Parmenide: tradizione del testo e questioni di lingua 0685358444, 0685833591, 9788871406688


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Parmenide: tradizione del testo e questioni di lingua
 0685358444, 0685833591, 9788871406688

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S E M I N A R I R O M A N I D I C U LT U R A G R E C A

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QUADERNI - 12

Enzo Passa PARMENIDE TRADIZIONE DEL TESTO E QUESTIONI DI LINGUA

Edizioni Quasar

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seminari romani di cultura greca quaderni

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quaderni dei seminari romani di cultura greca collana diretta da luigi enrico rossi e maria grazia Bonanno

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1. r. Pretagostini (cur.), La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di ricerca, pp. 224, anno 2000 2. e. dettori, Filita grammatico. Testimonianze e frammenti, pp. 244, anno 2000 3. l. sbardella, Filita. Testimonianze e frammenti poetici, pp. 224, anno 2000 4. e. magnelli, Studi su Euforione, pp. 212, anno 2002 5. e. rocconi, Le parole delle Muse. La formazione del lessico tecnico musicale nella Grecia antica, pp. 156, anno 2003 6. r. nicolai (cur.), RUSMOS . Studi di poesia, metrica e musica greca offerti dagli allievi a Luigi Enrico Rossi per i suoi settant’anni, pp. 400, anno 2003 7. r. nicolai, Studi su Isocrate. La comunicazione letteraria nel IV sec. a.C. e i nuovi genere della prosa, pp. 224, anno 2004 8. r. Pretagostini - e. dettori (curr.), La cultura ellenistica. L’opera letteraria e l’esegesi antica, pp. 486, anno 2004 9. l. leurini, L’edizione omerica di Riano di Creta, pp. 164, anno 2007 10. r. Pretagostini - e. dettori (curr.), La cultura letteraria ellenistica. Persi­ stenza, innovazione, trasmissione, pp. 344, anno 2007 11. r. Pretagostini, Ricerche sulla poesia alessandrina II. Forme allusive e contenu­ ti nuovi, pp. 244, anno 2007 12. e. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, pp. 168 anno 2009

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enzo Passa

Parmenide Tradizione del TesTo e QuesTioni di lingua

edizioni quasar roma 2009

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questo volume è pubblicato con il contributo del dipartimento di antichità e tradizione classica dell’università di roma “tor Vergata”

© roma 2009, edizioni quasar di severino tognon srl, Via ajaccio 41-43, 00198 roma tel (39)0685358444, fax (39)0685833591 e-isBn 978-88-7140-668-8 Finito di stampare nel mese di marzo 2009 presso arti grafiche la moderna, via di tor cervara 171 - roma

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sommario

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Premessa

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introduzione: Parmenide tra elea e atene Parte i: la trasmissione del poema nell’antichità capitolo 1: le fonti e la loro attendibilità

21 22 25 27 29 32 33 35 37 40

1. Cronologia delle fonti di testo 2. Valore e limiti delle testimonianze di Platone 3. Platone, Aristotele, Teofrasto: tradizioni attiche e livelli di atticizzazione 4. Il problema delle fonti di Plutarco 5. Sesto Empirico (e Diogene Laerzio?): tracce di una tradizione alternativa 6. Clemente Alessandrino 7. L’interpretatio neoplatonica 8. Tradizioni (neo)platoniche 9. Proclo 10. Simplicio capitolo 2: Problemi di costituzione del testo

45 48 51 57 61 66

1. Appropriazione platonica (B 8. 38) 2. Validità del testo di Aristotele (B 16. 2) 3. I versi programmatici del proemio (B 1. 29) 4. Sesto Empirico e la redazione psilotica del proemio (B 1. 24 s. e B 1. 20 s.) 5. Essere “unigenito” e Essere “intero” (B 8. 4) 6. Simplicio, Platone e le ‘formule dell’identità’ (B 8. 29 s.) Parte ii: tradizione epica e dialetto ionico capitolo 1: la dizione dei frammenti

73 77 86 92

1. Trattamento di [w] 2. Metatesi di quantità 3. Sillabazione 4. ­n efelcistico

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8

99 100 104 111 112

capitolo 2: Forme notevoli 1. sfa±~ (B 1. 12) 2. plh'ntai (B 1. 13) 3. plavttontai (B 6. 5) 4. ajnwvleqron (B 8. 3) e ajnwvnumon (B 8. 17) 5. ejpideev" (B 8. 33) Parte III: rapporti con altre tradizioni letterarie

119 119 120 124 124 124 125

Capitolo 1: atticismi della tradizione 1. L’antichità degli atticismi parmenidei 2. a– per h 3. Contrazioni e crasi 4. ei per e 5. Atticismi nel consonantismo 6. Restituzione di aspirazioni iniziali 7. Participio di eijmiv

129 131 132 137 141

Capitolo 2: Influsso della lirica corale 1. La lirica dorica e la lingua poetica di Parmenide 2. Forme con a– nella poesia esametrica 3. suna–voro" (B 1. 24) 4. divkra–noi (B 6. 5) 5. euja–gevo" (B 10. 2)

143

conclusioni

151

abbreviazioni

153

Bibliografia

161

indice delle parole greche

163

indice dei passi discussi

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Ai miei genitori

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Premessa

ajll∆ o{ ge teryavmeno" nei'tai kai; pleivona eijdwv" questo libro raccoglie ed amplia gran parte dei miei studi sulla lingua di Parmenide, iniziati con la tesi di laurea e proseguiti con il dottorato di ricerca. in rapporto a un autore del calibro di Parmenide l’espressione ’studi sulla lingua’ è certamente ambigua e richiede alcuni chiarimenti. anzitutto devo dire che il mio approccio al testo parmenideo è di natura prettamente filologica e storico-linguistica, anche se ciò non significa che le questioni filosofiche siano sempre rimaste al margine della mia trattazione: non può esistere studio sulla lingua di Parmenide che faccia a meno dei contenuti che essa veicola. in secondo luogo il mio libro, pur avendo una sua unità, non ambisce in alcun modo ad essere un lavoro sistematico, che analizzi la lingua parmenidea in tutti i molteplici aspetti sotto cui si presta ad essere indagata. in particolare manca uno studio esaustivo del lessico e della sintassi, di cui mi sono occupato esclusivamente là dove lo abbia ritenuto necessario alla corretta intelligenza di un passo o di un problema specifico. Ho iniziato le mie ricerche sulla lingua di Parmenide percorrendo la via fino a oggi più battuta negli studi, quella – fondamentale – del rapporto tra la dizione parmenidea e i suoi modelli epici. quindi mi sono rivolto a studiare il delicato problema dei rapporti tra i dialetti e le tradizioni letterarie in un poeta attivo in un’area di intensi contatti culturali e linguistici come il mondo coloniale d’occidente. a un certo punto, tuttavia, si è delineata ai miei occhi con contorni sempre più nitidi una questione che non ho tardato a riconoscere della massima importanza: mentre studiavo i problemi linguistici posti dai frammenti di Parmenide, mi sono infatti accorto che essi non possono essere affrontati con profitto senza che la loro trattazione venga preceduta da un’attenta disamina delle fonti che ci hanno trasmesso i vari testi. in altre parole, ho iniziato a riscontrare convergenze e divergenze significative tra fonti diverse o tra diversi gruppi di fonti; e mi sono convinto che ordinare quelle fonti in base a criteri linguistici avrebbe potuto condurre a un progresso rilevante per la nostra conoscenza della storia del testo di Parmenide. Il mio libro riflette questo percorso di studio. La prima parte è infatti dedicata alla storia del testo di Parmenide nell’antichità, alla discussione sull’at-

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

tendibilità delle fonti e ad alcuni tra i più tormentati problemi di costituzione del testo. la seconda parte si occupa del rapporto tra il dialetto ionico, la dizione parmenidea e quella dell’epica tradizionale. La terza parte, infine, studia l’influsso sul testo di Parmenide di tradizioni poetiche altre rispetto alla tradizione ionico-epica, mettendo in luce da un lato il carattere secondario di un alto numero di elementi linguistici riconducibili all’attico, dall’altro le probabili influenze esercitate su Parmenide dalla lingua della lirica. La bibliografia parmenidea è sterminata, eppure ben poco è stato scritto sui temi di cui mi occupo in questo libro, sui quali esistono solo pochi brevi contributi e nessun lavoro sistematico. queste due circostanze avrebbero potuto portare facilmente al senso di smarrimento e a un abuso di bibliografia secondaria per lenirlo. era tuttavia mia intenzione scrivere innanzitutto un libro leggibile. Perciò ho cercato di non lasciarmi disorientare e di resistere alla tentazione di sommergere la mia trattazione sotto il peso di una bibliografia spropositata. ringrazio emanuele dettori, che ha seguìto da vicino tutte le fasi di elaborazione di questo libro, mettendo a mia disposizione il suo sostegno scientifico e umano. Un sentito ringraziamento va a Luigi Enrico Rossi, che con la consueta generosità mi ha offerto numerosi suggerimenti e correzioni, e a maria grazia Bonanno, cui debbo il costante incoraggiamento nella prosecuzione dei miei studi; aggiungo qui il mio grazie ad entrambi per aver voluto accogliere questo libro nella prestigiosa collana da loro diretta. Ringrazio anche Heinz-günther nesselrath per la cortesia e la disponibilità dimostratemi in occasione di diversi soggiorni di studio presso l’università di göttingen, dove hanno visto la luce numerose delle idee portanti di questo lavoro. Un pensiero di affetto e gratitudine va a roberto Pretagostini, mio tutore negli anni del dottorato, immaturamente scomparso. Ringrazio infine il mio maestro Albio cesare cassio, che per primo ha saputo suscitare in me, ancora studente, l’interesse per la filosofia presocratica. Vorrei ringraziare anche quanti mi hanno sempre sostenuto nel mio lavoro, in particolare le amiche laura rossi e olga tribulato, che hanno condiviso e condividono con me la passione per la civiltà dell’antica grecia. Il mio ultimo grazie va ai miei genitori, cui questo libro è dedicato, per avermi dato generosamente la possibilità di scegliere un indirizzo di studi che forse non hanno condiviso. roma, giugno 2008

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IntroduzIone ParmenIde tra elea e atene

1. Il ‘parricidio’ platonico e la cronologia di Parmenide Sulla biografia di Parmenide non si hanno molte notizie sicure. Tra le relativamente poche giunte fino a noi spicca indubbiamente, per la ricchezza dei dettagli forniti, una testimonianza platonica di dubbia autenticità. racconta infatti Platone (Parm. 127b) che Parmenide, ormai avanti negli anni (e u\ m avl a h[ d h p r e s b uv t h n ... sfovdra poliovn, kalo;n de; kajgaqo;n th;n o[yin, p e r i; e[ t h m av l i s t a p ev n t e k a i; eJ x hv k o n t a), visitò atene in compagnia di Zenone durante le feste Panatenee e qui incontrò il giovane Socrate. L’episodio dovrebbe quindi essere collocato attorno al 450 a. C. e farebbe supporre per Parmenide una data di nascita attorno al 515 a. c. resta il fatto che il racconto platonico ha tutta l’aria di essere una finzione letteraria. Come ha scritto di recente Kingsley 1999, p. 40, «from beginning to end the setting of the Parmenides is skilfully designed with one purpose in mind. that’s to present Socrates and Plato – not Zeno or anyone else – as the legitimate heirs to Parmenides’ teaching». non ci resta allora che riferirci alla testimonianza di apollodoro di atene, il quale ha fissato l’ ajkmhv di Parmenide durante la 69a olimpiade (504-501 a. c.)1. Se ne ricava una data di nascita attorno al 540 a. C.: il nostro filosofo doveva pertanto essere morto da un bel pezzo quando il giovane Socrate calcava le strade di atene. le motivazioni dell’anacronismo del Parmenide si comprendono meglio se si considera la seconda fondamentale testimonianza platonica sul filosofo di Elea, quella contenuta nel Sofista (241d-242a), dove si consuma niente di meno che – per usare la stessa espressione di Platone – il “parricidio” di Parmenide. Fuor di metafora ciò significa che la dottrina parmenidea, posta a fondamento di quella platonica, è ora riassorbita e superata da quest’ultima. L’operazione è secondo Platone così violenta e audace da configurarsi come un autentico parricidio, un recidere di netto il legame di discendenza; verso nessun altro filosofo precedente Platone aveva mai mostrato tanto rispetto. l’insegnamento da trarre dalla lettura impregiudicata dei passi del Par­ menide e del Sofista è quindi molto semplice: la filosofia parmenidea, nata a 1

