L'incredibile storia dei libri di Numa. Falsi, roghi e plagiari dall'antica Roma al '900 9788895844299

Nel 181 a.C. le forti piogge portarono alla luce, ai piedi del Gianicolo, la tomba di Numa e i libri con i quali l’antic

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Italian Pages 160 Year 2013

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L'incredibile storia dei libri di Numa. Falsi, roghi e plagiari dall'antica Roma al '900
 9788895844299

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/ ...}In altra occasione, mi è capitato di affermare che ci sarà sempre un qualche autore che, nella solitudine dei propri studi, ha scritto opere concernenti argomenti rilievo,

anclle

di

che tuttavia sfuggono e

sfuggiranno ai repertori bibliogra­ fici:

per

l'estraneità

dell'autore

rispetto ai circuiti nazionali o per l'assenza

delle

sue opere nelle

pubbliche biblioteche: è il caso di Joecher. Cosi come è il caso del suo plagiario, Raffaele De Chiara. Dedicandomi ormai da molti anni a ricerdle giuridico-bibliografidle concer­ nenti il diritto romano più antico, mi è capitato non di rado di imbat­ termi in tali autori sconosciuti alle bibliografie,

anche

quelle

più

accurate: sconosciuti per le loro opere, come anche nella propria stessa biografia. Ma a distanza di secoli, dobbiamo essere riconoscenti a Joecher (ma perfino a De Chiara: cile ha ingigantito e moltiplicato il gioco di specchi nei quali ci siamo mossi: e che ci ha divertiti assai ... ), che ci permette di confrontarci con lui - come con un contemporaneo - nella splendida atemporalità della ricerca biblio­ grafica, in cui tutto si rinnova, ma al

contempo

si

riannoda

e

si

intreccia nel trascorrere dei secoli. dalla Prefazione di Oliviero Diliberto

978-88-95844-29-9

euro 15

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L'INCREDIBILE STORIA DEI LIBRI DI NUMA falsi, roghi e plagiari dall’antica roma al ’900

a cura di massimo gatta traduzioni e note di mario lentano scritti di oliviero diliberto, mario lentano, massimo gatta

biblohaus BH

l’incredibile storia dei libri di numa biblohaus www.biblohaus.it [email protected] macerata isbn 978-88-95844-29-9

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progetto grafico e impaginazione paolo flamini fredi perucci stampa digitale www.stampalibri.it [email protected] in base alle leggi sull’editoria ogni riproduzione di quest’opera, anche parziale è illegale e vietata. tutti i diritti riservati. prima edizione © maggio 2013

biblohaus e stampalibri.it rispettano l’ambiente perché utilizzano carte riciclate ed ecologiche.

nota dell’editore: l’editore sarà grato a quanti potranno segnalare inesattezze ed omissioni, che saranno tenute in considerazione per future edizioni: [email protected] in copertina: frontespizio della dissertazione di Christian Gottlieb Joecher (Lipsia, 1755). Si ringrazia la Biblioteca Manfrediana di Faenza per la copia della dissertazione di Gottlieb messa a nostra disposizione e utilizzata anche per la ristampa anastatica (collocazione: M 161 005, in miscellanea).

nota introduttiva massimo gatta

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L’antefatto Questo rarissimo opuscolo di Raffaele De Chiara era destino che, prima o poi, venisse ristampato in una edizione critica. La modalità attraverso la quale è finito nelle mie mani merita, forse, una breve nota. Nel 2007 mi giunge il catalogo della Libreria Pompeiana di Napoli, gestita da Alberto Della Sala. Sfogliandolo mi imbatto nella scheda 233 dove l’opuscolo viene preceduto dall’indicazione del soggetto: Latinistica-Biblioclastia, segue il nome latinizzato (Raphaël De Chiara) e il titolo, ecc. L’argomento è di quelli che da tempo mi intrigano e ancora di più questo opuscolo che leggo stampato nel 1908 a Nocera Inferiore, nell’Agro Nocerino Sarnese, dalla Tipografia di Angelo Angora, all’epoca di un certo valore anche per la qualità tipografica. Telefono immediatamente ma Della Sala mi comunica che l’opuscolo è già stato richiesto e venduto, gli chiedo che almeno mi faccia avere la fotocopia, se non lo ha ancora spedito. Sono molto deluso, come sempre quando un titolo agognato

mi sfugge per poco, ma è destino frequente per chi compulsa cataloghi antiquari. Dopo circa un mese mi giunge un plico dalla Pompeiana ma all’interno, invece di volgari fotocopie, trovo l’opuscolo originale. Telefono per ingraziare e Della Sala mi dice che siccome l’acquirente per diversi giorni non è passato a ritirare il libro, lo ha messo in condizione di darlo per venduto ad altri, cioè a me. Dell’autore non si conosce praticamente nulla, potrebbe essere un erudito locale come all’epoca ce 6 n’erano tanti. Da SBN risultano alcuni titoli riconducibili a lui, in particolare un altro pubblicato lo stesso anno di questo sui libri di Numa, edito a Napoli dalla casa editrice D’Auria, storica editrice e libreria napoletana tutt’ora in attività; l’opuscolo è De C. Lucilii vita et operibus (Napoli, D’Auria, 1908). L’opuscolo che viene oggi ristampato dopo esattamente 105 anni, è sconosciuto a tutte le bibliografie consultate e non è presente neppure in SBN, nel Metaopac Azalai e nel Karlsruhe Virtual Katalog, un eccellente metaopac internazionale, in Maremagnum o Addall.com o Abebooks.com, noti motori di ricerca per l’antiquariato librario; non l’ ho mai visto neppure in altri cataloghi antiquari ricevuti in questi anni, e anche dal confronto con amici esperti di romanistica o latinisti il nome De Chiara è del tutto sconosciuto. Per tutte queste ragioni la ristampa critica dell’opuscolo è stata un modo sia per incontrare uno studioso meticoloso e appassionato come Mario Lentano, che all’argomento ha dedicato vari studi, che per continuare la collaborazione con l’amico Oliviero Diliberto appassionato studioso e bibliografo rigoroso. A loro

due va tutta la mia gratitudine e il ringraziamento per avere condiviso questa ulteriore, piccola, avventura intellettuale, contribuendo in maniera determinante, professionalmente e scientificamente, all’edizione critica del curioso testo di De Chiara.

Il fatto nuovo Così scrivevo a conclusione della mia nota alla ristampa dell’opuscolo di De Chiara e del quale si stava per realiz- 7 zare la prima bozza. Qualche giorno dopo, però, consultando il catalogo nazionale del SBN e digitando ancora una volta per scrupolo bibliografico il titolo De Numae libris publica auctoritate ecc. ecc., cioè quello dell’opuscolo di De Chiara, che fino ad oggi aveva dato esiti negativi, ebbene questa volta appare un titolo assai simile di un certo Christian Gottlieb Joecher (Lipsia 20 luglio 1694 – 10 maggio 1758), erudito, bibliotecario e lessicografo tedesco di una certa prolificità se in SBN a suo nome risultano ben 55 occorrenze bibliografiche (su di lui rimando al link http://de.wikipedia.org/ wiki/Christian_Gottlieb_J%C3%B6cher). Questa dissertazione, pubblicata a Lipsia, ex Officina Langenhemiana, nel 1755 (data in calce allo scritto che diverge da quella indicata nella scheda di wikipedia: 1753) è alquanto rara, localizzata nella Biblioteca comunale Manfrediana di Faenza, opuscolo rilegato in una miscellanea (bid: RAVE/065088, collocazione M 161 005), esemplare proveniente dai Gesuiti di Faenza, come indica la scheda catalografica, e nella Biblioteca Palatina di Parma (collocazione: Galleria

W*.9. 23128 1, in miscellanea). Grazie alla cortesia di Mattia Calderoni, del servizio biblioteca del Comune di Faenza, ottengo la scansione dell’opuscolo di Joecher, che invio sia a Diliberto che a Lentano per una loro valutazione scientifica, anche rispetto al titolo analogo di De Chiara. Con grande sorpresa di tutti vengo a sapere che il nostro De Chiara, del quale pensavamo di ristampare un lavoro originale, aveva completamente plagiato lo scritto settecentesco di Joecher fin nei minimi particolari anche nelle note bibliografiche; 8 qualche errore latino nel testo di De Chiara, rilevato da Lentano nella sua traduzione, lo si deve all’autore in quanto questi errori non sono presenti nel testo originale latino di Joecher, come rilevato da Lentano. Possiamo supporre, a questo punto, che l’irreperibilità dell’opuscolo di De Chiara potrebbe avere una ragione strumentale, cioè essere stato volutamente stampato in pochissimi esemplari, circolati forse tra amici, per evitare che, finendo in pubbliche biblioteche, potesse un giorno essere scoperto come plagio. Certo all’epoca di De Chiara non c’erano gli strumenti informatici di ricerca bibliografica di cui disponiamo oggi, ed era praticamente impossibile sapere se e dove era presente l’oscuro e dimenticato scritto di Joecher utilizzato a piene mani da De Chiara, tra l’altro una dissertazione accademica, cioè non una pubblicazione con libera circolazione. A questo punto si è proceduto a modificare completamente l’impostazione editoriale del nostro libro, diventato ora una riflessione sia sugli ipotetici libri di Numa fatti bruciare dal Senato, sia sulla storia di questo incredibile plagio novecentesco, rimasto tale se

la fortuna non ci avesse fatto scoprire, del tutto casualmente, il lavoro certamente pioneristico di Joecher, del resto anch’esso sconosciuto a tutte le bibliografie consultate. Una piccola storia di un falso su un libro sui falsi, vertigine allo stato puro. E siccome siamo in epoca romana è proprio il caso di dire: diamo a Cesare quel che è di Cesare.

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recentissima specie. lotta politica, roghi e falsari di libri nella roma repubblicana (e un po’ di truffe più recenti) oliviero diliberto 11

Premessa – Questa storia ha dell’incredibile. Presenta tutti gli ingredienti di un thriller libresco che attraversa i secoli. Nell’antica Roma, infatti, si confezionano dei libri – palesemente falsi – attribuiti a Numa Pompilio, il vetusto secondo re della tradizione. Quei libri vengono rinvenuti nel II secolo a.C., ritenuti pericolosi e dati alle fiamme come se fossero stati realmente di Numa: destino, quello del fuoco, tragicamente ricorrente nella storia dei libri. Un erudito tedesco del Settecento, Christian Gottlieb Joecher (Jöcher), professore a Lipsia e autore di non banali trattati di filosofia e cultura classica, dedica a tale vicenda una dotta dissertazione: sconosciuta alle bibliografie specializzate. Un altro erudito, questa volta italiano e agli inizi del ‘900, Raffaele De Chiara, pubblica un altrettanto ignoto opuscolo sul medesimo tema e dall’identico titolo: ma De Chiara copia integralmente, verrebbe da dire spudoratamente, la dissertazione tedesca di un secolo e mezzo prima, senza minimamente farne cenno, come se fosse integralmente sua: commettendo perfino, qui e là, degli errori di trascrizione rispetto

all’originale (i due testi sono in latino). La fa franca, diciamo così, sino ad oggi: questo nostro libretto svela il plagio. Una storia stupefacente, labirintica: di falso in falso. Come se un’oscura maledizione avesse segnato i libri di Numa: che egli (con ogni probabilità, stando alle fonti antiche) aveva effettivamente scritto, ma dei quali gli originali – come ovvio – si sono persi negli anfratti dei secoli. Christian Gottlieb Joecher ne studia la distruzione attraverso il fuoco. Raffaele De Chiara, che con vezzo erudito pubblica 12 latinizzando perfino il suo nome (Raphaël), lo copia sfacciatamente: ma, destino comune, entrambe le pubblicazioni scompaiono, questa volta nei meandri delle bibliografie. Ricompaiono oggi, per merito di Massimo Gatta, come avrete già scoperto leggendo la Nota introduttiva a questo volumetto: è – ripeto – una storia pazzesca. Val la pena raccontarla. Procediamo con ordine. 1. Tempi difficilissimi, quelli in cui avviene il ritrovamento delle due arche di cui parla Joecher nel libretto che qui si pubblica. Roma ha da poco sconfitto Cartagine, è divenuta la più grande (l’unica, ormai) potenza del Mediterraneo. Il suo dominio sul mondo le garantisce l’afflusso di enormi ricchezze, centinaia di migliaia di schiavi, merci preziose. Ma, al contempo, questa stessa apertura al mondo, inimmaginabile nella Roma rurale del passato, fa giungere nell’urbe anche idee nuove, credenze religiose diverse da quelle tradizionali, concezioni filosofiche improntate a quello che oggi definiremmo relativismo culturale.

Così, come era prevedibile, si scatena dentro Roma, proprio dall’alba del II sec. a. C. – e si trascinerà sino alla fine della repubblica – uno scontro senza precedenti tra conservatori ed innovatori: tra quanti intenderebbero aprirsi alle novità e chi, viceversa, le percepisce come eversive, in grado di minare tutti i valori tradizionali – familiari, etici e religiosi – della civiltà romana tradizionale: campione di questa seconda schiera, Catone. È questo lo sfondo – con una brutale sommarietà, per la quale mi scuso – della vicenda che ha appassio- 13 nato gli storici romani (non solo Livio, dalle cui tracce Joecher prende le mosse) e interrogato generazioni di studiosi moderni: sino ai giorni nostri.

2. Avviciniamoci al tema. Nel 181 a.C., in un campo ai piedi del Gianicolo, vengono rinvenute due arche. Ognuna presenta all’esterno un’iscrizione, in caratteri latini e greci: una dovrebbe contenere il corpo del re Numa Pompilio (che, viceversa, non si trova: consunto dal tempo); l’altra conserva invece due fasci cerati, ognuno dei quali contenente sette libri: quelli in latino sarebbero stati i libri di diritto pontificale scritti da Numa stesso; quelli in greco avrebbero invece riguardato una dottrina filosofica imprecisata (che alcuni storici romani pensarono fosse la dottrina pitagorica). Questo, il ritrovamento, nella sua versione liviana. Alcuni particolari della vicenda sono narrati in modo parzialmente difforme da altri autori romani, come appare dal racconto di Plinio il Vecchio (Nat. hist. 13.27,

che cita anche le sue diverse fonti), ma la sostanza non muta. I libri, una volta letti, saranno ritenuti pericolosi per la comunità e messi al rogo: peraltro, anche la storia del rogo non è pacifica tra gli antichi (Valerio Massimo 1.1.12, ad esempio, sostiene che fossero stati bruciati solo i libri di filosofia, mentre quelli de iure pontificio attribuiti a Numa fossero stati, viceversa, conservati con magna diligentia). Ma il complesso della nostra documentazione non pare dubitare che il fuoco avesse bruciato tutti i libri rinvenuti nelle arche. 14 La vicenda suscita molteplici interrogativi. Provo ad elencarli sommariamente. Primo. I testi ritrovati nell’arca sono davvero attribuibili a Numa o si trattava di un falso recente (e perché, eventualmente, esso sia stato redatto)? Secondo. Quale fosse il motivo reale della decisione di dare alle fiamme gli scritti. Terzo. Come sia stato possibile (e come sia stato giustificato al popolo) che fossero consegnati al fuoco scritti attribuiti ad un re veneratissimo. Procediamo per gradi. Nei racconti degli storici e degli eruditi romani, Numa, re legislatore per eccellenza – tornerò su questo punto –, muore anzianissimo. La tradizione antica narra che il corpo del re fosse seppellito ai piedi del Gianicolo, in un’arca, a fianco della quale ne venisse inumata una seconda, contenente i suoi libri sacri: Plutarco (Num. 22.2). E’ da qui che giova partire nel ragionamento. Il rinvenimento casuale (?) del 181, proprio ai piedi del Gianicolo, molti secoli dopo la sepoltura del re, corrisponde esattamente al racconto tradizionale. Diventa così verosimile. Ancora. I sette libri ritrovati ed attribuiti a Numa,

contenevano esplicitamente norme di diritto pontificale (de iure pontificum). Ora, Numa Pompilio, come detto, è il re legislatore per eccellenza. Le leggi a lui attribuite dalla tradizione, soprattutto in tema di ius sacrum, sono innumerevoli: in particolare egli è presentato concordemente dagli storici romani come il creatore dei sacerdozi e l’autore di un’importante riforma del calendario (anch’esso collegato alla religione con la previsione dei dies fasti e nefasti). In merito a tali disposizioni legislative di Numa, una tradizione antica vuole che esse 15 fossero state raccolte – addirittura, secondo alcuni, dallo stesso re – insieme a quelle di Romolo in un liber Numae (gli storici romani non sono concordi sulla denominazione: ma qui non rileva): l’opera, peraltro, sarebbe stata organizzata in sezioni riguardanti i diversi aspetti del ius sacrum, tra i quali spiccava, per quanto ora ci interessa, la parte dedicata al collegio dei pontefici (su tutto ciò: Dion. 2.64; 70; 73). Ancora una volta, il rinvenimento del 181 sembrerebbe far quadrare il cerchio, confermando in pieno la tradizione antica. Tutto pare, dunque, deporre nel senso che le due arche ritrovate nel campo di Lucio Petilio siano effettivamente quelle sepolte a suo tempo, dopo la morte di Numa: corrisponde il luogo (i piedi del Gianicolo), il numero delle arche e il loro contenuto, la natura e il numero dei libri di diritto pontificale attribuiti all’antico re. Non a caso, Joecher, nel saggio che si pubblica, propende non solo per la veridicità della storia, ma anche nel senso che i libri fossero realmente di Numa.

Ma quegli stessi libri – per motivi che cercheremo di comprendere meglio in seguito – vengono ritenuti pericolosi dalle autorità romane, in grado di sovvertire la religione: e perciò dati pubblicamente alle fiamme. Al fine, dunque, di comprendere i motivi del rogo, Joecher propone una spiegazione tutt’altro che banale. Egli sostiene infatti che quelle disposizioni rituali attribuite a Numa, sacrosante al momento della loro emanazione, sarebbero divenute con il tempo non conciliabili con la successiva evoluzione subita dalla 16 religione romana. In particolare, poiché sappiamo che Numa aveva vietato la raffigurazione delle divinità attraverso una loro personificazione umana o attraverso l’effigie di animali, ciò avrebbe contrastato con la progressiva affermazione a Roma proprio di divinità (soprattutto a seguito della sovrapposizione di molte di esse con quelle di altri popoli conquistati) con una fisionomia ben individuabile: il che avrebbe reso le disposizioni dell’antico re pericolose per l’assetto della religione quale si era andato determinando nel tempo. Spiegazione ingegnosa. Ma non convincente. 3. Proviamo a ragionare, in primo luogo, sulle leggi numane. Stando al racconto di Dionigi (3.36.4), dopo non molto tempo dalla morte del re, esse furono raccolte ed esposte nel foro, per garantirne la pubblicità, ad opera di Anco Marcio: le antiche leggi sarebbero state incise, secondo alcuni, su corteccia d’albero (Dion. 3.36.4), secondo altri in tavole dealbatae (Liv. 1.32.2). Il che indica che non dovevano essere percepite come un pericolo, anzi. La notizia è atten-

dibile. Che le leggi antiche fossero incise ed esposte in pubblico è ormai circostanza pacificamente accettata in dottrina: lo stesso antichissimo lapis niger, preziosa testimonianza epigrafica del VI sec. a.C., conserva una disposizione di legge di carattere religioso, con la relativa sanzione (sakros esed, sacer esto nel latino classico) in caso di sua violazione: era una legge scritta e resa pubblica (ritrovata, non a caso, negli scavi archeologici del foro romano più antico). Ma le notizie degli storici antichi, concernenti i materiali scrittori, depongono anche per la oggettiva cadu- 17 cità di essi: tanto è vero che ancora Dionigi (3.36.4) racconta un particolare per noi rilevante: e cioè che le disposizioni numane raccolte e fatte esporre da Anco si deterioravano rapidamente, tanto che la scrittura era con il tempo praticamente svanita. Sappiamo, altresì, che – indipendentemente dalla veridicità del racconto sul liber Numae composto dallo stesso re –, dopo la cacciata dell’ultimo dei Tarquini, un certo Papirio raccolse tutte le leges regiae, ordinandole in un libro che prese il nome corrente di ius Papirianum: ebbene, in età tardo repubblicana, sicuramente, circolavano a Roma materiali – non sappiamo se ascrivibili alla tradizione papiriana o meno – contenenti proprio le antichissime leggi regie, studiate e menzionate più volte nelle opere sia dei giuristi che degli storici, così come in quelle dei letterati, dei grammatici etc. Tra queste, moltissime sono proprio quelle di Numa, la gran parte peraltro di argomento religioso, senza che ciò, ancora una volta, venga minimamente percepito come un pericolo per la comunità. Le leggi di Numa, dunque, erano comunque ben note

all’intellettualità latina di età repubblicana: indipendentemente dal rinvenimento del 181 a.C. Torniamo, quindi, al momento del rinvenimento. Che l’episodio sia storicamente attendibile non può essere messo in discussione: troppe e troppo circostanziate appaiono, infatti, le fonti, ad iniziare proprio dal racconto liviano. Le testimonianze antiche sono molteplici: l’evento aveva suscitato scalpore, una vasta e duratura eco. Un ritrovamento, dunque, ci fu, ed esso concerneva 18 libri di argomento religioso attribuiti all’antico re. Tuttavia, già gli antichi dubitavano fossero gli originali di Numa: lo stesso Livio afferma che i libri numani apparivano “intatti, ma anche di aspetto assai recente” (recentissima specie): il che, se si pensa ai materiali scrittori impiegati nella Roma delle origini, di cui si è detto, è letteralmente impossibile per la caducità dei supporti. D’altro canto, anche il già menzionato Plinio il Vecchio racconta della meraviglia per il ritrovamento dei libri intatti dopo più di cinquecento anni, ma propone una (piuttosto fantasiosa) spiegazione scientifica per dimostrare come ciò potesse anche accadere. La diffidenza di Livio è fondata: il materiale scrittorio con cui si presentano i sette libri (duo fasces candelis inviolati: cioè intatti e avvolti nella cera) è in evidente contrasto con tutto ciò che sappiamo dei supporti alla scrittura nel mondo romano arcaico: tanto è vero che la tradizione già menzionata – per quanto discorde – parla o di legno o di materiale ricoperto di calce (tabulae dealbatae), per scriverci sopra: il che depone appunto, come detto, per una rapida caducità di tali supporti. Ma vi è un’ulteriore aspetto, assai rilevante: dall’età

regia al II sec. a.C., la lingua latina e la stessa scrittura avevano subito modificazioni profondissime. In sostanza, i romani del 181 a.C.. potevano leggere il latino delle origini solo con enorme fatica ed altrettanta difficoltà: forse, non sarebbero stati proprio in grado di comprendere appieno i testi. In altre parole, rispetto al racconto del rinvenimento degli scritti di Numa, colpisce ed insospettisce la circostanza che gli scopritori leggano subito i testi con naturalezza (e che tale facilità sia analoga anche per la successiva platea 19 più ampia dei lettori, di cui ci parla proprio Livio). Per decifrare il latino delle origini, profondamente diverso da quello classico, ci sarebbe voluto uno specialista: ed anche così non sarebbe stato comunque facile. Il tema dell’oscurità del linguaggio di una raccolta legislativa pur molto successiva a quelle di Numa (quella incisa sulle notissime Dodici Tavole), attraversa tutta la letteratura latina ed è ribadito con forza anche da uno specialista come Cicerone (leg. 2.23.59). 4. Credo, dunque, valga la pena seguire la diffidenza con la quale Livio racconta del rinvenimento dei presunti libri di Numa: tutta la vicenda sembra, infatti – ancorché anche autorevolissimi studiosi tuttora la pensino diversamente –, una formidabile, deliberata messinscena, tesa a conformarsi a tutta la tradizione sulla sepoltura di Numa e sul contenuto delle sue opere: per far apparire credibilmente autentici gli scritti contenuti nell’arca. Il racconto liviano offre, però, altri spunti di grande interesse: lo storico, infatti, manifesta le sue perplessità, ma tali perplessità non paiono altrettanto

forti nei lettori degli scritti ritrovati: li leggono prima gli scopritori, poi una cerchia più ampia, poi si incuriosisce il pretore Quinto Petilio, che li legge a sua volta “per sommi capi” e ne percepisce la pericolosità rispetto ai culti correnti a Roma in quel tempo. Sentiti i tribuni della plebe, la questione va al senato, massimo organo politico (e a maggioranza robustamente conservatrice): quest’ultimo non ritiene affatto di dover leggere gli scritti (si ricordi che si trattava pur sempre di diritto pontificale!), ma si limita a credere 20 al pretore, che offre un giuramento che deponga nel senso della pericolosità degli scritti stessi. Ma nessuno asserisce siano dei falsi. La circostanza è rilevante: le leggi di Numa (e degli altri re), come ho già ricordato, erano largamente conosciute e menzionate al tempo della Roma repubblicana. Un confronto tra quanto già noto e quanto appena scoperto sarebbe stato perfino di buon senso. Tra l’altro, il pretore era il magistrato repubblicano preposto all’amministrazione della giustizia ed aveva certamente accesso agli archivi ove erano conservati i cataloghi delle vetuste (e veneratissime) leggi regie. Il pretore non lo fa. Il senato si fida. I libri vengono dati alle fiamme pubblicamente con una cerimonia di natura sacrificale (depone in tal senso la presenza dei victimarii al momento del rogo). Ora, la domanda che non mi pare si siano posti gli studiosi moderni (né Livio, peraltro) è come si sia potuta giustificare, di fronte al popolo che assisteva al rogo, la distruzione di testi contenenti leggi sacrali del re Numa. Quali gli argomenti addotti? Poteva reggere la mera affermazione (sulla base delle sole parole del

pretore) della loro pericolosità? Appare quanto meno curioso che le disposizioni de iure pontificum di un re quale Numa potessero essere considerate perniciose per la religione e rappresentare un pericolo. La circostanza è evidentemente bizzarra. Basti qui ricordare che di lì a non molto tempo, Virgilio, nel poema che esalta la storia e la grandezza di Roma sotto la nuova età dell’oro augustea, sottolinea volutamente la grandezza di Numa proprio nella sua qualità di fondatore della città attraverso le leggi (Aen. 6. 808 ss.: 21 qui legibus urbem fondavit). La circostanza è – ripeto – quanto meno singolare. Le ipotesi si potrebbero moltiplicare: il pretore aveva forse deliberatamente nascosto al popolo trattarsi di libri di Numa, asserendo solo essere testi nefasti? Possibile, ma non probabile: Livio ci informa che la notizia del rinvenimento era già circolata (“il numero dei lettori aumentava e si diffondeva”: tanto da suscitare appunto la curiosità del pretore). Azzardo un’altra – forse meno improbabile – congettura: i libri di Numa erano sacri ma non divulgabili. Proprio la circostanza di una intrinseca loro diffusione poteva rappresentare la giustificazione del rogo: per impedire, appunto, che (almeno alcune) disposizioni di ordine religioso fossero conosciute. Dovevano rimanere segrete.

