine del passo platonico commen­ tato, interponendo tra l’uno e l’altra un ècoq toH', e di fronte a questa divergenza è, in astratto, almeno altrettanto legittimo supporre che scrivani posteriori abbiano integrato lemmi abbreviati quanto congetturare che il lemma completo sia stato mutilato. Ma il Diehl mostra che le lezioni caratteristiche delle parti di lemma conser­ vate solo da una famiglia sono presupposte dall’ interpretazione

4) Che il correttore di un codice di Stobeo interpoli dalla tradizione diretta (Bickel p. 414, n. 6), non danneggia. 2) Ottima pubblicazione di Kroll, Rhein. M-iis., 47, 1892, 598 Bgg. 3) I) dubbio non sorgeva, naturalmente, per il commento anonimo al Parmenide. 4) lift. Itfus., 58, 1903, 246 sgg.

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di Proclo e che esse stanno con la tradizione diretta di Platone nella stessa relazione che le lezioni testimoniate da ambedue le famiglie. Quanto al Timeo dunque ci moviamo su terreno sicuro 1). Alcuni anni or sono fu scoperto in un papiro berlinese del II secolo d. 0. un commento a un lungo tratto del Teeteto, dal prin­ cipio a 157 E23 ). L’opera non sarà molto più antica del manoscritto: essa è munita di lemmi. 4) Si aggiungano le versioni. Lasciamo pure stare le medie­ vali, in arabo, armeno, latino s). Le arabe, condotte non direttamente sul testo greco ma sur una versione siriaca, non sono ancora, che io sappia, studiate sufficientemente, e non paiono del resto fe­ conde: le altre sono troppo recenti perchè siano considerate altrimenti che come membri della tradizione bizantina. Ma di Cicerone, che anche altrove nella sua opera cita, parafrasa, traduce numerosi e talvolta estesi squarci platonici, è conservata parzialmente una versione del Timeo 4*). È noto che Calcidio, traducendo nel IV se­ colo la prima parte del Timeo (fino a 53 C) e commentandola 8), ha trasmesso la conoscenza di Platone al Medioevo latino e a Dante. Poiché per giunta il Timeo per il suo carattere apocalittico è forse il più citato tra i dialoghi, è naturale che presto gli studiosi abbiano pensato a corredarne il testo di tutte le testimonianze e a ricostruirlo su di esse : lo tentò già nel 1888, per consiglio del suo maestro Diels, un giovane studioso, il Rawack 6). * * *

La tradizione medievale di Platone è, in ultima analisi, una. I codici medievali contengono i dialoghi nell’ordine tetralogico che Diogene Laerzio (III, 56 sgg.) attribuisce all'astrologo di Tiberio, Trasillo, ma che, come vedremo ben presto, è più antico di lui, 0 ih ordini che rispetto a quello si rivelano secondari; da esso deri­ vati 7). Tra questi dialoghi parecchi sono certamente non autentici, 1) Anche qui importa poco se in codici singoli i lemmi siano stati in­ terpolati di su codici platonici : Diehl, p. 268. 2) Berliner Klassikertexte, II (Berlino, 1905), Anonymer Kommentar zu Platons Theaelet, ed. Diels e Schubart. 3) ImmiBch, 23 sgg., 27 sgg., 33 sg..; Alline, 200 sgg., 283; e per l’ar­ meno vedi sopra p. 24 8. 4) Edizione critica di Plasborg, Lipsia, 1908, con testo greco interli­ neare. ®) Edizione Wrobel, Lipsia, 1876. ®) Rawack, de Platonis Timaeo quaestiones criticae, Berlino, 1888. 7) M. Schanz, Studien zur Geschichle des plalonischen Textes, 12 sgg. ; Immisch, 88; Alline, 176.

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anzi un'intera tetralogia, la quarta, sembra composta di spuri1). Basterebbero questi indizi a escludere l’ipotesi, in sè del resto per ragioni di storia della cultura quanto mai improbabile, che quella tradizione risalga a Platone recta via. Sull’origine spuria di alcune delle lettere, sull’aggiunta, in fine della raccolta, dunque in appendice, di scritti non compresi nella tetralogia, gli "Óqoi e sei dialoghi spuri, non torna conto insistere, perchè la tradizione me­ dievale è qui assai ristretta (sebbene un po’ meno che nelle Leggi), e un archetipo bizantino sembra a priori probabile. Ma c’ è ben più : i codici coincidono in corruttele evidenti e per buona parte insanabili, in doppie lezioni che si seguono l’una l’altra nel testo, in glossemi e persino in qualche rara interpolazione, persino, se pur anche più raramente, in lacune s). In un punto del Oratilo (392 0 6) par certo che un piccolo tratto sia spostato (da 392 dio), e Bé ne vede la ragione : precedeva una volta palvetai, l’altra htaìvvp,lav lyaxye. Così la tradizione medievale: ma sia T sia W hanno quale va­ riante interlineare fiavtxÓQ. Questa è la lezione giusta, perchè Apollo­ doro risponde due righe sotto: « Perchè stimo tutti infelici tranne Bocrate, son per questo pazzo f ». Ma s* intende anche come sia sorta l'altra lezione : alle parole trascritte segue subito: èi> pèv yÙQ xou; Aóyoig àsì xoiovxoq el, aavviò re xal voìq cMou; àyQiaivstq iM/v EoxQtirovQ, che poteva essere inteso da chi calcasse un po’su quel « non 80 »: « chè almeno nelle discussioni sei fin troppo selvaggio ; sarai mollo nel resto ». Il senso vero è naturalmente : « È naturale che ti chia­ mino pazzo, perchè almeno nelle discussioni selvaggio sei»: odx alba è naturalmente uno dei soliti cortesi eufemismi della conversazione attica. Ora dei testimoni antichi Plinio (n. A., 34, 81) o meglio il suo autore, poiché conosce uno scultore Apollodorus insanus, leggeva fMnxó?. Ma una delle lettere dei Socratici, la 21, messa Botto il nome di Senofonte, ha uaXaxóc3) : le lettere 8-29 della raccolta dei Socratici appartengono all’atticismo 4).

Buona parte delle divergenze della nostra tradizione medie­ vale, e non solo di quelle fra le due famiglie dello Schanz o più ve­ ramente fra le tre, ma anche di quelle tra i codici « inferiori » e i rap­ presentanti più autorevoli delle due o tre famiglio, risalgono all’an­ tichità. Un archetipo della tradizione medievale non ci è stato : non ci è Btato, almeno, un archetipo nel BenBO laclunanniano. Ci sarà Btato un archetipo fornito di varianti, come lo abbiamo supx) 2) •) 4)

Maas, Textkritik, § 37. Diversamente il Maas. Wilamowitz, Platon, II, 350. Bickermann-Sykutris, Sachs. Ber., 80, 3, 1928, 66, 80.

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posto, per esempio, per Aristofane ? Proprio per Platone questa dottrina dell’archetipo corredato di numerose varianti fu, se non inventata 1), sviluppata largamente per la prima volta, da O. Immisch (p. 20). E infatti anche qui troviamo : 1) che le varianti si ri­ trovano in testimoni dell’antichità, ma in combinazioni liverse; 2) che questi testimoni, mentre si accordano in singole corruttele con singole famiglie e singoli codici, sono poi esenti da altre, comuni a tutta la tradizione medievale. Manca, credo, la prova decisiva che consisterebbe in un certo numero di corruttele comuni, tali che non possano spiegarsi se non con derivazione da un archetipo minuscolo, chè l’ipotesi di varie trascrizioni indipendenti da un unico codice in maiuscola è singolarmente improbabile. Godici an­ tichi di Platone ancora nel IX secolo ce ne saranno stati parecchi, e sé ne fu trascritto uno solo, ciò avvenne perchè copiare da un modello in maiuscola, cioè in scriptura continua, era molesto2). Dunque sarebbe naturale che per questa medesima ragione il co­ dice fosse stato trascritto una sola volta 3). Eppure questa teoria proprio per Platone è probabilmente errata. È assai più verisimile che invece i codici bizantini conti­ nuino, almeno in parte direttamente, vari esemplari antichi. Già il Wilamowitz 4* ) aveva sospettato che almeno un ms. F, un altro Viennese dell’età più dotta, il XIV secolo 67 ), proseguisse diretta­ mente un’edizione antica. In una dissertazione recente, men nota di quanto meriterebbe, di Ewald Deneke 6), questo codice è stato studiato con grande diligenza. Gonvien dire che i resultati, per colpa della complessità e insieme frammentarietà degli elementi, non sono altrettanto netti quanto sembra al Deneke. Ma in com­ plesso egli sembra aver dimostrato il suo assunto : F continua ve­ ramente un’edizione antica. Partiamo dal dialogo per il quale più abbondano le testimonianze, il Timeo : qui il Deneke, dimostrata l’affinità stretta di F con un altro codice di Vienna suppergiù contemporaneo, Y’), aggiunge onestamente : « Ex hac editione textus libri F, quem tenemus, alio codice fortasse post Stobaeum comparato derivatus est », e questa restrizione, necessaria, toglie naturalmente evidenza ai suoi resultati. Ma la costanza dell’accordo *) Per accenni precedenti Affine, Hist., 185. 2) Per simili casi in codici latini umanistici vedi sopra, p. 03. 3) Il che non esclude, naturalmente, collazione con altri mss. in maiu­ scola. È più facile collazionare che copiare. 4) Platon, II, 334. 6) Contiene le tetralogie VI, 3-IX, 1. ®) Citato sopra, p. 252, n. 3. 7) Immiseh, 70 ; Affine, Hist., 226 sgg. Y contiene lo tetralogie I-IV, 2 (tranne 111, 2 e III, 4) ; VI 3-4 ; VII, 1 ; Vili, 3 ; spurii 7, 1-5,