VS a 1 e 5; FGrHist ii d, p. 807 s.; vd. Passa (2005, pp. 64-66).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

elea dall’unione feconda tra il pensiero ionico e la tradizione italica, è stata deliberatamente strappata al contesto originario e trasportata ad atene per legittimare la nuova filosofia che Platone vi stava elaborando. Questo non è voler sminuire Platone; è invece riconoscere anche alla filosofia un requisito essenziale in ogni altro campo della letteratura greca. ogni innovazione si iscrive in una tradizione, e chi la crea ha sempre bisogno di esibire le credenziali che la legittimano. l’atene del V secolo non possedeva una tradizione filosofica tale da competere con la Ionia o la Magna Grecia: occorreva pertanto crearla, anche a costo di commettere un “parricidio”. 2. Elea e Atene nel V secolo a. C. sulla scia della testimonianza platonica i presunti rapporti tra Parmenide e Socrate sono stati letti da molti all’interno di un più ampio quadro di relazioni tra elea e atene. P. es. Panebianco (1970, p. 59) ha immaginato i “possibili incontri” di Parmenide e Zenone con Pericle; Pozzi Paolini (1970, p. 189) ha visto nelle analogie tra la monetazione eleatica e quella ateniese il segno della «precisa volontà politica di richiamarsi al sigillo di atene». Nelle emissioni monetali di Elea i motivi iconografici che possono costituire la spia di un’apertura verso atene vanno nel complesso assegnati alla seconda metà del V sec. a. C. Per quanto attiene al primo periodo della monetazione eleatica (ca. 535-465 a. c. secondo la periodizzazione di Williams 1992), gli indicatori suggeriscono al contrario «la diffusione o il trapianto di una forma particolare della monetazione tramite la migrazione», e invitano a concludere che «la monetazione sia arrivata sulla costa tirrenica come parte del bagaglio dei nuovi colonizzatori focei» (rutter 2002, p. 171). È solo attorno agli anni centrali del V sec a. c. (ca. 465-440 a. c. secondo Williams 1992) che si svolge l’evoluzione verso motivi iconografici collegabili con l’ambiente ateniese, la testa galeata di atena e la civetta con ali aperte o chiuse, evoluzione che però risulta compiuta dopo il 440 a. c. È quindi solo a partire da quest’epoca, in cui cade anche la data di fondazione di Turi (444/443 a. C.), che noi possiamo immaginare una qualche forma di entente politica tra atene e elea. se, come credo, la cronologia di Parmenide è quella alta, la seconda metà del V sec. a. C. è un terminus troppo recente per ammettere un suo ruolo in iniziative di convergenza politica con atene. Parmenide fu certamente un uomo politico di enorme prestigio e, se ci fidiamo delle testimonianze antiche (Speusippo, Plutarco)2, diede ad elea una legislazione tanto solida da garantirle la prosperità per secoli. anche uno scolio all’Alcibiade primo (119a) enfatizza l’attività politica di Parmenide e la presenza nel suo poema filosofico di tematiche politiche. È invece Aristotele, nel Protrettico (fr. 5 ross), ad affermare che Parmenide fu un pensatore occu2

Vd. diog. laert. 9. 23, Plut. adv. Col. 1126a; cf. anche strab. 6. 1. 1 (VS a 1 e 12).

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Parmenide tra Elea e Atene

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pato esclusivamente da interessi teoretici. ciò potrebbe rappresentare la spia di una ‘politicizzazione’ della figura di Parmenide avvenuta negli ambienti dell’accademia per opera di Platone e dei suoi immediati successori, e di una successiva sua ‘depoliticizzazione’ ad opera di aristotele. secondo le fonti anche un altro illustre cittadino eleate, allievo di Parmenide, ha giocato un ruolo importante nella saldatura dei vincoli politici tra la sua città e Atene: Zenone. Argomenti a sostegno di questa tradizione sono la sua cronologia, che è perfettamente compatibile coi dati numismatici, e la testimonianza di Plut. Pericl. 4. 5, che narra del suo soggiorno ad atene. inoltre sembra di poter dedurre dai pochi frammenti rimasti che Zenone, nativo della ionica Elea, avesse composto la sua opera filosofica non in ionico ma in attico, forse in ossequio proprio ai suoi legami con Atene. ma, leggendo bene un passo solitamente trascurato di diogene laerzio (9. 28 = VS 29 a 1), si vede che neppure il grande idillio tra Zenone e atene, presentato dalle fonti attiche, è esente da dubbi: kai; ga;r ou|to~ th;n provteron me;n ÔUevlhn, u{steron de; ∆Elevan, Fwkaevwn ou\san ajpoikivan, aujtou' de; patrivda, povlin eujtelh' kai; movnon a[ndra~ ajgaqou;~ trevfein ejpistamevnhn hj g av p h s e m a' l l o n t h' ~ ∆A q h n a iv w n m e g a l a u c iv a ~, o uj k ej p i d h m hv s a ~ p wv m a l a [mss. t a; p o l l a;] p r o; ~ a uj t o uv ~, ajll∆ aujtovqi katabiouv~.

Questa testimonianza, tanto fastidiosa per gli studiosi da scatenare i più vari emendamenti al testo3, capovolge la visione tradizionale. in particolare la disposizione di Zenone verso atene sarebbe stata tutt’altro che amichevole, anzi indubbiamente ostile (vd. Kingsley 1999, p. 202 s.). A questo dobbiamo forse collegare la storia del furto del libro di Zenone narrata sempre nel Parmenide (128d), che potrebbe indicare una qualche forma di ‘appropriazione’ (e relativa atticizzazione) dell’opera di Zenone da parte degli ambienti filosofici ateniesi. d’altro canto, anche riguardo a melisso dobbiamo rilevare l’ennesima, probabile distorsione della tradizione dossografica. Infatti né Platone né – ancor meno – Aristotele sembrano ritenere Melisso un seguace di Parmenide stricto sensu, cioè un esponente della ‘scuola eleatica’ (Palmer 2002, pp. 21 s. e 41 s.). Al contrario, esiste la possibilità che questa associazione derivi da schemi dossografici di matrice sofistica, forse impostisi grazie a Gorgia (Palmer 2002, p. 48). i due allievi di Parmenide ebbero secondo la tradizione rapporti diametralmente opposti con atene. il secondo fu certamente un oppositore e comandò la vittoriosa spedizione navale dei Samii contro la flotta ateniese nel 441/40 a. C. il primo è invece presentato dalla grande maggioranza delle fonti come un 3 pwvmala è correzione di diels ed è volta a screditare la testimonianza di diogene; vd. Kingsley 1999, pp. 199 ss., 252.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

ammiratore del mondo ateniese; se tuttavia diamo credito alla notizia di diogene Laerzio, anche lui potrebbe avere avuto un rapporto con Atene ben più difficile di quanto la tradizione faccia sospettare. Ad ogni modo proprio la diversa collocazione nel rapporto con atene potrebbe essere alla base delle scelte linguistiche di Zenone e melisso (cassio 1989, p. 143): infatti, mentre nel testo di Zenone ritroviamo il dialetto attico (che si tratti o meno di una caratteristica originaria: cf. sopra), in quello di Melisso ritroviamo invece il dialetto ionico. in sintesi, ci si richiedono probabilmente alcune correzioni dei dati forniti dalla tradizione antica su Parmenide, Elea e Atene, nel senso che è difficilmente ammissibile un coinvolgimento del primo in inziative di convergenza politica con il mondo ateniese. Anche il ruolo di Zenone in questo senso va forse molto smorzato. Quanto a Melisso, è in questione addirittura la sua appartenenza alla ‘scuola eleatica’. 3. Dossografie a confronto La dossografia non nasce in Attica nel IV secolo a. C. Una dossografia pre-platonica, connessa con i movimenti sofistici ed eristici fioriti nella tarda epoca arcaica e in età classica è certamente esistita, come pure deve essere esistita una dossografia di matrice pitagorica4. Purtroppo di questi materiali non sopravvive oggi quasi nulla, e noi non possiamo fare a meno di studiare la storia della filosofia greca sotto la lente deformante della documentazione superstite, che ci proietta inesorabilmente verso atene. Nelle fonti attiche il nome di Parmenide compare fin dall’inizio strettamente connesso a senofane di colofone, il celebre rapsodo itinerante, l’audace oppositore del politeismo che girò in lungo e in largo l’occidente coloniale. secondo la tradizione attica accadde proprio durante il suo soggiorno a elea (aristot. rhet. 1399b 5 e 1400b 5 = VS 21 a 12 e 13) che Parmenide si accostasse alla filosofia e ne divenisse il più fedele discepolo. Sul finire dell’età classica questa diadochv si era fissata nelle Fusikai; Dovxai di teofrasto5; continuerà a godere di ottima salute ancora nove secoli dopo, con simplicio, che si appoggerà proprio all’autorità dell’importante filosofo peripatetico: Xenofavnhn to;n Kolofwvnion t o; n P a r m e n iv d o u d i d av s k a l o n (phys. 22 = VS 21 a 31; cf. 28 a 1). In tutta questa storia Platone è uno snodo fondamentale, sia che ne rappresenti lui stesso il punto di partenza, sia che abbia lavorato su del materiale preesistente. nel Sofista (242d) lo straniero di elea ricorda in senofane il capostipite – o almeno un capostipite – della “gente eleatica” (to; de; par∆ hJmw'n ∆Eleatiko;n e[qno", aj p o; X e n o f av n o u " te kai; e[ti provsqen aj r x av m e n o n ), che talora è stata intesa dagli studiosi nel senso di una vera e propria équipe filosofica caratterizzata da un patrimonio speculativo comune. 4 Vd. Mansfeld (1986); cf. anche più avanti.

5 questo, e non Fusikw'n Dovxai, era probabilmente il titolo esatto del trattato teofrasteo; vd. mansfeld 2002, p. 284 s.

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Parmenide tra Elea e Atene

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negare com’è stato fatto talvolta la storicità del soggiorno di senofane a elea o la presenza di reminiscenze senofanee in Parmenide sarebbe assurdo. Tuttavia storicamente la “scuola eleatica” è stata qualcosa di molto diverso dall’austero ritrovo di filosofi razionalisti spesso immaginato. Fu infatti anzitutto un sodalizio di medici e mistici consacrati a apollo Ou[lio" (“guaritore”), probabilmente istituito da Parmenide stesso, come ci autorizza a supporre la bella iscrizione trovata a casal Velino nel 1962: Pa[r]meneivdh" Puvrhto" Ouj­ liavdh" fusikov"6. Fortunatamente, attraverso diogene laerzio (9. 21 = VS 28 a 1), resta traccia di una tradizione che si attaglia meglio al quadro offerto dall’epigrafia. Essa risale alle Diadocai; tw'n filosovfwn del biografo peripatetico sozione (iii-ii sec. a. c.) e restituisce, sì, l’immagine di un Parmenide ajkousthv" di senofane, ma in verità fedelissimo discepolo del pitagorico Ameinias, dal quale fu avviato alla “serenità filosofica” (hJsuciva) e a cui volle far erigere un hJrw'o/ n dopo la morte. diels (1900, p. 198) ha immaginato, non in maniera inverosimile, che al tempo di Sozione questo hJrw'o/ n fosse ancora visibile, e che l’iscrizione dedicatagli da Parmenide contenesse un’espressione simile – se non identica – a quella che diogene laerzio derivava da sozione (protrevpein eij" hJsucivan). all’iscrizione potrebbe essere appartenuto anche l’esametro citato da Boezio nella Consolatio philosophiae (4. 6. 38) e assegnato a Parmenide da Peiper (1871, p. 112): ajndro;" dh; iJerou' devma" aijqevre" oijkodovmhsan i cieli forgiarono il corpo di quella sacra persona7.

la sua attribuzione, contestata da Kranz (VS, p. 246), e ignorata dagli altri editori, è ora nuovamente difesa da cerri (1997b) con argomenti convincenti, ai quali io, per parte mia, aggiungerei la perfetta compatibilità dell’esametro con la dizione di Parmenide8. sfortunatamente non sapremo mai se esso apparteneva davvero all’iscrizione dell’hJrw'/on, oppure se – come lo stesso Cerri ipotizza (p. 291 s.) – era invece inserito come omaggio al maestro in un qualche punto del poema filosofico. sappiamo con sicurezza che nei Panoptai di cratino venivano prese di mira teorie pitagoriche; ma è significativo che l’unico brano superstite della commedia (fr. 161 K.-a.) faccia il verso a un noto passo di Parmenide (cf. iii 2 6 ebner (1962, nr. 4), i sec. d. c. la forma Parmeneivdh" viene saldamente attestata anche da uno dei migliori mss. di Platone (il Bodleianus), mentre la restante tradizione ha sempre Parmenivdh". Parmeneivdh" è giudicato autentico da schulze (1892, p. 508), crönert (1902, p. 212 n. 1), merlan (1966, p. 268); ma nel fr. 44 di marco di timone Parmeniv±dh" è garantito dal metro: vd. diels (1902, p. 480). Intendo tornare in altra sede su questo problema. 7 traduzione di cerri 1999, p. 161. 8 notare il digamma non osservato in aijqevre" oijk- (cf. ii 1 § 1. 3) e l’assenza dell’aumento in oijkodovmhsan (att. w/jk-), usuale in ionico (cf. p. es. Herodot. 1. 22, 2. 127 ecc.).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