5. Le fonti antiche ci offrono uno spunto in tal senso. Infatti, proprio subito dopo aver descritto la vicenda dei libri di Numa, Valerio Massimo racconta la storia del duumviro Marco Attilio (1.1.13). Siamo ancora

nell’età dei re, precisamente sotto il regno di Tarquinio, e Attilio, corrotto da Petronio Sabino, consentì a questi di copiare il libro che conteneva i “secreta rituum civilium sacrorum”: il duumviro fu perciò condannato alla terribile poena cullei, che consisteva nell’esser chiuso in un sacco insieme a quattro bestie, ritenute impure dai romani (cane, gallo, vipera e scimmia, ma le fonti antiche non sempre concordano sugli animali chiusi insieme al condannato), e gettato – a seconda delle epoche (e, ancora una volta, delle diverse fonti che ce 22 ne parlano) – o nel Tevere o nel mare. L’obiettivo non era solo quello di far soffrire atrocemente il condannato, ma anche di impedirne il contatto con la terra: l’autore di un crimine così scellerato e sacrilego non doveva contaminare il suolo. Di lì a poco, peraltro, continua Valerio Massimo, tale pena sarà comminata anche (e soprattutto) ai parricidi. Ora, Attilio divulga segreti religiosi concernenti i riti civili dei sacra. Nel caso dei libri attribuiti a Numa, viceversa, vengono dati alle fiamme – con l’intervento del senato, massima autorità politica di Roma – degli scritti la cui divulgazione avrebbe potuto mettere in pericolo il culto tradizionale. Ma, in realtà, a guardar bene, l’obiettivo, in entrambi i casi, è quello di tener celato, occulto, il contenuto degli antichi riti. Chi li divulga incorre nel crimen sacrilegii. Così, per evitare che essi si diffondano (è il caso dei libri di diritto pontificale attribuiti a Numa) non si esita a condannarli al rogo. In fondo, è quanto afferma Plutarco (Numa 22.8) che, non riuscendo a capacitarsi del motivo di quel rogo, sostiene che i libri sarebbero stati bruciati perché “sembrava illecito e sacrilego divulgarne il contenuto”.

Quanto sostenuto è confermato anche da un’ulteriore testimonianza storica, per noi preziosa. Livio (6.1.9 ss.) ci racconta infatti del destino delle leggi romane più antiche, andate disperse durante l’incendio gallico di Roma (390 a.C.). Riconquistata e liberata la città, il senato diede ordine di cercare tra le macerie foedera ac leges (tra le quali, esplicitamente, si doveva provare a raccogliere quanto era rimasto della legge delle Dodici Tavole e di quaedam regiae leges): alcune, rinvenute, vennero nuovamente pubblicate (lo storico non ci dice quali: forse non lo sapeva neppure lui), ma aggiunge 23 che le norme riguardanti il culto “vennero tenute nascoste, soprattutto dai pontefici, per tenere vincolati con lo scrupolo religioso gli animi del popolo”. Il popolo, dunque, è vincolato se i culti sono inconoscibili, nascosti, segreti: in altre parole, solo se la loro conoscenza è appannaggio di pochi iniziati. Questa potrebbe, dunque, rappresentare la plausibile motivazione pubblica comunicata al popolo per giustificare le fiamme: non la pericolosità degli scritti, della quale sarebbero state al corrente solo le autorità politiche di Roma, ma la loro non divulgabilità.

6. Una decisione – quella del rogo – evidentemente e squisitamente politica: solo politica. Infatti, l’altra circostanza singolare è che, nel giudicare il contenuto dei presunti libri di Numa, non venga minimamente coinvolta alcuna delle autorità religiose di Roma: tanto meno i pontefici, dei quali nei sette libri si sarebbe trattato. Decisione politica. Ed allora si torna all’inizio di queste

pagine, al clima di quel 181 a.C.: perché il tema sinora irrisolto è quello del vero motivo che avrebbe indotto a bruciarli. In cosa consisteva realmente la loro pericolosità? Vi è chi ha pensato che i presunti falsari volessero surrettiziamente sostenere le ragioni delle idee orientaleggianti – ostracizzate dalla vecchia classe dirigente romana, nel quadro dell’asperrimo scontro politico-culturale tra innovatori e conservatori, di cui si è detto in apertura – attribuendole addirittura a 24 Numa: re legislatore, custode della più autentica religione romana e dunque perfetto testimonial, diremmo oggi, di quelle nuove dottrine. Tali idee, in sostanza, sarebbero state presentate, attraverso quei sette libri rinvenuti nell’arca, non già – appunto – come nuove, ma viceversa autenticamente romane e per giunta antichissime. Spiegazione possibile, che consente di avvicinarci ad una congettura ulteriore. Partiamo da un dato certo: nelle due arche rinvenute nel 181 vi sono scritture latine e greche (il corpus di natura filosofica da taluno, come già sottolineato, ricondotto alle dottrine pitagoriche): bene, ciò induce a ritenere che il falso sia stato prodotto in ambienti eruditi, in grado cioè di scrivere anche in greco. Siamo nel 181. Cinque anni prima vi era stata la violentissima repressione (attraverso un celebre senatoconsulto, cioè proprio una decisione – senza precedenti – ancora una volta del senato) dei baccanali, culto esoterico praticato anche e soprattutto da esponenti appartenenti alla classe dirigente romana, che si era ritenuto mettesse a repentaglio la morale, la

religione, la famiglia: in ultima analisi, innanzi tutto l’ordine pubblico. È in questo clima di caccia alle streghe (ancora in pieno svolgimento, peraltro, nel 181) che si rinvengono le due arche. Il presunto falsario poteva aver abilmente congegnato gli scritti attribuiti a Numa in chiave – almeno in qualche misura – “giustificazionista” rispetto ai culti esoterici che si affermavano a Roma: e, simmetricamente, le autorità costituite li avrebbero percepiti (non asserendone la falsità, come abbiamo visto) come pericolosi e, conseguentemente, 25 da dare alle fiamme. Non è forse un caso, che le fonti tardo-classiche che parlano della vicenda, soprattutto quelle di ambiente cristiano, sostengano che quegli scritti sarebbero stati, in pratica, una sorta di trattato di magia o demonologia. 7. Temo che, in definitiva, non conosceremo mai la verità su questa affascinantissima storia, ma – tutt’al più – come si è provato a fare ora, proporre ipotesi, congetture, spunti di rilettura dei testi. Ma, certo, la dissertazione di Joecher è essa stessa un mistero nel mistero: non se ne conosceva traccia alcuna sino alla “riscoperta” odierna. In altra occasione, mi è capitato di affermare che ci sarà sempre un qualche autore che, nella solitudine dei propri studi, ha scritto opere concernenti argomenti anche di rilievo, che tuttavia sfuggono e sfuggiranno ai repertori bibliografici: per l’estraneità dell’autore rispetto ai circuiti nazionali o per l’assenza delle sue opere nelle pubbliche biblioteche: è il caso di

Joecher. Così come è il caso del suo plagiario, Raffaele De Chiara. Dedicandomi ormai da molti anni a ricerche giuridico-bibliografiche concernenti il diritto romano più antico, mi è capitato non di rado di imbattermi in tali autori sconosciuti alle bibliografie, anche quelle più accurate: sconosciuti per le loro opere, come anche nella propria stessa biografia. Ma a distanza di secoli, dobbiamo essere riconoscenti a Joecher (ma perfino a De Chiara: che ha ingigantito 26 e moltiplicato il gioco di specchi nei quali ci siamo mossi: e che ci ha divertiti assai…), che ci permette di confrontarci con lui – come con un contemporaneo – nella splendida atemporalità della ricerca bibliografica, in cui tutto si rinnova, ma al contempo si riannoda e si intreccia nel trascorrere dei secoli.

i libri di numa, ovvero la lotta di platone contro pitagora* mario lentano 27

1. Quando Polibio giunse a Roma come prigioniero di guerra, all’indomani del 168 a.C., pochi avrebbero potuto immaginare che non solo quel greco dell’Arcadia sarebbe diventato il più importante storico del ii secolo a.C., ma soprattutto che oggetto precipuo della sua ampia narrazione, distesa in quaranta libri, sarebbe stata la celebrazione dell’egemonia romana, quell’egemonia dalla cui espansione apparentemente inarrestabile discendeva ora la sua condizione di prigioniero. Fu invece quello che accadde. A Roma Polibio si legò rapidamente a quegli ambienti che all’interno dell’aristocrazia si battevano a favore di una più decisa apertura verso la cultura greca, avversata invece da un corposo schieramento che aveva in Catone il Censore, generale, uomo politico, oratore e storico di grande spicco a cavallo fra iii e ii secolo a.C., il proprio campione più rappresentativo. Il confronto con il prestigioso ma ingombrante patrimonio rappresentato dalla cultura greca era a Roma un fenomeno all’ordine del giorno da sempre, per quanto indietro si

risalga nella storia intellettuale della città sul Tevere; all’inizio del ii secolo però la questione veniva definendosi in termini nuovi, ora che l’espansione politico-militare portava Roma a diretto contatto non già con le propaggini della civiltà ellenica in Italia meridionale, ma con la matrice stessa di quella tradizione. La cultura greca non era solo molto più antica e infinitamente più ricca di quella latina, con la sua plurisecolare elaborazione in campo letterario, filosofico, scientifico: era, soprattutto, una cultura intellettual28 mente spregiudicata, abituata da tempo a mettere in questione dogmi riconosciuti e convinzioni solidificate, a indagare laicamente la psiche umana, i meccanismi del potere politico, le strutture dell’universo e molto altro ancora. È comprensibile che di fronte a tutto questo una parte cospicua dell’élite avvertisse il pericolo: quello che si profilava all’orizzonte era un possibile shock culturale, dal quale la tradizione romana rischiava di essere travolta. Altri invece, all’interno dello stesso milieu nobiliare, si rendevano conto che il processo era inarrestabile e che, nell’impossibilità di fermarlo, conveniva semmai governarlo, favorendo un ingresso selettivo di aspetti e fenomeni della grecità, impadronendosi di alcuni strumenti piuttosto che di altri nell’immensa utensileria messa a disposizione dal pensiero greco, svecchiando, pur senza snaturarla, una tradizione “indigena” che rischiava altrimenti di soffocare in un provincialismo di corto respiro.

2. Fu proprio la prima metà del secolo il momento in cui queste due anime dell’aristocrazia latina ebbero

più volte modo di scontrarsi, con esiti alterni, che configurano altrettanti momenti di accelerazione della dialettica culturale. La mano dei conservatori si coglie dietro le ripetute “cacciate” di filosofi e retori, ora rivolte in blocco a tutti gli esponenti di queste discipline così vistosamente elleniche, ora miranti a colpire singole figure di insegnanti o pensatori; al fronte opposto è legato invece un fenomeno letterario di rilievo come il teatro riformato di Terenzio, beniamino degli “illuminati” filellenici, al punto tale che una voce insistente accreditava questi ultimi come 29 i veri autori delle sue commedie, riducendo il ruolo di Terenzio a quello di un prestanome compiacente. L’episodio più significativo si verificò però intorno alla metà del secolo, un po’ meno di trent’anni dopo l’affaire dei “libri di Numa”: allorché giunse a Roma una singolare ambasceria ateniese, composta com’era non già da negoziatori esperti o politici navigati, ma dai capiscuola delle tre più importanti tradizioni filosofiche greche. Se lo scopo dell’ambasceria era decisamente prosaico – si trattava di chiedere la remissione di una pesante multa inflitta ad Atene dai Romani, non ancora formalmente padroni della Grecia continentale ma già di fatto arbitri delle relazioni fra le diverse città-Stato –, ben più interessanti furono invece gli effetti da essa suscitati: Plutarco, che racconta le cose a distanza di due secoli e mezzo, non esita a impiegare un termine impegnativo come eros per esprimere l’attrazione irresistibile che la presenza in città di quei prestigiosi maestri esercitava soprattutto sui giovani romani. Erano, quei giovani, gli esponenti della prima gene-

razione che si veniva formando sui testi della filosofia greca, la stessa filosofia le cui icone viventi era dato adesso incontrare per le vie di Roma. Fu soprattutto Carneade di Cirene, scolarca dell’antica e prestigiosa Accademia platonica, a suscitare i maggiori entusiasmi: sotto la sua direzione, il pensiero del fondatore si era piegato in una direzione decisamente scettica, ad esempio in campo teologico; qui Carneade era un raffinato quanto implacabile negatore della divinazione, uno dei pilastri della prassi religiosa antica, 30 l’insieme delle pratiche che miravano a identificare la volontà degli dèi allo scopo di adeguare ad essa le iniziative degli uomini. Di Carneade, in particolare, fecero rumore le lezioni o audizioni o conferenze che tenne intorno al tema della giustizia, nelle more della pronuncia senatoria in merito alle lagnanze di cui l’ambasceria dei filosofi era portatrice: in due giorni successivi, il filosofo dapprima esaltò la giustizia come valore assoluto, poi ne mise in luce invece il carattere opinabile e relativo. Questo relativismo dei valori e dei punti di vista era merce vecchia di secoli nel pensiero greco; ma certo a Roma dovette fare sensazione. Soprattutto imbarazzanti erano però le conseguenze politiche che Carneade cavava dal suo ragionamento: osservando che se i Romani avessero voluto rispettare davvero i dettami della giustizia, avrebbero dovuto rinunciare alle conquiste estorte con la violenza e tornare al piccolo villaggio sul Tevere che erano stati all’inizio della loro storia. Si capisce bene come di fronte a questa piega forse imprevista degli eventi il Senato, spinto dal solito Catone, decidesse di congedare su

due piedi gli scomodi ambasciatori, accogliendo le loro richieste senza neppure discuterle. 3. Ma non ci siamo dimenticati di Polibio, che di quell’episodio significativo della storia culturale di Roma fu verosimilmente testimone oculare. Catapultato da una vicenda imprevedibile nel cuore vivo dell’impero, Polibio, lo abbiamo accennato, si fece storico dei propri ex nemici: raccontando il dominio mondiale di Roma come l’evento decisivo del proprio 31 tempo, il fenomeno che aveva impresso alla storia degli uomini una svolta profonda e prevedibilmente duratura. Tra l’altro, quel dominio garantiva alle vicende umane un carattere al quale Polibio annetteva una particolare importanza, quello della organicità: ora la storia non procedeva più per teatri di avvenimenti autonomi e privi di relazione tra loro, ma al contrario ruotava tutta intorno ad un centro facilmente individuabile, che costituiva il motore dell’intero dipanarsi degli eventi. Per certi versi, di Polibio si può dire che sia stato il primo teorico di una tesi da allora ripetutamente affiorata nella tradizione occidentale, quella della fine della storia, del suo approdo ad una condizione di stabilità indefinitamente proiettata nel futuro – una tesi allora come oggi annunciata da chi s’impingua nel sistema di potere del quale profetizza l’immortalità. Ma Polibio non si limita a descrivere la parabola esaltante dell’affermazione di Roma: di quell’evento storico, che gli appare privo di precedenti, cerca altresì di individuare le cause. Per questo dedica un intero libro, il sesto, a tracciare un quadro a tutto campo

del “sistema-Roma”: la sua struttura costituzionale, il funzionamento della sua poderosa macchina militare, l’etica privata e pubblica e i meccanismi della sua riproduzione. È in questo contesto che Polibio parla della religione, correttamente identificandola come uno dei pilastri di quell’etica, come uno strumento di straordinaria efficacia nel disciplinamento dei comportamenti collettivi. Ecco come si esprime tra l’altro lo storico di Megalopoli al riguardo: 32

A me sembra però che la differenza più significativa, in senso positivo, del sistema politico romano è nel modo di concepire gli dèi; e mi pare altresì che proprio ciò che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo sia invece ciò che tiene unito il sistema romano, intendo il timore degli dèi. Quest’ultimo infatti è stato enfatizzato e si è introdotto a fondo tanto nella vita privata quanto in quella pubblica in una misura che non potrebbe essere superiore. Quello che ho detto, che a molti apparirà sorprendente, a me sembra invece sia stato fatto in considerazione delle masse popolari. Se infatti fosse possibile realizzare un regime di uomini saggi, forse una strategia del genere non sarebbe necessaria; ma dal momento che qualsiasi massa è volubile e piena di desideri illegittimi, di rabbia irrazionale, di aspirazioni violente, non resta che tenerla insieme con paure invisibili e con simili messe in scena. Perciò a me pare che gli antichi non abbiano introdotto a caso e come capitava le idee relative alla divinità e le credenze sull’Ade nelle masse, anzi semmai trovo irragionevole e controproducente il fatto che i moderni le rigettino. A parte ogni altra considerazione, presso i Greci coloro che amministrano gli Stati, se viene affidato loro anche un solo talento, con dieci revisori delle entrate, altrettanti sigilli e un numero doppio di testimoni, è impossibile che

si comportino lealmente; presso i Romani invece quanti per via delle cariche che ricoprono o delle ambascerie che svolgono maneggiano grosse somme di denaro osservano il proprio dovere in virtù del giuramento di lealtà che hanno pronunciato. E mentre presso tutti gli altri popoli è raro trovare qualcuno che si astenga dal denaro pubblico e sia specchiato da questo punto di vista, a Roma invece è raro che qualcuno sia stato colto in flagrante nel compiere un’azione del genere (6.56.6-15).

In questa riflessione, diciamolo subito, c’è ben poco di 33 originale: era stato Crizia, uomo politico ultra-oligarchico, tragediografo e filosofo, ad aver affermato già nell’ultimo scorcio del v secolo a.C. che l’invenzione degli dèi era stata il capolavoro di un astuto statista, consapevole che solo la paura di esseri invisibili e onnipresenti poteva garantire nelle masse il rispetto di quelle regole di comportamento che la pressione del potere umano, di per sé, non bastava ad assicurare. Ad ogni modo, Polibio coglieva efficacemente il carattere della religione romana come instrumentum regni, come insieme di credenze e di pratiche immediatamente funzionali al dominio politico dell’élite aristocratica e al suo controllo del corpo sociale e delle scelte politiche.

4. Dal punto di vista delle convinzioni personali, quell’élite aveva già da tempo ripudiato la religione tradizionale: proprio a Catone, che abbiamo visto ripetutamente impegnato ad erigere argini contro la penetrazione della corrosiva cultura ellenica, si attribuiva una frase in cui il censore diceva di meravigliarsi del fatto che un aruspice non scoppiasse a

ridere incrociando un altro aruspice. Gli aruspici erano specialisti di una pratica peculiare, l’osservazione delle viscere degli animali sacrificati a scopo divinatorio: una prassi di origine etrusca, che aveva conosciuto a Roma una enorme diffusione, al punto da precedere qualsiasi importante iniziativa pubblica e politica. Eppure Catone trovava l’aruspicina non meno risibile di quanto il suo avversario Carneade ritenesse la divinazione nel suo complesso. Questo però era ciò che i membri dell’élite afferma34 vano parlando con i loro pari, oppure scrivendo all’interno di opere che entro la cerchia di quegli stessi pari erano destinate a circolare; sul piano pubblico, invece, quei medesimi aristocratici erano unanimi nel ritenere che le pratiche religiose andassero scrupolosamente preservate «per il bene dello Stato», e dunque in nome dei benefici che l’intero sistema dei culti e delle credenze arrecava sul piano politico. Per tutte queste ragioni, il controllo esercitato dall’élite nel campo della religione rimase ferreo per tutta la durata della storia di Roma, sopravvivendo persino al fondamentale cambio di paradigma verificatosi a partire dal iii secolo d.C., con il massiccio passaggio delle aristocrazie al cristianesimo. A Roma non esistette mai un potere religioso indipendente o alternativo rispetto a quello politico, nulla insomma di paragonabile ad una Chiesa: i collegi sacerdotali – come quello femminile delle vestali o quello maschile dei pontefici – erano riservati di fatto, se non di diritto, a membri dei ceti dirigenti; essi costituivano a tutti gli effetti delle magistrature, sia pure dotate di prerogative peculiari e sottoposte a vincoli specifici, rivestite

dallo stesso personale che per altri versi compiva la propria carriera politica ricoprendo la pretura o il consolato. Né esercizio delle cariche sacerdotali e attività più propriamente politico-militari entravano in frizione: Cicerone percorre l’intero corso degli onori, compone un’opera brillante di demolizione della divinazione tradizionale e contemporaneamente è membro del collegio degli àuguri, che ad attività divinatorie appunto si dedicavano; Cesare è pontefice massimo, ma questo non gli impedisce di procedere alla conquista della Gallia e alla successiva instaura- 35 zione di un potere personale a Roma; dopo di lui la carica di pontefice massimo prenderà anzi stabilmente posto nella titolatura di tutti gli imperatori, compreso il “cristiano” Costantino. 5. S’intende che in questa marcatura stretta esercitata dall’élite dirigente di Roma nei confronti della sfera religiosa rientra anche il rigoroso controllo sui testi che a quella sfera ineriscono: con il che ci avviciniamo finalmente alla questione dei “libri di Numa” di cui si parlerà nel seguito di questo libro e della quale ha già discusso Oliviero Diliberto nella sua premessa. Va detto anzitutto, a questo riguardo, che quella romana non fu mai una “religione del libro”: al contrario di quanto accadrà nei moderni monoteismi, non esiste in quella cultura un singolo testo, o un canone di testi, che racchiuda la “verità” sul sacro. Ciò non vuol dire però che si trattasse di una religione senza libri, anche se sulla consistenza e sul preciso contenuto di questi siamo poco informati.

Proprio nel campo della divinazione, al quale si è più volte fatto cenno, esistevano i “libri aruspicini”, che si occupavano di lettura e interpretazione delle viscere, ma anche i “libri fulgurali”, in cui si trattava di tuoni e fulmini, interpretati come altrettanti segni della volontà divina, o i “libri rituali”, contenenti verosimilmente prodigi e altri eventi ritenuti “contro natura”. Questa ricca produzione testuale è data dalle fonti come proveniente dall’Etruria: erano stati del resto gli Etruschi a sviluppare enormemente la pratica 36 divinatoria, e ancora in tarda età repubblicana era ad aruspici etruschi che si faceva ricorso di fronte ad eventi “soprannaturali” considerati di particolare rilevanza e gravità. Si può immaginare che i libri fossero depositati nelle sedi dei collegi e delle corporazioni che raccoglievano questi peculiari specialisti del sacro; quest’ultima circostanza è comunque certa nel caso dei “libri degli àuguri”, conservati da quell’importante collegio romano del quale, come si è detto, fece parte per un certo tempo anche Cicerone. Il mito di origine dell’aruspicina etrusca merita anzi di essere brevemente rievocato, anche per le analogie che esso presenta con la vicenda dei libri di Numa. Si raccontava dunque che nella campagna di Tarquinia un contadino avesse un giorno per caso arato il terreno più in profondità del consueto e che dalla fenditura del suolo così prodotta fosse improvvisamente balzato alla luce un certo Tagete, simile a un bimbo per l’aspetto ma dotato del senno di un adulto: sarebbe stato lui ad esporre, agli Etruschi che rapidamente erano confluiti sul posto, attratti dalla eccezionalità del prodigio, l’intero contenuto della dottrina divinatoria, successiva-

mente messo per iscritto in quelli che una fonte tarda definisce appunto libri Tagetici. Anche qui dunque un sapere religioso arcano emerge letteralmente dalla terra in seguito ad un evento casuale: la circostanza che precede il verificarsi del prodigio – un contadino che spinge l’aratro più in profondità del solito – è anzi praticamente identica a quella che in Livio consente il ritrovamento del sepolcro e dei libri di Numa, anche in quel caso originato da un’aratura che penetra a fondo nel terreno del Gianicolo.

6. I testi per eccellenza della religione romana erano però i cosiddetti “libri sibillini”, i vaticini che la sibilla cumana – erano le sibille figure di anziane donne dotate di virtù profetiche – aveva un giorno venduto al re Tarquinio (se fosse il Prisco o il Superbo non è dato sapere, perché le fonti contemplano entrambe queste possibilità). Si diceva che la vecchia si fosse inizialmente presentata al sovrano brandendo nove libri e proponendone l’acquisto ad una cifra che dovette apparire a Tarquinio spropositatamente elevata. Al rifiuto del re la sibilla peraltro non si era scomposta: gettati nel fuoco tre dei nove rotoli, aveva reiterato la sua richiesta d’acquisto per i restanti sei, al medesimo prezzo della collezione completa. La sequenza si ripeté quindi una seconda volta, fino a lasciare in mano alla profetessa tre soli libri dei nove iniziali: libri che a quel punto Tarquinio acquistò, convinto che dietro il comportamento in apparenza irragionevole dell’anziana donna dovesse celarsi un significato profondo, e che affidò ad uno speciale collegio perché li custodisse

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e, alla bisogna, procedesse alla loro consultazione. Cosa contenessero i libri sibillini non è facile dire, anche perché la raccolta venne a più riprese rimaneggiata o integrata; certamente profezie, formulate in termini opportunamente generici per poter essere adattate alle diverse circostanze, nonché indicazioni di pratiche espiatorie per placare la collera divina che si manifestava attraverso prodigi ed altri eventi contro natura e che richiedeva alla controparte umana la messa in campo di riti e cerimonie in grado di ripristi38 nare la pace fra terra e cielo. Ciò che però più conta dal nostro punto di vista è il fatto che i sacerdoti incaricati della conservazione dei libri potevano consultarli solo su espresso mandato del Senato, e sempre al Senato dovevano riferire circa l’esito della loro consultazione: ogni altra forma di accesso ai libri e al loro contenuto restava invece rigorosamente interdetta. Una simile cautela non è difficile da spiegare: in una cultura nella quale il sacro era presente in ogni piega dell’esistenza individuale e sociale e che restava profondamente persuasa – salvo isolate sacche di scetticismo – del valore di vaticini e profezie, la libera circolazione di queste ultime rischiava facilmente di scatenare effetti incontrollabili o di essere usata a fini di lotta politica o di affermazione personale. È il caso dell’oracolo sibillino, o spacciato come tale, secondo cui era destino che a Roma si impadronissero del supremo potere tre successivi membri della gens Cornelia: dopo Cornelio Cinna, che ricoprì a più riprese il consolato durante gli anni Ottanta del i secolo a.C., e Cornelio Silla, che fu dittatore alla fine di quel

medesimo decennio, Cornelio Lentulo si persuase di essere il terzo dei Corneli cui alludeva la profezia e fu questa convinzione che lo indusse ad aderire alla congiura di Catilina, un tentativo di colpo di Stato che nel 63 a.C. fece tremare per un attimo le istituzioni repubblicane. Ma è il caso soprattutto dell’altro oracolo secondo il quale solo un re avrebbe potuto sconfiggere i detestati Parti, il cui impero, cresciuto nell’area della Mesopotamia, era da decenni spina nel fianco alla frontiera orientale del dominio romano: un vaticinio che sarebbe stato messo in giro ad arte 39 nientemeno che da Cesare, il quale contro i Parti si accingeva a scatenare una campagna di guerra in grande stile – ne fu poi impedito dalla congiura delle Idi di marzo, che lo liquidò proprio alla vigilia della sua partenza per l’Oriente – e che intendeva indurre anche attraverso quell’oracolo spurio l’élite dirigente a riconoscergli un potere assoluto da lui così a lungo perseguito. Visti questi precedenti, non meraviglia che Augusto, una volta divenuto pontefice massimo – e dunque massima autorità religiosa dell’impero –, provvedesse da un lato a far bruciare circa duemila libelli fatidici, opere anonime, di contenuto profetico e di incontrollabile circolazione, dall’altro a promuovere una robusta sforbiciata degli stessi libri sibillini, espungendone – è il caso di immaginarlo – qualsiasi vaticinio che si prestasse ad essere interpretato in senso sfavorevole al nuovo regime e soprattutto collocando la copia così emendata alla base della statua di Apollo Palatino. Il tempio nella cui area sorgeva quella statua era stato voluto e innalzato da Augusto stesso all’indo-

mani della battaglia di Azio, che lo aveva lasciato, nel 31 a.C., padrone unico dell’impero, e inaugurato nel 28; qui tra l’altro il principe fece collocare la prima e più importante fra le due biblioteche pubbliche da lui fondate. In effetti, la creazione di una biblioteca pubblica e lo stoccaggio dei libri sibillini entro il medesimo perimetro del tempio palatino sono uno dei capolavori dalla capacità, così tipicamente augustea, di maneggiare il linguaggio dei simboli: sapere sacro e sapere 40 profano, letteratura e profezia convergevano in un unico e medesimo luogo, contiguo alla residenza del principe, e dunque venivano posti entrambi sotto il diretto e personale controllo del principe stesso. Già padrone della scena politica di Roma, Augusto investiva se stesso anche del ruolo di padrone dell’immaginario collettivo, del presente della città e insieme del suo futuro, nascosto tra le pagine di libri che ormai solo per sua autorizzazione sarebbe stato possibile consultare. Del resto, così come sfrondò la raccolta degli oracoli sibillini, allo stesso modo Augusto provvide a espungere dal catalogo della sua biblioteca testi a vario titolo “sgraditi” al regime – comprese, per ragioni che ci sfuggono, alcune opere giovanili di Cesare, padre adottivo del principe – o a farli rimuovere in un secondo momento, nel caso il loro autore fosse caduto in disgrazia. Per la cronaca, i libri sibillini, giunti a Roma all’epoca dei re, vi restarono sino quasi alla fine dell’antichità: consultati non a caso per l’ultima volta su ordine dell’ultimo imperatore “pagano”, Giuliano, nella seconda metà del iv secolo d.C., furono distrutti all’inizio

