402 29 10MB
Italian Pages 490 [670] Year 2017
Il libro
STORIA DI ROMA, ANTONIO Spinosa, il noto biografo, ricostruisce in un racconto appassionato le vicende che hanno segnato la nascita, l’ascesa e il declino della città fondata da Romolo. Un libro di grande leggibilità che restituisce un volto e un’anima alle schiere di re, imperatori, consoli, condottieri, donne, avvocati e sacerdoti che hanno reso immortale nel mondo il ricordo dell’Urbe eterna.
C
ON
Q U E S TA
2
Antonio Spinosa
LA GRANDE STORIA DI ROMA Dall’alba al tramonto
3
4
5
INDICE
I fatti e la storia Parte prima ROMA MONARCHICA La lupa Parte seconda ROMA REPUBBLICANA I fasci Parte terza ROMA DEI CESARI Le colonne e gli archi Parte quarta ROMA DOMATA La polvere Le fonti Indice dei nomi di persona e delle divinità
6
LA GRANDE STORIA DI ROMA
7
I FATTI E LA STORIA
Sapete come si chiamava la moglie di Romolo? Se vi manca questa nozione, la colpa non è vostra. Dovrete lamentarvene con gli storici di professione, ai quali, più che raccontare i fatti, interessa sviluppare un sistema della storia come se lo sono creato nello studio delle fonti. Sia ben chiaro. Ho un grande rispetto per gli storici, non soltanto formale. A questo rispetto unisco la gratitudine, poiché talvolta senza l’ausilio delle loro ricerche mi sarei dovuto affaticare assai di più per raccontarvi, a mio modo, la storia. Naturalmente è una questione di destinatari, perché gli storici si rivolgono agli storici e forse anche a chi tutto già conosce, mentre i narratori di storia, con i libri come questo, si rivolgono al lettore che magari sui banchi di scuola ha imparato a odiare le date. Credo comunque che storici professionisti e narratori di storia si sia tutti utili alla conoscenza di quegli eventi che hanno contribuito al progredire dell’uomo o al suo regredire. Con una differenza: gli storici professionisti giudicano; i narratori di storia trasmettono emozioni. Diversamente da altri miei lavori, in questo mi sono rivolto soltanto alle fonti antiche, le uniche che poi ho riportato in bibliografia. Certo, se i lettori volessero avvicinarsi ai tomi di Livio, di Dionisio di Alicarnasso o di Polibio potrebbero fare a meno di leggere il libro che hanno ora tra le mani. Ma la lettura delle fonti, pur essendo affascinante, è estremamente 8
impegnativa, troppo minuziosa (e anche noiosa) per un lettore comune che forse ha ben altro da fare. Meglio i grandi poeti, sebbene siano spesso bugiardi. Qui troverete raccontati gli eventi che si sono succeduti dalla fondazione di Roma alla cacciata di Romolo Augustolo. Le pagine non sono molte. Il metodo è quello della narrazione cronologica, senza troppo filosofare. Così vi troverete di fronte a fatti che non saranno preannunciati da considerazioni né da fughe in avanti, ma che sorprenderanno voi come sorpresero i protagonisti o le vittime di allora. Si capirà come i romani siano diventati potenti; come, sebbene spesso oppressori e predatori, abbiano diffuso una grandissima civiltà, in un gioco continuo di eroismi, ma pure di astuzie e di trucchi, di perfidia e di generosità. Infine di forza, in quanto si credeva che in un antico idioma il nome di Roma significasse «forza». Le guerre dovevano apparire giuste e difensive, imposte dagli eventi per conservare il favore degli dèi e per procedere con falsa legittimità sulle strade dell’espansionismo e dell’imperialismo, sostituendo l’amore per la libertà con la sete di potere. I trattati di pace erano una rincorsa per prepararsi meglio a un nuovo conflitto; le conquiste erano mantenute col terrore. L’augurio è che si colga la più intima essenza dei romani, e si arrivi a capire come siano riusciti a mettere le mani sul mondo (Tacito: «Raptores orbis»). Come siano diventati il popolo più grande pur macchiandosi di molti delitti, o se siano ascesi alle più alte vette anche per le loro iniquità. A volerli imitare, la storia si rivelerebbe cattiva maestra di vita. Avevano più virtù o più colpe? Quanto sul loro destino trionfale ha influito la 9
fortuna e quali insufficienze li hanno condotti alla rovina oltre al peso insostenibile del loro stesso impero (Livio: «Magnitudine laboret sua») o alla maggiore forza giovanile degli avversari chiamati barbari? I maestosi ruderi di vestigia insanguinate che sopravvivono dovunque all’antica Roma emergono da queste pagine e riacquistano un senso ora che se ne conoscono i fatti. Fatti che tuttavia provengono da storici e narratori antichi, i quali spesso scrivevano per partito preso: monarchici, repubblicani, imperialisti, esponenti di etnie diverse, gli uni contro gli altri. Sicché non sempre si può essere certi delle loro testimonianze.
10
Parte prima
ROMA MONARCHICA La lupa Dove i primi abitatori oggetto della nostra storia si interrogano sulle loro origini senza darsi una risposta. I villaggi mobili sul Tevere si associano e Romolo fonda Roma a costo di un fratricidio. Si fa conoscenza con i sette re di Roma che a dir poco erano otto, e con molte nobili donne come Lavinia che amò Enea, Ersilia, la moglie sabina di Romolo, Egeria che appariva nei boschi a Numa Pompilio, la diabolica Tanaquilla che governava attraverso il re morto, Lucrezia che si uccise per l’onta di uno stupro. Le prime mire espansionistiche. La deportazione degli abitanti di Alba Longa. L’idea dei canali di scolo. Le riforme di Servio Tullio. Tullia passa sul cadavere del padre. La cacciata dei Tarquini. Il destino di Bruto lo sciocco, etc., etc.
11
I Poche e disordinate capanne fangose sorgevano tra le colline a metà della penisola, tra laghi e vulcani, tra fresche sorgenti e malefici pantani, tra folate di vento caldo o gelide raffiche, nell’alternarsi delle stagioni che nella mente dei primitivi abitatori erano dominate da misteriose e impenetrabili potenze. Per loro, ogni cosa aveva origine da queste presenze inconoscibili, generatrici della vita e dispensatrici della morte in un inarrestabile perpetuarsi. I molti declivi, fittamente ricoperti di querce e faggi, di elci e lauri, si ergevano in una valle formata nel tempo dalle anse di un fiume che nasceva impetuoso e che poi si placava in sinuosità regolari e tranquille. Fin dagli inizi, le antiche orde del luogo lo avevano chiamato con un nome forte e musicale, Tiber. Pescavano nelle sue acque e cacciavano nei boschi. Usavano oggetti fabbricati con ossa di animali, con sassi e argille, servendosi del fuoco da quando gli antichi progenitori lo avevano tratto dalle scintille delle pietre. Nella più grande incertezza, nessuno sapeva chi fosse arrivato per primo su quelle rive non lontane dal mare, a occidente, né si domandava se gli antenati fossero sorti dalla terra sulla quale vivevano da tempi immemorabili o se fossero calati dal cielo. «Chi siamo?» era la domanda che rivolgevano a se stessi e che fra altre non riceveva risposta. Chissà se, sospinti dalle carestie, provenivano dalle regioni al di là dei mari insondabili o dai 12
remoti monti di cui sentivano fantasticare in un incerto idioma. Profondo rimaneva il mistero della loro origine. Erano nomadi che sulle colline del Tevere vivevano duramente, in maniera inumana, fra terrori e superstizioni, fra animali giganteschi, elefanti e rinoceronti, fra cervi e cinghiali, fra acquitrini malarici. Scarsi erano gli affetti, minime le diversità tra gli individui, che non avevano capi politici né religiosi, e che neppure erano raccolti in famiglie. Si nutrivano di legumi, cipolle e altre verdure, formaggi, poco pesce, pochissima carne. Cuocevano in acqua salata la farina d’orzo e vi aggiungevano fave o lenticchie. Trangugiavano bevande fermentate, cuocevano una sorta di focaccia nella cenere calda e la bagnavano nel latte, l’alimento più diffuso. Ma già si pavoneggiavano ornandosi con vistosi denti di animali. Si dedicavano alla pastorizia, allevavano animali e, lentamente progrediti dai giorni del loro migrare da un luogo settentrionale, cui avevano dato il nome di Villanova, avevano iniziato a coltivare i campi per produrre farro e per commerciare. Dopo avere per secoli intagliato le frecce nell’onice scoprirono il rame, il bronzo; poi impararono a estrarre e a lavorare il ferro, sicché gli uomini si armarono di pugnali, di accette e di lance. Le donne allevavano i figli, preparavano i pasti, filavano la lana, lavoravano pelli e davano un aiuto nel costruire abituri o nel fabbricare suppellettili. I rustici abitanti delle capanne, ormai numerose e sparse sulle colline, cominciarono a vivere più uniti. Si formavano i primi villaggi, aperti e non fortificati, nascevano le prime concentrazioni umane basate su iniziali forme di convivenza sociale. Poi, alcuni villaggi, da principio mobili per le naturali 13
trasmigrazioni, si fusero con altri costituendo entità più complesse, progredite e ispirate a profonda religiosità. Quindi si arrivò alla fondazione di una città. Era una città difesa, fornita di mura e di porte sulle rive del fiume prossimo alla foce, come era già avvenuto per altri insediamenti della penisola italica, a nord e a sud di quel corso d’acqua, costruita da genti autoctone, gli aborigeni figli del suolo, rudi creature scaturite da querce e da lecci, dalla congiunzione fra la terra e il cielo, o provenienti da lidi lontani, sicché si mischiavano fra loro o si alternavano falcidiati da carestie. Si chiamavano siculi e latini, o pelasgi, tirreni, etruschi. La loro parlata consisteva in un miscuglio di lingue in cui preminenti apparivano le parole latine o elleniche. I loro canti erano gutturali, barbariche erano le danze ritmate da strumenti a percussione in un clima sacrale. In quel giorno imprecisato della fondazione della nuova città, quando già emergevano le civiltà degli etruschi e degli italioti della Magna Grecia, i pastori celebravano le antiche feste in onore della dea Pale, cui chiedevano di proteggere le nuove greggi fecondate. Si credette di poter stabilire che la data della fondazione corrispondesse al ventunesimo giorno del mese di aprile nel settecentocinquantatreesimo anno precedente la nascita di Cristo. La città si chiamò Roma, secondo alcuni da «forza» nella lingua dei pelasgi. Il fiume sul quale sorse, il sacro Tevere, si gettava nel mare a breve distanza, a ponente. Si diceva che i fondatori della città avessero dei padri, dei progenitori che risalivano a un eroe troiano – Enea, figlio dell’alma Venere –, il quale si era lasciato alle spalle le fiamme che ancora divoravano l’arce della sua città espugnata dai greci. I greci avevano consentito che fuggisse perché lui, fra i capi 14
troiani, si era sempre detto favorevole alla riconsegna di Elena, la consorte di Menelao rapita da Paride, causa della guerra degli achei contro Ilio. Lo seguivano in molti della sua gente, ma di essi i greci non si curavano essendo poveri soldati sconfitti, ormai fuori gioco. Enea portava con sé pietosamente gli dèi patrii. Soprattutto il Palladio, il ligneo simulacro raffigurante la dea Minerva. L’immagine sacra era stata salvata dal rogo di Troia dal più caro amico di Ulisse, Diomede, e da questo guerriero greco consegnata al troiano fuggitivo. Protetto da potenze occulte, nelle sue peregrinazioni era scampato ai flutti africani e pure da Cartagine per approdare al fatale lido ausonio sulle coste italiche, la desiderata terra promessa dell’Occidente dove lo aveva preceduto la fama di giovane molle ed effeminato, bello come un dio, e non soltanto di sfrenato avventuriero. Difatti in Africa il re dei getuli selvaggi, Iarba, al quale egli aveva soffiato la sconvolgente e superba regina Didone, da cui poi si era allontanato addossando la colpa al fato, diceva, con intenzioni offensive, che quel miserabile e scellerato profugo troiano non era che un secondo Paride, avendo a sua volta il vizio di rapire le donne degli altri, le donne non sue, già legate per volontà della famiglia o dalla legge ad altri uomini. Ancora altre accuse gravavano su Enea, come l’aver tradito i troiani, in odio a suo fratello Alessandro, e l’aver potuto incolume lasciare Ilio perché protetto dagli achei nella fuga. Sospinto dal fato sulle rive del maestoso Tevere, Enea era venuto alle mani con un altro re – il bellissimo Turno, dal volto orgoglioso –, possente capo supremo del focoso popolo dei rutuli residenti ad Ardea. A Turno, come in precedenti 15
occasioni e secondo il solito, intendeva portar via la ragazza del cuore, Lavinia, vergine affascinante. Era anch’essa figlia di re, di Latino, il signore che possedeva le regioni al confine delle accoglienti spiagge dorate dove le veloci ma cupe navi troiane si erano arenate nel loro insensato vagare. Dalla tenzone con Turno, il troiano era uscito vincitore. Il merito però non era stato suo quanto di Venere e del principe d’Arcadia. Questo principe era Evandro, figlio di Hermes e di Carmenta (da carmen), una ninfa canterina che faceva profezie in versi, gioiosa protettrice delle nascite. Evandro con i suoi coloni si trovava già sul posto essendovi divinamente arrivato dalla Grecia. Nel frattempo si era preso la briga di insegnare a quella gente a leggere e a scrivere oltre che a usare il bue e l’aratro per coltivare la terra. Al principe piaceva Enea, di cui aveva conosciuto il padre Anchise. Lo affascinava quel suo elmo sormontato dalle penne di cigno, perciò non gli negava la figlia. Gli aveva mandato in aiuto il figlio Pallante, un grande sterminatore di rutuli, con nelle mani una fulgente spada, sicché le acque del Tevere si arrossarono del sangue di Turno e di ogni altro nemico di Enea. Ormai in ginocchio sul campo di battaglia, il rutulo si diede per sconfitto. E mentre il troiano alzava il gladio, Turno esclamò ansante: «Uccidimi. Hai vinto. Lavinia è tua!». Si credette pure che il fondatore della città non fosse stato un troiano, ma un greco, per l’immigrazione dei greci. Si favoleggiava di Ulisse, un avventuriero secondo a nessuno, neppure a Enea. Si pensò che più probabilmente la città l’avesse fondata non Ulisse, ma uno dei suoi figli, Latino. Glielo aveva generato la magica Circe nei pochi mesi di forte passione 16
trascorsi insieme fra drappi di seta nera, dandosi in notti infinite un infinito e reciproco piacere nel folto di un promontorio boscoso di una terra che dal loro virgulto prese il nome di Lazio. E da allora gli antichi aborigeni avevano cominciato a chiamarsi latini, o si erano ispirati all’immensa pianura retrostante per dirsi latini da latus, largo ovvero pianeggiante. Poiché le storie si innestano l’una nell’altra attraverso infinite varianti, ecco apparire ancora una volta un personaggio di origini troiane – il leggiadro Ascanio, o Iulo per la lanugine sul volto – che si dirà essere figlio di Enea e della dolce Lavinia, figlia del re dei tirreni aborigeni, Latino. La giovane, dal bianco carnato, avrebbe a sua volta ceduto al diabolico fascino dell’esule troiano che con lei si sarebbe alfine quietato. Dopo averla impalmata, Enea avrebbe in suo onore fondato sul litorale, e nel luogo indicato da una bianca scrofa vittima sacrificale, una città, chiamandola Lavinio. Erano trascorsi due anni dalla caduta di Troia. Cinque anni dopo moriva Enea. Ormai cresciuto, Ascanio, non volendo risiedere a Lavinio, diede vita nei pressi a un’altra città, Alba Longa o la Lunga Città Bianca. Era un borgo montuoso fra laghi e antichi vulcani, dove il clima appariva più salubre e la natura più generosa fra vigne, frutteti e un bosco meraviglioso. Sembrava augurargli migliore fortuna. Aveva chiamato Alba la città dal colore della scrofa, ma poi, per distinguerla da un’altra con lo stesso nome, vi aggiunse la denominazione di Longa, che oltre tutto offriva un’idea della sua conformazione. Ad Ascanio successe il figlio Silvio, così chiamato poiché era stato allevato in una selva. I trenta re di Alba portarono sempre anche loro il cognome di Silvio. Questa dinastia, la genealogia 17
degli eneadi, conservava il potere da oltre tre secoli quando salì al trono il figlio di Proca, l’onesto Numitore, l’ultimo sovrano di Alba Longa. Bello e prodigo, Numitore aveva un fratello minore, Amulio, che era il suo opposto, e al quale andò la gestione delle sostanze del regno, secondo l’antica legge dei padri. Amulio si rivelò malvagio d’animo fino all’inverosimile, e col trascorrere del tempo si ingelosì a tal punto del fratello da strappargli il trono, da costringerlo in ceppi e da uccidergli il figlio Egesteo affinché un giorno non gli si presentasse come legittimo erede di Numitore. L’orrido Amulio risparmiò tuttavia la principessa albana Rea Silvia, figlia del re deposto, certo che nessuna minaccia potesse derivargli da una donna. Questa fu l’unica sua debolezza, forse compiuta per un barlume di umanità che gli aveva casualmente attraversato il cuore. Pensava di essersi ben guardato da ogni ulteriore sorpresa costringendo la nipote, già in età da marito, a farsi vestale, cioè a diventare sacerdotessa della dea Vesta. E questo perché le vestali dovevano chiudersi in se stesse e dedicarsi per trent’anni esclusivamente al mantenimento del fuoco sacro affinché non si spegnesse mai, a garanzia d’una continua protezione divina al cospetto di quel Palladio di Troia che Enea aveva portato con sé fin sulle sponde del Tevere nelle sue peregrinazioni. Era sacro anche perché pubblico, e chiunque poteva attingervi per accendere il fuoco nelle proprie case.
18
II Le vestali erano obbligate a conservarsi caste e ciò tranquillizzava Amulio. Senonché un giorno Rea Silvia si era distesa sulla riva del Tevere nei pressi del tempio di Vesta e aveva dolcemente preso sonno. I lunghi e luminosi capelli le coprivano il seno, mentre una lieve brezza marina le sollevava la lunga veste scoprendole le gambe eburnee, tornite da far invidia alle ninfe dei boschi. Il destino volle che la scorgesse lì supina il dio della primavera e delle messi, Marte Silvano, grande e radioso, che tornava da una visita ai mortali ai quali, anche alle persone più miti, trasmetteva il suo istintivo spirito combattivo in difesa dei campi. In un lampo il dio fu conquistato dalla serena beltà della fanciulla e non poté trattenersi dal possederla. Lo fece con tanta dolcezza, lui così forte e gagliardo, che lei non se ne avvide neppure, e restò incinta. Nessuno seppe nulla del fatto fino a quando le urla di Rea Silvia, partoriente, non squarciarono il silenzio della notte. La vestale metteva al mondo il frutto inequivocabile di quell’unione divina. Aveva avuto due gemelli, identici, sani e robusti come non se ne vedevano da decenni. Furono chiamati Romolo e Remo (o forse Romos). La notizia della nascita arrivò alle orecchie del fratello del nonno, il malefico Amulio. Infuriato, il re malvagio fece prendere a bastonate la puerpera fino a toglierle la vita, come spesso accadeva alle vestali infedeli, e ordinò che i due neonati fossero gettati nelle acque del Tevere. 19
Il servo che era stato incaricato di compiere il duplice infanticidio, preso da pietà, si limitò a deporre sul greto del fiume, presso un dolce fico che si piegava fino a terra, il cestello di vimini in cui i gemelli si trovavano piangenti. Richiamata dai vagiti accorse una lupa conosciuta nel luogo per la sua ferocia. Ma anch’essa improvvisamente impietosita si diede a riscaldarli col fiato e a offrir loro le mammelle gonfie di latte per sfamarli. Li sospinse in una vicina grotta, e con la lingua li ripulì del fango che ne ricopriva i corpi. Passarono lì accanto alcuni pastori che, all’inverosimile spettacolo di mansuetudine d’un animale selvaggio, mostrarono la più grande meraviglia. Si misero a gridare, e la lupa si allontanò dai gemelli cercando rifugio altrove. Uno di quei pastori, il cui nome era Faustolo e che era al servizio del maligno Amulio, li raccolse per portarli alla sua amante, Acca Larenzia, la quale aveva da poco perso un figlio. Si diceva che Faustolo non fosse un qualunque pecoraio, ma piuttosto un discendente di quell’Evandro sostenitore di Enea, così come si pensava che alla lupa corrispondesse Acca Larenzia soprannominata Lupa per essersi bellamente e a lungo prostituita. Romolo e Remo, figli di un dio e di una sacerdotessa reale, crescevano gagliardamente. Il loro nobile aspetto e la superiore intelligenza li rendevano diversi dai pastori in mezzo ai quali vivevano; eppure, come gli altri, essi guidavano le greggi al pascolo e partecipavano con ardore alle contese fra mandriani per difendere i più deboli. Un giorno Faustolo volle rivelare ai ragazzi, ormai diciottenni, la loro storia mostrando il cestello della salvezza. I due gemelli decisero immantinente di preparare una vendetta. Il piano fu presto attuato con l’uccisione del 20
nonno cattivo Amulio e con la restituzione del trono dei Silvi a Numitore, il nonno buono. I ragazzi non pretendevano riconoscimenti. Preferirono tornare sul fatidico luogo dove la lupa li aveva allattati, sulla riva sinistra del Tevere, e fondarvi una nuova città per celebrare il loro salvataggio che tutti vedevano e indicavano come voluto dagli dèi. Numitore diede un aiuto ai gemelli rifornendoli di farro, armi e schiavi e di muli perché potessero rapidamente procedere nel lavoro di fondazione. Ma tra i due gemelli il fato inconoscibile fece esplodere forti dissapori per brama di supremazia dell’uno sull’altro, come già era successo tra i nonni. Non concordavano neppure su chi di loro due dovesse dare il nome alla nuova città. Romolo voleva chiamarla Roma, mentre Remo propendeva per Remuria, ispirandosi entrambi ai propri nomi. A malapena riuscirono a decidere di giocarselo in una serie di prove. In esse Romolo ebbe la meglio assai festeggiato dai seguaci, mentre Remo e il suo gruppo, meno consistente di quello romuleo, già si preparavano a vendicarsi. In un giorno di primavera Romolo proclamò la nascita della nuova città, o meglio del nuovo villaggio. In realtà, un insieme di capanne su palafitte in terreno paludoso già esisteva in quel luogo e già si chiamava Roma, come avevano voluto i pelasgi. Oppure sembrava che quella denominazione fosse stata tratta dal nome di una donna troiana al seguito di Enea, per cui il nome di Romolo deriverebbe da Roma e non questo da quello. Da allora gli abitanti si chiamarono romani. Roma, la donna troiana, aveva proposto di incendiare le navi perché da troppo tempo la gente di Enea peregrinava per terre e per mari. Era 21
venuto il momento di fermarsi lì su quei lidi che si mostravano accoglienti. Romolo era stato incoraggiato a compiere la sua straordinaria impresa dalla visione augurale di dodici avvoltoi che avevano volteggiato a lungo sul suo capo, come confermavano gli osservatori che presiedevano all’evento. Remo ne aveva visti soltanto sei. Poiché Romolo si trovava sul monte Palatino e Remo sull’Aventino, fu scelto il primo come sede della nuova città. Dopo aver consumato il sacrificio di molte capre in onore degli dèi, mentre alcuni suonatori di flauto rendevano il rito più festoso con le loro melodie, Romolo, presi gli auspici e accesi i sacri roghi, aggiogò un forte toro e una candida cavalla all’aratro di bronzo. Con un atto successivo aprì un solco profondo, tracciò i confini sui quali sarebbero sorte le mura di Roma e, tenendo in pugno una verga pastorale, indicò il limite sacro del pomerio. Aveva diciotto anni. Su quel luogo del monte già sorgevano alcune sparute capanne che egli incluse nel solco cui aveva dato la forma di un quadrato. Aveva parlato ai suoi uomini proponendo di associare tra loro quei vari villaggi di seminomadi e di stringerli entro comuni mura per renderli con l’unione più forti. Accettata l’associazione, giurava fra la sua gente e davanti agli dèi di uccidere chiunque avesse osato varcare il sacro limite. Ma avvenne che Remo, preso da incontenibile furore, saltasse il confine. Di fronte a una sfida così tracotante che oltraggiava gli stessi dèi, la mano di Romolo armata di pugnale si abbatté inesorabile sul petto del giovane provocatore che spirò in una pozza di sangue. Il fratricida esclamò con freddezza: «Così muoia chiunque altro varcherà le mie mura». A queste parole i 22
flautisti tacquero. Tutto intorno si fece un silenzio pauroso cui seguì una terribile zuffa tra i seguaci di Romolo e quelli di Remo che vennero sopraffatti. Sembrava che Remo fosse stato indotto a scavalcare il solco perché innervosito e offeso dalla slealtà del fratello. Romolo gli aveva fatto sapere di aver visto per primo volare gli avvoltoi sulla propria testa, senza che ciò fosse vero, nonostante la testimonianza degli osservatori. Nel frattempo Remo ne aveva visti sei, e pensava di essere il prediletto. Ciò avrebbe significato che il fondatore della città e il capo della masnada sarebbe stato lui. Quindi, arrivato da Romolo, gli chiese quanti uccelli avesse visto. Proprio in quel momento volteggiarono su Romolo dodici avvoltoi, per cui il giovane gli rispose con arroganza: «Mi chiedi troppe cose. Non vedi da te stesso questi dodici uccelli?». Romolo ritenne giustificato il suo fratricidio, poiché il vaticinio favorevole gli era pervenuto da uccelli rapaci e violenti. Gli era anche chiaro che Roma sarebbe potuta crescere soltanto con la violenza. Tracciati i confini, era necessario cominciare a riflettere sugli ingranaggi necessari al funzionamento della macchina d’una civitas, nei suoi iniziali momenti di formazione. Ed egli da fondatore si trasformava in legislatore. I romani davano prova di sapere che cosa fosse un organismo politico e come dovesse funzionare al fine di consolidare i risultati che andavano conseguendo con le prime e modeste espansioni territoriali. Dunque, non facevano soltanto guerre, ma anche leggi e regolamenti. Romolo, che il popolo aveva confermato come suo sovrano, pretese di ottenere l’assenso degli dèi, gli auspici, per essere re, capo militare e gran sacerdote. Introdusse un rito che si ispirava alla sacralità del mondo greco, ed elevò un 23
tempio a Ercole sull’Ara massima alle pendici del Palatino. Appariva come primaria un’altra esigenza perché la città cominciasse realmente a esistere in quanto tale: quella di essere fortemente popolata. Romolo aveva chiamato a sé ogni ribaldo della zona offrendogli rifugio e protezione. Erano tutti giovani predoni, ladri di polli e di pecore, ma era anche gente che aveva compiuto ben più pesanti nefandezze. E fra tanta marmaglia non c’erano soltanto latini.
24
III Roma stentava a superare le dimensioni di un insieme di piccoli villaggi con casupole dai tetti di paglia abitate da soli uomini. Affannosamente quegli uomini cercavano di attrarre a sé le donne dei luoghi vicini, ma nessuna intendeva unirsi a individui brutali e violenti. In quelle condizioni Roma non sarebbe sopravvissuta a se stessa oltre la generazione che l’aveva fondata, se un giorno Romolo non avesse escogitato uno straordinario rimedio per porre fine con la forza alla mancanza di ragazze. Ideò un espediente brigantesco: rapire in massa le donne della Sabina. In un giorno di agosto – erano trascorsi quattro anni dalla sua ascesa al trono della città – si svolgevano le feste Consualie dedicate al dio Conso, protettore dei raccolti, fra giochi, danze, suoni di zampogne e lamenti di flauti, roghi sacri, corse di cavalli con la fulva criniera ornata di fiori. Ognuno dei giovani festanti era azzimato con pelli di pecora o di montone. Romolo aveva solennemente invitato, fra gli altri, il vicino popolo dei sabini stanziato a levante di Roma e che sentiva affine al proprio per costumi, carattere e consuetudini. In particolare, ai sabini aveva suggerito di portarvi il maggior numero possibile di ragazze, figlie e sorelle, per rendere più lieta la giornata. Accorsero, incuriositi, in molti, uomini e donne, per dare uno sguardo alla nuova città. Nel pieno della baldoria vociante, mentre i cavalli in una vasta 25
arena si sbizzarrivano nella corsa e il vino fumante riscaldava i cuori, scattò il piano che il re aveva concordato con i suoi consiglieri e che prevedeva il ratto delle più giovani fanciulle, soprattutto sabine, avendole in simpatia più di altre. L’intenzione non era di stuprarle, ma di farne le spose di giovanotti romani che si erano intristiti in una lunga solitudine e che più non speravano di avere una discendenza. La situazione trascese, divenne violenta e manesca. Furono rapite seicentottantatré ragazze. Al segnale che Romolo diede avvolgendosi nel mantello purpureo, le agguantarono, le presero in braccio – era la prima volta che le donne venivano sollevate così da terra in previsione d’un imminente amplesso – e le portarono trionfalmente nelle loro case. Le fanciulle sequestrate erano tutte vergini, a esclusione di una, Ersilia, la quale, catturata per errore, divenne sposa di Romolo. I sabini, popolo austero, reagirono prendendo le armi contro i rapitori cui dovevano far ingoiare l’insulto. Assalirono Roma con tanta gagliardia che Romolo fu costretto a rinforzarne le mura, approfondire i fossati, elevare nuove palizzate intorno al Palatino, al Campidoglio, all’Aventino per renderli più sicuri. Ma egualmente il Campidoglio cadde nelle mani del re sabino Tito Tazio e delle sue milizie, a causa di una fanciulla di nome Tarpea, una virago che Romolo aveva posto a guardia del colle e che aveva imprevedibilmente aperto le porte al nemico. Perché lo aveva fatto? Perché era stata corrotta con l’oro degli anelli e dei bracciali di cui i soldati sabini facevano grande sfoggio o perché si era invaghita di Tito Tazio? O c’era un’altra più nobile ragione? Quella di disarmare il nemico privandolo astutamente degli scudi? Difatti Tarpea, una volta che i sabini furono 26
penetrati nella rocca, chiese non soltanto la consegna degli ornamenti, ma anche degli scudi. I sabini, subodorando il tranello, diedero le armi alla ragazza, ma lo fecero in maniera da schiacciarla e ucciderla sotto il peso di tutto quel ferro. Romolo prese per buona la ragione eroica, e fece seppellire il cadavere dell’eroina nel luogo del sacrificio cui diede il nome di rupe Tarpea. Da quella rupe, nella parte meridionale del colle, cominciò crudelmente a gettare nel vuoto chiunque si macchiasse di delitti. I sabini impiegarono negli scontri venticinquemila fanti e mille cavalieri, mentre Romolo non disponeva che di ventimila fanti e di ottocento cavalieri. Alterne erano le sorti della guerra, senza vinti né vincitori, sicché il conflitto si sarebbe prolungato all’infinito se alla sposa di Romolo, sabina essa stessa, la nobile Ersilia, non fosse venuta in mente un’idea straordinaria, quella di far apparire sul campo di battaglia vestite a lutto le donne rapite con in braccio i figli che volentieri avevano avuto dai baldi rapitori. Mostrandoli alla loro antica gente, quelle donne, sciolti i capelli e con le vesti lacere, imploravano in lacrime che i piccoli innocenti non fossero privati dei padri, i quali sarebbero certamente caduti in combattimento se la guerra fosse continuata. I sabini si arresero, e a conclusione degli scontri che si erano protratti per tre anni fu tributata a Romolo una stupenda manifestazione trionfale con marce, canti e suoni, la prima di quel genere di festeggiamenti. I due popoli rivali non soltanto passarono dalla guerra alla riconciliazione e alla pace, ma decisero persino di formare un’unica nazione. Il suggerimento era di Romolo il quale, avendo visto che il risultato dello scontro era stato incerto, aveva 27
proposto l’unione. Alla città fu confermato il nome di Roma e i suoi abitanti furono naturalmente chiamati romani, ma anche quiriti, poiché Tito Tazio aveva portato sul colle del Quirinale il suo popolo originario di Curi. In seguito a questa unificazione, sancita solennemente sulla via Sacra, Roma ebbe contemporaneamente due re con eguali poteri, Romolo e il sabino Tito Tazio, in una sorta di monarchia collegiale. Di comune accordo, non senza ulteriori scosse pericolose se non altro perché Tazio era stato nemico di Roma, essi conferirono una nuova struttura ai loro popoli sufficientemente riuniti tanto da formare la prima popolazione romana. Suddivisero il popolo in tre tribù etniche sulla base delle loro estrazioni – i ramni originari, di Romolo; i tizii o sabini, di Tito Tazio; i luceri o etruschi, che i greci chiamavano tirreni – e in trenta curie formate da gruppi familiari che abitavano vicini. I cittadini si riunivano nelle assemblee delle curie, comitia curiata, per votare sugli affari pubblici proposti dai sovrani. Con l’immissione dei sabini si ampliò il consiglio dei re istituito da Romolo, e crebbe da cento a duecento il numero dei patres di famiglia che lo componevano: questo era il Senato, nel quale si entrava per nomina regia. Ai luceri però non erano concessi senatori. L’esercito era costituito da una legione di tremila fanti appiedati, milites, e da tre centurie di cavalieri, celeres, tutti giovanissimi, quasi fanciulli. Era questa la legione, e i sovrani ne avevano l’imperium essendone i capi. Lentamente il primitivo complesso di capanne rettangolari, di tuguri fangosi, prendeva la forma di un agglomerato meno casuale e si collegava ad altri insediamenti della pianura e delle colline circostanti dove l’acquitrino si placava. Romolo e Tito 28
Tazio ampliavano la Roma del Palatino inglobandovi i colli del Quirinale e del Celio, pur distanti fra loro. Prosciugavano la vasta conca che si stendeva ai piedi del Campidoglio e vi costruirono il Foro dove tenere le assemblee popolari – fra statue, tempietti e tabernae –, mentre già pensavano di gettare su quel monte, in un boschetto di querce, le fondamenta di un tempio dedicato a Giove. In questo clima i due re assumevano le stesse sembianze del dio massimo, si incoronavano di lauro, indossavano abiti purpurei, procedevano tra la folla festante su splendide quadrighe. Gli dèi venivano sommamente onorati ed erano rappresentati colmi di saggezza e di bontà. Si vietavano le manifestazioni orgiastiche in uso presso altri popoli lontani, come i greci. Ognuno dei due re si faceva scortare ovunque e sempre da dodici atletici giovani, dalle braccia salde e lo sguardo imperturbabile. Il potere tornava tutto nelle mani di Romolo, poiché il re collega cadeva ucciso in circostanze misteriose, forse in un’imboscata tesagli dalle genti di Lavinio. Furono giorni terribili per il re superstite, mentre sulla città si abbattevano gravi sciagure, pestilenze e piogge miste a sangue. Romolo parlava di continuo al popolo adunato in assemblea per conservarne la fiducia e mettere a punto, tutti insieme, un ordinamento saggio ed equilibrato che si voleva basato sull’eguaglianza. Aveva suddiviso il territorio in tre parti eguali: un terzo ai cittadini come proprietà privata, un terzo in comune a tutti, un terzo per i templi e ogni esigenza sacra oltre che per se stesso. Nell’ispirarsi alla costituzione di Atene aveva suddiviso la popolazione in due ordini: i patrizi, cioè i patres, in quanto capi 29
delle grandi famiglie, da cui il nome di patricii; e i plebei, plebes, vale a dire la moltitudine dei semplici cittadini. Agli uni e agli altri aveva assegnato compiti particolari e funzioni diverse. Ai patrizi spettavano gli uffici religiosi e le più varie magistrature per amministrare la giustizia e presiedere agli affari pubblici; i plebei non avevano diritti politici, coltivavano i campi, allevavano il bestiame, lavoravano il legno e i metalli. Non era consentito il connubio fra le due classi, e la separazione contraddiceva fortemente i dichiarati princìpi di eguaglianza. Fra i plebei potevano esserci ricchi personaggi, ma non era la ricchezza che distingueva fra loro le due classi quanto le origini. Romolo, nel pieno di un violento temporale e di un’eclissi di sole, cinquantacinquenne, dopo trentasette anni di regno, scompariva nel nulla. Parlava per l’ultima volta ai soldati schierati presso la palude della Capra, e lasciava impressa a Roma la vocazione di città egemone. Un’egemonia frutto di violenza, di audacia e di fortuna. Aveva grandemente esteso la potenza del regno battendo la città latina di Fidene e gli etruschi di Veio, a nord di Roma. Collocati sulla riva sinistra del Tevere, i fidenati avevano attaccato per primi, nel tentativo di bloccare la crescita della potenza romana, e se n’erano pentiti. Romolo li aveva sconfitti con il valore e con l’astuzia. Aveva finto di ritirare l’esercito. Il nemico si era scoperto, ed egli poté aggredirlo di sorpresa con successo. In molti pensarono che Romolo fosse stato ucciso da alcuni patrizi i quali, approfittando del temporale e del buio che era sceso sul campo, avevano voluto liberarsi di lui non sopportandone più il governo che si era tramutato in capricciosa tirannia. Non se ne ritrovò il cadavere, e si cominciò a credere – 30
anche per la testimonianza di Giulio Proculo, un patrizio fededegno, sebbene amico del re – che fosse gloriosamente asceso al cielo come doveva necessariamente accadere per il divino fondatore della città. Si era involato sul carro di Marte. Da quel momento egli era il dio protettore di Roma, con un nuovo nome: Quirino. Proculo diceva che Romolo gli era apparso in pieno Foro e che gli aveva spiegato l’arcano della scomparsa. Romolo proveniva dai cieli essendo figlio di Marte, e ai cieli era tornato per farsi patrono dei romani, un popolo destinato a grandi imprese, poiché nessuno avrebbe resistito alle armi di Roma. Queste erano le parole di Proculo sulla scomparsa di Romolo, ma c’era anche chi affermava che i senatori nemici del re, dopo averlo trucidato, ne avessero fatto il corpo a brandelli per farli sparire di soppiatto, celati sotto le ampie toghe.
31
IV Roma, smarrita, per tutto un anno non ebbe alcun sovrano. Fu affidato un interregno a dieci patrizi che si alternavano alla guida dello Stato, in mezzo a disordini e lotte fra senatori e magistrati di stirpe latina e sabina, che volevano prevalere gli uni sugli altri. Sembrava che la città avesse dieci re. Poi si trovò un accordo, nel senso che di volta in volta uno dei due popoli avrebbe eletto alla dignità di re un esponente dell’altra stirpe. Il primo successore di Romolo venne scelto all’unanimità dai romani nella famiglia sabina di Tito Tazio, attraverso la votazione delle curie. Si veniva così confermando la forma monarchica imposta da Romolo. Col favore degli auguri – gli avvoltoi erano apparsi in cielo provenienti da destra – salì al trono il sabino Numa Pompilio che aveva sposato Tazia, la figlia di Tito Tazio. Il nuovo re aveva trentasette anni ed era nato il giorno stesso in cui Romolo fondava Roma. Era uomo parco e saggio, tanto che sulle prime non intendeva accettare la regale designazione. Se ne voleva stare tranquillo nella sua città natale, Curi, attorniato dalla religiosità degli abitanti. Si piegò alle insistenze dei romani soltanto quando gli fecero capire che regnare significava rendere un servizio a dio. L’idea gli piacque al punto da farne la norma primaria della propria azione politica, per cui la religione diventava uno strumento del regno. Evitò di raccogliere l’eredità guerresca del predecessore, si impegnò a riformare pacificamente l’ordinamento della città e a 32
istituire riti religiosi meno crudeli, abolì gli spietati sacrifici umani e fece accompagnare le cerimonie con canti e suoni. Ma, imprevedibilmente, uno dei nuovi riti religiosi da lui istituiti, celebrato con l’ausilio di una danza sacerdotale, fu l’occasione perché il dio della primavera, Marte Silvano, si trasformasse nel dio della guerra. La delicata indole di Numa contrastava con lo spirito bellicoso di cui i romani facevano mostra fin dalla fondazione della città, così egli fu costretto dall’animosità del popolo a istituire in onore di Marte Gradivus, che muove alla battaglia, il sacerdozio dei Salii. Una mattina, mentre il re si rivolgeva con particolare intensità a Giove perché avesse cura della salute di Roma, il dio massimo volle dargli un segno dell’attenzione divina, gettandogli dal cielo lo scudo di Marte – uno scudo di bronzo, ancile – non senza però dirgli che più a lungo i romani avessero conservato quello scudo più a lungo sarebbe durato e più si sarebbe esteso il loro dominio. Allora Numa, per evitare che lo scudo sacro venisse rubato, ne fece fabbricare dal grande fabbro Mamurio Veturio altri undici simili, affinché nessuno, fra tanti, potesse riconoscere quello vero e portarselo via. Gli scudi furono affidati a dodici sacerdoti giovani e belli, i Salii, che dovevano garantirne la sicurezza, e che festeggiavano il dio con lunghe processioni canore e saltellanti, mostrando gli ancilia per le vie di Roma, una volta l’anno, nel mese di marzo dedicato a Marte. E così egli onorava il padre di Romolo. Numa ottenne un grande successo con la revisione del calendario, cui aggiunse i mesi di gennaio e di febbraio agli altri dieci istituiti dal fondatore. Mentre l’anno romuleo contava trecentoquattro giorni, quello di Numa fu di 33
trecentocinquantacinque. Inizialmente i mesi erano dieci, come dimostrava l’ultimo di essi che era detto dicembre. Numa chiamò gennaio, Ianuarius, il primo mese, dal nome del dio Giano, mentre con Romolo l’anno, basato sull’osservazione del ciclo lunare, cominciava con marzo, ispirandosi a Marte, la divinità da cui lui discendeva. Fin dagli aborigeni, Giano era il dio barbuto dei campi e dell’ordine cittadino, oltre che il protettore di ogni passaggio nello spazio e nel tempo, quindi di ogni entrata e di ogni uscita attraverso qualsiasi porta, di casa o di città. Ogni soglia aveva in Ianus la forza animistica protettrice. Nel calendario il dio, raffigurato bifronte, simboleggiava il passaggio fra l’anno che moriva e l’anno che nasceva. La divinità aveva due facce, così come ogni porta serve per entrare o per uscire. Una faccia rappresentava un vecchio barbuto, l’altra un giovinetto imberbe. Numa eresse a Giano un piccolo tempio rettangolare fra l’Esquilino e il Foro, con due porte che si fronteggiavano, ianua era infatti la porta. Quel tempio era contemporaneamente il simbolo della pace e della guerra. In guerra le sue porte venivano tenute aperte, come se ne dovessero uscire gli eserciti, ma anche perché ne potesse uscire il dio a soccorrerli; in tempo di pace restavano invece chiuse. Numa, nonostante le tentazioni di Marte, riuscì a tenerle sbarrate durante l’intero suo regno, per cui gli scudi guerreschi si ricoprirono di tele di ragno. Spirito profondamente meditativo, tanto da essere considerato un re sacerdote e il fondatore del collegio dei pontefici, gettò le basi di istituzioni religiose che i latini e i sabini accoglievano con grande favore pur senza seguirle con altrettanto scrupolo. Maggior rispetto nutrivano per il fuoco 34
sacro, ritenuto, secondo il favore del re, l’origine di ogni cosa. Numa era un uomo di legge, e il suo stesso nome significava legge, numen. Suddivise la popolazione in base ai mestieri: fabbri, vasai, carpentieri, orefici. Cercava di distogliere la gente dall’idea della guerra per indurla ad amare il lavoro dei campi e ad aver cura della città. La tendenza alla meditazione non impediva a Numa, che aveva perso la moglie Tazia, di avere per amante una ninfa delle fonti e dei boschi, chiamata Egeria, la quale gli era soprattutto utile per far credere al popolo di essere in rapporti diretti con le forze divine, e per meglio utilizzare la religione a fini politici e sociali. Ciò per mantenere più facilmente unita e tranquilla la città. Il popolo pensava che segretamente la ninfa, durante gli incontri nel folto delle selve, lo ispirasse e gli suggerisse come governare con avvedutezza. Lui trascorreva gran parte delle giornate nei boschi ai piedi del monte Celio, e fu la ninfa a consigliargli di distribuire ai più poveri un po’ delle terre che erano appartenute a Romolo, al fine di ottenere il consenso dei plebei. Ciò era una conferma di come Egeria non fosse esclusivamente un’esperta di amorosi segreti: i suoi consigli politici, sussurrati fra le estasi della voluttà, consentivano a Numa di rendere più disciplinato il suo indomito popolo. Sempre col proposito di evitare frizioni fra le due stirpi che risiedevano ancora l’una sul Palatino e l’altra sul Quirinale, ma che ormai si erano politicamente unificate attraverso l’annessione dei sabini ai latini, continuarono ad alternarsi sul trono un re latino e un re sabino. Si uniformarono leggi, riti, costumi; le famiglie degli uni si univano a quelle degli altri. 35
Numa Pompilio regnò per quarantatré anni, senza far mai una guerra. Alla morte era più che ottantenne, e già gli era stato eretto un mausoleo sul Gianicolo, un monte alla destra del sacro Tevere.
36
V Il terzo re, eletto dal popolo, fu ancora una volta un latino. Si chiamava Tullo Ostilio. Era un personaggio assai diverso dal pio predecessore, tanto che subito attaccò briga con l’eminente Alba Longa per strapparle la supremazia sul Lazio. Fece formalmente ricadere ogni responsabilità sulla città nemica per non provocare l’ira divina, infatti uno scontro fra Alba e Roma, essendo comuni le loro origini, poteva essere giudicato una guerra fratricida. Allora Tullo istituì il collegio sacerdotale dei Feziali, chiamato a garantire la legittimità delle guerre e a dare ai romani la certezza che ognuno dei loro conflitti fosse giusto e voluto dagli dèi, anche quando, come nella guerra contro Alba Longa, si incrociavano le armi fra popoli simili. Tullo tanto fece e tanto disse da ridurre Alba all’impotenza e da raderla al suolo. La totale distruzione dell’antica città fu anche colpa dell’intemperanza del nemico. Difatti in piena guerra e al cospetto dei due eserciti schierati, si era deciso di affidare le sorti del conflitto a un duello fra tre soldati romani e tre albani, pensando così di evitare il proseguimento d’una guerra totale che troppi morti lasciava sul terreno. Per lo scontro furono scelti, si diceva su ispirazione divina, tre gemelli romani, gli Orazi, e tre gemelli albani, i Curiazi, figli di due sorelle e quindi tra loro cugini. Erano coetanei, belli e generosi, celebri per i loro eroismi e per le nobili origini. Le due popolazioni, che si erano raccolte al confine dei loro 37
territori a sud di Roma su un immenso prato per assistere al duello, coprirono di fiori i ragazzi pronti a impugnare le armi. Profondo era il silenzio che d’improvviso venne lacerato da un grido altissimo: un albano aveva per primo colpito uno dei romani. Poi era caduto anche un secondo combattente degli Orazi. La situazione appariva disperata per Tullo Ostilio, ma ecco che il superstite dei tre Orazi riusciva a rovesciare le sorti del duello e a far trionfare i romani. Quell’Orazio aveva unito l’astuzia al coraggio, nell’attimo in cui l’avvenire di tutto un popolo dipendeva soltanto da lui. Per dividere i nemici aveva finto la fuga – tra le urla di sconforto dei romani – per poi affrontare i Curiazi a uno a uno nell’ordine in cui gli si facevano avanti. A uno a uno li abbatté essendo lui indenne da ferite, mentre i Curiazi erano sfiancati e sanguinanti. Nella foga della vittoria, il superstite si macchiò d’un orrendo delitto. Certo ormai di poter tutto osare, uccise con un colpo di spada la sorella Orazia che aveva visto piegarsi e piangere con i capelli sciolti in segno di lutto sulle spoglie di uno dei Curiazi di cui era fidanzata. Prima che il giovane Orazio alzasse l’arma sulla sorella si era svolto fra loro un alterco, un violento scambio di ingiurie. «Sii maledetto per la tua malvagità. Hai ucciso i tuoi cugini e mi hai tolto l’uomo che amavo. Sei una belva!» gli aveva gridato Orazia furente. E lui le aveva risposto: «Io amo soprattutto la patria, mentre tu non sei che una falsa vergine. Muori, così come muoia ogni donna romana che pianga per un nemico di Roma!». Tullo Ostilio trascinò davanti ai giudici l’Orazio spietato, che tuttavia fu assolto poiché l’amor di patria prevaleva su ogni altro sentimento, tanto che nemmeno il padre della ragazza 38
considerava delittuoso il gesto dell’Orazio. Per espiazione e purificazione il giovane fu però obbligato a umiliarsi e a passare penitente, il volto coperto da un velo, sotto un giogo. Il palo, posto orizzontalmente fra gli altri due verticali, fu chiamato «trave delle sorelle», tigillum sororium, mentre il luogo dell’espiazione assurgeva a sacralità. Contrito, lo stesso Orazio volle innalzare un piccolo tempio in onore di Giano cui si diede il nome di Curiazio. Tullo intendeva evitare la distruzione di Alba Longa, ma il fato disponeva diversamente. I romani si erano impegnati in una guerra contro Fidene e avevano chiesto aiuto agli albani per contrastare gli etruschi, a loro volta in armi. Il capo albano Mezio Fufezio si mostrava incerto. Avrebbe o no offerto il suo sostegno? Tullo sospettava un tradimento, pensava che l’animo di Mezio fosse diviso tra Fidene e Roma, e allora volle punirlo in maniera conseguente: fece legare Mezio mani e piedi a due quadrighe, poi diede il via ai cavalli i quali, frustati a sangue, si misero a correre in direzioni opposte, lacerando in due tronconi il povero Mezio. Prima di aizzare i cavalli alla corsa, Tullo aveva gridato all’albano: «Il tuo animo era diviso tra Fidene e Roma. Ora io divido il tuo corpo». L’ira di Tullo non aveva più limiti. Animato da particolare ferocitas nel perseguire gli obiettivi della nascente e già formidabile politica espansionistica romana, distrusse Alba, che nei suoi quattrocento anni di vita sembrava ormai ben salda come roccaforte. Ne sloggiò gli abitanti deportandoli a Roma in doloranti file e ammassandoli sul monte Celio. Su quel colle andò ad abitare lui stesso. Nell’attuare le deportazioni, Tullo affermava che, per scongiurare altri scontri, era necessario 39
considerarsi tutti della stessa patria. Fece credere che Alba, madre di Roma, non fosse morta, ma rinata in un altro corpo sociale, nuovo e vecchio, diverso ed eguale insieme. Insomma, andando a ritroso, come Roma derivava da Alba, così Alba derivava da Lavinio e Lavinio dall’oltremarina Troia, in un intreccio straordinario. Il re fu assai festeggiato dai romani nella nuova sede del Senato da lui costruita e chiamata Curia Hostilia. Gli dèi non gli si mostravano granché favorevoli, né per la vittoria sugli albani, né per un’altra ottenuta sui sabini, e provocarono una grave pestilenza che tenne a lungo Roma nel terrore. Poi lo riscattarono facendogli vincere in una dura battaglia gli etruschi di Veio. Il latino Tullo Ostilio aveva regnato per trentadue anni, dieci anni in meno del predecessore. Scomparve consunto in un incendio provocato da un fulmine scagliato da Giove, il quale non aveva gradito la messa in scena d’un rito sacro. I romani tacquero perché accettavano anche questo dagli dèi. Sempre col voto del popolo, gli successe Anco Marzio, il figlio di una timorosa figlia di Numa Pompilio. Nuovamente un sabino saliva al trono, e vi rimaneva per venticinque anni, dal 640 al 616 a.C. Anco era di aspetto e di carattere simile al predecessore. Conquistò l’intero tratto di territorio fra Roma e il Tirreno. Assalì alcune piccole città latine deportandone le genti sull’Aventino. Quindi fornì Roma di uno sbocco marino, a Ostia, dove si gettava il Tevere, la cui foce, ostium, divenne un porto, come la sua conformazione suggeriva. Con la creazione del porto e migliorando la navigabilità del fiume, la città di Roma assumeva anche il ruolo di centro marittimo. Perciò si disse che Roma, come Atene, aveva ormai il suo Pireo. 40
Sulle adiacenti rive del Tirreno si scavarono grandi saline che consentirono di aprire lungo il Tevere, alla sua foce e ai piedi dell’Aventino, alcuni magazzini destinati alla conservazione e alla commercializzazione del prodotto. Anco dispose che il sale venisse distribuito gratuitamente, e ciò fu essenziale per popolazioni dedite alla pastorizia. I romani rifornivano di sale gli abitanti delle zone interne della penisola. Ne derivò un gran movimento di commercianti che indusse i pirati a preferire quelle zone per gli arrembaggi delle navi. Mentre imbarcazioni cariche di sale risalivano il Tevere, ne discendevano altre dall’alta valle del fiume cariche di legname. Questi commerci stimolarono un evento di grande rilievo per lo sviluppo di Roma: la nascita di una relazione di amore-odio fra i romani e gli etruschi, tanto sconosciuti quanto misteriosi. Nel cuore di Roma, Anco Marzio costruì sul fiume il primo ponte in legno, il Sublicio, a sud dell’isola Tiberina, per collegare la città con il monte Gianicolo sul quale aveva eretto un tempio a Giano, e per stabilire più rapide relazioni con l’etrusca Cere già in rapporti con i fenici. La foce del Tevere era un luogo ideale anche per la pastorizia, che divenne per quei popoli un’attività fortemente redditizia. Essa permetteva di interrompere un infinito girovagare che pure era stato essenziale alla loro sopravvivenza. Latini e sabini si sentivano simili. Erano pastori e contadini, ma soprattutto soldati che al ritorno dalle guerre intascavano l’atteso compenso in terreni per coltivarli in tranquillità. Erano uomini semplici, rozzi, esclusivamente interessati a concludere la loro giornata di lavoro. Erano caparbi, pronti a sacrificare la vita per difendere ciò che stavano costruendo, un tetto, una famiglia, un gregge, 41
uno Stato, con l’obiettivo di espandersi.
42
VI Una decisiva svolta nella successione al trono di Roma si verificò a poco meno di centoquarant’anni dalla fondazione della città. Ascendeva un re etrusco, Tarquinio Prisco, che era stato un fedele seguace di Anco Marzio. Figlio minore di Demarato – un aristocratico greco fuggito esule da Corinto e rifugiatosi a Tarquinia, una bella città a nord di Roma –, aveva fatto fortuna sposando l’avvenente, colta e ricca Tanaquilla, un modello di torbida raffinatezza etrusca, figlia unica di un commerciante dalle nobili origini. Tanaquilla consigliò il marito di trasferirsi a Roma, dove sarebbe stata meglio apprezzata la sua straordinaria operosità. Arrivati sul Gianicolo, un’aquila, planando verso Tarquinio, gli tolse col becco il berretto dalla testa e poi ve lo rimise. Tanaquilla ravvisò nell’evento una beneaugurante investitura divina – l’aquila era sacra a Giove – e ne fu felice. Tarquinio – che non si chiamava ancora Tarquinio, ma Lucumone, in quanto principe etrusco – disse ad Anco Marzio di aver portato con sé i propri averi per metterli a sua disposizione. Marzio lo iscrisse in una delle tribù romane, per cui egli assunse i nomi latini di Lucio e di Tarquinio. L’etrusco divenne il suo miglior amico, il consigliere personale, il tutore dei suoi figli, e colui che pagava le spese di abbellimento della città come egli voleva. Tarquinio era ormai il più famoso e stimato fra i romani, sicché, alla morte di Anco, ricevette dal 43
popolo e dai senatori l’imperio regale. Ripagò il Senato dell’onore che gli aveva reso ampliandone la maestà con l’immissione di molti altri patres, appartenenti alla tribù etrusca dei luceri che fino a quel momento ne era stata esclusa. Con l’ascesa al trono, Tarquinio coronava l’ambizioso sogno del suo popolo. Si chiudeva l’età latina della prima Roma, e si apriva con lui l’era dei re etruschi e del loro predominio. Di temperamento bellicoso, un misto di sangue etrusco e greco, Tarquinio non stette mai un giorno senza battersi contro qualcuno. Affrontò gli apiolani annientando la loro illustre città di origine latina, Apiole, che confinava coi volsci dell’alta valle del Liri. Si batté con le città di Collazia, Crustumerio, Nomento, Cornicolo, Cere, in nome della supremazia di Roma. Innalzò alcuni templi che aveva promesso agli dèi in cambio delle vittorie ottenute anche con l’ausilio dei plebei. E poiché molti fra questi erano ricchi e benestanti in quanto possessori di bestie e di terre, ne ammise un buon numero nel patriziato. Da trionfatore indossava un mantello di porpora e una corona d’oro; nella mano teneva uno scettro sormontato dalla figura di un’aquila; era preceduto da dodici giovanotti, chiamati littori, che recavano fasci di verghe con un’ascia alla sommità, e da bastonatori che con violenza si facevano largo tra la folla. Era un forte guerriero e un abile diplomatico: era stato lui a ideare la lega fra i dodici popoli dell’Etruria, suoi antichi e mai rinnegati consanguinei. Sempre lui aveva introdotto i fasci dall’Etruria. Con gli etruschi a Roma, la città cresceva e migliorava: assumeva un particolare rilievo politico, cessava di essere un centro minore per diventare una delle strutture urbane più significative della penisola. Il Tevere fu tenuto in grande 44
considerazione. Ne accelerarono lo sviluppo dei traffici, e lo onorarono con un culto. Numerose furono le opere pubbliche: si lastricavano le strade, si arricchiva il Foro, si costruiva in legno ornandola di statue la monumentale arena del Circo Massimo, si gettavano le fondamenta del tempio di Giove Capitolino e si procedeva, scavando una serie di profondi cunicoli di scolo, al prosciugamento delle acque che spesso riducevano il Foro simile a un immondo pantano, infestato di zanzare e sanguisughe. Si scavarono molti altri cunicoli minori affinché le acque delle strade potessero agevolmente riversarsi nel grande fiume della città. Per metà italici e per metà greci, gli etruschi avevano raggiunto i più alti livelli della cultura. Il loro contributo fu un dono per le audaci ma ancora grezze stirpi romane, le quali con gli etruschi poterono più rapidamente progredire sulla strada della potenza e della gloria. Tarquinio Prisco, che pure nei suoi trentotto anni di regno si era conquistato la fama di persona assennata, sebbene d’animo focoso, fece una ben triste fine. Re magnifico, invincibile e magnanimo, tutti si sarebbero aspettati per lui una vecchiaia dolce e rispettata. Gli dèi avevano invece stabilito diversamente, ed egli cadde ucciso a colpi d’accetta per mano di due sicari che agivano sospinti dai figli di Anco Marzio, i quali lo accusavano di essersi impossessato del regno del padre con l’inganno e col denaro, e di averli perciò privati della successione. A Prisco seguirono altri due re, anch’essi etruschi, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Roma era già la più grande città del Lazio, dell’Etruria e dell’intera penisola. Gli etruschi, che provenivano dalle feraci terre al centro della penisola, erano 45
riusciti a espandersi, e nel loro sviluppo verso sud avevano travolto anche il Lazio e la stessa Roma, tanto da imporre alla città il proprio dominio e i propri sovrani. Si erano estesi ancora oltre Roma, invadendo le felici terre della Campania, con Capua per roccaforte, mentre a nord avevano valicato i monti Appennini, operando ovunque per una federazione di popoli che si rivelava utilissima alle attività mercantili in cui essi eccellevano. Servio Tullio era di origini servili, come denunciava il suo stesso nome, ma, avendo preso in moglie Tarquinia, una figlia di Lucio Tarquinio Prisco, vide aprirsi davanti a sé un luminoso futuro. Già favorito da meravigliosi prodigi fin da bambino, si era segnalato durante il regno di Prisco per il coraggio e l’abilità, sia come comandante della cavalleria sia come amministratore. Lo aveva baciato la dea Fortuna, la capricciosa dea del caso e della buona sorte che fin dai tempi di Romolo si mostrava generosa con i romani. Servio volle mostrarsi grato alla dea edificandole un tempio presso il porto sul Tevere, nel Foro Boario ai piedi del Campidoglio, e altri in diversi luoghi. La sua religiosità si era spinta a ordinare che a ogni incrocio delle strade fosse innalzato un tempietto. Con uno stratagemma, i figli di Anco Marzio erano stati esiliati in perpetuo, e ciò rese più facile l’ascesa di Servio che divenne il sesto re di Roma. Era stata sua suocera, la regina Tanaquilla, a studiare un piano per assicurargli la successione. D’intesa con lei, Servio teneva nascosta la notizia della morte di Tarquinio Prisco; ma poiché il popolo tumultuava non vedendo più il re, Tanaquilla decise di parlare alle masse dalle finestre della reggia. Disse che i medici avevano dichiarato il sovrano 46
fuori pericolo dopo il fallito attentato che gli avevano teso i sicari dei Marcii. Disse anche che Tarquinio aveva nel frattempo affidato il governo dello Stato a Servio durante il periodo della convalescenza. La scelta, spiegava Tanaquilla, era meditata poiché Servio aveva dimostrato di essere un grande generale combattendo contro i sabini e altri nemici. In tal maniera, Tanaquilla creava segretamente una situazione di fatto a favore del genero, e intanto era lei a governare attraverso un re morto. Alle notizie annunciate dalla regina, il popolo romano traeva un sospiro di sollievo, senonché, qualche giorno più tardi, la diabolica Tanaquilla annunciava, fra la disperazione generale e la più profonda sorpresa, che il re era morto. Nel comunicarne le ultime volontà, disse che Prisco aveva designato Servio come suo successore. E così fu, senza che il popolo quella volta esprimesse il proprio voto. Tanaquilla aveva detto a Servio in privato che, non appena il primogenito orfano del re avesse raggiunto la maggiore età, egli avrebbe dovuto cedergli il trono. Servio Tullio governò per quarantaquattro anni, impiegandone venti per domare le rivolte di Veio, Cere e Tarquinia che non gli riconoscevano né la sovranità né il predominio. Quei popoli etruschi affermavano di non aver sottoscritto con lui, usurpatore, alcun patto, e che perciò non valevano nei suoi confronti gli accordi di tregua assunti con Prisco. Egli fu tuttavia uomo saggio e riformatore lungimirante. Rafforzò il binomio cittadino-soldato che costituiva un punto forte del rapido progredire della civiltà romana. Permise a tutti, anche a dispetto delle più umili condizioni di partenza, di raggiungere alti livelli nella scala sociale. Fu perciò chiamato «il 47
re della plebe». Egli stesso offriva l’esempio di come fosse possibile assurgere alla dignità regale pur essendo nato da una schiava, Ocrisia di Cornicolo. La sua nascita aveva avuto del prodigioso poiché Ocrisia, nove mesi prima di darlo alla luce, aveva visto levarsi un pene alato tra le fiamme del fuoco, cui era addetta per tenerlo acceso presso la corte di Tarquinio. Si disse che fosse calato in lei Vulcano, il dio della fucina ardente. Di Ocrisia si magnificavano la gentilezza d’animo e la procacità delle forme. Prorompenti erano i seni, sensuali le labbra tanto da far perdere la testa a chiunque, mortali e immortali, uomini e dèi. Ocrisia era stata una schiava, ma per breve tempo. Imprigionata come bottino di guerra, Tarquinio Prisco la desiderò sua preda personale per goderne prima le grazie fisiche e poi per donarla alla sposa Tanaquilla, la quale volle restituirle la libertà, essendo principesche le origini della ragazza. A Roma la nascita e le condizioni sociali assumevano valori di grande rilievo per il formarsi di profonde stratificazioni. Su queste differenze Servio Tullio basò la sua azione riformatrice al punto di essere considerato un rifondatore di Roma, nel V secolo avanti Cristo. Gliene davano facoltà le sue origini divine. Suddivise i cittadini in cinque grandi classi sulla base della ricchezza, rispetto al pagamento delle tasse e alla leva militare. Per conoscere meglio la natura sociale del suo popolo indisse un censimento, da cui apprese che aveva ai suoi ordini ottantamila cittadini adulti, cioè atti alle armi. Nell’organizzare l’erario della città, in rapporto all’economia basata sulla pastorizia, fu il primo a stampigliare sulle facce di rotonde placchette bronzee l’immagine di un capo di bestiame – pecus –, un bue, un 48
montone, una pecora. Con una immane quantità di tufo sottratto a Fidene, il sesto re cinse Roma di mura più ampie e poderose rispetto a quelle erette da Romolo, facendo sentire i romani più tranquilli nelle loro case. Con la costruzione di mura più estese, la città, che pur sempre manteneva un aspetto boscoso e lacunoso, comprendeva in sé l’acropoli, cioè il Campidoglio, e inoltre il Palatino, il Quirinale, il Viminale, il Celio, l’Aventino, l’Esquilino e anche il Gianicolo. Su ognuno di questi colli e monti, chiamati nel complesso Septimontium, sorgevano i templi dedicati agli dèi cari ai romani, mentre sull’Esquilino Servio aveva elevato la propria sede. Ormai la città constava di quattro aree dette regioni, la Palatina, l’Esquilina, la Collina o Quirinale e la Suburana o Celio. A ogni regione si fece corrispondere una tribù, aumentando a quattro le tre tribù volute da Romolo che avevano conservato gli antichi nomi di ramni, tizii e luceri. Queste erano le tribù urbane cui si univano via via altre popolazioni chiamate tribù rustiche, che prendevano i nomi delle aree geografiche di provenienza o delle famiglie patrizie più rappresentative dei popoli che le abitavano. La religiosità, lo spirito di giustizia e la concezione politica federale di Servio univano Roma e i latini. L’unione si espresse con la costruzione sul monte Aventino di un tempio consacrato di comune accordo alla vergine dea Diana, la quale, figlia di Giove e sorella gemella di Apollo, era una splendida divinità silvestre cara alla plebe, agli schiavi e alle donne, che nel mese di agosto inscenavano festose processioni in sua gloria. In quel tempio Servio trovava una conferma della raggiunta supremazia dei romani sui latini. Accanto a esso fu aperto un asilo per 49
ricoverarvi gli schiavi fuggiaschi e ogni altra persona che avesse bisogno di aiuto. Se triste era stata la fine di Tarquinio Prisco, la morte di Servio Tullio fu più che drammatica. Dopo quarantaquattro anni di regno, egli cadde vittima di un complotto che lo detronizzò in pieno Senato. Il suo cadavere fu brutalmente massacrato e lasciato imputridire nelle strade di Roma. Servio aveva già subodorato la pericolosità della situazione, prevedendo che la Fortuna stava per voltargli le spalle. Non aveva però tenuto nel debito conto un orribile particolare. Gli era sfuggito il fatto che il piano criminoso aveva per strumento la sua più giovane figlia, Tullia, la quale, invasa da sfrenata ambizione, aveva spinto il cognato Lucio Tarquinio a impossessarsi del regno insieme a lei. A completamento del misfatto, la donna travolse col suo carro le spoglie esanimi del vecchio padre soltanto perché le ostruivano il passaggio nell’angusto vicolo nel quale era stato assassinato. Il sangue di Servio le schizzò sul viso, un viso di donna spietata. I romani, inorriditi, diedero a quella via, che saliva verso l’Esquilino, il nome di Vicus sceleratus, ma non sospettavano che il progetto delittuoso di Tullia fosse appena all’inizio. In combutta con il cognato Lucio Tarquinio, la terribile donna fece infatti assassinare col veleno anche il marito Arunte Tarquinio per sposarne il fratello Lucio, spianargli la strada al trono e diventare al suo fianco regina. Tullia, dopo Tanaquilla, era la seconda donna che svolgeva un ruolo decisivo nella conquista del trono di Roma. Ma se Tanaquilla era virile, Tullia era efferata. Nella lotta fra Lucio Tarquinio e Servio Tullio c’era stato perfino un momento di scontro fisico, quando Lucio aveva 50
afferrato per la collottola l’avversario e lo aveva fatto precipitare lungo gli scalini del Senato. Era stato quello il momento della detronizzazione. Raggiunto il loro scopo, Lucio Tarquinio e Tullia si comportarono da tiranni arroganti e crudeli. Non avevano avuto il voto del popolo e mai consultarono i cittadini. Lucio rovesciò di sana pianta la costruzione democratica di Servio costringendo al silenzio i patres, vietando ogni riunione, imponendo nuove tassazioni, uccidendo senatori e chiunque altro a suo piacimento, contro ogni norma, riempiendo smisuratamente i suoi granai, attorniandosi di spie. Per estendere il dominio di Roma si batté, senza spregiare l’inganno, contro numerosi popoli: i rutuli di Ardea, i volsci e i latini di Gabi, una città prospera che aveva ospitato da giovinetti Romolo e Remo perché fra i primi vi apprendessero a parlare la lingua greca.
51
VII Il nuovo re, il settimo, teneva Roma sotto di sé con la forza, la violenza e il terrore. I romani davano del Superbo a quel Lucio Tarquinio. Lo facevano in segreto per il timore di terribili ritorsioni. La tensione in città era altissima, a oltre duecento anni da Romolo. Tarquinio il Superbo costruiva sul Campidoglio il tempio di Giove Ottimo Massimo, associato a Giunone e a Minerva, tempio che era già nella mente di Romolo e che Tarquinio Prisco aveva promesso in voto. Si illudeva, così, di ingraziarsi gli dèi. La costruzione avveniva con l’ausilio di artisti etruschi da lui favoriti. Gli dèi erano ritratti con sembianze umane. Giove era rappresentato su un trono, assiso in abbigliamento regale fra la consorte Giunone e la figlia Minerva. Tale triade capitolina sostituiva la più antica formata da Giove, Marte e Quirino. Sebbene ammirati per la maestria con cui il grande artista etrusco Vulca aveva plasmato in terracotta la statua di Giove, la fabbricazione di quel tempio gigantesco moltiplicò l’odio dei romani nei confronti del Superbo, superbo anche nell’aspetto, poiché in tale circostanza li aveva obbligati a portare pietre senza ottenere compensi, come avveniva nei lavori forzati. Per la prima volta, in quel clima oppressivo, patrizi e plebei si sentirono uniti contro un così scellerato sovrano. Una vecchia donna straniera, che si diceva di origini etrusche, si presentò al Superbo. Gli offriva in vendita a un certo prezzo 52
nove libri. Lui non volle comprarli, allora la vecchia, dopo aver bruciato tre dei libri rifiutati, gli si presentò proponendogliene sei e chiedendo la stessa somma di prima. Nuovamente respinta dal re, la donna bruciò altri tre libri. Apparve alla presenza del Superbo una terza volta con i rimanenti tre libri, senza cambiarne il prezzo. Il re non nascondeva una certa preoccupazione per la piega che la strana vicenda andava assumendo. Chiese agli auguri come dovesse comportarsi, e quelli gli consigliarono di acquistarli, non senza rimproverarlo per i suoi dinieghi che avevano indotto la misteriosa straniera a bruciare ben sei di quei libri. Erano volumi preziosi poiché provenivano dalla Sibilla, la profetessa di Cuma, il luogo in cui erano arrivati i primi greci della penisola. Quei libri gli avrebbero certamente consentito un più illuminato governo, sulla base dei consigli che contenevano sotto forma di oracoli greci. Essi furono tardivamente custoditi nel tempio di Giove Capitolino, mentre si diffondeva la voce che l’orribile vecchia fosse la Sibilla in persona e che, assai stizzita, se ne fosse tornata al di là delle cento porte del suo antro, meditando vendetta. Il Superbo aveva, oltre a Tito e Arunte, un altro figlio più giovane di nome Sesto di cui si servì per ingannare e sottomettere la popolazione di Gabi. Lo inviò in quella cittadina dopo averlo ben bene frustato. Così il ragazzo si presentò al nemico con il corpo pieno di piaghe, dichiarandosi disertore e maledicendo il padre che aveva alzato le mani su di lui. In tal maniera, secondo il crudele piano del Superbo, Sesto avrebbe potuto ottenere la fiducia dei gabi, per poi farsene gioco al momento opportuno. Il giovane Sesto entrò tanto profondamente nelle loro grazie da ottenere il comando 53
dell’esercito. Il Superbo si lasciò perfino sconfiggere in alcune piccole battaglie perché la bravura del figlio risaltasse agli occhi di tutti. Attraverso messaggeri occulti, Sesto gli chiedeva che cosa dovesse fare ora per sottomettere i gabi. Il Superbo gli fece pervenire l’ordine di procedere alla eliminazione dei più importanti personaggi della città. Ma, affinché l’ordine rimanesse segreto e i messaggeri non ne cogliessero il significato, si era messo ad abbattere con un bastone i papaveri più alti in un campo di grano. Sesto capì che cosa doveva fare, e, attuando le recondite istruzioni del Superbo, conquistò Gabi attraverso la soppressione dei suoi governanti. Fu lui però a provocare la rovina del padre e della monarchia durante l’assedio di Ardea, la città latina che i romani, per avere il pretesto di attaccarla, avevano accusato di dare asilo ai fuorusciti dall’Urbe. Una notte alcuni giovani assedianti di Ardea, tra i quali vi erano due figli e i nipoti del Superbo, si erano dati a gozzovigliare approfittando d’una tregua. Uno di quei ragazzi, più di altri avvinazzato, a un certo punto saltò su a dire: «Chissà che cosa staranno facendo adesso le nostre mogli. Prendiamo i cavalli e andiamo a vedere. Non ci aspettano e potremmo sorprenderle sul più bello». Partirono. Arrivati che furono le trovarono in piena baldoria erotica. Soltanto Lucrezia, la moglie di Lucio Tarquinio Collatino, se ne stava in disparte a filare la lana. Con quell’atteggiamento riservato e operoso lei confermava agli occhi del marito e degli amici la fama di donna virtuosa. Breve fu però la gioia di Collatino. Poche notti dopo, Lucrezia subì infatti l’oltraggio di uno stupro da parte del giovane Sesto Tarquinio. Lucrezia era una nobildonna gentile, dalla bellezza 54
sfolgorante. Portava i capelli, lunghi fino alla vita, raccolti in una treccia ripiegata sulla nuca, trattenuti da un fermaglio d’argento. Scuri e forti quei capelli spiccavano sul carnato emaciato del volto e sulle labbra simili a due tizzoni schizzati da un vulcano. Ogni curva del corpo, sebbene coperto da un’ampia quanto casta veste, suscitava nell’immaginazione degli uomini una vertigine simile alla vista della deriva di un fiume dalle acque in piena. Fu questa vertigine di beltà a colpire e ad accendere la perversa fantasia di Sesto. Sicché egli con la forza abusò di Lucrezia. Malvagiamente approfittò del fatto di esserle cognato e di essere suo ospite nella casa di Collatia, una cittadina a breve distanza a est di Roma. Nel pieno della notte, quando anche l’ultimo servo aveva terminato il suo lavoro ed era immerso nel sonno, Sesto era penetrato furtivamente nella stanza della donna. Puntandole una spada al seno, la pose di fronte a una tragica scelta: o cedere ai suoi desideri – poi l’avrebbe sposata e insieme avrebbero regnato, dal momento che gli spettava la successione al trono, essendo il primogenito del Superbo – o subire una tremenda vendetta: lui avrebbe deposto accanto al suo corpo il cadavere d’uno schiavo, nudo, e avrebbe poi detto che, avendola sorpresa a giacere con quel servo, li aveva puniti entrambi trafiggendoli a morte. Così la memoria di lei sarebbe stata vituperata in eterno e il suo cadavere non avrebbe avuto sepoltura. Lucrezia, pensando già a una rivalsa, giudicò scelta migliore, per quanto dolorosa, cedere alle minacce del malvagio aggressore. L’indomani, mentre Sesto era tornato fra i suoi soldati, lei, in lacrime e in abiti luttuosi, salì su un carro e spronò i cavalli 55
verso Roma. Qui si gettò disperata tra le braccia del padre Spurio Lucrezio e del marito Lucio Tarquinio Collatino. Rivelando lo stupro, disse al marito: «Nel nostro letto, amato Lucio, ci sono le luride tracce di un altro uomo. Ma solo il mio corpo è stato violato. L’animo è innocente: ne darò ora testimonianza. Stringetevi reciprocamente la mano destra e promettetemi che il bruto non rimarrà impunito. Ascoltate. Accuso Sesto Tarquinio il quale la scorsa notte, nemico in sembianze d’ospite, con la forza delle armi si è preso un piacere funesto a me, ma anche a lui se voi siete uomini giusti. Io non posso reggere all’onta e la mia morte ne è la prova». A queste ultime parole si colpì il petto che tanto vergognoso desiderio aveva scatenato, infierendo su se stessa con un corto pugnale che aveva tenuto celato fra i veli. Da quel nobile suicidio scaturì una ribellione inarrestabile, anzitutto all’interno della stessa dinastia che governava Roma e poi in tutta la città. Ne fu ispiratore e capo un giovane, Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia che era sorella del re Tarquinio il Superbo. Bruto era il soprannome spregiativo che gli avevano affibbiato a causa dell’atteggiamento di sciocco, brutus, che lui aveva prudentemente assunto da un quarto di secolo allo scopo di sfuggire, amante della libertà, alle persecuzioni dei tiranni, e per non fare la stessa fine del padre e del fratello che erano stati trucidati dal Superbo. In tre – Bruto, Spurio Lucrezio e Tarquinio Collatino – dissero che era arrivato il momento di scacciare da Roma il Superbo e di abbattere la monarchia. Giurarono vendetta mentre si passavano solennemente l’un l’altro il pugnale col quale Lucrezia si era uccisa. Bruto assunse la guida della 56
ribellione e ordinò di esporre nel Foro il cadavere della donna lordato di sangue. Si accingeva a sommuovere le coscienze dei senatori e dei cittadini mostrando lo spettacolo di Lucrezia esanime e pronunciando un discorso d’accusa. Forte era la tensione. Lui, levando in alto il pugnale, esclamò: «Su quest’arma bagnata del sangue di Lucrezia, io giuro vendetta davanti agli dèi». Quelle parole rivelavano al popolo un nuovo Bruto, un Bruto combattivo, diverso da quello che avevano fino a quel momento conosciuto. Bruto disse ancora: «La violenta libidine di Sesto dovrà essere l’ultimo atto della follia e della degenerazione monarchica. La violenza è la misura dei monarchici. Avete dimenticato che Tullia è passata col suo carro sul cadavere del padre? Non soltanto Lucrezia ha subìto la violenza dei Tarquini, ma voi tutti essendo stati costretti a scavare come schiavi luridi canali di scolo. Eravate guerrieri, ora siete manovali! Mai riusciremo a dominare i volsci, i sabini e tanti altri popoli, se non ci ribelleremo alle violenze dei Tarquini». Tutti acclamavano Bruto. Lui, in veste di tribunus celerum qual era, si precipitò sul campo di Ardea dove l’esercito romano ancora assediava la città, e infuocò con un nuovo discorso l’animo dei soldati. Inveì nuovamente non soltanto contro Sesto ma anche contro la scellerata moglie di Tarquinio il Superbo, Tullia, che accecata dal desiderio del potere aveva travolto il padre col carro. Sollevò l’intero esercito romano contro i Tarquini e il loro dispotismo. Tullia fuggiva dalla reggia tra lanci di pietre, insulti e schiamazzi. Bruto era predestinato a grandi cose. Durante la costruzione del tempio di Giove sul Campidoglio, un serpente sbucato 57
all’improvviso aveva in un lampo divorato l’animale che stava per essere sacrificato al dio massimo. Se ne era impensierito il Superbo, il quale per sapere che cosa l’evento potesse significare aveva inviato a Delfi due dei suoi figli, Tito e Arunte, insieme al figlio di sua sorella Tarquinia, Bruto, che non si era ancora rivelato nella sua possanza. Dovevano interrogarvi l’oracolo. La Pizia, la vergine sacerdotessa, vaticinò che fra i tre giovani avrebbe attinto mete eccelse chi avesse per primo baciato la madre. Tito e Arunte già si predisponevano ad avere la meglio sul cugino, baciando la propria madre, ma Bruto, che aveva colto il recondito significato dell’oracolo, appena tornato in patria, fingendo di cadere, baciò il suolo. La terra: era quella la madre di tutti. La madre terra. Bruto ormai era se stesso. Incalzati dai discorsi del giovane ardimentoso, il popolo e l’esercito condannarono all’esilio l’indegno re, il quale corse a rifugiarsi in Etruria, presso Cere. Il Superbo aveva governato per venticinque anni, tanto quanto Anco Marzio. Bruto veniva salutato come il liberatore. Sesto Tarquinio, che si era asserragliato a Gabi, fu ucciso da vecchi nemici. I romani dovevano ora decidere con chi e come sostituire il Superbo, che aveva superato in spietatezza e arbitrarietà ogni altro tiranno. Qualcuno si disse favorevole alla conferma del regime monarchico, altri proponevano di affidare il potere all’assemblea dei senatori. Bruto, pur riconoscendo come la monarchia di origine divina avesse contribuito in due secoli e mezzo a far grande Roma, proponeva, per evitare il ripetersi di deviazioni tiranniche, di affidare la cosa pubblica non più a un solo uomo, ma a due contemporaneamente e per un tempo 58
limitato, come avveniva a Sparta con generale soddisfazione. Nel senso indicato da Bruto si decise di consegnare il potere per un anno a due magistrati, praetores, successivamente consules – poiché questi consultavano il Senato, che così saliva d’autorità –, eletti dal popolo e dai senatori. Ognuno di loro – con reciproco bilanciamento, esercitando il potere a turno un mese per ciascuno e col vicendevole diritto di veto – avrebbe impedito all’altro di farsi tiranno. Inoltre i due allo scadere del mandato sarebbero stati chiamati a rispondere del loro operato. Dunque, niente più sovrani a vita. Ne avevano avuti abbastanza. Tale proibizione era alla base della rivoluzione politica che portava dalla monarchia alla repubblica, dal principio del capo unico a quello della collegialità nelle cariche. Furono eletti per primi alla dignità di consoli il vendicatore Lucio Giunio Bruto e l’inconsolabile vedovo Lucio Tarquinio Collatino. I consoli indossavano vesti orlate di porpora e sedevano su alti seggi chiamati sedie curuli, simbolo del loro imperium. Collatino apparteneva alla famiglia reale dei Tarquini, e sebbene l’offesa ricevuta per mano di Sesto, che gli aveva stuprato la moglie, ponesse ormai in secondo piano tale consanguineità, il suo nome non fu gradito né al popolo né a Bruto. Così egli si vide costretto a dare le dimissioni. Finiva l’età primigenia del popolo romano nella quale l’Urbe era cresciuta per la tenacia dei cittadini e l’operosità dei primi re. Si erano avuti sette re, anzi otto perché Romolo si era preso come collega il sabino Tito Tazio. Quei sovrani, pur tra loro diversi per carattere e formazione, avevano contribuito alla gloria della città. Un uomo forte come Romolo, dalle origini divine, ne era stato il fondatore senza sottostare a scrupoli; un 59
personaggio religioso come Numa aveva richiamato l’originaria scellerata popolazione al timore degli dèi; un capo pugnace e di grande perizia guerriera come Tullo aveva privilegiato il senso della disciplina negli eserciti; un uomo sensibile ai rapporti umani come Anco ebbe l’idea di costruire il primo ponte sul Tevere; Tarquinio Prisco rivestì di particolare dignità la figura del sovrano e abbellì la città; Servio la cingeva di robuste mura in difesa delle libertà romane; il Superbo affermava l’egemonia di Roma nel Lazio, ma sottoponeva le popolazioni a una tirannia tanto spietata da provocare una reazione che si concludeva con la cacciata dei re. I patrizi, che avevano favorito il rovesciamento della monarchia, continuarono a mantenere la supremazia nel successivo regime consolare repubblicano.
60
Parte seconda
ROMA REPUBBLICANA I fasci Dove i primi due consoli provano a governare. I tribuni della plebe troppo sacri. Nuovi tentativi del Superbo di restaurare la monarchia con l’aiuto di Porsenna. Gli eroismi di Coclite e di Scevola, il patriottismo di Clelia. La prima dittatura. La mediazione di Menenio Agrippa. Timorose l’una dell’altra, Roma e Cartagine firmano un trattato commerciale. Coriolano sconfitto dall’amore filiale. La strana guerra privata dei Fabi e il piccolo campo di Cincinnato. Il sacrificio della vergine plebea Virginia. Brenno fra le oche del Campidoglio. Camillo rifondatore. Il trucco dei campani. Le Furculae Caudine. Pirro e le molte mogli. I romani imparano a remare per affrontare Cartagine. Amilcare, Asdrubale, Annibale e i sogni di Scipione Africano. Il Temporeggiatore. Gli elefanti alle porte di Roma. Catone e le pecore. I romani sedotti da triclini istoriati e drappi di seta. Scipione Emiliano abbatte Cartagine e apre Roma alla dolce vita e ai poeti. L’Africa romana. I gioielli di Cornelia fra riforme agrarie e assassinii. Il rozzo Mario, Silla l’uragano: due mondi in lotta. Silone, il ribelle marsico. Appare un certo Cesare. Roma trema davanti a Sertorio e a Spartaco, etc., etc.
61
I Estirpato dall’Urbe il seme dei Tarquini, il popolo romano si gettò in intensi riti di purificazione per riacquistare una verginità che lo conducesse a nuova vita. I molti sacrifici augurali creavano un clima di rifondazione della città. Immobili, in piedi davanti alle viscere degli animali sacri, tutti i romani, imitando i consoli, giuravano sugli dèi che mai avrebbero richiamato dall’esilio né i Tarquini né i loro discendenti. L’odiosa idea monarchica veniva per sempre scacciata da Roma. Ma poiché la monarchia, nonostante i delitti, li aveva fatti grandi e potenti, si volle salvare almeno il nome di re, istituendo la carica di re delle sacre cerimonie. Il primo dei magistrati cui fu attribuito questo titolo fu Manio Papirio, noto per la profonda serenità d’animo. I consoli lasciarono intatte molte leggi, mentre ne ripristinarono altre che il Superbo aveva abrogato perché libertarie. Tornava così la libertà in Roma. Malauguratamente alcuni esponenti del vecchio regime avevano preso a tramare per ricondurre i Tarquini sul trono. Lo stesso Superbo, che si muoveva tra Gabi e Tarquinia, aveva ripreso i suoi metodi antichi. Creava scompiglio fra le più alte cariche dello Stato, disseminava odi e veleni tra la popolazione, corrompeva magistrati con doni ricchissimi. Chiedeva sommessamente, ma era una finzione, di poter tornare a Roma da privato cittadino, se non altro per discolparsi. Gli restituissero almeno le sue 62
sostanze. Lunghe lacrime gli rigavano il viso e gli bagnavano la barba incolta. Erano false lacrime che egli sapeva far scorrere ad arte, meglio di un consumato attore della Magna Grecia. Bruto era irremovibile nei dinieghi. «Abbiamo giurato!» disse in pieno Foro agli ambasciatori del re deposto che ne chiedevano la grazia. Bruto si era levato in piedi. Il suo volto appariva pacato, il suo sguardo sembrava provenire da lontano, la sua sagoma asciutta e nerboruta si stagliava contro il vento che premendo sulla toga faceva risaltare l’autorevolezza e la dignità del console. Disse ancora: «O degni messi dei vostri indegni padroni, cessate di chiedere il ritorno dei Tarquini. Essi sono stati condannati all’esilio perpetuo, e certamente noi non riapriremo mai per loro le porte di Roma». L’altro console, Collatino, non ancora dimissionario, si mostrava invece più morbido, per quanto colpito direttamente dal suicidio della moglie Lucrezia. Gli ambasciatori presero allora a intensificare le trame in favore dell’esule, ed ebbero perfino il sostegno dei giovani figli di Bruto, Tiberio e Tito Giunio, ancora fervidi sostenitori della monarchia e favorevoli a restituire i beni ai Tarquini. I due ragazzi agivano in maniera tanto sconsiderata da inviare al Superbo alcune lettere di solidarietà in cui illustravano anche i piani per la restaurazione della monarchia. Tiberio e Tito Giunio, che si erano posti al centro della congiura, furono denunciati da uno schiavo, Vindicio, un riccioluto coppiere, sicché le loro lettere caddero nelle mani del padre, Bruto. All’alba, il console sedette in tribunale per aprire i plichi sigillati. Vi riconobbe il simbolo usato dai figli, e senza pronunciare una parola li passò al cancelliere perché ne leggesse 63
ad alta voce il contenuto. A tutti apparve chiaro che quelle lettere rivelassero un tradimento in atto per riportare nella città il terrore. Ormai smascherati, i due ragazzi, incatenati ed esposti al pubblico ludibrio, non cessavano di piangere e di battersi il petto, riconoscendo la loro colpa. Il popolo, commosso, ne chiedeva la grazia. Ma l’irremovibile Bruto pronunciò egualmente la loro condanna a morte mediante flagellazione. Diede ordine ai littori di farla eseguire immediatamente, lì nel Foro, alla sua presenza. Alla flagellazione seguì la decapitazione. Tutti erano in lacrime. Lui solo non batté ciglio, per amor di patria. Come Romolo aveva fondato Roma a sangue freddo, così Bruto nello stesso stato d’animo salvò la repubblica da una restaurazione monarchica. C’erano numerosi altri congiurati in ceppi. In loro favore parlava l’altro console Collatino, sempre più misericordioso. Diceva che la morte appariva una pena eccessiva per i cospiratori, poiché al tiranno si era inflitto soltanto l’esilio. Bruto era sempre più chiuso nei suoi «no», e Collatino gli gridò infuriato: «Visto che tu sei un folle crudele, io, che sono in possesso della tua stessa autorità, libero i prigionieri». Bruto replicò seccamente: «Non riuscirai a liberare i traditori della patria che tu difendi in quanto tuoi parenti, oh Tarquinio. Non ci riuscirai perché tu stesso pagherai la pena che meriti». Collatino non ebbe altra scelta che dimettersi dall’incarico di console, ma ciò non bastava a Bruto che lo obbligava a lasciare Roma. Con ironia gli diceva: «Non considerarti in esilio. Pensa soltanto di aver cambiato indirizzo!». La nuova residenza di Collatino fu Lavinio. 64
Con l’allontanamento di Lucio Tarquinio Collatino, vedovo di Lucrezia e nipote di Prisco, aveva termine il primo consolato di Roma. Bruto chiamò accanto a sé come nuovo console Publio Valerio, che discendeva dai sabini arrivati a Roma con Tito Tazio e che tanta parte aveva avuto nello sventare la congiura del Superbo. Valerio, volendo dare un’idea di quanto fosse amico della libertà, dispose che i littori portassero in città i fasci di verghe, ma senza innalzare le scuri. Volle rappresentarsi più modesto di quanto non fosse stato prima di essere console, per cui scese dalla collinetta della Velia. Abbandonò il gran palazzo che vi possedeva sulla cima, e passò ad abitare in una più modesta casa in pianura. Diceva: «Così potranno tirarmi le pietre dall’alto del colle se non mi comporterò come si deve!». Il nuovo potere consolare pose a morte chiunque avesse preso parte alla cospirazione monarchica contro la città, mentre lo schiavo Vindicio oltre alla libertà ebbe la cittadinanza romana e una grossa somma di denaro. Riconosciuta l’esigenza di riequilibrare la struttura sociale, Bruto e Valerio immisero fra i patrizi quei plebei che, nella difficile situazione, si erano distinti per temperanza e saggezza. Con la morte del Superbo, che avveniva a Cuma, si estingueva la dinastia dei Tarquini. In quello stesso anno, il 495, si consacrava in Roma ai piedi dell’Aventino un tempio a una nuova divinità, Mercurio. Il nome derivava da merx, merce, e celebrava la grande espansione che le attività commerciali avevano avuto nella città. I terreni che erano appartenuti ai Tarquini formavano un’ampia distesa verde. Furono assorbiti dallo Stato e dedicati a Marte, affinché i giovani si esercitassero nell’arte della guerra. Vi si radunavano le centurie, e nasceva 65
così il Campo Marzio. Il farro che era stato personalmente seminato dall’ultimo Tarquinio in quelle terre di cui si era ingiustamente appropriato venne considerato tanto nefasto per le sorti di Roma da vietarne la distribuzione al popolo e da gettarlo nelle acque del Tevere. Come aveva minacciosamente predetto il Superbo, nel cielo di Roma si addensavano nuvole nere. I nemici della città, gli uomini che con i Tarquini ne erano stati allontanati, avevano recuperato nuove forze. Ciò costrinse i romani ad affrontare le truppe degli esiliati e i popoli di Tarquinia e di Veio. Bruto fronteggiava i veienti, grigi nei loro cimieri; Valerio i tarquiniesi, splendenti nelle loro variopinte armature. Dalle schiere nemiche emerse impetuosamente a cavallo uno dei figli del Superbo, Arunte, che inveiva contro Bruto accusandolo di ogni infamia. Anche Bruto era a cavallo, e subito gli si gettò contro. In uno spiazzo della selva Arsia, nel cuore di un folto bosco fra Roma e Veio, entrambi i combattenti, dominati dall’odio, si trovavano armati di lunghe spade. Si lanciarono l’uno contro l’altro in una folle corsa. Il cavallo bianco di Arunte si scontrò frontalmente con il cavallo nero di Bruto. Nella foga del duello, si infilzarono l’un l’altro e caddero ambedue morti. Bruto spirava su Arunte, ed era come se avesse voluto inseguire il nemico nelle oscure distese dell’Ade. Uccidendo Arunte, fratello di Sesto, Bruto si vendicava anche dell’oltraggio patito da Lucrezia. Quello scontro fu il segnale d’avvio d’una furibonda battaglia fra romani ed etruschi che si concluse alla pari fra i due eserciti. Ma gli uomini di Valerio dicevano di essere loro i vittoriosi, e così sentenziava fra gli alberi la voce del dio Fauno. La voce era chiara e sonante come quella di un ruscello che 66
scorra di pietra in pietra e scompaia fra le segrete profondità dei boschi. Il dio aveva detto che gli etruschi, avendo perso un soldato in più dei romani, erano loro gli sconfitti. Bastava un solo soldato a decidere le sorti d’una guerra. Furono contati i cadaveri sparsi sul terreno: gli etruschi avevano perso tredicimila uomini, i romani dodicimilanovecentonovantanove. I romani decretarono grandi onoranze a Bruto. Ne portarono nel Foro il cadavere ricoperto di alloro e di fiori, tra il pianto irrefrenabile delle donne. Ai soldati si offrivano coppe di vino fumante. Valerio, cui veniva tributato il trionfo, pose il cadavere al centro del campo. E, suscitando grande commozione, pronunciò un discorso funebre come non si era mai fatto prima. Il console Valerio, che si adoperava per alleviare i disagi della plebe, introdusse una norma di particolare rilevanza, poiché riconosceva ai condannati il diritto di appellarsi al giudizio del popolo contro ogni sentenza. Una mattina davanti a una folla di increduli patrizi e di eccitati plebei affermò con vigore: «Se un magistrato vorrà che un romano sia messo a morte, frustato o multato, i privati cittadini possono convocare in giudizio quel magistrato davanti al popolo. Il suddetto cittadino non sarà intanto passibile di pena di morte fino a quando il popolo non avrà espresso in proposito il suo giudizio». Grati, i plebei aggiunsero ai nomi di Publio Valerio l’appellativo di Publicola, che era come dire Valerio «in favore del popolo». Il console Valerio, morto Bruto, tardava a indicare il nome del nuovo collega, e ciò induceva il popolo a sospettare che egli stesse tramando per farsi re. Non poteva perdere altro tempo, per cui convocò l’assemblea delle centurie, dalla quale uscì eletto console l’anziano Spurio Lucrezio, il sempre addolorato padre di 67
Lucrezia e suocero di Collatino. Spurio era un uomo meritevole, ma in quella carica non durò che pochi giorni, colto da una malattia mortale. Gli successe Marco Orazio Pulvillo cui, per sorteggio fra i due consoli, spettò su Valerio la consacrazione del tempio di Giove Massimo in Campidoglio. I familiari di Valerio si opponevano a questa decisione, e cercarono di ostacolarla per vie traverse. Difatti, mentre il console con la mano sulla porta del tempio era intento a recitare le preghiere connesse al rito, emisero un grido: «Pulvillo, ti è morto un figlio!». Quel grido aveva un senso ben preciso. Secondo la consuetudine, a chiunque fosse stato colpito da disgrazia non era consentito compiere consacrazioni. Pulvillo non se ne diede per inteso, e freddamente esclamò: «Gettatene il cadavere», sospettando un trucco.
68
II Il Superbo, che non demordeva dall’idea di riconquistare il regno e di restaurare la monarchia, ottenne l’appoggio di un coraggioso quanto arrogante condottiero etrusco, Lars Porsenna, re di Chiusi, Clusium, una invitta e prospera rocca che sorgeva a nordest di Roma su un fiume tributario del Tevere. Spronato dal Superbo, questo re assai forte tenne a lungo Roma sotto assedio riuscendo con un’abile operazione strategica a occupare il Gianicolo, sulla sponda destra del Tevere. Per non perdere in quel grave frangente il sostegno della popolazione, i consoli alleggerirono le tassazioni, distribuirono grano ai più poveri e istituirono il monopolio statale del sale sottraendolo ai privati, troppo esosi. L’esercito di Porsenna premeva vittorioso sul fiume. Certamente sarebbe riuscito a passare il ponte Sublicio se un animoso comandante romano, Publio Orazio, non lo avesse trattenuto per dare il tempo ai compagni di abbattere il ponte e quindi di impedire che le truppe di Porsenna si riversassero sulla città, sul Campidoglio e sul Palatino. Gli assalitori non credevano a ciò che vedevano. Chi era quel forsennato che da solo menava colpi all’impazzata e che, urlando, li chiamava servi di re tiranni? È certamente un pazzo, dicevano, uno stolto in cerca della morte, tanto più che è cieco da un occhio. 69
Quel Publio Orazio apparteneva alla tribù dei luceri, e veniva chiamato Coclite, per aver perso un occhio in battaglia. Le schiere di Porsenna cercavano di colpirlo con le spade, e poi con i giavellotti, poiché enorme era ormai il mucchio di cadaveri che li separava da quell’incredibile romano. Al termine della fortunata impresa, Orazio, raccomandandosi al dio Tiberino, si gettò nelle acque del fiume e ancora con le armi addosso raggiunse a nuoto l’altra riva. Insanguinato, i commilitoni lo accolsero riconoscenti con grida di evviva. Publio Orazio discendeva da uno dei tre gemelli che avevano sconfitto i Curiazi di Alba Longa. Era già famoso per la sua temerarietà, ma la prodezza sul ponte che aveva salvato Roma fece di lui un eroe dalla gloria imperitura. Lo festeggiarono a lungo, gli tributarono onori, gli donarono terreni, gli elevarono per gratitudine una statua nel Foro. Fra tanto lustro, le ferite lo avevano reso zoppo. Egli era dunque un eroe che zoppicava e che non ci vedeva bene. La città era sempre sotto l’assedio dei soldati di Porsenna. Già mancavano i viveri alla popolazione, quando si fece avanti un altro coraggioso comandante romano, Muzio Cordo, pronto anche lui a morire per la patria nel compimento di memorabili imprese. Dotato di una impareggiabile forza d’animo e di una intelligenza superiore, annoverava nella propria famiglia antenati illustri. Muzio si fece avanti in un giorno assai triste. Il sole era velato di viola. Il giovane chiese di parlare ai senatori. «Padri» disse loro quando ebbero preso posto nella Curia «ho in animo di tentare un’impresa che potrà liberare Roma dai presenti mali. Ho una grande fiducia nel successo del mio piano e penso che riuscirò a condurlo a termine. Per quanto riguarda 70
invece la mia vita ho poche speranze di sopravvivere, o meglio, per essere sincero, non ne ho alcuna. Sono perciò pronto a cambiare questo mio corpo mortale con una gloria imperitura.» Poi aggiunse: «Voglio fingermi disertore e penetrare nell’accampamento nemico al di là del Tevere. Se, scoperto, venissi ucciso non perdereste che un solo uomo. Ma se riuscissi a confondermi fra gli etruschi, vi giuro che sarò capace di uccidere Porsenna. Morto lui, la guerra avrà fine. Per me sia quel che sia!». Partì senza neppure ascoltare i senatori che, impietositi, volevano trattenerlo, mentre lui allontanandosi diceva di conoscere la lingua del nemico per averla imparata da una nutrice etrusca. Riuscì a penetrare nel campo nemico senza destare sospetti, e si trovò alla presenza di un personaggio che egli scambiò per Porsenna perché avvolto nella porpora. D’impeto trasse dal mantello un corto pugnale e colpì l’uomo alla gola. In quello stesso istante intuì di aver sbagliato bersaglio. Difatti, catturato in un lampo dalle guardie, fu trascinato al cospetto di Porsenna che si trovava sotto una grande e sontuosa tenda di cuoio. L’uomo da lui pugnalato non era il re, come aveva erroneamente immaginato, ma soltanto un suo segretario. Porsenna era su tutte le furie. Rosso in volto, con gli occhi iniettati di sangue, appariva in quel momento più imponente di quanto in realtà fosse: un ometto dagli occhi a mandorla che di maestoso aveva soltanto la pancia. Muzio Cordo era calmo. Senza tradire il minimo tremore ammise spavaldamente di essere penetrato nel campo nemico con il proposito di uccidere Porsenna che tentava una restaurazione etrusca in Roma. E aggiunse: «Sono romano e 71
illustre. Mi ha spinto qui il desiderio di liberare la mia patria. Ma poiché la mia mano ha sbagliato il colpo, io stesso ora la punisco». Impassibile, così dicendo mise la mano destra sul fuoco dell’altare dei sacrifici e ve la tenne fino a quando le fiamme non l’ebbero consumata completamente. Il gesto straordinario impressionò enormemente il re, il quale mostrò interesse a quanto quell’uomo, che si rivelava più forte del fuoco, si accingeva ancora a dire: «Non intendo sfuggire al mio destino di morte, ma voglio rivelarti, o Porsenna, qualcosa che, se mi salverai dalle torture, potrà servire alla tua sicurezza». Nessuno poteva sospettare che queste parole nascondessero in Muzio l’astuzia che segnava il carattere dei romani. Eccitato e incuriosito, Porsenna giurò che le torture gli sarebbero state risparmiate. Allora Muzio incalzò: «O re, sono ammirato dalla tua generosità. Mi hai salvato la vita, e io per riconoscenza ti svelerò una cosa che sotto tortura non ti avrei mai detto. Devi sapere che trecento romani, tutti della mia stessa giovanile età e tutti patrizi, si sono segretamente riuniti. Anch’io ero fra i trecento. Tutti insieme abbiamo solennemente giurato di ucciderti, scambiandoci un pegno d’onore. Tirammo a sorte, e il mio nome fu estratto per primo. Ecco perché ora mi trovo davanti a te nel tuo accampamento. Io ho sbagliato bersaglio, ma altri avranno certamente più fortuna di me. Non so se potrai guardarti da tutti quei giovani i quali quanto me sono pronti a ucciderti per salvare la patria. Qualcuno dei rimanenti duecentonovantanove congiurati riuscirà certamente nel proposito di penetrare nel tuo campo e di sopprimerti». Il piano svelato esisteva soltanto nella fantasia di Muzio, ma la falsa rivelazione avrebbe dovuto far tremare di spavento il re. 72
Così avvenne. Porsenna, avendo peraltro ammirato quel giovane per il sacrificio personale compiuto alla sua presenza con grande forza d’animo, lo restituì alla libertà. Muzio Cordo tornò a Roma come un eroe, e da quel giorno i romani per onorarlo lo chiamarono Scevola, cioè mancino, e non più Cordo. Il figlio di Porsenna, a sua volta assai impressionato, disse che a quel punto bisognava preoccuparsi più della sorte del re di Chiusi che della restaurazione dei Tarquini a Roma. Il tentativo di riportare gli etruschi nell’Urbe poteva considerarsi fallito. Andava perciò cercata una via di accomodamento. Si intavolarono trattative che prevedevano la consegna di ostaggi romani, comprese dieci fanciulle, a garanzia degli accordi raggiunti. Una di quelle ragazze, la vergine Clelia, progettò un ardito piano di fuga. Si avvicinò alle guardie pregandole di consentire a lei e alle compagne di bagnarsi brevemente nelle acque del fiume per liberarsi dalla polvere che da giorni le abbrutiva. Le guardie dettero l’assenso e si allontanarono, ma non molto, perché le ragazze potessero svestirsi e immergersi non viste nel fiume. Il campo etrusco si trovava sulla destra del Tevere, e di lì le ragazze appena libere si gettarono nelle acque burrascose. Attraversarono il fiume a nuoto sfidando la morte che si annidava in ogni gorgo. I senatori romani, e soprattutto il console Publicola, vollero fare però il bel gesto di restituire le fuggitive fanciulle a Porsenna. Ciò era particolarmente doloroso per Publicola, poiché tra le giovani riconsegnate al nemico c’era anche una sua figliola, Valeria. Porsenna, conquistandosi la generale ammirazione, decise di liberarle. Roma accolse con solenni 73
festeggiamenti l’eroica patriota Clelia, e in suo onore elevò una bronzea statua equestre sulla via Sacra, a spese dei padri delle fanciulle da lei salvate. Terminava così onorevolmente per entrambi i contendenti la guerra che aveva contrapposto i romani agli etruschi di Porsenna. Se leale e generoso era stato il re, i romani non vollero essere da meno, e difatti inviarono in omaggio al vecchio nemico un trono d’avorio, una corona d’oro e una tunica trionfale. Porsenna gradì il dono poiché amava qualunque cosa fosse fatta d’oro. Ormai avanti negli anni e sentendo prossima la fine, aveva chiamato attorno a sé i migliori orafi etruschi e romani perché gli preparassero un sarcofago d’oro sotto forma d’una biga trainata da dodici cavalli anch’essi d’oro. Sulla biga doveva erigersi la sua statua, naturalmente d’oro, che lo rappresentava nella posa del conquistatore onorato con un trionfo. Erano d’oro anche la chioccia e i cinquemila pulcini, che parevano svolazzare e muoversi come dotati di alito vitale, posti al seguito del feretro in una fantasiosa sfilata funebre. Perduto il sostegno di Porsenna, il Superbo corse a rifugiarsi nella città di Tuscolo, presso il potentissimo suocero Ottavio Mamilio che ne era il padrone. Si diceva che Mamilio appartenesse alla stirpe di Ulisse, discendendo da Telegono, un figlio che l’avventuriero greco aveva avuto con Circe. L’alleanza fra il Superbo e il signore di Tuscolo fu come una scintilla nel cuore dei latini, che insorsero tutti contro Roma, certi di poter ottenere l’indipendenza. Avevano costituito una Lega latina fra trenta città, fra le quali Tivoli, Tuscolo, Aricia, Ardea, Pomezia, Lanuvio, e i loro rappresentanti si riunivano nel tempio di Diana alle porte della città di Nemi contrapponendolo a quello 74
che i romani avevano costruito sull’Aventino. Un autorevole personaggio di Aricia, Turno Erdonio, aveva cercato di osteggiare il Superbo sulla strada del predominio nella Lega latina. Erdonio aveva ragioni personali per contrastare il Superbo, il quale non gli aveva concesso la figlia preferendogli Mamilio. Tuttavia Tarquinio trovò il modo di eliminarlo dalla scena. Fece trovare nella casa di Erdonio spade e pugnali per far credere che stesse preparando un attentato ai suoi danni. Questo bastò perché il mancato genero venisse annegato nelle acque della fonte Ferentina.
75
III I sabini, che sempre meno sopportavano la crescente superiorità di Roma, erano i principali sobillatori dei popoli latini che così tenevano in agitazione i territori della città nemica depredandone raccolti e armenti. Roma, dopo aver tentato inutilmente un’intesa, si vide costretta a reagire con guerre e guerricciole. Lo sforzo bellico imponeva gravi sacrifici alla popolazione, e la plebe aveva cominciato a tumultuare pericolosamente anche perché, pur avendo avuto un ruolo decisivo nelle battaglie, paradossalmente decadeva sempre più a rango servile. Si avevano i primi accenni di un malcontento sociale che rischiava di infrangere la compattezza del tessuto cittadino. Da sinistri segnali, si avvertiva che per i romani il successo nelle guerre esterne stava per essere compromesso dagli scontri sociali interni. Il Senato non sapeva più come dominare la crisi. Decise allora di affidare la soluzione delle difficoltà a un magistrato che disponesse di un potere superiore a quello di ogni altra autorità, compresi i senatori e i consoli. Quel magistrato, pur durando in carica soltanto sei mesi, assumeva nelle proprie mani tutti i poteri della città. Egli era un dittatore, sicché il Senato, che combatteva contro le tirannidi, usava in queste sue guerre un tiranno. A svolgere questo ruolo fu scelto Tito Larcio, che era stato console, e a buon diritto sentì di essere il primo dittatore di Roma, dictator, magister populi, con la strana contraddizione 76
che la sua era una carica dispotica ed elettiva. Soltanto la durata temporanea della straordinaria magistratura metteva al riparo i cittadini da rigurgiti di assolutismo monarchico. Per dare un’idea di quanto forte fosse il suo potere, Larcio annullò una decisione che era stata presa da Valerio Publicola, quella che imponeva ai littori di portare in città i fasci di verghe senza che innalzassero le scuri. Quindi ripristinò l’antica usanza monarchica per cui i littori tornarono a far mostra delle asce in città, in una silenziosa minaccia di morte. Le verghe erano di olmo o di betulla, e venivano tenute insieme da cinghie rosse. Col proposito di avere un quadro della popolazione per tenerla maggiormente sotto controllo, indisse anche lui un censimento come aveva già fatto Servio Tullio, pur con intendimenti diversi. Da quella indagine seppe che i romani adulti ammontavano a centocinquantamilasettecento unità. Non sembrava vero, ma anche Larcio rispettava le regole, e difatti depose la dittatura ancor prima che scadessero i suoi sei mesi. La carriera di Larcio non finiva lì; infatti si ritrovò in prima linea nelle interminabili guerre che, caduta la monarchia, i popoli vicini portavano con vigore contro Roma. Gli equi, quei montanari primitivi e rapaci che erano sparsi nelle valli dell’Aniene superiore, si allearono strettamente ai volsci che abitavano nella media valle del Liri. Insieme assediarono Roma. Da anni tramavano nell’ombra con l’idea di contrapporsi al crescente potere dell’Urbe. Erano alfine usciti allo scoperto, e per i romani la situazione militare si era fatta disperata. Il Senato giudicò che fosse arrivato il momento di affidarsi ancora una volta all’autorità di un dittatore, il solo che avrebbe potuto muoversi rapidamente e liberamente, secondo le 77
emergenze, senza dover rendere conto a chicchessia dei propri atti bellici. Si era del resto verificato un evento che i romani avevano giudicato beneaugurante, come voluto dagli dèi. Molti giavellotti erano apparsi conficcati in terra presso le tende, e una notte all’improvviso le loro punte avevano preso fuoco, illuminando l’intero campo. Fu sotto quella luce che si scelse come dittatore Aulo Postumio, il quale, invaso da spirito divino, si pose alla testa dell’esercito per affrontare il temibile nemico. Anche in questa battaglia, come in altre, non si ebbero né vinti né vincitori. Ma i romani un risultato in realtà lo raggiunsero, poiché dovettero passare tre anni prima che i loro eterni avversari potessero riprendere a combatterli. Gli eserciti della Lega latina erano già schierati nei pressi del piccolo lago Regillo, ai piedi delle colline di Tuscolo. In mezzo ai soldati della Lega emergeva l’alta figura del Superbo, loro alleato, il quale, sebbene assai vecchio, sperava ancora di riacciuffare il trono. S’ingaggiò una furiosa battaglia, e le sorti dello scontro si annunciavano sfavorevoli ai romani. Essi disponevano di ventiquattromilasettecento soldati contro i preponderanti latini e alleati, compresi i volsci che provenivano da Anzio, e che ammontavano a quarantatremila unità. Anche Postumio, che era stato eletto console ma che avrebbe preferito ascendere per la seconda volta alla dittatura, cercava di incitare alla battaglia i soldati con vibranti parole. «Volete tornare sotto la tirannia dei Tarquini e rendere nuovamente schiava la vostra patria?» diceva. Le legioni si rianimarono e si diedero a combattere con maggior vigore, tanto che lo stesso Superbo fu stretto da presso e ferito a un fianco con un colpo di spada. Ma i romani poterono vincere soltanto perché 78
improvvisamente alla testa del loro esercito, come tutti testimoniarono, erano accorsi due baldi e aggressivi cavalieri. Quei giovani altri non erano che Castore e Polluce, figli gemelli di Giove e Leda, belli e luminosi sui loro bianchi cavalli. Al termine dei combattimenti i cavalli grondanti di sudore, con ancora in groppa i due celesti eroi, corsero ad abbeverarsi alla fonte dedicata alla dea Giuturna, la consorte di Giano, a ridosso del Palatino. Gli esiti di questi scontri indussero Roma e la federazione latina a sottoscrivere nel 493 un trattato di alleanza che, dal nome del console Spurio Cassio, fu detto Foedus Cassianum. Nel Foro, come i Dioscuri meritarono un tempio accanto a quello di Vesta accentuando l’influenza ellenica su Roma, così si elevò una colonna di bronzo con il testo del patto che assicurava il mantenimento di una pace perpetua nel Lazio attraverso la mutua assistenza militare a parità di condizioni. Il trattato aveva un incipit solenne: «Ci sia pace reciproca fra i romani e le città della Lega latina fino a quando cielo e terra manterranno la stessa posizione». Il trattato dimostrava come fosse indebolita e non più preminente la posizione dei romani. Tuttavia, essendo Roma ancora la controparte delle altre città latine della Lega, non se ne poteva esagerare la retrocessione. Erano trascorsi quindici anni dalla fine della monarchia. Il popolo romano aveva generosamente offerto i suoi soldati nelle guerre, ma il Senato e i patrizi non rispettavano gli impegni assunti per ripagarne i sacrifici. La situazione economica era obiettivamente difficile. Il territorio di Roma si era contratto sotto gli attacchi dei popoli vicini, e al tempo stesso l’egoismo delle classi abbienti era cresciuto. I creditori non davano tregua 79
ai più poveri: li potevano picchiare, vendere come schiavi o ucciderli. Un giorno, tra la folla del Foro un uomo che era stato centurione nell’esercito si mise a urlare a squarciagola. Era vecchio negli anni e lacero negli abiti, aveva i capelli lunghi e la barba incolta. «Io» cominciò a dire «sono nato libero. Ho combattuto in ventotto battaglie ottenendo molti premi al valore. Poi per la nostra città arrivarono i tempi delle carestie e dei debiti. Mi spillarono tributi esosi, e io per pagarli dovetti caricarmi di debiti. Inoltre la mia casa e il mio podere erano stati devastati dalle incursioni del nemico, e io, per ricostruire la casa e per risanare il podere, chiesi un prestito a un patrizio. Non fui in grado di restituire il denaro, e quel crudele creditore mi picchiò e mi ridusse in schiavitù. Eccomi qui, ve ne dò le prove.» A queste parole il vecchio centurione si strappò di dosso le sudice vesti, sicché tutti poterono vedere quanto le sue carni fossero tormentate da profonde cicatrici. All’istante, fra la plebe, chiunque fosse stato ridotto in schiavitù per debiti si riconobbe nelle piaghe di quell’uomo, e giurò di stringersi a ogni altra persona misera per porre fine alle comuni disgrazie. La coesione popolare, che aveva fatto grande la città, minacciava di cedere all’anarchia. Il Senato degli aristocratici e dei nobili, gretti ed egoisti, non aveva tenuto in alcun conto la gran massa della povera gente, e ora tutti coloro che erano diventati schiavi per debiti si dicevano pronti alla ribellione. Il Foro fu rapidamente invaso da un gran numero di uomini nati liberi ma diventati schiavi, di famiglie che avevano perso la terra, di soldati ridotti in miseria. Il console Publio Servilio, gettando lontano da sé in segno di umiltà la toga purpurea, si 80
mise a implorare a una a una tutta quella povera gente che, in preda alla follia, andava agitando asce insanguinate. «Non siate insensati, Roma ha bisogno di voi!» gridava. Dalla riva destra del Tevere, i veienti premevano sulla città. Alcuni messi, arrivati a cavallo nel Foro, annunciavano che molti soldati volsci erano già ai confini meridionali. «Come vincere così disuniti!» esclamava Servilio. Promise che, se i romani avessero risposto alla leva e ripreso le armi, non si sarebbe più consentito ai creditori di imprigionare i debitori. Riuscì fortunosamente a sedare il terribile rischio d’una guerra civile e a ottenere una breve tregua. Dopo di che portò Roma alla vittoria. Arrivava in città una delegazione del popolo aurunco. Gli aurunci erano i possessori della fertile regione che si trovava a sud dell’Urbe e che i romani chiamavano Campania felix. Quel popolo chiedeva la restituzione di un territorio sottratto da Roma ai volsci e abitato dagli ecetrani. Il Senato romano oppose un diniego alla richiesta. «Non temiamo di scontrarci con gli aurunci. Anzi, se batterci con loro è utile alla nostra supremazia, eccoci pronti a prendere le armi» così dissero con baldanza i senatori, e ne sortì una guerra che si concluse con la conquista di Aricia a dispetto dei sommovimenti popolari. Malvagiamente i romani, pur salvando la vita ai soldati sconfitti, li azzopparono frantumandone le ginocchia. I plebei più poveri avevano ripreso a tumultuare nel Foro. Aggredivano i magistrati nelle vie della città come reazione al comportamento antiplebeo del console del 493, Appio Claudio, un nobile sabino che si era fatto romano. Questi, in odio al collega Publio Servilio e per non voler cedere alle rivendicazioni 81
popolari, aveva ripreso a maltrattare i debitori. L’instaurazione della repubblica aveva danneggiato le classi più deboli. Le aveva private della protezione dei re che si appoggiavano a loro per contenere l’avidità dei patrizi. La protesta dei plebei si estendeva ai soldati, e si ampliò al punto da sfociare in una secessione che aveva alla base il rifiuto di arruolarsi nella nuova guerra contro gli equi. La secessione minacciava di prendere una cattiva piega. L’evento era stato preparato di nascosto e attentamente in luoghi segreti, nel buio delle notti. Un personaggio fino a quel momento sconosciuto, di natali non chiari, era emerso dal nulla e si era messo ad aizzare i soldati perché prendessero la strada della secessione. Si chiamava Sicinio Belluto. Diventato il comandante dei ribelli, ai consoli che cercavano di indurlo a più miti consigli con l’annuncio che gli equi e i sabini indomiti stavano nuovamente per attaccare Roma, replicò con un fermo discorso assai applaudito dai rivoltosi. Disse: «Patrizi, soltanto ora vi accorgete di noi! E richiamate in patria coloro che avete ridotto in schiavitù. Ci avete costretti alla fuga. Se volete essere i soli a comandare in città, ebbene rimaneteci da soli e da soli affrontate il nemico. Noi secessionisti non vi disturberemo più. La nostra patria è in ogni luogo dove si possa godere della libertà». Quei soldati lasciarono rumorosamente le file dell’esercito e si radunarono su una collina fuori della città, oltre il fiume Aniene. In massa i plebei ne seguirono l’esempio raccogliendosi a loro volta su quel monte. Arrivò ogni tipo di gente, sia in buona fede, ma anche chiunque avesse qualche conto aperto con la giustizia, e soprattutto nullatenenti e nullafacenti. Chiedevano a gran voce la cancellazione dei debiti e la liberazione di 82
chiunque, per debiti non pagati, fosse finito in carcere e in schiavitù; reclamavano una diversa assegnazione di terre e il diritto di eleggere propri magistrati. Se non fossero stati ascoltati non sarebbero più tornati a Roma e avrebbero fondato su quel monte una città di plebei. Roma si trovava di fronte a una secessione popolare densa di pericoli, poiché i popoli etrusco-laziali attaccavano più che mai la città ora che le era arduo difendersi. Il Senato inviò ambascerie presso i secessionisti per indurli alla ragione e perché tornassero nelle loro case. Ogni sforzo di convincimento fu vano, mentre senatori e patrizi morivano di paura per le possibili conseguenze della situazione in cui si erano cacciati. Nessuno aveva più fiducia non soltanto nel disumano Appio Claudio, dichiaratamente nemico dei deboli, ma nemmeno in Publio Servilio, che aveva dimostrato di non possedere la forza e la capacità necessarie per reagire. La città era terribilmente assediata dagli eserciti degli equi e dei volsci, aeterni hostes, e non poteva più ricevere rifornimenti dall’esterno. Né rispondevano alla chiamata militare i giovani. Si temeva perfino che i plebei potessero unirsi al nemico e si disponessero a devastare la città, dominati da un irrefrenabile odio di condizione sociale. Erano saliti al potere due nuovi consoli. A Roma sempre si accapigliavano fra chi avrebbe voluto tendere una mano ai plebei e chi si confermava loro irremovibile avversario. Il nemico si faceva sempre più minaccioso. Si dovette ricorrere alla nomina di un nuovo dittatore. Per questa difficile carica fu scelto Marco Valerio, il quale, essendo figlio di Publicola, non avrebbe suscitato l’ostilità dei plebei. Sebbene non più giovane, 83
Marco era dotato d’una grande presenza di spirito rivelata a prima vista dai suoi occhi profondi e scuri, dal taglio regolare delle labbra e dalla fronte larga. Pur avendo avuto notevoli successi con i nemici esterni promettendo protezione ai plebei in armi, Marco, per la rinnovata opposizione di Appio Claudio, non fu in grado di mantenere le promesse, sicché deluso lasciò in breve la dittatura. Nel campo dei plebei l’eccitazione montava, simile a una notturna febbre selvaggia. Molti non volevano neppure dare ascolto agli ambasciatori del Senato. Sprezzante emergeva un plebeo che, chiamandosi anche lui Lucio Giunio come il grande fondatore della repubblica, aveva aggiunto ai propri nomi quello di Bruto per somigliare più che mai al rivoluzionario. Questo falso Bruto istigava il comandante del campo secessionista Sicinio Belluto perché non si avesse più alcun contatto con Roma e se ne scacciassero malamente gli importuni ambasciatori.
84
IV Ogni cosa si faceva più difficile. Emerse allora un personaggio assai noto e saggio, Menenio Agrippa, che già era stato console e che aveva ottenuto un trionfo, sebbene provenisse dalle file della plebe. Poté essere console perché quando fu eletto a quella carica era ancora possibile che un plebeo vi assurgesse. Poi i patrizi riuscirono ad assicurarsi in modo esclusivo le magistrature più alte con una vera e propria serrata. Menenio era un uomo assai bello, slanciato ed elegante. Aveva mani affusolate, occhi di un azzurro cupo e una barba già bianca benché non fosse troppo avanti negli anni. Scosso dalla gravità della situazione, si alzò a parlare nell’aula del Senato. Come sempre a ogni suo discorso, anche quella volta tutti si predisposero ad ascoltarlo con attenzione. Disse: «Vi rivolgo un interrogativo, patres. Come potete pensare che una grande città qual è la nostra, una città che suscita invidia nei popoli vicini, possa mantenere in suo potere altre nazioni maltrattando la plebe? Voi avete sfruttato i poveri, e loro si sono ritirati su un monte per vivervi autonomamente senza tramare nulla contro la città. Né si sono uniti ai nostri nemici come avevate temuto». S’interruppe per fare una delle lunghe e intense pause che lo avevano reso famoso, quasi più delle sue parole. Quindi riprese a dire: «Gli equi, i volsci, i sabini, gli ernici devastano le nostre campagne. Rialzano la testa mentre noi, rinchiusi entro le nostre mura, stiamo a discutere sulle colpe dei plebei e aspettiamo che 85
siano loro a prendere l’iniziativa per riconciliarsi con noi. La nostra situazione all’esterno è pericolosa né è meno pericolosa quella interna. Gli approvvigionamenti sono quasi esauriti. Come non invitarvi perciò a una riappacificazione? Inviamo a parlamentare con i secessionisti alcuni ambasciatori che possano discutere richieste e assumere impegni. Il loro sarà un compito difficile in quanto i plebei non credono nei nostri buoni propositi. È fatale che sia così perché finora hanno soltanto udito vaghe parole e mai hanno avuto fatti concreti. Ma noi abbiamo il dovere di tentare». Un grande clamore si accese intorno a questo discorso nel Senato e nelle piazze. Tutti riconoscevano che Menenio si adoperava attivamente per fronteggiare le agitazioni e riportare nell’Urbe la pace sociale, perciò i senatori lo misero alla testa della delegazione che doveva trattare con i secessionisti per farli tornare a Roma. Arrivato al campo, lui cominciò subito a parlare con i ribelli. Nel muoversi lentamente tra la folla, disse: «Noi siamo stati inviati qui dal Senato non per difendere i patrizi né per accusare voi, ma per riportare la pace nella nostra città». Quindi avanzò alcune proposte che anzitutto tendevano a risolvere la questione dei debiti. «Scrivete qui di vostro pugno le vostre richieste, e il Senato le accetterà» disse ancora, ma nessun fremito, o grido, o gesto fece seguito alle sue parole, e gli ambasciatori, ancora presenti al campo, furono presi dal timore che quella turba silenziosa di ribelli potesse da un momento all’altro assalirli e trucidarli. A un tratto Menenio Agrippa parve illuminarsi. Riprese a parlare dopo essersi tranquillamente seduto su una grossa pietra da cui dominava l’uditorio. Tutti lo guardavano rapiti, come se 86
fossero davanti a un oracolo celeste. Menenio aveva imboccato la strada della mediazione, e si accingeva a raccontare un apologo inteso a dimostrare come tutti, patrizi e plebei, fossero necessari alla salute dello Stato. Disse: «Uno Stato somiglia a un corpo umano. Sia l’uno sia l’altro sono composti di più elementi che svolgono funzioni diverse ma tutte necessarie al complessivo benessere. Immaginiamo che taluni elementi del corpo – le braccia, i piedi, il cervello – stanchi di lavorare dicano al ventre che vedono inoperoso: “Ma tu, caro, che cosa fai? Tu ci costringi a servirti mentre te ne stai in panciolle!”. E per rendere concreta la loro protesta, le membra smettono di svolgere le proprie funzioni pensando di far dispetto al ventre. Avviene però che dopo pochi giorni si ritrovano loro e tutto il resto del corpo sul punto di morire. Allora capiscono che il ventre svolgeva a sua volta una funzione, meno visibile, ma altrettanto utile per tenere tutti in vita. La stessa cosa vale per lo Stato. Se chi coltiva i campi e imbraccia le armi smettesse un giorno di svolgere i propri compiti e irritato si rivolgesse al Senato, che crede ozioso, per chiedergli “Ma tu che cosa fai?” provocherebbe la fine dello Stato, e anche la propria». I secessionisti apparvero persuasi da queste parole, e già stavano per tornare a Roma quando il falso ma risoluto Bruto volle che Menenio prendesse impegni precisi, tali da modificare la condizione giuridica ed economica della plebe. Il luogo della secessione prese il nome di Monte Sacro poiché su di esso si erano finalmente riconosciuti ai plebei importanti diritti, soprattutto quello di farsi rappresentare e difendere da due loro esponenti che avrebbero affiancato i consoli patrizi. Si istituivano cioè i tribuni della plebe, annuali e inviolabili, eletti 87
dai plebei nei comizi tributi. I primi a ricoprire la nuova carica furono Caio Licinio e Lucio Albino. Sempre quel Bruto impose un giuramento sull’intoccabilità dei nuovi magistrati: «Nessuno costringa un tribuno della plebe a fare alcunché contro la propria volontà, né lo frusti né lo uccida. Chiunque fra i cittadini uccidesse i colpevoli di questi reati non sarà accusato di assassinio». Tutto divenne sacro in quella occasione, non solo il monte. Sacre furono le leggi che sancivano l’evento e sacre le persone dei tribuni. Era il 494 prima di Cristo. I tribuni non avrebbero fatto parte del Senato, ma avevano la possibilità di opporsi, mediante il diritto di veto, a qualsiasi decisione dei patres che fosse sfavorevole ai loro protetti. Le abitazioni dei tribuni plebis dovevano rimanere aperte giorno e notte perché in qualsiasi momento si potesse chiedere il loro intervento. Essi, a differenza dei consoli, non sedevano sulle sedie curuli, ma su semplici panchetti, né avevano manti orlati di porpora. Sui plebei albeggiava la libertà. La loro vittoria era così grande e così socialmente rivoluzionaria che sul Monte Sacro si eresse un prezioso altare a Giove, Iuppiter Territor. Per Menenio Agrippa invece, morto in miseria, non riuscirono a pagare le spese della sepoltura se non con una colletta. La vittoria della plebe, ottenuta con la minaccia di una secessione, salvava Roma dalla crisi sociale che i patrizi avevano provocato con la loro avidità. A lungo avevano impunemente trattato i debitori come schiavi, li avevano frustati, incarcerati e uccisi. Ora per Roma aveva inizio la seconda fase della sua esistenza, una sorta di adolescenza che le avrebbe consentito di 88
riprendere una espansione coraggiosa e pur tuttavia troppo sanguinosa.