§ 4) e sia anche al tempo stesso una parodia del dialetto dorico, come a voler suggerire una associazione tra parmenidismo e pitagorismo. la tradizione cui sozione in piena età ellenistica attingeva era probabilmente di origine coloniale e non doveva essere isolata. in un frammento dei Pinakes (442 Pfeiffer = diog. laert. 9. 23) troviamo callimaco impegnato a contestare a Pitagora la paternità del poema in cui si affermava l’identità delle due stelle Vespero e lucifero, restituendola correttamente a Parmenide9. il pitagorismo di Parmenide non è dunque un’invenzione tarda10, e anzi probabilmente non è affatto un’invenzione. lo sapeva bene del resto anche Platone, che ha cercato in vari modi di presentarsi come erede della tradizione pitagorica, suscitando le accuse di plagio mossegli da aristosseno. resta forte la suggestione di diels (1900, p. 199), che individuò ipoteticamente in timeo di taormina la fonte occidentale da cui sozione aveva ricavato le proprie informazioni su Parmenide. ora la scoperta di un nuovo lemma proveniente proprio dal catalogo della biblioteca annessa al ginnasio di taormina (∆Anaxivmandro" Praxiavdou Milhvsio": vac. ejgevneto me;n Qavlew vac.) suggerisce che la biblioteca possedesse una ricca collezione di opere filosofiche11. e va notato che il lemma non porta la forma di gen. Qavlhto", che sarebbe logico attendersi in epoca di koinhv, ma l’antica forma ionica Qavlew12, il che può forse indicare l’autonomia della tradizione conservata a taormina.

9 Vd. Pfeiffer (1949, ad loc.) e Burkert (1961, p. 229). come si evince dalle fonti, i presupposti della scoperta astronomica potrebbero essere stati formulati da Pitagora stesso e trasmessi oralmente ai discepoli. 10 In Strab. 6. 1. 1 Parmenide e Zenone vengono definiti a[ndre" Puqagovreioi; in iambl. vit. Pyth. 267 (che dovrebbe dipendere da aristosseno) Parmenide compare nel catalogo dei pitagorici. 11 È possibile che la biblioteca possedesse anche una copia di anassagora; vd. Blanck (1997, p. 253). 12 a cui fanno riscontro gli ionismi presenti negli altri lemmi taorminesi (tutti relativi a storiografi); vd. Manganaro (1974, p. 400).

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Parte I la trasmIssIone del Poema nell’antIChItà

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CaPItolo 1 le fontI e la loro attendIbIlItà

1. Cronologia delle fonti di testo Parmenide compose un importante poema filosofico denominato secondo l’uso arcaico Peri; fuvsew", di cui oggi restano circa centocinquanta esametri attraverso una fitta rete di citazioni antiche13. i margini della tradizione sono rappresentati da Platone e dal filosofo neoplatonico Simplicio, attivo nella prima metà del VI sec. d. C. A quest’epoca il poema non si era ancora perduto; era tuttavia divenuto molto raro, almeno a sentire Simplicio, il quale dichiarava con orgoglio di possederne una copia (§ 10)14. tra Platone e simplicio un numero abbastanza consistente di testimoni intermedi scandisce le tappe della pressoché millenaria tradizione parmenidea. essi possono essere raccolti in tre gruppi in base alla loro cronologia. (1) Al primo gruppo, il più coerente al suo interno, appartengono, oltre a Platone stesso, aristotele, teofrasto, eudemo, tutti vissuti nel iV sec. a. c. e orbitanti attorno alle due grandi scuole filosofiche ateniesi dell’Accademia e del Peripato. (2) Il secondo gruppo comprende invece figure eterogenee sul piano dottrinario, spesso eclettiche, attive nei principali centri di cultura del mondo ellenistico-romano. schematizzando la cronologia, ne fanno parte Plutarco (i sec. d. c.), galeno (ii sec. d. c.), clemente alessandrino e sesto empirico (iiiii sec. d. c.), diogene laerzio (iii sec. d. c.). (3) nel terzo gruppo sono inclusi esponenti dislocati anch’essi su un asse cronologico e geografico molto vasto, ma nondimeno più omogenei tra loro rispetto ai rappresentanti del gruppo precedente, perché tutti connessi col Neoplatonismo. Schematizzando di nuovo la cronologia abbiamo quindi il fondatore della scuola Plotino (iii sec. d. c.), poi giamblico (iii-iV sec. d. c.), Proclo (IV-V sec. d. C.), Damascio e Ammonio (V-VI sec. d. C.), e infine il loro discepolo simplicio (Vi sec. d. c.). 13 Trascurerò qui alcune fonti minori; un prospetto dettagliato è in O’Brien (1987, I p.

81 ss.). tradizionalmente si nega che i testi completi dei presocratici siano sopravvissuti all’età tardo-antica. ora la recente pubblicazione di sette scolii bizantini al de generatione et corruptione e alla Fisica di aristotele (Xii sec.), relativi al ciclo cosmico di empedocle, ha tuttavia parzialmente mutato il quadro; vd. Rashed (2001a e 2001b) e Primavesi (2001, p. 8 n. 20). Su Parmenide vd. Baldwin (1990). 14

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

i tre gruppi di fonti coprono praticamente senza interruzioni il lungo arco temporale compreso tra il iV sec. a. c. ed il Vi sec. d. c. c’è una sola ma evidentissima lacuna: tra il primo e il secondo gruppo si situa infatti un vuoto di oltre tre secoli, che attraversa tutta l’età ellenistica. Non è facile comprendere le ragioni di questo silenzio. L’ellenismo non fu certo un’epoca di scarsa diffusione dei libri. Benché la circolazione di alcuni testi dovesse svolgersi in prevalenza al chiuso delle scuole filosofiche, per consultare direttamente le opere degli antichi pensatori non doveva essere indispensabile visitare la biblioteca di una celebre scuola ateniese o di qualche altra rinomata istituzione culturale. Oggi sappiamo infatti che quelle opere erano possedute anche da biblioteche di secondo piano15. non può essere neppure sostenuto che il periodo ellenistico sia stato per noi particolarmente avaro di testi filosofici16. se la maggioranza dei frammenti dei presocratici viene da fonti più tarde è solo perché a differenza dell’età ellenistica, quando i testi originali erano facilmente accessibili, in epoca tardo-antica quegli stessi testi erano divenuti molto più rari e dovevano, per così dire, essere allegati all’opera in cui se ne faceva uso. in realtà, se è vero che l’età ellenistica non ci ha dato neppure un verso di Parmenide, d’altro canto credo che proprio quest’epoca, col suo apparente silenzio, sia stata cruciale per l’affermazione di tradizioni normalizzate (cf. introduz. § 3). 2. Valore e limiti delle testimonianze di Platone hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque

Platone è il nostro primo testimone in ordine cronologico ed è, a vari livelli, una figura centrale per capire Parmenide. Platone non solo ha letto e meditato Parmenide in profondità, ma ha avuto anche occasione di conoscere – direttamente o indirettamente – l’ambiente in cui sono state concepite le sue intuizioni, il sodalizio iniziatico dei fwvlarcoi (“signori della caverna”), le pratiche mistiche e mediche che vi si tenevano, le leggi che garantirono a elea secolare stabilità politica. Di questa conoscenza Platone ha fatto un uso volto soprattutto a legittimare la propria filosofia (cf. Introduz. § 1). La sua ricezione del pensiero parmenideo non ha avuto tuttavia quel carattere di monoliticità e di immutabilità nel tempo che ingenuamente le si potrebbe attribuire. anche il pensiero di Platone ha conosciuto una profonda evoluzione; anche Platone avrà pensato 15 come abbiamo visto, nella biblioteca del ginnasio di taormina si custodiva p. es. una copia del Peri; fuvsew" di anassimandro: SEG 47. 1464; cf. introduz. § 3. 16 P. es. nel trattato anepigrafo (ma in realtà probabilmente attribuibile a demetrio lacone), dedicato all’esame di una serie di aporie testuali presenti negli scritti epicurei (PHerc. 1012, fine II sec. a. c.), è citato un frammento altrimenti ignoto di empedocle (B 142).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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e ripensato Parmenide, via via che il suo stesso pensiero si poneva nuovi traguardi. Il rapporto con Parmenide andrà dunque impostato non in termini di ricezione bensì di ricezioni della filosofia dell’Essere: proprio questo è l’assunto di base che guida il recente studio di Palmer. Definire il livello di attendibilità dell’interpretazione di Parmenide data da Platone particolarmente nei dialoghi tardi non rientra negli scopi di questo lavoro. Ad ogni modo, che Platone abbia capito o meno la filosofia parmenidea, e che ci abbia lasciato o meno una formulazione chiara dei risultati a cui era giunto, certo la sua ‘appropriazione’ di Parmenide è stata causa di grossolani fraintendimenti per una innumerevole schiera di filosofi e commentatori successivi (cf. p. es. i 2 § 5). È possibile distinguere almeno due fasi nella ricezione platonica di Parmenide. La prima è implicita in diverse opere della maturità – Simposio, Fedone, Repubblica – e ha il proprio tema fondamentale nell’attribuzione alle Idee dei caratteri dell’essere (Palmer 1999, pp. 3-8, 17 ss.). la seconda compare invece nei dialoghi tardi – Teeteto, Parmenide, Sofista, Timeo – in cui l’essenza della filosofia parmenidea viene racchiusa nelle formule e}n to; pa'n o e}n to; o[n (Palmer 1999, pp. 15, 185 ss.), quindi con una sostanziale identificazione tra l’Essere di Parmenide e l’uno di Platone. nel Parmenide e nel Sofista rimangono inoltre tracce di interpretazioni alternative, probabilmente di matrice sofistica (Gorgia), che Platone discute e mette a contrasto con la sua. Vorrei toccare qui due punti su cui l’autorità di Platone è stata tale da condizionare pressoché nella sua totalità l’interpretazione antica di Parmenide. 2. 1. L'Essere, il cosmo, la sfera (B 8. 42­45 e tim. 33b­c) nel delineare la struttura del cosmo Platone si è ispirato a Parmenide. Particolare suggestione ha esercitato su di lui la similitudine tra l’essere e la sfera contenuta in B 8. 42-45: tetelesmevnon ejstiv pavntoqen, eujkuvklou sfaivrh" ejnalivgkion o[gkw/, messovqen ijsopale;" pavnth/: to; ga;r ou[te ti mei'zon ou[te ti baiovteron pelevnai creovn ejsti th/' h] th/':

se già nel Fedone (108c-109a) Platone aveva preso da Parmenide il modello sferico per applicarlo alla terra, occorre attendere il Timeo per trovare la rappresentazione della grandiosa e immaginifica creazione del cosmo fisico da parte del demiurgo sul modello del vivente intellegibile; e, di nuovo, la forma attribuita al cosmo è quella di una sfera, la più perfetta tra le figure geometriche: Tim. 33b-c sch'ma de; e[dwken aujtw'/ to; prevpon kai; to; suggenev~. tw/' de; ta; pavnta ejn auJtw/' zw'/a perievcein mevllonti zw/vw/ prevpon a]n ei[h sch'ma to; perieilhfo;~ ejn auJtw/'

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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pavnta oJpovsa schvmata: d i o; k a i; s f a i r o e i d ev ~, ej k m ev s o u p av n ­ t h/ p r o; ~ t a; ~ t e l e u t a; ~ i[ s o n aj p ev c o n, k u k l o t e r e; ~ a uj ­ t o; ej t o r n e uv s a t o, p av n t w n t e l e wv t a t o n oJ m o i ov t a t ov n t e a uj t o; eJ a u t w/' s c h m av t w n, nomivsa~ murivw/ kavllion o{moion ajnomoivou. lei'on de; dh; kuvklw/ pa'n e[xwqen aujto; ajphkribou'to pollw'n cavrin. ojmmavtwn te ga;r ejpedei'to oujdevn, oJrato;n ga;r oujde;n uJpeleivpeto e{x[ wqen, oujd∆ ajkoh'~, oujde; ga;r ajkoustovn: pneu'mav te oujk h\n periesto;~ deovmenon ajnapnoh'~, oujd∆ au\ tino~ ejpidee;~ h\n ojrgavnou scei'n w|/ th;n me;n eij~ eJauto; trofh;n devxoito, th;n de; provteron ejxikmasmevnhn ajpopevmyoi pav­ lin. ajphve/ i te ga;r oujde;n oujde; prosh/ev in aujtw/' poqen, oujde; ga;r h\n ...