del secolo successivo durante il regno di Arcadio e Onorio, figli di quel Teodosio che aveva proclamato il cristianesimo unico culto legittimo dell’impero e aveva promosso attivamente la distruzione di ogni traccia materiale dell’agonizzante ma tutt’altro che sconfitto paganesimo. La loro distruzione viene ricordata con orrore da un osservatore contemporaneo, il senatore e poeta Rutilio Namaziano, per il quale perivano con i libri sibillini i «pegni di un dominio eterno»: profezia, questa volta, sommamente veridica, se si considera che l’impero d’Occidente cadde neppure settant’anni 41 dopo quelle parole. 7. L’episodio dei libri di Numa ci pone di fronte ad un singolare paradosso: contrariamente a quanto accade per tante circostanze della storia antica, abbiamo qui la disponibilità di un gran numero di fonti, alcune delle quali posteriori di appena pochi decenni ai fatti narrati; gli storici che per primi ne parlano furono testimoni oculari della loro scoperta, o almeno ebbero la possibilità di interrogare chi all’evento aveva assistito in prima persona. E tuttavia, questa inconsueta abbondanza non consente in alcun modo di dissipare il mistero che circonda l’episodio. Spulciando nella bibliografia ragionata che si trova in calce a questo volume il lettore interessato si imbatterà in molte interpretazioni diverse, avanzate nei numerosi studi dedicati dagli specialisti all’episodio del 181 a.C.: e già l’autore dell’opuscolo che qui si pubblica, Christian Gottlieb Joecher, il quale oltre due secoli e mezzo fa poteva attingere ad una bibliografia di

gran lunga meno ampia di quella oggi disponibile, è in grado di citare una serie di ipotesi diverse le più antiche delle quali risalivano al Cinquecento, oltre a proporre una sua originale lettura dell’accaduto. Noi non intendiamo qui aggiungere una nuova interpretazione a quelle sinora proposte; ci limitiamo semmai a mettere in rilievo due circostanze, entrambe emerse dal discorso che abbiamo condotto in queste pagine ed entrambe di grande rilevanza per capire ciò che accadde. 42 Anzitutto, i libri di Numa si presentano con i caratteri di un testo religioso che sfugge ai canali ordinari di produzione e diffusione di questo genere di opere. La letteratura religiosa, lo abbiamo visto, viene assoggettata a Roma dal potere politico ad un controllo rigoroso: dagli oracoli sibillini, custoditi prima da un collegio alle dirette dipendenze del Senato e più tardi dal principe in persona, ai libri che i diversi sodalizi sacerdotali dovevano possedere e conservare, tutti i testi a vario titolo connessi con la sfera del sacro sono comprensibilmente circondati da una serie di interdetti che mirano ad aprirne la conoscenza e la circolazione ai soli vertici dell’élite politica (che coincide a Roma con l’élite religiosa). Se il tentativo dei falsari del Gianicolo era stato quello di spezzare questo robusto cordone sanitario, aggirando proibizioni e controlli e mettendo direttamente in circolazione i testi pseudonumani – quale che fosse il loro effettivo contenuto, che non conosceremo mai –, questo spiega perché il potere reagì in modo così fermo al tentativo, attraverso una procedura d’urgenza con la quale il Senato, che è come dire l’istituzione-chiave del controllo

aristocratico sulla città, avocava a sé una volta di più il monopolio nella sfera del sacro. La seconda osservazione riguarda la tempistica della distruzione dei libri: un punto sul quale proprio la testimonianza di Livio, che è la stessa dalla quale prende le mosse l’opuscolo di Joecher, risulta particolarmente illuminante. I rotoli estratti dal suolo, racconta lo storico augusteo, vengono dapprima letti dagli amici dello scriba Petillio (o Terenzio, secondo altre fonti), che avevano presenziato allo scavo della tomba e all’apertura delle due arche; quando poi i 43 libri iniziano a diffondersi, il pretore Quinto Petillio li chiede in prestito, e si mette in moto il meccanismo che porterà rapidamente alla decisione di distruggerli. Dunque il potere politico si mobilita ai suoi massimi livelli – il pretore, cioè la più importante autorità civile della Roma repubblicana, avendo i consoli funzioni eminentemente militari, e il Senato, vertice assoluto del sistema istituzionale – solo nel momento in cui la circolazione di quegli scottanti rotoli sfugge al controllo. S’intende che il verbo impiegato al riguardo da Livio, cum volgarentur, non va preso alla lettera: la capacità di leggere – e di leggere testi filosofici, poi! – era a Roma patrimonio di una ristretta élite, l’unica che avesse l’interesse e gli strumenti intellettuali per accostarsi ai sofisticati contenuti dottrinari dei libri di Numa; quel che impensierisce il pretore e gli altri senatori non è infatti il numero in quanto tale dei lettori, quanto l’impossibilità di identificarli con precisione, l’anonimato di un pubblico al quale diventava a quel punto estremamente difficile dare un nome e un volto.

8. Quell’allarme aveva a sua volta una remota tradizione nel pensiero antico. In calce ad uno dei dialoghi suoi più affascinanti, il Fedro, il filosofo Platone inserisce una riflessione intorno ai rischi della scrittura e all’inferiorità di questa forma di comunicazione rispetto a quella del dialogo personale e diretto. È una pagina celebre e bellissima, della quale interessa qui citare alcuni passaggi che hanno diretta attinenza, se non con l’episodio dei libri di Numa, posteriore di due secoli al testo platonico, certo 44 con le questioni che quell’episodio sollevava: Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa.

Ma questo non è ancora tutto: infatti una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo (275d-e, trad. di G. Reale).

Dunque la comunicazione scritta non solo mostra facilmente la corda a fronte dello scambio verbale diretto,

in quanto incapace di rispondere alle domande dei suoi fruitori, non solo è simile ad un figlio costantemente bisognoso dell’aiuto del suo autore-padre: quel che più conta è che una volta assunta la forma della scrittura, il discorso “rotola ovunque”, come dice Platone con una efficacissima immagine, e non è più in grado di scegliersi i propri ascoltatori, come invece può fare colui che decida di dare forma esclusivamente orale alla comunicazione del proprio pensiero. Molto tempo più tardi Clemente Alessandrino, uno scrittore cristiano del ii secolo d.C., nel riprendere quasi alla 45 lettera questa pagina platonica rincarerà anzi ulteriormente la dose, affermando che lasciar circolare i libri nelle mani degli incompetenti o degli sciocchi equivale a porgere la spada ad un bambino, significa mettere un oggetto potenzialmente pericoloso nelle mani di chi non è in condizione di adoperarlo correttamente. Questo pensiero dovette essere lo stesso che si affacciò nella mente dei senatori romani quando nel 181 si pronunciarono per l’immediata distruzione dei libri di Numa: «rotolando da per tutto», quei documenti, ancorché palesemente falsi, o forse proprio per questo, si erano trasformati in altrettante spade, che nelle mani di lettori bambini minacciavano di uccidere nientemeno che la stessa religione della città, quella religione che rappresentava un puntello così essenziale del potere di chi decretò il rogo; consapevolmente o meno, lo spirito del Fedro aleggiò per un attimo nell’aula del Senato chiamata a deliberare sulla vicenda. Se davvero lo scopo dei falsari era stato quello di promuovere o rilanciare le dottrine di Pitagora – il filosofo del quale una

fallace quanto duratura leggenda faceva il maestro di Numa –, allora quel giorno del 181 a.C. fu Platone ad avere la meglio contro Pitagora.

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* Non avrei conosciuto l’opuscolo di Christian Gottlieb Joecher sui libri di Numa e non avrei contribuito a curarne questa nuova edizione senza la passione e le sollecitazioni di Massimo Gatta: a lui va dunque tutta la mia gratitudine per questa piccola ma affascinante avventura intellettuale.

d. christianus gottlieb joecher de numae pompilii libris publica auctoritate romae combustis 47

De Numae libris publica auctoritate Romae combustis praefatus magisterii candidatos ad capessendos summos in philosophia honores invitat D. Christianus Gottlieb Joecher P. P. ordinis philosophici h. t. procancellarius T. Livius gravissimus romanae historiae parens1, memoriae prodit, a. u. dlxxiii, P. Cornelio Cethego et M. Baebio Tamphilo coss. sub Ianiculo duas lapideas arcas fuisse inventas, utramque literis latinis graecisque inscriptam, in altera Numam Pompilium romanorum regem esse sepultum, in altera libros huius Numae inesse. Has arcas, cum dominus fundi in quo repertae erant, aperuisset, eam quae titulum sepulti regis habebat, inanem inventam; in altera duo fasces candelis involutos, septenos habuisse libros, septem latinos de iure pontificio, et septem graecos de

disciplina sapientiae. Hos libros Q. Petillium praetorem urbanum sumsisse, et cum lectis rerum summis animadvertisset, pleraque dissolvendarum religionum esse, domino eorum dixisse, se libros in ignem coniecturum esse. Rem ad Tribunos plebis delatam, et a Tribunis ad senatum reiectam. Praetorem vero dixisse, se iuramentum dare paratum esse, libros hos legi servarique non oportere. His perceptis censuisse senatum, libros hos primo quoque tempore in comitio esse cremandos: quod Senatus consultum factum cum 48 esset, illos libros in comitio, igne a victimariis facto, in conspectu populi esse crematos. Haec Livius. Quae etsi plana esse videntur et aperta, non nihil tamen negotii facessivere doctis lectoribus. Etenim non usque quaque convenit Livio cum aliis probatae fidei auctoribus, eamdem rem tradentibus. Apud Plinium qui haec repetit2, neque nomina propria, neque arcarum et librorum numerus consonant. Plutarchus, Valerium Antiatem secutus3, viginti quatuor esse erutos Numae libros commemorat. Valerius Maximus contendit4, latinos Numae libros magna diligentia asservandos curasse patres, graecos Q. Petillium praetorem auctoritate senatus cremavisse. De anno quoque quo exusti sunt libri non congruunt scriptores. Sed, ut meum non est, has componere lites, sic de eo magna est omnium consensio, in ignem datos et publica auctoritate esse combustos. Num vero Numae geminus fuerint partus, id in dubitationem a nonnullis est adductum, quibus in mentem venit, nullas in eis perscribendis Numae fuisse partes. Fecit hoc cum primis Marcellus Donatus5, atque

in eam ivit sententiam, ut existimaret, has arcas fuisse una cum libris supposititias, nec Numae tempore, sed longe recentiori a callido quodam homine infossas, ut postmodum repertae, admirationi essent effodientibus. Idem propemodum sentit Olaus Borrichius, non pauca hic esse putans, quae oleant imposturam efficiantque, ut inventi illi in sepulchro Numae libri similes videantur originibus hetruscis ab Inghiramo repertis6. Verum quominus spurios fuisse a me ut credam impetrare possim, obstat cura romanorum in volvendis et revolvendis, excutiendis examinandisque 49 iisdem adhibita; qui si aliquid hic subfuisset fraudis, id non potuissent non olfacere. Etenim non mediocris conditionis hominibus, sed emunctae naris viris, praetoribus, tribunis, senatoribus, proceribus artium non ignaris, ista volumina tradebantur exploranda, quod ab iis diligenter est factum, sed a nemine unquam imposturae alicuius vestigium in iis detectum. Confirmat me in hac sententia ipsius Livii, ad facile credendum non adeo proni testimonium, qui ista sine haesitatione narrat, atque hac ratione libros tunc e monte protractos, nemine repugnante pro Numae tabulis esse habitos, neque ob fallaciam factam, sed propter longe alias causas in cinerem redactos profitetur: cui narrationi nonsolum Plinius7, sed Plutarchus quoque8, Valerius Maximus9, et Aurelius Victor10 adstipulantur. Quid quaeso opus erat, flammis saevire in haec monumenta, si veteratoris alicuius artes in iis fuissent deprehensae? Vel unum fraudulentiae indicium ad fidem iis denegandam suffecisset, omneque religionum depravandarum periculum statim evanuisset. Spernenda erant tunc ista, non ut

magni momenti volumina flammis ulciscenda. Sunt quidem qui dolum hic intercessisse putant, et nonnullas in promtu suae suspicionis rationes habent: verum ita hae sunt comparatae, ut sine magna opera solvi possint; quo autem me nunc labore huius scriptionis modus et limites prohibent. Dubia nonnulla et difficultates circa res olim gestas exortae, operosam reddere possunt et impeditam earum interpretationem: fidem probatorum auctorum elevare non debent. Laudem itaque meretur Famianus Nardinus11, qui, quae de 50 sepulchro et libris Numae memorat Livius repetens, ea procedit modestia, ut fateatur, multa hic sibi dubia animum torquere, sed tamen nefas se existimare, tam antiquos scriptores nimiae et inconsultae damnare credulitatis. Quodsi vero Numae fuerunt ex sententia romanorum hi libri: qui factum, ut regis adeo clari et universae reipublicae post fata quoque venerabilis scripta, publica auctoritate igni adiudicarentur? T. Livius hanc eius rei affert rationem, Q. Petillium praetorem animadvertisse, pleraque in iis dissolvendarum religionum fuisse. Sed quae sunt tandem illae religiones, quibus fraudi esse potuissent hi commentarii? Non uno modo id interpretantur harum rerum curiosi L. C. F. Lactantius auctor est12, Numam his libris religiones, non eas modo quas ipse instituisset, sed omnes praeterea dissolvisse. Quod unde acceperit Lactantius, me prorsus latet. Hoc intelligimus e Livii verbis, derogasse religionibus Numam his libris: sed quod in universum omnes, eas etiam quas ipse introduxisset et commendasset, dissolvere studuerit, e Livio posse probari vehementer dubito. Neque

ullo modo est verisimile, Numam sapientissimum principem, unquam in animum induxisse, ea quae ipse dexterrime condidisset destruere, et religionem a se callidissime efformatam abrogare prorsusque tollere. Sibi sic ipse dissimilis, a constantia sapientis quam maxime alienus, quin sibi contrarius, et suorum ipse operum suaeque gloriae fuisset eversor: quae cuncta ab ingenio et indole Numae quam longissime abhorrere videntur. Multo minus assentiri possum A. Augustino13, qui non tantum praeeunte Varrone arbitratur redditas hi libris sacrorum a Numa 51 constitutorum causas, sed etiam coniicit, conscripta in iisdem fuisse daemonum secreta, ad quae curiositate illicita rex olim pervenisset. Nam ut fama de congressu et familiaritate Numae cum Dea Egeria fabulam sapit, quam eum imperii firmandi causa finxisse, nemo nunc dubitat; sic tantum abest, ut sacrorum causae per istos libros evulgatae, religiones destruerent, ut potius ad servandam augendamque superstitionem maxime profuturae fuissent. Inter recentiores celeberrimi societatis Jesu sodales Catrou et Rouille14 ad opinandum, magicos fuisse hos libros ducuntur, quod Numa magiae suspicionem iam olim incurrisset, et ipse Augustinus Magiae principia in his commentariis fuisse sparsa, existimet. Verum enim vero apud Augustinum me isthaec legisse non memini. Nam ad daemonum secreta pervenire, quod de Numa asserit hipponensis praesul, et magicarum artium agere doctorem, haec sane unum esse idemque, minime videntur. Quid quod Magiae maculam idoneis ei argumentis dudum abtersit Gabriel Naudeus?15 Sed cur tandem adeo dura a P. C. in Numae libros

lata sententia, ut subiecta exurerentur flamma? Factum hoc ideo, quia praetoris iudicio pleraque in iis dissolvendarum religionum essent. Et quae quaeso sunt religiones, quibus a Numae libris si illi legerentur et servarentur, dissolutionis imminuisset periculum? Non profecto illae religiones, quae ab ipso Numa erant stabilitae, ut temere iudicavit Lactantius. Conceptis enim verbis testatur Varro16, Numam his libris sacrorum a se institutorum reddidisse causas, quod explicando ea, illustrando, confirmando factum 52 esse oportuit: tantum abest ut ista improbaverit et aboleverit. Leves quidem vocat has sacrorum causas a Numa allatas Aurelius Victor17 Sed cuiuscumque tandem fuerint ponderis, eo certe consilio a Numae sunt datae, ut sacris a se constitutis essent firmamento, neutiquam exitio. Quae igitur sunt sacra illa, quibus dissolvendis apti sunt existimati et ideo for midandi hi libri? Non sane, quod evictum, sacra ab ipso Numa civibus praescripta; sed si quid video, sacra tum temporis cum protraherentur illi libri, Romae vigentia, post Numae demum aetatem recepta, et legibus institutisque sacrorum a Numa ordinatis adversa. Optime interpretatus esse Titum Livium mihi videtur Valerius Maximus18 asserens, in favillas hos libros auctoritate p.c. esse versos, ne eorum lectione a cultu deorum avocarentur romani. Cardo itaque rei in eo vertitur, ut definiamus, quinam isti fuerint Dii, a quorum cultu avocare potuissent eruta Numae monumenta. Plutarchus19 data opera de sacris a Numa constitutis disserens, hoc commemorat, praecepisse eum civibus, non negligere patrios ritus, vetuisse disciplinae suae alumnos, hominis vel

bestiae formam tribuere Deo. Hisce perspicacissimi regis praeceptionibus lubenter mos gestus in urbe, scimusque, eiusdem Plutarchi auctoritate freti, nullam fuisse apud romanos vel pictam vel fictam imaginem Dei, sed primis centum sexaginta annis, templa extruxisse et cellas Diis, simulacrum per id temporis habuisse nullum. Ab his Numae legibus sapientissimis procedente tempore adeo est descitum, ut prorsus obliteratae esse viderentur. Cum enim finibus imperii prolatis, plures se ei populi subiecissent, horum etiam sacra in urbem penetraverunt, peregrini plures et 53 potissimum aegyptii Dei romae suscepti, simulacra iisdem posita fere innumera; adeo aucta superstitione, ut Petronius testetur20, facilius esse Deum quam hominem romae invenire. Protractis itaque iterum in lucem Numae commentariis, quibus legum de cultu Numinis a se latarum reddiderat rationes, periculum oriebatur, ne peregrina illa superstitio, quae iam in animis hominum invaluerat, in discrimen incurreret, et cives istos commentarios legentes, ac antiquissima regis instituta, cuius eis memoria sacra et venerabilis erat, in animum revocantes, a pristina se defecisse religione sentirent, et extranea illa sacra, decretis Numae vetita, simulacraque novorum Deorum, quibus scatebat urbs, fastidirent atque aversarentur. Huic periculo ut ponerent obicem patres, inflammari tabulas Numae in Ianiculo repertas iusserunt, ne religiones, [religiones] post Numae tempora adscitae eiusque institutis contrariae, sed romanorum, ut tunc erant, moribus et rationibus accommodatae, dissolverentur.

Note: 1 Livius Hist. Rom. L. xl. c. 29. 2 Plinius Hist. natural. L. xiii. c. 27. 3 Plutarchus in Numa, Opp. T. i, p. 74. 4 Valerius Maximus Factor. et dictor. memorab. L. i c. 1. Exempl. 12. 5 Donatus in dilucidationibus in Livium, in Gruteri lampade, Tom. vi, p. 94. 6 Borrichius De antiqua urbis Romae facie, in thesauro graeviano, T. vi, p. 1608. 7 Plinius l. c. 8 Plutarchus l. c. 9 Valer. Max. l. c. 10 Aurelius Victor, de viris illustr. c. 3. 11 Nardinus, in Roma veteri, apud Graevium, T. iv, Antiqu. rom. p. 1412. 12 Lactantius Institut. divinar. L. i, c. 22. Augustinus de civitate Dei, Lib. vii, cap. 24. 54 13 14 Coutrou et Rouille dans l’histoire romaine, T. i, p. 173, 174 editionis forma octo partita procuratae. 15 Naudaeus dans l’apologie des grand hommes subsonnes de la magie cap. 11. 16 Varro l. c. apud Augustinum. 17 Aurelius Victor, l. c. 18 Valerius Maximus l. c. 19 Plutarchus l. c. 20 Petronius in fragmentis.

christianus gottlieb joecher sui libri di numa bruciati a roma per ordine delle autorità (traduzione italiana) 55

dopo una prefazione relativa ai libri di numa bruciati a roma per iniziativa delle autorità, il signor christian gottlieb joecher pubblico docente attualmente pro-cancelliere dell’ordine filosofico, invita i candidati alla carica di maestro a conquistare i massimi onori nella filosofia Tito Livio, autorevolissimo padre della storiografia latina1, tramanda che nell’anno di Roma 573, sotto il consolato di Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tamfilo, ai piedi del Gianicolo furono rinvenute due arche di pietra, entrambe recanti iscrizioni in caratteri latini e greci, e che in una era sepolto Numa Pompilio, re dei Romani, nell’altra erano contenuti i libri di Numa. Quando il padrone del campo in cui le arche erano state reperite le fece aprire, quella che l’iscrizione indicava come tomba di Numa venne trovata vuota, mentre nell’altra furono scoperti due pacchi, avvolti da cordicelle cerate, ciascuno dei quali conteneva sette libri. I sette libri in latino recavano

norme di diritto pontificale, i sette in greco un insegnamento filosofico. Il pretore urbano Quinto Petillio si fece consegnare questi libri, li lesse per sommi capi e si rese conto che essi contenevano molti elementi in grado di demolire i principi religiosi; riferì pertanto al loro padrone che era sua intenzione gettarli nel fuoco. La questione fu deferita quindi ai tribuni della plebe e da questi rinviata al Senato. Il pretore si disse pronto a giurare che la lettura e la conservazione di quei libri non erano opportune; in seguito a questa dichiara56 zione il Senato stabilì che i libri dovevano essere bruciati nell’area del Comizio, alla prima occasione utile; redatta quindi la relativa deliberazione ufficiale, i libri vennero dati alle fiamme nel Comizio, sotto gli occhi di tutto il popolo, dopo che il fuoco era stato appiccato dagli assistenti dei sacerdoti. Fin qui il resoconto di Livio, la cui versione, benché appaia semplice e chiara, ha ingenerato qualche difficoltà per i lettori dotti: infatti essa presenta delle divergenze con quelle riportate sulla medesima vicenda da altri storici ugualmente degni di fede. Plinio, che ripete lo stesso racconto, si discosta da Livio tanto sui nomi dei protagonisti quanto sul numero delle arche e su quello dei libri2. Plutarco, che adotta come fonte Valerio Anziate, ricorda che i libri di Numa riportati alla luce furono ventiquattro3; Valerio Massimo4 afferma che i senatori stabilirono di conservare con somma cura i libri latini di Numa e che ad essere bruciati dal pretore Quinto Petillio per iniziativa del Senato furono solo quelli greci. Tra gli storici non c’è accordo neppure sull’anno in cui i libri vennero bruciati. Tuttavia, non spetta a me comporre queste

divergenze, e d’altro canto le fonti sono invece unanimi nell’affermare che i libri furono dati alle fiamme e che ciò accadde per iniziativa delle autorità. Alcuni hanno sollevato dubbi circa la paternità numana dei due gruppi di testi e ipotizzano anzi che nel redigerli il sovrano non abbia giocato alcun ruolo. Tra i primi a sostenere questa tesi è stato Marcello Donato5, il quale si convinse che non solo i libri ma le arche stesse fossero contraffatte e di gran lunga più recenti rispetto all’epoca di Numa: a seppellirle sarebbe stato un uomo astuto, il quale contava sulla meraviglia 57 che esse avrebbero suscitato negli scopritori una volta venute alla luce. Pressappoco la stessa opinione fu sostenuta da Olao Borrichio, secondo il quale nell’intera vicenda sussistono non pochi elementi che sanno di impostura e rendono i libri trovati nel sepolcro di Numa molto simili alle origini etrusche scoperte da Inghirami6. E tuttavia, ciò che mi impedisce di ritenere spuri quei libri è la cura con la quale i Romani srotolarono più volte i volumi, li esaminarono e li passarono al setaccio: al punto che difficilmente, se in essi si fosse celata una qualche frode, avrebbero potuto fare a meno di coglierla. Del resto, i volumi furono dati in esame non a persone comuni, ma ad uomini di gusto raffinato come pretori, tribuni, senatori, gente di alto affare e culturalmente preparata: esame che essi condussero con accuratezza e senza mai cogliere nei libri traccia alcuna di impostura. In questa mia posizione sono confortato dalla testimonianza di Livio stesso, certo non incline a prestar fede troppo facilmente alle sue fonti, il quale narra questa vicenda senza esitazione e spiega in che modo i libri furono

allora portati alla luce, che furono unanimemente ritenuti testi di Numa e che se furono dati alle fiamme ciò non accadde perché li si ritenesse prodotto di una frode, ma per motivi del tutto diversi. Del resto, con il medesimo racconto convengono non solo Plinio7, ma anche Plutarco8, Valerio Massimo9, Aurelio Vittore10. Mi chiedo dunque che bisogno c’era di infierire col fuoco su quei documenti, se in essi si fossero colte le arti di un qualche truffatore; anche un solo indizio di frode sarebbe stato sufficiente a togliere loro ogni credibi58 lità, e qualsiasi rischio di dissoluzione dei principi religiosi sarebbe svanito all’istante. Sarebbe stato meglio semmai ignorare quei volumi, piuttosto che ammettere implicitamente la loro importanza condannandoli al rogo. Alcuni ritengono che qui si sia verificato un inganno, e sono pronti a esporre alcune ragioni che giustificano il loro sospetto: e tuttavia queste sono congegnate in modo tale da poter essere facilmente smontate, se non fosse che questo impegno va oltre la misura e i limiti del mio scritto. I dubbi e le difficoltà che sorgono a proposito degli eventi del passato possono talora rendere impegnativa o senz’altro impossibile la loro interpretazione, ma i dubbi non devono togliere credibilità ad autori di provata autorevolezza. Merita dunque lode Famiano Nardino11, il quale nel riportare il racconto liviano relativo al sepolcro e ai libri di Numa procede con tale umiltà che da un lato confessa i molti dubbi che lo tormentano, dall’altro afferma che riterrebbe empio tacciare scrittori così antichi di eccessiva e frettolosa credulità. Ma se i Romani ritennero autentici quei libri, com’è accaduto che gli scritti di un re così famoso, venerato

anche dopo la morte dalla repubblica tutta, venissero dati alle fiamme per iniziativa pubblica? La ragione addotta da Livio per questa decisione è che il pretore Quinto Petillio aveva colto in essi molti elementi in grado di distruggere i principi religiosi. Ma quali sono i culti ai quali i testi di Numa avrebbero potuto recare danno? Quanti si sono posti questo interrogativo hanno dato interpretazioni diverse. Secondo Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, in quei libri Numa finiva per distruggere non solo i culti che lui stesso aveva istituito, ma la religione nel suo insieme12. Mi sfugge 59 però da quali elementi Lattanzio ricavi questa conclusione. Dal resoconto liviano si desume che con quei libri Numa togliesse valore ai culti; ma dubito fortemente che sulla scorta di Livio si possa accreditare a Numa l’intenzione di distruggere l’intero sistema dei culti, anche di quelli che lui stesso aveva introdotto e raccomandato. Né appare in alcun modo verosimile che un sovrano di grande saggezza come Numa si fosse proposto di abbattere ciò che lui stesso aveva fondato o di abrogare ed eliminare completamente la religione alla quale con grande accortezza aveva dato forma. Così, in disaccordo con se stesso, Numa sarebbe venuto meno nel modo più eclatante alla coerenza propria del saggio e anzi sarebbe caduto in contraddizione finendo per demolire la sua stessa opera e la sua fama: cose tutte che sembrano incompatibili con l’intelligenza e la personalità di Numa. Ancor meno posso essere d’accordo con Aurelio Agostino13, il quale non solo ritiene, sulla scorta di Varrone, che Numa in quei libri desse conto dei riti sacri da lui istituiti, ma congettura altresì che in essi fossero stati trascritti i segreti