89
V L’anno primo dell’era repubblicana coincideva con il 509 a.C. Erano trascorsi due secoli e mezzo dalla fondazione dell’Urbe. L’autorevolezza di quella straordinaria città – una Roma che i re etruschi avevano contribuito a fare grande – era un fatto assodato. Le sue conquiste apparivano una esigenza storica. Se ne avvide anche la non meno autorevole Cartagine che, sfruttando la predisposizione del suo popolo per il commercio, dominava con una ragguardevole flotta l’immenso mare Mediterraneo e le terre settentrionali africane. I romani invece mostravano una maggiore predilezione per l’agricoltura, e limitavano il loro prepotere alla penisola italica. In queste condizioni le due città decisero di sottoscrivere, sotto il consolato del primo Bruto e di Marco Orazio, un trattato commerciale di navigazione per delimitare con minuzia le rispettive zone di influenza. I romani avrebbero evitato di avvicinarsi con le loro imbarcazioni alla costa africana e ad altre coste indicate con esattezza, e i cartaginesi non avrebbero impiantato colonie nei territori laziali né in Campania. Si indicavano i nomi dei luoghi proibiti: Ardea, Anzio, Laurento, Circei, Terracina. Altre clausole riguardavano sia l’emergenza degli accostamenti consentiti in caso di tempeste, sia la durata massima delle eventuali riparazioni delle navi nei porti in cui si erano dovute rifugiare. Nonostante l’indiscussa potenza di Roma, il trattato 90
equivaleva a un atto di debolezza della repubblica che accettava di rinchiudersi nelle proprie acque per non offendere Cartagine. In realtà l’Urbe, rovesciata la monarchia, aveva altri nemici più vicini dai quali guardarsi: gli etruschi, i volsci, gli equi. Tutti si battevano per l’indipendenza. L’ottenevano, per cui il dominio di Roma si restringeva. Ma presto ricominciava da parte romana un lento recupero della potestà perduta, sempre a costi umani molto alti. Si accese una grande battaglia contro i volsci. I romani ne accerchiavano la capitale, Corioli, tra i monti Albani e il mare. I volsci, sebbene ricevessero manforte dalla città di Anzio, furono battuti da un giovane ed eminente generale romano di origini sabine, Caio Marzio, il quale, per aver conquistato Corioli, che pure si era eroicamente difesa, meritò il soprannome di Coriolano. Gli offrirono anche uno splendido cavallo da guerra, dieci schiavi e una grande quantità di argento. Lui non prese che il cavallo e uno schiavo. «L’argento non lo voglio» disse «mi sembrerebbe più di essere pagato che onorato!» I senatori lo avrebbero voluto console, ma non riuscirono nell’intento poiché lui, da patrizio irremovibile nell’accesa lotta di classe, si era messo in urto con i plebei divenendo ai loro occhi il più esecrato personaggio di Roma. La città soffriva di una grave e lunga carestia. Come e a chi distribuire il poco farro disponibile? Se ne doveva o no dare gratuitamente una certa quantità ai più poveri? Coriolano, che già si era opposto alla istituzione dei tribuni, si levò a parlare duramente contro le assegnazioni alla plebe: «I plebei vogliono il farro? Ma se hanno già avuto i loro tribuni in seguito a un’assurda e ingiustificata secessione! O l’una cosa o l’altra. Tornino sul Monte Sacro, ci 91
lascino in pace. Sono diventati troppo superbi. Sono buoni soltanto a far chiasso nel Foro e non certo a combattere in battaglia. Avranno il farro se rinunceranno ai tribuni, i quali ormai scimmiottano i tiranni». Il discorso piacque ai più giovani patrizi, mentre i tribuni della plebe reclamavano per quel Coriolano, superbo, ambizioso e altezzoso, la condanna a morte o l’esilio. Scoppiò un putiferio, e i due gruppi avversi si affrontarono in una colossale colluttazione. Coriolano rifiutava di presentarsi al processo, faceva percuotere dai suoi uomini i tribuni, assumeva le pose di un despota. Il processo fu tuttavia inevitabile sicché lui davanti ai giudici, dopo aver elencato i propri meriti, si strappò di dosso le vesti per mostrare da quante cicatrici fosse stato straziato il suo corpo in diciassette anni di guerre. «Sono i segni di come io abbia combattuto con coraggio» disse. Fu una scena inutile perché Coriolano, dopo aver rischiato di essere gettato dalla rupe Tarpea, venne condannato all’esilio perpetuo, con il voto di ventidue tribù contro nove. Per la prima volta si chiamava l’intero popolo a emettere una sentenza. In quelle votazioni per tribù tutti i voti avevano identico valore, al di là del censo. E la cosa esaltava il potere della plebe. L’eroe declassato se ne uscì sdegnato dalla città, mentre si verificavano fenomeni paurosi. Si sentivano voci senza che si vedesse qualcuno parlare; donne e animali mettevano al mondo esseri mostruosi; su tutti si abbatteva una pestilenza. I romani chiesero pietà agli dèi con processioni e riti propiziatori. Uomini e donne a cavallo o a piedi o anche su agili bighe, giovani e anziani attraversavano imploranti le vie della città. Molti erano completamente nudi, altri non nascondevano alla vista che 92
piccole parti dei loro corpi. Coriolano raggiunse Anzio dichiarandosi vittima di soprusi. Diceva di essere stato esiliato illegalmente, lui benefattore della patria. Perciò era pronto ad allearsi con gli antichi nemici volsci per marciare insieme su Roma. I volsci, diceva, dovevano riprendersi le terre che i romani si erano annesse con la forza, nella loro folle idea di conquista. «La mia sfortuna sia la vostra fortuna. È il cielo a invocare vendetta!» esclamò. Poiché i volsci avevano sottoscritto con Roma una tregua di due anni, fu necessario trovare un pretesto che giustificasse l’attacco alla città senza incorrere nell’ira degli dèi, come sarebbe avvenuto se si fossero arbitrariamente infranti i patti. Coriolano sapeva bene che bisognava far ricadere sui romani la responsabilità della guerra. Ed ecco che lui inviava a Roma molti autorevoli cittadini volsci i quali dovevano fingere di esservi arrivati per partecipare alle grandi feste in corso. Al personaggio più rappresentativo del gruppo affidò un compito specifico. Doveva trarre in inganno i consoli facendo loro una straordinaria quanto falsa rivelazione. Doveva cioè annunciare che i volsci stavano segretamente preparando un attacco notturno contro Roma e che lui e il suo gruppo di finti gitanti erano lì per sostenere dall’interno della città gli assalitori, appiccando un incendio. I consoli caddero nel trabocchetto, ed espulsero dalla città gli ospiti stranieri che ancora fingevano di divertirsi un mondo fra le tante bancarelle di Campo Marzio. I volsci si mostrarono offesi di essere stati messi al bando, e quello fu il pretesto per muovere l’esercito contro Roma senza che ricadesse su di loro l’accusa di aver offeso gli dèi. Con straordinaria maestria Coriolano condusse le schiere dei 93
volsci e degli equi fin sotto le mura dell’Urbe, cingendola d’assedio. I romani da un lato si dicevano propensi a richiamarlo dall’esilio, dall’altro lato minacciavano di uccidergli per ritorsione la madre, la moglie e i figli. Anche al cospetto di questa possibile quanto feroce rappresaglia egli si mostrava irremovibile. Difatti di lui dicevano: «Cammina come una macchina da guerra e ha una voce simile a un rintocco funebre». Molte matrone romane, sperando di commuoverlo con le loro lacrime non essendo Roma riuscita a vincerlo con le armi né a convincerlo con le minacce, si recarono scarmigliate da lui in dolorosa processione, capeggiate dalla vecchia madre Veturia e dalla moglie Volumnia che conduceva per mano i due figlioletti. Coriolano andò incontro al mesto corteo, ordinando ai littori di deporre i fasci per rendere omaggio alla madre, di cui subiva anche in quel momento il fascino. Nella sua vita aveva sempre combattuto perché lei gioisse della vittoria. Ora stava per abbracciarla, ma lei lo tenne lontano con un fermo gesto della mano, mentre esclamava: «Voglio sapere se ho di fronte un figlio o un nemico! Ti annuncio che se non riuscirò a far trionfare la concordia sull’odio, mi darò la morte». Ci fu un attimo d’incertezza, e finalmente madre e figlio si avvicinarono. Si baciarono a lungo stringendosi l’uno nelle braccia dell’altra. La vecchia Veturia, implorandolo ancora, si gettò a terra per ricoprirgli di baci anche i piedi. Coriolano la risollevò. Con voce commossa disse: «Madre hai vinto. Hai salvato la patria. Ma hai perso tuo figlio». Dopo aver pronunciato queste poche parole tolse l’assedio. Con altrettanta rapidità egli fu accusato di tradimento dai volsci. Non gli consentirono neppure di difendersi, timorosi di essere confusi dalla sua loquela e certi che 94
fosse tornato nemico. La folla lo affrontò a colpi di pietre lasciandolo esanime sul terreno. L’esercito romano non mancò di sbaragliare i volsci, privi del grande generale. Ma egualmente le guerre, di nuovo con i volsci e con altri popoli come gli ernici e gli equi, non avevano termine. Il destino di Roma, perché la città potesse crescere, era di incrociare le armi con i popoli confinanti. Li batteva, li romanizzava dimostrandosi irresistibile per forza d’animo, capacità di adesione e impeto di guerrieri. Nello stesso tempo entro le mura dell’Urbe si facevano sempre più tesi i rapporti fra plebei e patrizi, fra ricchi e poveri, fra consoli e tribuni della plebe. Si accapigliavano. Come distribuire e a chi dare le terre che venivano sottratte ai popoli sconfitti? Quanta terra si doveva dare ai popoli alleati? Nella contesa, il console Spurio Cassio, benché avesse concluso la pace fra Roma e i latini, fu condannato a morte e gettato dalla rupe Tarpea senza che se ne ricordassero i meriti di grande generale. Presso i patrizi gli era stato fatale l’aver ideato, nel 486 a.C., la prima legge agraria. La legge appariva favorevole ai plebei nella ridistribuzione del terreno pubblico, e lui era stato accusato di cercare alleanze con l’inconfessato proposito di farsi re. I volsci, approfittando delle lotte interne che dilaniavano Roma, si ribellarono alla città tornando ad attaccarla. I consoli romani incontravano difficoltà nell’arruolare le truppe a causa dell’opposizione dei tribuni che rinfacciavano ai patrizi le ingiustizie da loro perpetrate nella suddivisione delle terre. Allora i consoli portarono fuori delle mura cittadine le sedie curuli, simboli del più alto potere repubblicano, e procedettero agli arruolamenti. Ai tribuni non fu possibile continuare a 95
opporsi poiché al di fuori delle mura essi non godevano di alcun potere. Le sorti della guerra non erano favorevoli a Roma. Il cielo si oscurava come per rivelare lo sdegno degli dèi. Si disse che occorreva celebrare sacrifici riparatori. Qualcuno mise in giro la voce che la vestale Opimia fosse in segreto venuta meno al voto di castità. Rapidamente si decise il sacrificio della ragazza che fu sepolta viva. L’avevano posseduta in due. Scoperti, furono bastonati a morte. Grazie a queste vittime sacrificali la guerra cominciò ad andare meglio per i romani, i quali poterono aggredire anche Veio. Si rese però necessario un nuovo sacrificio, poiché madri e neonati morivano in gran numero, vittime di una misteriosa pestilenza. Quella volta la pena toccò alla sacerdotessa Urbinia che, come Opimia, aveva perduto la verginità. Anche in questo caso erano due i sacrileghi seduttori. Di essi, uno si avvelenò e l’altro fu ucciso a colpi di frusta. I veienti facevano la loro parte nel guerreggiare contro Roma, battendola e strappandole larghi territori lungo il corso meridionale del Tevere con l’idea di restaurarvi il loro predominio. Ciò creava gravi difficoltà ai romani nella difesa dei confini con l’Etruria, per cui un giorno del 477 la gens Fabia decise di affrontare da sola il nemico. La famiglia patrizia dei Fabi, che era composta da trecentosei persone, si pose alla testa di cinquemila suoi clienti e si accampò nei pressi di Veio sul piccolo fiume Cremera, un tributario del Tevere. I Fabi davano così vita a una strana guerra privata, fatta di incursioni rapide e violente in territorio nemico. Per un anno protrassero la guerriglia che però si concluse con la loro definitiva e disastrosa 96
sconfitta. Attratti in un’imboscata, furono trucidati in trecentocinque. Si salvò uno soltanto di loro, il giovane Quinto Fabio Vibulano, che poté mantenere vivo il nome della stirpe. Il figlio del primo Appio Claudio, che portava lo stesso nome e che non era meno altezzoso e nemico dei plebei, non riusciva a sbaragliare i volsci. Questo avveniva non perché il nemico fosse particolarmente forte, ma perché i suoi soldati lo odiavano tanto da non eseguirne gli ordini. Come suo padre aveva contrastato la legge Publilia, così lui si dichiarava contrario a che si proibisse l’arresto dei debitori. In conseguenza di ciò le sue schiere gettarono le armi e abbandonarono il campo. I volsci non contrattaccarono, sospettando che la fuga nascondesse un tranello. Ma i soldati di Appio Claudio fuggivano davvero, incuranti della punizione che li aspettava: la decimazione. Egli aveva superato ogni limite, e fu chiamato in giudizio. Per non affrontare il processo si uccise. Sempre in quegli anni il console Lucio Esquilino Minucio si trovava invece in grave difficoltà con i rapaci equi che lo avevano accerchiato sul boscoso monte Algido, a sud di Roma, fra Tuscolo e Velletri. Si era nel 458. Gli equi avevano trasgredito gli accordi di tregua stipulati appena l’anno prima, invadendo i territori di Labico e di Tuscolo. I romani cercavano di indurli pacificamente a non proseguire nelle ostilità, ma gli equi rispondevano intensificando gli attacchi e offendendo le divinità del nemico. Il Senato ritenne allora che soltanto un uomo, Lucio Quinzio, detto Cincinnato per i capelli molto ricci, avrebbe potuto risolvere la situazione. In un batter d’occhio lo proclamarono dittatore. Quinzio, che era stato console e aveva operato molto bene, si era ritirato in un suo piccolo podere, 97
oltre il Tevere davanti al porto fluviale, poiché un figlio scapestrato, Quinzio Cesone, lo aveva ridotto in povertà a causa delle sue stramberie. Una mattina gli si presentarono i littori con l’offerta del Senato e lo trovarono che arava il suo campicello in abiti modesti, inzaccherato e stillante sudore come un qualsiasi contadino. Cincinnato, ascoltato il messaggio, si accinse a varcare il Tevere, non senza dilungarsi in lamentazioni. «Mi ha già rovinato mio figlio, e ora arrivate voi. Così non potrò occuparmi del mio raccolto», questo andava dicendo. Ma poi, non appena fu in Senato, diede all’istante le disposizioni perché si radunasse in Campo Marzio un forte esercito. Al grido di «Guerra! Guerra!» condusse quei soldati alle pendici del monte Algido. Erano armati di tutto punto e disponevano di cibo per cinque giorni. Cincinnato attaccò gli equi con tanta perizia da indurli in poche mosse alla resa. In silenzio e in mestizia i soldati equi sfilarono sotto il giogo, costretti a questa pena perché fossero umiliati e magicamente privati della loro forza. Roma tributava un grande trionfo al generale vittorioso che percorreva la via Sacra su un cocchio trainato da quattro splendidi cavalli bianchi. Era preceduto dai capi nemici tradotti in ceppi. Al termine dei festeggiamenti Cincinnato, a sole due settimane dalla nomina a dittatore, lasciava la carica che pure aveva la durata di sei mesi. Tornava al piccolo campo per riabbracciare la moglie Racilia e riprendere l’aratro al punto dove l’aveva lasciato, come se in quei giorni non fosse successo nulla di eccezionale.
98
VI La legge agraria di Spurio Cassio c’era e non c’era. Stanchi dell’incertezza, i plebei reclamavano norme più sicure anzitutto sulla limitazione del potere dei consoli. I patrizi si opponevano e mettevano in campo nelle assemblee ogni manovra ostruzionistica affinché su una proposta restrittiva del tribuno Caio Terentillo Arsa non si arrivasse mai al voto. Trascorsero così incredibilmente cinque anni. Per Terentillo il nome di console era meno odioso di quello di re, ma il potere consolare, in quanto a durezza, non differiva granché dal potere monarchico. Anzi, i romani con i consoli avevano nello stesso tempo due padroni invece di uno. Il prefetto della città, Quinto Fabio, ribatteva affermando che i tribuni erano stati nominati per fare i tribuni della plebe, non per essere i nemici dei patrizi. Erano trascorsi trecento anni dalla fondazione di Roma, e non si fu in grado di festeggiare la ricorrenza poiché in città era esplosa una pestilenza tanto grave da falciare quasi metà della popolazione. Uomini, donne e bambini morivano con tanta frequenza e in così grande numero che, per eliminare i cadaveri, non si trovò altra soluzione oltre quella di gettarli nelle acque del Tevere. L’infezione si diffondeva a dismisura. Morirono i consoli, quattro tribuni e molti senatori. I cittadini smisero di celebrare riti agli dèi, giudicandoli inutili. Nel 451 a.C., superata la pestilenza e ripresa in città la vita normale fra molti festeggiamenti e una rinnovata fiducia negli 99
dèi, i romani abrogarono la loro antica costituzione, compreso il potere consolare. Affidarono a dieci patrizi il compito di formulare un nuovo codice di leggi in cui si tenessero nel giusto conto sia le esigenze dei patrizi sia quelle dei plebei. Nel frattempo i dieci avrebbero svolto anche funzioni consolari. Mantenevano la carica due anni, e furono chiamati decemviri legibus scribendis, visto che, sull’esempio dei greci, dovevano mettere per iscritto le leggi perché non fossero più tramandate oralmente. Le nuove norme furono sinteticamente incise in dieci tavole di rame, ed esposte nel Foro. Con le leggi scritte, che rendevano più certo il diritto, i plebei si mettevano al riparo dall’arbitrio dei potenti patrizi, e quella fu per loro una delle più grandi affermazioni del momento. Al primo decemvirato, composto di soli patrizi, ne seguì un secondo che comprendeva tre rappresentanti della plebe. Nonostante la presenza di decemviri plebei, che però erano plebei arricchiti, alle prime Dieci Tavole se ne aggiunsero altre due con norme sfavorevoli alla plebe, come la codificazione del divieto di matrimonio fra patrizi e plebei. Poi avvenne di peggio, perché ben presto questo organismo volse in dittatura. I dieci attraversavano le vie della città preceduti ognuno da dodici littori, con tanto di scuri nei fasci. Si facevano largo tra la folla a scudisciate, sicché si disse che i romani avevano dieci Tarquini invece di uno, e centoventi littori al posto di dodici. Un nipote del primo Appio Claudio, che portava lo stesso nome e che già era appartenuto al primo decemvirato, riuscì a farsi includere anche nel secondo decemvirato assumendone la guida. Divenne un po’ il padrone di Roma, dando sulle prime l’impressione di un buon governo. Ma era tutta un’illusione, 100
perché ai crimini che già macchiavano le sue mani ne aggiunse uno nuovo perpetrato ai danni di un plebeo di grande levatura morale, Lucio Siccio detto Dentato. Siccio era un cittadino virtuoso e un eroico combattente. Aveva partecipato a centoventi battaglie riportando quarantacinque ferite e infiniti riconoscimenti al valore. Era stato pure tribuno del popolo, ma fra tanti meriti emergeva un neo: la vanità. Amava infatti gridare ai quattro venti le sue qualità, non soltanto quelle eroiche. Siccio contrastava aspramente l’arroganza e lo spirito retrivo di Appio Claudio. Il decemviro aspettava il momento buono per vendicarsi, propalando la voce che il soldato fosse in contatto con il nemico. Un giorno il valoroso plebeo, mentre si batteva contro gli equi, fu assalito a tradimento dagli scherani di Appio. Siccio, che si era posto con le spalle a una roccia, stava egualmente per avere la meglio sugli assalitori, quando dall’alto dello sperone gli uomini di Appio gli gettarono addosso tanti di quei massi da seppellirlo vivo. L’era oligarchica dei decemvirati si protrasse per tre anni, e, al di là delle cause politiche che ne segnarono la fine, se ne ebbe anche una a sfondo sessuale. Ancora una volta ne fu protagonista Appio Claudio nipote. Benché avanti negli anni, si era invaghito d’una fanciulla quindicenne, Virginia, una plebea di sorprendente bellezza. Virginia però resisteva alle sue brame e al denaro che lui le offriva. Allora il potente decemviro inventò una storia. Disse che la ragazza non era, come si credeva, la figlia del coraggioso centurione plebeo Lucio Virginio che aveva combattuto sul monte Algido contro gli equi al fianco di Cincinnato, ma la schiava d’un suo amico e cliente, Marco 101
Claudio, al quale Lucio Virginio l’aveva rapita da bambina. Appio Claudio istruì un processo nel quale egli stesso si nominò giudice, gettandovi tutto il suo peso di capo dei decemviri. Dichiarò di avere le prove delle sue rivelazioni. Nel forzare la legge da lui stesso emanata, dispose che seduta stante Virginia fosse sottratta al padre falso e ceduta al padrone vero Marco Claudio, sebbene non se ne fosse ancora appurata la condizione di schiava. Diede l’ordine in pieno Foro, mentre la plebe tumultuava parteggiando per la ragazza. Appio Claudio approfittava del tumulto per sostenere che la plebe preparava una ribellione. La tensione cresceva, le donne piangevano nelle strade di Roma perché ormai appariva chiaro che il presunto padrone, qualora Virginia non fosse stata riconosciuta figlia di Lucio Virginio, l’avrebbe passata al decemviro perché ne facesse la vittima delle sue libidini. Si attendeva che Virginio, il padre, arrivasse a Roma essendo ancora impegnato a combattere gli equi. Per impedire che il centurione arrivasse in tempo a testimoniare la paternità, Appio Claudio commetteva una nuova infamia. Mandava a dire al comandante del campo di non farlo partire. Ma la comunicazione arrivò quando Virginio era già in viaggio per Roma. Quindi il centurione poté assistere nell’Urbe ad alcuni momenti del processo e ascoltare la sentenza di Appio Claudio che dichiarava schiava la ragazza e la consegnava al falso padrone. Virginio, sconvolto dalla disperazione, afferrò un coltello dal bancone di un macellaio lì vicino, e di slancio affondò la lama nel cuore della figlia. L’abbracciava per l’ultima volta esclamando: «È questo, Virginia, l’unico modo che io abbia per ridarti la libertà». Il sangue di Virginia sollevò il popolo contro i decemviri, e fu 102
la loro fine, così come il sangue di Lucrezia aveva accelerato l’espulsione dei Tarquini. Nel 449 alla caduta del decemvirato riapparvero i consoli nelle persone di due patrizi moderati – Valerio Potito, nipote di Publicola, e Orazio Barbato – dopo che i plebei e i soldati ribelli erano tornati per breve tempo sul Monte Sacro a minacciare una nuova secessione. I due consoli, che operavano per la concordia delle classi, ripristinarono con una loro legge l’inviolabilità dei tribuni e il diritto dei cittadini di appellarsi al popolo, la provocatio, contro le condanne capitali. La legge piacque al popolo, e dai nomi dei proponenti fu chiamata Valeria-Orazia. I tribuni volevano molto di più. Reclamavano che chiunque la violasse fosse bruciato vivo. Fra i nuovi tribuni era stato eletto Lucio Virginio, che naturalmente si accaniva soprattutto contro Appio. Riuscì a farlo incarcerare, e Appio spirò in prigionia, si disse suicida, come aveva fatto suo padre per la vicenda della decimazione delle truppe. Valerio e Orazio – patrizi illustri, ma moderati – non erano amati dal loro ceto. Si videro rifiutare il trionfo dal Senato, sebbene tornassero vittoriosi dalle campagne condotte contro gli ernici che occupavano un territorio fra gli equi e i volsci. Furono vendicati dai tribuni della plebe, i quali ottennero un voto popolare che costringeva il Senato a concedere il trionfo se richiesto dal popolo. In seguito a un plebiscito voluto dal tribuno della plebe Caio Canuleio e alla minaccia di una nuova secessione, i plebei, radunatisi quella volta sul Gianicolo, acquisirono anche il riconoscimento della validità dei matrimoni contratti fra loro e i patrizi. Ma furono ovviamente i plebei benestanti ad avvantaggiarsi della conquista. I plebei chiedevano altresì di poter regolarmente diventare 103
consoli alla stregua dei nobili. «Siamo tutti concittadini. Anche se non abbiamo tutti le stesse ricchezze, siamo tutti della stessa patria» proclamava in un suo discorso il tribuno Canuleio. I patrizi si opponevano tenacemente ritenendo sacrilego aprire a chiunque le porte del consolato. Canuleio incalzava: «Perché ai cittadini romani non è consentito di affidare le cariche a chi vogliono? Perché tener fuori i plebei? Numa Pompilio fu eletto re dal popolo, e non era né patrizio né romano, ma sabino. Neppure Lucio Tarquinio era romano; proveniva da Tarquinia e suo padre era greco. Servio Tullio era addirittura figlio di una schiava e il padre gli era ignoto». I plebei non ottennero che il tribunato militare, per quanto rafforzato dalla connessa potestà consolare. Questa era per loro una importante conquista sul terreno d’una sempre maggiore parità fra le classi, sebbene la concessione fosse limitata dalla facoltà attribuita ai senatori di revocare l’incarico ai tribuni militari in qualsiasi momento avessero voluto. Inoltre i patrizi, per riguadagnare da un lato ciò che perdevano dall’altro, istituivano la magistratura della censura e ne escludevano i plebei. In un continuo tira e molla di queste lotte intestine, i plebei ottenevano la possibilità di far parte dei questori. E poi perfino del Senato, ma in pochi, come patres aggiunti. Difficilmente si poteva dire che l’etrusca città di Veio, grande e bella, raffinata e fastosa, fosse di molto seconda all’Urbe. L’assedio dei romani si prolungava sotto le sue mura da un decennio quando, per una sortita dei veienti che avevano ricevuto il sostegno dei capenati e dei falisci, Roma stava per essere invasa a nord dall’esercito nemico, mentre a sud la roccaforte di Anxur veniva sopraffatta dai volsci. Sotto 104
l’irruenza di quei colpi, il popolo romano, capeggiato dalle più nobili matrone, implorò nei templi l’assistenza degli dèi. Si verificarono prodigi inesplicabili, come l’accrescersi delle acque del lago di Albano, le quali strariparono con violenza senza che fosse venuto a piovere. Inondarono i campi circostanti generando un grande panico. Altri laghi e altri fiumi, al contrario, si essiccarono. I pericoli bellici si susseguivano alle crisi economiche e su tutto dominava la confusione politica. Il popolo non riusciva a fare altro che opporsi alla elezione dei consoli preferendo essere governato da tre tribuni militari. In piena disperazione, il Senato si decideva a nominare un dittatore nella eccelsa persona di Marco Furio Camillo perché prendesse nelle sue mani le redini dell’interminabile conflitto con Veio. Era una decisione del fato, dicevano i romani. E Camillo, appellandosi a Giove e a Giunone, riuscì a rovesciare le sorti della guerra. Irruppe di sorpresa nella rocca di Veio difesa da forti mura, passando attraverso un cunicolo sotterraneo che i suoi uomini avevano scavato con caparbia tenacia. I soldati di Camillo sorpresero il nemico nel sonno e ne fecero strage. Arrivati al cospetto della marmorea statua di Giunone Regina le chiesero un po’ beffardamente come si conveniva a gente rozza: «Vuoi venire con noi a Roma?». Un testimone disse che la dea aveva fatto un segno di assenso col capo, mentre altri giuravano di averle sentito pronunciare un esplicito: «Sì». Baldi giovani in bianche vesti la trasportarono a Roma dove le costruirono un tempio sull’Aventino, così come le aveva promesso Camillo. Per la rilevanza dell’evento, che costituiva la prima grande dimostrazione della capacità espansionistica 105
dell’Urbe, i romani paragonarono la resa di Veio alla caduta di Troia. Entrambi gli assedi erano durati un decennio, e allo stratagemma del cavallo si era sostituito l’inganno della galleria sotterranea. Il calendario recava la data del 396 a.C. Erano trascorsi trecentocinquantasette anni dalla fondazione di Roma e settecentottantotto dalla caduta di Troia. Per la prima volta le legioni romane avevano trascorso gli inverni nelle tende sotto le mura d’una città che resisteva all’assedio. I teli delle coperture erano stati sostituiti con più resistenti pelli di animali. Dalla Grecia era arrivata a Roma la notizia della morte di un filosofo, Socrate. Nessuno riusciva a spiegarsi come mai, nonostante si fosse eretto il tempio a Giunone Regina, la città venisse colpita da una siccità che, prolungatasi troppo a lungo, era sfociata in una pestilenza. Cominciarono a morire gli animali, poi i bambini cui seguirono gli uomini e le donne, giovani e anziani. Prima di cadere stecchiti, venivano invasi in tutto il corpo da piaghe purulente che li costringevano a grattarsi tanto profondamente da ferirsi con le unghie o con altri oggetti. Alla sconfitta dei veienti seguì la distruzione delle città loro alleate, Capena e Faleria. Questi straordinari successi non impedirono ai detrattori di Camillo di rappresentarlo come un accaparratore di bottini bellici a danno dei soldati e della plebe. In realtà Camillo, nella distribuzione dell’immenso bottino ricavato dalla sconfitta di Veio, avrebbe voluto darne una parte considerevole alla plebe e ai combattenti, ma trovò molti oppositori alla «elargizione», per cui non poté farne niente. Nonostante le sue generose proposte, gli furono imputati altri 106
crimini. Il tribuno della plebe Lucio Appuleio lo accusò di essersi appropriato delle porte di bronzo di Veio e di tenerle ben nascoste per sé in luogo sicuro. Per il suo carattere orgoglioso e sprezzante Camillo non era molto amato. Questa era una delle ragioni che spingevano gli avversari a definirlo un patrizio arrogante ed egoista e a muovergli le più pesanti accuse, sicché lui alla fine, amareggiato, lasciò Roma per rifugiarsi tra i latini ad Ardea. Nell’allontanarsi dalla città andava dicendo con toni da malaugurio, alzando le mani al cielo: «Romani, mi auguro che si abbattano su di voi molte sciagure, e che abbiate bisogno di me per salvarvi!». Malgrado tutto i soldati gli conservavano gratitudine perché con lui avevano cominciato a ricevere dal pubblico erario una paga, il soldus, cosa che non si era mai vista prima. Gli etruschi erano in decadenza. Ciò comportava un blocco, anzi un arretramento della loro espansione. La crisi si era avviata con una sconfitta subita nel 524, a sud, in una battaglia navale nel mare di Cuma, per mano del tiranno cumano Aristodemo, detto malakòs, l’effeminato. A nord si faceva altresì sentire la pressione dei celti, un popolo che si diceva discendesse da Ercole e provenisse da territori d’oltralpe. I celti, che i romani chiamano galli, erano attratti dal vino e dall’olio della penisola italica. Essi non erano però conosciuti soltanto per la rapacità, quanto per essere fieri e bellicosi. Barbari! Si sapeva che parlavano una lingua incomprensibile, lontana dal latino, dal fenicio e dall’idioma degli illustri popoli del Sud che si esprimevano in greco. Si sapeva soprattutto quanto fossero attratti in maniera fatale e inestinguibile dalla violenza e dal sangue. 107
Così, nello stesso anno in cui il nobile Camillo afflitto si rinchiudeva ad Ardea e gli etruschi andavano inesorabilmente verso la fine, il fato preparava anche ai romani giorni terribili. Un povero plebeo, Marco Cedicio, corse affannato dai governanti per avvertirli che più volte nella notte sulla via Nuova aveva sentito una voce misteriosa gridare il suo nome. Lui aveva proteso l’orecchio, si era guardato intorno senza riuscire a capire chi lo chiamasse. Quella voce gli annunciava l’approssimarsi minaccioso di un esercito nemico. Nessuno gli diede retta essendo quel Cedicio un disgraziato qualunque, ma, cosa più grave, i romani non presero sul serio neppure alcuni ambasciatori che allarmati provenivano da Chiusi per dare un identico annuncio.
108
VII Chi e che cosa aveva indotto quei misteriosi barbari a superare le Alpi già dai tempi della Roma monarchica, a stanziarsi nella Gallia Cisalpina e poi a superare anche gli Appennini e quindi a marciare su Chiusi? Per quest’ultima tappa si raccontava che fosse tutta colpa di un certo Arunte – clusino, appunto –, il quale, per aperta rivalità con un principe, Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, approfittandone fino all’inverosimile, aveva inviato otri di vino e di olio per ingraziarsi i capi di quelle popolazioni e indurle a scendere ulteriormente lungo la penisola dove avrebbero trovato altro vino e altro olio a piacimento. Anche i poeti cantavano di quel vino l’inebriante dolcezza. Le prime migrazioni dei galli risalivano agli anni di Tarquinio Prisco. A quel tempo, uno fra i loro più arditi capi, Belloveso, era pronto a tutto pur di conquistare le calde e attraenti terre del Sud. Erano terre che producevano messi baciate dagli dèi e che avrebbero consentito alle sue straripanti tribù di espandersi in lidi radiosi. Belloveso mosse il suo esercito di settantamila uomini quando lo zio, il re Ambigato che capeggiava la più battagliera delle tribù celtiche, quella dei biturigi, gli consentì di partire. Portava con sé, oltre ai biturigi, altre popolazioni dai nomi affascinanti quanto strani: ambarri, alverni, aulerci, carnuti, edui e infine la stirpe più pericolosa, quella dei bellicosi senoni. C’erano anche i cimbri fra loro, di ceppo assai diverso, stanziati più a est. Insieme ai soldati marciavano donne, vecchi e 109
bambini, cioè intere famiglie, come in una grande carovana multiforme. Il giovane Belloveso aveva sentito parlare delle Alpi, ma non le aveva mai viste. Al loro cospetto sbiancò. Rimase esterrefatto, giudicandole invalicabili anche per un popolo indomito come il suo. Si domandava se fossero mai state superate. Per alcuni mesi Belloveso tenne il campo, mentre girovagava infreddolito a cavallo alla ricerca di un valico. Scorse alcune strette gole a mo’ di schiena di toro, chiamate per questa ragione Taurine. Si aprivano in una valle formata dal rapido fiume Dora, e ritenne che quello fosse il passaggio migliore. Diede ordine alle sue popolazioni di procedere al seguito della fanteria e della cavalleria, avviando una vera e propria migrazione che portò alla nascita della Gallia Cisalpina. Dopo Belloveso si susseguirono nelle pianure settentrionali altre orde celtiche, ripetendone le mosse e usufruendo degli stessi valichi. A migliaia i cenomani, agli ordini del famoso Etovito, un comandante dai capelli color dell’oro e dallo sguardo infernale, occuparono la regione a sudest di Mediolanum (Milano) fondata da Belloveso, mentre boi e lingoni, stirpi sempre celtiche ma minori, costruirono zattere fluviali di duro legno e presero a navigare il largo fiume che solcava la ricca pianura, il fiume che i romani chiamavano Padus (Po), e i celti Eridano. I discendenti di quei galli originari, sollecitati dall’Arunte vendicativo, senza mostrare pietà per le popolazioni in cui si imbattevano nella loro marcia e dopo aver superato gli Appennini con minor strazio di quanto non avessero sofferto gli avi nel valicare le Alpi, furono alfine alle porte di Chiusi. Erano 110
feroci in viso, rutilanti nelle armature, giganteschi nel fisico. I clusini, terrorizzati, chiedevano aiuto ai romani pur non essendo a loro legati da rapporti di amicizia, e sapendo che era ancora vivo nei romani il ricordo dell’aggressione subita dal grande re etrusco, Porsenna. I romani però si mostravano più interessati a conoscere meglio i celti che non a combatterli. Inviarono comunque messaggeri agli invasori per metterli in guardia e consigliare loro di non azzardarsi ad attaccare alleati o amici dei quiriti. Ma il corso della vicenda fu tale che non si poté evitare lo scontro. I galli, perfino con il consenso dei romani, pretendevano di impossessarsi di ampi territori che appartenevano agli etruschi. «In nome di quale diritto reclamate queste terre che non sono vostre?» chiedevano i romani. E i galli rispondevano: «Il nostro diritto è la forza delle armi. Tutto appartiene al più forte». Aquelle parole i messi inviati dal Senato romano a parlamentare con i galli si tramutarono in combattenti. Contravvenendo alle buone regole della diplomazia presero anch’essi le armi al fianco dei clusini, e l’ambasceria trascese in uno scontro con morti e feriti. I galli, avuta l’impressione d’una profonda slealtà dei romani, colsero il pretesto per attaccarli con grande furia. Facevano strage di ogni cosa, in preda all’ira. Orde di uomini vocianti in groppa a cavalli imbizzarriti seminavano ovunque terrore e morte. Soldati e cittadini correvano a rifugiarsi sbandati nelle campagne tentando di sfuggire alla rabbia dei galli che, ritenendosi offesi, non avevano remore nella loro violenza. Forti schiere di quegli eserciti e grandi masse di quelle 111
popolazioni di ossessi erano già avanti nella loro caotica marcia su Roma. Li guidava uno dei più feroci generali della stirpe dei senoni. Aveva nome Brenno, Brehin, cioè capo. I romani non avevano mai visto prima di allora un esercito così strano e irregolare, che tuttavia funzionava ottimamente da sterminatrice macchina di guerra. Nel tentativo di difendere Roma dall’assalto ormai imminente di quelle turbe, i senatori non riuscirono che a improvvisare schiere di soldati raccogliticci, un esercito tumultuarius, e a erigere uno sbarramento poco a nord di Roma, a ridosso di un fiumicello, l’Allia, che nasceva nei dintorni della città sabina di Crustumerio per poi gettarsi nel Tevere. La barriera, che si rivelò fragile, fu abbattuta in due giorni, fra il 17 e il 18 luglio del 390. I barbari erano ormai pronti a riversarsi sull’Urbe, con canti e rituali il cui oscuro significato contribuiva a disorientare maggiormente i romani. Brenno avanzava superbo e irresistibile, rifiutando qualsiasi patteggiamento che gli venisse proposto da Roma. Era un guerriero gigantesco, un condottiero valoroso. Ai capelli, che gli cadevano folti sulle spalle, lui intrecciava amuleti propiziatori. Intorno al collo portava un monile d’oro, simbolo del potere e di dignità virile. Era un eccellente stratega, superiore a molti generali romani. Dotato d’un coraggio che si tramutava in follia, dimostrava con la sua marcia come si potesse abbattere un grande popolo ormai in preda alla disperazione. Gli stessi galli erano sorpresi dalla rapidità con cui riuscivano a devastare le file dell’esercito romano, tanto da cominciare a sospettare che le loro facili vittorie fossero volute dal nemico in preparazione di chissà quale diabolico trucco. Via via Brenno 112
mandava in avanscoperta gruppi di esploratori perché tastassero il terreno. Arrivato alle porte di Roma, ed erano già le ore del tramonto, diede con qualche tremore l’ordine dell’assalto. Le mura della città erano completamente sguarnite, le porte erano aperte in tacito segno di resa, per cui Brenno poté penetrare nell’Urbe alla testa della sua turba senza menare un colpo di spada. La città appariva deserta, e il Brehin diceva ai suoi soldati di non fidarsi di quella calma e di procedere con precauzione. I romani, paralizzati dal terrore, si erano chiusi nelle loro case. Dalla rocca del Campidoglio si diffondevano i lamenti di quanti cittadini vi si erano rifugiati portando con sé le immagini degli dèi. Le vestali vi avevano nascosto il fuoco sacro. Si era diffusa la notizia della fuga dell’esercito che era stato chiamato a difendere Roma. I soldati avevano ceduto le armi e si erano raccolti tremebondi entro le mura dell’etrusca Veio che pure non era una città amica. Nel fuggire, molti erano annegati attraversando il Tevere non perché le acque fossero turbinose, ma per la fretta di mettersi al riparo. Anche una parte della popolazione aveva disordinatamente raggiunto Veio, mentre altri si erano nascosti a Cere. Soli, impavidi di fronte al fato, i senatori più anziani non si mossero dai loro scanni nella Curia, pronti a sacrificarsi con la certezza che alla loro morte le divinità infernali avrebbero salvato le moltitudini. Altri autorevoli personaggi indossarono toghe sontuose in attesa degli eventi. Sembrava che agissero passivamente, ma in realtà erano mossi da una grande forza d’animo. Altri ancora, per intenerire gli dèi, ripresero a celebrare sacrifici umani, i crudeli riti che in segno di civiltà avevano da tempo escluso dai loro culti. 113
L’angoscia dei romani si accentuava alla vista delle insegne dell’esercito gallico. Gli invasori si spandevano per la città, senza furore, come se il fatto di avere via libera li avesse resi meno brutali. Pur tuttavia si diedero al saccheggio, incendiarono case, rapinarono beni e vettovaglie. Ma ancora temevano un agguato dei romani. Fecero irruzione nel Senato. Tanti vecchi dalla lunga barba bianca, con indosso abiti da cerimonia, erano immobili sui loro seggi, indifferenti all’impetuosa apparizione dei barbari. I galli sgranavano gli occhi per la meraviglia, pensavano che quegli uomini impietriti fossero finti. Per accertarsi della cosa, il più screanzato degli invasori tirò la barba al più austero, al più permaloso dei senatori, Marco Papirio, il quale rispondendo subito per le rime sbatacchiò sulla testa dell’oltraggiatore il suo scettro d’avorio. Anche la risposta del barbaro fu rapida. Con un sol colpo di gladio al cuore lo uccise. Fu il segnale d’una strage che aveva dell’inverosimile. I vecchi senatori vennero sterminati. Da quel momento il sacco della città assunse proporzioni leggendarie. Gli assalitori distruggevano spietatamente templi e monumenti, edifici pubblici e privati, mobili e suppellettili. Diedero alle fiamme le tavole con le leggi e gli annali dei pontefici in cui si documentavano le vicende della città. Roma così perdeva gran parte della sua memoria storica. Furono salvate soltanto alcune abitazioni sul Palatino in cui si erano insediati i loro comandanti. I romani si stracciavano disperatamente le vesti, si strappavano i capelli, pensavano che non si stava disperdendo soltanto il ricordo degli avi, ma che veniva cancellata la loro amata città. Roma si dissolveva fra gli incendi, l’intera fortuna di 114
un popolo affogava nel sangue. Erano trascorsi poco più di tre secoli e mezzo dal giorno in cui Romolo aveva tracciato il primo solco fatale di una città che, pur tra gravi sconfitte, appariva chiamata a un grande destino. La notizia dell’immane sciagura si diffuse nel mondo, e poco dopo il filosofo Aristotele la commentò con sgomento. L’orda famelica aveva ormai per obiettivo la conquista della rocca del Campidoglio. I barbari erano già pronti all’assalto, quando i romani ebbero un sussulto di combattività. Mentre rinforzavano le difese del colle, idearono un piano per lasciare che il nemico si inerpicasse sempre più in alto per poi ricacciarlo in basso. I galli erano già oltre la metà dell’erta, quando i romani piombarono su di loro con tanto vigore da costringerli alla ritirata. Allora Brenno con alcune schiere pose l’assedio alla rocca. In previsione d’un blocco prolungato affidò alle rimanenti schiere l’incarico di racimolare nei dintorni il grano per il sostentamento dell’esercito e dei popoli che lo seguivano. Nelle loro escursioni i galli, alla ricerca di frumento e vettovaglie, arrivarono sotto le mura di Ardea, la città che ospitava il nobile Camillo. L’esule si tormentava alle notizie delle sventure che si abbattevano sui romani, sempre suoi concittadini benché ingrati. Ora il fatto che i galli si trovassero nei pressi di Ardea gli offriva l’occasione di agire in qualche modo per risollevare Roma. Con questo spirito si presentò a una riunione indetta dagli ardeati atterriti dal sopraggiungere di nemici con la fama di folli distruttori. «O ardeati» disse «vecchi amici miei e nuovi concittadini, vi conosco per gente generosa. È vero che io non dimentico quanto male mi hanno fatto i romani, ma i pericoli del 115
momento ce ne impongono la difesa. Anche nei vostri confronti io non posso essere utile se non per bloccare gli invasori.» Con modi cortesi Camillo chiedeva aiuto agli ardeati per salvare la città che lo aveva costretto all’esilio. «Potrete così ricambiare» proseguiva «gli aiuti ricevuti da Roma. I barbari sono fisicamente grossi, ma piccoli di cervello. Lo hanno dimostrato distruggendo scioccamente una città aperta che aveva rinunciato a difendersi. Sono barbari, si comportano come bestie, e se voi, ardeati, non volete che la vostra città entri anch’essa a far parte della Gallia, seguitemi. Vi insegnerò a trattare questi aggressori da bestie quali sono, massacrandoli nel sonno in cui sono immersi da ubriachi. Se non riuscirò nel mio intento, scacciatemi da Ardea così come i romani mi hanno scacciato dall’Urbe.» Le sue parole infiammarono gli animi degli ardeati, che senza indugio si misero agli ordini di un così straordinario generale. Composte con rapidità agili falangi, Camillo in piena notte le introdusse nel campo nemico dove fecero strage degli invasori ancora addormentati. Sorpresi da tanta furia, i galli superstiti si dispersero nell’ombra come bestie terrorizzate. A questa notizia i romani ritrovavano la forza di riorganizzarsi. Nuovamente speranzosi richiamarono Camillo da Ardea, e lo nominarono dittatore. Il generale, spirito religioso, non accettò l’incarico se non quando a Roma ebbero terminato di compiere i rituali connessi all’evento. Ma prima ancora che egli assumesse il comando dell’esercito in preparazione, i romani rischiarono di perdere il Campidoglio. I galli infatti avevano fortunosamente scoperto un passaggio segreto che dal tempio di Carmenta portava direttamente alla 116
rocca. Alcuni di loro lo percorsero carponi con cautela eludendo la vigilanza dei soldati di guardia e il fiuto dei cani. Ma ci fu chi si avvide della intrusione che si profilava fatale per Roma. Erano le oche. Sacre a Giunone esse erano state risparmiate dai romani pur fra tanta fame. Le oche si misero a starnazzare. Il loro schiamazzo fu tanto forte da svegliare un ex console, Marco Manlio, famoso proprio per il suo sonno profondo. Ma per fortuna dei romani, al sonno di Manlio era corrisposto l’udito finissimo delle oche. Sicché l’ex console poté organizzare una prima resistenza e respingere i galli che gli si paravano davanti. Sopraggiungevano altri romani, e tutti insieme salvavano l’ultimo lembo di Roma libera. Nel pieno di tante ristrettezze, Manlio fu ricompensato con mezza libbra di farina e un quarto di vino rosso che ogni concittadino gli portò a casa l’indomani. Era poca cosa, ma la gravità della situazione conferiva grande rilevanza a un piccolo gesto. Per onorare la sua impresa Marco Manlio fu soprannominato Capitolino, e questo era il più invidiabile riconoscimento del suo eroismo. Ma lui, montandosi la testa, cominciò a brigare per assurgere alla carica di dittatore. Alla dea Giunone si conferì l’appellativo di Moneta – «colei che avverte», da moneo – in segno di ringraziamento. Le oche a lei dedicate e che avevano salvato Roma venivano allevate in un recinto sacro a essa. Il tempio di Giunone Moneta divenne stranamente anche la sede della zecca dello Stato, per cui si designò il denaro con il termine di moneta. Dall’evento delle oche si era propalato fra i romani il convincimento che gli dèi avessero ripreso a proteggere l’Urbe, ma si sbagliavano. Cresceva il tormento della fame, mancava l’acqua; il clima si 117
faceva torrido a causa dei continui incendi. Sui barbari si era abbattuta un’epidemia, e i cadaveri, insepolti, diffondevano nell’aria insopportabili miasmi. A stento si riusciva a bruciarne una piccola quantità, in un luogo che fu chiamato Rogo dei galli, sulle pendici del Campidoglio. Da ben sette mesi Roma viveva tragicamente. Allora Brenno, nel rendersi conto che non si sarebbe mai usciti da quella situazione di stallo se non con la morte di tutti, inviò messaggeri ai magistrati quiriti riuniti in Campidoglio. Annunciava che avrebbe tolto l’assedio alla città in cambio del pagamento di un riscatto. La somma era da concordare, e lui suggeriva che l’Urbe gli versasse mille libbre d’oro. I romani, obtorto collo, accettarono l’imposizione, ma all’atto del pagamento si trovarono di fronte a bilance false, truccate dai galli per ottenere fraudolentemente una maggiore quantità del prezioso metallo. Il tribuno militare Quinto Sulpicio provò a resistere. Protestava dicendo che i pesi addotti dai galli non erano giusti, per eccesso. Brenno reagì gettando con insolenza la propria daga e la cintura sul piatto dei pesi, a pretendere ancora altro oro. Nel compiere il gesto diede in un grido in latino, lingua di cui conosceva pochi rudimenti: «Vae victis!», guai ai vinti! Ribadiva il concetto già da lui espresso, secondo il quale il vincitore aveva il diritto di imporre agli sconfitti tutto quanto voleva. Poi aggiunse nel suo dialetto natio: «Voi romani vi comportate alla stessa mia maniera. Imponete la vostra forza, e portate via la terra ai più deboli. Anche noi, come voi, abbiamo bisogno di terra, e ce la prendiamo da voi come voi l’avete presa ad altri, siano fidenati, ardeati o veienti». Queste accuse irritarono i romani che avevano un’alta considerazione della 118
loro politica, convinti di condurre le guerre in modo ben diverso da ogni altro. Paragonavano i galli al fuoco, poiché quei barbari non volevano soltanto sconfiggere il nemico ma cancellarlo dalla faccia della terra.
119
VIII Agli dèi parve che i romani avessero sofferto abbastanza per le loro colpe, perciò la ruota del destino poteva ricominciare a girare in loro favore. Ma il fato talvolta era più forte degli dèi, e i romani dovettero affrontare ancora una prova. Difatti con la spada di Brenno gettata sul piatto dei pesi, non bastava più l’oro racimolato. Allora chiesero del tempo per cercarne altro presso le nobili matrone che si mostravano pronte a offrirlo. Fu in quei pochi giorni che il fato consentì a Camillo di arrivare a Roma. Il suo esercito sembrava essere tornato agli antichi splendori. In cuor suo il generale gioiva poiché si verificava quanto egli si era augurato partendo per l’esilio, e cioè che i romani avessero nuovamente bisogno di lui. Per questo egli agiva da patriota, ma anche come vendicatore di se stesso. Raggiunto Brenno, gli agitò sotto gli occhi un corto gladio mentre gli parlava con grande calma e pari fermezza: «Non auro, sed ferro, recuperanda est patria!», non con l’oro, ma col ferro si redime la patria! Brenno, che sapeva poco di latino, capì tuttavia l’antifona. Ma non fece in tempo ad accorgersi che cominciavano tempi oscuri per lui, che già Camillo gli scatenava contro il nuovo esercito romano. Al dittatore non mancarono la vittoria e la rivincita. Dopo aver inseguito il nemico sulla via Gabinia, tornò a Roma dove, accolto in trionfo, fu solennemente chiamato «padre della patria» e nuovo Romolo. La ricostruzione della città avvenne 120
caoticamente, dopo che i romani avevano rinunciato all’idea di abbandonarla e di raggiungere i concittadini e le schiere che già erano emigrati nell’opima Veio, a Cere e in altri luoghi. Era stato lo stesso Camillo che, con un grande discorso pregno di spiritualità e di amore per Roma, li aveva convinti a riprendere la strada della loro città. La moltitudine era in attesa delle sue parole. Davanti all’uditorio egli non pronunciò verbo per qualche minuto. Gli ansiosi volti dei cittadini mostravano i segni della lunga sofferenza. Le donne di femminile non avevano più che i capelli; i bambini apparivano già vecchi. Il generale cominciò il suo discorso ponendo ai romani alcune domande provocatorie: «O quiriti, perché abbiamo vinto, se ora non torniamo a Roma? Volete che le rovine della nostra città imputridiscano? Perché abbiamo difeso il Campidoglio, dove sono raccolti i nostri dèi, per poi abbandonarlo?». Il dittatore parlava gravemente. Sembrava che le lacrime sul suo viso avessero assunto il colore del sangue. Tacque, e poi riprese a parlare: «La nostra migrazione sarebbe vergognosa per noi, e ragione di vanto per i galli. Apparirà che noi lasciamo la città non come vincitori, ma come vinti. Si dirà che i galli hanno saputo distruggere Roma, e che i romani non sono stati capaci di ricostruirla. Migrare! Ma non è preferibile che Roma sia un vostro deserto piuttosto che una città del nemico? Se i vostri antichi nemici occupando queste rovine diventassero romani, vi adattereste voi a diventare veienti? Non è preferibile, o quiriti, abitare in una capanna di Roma, anziché vivere in perpetuo esilio? Gli dèi ci sono stati vicini, e ora noi vogliamo portarli altrove! La città fu fondata con auspici 121
favorevoli, né è la stessa cosa adorare i nostri dèi a Veio che a Roma. Solo a Roma gli dèi vi saranno propizi come lo furono al momento della sua nascita». Soltanto dopo questo discorso i romani avviarono una seconda fondazione della città. Fra i plebei in molti si indebitarono per riedificare la propria casa. Chi non poteva far fronte agli impegni cadeva schiavo dei creditori, poiché gli abbienti non avevano mai perso il potere di vita e di morte sui più poveri. Si ripeteva quanto era già avvenuto in altre critiche occasioni mai dimenticate. I romani erano ancora alle prese con i problemi della ricostruzione quando, negli anni che seguirono, i nemici interni di sempre, gli equi e i volsci, tornarono ad attaccarli, volendo approfittare delle difficoltà in cui l’Urbe si dibatteva. I volsci si mostravano particolarmente combattivi, e ancora una volta fu Camillo a salvare la città, sebbene emergessero anche altri valorosi generali. Il dittatore respinse facilmente gli equi e gli etruschi di Tarquinia, i quali reclamavano i territori che erano caduti in mani romane. Si riscossero pure alcune città latine e gli ernici, benché fossero buoni amici di Roma da un centinaio d’anni, cioè dalla battaglia del lago Regillo. Nacque un’alleanza antiromana fra etruschi e latini. Si ebbe mezzo secolo di guerre e guerriglie, di nuove incursioni dei galli i quali non volevano prendere atto delle sconfitte patite. Errabondi e aggressivi, erano in continua ricerca di nuovi territori da depredare. Se i romani non uscivano battuti dagli scontri era più a ragione dell’incapacità del nemico nel coordinare gli attacchi che per la loro bravura. Nella grande confusione del momento si verificava che il 122
famoso patrizio Marco Manlio Capitolino, l’ex console dal sonno pesante che tuttavia aveva sentito lo starnazzare delle oche, si mettesse a capeggiare le proteste della plebe. Lo faceva più per invidia dei trionfi di Camillo che per sincero spirito democratico. Il suo gioco fu scoperto, e lui venne tradotto in giudizio, condannato e quindi gettato dalla rupe Tarpea. Paradossalmente subiva la stessa sorte di quel capo delle sentinelle che non aveva saputo fare buona guardia sul Campidoglio. Sembrava che le lotte fra patrizi e plebei avessero riportato Roma agli sciagurati tempi della secessione di Monte Sacro, sanata soltanto per l’intervento di un uomo di grande saggezza come Menenio Agrippa. La nuova contrapposizione fra le classi poté lentamente appianarsi mediante alcune riforme fortemente volute dal popolo per sancire sia la concessione di terre ai plebei, fra quelle sottratte a Veio, sia il riconoscimento del diritto della plebe di accedere alla massima magistratura della repubblica. Quest’ultima era una conquista di primaria importanza per i plebei, anche se limitata ai benestanti, che già potevano entrare in Senato, ottenere il tribunato militare, occupare le cariche di questore e di edile. Si avvicinava il momento in cui tutti i cittadini, sebbene tra loro diversi sia per origini sia per censo, potevano essere equiparati in quanto romani; patrizi e plebei sarebbero stati eguali tanto nella dignità quanto nel potere politico e sociale, così come erano eguali nel servire lo Stato. Due tribuni di particolare valore e appartenenti al ceto dei plebei ricchi, Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, fecero approvare tre nuove leggi di grande rilevanza: una finanziaria, una agraria e una eminentemente politica. Dai nomi 123
degli autorevoli promotori furono chiamate leggi Licinie-Sestie. Con la prima, sui debiti, si decise che il totale di essi, decurtato delle somme già sborsate a titolo di interessi, fosse pagato in un triennio in rate eguali; con la seconda si ponevano forti limiti ai possedimenti terrieri e alle dimensioni delle greggi per lasciare spazio e pecore ai più poveri; con la terza si stabiliva che uno dei due consoli fosse sempre plebeo. Erano idee e princìpi rivoluzionari che passarono soltanto a costo di durissimi scontri sociali. I patrizi, impauriti dalla eventualità di perdere il loro secolare potere, escogitarono, come forma di opposizione, di contrapporre tribuni a tribuni. Ne corruppero alcuni con denaro e si associarono con i ricchi plebei che non erano poi tanto pochi. I patrizi riuscivano a sbarrare il passo alle riforme interponendo il diritto di veto, ma poi dovettero rinunciare a questa tattica ostruzionistica perché al loro insuperabile veto anche Licinio e Sestio replicavano con un «no» altrettanto insormontabile. Lo stallo si protrasse per un decennio. Le leggi erano state proposte nel 377 a.C., e il primo console plebeo venne eletto nel 366 nella persona di Lucio Sestio Laterano. La norma veniva spesso violata. Per di più salivano così in alto soltanto i personaggi di un ristretto numero di famiglie plebee le quali si tenevano ben stretto il privilegio. In quei dieci anni in cui la situazione rimase bloccata, Sestio aveva molte volte ripetuto: «Bene, sia così. Voi patrizi opponete il veto, e noi difendiamo gli interessi della plebe con la stessa vostra arma. Io faccio in modo che questa parola, “veto”, per la quale tanto vi siete rallegrati, pronunciata da noi più non vi giovi». Lucio Sestio aveva un vasto seguito. Era un giovane biondo, delicato in apparenza, ma forte di animo. Fin da ragazzo aveva 124
rivelato di possedere una mente geniale che faceva di lui un essere superiore alla media. Le umili origini plebee gli impedivano di assurgere alle più alte cariche dello Stato, ma, arrivato a ricoprire il rango di tribuno, riuscì a scompaginare il sistema politico sul quale i patrizi avevano a lungo fondato il loro prepotere. L’ingresso della plebe al consolato, nonostante i continui ostacoli che vi si frapponevano, veniva considerato come la pietra miliare da cui muovere verso un’epoca totalmente nuova, ancor più rivoluzionaria della cacciata del Superbo. L’evento fu celebrato con giochi di ringraziamento agli dèi, i Giochi massimi, che segnarono anch’essi una svolta nella storia della città e del suo popolo, protesi verso un nuovo clima sociale interno e nuove conquiste belliche all’esterno. La vittoria dei romani sui celti aggressori fu simbolizzata da un duello che si svolse fra un barbaro gigantesco e un giovanissimo tribuno militare, Marco Valerio, discendente di Valerio Publicola. Fu il barbaro a sfidare il romano e fu lui ad avere la peggio, anche per un intervento divino. Valerio era un uomo tozzo, di media statura, somigliante più a un contadino che a un guerriero. Si proponeva di liberare la sua città dal persistente pericolo dei celti, così come l’eroico suo ascendente l’aveva sottratta alla superbia dei re. Nel pieno del duello un corvo dalle nere piume splendenti, dal becco ferocemente adunco piombò sul barbaro strappandogli gli occhi. Fu a quel punto che Valerio poté sferrare il colpo decisivo e atterrare l’avversario. Lo scontro rappresentò l’epilogo della contesa fra i due popoli. A Valerio, apertamente favorito dagli dèi, si assegnava il cognomen di Corvo con evidente allusione all’episodio dell’uccello, mentre i celti si disperdevano giù per la 125
penisola associandosi ai greci o ai tiranni siculi che con le loro navi ne assalivano le coste. In tali frangenti i romani si facevano proteggere su quelle sponde meridionali dai cartaginesi. L’Urbe continuava a sussistere fra alterne vicende, come se la sua storia non potesse che risolversi in una interminabile serie di guerre con altri popoli – ancora i volsci, gli aurunci – e di disordini sociali, di proteste contro gli usurai oltre che di rivolgimenti politici all’interno per il perenne dissidio fra patrizi e plebei. Questa discordia era contrassegnata da periodi di interregno al vertice dello Stato, per l’impossibilità di indire in tanta confusione i comizi consolari. A rendere più dolorosa la vita della città non mancavano i terremoti, le piogge di pietre, gli straripamenti del Tevere e le esplosioni di pestilenze. Talvolta Roma veniva spinta alla guerra, invece di esserne l’iniziatrice. Come avvenne nel 343 quando i campani, che erano stati aggrediti dal potente popolo dei sanniti, le chiesero aiuto e protezione, pur sapendo che sanniti e romani avevano tra loro sottoscritto undici anni prima un trattato di alleanza. I littori annunciarono al Senato romano l’arrivo di alcuni ambasciatori provenienti dalla Campania, la terra dei campi dotata dagli dèi di un clima in cui la primavera fioriva due volte l’anno, la terra ricca e felice che si estendeva a sud di Roma. I messi indossavano paramenti a lutto, sui loro volti era dipinta una profonda disperazione. Invitati a esporre i motivi della visita, gli ambasciatori, fra calde lacrime, raccontarono quanto fossero vittime delle aggressioni sannitiche. Chiedevano perciò aiuto a una città di cui non erano alleati ma neppure nemici. Il capo dell’ambasceria parlò con voce implorante: «Il popolo campano ci ha inviato presso voi, o patres conscripti, per 126
chiedervi due cose: un’amicizia che si perpetui nel tempo e un aiuto immediato. Un aiuto contro i sanniti. Se i sanniti sono diventati vostri amici prima di noi, non ci sembra che ciò impedisca che anche noi si diventi vostri alleati. Né il patto che a essi vi lega vi preclude nuove alleanze. Noi campani, oggi non possiamo mostrarci orgogliosi, tuttavia, per la grandiosità delle città e la fertilità dei campi, non siamo inferiori a nessun altro popolo se non a voi. Per questa ragione noi, diventando vostri amici, pensiamo di poter contribuire a rendervi ancora più forti. Se gli equi e i volsci, vostri eterni nemici, dovessero ancora attaccarvi, ci avrebbero sicuramente alle loro spalle». Il Senato volle sapere qualcosa di più, e l’antefatto di quell’ambasceria fu subito detto. I campani erano stati costretti a stringere un’alleanza con un popolo insediato nella città di Teano e dintorni, i sidicini, i quali a loro volta subivano gli attacchi dei sanniti. Aggredendo i sidicini, i sanniti mettevano in pericolo gli stessi campani, sicché questi erano accorsi ad aiutarli. Ma i sanniti, abbattute le deboli resistenze dei sidicini sul monte Tifata, si erano prepotentemente gettati nella vasta pianura di Capua, e di lì si erano diretti sulla città che in breve fu stretta d’assedio. Così i campani, pur consci del patto di alleanza che legava Roma ai sanniti, avevano egualmente deciso di chiederle aiuto. Nel pieno del disperato racconto, il capo degli ambasciatori campani cadde sfinito a terra. Soccorso e rianimato poté proseguire nella perorazione, pur con assai flebile voce: «Padri coscritti, i sanniti hanno assalito i sidicini con un atto di volgare brigantaggio. I sanniti non si accontentano di terrorizzare i popoli più deboli. Col sangue, col ferro, col fuoco, col terrore 127
essi vogliono ogni cosa, vogliono impossessarsi di Capua, malvagiamente distruggere una bella e ricca città. Basterà l’ombra del vostro aiuto, o romani, per spaventare i sanniti. Decidete di noi, dunque». Il momento era supremo. Ammutoliti, i senatori chiesero tempo e, fatti uscire gli ambasciatori, cominciarono a discutere su quanto avevano udito. Emerse subito l’esigenza di rispettare i patti sottoscritti con i sanniti, tuttavia si obiettò che disporre dei fertili terreni di Capua sarebbe stata cosa assai utile in tempi di carestia. Considerarono che con la rottura unilaterale di un trattato di alleanza si sarebbero offesi gli dèi più degli uomini, per cui emisero un voto contrario all’intervento militare. Dopo di che ammisero nuovamente gli ambasciatori nell’aula, e un console prese la parola atteggiando il volto a contrizione: «O campani, vorremmo aiutarvi. Lo meritereste, ma i sanniti sono nostri alleati, e noi non possiamo tradirli. Manderemo loro nostri messi per scongiurarli di non scendere in guerra contro di voi». Nell’aula si ebbe l’impressione che le parole del console non avessero particolarmente sorpreso gli ambasciatori. Anzi fu il capo dell’ambasceria a sorprendere col suo nuovo discorso il Senato che sbandò sotto la mossa sconvolgente del supplichevole legato. Disse il campano, seguendo le indicazioni ricevute dai suoi governanti prima di partire per Roma: «Vi rifiutate di difendere le nostre case dalla violenza di un popolo che non si comporta soltanto da nemico ma anche da spietato distruttore. E sta bene. Ma a questo punto voi sarete costretti a difendere ciò che è vostro perché noi trasmettiamo ora nelle mani del popolo romano il pieno possesso di Capua – una città 128
grande come la vostra Roma –, del suo territorio, di ogni tempio, di ogni cosa che non è più nostra ma vostra. Noi siamo da questo momento vostri sudditi, e abbiamo il pieno diritto di essere da voi difesi contro qualsiasi nemico». A quelle parole gli ambasciatori campani protesero le mani bagnate di lacrime verso i senatori romani, i quali a loro volta non poterono trattenere il pianto per la commozione. L’assemblea decise di inviare propri legati presso i sanniti per indurli, in nome dell’antica alleanza, a demordere dagli attacchi contro il popolo campano che ora a tutti gli effetti si era fatto suddito di Roma. La richiesta doveva essere avanzata cortesemente, ma, se i sanniti avessero resistito, allora gli ambasciatori avrebbero dovuto assumere un atteggiamento minaccioso: pretendere con fermezza la cessazione delle ostilità, l’abbandono dei territori occupati e l’immediata rinuncia all’assedio di Capua. Gli ambasciatori romani si misero in marcia attraverso perigliosi territori. Arrivati al cospetto dei capi sanniti, esposero garbatamente le ragioni della loro missione come si usava da sempre, per volere degli dèi, in tali delicate circostanze. Senonché la risposta dei sanniti fu quanto mai sgradevole, espressa in tono di sufficienza e di scherno. Gli ambasciatori non potevano non risentirsi per quel trattamento, e il loro capo, niente affatto intimorito, mutò a sua volta tono. Nel protendere un dito accusatore, disse: «Non vi parlo più da ambasciatore, ma da cittadino romano. Ne pagherete le conseguenze». Neppure i sanniti si fecero impressionare. A quelle parole risposero che avrebbero continuato la guerra contro i campani, anche con maggiore durezza, con saccheggi e distruzioni. I 129
delegati romani tornarono in patria sereni in volto, ma con l’animo colmo di angoscia per l’affronto subito. Secondo la consuetudine fu chiesto all’Urbe se fosse disposta al combattimento. Il responso fu positivo. Quindi nel breve volgere di ore cominciò la guerra contro un nemico nuovo, un nemico di cui però si diceva che fosse il più temibile e il più forte di ogni altro. Roma non poteva tirarsi indietro dopo l’offesa ricevuta. Se lo avesse fatto ne avrebbe risentito il prestigio di una potenza che era lentamente cresciuta attraverso vittorie e sconfitte, successi e rovesci, eventi che in quattrocento anni avevano fatto di Roma la città più ragguardevole della penisola. I danneggiati erano stati i popoli più o meno vicini – come sabini, etruschi, latini, ernici, equi, volsci, aurunci – e ultimi quei lontani celti che le si erano gettati addosso, commettendo l’errore di sottovalutarne la forza.
130
IX A Roma si cominciarono a preparare le operazioni della nuova guerra. Una parte dell’esercito fu affidata al console Marco Valerio Corvo che puntò sulla Campania; l’altra parte, guidata da Aulo Cornelio Cosso, marciò direttamente sul Sannio, verso le valli della Pentria da cui traeva origine la stirpe che da amica aveva voluto farsi nemica dell’Urbe. I consoli quell’anno erano entrambi patrizi, con un’aperta violazione delle leggi LicinieSestie. I sanniti si scagliarono con tutte le loro forze contro le schiere di Valerio Corvo. Avevano lunghe barbe, erano armati di lame oltre che di frecce dalle punte di duro metallo; modesti nelle dimensioni, ma robusti; neri gli occhi e olivastra la carnagione. Urlavano rabbiosamente ai soldati romani, i quali per più giorni evitarono lo scontro frontale. Preferivano limitarsi a schermaglie e a imboscate per studiare sia l’avversario sia i luoghi ancora sconosciuti. I giorni dell’attesa sembravano interminabili, ma finalmente Valerio Corvo ritenne che fosse arrivato il momento del grande attacco. Fece suonare il corno dell’adunata, e ordinando di innalzare le effigie della battaglia parlò all’esercito. Montava un superbo cavallo. Con indosso una splendida armatura disse ai soldati di non commettere l’errore di sottovalutare il nemico, ma neppure di sopravvalutarlo. Parlava per incoraggiare le legioni, le quali avevano dimostrato di essere invincibili soltanto 131
quando avevano creduto di esserlo. Nei pressi delle coste campane, Valerio ebbe la meglio sul nemico, non soltanto in forza di una iniziativa concentrica di cavalleria e fanteria, ma anche perché, come dicevano spaventati i sanniti, i loro occhi erano apparsi di fuoco. Il console Cornelio Cosso si ritrovò invece imbottigliato nelle strettoie del Sannio, e poté salvarsi esclusivamente per il sopraggiungere del tribuno militare Publio Decio Mure, un illustre plebeo, che escogitò un valido diversivo di salvataggio col favore della notte. Per incoraggiare i soldati, dall’alto di una collinetta disse: «Siamo arrivati fin quassù ingannando i sanniti mentre erano svegli. Ora inganniamoli mentre dormono. Scendiamo di qui e muoviamo all’attacco. Chi approva questo mio piano passi alla mia destra». Tutti si schierarono alla sua destra e si diedero ad attaccare il nemico. Così Decio trasse d’impaccio Valerio. La guerra si protrasse a più riprese per due anni, fino al 341, quando si concluse sul campo di Suessola, fra Capua e Nola, con esito incerto e con le porte del tempio di Giano ininterrottamente aperte. Ben presto sia i sidicini sia i campani furono abbandonati da Roma, il cui Senato si riavvicinò ai sanniti sottoscrivendo con loro un nuovo trattato di pace, appunto a suggello della battaglia di Suessola. L’Urbe aveva altri problemi con cui misurarsi, come una recrudescenza delle lotte interne fra patrizi e plebei. I romani furono indotti a riallacciare buone relazioni con i sanniti anche per poter meglio affrontare un’insurrezione dei soci latini i quali sempre meno sopportavano una condizione di sostanziale dipendenza. Intere popolazioni non romane si ribellavano a una politica falsamente paritaria. Il famoso e 132
solenne Foedus Cassianum, l’alleanza del 493, si era alla fine rivelato nulla più di un pezzo di carta. I latini trovarono buoni alleati nei sidicini che in tal maniera si vendicavano dei romani. Al fianco dei sidicini accorsero anche i campani, gli aurunci, i volsci. I latini chiedevano che un console e la metà dei senatori fossero scelti fra loro, per avere voce nei consessi e parte decisiva nelle dichiarazioni di guerra. Chiedevano pure che si gettassero le basi di una nazione unitaria. Tutto ciò veniva reclamato in Senato da un pretore nelle vesti di ambasciatore dei latini, Lucio Annio. Le sue parole sollevavano in aula vivaci proteste. Il console patrizio Tito Manlio Torquato si rivolgeva a Giove perché facesse tacere l’impudente messo latino. Annio ebbe espressioni di disprezzo nei confronti del massimo dio romano, e, nell’uscire dalla Curia, precipitò sotto una fitta pioggia, tra fulmini e saette, giù per la scalinata. Batté la testa a un gradino, e non la rialzò più. «Guerra! Guerra!» gridava il popolo romano. I latini ne vennero fuori con le ossa rotte. Il rinnovato trattato di pace fra romani e sanniti non ebbe lunga vita, sicché nel 327 aveva inizio la seconda guerra sannitica. Nessuno sarebbe riuscito a fermarla, né aveva potuto impedirla l’esplodere di un ulteriore conflitto sociale sulla questione dell’usura. Da quel contrasto erano usciti vittoriosi i plebei avendo ottenuto che non si costringessero più in ceppi i debitori insolventi. Il buon esito della disputa era tuttavia derivato da un episodio di violenza sessuale. Un usuraio, Lucio Papirio, aveva come suo schiavo per debiti un giovane assai bello, Caio Publilio, e ne aveva ormai fatto l’oggetto delle sue libidini. Il ragazzo, che cercava di sottrarsi alle violenze del 133
padrone, fu denudato e flagellato a sangue. Riuscì tuttavia a sfuggire al perverso persecutore e a presentarsi sanguinante in mezzo al Foro. Il popolo, preso dalla commiserazione, invase tumultuando il Senato per reclamare che si ponesse fine agli arresti per debiti. Si arrivò all’approvazione di una legge più umana che in futuro vietasse le catene e subito traesse dalle prigioni chi vi era costretto. La seconda guerra sannitica esplose con maggiore violenza della prima. Non erano trascorsi che quattordici anni, ma le ragioni del contendere apparivano più vive che mai. Si poteva perfino dire che la situazione si fosse maggiormente ingarbugliata e che l’espansionismo di Roma fosse in pieno vigore per la politica delle alleanze che la città perseguiva e per la concessione della cittadinanza ad associati e assoggettati. Roma aveva cominciato a condurre un’abile politica: dare qualcosa ad alcuni e toglierla ad altri perché fra i diversi popoli s’instaurasse un clima di ostilità e di invidia tale da consentire ai romani di imperare frazionando le forze altrui. Roma avanzava in armi a sud, e occupava Neapolis (Napoli), la più importante città greca della Campania. Le azioni belliche misero in sospetto i sanniti, i quali già si preparavano a reagire per non essere accerchiati e quindi isolati nelle loro montuose regioni. La prima mossa la fecero però i romani nel prendere le armi contro quel popolo bellicoso. La guerra, anche se in una sua prima parte i sanniti avevano avuto la peggio tanto da chiedere una tregua, si era sostanzialmente mantenuta incerta nei risultati fino a quando i romani si trovarono costretti a subire l’onta del giogo nelle gole montuose delle Furculae Caudinae. 134
Agli ordini dei consoli Tito Veturio e Spurio Postumio, l’esercito romano già si accingeva a puntare sul Sannio partendo dall’accampamento di Calazia. Mentre quelle truppe muovendo da Capua si dirigevano su Maleventum (Benevento), che si sarebbe raggiunta in tre giorni di marcia, i sanniti con un abile inganno le attrassero nelle strettoie rocciose di Caudio, e le rinchiusero in una piccola pianura verdeggiante che si estendeva fra due gole. Erano stati alcuni soldati sanniti, nelle mentite spoglie di pastori a guardia delle loro pecore, a fuorviare con false informazioni stradali i romani e a indirizzarli verso le Forche Caudine. Le legioni, infilatesi nella gola, trovarono sbarrata l’uscita della strettoia da tronchi d’alberi e da alti mucchi di pietre. Provarono a tornare indietro verso la Campania passando da dove erano entrati, ma si imbatterono in un nuovo sbarramento che il nemico aveva nel frattempo eretto. Nell’angusta pianura, inani furono i ripetuti tentativi dei romani di sottrarsi alla morsa in cui si erano cacciati. A ogni loro attacco lasciavano sul terreno morti e feriti. Nel 321 a.C., a poco più di quattrocentotrenta anni dalla fondazione, il futuro di Roma dipendeva dalla paralizzante situazione delle Forche Caudine. I legionari colà imprigionati ne erano consapevoli. «Siamo ormai destinati a morire» si dicevano fra loro con mestizia «in questo apparente luogo ridente, ricco di boschi e di acque. Il nemico vincerà senza muoversi.» Dopo qualche tempo il capo sannita Gavio Ponzio si mostrò disposto a lasciarli liberi, ma al prezzo della più rovente delle umiliazioni. Pretese che quei legionari si disonorassero passando a uno a uno, senza armi e pressoché nudi, sotto un giogo di lance. Ai consoli fu imposto di spogliarsi dei loro manti purpurei. 135
Sferzanti erano le ingiurie e i lazzi dei vincitori. I legionari sfilavano ammutoliti sotto gli sputi; i loro nomi venivano scanditi con irrisione ad alta voce affinché il disonore si imprimesse incancellabile nei loro cuori. Erano ancora chiusi nel loro silenzio, quando i legionari così maltrattati arrivarono a Capua sulla strada del mesto ritorno. I sanniti avevano imposto altre condizioni all’Urbe: i romani dovevano allontanarsi dai territori sanniti e ritirare le colonie di Fregellae (Fregelle) e di Cales, territori di loro recente conquista e già fortificati. Il rispetto delle condizioni doveva essere garantito dalla consegna in mani nemiche di seicento cavalieri delle migliori famiglie quirite. Non si poteva rinunciare a cuor leggero alle colonie poiché esse erano per Roma una delle sicurezze per la sopravvivenza. Grazie alle colonie si potevano migliorare le condizioni sociali di forti nuclei di plebei che colà inviati trovavano terre e lavoro. Roma si immerse in lunghe e dolorose giornate di lutto per aver subito uno smacco vergognoso. Il Senato, come proponevano gli stessi consoli, rifiutava di riconoscere la validità degli impegni che alle Forche Caudine erano stati presi senza seguire le norme sacrali e in assenza del voto popolare. I consoli Tito Veturio e Spurio Postumio si dicevano pronti a patire personalmente ogni eventuale conseguenza di ciò, a darsi nelle mani del nemico, ritenendosi gli unici responsabili di quanto era accaduto. Sospingevano Roma a riprendere le armi contro i sanniti, né mancavano di soggiungere che con quel pur disonorevole patto avevano salvato l’esercito. Non ottennero che di essere deposti dalla loro alta magistratura. Dopo un interregno vennero sostituiti con il patrizio Lucio Papirio 136
Cursore e il plebeo Quinto Publilio Filone, famosi per le loro doti di capi militari. Cursore era più noto di Filone, e veniva chiamato con quel soprannome per essere molto veloce nella corsa, come lo erano stati il padre e il nonno. Cursore era assai esperto di guerre, e difatti si diceva che avrebbe perfino potuto bloccare l’impeto di Alessandro il Grande, qualora se lo fosse trovato di fronte. Si verificò un colpo di scena. I consoli deposti Veturio e Postumio erano stati condotti in catene presso i sanniti che li avevano richiesti per punirli a modo loro. Il sacerdote feziale, mentre diceva al nemico «Vi consegno questi uomini», fu violentemente colpito da Postumio con un calcio negli stinchi. Tra la sorpresa generale Postumio disse: «Io, essendo stato consegnato al nemico, non sono più romano. Ora, secondo la legge, sono sannita. E avendo offeso da sannita la sacra persona dell’ambasciatore feziale, è quanto mai giusto che i romani, risentiti, dichiarino guerra al Sannio». Allo stupore suscitato dalle parole di Postumio si aggiunse un nuovo sbalordimento quando parlò il capo dei sanniti Gavio Ponzio. Egli disse con decisione: «Noi non vogliamo voi, generali, ma pretendiamo che l’intero esercito romano torni alle Forche Caudine. Da quel momento ricominceremo a discutere e a decidere se proseguire o no la guerra. Quando perdete, voi romani non state mai ai patti. Con questa volgare trovata del calcio di Postumio che non è più cittadino romano ma sannita, voi fate della vostra religione una burletta». Quindi Ponzio, ostentando disprezzo, ordinò di restituire la libertà a Veturio e a Postumio. Nessuno avrebbe potuto evitare un nuovo conflitto, e ancora una volta i sanniti cominciarono a ottenere successi. 137
Occuparono Fregellae, bruciando vivi molti abitanti della città. Poi gli scontri volsero a favore dei legionari i quali, arrivati vittoriosi in Apulia, costrinsero a passare sotto il gioco di lance romane ben settemila sanniti disarmati e ignudi, non escluso il vecchio Gavio Ponzio. Così riscattarono l’onta delle Forche Caudine. Inoltre recuperarono le armi cadute in mani nemiche e liberarono i seicento cavalieri consegnati in ostaggio nei giorni neri della sconfitta. Ma i romani subirono nuovi rovesci, persero Lautulae presso Terracina. Si sollevarono gli aurunci, imitati dai campani; Terracina veniva accerchiata. I romani seppero ancora una volta reagire validamente e riconquistare quanto avevano perduto agendo con ferocia contro il nemico. Sempre bellicosi, i sanniti si preparavano a rifarsi, accorrendo a spalleggiare i rianimati etruschi che a nord attaccavano Roma. A sud si ribellavano gli ernici, e via via, pur in disaccordo tra loro, gli equi, i marrucini, i peligni, i frentani, i marsi. Sebbene con qualche difficoltà, i romani vinsero su tutti i fronti e sconfissero nuovamente i sanniti ormai privi di alleati. Posero l’assedio sotto le mura della montuosa Boviano, una roccaforte nel cuore del Sannio, e non tolsero le tende se non a conquista avvenuta. I sanniti chiedevano la pace. La guerra si concludeva nel 304, e questa era stata la seconda guerra sannitica che, iniziatasi nel 327, si era protratta per ventitré anni. Erano trascorsi soltanto cinque inverni quando romani e sanniti tornarono ad azzuffarsi per la terza volta, devastandosi a vicenda. Nel 298 furono i sanniti a muoversi per primi essendosi alleati con gli umbri, i sabini, i lucani e persino con i galli senoni, quei barbari devastatori che un tempo erano arrivati fin nel cuore di Roma. Tornavano nuovamente a prendere le armi 138
anche gli etruschi. E avvenne che tre anni dopo in Umbria, nell’ampia pianura appenninica di Sentino, i romani si scontrassero aspramente ancora una volta con i sanniti sostenuti più o meno attivamente dagli stessi umbri, dagli etruschi e dai senoni. Scese in campo la cavalleria romana che, quando già stava per avere la meglio, fu costretta a retrocedere dall’improvvisa apparizione fra le truppe galliche di un’arma da guerra mai vista e mai affrontata prima di allora. Erano carri ben coperti che, trainati da robusti cavalli, trasportavano nuclei di soldati armati di frecce. I carri sorpresero i legionari, e il fracasso delle ruote spaventò i cavalli dei romani che, imbizzarriti, si dispersero nella campagna. La situazione era disperata. Il console plebeo Publio Decio Mure cercò di ingraziarsi gli dèi infernali, e nobilmente volle ripetere il grande gesto che il padre (col suo stesso nome) aveva compiuto alcuni anni prima contro i latini. Svolte le funzioni sacrali, si lanciò a cavallo in mezzo alle schiere galliche affinché dalla sua morte eroica i romani traessero forza e coraggio. Nello spronare il destriero disse: «Il destino della nostra famiglia è di sacrificarsi per allontanare i pericoli dalla patria». Come il padre aveva restituito l’ardimento ai soldati, così avvenne anche per lui. Come era caduto il padre, così cadde il figlio. La sconfitta dei galli gettò nel panico umbri, etruschi e lucani, i quali tutti insieme si ritrassero dai combattimenti. Più tardi anche i sanniti, che avevano continuato a battersi con il solo appoggio di alcune città sabine, furono costretti a cessare le ostilità. In Apulia, ad Aquilonia, lasciarono sul terreno una quantità inverosimile di morti: ben ventiquattromila. I prigionieri ammontarono a tremilaottocentosettanta. I nemici 139
di Roma che si erano stretti in federazione per dare man forte ai sanniti erano sbaragliati, e la coalizione si sciolse. Seguivano altre scaramucce con i soli sanniti, finché non apparve sulla scena un generale plebeo pressoché sconosciuto, Manio Curio Dentato. Era un bel ragazzo biondo di origini sabine che disdegnava le comodità del lusso. Mangiava in una scodella di legno e beveva soltanto acqua. Un giorno, in piena guerra, fu raggiunto al campo da messi sanniti e sabini i quali, carichi di oro, si erano proposti di compiere un tentativo estremo: quello di corromperlo. Lo trovarono intento a consumare una frugale cena davanti al fuoco, fuori della tenda. Gli ambasciatori gli dissero che se fosse passato dalla loro parte ne avrebbero fatto un uomo ricco, più ricco di un re. Intanto gli mostravano l’oro. Ma Curio, senza neppure alzare lo sguardo dal formaggio che stava mangiando, rispose brevemente: «Preferisco avere il dominio su chi possiede l’oro, anziché avere quel metallo per me». La sconfitta dei sanniti era ormai inevitabile, e nel 290 a.C. aveva termine la terza guerra fra Roma e l’indomito Sannio. La prima era cominciata nel 343.
140
X A un secolo esatto dalla terribile e mai dimenticata invasione compiuta da Brenno, i romani possedevano ormai quasi tutta l’Etruria, le zone occupate dai galli senoni, i territori del Sannio e giù giù fino al golfo dove sorgeva la più importante colonia della Magna Grecia, la rigogliosa e superba città che i lacedemoni, gente fierissima e bellicosa originaria di una inospitale regione dell’Ellade, avevano voluto edificare alcuni decenni prima: Taranto. Per festeggiare la definitiva sconfitta dei sanniti e la conseguente estensione dei confini romani, il Senato si dedicava alla realizzazione di grandi opere pubbliche. Affidò a un censore la pavimentazione di una grande strada verso Capua insieme alla costruzione di un lungo acquedotto sotterraneo che si rivelò tanto utile da mandare in visibilio i romani, i quali potevano finalmente bere acqua pura, proveniente dalle sorgenti dell’Aniene, affluente dell’inquinato Tevere. Quel censore discendeva dai due infami suicidi, consoli l’uno nel 469 e l’altro nel 449. Come loro si chiamava Appio Claudio. A questo nome si aggiunse poi l’appellativo di Cieco, avendo perso la vista per uno sgarbo fatto agli dèi. La strada, che fu chiamata Appia, metteva in comunicazione le regioni recentemente acquisite e permetteva di raggiungerle da Roma più facilmente. La via Appia, dopo aver collegato all’inizio l’Urbe con Capua, proseguì fino a Brundisium (Brindisi), il grande porto a sud della 141
penisola. Nonostante le imponenti vittorie, le condizioni dei cittadini romani più poveri non miglioravano. Alle carestie si aggiungevano le pestilenze, per cui alcune migliaia di plebei si ritirarono con rinnovato spirito secessionista in un bosco sul Gianicolo, ripetendo le proteste felicemente sperimentate in passato. Ancora una volta ebbero ragione a comportarsi così, tanto che il dittatore Quinto Ortensio si risolse a favorire l’approvazione di alcune leggi benefiche tra le quali una prescriveva una più ampia assegnazione di terre. Nell’Italia inferiore e in Sicilia predominavano le floride colonie greche le quali, sebbene in lotta fra loro e al loro stesso interno fra aristocratici e democratici, sbarravano l’ulteriore espansione di Roma verso il sud. Il contrasto si estendeva ai cartaginesi, gelosi del loro predominio marittimo. Anche i lucani e i bruzii premevano per attestarsi sulle coste ioniche e tirreniche cui non potevano avvicinarsi per la presenza di colonie formatesi con la migrazione di popolazioni greche in quelle regioni e che i greci stessi chiamavano italioti. L’opulenta città di Taranto aveva avuto con Roma rapporti difficili. Era riuscita a guardarsi dai romani e anche dai lucani sia rivolgendosi a condottieri mercenari stranieri sia istituendo una lega fra italioti. Con Roma aveva sottoscritto nel 303 un trattato per impegnarla a non portare navi da guerra nel suo golfo, cioè a non spingersi a oriente del promontorio Lacinio che dominava il mare Ionio. Ma quando i romani, sconfitti definitivamente i sanniti, avevano dimostrato di essere invincibili, i tarantini pensarono che per loro fosse arrivato il momento del tutto per tutto. Da soli non avrebbero certo potuto 142
sperare di arrestare l’espansionismo romano, e allora chiesero ancora una volta aiuto a forze straniere. La colonia di Taranto costituiva la tappa conclusiva della gloriosa discesa che Roma conduceva verso il Mezzogiorno. Si era diffusa la convinzione che, espugnata Taranto, si sarebbe alfine verificata una delle profezie fatali di Romolo, e si sarebbe aperta al popolo romano l’immensa distesa del mare. Il mare Mediterraneo, l’atavica culla e il misterioso crogiolo di popoli che da secoli guardavano timorosi e gelosi l’ascesa di Roma. Quel mare costituiva l’ignoto, celava inganni e tesori, amici leali e indomiti avversari, ma era al tempo stesso un’attrazione irresistibile per la città prescelta dagli dèi. I tarantini cercarono un appoggio potente. Inviarono ambascerie presso varie corti straniere, e l’unica che rispondesse favorevolmente fu quella del re molosso d’Epiro, Pirro. Egli era un uomo forte e massiccio, un avventuriero colto e di raffinata intelligenza. Il suo viso incuteva terrore. Aveva pochi denti e scuri. Pur essendo terribile a vedersi, era di animo caritatevole. Dotato di poteri soprannaturali, guariva le persone ammalate sfiorandole con l’alluce del piede destro. Di lui, come di Roma, si diceva che avesse origini divine. Si favoleggiava che discendesse da Neottolemo, pari agli dèi, figlio di Achille. Neottolemo portava da fanciullo il nomignolo di Pirro, e così continuò a essere chiamato anche da sovrano dell’Epiro. Neottolemo ebbe il nome di Pirro perché il padre Achille si era chiamato Pirra nei giorni in cui si nascondeva in vesti femminili tra le ragazze alla corte di Licomede nel tentativo di non partire per la guerra di Troia. Il re d’Epiro, oltre alla principessa Antigone, aveva altre numerose mogli, dando adito alla diceria 143
che, non bastandogli una sola donna, ogni notte se ne portasse a letto almeno tre o quattro. I tarantini per trarlo nel loro gioco attesero che un gesto dei romani potesse apparire una provocazione. Avvenne che nei pressi di Sibari, la città greca di Turii che stava per essere assalita dai lucani, chiese nel 282 man forte ai romani. E questi, rispondendo all’appello se non altro per cogliere l’occasione di arrivare allo Ionio, penetrarono con dieci triremi nel porto di Taranto contravvenendo al trattato che vietava quella mossa. Immediata fu la reazione dei tarantini che in quel giorno celebravano i giochi nel teatro di Dioniso dinanzi al mare. In massa si precipitarono furenti con i loro vascelli sulle navi romane inabissandone quattro. Ne catturarono una e costrinsero le altre alla fuga in mare aperto dopo aver fatto a pezzi i comandanti delle triremi affondate. A questa prima violenta risposta seguì il ricorso a Pirro, con tanto di giustificazione formale per poter legittimamente dichiarare guerra ai romani. I tarantini promettevano al re molosso un contingente di ventimila cavalieri e centocinquantamila fanti, con presenze di sanniti, lucani e messapi. Furono queste cifre, oltre all’ambizione e all’ingordigia sfrenate, a convincere Pirro a intraprendere una straordinaria avventura nella penisola che si stendeva a occidente del suo regno. Egli arrivava in Italia a trentotto anni, sbarcando a Taranto nella primavera del 280, animato da un combattivo entusiasmo che egli aveva ereditato sia dal lontano Neottolemo sia da Alessandro il Grande, scomparso da poco più di quarant’anni. Avendo sposato la principessa Antigone, la figliastra di Tolemeo d’Egitto, era potuto tornare in Epiro da 144
dove era stato scacciato. Regnò insieme a uno zio che poi uccise durante una festa. Lui, che già immaginava di poter conquistare l’Occidente in forza delle sue straordinarie doti di condottiero, accettò l’invito dei tarantini. E l’«Aquila», come era anche chiamato, piombò in Italia, dopo una traversata difficile e dopo essere stato preceduto a Taranto dal luogotenente, Milone. Il primo scontro fra Pirro e le legioni romane guidate dal console patrizio Publio Valerio Levino si ebbe il primo luglio del 280 in Lucania, a Eraclea, dove il comandante romano si era attestato per non affrontare a Taranto le schiere di Milone. Le armi di Pirro erano belle e splendenti, ornate con fregi misteriosi, con disegni di animali avvolti da fiamme che si diceva avessero proprietà magiche. Le schiere di Valerio Levino si sbandarono all’apparire sul campo di mastodontiche bestie mai affrontate prima. Erano elefanti. L’epirota ne aveva portati con sé una ventina, e faceva su di essi un grande affidamento. Quegli immani animali erano completamente ignoti ai romani; non ne conoscevano neppure il nome, tanto che sulle prime li chiamarono buoi lucani. I pachidermi, muovendo pesantemente tutti insieme come macchine distruttrici, spaventarono i cavalli dei romani. Nella caotica ritirata i cavalli calpestavano i legionari nell’impossibilità di difendersi. Se un ardimentoso soldato romano, Caio Minucio, non fosse riuscito a colpire uno di quegli elefanti, l’esercito romano avrebbe potuto ben dirsi perduto. Difatti il pachiderma, raggiunto da una freccia, divenne tanto furioso per il dolore da comunicare agli altri elefanti la sua rabbia. Li spaventò tutti. Nel parapiglia che ne seguì, se grave fu la sconfitta per Roma, onerosa fu la vittoria per Pirro. I romani persero quindicimila 145
uomini, e alte furono le perdite dell’epirota, pari a tredicimila soldati, per cui egli stesso, ferito a sua volta, se ne uscì con un’espressione disperata: «Ancora un’altra vittoria come questa, e tornerò in Epiro da solo. Da oggi in poi si ricorderanno a mio disdoro come vittorie di Pirro le vittorie troppo costose». L’epirota si rinchiuse nei suoi accampamenti, e per molti giorni non volle vedere nessuno né toccare cibo. Tenne lontane da sé perfino le seducenti schiave che conduceva al seguito come riposo del guerriero. Superata la crisi, l’avventuroso guerriero offrì la riappacificazione ai romani purché restituissero la libertà alle città greche e ai territori sottratti a sanniti, lucani e bruzii. Aveva cominciato a nutrire una certa fiducia nei romani, in quanto proprio loro gli avevano fatto sapere che un suo coppiere infedele si accingeva ad avvelenarlo. Il re affidò l’incarico di trattare la pace a un suo abile diplomatico, il tessalo Cinea. Di lui Pirro diceva: «Conquista più città Cinea con la sua loquela che io con le armi». In effetti il diplomatico impressionò enormemente i romani per l’avvolgente eloquenza e la forza della memoria. Cinea, appena arrivato a Roma, già chiamava per nome tutti i maggiori personaggi della città, stupendoli. Quando i senatori stavano per adeguarsi all’idea della pace, insorse nella Curia Appio Claudio Cieco. Con una solenne invocazione, il vecchio consolare li ricondusse alla realtà. Disse: «Fino a oggi, o romani, ho maledetto la sorte che mi ha privato della vista, ma ora mi cruccio perché, oltre a essere cieco, io non sia anche sordo, e mi tocchi quindi ascoltare le vergognose decisioni che state per prendere e che sono tali da oscurare la gloria di Roma». Concluse con altre sprezzanti parole con l’intento di impedire 146
una qualsiasi intesa: «Pirro lasci l’Italia, e allora potremo parlare». La sua invettiva era un convincente modello di oratoria, sicché Cinea fu espulso dalla città, e la pace rimandata. Il diplomatico si era fatta un’ottima idea dei romani in ognuno dei quali aveva visto un re, come aveva detto a Pirro al suo ritorno. Espresse l’opinione che affrontare quel popolo equivaleva a battersi con l’Idra: a tagliarle una testa ne ricrescevano due. Pirro non si lasciò impressionare dalle parole di Cinea, e riprese a guerreggiare. Guidò le sue falangi in direzione di Roma con la speranza di attrarre a sé i popoli che fossero scontenti del dominio romano. Proseguiva la marcia con baldanza, ottenendo l’appoggio dei lucani e dei sanniti. Strapazzata Fregellae e varcato il Liri, era arrivato nei pressi dell’Urbe agognata, alla ventesima pietra miliare, e già la scorgeva dalle alture di Preneste. Ma nel frattempo i romani avevano imparato ad affrontare gli elefanti, contrapponendo alle mastodontiche bestie macchine di guerra coperte simili a quelle che i galli avevano lanciato contro di loro. Usavano anche palizzate che apparivano semoventi, tali da spaventare gli elefanti i quali, costretti a retrocedere, gettavano nello scompiglio le linee epirote. Il console Valerio Levino seguiva da presso l’invasore, provenendo dalla Campania. Dall’Etruria arrivava l’altro console, il plebeo Tiberio Coruncanio, per cui Pirro, che rischiava di essere rinserrato in una tenaglia, fu indotto a interrompere l’avanzata e a tornare indietro, sapendo oltre tutto come Roma fosse ben difesa dalle schiere del dittatore Gneo Domizio Calvino. Al solito l’epirota aveva insieme successo e 147
insuccesso. Ad Asculum (Ascoli) d’Apulia nella primavera dell’anno successivo, il 279, vinse ancora, sempre a caro prezzo e procurandosi una ferita a un braccio. L’occupante indietreggiò fino a Taranto, per poi lasciarla con disonore fra la disperazione dei cittadini. Al di là dello stretto raggiunse Siracusa che gli chiedeva aiuto contro i cartaginesi, eterni nemici. Ma presto tornò di nuovo sul continente, anche perché i cartaginesi si erano mostrati più forti di lui in terra e per mare. I romani non erano accorsi al fianco dei cartaginesi, i punici, come loro li chiamavano. Eppure un patto di amicizia li legava alla potenza d’oltremare. Si erano invece preparati a contrastare un nuovo assalto di Pirro che quella volta si atteggiava a difensore dei sanniti i quali si sentivano ancora minacciati da Roma. Il Senato affidò parte dell’esercito al console plebeo Manio Curio Dentato e parte all’altro console Lucio Cornelio Lentulo. Il primo marciava verso il Sannio, il secondo verso la Lucania. Molti segni celesti li avevano messi in guardia contro gli imprevisti della guerra, un fulmine aveva colpito la statua di Giove Capitolino. Da cinque anni Pirro era arrivato sulla penisola, quando le schiere di Curio Dentato ebbero con lui uno scontro decisivo. La battaglia, nella primavera del 275, si svolse a Maleventum nei campi Arusini. L’epirota e i suoi elefanti furono sconfitti. Contro quegli animali i legionari scoccavano frecce incendiarie e muovevano carri forniti di aste di ferro sulla cui punta portavano bracieri ardenti. I romani celebrarono il trionfo contro il nemico facendo sfilare per le vie dell’Urbe gli elefanti. Ormai essi stessi mogi prigionieri, suscitavano l’ilarità delle folle che non li avevano mai visti prima. In quell’anno fortunato, 148
Maleventum divenne Beneventum, in segno di gloria, e Pirro in lacrime, passando brevemente per Taranto, riprese il mare alla volta dell’Epiro. Aveva rinunciato alle conquiste in Occidente ma non a quelle in Oriente, per cui continuò a battersi avventurosamente fino a quando fu una povera vecchia a decretare la morte di lui, grande generale, colpendolo alla testa con una tegola che gli aveva lanciato addosso dalla finestra di una casupola della città di Argo. Era il 273 prima di Cristo. Roma doveva ancora misurarsi di volta in volta con gli antichi nemici – tarantini, sanniti, lucani, bruzii – e con i nuovi – piceni, salentini, messapi. Chi le si opponeva era non soltanto debole, ma anche privo di sostegni esterni, mentre da quegli scontri i romani uscivano sempre più forti, e sempre più incontrastabili erano la loro supremazia e il loro espansionismo, tanto che Roma divenne padrona di tutta l’Italia centromeridionale, non escluse Brindisi, Taranto e Reggio attraverso terribili carneficine. Sotto il dominio romano si era pacificata anche la situazione a nord dell’Urbe. Etruschi e umbri non potevano fare più niente contro Roma.
149
XI Si pensava che potesse cominciare per la repubblica una fase di assestamento delle conquiste ottenute, consolidando la comune entità della confederazione romana – politica, economica e sociale – che da Ariminum (Rimini) a Reggio racchiudeva tante diverse etnie, quelle dei romani, degli alleati e delle colonie. Il fato imprimeva invece agli eventi un corso nuovo verso ulteriori sconfinamenti, via mare, nel Mediterraneo. Forte era la dirimpettaia Cartagine, regina dei commerci marittimi, ma che ora, dopo la sconfitta di Pirro, era in pericolo anch’essa. Cartagine – simile a una mano protesa nelle acque – era una città popolosa, opulenta e assai bella, fondata poco prima dell’800 a.C. dall’errabonda Didone-Elissa, figlia del re della fenicia Tiro, che si era messa alla testa di una masnada di fuggiaschi politici e aveva gettato l’ancora sulla costa d’Africa, su una penisola tra il lago di Tunisi e il mare fino alla baia di Utica, dove il re dei getuli selvaggi, Iarba, le aveva consentito di accasarsi. Quella colonia fenicia fu chiamata Città Nuova, Qart Chadasht, e quindi Carthago per i latini dopo essere passata per il termine greco di Karchedòn. Roma aveva avuto rapporti molteplici con la Città Nuova, temendola e sfidandola, sottoscrivendo con essa vari trattati di sempre instabile buon vicinato lungo i secoli – fin dal 509 e ancora nel 348 e nel 306 –, consentendole la supremazia sui mari per avere in cambio mano libera nell’Italia inferiore, 150
tacitamente esclusa la Sicilia cui miravano i cartaginesi. Sul Mediterraneo si affacciavano altre potenze – Egitto, Siria, Macedonia – economicamente più forti di Roma, ma assai meno progredite in quanto a organizzazione dello Stato. Dall’intreccio dei rapporti fra Cartagine e Roma era emersa la tempestosa passione fra Didone ed Enea, e quindi era apparsa stretta la relazione fra le due città. Cartagine era anche accorsa con la sua flotta fino all’altezza del Tevere a sostenere Roma contro Pirro. Ma via via che i cartaginesi estendevano le loro colonie in Sardegna e soprattutto in Sicilia, tanto da costituire un ragguardevole impero, i patres avvertivano l’avvicinarsi di un serio pericolo per il ruolo della loro città. Non piacevano nemmeno fisicamente quei cartaginesi, con lunghe barbe, lunghi anelli al naso e lunghe vesti; profumati, ma sanguinari; infine lussuriosi. La Sicilia si presentava come terreno e motivo di scontro fra le due potenze. Lo aveva previsto lo stesso Pirro tornandosene a casa. Alcune migliaia di funesti mercenari campani erano arrivate fin lì al servizio di Agatocle, il tiranno di Siracusa che si batteva contro i cartaginesi. Conclusa la loro opera, nel 289 si erano impadronite a tradimento della rocca di Messina e, inorgoglitesi del successo, avevano cominciato a farsi chiamare mamertini dicendosi figli del dio osco della guerra Mamers. Quando poi furono assaliti, sconfitti e assediati dal nuovo tiranno siracusano, Ierone, chiesero un aiuto esterno, ma in due diverse direzioni: una parte di loro si rivolse ai cartaginesi, l’altra parte ai romani. Mentre l’Urbe non aveva ancora compiuto il grande balzo politico e militare oltre lo stretto, anche perché sbarcare in 151
Sicilia sarebbe equivalso a sfidare a viso aperto la grande potenza di Cartagine con la quale era alleata, i cartaginesi avevano già sconfitto Ierone e occupato Messina. Qui avvenne l’inevitabile, anche a causa dell’alleanza fra Roma e le città della Magna Grecia che temevano l’invadenza punica. Sicché le schiere romane incrociarono le armi con le truppe cartaginesi. E le sconfissero. Neppure ai romani poteva infatti piacere che la città africana avesse esteso i suoi tentacoli fino a Messina. Questa roccaforte poteva diventare il ponte di lancio dei cartaginesi verso la penisola, e ai romani non rimaneva che tentare di scongiurare un così grave pericolo. Fu il console Appio Claudio, detto Caudex, che, inatteso, nella primavera del 264 a.C. affrontò con due legioni i cartaginesi, dando formalmente inizio alla prima guerra punica col suo sbarco in Sicilia. Roma, a poco meno di cinquecento anni dalla fondazione, si muoveva con l’entusiasmo di tutto un popolo per la più grande impresa bellica che avesse mai affrontato. A Reggio il console aveva esitato, incerto se lanciarsi o no nell’agone. Attaccare ora o attendere? I cartaginesi, forti sui mari, erano altrettanto temibili con gli eserciti terrestri, essendo oltre tutto alleati di Siracusa e avendo al proprio servizio bellicosi mercenari. Caudex decise di attaccare. Riuscì a forzare lo sbarramento navale del nemico e, con cruenti battaglie terrestri, a impossessarsi di Messina. Gli auspici erano favorevoli. A questo punto Ierone pensò bene di lasciare i cartaginesi e di allearsi con Roma. I cartaginesi non si persero d’animo, anzi accentuarono gli attacchi e cercarono nuove alleanze, con i galli, gli iberici, i liguri. La città greca di Agrigento divenne la loro nuova 152
roccaforte. Contro di essa si precipitarono gli eserciti romani assediandola per cinque mesi e ottenendo nel 262 ancora un successo, ma con la perdita di trentamila uomini. Bisognava adesso operare più attivamente sul mare, per cui il Senato fece approntare una nuova arma marina. Erano gli uncini che, chiamati «corvi», o «mani di ferro», potevano agganciare dalle prue delle navi romane i vascelli punici che capitavano a tiro. In tal maniera i romani, che non avevano una particolare predilezione per le battaglie navali in quanto venivano combattute a distanza, da una nave all’altra, erano riusciti a imporre il corpo a corpo anche sul mare. Attraverso le passerelle dei «corvi» potevano gettarsi sul nemico, e con l’arrembaggio consentivano ai loro soldati di combattere in mare come se fossero sulla terra, trasformando con quei marchingegni una battaglia navale in una battaglia terrestre. La nuova flotta, anche se non immediatamente, fu affidata al console plebeo Caio Duilio, uomo dal carattere sfuggente, ma famoso per la fermezza dei suoi colpi di spada. Nella primavera del 260 Duilio scese verso la Sicilia, quando ormai la guerra si protraeva da tre anni. Si scontrò con le navi cartaginesi nelle acque di Mylae (Milazzo), e ne uscì vittorioso, con grave scorno per la flotta nemica che si era creduta invincibile. Centoventi navi romane, costruite in serie e in tutta fretta, avevano fronteggiato centotrenta navi cartaginesi distruggendone la metà. Di quelle imbarcazioni, cento erano quinqueremi e venti triremi. L’impresa navale non era stata semplice, ma i romani l’avevano affrontata convinti come sempre che la fortuna aiutasse gli audaci. A Roma il Senato gioiva per la vittoria che un popolo aduso a 153
lavori agricoli, rapidamente tramutato in marinai, aveva riportato su vecchi e sperimentati lupi di mare. In breve tempo i romani avevano imparato a remare, simulando i movimenti dei rematori su grandi pontili di legno piazzati in riva al mare. Quei novelli marinai non si erano lasciati scoraggiare neppure dall’antico terrore per i mostri marini di cui si favoleggiava e che dominavano lo stretto, Scilla e Cariddi. A Duilio fu tributato un eccezionale trionfo per quella vittoria, e veniva scortato in segno di riconoscenza da un flautista e da un portatore di fiaccole quando tornava a casa di notte. Nel Foro fu innalzata in suo onore un’alta colonna con i rostri delle navi nemiche da lui catturate. Questo non bastò per indurre alla resa i cartaginesi. L’Urbe dovette ancora impegnarsi in una lunga serie di battaglie terresti e navali nel Mediterraneo, fino a quando non si decise ad affrontare direttamente il nemico in territorio africano, a sette anni dall’inizio della guerra e a quattro dalla vittoria di Caio Duilio. In previsione dello sbarco i romani avevano approntato una nuova flotta. Per fornirsi del legname avevano disboscato le foreste della Sila, e per la costruzione delle quinqueremi avevano preso a modello una nave nemica che si era arenata sulle coste dei bruzii. Questa improvvisata ma forte squadra navale romana fu affidata ai consoli Lucio Manlio Vulsone Longo e Marco Attilio Regolo. Regolo era già stato console undici anni prima e si era coperto di gloria nella conquista di Brindisi. La flotta comprendeva duecentotrenta navi da battaglia e ottanta da trasporto, con un equipaggio complessivo di centomila uomini. Altrettanto imponenti erano le proporzioni della squadra navale 154
punica, per cui si fronteggiavano più di duecentomila uomini. Lo scontro avvenne nel 256 al largo di capo Ecnomo, un promontorio sulla costa meridionale della Sicilia, e segnò una bruciante sconfitta per i cartaginesi più che mai disorientati dall’impiego delle famose «mani di ferro». Nella cruenta battaglia navale i romani persero ventiquattro vascelli, i cartaginesi novantatré, di cui trenta affondati e sessantatré catturati con i soldati a bordo. I romani, e la cosa appariva inverosimile ai loro stessi occhi, avendo nuovamente battuto una grande potenza marinara tanto da avviarla alla decadenza, potevano spadroneggiare sul Mediterraneo. La vittoria dell’Ecnomo si rivelava di primaria importanza. Avevano via libera sicché, dopo aver riparato i guasti e rinnovate le scorte, poterono finalmente salpare per l’Africa, guidati da Regolo. Le navi di testa cominciarono a intravedere il promontorio Ermeo, la punta di terra a oriente del golfo di Cartagine. Le urla di gioia della ciurma svegliarono i comandanti che, prima di proseguire, decisero di attendere il grosso della flotta. Era la prima volta che i romani arrivavano armati a così breve distanza dall’eterna rivale. Quindi, avvicinatisi ulteriormente, attaccarono nei pressi d’una città che gli abitanti del luogo chiamavano Aspis, e che loro ribattezzarono Clupea. Tirate in secco le navi, strinsero d’assedio il luogo senza trovarvi grandi resistenze. I punici non avevano approntato alcuna difesa sui loro territori, fidando nel fatto che mai nessuno sarebbe potuto arrivare fin lì contro la loro volontà. L’assedio non durò a lungo ed, espugnata la città, Regolo poté rifornirsi di vettovagliamenti. Il console stabilì la sua prima base 155
militare a Clupea. Intanto si chiedevano istruzioni al Senato. Nelle lunghe notti libiche, Regolo si sorprendeva a guardare intensamente le stelle, lui, il generale tanto fortunato da trovarsi alle porte della città che da tempo immemore costituiva l’altra metà del mondo, l’unica città che potesse rivaleggiare in potenza con Roma. Agitate erano le notti di Regolo. I soldati le trascorrevano fra grandi risate e bagordi, mentre lui rifletteva sulla storia di Roma e sulle profezie di Romolo che avevano preannunciato al primitivo villaggio di pastori e masnadieri un glorioso avvenire. Regolo cominciò a marciare a occidente verso la non lontana Cartagine, per accamparsi a poca distanza dalla città. I punici avevano creduto che i cento elefanti da loro immessi nella mischia avrebbero potuto mettere in fuga il nemico, ma i romani ormai sapevano come affrontarli. I cartaginesi, sfiduciati, chiesero di trattare la pace. Regolo però imponeva condizioni in realtà inaccettabili, tanto erano dure e ultimative. «Consegnateci tutte le vostre navi, pagateci tutte le spese di guerra, cedeteci la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, le Baleari», questo chiedeva rigidamente Regolo, come non desiderasse altro che farsi rispondere di no. Difatti i cartaginesi risposero di no. Si erano nel frattempo preparati a nuovi scontri, rinforzando l’esercito con cavalieri numidi – popolo nomade di origine berbera sempre votati alla morte che si trovavano nei dintorni di Cartagine – e con soldati sia iberici sia greci. Affidarono il comando a un generale assai esperto, Santippo, mercenario spartano. Anche lui mise in campo gli elefanti – ne schierò un centinaio –, e quella volta i romani al loro cospetto si diedero alla fuga. Nel 255 Regolo, 156
rimasto da solo in Africa poiché il collega Lucio Manlio Vulsone Longo si era allontanato per mettere al sicuro la flotta, cadde lui stesso prigioniero, catturato da Santippo. Con la sua vittoria, l’abile generale spartano suggellava il fallimento della spedizione africana dei romani. Trascorsero cinque anni prima che i punici rinviassero Regolo a Roma sulla parola perché fosse lui a riproporre le condizioni di resa. Ma davanti al Senato, Regolo non fece altro che esortare i concittadini a proseguire nella guerra. Svolta la sua missione, non nel senso voluto dai cartaginesi, egli, sciogliendosi dalle suppliche del Senato e dall’abbraccio dei familiari, se ne tornò in Africa, per mantenere la parola data, con animo sereno come se si recasse in vacanza tra gli ulivi nelle campagne di Venafro. I cartaginesi lo ripagarono barbaramente con una straziante morte: lo fecero rotolare giù per una china rinchiuso in una botte irta di chiodi. A Roma il Senato manteneva la calma, sicché in breve volgere di tempo poté inviare una nuova flotta in Africa, se non altro per recuperare i superstiti e non lasciarli ingenerosamente alla mercé del nemico. Disastroso fu per le navi il viaggio di ritorno. Durante la navigazione la flotta, incappata in una furiosa tempesta estiva al largo di Camarina siracusana, perse più di duecentottanta vascelli e sessantamila uomini. In un estenuante gioco di sfide e controsfide, cartaginesi e romani continuavano ad accapigliarsi. Il terreno di scontro fra le due potenze fu ancora una volta la Sicilia. I romani, scacciato il nemico da Panormo, puntarono nuovamente su Cartagine, ma inutilmente. Riuscirono invece nel 250 a battere, con il console Lucio Cecilio Metello, le truppe 157
cartaginesi che, agli ordini d’un loro generale, un Asdrubale figlio del comandante Annone, avevano cercato di riprendersi l’importante città. Rincuorati, i romani trovarono la forza per scacciare quasi completamente il nemico dalla Sicilia. E mantennero una sostanziale superiorità fino a quando nel 247 non apparve sulla scena un fulmine di guerra come si rivelò essere un fortissimo generale cartaginese. Aveva nome Amilcare, ed era un giovane trentenne. Il suo stesso cognomen, Barca, significava «fulmine». Ottenuto il comando in Sicilia, Amilcare Barca con rapide sortite sorprendeva e sconfiggeva i romani un po’ dovunque. Prima sulle coste del Bruzio e poi direttamente su quelle siciliane, attestandosi sui monti a nord di Panormo. Ma non erano solo quelli i suoi obiettivi, tanto che arrivò a colpire le coste di Cuma. Ciò non gli fu sufficiente per riconquistare la Sicilia, e a scoraggiarsi furono i cartaginesi che non ressero all’urto. Si aveva l’impressione che quella lotta non potesse avere mai più fine. La pazienza dei popoli era allo stremo, si esaurivano le riserve degli uni e degli altri. Roma fu costretta a ricorrere a un prestito pubblico per strappare ai cittadini un po’ di denaro, in base al loro censo. Il denaro così rastrellato sarebbe stato rimborsato soltanto in caso di vittoria. I cartaginesi invece si rivolsero ingenuamente ai Tolemei d’Egitto, e fecero un buco nell’acqua poiché gli egiziani non vollero guastarsi con Roma. I romani approntarono una nuova flotta di trecento navi, agli ordini del console Caio Lutazio Catulo. Anche i cartaginesi rafforzavano le proprie navi con l’intenzione di rifornire la Sicilia. Le due flotte erano destinate a scontrarsi, e difatti nella mattinata del 10 marzo 241 il mare delle isole Egadi fu teatro di 158
una cruenta battaglia navale, la terza dopo quelle di Mylae e di Ecnomo. Al termine dei combattimenti i cartaginesi constatarono di aver perso centoventi navi, di cui cinquanta affondate e settanta cadute in mani nemiche. Ciò significava che i romani avevano ripreso il sopravvento sul mare, imponendo l’interruzione dei contatti fra la Sicilia e l’Africa. I punici immalinconiti si ridussero a chiedere la pace. Roma, ammaestrata dalla vicenda di Attilio Regolo e poiché non le sembrava vero che il nemico si arrendesse dopo una guerra protrattasi per ventiquattro anni, sedette al tavolo delle trattative con animo ben disposto. Ottenne quanto chiedeva, cioè che Cartagine lasciasse la Sicilia, restituisse i prigionieri e pagasse una cospicua indennità. Si concluse così nel 241 la prima guerra punica. Per la prima volta, dopo Numa Pompilio, si chiusero le porte del tempio di Giano. Le perdite erano state gravi in navi, armamenti e uomini; immani i sacrifici sopportati dai popoli. Ai romani vennero distrutte in battaglie e naufragi settecento quinqueremi; ai cartaginesi cinquecento. Tutto questo non fu però utile al mantenimento di buone relazioni fra le due grandi potenze. Roma aveva conquistato la Sardegna e la Corsica strappandole ai cartaginesi e facendone una provincia; aveva poi superato gli sfibranti conflitti con i crudeli pirati dell’Illiria e si era saldamente attestata sulle due sponde contrapposte dell’Adriatico, l’illirica e l’italica. In più aveva invaso la Gallia Cisalpina, l’intera valle del Po sottraendo Mediolanum ai ferocissimi galli insubri, fondando a Mutina (Modena) una colonia a dispetto dei non meno feroci galli boi. Il maggior merito in queste imprese lo avevano avuto grandi personaggi 159
come l’abile stratega Gneo Cornelio Scipione della gens Cornelia, il bellicoso Marco Claudio Marcello e il novus homo Caio Flaminio, console plebeo, tutti con un appropriato uso delle forze armate e con il ricorso a cerimonie magiche. Le conquiste consentirono a Flaminio di aprire una grande strada per collegare Ariminum a Roma, e che da lui prese il nome di via Flaminia.
160
XII A far più grande Roma si era unita all’esercito terrestre una nuova architettura politica e amministrativa che aveva per base la potenza marinara e l’amore per il commercio. Un amore che si era pericolosamente insinuato un po’ dovunque. Tutti volevano commerciare. Anche molti senatori, in passato meno interessati a quel tipo di attività, si gettarono nell’agone, acquisendo navi in prima persona e reggendo aziende commerciali. Si erano riaperte le porte di Giano, ancor prima che romani e cartaginesi si gettassero in un nuovo conflitto. Tra i cartaginesi, soprattutto Amilcare Barca non poteva fermarsi davanti alle sconfitte che la patria aveva subito. Cercava di riscattarne l’onore con nuove imprese belliche e di risollevarne le estenuate condizioni economiche attraverso l’acquisizione di nuove fonti di ricchezza, l’imposizione di tributi e lo sfruttamento delle miniere. La Spagna gli si mostrava come la soluzione di entrambi i problemi. E lui partì per quei lidi, dove avrebbe trovato gloria militare e vaste ricchezze minerarie, argento, rame, ferro, stagno. Dove Cartagine, che aveva perso le grandi isole del Mediterraneo, avrebbe potuto ottenere la rivincita se non nella penisola iberica? Non fu facile per il generale punico convincere il suo governo a prendere questa iniziativa. La sua città, dominata dall’aristocrazia terriera, intendeva sfruttare l’impero territoriale cartaginese in Africa piuttosto che 161
impegnarsi in conquiste marittime a favore della classe mercantile. Ma, alla fine nel 237, Amilcare riuscì a muovere il suo esercito. Con questa spedizione egli accentuava il suo distacco dal capo del governo cartaginese, Annone il Grande, il quale osteggiava la famiglia dei Barca che invece guidava nella capitale africana il partito degli imperialisti. Cartagine già possedeva in Spagna alcune colonie, e da queste Amilcare prese l’iniziativa bellica che protrasse per otto anni, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 229. Gli avevano teso un tranello mentre attraversava un fiume e morì annegato. Aveva riportato ovunque grandi vittorie, ma il suo obiettivo, oltre alla conquista, era quello di avere gli spagnoli dalla sua parte. I romani cominciavano a preoccuparsi, ma lui, ironicamente, li pregava di sopportare le sue vittorie perché soltanto così Cartagine avrebbe potuto pagare a Roma i debiti di guerra. Arrivando nel 237 nell’antica colonia fenicia di Cadice, aveva portato con sé il suo primogenito, un bimbetto di appena nove anni: Annibale. Quando era ancora in patria Amilcare aveva fatto solennemente giurare al figlio, su un altare durante un sacrificio compiuto in onore della divinità punica Baal, che avrebbe per sempre odiato i romani. La notizia del giuramento, rafforzata dalla presenza del ragazzetto in Spagna, aveva fatto sospettare che la conquista punica della penisola iberica avvenisse in funzione antiromana, a mo’ di largo aggiramento. Scomparso Amilcare nell’insidioso fiume, quando già pensava di aggredire l’Italia, il comando fu assunto per volere dei soldati dal genero Asdrubale, grande diplomatico oltre che buon generale e capo del partito popolare. Al figlio Annibale, benché assai giovane, fu assegnato il comando della cavalleria. Era un 162
po’ movimentata la vita privata di Asdrubale, giovane dal volto dolce e dal fisico atletico. Si diceva che Amilcare gli avesse data in sposa la figlia per poter aggirare le disposizioni dei censori e tenerselo vicino, appunto come genero, da lui sconciamente amato. Ma Asdrubale aveva preso in Spagna, per ragioni politiche, anche una nuova moglie, una principessa di quei luoghi. Su una collina, in posizione strategica con vista sul mare verso l’Africa, aveva fondato una città cui aveva dato il nome di Carthago Nova in onore della patria. Proseguiva nella sua avanzata per cui raggiunse il fiume Ebro che, in base a un trattato, era diventato il confine fra le zone d’influenza delle due potenze. Il suo dominio iberico durò otto anni, e alla sua morte, dovuta al gladio di uno schiavo gallico, l’esercito conferì i pieni poteri, confermati da Cartagine, al giovane Annibale Barca che, in quel 221, aveva appena compiuto venticinque anni. Ora Annibale avrebbe potuto attuare il giuramento reso al padre Amilcare. La figura del nuovo comandante era vigorosa, la sua norma di vita severa. Era audace e prudente secondo le circostanze. Non aveva bisogno di nulla, gli bastava essere il capo. Se necessario prendeva sonno anche disteso sulla nuda terra. Era modesto nell’abbigliamento, ma superbi erano i suoi cavalli e lucenti le sue armi più di quelle di ogni altro generale. Per primo si gettava nella mischia, per ultimo se ne ritraeva. Sebbene fosse in Spagna da invasore, si mostrava amico di quelle popolazioni tanto da prendere in moglie, anche lui come aveva fatto Asdrubale, una principessa spagnola di Castulo, capitale degli oretani. Nel 219 il nuovo comandante punico fece in breve una mossa 163
ardita attaccando Sagunto, una città indipendente e protetta da Roma pur trovandosi a sud dell’Ebro. Impiegò ben otto mesi per espugnare nel novembre dell’anno successivo quella roccaforte che dominava la pianura dall’alto di un massiccio roccioso, ma diede un segno ai romani di quanto egli fosse il più pericoloso dei generali cartaginesi e quanto ormai l’esercito punico fosse vicino. Roma si era peraltro attardata nel prendere decisioni su Sagunto, sicché si diceva che, mentre i romani discutevano, la città veniva espugnata, dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. La violenza di Annibale sconvolse i saguntini al punto che molti di loro, temendo il peggio una volta caduti sotto il tallone dei cartaginesi, preferirono gettarsi su immense pire e morire consunti dalle fiamme. Nella sua complessa personalità, Annibale rivelava un carattere aspro e crudele, oltre a una profonda irriverenza per gli dèi. Totalmente spergiuro, egli sentiva di dover rispettare soltanto la promessa fatta al padre: odiare i romani all’infinito. Annibale aveva posto sotto assedio Sagunto. I romani gli avevano inviato ambasciatori per imporgli di rispettare l’indipendenza d’una città loro alleata. Ma la missione fu inutile poiché il duce cartaginese era già passato all’azione. Allora i romani inviarono ambasciatori a Cartagine, ma ancora una volta non ebbero soddisfazione. Difatti la famiglia imperialista dei Barca aveva saputo contrastare Annone il Grande che pure si era sempre mostrato sensibile alle richieste di Roma. Annone aveva ognora condannato l’istintiva bellicosità di Annibale, tanto da odiarlo profondamente. Considerava il giovane generale come la furia eccitatrice della guerra. Niente era valso a frenare Annibale, neppure il doloroso richiamo di Annone alle 164
cocenti sconfitte subite dai cartaginesi, come il disastro navale delle Egadi. Caduta Sagunto, i romani inviarono una nuova ambasceria a Cartagine per chiedere al governo di Annone la consegna di Annibale che, contravvenendo a ogni regola, aveva proditoriamente aggredito la roccaforte da loro protetta. Il rappresentante dei Barca presente all’incontro si rivolse duramente agli ambasciatori, e uno di essi, desolato, compiendo un gesto solenne pronunciò poche parole. Sollevando la toga, come se nella piega che si era formata nascondesse qualcosa, disse: «Qui dentro, o cartaginesi, ci sono la guerra e la pace. Prendete ciò che volete». Si era levato un grido: «Dacci quello che vuoi». «Allora vi do la guerra», replicò il messo; «Bene accettiamo il dono» risposero tra le urla i seguaci dei Barca. Così cominciava la seconda guerra punica, quando in realtà né Roma né Cartagine se l’aspettavano tanto vicina. C’erano però tutte le ragioni perché il conflitto riesplodesse: da una parte i cartaginesi si erano estesi in Spagna; dall’altra parte i romani si erano impossessati della Gallia Cisalpina. Sembrava che per Annibale la guerra cominciasse male poiché, trovandosi lui sotto le mura di Sagunto assediata, fu colpito a una coscia da un giavellotto. L’evento provocò un rallentamento delle operazioni belliche, ma, non appena la ferita fu risanata, i cartaginesi espugnarono la città e si misero in marcia verso l’Italia settentrionale. Era l’aprile del 218. La prima tappa consistette nell’attraversare il fiume Ebro, quando già si era cominciato a delineare il vero obiettivo della colossale impresa annibalica: unirsi ai galli e aggredire l’Italia. Il generale aveva sognato un giovane dio che gli diceva: 165
«Giove mi ha inviato da te perché io ti sia da guida nel tuo cammino verso la penisola italica». A parte i trentasette elefanti che aveva al seguito, il suo esercito non era granché consistente, e inoltre via via si ridusse ancora per molte sciagure e defezioni. Così Annibale si trovò ad affrontare i Pirenei con cinquantamila fanti e novemila cavalieri. Se pessime erano state le condizioni climatiche sui monti impervi, fastidiosissimo fu il passaggio nella valle del Rodano dove le popolazioni galliche s’interponevano con inutili e speciose lungaggini che facevano perdere tempo prezioso ad Annibale. I volsci narbonesi gli si opponevano invece con le armi. Anche gli elefanti, che erano la sua più travolgente forza d’urto, gli crearono gravi problemi nell’attraversare le acque del Rodano su zattere o seguendo la corrente del fiume. Annibale aveva ormai ben chiaro il suo piano d’azione. Sebbene avesse davanti a sé le Alpi e non conoscesse la strada da percorrere, decise egualmente di cominciare la marcia verso la penisola. Avrebbe aggredito la federazione italico-romana, ripetendo la scalata che alcuni secoli prima avevano già compiuto le popolazioni celtiche di Belloveso. Alle sue spaventate truppe rivolse un lungo discorso per rincuorarle. I popoli gallici lo lasciarono avanzare, tuttavia impiegò nove giorni per raggiungere il valico del Monginevro fra le turbinose tempeste di neve che si erano scatenate nel settembre di quel fatale 218. Nel lento inerpicarsi su per gli stretti sentieri, molti tra elefanti e cavalli precipitarono nei dirupi, travolti dai macigni che le popolazioni del luogo facevano cadere dall’alto delle montagne. Furono quelle le perdite più gravi subite dai 166
cartaginesi. Si aggiungevano le vittime degli scontri con le tribù di montanari, soprattutto con le tribù degli allobrogi che Annibale incontrava sul suo cammino. Egli impiegò sei giorni per ridiscendere da quei monti insidiosi. Ma prima di ripartire dalla sommità del valico, aveva dovuto ancora una volta rincuorare i soldati. Li aveva chiamati a raccolta. Indicando l’orizzonte aveva detto: «Ecco, la terra che vedete è l’Italia. In due o tre battaglie sarà vostra. E sarà vostra anche Roma, la grande capitale». Erano trascorsi cinque mesi da quando si erano mossi da Carthago Nova, avendo già perso fino a quel momento un gran numero di fanti e di cavalieri, e disponendo soltanto di ventiseimila uomini. Già l’anno prima il Senato romano era sospinto dalla fazione che voleva riprendere la guerra contro Cartagine, con l’idea di vendicare la proditoria occupazione di Sagunto. I senatori avevano divisato di far muovere i due consoli del 218. Così il patrizio Publio Cornelio Scipione, fratello minore di Gneo, partì alla volta della Spagna con due legioni e sessanta navi per contrastare il passo ad Annibale; il plebeo Tiberio Sempronio Longo doveva contemporaneamente raggiungere la Sicilia e quindi l’Africa per colpire al cuore i cartaginesi, con due legioni e centosessanta quinqueremi. Oltre all’insita complessità del piano, a farne fallire l’attuazione sopravvennero le notizie della marcia di Annibale sull’Italia e la conseguente sollevazione degli insubri e dei boi che aggredivano le recenti colonie romane di Cremona e Piacenza. Allora Roma ordinò a Publio Scipione di inviare una legione a contrastare le truppe annibaliche che nel frattempo raggiungevano la valle del Po. Diveniva chiaro che la seconda 167
guerra punica si sarebbe combattuta su territorio italico, a differenza della prima che si era svolta in Sicilia e in Africa. I piani messi a punto da Roma venivano totalmente rovesciati dalla rapida corsa di Annibale, per cui il Senato fu costretto a ritirare dalla Sicilia le truppe di Tiberio Sempronio Longo, che aveva già occupato Malta, e a inviarle precipitosamente nella valle del Po, sul Trebbia. Si replicavano, amplificate, le dolorose esperienze già vissute con Porsenna e con Brenno, invasori. Il primo decisivo scontro fra Publio Scipione e Annibale avvenne al di qua delle Alpi sul fiume Ticino, e fu disastroso per i romani. Lo stesso Scipione fu colpito da una lancia, e si salvò unicamente per l’intervento del figlio, un ragazzo diciassettenne ancora in toga pretesta, che come lui si chiamava Publio e che già appariva come un giovane dal fulgido avvenire. Eppure nelle concioni ai suoi soldati il comandante Publio Scipione aveva rappresentato le truppe cartaginesi come povere ombre discese dalle montagne, ombre congelate, affamate, immerse nella sporcizia. «Quei fantasmi» diceva ancora Scipione «vogliono aggredire la nostra patria, al seguito d’un giovane pazzo che crede di essere un generale. Ci siete voi in difesa di Roma. Voi siete qui come se foste davanti alle mura di Roma.» Anche Annibale parlava ai suoi soldati: «Qui bisogna vincere o morire, fin dal primo scontro col nemico. Siete arrivati fin qui vincitori. Vincerete ancora contro un popolo arrogante e crudele, e il premio sarà immenso. Avrete tutte le terre che vorrete, in Italia, in Spagna, in Africa, e saranno tutte esenti da tasse». Questo diceva «il giovane pazzo che credeva di essere un generale». Fra le cosiddette ombre cartaginesi, in mezzo a nuvole di polvere, spuntò una gagliarda cavalleria che travolse i legionari, 168
costringendoli a ritirarsi. Gli auspici erano negativi per i romani: un lupo divorò molti soldati, uno sciame d’api si posò su un albero cui era addossata la tenda del console. Publio Scipione allora si avvide che la cavalleria cartaginese era forte. Considerato che la grande pianura fra le Alpi e il Po non gli sarebbe stata favorevole, ripassò faticosamente sulla riva destra del grande fiume per raggiungere la colonia di Piacenza e unirsi all’altro console Tiberio Sempronio Longo che stava arrivando ad Ariminum. I galli gioivano per la vittoria dei punici, si ribellarono, e alcune migliaia di loro che militavano nelle schiere romane passarono armi e bagagli nelle file di Annibale. Scipione si attestava sulla destra del fiume Trebbia tra i monti. I due consoli, lo stesso Scipione e Sempronio Longo, disponevano di trentacinquemila soldati, contro ventimila cartaginesi. Le giornate erano particolarmente gelide, e ghiacciate apparivano le acque del fiume in quel dicembre del 218. Con un inganno Annibale manovrò in modo che fosse il console Sempronio Longo ad attraversare il fiume. Gli lanciò contro i cavalieri numidi i quali poi finsero di indietreggiare. Il console ebbe l’impressione di averli scompaginati e di aver vinto la battaglia. Ma, inseguendo il nemico sull’altra riva del Trebbia, i suoi soldati, intirizziti dalle acque del fiume, si trovarono al cospetto dell’intero esercito cartaginese che Annibale aveva abilmente celato e mantenuto in ottima forma. A rendere più drammatica la sconfitta dei romani erano comparsi gli elefanti contro i quali i legionari, affondando tra la neve, avevano inutilmente lanciato innumerevoli dardi cercando di colpirli sotto la coda dove meno dura avevano la pelle. 169
Piombata sull’Urbe la notizia del tracollo, i romani cominciarono a temere che i cartaginesi si sarebbero presto rovesciati sul Campidoglio. Alle sconfitte si univano altri eventi straordinari di cui si cercava di scoprire il significato nei libri sacri. Un bimbetto di sei mesi si era messo a gridare nel Foro come facevano i soldati vittoriosi «Io triumphe!», evviva, trionfo! un bue nel Foro boario si era arrampicato al terzo piano di un edificio e poi si era gettato di sotto; una pioggia di pietre si era abbattuta sulla città; sulla via Appia una statua di Marte si era messa a sudare; un gallo e una gallina avevano reciprocamente invertito il proprio sesso. La speranza, pur flebile, che in futuro tutto potesse andare meglio era sostenuta dalle buone notizie che provenivano dalla Spagna, dove Gneo Cornelio Scipione batteva i cartaginesi, interrompendo il contatto fra quella regione e Annibale. La flotta romana cercava di punzecchiare qua e là le navi nemiche. Ma queste non erano che piccole consolazioni perché in realtà la sconfitta aveva portato alla perdita della Gallia Cisalpina. Arrivava la primavera, e Annibale era invaso dalla smania di andare avanti, sempre avanti verso Roma, anche perché diffidava degli insubri e dei boi. Temeva attentati, perciò mascherava continuamente la sua figura per non essere riconosciuto. Aveva fretta. Marciava con gagliardia verso e oltre gli Appennini. Li aveva valicati al passo di Collina ed era entrato in Etruria. Andava ancora avanti spavaldo ed entusiasta. Eppure, a causa di un’infezione, non vedeva più dall’occhio destro, e per alcune settimane fu costretto a usare una lettiga. Aveva contratto l’infezione nelle paludi che si erano formate per il dilagare dell’Arno. Aver perso la vista da un occhio lo 170
contrariava ma non lo scoraggiava. Fra i tanti elefanti, aveva potuto salvarne uno, sul cui dorso penetrava nel cuore della penisola. Con una nuova abile manovra, colse alle spalle Caio Flaminio che in quel 217 era stato eletto console democratico per la seconda volta in seguito a una protesta della plebe che non condivideva come il Senato e la nobiltà conducevano la guerra contro l’invasore punico. Flaminio si muoveva con il favore del popolo che gli era grato per aver imposto una legge agraria con cui, assegnando nuove terre, si risollevavano le sorti di molti cittadini ridotti in miseria dall’avidità degli usurai. Bisognava porre un freno all’avanzata punica. Perciò, mentre il console Caio Flaminio si predisponeva ad attestarsi intorno ad Arezzo, il collega Gneo Servilio Gemino prendeva le difese di Ariminum. Lo scontro tra Annibale e Flaminio si ebbe intorno al lago Trasimeno sempre nel 217, in giugno, ancora una volta per iniziativa del generale punico che, con un agguato, aveva incapsulato il nemico in una strettoia collinare per altro chiusa dalle sponde nebbiose del lago. Il generoso Flaminio cadeva, colpito a morte dalla lancia di un cavaliere insubro, e di lui rimaneva il ricordo della meravigliosa via Flaminia. Anche l’esercito di Servilio, che arrivava con ritardo, fu sconfitto. A tutto ciò si aggiungeva un fragoroso terremoto che scosse l’Umbria e ne deviò i fiumi. Nell’immane e disastrosa battaglia del Trasimeno avevano perso la vita quindicimila soldati romani, e altri dodicimila si erano dati alla fuga facendo perdere di loro ogni traccia. Ci fu l’annuncio drammatico del pretore nel Foro: «Siamo stati sconfitti in una grande battaglia». Sul campo dello scontro si 171
alzava ancora la polvere, e forte era il lezzo dei morti. La notizia di un evento così disastroso gettò più che mai Roma nella costernazione, sebbene anche al comune plebeo cominciasse a essere chiaro come Annibale facesse leva su una formidabile arma propagandistica per attrarre a sé le popolazioni delle terre da lui invase. Concedeva a tutte la libertà, dicendo che le liberava dalla schiavitù romana. Dichiarava che il suo vero scopo non era di combattere contro gli italici, ma di liberarli da Roma, la vergognosa capitale della prepotenza, della violenza e dell’usura. Faceva male i suoi conti, sulla base di errate informazioni che gli descrivevano debole il sistema di alleanze creato da Roma nella penisola.