come ha mostrato Palmer 1999, p. 193 ss., i parallelismi lessicali non interessano solo questi due passi, ma riguardano da un lato gran parte di B 8, dall’altro l’intera sezione del Timeo in cui Platone introduce la descrizione del vivente intellegibile e del cosmo su esso modellato, sezione che comprende anche il passo qui riportato. La concentrazione di ‘parole parmenidee’ al suo interno è altissima e non può essere casuale (in particolare non può essere casuale monogenhv~ in Tim. 31b, ripreso nella chiusa del dialogo: vd. i 2 § 5. 3; anche ejpideev~ in Tim. 33c è probabilmente modellato su B 8. 33: cf. ii 2 § 5). queste riprese lessicali del Timeo invitano a supporre che Platone vedesse nell’essere di Parmenide una sorta di entità cosmica. la stessa conclusione si ricava da soph. 244e, dove vengono citati gli importantissimi versi sulla sfera (B 8. 43-45). l’esegesi di Platone spadroneggerà a mani basse in tutta l’antichità. una conferma è data dal fatto che B 8. 43-45 è il passo parmenideo in assoluto più citato dalle fonti; lo ritroviamo infatti, per intero o in parte, in Aristotele, Ps. Aristotele, Eudemo e più volte in Proclo e simplicio, che spesso citano dal Sofista17. e proprio l’assimilazione dell’essere a un’entità cosmica, impostata (non è il caso di dire se a torto o a ragione) da Platone, è all’origine di alcune delle più pesanti alterazioni subite dal testo di Parmenide in fase antica: la più forte è senza dubbio quella in B 1. 29. Grazie a Platone, dunque, B 8. 42-45 e (soprattutto) Tim. 33b-c diventano agli occhi degli interpreti successivi, dai più antichi fino ai più recenti, momenti pressoché interscambiabili della stessa linea di pensiero: in tal modo Proclo (in Tim. 160d) può commentare il passo del Timeo attraverso quello di Parmenide18, mentre al contrario diels 1897, p. 88, può richiamare le parole del Timeo come miglior commento ai versi parmenidei sulla similitudine della sfera. 2. 2. A lezione da Parmenide (soph. 237a) il secondo punto che vorrei discutere ci conduce invece dal terreno della filosofia a quello della letteratura, perché investe il rapporto tra oralità e scrittura nelle più antiche fasi di trasmissione del poema. 17

Prospetto completo delle fonti in o’Brien 1987, i p. 30 s.

18 Inserendo anche un riferimento alla concezione empedoclea dello Sfero; su questo vd. Pal-

mer 1999, p. 194 n. 20.

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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nel Sofista (237a) Platone rievoca per bocca dello straniero di elea una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli: Parmenivdh" de; oJ mevga" ... paisi;n hJmi'n ou\sin ajrcovmenov" te kai; dia; tevlou" tou'to19 ajpemartuvrato, p e z h'/ t e w| d e eJ k av s t o t e l ev g w n k a i; m e t a; m ev ­ t r w n «ouj ga;r ... novhma» [B 7. 1-2].

come ha scritto cerri 1999, p. 94, siamo dinanzi a un «vero e splendido fotogramma di interno scolastico». l’esposizione in versi, concisa, icastica, funzionale alla memorizzazione dei contenuti fondamentali del poema, era costantemente affiancata, nell’ambito ristretto dell’entourage degli allievi di elea, dall’esposizione dettagliata del maestro, il quale chiariva, specificava, approfondiva i temi di volta in volta affrontati, probabilmente comunicando anche informazioni supplementari non divulgabili all’esterno. Accanto a questa circolazione orale del poema se ne dovette creare abbastanza presto una scritta, l’unica in grado di garantire l’opportuna diffusione delle teorie che vi erano esposte. Fu così che una o più copie del poema presero la via di Atene. quando nel Sofista riferisce il metodo d’insegnamento di un grande filosofo del passato, Platone lo fa con estrema cognizione di causa, perché in fondo lui stesso ha adottato un metodo simile per l’esposizione della sua filosofia, affiancando ai dialoghi l’insegnamento orale riservato ai discepoli dell’Accademia. e tuttavia, proprio a causa di Platone i termini del rapporto tra oralità e scrittura in Parmenide sono stati maldestramente falsati da alcune fonti tarde. così p. es. la Suda ci informa che Parmenide compose anche opere in prosa (cf. 28 A 2). Ma soprattutto è significativo che un travisamento dello stesso genere sia stato operato anche da simplicio, che ha accettato come autentico il testo in prosa che trovava sulla sua copia di Parmenide dopo B 8. 57 (phys. 31. 3 ss.), e che noi sappiamo invece essere uno scolio molto tardo (§ 10). 3. Platone, Aristotele, Teofrasto: tradizioni attiche e livelli di atticizzazione «Wir kommen in unserer recension bestenfalls auf ein attisches exemplar des vierten Jahrhunderts, weiter nicht». questa affermazione di diels 1897, p. 26, si limita a registrare un dato di fatto. È infatti ovvio supporre che tutte le fonti del primo gruppo (§ 1) abbiano avuto accesso a una o più copie del poema, anche se può essere facilmente dimostrato che in più casi non basano le loro citazioni su quei testi, ma citano a memoria. Nella sua impostazione diels ha rinunciato, credo volutamente, a ogni tentativo di interpretazione dei materiali superstiti. a mio parere un tentativo del genere può invece essere esperito, pur tenendo presente la natura congetturale delle conclusioni che ne possono derivare. 19

che ciò che non è non può essere.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

La visione di Diels, ancora oggi accettata più o meno esplicitamente da ogni studioso di Parmenide, mi sembra anzitutto viziata da un eccessivo ‘atticocentrismo’. se è impossibile risalire indietro nel tempo oltre le redazioni del poema possedute dall’accademia e dal Peripato, non è impossibile, al contrario, che ulteriori redazioni, magari diverse o persino molto diverse, siano sopravvissute nella tradizione più tarda. Questo è proprio ciò che può essere accaduto in Sesto Empirico, il quale (a mio giudizio) dipende da una tradizione sostanzialmente non attica (cf. § 5). ma anche all’interno della stessa tradizione attica possiamo provare a tracciare qualche linea di confine per delimitare un terreno rimasto troppo vasto. L’analisi degli apparati critici lascia infatti vedere – a volte soltanto intravedere – che il testo usato (o ricordato) da Platone e Aristotele era diverso da quello usato da Teofrasto. Occorre partire ancora una volta da Platone, ma questa volta per marcare importanti differenze rispetto ai dati biografici e dossografici da lui offerti, dati che come abbiamo visto (cf. introduz. §§ 1-3) danno l’impressione di essere in larga parte falsi. secondo me la tradizione presenta vari appigli per sostenere che Platone riferisca un testo già in parte atticizzato, ma nel complesso notevolmente accurato20 ed esente dalle gravi alterazioni contenute nelle redazioni neoplatoniche. gli indizi portano nella direzione di interventi simili a quelli a cui devono essere state sottoposte le redazioni attiche del testo omerico (modificazioni nel vocalismo e introduzione di aspirazioni, mentre in principio il testo doveva essere psilotico; cf. i 2 § 4 e iii 1 § 6). Penso che si sia creata molto presto – all’epoca di Platone o dei suoi immediati successori – una tradizione che non può essere definita semplicemente “attica”, ma che denominerei piuttosto “accademica”. È stata senza dubbio la tradizione più prestigiosa, quella da cui è stato tratto il maggior numero di copie successive, quella su cui si è basata gran parte delle fonti tarde, ma anche, con il procedere del tempo, quella che ha conosciuto il più alto numero di modificazioni. la tendenza a interpretare il testo di Parmenide, già spiccata in Platone, sarà infatti la regola per i neoplatonici. Delle quattro citazioni di Aristotele, tre compaiono già in Platone e, come hanno fatto altri, sospetto anch’io che siano di seconda mano. Ma è la quarta citazione (B 16), che si ritrova solo in teofrasto, a risultare illuminante. qui, come nelle altre tre, non è escluso che Aristotele citi a memoria, né è possibile dire se si sia basato sullo stesso testo usato da Platone. resta però il fatto che la versione di Aristotele è superiore a quella di Teofrasto (cf. I 2 § 2). osserviamo ora un’interessante coincidenza: aristotele è notoriamente cauto nel dare ragguagli biografici e dossografici su Parmenide e sull’Elea20 cf. p. es. creovn in B 8. 45: ii 1 § 2. 4. nella citazione di B 7. 1-2 Plat. soph. 237a ha conservato p. es. la forma originale del participio ejovnta (iii 1 § 7). anche l’uso di ejpideev~ in Tim. 33c denota l’uso di un testo non ancora modificato (II 2 § 5).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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tismo, mentre Teofrasto è stato il primo a dare una veste sistematica a quegli stessi dati, presentando un quadro che come abbiamo osservato è spesso inesatto, se non addirittura falso. Il mio sospetto è quindi che Aristotele e teofrasto attingessero a tradizioni alternative. niente di strano: ci troviamo nell’ambiente del Peripato, lo stesso ambiente cui si riferivano anche sozione e aristosseno (cf. introduz. § 3); e le loro opinioni su Parmenide non collimavano certo con quelle esposte da Teofrasto. In conclusione è possibile a mio giudizio distinguere quanto meno due tradizioni attiche. una prima tradizione “accademica”, inaugurata da Platone, di cui è possibile seguire le tracce grazie alle fonti tarde, anzitutto Proclo. e una seconda tradizione, di base peripatetica, fortemente atticizzata, il cui esponente principale è teofrasto, non aristotele; la chiamerò nelle pagine che seguono tradizione “dossografica”, in quanto è riflessa sia nell’iniziatore della dossografia filosofica sia nelle fonti che derivano le loro citazioni parmenidee da compilazioni dossografiche (p. es. Clemente Alessandrino: cf. § 6). 4. Il problema delle fonti di Plutarco dopo il lungo silenzio dell’età ellenistica (cf. § 1), brani del poema parmenideo sono trasmessi da Plutarco (B 1. 29-30, B 8. 4, B 13, B 14, B 15). di B 14 e B 15 Plutarco è la nostra unica fonte. sul valore delle citazioni plutarchee è stato scritto molto21. in passato si è spesso negata a Plutarco una conoscenza profonda di Parmenide. in tempi più recenti è stata viceversa sostenuta la sua familiarità con il poema; secondo Hershbell (1972, p. 198) «he had access to a copy of Parmenides’ poem». In linea generale la seconda posizione è più credibile. Nonostante Plutarco stesso abbia dichiarato di fare uso di uJpomnhvmata, alcune varianti di testo fanno pensare che le sue citazioni siano derivate da fonti attendibili. Poco si può dire naturalmente sui brani che abbiamo soltanto grazie a lui22. si ricava invece molto di più dall’esame dei frammenti trasmessi anche da altre fonti. nel tormentatissimo B 8. 4 Plutarco non offre la redazione autentica ma riferisce una versione circolante probabilmente già prima di lui negli ambienti dell’accademia (Whittaker 1971, p. 29 n. 17; d’altronde anche simplicio ha un testo non del tutto autentico: su questi problemi cf. I 2 § 5. 3). Inoltre la redazione plutarchea di B 1. 29 coincide con quella, probabilmente autentica, di sesto empirico e di diogene laerzio, in antitesi con le redazioni platonizzanti di Proclo e Simplicio (cf. I 2 § 3). La mia conclusione è dunque che Plutarco, 21 Fairbanks (1897, pp. 75-87); Ziegler (1951, col. 920); Westmann (1955, pp. 52-55, 234-242, 304 s.); Hemboldt-o’neil (1959, pp. 53-54); martin Jr. (1969, pp. 183-200); Hershbell (1972, pp. 193-208); isnardi Parente (1988, pp. 225-236). 22 I cui pochi guasti si sono verificati tutti in fase medievale: in B 14 si registra la banalizzazione del difficile nuktifaev" (correzione di scaligero) in nukti; favo"; in B 15 l’ametrico ajeiv (forma normale in Plutarco) va corretto in aijeiv.