dei demoni, ai quali il re si sarebbe accostato a suo tempo spinto da una illecita curiosità. Infatti, mentre le dicerie relative alle frequentazioni di Numa con la dea Egeria hanno il sapore della favola, e nessuno oggi dubita che siano state da lui inventate per consolidare il proprio potere, al contrario le ragioni dei riti sacri che quei libri rendevano note non solo non avrebbero avuto l’effetto di distruggere il culto, ma anzi avrebbero grandemente contribuito a preservare e consolidare la religione. Tra gli esponenti più recenti della 60 celeberrima Compagnia di Gesù, Catrou e Rouillé14 ritengono che quei libri avessero contenuto magico, indotti a questo dal fatto che Numa già da tempo fosse incorso nel sospetto di praticare la magia e che secondo lo stesso Agostino quei documenti contenessero i principi della magia. Io peraltro non ricordo di aver letto in Agostino nulla di questo genere: infatti accostarsi ai segreti dei demoni – cosa che il vescovo di Ippona afferma a proposito di Numa – e comportarsi da maestro di arti magiche non sembrano affatto un’unica e medesima cosa. Del resto, già da tempo Gabriel Naudeus con argomenti adeguati ha lavato Numa dalla taccia di aver praticato la magia15. Ma allora, perché i senatori si pronunciarono con tale durezza contro i libri di Numa, ordinando che venissero dati alle fiamme? Perché, a giudizio del pretore, essi contenevano molti elementi in grado di distruggere i culti religiosi. Su quali culti dunque incombeva il rischio di essere distrutti se i libri di Numa fossero stati letti e conservati? Certo non su quei culti che da Numa stesso erano stati stabiliti, come ritiene, senza fondamento, Lattanzio: Varrone16

attesta infatti espressamente che Numa in quei libri rendeva ragione dei riti da lui istituiti, il che doveva avvenire necessariamente spiegando quegli stessi riti, illustrandoli e dunque consolidandoli – tutti procedimenti incompatibili con l’intenzione di contestarli o distruggerli. Aurelio Vittore definisce inconsistenti le ragioni dei riti addotte da Numa17; ma quale che fosse il loro peso, esse furono certo presentate da Numa con lo scopo di rafforzare i riti da lui istituiti, non certo di distruggerli. Quali sono dunque i culti che si temeva quei libri fossero passibili di compro- 61 mettere? Certo non quelli prescritti da Numa stesso ai suoi concittadini, come si è dimostrato, ma, se non m’inganno, i riti diffusi a Roma all’epoca in cui i libri furono portati alla luce, accolti in un’epoca successiva a quella di Numa e contrari alle norme e ai principi religiosi da lui stabiliti. Per conto mio, la migliore interpretazione di Livio è quella offerta da Valerio Massimo18, il quale afferma che quei libri furono dati alle fiamme per iniziativa dei senatori affinché la loro lettura non distogliesse i Romani dal culto divino. Il punto cruciale dell’intera questione consiste dunque nello stabilire quali erano quelle divinità dal cui culto i documenti recati alla luce avrebbero potuto allontanare i Romani. Plutarco, nel trattare espressamente dei riti sacri istituiti da Numa19, ricorda che questi aveva prescritto ai cittadini di non tralasciare i riti tradizionali e aveva vietato ai seguaci del suo insegnamento di attribuire alla divinità l’aspetto di un uomo o di un animale. Ai precetti di quel re acutissimo i Romani tennero fede volentieri; e sappiamo, sull’autorità dello stesso Plutarco, che essi non adottarono alcuna imma-

gine né dipinta né scolpita della divinità, ma che per i primi centosessant’anni innalzarono bensì templi e celle agli dèi, ma non ebbero alcuna effigie. Con l’andare del tempo, tuttavia, si finì per allontanarsi dalle sagge norme di Numa, al punto tale che esse sembrarono del tutto cancellate. Quando infatti, con l’ampliamento dell’impero, furono sottomessi numerosi popoli, anche i riti sacri di questi ultimi penetrarono in città, vennero accolte molte divinità straniere, in particolare egizie, e ad esse furono dedicate immagini 62 innumerevoli; la superstizione si diffuse anzi al punto tale che, come attesta Petronio, a Roma era più facile imbattersi in un dio che in un uomo20. Venuti nuovamente alla luce i testi di Numa, nei quali il re dava conto delle norme da lui introdotte sul culto divino, ne scaturiva il pericolo che quella ormai consolidata superstizione straniera cadesse in crisi e che i cittadini, leggendo i testi e richiamando alla mente le antichissime istituzioni di un re la cui memoria era per loro sacra e venerabile, si rendessero conto di essersi allontanati dalla più antica religiosità e maturassero un senso di nausea e di avversione per quei riti stranieri, vietati dai precetti di Numa, e per le immagini dei nuovi dèi presenti in ogni dove. Per arginare un simile pericolo, i senatori ordinarono di bruciare i testi di Numa scoperti sul Gianicolo: il loro scopo era quello di evitare che venissero distrutti i culti introdotti dopo l’epoca di Numa, i quali erano bensì contrari ai suoi precetti, ma conformi ai costumi e alla mentalità dei Romani per come erano allora.

Note 1 Livio, Storia di Roma, 40, 29. 2 Plinio, Storia naturale, 13, 27. 3 Plutarco, Vita di Numa – Opp. vol. i, p. 74 [La notizia è nel cap. 22, 6 della biografia di Numa scritta da Plutarco, N.d.T.]. 4 Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili, 1, 1, 12. 5 Marcello Donato, Commento a Livio, nella Lampas di Gruterio, vol. vi, p. 94 [si tratta di Marcello Donati (1538-1602), Scholia sive dilucidationes eruditissimae in latinos plerosque historiae romanae scriptores, Venetiis, Apud Juntas, 1604; in questa edizione la tesi cui allude Joecher è esposta alla p. 66. Il testo da cui cita il dotto tedesco è invece quello di J. Greuter, latinizzato in Gruterius, Lampas, sive fax artium liberalium, hoc est, thesaurus criticus quo infinitis locis theologicorum, jurisconsultorum, medicorum, philosophorum, historicorum, poetarum, grammaticorum, scripta supplentur, corriguntur, illustrantur, notantur, 7 voll., Francofurti, Sumtibus Ionae Rhodii Biblio- 63 pola, 1602-1605, N.d.T.]. 6 O. Borrichio, De antiqua urbis Romae facie, nel Thesaurus di Graevius, vol. vi, p. 1608 [Olaus Borrichius è la forma latinizzata di Ole Borch (16261690), di cui si menzionano qui le De antiqua urbis Romae facie dissertationes, Hafniae, Bockenhoffer, 1683-87, che Joecher trova citate in Johann Georg Graevius (1632-1703), Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, Lugduni Batavorum, Apud Petrum Vander, 1704-23. Curzio Inghirami (1614-1655) pubblicò nel 1637, con il titolo di Etruscarum antiquitatum fragmenta, alcuni documenti etruschi sostenendo di averli scoperti in una sua proprietà presso Volterra, N.d.T.]. 7 Plinio, loc. cit. 8 Plutarco, loc. cit. 9 Valerio Massimo, loc. cit. 10 Aurelio Vittore, Gli uomini illustri, 3. 11 Nardino, in Roma antica, citato da Grevio, Thesaurus antiquitatum Romanarum, vol. iv, p. 1412 [Si tratta di Famiano Nardini (morto dopo il 1661), di cui si cita l’opera, apparsa postuma, Roma antica, Roma, Per il Falco, 1666; qui la discussione intorno ai libri di Numa appare alla p. 469; Joecher la desume invece dal già menzionato Thesaurus di Graevius, N.d.T.]. 12 Lattanzio, Istituzioni divine, 1, 22. 13 La città di Dio, 7, 24 [svista o refuso, si tratta in realtà del cap. 34, N.d.T.]. 14 Catrou e Rouillé, Histoire romaine, vol. i, pp. 173-74 dell’edizione in otto tomi [Si tratta di François Catrou (1659-1737), Pierre-Julien Rouillé (1681-1740), Histoire romaine depuis la fondation de Rome, Paris, Jacques Rollin - Jean-Baptiste Delespine - Jean-Baptiste Coignard, 1725-37, N.d.T.]. 15 Cfr. Naudeus, Apologie des grands hommes supçonnés de la magie, cap. 11 [Gabriel Naudé (1600-1653), Apologie pour tous les grands personnages qui ont esté faussement soupçonnez de magie, Paris, Chez François Targa, 1625, pp. 244 ss., N.d.T.].

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Varrone, loc. cit. in Agostino. Aurelio Vittore, loc. cit. 18 Valerio Massimo, loc. cit. 19 Plutarco, loc. cit. 20 Petronio, frammenti [Petronio, Satyricon, 17, 5: «Ad ogni modo, la nostra zona è così piena di numi tutelari, che puoi più facilmente trovare un dio che un uomo» trad. di V. Ciaffi. La frase non si riferisce comunque alla città di Roma, N.d.T.]. 17

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raphaël de chiara de numae libris publica auctoritate romae combustis

Apud Livium scriptum videmus1: «Anno u. dlxxiii in agro L. Petillii scribae sub Janiculo, dum cultores altius moliuntur terram, duae lapideae arcae, octonos ferme pedes longae, quaternos latae, inventae sunt, operculis plumbo devinctis. Literis Latinis Graecisque utraque arca inscripta erat: in altera Numam Pompilium, Pomponis filium, regem Romanorum, sepultum esse; in altera libros Numae Pompilii inesse. Eas arcas quum ex amicorum sententia dominus aperuisset, quae titulum sepulti regis habuerat, inanis inventa, sine ullo vestigio corporis humani, aut ullius rei, per tabem tot annorum omnibus absumptis. In altera duo fasces, candelis involuti, septenos habuere libros non integros modo, sed recentissima specie. Septem libri Latini de jure pontificio erant; septem Graeci de disciplina sapientiae, quae illius aetatis esse potuit… Primo ab amicis, qui in re praesenti fuerunt, libri lecti. Mox pluribus legentibus quum vulgarentur, Petillius praetor urbanus studiosus legendi, eos libros a L. Petillio sumpsit. Et erat familiaris usus, quod scribam eum quaestor Q. Petillius in decuriam legerat. Lectis

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rerum summis, quum animadvertisset, pleraque dissolvendarum religionum esse, L. Petillio dixit: “Sese eos libros in ignem conjecturum esse: priusquam id faceret, se ei permittere uti, si quod seu ius, seu auxilium se habere ad eos libros repetendos existimaret, experiretur: id integra sua gratia eum facturum”. Scriba tribunos plebis adit; ab tribunis ad senatum res est rejecta. Praetor se jusjurandum dare paratum esse aiebat, libros eos legi servarique non oportere. Senatus censuit: “Satis habendum, quod praetor jusjurandum pollice66 retur: libros primo quoque tempore in comitio cremandos esse: pretium pro libris, quantum Q. Petillio praetori maiorique parti tribunorum plebis videretur, domino esse solvendum”. Id scriba non accepit. Libri in comitio, igni a victimariis facto, in conspectu populi cremati sunt». Quae, a Livio memoriae nostrae tradita, etsi plana esse videntur et aperta, nonnihil tamen negotii doctis lectoribus facessivere. Etenim non usquequaque convenit cum aliis probatae fidei auctoribus, eamdem rem tradentibus. Apud Plinium2, qui haec repetit, neque nomina propria, neque arcarum et librorum numerus consonant. Plutarchus, Valerium Antiatem secutus3, viginti quatuor esse erutos Numae libros commemorat. Valerius Maximus contendit4 latinos Numae libros magna diligentia asservandos curasse patres, graecos Q. Petillium praetorem auctoritate senatus cremavisse. De anno quoque quo exusti sunt libri non congruunt scriptores. Sed, ut meum non est, has componere lites, sic de eo magna est omnium consensio, in ignem datos et publica auctoritate esse combustos. Num vero Numae geminus fuerint partus, id in dubitationem a nonnullis est adductum, quibus in

mentem venit, nullas in eis perscribendis Numae fuisse partes. Fecit hoc cum primis Marcellus Donatus5 atque in eam ivit sententiam ut existimaret, has arcas una cum libris fuisse suppositicias, nec Numae tempore, sed longe recentiore, a callido quodam homine infossas, ut, postmodum repertae, admirationi essent effodientibus. Idem propemodum sentit Olaus Borrichius6, non pauca hic esse putans, quae oleant imposturam efficiantque ut libri inventi in Numae sepulchro similes videantur originibus etruscis ab Inghiramo repertis. Verum quominus possim impetrare a 67 me ut credam spurios fuisse, obstat cura Romanorum in volvendis et revolvendis, excutiendis examinandisque iisdem adhibita; qui si hic aliqua fraus abdita fuisset, eam non olfacere non potuissent. Etenim non mediocris condicionis hominibus, sed emunctae naris viris, praetoribus, tribunis, senatoribus, proceribus artium non ignaris, ista volumina tradebantur exploranda, quod ab iis diligenter est factum, sed a nemine unquam imposturae alicuius vestigium in iis detectum. In hoc me confirmat sententia ipsius Livii, non adeo proni ad facile credendum testimonium, qui ista sine haesitatione narrat, atque hac ratione libros tunc e monte protractos, nemine repugnante pro Numae tabulis esse habitos, neque ob fallaciam factam, sed propter longe alias causas in cinerem redactos profitetur: cui narrationi non solum Plinius7, sed Plutarchus quoque8, Valerius Maximus9, Aurelius Victor10 adstipulantur. Quid quaeso opus erat flammis saevire in haec monumenta, si veteratoris alicuius artes in iis fuissent deprehensae? Vel unum fraudolentiae ad fidem iis denegandam suffecisset, omneque religionum

depravandarum periculum statim evanuisset. Spernenda erant tunc ista, non ut magni momenti volumina flammis ulciscenda. Sunt quidem qui dolum hic intercessisse putant, et nonnullas suae suspicionis rationes in promptu habent: verum ita hae sunt comparatae, ut sine magna opera solvi possint, quo autem labore huius scriptionis modus et limites nunc me prohibent. Dubia nonnulla et difficultates exortae circa res olim gestas, operosam possunt et impeditam reddere earum inter68 pretationem: fidem probatorum auctorum elevare non debent. Laudem itaque meretur Nardinus11, qui, quae de sepulchro et libris Numae memorat Livius, repetens, ea procedit modestia, ut fateatur multa sibi dubia animum torquere, sed tamen nefas se existimare tam antiquos scriptores nimiae et inconsultae damnare credulitatis. Quod si vero Numae fuerunt ex sententia romanorum hi libri: qui factum est ut scripta regis adeo clari et universae reipublicae post fata quoque venerabilis, publica auctoritate igni adjudicarentur? T. Livius hanc eius rei affert rationem: “Q. Petillium praetorem animadvertisse, pleraque in iis dissolvendarum religionum fuisse”. Sed quae sunt tandem illae religiones, quibus hi commentarii fraudi esse potuissent? Non uno modo harum rerum curiosi interpretantur. Lactantius auctor est12 Numam his libris, non eas modo quas ipse instituisset, sed omnes praeterea dissolvisse. Quod unde acceperit Lactantius, me prorsus latet. Hoc e Livii libris intelligimus his libris Numam religionibus derogasse: sed quod in universum omnes eas, etiam quas ipse introduxisset et commendasset, dissolvere studuerit, e Livio

posse probari vehementer dubito. Neque ullo modo verisimile est Numam sapientissimum principem, unquam in animum ea quae ipse condidisset destruere, et religionum a se callidissime efformatam abrogare prorsusque tollere. Sibi sic ipse dissimilis, a constantia sapientis quam maxime alienus, quin sibi contrarius, et suorum ipse operum suaeque gloriae fuisset eversor: quae cuncta ab ingenio et indole Numae quam longissime abhorrere videntur. Multo minus assentiri possum A. Augustino13, qui non tantum, praeeunte Varrone, arbitratur redditas esse 69 his libris causas sacrorum a Numa constitutorum sed etiam conjicit, daemonum secreta in iisdem conscripta fuisse, ad quae curiositate illicita rex olim pervenisset. Nam ut fama de congressu et familiaritate Numae cum dea Egeria fabulam sapit, quam quin is imperii firmandi causa finxerit, nemo dubitat; sic tantum abest, ut sacrorum causae per istos libros evulgatae, religiones destruerent, ut potius ad servandam augendamque superstitionem maxime profuturae fuissent. Inter societatis Jesu sodales Catrou et Rouille14 ad opinandum magicos fuisse hos libros ducuntur, quod Numa in magiae suspicionem iam olim incurrisset, et ipse Augustinus magiae principia in his commentariis fuisse sparsa existimet. Verum enim apud Augustinum me istaec legisse non memini. Nam ad daemonum secreta pervenire, quod de Numa asserit Hipponensis praesul, et magicarum artium agere doctorem, haec sane unum esse idemque minime videntur. Quid? Magiae maculam idoneis argumentis dudum ei abtersit Gabriel Naudeus15. Sed cur tandem a P. C. in Numae libros adeo dura lata sententia, ut subjecta flamma

exurerentur? Factum hoc ideo quia praetoris iudicio pleraque in iis dissolvendarum religionum essent. Et quae quaeso sunt religiones, quibus a Numae libris, si illi legerentur et servarentur, dissolutionis imminuisset periculum? Non profecto illae religiones, quae ab ipso Numa erant stabilitae, ut temere iudicavit Lactantius. Conceptis enim verbis testatur Varro16, Numam his libris sacrorum a se institutorum causas reddidisse, quod explicando ea, illustrando, confirmando factum esse 70 oportuit: tantum abest ut ista improbaverit et aboleverit. Leves quidem has sacrorum causas a Numa allatas vocat Aurelius Victor17. Sed cuiuscumque ponderis tandem fuerunt, eo certe consilio a Numae datae sunt, ut sacris constitutis essent firmamento, neutiquam exitio. Quae igitur sunt sacra illa, quibus dissolvendis hi libri apti sunt existimati et for midandi? Non sane, sacra ab ipso Numa civibus praescripta, sed, si quid video, sacra tum temporis, cum illi libri protraherentur, Romae vigentia, post Numae demum aetatem recepta, et legibus institutisque sacrorum a Numa ordinatis adversa. Optime interpretatus esse Titum Livium mihi videtur Valerius Maximus18, asserens in favillas hos libros auctoritate publica esse versos, ne eorum lectione a cultu deorum Romani avocarentur. Cardo itaque rei in eo vertitur, ut definiamus quinam isti fuerint dii, a quorum cultu eruta Numae monumenta avocare potuissent. Plutarchus19, de sacris a Numa constitutis disserens, hoc commemorat, praecepisse eum civibus, patrios ritus non negligere, disciplinae suae alumnos vetuisse, hominis vel bestiae formam tribuere deo. Hisce perspicacissimi regis

praeceptionibus libenter mos gestus in urbe, scimusque, eiusdem Plutarchi auctoritate freti, nullam fuisse apud romanos vel pictam vel fictam imaginem dei, sed primis centum sexaginta annis, templa et cellas diis extruxisse, nullum simulacrum per id temporis habuisse. Ab his Numae legibus sapientissimis procedente tempore adeo est descitum, ut prorsus obliteratae esse viderentur. Cum enim, finibus imperii prolatis, plures populi se ei subjecissent, horum etiam sacra in urbem penetraverunt, peregrini plures et potissimum aegyptii dei Romae suscepti, simulacra iisdem posita 71 fere innumera; adeo aucta superstitione, ut Petronius testetur20 facilius esse deum quam hominem Romae invenire. Protractis itaque iterum in lucem Numae commentariis, quibus legum de cultu Numinis a se latarum rationes reddiderat, periculum oriebatur, ne peregrina illa superstitio, quae iam in animis hominum invaluerat, in discrimen incurreret, et cives istos commentarios legentes, atque antiquissima regis instituta, cuius eis memoria sacra et venerabilis erat, in animum revocantes, a pristina religione se descivisse sentirent, et externa illa sacra, decretis Numae vetita, simulacraque novorum deorum, quibus scatebat urbs, fastidirent atque aversarentur. Huic periculo ut obicem patres ponerent, tabulas Numae in Janiculo repertas inflammari iusserunt, ne religiones post Numae tempora adscitae eiusque institutis contrariae, sed romanorum, ut tunc erant, moribus et rationibus accommodatae, dissolverentur.

Note: 1 Liv. Hist. Rom. xl. c. 29. 2 Plin. N. H. xiii. c. 27. 3 Plut. in Numa – Opp. T. i p. 74. 4 Val. Max. Fact. et dict. mem. i c. 1. Exempl. 12. 5 Marc. Don. in diluc. Liv. T. vi. p. 94. 6 Borr. De antiqua urbis Romae facie, in thesauro graeviano, T. VI. p. 1608. 7 Plin. H. N. l. c. 8 Plut. l. c. 9 Valer. Max. l. c. 10 Aur. Vic. de viris illustribus, c. 3. 11 Apud Graevium, Antiqu. rom. T. iv. p. 1412. 12 Inst. Div. i. c. 22. 13 De Civ. Dei, vii. 24. Histoire romaine, T. i. p. 173-74. 72 14 15 Cf. Apologie des grands hommes supçonnés de la magie, cap. ii. 16 Varro apud Augustinum, l. c. 17 Aur. Vict. l. c. 18 Val. Max. l. c. 19 Plut. l. c. 20 Petr. in fragmentis.

raphaël de chiara (raffaele de chiara) sui libri di numa bruciati a roma per ordine delle autorità (traduzione italiana) 73

In Livio troviamo scritto1: L’anno di Roma 573 nel campo dello scriba Lucio Petillio, ai piedi del Gianicolo, mentre i contadini smuovevano la terra più in profondità del solito, furono rinvenute due arche di pietra, lunghe circa otto piedi, larghe quattro, chiuse da lastre saldate col piombo. Entrambe recavano iscrizioni in caratteri latini e greci: una diceva che in quell’arca era sepolto Numa Pompilio, figlio di Pompone e re dei Romani, l’altra che conteneva i libri di Numa. Il padrone del campo, seguendo il suggerimento degli amici, fece aprire le due arche: quella che l’iscrizione indicava come tomba del re fu trovata vuota e senza la minima traccia di un corpo umano, in quanto tutto era stato divorato dalla decomposizione nel corso di tanti anni. Nell’altra due pacchi, avvolti da cordicelle cerate, contenevano sette libri ciascuno, non solo intatti ma di aspetto molto recente. I sette libri in latino recavano norme di diritto pontificale, i sette in greco un insegnamento filosofico quale poteva esistere in quell’epoca… I libri furono dapprima letti dagli amici che si trova-

vano sul posto; quando poi cominciarono a diffondersi e il numero dei lettori aumentò, il pretore urbano Petillio, curioso di leggerli, se li fece consegnare da Lucio Petillio. Vi era tra i due un rapporto di familiarità, perché Quinto Petillio, quando era questore, lo aveva scelto come scriba ammettendolo nella decuria. Poiché una lettura sommaria aveva fatto notare al pretore che i libri contenevano molti elementi in grado di demolire i principi religiosi, disse a Lucio Petillio che, quanto a lui, aveva intenzione di dare alle fiamme 74 quei libri, ma che prima di farlo, se lo scriba riteneva di avere un qualche diritto o titolo da far valere per chiederne la restituzione, avrebbe potuto rivendicarlo senza che questo compromettesse i loro rapporti. Lo scriba si rivolse allora ai tribuni della plebe, e questi deferirono a loro volta la questione al Senato. Il pretore si disse pronto a giurare che la lettura e la conservazione di quei libri non erano opportune; il Senato stabilì che la promessa di giuramento del pretore era sufficiente, e che quei libri dovevano essere bruciati alla prima occasione utile; al padrone andava riconosciuto per i libri un indennizzo in denaro, nella misura ritenuta congrua dal pretore Quinto Petillio e dalla maggioranza dei tribuni della plebe. Lo scriba rifiutò qualsiasi compenso. I libri vennero dati alle fiamme nel Comizio, sotto gli occhi di tutto il popolo, dopo che il fuoco era stato appiccato dagli assistenti dei sacerdoti. Il resoconto di Livio, benché appaia semplice e chiaro, ha ingenerato qualche difficoltà per i suoi dotti lettori: infatti esso presenta delle divergenze con quelli riportati da altri storici ugualmente degni di fede.