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in errori con Plutarco, Galeno, Eusebio, Proclo, Stobeo, Calcidio (p. 9 sgg.) è troppo grande per poter esser casuale : non si può sup­ porre che colui che trascrisse dal presunto « archetipo con varianti » il codice che è l’antenato di F (o di F Y), abbia per caso scelto coBtantemente le stesse lezioni erronee che avevano avuto dinanzi agli occhi gli scrittori antichi. Nò può esser caso che quello che per il Timeo è il rappresentante più autorevole della famiglia p, A, si accordi in esso con quasi pari costanza con la versione di Cicerone contro F Y, sia in lezioni buone, sia in lezioni cattive1). Ohe appaiano anche altre combinazioni, che F si accordi per esempio in qualche passo col suo compagno (o piuttosto seguace) più fedele, Galeno, anche in errori contro A Y, che altrove esso conservi la lezione genuina non solo contro AY, ma anche contro Galeno, avviene molto più di rado a) ; e sarebbe piuttosto meraviglia che incroci di tal genere non ci fossero stati. Ma, come ho detto, la costanza, anche in errori, dell’aggruppamento FY -4- scrittori antichi dal I se­ colo d. 0. in poi contro A + Cicerone prepondera nettamente, e non può esser fortuita. E almeno una caratteristica di F, la conformità con Galeno, Eusebio, Stobeo rimano invariata in altri due dialoghi nei quali la tradizione antica è relativamente abbondante, la Repubblica e il Gorgia, e ai estende anche qui a errori 8). E la concordanza con Stobeo rimane la stessa anche nel Menone contro BTW, nel Mcnesseno contro TW. Le coincidenze parziali con Aristide e con Dionigi d’Alicamasso potranno spiegarsi altrimenti che non faccia un po’ com­ plicatamente il Deneke (pp. 61, 59), o anche rimanere inesplicate; ed è naturale supporre, come del resto anch’egli suppone, ohe anche un editore antico si sarà dovuto giovare, come tutti prima del XIX, esclusivamente dei sussidi che per caso aveva a mano, quindi di sus­ sidi diversi da dialogo a dialogo. Ma rimane intatto il punto prin­ cipale : F continua un’edizione antica ; dunque 1’ « archetipo con varianti » non vi fu proprio per quel testo per il quale per la prima volta fu supposto con certa conseguenza e consequenziarietà : Pla­ tone è tramandato dall’antichità recta via, come Omero. Contami­ nazione, diffusione «trasversale» o «orizzontale» di lezioni vi fu di certo, ma essa appartiene già al periodo antico della storia del x) Deneke, p. 12. a) Deneke, p. 16 sgg. ■ 3) Per la lì “pubblica si aggiungono coincidenze con scrittori ecclesia­ etici, Giustino, Clemente, Toodoreto, per il Gorgia con Aristido, Gellio, Giamhlico. Nella Repubblica raggruppamento normale è con D contro A ìl< Nel Gorgia per oui A manca, F si accorda, sposso nuche in erroro, con le testimonianze antiche contro tutta la tradizione medievaleB TP; gli tien bordone un papiro di Ossirinco del IH d. C.

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testo, non soltanto a quello medievale. Con che non si nega, natu­ ralmente, che gli scambi, sia nel Medioevo, sia nel primo e nel se­ condo Rinascimento bizantino, siano ancora aumentati di molto. Dipanar la matassa si potrà, se mai, con metodi simili a quelli del Kndche1), una volta che i manoscritti importanti siano noti. E le corruttele comuni, innegabili ? Esse risalgono, con ogni probabilità, a edizioni antiche, forse alle prime edizioni, prealessandrine.

Per il nostro assunto potrei fermarmi qui, ma non sarà inutile aggiungere due parole sulla storia del testo nell’antichità, sempre da un punto di vista propriamente recensorio. Consideriamo per ora le opere contenute nelle «tetralogie», con che non si vuol pregiudicar nulla sull’età di questa divisione, ma solo eliminare per sicurezza di ragionamento l’appendice dei va&Evónsvot, che può essersi accodata più tardi. La nostra raccolta contiene un dialogo autentico ma non finito, il Crizia; contiene un dialogo finito Bolo esternamente, le Leggi, e quale appendice alle Leggi (’Ejavo/ifc) contiene, sotto il nome di Platone, un lavoro del segretario di Platone, Filippo di Opunte 2). Dunque essa risale a una cerchia che ebbe a disposizione l’opera platonica e che si sen­ tiva chiamata a continuarla, FAcademia. Poiché la raccolta pla­ tonica contiene molta roba certamente spuria, anzi una tetralogia composta esclusivamente di roba spuria 3), e poiché gli immediati scolari di Platone avranno ben saputo che cosa fosse stato scritto da lui, essa sarà stata messa insieme qualche generazione dopo la sua morte. E uno dei dialoghi della quarta tetralogia, VAlcibiade secondo, sembra infatti ellenistico e non attico4* 6), ma anch’esso può essere opera academica. Esso è stato attribuito all’Academia di Arcesila e di Laeide, dunque all’Academia scettica e probabilistica della prima metà del III secolo fi). Un lavoro editoriale conviene molto bene a quell’età e a una generazione di academici per la quale l’evoluzione incominciata con Platone .era chiusa. Non è detto che quest’edizione fosse un capolavoro ; chè anzi i filosofi sono, in genere, filologi mediocri. E non sappiamo nep2) Vedi sopra, p. 181 sgg. 2) Che Filippo, non Platone, è l’autore, dimostra Fr. Muller, SHIìbtische Vniersuchung der Epinomis des Philippos von Opus (dissertazione di Boriino, 1927). 3) Vedi sopra, p. 252. 4) Wilamowitz, Platon, II, 325, n. 2. 6) E. Biokel, Archiv. /. Gesch. d. Philos., 17, 1904, 460 sgg.

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pure Se, come delle Leggi e del Crizia, cosi di tutti gli altri dialoghi gli editori abbiano avuto sempre a disposizione il testo autentico : il IV secolo non conosce ancora la religione del documento. E non sarebbe strano che una parte non solo delle corruttele ma anche delle interpolazioni della nostra tradizione risalisse già. a quest’edi­ zione. È possibile anche che per alcuni dialoghi essa dipendesse da edizioni parziali precedenti, che si trovavano in commercio. Platone ha pubblicato la maggior parte dei suoi scritti già da vivo : è intuitivo e sicuro che i singoli dialoghi si diffusero in copie private ed esemplari librari1). Da tali edizioni parziali dipenderanno forse i papiri più antichi, quelli del Fedone e del Lachete 2) : quest’ultimo sarà forse proprio dei primi decenni del IH secolo, e non è probabile che un’edizione nuova, l’academica, si fosse diffusa con tanta rapidità daU’Attica allà %a>ga egizia. Sul valore di quei papiri bì discusse molto subito dopo il loro ritrovamento 3) : ora il giudizio di massima è pacifico. Essi danno un testo apparentemente trascurato : frequenti sono gli errori di ortografia e gli sbagli di negligenza, come spostamenti arbitrari e impossibili di parole, che del reBto in copie private non fanno meraviglia; nè mancano piccole lacune. Tutto questo import a ben poco, se attraverso la superficie guasta s’intraweda un fondo sano. È per buona parte cosi : il papiro del Lachete non contiene che 189 d -192 a, eppure esso migliora di molto il nostro testo. Cominciamo dalla variante più importante. Socrate cerca di por­ tare Lachete a una definizione dell’ àvògeia come concetto unico ; e dopo aver mostrato come àvòoeiog si possa essere in condizioni diverse e rispetto a oggetti diversissimi, riassume 191 e, 4 ovxovv àvÒQElq fièv mirre? oiroi avògeioi, dAA’ oi /jìv èv tfdovai?, e così via. Così il papiro : la tradizione medievale intera (per il Lachete il Bumet ha usato anche di W) coincide in ovxovv àvòoeloi fièv nórre? o&roi, cioè in una semplificazione che toglie alla frase tre quarti della sua forza e del suo sapore platonico. E lo stesso papiro ci rivela 191 b, 6-7 un’ interpolazione complessa, che solo in parte era stata smascherata, senza sussidi diplomatici, dall’acume del Badham; 190 6, 7 ci restituisce un rjfj.lv che, ora che l’abbiamo, scor­ giamo necessario. —190 b, 9 riva tq&hov tovtov avufìovkot, yevoifiePa órtgoUv della tradizione medievale pecca contro la grammatica. Il papiro ci dà l’dr necessario : anzi ce lo dà due volte tlv’ àv tq&kov e avfiftovXoi yevolfie&> àv conforme a un uso attico del V e IV Becolo. Un tempo l’dv andava al secondo posto della proposix) Non mi par necessario fermarmi sulla storiella di Ermodoro (da ultimo Alline, Hist., 11 sgg., ma tutta questa prima parte del libro è debole). 2) Vedi sopra, p. 249. 8) Bibliografia in Alline, Eist., 69.

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zione, come originariamente le parole leggermente accentate in tutte le lingue indo-europee, più tardi esso passa vicino al verbo a cui più propriamente bì riferisce. Nel periodo intermedio si trova spesso due volte, ndle due posizioni possibili1) : cosi abbastanza spesso in Platone 2). Qui l’uso linguistico garantisce la genuinità della lezione del papiro. 191 o 7 tovto toIvw oItiov Uteyov 6n èyà aiTioq ; cosi i codici, ma alTiov, ch’è senza senso, è anticipazione dell’ amo; seguente. L’Ast aveva congetturato oqti per alrtov ; il papiro dà tovto toIvw S oqti l&eyov, con giro di frase indiscutibilmente pla­ tonico. 190 o,l avrò per avrai ò giusto, ma meno importante. 189 d, 7 toinq /.tèv ov xaxwg sl%ev del papiro par più adatto al contesto che 1’ della tradizione medievale 3). Naturalmente la variante conferma 4* ) che Platone aveva scritto EXE., e ci autorizza quindi a leggere per tutti i casi siffatti come richiedono senso, stile, gram­ matica, senza curarci dei codici. Di fronte ai miglioramenti sono infiniti errori, ma, come ho detto, per lo più lievi e tali che caratterizzano piuttosto il mB. che la tradizione alla qualo appartiene. Anche 189 d, 4 neiaTéov fiév[rot] Avaifia^to [rovrrp], dove del resto pévTot e To&rtp sono in­ tegrazioni, specie la seconda, non sicurissime, rappresentano certo un peggioramento di fronte a netaréov, & Nuda re xaì Avaifidxqt, chè non ci è traccia di quell’opposizione che il pévrot indicherebbe, e il tutto sembra un’abbreviazione arbitraria, ma tali difetti non squalificano ancora un codice. Peggio è certamente 190 e, 3 allò neiQÓ) ebieiv 8 Aéyat, tòt àvÒQeiov, per tI èsrtv ivògela, perchè questa esortazione ne ripiglia evidentemente un’altra di tre righe sopra, èruyeiQtfatofisv.... etneiv, àvòoela tì hot* èaTiv, e Socrate parla logicamente. La sostituzione di Avògeioq ad dvdgefa, illogica, caratterizza invece l’illogica e mal destra definizione di Lachete, che subito segue : e di qui, 190 e, 6 proviene la variante del papiro. Dunque un errore assai simile a quello della tradizione medievale che il papiro corregge in 101 e, 4 : errore e miglioramento si compen­ sano, si direbbe, a vicenda. 11 papiro del Fedone6) è forse alquanto peggiore, o piuttosto la nostra tradizione era qui alquanto migliore è molto più ricca ; ma anche qui non si giunge a un resultato molto diverso. Anche t) Wackernagel, Inilogermanische Forschungen, I 399 sgg. 2) Qualche esempio platonico in Wackernagel, 401. 3) Perchè si tratta di una ricerca che si dovrebbe continuare, ma a cui ti rinunzia. 4) Vedi sopra, p. 257, n. 2. s) Comodo a consultarsi nella ristampa dell’Usener, Kleine Schriften, III, 107 sgg., che segna nell’apparato le divergenze dei codici medievali e lo lezioni di Giamblico e Stobeo.