172
XIII Messi alle strette, i romani nominarono un dittatore e gli affidarono le sorti dell’Urbe in pericolo. Era ancora il 217. Scelsero per l’importante carica l’anziano generale Quinto Fabio Massimo, che era soprannominato il Verrucoso a causa di una escrescenza su un labbro. Era un patrizio che già aveva ricoperto lo stesso ruolo in un’altra occasione. Noto per le sue doti di uomo prudente, era già stato censore e per due volte console. Sedici anni prima aveva trionfato sui liguri. Da pessimista ordinò per prima cosa che si rafforzassero le mura della città. Sensibile al rispetto dell’onorabilità, fece erigere un tempio al dio dell’onore Honos. La situazione era diventata così preoccupante che Roma decise di indire una primavera sacra, ver sacrum, per offrire agli dèi molte vittime sacrificali, suini, pecore, capre e buoi. Annibale, avuta notizia delle opere di fortificazione in corso a Roma, si rinsaldò nell’opinione di non affrontare direttamente la città ma di aggirarla per poi cercare di prenderla dal basso. Per fare questo doveva infliggere altre sconfitte agli eserciti romani, separarli dagli alleati e dai coloni e via via demoralizzarli. Già migliaia di insubri e di boi lo avevano seguito nel suo cammino verso il Sud. Con la discesa in Umbria prendeva corpo il suo piano ambizioso di aggiramento, ma una volta arrivato in quella regione non riuscì a impossessarsi della colonia latina di Spoleto. Anzi vi subì un grave rovescio, ma 173
egualmente poté passare oltre nel Piceno e dirigersi, saccheggiando e seminando morte, lungo l’Adriatico verso l’Apulia. Trovata anche qui resistenza, per l’opposizione delle colonie romane di Luceria e Venosa, mutò direzione puntando sul Sannio e sulla Campania dopo aver riattraversato gli Appennini. Il dittatore Fabio Massimo, pur essendo prudente nel dare battaglia, era rapido negli spostamenti. Difatti fiancheggiava Annibale in ogni sua mossa pur senza accettare battaglia. Si trovava alla testa delle legioni che erano state di Gneo Servilio Gemino e che si erano ritirate da Ariminum. Il generale cartaginese ritenne di tornare verso l’Apulia per svernare. Poi avrebbe tentato di snidare il dittatore romano. Si svolgeva una pantomima fra i due eserciti. Ormai Annibale, fra incendi e distruzioni, cercava di stimolare al combattimento Fabio Massimo, e lui invece gli sfuggiva per snervarlo e per non attaccare che al momento giusto. La tattica di Fabio era però sbeffeggiata dal suo magister equitum, lo smanioso e ambizioso Marco Minucio Rufo che a quella carica era stato imposto dai comizi con l’ostilità di Fabio. Rufo accusava il dittatore di essere debole, pauroso e vile, quando in realtà quest’ultimo era un temporeggiatore e prudente. Fabio attendeva il momento migliore per attaccare il nemico su un terreno favorevole al proprio esercito. Ma Minucio insisteva nelle accuse: «È stolto credere che si possa vincere standosene seduti», stultitia est sedendo debellare credere posse. Lo stesso popolo romano non apprezzava quel modo di fare la guerra, un modo che lasciava Annibale padrone di devastare a suo piacimento il suolo italico. Nelle bettole chiamavano 174
ingiuriosamente Fabio ovicula, pecorella, o «servo di Annibale». Questa offesa era stata suggerita da un inganno che gli aveva teso il cartaginese quando aveva evitato di distruggere un podere del dittatore per far credere che ci fosse fra loro due un’intesa segreta. Ed era ancora Minucio a parlare: «Abbiamo negli occhi il fumo delle nostre fattorie e dei nostri campi in fiamme, mentre il nostro esercito, agli ordini di quel cosiddetto cunctator, sbanda per pascoli e viottoli sperduti». Nella marcia verso l’Apulia, il generale cartaginese si era trovato imbottigliato fra Teano e Cales, guardato a vista dalle schiere di Fabio Massimo, quando da Benevento lungo il Volturno era sceso verso il piano. Come uscirne? Annibale ebbe un’idea straordinaria. Ordinò che si prendessero duemila buoi e si legassero alle loro corna fasci di rami secchi. Nella notte, appiccato il fuoco ai rami, si spinsero i buoi contro gli stretti passaggi che i romani tenevano sotto controllo. L’assalto furioso delle bestie con le teste in fiamme suscitò un gran panico fra i legionari i quali, temendo il peggio e senza rendersi conto che avevano di fronte soltanto una mandria impazzita, fuggirono lasciando liberi i passaggi. I cartaginesi, approfittando della confusione che si era creata, si infilarono nelle strettoie e passarono oltre, liberi di andare. Nella primavera del 216, trascorsi i sei mesi previsti per la durata dell’alta carica, aveva termine la dittatura di Fabio che ancora sollevava manifestazioni di scontento fra i romani. Le dimostrazioni per le vie dell’Urbe resero tormentata la nomina di un console patrizio, che avvenne nella persona di Lucio Emilio Paolo, mentre gloriosa fu la scelta di Caio Terenzio Varrone, vere plebeius e capo del partito democratico. Varrone 175
prometteva di rovesciare la strategia di Fabio che chiamava ignominiosa. I patrizi attaccavano il rappresentante del popolo indicandone le umili origini. Lo dicevano figlio di macellaio e ricordavano come da ragazzo fosse stato lui stesso garzone di macellaio alla stregua di un qualunque povero schiavo. Tuttavia l’ascesa di un Varrone confermava come ormai anche alla plebe – artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e modesti proprietari terrieri – fossero aperte le vie maestre del potere. Il Senato aveva preso più vigorosamente nelle mani la situazione, e per prima cosa aveva consentito che i consoli arruolassero consistenti forze per opporsi con vigore e spirito di iniziativa al cartaginese, invece di continuare a sgattaiolare di qua e di là. I consoli avevano ai propri ordini quattro legioni per un totale di cinquantamila fanti e seimila cavalieri, mentre il nemico, se da un lato disponeva di un minor numero di fanti, trentacinquemila, dall’altro lato più numerosi erano i suoi cavalieri, diecimila. Comunque Annibale sembrava più agguerrito e faceva ancora molta paura. In tanto trambusto Roma non perdeva gli alleati, e, tra gli altri, soprattutto i sanniti continuavano a darle man forte. In primavera Annibale scendeva da Gereonio verso il Gargano. Quindi, raggiunto il fiume Anfidus, si attestò a breve distanza dall’esiguo villaggio di Canne, di cui fino a quel 216 non si era mai sentito parlare. I due consoli, Emilio Paolo e Terenzio Varrone, raggiunsero il cartaginese verso la fine di luglio, senza che avessero ancora deciso come e quando attaccare, essendo per altro in disaccordo sulla strategia da adottare. In quella particolare situazione appariva dannosa la norma secondo la quale essi detenevano il potere a giorni 176
alterni. I due eserciti nemici, il cartaginese e il romano, posti l’uno di fronte all’altro, divisi soltanto dal fiume, erano pronti a darsi battaglia. Per stuzzicare i romani, Annibale ricorse a un inganno: mandò avanti cinquecento numidi che, nell’atto di dichiararsi disertori, trassero da sotto le corazze le spade e infilzarono i legionari sorpresi e frastornati. Annibale aveva a suo favore il vento che, alzando grandi nubi di polvere, accecava i soldati romani. Il cartaginese manovrava affinché lo scontro si svolgesse su un’ampia pianura dove la sua cavalleria avrebbe potuto muoversi meglio. Emilio Paolo, nel giorno in cui comandava lui, si tratteneva, ma l’impulsivo Varrone, nell’altro giorno, era di parere avverso. Emilio Paolo ricordava amaramente a se stesso quanto gli aveva detto Fabio Massimo nel lasciare l’incarico: «Dovrai combattere non soltanto contro Annibale, ma anche contro Varrone». Trascorsero tre giorni in questa altalena fra i consoli. Alfine Varrone, avendo riottenuto il potere, il maius imperium, alzò la bandiera purpurea, in segno di battaglia. E attaccò il nemico senza neppure chiedere il parere al collega, nell’ampia pianura fra Canne e il mare Adriatico dove la cavalleria di Annibale poté abilmente mostrare la sua superiorità. I cartaginesi, i cavalieri e i fanti con l’ausilio di galli, ispani e numidi, sconfissero le schiere unite di Varrone e di Emilio Paolo, ben otto legioni, adottando la tecnica dell’accerchiamento. Era l’agosto del 216. Per testimoniare in concreto la rilevanza della vittoria, Annibale inviò a Cartagine una grande quantità di anelli d’oro che i più ricchi cavalieri romani portavano alle dita. Ciò serviva anche a incoraggiare quei cartaginesi che non vedevano di buon occhio l’impresa italica e a indurli a inviare rinforzi, frumento e 177
denaro. Ma il capo del governo, Annone, continuava a dire ai seguaci dei Barca: «Io sono ancora scontento della guerra e del vostro comandante, benché invincibile. Nulla porrà fine al mio rimpianto della pace antica se non una pace nuova». Annibale ottenne tuttavia un rinforzo di quattromila numidi, quaranta elefanti e molto argento per la Sicilia; per la penisola italica e per la Spagna gli arrivarono ventimila fanti e quarantamila cavalieri. Si poteva dire che egli trionfasse non soltanto con le armi, ma anche con la dialettica dei Barca davanti al Senato cartaginese. I suoi sostenitori respingevano le argomentazioni di Annone. Dicevano che in fondo non c’era da lamentarsi, poiché Annibale era realmente invincibile, nonostante l’ironia del capo del governo, e Cartagine aveva moltiplicato la propria potenza impiegando in gran parte spagnoli e numidi, salvando dalle distruzioni della guerra il territorio della patria. Erano i romani a pagare. Nell’immane carneficina essi avevano perso quarantacinquemilacinquecento fanti e duemilasettecento cavalieri; diecimila erano stati i prigionieri. Morì Emilio Paolo insieme ai tribuni militari, Gneo Servilio Gemino e Marco Minucio Rufo. Caddero anche due questori, altri ventisette tribuni militari, ottanta senatori fra quelli che erano volontariamente partiti per la guerra. Varrone poté salvarsi dandosi alla fuga e rinserrandosi nella colonia latina di Venosa. Annibale perse seimila uomini. A terra giacevano migliaia di cadaveri, l’uno sull’altro, con i corpi squarciati; i feriti urlavano come ossessi; un numida, morendo, aveva preso a morsi un romano che, ferito a morte anche lui, gli stava addosso con tutto il suo peso. Era il 2 agosto, all’imbrunire. Il tribuno militare Gneo Cornelio Lentulo, che lasciava 178
precipitosamente il campo di battaglia per portare a Roma la ferale notizia della sconfitta non meno grave di quella subita a opera dei galli di Brenno sull’Allia, scorse accasciato su un masso Emilio Paolo insanguinato e in fin di vita. Gli si avvicinò per prestargli aiuto, ma Emilio con un ultimo filo di voce gli disse: «Va’, e di’ a Fabio Massimo che si prepari a difendere il Campidoglio». Se Fabio Massimo, al quale Emilio morente si richiamava, era stato un costante temporeggiatore, anche Annibale, improvvisamente, invece di sfruttare il vantaggio della sconcertante vittoria, si mostrò a sua volta assai prudente. Perché non puntare subito su Roma, ora che aveva sbaragliato il nemico? Glielo chiese anche il comandante della cavalleria africana, Maarbale: «Non fermarti, va’, e fra quattro giorni potrai banchettare da vincitore sul Campidoglio». Annibale ristette, mentre i romani subivano altri danni. Alla sciagura bellica seguivano le defezioni di alleati e di coloni. Passavano con il cartaginese apuli, bruzii, lucani, sanniti e i campani dell’opulenta Capua, sicché buona parte del territorio italico era ormai sotto il tallone punico. Fra i sanniti, i pentri rimasero fedeli a Roma. Fedeli le erano anche l’Umbria, la Sabina, il Piceno, l’Etruria. Su queste popolazioni fece affidamento il Senato per cominciare a riprendersi dai rovesci della guerra. I vuoti aperti nell’esercito si colmarono con ottomila schiavi, utilizzati come soldati. I legionari fuggiaschi si nascondevano dovunque. Molti pensavano di abbandonare la repubblica agonizzante, quando fu affidato il comando delle schiere in rotta a un giovane e sfolgorante tribuno militare appena diciannovenne, Publio 179
Cornelio Scipione, quello stesso che due anni prima aveva salvato la vita del padre alla battaglia del Ticino. Radunati i superstiti di Canne e di Canosa e impugnata la spada, Publio Scipione parlò ai legionari con un lampo nello sguardo: «Giuro che come io non abbandonerò mai la repubblica, così non consentirò che l’abbandoni qualcuno di voi. Se mancherò al giuramento, Giove mi fulmini. Così io vi ucciderò con questa spada se voi non giurerete, qui, con me». Sgomenti, e anche attratti dal vigore del giovane e dalle sue parole, tutti si affrettarono a prestare giuramento. Al vigore, Scipione univa qualcosa di fascinoso, un misto di eleganza, di cortesia e di cultura, come se fosse più un greco che un romano. Si mormorava di un suo vivere licenzioso, e fu sottoposto a un’inchiesta che riconobbe false le accuse propalate dai suoi denigratori. Tanto grandi erano il suo spirito di iniziativa e l’originalità delle sue decisioni, che spesso si trovava a operare in contrasto con le disposizioni del Senato. Egli era sempre troppo giovane per gli incarichi ai quali aspirava, e quando si era proposto candidato all’ufficio di edile curule, a chi gli si opponeva disse che «il voto del popolo gli avrebbe dato l’età necessaria alla elezione». A Roma si diffondevano le notizie più disastrose, sebbene non si sapesse nulla di preciso sulle proporzioni della sconfitta e dove si stesse dirigendo Annibale. Fu lo stesso console Varrone a inviare una lettera con le prime informazioni sicure. Benché la fazione degli aristocratici gli attribuisse gran parte della responsabilità nel tracollo, i romani trovarono egualmente la forza di accoglierlo senza troppi rimproveri al momento del suo ritorno nell’Urbe. Il popolo precipitò più che mai nell’angoscia, 180
mentre si verificavano in città nuovi fatti allarmanti. Due vestali, Opimia e Floronia, si erano lasciate sedurre nonostante il voto di castità offerto agli dèi. Floronia, che si era unita a uno dei segretari dei pontefici, fu sepolta viva per punizione, mentre Opimia decise freddamente di suicidarsi. Il segretario lussurioso, Lucio Cantilio, fu frustato in pubblico dallo stesso pontefice massimo con tanta durezza da morirne. Si consultarono i libri Sibillini, e se ne trasse l’obbligo di offrire vittime umane agli dèi cartaginesi. Con sacrifici che i romani avevano abbandonato da tempo si uccisero un uomo e una donna della Gallia e si seppellirono vivi nel Foro Boario un uomo e una donna della Grecia. Annibale era ormai in possesso nel 216 della incantevole, ricca e morbida Capua dove era stato festosamente accolto dalla popolazione. La città si era ribellata a Roma pur dovendole la strenua difesa contro gli assalti dei sanniti. Il duce cartaginese le aveva promesso piena indipendenza e le aveva assicurato la promozione a nuova capitale della penisola in sostituzione di Roma. Invece le vicine città di Napoli, Nola e Cuma respinsero l’invasore, deridendo gli altri campani che lo chiamavano liberatore dal giogo romano. Anche a Nola c’era però chi, più o meno segretamente, lo sosteneva. Soprattutto i plebei erano con lui e nascostamente lo incontravano per preparare qualche piano di attacco. Mentre il pretore Marco Claudio Marcello riusciva a far decapitare una settantina di traditori, tenendo a freno in quei luoghi l’invasore, il Senato rinforzava la flotta e inviava in Spagna contro Asdrubale, fratello minore di Annibale, i due fratelli Scipione, Gneo e Publio, per impedire che di là gli provenissero aiuti. Gneo e Publio partivano ben 181
sapendo che avrebbero dovuto arrabattarsi oltre misura per rifornirsi di frumento in quantità sufficiente a sfamare i soldati. Condussero eroicamente i loro eserciti, e riconquistarono Sagunto.
182
XIV La vittoria punica sul Trasimeno aveva smosso Filippo V di Macedonia, il quale decise di mettersi con i cartaginesi. Annibale, pur ricevendo dal re un sostegno più che altro morale, volle egualmente attaccare la Sicilia. Roma inviò sull’isola a contrastarlo il suo miglior generale, Claudio Marcello. Sebbene il proconsole si battesse con vigore, non riuscì a bloccarne l’avanzata, e il cartaginese occupò gran parte della Sicilia stabilendo in tal modo un rapporto diretto con la sua Africa per poter premere meglio sul partito di Annone che gli si manteneva avverso e che ancora caldeggiava la pace con Roma. La popolazione dell’isola fu quasi interamente con Annibale, e questo fu un nuovo dolore per Roma. Si era combattuto a lungo; i cartaginesi avevano occupato Agrigento. La Sicilia era ormai il luogo dove si battagliava più duramente anche perché Siracusa, in seguito alla morte del tiranno Ierone, alleato per cinquant’anni di Roma, aveva mutato fronte ed era passata al fianco dei cartaginesi, dopo aver stracciato il trattato di alleanza che il fedele Ierone aveva sottoscritto con Roma. Guidati dal sempre più bellicoso Marcello, i romani da terra e dal mare tenevano assediata la ben fortificata Siracusa. L’attacco era cominciato nel 213, e soltanto nella primavera del 211 riuscirono a fare scempio della città. Abbatterono le immagine sacre, la privarono degli aurei ornamenti. L’enorme bottino servì a rincuorare i legionari e a rimpinguare l’erario della 183
repubblica. Nella strage dei siracusani cadde trucidato anche un grande matematico e inventore, Archimede, che Marcello avrebbe voluto salvare. Ma il vecchio, tutto preso a tracciare sulla sabbia alcune figure geometriche, non diede retta al richiamo del legionario che lo cercava in nome di Marcello, per cui il milite, irritato, gli si gettò addosso e lo trafisse con la spada. Archimede, legato da rapporti di parentela con Ierone, aveva partecipato all’opera di rafforzamento delle alte mura siracusane. Anche durante il lungo assedio lo scienziato, ormai settantacinquenne, era stato un valido difensore della città, ideando straordinarie macchine da guerra. Aveva costruito certi formidabili specchi, chiamati ustori, con cui faceva convergere sulle quinqueremi romane i raggi del sole che le mandavano in fiamme tra il terrore dei marinai, i quali cercavano scampo gettandosi in acqua. Aveva fabbricato grossi ganci di ferro simili a mani che dalle mura della città afferravano le navi nemiche, le sollevavano e poi le lasciavano precipitare in mare, come fossero fuscelli. Mai si era visto prima di allora uno spettacolo più nuovo e pauroso. Le sorti della guerra mutavano. In pieno rilancio, i romani, dopo l’amata Siracusa che era stata riconquistata da Marco Claudio Marcello, non mancarono di riprendersi la non meno amata Agrigento. Annibale se ne era stato per tutta l’estate con la mente rivolta a Taranto. Questa città del dolce Salento, ricca e famosa, faceva gola all’invasore punico che era tornato a scorrazzare nell’Italia inferiore. Nel 216 era stato a Canne, e quattro anni dopo si spostò a Taranto conquistandola facilmente in una notte, per un tradimento di alcuni tarantini che gli avevano fatto trovare 184
aperte le porte della città. Non riusciva tuttavia a espugnarne la forte rocca. Annibale si allontanava ulteriormente da Roma, ma sempre grande era la sua pericolosità, anche perché alla conquista di Taranto seguirono quelle di Metaponto, Eraclea, Turii. La città di Capua era molto bella per le attrattive dell’ager falernus e del vicino mare. Gli abitanti ne gioivano, e Annibale trascorreva nel 216 un periodo della sua vita memorabile per mollezza e diletti nei quartieri d’inverno. Ma la pausa fu dannosa ai soldati cartaginesi che rischiarono di perdere l’antico vigore fra gli ozi, gli infiniti piaceri dei vini rosati e delle facili donne che riempivano di lussuria le loro notti. Impensierito dalla profonda fiacchezza che si era impadronita delle sue schiere, il generale non poté un giorno non esclamare con profonda tristezza: «Capua è la mia Canne». A Roma si intuiva come quella situazione fosse pericolosa per le truppe puniche, e si cercò di approfittarne. Il Senato chiese ai cittadini di donare all’erario grandi quantità di oro per ricostituire rapidamente nuovi eserciti. In mancanza di giovani, tutti morti in battaglia, venivano arruolati schiavi o persone che erano in prigione per debiti. Le armi furono sottratte ai templi; si utilizzarono anche quelle strappate al nemico e che avevano illustrato i trionfi. Si attuava una politica di forti risparmi, e per prime furono le matrone a subirne le conseguenze. Il tribuno Caio Oppio varò una legge suntuaria con la quale si proibiva alle donne di possedere più di mezza oncia d’oro e di usare carri che fossero tirati da più di due cavalli. Riemergeva Quinto Fabio Massimo, sempre cunctator e anche definito «scudo di Roma», in quanto col suo 185
temporeggiare usava la strategia della difesa, così come Marco Claudio Marcello era detto «spada di Roma», per la ragione opposta. Fabio aveva ormai più di settant’anni, mentre Marcello aveva da poco superato i cinquanta. Da tempo i romani tenevano Capua sotto assedio, costringendo a inenarrabili sacrifici la popolazione a ben altra vita abituata. Tutto intorno vi avevano costruito formidabili opere di trinceramento, pur lasciando libero di uscire dalla città, ma senza grande successo, chi si sentisse ancora alleato dei romani. Annibale, che cercava vanamente di scompaginare le forze degli assedianti, si diede in un primo tempo a saccheggiare in scorribande i dintorni della città. Poi, per allontanare i legionari da Capua e farsi così inseguire, ebbe l’idea di dare a intendere di voler marciare direttamente su Roma. La sua era soltanto una manovra diversiva, che tuttavia fin dai primi movimenti si rivelò costosissima in uomini e in armi. Ma il generale punico, nelle cui vene scorreva il crudele sangue antiromano dei Barca, non si lasciò arrestare da queste preoccupazioni. Andò infatti avanti nel suo proposito. Varcò il Volturno. Attraversò il Liri, sebbene a Fregellae gli abitanti avessero distrutto il ponte sul fiume. E per questo gesto subirono una spietata rappresaglia. Già a Roma tutti piangevano per l’inarrestabile marcia del tenebroso invasore che, a distanza di centottant’anni, ripeteva le gesta dei galli; le matrone si strappavano i capelli, in ginocchio davanti agli altari; il Senato era riunito per giorni interi; le difese del Campidoglio venivano rafforzate. Annibale arrivò a Tuscolo, scese a Gabi, si attestò sull’Aniene in vista dell’odiata città. Ora tutti dicevano che avrebbe riparato all’errore di non aver marciato sulla capitale 186
all’indomani della straordinaria vittoria di Canne. Ma nessuno conosceva i suoi più riposti pensieri, né il significato di quella diversione. Gli elefanti già barrivano su Roma. I romani erano riusciti a non perdere la testa anche se in molti erano caduti nella disperazione avendo creduto che l’Aventino fosse già stato occupato da Annibale. Il Senato fece avanzare un esercito che si accampò fra la porta Esquilina e la porta Collina. Questo evento insieme ad altri due fatti scoraggiarono Annibale. Egli aveva saputo che i romani erano tanto poco preoccupati dalla sua presenza nei dintorni della città da inviare alcune centurie in Spagna. Aveva anche sentito dire che il terreno sul quale egli si era accampato era stato venduto senza aver subito alcun deprezzamento, poiché l’acquirente si diceva certo che ben presto i cartaginesi ne sarebbero stati scacciati. Il generale si offese più per la seconda vociferazione che per la prima, e, sebbene lo facesse tra il serio e il faceto, stette al gioco mandando in giro un banditore ad annunciare che egli vendeva tutte le botteghe dei cambiavalute del Foro come se ne fosse già il padrone. Muoveva ancora l’esercito ma, avendo constatato che con la sua sbandierata marcia su Roma non era riuscito neppure ad allontanare da Capua gli assedianti romani, rinunciò all’impresa. Ritenne di non doversi più occupare nemmeno della città campana, per cui puntò sull’Apulia. Abbandonata da Annibale, Capua non poteva non cadere e non tornare in mani romane. Fu così occupata da Quinto Fulvio Flacco, sodale di Fabio Massimo. Le ultime ore di resistenza erano state terribili, anche perché i suoi abitanti avevano netta l’impressione che Annibale non fosse più in condizione di 187
difenderla. Loro che avevano tradito Roma per Annibale, ora si sentivano traditi da lui. Difatti il generale cartaginese, ritirandosi dai pressi di Roma, aveva preso la strada dell’Apulia dove a Salapia lo attendeva una donna molto amata. Già attanagliata dalla fame, Capua non poteva non arrendersi. Coloro che avevano sobillato la popolazione perché si ribellasse a Roma e passasse con Annibale sapevano di andare incontro a un duro castigo per mano dei romani nuovamente vincitori. Pertanto ventisette personaggi, tutti senatori di Capua, decisero di suicidarsi bevendo vino avvelenato dopo essersi abbracciati per un’ultima volta. Fulvio Flacco, occupata la città, non poté trattenersi dal vendicarsi. Altri capi ribelli furono imprigionati. Mentre stava per decapitarli, Fulvio ricevette una lettera dal Senato romano. Egli non la degnò d’uno sguardo e la ripose sotto la toga. La aprì soltanto a decapitazione avvenuta, e vi lesse, come del resto immaginava, che il Senato gli consigliava clemenza. Non si punirono invece i ribelli sanniti e lucani quando questi popoli tornarono ad allearsi con Roma. Per Annibale, non riscuotere più la fiducia di gran parte delle popolazioni italiche comportò un grave indebolimento della sua posizione. Per i cartaginesi non fu poca cosa la perdita di Capua. Quella sconfitta fu per loro pari al tracollo che i romani avevano subito a Canne. In un senso del tutto diverso rispetto alla famosa esclamazione di Annibale, Capua divenne davvero per l’invasore la sua Canne. Non era stato l’ozio a sconfiggerlo, ma le armi di Roma. La grande capitale sembrava risvegliarsi, sebbene in Spagna i cartaginesi ancora vincessero e nonostante la morte dei due virtuosi Scipione, caduti in battaglia a pochi giorni di 188
distanza l’uno dall’altro nel 212. Alle nuove vittorie corrispondeva una situazione economica fallimentare in cui il valore della moneta subiva un inarrestabile deprezzamento. I campi non si erano potuti coltivare a causa delle continue scorribande degli eserciti di Annibale, il prezzo del frumento era salito alle stelle. Per fronteggiare il sempre maggiore costo degli eserciti, il Senato romano era costretto a imporre altre tasse e a sollecitare nuovi prestiti. Fu chiesto ai cittadini di accollarsi in base al loro censo le spese di uno o più marinai, e quella fu detta la «tassa del marinaio». Fu chiesto ancora ai cittadini di donare alla repubblica il più possibile dei loro averi – oro, argento, bronzo – e di accontentarsi di tenere per sé il minimo indispensabile, una saliera e un vassoio per celebrare i riti sacri. Molti cittadini amanti della patria accorsero nei luoghi di raccolta delle offerte. Fabio Massimo, già assai anziano e console per la quinta volta, riconquistava Taranto in forza di un tradimento di alcuni tarantini, ed era il 209. Fabio non mancò di saccheggiare la città. I suoi tesori furono trasportati a Roma a esclusione dei preziosi simboli sacri, per i quali il console esclamò: «No, lasciate che questo popolo se la veda con i suoi irati dèi». Nella primavera dello stesso anno il ventiquattrenne proconsole Publio Cornelio Scipione, figlio del grande generale suo omonimo da lui salvato sul Ticino, compì una strabiliante impresa riportando Carthago Nova sotto l’egida romana. Ringraziò le schiere alle quali infuse nuovo entusiasmo dicendo: «Voi, conquistando questa città, avete conquistato l’intera Spagna». I soldati lo ascoltavano, eseguivano i suoi ordini come se provenissero direttamente dalle labbra di un dio, e si ripetevano 189
fra loro il fatto prodigioso che voleva Scipione nato dall’unione di un serpente con la madre. Per il fascino che la sua persona emanava, il giovane aveva potuto ottenere, sotto la pressione del popolo, la carica proconsolare sebbene non avrebbe potuto legalmente occuparla non avendo ricoperto altro che la carica di edile curule. In Spagna le sorti della guerra gli erano tanto favorevoli da occupare Carthago Nova. Publio Scipione riorganizzò le schiere dell’esercito, le ripulì dall’indisciplina e dalla lascivia. Individuò e scacciò dalle sue file ben duemila allegre sgualdrinelle che rendevano molli e svogliati i legionari. Molti di loro si erano fatti seguire da schiavi perché preparassero i cibi e trasportassero gli impedimenta. Per tenere impegnate le truppe in attesa dell’azione, le obbligava a svolgere i più vari lavori, non soltanto quelli per la difesa del campo. La città di Carthago Nova, oltre a essere ben difesa, era il massimo punto di forza dei cartaginesi in Spagna, ma Publio Scipione ne abbatté la resistenza con abili manovre d’attacco e sfruttando i vantaggi tattici che gli offriva il terreno fra una palude posta a nord e il mare che si stendeva a sud. Fu la premessa perché la penisola iberica tornasse alle armi di Roma, una premessa ribadita da una nuova vittoria ottenuta da Scipione su Asdrubale Barca, fratello minore di Annibale, davanti a Baecula, una città della Betica. Conquistata Carthago Nova e incamerato un immenso bottino, il proconsole mostrò la sua nobiltà d’animo quando dovette decidere della sorte di alcune donne, la moglie e le giovani figlie di un capo del luogo. Ne garantì la salvezza. Ancora più nobilmente si comportò quando gli presentarono 190
una fanciulla di particolare bellezza, fidanzata di Allucio, uno dei comandanti celtiberi. Gli faceva dono della verginità, restituendola sana e salva ad Allucio al quale disse: «Non ti chiedo in cambio che di diventare amico del popolo romano». I genitori della ragazza avevano già raccolto un bel quantitativo d’oro per pagarne il riscatto. Nel rifiutarlo, Scipione disse ai due giovani: «Prendete voi quest’oro, è il mio dono di nozze». L’affascinante figura del proconsole ingigantiva. I soldati si convincevano sempre più che egli fosse in diretto rapporto con gli dèi. Era amato e applaudito. Se da un lato Roma trovava un grande generale in Publio Scipione, dall’altro lato ne perdeva uno non meno grande, quel Marcello «spada di Roma», che cadde nel 208 in un’imboscata in Apulia, a Venosa, dove Annibale se ne stava trincerato senza più avere le idee chiare e senza più la certezza dell’invincibilità. Il duce cartaginese accorse sul posto, quasi a sincerarsi di persona che Marcello fosse morto. S’inginocchiò davanti al cadavere, gli tolse l’anello d’oro che aveva a un dito, e disse dispettosamente: «È stato un buon soldato, ma un cattivo comandante». I pericoli per Roma non erano finiti, poiché l’anno successivo si riversò dalla Spagna in Italia un nuovo esercito di Asdrubale figlio di Amilcare Barca. Nel 207 si muoveva con maggiore facilità di quanto non avesse fatto il fratello maggiore Annibale undici anni prima nella sua discesa attraverso i Pirenei e le Alpi nel fatale settembre del 218. Scipione non lo aveva inseguito, lasciandolo libero di uscire dalla Spagna. E per questo fu rimproverato. Asdrubale aveva passato i monti senza lasciare sulle nevi morti e feriti come invece era avvenuto ad Annibale. Inoltre, ancora una volta le popolazioni della Gallia Cisalpina, 191
dell’Etruria e dell’Umbria non persero l’occasione per risollevarsi contro l’Urbe al fianco dei cartaginesi che riapparivano nella valle del Po. A Roma si tremava. Dal cielo piovevano grosse pietre sull’Aventino; a Frosinone non si riusciva a capire se un neonato fosse maschio o femmina. Quel piccolo mostro fu gettato in mare, su suggerimento degli aruspici. Per commuovere gli dèi si celebravano sacrifici. Il duce cartaginese attendeva l’arrivo delle truppe del fratello Asdrubale, sperando di poterle unire alle proprie per muoversi insieme. Asdrubale, superando il grande fiume padano, aveva posto sotto assedio Piacenza perdendovi molto tempo. Poi proseguì verso la catena appenninica, mentre i romani lo attendevano al di qua di essa. In Etruria il comando tornò nelle mani di Caio Terenzio Varrone, il quale, nonostante l’indimenticabile sconfitta subita a Canne, era ancora riguardato come un generale prestigioso. Ariminum e Narnia erano altri due punti fermi della difesa romana.
192
XV Tra giugno e luglio del 207, sulla foce del Metauro si trovavano contrapposti sulle due rive gli eserciti di Roma e di Cartagine. Sul lato destro, dopo molti andirivieni, si era schierato Asdrubale Barca; su quello sinistro erano sopraggiunti d’improvviso e con grande rapidità i consoli Caio Claudio Nerone, patrizio, e Marco Livio, plebeo. Annibale tardava a ricongiungersi col fratello, per cui Asdrubale tentò in segreto, pur con i suoi rumorosi elefanti, una deviazione verso l’Umbria. Sebbene tutto si svolgesse un po’ alla cieca, la mossa non sfuggì ai romani, e Claudio Nerone si lanciò all’inseguimento delle truppe nemiche e, menando colpi all’impazzata, attuò felicemente una manovra di aggiramento. La furia dei combattimenti era così alta che gli elefanti furono invasi da un folle terrore. Ai conducenti non rimase che abbatterli, secondo un metodo previsto dallo stesso Asdrubale per casi del genere. Il metodo consisteva nel conficcare a martellate uno scalpello sul collo dei poveri animali che cadevano stecchiti. Vistosi perduto, Asdrubale, per non subire oltraggi, si gettò a capofitto col suo cavallo nel pieno della mischia trovandovi la morte. Si disse che cadeva un combattente degno di un padre come Amilcare e di un fratello come Annibale. Erano trascorsi nove anni dalla rotta di Canne, e ora i romani si vendicavano di quella sconfitta uccidendo cinquantaseimila 193
cartaginesi e facendone prigionieri cinquemilaquattrocento. La disfatta subita da Asdrubale nella battaglia del Metauro significava per Annibale che il suo piano di conquista dell’Italia poteva dirsi fallito. Sulle italiche contrade si erano alfine dileguate le tenebre che i cartaginesi vi avevano sparso per anni a piene mani. La confusione creata dalla battaglia fu tanto grande che Annibale ne venne a conoscere l’esito in maniera drammatica, e cioè quando si trovò davanti agli occhi la testa decapitata del fratello che il console Claudio Nerone aveva fatto rotolare nell’accampamento nemico, a Larino. Allo spettacolo della testa tumefatta di Asdrubale, staccata dal corpo vigoroso, Annibale non poté non immaginare il peggio per se stesso. Quindi esclamò: «Posso prevedere ora quale sarà la sorte di Cartagine». Detto questo, si diresse scoraggiato nel Bruzio, l’estrema propaggine italica. Trascinava con sé le popolazioni di Metaponto e di altre città della Lucania, senza che le truppe romane lo inseguissero, sebbene in quel momento egli apparisse assai debole, e andò a rifugiarsi nei porti di Crotone e di Locri per prepararsi a tornare in Africa. Per attuare quel ritorno, Annibale avrebbe impiegato quattro anni, lui che perdeva la guerra pur avendo vinto tante battaglie. Sarebbe arrivato in patria nell’autunno del 203 a.C., dopo aver spadroneggiato in Italia per sedici anni. Si sarebbe sentito più utile in Africa dove nuovamente si profilava il pericolo di un’invasione romana, poiché vi sbarcava Publio Cornelio Scipione, il grande capitano che fin da ragazzo si era distinto per capacità militari. Publio Cornelio Scipione, tornando glorioso dalla Spagna ed 194
eletto trentenne console per il 205, aveva congetturato che soltanto con l’arrivo dei suoi legionari in Africa si sarebbe costretto Annibale a lasciare la penisola italica. Mai Claudio Nerone e Marco Livio si sarebbero avventurati in un’impresa simile, sebbene le sconfitte subite dai punici avessero risvegliato l’orgoglio dell’Urbe. Ora i romani sotto la spinta di questo Scipione si accingevano a rispolverare l’antico piano della conquista di Cartagine, quel piano che nel 255 non era riuscito ad Attilio Regolo. Ma nuove difficoltà provenivano da un altro fratello minore di Annibale, Magone, che, sbarcato in Liguria, risollevava contro Roma le popolazioni liguri e galliche. L’idea di Publio Cornelio Scipione era tanto clamorosa che sulle prime spaventò il Senato, che si opponeva alla spedizione, e accentuò l’avversione di Fabio Massimo. A conclusione di lunghi dibattiti, il giovane generale fu autorizzato a partire per l’Africa con quaranta navi da guerra, quaranta da carico e trentacinquemila soldati. All’arruolamento dell’esercito e alla formazione della flotta doveva pensarci lui di persona. La repubblica non diede denari; la situazione economica di Roma era così rovinosa che Marco Livio, divenuto censore, fu costretto ad aumentare sensibilmente il prezzo del sale. Da quel momento egli venne soprannominato il Salinatore. I cittadini di ogni luogo offrivano generosamente ferro, legno, vele e grano per il compimento dell’impresa. Publio Cornelio Scipione, nel prepararsi all’attacco decisivo, punzecchiava da ogni parte il nemico. Passò in Sicilia e alfine, partendo da Lilibeo con trentamila uomini nella primavera del 204, raggiunse l’Africa, dove pose sotto assedio la forte città di Utica. Di lì già scorgeva gli accampamenti di Asdrubale. Il duce 195
romano trascorse l’inverno di quell’anno negli attendamenti prospicienti il mare. Erano posti su un promontorio che da lui prese il nome di Castra Cornelia. I non lontani accampamenti punici erano in gran parte costruiti in legno, e ciò offrì l’occasione a Scipione per appiccarvi un incendio. Approfittò del tumulto che ne seguì per attaccare in forze il nemico e batterlo duramente. Quarantamila furono i morti fra i cartaginesi, molti dei quali divorati dalle fiamme. I punici chiedevano una tregua, e Scipione gliela concedeva come mossa strumentale, perché gli avrebbe consentito di passare l’inverno tranquillamente e di prepararsi alle nuove evenienze. Il giovane generale si era alleato con l’astuto principe dei numidi orientali, Massinissa, pretendente al trono di Numidia. Il principe era rimasto affascinato dalla generosità di Scipione che aveva restituito la libertà a un suo nipote. Erano anche altri i motivi che avevano indotto Massinissa a mutare fronte dopo essere stato duramente combattuto dai romani in Spagna. C’era un altro Asdrubale fra i cartaginesi, oltre al genero di Amilcare e al fratello minore di Annibale. Questo terzo Asdrubale, che era figlio del generale punico Gisgone, aveva una figlia, Sofonisba. La giovane e dolce Sofonisba si era fidanzata con Massinissa. Stavano già per sposarsi quando Asdrubale di Gisgone, dovendo attirare a sé il capo di un’altra tribù di numidi, Siface, diede a lui la figlia e non più a Massinissa. Trascorso l’inverno, la tregua con Cartagine fu improvvisamente annullata da Scipione il quale aveva saputo che i cartaginesi stavano rinforzando le loro schiere capitanate da Asdrubale di Gisgone e da Siface. Il generale romano aggredì il nemico ai Campi Magni. I due capi numidi, ora in dissidio a 196
causa della dolce Sofonisba, si trovarono su versanti opposti: Massinissa con Scipione, e Siface con i cartaginesi. Massinissa inseguì Siface e lo fece prigioniero nei pressi della sua città, la fortezza rupestre di Cirta. La sconfitta gettò i punici nello sconforto. Apparve Sofonisba accanto al marito Siface di cui aveva conosciuto l’inenarrabile barbarie. Massinissa si sentì nuovamente accendersi in cuore una grande passione per la sua antica fidanzata. Temendo che Scipione la traesse a Roma per trascinarla ignominiosamente dietro il carro del trionfo, decise fulmineamente di sposarla. Scipione si irritò per il gesto del numida, e lo strapazzò per aver fatto propria una prigioniera di guerra che spettava ai romani. Massinissa si vide perduto. Era ormai certo che la sua amata Sofonisba sarebbe stata trascinata per le vie di Roma. Per evitarle l’umiliazione, tra le lacrime non seppe imporle altro che di bere una coppa di vino avvelenato. Gliela porse egli stesso. «Accetto la coppa come tuo dono nuziale, o Massinissa, ma è certo che io avrei incontrato la morte più dignitosamente se non mi fossi sposata nel giorno del mio funerale» esclamò Sofonisba, e si tolse la vita ingerendo il veleno. Ai Campi Magni aveva brillantemente trionfato Scipione, il quale aveva adesso la strada libera per Cartagine. Sconvolti dal terrore per l’imminente assalto del duce romano, i punici rinforzarono i bastioni intorno alla città e raccolsero nei granai grandi quantità di provviste per porsi in condizione di resistere a un lungo assedio. Di fronte al pericolo romano, in Cartagine ripresero vigore i pacifisti nell’opporsi agli imperialisti, sicché i latifondisti e i grandi commercianti, che erano stati danneggiati da tanti anni di guerra, indussero il governo ad aprire trattative 197
di pace con l’Urbe. Erano pacifisti per modo di dire poiché il loro obiettivo consisteva nel fare una guerra diversa per conquistare spazi in Africa invece di incrociare le armi con Roma in zone europee. Scipione aderì volentieri a quel negoziato nutrendo il recondito proposito di prepararsi meglio a una nuova, eventuale tenzone. Il duce romano pose condizioni che i punici accettarono al termine di una intricata serie di viaggi dei loro ambasciatori a Roma. Anche i cartaginesi prendevano tempo in attesa che Annibale e suo fratello minore Magone, richiamati con urgenza dal governo, tornassero con i loro eserciti dall’Italia in Africa. Annibale, che si trovava ancora a Crotone, dovette lasciare quei luoghi che ormai gli erano entrati nel sangue. Agli ambasciatori che gli recavano l’ordine del governo cartaginese di tornare indietro disse, sul punto di piangere dalla disperazione: «Mi richiamano gli stessi che non mi hanno inviato rinforzi. Non è il popolo romano ad aver ragione di Annibale, ma l’invidia del Senato cartaginese. Di questo mio vergognoso rientro ne sarà superbo non tanto Scipione quanto Annone, che avrà così provocato la rovina di Cartagine pur di demolire il mio casato». Molti fra gli italici che erano entrati a far parte dei suoi eserciti rifiutarono di seguirlo in Africa, e lui freddamente ordinò che fossero sterminati. Annibale rimise piede in patria, mentre la stessa sorte non toccò a Magone poiché le ferite alla coscia riportate nella Gallia Cisalpina lo condussero alla morte durante il viaggio in mare verso l’Africa capitanando il suo esercito. Bastò che Annibale toccasse la terra natia, dalla quale era stato lontano trentasei anni, essendone partito bambino, perché risorgesse nei 198
cartaginesi un’insopprimibile brama di guerra. Tutto un popolo scese in piazza, mentre Asdrubale di Gisgone, che comandava la flotta punica, cominciò a perlustrare le acque di Utica. E la tregua fu violata. I romani non avevano fatto in tempo a celebrare i Grandi giochi di ringraziamento agli dèi che si trovarono ancora una volta in piena guerra. I templi sacri dell’Urbe, affollati dal popolo che ringraziava gli dèi per aver riportato la pace, si vuotarono all’istante. Hadrumetum (Adrumeto). Qui Annibale, essendo sbarcato a Leptis, aveva raccolto le sue schiere e di qui si era messo in marcia verso la fatale Zama, in terra numidica, distante da Cartagine appena cinque giorni di cammino. In veste di proconsole, Scipione era pronto ad affrontare il suo grande rivale. Non esitò neppure un attimo, poiché già prevedeva che stesse per compiersi il piano cui aveva mirato da sempre, anche accapigliandosi con Fabio Massimo: piegare Cartagine e costringerla a riconoscere una volta per tutte la supremazia di Roma. Questo risultato si sarebbe potuto ottenere soltanto sconfiggendo il nemico in casa, e non limitandosi a scacciarlo dal suolo italico, come invece sarebbe bastato al più prudente Temporeggiatore. Fra Scipione e Annibale ci fu un solenne incontro richiesto dal cartaginese. Il colloquio si rivelò di parata, e si svolse esclusivamente fra loro, con l’ausilio di due interpreti. Incontrandosi su una piccola altura tacquero per alcuni minuti. Ben consapevole era il duce romano di essere stato più volte sconfitto dal duce punico: sul Rodano, sul Po, sul Trebbia. Si guardarono negli occhi esprimendo nei loro sguardi una reciproca ammirazione mista a sentimenti bellicosi. Quindi 199
cominciarono a parlare. Annibale disse a Scipione: «Io sono quell’Annibale che dopo la vittoria di Canne fu padrone dell’Italia intera, tanto da arrivare alle porte di Roma e da essere arbitro della vostra patria. Ora sono in Africa, e sono costretto a trattare col mio nemico la salvezza della mia patria. Ma non montarti la testa: nelle supreme circostanze si può sia vincere tutto sia perdere tutto. Il destino ha voluto che avendo io preso le armi contro il console tuo padre, sia ora qui, disarmato, a chiedere la pace a suo figlio». Scipione rispose: «Non i romani, ma i cartaginesi hanno cominciato la guerra, e tu, Annibale, lo sai benissimo. Altre volte avete chiesto la tregua, e l’avete tradita». I due generali discussero sulle eventuali condizioni di pace, ma si trovarono in disaccordo su tutto. Concordavano esclusivamente nel ritenere le armi come uniche risolutrici dei contrasti che contrapponevano le loro due grandi civiltà occidentali. Già all’indomani dell’inutile abboccamento mossero l’uno contro l’altro, in cinquantamila i cartaginesi comprese le truppe mercenarie e in numero leggermente inferiore i romani non esclusi i numidi di Massinissa. Tutti intuivano che lo scontro fra i due grandi generali sarebbe stato il momento decisivo della seconda guerra punica, e ne attendevano il risultato nella massima agitazione. Prima di sferrare l’attacco, il duce romano si rivolse ai suoi soldati. Parlava come avvolto dall’orgoglio e con negli occhi un brillio che lo faceva già apparire come vincitore: «Cartagine o morte, questo è il nostro motto. Vincere non significa essere padroni soltanto dell’Africa e dell’Europa, ma di tutta la terra abitata. Non abbiamo davanti a noi che due possibilità, quella di 200
vincere e quella di morire. Vince senz’altro chi va in battaglia disperando della vita». Scipione, scontrandosi con Annibale a Zama, mise in atto la tattica dell’accerchiamento di cui il duce cartaginese si era servito per battere i romani di Terenzio Varrone a Canne quattordici anni prima. Si trovò a fronteggiare una massa di ottanta elefanti, ma il duce romano, con l’ausilio di Massinissa, operò in modo che quei pachidermi, feriti e furenti, si riversassero sulle schiere puniche e le travolgessero sotto il loro peso. Morirono ventimila cartaginesi compresi i liguri, i galli, i bruzii, i numidi, i baleari, i mauri e i macedoni che erano con lui per le più svariate ragioni. Altri ventimila soldati furono fatti prigionieri. Millecinquecento furono le vittime tra i romani, e anche Scipione fu ferito in un corpo a corpo col duce cartaginese. Ma Annibale non ebbe altra scelta che fuggire e ritirarsi sfinito nel campo di Hadrumetum, mentre Scipione traeva un sospiro di soddisfazione tornando vittorioso alla base dei Castra Cornelia, certo di aver assicurato il predominio di Roma nell’Occidente. Ed era l’ottobre del 202. Si aprirono trattative di pace che imposero ai cartaginesi gravi condizioni e un regime di sovranità limitata. La più dura di quelle condizioni imponeva ai vinti di non fare guerre se non con il consenso dei romani. A Cartagine erano sconfitti tutti. In primo luogo gli imperialisti, ma anche coloro che avrebbero voluto estendersi esclusivamente in territori africani. Ora lo stesso Annibale era favorevole a deporre le armi. Fu lui a zittire e a gettare giù dal podio il generale Gisgone che predicava a favore di una nuova guerra. Questo gesto irritò il popolo abituato ai liberi dibattiti, e Annibale dovette scusarsene 201
pubblicamente. Si concludeva così con la vittoria di Roma su Cartagine la seconda guerra punica che si era protratta per più di tre lustri. Scipione, il vincitore, aveva trentaquattro anni; Annibale, il perdente, quarantacinque. Il duce cartaginese, come a Zama era fuggito dal duce romano, così fuggiva ancora, lasciando addirittura l’Africa per rifugiarsi presso il re della vulcanica Siria, Antioco il Grande. Di ciò Scipione fu deluso, avendo rivendicato per sé la consegna dello sconfitto. La battaglia combattuta nella vasta pianura di Zama fu decisiva perché si potesse dire che Scipione era ormai il vincitore su Annibale e perché gli si attribuisse il cognomen di Africanus, come fu fatto nel giorno del suo trionfo nelle strade di Roma, in un tripudio di popolo, a pace conclusa. Fu anche acclamato salvatore d’Italia. Tutto questo avveniva all’inizio del 201, a oltre sessant’anni dal primo incrociare delle armi fra le due grandi potenze.
202
XVI Con la vittoria nella seconda guerra punica, Roma poneva una grossa ipoteca sul dominio assoluto in Occidente, e ora il nuovo obiettivo era di battere i popoli orientali di civiltà orientale che a loro volta si affacciavano sul Mediterraneo. Questo era un obiettivo fra i più ambiziosi che i romani potessero mai darsi, anche perché erano ancora impegnati in scontri continui un po’ dovunque, nella Gallia Cisalpina, in Liguria, in Sardegna, in Corsica, in Spagna. I programmi di espansione – non necessariamente territoriale, ma di prestigio – rientravano nella visione di Scipione l’Africano per il quale il futuro di Roma aveva un ampio respiro di potenza mediterranea e non soltanto peninsulare. Per conquistare una più completa supremazia sui mari, ma anche per difendersi da eventuali attacchi, il Senato romano decise di riprendere le armi, nonostante una forte opposizione popolare predicasse la pace. Le due grandi potenze orientali, Macedonia e Siria, si erano alleate e avevano ampliato i loro domini. Roma temeva di essere investita direttamente poiché l’espansione della Macedonia e della Siria si era estesa anche alla Grecia. Decise perciò di muovere guerra sia a Filippo V, il quale fu sconfitto dal giovane e vigoroso Tito Quinzio Flaminino, sia ad Antioco il Grande, che venne battuto da Marco Acilio Glabrione nella battaglia terrestre delle Termopili. Antioco nel 190 fu anche sbaragliato a Magnesia da Lucio Cornelio Scipione, 203
figlio dell’Africano, e infine in uno scontro navale nelle acque di Chio. Flaminino, da Corinto, proclamava così di aver restituito l’indipendenza alla Grecia. Avrebbe potuto farlo l’Africano se l’oligarchia che gli era ostile non gli avesse preferito Flaminino nella guida dell’esercito. Roma, come si era già comportata con Cartagine, non si poneva con la Macedonia e la Siria lo scopo di distruggerle, ma intendeva soltanto privarle del rango di grandi potenze. In seguito a questa decisione, alla repubblica africana era stato possibile risorgere economicamente, e la stessa cosa poteva verificarsi con la Macedonia e la Siria. I romani avevano evitato di impossessarsi di nuovi territori, soddisfatti di ridurre il nemico all’impotenza, rastrellando bottini di guerra e imponendo il pagamento di gravose indennità. Annibale, prima di fuggire dalla sua città e di rifugiarsi in Siria presso Antioco III, aveva assunto a Cartagine la responsabilità di capo della fazione popolare. Invece Publio Scipione a Roma non volle porsi alla testa d’un movimento politico. Il popolo avrebbe voluto farne un console a vita o qualcosa di più. Lui rifiutò con sdegno, ma egualmente fu censore nel 199, fu princeps senatus, e nel 194 console per la seconda volta. Per la sua passione filoellenica era fortemente osteggiato da un convinto tradizionalista come Marco Porcio Catone che in Senato capeggiava la fazione conservatrice. Catone era l’irriducibile difensore del costume degli antenati, del mos maiorum. Era stato console l’anno prima, e più tardi, nel 179, fu nominato censore. Da allora egli fu detto Marco Porcio Catone il Censore. Con questo epiteto aveva accentuato il suo istintivo odio per i costumi greci che rendevano Roma 204
meno severa e i giovani più amanti del lusso. Nel caso di Cartagine, i romani furono costretti a modificare l’atteggiamento che li induceva a non distruggere le città conquistate ma a privarle esclusivamente del ruolo di grandi potenze per affermare il proprio predominio. Massinissa cercava di impossessarsi della capitale africana. Egli era molto avanti negli anni, ma ancora tanto valido e combattivo da guidare i suoi soldati furiosamente all’attacco, in groppa a un cavallo senza sella. L’espansionismo di Massinissa preoccupava i romani, ma quando i punici reagirono assalendo il numida che si avvicinava a Cartagine, Roma non poté non scendere in guerra per difendere il proprio alleato. Del resto Cartagine violava con quella mossa il trattato di pace di Zama che dal 201 vietava ai punici di dichiarare guerra senza l’assenso dei romani suoi vincitori. Cominciava nel 149 la terza guerra punica, a distanza di cinquantatré anni dalla fine del precedente conflitto. Catone aveva sempre predicato perché si riprendessero le armi contro Cartagine. In una sua ambasceria in Africa aveva visto quanto quella città fosse risorta, e aveva immaginato quanto potesse essere nuovamente pericolosa per Roma. Catone era di origini plebee e contadine. Nato a Tuscolo, nel 234, aveva una matrice risalente agli etruschi, il popolo dei tirreni che a lungo aveva dato filo da torcere ai romani. Fra i suoi nomi c’era anche quello di Prisco, e si chiamò Catone da quando i romani vollero esaltare in lui la caratteristica della prudenza, difatti a Roma un uomo cauto veniva detto Catus. Il nome di Porcio gli derivava dal fatto che da ragazzo aveva fatto il guardiano di porci. 205
Si sapeva poco della sua famiglia di ricchi agricoltori appartenente perciò alla plebe rurale, e dell’infanzia che aveva trascorso in Sabina. Egli era un novus homo, essendo famoso per meriti personali e non per la grandezza degli antenati. Di occhi azzurri e di capelli rossastri, aveva un fisico da spilungone. Conduceva una vita frugale, lavorava nei campi accanto ai suoi contadini. Ottimo oratore, avvocato valente. Si ispirava al grande Demostene, l’ateniese, e gli somigliava al punto di essere chiamato il Demostene romano. Non amava invece Socrate, cui imputava la diffusione mondiale di ogni male greco. Ravvisava in quel filosofo un uomo violento, ma anche una zitella pettegola. Osteggiava la fortuna della lingua greca che si affermava come secondo idioma fra i romani colti. Il latino era ormai la lingua di tutti, mentre fra i dialetti il più radicato appariva ancora l’osco nel sud della penisola specialmente nelle campagne. Di sé diceva che l’impeto col quale affrontava i dibattiti nelle aule della giustizia era pari alla forza con cui da giovane si lanciava in guerra contro il nemico. Aveva il corpo segnato da cicatrici che ancora gli ricordavano le battaglie combattute, ventisettenne, sul Metauro nella seconda guerra punica. Catone aveva diciassette anni quando Annibale valicava le Alpi, e gli eventi di quelle terribili giornate gli erano rimasti ben impressi nella mente. Era severo con i suoi concittadini ai quali, lanciando il rimprovero di essere simili a un gregge di pecore, diceva: «Voi, o romani, vi lasciate trascinare tutti insieme nella medesima direzione da persone dalle quali non acquistereste neppure un carro usato». Fu console plebeo per il 195, trentanovenne, 206
insieme con il patrizio Lucio Valerio Flacco alla cui fazione politica conservatrice e d’ispirazione religiosa si era associato. Gli toccò in sorte il governo della Spagna, dove combatté con valore e con successo. Amava pavoneggiarsi dicendo di aver conquistato in Spagna un numero di città superiore ai giorni trascorsi in quelle terre. Era ormai passato molto tempo dal compimento dell’anno consolare quando ottenne la censura, l’ufficio onorifico che in un certo senso costituiva il coronamento d’una carriera pubblica. I censori avevano soprattutto il compito di indagare sulle virtù e sui vizi della popolazione affinché essa non si discostasse dal tradizionale stile di vita sobrio e forte, quella norma cui si doveva la grandezza della città. Essendo ben note le sue caratteristiche di estrema severità, la sua nomina fu assai osteggiata, ma lui egualmente riuscì a battere gli oppositori che si annidavano fra gli aristocratici e fra quei cittadini che vivevano ormai nella più piena decadenza di costumi. Da censore, per prima cosa scacciò dalla Curia ben sette senatori che ai suoi occhi si erano mostrati indegni del laticlavio; poi privò del loro titolo, e del loro cavallo pubblico che avevano in dotazione, molti cavalieri disonesti. Prese di mira tra gli altri con particolare vigore sia Lucio Cornelio Scipione Asiatico, fratello di Scipione l’Africano il trionfatore di Annibale, sia Lucio Quinzio Flaminino, fratello di Tito Quinzio Flaminino il conquistatore della Grecia. Il primo fu privato della dignità equestre con l’accusa di aver falsato i rendiconti delle spese di guerra per appropriarsi del denaro pubblico, il secondo fu espulso dal Senato per immoralità. In realtà i comportamenti che egli riprovava non erano 207
talvolta granché immorali, per cui i suoi provvedimenti apparivano come meschine vendette. Uno dei suoi perseguitati, Manlio Volsone, fu allontanato dal suo ufficio semplicemente per aver baciato la moglie non in privato ma in pubblico davanti alla figlia e ad altre persone. Quasi tutte le più celebri famiglie romane patrizie o plebee – i Corneli, i Claudi, i Semproni, gli Scipione – furono oggetto delle sue accuse dominate da un gretto spirito contadinesco ispirato a invidia e a gelosia. La composizione del Senato era profondamente mutata. Proprio nell’anno della censura di Catone appariva chiaro nell’albo senatorio come i plebei e gli homines novi fossero aumentati al punto di possedere la maggioranza nel consesso dei patres conscripti. Ai duecentosedici plebei si opponevano soltanto ottantotto appartenenti all’antico patriziato. Ma si perpetuava egualmente la tendenza a lasciare nelle mani di poche famiglie nobili la conduzione dello Stato. Nell’anno in cui egli fu console, il 195, venne abolita la legge Oppia sumptuaria che, votata venti anni prima durante la seconda guerra punica con Annibale vincitore in Italia, tendeva a tenere sotto controllo il lusso femminile che aveva superato ogni limite. Il popolo raggiunse tumultuante il Campidoglio dividendosi in due fazioni, i favorevoli e i contrari. Le donne, che erano le più accese fra i manifestanti, chiedevano di vestirsi secondo il loro capriccio. «O di svestirsi a loro piacimento» gridavano ironicamente gli uomini che le sbeffeggiavano. La fiera opposizione di Catone all’abrogazione della lex Oppia non fu sufficiente a mantenerla in vigore. Duri erano i discorsi di Catone in Senato. In uno di essi sosteneva, da misogino, che le donne dovessero rimanere in soggezione. Le accusava 208
aspramente di licenziosità. Diceva: «Nonostante le leggi, che ne infrenano la licenza e che le tengono sottomesse ai mariti, riusciamo a malapena a contenerle. Se permettiamo loro di essere eguali agli uomini, pensate che potreste sopportarle? Subito, non appena cominceranno a essere vostre pari, o uomini, saranno a voi superiori». Si alzò per controbattere il tribuno della plebe Lucio Valerio, in difesa delle donne e a favore dell’abrogazione. Disse che Catone non conosceva la storia di Roma in cui le donne erano sempre intervenute in prima persona. Ricordava come ai tempi di Romolo fossero accorse per sedare la guerra con i sabini, conseguente al ratto delle vergini. Ricordava l’episodio di Coriolano in cui l’esercito volsco non aveva assalito Roma grazie alle suppliche delle donne. E ancora, aggiungeva, furono le donne a reperire l’oro da deporre sulla bilancia di Brenno. Il tribuno illustrava come la lex Oppia si fosse resa necessaria per non disperdere le risorse dello Stato e indirizzarle tutte al soddisfacimento delle pubbliche esigenze al fine di difendersi meglio da Annibale che aveva vinto a Canne e che già si trovava a Taranto e a Capua pronto a marciare su Roma: «Quei motivi, o quiriti, oggi non sono più validi. Se non abrogassimo la legge Oppia assisteremmo a una ben strana scena. Vedremmo le donne degli alleati latini attraversare la città risplendenti d’oro e di porpora su stupendi carri, mentre le donne romane sarebbero costrette a muoversi a piedi». Catone non si limitava ad accanirsi contro ogni forma di sfarzo e contro ogni raffinatezza. Considerava sue nemiche personali anche le novità filosofiche o religiose che provenissero dalla Grecia e dall’Asia. Guardava a quelle terre come a matrici 209
di allettamenti e depravazioni, di stupri e adulterii. Temeva i culti orgiastici propalati da associazioni bacchiche segrete che comprendevano maschi e femmine, bambini e adulti. Quei riti peccaminosi si svolgevano nel pieno delle notti tra fiumi di vino, banchetti, coiti rituali, bagni sacrali in mezzo a suoni di cembali e di timpani percossi insieme per coprire le grida di chi chiedeva aiuto fra stupri e assassinii. Per Catone ciò era sovversivo, era una minaccia alla religione e alla salute della repubblica. Prima i mercanti e poi anche i soldati importavano dall’Oriente, insieme a nuovi costumi di vita, triclini decorati in bronzo e drappi di lino. L’abitazione di Manlio Vulsone Longo era famosa per il letto di bronzo che lui aveva preso in Asia. Danzatrici e suonatrici allietavano i banchetti per i quali si assoldavano a caro prezzo cuochi sopraffini, sicché si fece della culinaria una passione. A Roma si inauguravano i primi bagni pubblici, e fino a quel momento il popolo non si era bagnato che nel Tevere o sotto fiotti occasionali d’acqua. Per bloccare il dilagare del lusso, Catone tassò aspramente vesti appariscenti, gioielli, arredi, veicoli con legni intarsiati e trainati da coppie di cavalli, cose che l’influenza della moda greca induceva a rendere sempre più lussuose. Il risultato? I cittadini che nascondevano la propria fortuna, vivendo con parsimonia e modestia, riuscivano a pagare poche tasse, mentre era preso di mira chi faceva sfarzo del proprio benessere. La moda greca non si limitava a rendere più dolce la vita di ogni giorno, ma ampliava i confini culturali e filosofici di un popolo. Ora si ascoltavano le commedie satiriche dell’umbro Tito Maccio Plauto, nato a Sarsina, il cui nome veniva trasfigurato in Tito Pagliaccio dai Piedi Piatti. Si poteva dire che 210
fosse stato rovinato dalle guerre di Annibale. Scacciato dal suo paese era arrivato a Roma dove all’inizio si era guadagnato da vivere spingendo la macina di un molino. Assai applaudite erano il Miles gloriosus e la Cistellaria, come quelle che prendevano lo spunto dalle comiche vicende di parassiti, avari, lenoni, sgualdrine o che mostravano Giove nelle vesti di un ridicolo stupratore di Alcmena sostituirsi con l’inganno all’amato marito Anfitrione. Né sfuggiva al sarcasmo di Plauto il giovane Mercurio nella parte di un buffone. I romani si appassionavano alle tragedie del brindisino Pacuvio; o si invaghivano dei versi epici di Quinto Ennio, il poeta-soldato ellenista zio di Pacuvio. Quinto Ennio, nato a Rudiae (Rugge) in Apulia da madre greca, diceva di avere tre cuori, uno romano, uno greco, uno osco. Aveva scritto commedie e tragedie. Con la biografia Scipio aveva reso omaggio all’Africano suo protettore, e vittorioso a Zama. «Non ci saranno statue e colonne che potranno magnificare le tue imprese!» Aveva compilato un grande poema epico, gli Annales, nel quale in diciotto volumi raccontava in esametri omerici la storia di Roma. Il popolo ne ascoltava la lettura nei teatri. Già da una cinquantina d’anni i romani gustavano le opere drammatiche di Livio Andronico che si ispirava a Sofocle e a Euripide. Andronico era stato uno schiavo da ragazzo e poi riscattato da un esponente della gens Livia da cui prese il nome. Proveniva da Taranto ed era stato portato a Roma nel 272 in seguito alla resa della sua città. Scrisse una Odissea in versione latina, in qualità di primo mediatore della cultura greca presso i romani. Le guerre puniche avevano contribuito alla diffusione della 211
cultura greca. Le vicende del primo conflitto con Cartagine apparivano nella loro drammaticità in un’opera, Carmen belli Poenici, del campano Gneo Nevio, che vi aveva partecipato ed era stato preso prigioniero. Nelle sue tragedie, Nevio proponeva altri temi romani, soprattutto in Romulus e Tarentilla. In quest’ultima composizione sceneggiava le eccitanti avventure di una ragazza dai facili costumi, e trascinava le platee a matte risate. I suoi obiettivi preferiti erano però i nobili, in particolare i Metelli, e ciò lo fece finire in esilio. Con l’animo del linguista pessimista, scrisse il proprio epitaffio per dire che dopo di lui non si sarebbe più parlato il latino: «Oblitei sunt Romani loquier lingua latina». Catone, col suo gretto moralismo, non soltanto si opponeva alle idee liberali degli Scipione, ma rivolgeva un’eccessiva attenzione anche a cose più minute e insignificanti. C’erano ricchi cittadini che per avere in casa l’acqua senza pagare e per irrigare i loro giardini la prelevavano nascostamente dalle condutture demaniali. Accortosi di ciò, Catone fece tagliare quei tubi ottenendo un grande successo di popolo. Gli aristocratici lo maledivano, e lo rappresentavano come uno spietato usuraio, ma la plebe lo adorava e chiedeva che si elevasse una statua in suo onore. Negli anni della vecchiaia l’accusa di usura appariva ben fondata poiché Catone la praticava ampiamente attraverso un suo liberto, così come diventava grande possessore di terre pur avendo predicato a favore della piccola proprietà. Non soltanto il lusso si era diffuso nella penisola, ma anche un certo benessere sociale. Lo Stato si mostrava rigoglioso e si prodigava in grandi opere pubbliche. Si dava mano alla costruzione di nuove grandi vie come l’Emilia e la Cassia, si 212
estendeva la rete fognaria romana, si sistemava il corso dei fiumi, si rendevano più sicuri i porti. Dagli appalti delle opere pubbliche molti romani traevano considerevoli ricchezze che poi venivano riversate nel miglioramento delle colture agricole, della pastorizia e delle attività mercantili. Dal giorno della famosa ambasceria in Africa l’odio di Catone per Cartagine si era di giorno in giorno accresciuto. Con la sua missione egli doveva accertare per quali ragioni Massinissa, il vecchio re di Numidia, si ritrovasse ai ferri corti con Cartagine. Da quel viaggio Catone ricavò un’impressione allarmante. Non vide una città distrutta né una popolazione sottomessa. I romani non potevano neppure immaginare i pericoli che quella situazione nascondeva. Cartagine era piena di giovani aitanti e ricchi. La città era rigogliosa e fortificata. Mostrava superbia, come se Roma non l’avesse mai sconfitta.
213
XVII Tornato nell’Urbe, Catone aveva drammaticamente richiamato l’attenzione del Senato sulla minaccia contenuta nel nome di Cartagine. Forse in quella città era già nato un nuovo Annibale che come l’altro avrebbe marciato su Roma. Per Catone l’attacco dei punici ai numidi era l’anticipazione d’una nuova guerra. Al Senato, quella volta, la seduta fu quanto mai agitata a causa delle invettive che Catone lanciò nel suo discorso contro Cartagine. A conclusione delle sue parole, egli, rovesciando alle sue spalle la toga con gesto solenne, gettò in mezzo all’assemblea alcuni fichi che apparivano ancora freschi. Provenivano da Cartagine. Un «oh» di stupore si levò dagli scanni, mentre l’oratore esclamava con toni teatrali: «La terra che li produce è a soli tre giorni di navigazione da Roma. E io sono del parere che Cartagine debba essere distrutta», ceterum censeo Carthaginem esse delendam. Catone da quel momento prese pervicacemente a concludere ogni suo discorso, qualsiasi argomento affrontasse, con quella esclamazione: «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam», come un drammatico tormentone. Così indicava come, al di là di ogni umana e romana ragione, al di là di ogni motivo e gesto, la sopravvivenza di Roma e dei romani, ricchi e poveri, dipendesse da Cartagine. Per questo la città andava distrutta, Delenda Carthago, escludendo ogni possibiità di rinascita. Cornelio Scipione Nasica, cugino dell’Africano, reagiva duramente alle invettive catoniane, e a sua volta concludeva 214
ogni suo discorso con un’invocazione opposta: «Io sono del parere che Cartagine debba restare», considerando la città come uno stimolo per il progresso di Roma. E difatti, per la sua assennatezza Scipione Nasica veniva soprannominato Corculum, Cuoricino. Nasica guidò anche il gruppo di matrone che nel porto di Ostia accoglieva una sacra pietra nera proveniente dall’Asia Minore. La pietra, un meteorite, rappresentava Cibele, la Magna Mater, divinità della fecondità. A Roma la rappresentarono come una dea con tre torri sulla testa, a mo’ di corona, e assisa su un carro trainato da leoni. La portavano nell’Urbe perché nei Libri Sacri era scritto che «lo straniero» sarebbe stato sconfitto soltanto grazie alla Magna Mater, e in quegli anni per i romani lo straniero era Annibale. Nell’anno 149, dunque, sotto i consoli Lucio Censorino e Manio Manilio, la flotta romana con a bordo ottantamila uomini salpava alla volta dell’Africa per gettare l’ancora nel porto di Utica. Censorino comandava le forze della marina, Manilio l’esercito. Scipione Emiliano, adottato da Publio Scipione figlio dell’Africano, era tribuno militare. Catone, che finalmente vedeva coronato il suo sogno, era soddisfatto. Citava Omero ravvisando nell’Emiliano l’unico uomo vero fra tante ombre svolazzanti. Aveva ottantacinque anni, e a quell’età moriva soddisfatto per il successo ottenuto con le sue invettive. Lucio Valerio lo aveva aspramente rimproverato di non conoscere la storia di Roma avendo trascurato il contributo delle donne alla crescita della città. In effetti la dimenticanza non era stata casuale, poiché Catone aveva dedicato all’Urbe ben sette libri, le Origines, in cui aveva raccontato come si fosse svolto il cammino della città e della 215
penisola dal punto di vista romano-italico, per metterne in rilievo l’autonomia in polemica con la storiografia ellenistica. Il primo che aveva scritto di Roma in greco per illustrarne la discendenza dalla Grecia era stato il senatore Fabio Pittore che aveva partecipato alla seconda guerra punica. Disperati, gli ambasciatori punici avevano implorato i romani affinché non scatenassero una nuova guerra, e sembrava che fossero riusciti a evitarla. Per dimostrare quanto volessero sinceramente la pace avevano accolto tutte le condizioni imposte, ma Roma manteneva un atteggiamento sottilmente ambiguo. Mentre dava l’impressione che non avrebbe attaccato, nascostamente si preparava all’azione in attesa di un pretesto per muoversi. I cartaginesi avevano accolto le richieste dei romani. Avevano dato in ostaggio trecento nobili giovinetti inviandoli a Lilibeo, tra le lacrime delle madri; avevano consegnato armi e navi. Ma i romani non avevano intenzione di restare ai patti. Difatti in un nuovo incontro con gli ambasciatori punici il console Censorino ripeté a sorpresa l’invocazione catoniana: «Cartagine deve essere distrutta». A queste parole i messi stramazzarono al suolo, consci del fatto che i cartaginesi, avendo rispettato le condizioni poste dai romani, non avevano più difese. Appresa la notizia, il popolo punico accusò Roma di essere venuta meno ai patti, e per ritorsione chiese che fossero trucidati tutti i romani che si trovavano a Cartagine. Quindi la città cominciò a prepararsi alla nuova guerra. Gli edifici sacri e quelli pubblici furono convertiti in fabbriche di armi – scudi, spade, giavellotti – per un nuovo esercito in rapida ricostituzione. Ogni donna accettò di lasciarsi tagliare i capelli per farne corde da impiegare nelle catapulte. 216
Alle antiche fortificazioni murarie furono febbrilmente aggiunte nuove torri, mentre si rendevano più sicure le grandi stalle per gli elefanti. Le schiere romane si precipitarono su quelle fortificazioni cercando di individuarne i punti deboli, e amara fu la sorpresa quando le videro resistere oltre ogni immaginazione. Non che il tribuno militare Scipione Emiliano non attaccasse con violenza la città, ma prevalse l’indomita volontà dei punici di non lasciarsi sopraffare. Scipione Emiliano divenne console per il 148 a trentotto anni, pur non avendo ancora l’età necessaria alla nomina e non avendo mai esercitato la pretura, ma i romani si erano confermati nell’idea che soltanto uno Scipione, sommamente amato dall’esercito, avrebbe potuto cancellare Cartagine dalla faccia della terra. L’Emiliano era tornato brevemente in patria, poi, proprio all’inizio del 148, era ripartito per l’Africa alla testa di una nuova flotta che ancorò nel golfo di Utica. Pose mano alla costruzione di un colossale molo destinato a bloccare l’ingresso al porto di Cartagine, a tenere la città nel più completo isolamento e a farle mancare i rifornimenti. I punici non si arrendevano, anzi aprivano una galleria sotterranea. Attraversandola, raggiungevano una vicina baia nella quale costruivano nascostamente alcune navi. Quelle navi poi apparvero in difesa della città lasciando i romani con un palmo di naso. I romani avevano creduto che il molo da loro costruito avrebbe ridotto all’impotenza il nemico. Ma si erano sbagliati. Cartagine non cadeva, e nell’Urbe il Senato era in ambasce. Il popolo tumultuava nel Foro, conscio del fatto che si dovesse combattere non soltanto in Africa, ma nello stesso tempo in Macedonia e in Spagna. 217
Soltanto nella primavera dell’anno successivo fu possibile a Scipione Emiliano abbattere le difese di Cartagine e penetrare nella città. Si guerreggiava casa per casa con particolare ferocia. L’assalto decisivo contro la capitale africana fu condotto dal più stretto e sagace collaboratore dell’Emiliano, Caio Lelio, in veste di legatus. Nella rocca si erano rifugiati cinquantamila cittadini, e appariva inespugnabile. Occorse una settimana per prenderla. Alla fine tutta Cartagine ardeva tra le fiamme, e l’immane incendio si protrasse per dieci giorni. Gli abitanti si disperdevano nei dintorni. Le fiamme in cui era avvolta Cartagine turbarono il duce romano, che a lungo meditò sul destino della città, simile a quello dei popoli. Erano già crollati i troiani, gli assiri, i medi, i persiani e ultimamente i macedoni. I suoi soldati si accingevano a cospargere di sale le rovine della capitale nemica. Nel contemplare inorridito l’immane incendio, l’Emiliano non poté trattenersi dall’esclamare tra le lacrime: «Ora arde Cartagine, ma un giorno potrebbe ardere Roma». Si era del resto verificato uno strano prodigio. A Formia un bue che apparteneva al console Gneo Domizio Enobarbo si era messo a parlare e aveva detto: «Roma, bada a te!». Cartagine cadeva a settecento anni dalla fondazione, e il suo territorio diventava una provincia romana. Poco dopo si consumava tra le fiamme anche Corinto, che era diventata la città di punta della Lega achea nella ribellione al dominio romano. I capolavori d’arte che la ricca città greca custodiva furono sequestrati e inviati a Roma, non tanto perché il distruttore della città, il console Lucio Mummio, che pure apparteneva al colto circolo scipionico, ne apprezzasse il valore, quanto per puro sfregio: molti gioielli furono venduti all’asta e 218
gli oggetti di bronzo semplicemente fusi. I romani andavano sempre più perdendo alcune delle loro antiche virtù. Scipione Emiliano tornò presto in patria, al termine d’un viaggio che sembrava essersi svolto sotto la protezione degli dèi, tanto era stato rapido e tranquillo. Lungo la via Sacra celebrò un trionfo di cui non si erano mai avuti eguali. Patrizi e plebei erano certi che con la vittoria definitiva su Cartagine si sarebbe aperto per Roma il futuro d’una città che avrebbe esercitato il suo imperium su gran parte del mondo conosciuto. I romani più colti citavano alcune parole che secoli prima Pericle aveva pronunciato per esaltare l’importanza del dominio sul mare. Emiliano giustamente riceveva il riconoscimento di Africano Minore. Fu inviato, per la seconda volta console ma illegalmente, avendo disatteso la legge che proibiva la iteratio delle magistrature, a tener testa alle ribellioni che esplodevano in un’altra delle zone calde possedute da Roma, l’Iberia. I ribelli iberici avevano scoperto che uno di loro, un semplice pastore di nome Viriato, aveva le caratteristiche e le qualità di un Annibale. Così lo avevano nominato generale, e con lui avevano scatenato una rivoluzione trucidando guarnigioni e abbattendo le insegne di Roma. I ribelli celtiberi si erano impossessati di Numanzia, e non vi furono scacciati che da una violenta azione capitanata dall’Emiliano. Era il 133 a.C., e apparve a tutti chiaro che Roma marciava spedita verso un futuro di egemonia totale. Dominava, ricca e splendente, con le sue ville, i suoi templi, gli uomini forti, le donne belle. A Roma molte altre cose erano cambiate. Lo avevano notato alcuni personaggi, fra i più attenti e acuti, come lo storico liberale Polibio. Egli era un uomo nobile e pensoso, originario 219
dell’Arcadia che, deportato a Roma, aveva seguito l’Emiliano a Cartagine e a Numanzia. Il generale ne aveva colto le doti e lo ospitava nella sua casa. Polibio scriveva la storia della città cara agli dèi, ne scrutava il passato per tentare di prevederne il futuro. Ed era il primo storico greco che si dedicasse a questa opera di illuminata ricostruzione. Nel sud della penisola quattrocento città erano andate distrutte, l’agricoltura stentava a riprendersi fra le ceneri fumanti. Roma aveva vinto la guerra contro il nemico fatale, ma altissimo era stato il prezzo: un vero e proprio lavacro di sangue. I romani in altri tempi avrebbero impiegato pochi decenni a rinascere, ma ora, come aveva temuto Catone, il duro lavoro pesava a questi nuovi romani, così forti e così deboli insieme. Il loro carattere originario si era affievolito. Alla fine del II secolo avanti Cristo, uomini e donne non sapevano più che cosa volevano, e non conoscevano la strada del futuro. Erano ancora romani, certo, e ancora intendevano il respiro di Giano. Avevano vinto su tutti, anche su quel generale punico, Annibale, che consideravano più fortunato che abile. Patrizi e plebei non praticavano più quella vita parca e sobria che era stata la loro norma. Al contrario si immergevano in avventure discutibili. Puntavano a far fortuna con le miniere dell’Iberia e con i commerci navali nel Mediterraneo, fra quei ricchi popoli d’Oriente che avevano così a lungo combattuto. I romani erano sempre più sensibili all’influsso che proveniva dalla Grecia, la quale in pochi anni, dopo essere stata conquistata, aveva esportato la sua filosofia, i suoi modi di pensare e di agire, in assoluto contrasto con le tradizioni romane. In effetti questa nuova condizione, il benessere e il rilassamento in cui ora Roma 220
viveva, era dovuta alle grandi vittorie ottenute e all’espandersi dello spirito greco, alle confische imposte ai vinti, ai tributi che il vincitore incassava. Si diceva che Scipione Africano Maggiore avesse aperto Roma alla potenza, mentre il nipote Scipione Emiliano Africano Minore l’avesse schiusa al lusso e alla rovina. Tornato a Roma dalle fatiche iberiche, l’Emiliano si era fatto animatore di un circolo culturale filoellenico, divenendone il più acceso frequentatore per parlarvi non di sangue e di morte o di conquiste cruente, ma di storia, filosofia, arte, teatro. Quella consorteria era chiamata «Circolo degli Scipioni», ed era un ritrovo colto ed elegante in cui si riunivano a discutere il filosofo rodiese Panezio o lo storico Polibio di Megalopoli o il generale Tito Quinzio Flaminino, trionfatore in Grecia. Facevano parte del circolo poeti drammatici come Publio Terenzio e Marco Pacuvio, e satirici come Caio Lucilio, e poi altri uomini di grande sagacia come il sapiens Caio Lelio che rimaneva il più grande amico dell’Emiliano. Forte era però nei romani l’attrattiva degli spettacoli gladiatorii, tanto che si evitava di offrirli contemporaneamente a quelli teatrali per non rischiare di lasciarli senza pubblico. Negli scontri dei gladiatori era simbolizzata la forza che vince ogni cosa, mentre nelle azioni sceniche i romani erano costretti a guardarsi vivere con tutti i loro difetti, e non sempre ciò poteva piacere. Panezio era un po’ stoico, un po’ platonico, un po’ aristotelico, e comunque romanizzato. Negli anni in cui fu ospite dell’Emiliano scrisse il suo miglior libro, Sul dovere, che influenzò enormemente la gioventù dorata di Roma insegnandole a intendere quanta gioia e quanta dolcezza ci 221
fossero nella vita. Publio Terenzio originariamente si chiamava Publio Afro, ed era uno schiavo africano, cartaginese, arrivato a Roma nel 184. Posto in libertà grazie all’intelligenza e al mecenatismo del suo proprietario, il vecchio e colto senatore Terenzio Lucano, Afro aveva fatto una buona impressione su un famoso autore d’origine celtica, Cecilio Stazio, al quale era piaciuta una sua commedia, Andria, la prima che aveva scritto. Introdotto nei circoli culturali più importanti, strinse amicizia con Scipione Emiliano. Diventato a sua volta famoso, Afro prese per riconoscenza il nome di colui che era stato il suo padrone. Tutti a Roma ripetevano uno dei suoi detti, forse il più famoso: «Fortes fortuna adiuvat». Vennero a Roma da Atene colti ambasciatori, come il peripatetico Critolao, lo stoico Diogene di Babilonia e l’accademico Carneade, che rimetteva in discussione ogni certezza.
222
XVIII Le questioni politiche e sociali apparivano sempre più ingarbugliate. Con la distruzione di Cartagine – e la conseguente creazione della provincia d’Africa, la conquista della Grecia, della Macedonia e dei grandi imperi dell’Asia Minore, l’istituzione delle colonie insulari di Sicilia e Sardegna e di quelle peninsulari come l’Iberia – a Roma le classi alte si erano enormemente arricchite, mentre i poveri erano diventati più poveri. Le classi dirigenti avevano inghiottito grandi proprietà che richiedevano molta manodopera, ora fornita quasi esclusivamente dagli schiavi catturati o acquistati dovunque. Solo nel 177 ne erano stati rastrellati oltre quarantamila in Sardegna, altri provenivano dall’Epiro e dalla Macedonia, dove furono acquistati in un solo giorno diecimila schiavi. Le condizioni degli schiavi a Roma erano sempre state difficili, ma la trasformazione dell’economia, che da terrestre e peninsulare era diventata marina e internazionale, aveva spinto i loro proprietari a pretendere sempre di più e a dare sempre di meno. Le ribellioni si susseguivano in rapporto all’estensione della schiavitù, e ovviamente i più agitati erano gli schiavi addetti agli onerosi lavori della terra rispetto a quelli delle città. Lo Stato aveva ampliato l’ager publicus; aveva ceduto in affitto ai ricchi a prezzi irrisori vasti appezzamenti di quell’agro, mettendo in crisi i piccoli proprietari. Ciò aveva provocato la fuga dalle campagne e il trasferimento nelle città. Diversi campi 223
coltivati erano stati convertiti in pascoli e le colture affidate agli schiavi. La nuova plebe urbana era dunque miserrima, assai più numerosa di quanto lo fosse stata prima delle guerre puniche. Cercava di sfogare in qualche modo la propria incontenibile rabbia. Si discuteva di questo nel circolo scipionico, dove si riconosceva, anche se malvolentieri, che una soluzione poteva essere rappresentata da una riforma agraria tale da restituire forza e dignità alla classe media in così profonda crisi. Per la prima volta nella storia dell’Urbe, si affacciavano nel circolo le donne. La più famosa di loro apparteneva naturalmente alla famiglia degli Scipione. Si chiamava Cornelia, maestosa d’aspetto e di alto intelletto. Era la seconda figlia di Scipione Africano. Aveva sposato un abile stratega ed eccellente governatore di colonie, Tiberio Sempronio Gracco, che saliva sempre più in notorietà, censore, tribuno, console. Lei era patrizia, lui no. Cornelia si imparentò anche con Scipione Emiliano in quanto sua figlia Sempronia ne divenne la moglie. Cornelia e Tiberio Sempronio Gracco ebbero dodici figli, undici maschi e una femmina, fra i quali se ne distinguevano due, nati a una certa distanza l’uno dall’altro: Tiberio, nato nel 163, e Caio, più giovane di nove anni. Nove di loro via via morirono anzitempo, per cui rimasero in vita soltanto Tiberio, Caio e una sorella che, come la madre, si chiamava Sempronia. La madre educava i due maschi a grandi cose, li adorava al punto da rifiutare, alla morte del marito, una proposta di matrimonio di Tolemeo VII d’Egitto, per potersi occupare di loro. E quando un giorno una matrona romana, in una riunione del circolo scipionico, si vantava delle splendide vesti e dei 224
monili che indossava, Cornelia un po’ piccata esclamò, mostrandole i suoi figli: «Questi sono i miei gioielli!». Più che figlia dell’Africano, ella amava essere chiamata madre dei Gracchi. Cornelia e l’Emiliano divennero presto i testimoni più illustri di una società in transizione che stava passando dalle virtù ai vizi, dalla tradizione alle novità, dalle armi ai piaceri. Personalità molto vivide, i due si accorsero ben presto del pericolo che correva Roma. In passato si erano immersi in ogni delizia che, come diceva Terenzio, rendeva più gradevole la vita, ma poi cominciarono nel loro circolo ad affrontare sempre più le questioni della politica e della società. Dopo essere stato questore in Spagna, si avvicinava al tribunato della plebe uno dei figli di Cornelia e Tiberio Sempronio Gracco, quel Tiberio fratello del più giovane Caio, entrambi nipoti di Scipione Africano. Tiberio era uomo colto e sensibile, pacato d’animo, cresciuto fra discussioni illuminate e personalità affascinanti. Il suo precettore era stato un filosofo stoico filoellenico, Caio Blossio, che nella città natale di Cuma aveva brillato per la sua scienza. Il giovane Tiberio Gracco, bello ed elegante, subiva l’influsso della Grecia, aspirava al grande obiettivo di cancellare la povertà dalla faccia della terra, ma anche di ottenere fama e potere per sé. Si diceva che fosse lui stesso a sguinzagliare per le vie di Roma suoi galoppini perché scrivessero sui muri le sue lodi. Non ancora trentenne, fin dal giorno della sua elezione a tribuno, che era avvenuta il 10 dicembre del 134 per l’anno successivo, propose al Senato una riforma agraria rivoluzionaria e perciò terrificante agli occhi di quanti si erano accaparrati 225
l’ager publicus. Ispirato da Blossio che immaginava di costruire un mondo simile a una grande isola felice, suggestionato dal suo maestro di retorica Diofane di Mitilene e dalla stessa Cornelia, madre assetata di gloria, egli da tempo pensava a una legge agraria per risolvere i problemi economici e sociali che attanagliavano Roma. Un suo viaggio in Etruria, con lo spettacolo di terre desolate e deserte, lo aveva fortemente impressionato. Indicava nello schiavismo esasperato, nella decadenza militare, nel latifondismo ozioso e nell’urbanizzazione scellerata le cause principali delle disgrazie della città. Con toni declamatori affermava che soltanto con una nuova legge agraria si sarebbe potuta riequilibrare la situazione. Ce n’era stata una nel 367, più di due secoli prima, la LicinioSestia, ma l’avevano fatta cadere in disuso. Proponeva perciò che si ristabilisse con alcune innovazioni la quantità di terra pubblica da attribuire a ogni cittadino, secondo le sue condizioni economiche e il numero dei figli. In Senato, a parte l’oligarchia più antica che aveva forti interessi nel latifondo, molti apparvero favorevolmente impressionati dalle idee di Tiberio Sempronio Gracco, anche perché la crisi economica si rifletteva negativamente sul reclutamento della forza militare. Nell’esercito si entrava in base al censo, e i cittadini, se si impoverivano, non potevano più essere chiamati alle armi. Inoltre, quando tornavano a casa in seguito al congedo, non trovavano più il campicello che costituiva la loro fonte di sostentamento. Sembravano idee ragionevoli, ma egli sotto un’oratoria pomposa celava il primo obiettivo della riforma, l’ambizione personale, sebbene conservasse un atteggiamento assai pacato. Quei padri coscritti 226
che gli erano contrari cercavano di far capire al popolo come Tiberio, introducendo una profonda ridistribuzione della terra pubblica con la lex Sempronia da lui proposta, mirasse a scompaginare lo Stato e a scatenare una rivoluzione per farsi incoronare nuovo re di Roma. Forse non era così, ma qualcosa del suo comportamento lo faceva pensare. Si rivolgeva alle masse, e diceva con vigore oratorio: «Perfino le fiere hanno tane e ovili in cui rifugiarsi, mentre voi, che per Roma combattete e morite, non avete nulla, non avete che l’aria per respirare. Senza fissa dimora vagate con moglie e figli. State attenti: i comandanti vi ingannano quando, prima delle battaglie, vi spingono a combattere per difendere i vostri templi e i sepolcri dei vostri antenati, perché in tanta moltitudine della plebe romana non v’è chi abbia un altare domestico o una tomba in cui possano riposare le ceneri dei morti. Voi combattete e morite per difendere la ricchezza di altri, il lusso di altri. Come romani, venite chiamati padroni del mondo, ma non possedete una sola zolla di terra». Tiberio non aveva che un anno di tempo per far approvare la sua riforma. Quindi, al fine di aggirare le lungaggini del Senato, presentò la legge direttamente al popolo, anche perché molti senatori, in quanto grandi latifondisti, si predisponevano a boicottarla. Il popolo lo applaudiva e lo seguiva. Allora il Senato non trovò rimedio migliore per contrastarlo oltre quello di chiedere il sostegno di un altro tribuno in carica, Marco Ottavio. Questi era un giovane di carattere fermo, buon amico e parente di Tiberio. Per deferenza verso di lui, Ottavio in un primo tempo aveva cercato di tenersi fuori dalla disputa, ma alla fine, sollecitato con insistenza da personaggi ricchi e influenti, e 227
forzato ad agire con l’offerta di molto oro, prese pubblicamente posizione contro Tiberio che andava via via alzando i toni e conferendo alle sue richieste un chiaro sapore demagogico. Le discussioni nel Foro si facevano vivaci. I discorsi di Tiberio Gracco accendevano gli animi. In pieno Foro, in gran parte affollato di contadini provenienti da ogni luogo d’Italia, il tribuno diede l’ordine di leggere il testo della legge per metterla ai voti. Fu allora che insorse violentemente Marco Ottavio, l’altro tribuno, per impedirne la lettura. In tal maniera Ottavio contrappose il veto, lo ius intercessionis in suo potere. Tiberio, esasperato, reagì annunciando che avrebbe chiesto la destituzione dell’avversario per essere venuto meno ai doveri di difensore del popolo. Presentata la legge contro Ottavio, diciassette delle trentacinque tribù che avevano votato si erano espresse a favore della rimozione. Aquel punto Tiberio, con un gesto plateale, sospese temporaneamente la votazione per rivolgersi a Ottavio e dirgli che tanto valeva dichiararsi sconfitto e salvare il salvabile. «Non devi fare, Ottavio, il gioco dell’oligarchia senatoria che pensa solo a sfruttarti per poi abbandonarti al tuo destino.» Per avvalorare le sue buone intenzioni, Tiberio scese lentamente dalla tribuna e, abbracciato il collega, lo baciò affettuosamente sulle guance. Ottavio, pur tra le lacrime, non seppe reagire ai richiami dei senatori che si mostravano irremovibili. Fra le opposte fazioni esplosero violenti tafferugli, al termine dei quali il popolo ritirò il mandato a Ottavio e diede per acclamazione l’assenso alla riforma che intanto Tiberio aveva reso ancor più dura. Esultante per la vittoria, Tiberio Gracco fece allontanare dai suoi liberti con la forza il povero Marco Ottavio. Il tribuno 228
spodestato veniva trascinato via dal podio fra la violenza della folla che gli si buttava addosso colma di rabbia. A uno fra i suoi più arditi seguaci furono cavati gli occhi. Tiberio procedette alla nomina di una commissione per procedere alla divisione e alla nuova assegnazione delle terre. Ne faceva parte ovviamente egli stesso, insieme al suocero Appio Claudio Pulcro e al fratello ventenne, Caio, il quale però si trovava allora a Numanzia a combattere con il cognato Scipione Emiliano. Quindi fece eleggere un nuovo tribuno che naturalmente era uno sconosciuto di origini oscure, un suo cliente di nome Mucio. Alla testa dei suoi avversari si trovava Nasica Scipione Serapione, il quale, non avendo alcuna intenzione di cedere le terre che aveva ingiustamente accumulate, decise con gli oligarchi di boicottare ogni altra proposta di un tribuno così violento. Per qualche tempo sembrò che la tensione calasse, almeno fino al giorno in cui Eudemo da Pergamo portò nell’Urbe il testamento del defunto re Attalo III Filometore, che aveva nominato il popolo romano suo erede universale, destinandogli ogni cosa, possedimenti e tesori. Nello stesso anno in cui Tiberio era salito al tribunato, era infatti morto in giovane età l’ultimo sovrano del lontano e misterioso regno orientale. Il tribuno capì di avere tra le mani una ghiotta occasione per compiacere la plebe, e propose una legge per cui il tesoro di Attalo veniva diviso tra i cittadini assegnatari di terre, affinché con quel denaro potessero attrezzarsi meglio per le coltivazioni. Proponeva inoltre l’adozione di una procedura più che rivoluzionaria affermando che lui avrebbe trattato la questione davanti al popolo con l’esclusione assoluta del Senato. 229
Proponeva ancora altre riforme a vantaggio del popolo, come la riduzione della durata del servizio militare, il riconoscimento del diritto di appello ai cittadini nei confronti delle decisioni dei tribunali e l’estensione ai plebei di alcune prerogative ancora riservate alla classe senatoriale. Chiedeva che fra i giudici dei tribunali sedessero anche cittadini con un certo censo. Alcune sue proposte erano sacrosante, altre discutibili, altre ancora demagogiche, sicché si perdeva il confine tra ciò che diceva per emancipare il popolo e ciò che faceva per interesse personale. La partita era sempre aperta. Difatti Tiberio volle presentarsi alle elezioni per un secondo tribunato, sostenuto da un forte seguito clientelare. Apparve nel Foro tutto vestito di nero tenendo per mano suo figlio ancora bambino, a significare che una sua eventuale esclusione sarebbe equivalsa a un lutto per il popolo rimasto orfano. Violenta era in Campidoglio la discussione che si svolgeva in pubblico sulla possibilità di ammetterlo o no alle elezioni essendo la sua candidatura illegale, in contrasto con le norme. Queste illegalità non erano una remora per Tiberio nella sua azione rivoluzionaria. All’improvviso si passò dalle parole alle vie di fatto. Un gruppo di facinorosi lo affrontò apertamente davanti al tempio di Giove prendendolo a bastonate. Cadde a terra privo di vita. Altri trecento suoi seguaci subirono la stessa sorte, trucidati con ogni arma. Nel parlare, egli aveva portato casualmente le mani alla testa, e fu quello il gesto che gli avversari avevano preso a pretesto per assalirlo. Gridavano, istigati da Scipione Nasica Serapione, che pure era suo cugino: «Ecco, vuole la corona. Vuole farsi re. Tradisce la repubblica». Il primo a colpirlo con uno sgabello fu un senatore, Publio Satireo, che gli spaccò il 230
cranio. Il secondo colpo se lo attribuì gloriosamente un altro personaggio, di nome Lucio Rufo. I cadaveri di Tiberio e dei suoi proseliti furono ignominiosamente gettati nel Tevere o fatti precipitare dalla rupe Tarpea. Tiberio era stato tribuno soltanto per sette mesi, eppure mai nessuno prima di lui aveva scosso così profondamente l’autorità del Senato. I senatori respinsero duramente la richiesta dell’animoso Caio Gracco che, tornato dalla Spagna dove l’Emiliano approvava la strage, intendeva dare al fratello una misericordiosa sepoltura recuperandone la salma ancora galleggiante sulle acque del Tevere. Alla notizia della tragica fine del fratello, Caio ripeté un verso dell’Odissea: «Muoia così chiunque commetta una simile azione». Poi disse qualcosa di più concreto: «Il migliore è stato ucciso dai peggiori». Fra questi naturalmente includeva l’Emiliano, il quale, di ritorno da Numanzia, faceva capire ancor più chiaramente quali fossero le sue idee. A chi gli chiedeva che cosa pensasse della morte di Tiberio Gracco rispondeva: «Quell’uccisione era più che giusta». Non furono sufficienti a placare gli oligarchi neppure le numerose vittime della sommossa. Molti altri seguaci del tribuno vennero inviati in esilio o uccisi. Fu brutalmente ammazzato Diofane di Mitilene. A Caio Villio venne riservata una fine più che spaventosa, avendolo rinchiuso in una giara in mezzo a vipere e serpenti. Caio Blossio, posto sotto processo nel 132, diceva ai senatori di aver fatto ciò che il Gracco gli aveva comandato di fare. Allora il sapiens Caio Lelio gli chiese: «Che cosa avresti dunque fatto se Tiberio ti avesse ordinato di dare fuoco al Campidoglio?». Blossio rispose: «Tiberio non mi avrebbe mai ordinato una cosa simile». «Ma, rispondi, se te lo 231
avesse ordinato?» A quel punto Blossio sbottò dicendo: «Se me lo avesse comandato avrei eseguito l’ordine, perché Tiberio non me lo avrebbe mai dato se non per il bene del popolo». Il popolo dunque doveva aver ragione su ogni altra autorità. A Blossio venne consentito di fuggire. Raggiunse l’Asia presso Aristonico, l’antiromano che aveva suscitato una rivolta per protestare contro l’ultimo sovrano di Pergamo che aveva lasciato in eredità il suo regno a Roma. A successore di Tiberio nella commissione agraria il Senato fece eleggere Publio Licinio Crasso, padre di Licinia, moglie di Caio Gracco. La sommossa omicida era stata provocata dai patrizi e capeggiata dallo stesso Nasica Scipione Serapione, pontefice massimo. Nasica aveva conferito un significato religioso al tumulto. Si era coperto il capo con la toga, come per annunciare un sacrificio. In tal maniera l’uccisione di Tiberio si compiva in nome della salute dello Stato. Altri dicevano che si vendicavano di un traditore della propria classe. In realtà volevano difendere gli interessi di possessori dell’ager publicus che la riforma di Tiberio Gracco aveva profondamente colpito. Erano trascorsi tredici anni dalla distruzione di Cartagine e di Corinto, che erano state ricche e gloriose. Roma estendeva nel mondo la sua influenza, ma al suo interno tremava. Il Senato non poté comunque non ratificare la legislazione agraria voluta da Tiberio. In pochi anni vennero registrati ottantamila nuovi cittadini che avevano acquisito quello status grazie alla concessione di nuovi lotti di agro pubblico.
232
XIX Alla morte di Tiberio Gracco, nel 133 a.C., erano in atto una guerra servile nella provincia romana della Sicilia e una guerra condotta da Scipione Emiliano in Spagna per atterrare Numanzia e riportare l’ordine nella regione. L’assedio alla città era durato tanto a lungo da costringere i numantini a mangiarsi l’un l’altro, in una sfuriata di cannibalismo. La sedizione degli schiavi siciliani era stata provocata da uno schiavo siro di nome Euno. Egli aveva raccolto un improvvisato esercito di settantamila uomini, in gran parte schiavi ribelli, i quali, armati quasi esclusivamente di rabbia e di indignazione, erano penetrati nella città di Enna e vi avevano sterminato la popolazione. Affiancati da altre migliaia di compagni di sventura, che spuntavano un po’ dovunque, riuscirono a impadronirsi di gran parte dell’isola debellando persino un esercito regolare inviato da Roma per fermarli. Non soltanto Enna, ma anche le città di Catania, Tauromenio e Agrigento erano state attaccate e occupate. Euno chiamava alla rivolta gli schiavi, non soltanto quelli delle campagne, affermando che ciò era un ordine degli dèi. Per dimostrarlo, mentre parlava emetteva dalla bocca lunghe lingue di fuoco. Alcuni lo ritenevano un mago, altri sostenevano che per ottenere quel prodigio celasse nella bocca una noce contenente zolfo. Euno si era investito di una sorta di autorità regale. Si abbigliava con stoffe lussuose, aveva un seguito e si faceva 233
chiamare con un nobile nome, Antioco, della dinastia dei seleucidi. Anche tra gli schiavi si facevano profonde le differenze. Mentre Euno-Antioco si atteggiava a sontuoso sovrano, altri continuavano a vivere in tali ristrettezze da potersi sfamare soltanto mangiandosi l’un l’altro. Euno-Antioco non era però l’unico capo ribelle a impensierire il Senato. Un altro, il cilice Atenione, dopo aver trucidato il padrone, assunse la guida degli schiavi ribelli nei territori di Segesta e Lilibeo. Gli schiavi venivano sempre sconfitti, tuttavia continuavano a tenere la repubblica in agitazione. Le cause delle ribellioni erano profonde. Da un lato il numero degli schiavi era salito enormemente e dall’altro lato l’estensione dei latifondi in continua crescita aveva provocato una forte riduzione della piccola proprietà terriera che era alla base dell’antica prosperità. Cornelia, la madre dei Gracchi, non sapeva rassegnarsi all’idea di aver perduto il figlio Tiberio appena trentenne. Perciò influiva pesantemente sull’altro figlio, Caio, perché proseguisse nell’azione in difesa del popolo. «Tu sei ora il mio unico gioiello», gli diceva «perché il destino e i reazionari mi hanno tolto l’altro. Tu devi dunque brillare per entrambi.» Caio si mostrava riluttante. Molti dicevano che avesse paura di entrare in politica, altri pensavano che non condividesse le idee del fratello. Forse la sua ritrosia era invece dovuta al fatto di non sentirsi all’altezza del compito a cui il destino del suo nome sembrava sospingerlo. Oltre tutto era molto giovane, avendo nove anni meno di Tiberio. Ma rapidamente il suo atteggiamento mutava. Perdeva sempre meno tempo al tavolo da gioco o con facili ragazze. Affrontava vasti studi, cercava di raffinare la propria istintiva 234
eloquenza. Combatté sotto il comando del cognato Scipione Emiliano a Numanzia e fu questore in Sardegna nel 126, per reprimervi una rivolta. Era stato due anni in Sardegna, ma il Senato intendeva lasciarlo lontano da Roma ancora per un anno. Il giovane reagì facendo di testa sua: tornò nell’Urbe. I censori si vendicarono di quel gesto sottoponendolo a un processo con l’accusa di essersi illegalmente arricchito durante la sua permanenza sull’isola. Lui si difendeva così: «Nessuno può imputarmi alcun reato. Riporto vuota la borsa che alla mia partenza era colma d’argento, mentre altri, e potrei farne i nomi, hanno riportato cariche d’oro le anfore che all’andata erano piene di vino». Egli preparava meticolosamente le sue orazioni, fino a diventare uno dei più grandi parlatori di Roma. Regolava i gesti e il tono della voce. Nel pronunciare le sue orazioni, aveva accanto a sé uno schiavo che gli dava il «la» soffiando in un piccolo flauto. Caio diede nuova prova di grande abilità oratoria nel difendersi da un’altra accusa, quella di aver partecipato al complotto di confederati ordito a Fregellae. La fedele città latina si era a un tratto ribellata a Roma chiedendo maggiori diritti politici. Reclamava l’estensione della cittadinanza romana agli italici che la volessero, sulla base di una proposta del console nominato per l’anno 125, Marco Fulvio Flacco, che era appartenuto alla schiera di Tiberio. La cosa costò alla cittadina la distruzione delle mura. A Roma il popolo si opponeva a quella proposta che avrebbe oltremodo esteso il numero dei cittadini romani, tanto più che da oltre un secolo e mezzo non si erano annessi altri territori nei confini dello Stato. Fra le diciotto colonie rimaste fedeli a Roma durante la guerra 235
contro Annibale, Fregellae era stata del tutto trascurata. Ai cittadini di Formia, Fondi, Arpino era stata concessa la cittadinanza romana, e a lei niente. La cittadina, assai fiera, non poté non ribellarsi alla potenza di Roma, pur sapendo di essere assai inferiore alla grande capitale. Roma ordinò a un pretore, Lucio Opimio, terribile e spietato, di abbatterne le mura. Il che avvenne con un tradimento, perché alcuni dall’interno gli avevano spalancato le porte della città. La distruzione valse come esempio per altri pretendenti alla cittadinanza. Per questa impresa gli fu tributato il trionfo. Dall’episodio di Fregellae, Caio Gracco capì come per lui fosse arrivato il tempo di bruciare le tappe. Nell’Urbe dicevano che il fratello gli appariva in sogno esortandolo ad agire con incisive parole: «Perché indugi, Caio? Non hai scampo: una sola sorte è stata assegnata a noi due: vivere e morire lottando per il popolo». Egli rimase però sorpreso quando nelle elezioni per il tribunato della plebe arrivò soltanto quarto. E ciò avveniva a causa degli ostacoli che i suoi avversari gli frapponevano a ogni passo. Commoventi erano le sue parole quando commemorava il fratello e comparava le virtù degli avi alle miserie del presente. Diceva: «Sotto i vostri stessi occhi, o romani, i senatori rappresentanti della conservazione più bieca hanno ucciso a bastonate Tiberio e ne hanno trascinato il cadavere giù dal Campidoglio per gettarlo nel Tevere. Hanno messo a morte i suoi amici senza alcun processo. Eppure era tradizione che se qualcuno si fosse trovato sotto accusa capitale, sarebbe stato chiamato a giudizio da un trombettiere. Questo trombettiere si recava all’alba davanti alla porta dell’imputato per trarlo fuori. 236
Fino a quel momento i giudici non potevano pronunciare la sentenza tanto erano rispettosi del cittadino, chiunque egli fosse». Erano queste le parole che stavano alla base della sua battaglia per l’approvazione d’una legge diretta a bollare d’illegalità ogni uccisione che venisse eseguita senza il giudizio del popolo. Caio si distingueva dal fratello soprattutto per l’aspetto fisico. Nel fare politica era più abile di lui, ma egualmente inflessibile nella difesa dei più indigenti. Le sue riforme erano severe e alcune puntavano esplicitamente a indebolire la potestà del Senato e a riconoscere al popolo una reale sovranità. Chiedeva che il servizio militare cominciasse soltanto dopo i diciassette anni di età e che fosse interamente sovvenzionato dallo Stato. Propugnava la riduzione del prezzo del grano per chiunque avesse dimostrato di non possedere alcunché. Varava nuove leggi per la fondazione di colonie, per l’edificazione di granai pubblici, per l’estensione di strade, affidandone il controllo ai tribuni del popolo e non più ai censori che erano agli ordini del Senato. Rivoluzionarie erano le sue leggi agrarie che incontravano anche l’opposizione degli italici i quali vedevano minacciati i propri interessi. L’Emiliano insorse in Senato contro la riforma agraria, annunciando che l’indomani avrebbe parlato anche nel Foro. La mattina successiva fu invece rinvenuto morto nella sua abitazione con accanto le tavolette sulle quali aveva appuntato i concetti principali del nuovo discorso che si riprometteva di pronunciare contro le leggi agrarie graccane. Aveva cinquantasei anni. Si parlò subito di assassinio, poiché sul collo apparivano i segni di uno strangolamento, e, come autori del delitto, i sospetti caddero su 237
Caio Gracco e su Sempronia che era la sorella di Caio e la moglie della vittima. Sempre più numerosi erano coloro che si insospettivano di Caio e che lo odiavano vedendo crescere la corte di imprenditori, tecnici, ambasciatori, magistrati, uomini d’armi e letterati, artisti e filosofi, che ognora lo accompagnavano servizievoli. Lui pareva non avvedersi di nulla, e al livore di gran parte del Senato rispondeva con iniziative ancor più sorprendenti. Proponeva l’invio di colonie a Taranto e a Capua, e invocava più ampi diritti politici per i latini. Tra le cosiddette leggi Sempronie, la riforma più rivoluzionaria fu quella che privava l’aristocratico Senato del potere giudiziario. Egli la attuò costituendo un corpo di trecento cittadini, a rotazione, in possesso del censo equestre. In tal modo non soltanto toglieva ai senatori la possibilità di difendere i colleghi, ma creava anche un ordine equestre politico, distinto dalla classe militare degli equites. Ciò al fine di stabilire un’alleanza fra il popolo e i cavalieri contro la tradizionale nobiltà. Il pericolo che lui rappresentava per i conservatori era evidente, e i senatori per toglierselo di torno si affidarono al nobile Marco Livio Druso, il tribuno eletto nel 122 con il console Caio Fannio, oppositore del Gracco. Questa volta non si doveva ricorrere alla violenza per eliminare il seme dei Gracchi dall’agone politico. Si doveva fare in modo che anche il popolo finisse con l’odiarlo. Livio Druso era uomo eloquente e ben educato, ricco, amato dalle donne. Ma nell’animo nascondeva qualcosa di servile, per cui accettò senza remore di corrispondere agli interessi dei conservatori. Caio riuscì a imporre la fondazione di una colonia sulle 238
rovine di Cartagine per inviarvi i più poveri fra i romani e risollevarne così le condizioni economiche. Era quella la prima colonizzazione che avveniva al di là dei confini italiani. L’operazione si svolse sotto la sua direzione. Nell’atto stesso in cui la sua nave partiva per l’Africa, Livio Druso avviava un’azione politica destinata a screditare presso il popolo la famiglia dei Gracchi, e in primo luogo Caio. Caio fondava all’inizio di quel 122 la nuova colonia in soli sessanta giorni. La chiamò Iunonia. Quindi il tribuno tornò a Roma richiamato dai messaggi che Fulvio Flacco gli inviava impensierito dal prepotere che il loro avversario Livio Druso andava assumendo. Erano inoltre apparsi assai tristi i presagi che si erano succeduti nei caldi lidi africani durante la fondazione di Iunonia. Le insegne romane erano state spazzate via da forti venti, le vittime sacrificali erano state disperse dalle piogge, mentre nei dintorni compariva un famelico branco di lupi. Quei presagi accreditavano la maledizione che Scipione aveva lanciato sulla città. Nuovamente in patria, Caio volle anzitutto cambiare casa. Scese dal Palatino e traslocò in un quartiere nelle vicinanze del Foro, abitato da cittadini poveri. Quindi si immerse nella preparazione di nuove leggi. Una di esse prevedeva di estendere ai latini la piena cittadinanza romana con diritto di voto, come fossero romani. La proposta era ostacolata non soltanto dal Senato, ma anche dal popolo più minuto, geloso della propria romanità e deciso a non dividere con altri i vantaggi che derivavano dalle province. La proposta doveva essere messa in votazione, e il Senato, per intrattenere la plebe, aveva allestito spettacoli di gladiatori. Benché quegli spettacoli fossero indetti 239
soprattutto a distrazione dei plebei più poveri, c’erano nello stadio anche posti a pagamento. Allora Caio, irritato, ordinò di abbattere le tribune a pagamento affinché tutto il popolo potesse entrare liberamente. Nessuno lo stava a sentire. Era come se egli parlasse al vento, per cui, attesa la notte, convocò un gruppo di operai e con loro procedette alla demolizione delle tribune per le quali si sarebbe dovuto acquistare il biglietto. Il popolo lo definiva un uomo forte che sapeva far rispettare i diritti della plebe, ma i suoi avversari seppero approfittare della vicenda e lo rappresentarono come un prepotente, come uno che ormai aveva rivelato il vero scopo delle sue battaglie: diventare un nuovo re di Roma, un tiranno. Tribuno per il 123 e ancora per l’anno successivo, non riuscì a farsi eleggere per la terza volta nel 121. Si parlò di brogli, ma lui, deridendo l’insuccesso, disse poco chiaramente che non bisognava dare molta importanza al risultato del voto. Per il 121 fu eletto console un suo tenace avversario, quel Lucio Opimio noto per aver domato la ribellione di Fregellae. Collega del crudele Opimio fu un altro personaggio ostile a Gracco, Quinto Massimo Fabio, il nipote di Scipione Emiliano. Caio non seppe reagire alle elezioni dalle quali era uscito disastrosamente sconfitto se non assoldando gente straniera e facendola entrare in città sotto le mentite spoglie di mietitori. Ciò allo scopo di costituire una squadra di fedelissimi seguaci pronti a tutto. I romani credevano che a questa soluzione lo avesse indotto anche la madre, Cornelia. Il console Lucio Opimio, per contrastare Caio Gracco, aveva approntato alcune leggi di segno contrario a quelle dell’avversario, e già le metteva ai voti. Sul Campidoglio erano 240
accorsi in massa con fare facinoroso i seguaci dell’uno e dell’altro affrontandosi ferocemente. Durante i sacrifici di rito esplose un tumulto provocato da un certo Quinto Antilio, inserviente del console. Quell’Antilio, per raggiungere Opimio che sacrificava agli dèi, diede uno spintone a Caio Gracco gridando: «Fatti in là, lascia passare i veri cittadini». Rapida e violenta fu la reazione dei graccani che lo uccisero infilandogli nel petto un punteruolo di legno. Caio si irritò per quel delitto che offriva agli avversari il pretesto per vendicarsi, come infatti fece il console Opimio dichiarando Caio nemico pubblico di Roma. Per dare maggior rilievo alla protesta, Opimio e il Senato decretarono che il cadavere di Antilio fosse portato come un eroe nel Foro. In tale maniera offendevano gravemente i graccani che avevano visto gettare nel Tevere il cadavere del loro Tiberio. Era come se un qualsiasi inserviente valesse per gli oligarchi più di un tribuno della plebe, per quanto il tribuno fosse discutibile. Il popolo, che non poteva rimanere insensibile all’oltraggio, prese a manifestare con violenza nelle vie della città. Il Senato, impaurito, chiese al console di intervenire in qualche maniera per porre termine a quella pericolosa situazione. Per Opimio il pericolo da eliminare aveva un nome e un cognome: Caio Gracco. Così il console si dette a organizzare un’azione di massa che aveva per obiettivo la soppressione dell’avversario. Caio era invaso dalla consapevolezza che il giorno dello scontro fra le due anime di Roma fosse arrivato. La notte aveva dormito ben difeso dai suoi collaboratori più fidati, alcuni dei quali non avevano però resistito ai richiami del vino e delle 241
donne. Al mattino si vestì con lentezza, e apparve nella strada con negli occhi e nelle membra una fissità che mai nessuno gli aveva visto prima. La moglie Licinia gli si gettò ai piedi, e mostrandogli il figlioletto gli parlò fra le lacrime: «O Caio, dove ti accompagnerà ora il mio saluto? Non più alla tribuna, come una volta, quando vi sedevi da legislatore, né a una guerra gloriosa, dove, se ti imbattessi nel comune destino degli uomini, mi lasceresti almeno un lutto onorato. Invece vai dagli assassini di Tiberio. È certo nobile cosa che tu ti esponga disarmato, per subire il torto più che infliggerlo. Ma gioverai forse a qualcuno morendo? Dopo l’assassinio di Tiberio, come continuare a confidare nelle leggi o negli dèi?». Mentre Licinia si lamentava in questo modo atroce, Caio si sciolse dall’abbraccio e si avviò in silenzio con gli amici che gli erano sempre stati vicini. Licinia cercava ancora di trattenerlo, afferrandolo per la toga, ma, a uno strattone del marito, cadde a terra priva di sensi. Il console Opimio era pronto allo scontro. Caio invece pareva che fosse scomparso da Roma. Nessuno sapeva dove si trovasse. Si era rifugiato nel tempio di Diana, ed era pronto a darsi la morte con un pugnale. Si chiedeva: «Dove potrò andare io sventurato? In Capitoliumne? At fratris sanguine redundat. In Campidoglio? Ma è inondato da sangue fraterno». Sarebbe riuscito nel suicidio se non fossero accorsi due suoi amici, i cavalieri Letorio e Pomponio, che in extremis gli strapparono l’arma dalle mani. Caio, imprecando contro Roma e il suo popolo, pregava la dea che facesse scontare all’una e all’altro le loro ignominie. In quel momento piombarono nel tempio gli scherani di Opimio urlando come ossessi. Caio e i due amici 242
riuscirono a fuggire, ma sul ponte di legno del Tevere, il Sublicio, furono raggiunti dagli inseguitori. Ancora una volta il Gracco poté evitare di essere catturato, e perché lui potesse mettersi in salvo caddero sul campo Letorio e Pomponio che cercavano di fronteggiare gli assalitori. Gli era vicino soltanto il suo schiavo Filocrate, e quando con lui, abbandonata la città, raggiunse il bosco sacro alle Erinni, chiese al servo di ucciderlo. Filocrate ubbidì in silenzio, e a sua volta si tolse la vita. A Caio venne tagliata la testa. Settimuleio, un amico di Opimio, la fissò in cima a una picca e gliela portò con un gran sorriso di soddisfazione. Il Senato aveva disposto una taglia in oro per chi consegnasse quella testa: tanto oro quanto la testa pesava. L’abominevole Settimuleio aveva però nel frattempo svuotato del cervello il teschio immettendovi piombo fuso per ottenere più oro dal peso maggiorato. Nei giorni successivi furono uccisi con le spade o strangolati in carcere tremila seguaci di Caio, provocando la disgregazione del partito popolare. Le salme delle vittime furono gettate nelle acque del Tevere, mentre i loro beni venivano confiscati a beneficio dell’erario. Alle vedove fu impedito di indossare il lutto; a Licinia venne sequestrata la dote che aveva portato a Caio il giorno delle nozze. Tutte queste operazioni si svolsero sotto la direzione di Opimio. Come era avvenuto con Tiberio, anche con Caio il Senato non poté non ratificarne le leggi, ma la più importante, quella agraria, fu invece resa inoperante e poi abolita insieme alla legge agraria del fratello.
243
XX La madre dei Gracchi, Cornelia, lasciò Roma per stabilirsi presso Capo Miseno, senza modificare in nulla il suo modo di vivere. Riceveva visite di artisti, di letterati greci e di sovrani d’Oriente che le facevano doni preziosi. Le erano graditi ospiti soprattutto gli elleni. Quando i visitatori accennavano discretamente ai figli così tragicamente scomparsi in giovane età, lei ne parlava senza lacrime, ne rievocava le imprese come se si fosse trattato di eroi mitologici vissuti in tempi remoti. Agli ospiti più superficiali sembrava che i dolori e l’età le avessero minato il cervello, mentre ai più pensosi appariva chiaro che nella famiglia dei Gracchi la più forte, la più ambiziosa e anche la più rivoluzionaria era lei, Cornelia, la figlia dell’Africano. La corruzione dei costumi aveva raggiunto livelli preoccupanti, quando intorno al 118 pervennero a Roma nuove gravi notizie dalle terre d’Africa. In quell’anno era morto Micipsa, il figlio di Massinissa, dal quale aveva ereditato il trono di Numidia. I romani, sconfitta Cartagine, avevano assegnato a Massinissa il regno come ricompensa dell’aiuto da lui prestato contro i punici. Micipsa somigliava al padre per carattere e comportamenti, tanto che sotto il suo potere, protrattosi per trent’anni, tutto andò tranquillamente nei rapporti con la repubblica romana, anche grazie alle grandi quantità di grano che egli inviava. In quel 118, Micipsa, morendo, lasciò il regno ai suoi due figli, Iempsale e Aderbale, oltre che al nipote Giugurta 244
adottato come figlio. Giugurta, già maturo, era stato nominato da Micipsa tutore di Iempsale e Aderbale, ancora giovinetti. Il Senato dell’Urbe temeva Giugurta. Riceveva, dagli informatori segreti inviati in Africa, notizie dalle quali egli appariva nella sua dimensione di uomo privo di scrupoli e animato da sfrenata ambizione, sebbene fosse stato tenuto in grande considerazione da Scipione Emiliano al cui fianco aveva combattuto a Numanzia. Difatti Giugurta, volendo farsi signore assoluto della Numidia, aveva presto concepito un diabolico piano volto a eliminare dalla scena i due fratellastri, Iempsale e Aderbale. Riuscì ad attuare il progetto con freddezza. Per confondere le idee al Senato romano sulle sue responsabilità e sui suoi programmi di unico sovrano non mancò di corrompere senatori e ambasciatori, per cui l’intera questione fu chiamata il «grande scandalo d’Africa». La nobiltà senatoriale romana avrebbe voluto chiudere un occhio, ma gli uomini che erano rimasti fedeli alla memoria di Caio Gracco e che avevano potuto nuovamente riunirsi in un partito reclamavano la punizione di Giugurta. Il tribuno eletto per il 111, Caio Memmio, aveva avviato con l’appoggio del popolo una forte campagna contro i patrizi, che difendevano Giugurta, per svelarne la corruzione e per far sapere a tutti quanto oro avevano intascato. A quel punto il Senato, sotto la spinta di un’opinione pubblica infuriata, fu costretto a dichiarare guerra al re numida affidandone il comando al console per quell’anno, Lucio Calpurnio Bestia. Ma lo scontro armato non ebbe luogo poiché il console accettò dall’avversario offerte di pace e oro. La corruzione continuava. Roma era già duramente impegnata a combattere i cimbri, 245
per cui i senatori dicevano di non ritenere opportuna l’apertura di un nuovo fronte di guerra. Il popolo non approvava queste decisioni, e, in mezzo a continue manifestazioni di protesta, ottenne che il pretore Lucio Cassio si recasse in Africa, vi prelevasse Giugurta e lo portasse a Roma perché i romani potessero giudicarlo. Il re numida non oppose resistenza, certo di convincere i romani a confermare la pace mediante nuovi spargimenti d’oro. Fin dai giorni trascorsi in Spagna aveva sentito dire che «a Roma tutto si compra con l’oro». Nell’Urbe i piani di Giugurta furono improvvisamente sconvolti dall’apparizione di un suo accusatore che i graccani avevano fortunosamente scoperto. Costui sosteneva di essere un nipote di Massinissa, e che, come tale, era l’erede legittimo del regno numida. Giugurta non vide altra via d’uscita oltre a quella di macchiarsi di un nuovo delitto: eliminò il concorrente. Questo suo gesto cruento fece infuriare il popolo romano che era sotto l’influenza del partito graccano. Il Senato fu costretto a scacciare dall’Urbe l’africano e a riaprire le ostilità. Come comandante delle schiere inviate a battersi contro Giugurta fu scelto dalla sorte il console Quinto Cecilio Metello, appartenente alla grande e aristocratica gens Caecilia, che otteneva sul nemico parziali successi. Il partito dei democratici coglieva questa occasione per mettere in cattiva luce Metello e l’intero patriziato. Metello sprofondò nell’odio della plebe per un’altra ragione, per gli ostacoli che egli frapponeva a un suo luogotenente già cinquantenne, di nome Caio Mario. Questo grande generale intendeva partecipare alle elezioni a console per il 107, ma Metello obiettava che per un plebeo come Mario il consolato era una carica troppo alta. Si doveva accontentare del 246
tribunato che aveva raggiunto trentotto anni prima. Naturalmente la sua era soltanto una scusa per coprire l’astio e l’invidia che egli nutriva per il suo collaboratore. Caio Mario era nato nel 157 in un villaggio montuoso, Arpinum (Arpino), in territorio dei volsci, da una stimata famiglia contadina. Aveva maturato le prime esperienze di vita esclusivamente nelle file militari. Fin dagli anni giovanili si era arruolato nell’esercito in cerca di sostentamento e di fortuna. Pur di rozze maniere, si era distinto nella guerra di Iberia, presso Numanzia quando l’assediava Scipione Emiliano. Le capacità guerresche e il coraggio ne avevano fatto un eroe, al punto da guadagnarsi la stima personale del generale. Scipione infatti, interrogato un giorno sui suoi possibili successori, batté con la mano sulla spalla di Mario che gli era accanto, e disse ad alta voce: «Costui, forse». Tornato a Roma alla fine della campagna vittoriosa in Iberia, aveva chiesto e ottenuto in moglie Giulia, la sorella di un esponente della piccola aristocrazia che aveva nome Caio Giulio Cesare. Mentre gli sposi si univano per amore, il sì di Caio Giulio Cesare alle nozze proveniva dall’ambizione di concedere la sorella a un celebre comandante militare e di avanzare così nella considerazione della società romana. Il popolo aveva imparato a conoscere Mario e a stimarlo, sicché, quando nel 119 si era presentato al tribunato, lo aveva eletto a grande maggioranza. Egli era un uomo del popolo, ma odiava la plebe quasi quanto disprezzava gli altezzosi aristocratici. In realtà Mario pensava soltanto a se stesso. La politica gli si presentava come una cosa troppo raffinata, essendo vissuto esclusivamente fra soldati. Il suo esordio da 247
tribuno fu ambiguo. Aveva presentato una legge che non era piaciuta ai conservatori, e nel tentativo di bilanciarne l’effetto negativo si oppose aspramente a un provvedimento popolare che tendeva ad abbassare il prezzo del grano. Voleva apparire al disopra delle parti, ma raggiungeva il risultato opposto come uno che perseguisse soltanto gli interessi personali. Non si poteva perciò dire che cominciasse molto bene. Dopo il tribunato provò a presentarsi candidato alla carica di edile, e gli andò male per due volte. Lasciò passare un po’ di tempo, e nel 115 concorse per la pretura. Vinse, ma tra mille difficoltà. Andò in Spagna, e successivamente fu in Numidia col suo antico avversario Metello, di cui prese a rimproverare il modo di condurre la guerra. Lo accusava di procedere come una lumaca quando sarebbe stato necessario il piglio di un’aquila. Ai suoi soldati diceva: «Se potessi disporre della metà di questo esercito manderei Giugurta a Roma in catene, dalla sera alla mattina». Un simile contrasto non poteva non avere serie conseguenze, e difatti Metello si oppose con odio alla candidatura di Mario alla più alta carica dello Stato per il 108. Mario non si smarrì d’animo, e nelle elezioni consolari dell’anno successivo si prese la rivincita con grande seguito popolare. «Ora sono console» disse «e in breve avrete Giugurta a Roma, vivo o morto.» Quindi brigò tanto abilmente da ottenere il comando della guerra in Numidia sottraendo l’imperium a Metello, ma non riuscì a impedire che il Senato conferisse al suo avversario il titolo di Numidico. Fortemente sostenuto dal popolo, Mario ne diventava il simbolo. Fu il popolo a volerlo successore di Metello nel 248
comando della guerra numidica, sebbene il Senato avesse prolungato quel comando al Numidico. Mentre si preparava alla partenza per l’Africa, il nuovo comandante per eccitare la plebe lanciava sfrenate invettive contro gli altri capi militari. «Sono persone nobili e quindi fiacche» diceva, «che non sanno cosa sia la guerra. Prima di ottenere un comando non avevano mai visto un esercito, preferendo perdere tempo a imparare il greco invece di applicarsi nello studio della strategia militare.» Mario, al contrario, eccelleva in questa scienza e nella sua pratica applicazione. Una volta arrivato in Numidia, diede un nuovo assetto alle legioni facendone un esercito di professionisti e di clienti quanto mai legati al proprio comandante. Arruolò anche i capitecensi, cioè i plebei privi di ogni bene, i nullatenenti, cosa che non aveva mai fatto nessuno prima di lui così massicciamente. L’esercito ne traeva linfa giovanile e nuovo vigore. Inoltre tornava a ingrossarne le file, sfoltite da tante guerre. Già si cominciava a dire che i Gracchi erano stati il seme e che Mario ne era il frutto. In pochi mesi il generale arpinate piegò il re usurpatore Giugurta, il quale, fuggendo, si nascose in Mauritania. Ma Bocco I, il re di quelle terre africane nonché suocero di Giugurta, si lasciò convincere dai romani a tradirlo e a consegnarlo nelle loro mani. Nel 104 Mario trascinò Giugurta a Roma e in catene lo aggiogò al suo carro nelle cerimonie trionfali con tutte le donne del prigioniero, i figli e altri parenti. Quindi lo fece rinchiudere in una gelida cella del carcere di Stato, il Tullianum, dove al termine di sei giorni morì di fame fra le urla e le maledizioni della plebe, quella folla che già lo 249
aveva assalito con ferocia lungo il tragitto del corteo strappandogli le vesti istoriate e gli orecchini d’oro. La plebe e i senatori innalzarono al cielo le lodi di Mario, ma lui non era felice. Era roso dall’invidia per una presenza inquietante, quella di un giovane luogotenente che agiva alla sua ombra: il questore Lucio Cornelio Silla, trentunenne, di venti anni più giovane di lui. Silla era bello ed effeminato, tanto forte e coraggioso in battaglia quanto dissoluto e lascivo nella vita privata. Frequentava le più luride bettole e i teatranti più malfamati. Non era ricco di famiglia ma aveva una consistente disponibilità di denaro grazie all’eredità avuta da un’attempata prostituta greca che gli aveva insegnato, oltre agli inebrianti segreti dell’amore, anche la lingua e la letteratura della sua terra. Era stato lui a convincere Bocco I a consegnare Giugurta ai romani con un tranello in cui le qualità diplomatiche del giovane questore avevano brillato nel loro splendore. E il suo credito era cresciuto. Silla e Bocco giostrarono a lungo. Sembrava che facessero a gara per vedere chi dei due fosse più abile. In mezzo c’era Giugurta. Quando Bocco decise di abbandonare il numida e di schierarsi con i romani, mandò a dirgli di recarsi in un luogo dove si sarebbe svolto un incontro importante. Quello era l’agguato. Infatti appena Giugurta arrivò sul posto convenuto fu imprigionato dai soldati di Silla pronti ad assalirlo. Per merito di Silla, e non soltanto di Mario, i romani ebbero la sensazione di poter finalmente vivere un po’ più tranquillamente. Ma il fato disponeva in maniera diversa. A nord della penisola, oltre la cintura delle Alpi, popolazioni rudi e violente, vere orde barbariche, avevano ripreso ad agitarsi. I 250
più eccitati erano i popoli gallici che pativano sotto il tallone di Roma. Le nuove generazioni romane furono costrette ad accorgersi che quelle genti erano incivili, ma non stupide come credevano che fossero. I cimbri e i teutoni dimostravano grande intelligenza soprattutto nelle manovre militari. Dopo essersi spinti a Occidente in Spagna e in Gallia Narbonese, furono pronti a valicare le Alpi e a riversarsi sull’Italia. Erano affiancati da tigurini e ambroni, che muovevano dal Rodano. Mario era ancora in Numidia quando su quel fiume il console oligarca Quinto Servilio Cepione non diede buona prova di sé avendo voluto strafare. Egli saccheggiò Tolosa, la ribelle capitale dei tectosagi, depredandola perfino dell’oro sacro custodito nel tempio di una divinità gallica. I popolari sollevarono uno scandalo per quel fatto, tanto che da allora cominciò a correre il motto oro di Tolosa per indicare ogni operazione in cui si ricavano profitti eccessivi. In seguito i romani, ancora sorpresi sul Rodano, subirono una irreparabile sconfitta. L’esercito di Cepione, il quale aveva conservato il comando da proconsole, e quello del nuovo console Gneo Manlio, persero ottantamila uomini. Cepione si era rivelato un incapace, e fu il popolo a togliergli d’autorità il comando, mentre veniva scacciato dal Senato in cui sedeva per diritto di nascita. Si era nel 104, e non si vide altra possibilità per salvare il salvabile che rivolgersi a Mario, il quale era riuscito a farsi confermare per la seconda volta nella più alta carica dello Stato in seguito alla grande vittoria riportata su Giugurta. I barbari premevano, e lui era la personalità più forte di cui i romani disponessero. Prima di muoversi, Mario volle ancora 251
riorganizzare l’esercito che, dopo gli enormi sforzi compiuti nelle guerre contro Cartagine e contro Giugurta, versava in condizioni disperate, sia dal punto di vista numerico, sia in quanto a disciplina. Non soltanto gli alti gradi, ma anche i soldati più insignificanti erano stati corrotti dai fiumi d’oro e dalle mollezze dei costumi derivate dall’espansione romana nei territori d’Oriente e in Grecia. Per contenere l’impeto degli antichi nemici d’oltralpe che si erano risvegliati minacciosi, Mario metteva a punto l’idea di un esercito composto di professionisti. Aveva capito che andavano mutate non soltanto la tattica e la strategia militare, ma la natura stessa del soldato. Mario, provenendo dalle schiere, poté assai bene operare in tal senso. La riforma fu risolutrice, sebbene i romani non gli riconoscessero doti di genialità. Col suo spirito pratico comprese come il cittadino dei suoi tempi fosse più sensibile al denaro che al patriottismo, per il diverso scenario economico e geografico in cui Roma si trovava ad agire. Ed ecco che trasformò il servizio militare da missione in professione. L’arruolamento nell’esercito diventava un lavoro che poteva consentire un’esistenza decorosa, esattamente come era successo a lui. Sia ai cittadini tenuti per legge a prestare servizio militare, sia ai soldati volontari lo Stato garantiva i mezzi necessari al combattimento e inoltre migliorava a tutti il soldus. Pressati dall’emergenza barbara, i senatori diedero l’assenso alla riforma militare senza pensare che in quel modo Mario attuava un’operazione sostanzialmente politica. Difatti da quel momento un generale avrebbe avuto maggior peso dei padri coscritti nei confronti dell’esercito. La mossa era rivoluzionaria, tale da rivelare quanta astuzia Mario possedesse sotto la sua 252
rozza scorza esteriore. Partì per la guerra nel 103, sottoponendo l’esercito anche durante il viaggio a pesanti esercitazioni. Il fato lo favorì poiché i barbari invece di calare direttamente sull’Italia piegarono verso l’Iberia. Il primo scontro con i teutoni, Mario lo ebbe nell’estate del 102 in una località della Gallia transalpina che i proconsoli avevano chiamato Aquae Sextiae (Aix-en-Provence). Con la sua arte militare e col nuovo esercito li sconfisse nettamente. L’eco del successo fu tanto grande da tranquillizzare i romani, i quali, riconoscenti, lo portarono nell’anno successivo al consolato per la terza volta consecutiva. Stravinti i teutoni, Mario accorse a dare manforte al collega console, Quinto Lutazio Catulo. Questi era un grande aristocratico che non mancava mai alla parola data. Infatti quando diceva una cosa gli altri esclamavano: «Possiamo essere certi. Ha parlato lui». Le cose in guerra erano però diverse. Se non fosse arrivato Mario, i cimbri, che già avevano sconfitto Lutazio tra le anse dell’Adige, sarebbero drammaticamente calati più a sud. Invece Mario li bloccò annientandoli sul delta del Po. Ma ancora una volta egli aveva trionfato per il decisivo aiuto del legatus Silla, verso il quale la sua invidia cresceva. Il nemico d’oltralpe aveva minacciato di ripetere le gesta di Brenno che era calato su Roma nel lontano e mai dimenticato 390. Mario sconfiggendolo, pur avendo operato con Lutazio, fu proclamato, lui soltanto, salvatore della patria. Venne chiamato il «secondo Camillo» poiché, come l’antico comandante Furio Camillo, aveva salvato Roma da un’invasione di barbari. Ebbe inoltre ricompense più concrete, un bottino di molte fra le terre conquistate. 253
Non si era arrivati subito a incrociare le armi. Mario aveva atteso il momento buono, consultando le stelle e prestando orecchio alle profezie di una donna che aveva portato con sé dalla Siria, Marta, e di cui ascoltava le divinazioni. Lo scontro, quando avvenne, fu terribile. Sulle prime i romani si trovarono in difficoltà essendo meno numerosi del nemico. Per scherno, qualcuno fra i barbari, conoscendo qualche parola di latino, urlava oltre gli schieramenti ai soldati romani, che stavano per essere falcidiati, se avessero messaggi da inviare alle loro vedove a Roma. Ma l’andamento della battaglia mutò per l’energia che i legionari seppero contrapporre alla furia distruttrice dell’avversario. L’esercito, innalzando l’antica sigla SPQR, Senatus Populusque Romanus, che stava per avere soltanto un valore simbolico, atterrò ben centomila soldati nemici, mentre Mario non ne perse che poche centinaia. L’ecatombe fu tale che, all’indomani dello scontro, i barbari recuperarono gli scheletri smembrati dei cadaveri per utilizzarli nei lavori dei campi, e fare delle ossa paletti per il sostegno di scarne viti in un paesaggio di morte.