Plinio, che riferisce la medesima vicenda, si discosta da Livio tanto sui nomi dei protagonisti quanto sul numero delle arche e su quello dei libri2. Plutarco, che adotta come fonte Valerio Anziate, ricorda che i libri di Numa riportati alla luce furono ventiquattro3; Valerio Massimo4 afferma che i senatori stabilirono di conservare con somma cura i libri latini di Numa e che ad essere bruciati dal pretore Quinto Petillio per iniziativa del Senato furono solo quelli greci. Tra gli storici non c’è accordo neppure sull’anno in cui i libri vennero bruciati. Tuttavia, non spetta a me comporre 75 queste divergenze, e d’altro canto le fonti sono invece unanimi nell’affermare che i libri furono dati alle fiamme e che ciò accadde per iniziativa delle autorità. Alcuni hanno sollevato un dubbio circa la paternità numana dei due gruppi di testi e ipotizzano anzi che nel redigerli il sovrano non abbia giocato alcun ruolo. Tra i primi a sostenere questa tesi è stato Marcello Donato5, il quale si convinse che non solo i libri ma le arche stesse fossero contraffatte e di gran lunga più recenti rispetto all’epoca di Numa: a seppellirle sarebbe stato un uomo astuto, il quale contava sulla meraviglia che esse avrebbero suscitato negli scopritori una volta venute alla luce. Pressappoco la stessa opinione fu sostenuta da Olao Borrichio, secondo il quale nell’intera vicenda sussistono non pochi elementi che sanno di impostura e rendono i libri trovati nel sepolcro di Numa molto simili alle origini etrusche scoperte da Inghirami6. E tuttavia, ciò che mi impedisce di ritenere spuri quei libri è la cura con la quale i Romani srotolarono più volte i volumi, li esaminarono e li passarono al setaccio: al punto che difficilmente,

se in essi si fosse celata una qualche frode, avrebbero potuto fare a meno di coglierla. Del resto, i volumi furono dati in esame non a persone comuni, ma ad uomini di gusto raffinato come pretori, tribuni, senatori, gente di alto affare e culturalmente preparata: esame che essi condussero con accuratezza e senza mai cogliere nei libri traccia alcuna di impostura. In questa mia posizione sono confortato dall’opinione di Livio stesso, certo non incline a prestar fede troppo facilmente alle sue fonti, il quale narra questa vicenda 76 senza esitazione e spiega in che modo i libri furono allora portati alla luce, che furono unanimemente ritenuti testi di Numa e che se furono dati alle fiamme ciò non accadde perché li si ritenesse prodotto di una frode, ma per motivi del tutto diversi. Del resto, con il medesimo racconto convengono non solo Plinio7, ma anche Plutarco8, Valerio Massimo9, Aurelio Vittore10. Mi chiedo dunque che bisogno c’era di infierire col fuoco su quei documenti, se in essi si fossero colte le arti di un qualche truffatore; anche un solo indizio di frode sarebbe stato sufficiente a togliere loro ogni credibilità, e qualsiasi rischio di dissoluzione dei principi religiosi sarebbe svanito all’istante. Sarebbe stato meglio semmai ignorare quei volumi, piuttosto che ammettere implicitamente la loro importanza condannandoli al rogo. Alcuni ritengono che qui si sia verificato un inganno, e sono pronti a esporre alcune ragioni che giustificano il loro sospetto: e tuttavia queste sono congegnate in modo tale da poter essere facilmente smontate, se non fosse che questo impegno va oltre la misura e i limiti del mio scritto. I dubbi e le difficoltà che sorgono a propo-

sito degli eventi del passato possono talora rendere impegnativa o senz’altro impossibile la loro interpretazione, ma i dubbi non devono togliere credibilità ad autori di provata autorevolezza. Merita dunque lode Nardino11, il quale nel riportare il racconto liviano relativo al sepolcro e ai libri di Numa procede con tale umiltà che da un lato confessa i molti dubbi che lo tormentano, dall’altro afferma che riterrebbe empio tacciare scrittori così antichi di eccessiva e frettolosa credulità. Ma se i Romani ritennero autentici quei libri, com’è 77 accaduto che gli scritti di un re così famoso, venerato anche dopo la morte dalla repubblica tutta, venissero dati alle fiamme per iniziativa pubblica? La ragione addotta da Livio per questa decisione è che il pretore Quinto Petillio aveva colto in essi molti elementi in grado di distruggere i principi religiosi. Ma quali sono i culti ai quali i testi di Numa avrebbero potuto recare danno? Quanti si sono posti questo interrogativo hanno dato interpretazioni diverse. Secondo Lattanzio, in quei libri Numa finiva per distruggere non solo i culti che lui stesso aveva istituito, ma la religione nel suo insieme12. Mi sfugge però da quali elementi Lattanzio ricavi questa conclusione. Dal resoconto liviano si desume che con quei libri Numa togliesse valore ai culti; ma dubito fortemente che sulla scorta di Livio si possa accreditare a Numa l’intenzione di distruggere l’intero sistema dei culti, anche di quelli che lui stesso aveva introdotto e raccomandato. Né appare in alcun modo verosimile che un sovrano di grande saggezza come Numa si fosse proposto di abbattere ciò che lui stesso aveva fondato o di abrogare ed eliminare

completamente la religione alla quale con grande accortezza aveva dato forma. Così, in disaccordo con se stesso, Numa sarebbe venuto meno nel modo più eclatante alla coerenza propria del saggio e anzi sarebbe caduto in contraddizione finendo per demolire la sua stessa opera e la sua fama: cose tutte che sembrano incompatibili con l’intelligenza e la personalità di Numa. Ancor meno posso essere d’accordo con Aurelio Agostino13, il quale non solo ritiene, sulla scorta di Varrone, che Numa in quei libri desse conto 78 dei riti sacri da lui istituiti, ma congettura altresì che in essi fossero stati trascritti i segreti dei demoni, ai quali il re si sarebbe accostato a suo tempo spinto da una illecita curiosità. Infatti, mentre le dicerie relative alle frequentazioni di Numa con la dea Egeria hanno il sapore della favola, e nessuno dubita che siano state da lui inventate per consolidare il proprio potere, al contrario le ragioni dei riti sacri che quei libri rendevano note non solo non avrebbero avuto l’effetto di distruggere il culto, ma anzi avrebbero grandemente contribuito a preservare e consolidare la religione. I gesuiti Catrou e Rouille14 ritengono che quei libri avessero contenuto magico, indotti a questo dal fatto che Numa già da tempo fosse incorso nel sospetto di praticare la magia e che secondo lo stesso Agostino quei documenti contenessero i principi della magia. Io peraltro non ricordo di aver letto in Agostino nulla di questo genere: infatti accostarsi ai segreti dei demoni – cosa che il vescovo di Ippona afferma a proposito di Numa – e comportarsi da maestro di arti magiche non sembrano affatto un’unica e medesima cosa. Del resto, già da tempo Gabriel Naudeus con argomenti

adeguati ha lavato Numa dalla taccia di aver praticato la magia15. Ma allora, perché i senatori si pronunciarono con tale durezza contro i libri di Numa, ordinando che venissero dati alle fiamme? Perché, a giudizio del pretore, essi contenevano molti elementi in grado di distruggere i culti religiosi. Su quali culti dunque incombeva il rischio di essere distrutti se i libri di Numa fossero stati letti e conservati? Certo non su quei culti che da Numa stesso erano stati stabiliti, come ritiene, senza fondamento, Lattanzio: Varrone16 attesta infatti espressamente che Numa in 79 quei libri rendeva ragione dei riti da lui istituiti, il che doveva avvenire necessariamente spiegando quegli stessi riti, illustrandoli e dunque consolidandoli – tutti procedimenti incompatibili con l’intenzione di contestarli o distruggerli. Aurelio Vittore definisce inconsistenti le ragioni dei riti addotte da Numa17; ma quale che fosse il loro peso, esse furono certo presentate da Numa con lo scopo di rafforzare i riti, non certo di distruggerli. Quali sono dunque i culti che si temeva quei libri fossero passibili di compromettere? Certo non quelli prescritti da Numa stesso ai suoi concittadini, ma, se non m’inganno, i riti diffusi a Roma all’epoca in cui i libri furono portati alla luce, accolti in un’epoca successiva a quella di Numa e contrari alle norme e ai principi religiosi da lui stabiliti. Per conto mio, la migliore interpretazione di Livio è quella offerta da Valerio Massimo18, il quale afferma che quei libri furono dati alle fiamme per pubblica iniziativa affinché la loro lettura non distogliesse i Romani dal culto divino. Il punto cruciale dell’intera questione consiste dunque nello stabilire quali erano quelle divi-

nità dal cui culto i documenti recati alla luce avrebbero potuto allontanare i Romani. Plutarco, nel trattare dei riti sacri istituiti da Numa19, ricorda che questi aveva prescritto ai cittadini di non tralasciare i riti tradizionali e aveva vietato ai seguaci del suo insegnamento di attribuire alla divinità l’aspetto di un uomo o di un animale. Ai precetti di quel re acutissimo i Romani tennero fede volentieri; e sappiamo, sull’autorità dello stesso Plutarco, che essi non adottarono alcuna immagine né dipinta né scolpita della divinità, ma che per 80 i primi centosessant’anni innalzarono bensì templi e celle agli dèi, ma non ebbero alcuna effigie. Con l’andare del tempo, tuttavia, si finì per allontanarsi dalle sagge norme di Numa, al punto tale che esse sembrarono del tutto cancellate. Quando infatti, con l’ampliamento dell’impero, furono sottomessi numerosi popoli, anche i riti sacri di questi ultimi penetrarono in città, vennero accolte molte divinità straniere, in particolare egizie, e ad esse furono dedicate immagini innumerevoli; la superstizione si diffuse anzi al punto tale che, come attesta Petronio, a Roma era più facile imbattersi in un dio che in un uomo20. Venuti nuovamente alla luce i testi di Numa, nei quali il re dava conto delle norme da lui introdotte sul culto divino, ne scaturiva il pericolo che quella ormai consolidata superstizione straniera cadesse in crisi e che i cittadini, leggendo i testi e richiamando alla mente le antichissime istituzioni di un re la cui memoria era per loro sacra e venerabile, si rendessero conto di essersi allontanati dalla più antica religiosità e maturassero un senso di nausea e di avversione per quei riti stranieri, vietati dai precetti di Numa, e per le immagini dei

nuovi dèi presenti in ogni dove. Per arginare un simile pericolo, i senatori ordinarono di bruciare i testi di Numa scoperti sul Gianicolo: il loro scopo era quello di evitare che venissero distrutti i culti introdotti dopo l’epoca di Numa, i quali erano bensì contrari ai suoi precetti, ma conformi ai costumi e alla mentalità dei Romani per come erano allora.

Note 1 Livio, Storia di Roma, 40, 29 [l’indicazione iniziale dell’anno di Roma è 81 stata aggiunta da De Chiara; in Livio il capitolo si apre con la dicitura eodem anno, «Nel medesimo anno», N.d.T.]. 2 Plinio, Storia naturale, 13, 27. 3 Plutarco, Vita di Numa – Opp. vol. i, p. 74 [La notizia è nel cap. 22, 6 della biografia di Numa scritta da Plutarco, N.d.T.]. 4 Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili, 1, 1, 12. 5 Marcello Donato, Commento a Livio, vol. vi, p. 94 [si tratta di Marcello Donati (1538-1602), Scholia sive dilucidationes eruditissimae in latinos plerosque historiae romanae scriptores, Venetiis, Apud Juntas, 1604; in questa edizione la tesi cui allude De Chiara è esposta alla p. 66, N.d.T.]. 6 O. Borrichio, De antiqua urbis Romae facie, in thesauro graeviano, vol. vi, p. 1608 [Olaus Borrichius è la forma latinizzata di Ole Borch (1626-1690), di cui si citano qui le De antiqua urbis Romae facie dissertationes, Hafniae, Bockenhoffer, 1683-87. Curzio Inghirami (1614-1655) pubblicò nel 1637, con il titolo di Etruscarum antiquitatum fragmenta, alcuni documenti etruschi sostenendo di averli scoperti in una sua proprietà presso Volterra, N.d.T.]. 7 Plinio, loc. cit. 8 Plutarco, loc. cit. 9 Valerio Massimo, loc. cit. 10 Aurelio Vittore, Gli uomini illustri, 3. 11 Citato da Grevio, Thesaurus antiquitatum Romanarum, vol. iv, p. 1412 [Johann Georg Graevius (1632-1703), Thesaurus antiquitatum Romanarum, Trajecti ad Rhenum-Lugduni Batavorum, Apud Franciscum HalmamApud Petrum Vander, 1694-99, N.d.T.]. 12 Lattanzio, Istituzioni divine, 1, 22. 13 La città di Dio, 7, 34. 14 Histoire romaine, vol. i, pp. 173-74 [Si tratta di François Catrou (16591737), Pierre-Julien Rouillé (1681-1740), Histoire romaine depuis la fondation de Rome, Paris, Jacques Rollin - Jean-Baptiste Delespine - Jean-Baptiste Coignard, 1725-37, N.d.T.]. 15 Cfr. Apologie des grands hommes supçonnés de la magie, cap. 2 [Gabriel

Naudé (1600-1653), Apologie pour tous les grands personnages qui ont esté faussement soupçonnez de magie, Paris, Chez François Targa, 1625, in cui però si parla di Numa Pompilio al cap. 11, pp. 244 ss., N.d.T.]. 16 Presso Agostino, loc. cit. 17 Aurelio Vittore, loc. cit. 18 Valerio Massimo, loc. cit. 19 Plutarco, loc. cit. 20 Petronio, frammenti [Petronio, Satyricon, 17, 5: «Ad ogni modo, la nostra zona è così piena di numi tutelari, che puoi più facilmente trovare un dio che un uomo» trad. di V. Ciaffi. La frase non si riferisce comunque alla città di Roma, N.d.T.]. Nota al testo: Il testo latino di De Chiara presenta alcuni refusi tipografici e una 82 lacuna, che è stato possibile correggere attraverso un confronto con l’originale di Joecher. Sono stati rispettati i corsivi e la punteggiatura dell’autore, mentre le note sono state rinumerate di seguito.

bibliografia ragionata a cura di mario lentano

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In un campo come quello degli studi classici nessuna bibliografia può aspirare alla completezza: e questa non fa eccezione. Oltre tutto, l’episodio dei libri di Numa si colloca al crocevia di interessi molteplici, dalla storia di Roma a quella della filosofia greca e della sua ricezione nella cultura latina, dalla ricostruzione delle battaglie politiche e culturali che animarono il ii secolo a.C. a quella dei frammenti dell’annalistica latina che se ne occupano, e così via: ambiti di ricerca su ciascuno dei quali la produzione è sterminata e impossibile da esaminare in modo sistematico. Confidiamo tuttavia di non aver fatto un lavoro inutile, mettendo a disposizione di studiosi e lettori un elenco di titoli ragionevolmente ampio e offrendo per ciascuno di essi un succinto resoconto. Christian Gottlieb Joecher, De Numae Pompilii libris publica auctoritate Romae combustis praefatus magisterii candidatos ad capessendos summos in philosophia honores inuitat d. Christianus Gottlieb Ioecher, Lipsiae, ex Officina Langenhemiana, 1755.

Ernst von Lasaulx, Über die Bücher des Königs Numa. Ein Beitrag zur Religionsphilosophie, «Abhandlungen der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, philosophisch-philologische und historische Klasse», 5, 1847, 1, pp. 83-130.

Offre un ampio confronto fra i testimoni antichi, rilevando come nessuno dei contemporanei abbia dubitato dell’autenticità dei libri; formula quindi una serie di ipotesi sul possibile contenuto dei libri stessi. Le pagine dalla 102 in avanti contengono, invece, un confronto minuzioso tra i precetti e le istituzioni di Numa e quelli di altre religioni dell’antichità, 84 con particolare riferimento al mondo ebraico.

Alfred Gudeman, Literary Frauds among the Romans, «Transactions of the American Philological Association», 25, 1894, pp. 140-164 [141-143].

All’episodio dei libri di Numa sono dedicate poche pagine: a dimostrare la frode è la stessa modalità della loro scoperta, che punta sull’apparenza del ritrovamento casuale allo scopo di conferire credibilità agli scritti e rientra in una tipologia largamente rappresentata in ambito sia greco che romano. La distruzione dei libri non fu dettata peraltro dalla persuasione che si trattasse di falsi, ma dal pericolo attribuito alla introduzione di dottrine filosofiche.

Raphaël De Chiara, De Numae libris publica auctoritate Romae combustis, Nuceriae, Ex Typis A. Angora, mcmviii. Trattasi del plagio della dissertazione di Christian Gottlieb Joecher del 1755.

Alberto Gianola, La fortuna di Pitagora presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto, Catania, Francesco Battiato, 1921, pp. 31-35 [Biblioteca di filologia classica, 15].

L’autore non crede nella tesi del falso; i libri furono distrutti perché toglievano alla religione romana il suo

presunto carattere soprannaturale e perché dimostravano come anche il diritto pontificale istituito da Numa traesse origine dal pensiero pitagorico. A p. 35, nota 1 interessante rimando all’opera di un giurista ebraico del Seicento per il quale il contenuto dei libri sarebbe consistito in una confessione di fede nel dio d’Israele.

Armand Delatte, Les doctrines pythagoriciennes des livres de Numa, «Bulletin de l’Académie Royale de Belgique», 1936, pp. 19-40. Segnalo, senza purtroppo averne potuto prendere visione diretta, questo contributo, nel quale si tenta di ricostruire il 85 contenuto dei libri numani. Il falsario intendeva diffondere il pitagorismo e insieme difendere la religione romana agli occhi dei Romani colti, mostrandone la conciliabilità con la filosofia greca.

Clarence A. Forbes, Books for the Burning, «Transactions and Proceedings of the American Philological Association», 67, 1936, pp. 114-125 [118].

Solo un breve cenno ai libri di Numa, visti come un primo tentativo, abortito, di introdurre a Roma la filosofia greca.

Léon Herrmann, Ennius et les livres de Numa, «Latomus», 5, 1946, pp. 87-90.

Lo scopritore dei libri non sarebbe un Terentius, come riporta una parte delle fonti, ma un Tarentinus, da identificarsi nel poeta Quinto Ennio, di cui sono note le simpatie pitagoriche e che aveva cultura sufficiente per comporre i falsi sia greci che latini. La sua azione si inseriva nell’offensiva contro le tradizioni religiose portata avanti dai gruppi ellenizzanti cui Ennio era legato.

Arthur S. Pease, Notes on Book-Burning, in M. H. Shepherd Jr., Sh. E. Johnson (a cura di), Munera studiosa, Cambridge (ma), The Episcopal Theological School, 1946, pp. 145-160 [150-154].

Conduce una accurata disamina delle fonti latine. I libri erano dei falsi, espressione di un pensiero scettico e razionalizzante sulla religione della cui diffusione esistono altre testimonianze coeve; probabilmente essi svelavano la natura della religione stessa come strumento di potere, introdotto a scopi politici per incutere il timore degli dèi.

Leonardo Ferrero, Storia del pitagorismo nel mondo romano. Dalle origini alla fine della Repubblica, Torino, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia - Fondazione Parini-Chirio [ma Cuneo, Tip. Ste. Stab. Tipografico 86 Editoriale], 1955, pp. 231-235. L’episodio dei libri di Numa non è un tentativo di consolidare la religione romana, semmai di rilanciare il pitagorismo, la cui immagine era fortemente compromessa dopo la caduta politica di Scipione Africano e le accuse di connivenza con il movimento dei Baccanali; attraverso il falso dei libri numani i pitagorici romani tentavano di smarcarsi da quei sospetti e di accreditarsi come i depositari della tradizione più autentica di Roma.

Jean Gagé, Apollon romain. Essai sur le culte d’Apollon et le développement du “ritus Graecus” à Rome des origines à Auguste, Paris, E. De Boccard, 1955, pp. 328-338 [Bibliothèque des écoles françaises d’Athènes et de Rome, 182].

Secondo l’autore si trattò di un falso allestito dai primi pitagorici romani – ma non direttamente dall’ambiente scipionico – allo scopo di promuovere un’ampia riforma del culto romano. Scopo dei falsari non è però di compiacere il filellenismo alla moda, ma al contrario di proporre ai Romani la religione di Numa come la loro autentica e legittima tradizione.

K. R. Prowse, Numa and the Pythagoreans: A Curious Incident, «Greece & Rome», 11, 1964, 1, pp. 36-42.

Scopo della frode, macchinata da elementi pitagorici presenti a Roma, era quello di diffondere dottrine della scuola legittimandole attraverso l’autorità di Numa; essa dimostra la tenacia di quei Romani che avevano fatto proprie tesi pitagoriche. Era tuttavia prevedibile che il Senato, anche per le analogie tra pitagorismo e culti dionisiaci, duramente repressi appena pochi anni prima, opponesse al tentativo una ferma reazione.

Georges Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris, Payot, 1966 (trad. it. La religione romana arcaica, Milano, 87 Rizzoli, 1977, pp. 447-450). Un cenno alla vicenda dei libri di Numa, che Dumézil interpreta come un sordido tentativo – strettamente personale – dello scriba Lucio Petillio di arricchirsi grazie al suo protettore, ora pretore, Quinto; questi avrebbe fatto distruggere i libri per coprire il suo sottoposto, dato che un’analisi ravvicinata dei rotoli avrebbe smascherato il falso.

Santo Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari, Laterza, vol. ii, parte 1, 1966, pp. 108-109, 515-516 nota 393 [Collezione storica].

Per l’autore la ricostruzione più verosimile di quanto accadde nel 181 è quella per cui libri religiosi scoperti in una tomba furono attribuiti a Numa e bruciati dal pretore; la storiografia pitagorica, rappresentata da Cassio Emina, protestò implicitamente contro Petillio.

Kurt Latte, Römische Religionsgeschichte, München, Beck, 19672, pp. 268-270. Un cenno ai libri di Numa: si trattò di un tentativo di riformare la religione secondo le dottrine del pitagorismo contemporaneo.

Wolfgang Speyer, Bücherfunde in der Glaubenswerbung der Antike, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1970, pp. 51-55.

Breve ricostruzione della vicenda nel quadro di analoghi racconti su libri che si pretendevano riemersi casualmente dal passato.

G. W. Clarke, Books for the Burning, «Prudentia», 4, 1972, 1, pp. 67-83 [73-74].

Un cenno ai libri di Numa: si trattò di un tentativo di introdurre a Roma la filosofia greca e una spiegazione delle istituzioni religiose ad essa ispirata. 88

Giovanna Garbarino (a cura di), Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del ii secolo a.C. Raccolta di testi con introduzione e commento, Torino, G. B. Paravia, vol. ii, 1973, pp. 244-258.

Tratta brevemente dell’episodio che qui interessa. I libri dovevano contenere una interpretazione razionalizzante e filosofica della religione romana, che aveva lo scopo di conciliare razionalità e credenze tradizionali; obiettivo dei falsari era quello di dare massima risonanza alle proprie idee innovative. «Essi furono distrutti, dunque, perché minacciavano di diffondere in Roma idee, ispirate alla filosofia greca, che apparivano rivoluzionarie» (pp. 255-256): si tratta pertanto di un episodio della lunga lotta tra cultura filellenica e reazione conservatrice.

Emilio Peruzzi, I libri di Numa, in Id., Origini di Roma, Bologna, Pàtron, 1973, vol. ii, Le lettere, pp. 107-143.

Un contributo attento soprattutto al problema del supporto scrittorio sul quale sarebbero stati redatti i libri di Numa: la notizia riportata da alcune fonti che tale supporto fosse il papiro non è in contrasto con una datazione all’epoca del re sabino, pur se si trattava di un uso più che raro e destinato a testi di straordinaria rilevanza. Peruzzi è comunque fermamente convinto dell’autenticità dei libri, che considera anzi la prova documentale che già dalla seconda metà dell’viii secolo a.C. la lingua e la cultura greca avevano una

forte presenza nella cultura sabina e romana. Quanto alla distruzione dei libri, essa fu voluta da Catone e dal suo gruppo, del quale faceva parte anche il pretore Petillio.

Salvatore Tondo, Leges regiae e paricidas, vol. xxvi della collana “Studi” dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, Firenze, Olschki, 1973, pp. 27 ss.

Sulle leges di Numa e i relativi materiali scrittori; sulla tradizione e la circolazione nella Roma repubblicana di testi con le antiche leggi dei re.

Francesco Della Corte, Numa e le streghe, «Maia», 26, 1974, pp. 3-20; quindi in Id., Opuscula, Genova, Università degli Studi di Genova - Istituto di Filologia classica e medievale, vol. vi, 1978, pp. 195-212. Anzitutto l’autore schizza un’utile comparazione tra le fonti superstiti, confrontandone i dati passaggio per passaggio; in secondo luogo nega che i libri siano stati bruciati in vista del loro contenuto pitagorico, o che il provvedimento del Senato intendesse colpire «una iniziativa di carattere filoscipionico, filellenico e comunque esterofilo» (p. 19 = 211). Le motivazioni della decisione furono invece economiche, giacché le norme di Numa miravano a incrementare l’agricoltura a danno della pastorizia, con conseguente lottizzazione delle terre demaniali, mentre il pretore Petillio doveva essere il porta-parola dei grandi allevatori.

Giovanni Vitucci, Pitagorismo e legislazione “numaica”, in La filosofia greca e il diritto romano (Colloquio Italo-Francese, Roma, 14-17 aprile 1973), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1976, pp. 153-162 [158-160]. Un cenno ai libri di Numa: la loro distruzione mirava a contrastare la diffusione della cultura greca a Roma; la reazione dei conservatori trovò nel pretore Petillio il proprio strumento. A Calpurnio Pisone, storico di una famiglia che vantava la propria discendenza da un figlio di Numa, si

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dovrebbe la notizia per cui i libri erano solo per metà pitagorici: forse un tentativo di sfumare l’immagine di un re troppo aperto alle novità filosofiche greche.

María-José Pena, La tumba y los libros de Numa, «Faventia», 1, 1979, pp. 211-229.

Contributo ispirato ad un radicale scetticismo sulla possibilità di elaborare una qualche interpretazione dell’episodio del 181: dietro la distruzione dei libri si intravedono motivazioni politiche più che religiose, legate anche a inimicizie personali, ma spingere oltre le ipotesi è difficile e lo stato 90 delle fonti non consente alcuna certezza.

Wolfgang Speyer, Büchervernichtung und Zensur des Geistes bei Heiden, Juden und Christen, Stuttgart, Hiersemann, 1981, p. 52. Quella che è la più vasta rassegna sul tema della distruzione dei libri e della censura intellettuale nel mondo antico dedica ai libri di Numa solo una brevissima trattazione: scopo della distruzione fu la tutela della religione tradizionale, suo fondamento il timore religioso dei Romani.

Aldo Luisi, L’autorità di Catone il censore nei riti e culti romani (in margine a Livio 39, 8-20), «Invigilata lucernis», 3-4, 1981-82, pp. 161-186 [183-185].

Ai libri di Numa sono dedicate poche pagine, anche se quelle precedenti appaiono importanti per la ricostruzione del contesto storico-culturale dell’episodio. La decisione del Senato si spiega con la persuasione di un effettivo legame fra Numa e Pitagora e soprattutto con la decisa opposizione al pitagorismo di Catone e del suo gruppo, di cui faceva parte verosimilmente anche il pretore Petillio, se era un congiunto dei Petilli che come tribuni della plebe attaccarono nel 187 Scipione, ancora per volontà di Catone.

Alberto Grilli, Numa, Pitagora e la politica antiscipionica, in in M. Sordi (a cura di), Politica e religione nel primo scontro

tra Roma e l’Oriente, Milano, Vita e Pensiero, 1982, pp. 186-197 [Scienze storiche, 30].

Suppone che l’intera vicenda sia un falso, elaborato dall’annalistica latina alla metà del ii secolo a.C.; esso mirerebbe a colpire retrospettivamente Scipione Africano e concretamente suo nipote l’Emiliano, ai quali si rimproverava «una spiccata simpatia per elementi ellenistici, non esclusi quelli pitagorizzanti» (pp. 196-197; nella nota 13 Grilli nega invece che il falso avesse lo scopo di propagandare idee pitagoriche).

Francesco Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, 91 Sassari, Libreria Dessì Editrice, 1983. Notevole raccolta ed approfondita analisi della documentazione in tema di libri e commentarii sacerdotali arcaici (e relativi materiali scrittori).

Klaus Rosen, Die falschen Numabücher. Politik, Religion und Literatur in Rom 181 v.Chr., «Chiron», 19, 1985, pp. 65-90.

Ricostruzione delle versioni più antiche sull’episodio dei libri di Numa e del contesto culturale della loro distruzione, con particolare attenzione alla progressiva definizione dei tratti che caratterizzano il secondo re di Roma e alla nozione di filosofia nella percezione dei Romani colti all’inizio del ii secolo a.C. Il caso di Numa ricordava quello di Scipione, del quale analogamente si diceva che ricevesse consigli dalla divinità; a Numa è poi strettamente legato un altro avversario di Catone come Fulvio Nobiliore. L’aristocrazia conservatrice, che seguiva con preoccupazione gli sforzi di quest’ultimo – il patronato nei confronti del poeta Ennio, la costruzione del tempio di Hercules Musarum, in cui Nobiliore aveva fatto traslare un’edicola delle Muse attribuita a Numa – attraverso la distruzione dei libri dava chiaramente a intendere cosa ne pensasse delle sue intenzioni.

Jean-Marie Pailler, Bacchanalia: la répression de 186 av. J.-C. à Rome et en Italie, Paris, E. De Boccard, 1988, pp. 623-667.

Ai libri di Numa è dedicata parte del cap. 12: essi configurerebbero un tentativo di reinterpretare la religione romana alla luce del pensiero filosofico greco, attribuendo così una patente di ellenismo alle credenze tradizionali. Pailler assegna grande importanza al motivo della tomba vuota del re, che per un verso accreditava a Numa una apoteosi affine a quella di Romolo, per l’altro alludeva alla dottrina pitagorica della metempsicosi, perché lo spirito di Numa si incarnava in qualche modo nello scopritore dei suoi libri. Anche la leggenda relativa alla morte del successore di Numa, Tullo Ostilio, incenerito da Giove per aver celebrato culti illeciti, sarebbe stata elaborata in questo 92 frangente dallo stesso milieu che distrusse i libri, come a suggerire il destino di chi viola la religione tradizionale e a fornire una giustificazione per la stessa distruzione dei rotoli tramite il fuoco.

Nadia Berti, La decadenza morale di Roma e i “viri antiqui”. Riflessioni su alcuni frammenti degli «Annali» di L. Calpurnio Pisone Frugi, «Prometheus», 15, 1989, pp. 39-58 [49-54].

Secondo l’autrice il rogo dei libri aveva una chiara funzione anti-scipionica; lo storico Calpurnio, una delle fonti più antiche sull’episodio, lo raccontava probabilmente con l’intento di ribadire la bontà della dottrina pitagorica e di distinguere nettamente tra il sano pitagorismo di matrice italica, noto a Numa, e quello diffuso dagli ambienti filellenici.

Erich S. Gruen, Studies in Greek Culture and Roman Policy, Leiden-New York-København-Köln, Brill, 1996, pp. 163-170.