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l’acerrimo nemico dei papiri ellenistici di Platone, 1’ Usener 1), deve riconoscere che questo papiro è libero da numerosi glossemi che infettano la tradizione medievale 2). In una parola, nel III secolo nella £cóoa egizia erano penetrate copie derivate da edizioni di Platone libere da parecchi errori che sfigurano la nostra tradizione. Deriveranno ora questi errori dalla edizione academica da noi postulata? Non c’è ragione per esclu­ derlo del tutto, se, come mostra l’inserzione di dialoghi spuri, chi la fece, non aveva a disposizione copie autentiche. Ma più probabile è che molti si siano insinuati nel testo in edizioni successive fondate su quella academica, ma che questa soppiantarono.

Tra queste edizioni occuperebbe certo un posto eminente quella di Aristofane di Bisanzio, se essa fosse esistita 3) ; il che è per lo meno dubbio. Dove, come in Omero, possiamo istituire un con­ fronto fra mss. anteriori all’edizione alessandrina e mss. posteriori, i primi sono in complesso di gran lunga peggiori ; mentre per Pla­ tone questo non si può davvero asserire. Ma questa non sarebbe con­ siderazione decisiva, chè Aristofane potrebbe non aver trovato mss. migliori di quelli su cui si fondava l’edizione academica : Platone era certo molto meno diffuso di Omero. Ma, nonostante che l’esempio di Erodoto4) c’ inviti a prudenza, pare ardito supporre un’edi­ zione, quando di essa manca ogni testimonianza positiva 5). Certo, Diogene (III 61) sa che « alcuni, tra cui Aristofane », disponevano i dialoghi per trilogie ; ma una divisione di tal genere appartiene ancor più alla pinacografìa che alla tecnica editoriale. Ebbene, Ari­ stofane compose appunto un trattato noòq tovq Ka2.Xt^d)fOV nlvanaz', e in esso quella divisione avrà, avuto posto ®). Diogene Laerzio (III, 65-66) spiega a lungo l’uso di segni critici nelle edizioni antiche di Platone, e ancora nella nostra tradizione medievale qualcuno 1) Kleine Schriften, III, 120. 2) Che esso abbia una corruttela in comune con tutta la nostra tradi­ zione, medievale e antica, asserisce l’Usener (p. 118), ma, crederei, a torto ; 81 a, 4 xaì T

%aioTé@a ; la seconda ij devvépa xai veto■tèga, xQaTotiaa Òè Iv rofc xexoìkicnévotq àvrtyQ&potG, cioè eviden­ temente in un’edizione divisa per membretti, che è partizione esco­ gitata in servigio della lettura scolastica e non ignota neppure a codiri medievali di classici latini, per esempio a quelli delle Tu­ sculane di Ciceronex). Questa è, se vedo bene, l’unica traccia si­ cura dei xextohafièva : chè dal fatto che già nel m secolo Lon­ gino asseriva, secondo Proclo Btesso (in Tim., 1,14, 7 Dielil), ohe il primo periodo del Timeo è composto di tre membri, non si può, mi pare, ricavare s) che questa divisione fosse per lui già tradizio­ nale, e tanto meno poi che fosse, per cobì dire, incarnata in una edizione che egli aveva dinanzi. Ma la testimonianza dd commento alla Repubblica è, quella si, sicura. Ora, poiché la lezione dei xextoXiafiéva ri ritrova, unica, nei nostri manoscritti medievali, si è voluto ricondurre questi a quelli. Nell’ultimo periodo dell’antichità, al tempo dei commentatori neo­ platonici, un’edizione divisa in membri avrebbe soppiantato le al­ tre. A questa risalirebbe tutta la nostra tradizione bizantina8). Che la verità non possa essere cosi semplice, abbiamo veduto sopra. Si aggiunga ohe, come per gli Atticiani, la coincidenza con i codici ri riduce a una variante unica: giacché una serie di varianti legate indissolubilmente tra loro conta come una sola variante. È almeno coincidenza in una corruttela, in un’innovazione f Termini come quelli usati da Proclo « lezione più antica », « lezione più re­ cente», indicano tutt’al più l’impressione ohe un uomo alieno da 1)/Vedi sopra, p. 148. z) Questo centro Immisch, 1 sgg. e Aliine, Hist., 165 sgg. 3) Così, più risolutamente che 1’ Immisch (p. 10), l’Alline, Hist., 171.

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ogni filologia metodica, quale Proclo, aveva dell’antlclùtà degli esemplari che contenevano tali lezioni ; chè di giudicar dell’aniichità delle lezioni in sé egli non poteva aver modo. Le due lezioni circolavano tutt’e due nell’antichità ; e non si può davvero deter­ minare quale sia la genuina, fondandosi su criteri esterni, diplo* mutici. E i criteri interni proprio qui, in un passo difficile a cagione del suo contenuto astronomico, lasciano in dubbio. Si suole in generex) ritenere autentica la lezione dei nostri codici. Un’unica coincidenza in lezione genuina non significherebbe nulla ; ma poco più importe­ rebbe la coincidenza in una lezione la cui inferiorità, se mai, sa­ rebbe stata chiara ora e nell’antichità a pochissimi tra i numerosi lettori : una corruttela di tal fatta può propagarsi anche « orizzon­ talmente », per collazione, al pari di una lezione buona. Del resto non sappiamo se i xExarìia/j.éva esistessero anche per dialoghi meno letti del Timeo, se essi ci fossero per tutto Platone. . La nostra tradizione non risale certo nò ai xsaoìXiff/iéva nè ad Attico: essa prosegue, pur contaminandoli, esemplari antichi, edi­ zioni antiche se si vuole, che avevano ciascuna le loro caratteri­ stiche. Che un movimento convergente era già iniziato nell’anti­ chità, che lezioni caratteristiche e genuine erano andate perdute nella trasmissione dei codici, mostra Ù confronto con i papiri dell’età imperiale, con i lemmi del commento al Teeteto, con la tradizione indiretta. 4.

La tradizione di Demostene fu molto studiata nei primi anni di questo secolo, finché la grande guerra, sottraendo dall’un lato i mezzi indispensabili per indagini diplomatiche complicate, di­ straendo dall’altro gli spiriti da quelli che possono sembrare in­ teressi esclusivamente formali, sembrò avere per il momento tron­ cato queste ricerche. Dopo la guerra W. Rennie ha proseguito (e ha nel 1931 condotto a termine) l’edizione della Clarendon Press cominciata già nel 1903 da 8. H. Butcher, fornendoci cosi l’unico testo completo leggibile e documentato da un apparato perspicuo a). x) Ritiene l’opposto il Kroll in un excursus della sua edizione del comn ento di Proclo alla Repubblica (II, 414, n. 1). 2) La nuova edizione toubneriana, iniziata ottimamente da K. Fuhr nel 1014, rimase in tronco al primo volume; ora si Sente dire che la ripren­ derà uno studioso greco espertissimo degli oratori e in genere della prosa attica del IV secolo, Giovanni Sykutris. Ferma al secondo volume o meglio fascicolo è anche, che io sappia, l’edizione francese di M. Croiset (Parigi, 1924-1025) : non v’ è ragione di rammaricarsene, chè nè la prefazione nè quei due primi fascicoli promettevano nulla di buono, nulla che superasse

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Ma i primi volumi di questa edizione sono ormai già antiquati, per merito dei numerosi papiri venuti in luce dal 1903 in poi. Inol­ tre nè l'apparato nè i prolegomeni dei vari volumi sono piena­ mente sufficienti. Un lavoro d’insieme composto in questi stessi anni sulla storia del testo demostenico, la dissertazione lipsiense di Ber­ nardo Hausmann12 ), che è del 1921, è rimasto inedito per mancanza d* interesse. Nonostante l’assennatezza e l’accuratezza dell’edizione inglese, si ha, insomma, l’impressione che per ragioni pratiche si sia voluto mettere il carro innanzi ai buoi, allestendo esemplari commerciali di Demostene, prima che la storia del testo fosse suf­ ficientemente chiara. Stando così la cosa, non desterà meraviglia che io sia qui co­ stretto a esporre una questione così complicata in modo troppo breve e compendioso, come forse in nessun altro paragrafo del pre­ sente capitolo. I codici di Demostene sono di solito divisi in quattro fami­ glie a). La prima, rappresentata da un codioe unico, S 34), un Parigino della fine del IX o del principio del X secolo, sovrasta a ogni altra per eccellenza di lezioni; essa non sfuggì alla sorte comune in tali casi, di essere sopravalutata, finché le scoperte dei papiri non mo­ strarono che anche lezioni in cui le altre famiglie bì accordano con­ tro S, appartengono all’antichità. Per le altre famiglie nominiamo solo i rappresentanti più cospicui di ogni familia, uno per fami­ glia : per la seconda 1’Augustano A del X-XI secolo ; per la terza il Marciano F della medesima età ; per la quarta il Parigino Y pure del X-XL secolo *). Già da gran tempo si è scorto che anche qui le divergenze tra i mBS. sono di rado meccaniche, che per esempio S si segnala sovrattutto per assenza di parole superflue, che hanno tutta l’apparenza il livello, per solito medioore (tranne eccezioni splendide come rXristo/tww del Coulon e il Giuliano di Cumont e Bidez), della raccolta delle Belles Lettres. Qui non si è neppure evitato l’errore, tante volte biasimato, di rimaneggiare l’ordine vulgato. Demosthenis fragmenta in papyris et membranis servata. Adopro que­ sto lavoio in un esemplare manoscritto concesso in prestito dalla biblio­ teca universitaria di Lipsia alla Laurenziana. 2) In tre li divide il Fuhr, raggruppando insieme quelle che ancora per il Rennie sono la terza e la quarta : questa discrepanza, grave in aè, non importa poi gran che al nostro assunto. 3) Altri lo chiama 27; qui, dov’è possibile, preferisco il simbolo latino per evidenti ragioni di unità di sistema e di comodità tipografica. 4) Grandi benemerenze per V eliminatio codicum descriptorum si è ac­ quistate E. Drerup: cfr. specialmente le sue Antike Demosthenesausgaben, in Philologus, Suppi.-Bd. 7, 1899, 531 sgg., particolarmente, 551 sgg.