254
XXI Per Mario, trionfatore e ormai assai ricco, era il momento di dimostrare quanto rispettasse le promesse fatte per sollevare le condizioni dei soldati attraverso la distribuzione di ampi appezzamenti di terreno, anche in applicazione delle leggi di Tiberio e Caio Gracco. Tuttavia la sua severità militaresca con i soldati raggiungeva punte estreme, e molti mordevano il freno. Altri accettavano quella situazione ed erano detti i «muli di Mario». Tutti avrebbero giurato sull’onestà del proprio comandante, per quanto la realtà delle cose non fosse così nobile. Mario si agitava per ottenere un nuovo consolato, sebbene sembrasse che i senatori fossero invece favorevoli a un ricambio al vertice dello Stato, secondo la prassi democratica e il buonsenso romano. Mario, che voleva fermamente essere console per la quinta volta, non esitò a scendere a patti con alcuni personaggi privi di scrupoli, il più famoso dei quali era il tribuno della plebe Lucio Appuleio Saturnino, uno strano personaggio che non godeva di buona fama neppure fra i plebei, gli stessi che lo avevano eletto. Saturnino era sempre riuscito a sfruttare la sua posizione per arricchirsi illecitamente e a questo scopo aveva fondato una sorta di comitato segreto che operava nell’interesse personale degli associati. Mario prese a corteggiare il tribuno per ottenerne l’appoggio, e Saturnino lo sosteneva. Nei suoi discorsi affermava che Mario aveva salvato Roma e che ciò era assai più importante 255
di ogni altra cosa. Il console faceva lo scontroso. Diceva di non avere più interesse alla nomina, e Saturnino minacciava di farlo dichiarare traditore della patria se si fosse sottratto al comando dell’esercito in un momento così difficile. In realtà i due erano d’accordo nel recitare l’indegna commedia che si concluse con una ulteriore nomina di Mario al consolato. Secondo i piani. Non molti a Roma sapevano bene a quale prezzo Mario avesse ottenuto il rinnovo di quell’incarico. Nei patti era previsto che il console dovesse rendere il favore a Saturnino e al suo braccio destro Servilio Glaucia. Perciò egli ridusse al minimo il prezzo del grano, prendendo una decisione politica che colpiva gli interessi degli oligarchi e che danneggiava enormemente il bilancio statale. In nome della maestà del popolo romano, Saturnino e Glaucia chiedevano inoltre l’assegnazione delle colonie africane ai veterani mariani. In vista delle elezioni consolari del 99 a.C. l’oligarchia, costretta a correre ai ripari, si preparò a individuare un personaggio che fosse in grado di contrastare lo strapotere di Mario e di ferirne l’immagine. La scelta cadde sull’ottimate Caio Memmio, il quale non soltanto aveva fama di uomo integro, ma conosceva per filo e per segno tutte le nefandezze e le torbide manovre di Saturnino e Glaucia. Questi due personaggi reagirono rabbiosamente alla candidatura di Memmio, invocarono che il Senato conferisse a Mario il titolo di sacrosantus, come la legge graccana consentiva. Ciò per arrivare a conferirgli i pieni poteri di dittatore. Il Senato tergiversava, e una mattina del 99 Memmio venne trovato cadavere davanti alla porta di casa. Tutti sapevano che gli assassini appartenevano alla cosca criminale che aveva il suo 256
riferimento politico nel tribuno Saturnino, ma non c’erano sufficienti prove per condannarli. Del resto chi aveva notizie certe in proposito si guardava bene dal renderne testimonianza. Il Senato decretò lo stato d’assedio, deferendo la suprema difesa dell’integrità statale ai consoli Caio Mario, che accettava l’uso della forza contro i popolari, e Lucio Valerio. Il più forte e prestigioso dei due personaggi, cioè Mario, sarebbe dovuto venire a capo di quella terribile situazione. In realtà le cose giorno per giorno andavano peggiorando. In pieno Foro avvenivano le scene più truculente negli scontri fra le opposte fazioni, e il sangue scorreva senza tregua. Saturnino e seguaci furono costretti ad asserragliarsi sul Campidoglio dove vennero stretti d’assedio da Mario, il quale però non si decideva a sferrare il colpo decisivo poiché temeva che Saturnino o qualcuno dei suoi uomini rivelasse quanto fosse stato da loro beneficiato. D’altra parte Mario, essendo ora famoso e ricco, temeva la ribellione della plebe. Gli era perciò apparsa un’ottima soluzione quella di avvicinarsi all’oligarchia facendo condannare a morte i capi popolari. Come conseguenza di ciò, egli perdeva il sostegno dei popolari senza ottenere pienamente quello degli oligarchi, largamente corrotti gli uni e gli altri. Prima di precipitare nella più profonda impopolarità, Mario, allo scadere del suo sesto consolato, si allontanò da Roma con l’esercito che gli era rimasto fedele. Affrontò un lungo viaggio in Cappadocia, in Galizia, fino ai confini dell’Asia. Accampava il pretesto di adempiere un voto alla madre degli dèi, Cibele, ma più verosimilmente il viaggio gli serviva per studiare la situazione politica delle popolazioni che si ribellavano a Roma non gradendone più la presenza. E non erano trascorsi che due 257
anni dalla sua proclamazione a «secondo Camillo». Partendo aveva giurato che prima o poi sarebbe tornato per farla pagare cara a tutti. Trascorsero però molti inverni senza che si sapesse più nulla di lui, dell’uomo che aveva domato Giugurta e i barbari d’oltralpe. Un pericolo interno ora sconvolgeva nuovamente Roma. Da decenni rimanevano irrisolti insieme ai problemi della plebe quelli delle popolazioni della penisola che per prime erano state sottomesse o avevano accettato di allearsi con Roma. Erano i socii che venivano spremuti come limoni. Queste popolazioni, pur essendo sottoposte agli oneri connessi al fatto di essere cittadini, non godevano dei diritti che discendevano dal possedere la cittadinanza romana. Poiché due terzi degli eserciti romani erano composti da socii, a loro era toccato versare il più alto tributo di sangue per difendere Roma contro Pirro e Annibale, per piegare Taranto, per conquistare le terre al di là delle Alpi. In cambio non avevano ricevuto alcun tangibile riconoscimento che migliorasse la loro grama esistenza, né nella vita pubblica né in quella privata. Le continue proteste e le minacce di queste popolazioni italiche erano andate sempre a vuoto, fino a quando nel 91 a.C. non divenne tribuno della plebe l’aristocratico integerrimo Marco Livio Druso Minore, il figlio dell’altro Druso che aveva osato rivaleggiare con Caio Gracco, affrettandone la fine. Druso proponeva di estendere la distribuzione delle terre; sollecitava l’ingresso in Senato di trecento cavalieri per riconoscerne il ruolo; chiedeva che il grano fosse elargito a prezzi irrisori. Riprendendo il disegno di Caio Gracco reclamava che la cittadinanza romana fosse estesa agli alleati italici. La questione 258
appariva complessa, perché costoro volevano la cittadinanza senza barattarla con la cessione dell’ager publicus di cui disponevano. Druso, nel prepararsi ad accentuare i toni della sua battaglia per l’estensione della cittadinanza, ospitò presso di sé a Roma il capo dei marsi, Quinto Pompedio Silone. Più che unire, le sue proposte portarono a una gran confusione priva di sbocchi positivi nei rapporti fra senatori, cavalieri e popolo. Fra tanto chiasso si arrivò come soluzione naturale al suo assassinio per mano di sicari di cui non si riuscì a scoprire l’identità. Fu pugnalato in una notte tempestosa, in casa, sotto gli occhi della madre. Riesplosero le ribellioni nell’Italia inferiore. Era successo sempre così: quando a Roma il potere centrale dava segni di cedimento, le popolazioni sottomesse o alleate ne approfittavano per rialzare la testa. Ma questa volta le agitava anche la delusione per la sconfitta di Druso. Pensavano perciò di dover fare da sé. I marsi, i piceni, i peligni, i marrucini, i vestini, i frentani, i sanniti, gli irpini presero ardimentosi le armi, dando luogo con un esercito di centomila soldati a una guerra sociale, la guerra dei socii. Pompedio Silone si pose alla testa dei ribelli marsi e Papio Mutilio capeggiò i sanniti. Al fianco di Roma rimasero l’Etruria, l’Umbria, le città galliche. I rivoltosi avevano fondato insieme agli italici una sorta di Stato secessionista che aveva per capitale Corfinium (Corfinio). La città sorgeva sugli appennini Peligni lungo la via Tiburtina Valeria che portava nel territorio dei marsi. Corfinium fu polemicamente ribattezzata con il nome di Italia per simboleggiare la loro aspirazione a dar vita a una nuova nazione. Si diedero anche un Senato e due consoli. Al consolato furono eletti i loro due capi più 259
rappresentativi, appunto Pompedio Silone e Papio Mutilio, mentre il nome di Italia appariva sulle monete della confederazione insieme all’immagine del toro italico che calpesta la lupa romana. A queste notizie, i romani furono invasi dal panico, certi che non ci sarebbe stato scampo per l’Urbe se quelle schiere, disordinate e fameliche ma ben armate, l’avessero assalita. I confederati avevano già occupato Nola, Stabia, Literno, Salerno. Il console marsico Pompedio Silone sconfisse l’esercito romano sul Liri, pur incrociando le armi con Caio Mario, il quale in quel frangente non si rivelava all’altezza della situazione. Come rimedio estremo i romani si erano trovati concordi nel richiamare dall’Asia l’uomo che li aveva salvati dai barbari, proprio lui Mario, sebbene in quegli anni ne avessero perduto il ricordo. Mario era tornato. Nonostante alcuni rovesci riusciva, insieme ad altri duci romani, a riportare l’ordine e la legalità fra i ribelli attraverso un grande massacro. Il generale Quinto Cecilio Metello Pio aveva ucciso Pompedio Silone dopo averlo inseguito in Apulia. Al Senato apparve chiaro come Mario fosse invecchiato e appesantito, ma che nonostante i suoi sessantacinque anni non avesse perduto nessuna delle sue celebri caratteristiche. Era evidente che, col suo comportamento da macellaio, Mario si stava sfogando contro Roma e vendicando, come aveva promesso di fare quando era partito per l’Asia. Protrasse la guerra sociale per due anni, ben al di là di quanto sarebbe stato ragionevole per un generale delle sue capacità e per le forze di un esercito che ormai rispondeva soltanto ai suoi ordini. Il Senato si decise perciò a rompere gli indugi e a riprendere in 260
mano la situazione che così a lungo gli era sfuggita fra sangue e inerzia. Su proposta del console per il 90, Lucio Giulio Cesare, i senatori concessero la cittadinanza romana a chi fra i latini e gli italici non si fosse ribellato e a chi si dichiarasse pronto a gettare le armi. Questa via d’uscita rischiava di snaturare la situazione politica e sociale della città, dove fra l’altro non sarebbe stato più possibile contenere i tumulti della plebe. Il popolo era contrario all’estensione della cittadinanza, un provvedimento che lo avrebbe privato dell’unica prerogativa che lo inorgoglisse. Pressata dalla triplice esigenza di frenare lo strapotere di Mario, di mantenere la plebe sotto controllo e di porre termine alla guerra sociale, l’oligarchia senatoriale ideò una soluzione ingegnosa quanto ambigua e contraddittoria: da un lato concesse la cittadinanza alle popolazioni italiche, dall’altro impose che i nuovi cittadini, raccolti in dieci tribù, votassero esprimendo i loro pareri soltanto dopo quello delle antiche trentacinque tribù romane. La pace alfine raggiunta si rivelava in realtà assai fragile. Nello scorcio dell’88, i questori delle lontane regioni orientali che confinavano con i luoghi dai quali Mario era tornato inviarono a Roma allarmanti dispacci. Informavano il Senato che il forte e ambizioso re del Ponto, Mitridate VI Eupatore, si era messo in movimento approfittando proprio del fatto che Mario aveva lasciato l’Asia. Il re era riuscito a occupare larghi territori dell’Asia Minore in quanto le popolazioni, tartassate dai romani, lo consideravano un liberatore. Aveva deposto il monarca filoromano Ariobarzane I e aveva preso le armi contro l’Urbe pur senza dichiararle guerra. 261
Sempre nell’88 il Senato affidò il comando dell’esercito, pronto ad attaccare Mitridate, a uno dei più valorosi generali che era diventato console al termine delle guerre sociali e civili. Era quel Lucio Cornelio Silla che da giovane aveva combattuto valorosamente sotto Mario. Tutti sapevano quanto la sua vita fosse scandalosa, quanto il suo intelletto fosse lucido e assai superiore alla media, ma anche quanto la sua personalità fosse ambigua ed enigmatica pari a un Giano bifronte. Proveniva dalla piccola aristocrazia, e dunque ben sapeva quanto a Roma contasse il potere. Dopo aver abbandonato per quattro anni la carriera militare, aveva deciso di entrare in politica, certo di poter continuare a suo piacimento in una vita di lussi e di vizi. Dopo una prima candidatura a pretore, da cui era uscito perdente, tornò alla carica una seconda volta. Divenne pretore urbano per aver organizzato in nome del popolo, durante lo svolgimento della campagna elettorale, i più grandiosi spettacoli in cui apparvero per la prima volta i leoni nelle arene, e i non meno imponenti giochi circensi che finivano in orgia, consentendo ai romani di godere degli stessi piaceri da lui amati. Quando Silla ebbe ottenuto la pretura e il comando dell’esercito per affrontare il re del Ponto, avvenne che il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, un aristocratico brillante e ambizioso, cominciasse a brigare per togliergli il comando e passarlo a Mario, ormai quasi settantenne. Silla reagì alla violenza. Il suo esercito era già pronto a partire da Nola alla volta del Ponto, ma lui ordinò il dietrofront per marciare su Roma. Si scontrò con le scarse schiere di Mario e di Sulpicio. Stravinse. Entrò nell’Urbe dalla porta Collina, ma il popolo 262
accolse i suoi soldati con il lancio di pietre e di tegole dall’alto delle abitazioni. Era la prima volta che un esercito regolare aggrediva Roma, come se fosse una città nemica. Allora Silla, percorsa con l’esercito la via Sacra e raggiunto il Foro, si mostrò al popolo con il volto contrito e segnato dalle lacrime per dire che il più addolorato a causa delle disgrazie di Roma era proprio lui, avendo dovuto occupare l’Urbe per porre un freno alle malefatte dei capi della città. Mario e suo figlio, che aveva il suo stesso nome, insieme a Sulpicio e ad altri furono dichiarati nemici pubblici. Il vecchio Mario, dopo essersi rifugiato in Campidoglio, riusciva a far perdere le tracce di sé fuggendo in Africa. Anche il giovane Mario poté imbarcarsi per quelle stesse terre, mentre Sulpicio subì il taglio della testa che fu esposta in ludibrio nel Foro. Silla gli aveva sguinzagliato contro alcuni sicari d’oltralpe. Uno di essi lo aveva sorpreso e lo aveva assassinato dopo essere stato condotto sul luogo del suo nascondiglio da uno schiavo traditore. Con questo schiavo Silla si comportò in maniera duplice, e la sua perfidia sorprese enormemente i romani: prima lo premiò per aver salvato col suo gesto la repubblica, poi lo fece precipitare dalla rupe Tarpea per aver tradito il padrone. Mario, avuto sentore di essere inseguito, si era nascosto calandosi in una fetida palude in riva al mare nei pressi di Minturno, da dove pensava di salpare per l’Africa. Un sicario gallo che lo tallonava lo scoprì. I loro sguardi si incrociarono, e allora Mario apostrofò impassibile l’assalitore dicendo: «Tune, homo, audes occidere Caium Marium!», e tu avresti l’ardire di uccidere Caio Mario! A queste parole il sicario gettò la spada, e scomparve nella boscaglia. 263
XXII A Roma le cose erano cambiate. Silla era il despota, e andava attuando la sua vendetta. Disponeva di trentamila uomini che introdusse, contro ogni norma, all’interno della città. Con spietata pervicacia procedette all’epurazione dei filomariani e al varo di una legislazione conservatrice. Se Mario, di origine popolare, era stato il simbolo del popolo, Silla diventava la personificazione degli ottimati di cui era il capo: rivestiva la carica di console, ma in realtà era molto di più, sconvolgendo le regole tradizionali del potere. Aveva fatto approvare un decreto col quale si stabiliva che non si potevano svolgere votazioni senza il consenso del Senato. Questa era una misura repressiva tale da bloccare la politica popolare che si era adottata per alleviare le gravi condizioni sociali in cui l’Urbe si trovava. C’era da risolvere la crisi mitridatica. Consapevole dei pericoli che essa comportava, Silla partì rapidamente per l’Asia Minore, mentre a Roma venivano eletti per l’87 i nuovi consoli. L’uno era Lucio Cornelio Cinna, di famiglia patrizia ma di parte popolare, da tutti riconoscibile per una mostruosa cicatrice che gli sfregiava il volto; l’altro era l’aristocratico Gneo Ottavio, partigiano di Silla, non di grande fama. I due si misero a litigare approfittando dell’assenza di Silla da Roma. Trascinarono in una zuffa armata le fazioni che da decenni dilaniavano la città. I combattimenti nelle strade dell’Urbe si trasformarono in una vera e propria guerra civile. Durarono un solo giorno, ma 264
lasciarono sul terreno ben diecimila vittime fra le due parti, i romani di Roma e gli italici che avevano ricevuto la cittadinanza. I superstiti dei nuovi cittadini vennero tutti espulsi. Cinna, sconfitto, fu costretto alla fuga. Ma non aveva perso la voglia di vendicarsi. Raggiunse Nola dove alcune guarnigioni sillane erano in agitazione per non essere state ammesse a combattere contro Mitridate, perdendo così i benefici che sarebbero derivati dalla spedizione. Si presentò loro come la vittima d’un sopruso. Disse di essere stato deposto illegalmente dal consolato che aveva ottenuto con i voti dei comizi. Quindi si stracciò la toga e completamente nudo si gettò a terra. La scena impressionò i legionari, che si misero ai suoi ordini con grande schiamazzo. Prima di lasciare Roma, Cinna aveva inviato un disperato messaggio a Mario chiedendogli aiuto. Nel gran teatro della politica in cui da tempo si contrapponevano Mario e Silla, le parti si rovesciavano: adesso era Mario che voleva approfittare dell’assenza di Silla per tornare nell’Urbe e riacciuffare il potere. Per lui quella era l’ultima possibilità di mantenersi in sella e di evitare imboscate mortali. Mario sbarcò in Italia in condizioni fisiche pietose, con indosso pochi stracci. Molte cicatrici gli devastavano il corpo che in passato veniva paragonato a quello di Adone per le sue forme perfette. Mario aveva ben studiato quella messinscena, che difatti gli consentiva di farsi immediatamente seguire da una massa di diecimila schiavi cui prometteva bottini, posti di lavoro e benessere. Unitosi a Cinna, Mario marciò su Roma nello stesso anno 87 con un esercito improvvisato e raccogliticcio, composto di italici 265
e di poveri schiavi derelitti. Avevano tanta rabbia in corpo da essere pronti a tutto, peraltro eccitati dall’idea di avere per comandante un grande duce. Provenendo dall’Etruria, Mario riuscì a gettare un ponte sul Tevere per unirsi con le altre sue truppe guidate da Gneo Papirio Carbone, che già si era distinto nella guerra sociale, e da Quinto Sertorio, che era stato uno dei suoi migliori ufficiali e che gli era ancora fedele. Non gli fu difficile assediare e occupare l’Urbe, una città aperta poiché Gneo Ottavio non era stato capace di organizzarvi una valida difesa. Mario e Cinna, impossessatisi della città, ne fecero scempio. Fu ucciso lo stesso Ottavio. Il Foro apparve lastricato di cadaveri, tutti patrizi, come in un massacro di casta. Le teste dei senatori e quella di Ottavio erano mostrate al popolo nelle strade di Roma sulla cima delle picche tra lazzi e sberleffi. Dopo questo bagno di sangue, Mario smise di fare il criminale di guerra e cominciò a muoversi da dittatore, anche se le due attività si equivalevano. Tra le prime decisioni, istituì una sorta di tribunale in cui gli schiavi fungevano da giudici, mentre gli aristocratici erano gli imputati per il semplice fatto di essere tali. Costantemente i dibattiti burletta si concludevano con la condanna a morte degli incriminati. Da quel tribunale Silla fu dichiarato fuorilegge e condannato a morte in contumacia oltre che privato, con una confisca, di tutte le sue fortune. Seguì un anno di terrore sotto il tallone di Mario e Cinna i quali vollero che i morti assassinati imputridissero nelle strade della città. Sperduto in un sontuoso palazzo, Mario si era dato a gozzovigliare tra vini e lascivie. Dopo essere stato il salvatore di Roma, dopo averla fatta 266
trionfare contro barbari, africani e schiavi, ne era ora il distruttore. Mario e Cinna, nel rapporto con i devastatori della città, finirono col trovarsi nella condizione di apprendisti stregoni. Infatti i loro eserciti, formati in gran parte di schiavi, si sentivano ormai più padroni dei padroni. Quei soldati raccogliticci si comportavano come schegge impazzite, sordi a qualsiasi richiamo. Si muovevano smaniosi distruggendo e saccheggiando, violentando donne, uomini e bambini. Per domarli, Cinna fu costretto ad arruolare alcune migliaia di barbari d’oltralpe. Li scagliò contro quegli ossessi ordinando di sgozzarli tutti. Cinna deteneva l’effettivo potere come un dittatore poiché Mario perdeva sempre più il controllo di sé. Inseguiva droghe e donne nel tentativo di lenire solitudine, rancori e malanni. Era riuscito a farsi rieleggere console per la settima volta contro ogni norma, a settant’anni. Avveniva quanto gli àuguri avevano predetto alla sua nascita interpretando il volo di un’aquila che gli depositava in grembo sette uova: si era detto che ogni uovo equivaleva a un consolato. Tuttavia non ebbe il tempo di godere della nuova elezione. A causa di una polmonite la morte lo colse il 1° gennaio dell’86. Trascorsero nell’Urbe tre anni piuttosto tranquilli, ma ecco che il Senato dovette vedersela nuovamente con il pericolo Silla che conduceva la guerra contro Mitridate, pur avendo sempre Roma in cima ai suoi pensieri. A loro volta i patres non pensavano ad altro che a eliminarlo dalla scena politica. Affidarono la realizzazione del difficile compito al generale Lucio Valerio Flacco, il terzo personaggio a portare quei nomi nella storia della città. In quel momento egli ricopriva la dignità 267
di principe del Senato. Insignito di imperium, gli furono messi a disposizione dodicimila uomini, con l’ordine di partire per l’Oriente allo scopo di abbattere Silla, in un modo o nell’altro. Silla ignorava quanto a Roma si tramasse ai suoi danni, impegnato nella difficile guerra contro Mitridate, il minaccioso tiranno del Ponto che possedeva un esercito cinque volte superiore al suo. L’esercito romano in Asia protestava per il mancato pagamento del soldus, e ciò creava serie difficoltà a Silla, il quale veniva finalmente a sapere che Lucio Valerio Flacco era in marcia contro di lui. Per risollevare l’animo dei soldati colpiti dalla notizia, Silla lasciò che si comportassero barbaramente, ricorrendo agli stessi metodi del suo avversario Mario. Consentì che l’esercito si impossessasse delle ricchezze di Delfi, di Epidauro, di Olimpia. Anche Atene, la grande capitale della cultura mediterranea, subì un’identica sorte, con grande spargimento di sangue. Forte della sua tenacia, Silla incalzò audacemente Mitridate e lo respinse lontano, oltre i confini dell’Ellesponto, dove raramente si erano avventurati taluni fra i più arditi esploratori provenienti dalla città eterna. Rincorreva ancora Mitridate quando ebbe la notizia che le truppe di Valerio Flacco a lui ostili stavano per raggiungerlo. Seppe che, per ordine del Senato e di Cinna, gli avrebbero imposto di cedere il comando all’avversario romano. Ma a questo punto avvenne l’imprevedibile. Silla aveva fatto fermare le sue truppe per incontrarsi con l’inseguitore e aprire un dialogo con lui. E fu nel corso del colloquio che Flacco decise di passare al suo fianco. Non tutto il suo stato maggiore era però d’accordo con un tale capovolgimento di posizione. Il più riottoso a unirsi con Silla appariva il legatus di Flacco, Caio 268
Flavio Fimbria. Questi era un giovane e oscuro comandante ma ambizioso e spietato, tanto che nel corso di un ammutinamento arrivò a uccidere Flacco per strappargli il comando. Silla ritenne saggio venire a patti con Mitridate, il quale in cambio della pace rinunciava ai territori da lui occupati. Risarciva inoltre i danni di guerra consegnando ottanta navi e molto denaro. Soddisfatto del successo, Silla si mise a inseguire Fimbria per vendicarsi della soppressione dell’amico Flacco. Fimbria, raggiunto, si vide perso. Al cospetto dell’avversario non trovò altra soluzione che gettarsi sulla propria spada. Così, per tutto l’inverno dell’84 le truppe romane, agli ordini di quel generale sarcastico e feroce che in spregio agli anni e agli eventi era ancora assai rosso di capelli e con gli occhi più azzurri che mai, attraversavano la Grecia saccheggiandola. Raggiunsero Patrasso e salparono per la penisola italica. Esausti ma felici gettarono le ancore delle navi nel porto di Brindisi in una fredda mattina di primavera dell’83 avanti Cristo con un esercito di quarantamila uomini. Silla si proponeva di abbattere per sempre il potere del popolo e di consegnarlo nelle mani dell’aristocrazia purché fosse lui a dominarla. Nessuno a Roma pensava di dover nuovamente affrontare l’uragano Silla in veste di dittatore, con una concezione nuova e totalitaria della dittatura tradizionale. L’attribuzione di quel titolo non si era più avuta sulla scena politica romana da oltre centotrent’anni, e ora con Silla essere dittatore non significava più avere il comando militare assoluto con il limite massimo di sei mesi. Adesso lui era il tiranno, il monarca, il padrone che deteneva nelle proprie mani tutti i poteri dello Stato, l’esecutivo, il legislativo, il giudiziario e anche il potere di imporre una 269
nuova Costituzione. La stessa attribuzione del titolo l’aveva estorta al Senato con la forza delle armi. La sua era un’usurpazione che, per l’abilità e la brutalità con cui egli si era mosso, poteva persino apparire ammantata di legalità avendo ottenuto sia il voto del Senato sia quello del popolo. Una nuova guerra civile era inevitabile. Cornelio Cinna si ribellò. Al suo fianco insorse il giovane che Mario aveva avuto dal rapporto con Giulia, della gens omonima, e a cui aveva imposto il suo stesso nome. Gli scontri armati furono terribili. Cinna venne trucidato dai suoi stessi soldati che nel porto di Ancona lo avevano abbandonato per passare anche loro dalla parte di Silla. Fu allora che uno dei più giovani generali di fulgide speranze, Gneo Pompeo, lasciò il natio Piceno insieme alla famiglia e al seguito – molte centinaia di schiavi, di clienti e di amici – per offrire i propri servizi a Silla. I populares, che difendevano i princìpi della democrazia, e gli optimates, che rappresentavano gli interessi dell’oligarchia senatoria, aristocratica e conservatrice, si scontrarono in un’aspra battaglia fratricida ai primi di gennaio dell’81 a Sacriportus (Sacriporto) nei pressi di Preneste. Il giovane Mario aveva raccolto in questo luogo un suo esercito di ben quarantamila uomini e avrebbe potuto combattere a lungo disponendo di molto oro sottratto a Roma. Ma Silla gli si contrappose con particolare fermezza, e Mario, sconfitto, riuscì a sfuggirgli rifugiandosi in Preneste, tirato su con le corde dalla sommità delle mura di cinta. Poco dopo Mario trovò la morte mentre cercava di abbandonare la rocca di Preneste attraverso un cunicolo sotterraneo. Aveva ventotto anni. La battaglia fu vinta da un vecchio generale, Quinto Lucrezio Ofella, che era stato mariano e che a sua volta 270
era transitato nelle file di Silla. Per gloriarsi orridamente della morte del giovane, Ofella inviò a Silla la testa della vittima issata su una picca, così come Silla aveva imparato a fare da giovane in Iberia. Per i veterani di ritorno dall’Asia quegli scontri erano stati meno impegnativi di un’esercitazione. A Roma tutti riconoscevano le eccezionali doti del personaggio Silla, mentre il consolare Papirio Carbone diceva con dispetto che in quell’uomo convivevano il leone e la volpe. Al ritorno di Silla in città vollero tributargli un trionfo, più per sentimenti di paura che di riconoscenza. Neppure il distruttore di Cartagine era stato festeggiato tanto quanto Silla il quale pretese la concessione del titolo di Felix che normalmente veniva attribuito agli dèi. I festeggiamenti in suo onore durarono due giorni, il 27 e il 28 gennaio dell’81. Le manifestazioni si svolsero lungo la via Sacra e sul Campidoglio, fra prigionieri e tesori d’ogni genere, mentre il festeggiato era seguito da una gioiosa fiumana di popolo con bandiere e fiori. Subito dopo, i romani ebbero però la sorpresa di trovarsi in uno dei più foschi momenti della loro vita. Prima di tutto Silla impose al suo esercito di considerare Roma come una qualsiasi altra città del territorio romano. Quindi la sottopose al controllo militare e alla legge marziale. Poi procedette a una spietata epurazione dei seguaci di Mario, compresi tremila equites tra i quali si trovavano quaranta senatori. Disumana fu la vendetta contro i popolari. Per l’occasione escogitò un inaudito sistema persecutorio che consisteva nell’emissione di una lista di proscrizione contenente i nomi delle personalità da eliminare. Era la prima volta che un sistema del genere veniva posto in atto nella storia delle crudeltà 271
politiche romane, e soltanto dalla mente di un Silla poteva scaturire una simile idea. Alla prima lista, che conteneva ottanta nomi, ne seguì immediatamente una seconda che ne contava centoventi. Ogni giorno ne appariva una nuova con nuovi nomi di proscritti che venivano subito uccisi. Le teste dei morti troncate di netto erano via via mostrate a Silla che gioiva della strage. Silla promulgò un editto in base al quale chiunque avesse avuto rapporti con i popolari veniva privato di ogni sua proprietà, e giustiziato. In tal maniera si lasciava libero sfogo alle brame personali dei veterani e di ogni antimariano. Alle famiglie dei proscritti si negavano i diritti civili. Uomini, donne e bambini furono uccisi in un immane bagno di sangue. Il popolo stentava a credere che quegli eccidi fossero davvero attuati da romani contro romani. Le vittime non si contavano più, sicché un certo Furfidio ebbe un giorno l’ardire di rivolgersi a Silla gridando: «Lasciane vivi alcuni, almeno avrai su chi comandare». Ma lui, il salassatore, replicava che era suo dovere punire il partito popolare mariano essendosi per primo reso responsabile di massacri e di rovine. Mischiava falsa generosità a spietata ironia. Avvenne infatti che un pessimo poeta gli si era presentato per offrirgli in omaggio alcuni suoi versi. Silla gli fece assegnare un premio a condizione però che quell’uomo smettesse di scrivere poesie. Da capo assoluto, da dittatore a vita, Silla si faceva attorniare da ventiquattro littori. Manteneva il suo esercito con il frutto delle depredazioni senza quartiere. Depredava tutto e tutti, in prima linea i plebei, sebbene non fossero colpevoli di nulla. A centomila fra i suoi uomini più fidati distribuì vasti 272
appezzamenti di terre in Campania, la più ricca regione della penisola che come lui era chiamata Felix. Con queste elargizioni estendeva la cerchia dei suoi clienti pronti a votare come egli chiedeva. Coniò monete con effigiato il suo profilo, e la stranezza era che vi appariva come una persona svagata, perduta in chissà quali insondabili misteri. Era dittatore da due anni, e dava l’impressione ai romani che avrebbero dovuto tenerselo per sempre. Invece un giorno, nell’estate dell’anno 80, accadde qualcosa di nuovo e di imprevisto. Silla apparve imperiosamente in Senato. Tutti si sorpresero nel vederlo arrivare inatteso. Per di più il generale con arroganza faceva segno di voler parlare senza indugi. Aveva come sempre sul capo la corona d’alloro, ma il suo volto era atteggiato a gravità. Prese la parola, e tra lo sbalordimento della Curia disse di aver deciso di licenziare l’esercito e di rimettere il proprio mandato nelle mani dei padri coscritti. Abdicava. Nel Foro, tra l’infinita meraviglia di tutti, annunciò la decisione di partire l’indomani per i propri possedimenti in Campania dove avrebbe trascorso il resto della vita da privato cittadino. Poco dopo, raggiunti i Rostri del Foro, sollecitò il popolo a dirgli se lo aveva governato bene o male. Aggiunse sottovoce: «Parlate liberamente, starò soltanto ad ascoltare». Nessuno prese sul serio queste sue parole, e gli si fece intorno un gran silenzio. Lui, allontanando i littori con i fasci, prese a passeggiare tra la folla con aria distratta.
273
XXIII Il popolo si chiedeva che cosa mai nascondesse questa metamorfosi. Stava forse a dimostrare che il dittatore assoluto restituiva voce alle istituzioni tradizionali repubblicane reintegrando il Senato e i consoli nei loro ruoli? Possibile che Silla si fosse deciso a tanto? Che cosa stava davvero accadendo a Roma? E quali erano le ragioni? Per settimane si accavallarono le più svariate supposizioni sul gesto di Silla. Si diceva anche lo avesse negativamente sorpreso l’elezione a console del peggiore fra i romani, Marco Emilio Lepido, col sostegno di Gneo Pompeo, ai danni del migliore dei romani, Quinto Lutazio Catulo, figlio di quell’altro Catulo che non mancava mai alla parola data. L’esercito fu effettivamente sciolto e Silla partiva alla volta della sua villa di Cuma. Aveva uno scarso seguito di gente armata, ma molti erano gli uomini e le donne di spettacolo, faceti istrioni, suonatrici di liuto e attrici leggere che si erano messi in viaggio con lui, tutti ben forniti d’oro. Nella villa che dominava lo stupendo mare di Napoli mantenne sempre con sé danzatrici, cantanti, letterati, e soprattutto donne appassionate di poesia. Nessuno riusciva ancora a capire il significato di quanto lui aveva fatto. Più che un uomo disperato, egli sembrava uno strumento nelle mani di Giano, di quel dio che dopo il furore tornava a velarsi. C’era chi attribuiva il mutamento, che si protrasse per un 274
anno, all’esplodere di un grande amore fra Silla e una giovane ragazza, Valeria. Il dittatore l’aveva incontrata a uno degli spettacoli con gladiatori ai quali aveva l’abitudine di assistere. Aveva già perduto la moglie di secondo letto, la rispettabile Cecilia Metella, che lo amava infinitamente senza esserne riamata. Durante lo spettacolo, Silla aveva sentito una mano sfiorargli leggermente una spalla. Si voltò e vide che una donna di fascino straordinario gli sorrideva e gli mostrava un capello. Quella donna era Valeria. Gli sussurrava: «Cerco, o signore, di partecipare al tuo destino vittorioso anche con un’inezia». E l’inezia era appunto il capello da cui lo liberava. Valeria era sorella di un celebre oratore, Ortensio, carissimo amico e sostenitore di Silla. Bastò ancora un’occhiata fra i due perché si sentissero preda l’uno dell’altra. Al colpo di fulmine seguirono le nozze. Da qualche tempo era tormentato da una scabbia verminosa che gli diffondeva su tutto il corpo un irresistibile prurito. Aveva ormai il viso sfigurato dai graffi che si procurava nella disperata ricerca di un po’ di sollievo. La morte lo colse a sessant’anni nel 78 per una insufficienza epatica dovuta al molto vino che aveva per anni ingerito. Non poté avere la consolazione di veder nascere la figlia Postumia che la giovane amante Valeria mise al mondo dopo la sua scomparsa. Moriva tuttavia nel suo letto dopo aver bagnato di sangue fraterno il terreno della patria. Con la morte di Silla si concluse il periodo delle più sanguinose guerre interne ed esterne che l’Urbe avesse mai affrontato. La repubblica si avviava verso gli anni più dolorosi della sua decadenza e della sua degenerazione. Si credeva che la colpa di un’epoca tanto scellerata fosse da addebitare ai caratteri 275
specialissimi di Mario e di Silla, due uomini così diversi fra loro eppure così straordinariamente simili e sanguinari. La brama e la superbia li avevano indotti a erigersi al di sopra di tutti, sul sangue del loro stesso sangue, e ciò aveva suscitato l’ira degli dèi. Mario e Silla erano la più feroce incarnazione dello scontro che dilaniava Roma dagli albori: la lotta fra plebei e aristocratici, fra populus e Senatus romani. Essi erano stati all’apice delle due inestinguibili facce dell’Urbe, che, come quelle del dio Giano, si mostravano a vicenda in un infinito alternarsi, condannate a non risultare mai l’una vincitrice dell’altra. Quando Giano si svelava, inducendo l’Urbe a prendere le armi, il suo sguardo confondeva animi e corpi, e pareva placarsi soltanto in un lavacro di sangue. Nessuno più poteva cogliere il significato degli eventi di cui erano protagonisti quei due, Mario e Silla. L’uno era nato nel 157 e l’altro vent’anni dopo, nel 138. Quando lo scontro fra loro già stava per raggiungere l’apice, nel 100 a.C., era nato a Mario un nipote, nipote a lui e alla moglie Giulia, la sorella di un esponente della piccola aristocrazia, il quale aveva nome Caio Giulio Cesare. Secondo un’antica consuetudine romana e in segno di buon augurio, anche il neonato fu chiamato come il padre: Caio Giulio Cesare. La nascita avvenne il 13 luglio a Roma nel misero quartiere della Suburra, presso il Foro, là dove da un intrico di contorte stradine e vicoletti si levavano gli odori più sgradevoli della città. Benché modesta, la casa aveva un giardino e una fontana. Il padre del neonato era di natali aristocratici, ma non nuotava nell’oro avendo la famiglia perduto l’antico splendore. La madre Aurelia, che apparteneva alla gens dei Cotta, si era adattata alla situazione. 276
In seguito al matrimonio con Giulia la posizione di Mario era migliorata. Le nozze gli erano anche servite per far carriera più facilmente, tuttavia egli non si mostrava generoso con il cognato Caio Giulio Cesare, il quale otteneva soltanto incarichi minori. Giulia prediligeva il piccolo nipote Cesare che già attirava l’attenzione dei concittadini. Di alta statura, magro ma forte, elegante fin troppo, occhi scuri, fronte spaziosa, guance pallide, zigomi sporgenti, naso diritto e lungo, bocca grande, capelli neri inanellati e odorosi di cinnamomum. Aveva aspetto nobile e voce vibrante. Lo sguardo, mutevole, dolce e severo, veniva definito folgorante come quello di uno sparviero. Il celebre grammatico Marco Antonio Gnifone gli impartiva lezioni di retorica, ed egli si rivelava il migliore allievo, dotato di una memoria eccezionale e di una singolare capacità di espressione. Imparò rapidamente a poetare in latino e con altrettanta velocità apprese il greco, che divenne la sua seconda lingua. Seguì gli insegnamenti del poeta greco Archia, il quale aveva lasciato Antiochia per fondare nell’Urbe una scuola pubblica frequentata dai nobili virgulti della società romana. Si appassionò all’astronomia, alla matematica, alle scienze naturali, ma la sua grande passione era la poesia. Scrisse un poema, l’Elogio di Ercole, e una tragedia, l’Oedipus, ispirato al mito del figlio-amante della leggendaria Giocasta. Una volta in poche settimane si divertì a raccogliere, trascrivendoli in versi, i motti più famosi che passavano di bocca in bocca a Roma. Ben presto primeggiò in eloquenza gareggiando con i migliori oratori. Raccolse in volume, De divinatione, i dibattiti preliminari alla scelta degli accusatori nei processi. Tutto ciò non lo teneva lontano dalle esercitazioni militari, 277
che si svolgevano nel Campo Marzio, poiché il mestiere delle armi garantiva a un romano maggior successo dell’oratoria e del poetare. Glielo dicevano la madre Aurelia e quello zio, il grande Mario, che era stato sette volte console sebbene provenisse da antenati più oscuri dei suoi. Mario era un faro di vita per l’adolescente Cesare. La gens Giulia si era associata al gruppo popolare dell’arpinate a dispetto delle origini patrizie. L’anziano generale si era affezionato al nipote, di cui lodava l’intelligenza e il talento guerresco che egli vedeva in lui sebbene non si fosse ancora rivelato ad altri. Mentre risuonavano gli atroci clamori della guerra sociale, Mario diventava il maestro del ragazzo nell’arte bellica. Lo zio gli imponeva diuturne esercitazioni in Campo Marzio, che gli rafforzavano il fisico delicato e femmineo. Cesare amava cavalcare e sapeva mantenersi in sella con le mani dietro la schiena. Era un giovane affabile. Appariva fermo e dominato dalla calma anche nei momenti in cui gli esplodeva nell’animo l’ira. Percorreva a piedi le strade di Roma, anziché in lettiga come usavano fare quelli della sua classe sociale. Sebbene patrizio, era attratto dai populares, affascinato dallo zio che lo ricompensò nominandolo flamen Dialis, sacerdote di Giove. Questa carica non gli piaceva poiché lo obbligava a unirsi esclusivamente con la propria legittima consorte che non avrebbe nemmeno potuto ripudiare. Erano ammesse eccezioni, e lui ne approfittò. Morto Mario, alla testa dei populares e alla guida dello Stato andò Cinna. Per volontà dei familiari, il giovane Cesare strinse rapporti di parentela con Cinna sposandone la figlia Cornelia. Per contrarre questo matrimonio, che avrebbe dovuto aprirgli le 278
porte della carriera politica, fu costretto a divorziare da un’altra ragazza, Cossuzia, che la madre gli aveva fatto sposare un paio d’anni prima, attratta dalla cospicua dote di lei e incurante delle sue origini plebee. Marito di Cossuzia, Cesare era proprio un giovinetto e indossava ancora la veste dei ragazzi, bordata di rosso, lunga fino ai piedi. Come i matrimoni si rivelavano utili alla carriera, altrettanto vantaggiosa poteva esserne la rottura. Difatti Silla, per dare un ultimo colpo al partito mariano, ordinò a chi avesse sposato donne comunque legate ai mariani di ripudiarle rapidamente. Ciò creava seri problemi a questo o a quel personaggio. Caio Giulio Cesare filava in perfetta armonia con Cornelia, ma nel giro di tre anni, nella consueta e spaventosa alternanza di fazioni che ancora una volta aveva gettato lo Stato in preda al terrore, Silla aveva riconquistato con ferocia il potere. Cesare era così venuto a trovarsi in una situazione particolarmente difficile, essendo nipote di Mario e, per via di Cornelia, genero di Cinna. Pur non avendo avuto occasione di prendere parte attiva alle lotte fratricide fra mariani e sillani, il giovane rischiava egualmente di dover subire i rigori di Silla che lo aveva incluso nelle liste di proscrizione. A Cesare non restava che fuggire, così si travestì da contadino e raggiunse i boschi della Sabina braccato dai sicari del dittatore. Durante l’affannoso girovagare cadde ammalato, colpito dalla malaria. Negli incubi notturni gli appariva Silla, gli occhi fiammeggianti e crudeli, la chioma rosseggiante, il volto spettrale, scavato e cosparso di macchie bianche. Nelle sue ripetute fughe da Roma, ferocissimi corsari lo sorpresero in una piccola nave davanti all’isoletta di Farmacusa, 279
a sud di Mileto. Venne catturato tra urla di gioia dei pirati i quali, nel considerare il cospicuo seguito del viaggiatore, intuirono di avere a che fare con un personaggio importante e danaroso. Quei corsari erano di nazionalità cilicia e appartenevano alla peggiore risma di malfattori. I sequestratori chiesero al giovane il pagamento di un riscatto di venti talenti come prezzo della sua libertà, al che Cesare scoppiò in una fragorosa risata. Poi disse: «Voi non sapete chi avete fatto prigioniero. Venti talenti sono pochi. Io ve ne darò cinquanta». I pirati rimasero a bocca aperta. Ripresisi dallo stupore consentirono al prigioniero di inviare i suoi servi in diverse città vicine in cerca di denari. Ciò poteva avvenire in forza di una legge romana che imponeva l’esborso del riscatto alle popolazioni dei luoghi antistanti alle zone di mare dove si fosse verificato il sequestro. I servi impiegarono una cinquantina di giorni per reperire la somma necessaria a restituire la libertà al loro padrone. La prigionia sulla nave pirata trascorse in un clima imprevisto grazie alla straordinaria sfrontatezza di Cesare che con la sua condotta teneva a bada i carcerieri. Ed essi, un po’ smarriti, un po’ sorpresi, non sapevano che cosa fare. Attribuivano l’impudenza di Cesare all’incoscienza della giovane età e accettavano da lui rimbrotti e ordini. Cesare li trattava con tale disdegno che, quando aveva voglia di dormire, imponeva loro di far silenzio. Spesso li chiamava a raccolta perché lo ascoltassero declamare le poesie che andava scrivendo per impiegare le lunghe e pigre giornate di prigionia. Se i pirati non si mostravano entusiasti dei versi, li chiamava barbari e poveri ignoranti meritevoli solo della forca. Li minacciò più volte di 280
appenderli a un palo, e i carcerieri finivano col divertirsi alle sue sfuriate. Gli consentivano di prendere parte alle loro esercitazioni marinare e ai festini in cui il vino scorreva a fiumi tra montagne di carni arrostite. Cesare fingeva di stare al gioco. Alfine, dalle città costiere pervenne il denaro del riscatto, ed egli lo versò nelle mani dei corsari i quali, mantenendo gli impegni, lo lasciarono libero. Nei giorni di cattività Cesare aveva ideato un piano di vendetta che ora poteva mettere in atto. Ripresa la sua nave raggiunse la vicina Mileto dove con discorsi appassionati convinse le autorità a fornirgli rapidamente una flotta allo scopo di sorprendere i pirati nei loro covi e annientarli. Improvvisatosi ammiraglio fu addosso ai corsari che se ne stavano allegramente sui loro vascelli in una insenatura di quelle coste a godersi il riscatto. Li fece tutti impiccare, attuando così la minaccia che aveva spesso rivolto loro col sorriso sulle labbra e nell’animo la voglia di vendicarsi. All’ingiunzione sillana di divorziare dalla moglie, Cesare, che era appena diciannovenne, si mostrò irremovibile. Non volle lasciare Cornelia che amava sinceramente e dalla quale aveva già avuto una figlia, la piccola Giulia, che portava lo stesso nome della zia andata sposa a Mario. Silla era assai irritato con lui, tuttavia si arrese alle preghiere degli amici che cercavano di giustificare il rifiuto di Cesare. Arrendevole fu invece Gneo Pompeo, il quale, sebbene già potentissimo, si adeguò al volere del dittatore sposandone la figliastra Emilia dopo aver ripudiato la moglie Antistia, senza formalizzarsi davanti al particolare che la nuova sposa gli arrivava in casa gravida, a sua volta costretta a un repentino divorzio. Silla fu ancora una volta generoso con Cesare quando nell’81, 281
e il giovane non aveva che ventun anni, accettò di escluderlo dalle liste di proscrizione salvandogli la vita. Avevano interceduto per lui con calde preghiere le Vestali e un suo amico carissimo, Caio Aurelio Cotta, celebre oratore e cugino della madre Aurelia. Tuttavia Silla esclamò con durezza: «Sia fatta la vostra volontà, una buona volta, e tenetevelo pure questo ragazzo. Ve ne pentirete. Lo volete salvo a ogni costo, ma prima o poi egli sarà la rovina del patriziato che insieme abbiamo difeso». Concluse l’intemerata con alcune parole profetiche: «Io vedo molti Marii in un solo Cesare», nam Caesari multos Marios inesse. Da un punto di vista più generale, alla morte di Silla era seguito l’inevitabile. Erano trascorsi cinquantacinque anni dal tribunato di Tiberio Sempronio Gracco. La città non poteva tornare indietro e rilanciare la legislazione dei Gracchi, né poteva andare avanti con le leggi di Silla poiché tutti, compresi gli optimates, ne avevano denunciato gli insopportabili eccessi. Tuttavia il partito degli aristocratici aveva scelto come proprio esponente il giovane Gneo Pompeo che era stato al servizio del defunto dittatore tornato in Italia dalla guerra mitridatica. Pompeo era diventato famoso grazie a Silla il quale, avendone subito colto le qualità, lo aveva inviato come generale in Sicilia e poi in Africa a debellare gli ultimi popolari filomariani. Sconfitti gli avversari, appena trentenne aveva ricevuto dal dittatore in persona un trionfo e il titolo solenne di Magnus che molti però giudicavano eccessivo. Gneo dimostrava che in lui non c’era soltanto bellezza, quella bellezza che faceva dire alla celebre mondana Flora di non poterlo lasciare andare dopo gli incontri amorosi senza dargli un ultimo morso, ma anche 282
genialità militare. Sembrava che Gneo, dopo tanto sangue, fosse l’uomo giusto per ristabilire la pace sociale in Roma, trascorsi i gracchana tempora. Ma il destino aveva ancora una volta deciso diversamente. L’Iberia veniva messa a rumore da quel grande e valoroso generale che era diventato Quinto Sertorio, un semplice eques partito da Norcia al seguito di Mario. Fin da giovane Sertorio aveva rivelato di possedere un forte valore non solo militare ma anche politico. Nei tempi in cui Mario e Cinna terrorizzavano la città eterna, egli, per non essere corresponsabile di tanti crimini, si era fatto mandare in Iberia. Da pretore aveva riscosso in quelle terre la simpatia delle popolazioni che trattava umanamente, a differenza dei suoi predecessori, tutti famelici, superbi e arroganti. Nel lusingare gli iberici prendeva esempio da Annibale e da Asdrubale. Ovunque lo seguiva una cerva bianca che gli creava intorno un’atmosfera di magia. Apparse le liste di proscrizione, le liste fatali di Silla, Sertorio decise di ribellarsi a Roma facendosi esule e fuggiasco. Gli ottimati avevano inviato a guerreggiarlo per ridurlo alla ragione il generale Quinto Cecilio Metello Pio. Ma le truppe regolari non riuscivano a districarsi dalle sottili azioni di guerriglia di Sertorio, tanto che i lusitani gli affidarono il comando supremo delle loro forze armate. Ciò consentì al ribelle di istituire uno Stato romano-iberico a sfondo popolare che per capitale aveva la bella città di Huesca (Osca). Così in molti nella zona si chiedevano chi fossero davvero i padroni, in quegli anni 70: gli ispanoromani di Sertorio o i romani dell’Urbe.
283
XXIV Gneo Pompeo riceveva l’ordine di attaccare il mariano Sertorio e di annientarlo. Pur essendo un semplice cavaliere e benché insignito del titolo di Magnus già da un decennio, egli partì investito di autorità proconsolare. La nomina era illegale, ma i senatori non avevano altri che lui in quanto nessuno dei due consoli in carica aveva avuto il coraggio di lasciare la capitale per affrontare in Spagna il magico Sertorio. L’orgoglioso Pompeo, che aveva appena sconfitto gli antioligarchi in Etruria, non si abbassò a rientrare nell’Urbe dove avrebbe dovuto rendere omaggio al Senato. Preferì subito arruolare nuovi legionari e prendere prima dell’inverno la via delle Alpi, seguendo però, tra il Po e il Rodano, un percorso diverso da quello prescelto in senso inverso a suo tempo da Annibale, e quindi prevedibilmente tenuto sotto controllo dagli uomini di Sertorio. La scelta si rivelò giusta, per cui Pompeo riuscì a cogliere alla sprovvista il generale ribelle, il quale però seppe egualmente opporgli una accanita resistenza. Sertorio inflisse molte sconfitte a Pompeo. Le più importanti ebbero per teatro la città di Puig, nei pressi di Sagunto, e il fiume Jucar, dove Pompeo ricevette persino un colpo di spada a una gamba. Se ebbe salva la vita lo dovette soltanto al fatto che gli iberici si erano attardati a depredargli la sella del cavallo tempestata di gemme. La guerra tra i due generali romani, ormai su opposte sponde, 284
era sospesa tra sorti alterne. Poi volse a favore del giovane proconsole, mentre le truppe sertoriane, che cominciavano a disertare, venivano festosamente accolte nelle file pompeiane e in quelle di Metello Pio che pensava di potersi rifare dell’umiliazione subita in precedenza. Fu questa volta proprio Metello, più dello stesso Pompeo, a mettere alle strette il ribelle, il quale però cadde per mano di Marco Veientone Perperna che lo tradì e lo fece uccidere a pugnalate. L’assassinio fu consumato durante un banchetto a un segnale convenuto, cioè al rumore d’una tazza che andava in frantumi sul pavimento. Senza questo vile gesto istigato da Pompeo, ben più ardua sarebbe stata la conclusione di una guerra che si prolungava da otto anni. E tale consapevolezza avviliva profondamente lo spirito del popolo romano. Era il 72 a.C. L’anno prima nei pressi di Capua, il luogo dove Silla aveva passato gli ultimi mesi di vita, era esplosa un’altra feroce guerra, o meglio si era riacceso un conflitto che forse non si era mai spento negli ultimi decenni: la guerra degli schiavi. A Capua sorgeva una scuola per gladiatori, la più famosa del tempo. Una settantina di atletici combattenti da arena si erano ribellati in nome della libertà, e rapidamente avevano infiammato l’Italia trascinandosi dietro un esercito di disperati che si proponeva di minacciare persino le porte dell’Urbe. Quegli schiavi erano pronti a tutto, non avendo nulla da perdere se non le loro catene. La scintilla della rivolta l’aveva accesa un abile gladiatore trace di nome Spartaco che appariva come il campione della libertà e dell’eguaglianza nell’egoistico mondo dei latifondisti e dei capitalisti romani. Alla scuola di Capua, dove i gladiatori si esercitavano con le armi agli spettacoli 285
popolari, Spartaco ebbe un seguito fulmineo non soltanto per le sue doti fisiche, ma anche per intelligenza e nobiltà d’animo. Intorno al piccolo nucleo iniziale dei gladiatori che senza armi erano evasi da Capua, si riunirono ben presto più di duecento schiavi. Tutti insieme, dopo aver rubato da una taverna della città spiedi e lunghi coltelli da cucina e dopo aver assalito un primo presidio militare asportandone le spade, ascesero le pendici boscose del Vesuvio. Si rifugiarono in quelle balze come belve rabbiose apprestandosi a rintuzzare un attacco dei soldati romani già sulle loro tracce. Il loro gesto di ribellione aveva fatto scalpore e aveva incitato alla rivolta altri schiavi, traci, germani, galli, capeggiati da Crisso ed Enomao che diventarono i luogotenenti di Spartaco. Roma reagì pesantemente inviando a combatterli un esercito di tremila uomini. Ma il pretore Claudio Glabro si rivelò meno abile di Spartaco, e in breve fu sconfitto. Quella vittoria entusiasmò altri schiavi e altra gente povera, masse che da sempre vivevano ai margini della società. Si univano a Spartaco anche liberi italici, stanchi di essere sfruttati dalle classi dei possidenti, sicché l’esercito ribelle contava ormai settantamila uomini. Spartaco sconfiggeva via via il pretore Publio Varinio e i due consoli in carica, Gellio Publicola e Lentula Clodiano. Fornito di cavalleria, il ribelle si accingeva a risalire la penisola per valicare le Alpi e riacquistare la libertà tornando nelle sue terre di Tracia. Ma gli era impossibile tenere a freno l’orda famelica che lo seguiva seminando ovunque lutti, razziando bestiame e raccolti, saccheggiando città e villaggi. Le turbe del luogotenente Crisso si opponevano con violenza ai piani di sganciamento, e Spartaco decise di separarsi da loro. Il 286
trace, che era già entrato nella pianura padana, fu affrontato nei pressi di Modena dal proconsole della Cisalpina, Caio Cassio Longino, forte di un esercito di diecimila uomini. Longino ebbe la peggio e l’orda dei rivoltosi, rincuorata dalla nuova vittoria, impose a Spartaco di rinunciare all’idea di uscire dall’Italia: si doveva far marcia indietro e puntare su Roma. Il trace tornò sui suoi passi, ma, scendendo lungo il litorale adriatico, preferì prudentemente non affrontare la capitale. Nel Piceno sconfisse ancora una volta i romani aprendosi la via verso la Lucania dove disponeva di sicure roccaforti. Roma si sentiva minacciata né poteva tollerare oltre l’orribile scorreria di schiavi che aveva umiliato propretori e pretori, consoli e proconsoli infliggendo loro terrificanti disfatte. Il Senato tolse alfine il comando delle operazioni ai consoli Lucio Gellio e Gneo Lentulo per affidarlo con poteri eccezionali a Marco Licinio Crasso che era un ambizioso pretore di idee sillane e al tempo stesso un avido capitalista. Contro le schiere del trace che continuavano a vincere, il pretore ordinò una folle e feroce soppressione dei prigionieri. Le forze di Spartaco si indebolivano, per cui egli, vagando, arretrava fino a Reggio Calabria. Con l’aiuto prezzolato di alcuni pirati cilici pensava di attraversare lo stretto di Messina per sbarcare in Sicilia e infiammarvi nuovamente le masse degli schiavi isolani. Ma i pirati, che pure avevano intascato il compenso pattuito, mancarono all’appuntamento, scomparendo sulle ali del vento. All’antico gladiatore non rimaneva che ripararsi nelle foreste dell’Aspromonte. L’inverno era rigido, alta la neve. Marco Licinio Crasso tese un tranello che i ribelli riuscirono a scongiurare. Il pretore fu preda della disperazione 287
poiché Spartaco aveva dato l’impressione di voler riprendere il progetto di marciare su Roma. In Lucania, sul Bradano, ci fu uno scontro diretto fra le due schiere. Nel pieno del combattimento Spartaco fu ferito da una freccia al pube. Cadde in ginocchio e, appoggiandosi allo scudo, continuò a mulinare la spada fino all’ultimo respiro. Si spegnevano con lui i fermenti di rivoluzione sociale che tuttavia i ribelli non erano riusciti a suscitare compiutamente in tre anni di stragi e di rovine. Confuse in una moltitudine di sessantamila cadaveri di rivoltosi, le spoglie del gladiatore non furono mai ritrovate. Licinio Crasso aveva vinto e già si pentiva di essersi lasciato andare a chiedere il rinforzo di Pompeo che egli non amava. I soldati ricordavano un episodio che rendeva bene l’idea di quanto egli fosse invidioso del giovane e fortunato Pompeo. Un giorno a Roma, un tale in sua presenza aveva esclamato: «Ecco arriva Pompeo il Grande», e Crasso, di rimando, aveva chiesto un po’ indispettito e con ironia: «Grande quanto?». Il Grande si scontrò in Etruria con una retroguardia di cinquemila spartachiani e ne fece strage. Da maestro della propaganda inviò un messaggio al Senato per solennizzare l’impresa con una frase a effetto: «Crasso ha vinto il male battendo gli schiavi in campo aperto, io ho estirpato la radice della guerra». Gli diedero ragione e gli accordarono il trionfo, per la vittoria sui servi ribelli e per quella su Sertorio. Pompeo aveva trentaquattro anni. Crasso non ricevette che un’ovazione, ma in forza delle sue aderenze, poté egualmente fregiarsi di una corona d’alloro e non di un semplice mirto com’era in uso nell’ovatio. Per mostrarsi più grande di Pompeo, Crasso tentò un recupero di ferocia teatrale facendo erigere seimila croci 288
lungo la via Appia da Capua a Roma sulle quali furono affissi altrettanti rivoltosi. Crasso, avaro, scialò soltanto nel numero delle crocifissioni. Nei giorni in cui la Spagna romana veniva messa a rumore dal valoroso generale Sertorio, il giovane Cesare era rimasto a Roma, in ombra. Non aveva ascritto il suo nome nemmeno nell’epopea di Spartaco, il trace ribelle. E infine era rimasto nel buio anche quando i nomi di Pompeo e di Crasso erano lucenti e celebri. Metello Pio, sconfitto alfine Quinto Sertorio in Spagna, decise di smobilitare il suo esercito, mentre Pompeo e Crasso evitavano di seguirne l’esempio. Ostili fra loro, i due generali si avvicinavano in armi a Roma, col sostegno delle truppe a loro fedeli, per chiedere o per strappare il potere. Il popolo temette un ritorno ai giorni sciagurati di Mario e Silla. Pompeo e Crasso pretendevano per l’anno 70 l’elezione a consoli, e presto capirono che non avrebbero mai potuto raggiungere quel risultato senza unire i loro sforzi. Il Senato, timoroso, favorì alla fine la loro ascesa alla suprema magistratura sebbene nessuno dei due candidati avesse le carte in regola per concorrere alle elezioni. Per scopi di affermazione personale, Silla aveva ripristinato il potere dell’oligarchia senatoriale, un potere che si era protratto per un decennio fino a quando Pompeo non promosse la formazione di un’alleanza fra cavalieri e plebei. Crasso seguì il Grande, e ambedue, un generale di smisurata ambizione e un capitalista senza scrupoli, cercando strumentalmente il favore del popolo, rovesciarono le loro originarie posizioni politiche e passarono all’opposizione. Il ribaltamento non costò a nessuno 289
dei due alcun sacrificio ideologico, legati com’erano esclusivamente al carro della loro fortuna personale. Ora Pompeo e Crasso si trovavano dalla parte dei popolari dopo averli combattuti. Travolgendo l’avversione di un ottimo generale per quanto dedito all’epicureismo, Lucio Licinio Lucullo, i due consoli per prima cosa restituirono la piena libertà ai tribuni della plebe che Silla aveva umiliato privandoli del diritto di veto e dell’iniziativa legislativa. Dopo un’interruzione durata diciassette anni, ristabilirono l’autorità dei censori chiamati a controllare la pubblica moralità assai decaduta. Scacciarono sessantaquattro sillani dai ranghi senatoriali, riformarono le giurie giudiziarie che Silla aveva voluto composte da soli senatori, i quali però avevano abusato del loro potere proteggendo ladri e assassini se appartenenti alla nobilità. Allo scopo di estendere la base di rappresentanza immisero nelle giurie in parti eguali, accanto ai senatori, anche i cavalieri e i meno ricchi tribuni dell’erario. La plebe tornò a godere delle distribuzioni gratuite di grano a spese dello Stato e soprattutto delle province, mentre Pompeo e Crasso si adoperarono perché si procedesse all’assegnazione di nuove terre ai loro soldati. Sotto la pressione dei popolari, si richiamarono in patria dalle province gli esiliati, si riabilitava la memoria delle vittime, si restituivano i beni confiscati da Silla. Il giovane Cesare già faceva spicco fra i populares, nonostante la sua prudenza. Egli diffidava sia di Pompeo sia di Crasso, così come aveva diffidato del consolare Marco Emilio Lepido, in tempi ancora peggiori per il partito democratico. Avvertiva però sempre più forte l’esigenza di uscire dal suo guscio in maniera inequivocabile e cogliere le occasioni che la coalizione 290
antioligarchica offriva. Essendo imminenti le elezioni alla carica di questore, decise di parteciparvi. Le vinse facilmente e all’unanimità perché era immenso il fascino e il potere di seduzione d’un giovane aristocratico che guardava al popolo.
291
XXV Cesare, trentunenne, era tuttavia un po’ in ritardo rispetto ai tempi di accesso alla dignità di questore per la quale bastava avere ventisette anni. Quando si estrassero a sorte gli uffici o le province cui i questori erano destinati, a lui toccò la Spagna ulteriore. La cosa non gli piacque perché avrebbe preferito non allontanarsi da Roma, tuttavia si acconciò a partire. Nell’Urbe si vivevano giorni di calma, ma era solo apparenza. Pompeo e Crasso avevano congedato i loro eserciti che avevano tenuto sul piede di guerra per l’intero anno di consolato. Vennero a miti consigli soltanto allo scadere delle loro magistrature, e a Roma finalmente si dissipò il timore d’una nuova guerra civile e di un colpo di Stato al quale Pompeo ancora pensava. Fu Crasso a tendere per primo la mano al bellicoso collega davanti a un popolo tumultuante riunito nel Foro. Pompeo, che era ancora capace di commuoversi o di fingere commozione, lo abbracciò, ed entrambi consegnarono le legioni alla repubblica e l’esercizio del consolato ai loro successori. Pompeo rimaneva all’erta, in attesa di nuove occasioni propizie. Non era ancora trascorso l’anno della sua questura quando Cesare tornava a Roma dalla Spagna ulteriore, deciso a bruciare le tappe e a riguadagnare il tempo perduto. Aveva mostrato particolare affezione per gli spagnoli, difendendone gli interessi. Durante il viaggio a ritroso si fermò a settentrione del Po, nelle 292
colonie latine della Gallia Cisalpina. Al fine di conquistare una sempre più vasta popolarità, si mise a incoraggiare i transpadani che chiedevano a gran voce di ottenere la cittadinanza romana. Arrivato nuovamente a Roma, il giovane questore si avvicinò a Pompeo più di quanto non avesse fatto negli anni precedenti. Né trascurò di mantenere i contatti con Crasso, avendo bisogno dei suoi generosi prestiti per pagare i debiti che assumevano proporzioni sempre più allarmanti. Cesare favorì apertamente il ritorno in auge di Pompeo quando si trattò di decidere a chi affidare il comando straordinario della guerra contro i numerosi pirati che, da padroni, infestavano con sempre maggiore ferocia i mari e le coste, peraltro assistiti da Mitridate. A guidare la flotta e l’esercito fu scelto Pompeo, osteggiato dal Senato ma validamente sostenuto dal tribuno della plebe Aulo Gabinio e quindi dai popolari di Cesare. Si poneva così nelle mani dell’ambizioso Pompeo un imperium proconsulare, un potere immenso che lui, a operazione compiuta, avrebbe anche potuto volgere come un nuovo Silla contro Roma. Il popolo inneggiava a Pompeo, il quale in piena Curia simulava magistralmente la massima indifferenza a ottenere incarichi. Anzi, dichiarandosi stanco e ammalato, diceva di volersi ritirare a vita privata. La stessa scena si era svolta tra Mario e Saturnino. Conosciuta l’opposizione dei senatori, la plebe si gettò inferocita nella Curia mettendone in fuga i presenti. Solo contro tutti, Cesare in Senato si era levato a parlare in favore della proposta di Aulo Gabinio tesa a concedere a Pompeo il comando contro i pirati. Alcuni senatori tentarono di strozzare il coraggioso tribuno in piena assemblea poiché ritenevano che con quella nomina si sarebbe colpito profondamente il sistema 293
repubblicano, si sarebbe fatto di Pompeo, di un semplice eques, l’arbitro dello Stato. Con vivissimo entusiasmo Pompeo Magno si armava contro i pirati, mentre Cesare era ancora alla ricerca di un ruolo significativo. Prendeva moglie per la terza volta essendo morta a trent’anni l’amata Cornelia. La nuova compagna era Pompea, una fanciulla assai ricca e di armoniosa bellezza, sensibile all’eleganza e alla fortuna del suo pretendente. Figlia del consolare Pompeo Rufo, vantava una lontana parentela con Pompeo il Grande, ma non fu questa circostanza a indurre il giovane alle nozze, tanto più che Pompea era anche nipote di Silla. La coincidenza non turbò Cesare, nonostante le evidenti contraddizioni tra la scelta matrimoniale e la sua posizione di autorevole popolare. Il fantasma di Silla, dalla chioma rosseggiante, che si incuneava nel letto coniugale, non lo impressionò minimamente. Egli andava con disinvoltura al concreto, avendo bisogno di soldi per reggere nell’agone politico alla concorrenza di amici e avversari più danarosi di lui. Legarsi a Pompea, che gli portava un’immensa dote, significava risolvere gran parte dei suoi problemi finanziari. Secondo gli eventi dettati dal fato, il matrimonio durò cinque anni appena, e si ruppe per uno scandalo che mise in agitazione tutta Roma. Travestito da donna, un giovane patrizio era stato scoperto in casa di Cesare sulla soglia della camera da letto di Pompea. Quel giovane l’amava, e la matrona non se ne mostrava offesa. L’ardimentoso patrizio si chiamava Publio Clodio, detto il Bello, Pulcher. Elegante nelle fattezze, il volto perfetto, morbida la chioma. Era ricco, arrogante, scellerato e nobile. Portava uno dei più bei nomi dell’Urbe. Altre volte aveva 294
tentato di penetrare negli appartamenti riservati alle donne in casa di Cesare, per gettarsi fra le braccia accoglienti di Pompea, ma la stretta vigilanza di Aurelia, la suocera, rendeva difficili gli approcci fra i due amanti. Era imminente la festività della dea Bona e Clodio pensò di approfittarne con uno stratagemma che gli avrebbe consentito di ingannare ogni sorveglianza. A Roma la dea Bona corrispondeva alla Ginecea dei greci, e come tale le donne l’avevano prescelta a loro protettrice elevandola a simbolo delle virtù femminili. Nell’abitazione in cui di anno in anno si celebrava la festa in suo onore, veniva eretto un padiglione ornato con tralci di vite, e ai piedi di un’immagine della dea si faceva strisciare un serpente sacro. L’usanza vietava agli uomini di entrare in quei recessi. I riti in quell’anno 62 si celebravano nella casa che Cesare abitava sulla via Sacra in quanto pontefice massimo. Nella notte fra il 4 e il 5 dicembre, nel pieno della festa, Clodio penetrò nel gineceo di Pompea con indosso un abito femminile per non destare sospetti. Ma una volta all’interno del padiglione centrale, il giovane attirò l’attenzione di un’ancella più guardinga delle altre. E Clodio fu scoperto per quel che realmente era, mentre la casa si riempiva d’urla di orrore. Aurelia non riuscì a soffocare lo scandalo per salvare, almeno in pubblico, non tanto la reputazione della nuora quanto l’onore del figlio. I riti furono sospesi mentre il giovane amante veniva accusato di empietà per aver violato le leggi sacre. Tutti seppero che Clodio si era macchiato di sacrilegio nel tentativo di unirsi alla moglie di Cesare. Le udienze del processo contro Clodio si protrassero per più mesi, rallegrando o rattristando la popolazione romana. Cesare si trovava in una posizione estremamente delicata, e si 295
domandava che fare. Non poteva accusare la moglie di adulterio perché in tal caso avrebbe posto da sé sulla propria testa un poco onorevole trofeo. Né poteva accusare il giovane di aver violato i riti della dea Bona perché avrebbe contrariato le masse e mandato a morte l’imputato di cui aveva politicamente bisogno. Davanti al magistrato dichiarò di non saper nulla a proposito di Clodio, e al tempo stesso negò di aver mai giudicato Pompea colpevole di adulterio. Il magistrato, senza nascondere lo stupore, gli chiese allora perché mai nel frattempo avesse allontanato da sé Pompea. E Cesare rispose con un sofisma: «Perché voglio che sui membri della mia famiglia non gravi alcun indizio di colpevolezza», ed era come dire che la moglie di Cesare dovesse essere al di sopra di ogni sospetto. Quando si passò alle votazioni, i senatori diedero a loro volta prova di non voler essere secondi a nessuno in quanto ad astuzia e prudenza. E Clodio fu assolto. La maggioranza dei giurati aveva presentato le schede con segni troppo confusi per essere intellegibili. Evitavano così di affrontare l’ira del popolo se avessero condannato il giovane, e le rampogne della nobiltà se lo avessero scagionato dalle colpe. In soli quarantanove giorni Pompeo sconfiggeva i pirati restituendo ai mari sicurezza e tranquillità. Egli, pur facendo paura sia agli oligarchi sia ai popolari, ottenne il comando della guerra contro Mitridate con imperium su tutta l’Asia Minore dove si trovava avendo inseguito le navi corsare. La proposta di affidargli il comando fu ancora una volta di un tribuno della plebe, Vaio Manilio, un uomo da nulla, venale, che agiva col proposito di ingraziarsi il generale. Tuttavia, quando si trattò di votare la sua proposta, oligarchi e popolari si mostrarono 296
acquiescenti, o per debolezza o per disegni personali. Il Senato non solo credeva ancora possibile una rottura fra Pompeo e i popolari, ma pensava persino di poter attrarre a sé il comandante. In realtà si scavava la fossa con le sue mani. La repubblica si affidava a un solo uomo, una repubblica che per questa ragione assumeva sempre più le sembianze di una monarchia, come era già avvenuto ai tempi di Silla il quale si era impadronito di Roma con le armi, a differenza di Pompeo che otteneva il potere assoluto con il consenso popolare. Furono in molti a tacere nella discussione che si svolgeva in Senato sulla proposta di Manilio, tacque soprattutto Crasso sempre invidioso di Pompeo. Invece per ragioni di convenienza politica parlò Cesare, già designato alla carica di edile, e intervenne un conservatore, Cicerone. Entrambi si espressero a favore. Cicerone, pronunciando nelle vesti di pretore il suo primo discorso politico, si schierò per ambizione con Pompeo. Lo definì come colui che aveva superato la gloria di tutti i grandi uomini di quel secolo e di tutti i secoli di cui si aveva memoria. Si temeva un comando straordinario, come quello che si concedeva a Pompeo? Ebbene, replicava l’oratore, la storia era piena di precedenti: bastava fare i nomi di Scipione Emiliano e di Mario. C’erano ragioni concrete, incalzava Cicerone, che obbligavano Roma ad affrontare Mitridate con gli stessi metodi impiegati contro i corsari: bisognava ristabilire il flusso regolare dei rapporti con le province d’Asia per evitare alla repubblica una grave crisi economica. La guerra contro Mitridate si concluse felicemente per Pompeo, come era già avvenuto nella spedizione contro i pirati cilici, e col suicidio del re sconfitto. Con l’assenza da Roma del 297
grande generale, Cesare trovava maggior spazio di manovra e intanto accresceva intorno a sé il favore popolare. Ottenne facilmente una nuova carica, quella di curator, cioè di ispettore della via Appia. Non badò a spese per far fronte alla manutenzione della grande arteria. Si indebitò ulteriormente, ma essendo assai apprezzati a Roma coloro che si prendevano cura della viabilità, ciò che egli perdeva in denaro lo acquistava in consenso. Per due anni mantenne l’incombenza di ispettore, prima di fare un nuovo passo avanti con la elezione a edile curule, una denominazione derivata dal seggio d’avorio su cui il magistrato sedeva. Erano quattro gli edili, due espressione del patriziato e due del popolo. Cesare profuse grandi somme di denaro per ornare con fasto il Foro, il porticato denominato comitium e le basiliche. Tale profusione di denaro fu molto apprezzata dal popolo, e lui perciò si diede a incoraggiare anche i giochi pubblici andando incontro alle aspettative della plebe sempre desiderosa di spettacoli. Allestì banchetti di massa, offrì spettacoli da circo in cui si affrontavano uomini e belve. Volle poi dare un’impronta politica all’esercizio della sua carica, e, al fine di rendere questo segno chiaro a tutti, fece erigere sul Campidoglio le statue e i trofei dello zio Mario. Compiva un atto di audacia poiché i sillani erano ancora forti a Roma, mentre evanescenti erano i mariani. Mostrandosi amico della plebe, Cesare intendeva restituire vigore e prestigio alla fazione dello zio. Le statue erano bellissime e scintillanti d’oro. Le iscrizioni celebravano le vittorie conseguite su Giugurta, sui cimbri e sui teutoni. Già quattro anni prima, Cesare aveva onorato Mario come il 298
grande nemico dell’oligarchia, ma lo aveva fatto in un’occasione privata durante i funerali dell’anziana zia paterna Giulia. Salito sui Rostri del Foro, aveva pronunciato la laudatio funebris. Aveva onorato la nobildonna scomparsa, come si conveniva a un elogio commemorativo, ma si era servito di quell’orazione soprattutto per esaltare le proprie origini divine. Si era presentato come discendente della dea Venere e di molti re; si era richiamato a Enea nella ricerca di antenati divini. Aveva indicato a iniziatore della stirpe Giulia il giovane Iulo-Ascanio, figlio del mitico eroe che, fuggito da Troia, era favolosamente approdato nel Lazio. Enea era al tempo stesso figlio di Venere, la dea gioiosa, cara ai romani, e progenitore dei fondatori dell’Urbe, Romolo e Remo. Non si potevano avere origini più eccelse. Cesare aveva detto: «Mia zia Giulia, da parte di madre, discende da sangue reale e, da parte di padre, è imparentata con gli dèi immortali. Da Anco Marzio derivano i re Marzi, alla cui stirpe apparteneva mia madre, mentre i Giuli, di cui porto il nome, discendono da Venere». Dal giorno in cui aveva pronunziato queste parole aveva messo al dito un anello con l’effigie di Venere discinta e armata. Sotto la protezione di Venere si erano posti i romani fin dai tempi delle guerre puniche. Ora, con i simulacri di Mario ricondotti nel luogo più solenne e sacro di Roma, il Campidoglio, il popolo parteggiava vistosamente per lui. Erano accorsi in lacrime i reduci e gli invalidi che avevano partecipato agli ordini dell’amato generale nelle guerre in Africa, nella valle del Po e in Gallia, in azioni che tanta gloria avevano conferito alla repubblica. Cesare parlò al popolo. Attaccò con tale ricchezza di argomenti gli avversari, e 299
soprattutto l’ottimate Lutazio Catulo, il cui padre era stato una delle vittime di Mario, da indurre perfino i patres a schierarsi con lui. In una successiva occasione fu Cesare a perdere lo scontro con Lutazio Catulo. Volendo finalmente compiere il grande balzo, Cesare cercò di ottenere, con un plebiscito proposto dai tribuni del popolo, un imperio straordinario in Egitto. Sarebbe stato possibile prendere possesso di quelle terre in forza del testamento col quale il re egizio Tolemeo XI-Alessandro II aveva lasciato lo Stato in eredità ai romani. Anche Crasso si era proposto di raggiungere l’Egitto, ma sia lui sia Cesare si scontrarono con l’avversione degli ottimati, le cui ragioni furono sostenute dal solito Cicerone che rappresentava ora gli uni ora gli altri, a piacere. Il Senato cercava di evitare una nuova sciagura, una nuova ferita alla sua potestà. Per di più molti senatori difendevano l’indipendenza egiziana non volendo perdere il beneficio che il successore Tolemeo Aulete elargiva generosamente ai patres conscripti.
300
Parte terza
ROMA DEI CESARI Le colonne e gli archi Dove si racconta come i tre personaggi più potenti di Roma, Cesare, Pompeo e Crasso, si uniscano in un triumvirato e poi si sciolgano. Catilina e Cicerone si scontrano: l’oratore perde la pazienza. La perde anche Cesare, che varca il Rubicone per andare incontro a ventitré pugnalate. Ottaviano, ragazzo prodigio. Con Azio si salva l’Occidente e si prepara il suicidio di Antonio, nipote di Cesare, e di Cleopatra, sua amante. Ecco Augusto che deve molto a Mecenate, ad Agrippa e a Virgilio. Con Tiberio, che sceglie Capri, comincia una interminabile sfilza di Cesari, grandi e piccini. Chi era Nerone? In un anno quattro imperatori. La protesta del Vesuvio. Il giudizio sui romani del capo britanno Càlgago. La guerra giudaica (Tito). La tassa sull’orina (Vespasiano). Le guerre contro i daci (Traiano) e contro i parti (Marco Aurelio). Adriano a Tivoli. Peste e crisi finanziaria. Caracalla divide in due ali il palazzo imperiale, etc., etc.
301
I Cesare e Crasso si erano stretti in un’alleanza che appariva a tutti tanto strana quanto labile. Pur essendo molto diversi tra loro – l’uno generoso e sensibile, l’altro avaro e spietato – cercavano d’intendersi. Il ricco capitalista, in odio a Pompeo di cui temeva il ritorno, si appoggiava a Cesare, e questi, che aveva sempre più bisogno di sostegni finanziari, trovava quanto gli serviva nell’odioso plutocrate. Gli ottimati temevano quell’unione e si adoperavano per porre entrambi i personaggi in cattiva luce. Parlavano di un complotto escogitato dai due, sebbene ne sembrasse il principale ispiratore un patrizio ambizioso e deluso, Lucio Sergio Catilina. Pompeiano prima e sillano poi, Catilina non era amato dagli ottimati che lo ostacolavano nelle sue aspirazioni politiche. Per cui egli covava un profondo desiderio di vendetta. Gli ottimati gli avevano respinto nel 65 la candidatura a console con l’accusa di essersi arricchito depredando la provincia d’Africa sottoposta alla sua autorità di governatore. Catilina era un cattivo soggetto, e aveva attivamente partecipato alle atrocità della dittatura sillana. Pallido in volto, lo sguardo lascivo, gli occhi iniettati di sangue, il portamento ora tardo ora sollecito: tutto rivelava la sua natura di forsennato. Era di nobile stirpe decaduta, vivace d’ingegno e vigoroso nel fisico, ma perverso aveva l’animo. Suoi seguaci erano gli individui più screditati: banditi, assassini, falliti, bari, spergiuri. 302
Aveva avuto amori contrari alla legge e alla morale. Si parlava d’una sua relazione con una vestale e di incesto consumato con la propria figlia. Si diceva che la seconda moglie, Aurelia Orestilia, fosse figlia d’una sua amante. Nessuna persona a modo trovava da lodare in Orestilia null’altro che la bellezza. La dama aveva un figlio di primo letto che si opponeva al matrimonio della madre con Catilina, e questi, per aver via libera alle nozze, ordinò di ucciderlo. Tutto ciò si raccontava in una Roma dilaniata dalle fazioni in lotta. Gli ottimati possedevano il Senato come arengo, mentre i popolari si esprimevano in assemblea nel Foro e in Campo Marzio. C’erano infine i cavalieri che formavano una plutocrazia basata su una vivace attività fondiaria e commerciale, e che da lungo tempo tiranneggiavano Roma. Erano i più illetterati. Di loro si diceva che non avevano mai letto un libro, a meno che non fosse il libro dei conti. Il popolo era impaurito. Accadevano in città fatti sconcertanti, come quello d’una statua che era precipitata al suolo cadendo dal piedistallo. La cosa assumeva un particolare significato perché la scultura rappresentava Romolo alle mammelle della Lupa. In questo clima si mormorava che Cesare, Crasso e Catilina si fossero accordati segretamente con Publio Cornelio Silla, nipote del dittatore, e con Publio Autronio Peto, per trucidare i consoli in carica, Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato, e impadronirsi così del potere. Le voci di questa congiura di Catilina del 65 non trovavano conferma, e la partecipazione di Cesare appariva improbabile per il fatto che il complotto armato prevedeva l’assassinio di Cotta, suo zio materno il quale, da console, gli garantiva 303
protezione e favori. Un concreto appoggio fu realmente offerto da Cesare a Catilina quando questi l’anno successivo poté ripresentarsi al consolato essendo nel frattempo cadute nei suoi confronti le accuse di malversazione e di corruzione, grazie a un sagace intervento di Clodio il bello. Concorrente di Catilina alla carica di console era Cicerone, e ciò bastava perché Cesare si schierasse a favore di Catilina. In Senato Cicerone pronunciò un’abile arringa, in toga candida come si conveniva ai concorrenti. Definì Catilina uomo bieco e miserabile. Con veemenza gli ricordò i suoi crimini. Vinse clamorosamente le elezioni con un subisso di voti, e Catilina ne uscì sconfitto. La contesa elettorale aveva messo l’uno di fronte all’altro Cesare e Cicerone, il quale cominciava a guardare con sospetto l’avversario che pure si mostrava cortese e sorridente. Cicerone ne indovinava la natura audace e risoluta nascosta dietro il fare affabile e gioviale. Cicerone era acuto e geniale intellettualmente, ma in politica si rivelava una instabile banderuola. Era nato ad Arpino, la stessa rocca che cinquant’anni prima aveva dato i natali a Caio Mario. Essendo figlio d’un cardatore, ma pur sempre eques, avrebbe dovuto militare tra i popolari, ma la labilità del carattere e l’incapacità di resistere all’adulazione lo sospingevano ora di qua ora di là. Con una punta di sufficienza, i cesariani lo chiamavano il Cicer, dalla verruca che, a forma di cece, dominava una sua guancia. Pompeo era sempre lo spauracchio dei popolari. Per metterlo in difficoltà in previsione del suo ritorno a Roma, Cesare e Crasso indussero il tribuno della plebe Servilio Rullo a 304
presentare una speciale proposta di riforma agraria. La legge era diretta a danneggiare Pompeo in quanto, se approvata, gli avrebbe sottratto la possibilità di reperire terre da assegnare ai suoi legionari. Con la proposta di Rullo si affidava per cinque anni a un decemvirato la piena facoltà di distribuire a tutti i cittadini le terre pubbliche d’Italia, di Siria e anche delle regioni conquistate da Pompeo. La legge era ostacolata da Cicerone per il suo carattere rivoluzionario. Potevano essere eletti a questo decemvirato esclusivamente i candidati presenti a Roma, e ciò metteva fuori gioco proprio Pompeo ancora trattenuto in Oriente. Le nuove norme avrebbero favorito l’esodo dall’Urbe di vasti strati popolari sottraendoli all’indigenza e alla fame. Roma sarebbe stata ripulita da turbe di miserabili che l’affollavano e la depredavano. Ma questo fu l’aspetto che paradossalmente portò al fallimento dell’iniziativa. La plebe urbana mostrò scarso entusiasmo per la riforma. L’osteggiò poiché avrebbe obbligato i più poveri a trasferirsi in lontani e incolti poderi per guadagnarsi da vivere zappando e arando, mentre più comodo era rimanere a Roma dove i più sfaticati avrebbero sempre trovato gratuitamente un po’ di grano per sopravvivere e qualche spettacolo per dilettarsi. Cesare era già stato eletto all’eccelsa dignità di pontefice massimo. Trentasettenne, aveva preso il posto del nobilissimo Metello Pio, scomparso. I suoi avversari – Publio Servilio Isaurico, consolare e trionfatore sillano, e Quinto Lutazio Catulo, capo degli ottimati – erano stati sconfitti sonoramente. Li aveva battuti proprio lui che in politica era ancora alle prime armi e che professava nella vita un distaccato epicureismo. 305
Lasciò la semplice casa paterna della Suburra per traslocare nel magnifico edificio pubblico della Regia che sorgeva sulla via Sacra accanto al tempio di Vesta. Pur mantenendo una naturale affabilità, Cesare in questa sua nuova condizione si comportava come un predestinato, come un discendente di dèi e di re. Allusivamente riprendeva e sviluppava il tema che aveva lanciato sei anni prima in occasione dei funerali della zia Giulia, quando aveva parlato del divino antenato, Iulo figlio di Enea. E di Iulo scrisse una biografia con intenti autopropagandistici. Per festeggiare l’elezione, imbandì un sontuoso banchetto. La lista delle vivande comprendeva ricci di mare, ostriche crude, galline bollite, polli arrosto, beccafichi, tordi, lombi di capriolo e di cinghiale, pasticci di pesci e di zinne di scrofa, anatre, lepri, asparagi, pane del Piceno. Pompeo era impegnato in Oriente. A Roma quel pericoloso personaggio di nome Catilina, sempre più radicalpopolare, aveva ordito una congiura, una vera e propria insurrezione armata che mirava a destituire dal potere l’oligarchia senatoria. Senonché Marco Tullio Cicerone, allora console, scoprì il piano destabilizzante. Immediatamente convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, per motivi di sicurezza, e non nella consueta sede della Curia Ostilia. Catilina, che era appena tornato a Roma dall’Etruria, ebbe l’impudenza di partecipare alla seduta senatoriale con l’idea di disorientare l’assemblea sostenendo la sua estraneità a ogni tentativo di rivolta. I patres, scorgendolo nella sala, si allontanarono da lui come fosse un appestato, ed egli rimase solitario in un seggio isolato. Si alzò egualmente a parlare, ma poco dopo Cicerone lo interruppe esclamando: 306
«Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra?», fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? «Per quanto tempo ancora la tua follia si farà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua condotta temeraria? Ti rendi conto che i tuoi piani sono stati scoperti? Il Senato è al corrente di tutto, sa che cosa hai fatto la notte scorsa e le altre precedenti, dove sei stato, chi hai convocato, quale decisione hai preso». Poi, rivolgendosi ai senatori disse: «Eppure un uomo simile è ancora vivo, anzi viene perfino in Senato. O tempora, o mores». A questa bruciante invettiva, Catilina fu indotto a fuggire da Roma, e Cicerone, dopo tumultuosi eventi, fece arrestare e giustiziare con un laccio alla gola nelle fetide grotte del Tullianum i cinque maggiori responsabili della congiura, senza alcun rispetto per le norme di procedura, violando il diritto degli imputati a essere processati. Egli diede alla folla l’annuncio dell’esecuzione con una sola parola gonfia di compiacimento: «Vixerunt», vissero. Indifferente al fatto di aver forzato il corso della giustizia. I cavalieri lo portarono in trionfo. Sfidando l’ira del Senato e del popolo, Cesare aveva cercato di salvare i cospiratori. Ma la foga di Cicerone batté anche lui. L’arpinate inviò l’altro console contro Catilina che aveva riparato in Etruria per organizzarvi un esercito. Raggiunto nei pressi di Pistoia, il capo della ribellione fu a sua volta ucciso. Era l’anno 62. Per Cicerone ci fu la proclamazione a pater patriae. Pompeo era stato il grande assente, ma tutti avevano agito con l’idea, incubo o speranza, del suo ritorno a Roma, un ritorno ormai imminente perché Mitridate, il più pericoloso nemico esterno della repubblica, era morto e seppellito. Il 307
rientro di Pompeo coincise con la movimentata pretura di Cesare, il quale mostrava di volersi schierare con lui e indurlo a prendere posizione contro gli oligarchi. Pompeo sbarcò a Brindisi verso la fine dello stesso 62, vincitore in Asia e colmo di gloria dopo una lunga guerra. Aveva costretto al suicidio Mitridate VI, il re del Ponto che, attraverso la Tracia, la Macedonia e l’Illiria, intendeva gettarsi su Roma come un Annibale d’Oriente; aveva ridotto alla condizione di province romane il Ponto, la Cilicia, la Siria, la Fenicia, ponendo le basi dell’intera organizzazione romana in Oriente. La città di Gerusalemme aveva dovuto aprirgli le porte, soltanto i parti riuscirono a mantenersi autonomi. Con chi si sarebbe alleato a Roma il grande generale? Il Senato temeva che egli avrebbe condotto le sue legioni contro l’Urbe per impossessarsi della repubblica come aveva fatto Silla, per instaurare una dittatura militare. Cicerone sperava di non averlo contro; altri fuggirono, come Licinio Crasso. Non mancarono coloro che si precipitarono tra le braccia del duce vittorioso. Cesare non si mosse, e poté meglio volgere gli eventi a proprio favore con l’intrigo e l’astuzia, approfittando dell’assenza di Crasso che lasciava nelle sue mani il partito popolare. In realtà tutto andò diversamente poiché Pompeo, una volta a Brindisi, decise di congedare i suoi quarantamila soldati e di rientrare nell’Urbe come un privato cittadino. Tutti respirarono e si chiedevano le ragioni della scelta imprevista. Si disse che Pompeo non aveva la necessaria intelligenza politica per gettarsi in un’impresa colossale. A lui sarebbe piaciuto di mettersi alla testa d’uno Stato assoluto, d’una monarchia, ma gli mancava il coraggio necessario a conseguire questo risultato 308
mediante un sanguinoso e rischioso colpo di Stato. Magari pensava di arrivarvi seguendo un’altra via, quella di un matrimonio politico. Gli fu comunque tributato un trionfo incredibilmente fastoso. Cesare, che aveva terminato il periodo di pretura urbana, ebbe in sorte, nella distribuzione delle province, la Spagna ulteriore dove era già stato otto anni prima con l’incarico di questore. Breve era stata quella volta la sua missione preso dalla smania di rientrare anzitempo a Roma. Era avvenuto in quel viaggio che Cesare, arrivato a Gades (Cadice), si trovasse davanti alla statua di Alessandro il Grande, e, preso da rabbia, scoppiasse a piangere. Versava lacrime sulla sua ignavia, sugli anni filati via senza gloria, mentre col dorso della mano si asciugava il volto. La statua di Alessandro, immensa e imponente, dominava il Foro della rocca, davanti al tempio di Ercole. Quel re, che due secoli e mezzo prima aveva illuminato il mondo, gli appariva come qualcosa di ineguagliabile, un sogno, un mondo irraggiungibile per virtù militare, astuzia, magnanimità, eccellenza del sapere, bellezza della persona e fortuna. Ai seguaci che lo attorniavano stupiti, Cesare aveva detto: «Non vi pare causa degna di dolore che alla mia età Alessandro già regnasse su tanti popoli, mentre io non abbia ancora compiuto nulla di glorioso?». Cesare aveva allora trentadue anni, e non era che uno dei venti questori annuali della repubblica, ricoprendo appena il primo grado del cursus honorum, mentre l’immortale Basileus alla stessa età aveva già esteso il suo dominio sull’intero mondo orientale fondando città e dinastie, marciando nei deserti, scavalcando monti e fiumi, non appagando mai completamente 309
il suo sconfinato desiderio di potenza e di novità. L’universo gli sembrava stretto. Davanti a quell’effigie, con alle spalle l’Oceano infuriato e bianco di schiuma, il romano aveva tracciato un bilancio, a metà cammino della sua vita. Che cosa era per lui il presente, che cosa era stato il passato, quale sarebbe stato il futuro? Per la prima volta si era trovato a fare i conti con se stesso in modo netto e chiaro. Urgeva muoversi per non perdere altro tempo. Bisognava congedarsi dalla Spagna, tornare a Roma e cogliervi le occasioni di maggiori imprese. Aveva fatto i bagagli senza godere nemmeno degli aspetti allegri della città che era chiamata Gades iocosae per essere il luogo delle più incantevoli danzatrici della terra. E questo sì che per lui era stato un sacrificio. Nel marzo del 61 tornava in Spagna da propretore, vale a dire da governatore. Un giorno stava già per salire sulla lettiga quando una gran massa di creditori, aizzata dai suoi nemici, lo accerchiò impedendogli di muoversi. A liberarlo dall’assedio accorse il ben noto Crasso, il più ricco dei romani, il dives, che si assunse l’onere di pagare un quinto dei debiti, pari a una somma smisurata. Il dives temeva ancora Pompeo e per indebolirlo aveva bisogno dell’ingegno e del vigore di Cesare, per cui ne pagò volentieri i debiti con l’idea di legarlo indissolubilmente a sé. Cesare poté partire, e lo fece in tutta fretta, senza attendere le istruzioni del Senato, contro ogni legge e usanza. Raggiungere rapidamente la provincia spagnola gli consentiva di mettere subito a frutto la sua nuova carica rastrellando tributi e procurandosi grandi quantità di oro e di argento dalle miniere per pagare i rimanenti debiti. In poco meno di quattro 310
settimane, raggiunse Corduba (Cordova), sua residenza e capitale della Betica. Nelle vesti di capo della provincia, rafforzò il suo esercito e affrontò i popoli delle regioni montuose della Lusitania e della Galizia. Ebbe onori in Spagna per le sue prime imprese di conquistatore. Inoltre poté rastrellare come bottino di guerra grandi tesori che in parte versò nelle casse dello Stato e in parte utilizzò per pagare i debitori. Irrequieto come sempre, tornò in patria senza aspettare l’arrivo del successore. Era diventato famoso, e a Roma, in mezzo a profonde e insanabili lotte di fazione, già appariva come l’uomo della provvidenza, in grado di risolvere in pochi giorni situazioni da tempo inestricabili. Con l’idea di estendere la propria base politica rappresentata dai populares, propugnava una nuova coalizione e invitava a farne parte Pompeo che guidava il ceto dei cavalieri. Ma non poteva accordarsi con il Magno senza averlo prima riavvicinato al di lui avversario Crasso, tanto più che, pur essendo alfine certo della elezione a console, aveva bisogno del sostegno di entrambi. E ciò per neutralizzare l’ostilità degli oligarchi. Fra Cesare, Pompeo e Crasso venne sottoscritta un’intesa segreta per abbattere la supremazia del Senato e conquistare il potere. L’accordo, che era privo di valore legale, prese il nome di triumvirato. Nell’ambito di questo segreto patto d’unità d’azione, Crasso e Pompeo assicuravano il sostegno a Cesare per l’elezione a console. Cesare e Crasso si obbligavano a difendere Pompeo nella richiesta di ottenere dal Senato la conferma degli atti protocollari d’Asia e la distribuzione delle terre italiche ai veterani. Cesare e Pompeo si impegnavano affinché Crasso 311
potesse ricevere il governo di una ricca provincia e appalti vantaggiosi. Ciò andava a beneficio dello stesso Cesare poiché egli faceva parte delle società finanziarie e appaltatrici del dives. Al di là di questi accordi, Caio Giulio aveva ben più ambiziose mire che non rivelava ai compagni. Crasso, pur accettando di riappacificarsi con Pompeo e di far parte del triumvirato, non contribuì alle ingenti spese che Cesare dovette sostenere durante la campagna elettorale per garantirsi, anche attraverso profonde azioni di corruttela, il voto degli elettori. Cesare fu invece aiutato da Lucio Lucceio, buon politico e fine scrittore, in corsa a sua volta per il consolato e amico di Pompeo. Cesare sperava di essere eletto console insieme con Lucceio per quanto lo avesse avuto temibile avversario in occasione della sua difesa di Catilina; ma ora le cose erano cambiate. Lucceio disponeva di immense fortune, e poté far scorrere molto oro. Gli ottimati se ne allarmarono, temendo che Cesare, giunto alla massima autorità dello Stato, non avrebbe più avuto freno se affiancato da un console suo amico. Fornirono quindi a loro volta d’una grande quantità di denaro il loro candidato, Marco Calpurnio Bibulo, il quale, imitando Lucceio, si diede a comprar suffragi.
312
II La candidatura di Cesare gettava nella disperazione il Senato, anche perché gli aruspici prevedevano al giovane uno strepitoso successo. Cesare e Bibulo vinsero le elezioni, mentre Lucceio fu duramente sconfitto. Il popolo festeggiò lungamente il capo dei democratici attorniandolo sul Campidoglio durante il rito nel quale si prevedeva di sacrificare un toro a Giove. Poi fu accompagnato in giubilante corteo nella domus publica sulla via Sacra dove si era accasato. Nelle vesti di neoconsole ricorse immediatamente all’arte della simulazione di cui era maestro per estendere la cerchia dei clienti. Adulava i più poveri e sollecitava la distribuzione di nuove terre. Proponeva una nuova legge agraria. Molti e immensi possedimenti erano nelle mani di pochi e, mentre crescevano le ricchezze di questi, diminuivano le già scarse sostanze d’una plebe vastissima e affamata. Ben trecentoventimila miserabili cittadini romani non vivevano che d’un pugno di grano gratuitamente distribuito dalla repubblica. Nella sua proposta, Cesare si ispirava alle riforme dei Gracchi, tanto che lo accusarono di comportarsi più da tribuno della plebe che da console. I patricii e gli equites, danneggiati dalla legge, gli rovesciarono addosso il loro odio. Roma tornava ai tempi impetuosi dei Gracchi. Lo stesso destino luttuoso che aveva travolto i due tribuni poteva da un giorno all’altro abbattersi su Cesare. C’era una logica nella sua azione politica. Ideologicamente discendeva da Mario il quale aveva tratto 313
ispirazione proprio dai Gracchi. Qualcuno aveva detto che l’ultimo dei Gracchi, raggiunto dal colpo mortale, avesse gettato contro il cielo un pugno di polvere e che da quella polvere fosse nato Mario. La nuova legge, la lex Iulia Agraria proposta da Caio Giulio, prevedeva la distribuzione di terre, sia per andare incontro alle esigenze dei più poveri proletari urbani sia per consentire a Pompeo di tener fede alle promesse fatte ai veterani. Il triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso funzionava ottimamente mostrando vitalità e pericolosità tanto sconfinate che i romani cominciarono a capire di vivere sotto una nuova forma di tirannide. Si poteva dire che di fatto ci fosse un console unico al vertice della repubblica perché Cesare era riuscito a imporsi al punto da governare lo Stato da solo e secondo il proprio arbitrio. Fu Calpurnio Bibulo a propalare in quei mesi l’insulto col quale si accusava Cesare di pratiche omosessuali cui si era abbandonato venti anni prima in Asia alla corte di Nicomede. Nell’insulto si diceva che Cesare era quella «regina di Bitinia» la quale una volta aveva voluto un re, mentre ora voleva un regno. Già di aspirazione a una larvata monarchia si poteva infatti parlare con il consolato in cui il solo a comandare era Cesare che aveva platealmente esautorato il più debole collega di governo. Nicomede era stato assai acquiescente con lui, tanto da accontentarlo in tutto. Proprio per questa ragione a Roma avevano soprannominato Cesare la «regina di Bitinia». Licinio Calvo gli aveva dedicato versetti sprezzanti: «Quanto oro ebbe la Bitinia / e quanto ne ebbe lo stupratore di Cesare». Di volta in volta Cesare si era visto definire «rivale della regina di Bitinia», 314
«sponda interna della lettiga reale», «stalla di Nicomede», «bordello di Bitinia». I legionari, un po’ brilli, avevano licenza di cantare nelle vie di Roma, e gli avevano rivolto a squarciagola versi piccanti e scurrili. Spesso l’obiettivo di quei versi era stato Cesare: «Cittadini, badate alle vostre mogli: è arrivato l’adultero calvo. Egli è il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti», omnium mulierum virum et omnium virorum mulierem. Cicerone ne sapeva in proposito una più di Caronte. Riferendosi ai fatti di Bitinia, in una delle sue tante lettere aveva scritto che «Cesare, il discendente di Venere, introdotto nella nave del re, si era coricato con indosso una veste di porpora nell’aureo letto regale, e colà aveva perso il fiore della giovinezza». Scoraggiato dall’espansione del potere cesariano, il generale Lucio Lucullo rinunciò all’agone politico. Ai comizi elettorali aveva appoggiato sia Marco Calpurnio Bibulo sia Marco Porcio Catone, il bisnipote del Censore. Ma Cesare non aveva egualmente mancato di affrontarlo con durezza rivolgendogli gravi minacce e non meno pesanti accuse di concussione. Il generale gli si gettò ai piedi implorando perdono e giurando che si sarebbe ritirato a vita privata. Cosa che fece dedicandosi nelle sue magnifiche ville a un’esistenza punteggiata di pranzi fastosi com’era costume degli arricchiti, senza più seguire gli avvenimenti di Roma, fino a concludere la sua esistenza uscendo di senno sotto l’azione di droghe e filtri d’amore che un liberto gli somministrava ogni giorno. Cesare, ormai padrone del campo, diede mano a una seconda legge agraria che danneggiava ancor più gravemente la nobiltà. La terra veniva distribuita ai diseredati e ai poveri, ai padri che 315
avessero tre o più figli, i proletarii. Si presentarono ben ventimila capi di famiglia che si trovavano in quelle disperate condizioni. Circa centomila persone popolarono l’ager Campanus alleggerendo Roma dei più sediziosi nullatenenti. Si levò ancora una volta a protestare Catone, ma per breve tempo, poiché Cesare lo fece di nuovo trascinare in prigione strappandolo a viva forza dalla tribuna del Senato. Il popolo taceva e non muoveva un dito per scongiurare la paventata caduta della repubblica. Lo stesso Cicerone non aveva difficoltà a riconoscere lo stato di crisi: «Perché tentare di illuderci. Roma è perduta e ogni cosa peggiora. Tota periit. Dove andremo a finire?». Comunque la pensassero gli intellettuali come Cicerone, Cesare mostrava di voler andare avanti e di tentare il tutto per tutto, così da far coincidere il suo destino con quello di Roma. Non avrebbe badato a scrupoli, e difatti diede in sposa a Pompeo la sua unica figlia, Giulia, per suggellare mediante un legame matrimoniale quell’alleanza che già gli aveva fatto tanto comodo. Per la fortuna della sua posizione personale, Cesare si mostrò incurante del fatto che la ragazza fosse appena diciassettenne e che il marito avesse trent’anni più di lei. Cesare aveva avuto Giulia da Cornelia, e la ragazza era già fidanzata con l’eccellente Servilio Cepione, cui fu promessa in cambio la figlia di Pompeo la quale a sua volta avrebbe dovuto rompere il fidanzamento con Fausto, figlio di Silla. Cesare stesso, che tre anni prima aveva ripudiato Pompea, convolò a nuove nozze unendosi, sempre per ragioni politiche, con la giovane e affascinante Calpurnia, figlia di Calpurnio Pisone Cesonio. Era il suo quarto matrimonio. Gli importava soltanto 316
di sfruttare al massimo il suo consolato, quello del 59, e vi impegnò tutte le sue energie dormendo poche ore per notte. Elargiva favori a chiunque potesse essergli utile. Offriva denaro, cene e benefici. Era quello l’«indoramento» dei seguaci, l’inauratura dai risultati sicuri. Più che come console, si comportava da monarca. Ognora guardando al futuro, mise in atto un piano per far eleggere alla carica di tribuno un suo uomo, il quale non era altri che Publio Clodio, il Bello, quello stesso che appena due anni prima aveva compromesso la reputazione di Pompea penetrando travestito da donna nei suoi appartamenti. Ma non era il richiamo a questo episodio che avrebbe potuto far recedere Cesare dai suoi propositi. L’anno successivo salì al consolato proprio Pisone, che naturalmente si prodigò per far ottenere al genero importanti comandi militari, sicché Cesare si accingeva a partire per le Gallie mentre veniva tempestato dalle più infamanti accuse da parte degli avversari. Ma lui, protetto dall’imperium, il potere che lo manteneva al sicuro da qualsiasi incriminazione, non aveva né tempo né voglia di replicare a quella gragnola di colpi bassi. Si trovava accampato alle porte di Roma a organizzare il suo esercito, quando gli pervenne la notizia che il popolo nordico degli elvezi, premuto dai germani, stava per invadere la provincia narbonese per raggiungere e occupare le fertili regioni galliche della costa oceanica. Era il marzo del 58, e Cesare ritenne necessario muoversi subito. A quarantadue anni, indossato il purpureo manto proconsolare e attorniato dai littori con i fasci, partiva per le Gallie. Non lo attendeva una guerra di conquista, ma soltanto un’azione difensiva. Il popolo celtico degli elvezi – stanziato fra il lago di Costanza, il Rodano e la 317
catena del Giura – si preparava da più di due anni alla trasmigrazione, deciso a uscire dalle aspre montagne e dalle mortali paludi delle regioni native alla ricerca di terre allietate dal calore del sole. Ma il proconsole, che si rendeva conto della pericolosità della situazione, fu d’un balzo sul Rodano, pronto a impedire la violazione del suo territorio. In soli otto giorni, a marce forzate, fu a Genava (Ginevra), dove gli elvezi intendevano attraversare un ponte di pietra sul fiume. Lui ordinò di abbattere quel ponte e di costruire bastioni e muraglie turrite dal Rodano ai monti Giura. Secondo la logica del diritto, il proconsole non aveva alcun motivo di impedire quel passaggio poiché esso avveniva al di fuori della sua provincia, nella Gallia indipendente. Ma egli sosteneva che gli edui, antichi alleati dei romani, gli avevano chiesto di intervenire in difesa del loro territorio. In un infuocato discorso ai legionari ricordò come cinquant’anni prima la tribù elvetica dei tigurini avesse trucidato il console romano Lucio Cassio e costretto il suo esercito a passare sotto il giogo. Proprio con il capo di quella tribù, Divicone, il proconsole scambiò alcuni messaggi prima di combatterla e di sbaragliarla. I due eserciti si scontrarono davanti a Bibracte, capitale degli edui, e parve che i romani avessero la peggio. Cesare dovette ripararsi in una piazzaforte, e quando gli offrirono un cavallo per fuggire, lo rifiutò esclamando: «Lo prenderò dopo la vittoria, per inseguire il nemico». Quindi si mise alla testa dei legionari, con la spada sguainata, e mosse a piedi trascinando con l’esempio i propri soldati. I trasmigranti dovettero rinunciare al loro sogno solare, e Cesare in quel primo scontro gallico poté dimostrare di possedere non soltanto 318
capacità politiche, ma anche coraggio e possanza militare. Battuti gli elvezi, bisognava occuparsi del popolo svevo capeggiato da Ariovisto, il re germanico che aveva ottenuto dallo stesso Cesare, durante il suo consolato, il riconoscimento delle conquiste fatte in Gallia e il titolo di amicus dei romani. I celti sapevano da tempo delle mire espansionistiche di Ariovisto, e così chiesero al proconsole di difenderli. Lui allora, che non aveva più alcun motivo di rimanere in Gallia, prese la palla al balzo e, rassicurati i galli, inviò al re germanico ambasciatori per proporgli un incontro a metà strada e discutere la delicata faccenda. Ariovisto reagì aspramente. Disse: «Non so chi sia quel Cesare. Io non mi muovo. Se vuole, venga lui da me». Nonostante l’insolenza del barbaro, il proconsole cercò ancora la via della pace. Ariovisto continuava a mostrarsi ostile, e Cesare disse che non poteva sopportare oltre la iattanza del nemico, per cui passò all’azione. Raggiunse a tappe forzate la capitale dei sequani, Vesontium, e vi stabilì un presidio. Non fu tanto questo il maggior problema per le schiere romane, quanto il disperato timore che un nemico sconosciuto suscitava in loro. Elementi anticesariani diffondevano notizie allarmanti, parlavano di doversi battere con popoli oltremodo feroci, e rappresentavano Ariovisto come un capitano imbattibile. Spaventati da tali descrizioni, molti legionari decisero di fare testamento. Cesare parlò all’esercito, con toni di rimprovero e con lusinghe. Fu minaccioso e suadente. «Perché tanto terrore?» chiese. «Non avete più fiducia nel vostro valore e nell’abilità del vostro generale? Al tempo dei nostri padri, i soldati romani già 319
sbaragliarono questo nemico, e voi lo avete dimenticato.» Dopo aver ricordato i fulgidi esempi di Mario e la definitiva sconfitta inferta agli schiavi di Sertorio, il proconsole disse ancora: «State certi, milites, Ariovisto non vincerà! Qualcuno teme che voi non mi seguirete? Bene, allora io darò l’ordine di muovere, e vedrò subito se in voi prevale il senso dell’onore e del dovere o la paura. Se davvero nessuno dovesse seguirmi, partirò con la sola Decima legione sul cui valore non ho dubbi. Questa legione diventerà la mia coorte pretoriana». Cesare, che ancora una volta aveva dimostrato di essere un grande oratore, riprese con il suo discorso il controllo dell’esercito. Il re svevo ebbe paura. Fece sapere perciò al duce romano di essere disposto a incontrarlo. In una giornata plumbea, sia Cesare sia Ariovisto mossero verso una collina, il luogo prescelto per l’appuntamento, scortati dagli squadroni di cavalleria. Il colloquio si rivelò inutile e inconcludente. I cavalieri svevi già lanciavano pietre e dardi contro i legionari romani, e tutti si resero conto come ormai lo scontro fra i due eserciti fosse inevitabile. A metà settembre svevi e romani si affrontarono in un sanguinoso corpo a corpo. Risolutiva fu l’azione del giovane comandante della cavalleria romana, Publio Crasso, figlio del plutocrate, il quale intervenne in forza e sfondò le linee nemiche volgendole in fuga verso il Reno. A stento il capo barbaro poté tornare nelle sue terre, dove morì poco dopo a causa delle ferite riportate nel combattimento. Aveva con sé due mogli, una sveva e l’altra norica. Entrambe lo avevano seguito nell’avventura ed entrambe perirono nella fuga, insieme a una delle due giovani figlie, mentre l’altra cadeva prigioniera. Era la definitiva disfatta 320
degli svevi e del loro altezzoso capo, il biondo Ariovisto che negli ultimi momenti di vita continuava a imprecare contro un uomo dagli occhi di un ossesso, Cesare. Il proconsole aveva riportato un risultato di grande rilevanza in soli sei mesi. Dalla fine di marzo alla metà di settembre del 58 aveva vinto due difficili guerre e segnato un confine storico. Pareva che questa fosse la volontà del cielo e che soltanto lui potesse realizzarla. Riordinata la situazione nella Gallia centrale ripartì verso la Cisalpina a nord del Rubicone, il fiume che divideva quella provincia dall’Italia. Riprese la sua politica demagogica fatta di favori, regali e scambi con i personaggi che andavano a rendergli visita, continuava cioè nell’azione di indoramento. La sua permanenza nella Cisalpina fu breve poiché ebbe la notizia che i belgi, il popolo stanziato a nord della Gallia, si preparavano alla guerra per fronteggiare una sua temuta invasione. I belgi, forti e bellicosi, possedevano un terzo della Gallia. Insieme ad altre tribù si riunirono in concilio istigati da coloro che rifiutavano sia la dominazione dei germani sia quella dei romani e anche da quegli altri che non sopportavano il predominio degli edui alleati di Cesare. Il concilio decise la costituzione di una lega e l’arruolamento di un formidabile esercito per contrastare omnium furorem gli intuibili piani d’invasione cesariana. Il comando supremo venne affidato a un valoroso re della tribù dei celti suessioni. Per eccitare gli animi dei legionari, Cesare parlava di un complotto del nemico, di una cospirazione contro Roma. Agiva di propria iniziativa senza l’autorizzazione del Senato, il che, come prima conseguenza, comportava l’assunzione personale di 321
tutti gli oneri finanziari per il mantenimento e l’equipaggiamento delle truppe. Come aveva già fatto con gli elvezi e Ariovisto, tornò a giocare sulle divisioni politiche che dilaniavano al loro interno le tribù galliche tra filoromani e antiromani. Le sue battaglie furono tutte travolgenti, per cui, soggiogata l’intera Gallia, omni pacata Gallia, la sua fama si estese a dismisura. A Roma le vittorie in Gallia avevano reso ancor più popolare la sua figura, quella di un condottiero che – sconfiggendo nemici estremamente pericolosi come gli elvezi, gli svevi, i belgi – aveva esteso i domini della repubblica e portato le insegne romane in fertili e ricche terre dell’Occidente sconosciuto da cui si potevano ricavare larghe messi e consistenti tributi. Nei conversari delle matrone si ironizzava sul fatto che ciò si doveva a un generale sul quale gravava la taccia di effeminatezza. Si stentava a credere che Cesare non fosse più quello di una volta, che avesse abbandonato le vecchie abitudini e abbracciato una nuova vita di geniale stratega. Ora egli non conquistava più cuori, ma terre.
322
III Pacata Gallia, scriveva Cesare nella sua limpida prosa. Ma non era del tutto vero poiché scoppiavano dovunque rivolte e disordini. Il proconsole tornava a nord del Rubicone, e poi si recava in Illiria con il desiderio di conoscere nuovi popoli. Inviava una legione a liberare i passi alpini dai briganti che rendevano rischioso il transito ai mercatores italici. Fu richiamato in Gallia per l’esplosione di un nuovo conflitto causato dalla potente tribù atlantica dei veneti. Nell’inverno del 56 la tribù, col sostegno della non lontana Britannia, si ribellava alle truppe del giovane Publio Crasso. Il proconsole si sorprese della nuova rivolta che portò alla formazione di una nuova lega antiromana, detta armoricana dal nome della regione costiera in cui l’alleanza agiva. Cesare vinceva ancora una volta, ma nonostante la vastità delle sue conquiste, la situazione in Gallia rimaneva tesa anche perché sia i britanni, sia i germani, in continua pressione sul Reno, si mostravano pronti a fomentare nuove ribellioni antiromane. Il generale conferiva scarso peso a queste minacce, e sollecitava il Senato ad annettere le terre conquistate erigendole a province. Aveva bisogno di ciò per porre in imbarazzo gli avversari politici che nell’Urbe avevano ripreso a tramare contro di lui con maggiore pericolosità. La sua popolarità cresceva, ma era messa a rischio dai contrasti fra popolari e ottimati. Lo stesso triumvirato era in crisi. Pompeo 323
era entrato in collisione con Crasso per un nuovo comando militare nell’Egitto di Tolemeo Aulete. Inoltre le inaudite violenze che Clodio Pulcher esercitava sull’Urbe gettavano un sempre più vasto discredito sui popolari. Il generale sapeva di dover correre ai ripari per non rischiare di perdere tutto, tanto più che all’orizzonte si profilava la minaccia di Lucio Domizio Enobarbo, il suo più temibile avversario che si candidava al consolato per il 54. Domizio aveva sposato Porzia, la sorella di Catone. Durante la campagna elettorale si premurò di far sapere che, una volta eletto, avrebbe proposto la revoca del governatorato di Cesare in Gallia e in Illiria per impugnare gli atti del comandante e trascinarlo in tribunale. Cesare sollecitava una riunione del morente triumvirato. Non era facile convincere Pompeo a incontrarsi con Crasso, ma alla fine l’incontro si tenne alla metà di aprile, a Lucca. Bastò l’annuncio della riunione perché molti personaggi corressero nuovamente a schierarsi con i triumviri che si rafforzarono. In quell’abboccamento si decise che Pompeo e Crasso si sarebbero presentati per la seconda volta al consolato, per debellare il pernicioso Domizio. Al termine del consolato Pompeo avrebbe ottenuto il governo dell’Iberia, e Crasso quello della Siria insieme al comando della guerra contro i parti. Cesare invece sarebbe rimasto per altri cinque anni al potere in Gallia, per poi chiedere un secondo consolato, forte del suo vittorioso decennio trascorso in quelle terre. Nuovamente riappacificati, i tre erano ormai i veri padroni di Roma. La loro forza li metteva in condizione di decidere a tavolino la spartizione del potere, sicuri del successo e 324
indipendentemente dalla volontà del Senato. Il triumvirato, quella sorta di alleanza privata, aveva nelle mani i destini della repubblica potendone orientare a proprio piacimento le scelte e i programmi. Pompeo e Crasso trionfarono alle elezioni, e si raggiunsero anche gli altri obiettivi dell’accordo di Lucca. Crasso, impaziente, intendeva raggiungere rapidamente l’Asia e incrociare le armi con i parti. Mosse frettolosamente da Brindisi perdendo molte navi nella traversata. Invase comunque senza sforzo la Mesopotamia, ma la brama di bottini gli fece perdere molto tempo in spaventosi saccheggi. Ciò consentì ai parti di organizzare una valida difesa e di schiacciarlo in un’epica battaglia che si svolse nei pressi di Carre. La disfatta dei romani fu irreparabile. Crasso vi perse il figlio Publio che Cesare gli aveva inviato dalla Gallia alla testa di mille valorosi cavalieri, e cadde egli stesso in un’imboscata che gli aveva teso il comandante nemico. Era una svolta storica: Roma perdeva la Mesopotamia, e il triumvirato uno dei suoi componenti. Nell’altra parte del mondo, Cesare si apprestava a fronteggiare nell’inverno del 55 un nuovo esodo delle popolazioni germaniche che si riversavano in massa in Gallia dopo aver attraversato il Reno nei pressi della foce. Questa volta i galli, invece di ricorrere al suo aiuto contro l’invasore come avevano fatto per opporsi ad Ariovisto, si accordarono con i germani. Cesare intendeva il Reno come una frontiera invalicabile in difesa delle sue conquiste, e perciò, non appena i nemici si avvicinarono, egli ordinò una spietata carneficina che, a suo dire, lasciò sul terreno quattrocentomila persone, fra morti e feriti. Il proconsole attraversò il Reno dopo aver fatto costruire in soli dieci giorni un ponte in legno, il primo che si ergesse 325
sulle violente acque del fiume. Penetrò in territorio germanico, non per occuparlo stabilmente, ma per dare una dimostrazione della sua forza e per scoraggiare il nemico dal tentare nuove invasioni. Volendo dare altre prove della sua forza prese di mira la Britannia. Come una furia ripercorse tutta la Gallia in direzione dell’Oceano, e già la notte del 27 agosto del 55 salpava con due legioni verso l’ignoto dal porto di Itius. L’impresa appariva entusiasmante e al tempo stesso rischiosa poiché non si sapeva nulla di quelle terre, nemmeno se fossero un continente o un’isola. Si vociferava che gli abitanti fossero esseri mostruosi assetati di sangue, vittime di continue e immani catastrofi naturali. Le schiere cesariane si scontrarono furiosamente con i britanni, che mostravano di sapersi ben difendere con la forza delle armi, la ferocia e l’astuzia. Cesare ne fu sorpreso al punto di lasciare l’isola e di far nuovamente vela per i porti della Gallia. Era il 12 settembre ed erano passati soltanto quindici giorni dall’attracco sull’isola. L’audace spedizione entusiasmò il popolo romano sebbene alcuni parlassero di fuga. Il popolo apprendeva i particolari dell’impresa dalle lettere del proconsole, ex litteris Caesaris. Talune usanze dei britanni lo avevano particolarmente impressionato. Diceva come avessero mogli in comune a gruppi di dieci e dodici persone. I nati dalle loro unioni molteplici erano considerati figli di colui che per primo aveva posseduto la donna ancora vergine. Come imponeva la loro religione, non mangiavano carne di lepre, di gallina e di oca, ma si nutrivano soprattutto di latte benché fossero feroci. Cicerone si mostrava il più entusiasta della spedizione. Diceva 326
che «al cospetto di questa impresa, impallidivano anche quelle di Caio Mario». Catullo, il poeta che non amava Cesare e che lo punzecchiava con versi scurrili chiamandolo checca e frocio, ne riconobbe la grandezza, colpito dalla temerarietà dell’azione compiuta tra i britanni così orribili e lontani, horribilesque ultimosque britannos. Cesare decise di sbarcare una seconda volta in Britannia. Prese il mare all’imbrunire del 20 luglio del 54, mentre si levava un leggero vento, l’Africo famoso e beneaugurante. Raggiunta l’isola, cominciò ad avanzare lentamente tra imboscate e azioni di guerriglia del nemico che disorientavano i suoi soldati esponendoli a gravi rovesci. Le sue schiere venivano falcidiate, per cui egli decise di tornare definitivamente in Gallia dove approdò il 21 settembre. Questa nuova spedizione era durata due mesi, e tutto sommato, nonostante le perdite, aveva ancora una volta dimostrato la potenza e l’audacia di Roma. Già nell’autunno le popolazioni galliche avevano ripreso le armi contro Cesare. Tasgezio, il re che lui aveva imposto in virtù della sua fedeltà a Roma, era stato trucidato dai carnuti, stanziati tra la Loira e la Senna. Ai carnuti rivoltosi si aggiunsero gli eburoni, i belgi germanizzati che abitavano tra la Mosa e il Reno. Essi erano guidati da un formidabile generale, Ambiorige, il quale come prima mossa si era collegato al re dei treveri, Induziomaro. In un’azione a sorpresa, Ambiorige attaccò i presìdi romani di Aduatuca, dove si trovavano quindici legioni agli ordini di Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta. Sorse un profondo contrasto fra i due comandanti poiché Ambiorige li disorientava mostrandosi a tratti amico di Roma e a tratti nemico. Ingaggiarono battaglia e furono entrambi uccisi. 327
Il successo ottenuto da Ambiorige fece da miccia a sommosse che scoppiarono in tutta la Gallia. Cesare si lasciò crescere i capelli e la barba giurando che non avrebbe più tagliati gli uni né rasata l’altra se non dopo essersi vendicato. Si era costituita una nuova coalizione antiromana e il problema tornava nelle mani e nella mente di Cesare che nella primavera del 53 disponeva di dieci legioni, pari a cinquantamila soldati. Non erano pochi, ma dovevano essere usati nel modo migliore. Unite le sue forze a quelle del generale Labieno, si gettò oltre il Reno dopo avervi costruito un immenso ponte in legno, simile a quello di due anni prima. Voleva punire Ambiorige per l’eccidio compiuto ai danni di Sabino e di Cotta. Raggiunse nella selva delle Ardenne il capo eburone il quale però riuscì a sfuggirgli. A Cesare non rimaneva che esclamare: «Molto può la fortuna in ogni cosa, e più ancora nelle azioni militari». Amareggiato per l’insuccesso mise a ferro e fuoco la regione. Nel De Bello Gallico scriveva che ormai la sua vendetta consisteva nel «cancellare la stirpe degli eburoni». Nell’estate del 53 impegnò per tre mesi tutte le sue forze a inseguire il nemico che cercava rifugio nelle foreste e nelle paludi. Via via si arrendevano altre tribù, e ancora una volta il grande generale poteva dire di aver domato la Gallia. Riprese quindi la strada della Cisalpina poiché doveva occuparsi un po’ di Roma la cui situazione era grave al punto da rasentare l’anarchia. Pompeo aveva approfittato della morte di Crasso, caduto combattendo contro i parti, e dell’assenza di Cesare per rafforzare il suo potere e dominare quasi incontrastato nell’Urbe fino a tutto il 53. Si era già aperto il fatale dualismo fra Pompeo e Cesare quando la scomparsa di Giulia approfondì il solco. Il 328
Magno amava sinceramente la figlia di Cesare, morta di parto a soli ventinove anni nel settembre del 54, e quel matrimonio felice aveva salvaguardato anche i rapporti politici fra genero e suocero. Lontano dalla Gallia, Cesare tentò in primo luogo di riguadagnare Pompeo allettandolo con l’ipotesi di nuove nozze strategiche. Gli offriva in sposa una pronipote, Ottavia, e gli chiedeva la mano della figlia Pompea abbandonando la moglie Calpurnia con la quale era unito da cinque anni. Ma con sua sorpresa Pompeo rifiutò il rinnovo di un patto a sfondo matrimoniale. La circostanza avrebbe imposto anche a lui grossi mutamenti personali, e quindi il suo piano politicomatrimoniale sfumò. Il fallimento di questo intricato piano matrimonialpolitico rese impossibile eleggere i consoli per il 53. Dopo sette mesi senza consoli, la città era prossima alla catastrofe sociale, e si ricominciava a sostenere l’esigenza di eleggere un dittatore. Se ne faceva anche il nome: Pompeo. Il Magno dichiarava di non aspirare a tanto, ma Cicerone, scrivendo al fratello Quinto che si trovava in Gallia, si diceva certo che Pompeo giocasse sull’ambiguità, in attesa di un chiarimento della situazione. Finalmente si poté arrivare a eleggere i consoli, invece del dittatore. Furono un neocesariano, Gneo Domizio Calvino, e un conservatore estremista sostenuto dal Senato, Marco Valerio Messalla. Nuovi sommovimenti turbarono la vita della capitale, quando già si preparavano le elezioni di altri consoli poiché, tra un rinvio e l’altro delle precedenti votazioni, si era arrivati al mese di luglio. Le due più rilevanti personalità di Roma tornarono a dividersi. Pompeo sosteneva la candidatura sia di Metello Scipione di cui stava per sposare la figlia, sia di un suo 329
ex aiutante, Plozio Ipseo. Cesare, sebbene con discrezione, caldeggiava l’elezione dei temibili Annio Milone e Publio Clodio, il Bello, che concorrevano, l’uno al consolato, l’altro alla pretura. Questi ultimi due personaggi erano in lotta tra loro, tanto da far assumere alla vicenda l’aspetto di una tragica farsa. Gli incidenti si susseguivano nelle abitazioni private, nelle strade, nel Foro e in Senato. Le sedute senatoriali erano violentissime. I patres si accapigliavano, si chiamavano vicendevolmente «porco» e «sacco di carne fradicia», si sputavano l’un l’altro in faccia. Accusavano pubblicamente Clodio di unirsi incestuosamente con sua sorella Clodia, la Lesbia amata dal raffinato Catullo. Lo scontro più violento fra Milone e Clodio esplose il 18 gennaio del 52 sulla via Appia nei pressi di Boville, dove erano alla testa di due opposte squadre di gladiatori esperte in saccheggi. Milone ebbe la meglio e Clodio cadde senza vita. Il suo cadavere fu portato a Roma. La vedova, straziata, ne affidò le spoglie alla plebe che le trasportò nella Curia per cremarle con grande solennità. Il fuoco della pira fu alimentato dal legno dei banchi dei patres e dalle carte dell’archivio senatorio. Le fiamme del rogo si estesero all’intero edificio e ad altri palazzi vicini. Si capì che la rivoluzione era prossima, e Pompeo gongolava vedendo avvicinarsi la realizzazione del suo sogno dittatoriale. Il Senato però credette di aver escogitato una soluzione alternativa alla dittatura assoluta. Decise infatti di conferire al Magno il titolo di console unico, cioè di console senza collega per non chiamarlo dittatore, un termine che a Roma era ormai proibito. Pompeo, nel diventare console per la terza volta, assumeva un 330
potere straordinario poiché, oltre a essere consul unicus, conservava il suo imperium in Spagna. Egli era autorizzato ad arruolare truppe in difesa di Roma che si trovava in piena ebollizione. I senatori tremebondi se ne stavano rinchiusi in un piccolo tempio sul Palatino. Pompeo teneva una condotta anticesariana, e Cesare non era in grado di reagire. Ma appariva chiaro come l’uno avesse ancora bisogno dell’altro. Avvinti in questa logica di potere, i due maggiori personaggi della repubblica tornarono ad accordarsi. Dal campo di Ravenna, Cesare seguiva gli avvenimenti romani contrassegnati dall’ascesa dell’ex collega, mentre la Gallia era scossa da un fremito di ribellione. I galli erano pervasi dall’idea di lasciarsi morire qualora non avessero potuto riconquistare la libertà ereditata dagli avi. I primi scontri si verificarono nel febbraio del 52 a Cenabum per iniziativa dei carnuti. Sempre loro! Cittadini romani e italici arrivati fin lì come mercanti o funzionari di Roma furono a uno a uno trucidati barbaramente. Il proconsole rispose con la consueta rapidità, piombando nuovamente in Gallia come un uccello rapace attraverso le gole delle Cevènne. Il massacro subìto dai romani a Cenabum entusiasmò l’animo di un giovane principe degli alverni, Vercingetorige. Era il figlio trentenne e ardimentoso di un grande capo della tribù, Celtillo. Prese subito la decisione di approfittare della disfatta per attaccare le truppe romane. Numerosi popoli nordici si unirono a Vercingetorige dalle rive del Reno alle coste dell’oceano. Gli scontri furono onerosi per entrambi e senza risultati definitivi. Vercingetorige allora capì che con un nemico come Cesare era necessario adottare una strategia diversa. Convocò i suoi a 331
concilio. Parlò con forza e disse che alla guerra si doveva sostituire la guerriglia, si doveva fare terra bruciata intorno all’invasore, devastare il territorio nazionale anche se ciò costava inenarrabili sacrifici alle popolazioni, intercettare con la cavalleria i rifornimenti di viveri diretti ai distaccamenti romani. Quindi in un grido esclamò: «Se vogliamo essere liberi dobbiamo distruggere le nostre città». Sembrava una pretesa pazzesca, ma tutti accettarono di compiere il più doloroso atto della loro vita. La Gallia arse per i fuochi che venivano accesi ovunque. Dall’immane autodistruzione si cercava di salvare una sola città, Avarico, la più bella e nobile fra le città dei galli, la vecchia fortezza dei biturigi. Proprio verso Avarico si dirigeva Cesare che la pose sotto assedio. L’accerchiamento si protrasse per venticinque giorni e si concluse con la vittoria dei romani, i quali sotto una pioggia da diluvio universale ne abbatterono le difese e ne sterminarono gli abitanti.
332
IV La strategia vercingetoriana appariva fallimentare, tanto che i biturigi accusavano il giovane capo di averli traditi per ottenere la Gallia dalle mani di Cesare con il quale si era segretamente accordato. Mentre Vercingetorige si dibatteva nell’incertezza e nel sospetto, Labieno puntava a nord su Lutetia Parisiorum (Parigi) per riconquistare quella città. Cesare invece partiva da sud verso Gergovia che era la città natale del capo alverno. Il proconsole romano era convinto di poter reprimere l’insurrezione, ma intervennero nella partita anche gli edui che, rompendo i loro patti con Roma, si unirono a Vercingetorige affascinati da un sogno di libertà. Cesare lasciò Gergovia nel giugno del 52 senza aver potuto ridurla in suo potere. Le truppe romane venivano assalite da ogni parte. Un movimento armato antiromano si era diffuso nella Gallia e aveva saldato tra loro in un unico sentimento nazionale tante realtà rissose ed egoistiche. Cesare si vide costretto a ritirarsi rapidamente per tentare di ricongiungersi con Labieno prima che gli edui glielo impedissero. Vercingetorige, proseguendo nella sua tattica temporeggiatrice, continuava a evitare di scontrarsi frontalmente col nemico. Il proconsole non demordeva, cercava un luogo dove i romani avrebbero potuto infliggere all’avversario una definitiva sconfitta. Ritenne che Alesia fosse la città ideale per quella operazione, e proprio ad Alesia si asserragliò Vercingetorige, sovvertendo la tattica della 333
guerriglia. Nella conquista di quella roccaforte dall’apparenza inespugnabile si rivelò tutta intera la genialità militare di Cesare che vi impiegò una nuova strategia, circondando la città con un colossale anello fatto di linee di controvallazione e di circonvallazione. Dopo aver opposto una lunga resistenza, le armate di Vercingetorige svanirono rapidamente come fantasmi. Il capo barbaro, con la speranza di salvare i suoi popoli umiliandosi, accettò di apparire al cospetto di Cesare e di gettarglisi ai piedi dicendo: «Hai vinto un uomo forte, o uomo fortissimo», habe fortem virum, vir fortissime; vicisti. La campagna di Gallia terminava con il completo trionfo di Cesare che si preparava a tornare nel quartier generale della Cisalpina per riprendere più da vicino il controllo di una situazione che a Roma gli era sempre più sfavorevole. Ma non poté muoversi tanto rapidamente da quei luoghi poiché la turbolenza di molte tribù lo costringevano a ingaggiare nuove battaglie. Via via, coadiuvato dal questore giovane e brillante Marco Antonio, dovette affrontare i biturigi, i carnuti, i bellovaci, gli eburoni, i treveri. Particolarmente prolungato fu lo scontro con i cadurci che rimasero assediati per due mesi nella loro capitale, Uxellodunum. Marco Antonio, che lasciava prevedere un fulgido avvenire, era nipote di Cesare, essendo figlio di Giulia. Era ormai tempo di regolare i conti con Pompeo, il quale, divorato dalla gelosia, creava a Cesare ogni genere di difficoltà. Appoggiavano Pompeo gli oligarchi che intendevano ridurre il vincitore della Gallia a privato cittadino per renderlo vulnerabile alle loro accuse infamanti e per impedirgli l’accesso a un nuovo consolato. Il Magno, sempre in maniera occulta, si avvicinava 334
ulteriormente al Senato e al partito conservatore. Prese come collega di governo un oligarca, il nuovo suocero Metello Scipione di cui aveva sposato la figlia Cornelia. Aveva anche fatto approvare due leggi anticesariane. Con la prima si rimangiava il privilegio concesso al proconsole di candidarsi lontano da Roma, in absentia; con la seconda gli faceva correre il rischio di rimanere per lunghi anni senza alcun incarico. Durante quel lasso di tempo sarebbe potuto succedere di tutto. Una volta privo di ogni potere, Cesare si sarebbe visto accusare di aver condotto in Gallia una guerra di conquista senza esserne autorizzato e di avervi violato, con i suoi massacri, il diritto di popoli. Avrebbe potuto aspettarsi una condanna all’esilio perpetuo. Fu soltanto allora nella sua vita che Cesare cominciò a prendere in considerazione un intervento armato su Roma. Nell’Urbe del resto c’era già chi si aspettava da un momento all’altro uno scontro sanguinoso fra i due maggiori personaggi che dominavano la scena politica della repubblica. Una nuova guerra civile, un nuovo scontro civium cum civibus era dunque alle porte? Il grande comandante aveva bisogno di appoggiarsi a qualcuno per sventare gli attentati al «suo onore e alla sua dignità», come egli stesso scriveva. Ma lui trovava soltanto individui violenti e di scarsa tenuta morale pronti ad accorrere in sua difesa. Pompeo si illudeva di essere più forte e più popolare dell’avversario, mentre la situazione politica di Roma sembrava volgersi a favore di Cesare, tanto che per il 49 vennero eletti tribuni i suoi fidi Marco Antonio e Caio Cassio Longino. Ma ci fu una nuova svolta anticesariana, in cui oligarchi e pompeiani proponevano di dichiararlo nemico pubblico, hostis 335
publicus, nemico della patria e della tradizione romana. In una tempestosa assemblea senatoriale, il console Caio Marcello diede un annuncio drammatico: «Le legioni di Cesare attraversano le Alpi. Dobbiamo fermarle per la salvezza di Roma». Il popolo, impaurito, vestì a lutto e Marcello raggiunse Pompeo che dimorava alle porte di Roma per affidargli la difesa della repubblica. Tutto si svolgeva nella più completa illegalità, poiché i senatori seguivano il console senza aver votato alcun provvedimento contro Cesare e tanto meno il necessario senatus consultum ultimum. Di sua iniziativa il console Marcello investì il generale dei pieni poteri. Nel consegnargli solennemente una spada esclamò: «O Pompeo, ti ordino di prendere le armi contro Cesare». Era un’aperta dichiarazione di guerra che ancora una volta metteva i cittadini dell’Urbe gli uni contro gli altri. I volti impenetrabili di Giano, il dio bifronte, tornavano a sovrastare la città, e il destino dei romani si velava di tenebre. Il 7 gennaio del 49 i senatori, dopo aver rivestito a loro volta il lutto, votarono alfine un senatus consultum ultimum de republica defendenda così formulato: «Vedano i consoli, i pretori, i tribuni della plebe, i proconsoli, riuniti alle porte di Roma, di far sì che la repubblica non subisca danni». Seduta stante, Cesare fu dichiarato nemico pubblico e privato d’autorità del proconsolato e del comando degli eserciti. Non valse a nulla il veto interposto da Marco Antonio e da Caio Cassio Longino. I due tribuni furono costretti a lasciare la Curia sotto gravi minacce. «Ci trattate da assassini, ma gli assassini siete voi» gridava Antonio ai senatori pompeiani che lo assalivano. Travestiti da schiavi, si rifugiarono presso Cesare. All’alba dell’11 gennaio Cesare ebbe nel campo di Ravenna la 336
notizia del senatus consultum ultimum. Riunì l’esercito e parlò ai veterani di Gergovia e di Alesia. Egli era alla testa della Tredicesima legione, l’unica che avesse in Italia in quel momento. Le altre, per un totale di quarantamila uomini, erano dislocate a settimane di marcia forzata. Disse che egli era stato dichiarato nemico pubblico con una norma illegale, quella del consultum ultimum, di cui i patres già da molti anni si servivano per calpestare l’autorità dei tribuni del popolo e il loro diritto di veto. Disse ancora che l’imminente guerra civile era una risposta agli attacchi che gli avevano rivolto ingiustamente in ogni occasione senza tenere in alcun conto come con le sue legioni egli avesse combattuto per nove anni un gran numero di battaglie vittoriose, sottomettendo la Gallia, tenendo a bada la Germania, sbarcando in Britannia. I soldati accolsero le sue parole con alte grida di approvazione per lui e con fischi e urla di rabbia per Pompeo. Sorgeva il 12 gennaio del 49. Le fedeli truppe di Cesare lentamente si avvicinavano alle strette rive di un fiume chiamato Rubico (Rubicone) dal colore rossastro delle acque limacciose. Esso segnava i confini dello Stato romano che per legge era vietato valicare a chiunque fosse in armi. Attraversarlo significava insorgere contro la patria e gettare fratelli contro fratelli. A di là del Rubicone, Cesare sarebbe stato realmente un nemico di Roma. Ma da chi era dominata l’Urbe? Il generale era nel cinquantunesimo anno di età. Ne erano passati diciannove dal giorno in cui, davanti alla statua di Alessandro a Cadice, aveva promesso a se stesso di porsi grandi traguardi. Pompeo aveva dalla sua parte il Senato, l’Italia, la Spagna, l’Oriente e inoltre controllava i mari. Cesare non 337
disponeva che della Cisalpina e della Gallia. Quel fatale mattino gli appariva come il più lungo della sua vita. Sapeva che il momento era carico d’imprevisti, e ancora si chiedeva se proseguire o tornare indietro. Fu scosso da una visione. Un uomo sconosciuto, assai bello e di alta statura, sedeva sull’argine del fiume suonando un flauto. Pastori e soldati accorrevano ad ascoltarlo, e a un tratto quell’uomo tolse di mano la tromba a un legionario. Suonando a gran forza il segnale di battaglia, si lanciò verso il fiume in piena raggiungendo d’un balzo l’altra riva. Cesare allora, scuotendosi dal torpore in cui era per un attimo caduto, diede l’ordine ormai da tutti atteso: «Alea iacta est», si vada, il dado è tratto. Poi aggiunse: «Si vada dove i prodigi degli dèi e l’ingiustizia degli uomini mi chiamano». L’esercito passò il fiume entrando in territorio romano. Cesare dava inizio a un’impresa rivoluzionaria che aveva per scopo la fondazione d’una monarchia cui era necessaria la legittimazione divina per essere sacra e inviolabile. Lo seguivano cinquemila soldati e trecento cavalieri. Aveva al fianco lo storico Sallustio col grado di questore. Chiamò dai quartieri invernali della Gallia le otto legioni alle sue dipendenze. Sapeva che il suo era un colpo di Stato. Lo accomunava al colpo di Venere, il colpo fortunato che nel gioco dei dadi decideva la partita. Ma sapeva anche che con quel gesto tendeva a ristabilire la libertà. La repubblica si degradava, era sopraffatta dai personalismi e dagli intrighi di casta. Alzando la mano per comandare il passaggio del Rubicone, quella stessa mano che portava al dito un anello con l’effigie di Venere, Cesare intendeva assumere la difesa del populus contro un 338
dispotismo mascherato da democrazia imposto da Pompeo in combutta con una mostruosa oligarchia. Cesare entrò in Rimini. Le strade erano lastricate di ghiaccio a causa del freddo intenso. Non incontrò resistenze, mentre nell’Urbe la disperazione si impadroniva degli animi. Il popolo manifestava nelle piazze. Molti reclamavano ancora che entrambi i contendenti lasciassero gli eserciti, certi che quello fosse l’unico modo per scongiurare la guerra fratricida. La plebe era convinta che la situazione fosse precipitata a causa di Pompeo, il quale per superbia, cupidigia di potenza e cecità non aveva voluto accettare le proposte concilianti del proconsole. Il Senato inviò ambasciatori a Rimini perché si incontrassero con Cesare e lo inducessero ad avere a cuore le sorti della repubblica. Egli li ascoltò e poi disse, con l’idea di far ricadere ogni responsabilità su Pompeo: «La dignità della repubblica è sempre stata per me la prima cosa, preferibile alla vita. Sono comunque ancora pronto a un compromesso e a sopportare tutto per amore della repubblica». Ma non mancò di enumerare i torti subiti. Ricordò il plebiscito che gli consentiva di presentarsi al consolato in absentia e come i senatori gli avessero tolto questa concessione, volendo privarlo di sei mesi di governo per costringerlo a tornare a Roma da semplice cittadino. Ricordò inoltre la sua proposta di lasciare insieme gli eserciti, lui e Pompeo, e come non avesse ottenuto neppure questo. Concluse dicendo: «A che cosa mirava tutto ciò se non alla mia rovina?». Infine proponeva un incontro tra lui e il Magno: «Forse con un colloquio potremmo comporre ogni dissidio». Cesare faceva egualmente avanzare i suoi soldati, e agiva bene perché la risposta di Pompeo e degli oligarchi non servì a 339
sbloccare la situazione. Essi chiedevano che fosse il proconsole a compiere per primo una mossa di buona volontà. Doveva lasciare Rimini, riattraversare il Rubicone, tornarsene a Ravenna e licenziare le sue truppe. Soltanto allora il Magno si sarebbe mosso per la Spagna. Era una condizione ingiusta, iniqua conditio, disse Cesare che incaricava il fido e abile Marco Antonio di occupare Arretium (Arezzo) con cinque coorti da far scendere lungo la valle dell’Arno. Altre coorti penetravano nel Piceno, feudo personale dei Pompei.