Breve trattazione dei libri di Numa: viene scartata sia la tesi che la frode mirasse a introdurre il pitagorismo a Roma, sia quella che dietro l’episodio si colga un conflitto fra partigiani e oppositori della cultura greca in generale, anche se è possibile che Catone vi abbia giocato un ruolo significativo. La diffusa convinzione di una dipendenza di Numa da Pitagora

contrastava con il bisogno di marcare una propria differenza identitaria; non si trattava perciò di rinunciare a Numa, ma all’ellenismo di Numa, distruggendo i libri che ricordavano un’epoca di dipendenza culturale dal mondo greco, prima che maturasse un’autonoma cultura nazionale.

Andreas Willi, Numa’s Dangerous Books. The Exegetic History of a Roman Forgery, «Museum Helveticum», 55, 1998, pp. 139-172.

Il più recente e ampio tra gli studi consacrati specificamente all’episodio dei libri, messo in relazione con lo scandalo dei Baccanali e interpretato come ulteriore tornante 93 della medesima battaglia fra tradizione e innovazione. Per Willi non erano i contenuti pitagorici in sé che potevano essere avvertiti come minacciosi, quanto la loro forma scritta da un lato, che contrastava con il carattere orale del sapere religioso romano, e dall’altro la loro intrusione nelle tradizioni indigene, che minacciava di obliterare i confini identitari fra Grecia e Roma. Il contributo esamina poi in che modo i diversi autori (“pagani” prima, cristiani poi) abbiano affrontato la contraddizione tra la percezione di Numa come figura esemplare di sovrano e fondatore della religione e l’attribuzione al medesimo Numa di testi meritevoli di essere distrutti.

Mathilde Mahé, Le pythagorisme d’Italie du sud vu par Tite-Live, «Ktèma», 24, 1999, pp. 149-157 [152-154].

Tra le varie ipotesi esplicative sull’episodio dei libri di Numa la studiosa propende per quella che si trattò di un falso allestito dai circoli pitagorizzanti dell’aristocrazia, decisi ad accreditare le loro posizioni ponendole sotto l’egida del pio re arcaico.

Eric Orlin, Why a Second Temple for Venus Erycina?, in C. Deroux (a cura di), Studies in Latin Literature and Roman History, Bruxelles, Latomus, vol. x, 2000, pp. 70-96 [76-82].

Ad onta del titolo, ampio spazio è dato alla vicenda dei libri di Numa. L’interpretazione tradizionale – si trattò di un primo tentativo di introdurre la filosofia greca a Roma, o comunque di una lotta tra innovatori e tradizionalisti – non tiene conto del fatto che gli elementi di falsità erano troppo evidenti e che ad essere bruciati furono anche i presunti libri latini di Numa, e non solo quelli greci. La posta in gioco dell’affaire era in realtà l’autorità del Senato, che rivendica la propria autorità suprema anche in un affare squisitamente religioso e persino contro un re venerato come Numa. 94

Michel Humm, Numa et Pythagore: vie et mort d’un mythe, in P. A. Deproost, A. Meurant (a cura di), Image d’origines. Origines d’une image. Hommages à Jacques Poucet, Louvain-la-Neuve, Academia-Bruylant, 2004, pp. 125-137. L’interpretazione tradizionale che vede nel rogo dei libri un momento del lungo scontro tra innovatori e tradizionalisti resta condivisibile; è verosimile però che il Senato avesse colto la natura di falsi dei presunti originali numani, altrimenti bruciarli sarebbe stato sacrilego, e che questo sia tra l’altro un segno del fatto che il mito di un discepolato pitagorico del re di Roma iniziasse ad essere messo in dubbio da una parte almeno dell’élite (pp. 127-129).

John L. Penwill, “De integro condere”: Rediscovering Numa in Livy’s Rome, «Scholia», 13, 2004, pp. 28-55. Incentrato essenzialmente sulla ricostruzione liviana dell’episodio (a partire da p. 37) e sui presunti paralleli che lo storico avrebbe inteso stabilire con la figura e la storia di Augusto. Il ruolo di Numa come fondatore della religione romana era troppo importante per permettere che un casuale ritrovamento archeologico alimentasse invece il sospetto di un’origine greca dei culti tradizionali; la decisione del pretore Petillio intendeva dunque preservare l’identità culturale indigena.

Daniel Ch. Sarefield, Burning Knowledge: Studies of Bookburning in Ancient Rome, diss. Ohio State University, 2004 [http://etd.ohiolink.edu/send-pdf.cgi?osu1092663236], pp. 45-53. Dell’episodio dei libri di Numa interessa all’autore soprattutto la forma della loro distruzione: l’uso del fuoco trasforma quella distruzione per un verso in un sacrificio religioso, per l’altro nella punizione di un sacrilegio.

Lucien X. Polastron, Libri al rogo. Storia della distruzione infinita delle biblioteche, Milano, Sylvestre Bonnard, 95 2006, pp. 38-39 [Il sapere del libro].

Un fugace riferimento ai libri di Numa in cui si rimanda alla interpretazione di Forbes.

Fernando Báez, Storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere alla guerra in Iraq, Roma, Viella, 2007, p. 84 [La storia. Temi, 4]. Appena un cenno, piuttosto impreciso.

Livio - Seneca - Tacito, Libri al rogo, a cura di Mario Lentano, Bari, Palomar, 2008, pp. 53-66 [Margini, 74]. Testo e commento della versione liviana relativa ai libri di Numa.

Rachele Hassan, Tradizione giuridica romana antica e ideologia augustea. Il catalogo dei dannati del Tartaro virgiliano (Aen. 6.608-614), in La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di Bernardo Santalucia, Pavia, IUSS Press, 2009, pp. 493 ss.

Questo lavoro contiene la bibliografia essenziale ed aggiornata concernente le leggi dei re e i relativi problemi della loro tradizione testuale sino al Principato.

Bruno Poulle, Les réincarnations de Pythagore et de Numa à Rome, «Revue des études latines», 88, 2010, pp. 92-105 [99-105].

Per l’autore la frode, allestita verosimilmente dal pretore Petillio e dal suo scriba, intendeva evocare una sorta di reincarnazione di Numa, il cui corpo era scomparso dalla tomba ma rinasceva nei suoi scritti. L’intenzione dei falsari non era però quella di condannare il pitagorismo di Numa, ma di esaltarlo; la religione è azione, non pensiero: distrutti i libri che contenevano la spiegazione razionale dei culti, il valore di questi ultimi ne usciva non sminuito ma viceversa 96 ulteriormente enfatizzato.

Rossella Laurendi, Leges regiae. “Ioui sacer esto” nelle leges Numae: nuova esegesi di Festo s.v. Aliuta, in Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani, «Studi Preliminari», I, 2012, pp. 3 ss.

Questo lavoro contiene la bibliografia essenziale ed aggiornata concernente le leggi dei re e i relativi problemi della loro tradizione testuale sino al Principato.

Mario Lentano, La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica, Macerata, liberilibri, 2012, pp. 25-33 [Oche del Campidoglio, 107].

Il capitolo 2 è interamente consacrato alla vicenda dei libri di Numa, la cui distruzione viene inquadrata nel contesto delle battaglie culturali che segnano la prima metà del ii secolo a.C.

alcune considerazioni bibliografiche sulla distruzione dei libri 1 massimo gatta Ad Alberto Della Sala 97

Il destino non scritto dei libri, quali memoria di popoli e civiltà, è forse quello di scomparire, svanendo nel nulla. Inutile opporsi alle ingiurie del tempo e a quelle, non meno terribili, dell’uomo2. Da millenni, infatti, rotoli, papiri, pergamene, codici, manoscritti, volumi a stampa sono stati sistematicamente distrutti, occultati, bruciati, mutilati, censurati oppure si sono semplicemente perduti (Come accaduto per uno dei Quaderni di Antonio Gramsci sulla cui vicenda, al limite del giallo bibliografico, rimando all’ottimo Franco Lo Piparo, L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti di Gramsci, Roma, Donzelli, 2013), vanished 3. In seguito sono stati, con eguale accanimento, ricercati, riscoperti, riscritti, interpretati, conservati, catalogati, restaurati, collezionati ed esposti in uno schizofrenico gioco vizioso che a molti può apparire, e forse lo è davvero, incomprensibile e folle. Un paradosso soprattutto moderno, rilevato dal grande bibliografo analitico George Thomas Tanselle, che scrive: «In futuro si guarderà al tempo presente come a un’età di distruzione dei libri. E il paradosso sta nel fatto che

questa distruzione la vanno accelerando quelli che hanno l’intenzione di conservarli, i libri, o di facilitarne l’uso»4. Una bibliofobia che si coniuga in mille forme diverse5, senza alcuna distinzione di classe, religione o politica. Tutti indistintamente si sono accaniti contro questo fragile strumento di civiltà: imperatori e sovrani, pontefici6 e dittatori, soldati e studenti, scienziati e uomini di cultura7, perfino semplici cittadini da millenni si adoperano per distruggere, trafugare, censurare, annientare, occultare il libro. Una forma 98 di sottile censura bibliofobica, poi, è quella perpetrata dallo stesso mondo editoriale che ha nel tempo fatto scomparire dal mercato molti ottimi libri8.Così fecero gli Egiziani, i Greci e i Romani, l’Oriente9 e l’Occidente, la Spagna cattolica e la Russia dei soviet, la Germania nazista (col rogo berlinese del 10 maggio del ’33)10 e l’Italia mussoliniana11, fino alle odierne distruzioni in Bosnia, in Afghanistan, in Iraq12, a Timbuctù13. Come scrisse Isaac D’Israeli: «I Romani bruciarono le biblioteche degli ebrei, dei cristiani e dei filosofi; gli ebrei bruciarono i libri dei cristiani e dei pagani, e i cristiani bruciarono quelli dei pagani e degli ebrei»14, in un vortice perverso senza fine. Ma c’è un episodio legato al rogo di un libro, che pochi forse ricordano, svoltosi non nella Roma di Cesare o nella Berlino di Hitler, ma a casa nostra e proprio qualche decennio fa. Mi riferisco alla condanna pronunciata nel 1957 dal Tribunale di Milano nei confronti di un libro con alcuni racconti di Sade tradotti in italiano, edito da Luigi Veronelli, che i più conoscono come raffinato e colto enologo. Ebbene la sentenza fu regolarmente eseguita nel cortile della Questura di Varese

dove venne data alle fiamme l’intera tiratura. Un ulteriore caso contemporaneo, ma molto più celebre, è quello dei Versetti satanici di Salman Rushdie condannati al rogo dalla fatwa15. Una delle conseguenza della censura libraria era l’uso strategico, da parte dei librai, di indicare sui volumi luoghi falsi o inventati di stampa, onde evitare le pene severe16. Quando poi non è l’uomo a pensarci lo fanno la natura, il fuoco, l’acqua17 e il Tempo stesso, che lentamente riconduce tutto alla polvere originaria, come Dio indicò ad Adamo subito dopo il peccato originale. 99 Una censura che già all’epoca romana costituiva parte integrante dei costumi della società, un dato acquisito, una realtà; tra i tanti casi cito quello dei falsi libri di Numa Pompilio, secondo leggendario re di Roma, successore di Romolo, che regnò per circa quant’anni a partire dal 715 a.C.; opere che rispecchiavano la filosofia di Pitagora, scoperte per caso cinque secoli dopo la morte dello stesso Numa nel 181 a.C., e che per ordine del Senato vennero completamente distrutte18. Questo episodio, da secoli dibattuto da storici e filologi, fu l’oggetto della rara dissertazione di Christian Gottlieb Joecher, poligrafo e storico del diritto, autore di un certo numero di pubblicazioni (fonte SBN), e la cui dissertazione sui libri di Numa fu pubblicata a Lipsia nel 1755 ex Officina Langenhemiana (localizzata nella sola Biblioteca civica Manfrediana di Faenza, fonte SBN), bellamente copiata, comprese le note bibliografiche, da Raffaele De Chiara a inizio Novecento, che la stampò in un opuscolo (1908) in limitatissimo numero di esemplari, sibi et amicorum, presso una raffinata tipografia come quella di Angelo

Angora a Nocera Inferiore, nell’Agro Nocerino Sarnese. Poco o nulla si conosce di De Chiara, che potrebbe essere l’autore anche del Virgilio naturalista ed agricoltore19, oltre che il curatore e traduttore del Libro VII dell’Eneide di Virgilio20 e di un altro paio di titoli, tra i quali il De C. Lucilii vita et operibus21, pubblicato lo stesso anno del plagio sui libri di Numa di Joecher, e infine delle Observationes in nonnullos Sallustii locos. Circa il richiamo a Pitagora, però, sembra esserci una palese incongruenza: «[…] non è infatti cronologicamente 100 possibile che libri appartenuti a Numa contenessero precetti filosofici di Pitagora, nato intorno al 570 a.C. La truffa, resa a nazionalizzare precetti filosofici greci col rendere Numa discepolo di Pitagora, non era sfuggita a Tito Livio che definisce quei libri non integros modo, sed recentissima specie [xl, 29]»22. Un flusso ininterrotto di roghi, intrighi, complotti, sinistri avvenimenti, aventi come unico, reale scopo (utopico) quello di sopprimere, annullare, cancellare la Storia, permea l’intera storia del libro. Cosa ha rappresentato, infatti, la distruzione sistematica della parola scritta se non il tentativo, nello stesso tempo folle e razionale, di cancellare per sempre la memoria e l’identità di un solo uomo (Don Chisciotte) o di un intero popolo (gli ebrei)? Dall’imperatore cinese CheHuang-Ti che nel 213 a.C. ordina la distruzione di tutti i libri, passando a Costantino che nel corso del Concilio di Nicea (325) chiede la distruzione dei libri di Ario (tra i quali Thalia), via via ai roghi dei libri di Pietro Abelardo e di Arnaldo da Brescia fino a quelli di Wycliff e Huss. Una svolta importante sarà, alla fine del xv secolo, il passaggio dall’universo scrittorio

manoscritto a quello tipografico, dove la volontà bibliofobica implica ora la distruzione sistematica non più del singolo codice manoscritto, ma di tutte le copie stampate del volume colpevole: è adesso che la ricerca diventa strategica, febbrile, ossessiva: in una parola pianificata23. Come ha notato Elena Löwenthal: «Il rogo dei libri è per eccellenza l’estinzione della storia, della memoria, dell’individuo; l’estremo atto dell’ansia di rimozione, di un’autorità che per imporsi non può che rifondare la storia, riproporre una nuova creazione del mondo»24. E poi fin dove ci si spinge, dove 101 il rischio? Ovvio, fino ad annientare l’uomo stesso, la sua memoria, rimuoverne la storia. Cosa rappresentò la distruzione nazista di cento milioni di libri ebraici se non la lucida volontà di rimuovere dalla Storia un intero popolo? Heinrich Heine, con la sua tragedia giovanile Almansor (1821) fu inascoltato profeta, quando scrisse che «Là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini»25. Come puntualmente avvenne, da parte della Chiesa, che mandò al rogo gli autori, gli editori e i venditori di libri probiti26. Ma esiste anche un’autodistruzione dei libri, programmata dagli autori, dagli eredi, dai collezionisti-bibliofili, dagli stessi librai27. Lo studioso francese Gérard Haddad ha affrontato questo aspetto della bibliofobia in un celebre saggio del 199028. Il concetto di autodafè è tema troppo vasto per essere affrontato in questa sede, ma non possiamo sottrarci dal ricordare alcuni casi emblematici. Il primo è confluito in uno dei grandi classici del Novecento, Die Blendung (Abbagliamento) di Elias Canetti, con la straordinaria immagine finale del riso del professor Peter Kien mentre viene avvolto

dalle fiamme nel rogo della sua immensa biblioteca29. L’altro lo fornisce la biografia dello storico, giurista e filologo di Garding, Theodor Mommsen, artefice involontario dei ripetuti incendi appiccati alla propria biblioteca, episodi ricostruiti con acribia da Oliviero Diliberto nel corso degli anni30; in tema di biblioteca in fiamme, infine, celebre resta l’immagine del rogo di libri antichi31 nel best seller firmato da Umberto Eco nel 1980 . Eclatanti restano poi gli esempi di Oreste Del Buono e del suo libro Un’ombra 102 dietro il cuore, pubblicato da Einaudi nel 1978 in 1200 esemplari. Del Buono, insoddisfatto della sua opera, riacquistò l’intera tiratura mandandola al macero. Infine quello di Carlo Dossi e delle 12 note (su 5794) che compongono le sue Note azzurre. Alla morte dello scrittore, avvenuta nel novembre del 1910, la vedova Donna Carlotta Borsani fece pubblicare un’edizione delle Note mutila delle 12 note ritenute eccessivamente erotiche. Solo di recente (1992) il libraio antiquario Roberto Palazzi ha pubblicato le note censurate in un’edizione fuori commercio in 100 esemplari32. La vicenda di Mommsen, e la relativa ricerca compiuta da Diliberto per rintracciare i libri superstiti appartenuti al grande giurista, offrono l’opportunità di ricordare coloro che hanno dedicato gran parte della loro vita alla ricerca dei libri scomparsi, o ritenuti tali, tra i quali spicca il nome di Leo Deuel, biografo di Einrich Schliemann, e autore di Testaments of Time33. Già nel lontano 1885 Leo Samuel Olschki, il grande libraio antiquario ed editore, dedicava alla distruzione dei libri un breve quanto denso articolo, dal titolo Saggio di una storia delle più notevoli distruzioni di libri; dove

scrive: «Literae posteritatis causa repertae sunt, quae oblivionis subsidio esse possent, dice Cicerone; e però non mancarono mai personaggi, sovrani, capi di religione i quali non vollero saperne e distrussero barbaramente tesori d’inapprezzabile valore, risultati di improbi lavori e di penosissime indagini, di modo che non pervennero alla nostra conoscenza!»34. S’avverte in queste parole il dolore dell’uomo ma anche del grande libraio antiquario di fama internazionale, oltre che dell’editore di cultura. Ma le biblioteche, anche quelle non distrutte, possono occultare i libri, renderli invisibili quindi 103 inutili. Caso celebre è la sezione di erotica (o curiosa, come ben sanno gli specialisti) della Bibliothèque Nationale de France, conosciuta come l’Enfer, l’inferno appunto. Esistono sezioni analoghe alla Biblioteca Apostolica Vaticana, alla British Library di Londra (Private Case), alla Biblioteca di S. Pietroburgo, ma anche alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano35. Il poeta francese Guillaume Apollinaire redasse un catalogo dell’Enfer, scritto insieme a Fernand Fleuret e Louis Perceau, oggi una rarità sul mercato antiquario36. Alla base della creazione di sezioni segrete (e di concetti quali enfer), nelle pubbliche biblioteche, c’è forse l’immagine, come scrive Luigi Balsamo, di una «biblioteca permanente vista come una prigione […]. Basti ricordare il trattato del gesuita Claude Clement, professore al Collegio imperiale di Madrid, il quale aveva teorizzato un’istituzione statica, la cui finalità era in sostanza una pura ostentazione di erudizione. E questo era il meno, dato che la visione sacrale ma fanatica dell’autore lo portava, nel distinguere nettamente tra libri buoni e cattivi, a proporre due sezioni speciali

dichiarate rispettivamente carcere et rogus Bibliothecae: la prima come una cella di segregazione (il prototipo di quell’Enfer che venne in seguito istituito nelle maggiori biblioteche pubbliche), la seconda come un luogo di esecuzione in cui bruciare i libri ‘più’ cattivi, inesorabilmente, e tragicamente, condannati».37 Ma le strategie per salvare i libri sono molteplici. Alcune sono state indicate da Emanuele Bevilacqua in un simpatico e ironico libretto di qualche anno fa: «Abbiamo alle spalle il millennio che ha visto la 104 nascita del libro, come pure è terminato il secolo che ha portato alla grande esplosione delle comunicazioni di massa. E come abbiamo speso tutto questo tempo? Non abbiamo fatto altro che chiederci se questo oggetto avesse o no un futuro. E intanto il paziente, che prima stava benissimo, si è ammalato gravemente. Ora il libro sta vivendo la sua stagione peggiore»38. Il destino dei libri, l’abbiamo detto, è quello di scomparire; ma prima invecchiano: «Alcuni invecchiano bene, altri meno. Dipende dalle condizioni in cui sono stati conservati, certo, ma anche dal materiale con cui sono stati prodotti. In ogni caso sappiamo che verso la metà del secolo scorso si è verificato un fenomeno tragico. Non si sono più prodotti libri con la carta di stracci, e si è iniziato a fare la carta col legno», così scriveva Umberto Eco in una sua conferenza del 1991 il cui titolo evocativo era non a caso La memoria vegetale39. Alternativa alla distruzione, e quindi all’oblio, è forse diventare noi stessi libri, uomini-libro (il furore di essere libro, riprendendo il titolo di una conferenza di Gianfranco Dioguardi40), come i protagonisti del celebre romanzo Fahrenheit 45141, dello scrittore di fanta-

scienza Ray Bradbury i quali, vissuti in un tempo in cui la legge impone di bruciare i libri o altra carta stampata, sono in grado di memorizzare un testo letterario consegnandolo così ai posteri. Ma due secoli prima Louis Sebastian Mercier già preconizzava questo evento in un suo romanzo del 177142. Ma non tutti vorrebbero incarnarsi in un libro. Il poeta cileno Pablo Neruda così scrive in una poesia: «[…] Libro, lasciami libero. / Non voglio andar vestito / da volume, / non vengo da un libro, / le mie poesie non hanno mangiato poesie, / divorano / appassionati 105 avvenimenti […]»43. Come giustamente ha rilevato Castoldi la strategia degli uomini-libro (il romanzo di Bradbury è del 1951), prefigura esattamente lo spirito che ha animato la nascita di Internet, la “rete” di relazioni senza confini e la messa in comune di documenti e informazioni. Gli uomini-libro di Bradbury lottano contro tutti i Montag della grande Storia che da tempo immemorabile hanno cercato (cercano ancora?) di distruggere la pluralità delle verità imponendo un pensiero unico. Per essi rifondare la storia ha paradossalmente significato, ogni volta, distruggere la storia stessa. Castoldi ricorda, a questo proposito, quanto compiuto dai serbi nel 1992: «[…] quando i serbi vogliono la realtà multietnica di Sarajevo si accaniscono contro la biblioteca, deposito di testi e manoscritti in ebraico, greco, latino, cirillico, arabo»44. Di certo il censo non bastò all’Inquisizione per fermare le sue fiamme. Il caso di Renata di Valois ne è testimonianza. Figlia del re di Francia Luigi xii e di Anna di Bretagna, era andata in sposa nel 1528 al duca Ercole II d’Este. Dei suoi libri, però, si sa ben

poco: due casse di libri, un volta tornata in Francia nel suo castello di Montargis dopo la morte del marito avvenuta nel 1559, furono ritrovate nel Palazzo dei Diamanti di Ferrara; ma, come riporta una antica fonte dell’epoca, «[…] furono tutti abbruciati nel castello di Ferrara», per volere dell’Inquisizione. La nobildonna, infatti, aveva aderito alla Riforma protestante e quei volumi, per lei lettura abituale, costituivano materiale giudicato ereticale. Di lei ci resta un prezioso e minuscolo Libro d’Ore miniato, a lungo 106 conservato nella Biblioteca Estense Universitaria di Modena (segnatura Lat. 614), purtroppo trafugato nel 1994 nell’Abbazia di Montecassino in occasione della mostra Pregare nel segreto. Libri d’Ore e testi di spiritualità nella tradizione cristiana45. Ma i libri possono essere distrutti, in questo caso bruciati, anche per altri motivi. Adesso è la letteratura a venirci in aiuto indicandoci due esempi. Il primo è quello della scrittrice Amélie Nothomb che con Les Combustibles ci suggerisce che è la guerra e l’inverno a imporre ai protagonisti, due uomini e una donna, di bruciare i libri pur di sopravvivere. Ma è poi davvero così? Uno dei protagonisti, il professore, così risponde a Daniel: «Se ci mettessimo a bruciare i libri, allora davvero avremmo perso la guerra»46. Anche Pepe Carvalho, personaggio di Manuel Vásquez Montalbán, getta nel camino un libro al giorno ma «[…] solo per vendicarsi del poco che gli hanno insegnato a vivere e del molto che invece lo hanno allontanato da un rapporto spontaneo ed entusiasta con la realtà» (Montalbán)47; ed è lo stesso Carvalho, in Quintetto di Buenos Aires, a rincuorarci dicendo che: «I

libri che servono a qualcosa non li brucio»48. Ma gli stessi libri possono volersi celare, nascondersi al Significato, circondarsi di un oscuro mistero, pur rimanendo tangibili e presenti e oggetti di venerazione e cura assoluta. Così è avvenuto per il Manoscritto Voynich, dal nome del libraio Wielfried Voynich che lo scoprì per caso nel 1912 nel collegio di Villa Mondragone a Frascati, acquistandolo dai gesuiti che non ne avevano compreso l’eccezionalità. Il manoscritto, ritenuto opera duecentesca di Ruggero Bacone, è scritto in un alfabeto, o più alfabeti, misteriosi, non ancora 107 decifrati. Oggi è conservato alla Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University, con la segnatura MS 40849. Altro caso, anche se su piani completamente diversi, è quello dell’affascinante Codex Seraphinianus, scritto dall’artista Luigi Serafini in una lingua inesistente e del tutto fantastica da lui stesso creata; Italo Calvino ne curò una edizione molti anni fa50. Infine anche il Caso, la Fatalità agiscono contro i libri come nel disastroso incendio della Biblioteca nazionale di Torino agli inizi del Novecento51 oppure perché mangiati52. Un’ulteriore forma di bibliofobia, questa paradossale e di conseguenza più lieve, è quella legata alla scomparsa di libri che ... non esistono53. Lo scrittore cileno Roberto Bolaño ha scritto un intero libro sulla letteratura nazista in America, dove non manca nemmeno un apparato bibliografico che raccoglie nomi di personaggi marginali, intitolazioni di riviste, marchi editoriali e titoli di libri: tutti scrupolosamente inventati54. Ma non solo i libri, anche certe parole possono

svanire, e l’alfabeto stesso potrebbe decidere di perdere le lettere, come nel raffinato romanzo di Juan José Millàs El orden alfabético55, o i libri stessi perdere le parole, come ci racconta Tullio Dobner56. Che ne sarebbe di un tavolo, di un albero, del volto di nostra figlia, se non avessimo più a disposizione le lettere per nominarli? Ma è la guerra, in assoluto, la causa di ogni dolore e distruzione, anche dei libri, come ci ricorda Riccardo Aungervyle da Bury, vescovo di Duhran, dall’alto 108 del suo latino trecentesco. Non è un caso se l’intero settimo capitolo del suo Philobiblon, che concluse nel 1344 un anno prima di morire, è interamente dedicato al Lamento dei libri contro le guerre: «Tu altissimo, creatore e amante della pace, disperdi chi vuole la guerra, più nociva ai libri di qualsiasi pestilenza. Si annulla il dovere del giudizio e si assale il rivale con furia, si perde l’uso dell’intelletto e si distrugge ogni strumento della ragione […] Trovateci uno solo che non provi orrore davanti a questo nostro sacrificio, dove al posto del sangue corre inchiostro; dove la candida brina delle pergamene fruscianti fu insozzata di sangue; dove la voracità delle fiamme divorò migliaia di innocenti nella cui bocca non trovò mai spazio una menzogna; dove il fuoco che non perdona trasformò in fetida cenere tanti scrigni di eterna verità […] Quante migliaia di migliaia di libri i dieci anni della guerra di Troia rubarono alla luce del giorno!»57. La guerra con le sue bombe micidiali, la morte feroce, il fumo acre, lo sventramento di interi edifici; a volte, queste terribili conseguenze non hanno fermato il bisogno di lettura, di conoscenza58.