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di glossemi o di allargamenti arbitrari, e per ordine diverso e mi­ gliore delle parole. Molti mss. abbondano di varianti marginali, e quel che nell’un codice è in margine, nell’altro bì ritrova nel testo. Numero e disposizione delle orazioni sono diversi nelle diverse fa­ miglie e nei singoli mss. Inoltro le relazioni tra codice e podice va­ riano nei diversi gruppi di orazioni, anzi talvolta da un’orazione all’altra e persino nelle diverse parti di una stessa orazione. Tra­ dizione, dunque, complicata e certamente non meccanica. Tut­ tavia sino, si può dire, a oggi la critica ha sostenuto, o piuttosto ha supposto a priori che i codici medievali risalissero tutti a un archetipo. Gli editori più recenti e meglio informati avranno certo supposto che quest’archetipo fosse corredato di un ricco apparato di varianti. Ma non è neppur così, e già a priori si sarebbe dovuto vedere che non è probabile che fosse cosi : ogni famiglia ha almeno un rappresentante non posteriore al X secolo ; l’archetipo medie­ vale, per ovvie ragioni di storia della cultura, non potrebbe essere anteriore al IX : come mai in un secolo tante varianti e cosi com­ plicate ? Conviene subito dire che la tradizione di Demostene è, in ul­ tima analisi, una. L’orazione 32, contro Zenotemide, è tronca a mezzo di. un periodo in tutti i codici che la contengono1*3). E, seb­ bene ora per l’una ora per l’altra delle orazioni di dubbia autenti­ cità9) si facciano sempre nuovi tentativi di salvataggio, non c’è, crederei, critico, per quanto conservatore, il quale osi sostenere che tutte le orazioni demosteniche siano autentiche. Io voglio fer­ marmi solo a un esempio chiaro : già gli antichi8) sapevano, donde se non da documenti?, che l’orazione 7, suITAlonneso, era di un ora­ tore contemporaneo di Demostene, Egesippo. Ora proprio l’ora­ zione 7 è tramandata in tutte e quattro le famiglie. Così il commento di Didimo a Demostene, scoperto alcuni anni or sono, ci attesta (coL 11, 10 Diels-Schubart) che l’orazione 11, noòz vip èjuoto^v vip «PiXimórv, si ritrovava tal e quale nel libro VII delle Filippiche di Anassimene [di Lampsaco, in altre parole ch’essa è penetrata di 11 nella nostra raccolta *). Ora anche l’orazione 11 è contenuta x) Ch’essa manchi del tutto in Y e, parrebbe, in tutta la quarta classo, sarà caso : quella classe è la meno carattorizzata di tutte, e del resto per essa valgono gl’indizi tratti dalla presenza di orazioni certamente spurie. 9) Ottimamente riuscita pare la rivendicazione delTEpita/fo (or. 60) per opera di J. Sykutris e P. Maas (Herm., 63, 1928, 241 sgg.) ; quest’ul­ timo mostra ch’esso è già citato da Licurgo contro Leocrate. 3) La vnó&eut^ di Libanlo, e già Arpoorazione s. v< *HyyffVtnOg. *) Vedi da ultimo Jaooby,l'HG, II, 72 F 11 : degli scritti anteriori il più importante è P. Wendland, Anaximenes von Lampsakos (Berlino, 1905), 1 sgg.

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in tutt’e quattro le famiglie x). In tutt’e quattro le classi è traman­ data l’orazione 17 negl r&v ngàg ’Ategavògov avv^rjx&v, ancor oggi universalmente ritenuta spuria. E tali indizi « quantitativi » si po­ trebbero aumentare a dismisura, se si volessero prendere esempi non solo dalle orazioni simbuléutiche, come ci siamo limitati a fare, ma anche da discorsi tenuti in cause private *2). Un advocatus diaboli potrà sempre sostenere che indizi « quanti­ tativi » provano poco : se a un certo punto dell’età antica un canone di orazioni demosteniche, determinato dà grammatici o anche sorto per influsso di un’edizione, godeva autorità indiscussa, è naturale che tutti gli editori si conformassero a esso, che riproducessero sup­ pergiù gli stessi componimenti ; ma non è nieut’affatto detto che non bì dessero attorno per trovare di ciascuno di essi un testo mi­ gliore. La condizione mutila di un’orazione, quella contro Zenotemide, mostra solo che per una di esse non erano riusciti a sco­ vare il testo intero, che questo era andato perduto molto presto. A che cosa si ridurrebbe in questo caso l’unità, se non nel comune piegarsi all’autorità di un canone ? 3). Ma io sono pronto ad ammettere che quest’unità sia più reale, più concreta di quanto a rigore si ricaverebbe dagl’ indizi « quanti­ tativi », poiché soccorrono indizi « qualitativi ». Già il Dindorf 4) aveva raccolto un certo numero di passi nei quali Arpocrazione citerebbe una lezione differente da quella di tutta la nostra tradix) Sulla lettera di Filippo, che ora figura nelle nostre edizioni di De­ mostene al n. 12, vedi sotto. 2) Vedi Christ-Schmid, Griech. Lit.5, I, 566 sgg. Per le due orazioni contro Aristogitone (25-26) vedi ora Pohlenz, Gòttinger Nachrichten, 1924, 20 egg. Dei proemi e delle lettere non parliamo per ora per ragioni che presto diverranno evidenti. s) Dall'epistola critica del Sauppe (ora AusgewahUe Schrìjten, 111) in poi si ripete troppo spesso che la nostra edizione di Demostene risale a Callimaco ; questo perchè certo numero di testimonianze raccolte colà dimostrano che Callimaco designò con 1 titoli che ancora hanno e dichiarò autentiche orazioni che noi possediamo, dichiarò spuria almeno un’orazione che noi non abbiamo più. Ma Callimaco non ha mai fatto, che si sappia, edizioni critiche : quelle testimonianze derivano tutte, evidentemente, dai nlvaueg. Sarebbe questo, quindi, il caso tipico del conformarsi di un edi­ tore a un canone celebre ; tipico, se fosse sicuro. Ma è tutto il contrario : il Sauppe stesso cita un passo di Aipocrazione s. v. dal quale risulta che l’orazione contro Critia, ritenuta autentica da Callimaco ma spuria da Dionigi di Alicarnasso, non è conservata nelle nostre raccolte. Le nostre edizioni di Demostene risalgono appunto, come si vedrà meglio sotto, all’età atticistica. 4) Prefazione al primo volume della sua edizione di Oxford (1846), IV.

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zione, quasi mai peggiore, a volto pari, a volte evidentemente mi­ gliore. Anche se si sottraggono i casi nei quali la divergenza ò orto­ grafica e non prova cioè nulla, e i casi dubbi, rimangono parecchi punti nei quali hi superiorità del testo di Arpocrazione è evidente: egli ci restituisce termini tecnici sostituiti da espressioni più correnti e nomi di città oscurati e guasti nei nostri mss. ; ci fornisce una volta una parola rara, cacciata di luogo da. un sinonimo più comune, un’altra aggiunge una paroletta necessaria, eppure omessa nei codici. E que­ sti possi sono non concentrati in pochissime orazioni, ma sparsi, si può dire, per tutto Demostene. Dei papiri si parlerà più innanzi : ina sin d’ora si può dire ch’essi confermano spesso congetture di dotti moderni, spesso correggono guasti non avvertiti sinora, ma che oggi, alla luce della lezione nuova, appaiono evidenti1). Nè, per* giungere a questo risultato, c’era in fondo bisogno di Arpocra­ zione e dei papiri : che in 50, 6 vi sia un passo trasposto, in 19,149 una frase che non si connette con quel che precedo e segue, ma de­ v'essere o interpolata o più probabilmente lacunosa, non negherà nessuna persona ragionevole. E parole non autentiche paiono es­ sere penetrate in tutta la tradizione in 18, 194 ; 20, 111, 139 ; 59, 52 ; 60, 29, 32, sia poi che si tratti di tracce di doppie recensioni o di innocenti glossemi o, com’ è per lo più, soltanto di doppie lezioni, che stanno ora pacificamente una accanto all’altra. Ma, perchè tali innovazioni non dipendono da speciali condizioni diplo­ matiche o paleografiche, esse non sono in alcun modo databili, non provano che sia mai esistito un archetipo medievale, con testo unico o con varianti. E altre considerazioni sembrano escludere del tutto questa possibilità : un'orazione autentica di Demostene, la Terza Filippica, è tramandata nei nostri codici in due recensioni differenti. Il codice più notevole, 8, ha qui in meno del resto della tradizione interi tratti : a volte poche parole, a volte proposizioni e persino periodi intieri. Senza quelle parole il senso corre benissimo, anzi a volte si direbbe che l’orazione, acquistando di brevità, acquisti anche di efficacia. Non c* è nessun dubbio che 8 dà Demostene in forma ge­ nuina. Più difficile è giudicare del valore delle aggiunte : talvolta esse consistono in allargamenti stilistici dei quali si farebbe volen­ tieri a meno u), ma talvolta esBi contengono particolari storici che ]) Lunghe liste dell’un caso o dell’altro in Hausmann, 242, 241. 2) Gli editori dal Bissa in poi stampano nel testo in caratteri mi­ nori le aggiunte che hanno valore storico o che comunque dànno un senso compiuto, rilegano nell’apparato gli ampliamenti stilistici minori e minimi. Questo procodimento è inconseguente. Bisogna tuttavia dire ohè anche gli altri codici (oltre a 5) divergono nella III Filippica tra loro quantitativa­ mente, se pure le divergenze sono molto minori.