340
V Era esplosa una nuova guerra civile, e le truppe di Cesare avanzavano minacciose su Roma. L’Urbe era in subbuglio, i capi pompeiani urlavano nelle strade dicendo: «Cesare non è più un comandante romano, è un nuovo Annibale alle porte di Roma». Sconvolti, Pompeo e il Senato decisero improvvisamente di lasciare la capitale rinunciando perfino a battersi. I consoli non ebbero neppure il tempo di caricare il tesoro dell’erario sui loro carri, e dovettero fuggire a mani vuote. Era il 17 gennaio del 49. Cesare aveva passato il Rubicone da soli cinque giorni. I pompeiani, dirigendosi a sud, confessavano di non avere le forze necessarie per restare a Roma e per difenderla. Raggiunsero Capua con l’idea di mettere in salvo il governo legittimo dalle aggressioni dell’usurpatore. Pompeo diceva che la repubblica non era all’interno delle mura di Roma, ma dovunque si trovassero i consoli e i senatori. Obbligò molti patres e i personaggi più influenti della nobiltà a seguirlo se non volevano incorrere nell’accusa di collaborare col nemico. Dove e come si sarebbe difesa la repubblica, se già sembrava che Pompeo intendesse lasciare l’Italia per attestarsi in Grecia? Cicerone rappresentava a tinte fosche la situazione. Era duro con Pompeo: «Se non sono rimbecillito ha fatto finora ogni cosa con stoltezza e imprudenza». Di Cesare diceva: «È un miserabile che non ha mai visto neppure l’ombra della moralità. Si è fatto strada abolendo i debiti, circondandosi di banditi e compiendo 341
altre migliaia di crimini». Le truppe cesariane, invece di puntare direttamente su Roma, come supponeva Pompeo, affrontarono e sgominarono le roccaforti avversarie. Con sagacia Cesare proclamava di non portare la guerra contro Roma, ma contro i nemici di Roma per restituirle la libertà. Si avvicinava a Brindisi. Era il 9 marzo. Da cinque giorni Pompeo aveva fatto partire alla volta di Durazzo i due consoli con gran parte dell’esercito, mentre lui si rinchiudeva nella città difesa da venti coorti. Cesare disponeva d’una forza di sei legioni, quindi ben superiore a quella dell’avversario. Si fronteggiarono per nove giorni, fino a quando Pompeo riuscì a fuggire da Brindisi alla volta della Grecia. Fu allora che Cesare, con un magistrale intuito politico, decise di sospendere l’inseguimento per ricompensare lautamente tutti coloro che lo avevano sostenuto nella sua impresa, come aveva già fatto lo zio Mario con i galli. Attribuì diritti di cittadinanza, anche se parziali, alle popolazioni transpadane sue alleate, mentre continuava a soggiogare l’Italia. Quindi scriveva poche e lapidarie parole nel De Bello Civili: «His rebus confectis Caesar,» messe a posto le cose, «Cesare parte verso Roma». Il 30 marzo del 49 entrava nell’Urbe. Vi mancava da dieci anni durante i quali non aveva pensato che al momento in cui sarebbe tornato a Roma da primo assoluto, da padrone. E aveva agito di conseguenza, con quel pensiero come sua eterna ossessione. Doveva dare una parvenza di legalità al suo potere, costituire un controgoverno, anzi un governo che prendesse il posto dei consoli lontani dalla capitale al seguito di Pompeo. Avviò lunghe ed estenuanti trattative con Cicerone, che incontrò a Formia, per avere in lui un alleato e non più un 342
avversario. Il colloquio non diede buoni frutti. In una lettera all’amico Attico, l’arpinate scrisse: «Forse non sono piaciuto a Cesare». Dei suoi seguaci diceva: «O dèi, che compagnia,» o Dii, qui comitatus, «che marmaglia infernale. O causa malvagia, o milizia infame! Non vedo la fine dei nostri mali» nullum video finem mali. Cesare puntava alla dittatura assoluta, al di là dei termini tradizionali che ne facevano una carica temporanea, e Cicerone lo aveva ben capito. Il grande generale inviava suoi uomini di fiducia alla testa di contingenti speciali diretti in Sardegna, in Sicilia e in Africa per creare una rete di protezione al suo passaggio in Oriente dove avrebbe affrontato Pompeo. Non tutto era pronto per questa impresa, e allora lui si recò a Massilia (Marsiglia) e poi in Spagna contro Lucio Afranio e Marco Petreio che la detenevano per conto dei pompeiani. Aveva lasciato Roma il 7 aprile, dopo una sosta di appena una settimana. Al momento della partenza aveva detto con ironia agli amici: «Vado in Spagna a combattere contro un esercito senza generale, per poi marciare in Oriente contro un generale senza esercito». Durante la sua permanenza nella capitale aveva distribuito gli incarichi ai luogotenenti. Marco Antonio ebbe il comando dell’esercito in Italia; suo fratello Caio Antonio fu inviato in Illiria; a Marco Licinio Crasso, altro figlio del triumviro scomparso, fu assegnata la Gallia Cisalpina. Il pretore Marco Emilio Lepido, amico d’infanzia del generale, ebbe la responsabilità di governare Roma in sostituzione dei consoli ancora al seguito di Pompeo. Cicerone esclamava che Cesare, così facendo, si comportava da tiranno. 343
Come i galli di Vercingetorige, i pompeiani avevano dato inizio a danneggiamenti di campagne e di centri abitati, a schermaglie e ad azioni di logoramento, forti della loro rocca, Ilerda, a nord del fiume Ebro. Cesare però sconfiggeva Afranio e Petreio. Cadeva anche Massilia che era l’unica città in rivolta nella Gallia pacificata. Cesare ne puniva la popolazione con inaudita spietatezza. Nessuno riusciva a capire che cosa il generale realmente pensasse, e quali oscure idee agitassero la sua mente che sempre più appariva turbata da sinistri presagi. Ai primi di dicembre, Cesare entrava a Roma in veste di dittatore per iniziativa del pretore Marco Emilio Lepido, che presiedeva i comizi. Tutti stavano col fiato sospeso temendo chissà quali vendette e sconvolgimenti. Incarnerà Silla o Catilina?, si chiedeva il popolo nelle strade e nelle taverne. Egli non fu né l’uno né l’altro. Era Cesare! Lavorava dall’alba a notte fonda, dormiva pochissime ore e fece approvare una grande quantità di provvedimenti in soli undici giorni, dal 2 al 13 dicembre. In quegli undici giorni fu dittatore, dopo di che restituì la legalità nelle magistrature. Doveva ancora rincorrere Pompeo prima di pensare all’attuazione del suo piano non tanto segreto di dittatura perpetua. Sotto la sua vigilanza si elessero in quei giorni anche i consoli per il 48. Ovviamente risultarono vincenti egli stesso e Publio Servilio Isaurico, che da catoniano era stato attratto nella sua area. Consolidava così il suo potere personale, gettava le basi di un nuovo Stato attuando le prime riforme politiche e sociali alle quali mirava da tempo. Contemporaneamente affrontava la disastrosa situazione economica dell’Urbe. Il prezzo del grano e di ogni altro genere alimentare era salito alle stelle, la circolazione del denaro era 344
scarsa per la tendenza a tesaurizzare, la moneta era supervalutata, esosi erano gli interessi sui prestiti. Gli ottimati erano sconvolti dal timore che Cesare procedesse alla totale cancellazione dei debiti in ordine alle sue idee di popularis, ma lui si mostrò moderato nelle soluzioni volendo favorire i poveri senza rovinare i ricchi. Poi volse nuovamente il pensiero a Pompeo, per cui in un lampo fu a Brindisi. In pieno inverno, quando nessuno se lo sarebbe immaginato, attraversò l’Adriatico con una flotta sufficiente a trasportare soltanto la metà del suo esercito. Era il 4 gennaio del 48. Il giorno successivo sbarcò sulle coste dell’Epiro, a Palaeste, in piena tempesta. La spedizione aveva le caratteristiche di un’avventura, di un azzardo pericoloso. Si svolgeva in una situazione particolarmente critica per l’esercito giuliano. Ma il costume di Cesare era quello di sfidare la sorte, di tentare l’impossibile. Il suo arrivo sorprese Pompeo, che a malapena riuscì a contenerne l’urto. Per mesi i due eserciti si esaurirono in azioni temporeggiatrici, e alla fine il Magno si vide costretto a uscire dal suo immobilismo. Aveva sperato di sconfiggere l’avversario con la tattica del logoramento, invece era lui a dover subire assedi che si prolungavano contro ogni previsione. Assedi e attacchi si ripetevano a Durazzo, ad Apollonia, in Tessaglia. Lo scontro definitivo fra i due eserciti si ebbe il 9 agosto successivo in una vasta valle dominata dall’acropoli di Farsalo. La battaglia avrebbe mutato le sorti del mondo, essendo i due generali dominati da due concezioni opposte. C’era però chi li vedeva esclusivamente vittime di cupidigia di potere: Pompeo non voleva essere inferiore a nessuno, Cesare voleva essere il 345
primo di tutti. A Farsalo poteva cominciare una nuova epoca per la romanità, così come per altri secoli nulla sarebbe più mutato se non in negativo nella storia d’una repubblica morente che si fosse ripiegata su se stessa. Alle prime ore di quel 9 agosto, i due generali parlarono ai loro eserciti pronti a scontrarsi in una lotta fratricida. Cesare infuocò l’animo dei suoi soldati con poche e veementi parole: «O esercito domatore del mondo, domitor mundi, e fortuna di Cesare. Questo è il momento da noi tanto atteso. Affrettate con le vostre spade il compimento del destino. Per me questo è il giorno che mi fu promesso sulle rive del Rubicone. È in gioco anche il vostro avvenire, perciò io prego che rimaniate liberi con piena sovranità su tutti i popoli della terra». E poiché tutti erano coscienti di gettarsi in una tenzone fratricida, il generale disse ancora: «Vi chiedo, soldati, di non colpire il nemico alle spalle. Chiunque fuggirà sotto il vostro urto sia considerato un amico. Ma se vi affrontano non abbiate pietà di genitori schierati contro di voi: la spada del figlio colpisca il volto del padre che pure voi amate». Anche Pompeo si rivolse alle sue truppe: «Questo è il giorno che il vostro valore attendeva. La fine della guerra civile è vicina. Combattete con tutto il vostro coraggio poiché questa è l’ultima impresa guerresca. In un’ora sola sarà decisa la sorte dei popoli. Chi ama la patria la riconquisti ora. Gli dèi sono con noi e guideranno i nostri dardi nelle viscere di Cesare». L’esito della battaglia di Farsalo fu drammaticamente sfavorevole a Pompeo. Abile era stato Cesare a rovesciare i piani del nemico con una serie di agili manovre che ne confermavano il genio militare. I pompeiani si diedero alla fuga. Il Magno 346
s’imbarcò su una nave che trasportava grano, e raggiunse l’Egitto del re giovinetto Tolemeo XIII. Cesare lo inseguiva. Lungo il tragitto, a Efeso, gli eressero una statua che recava la più straordinaria iscrizione mai sperata: «A Caio Giulio Cesare, pontefice massimo, imperator, due volte console, discendente di Marte e di Venere, rivelatosi egli stesso dio e liberatore dell’umanità». Seppe che Pompeo era passato per Cipro e intuì che si sarebbe recato in Egitto. Dispiegò a sua volta le vele verso Alessandria. In soli tre giorni fu in vista dei fuochi del Faro. Era l’alba del 2 ottobre. Ad Alessandria la situazione era in pieno sconvolgimento. Il tredicenne Tolemeo aveva dovuto spartire il trono con sua sorella maggiore, Cleopatra, giovane donna intrigante e seduttrice dalla forte personalità e di straordinaria intelligenza. Cleopatra intendeva sottrargli ogni potere, ma Tolemeo era riuscito a scacciarla dalla città. La regina reagiva, e con un esercito di schiavi già marciava sull’Egitto. Per bloccarne l’avanzata, il re giovinetto, con l’ausilio dei suoi ministri, aveva mobilitato le truppe egiziane accampandole a Pelusio dove era arrivato Pompeo. Pompeo gli chiese ospitalità, gettando nella disperazione la corte di Tolemeo. Accogliendolo si sarebbe suscitata l’ira di Cesare; respingendolo lo avrebbero indotto a schierarsi con Cleopatra. Trovarono una terza via: riceverlo e ucciderlo. In tale maniera avrebbero onorato il vincitore e abbandonato il vinto. Il maestro di retorica della corte egiziana, Teodoto di Chio, decretò: «Tenete presente che un cadavere non morde». Un ex tribuno militare di Pompeo, Lucio Settimio, uomo feroce, fu incaricato di condurre a termine il piano. Il tribuno si avvicinò a 347
Pompeo e lo colpì alle spalle con la lama d’una spada. Pompeo, piegandosi su se stesso senza un lamento, poté appena coprirsi il volto con la toga. Un rantolo fu l’ultimo suo segno di vita, mentre diceva a se stesso alcune parole: «Non dolerti di chi esegue il volere del fato. Qualsiasi mano ti colpisca, è la mano di Cesare». Ad Alessandria presentarono a Cesare il capo mozzo del suo nemico. A quella vista il generale si sciolse in lacrime. Poi, allontanando da sé il macabro spettacolo, disse: «La vostra scelleratezza ha offeso Cesare ancor più che Pompeo. Ho perduto l’unico premio possibile in una guerra civile, donare la salvezza ai vinti». Piangeva e gemeva chiamando Pompeo concittadino e genero per aver sposato sua figlia Giulia, ricordando come in passato si fossero scambievolmente aiutati. Cesare prendeva possesso ufficialmente di Alessandria, facendosi precedere dai littori con fasci e scuri, fiero di entrare nella città fondata dal mitico condottiero macedone, suo indimenticabile modello di vita. Si installò nel palazzo reale, per esercitarvi legittimamente il suo potere essendo l’Egitto un paese sottoposto al protettorato di Roma. Chiamò alla reggia sia Tolemeo sia la sorella-sposa Cleopatra. La regina, pur nutrendo un grande desiderio di incontrarsi con il generale vittorioso, temeva che tornando al palazzo potesse cadere vittima d’un agguato del fratello-sposo. Lei era già stata per breve tempo l’amante del figlio maggiore di Pompeo, Gneo, attratta dai generali romani. Non intendeva perciò mancare all’invito. Per ingannare la vigilanza di Tolemeo e rispondere egualmente alla richiesta di Cesare, ricorse a uno stratagemma. Chiese l’aiuto di un suo fedele amico, Apollodoro 348
Siciliano, e da lui si fece avvolgere in un grande tappeto di Persia legato con una cinghia. Apollodoro si presentò a palazzo con il lungo involto sulle spalle. Penetrò fin negli appartamenti di Cesare chiedendo di parlare al console al quale doveva consegnare un dono. Introdotto al suo cospetto, srotolò il tappeto. Immensa fu l’emozione del generale nel veder comparire davanti ai suoi occhi una donna incantevole, una dea: Cleopatra. Ammaliante, indossava abiti sontuosi e succinti. L’effetto fu irresistibile. La fulgente bellezza della regina lo conquistò all’istante.
349
VI Cleopatra aveva vent’anni, Cesare cinquantadue. La notte stessa del loro primo incontro, la regina d’Egitto, Cleopatrás lussuriosa, e il duce romano divennero amanti. Cesare si chiese se mai prima di allora avesse conosciuto l’amore. Chi era Servilia? Chi era Pompea? Chi era Calpurnia? Il generale distolse l’attenzione da Roma dove i senatori si apprestavano a onorarlo. Gli attribuirono un potere sterminato, l’imperium militiae, domi et veto, ovvero la dittatura militare, il consolato per altri cinque anni e il diritto tribunizio di veto. Ormai lui non poteva più oziare in Alessandria. Era il momento di riprendere il mare, dopo aver trascorso nove mesi in Egitto e aver risalito lentamente le acque del Nilo in amorosa compagnia di Cleopatra, su una nave tramutata in alcova. Sulla strada del ritorno dovette battersi con Farnace II, il figlio di Mitridate, che aveva ricevuto da Pompeo il regno del Bosforo. Prese terra ad Antiochia e s’inoltrò verso il Ponto. Il re nemico lo attendeva ben difeso nella città fortificata di Zela sulla sommità di un colle, ma il romano lo travolse in sole quattro ore di combattimento. Questa vittoria segnò il ritorno del Ponto nell’ambito romano e la sistemazione dell’intera area mediante protettorati e regnanti alleati. Orgoglioso del nuovo successo, il console annunciò l’evento a Roma con tre sole parole di grande fascino nella loro concisione: «Veni, vidi, vici», che volevano dire: venni al cospetto del nemico, lo vidi, lo vinsi. Si mise a 350
dispensare ricompense e punizioni, onori e biasimi per affermare la superiorità di Roma in Oriente, così come aveva già fatto in Gallia. Oltrepassato l’Adriatico sulla strada del ritorno, risalì da Taranto la penisola per tornare finalmente a Roma dopo un’assenza di quasi due anni. Vi arrivò ai primi di ottobre del 47 tra uno sconfinato entusiasmo popolare. Egli accumulava poteri per decisione dello stesso Senato che gli riconosceva anche la facoltà di dichiarare a piacimento lo stato di guerra. Fu eletto console unico per la durata straordinaria di un quinquennio. Si pensava che l’era del sangue avesse finalmente ceduto a quella dell’ulivo. Ma il crudele e beffardo Giano aveva ancora una volta disposto diversamente. Cesare dovette accorrere in Africa e poi in Spagna dove i superstiti pompeiani, abbandonando sconfitti l’Africa con l’illusione di sollevare le province iberiche e di portare le armi contro Roma per abbattervi la dittatura giuliana, avevano raccolto un esercito di disertori, veterani sbandati, avventurieri e schiavi fuggiaschi. Alla testa di quel movimento erano i due figli di Pompeo, Gneo e Sesto, insieme all’ostinato Labieno. Anche in quella guerra Cesare cercò di attuare la sua consueta strategia militare fatta di manovre a sorpresa per indurre il nemico a dirigersi verso i luoghi da lui considerati favorevoli allo scontro. Era accompagnato da Ottavio, il pronipote diciassettenne che ben prometteva. Gli diceva che erano lì per punire quei pompeiani che ancora erano tanto arditi da non riconoscergli la superiorità. Gneo evitava di accettare battaglia preferendo a sua volta la tattica della guerriglia. Nei pressi di Munda però, su un 351
altipiano, decise di attestarsi per le più varie esigenze logistiche. La sua era un’ottima posizione strategica, mentre le truppe cesariane apparivano in difficoltà per la presenza di vaste paludi. Quella volta, più che la strategia del grande generale, fu il coraggio personale di Cesare a decidere le sorti della battaglia. Ed era questo il suo ultimo scontro, a conclusione della guerra civile. Egli celebrava a Roma un nuovo trionfo, un trionfo particolare perché il suoi soldati avevano sconfitto un esercito di fratelli romani. Aveva raggiunto l’apice del potere: che fare adesso? Con l’occhio rivolto al futuro adottò un figlio nominandolo suo erede principale e trasferendogli il proprio nome perché gli succedesse. Il prescelto era Ottavio, il pronipote diciassettenne, figlio di sua nipote Azia. In quel giovane, benché gracile e malaticcio, Cesare intravedeva doti portentose che lo inducevano a riporre in lui una grande fiducia. All’inizio del 45 avviò una completa riforma dello Stato sulla base dei suoi ideali politici e sociali. Volle dimostrare magnanimità emanando un provvedimento che riabilitava gli avversari e liberava i prigionieri. Riportò in auge le statue di Silla e di Pompeo, risarcì con la distribuzione di terre i valorosi soldati che lo avevano seguito per anni. Il Senato gli riconobbe due nuovi onori: l’inviolabilità personale e il titolo di parens patriae. Cesare di fatto era un re. Riceveva il Senato senza alzarsi in piedi. Gli mancava la corona, ma il Senato gli concesse di portare permanentemente un serto di alloro. Attorniato da un numero infinito di littori, incedeva gravemente senza guardare nulla e nessuno. Indossava una toga purpurea e scarpe rosse, alla maniera degli antichi re albani. Al fianco aveva una regina, 352
quella Cleopatra che aveva portato con sé a Roma umiliando Calpurnia. Era proprio radicalmente mutato Cesare? Aveva del tutto perduto la eletta affabilità che lo aveva reso tanto popolare? Sul finire di quell’anno ottenne un consolato continuo. Era già console per cinque anni e l’alta dignità gli fu rinnovata per un decennio. Il peso politico di Cesare cresceva ancora. Il Senato gli attribuiva il pieno controllo delle finanze e il comando supremo degli eserciti, insieme al diritto di essere il solo a decidere della pace e della guerra. Raggiunse il culmine del suo potere, l’obiettivo che si era prefisso, quando il 14 febbraio del 44 riuscì a farsi proclamare dal Senato, a lui totalmente asservito, alla carica di dittatore perpetuo, dictator perpetuus, in contrasto con l’intera tradizione romana per la quale la dittatura doveva avere un termine. Perfino Silla aveva accettato questa regola dimettendosi dalla carica di dittatore. Ma Cesare gli aveva rivolto l’accusa di essere un analfabeta della politica. I cesariani e gli anticesariani erano ancora in forte contrapposizione. Che cos’era ormai la repubblica per Cesare?, si chiedevano gli avversari, dando sempre la stessa risposta: nient’altro che un nome, l’ombra di un nome senza corpo né forma. In realtà la vera domanda era un’altra: che cos’era ormai la repubblica per tutti? Uno sfacelo. La risposta cominciava a elaborarla Sallustio, per il quale molti erano i colpevoli della decadenza repubblicana. Andavano ricercati fra gli aristocratici e fra i popolari poiché tutti avevano perso il senso dello Stato, intenti a difendere i propri interessi. Lui stesso, Sallustio, non pensava ad arricchirsi? Gli anticesariani vedevano in Cesare la causa di tutti i mali, e 353
tra loro cominciò a serpeggiare l’idea di una congiura per abbattere a tradimento il dittatore. Dovevano ucciderlo al più presto per impedirgli di compiere una nuova impresa bellica che aveva del colossale. Cesare preparava una spedizione contro i daci e i parti, per vendicare la morte di Crasso a Carre e per bloccare i loro tentativi di sconfinamento verso l’area mediterranea. La spedizione non sarebbe stata che l’inizio d’una guerra che si prevedeva potesse durare tre anni. Sconfitti quei popoli, Cesare in varie tappe si proponeva di attraversare l’antica Persia costeggiando il Mar Caspio, di aggirare il Ponto, sottomettere gli sciti, invadere la Germania e tornare a Roma scendendo dalla Gallia. Fra i cesariani, capitanati da Marco Antonio, si operava da tempo per attribuire effettivamente il titolo di re a Cesare, sebbene il popolo non volesse sentir parlare di monarchia dal giorno in cui aveva scacciato il Superbo. All’indomani della proclamazione di Cesare a dittatore perpetuo si svolgeva a Roma la festa dei Lupercali. Sebbene egli avesse già raggiunto un potere assoluto senza alcun limite, Marco Antonio volle egualmente cogliere quell’occasione per offrirgli la corona regale, con l’idea inespressa di ingraziarsi il sovrano e di farsi adottare come figlio. Non poteva bastargli esserne il nipote. Tra la folla che il 15 febbraio del 44 si accalcava nel Foro si levò un debole applauso al quale fece eco un sordo mormorio dei più. Il dittatore, ben conoscendo l’animo popolare e levando una mano per ottenere il silenzio, disse a gran voce: «Io sono Cesare, non un re», Caesarem se, non regem esse. Era come dire: sono io il capo assoluto di cui Roma ha bisogno per spazzare via il clima di corruzione in cui la repubblica affonda. Ed era come se 354
aggiungesse: la città-stato repubblicana non regge più al peso di un immenso dominio: ci vuole una monarchia che non appaia tale. La congiura degli anticesariani prendeva sempre più corpo. I cospiratori formavano un gruppo di sessanta persone guidato da Caio Cassio Longino, Marco Giunio Bruto e Decimo Bruto Albino. Particolare era il rapporto fra Cesare e Marco Bruto, che si diceva fosse suo figlio poiché il ragazzo era venuto alla luce nel periodo più focoso dell’amore fra Cesare e la bella Servilia. Fin da giovinetto, Bruto aveva vissuto sotto l’influenza di Cicerone e di Catone, e ora subiva il fascino perverso di Cassio Longino, l’organizzatore della congiura. A Roma si supponeva che Marco Bruto fosse un lontano discendente di quel Giunio Bruto leggendario cui si ascriveva il merito di aver scacciato i Tarquini e abbattuto la monarchia. I congiurati erano invasi dall’idea di dover uccidere Cesare per restituire a Roma le antiche libertà repubblicane, come se fosse lui solo il responsabile della morte della repubblica e non piuttosto gli stessi repubblicani con gli egoismi, gli odi, le avidità, le ruberie. Dietro i congiurati c’erano gli uomini più facoltosi di Roma: i latifondisti, gli affaristi, i finanzieri, i governatori. Lo stesso Bruto, sebbene uomo d’onore e nobile d’animo, non era alieno da lucrose operazioni affaristiche e finanziarie. Cicerone lo aveva riconosciuto come usuraio. Passavano i giorni, ma Bruto e Cassio non trovavano un accordo sui modi e sul luogo dell’attentato. Continuavano a enumerare le cariche che Cesare accumulava in sé sospendendo tutte le istituzioni: il consolato continuo, la dittatura perpetua, il controllo sui costumi, gli appellativi di imperatore e di padre 355
della patria. Dovunque era raffigurato in statue e onorato con altari. Fu il precipitare degli eventi a costringerli a superare le indecisioni. I patres conscripti erano stati convocati per la mattina del 15 marzo, nella Curia di Pompeo. Ciò in vista della partenza di Cesare alla volta di Apollonia fissata per tre giorni dopo al fine di avviare il suo nuovo e grandioso progetto di conquiste che prevedeva l’umiliazione dei popoli d’Oriente e la fondazione di una monarchia universale tale da comprendere anche la regione danubiana, nel nome di un rilancio dell’espansionismo romano. Ai congiurati non rimase altro che decidere di aggredire Cesare a pugnalate in Senato nella mattina delle Idi di marzo perché se il dittatore fosse partito per la sua impresa sarebbe stato più difficile colpirlo. All’alba del 15 marzo del 44 – l’anno 710 ab urbe condita –, dopo una notte di incubi, Calpurnia singhiozzava tra le lacrime e pregava il dolce e caro consorte di non recarsi quel giorno in Senato. Gli aruspici non promettevano nulla di buono. Lei aveva sognato che il tetto della loro casa era crollato, ed era sobbalzata nel sonno perché aveva visto pugnalare il marito. Allora Cesare inviò Marco Antonio in Senato per chiedere il rinvio della seduta. Ma sopraggiunse Decimo Bruto che cominciò a deridere gli indovini – «pagati per mentire», diceva – e a mostrarsi sorpreso che il grande dittatore trascurasse l’attuazione dei suoi colossali programmi per prestare ascolto ai sogni di una donna. Mise le ali della perfidia al suo discorso per convincere Cesare a recarsi senza indugio al Senato: «Il rinvio apparirà come un affronto alla dignità dei senatori. È assurdo che a tuo nome un tale si rechi al Senato a dire: “Andatevene e tornate quando Calpurnia farà sogni 356
migliori”. Sarebbe meglio che ti recassi personalmente nella Curia a chiedere tu stesso un rinvio della seduta». Cesare uscì di casa e salì nella lettiga che lo avrebbe portato al Senato. Come sempre il popolo faceva ressa intorno a lui. Tra la massa si fece largo un uomo alto e austero, il greco Artemidoro, il quale, avendo saputo qualcosa del complotto, pregava Cesare di leggere le poche righe di avvertenza che aveva scritto sul rotolo di carta che gli consegnava. Ma Cesare lo passò a un segretario senza degnarlo d’uno sguardo e senza ascoltare quanto l’amico gli diceva: «Leggilo tu solo. Subito. È importante». In quel momento passò Spurinna, l’augure che qualche giorno prima lo aveva messo in guardia dalle Idi di marzo, e Cesare non poté trattenersi dal dirgli con una certa sufficienza mista a soddisfazione: «Sei un falso profeta. Un bugiardo. Le Idi di marzo sono arrivate». L’augure, triste in volto, temendo ancora di aver ragione, replicò: «Ma non sono passate». Il grande dittatore era apparso davanti alla Curia. Scese dalla lettiga adorna d’avorio, affiancato dai littori con i fasces dorati. I congiurati tenevano nascosti i pugnali tra le pieghe della toga. Quella mattina il magister equitum Lepido non si trovava a Roma, e ciò dimostrava come Cesare avesse trascurato di prendere la benché minima precauzione in vista d’una seduta di particolare importanza, indetta per cambiare nella sostanza la repubblica in monarchia. I patres gli si fecero incontro. La colossale statua marmorea di Pompeo, con la spada sguainata in pugno, si ergeva imponente al centro della grande aula circolare della Curia. I patres appartenenti alla congiura si erano avvicinati più di ogni altro al dittatore, e Bruto li cercò a uno a 357
uno con lo sguardo. Non erano più di venti fra pompeiani, cesariani delusi e catoniani. Tullio Cimbro era quasi addossato a Cesare per chiedergli di richiamare suo fratello dall’esilio. Cesare non lo ascoltava, e Cimbro, come ad attirare la sua attenzione, lo prese per la toga. Quello era il segnale che i cospiratori attendevano per estrarre i pugnali e colpire la vittima designata. Cesare non aveva finito di dire a Cimbro: «Ma questa è una violenza», che fu raggiunto dalla prima pugnalata. Lo aveva colpito da dietro Publio Casca, sotto la gola. Benché sanguinante Cesare riuscì a strappare il pugnale dalle mani dell’attentatore e a ferirlo a un braccio mentre esclamava: «Maledetto Casca, che fai?». Furente e atterrito corse, barcollante, da una parte all’altra della Curia, mentre i congiurati lo inseguivano e lo colpivano. Gli altri senatori, sorpresi dalla fulmineità dell’agguato, erano rimasti immobili, come inchiodati agli scanni. Il dittatore era circondato da una selva di pugnali che i congiurati agitavano tra le urla. Lo colpivano da forsennati, lo aggredivano come fosse una belva nell’arena. Cesare era allo stremo delle forze quando il suo sguardo già offuscato incrociò gli occhi spiritati di Marco Bruto che gli vibrava una pugnalata all’inguine. Cesare si accasciò, si avvolse il capo con la toga, e, guardando l’assalitore che gli dava l’ultimo colpo, il ventitreesimo, disse in greco: «Anche tu, Bruto, figlio mio». Per una straordinaria coincidenza egli spirava sotto l’effigie dell’uomo, Pompeo, che più di ogni altro aveva attraversato la sua vita. Tutti insieme i senatori, urlando e gesticolando, si lanciavano verso la porta per fuggire, mentre Bruto gridava: «Non temete. Soltanto Cesare doveva cadere. Vi abbiamo 358
restituito la libertà. Il tiranno è morto. Viva la libertà. Viva il popolo romano». L’orrore e il terrore si propagarono rapidamente in tutta Roma, mentre il cadavere di Cesare, raccolto da tre schiavi pietosi, veniva trasportato su una lettiga nel suo palazzo che risuonava di pianti. Un braccio pendeva all’esterno della lettiga, ed era il segno più impressionante della morte. Il volto, benché contratto, appariva giovanile, non quello d’un uomo di cinquantasei anni. Tanti lutti, tante battaglie, tanti tormenti per ben poco: Cesare aveva racchiuso nelle sue mani solo per un mese il potere sconfinato di dictator perpetuus, dal 14 febbraio al 15 marzo. In quei giorni neri il giovane Ottavio si trovava da quattro mesi in Illiria, inviatovi dal prozio per preparare la nuova grande spedizione. Era ad Apollonia quando ricevette da una lettera della madre Azia la dolorosa notizia dell’inaudito e impensabile assassinio. Ne rimase esterrefatto. Non erano trascorsi che cinque giorni dall’inconcepibile assassinio. Si lasciò andare a un pianto ininterrotto, riacquistando però rapidamente il necessario sangue freddo per affrontare e dominare la tragica situazione. Nella missiva, la madre gli consigliava cautela, lo scongiurava di non accettare l’adozione e tanto meno il patrimonio che il prozio gli aveva lasciato. Ma il giovane si lasciò guidare dal suo istinto, certo di non poter rinunciare all’idea di vendicare la morte di Cesare.
359
VII Ottavio era nato all’alba del 23 settembre del 63, nell’anno 691 ab urbe condita. Al momento della nascita il bambino non poté chiamarsi che Octavius, semplicemente, perché nulla di più poteva dargli il padre oltre il suo stesso nome, quello di Caio Ottavio. La famiglia paterna era di origini oscure e piuttosto plebee. Il nonno si era arricchito con l’usura. Provenivano da Velitrae, una cittadina forse volsca, arroccata su un promontorio all’ombra dell’Artemisio a sud di Roma. Invece la madre Azia era nipote di Giulio Cesare, in quanto figlia di sua sorella Giulia, sicché il neonato si trovava a essere il pronipote di un uomo che aveva già mostrato al mondo quanto grande fosse la sua ambizione. La nascita di Ottavio fu accompagnata da prodigi beneauguranti. Azia si era recata una notte con altre matrone a celebrare un sacrificio in onore di Apollo. Si era addormentata nella lettiga mentre veniva trasportata all’interno del tempio. Nel sonno aveva avvertito che un serpente le si era insinuato sotto. Poi era scivolato via, e lei pensò di essersi congiunta con il marito. A soli quattro anni Ottavio aveva perso il padre quando questi stava per ascendere al consolato. Il ragazzetto appariva esile, quasi diafano, di salute malferma, e cresceva freddoloso. Ma aveva fermo lo sguardo, e splendenti erano gli occhi azzurri. La fronte era alta, biondi erano i capelli e un po’ arruffati. La sua 360
statura era al di sotto della media, e per recuperare in parte lo svantaggio portava alte calzature. Le donne se ne innamoravano, ma Azia «dai cento occhi» riusciva a salvaguardarne la castità negli anni della giovinezza. I libri furono i suoi primi compagni. Dimostrava di possedere una memoria prodigiosa, simile a quella del prozio Cesare. Imparava lunghi brani di Omero, della cui lingua si era invaghito. Nessuno poté sorprendersi il giorno in cui, a soli dodici anni, pronunciò a Roma dall’alto dei Rostri nel Foro la laudatio funebris per la scomparsa della nonna Giulia come Cesare vent’anni prima aveva commemorato da giovinetto la morte della zia Giulia e presentato la gens Iulia e quindi se stesso come discendente della dea Venere. Il prozio vedeva in lui la propria immagine rovesciata; alle intemperanze del capitano coraggioso corrispondevano il sommo equilibrio del giovinetto temporeggiatore, la prudenza e la misura. Al grande giocatore d’azzardo faceva riscontro il freddo calcolatore. Sanguigno era Cesare, esangue Ottavio. «Affrettati lentamente», amava dire in greco il ragazzo. Privo di discendenti diretti maschi e avendo già perduto la figlia Giulia, che era stata la moglie di Pompeo, il grande generale aveva cominciato a vedere in Ottavio qualcosa di più di un parente. Quando il ragazzo aveva quindici anni gli aveva aperto il patriziato, con una forzatura poiché a tale classe privilegiata si apparteneva per diritto ereditario. A sedici lo aveva nominato praefectus urbi. Quindi Ottavio, per decisione di Cesare, prendeva il nome di Caio Giulio Cesare Ottaviano. Il grande capitano si era del resto domandato che cosa avrebbe potuto sperare da Cesarione, quel bambinetto che Cleopatra 361
spudoratamente gli attribuiva affermando di essere rimasta incinta di lui in Egitto nell’ardente viaggio sul Nilo. Ad Apollonia, intimo amico di Ottaviano era diventato Marco Vipsanio Agrippa, un coetaneo di origini etrusche che veniva dal nulla, ma che mostrava di possedere doti di militare e di urbanista. Si trovavano con Ottaviano altri due validi compagni, cavalieri. Il primo era un giovane «da antico sangue aretino sceso», Caio Cilnio Mecenate, assai raffinato, anzi addirittura effeminato fin nell’abbigliamento; il secondo era il più soldatesco dei suoi confidenti, Quinto Salvidieno Rufo. Lo guidava l’istinto, nel suo ritorno a Roma. Su una piccola imbarcazione attraversò lo Ionio soffrendo il mal di mare. Per l’approdo evitò il porto di Brindisi poiché non sapeva se la città gli fosse o no favorevole. Preferì sbarcare nei pressi della più tranquilla Lupiae (Lecce), e poi proseguì per Napoli e per Pozzuoli dove il 20 aprile volle incontrarsi con Cicerone nel tentativo di attrarlo a sé. Prima di proseguire per l’Urbe intendeva capire di chi fidarsi, di chi diffidare, sebbene avesse in maggior sospetto sopra tutti Marco Antonio, il quale pur non essendo nipote di Cesare, non aveva disdegnato di stringere un’immediata intesa con i cesaricidi per non perdere il controllo dello Stato che ancora deteneva nelle sue mani. L’incontro con Cicerone gli era necessario, perché il vecchio e prestigioso ex console gli appariva il più sfuggente. Lo cercava pur sapendo che era stato lui a ispirare i cesaricidi a compiere l’ignobile assassinio, anzi voleva vederlo proprio per questa ragione. Se fosse riuscito a fare del consolare un alleato, avrebbe creato serie difficoltà ai cesaricidi indebolendo contemporaneamente la posizione del cesariano Antonio. Avrebbe infine potuto influire 362
a proprio vantaggio sui precari equilibri politici del Senato anch’esso anticesariano. Era un’impresa difficile la sua, perché qualcuno gli aveva già riferito quanto Cicerone aveva confidato agli amici: «La giornata del 15 marzo, col suo esito, mi consola e mi tranquillizza». Cicerone ebbe una buona impressione dal giovane che nel colloquio gli aveva abilmente parlato con grande rispetto e devozione. «Mihi totus deditus», mi è devotissimo, scriveva il consolare all’amico Attico. Non era però certo che quell’imberbe ragazzo si sarebbe comportato da buon cittadino, convinto che il dittatore non lo avesse educato ai principi repubblicani. Cicerone gli riconosceva sufficiente ingegno e coraggio, diceva che bisognava «tenerlo buono», per staccarlo da Antonio. Ottaviano rappresentava la nuova generazione, mentre Antonio, di venti anni più anziano di lui, già sembrava un personaggio del passato. L’arpinate vedeva avvicinarsi lo spettro d’una nuova guerra civile. Sicuramente il pugnale di Bruto non aveva restituito la libertà ai romani. Antonio, persuaso di potersi comportare da padrone e di riuscire ad affermarsi come erede di Cesare, non si rese subito conto del pericolo che rappresentava per la sua posizione il pronto ritorno di Ottaviano sul suolo italico. Arrivato a Roma all’inizio di maggio, il ragazzo reclamava ufficialmente i suoi diritti in quanto figlio adottivo dello scomparso condottiero. Allora Antonio cominciò a preoccuparsi di lui. Difatti i cesariani si dividevano fra Antonio, detentore del potere poiché console e capo del partito, e Ottaviano sostenuto dal popolo che egli colmava di regali, di ricompense, di onori, seguendo l’esempio del prozio. 363
Cicerone disistimava Antonio, ma lo temeva ritenendolo capace di ogni nequizia. Ora però il consolare poteva vendicarsi di lui che lo aveva indicato come il suggeritore, il responsabile morale del cesaricidio, in una parola il mandante. Nelle vesti di un nuovo Demostene, con movenze di attore greco, gli lanciava contro in quattordici puntate le sue acrimoniose Filippiche, nelle quali lo raffigurava come una persona lussuriosa e violenta; lo incolpava di ogni misfatto, non esclusa la falsificazione a proprio vantaggio delle carte di Cesare che Calpurnia gli aveva sventatamente consegnato all’atto della morte del marito. Ormai si era allo scontro armato fra i due gruppi di cesariani. Ottaviano, che poteva contare sull’aiuto finanziario di Agrippa e di Mecenate, dava vita a un suo esercito privato. Quindi forzava la situazione con una sua marcia su Roma, una iniziativa sovversiva cui cominciavano a ricorrere in troppi. Anche Antonio puntava su Roma, ma per primo arrivò nella capitale Ottaviano, il 10 novembre di quel malefico 44. Non poté parlare in Senato poiché i patres ne avevano sbarrato le porte. Allora parlò davanti alla statua di Cesare, senza tuttavia poter realizzare il proposito di impadronirsi del potere a partire da quel momento. La sua piccola e affrettata marcia su Roma si rivelava inutile, anche perché a loro volta si avvicinavano all’Urbe le schiere di Antonio. Molti fra i veterani che seguivano il giovane alla notizia dell’imminente arrivo di Antonio si spaventarono al punto da gettare le armi. Ottaviano lasciò l’Urbe, prese la strada del Nord e si accampò nei pressi di Arezzo per riordinare l’esercito. Nella capitale sopraggiungeva Antonio il quale non riusciva a far dichiarare Ottaviano reo di alto tradimento. Raggiungendo 364
Modena cercava allora di strappare al cesaricida Decimo Bruto il governo della Gallia Cisalpina. Il Senato gli metteva alle costole i nuovi consoli Irzio e Pansa, mentre riconosceva le truppe che Ottaviano aveva privatamente e illegalmente arruolato. I patres innalzavano il giovane alla carica di propretore con l’imperium militare, sebbene egli non avesse mai ricoperto alcun grado nell’esercito regolare. Modena, dove si incrociarono le armi della nuova guerra civile fra romani, si rivelò per Antonio il campo dell’umiliazione. Egli vi fu ignominiosamente dichiarato hostis publicus, proprio come reclamava Cicerone. Antonio, sconfitto, riparò nella Gallia transpadana dove si unì al proconsole Lepido, che deteneva il governo della Gallia narbonese. Cicerone premeva per un riconoscimento da tributare a Ottaviano, pur operando perché se ne frenasse l’ambizione. Il giovane era stato utile alla repubblica per isolare Antonio, ma ciò bastava, non gli si doveva consentire di spingersi oltre. L’imberbe generale, ritenendosi un predestinato, mirava al consolato per garantirsi sia contro Antonio, che si era rinserrato nella Gallia Transalpina, sia contro gli anticesariani nella loro totalità. Con abile mossa proponeva a Cicerone di affiancarlo nella carica consolare. Il vecchio intellettuale si predisponeva ad accettare il condominio con il giovane rampante, ma la situazione era più sfaccettata di quanto egli potesse immaginare. Ottaviano aveva messo a punto il suo piano con cinico opportunismo e con freddezza. Nel Senato si levavano voci a lui ostili, anche perché non aveva l’età legale per ricoprire la suprema carica dello Stato. Incurante di ciò, il giovane decise di affrontare a viso aperto l’alto consesso. Fra i senatori, in molti 365
non si fidavano di quello strano giovanotto che appariva di ghiaccio ma che nell’intimo era arso da bollenti sentimenti di vendetta. Il Senato ordinava a Ottaviano di sostenere il cesaricida Decimo Bruto che stava inseguendo Antonio. Il giovane disubbidì, contrariato dal fatto di aver ricevuto onori inferiori a quelli tributati a Decimo. Ravvisava in quella ingiustizia la volontà dei senatori di servirsi di lui come docile strumento per riportare in auge i pompeiani. Temerariamente si pose al comando di cinquantamila soldati e riprese per la seconda volta a marciare su Roma. La repubblica era nuovamente in pericolo, proprio quando i senatori ritenevano di averla salvata, scongiurando la minaccia di Antonio. Cicerone si batteva il petto per aver sbagliato nell’ergersi a garante di quel fanciullo così sfuggente. Era ormai difficile fermarlo come dimostrò un centurione, Cornelio, che Ottaviano aveva mandato in avanscoperta a Roma. Il soldato irruppe nella Curia sorprendendo i patres con la sua spudoratezza. Agitava minacciosamente una spada e gridava: «Hic faciet, si vos non feceritis», questa lo farà console, se non sarete voi a farlo! Due legioni stanziavano sul Gianicolo, ma Ottaviano con le sue truppe a cavallo le aggirò passando dal lato opposto, attraverso la porta Flaminia. A quell’ardita mossa seguì la resa di coloro che avrebbero dovuto difendere la città, e che invece tripudianti si unirono all’invasore. Splendente e magnifico, Ottaviano entrava applaudito in Roma in piena calura estiva, mentre nel cielo volteggiavano dodici avvoltoi, un presagio di eccelsi destini, augurium maximum, come era avvenuto per Romolo nel momento in cui dava vita all’Urbe. Si arrese anche 366
Cicerone, e Ottaviano nel salutarlo non gli risparmiò un’insolente frecciata, esclamando: «Ecco l’ultimo dei miei amici». Era il 43 a.C., l’anno 711 dalla fondazione di Roma. La città era ai piedi di un giovinetto che però sapeva come comportarsi. Ottaviano prosciugò l’erario per distribuire il denaro ai soldati e farne suoi fanatici sostenitori. Con un decennio di anticipo sull’età stabilita dalla legge, presentò la candidatura a console. Riuscì nell’intento, e il 10 agosto del 43 fu eletto al consolato non ancora ventenne. Ce l’aveva fatta a dispetto di tutti, con ogni arma, soprattutto con la simulazione. Il potere era ormai in gran parte nelle mani dei cesariani appartenenti alla fazione di Ottaviano. Lui non avrebbe potuto avere altro obiettivo se non quello di abbattere Antonio, il capo della contrapposta factio. Andava tuttavia considerando se non fosse più saggio ricercare con lui un’intesa poiché Antonio, il fuggitivo di Modena, aveva stretto nella Gallia Transalpina un’alleanza con Marco Emilio Lepido, che a sua volta aveva trascorsi cesariani, in qualità di magister equitum del dittatore, e che ancora disponeva di gran parte delle truppe da lui ricevute. Con uno spregiudicato colpo di scena politico, Ottaviano e Antonio trovarono un’intesa. Alla testa d’una ventina di legioni si erano messi in marcia lungo la via Emilia col proposito di raggiungere Roma e di occuparla. Ormai console, Ottaviano ritenne che fosse arrivata l’ora d’una svolta nei rapporti con la fazione degli ex cesariani al fine di superare i loro contrasti, per meglio contrapporsi al potere dei repubblicani che avevano sempre odiato Cesare. Tanto più che bisognava guardarsi da Bruto e da Cassio, i quali in Oriente si erano fatti quanto mai minacciosi. Per avere la certezza di eliminarli, Ottaviano tese 367
definitivamente la mano a Marco Antonio, che, essendosi accorto delle preclare doti del giovane, non lo respinse. A quel punto Ottaviano e Antonio erano pronti a sterminare i loro nemici interni, cioè l’intera opposizione senatoria ancora saldamente legata ai princìpi repubblicani. Con questo fine si unirono a Lepido in un triumvirato nel novembre del 43, istituito nei pressi di Bononia (Bologna). La fusione dei tre cesariani si rifaceva all’identica iniziativa che Cesare, Pompeo e Crasso avevano preso diciassette anni prima. Ma se il primo triumvirato non aveva alcun valore legale e somigliava piuttosto a un accordo stipulato tra uomini d’onore per spartirsi il potere, questa seconda unione si presentava come qualcosa di ben più solido e duraturo, volta a riformare la costituzione dello Stato, triumviri reipublicae constituendae. Per mantenere inizialmente il segreto intorno alla loro iniziativa, Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono su una ben difesa isoletta del torrente Lavino, nelle vicinanze della via Emilia. Dovevano guardarsi dai nemici esterni, ma anche fra loro stessi correva un odio mortale. Una volta accordatisi, i tre si misero a marciare su Roma volendo imporre con la forza quanto avevano deciso nel convegno. Tutto il potere si concentrava nelle loro mani, in una dittatura che somigliava al passato strapotere di Silla. Il triumvirato comportava la sospensione della lotta in cui ancora si fronteggiavano Ottaviano e Antonio per succedere a Cesare. Emanarono liste di proscrizione contro i repubblicani. Nella loro spietatezza i triumviri istigavano all’omicidio cittadini e schiavi, garantendo un premio a chi avesse consegnato la testa di qualsiasi proscritto. Nello sterminio dei repubblicani subito cadde assassinato Decimo Bruto, il quale aveva cercato di 368
salvarsi raggiungendo Marco Bruto in Macedonia o Cassio in Siria. Di fronte a quella ferocia impallidivano altre vicende simili, come il massacro dei graccani, l’eccidio di settemila sanniti, la crocifissione di seimila gladiatori di Spartaco. Antonio pretese di inserire nelle liste di proscrizione, che comprendevano centotrenta senatori e duemila cavalieri, l’odiato nome di Cicerone, in quanto sostenitore di Pompeo e dei cesaricidi ai quali aveva fatto concedere l’amnistia. Il vecchio Cicerone si diede alla fuga, prima rifugiandosi nella villa di Tuscolo e poi nella più remota Astura da dove prese il mare col proposito di raggiungere in Macedonia le truppe di Bruto e di Cassio. Dovette tornare indietro a causa del mare in tempesta, e prese nuovamente terra. Lo attendevano gli scherani di Antonio, il quale non aveva dimenticato la ferocia delle Filippiche, con l’ordine di trucidarlo. Egli era in lettiga sulla strada di Formia, quando un centurione lo assalì e gli infilzò un pugnale nella gola. Gli schiavi erano già pronti a difenderlo, ma egli li fermò esclamando: «Lasciate fare all’ingiusto destino». Aveva sessantaquattro anni, e all’amico Attico, in diverso stato d’animo, aveva confidato di aver deciso di mettersi a scrivere di storia, invece di continuare a fare la storia e rischiare così di rimanerne vittima. L’alleanza fra i due maggiori triumviri fu rafforzata dalle nozze di Ottaviano con l’undicenne Claudia, figliastra di Antonio, poiché la madre Fulvia si era sposata con lui dopo aver lasciato Clodio il Bello. L’aver sposato Claudia significava per Ottaviano risentire maggiormente dell’influenza d’una donna crudele e sanguinaria come Fulvia. Le proscrizioni si mutarono 369
in un massacrante regime terroristico. Gli oppositori repubblicani venivano stanati ovunque, con una vera e propria caccia all’uomo. Si procedeva a una nuova suddivisione delle province in tre parti diseguali, a danno di Ottaviano. Antonio fu padrone della Gallia Cisalpina e d’una provincia africana, mentre l’altra provincia africana fu assegnata a Lepido. Ottaviano non ebbe che il pieno potere della Spagna e il possesso teorico della Sicilia e della Sardegna, effettivamente dominate da Sesto Pompeo. Le province orientali restavano alla mercé di Bruto e Cassio. L’Italia, come territorio dell’Urbe, rimaneva indivisa e continuava a essere governata in comune, con l’aggiunta della Gallia transpadana cui si riconosceva la cittadinanza romana.
370
VIII Bruto e Cassio erano stati alfine dichiarati nemici pubblici con l’accusa specifica di aver trucidato Cesare. Questa era la sconfitta di tutti coloro che ancora avrebbero voluto celebrarli come eroici tirannicidi. Ottaviano e Antonio, guardinghi l’uno nei confronti dell’altro, mossero le loro legioni per vendicarsi contro i due cesaricidi. Il contributo bellico di Ottaviano fu pressoché insignificante. Sulle prime, il giovane venne sconfitto in uno scontro con le truppe di Bruto che lo costrinsero a nascondersi fra le canne di una palude, mentre si diffondeva la voce che fosse morto poiché la sua lettiga, in realtà vuota, era stata colpita da una pioggia di giavellotti. Non poté neppure partecipare alla battaglia decisiva in quanto fu preso da una forte febbre che lo teneva inchiodato nella sua comoda tenda di cuoio. La sconfitta dei grandi capi repubblicani e pompeiani appariva inevitabile. In questo scenario si scontrarono nel 42 a Filippi – sulla via Egnazia, tra Oriente e Occidente – le contrapposte forze militari. Da un lato Ottaviano e Marco Antonio, dall’altro lato Bruto e Cassio che uscirono entrambi sconfitti. Prostrato e sgomento, Cassio, battuto da una carica di arcieri di Antonio, si uccise sul campo di battaglia senza venire a sapere della pur breve vittoria conseguita da Bruto su Ottaviano. Cassio si trafisse con lo stesso pugnale col quale aveva colpito il dittatore. Qualche settimana dopo, Bruto, travolto dalle forze 371
unite di Ottaviano e di Antonio, seguì il tragico esempio del compagno buttandosi sulla propria spada sostenuta da uno schiavo. Combattuta la battaglia di Filippi, i triumviri procedevano a una nuova spartizione del mondo. A Ottaviano veniva assegnato l’Occidente, ad Antonio l’Oriente, e a Lepido, il più debole, l’Africa. Mentre Ottaviano governava l’Urbe tra innumerevoli difficoltà, Antonio si attardava oziosamente nelle città dell’Asia tra fumi d’incenso, baccanti discinte e flautisti incantatori. Poi si scagliò contro Ottaviano muovendo dalla radiosa Alessandria, dove con Cleopatra immaginava di dare origine a una sorta di dominio romano-faraonico nello sfarzo d’una «vita inimitabile», fra cerimonie oltraggiose per gli dèi cari all’Urbe. Ottaviano dalla rovinosa Roma attaccava Antonio e la «pazza regina» egiziana, assumendo la figura del nobile difensore della civiltà occidentale. Per vendicarsi di Antonio, la tragica Fulvia si era quasi gettata tra le braccia di Ottaviano, il quale le aveva sgarbatamente risposto in versi: «Se accettassi il tuo amore, Fulvia, vorrebbero amarmi tutte le mogli mal servite e sconsolate». Roma cadde in una nuova guerra civile. A Fulvia e a Lucio Antonio, ambizioso e borioso console per il 42, detentore della città e fratello del triumviro, non fu difficile sommuovere in quel clima gli animi della popolazione che cominciava a inveire contro il giovane erede di Cesare, con l’accusa di essere lui la causa dello sfacelo economico. Ottaviano seppe reagire con gagliardia, e così la città passò dalle mani di quei folli alle sue. Fuggendo da Roma, Lucio Antonio corse a rifugiarsi in Preneste con la speranza che Marco 372
Antonio potesse intervenire in suo aiuto. Ma ancora una volta Ottaviano lo batté sul tempo, perché con grande sollecitudine inviò una sua legione a presidiare il porto di Brindisi per impedire che di lì muovessero nuovi eserciti di Marco Antonio. Quindi, con l’aiuto dei fidi amici Vipsanio Agrippa e Salvidieno Rufo, incalzò le truppe antoniane fin sulle colline di Perugia dove si erano attestate. Tennero d’assedio la città per ben sei mesi costringendo la popolazione alla fame. Senza sosta i soldati di Ottaviano bersagliavano la città dolente. I proiettili scagliati recavano scritte contro la belluina Fulvia che veniva dileggiata con epiteti infamanti e scurrili. La battaglia si concluse con l’orribile distruzione di Perugia. Fulvia fuggì in Grecia dove trovò la morte, mentre Lucio dovette sottostare alla «magnanimità» dell’avversario. Quella vittoria si rivelò decisiva per l’avvenire politico del rampante Ottaviano. Marco Antonio, rigettando su Fulvia le colpe del bellum perusinum, intravedeva la possibilità di un riavvicinamento col giovane erede di Cesare. Lo stesso Ottaviano ricercava nuove alleanze per potersi difendere meglio da un riacutizzarsi delle scorrerie piratesche della flotta pompeiana lungo le coste italiche, ma soprattutto per guardarsi dal rischio d’una quarta guerra civile. Il giovane ricorse ancora una volta a un’alleanza matrimoniale. Aveva restituito intatta a Fulvia l’infantile Claudia e aveva volto lo sguardo a una matura e sensuale matrona, Scribonia, già due volte vedova, con molti figli e più anziana di lui. L’aveva prescelta perché imparentata con Sesto Pompeo. Scribonia era sorella dell’ammiraglio Scribonio Libone di cui Sesto Pompeo, il famigerato pirata, aveva sposato la figlia. 373
Ottaviano pensava in tal modo di poter blandire il figlio di Pompeo, ma Sesto si era nel frattempo accordato con Antonio, e il matrimonio con Scribonia si rivelava inutile. Era stato anche di breve durata, un anno appena. Da questa moglie transeunte ebbe una figlia venuta alla luce il giorno del loro divorzio. Le fu imposto lo stesso nome della figlia di Cesare, Giulia. Ottaviano non rinunciava però ai matrimoni come strumenti di politica. Diede in sposa ad Antonio sua sorella Ottavia, vedova del consolare Caio Claudio Marcello. Furono nozze di particolare rilievo le quali, a dispetto del vistoso intreccio d’amore e di politica che legava fra loro Antonio e Cleopatra, dovevano servire a sancire una nuova pacificazione fra i due rissosi personaggi. In realtà si verificarono nuovi scontri fratricidi che ebbero Brindisi per teatro, e soltanto al termine di quelle zuffe si arrivò a una temporanea pacificazione fra Antonio e Ottaviano. Diligentemente preparata e praticamente negoziata da Mecenate e da Asinio Pollione, la pace fu sottoscritta a Brindisi, sulle cui sponde l’esercito di Antonio non aveva potuto approdare poiché il giovane collega glielo aveva impedito. Con quella pace, a due anni dagli scontri di Filippi, i due maggiori triumviri si spartivano in nuova misura il mondo, mentre al terzo triumviro Lepido venivano concesse le briciole, cioè un problematico possesso dell’Africa. Ottaviano aveva la parte migliore poiché si prendeva l’Italia, la Gallia, l’Illiria, la Dalmazia. Antonio veniva in un certo senso isolato in Oriente, a tutto danno dei cesaricidi. A Sesto Pompeo si lasciava il pieno controllo della Sicilia, della Sardegna, della Corsica, dell’Acaia e si cercava altresì di placarlo ulteriormente con la pace di Miseno, che Ottaviano e Antonio 374
sottoscrivevano con lui nel 39 presso Pozzuoli. Sesto era irritato per il divorzio fra Ottaviano e Scribonia, tanto più che il matrimonio era stato concepito dal triumviro come motivo di conciliazione. Il triumviro ora cercava una giustificazione affermando di non poter sopportare oltre il «carattere perverso» della matura matrona. A ben guardare, le ragioni erano altre. Ottaviano si era invaghito della giovanissima Livia Drusilla, moglie del vecchio Tiberio Claudio Nerone, già perseguitato e costretto all’esilio durante le proscrizioni. Facendo valere la sua autorità e sorprendendo l’Urbe che si riempiva di pettegolezzi, Ottaviano pretese che Tiberio Claudio si separasse da Livia e che senza fiatare gliela concedesse in moglie. Livia, bella, bionda, imperiosa, sagace, era giudicata la più eminente delle romane per stirpe e onestà. Aveva diciannove anni, cinque in meno del nuovo pretendente. Quattro anni prima aveva avuto un figlio cui i presagi assegnavano un eccezionale destino, essendo saltato all’improvviso un pulcino dal guscio di un uovo che lei scaldava con le proprie mani. Il pulcino, e questa era la sua particolarità, aveva una superba cresta già formata e sviluppata. Proprio nei giorni in cui Ottaviano la chiese in sposa, Livia aspettava un secondo figlio, che avrebbe chiamato Druso Claudio Nerone. Ma il triumviro, smanioso di unirsi alla nobilitas romana, volle egualmente bruciare le tappe e la impalmò incinta di sei mesi. Il collegio dei pontifices non si opponeva alle nozze. L’essenziale era che si fosse certi della paternità. Il rito nuziale fu celebrato il 17 febbraio del 38 alla presenza dell’ex marito e del loro primo figlioletto, Tiberio, nato sotto il segno del pulcino prodigioso. 375
Quel bimbo di quattro anni diventava così figliastro del grande triumviro. Livia aderì di buon grado alle nozze. Lasciava un marito vecchio e in disgrazia e ne prendeva uno giovanissimo che, oltre tutto, era il ricco erede di Cesare. L’ambizioso giovane, da provinciale di Velletri, dove non possedeva che uliveti ereditati dal nonno usuraio, già poteva gloriarsi di essere stato adottato dal divo Giulio. Ma ora, a venticinque anni, col suo terzo matrimonio, si univa alle più gloriose famiglie dei Claudi e dei Livi appartenenti al più alto patriziato della repubblica. Con queste nozze si sanciva un’intesa fra il capo del partito cesariano e la più cospicua famiglia di oppositori, fra lui e i gruppi, la nobilitas, che da sempre si erano mostrati ostili a Cesare. Una svolta nella vita del giovane. In un primo tempo i coniugi abitarono nei pressi del Foro sopra le cosiddette Scale dei gioiellieri; poi si trasferirono sul Palatino in un’abitazione assai semplice, arricchita da un piccolo porticato. Le stanze erano prive di marmi e di altri rari ornamenti. L’appartamento privato era al primo piano: una camera da letto, un gabinetto di lavoro e il triclinium dove spesso Ottaviano si raccoglieva con gli amici a parlare o a giocare a dadi. Le aggressioni dei pirati pompeiani erano sempre un grave pericolo per Roma. Ottaviano, se voleva affrontare Sesto una volta per tutte, doveva fornirsi di una vera e propria marina da guerra. L’amico Agrippa ebbe la geniale idea di aprire una grande base navale, unendo fra loro attraverso un canale i contigui laghi di Lucrino e di Averno, nei dintorni di Miseno, mettendoli in comunicazione col mare. In quel cantiere furono 376
costruite con portentosa rapidità, in venti mesi, trecento navi da guerra fra quinqueremi e snelle liburne fornite di torri lanciaproiettili e di lunghi uncini, harpagones, per abbordare i vascelli nemici. Al tempo stesso Ottaviano faceva confluire in Sicilia, attraverso la Calabria, un esercito di ventuno legioni ben equipaggiate. Agrippa, che aveva presieduto alla formazione della flotta, si scontrò con le navi di Pompeo a Nauloco, presso Milazzo, il 3 settembre del 36, sconfiggendolo definitivamente. Con l’eliminazione di Sesto Pompeo, il triumviro, appena ventisettenne, aveva reso sicure quelle acque, proprio come un mare nostrum. Restava da battere ancora Antonio. Antonio progettava di trasferirsi definitivamente ad Alessandria, dove aveva trascorso l’inverno nel «turpe letto» di Cleopatra. E Ottaviano abilmente allestì la trappola che avrebbe originato il fatidico casus belli. Il giovane aveva infatti acconsentito che la sorella Ottavia raggiungesse suo marito Antonio ad Atene. La nobildonna intendeva proseguire con lui nel viaggio verso la Siria, nonostante fosse gracile e malaticcia. Ma non poté farlo, non tanto a causa della sua cattiva salute, quanto per un imperioso divieto della gelosissima Cleopatra. Antonio si piegò al volere della fascinosa regina egizia e non portò con sé la moglie, alla quale anzi ordinò di tornarsene a casa. Si diceva che Ottaviano avesse previsto tutto e che avesse acconsentito al viaggio in Grecia della sorella, certo dei veti di Cleopatra, la quale, già trovandosi ad Atene, non avrebbe sopportato concorrenze. Tali proibizioni avrebbero talmente offeso Ottavia da offrire a Ottaviano una sottile scusa per vendicarla dichiarando guerra ad Antonio. 377
Si era arrivati alla resa dei conti fra i due personaggi. Ottaviano aveva avuto l’accortezza di dichiararsi nemico di Cleopatra e non pure di Antonio, per cui lo scontro assumeva il carattere di guerra esterna e non di conflitto fratricida. Veniva tuttavia implicato anche Antonio in quanto si era ribellato alla patria e si era posto al servizio d’una pazza regina orientale nemica di Roma. Per questo fu dichiarato colpevole di alto tradimento, perduellionis, e di conseguenza privato di ogni carica, a cominciare dal proconsolato. Ottaviano, negli appunti destinati sotto forma di Res gestae a trasmettere ai posteri una sua immagine ammaestrata, scriveva che tutta l’Italia lo seguiva avendogli giurato fedeltà spontaneamente. Lui era potuto scendere legittimamente in guerra, forte di questo consenso, un consensus spontaneo, o indotto dalla propaganda filocesariana. Una battaglia navale definitiva, dopo innumerevoli schermaglie fra i due eserciti, esplose nelle acque di Azio il 2 settembre del 31. La prima mossa fu di Antonio. Egli aveva ormai cinquantadue anni, mentre Ottaviano non era che trentaduenne. Si fronteggiavano due generazioni. Antonio si era attestato in Grecia con diciannove legioni e con l’intenzione di affrontare il rivale su territorio italico. Cleopatra si mostrava contraria, preferendo non muoversi dalla Grecia e attendere l’arrivo del nemico. Nel frattempo Ottaviano, con una flotta maestosa, con quindici legioni e un codazzo di seicento senatori, muoveva da Brindisi e raggiungeva a sua volta il territorio greco. Occupava una posizione estremamente favorevole, un promontorio nel porto di Azio che egli dedicava alla gloria di Apollo. Lo scontro 378
era inevitabile, avendo Antonio intercettato e soppresso Tirso, il messaggero che Ottaviano aveva inviato a Cleopatra per offrirle la pace e per comunicarle in gran segreto di essere pazzo d’amore per lei. In cambio la regina egizia avrebbe dovuto uccidere il compagno e unirsi a Ottaviano, averlo come già aveva avuto Cesare, Antonio, Gneo, lei suprema seduttrice. Al largo si fronteggiavano le due flotte: quella di Ottaviano, forte di quattrocento navi, e quella di Antonio che ne contava cento in più. Nell’una e nell’altra parte dello schieramento le navi apparivano formidabili macchine da guerra, vere e proprie città natanti sormontate da alte torri. Ottocentomila erano nel complesso gli uomini impegnati nella battaglia immensa e feroce. Le acque del mare aziaco spumeggiavano agitate dai remi e dalle prue delle navi, e d’insolita strage rosseggiavano. La battaglia di Azio che Ottaviano vinceva anche in seguito all’improvvisa e vile fuga delle navi di Cleopatra in preda alle fiamme, gli apriva la strada dell’investitura imperiale e segnava il trionfo dell’Occidente sull’Oriente, di una civiltà sull’altra. Per Antonio fu la rovina definitiva. Azio diventava un simbolo per la celebrazione di Ottaviano, mentre per Antonio era la fine. In un intrecciarsi di lotte politiche e di contrapposizioni religiose si proclamava che la battaglia di Azio aveva comportato la sconfitta di goffe superstizioni. Era la sconfitta delle divinità del Nilo, degli dèi mostruosi, i monstra deum di cui diceva Virgilio e nei quali su quel promontorio greco avevano sperato i soldati di Antonio e di Cleopatra. Dopo un nuovo smacco subito nei pressi di Alessandria, Antonio scelse la via del suicidio gettandosi sulla sua spada. La 379
regina egizia trascinò quel corpo sanguinante in una sepoltura faraonica che aveva fatto elevare in onore dell’amato. Quindi lo abbracciò disperatamente mentre si strappava i veli e lo chiamava suo signore, marito e imperatore. Ottaviano diede spettacolo piangendo la morte dell’avversario cui lo aveva legato un doppio rapporto di parentela: lui aveva sposato Claudia, la figliastra di Antonio e Antonio aveva sposato Ottavia, la sorella di Ottaviano. Nell’entrare in Alessandria il vincitore volle ancora offrire una nobile immagine di sé assicurando che non avrebbe usato le armi contro l’innocente popolazione della città. Quindi inviò da Cleopatra un suo raffinato amico, Cornelio Gallo. Lei chiedeva che almeno lasciassero ai figli l’Egitto, mentre si accingeva a circuire con ogni mezzo Ottaviano, illudendosi di conseguire con lui gli stessi lussuriosi risultati che aveva ottenuto con Cesare e con Antonio. Sapeva di essere ammaliante e perciò irresistibile. Esercitò tutte le sue arti di seduttrice in un colloquio che Ottaviano non esitò a concederle. Era attorniata da molti ritratti di Giulio Cesare, in una immensa camera da letto che si estendeva per tutto un piano del palazzo reale. Ma Cleopatra trovò in quel giovane un’invalicabile montagna di ghiaccio, sicché non le si prospettava che il suicidio, come soluzione obbligata volendo scongiurare, «lei superba», diceva Orazio, lo scorno di dover ornare in catene il trionfo dell’invitto a Roma. «No, il trionfale corteo del vincitore io non l’adorno!» esclamava la regina altera. Si fece perciò mordere da un aspide che le avevano portato nascosto in una cesta di fichi. Orazio gioiva: «Nunc est bibendum», e ora beviamo, adorniamo di magnifici cibi le tavole consacrate agli dèi. Così Ottaviano poté 380
dire di aver posto la parola fine a un episodio di guerra che gli storici a lui vicini chiamarono bellum alexandrinum. Con questa vittoria il Mediterraneo diventava il lago di Roma. Se avesse vinto Antonio la capitale del mondo non sarebbe più stata Roma ma Alessandria; se il naso di Cleopatra, disse un filosofo, fosse stato più corto, tutto il volto del mondo sarebbe mutato. Un fatto era certo: dopo anni di stragi fratricide tornava la pace nei popoli che vi avevano aspirato come in una tragedia di Eschilo, con la stessa tensione e un’ansia infinita. A Roma tornava la pace. Ma il vincitore mostrò ancora la sua crudeltà mandando a morte l’inetto Cesarione né risparmiando Antillo, il figlio che Antonio aveva avuto da Fulvia. Eliminare Cesarione equivaleva a sgombrare una volta per tutte il terreno dal pericolo di ritrovare sul proprio cammino un figlio effettivo di Cesare, mentre lui, Ottaviano, ne era soltanto il figlio adottivo. Risparmiò gli altri sei figli di Antonio, nati dall’unione con sua sorella Ottavia. I due figli avuti da Antonio con Cleopatra – Alessandro Elio e Cleopatra Selene – furono sottoposti a ogni ingiuria e costretti a seguire in catene il trionfo che Roma tributava al vincitore. Ottaviano tuttavia non evitava di celare la sua crudeltà sotto una dichiarazione verbale di clemenza, ben sapendo che sarebbero state le sue parole a far testo: «Vittorioso, ho risparmiato tutti i cittadini che imploravano il mio perdono». Ora doveva piegare alla sua volontà l’intero Senato e costruire uno Stato che gli consentisse di assumere tutti i poteri nelle sue sole mani, mentre in pubblico diceva di lavorare per la concordia civica e l’unità nazionale. Mutò la formazione della Curia espellendone duecentodieci patres antoniani con i più 381
svariati anche se non ingiuriosi motivi. Poi, mediante scaltre cooptazioni, legò a sé i patres conscripti che gli dovevano la nomina. Sempre allo scopo di attirare dalla sua parte nuove personalità o di ricompensare chi gli era stato utile, distribuiva con avvedutezza incarichi e prebende. Offriva ricompense agli eserciti; foraggiava materialmente il popolo distribuendo a piene mani grano, vino e olio. Ben duecentocinquantamila plebei usufruivano di quelle regalie. Gli spettacoli erano all’ordine del giorno. Si svolgevano un po’ dovunque, nel Foro, in Campo Marzio, nell’arena del Circo Massimo e perfino nei recinti delle elezioni. Ottaviano sceglieva attori di tutte le lingue, atleti, gladiatori, aurighi, fenomeni da baraccone e animali come rinoceronti, tigri e serpenti. Panem et circenses, dunque, per tener buono il popolo con un pugno di grano e un diversivo teatrale. Con fortuna, abilità, finzione, forza, ferocia e corruzione, l’ambizioso erede di Cesare aveva sconfitto tutti gli avversari. Ora poteva parlare di pace appoggiandosi a un solido partito politico in gran parte composto di novi nobiles o comunque di novi homines. Non trascurava neppure di farsi sostenere dal vecchio patriziato assicurandogli un futuro pacifico. L’ultima lunga guerra civile si era conclusa, ed egli, assumendo via via in sé i poteri civili e militari, diventava a trentadue anni il padrone assoluto del mondo romano. Era assai ricco, più di quanto lo fossero mai stati Crasso e Pompeo. Disponeva personalmente di non meno di centomila schiavi in gran parte addetti alla coltivazione delle sue proprietà terriere sparse in tutto lo Stato o alla custodia delle greggi imperiali. Cesare non ne aveva avuti che tre. 382
Il regime autocratico era ormai un fatto acquisito a Roma, anche se di proposito non riconosciuto ufficialmente. Si era dichiarata la restaurazione della repubblica, ma questa non era che una finzione. Alla stessa stregua era falsa la definizione di cui Ottaviano si gloriava, quella di libertatis vindex, che appariva incisa sulle monete. Egli in qualità di comandante militare era chiamato dux o imperator; per i senatori era princeps e per tutti era divus.
383
IX Non erano trascorsi quattro anni da Azio quando, il 16 gennaio del 27, a conclusione della sua costruzione autoritaria, Ottaviano assunse con un decreto del Senato un cognomen straordinario. Era quello di Augustus che fino a quel momento non era mai stato attribuito ai mortali, ma soltanto ai monumenti consacrati dagli àuspici, come templi e are, che venivano detti «augusti». Ciò annetteva alla sua persona qualcosa di religioso, nel senso che egli stesso era consacrato dagli àuspici, in collegamento etimologico con augur e auctoritas. Lentamente egli favoriva un intrecciarsi fra Stato e religione, nel senso che lo Stato si permeava di religiosità e la religione si integrava nello Stato. Volle che lo chiamassero Caesar Augustus, figlio del divo Giulio. Per garantirsi che il suo nuovo nome arrivasse a tutti e fosse celebrato in ogni luogo, lo inserì nel calendario chiamando Augustus, agosto, il mese di Sextilis, così come il mese di Quintilis si era chiamato Iulius, luglio, da Giulio Cesare che in quel mese era nato. Il principe Ottaviano diede il proprio nome all’antico Sestile poiché in quel mese aveva ottenuto il suo primo consolato, trascurando il fatto di essere venuto alla luce in settembre. L’appellativo di Augustus si rivelò felice, anche perché Ottaviano aveva evitato una denominazione che ricordasse i re e la monarchia, forme istituzionali odiate dalla popolazione 384
romana, tradizionalmente repubblicana. Augusto si rendeva conto che, per regnare, doveva dire di non essere re. Egli riprendeva astutamente la concezione del dittatore scomparso. Era certo che, senza assommare tutti i poteri nelle mani d’un solo uomo con il formale consenso del popolo, non si sarebbe potuto più governare sull’immenso dominio romano. Bisognava però non scoprire il gioco, e professarsi repubblicano, lavorando occultamente per una soluzione monarchica. Alla ricerca di un sempre più esteso consenso, Augusto si attorniava di uomini di cultura e di poeti perché fossero i cantori delle sue gesta. Favoriva la costituzione di una classe di intellettuali-cortigiani al suo servizio. La mediazione a tempo pieno fra il potere politico e gli intellettuali fu soprattutto opera del raffinato Mecenate, il quale si muoveva come un grande ministro della propaganda, della persuasione. Aveva costituito un circolo dove si lavorava per diffondere l’idea che Augusto fosse di natura divina, un uomo fatto dio, tale da donare ai romani un secolo d’oro, un secolo di pace, un secolo senza guerre civili. Virgilio era il più lirico e suadente: «Pascite ut ante boves, submittite tauros», pascolate i buoi come un tempo, aggiogate i tori. Al circolo di Mecenate partecipavano attivamente oltre allo stesso Virgilio, anche Orazio e Properzio. Tutti magnificavano la grandezza della Città Eterna, ma stranamente nessuno vi era nato. Ovidio e Tibullo aderivano invece al circolo di Marco Valerio Messala Corvino, grande oratore e scrittore elegiaco oltre che comandante militare. Ovidio nell’anno 8 d.C. fu condannato all’esilio sul Mar Nero per ragioni sconosciute ma che avevano certamente a che fare con un paio di lenzuola. Già sarebbero 385
bastati i versi erotici della sua Ars amatoria e l’attrazione che il poeta esercitava sulla gioventù dorata dell’Urbe a mettere in allarme il principe, ma c’era dell’altro. Lo stesso poeta, pur parlando della coincidenza di due elementi – carmen et error – non rivelò mai di quale errore si trattasse. Ovidio, sensibile al fascino femminile, aveva avuto per amante Giulia, la figlia di Augusto. Ma non era questo il motivo dell’esilio. C’era qualcosa di più che tuttavia non si riusciva a svelare. C’era chi azzardava l’ipotesi che il poeta avesse involontariamente e sventuratamente scorto Augusto scherzare con la figlia Giulia più di quanto sia permesso alla tenerezza di un padre. Era uno scherzo incestuoso, e assistere a quella scena gli costò caro. Gli aderenti al circolo di Mecenate si adoperavano per affermare un’idea escogitata da Ottaviano: lui, come uomo fatto dio, era destinato dalla provvidenza celeste a compiere un’eccelsa missione in terra, quella di dominare da solo su Roma e di affermare la pace nel mondo. Di qui la Pax augusta, tale da far impallidire la Pax Alexandri. I poeti producevano opere che esaltassero la figura del principe e la sua politica. Virgilio componeva le Georgiche per diffondere le idee di Augusto, favorevoli alla restaurazione pacifica del vecchio tipo di agricoltore che le guerre di conquista e quelle civili avevano immiserito. Componeva l’Eneide e le Egloghe, come un inno a Roma e alla stirpe augustea. Uno storico di Padova, Tito Livio, innalzava un ciclopico monumento storiografico alla grandezza della capitale. E Augusto dava mano a una radicale renovatio Urbis, perché Roma potesse porsi al livello delle più famose e celebrate città ellenistiche, grandi e pullulanti di vita e di cultura. Fondò nuove 386
biblioteche, badando a quali libri immettervi. Restaurò il Campidoglio, ampliò il teatro di Pompeo, completò il Foro Giulio. Sistemò a sue spese l’intero tracciato della via Flaminia, da Roma a Rimini. Ai grandi personaggi che avevano celebrato un trionfo impose di lastricare altre strade col denaro dei bottini di guerra. A Marco Valerio Messalla toccò la ristrutturazione della via Latina. I monumenti più significativi furono il Mausoleo, che Ottaviano aveva destinato a se stesso, per il momento del trapasso, e l’Ara Pacis Augustae. Questo solenne altare rappresentava la massima apologia del governo augusteo scolpita in marmo. Fra scene mitologiche, animali sacrificali, ricche decorazioni, episodi di battaglie e ritratti di famiglia si celebrava il felice ritorno del principe dalla Spagna e dalla Gallia nel 13 a.C. Si voleva principalmente suggellare il definitivo raggiungimento della Pax romana in tutto lo Stato. Il tempio di Giano, che era sempre rimasto aperto durante le guerre, veniva alfine chiuso, e Augusto ne era tanto orgoglioso da innalzare appunto con l’Ara Pacis una magnifica ode marmorea a quegli anni sublimi. Non meno solenni monumenti in versi tributava Orazio al principe. Augusto ancora fece incidere parole gloriose: «Ianum Quirinum, quem clausum esse maiores nostri voluerunt...», il tempio di Giano Quirino che i nostri padri vollero fosse chiuso, quando regnasse la pace in tutto l’impero del popolo romano, e che avanti la mia nascita si ricordava chiuso dalla fondazione della città due volte soltanto, il Senato decretò, essendo io principe, doversi tre volte chiudere. Nella ristrutturazione urbanistica della città, Augusto dedicò a se stesso un Foro a due portici. Vi profuse molte statue, 387
commissionate a raffinati artisti greci. I monumenti onoravano Enea, il progenitore di Roma, e ancora Romolo e Giulio Cesare insieme ai grandi condottieri che avevano reso la città immortale e ai quali i romani dovevano tributare eterna riconoscenza. Il monumento che rappresentava lui stesso era il più spettacolare. Egli vi era raffigurato solare e marziale, con nelle mani le briglie di una quadriga d’oro. Ora le strade dell’Urbe erano ampie, ben pavimentate e soprattutto pulite. Le case erano costruite in mattoni, non più in legno e si prevenivano così gli incendi che in passato esplodevano numerosi. Alle insulae, quei palazzoni condominiali in cui il popolo abitava numeroso e rumoroso, si era sostituita la tranquilla domus, una villetta a un piano. L’antica città repubblicana costruita con fragili mattoni rossi, essiccati al sole, o col legno di quercia, si trasformava in una splendente e marmorea urbe imperiale. Il principe se ne faceva vanto senza remore. La pace regnava su Roma, dopo anni di lotte intestine. Augusto tuttavia dovette recarsi in Gallia e in Spagna, dove quei popoli si erano risvegliati. La turbolenta tribù gallica dei salassi fu la prima a essere colpita e sconfitta dalla spietatezza di Terenzio Varrone Murena. Augusto si spingeva in quelle remote regioni non soltanto per rendere militarmente più sicuro l’impero, ma anche per farlo più solido economicamente. L’oro delle miniere dei salassi e di altri barbari, come gli asturi e i cantabri, serviva a rivitalizzare l’erario romano. Nella campagna del 25 contro i cantabri dell’Iberia settentrionale, Augusto si fece accompagnare dal figliastro sedicenne Tiberio che già rivelava doti militari. Il principe aveva voluto con sé anche il nipote 388
Marco Claudio Marcello, figlio di sua sorella Ottavia e coetaneo di Tiberio. Fra i due ragazzi, egli preferiva apertamente Marcello, «bello d’aspetto e d’armi splendido». Già durante la sfilata trionfale verso il Campidoglio per la vittoria di Azio, entrambi i giovinetti guidavano la quadriga del trionfatore, però Marcello stava al posto d’onore, sul cavallo esterno di destra, mentre Tiberio cavalcava quello interno di sinistra. Al ritorno dalla spedizione iberica, Augusto confermò in maniera inequivocabile le sue predilezioni per Marcello, al quale aveva conferito, ancora fanciullo, cariche edili e pontificali. Il principe non aveva figli maschi, ma egualmente desiderava che alla sua morte il potere passasse nelle mani di un consanguineo come prima mossa verso una monarchia ereditaria. Questa era una prospettiva resa possibile dalla ereditarietà della «autorità tribunizia» di cui egli si era scientemente fornito. Intendeva, e lo sancì in un editto, conferire allo Stato una forma permanente di sicurezza, sulle basi da lui stesso gettate. Le nozze fra il sedicenne Marcello e la quattordicenne Giulia fecero del ragazzo il legittimo erede al trono di Roma, mentre Augusto poteva ora accogliere più tranquillamente nella sua dimora Tiberio e il suo più giovane fratello Druso. Il principe però vedeva sfumare i suoi progetti sulla successione poiché Marcello, ad appena due anni dal matrimonio, moriva nel rimpianto generale a Baia. Lo aveva curato, ma inutilmente, il celebre medico di Augusto, il liberto greco Antonio Musa. Il medico aveva imposto al giovane lunghe abluzioni con acqua fredda così come faceva col principe. Musa si richiamava al principio di Ippocrate di curare i mali con i loro contrari, ma quei bagni tanto miracolosi per la malcerta salute del principe, si 389
rivelarono funesti per il giovane Marcello. Le ceneri dell’erede scomparso vennero accolte nel mausoleo augusteo, ed egli era il primo della grande famiglia imperiale a entrarvi. Augusto pronunciò l’orazione funebre, e Virgilio scrisse nell’Eneide un’ode all’infelice fanciullo. La morte di Marcello riapriva la questione della successione dinastica. Il principe allora decise di dare a sua figlia Giulia un secondo marito, sebbene la ragazza fosse ancora addolorata per la scomparsa del primo, il cugino Marcello. Il preferito fu il caro e fedele amico Marco Vipsanio Agrippa. Già una volta il principe, in favore di Marcello, aveva escluso che fosse lui lo sposo della figlia, ma ora la scelta gli appariva obbligata. Agrippa, che si era offeso, otteneva alfine la rivincita. Sposava proprio la vedova dell’uomo che era stato il suo più temibile concorrente nella successione e che lo aveva battuto. Mecenate, che non aveva molta simpatia per Agrippa, ne riassumeva drammaticamente la condizione. Diceva: «Quell’uomo era in bilico: o essere ucciso o diventare il genero dello Stato». Fra gli sposi correva una sensibile differenza d’età: ai quarantadue anni dell’uno corrispondevano i ventuno dell’altra, ma la ragion di Stato augustea guardava oltre il sacrificio d’una figlia. La tortuosa Livia disapprovava l’unione poiché avrebbe preferito altre nozze: quelle tra il figlio Tiberio e la figliastra Giulia. L’evento avrebbe fatto del giovane il predestinato alla successione. Dal matrimonio tra Agrippa e Giulia nacquero più figli: Caio, Lucio, Giulia che si chiamerà Minore, Agrippina che si chiamerà Maggiore, e infine Agrippa, il quale venendo alla luce dopo la morte del padre fu appellato Postumo. Le attenzioni di Augusto 390
andavano ai maschi, che immise nel gioco della successione. Li adottò e per questo fatto divennero Caio Cesare e Lucio Cesare. Tuttavia il princeps faceva ormai grande affidamento su Marco Vipsanio Agrippa, tanto da elevarlo al rango di co-reggente. Lo vedeva come erede, in caso d’una sua morte prematura, o almeno come tutore dei nipoti e reggente fino al raggiungimento della maggiore età di Caio Cesare che, essendo il primogenito, era destinato a prendere il primo posto al vertice dell’impero. Purtroppo morì anche Agrippa, e l’unione con Giulia non era durata che nove anni. Augusto dovette rivedere i piani della successione. Il problema si faceva eterno e tormentoso. Sulla scena non c’era che Tiberio, l’«inviso figliastro», e a lui dovette rivolgersi. Lo scelse come nuovo genero imponendogli di subentrare ad Agrippa nell’ormai frequentatissimo talamo nuziale di Giulia. E c’era da affrettarsi. Non si poteva escludere che nella decisione di Augusto avesse pesantemente influito la moglie Livia, che aveva una propria strategia ereditaria. Grande era infatti l’importanza che rivestiva per la successione essere il consorte di Giulia e quindi il genero del principe. Livia, colma di pene materne, tramava in favore del figlio. Era sempre stata astuta e abilissima negli intrighi di palazzo tanto da essere chiamata un Ulisse in abiti femminili. Per impalmare Giulia, Tiberio fu costretto a divorziare dalla figlia di Marco Agrippa, Vipsania Agrippina, di cui era fortemente innamorato. Agrippina gli aveva dato un figlio che avevano chiamato Druso, come l’amato fratello. Ora Agrippina era nuovamente incinta. Ma una donna gravida non costituiva un ostacolo per la ragion di Stato, e Augusto, nella sua azione 391
matrimoniale-divorzistico-successorio-dinastica, fu inesorabile. Aveva emesso un ordine, bisognava eseguirlo. Tiberio soffrì enormemente nel dividersi da Agrippina. Né gli piaceva Giulia, troppo pronta a concedersi alla passione dell’uno o dell’altro. Fortunatamente le guerre lo scaraventavano in luoghi remoti. L’impero aveva tanti fronti aperti, e Augusto, nell’estate del 15, inviò Tiberio insieme al fratello Druso nelle Alpi centrali a combattere le popolazioni dei rezi nel Tirolo e dei vindelici in Baviera. Questi popoli furono inclusi in una nuova provincia, la Rezia. Per i norici venne istituito fino al Danubio, fino a Vienna, il Regno norico, creando così una sorta di bastione a difesa delle vie d’accesso verso l’Italia. Una nuova sedizione della Pannonia si era estesa ai dalmati, e Tiberio dovette accorrere in quei luoghi. Sconfisse il nemico su entrambi i fronti, per cui diede vita alla grande provincia dell’Illirico che si estendeva dall’Adriatico e dal Norico fino alla Tracia, con a nord il Danubio e a sud la Macedonia. In tal modo si collegavano fra loro l’Occidente e l’Oriente rendendo lo Stato territorialmente compatto. Augusto, che con Tiberio era parco di riconoscimenti, si mostrava magnanimo con Druso. A corte si accreditava ulteriormente la falsa diceria che lo voleva suo figlio naturale. Appariva strano che il principe preferisse Druso a Tiberio, ma la stranezza derivava dal fatto che il primo era un suo avversario politico poiché, da fervente repubblicano, prometteva al Senato di ristabilire le antiche libertà. Vittorioso era stato Druso nella guerra germanica, varcando il Reno, invadendo i popolosi territori dei catti, dei cherusci, dei suebi, dei sigambri. Breve fu però la sua gloria. Il giovane 392
generale si trovava sull’Elba, mentre il fratello si apprestava a tornare verso i confini orientali dell’impero. Tiberio era arrivato a Ticinum (Pavia) quando apprese da un messaggero che Druso, sulle rive dell’Elba, in un luogo subito chiamato Scelerata Castra, era caduto da cavallo e si era fratturato un femore. Le conseguenze della caduta si rivelarono mortali.
393
X Alla notizia della fine imminente di Druso, Tiberio si trovava sui lontani e turbolenti confini della Germania. Superò le Alpi e il Reno, percorse a cavallo il tragitto senza fermarsi se non per cambiare via via cavalcatura, senza togliersi mai di dosso la corazza. Arrivò giusto in tempo sull’Elba perché l’amato fratello gli spirasse fra le braccia. Druso non aveva che trent’anni. Il principe incaricò Tiberio di proseguirne l’azione per mettere a tacere i germani, fare di quelle terre una provincia romana e rafforzare i confini sul Reno. Augusto affidava sempre nuove e scabrose missioni al figliastro, e si sospettava che lo facesse per tenerlo lontano dall’Urbe. Ormai Tiberio era certo che la strada della successione al principe gli fosse sbarrata. E ne trasse le conseguenze. Una mattina – nel pieno della maturità, aveva trentasei anni – sorprese tutti: lasciò Roma, e con una piccola nave raggiunse una lontana isola dell’Egeo, Rodi, dove si chiuse in volontario e sdegnoso esilio. Roma e il mondo intero furono colpiti da una decisione così grave e repentina. Era il 6 a.C. Nell’Urbe si diceva che Tiberio fosse fuggito anche perché disgustato dalla condotta immorale della moglie. La giovane Giulia non aveva limiti nella dissolutezza. Durante le assenze del marito, chiamato dalle guerre, imbandiva raffinate cene nelle quali l’ospite d’onore era l’uno o l’altro dei suoi amanti. Particolarmente vergognosa apparve la relazione adulterina che 394
aveva intessuto con il cugino, il consolare Iullo Antonio, bello e vigoroso, nato dall’unione fra il triumviro Marco Antonio e la terribile Fulvia. Lo stesso Augusto fu costretto a punirla, offeso dall’adulterio che lei aveva consumato con Iullo nell’ambito della famiglia reale. Fece processare la figlia che, condannata alla relegazione, fu inviata sull’asperrima isola di Pandataria, a poca distanza dalle coste della Campania. Dura era la relegatio in insulam, ma non poteva comportarsi diversamente colui che aveva voluto la lex Iulia de adulteriis nel tentativo di moralizzare la vita romana. Rintanato nel suo lontano eremo, Tiberio meditava di non tornare mai più indietro. Evitava di incontrarsi con le personalità romane, magistrati, proconsoli, generali, che si fermavano per qualche giorno a Rodi nei loro viaggi in Oriente. Giudicò utile fare un’eccezione con il giovane Caio Cesare che navigava in quei mari alla testa della flotta romana. Se lui viveva solitario su quello scoglio, anche Augusto si trovava immerso in una profonda solitudine nella città eterna. Vipsanio Agrippa era morto da sei anni, era morto anche Druso. Era scomparso Virgilio, e da due anni se ne erano andati Orazio e Mecenate. Tiberio cominciò a temere per la sua incolumità. Rodi gli appariva come l’isola degli attentati, così si rivolse alla madre affinché lo facesse uscire dall’esilio in cui si era volontariamente infilato. Il patrigno resisteva alle insistenze di Livia, e soltanto per una fortunata coincidenza acconsentì che l’esule lasciasse Rodi. L’esilio, in parte volontario in parte forzato, si era prolungato per poco meno di otto anni: Tiberio nel 2 d.C. rientrava a Roma sulla soglia del quarantatreesimo anno di età. Tornava disfatto e umiliato, ma deciso a farsi valere, sebbene 395
Augusto lo avesse ridotto nelle condizioni di privato cittadino. A Roma trovava in piena attività i due giovani Cesari, Caio e Lucio. Essi erano più che mai i prediletti del principe. Sembrava davvero che la sua carriera politica fosse finita, quando alcuni eventi imprevisti lo rimisero in gioco. Proprio allora Lucio era in viaggio per raggiungere gli eserciti di Spagna, ma, arrivato a Marsiglia, cadde misteriosamente ammalato. In pochi giorni morì. Era il 20 agosto del 2 d.C. A Roma circolava il sospetto che Livia, per mano dei suoi complici, non fosse estranea alla morte prematura del giovane. Si parlava di un avvelenamento, e in molti erano convinti che fosse stata Livia a sbarazzarsi di Lucio per fare largo al figlio sulla strada della successione al principato. La casa di Augusto appariva bersaglio della cattiva sorte, e difatti non passarono venti mesi che un nuovo lutto si abbatté sulla corte imperiale. L’altro nipote amato dal principe, Caio Cesare, il giovane già sostanzialmente designato alla suprema magistratura dello Stato, veniva gravemente ferito in Armenia, ad Artagira, dove si era recato con le legioni per ristabilirvi la potestà romana. Già da tempo perdurava l’assedio di quella città, quando il comandante delle truppe armene, Addone, chiese un colloquio a Caio. Gli fu concesso, e Addone, nel pieno dell’incontro, sguainò una spada e colpì il giovane generale, che aveva ingenuamente creduto alla possibilità di intavolare trattative col nemico. Caio non pareva grave, cosicché i soldati romani poterono riprendere la battaglia, annientare gli armeni e invadere Artagira. Ma la ferita, che non si era mai rimarginata, lo condusse alla morte durante una sosta a Limyra, in Licia. Aveva ventitré anni. Anche per Caio si mormorava che fosse 396
stata Livia a toglierlo di mezzo. Si era fatto il vuoto attorno al principe che invecchiava rapidamente, e dal vuoto spuntava la figura del figliastro Tiberio come unico possibile successore. Vicino ai settant’anni, Augusto era sempre più costretto, anche a causa della sua incerta salute, a trascurare il governo dell’impero dalle frontiere così vaghe e irrequiete. La stirpe Giulia non aveva più eredi validi da offrirgli, e a lui non rimaneva che scegliere Tiberio, un Claudio altero. Glielo offriva il fato. Nemmeno l’uomo più potente della terra, come egli era, avrebbe potuto far finta di nulla. A riconciliazione avvenuta si celebrò l’adozione, il 26 giugno del 4 d.C., a soli quattro mesi dalla morte di Caio Cesare. Da quel momento l’adottato assumeva i nomi di Tiberio Giulio Cesare. Nel presentarlo al Senato, Augusto esclamò in maniera sibillina: «Faccio questo nell’interesse dello Stato». Era come dire: sono costretto a prendere questa decisione, ma la mia scelta personale sarebbe stata un’altra! Augusto per sua volontà non avrebbe mai passato le redini del principato da un esponente dell’amata famiglia Giulia – della quale egli faceva parte – a un personaggio della disistimata famiglia Claudia. Eppure la storia della nobile e vigorosa stirpe dei Claudi sconfinava nella leggenda. Antenati di Tiberio erano quell’Appio Cieco, che aveva aperto la via Appia, regina delle strade, e che aveva costruito il primo acquedotto romano, e quel Caio Claudio Nerone, console, che aveva sconfitto Asdrubale sul Metauro nel lontano 207 a.C., decapitandolo e inviandone la testa al fratello Annibale. La successione ormai sancita dava a tutti una speranza di pace interna, ma non mancavano le guerre esterne. La prima impresa che Augusto affidò al figliastro, nelle nuove vesti, fu quella 397
germanica. Tiberio tornava in Germania per la terza volta, continuando a vincere e a ottenere nuovi trionfi. Attuò una colossale manovra a tenaglia per terra e per mare. Il nemico si vide perduto; i cherusci, i longobardi, i cimbri, i cauci, i senoni vennero sconfitti. I soldati romani erano arrivati sull’Elba e il nemico non credeva ai propri occhi, poiché, in forza della riuscita manovra anfibia, si trovò preso in una morsa fra le truppe di terra e la flotta romana che, provenendo dal Mare del Nord, aveva risalito il fiume. Il grande generale aveva ora mano libera per colpire l’obiettivo principale della spedizione: abbattere le inespugnabili fortezze dei marcomanni, nella Germania occidentale, il cui re Maroboduo aveva attratto a sé alcuni popoli vicini rappresentando un grave pericolo per i confini dell’impero. Le legioni tiberiane stavano già per assalire l’esercito di Maroboduo, quando si diffuse la notizia d’una rivolta nell’Illirico. La sollevazione era causata da un’eccessiva pressione fiscale, e difatti un capo ribelle pannonico, Batone, diceva: «I romani non pongono a guardia delle loro greggi cani o pastori, ma lupi!». Si temette che gli insorti della Pannonia e della Dalmazia potessero unirsi ai marcomanni, raggiungere Aquileia, invadere l’Italia ed essere a Roma in meno di dieci giorni, come disse lo stesso Augusto in Senato. In quattro anni, con quindici legioni e una massa di truppe ausiliarie, pari a centoventimila uomini, Tiberio evitò questo rischio vincendo una guerra che poté essere paragonata a quella condotta contro Annibale. Il generale tornò a Roma nell’autunno del 9 d.C., fulgente di gloria militare. Era arrivato da cinque giorni appena, quando, 398
proprio dalle lontane terre della Germania, sopraggiunse una notizia luttuosa, una delle più funeste: tre legioni romane, tre squadre di cavalleria e sei coorti di ausiliari erano state annientate nel folto di una foresta nei pressi di Teutoburgo, a opera del venticinquenne capo dei cherusci, Arminio. La responsabilità dell’immane carneficina sembrava ricadere sul governatore della provincia, il cinquantanovenne Publio Quintilio Varo, imparentato con Augusto per averne sposato la pronipote Claudia Pulcra. Scegliere Varo come governatore era stata la più infelice delle mosse, difatti egli non sapeva mantenere in soggezione quei popoli indocili, illudendosi di poterli reggere con la toga del pretore e non più con la spada del soldato. Riteneva di poterli romanizzare introducendo fra loro i costumi e le leggi dell’Urbe. Si illudeva insomma di poter collaborare con i germani. Era tutto un po’ assurdo, e il capo dei cherusci fu pronto a cogliere un’occasione favorevole. Arminio era amico di Augusto, e aveva militato agli ordini di Tiberio. Nessuno poteva sospettare di lui, tanto che alla vigilia dell’insurrezione era a cena, ospite di Varo. Quando i ribelli attaccarono le truppe romane, Varo rimase incredulo alla notizia. Le schiere del governatore si stavano aprendo faticosamente la strada a colpi d’ascia, sotto la pioggia, in un terreno paludoso, nel cuore di una foresta, volendo tornare agli accampamenti invernali del Reno e attendervi la primavera. Assalite alle spalle, a tradimento, le legioni vennero sterminate fino all’ultimo uomo. Molti legionari furono sepolti vivi o crocifissi, le teste di altri furono appese agli alberi, ad altri ancora furono cavati gli occhi. Caddero ventimila soldati, per 399
cui la foresta di Teutoburgo, teatro della carneficina, divenne in Roma sinonimo di ignominia come lo fu Canne ai tempi della sconfitta subita per mano di Annibale o come lo fu Carre dove era stato travolto l’esercito di Crasso. Nell’Urbe esplosero tumulti di protesta, e Augusto sul Campidoglio chiese la protezione di Giove Ottimo Massimo. Il vecchio principe – già settantunenne – era sconvolto dal dolore per la perdita di un magnificentissimus exercitus formato da soldati provenienti per la maggior parte dall’Italia centrosettentrionale. Per protesta non volle più avere i poderosi armigeri germanici nei reparti della sua guardia del corpo; vestì a lutto; si lasciò crescere per mesi la barba e i capelli senza più tagliarli. «Quintili Vare, legiones redde», Quintilio Varo, rendimi le legioni, gridava battendo la testa contro lo stipite delle porte. Ma Varo non poteva che rendere a Giove la propria vita, e si uccise per il disonore. Non era cosa semplice la ricostituzione delle legioni perdute. Il principe tuttavia si dedicò all’impresa anima e corpo, pur cercando di rimuovere dalla coscienza popolare la tragedia di Teutoburgo tanto da ignorarla lui per primo negli appunti che andava preparando per le sue memorie. Richiamò i veterani e liberò migliaia di schiavi per farne soldati; ricorse ad arruolamenti forzati e alla minaccia di morte per i renitenti; incluse nell’esercito, e in particolare nelle nuove legioni destinate alla Germania, i peggiori delinquenti dell’Urbe. Ma non si poteva più sperare di riportare le aquile di Roma sull’intera Germania. I confini dell’impero si stabilizzarono sulle rive del Reno, un limite arretrato rispetto all’Elba, il fiume che i romani avevano precedentemente raggiunto. 400
Tiberio marciò nuovamente verso il Reno, ma Augusto già pensava di sostituirlo con un generale più giovane, forte e ambizioso, quel Germanico, figlio del suo sfortunato fratello Druso e di Antonia, la nipote del principe. Tiberio era ormai anche formalmente il co-reggente, come lo era stato Agrippa. Fin dai giorni dell’adozione, che risaliva a dieci anni prima, Tiberio era sostanzialmente il capo dello Stato. Quasi all’improvviso Augusto mostrava affezione per il figliastro. Nel luglio del 14 d.C. lo volle con sé sull’isola di Capri, dove si era recato con l’intento di trascorrervi alcuni giorni di riposo e per lenire i dolori lancinanti che gli provenivano dagli assalti delle coliche renali. Lasciò Roma da solo, fece tappa sulla costa dell’ampio golfo di Gaeta, dove era caduto Cicerone per mano dei sicari di Antonio. L’aver invitato Tiberio a Capri fu cosa che stupì tutti, perché mai prima di allora aveva chiesto al figliastro di accompagnarlo in un luogo di villeggiatura. Ma il principe non era mai stato così male in salute come in quel luglio afoso. Zoppicava più vistosamente del solito sulla gamba sinistra pur sostenendola con stecche e bende. Doveva appoggiarsi a Livia, ma non disdegnava di farsi puntellare da Tiberio. Lo spettacolo suscitava pietà anche in chi non lo amava. Lui temeva che l’isola dell’ozio potesse mutarglisi in isola della morte. Tuttavia chiamava con nostalgia Apragopoli, città del dolce far niente, un isolotto prospiciente Capri che gli era diventato particolarmente caro. Sostò nell’isola per quattro giorni. Durante la breve e dolorosa vacanza aveva messo a punto alcune pagine delle memorie in cui, gloriandosene, riassumeva le imprese con le quali aveva esteso l’impero. Era meticoloso nel racconto, ma 401
non sempre veritiero. Ricordava come avesse ridotto a obbedienza le province galliche e ispaniche e anche la Germania, là dove era il confine dell’oceano da Cadice alle foci dell’Elba. Ribadiva la decisione di tacere il disastro di Teutoburgo. Rievocava come avesse pacificato le Alpi, dalla regione presso il mare Adriatico fino al Tirreno. La sua flotta aveva navigato per l’oceano dalla foce del Reno verso la regione del Sol Levante fino ai territori dei cimbri, dove né per terra né per mare alcun romano era ancora mai penetrato. I cimbri, i caridi, i senoni e altre popolazioni germaniche della stessa regione gli avevano inviato ambasciatori per invocare l’amicizia sua e del popolo romano. Sempre con scarsa aderenza alla realtà storica registrava come, dietro suo ordine, fossero stati inviati due eserciti in Etiopia e nell’Arabia detta Felice. Si vantava di aver aggiunto l’Egitto all’impero. Parlava della situazione armena, ricordava come avesse riconquistato tutte le province che al di là del mare Adriatico volgevano a oriente, e Cirene, e la Sicilia e la Sardegna. Aveva stanziato colonie di soldati in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due province di Spagna, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia narbonese, in Pisidia. Aveva costretto i parti a restituirgli le spoglie e le insegne. Per mezzo di Tiberio aveva sottomesso le popolazioni dei pannoni, mai raggiunte prima dai romani, e aveva esteso i confini dell’Italia fin sulle rive del Danubio. Augusto e il figliastro lasciarono Capri. Il principe dovette fermarsi a Napoli colto da dolori intestinali. Poi proseguì con Livia verso Benevento da dove dirottò su Nola. Il figliastro, che aveva appena raggiunto le frontiere dell’Illirico, ricevette una 402
lettera urgente della madre che gli chiedeva di tornare informandolo di come il patrigno fosse in punto di morte e lo reclamasse al capezzale. Augusto si aggravò, e dovette fare una nuova sosta nell’agro di Nola dove possedeva una villa in collina. Era la vecchia abitazione che gli aveva lasciato il padre Ottavio. La chiamavano l’Octavianum, o anche, per bellezza e imponenza, la Villa Summa. Le condizioni di salute del principe erano allo stremo, e Tiberio non perse un attimo di tempo per vedere il patrigno un’ultima volta ancora vivo. Poté parlargli, ma per poco. Era il 19 agosto del 14 d.C. Il principe morente aveva settantasette anni non ancora compiuti. La febbre che in quei giorni lo aveva tormentato fra incubi e visioni parve placarsi. Volle uno specchio. Rimirandosi in esso si fece pettinare i pochi capelli che gli ricadevano sulla fronte. Chiese che gli spargessero un po’ di belletto sulle guance cadenti. Poi, socchiudendo gli occhi, si rivolse ai pochi che gli stavano intorno per sapere se aveva ben recitato la commedia della vita, non senza aggiungere in greco, la lingua che non aveva mai imparato a parlare fluidamente pur ricorrendovi spesso, la frase di prammatica che gli attori pronunciano al termine della recita: «Se tutto è andato bene, se il mimo v’è piaciuto, / D’un generale applauso rendetemi il tributo». A morte avvenuta, si diffuse in un lampo la voce che lo avesse ucciso la moglie dandogli da mangiare, goloso com’era di fichi, alcuni di questi frutti da lei avvelenati. A Roma non si parlava che di Livia, la grande avvelenatrice, e del resto non era assurdo immaginare la presenza della sua mano segreta, essendo lei celebre per le sue cospirazioni. Sembrava impossibile che 403
soltanto lo stillicidio della carneficina in famiglia avesse spianato la via a Tiberio e non ci fosse anche lo zampino della sorte. Alle voci maliziose si contrapponeva la cerimonia della divinizzazione del principe avendo un senatore testimoniato di averlo visto salire al cielo. Il figliastro, l’erede non desiderato, prendeva il posto del divus Augustus a cinquantasei anni. Cesare, Augusto, Tiberio diventavano gli anelli d’una stessa catena – l’ideazione, la costruzione, il consolidamento dell’impero – sebbene le redini dello Stato passassero dalla gens Iulia alla gens Claudia. Con l’apertura del testamento si confermavano i sospetti che facevano della scelta di Tiberio qualcosa di obbligato, in linea con la scelta del principio dinastico. Difatti le stesse prime parole del documento dicevano: «Poiché la sorte mi ha rapito i figli Caio e Lucio, nomino Tiberio Cesare mio erede». Appariva come chiaro che il sovrano aveva chiamato l’inviso figliastro a succederlo più per la necessità imposta dal destino che per sua libera volontà. Del resto Tiberio si era sempre affidato al destino, e ciò gli aveva dato l’animo di reggere alle infinite contrarietà della vita. «I fati troveranno la via», il virgiliano fata viam invenient era un suo motto sicuro: le cose si compiranno per loro intima forza.
404
XI Tiberio si mostrava titubante se accettare o no il potere cui in verità aveva da sempre mirato. In Senato scoppiò un tumulto, e un senatore gli gridò in faccia: «Insomma deciditi. O accetti o rinunci», aut agat aut desistat. Alla fine più che accogliere esplicitamente l’investitura, desistette dal respingerla. Diceva di voler servire lo Stato come aequalis civis e non come imperatore. Si accentuava l’originario paradosso augusteo di un impero che mascherava la propria natura continuando a chiamarsi repubblica, a causa dell’odio dei romani nei confronti dell’idea monarchica. Tiberio si lasciò convincere più che dalle preghiere e dalle minacce dei senatori, dalle notizie provenienti dalla Pannonia e dall’Illirico, dove le schiere romane erano in piena rivolta pretendendo di essere loro a nominare l’imperatore. Le legioni stanziate in Germania mostravano di preferire Germanico che, a differenza dello zio, era gioviale, aperto e seducente. Esplicitamente Tiberio fu il primo imperatore di Roma. I suoi predecessori, sia Augusto che Cesare, si erano tenuti ancora al coperto, sebbene fossero riusciti a imporre il principio della successione ereditaria. Lui consolidò le fondamenta dell’impero, ma a sua volta lo fece con cautela. Per mettere in chiaro le sue intime convinzioni sul modo di governare fece un ritrattino del principe saggio. Tiberio diceva che un tale principe, sebbene investito di un potere sconfinato nel governo dell’impero, 405
doveva servire il Senato, esserne il sottoposto, sentirsi al servizio di tutti i cittadini nel loro insieme e di ognuno di essi in particolare. Egli intendeva restituire il perduto prestigio al Senato anche nelle forme esteriori. Entrava nella Curia senza scorta come a voler dare una pratica dimostrazione che il suo era un principato non autoritario ma costituzionale. Trasferì ai patres conscripti il potere di eleggere i magistrati, abolendo le assemblee popolari. Ma la soppressione dei comizi era un’arma a doppio taglio. Il provvedimento nasceva dall’esigenza di moralizzare le elezioni, e se da una parte poteva piacere ai nobili, dall’altra parte feriva profondamente le classi inferiori, le quali mostravano il loro scontento tumultuando nelle strade della città. Mentre si rafforzava il potere del Senato, si privava il popolo del potere elettivo, e questa fu una delle ragioni per cui presso le classi più umili la figura del nuovo imperatore apparve fin dall’inizio sotto una cattiva luce. Si facevano allarmanti le notizie delle ribellioni che esplodevano tra le file dei legionari in Pannonia e nell’Illirico. Se ne aggiungevano altre provenienti dalle truppe dislocate in Germania. I legionari erano stanchi dei patimenti e delle privazioni. Protestavano perché la ferma era stata protratta a vent’ anni, mentre loro chiedevano di non rimanere sotto le armi per più di tre lustri. Reclamavano un aumento della paga giornaliera, rifiutavano l’assegnazione di terre ingrate come premio di congedo e pretendevano in cambio un’immediata liquidazione in moneta contante. A sedare questi focolai di rivolta Tiberio inviò, in Pannonia, il figlio Druso, e, in Germania, il nipote Germanico. Alle 406
preoccupazioni di carattere militare si aggiungeva nell’animo dell’imperatore una profonda lacerazione fra due affetti contrastanti. Druso era suo figlio, ma Augusto gli aveva imposto di far strada anzitutto a Germanico che egli, a questo scopo, aveva dovuto adottare a detrimento di Druso. Germanico era figlio di suo fratello, di quel Druso morto in seguito alla caduta da cavallo, e intorno a lui si era formato un partito che si proponeva di portarlo sul trono strappando il potere a Tiberio. I due giovani generali riuscirono a placare le ribellioni non senza difficoltà. Druso fu fischiato quando lesse ai soldati un messaggio di Tiberio in cui si parlava delle nuove potestà del Senato: «Perché allora sei venuto fin qui se non conti niente? Finiamola con questi figli di papà». Più complessa era la questione di Germanico. Le sue legioni dislocate in Germania avevano fatto strage di centurioni, abbandonandone i corpi insepolti fuori dell’accampamento o gettandoli nelle acque del Reno. Germanico raggiunse a spron battuto la zona di Colonia. I legionari, temporaneamente placati, gli andarono incontro a occhi bassi. Alcuni gli afferrarono le mani, come per baciarle, ficcandosene le dita in bocca perché lui sentisse che non avevano più denti; mostravano le ferite subite in battaglia e i corpi ricurvi dalla vecchiaia sopraggiunta precocemente in quelle gelide e sperdute terre. Eppure, ancora li tenevano lì, lontani dalla patria. Molti si misero a gridare: «Sei tu il successore!». Ma lui si ritraeva, mostrando il suo sdegno per quell’evenienza. Germanico, giovane ventottenne ardimentoso e ambizioso, sedata la rivolta militare strappò a Tiberio il consenso a riprendere la guerra in Germania, sia per vendicare l’onta di 407
Teutoburgo, sia per restituire dignità alle legioni pacificate. Egli era incitato dalla moglie Agrippina Maggiore, nipote di Augusto, figlia cioè della figlia di Augusto, la scellerata Giulia, e di Vipsanio Agrippa. Agrippina era una donna ambiziosa, autoritaria e tanto fiera da accompagnare il marito nelle imprese militari. Spesso scendeva dalla lettiga per prendere parte ai combattimenti. Germanico mosse con dodicimila uomini, varcò il Reno a Castra Vetera per riconquistare il terreno perduto fra il fiume e l’Elba. La sua non poteva definirsi una vera e propria guerra d’espansione perché Tiberio, il nuovo principe, non intendeva discostarsi dalle disposizioni testamentarie del predecessore che lo consigliavano di non estendere ulteriormente i confini dell’impero. Penetrò tuttavia in quelle terre, facendo strage delle popolazioni. Se ne risentirono i brutteri, i tubanti, gli usipeti che lo attaccarono ma senza successo. Nel 15 d.C. vinse i catti, muovendo da Magonza; raggiunse la fatale foresta di Teutoburgo, dove ancora biancheggiavano le ossa dei soldati di Varo e gli scheletri dei cavalli annientati sei anni prima, e diede loro pietosa sepoltura tra vecchie trincee romane e armi arrugginite. Germanico si mostrava sempre più infervorato nel preparare altre guerre, nell’affrontare altri popoli. Stava però per essere sconfitto negli scontri con i cherusci mentre fronteggiava le orde del giovane Arminio, il quale più di ogni altro capo barbaro ardeva per l’indipendenza della propria terra. Era trascorso un altro anno. Il giovane generale romano aveva fatto costruire sulle isole dei batavi una flotta di mille legni per aggirare il nemico. Si batté per tre anni, ottenne il trionfo, ma non poté riconquistare il territorio fra il Reno e l’Elba. 408
L’imperatore mostrava la sua preoccupazione per le guerre troppo dispendiose in termini di uomini e in mezzi, tanto brutali da comportare furiose distruzioni di interi paesi e sacrileghe manomissioni di templi. Il riflessivo Tiberio avrebbe desiderato una condotta diversa, più diplomatica, diretta piuttosto a fomentare le discordie di quelle tribù, divide et impera, così da impiegare la forza delle legioni in casi estremi. Il sovrano era disgustato dal comportamento di Agrippina Maggiore, che pesantemente interferiva nelle decisioni militari del marito Germanico, per cui già si pensava a Roma di proibire alle mogli di seguire i loro consorti in guerra. Agrippina, alla stregua di sua madre Giulia, non amava Tiberio e gli istigava contro Germanico. Nel campo, durante la guerra, le era nato un figlio, Caio Giulio Cesare, che i soldati chiamavano Caligola, da caligae, i calzari militari che gli fecero indossare fin dagli anni dell’infanzia trascorsi tra le legioni del Reno. Tiberio chiedeva a Germanico di tornare presto a Roma per godere del decretato trionfo. Subito Agrippina Maggiore diffuse la voce che il sovrano rivolgesse i suoi pressanti inviti al nipote essendosi ingelosito dei suoi successi. Anche Germanico sospettava che la celebrazione del trionfo nelle vie dell’Urbe nascondesse una finzione, celasse l’invidia dello zio il quale, così facendo, gli sottraeva l’onore di una definitiva vittoria in Germania. Il giovane generale insisteva per rimanere un altro anno in quelle terre, ma lo zio era irremovibile: il giovane doveva tornare, e immediatamente. Questa decisione approfondì il contrasto fra i due partiti che si fronteggiavano in seno alla corte, i seguaci di Germanico e quelli di Tiberio e di 409
Druso. Tali fazioni erano non troppo occultamente capeggiate dalle due terribili matrone, Agrippina moglie di Germanico e Livia madre di Tiberio. Nuove imprese attendevano il generale, non più nella gelida Germania ma in Oriente, dove Roma rischiava di perdere la sua influenza per il riemergere di antichi conflitti. L’invio di un comandante bellicoso in quelle regioni, dove era necessario agire d’astuzia, si rivelò un errore. Era cosa estremamente difficile trovare il punto di equilibrio fra la Partia e l’Armenia e fra i re in lotta. Serie preoccupazioni suscitavano pure la Cappadocia e la Cilicia, dove i troni erano vacanti, la Siria e la Giudea che reclamavano da Roma un alleggerimento della pressione fiscale. Intuendo il pericolo connesso alla delicata missione affidata a Germanico, il sovrano volle affiancargli un personaggio che appariva più assennato: era Gneo Calpurnio Pisone, che durante l’esilio di Rodi lo informava sugli eventi della capitale. Ma Pisone, unito a Germanico, rivelò a sua volta gravi limiti di carattere. La presenza delle loro mogli, che si odiavano scambievolmente, rese più difficili i rapporti fra i due. Le nobildonne – Nunazia Plancina, moglie di Calpurnio, e Agrippina, moglie di Germanico – erano entrambe ambiziose, violente, vendicatrici. Il generale riscosse egualmente grandi successi in Oriente. I risultati erano dovuti alle sue capacità e al fascino personale. Ma l’effetto era moltiplicato dalle manovre di quanti, a cominciare dalla moglie Agrippina, volevano creare in lui una figura da contrapporre a Tiberio. Ne era del resto il figlio adottivo, e in tale veste poteva aspirare al potere supremo a danno dello stesso sovrano e del figlio legittimo Druso. Affabile 410
e socievole, il giovane Germanico; altezzoso e imperscrutabile, il vecchio Tiberio. A Germanico piacevano gli spettacoli, i giochi, i gladiatori, gli attori e anche le attrici, mentre Tiberio tendeva a esercitare un’opera di repressione: troppo costosa l’organizzazione teatrale, troppo indecenti le rappresentazioni, troppo crudeli e sanguinosi gli scontri dei gladiatori. Non gli erano graditi neppure i poeti, e ne sapeva qualcosa Ovidio che a cinquantun anni era stato relegato da Augusto nella remota cittadina barbarica di Tomi, sulle coste del Mar Nero, e che dal nuovo sovrano non riuscì mai a ottenere il perdono. Germanico morì trentatreenne nel compianto di tutto un popolo. Prima di essere arso sul rogo, il cadavere fu esposto nudo nel Foro di Antiochia. Le ceneri vennero tumulate all’interno del mausoleo di Augusto nel Campo Marzio mentre la folla oscillava tra silenzi profondi e tumulti impetuosi. I manifestanti insorgevano contro l’imperatore in tutta Italia. Poiché circolava la voce che Germanico fosse morto avvelenato per ordine suo o di Livia, mani ignote avevano scritto sui muri di Roma una provocatoria invocazione: «Redde Germanicum», rendici Germanico. Morto lui, Druso aveva via libera alla successione. Druso era venuto a Roma per i funerali del cugino, e prima di ripartire per la Germania gli fu tributata un’ovazione. In quegli stessi giorni moriva la madre Vipsania Agrippina, che era stata la prima moglie di Tiberio. Vipsania, nata da Agrippa e da Pomponia, morì di morte naturale, mentre tutti i figli che Agrippa ebbe da Giulia finirono di pugnale, di veleno o di fame. Tiberio trascorreva anni difficili, fra odi profondi, lutti continui, intrighi e ribalderie. Era ormai sessantatreenne, e 411
guardava sempre più al figlio Druso come al successore imminente. Nell’anno 21 Druso occupava per la seconda volta la carica di console insieme a suo padre che già tre anni prima aveva associato Germanico al consolato. Il sovrano era stanco, si sentiva nel declino della vita e volle allontanarsi da Roma per ritirarsi in Campania, a Nola, nella Summa Villa che era stata degli Ottaviani. Ma non dimenticava di seguire gli affari di Stato. La sua cura e la sua sollecitudine potevano riassumersi nella parola «buongoverno». Lo allontanava dal popolo il fatto di essere ombroso, scontroso e sbrigativo, di governare senza sorridere. Eppure la macchina della burocrazia imperiale funzionava, le leggi venivano rispettate, il fisco era equo, il grano non mancava, il lavoro era assicurato. Chissà per quanto tempo ancora non si sarebbe mosso dalla Campania se non fosse stato richiamato a Roma dalla notizia d’una grave malattia che aveva colpito la vecchia madre. A malincuore lasciò la tranquilla residenza nolana, e, mentre prendeva posto nella lettiga imperiale, capì con grande chiarezza come Roma gli fosse diventata estranea e come egli non amasse più quella città. Ma l’aveva mai amata? Quando era partito per Rodi in esilio volontario, aveva pensato che l’inducessero a ciò l’infedeltà della moglie e l’ostilità per Caio e Lucio, che erano stati adottati a suo danno da Augusto. Di fondo c’erano quelle ragioni, ma c’era soprattutto un’insofferenza per l’Urbe, una città mostruosa di un milione di abitanti, in cui confluivano da ogni parte del mondo tutte le cose più atroci e turpi. Non amava la città degli sprechi, dei complotti, della corruzione, delle scelleratezze, delle adulazioni, della iactantia dei nobili. 412
Il vuoto che l’atroce sorte aveva fatto intorno ad Augusto lo aveva condotto al potere imperiale. Augusto, senza più eredi diretti, aveva dovuto rivolgersi a lui, e Tiberio era arrivato al trono più per le trame cruente della madre Livia che per sua dichiarata volontà. Roma nel suo animo si confondeva istintivamente con il potere che egli aveva accettato come una fatalità, e, non potendo lasciare il potere, aveva abbandonato la città. A dispetto della pax romana, esplodevano qua e là in Gallia e in Africa rivolte che il sovrano domava attraverso i suoi legati ai quali non faceva mancare consigli e direttive. Per queste ragioni le sue giornate erano agitate da sempre nuovi problemi. Fu colpito dal più doloroso dei lutti: la morte del figlio Druso. L’imperatore credette che la scomparsa fosse la conseguenza dei suoi vizi e della sua incapacità a dominare gli intrighi di corte. Per alcune settimane non volle incontrarsi neppure con le persone che il figlio amava per non rinnovare, vedendole, la sua sofferenza. A corte, Druso aveva odiato un personaggio di grande rilievo, potentissimo, Lucio Elio Seiano, prefetto delle coorti pretorie, che era però nelle grazie di Tiberio e che, dopo la morte di Germanico, aveva anche lui cominciato a pensare alla possibilità di raggiungere il trono. Druso, lagnandosi, si domandava: «Perché Tiberio chiama un altro come suo collaboratore nella gestione del potere, quando ci sono io suo figlio?». Offeso dal fatto che Seiano potesse anche semplicemente pensare di ascendere al trono, Druso, un giorno, trascinato dall’ira, gli diede uno schiaffo volgendo in tragedia un banale diverbio. Da quel momento Seiano pensò di vendicarsi, anche ricorrendo al 413
delitto. L’oggetto della vendetta non poteva non essere che Druso. Il prefetto cominciò col circuire Livilla – la moglie di Druso e quindi nuora di Tiberio – dichiarandole grande e irresistibile amore, fino a indurla all’adulterio e all’omicidio, cioè ad avvelenare Druso. Scomparso Druso, potevano legittimamente aspirare alla successione sia i figli di lui, i quali però non erano amati da Tiberio che li riteneva nati da una relazione adulterina di Livilla, sia i figli di Germanico. L’imperatore volle presentare questi ultimi al Senato, e ciò bastava per indicarli come successori. Il perfido Seiano non rinunciava alle sue pretese, e quindi proseguì negli intrighi. Elio Seiano era un italico, nato a Volsinii (Bolsena), aveva origini equestri e oscuri antenati. Aveva un fisico robusto e uno spirito pronto a ogni avventura. Era un vizioso crapulone che da giovane si era piegato per denaro ai voleri innaturali di un ricco gaudente, Apicio, non meno dissoluto di lui. Era abile nel dissimulare le proprie intenzioni; sollecito nella calunnia ma anche adulatore; di studiata modestia esteriore, ma divorato da una sfrenata ambizione. A poco a poco l’imperatore si lasciò prendere dalla sottile rete del prefetto fino a diventare nelle sue mani un docile e indifeso strumento. Si poteva dire che ormai al vertice dello Stato si fosse formata la coppia Tiberio-Seiano, così come si era avuta la coppia Tiberio-Germanico. Il prefetto divenne più forte che mai quando riuscì a concentrare, per garantire una migliore disciplina militare, le nove coorti dell’Urbe in un’unica caserma, presso Porta Nomentana, che fu chiamata Castro Pretorio. Lungi dal sospettare alcunché, Tiberio era entusiasta di lui, lo chiamava socius laborum, collega nelle fatiche. Il villano di 414
Volsinii dal fascino tenebroso era salito così in alto da voler entrare nella famiglia imperiale. Chiese al sovrano l’assenso alle sue nozze con Livilla, la bellissima vedova di Druso, la quale del resto era già sua amante. La corte era sorpresa dall’ardire di Seiano e si meravigliava di Livilla che, nipote di Augusto e nuora di Tiberio, scendesse a consumare adulterio con un municipale. Non c’era chi non parlasse di questo municipalis adulter. Lo stesso sovrano pensava che il suo prefetto fosse andato oltre, e alla lettera che Seiano gli inviò con l’esplicita richiesta di sposare Livilla, rispose con abile fermezza. Gli faceva notare come sarebbe divampato più furiosamente l’odio di Agrippina se si fosse fatto quel matrimonio. E aggiunse: «Ti inganni, o mio Seiano», falleris enim, Seiane, se tu credi che Livilla, che fu sposa di Caio Cesare e poi di Druso, sia disposta a invecchiare al fianco d’un semplice cavaliere romano». Agrippina, la vedova di Germanico, non restava inoperosa. Anzi continuava a manovrare per favorire l’ascesa di uno dei suoi due figli, il primogenito Giulio Cesare Nerone, e questo fatto mandò su tutte le furie Seiano che si vedeva contrastato. Al prefetto non rimaneva altra via che rendere sempre più difficile agli occhi del sovrano la posizione di Agrippina e dei suoi figli. Ancora una volta Roma era divisa in fazioni: da un lato i sostenitori di Agrippina oppositori di Tiberio, dall’altro lato i seguaci di Seiano. Alla luce di questa situazione, Seiano decise di muoversi su due fronti: da una parte suscitava in Tiberio il sospetto che Agrippina, con un forte gruppo di senatori suoi seguaci, preparasse un complotto per impadronirsi del potere; dall’altra parte diceva ad Agrippina che Tiberio intendesse avvelenarla 415
durante un banchetto a palazzo. Il caso volle che una sera Tiberio invitasse davvero la matrona a cena da lui e che le offrisse personalmente un frutto lodandone la freschezza. La nuora, allarmata, la passò rapidamente agli assaggiatori. Un simile affronto, dettato da un terribile sospetto, offese a tal punto Tiberio che, da quella sera, Agrippina non fu più invitata alla mensa imperiale. L’imperatore, vulnerabile psicologicamente, riprese ad accarezzare l’idea di allontanarsi ancora una volta da Roma, una città che ai suoi occhi diventava sempre più insopportabile. Per prima cosa si diede a peregrinare per quasi un anno tra il 26 e il 27 nelle terre felici della Campania. Seiano lo incoraggiava in questo per accrescere i propri poteri. Indurlo a lasciare l’Urbe era la nuova trovata dell’astuto e subdolo prefetto. I vantaggi che lui avrebbe ricavato dalla lontananza del principe sarebbero stati grandissimi. Qualcuno cercava di mettere sull’avviso Tiberio, ma proprio in quei giorni si verificò un episodio che rianimò in lui la fiducia nel prefetto. Il sovrano aveva raggiunto il mare di Anxur (Terracina) per una breve vacanza. Si trovava a banchettare e a bearsi del canto di un aedo omerico nella grotta della villa marina chiamata Spelonca, ricca di tesori d’arte e di sculture mitologiche – compresa un’Odissea di marmo – quando dal monte sovrastante precipitarono alcuni massi. Tre o quattro schiavi rimasero schiacciati, e, mentre tutti fuggivano in preda al panico, Seiano protesse col suo corpo il principe che uscì indenne dalla rovina.