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e con lui sesto e diogene, avesse presente un testo non ancora intaccato dalle pesanti alterazioni verificatesi nella tradizione neoplatonica. in B 13 (trasmesso, oltre che da Plutarco, anche da Platone, aristotele, sesto empirico, simplicio, stobeo)23 abbiamo un indizio della validità della fonte usata da Plutarco. la conclusione di martin Jr. (1969, p. 199), secondo cui non c’è traccia in Plutarco dell’uso di fonti intermedie, mi sembra più che giustificata, perché è l’unico testimone a menzionare limpidamente soggetto e contesto del frammento in questione: dio; Parmenivde" me;n ajpofaivnei to;n “Erwta tw'n ∆Afrodivth" e[rgwn presbuvtaton, ej n t h'/ k o s m o g o n iv a/ gravfwn: «prwvtiston me;n “Erwta qew'n mhtivsato pavntwn».

l’indicazione della sezione del poema a cui B 13 apparteneva (ejn th'/ kosmogoniva)/ è un unicum in tutte le fonti. Anche l’identificazione del soggetto di mhtivsato è data in forma corretta: si tratta di afrodite, la dea «che a tutto presiede» e «governa l’odioso parto e l’unione spingendo la femmina a unirsi col maschio, e all’inverso il maschio con la femmina»: B 12. 3-6 ejn de; mevsw/ touvtwn daivmwn h} pavnta kuberna'/: pavnta ga;r stugeroi'o tovkou kai; mivxio" a[rcei pevmpous∆ a[rseni qh'lu migh'n tov t∆ ejnantivon au\ti" a[rsen qhlutevrw/.

questo ci viene indicato anche da simplicio, che cita B 13 subito dopo B 12, inserendo nel breve passaggio di raccordo tra le due citazioni le parole (phys. 39): [Parmenivdh"] tauvthn kai; qew'n aijtivan ei\naiv fhsi levgwn «prwvtiston ... pavntwn».

Un quadro molto confuso si ricava invece dalle altre fonti, in particolare da Platone, che introduce la sua citazione in symp. 178b in modo alquanto oscuro, tanto che martin Jr. (1969, p. 192) si chiede se il referente del verso non dovesse essere per così dire supplito attraverso la «listener’s knowledge of Parmenides»: Parmenivdh" de; th;n gevnesin levgei «prwvtiston ... pavntwn».

da Platone possono ipoteticamente dipendere le restanti citazioni di aristotele, di sesto empirico e di stobeo24. 23 Plat. symp. 178b; aristot. metaph. 984b 26; Plut. amat. 756f; sext. emp. math. 9. 9; simpl. phys. 39. 18; stob. ecl. 1. 9. 6. 24 in rapporto a stobeo la probabilità è talmente elevata da non richiedere particolari commenti. Quanto ad Aristotele, va quanto meno notato che neppure lui, come già Platone, specifica il

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Forse non è del tutto impossibile chiarire da quale tradizione testuale Plutarco abbia attinto le sue citazioni. esponente di punta dell’accademia di mezzo, non risiedette solo ad atene, ma fu anche ad alessandria e a roma, dove frequentò diverse biblioteche (Jones 1971, p. 84). Nondimeno, come ho rilevato prima, le sue citazioni sono indenni dalle più vistose alterazioni neoplatoniche e si possono osservare in alcune di esse interessanti coincidenze con le varianti trasmesse da Proclo (cf. § 9), che resse la scuola neoplatonica di Atene nel V sec. d. C. L’ipotesi più probabile resta allora che Plutarco dipenda da una tradizione vicina o identica a quella che ho chiamato “accademica” (cf. § 3). 5. Sesto Empirico (e Diogene Laerzio?): tracce di una tradizione alternativa tra le fonti di Parmenide ce n’è una che, a mio giudizio, conserva tracce di una tradizione testuale alternativa alle tradizioni attiche. È sesto empirico, l’ultimo esponente dello scetticismo pirroniano, vissuto probabilmente tra il ii e il iii sec. d. c. La teoria ancor oggi più accreditata vuole che la citazione del proemio (B 1. 1-30) e l’interpretazione allegorica che sesto ne dà in forma di parafrasi in math. 7. 112-114 derivino da una fonte intermedia, probabilmente un commento stoico, elaborato forse in ambienti vicini a Posidonio25. il punto su cui gli studiosi si sono sempre appoggiati per sostenere la scarsa competenza testuale di sesto empirico è l’ordine delle sue citazioni. sesto cita infatti come un’unica sequenza B 1. 1-30 + B 7. 2-6 + B 8. 1-2 (testo di Mutschmann 1914): B 1. 28 ss. crew; dev se pavnta puqevsqai, hjme;n ∆Alhqeivh" eujpeiqevo" ajtreme;" h\tor hjde; brotw'n dovxa", tai'" oujk e[ni pivsti" ajlhqhv".

soggetto di B 13. la posizione di sesto empirico, che ugualmente non menziona afrodite, merita maggiore attenzione, perché in questo caso è probabile che abbia citato il testo sulla base di Platone (così, dubitativamente, coxon 1986, p. 86), di aristotele o di un’altra fonte intermedia: all’inizio del IX libro Sesto Empirico ricapitola la posizione di poeti e filosofi riguardo ai “principi del tutto” (peri; tou' panto;" ajrcw'n, math. 9. 4), e propone un elenco di brevi citazioni l’una di seguito all’altra; non è escluso che abbia trovato già ‘confezionata’ in una fonte precedente l’organizzazione della sua materia. non va del resto dimenticato che anche simplicio cita spesso brani di Parmenide direttamente da Platone: vd. p. es. n. 41 e i 2 § 1. 25 Per primo reinhardt (1916, p. 33) ha sostenuto una dipendenza diretta di sesto da Posidonio. nei decenni successivi la teoria è stata accolta da molti studiosi (vd. p. es. Burkert 1969, p. 1 n. 1), anche se alcuni hanno negato un rapporto diretto con Posidonio: tra questi il più rappresentativo è senz’altro deichgräber (1958, p. 20 s.). l’ipotesi non ha convinto anche altri studiosi: secondo tarán (1965, p. 20) non si può escludere che «the detailed allegorical paraphrase of Parmenides’ proem is due to sextus himself».

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B 7. 2 ss. ajlla; su; th'sd∆ ajf∆ oJdou' dizhvsio" ei\rge novhma mhdev s∆ e[qo" poluvpeiron oJdo;n kata; thvnde biavsqw, nwma'n a[skopon o[mma kai; hjchvessan ajkouhvn kai; glw'ssan, kri'nai de; lovgw/ poluvdhrin e[legcon.

B 8. 1 s. ejx ejmevqen rJhqevnta. movno" d∆ e[ti qumo;" oJdoi'o leivpetai ...

in realtà, come sappiamo da simpl. cael. 557, che cita di seguito B 1. 28-32, il proemio non si conclude a B 1. 30 ma a B 1. 32: B 1. 31 s. ajll∆ e[mph" kai; tau'ta maqhvseai, wJ" ta; dokou'nta crh'n dokivmw" ei\nai dia; panto;" pavnta perw'nta.

inoltre nella citazione di sesto manca un altro verso prima di B 7. 2, citato da Platone, da aristotele e da simplicio: B 7. 1 ouj ga;r mhvpote tou'to damh'/ ei\nai mh; ejovnta.

questi ‘salti’ da una sezione all’altra del poema dimostrerebbero che sesto trovava già confezionato nella sua fonte l’assemblaggio del testo riferito (cf. p. es. Sider 1985, p. 366). Non va però escluso che abbia unificato consapevolmente parti del poema in origine separate26. infatti all’interno della sua argomentazione la citazione parmenidea è funzionale all’assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza (oJ de; ... Parmenivdh" ... ajposta;" kai; th'" tw'n aijsqhvsewn pivstew", math. 7. 111). questo scopo poteva essere raggiunto egregiamente connettendo B 1. 30 a B 7. 2, vale a dire presentando in sequenza il verso del proemio relativo alle brotw'n dovxai e il passo in cui se ne contesta la fallacia in quanto fondate su dati sensoriali. Pertanto, se anche sesto derivava il suo testo di Parmenide da una fonte stoica, non c’è nulla nella sua argomentazione che sostenga la tesi di reinhardt (1916, p. 33), secondo cui Sesto accettava – per influenza di Posidonio – la teoria della doppia origine della conoscenza per l’uomo, attraverso la ragione e attraverso i sensi27. nella ricostruzione di deichgräber (1958) c’è tuttavia un’intuizione a mio parere fondamentalmente esatta: nella sua presentazione dei materiali par26 Può infatti aver proceduto esattamente nello stesso modo per emped. B 3. tale era l’idea di Wilamowitz (1929, p. 652 n. 1); vd. ora anche Wright (1995, p. 161). 27 Su questo il mio punto di vista coincide esattamente con quello di Tarán (1965, p. 20 s.).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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menidei sesto non utilizza una sola fonte, bensì due fonti di valore piuttosto diverso. io non credo alla conclusione di deichgräber, che distingue tra una fonte stoica, da cui sarebbero stati tratti testo e parafrasi del proemio, e una fonte ‘dossografica’, da cui sarebbero stati tratti gli altri frammenti e soprattutto la cornice dell’argomentazione sestana (su cui cf. anche più avanti). Credo invece che sesto abbia utilizzato fonti diverse rispettivamente per il testo del proemio e per la sua parafrasi. Per quanto riguarda la seconda fonte, usata per la parafrasi, è ben possibile che essa fosse di matrice stoica. Ma per quanto riguarda la prima, pur in assenza di prove conclusive, alcune caratteristiche formali invitano a pensare che fosse molto vicina ad ambienti in cui si sostenevano teorie grammaticali anomaliste: oltre a presentare l’esatta redazione di B 1. 29, che è il verso fondamentale per ricostruire le relazioni tra le fonti parmenidee (i 2 § 3), la tradizione sestana ha conservato infatti l’unica traccia dell’antica redazione psilotica del poema (i 2 § 4). Dunque è secondo me probabile che Sesto Empirico disponesse di un buon testo del proemio, verosimilmente derivato da un esemplare di tutto il poema. l’analisi degli apparati critici ci permette di ricostruire, sotto le incrostazioni della tradizione medievale, la validità dell’esemplare da cui deriva il testo offerto da sesto. come ha affermato coxon 1986, p. 5, «it is clear from the manuscript variants that nearly all the errors are medieval and that the text from which sextus was copying preserved a reliable tradition of Parmenides». sicuramente a fasi assai tarde della tradizione vanno fatte risalire anche le corruttele presenti in tutti i mss., che hanno pertanto buone probabilità di essersi introdotte già nell’archetipo della tradizione sestana: eij" favo" per ej" favo" in B 1. 1028 e qu'mo" (sic) per mu'qo" in B 8. 1. nient’affatto corrotta è invece a mio giudizio la forma movno" sempre in B 8. 1, che è unanimemente sostenuta dai mss. sia di sesto empirico che di simplicio (vd. ii 1 § 3. 2). Probabilmente autentica è pure la lezione plh'ntai in B 1. 13 (vd. ii 2 § 3; su plh;n q∆ ai} del ms. n cf. i 2 § 4). *** a una tradizione non attica, connessa con ambienti scettici, potrebbe avere attinto anche Diogene Laerzio, benché le due brevi citazioni che trasmette (B 1. 28-30 e B 7. 3-5) non ci permettano di formarci un’idea precisa della qualità del testo a sua disposizione. esse permettono nondimeno di rilevare due fatti che difficilmente possono essere casuali. Il primo è che la versione di B 1. 29 data da Diogene coincide con quella di Sesto Empirico (e Plutarco: cf. § 28 nondimeno proprio eij" è la forma stampata in VS, p. 229, e accolta in molte edizioni successive. i principali paralleli di ej~ favo~ nell’epica tradizionale sono elencati da sider (1985, p. 362), il quale tuttavia attribuisce erroneamente (a mio parere) a Sesto stesso l’introduzione di eij" nel testo del proemio.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

4). il secondo è che solo diogene e sesto empirico hanno conservato porzioni significative di B 7, che è tutto relativo alla fallacia dei sensi come mezzi di conoscenza. Mi pare quindi possibile che Sesto Empirico e Diogene Laerzio abbiano avuto alle loro spalle tradizioni testuali molto vicine (cf. anche cordero 1987b, p. 173). Sull’affidabilità di quella sestana ho già avuto modo di dire e tornerò ancora nel Cap. 2. Sull’affidabilità di quella di Diogene non si può assumere una posizione definita, anche se certi indizi esterni29 inviterebbero a un giudizio simile a quello espresso su Sesto. 6. Clemente Alessandrino clemente incarna secondo me perfettamente, in rapporto al testo parmenideo, il caso della fonte che dipende a sua volta da fonti atticizzate. da lui ci arriva poco (B 1. 29 s., B 3, B 4, B 8. 3 s., B 10), e quel poco denuncia in modo abbastanza chiaro che Clemente lavora con un testo fortemente modificato. In B 1. 29 s. e B 8. 3 s. attesta una redazione modificata, benché ancora indenne dalle falsificazioni apportate dai neoplatonici (cf. I 2 §§ 3 e 5). Anche B 10, trasmesso in strom. 5. 138, per il quale non abbiamo altri testimoni, prova in modo eloquente il livello di corruttela del testo in suo possesso, il che va in senso diametralmente opposto a quanto ha sostenuto Coxon 1986, p. 5: «Clement’s citations from Parmenides appear to come from a complete copy [of the poem]». già Whittaker (1971, p. 28 n. 13) aveva infatti ammonito che «it would be rash to conclude that clement had ever had before him a complete text of Parmenides»30. In B 10 gli atticismi possono difficilmente essere ascritti alla tradizione medioevale (cf. iii 1 § 2). Resta infine B 4: leu'sse d∆ o{mw" ajpeovnta novw/ pareovnta bebaivw": ouj ga;r aj p o t m hv x e i to; ejo;n tou' ejovnto" e[cesqai ou[te skidnavmenon pavnth/ pavntw" kata; kovsmon ou[te sunistavmenon.

la lezione ajpotmhvxei dei mss. di clem. strom. 5. 15 (quelli di Damascio, l’altra fonte di B 4. 2, trasmettono invece ajpotmhvsei) è probabilmente un atticismo. Gli editori più recenti (tra cui p. es. Coxon, Tarán, O’Brien, Cordero, cerri)31 la interpretano come iii sg. attiva riferita a novo" sottinteso; e così pure ha fatto Kranz VS, p. 232. 29 P. es. diogene laerzio conserva certamente la versione autentica di emped. B 1; vd. Passa (2004a, p. 28). 30 Whittaker stesso (1971, p. 28 n. 13) suggerisce che le citazioni parmenidee siano arrivate a clemente dalla stessa fonte giudaica da cui ha tratto i testi riferiti in strom. 5. 14. 31 Vd. p. es. con molta enfasi coxon (1986, p. 188): «the argument is about the activity of the mind, and is destroyed if ajpotmhvxei is taken as second person singular middle instead of as active with novo" understood as subject»; cf. più avanti.