Ah, se i libri potessero parlare, come fanno i libri protagonisti di un racconto di Andrea Kerbaker e di un vecchio articolo di Edmondo De Amicis59, quante incredibili storie conosceremmo meglio, quanti oscuri destini sarebbero chiariti, quante scomode verità finalmente a galla, come quelle di mogli, amanti, sorelle artefici di grandi o piccole distruzioni di libri, per pura vendetta, per risentimento, per semplice negligenza60. 109 Note 1 Una prima versione di questo scritto è stata pubblicata, col titolo Vanished ovvero Della scomparsa dei libri, in Simone Berni, Libri scomparsi nel nulla … ed altri che scompariranno, prefazione di Oliviero Diliberto, Macerata, Simple, 2007, pp. 223-237; vedine la recensione non firmata, Uno dopo l’altro in cammino verso l’oblio, «Il Domenicale», sabato 16 dicembre 2006, p. 9. Il saggio di Berni è stato ristampato, riveduto e ampliato (Macerata, Biblohaus, 2008). Per questa occasione lo scritto è stato completamente rivisto e integrato. 2 Molto interessante al riguardo è il testo di Elke Heidenreich, Piccole mosche!, in Stefan Bollmann, Elke Heidenreich, Le donne che leggono sono pericolose, prefazione di Daria Bignardi, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 14-19. 3 Ad esempio delle 80 tragedie di Eschilo solo 7 ci sono giunte, e le 18 che abbiamo di Euripide sono solo una minima parte delle circa 90 irrimediabilmente perdute; lo stesso vale per Sofocle, di cui si conservano solo 7 dei 120 componimenti. Che dire, ancora, del Margite omerico, con protagonista un pazzo, anch’esso scomparso nel nulla. Una carrellata delle tante opere svanite nel nulla è puntigliosamente riportata nell’affascinante Stuart Kelly, The Book of Lost Books: an Incomplete History of All the Great Books You’ll Never Read, New York, Random House, 2006, trad. it. Il libro dei libri. Storia dei capolavori della letteratura che non leggerete mai, Milano, Rizzoli, 2006. Su questo saggio cfr. Antonio Monda, I capolavori-fantasma che nessuno leggerà mai, in «la Repubblica», 14 maggio 2006, pp. 44-45, e Paolo Mauri, Caccia ai libri perduti, in «la Repubblica», 4 novembre 2006, p. 49. 4 George Thomas Tanselle, The latest forms of book-burning, in «Common knowledge», 2.3 (winter 1993), pp.172-177, ora in Id., Literature and artifacts, The Bibliographical Society of the University of Virginia, 1998, trad. it., Il rogo dei libri nelle sue forme più recenti, in Id., Letteratura e manufatti, trad. it. di Luigi Crocetti, introduzione di Neil Harris, Firenze, Le Lettere, 2005, pp. 107-114; vedi la rec. di Alberto Cadioli, La carta

è troppa: il computer la brucia, in «La Stampa-TTL», 29 gennaio 2005, p. 3. Sulla metafora della “stanchezza” della carta rimando a Guido Ceronetti, Premessa, in Id., La carta è stanca, Milano, Adelphi, 1976 [Saggi, 11], pp. xi-xv: «La carta è stanca, desiderosa di rientrare nel legno e di dimenticare l’uomo in un lungo sonno di ghiaccio. Sento il suo pio e tenace voglio morire, da Sibilla di Cuma, uscire dai chioschi dei giornali, dalle tipografie, dalle librerie, dai manifesti, dai depositi postali, dalle biblioteche e dalle case dove si legge, si scrive, si ammucchiano libri e carte senza fine […]»; ristampata in forma ridotta nel 2000, Milano, Adelphi [PBA, 451]. 5 Bibliofobia. Dell’odio per i libri e della loro distruzione, a cura, e con un’introduzione, di Roberto Palazzi, Roma, Pierre Marteau Editore, 1988. Il volume è un’antologia di scritti dedicati alla bibliofobia, tra i quali segnalo in particolare per il nostro discorso quello di Ludovic Lalanne, 110 Della distruzione e della dispersione dei libri (1857) e quello di Octave Uzanne, La fine dei libri (1895), rispettivamente alle pp. 19- 41 e 55-80. Di Uzanne vedi anche la raccolta La fine dei libri, a cura di Pino di Branco, Milano, La Vita Felice, 2009, dov’è tradotto l’inquietante racconto L’eredità Sigismond. Lotte omeriche di un vero bibliofolle (L’héritage Sigismond. Luttes homériques d’un vrai bibliofol), che vide una rarissima edizione italiana curata da Giuseppe Zanasi, stampata in 300 esemplari numerati, Bologna, Il fenicottero, 2000, con una tavola a colori ripiegata di Roberto Innocenti. Dello stesso Palazzi vedi anche Bibliofobia, in Manuale enciclopedico della bibliofilia, Milano, Sylvestre Bonnard, 1997, pp. 99-102 e l’interessante ricognizione storica da lui compiuta nel saggio Il labirinto dei libri falsi, inesistenti e immaginari. Alcune storie e qualche esempio, in Collezionismo, restauro e antiquariato librario, Atti del Convegno, a cura di Maria Cristina Misiti, Spoleto, Rocca Albornoziana, 14-17 giugno 2000, Milano, Sylvestre Bonnard, 2002, pp. 331-352. Utile il saggio di Federico Barbierato, Bibliofobia: un processo dell’Inquisizione, in L’oggetto libro 2000. Arte della stampa, mercato e collezionismo, Milano, Sylvestre Bonnard, 2001, pp. 8-27. Segnalo anche P.F. Grendler, La distruzione dei libri ebraici a Venezia nel 1568, in Venezia ebraica, Atti delle prime giornate di studio dell’ebraismo veneziano, Roma, Carocci, 1982 e la raccolta di Bloch, Brown, Hufford, Matheson, Monteleone, Sladek, Letture pericolose. Sei racconti di fantascienza, Napoli, Filema, 2007. 6 Nel 1559 fu stampato il primo Index Librorum Prohibitorum che susciterà malumori tali da costringere Pio IV ad una sua revisione; nel 1564 sarà così pubblicata, a Roma, una seconda edizione dell’Index. L’organizzazione capillare che ruotava intorno alla sua elaborazione portò, nel 1571, all’istituzione dell’apposita Congregazione dell’Indice, voluta da Pio V. Vedi Paolo Lombardi, Index Librorum Prohibitorum, in Manuale enciclopedico della bibliofilia, cit., pp. 372-373. Sull’intera, complessa, storia di questo temibile strumento censorio segnalo i recenti, documentati saggi di Hubert Wolf, Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti, Roma, Donzelli, 2006, Benito La Mantia, Gabriella Cucca, Libri proibiti. Quattro secoli di censura cattolica, prefazione di Lidia Menapace, Viterbo, Stampa

Alternativa, Nuovi Equilibri, 2007 e Elisa Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli Indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto xiv, Milano, Sylvestre Bonnard, 2008; cfr. anche Rescritto di Benedetto xiv per poter tenere libri proibiti nei conventi dei Frati Cappuccini, a condizione che siano custoditi sotto chiave dal Padre Guardiano, Romae, ex Typogr. Rev. Cam. Apost., 1752. Più in generale cfr. la raccolta di saggi di vari autori curata da Federico Barbierato, Libro e censure, introduzione di Mario Infelise, Milano, Sylvestre Bonnard, 2002, Id., Indici e censure. Guerra al libro proibito, in L’oggetto libro 2001. Arte della stampa, mercato e collezionismo, Milano, Sylvestre Bonnard, 2002, pp. 60-85; Vittorio Frajese, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia, Morcelliana, 2004. Interessante è anche Guido Verucci, Idealisti all’Indice, Roma-Bari, Laterza, 2006, che affronta la questione della proibizione della lettura, da parte del Vaticano agli inizi degli anni Trenta, delle opere di Croce e Gentile. L’Index librorum prohibitorum fu abolito dal Vaticano il 14 giugno 111 1966, vedi Francesco Merlo, Nostalgia dell’Indice guida ai libri del diavolo, in «La Repubblica», 4 giugno 2006, pp. 34-35; Paolo Simoncelli, Censura e proscrizioni. La lunga durata dell’“Indice dei libri proibiti”, in «Nuova Storia Contemporanea», 2, 2004, pp. 149-154; Alberto Tanturri, Censura ecclesiastica, librai e stampatori a Chieti in età moderna, in «Bullettino della Deputazione abruzzese di storia patria», a. lxxxv (1995), pp. 409-432; Giancarlo Petrella, Quando Roma tendeva quell’Indice censorio, in «Il Domenicale», 3 giugno 2006, p. 10; Edoardo Barbieri, Libri e censura ecclesiastica nel xiv secolo, in L’Oggetto libro ‘96. Arte della stampa, mercato e collezionismo, Milano, Sylvestre Bonnard, 1996, pp. 130-137. Infine segnalo il monumentale Giovanni Casati, L’Indice dei libri proibiti. Saggi e commenti, Milano, Pro Familia, 1936-1939, 3 volumi. Sempre utile è poi Lucien Febvre, HenriJean Martin, Censura e libri proibiti, in Id., La nascita del libro, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 309-313. Emblematica è un’omelia, stampata come opuscolo, dal titolo Sui libri proibiti, letta nel Duomo di Cesena, Macerata, Tipografia Mancini, 1863. Solo tre anni dopo viene pubblicato un curioso libello di Antonio Pellicani, I libri rei, Napoli, De Angelis, 1866, che si prefigge di indicare ai puri di spirito quali siano, per la mente e il cuore, i libri rei, i loro effetti perniciosi, quelli condannati dalla Chiesa e perché, e via di questo passo. Segnalo anche Pasquale Lopez, Sul libro a stampa e le origini della censura ecclesiastica, Napoli, Regina, 1972; Pierino Marazzani, La Chiesa che censura. 500 anni di repressione della libertà di stampa, Roma, Erre Emme, 1995; Carlo De Frede, Roghi di libri ereticali nell’Italia del Cinquecento, Napoli, ESI, 1970; Francesca Niutta, Libri proibiti: dai roghi ai racconciamenti, in La città e la parola scritta, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Milano, GarzantiScheiwiller per il Credito Italiano, 1997, pp. 375-400. Puntuale e documentato è anche Mario Infelise, I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédie, Roma-Bari, Laterza, 1999 sul quale segnalo il lungo articolo di Sandro Landi, Censure, in «Storica», a. VIII (2002), 22, pp. 201-210. Le varie strategie adottate dalla Chiesa, a partire dal Cinquecento, per limitare, attraverso l’uso del latino, l’accesso dei credenti alle delicate questioni

teologiche, sono ottimamente delineate da Gigliola Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2005. Per quanto riguarda l’atteggiamento dell’organizzazione Opus Dei nei confronti dei libri proibiti rimando a Ferruccio Pinotti, Opus Dei segreta, Milano, BUR Rizzoli, 2007 e al relativo articolo di Pier Mario Fasanotti, Io, l’Opus Dei e il mio Indice dei libri proibiti, intervista a Cesare Cavalleri, direttore di «Studi cattolici», in «Panorama», 14.12.2006, pp. 258-259. Per lo stretto rapporto esistente tra storia delle biblioteche e legittimazione della censura ecclesiastica rimando obbligato è a Luciano Canfora, Il viaggio di Aristea, Roma-Bari, Laterza, 1996. Segnalo anche il curioso e ironico opuscolo Index librorum prohibitorum. Cataloghino ragionato di alcuni fra i migliori libri di narrativa e di saggistica pubblicati in Italia nel primo semestre dell’anno 1972, la cui lettura è rigorosamente vietata ai neonati settimini, ai ritardati mentali, ai minorati psichici e, in genere, a tutti coloro che non 112 hanno né il tempo né la voglia di difendere il proprio spirito dall’inquinamento cinetelevisivo e rotocalcografico di ogni giorno dell’anno, Napoli, Libreria Deperro, s.d. [1972]; più in generale vedi Maria Consiglia Napoli, Letture proibite. La censura dei libri nel Regno di Napoli in età borbonica, Milano, Franco Angeli, 2002 [Studi e ricerche di storia dell’editoria, 1615.16], a cui fa da contrappunto, sul piano narrativo, il bel romanzo di Mario Ajello, L’inchiostro del diavolo, Milano, Ponte alle Grazie, 1998, mentre su quello teatrale la riduzione di Luca Ronconi di Fahrenheit 451, sul quale cfr. Enrico Groppali, «Il mio Fahrenheit 451 è un ammaestramento», intervista a Luca Ronconi, in «Il Giornale», 13 aprile 2007, p. 33. L’adattamento teatrale di Ronconi è stata pubblicato a Roma da Elliot edizioni, 2007 con traduzione di Monica Capuani e Daniele D’Angelo; nel volume un’intervista a Ray Bradbury e pagine del diario inedito di Truffaut scritte durante le riprese del suo film. L’intervista a Bradbury è stata anticipata, in parte, nell’articolo di Monica Capuani, Quel titolo mi venne chiamando i pompieri, in «Il venerdì di Repubblica», 20.04.2007, n. 996, pp. 100-105. Cfr. infine Stenio Solinas, Inchiodati per terra o bruciati i libri illuminano cinema e teatro (su Ermanno Olmi e il suo film Centochiodi), in «Il Giornale», 13 aprile 2007, p. 33 e Giancarlo Petrella, Libri proibiti e Inquisizione a Milano nel secondo Cinquecento. Un esemplare spurgato de La Cosmografia di Sebastian Münster, in «La Bibliofilia. Rivista di storia del libro e di bibliografia», a. CVIII (2006), n. 3, pp. 251-279. 7 Ad esempio il caso di Carlo Lodoli (1690-1761), spirito irrequieto e anticonformista, maestro ed educatore del patriziato veneziano e temibile censore. Dal 1723 al 1741 egli fu infatti uno dei principali responsabili della censura veneta, di cui ci restano alcune relazioni, oggi riunite e pubblicate in Carlo Lodoli, Della censura dei libri 1730-1736, a cura di Mario Infelise, Venezia, Marsilio, 2001. Più in generale vedi Ugo Rozzo (a cura di), La censura libraria nell’Europa del secolo xiv, Convegno Internazionale di Studi, Cividale del Friuli, 9-10 novembre 1995, Udine, Forum, 1997; Maurizio Brotini, Le carte della censura nell’Archivio di Stato di Firenze (1814-1844), in «La Fabbrica del Libro», a. VIII (2002), 1, pp. 39-46; Id., Costanti e varianti nella figura del censore nell’Italia della Restaurazione, in

«La Fabbrica del Libro», a. ix (2003), 2, pp. 6-12; Maria Iolanda Palazzolo, Le forme della censura nell’Italia liberale, in «La Fabbrica del Libro», a. xi (2005), 1, pp. 2-5; Ead., “Un sistema organizzato e nascosto”. Contrabbando librario e censura politica nella Roma di primo Ottocento, in «Studi Storici», a. 42 (2001), 2, pp. 503-527; Milena Sabato, Il “piacere proibito” della lettura. Studi e percorsi di ricerca sulla censura libraria in età moderna, in «Rassegna Storica Lucana», a. xxiii (2003), 37-38, pp. 3-31. 8 Vedi sull’argomento l’ottimo volume di Piergiorgio Bellocchio, Oggetti smarriti, Milano, Baldini & Castoldi, 1996. 9 “Il 22 dicembre del 640 d.C. un lettore con ben altri progetti era al comando di Alessandria. La sua estetica era rigorosa: «Chi contravviene al Verbo di Dio è blasfemo, chi lo rispetta, superfluo». Dietro ordine diretto del califfo, Amrou Ibn el-Ass ordinò di appiccare il fuoco alla biblioteca. Le pergamene si aprirono per l’ultima volta, srotolandosi davanti agli occhi ignoranti delle fiamme, e l’opera omnia di Eschilo 113 andò perduta per sempre», Stuart Kelly, Il libro dei libri. Storia dei capolavori della letteratura che non leggerete mai, cit., p. 53. L’opera completa di Eschilo, conservata nella biblioteca di Alessandria, era l’unica copia esistente dopo che Tolomeo III, diversi secoli prima, l’aveva trattenuta presso di sé, ricevuta in prestito da Atene perché ne fosse fatta una copia. Tolomeo III aveva dovuto lasciare in pegno agli ateniesi quindici talenti d’argento, una somma enorme, che il sovrano era contento di perdere pur di possedere l’opera del più illustre drammaturgo greco, Cfr. Stuart Kelly, cit., pp. 51-52. Sulla storia e la distruzione della biblioteca d’Alessandria rimando a Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo, Sellerio, 1986; vedi anche Jacques Bergier, Ciò che fu distrutto ad Alessandria, in Id., I libri maledetti, Roma, Edizioni Mediterranee, 1972, pp. 33-42 e Daniel Chavarria, Caccia all’uomo che ci rese più ignoranti, in «Lo Specchio-La Stampa», 22 agosto 1998, n. 135, pp. 104-116. Molto utile è anche Matthew Battles, Biblioteche: una storia inquieta. Conservare e distruggere il sapere da Alessandria a Internet, Roma, Carocci, 2004. Anche la Biblioteca Imperiale di Costantinopoli, nella quale Costantino raccolse circa 600 mila volumi di inestimabile valore, fu distrutta da un incendio durante il regno di Basilisco e fu ricostruita dai suoi successori. Luciano Canfora si è più volte interessato a problematiche legate alla censura, alla scomparsa e alla distruzione di libri e di intere biblioteche ma anche a problematiche paradossali legate all’uso dei computer in certe biblioteche, come nel recente articolo Libri e computer in biblioteca, in L’oggetto libro 2001. Arte della stampa, mercato e collezionismo, Milano, Sylvestre Bonnard, 2001, pp. 12-17. Su di questi temi rimando ad alcuni dei vari saggi di Canfora, come Libro e libertà, Roma-Bari, Laterza, 1994, ristampato con l’aggiunta del saggio Libri in cattività, Roma-Bari, Laterza, 2005; Convertire Casaubon, Milano, Adelphi, 2002; La biblioteca del patriarca. Fozio censurato nella Francia di Mazzarino, Roma, Salerno Editrice, 1998; Il papiro di Dongo, Milano, Adelphi, 2005, fino all’introduzione al recente volume di Michel Melot, Libro, fotografie di Nicolas Taffin, Milano, Sylvestre Bonnard, 2006, testo anticipato sul «Corriere della Sera», 1 dicembre

2006, p.55, col titolo Libro. Da Fozio a Hugo al web chi salva la lettura. Per il riferimento a Fozio, vissuto nel ix secolo e per due volte patriarca di Costantinopoli, ma soprattutto grande “lettore” e del quale ci rimangono poche delle sue 279 schede di lettura, rimando ovviamente al suo Biblioteca, con un saggio di Nigel Wilson, Il patriarca recensore, Milano, Adelphi, 1992. Più in generale, e per una “traduzione letteraria” di problematiche papirologiche, segnalo il romanzo di Ernesto Ferrero, La misteriosa storia del papiro di Artemidoro, Torino, Einaudi, 2006; sulla controversa attribuzione ad Artemidoro imprescindibili sono due recenti saggi di Luciano Canfora, The true history of the so-called Artemidorus Papyrus, Bari, Edizioni di Pagina, 2007 e Il papiro di Artemidoro, Bari, Laterza, 2008. 10 Per un’analisi approfondita di questa “tragedia culturale” rimando a Jonathan Rose (a cura di), The Holocaust and the Book. Destruction and Preser114 vation, Amherst, University of Massachussets Press, 2001, trad it., Il libro nella Shoah. Distruzione e conservazione, Milano, Sylvestre Bonnard, 2003. Sul saggio di Rose vedi David Bidussa, I roghi di carta, in «Il Manifesto», 15 novembre 2003 e più in generale Eva Banchelli, Fahrenheit 1993, in «Leggere», a. VI (1993), 50, pp. 4-7. Di grande suggestione è anche Leo Löwenthal, Calibans Erbe, in Id., Schriften, Band 4, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1984, trad. it. di Marilla Boffito col titolo I roghi dei libri. L’eredità di Calibano, introduzione di Elena Löwenthal, Genova, Il Melangolo, 1991. Utile è il classico Hildegard Brenner, La politica culturale del nazismo, Roma-Bari, Laterza, 1965. Una grande mostra americana fece il punto sulla secolare questione censoria, Censorship. 500 years of Conflict, New York, New York Public Library, 1984. Segnalo infine Beppe Manzitti, Letteratura in fiamme, in «Wuz», 7, settembre 2002, pp. 52-53. 11 Ottimo testo di riferimento sulla censura fascista, anche per l’ampia messe di documenti e note bibliografiche di cui si compone, è Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Zamorani, 1998. Allo storico si deve anche la recente ricognizione critica circa l’edizione italiana del Mein Kampf di Hitler, che nel 1934 uscì da Bompiani in edizione parziale col titolo La mia battaglia, vedi Giorgio Fabre, Il contratto. Mussolini editore di Hitler, Roma, Dedalo, 2004; ma vedi anche Bruno Pischedda, Hitler in italiano, in «Leggere», a. VI (1993), 50, pp. 8-10 e Simone Berni, Il libro che cambiò il mondo, in Id., A caccia di libri proibiti. Libri censurati, libri perseguitati. La storia scritta da mani invisibili, Macerata, Edizioni Simple, 2005, pp. 29-34, seconda ediz. parzialmente riveduta e ampliata, Macerata, Edizioni Simple, novembre 2005, pp. 34-38. Lo stesso editore Bompiani incappò nella censura fascista, come ben documenta Davide Bianchi, La Bompiani e la censura fascista, in «La Fabbrica del Libro», a. x (2004), 1, pp. 13-19. Sul libro di Berni vedi infine Gabriele Stabile, A caccia di libri proibiti, in «Leggere tutti», 13 settembre 2006, p. 56. Segnalo sull’argomento anche il recente saggio di Guido Bonsaver, Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Roma-Bari, Laterza, 2013.

Vedi Lucien X. Polastron, Livres en feu. Histoire de la destruction sans fin des bibliothèques, Paris, Denoël, 2004, trad it. Libri al rogo. Storia della distruzione infinita delle biblioteche, Milano, Sylvestre Bonnard, 2006. L’autore, un giornalista guascone esperto di calligrafia e cultura araba e cinese, nel 1992 rimase, come molti, colpito dalla notizia della distruzione della Biblioteca Nazionale di Sarajevo. Questo ennesimo episodio di bibliofobia lo spinse a scrivere questo suo lungo e approfondito saggio, che rappresenta, per completezza dei dati e delle informazioni, una delle fonti migliori a cui attingere per conoscere la millenaria tendenza dell’uomo di sbarazzarsi dei libri; vedi l’interessante intervista di Fabio Gambaro all’autore in Storia dei libri in fiamme, «La Repubblica», 15 giugno 2004; infine Manuela Moretti, I libri che abbiamo e che non più. Storia dei roghi e dei disastri, «Il Domenicale», sabato 16 dicembre 2006, p. 9. Su questo tema segnalo anche l’ottimo saggio di Fernando Bàez, Historia universal de la destrucción de libros. De las tablillas sumerias a la guerra 115 de Irak, Barcelona, Ediciones Destino, 2004, trad. it. di Paolo Galloni e Marco Palma, Storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere alla guerra in Iraq, presentazione di Marino Sinibaldi, Roma, Viella, 2007 [La Storia. Temi, 4]; Mauro Giancaspro, La libertà della lettura, in Id., Leggere nuoce gravemente alla salute, con 13 caricature dell’autore, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2001, pp. 71-180; in questo lungo secondo capitolo Giancaspro scrive su Il libro proibito, Il libro al fuoco, Fame di libro e lettura, Libro libero e libro imposto, Il libro nascosto, Il libro acido, ecc. Di notevole interesse storico è poi Gabriel Peignot, Dictionnaire critique, littéraire et bibliographique des principaux livres condamnés au feu supprimés ou censurés, Paris, 1806, ristampa anastatica, Bologna, Arnaldo Forni, 1966 e Id., Sur la liberté d’écrire chez les ancien set moyen-âge, sur la liberté de la presse, Paris, 1832; F. Drujon, Catalogue des ouvrages, écrits et dessins de toute nature poursuivis, supprimés ou condamnés depuis le 21 octobre 1814 jusq’au 31 juillet 1877, Paris, 1879; D. Bécourt, Livres condamnés/Livres interdite. Régime juridique du livre, Paris, 1961; G. Donaldson, Books, Oxford, 1981. Segnalo inoltre l’ottimo saggio di Ugo Rozzo, Quando si bruciano i libri…, in Il linguaggio della biblioteca. Scritti in onore di Diego Maltese, a cura di Mauro Guerrini, Milano, Editrice Bibliografica, 1995, vol. ii, pp. 546-574, con ampie note bibliografiche e Id., Il rogo dei libri: appunti per una iconologia, in «Libri & Documenti», xii, 1986; ma vedi anche l’ampio Dossier di Alessandro Zaccuri, I libri bruciano, in «Millelibri», 1993, 68, pp. 33-53. Sulla distruzione della Biblioteca di Sarajevo vedi Predrag Matvejevic, Sarajevo, la Biblioteca? Solo la facciata…in «Il Mattino», agosto 1992; Enrico Fantoni, Sarajevo casa senza cultura, in «Donna-Repubblica», 17 giugno 2006. Sull’incendio della Biblioteca di Baghdad, nel quale sono andati distrutti circa 250.000 su un totale di oltre un milione di volumi, vedi Carla Reschia, La biblioteca di Baghdad alla ricerca dei libri perduti, in «La Stampa», 2004; Alberto Negri, E Saddam bruciò i suoi libri, in «Il Sole 24 Ore-Domenica», 11 luglio 2004, p. 30; Lorenzo Cremonesi, Bagdad, il rogo dei libri ha risparmiato i titoli censurati, in «Il Corriere della Sera», 2004; cfr. inoltre l’intervista di Giuliano Battiston a Saad Eskander, direttore 12

dell’Iraqi National Library and Archives a Baghdad, la più importante biblioteca dell’Iraq e principale fonte per le memorie storiche di tutte le comunità locali, sanniti, sciiti e kurdi, Nelle acque del Tigri l’inchiostro di libri preziosi, «Il Manifesto», sabato 3 marzo 2007, p. 14. In Iraq la distruzione sistematica di biblioteche e raccolte librarie di inestimabile valore storico ha rappresentato una delle ultime eclissi della ragione. Qualcuno, però, strenuamente e nell’ombra ha lottato con le sole forze a sua disposizione, salvando quel poco che c’era da salvare, Alia Muhammad Baker è stata una di queste eroine. Direttrice della Biblioteca di Bassora, nel sud dell’Iraq, nel 2003 la guerra ha ormai raggiunto la sua città. Da sola riuscirà a portare in salvo migliaia di volumi e documenti; la sua storia è diventata un libro di inestimabile valore etico disegnato da Mark Alan Stamaty, La bibliotecaria di Bassora, Milano, Sperling & Kupfer, 2005. 116 13 Cfr. tra gli altri Tahar Ben Jelloun, I libri d’oro di Timbuctù massacrati dai barbari, «la Repubblica», martedì 29 gennaio 2013, p. 15, Vincenzo Nigro, Timbuctù, bruciata l’antica biblioteca, «la Repubblica», martedì 29 gennaio 2013, p. 15, Roberto Tottoli, Dietro la distruzione della cultura si cela l’odio di Al Quaeda per l’occidente, «Corriere della Sera», gennaio 2013, Michele Farina, I manoscritti salvati dagli “angeli” di Timbuctù, «Corriere della Sera», martedì 5 febbraio 2013, Massimo A. Alberizzi, La vendetta degli islamisti in fuga. In fumo i manoscritti di Timbuctù, «Corriere della Sera», gennaio 2013. 14 Isaac D’Isreaeli, Curiosités de la littérature, Paris, chez J. Charles, imprimeur, 1809, cit. in Roberto Palazzi, Bibliofobia, 1997, cit. 15 Furio Colombo, Rushdie: le maledizioni, in Id., Il destino del libro e altri destini, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 109-113. 16 Sull’argomento il migliore strumento resta ancora Marino Parenti, Dizionario dei luoghi di stampa falsi inventati o supposti in opere di autori e traduttori italiani: con un’appendice sulla data Italia e un saggio sui falsi luoghi italiani usati all’estero, o in Italia, da autori stranieri, Firenze, Sansoni, antiquariato, 1951; ristampa anastatica, Firenze, Le Lettere, 1996. 17 Non sempre questa rispetta le carte e i Libri come rispettò un dì la famosa Lettera da S. Bernardo asciuttamente scritta sotto di essa; o il Breviario recitato da un altro Santo, cadendogli attorno, senza toccarlo; ma spesso o ne’ viaggi, per essere poco riparati, o nelle Librerie, o in altri luoghi entrando con impeto, e cacciata dal vento bagna, offende, e danneggia molti Libri, se non si accorre opportunamente a chiudere le finestre de’ detti Luoghi, così scrive Gaetano Volpi nel 1756 nelle sue auree Avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni libri; un’ottima edizione critica è quella curata da Gianfranco Dioguardi col titolo Del furore d’aver libri, Palermo, Sellerio, 1988, la citazione è a p. 59. Di recente è stata stampata un’edizione con note e illustrazioni, presentazione di Edoardo Barbieri, Milano, Università Cattolica, Quaderni del Laboratorio di Editoria, 2006. L’acqua è elemento bibliofobo in assoluto, vedi le alluvioni del 1966 di Firenze e anche di Grosseto; su quest’ultima segnalo un raro scritto di Luciano Bianciardi, I libri nel fango, in Luciano Bianciardi, Pilade Rotella, “Grosseto, un’alluvione per la