416
XII Rifugiarsi nella Spelonca era già un modo per Tiberio di starsene in disparte, e così ritirarsi nella Villa Summa di Nola. Aveva con sé due vecchi amici che lo avevano già accompagnato nell’esilio di Rodi, Vesculario Flacco e Giulio Marino. Si aggiungevano un giurista eccelso, Cocceio Nerva, il cavaliere Curzio Attico e alcuni personaggi d’alta cultura, in gran parte greci, coi quali discuteva di filosofia. Seiano a Roma era padrone della città, ma Tiberio pensava di poterla governare anche da lontano. Sicché decise di lasciare la terraferma e di raggiungere nel placido golfo di Napoli una piccola isola, lo scoglio di Capri, per poter meglio assecondare un desiderio di solitudine che ormai sconfinava nella misantropia. Sull’isola unico cruccio era per lui la presenza di una villa che gli ricordava Giulia, la moglie fedifraga e scostumata. L’aveva donata Augusto alla figlia negli anni felici, quando ancora non gli erano note le sue dissolutezze. Fin dai primi giorni di permanenza a Capri, il principe, proprio a causa della lontananza da Roma, accentuò l’aspetto autocratico del potere che egli gestiva con musoneria e severità. Governava attraverso un solo ministro, Seiano, ed esautorava lo stesso Senato col quale in tempi migliori aveva cercato di stabilire una sorta di diarchia. Impose al governo dell’impero una profonda trasformazione che rovesciò di sana pianta il metodo da lui seguito nei primi tredici anni del principato, dal 14 al 27, in cui il potere del Senato era via via cresciuto, anche 417
perché i senatori, oltre a governare alcune province, esercitavano sulla penisola la giurisdizione nella sfera sociale e religiosa. Non erano agevoli le comunicazioni fra Capri e l’Urbe. I romani si resero conto che andavano verso il decentramento dello Stato, e in breve fecero l’abitudine a quella strana scissione del potere fra il Palatino e uno scoglio marino. Si istituirono servizi di barche che collegavano l’isola alla prospiciente costa di Sorrento, dove via via sorgevano gli uffici della burocrazia imperiale e le ville dei burocrati, e dove si stabilivano segnalatori ottici per comunicare rapidamente fra Capri e Sorrento, da costa a costa. Autocrate, «principe isolano», come era chiamato nell’ambito della famiglia, Tiberio si manteneva in contatto con la vecchia madre Livia e con la cognata Antonia, vedova di suo fratello Druso. A loro dava notizie particolareggiate sulle dodici ville che andava costruendo, e la più bella, la più grande, la prediletta, la chiamava Villa Iovis, in onore del dio supremo della religione romana. Le altre piccole regge, costruite sui luoghi più attraenti dell’isola, le dedicava a Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana, Venere, Marte, Mercurio, Nettuno, Vulcano, Apollo. Da Villa Iovis teneva in pugno le redini dell’impero, come se non si fosse mosso da Roma. Aveva scelto per sé il punto più inaccessibile dell’isola affinché la sua residenza fosse insieme palazzo, fortezza, pretorio. La madre Livia morì, nel 29, a ottantasei anni, e Tiberio non lasciò Capri neppure per i suoi funerali. L’elogio funebre fu pronunciato nel Foro dal pronipote Caligola, il diciassettenne terzogenito di Agrippina che l’aveva chiamata «Ulisse in 418
gonnella», Ulixes stolatus, per i suoi astuti maneggi. Scomparsa Livia, Seiano non ebbe più ritegno ad attaccare Agrippina, facendosi forte dell’appoggio di Tiberio. L’imperatore infatti, in seguito a un’inchiesta aperta dal prefetto del pretorio, aveva inviato una lettera con la quale accusava apertamente di arroganza Agrippina e di omosessualità il figlio Giulio Cesare Nerone. Mentre in Senato si discuteva sulla questione arrivarono le prove del complotto di Agrippina tendente a sopprimere Seiano, a rovesciare l’imperatore e a portare sul trono il giovane Nerone con l’ausilio delle truppe dislocate in Germania. Agrippina fu relegata sull’isola di Pandataria dove morì qualche anno dopo. Avevano già lasciato morire di fame il figlio Nerone che, per lo stesso reato di sovversione, era stato confinato a Ponza. Il popolo mostrava la sua scontentezza, e Tiberio, che aveva assunto il potere da una quindicina d’anni, era profondamente preoccupato della situazione. Poche erano le notizie che gli arrivavano dall’Urbe sull’umore della popolazione, e non sapeva mai bene quanto fossero esagerate ad arte, ma egualmente vedeva che il suo ritiro a Capri, se era riuscito a metterlo al sicuro dagli attentati alla vita, aveva paurosamente aggravato le condizioni dell’impero, soprattutto per ciò che riguardava la quiete pubblica. Seiano già pensava di aver vinto la partita, tanto che lo stesso sovrano lo destinava alla successione concedendogli in moglie non più Livilla, ma sua nipote Giulia, vedova del giovane Nerone. All’improvviso quel dorato e gigantesco castello di sabbia, impastato di sangue e di raggiri, crollò per l’iniziativa di una donna coraggiosa, Antonia Minore. L’anziana principessa 419
era strettamente imparentata con i due rami della famiglia Giulio-Claudia, in quanto cognata di Tiberio, essendo vedova del di lui fratello Druso, e figlia della sorella di Augusto, Ottavia, e del triumviro Antonio. Rimasta vedova in giovane età, Antonia non aveva voluto più risposarsi. Non per questo lei si estraniava dalla vita politica dello Stato e dall’attività della corte imperiale. Era informata di ogni evento e costituiva nell’Urbe il maggior caposaldo filotiberiano. Fu lei a svelare a Tiberio la complessa rete di mene luttuose che aveva Elio Seiano per ispiratore. Difficilmente l’iniziativa di Antonia avrebbe potuto avere successo se le fosse mancato l’appoggio di quella parte dell’aristocrazia senatoria che si sentiva a sua volta danneggiata dall’immenso potere del prefetto. La nobildonna, attraverso uno dei suoi più abili e affezionati liberti, Pallante, inviò al sovrano una lettera in cui, dopo aver descritto i maneggi del prefetto, gli dava la notizia di una macchinazione che aveva per oggetto l’eliminazione di Caligola, il diciottenne figlio superstite di Germanico, l’unico che fino a quel momento fosse sfuggito alla generale carneficina. Con una seconda lettera Antonia informava Tiberio specificamente del complotto che Seiano stava preparando ai suoi danni, con l’appoggio di alcuni senatori prezzolati e mediante una sollevazione popolare ben orchestrata. Tremendamente colpito da queste rivelazioni, il sovrano si chiuse per giorni nell’ala più recondita di Villa Iovis a meditare sulla mal riposta fiducia, sull’ingratitudine e sulla pochezza degli uomini. Lo tradiva il ministro al quale aveva affidato l’impero e se stesso. Tiberio, questa era la sua indole, usò la prudenza e l’astuzia 420
per liberarsi dell’infido collaboratore. Impiegò sei mesi per tessere l’occulta trama che doveva portare al suo allontanamento. Mentre gli preparava il tranello, annunciò di volergli concedere il massimo degli onori, la tanto ambita potestà tribunizia. La situazione era delicata. Un prefetto complottava contro il suo imperatore; un imperatore tramava contro il suo prefetto. Non era facile per Tiberio orientarsi nell’intricato mondo dei magistrati, dei cavalieri, dei senatori che si erano a poco a poco legati a Seiano. Seppe però trovare la via giusta, con abilità e circospezione, senza passi falsi. A Capri il tempo non gli mancava. Lentamente cominciò a rivolgergli qualche rimbrotto, cosa che sorprendeva Seiano ma ancora non lo insospettiva. Poi chiamò il giovane Caligola sull’isola, sia per proteggerlo sia per conferirgli grandi onori, nominandolo àugure e pontefice. Queste decisioni lo riconciliarono con il partito dei germaniciani essendo Caligola figlio di Germanico e di Agrippina Maggiore. A Caligola parlò apertamente di successione, mentre trovava nuovi pretesti per ritardare le promesse nozze di Seiano con sua nipote Giulia. La svolta decisiva si ebbe con la segreta designazione di Sutorio Macrone a prefetto del pretorio, in sostituzione di Seiano, il quale fu tenuto all’oscuro di questa mossa. Il principe si fidava del giovane Macrone che aveva sposato una nipote dell’astronomo Trasillo. Il prefetto designato divenne così lo strumento delle contromosse imperiali. Macrone, convocato dall’imperatore, si era recato a Capri dove riceveva in consegna una lettera da leggere in Senato e alcune disposizioni strategiche sul movimento delle truppe per la buona riuscita del piano 421
divisato. Il 18 ottobre del 31 all’apertura della seduta senatoriale, indetta sul Palatino nel tempio di Apollo, Seiano, tranquillo, chiese a Macrone se ci fossero per lui lettere dell’imperatore. E Macrone gli disse sottovoce, parlandogli all’orecchio, che ne aveva una molto importante perché gli conferiva l’agognata potestà tribunizia. Seiano esultò e non poté evitare di entrare nell’aula con un sorriso di soddisfazione sulle labbra. Macrone consegnò la lettera dell’imperatore ai consoli i quali diedero l’ordine di leggerla. Era una lettera molto lunga, verbosa et grandis epistula, di cui all’inizio non si coglieva bene l’oggetto. Se ne cominciò a capire il significato quando si arrivò alle critiche che l’imperatore rivolgeva a Seiano. Erano critiche pacate che il prefetto ascoltava senza eccessivo allarme, sebbene il sorriso gli fosse già scomparso dal volto. A un certo punto della lettera si ordinava imperiosamente l’immediato arresto del prefetto. Seiano rimase di sasso. Aveva dominato la scena politica per diciassette anni, dal 14 al 31, e mai si sarebbe aspettato di fare una simile fine. Era impietrito al suo banco. Fu in un attimo immobilizzato dalle guardie già in allerta e trascinato fuori dell’aula per essere rinchiuso nei sotterranei del carcere Mamertino. Tiberio a Capri era in attesa delle ultime notizie. Era salito sulla roccia più alta dell’isola. Dal suo specularium volgeva lo sguardo verso i segnali ottici che gli avrebbero comunicato i risultati della difficile operazione antiseiana. Nella tarda mattinata arrivò un cenno positivo e ne gioì. A Roma nel pomeriggio il Senato tornò a riunirsi per deliberare sulla sorte del deposto prefetto. Condanna a morte: questa fu la decisione. 422
La sentenza fu rapidamente eseguita con lo strangolamento del reo, senza attendere i dieci giorni che, secondo le disposizioni di Tiberio, dovevano trascorrere tra la condanna e l’esecuzione. Le statue erette in onore di Seiano furono abbattute, ovunque; i suoi cavalli vennero uccisi e la stessa sorte fu riservata ai suoi figli trucidati dalla folla impazzita. Ora Tiberio si sentiva più sicuro su quell’angusta rupe di Capri, ma si abbatteva su di lui l’accusa di compiervi indicibili e senili scelleratezze erotiche. Alcuni dicevano che il principe sottomettesse nobili giovinetti alle sue perverse violenze sessuali. Eccitavano le sue voglie non soltanto la bellezza e la perfezione delle forme fisiche degli efebi prescelti, ma anche la pudicizia propria degli adolescenti e perfino la fama dei loro antenati. Attirava ragazzi e ragazze dai riccioli biondi e dai corpi d’alabastro; li faceva unire in sua presenza, a tre a tre, triplici serie conexi: una fanciulla sotto un ragazzo e questo ragazzo sotto un altro, allo scopo di ridestare la sua virilità in declino. Era tanto spregiudicato in ogni forma di lascivia che non più Tiberius lo chiamavano ma Liberius. Queste erano le insinuazioni. In realtà le giornate del principe a Capri erano ben altrimenti laboriose. Egli le trascorreva studiando nuove leggi per Roma, risolvendo i problemi delle province, facendo dell’isola una degna residenza imperiale, mediante la costruzione di strade oltre che di ville e di palazzi destinati ad accogliere i suoi uffici. A Capri apprese un evento particolare che proveniva dalla Giudea. Il prefetto di quella provincia romana si chiamava Ponzio Pilato, e fu lui a inviare un rapporto a Villa Iovis col quale metteva al corrente l’imperatore dei fatti che a 423
Gerusalemme erano appena sfociati nella crocifissione di un pericoloso galileo di nome Gesù Cristo. Si era nel 33. Il sovrano e il prefetto non prestarono grande attenzione all’episodio della crocifissione. Pensarono semplicemente che una nuova, detestabile setta ebraica fosse sorta in Palestina aggiungendosi alle numerose altre fazioni religiose, come i farisei, i sadducei, gli esseni, gli zeloti, che già mettevano a rumore la provincia romana. Tuttavia Tiberio mostrò di meravigliarsi alla notizia secondo cui l’uomo crocifisso era risorto, era salito al cielo. O almeno così dicevano a Gerusalemme. Quanto grande era la responsabilità dei romani nella crocifissione? Tiberio si poneva sommariamente il problema perché egli non giudicava il cosiddetto Messia un agitatore politico né considerava i suoi seguaci nemici della dominazione romana. Questa era la condotta dell’imperatore nei confronti di tutte le fedi e di tutte le divinità, scettico nelle idee religiose, liberale in politica. Egli nutriva indifferenza per gli dèi poiché, dedito all’astrologia, pensava che ogni cosa fosse mossa dal destino. Anche nell’Urbe ognuno poteva dedicarsi liberamente al proprio culto purché non si turbasse l’ordine pubblico. E solo perché avevano provocato turbamenti si risolse a scacciare da Roma i giudei deportandone quattromila in Sardegna a reprimervi il brigantaggio. Di nessun reato di lesa maestà si era reso colpevole Gesù Cristo, agli occhi di Tiberio, sebbene il suo prefetto lo avesse lasciato morire lavandosene le mani. Non furono presi provvedimenti di alcun genere ai danni di Pilato, e ciò faceva pensare che quella crocifissione venisse riguardata come un errore giudiziario, una debolezza del prefetto romano nei confronti del sinedrio giudaico che aveva chiesto la 424
condanna. Tiberio era liberale con i primi cristiani e li considerava con distacco più che con rispetto. Di notte, a Capri, Tiberio passava in rassegna i nomi dei suoi probabili successori. Era in vita un altro figlio di Germanico e di Agrippina Maggiore, quel Caligola, di cui si diceva che avesse stuprato incestuosamente le sue tre sorelline, Giulia, Agrippina e Drusilla. Caligola aveva ventitré anni quando l’imperatore lo incluse nel suo testamento. Ma sulla scena c’era anche il nipote quindicenne di Tiberio – Tiberio Gemello – figlio di suo figlio Druso. Fu inserito anche lui nel testamento, depositato nell’anno 35, e considerato suo possibile successore, come Caligola, sebbene le preferenze fossero per quest’ultimo. Il nuovo prefetto del pretorio, Macrone, si rivelava non meno ambizioso e crudele del predecessore. Subito si schierava con Caligola, mentre si parlava di una tresca amorosa tra il giovane ed Ennia Nevia Trasilla, moglie di Macrone, indotta dallo stesso marito a lasciarsi prendere da lui. Nei primi giorni del 37 Tiberio si sentì invadere dal desiderio di tornare sulla terraferma. Si aggirava in Campania e in Lazio, si avvicinava a Roma senza mai entrarvi. Ad Astura fu colto da malore, ma si riprese, e per mostrare di aver riacquistato vigore volle partecipare nei boschi del Circeo a una battuta di caccia al cinghiale. Colpì la bestia più grossa. Lo sforzo gli fu fatale. Dopo aver avvertito una fitta al fianco, svenne. Fu portato a Miseno nell’antica e fastosa villa che era appartenuta al raffinato Lucullo dove riacquistò in parte le forze. Sarebbe ripartito quel giorno stesso per Capri se un’improvvisa tempesta non lo avesse indotto a non prendere il mare. Ancora una volta il vecchio sovrano cadde in deliquio. Tutti 425
lo credettero morto, e con tempismo da opportunisti si riunirono intorno a Caligola per festeggiarlo come nuovo imperatore e per porsi al suo servizio. Ma poco dopo Tiberio si riaveva, chiedeva di mangiare e dava nuovamente ordini. La corte ne fu terrorizzata. Caligola, dopo essersi già visto imperatore, si era impietrito in una disillusione profonda. Era più pallido che mai, i capelli si erano fatti più radi, le esili gambe reggevano a fatica il suo corpo sgangherato. Soltanto Macrone non si perse d’animo: ordinò di soffocare il vecchio sotto molte coperte e si allontanò dalla stanza. Il calendario segnava la data del 16 marzo 37. Tiberio era nel settantottesimo anno di età e nel ventitreesimo del suo principato. Morendo non disse una parola, e questo si conveniva a uno scorbutico come lui.
426
XIII L’Urbe accolse con manifestazioni di giubilo la notizia della scomparsa del non amato imperatore, nel quale i romani avevano ravvisato il più perfido dei simulatori. Il Senato lo odiava in maniera particolare e ne annullò il testamento in cui egli lasciava i suoi averi in parti eguali a Caligola e a Tiberio Gemello. Per i senatori quel testamento non aveva alcun valore essendo stato scritto in condizione di infermità mentale. Così dicevano. La plebe gridava: «Tiberium in Tiberim», Tiberio nel Tevere; cancellava il suo ignominioso nome dai monumenti imperiali e già inneggiava a Caligola prevedendo che sarebbe stato lui il prescelto alla successione. Non si sbagliava. Difatti con cinismo, cogliendo il momento giusto, Macrone indusse le truppe pretoriane, che a Miseno ancora vegliavano le spoglie dell’estinto, a proclamare Caligola nuovo imperatore. Caio Cesare Caligola aveva venticinque anni – essendo nato il 31 agosto del 12, ad Anzio – quando il 28 marzo del 37 entrava acclamato imperatore nell’Urbe. Era simpatico al popolo perché aveva sempre detto di voler rispettare le tradizioni repubblicane, in linea con gli insegnamenti del padre Germanico; sua madre era Agrippina Maggiore, moglie e cugina di Germanico. Il giovane Caligola piaceva ai senatori di cui si diceva «figlio e discepolo»; piaceva ai legionari, ai pretoriani che in massa avevano mutato gabbana, e ai provinciali che lo chiamavano il «Nuovo Sole». Caligola e i patres conscripti poterono così dare 427
inizio a una collaborazione che si prevedeva proficua e salutare per lo Stato. Nella laudatio funebris per Tiberio, il nuovo imperatore dedicò con malizia pochi cenni allo scomparso, preferendo dilungarsi sfacciatamente nelle lodi alle imprese di Augusto e di Germanico che avevano reso grande Roma. Fece pietosamente trasportare e deporre nel mausoleo imperiale le urne con le ceneri della madre Agrippina e del fratello Giulio Cesare Nerone, che ancora si trovavano depositate nelle isole dell’esilio dove lui si recò in doloroso pellegrinaggio. Tutto come se avesse sempre onorato la madre e non ne avesse infangato la memoria dando credito alla voce che non fosse figlia di Vipsanio Agrippa, ma il frutto dell’incesto consumato da Cesare con la figlia Giulia. Passò quindi a riorganizzare a suo modo lo Stato, a riparare le ingiustizie che egli imputava a Tiberio e a fare il contrario di quanto il predecessore aveva fatto. Abolì le leges de maiestate, promosse un’amnistia per i germaniciani che avessero subito condanne; restituì al popolo i comizi; diminuì il peso delle tasse; diede libero corso ai libri di storia che non avevano fatto comodo a Tiberio; istituì feste e giochi per tutti, e con i giocolieri trascorreva le ore più liete delle sue giornate. Si poteva dire che fosse sorta l’alba di un felice e quieto periodo per Roma e i suoi domini, senonché una brusca svolta degli eventi precipitò nuovamente l’Urbe nella tragedia. Il 1° ottobre del 37, a soli sette mesi dall’assunzione al trono, Caligola fu colpito da una misteriosa malattia che ne minò la mente e rese ancora più sbilenco il fisico. Da quel momento il sovrano non fu più se stesso. Tra insonnie e attacchi di epilessia restaurò 428
le leggi autoritarie che aveva abolito, entrò in conflitto con il Senato manifestando tendenze egocentriche, assolutistiche e tiranniche sempre più profonde e rivelando una megalomania sconfinata. Un giorno affrontò i consoli e ridusse in pezzi i fasci, simbolo del loro potere. Spesso gli capitava di condannare a morte per la seconda volta la persona che già aveva fatto uccidere, non ricordando più la prima esecuzione. I senatori reagivano come potevano, cioè nel peggiore dei modi. Fomentavano congiure contro di lui perché Tiberio Gemello gli sottraesse il trono. Lo facevano tanto scopertamente che Caligola, venuto a conoscenza del complotto, chiese a Tiberio Gemello di suicidarsi. Ma il giovane fu salvato dai complottatori stessi che lo sostituirono segretamente col marito di Drusilla, Marco Emilio Lepido. A corte nessuno più si fidava di nessuno, e Macrone prendeva il sopravvento sul principe, ancora più di quanto Seiano avesse fatto con Tiberio. Questo prepotere non si protrasse a lungo poiché l’imperatore un giorno gli ordinò di lasciare Roma e di uccidersi insieme alla moglie. La mente di Caligola fu ulteriormente sconvolta dal dolore per la morte della sorella ventiduenne Drusilla con la quale aveva avuto rapporti incestuosi, alla maniera dei sovrani ellenistici che sposavano le proprie sorelle. Decretò più giorni di lutto pubblico, e promosse la divinizzazione della nobildonna attribuendole il nome di Panthea. Per onorarla ancor più degnamente, le innalzò una statua nel tempio di Venere. Aveva creduto ad alcune fandonie che per adularlo andava raccontando Livio Gemino, il quale giurava di aver visto la bella Drusilla ascendere al cielo. Quelle che erano ritenute le 429
scelleratezze di Tiberio impallidivano al confronto delle sue. Egli diventava un despota, annullava i voleri del Senato rompendo l’iniziale accordo di collaborazione. Cominciò a farsi chiamare Imperator. La denominazione appariva anche negli atti ufficiali insieme a quella di Padre della patria. Riduceva le prerogative dei senatori per concentrare sempre più il potere assoluto nelle proprie mani. Avocava a sé onori divini, impensabili nell’Urbe, come l’umiliante obbligo di genuflettersi davanti alla sua persona. Era ormai una divinità con un proprio culto. Aveva infatti decretato che ogni anno il 18 marzo, il giorno in cui ricorreva la sua ascesa al trono, si svolgesse per le strade di Roma una solenne processione in cui i sacerdoti celebranti portavano scudi d’oro. Amava atteggiarsi a monarca orientale fin negli abiti raffinati che rasentavano l’effeminatezza. Ne andava fiero, e talvolta indossava veri e propri serici abiti femminili. Si mostrava in pubblico con tuniche assai corte, ricamate e adorne di gemme; portava le maniche lunghe alla moda frigia e braccialetti aurei. Emulava Giove – tanto da farsi chiamare Giove laziale –, ma anche Nettuno, Mercurio e naturalmente Venere. Di volta in volta aveva la barba d’oro e in mano un fulmine o un tridente o un caduceo, quella verga alata con due serpentelli intrecciati. Tuttavia pensava anche allo Stato e soprattutto al modo di assicurare nuovi introiti all’erario. Usava metodi non ortodossi, come quando nel 40 convocò a Roma il re della Mauritania, Tolemeo, di cui era cugino. L’ospite, al suo arrivo nell’Urbe, fu subito gettato in prigione e trucidato senza alcuna ragione plausibile. In tale maniera l’imperatore pose la regione africana sotto il controllo diretto di Roma. 430
Si diede a una sfrenata attività architettonica nell’Urbe, esaurendo nella penisola e nelle province le già scarse riserve dell’erario. Terminò la costruzione del tempio dedicato al divo Augusto. In Campo Marzio ne edificò un altro per onorare la divinità egizia di Iside, mettendo a rumore il tradizionale mondo religioso romano. Ampliò sul Palatino il palazzo imperiale includendovi il tempio dei Càstori. Restaurò i templi e le mura di Siracusa in omaggio alla sorella Drusilla; fornì Reggio di un grande porto. Anche nelle costruzioni si lasciava andare alle stranezze, come nel caso di un ponte di navi fortemente ancorate che egli gettò sul mare fra Baia e Pozzuoli. Se non era originale l’idea di un ponte di navi, non aveva però eguali la grande strada che egli vi fece costruire sopra. Ai lati di questa strada sorgevano botteghe e alberghi per i pellegrini. Lui stesso per due giorni, indossando le armi di Alessandro Magno e con una corona di quercia sul capo, quasi a sbeffeggiarne il simbolico significato di libertà, passò e ripassò più volte su quella strada atteggiandosi a trionfatore. Procedeva a piedi o su una biga o in groppa al suo cavallo, Incitatus, tra un risplendere di luci. Faceva della notte il giorno e, con il ponte, tramutava il mare in terra. La sua mente celava altre follie, infatti diede improvvisamente l’ordine di buttare a mare tutti i curiosi che in quel momento si trovavano sul ponte, mentre lui si esibiva nelle vesti di gladiatore e in quelle di cantante. Fu così soddisfatto delle esibizioni del suo cavallo Incitatus, da elevarlo al rango di senatore, umiliando al tempo stesso con quel gesto il Senato, che veniva equiparato a una stalla. Era anche questo un modo di reagire ironicamente ai complotti che i patres ordivano ai suoi danni, oltre a quello ben più pesante di condannare ogni tanto 431
qualcuno di loro a morte. L’aspetto più dissennato dell’inutile ponte consisteva nell’aver requisito per la sua costruzione molte navi che servivano al trasporto del grano, privando così per lungo tempo i romani dei necessari rifornimenti. Poteva esserci una ragione sua intima che lo avesse spinto all’impresa del ponte? Forse sì. Forse egli intendeva con quell’opera smentire una profezia che l’astrologo Trasillo aveva fatto a Tiberio: «Caligola ha tante probabilità di regnare, quante di attraversare a cavallo il golfo di Baia». Aveva costruito un altro ponte nell’Urbe tra il Palatino e il Campidoglio per raggiungere rapidamente il tempio di Giove, ritenendosi lui, divinità terrena, in continuo contatto con il più grande degli dèi. La questione giudaica con l’inasprirsi delle lotte religiose investiva Roma creandole difficoltà nella difesa dei propri interessi nella remota terra palestinese. Caligola fece liberare il principe giudeo Marco Giulio Agrippa, il nipote di Erode il Grande, di cui era amico dall’infanzia e che Tiberio aveva fatto imprigionare. Al principe romanizzato affidò la Giudea. L’evento incoraggiava una consistente migrazione ebraica verso l’Urbe. Giulio Agrippa arrivava ad Alessandria nel 38 sorprendendo Aulo Avillio Flacco, il prefetto d’Egitto, il quale si trovò di fronte a disordini e sommosse. La popolazione era divisa in due opposte fazioni: da un lato i greci, dall’altro lato gli ebrei. I greci presero a pretesto la prolungata permanenza di Marco Giulio Agrippa in città per manifestare contro gli ebrei e per reclamarne l’espulsione. Flacco cercò di pacificare i due gruppi, ma invano, ed essendo egli favorevole all’elemento greco, ammassò gli ebrei nel loro ghetto. Non tutti però erano 432
disposti a eseguire l’ordine, per cui esplosero nuovi episodi di violenza a danno degli ebrei. Era chiaro che la situazione sfuggiva di mano a Flacco, ma lui nell’autunno del 38 ebbe altresì la sorpresa di essere chiamato a Roma, arrestato, esiliato e ucciso con l’accusa di aver complottato con Tiberio Gemello e Macrone contro Caligola. Il nuovo prefetto Caio Vitrasio Pollione scelse l’unica soluzione possibile rimettendo la questione ebraica nelle mani dell’imperatore. Nell’inverno dell’anno successivo arrivarono a Roma due delegazioni, una di ebrei guidati dal filosofo neoplatonico Filone l’Ebreo e l’altra di greci con alla testa Apione, allievo di Didimo. Si doveva in pratica decidere se gli ebrei potessero professare liberamente il loro credo, essere esonerati dall’obbligo di venerare l’imperatore, avere la cittadinanza di Alessandria e vivere fuori del ghetto. Le delegazioni dovettero fare una lunghissima anticamera prima di essere ricevuti da Caligola che si trovava in Gallia. Ne faceva ritorno nel maggio del 40, pur senza ancora mettere piede in Roma per starsene un po’ a riposo nella villa di Pozzuoli. Finalmente a fine agosto arrivava nell’Urbe dove si erano aperti nuovi problemi sempre riguardanti gli ebrei. Il procuratore di Giudea, Erennio Capitone, lo informò che i pagani della città di Iamnia, sulla costa palestinese, gli avevano eretto un altare e che gli ebrei lo avevano abbattuto. A queste notizie, Caligola ordinò al legatus della Siria P. Petronio di recarsi a Gerusalemme e di far elevare con la forza dell’esercito nel tempio ebraico della città una statua di Giove che gli somigliasse. Il nuovo sovrano non aveva ancora offerto alcuna prova delle sue capacità in campo bellico. C’era il fondato pericolo che il 433
Senato potesse simpatizzare con le legioni stanziate nelle province e contrapporsi al binomio di potere imperatorepretoriani. Infatti nel campo dei romani in Germania, proprio un legatus, Gneo Cornelio Getulico, gli aveva teso un pericoloso tranello da lui però scongiurato, concludendo la vicenda con la condanna a morte del complottatore. Caligola volle conquistare un po’ di gloria militare nelle stesse terre in cui aveva trionfato il padre Germanico. I germani sul confine dello schiumante Reno erano sempre in tumulto. Avevano ripreso a sconfinare in Gallia, costituendo così un ottimo pretesto per i marziali ardori del giovane. Il contatto con i germani era arduo, e allora lui, volendo guadagnare i titoli per un trionfo, travestì da germani alcune sue coorti, le nascose in un bosco e le prese d’assalto. Egli si era trasferito a Lione dove eresse una fastosa sede imperiale. In quella reggia non pensava soltanto alla guerra, ma indiceva gare di eloquenza in lingua greca e latina, con superbi premi per i vincitori e frustate per i perdenti. Anche la Britannia meridionale era inquieta. Questo semplice fatto lo indusse a sognare di ripetere le imprese di Giulio Cesare. Ma se l’azione contro i germani non si era rivelata una gran cosa, la spedizione in Britannia morì sul nascere. Il suo esercito non era andato oltre le sponde della Manica, appariva impaurito dall’attraversamento di quel breve tratto di mare. Eppure il capo britanno Amminio aveva incontrato l’imperatore dicendosi pronto alla resa. Questa disponibilità gli aveva sconvolto la mente. Il 31 agosto del 40, giorno del suo ventottesimo compleanno, Caligola tornava a Roma e trovava una città percorsa da furiose 434
turbolenze. Si intessevano complotti ovunque; proliferavano i processi nei quali gli imputati spesso sceglievano di darsi la morte, pur di farla finita. Fu il caso di personaggi celebri come Caio Salvino Sabino, legatus in Pannonia, e come Giulio Grecino, il padre di Gneo Giulio Agricola, suocero dello storico Cornelio Tacito. Altri ancora rischiarono di essere eliminati per l’invidia che le loro qualità suscitavano nell’imperatore, come nel caso di Seneca per la sua oratoria. Per controbattere l’ostilità profonda del Senato, il sovrano cercava di accaparrarsi la simpatia degli equites e del popolo con generose elargizioni e ampie donazioni. Durante una distribuzione di grano esplose tra la plebe nei pressi della Basilica Giulia un tumulto tanto agitato da lasciare sul terreno morti e feriti. Ormai lui trascorreva più ore nei circhi e negli anfiteatri a esibirsi, che non in Senato, pur considerando un circo la stessa Curia. Il 24 gennaio del 41 durante i Ludi palatini lasciava l’arena di un teatro dopo una rappresentazione. Fu assalito nel sottopassaggio che collegava l’arena al suo palazzo sul Palatino. Gli furono addosso tre congiurati, sospinti dal loro capo Cassio Cherea, un tribuno delle coorti pretorie, agli ordini di un gruppo di senatori e di cavalieri. Fu colpito da trenta pugnalate, sette più di Cesare. Caligola moriva giovane, ventinovenne. Aveva governato per soli quattro anni. Né la quarta e ultima moglie Milonia Cesonia né la figlioletta Giulia Drusilla sfuggirono alla tragedia, poiché Cherea aveva ordinato vilmente di uccidere anche loro. La piccola Giulia fu scaraventata contro un muro. Il Senato discuteva su come riportare la repubblica a Roma, 435
ma prevalsero i pretoriani che, tagliando corto, indicarono il nuovo imperatore in Claudio, unico parente superstite dell’estinto, ma non adottato ufficialmente. Egli non faceva parte della gens Iulia, ed era un Claudio. Le truppe lo imposero al Senato il giorno successivo alla morte di Caligola, il 25 gennaio.
436
XIV Claudio, cioè Tiberio Claudio Germanico, era nato a Lione il 1° agosto del 10 a.C. dal figlio del fratello di Tiberio, Nerone Claudio Druso, e da Antonia Minore. Per cui, oltre a essere nipote di Tiberio, era fratello di Germanico e zio di Caligola. Al momento della proclamazione da parte dei pretoriani, che avveniva nel 41, aveva cinquant’anni. Quasi mezzo secolo trascorso fra malattie e insulti per il suo carattere debole e il fisico senza attrattive. Ma i pretoriani scelsero lui soltanto perché era fratello di Germanico, il generale tanto amato. Era balbuziente e vittima di un gran tremore alla testa. A corte lo consideravano un buono a nulla, un minorato perso nei suoi studi di erudizione storica sugli etruschi e sui cartaginesi. Perfino la madre, quando voleva indicare la pochezza di qualcuno, esclamava: «È più stupido di Claudio». Era vissuto appartato nell’ombra a studiare e a compilare libri in esaltazione di Augusto. Aveva scritto anche su Cicerone e sull’importanza degli etruschi per la crescita di Roma e Tito Livio, che gli dava una mano in quei lavori, come storico gli riconosceva qualche merito. Era diventato senatore molto tardi, a quarantasei anni, affermandosi come il più silenzioso dei patres conscripti. E quando Caligola lo fece eleggere console, accettò la carica quasi senza sapere che cosa significasse. Alla morte del nipote imperatore, Claudio non apparve in pubblico, e i pretoriani lo trovarono nascosto dietro un 437
tendaggio, tremante di paura in tutto il suo grosso corpo. Lo trascinarono di peso ai Castra pretoria. Mentre lui temeva che stessero per ucciderlo come avevano fatto con Caligola, lo acclamarono imperatore. Claudio accettò la nomina dopo essersi assicurato che l’incombenza non comportasse onori particolari volendo starsene in pace. Nonostante questa premessa, la sua corte diventava ben presto una fucina di perversioni e di intrighi, dominata dalla terza moglie e cugina, l’incantevole Valeria Messalina disponibile a ogni vizio, da lui sposata nel giugno del 39 quando la ragazza non aveva che quattordici anni e lui quarantotto. Messalina era scesa tanto in basso in quanto a moralità da frequentare un lupanare per godere fino in fondo delle sue insaziabili perversioni, della sua sfrenatezza e del suo libertinaggio. Presto il suo nome divenne sinonimo di sbrigliata dissolutezza. Claudio, come amministratore dello Stato, si rivelava invece meritevole di lodi. Dava spazio ai liberti e li utilizzava per formare un’efficiente classe di nuovi funzionari fidati e scrupolosi. Ciò suscitava le rimostranze dell’aristocrazia, ma lui non se ne lasciava scoraggiare. Alcuni di quei funzionari divennero potentissimi personaggi, come Pallante, Callisto, Narcisso e un Polibio. Molti sfruttarono il loro ruolo per arricchirsi oltre misura; quel Polibio ampliò il novero degli amanti di Messalina. Assumevano un atteggiamento altero che li rendeva invisi al popolo e al Senato. Nonostante l’opposizione della Curia, il nuovo imperatore estese la cittadinanza romana a nuove popolazioni e aprì il Senato a nuove stirpi immettendovi alcuni membri dell’aristocrazia della Gallia Cisalpina riconoscendoli, con una certa forzatura, affini ai quiriti. 438
La Britannia, la Mauritania e la Germania furono i suoi primi obiettivi bellici, riproponendo in questo i programmi dell’espansionismo romano. Sulle orme delle imprese compiute da Cesare un secolo prima, riuscì nel 43 a conquistare buona parte della Britannia sudorientale, ordinandola a provincia. Poi condusse sotto il dominio romano la Mauritania e infine provvide a rafforzare il confine germanico, creando una colonia nella regione del popolo degli ubi, sul Reno. Claudio non trascurava neppure di dotare gli abitanti dell’Urbe di nuovi servizi pubblici, fece costruire un maestoso acquedotto che, dal fiume Aniene, portava a Roma l’acqua, che egli chiamò Claudia. Ampliò il porto di Ostia aprendovi un canale che lo collegava al Tevere ed erigendovi un faro; prosciugò il lago del Fucino facendone defluire le acque nel Liri e terminò la costruzione della via Claudia Augusta che conduceva da Altinum (Altino) al Danubio e che era stata iniziata da suo padre Druso. Claudio era amato dal popolo, ma non altrettanto dall’aristocrazia senatoria. La stessa moglie Messalina tramava per deporlo, e lo faceva in combutta con uno dei suoi amanti, Caio Silio, uomo affascinante, tanto da essere chiamato iuventutis romanae pulcherrimus. Con Silio una volta, approfittando dell’assenza del marito, ebbe l’ardire e la sfacciataggine di celebrare in pubblico una solenne cerimonia con fastoso banchetto che mimava il loro matrimonio. Messalina si trasferì nel palazzo di Silio portando con sé i più preziosi mobili della residenza imperiale intarsiati di madreperla. Se travolgente era la passione che li accomunava, non meno irresistibile era la loro sete di potere, la voglia di saltare sul trono. Claudio scoprì tutto, ma tacque per preparare 439
meglio la vendetta. Caio Silio, che grazie a Messalina era anche stato designato console per il 48, ebbe così un destino assai diverso da quello che si aspettava accanto alla prima donna dell’impero. Fu ucciso, e la stessa sorte subì la regina dei vizi. Claudio la strozzò sorprendendola mentre passeggiava tra i viali degli orti luculliani. Messalina lasciava al marito due figli, Ottavia e Britannico. Il ragazzo era stato così chiamato per celebrare l’impresa d’oltremanica compiuta dal padre. Ora c’era da decidere sulla scelta della nuova moglie dell’imperatore, e bisognava che non somigliasse a Messalina, così da farne perdere la troppo vergognosa memoria. Ognuno fra i suoi potenti ministri proponeva un nome diverso fra intrighi di corte e grandi liti. Callisto faceva il nome di Lollia Paolina, che già era stata una delle mogli di Caligola; Narcisso era del parere che l’imperatore tornasse a sposare una delle sue mogli ripudiate, Elia Petina. Claudio si orientò sulla candidata indicata da Pallante, il più autorevole dei suoi collaboratori liberti. Sicché fu la trentacinquenne nipote Agrippina Minore a salire per quarta nel 49 sul talamo imperiale. Il rapporto era incestuoso, ma il Senato modificò la legge che lo proibiva. La prescelta era figlia di Germanico e di Agrippina Maggiore, e pronipote di Augusto, vedova di due mariti, Gneo Domizio Enobarbo e Caio Passieno Crispo. Era nata a Colonia, donna bellissima, autoritaria, di smisurata ambizione e priva di scrupoli. Usava indossare drappi d’oro e muoversi attraverso Roma su una splendida quadriga tra l’ammirazione della plebe. In quanto a condotta morale, Pallante aveva fatto una scelta sbagliata poiché la nuova imperatrice non era al di sotto della sconvolgente Messalina. Già si era macchiata d’incesto amando 440
suo fratello Caligola. Quindi si mise in movimento per estromettere dalla successione al trono Britannico, il figlio legittimo di Claudio, e così favorire il proprio figlio, Lucio Domizio Enobarbo Nerone, avuto con il primo marito Gneo Domizio Enobarbo, con il proposito di portarlo sul trono e di governare attraverso di lui. Pallante la spalleggiava nel sostenere Enobarbo Nerone, mentre Narcisso stava dalla parte di Britannico. Ma più forte era Agrippina, la quale oltre tutto usava spregiudicatamente l’arma del delitto. Come primo passo ritenne necessario dare un’adeguata e peraltro severa educazione al giovane Nerone, il quale era vissuto nell’indigenza presso la viziosa zia Domizia Lepida e aveva avuto come precettori un ballerino e un barbiere. Agrippina affidò il figlio a nuovi maestri che avevano soprattutto il compito di renderlo psicologicamente suo succube: Sesto Afranio Burro, nominato prefetto del pretorio, doveva addestrarlo nell’arte della guerra; il filosofo peripatetico Alessandro di Ege; il direttore del Museo alessandrino, Cheremone, stoico e sacerdote di Iside, e l’astronomo Trasillo erano altri suoi autorevoli precettori. Ma il suo più importante tutore divenne il filosofo Lucio Anneo Seneca. Nel 49 Agrippina Minore fece richiamare il pensatore dal suo esilio in Corsica dove si trovava da otto anni. Al momento in cui Claudio saliva al trono, Messalina aveva fatto scoppiare uno scandalo intorno a una relazione fra Seneca e una nipote dell’imperatore, nonché sorella di Agrippina Minore e di Giulia Livilla. Con blandizie Agrippina nel 48 convinse il marito Claudio a adottare l’undicenne Nerone e a conferirgli il nome di Nerone Claudio Cesare. Soltanto cinque anni dopo, nel 53, indusse 441
ancora il marito a dare in sposa la di lui figlia, la schiva Ottavia, al ragazzo ormai sedicenne. In tal maniera rafforzava enormemente Nerone nella posizione di successore. Ma come contromossa Claudio decise di far rivestire la toga al tredicenne Britannico, suo figlio, e così danneggiare il figliastro Nerone. Ovviamente Agrippina vide in pericolo il suo piano che prevedeva l’ascesa di Nerone, allora diciassettenne. Fu in questa fase che l’imperatore Claudio morì improvvisamente e misteriosamente nella notte del 13 ottobre del 54, senza che alcuno avesse avuto sentore dell’approssimarsi del luttuoso evento. Fu o no morte naturale? Si disse che lo avesse avvelenato la stessa Agrippina dandogli da mangiare dei funghi e che comunque la spietata nobildonna non fosse estranea all’evento. Si disse che quel piatto mortale fosse stato preparato da una celebre avvelenatrice di origine gallica, Locusta. Per tre giorni Agrippina mantenne celata al pubblico la notizia di quella morte con l’intento di preparare la successione in favore del figlio Nerone, mentre teneva rinchiusi in una stanza del palazzo gli ignari figliastri, i ragazzi Britannico e Ottavia. Finalmente, dopo tanto mistero, Afranio Burro portò i pretoriani ad acclamare imperatore il giovane Nerone, con il gradito ausilio di una lauta regalia in sesterzi. Suggestionato da Seneca, il Senato fu concorde. Nerone saliva al trono all’età di diciassette anni. Fra le lacrime, Agrippina fece rendere gli onori divini al defunto Claudio, ordinò che gli fosse eretto un tempio sul Celio mentre il nuovo imperatore leggeva ispirato l’elogio funebre che Seneca gli aveva sapientemente preparato imperniandolo sui concetti di clementia e di libertas. Il nuovo sovrano adottò come simbolo quello della libertà, e cioè una 442
corona di quercia. Grande era la meraviglia e la soddisfazione dei romani per come tutto si era svolto nella massima tranquillità, ma essi non capirono perché mai Nerone, fra i suoi primi atti, volle proclamare i funghi cibo degli dèi. A Locusta fu persino consentito di aprire una scuola di avvelenamento. Seneca, in veste di filosofo-ministro-pedagogo-consigliere, tracciò anche le linee del programma di governo del sovrano, quasi un ragazzo, e a esse collaborò anche Afranio Burro. Il principe conservava per sé il comando degli eserciti, mentre restituiva al Senato l’amministrazione degli affari civili e militari, la prerogativa che i suoi predecessori gli avevano sottratto. Seneca pensava di poter tenere sotto controllo Nerone, lasciandolo abbastanza libero nei suoi movimenti purché egli non interferisse negli affari di Stato. Se questo poteva essergli possibile con il giovane, trovò insuperabili ostacoli nella battagliera Agrippina, la quale, sostenuta dal fedele liberto Pallante, intendeva attuare il suo piano di governare attraverso il figlio. La sete di comando induceva Agrippina alle più strane iniziative, come quella di far svolgere le sedute del Senato nella propria abitazione. Si contrapposero due fazioni, quella di Seneca e Burro e quella di Agrippina e Pallante, che si gettarono in tanti e tali scontri da rendere la corte imperiale il luogo più pericoloso di Roma. Sul finire dello stesso anno dell’ascesa di Nerone al trono, Agrippina impose il suicidio al liberto Narcisso che le era avverso in quanto continuava a sostenere i diritti di Britannico. Reagiva Seneca, che riuscì a ottenere la destituzione dell’altro autorevole liberto, Pallante, cui era affidata l’amministrazione finanziaria dello Stato. 443
Si ebbero contrasti fra Agrippina e il figlio, per cui l’augusta nobildonna – Augusta era realmente il suo titolo – mostrò di riavvicinarsi a Britannico per sostenerne la pretesa al trono. Questo atteggiamento decretò la condanna del giovane il quale in breve, verso la fine del 54, fu scoperto morto per avvelenamento nel suo letto. Chi era stato a compiere l’assassinio? Tutti rispondevano: Nerone! Con Agrippina l’imperatore era ormai in pieno dissidio. Per indispettirlo, lei si mostrava particolarmente premurosa con la vereconda Ottavia che Nerone aveva ripudiato per prendersi un’altra donna più soddisfacente, Claudia Atte, un’incantevole liberta orientale. Quel riavvicinarsi a Ottavia fu un passo falso che Agrippina pagò caro con l’espulsione dal palazzo imperiale. Agrippina non si perdeva d’animo sebbene già si profilasse la vittoria dei suoi oppositori Seneca e Afranio Burro. Nerone aveva dimostrato con quel gesto di amare realmente la giovane Atte e di odiare a morte la madre, anche se ciò non gli impedì di trovarsi un’altra amante. Una bionda di grande fascino. La sua nuova donna non tanto segreta si chiamava Poppea Sabina. Aveva una grande cura della sua persona, fino a farne un oggetto di culto. Usava immergersi ogni mattina in una vasca colma di latte di asina, e per averne sempre a disposizione si era dotata di una mandria di cinquecento asine. Era già stata sposata con Rufrio Crispino, che sotto l’imperatore Claudio ricopriva la carica di prefetto del pretorio. Quando s’invaghì di Nerone era al secondo marito, Marco Salvio Otone, di grandi speranze. L’imperatore si liberò facilmente dell’incomodo Otone inviandolo a governare la lontana Lusitania. Ormai anche Agrippina si sbizzarriva alla luce del sole nelle 444
sue passioni amorose intrise di politica, e si unì carnalmente al cugino Rubellio Plauto, nipote di Tiberio, con l’idea di abbattere il figlio e di portare l’amante sul trono. Era troppo per Nerone, il quale si era alfine deciso di liberarsi in maniera definitiva della perversa madre, che fu salvata soltanto da un tempestivo intervento di Seneca. Agrippina cercò ancora nuove strade per prevalere in Roma e per fare del figlio un suo succube assoluto, fino a tentare con lui una incestuosa unione. La presenza femminile di Poppea Sabina era ingombrante. Nerone si era sposato per ragioni politiche con Ottavia, figlia del suo predecessore Claudio. Perciò non l’amava. Del resto la giovane, oltre a essere sterile, aveva un animo algido e scostante. Non offriva grandi stimoli al sovrano che invece si trovava assai bene con Poppea, la sua ultima amorosa, bella e sensibile agli slanci di passione. A Roma dicevano che non le mancava nulla, salvo l’onestà. Poppea ambiva a diventare non soltanto l’amante dell’imperatore, ma l’augusta sovrana al suo fianco. Quindi il suo obiettivo principale consisteva nell’eliminare Ottavia, la quale però godeva dei favori del popolo, era amata dai pretoriani, sostenuta da Seneca e da Afranio Burro. Naturalmente anche Agrippina era dalla sua parte, e Poppea si rese conto che il primo ostacolo da eliminare sulla via della sovranità era proprio lei. Poppea e Nerone avevano ormai lo stesso obiettivo: liberarsi di Agrippina. Nel marzo del 59 l’imperatore, che a Baia si accingeva a presiedere le feste in onore di Minerva, considerò quella una buona occasione per sbarazzarsi definitivamente della madre e del suo dominio. Invitò Agrippina a raggiungerlo, e le andò perfino incontro ad Anzio per fugare in lei con quel 445
gesto di cortesia ogni sospetto. La indusse a salire su una imbarcazione che avrebbe dovuto condurla a Pozzuoli e che lui aveva preparato in modo tale che sul più bello della navigazione naufragasse. La madre sarebbe stata travolta dalle onde del mare, e perciò egli era convinto di aver ideato un delitto perfetto. Senonché la valente Agrippina riuscì fortunosamente a salvarsi a nuoto, e pervenuta a riva inviò un ironico messaggio al figlio per informarlo come fosse sfuggita per puro caso all’imprevisto incidente. Il danno era ormai fatto. Si erano scoperti tutti i giochi, per cui Nerone era costretto ad agire dalla forza stessa degli eventi. Nell’attuazione del matricidio trovò concordi Seneca e Afranio Burro. Diede ordine al prefetto della flotta ancorata a Miseno, il liberto Aniceto, di procedere all’attuazione del delitto. Così nel pieno della notte due sicari si introdussero nella camera da letto di Agrippina e la sgozzarono. Davanti al cadavere della madre, l’imperatore non si scompose. Continuò tranquillamente a banchettare, e poi chiese che le aprissero le viscere colto dal desiderio di vedere il luogo in cui era stato tenuto prima della sua nascita. Nerone, da Baia dove ancora si trovava, si premurò di inviare una lettera al Senato per informarlo del luttuoso evento. Ma nel messaggio il delitto diventava un suicidio: pentita di aver tramato contro di lui fino a pensare di ucciderlo, Agrippina si era tolta la vita. Egualmente si diffondeva la voce che fosse stato l’imperatore a eliminare la madre dalla scena, e per questo, a cominciare da Seneca, c’era chi si rallegrava del fatto che Roma, senza Agrippina, avrebbe potuto vivere più tranquillamente. Il Senato, offrendo una prova di vile servilismo, si compiacque per 446
la salvezza di Nerone e dichiarò giorno nefasto il compleanno dell’estinta non più augusta. Il sovrano tornò a Roma assai festeggiato. Ascese sul Campidoglio per ringraziare gli dèi dello scampato pericolo e, nella sua concione, dichiarò di non aver più bisogno né di guide né di consiglieri. Seneca e Afranio Burro, anche loro, erano avvertiti. Nel 62 Burro morì, forse per un tumore, ma circolavano voci che fosse stato Nerone a farlo uccidere col veleno. Le vociferazioni rimasero comunque tali. Burro era prefetto del pretorio, e alla sua morte l’imperatore lo sostituì con due fra i più fedeli collaboratori: Fenio Rufo, che era stato prefetto dell’annona, e Ofonio Tigellino, il cui incarico precedente era di praefectus vigilum e che già aveva dato prova di quanto fosse perverso. Seneca, scomparso Burro, doveva vedersela da solo con due formidabili avversari come Poppea e Tigellino, sempre pronti a ogni trama. Per di più il filosofo era particolarmente debole su un punto, quello di possedere enormi e poco stoiche ricchezze alle quali Nerone, sempre a corto di sesterzi, guardava con ingordigia e con l’intento di confiscargliele. Poppea, che aveva ormai campo libero, istigava Nerone a compiere i più truci delitti, anche se lui non aveva bisogno di essere sospinto su questa sanguinosa strada. Furono eliminati i superstiti della stirpe Giulio-Claudia. Fu ucciso in Asia il nipote di Tiberio, il filosofo stoico Rubellio Plauto, che era stato amante di Agrippina. A Marsiglia fu ucciso per mano di sicari Cornelio Silla, il cognato di Claudio. Per il suo comportamento di dissoluto non aveva bisogno di consigli da nessuno. In quel 62, che rappresentò l’anno in cui il 447
suo carattere si rivelò a se stesso, prese a percorrere nel pieno delle notti le strade della città e a bastonare la gente, in compagnia di altri sciagurati. Una sera afferrò due giovani sconosciuti in mezzo al Foro. Ne fece evirare uno per farlo passare come sua moglie, mentre, nell’agitare il velo giallo delle vergini, diceva che il secondo era suo marito. L’obiettivo dei cruenti piani di Poppea tornava a essere Ottavia che, priva ormai di protettori, si trovava apertamente alla mercé della torbida nemica. L’amante del sovrano riuscì a fare il grande balzo e a diventarne la moglie. Non era stato facile per Nerone ottenere il divorzio dalla fedele Ottavia. A una fallita accusa di adulterio aveva dovuto farne seguire una più concreta di sterilità. Dopo di che a Ottavia venne comminato l’esilio in Campania, dove era guardata a vista da un intero reparto di soldati. Improvvisamente si sparse la voce che Nerone volesse riaverla a Roma, e ciò suscitò una grande manifestazione di consenso popolare che dimostrava quanto nell’Urbe si approvasse la riappacificazione. Allarmato di ciò, Nerone tornò ad accusare Ottavia di tradimento, e questa volta fece pure il nome dell’adultero: quell’Aniceto che già lo aveva ottimamente servito trucidandogli la madre; quell’Aniceto che, per compiacerlo, dichiarava di aver posseduto la donna. L’esilio per Ottavia divenne più duro e remoto, poiché venne relegata a Pandataria. Ma breve fu il confino perché il 9 giugno del 62 cadde assassinata. Le tagliarono le vene, e non aveva che vent’anni. La testa fu inviata a Poppea. Sembrava che l’esilio si fosse abbattuto anche su Aniceto, ma non era che una finzione in quanto lo avevano inviato in Sardegna donandogli un vasto terreno. Il 448
Senato, come nel caso dell’assassinio di Agrippina, rivolse un ringraziamento agli dèi per l’uxoricidio «giustamente» commesso dal principe.
449
XV L’eco degli intrighi e dei delitti di palazzo non sempre riusciva a smorzare i rumori delle guerre, quando un terribile evento che sconvolse l’Urbe impose la sordina a ogni altro fatto e perfino alle sanguinose spedizioni delle legioni nelle zone calde dell’impero. Una notte, ed era la notte tra il 18 e il 19 luglio del 64, Roma dormiva tranquilla sotto un cielo dominato dalla luna piena. All’improvviso tutti balzarono dai letti in preda al terrore. Che cosa era mai successo? Nel cuore della città, nella zona del Circo Massimo, era divampato un incontenibile incendio d’immense proporzioni. Le fiamme si estendevano rapidamente in ogni luogo della città e la catastrofe non aveva confini. Quel luglio era stato particolarmente torrido. Ciò – congiunto al fatto che le case erano in gran parte costruite in legno, nonostante la vanteria di Augusto che si attribuiva il merito di averlo sostituito con il marmo – contribuì a fare di Roma un colossale rogo. Tanto più che scarseggiava l’acqua per spegnere i fuochi. Nerone, che si trovava ad Anzio, come spesso gli accadeva, tornò in un lampo a Roma per prendere nelle sue mani la situazione e per organizzare l’assistenza della gran massa di cittadini rimasta senza tetto. Molti ne ospitò negli edifici pubblici, mentre metteva a disposizione vaste aree e grandi quantità di materiali per la costruzione di baracche d’emergenza. Distribuiva il grano dell’annona che quell’anno era piuttosto abbondante grazie ai rifornimenti arrivati dal Mar 450
Nero. Per sei giorni e sei notti la città fu preda delle fiamme, si salvarono pochi quartieri sull’Aventino, sul Gianicolo, sul Quirinale e in parte sull’Esquilino, ma il resto della città non era che un ammasso di cenere. Il disastro gli consentì di riedificare la capitale a suo modo, seguendo criteri razionali, costruendo i nuovi edifici con materiali non infiammabili in base a un piano regolatore, tuttavia dominato dai criteri estetici della sua megalomania artistica che aveva trovato nell’incendio l’occasione di sbizzarrirsi liberamente. La sua passione per l’opulenza e lo sfarzo orientaleggiante apparve mirabilmente chiara nella edificazione del nuovo palazzo imperiale che volle erigere fra l’Esquilino e il Celio. Anche la sua precedente e modesta residenza era andata distrutta dalle fiamme. Chiamò Domus aurea il gigantesco complesso delle costruzioni che egli dedicò a sé e che comprendeva magnifici parchi, laghi artificiali e fontane. L’insieme costituiva un inno alla magnificenza e alla raffinatezza. Gli architetti Severo e Celere vi avevano profuso marmi policromi, stucchi lucenti, mosaici preziosi, porticati e ninfei, invenzioni architettoniche, e vi avevano infine innalzato una sua grandiosa statua. La Domus aurea stupì i plebei per la magnificenza ma non mancò neppure di indignarli sommamente: troppo lusso del sovrano contrapposto alla loro sconfinata miseria. Inoltre, mentre la Domus aurea già rifulgeva sontuosa, loro ancora vivevano nelle baracche d’emergenza. Dallo scontento popolare sorse il sospetto che fosse stato proprio Nerone a ordinare l’incendio della città trascinato dalla voglia irrefrenabile di ricostruirla a suo piacimento. Lo accusavano perfino di aver 451
assistito al divampare dell’incendio, al suo ritorno da Anzio, cantando dall’alto della torre di Mecenate al suono d’una lira sulla quale egli stesso arpeggiava. Dicevano che nel canto celebrasse la caduta di Troia. Le imputazioni si facevano insistenti e minacciose, al punto che l’imperatore dovette trovare un capro espiatorio per dirottare altrove l’ondata delle riprovazioni sulle quali avrebbero potuto fare leva i suoi avversari politici. Il colpevole da offrire all’ira del popolo, su suggerimento di Poppea Sabina, fu indicato nella setta religiosa dei cristiani, invisa ai tradizionalisti romani e agli ebrei, che erano particolarmente ammirati dalla regina. I tradizionalisti vedevano nella nuova superstizione arrivata dall’Oriente una seria minaccia ai costumi religiosi di Roma, mentre i cristiani si comportavano stranamente proprio perché si sentivano non amati dai romani che li accusavano addirittura di cannibalismo per via del sacramento dell’Eucarestia da loro praticato nella segreta oscurità delle catacombe. I cristiani furono condannati come incendiari. Non riuscirono a dimostrare la propria innocenza, per cui dovettero subire pene di particolare ferocia. Alcuni, cosparsi di pece e crocifissi, furono dati in preda alle fiamme perché bruciassero nella notte come torce. Altri, coperti di pelli di animali, morirono derisi dalla plebe nei circhi mentre venivano sbranati da mute di cani. Nerone sorrideva. Persecuzioni e delitti indiscriminati, lussi sconfinati, giochi infiniti, adulterii eccitanti, amori senza confini: nulla era casuale in Nerone poiché il suo obiettivo era quello di trasformare Roma, come se avesse voluto trasportarla dalle rive del Tevere su quelle dell’Oronte. Ai confini dell’impero i parti erano in ebollizione. Il regno 452
della Partia era tenuto da un fervente nazionalista, Vologese I, che aveva posto il fratello Tiridate sul trono d’Armenia. Bisognava fare qualcosa, dicevano i romani. Nel 55 in Asia c’era un grande generale, il proconsole Gneo Domizio Corbulone, noto anche perché la madre si era sposata sei volte; mentre legatus in Siria era Caio Ummidio Quadrato. I due personaggi avrebbero dovuto cooperare per riconquistare l’Armenia, per cui si incontrarono in Cilicia e all’inizio stabilirono di seguire le vie diplomatiche invece di quelle militari. La cosa funzionò tanto bene che si raggiunse una tregua, fino al 58, con il ritiro delle truppe di Tiridate dall’Armenia. A Roma la notizia fu accolta come un trionfo, sotto la spinta di una forte azione propagandistica. A Nerone fu eretta una statua nel tempio di Marte Ultore. Ebbe anche un’ovazione, come se avesse combattuto una lunga e cruenta guerra. Nella primavera del 58 si riaccesero le tensioni. Tiridate aveva rioccupato l’Armenia massacrandovi per vendetta i romani, ma vi penetrava anche Corbulone attraverso la valle dell’Araxe. Arrivò con marce forzate fino alla capitale orientale, Artaxata, che venne presa e distrutta. Alla notizia l’imperatore fu nuovamente acclamato. L’anno successivo Corbulone si mise in marcia verso la capitale occidentale dell’Armenia, Tigranocerta, per porre il candidato romano Tigrane V alla guida del regno. Fu un cammino lungo ed estenuante attraverso territori impervi, monti innevati e torride pianure, ma alla fine anche questa città cadde nelle mani dei legionari. Seguì ancora una solenne acclamazione per il sovrano che avrebbe voluto ridurre la regione a provincia romana, ma poi si adattò ad affidarla al re 453
vassallo. Entrava in lizza il legatus della Cappadocia, Cesennio Peto, il quale ricevette da Nerone il compito di difendere l’Armenia dai parti, mentre a Corbulone spettava la difesa della Siria. Cesennio non aveva le stesse capacità intellettuali e militari del collega che era il migliore stratega di Roma, e quindi dopo pochi e facili successi divenne tanto baldanzoso al punto di abbassare la guardia. Vologese non si lasciò sfuggire l’occasione propizia. Piombò su Cesennio e lo sconfisse nei pressi del fiume Arsanias. Il generale dovette lasciare l’Armenia a Vologese, cosa che gli costò l’esonero dall’incarico. Usciva da quelle lontane terre abbandonando mestamente lungo il cammino i legionari feriti. Corbulone, nominato unico capo delle regioni orientali dell’impero, varcò nuovamente i confini dell’Armenia raggiungendo la città di Armida. La guerra con Roma si prospettava durissima. Vologese e Tiridate non se la sentirono di rischiare oltre, così nel 63 venne conclusa la pace a condizione che Tiridate governasse in Armenia sotto il protettorato romano. Tiridate doveva deporre in Armenia la sua corona davanti all’effigie di Nerone. E poi, nel Foro a Roma, l’imperatore durante una fastosa cerimonia gliela avrebbe restituita dichiarandolo ufficialmente sovrano vassallo dell’impero. Tale proclamazione avvenne però tre anni dopo. Il re parto aveva compiuto il tragitto fino a Roma via terra, impiegando nove mesi. Alfine – nel bel mezzo del Foro, dinanzi a Nerone che era sfolgorante di porpora e d’oro nelle vesti del dio Mitra, la divinità partica della potestà regale – si prostrò e ricevette l’ambito diadema. 454
L’imperatore fece chiudere le porte del tempio di Giano, il dio che rappresentava il destino bellico di Roma. La lunga ed estenuante guerra era terminata ed era costata all’erario una somma incredibile. Altro denaro veniva prosciugato dalla Britannia. Nell’isola albionica i druidi fomentavano focolai di ribellione contro Roma per cause di carattere religioso o per protesta contro i forti gravami fiscali. All’esperto ed energico Caio Svetonio Paolino, che già si era coperto di gloria conquistando la Mauritania, fu affidata nel 59, con la nomina a governatore, la missione di riequilibrare la situazione in Britannia. Paolino ritenne che bisognasse colpire subito e con decisione l’isola di Mona in quanto di lì partiva un’efficace opera di propaganda antiromana. Oltre tutto l’isola era anche una roccaforte religiosa dei druidi. Paolino sbarcava a Mona – Cesare nel De Bello Gallico aveva scritto: «Insula quae appellatur Mona» – e dopo una furibonda battaglia ne domò la popolazione. Le sorprese non mancavano. Difatti alle spalle del governatore si ribellarono gli iceni che vivevano nel Norfolk e che non sopportavano più le vessazioni fiscali di Roma. Tuttavia la vera causa della rivolta fu un’altra, più complessa e più aspra. Il loro sovrano Prasutago, insediato dai romani come re-cliente, moriva nel 61 e lasciava gran parte dei suoi beni a Nerone. Ma i funzionari romani che si trovavano sul posto li requisirono per sé usando metodi più da rapinatori che da impiegati dello Stato. Naturalmente evitarono di riconoscere la fiera vedova Budicca, mentre si preparavano ad assorbire la regione degli iceni nella provincia romana. Gli agenti imperiali andarono tanto oltre nelle loro violenze da stuprare Budicca e le sue due figlie. La regina fu però così forte 455
da porsi alla testa d’una vasta insurrezione. La ribellione degli iceni, sostenuti dai trinovanti, si propagò a macchia d’olio. I rivoltosi, volendo agire prima che Paolino tornasse dalle terre occidentali, piombarono sulla città aperta di Camulodunum (Colchester). L’esercito di Paolino era ancora lontano, sicché ai rivoltosi non fu difficile assalirla e depredarla facendo strage di tutti i romani colà residenti. Riservarono lo stesso feroce trattamento al centro commerciale di Verulamium e pure a Londinium (Londra). In preda a un’esaltazione religiosa sacrificarono alle loro divinità settantamila romani. Svetonio Paolino non si diede per sconfitto. Pur in condizioni di inferiorità numerica, attese il nemico in una stretta gola per non lasciargli spazio di manovra, e ingaggiò battaglia. La scena si svolgeva presso Lichfield, dove la regina Budicca con un seguito di giovani e gioiose amiche si era assisa su un carro in posizione elevata per godersi il combattimento, sicura che i suoi soldati avrebbero massacrato i romani. L’esito dello scontro fu ben diverso. La superiorità tattica e l’abilità strategica di Svetonio Paolino prevalsero sulla furia vigorosa ma disordinata di quei barbari. La vittoria dei romani fu superba. La regina Budicca non resse al disonore e, uccidendosi col veleno, sanzionò essa stessa il fallimento della ribellione. Ancora serpeggiava fra i romani il malcontento per l’immane incendio della loro capitale di cui addebitavano la responsabilità a Nerone per quanto questi avesse cercato di addossarla ai cristiani. Al mugugno si aggiungeva l’attività di un’opposizione politica che si faceva sempre più forte e che volgeva in congiura. Fin dal 62 un gruppetto di senatori e di equites congetturava di abbattere l’imperatore, ma aveva sempre dovuto rinviare 456
l’attuazione del piano per il continuo insorgere di impreviste difficoltà. Poterono passare all’azione soltanto due anni dopo. A capo del complotto si era posto Caio Calpurnio Pisone che apparteneva alla più scelta aristocrazia romana e che si proponeva come successore di Nerone. Pisone era un valente oratore e godeva di un forte seguito personale presso il popolo che lo amava, ma forse era troppo incline alla pigrizia e ai piaceri della vita lussuosa. I congiurati erano rumorosi, e sembrava impossibile che potessero rimanere nell’ombra ed evitare di essere scoperti dagli agenti segreti dell’imperatore. Facevano parte del complotto l’ex console Marco Attico Vestino, il console designato Plauzio Laterano, il celebre poeta iberico Anneo Lucano, nipote di Seneca, e lo stesso filosofo insieme a un prefetto del pretorio, Fenio Rufo, da sempre avverso al collega Tigellino. E ancora tribuni, ufficiali, centurioni, comuni cittadini figuravano tra i mestatori. Vi era insomma coinvolta mezza Roma, ma l’imperatore ne venne a conoscenza non tanto per le dimensioni della cospirazione, quanto per il tradimento consumato da un liberto del congiurato Flavio Scevino, senatore. Il liberto, un certo Milichus, riferì il tutto a Nerone aggiungendo al nome di Scevino quello del cavaliere Antonio Natale, l’anello debole della macchinazione. Difatti il cavaliere, sottoposto a tortura, spifferò tutto. Il piano sarebbe dovuto scattare il 19 aprile del 65 nel corso dei giochi circensi che venivano organizzati in onore di Cerere. Ma la congiura fallì proprio alla vigilia di questa data. Fu uno sfacelo generale. Pisone si uccise tagliandosi le vene. Fenio Rufo 457
cercò inutilmente scampo nel doppio gioco denunciando prontamente i suoi compagni. Fu un incalzare di delazioni e di denunce. Le condanne a morte si protrassero anche nel 66. Ne furono vittime il poeta Lucano e lo zio Seneca, che seguirono l’esempio di Pisone tagliandosi a loro volta le vene. Nerone fu particolarmente lieto della fine del giovane poeta, appena ventiseienne, poiché scriveva versi più apprezzati dei suoi. In effetti Nerone e Lucano si odiavano vicendevolmente a causa dei loro componimenti poetici. Quelli dell’uno non piacevano all’altro, e viceversa. Caddero sotto il maglio della vendetta imperiale anche Attico Vestino, Plauzio Laterano, lo stesso liberto delatore Flavio Scevino, i filosofi stoici Trasea Peto e Barea Sorano. Uno scrittore, il raffinato e voluttuoso cortigiano, Petronio, esteta decadente, che per questa sua tendenza era chiamato l’arbiter elegantiarum di Roma, si tolse la vita durante uno dei suoi prelibati banchetti. Ma prima volle prendersi il gusto di inviare all’imperatore una lettera in cui finalmente si sfogava rovesciandogli addosso tutto quello che pensava di lui. Lo chiamava mostro spietato, folle despota e peggio ancora artista privo di estro e di ispirazione. Nerone aveva dato e ancora dava nuove prove di crudeltà, mentre non meno folle era il suo comportamento nel premiare con onori trionfali il delatore Milichus e Tigellino, che durante i processi ai congiurati svolgeva la parte dell’implacabile inquisitore. L’imperatore si macchiò d’un nuovo orribile crimine uccidendo in un accesso d’ira la moglie incinta, Poppea, a calci nel ventre. L’uxoricida tentò di mascherare il suo delitto predisponendo solenni funerali per la vittima, imbalsamandola 458
con mille profumi e accogliendola nel mausoleo di Augusto. Dimostrava egualmente la sua profonda insensibilità organizzando l’anno dopo, nel 66, grandi feste per le sue nozze con una nuova donna: Statilia Messalina, che lui stesso aveva reso vedova del console Marco Attico Vestino. Aveva rivolto a Vestino l’accusa di complicità nella congiura di Pisone e ne aveva ordinato la soppressione. Così poteva disporre di lei più liberamente. Una Valeria Messalina era stata la terza moglie dell’imperatore Claudio, e ora una Statilia Messalina era la quinta moglie di Nerone. Si era nel settembre di quel 66. Tiridate, dopo essere stato solennemente incoronato re vassallo d’Armenia, aveva lasciato Roma. Nerone, sempre più preso dai suoi sogni poetici, decise di intraprendere un viaggio trionfale nella patria delle Muse. Aveva con sé Statilia Messalina e un immane seguito di mille pretoriani come guardia del corpo, agli ordini di Tigellino, oltre a cinquemila nobili giovani, cosiddetti augustiani, dediti a ogni raffinatezza, emuli delle sue passioni artistiche e obbligati ad applaudirlo a ogni suo cenno. Con questo pellegrinaggio il principe intendeva trascorrere un anno nell’Ellade per affinarsi nell’arte poetica. Il viaggio fu disagiato, e un primo intoppo si verificò a Benevento dove Nerone venne a conoscenza di una nuova congiura organizzata da Annio Viniciano, genero del celebre Domizio Corbulone. L’imperatore costrinse i due cospiratori al suicidio, insieme ai fratelli Scribonio Rufo e Scribonio Proculo, anch’essi congiurati. I complotti lo ossessionavano. Alle congiure che avevano per oggetto la sua persona, si univano le rivolte e le guerriglie contro lo Stato. Difatti appena arrivato in Grecia ebbe notizia di 459
un’insurrezione giudaica esplosa in Palestina, in gran parte causata dalle esorbitanti imposizioni fiscali. Il principe-poeta non volle occuparsene e spedì in Giudea un abile generale sabino, Tito Flavio Vespasiano, che già dal volto squadrato dimostrava il suo vigore. Era costume di Nerone affidare le guerre ai generali. Corbulone e Ummidio si erano occupati dell’Armenia, Svetonio Paolino della Mauritania e della Britannia. Per dare un’idea diversa da quella tradizionale dell’imperatore sempre pronto a partire in armi, egli si dedicava al canto, alla cetra, alla recitazione e ai giochi nazionali greci. In questa sua attività era premiato anche quando perdeva. In una corsa di carri a Olimpia, a cui egli partecipava come auriga, fu sbalzato a terra, ma ebbe egualmente un premio. E ancora veniva premiato in una gara alla quale non aveva neppure partecipato. Quale giudice avrebbe mai osato rifiutargli un trofeo? I greci erano entusiasti di lui e lui dei greci, in un clima di parossistica esaltazione. A Corinto proclamò la libertà della Grecia, come aveva fatto nello stesso luogo due secoli e mezzo prima Tito Quinzio Flaminino. Il termine libertà era eccessivo poiché non equivaleva a una reale indipendenza politica, ma a tenui sgravi fiscali. Sempre a Corinto, con un colpo di vanga d’oro, diede inizio ai lavori del taglio dell’istmo della città, e poi per capriccio ne ordinò l’interruzione. Nella primavera del 68 Nerone tornò trionfalmente dalla Grecia onusto di oltre milleottocento premi. Fece il suo ingresso nell’Urbe adorno di alloro, con indosso una toga purpurea e una clamide trapunta di auree stelle. La città era cosparsa di sue effigie in cui era ritratto come un ispirato citaredo. 460
I giochi, le feste, le grandiose realizzazioni urbanistiche e architettoniche distraevano la popolazione e l’imperatore stesso dalle preoccupazioni più gravi dello Stato, ma comportavano ingenti spese. Le casse dell’erario erano vuote, e lui doveva ricorrere a sempre nuovi espedienti per rimpinguarle, per affrontare le guerre d’Oriente e di Britannia. La via più semplice e sollecita era quella di imporre nuove tasse, ma ciò suscitava un sempre più vasto scontento. Nerone aveva spremuto molte famiglie dell’aristocrazia implicate nelle congiure che avevano mirato alla sua morte, e le aveva condannate a cedere i loro beni allo Stato. Gli stessi pretoriani – che gli erano stati complessivamente fedeli, ma che poi si erano divisi fra partigiani di Fenio Rufo e di Ofonio Tigellino – avevano perduto il loro iniziale benessere e non gli erano più devoti. Molti dei loro ufficiali erano stati uccisi o condannati all’esilio nei processi ai congiurati di Pisone. I plebei vivevano nella povertà più assoluta, rovinati dall’incendio del 64 e sottoposti a pressanti tassazioni. I generali dell’esercito non avevano simpatia per un imperatore imbelle che non si era mai spinto sui campi di battaglia e che sfacciatamente preferiva la gloria del citaredo a quella del soldato.
461
XVI Una cupa e terribile crisi si addensava su Nerone. Già si pensava che la lotta per la successione sarebbe stata vinta dal personaggio tra tutti più pronto e audace. L’imperatore non aveva né figli legittimi né naturali né aveva mai adottato nessuno. In quel clima il governatore della Gallia Lugdunense, di natali celti, Caio Giulio Vindice, fomentò una ribellione nella sua regione. Non tanto le esose tassazioni né i difficili rapporti con Roma erano alla base della rivolta. L’obiettivo questa volta era diverso, e consisteva esplicitamente nel destituire Nerone. Si unì a Vindice un esercito di centomila soldati che però fu sconfitto a Vesontio (Besançon) dal legatus della Germania, Lucio Virginio Rufo. Vindice perse in quella battaglia ventimila uomini, e non resse al tracollo, tanto da togliersi la vita. Il moto di Vindice non era stato inutile. Esso aveva fatto da sprone nelle province sudorientali dell’impero provocando scintille di rivolta fra le stesse legioni romane. Il vecchio Servio Sulpicio Galba, legatus della Spagna tarragonese e già comandante nella campagna di Mauritania nel 45, si era unito a lui. Vindice era stato appoggiato anche da Marco Salvio Otone che capeggiava le legioni ribelli della Lusitania. Otone trovava così il modo di vendicarsi di Nerone che lo aveva inviato nel 58 in quella remota regione per allontanarlo da sua moglie Poppea che, assai corrisposta, si era follemente innamorata del crudele imperatore. 462
Le legioni stanziate in Africa al comando di Clodio Macro erano anch’esse in subbuglio, per cui tutti i fronti erano in movimento. Più grave era però il pericolo verso il quale andava incontro Nerone per il fatto che Sulpicio Galba e Salvio Otone si erano messi a marciare su Roma. L’imperatore non riusciva a convincere i pretoriani a coprire una sua fuga in Oriente, sicché fu costretto ad armare alcune falangi di schiavi. Lo stesso Tigellino, subodorando la fine imminente di Nerone, lo abbandonò al suo destino e si alleò con l’altro prefetto del pretorio, Caio Ninfidio Sabino, il quale si vantava di essere il figlio naturale che Caligola aveva avuto da una liberta di corte. Non fu difficile in quel momento per Ninfidio corrompere i pretoriani, apparentemente per favorire la successione di Galba, ma in realtà per trarne un personale vantaggio e prendere lui il posto di Nerone. Ma doveva sbrigarsi perché Galba e Otone erano ormai vicini. Per trarli in inganno e disorientarli divulgò la falsa notizia che Nerone fosse riuscito a fuggire dall’Urbe. Questo bastò perché i pretoriani acclamassero il nuovo imperatore. Tuttavia l’uomo eletto non fu il vigoroso Ninfidio, bensì l’anziano Galba. Nerone si era rifugiato nei dintorni della città presso il liberto Faone, in un luogo segreto tra la via Salaria e la Nomentana. Qui apprese che il Senato aveva confermato Sulpicio Galba sovrano e allo stesso tempo dichiarato lui hostis publicus. Ciò equivaleva a una condanna a morte. Chiunque aveva il diritto di prenderlo a frustate e di ammazzarlo. Egli era braccato come una bestia. Già sentiva avvicinarsi il rumore dei cavalli dei persecutori, e in un attimo decise di uccidersi. Era un giovane trentunenne che aveva regnato per quattordici anni. Mentre si abbatteva sulla 463
spada assistito dal liberto Epafrodito pronunciò poche parole che riassumevano la sua sconfinata follia più che la sua incommensurabile vanità: «Qualis artifex pereo». Era il 9 giugno del 68. Con lui si estingueva la dinastia dei Giulio-Claudi, ma le sue spoglie non furono accolte nel mausoleo imperiale a causa della damnatio memoriae che lo aveva colpito. La bella liberta Claudia Atte, che ancora lo amava, pietosamente ne curò la tumulazione nella tomba dei Domizi presso il Pincio. La sua anima non aveva pace. Ai romani sembrava di sentirla vagare in pena ogni notte fra gli alberi di quel colle. I cristiani lo ritennero l’Anticristo, e ciò appariva in particolare negli scritti di fede cristiana di Vittorino, di Commodiano e di Sulpicio Severo. Con Nerone moriva il terzo imperatore cattivo dopo Caligola e Claudio. I romani gioirono sommamente. Per più giorni si diedero a festeggiare l’evento nelle strade della città. Ancora una volta la morte violenta di un imperatore era per loro motivo di allegrezza nell’illusione che quel fatto ponesse fine alla tirannide. Lo storico Tacito era più problematico. Si chiedeva se le vicende di Tiberio, di Caligola, di Claudio, di Nerone non fossero state falsificate, nel raccontarle, dai suoi colleghi. Ninfidio Sabino aveva disperatamente cercato di diventare prefetto unico dei pretoriani, e da quella posizione, prima che Galba dalla Gallia arrivasse a Roma, aveva tentato di agguantare con un colpo di mano l’impero. Le sue stesse coorti pretorie gli avevano fatto credere di sostenerlo, così, quando egli apparve davanti a loro, invece di proclamarlo imperatore lo assalirono e lo trucidarono acclamando Galba. Servio Sulpicio Galba era nato a Terracina nel 5 a.C. Aveva 464
settantadue anni quando a furor militare fu issato sul trono. Proveniva da una grande famiglia aristocratica e nutriva forti sentimenti repubblicani. Quindi incarnava il candidato perfetto per il Senato, che intendeva scrollarsi di dosso il prepotere dei tiranni. Su di lui aveva posto gli occhi Agrippina, la madre di Nerone, con l’intento di condurlo a nozze avendo perduto il suo primo marito Domizio Enobarbo. Ma Galba, che aveva da poco sposato una tenera fanciulla, Lepida, cedette alle lusinghe dell’avvolgente matrona. Fin dai primi giorni di governo, Galba si alienò la simpatia dei sostenitori. Era attorniato da tre pessimi consiglieri, suoi favoriti, che lo sostituivano in molte incombenze arrecandogli gravi danni. Erano il liberto Icelo, che egli nominò equites; un disonorato senatore, Tito Vinio, che propose per il consolato del 69; il presuntuoso Cornelio Lacone, nominato prefetto del pretorio. Di per se stesso Galba era un uomo severo, animato da antiquus rigor, ma soprattutto avaro anche con i pretoriani ai quali negava il promesso donativo «sub nomine Galbae», che era stato l’elemento decisivo per la sua elezione. Con l’idea di riportare la disciplina nell’esercito e di porre un freno alla dilagante corruzione se ne uscì con una nobile ma irritante dichiarazione secondo la quale lui coscriveva, non comprava i suoi soldati. In realtà all’estendersi della corruzione, che lui voleva tamponare anche con misure impopolari, contribuivano proprio i suoi tre pessimi assistenti vendendo cariche e privilegi, favorendo gli amici e danneggiando gli avversari, rubando ogni cosa e dovunque senza ritegno. Le legioni in Germania e quelle in Gallia si agitavano. Il 10 465
gennaio del 69 Galba, avendo ritenuto opportuno di darsi un erede, scelse per questa funzione il nobile trentenne Lucio Calpurnio Pisone Liciniano. Lo preferì a Marco Salvio Otone che appoggiava l’imperatore con la speranza di succedergli in considerazione della sua tarda età. Irritato per essere stato scartato nell’adozione, Salvio Otone, corrompendoli, indusse i pretoriani all’odio e alla ribellione. Puntava sul fatto che Pisone Liciniano, essendo severo quanto Galba, non avrebbe concesso benefici. I pretoriani appoggiarono Otone al punto di uccidere Galba in Campo Marzio sbalzandolo dalla lettiga il 15 gennaio successivo. Con lui cadeva anche Pisone Liciniano, e non erano trascorsi che cinque giorni dalla sua adozione. Pisone si era nascosto nel tempio di Vesta, ma, scovato, fu fatto a pezzi senza pietà. Morivano pure i consiglieri di Galba, l’equites Icelo, il senatore Vinio e il prefetto del pretorio Lacone. Il regno di Galba non era durato che sette mesi. Di lui i romani ricordavano soprattutto come li avesse divertiti facendo ballare per primo gli elefanti sulla corda. I soldati dei castra praetoria proclamarono quindi Otone imperatore. E fecero subito sentire il loro peso tanto da nominare il nuovo praefectus urbis nella persona di Fulvio Sabino, senza nemmeno ascoltare il parere del sovrano che essi stessi avevano voluto. Minuto nella persona, oltre che per le armi Otone aveva un debole per gli specchi. Ne portava alcuni sempre con sé per rimirarvisi, acconciarsi i capelli ricciuti, cospargersi di unguenti il volto. Egli era stato il secondo marito di Poppea che poi era andata sposa a Nerone. Sembrava che le sue donne dovessero in un senso o nell’altro passare per quell’imperatore. Da Nerone, infatti, aveva ricevuto un’altra sua 466
amante, Statilia Messalina. A Colonia, le legioni stanziate sul Reno gli contrapponevano il loro comandante Aulo Vitellio che era stato console nel 48, e proconsole in Africa, oltre che amico di Caligola e di Claudio. Quelle legioni, proclamato imperatore Vitellio, erano già in marcia verso Roma fin dal 2 gennaio dello stesso anno, con l’adesione della Gallia, della Rezia, della Spagna. Lungo la marcia si diedero a saccheggi, a violenze e a ruberie in preda all’odio nei confronti della ricca e privilegiata borghesia italica. Provocarono una nuova guerra civile. Gli eserciti di Vitellio, comandati da Fabio Valente e Alieno Cecina, erano arrivati in Italia scendendo dalle alpi Cozie e dalle alpi Pennine, quando Otone, col sostegno di altre province, lasciò Roma afflitta dai tumulti per andare incontro a loro. Fabio Valente subiva una sconfitta navale nei mari della Gallia narbonese mentre Alieno Cecina veniva battuto a Piacenza e a Cremona. Più tardi sul Po gli eserciti riuniti di Valente e di Cecina furono attaccati dagli otoniani, ma i vitelliani seppero reagire con tale maestria da sconfiggerli definitivamente nei dintorni della cittadina di Bedriaco, fra Cremona e Verona, il 14 aprile del 69. La notizia della disfatta turbò profondamente Otone il quale, dicendosi stanco di tanto sangue di fratelli che bagnava il suolo italico, rinunciò qualche giorno dopo alla vita e all’impero uccidendosi a trentasette anni e dopo soltanto tre mesi di regno. Grazie alla forza bruta delle sue legioni il generale Aulo Vitellio era ormai padrone del campo e aveva il via libera per Roma. Entrò in giugno nell’Urbe acclamato dalla popolazione come altri nel momento della loro ascesa, mentre il Senato, sempre più imbelle e in balia degli eventi, lo confermava 467
imperatore. Il generale sembrava voler imitare la politica accentratrice di Nerone. Come lui si circondò più di gente di spettacolo che di uomini di governo. Non rivelò doti di uomo politico. La sua maggiore occupazione era di bandire lussuose e prelibate cene per darsi tra amici alla crapula e a ogni vizio. Chiamò scudo di Minerva una pietanza da lui inventata con fegato di pesci e cervello di fagiani. Aveva mangiato anche nel campo di Briatico fra mucchi di cadaveri esclamando: «L’odore di un morto è buono se appartiene a un nemico, più buono ancora se è di un romano che non ci sia stato amico». Roma era a un punto di totale disfacimento. Mai come allora le sorti dell’impero erano apparse tanto tragicamente precarie. Non erano le guerre esterne a renderla instabile. Le ragioni della crisi derivavano piuttosto dalla struttura dello Stato minata al proprio interno da una sconvolgente anarchia militare. Ognuno faceva come credeva. Le legioni dislocate nelle province si sentivano in sintonia con le popolazioni del luogo poiché insieme affrontavano i problemi di ogni giorno. Odiavano invece Roma, i suoi senatori e i suoi pretoriani. Regnava malamente Aulo Vitellio, e avrebbe continuato nel suo malgoverno se il 1° luglio di quell’orribile 69 il prefetto d’Egitto, Giulio Alessandro Tiberio, e il luogotenente di Siria, Licinio Muciano, non avessero indotto le truppe a proporre un proprio candidato e a giurargli fedeltà. La scelta era caduta sull’ormai sessantenne generale Tito Flavio Vespasiano. Era di umili origini, e quindi per la prima volta saliva al potere imperiale una persona priva di nobile ascendenza. Nato a Rieti il 9 d.C, era figlio di un publicano al quale in Asia le popolazioni avevano tributato una statua con una scritta che appariva 468
straordinaria per un appaltatore delle tasse: «A un publicano onesto». Anche lui era uomo probo, come dimostrò nell’amministrare l’Africa, la provincia che Nerone gli aveva affidato. A Nerone però interessava poco l’onestà quanto la passione per la musica e il canto. Difatti Vespasiano cadde in disgrazia presso quell’imperatore per essersi addormentato nel viaggio in Grecia del 66 mentre lui cantava. Vespasiano, homo novus, che rappresentava le classi emergenti intenzionate a raggiungere il potere, fu eletto imperatore dalle truppe ad Alessandria. Nerone lo aveva inviato a reprimere la rivolta che era esplosa in Giudea a causa della brutale oppressione che i procuratori romani vi esercitavano. In due anni, insieme a suo figlio che come lui si chiamava Tito, vi aveva fatto terra bruciata sconfiggendo ovunque il nemico, nonostante un’eroica resistenza, e occupando l’intera Galilea, tranne alcune città tra le quali Gerusalemme. Il figlio Tito era nato dall’unione con una modesta ragazza di Ferentino, Domitilla. Vespasiano amava Domitilla, ma ancor più amava un’altra donna, la graziosa liberta Antonia Cenide, alla quale era tornato a unirsi essendo morta la moglie. Era chiaro che, dopo questi successi, le legioni d’Oriente ardessero dal desiderio di portare il loro Vespasiano sul trono, essendo assodato che gli imperatori venivano proclamati dagli eserciti come era avvenuto con Galba, Otone e Vitellio; tutti e tre però finiti tragicamente, giovani o vecchi. Ma ognuno di loro, quando afferrava il potere, pensava di avere un destino più felice. Dunque le regioni d’Oriente presero a marciare verso l’Italia. Si scontrarono con le legioni di Germania e le sconfissero. 469
Nell’Urbe la popolazione tumultuava sottoposta agli scontri che si erano accesi fra le truppe di Aulo Vitellio e quelle del praefectus urbis, Flavio Sabino, fratello maggiore di Vespasiano. Sotto i loro colpi venne abbattuto e incendiato il tempio di Giove Capitolino. Vitellio era in gravi ambasce. Flavio Sabino cercava di convincerlo ad abdicare, e c’era quasi riuscito quando arrivarono in città le truppe ausiliarie degli eserciti stanziati in Germania che si misero spietatamente alla sua ricerca per sopprimerlo. Scovarono Vitellio tremante nel palazzo imperiale, lo trassero all’aperto, lo trascinarono per le strade dell’Urbe perché assistesse alla decapitazione delle statue erette in suo onore. Quindi lo uccisero. Il suo cadavere fu gettato nel Tevere. Era il 20 dicembre del 69. In quel terrificante anno, sconvolto da una profonda anarchia militare per cui ogni legione aspirava ad avere un imperatore proprio, sorsero e caddero in pochi mesi ben tre imperatori, Galba, Otone e Vitellio. Tuttavia l’anno si chiudeva con l’ascesa di un sovrano, quel Vespasiano che, a differenza degli altri, non era certo di poter validamente salire al trono. Aveva sessant’anni, e riteneva che la sua età fosse troppo avanzata per caricarsi di qualcosa di così gravoso come l’impero di Roma.
470
XVII Vespasiano si trovava in Giudea quando fu acclamato imperatore dalle truppe orientali e in un secondo tempo, ancora lontano da Roma, fu investito dell’autorità anche dal Senato. Ormai si poteva cominciare a regnare prima che i patres conscripti esprimessero il loro parere sulle decisioni degli eserciti. Restò per qualche tempo in Egitto da dove aveva cominciato a governare l’impero con ogni mezzo per acquisire un maggior seguito. Faceva perfino miracoli: donava la vista ai ciechi e raddrizzava gli storpi mediante l’imposizione delle mani. Con la sua proclamazione terminava un luttuoso anno di guerre civili, tremendo per l’Urbe e i suoi domini. Il nuovo imperatore arrivò a Roma nell’estate del 70 dopo aver affidato il comando della campagna giudaica al figlio Tito. Nell’agosto e nel settembre di quello stesso anno, Tito, alla testa di ottantamila soldati, pose fine alla guerra occupando Gerusalemme, distruggendo il tempio di Salomone, rapinandone il tesoro e ogni altro arredo prezioso e accanendosi contro i prigionieri, ai quali prima erano amputate le mani e poi erano crocefissi, a un ritmo di cinquecento al giorno. Un’impresa folle. Complessivamente annientò un milione di giudei che avevano combattuto per la libertà. Da quel momento in poi i sopravvissuti cominciarono a disperdersi per tutta Europa. Infine impose ai vinti che rimanevano in Palestina un tributo speciale, il fiscus iudaicus, contribuendo in questo modo 471
a risanare il bilancio dell’impero. Tutta questa malvagità fu premiata dai romani con un superbo arco dedicato a Tito, padre e figlio, costruito sul monte Velia, alla sommità della via Sacra. Il nuovo sovrano dava alfine inizio a una fase di relativa tranquillità sebbene si fosse trovato a ereditare un impero allo sbando. Fece auguralmente chiudere le porte del tempio di Giano, il dio cui era affidato il destino di Roma; edificò uno splendido Foro dedicato alla Pace e diede ordine di far riapparire sulle monete l’immagine della Pace Augusta. L’impero era però in disordine. La Britannia era in rivolta; focolai di ribellione scoppiavano un po’ dovunque lungo la frontiera germanica; altre regioni lontane, come l’Africa e il Ponto, tendevano all’autogoverno; le legioni romane avevano perso ogni senso di disciplina diventando pressoché ingovernabili, anche perché nessuno più pagava loro il soldus. Nerone, e i suoi non meno dissennati successori, avevano sperperato somme immense svuotando le casse dell’erario. Perciò Vespasiano doveva per prima cosa riorganizzare l’amministrazione dello Stato. E in fretta. Si rimboccò le maniche mettendosi al lavoro con decisione. Anche con coraggio, rischiando l’impopolarità che a Galba era stata fatale. Ridusse al minimo le spese di corte, ma, essendo la voragine dell’erario troppo profonda, dovette malvolentieri imporre nuove tasse. Ne emise una assai strana che riguardava l’orina. I cittadini dovevano peraltro raccoglierla in recipienti, dopo di che veniva utilizzata per sgrassare gli indumenti e altri oggetti. Nemmeno lui era indenne dal male della pietra, per cui si diede alle grandi costruzioni, già iniziate con il Foro dedicato alla Pace e completate con la ristrutturazione del teatro di 472
Marcello, del tempio di Claudio, dell’acquedotto Claudiano e del Campidoglio che era stato avvolto da un incendio per tre giorni. Il marmo che veniva utilizzato era bianco a grana fitta, e proveniva dalle Alpi Apuane. Le navi che lo trasportavano partivano dal porto etrusco di Luni, popolato da coloni dedotti da Ottaviano; raggiungevano il porto di Ostia e poi risalivano il Tevere fino al porto fluviale di Roma. Questa zona della città fu chiamata Marmorata. L’opera più colossale di Vespasiano fu la costruzione dell’ellittico anfiteatro Flavio, nei pressi della Domus aurea, che venne appunto chiamato Colosseo diventando il simbolo marmoreo dell’eternità di Roma. Vi lavorarono gli ebrei schiavizzati che Tito aveva portato da Gerusalemme. La denominazione di Colosseo mise in ombra quella di anfiteatro Flavio che si richiamava al nome della famiglia dell’imperatore. Egli fu il primo a dare l’esempio di come dovesse comportarsi un buon cittadino in nome della salute dello Stato. Conduceva una vita sobria, dedito agli affari dell’impero. Si alzava di buon mattino e si coricava a tarda notte. Si preoccupò di riorganizzare i quadri dell’esercito con l’idea di costituire legioni più disciplinate. Il reclutamento delle milizie nelle regioni periferiche si scontrava con varie difficoltà. Ne fu una riprova la rivolta dei batavi del Reno, capitanata da Giulio Civile che mirava alla costituzione di una grande confederazione gallicogermanica, indipendente da Roma. Vespasiano, che chiese aiuto alle truppe iberiche per contrastare questo progetto, comprese che la spina dorsale dell’impero era costituita dalla borghesia provinciale, in special modo da quella spagnola. Cercò quindi di accelerare il processo di assimilazione dei provinciali, 473
estendendo a molte comunità galliche e iberiche la cittadinanza e consentendo agli esponenti della ricca borghesia provinciale di entrare in Senato. Lo scopo era di sostituire alla classe dirigente romana, ormai priva di stimoli, nuove forze emergenti dotate di entusiasmo e di buona volontà. Ciò non piacque alla vecchia nobiltà senatoriale, la quale però non era in condizioni di reagire essendo stata vittima sotto Nerone di profonde decimazioni. Una falcidia di senatori si era avuta anche a causa delle guerre civili che erano seguite alla morte dell’Enobarbo. Urgeva una riforma del Senato, che scacciasse dalla Curia gli indegni, immettendovi forze giovanili provenienti dalle province, comprese quelle africane. Fino all’ultimo istante di vita Vespasiano si occupò della cosa pubblica ritenendosi un amministratore, un funzionario dello Stato più che un imperatore. Al momento della morte, per mettere in rilievo questa sua condizione, ironizzò sul fatto che gli imperatori ritenevano di essere delle divinità, ed esclamò: «Vae, puto deus fio», sento di diventare un dio. Nonostante questa sacrilega battuta fu egualmente e rapidamente deificato. Egli dava invece più importanza alla sua operosità, e volle dimostrarlo levandosi dal letto in extremis per testimoniare che l’imperatore moriva in piedi. La morte lo coglieva a quasi settant’anni il 23 giugno del 79, in Sabina ad Aquae Cutiliae (Cutilia) dove si era ritirato per curare alcuni dolori che lo avevano colto in Campania. Un regno si era alfine protratto per un decennio, e si erano quasi dimenticate le vicende del 69 in cui in un solo anno si erano susseguiti quattro imperatori. A Tito Flavio Vespasiano successe Tito Flavio Vespasiano. Avevano dato avvio alla dinastia Flavia. Padre e figlio con gli 474
stessi nomi. Il primo aveva rappresentato i nuovi ceti dirigenti, il secondo era aperto all’Oriente. Suo padre aveva avuto l’accortezza di associarlo al potere per garantirgli la successione. Questo secondo Tito, dall’aspetto maestoso, aveva quarant’anni quando salì al trono, ripetendo la condizione di Tiberio che era stato collega e successore di Augusto. I romani ebbero timore di essere ricaduti sotto un nuovo Nerone, ma si sbagliavano. Li aveva tratti in inganno il fatto che il giovane Tito, vivente il padre, si dedicasse a ogni perfidia. Anche lui amava la musica, poetava e inoltre si dilettava a fare l’imitazione dei più vari personaggi rendendoli ridicoli. Si circondava di belle ragazze, sebbene la salute non lo sostenesse granché nelle sue mattane. Aveva perso la prima moglie, Arrecina Tertulla, e aveva divorziato dalla seconda, Marcia Furnilla, appartenente a una delle più cospicue famiglie romane. Si era invaghito in Giudea di una donna che poteva essere paragonata a Poppea per immoralità e conturbante bellezza. Quella donna era una giovanissima principessa ebrea, Berenice, sorella di Giulio Agrippa II, re vassallo di Roma. Una volta sul trono e compreso delle sue nuove responsabilità, Tito si liberò dalla schiavitù amorosa dell’appassionata Berenice. La scacciò dall’Urbe pur avendole promesso di sposarla, e, come il padre, si dedicò alle cure dello Stato. Una sera avvenne che, non avendo fatto nessuna opera di bene in tutta la giornata, prima di mettersi a letto esclamasse: «Amici, questo è stato un giorno perduto». Essendo premuroso e clemente con tutti lo chiamarono «delizia del genere umano», amor ac deliciae generis humani. Il suo impero sarebbe stato tranquillo se non lo avessero funestato 475
gravi catastrofi naturali. A soli due mesi dalla sua ascesa, il 24 agosto del 79, il Vesuvio, preceduto da un violentissimo terremoto, si mise a eruttare terribilmente immensi fiumi di lava fra lapilli incendiari mentre il cielo si oscurava. In pochi attimi lo sterminator Vesevo annientò, ricoprendole con il magma incandescente che espelleva dal seno, le circostanti città fiorenti e sfarzose di Pompei, di Ercolano, di Stabia, di Oplonti. La lava seppellì il vasto Foro di Pompei, le terme non ancora ultimate, l’anfiteatro, le fontane, le scritte sui muri, la pubblicità dipinta accanto alle botteghe, gli affreschi sulle pareti, gli oggetti quotidiani. Il Foro era un’isola pedonale da tener lontana dallo strepitus rotarum. Così i luoghi più esclusivi ed eleganti dell’impero venivano sottratti all’ammirazione e alla gioia dei popoli. Tra le innumerevoli vittime della sciagura sepolte dalla lava si annoverava Plinio il Vecchio, il prefetto della flotta di Miseno che da naturalista era accorso presso Stabia all’atto dell’eruzione per poterla studiare da vicino. Marziale lamentava di ritrovare, nei luoghi dove la vite e la vita fiorivano rigogliose, soltanto un deserto di cenere desolante persino per gli dèi. Tutto si poteva leggere in anticipo nei profetici libri degli oracoli sibillini: in Italia, ridestato il furore della fiamma, si leverà contro il cielo un torrente di indicibile ardore, e brucerà molte città, e ucciderà uomini, e riempirà il cielo di molta caligine, e gocce simili a sangue precipiteranno dall’alto; allora verrà a mostrare il suo volto la collera del nume celeste. Il mite Tito affrontò la calamità con sollecitudine, approntando soccorsi e aiuti. Assegnò ad alcuni personaggi consolari l’incarico di occuparsi dei superstiti e di risollevare le sorti di quelle terre. Offrì il proprio denaro e impiegò nell’opera 476
di risanamento i beni di quanti erano scomparsi nella catastrofe. Si pose infine un obiettivo politico-religioso: quello di sfatare una mormorazione secondo la quale il seppellimento di Pompei dimostrava come il cristianesimo stesse prevalendo sulle divinità pagane. Per attutire nei romani il dolore della catastrofe provocata dal vulcano affrettò l’inaugurazione del Colosseo. Proclamò per l’occasione cento giorni di feste; convogliò negli spettacoli le bestie più feroci; indisse giochi di gladiatori; allestì battaglie navali in un laghetto della Domus aurea. Lunghi banchetti si alternavano a scene d’amore in cui si ripeteva il mito della soggezione di novelle Pasifae a vigorosi torelli. Il 13 settembre dell’81, dedicato l’anfiteatro, Tito se ne tornava per un breve periodo di riposo nella sua casa in Sabina. Lungo la strada fu colto da forti febbri. A causa del malore, appena fu sulla soglia della sua villa cadde a terra privo di vita. Aveva quarantadue anni, durante i quali aveva governato soltanto per ventisei mesi. I romani tornavano a chiedersi quale amaro destino si addensasse mai sull’impero se ancora una volta un sovrano aveva regnato per così breve tempo. Alla morte di Tito successe al trono il fratello minore Domiziano, sicché a Tito Flavio Vespasiano seguiva Tito Flavio Domiziano, appena trentenne, nato da Flavia Domitilla il 24 ottobre del 51, e già nominato Cesare dal padre. Continuava la dinastia dei Flavi. Lo stesso giorno della morte di Tito, Domiziano fu acclamato dai pretoriani, ai quali egli si era affidato. Li aveva raggiunti a cavallo sul loro campo mentre Tito si avviava in Sabina. Ovviamente il Senato lo accettò senza discutere. Questa era ormai diventata una consuetudine. Egli era 477
assai geloso del fratello Tito, e tutti sospettavano che i dolori per i quali l’imperatore si rifugiava in Sabina fossero stati causati da una bevanda avvelenata che lui gli aveva offerto con la scusa di lenirgli la sete. Anche Domiziano, sebbene fosse di personalità assai scialba, diede nei primi mesi di governo l’impressione di voler essere un buon sovrano, ma ben presto i vizi giovanili ripresero il sopravvento. Se era generoso col popolo lo era nel peggiore dei modi affogandolo nel vino, incoraggiandolo alle crapule e alle forme più turpi di spettacolo. Domiziano mostrò di nutrire una concezione autocratica, assolutista, accentratrice e orientaleggiante del potere. Il Senato non lo amava, mentre lo seguivano la plebe e i soldati poiché favoriva l’espandersi dei loro vizi. Ottenuta nell’85 la censura a vita, si valse della carica per combattere l’aristocrazia e soprattutto il Senato privandolo dell’indipendenza. Proclamò senatore un asiatico e introdusse nella Curia i rappresentanti delle province; assumeva atteggiamenti orientali, tanto da autonominarsi sacerdote di Iside e da farsi chiamare ufficialmente dominus et deus, signore e dio, in netto contrasto con le idee laiche del padre, in una sorta di esaltazione simile alla follia di Caligola. Tradizionalmente i romani arricciavano il naso di fronte a tali manifestazioni esotiche, ma le truppe d’Oriente, avvezze a siffatti atteggiamenti, mostravano di averlo in simpatia. L’imperatore fu di sfarzo asiatico anche nell’urbanistica. Fece costruire archi e colonne, aprì una grande biblioteca in uno stupendo edificio, né mancò di donare al popolo un nuovo stadio. Per fronteggiare le spese di queste opere non esitò a ricorrere a illegali appropriazioni del pubblico erario e a rilanciare la lex de majestate come pretesto per defraudare i 478
romani più facoltosi. Attingeva a piene mani nelle casse dello Stato per assestare i vasti confini dell’impero, in Germania e in Medio Oriente, e per completare la conquista della Britannia. Le guerre erano quanto mai aspre. Il capo della più antica tribù britannica, Gàlgago, accusò brutalmente i romani di essere predatori del mondo, raptores or-his: «Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano il deserto e gli danno il nome di pace». Domiziano, volendo ottenere un più ampio consenso nelle file dell’esercito e così tamponare i pericoli che gli provenivano dalla nobiltà, aumentò le paghe dei soldati. Nei bienni 83- 85 e 87-89 combatté i catti, la popolazione celtica della Germania, affrontandoli di persona. Pur senza ottenere una vittoria definitiva, poté costruire lungo il confine un colossale e solido sistema difensivo – il limes germanicus – fatto di torri, fortezze, alte palizzate a protezione delle terre affidate ai coloni che vennero chiamate agri decumates. Costituì le province di Germania superiore e di Germania inferiore. Più ardua fu la guerra intrapresa nell’85-86 contro i daci che premevano sulla riva destra del Danubio. Domiziano si trovò a fronteggiare il nuovo capo di quei barbari, Decebalo, il quale si rivelava un ottimo stratega tanto che l’imperatore, non riuscendo a fermarlo su quel fiume, dovette farselo alleato accorrendo nella lontana regione. In cambio di contributi finanziari e di aiuti tecnici, Decebalo accettò di buon grado l’alleanza con Roma tanto da assumersi l’incarico di difendere i confini dell’impero lungo le sponde del Danubio. Gli ingenti costi per gli eserciti, per le magnificenze edilizie, per i cicli di festeggiamenti e per i grandi giochi contribuirono a 479
peggiorare i rapporti fra Domiziano e la nobilitas senatoria. L’imperatore reagiva molto male. Diventava sempre più sospettoso, si lasciava andare a ogni crudeltà. Faceva condannare a morte quattro vestali con l’imputazione di immoralità. Ripudiava la moglie Domizia Longina accusandola pretestuosamente di aver commesso adulterio con un ballerino, Paride, cui comminò la pena di morte. Domizia era figlia del generale neroniano Domizio Corbulone, che pure era salita al livello di Augusta, cioè di imperatrice come era successo per Agrippina e per Poppea Sabina. Non si poteva certo dire che Domizia non meritasse il disconoscimento per la sua condotta dissoluta di cui tutta Roma conosceva i più crudi particolari, ma più che altro Domiziano scacciava la moglie essendosi innamorato della nipote Giulia, figlia del fratello Tito. Domiziano era un po’ capriccioso nelle passioni poiché in un primo tempo aveva rifiutato quella ragazza che il fratello gli offriva in sposa. Giulia era la moglie fedifraga del cugino Tito Flavio Sabino per il quale l’imperatore nutriva un odio profondo, al punto da approfittare di un cavillo per farlo uccidere. Avvenne che in un annuncio un banditore avvinazzato invece di chiamare Sabino col titolo di console, come gli spettava, lo appellò imperator. Fu questo lapsus dell’araldo che costò la vita al giovane. Domiziano instaurò un regime di terrore. Intentò processi di lesa maestà nei confronti dei senatori che gli si mostravano ostili. Confiscava i loro beni, rendendoli utili all’erario. Condusse persecuzioni sia contro i cristiani sia contro gli ebrei. Infine prese di mira i filosofi perché adusi a «spezzare un capello in quattro». Già altre volte Roma, come ai tempi di Catone, se 480
l’era presa con i pensatori che diffondevano idee pericolose. Le sue vessazioni colpirono, fra gli altri cristiani, Giovanni l’Evangelista, che fu relegato sull’isola di Patmo nel Dodecaneso. Tale situazione costituiva un terreno ideale per il proliferare di congiure. L’ultima fu ordita nel 96 dalla nipote esule Flavia Domitilla d’intesa con i nuovi prefetti del pretorio Norbano e Petronio Secondo. Ebbe buon esito. Non si poteva escludere che vi avesse preso parte anche la moglie Domizia. Domiziano fu pugnalato a morte nella sua camera, in un’ala remota del palazzo imperiale. Il liberto Stefano, intendente di Flavia Domitilla, si era mostrato più volte a palazzo con il braccio sinistro avvolto da bende come se fosse ferito. Il giorno stabilito per l’attentato era il 16 settembre del 96. Stefano chiese di essere ricevuto da Domiziano col pretesto di dovergli consegnare un messaggio urgente della nipote. Fu naturalmente ammesso al cospetto dell’ignaro imperatore, il quale mentre leggeva il biglietto, fu assalito e fulmineamente pugnalato al basso ventre dall’intendente che aveva tratto l’arma tenuta nascosta tra le bende del braccio. L’imperatore, che era assai vigoroso pur non segnalandosi per la sua statura, cercò di difendersi accanitamente. Stefano, che non era solo nell’attuazione della cruenta congiura, ricevette man forte da Clodiano, l’attendente di Domiziano, dal liberto Massimo e dal primo ufficiale di camera, Saturo. Tutti insieme lo finirono con altri numerosi colpi di pugnale. Il 96 si chiudeva nel sangue. La malasorte proseguiva, e ancora una volta un imperatore soccombeva tragicamente. Domiziano aveva quarantacinque anni. Era stato sul trono per tre lustri. Con lui moriva il terzo sovrano flavio. Il Senato, che 481
non era estraneo all’attentato, non soltanto decretò la damnatio memoriae dell’estinto e l’abbattimento di tutte le sue effigi, ma si mosse in modo da proporre immediatamente un proprio candidato che si mostrava rispettoso della nobilitas. I patres rubavano la scena alle legioni ed eleggevano un anziano senatore, il famoso giurista Marco Cocceio Nerva, personaggio d’alta nobiltà, un consolare pacifico e fedele alle istituzioni. Nato a Narni nel 30, e quindi già sessantaseienne. Attraverso di lui il Senato cercò di imporre nella scelta dell’imperatore il principio della meritocrazia e della devozione allo Stato per neutralizzare la prepotenza delle legioni e dei pretoriani affinché non si imponesse il principio d’una monarchia sottoposta al dispotismo soldatesco. Nerva era una creatura del Senato, e difatti si preoccupò di governare in armonia con i patres conscripti, tanto che sulle monete da lui battute comparve la significativa dicitura «libertas publica, providentia Senatus», a dimostrare che la libertà e il buon governo dipendevano dal collegio senatoriale, in opposizione alla concezione dell’imperatore-dio voluta dal predecessore Domiziano, dominus et deus. Sul frontone del palazzo imperiale fece incidere la scritta Res publica. Le principali preoccupazioni di Cocceio Nerva furono di affidare gli incarichi dello Stato a personalità che ne fossero degne – lo storico Tacito fu console – e di risanare l’economia dello Stato che Domiziano aveva distrutto. In particolare si era aggravata la crisi dell’agricoltura ed erano assai peggiorate le condizioni di vita dei più giovani. Per porvi un freno finanziò di tasca propria i fondi chiamati alimenta ai quali potevano attingere i cittadini più bisognosi pagando moderati interessi. 482
Neppure lui, che del resto si rivelava sempre più debole, poteva sfuggire allo strapotere dei legionari. Per arginarli in qualche modo e considerato che la restaurazione senatoria era già in crisi, Nerva volle ripetere il gesto compiuto da Augusto, da Galba e da Vespasiano. Quindi, nell’anno successivo alla sua ascesa, adottò come figlio, associandolo al potere, un provinciale romanizzato nato nella Betica, a Italica, da madre spagnola. Il padre gli aveva dato quarantaquattro anni prima il suo stesso nome, quello di Marco Ulpio Traiano. Al momento dell’adozione egli era un illustre generale preposto al comando delle truppe di stanza nella Germania superiore. La città di Italica era stata fondata da Scipione Africano come avamposto contro i lusitani, e poi Augusto l’aveva costituita in municipio. L’aver scelto Traiano si rivelò una mossa particolarmente felice in quanto, soddisfacendoli, si tennero tranquilli legionari e pretoriani sempre pronti a prevalere su tutti. Nerva aveva agito con cautela, e difatti a Roma nessuno si aspettava quell’adozione. Lo stesso Senato ne venne informato durante una cerimonia pubblica, mentre l’imperatore sacrificava alcune vittime sul Campidoglio per ringraziare Giove delle vittorie che Traiano aveva ottenuto sui germani. Sulle ginocchia del dio massimo, Nerva deponeva una corona di alloro. I senatori non nascosero il loro stupore per quell’adozione che avveniva in assenza dell’adottato il quale oltretutto non era di natali italici. Lo stesso Traiano venne informato della lieta notizia con una lettera che l’imperatore gli aveva inviato al fronte e che le truppe accolsero con grande esultanza. Un possibile impedimento alla realizzazione del piano poteva essere rappresentato dal nuovo prefetto del pretorio, Casperio Eliano, col quale Nerva aveva 483
sostituito Norbano. Eliano già muoveva le sue pedine perché ravvisava nell’imprevista adozione un ostacolo alle sue ambizioni, ma lo stesso Traiano gli diede scacco matto chiamandolo in Germania e ordinandone la soppressione. Non erano trascorsi quattro mesi dall’adozione ufficiale di Traiano che il 25 gennaio del 98 Nerva si ammalava di polmonite. La sua salute non resse alla prova, e lui spirava a sessantasette anni nella sua villa sugli Orti Sallustiani dopo aver regnato soltanto per sedici mesi. Su ordine di Traiano fu divinizzato, mentre le sue ceneri venivano accolte nel mausoleo di Augusto. Gli fu eretto un tempio. I pretoriani che gli si erano opposti furono ricercati a uno a uno ed eliminati senza pietà.
484
XVIII Traiano era nato il 18 settembre del 53, e aveva quindi quarantacinque anni al momento dell’ascesa al trono di Roma. Di temperamento militaresco, dimostrava con le sue imprese di essere un soldato sul calco degli Scipione. Era dotato di una grande resistenza fisica, privo di sottigliezze psicologiche e di sfumature intellettuali. Aveva un senso di dirittura morale che ne faceva un ottimo amministratore della cosa pubblica. Il suo temperamento iberico si rivelava con un amore sfrenato per tutto ciò che sapeva di sfarzoso. Tuttavia sapeva quando doveva fare il modesto. Il nuovo sovrano segnava l’ascesa del primo provinciale al trono imperiale, per cui il dominio romano rivelava il suo carattere supernazionale. Traiano non si recò subito a Roma, preferendo rimanere ancora per due anni sul Reno e sul Danubio, conscio di dover anzitutto tamponare le falle che si aprivano sui confini dell’impero per conferirvi maggiore tranquillità. Soldato con mentalità di soldato, riteneva che la miglior difesa fosse l’offesa. Tuttavia l’Urbe reclamava la sua presenza, ed egli si mise in viaggio allo sbocciare della primavera del 99. Arrivò a Roma alla fine dell’anno. Entrava in città a piedi, con modestia repubblicana avendo bandito la scenografia imperiale. L’accoglienza della popolazione fu più che trionfale poiché i romani, nonostante gli onori che traevano dalla potestà imperialistica, amavano ancora le dimostrazioni di semplicità. 485
Scelse come sua dimora un palazzo di non eccessive proporzioni, vivendovi da uomo probo. Aveva con sé una nuova guardia del corpo reclutata in Germania poiché non si fidava dei mutevoli e tracotanti pretoriani che tanti danni avevano provocato allo Stato. Si appoggiò al Senato chiamando i patres conscripti a governare i domini romani. Si preoccupò delle esigenze del popolo distribuendo sesterzi ed estendendo ai giovani quegli alimenta che Nerva aveva generosamente istituito. Per tamponare almeno in parte la crisi economica che attanagliava lo Stato, compiva anche sacrifici personali. Vendeva molti beni imperiali che si erano accumulati nel tempo attraverso confische e donativi. Ma questi erano pur sempre palliativi di fronte alle voragini dell’erario. Le miniere d’oro della Dacia erano una forte tentazione e Traiano, da buon principe, sapeva resistere a tutto tranne che alle seduzioni. Effettivamente grande era l’attrazione di quelle miniere. Il capo dei daci Decebalo, sebbene fosse un barbaro, regnava con magnificenza essendo il padrone indiscusso di una vasta regione in cui abbondavano i giacimenti auriferi. Inoltre ancora valeva la concessione di Domiziano, il quale a suo tempo lo aveva riconosciuto come monarca assoluto ricevendo in cambio l’impegno a difendere i confini dell’impero a nord. Questa situazione, che del resto i romani riprovavano giudicandola indegna di una grande potenza, doveva finire. Difatti Traiano già il 25 marzo del 101 lasciava nuovamente l’Urbe e si lanciava sui daci dai quali si cominciava a temere un’invasione invernale nella Mesia attraverso il Danubio ghiacciato. Traiano poteva muoversi verso la Dacia essendo 486
caduto il rischio di lasciare sguarnite le province settentrionali. Nel 101 moriva il re cliente Agrippa II, senza successori diretti. Ciò permise di includere quel regno nella nuova provincia della Giudea. Tra questa regione e l’Egitto non restava che il regno vassallo dei nabatei che Traiano avrebbe potuto assorbire con facilità in qualsiasi momento e costituire una estesa continuità territoriale nei possessi orientali di Roma. Avrebbe così creato una sicura base per una campagna contro i parti che andava progettando dopo quella che aveva per obiettivo i daci. Per questa campagna non c’erano più ostacoli, quindi Traiano decise di passare all’azione. Da eccellente soldato e da ottimo stratega qual era riteneva che il modo migliore per risolvere i grandi problemi non consistesse nel seguire le vie diplomatiche ma nell’usare le armi. Egli non attese neppure l’esplodere di un consueto casus belli per muovere guerra, sicché già nella tarda primavera del 101 aveva dato inizio a una colossale manovra. Dal Mar Nero folti gruppi di carpentieri raggiunsero il Danubio per gettare sul fiume grandiosi ponti sui quali transitarono due colonne di ottantamila legionari romani: una arrivava dalla Pannonia, capeggiata dallo stesso Traiano, l’altra era composta da milizie provenienti dalla Mesia. Le truppe di Traiano varcarono il confine presso Lederata sulla via per Tibiscum (Tibisco), le altre a Drobeta, con l’intento di congiungersi più a nord. Le truppe dell’imperatore incalzavano strenuamente il nemico che si ritirava nel tentativo di trascinare i romani in zone impervie. Durante l’avanzata nella Dacia che permise ai legionari di raggiungere Tape, l’imperatore non trascurava di costruire campi base e fortezze per consolidare le conquiste. A Tape nel 487
102 i daci e i romani ingaggiarono una furibonda battaglia di cui rimase incerto l’esito, sebbene Traiano affermasse di aver sconfitto Decebalo, ottenendo il titolo di Daciens. L’elevazione in quel luogo di un’ara sacra, dedicata agli innumerevoli caduti romani, già di per se stessa stava a testimoniare quanto fosse costato caro a Traiano quello scontro. L’imperatore non poté godersi appieno la salutatio dell’esercito poiché i daci si arroccarono, a difesa della loro capitale, entro la stretta gola del fiume Bistra, verso le Porte di Ferro. Sbarrarono il fiume con solide staccionate. A mo’ di macabro ornamento, sulla cima di ogni palo era infilzata la testa di un soldato romano ucciso con estrema barbarie. A quel punto Traiano non fu da meno dei daci in quanto a malvagità. Dopo essersi ricongiunto con l’altra colonna dell’esercito, si diede a compiere razzie e distruzioni senza fine. Riuscì a mettere le mani su una sorella di Decebalo, alla quale non usò particolari cortesie. Sopraggiunto l’inverno, le schiere romane si ritirarono nei loro accampamenti. Non fecero altrettanto i daci i quali, con l’ausilio dei cavalieri sarmati e di alcuni legionari disertori, attaccarono i fortilizi traianei dopo aver attraversato il Danubio che la temperatura glaciale aveva ridotto a un’immensa lastra di ghiaccio. Quei fortilizi si trovavano a sud del fiume nella Mesia inferiore in posizione difficile, ma i romani riuscirono a fronteggiare gli attacchi. Nella primavera successiva Traiano riprese a combattere. Con fanteria e cavalleria discese il Danubio per assalire vittoriosamente dapprima i sarmati e poi i daci. Alcune tribù si arresero accettando di sottomettersi. Altre, che accorrevano in difesa di Decebalo ancora bellicoso, furono bloccate nella loro marcia e respinte verso i monti. 488
Traiano vinceva. Anche la capitale dacia, Sarmizegetusa, cadeva preda dei romani, i quali però non conseguivano una vittoria piena, e l’imperatore dovette perfino rivolgere una adlocutio alle truppe. I romani si erano impossessati dei territori della Dacia lungo il Danubio, ma a Decebalo restavano i preziosi monti della Transilvania carichi di miniere d’oro. La pace che Decebalo richiedeva a Traiano, dopo che era fallita quella conclusa con Domiziano, non poteva non essere che temporanea. Eppure il re dacio, diventando vassallo di Roma, aveva lasciato all’imperatore i territori che i daci avevano sottratto ai popoli vicini. Gli aveva anche restituito le macchine da guerra, non esclusi gli ingegneri militari che i romani avevano inviato ad abbattere i loro fortilizi. Si poteva dire che sia i romani sia i daci si accingessero alla pace con la riserva mentale di approfittarne per prepararsi meglio a una nuova guerra. Con l’immenso bottino strappato al nemico, Traiano poté permettersi di comportarsi con il popolo di Roma come uno splendido benefattore. Fece grandi spese urbanistiche, organizzò giochi di gladiatori con la partecipazione di prigionieri daci. Erano trascorsi tre anni da quella spedizione, durante i quali il governatore di Siria, Cornelio Palma, aveva sconfitto i nabatei in Oriente e in tal modo costituito la provincia di Arabia. I romani, mentre passavano da una guerra all’altra, si avvidero che i confini danubiani erano tornati roventi. Le imponenti costruzioni, come il mirabile ponte in pietra sul Danubio, e le numerose colonie colà istituite indicavano quanto Roma fosse potente. Decebalo si ingelosiva, e preparava il riscatto. Il suo popolo non era stato annientato, le miniere 489
aurifere erano ancora in sue mani sicché egli prese contatto con alcune popolazioni che all’inizio appartenevano al sistema romano, come gli iazigi. Numerosi legionari avevano disertato per confluire nelle sue schiere e mettere a disposizione del nemico la loro competenza nella costruzione di fortilizi e di macchine da guerra. Nel 105 Decebalo passò nuovamente all’azione sorprendendo Traiano con ben coordinati attacchi alle difese romane. Si era già in autunno. Il mare non invitava alla navigazione, tuttavia l’imperatore volle egualmente partire dal porto di Ancona con una cospicua flotta per condurre i soldati sul fronte di guerra. Al comando di una legione si trovava il cugino Publio Elio Adriano, che era già stato tribuno militare e tribuno della plebe. Le truppe dell’imperatore, accorse in difesa dei fortilizi romani, respinsero i barbari, e, pur fra immani perdite, sconfissero i daci scacciandoli dalla Mesia. Era ancora una vittoria che l’Urbe riportava su quelle popolazioni. I daci però poco dopo riconquistarono la loro capitale Sarmizegetusa, mentre le truppe romane che presidiavano i territori presi al nemico finirono col trovarsi in gravi difficoltà. Allora Traiano decise di riattraversare il ponte sul Danubio, di rientrare in Dacia e di puntare nuovamente sulla capitale. Decebalo aveva fatto deviare il corso del fiume Sargetios per nascondere sotto la sabbia gli immensi tesori daci. Sarmizegetusa fu assalita dalle legioni con furia selvaggia e con l’ausilio di poderose macchine distruttrici. Gli assediati resistettero a lungo, ma poi, ridotti in fin di vita per mancanza di qualsiasi sostentamento, si videro costretti a incendiare le loro case per non lasciarle al nemico e a farla finita con suicidi di massa ingerendo veleno. Sarmizegetusa fu chiamata Ulpia 490
Traiana. Felici, i legionari tributarono una nuova salutatio all’imperatore. Ma la guerra non era ancora terminata. Decebalo in tanta tragedia era riuscito a darsi alla fuga, e aveva ripreso ad affrontare il nemico con una diuturna guerriglia nel tentativo di fiaccarne le legioni. Finché un giorno, incalzato e raggiunto dalla cavalleria, per non cadere prigioniero dei soldati di Traiano si tolse la vita. I romani, non meno barbaramente dei daci, furono su di lui, gli mozzarono la testa e la inviarono a Roma come trofeo. La vittoria venne salutata nell’Urbe con feste solenni che si protrassero per centoventitré giorni e con la costruzione di grandi opere d’arte, compresa una gigantesca e robusta colonna in marmo su cui Apollodoro di Damasco cominciò a scolpire nel 107, a memoria delle generazioni future, le epiche vittorie che Traiano aveva conseguito l’anno prima nelle spedizioni contro i daci. Vi raffigurava lo stesso imperatore fra i suoi generali, e soldati romani con l’elmo crestato, e poi aquile e vessilli gloriosi e barbari sottomessi. Enorme e favoloso era il bottino che Traiano portava con sé dalla Dacia, ordinata in provincia. Potendo inoltre scavare a piacimento nei grandi giacimenti auriferi transilvani, gli fu possibile arricchire gli alimenta, fornire i romani di nuove opere pubbliche, essere prodigo di donativi, bandire ludi fastosi nei quali diecimila gladiatori affrontarono undicimila animali feroci: come in una guerra per celebrare una guerra. Traiano si preoccupava anche di restituire un volto umano alla nuova provincia imperiale devastata dagli scontri. La Dacia ferveva di grandi attività; era percorsa da volenterosi coloni romani indotti a popolare le zone più dimenticate della regione che in tal modo 491
subiva una radicale latinizzazione. La capitale Sarmizegetusa divenne il centro nevralgico e commerciale della provincia affidata a un propretore e a tre procuratori. Esperti funzionari imperiali si occupavano di estrarre l’oro dalle miniere del monte Alburno Maggiore, mentre altri valenti tecnici erano addetti a scavare argento, ferro e grandi quantità di sale. Sul fronte orientale, conquistata Nabatea, tutto appariva pronto per dare inizio alla campagna contro i parti. Con la consueta accortezza Traiano preparò il terreno con importanti lavori, aprendo e lastricando strade per facilitare le comunicazioni e gli approvvigionamenti durante la guerra imminente. Ordinò di scavare pozzi e cisterne perché al suo esercito non mancasse l’acqua. Fra le strade, la più importante serviva a collegare Damasco con Aquaba, sul Mar Rosso. La nuova impresa bellica, che si stava per ingaggiare contro abili e irriducibili nemici quali erano i parti, presentava ben maggiori difficoltà della precedente campagna dacia. L’imperatore, per quanto un po’ avanti negli anni ma forte del suo indomito spirito da soldato, dimostrava di non avere alcuna intenzione di rinunciare all’ardua impresa. Al di là dell’Eufrate era morto nel 110 Pacoro II re di Partia, che aveva lasciato sul trono il fratello Chosroe. Traiano aveva simpatia per lui, e sperava di farne un sovrano vassallo di Roma. Ma non appena si fu insediato, Chosroe deluse l’imperatore assumendo atteggiamenti antiromani. Cominciò col promettere la regione dell’Armenia al nipote Parthamasiris, che si aspettava invece di essere il successore di Pacoro. Ormai era lotta aperta tra Roma e Chosroe. Il conflitto non era più procrastinabile e nell’ottobre di tre anni dopo l’imperatore, già anziano, partì 492
dall’Urbe alla volta dell’Oriente. Traiano fu raggiunto ad Atene da alcuni ambasciatori di Chosroe. Il re della Partia gli chiedeva di riconoscere Parthamasiris come sovrano dell’Armenia, ma il principe gli dava risposte evasive preparandosi all’aggressione. Entrò nell’armoniosa Antiochia da dove il 7 gennaio del 114, dopo aver fatto sacrifici per ingraziarsi gli dèi, partiva alla conquista dell’Armenia con un esercito ben agguerrito. Procedeva attraverso l’Armenia senza incontrare ostacoli, finché nel cuore della regione, a Elegeia, gli si presentò Parthamasiris, umile e senza armi, per deporgli ai piedi la corona con l’intima speranza che Traiano gliela riponesse sulla testa. L’imperatore invece sorprese tutti proclamando l’annessione dell’Armenia che in tal maniera diventava una provincia romana. Parthamasiris trovò la morte in un attentato che aveva il suo ispiratore nello stesso Traiano, il quale, quando era il caso, non andava tanto per il sottile. Nell’inverno tra il 114 e il 115 Traiano era a Edessa ospite del principe dell’Osroene che si era proclamato vassallo di Roma. In quei mesi una colonna, comandata da Mauro Lusio Quieto, un luogotenente africano dell’imperatore, fece una rapida incursione in territorio nemico, calò sulla città di Singara in Mesopotamia e la conquistò, per cui anche quella regione divenne provincia romana. All’inizio della bella stagione Traiano, a sessantadue anni, dando prova di una eccezionale resistenza fisica, si rimise in marcia. Con quella nuova azione bellica egli aggrediva a fondo l’impero dei parti occupando Nisibi e Tebida e ricongiungendosi a Singara con la colonna di Lusio Quieto. Per quell’anno la campagna poteva dirsi conclusa. Traiano si 493
era recato con la moglie, la sufficientemente virtuosa Pompeia Plotina, a trascorrere l’inverno in Antiochia quando fu sorpreso da due tragici avvenimenti. Il primo riguardava un evento bellico e consisteva nella notizia d’una rivolta ebraica che, esplosa in Cirenaica, si diffondeva in altre zone dell’Oriente; il secondo riguardava un evento della natura e consisteva nel terremoto che si abbatté su Antiochia annientando interi quartieri, templi e portici, e mettendo in pericolo la sua stessa vita. Nella primavera del 116 Traiano si mosse per nuove conquiste che avevano come obiettivo la Babilonia e l’Assiria. Sulle sue azioni belliche aleggiava il leggendario spirito di Alessandro Magno, il macedone al quale il vecchio imperatore romano poteva invidiare soltanto la giovinezza. Tuttavia avrebbe voluto perfino superarlo con una spedizione in India. I legionari attraversarono l’Eufrate e il Tigri, su ponti di barche. Quindi occuparono la grande città di Ctesifonte, capitale dell’impero partico, andando oltre per via fluviale fino al Golfo Persico. L’imperatore s’impadronì del trono aureo di Chosroe, imprigionò la sorella del sovrano senza però poter mettere le mani su di lui. Chosroe si era infatti dileguato in tempo, e all’invasore non rimase che catturarne la nave ammiraglia. Ottenne il titolo di Partico. Tanto splendente fu la gloria conseguita nella guerra partica, quanto repentina fu la disfatta. La ribellione ebraica dilagava in tutto l’Oriente; i parti, incitati a sollevarsi, si diedero con le loro veloci bande di cavalieri armati di arco a svolgere un’intensa guerriglia antiromana. Le città scacciarono i conquistatori, e i romani si trovarono costretti a cingerle nuovamente d’assedio. 494
Ne ripresero alcune: Edessa, sulla quale si gettò Lusio Quieto; Seleucia, presso il Tigri, e Nisibi. L’imperatore era un militare troppo capace per non capire che con territori così sterminati e popolazioni dall’animo irrefrenabile, era impossibile per Roma esercitare un valido controllo. Decise quindi di giocare il tutto per tutto con un’audace azione politica. Due erano i capi ribelli più pericolosi: Parthamaspates, re dei parti, e Sanatruce, imparentato con Chosroe. Traiano, mentre incoronava il primo come re vassallo di Roma, faceva uccidere il secondo portando il figlio, Vologese II, sul trono d’Armenia. L’imperatore stava per tornare sul Mediterraneo quando nuovi rivolgimenti nelle terre da lui conquistate facevano svanire ciò che aveva faticosamente costruito. Si trovava ad Antiochia, ed era incerto se dare o no inizio a una ennesima guerra in quelle terre così tormentate. Lo decisero a desistere l’età, la stanchezza e la salute minata dalle privazioni e dagli sforzi cui gli eventi lo avevano sottoposto. Il vecchio imperatore passò le armi al cugino Publio Elio Adriano, legatus di Siria, e intraprese il viaggio di ritorno verso l’Urbe, la città da tempo agognata. Traiano non era un persecutore dell’ebraismo. Eppure gli ebrei non l’amavano. Troppo vivo era in essi il ricordo della patita perdita di Gerusalemme né erano scomparse dai loro occhi le fiamme che avevano distrutto il tempio di Salomone. Gli ebrei erano in realtà suddivisi in due fazioni: una mite con i romani; l’altra, oltranzista e intransigente, capeggiata dall’abile Rabbi Akiba. Aveva il sopravvento Akiba. Nel 114, quando l’imperatore aveva lasciato indifesi molti paesi orientali per impegnarsi nelle guerre partiche, agli ebrei parve che fosse 495
arrivato il momento di attaccare. La Cirenaica era la provincia romana più sguarnita di presìdi, e la rivolta vi fu particolarmente violenta. Furono distrutte le vie di comunicazione tracciate da Roma, furono abbattuti edifici pubblici e massacrati innumerevoli cittadini. Il prefetto Rutilio Rufo, armatosi di truppe irregolari, tentò di arrestare l’ondata di furore. Ma era ormai tardi. L’impeto delle ribellioni aveva già investito l’Egitto. I greci della regione cercarono riparo in Alessandria. L’estendersi della rivolta in quelle terre privava l’impero e le truppe al fronte dei preziosi rifornimenti di cereali dei quali l’Egitto era il principale produttore. La ribellione passò a Cipro e infine arrivò in Mesopotamia dove si combatteva contro i parti.