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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nell’ottocento la forma veniva invece corretta in ajpotmhvxei" (Brandis 1813; Karsten 1938; Bergk 1864). in effetti solo la ii sg. media consente l’interpretazione corretta del passo: cf. B 4. 1 leu'sse “guarda”, B 7. 2 ei\rge “respingi”, B 8. 52 mavnqane “impara” ecc., e soprattutto B 8. 35 s. ouj ga;r a[neu tou' ejovnto" ... / euJrhvsei" to; noei'n «non senza l’essere ... troverai il pensare» (cf. diels 1897, p. 64). così B 4. 2 vale: «tu non impedirai che l’essere si stringa all’essere». Piuttosto diels (1897, p. 64) ha fatto giustamente osservare che non c’è necessità di correggere in ajpotmhvxei" per ottenere il testo autentico. Basta considerare che, a partire dal IV sec. a. C., in un qualsiasi esemplare attico la II sg. media ajpotmhvxh/ aveva una altissima probabilità di essere scritta APOQMHXEI ( = [e:]; vd. Schwyzer 1939, p. 201; Threatte 1980, p. 353 ss.). Se questo è esatto, ci troviamo quindi di fronte a un altro atticismo nelle citazioni di Clemente: un atticismo probabilmente antico, perché trasmesso unanimemente dai mss. di strom. 5. 15 e presente anche nell’ajpotmhvsei di quelli di Damascio. 7. L’interpretatio neoplatonica Nell’ultima grande stagione della filosofia greca, che va sotto il nome di neoplatonismo, Parmenide fu innanzitutto considerato un antesignano di Platone, perché come lui era stato un propugnatore – seppur in forma meno perfetta – della dottrina dell’Uno. Questo si evince con chiarezza da un passo molto importante di Plotino (enn. 5. 1. 8): w{ste Plavtwna eijdevnai ejk me;n tajgaqou' to;n nou'n, ejk de; tou' nou' th;n yuchvn. k a i; e i\ n a i t o u; " l ov g o u " t o uv s d e m h; k a i n o uv ", m h d e; n u' n, aj l l a; p av l a i m e; n e ij r h' s q a i m h; aj n a p e p t a m ev n w ", t o u; " d e; n u' n l ov g o u " ej x h g h t a; " ej k e iv n w n g e g o n ev n a i m a r t u r iv o i " p i s t w s a m ev n o u " t a; " d ov x a " t a uv t a " p a l a i a; " e i\ n a i t o i' " a uj t o u' t o u' P l av t w n o " g r av m m a s i n. h{ p t e t o m e; n o u\ n k a i; P a r m e n iv d h " p r ov t e r o n t h' " t o i a uv t h " d ov x h " kaqovson eij" taujto; sunh'gen o]n kai; nou'n, kai; to; o]n oujk ejn toi'" aijsqhtoi'" ejtivqeto «to; ga;r aujto; noei'n ejstivn te kai; ei\nai» levgwn kai; ajkivnhton levgei tou'to kaivtoi prostiqei;" to; noei'n swmatikh;n pa'san kivnhsin ejxairw'n ajp∆ aujtou', i{na mevnh/ wJsauvtw", kai; o[gkw/ sfaivra" ajpeikavzwn, o{ti pavnta e[cei perieilhmmevna kai; o{ti to; noei'n oujk e[xw, ajll∆ ejn eJautw'./ e}n de; levgwn ejn toi'" eJautou' suggravmmasin aijtivan ei\cen wJ" tou' eJno;" touvtou polla; euJriskomevnou. oJ d e; p a r a; P l av ­ t w n i P a r m e n iv d h " aj k r i b ev s t e r o n l ev g w n diairei' ajp∆ ajllhvlwn to; prw'ton e{n, o} kuriwvteron e{n, kai; deuvteron e}n polla; levgwn, kai; trivton e}n kai; pollav. kai; suvmfwno" ou{tw" kai; aujtov" ejsti tai'" fuvsesi tai'" trisivn. Sicché Platone sa che dal Bene deriva l’Intelligenza, e dall’Intelligenza l’Anima. E questi nostri ragionamenti non sono né recenti né di oggi, ma sono stati già esposti tanto tempo fa, seppur non esplicitamente; e dunque i nostri ragionamenti di oggi sono interpretazioni di quelli, e invocano a testimoni del fatto che queste dottrine

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

sono antiche proprio gli scritti di lui, di Platone. in precedenza anche Parmenide aveva fatto sua questa dottrina, nella misura in cui ha identificato l’Essere con l’Intelligenza e non ha posto l’essere nelle cose sensibili, sostenendo che «lo stesso è pensare ed essere» [B 3]. egli dice inoltre che esso è immobile, anche se poi gli annette il pensiero e gli sottrae qualsiasi movimento fisico, perché resti sempre identico a sé; e lo paragona alla massa di una sfera, giacché comprende strette in sé tutte le cose, e in quanto il pensiero non è fuori ma dentro di esso. Quando però parla di Uno nei suoi scritti, si espone alle critiche, perché si scopre che questo Uno è in realtà molte cose. il Parmenide di Platone, invece, esprimendosi con più esattezza, distingue tra loro il primo uno, cioè l’uno in senso proprio, il secondo uno, che chiama uno-molti, e il terzo uno, che chiama uno-e-molti. e in tal modo concorda anche lui con la dottrina delle tre nature.

Ha scritto a questo proposito Hadot (1968, p. 335): «dans la mesure où la philosophie a été conçue comme une exégèse, la recherche de la vérité s’est confondue, pendant toute cette période, avec la recherche des textes ‘authentiques’, des textes faisant autorité. La vérité est contenue dans ces textes: elle est la propriété de ces textes et de leurs auteurs, comme elle est aussi la propriété des groupes qui reconnaissent l’autorité de ces auteurs et de ces textes et qui sont les ‘héritiers’ de cette vérité originelle». Nella prospettiva neoplatonica questa tensione verso la verità filosofica coincide in sostanza con il ricongiungimento dell’uomo all’assoluto. si comprende allora come, in questa visione radicalmente metafisica, la filosofia sia interpretata soprattutto come recupero di una verità esistente da sempre. il tempo è dunque tolto dal cammino della filosofia, che non conosce evoluzione lineare, ma è una storia fatta di maggiori o minori gradi di riconoscimento della verità. Prima dei neoplatonici, il sommo livello era stato toccato da Platone. L’esegesi delle sue opere, nel senso ora delineato, ha quindi costituito il fulcro del curriculum neoplatonico. grazie al cosiddetto “catalogo di giamblico”, contenuto in uno scritto anepigrafo che trasmette una sorta di propedeutica a Platone32, sappiamo che attorno al 300 d. c. esisteva un vero e proprio canone dei dialoghi, che ne prevedeva la lettura secondo un criterio tematico e gerarchico preciso. Per dirla con le parole di lamberton (2003, p. 202): «they learned ethics from the First Alcibiades, the Gorgias and the Phaedo, logic from the Cratylus and the Theaetetus, and physics ... from the Sophist and the States­ man ... grounded in those three basic disciplines, they went on to theology by way of the Phaedrus and Symposium, culminating in the Philebus on the highest good. Finally, all of this was brought together in a reading of the Timaeus and the Parmenides, the dialogues that synthesized Platonic teaching on nature and theology, respectively». 32

edito da Westerink (1962).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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Il culmine della formazione era dunque rappresentato dai due dialoghi platonici che forse più sono impregnati del pensiero di Parmenide. Si tratta di dialoghi tardi, quelli in cui Platone mostra di aver sintetizzato la filosofia del suo grande predecessore nelle formule e}n to; o[n e e}n to; pa'n (§ 2). È sulla base di questi dialoghi che i filosofi neoplatonici, a iniziare dal fondatore Plotino, costruiscono il loro uno, recuperando in larga parte motivi della mistica neopitagorica (dodds 1928; cf. anche § 8). il processo di travisamento di Parmenide, in parte ‘pitagorizzato’ già da Platone stesso all’atto dell’appropriazione di alcuni temi fondamentali del pensiero parmenideo (cf. § 2 e i 2 § 1), conobbe ora il suo apice con i neoplatonici, interpreti di Platone e del Parmenide di Platone. 8. Tradizioni (neo)platoniche Ha scritto diels 1897, p. 25 s.: «von der ∆Alhvqeia sind etwa neun Zehntel erhalten, von der Dovxa nach einer weniger sicheren abschätzung vielleicht ein Zehntel. dazu hat bei weitem am meisten beigesteuert simplicius, dessen Exemplar im Ganzen vortrefflich zu nennen ist. Es stammt vermutlich aus der akademischen Bibliothek zu athen, ist aber nicht identisch mit dem 5. Jahrh. von Proclus benutzen codex». oltre a contenere una esplicita ammissione dell’enorme valore attribuito a Simplicio quale fonte di Parmenide, su cui dovrò necessariamente tornare (§ 10), queste righe assumono una posizione su un altro punto essenziale: Proclo e Simplicio hanno ricavato le rispettive citazioni da due esemplari, a quanto sembra di capire ambedue appartenenti alla biblioteca dell’accademia, e però non identici. a diels infatti non era sfuggito che le citazioni di Proclo e di simplicio non possono derivare dalla stessa copia. meno accettabile, alla luce delle ricerche recenti, si rivela invece l’affermazione che il codice nelle mani di simplicio «stammt vermutlich aus der akademischen Bibliothek zu athen». infatti, dopo l’editto di giustiniano che sancì la chiusura dell’accademia (529 d. c.), l’équipe dei filosofi neoplatonici di stanza ad Atene – comprendente fra gli altri il diadoco Damascio e il suo allievo Simplicio – si recò in esilio presso il re persiano Cosroe, probabilmente nel 531. Ma il soggiorno in Persia non durò a lungo. una delle clausole del trattato stipulato l’anno successivo tra lo stesso cosroe e giustiniano riguardava proprio il destino dei filosofi esiliati, ai quali fu imposto di ritornare nei paesi d’origine e di rimanervi «senza essere costretti a professare nulla di contrario alle proprie convinzioni o a rinnegare la dottrina dei padri» (agath. hist. 81. 16 ss. to; dei'n ejkeivnou" tou;" a[ndra" ej" ta; sfevtera h[qh katiovnta" bioteuvein ajdew'" to; loipo;n ejf∆ eJautoi'", oujde;n oJtiou'n pevra tw'n dokouvntwn fronei'n h] metabavllein th;n patrwva / n dovxan ajnagkazomevnou"). da sempre si è cercato di individuare il luogo in cui si ritirarono i filosofi neoplatonici. In passato si è pensato ad Alessandria (tannery 1896) o ad atene stessa (cameron 1969), ma in ambedue i casi contro ogni verosimiglianza (cf. ora la discussione di golitsis 2008, p. 20).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso vari studiosi (tardieu 1986; Hadot 1987; van riet 1991; thiel 1999) hanno iniziato ad avanzare con sempre maggiore forza l’ipotesi che i filosofi reduci dal soggiorno forzato in Persia, tra cui Simplicio, riparassero poco al di qua della frontiera bizantina, a Harran (carrae) in osroene, dove la sopravvivenza di una scuola neoplatonica è attestata ancora nel X secolo. La ricostruzione, in sé non inverosimile, è stata minuziosamente argomentata ed è impossibile discuterla qui nei dettagli. essa è stata tuttavia rigettata da luna (2001) e ora anche da golitsis (2008) sulla base di ulteriori argomenti33. ad ogni modo, entrambe le ipotesi si rivelano conclusive ai fini del discorso che qui si svolge: sia che si situi simplicio a Harran dopo il 532 d. c., sia che lo si associi invece alle sorti del maestro Damascio, il quale dopo quella data si ritirò probabilmente nel suo paese natale, la siria, dove di lì a poco morì (cf. golitsis 2008, p. 18 ss.), diviene immediatamente chiaro perché Proclo e Simplicio si siano riferiti a due copie diverse del poema di Parmenide. il primo deve essersi basato su un esemplare posseduto dall’accademia, il secondo no. incrociando opportunamente le affermazioni fatte da simplicio all’interno delle sue opere con alcuni dati esterni siamo in grado di affermare che tutti i commentari simpliciani furono scritti dopo il ritorno dalla Persia34. inoltre, se una delle due tesi attualmente sul tappeto coglie nel segno, a quest’epoca possiamo collocare simplicio a ridosso o addirittura all’interno dell’ambiente siriaco. A questo punto la domanda cruciale è: dove Simplicio ha potuto trovare l’esemplare del poema parmenideo da cui ha attinto, nel de caelo e soprattutto nell’in physicam35, le sue citazioni? È proprio qui che a mio parere si devono far entrare in gioco alcune circostanze significative. a partire dal ii sec. d. c. l’area siriaca conosce un’imponente rinascita del platonismo, reinterpretato in chiave pitagorica. Figure come moderato di gades o apollodoro di tiana ci risultano abbastanza evanescenti. con numenio di Apamea approdiamo invece su un terreno più sicuro; come ha scritto giangiulio (1991, p. 27), numenio «si proponeva di riconoscere l’autentico pensiero platonico tràdito e deformato dai successori. Per lui il platonismo originario coincideva in sostanza con il pensiero di Pitagora». la tendenza 33 Molte difficoltà ha posto l’interpretazione dell’espressione ejf∆ eJautoi'" usata da agazia nel brano in cui riferisce della sorte dei filosofi neoplatonici esiliati da Atene (cf. sopra); vd. Foulkes 1992. a parere di golitsis (2008, p. 21) l’espressione implicherebbe che l’équipe neoplatonica ateniese abbia avuto la possibilità di restare unita benché a titolo privato, senza cioè poter più svolgere alcuna attività scolastica; di qui l’ipotesi che i commentari di Simplicio non siano stati scritti per scopi didattici. 34 secondo golitsis (2008, p. 19) tutti i commentari simpliciani sono stati scritti tra il 535 e il 545 d. C., e in particolare quello alla Fisica dopo il 538. 35 L’ordine di stesura dei quattro commentari simpliciani è: 1. de caelo; 2. in physicam; 3. in cate­ gorias; 4. de anima (vd. Praechter 1929, col. 204). già nel de caelo simplicio mostra di avere un’accurata conoscenza della struttura del poema di Parmenide: cf. § 10.