povera gente…”, Grosseto, Edizioni Errepi, s.d. [1967]. Segnalo, infine, Maurizio Copedé, A trent’anni dall’alluvione di Firenze, in L’Oggetto libro ‘96. Arte della stampa, mercato e collezionismo, Milano, Sylvestre Bonnard, 1996, pp. 10-23 e Franco Nencini, Firenze, i giorni del diluvio, prefazione di Enrico Mattei, Firenze, Sansoni, 1966. 18 Raphael De Chiara, De Nume libris publica auctoritatae Romae combustis (I libri di Numa bruciati a Roma dall’autorità pubblica), Nuceriae, Ex Typis, A. Angora, MCMVIII, raro opuscolo, forse privato, non riportato in nessuna delle bibliografie consultate; per la tematica trattata da De Chiara segnalo il recente saggio di Lucien X. Polastron, Libri al rogo. Storia della distruzione infinita delle biblioteche, cit., pp. 38-39 e anche Fernando Bàez, Storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere alla guerra in Iraq, presentazione di Marino Sinibaldi, Roma, Viella, 2007, p. 84: «I libri del legislatore Numa, una dozzina di scritti ierofantici e altrettanti testi filosofici, furono collocati in due casse e seppelliti insieme al 117 loro creatore. Nel 181 a.C. un’inondazione riportò alla luce le casse e i volumi vennero letti, non senza timore reverenziale, dal pretore Quinto Petilio, che li portò ai comizi “dove furono bruciati”. Tito Livio attesta che il Senato aveva facoltà di convocare i magistrati al fine di “raccogliere i libri da bruciare”, evento che si verificò, ad esempio, intorno al 186 a.C.». Tra le fonti antiche che ricordano questo episodio cito: Plinio, Naturalis Historia, 13, 84-87: «Sull’origine della carta vi sono fatti importanti che contraddicono l’opinione di Marco Marrone. Infatti Cassio Susina, uno storico antichissimo, nel quarto libro degli Annali, racconta che il cancelliere Gneo Terenzio, mentre stava zappando nel suo campo sul Gianicolo, portò alla luce una cassa che aveva contenuto il corpo di Numa, re di Roma. All’interno furono trovati i libri di quelt’ultimo; ciò accadde sotto il consolato di Publio Cornelio Cetego, figlio di Lucio, e di Marco Bebio Panfilo, figlio di Quinto (181 a.C.), a 535 anni dal regno di Numa. I libri erano di carta […] »; Livio, xl, 29, e xxxix, 16, 8; Varrone, Apud Augustinus, De Civitate Dei, vii, 34; Valerio Massimo, 1,1,12; Plutarco, Numa, 22; Lattanzio, Inst. Div., 1,22, 5-8; Anon., De viris Ill., 3,3. Sulla distruzione dei libri di Numa vedi anche Mario Lentano, I falsari del Gianicolo, in Id., La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica, Macerata, Liberilibri, 2012, pp. 25-33, 152-153; è da segnalare inoltre Livio-Seneca-Tacito, Libri al rogo, a cura di Mario Lentano, Bari, Palomar, 2008, con molti riferimenti classici alla distruzione dei libri di Numa Pompilio. 19 Pubblicato a Sorrento dalla Tipografia F.lli Petagna, 1936. 20 Milano, Albrighi Segati e C., 1938 (ma Città di Castello, Tipografia Scipione Lapi), uscito nella collana “Raccolta di autori greci e latini con la costruzione, traduzione letterale e note”. 21 Napoli, D’Auria, 1908. 22 Nota 2, p. 141 dell’edizione einaudiana (1984) di Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, prefazione di Italo Calvino, 13, 84-87 (pp. 141-142). 23 Ugo Rozzo, Roghi di libri, in Manuale enciclopedico della bibliofilia, cit., pp. 531-532.

24 Elena Löwenthal, Introduzione, in Leo Löwenthal, I roghi dei libri. L’eredità di Calibano, cit., p. 14.; della stessa vedi Roghi di libri ebraici, in Manuale enciclopedico della bibliofilia, cit., pp. 532-533. 25 Di particolare interesse è il saggio di Alberto Castoldi, Le biblioteche distrutte e Il libro che uccide, entrambi in Id., Il libro che uccide, Bergamo, Bergamo University Press, Edizioni Sestante, 2002, pp. 31-38, 71-86. Il libro è stato ristampato, in forma ridotta, col titolo Bibliofollia, Milano, Bruno Mondadori, 2004 [Ricerca]; II ediz., ivi, 2006 [Testi e pretesti]. Di indubbia utilità è anche Joseph-Marie Quérard, Livres perdus et exemplaires uniques, in Oeuvres posthumes de J.-M. Quérard publiées par G. Brunet, Bordeaux, Lefebvre, 1872, rist. anast., Bologna, Arnaldo Forni, 1984, citato da Furio Jesi in Il processo agli ebrei di Damasco, in Id., L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, introduzione di David Bidussa, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 5-42. La tragedia di Heinrich 118 Heine viene qui citata nell’edizione del 1876, Milano, Libreria Editrice, trad. di Andrea Maffei. Sulle biblioteche distrutte accenni anche in Vincenzo Mortillaro (1806-1888), Studio bibliografico, in Palermo, presso Lorenzo Dato, 1827, in particolare nell’Appendice sulla Sicilia, p. 72 sgg., II ediz., Palermo, presso F. Solli, 1832. 26 Un celebre caso italiano è quello di Nicolò Franco (Benevento 1515 - Roma 1570), scrittore satirico e polemico, che l’11 marzo 1570 venne impiccato per essere l’autore di un violento libello contro il papa Paolo IV e la sua famiglia, intitolato Commento sopra la vita et costumi di Gio. Pietro Carafa che fu Paolo IV chiamato et sopra le qualità de tutti i suoi et di coloro che con lui governaro in pontificato. Su Franco segnalo la recente, e ottima, edizione critica di un suo dialogo, Nicolò Franco, Dialogo del venditore di libri (15391593), a cura di Mario Infelise, Venezia, Marsilio, 2005. Sui “martiri del libro” rimando invece al sempre attuale Francesco Lumachi, I martiri del libro, in Id., Historie per gli Amici de’ Libri da Francesco Lumachi libraio fiorentino raccolte e pubblicate, Firenze, Lumachi, 1910, pp. 69-111; ristampa, a cura e con una premessa di Roberto Palazzi, Roma, Pierre Marteau Editore, 1987, pp. 49-71; ultima ristampa, col titolo Storie per librai, Roma, Robin, 2003, pp. 41-64. 27 Vittorio Zucconi, Il falò della Guerra Fredda. Al rogo i testi sacri dell’Urss, in «La Repubblica», 11 marzo 2002, p. 15. Nell’articolo viene rievocata la distruzione di due milioni di volumi sull’Urss raccolti dal libraio Viktor Kamkin, volumi che nessun compratore voleva più. 28 Gérard Haddad, Les bibliocastes. Le Messie et l’autodafé, Paris, Grasset, 1990. 29 Elias Canetti, Die Blendung, Wien-Leipzig-Zürich, Herbert Reichner Verlag, 1936 (anche se il volume uscì dalla tipografia Elbemühl di Vienna nell’ottobre del 1935), trad it. di Luciano e Bianca Zagari, Auto da fè, con l’aggiunta del saggio Il mio primo libro Auto da fè, Milano, Adelphi, 1981. Su questo classico del Novecento vedi quanto lo stesso Canetti scrive nel 1973 in Il mio primo libro: «Auto da fé», in Id., La coscienza delle parole, trad. di Renata Colorni, Milano, Adelphi, 1984, pp. 327-344. La prima edizione era ornata da una splendida copertina illustrata dall’artista

Alfred Kubin; è considerata tra più belle copertine del Novecento, con l’immagine del professor Kien che ride mentre il fuoco, rosso su fondo avana, avvolge lui e i suoi libri in un abbraccio mortale, incurvando in alto il titolo. Su questa straordinaria copertina segnalo l’interessante e documentato contributo di Bruno Avallone, Die Blendung di Elias Canetti, in «Wuz», 10, dicembre 2002 pp. 3-7. L’artista non era nuovo a illustrazioni di roghi di libri; solo un anno prima della pubblicazione di Die Blendung infatti, aveva illustrato un racconto giovanile di Flaubert, Der Büchernarr, traduzione tedesca di Bibliomanie, in cui il protagonista Giacomo viene avvolto dalle fiamme; su questo particolare iconografico vedi Bruno Avallone, Die Blendung di Elias Canetti, cit., p. 6. 30 Il primo saggio di Oliviero Diliberto si intitolava Storia di un libro, Cagliari, Edizioni AV, 1995, edizione privata stampata in 450+50 copie. Il volume subirà integrazioni e ampliamenti nel corso degli anni a seguire, fino all’ultima edizione, dal titolo La biblioteca stregata. Tracce dei 119 libri di Theodor Mommsen in Italia. Nuove tessere di un mosaico infinito, Roma, Robin Edizioni, 2003, nuova edizione interamente rifatta ed ampliata; su questo volume mi permetto di rimandare alla mia recensione in «Annali», 4, 2002, Università degli Studi del Molise-Dipartimento di Scienze Giuridico-Sociali e dell’Amministrazione, Napoli, ESI, 2003, pp. 474-481. 31 Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980. 32 Enrico Mannucci, Automacero di Oreste Del Buono, in «Wuz», 3, maggiogiugno 2004, pp. 35-36. Hilarius Moosbrugger, Le note bruciate di Dossi, in «Wuz», 3, aprile 2002, pp. 16-17. La plaquette curata da Roberto Palazzi fu edita a Sainte Savine (Francia) per gli amici, e contiene preziose indicazioni bibliografiche sull’edizione delle Note azzurre dossiane. 33 Leo Deuel, Testaments of Time: the Search for Lost Manuscripts and Records, New York, Knopf, 1965, trad. it., Cacciatori di libri sepolti, Milano, Bompiani, 1968. Aggiungo anche l’avvincente volume di Owen Gingerich, The Book Nobody Read, trad it. di Daniela Didero, Alla ricerca del libro perduto. La storia dimenticata del trattato che cambiò il corso della scienza, Milano, Rizzoli, 2004, Simone Berni, A caccia di libri proibiti. Libri censurati, libri perseguitati. La storia scritta da mani invisibili, cit. e il recente Reviel Netz e William Noel, The Archimedes Codex (2007), trad. it. di Carlo Capararo, Il codice perduto di Archimede. La storia di un libro ritrovato e dei suoi segreti matematici, Milano, Rizzoli, 2007. Ugualmente affascinante, anche se di tematica diversa, è Miles Harvey, The Island of Lost Maps. A True Story of Cartographic Crime, trad it. di Alex Ruggero, L’isola delle mappe perdute. Una storia di cartografia e delitti, Milano, Rizzoli, 2001. Di argomento prettamente letterario sono invece i racconti di Andrea Carlo Cappi, Confessioni di un cacciatore di libri, Milano, Addictions, 2001. Infine segnalo l’imprescindibile Alberto Manguel, Letture proibite, in Id., Una storia della lettura, (tit. orig. A History of Reading, 1997, trad. it. di Gianni Guadalupi), Milano, Mondadori, 1997, pp. 285-295, volume perlatro talmente affascinante da dover essere utilizzato anche per altre problematiche. 34 Leo Samuel Olschki, Saggio di una storia delle più notevoli distruzioni di libri,

in «Il Bibliofilo», VI, 1885, pp. 179-183. Lo scritto fu pubblicato anche come Estratto, Bologna, Società Tipografica già Compositori, 1885, oggi di grande rarità. La citazione è dall’Estratto, p. 3; è stato ristampato in Giuseppe Fumagalli, Leo S. Olschki, Biblioteche immaginarie e roghi di libri, a cura, e con uno scritto, di Paolo Albani, Campobasso, Palladino Editore, 2007 [Documenti d’Arte Tipografica, IV]. 35 Cfr. L’«Enfer» della Braidense. Catalogo dei libri Fondo Riservata Erotica, a cura di Anna Rita Zanobi e Giovanna Valenti, presentazione di Daniela Gallingani, introduzione di Attilio Mangano, Milano, Franco Angeli, 2007 [Storia dell’editoria, 1615.34], volume che costituisce il catalogo della relativa mostra alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano dall’8 al 21 marzo 2007; su questo tema, e la mostra relativa, cfr. Francesco Merlo, Eros. Nell’Enfer dei libri maledetti sfilano le porno-eroine di carta, in «La domenica di Repubblica», domenica 4 marzo 2007, pp. 36-37 e 120 Giuseppe Marcenaro, Il bibliofilo va all’inferno, in «Tuttolibri-La Stampa», sabato 3 marzo 2007, p. VII. 36 Guillaume Apollinaire, Fernand Fleuret, Louis Perceau, L’Enfer de la Bibliothèque Nationale, Paris, Bibliothèque des curieux, 1919. Anche Pascal Pia ne ha scritto nel suo celebre Les Livres de l’Enfer du xiv siècle à nos jours, Paris, Fayard, 1998. Di recente l’estroso avvocato e giurista francese, Emmanuel Pierrat, esperto di diritto editoriale, giocando sul doppio termine enfer/Enfer ha scritto un affascinante libretto sul collezionismo di erotica, ma il saggio spazia dalla censura, alla bibliofilia, ai fondi di erotica delle grandi biblioteche; vedi Emmanuel Pierrat, Le bonheur de vivre en Enfer, Paris, Maren Sell, 2004. 37 Luigi Balsamo, Per uno e per tutti. Biblioteche private verso biblioteche pubbliche, «L’Erasmo. Bimestrale della civiltà europea», 19, gennaio-febbraio, Milano, Biblioteca di via Senato Edizioni, 2004, pp. 32-35 [33-34], corsivo nostro. Il trattato di Claude Clement a cui si riferisce Balsamo nell’articolo è Musei sive Bibliothecae tam private quam publicae extructio, instructio, cura, usus, Lione, 1635, in particolare per il riferimento al carcer e al rogus il Libro II, cap. 8, sez. 3. Sempre di Luigi Balsamo, su tematica in parte analoga, segnalo il recente Antonio Possevino S.I. bibliografo della Controriforma, Firenze, Leo S. Olschki, 2006, recensito da Carlo Carena, Metodo per censori, «Il Sole 24 Ore-Domenica», dicembre 2006. 38 Emanuele Bevilacqua, La biblioteca di Fort Knox ovvero Come salvare i libri da una fine sicura, Roma, Teoria, 1994, la citazione è dalla seconda edizione, Roma, Cooper, 2006, p. 13. 39 Umberto Eco, La memoria vegetale, Milano, Rovello, 1992, ristampato, insieme ad altri testi, in La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Milano, Rovello, 2006, la citazione è da questa edizione, p. 25 40 Gianfranco Dioguardi, Il furore di essere libro, Milano, Rovello, 1992, conferenza tenuta il 15 febbraio 1992 nella sala Teresiana della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano. 41 Il romanzo di Ray Bradbury uscì in prima edizione su rivista, col titolo The Fireman, in «Galaxy Science Fiction», febbraio 1951; fu poi pubblicato in volume, col titolo Fahrenheit 451, New York, Ballatine,

1953. La traduzione italiana da noi utilizzata (“unica autorizzata”) è quella di Giorgio Monicelli, Milano, Martello, 1946, quando il romanzo venne pubblicato col titolo Gli anni della fenice. Dal romanzo fu tratto un celebre film di François Truffaut, interpretato da Oskar Werner e Julie Christie. Su Bradbury e il suo romanzo vedi Ernesto Assante, Ray Bradbury. Con quel rogo accusavo tutti i regimi del mondo, in «La Repubblica», 20 maggio 2003, p. 43. 42 Louis Sebastian Mercier, L’anno 2440, a cura di Laura Tundo, Bari, Dedalo, 1993. 43 Libro, déjame libre. / Yo no quiero ir vestido / de volumen, / yo no vengo de un tomo, / mis poemas / no han comido poemas, / devoran / apasionados acontecimientos […], Pablo Neruda, Ode al libro I, in Id., Ode al libro e altre odi elementari, Firenze, Passigli, 2003, pp. 18-19. 44 Alberto Castoldi, Il libro che uccide, cit., p. 32. 45 Les petites prières de Renée de France, edizione in facsimile e commento 121 al codice di Ernesto Milano, La lunga storia di un piccolo libro di preghiere, Rimini, Guaraldi, La Stamperia Edizioni d’Arte, 1991, ristampa, Modena, Il Bulino Edizioni d’Arte, 1998. Della citata mostra di Montecassino vedi Guglielmo Cavallo (a cura di), Pregare nel silenzio. Libri d’Ore e testi di spiritualità nella tradizione cristiana, Roma, Edizioni De Luca, 1994 [catalogo della mostra], dove il codice manoscritto Lat. 614 (a.U.2.28 della Biblioteca Estense di Modena) di Renata di Francia è segnalato a p. 59, scheda n. 40. Su di esso vedi anche Guglielmo Cavallo, L’avventurosa vita di un libretto d’ore, «Il Sole 24 Ore-Domenicale», 1998, e Mostra Storica Nazionale della Miniatura, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 457-458, scheda n. 739 [catalogo della mostra]. 46 Amélie Nothomb, Les Combustibles, Paris, Albin Michel, 1994, trad. it. di Alessandro Grilli, Libri da ardere, Roma, Voland e Robin, 1999, p. 16. 47 Per un’analisi di quest’atteggiamento bibliofobico, ma con profonde venature etico-filosofiche che, in un certo senso, attenuano in noi il disagio metafisico provocato dal gesto restituendoci, e suggerendoci, una lettura più stratificata, rimando senz’altro a Rino Pensato, La “griglia” di Pepe Carvalho ovvero della libertà di bruciare i libri, in «Biblioteche oggi», luglio-agosto, 2004, pp. 36-43. Su questa pratica bibliofobica, ma con intenti dichiaratamente paradossali e comici, mi permetto di rimandare a Massimo Gatta, Un camino in Sala Lettura, in «Contributi biblioteconomici», 2006, Roma, Associazione Italiana Biblioteche, consultabile all’indirizzo elettronico http://www.aib.it/aib/contr/gatta3.htm, ristampato in Id., Il secondo mestiere più antico del mondo. Racconti surreali di un bibliotecario, con uno scritto di Giorgio Palmieri, Macerata, Simple, 2012. 48 Manuel Vàsquez Montalbàn, Quintetto di Buenos Aires, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 113. 49 Una buona introduzione, documentata, alla storia di questo manoscritto è in Paolo Cortesi, Il manoscritto Voynich. Il libro più misterioso del mondo, in Id., Manoscritti segreti, Roma, Newton & Company Editori-Il Messaggero, 2005, pp. 149-186; vedi anche Rossella Guadagnini,

Voynich, il Codice dei misteri, in «La Repubblica», 27 ottobre 2005, p. 35, e Giulio De Angelis, Il manoscritto Voynich. Enigma irrisolto di parole e immagini, in «Il giornale dei misteri», a. xxxvii (2007), n. 326, aprile, pp. 40-43. Anche Jacques Bergier si è più volte occupato di questo straordinario codice, in particolare in Le manuscript Voynich, in Id., Les livres maudits, trad. it. I libri maledetti,cit., pp. 83-94, e in L’homme éternel, scritto insieme a Louis Pauwels, trad. it., L’uomo eterno, Milano, Mondadori, 1972, pp. 120-123. Il codice Voynich è stato di recente pubblicato in anastatica in Francia, col titolo Le Code Voynich, introduzione di Pierre Barthélémy, Paris, Jean-Claude Gawsewitch Editeur, 2005. L’intera vicenda non poteva non ispirare un giallo: Thierry Maugenest, Il manoscritto MS 408. Storia del libro più misterioso del mondo, Siena, Lorenzo Barbera Editore, 2006. 50 Luigi Serafini, Codex Seraphinianus, con uno scritto di Italo Calvino, 122 Parma, Franco Maria Ricci, 1982; vedine anche la presentazione in Orbis pictus, in «FMR», 1, 1982, pp. 60-71, sul quale leggi Pino Corrias, L’Enciclopedia dell’altro mondo, in «La Repubblica», 5 febbraio 2006, p. 39. L’opus di Serafini è stato ristampato, con introduzione dello stesso Serafini e due tavole aggiunte, Milano, Rizzoli, 2006. Il testo di Italo Calvino è ristampato in Italo Calvino, Collezione di sabbia, Milano, Garzanti, 1984 (ultima ristampa, Milano, Mondadori, 2002). 51 Sul quale segnalo l’unico importante contributo degno di nota, quello di Giovanni Gorrini, L’incendio della Biblioteca Nazionale di Torino, prefazione di P. Villari, Torino-Genova, Streglio, 1904. 52 Su questa particolare forma di bibliofagia rimando a Edgardo Franzosini, Il mangiatore di carta. Alcuni anni della vita di Johann Ernst Biren, Milano, SugarCo, 1989, e all’ormai celebre romanzo di Klaas Huizing, Der Buchtrinker, München, Albrecht Knaus Verlag, 1994, trad. it., Il mangialibri. Due romanzi e nove tappeti, Vicenza, Neri Pozza, 1996. Per una lettura biblioteconomica del termine “bibliofagia” rimando invece a Nicola Barbuti, Bibliofagia. Banchettando in vecchi libri, Monopoli, Comunicando Editrice, 2007. 53 Segnalo sull’argomento l’eccellente volume di Paolo Albani e Paolo della Bella, Mirabiblia: catalogo ragionato di libri introvabili, prefazione di Mario Scognamiglio, Bologna, Zanichelli, 2003. 54 Roberto Bolaño, La literatura nazi en América, Editorial Seix Barrall, S.A., 1996, trad. it. di Angelo Morino e Enza Sanfilippo, La letteratura nazista in America, Palermo, Sellerio editore, 1998. 55 Juan José Millàs, El orden alfabético, Madrid, Alfaguara, 1998, trad. it. L’ordine alfabetico, trad. di Paola Tomasinelli, Milano, Il Saggiatore, 2001. 56 Tullio Dobner, I libri che perdevano le parole, in Id., I libri che perdevano le parole, Milano, Sperling & Kupfer, 2000, pp. 19-44. 57 Querimonia librorum contra bella. Pacis auctor et amator altissime, dissipa gentes bella volentes, que super omnes pestilentias libris nocent! Bella nacque carentia rationis sudicio furiosos efficiunt impetus in adversa et, dum rationis moderamine non utuntur, sine differentia discretionis progressa, vasa destruunt rationis […] Quis

tam infaustum holocaustum, ubi loco cruoris incaustum offertur, non exhorreat? Ubi pruine candentes pergameni crepitantis sanguine vernabantur? Ubi tot innocentium millia, in quorum ore non est inventum mendacium, flamma vorax consumpsit? Ubi tot scrinia veritatis eterne ignis, parcere nesciens, in fetentem cinerem commutavit? […] Quot millia millium prelium decennale trianum ab hac luce transmisit!, Riccardo da Bury, Philobiblon, introduzione di Mariateresa Beonio Brocchieri, traduzione e note di Riccardo Fedriga, Milano, Rizzoli, 2006, pp.94- 95, 96-99, 102-103. 58 Vedi la celebre e affascinante foto di anonimo che ritrae la Biblioteca di Holland Park, a Londra, sventrata da un bombardamento nel settembre del 1940, dove sparuti lettori sfogliano, tra le macerie ancora fumanti, quello che rimane di una grande raccolta di libri. 59 Andrea Kerbaker, 10.000, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1999, nuova ediz. col titolo Diecimila. Autobiografia di un libro, Milano, Frassinelli, 2003. Sullo stesso tema segnalo un poco noto racconto di Edmondo 123 De Amicis, La voce d’un libro, in «L’Illustrazione Italiana», 3 novembre 1907, ristampato a cura di Piero Somaglino, Torino, Edizioni SEB 27, 1995 [La Biblioteca di Galeno, 6]: «Quante volte abbiamo sospirato: se questa … cosa … potesse parlare? Bene, eccoci accontentati! Un libro – e chi meglio di un libro – ci racconta in prima persona la sua vita rammentandoci la nostra storia e la nostra comune ineluttabile sorte …». Infine rimando all’intero «Almanacco del Bibliofilo», 14, Milano, Rovello, 2004, intitolato Confidenze di libri. Divagazioni autobiografiche di libri antichi e moderni con un suggestivo monologo interiore di un e-book, a cura di Mario Scognamiglio, dedicato a questo curioso tema. 60 Come la moglie del giornalista e scrittore Marcello Veneziani che bruciò i volumi dell’ex marito, come da lui stesso raccontato su “Libero”, 17 marzo 2005; oppure la vicenda distruttiva nel celebre racconto di Octave Uzanne, L’eredità Sigismond. Lotte omeriche di un vero bibliofolle, ora in Octave Uzanne, La fine dei libri, a cura di Pino di Branco, Milano, La Vita Felice, 2009, che ebbe anche una rara edizione stampata in 300 copie, curata da Giuseppe Zanasi, edita a Bologna, Il fenicottero, 2000.

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anastatica testo latino joecher (1755)

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sommario

157 nota introduttiva di massimo gatta

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recentissima specie. lotta politica, roghi e falsari di libri nella roma repubblicana (e un po’ di truffe più recenti) di oliviero diliberto

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i libri di numa, ovvero la lotta di platone contro pitagora di mario lentano

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d. christianus gottlieb joecher de numae pompilii libris publica auctoritate romae combustis

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christianus gottlieb joecher sui libri di numa bruciati a roma per ordine delle autorità (traduzione italiana)

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raphaël de chiara de numae libris publica auctoritate romae combustis

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raphaël de chiara (raffaele de chiara) sui libri di numa bruciati a roma per ordine delle autorità (traduzione italiana)

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bibliografia ragionata a cura di mario lentano

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alcune considerazioni bibliografiche sulla distruzione dei libri di massimo gatta

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anastatica testo latino joecher (1755)

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anastatica testo latino de chiara (1908)

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biblohaus edita libri e non solo un laboratorio progettuale dal quale nascono idee legate al concetto stesso di libro al suo passato al suo futuro biblohaus nasce dall’incontro di persone che hanno messo in comune idee sul libro, la lettura, la bibliografia. biblohaus rappresenta un tempo di riflessione su cosa sia editoria, tipografia, bibliografia, lettura; fermarsi a pensare per avanzare, avanzare ogni giorno. biblohaus è un luogo di incontro, un prototipo su come potrebbero diventare le culture editoriali e tipografiche. biblohaus privilegia l’approfondimento saggistico, è un tentativo di creare eventi bibliografici, situazioni da condividere.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2013 da www.stampalibri.it