496
XIX La repressione ordinata da Traiano fu orrenda. Inviò in Egitto con pieni poteri Rutilio Lupo coadiuvato da Quinto Marcio Turbone. Con l’appoggio dei greci, entrambi i generali perpetrarono un vero e proprio sterminio di ebrei. La stessa cosa avvenne in altre regioni, tanto che gli ebrei superstiti corsero a rifugiarsi nelle zone interne dell’Africa. Traiano era sostenuto dal Senato che aveva ormai rinunciato a ogni velleità di antica repubblica. Tuttavia l’imperatore lo privò ancora di autorevolezza istituendo un consilium principis, che divenne un organo giudicante, e si valse anche dell’ausilio di celebri giuristi come Iuvenezio Celso e Nerazio Prisco. L’esercito lo idolatrava. Lui aveva saputo conquistare l’indiscussa ammirazione delle truppe con un costante impegno militare e condividendo con loro le fatiche che le guerre imponevano. Di indole pragmatica, era naturalmente indotto a rivolgere la sua attenzione all’esercito e alle opere militari, ma capiva anche come i monumenti celebrativi fossero necessari per rafforzare il consenso popolare, sicché non trascurava la costruzione di archi, statue, cippi e sacre are. Nella sua concezione del potere un altro puntello dell’impero era costituito dalle opere pubbliche. Per questa ragione curò in special modo l’estensione e la manutenzione della rete viaria senza trascurare alcuna regione, ritenendole tutte vitali allo sviluppo imperiale. In Sicilia e a Fordongianus, in Sardegna, ordinò lavori portuali per 497
favorire l’attracco delle navi. Fondò colonie in Africa. In Spagna, il paese natale da lui mai dimenticato, costruì strade e ponti. Celeberrimo fu il ponte sull’aurifero fiume Tago, presso Alcantara. A Segovia edificò un acquedotto monumentale. E così eresse altre opere in regioni più remote, in Tracia e in Egitto. Restaurò il canale che congiungeva il Nilo col Mar Rosso cui diede il nome di fiume di Traiano. Fra le opere cui si dedicò nella penisola italica, una delle più rilevanti fu la ristrutturazione della via Appia, facilmente soggetta a frequenti inondazioni. In alcuni tratti essa era eccessivamente ripida, mentre nei pressi di Benevento si dipanava in un percorso tortuoso e massacrante per chiunque vi passasse. Da Benevento la strada prese il nome di via Traiana in onore degli interventi di sistemazione che egli vi profuse. A Terracina ne riassettò il manto stradale sconvolto anche in quei luoghi dalle inondazioni. Decise di prosciugare le paludi Pontine che si rivelavano più forti di lui. Ampliò e migliorò i porti di Civitavecchia e di Ostia. ARoma ordinò all’architetto e urbanista greco Apollodoro di Damasco di edificare il foro Traiano, accanto al Foro di Augusto, così come aveva già elevato la superba colonna traianea sulla quale aveva narrato le imprese compiute in Dacia. Questo Foro era fra i più ampi e maestosi. Vi si accedeva attraverso un marmoreo arco trionfale di fronte al quale si ergeva la basilica Ulpia. Per esplicita volontà dell’imperatore, l’architetto vi aveva poi costruito due biblioteche, una per i testi latini e l’altra per i volumi in lingua greca. Non meno grandiose furono le terme edificate sulle alture del Colle Oppio, e di grande rilievo furono i suoi interventi per 498
migliorare la qualità della vita dei romani. Mise ordine negli intricati cunicoli delle cloache che spesso si intasavano, rafforzò le rive del Tevere per prevenire le tracimazioni delle acque, migliorò il funzionamento dei servizi idrici, costruì un nuovo acquedotto che dal vicino lago Sabatino portava l’acqua a Trastevere. Tutto bello, tutto grande, ma un vizio lo aveva anche lui, Traiano. Ed era quello di bere a dismisura. Dovette dare un ordine: «Non fate ciò che vi dico di fare dopo una mia sbronza!». Egli era ancora in viaggio su una nave verso Roma, quando nel luglio del 117 dovette fermarsi e sbarcare a Selinunte in Cilicia, colpito da febbri che denunciavano in lui una trombosi cerebrale. Aveva già ceduto il comando degli eserciti al cugino Adriano, senza però adottarlo come figlio. Pur sentendo vicina la fine non avvertiva il bisogno di assicurarsi la successione al trono. Non aveva mai fatto questo passo e non volle farlo neppure nel momento estremo della vita. La moglie Pompeia Plotina aveva messo in giro la falsa notizia che l’estinto, prima di spirare, avesse proceduto a adottare Adriano, e questa decisione appariva credibile considerato il grave stato di salute di Traiano. Tuttavia c’era chi non mancava di sospettare l’esistenza di un malizioso intervento della nobildonna, compiuto per favorire nella successione Adriano suo nipote e pupillo, e forse anche per non perdere il gusto delle congiure di palazzo. Tanto più che si mormorava d’un segreto amore fra lei e il vigoroso Adriano. Ulpio Traiano, che era brevemente sopravvissuto ai suoi mali, spirò l’11 agosto successivo, a sessantaquattro anni, dopo aver regnato per circa un ventennio. Non era poco per un imperatore, ed egli, primo 499
fra tutti, aveva anche meritato dal Senato il titolo di Optimus, il migliore. Ancora i romani ricordavano come lui, al momento di ascendere al trono, avesse mostrato la sua spada al prefetto del pretorio dicendogli: «Con questa difendimi se governo bene e con questa colpiscimi se governerò male». Alla falsa notizia dell’avvenuta adozione, Adriano che si trovava in Antiochia sollecitò le truppe stanziate in Siria di cui era il governatore, a proclamarlo imperatore. Soltanto dopo questa acclamazione Plotina informava il Senato della morte di Traiano. Si ispirava in ciò alla vicenda di Tanaquilla, che non aveva diffuso la notizia della morte del marito Tarquinio Prisco fino a quando non fosse stata certa dell’ascesa di Servio Tullio al trono. Plotina partì immediatamente alla volta di Selinunte per rendere omaggio al defunto. Fece trasportare la salma dell’estinto a Roma dove presiedette a trionfali esequie. Le ceneri furono sepolte sotto la colonna nel Foro che portava il nome di Traiano. Soltanto le sue manovre, questa volta accertate, indussero il Senato a convalidare la proclamazione degli eserciti, ma ciò avvenne con un anno di ritardo. Publio Elio Adriano si trovò imperatore a quarantun anni. Era nato a Italica da famiglia italiana nel 76, nella stessa città iberica che aveva dato i natali allo zio Traiano col quale era vissuto in un clima di continui dissapori. Anche lui era un provinciale romanizzato. Era un uomo molto bello e colto, scriveva poesie e scolpiva statue. «Animula vagula blandula, / hospes comesque corporis...», erano alcuni dei suoi versi più mesti. Era cresciuto con gusti raffinati. Amante della filosofia, era amico del famoso stoico Epitteto. Era un artista. Non era 500
soltanto poeta e scultore, ma anche pittore e musicista: componeva, suonava diversi strumenti. Aveva nozioni di architettura, di matematica e perfino di medicina. Né gli mancava il tempo per i viaggi e la buona tavola. Era insomma all’opposto del suo predecessore. Il nuovo principe si trovava nel pieno della maturità, con alle spalle molti anni di comando militare e una notevole esperienza in campo politico e amministrativo. Alla vedova imperatrice Pompeia Plotina egli era quanto mai simpatico, se non qualcosa di più, come si mormorava. Del resto nutriva gusti simili ai suoi. Plotina non aveva dato figli a Traiano, e quando il principe era ancora in vita, si era a lungo adoperata perché adottasse Adriano e ne facesse il collega nell’esercizio del potere. Adriano restava ad Antiochia perché, prima di lasciare la Siria, doveva sistemare improrogabili affari politici e militari. Inviava una lettera al Senato per scusarsi di non aver atteso la conferma dei patres conscripti, una volta proclamato dalle truppe. Scriveva che la ragione di questo suo comportamento era semplice: lo Stato non poteva restare senza un principe. Il presupposto appariva valido, ma celava un atteggiamento di indipendenza nei confronti della Curia. Il nuovo imperatore tornava a Roma a metà del 118. Per quanto avesse preso parte con valore e perizia alle imprese militari del predecessore, egli si rendeva conto che il dominio dei romani sul mondo doveva pur avere un limite. Aveva perfino polemizzato con Traiano e lo aveva criticato per le sue campagne che ampliavano pericolosamente l’impero in contrasto con le indicazioni di Augusto. Adesso era lui a governare, e intendeva chiudere con le grandi 501
guerre espansionistiche per preoccuparsi maggiormente della tranquillità dei confini che erano continuamente tenuti in agitazione dalle rivolte dei popoli periferici. L’impero si stava rivelando troppo grande per Roma, ma il ricorso a una politica per così dire pacifista avrebbe certamente sollevato le proteste dei generali traianei e degli stessi legionari, fautori di guerre di conquista a oltranza. Adriano affrontò questo rischio rinunciando a ogni azione offensiva, abbandonando velleità di riconquista della Partia che si era definitivamente impadronita dell’Assiria e della Mesopotamia, riportando il confine romano lungo le rive dell’Eufrate. Lasciò l’Armenia che tornava al ruolo di Stato cliente sotto Vologese II, e meditava di uscire anche dalla Dacia. Ma sarebbe stato troppo: l’esercito si sarebbe certamente ribellato a un capo così rinunciatario, e inoltre un totale abbandono delle province orientali conquistate da Traiano avrebbe provocato gravi danni all’economia dell’impero, con la perdita dei numerosi coloni che avevano sviluppato in quelle terre coltivazioni e commerci. Decise di stabilire una pace sicura e completa anche con gli ebrei, dopo aver tentato di debellarli. Quindi inviò il dalmata Quinto Marcio Turbone, un eques, che era già stato prefetto della flotta di Miseno, a sedare i tumulti giudaici in Egitto e a Cirene. Gli affidò anche l’incarico, in luogo del consolare Lusio Quieto di cui non si fidava più, di domare nella primavera del 118 le Mauretanie. Nonostante i suoi propositi pacifici, l’impero subiva nuove scosse belliche, sia al Nord sia in Britannia, ma i romani continuavano a prevalere. L’anno successivo fu repressa la rivolta dei brigantes britanni. Nelle regioni della Mesia le 502
popolazioni dei sarmati sul Danubio minacciavano seriamente i confini dello Stato, e allora l’imperatore volle raggiungere di persona quei luoghi, riportando l’ordine nel territorio. Non aveva torto Adriano a temere che il suo pacifismo avrebbe sommamente irritato un po’ tutti, né sbagliava a non fidarsi più del celebre comandante Lusio Quieto, il quale, d’intesa con un altro grande generale, Cornelio Palma che aveva conquistato l’Arabia, apprestò un complotto per eliminarlo. Il principe era ancora nella Mesia, e l’intrigo venne svelato dal Senato che impiegò la maniera forte contro i congiurati, all’insaputa dello stesso imperatore. Oltre a Lusio Quieto e Cornelio Palma, altri erano i cospiratori, anch’essi consolari e tutti di orientamento traianeo. Furono giustiziati nei luoghi dove si erano rifugiati con la speranza di sfuggire al castigo. Lusio Quieto fu ucciso a Baia; Cornelio Palma, mentre era ancora in viaggio verso una destinazione ignota; Caio Avidio Nigrino, il capo della congiura detta dei «quattro consolari», a Faventia (Faenza) nella Cisalpina, suo paese natale; e infine Publilio Celso a Baia. A queste notizie Adriano tornò a Roma. La cospirazione era una chiara conferma della forte contrarietà che la sua politica suscitava fra gli ambiziosi comandanti militari che ravvisavano nel mancato proseguimento della politica espansionistica di Roma uno svantaggio per loro stessi, in quanto a perdita di gloria, onori e arricchimenti. Adriano si trattenne nell’Urbe per tre anni cercando di placare la situazione che rischiava di degenerare in tanti piccoli focolai di rivolta. Per tranquillizzare il Senato partecipava con regolarità alle sedute dell’assemblea, invitava a cena i patres nel palazzo imperiale, si mostrava 503
affabile anche con i senatori meno importanti. Era tutta una finzione poiché in realtà egli sospingeva l’organizzazione amministrativa dello Stato in direzione avversa al Senato. Si valse di personaggi appartenenti all’ordine equestre ai quali affidò particolari incarichi amministrativi che in precedenza erano svolti soltanto da senatori. Si rivolse a tecnici specializzati e ai maggiori giuristi di Roma, essendo egli stesso un giurista. Chiamò a far parte del Consiglio del principe, già istituito da Traiano, uomini di grande valore, illustri giureconsulti, come Iuvenzio Celso, Salvio Iuliano, Nerazio Prisco. Il Senato subì un’ulteriore diminutio dal potenziamento e dal nuovo ordinamento dell’apparato burocratico statale. Anche in questo caso Adriano attinse per la formazione dei quadri massimamente nel ceto equestre, introducendo pure per loro un cursus honorum. In tal maniera un normale funzionario poteva meritoriamente scalare i vari gradini della carriera per servire meglio lo Stato e ottenere riconoscimenti di promozione sociale. Adriano era saggio, sapiente e raffinato, ma tendeva a prestare eccessivo ascolto alle dicerie di palazzo, alle chiacchiere di corte. Era dunque un po’ pettegolo e un po’ volubile di carattere. Era portato a non fidarsi troppo a lungo degli amici e dei collaboratori, perciò spesso avveniva che i sostenitori di oggi diventassero gli avversari di domani. Con generosi donativi arricchiva gli amici, ma poi s’ingelosiva di loro. Bizzoso per natura, si dimostrava insofferente di chi faceva sfoggio della sua scienza e della sua cultura, pur essendo egli stesso un uomo colto. I prefetti del pretorio Celio Attiano, che insieme a Traiano era stato suo tutore, e Caio Sulpicio Simile vennero sostituiti con 504
Marcio Turbone e Septicio Claro amico di Plinio, accusati di aver abusato del loro potere. Adriano avrebbe voluto farsi amare dal popolo, ma gli mancava qualcosa per ottenere questo ambìto risultato. Si affidava allora al consueto panem et circenses, e al suo ritorno a Roma nell’estate del 118 si mise a distribuire generosi donativi. Il 24 gennaio dell’anno successivo, giorno del suo genetliaco, gettò nell’arena mille belve feroci contro le quali i gladiatori combatterono per una intera settimana. La sua azione più popolare consistette nella remissione dei debiti nei confronti dell’erario sia per gli abitanti di Roma sia per le popolazioni italiche e provinciali. Un giorno Adriano ordinò di portare nel Foro le tabelle che elencavano tutti i debiti, e vi appiccò fuoco fra le entusiastiche acclamazioni della folla. Per colmare altri vuoti dell’erario pubblico, invece di ricorrere a nuove tasse preferì sacrificare le proprie riserve personali. I romani lo applaudivano, sebbene mai con eccessivo entusiasmo, anche per gli abbellimenti architettonici di cui ornava la capitale dell’impero. Lungo la via Sacra, nell’area dell’immensa Domus aurea di Nerone distrutta da un incendio nel 114, fece costruire un grandioso tempio alle dee Venere e Roma dopo aver rimosso, con l’ausilio di ventiquattro elefanti, la colossale statua di Nerone. Elevò un arco di trionfo in Campo Marzio, e nel 124 ricoprì il Pantheon con una mirabile cupola. Egli considerava la possibilità di non scatenare più guerre come il miglior rimedio per non far soffrire l’erario. Tentava di raggiungere questo obiettivo, ma si accorse che era più facile dire che fare anche per un grande imperatore. E poi valeva sempre una massima: se vuoi la pace prepara la guerra. Per 505
attuare la sua politica pacifista Adriano sapeva bene come bisognasse contare su un esercito disciplinato e sempre pronto a battersi. La crisi economica imponeva sacrifici, sicché il principe fu costretto a ridurre il numero delle legioni. Occorreva sopperire alla quantità con la qualità. A tale scopo attuava un capillare controllo delle zone calde dei domini, si assicurava della disciplina delle legioni, rafforzava i legami con i sovrani soggetti, migliorava le relazioni diplomatiche con i capi tribù d’oltre confine. Assolse di persona molte di queste incombenze, dividendo con le truppe i disagi, le fatiche, le manovre giornaliere, il rancio. Lasciò i soldati provinciali a operare nelle loro zone d’origine, certo che avrebbero meglio difeso i territori in cui erano nati. Inoltre tali arruolamenti erano assai più economici per le casse dell’impero. Istituì nuove specializzazioni di cavalieri che, armati di corazza, erano più aggressivi e pericolosi somigliando alla cavalleria catafratta dei sarmati. Coadiuvato da uno stato maggiore di esperti ufficiali, voleva essere certo che anche in tempo di pace l’esercito fosse pronto a fronteggiare qualsiasi evenienza. Ispezionò le schiere da vicino, e, nel 121, intraprese un lungo viaggio attraverso le province dell’impero. Visitò la Germania e nell’anno successivo sbarcò in Britannia, la più rischiosa delle regioni in cui la rivolta del 117 aveva lasciato un profondo segno antiromano. Trasformò in un poderoso vallo gli avamposti costruiti dai suoi predecessori. Il Vallum Hadriani consisteva in un muro che divideva in due l’isola: da una parte le terre civilizzate dai romani, dall’altra parte quelle dei barbari indigeni. Nel 122 si recò nella Gallia meridionale. Si trovava a 506
Nemausus (Nîmes) il giorno in cui apprese la notizia della morte di Pompeia Plotina. In suo onore fece edificare nella città un tempio e d’impulso scrisse commossi versi commemorativi, come quelli di un innamorato segreto. Passò in Spagna, a Tarragona, fra i suoi connazionali iberici. Vi restaurò di tasca propria il tempio di Augusto, mentre i cittadini gli dedicavano un’infinità di statue tanto che se ne dovette affidare la cura a un apposito magistrato. Pur fra molte feste a Tarragona subì un attentato, ma l’uomo che aveva cercato di ucciderlo fu riconosciuto come un povero pazzo che aveva agito da solo, per cui non subì alcun processo.
507
XX L’inverno tra il 122 e il 123 fu pessimo. Trascorsi quei terribili mesi Adriano riprese l’interrotta visita ecumenica nei territori dell’impero. Si diresse in Mauritania, e anche qui i suoi sforzi furono volti a riorganizzare le truppe. Con identiche intenzioni riassestava le province che erano state il palcoscenico delle gravi sommosse ebraiche e che si trovavano in cattive condizioni. Raggiunse la Cilicia per ricostruire strade e edifici; varò provvedimenti per ripopolare quelle zone ormai disabitate. Non poteva trascurare la Partia, per poi transitare in Asia, in Lidia, in Frigia, mostrandosi a tutti, alle popolazioni civili e agli eserciti, per testimoniare quanto intensamente l’imperatore romano si interessasse di loro. Adriano raccoglieva simpatie e consensi, rinsaldando l’impero. Si diresse in Cappadocia formando una nuova provincia di Cappadocia e Ponto, e riordinando anche qui, come era ormai sua consuetudine, i quadri delle legioni. Infine decise di tornare a Roma passando per il Mar Nero e facendo tappa in Bitinia a Claudiopolis, così chiamata in onore di Claudio. Era il 123. Nelle strade di questa città s’imbatté in un giovane dalle perfette forme di efebo greco e dal volto gentile come se fosse un dio dell’Olimpo. Il giovane si chiamava Antinoo, e l’imperatore non seppe resistere al fascino della sua bellezza. Come Giove aveva trovato Ganimede, così lui si abbandonava ad Antinoo. Ora assaporava l’amore, come non lo 508
aveva mai conosciuto prima tra le braccia della non molto amata moglie Vibia Sabina, la bisnipote di Traiano che aveva sposato nell’anno 100 e che definiva morosa et aspera. E neppure nella passione segreta con la zia Pompeia Plotina. Il viaggio non aveva fine. Passando per Ilio arrivò a Rodi, la più raffinata delle isole elleniche; quindi sbarcò su un’altra incantevole isola a nord est dell’Egeo, Samotracia. Passò in Tessaglia, nell’angusta e interminabile valle di Tempe, in vista dell’Olimpo, ispiratrice di ogni poeta greco. Nell’inverno del 125 arrivò alfine ad Atene e vi ricevette la prima iniziazione ai misteri dei riti eleusini. Considerava Atene come sua patria culturale. Intese perciò lasciarvi un buon ricordo di sé, prodigandosi a restaurare monumenti e a ordinarne di nuovi, tanto da mutare il volto della città rendendolo attraente come una volta. Lo preposero a presiedere le grandi feste Dionisiache fra gare ginniche, rappresentazioni di tragedie e di commedie, cori lirici cui partecipavano anche ragazzetti. Intraprese una lunga escursione attraverso l’Ellade, passando per Delfi e Nemea. A Mantinea, nel Peloponneso, pose un’epigrafe da lui redatta sul sepolcro di Epaminonda. A Corinto donò un acquedotto, le Terme, una grande strada e un tempio in onore di Apollo. Infaticabile nella interminabile escursione, dopo essersi soffermato a Sparta, approdò in Sicilia per rivolgere l’attenzione ai problemi amministrativi dell’isola. Egli, essendo anche un esteta e un amante della natura, volle come tale scalare l’Etna per assistere dalla cima del vulcano al sublime spettacolo di un’alba che sorge. Nel marzo del 127 era nuovamente a Roma ponendo termine 509
al suo primo viaggio attraverso l’impero. Soprattutto la Grecia gli era rimasta particolarmente impressa nell’animo, sicché cercò di grecizzare l’Urbe per renderla simile alle favolose città di quella regione in cui fiorivano arti e lettere, opere di poesia e di pensiero. Fondò a Roma un Ateneo, una scuola di studi superiori. Pose mano a due grandi e fastose costruzioni, il suo mausoleo, la mole Adriana, e una sua villa a Tivoli che, sulla base di un progetto da lui stesso disegnato, consisteva in una vera e propria città ellenistica di non eccessive proporzioni, ma completa di palazzi, basiliche, biblioteche, teatri, circhi, terme, porticati, statue, ninfei, fontane e stagni, sale corrusche di marmi policromi e lucenti di oro. Il tutto aveva inizio in quel 127. La villa Adriana di Tivoli era il trionfo dell’amore per l’ellenismo. Nella splendida dimora il principe pensava di trascorrere in solitudine gli ultimi anni di vita, pur continuando a governare l’impero, come aveva fatto Tiberio allontanandosi da Roma e ritirandosi per un decennio a Capri. O come un Odisseo moderno che tornava alla sua Itaca. C’era sempre un soffio di mistero nei prìncipi che tendevano o a un finale eremitaggio personale o a un decentramento dei poteri imperiali o a entrambe le cose. L’isolamento di Adriano ebbe breve durata, anche perché lui si accorgeva che, nonostante il suo ellenismo, Roma e la Grecia rimanevano quali erano, così diverse tra loro e così identiche a se stesse. Nell’agosto del 128 diede avvio a una nuova anche se lenta peregrinazione in Grecia al fianco della moglie Vibia Sabina. Dapprima si diresse a Eleusi, per ricevere un secondo grado di affiliazione alle sette misteriose e per completare 510
l’iniziazione a quei riti cui si era già avvicinato una prima volta ad Atene. Stabilì la residenza ad Atene a due anni dall’inizio delle magnifiche opere urbane ordinate per abbellire la città. Fece costruire il sontuoso tempio di Zeus Panellenios che nel suo estetismo doveva diventare il grande centro culturale e unitario di tutte le comunità elleniche, una sorta di ombelico dell’animo greco. Ordinò di edificare un tempio a Era, una splendida biblioteca, un ginnasio, un porticato e un nuovo quartiere cittadino, sull’Illisso, che venne chiamato Adrianopolis. Vittima di un delirio psicomotorio, nella primavera dell’anno successivo fu in Asia, a Efeso, a Smirne, a Pergamo; passò in Siria dove ancora una volta prese a riorganizzare le legioni sbandate. Nel giugno del 129 soggiornò in Antiochia. Sulla frontiera armena, a Samosata, indisse un grande convegno dei sovrani vassalli di Roma che erano dislocati lungo i confini dell’impero. Mancava all’incontro l’orgoglioso Farasmane d’Iberia, mentre vi partecipò il re dei parti, Chosroe, cui Adriano restituì per l’occasione la figlia prigioniera di Roma dai tempi di Traiano. Il principe si mostrò gentile con i convenuti. L’incontro servì a sistemare le pendenze più gravi, al punto che lo scontroso iberico Farasmane si pentì di non avervi partecipato. Adriano trascorse l’inverno in Antiochia, per poi recarsi all’inizio del 130 in Palestina, terra nuovamente in agitazione per una rivolta degli ebrei. Che cosa fare per indurre quel popolo a più miti consigli? Forse, era l’ipotesi di Adriano, si poteva tentare di risolvere la questione ebraica romanizzando Gerusalemme. Così diede alla città il nome di Aelia Capitolina, e 511
accanto al vecchio tempio dedicato al Jahvè giudaico ne costruì un altro in onore di Giove Capitolino, il dio di Roma. A metà di quel 130, che doveva rivelarsi fatale, partì per l’Egitto scegliendo Alessandria come residenza. Si sentiva finalmente in vacanza a cinquantacinque anni, e i suoi viaggi sul Nilo, a imitazione di quello compiuto da Cesare e Cleopatra, li intraprendeva in intima compagnia con il suo giovane amasio, l’attraente Antinoo. Brevi furono quei giorni felici, perché il 30 ottobre proprio sul Nilo, a Hermopolis, Antinoo cadde nelle acque del fiume e vi affogò. Molti pensarono che la disgrazia non fosse accidentale sebbene lo stesso imperatore si affannasse a presentarla come voluta dalla sorte. Lo diceva negli scritti e nei dolorosi versi in cui piangeva l’amato giovane. Per Adriano la perdita di Antinoo fu l’evento più tragico della sua esistenza. Affranto, distrutto dal dolore, cadde nella più nera disperazione. In memoria dell’adorato adolescente fece svolgere in ogni luogo imponenti cerimonie di cordoglio che culminarono il 30 ottobre del 130 nella fondazione d’una città, Antinoopoli, di fronte a Ermopoli, intitolata allo scomparso. Le effigi di Antinoo apparvero dovunque, dipinti, bassorilievi, statue a opera degli artisti più insigni a perpetua memoria della bellezza greca di cui il dolce ragazzo era il simbolo. Gli vennero dedicati due obelischi con scritti in geroglifici in sua gloria. Adriano lo divinizzava, mentre Antinoo appariva in cielo nelle forme luminose d’una stella. Ma qualche commentatore cristiano più prosaicamente parlava di lui come di un eunuco. Due anni dopo il principe era tornato ad Atene. Gli pervennero altre cattive notizie, quelle di un nuovo tumulto giudaico che era esploso a Gerusalemme, a dimostrazione di 512
quanto fossero falliti i suoi tentativi di collaborazione. In realtà la sua religione favorita era la greca; non per niente, attratto dalla cultura ellenica, aveva accettato l’iniziazione eleusina. Non teneva in gran conto le altre grandi religioni, specialmente le monoteistiche, come l’ebraica e la cristiana. Pur dispregiandole non perseguitava i loro adepti. Era tollerante. Si adoperava affinché giudei e cristiani non fossero perseguitati per le loro convinzioni religiose, ma fossero lasciati liberi di professare il loro credo. A lui bastava che non turbassero l’ordine pubblico dello Stato. Il suo proposito di romanizzare Gerusalemme otteneva risultati opposti a quanto egli sperava. Questa politica sommuoveva uno spirito di vendetta e di odio negli ebrei verso Roma, riattizzava vecchi e mai sopiti rancori, fomentava antichi focolai di ribellione. In particolare un nuovo casus belli che riaccese sanguinosi contrasti fu costituito dalla proibizione di praticare sui neonati il rito ebraico della circoncisione che i romani giudicavano una barbarica mutilazione. Adriano, confortato dal parere dei suoi eccelsi giuristi, aveva cercato anche lui di opporsi a questa consuetudine. L’ipotesi del principe di riuscire a migliorare i rapporti fra pagani ed ebrei con una forma di convivenza fra le due religioni si rivelava un fallimento. La costruzione in Gerusalemme del tempio a Giove Capitolino veniva considerata come un grave tentativo di paganizzare la città. Si immaginava che sarebbe esplosa una nuova e più cruenta rivolta ebraica, cosa che avvenne nel 132, quando già Adriano aveva preparato le sue truppe alla guerriglia. La sommossa si propagò all’intera Palestina, capeggiata da Shimon Bar Kokheba 513
e dall’irriducibile Rabbi Akiba. Gerusalemme fu proclamata città franca dai romani che per un paio d’anni batterono una propria moneta. Gli ebrei tentavano di riedificare il distrutto tempio di Salomone, ma Adriano diede una risposta decisa mettendo a capo delle legioni due grandi generali: il governatore di Giudea, Tineo Rufo, e il governatore di Siria, Caio Publicio Marcello. L’esercito romano non utilizzò le usuali strategie, bensì, molto opportunamente, decise di adattarsi alle tattiche del nemico. Senza ingaggiare grosse battaglie, ma con lo stillicidio costante di una guerriglia pur sanguinosa, riuscì a sconfiggere le forze ribelli. Due anni dopo le milizie romane rientravano in Gerusalemme, presente Adriano. Alla testa delle legioni stanziate in Giudea, l’imperatore pose un abile generale, Sesto Minucio Faustino Iulio Severo, il quale, già comandante in Britannia, riconquistò uno dopo l’altro i territori perduti, fino all’ultima roccaforte di Bether, nei primi mesi del 135. Con distacco Adriano comunicò ai senatori la vittoria omettendo nella lettera la frase che era diventata consueta: «Se voi e i vostri figli state bene, ne sono lieto: io e gli eserciti stiamo bene». Fu acclamato, e il legatus Iulio Severo ricevette gli ornamenti trionfali. Il principe ordinò che Gerusalemme, anzi Aelia Capitolina, fosse ricostruita e ripopolata con coloni romani. Nel restaurato tempio di Giove Capitolino fu collocata una sua statua. Agli ebrei non soltanto fu proibito di entrare in città, ma fu anche imposto di starne tanto lontani da poterla appena intravedere. A salvaguardia della Giudea, diventata Siria Palestina, furono dislocate due speciali legioni assai agguerrite. Adriano era ormai vecchio. Non aveva figli, ed era assillato da 514
un’orda di aspiranti alla successione: i raccomandati dai senatori, i pupilli dei prefetti del pretorio e altri ancora che confidavano nella buona stella e nella loro abilità di cortigiani. Mentre si dimostravano affabili e gentili con l’imperatore, erano ai ferri corti tra di loro. Alcuni personaggi della combriccola rasentavano il grottesco. Infatti Giulio Urso Serviano, sebbene novantenne, appariva fra i più decisi pretendenti al trono osteggiando il nipote Pedanio Fusco Salinatore. C’era anche il senatore Platonio Nepote, una volta amico di Adriano e poi trasformatosi in feroce avversario. Nel giugno del 136 finalmente il vecchio principe decise di comunicare la sua scelta. I favori di Adriano si erano concentrati su Lucio Ceionio Commodo Vero. Non se ne capiva bene la ragione essendo il giovane privo di particolari doti. Discendeva da un’antica stirpe dell’Etruria, ma era genero di quel Caio Avidio Nigrino che era stato giustiziato per aver guidato contro di lui nel 118 il complotto dei «quattro consolari». Ceionio era bello, elegante, forte e colto per quanto vizioso e depravato, ma la sua salute era minata da una grave malattia. Di ritorno dalla Pannonia, dove era stato inviato come governatore e dove aveva bene operato, fu colto da febbri che il 1° gennaio del 138 lo conducevano alla morte. Si apriva con maggiore violenza una lotta per la successione che riportò in auge alcune voci sull’avvenuta scomparsa di Vibia Sabina nel 136. Si diceva che l’imperatrice fosse stata avvelenata da Adriano perché coinvolta nella protezione di un candidato che non riscuoteva il suo plauso. La stessa divinizzazione di Vibia, voluta dall’imperatore dopo la di lei fine, sembrava che dovesse coprire i suoi crimini o le voci infondate su di essi. 515
Quando Lucio Ceionio era stato adottato da Adriano, con il nome di Lucio Elio Cesare, aveva già un figlio di sei anni, e avrebbe quindi potuto dare inizio a una nuova dinastia imperiale se non fosse intervenuto il fato a decidere altrimenti. Adriano si trovava senza un successore, né poteva fare affidamento sul figlio dello scomparso Ceionio che, pur essendo un nipote adottivo, era troppo giovane con i suoi otto anni. La turba dei postulanti tornò prepotentemente alla carica ossessionando il principe che già non ragionava più. La salute di Adriano, idropico, peggiorava. Più insopportabili si facevano i dolori che lo assalivano in tutto il corpo, tanto da fargli desiderare il suicidio. Adriano sapeva di dover prendere una decisione in tema di successione, sicché il 24 gennaio del 138, giorno del suo sessantaduesimo compleanno, convocò i più autorevoli senatori ai quali presentò il suo nuovo candidato, un cinquantunenne di origine gallica ma nato a Lanuvio presso Roma. Il prescelto si chiamava Tito Aurelio Antonino. Venne adottato un mese dopo, il 25 febbraio, con il nome di Tito Elio Adriano Antonino. Al tempo stesso diventava collega dell’imperatore, e su suo ordine assumeva l’impegno di adottare altri due giovani: il primo era Lucio Vero, il figlio di Lucio Elio cui Adriano aveva anzitutto pensato come successore; il secondo era il nipote diciassettenne Marco Annio Vero che faceva prevedere un fulgido avvenire e che Adriano chiamava Verissimus, per le sue doti morali. Marco Annio Vero venne adottato col nome di Marco Elio Aurelio Vero Cesare. Più brevemente Marco Aurelio. Era nato a Roma il 26 aprile del 121 in un solido palazzo immerso nel verde del colle Celio con la vista sull’Anfiteatro Flavio. Apparteneva a una stirpe illustre, di 516
costumi morigerati, originaria della Spagna meridionale; era figlio del fratello della moglie di Adriano. La madre, Domizia Lucilla, era una donna vigorosa e saggia, fornita di senso pratico, tanto da amministrare con ammirevole perizia importanti fabbriche di laterizi. Le vesti del ragazzo erano le più semplici in tutta l’Urbe, il suo portamento era privo di affettazione e tuttavia grave. Con un temperamento malinconico e pacifico, mai si lasciava avvampare dall’ira.
517
XXI Tito Aurelio Antonino – che ormai dopo l’adozione si chiamava Tito Elio Adriano Antonino – possedeva vaste proprietà terriere in Umbria e in Etruria. Già da alcuni anni, nel 110, aveva sposato una ragazza bellissima, gioiosa, anzi sfrenata, Annia Galeria Faustina, la zia di Marco Annio Vero, cioè di Marco Aurelio. Aveva percorso la carriera politica da questore a console, a proconsole asiatico e aveva anche fatto parte del Consilium di Adriano. Ora, con il sovrano ammalato, fungeva lui da capo dello Stato. Le condizioni fisiche di Adriano non lasciavano nulla alla speranza, per cui il principe gli aveva affidato il governo. Lo aveva convocato per un’ultima volta a Baia dove si era recato nella sua villa alla ricerca di un po’ di conforto nel dolce clima della cittadina campana. Il 10 luglio del 138 Adriano spirava nel suo letto. Prima di chiudere gli occhi riuscì ancora a salutare il trapasso della sua anima declamando alcuni versi da lui composti. Le spoglie, condotte a Roma, furono tumulate nel mausoleo che aveva dedicato a se stesso. Senza scosse saliva al trono Tito Aurelio Antonino, robusto e barbuto, cinquantaduenne al quale il Senato conferiva il titolo di Pius, devoto. Non gli fu facile ottenere la consacrazione a divus del defunto predecessore poiché l’aristocrazia non ne aveva apprezzato l’umanesimo né aveva condiviso il suo tentativo di fondere insieme le due culture contrastanti, l’ellenismo e la romanità. I romani non lo avevano amato rimproverandogli di 518
aver imposto un freno alla loro secolare politica di conquiste. Con Antonino Pio si potevano prevedere anni felici per l’impero. La cricca dei pretendenti aveva perso su tutta la linea, erano rimasti delusi e sconfitti. Il prefetto del pretorio Catilio Severo dovette dimettersi dalla carica; il novantenne Urso Serviano, che si era persino seduto sul trono già assurdamente convinto della sua affermazione, si uccise per il dolore della delusione. Antonino Pio fu uomo di eccezionali virtù. Il suo regno fu lo specchio del suo carattere saggio, equilibrato e avveduto. Gli anni trascorrevano tranquilli e senza guerre. Sembrava che un’aura di benigna serenità fosse calata su Roma. Il nuovo imperatore continuava la politica pacifista di Adriano, ottenendo consensi sia nell’Urbe sia nelle province. Non si mosse quasi mai da Roma a differenza del predecessore, pur preoccupandosi di rendere saldi e sicuri i confini dell’impero. In questo seguiva le orme di Adriano, specialmente in Britannia, dove proseguivano le agitazioni delle popolazioni ognora inquiete. Antonino fece erigere nel 142 una nuova linea fortificata di sbarramento, posta più a nord del vallo eretto da Adriano. Il vallo di Antonino comprendeva una lunga muraglia, un’ampia strada militare, un terrapieno, un doppio fossato, il tutto guardato da fortilizi e da rocche. Antonino meritava sempre più il titolo di Pius, ottenuto per la sua reverenza nei confronti delle tradizionali forme di religione in cui i romani si riconoscevano. Tuttavia egli si mostrava tollerante con le altre fedi, tanto da porre termine alle persecuzioni degli ebrei di cui Adriano si era reso responsabile. Promulgò leggi a protezione degli schiavi che subivano 519
vessazioni e atti di crudeltà dai padroni e da ogni altro. In memoria della pur disperante moglie Faustina, che aveva perso anzitempo nel 141, eresse un tempio sulla via Sacra divinizzandola. In suo onore fondò anche una istituzione, Puellae Faustinianae, per proteggere con gli alimenta le ragazze in povertà. Con quella sua istituzione assistenziale l’imperatore dava una conferma del suo riformismo sociale. La moglie era chiamata Faustina Maggiore poiché aveva dato alla luce una bambina cui aveva imposto il suo stesso nome. Sul terreno amministrativo dello Stato, Antonino abolì la suddivisione dell’Italia in quattro regioni governate da consolari, i cosiddetti supervisori imperiali, come aveva voluto Adriano, e ne restituì l’amministrazione al Senato legandolo a sé. Fra i due giovani che Adriano gli aveva fatto adottare nel 138, le preferenze di Antonino andavano a Marco Annio Vero, cioè Marco Aurelio, anche perché gli ricordava l’amata Faustina. Il giovane rivelava inclinazioni culturali e gusti simili ai suoi. Si appassionava di letteratura e di filosofia, e già dal 146 svolgeva alcune funzioni che lo facevano apparire co-reggente dell’impero. Antonino Pio se ne andò senza grandi clamori, così come tranquillamente era vissuto e come per ventitré anni aveva retto lo Stato. A Lorium il 3 marzo del 161, all’età di sessantaquattro anni, fu colto da una malattia gastrica, e spirò tre giorni dopo, in seguito a forti sofferenze che egli aveva sopportato con particolare fermezza d’animo. Al capezzale del morente si trovavano i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Cornelio Repentino. Antonino aveva ordinato di portare la statua d’oro della Fortuna dalla sua camera in quella di Marco Annio Vero, a 520
dimostrazione della volontà di trasferire a lui il potere. Gli affidava Roma e la figlia Annia Galeria Faustina Minore promettendogliela in sposa. Questa Faustina era la cugina di Marco, essendo figlia di Faustina Maggiore che aveva sposato Antonino Pio. Sul letto di morte Antonino si rivolse ai prefetti del pretorio che lo assistevano, e, prima di spirare, pronunciò una sola parola, aequanimitas, che poteva essere il motto della sua vita di moderazione. Fu sepolto nel mausoleo di Adriano e proclamato divo dal Senato. Ai suoi funerali le orazioni funebri furono pronunziate da Lucio Vero e dal nuovo imperatore Marco Aurelio. Nella logica degli eventi Marco Aurelio sarebbe dovuto essere l’unico successore di Antonino Pio, ma i fatti non sempre apparivano coerenti agli occhi del popolo. Così il nuovo principe riservò ai romani la sorpresa di chiamare accanto a sé, in una sorta di potere collegiale come se si fosse tornati in epoca repubblicana, il cugino e fratello adottivo minore Lucio Vero. La cosa parve strana perché Lucio Vero era di tutt’altra natura rispetto a lui, donnaiolo e anche omosessuale. A Lucio Vero, nella nuova condizione, andò il nome di Lucio Aurelio Vero. Marco conferì al giovane fratello un’autorità pari alla propria, non escluso il titolo di Augustus. In più, per rafforzare il sodalizio, gli fece sposare Annia Lucilla, la figlia sedicenne che aveva avuto con la cugina Faustina Minore dalla fama di grande sbarazzina. E non badò al fatto che la ragazza avesse diciotto anni in meno di Vero. Tuttavia per dimostrarle il suo affetto, poiché i giovani si sposavano a Efeso, volle tenerle compagnia nel viaggio fino a Brindisi. All’atto dell’ascesa al trono, Marco aveva già per collega Lucio 521
Vero nel consolato, e ciò rientrava nella tradizione che aveva origini repubblicane. Ma l’averlo cooptato nella responsabilità imperiale mutava profondamente la realtà istituzionale di Roma. Era la prima volta che i romani avevano contemporaneamente due imperatori. La differenza fra i due sovrani era data esclusivamente dal fatto che Marco Aurelio ricopriva in più la carica di pontefice massimo. I due sovrani avevano nomi lunghi e imponenti: Imperator Caesar M. Aurelius Antoninus Augustus e Imperator Caesar L. Aurelius Verus Augustus. L’impero attraversava una fase di estrema instabilità. I romani avevano l’impressione di essere seduti su una polveriera che fosse in procinto di esplodere. Intere popolazioni barbare premevano ai confini pronte ad aggredirli. Marco Aurelio veniva accusato di non accorgersene nemmeno, assorbito com’era dalla sua passione speculativa metafisica di filosofo. Più adatto a fronteggiare la situazione politica appariva Lucio Vero, ma in realtà i due personaggi erano fra loro complementari: riflessivo e meditativo l’uno, operoso e sollecito l’altro; uomo di pensiero Marco, uomo di azione Lucio. L’uno aveva quarant’anni, l’altro trentuno. In pericolo era la situazione in Britannia, così come avveniva ai confini sul Reno, sul Danubio e in Oriente. I due Augusti non inviarono nuove truppe dove il nemico non si mostrava particolarmente vivace, ma ammassarono le legioni sui fronti più minacciosi, quelli del Danubio e dell’Eufrate. Nel 161 in Britannia avvenne qualcosa di nuovo e denso d’incognite. I legionari colà dislocati si ribellarono all’autorità di Roma e proclamarono un terzo imperatore, il legatus Stazio Prisco, il 522
quale però non volle farsi trascinare nella torbida vicenda delle molteplici acclamazioni. Per sedare la rivolta in Britannia fu scelto Sesto Calpurnio Agricola che nel 163 riuscì temporaneamente a placare i rivoltosi, mentre Stazio Prisco fu inviato sul difficile fronte orientale dove riscosse buoni successi. Sul Reno e sul Danubio i popoli barbari premevano ancora, a loro volta incalzati dalla lenta avanzata dei goti verso sud. Inesorabili erano le migrazioni dei popoli barbari che si trascinavano appresso interi villaggi, donne, bambini, masserizie e greggi, danneggiando la rete dei sistemi difensivi creata dai romani nelle zone confinarie. Dalla Rezia partivano furibonde aggressioni che furono a stento frenate dal legato della Germania superiore, Caio Aufidio Vittorino. Sempre pronti alla rivolta riapparivano gli indomiti parti. Quando il loro re Vologese III apprese la notizia della morte di Antonino Pio, passò subito all’azione poiché si era anche sparsa la voce che i due nuovi principi per una ragione o per l’altra peccavano d’inesperienza militare, e ciò valeva soprattutto per Marco Aurelio, troppo dedito alle fantasticherie filosofiche.
523
XXII Il chiodo fisso del nuovo re partico Vologese III era di riconquistare il trono reale aureo di Chosroe che Traiano aveva strappato al suo popolo. Nel 161 Vologese diede ordine ai suoi generali di invadere l’Armenia e di tenerla in soggezione. Vinsero e proclamarono sovrano dell’Armenia un loro principe, Pacoro. A difendere la regione si precipitò il legato di Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, ma, essendo scarse le sue truppe, fu sconfitto a Elegeia e costretto al suicidio. Erano i primi mesi del 162 e Vologese, dopo l’Armenia, attaccò la Siria. I romani subirono un ulteriore tracollo che indusse anche il nuovo legato Lucio Attidio Corneliano a togliersi la vita. Roma non poteva rimanere indifferente a queste umiliazioni. Fu quindi stabilita una più massiccia offensiva contro i parti che Marco Aurelio affidò a Lucio Vero, mentre lui sarebbe rimasto nell’Urbe. Lucio lasciò la capitale nella primavera di quell’anno. Il suo viaggio si svolgeva con grande lentezza, a causa di una malattia che lo aveva colpito e per una lunga serie di estenuanti soste dovute a incontri politici oltre a distrazioni varie cui egli si abbandonò a Corinto, ad Atene e in Asia. Così Lucio arrivò in Antiochia soltanto alla fine dell’anno. Nella tattica della guerra partica era previsto un logico sviluppo graduale della spedizione. Anzitutto si doveva recuperare l’Armenia e poi si sarebbe attaccato il regno partico. Nonostante ciò la guerra in quei luoghi andava conclusa 524
rapidamente per poter affrontare la crisi del fronte danubiano. Lucio Vero sarebbe rimasto in Siria al quartier generale di Antiochia a dirigere le operazioni. Ma il giovane non sembrava dimostrare un particolare interesse per le azioni belliche. Era più immerso in una sorta di fiacchezza che dal desiderio di sconfiggere il nemico. Lasciava fare al suo stato maggiore che era formato da esperti di cui poteva fidarsi, ma anche su di loro gravava una certa fastosa sonnolenza. A dispetto di ciò i risultati furono positivi poiché nel 164 il nuovo legato di Cappadocia, Stazio Prisco, prese Artaxata, la capitale dell’Armenia, che tuttavia salvò dalla distruzione. Fu invece spodestato il re Pacoro e sostituito con un senatore romano di Siria, Soemo, per tenere la regione sotto un diretto controllo. Da allora Marco e Lucio furono chiamati Armenici. Il nemico non perdeva l’antico vigore, e i romani erano costretti a continue azioni di guerriglia che furono interrotte soltanto dall’esplodere di una grave epidemia di peste associata all’insorgere d’una carestia. Contemporaneamente le notizie che provenivano dalla frontiera danubiana erano sempre più serie, sicché Lucio decise di contrattare la pace con Vologese III. L’Armenia e l’Osroene, percorso dall’Eufrate, tornavano a essere Stati vassalli di Roma, mentre la provincia della Mesopotamia veniva riformata. Prefetto di tutte le zone orientali, e quindi in possesso d’un potere immenso e straordinario, fu Caio Avidio Cassio il quale però si trovò alle prese con legioni percorse da vizi e degenerazioni. Nell’estate del 166 Lucio tornava a Roma dove celebrava il trionfo. Le truppe però portarono dall’Oriente, oltre alla vittoria, quella peste che si era sparsa mortifera col suo contagio in Italia 525
e in gran parte dell’impero dando l’impressione di non voler più terminare. Per quanto dispendiosa, la guerra non si rivelò inutile. Molte vie commerciali con l’Oriente erano ora più sicure e i flussi potevano meglio prosperare a beneficio di tutti. Si svilupparono i traffici marittimi che dal Mar Rosso e dall’Arabia conducevano ai porti siriaci da dove partivano le grandi vie carovaniere per remote terre favolose, verso l’India e la Cina. Nel 166 arrivarono in Cina alcuni mercanti che provenivano da Ta-ch-in, cioè da Roma. Si presentarono nella capitale Ch’ang-an ai nobili dell’antichissima dinastia Han in veste di ambasciatori. Da buoni commercianti millantavano più credito di quanto ne avessero; dicevano di essere gli inviati del re Antun, cioè di Marco Aurelio. A nome suo portavano in segno di rispetto e di amicizia molti omaggi, oggetti d’avorio e scudi di testuggini. Questo era soltanto un diversivo poiché l’essenziale per i romani era di accorrere senza indugio con maggiori forze sul fronte del Danubio. La lunga e difficile guerra contro i parti aveva spinto le popolazioni germaniche, pressate dai goti, a varcare i confini dell’impero, attratte dal clima più mite e dalla ricchezza delle felici regioni meridionali. Le poche milizie disponibili lungo i confini balcanici non erano sufficienti a frenare la gigantesca migrazione che come un’ondata incontenibile travolgeva i confini romani dalla Gallia alle coste del Mar Nero. La scarsità delle truppe, il deficit dello Stato, il contagio della peste, l’estendersi della carestia erano eventi che rendevano impossibile una rapida soluzione. Non c’era da fare altro che temporeggiare, in attesa di giorni migliori. Marco Aurelio cercò di stabilire rapporti meno conflittuali 526
con le popolazioni barbare e di aprire con loro volenterose trattative diplomatiche. Ma l’iniziativa era destinata al fallimento. Nell’estate del 166 orde di marcomanni, victuali e quadi si gettarono sui confini dell’impero devastando la Rezia, il Norico, la Mesia e la Pannonia. I barbari si mostravano più abili di quanto i romani potessero immaginare, e difatti riuscirono ad aggirare le rocche difensive che i legionari avevano costruito nei punti strategici delle remote regioni. Piombarono sulla penisola italica attraverso i valichi alpini, presero d’assedio la ricca città di Aquileia, mentre, penetrando nel Veneto, occupavano e distruggevano Opitergium. Roma non poteva più stare ferma a causa di un imperatore che oscillava tra le indecisioni di un filosofo e le lentezze d’un uomo d’armi. E ancora i due principi, Marco e Lucio, invece di muoversi loro, inviarono nel Veneto il prefetto del pretorio Furio Vittorino. Solo nell’ottobre si recarono di persona a dirigere comodamente le operazioni di guerra, sicché quando arrivarono ad Aquileia già si erano combattute le prime cruente battaglie che erano costate la morte allo sventurato Furio Vittorino. Alla notizia del sopraggiungere dei due imperatori, i barbari cominciarono a retrocedere. Marco Aurelio e Lucio Vero si fermarono ad Aquileia per trascorrervi l’inverno, per preparare le difese e collaborare agli sforzi di personaggi esperti come il generale Tiberio Claudio Pompeiano – che sposerà Lucilla, figlia di Marco e vedova di Lucio Vero – e come il giovane tribuno ligure, l’homo novus Publio Elvio Pertinace, i quali stavano già respingendo le orde barbariche. In Pannonia, liberata dagli invasori, si cominciava a ricostruire quanto era stato sconsideratamente distrutto. In 527
Dacia si riprendeva l’importante attività di scavo delle miniere aurifere. Nel 167 Marco e Lucio si apprestavano a far ritorno nella capitale ancora sottoposta anch’essa, come gli eserciti, alle sciagure della peste e della carestia. Avevano già lasciato Aquilea quando Lucio fu colto da apoplessia al termine di una lunga crapula. I due prìncipi e il corteo imperiale dovettero fermarsi ad Altino, dove, negli ultimi giorni di gennaio del 169, Lucio spirava. Era trentottenne e aveva regnato per otto anni, come collega di Marco. Le spoglie furono trasportate a Roma e tumulate nel mausoleo di Adriano. Il fratello adottivo lo innalzò alla deificazione, sebbene il popolo non dimostrasse entusiasmo per quella decisione. Si aveva l’impressione che la morte del generale potesse rivelarsi più grave per l’impero rispetto a un’eventuale scomparsa del filosofo, e invece dopo quell’evento le cose andarono meglio per lo Stato e personalmente anche per Marco che si sentiva sgravato di un compagno difficile. Per la prima volta un filosofo era alla testa di un impero indossando una corazza, e la filosofia al potere dava i suoi frutti. Platone aveva affermato che alla suprema magistratura dello Stato non si dovesse pervenire per cupidigia di potere, ma sospinti dagli eventi: soltanto un filosofo poteva rispondere a tale requisito, e Marco Aurelio Antonino costituiva la realizzazione del sogno platonico. Un sogno che si materializzava al punto da spronare il Senato alla costruzione dal 176 di una grande colonna in marmo a lui dedicata per i trionfi sui marcomanni, i quadi, i sarmati. Alla morte di Lucio non mancò un ampio fiorire di dicerie che dai corridoi del palazzo si riversavano nelle vie di Roma. Qualcuno mostrava di sapere con certezza che Lucio era stato 528
l’amante della moglie di Marco, Faustina Minore, donna di grande bellezza ma di scarsa fedeltà, tanto che si diceva che fra le sue sciagurate colpe c’era anche quella di essersi una volta preso per amante un gladiatore. Lo aveva fatto assassinare proprio Faustina poiché Lucio per ingenua vanteria aveva rivelato la tresca alla moglie Annia Lucilla che era figlia della stessa Faustina. Altri invece giuravano che l’ispiratrice del delitto fosse Annia Lucilla, che si era ingelosita della sorella di Lucio, Ceionia Fabia, alla quale il marito attribuiva grandi poteri. Le voci si accavallavano. Si mormorava anche che il Senato e Marco temessero che Lucio avrebbe potuto esautorarli col sostegno dell’esercito, e prendersi lui tutto il potere. Infine la diceria più grave, definita di sicura attendibilità, informava che Lucio era stato assassinato proprio da Marco, il quale era venuto a conoscenza di un piano del collega che prevedeva il suo strangolamento. Così Marco durante un banchetto aveva offerto a Lucio un pezzo di carne tagliato con un coltello avvelenato. I rapporti fra i due Augusti non erano mai stati idilliaci. Marco e Lucio erano troppo diversi per poter vivere in armonia, ma entrambi si rendevano conto che la loro complementarità poteva essere utile per amministrare lo Stato e organizzare gli eserciti. Pur non essendo ancora trascorso il tradizionale periodo di lutto, Marco diede in sposa la vedova di Lucio, cioè Annia Lucilla, al legato della Pannonia inferiore, Claudio Pompeiano. Pompeiano era uno stimato senatore, ma egualmente Lucilla si opponeva al matrimonio che le appariva troppo frettoloso e disdicevole per la memoria del marito morto da pochi giorni. Ormai Marco Aurelio era rimasto il solo principe a Roma, e 529
meditava sul fatto che la collegialità al vertice dello Stato non aveva dato i frutti sperati. Egli doveva fronteggiare la profonda crisi economica che attanagliava l’impero, e dette prova di un grande senso di responsabilità, degno di un filosofo stoico qual era. Mise in vendita nel Foro i propri beni personali, gli ornamenti preziosi del suo palazzo, i raffinati oggetti d’arte che aveva ereditato da Adriano. Il ricavato gli servì per arruolare due nuove legioni con l’immissione di soldati italici, di gladiatori, di sbandati della Dalmazia detti latrones, di mercenari germanici da impiegare contro il loro stesso popolo. Anche i provvedimenti sanitari contro la peste prosciugavano le casse dell’erario. Marco, sensibile alla salute del popolo, non badava a spese pur di soccorrere in qualche modo gli ammalati. Soltanto in Roma il morbo aveva ucciso duecentomila persone. Gli sforzi di Marco per tamponare l’immane flagello apparivano vani. Ciononostante, egli trascorreva intere giornate nelle valetudinaria, le infermerie in cui gli appestati si ammucchiavano senza alcuna speranza di uscirne vivi. In quei lazzaretti avevano la sola consolazione di vedersi assistiti personalmente dall’imperatore che lasciava i palazzi dorati del Palatino per scendere in semplicità, uomo tra uomini. I romani morivano anche nelle strade, da dove i cadaveri venivano di tanto in tanto prelevati, caricati su carri e gettati anonimi sui roghi inceneritori o nelle acque del Tevere. Egli, mentre si mostrava amorevole con gli appestati e perfino con gli schiavi, non aveva alcuna comprensione per i cristiani. Anzi li perseguitava duramente, li condannava ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna e di Corinto, e spesso ne decretava la morte, senza che avessero effetto su di lui le vibranti apologie 530
di Giustino e di Atenagora. Così accadde per la vivacissima comunità cristiana di Lione. I cristiani lionesi furono arrestati, torturati e processati; furono scaraventati su sedie di ferro arroventato o esposti alla ferocia degli animali dei circhi. I loro resti erano arsi e le ceneri venivano disperse nel Danubio, fra le accuse di spaventose nequizie, incesti, infanticidi, cannibalismi. Marco, uomo di lettere, educato alla filosofia stoica – a differenza del defunto fratello adottivo Lucio Vero che propendeva per guerre difensive e azioni diplomatiche – si rivelava favorevole a strategie offensive, a guerre che seminassero distruzioni, stragi e terrore fra i popoli avversi. E questa contraddizione appariva oscura. Combattendo in prima persona, non gli era estranea la voglia di acquisire prestigio e gloria militari, quel prestigio e quella gloria che Lucio si era guadagnato in Oriente, con il sostegno e la simpatia delle truppe. Tra gli eventi bellici del 170 d.C. si annoverava anzitutto la grande migrazione dei popoli che, sospinti dai goti, calavano dai confini settentrionali dell’impero. A est, nella zona sarmatica premevano gli alani; a nord del Caucaso, nella Dacia e nella Mesia, gli iazygi che sconfiggevano i romani di Claudio Frontone inducendolo al suicidio. Penetrarono nei territori dell’impero apportando devastazioni e saccheggi, violentando uomini e donne. I costoboci, tra le più feroci popolazioni in armi, scesero dai Carpazi e si spinsero in Grecia, mettendo a ferro e fuoco l’importante città di Eleusi, e poi disperdendosi. Altri barbari germanici, i catti, urgevano sui confini renani, ma le milizie del legatus Didio Giuliano riuscirono a respingerli. In Pannonia, i marcomanni e i quadi avevano travolto gli 531
sbarramenti romani, e Marco non aveva esitato a guidare di persona le azioni belliche contro i germanici svevi. Dalle sempre più larghe e numerose crepe aperte nei confini romani entravano flussi cospicui di intere popolazioni nemiche. Fu in quel terribile anno che Marco Aurelio decise di lasciare Roma per seguire da presso le operazioni belliche, e successivamente stabilì il suo quartier generale a Carnunto dove trovò perfino il tempo di scrivere alcune pagine dei suoi Ricordi. Subendo alterne vicende l’imperatore combatté per ricacciare al di là dei confini danubiani gli invasori barbari. Riuscì nell’impresa nel 172 respingendo i marcomanni oltre il Danubio. Nuove violenze si manifestavano in altre terre lontane come l’Egitto, ma qui bastò il prefetto Avidio Cassio per neutralizzarle. Invece sul Danubio appariva sempre necessaria la presenza dell’imperatore. Anzi Marco era ancora all’offensiva contro i quadi che avevano attraversato il Danubio. La guerra ebbe come teatro le regioni della Slovacchia, tra paludi, foreste e immensi distese inospitali. I legionari romani attraversarono il fiume penetrando nei territori del nemico, spazzando via interi villaggi, catturando e trucidando chiunque incontrassero. La repressione fu durissima. L’aveva ordinata lo stesso Marco, il quale intendeva infliggere una punizione esemplare a quelle popolazioni che avevano osato ribellarsi a Roma. La reazione dei barbari fu disordinata perché quelle tribù invece di coalizzarsi e di affrontare tutte insieme le legioni romane si erano mosse ognuna per proprio conto e senza un criterio logico. L’imperatore ebbe facilmente partita vinta, sia sui marcomanni sia sui quadi. Si era nella primavera del 174. Un’altra tribù, quella degli 532
iazygi, attaccò la Dacia. Il principe si trasferì da Carnuto a Sirmio, dove installò una forte base operativa per muovere contro la nuova minaccia barbara. Il primo scontro avvenne com’era prevedibile allorquando le legioni varcarono il Danubio. Gli iazygi tentarono di fermarle ma furono sopraffatti. A quel punto i romani avevano via libera e, penetrando nella regione, si comportarono come sempre: appiccando incendi, attuando distruzioni e massacri, uccidendo i prigionieri. Spesso ciò avveniva alla presenza di Marco Aurelio, e se egli era assente agli eccidi gli venivano inviate le teste delle vittime come macabro trofeo. I barbari non erano più in grado di opporre resistenza, fiaccati dalle ritorsioni dei legionari e dagli effetti della loro guerra dissennata. Poterono salvare i superstiti accettando una dura resa incondizionata. Una delle imposizioni consisteva nel vietare che si svolgessero fra le varie tribù scambi commerciali, e ciò per impedire che fra di loro si stabilissero rapporti politici e si formassero alleanze antiromane.
533
XXIII La salute di Marco Aurelio cominciava a destare preoccupazione, tuttavia sul tema delicato della successione non si prevedevano sorprese. L’imperatore, morto il collega Lucio Vero e pur non essendo soddisfatto della collegialità che si era sperimentata al vertice dell’impero, riportò in auge quella stessa formula chiamando accanto a sé come collega il figlio di appena quindici anni, un bamboccione riccioluto, Marco Aurelio Commodo, che aveva avuto con Faustina. Non era il principio dell’adozione che portava Commodo sul trono, ma piuttosto quello dell’ereditarietà, cosa che sorprese negativamente il popolo romano ognora impregnato di repubblicanesimo, in realtà un po’ teorico. C’era sempre chi fra i militari puntava a impossessarsi dell’impero con qualche sommossa, non amando un sovrano che continuava a filosofare per quanto avesse indossato la corazza. Ciò avveniva con il potente siriano Avidio Cassio il quale, essendo il generale comandante supremo d’Oriente e d’Egitto e godendo dell’appoggio dell’esercito, pensava di poter essere il successore di Marco, con un imprevisto colpo di mano. Avidio Cassio colse l’occasione per agire quando in Oriente si diffuse nel 175 la falsa notizia che dava per morto l’imperatore sul Danubio con la complicità della moglie Faustina Minore. Avidio, acclamato dalle truppe, si proclamò nuovo Augusto rendendo l’elogio funebre al defunto e divinizzandolo. 534
Passarono tre mesi prima che l’inganno venisse scoperto, e, quando la cosa si riseppe a Roma, il Senato prontamente dichiarò Avidio nemico pubblico, lo condannò a morte in contumacia e gli confiscò i beni. Marco Aurelio volle concludere le trattative di pace con i popoli barbari. Accompagnato dalla moglie Faustina Minore e dal figlio Commodo, si mise in viaggio per raggiungere a sua volta le regioni orientali, dove faceva affidamento sulla fedeltà dei governatori di Cappadocia, Marzio Vero, e di Bitinia, Clodio Albino. Durante il tragitto venne informato che Avidio era stato ucciso dai suoi stessi ufficiali. Si erano spaventati per il sopraggiungere del principe, e per ingraziarselo gli avevano fatto avere la testa di Avidio. Lui ordinò che fosse subito seppellita per non infierire su quel moncone. Evitò di accanirsi sui seguaci di Avidio per mostrarsi clemente con le popolazioni orientali e riacquistarne la fedeltà. Per la stessa ragione pacificatrice continuò nel suo viaggio che con la famiglia imperiale si prolungò per tutto il 176 toccando l’Egitto, la Siria e la Cappadocia. Arrivati ai piedi del monte Tauro, presso Halala, fu colpito da un grave lutto. Perse Faustina, e il principe ne fu profondamente addolorato sebbene ne conoscesse le tendenze un po’ libertine che lo avevano fatto soffrire e di cui parlava tutta Roma. Ma lui l’amava sinceramente. Volle perciò che in sua memoria si celebrassero fastosi riti funebri e che nel luogo stesso della morte si fondasse una città cui diede il nome di Faustinopolis. In realtà aveva poco da gloriarsi di Faustina, se non altro per la trama che la moglie aveva ordita con quell’Avidio Cassio. Lei in realtà aveva temuto che il marito morisse anzitempo, e si era intesa con Cassio per 535
evitare che qualcuno privasse del trono il figlio Commodo, ancora troppo giovane. Eliminato Marco avrebbe sposato Cassio e atteso che Commodo crescesse per poi concedergli il diadema imperiale. Marco riprese il viaggio accanto a Commodo. Fu a Smirne e ad Atene dove nell’ottobre imitava Adriano aprendosi ai misteri eleusini. Conobbe i maggiori esponenti delle più affermate correnti filosofiche: la stoica, di cui era un seguace; la platonica, la peripatetica, l’epicurea. Dopo sei anni di assenza fece ritorno a Roma con la certezza di potervi rimanere a lungo. Ma si sbagliava. I marcomanni e i quadi avevano ripreso a suscitare disordini sulla frontiera danubiana. Erano state le dure imposizioni della pace romana a esasperare quelle popolazioni al punto da costringerle a nuove azioni di guerriglia. La rivolta del 177, temporaneamente sedata, riesplose l’anno successivo più grave che mai. Marco anticipò il matrimonio del figlio sedicenne Commodo con l’ancor più giovane Bruttia Crispina dal carattere poco raccomandabile, ma di superba bellezza. Insieme al ragazzo partì per le legioni danubiane, dove in meno di due anni le legioni sconfissero ancora una volta gli indomabili nemici. Le esultazioni per la vittoria non durarono molto perché nella primavera del 180 Marco, già di salute malferma, fu a sua volta, come un comune cittadino, colpito dalla peste. Spirava a Vienna il 17 marzo, a cinquantanove anni. La luttuosa notizia arrivò in un lampo a Roma dove fu immediatamente deificato fra il cordoglio generale, mentre il popolo si raccoglieva intorno alla maestosa statua equestre elevata in sua gloria. Lucio Aurelio Commodo, alla morte del padre aveva diciotto anni e pochi mesi, essendo nato il 31 agosto del 161. Lui, come 536
figlio del principe, era il successore, anzi era rimasto da solo a governare lo Stato. Quella successione basata non sull’adozione ma sull’ereditarietà dinastica, dispiacque ai romani. Un’identica situazione si era avuta con Tito Flavio Vespasiano e con Tito Flavio Domiziano che avevano portato sul trono i loro figli. Il Senato avrebbe visto molto più volentieri al vertice dello Stato il grande generale Tiberio Claudio Pompeiano, ma Marco Aurelio, per assicurare la successione al figlio, aveva messo in atto tutta la sua prepotenza ben celata sotto una maschera di distacco filosofico. Già a quella giovane età la fama di Commodo era tutt’altro che eccellente, per cui non mancò l’esplosione di un immediato dissidio con il Senato che, vedendo in lui un usurpatore, prese a tramare congiure ai suoi danni, mentre altre cospirazioni esplodevano in provincia. Commodo trattava la Curia come un postribolo e alla stessa stregua il palazzo divenne un covo di scavezzacolli rotti a ogni vizio. I più biasimevoli ragazzi di Roma erano i suoi immancabili compagni nelle scorribande notturne nelle taverne. Egli si mostrava un po’ folle, un po’ debosciato, assai egoista. Inutilmente il padre si era premurato di affiancargli valenti precettori che gli impartissero lezioni di greco, di latino, di oratoria e di buona educazione. In realtà avevano perso tempo, e tutti se ne accorsero assai presto vedendolo così diverso da Marco filosofo e umanista. Appena assunto il potere volle arringare le truppe che lasciò disorientate con le sue parole. Più convincenti furono le larghe donazioni in sesterzi di cui egli abbondò. Diede tuttavia qualche buona prova di pratica guerriera affrontando i pannoni, sebbene lasciasse all’improvviso il fronte per tornarsene a Roma 537
suscitando le furie del cognato Claudio Pompeiano. Nell’Urbe nessuno tolse il trionfo al giovane imperatore che aveva indotto alla pace le popolazioni germaniche e rafforzati i confini con la Pannonia. Alla sua destra nel corteo figurava il cubiculario Elio Saotero, il liberto addetto alla sua camera da letto. Lo seguiva uno strascico di amici e di clienti, fra i quali primeggiava il prefetto del pretorio Tarrutenio Paterno. I primi due anni del regno di Commodo trascorsero abbastanza tranquillamente. I molti amori del nuovo imperatore erano sulle labbra di tutti. Quegli amori non escludevano i più riprovevoli incesti, e difatti i romani erano sicuri che un intimo rapporto legasse tra loro Commodo e la sorella Annia Lucilla. La giovane Lucilla pensava che così facendo avrebbe potuto combattere meglio la supremazia della cognata Bruttia Crispina la quale, in quanto moglie di Commodo, le aveva sottratto la posizione di primadonna dell’impero. Essendo andato a vuoto questo suo piano, l’amore si trasformò in odio, e Lucilla divenne l’ispiratrice d’una congiura per detronizzare Commodo. Nel 182 l’imperatore scoprì il complotto che aveva preso il nome dalla sua stessa fomentatrice. Lucilla era insignita del titolo di Augusta, era la vedova di Lucio Vero e moglie del grande generale Tiberio Claudio Pompeiano. Disponeva perciò d’una fitta rete di confidenti. Nella congiura non fu Pompeiano il suo più valido sostenitore, per il quale aveva contratto una profonda disistima, ma il cugino e suo ultimo amante, il generale Ummidio Quadrato. Insieme scelsero come pugnalatore un figliastro di lei, Claudio Pompeiano Quinziano. Molti senatori erano al corrente della cospirazione maturata nell’ambito della famiglia imperiale. Quando Quinziano apparve con la spada 538
sguainata davanti a Commodo sulla soglia di un teatro, e avrebbe potuto colpirlo sorprendendolo, perse la concentrazione per gridare: «Ecco il regalo che ti manda il Senato». Bastò quell’attimo di incertezza perché il sicario sbagliasse il colpo e prendesse di striscio il principe, il quale uscì dall’attentato ferito ma vivo. L’odio di Commodo per il Senato esplose irrefrenabile. Non fu difficile scoprire i cospiratori ai quali venne comminata la condanna a morte, mentre l’Augusta Annia Lucilla fu relegata a Capri, e dopo un certo tempo uccisa. Anche Tarrutenio, il prefetto del pretorio, fu sostituito pur avendo cercato di placare l’ira furibonda di Commodo. Ne prese il posto Tigidio Perenne. Tarrutenio figurava fin dai primi giorni tra i più fedeli seguaci di Commodo. Egualmente devoto era il cubiculario Elio Saotero, al quale invece non fu risparmiata una ferale pugnalata. Nel 184 si aggiunsero ai complotti interni nuovi pericoli esterni. I britanni si sollevarono, irruppero al di qua del Vallo di Antonino e si dettero a saccheggiare e a distruggere i territori occupati dai romani. La reazione di un abile e severo generale, Ulpio Marcello, fu tanto rapida e irresistibile da domare ben presto la scorreria nemica. Il felice risultato fruttò all’imperatore il titolo di Britannico di cui andava orgoglioso sebbene non lo avesse granché meritato. Il nuovo prefetto del pretorio Tigidio Perenne diventava ricchissimo, potente e prepotente. Infieriva contro i cristiani. I senatori lo odiavano poiché egli aveva sostituito alcuni di loro con personaggi dell’ordine equestre. Non lo amavano neppure le truppe di stanza in Britannia alle quali non nascondeva di preferire le legioni illiriche che lo appoggiavano nel preparare 539
un complotto contro Commodo. Allora le milizie della Britannia, che ormai sfuggivano a ogni disciplina, decisero di opporglisi con le armi. Millecinquecento di quei ribelli calarono gagliardamente dall’isola albionica verso Roma, affrontarono i pretoriani, furono su Perenne e lo uccisero, come trucidarono la moglie, la sorella e due figli. Tanto scorrimento di sangue lasciava indifferente Commodo, preso dai suoi vizi, dalle gozzoviglie, dalle orge, dalle lotte gladatorie cui partecipava in prima persona. Anzi intimamente si compiaceva di un accidente che gli aveva sgombrato il campo da un prefetto del pretorio scomodo e pericoloso che tramava per strappargli il trono. A porre rimedio alle turbolenze delle legioni in Britannia fu inviato il generale Elvio Pertinace, il quale a stento riuscì a calmare i bollenti spiriti di quei soldati e a riportare fra di loro una parvenza di disciplina. Si verificava una forma assai strana di ordine poiché le truppe pretendevano di porre Pertinace sul trono di Roma scacciandone Commodo. Fedele all’imperatore, facendo onore al proprio nome, Pertinace rifiutava fermamente la corona, sebbene i soldati minacciassero di ucciderlo qualora avesse insistito nel diniego. Il valente generale, fedele al concetto dell’arcaica integrità dei suoi antenati, insistette nel rifiuto, e, riportata un po’ di compostezza tra le file delle legioni, chiese di poter lasciare un così turbolento comando. Il potente e ricco Tigidio Perenne era morto fra l’indifferenza di Commodo che lo sospettava complottatore sospinto da un nuovo ambizioso personaggio, il cubiculario Marco Aurelio Cleandro, un ex schiavo frigio che era salito al rango di prefetto del pretorio. Infelice fu però il destino di Cleandro, il quale 540
cadeva a sua volta vittima di un tranello. Ne era l’ideatore Aurelio Papirio Dionisio che, da prefetto d’Egitto, era stato da lui degradato al rango di prefetto dell’annona. In quanto responsabile dei rifornimenti alimentari, Dionisio poté artatamente per vendetta far mancare quasi completamente il grano alla popolazione. La plebe ovviamente incolpò della cosa Cleandro, e, come Dionisio si aspettava, tumultuò tanto pericolosamente che Commodo, per porre termine a una sanguinosa guerra civile fra le strade di Roma, fece uccidere il suo prefetto Cleandro che aveva amato fino a un attimo prima e col quale aveva condiviso le grazie di molte allegre fanciulle. Al fianco di Commodo era comparsa Marcia, una malefica concubina. Fra tutte le donne che cadevano ai suoi piedi o delle quali lui si impossessava con atti di prepotenza, lei aveva avuto il sopravvento grazie alla sua lussuria. Marcia, che sembrava di tendenze filocristiane, se proprio non professava il cristianesimo, era la moglie del cubiculario Ecletto, il quale sapeva delle malefatte, ma taceva traendo giovamento dalla torbida situazione. Lei era stata anche l’amante di Ummidio Quadrato, che con la cugina Annia Lucilla, figlia di Marco Aurelio, aveva partecipato a uno dei più pericolosi complotti ai danni di Commodo. Di questo lui non si preoccupava, istupidito dalla passione per Marcia. L’Augusta Bruttia Crispina si vendicava a suo modo degli innumerevoli tradimenti di Commodo, tanto che lui aveva potuto accusarla di adulterio, relegarla a Capri e ordinarne l’eliminazione fisica. Sull’isola trovò la rivale Annia Lucilla che era ancora in vita, ma per poco.
541
XXIV Ancora una volta l’impero si trovava intrappolato in un disavanzo finanziario di colossali proporzioni. La gravissima crisi economica aveva provocato nei domini romani la costituzione di feroci bande armate. Gente sciagurata e assassini privi di scrupoli, i quali, prendendo a pretesto il fatto di essere stati rovinati dalle tasse, si erano dati al banditismo più efferato. Furono chiamati disertores, e avevano elevato a proprio comandante un semplice legionario, un tal Materno, che era riuscito a mettere in agitazione la Gallia e l’Iberia depredandone e saccheggiandone i territori. Si era nel 186 quando l’allora governatore della Gallia lugdunese, Lucio Settimio Severo, gli lanciò contro il generale Pescennio Nigro che non ebbe difficoltà ad annientarli. A Roma, Commodo era sotto la nefasta influenza di Marcia, del marito Ecletto e del nuovo prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto. Ma lo strano imperatore sapeva anche fare da solo gesti di follia e capricci, sempre più bizzarri e violenti, senza che qualche altro dovesse incoraggiarlo su quella china. Nel 190 impose all’Urbe un nuovo nome. Volle che Roma si chiamasse Colonia Lucia Antoniana Commodiana. Il Senato, costretto a seguirlo nelle sue tiranniche stramberie, impose al popolo romano l’attributo di commodiano. Per sé l’imperatore riservò l’epiteto di Hercules romanus, trascurando quelli più seri, ma non meritati, che gli avevano già attribuito, di Pius Felix 542
Augustus, nel tentativo di arginare il suo terrorismo. La denominazione di Hercules romanus stimolò ulteriormente la sua passione per i combattimenti gladatorii. Prendeva parte agli scontri con maggiore frequenza un po’ dovunque, ma soprattutto nel grande anfiteatro Flavio. Organizzava quei giochi dilapidandovi ingenti somme che andavano oltre le reali possibilità dell’erario. Spesso i gladiatori e lui stesso si lanciavano contro le belve più feroci, contro ippopotami, rinoceronti, orsi ed elefanti. Egli si dilettava a fare strage di struzzi scagliando contro di loro strane frecce che sulla punta avevano una lama a mezzaluna forgiata in modo tale da decapitarli. Si dava alle più pazze risate nel vedere come quelle povere bestie continuassero a correre prive della testa. Non ridevano i senatori poiché lui, tenendo in pugno una testa di struzzo, faceva loro capire che li avrebbe trattati alla stessa stregua. Pensava di non essere esclusivamente la reincarnazione di Ercole, ma anche di altre divinità come Marte, Serapide, Mercurio e Giove Massimo. Dal suo scranno imperiale assisteva nei circhi ai giochi gladiatori indossando una pelle di leone e agitando la clava di Ercole. Si presentava come il fondatore d’una nuova civiltà, e in un solo colpo spazzava via la storia plurisecolare della città che era apparsa cara agli dèi, ma che ora quegli stessi dèi mostravano di voler abbandonare nelle sue pazze mani. Un incendio cancellò ampie zone dell’Urbe. I romani si dicevano convinti che lui avesse voluto imitare Nerone per dare un nuovo volto alla città cui aveva imposto quello stravagante nome di Colonia Lucia Antoniana Commodiana. 543
Cambiava di continuo i consoli, i prefetti e ogni altra carica dello Stato secondo i suoi momentanei e bizzarri umori. Mutò le denominazioni dei mesi, senza nessun riferimento ai cicli del cielo, lunari o solari. Non lo dominava che la perfidia, rivolta esclusivamente a creare confusione nell’animo dei romani. Il 31 dicembre del 192, Commodo, per celebrare il suo ottavo consolato, usciva dalla scuola gladiatoria che aveva sede sul Celio. Era seguito da un codazzo di nerboruti gladiatori, e lui, a sua volta vestito da lottatore, sollevava l’indignazione della folla che non sopportava più le sue bislaccherie. La concubina Marcia aveva tentato di dissuaderlo dicendogli che quel travestimento da gladiatore era un’indegna pagliacciata. Una volta tanto con sagacia si aggiunsero alla donna il cubiculario Ecletto e il prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto. Ma CommodoHercules in un raptus scrisse l’atto di condanna a morte di tutti e tre, l’amante e i collaboratori. Il giovane messaggero che aveva ricevuto l’incarico di consegnare quell’ordine alle autorità competenti decise invece di portarlo a Marcia. La donna e i cortigiani, ormai in serio pericolo di vita e più che mai convinti dell’incontrollabile pericolosità dell’imperatore, decisero di rispondere con un attentato in una truce gara di velocità, per assassinare l’imperatore prima che lui assassinasse loro. Era trascorso l’intero 192. Nella tarda mattinata del 31 dicembre, Commodo tornava a palazzo dopo aver partecipato felicemente anche a una partita di caccia grossa. L’ignobile Marcia offrì all’amante una coppa di vino drogato. L’imperatore, ignaro e assetato, bevve l’intruglio tutto d’un fiato, ma riuscì a rigettarlo poiché gli avvelenatori avevano sbagliato la dose: la quantità di veleno che avevano versato nella coppa non 544
era sufficiente a dare la morte. Commodo stava per reagire orribilmente, ma più rapido di lui fu l’atletico Narcisso, l’istruttore, che, prezzolato, lo raggiunse nel bagno e lo strangolò, come se il suo collo fosse stato quello di uno struzzo. Così andava dicendo Narcisso. Commodo moriva trentunenne, dopo aver governato per dodici anni. Il cadavere fu trascinato oltre le mura di Roma e abbandonato sulla nuda terra come si faceva con i delinquenti. Sotto di lui i romani avevano avuto l’impressione che Nerone fosse tornato a regnare, così come la sua morte violenta era stata simile a quella di Domiziano, vittima a sua volta di una congiura di palazzo in cui erano implicati amici e parenti. Già nella notte fra il 31 dicembre del 192 e il 1° gennaio del nuovo anno, Leto ed Ecletto, d’accordo col Senato, si precipitarono a casa dell’ormai sessantenne consolare Publio Elvio Pertinace per offrirgli la successione. In passato lui aveva rifiutato di sostituirsi con la violenza a Commodo, ma questa volta lo costrinsero ad accettare davanti alle legioni pretoriane che lo proclamavano imperatore, avendo ricevuto per incoraggiamento lauti donativi. Gli avevano fatto credere che l’imperatore fosse morto per un attacco apoplettico e non in seguito a un attentato. Per anni l’imbelle Senato aveva detestato il sanguinario sovrano, ma aveva taciuto per timore di lui. Ora che il tiranno era morto, non perse tempo a decretarne la damnatio memoriae e a cancellarne il nome dall’elenco degli imperatori. Con la damnatio accadeva a Commodo ciò che si era già verificato per i suoi predecessori Caligola, Nerone e Domiziano. Il popolo si occupò di abbatterne le statue come aveva fatto con gli altri. Alla 545
caduta di ogni imperatore malefico, questa era una delle attività cui la plebe si dedicava con particolare impegno. Pertinace, pietosamente raccolte da terra le spoglie di Commodo, le fece tumulare nel mausoleo di Adriano. Il Senato era privo di un’effettiva autorità. Le sorti dello Stato, ormai allo sfascio, erano nelle mani dei pretoriani e dell’esercito. Eppure Pertinace tentava di ristabilire una parvenza di disciplina. Era venuto su dal nulla percorrendo tutti gli scalini della carriera militare. Aveva sempre dimostrato una forte tempra morale, ma contro l’irrefrenabile violenza delle legioni fu lui il perdente. Era il 28 marzo del 193, ed erano trascorsi appena ottantasei giorni dalla sua ascesa al trono. D’impeto i pretoriani si ammutinarono, invasero il palazzo imperiale e trucidarono Pertinace senza dargli neppure il tempo di fargli capire che cosa stesse succedendo e di che cosa fosse accusato. Gli sopravvisse la moglie Flavia Tiziana. Pertinace le aveva negato il titolo di Augusta avendola scoperta fra le braccia di un suonatore d’arpa. C’erano molti modi per conquistare il trono, ma in quegli anni se ne scovò uno assai originale, anzi parodistico, nel senso che l’impero fu messo all’asta. Erano scesi in campo due senatori, ognuno con un proprio seguito. Uno era Flavio Sulpiciano, suocero di Pertinace e prefetto della città; l’altro era il ricchissimo giureconsulto Didio Giuliano. Entrambi si rivolgevano alle milizie per proporsi imperatori. E fu allora che ai pretoriani venne l’idea di mettere l’impero all’asta chiedendo ai due contendenti quanto avrebbero versato alle truppe per essere acclamati principi. Didio Giuliano promise una somma ben più consistente di quella annunciata da Flavio Sulpiciano, 546
ed ebbe il trono con grande soddisfazione della moglie Manlia Scantilla. Il popolo invece lo accolse a sassate. Non c’era più freno all’anarchia. Comunque i romani e i provinciali in ogni parte dell’impero ancora si sorprendevano delle deviazioni della loro storia. Di fronte a quel mercato, ogni legione si mise ad acclamare imperatore il proprio generale. Le truppe di stanza in Siria e in Egitto prescelsero l’italico di Aquino, Caio Pescennio Nigro; quelle di Pannonia il 13 aprile del 193 elessero a Carnuntum (Petronell) Lucio Settimio Severo, mentre in Britannia e in Gallia emergeva il nome di Decimo Clodio Albino, nato ad Adrumeto. Su questo nugolo di imperatori prevalse Settimio Severo, anche lui punico, nato nel 146 a Leptis Magna, e fra tutti ritenuto il migliore. Aveva quarantotto anni. Era bello e solenne, il nero della sua pelle lo rendeva attraente. La provincia su cui Settimio Severo governava si estendeva fino alle Alpi Giulie, così per lui non fu difficile calare in Italia con le sue legioni. Procedeva verso Roma a marce forzate, concedendo alle milizie pochi momenti di riposo per rifocillarsi. Anche lui dormiva raramente, e come i soldati marciava a piedi mantenendo in tal modo la disciplina e conquistandone l’affetto. Alla notizia che Settimio Severo era già arrivato a Ravenna e che la città gli si era consegnata spontaneamente, Didio Giuliano, tremante, ricorse al labile sostegno dei pretoriani ai quali distribuiva larghi donativi. Inviò ambascerie a Severo, insieme ad alcuni sicari con l’incarico di ucciderlo. Ma nulla avrebbe potuto arrestare l’avanzata dei legionari che provenivano dalla Pannonia. La vittoria di Severo già si profilava con certezza per cui i pretoriani e il Senato voltarono le 547
spalle a Didio Giuliano. Lo trascinarono in un luogo remoto del palazzo imperiale dove lo decapitarono senza tante parole. Furono poi gli stessi pretoriani a imporre al Senato il riconoscimento di Severo a imperatore. Il 9 giugno del 193 Settimio Severo entrò in Roma senza trovare alcuna resistenza. Succedeva a Pertinace, di cui volle riabilitare la memoria come l’imperatore meritava, sebbene fosse durato nella carica soltanto tre mesi. Primeggiavano sulla scena gli altri due pretendenti candidati dalle legioni: Clodio Albino, al quale Severo concesse il titolo di Cesare, e Pescennio Nigro, che rimaneva suo rivale. Raggiunse Nigro in Oriente, cinse d’assedio Bisanzio dove il fuggitivo s’era rinchiuso. Non ci volle molto a prendere la città per fame, le sue mura furono abbattute e gli abitanti uccisi. La lotta con Nigro si risolse in due scontri decisivi, il primo sull’Ellesponto e l’altro negli angusti passi della Cilicia. Nigro cercò scampo nella fuga, ma fu raggiunto e ucciso. Settimio Severo non aveva più rivali, unico sovrano di Roma. Con lui l’impero diventava una monarchia assoluta a carattere militare che non aveva per fondamento né l’autorità del Senato né quella di una dinastia. La forza degli eserciti costituiva l’ago della bilancia della politica imperiale avendo, Settimio Severo imposto allo Stato un’organizzazione di tipo militare. Il suo stesso potere dipendeva dall’esercito, e alle legioni andavano le sue cure maggiori. Indebolì tuttavia il potere delle volubili milizie pretoriane, che nel 203 ebbero per prefetto il grande giurista Emilio Papiniano, forse di origini siriane o africane. Il primo grande apologeta cristiano, Tertulliano, aveva già scritto l’Apologeticum in difesa delle credenze cristiane e a condanna 548
dei funzionari pagani persecutori della fede. Settimio Severo fu generoso di privilegi con le legioni. Per prima cosa consentì alle famiglie dei militari di trasferirsi nelle prossimità degli accampamenti militari, poi permise alle truppe delle legioni della Renania di acquistare terreni e di coltivarli. Abolì l’obbligo del celibato; aprì la carriera militare a tutti i ceti, mentre prima di lui alcune fra le cariche più prestigiose erano appannaggio delle classi privilegiate. Nel rafforzare i poteri dell’esercito sacrificava il Senato. Per assicurarsi il favore delle truppe, aveva però bisogno di ingenti quantità di denaro da distribuire ai soldati. Trovò il modo di procurarsene riducendo a meno del cinquanta per cento il contenuto d’argento del denaro, ma così facendo causò una spaventosa inflazione. Settimio Severo era un persecutore dei cristiani, al punto da dichiarare criminale chi dava e chi prendeva il battesimo. Si adoperò per restaurare l’unità politica dell’impero e per riorganizzarne la struttura amministrativa. Fortificò i confini che erano in preda a turbolenze e sommovimenti. Sembrava che stesse per schiudersi una fase di tranquillità per i romani, ma era un’illusione. Il sogno di una possibile pace fu da lui stesso dissolto quando affrontò i parti per punirli dell’aiuto fornito a Nigro. Fu invece costretto a scendere in guerra contro i caledoni della Britannia che lo minacciavano. Infatti avevano invaso le terre che i romani detenevano sull’isola. Si era già nel 208, l’imperatore aveva più di sessant’anni ed era afflitto dalla gotta, per cui non poteva mai abbandonare la lettiga. Decise egualmente di recarsi sull’isola albionica per dirigervi le operazioni belliche insieme ai figli, il diciannovenne Settimio Geta e il ventiquattrenne Settimio Bassiano, soprannominato 549
Caracalla dalla veste gallica che usava indossare per accentuare il suo naturale aspetto militaresco. Eppure non li amava. I due giovani non erano molto dissimili da Commodo a causa della loro passione sfrenata per i giochi gladiatorii, oltre che succubi di ogni vizio e di ogni baraonda da postribolo. Il padre, che aveva deciso di seguire il principio dinastico, aveva già nominato Augusto e collega il primo di loro, Caracalla, mentre si accingeva a concedere gli stessi titoli al secondo, con l’idea di farli regnare in coppia come già era accaduto con Marco Aurelio e Lucio Vero. Dopo l’adozione, Caracalla prese il nome di M. Aurelius Severus Antoninus. Settimio attraversò il Vallo di Adriano e quello più avanzato di Antonino per spingersi nel territorio dei barbari caledoni con l’intento di porre una volta per tutte sotto il dominio romano l’intero territorio della Britannia. I caledoni reagirono abilmente fiaccando le truppe imperiali con lo stillicidio di un’interminabile guerriglia. Attaccavano le retroguardie delle legioni e poi fuggivano nascondendosi nei boschi. Questa tattica estenuante, unita all’impervio clima dell’isola, costò a Roma assai caro in uomini e in denaro. Tuttavia i caledoni finirono con l’arrendersi cedendo armi e territori. Anche questa si rivelava una tattica di guerriglia, perché non appena i legionari si furono ritirati, i caledoni insorsero di nuovo costringendo Severo a intraprendere una ennesima azione di guerra. Nel 210, sempre più vecchio e ammalato, l’imperatore Settimio Severo affidò il comando della campagna in Britannia al figlio Caracalla, mentre lui rimaneva nel quartier generale di Eburakum (York) con l’altro figlio Geta e la seconda moglie Giulia Domna, bella, capelli folti e pettinati in maniera originale, 550
assai colta e di alta intelligenza, che aveva sposato ai tempi di quando era tribuno della plebe. Giulia, chiamata «la filosofa», era una siriana figlia di un sacerdote romanizzato di Emesa soggetto al dio del Sole, El-Gabal. Severo aveva avuto da lei entrambi i figli. Rispetto a Geta, il figlio maggiore Caracalla aveva dimostrato grande capacità, mista a ferocia, nel rinforzare le difese dei confini, nel costruire fortini e avamposti, nell’imporre se stesso. L’anno successivo era già pronta un’altra spedizione, quando il 4 febbraio Settimio Severo, che si trovava ancora immobilizzato a Eburakum, spirava. Era sessantaseienne, e aveva governato per quasi diciotto anni. Si era certi che all’evento luttuoso avesse partecipato Caracalla, il quale, sempre in contrasto con il padre, aveva imposto ai medici di affrettarne la fine. L’azione che Severo aveva avviato in Britannia fu immediatamente interrotta con grave danno per il prestigio di Roma. Caracalla e Geta con la madre Giulia Domna fecero ritorno a Roma. Seppellirono Severo nel mausoleo di Adriano, e fu questa l’unica parvenza di onore che riservarono al defunto. Il Senato non mancò di riconoscere in Caracalla e in Geta gli imperatori di Roma, ancora una volta due, come aveva voluto Settimio Severo che li aveva entrambi adottati imponendo all’impero il principio ereditario già sperimentato con Marco Aurelio e Lucio Vero. Simbolicamente, prima di morire, aveva fatto porre la statua della Fortuna, segno del potere, alternativamente nelle camere di Caracalla e di Geta. Un giorno in una, un giorno nell’altra. Era chiaro che si andava verso una ripartizione dell’impero e 551
non verso un comando a due, tanto più che i due fratelli si odiavano a morte. Caracalla aveva perfino diviso il palazzo imperiale in due grandi ali: da una parte c’erano i suoi appartamenti e i suoi uffici, dall’altra parte gli appartamenti e gli uffici del fratello. Vere e proprie fortificazioni con sentinelle sempre all’erta garantivano la separazione. Questa divisione ancora piuttosto simbolica doveva preparare una reale scissione dell’impero. Caracalla, che voleva governare da solo, era infatti pronto a perdere una parte dell’impero pur di non avere tra i piedi il fratello Geta. Ma non trovò che oppositori a questa sua idea, compresi il Consiglio del principe, la madre Giulia Domna e lo stesso Geta. Caracalla era nato a Lione nel 186, e non aveva allora che venticinque anni. Dovette rinunciare all’attuazione dei suoi progetti, e passò a covare torbide vendette per arrivare al medesimo scopo magari seguendo una via più criminosa ma ai suoi occhi più sicura. Allontanò dal potere il saggio prefetto del pretorio Papiniano a cui Settimio Severo aveva affidato i figli. Fece assassinare sia il liberto Euodo, che era stato il suo precettore, sia Castore, già consigliere di Settimio Severo. Alla mai amata moglie Plautilla inflisse l’esilio e poi la morte. L’aveva sposata da una decina d’anni, era africana anch’essa essendo figlia di Caio Fulvio Plauziano, che aveva guidato il pretorio. Questo Plauziano era un personaggio quanto mai aberrante e di origini meschine. Si arricchì enormemente, acquistò una villa sul colle Quirinale; il suo comportamento era circonfuso di somma boria tanto da farsi precedere nelle strade di Roma da araldi che imponevano ai cittadini di scostarsi per lasciargli libero il passo. Plautilla non era inferiore al padre in quanto ad 552
alterigia. Portò al marito una cospicua dote, pari a quella di cinquanta regine, come dicevano i romani nel veder transitare dal Foro al Palatino tutti i beni, ori e argenti, di cui la donna faceva mostra. Numerose furono ancora le vittime di Caracalla. Le crudeltà non erano che i preludi dell’eliminazione di Geta, che veniva ucciso a ventidue anni nel febbraio del 212. Caracalla aveva finto di assecondare il desiderio della madre che pregava i figli di riconciliarsi per la grandezza di Roma. Aveva così accettato di incontrare Geta nell’appartamento di Giulia Domna, ma nel mezzo dell’incontro alcuni centurioni, ben celati dietro i tendaggi, irruppero nella sala e trucidarono il giovane, senza incontrare alcuna resistenza. Lo uccisero sotto gli occhi della madre, anzi tra le braccia della madre, poiché Geta le si era rifugiato in grembo. Giulia, disperata, si strappava i capelli, si rimproverava di aver avuto l’idea di quella riunione. Caracalla si premurò di informare a suo modo i pretoriani. Disse che era stato costretto ad assassinare il fratello perché questi stava per avvelenarlo. I pretoriani, dopo aver ottenuto un aumento di stipendio, gli credettero, e gioirono nell’assistere alla cancellazione dell’effigie di Geta dall’arco eretto in onore di Settimio Severo. Così Caracalla, armato e seguito da un nugolo di legionari, fece il suo ingresso in Senato con lo sguardo minaccioso. Soppresso Geta, poteva finalmente regnare da solo, come era sempre stata la sua aspirazione. Erano ancora vivi i numerosi amici di Geta, e su di essi l’imperatore esercitò tutta intera la sua inaudita e sanguinosa crudeltà senza che la madre osasse contraddirlo. 553
XXV I romani ormai chiamavano Caracalla «carnefice del genere umano». Nel 212 l’imperatore pubblicava uno dei suoi più importanti editti col quale estendeva la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero. Era la Constitutio antoniniana de civitatae che, ribattezzata «Editto di Caracalla», aveva principalmente lo scopo di assicurare un aumento degli introiti nelle sofferenti casse dell’erario. Le tassazioni erano così pesanti da provocare un generale dissesto, e i romani si trovarono di fronte alla fine di un’epoca. In molti pensavano che non fosse la sola follia dell’imperatore a provocare tante sciagure, ma che egli fosse indotto a compiere azioni dannose perché ispirato dal capriccio e dall’invidia di divinità che da sempre avevano soffiato contro Roma. Tutti si chiedevano la stessa cosa: avrà Giano beffardo volto altrove quel suo sguardo vitale che, con il sangue e le lacrime, con il ferro e il sudore, aveva fatto di Roma la dominatrice del mondo? Con l’editto di Caracalla si equiparavano giuridicamente tutti i sudditi dell’impero, senza distinzioni né razziali né politiche né religiose. Si faceva un’eccezione in campo religioso, poiché si riconosceva la supremazia di Giove su ogni altro dio di qualsiasi fede. Il diritto romano, pur conservando alcune norme giuridiche valide in un luogo e non in altri, veniva esteso a tutti i domini di Roma, diventando così universale. Furono istituite scuole in cui si insegnavano i principi di quel diritto, a Bisanzio, 554
ad Alessandria, ad Antiochia e in molte altre importanti città. Insigni giuristi, come Giulio Paolo, Domizio Ulpiano, Erennio Modestino, Elio Marciano, si assumevano il compito di diffonderne la conoscenza fra i neoromani. Il destino di Roma aveva raggiunto il suo culmine, almeno dal punto di vista delle estensioni territoriali e della fama, anche se gravi erano le crepe che si aprivano dovunque e in ogni campo. Ormai l’Urbe coincideva con l’orbe. Non esistevano più le profonde differenze di una volta fra i cittadini di Roma e i barbari provinciali, ora tutti unificati dai confini dell’impero. Si era tutti insieme cittadini di Roma, sottoposti a un’unica legge e a un unico erario, benché nati con tradizioni e culture diverse e sebbene il latino non fosse per tutti la madrelingua e l’Urbe apparisse lontana. Caracalla era un esattore delle tasse intransigente e severo. Cercava di essere parco nelle spese per diminuire le uscite dello Stato, al punto di richiamare alla parsimonia perfino la madre Giulia Domna, che aveva sempre il borsellino aperto. Non poté tuttavia trattenersi a sua volta dalla mania dei monumenti. Edificò nell’Urbe le stupende terme che da lui presero il nome, dedicò un tempio a Serapide e pose mano ad altre opere pubbliche che si rivelavano incompatibili con le scarse disponibilità finanziarie dell’impero. Soltanto con l’esercito era pronto a tutto. Per quanto folle, egli era un buon soldato, figlio di soldato. Considerava i legionari la spina dorsale dello Stato romano, sapeva bene che l’appoggio delle truppe era essenziale per regnare. Fece perciò il possibile perché i suoi soldati fossero efficienti e fedeli, aumentando le paghe e non lesinando in 555
donativi. Faceva la stessa vita dei militi, partecipava alle marce e alle cavalcate. Anche in caserma era un soldato fra soldati. Agli inizi del 213 decise di intraprendere alcune spedizioni militari a nord dell’impero. Intendeva stabilire una pace sicura con quelle popolazioni barbare degli alamanni, e dei catti prima di avviare il suo malcelato sogno che consisteva in una definitiva campagna in Oriente contro i parti. I germani, e fra loro soprattutto gli alamanni i nuovi nemici di Roma, premevano sui confini del Reno. Caracalla vi concentrò un grande contingente di truppe, e con una guerra lampo vi riportò l’ordine. Riuscì perfino a concedersi una sosta ristoratrice e a curare i propri mali presso la celebre fonte di Aquae aureliae. Era trascorso un anno, e Caracalla tornava a Roma. Non vi rimase a lungo, richiamato sul fronte danubiano. Mosse dall’Urbe con la madre Giulia Domna già avvezza a seguire il marito Severo nelle imprese di guerra. Era con Caracalla anche il nuovo prefetto del pretorio Marco Opellio Macrino, eques e africano. Molto opportunamente l’imperatore, seguendo l’esempio di altri, seppe mettere in disaccordo fra loro le tribù barbare dei marcomanni e dei quadi. Di questi ultimi uccise il re Gaiobomaro, suggellando con un nuovo delitto l’ottenuta saldezza del confine danubiano. L’impresa gli procurò il titolo di germanicus. Quindi si diresse verso la Tracia, infatuato di volta in volta nelle vesti del pelide Achille o in quelle di Alessandro Magno del quale imitava perfino i più trascurabili gesti. A Troia rese onore all’eroico condottiero dei greci, più veloce. A Nicomedia installò il quartiere invernale del 214-215 dove mise a punto il piano d’attacco contro i parti. 556
Scelta Antiochia come base operativa, in primavera l’imperatore attraversò l’Asia Minore e già si accingeva a scatenare la guerra quando gli venne a mancare il pretesto formale per aprire le ostilità, sebbene lo avesse preparato con cura. Aveva chiesto con durezza al re partico Vologese V di restituire a Roma un gruppo di disertori, ma, contrariamente alle sue aspettative, il sovrano nemico glieli aveva ceduti senza tante discussioni. E Caracalla dovette mettersi a cercare un altro casus belli. Non gli rimase che spendere un po’ del tempo che avrebbe dedicato alla guerra contro i parti visitando Alessandria d’Egitto, la mitica città voluta dall’insuperabile dominatore macedone. Ad Alessandria l’imperatore ebbe un’amara sorpresa. La popolazione accolse lui e il suo seguito tra i fischi e i più volgari sbeffeggiamenti. Sconfinata fu l’ira che quell’accoglienza suscitò in Caracalla. Possedendo egli la forza di vendicarsi pesantemente, invitò un giorno a un lussuoso banchetto molti rampolli della nobiltà alessandrina. Nel mezzo dell’agape li fece massacrare a tradimento dai suoi scherani. Si era nei primi mesi del 216. I parti avevano un nuovo re in Artabano V, il quale, con uno sconvolgimento dinastico, si era ribellato al fratello Vologese V, sottraendogli la corona e molti territori. Questo fu il pretesto al quale Caracalla si aggrappò per aggredire Artabano dopo aver cercato inutilmente di farselo alleato col chiedergli in moglie la figlia. I romani e i parti erano le più grandi potenze mondiali, e bene faceva Caracalla a pensare di unire i due popoli. Ma ora in guerra l’imperatore, dopo aver fissato il suo quartier generale a Edessa, fece attestare le sue legioni nella Partia seminando rovine e distruzioni e 557
occupando Arbela. Nell’avanzata i soldati romani sconvolsero le tombe della città, certi di aver così disperso le ossa degli antichi re dei parti. Caracalla tornò in Mesopotamia, a Edessa, dove preparava una nuova campagna per l’anno successivo. Si recava a Carre volendo rendere sacrifici al dio Luna, ma questa digressione a sfondo religioso gli fu fatale. Alcuni cospiratori, che da tempo intendevano attentare alla sua vita, considerarono l’occasione il momento migliore per agire. Fra i suoi soldati delusi da una guerra lunga e faticosa, senza grandi vittorie né cospicui bottini, si levò una mano che proditoriamente lo uccise con un colpo di pugnale alla schiena, essendo sceso da cavallo per orinare. Quella mano era manovrata dal prefetto del pretorio Marco Opellio Macrino e da alcuni esponenti dell’opposizione senatoria. Era l’8 aprile del 217. Caracalla moriva trentunenne dopo aver regnato per sei anni. A Macrino era aperta la strada dell’impero usurpato. Nato liberto, in Mauritania, nel 164, aveva cinquantatré anni. Era deforme nel fisico. Per temperamento era vigliacco e sordido. Da cortigiano sapeva muoversi abilmente nei doppi giochi. Si era mostrato fedele servitore di Caracalla, ma al tempo stesso era andato tramando per detronizzarlo. Poiché la congiura che stava preparando rischiava di essere scoperta, ordinò al centurione Giulio Marziale di passare all’azione. Macrino seppe far credere al Senato di essere stato sorpreso dal complotto, quando in realtà ne era l’ispiratore. Trascorsi tre giorni da quel fatale 8 aprile, le legioni lo proclamarono imperatore. La sua elezione era dettata dall’incalzare degli eventi e dalle precarie condizioni in cui lo Stato si trovava. Caracalla non 558
aveva lasciato eredi e incombeva una nuova guerra con i parti. Macrino fece ampi donativi alle truppe, scrisse ai senatori perché riconoscessero l’acclamazione voluta dai legionari. La questione presentava molte difficoltà poiché Macrino era semplicemente un eques, e sarebbe stata la prima volta che un esponente dell’ordine equestre, e non un senatore, avrebbe raggiunto il più alto grado dello Stato. Lui però trattava il Senato alla stessa stregua delle legioni. Come aveva assegnato donativi alle truppe, così garantì al Senato che avrebbe restituito alla libertà tutti i patres che Caracalla aveva imprigionato. La Curia resisteva, ma dovette concedergli la potestà tribunizia e il potere proconsolare perché Artabano V, il re dei parti, si era fatto ancor più minaccioso. Così Macrino, imperatore proclamato soltanto dalle legioni, presso le quali si faceva chiamare con i nomi di Antonino e di Severo, prese immediatamente le armi contro di loro. Nella famiglia di Caracalla si era acceso un profondo odio contro l’usurpatore, il quale ne temeva le conseguenze al punto di confinare Giulia Domna a Emesa sulle rive dell’Oronte, dopo aver tentato di corromperla. Avvilita e umiliata Giulia si lasciò morire di fame. Anche Artabano considerava Macrino un usurpatore. Perciò pretendeva che egli lasciasse la Mesopotamia, risanasse le città danneggiate e restaurasse le tombe degli antichi re dei parti devastate da Caracalla ad Arbela. Artabano era già penetrato in Siria e le truppe romane si erano arroccate su una linea di difesa che andava da Antiochia ad Apamea. Si creava una situazione di stallo in cui il semi-imperatore romano rivelava le sue deficienze militari che non ne facevano un buon generale. Artabano colse 559
l’essenza della situazione e propose di sottoscrivere una pace che per Macrino era ingloriosa. Essa infatti poneva condizioni umilianti per Roma, come l’abbandono di vasti territori e l’esborso di forti somme. Macrino accettava la poco nobile pace esasperando lo scontento che già serpeggiava tra le file delle legioni. In realtà questa insoddisfazione era da lui stesso provocata poiché non sapeva comportarsi equanimemente. Teneva l’esercito sotto una severa e crudele disciplina, ricorrendo a drastiche condanne come decimazioni e crocifissioni. La pace con i parti, così maldestramente accettata, aveva aggravato la sua situazione rendendolo irrimediabilmente inviso a tutti.
560
Parte quarta
ROMA DOMATA La polvere Dove si racconta come un sacerdote del Sole si fa dissoluto imperatore. Donne e giuristi. Le tribù germaniche. Il gigantesco Massimino. Un arabo festeggia i mille anni di Roma. Pagani e cristiani, reciproche persecuzioni. I goti e il Danubio. La divisione dell’impero. Zenobia, novella Cleopatra. La tetrarchia di Diocleziano. Costantino, Massenzio e ponte Milvio. I vescovi di Nicea. «Hai vinto, o Galileo.» La discesa d’una razza gialla. L’errore di Teodosio. Per amore di Galla. Alarico e la città non più eterna. Gli imperatori ombra. La fine dell’impero in un burocratico passaggio di carte, etc., etc.
561
I Giulia Domna, morendo, aveva lasciato una sorella, Giulia Mesa, bella ma con un forte senso della riservatezza; assai fredda, come se fosse interamente avulsa da sentimenti carnali. Giulia Mesa aveva tuttavia sposato il consolare Giulio Avito col quale aveva avuto due figlie, Giulia Soemia Bassiana e Giulia Avita Mamea. La prima figlia era stata educata all’orientale, aveva preso per marito il consolare Sesto Vario Marcello, cavaliere della città di Apamea in Siria, a cui aveva dato nel 204 un figlio, Vario Avito Bassiano, primo nipote di Caracalla. La seconda figlia era madre di Bassiano Alessiano Marcello, avuto dal secondo marito Gessio Marciano, un cavaliere di Arca Cesarea, anch’essa in Siria. Per molti anni Giulia Mesa, cognata di Settimio Severo, aveva vissuto a Roma con la sorella, ma quando Macrino divenne imperatore, fu a sua volta inviata al confino con la figlia e i nipoti, a Emesa. In questa città vigeva il culto orgiastico del dio del Sole, El-Gabal, Elagabalo, che, sotto specie di un fallico monolito nero, veniva adorato in un tempio eretto sulla cima di un piccolo monte. L’adolescente Vario Avito Bassiano già a quattordici anni era gran sacerdote del dio. Si immedesimò in esso, si annullò in estasi mistiche e finì con l’adottarne il nome, per cui si faceva chiamare Eliogabalo, Elagabalus. Nei pressi di Emesa era stanziata una legione romana nella quale erano arruolati molti soldati siriaci che costantemente 562
seguivano nel tempio i riti in onore di Elagabalo. Con loro strinse amicizia la nonna di Eliogabalo, Giulia Mesa, che peraltro li colmava di molti doni. I soldati presero ad ammirare quel sacerdote giovinetto che indossava abiti purpurei e che mostrava di essere invasato del dio. Con l’ausilio del comandante del campo, Comazon Eutichiano, Giulia Mesa sparse la voce che il giovane fosse in realtà figlio adulterino dell’imperatore Caracalla, smentendo così che ne fosse soltanto il nipote. A quella notizia, che molti presero per vera, Eliogabalo assumeva automaticamente la posizione di erede ufficiale al trono imperiale anche se così Giulia Mesa era costretta a gettare il disonore sulla figlia Giulia Soemia denunciandone la relazione adulterina avuta con Caracalla. Ma la sete dell’impero era più forte di qualsiasi altra cosa, tanto che anche la madre di Eliogabalo sosteneva in questa storia Giulia Mesa. Nell’attuazione del piano, Giulia Mesa e Giulia Soemia forzarono gli eventi. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio del 218, complice il comandante del campo di Raphaneae, le due audaci donne si introdussero fra i soldati gallici. Soemia, che aveva portato nascostamente con sé il figlio Vario Avito Bassiano, lo presentò a tutti in abiti di porpora che richiamavano alla mente lo scomparso Caracalla. Soemia si dichiarò adultera, rivelando che aveva avuto quel giovane giacendo con Caracalla. Bastò questo fatto perché già al mattino successivo le schiere, ormai vittime degli intrighi di palazzo, elevassero a gran voce l’imberbe sacerdote alla suprema dignità di imperatore di Roma. Gli imposero il nome di Marco Aurelio Antonino Pio Felice Augusto, ma lui preferì conservare quello che si era scelto in gloria del dio al quale si ispirava, Eliogabalo. 563
Avuta la straordinaria notizia, Macrino raccolse ad Antiochia i suoi pretoriani capitanati dal prefetto Ulpio Giuliano che assediò il campo dei ribelli seguaci di Eliogabalo. Ma i pretoriani, entrati in contatto con quei rivoltosi, si unirono festosamente a loro, uccisero Ulpio e ne inviarono la testa a Macrino che si trovava ancora in Antiochia non essendosi, stranamente per un imperatore romano, mai recato né a Roma e neppure in Italia. Allora Macrino si decise a intervenire di persona nello scontro alla guida delle milizie non senza aver proclamato Augusto, e quindi co-reggente, il figlio Diadumeniano per contrapporre un altro giovane a Eliogabalo. Nell’intrigo che ne seguì, Macrino fu abbandonato dai legionari e dovette tornarsene ad Antiochia. Le truppe di Eliogabalo, che marciavano sulla città, si scontrarono con gli avversari e vinsero la battaglia benché fossero comandate da un incapace di nome Gannys, amato dal giovane. Sotto mentite spoglie Macrino cercò di fuggire con una vecchia carretta dalla Siria. Si diede a una lunga corsa con l’intento di raggiungere finalmente Roma per chiedere il sostegno del Senato e metterlo in guardia contro Eliogabalo, il falso erede di Caracalla. Ma, raggiunto e catturato sul Bosforo, fu riportato indietro fra gli sberleffi dei soldati. Macrino sperava che suo figlio Diadumeniano si fosse messo in salvo presso il re dei parti Artabano. Ma quando venne a sapere che il ragazzo era stato catturato, ucciso e decapitato vide sfumare il suo piano e tentò il suicidio gettandosi dal carro in corsa col risultato di fracassarsi un braccio. A finirlo intervennero poco dopo ad Archelaide i sicari di Eliogabalo. Aveva regnato per quattordici mesi. Era l’estate del 218, ed Eliogabalo quattordicenne entrava 564
trionfalmente e solare in Antiochia al suono di tamburi e di flauti, così come avveniva nelle orge sacre consumate nel nome del dio del Sole. Solennemente comunicava al popolo la fine di Macrino, il turpe assassino di Caracalla; annunciava la sua proclamazione a imperatore e il suo proposito di porre Roma sotto la protezione del dio di Emesa. Eliogabalo, da erotomane pervertito, omosessuale e sanguinario, era follemente invasato dai culti orientali. Intendeva imporli al popolo romano che non li capiva e non li accettava. Saggiamente il suo tutore e amante Gannys cercava di dissuaderlo da simili bizzarrie e si ebbe una ricompensa ineguagliabile, la morte. Eliogabalo nel 219 aveva lasciato la marittima Nicomedia, dove aveva svernato. Seguito da una turba schiamazzante e pittoresca di siriani variopinti, attraversò con la magnificenza di un dio la Tracia, la Mesia, le due Pannonie e fece il suo ingresso trionfale in Roma preceduto da una sua effigie dorata. Era il 29 settembre quando l’adolescente imperatore si presentò nel pieno del suo fulgore al popolo dell’Urbe, vestito d’oro e di porpora, con in capo la tiara solare, adorno di bracciali e di collane, truccato alla moda orientale con le guance tinte di bianco, i pomelli rossi e gli occhi anneriti. Era un efebo biondo, le carni dolci lo rendevano simile a una luminosa fanciulla. Eliogabalo era troppo preso dai suoi fanatismi eroticoreligiosi per potersi occupare della cosa pubblica. Il suo pensiero era rivolto non a Roma ma a Emesa, la città natale, e alla civiltà che rappresentava. Morboso, perso in orge continue fra vini rari e droghe che moltiplicavano l’effetto delle sue libidini, si era dato, bisessuale, a celebrare sempre nuove nozze con donne ognora diverse. Inizialmente si era unito alla nobile romana 565
Giulia Cornelia Paula, e in questo, sebbene i sentimenti dell’imperatore fossero labili, poteva non esserci nulla di granché trasgressivo. Ma poi egli andò ben oltre con un gesto sacrilego sposando una vestale, Aquilia Severa, virgo maxima, e la decisione apparve come una provocatoria rottura con le tradizioni romane, sicché la cosa non piacque al popolo. Lui si scusava dicendo che un sacerdote del Sole poteva sposare una guardiana del fuoco sacro. Volle fare un dispetto a un amico, Pomponio Basso, cui tolse la moglie, Annia Faustina pronipote di Marco Aurelio. Insoddisfatto della donna, si vendicò uccidendo il marito e tornando a unirsi con Giulia Cornelia Paula. Sposò anche un uomo, l’auriga Ierocle di Smirne il quale lo tradiva, e lui, invece di punire il fedifrago, si fece prendere a scudisciate. Masochista, fra l’una e l’altra donna ebbe sei mogli. Usava trascorrere con ognuna di esse molte ore in vasche da bagno colme di vino rosato. Faceva doni lussuosi ai compagni di dissolutezze che in realtà avrebbero meritato la galera. Tra i suoi favoriti potevano esserci nobili o persone d’infimo ceto, liberti, schiavi, mimi, ballerini o aurighi, come Cordio, o barbieri, come Claudio, alcuni dei quali intendeva elevare al titolo di Cesare. Il tutto nella stessa logica di Caligola che voleva umiliare le istituzioni tradizionali dello Stato. Ormai, a quel che rimaneva dell’antico Stato romano provvedevano la nonna Giulia Mesa e la madre Giulia Soemia le quali instaurarono un vero e proprio matriarcato, arrivando, fatto inaudito per Roma, a presenziare alle adunanze del Senato. Le due matrone fecero in questo senso qualcosa di più, costituirono un Senato di sole donne da loro presieduto. Nonostante tutto Giulia Mesa tentava di riportare lo 566
scellerato nipote al rispetto dei costumi romani, e così operava anche Giulia Soemia. L’una e l’altra diventano sempre più insofferenti alle indicibili dissolutezze e ai fastosi sprechi del giovane sovrano che aprivano una incolmabile voragine nelle casse dell’erario. Eliogabalo cercava di porre qualche rimedio allo sfacelo finanziario confiscando i beni di quanti non riuscivano a nascondere la loro disapprovazione per le sue gesta. Era ormai totalmente succube dei più misteriosi culti della religione monoteistica orientale. Ne favorì la diffusione e costruì sul Palatino un magnifico tempio, detto Eliogabalium, dove onorare la sacra pietra nera del dio del Sole, El-Gabal, che aveva trasportato a Roma dall’Oriente. Un secondo Eliogabalium lo volle sull’Esquilino. Indisse fastose cerimonie per l’inaugurazione del tempio sollevando il malumore del popolo romano che pure non mancava mai di partecipare ai festeggiamenti di qualsiasi natura fossero. Il carro lussuoso con il sacro monolito nero, un cono che richiamava alla mente un fallo, era trainato verso il tempio da tre coppie di splendidi cavalli bianchi. Le strade di Roma, scelte per il percorso sacro, erano cosparse di polvere d’oro. Eliogabalo stesso reggeva le redini dei sei imponenti cavalli. Il corteo arrivò al tempio sul Palatino. Si sacrificarono le vittime più rare, si sparsero i vini più prelibati, si bruciarono gli aromi più raffinati, mentre una sfrenata musica orientale di tamburi, di flauti e corni induceva le più agili fanciulle siriane, portate a Roma, a intrecciare senza veli danze lascive. Indisse una battaglia navale nell’Urbe in un lago che egli aveva fatto scavare riempiendolo di vino. Il popolo romano assisteva agli inconsueti spettacoli con malcelata indignazione, e ciò contribuiva a minare la già debole tolleranza 567
della città per quelle dissennate manifestazioni. Infatti nel 221 l’insofferenza dei cittadini verso il più strano fra i loro non certo lodevoli imperatori che troppo spesso finivano ammazzati aveva raggiunto il culmine. L’anziana Giulia Mesa comprese che una destituzione violenta di Eliogabalo avrebbe comportato l’estinzione della dinastia dei Severi per cui corse ai ripari. Propose di affiancare a Eliogabalo l’altro suo nipote, il figlio di Giulia Avita Mamea, Bassiano Alessiano Marcello, che all’epoca aveva poco più di dodici anni, ma che, a differenza di Eliogabalo, era stato educato secondo i costumi e le abitudini di Roma. Per questa ragione Alessiano riscuoteva le simpatie del popolo. L’astuta nonna fece circolare nell’Urbe la voce che anche l’altro nipote fosse figlio adulterino di Caracalla, e indusse Eliogabalo ad attribuirgli il titolo di Cesare con questo ragionamento: «Tu Eliogabalo potrai occuparti di diffondere il tuo credo a Roma, e questa è la vera rivoluzione contro il paganesimo e contro il cristianesimo, mentre tuo cugino Alessiano si occuperà di qualcosa di più pedestre, come la guida del governo». Giulia Mesa poteva ben parlare di rivoluzione, soddisfacendo Eliogabalo, poiché la sua religione orientale si andava realmente affermando in Roma tanto che Eliogabalo poté premettere alla dignità di Pontefice massimo la dizione di Sarcedos amplissimus Dei invicti Solis Elagabali. L’imperatore accettò di assumere il dodicenne Alessiano come collega. Il Senato non si oppose alle proposte di Giulia Mesa, e Bassiano Alessiano Marcello prendeva il nome di Marco Aurelio Severo Alessandro. Eliogabalo si pentì presto di aver favorito questa soluzione, e cominciò a tramare contro Severo Alessandro. Si rivolse ai 568
pretoriani perché trucidassero il cugino, ma quei soldati si schierarono in difesa dell’uomo che avrebbero dovuto uccidere e volsero i pugnali contro Eliogabalo. L’11 marzo del 222 egli cadeva, diciottenne, negli orti Variani, e con lui veniva sterminata l’intera corte siriana, compresa la madre Giulia Soemia e altri parenti. Per supremo castigo, ne furono gettate le spoglie nelle torbide acque del Tevere. Eliogabalo aveva regnato un po’ meno di quattro anni, non senza aver totalmente sconvolto l’immagine dell’impero. Per porre rimedio a tanto sconquasso si cominciò col rispedire a Emesa la sacra pietra nera che tanto negativamente aveva influenzato la già di per sé debole mente del giovane.
569
II Roma era sempre più un impero affidato alle donne, essendo ragazzini coloro che ascendevano al trono. Anche Severo Alessandro, figlio di Giulia Avita Mamea, aveva poco più di tredici anni quando venne acclamato imperatore. Così su Roma regnava in realtà Mamea. Sebbene giovanissimo, Severo Alessandro appariva degno di fiducia vivendo in modo opposto rispetto al debosciato cugino Eliogabalo. Era educato allo stoicismo, preparato alla guida del governo da una madre molto forte, come Giulia Mamea, e dalla volitiva nonna Giulia Mesa. Aveva inoltre un carattere docile e rifuggiva dal sangue. Anche Severo Alessandro aveva i suoi difetti, e li rivelò presto. Estremamente debole, privo di carattere e mite, era alla mercé delle donne della famiglia, non esclusa la moglie Orbiana. Con Severo Alessandro imperatore, il Senato ritenne di poter limitare la supremazia del regime militare e di riprendere nelle sue mani le leve del governo. Sotto il nuovo principe i senatori tornarono a far sentire la loro voce. Fu eletto uno speciale organismo che indicava a Severo Alessandro la via da seguire. Il comitato era composto da patres guidati dal nuovo prefetto del pretorio, il famoso giurista fenicio Domizio Ulpiano, in accordo con Giulia Mamea e Giulia Mesa. Ma la collaborazione fra questi personaggi non servì a migliorare le condizioni dell’impero. La grave situazione delle casse statali costrinse l’imperatore e i 570
suoi consiglieri a prendere drastici provvedimenti in tema di finanze. Furono aumentate le tasse, in particolar modo le imposte dirette ai danni delle popolazioni rurali. Molti contadini reagirono dandosi alla macchia e al brigantaggio. Perciò le vie dell’impero divennero ancor più insicure a causa delle continue aggressioni cui erano sottoposti i commercianti durante i loro viaggi. Il Consiglio del principe intervenne pesantemente nel ridurre le paghe alle truppe. Il provvedimento sollevò tumulti e ribellioni tra i soldati che non volevano perdere il beneficio delle larghe elargizioni alle quali Caracalla ed Eliogabalo li avevano abituati. Avita Mamea e il figlio, l’imperatore Severo Alessandro, furono tacciati di avarizia. A questa accusa seguirono nelle strade di Roma sanguinose rivolte popolari. Per tre giorni la città fu il palcoscenico di scontri cruenti fra il popolo e gli odiati pretoriani che difendevano con accanimento la famiglia imperiale. Domizio Ulpiano, il prefetto del pretorio che cercava una via di mezzo per accontentare tutti, pagò duramente il suo generoso tentativo. Fu catturato dai suoi stessi pretoriani, condotto alla presenza dell’imperatore e sotto i suoi occhi selvaggiamente trucidato. Non era abbastanza. Un’altra grave minaccia proveniva dai confini orientali. Già nel 227 il re dei parti, Artabano V, era stato sconfitto dal sovrano di Persia, Artaserse, della dinastia sassanide, il quale mirava a fondare un grande impero che andasse dall’India al Mar Egeo. Verso il 230 le truppe persiane avevano invaso la Siria e la Cappadocia, massacrando le guarnigioni romane. La minaccia di un grande impero particopersiano era estremamente grave per Roma e per l’intero 571
Occidente, sicché Giulia Avita Mamea cercò di opporsi alla sciagura allestendo una spedizione per affrontare quello spaventoso Artaserse. Con il figlio Severo Alessandro corse ad Antiochia dove aveva raccolto un forte contingente di truppe richiamate a marce forzate dal Reno e dal Danubio. Esplodevano ancora le ribellioni. In Siria le milizie avevano ceduto a un usurpatore, Uranio, che elessero imperatore col nome di Uranio Antonino. Anche in Egitto aveva avuto il sopravvento un altro ribelle, un Taurino, proclamato Augusto. Queste rivolte furono presto sedate e gli usurpatori scacciati, ma tutti capirono quanto fosse debole il governo dell’imbelle Severo Alessandro e di quanto fosse in balia dei turbolenti legionari. Per fronteggiare la minaccia persiana lo stato maggiore dell’imperatore decise di suddividere l’esercito in tre colonne. La prima si sarebbe mossa dalla Cappadocia per passare in Armenia; la seconda avrebbe occupato Babilonia, mentre la terza, comandata da Severo Alessandro, sarebbe dovuta penetrare in Mesopotamia e quindi riunirsi alle altre due oltre il fiume Tigri. In Armenia le operazioni delle legioni ebbero successo e respinsero i persiani oltre l’Eufrate. La colonna di Alessandro procedeva troppo lentamente frenata dalle preoccupazioni di Giulia Mamea che cercava di evitare al figlio pericolosi scontri fisici. L’amorevole genitrice inventò perfino che Alessandro si fosse ammalato a causa delle condizioni climatiche della Mesopotamia. E con questo pretesto la corte imperiale si rifugiò nelle retrovie. Gli esperti arcieri persiani costrinsero le altre colonne a ritirarsi, e fu il crollo della spedizione. I legionari erano profondamente delusi. Soltanto un cospicuo donativo in sesterzi poté risollevarli. Artaserse non 572
sfruttò la vittoria, non passò al contrattacco, per cui nel 233 l’imperatore era nuovamente a Roma. La guerra si spostava al Nord. Le tribù germaniche avevano ripreso a premere pericolosamente lungo il confine del Reno, tanto che le legioni erano state costrette a ritirarsi sulla riva destra del fiume. Severo Alessandro arrivò controvoglia a Magonza, predispose un ammassamento di truppe, costruì sul Reno un ponte di barche e si apprestò all’azione. Poiché non ardeva in lui il fuoco belluino di Marte, prima di muovere in armi inviò ambasciatori di pace ai germani con l’offerta di enormi somme. Nell’attesa di una risposta indugiava nei giochi preferiti fra corse di cavalli e feste carnascialesche dando un cattivo esempio ai soldati che non erano da meno al loro strambo imperatore. In quella folle situazione prendeva corpo una sedizione militare capitanata da un istruttore delle truppe, assai rozzo, di corporatura gigantesca, infaticabile e temerario, di oscura origine trace contadinesca. A dispetto della figura gigantesca costui si chiamava Massimino, Giulio Vero Massimino. All’inizio era stato un fedele seguace di Severo Alessandro, ma ben presto, non ravvisando più alcuna ragione per continuare a sostenere la famiglia dei Severi, pensò di mettersi in proprio capeggiando una ribellione. I soldati lo seguirono con tanta rapidità e decisione che nel marzo del 235, a Magonza, lo proclamarono imperatore con l’imposizione di un manto di porpora. La sua figura era illuminata dai biondi capelli. Con lui, per la prima volta, un soldato che proveniva dai più bassi gradi dell’esercito saliva a tale dignità. Il campo di addestramento dove era avvenuta la cerimonia 573
dell’investitura distava appena un giorno di marcia dal luogo in cui risiedeva lo stato maggiore imperiale. Alessandro, appresa la notizia, benché colto dalla disperazione e dalla paura, ancora sperava nell’appoggio delle legioni. Chiese loro aiuto, e sulle prime i legionari non glielo negarono. Ma non appena i ribelli che lo avevano proclamato imperatore furono nei pressi del suo stato maggiore tutto mutò. Severo Alessandro, terrorizzato, corse a rifugiarsi nella tenda della madre Giulia Mamea, piangendo e rimproverandola di averlo condotto a tal punto per la sua incontenibile ambizione. Così ravvisava in lei una nuova Agrippina che lo aveva fatto suo succube come era successo a Nerone. Breve fu la fuga di Alessandro perché, raggiunto dai ribelli e abbandonato dalle truppe orientali che erano a loro volta insorte, fu ucciso, ventisettenne, insieme alla madre e ai più vicini cortigiani. Era il 19 marzo del 235. Severo Alessandro aveva regnato per tredici anni. Roma entrava in uno dei periodi più oscuri e tragici, torbidi e violenti. Era una fase di anarchia in cui la spada aveva il totale sopravvento. I romani erano caduti in una infinita guerra civile aggravata da continui sconvolgimenti alle frontiere. Chi erano, ormai, i figli di Roma? L’ascesa al potere di Massimino il trace comportò il trionfo dell’esercito e in particolare delle legioni imbarbarite. Il Senato, imbelle e terrorizzato, si sottomise alle ragioni della forza e riconobbe il nuovo principe. Massimino era l’esatto contrario del suo giovane e moderato predecessore che pur qualcosa di buono aveva fatto per Roma. Aveva riconosciuto l’autorità del Senato; riorganizzato lo Stato, anche se in maniera sommaria, affidandola a grandi giuristi come Ulpiano. Massimino aspirava 574
a regnare quale monarca assoluto. Esiliò molti fra i funzionari statali nominati da Alessandro, altri li condannò a morte. Sciolse il Consilium principis che ormai dava più fastidio a lui che ai senatori. I patres furono i primi a prendere l’iniziativa per spodestare il barbarico imperatore. Approfittarono della lotta che, in seno alle truppe, contrapponeva i soldati di origine barbara – che appoggiavano Massimino – alle milizie italiche. Organizzarono un complotto cui presero parte senatori, centurioni e semplici soldati. I cospiratori prevedevano tatticamente che, una volta avviata la campagna in Germania, avrebbero fatto crollare il ponte di barche sul Reno nell’esatto momento in cui Massimino lo avrebbe attraversato. La cospirazione venne scoperta, e l’imperatore poté lanciarsi in una cruenta repressione che lasciò sul terreno quattromila morti. Le ribellioni continuarono. Ad ammutinarsi furono gli arcieri siriaci, i quali proclamarono imperatore un ex console, Tito Quartino, che pure aveva resistito a quella nomina. Quartino, un personaggio fedele a Severo Alessandro, era stato allontanato dall’esercito al momento dell’ascesa di Massimino. Ma la sorte di Quartino doveva essere ben diversa. Difatti, proprio da uno dei suoi sostenitori, un certo Macedonio, fu catturato e ucciso. Macedonio ne portò la testa a Massimino, il quale, nel ringraziare, tagliò la testa anche al porgitore. Le fondamenta dell’impero si sbriciolavano, e lo stesso governo di Massimino poggiava su un terreno instabile. L’imperatore trace cercava di arginare la frana che rischiava di travolgere Roma gettandola nell’anarchia, preda dei popoli barbari. Da rozzo soldato pensò che per cementare lo Stato non ci fosse miglior rimedio di una guerra. Scelse come obiettivo la 575
Germania dove riprese l’azione di Severo Alessandro che non l’aveva continuata. Sempre in quel 235, in estate, varcò il Reno attraversando il ponte costruito da Severo nei pressi di Magonza. Con devastazioni e massacri travolse la resistenza delle popolazioni che pure si difendevano con vigore. Quando però le legioni, avanzando, penetrarono nelle fitte e oscure foreste germaniche disseminate di paludi, la situazione si fece per loro più difficile. Sarebbero state sconfitte se Massimino, con la possanza e l’impeto selvaggio di cui disponeva, non si fosse scaraventato all’impazzata contro il nemico il quale riteneva di essere ben difeso dalle asperità del terreno. Le truppe ripresero coraggio e lui le condusse a una insperata quanto decisiva vittoria. Era già sopraggiunto l’inverno, e la campagna germanica poteva dirsi conclusa. Massimino passò allora nelle regioni della Pannonia da dove pensava di sferrare con la buona stagione un nuovo attacco contro i germani. Il suo ambizioso piano era di porre sotto l’impero tutta la Germania, fino alle coste settentrionali, per farne una Germania romana. Ma la disastrosa situazione in cui versava l’Urbe non gli consentì di realizzare questo sogno. Il deficit dello Stato era allarmante, l’esercito ingoiava gran parte delle entrate, ed era ormai impossibile, oltre che paurosamente impopolare, aumentare ulteriormente le tasse. Ancora una volta si ricorse alla vessatoria confisca dei beni degli appartenenti ai danarosi ceti aristocratici, tutti legati al Senato. S’instaurò un regime di terrore che ebbe come bersaglio l’alta burocrazia imperiale. Molti funzionari tra i più facoltosi furono condannati all’esilio, altri furono condannati a morte. Il popolo se ne stava tranquillo davanti a queste spoliazioni 576
che non lo riguardavano se non per l’intima soddisfazione che ricavava nel veder soffrire gli abbienti. Ma quando Massimino cominciò a saccheggiare i tesori dei templi e a confiscare il denaro destinato alle feste e ai giochi, scoppiarono anche fuochi di ribellioni popolari. La più rumorosa fra le esplosioni di violenza si ebbe in Africa nella primavera del 238, dove il procuratore addetto alle tasse era un fedele quanto spietato esecutore degli ordini di Massimino, per cui angariava inesorabilmente tutti gli alti burocrati di quelle regioni. In Africa il proconsole Marco Antonio Gordiano, ottantenne, era ricco e di nobile famiglia. Anche lui si aspettava di dover subire da un momento all’altro un provvedimento di confisca. Erano i giorni in cui venivano sequestrate le proprietà di alcuni latifondisti della città di Tisdro, presso Cartagine. Il clima si era fatto pesante tanto che i capi di quei latifondisti decisero di ribellarsi alle spoliazioni. Chiamarono i fittavoli, gli schiavi e chiunque fra i cittadini fosse disposto a seguirli; li armarono sommariamente e tutti insieme mossero all’attacco degli uffici del fisco uccidendone il procuratore. Nella primavera di quell’anno il proconsole Gordiano si trovava casualmente a Tisdro, e i rivoltosi lo proclamarono imperatore, mentre il figlio, che aveva il suo stesso nome e che veniva riconosciuto con l’appellativo di Minore, fu acclamato Augusto e quindi coreggente. Gordiano si trovò tra le mani un esercito che, sebbene improvvisato, gli servì per marciare su Cartagine e mostrarsi degno della proclamazione. Il governatore della Numidia appartenente al partito filosenatorio, Capelliano, appoggiò la rivolta, sicché Gordiano da un lato inviò propri ambasciatori a 577
Roma per informare il Senato della sua nomina, dall’altro lato ordinò ad alcuni suoi scherani di uccidere Vitaliano, il capo dei pretoriani fedele a Massimino. Nel Foro di Roma i legati di Gordiano divulgavano la falsa notizia della morte di Massimino. I pretoriani e i partigiani del principe trace si disorientarono, e lasciarono campo libero al partito senatorio che sosteneva Gordiano. Non meno disorientato era il popolo romano, ma già intenzionato a distruggere le statue di Massimino e a uccidere i suoi più fedeli seguaci. Gli imperatori si susseguivano e si accavallavano. I romani, sia gli abitanti dell’Urbe sia quelli sperduti nelle più remote campagne, non sapevano più chi fosse l’imperatore del momento. Il Senato, senza aspettare la conferma della scomparsa di Massimino, proclamò ufficialmente Gordiano e il figlio Augusti. Ma il trace era vivo e vegeto in Pannonia, pronto ad assalire con ferocia l’Italia in difesa dei suoi diritti contro il Senato. Tragiche erano le condizioni in cui si trovavano i senatori. Nel marzo del 238 Gordiano era ancora in Africa, e l’Italia era sguarnita. Si decise allora di eleggere un comitato di venti personaggi chiamati a organizzare la resistenza al trace e alle sue legioni. Il comitato aveva due presidenti: l’ex prefetto di Roma, Marco Clodio Pupieno, di umili origini ma esperto generale, e il consolare Decimo Celio Balbino, esponente della più scelta aristocrazia dell’Urbe. Furono prontamente costruite fortificazioni, reclutate truppe e inviati ambasciatori con l’incarico di sollevare le popolazioni contro Massimino. In Numidia, il governatore Capelliano, che all’inizio aveva sostenuto Gordiano, era caduto in disgrazia ed era stato destituito dalla carica. Irato e offeso, Capelliano era passato dalla 578
parte del trace e aveva marciato su Cartagine. La città era quasi indifesa. Pochi erano i soldati al comando di Gordiano Minore, il quale cercò egualmente di resistere con le sue modeste forze. Ma dovette cedere ai soldati numidi di Capelliano, cadendo nello scontro. E non era imperatore che da ventidue giorni. Il padre, il vecchio Gordiano, si toglieva la vita per la disperazione. La notizia della fine dei due imperatori voluti dal Senato gettò l’Urbe nel terrore, e questa era ormai una condizione abituale per i romani. Il Senato pensò di uscire da quella situazione nominando il successore o i successori dei Gordiano. Ma era una pura illusione. Dopo una lunga e tormentata riunione segreta che si tenne sul Campidoglio, i patres adottarono la soluzione di nominare un collegio di due imperatori, con un rigurgito di una sorta di consolato. La differenza era che i consoli erano temporanei, mentre gli imperatori venivano nominati a vita. Ma questo era ormai un modo di dire poiché si era visto come qualche imprevisto accidente li scacciasse ben presto dalla scena. I prescelti, Pupieno e Balbino, furono i presidenti del comitato di resistenza a Massimino. La plebe, venuta a conoscenza delle decisioni del Senato, scese in piazza furibonda, armata di bastoni, poiché i due imperatori non godevano del suo favore. Fra tumulti, sassaiole e lanci di ortaggi contro Pupieno e Balbino, la folla annunciò inferocita il nome del proprio candidato, volendo dimostrare che anch’essa aveva il potere di nominare un imperatore. Aveva scelto il terzo rappresentante della famiglia dei Gordiano, il nipote tredicenne del proconsole di cui portava lo stesso nome, Marco Antonio Gordiano. 579
Il Senato si trovò costretto ad accettare l’imposizione della plebe. Mandò a chiamare il giovane Gordiano e lo indicò per la successione insignendolo con il titolo di Cesare, un titolo ormai screditato. La resa dei senatori non servì a placare la situazione, tanto che nell’Urbe esplose una nuova guerra civile. Marco Pupieno era partito alla volta di Ravenna per fronteggiare Massimino arrivato in Italia. Balbino si mostrava sempre più debole nei confronti dei disordini popolari. Gli scontri più accesi si verificavano davanti alla caserma degli odiati pretoriani ai quali il popolo tagliò le condotte dell’acqua costringendoli a una sortita e sottoponendoli a una fitta sassaiola. Massimino era al corrente della rivolta dei Gordiano e difatti con le sue truppe già si trovava nella penisola. Vi erano arrivate fra mille stenti per la penuria di viveri, così, quando furono ad Aquileia, l’opulenta città commerciale, il trace la cinse d’assedio con la speranza di poterla saccheggiare per sfamare le sue schiere. La città era munita di valide fortificazioni, e l’assedio non aveva mai termine. Il morale dell’esercito di Massimino andava scemando e cominciarono a serpeggiare alcuni tentativi di ribellione. In una giornata caldissima, nel giugno del 238, verso mezzogiorno, i soldati si erano ritirati nelle loro tende a riposare. Fu l’occasione perché un manipolo di militi della seconda legione partica penetrasse nella tenda dell’imperatore distruggendone le immagini, assalendolo e trucidandolo con tale rapidità da non dargli neppure il tempo di reagire. La buona notizia fu inviata a Marco Pupieno con in dono le teste di Massimino e del figlio. Pupieno raggiunse rapidamente Aquileia per festeggiare le truppe ed elargire sesterzi. Con altrettanta rapidità fu di ritorno a Roma facendosi seguire dai 580
suoi pretoriani e dalle truppe del Reno, cui era affezionato essendo stato legatus in quelle regioni. Tuttavia ben presto nacque un’accesa rivalità fra i pretoriani e la guardia germanica. I primi rimpiangevano Massimino, mentre i germani sostenevano i due nuovi imperatori voluti dal Senato e che per i senatori costituivano una grande vittoria. Fra Pupieno e Balbino, una volta cessato il pericolo che aveva nome Massimino, si accesero cruenti rivalità. Pupieno era in difficoltà con i patres conscripti a causa delle sue umili origini. Lo definivano un arrampicatore sociale, benché abile, e gli preferivano il nobile Balbino. Era il luglio del 238. I due imperatori si trovavano contemporaneamente a Roma dove si svolgevano i Giochi capitolini che avevano restituito un po’ di buonumore alla popolazione. A palazzo si sparse la notizia che i pretoriani si stavano dirigendo con aria minacciosa sul Palatino. Pupieno avrebbe voluto ricorrere alle fedeli guardie germaniche, ma Balbino glielo impedì sospettando che il collega volesse spodestarlo. I pretoriani piombarono nel palazzo imperiale mentre i due cosiddetti colleghi ancora discutevano su che cosa fare. I soldati li assalirono con facilità, strapparono loro di dosso le vesti regali e li trascinarono lungo le vie della città sbeffeggiandoli e schiaffeggiandoli. Le guardie renane, anche se troppo tardi, accorsero in difesa degli imperatori, ma questo intervento non servì che ad affrettarne la fine. Difatti Pupieno e Balbino furono subito uccisi e i loro cadaveri, orribilmente sfigurati, vennero abbandonati ai gabbiani del Tevere. I militari avevano così sconfitto il Senato. Una nuova vittoria la ottennero con Gordiano. Il tredicenne nipote del proconsole 581
Marco Antonio Gordiano, che già era stato indicato per la successione al trono, fu infatti acclamato dai pretoriani imperatore di Roma col nome di Gordiano III. Le truppe del Reno tacquero. Il nuovo sovrano era un pupazzo manovrato dalle truppe del pretorio comandate da Furio Sabino Timesiteo e dalle milizie germaniche sotto la reggenza della madre Mecia Faustina, figlia di Gordiano I. Timesiteo era stato un fido esattore di Massimino in Asia Minore. Era un abile diplomatico, e uomo di discreta cultura che seppe destreggiarsi sagacemente per tenere in equilibrio esercito e Senato. Seppe anche fare i propri interessi personali dando in sposa a Gordiano III sua figlia, Furia Tranquillina, e diventando co-reggente dell’impero, per quanto non in veste ufficiale.