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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diventa sistematica poco più in là, con Nicomaco di Gerasa e soprattutto con giamblico di calcide. Per giamblico, infatti, il pitagorismo giunge a coincidere con ‘la’ filosofia. Esso va riattualizzato, passando al vaglio la tradizione filosofica precedente, sforzandosi di ritrovare l’essenza pitagorica di Platone e aristotele (anche a costo di correggere, se necessario, i loro scritti: giangiulio 1991, p. 29). Neppure i presocratici si sottraggono a questo processo di rivisitazione; come abbiamo visto (introduz. § 3), il catalogo dei pitagorici dato da giamblico in vit. Pyth. 267 include fra gli altri anche Parmenide. giamblico era nato a calcide di siria attorno al 240 d. c. era stato discepolo di Porfirio, che aveva seguito forse anche a Roma. Ma sul finire del III sec. d. C. era tornato nella terra natale e qui aveva fondato una scuola molto prestigiosa, ad apamea, dove aveva lavorato già numenio (o forse, meno probabilmente, a daphne, alle porte di antiochia). anche se dopo la morte del fondatore la scuola conobbe alterne vicende, è verosimile che la tradizione inaugurata da giamblico sopravvivesse per secoli; dalla siria infatti continueranno a arrivare esponenti di primo piano del neoplatonismo, p. es. proprio damascio, maestro di simplicio e ultimo diadoco della scuola ateniese. l’interesse di giamblico per Platone è universalmente noto. È per altro molto probabile che il canone di dodici dialoghi platonici, con il Parmenide ed il Timeo al vertice (§ 7), fosse stato fissato (se non addirittura elaborato nella sua versione originale) proprio da giamblico e dalla sua scuola (dillon 1973, p. 92; dillon 1987, p. 872). È ormai chiara – penso – la conclusione a cui voglio arrivare: la domanda relativa alla provenienza dei materiali su cui simplicio ha lavorato trova una risposta a mio giudizio plausibile nella scuola neoplatonica fondata da giamblico, in cui dovevano essere conservati tutti gli strumenti necessari al profondo ripensamento della filosofia platonica voluto dal maestro. L’aria di tempesta che tirava sul continente per il paganesimo fu molto più mite nelle zone orientali dell’impero. quindi la tradizione parmenidea potrebbe aver avuto in giamblico un fondamentale punto di snodo e, grazie a lui, essere arrivata in mano a simplicio. Non credo sia un caso che nei commentari simpliciani Giamblico – il qei'o" ∆Iavmbliko", com’è spesso chiamato – sia il filosofo neoplatonico più citato. 9. Proclo Proclo, originario della Licia, resse la scuola di Atene fino alla morte, che cade nel 485 d. C. Egli potè dunque utilizzare il patrimonio librario a disposizione della accademia. non condivido affatto le perplessità avanzate da alcuni (p. es. Hadot 1987 e thiel 1999) circa l’effettiva consistenza del patrimonio librario dell’accademia dopo le devastazioni di silla nell’86 a. c., degli eruli nel 267 d. C., e dopo la discesa dei Goti nel 396 d. C. (vd. più avanti). Ha scritto Coxon 1986, p. 5 s.: «the character of Proclus’ text is more difficult to assess. The twenty-one lines which he quotes ... contain a larger propor-

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tion of divergences from what is likely to be the true text, as we know it from Simplicius and elsewhere, than the quotations in any other of our sources... Certainly in many cases and possibly in all cases he quotes from memory. It seems probable that most of these variants are due either to this or ... to the use of secondary sources, and do not derive from the complete text which is likely that at some time he had studied». L’accento posto sul problema delle citazioni a memoria è quanto mai giustificato nel caso di Proclo. Scorrendo i materiali da lui trasmessi, sono frequenti soprattutto gli esempi in cui confonde tra loro brani di uno stesso filosofo o di due filosofi diversi; si vedano p. es. i casi che seguono. B 2. 6 ss. th;n dhv toi fravzw p a n a p e u q ev a e[mmen ajtarpovn: ou[te ga;r a]n gnoivh" tov ge mh; ejo;n (ouj ga;r aj n u s t ov n) ou[te fravsai".

In questo passo Proclo presenta varianti inferiori rispetto a quelle di Simplicio. in B 2. 6 i suoi mss. danno gli hapax legomena panapeiqeva “che è del tutto incredibile” o parapeiqeva “che seduce con falsi argomenti”, mentre quelli di simplicio documentano panapeuqeva “che è del tutto inconoscibile”, un hapax anch’esso, ma sicuramente autentico come dimostra il confronto con Od. 3. 88. situazione analoga si ha forse in B 2. 7, dove i mss. di Proclo attestano ejfiktovn “che si può raggiungere”, quelli di Simplicio ajnustovn “che può essere compiuto”. la lezione di Proclo non è affatto inverosimile e trova puntuali paralleli in altri presocratici, particolarmente nella clausola di emped. B 133. 1 (poi anche in democr. B 58 e B 59): oujk e[stin pelavsasqai ejn ojfqalmoi'sin ej f i k t ov n hJmetevroi" h] cersi; labei'n, h|/pevr te megivsth peiqou'" ajnqrwvpoisin aJmaxito;" eij" frevna pivptei.

Ferrari (2005, p. 127 s.) ha recentemente sostenuto, sulla base del confronto con questo passo in cui peiqou'" ... aJmaxitov" sembra richiamare Peiqou'" ... kevleuqo" di B 2. 4, la superiorità di ejfiktovn su ajnustovn, mentre quest’ultimo, che figura per ben tre volte in Melisso (vd. B 2. e B 7; cf. anche Anaxag. B 5), sarebbe stato introdotto secondariamente nel testo di Parmenide in alcuni settori della tradizione ‘eleatica’. È innegabile che il frammento empedocleo riprenda l’immaginario di B 2. Ma il suggerimento di Ferrari, benché affascinante, oltre a precludere a empedocle la possibilità di una deliberata variatio rispetto a Parmenide, non tiene conto delle inesattezze che caratterizzano la gran parte delle citazioni di Proclo. si può infatti supporre, con uguale verosimiglianza, che B 2. 7 di Parmenide sia stato confuso con B 133. 1 di empedocle (cf. qui oltre e § 2.1 n. 18).

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B 8. 29 s.

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taujtovn t∆ ejn taujtw'/ te mevnon kaq∆ eJautov te kei'tai cou[tw" e[mpedon au\qi mevnei:

questo è il testo dei mss. di simplicio. quelli di Proclo danno invece in due casi te mivmnei36, il che prova che Proclo aveva nell’orecchio (non senza motivo) Xenoph. B 26: aijei; d∆ ejn taujtw' / m iv m n e i kinouvmeno" oujdevn oujde; metevrcesqaiv min ejpiprevpei a[llote a[llh/.

Proclo cita quindi B 8. 29 di Parmenide confondendolo con un frammento di Senofane da cui il filosofo di Elea ha sicuramente tratto spunto (cf. coxon 1986, p. 6; sugli stretti rapporti tra Parm. B 8. 29 s. e Xenoph. B 26 vd. i 2 § 6). nonostante la notevole imprecisione che caratterizza le citazioni di Proclo, e nonostante sia ingenuo nel caso del neoplatonismo ragionare esclusivamente in termini di tradizione verticale37, io ritengo che si possa senz’altro prendere posizione sulla provenienza dell’esemplare che, come tutto lascia supporre e come anche coxon 1986, p. 6, ammette, «at some time he had studied». la mia idea a tale riguardo è la stessa di diels 1897, p. 26, e Whittaker 1971, p. 20: l’esemplare a cui Proclo fa riferimento in gran parte delle sue citazioni era in possesso dell’accademia di atene. esistono infatti coincidenze certamente non casuali tra le versioni di Plutarco e Proclo in due passi di importanza capitale: in B 8. 4 entrambe hanno l’incipit ejsti ga;r oujlomelev" (cf. i 2 § 5. 1-2); in B 1. 30 entrambe hanno ai|" rispetto a tai'" trasmesso da sesto empirico, simplicio, clemente alessandrino38. Questo deve significare che il testo di Proclo, in alcuni punti, è antico almeno quanto Plutarco stesso. Ma se Plutarco si è davvero basato su esemplari in possesso dell’accademia (cf. § 4 e i 2 § 5. 1), anche Proclo ha attinto alla medesima tradizione testuale. 36 Procl. in Parm. 1134. 22 e 1117. 5 s.; a 632. 29 e 1152. 29 i mss. danno un testo leggermente diverso. 37 Dopo Plotino, e fino alla chiusura dell’Accademia, il movimento neoplatonico ha avuto tre baricentri fondamentali: atene, alessandria, antiochia. sono tuttavia noti contatti anche con altri poli culturali microasiatici, p. es. con Rodi; su questi temi vd. p. es. Saffrey (1990). In simili condizioni possiamo immaginare che un diadoco dell’accademia potesse procurarsi un cospicuo numero di esemplari contenenti testi più o meno diversi tra loro. 38 solo i mss. di diogene laerzio danno th'" (corretto in th'/" e stampato da coxon 1986, p. 51). tai'" è sicuramente la lezione genuina perché le forme di dat. pl. in -ai" / -oi" sono ben attestate negli esametri sia di Parmenide che di empedocle: si tratta con ogni probabilità di elementi assunti da tradizioni non omeriche di poesia esametrica, il cui ingresso è stato favorito nei poemi filosofici dal loro essere in uso in vari dialetti d’Occidente (dorici e euboici). In Parmenide tai'" è attestato anche in B 12. 2. sulle forme ‘corte’ e ‘lunghe’ di dat. pl. dei temi in ­o­ e ­a¯­ nei frammenti parmenidei resta tuttora abbastanza valida la discussione di Pieri (1977, p. 71 s.).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