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rivelano un autore molto vicino all’età demostenica, molto bene informato su particolari di non molta importanza, che non hanno lasciato traccia nella storiografia. Si può dubitare Be queste aggiunte risalgano a Demostene, come è stato sostenuto la prima volta da Leonardo SpengelJ) e come crederei anch* io ; antiche, prebi­ zantine esse sono certo, e certo anche prcalessandrine. Ma il pro­ blema è più complicato : mentre il testo di 8 è unico, quello degli altri mss. resulta qui evidentemente da una contaminazione : chè le aggiunte ripetono spesso in forma più ampia ciò eh* è già detto brevemente nelle parti comuni a tutta la tradizione. Qualche volta la sutura delle aggiunte non è perfetta 8). Dunque chi ha messo in­ sieme il testo delle altre tre classi, aveva dinanzi due recensioni, quella di S e un’altra più larga : egli ha preso a fondamento la re­ censione più breve e ha aggiunto dall'altra, collazionando, tutto quello che questa aveva in più, senza curarsi di cancellare quei passi della recensione-base che nella sostanza avevano corrispon­ denza nei doppioni più brevi, senza curarsi, possiamo supporrò con ogni probabilità, di divergenze minori. È evidente che queste condizioni non sono conciliabili con 1* ipotesi di un archetipo lachmanniano, sfornito di varianti o mu­ nito solo di poche e piccole varianti. Qui dovremmo supporre un archetipo con larghissimi margini che comprendessero tutte le ag­ giunte, mentre la pagina aveva solo il testo fondamentale, quello di 8. Ma dovremmo anche supporrò che £? abbia qui copiato solo la pagina senza tener alcun conto delle aggiunto (per pigrizia o per scrupolo documentario f), mentio i capoBtipitì (o forse il capostipite) delle altre classi avrebbero ogni volta inserito le aggiunte nella pa­ gina, senza lasciarne neppure una in margine. I còdici demostenici sono ricchi di varianti marginali, ma proprio queste aggiunte non sono mai nel margine, sempre nel testo 3). Come mai f x) AVh. d. Bayr. Akad., Ili, 1, 1839, 157 sgg. ; IX, 1, 1860, 112 sgg. La sua ipotesi motivata bene nell’ interpretazione di H. Weil, Harangues de Démoathtnè (Parigi, Hachetto : io non ho a disposizione ohe la seconda edizione del 1881), p. 317 sgg. Contro lo Spengel specialmente efficace il figliolo, Andrea Spengel, Bayr. Sitz.-Bcr., 1887, II, 280 sgg., ma già per esempio W. Christ, Attikuswusgabs des Demnalhencs (vedi sotto, p. 278. n. 2), p. 57 sgg. a) Le aggiunte fanno più grave difficoltà nei §§ 7 e 46. In quest’ultimo passo ehi ha introdotto le aggiunte nella tradizione contaminata, si dove essere accorto della mancanza di connessione, e ha aggiunto, per rime­ diare, un tIvo$ che non rimedia a nulla. 8) Di aggiunte marginali fatte in 8 da mani posteriori e di loro coinci­ denze con aggiunte, marginali o no, di altri mss. non tengo qui naturalmente conto. Sull'aggiunta, evidentemente fuori posto, in fine del § 75, fornita

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Ancora : in parecchie delle orazioni del corpus dcmostheniùum sono inseriti documenti : leggi, decreti, lettere, giuramenti, testi­ monianze e simili. Di questi documenti sono senza dubbio spuri quelli contenuti nell’orazione per la Corona (n. 18) -12) e almeno la maggior parte di quelli della Midiana (n. 21) ; gli altri sono per lo più considerati autenticiz). Con questo non ò detto ch'easi fossero riportati da Demostene stesso nelle orazioni da lui medesimo pub­ blicate ; chè prosa d’arte antica evita, com* è noto, più ohe può la comunicazione integrale e letterale di tutto ciò che non è dell’au­ tore stesso, che non è da lui stilizzato secondo i suoi criteri per­ sonali ; e Demostene non doveva sentir bisogno di metter sott’occhio a lettori attici contemporanei quel ch’essi già conoscevano, o potevano conoscere ogniqualvolta ne sentissero desiderio•). Ma non c* ò neppure bisogno di considerazioni generiche : è provato •) che Dionigi d’Alicamasso e Cicerone non hanno ancora letto i do­ cumenti (falsi) che si trovano nell'orazione per la Corona, mentre sembra certo che già li leggesse Plutarco. Ora la nostra tradizione è concorde nell'offrir la maggior parte di tali documenti ; e questa concordanza, tanto più ch’essa si estende anche a documenti falsi, ò ancora un indizio che la tradizione è in qualche modo una8). Mala concordanza è, come si è detto, soltanto parziale. Dei tre codici più

Bolo da A e da P3 4in*margine, * non da F, non mi pronuncio : forse essa ha altra origine delle oltre ; o più probabilmente F bì aocoTse ch’essa in quel posto era priva di senso, e, non avendo trovato il punto giusto dove inserirla, la soppresso senz'altro. Della classe Y abbiamo giù osservato ch’esBa è mescolata. La prova della falsificazione, dopo numerosi tentativi precedènti, è stata data in una memoria degna della sua celebrità da J. G. Droysen, ora Risine Schriften (Lipsia, 1803), 96 sgg. : la falsificazione non sarà in­ tenzionale, ma proverrà dalle esercitazioni delle scuole dei Tetori. 2) Fondamentale ora su questi documenti il lavoro di E. Drerup, TJeber die boi don atlischen Rednem eingelegten Urkunden, N. Jahrb. f. hi. Pini., Suppl.-B., 24, 1898, 221 sgg., citato d'ora in poi con il solo nome deifautore. 3) Ma certo genere d’inserzioni, specie testimonianze (ogniqualvolta sono autentiche), deve risalire a ogni modo 0 a Demostene stesso o a qual­ cuno ohe gli Btava molto vicino. Cinquantanni dopo, chi avrebbe potuto ricostruirle f E d'altra parte qui il lettore doveva aver BOtt’occhio, nell’ora­ zione, il testo delle testimonianze, perohè non l’avrebbe potuto attingere ad altra fonte; quindi esso doveva essere contenuto nell’editto princeps. 4) Dimostrato da Droysen, 248-60 : cfr. anche Drerup, 237 sgg. s) Per i limiti di quest’unità, ancor più ristretti di quel ohe di qui parrebbe, vedi sotto, p. 277.

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importanti, che rappresentano le prime tre classi ’), cioè quelle di maggior valore, 8 ha, si, 1 documenti falsi del discorso per la Co­ rona e della Midiana e gli autentici di parecchie altre, ma tralascia quelli delle orazioni 36 contro Lacrito, 43 contro Macartato e delle due contro Stefano, 45 e 46 ; tranne che per la prima di quest’ultime ritiene le /zaprvpfat dei 24-25, brevissime e connesse strettamente con le parole deH’oratore chele precedono, lo seguono, s’interpon­ gono tra esse, citandole e interpretandole, sicché anche in questo caso il discorso non sarebbe senza esse comprensibile, e dovette quindi essere pubblicato sin da principio con esse 1 2). F tralascia solo i docu­ menti, forse autentici, della 43 contro Macartato 3). La prima mano di J. tralascia i documenti del discorso della Corona da §§ 77-78 in poi e tutti quelli della Midiana 4*6). Ora, se fosse esistito un archetipo, sarebbe già strano, e ri­ chièderebbe una spiegazione particolare, il fatto che i capistipiti delle varie famiglie da esso derivati omettessero a capriccio tutti i documenti quali in un discorso quali in un altro. Ve li avrebbe indotti pigrizia o stanchezza 1 Ma allora come mai 1 documenti sono omessi tutti Benz’cccezione in un discorso e non nel seguente 1 e ancora come mai vi sono nei singoli codici o nelle singole fami­ glie orazioni senz’alcun documento, ma- non, tranne due casi spe­ ciali 8), orazioni con alcuni documenti e altri no ! Ma c* è di più : è evidente che almeno A (cioè la recensione A) ha seguito un prin­ cipio : esso tralascia i documenti del de corona e della Midiana, cioè proprio i documenti che per il de corona tutti, per la Midiana almeno in buona parte8) non sono autentici. Si obietterà che per il de corona esso ha applicato questa regola solo nella seconda metà? Ma quella incongruenza non si può spiegare Be non come resultato 1) Seguo qui le indicazioni dal Drerup, 234. Le edizioni sono per que­ sto rispetto insufficienti : esse non distinguono sufficientemente le mani. 2) Sull’autenticità Drerup, 332. 3) Per l’autenticità Drerup, 325 sgg. 4) A non contiene ne i discorsi contro Stefano nè quelli contro Neera ; per i documenti contenuti nei due primi, i quali, come abbiamo veduto, Bono tralasciati anche da S, dobbiamo contentarci di F e dei suoi prossimi parenti Q e D (non soltanto di F, come asserisce erroneamente il Drerup). 6) L’uno, 45, 24-25 è stato spiegato sopra; la giustificazione dell’al­ tro viene subito. •) Il Drerup (p. 300 sgg.) difende le due leggi della Midiana, 21, 8, 10 e, con minor convinzione, l’altra § 94. Si dovrà dire che l’analogia dell’altea orazione che contiene documenti tutti autentici o tutti spuri (la de corona), costituisce almeno una presunzione contro questa dottrina, anche se per quelle tre leggi la falsificazione non bì potrà dimostrare con argomenti stringenti.

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di contaminazione : un antenato diretto del nostro A seguiva il principio in tutta la sua estensione; un antenato più vicino, o forse A stesso, ha trovato codici con maggior abbondanza di documenti, e, senza rendersi chiaramente conto del procedimento del buo mo­ dello, ha cominciato ad aggiungere il plus, finché non si è stan­ cato. Ma. se le cose sono andate veramente cosi, né altra possibilità bì vede, l’autóre di questa redazione A non è un Bizantino : quale Bizantino, per dotto che fosse, era così pratico di storia attica, di diritto attico, di cronologia attica da accorgersi della falsità di quei documenti 7 No; le differenti classi risalgono a diverse edi­ zioni antiche, A a una di un critico più rigoroso. E così solo, questo vediamo sin d’ora, bì spiega facilmente che fi, che persino P tra­ lascino tutti i documenti in alcune orazioni. Le edizioni generali antiche derivavano da corpora minori, o anche erano messe insieme, almeno in parte, su edizioni di singole orazioni; e alcune di que­ ste edizioni speciali non avevano ancora o non avevano più i do­ cumenti, perchè erano in usum scholarum rhetorum, le quali dei do­ cumenti non sapevano che farsi. Non sarà caso che i documenti delle orazioni nelle quali 8 li tralascia, comprendano anche leggi, ma Biano per lo più costituiti da contratti, testamenti e simili, e spe­ cie da testimonianze. Del pari la considerazione delle indicazioni sticometriche mostra da un lato l’unità originaria della tradizione, dall’altro una molteplicità, che risale già all’antichità. Se in otto delle nove orazioni nelle quali note marginali sticometriche sono conservate in mss. diversi, esse coincidono quasi totalmente, nella nona, l’ora­ zione 19 de falsa legatione, la sticometria di fi è diversa da quella degli altri codici* 2* ), sebbene si fondi anch’essa su quello stesso uso, in senso numerale, dell’alfabeto attico (non dell’ ionico), che almeno nelle epigrafi pare morire nel I secolo a. 0. *). Ma, chi guardi bene, la varietà'ù meglio attestata dell’ unità. Se una volta per sempre un editore alessandrino, o magari l’autore dei nbaxec, Callimaco, aveva stabilito l’estensione autentica di un’orazione 4), nessun edi-

J) Raccolte da K. Ohly, Slichomètrische Untersuchungen (Zentndbl. jur Bibliothekswesen, Beiheft 61), Lipsia, 1928, p. 78 sgg. 2) Ohly, 79 e Arch. f. Pap.-Forsch., 7, 1924, 193. s) Ohly, Stich. Uni., 84. 4) Ohly, Stick. Uni., 101 sgg., 103.—Questo quanto a edizioni: quanto a singoli esemplari commerciali gli scrivani avranno più spesso trascritta da un altro esemplare che calcolato essi stessi la sticometria, bo ponevono davvero a fondamento non le righe vere del proprio scritto, ma una riga normale della lunghezza di un esametro (Ohly, p. 4 Bgg.). Ch’essi nel cal­ colo tendessero ad abbondare, perchè la cifra totale degli atl^oi serviva