582
III Roma trascorreva giornate di calma, di serenità apparente. Nuovi pericoli provenivano dai confini orientali. Morto il re persiano Artaserse, il nuovo sovrano di quelle terre, Sapore I, era penetrato col suo esercito in Siria avendo per meta il Mediterraneo. Il Mediterraneo era il mare di Roma, Mare nostrum, il mare interno dell’impero, ed era alla base della sua potenza. I popoli che vi si affacciavano erano affini agli abitanti dell’Urbe, per tradizione e per cultura; i popoli orientali avevano altre origini, altra storia, e non vedevano in Roma un faro di civiltà. Il giovane principe Gordiano III, sotto la guida di Timesiteo, partì per l’Oriente. Lungo la via le legioni sconfissero la tribù dacia dei carpi che si era data al saccheggio della Mesia. Si batterono anche contro i persiani, e in una prima fase sembrava che tutto andasse nel migliore dei modi poiché i romani conquistavano le città di Carre e di Nisibi, nella Mesopotamia del nord. Ma un fatto imprevisto mutò il corso degli eventi. Assalito, come si disse, da forti dolori allo stomaco, Timesiteo, che già marciava su Ctesifonte, moriva in poche ore. In realtà era stato ucciso e sembrava che l’omicidio fosse stato perpetrato dal suo luogotenente Marco Giulio Filippo. Questo Giulio Filippo – che era figlio di un certo Marino, uno sceicco romanizzato della Traconidite o più probabilmente capo brigante – fu immediatamente posto da Gordiano III alla testa 583
dei pretoriani. Tale nomina era ben poca cosa per l’ambizioso arabo, il quale mirava a ben altro, e cioè a spodestare l’adolescente principe. Con questo obiettivo manovrò in modo di scontentare le truppe e di far ricadere la colpa su Gordiano, compresa la responsabilità dei mancati rifornimenti di vettovaglie. I soldati si ammutinarono sospinti dallo stesso Filippo, il quale li indusse ad assassinare il giovane Gordiano. Quindi propose se stesso come nuovo imperatore. La sua proclamazione avvenne l’11 febbraio del 244. Aveva quarant’anni. Il nuovo principe, per gettare fumo negli occhi, dispose che la sua vittima fosse divinizzata e che si costruisse in suo onore un grandioso monumento sull’Eufrate. Conclusa una frettolosa pace con Sapore I, riuscendo tuttavia a non perdere la Mesopotamia, Filippo, detto l’Arabo partì alla volta di Roma per presentarsi al Senato e ai cittadini dell’Urbe. Arrivò a Roma nel luglio successivo. Popolo e istituzioni lo riconobbero più o meno volentieri, sebbene egli avesse dispensato grandi donativi. Sull’onda di questo consenso, che non convinceva tutti poiché gravi erano i sospetti sui suoi comportamenti, si mise a nominare nei posti di responsabilità gli uomini più fedeli a lui o che egli credeva tali. Conferì il titolo di Cesare al figlio di appena sette anni chiamandolo Marco Giulio Severo Filippo per poi farlo assurgere, decenne, a coreggente dell’impero col titolo di Augusto. Alla moglie diede il nome di Marcia Octalia Severa eleggendola a sua volta alla dignità di Augusta. Il padre Marino fu onorato quanto un imperatore. Al fratello Caio Giulio Prisco affidò le guarnigioni siriache. Il genero Severiano divenne governatore della Mesia e 584
della Macedonia. Con il Senato cercò di mantenersi in buoni rapporti. Lasciò presto la capitale per recarsi a combattere in Mesia e in Dacia, quindi riprese la strada dell’Urbe. A un imperatore arabo e non a un romano, quasi per ironia della sorte, toccò di celebrare un grandissimo evento per l’impero, cioè il millenario della fondazione di Roma. I festeggiamenti cominciarono il 21 aprile del 248 e si protrassero solennemente per tre giorni e tre notti. Pochi romani presero sonno in quell’occasione che li inorgogliva e li esaltava nonostante il collasso di cui era vittima lo Stato. La crisi era a tutti evidente, anche ai più distratti, anche ai più fortunati. Per tre notti lungo il Tevere vennero celebrati sacrifici agli antichi dèi, i quali però davano l’impressione di non amare più Roma. Ma nessuno avrebbe più potuto cancellare dalla terra la città eterna: era questa la convinzione dei romani. L’Urbe era in festa, musiche e canti si diffondevano in tutta Roma dal Campo Marzio che era illuminato a giorno da immense torce. I giochi commuovevano e stupivano per la loro magnificenza i cittadini e chiunque si era riversato nelle strade per godere del millennio d’una città che era stata fatta grande non soltanto da Cesare, da Augusto o da Adriano, ma anche giorno per giorno da ognuno dei romani. In Oriente Giulio Prisco, il fratello di Filippo, mostrandosi rigoroso e avido esattore del fisco, suscitava ondate di malcontento. L’ennesima ribellione non tardò a esplodere, seguita in ogni luogo da tumulti grandi e piccoli. Dalla sera alla mattina, in Siria i rivoltosi proclamarono imperatore un certo Jotapiano, ma vennero battuti con altrettanta celerità. Insorsero i seguaci di un sacerdote di Emesa, Giulio Aurelio Sulpicio 585
Uranio Antonino, dal nome troppo lungo e dal regno troppo breve. Un’altra violenta quanto inutile rivolta fu quella delle legioni danubiane che portarono sugli scudi un Tiberio Claudio Marino Pacaziano. I romani dicevano che ormai le legioni si giocavano gli imperatori ai dadi. Lungo i confini danubiani tornarono a farsi minacciosi i barbari carpi. Sconfitti i carpi, insorsero temibili i goti. Le legioni inviate a difendere i confini, invece di combatterli si accordarono con loro e aprirono le porte all’invasione. Nei territori di Roma irruppero in trentamila. Avevano passato il Danubio presso le foci ed erano penetrati nella Mesia inferiore. I goti che si erano alleati con i carpi, decisero di ritirarsi soddisfatti del bottino. I soldati che li avevano lasciati passare temevano una terribile reazione da parte del principe Filippo, e decisero di prevenirlo con una ribellione. Si unirono ai barbari ed elessero, com’era ormai consuetudine, un proprio imperatore nella persona di un semplice centurione di nome Marino. Filippo l’Arabo inviò contro i ribelli un forte contingente di truppe agli ordini del quarantasettenne praefectus urbis Caio Messio Quinto Decio, un uomo di tempra dura, nativo della Pannonia ed esponente dell’alta società romana. Egli riportò l’ordine fra le legioni e ottenne molte vittorie sul nemico. Le schiere se ne entusiasmarono, e per quanto lo temessero vollero proclamarlo imperatore contro la sua stessa volontà, dopo aver trucidato il povero Marino. A Quinto Decio piacque a tal punto il nuovo ruolo di Augusto, da aggiungere ai suoi nomi anche quello di Traiano e da porsi alla testa dell’esercito, ribelli compresi, per calare in Italia. Aquileia e Concordia gli aprirono spontaneamente le porte pur essendo città fortificate poste in 586
difesa dei confini. Filippo corse ad affrontarlo, e lo attaccò nei pressi di Verona. Lo scontro si concluse con la sconfitta e la morte dell’arabo. Alla notizia del disastro i pretoriani a Roma si gettarono sul figlio di Filippo. Lo catturarono e lo trucidarono ancora giovinetto. La damnatio memoriae si abbatteva sull’imperatore defunto e sull’intera sua famiglia. Quinto Decio prendeva nelle mani un regno tutt’altro che facile. Lungo il Reno e il Danubio si ammassavano intere popolazioni barbare assai ostili, mentre la situazione economica peggiorava. Inoltre una micidiale pestilenza che proveniva dall’Egitto raggiungeva Roma e si diffondeva in tutto l’impero per la durata di una quindicina d’anni. I culti orientali, sebbene da tempo fossero presenti nell’Urbe, attecchivano più profondamente e si estendevano fra i romani, minandone le antiche tradizioni. Il cristianesimo appariva come la più pericolosa fra le religioni poiché in nome del monoteismo ripudiava l’intero pantheon romano e osteggiava l’uso di adorare gli imperatori come divinità. Ai cristiani si addebitava la colpa della diffusione della peste, poiché rifiutavano di partecipare ai riti pagani per placare l’ira degli dèi che si manifestava con l’esplosione di grandi calamità. Si ebbe una netta svolta tra la fase dominata da Filippo l’Arabo, il quale chiedeva di rispettare le credenze dei cristiani e degli ebrei, e l’epoca vessatoria di Quinto Decio. Il nuovo imperatore Decio promosse nel 250 la prima grande persecuzione dei cristiani che non erano più una delle tante sette orientali, ma che già svolgevano nella società un’azione fortemente rivoluzionaria. Egli impose ai cittadini di dichiarare 587
pubblicamente a quale fede appartenessero, pena il carcere e la confisca dei beni. Messio Quinto Decio nominò co-reggenti i suoi due figli, Erennio Etrusco Messio e Ostiliano Messio. Mantenne buoni rapporti col Senato, restaurò l’antica funzione repubblicana della censura affidandola a uno stimato senatore, Licinio Valeriano. Erano questi i primi passi verso importanti riforme politiche, ma l’imperatore dovette interromperne l’attuazione costretto ad accorrere richiamato dai sommovimenti sul fronte danubiano, eterna spina nel fianco di Roma. Sempre nel 250 un’orda di settantamila goti, guidati dal loro abile sovrano, Kniva, aveva attraversato il Danubio ed era penetrata nella Mesia. Il comandante romano in quella provincia, Caio Vibio Treboniano Gallo, aveva cercato di arrestarla presso Novae (Sphistoba), ma la massa barbarica procedeva tra i monti balcanici come un fiume in piena, travolgendo irrefrenabile ogni cosa al suo passaggio. Arrivati a Nicopoli, i goti proseguivano minacciosi attraverso strettoie montuose verso Adrianopoli, il cuore pulsante della Tracia romana. Il governatore della Macedonia, Lucio Prisco, si era arroccato nel fortilizio di Filippopoli e tentava di resistere in attesa dell’arrivo di Quinto Decio che con i rincalzi proveniva a marce forzate dall’Italia. Decio fu pesantemente sconfitto dai goti. Lucio Prisco diffuse la falsa notizia della morte dell’imperatore, allo scopo di aprire una trattativa con i goti in base alla quale lui avrebbe ceduto la roccaforte di Filippopoli ottenendo in cambio la proclamazione a imperatore. Filippopoli fu invece ignobilmente saccheggiata, diecimila dei suoi abitanti furono trucidati, e Prisco perse la partita. Decio, 588
che era vivo, si affrettava a formare un valido esercito sul Danubio per attaccare i goti a nord di Nicopoli. Gli scontri furono terribili e in essi Decio e il figlio Erennio Etrusco persero la vita ad Abritto nel 251. Le spoglie del primo imperatore che cadeva combattendo i barbari non furono mai più trovate essendo scomparse nella palude che dominava la regione. Fra i legionari circolò la voce che il vero colpevole della morte di Decio fosse stato Treboniano Gallo il quale, abboccatosi con i goti, avrebbe indotto l’imperatore in un tranello. Tuttavia fu proprio Treboniano, acclamato dall’esercito, a prendere il posto di Decio, essendo il più valido collaboratore dell’estinto e a lui il più vicino. Treboniano si fornì di due coreggenti, come usava fare ogni imperatore per precostituirsi gli eventuali successori. Essi erano suo figlio Volusiano e il figlio di Decio, Ostiliano, che poco dopo morì di peste. Treboniano stipulò con i goti una pace deleteria per Roma poiché permetteva ai barbari di ritirarsi col bottino, dopo essersi assicurati un tributo annuo. Non erano trascorsi due anni che già i goti avevano nuovamente attraversato il Danubio, ma questa volta il mauritano Marco Emilio Emiliano, governatore della Mesia inferiore, riuscì a infliggere al nemico una tremenda sconfitta. Rianimate da un folle entusiasmo, le legioni lo proclamarono imperatore da un momento all’altro nel 253. Le truppe con a capo Emilio Emiliano calarono precipitosamente su Roma senza incontrare la benché minima resistenza. Nel luglio dello stesso anno si scontrarono a Interamna con Treboniano. Vinse Emiliano. Treboniano fu ucciso dai suoi stessi soldati, che forse lo avevano voluto punire della sconfitta. Il Senato riconobbe imperatore Emiliano. Anche lui tuttavia 589
era destinato dagli dèi a una rapida fine, e il suo regno non durò che tre mesi. L’ex censore di Decio, Publio Licinio Valeriano, il sessantatreenne comandante delle truppe di stanza in Rezia, osteggiava il principe mauritano e quindi a sua volta calava in Italia proprio per affrontarlo. Non appena avuta questa notizia, nell’ottobre del 253, Emiliano fu ucciso dai suoi stessi soldati. Salì al trono Licinio Valeriano, sempre per volere dei legionari. Egli era ormai l’ennesimo imperatore, un sovrano insignificante in una Roma diventata un’ombra di se stessa. La commedia tuttavia continuava. Il vecchio Valeriano nominò coreggente il figlio Publio Licinio Gallieno, un uomo di trentacinque anni, colto, ma troppo fantasioso per essere un buon imperatore. Era anche incline alla dissolutezza. Tra gli amici annoverava il filosofo neoplatonico Plotino al quale assegnò lo strano incarico di scegliersi una città e di fondarvi una repubblica come sarebbe piaciuta a Platone. All’esplosione di nuove guerre civili si aggiungeva una formidabile riscossa dei barbari, incoraggiati dall’indisciplina che aveva trasformato le legioni in bande disordinate. Di fronte ai gravi problemi dell’impero, Licinio Valeriano ritenne di non poterli affrontare da solo, per cui procedette alla prima, fatale divisione in due parti del dominio romano. Lasciò in Occidente il figlio Licinio Gallieno con i pieni poteri, mentre lui si recava in Oriente, ad Antiochia, per controllare meglio la situazione in quelle regioni. Anche se non politicamente, l’impero era di fatto suddiviso in due tronconi, uno occidentale e l’altro orientale. Le regioni orientali vivevano in una situazione a dir poco tragica. Le coste erano saccheggiate dai pirati, mentre i goti attaccavano l’Asia Minore via mare, conquistando Calcedonia, Nicomedia, 590
Prusa e altre città. Valeriano affrontava coraggiosamente il nemico, ma una nuova pestilenza colpì le legioni e lui fu costretto all’inazione. A loro volta i persiani erano tornati a invadere la Siria raggiungendo Emesa. Gli abitanti della città siriana approntarono una strenua resistenza e riuscirono a respingere gli invasori. Nel 260 Valeriano si mosse per scacciare da Emesa i persiani, ma venne battuto e obbligato a una trattativa di pace col re Sapore I. Il monarca persiano invitò Valeriano a un incontro al vertice, ma quando lo ebbe alla sua presenza lo catturò facendolo schiavo. I persiani sferravano così un grave colpo al prestigio di Roma, e al tempo stesso l’inarrestabile cavalleria di Sapore conquistava le città di Antiochia e di Cesarea. Furono tuttavia ricacciati indietro. Con Valeriano prigioniero di Sapore, Licinio Gallieno, non ancora quarantenne, restava da solo al governo dello Stato. Ed era la prima volta che un imperatore, sebbene appartenesse a un collegio di due sovrani, cadeva nelle mani del nemico. Non meno tragiche erano le condizioni delle legioni ai confini del Reno. Tutti ormai attaccavano l’impero. Nel 256 le tribù dei franchi e degli alamanni infransero le difese romane. Traversando le Alpi gli alamanni penetrarono in Italia, ma, attaccati da Gallieno, furono sconfitti nella valle padana. Nel grande scompiglio che ne seguì le truppe della Pannonia proclamarono imperatore il loro governatore, Ingenuo, che si era ribellato nel 258 a Gallieno. L’usurpatore Ingenuo venne sconfitto da Gallieno a Mursa, sulla confluenza della Drava nel Danubio, e fu ucciso sotto istigazione dello stesso Gallieno dalla sua guardia del corpo, mentre invano cercava scampo nella fuga. 591
Le ribellioni si susseguivano alle ribellioni; altri personaggi ancora salivano rapidamente al potere, ma ne cadevano con la stessa velocità. Un nuovo imperatore sorgeva in Gallia dove le legioni si erano ribellate. La regione si era costituita in Stato autonomo e aveva proclamato suo sovrano Marco Cassiano Latino Postumo, un plebeo che aveva saputo farsi strada. Così cominciava nel 258 un vasto movimento secessionista all’interno dei domini romani. Più non riconoscevano Gallieno neppure le truppe di stanza in Siria, mentre eleggevano imperatore Tito Fulvio Macriano, figlio di uno sciancato cassiere della città di Samosata. Fulvio Macriano rimase ucciso in una battaglia in Tracia. Contro i co-reggenti di Macriano, Giunio e Quieto, prese le armi Settimio Odenato che, avuta la notizia della prigionia di Licinio Valeriano, si era autonominato re di Palmira. Egli assediò Emesa e uccise i due giovani usurpatori. Per la città di Palmira cominciarono gli anni della gloria sotto il regno della moglie di Odenato, la bellissima, colta, valente, raffinata regina di casti costumi, Zenobia, alla quale avevano ucciso il marito.
592
IV Erano esplose nuove sedizioni. Licinio Gallieno si mostrava sempre più distratto, tuttavia affrontò i goti e riuscì a respingerli oltre il Danubio. Il generale Aureolo, nativo della Dacia, aveva affrontato l’usurpatore Ingenuo, i macriani e Marco Postumo. Si ribellava anche a Gallieno. A sua volta l’usurpatore si arroccò in Milano col sostegno della cavalleria, e Gallieno strinse d’assedio la città. Sotto le mura di Milano si ordì una congiura ai danni di Gallieno, il quale, benché fuggisse rapidamente, fu raggiunto da un congiurato che si trovava tra i suoi ufficiali, e ucciso. Era il marzo del 268. In punto di morte il sovrano nominò suo successore il generale Marco Aurelio Claudio senza minimamente sospettare che anche lui fosse fra i cospiratori. Questo Claudio, nato in Dardania, aveva cinquantaquattro anni e aveva fatto sempre il soldato. Il primo a sorprendersi della proclamazione fu lui. Le truppe avrebbero voluto reagire alla notizia dell’assassinio del loro amato imperatore che li aveva governati per quindici anni, ma una cospicua pioggia di sesterzi ne placò gli animi. Claudio, Claudio II, non era però stato scelto a caso fra i generali che cospiravano contro Gallieno. Si era ripresentato il pericolo dei goti poiché essi, suddivisi in due grandi colonne, avevano ripreso ad avanzare occupando i territori balcanici con l’intento di incunearsi fra Oriente e Occidente per spezzare l’impero in due. Claudio, che aveva rapidamente e validamente 593
riorganizzato l’esercito snervato dai suoi predecessori, poté reagire con forza. I barbari si muovevano con un esercito di trecentomila uomini, mentre una flotta di mille e duecento navi si radunava a nord del Ponto con un compito di protezione. Benché ingenti, le forze gotiche non avevano quel senso di disciplina che era tornato ad animare i soldati romani. Ed esse se ne sorpresero. I goti erano piuttosto un’orda selvaggia, con al seguito donne e bambini. Gli scontri ebbero risultati alterni, fra vittorie e sconfitte, ma infine nella Mesia, il nemico fu gravemente battuto. Restarono sul terreno cinquantamila morti. Alla batosta militare si aggiunse un’epidemia di peste che fiaccò del tutto le schiere dei goti. Claudio II venne acclamato con l’epiteto di Gotico, ma non poté godersi a lungo la vittoria poiché nel marzo del 270 fu a sua volta stroncato a Sirmio dalla peste. Aveva designato a proprio successore il comandante della cavalleria Lucio Domizio Aureliano, che le truppe confermavano risollevando il potere dei cavalieri come forza politica. Claudio II aveva un fratello, Quintillo, che venne a sua volta acclamato Augusto, in Italia, ma le sue stesse truppe decisero di sopprimerlo essendo venute a sapere della elezione di Domizio Aureliano. Nato in Pannonia, Aureliano aveva cinquantacinque anni. Le sue origini erano oscure, il padre era un contadino e la madre una sacerdotessa del dio Sole. Si era fatto la fama di soldato esperto, saldo nei principi, ma tendente a compiere atti di eccessiva crudeltà. Fu sollecito nel reprimere ogni sommossa. Non era stato ancora in Italia e già scacciava i vandali che invadevano la Pannonia. Poi fu addosso alla tribù degli jutungi, che pure era stata alleata di Roma, ricavandone una sconfitta a 594
Piacenza nell’inverno dell’anno stesso della sua elezione, il 270. Questi jutungi, insieme agli alamanni, facevano tanto paura nel minacciare di gettarsi sull’Urbe che Aureliano diede ordine di avviare la costruzione in difesa della città di una nuova e possente cinta muraria fortificata che prendeva il suo nome. Consigliò altre città a cingersi di solide mura poiché le forze dello Stato non bastavano più a difendere gli immensi domini. Arrivato a Roma, Aureliano si accorse che nella capitale la situazione era tanto esplosiva quanto quella delle frontiere. Se i confini ribollivano, l’Urbe era scossa da continui tumulti, molti dei quali erano fomentati dal Senato. I patres si agitavano per non perdere completamente l’antica autorità e per contrastare la politica di Aureliano che andava in favore dell’esercito. A Roma una delle maggiori rivolte fu quella della Zecca in cui i monetarii ispiratori rifiutavano che nella moneta si diminuisse sempre più la percentuale di metallo pregiato, oro e argento, con la perdita dell’antico valore. Gli aspetti secessionisti che emergevano nell’impero parvero riassumersi nella condotta della regina Zenobia, che da Palmira aveva esteso i confini del suo Stato all’Egitto e a gran parte dell’Asia Minore, rendendo autonomi i suoi domini al punto di battere moneta propria. Roma non poteva tollerare oltre questa situazione, sicché Aureliano nel 272 apparecchiò una grande spedizione contro Zenobia che si atteggiava a novella Cleopatra imitandone la megalomania. I legionari vincevano e puntavano direttamente su Palmira. Gli scontri furono gravissimi, Aureliano veniva ferito da una freccia, mentre Zenobia cercava la salvezza nella fuga oltre l’Eufrate in groppa a un dromedario. La seguiva il figlio Atenodoro che aveva avuto da Odenato, ma 595
entrambi furono catturati dalla cavalleria romana. Aureliano salvò loro la vita, ma per l’avverso destino i reali di Palmira spirarono insieme mentre pensavano di ritirarsi a Roma. La sconfitta di Zenobia comportava il ritorno del dominio romano sull’Egitto e sulla Mesopotamia. Tuttavia gli abitanti di Palmira ebbero ancora la forza di ribellarsi alle legioni eleggendo un Antioco a loro nuovo re. Aureliano, che era già in viaggio per Roma, fece dietrofront, tornò a Palmira e la distrusse totalmente, lasciando al suo posto un accampamento militare romano. Compiuta questa spedizione, Aureliano fu a Roma nel 274 importandovi il culto del dio Sole e cercando di imporlo come culto di Stato. Edificò un sontuoso tempio a questa divinità e proclamò il 25 dicembre giorno di festa in onore del nuovo dio di cui l’imperatore si era fatto supremo sacerdote. In Oriente era tornata la calma, e i territori erano nuovamente riuniti sotto il vessillo imperiale. Restava l’interrogativo della Gallia. Qui il pericolo maggiore era costituito dai bagaudi, che in celtico significava combattenti. Erano coloni e schiavi che già in precedenza si erano ribellati operando saccheggi e depredazioni. Il sovrano dell’Imperium Galliarum, Caio Pio Esuvio Tetrico, era assai debole sebbene fosse sostenuto dai più ricchi possidenti della regione. Nel 273 Aureliano gli mosse guerra, e Tetrico in preda allo spavento si consegnò nelle mani dei romani. Sapore I era morto. Aureliano, che pensava di approfittare della confusione che il luttuoso evento aveva creato fra i persiani, corse in quelle regioni. Ma a Bisanzio, nel gennaio del 275, cadde vittima di una congiura ordita da alcuni suoi generali. Il cadavere fu sepolto a Sirmio, senza che nessuno si 596
preoccupasse di trasportarlo a Roma, per cui Aureliano fu il primo fra gli imperatori romani, grandi e piccoli, a non avere un sepolcro nell’Urbe. Il fatto apparve grave, anche rispetto al destino di quei sovrani di cui, colpiti a morte nelle più avventurose circostanze, non si erano più trovate le spoglie. Al complotto contro Aureliano non era certo estraneo il Senato, il quale compiva un estremo e disperato tentativo per riconquistare almeno in parte la perduta autorità politica. Trascorsero sei mesi di sede vacante prima che si trovasse una soluzione. Alfine un senatore settantacinquenne di Terni, Marco Claudio Tacito, fu il successore del defunto. Il suo regno fu brevissimo, durò soltanto sei mesi tra la fine del 275 e l’inizio dell’anno successivo. Egli credeva di essere un Traiano redivivo, ma non riuscì a concludere nulla cadendo come altri vittima sotto le pugnalate dei suoi stessi soldati. In questo tragico gioco, imposto impunemente e con frequenza dalle truppe, avvenne che i successori di Claudio Tacito fossero due. Alcune legioni occidentali elessero il suo fratellastro, Marco Annio Floriano, prefetto del pretorio; mentre le schiere siriache proclamarono Marco Aurelio Probo, un ex generale di Aureliano. I due personaggi stavano per scontrarsi in Asia Minore quando, alla vigilia della battaglia, Annio Floriano fu abbattuto dai suoi militi nel luglio del 276. In tal maniera Aurelio Probo restava l’unico imperatore di Roma. Buon politico e rigoroso militare, Probo, nato a Sirmio, si trovò a combattere contro franchi, alamanni, burgundi e senoni che erano penetrati in Gallia. Li ricacciò oltre il Reno per continuare la marcia fino al Danubio sconfiggendo i vandali. Passò in Asia Minore dove annientò l’irriducibile popolazione 597
montanara degli isauri. Mentre era impegnato sul fronte orientale, i franchi, a Lione, proclamarono imperatore Proculo di Albegna, e con lui si dettero alle incursioni piratesche sulle coste della Sicilia e dell’Africa. Proculo l’usurpatore fu ben presto eliminato, e al suo posto fu eletto il generale Bonoso contro il quale marciò Probo sconfiggendolo. Altre rivolte esplosero in Britannia, mentre in Siria, nel 280, veniva eletto dai soldati un altro usurpatore, il generale Giulio Saturnino che fu sconfitto e ucciso ad Apamea da Probo. Finalmente nei domini di Roma ci fu un momento, se non di pace, almeno di tranquillità. Si era nel 281, e Probo poté celebrare un trionfo nell’Urbe. Si preoccupò di riassestare il bilancio dello Stato. In lunghi anni di guerre esterne e di guerre civili, interi territori dell’impero erano rimasti incolti; i commerci si erano essiccati, la manodopera veniva assorbita dagli eserciti. Probo cercò di rivitalizzare l’agricoltura impiegando le milizie nei lavori dei campi, ma i soldati preferivano combattere anziché coltivare la terra. Da questa scontentezza scaturì una nuova ribellione. In un caldo giorno dell’estate del 282, Probo, presso Sirmio, sovrintendeva ai lavori di prosciugamento di una vasta palude. All’improvviso i legionari gettarono vanghe e zappe, imbracciarono le armi e aggredirono l’imperatore. Probo si rifugiava su una vicina torre, ma assalito dai soldati fu ridotto in una miserevole poltiglia e scaraventato giù. In Pannonia le truppe facevano più che mai politica, e proclamarono imperatore Marco Aurelio Caro, il quale poté disattendere il riconoscimento del Senato, tanto forte era la prevalenza degli eserciti. Nominati suoi collaboratori i figli 598
Carino e Numeriano, sconfiggeva i sarmati e i persiani. Occupò la città di Ctesifonte ammassando cospicui bottini. Ma nell’agosto del 283 morì sulla strada del ritorno. Se ne diede la colpa alla peste, sebbene più probabilmente fosse stato vittima del prefetto del pretorio Flavio Apro, che aspirava al trono di Roma. Non riuscì a salirvi poiché Numeriano, che aveva sposato una figlia di Aspro, fu più svelto di lui. Certamente non più fortunato poiché soltanto un mese dopo cadde trucidato per ordine del suocero. Apro tentò di tenere nascosta ai soldati l’uccisione di Numeriano, il cui cadavere fu scoperto nella lettiga nella quale veniva trasportato facendo credere alla gente che fosse ammalato. Neppure l’eliminazione violenta di Numeriano aprì le porte del potere ad Aspro, il quale, riconosciuto colpevole dell’assassinio di Numeriano, fu a sua volta eliminato. Un tribunale composto da generali scelse come successore Caio Valerio Diocleziano, il capo delle guardie del defunto imperatore. Il calendario recava la data del 17 novembre del 284. Dall’uccisione di Commodo era trascorso un secolo, durante il quale si erano susseguiti trentadue imperatori, mentre i non meno numerosi pretendenti avevano tenuto sempre accese terribili guerre civili. Diocleziano aveva quarantasei anni, ed era stato lui personalmente a trafiggere con un colpo di spada il perfido Aspro. Era un ufficiale dalmata, figlio di un liberto di umili origini. Da ragazzo si chiamava Diocle e forse era uno schiavo. Ora gli auspici lo indicavano come colui che avrebbe risollevato l’Urbe e l’impero dall’anarchia che si protraeva da troppo tempo. Ma c’era l’altro figlio di Aurelio Caro – Carino, 599
trentenne – che reclamava il suo diritto all’impero, forte delle truppe occidentali. Quindi, in una nuova guerra civile, Carino affrontò l’esercito di Diocleziano nel maggio del 285 nella Mesia presso il Danubio. Stava quasi per batterlo quando Carino venne ucciso da un tribuno al quale aveva sedotto la moglie. Così, a causa di un banale delitto di gelosia, Diocleziano si ritrovò a essere l’unico signore. Ma la situazione dell’impero era così confusa, e ancor più complicata dall’insurrezione dei contadini della Gallia, che l’imperatore chiamò accanto a sé un coimperatore nella persona d’un soldato assai capace suo amico, Marco Valerio Massimiano, proveniente da Sirmio. Diocleziano decise di non tornare a Roma. Non solo si stabilì a Nicomedia ma ne fece anche la capitale dell’impero, sollevando un putiferio nell’Urbe che per la prima volta perdeva l’antica supremazia. Insomma, Roma non era più il centro dell’universo. Questa scelta, sebbene umiliante per la città che ancora credeva di essere eterna, non era del tutto immotivata. Nicomedia era più vicina ai confini sempre a rischio della Siria, e la dislocazione della capitale ne consentiva un maggiore controllo. Inoltre, mentre l’Occidente era ormai impoverito, l’Oriente, nonostante le guerre che vi si svolgevano, aveva mantenuto una certa prosperità. Diocleziano ornò la nuova capitale di grandiosi edifici e istituì un complicato quanto sfarzoso cerimoniale di corte. Portava un diadema costituito da una fascia bianca ornata di perle; indossava vesti di seta color porpora, ricamate d’oro; aveva ai piedi calzari tempestati di pietre preziose. La corte era formata da un numero infinito di funzionari, ufficiali, guardie del corpo, eunuchi per cui era pressoché impossibile avvicinare l’imperatore. Diocleziano 600
appariva solenne come un dio nel suo corrusco fulgore. Al suo passaggio tutti dovevano genuflettersi. Nonostante tale pompa eccessiva, l’imperatore si rivelò un grande soldato e un accorto uomo politico. Per due anni, dal 285 al 287, combatté vittoriosamente lungo i confini danubiani. In seguito attaccò i persiani ponendo sul trono di Armenia un re vassallo, Tiridate III, e facendo di quella regione un solido bastione dell’impero in Oriente. Nel 290 mosse contro gli arabi, e li scacciò dalla Siria che avevano ampiamente invasa. Per la difesa dei confini occidentali, contro i franchi e gli alamanni, Diocleziano si affidò più che mai al suo fedele amico, l’illirico Massimiano, che era un individuo rozzo e di umili origini, ma anche un grande soldato. Diocleziano lo aveva insignito del titolo di Augusto associandolo nel governo, sicché l’impero si trovava nuovamente diviso in due. Massimiano si era infatti insediato a Milano. Ma Diocleziano, che intendeva essere il primo anche nei confronti del collega, aveva assunto il titolo di Iovius, figlio di Giove, e aveva chiamato Massimiano Herculius, figlio di Ercole, sotto l’usbergo di una solenne consacrazione religiosa. Ancora una volta l’impero ricorreva a una soluzione di collegio consolare come ai tempi della repubblica. La consacrazione religiosa era anche un modo per riconoscere la tradizione del culto pagano come un elemento di aggregazione dello Stato. Diocleziano fece erigere nuovi templi agli dèi romani e ridiede vigore a una forte persecuzione anticristiana. Un suo editto proibiva ai seguaci del Nazareno la pratica del culto, e a loro era interdetta ogni carica sia militare sia amministrativa. Molte comunità cristiane furono devastate, mentre agli aderenti si confiscavano i beni quando 601
non venivano colpiti con condanne a morte. Spuntava, ribellandosi a Massimiano, Aurelio Valerio Carausio, un gallo-romano che, dal nulla, era diventato, per la sua abilità di marinaio, il comandante della flotta al largo delle coste galliche. Da ammiraglio infedele aveva occupato la Gallia settentrionale e la Britannia. Massimiano lo aveva condannato a morte, e lui si era autoproclamato imperatore delle terre invase. Diocleziano si avvide che ormai non bastavano neppure le forze di due imperatori a dominare l’immenso territorio romano e a contenere i sommovimenti interni ed esterni che ne minavano le fondamenta. Scelse perciò la strada di un’ulteriore suddivisione, la tetrarchia. Il 1° marzo del 293 stabilì di nominare due Cesari che avrebbero coadiuvato i due Augusti nel governo dello Stato. Lui scelse come suo Cesare d’Oriente il figlio di un semplice pastore, Caio Galerio Valerio, mentre Massimiano chiamò accanto a sé il nobile Caio Flavio Valerio Costanzo, detto Cloro a causa del suo aspetto estremamente pallido. Questo Cloro discendeva da Claudio il Gotico. Per cementare tale soluzione, i due Cesari furono adottati dal rispettivo imperatore e costretti a ripudiare le loro mogli per imparentarsi con gli Augusti. A Galerio toccò in sposa Valeria, la figlia di Diocleziano. Costanzo Cloro ebbe Teodora, la figliastra di Massimiano, ma lui non lasciò l’amata Elena che divenne la sua concubina e dalla quale aveva avuto un figlio, Costantino, un diciottenne che faceva prevedere qualcosa di grande. Per quanto Galerio e Costanzo risultassero consiglieri e aiutanti degli imperatori, a ognuno spettò il governo di una parte dei domini. Diocleziano regnò sulla Tracia, l’Asia, l’Egitto, mentre il suo Cesare amministrava la penisola balcanica. 602
Massimiano fu sovrano in Italia, in Spagna, in Africa, e Costanzo Cloro aveva la responsabilità della Gallia e della Britannia. Si era di fatto suddivisa la sovranità dell’impero in una diarchia di Augusti e in una diarchia di Cesari. L’istituzione di un siffatto sistema politico, rifletteva Diocleziano, avrebbe consentito una discendenza diretta sul trono di Roma. Avrebbe eliminato le lotte per la successione, l’usurpazione e l’autoproclamazione che avevano a lungo funestato l’impero. Ogni Augusto, dopo aver regnato per venti anni, doveva rinunciare al potere e cedere spontaneamente la carica al corrispettivo Cesare, il quale avrebbe a sua volta nominato un altro Cesare precedentemente adottato. Si sarebbe così garantito allo Stato un meccanismo automatico di successione anche se non svincolato da sempre possibili sorprese. Diocleziano comprese anche la necessità di una riforma amministrativa dell’impero. Portò a cento il numero delle province riducendone le dimensioni, suddivise il territorio in dodici diocesi, rivoluzionò la gestione delle tasse, riformò l’esercito dividendolo in due sezioni: una da impiegare nelle guerre, l’altra destinata a reprimere le ribellioni. Emanò un editto sui prezzi delle merci, fissò tariffe per la retribuzione di agricoltori, fornai, falegnami, muratori, fabbri, ma senza molta fortuna perché ognuno continuava a comportarsi secondo i propri interessi. La suddivisione dell’impero consentiva un più capillare controllo sul territorio e un rapido intervento contro le ribellioni che esplodevano contemporaneamente in vari luoghi. Diocleziano soggiornava spesso per lunghi periodi in Egitto, e nel 296 poté sconfiggere il ribelle Achilleo ad Alessandria dopo 603
un estenuante assedio che si era protratto per otto mesi. Nel 293 Costanzo Cloro dovette occuparsi della Britannia dove ancora regnava Carausio, a dispetto di Roma. Tuttavia prima che egli sbarcasse sull’isola, Carausio fu ucciso dal suo primo ministro, un certo Allectus, che gli strappò lo scettro. Ma assai breve fu il dominio dell’ennesimo usurpatore, e Costanzo poté restituire l’isola a Roma. Il 20 novembre del 303, dopo quasi vent’anni di regno, Diocleziano faceva, già sessantenne, il suo primo ingresso nell’Urbe. Celebrava il trionfo con Massimiano. I trofei conquistati in Britannia, sul Danubio, in Africa ornavano il carro degli Augusti. Il carro era preceduto dalle raffigurazioni dei mari, dei fiumi, dei monti che testimoniavano la vittoria sui persiani. Celebrata così la sua gloria, Diocleziano volle fare ritorno a Nicomedia. Nonostante l’inverno fosse freddo e piovoso, abbandonò Roma, la città che lui, come il lontano Tiberio, non aveva mai amata. Lungo il cammino verso le familiari e accoglienti province illiriche l’imperatore si ammalò. Arrivato a Nicomedia, benché pallido ed emaciato, volle presentarsi in pubblico. Grande fu la gioia dei sudditi e dei soldati. La malferma salute lo aveva rafforzato nel proposito di abdicare dopo vent’anni di regno, rispettando così il termine di durata da lui stesso fissato. Massimiano, troppo attaccato al potere, cercava di dissuaderlo. Ma il 1° maggio del 305, Diocleziano a Nicomedia e Massimiano a Milano lasciarono il regno nelle mani di Galerio e di Costanzo Cloro. Diocleziano aveva radunato il popolo e l’esercito su un colle nei pressi di Nicomedia, davanti alla statua di Giove. Si spogliò 604
del manto imperiale, del diadema e dello scettro. Il suo regno era finito. Si ritirò a vita privata in un gigantesco palazzo nei dintorni di Salona (Spalato) nella natia Dalmazia. Come un novello Cincinnato trascorreva le giornate a coltivare il suo giardino, e quando gli si ripresentò Massimiano per convincerlo a riprendersi l’impero, poiché mal sopportava la lontananza dal potere, il vecchio Diocleziano gli mostrò con compiacimento i cavoli che aveva coltivato nel suo orto con le sue mani. Si spense nella pace aurea del suo palazzo. Era il 313, ed egli aveva sessantotto anni.
605
V La successione, nonostante le ottimistiche riforme dioclezianee, non fu tranquilla per il riaccendersi delle antiche lotte intestine. Il regime tetrarchico andò subito in crisi. Il figlio adottivo di Diocleziano, Galerio, ebbe il compito di nominare i due nuovi Cesari. Furono scelti Flavio Valerio Severo per l’Occidente, mentre per l’Oriente il preferito fu Valerio Massimino Daia. Ma Costanzo Cloro, e soprattutto Massimiano che non voleva rinunciare al potere, si mostrarono insoddisfatti. Il 25 luglio del 306, durante una spedizione contro i pitti in Britannia, Costanzo Cloro morì nel palazzo imperiale di Eburakum. Era trascorso un anno e mezzo dalla sua acclamazione ad Augusto. Le truppe non persero tempo ed elessero imperatore Flavio Valerio Costantino, il figlio che Costanzo Cloro aveva avuto in Illiria, a Naisso, da Elena. Il nuovo sovrano, ventunenne, che era arrivato con il padre in Britannia, scrisse all’imperatore d’Oriente Galerio una lettera nella quale, pur rimproverando le sue truppe di averlo decorato di porpora con inopportuna sollecitudine, sosteneva che il titolo di imperatore gli spettava essendo il figlio di Costanzo Cloro. Galerio ebbe un incontenibile scatto d’ira: stava per dare alle fiamme l’epistola e per ordinare la soppressione del mittente, il giovane Costantino. Ma poi fece buon viso a cattiva sorte. Era troppo rischioso opporglisi, e riconobbe Costantino sovrano delle province transalpine, col titolo di Cesare, mentre conferì a 606
Flavio Valerio Severo il titolo di Augusto. L’Urbe era scontenta di Valerio Severo, per cui Massimiano, approfittando della situazione, candidò suo figlio Marco Aurelio Massenzio alla carica di Cesare dell’Occidente, benché quel giovane ventottenne fosse più dedito alla lussuria che alle armi. L’ex imperatore Massimiano aveva saputo cogliere il momento propizio, e si era servito di due tribuni dei pretoriani e di un commissario dell’annona per suscitare una rivolta fra i cittadini irritati dalle troppe tasse di cui Galerio li aveva gravati. Al popolo si unirono i pretoriani, e tutti insieme acclamarono al rango di Cesare il giovane Massenzio, mentre i seguaci di Valerio Severo venivano trucidati. Massimiano, abbandonato il malinconico esilio in cui Diocleziano lo aveva costretto, riacciuffò l’antico potere autodichiarandosi princeps a Roma. Era il 28 ottobre del 306. Galerio non restava immobile. Ordinava a Valerio Severo di punire Massenzio, ennesimo usurpatore. Fu l’inizio di una nuova lunga guerra che costrinse Severo alla capitolazione e che in conclusione gli lasciò soltanto la scelta di come suicidarsi. Ed egli ricorse al vecchio uso stoico di tagliarsi le vene. Nel marzo di quell’anno Massimiano si recò in Gallia per incontrarsi con Costantino. Portava con sé la figlia Fausta volendo dargliela in sposa, e difatti il matrimonio avvenne ad Arles il 31 marzo, con grande pompa. Così Costantino, oltre a essere diventato genero di Massimiano, fu anche nominato Augusto. Frattanto Galerio, al comando di un cospicuo esercito illirico, mosse contro l’Italia per vendicare la morte di Severo. Da vecchio soldato, Massimiano seppe ben difendersi, e Galerio non poté che sfogarsi in saccheggi e distruzioni senza 607
raggiungere l’obiettivo. L’11 novembre del 307, Galerio elesse il suo amico Valerio Liciniano Licinio quale Augusto d’Oriente, con il compito di governare in Illiria. In seguito pure Massimino Daia si proclamava imperatore, e Galerio non poté fare altro che ratificare quell’arbitraria autonomia. Ormai lo Stato nel 308 aveva quattro Augusti riconosciuti nelle persone di Galerio, Costantino, Massimino Daia e Liciniano Licinio; aveva un Augusto e un Cesare illegali a Roma, cioè a dire Massimiano e Massenzio; in Africa dominava l’usurpatore Lucio Domizio Alessandro che si era fatto eleggere dai soldati di Cartagine. Addio tetrarchia diocleziana, dunque. Tutto si faceva più difficile. Massenzio, appoggiato dai pretoriani e dal Senato, si considerava il legittimo sovrano d’Italia. Massimiano osteggiava Costantino; faceva credere, per impadronirsi del tesoro, che il genero fosse morto, ma il giovane a Marsiglia lo ridusse in catene e lo obbligò al suicidio, che Massimiano attuò strangolandosi con le proprie mani. Costantino ripudiò in tutto e per tutto non soltanto la parentela con Massimiano, ma anche il fatto che il suo potere derivava da lui. In quel momento egli si era messo sotto la protezione del dio Sole-Apollo-Mitra. Galerio si era ritirato dall’agone politico. Già si dedicava nelle regioni danubiane a opere di pubblica utilità quando fu colpito da una grave malattia che, provocata dagli stravizi cui si abbandonava, lo condusse a morte nel maggio del 311. Il morbo aveva ricoperto il suo corpo di ulcere e pustole mefitiche. Liciniano Licinio e Massimino Daia si spartirono le terre rimaste senza padrone in Asia e in Europa. Prima di morire 608
Galerio, d’intesa con Costantino e Liciniano Licinio, aveva promulgato un solenne editto a favore dei cristiani per interromperne la persecuzione che continuava a mietere innumerevoli vittime. I tre avevano mutato fronte religioso per ragioni politico-militari, cioè per trovare il sostegno dei cristiani, in considerazione del fatto che i loro avversari Massenzio e Massimino Daia erano pagani. Insomma si preparavano a una nuova guerra civile. Che presto scoppiò. Massenzio nel 312, per poter combattere più validamente contro Licinio e Costantino, venne a patti con Massimino Daia. Costantino si era tenuto fuori dalla mischia, dedicandosi a riorganizzare l’esercito e a respingere le incursioni dei franchi e degli alamanni contro i confini gallici. Le sue legioni, formate per la maggior parte da barbari, erano ben organizzate e disciplinate. Al principio di quell’anno Costantino calò in Italia attraverso le Alpi Cozie vincendo a Susa e a Torino, puntando su Milano dove fece un ingresso trionfale nel palazzo imperiale. La sua era ormai una marcia inarrestabile. Le città della pianura padana lo accoglievano esultanti, come un liberatore. Cinse d’assedio Verona, e sotto le mura di quella città la battaglia si protrasse per una notte intera, cominciata al tramonto. La strada verso Roma era aperta. Massenzio se ne stava indolente nel suo palazzo senza preoccuparsi dell’avanzata vittoriosa dell’avversario. Aveva tuttavia alle sue dipendenze un contingente di centosettantamila fanti e diciottomila cavalieri che provenivano da ogni parte d’Italia, dalla Mauritania, dalla Sicilia, da Cartagine. Costantino disponeva soltanto di novantamila fanti e ottomila cavalieri. Nella marcia su Roma ne utilizzava la metà non potendo lasciare sguarniti i confini del 609
Reno. Lo scontro fra i due eserciti appariva impari, ma la realtà era diversa. Le truppe di Massenzio, che si erano impigrite negli ozi dell’Urbe, comprendevano veterani stanchi e reclute inesperte. Non ci si poteva granché fidare di loro, mentre le legioni di Costantino erano compatte e fedeli. Inoltre Massenzio non era fatto per la guerra, irretito da vizi e piaceri. Era più bravo a confiscare beni e a sedurre le compiacenti mogli dei senatori, che non nell’arte bellica. Costantino invece fin dalla prima gioventù era stato ottimamente educato al combattimento. Il 26 ottobre di quel 312 Costantino era in vista di Roma. L’indomani, presso Saxa Rubra i due eserciti già si fronteggiavano. I pesanti cavalieri numidi e mauri di Massenzio, nonostante la superiorità numerica, non furono in grado di reggere l’impeto inarrestabile della carica gallica. Si scoprirono le ali dello schieramento nemico sulle quali si avventò la fanteria di Costantino. Corse voce che la notte precedente Costantino avesse fatto un sogno tanto impressionante da fargli abbandonare definitivamente le vecchie concezioni religiose e da abbracciare il credo cristiano. In quel sogno una voce superna gli indicava la croce dei cristiani, che appariva in alto, e gli vaticinava la vittoria a condizione di combattere per il trionfo della cristianità. «In hoc signo vinces», in questo segno vincerai, gli disse la voce. E quelle parole apparivano anche intorno alla croce che miracolosamente permaneva visibile nel cielo stellato. Sotto la pressione delle schiere di Costantino, le truppe di Massenzio si ritiravano. Si gettavano nelle acque del Tevere per cercare più rapidamente scampo. Fuggiva anche Massenzio nel tentativo di rinserrarsi in Roma, ma presso il ponte Milvio fu 610
sconfitto e ucciso. Il giorno dopo il suo cadavere fu ripescato, con la testa mozzata, nelle acque del Tevere. Costantino, per eliminare eventuali pretese di ereditarietà, fece uccidere i due figli di Massenzio, ed entrò trionfalmente in Roma da imperatore. Da imperatore cristiano. A trentotto anni incorporava alla Gallia e alla Britannia i territori del defunto Massenzio, l’Italia, l’Africa e la Spagna. In suo onore elevarono in Roma uno dei più imponenti archi trionfali, a tre fornici. Nel febbraio del 313 Costantino fu nuovamente a Milano dove si incontrò con Liciniano Licinio. Per rinsaldare le loro relazioni Licinio accettò di prendere in moglie Costanza, la sorella di Costantino. Come con Galerio avevano emanato un editto per vietare le persecuzioni dei cristiani, ora, con un nuovo editto, i due Augusti riconoscevano alla religione cristiana gli stessi diritti religiosi pagani tradizionali introducendo la libertà di culto. Era una nuova mossa assai avveduta, in quanto i cristiani, costituendo ormai gran parte delle popolazioni d’ogni ceto e d’ogni regione, rappresentavano una considerevole forza politica, tale da influire sulle scelte dello Stato. Alla proclamazione dell’editto non fu estranea la volontà di Elena, la fervente cristiana madre di Costantino. A Milano i due Augusti avevano anche firmato un patto di alleanza, ma la pace fra di loro non durò a lungo. Licinio aveva riaperto le ostilità contro i cristiani, e questo fu uno dei motivi che indussero Costantino a riprendere le armi contro il collega. Ormai era chiaro che uno solo di loro due sarebbe potuto rimanere al comando dello Stato, e di qui derivò la sfida definitiva. Licinio raccolse presso Adrianopoli un terrificante esercito di trecentomila fanti e di quindicimila cavalieri. La 611
flotta comprendeva trecentocinquanta triremi. Le truppe al comando di Costantino, che dai giorni gloriosi di Saxa Rubra e di ponte Milvio recavano sui loro labari la croce dei cristiani, si adunarono presso Tessalonica. Ammontavano a poco più di centoventimila uomini tra fanteria e cavalleria, ma tutti reclutati fra le più bellicose popolazioni d’Europa. Modesta era la flotta poiché formata di non più di duecento piccole navi, provenienti dalla Grecia. Ma Licinio commise l’errore, invero grossolano, di non sfruttare l’enorme vantaggio di cui disponeva sul mare. Attese invece l’esercito del rivale al riparo di Adrianopoli. Gli scontri, che esplosero il 3 luglio del 323, si protrassero a lungo, e nell’autunno successivo Licinio fu sconfitto. Fuggì a Nicomedia per prendere tempo facendo affidamento nell’intercessione della moglie Costanza, sorella di Costantino. Difatti Costanza ottenne salva la vita del marito in cambio dell’abdicazione. Licinio dovette prostrarsi ai piedi di Costantino, implorando pietà. Con falsa magnanimità, l’imperatore lo risollevò da terra e per di più lo invitò alla sua mensa. Poi lo fece inviare al confino a Tessalonica, ma non passò molto tempo che il vecchio Licinio fu accusato di tramare una congiura. Ciò bastò per ucciderlo, eppure non si erano avute le prove del misfatto. Era il 323. Costantino, anche con arti subdole, vinceva definitivamente e restava l’unico, incontrastato signore e imperatore di Roma a trentanove anni. Era ormai Costantino il Grande.
612
VI Maestoso e dal portamento regale, Costantino era un uomo di straordinaria vigoria fisica, instancabile negli esercizi militari. Di costumi morigerati, infaticabile nell’amministrare la cosa pubblica, sempre impegnato a leggere, a scrivere, a concedere udienze e a conversare con ministri, con ambasciatori, con semplici soldati. Parlava molte lingue e amava anche lasciarsi andare a scherzi con i suoi interlocutori senza però consentire che anche loro si prendessero con lui qualche giocosa libertà. Oltre che ambiguo, si dimostrò assai incline alla crudeltà contro i barbari e pure contro i sudditi, geloso del suo potere e della inebriante gloria che gliene derivava. Una volta a Treviri, grande città della Gallia belgica, diede alcuni prigionieri franchi in pasto alle fiere, mentre lui applaudiva. Particolare era la gelosia che dimostrava nei confronti del figlio primogenito Flavio Crispo, che vessava in ogni maniera senza lasciarne capire la ragione. Nel luglio del 326 Costantino si recò a Roma per festeggiare in gran pompa i suoi vent’anni di regno. Nel pieno delle sfarzose celebrazioni la città fu messa a rumore anche da una straordinaria notizia: Flavio Crispo, il figlio dell’imperatore, era stato tratto in catene. Dopo un sommario giudizio fu inviato in esilio a Pola e ucciso, lontano dagli occhi del popolo romano. Si diceva che nella sciagurata sorte di Crispo avesse probabilmente svolto una parte non marginale Fausta, la moglie di Costantino, poiché ravvisava in quel giovane, che Costantino aveva avuto 613
con una concubina, una minaccia alla successione per i tre figli che lei aveva avuto con l’imperatore. Ma neppure Fausta si salvò dalle ire del marito il quale aveva scoperto, e anche questa era una diceria, una sua tresca consumata con uno stalliere. Sicché l’imperatore, poco dopo l’eliminazione di Crispo, aveva ordinato di ucciderla, soffocandola con i vapori della ribollente acqua del bagno. Altri andavano in tutt’altra direzione nell’interpretare la vicenda. Sostenevano che Costantino aveva soppresso la moglie e il figlio per ragioni ancora più intime e che perciò dietro quei delitti si nascondeva una ben più fosca tragedia familiare. In essa, come nel mito di Ippolito e Fedra, Crispo si era invaghito della matrigna Fausta. Altri morti lastricavano il cammino di Costantino, il quale aveva ucciso il suocero Massimiano, la sorella, il nipote, i cognati. I cristiani, che avevano in lui un difensore, non si formalizzavano sulla gravità di questi delitti. Costantino era tornato a un sistema di potere fortemente autocratico. Egli era l’unico che decideva in ogni questione, politica, amministrativa, militare. La sua volontà era la sola legge. Aveva sciolto i pretoriani sostituendoli con un corpo di guardie palatine, sicché la sopravvissuta carica di prefetto del pretorio aveva perduto ogni valore militare. La sua corte era sfarzosa; solenne il cerimoniale a imitazione delle usanze degli antichi re persiani. I sudditi gli tributavano profondi riti di adorazione, e lui si addobbava vistosamente. Indossava una parrucca variopinta, laboriosamente studiata da grandi stilisti. Su di essa rilucevano le gemme di un prezioso diadema, ancor più splendente della celebre fascia imperlata che cingeva la fronte di Diocleziano. Invece dei militareschi abiti 614
romani portava tuniche seriche dai colori cangianti, finemente ricamate a fiori aurei. Per ulteriore ornamento si caricava di collane, bracciali e gioielli. Al culmine della sua megalomania, Costantino decise di trasferire in Tracia la capitale dell’impero. Ormai attribuiva ben poca importanza pratica a Roma. Essa non era più il centro del mondo: i veri nuclei commerciali e strategici dell’impero si trovavano in Oriente. Queste convinzioni erano le stesse che avevano indotto Diocleziano a fare di Nicomedia la sua capitale. Bisanzio, adagiata sulle rive del Bosforo, sorgeva in un luogo di vitale interesse per l’impero in funzione di diaframma fra l’Oriente e l’Occidente. Alle porte dell’Asia si controllavano gli imponenti traffici con l’Oriente. Da Bisanzio si tenevano sotto sorveglianza gli stretti, i passaggi marittimi che mettevano in comunicazione il Mar Nero e il Mediterraneo. Costantino, procedendo a piedi e impugnando una lancia, tracciò, sul luogo stesso di Bisanzio, i confini di una «nuova Roma», seguito da una delle più solenni processioni che si fossero mai viste. Era il 324. Nell’edificare la sua capitale profuse immense ricchezze in gran parte sottratte all’erario romano e a danno del consolidamento dell’esercito. Abbatté i boschi del Ponto Eleusino e svuotò le celebri cave di marmo dell’isola di Proconneso. Un numero incredibile di operai e artigiani fu messo all’opera, e in poco tempo sorse una nuova capitale, un nuovo cuore dell’impero. Magnifici erano gli edifici, splendide le opere d’arte che provenivano dalla Grecia e dalla stessa antica Roma. Come luogo ove erigere il Foro l’imperatore scelse la sommità del colle sul quale aveva piantato la tenda nei giorni 615
dell’assedio combattendo contro Licinio. Al Foro, circoscritto da sontuosi portici, si accedeva attraverso due giganteschi archi trionfali. Al centro si ergevano una grandiosa fontana e una colossale statua di Apollo in bronzo che proveniva da Atene. Fornì la nuova Roma di un ippodromo anch’esso ornato di statue e di obelischi. Costruì lussuose terme, acquedotti e templi. Invitò molti ricchi senatori a lasciare l’Urbe e a trasferirsi nella nuova capitale dell’impero, donando loro stupende residenze. La città fu consacrata l’11 maggio del 330 e venne poi chiamata Costantinopoli. Lui diceva che l’aveva fondata per ordine di Dio. Dunque, non ci si richiamava più agli dèi pagani, ma al Dio cristiano. Cominciava il periodo del tardo impero. La capitale fu affidata a un Senato e a un prefetto, sul modello di Roma. Ma i loro poteri erano pressoché nulli. A regnare su tutto e su tutti era soltanto lui, Costantino. L’imperatore fu alle prese con i goti. In un primo momento ne fu sconfitto, ma poi ebbe su di loro il sopravvento e li costrinse a convertirsi al cristianesimo con l’ausilio del vescovo Ulfila. Vinse i sarmati e attaccò i persiani. Costantino, che si ispirava alla politica di Diocleziano, se ne distaccava soltanto sui temi religiosi. Diocleziano si era dimostrato un sostenitore degli antichi culti del paganesimo romano, mentre Costantino con i suoi editti aveva legalizzato la religione di Cristo per fare del cristianesimo la religione di Stato. Anche in questo campo egli era il capo assoluto, il pontefice massimo. L’imperatore voleva che la Chiesa cristiana e i suoi chierici diventassero parte integrante dello Stato. Per attuare ciò doveva poter contare su una Chiesa unita, e quindi per raggiungere 616
l’obiettivo unitario che si era proposto, con il superamento della scissione fra cattolici e ariani, convocò a Nicea nel 325 trecento vescovi. In questo concilio ecumenico da lui stesso presieduto fu condannata come eretica la predicazione di un abile e convincente prete alessandrino, Ario, che faceva del Figlio e del Padre, di Dio e di Cristo, due entità diverse negandone la consustanzialità e sostenendo che soltanto il Padre è Dio unico, non generato, cioè non creato, eterno e immutabile. Ario respingeva dunque il dogma della Trinità, nel riconoscere un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo, ma soltanto il Padre come veramente Dio. In linea con i princìpi del cristianesimo, Costantino educò i figli, sotto la guida di sua madre, la pia Elena. Del resto aveva già fatto giustiziare la moglie Fausta. Se Augusto aveva regnato per quarantuno anni, Costantino celebrò il trentennale della sua ascesa al trono, un traguardo che nessun altro imperatore romano aveva raggiunto. Ma pochi mesi dopo quella ricorrenza, fu colto da un male che in breve lo portò alla morte, sebbene egli tentasse di curarsi nelle terme presso Nicomedia. Spirò a cinquantasette anni il 22 maggio del 337 dopo aver ricevuto il sacramento del Battesimo sul letto di morte. La notizia della scomparsa fu diffusa il 9 settembre. Si erano attesi oltre tre mesi prima di comunicarla al mondo, nel tentativo di sistemare l’ardua suddivisione dell’impero fra gli eredi che se ne disputavano il possesso. Era fatale che con la morte di Costantino il sistema politico da lui ideato si sgretolasse e che il regno precipitasse nuovamente nei gorghi di una guerra civile. Il sovrano aveva ripartito i domini di Roma fra i suoi tre figli superstiti ai quali aveva dato nomi assonanti tra 617
loro. Al figlio ventunenne suo omonimo, Costantino, aveva destinato le Gallie; al ventenne Costanzo, l’Oriente; al diciassettenne Costante, l’Italia e l’Africa. Aveva anche pensato ai nipoti, per cui a Flavio Dalmazio andava la penisola iberica e a Flavio Annibaliano toccava l’Armenia e il Ponto. Chiunque giudicasse il regno di Costantino affermava che egli lo aveva ben governato nei primi dieci anni, mentre si era comportato da malfattore nel secondo decennio e da dissipatore nel terzo. A Costantinopoli tumultuavano i soldati, eccitati da Costanzo. La rivolta fu estremamente sanguinosa poiché condusse al massacro di quasi tutti i componenti collaterali della famiglia di Costantino, compresi Dalmazio e Annibaliano, e lasciando vivi per caso soltanto due ragazzetti. Essi erano il cugino Flavio Claudio Costante Gallo, di dieci anni, e il fratellastro Flavio Claudio Giuliano, di sei. A Smirne si riunirono i tre fratelli Costantino II, Costante e Costanzo, i quali rifecero a loro modo la suddivisione dell’impero. A Costantino andarono la Britannia, la Spagna e la Gallia; a Costanzo l’Oriente; a Costante, pur essendo il più giovane, l’Italia, l’Illirico e l’Africa. Costantino II aveva ricevuto una sorta di protettorato sui domini di Costante, ma voleva contare di più e più direttamente su quei possedimenti. Sospinto da una irrefrenabile voglia di potere affrontò in armi nel 340 il fratello Costante al quale chiedeva almeno la cessione delle province africane, ma volendo in realtà rovesciarlo. Provenendo dalla Gallia, Costantino II invase l’Italia settentrionale. Nel corso d’una battaglia che si era accesa ad Aquileia il suo esercito fu sconfitto e lui ucciso in una imboscata. Costante divenne così l’imperatore di tutto l’Occidente, sebbene non fosse granché 618
meritevole di quella ascesa a causa della sua vita dissoluta. Né si faceva minimamente amare dalle popolazioni che sottoponeva a inumane tassazioni. Nondimeno qualche subdola abilità l’aveva dimostrata. Nel 350 Costante, da un decennio sul trono dell’intero Oriente, si trovava nella Gallia belgica presso Augustodunum (Autun). Un generale barbaro, Flavio Magnenzio, che faceva parte della sua guardia del corpo, ordì con la complicità delle alte sfere militari una congiura proprio contro di lui. Un sicario gli sferrò il colpo mortale in una chiesa nei Pirenei. Costante cadde. E Magnenzio, usurpatore, fu acclamato dalle milizie suo successore. Roma non riconobbe l’elezione e impose come imperatore Flavio Popilio Nepoziano, uno dei nipoti di Costantino I. Magnenzio si precipitò sull’Urbe uccidendo Nepoziano quando non era trascorso neppure un mese dalla sua proclamazione. Contemporaneamente le truppe di stanza nell’Illiria elessero quale imperatore un loro vecchio generale, Vetranione. Che cosa era più l’impero? Costanzo II stipulò un accordo con Vetranione che nel 351 rinunciava spontaneamente al potere. Per Costanzo il vero osso duro era in realtà rappresentato dall’irriducibile Magnenzio, il quale, tutt’altro che impaurito e sottomesso, non voleva assolutamente farsi da parte. La lotta fra i due contendenti era aspra e sanguinosa, ma Costanzo, prima in Pannonia e definitivamente a Ticinum (Pavia), riuscì a sconfiggere l’usurpatore barbaro. Tuttavia il generale poté scampare alla morte, e soltanto due anni dopo, nel 353, rinunciava al suo sogno imperiale suicidandosi a Mons Seleucus. 619
Costanzo, molto meno equilibrato del padre Costantino I e non soltanto in fatto di religione, si mise a perseguitare con violenza i culti pagani, confiscando i terreni dei templi e proibendo ogni sacrificio non cristiano. La reazione dei pagani non tardò a farsi sentire. Le tradizioni religiose antiche di secoli, i retaggi dei padri profondamente radicati nella cultura e nelle coscienze non potevano essere cancellati tanto facilmente. Interi e numerosi gruppi di persone, specialmente fra gli appartenenti alle classi sociali colte ed elevate, continuavano a celebrare i culti pagani: erano vecchi sacerdoti; professori delle inclite scuole di Atene, Antiochia, Mileto, Efeso, Nicomedia, Alessandria; filosofi legati al passato. Insomma il paganesimo, prima di soccombere, faceva sentire il suo canto estremo. Costanzo II non aveva figli. Gli unici superstiti della stirpe imperiale erano due suoi cugini, figli del fratellastro di Costantino I, Giulio Costanzo: erano Flavio Claudio Costante Gallo e Flavio Claudio Giuliano. Gallo si era impegnato nella campagna persiana quando Costanzo aveva dovuto fronteggiare Magnenzio. Appariva lui il candidato ideale alla successione, ma ben presto Costanzo cominciò a nutrire sospetti nei suoi confronti. Lo convocò a Costantinopoli, lo fece incarcerare e condannare a morte. La sentenza fu eseguita nel 354 a Milano. Restava un solo candidato al trono, ed era Claudio Giuliano, il quale però non era simpatico al cugino Costanzo. L’imperatore dovette fare buon viso a cattivo gioco.
620
VII Claudio Giuliano aveva allora ventitré anni essendo nato nel 331, a Costantinopoli, figlio di Giulio Costanzo e della nobile bitinica Basilina. La sua giovinezza era stata alquanto travagliata. Soltanto per un caso nel 337 era sfuggito, insieme al fratellastro Claudio Costante Gallo, al truculento massacro voluto da Costanzo. Ma Costanzo, crudele ed efferato, li aveva egualmente confinati benché bambini, in due diverse e lontane città dell’Asia Minore. Erano sorvegliati da precettori cristiani guidati dal vescovo di Nicomedia, Eusebio, viscido intrigante quanto abile polemista. Ma anche manesco perché il vescovo non mancava di usare, oltre alle parole, la frusta. Alla morte di Eusebio, nel 342, Gallo e Giuliano erano stati rinchiusi in una fortezza della Cappadocia, detta Macellum, nella quale rimasero prigionieri per sei anni senza poter mai uscire, sorvegliati giorno e notte da un’asfissiante e folta schiera di eunuchi di corte. I loro maestri li istruivano ai precetti del cristianesimo. Giuliano si dimostrava all’apparenza un fervente seguace della Chiesa, osservandone le norme, dai digiuni alle meditazioni sulle Sacre Scritture, alle veglie di preghiera, ai ritiri spirituali. Ma in cuor suo, a mo’ di reazione, coltivava ben altre convinzioni. Fra i numerosi personaggi della rocca c’era un letterato di nome Mardonio. Era un vecchio servo ed eunuco sciita che in segreto gli faceva conoscere la bellezza dei poeti classici, come Omero, e la profondità del pensiero dei filosofi greci. Giuliano ne era 621
attratto. Quando Gallo venne nominato Cesare da Costanzo II, anche per il fratellastro terminò il periodo di cattività. Giuliano fu richiamato a Costantinopoli e affidato per ordine dell’imperatore alle cure del retore cristiano e gran dispregiatore degli dèi pagani, Ecelobio. Costanzo aveva sempre in sospetto il giovane, e quindi decise che la cosa migliore da fare per neutralizzare l’eventuale pericolo che potesse derivare da lui, era di rimandarlo a Nicomedia, isolandolo. Ma questa fu una fortuna per Giuliano. A Nicomedia insegnava infatti il celebre retore pagano Libanio, e il giovane, che aveva dovuto promettere al cugino Costanzo di non seguirne le lezioni, ricorse a uno stratagemma per abbeverarsi alla sua dottrina. Diede incarico a un amico di trascrivere le lezioni del maestro perché egli, appartato, potesse studiarle e penetrare le più sottili raffinatezze della cultura pagana. Così cominciò a emanciparsi dal cristianesimo. Le spie di Costanzo scoprirono le frequentazioni pagane del giovane, e lui, per non cadere vittima di un attentato, mutò registro cominciando a dissimulare le proprie idee. Mutò anche l’aspetto fisico. Si rase la folta barba, si tagliò i lunghi capelli che portava alla maniera dei pensatori pagani, prese a condurre una vita monastica fino a entrare come lettore nel clero di Nicomedia. Quindi si arrivò al colpo di scena. Proprio quando Costanzo si era convinto che Giuliano non si sarebbe più allontanato dal cristianesimo, avvenne la trasformazione. Nel giovane cadevano i princìpi cristiani e trionfava il paganesimo. Ormai Giuliano pensava che i cattivi fossero i cristiani. Infatti era stato un cristiano, Costanzo, ad assassinargli il padre. Ora 622
riguardava il cristianesimo come una religione violenta, ipocrita, ingannevole, dominata da rozzi dogmi e da intrighi; come un coacervo di superstizioni buono per popolazioni di creduloni e per matrone in menopausa. Quanto magnifica appariva al suo confronto la sottigliezza intellettuale della filosofia greca e della raffinata letteratura classica! Quanto solari erano le divinità dell’Olimpo, giovani, sorridenti, stupende al confronto con la schiera dei santi cristiani tristi, vecchi e sporchi! Non erano i cristiani a essere perseguitati dai pagani, avveniva piuttosto il contrario, come constatava Giuliano. Per il giovane la religione cristiana rappresentava l’oppressione e l’ignoranza, mentre il paganesimo consentiva all’uomo di istruirsi e di vivere in piena libertà. Nel più assoluto segreto e ben attento a non farsi scoprire, Giuliano si era recato come un congiurato a Efeso a consultare il taumaturgo Massimo della Jonia, uno dei maggiori esponenti della filosofia neoplatonica. Da Massimo il giovane apprese i più raffinati precetti della dottrina del neoplatonismo e dell’arte della divinazione, fino ai cammini misteriosi per comunicare con gli dèi. Per i mistici filosofi neoplatonici, seguaci dei precetti di Plotino, il mondo era una emanazione della forza divina che scaturiva da una causa prima inconoscibile e inattingibile. Da Massimo fu sospinto ad abiurare definitivamente il cristianesimo. Questo era Giuliano quando, protetto dalla moglie dell’imperatore, Eusebia, venne condotto a Milano. Costanzo II lo nominò controvoglia Cesare e gli concesse in sposa la sorella Elena che era molto più anziana di lui. Né il giovane l’avrebbe voluta considerandola una noiosa e triste baciapile. Tanto che 623
alla morte di Elena si sospettò che l’avesse avvelenata lui. Costanzo inviò Giuliano, pur sapendolo privo di qualsiasi esperienza bellica, a combattere le popolazioni dei galli e degli alamanni che al solito premevano lungo i confini occidentali del regno. Tuttavia preparare la successione con Giuliano poteva essere l’unico modo valido per mettersi al riparo da usurpazioni e da foschi tranelli. Naturalmente neppure Giuliano era entusiasta della missione in Gallia che aveva lo scopo di fronteggiare la prepotenza dei barbari. Da solitario filosofo misticheggiante, da autore di innumerevoli saggi e libelli, doveva improvvisarsi generale. Ma la sua eccezionale natura e l’inclinazione allo studio gli consentirono di superare gli ostacoli e di apprendere rapidamente l’arte della guerra a lui completamente estranea. Portava con sé i Commentarii di Cesare, ma anche le Vite di Plutarco e la Repubblica di Platone. Nel 357 affrontò gli alamanni presso Argentorato (Strasburgo). Vinse pur essendo le sue forze assai inferiori a quelle del nemico. Gli alamanni disponevano di trentacinquemila uomini e lui soltanto di tredicimila. Dopo questa vittoria riuscì a passare per tre volte il Reno sempre ricacciando i barbari ribelli. Anche i franchi salii fecero le spese della bravura che il generale-filosofo dimostrava di avere. Furono sconfitti ma ottennero di trasferirsi sulla sponda sinistra del Reno, in territorio romano. Mentre Giuliano combatteva sul fronte occidentale, Costanzo era impegnato sul non meno turbolento confine danubiano. Era alle prese con i quadi e i sarmati. Nell’anno 359 il re persiano Sapore II aveva attraversato il Tigri alla testa di ingenti forze e aveva invaso i 624
confini dell’impero. Nell’affrontare il nemico, Costanzo chiese a Giuliano l’aiuto delle sue legioni ausiliarie stanziate in Gallia. Queste non gli davano ascolto, forti di un accordo concluso con Giuliano che consentiva ai legionari barbari inquadrati nell’esercito romano di non trasferirsi a combattere fuori della loro patria. Costanzo insisteva duramente nella sua richiesta, e nell’inverno dell’anno successivo esplose contro di lui una rivolta tra le truppe a Lutetia Parisiorum. Fu una ribellione che si concluse con l’acclamazione di Giuliano ad Augusto sollevandolo sugli scudi. Non gli fu imposto sulla fronte il consueto diadema, simbolo del potere, ma un ornamento di ferro, proprio dei soldati. Dapprima Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo nella nuova dignità concessagli dall’esercito. L’imperatore, preso dalla sua campagna contro i persiani, non gli rispose neppure. Il nuovo Augusto occidentale, vista l’indifferenza di Costanzo, mosse rapidamente con le truppe galliche alla volta della penisola balcanica superando le Alpi Rezie. Fu allora che Costanzo si riscosse e si diresse alfine verso Giuliano per bloccarlo, ma quando si trovava ancora in Asia Minore si ammalò. La malattia fu tanto grave da condurlo alla morte. A quarantatré anni. Il 3 novembre del 361 egli lasciava il non amato cugino e cognato a governare da solo l’impero di Roma. Il nuovo sovrano era giovane. Aveva trent’anni, e fu accolto con grande entusiasmo dalle folle di Costantinopoli che ne apprezzavano le idee, i sentimenti di persona casta e la condotta di vita tanto parca da essere paragonata a quella di un monaco. Promulgò riforme finanziarie, monetarie e amministrative. Restituì dignità al Senato, lottò contro l’eccessiva pressione 625
fiscale e contro la burocrazia corrotta dello Stato, volle che la giustizia fosse applicata con rigore e con equanimità. Le questioni religiose erano un punto centrale della sua politica. Dai cristiani era impropriamente chiamato «l’Apostata», l’eretico, ovvero colui che abbandona una religione per abbracciarne un’altra. Nelle vesti di Augusto si sentiva finalmente libero da ogni costrizione. Dopo la fase in cui si era professato cristiano, si disse apertamente seguace del paganesimo. Sceglieva ancora una soluzione diversa quando si proclamò tollerante nei confronti di tutte le religioni. Neutrale lo fu per poco poiché alla fine prese la strada dell’intolleranza anticristiana. Tuttavia una certa misura nell’atteggiamento religioso non lo abbandonò mai, e se alcune sue idee apparivano persecutorie ciò emergeva più che altro dai suoi libri. Il 5 marzo del 363 fu il giorno in cui Giuliano prese le armi contro i persiani sulle orme del predecessore Costanzo. E attraversò l’Eufrate. All’inizio la sorte arrise alle legioni romane che riuscirono a raggiungere la capitale persiana Ctesifonte cingendola d’assedio, mentre già si accingevano a proseguire oltre il varcato Tigri. La controffensiva delle truppe nemiche si rivelò micidiale. Le cariche della cavalleria, la pressione di ampie schiere di elefanti che avanzavano barrendo gettarono lo scompiglio fra i legionari romani. Giuliano si gettò generosamente nella mischia senza neppure indossare la corazza. Arcieri persiani a cavallo gli apparivano da ogni lato. Si sentì un grido. Una freccia lo aveva colpito al fegato. Perse i sensi, e quando li riacquistò chiese con animo sereno di avere accanto a sé i filosofi Massimo e Prisco, e si mise a discutere con loro sull’immortalità dell’anima. Diceva che la filosofia gli aveva 626
fatto capire come l’anima fosse superiore al corpo, e perciò si dichiarava felice che in quel momento essa tornasse libera. La discussione appariva interminabile, proprio quando lui stava per trarre l’ultimo respiro. Allora fu lui a tagliar corto esclamando con rabbia: «Hai vinto, o Galileo!». Così si diceva. Era il 23 giugno. Moriva a trentadue anni presso il villaggio di Maranga dopo aver governato per appena venti mesi. «Hai vinto, o Galileo!» I cristiani divulgavano queste ultime sue parole, dette o inventate; i pagani dicevano che a ucciderlo non era stata la freccia dei persiani, ma il pugnale di un soldato cristiano il quale con quel gesto pensava di allontanare dall’esercito romano in ritirata l’ira che l’Apostata aveva suscitato in Dio. Una certa quantità di legionari di fede cristiana si era organizzata, e riuscì ad acclamare come successore Flavio Gioviano, il trentaduenne primicerius domesticorum, un militare di fede cristiana che comandava la guardia imperiale. Gioviano, nato nella Mesia superiore, dimostrò di non avere grandi doti di soldato quando si trovò a fronteggiare una situazione disperata nella guerra contro i persiani. Egli era un mediocriter commendabilis, e Sapore II ebbe buon gioco circondando e incalzando l’esercito romano. Il nuovo principe, per venirne fuori, pensò bene di scendere a patti, anche se indecorosi, col nemico. Concesse a Sapore II i territori conquistati da Diocleziano, pari a cinque province dell’Armenia, alle fortezze della Mesopotamia e alla città di Nisibi, rocca di frontiera, antemurale dell’impero d’Occidente. Le popolazioni di quei luoghi si ribellarono all’ignominia commessa da Gioviano e si trasferirono altrove pur di non sottostare al dominio dei 627
persiani. Flavio Gioviano professava un cristianesimo ortodosso. Fu sua cura restituire ai cristiani i privilegi di cui Giuliano li aveva privati. Poneva così termine anche alle persecuzioni. Nel febbraio del 364 si trovava a Dadastana, in Bitinia, ed era in movimento verso Costantinopoli, quando improvvisamente il 17 di quel mese morì per una strana malattia o per le esalazioni di un braciere che teneva, dormendo, accanto al letto. Non erano trascorsi che otto mesi dalla sua elezione a imperatore. Morto lui si riunirono in concilio a Nicea generali e dignitari imperiali che sempre in quello stesso febbraio elessero un nuovo imperatore. Scelsero l’illirico Flavio Valentiniano, quarantatreenne, che, provenendo dal nulla, si era formato nell’esercito essendo stato il capo della guardia imperiale dell’Apostata. L’impero romano entrava nell’estrema e pericolante fase della sua lunga e gloriosa vita, di cui non si conservava ormai che il ricordo. Le province avevano annientato Roma che da tempo non era più la capitale dell’impero, ma soltanto una città come tante altre. Non era più il centro dell’universo, non più la gloria di Romolo, non più la sede magnifica di imperatori e generali valorosi, che invece le preferivano Costantinopoli o Milano, ma una città corrotta, degradata, sporca, indifesa. Valentiniano I assisteva al regresso dei commerci, alla diminuzione della popolazione, alla totale decadenza. Era davvero la fine? Lui cercò di tamponare qualche falla o almeno di restituire un po’ di fiducia ai cittadini. Era soltanto apparenza perché, nella difesa dei più poveri, non si limitò che a sostituire il defensor civitatis con il defensor plebis. 628
A Valentiniano fu imposta la nomina di un co-reggente, un consors imperii, ed egli non diede buona prova scegliendo una persona incapace come il fratello Flavio Valente. Prese per sé l’Occidente che andava sempre peggio e affidò al fratello il governo dell’Oriente. Flavio Valente si insediava in Costantinopoli, mentre Valentiniano aveva preferito come capitale Milano. Il primo favoriva l’arianesimo, il secondo era per il cristianesimo ortodosso. Crudele e iracondo, Flavio non era amato dal suo popolo. Era incolto e grossolano; sgraziato nel fisico; di pelle scura e con un occhio offeso fin dalla nascita. Talvolta era severo nei giudizi, e anche ingiusto. Folle era la sua brama di denaro. Ad Antiochia spesso si sentiva qualcuno gridare: «Valente bruci vivo!», vivus ardeat Valens! Flavio Valente si trovò alle prese con un tentativo di usurpazione del trono da parte di coorti galliche che gli contrapponevano un generale asiatico, Procopio, imparentato alla lontana con Giuliano l’Apostata. I sostenitori di Procopio, portandolo in trionfo in abiti di porpora per le strade di Costantinopoli, lo proclamarono imperatore. Non si limitarono a queste dimostrazioni teatrali, anzi andarono tanto oltre da mettere le mani sulla Tracia, sulla Bitinia, sull’Ellesponto. Flavio Valente si spaventava; tuttavia le sue schiere affrontarono l’esercito dell’usurpatore e lo sconfissero in Frigia. Procopio, abbandonato da tutti, cercò di nascondersi in un bosco avendo al fianco soltanto due fedeli tribuni. Ma scoperto, fu decapitato. Si era nel 366. Valentiniano I si gettò sugli alamanni, sui quadi, sui sarmati. Inviò il suo miglior generale, lo spagnolo Flavio Teodosio, a sedare in Bretagna le ribellioni dei sassoni e dei pitti. Nel 367 629
portò la capitale da Milano a Treviri, e contemporaneamente nominò al rango di Augusto suo figlio Flavio Graziano, di appena otto anni. L’esercito acclamava come tale anche l’altro suo figlio dal suo stesso nome, Valentiniano, che era un bambino di solo quattro anni. Per alcune stagioni in Occidente le cose parvero reggere, finché nel novembre del 375 Valentiniano I morì di apoplessia a Brigetio nell’Illirico. Il suo successore fu sulle prime il figlio, che diventava Valentiniano II, ma poi gli eserciti mutarono parere e fecero sì che Flavio Graziano, ormai sedicenne, prendesse il potere lasciandone qualche briciola al fratellastro, cioè a Valentiniano II.
630
VIII Le strutture imperiali davano ancora l’impressione di resistere. Le popolazioni tiravano un sospiro di sollievo, ma il fato stava per decidere diversamente. Sui goti piombarono nel 375 popolose tribù barbare di razza gialla che provenivano dai monti dell’Asia centrale. Erano gli unni. Appartenevano ai popoli più crudeli e selvaggi dell’Oriente. Oltrepassando il Volga si erano abbattuti in massa sui goti e li avevano sospinti in avanti. Avevano già travolto gli alani del Caucaso. Se barbari apparivano i goti ai romani, gli unni sembravano ancora più mostruosi agli occhi dei goti. Non venivano neppure considerati esseri umani, ma bestie deformi che puzzavano di capra, d’aglio, di cipolla e che quando si ammalavano sputavano terribili rospi. Addosso non portavano che pelli di topi selvatici. Si nutrivano di radici d’erbe e di carne cruda dopo averla fatta riscaldare per qualche tempo fra le cosce nude. Erano terrificanti nell’aspetto, vivendo da nomadi irrefrenabili. Stavano giorno e notte a cavallo, e quando non cavalcavano si issavano su carri che erano la loro casa. Su quei carri si accoppiavano, nascevano, crescevano, morivano. Erano armati di giavellotti e di spade, lanciavano lacci coi quali con abilità immobilizzavano da lontano il nemico. Il loro sguardo incuteva spavento, la voce suscitava orrore. I loro volti non erano che livida carne orribilmente ammassata e profondamente segnata da ferri roventi, secondo un disumano 631
rito cui venivano sottoposti i maschi al momento della nascita. Sembravano individui senza età non presentando mai nel corso della loro vita né il volto liscio dei giovani né il volto ornato di barba dei vecchi, a causa dell’azione devastatrice del ferro infuocato. Erano violenti e spietati, ma in un certo senso rappresentavano una forza nuova e vitale che rianimava un mondo decrepito, già alla rovina. Potevano anche apparire come il nuovo contro il vecchio. Spinti dagli unni, i goti che si trovavano sul Danubio chiesero ai romani di stabilirsi nella Mesia. Gli fu accordato a patto che non portassero armi. Ma non fu così. Nella loro colossale trasmigrazione le popolazioni gote, che provenivano dall’isola svedese di Gotland, si erano suddivise in due grandi tribù, i visigoti, essendosi estesi a ovest, e gli ostrogoti, in quanto goti dell’Est. Gli ostrogoti si identificavano con i greutungi, e i visigoti con i teruingi. Ancora una volta i nomi indicavano i luoghi in cui quei popoli avevano abitato poiché greut, sabbia, evocava le plaghe sabbiose della Russia europea e triu, albero, richiamava alla loro memoria le foreste che si stendevano tra il Danubio e il Dnepr. L’imperatore Flavio Valente, più per calcolo che per pietà, aveva consentito alle turbe fameliche dei fuggiaschi, uomini, donne e bambini, che imploravano soccorso e asilo, di attraversare il Danubio e di stanziarsi nelle terre incolte alla periferia dell’impero. Il Danubio era in piena, e i barbari furono assistiti dai soldati romani nell’attraversamento. Ebbero navi, zattere e altre imbarcazioni che consistevano in tronchi d’albero scavati. In cambio dell’ospitalità Valente pretese che i rifugiati si assoggettassero alle leggi di Roma e abbracciassero la religione 632
ariana di cui egli era un fanatico assertore. Avrebbe così esteso la diffusione dell’eresia e utilizzato le masse barbariche dei goti, oltre che come dissodatori di terre, come truppe d’assalto contro altri invasori. Grazie a loro avrebbe poi evitato nuovi arruolamenti tra i provinciali facendo risparmiare all’impero vite e denaro. Ma il suo non era che un abbaglio, e difatti Ambrogio, dalla sede vescovile di Milano, gli rivolgeva aspre critiche, non soltanto perché si sbracciava a favorire l’arianesimo, ma perché non c’era da spettarsi nulla di buono da orde barbariche: «Come può la patria sentirsi al sicuro con simili guardiani?», si chiedeva polemicamente Ambrogio. Altri dicevano che con i barbari era penetrata la rovina nell’impero romano. Il terrore della pressione unna e gli arbitrii perpetrati dai funzionari romani, la cui morale era precipitata negli abissi dell’ignominia, costrinsero i goti a riprendere la guerra. I romani avevano cominciato a sfruttarli con spietata sistematicità, riducendoli quasi alla condizione di schiavi. Pretendevano da loro prestazioni di lavoro a basso costo, mentre portavano alle stelle il prezzo delle derrate. Per i goti non c’era che carne di cane o di serpente e perfino di putrefatte carogne di asini e di altri animali, come se fossero corvi gracchianti e non esseri umani. Un simile stato di cose non poteva non provocare moti di protesta tra quelle popolazioni così duramente provate dalle prevaricazioni romane. Alle prime sporadiche ribellioni seguirono rivolte sempre più massicce. Conscio del pericolo che gli si presentava, Flavio Valente richiamò Flavio Graziano, ma prima che questi potesse arrivare, dette battaglia alle orde barbariche presso Adrianopoli. Era il 9 633
agosto del 378, e la sua disfatta fu totale, quasi senza precedenti. L’esercito romano fu sbaragliato, e lo stesso Valente perse la vita nell’asprezza degli scontri. Alcuni dissero che parte delle truppe romane, composte da barbari, avessero nel mezzo della battaglia cambiato fronte. La sorte di Valente fu quella che i cittadini di Antiochia gli auguravano. L’imperatore infatti arse in una misera capanna, tugurium, dove si era rifugiato in preda al terrore. I suoi generali lo avevano abbandonato per darsi alla fuga con tutto l’esercito, e lui non aveva con sé che qualche eunuco fedele. I barbari, in preda a una incontenibile esaltazione incendiaria, davano alle fiamme ogni cosa e appiccarono il fuoco anche al casolare in cui si era nascosto Valente il quale, consumato dalle fiamme, non fu mai più ritrovato perché i suoi resti si confusero con quelli degli eunuchi che lo avevano fedelmente seguito. I goti si cinsero la fronte di alloro. Al calare della sera la vasta pianura di Adrianopoli apparve come un immenso cimitero di uomini e di cavalli. I legionari avevano lasciato sul terreno più di quarantamila morti in un lezzo infernale. In quanto a perdite, quel rovescio fu paragonato alla sconfitta subita dai romani nella battaglia di Canne contro Annibale, ma le conseguenze furono ben altre, perché l’impero venne colpito al cuore. I morti appartenevano tutti alla fanteria, avendo la cavalleria vergognosamente abbandonato il campo all’apparire delle truppe barbare, anch’esse a cavallo, che si precipitavano come un’inarrestabile valanga giù dalle circostanti alture. Quella mattina, più di ogni altra volta, lunghi e appassionati erano stati i canti intonati dai cavalieri goti prima della battaglia per garantirsi l’assistenza degli dèi, tra la 634
commozione delle loro donne e dei vecchi saggi della tribù. I romani, nel tentativo di attutire l’effetto della disfatta, esaltarono nelle loro orazioni funebri la scialba figura dell’imperatore scomparso e ne magnificarono l’inesistente valore delle legioni. Il grande retore Libanio di Antiochia, venerato come una divinità, disse che della vittoria ottenuta dai barbari non erano responsabili le legioni, ma gli dèi sdegnati. Con furia maggiore, Zosimo, nella sua ribollente Storia nuova, indicò nell’abolizione dei riti sacrificali pagani il declino dell’impero che, senza la protezione degli dèi tradizionali, diventava ricettacolo di barbari. I goti avevano invaso i Balcani, e ripreso il loro vagabondare armato. Avevano rinunciato a espugnare Adrianopoli che si rivelava imprendibile. Dando prova di spirito, il loro capo Fritigerio disse di non essere in guerra con le pietre, cioè con le mura della città. Avevano proseguito la marcia per puntare su Costantinopoli. Anche sotto le mura di quell’altra città i goti non ebbero migliore fortuna, non per merito delle truppe regolari. Fu un contingente di agili cavalieri saraceni a respingerne gli attacchi. Li aveva assoldati Flavio Valente pieno di fiducia per quei guerrieri che seminudi si muovevano con rapidità sconcertante in groppa a nervosi cavalli arabi. Nelle scorribande dei goti c’erano crudeltà e cupidigia. Godevano a massacrare e a distruggere, ma la cupidigia rimaneva spesso insoddisfatta. La delusione di aver dovuto rinunciare alla conquista di così opulente città come Adrianopoli e Costantinopoli li aveva resi ancora più violenti e risoluti, sicché il loro vagabondare armato li condusse, di distruzione in distruzione, ai confini veneti dell’Italia e sulle rive dalmate 635
dell’Adriatico. Nel tentativo di arginare l’avanzata nemica, i romani sbarravano i passi montuosi con tronchi d’alberi non avendo più la forza di combattere con le armi in pugno. Il vescovo Ambrogio parlava di quelle cataste come dei «muri del disonore». Da quella sconfitta, Roma cominciò a contare i giorni della sua agonia. Il tracollo di Valente non destò comunque eccessiva meraviglia essendosi susseguiti in ogni dove i presagi più neri: si oscurava il sole; bolidi fiammeggianti attraversavano il cielo; cani, pecore e capre venivano trovati stecchiti agli angoli delle strade. Flavio Graziano tornava in Occidente, dove gli alamanni avevano ricominciato a premere sulla Gallia. Il 19 gennaio dell’anno successivo Graziano diede il titolo di Augusto per l’Oriente a Flavio Teodosio, in sostituzione di Valente. Flavio Teodosio era il figlio dell’omonimo grande generale che aveva combattuto per Valentiniano I in Britannia e in Africa. Fatto della stessa pasta del padre, Teodosio si mise a reclutare un esercito e a istruirlo. Nel 380 il giovane Teodosio aveva chiesto e ottenuto il battesimo cattolico, sotto l’influenza del vescovo Ambrogio. Poi, insieme a Flavio Graziano, condusse l’ortodossia a prevalere sull’arianesimo. Dette un energico colpo alle strutture residue del paganesimo distruggendone i templi, proibendone il culto e i sacrifici, non solo quelli pubblici ma anche i privati. La situazione religiosa si era rovesciata, nel senso che il cristianesimo trionfava ufficialmente e il trionfo era seguito da persecuzioni contro i pagani e contro gli eretici. Quindi Teodosio promulgava un editto col quale proclamava il 636
cristianesimo unica religione di Stato. Lui e Graziano fecero rimuovere dalla Curia romana l’ara pagana della Vittoria. Curioso era il destino di questo altare che era stato portato nel Senato da Augusto per celebrare la vittoria di Azio; Costanzo, il figlio di Costantino, ve lo aveva scacciato, e Giuliano l’Apostata ve lo aveva riportato. Nel mese di agosto del 383, Graziano cadeva venticinquenne per mano di un suo generale. All’interno della cerchia aristocratica c’era chi parteggiava per i romani e chi intendeva dare maggiore autorevolezza ai capi barbari. Graziano simpatizzava per i barbari e aveva favorito la loro ascesa alle alte cariche dell’impero. Ciò provocava una feroce reazione dei militari filoromani, che proclamavano imperatore il governatore della Britannia, Magno Clemente Massimo, anch’egli spagnolo, il generale che aveva soppresso Graziano. Massimo negava di aver preso parte a quell’assassinio. Se ne diceva anzi addolorato quanto una persona di famiglia. Inviò un ambasciatore alla corte di Teodosio, a Costantinopoli, con un ramoscello d’ulivo. Pace sì, rispose Teodosio, purché Massimo si fosse impegnato solennemente a non valicare mai le Alpi e a riconoscere come intoccabile il dominio di Valentiniano II. Teodosio un po’ leggermente e per quieto vivere riconobbe l’usurpatore Massimo come collega per l’Occidente. Fu un grave errore. L’ancor giovane Valentiniano II, fratellastro di Graziano, si affidava alla reggenza della madre Giustina. Non appena gli si presentò l’occasione, Massimo prese a marciare al di là delle Alpi proibite, sebbene avesse assicurato il contrario. Era il mese di maggio del 387, le nevi si stavano sciogliendo sicché il passaggio dei valichi alpini si presentava meno arduo del 637
temuto. Così le truppe di Massimo penetrarono in Italia attraverso il passo del Monginevro. L’usurpatore le seguiva a distanza in incognito. Questo imponente esercito spaventò a tal punto l’imperatore Valentiniano II e sua madre Giustina da indurli a lasciare precipitosamente Milano e a rifugiarsi in Aquileia. Parve loro impossibile evitare la capitolazione della città, anche perché non erano sostenuti dalla popolazione cattolica, una popolazione a entrambi avversa per implicita istigazione del vescovo Ambrogio, fortemente impegnato a reprimere l’eresia ariana di cui Valentiniano e Giustina erano i sostenitori. Madre e figlio, sempre più impauriti, abbandonarono anche Aquileia per raggiungere il sicuro porto di Tessalonica, compreso nei loro domini. Giustina portava con sé sulla nave della salvezza la figlia Galla, appena quindicenne. Proprio la giovane Galla, che eguagliava e forse superava in bellezza la madre, era destinata ad assolvere un ruolo decisivo in quel periglioso frangente. Giustina, già al momento di lasciare Aquileia, aveva implorato Teodosio, ormai chiamato il Grande, di prendere le armi contro l’usurpatore. Teodosio si recò sollecitamente a Tessalonica dove non poté non soggiacere alla venustà di Galla. Pur mostrando attenzione per Giustina, non desiderava affrontare l’esercito di Magno Massimo, se non altro per evitare all’impero il lutto di una nuova guerra civile. Massimo inviava suoi ambasciatori a Teodosio, e il tempo trascorreva in trattative estenuanti. Si dovette attendere un anno dal giorno dell’arrivo di Massimo in Italia prima che Teodosio si decidesse ad agire militarmente contro di lui. I suoi avversari lo schernivano accusandolo di aver preso le armi non per amor di 638
patria, ma per il cieco desiderio di possedere Galla, che sposò a Tessalonica nel 388, e dalla cui unione nacque Galla Placidia. Era destino che Teodosio salvasse Valentiniano II e Giustina da Massimo, il quale fu catturato e decapitato ad Aquileia nell’estate del 388. Al sommo di una picca, la sua testa fu mostrata alle popolazioni di tutte le città dell’impero. Valentiniano, diciassettenne, tornò a regnare più tranquillamente fino al 15 maggio del 392, l’anno in cui trovò a sua volta la morte a Milano per mano di Arbogaste, un generale franco da lui scacciato. Arbogaste attribuì il titolo di Augusto a un personaggio romano, nobile, ricco, colto e pagano: Flavio Eugenio. Per prima cosa Eugenio riabilitò la vecchia religione pagana, e riportò nella Curia il famoso ed errabondo altare della Vittoria, simbolo della supremazia romana. Teodosio, che non poteva rimanere indifferente alla riscossa del paganesimo, marciò sull’Italia scontrandosi con le schiere di Eugenio il 5 e il 6 settembre del 394 sulle rive del Frigidus (Frigido), presso Aquileia. Eugenio fu sconfitto e decapitato, Arbogaste si tolse la vita, la vittoria di Teodosio si doveva non soltanto al coraggio delle sue truppe ma anche all’ingordigia dei soldati di Arbogaste fra i quali era stata distribuita una grande quantità d’oro perché disertassero. Questa vittoria perse presto gran parte del suo valore, poiché l’imperatore Teodosio moriva in battaglia quattro mesi dopo, il 17 gennaio del 395. Si trovava a Milano e aveva cinquant’anni. La successione era quanto mai incerta. Molto tempo prima Teodosio aveva nominato Augusti i suoi due figli, il primogenito Flavio Arcadio per l’Oriente, che ora aveva diciassette anni, e Flavio Onorio per l’Occidente, undicenne. In 639
considerazione della loro giovanissima età li aveva affidati a esperti consiglieri: il primo al gallo Flavio Rufino, prefetto del pretorio; il secondo al vandalo Flavio Stilicone, comandante dell’esercito. Rufino era furbo e ambizioso; Stilicone forte e abile. Con il principio dinastico affermato da Teodosio e con il comportamento di Rufino e di Stilicone si accentuava la divisione dell’impero romano in due parti. Costantinopoli si affermava capitale dell’Oriente, mentre la capitale dell’Occidente passò alla paludosa Ravenna. I dissidi fra i due consiglieri erano alimentati dal debole carattere dei figli di Teodosio. Mentre il loro genitore era riuscito a vivere in pace con i goti, ora con Arcadio alcuni elementi antigoti della corte riaccendevano la miccia favorendo sfruttamenti e vessazioni. I goti reagirono proclamando loro re un generale di grande abilità, Alarico, il quale nel 401 invase l’Italia devastandone le regioni settentrionali e assediando Milano. Stilicone lo batté a Pollenzo e a Verona. Poi mise in atto con lui una soluzione singolare: la firma di un trattato non per la pace ma per una guerra comune contro l’impero d’Oriente. In base a questa intesa i goti passarono in Illiria. I confini occidentali erano scoperti. Stilicone lo aveva temuto, ma non aveva potuto porvi rimedio. Fu allora che vandali, alani, svevi, burgundi penetrarono prima in Gallia e poi in Iberia. Onorio riprese il sopravvento, Stilicone venne condannato a morte e decapitato nel 408. Naturalmente Onorio rifiutava di riconoscere il trattato che Stilicone aveva stipulato con il re goto. Sicché Alarico invase nuovamente l’Italia. Onorio si rinchiudeva a Ravenna e 640
ascoltava preoccupato ma inerme quanto i suoi consiglieri gli dicevano sulla marcia di distruzione che Alarico conduceva lungo la penisola puntando su Roma. Il visigoto aveva raccolto nelle sue file oltre quarantamila schiavi provenienti da ogni luogo d’Italia e con quell’esercito pose l’assedio sotto le mura dell’Urbe. Con la complicità di alcuni schiavi romani, che nel pieno della notte gli avevano aperto le porte, entrò nel cuore storico dell’impero. Era il 24 agosto del 410. Roma cadeva spietatamente saccheggiata per tre giorni dai barbari di Alarico, il quale tuttavia salvava dalla distruzione i luoghi sacri. Migliaia furono i morti fra la popolazione. Sotto l’aspetto politico l’evento aveva scarsa rilevanza poiché da tempo l’Urbe era stata soppiantata come capitale da altre città, invece sul piano dei valori morali lo scempio ebbe un’eco enorme. Con il sacco di Alarico si era arrivati alla fine simbolica della città di Romolo e dell’impero romano: ora mancava soltanto la fine reale. Quando ciò sarebbe accaduto? Era la domanda che i migliori ingegni si ponevano. Alarico, saccheggiata la città non più eterna, proseguì il cammino verso il Sud con l’intenzione di conquistare la Sicilia e di attraversare il mare per raggiungere l’Africa. Occupò Reggio, prese effettivamente il mare ma la sua flotta fu sconquassata da una tempesta. Rinviò l’impresa senza annullarla. Ancora sperava in un totale trionfo, ma a Cosenza, in quello stesso 410, venne colpito da un morbo misterioso che lo condusse alla morte. Le sue spoglie furono sepolte in un sarcofago d’oro nel letto del fiume Basento che lambiva la città e che fu deviato per consentire la triste operazione. Compiuta la cerimonia le acque del fiume tornarono a scorrere nel loro antico letto 641
nascondendo a tutti il sepolcro dell’eroe goto. Alarico aveva quarant’anni. I cristiani, che avevano imparato a farsi propaganda, proclamarono che era stato il loro dio a punirlo per aver osato saccheggiare Roma. Fra tutti i popoli barbari, gli unni destavano le maggiori preoccupazioni. Erano i più spietati. Dal 433 avevano un re, Attila, che nella loro lingua significava piccolo padre. In realtà egli era diventato qualcosa di più per il suo vigore e per la capacità di unire intorno a sé numerose popolazioni barbare tanto da estendere i confini del suo impero verso la Cina. Attila era già riuscito a farsi pagare un tributo annuo da Teodosio II, umiliandolo, e ora in devastazioni voleva fare meglio dei barbari che avevano saccheggiato Roma. Non si sarebbe accontentato di depredarla, intendeva cancellarla materialmente dalla faccia della Terra. Prima di dirigersi verso l’Italia, si attardò a rendere più solida la situazione alle sue spalle. Arrivato in prossimità delle Alpi decise di deviare sull’Iberia che avrebbe raggiunto in un mese. Lo seguivano cinquecentomila uomini. Ma ecco l’imprevisto. Sulla sua strada s’imbatté in un grande generale romano, il patrizio Flavio Ezio di origine illirica. Era il 451. Lo scontro avvenne sui Campi Catalaunici e si protrasse per due giorni. Attila, che ne uscì sconfitto, tornava al di là del Reno. Aveva cinquantun anni, e aveva perso centosessantaduemila soldati. Si era dovuto ritirare, ma non aveva abbandonato il suo sogno. Regnava Valentiniano III. Questi aveva trascorso molti anni sotto la tutela della madre Galla Placidia dalla vita avventurosa. Caduta nelle mani dei visigoti aveva sposato uno dei loro capi, Ataulfo, cognato di Alarico. Morto il marito, fu restituita ai 642
romani. Passò a nuove nozze con Costanzo che presto divenne Costanzo III, e proprio da lui aveva avuto Valentiniano. Risiedendo a Ravenna ne aveva fatto una grande capitale. Nella primavera dell’anno successivo Attila riprese i suoi programmi e si mise nuovamente in marcia verso l’Italia. Superò le Alpi Giulie, depredò e distrusse, ma non arrivò a Roma, non per merito di Ezio, che quella seconda volta non fu all’altezza della situazione. L’invasore aveva da poco abbattuto le mura di Aquileia quando fu raggiunto nel suo accampamento sulle rive del fiume Mincio da una inerme delegazione occidentale di ambasciatori di Valentiniano III. Ne era maestosamente alla guida un papa, Leone I. Il pontefice, come dicevano i cristiani, aveva trattenuto il re dei re unno a un colloquio segreto, e, agitando la spada di Dio, lo aveva indotto a ritirarsi. Attila era pagano, e quindi più che la parola di un pontefice di cui non riconosceva l’autorità, aveva pesato sulla sua decisione una inesorabile epidemia che aveva decimato le sue schiere. Attila era tornato in Pannonia dove poco dopo, a cinquantatré anni, lo colse la morte. Le sue stesse schiere si dissolsero in un soffio. Il suo sogno fu raccolto da un re vandalo, piccolo e zoppo, ma abile e ambizioso, Genserico. Provenendo dall’Africa, ormai regno vandalico ai danni di Roma, e, dopo essere passato per la Sicilia, sbarcò in Italia, a Ostia, nel 455. Marciò su Roma, la occupò, la saccheggiò per quattordici giorni, dal 15 al 29 giugno, con un furore che forse sarebbe mancato allo stesso flagello di Dio, come veniva chiamato il feroce re degli unni. Genserico rese il corrusco volto dell’Urbe simile a una pallida ombra di ciò che era stato nei secoli. Leone I tentò di fermare anche 643
Genserico come aveva fatto con Attila, ma il vandalo gli diede ascolto soltanto in ciò che gli conveniva. Suo interesse non era quello di distruggere la città, ma di depredarla. Non mise a ferro e fuoco le basiliche degli apostoli Pietro e Paolo, limitandosi a svuotarle delle opere d’arte, così come trafugò i tesori che Tito aveva a sua volta rapinato a Gerusalemme dal tempio di Salomone. Fece schiavi un’infinità di romani che lungo la via Portuense venivano sospinti verso Ostia per imbarcarli su una nave diretta in Africa. Su un’altra nave furono caricati personaggi della nobiltà per ottenerne un riscatto e anche molte nobildonne di cui i vandali fecero scempio. C’era ancora una terza nave che trasportava gli oggetti di valore, ma era tanto carica che, sorpresa da una tempesta, naufragò tragicamente. Genserico lasciò che i romani uccidessero il sovrano in carica, l’usurpatore Petronio Massimo, e il vandalo ne rapì la moglie, l’imperatrice Licinia Eudossia, figlia dell’imperatore d’Oriente Teodosio II e ormai vedova di Valentiniano III, che sulla via Prenestina era caduto vittima d’una congiura. L’ispiratore del complotto era stato lo stesso Massimo. Infine Genserico accettò che sul trono d’Occidente sedesse il senatore gallico Marchio Eparchio Avito proclamato dai galli e dai visigoti di Aquitania. Si erano concatenati svariati delitti. Il generale Ezio era stato ucciso nel 454 da Valentiniano III, ma i goti del generale si erano vendicati assassinando l’imperatore durante una manifestazione sulla via Labicana. L’imperatore Petronio Massimo aveva rivelato a Eudossia che l’ispiratore del complotto contro il marito Valentiniano era proprio lui, per vendicarsi del fatto che l’imperatore gli aveva sedotto la prima moglie. Per l’onta subita la donna si era tolta la vita ed era stata chiamata la 644
«nuova Lucrezia» di Roma. Soltanto un grande generale di sangue barbaro, lo svevo Flavio Ricimero, che si era impossessato dell’Occidente essendosi ribellato ad Avito del quale era stato magister militum, riuscì col suo valore a sconfiggere i vandali e il loro re in Sicilia. Era l’ennesima dimostrazione che ormai Roma e i romani contavano ben poco. I barbari si scontravano con i barbari. L’Occidente restava la parte più debole della sopravvissuta struttura imperiale, tanto che per venti anni, dal sacco di Genserico in poi, si susseguirono sul trono otto imperatori fra complotti e uccisioni cui non sempre era estraneo Ricimero, che si rivelava sanguinario e spietato. Con qualche rara eccezione quei personaggi erano ombre o poco più, nomi vuoti, manichini privi di autorità nelle mani della corte d’Oriente, dell’esercito, dei maggiorenti, degli eunuchi. Si succedettero Petronio Massimo (ammazzato), Eparchio Avito (ammazzato), Giulio Maggioriano (ammazzato), Libio Severo, Procopio Antemio (ammazzato), Olibrio Glicerio (ammazzato), Giulio Nepote. Tutti ebbero un governo breve. Giulio Nepote si era messo agli ordini dell’imperatore di Costantinopoli, il trace Leone, per scacciare Glicerio da Ravenna, e il fatto confermava il definitivo prepotere di Costantinopoli sull’Occidente. Il greco era diventata la lingua ufficiale e il latino non veniva più utilizzato né presso la corte di Costantinopoli né presso gli uffici amministrativi orientali. C’era di più e di peggio. Con Giulio Nepote l’Occidente perdeva l’Africa e la Spagna, attraverso accordi disastrosi sottoscritti con i vandali e con i visigoti. L’evento provocò la reazione delle legioni dell’Italia del Nord formate da soldati romani. Quelle 645
schiere si posero sotto il comando di un illirico, un barbaro romanizzato, Oreste, che era stato un luogotenente di Attila e che, allontanandosi dall’unno, era diventato magister militum di Giulio Nepote. Ma, considerando Nepote un traditore, si avventò su Ravenna scacciandone l’imperatore nell’agosto del 475. Nepote si rifugiò a Salona nella sua Dalmazia, tuttavia confortato dal fatto che il sovrano d’Oriente gli riconosceva il rango regale. Nondimeno egli era stato sconfitto, e Roma non poteva non essere soddisfatta di assistere allo smacco di un sovrano voluto da Costantinopoli. Oreste, come altri comandanti, approfittava del suo sconfinato potere. Fece infatti proclamare imperatore il figlio, il sedicenne Romolo il quale, proprio per la sua giovane età, invece che Augusto fu da tutti appellato, con un sorriso ironico sulle labbra, Augustulus. Come contropartita al loro assenso per il rivolgimento compiuto da Oreste, le milizie barbariche reclamarono la cessione di un terzo delle proprietà d’Italia. Oreste promise ma non mantenne la parola data. Allora un altro generale, il fiero Odoacre, che era stato a sua volta un seguace di Attila, scese in Italia alla testa di vaste schiere barbariche composte da sciri, cui apparteneva, da rugi e da turcilingi che lo avevano proclamato loro re. L’obiettivo era di abbattere Oreste, che aveva fortunosamente raggiunto Pavia entro le cui mura si era rinchiuso. Ma la sua fine era vicina. Di fronte alla forza militare e all’abilità strategica degli invasori, la rocca di Pavia cadde facilmente. Odoacre poté mettere le mani su Oreste che moriva, impietosamente giustiziato, il 28 agosto del 476. Contemporaneamente depose Romolo Augustolo inviandolo a Napoli perché fosse imprigionato in una orrida cella di un fosco 646
edificio sul mare, il Castel dell’Ovo. Il punto centrale del piano di Odoacre prevedeva che lui prendesse le redini del potere e si evitasse la nomina di un successore. Il barbaro si dichiarava governatore della sola Italia in base a un mandato dell’imperatore d’Oriente, Zenone, che lo faceva suo sottoposto. A lui Odoacre inviava a Costantinopoli le insegne imperiali che già di per se stesse erano prive di qualsiasi valore. L’impero romano d’Occidente, che non serviva più a nessuno e che non aveva più alcuna rilevanza istituzionale, cadeva a oltre milleduecento anni dalla fondazione di Roma. Un burocratico passaggio di carte indicava la fine del prepotere d’una città che aveva pervaso del suo spirito bellicoso l’universo. Il tempio di Giano bifronte ne era stato il simbolo, e ai romani indicava come la gloria dell’Urbe fosse cominciata con un Romolo grande e si fosse esaurita nel 476 con un Romolo Augustolo. All’impero d’Occidente seguivano i regni germanici, dando inizio a una nuova era senza che i romani si rendessero ben conto della svolta. L’asceta Salviano, dal suo monastero di Lérins, esclamava sconsolato: «Il popolo romano muore e ride».
647
LE FONTI
AAVV, Scrittori della Storia Augusta, a cura di P. Soverini, Torino 1983. Accio Lucio, Frammenti, trad. A. Resta Barrile, Bologna 1969. Ammiano Marcellino, Storie, a cura di V. Salem, Torino 1973. Apicii Coelii, Obsoniis et condimentis, volgar. di G. Baseggio, Venetiis 1852. Appianus, Delle guerre civili ed esterne de’ romani, Vinegia 1551. Apuleio, L’Asino d’oro, trad. F. Martini, Roma 1927. Aule-Gelle, Les nuits attiques, trad. R. Marache, Paris 1967. Ausonio, Opere, a cura di A. Pastorino, Torino 1971. Catone, Les origines (fragments), trad. M. Chassignet, Paris 1986. Catullo, I Canti, trad. E. Mandruzzato, Milano 1982. Cesare, Opera omnia, a cura di A. Pennacini, Torino 1993. Cesare Ottaviano Augusto, Res gestae Divi Augusti, a cura di L. Canali, Roma 1984. Celso, Opere contro i cristiani, a cura di S. Rizzo, Milano 1989. Cicerone, Opere, a cura di C. Bellandi, Torino 1978. Claudianus, Carmina selecta, vers. L. Pollini, Milano 1931. Columella, Dell’agricoltura, a cura di R. Calzecchi Onesti, Roma 1948. Cornelio Nipote, Le vite dei più illustri capitani, a cura di M. T. Azzocchi, Roma 1858. Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, a cura di A. Giacone, Torino 1977. Diodoro Siculo, Le storie, a cura di I. Labriola, Palermo 1988. Dione Cassio, Istorie romane, trad. G. Viviani, Milano 1823. Dionigi Areopagita, Tutte le opere, trad. P. Scazzoso, Milano 1981. Dionisio di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, a cura di F. Cantarelli, Milano 1984. Erodoto, Le Storie, a cura di L. Arglois, Torino 1945. Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, a cura di G. Vitucci, Milano 1974. Floro, Epitome di storia romana, a cura di E. Salomone Gaggero, Milano 1981. Frontino, Gli acquedotti di Roma, a cura di F. Galli, Lecce 1997. Giovenale, Satire, a cura di E. Barelli, Milano 1976. Giuliano Imperatore, Alla madre degli dèi, trad. A. Marcone, Milano 1987. Lampridius Aelius, Vita dell’imperatore Alessandro Severo, trad. V. Nordio, Venezia 1852. Livio, Storie, a cura di L. Perelli, Torino 1974. Lucano, La guerra civile o Farsaglia, trad. L. Canali, Milano 1981. Luciano, Racconti fantastici, trad. M. Matteuzzi, Milano 1977.
648
Marco Aurelio, Ricordi, a cura di G. Cortese, Torino 1976. Macrobio, Saturnali, a cura di N. Marinone, Torino 1967. Marziale, Gli epigrammi, a cura di C. Vivaldi, Roma 1993. Nicolao di Damasco, Vita di Augusto, trad. B. Scardigli, Siena 1983. Orazio, Tutte le opere, trad. E. Cetrangolo, Firenze 1968. Orosio, Le storie contro i pagani, trad. A. Bartalucci, G. Chiarini, Milano 1976. Ovidio, Opera omnia, a cura di V. Tommasini, Venezia 1884. –, I cosmetici delle donne, trad. G. Rosati, Venezia 1985. Persio, Satire, a cura di F. Bellandi, Milano 1979. Petronio, Il Satiricon, trad. A. Marzullo, M. Bonaria, Bologna 1977. Platone, Opere complete, trad. A. Zadra, Roma 1979. Plinio il Giovane, Opere, a cura di F. Trisoglio, Torino 1973. Plinio il Vecchio, Storia Naturale, a cura di F. Trisoglio, Torino 1973. Plutarco, Vite parallele, trad. C. Carena, Torino 1958. Polibio, Storie, trad. C. Schick, Milano 1955. Procopio di Cesarea, Storia inedita, trad. F. Ceruti, Milano 1977. Properzio, Elegie, a cura di E. Borelli, Milano 1967. Quintiliano, Istituzione oratoria, a cura di R. Faranda, Torino 1968. Sallustio, Opere, a cura di P. Frassinetti, L. Di Salvo, Torino 1963. Salvien de Marseilles, Oeuvres, trad. G. Lagarrique, Paris 1971. Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di U. Boella, Torino 1969. Strabone, Geografia, trad. C.O. Zuretti, Milano 1923. Svetonio, Vite dei Cesari, volgar. di G. Riguntini, Firenze 1946. Simmaco, Lettres, a cura di P. Callu, Paris 1972. Tacito, Opere, a cura di A. Arici, Torino 1969. Teocrito, Idilli, trad. E. Romagnoli, Bologna 1925. Terenzio, La suocera, trad. M. Cavalli, Milano 1989. Tertulliano, Apologetico, a cura di D. Mazzoni, Siena 1928. Tibullo, Elegie, a cura di C. Namia, Torino 1973. Tucidide, La guerra nel Peloponneso, trad. E. Savino, Milano 1974. Valerio Massimo, Detti e fatti memorabili, a cura di R. Faranda, Torino 1971. Varrone, Opere, a cura di A. Troglia, Torino 1974. Velleio Patercolo, Storia di Roma, trad. E. Meroni, Milano 1978. Virgilio, Tutte le opere, vers. E. Cetrangolo, Firenze 1975. Vitruvio, Trattato dell’architettura, a cura di E. Romagnoli, Villasanta 1933. Zosimo, Storia nuova, a cura di F. Conca, Milano 1977.
649
INDICE DEI NOMI DI PERSONA E DELLE DIVINITÀ
Acca Larenzia Achille Addone, comandante armeno Aderbale, re di Numidia Adone Adriano, Publio Elio Afranio, Lucio Agatocle, tiranno di Siracusa Agricola, Gneo Giulio Agricola, Sesto Calpurnio Agrippa, Marco Giulio Agrippa, Marco Vipsanio Agrippa, Menenio Agrippa Postumo Agrippina Maggiore Agrippina Minore Agrippina Vipsania Akiba, rabbi Alarico I, re dei visigoti Alcmena Alessandro Alessandro, Lucio Domizio Alessandro di Ege Alessandro Elio Alessandro Magno, re di Macedonia Allucio, comandante dei celtiberi Ambigato, re dei biturigi Ambiorige, generale degli eburoni Ambrogio, santo Amilcare Barca Amminio, capo dei britanni
650
Amulio, re di Alba Longa Anchise Anco Marzio Anfitrione Aniceto, prefetto Annia Faustina Annibale Barca Annibaliano, Flavio Annio, Lucio Annone il Grande Antemio, Procopio Antilio, Quinto Antillo, figlio di Antonio Antinoo Antioco, re di Palmira Antioco III il Grande, re di Siria Antistia Antonia Cenide Antonia Minore Antonino Pio, Tito Elio Adriano Antonio, Caio Antonio, Iullo Antonio, Lucio Antonio, Marco Apicio, Marco Gavio Apollo Apollodoro di Damasco Apollodoro Siciliano Appio Claudio (figlio) Appio Claudio Appio Claudio Caudex Appio Claudio Cieco Appio Claudio Crasso Appio Claudio Pulcro Appuleio, Lucio Appuleio Saturnino, Lucio Apro, Flavio Aquilia Severa Arbogaste, generale franco Arcadio, Flavio
651
Archia, Aulo Licinio Archimede Ario Ariovisto, re dei suebi Aristodemo, tiranno di Cuma Aristotele Arminio, capo dei cherusci Arrecina Tertulla Artabano V, re dei parti Artaserse, re di Persia Artemidoro Arunte Tarquinio Asdrubale Asdrubale Barca Asdrubale di Gisgone Ascanio Asinio Pollione, Caio Atenagora Attalo III Filometore, re di Pergamo Ataulfo, re dei visigoti Attico, Curzio Attico, Tito Pomponio Attila, re degli unni Attilio Regolo, Marco Augusto, Caio Giulio Cesare Ottaviano Aurelia Aurelia Orestilia Aureliano, Lucio Domizio Aureolo, generale romano Avito, Giulio Avito, Marco Mecilio Eparchio Azia Baal Balbino, Decimo Celio Calvino Barbato, Orazio Basilina Basso, Pomponio Batone, capo dei pannoni Belloveso, capo dei galli
652
Berenice Bestia, Lucio Calpurnio Bibulo, Marco Calpurnio Blossio, Caio Bocco I, re di Mauritania Bona Brenno, capo dei senoni Britannico, Tiberio Claudio Cesare Bruto, Decimo Giunio Albino Bruto, Lucio Giunio Bruto Maggiore, Lucio Giunio Bruto Minore, Marco Giunio Bruttia Crispina Budicca, regina degli iceni Burro, Sesto Afranio Caligola, Caio Giulio Cesare Germanico Callisto Calpurnia Calvino, Gneo Domizio Calvo, Gaio Licinio Camillo, Marco Furio Cantilio, Lucio Canuleio, Caio Capelliano, governatore della Numidia Capitone, Erennio Caracalla, Marco Aurelio Antonino Carausio, Aurelio Valerio Carino, Marco Aurelio Carmenta Carneade Caro, Marco Aurelio Caronte Casca, Publio Cassio, Caio Avidio Cassio, Lucio Cassio, Spurio Cassio Longino, Caio Castore Catilina, Lucio Sergio
653
Catone, Marco Porcio, il Censore Catone, Marco Porcio, l’Uticense Catullo, Caio Valerio Catulo, Caio Lutazio Catulo, Quinto Lutazio Catulo, Quinto Lutazio (padre) Cecilia Metella Cedicio, Marco Ceionia Fabia Celere, architetto Celso, Iuvenezio Celso, Publilio Celtillo, capo degli alverni Censorino, Lucio Cepione, Quinto Servilio Cerere Cesare, Caio Cesare, Caio Giulio Cesare, Caio Giulio (padre) Cesare, Lucio Cesare, Lucio Giulio Cesarione (Tolomeo XV Cesare) Cherea, Cassio Cheremone Chosroe, re dei parti Cibele Cicerone, Marco Tullio Cimbro, Tullio Cincinnato, Lucio Quinzio Cinna, Lucio Cornelio Circe Civile, Giulio Claudia Claudia Atte Claudia Pulcra Claudio, Tiberio Druso Nerone Germanico Claudio II, Marco Aurelio, detto il Gotico Cleandro, Marco Aurelio Clelia Cleopatra VII, regina d’Egitto
654
Cleopatra Selene Clodia Clodio Albino, Decimo Clodio Pulcro, Publio Collatino, Lucio Tarquinio Commodiano Commodo, Marco Aurelio Conso Corbulone, Gneo Domizio Coriolano, Caio Marzio Cornelia (madre dei Gracchi) Cornelia (moglie di Cesare) Cornelia (moglie di Pompeo) Corneliano, Lucio Attidio Corvo, Marco Valerio Cosso, Aulo Cornelio Cossuzia Costante I, Flavio Giulio Claudio Costante Gallo, Flavio Claudio Costantino I il Grande, Flavio Valerio Costantino II, Flavio Claudio Costanza Costanzo, Giulio Costanzo I, Caio Flavio Valerio, detto Cloro
Costanzo II, Flavio Giulio Costanzo III Cotta, Caio Aurelio Cotta, Lucio Aurelio Cotta, Lucio Aurunculeio Crasso, Marco Licinio Crasso, Marco Licinio (figlio) Crasso, Publio Licinio Crasso, Publio Licinio (figlio) Crispo, Flavio Crisso Critolao Curancanio, Tiberio Curiazi, fratelli
655
Dalmazio, Flavio Decebalo, re dei daci Decio, Caio Messio Quinto Decio Mure, Publio Decio Mure, Publio (figlio) Demostene Dentato, Manio Curio Diadumeniano Diana Didimo Didio Giuliano, Marco Didone, regina di Tiro Diocleziano, Caio Valerio Diofane di Mitilene Diogene di Babilonia Diomede Dionisio di Alicarnasso Domizia Lepida Domizia Longina Domizia Lucilla Domiziano, Tito Flavio Domizio Enobarbo, Gneo Domizio Enobarbo, Gneo (padre di Nerone) Domizio Enobarbo, Lucio Drusilla Druso, Marco Livio Druso, Marco Livio (figlio) Druso Maggiore, Claudio Nerone Druso Minore, Giulio Cesare Duilio, Caio Ecelobio Ecletto Egeria Egesteo Elena (madre di Costantino) Elena (moglie di Giuliano l’Apostata) Elena di Troia El-Gabal Elia Petina
656
Eliogabalo, Marco Aurelio Antonino detto Emilia Emiliano, Marco Emilio Enea Ennia Nevia Trasilla Ennio, Quinto Enomao Epaminonda Epitteto Ercole Erode il Grande, re di Giudea Ersilia Eschilo Etovito, comandante dei cenomani Eugenio, Flavio Euno Euripide Eusebia Eusebio, vescovo di Nicomedia Evandro, principe d’Arcadia Ezio, Flavio Fabio Massimo, Quinto, detto il Temporeggiatore Fabio Pittore, Quinto Fannio, Caio Farasmane d’Iberia Farnace II, re del Bosforo Fauno Fausta Faustina Maggiore, Annia Galeria Faustina Minore, Annia Galeria Faustolo Filippo, Marco Giulio, l’Arabo Filippo V, re di Macedonia Filocrate Filone l’Ebreo Fimbria, Caio Flavio Flacco, Lucio Valerio Flacco, Lucio Valerio (generale romano) Flacco, Marco Fulvio
657
Flacco, Quinto Fulvio Flaminino, Lucio Quinzio Flaminino, Tito Quinzio Flaminio, Caio Flavia Domitilla Flavia Tiziana Flora Floriano, Marco Annio Floronia Fortuna Fritigerio, capo dei goti Frontone, Claudio Fulvia Furia Tranquillina Gabinio, Aulo Gaiobomaro, re dei marcomanni Galba, Servio Sulpicio Galerio, Caio Valerio Massimiano Galgago, capo dei britanni Galla Galla Placidia Gallieno, Publio Licinio Gallo, Caio Cornelio Ganimede Gannys Gemino, Livio Genserico, re dei vandali Germanico, Giulio Cesare Gesù Cristo Geta, Lucio Settimio Getulico, Gneo Cornelio Giano Ginecea Giocasta Giovanni Evangelista, san Giove Gioviano, Flavio Gisgone, generale cartaginese Giugurta, re di Numidia
658
Giulia (figlia di Cesare) Giulia (figlia di Tito) Giulia (nipote di Tiberio) Giulia (sorella di Cesare) Giulia (zia di Cesare) Giulia Avita Mamea Giulia Cornelia Paula Giulia Domna Giulia Drusilla Giulia Livilla Giulia Maggiore Giulia Mesa Giulia Minore Giulia Soemia Bassiana Giuliano, Flavio Claudio, l’Apostata Giuliano, Ulpio Giulio Agrippa II, re di Giudea Giunio, co-reggente di Macriano Giunone Giustina Giustino Giuturna Glabrione, Marco Acilio Glabro, Claudio Glaucia, Servilio Glicerio Gnifone, Marco Antonio Gordiano I, Marco Antonio Gordiano II, Marco Antonio Gordiano III, Marco Antonio Gracco, Caio Sempronio Gracco, Tiberio Sempronio Gracco, Tiberio Sempronio (padre) Graziano, Flavio Grecino, Giulio Hermes Honos Iarba, re dei getuli Icelo, liberto di Galba
659
Iempsale, re di Numidia Ierocle di Smirne Ierone II, tiranno di Siracusa Induziomaro, re dei treveri Ippocrate di Cos Irzio, Aulo Iside Iulio Severo, Sesto Minucio Faustino Kniva, re dei goti Kokheba, Shimon Bar Labieno, Tito Lacone, Cornelio Latino Larcio, Tito Lavinia Leda Lelio Minore, Caio Lentulo, Gneo Cornelio Lentulo, Lucio Cornelio Leone I il Trace Leone I Magno, papa Lepida Lepido, Marco Emilio Leto, Quinto Emilio Levino, Publio Valerio Libanio di Antiochia Libone, Lucio Scribonio Licinia Eudossia Licinio, Valerio Liciniano Livia Drusilla Livilla Livio, Marco, detto il Salinatore Livio, Tito Livio Andronico, Lucio Locusta Lollia Paolina Lucano, Marco Anneo Lucano, Terenzio Lucceio, Lucio
660
Lucilio, Caio Lucilla, Annia Lucrezia Lucrezio, Spurio Lucullo, Lucio Licinio Luna Macriano, Tito Fulvio Macrino, Marco Opellio Macrone, Sutorio Maggioriano, Giulio Magnenzio, Flavio Magno Magone Barca Mamers Mamilio, Ottavio Manlia Scantilla Manlio Capitolino, Marco Manlio Torquato, Tito Marcello, Caio Claudio Marcello, Caio Publicio Marcello, Marco Claudio Marcello, Marco Claudio (nipote di Augusto) Marcello, Sesto Vario Marcello, Ulpio Marcia Marcia Furnilla Marcia Octalia Severa Marciano, Elio Marciano, Gessio Marco Aurelio Mardonio Marino, sceicco della Traconidite Mario, Caio Mario, Caio (figlio) Maroboduo, re dei marcomanni Marte Marte Silvano Marziale, Giulio Marziale, Marco Valerio Massenzio, Marco Aurelio Valerio
661
Massimiano, Marco Aurelio Valerio Massimino, Caio Giulio Vero, detto il Trace
Massimino Daia, Caio Galerio Valerio Massimo, Magno Clemente Massimo, Petronio Massimo della Jonia Massinissa, re di Numidia Mecenate, Caio Cilnio Mecia Faustina Memmio, Caio Menelao Mercurio Messalina, Statilia Messalina, Valeria Messalla Corvino, Marco Valerio Metello, Lucio Cecilio Metello Numidico, Quinto Cecilio Metello Pio, Quinto Cecilio Micipsa, re di Numidia Milone, Tito Annio Milonia Cesonia Minerva Minucio, Caio Minucio, Lucio Esquilino Minucio Rufo, Marco Mitra Mitridate VI Eupatore, re del Ponto Modestino, Erennio Mummio, Lucio Musa, Antonio Narcisso Natale, Antonio Neottolemo Nepote, Giulio Nepote, Platonio Nepoziano, Flavio Popilio Nerone, Caio Claudio Nerone, Giulio Cesare
662
Nerone, Lucio Domizio Enobarbo Nerva, Marco Cocceio Nettuno Nevio, Gneo Nicomede IV Filopatore, re di Bitinia Nigrino, Caio Avidio Norbano, prefetto Numa Pompilio Numeriano, Marco Aurelio Numerio Numitore, re di Alba Longa Nunazia Plancina Ocrisia di Cornicolo Odenato, Settimio Odoacre Ofella, Quinto Lucrezio Olibrio Omero Onorio, Flavio Opimio, Lucio Oppio, Caio Orazi, fratelli Orazio, Marco Orazio Coclite Orazio Flacco, Quinto Orbiana Oreste Ortensio, Quinto Ortensio Ortalo, Quinto Ostiliano Messio Quinto, Caio Valerio Otone, Marco Salvio Ottavia (figlia di Claudio) Ottavia (sorella di Augusto) Ottavio, Caio Ottavio, Gneo Ottavio, Marco Ovidio Nasone, Publio Pacaziano, Tiberio Claudio Marino Pacoro II, re dei parti Pacoro III, re dei parti
663
Pacuvio, Marco Pale Pallante Palma, Cornelio Panezio Pansa, Caio Vibio Panthea Paolo, Giulio Paolo, Lucio Emilio Papiniano, Emilio Papio Mutilio Papirio, Lucio Papirio, Manio Papirio, Marco Papirio Carbone, Gneo Papirio Cursore, Lucio Papirio Dionisio, Aurelio Paride Parthamasiris Parthamaspates, re dei parti Paterno, Tarrutenio Perenne, Tigidio Pericle Pertinace, Publio Elvio Pescennio Nigro, Caio Petreio, Marco Petronio, P. Petronio, Secondo Petronio Arbitro, Caio Pilato, Ponzio Pirro, re dell’Epiro Pisone, Caio Calpurnio Pisone, Cesonio Calpurnio Pisone, Gneo Calpurnio Pisone Liciniano, Calpurnio Pizia Platone Plautilla, moglie di Caracalla Plauto, Rubellio Plauto, Tito Maccio
664
Plauziano, Caio Fulvio Plauzio, Laterano Plinio, Cecilio Secondo, il Giovane Plinio, Secondo Caio, il Vecchio Plotino Plutarco Polibio Polluce Pompea (figlia di Pompeo) Pompea (moglie di Cesare) Pompedio Silone, Quinto Pompeia Plotina Pompeiano, Tiberio Claudio Pompeiano Quinziano, Claudio Pompeo, Gneo Pompeo Magno, Gneo Pompeo, Sesto Pompeo Rufo, Quinto Pomponia Ponzio, Gavio, capo dei sanniti Poppea Sabina Porsenna, re di Chiusi Postumio, Aulo Postumio Albino, Spurio Postumo, Marco Cassiano Latino Potito, Valerio Prasutago, re degli iceni Prisco, Caio Giulio Prisco, Lucio Prisco, Nerazio Prisco, Stazio Probo, Marco Aurelio Proca, re di Alba Longa Proculo, Giulio Properzio, Sesto Publilio, Caio Publilio Filone, Quinto Pulvillo, Marco Orazio Pupieno Massimo, Marco Clodio
665
Quartino, Tito Quieto, co-reggente di Macriano Quieto, Mauro Lusio Quintillo, co-reggente di Claudio II Quirino Roma Rea Silvia Remo Repentino, Cornelio Ricimero, Flavio Romolo Romolo Augustolo Rufino, Flavio Rufo, Fenio Sabino, Caio Ninfidio Sabino, Caio Salvino Sabino, Fulvio Sabino, Quinto Titurio Sabino, Tito Flavio Sallustio Crispo, Caio Salviano Salvidieno Rufo Salvio, Quinto Santippo, comandante cartaginese Saotero, Elio Sapore I, re di Persia Sapore II, re di Persia Satireo, Publio Saturnino, Giulio Scevino, Flavio Scevola, Caio Muzio Cordo Scipione, Gneo Cornelio Scipione, Metello Scipione, Publio Cornelio (figlio dell’Africano) Scipione, Publio Cornelio (padre dell’Africano) Scipione Africano, Publio Cornelio Scipione Asiatico, Lucio Cornelio Scipione Emiliano, Publio Cornelio Scipione Nasica Corculum, Publio Cornelio Scribonia
666
Seiano, Lucio Elio Sempronia Sempronio Longo, Tiberio Seneca, Lucio Anneo Serapide Sertorio, Quinto Serviano, Giulio Urso Servilia Servilio, Publio Servilio Gemino, Gneo Servilio Isaurico, Publio Servio Tullio Sesto Laterano, Lucio Sesto Tarquinio Severiano, governatore della Mesia e della Macedonia Severiano, Marco Sedazio Severo, architetto Severo, Flavio Valerio Severo, Libio Severo, Lucio Settimio Severo Alessandro, Marco Aurelio Severo Filippo, Marco Giulio Sibilla Siccio, Licio, detto Dentato Sicinio Belluto Siface, re di Numidia Silia, Caio Silla, Cornelio Silla, Fausto Cornelio Silla, Lucio Cornelio Silla, Publio Cornelio Silvio Socrate Soemo, re d’Armenia Sofocle Spartaco Spurinna Stazio, Cecilio Stilicone, Flavio Stolone, Caio Licinio
667
Sulpiciano, Flavio Sulpicio, Quinto Sulpicio Rufo, Publio Sulpicio Severo Sulpicio Simile, Caio Svetonio Paolino, Caio Tacito, Cornelio Tacito, Marco Claudio Tanaquilla Tarpea Tarquinia (figlia di Tarquinio Prisco) Tarquinia (sorella di Tarquinio il Superbo) Tarquinio, Lucio, il Superbo Tarquinio Prisco, Lucio Tasgezio, re dei galli Tazia Tazio, Tito Telegono Teodora Teodosio, Flavio Teodosio I il Grande, Flavio Teodosio II, Flavio Teodoto di Chio Terenzio Afro, Publio Tertulliano, Quinto Settimio Florenzio Tetrico, Caio Pio Esuvio Tiberino Tiberio, Claudio Nerone Tiberio, Claudio Nerone (padre) Tiberio, Giulio Alessandro Tiberio Gemello Tibullo, Albio Tigellino, Ofonio Tigrane V, re d’Armenia Timesiteo, Furio Sabino Tiridate I, re d’Armenia Tiridate III, re d’Armenia Tiro, re della Fenicia Tito, Flavio Vespasiano
668
Tito, Flavio Vespasiano (figlio) Tito Tarquinio Tolemeo, re della Mauritania Tolemeo I Sotere, re d’Egitto Tolemeo VII Neo Filopatore, re d’Egitto Tolemeo XI Alessandro II, re d’Egitto Tolemeo XII Aulete, re d’Egitto Tolemeo XIII Filopatore Filadelfo, re d’Egitto Traiano, Marco Ulpio Traiano, Marco Ulpio (padre) Trasillo Treboniano Gallo, Caio Vibio Tullia Tullo Ostilio Turbone, Quinto Marcio Turno, re dei rutuli Turno Erdonio Ulisse Ulfila, vescovo Ulpiano, Domizio Ummidio Quadrato, generale romano Ummidio Quadrato, Caio Uranio Antonino, Giulio Aurelio Sulpicio Urbinia, vestale Valente, Flavio Valentiniano I, Flavio Valentiniano II, Flavio Valentiniano III, Flavio Valeria Valeriano, Publio Licinio Valerio Publicola, Publio Varinio, Publio Varo, Publio Quintilio Varrone, Caio Terenzio 137 Varrone Murena, Aulo Terenzio Veientone Peprena, Marco Venere Vercingetorige, capo degli alverni Vero, Lucio Aurelio
669
Vero, Lucio Elio Cesare Ceionio Commodo Vero, Marzio Vesta Vestino, Marco Attico Veturia Veturio, Tito Vibia Sabina Vibulano, Quinto Fabio Villio, Caio Vindice, Caio Giulio Viniciano, Annio Vinio, Tito Virgilio Marone, Publio Virginia Virginio, Lucio Vitaliano, capo dei pretoriani Vitellio, Aulo Vittorino Vittorino, Caio Aufidio Vittorino, Furio Vologese I, re dei parti Vologese II, re dei parti Vologese III, re dei parti Vologese V, re dei parti Volumnia Volusiano Gallo, Caio Vibio Afinio Veldummiano Vulca Vulcano Vulsone, Manlio Vulsone Longo, Lucio Manlio Zenobia, Settimia, regina di Palmira Zenone Zosimo
670