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CAPITOLO SESTO

tore avrà mancato di ripetere quell’ indicazione per assicurare il lettore sulla completezza. E quanto poco valgano tali indicazioni per caratterizzare un’edizione, lo mostra proprio la tradizióne di Demostene : la sticometri^ è una nell’orazione par la Corona, e tuttavia la lunghezza di quel discorso è diversa nelle diverse famiglie, secondo che sono riportati o no i documenti della seconda parte ! Quei numeri sono appunto tramatici. E il calcolo mostra che proprio per la Corona questa sticometria deriva da un’edizione senza do­ cumenti. * Che le varie classi dei codici demostenici risalgano a edizioni antiche, pare ormai da parecchi decenni*1*) ammesso universalmente, quantunque anche chi lo ammette, e anzi intitola un suo articolo Edizioni antiche di Demostene, oscuri poi il resultato tornando a parlare (p. 542) di archetipo, che è concetto, nella tradizione an­ tica, illegittimo. E da forse un secolo si rinnovano i tentativi di ri­ condurre singole classi a edizioni antiche delle quali è serbata me­ moria. L’Usener, nel lavoro citato più sopra e uscito la prima vòlta nel 1892, tentò, dopo parecchi predecessori, d’identificare la tradi­ zione di £ con l’edizione di T. Pomponio Attico z) : a torto. Esem­ plari atticiani sono certo per Demostene attestati più largamente che per Platone3), per il quale 1’ Usener tentava nello stesso ar­ ticolo una simile identificazione : per Demostene Bono attestate direttamente tre lezioni atticiane per quattro passi differenti4) ; inoltre E ha in fine dell’orazione 11, in epistulam Philippi, la sub­ ii determinare il loro guadagno, il correttore tendesse a ridurre, come basta a mostrare il nostro povero materiale papirologico (Ohly, 91), è umano e scusabile ! 1) Usener, Eie-ine Schriften, ITI, 136 sgg.; Drerup, Antike Demosthenesausgaben (sopra, p. 270, n. 4 : di qui in poi citato Dem.-Ausg.). Con ciò non si vuole nient’affatto negare che il lavorio oiitleo sia continuato nei migliori periodi dell'èra bizantina : A ha due volte l’orazione 51, e il secondo esemplare è migliore del primo. Chi fece mettere insieme quelms., consultò dunque almeno due fonti, e si accorse che la seconda era migliore della prima per il de corona tr-ierarchica. A mostra anche alternamente traccia di due diversi modelli (vedi sopra, p. 276 sg.). a) Usener, p. 143 sgg. : egli aveva avuto un precursore in Hermann Sauppe, ora AusgewdhUe Schriften (Berlino, 1896), 110. Prima dell’ Usener, nel 1882, W. Christ, Attikusausgabe des Demosthenes (Abh. d. bayr. Akad-, 16, 3, 74), aveva ricondotto ad Attico non solo S, ma anche F. 3) Vedi sopra, p. 266 sg. 4) Per intendere l’apparente contraddizione, vedi sotto, p. 279;

VARIANTI ANTICHE B ANTICHE EDIZIONI

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scriptio òtt'ìiy&mTat èy òvo "Arrixiavcóv. Partiamo pare da quest’ora­ zione: se F è stato corretto su due Atticiani, e 3 risale agli Atticiani, si dovrebbe notare una certa costanza di coincidenze tra lezioni marginali e interlineari di F e lezioni peculiari di S. Non è così : di lezioni marginali contrassegnate con yo, cioè di quelle nelle quali sembra più naturale ricercare il resultato di una collazione, coin­ cide una con S, e quest’una è conservata anche in A ; dunque non è nient’affatto caratteristica dei cosiddetti Atticiani. Le interli­ neari coincidono molto più spesso, ma ogni volta in lezioni che com­ paiono anche in altri mss. e in altre classi. Solo nel § 6 la lezione interlineare di F yQtj/jiaat, verisimihnente erronea, coincide con £ contro il resto della tradizione. È troppo poco per trame induzioni. Passiamo alle lezioni attestate direttamente : per la Timocratea, 24, 11, Arpocrazione s. v. vavxpagtxd ha nel lemma questa le­ zione, colà priva di senso, ma attribuisce agli Atticiani la lezione migliore vavxoartTixa. Questa si ritrova, si può dire, in tutta la nostra tradizione, solo per lo più svisata da un innocente itacismo vavxQaTririxa, non prova, dunque, nulla per Il medesimo Arpo­ crazione sotto il lemma àveAovaa yào ròv vójuov rovrov s%eiffOTÓvt]aev avrfj cita un passo dell’Androzionea 22, 20, ch’egli stesso giudica corrotto, e aggiunge subito che gli Atticiani avevano qui due lezioni : àveAovtra yào ròv vóp,ov toCtov sxeiQOTÓvijaev avitfv e àvetowra yàp tòv vó/mv ro&rov è%etQo?óv7]ae Aafìoffaa éxeivov avrfj. La seconda lezione è evidentemente sformata, poco importa se nella tradizione di Arpocrazione o nell’esemplare atticiano da lui consultato, da un glossema. Ma, anche emendando senz’altro quest’errore, converrà dire che tut-t’e due le lezioni si ritrovano nei codici di Demostene: avrrjv (scrivo perora senz’accenti e spiriti) in £ e, parrebbe di prima mano, in A ; avrr], cioè avrfj (e, parrebbe, anche con altra ortografia éavrfj), nel resto della tradizione, per esempio in F Y. avr// nominativo è la lezione giusta, e non è escluso clic così fosse intesa già la seconda lezione dagli Atticiani : chi sa se essi avevano iota ascritto e, sia pure in una parola di dubbia lettura, lo spirito ! A ogni modo le due lezioni si trovano qui distri­ buite nella tradizione medievale : dov’ è la connessione con S ? Pesta la glossa ixnoXspMcat di Arpocrazione. Qui è citato A^/.ioa&évrjQ (friAmnixou;, ma si aggiunge subito che gli Atticiani leggevano èxnoXe/.ifjaai. Ora nella prima e nella terza Olintiaca (1, 7 e III, 7) S legge davvero, solo, èxnoXe/ifjaat per èxnoXe/jtcòaai. La coincidenza in una lettera è troppo isolata ed è troppo poca cosa per trarne conseguenze, anche se la lezione degli Atticiani e di 6' dovesse essere « innovazione », errore. Tutto questo ha già ve­ duto fin dal ’93 il Lipsius 1). J) ò’cùAe. Per., 46, 1893, 10 sgg.

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CAPITOLO SERTO

Più evidenti appaiono le relazioni di 8, o almeno di una parte di 8, con un’altra edizione. Uno scolio alla Midiana 21, 147 difende, à ragione, la lezione àfpavl^eiv lega contro un annacquato à.v di 8 A più conforme all'uso demostenico 3). Così XI, 11 ^rjfdaq xatà t^v ùgtav eìXrppev il distributivo xarà tì'/v à^lav favorisce il plurale di 8 contro riytlav di Didimo FA Y. Così in XIII, 1, Didimo si accorda con tutta la tradizione in èxxXrjalav noieire, mentre solo una va­ riante marginale del prezioso 8 ci ha conservato noiEtatìe, che bì ]) Della cernita si presentano qui solo i resultati, e solo dove è ne­ cessario. 2) Lascio da parte qui e altrove caBi più dubbi o meno significativi. 3) Vodi sopra, p. 285.

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CAPITOLO SESTO

dovrebbe restituire anche per congettura, tanto stabile è in simili circonlocuzioni il medio (jivetav noieia&ai e simili). Dunque un ms. come gli altri, anzi inferiore al nostro migliore ? Non del tutto : Didimo ci tramanda, esso solo contro tutti gli altri, lezioni preziose: in XTTT, 7 el /lèv yào fy/v%lav lyetv v/tìv ànéyor) xal firfiièfv xt»v 'neQìeQya£ea&ai SnaiQ é%si il BIobb, confron­ tando IV, 42, eì.... ^ov%(av Eyeiv ^&eAev Hai p.rjòèv t-noartBV Sri, aveva congetturato neQirjQyd^ea^E che elimina lo iato ; aeQieiQydtsa&e lia letto Didimo. Così in X, 34 Didimo ha letto, anche se il lemma era è conguagliato, non iMiutovt da tutta la tradizione medievale in quanto anx) La testimonianza di A ha meno valore, perchè questo manoscritto ha un’orazione due volte in forma diversa (vedi p. 278, n. 1), contamina cioè due fonti. 2) pae volte, se non solo sono state scritte dalla stessa mano, ma ap­ partengono veramente allo Btesso manoscritto, Oxyr. Vili, 1093 e IX, 1182: questo, poiché metteva insieme orazioni pubbliche e private, par­ rebbe un esemplare di edizione completa ; o piuttosto di una scelta ?

VAMANTI ANTICHE E ANTICHE EDIZIONI

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noverava ancora tra le Filippiche il negl avvxd^eaìg, cioè quello che, per quel che possiamo vedere, in tutto il resto della tradizinne è il primo dei Aóyot avpfìovXevxixot. La lettera di Filippo è omessa in S ed è omessa in A ; l’indice di T la registra ma senza numero (un numero essa ha solo nell* indice di F). Tutto ciò non sorprende, perchè, autentica o no1) (cioè rielaborata), essa a ogni modo non era un'orazione di Demostene, ma un documento aggiunto a fini il­ lustrativi a un’orazione di Demostene. A ogni modo, tranne l’omis­ sione della lettera, l’edizione di Didimo aveva i numeri 9, 10, 11, 12, 13 (dunque già oltre quel che per noi è il primo gruppo) nella stessa successione degl’indici di FY. Come disponesse le orazioni precedenti, non è attestato, ma i numeri ci mostrano che aveva tutte quelle che sono in F, compreso il negl 'A2.ovvrjraTa ha nell'Antidoti A ; la tra­ dizione originale dà àp%txc6rara, eh’ è, come mostra il senso (poiché si tratta di dominio e segue /tey/itrra? dwaarelas è^ovra), la sola lezione giusta. Qui evidentemente il testo dell’Antidosi è secondario, è « innova­ zione », ma esso era penetrato già in un papiro della tradizione originale nel II d. C. ; come, se non per collazione? Del pari nel § 80 Ox. 844 dà, oome nell’Antódost, TtQoaayoQevó/jievoi senza senso contro la tradizione origi­ nale nQoaayó/iEVOt. Anche qui la spiegazione più semplice Barà che il correttore del modello avesse coliazionato l’Antidoti e introdotto nel testo una sua lezione, sebbene questa dovesse apparire errata a qualunque per­ sona assennata. Naturalmente è anche possibile che l’errore sia dapprima avvenuto nella tradizione originale, si sia di lì trasportato alle citazioni dell’Antidoti, sia stato poi corretto sul fondamento di un altro ms. nella tradizione originale e non nell’ Antidoti. E conviene anche dire che una possibilità può cogliere nel segno per l’un luogo e non per l’altro, e così via. Tutta la/ questione è per me secondaria. x) Drerup, Praef., p. t.xxxt sgg. a) K. Ohly, Stichometritche Untertuchungen, cit. sopra, 83 sg.

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avere loro attribuito il Drerup 1), quanto il rispetto alla legge isocratea che vieta lo iato. Qui, poiché l’intenzione d’Isocrate è evi­ dente, qualunque lezione, rispettando il senso e senza violare l’uso linguistico, toglie lo iato, dev’esser genuina. E di tali lezioni 71 ha, rispetto alla vulgata, migliaia. 8’intende quindi che ceteris paribus l’autorità di F debba prevalere. Ma il Drerup, laclnnanuiano impenitente, tanto da raccoman­ dare con il Baiter (p. clxxxv) di seguire T anche quando l’wsws dicendi sembra sconsigliarlo, ha concluso diversamente : egli asse­ risce che la nostra tradizione d’Isocrate deriva tutta, papiri e cita­ zioni antiche comprese, da un archetipo del principio dell’età elle­ nistica. Formulata cosi, questa supposizione si rivela subito as­ surda ; eh è è impossibile che nel III secolo a. C., in un periodo di altissima cultura, tutti prendessero a copiare un unico esemplare d* Isocrate (o anche che a noi siano giunte copie solo di quell’esem­ plare). Ma anche se si dà a quell’ ipotesi un senso ragionevole, li­ berandola dal termine illegittimo che la vizia, anche se s’intende come asserzione di una fondamentale unità della tradizione, essa non può essere accettata se non in minima parte. D’Isocrate noi possediamo due edizioni, e queste due edizioni non hanno molto di comune o hanno in comune particolarità che non provano nulla. Cominciamo da queste 23 ). Tutt’e due le edizioni darebbero l’orazione 13 contra sophistas priva dell’ultima parte. Ma qui una delle due : o Isocrate non ha pubblicato di più, come hanno sostenuto parecchi a) ; o, che è meno probabile, quella seconda parte è andata perduta innanzi alle edi­ zioni : certo è che, mentre della parte conservata spesseggiano le citazioni antiche 4), di quella perduta non ve n’ è neppur una. E a smarrimento cagionato in età alessandrina da un fatto meccanico, per esempio dallo staccarsi delle ultime colonne, nessuno crederà facilmente : delle orazioni d’Isocrate, di quell’orazione v’era dun­ que già allora un solo esemplare ? Tutt’e due le edizioni presenterebbero le medesime interpo­ lazioni in 2, noò$ Ntuonléa. Il Drerup, seguendo l’esempio di altri, chiama interpolazioni quelle parti dell’orazione che Isocrate stesso omette là dove neH’-diUùZosi cita questa propria orazione, ma il Drerup stesso ammette (p. lxxxv) tali omissioni nelle citazioni del discorso de pace. Viene dunque meno la ragione principale del sospetto. T) Giustamente contro il Drorup, Mùn6cher, GGA, 779. 2) Per tutto quel che segue vedi Mùnscher, GGA, 759 sgg. 3) Per' esempio Wilamowitz, Aristoteles and Athen, I, 320, n. 12 ; Munsclior, Philologus, 58, 1899, 95 sgg. 4) Keil, Analectx Isocratea, 61 sgg.

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Tutt’e due le edizioni presenterebbero, sostanzialmente, lo stesso ordine, che sarebbe sostanzialmente identico anche a quello del codice 159 di Fozio. Basta uno sguardo allo specchietto stam­ pato dal Drerup x) per accorgersi che la sostanza si riduce a ben poco : sia in P, sia in Fozio, sia in «, pei* quanto esso si può ricostruire dalla vulgata* 23*), stanno insieme i tre componimenti parenetici (nel­ l’ordine ad Demon., ad Nicocl., Nicocl.), stanno insieme i quattro èyxdifua (nell’èyx *) Bechtel, Grieeh. JDial., Ili, 174 sg. 2) Per la differenza tra questi due concetti, vedi p. 316. •) Cho la stessa doppia lezione si trovi anohe nell’altra stirpa (traman­ dato è ol &txr)To), non deve nè stupire nè indurre a stabilire un archetipo comune : che recensori e scrivani posteriori cedessero ciascuno per conto proprio alla tendenza a normalizzare, a introdurre la grafia consueta, è troppo naturale. d) Raccolti sino al 1915 in una dissertazione di Groninga di Viljoen, a me non accessibile. Quelli sopravvenuti più tardi sono trattati da J. Sitzler, Bwrsians Jahresbericht, 191, 1922, 1 sgg., e Snell, ibid., 220, 1929, 2 sgg. ; specialmente importante uno di Tiflis, di cui subito nel testo.

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AaxeSat/tióvioi Zi oìQitss ènoiijaavro il AaxePaifuivioi di a pare a mo sicuro, Aaxeòaifiovloiai di fi e del papiro inintelligibile (dovrebb’essere uno strumentale). Viceversa Oxyrh. XI, 1375, del III d. C., che contiene VU, 166-07, dà in 167 con a : [Atti òè in* avrcòv Kuq%T)òoviojn> Sòe Myoc Aeyd/isvoc.... tóg ai pèv fiaQftaQOt] rotai “EMqoi èv rfj EixeMp èfia%ovro ijovq àol-d/tsvoi /té^gi òefàris dythgs, men­ tre fi omette èv rfj SixeXlp. Ora quelle parole paiono davvero su­ perflue, perchè i Cartaginesi non potevano narrare se non dei combat­ timenti in Sicilia con i Greci, e viceversa s’intende molto bene donde esse siano penetrate nel testo : poche righe più sopra (166) si narra come lo stesso Gelone vinse i Cartaginesi sv rfj EtxsMri, e gli Ellcni della madrepatria il Persiano a Salamina. E le liste si potrebbero al­ lungare, citando altri papiri, se ne valesse la pena. Qui basterà ag­ giungere che anche uno dei più antichi papiri di Erodoto, il fram­ mentino di Monaco pubblicato dal Wilcken *), che risalirà forse al I secolo d. C., dà in I, 116, 26 è? avrovQ evidentemente contro il senso, ma d’accordo con a contro il genuino èg éwvròv della stirps romana. Ma accanto a questa serie di testimoni antichi, che stanno con la tradizione medievale in un rapporto che per noi è consueto, ne corre un’altra che indirizza lo studioso a una conclusione dif­ ferente. Almeno un papiro, quello di Tiflis 15 del III d. C., conte­ nente parti di I, 196 e I, 200-203 *2), mentre fornisce lezioni nuove eccellenti, confermando due volte emendamenti congetturali di mo­ derni 3), non si accorda con a contro p o con P contro a se non in lezioni genuine ; e l’estensione del testo sembra escludere che qui sia in giuoco il caso. Il papiro è, come si è detto, del III d. O., ma una particolarità grafica (la scrittura Tr]fi/.isyyaQ per «)r /lèv yàgj sembra indicare un modello immediato molto anteriore. La conclusione è la seguente : nel II d. C., anzi già nel I, esiste­ vano, sì, certe innovazioni peculiari di a e di /? ; o u e 0, poiché non possono risalire a un archetipo con varianti, rappresentano, si, ve­ ramente due edizioni antiche, ma nessun papiro attinge all’una o al­ l’altra. Questa volta (e questo è caso singolare) gli editori non hanno avuto a disposizione il materiale migliore : ancora nel II secolo, come prova Oxyrh. Vili, 1092, di II, 162, r. 9 sgg., circolava una versione alquanto differente, se pur non migliore, che è colà segnata in margine con la nota ov(ra>g) èv r(iatv) à(2Aot?) ; e, in ispecie, *) Archiv fùr Papyrusjorscltung, I, 472. 2) Edito da G. Zereteli, Papyri russischer uni georgischer gammlungen, I (Tiflis, 1925), p. 95 sgg. ®) Anèhe nei papiri Ox. XVII, 2095-99 (i più antichi del II secolo) le coincidenze con a o con p paiono appoggiar sempre la lezione genuina : questi papiri sono tutti brevissimi.

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non solo nsl II ma ancora nel III secolo era superstite una tradi­ zione molto più pura, contro la quale a e fi coincidono in errori. Questa volta gli autori dello due edizioni a noi conservate hanno lavorato sur una vulgata già inquinata, in buona parte sulla stessa vulgata. Abbiamo sinora lasciato da parte (e da parte lasceremo ancora per un momento) la forma dialettale, le varianti dialettali, ma non possiamo fare a meno di notare che proprio il papiro di Tiflis ci mostra che a e /3 falsificano tutti e due il dialetto nella stessa direzione, eliminando forme che non intendono. In I, 203, r. 1, il papiro legge Kadxaat^, e questa è la forma genuina ionica1), come prova il suo apparire in un’epigrafe di una colonia ionica nella Russia meridionale, Panticapeo 2). Qui (e due righe più so­ pra I, 203, r. 27) a ha Kainaaoq, fi Kavxdaiot; ; vale a dire fi è alquanto più prossimo alla forma genuina. Altrove, in ni, 97, la fonna fCavxdaio; nel genitivo è stata rispettata da a tutte e due le volte in cui in quel capitolo oompare, mentre l’una delle due fi ha sostituito l’epicismo Kavxdmio: fi tende, comesi è detto (p. 307), a cpicismi. Un'altra volta la trivializzazionc ha vinto in tutt’e due le famiglie : IV, 12, r. 23 ròv Kavxaaov, La falsificazione è una volta più, una volta meno avanzata in ognuna delle due famiglie. Ancora un caso analogo, nel quale però la forma genuina è stata eliminata nello stesso modo dalle due tradizioni. Ambedue le famiglie testimoniano in più di 200 luoghi nQfjy/.ta senza va­ rianti (se le collazioni sono per questo rispetto sufficienti), e così pure senza varianti i derivati itQiyyfiaTstieaOai noXvnoTiyfiovéeiv, e gli analoghi dAala-yjaóq éXiy/iós (pQayftót;. Ma l’antica forma ionica era come mostrano un’epigrafe di Chio c una di Efeso. E che Erodoto abbia scritto veramente così, dimostra un epigramma ateniese di età imperiale (1092 Kaibel) :

Mv-ijixa róde oóvx vetòv quale glossema penetrato dal paragrafo precedente. Il papiro mostra ora ch’eBsi batte­ vano una falsa strada e che il Gertz era più vicino alla verità con il suo d aitò x&ì> ’ltóvoìv Jicfdc pure errato ; esso ha (per ve&v) senza dubbio genuino. 4) Secondo lo Hude (p. 582) tre volte : in tutti e tre i passi la lezione di B pare a me migliore o altrettanto buona.

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CAprruuj sjjssxo

tò àarpa^àavarov (per àa^ral^arspov) ngàì-ai. Coincidenza meramente casuale 1 Può essere ; ma non può essere fortuito un altro accordo : in 24, 3 il papiro legge Botimap con B contro il Soliamo o BoMaat? (l'accento non importa) del resto della tradizione. Qui perfino un giudice cosi prevenuto contro B come è lo Hude, mette Bollane? nel testo : perchè mai ? Solo perchè Stefano di Bisanzio, che deri­ verebbe da Erodiano, attesta espressamente (s. v. Bohaaóc.) di aver letto tale forma nel libro Vili di Tucidide. Meniamo pure per buona la derivazione, tutt’altro che certa, di questa notizia di Stefano da Erodiano, sebbene essa non si riferisca a un accento, e concediamo così che la testimonianza spetti all’età di Marco Aurelio, cioè supper­ giù all’età del papiro, e non a quella-di Giustiniano ; ciò nonostante è sicuro che Bollane? non può essere se non corruttela o congettura di un editore : Boliaoós chiamava Eforo questa cittadina dell’ isola di Chio (70 F 103 Jac.), Boltaóq con un solo sigma Androzione, (presso Stefano), Boltaaóc le vite omeriche dello pseudo-Erodoto 23-24 e di Suida ; Boltaaóg si chiama tuttora 1). E, che più importa (perchè nomi antichi possono essere restituiti in tempo moderno per zelo di eruditi locali : testimonio Vlbo Valentia ; come si pronuncerà, con la t o con la zi), Bohaaó^è uno dei tanti nomi locali asiani in -aerós. Chio è a due passi dall’Asia Minore, e perfino l’oscillazione tra il sigma semplice e doppio è caratteristica delle riproduzioni greche di una tale desinenza 2). Tucidide, che proprio di Chio e di questa spedizione era perfettamente informato s), ha scritto senza dubbio la forma autentica. Dunque seconda coincidenza in errore, in errore che non può esser casuale. Nè casuale può essere che alla fine del § 5 il papiro legga, come sembrano mostrare gli spazi, l-vvavaiQsfhfaeerlku con B contro il gvvaqte&fyrBer&ai del resto della tradizione. Nè l’una nè l’altra parola conviene al senso, ma se Tu­ cidide, come pare, ha scritto semplicemente faaiQsflifaeaiku 45 ), la lezione di B e del papiro è contaminazione della lezione giusta e della variante gwaiQetìqaea&at, quindi secondaria rispetto a questa. Meraviglierà che già un papiro del II secolo abbia una tale corrut­ tela ? Ma questo stesso papiro ha in Vili, 103, 2 l’àtpinóperai er­ rato di tutta la tradizione, emendato solo in G da un correttore s) nel giusto mascolino àepinó/ievot®). In altri passi si può dubitare

1) Oberhumruer, P. W., Ili, 675. 2) In epigrafi e monete arcaiohe dell’Asia Minore e della Tracia questo suono, probabilmente assai diverso dal sigma greco, è reso da un simbolo speciale: vedi Dittenberger-Hiller, Syll.3, 45, n. 1. 3) Wilamowitz, Hcrm., 43, 585. 4) Hude, Commentarii, 50, e meglio Wilamowitz, Herrn., 43, 618. 5) Non è certo che sia per congettura. ®) àpinófievat può, per vero, essere errore sorto indipendentemente in rami diversi della tradizione: precede •fifiéqai, dativo singolare ma

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se le lezioni in cui il papiro e B coincidono siano giuste o errate*). Coincidenze conl’allra famiglia in errore non ne ho trovate. Dovremo concludere che questo papiro sta con B nella stessa relazione che il precedente con l’altra famiglia * 2). Conclusione generale : preformazioni delle due famiglie c’erano già nel U-III secolo d. 0. Conseguenza pratica : ogni volta che in questi libri B si oppone al Testo della tradizione (dal mutilo H qui si prescinde), converrà prender molto Bui serio la divergenza e dirimerla non auctoritate, come inclinava a fare il nude, sed iudicio. Corollario : per i primi tre quarti dell’opera di Tucidide, poiché possediamo solo un’edizione antica 3), la ricostruzione del testo sarà molto più imperfetta ; anzi siamo sicuri che qui di moltissimi errori non ci accorgeremo neppure. .*.

Ho parlato sinora degli altri codici di Tucidide, come se tutti insieme costituissero una sola famiglia ; e veramente è così, se si confrontano con B, qual esso è nell’ultima parte dell’opera4). Ma se si considerano in sè (e per tre quarti delle Storie si deve annove­ rare tra essi anche B), quest’unità si decompone m gruppi. Fra i codici sembra primeggiare, non solo per l’antichità, ma anche per la purezza del tèsto, un Laurenziauo del principio del X secolo, C ; ma anche in questa prima parte dell’opera la fede nell’autorità di un manoscritto, se è cieca, com’ è cieca nel Hude, porta a resultati inaccettabili. Degli altri sei manoscritti preumanistici nessuno può esser buttato via e nessuno merita di essere dispregiato. Dei gruppi che poteva facilmente essere scambiato per nominativo ; se questo avve­ niva, l’assimilazione era inevitabile. 1) Così in 52, 1, se gli spazi sono stati valutati bene, il papiro darebbe neurdvjvai con B contro mxrcevtììjvat di OG. La decisione è difficile : per jisurOrji'at Wilamowitz, Herm., 43, 502 ; per mavevBfjvai Schwartz, 360. Ma per vero questa volta B è anche sorretto da membri dell’altra fa­ miglia, AEF; chi vuole, può pensare che questi mss. abbiano attinto alla tradizione di B. 2) Ch’esso Bia libero da aggiunte caratteristiche di B, come \'ànf)QaV (dopo telyn)) in 24, 2 e il /.teff &v (dopo àyaBdn> in 24, 5, non significa naturalmente nulla. 3) Subito dopo (p. 325) si mostrerà come forse siamo più ricchi di quanto supponevamo, pur senza poterci render conto di quanto siamo più ricchi. 4) Naturalmente, questo non esclude che in certi casi anche negli ul­ timi libri una parte dei mss. si accordi con B : un caso ne abbiamo visto nella n. 1.

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CAPITOLO

SESTO

il più lontano da C sarebbe costituito da A B E F, codici forse tutti e quattro dello stesso secolo, il XI; ma che E conservi tradizione ottima, è dimostrato da una quisquilia : esso e solo esso ha spesso nei capitoli V, 57, 2 sgg. gli autentici e &i’ àotàffa è corretto tra le righe in rmvós xaiìaai ■deiòv &t’ òoidwv, ma il xahéaat, impossibile metricamente, è rima­ sto intatto. Seguono ancora due versi, di cui purtroppo leggiamo soltanto il principio, nel margine libero : dunque l’autore (chi al­ tri se non luif ), non avendo più papiro a disposizione, continua la stesura sul margine, come faremmo anche noi in tal frangente. Se­ guono ancora, sempre in margine, tre righe di prosa (mal leggi­ bile, ma quel che bì legge non è metrico) : appunti che dovevano essere versificati, più tardi, appena la vena tornasse à fluire f Dun­ que le varianti sono redazioni alternative tra le quali l’autore si riservava di scegliere, come negli originali delle poesie del Leopardi. 1.

Ma veniamo a testi maggiori. E lasciamo da parte gli Acade­ mica di Cicerone. Abbiam veduto dianzi (p. 399 n. 1) come l’au­ tore sostituisse una seconda redazione accresciuta e rifatta alla prima quando questa, almeno per buona parte, era stata già. trascritta dagli amanuensi di Attico. Ora, mentre della seconda edizione, oltre a ci­ tazioni di autori antichi, specialmente di Nonio, Lattanzio e Ago­ stino, ci è giunto solo il primo libro, con la dedica a Varrone, e anche questo mutilo della fine, della prima edizione abbiamo intero il secondo libro. Dunque questa, non sappiamo come, fu una buona volta pubblicata, o dall’originale di Cicerone, dettato probabilmente ai suoi amanuensi, o dalle copie che Attico aveva già fatto allestire. Se la pubblicazione fosse completa, o se essa si limitasse appunto al secondo libro, che era evidentemente già del tutto pronto per la pubblicazione, non abbiamo, credo, argomenti per stabilire1). Pur tuttavia i rapporti tra gli Academica priora o ì posteriora erano forse, tanto aveva mutato Cicerone, quelli di due opere differenti tra loro; e differenti esse sono per noi, perchè non ci sono conservate le trattazioni parallele. Un altro esempio, questo molto chiaro, di

x) Si potrebbe pensare che fossero venuti in pubblico dominio i libri I olle che solo il secondo sia giunto a noi, perchè ei fossero perdute rela­ tivamente presto le parti corrispondenti degli Academica posteriora.

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CAPITOLO SETTIMO

due x), anzi tre redazioni della stessa opera, tutt'e tre conservate, ab­ biamo trattato nel secondo capitolo del predente volume (p. 16 sgg.), intendo dire VApologetico di Tertulliano. Ma veniamo a casi più complicati e, prima di tutto, a uno nel quale hanno parte importante certe interferenze fra la tradizione dei papiri e quella dei codici medievali. Le cosiddette Lettere ippucratec (IX, 312 sgg. Littré) non sono veramente nè tutte attribuite a Ippocrate o dirette a lui, nè tutte lettere : sono un romanzo o una serie di novelle sulla vita d* Ippo­ crate e particolarmente sulle sue relazioni con il gran re Artaserse, con Democrito, con un indeterminato e indeterminabile re Demetrio, con la città di Atene, in forma principalmente di lettere. Quanto composita l’opera, altrettanto poco una è la sua tradizione bizan­ tina. Grosso more si distinguono due famiglie : l’una costituita di corpora ippocratei, l’altra di raccolte di epistolografi. La prima con­ sta per buona parte di codici di oert’antichità ; la seconda di ma­ noscritti tardi, tutti o quasi tutti del Rinascimento. La prima con­ tiene le lettere più o meno complete, tranne che un solo esemplare, il Palatino del X secolo, dà anche i nn. 23 e 24. L'altra classo dà solo 1-5, 11-18, 20, 22 (quest’ultima mutila in fine). Un Parigino del XVI secolo, x etiQrjTat xtfta[ieiJ£TQr}fiévov ov nm>T(OQ òè ràv naXaiàv tovto xaTcdeiqidvTOìV, dAA’?) •fjftùìv d/z^Afia to ì/iMttitóv te HuxQày dneaxoqdxtae. tov tp&óvov, ttJc tifila; —,

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