Naturalmente rispetto all’epoca di Plutarco quella tradizione era stata ulteriormente modificata, in primo luogo per impulso dei neoplatonici stessi. Ecco perché, mentre Plutarco fornisce la redazione autentica di B 1. 29, dove figurano ancora eujpeiqevo" e ajtrekev", Proclo ci offre invece una versione oramai profondamente modificata dall’interpretatio neoplatonica, in cui fanno bella mostra di sé le due varianti secondarie eujfeggevo" e ajtremev". 10. Simplicio Simplicio è normalmente ritenuto una fonte molto attendibile in virtù del suo impegno dichiarato nel trasmettere documenti del pensiero antico che giustamente riteneva fondamentali. Benché un discreto numero di sue citazioni sia stato tratto dai dialoghi di Platone (vd. I 2 § 1 e n. 41) e benché abbia fatto uso anche di uJpomnhvmata e/o di compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B 8. 4, quella del suo esemplare e un’altra molto vicina alla versione di Plutarco e Proclo: cf. i 2 § 5. 3; mi chiedo se abbia appreso la seconda dagli esemplari dell’accademia, prima del soggiorno in Persia, oppure se l’abbia trovata successivamente)39, mostra di conoscere bene la struttura del poema di Parmenide fin dal suo primo commentario aristotelico, il de caelo: cael. 558. 3 kai; m ev l l w n p e r i; ejphvgagen «ejn tw/' ... ajkouvwn» [B 8. 50-2]

t w' n

a ij s q h t w' n

d i d av s k e i n

cael. 558. 8 p a r a d o u; " d e; t w' n a ij s q h t w' n d i a k ov s m h s i n ejphvgage pavlin «ou{tw toi ... eJkavstw/» [B 19].

ma soprattutto gli studiosi sono sempre stati condizionati da una sua affermazione molto nota (phys. 144. 25 ss.), in cui dichiara esplicitamente di ricavare la sua lunghissima citazione del B 8 di Parmenide (52 versi) da un esemplare del poema: hJdevw" a]n t a; p e r i; t o u' eJ n o; " o[ n t o " e[ p h t o u' P a r m e n iv d o u mhde; polla; o[nta t o i' s d e t o i' " uJ p o m n hv m a s i p a r a g r av y a i m i diav te th;n pivstin tw'n uJp∆ ejmou' legomevnwn kai; dia; th;n spavnin tou' Parmenideivou suggravmmato".

si tratta di una testimonianza di grande valore che accerta indubbiamente l’intento di conservazione di un testo ritenuto fondamentale. secondo diels 1897, p. 26, l’esemplare posseduto da Simplicio era «im Ganzen vortrefflich»; per coxon 1986, p. 6, era una «rare and excellent copy». soffermiamoci però 39 l’uso di antologie da parte di simplicio è particolarmente evidente nel caso dei Kaqarmoiv di Empedocle: cf. O’Brien (2001, p. 88 n. 22) con bibliografia precedente.

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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a riflettere più da vicino sulla qualità di questa copia. Molto tempo fa Deichgräber (1938, p. 3 e n. 5) ha portato l’attenzione sul punto in cui simplicio cita B 8. 53-59 (morfa;" ... ejmbriqev" te) attestando che dopo B 8. 5740 una frase in prosa era stata incorporata al testo, come se fosse davvero di Parmenide (phys. 31. 3 ss.): kai; dh; kai; katalogavdhn metaxu; tw'n ejpw'n ejmfevretaiv ti rJhseivdion wJ " a uj t o u' P a r m e n iv d o u e[con ou{tw": «ejpi; tw'/de ejsti to; ajraio;n kai; to; qermo;n kai; to; favo" kai; to; malqako;n kai; to; kou'fon, ejpi; de; tw'/ puknw/' wjnovmastai to; yucro;n kai; oJ zovfo" kai; sklhro;n kai; baruv: tau'ta ga;r ajpekrivqh eJkatevrw" eJkatevra».

come ha mostrato deichgräber, la frase era stata scritta in prossimità del margine superiore o inferiore di un codice precedente, secondo un incolonnamento simile a quello degli esametri; in un secondo momento essa fu incorporata nel testo dal copista che trascrisse l’esemplare di simplicio (o una copia precedente), il quale non si avvide (o decise di non avvedersi) del fatto che quelle linee recavano in realtà un testo in prosa. Deichgräber ha argomentato la sua riscostruzione con precisi computi sticometrici e ha concluso che simplicio avesse derivato il testo di Parmenide da una copia provvista di scolii. che si trattasse di uno scolio e non di un autentico testo parmenideo in prosa era stato già asserito da diels 1897, p. 96 ss., che individuava per esso una matrice neoplatonica e lo datava tra il iii e il V sec. d. c. diels però dà l’impressione di ritenere la presenza di questo scolio un fatto isolato, senza pervenire alla conclusione che tutto l’esemplare simpliciano fosse corredato di scolii, come invece è stato fatto da deichgräber. È evidente che simplicio non si è domandato se il testo in prosa che trovava nella sua copia potesse davvero essere autentico di Parmenide (vd. anche diels 1897, p. 96). la ragione, a mio giudizio, non può che essere una e una sola: al filosofo deve essere tornato alla memoria il «fotogramma di interno scolastico» del Sofista (da cui per altro simplicio ha tratto varie citazioni dal poema)41, dove Parmenide è rappresentato mentre tiene una lezione pezh'/ ... kai; dia; mevtrwn (cf. § 2. 2). Ma il contesto di quella rappresentazione, del tutto perspicuo per Platone, non poteva invece che restare oscuro a simplicio, che paradossalmente ha accettato l’autenticità dello scolio proprio in quanto interpretava alla lettera la testimonianza platonica. Prima di passare ad esaminare la qualità del testo portato da Simplicio, occorre quindi ammettere, come ha fatto p. es. Whittaker (1971, p. 21), che l’esemplare di cui disponeva «was the product of unintelligent transcription 40 h[pion o[n, mevg∆ ªajraio;nº ejlafrovn, eJwutw/' pavntose twujtovn («[il fuoco] che è mite, assai [rarefatto] leggero, in tutto identico a sé»); il verso è ipermetro: cf. III 1 § 7. 41 in phys. 135 e 244 è citato B 7. 1-2 direttamente da Plat. soph. 237a e/o 258d; in phys. 52 e 89 è citato B 8. 43-5 ancora da Plat. soph. 244e.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

from an annotated source»; e quindi anche che, se esso portava in qualche punto un testo inquinato, non v’era niente di più facile che Simplicio non se ne avvedesse: questo la dice lunga sul suo effettivo livello di competenza in relazione al testo di Parmenide. *** Il giudizio sulla qualità del testo trasmesso da Simplicio non può che essere complesso. nei punti in cui è ricavato direttamente dall’esemplare del poema, si tratta indubbiamente di un buon testo, che ha conservato caratteristiche formali autentiche, perdute invece probabilmente in alcuni settori della tradizione “dossografica” (p. es. h invece di a–; rs invece di rr: cf. iii 1 §§ 2 e 5). d’altro canto, però, nel testo simpliciano sono evidenti le conseguenze del processo di adattamento linguistico visibile già in Platone e aristotele, e proseguito nella tradizione teofrastea. in certi casi ci si trova di fronte al fenomeno per cui i testi esametrici vengono adeguati al modello fissato per omero; così p. es. in simplicio abbiamo forme come mei'zon e una quantità di aspirazioni iniziali inattese nell’originale parmenideo (cf. iii 1 §§ 4 e 6). tuttavia, rispetto al trattamento cui sono stati sottoposti i poemi epici arcaici, si nota nella redazione in possesso di simplicio una percentuale maggiore di elementi attici, p. es. in certe contrazioni e nelle crasi (cf. iii 1 §§ 2-4). inoltre, alcuni indizi suggeriscono che la versione simpliciana fosse stata in qualche modo resa più ‘poetica’ rispetto al testo circolante in Attica nell’età di Platone e Aristotele, che da questo punto di vista era certamente più vicino all’originale. P. es. deve essere probabilmente ammesso il carattere secondario delle forme crewvn e ejpideuev", che simplicio trovava sulla sua copia di Parmenide (cf. ii 1 § 2 e ii 2 § 5). questa tendenza a impreziosire la veste linguistica di testi letterari ritenuti importanti è tipica del neopitagorismo e può essere a mio parere un riflesso della tradizione testuale cui l’esemplare di Simplicio faceva capo42. Infine, la lezione indubbiamente corrotta plavttontai, trasmessa dal solo simplicio, si spiega a mio giudizio solo ammettendo la presenza di un’annotazione interlineare o a margine del testo di B 6. 5 (cf. ii 2 § 3. 6), ciò che si accorda con la conclusione che la copia simpliciana fosse provvista di scolii. ma è sul piano dei contenuti che la normalizzazione risulta in tutta la sua evidenza. Il testo simpliciano ha infatti alle spalle, in misura molto più accentuata di altre fonti, una interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante. la dipendenza dalla tradizione neoplatonica siriaca, di cui ho messo in luce la tendenza all’arbitraria correzione 42 P. es. nicomaco di gerasa decise di ‘abbellire’ la sua citazione di archyt. B 1 sostituendo alcune delle forme doriche attese con forme eoliche o poetiche di prestigio (a fronte delle quali l’altra fonte, Porfirio, attesta le controparti attiche): vd. Cassio (1988).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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dei testi filosofici, spiegherebbe alcune vistose alterazioni presenti sulla copia simpliciana: eujkuklevo" in B 1. 29 e la redazione di B 8. 4-6, in cui né ajtevleston né e}n sunecev" possono rappresentare il testo genuino43. In linea di principio, dunque, le lezioni trasmesse da Simplicio non possono avere ipso facto alcuna garanzia di autenticità.

43 discuto i problemi testuali di B 8. 4 in I 2 § 5. Per quanto riguarda invece B 8. 6, la cui trattazione esula dagli scopi di questo libro, la mia posizione è in linea con quella di Untersteiner (1958, pp. Xliii-l), Whittaker (1971, p. 21 ss.), reale-ruggiu (1992, p. 285 ss.).

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CaPItolo 2 ProblemI dI CostItuzIone del testo

1. Appropriazione platonica (B 8. 38) B 8. 36 ss. oujde;n ga;r e[stin h] e[stai a[llo pavrex tou' ejovnto", ejpei; tov ge Moi'r∆ ejpevdhsen o u\ l o n aj k iv n h t ov n t∆ e[ m e n a i : t w/' p av n t∆ o[ n o m ( a ) e[ s t a i, o{ssa brotoi; katevqento pepoiqovte" ei\nai ajlhqh', givgnesqaiv te kai; o[llusqai, ei\naiv te kai; oujciv, kai; tovpon ajllavssein diav te crova fano;n ajmeivbein.

questo è il testo trasmessoci da simplicio (integralmente in phys. 146, parzialmente altrove: vd. più avanti). Una versione diversa di B 8. 38 è proposta da Plat. Theaet. 180d-e senza esplicita attribuzione a Parmenide: ojlivgou de; ejpelaqovmhn, w\ Qeovdwre, o{ti a[lloi au\ tajnantiva touvtoi" ajpefhvnanto «o i\ o n aj k iv n h t o n t e l ev q e i t w'/ p a n t i; o[ n o m∆ e i\ n a i » kai; a[lla o{sa Mevlissoiv te kai; Parmenivdai ejnantiouvmenoi pa'si touvtoi" diiscurivzontai, wJ" e{n te pavnta ejsti; kai; e{sthken aujto; ejn auJtw/' oujk e[con cwvran ejn h|/ kinei'tai. ma per poco, teodoro, non dimenticavo che altri al contrario di costoro hanno detto che «uno, immobile, l’Essere è nome al tutto» e altre affermazioni quante i melissi e i Parmenidi opponendosi a tutti costoro sostengono, dicendo che un unico ente è il tutto, e che sta fermo in sé non avendo spazio in cui muoversi44. 44 Il testo è quello di Duke-Hicken-Nicol (1995, p. 336), i quali restituiscono giustamente oi\on in luogo di oi|on della tradizione ms., come suggeriscono indirettamente l’e{n nel seguito del testo e la parafrasi (neoplatonizzante) di simpl. phys. 29. 5 ss. oJ de; Parmenivdh" ... ajkivnhton aujto; ajnumnei' kai; movnon wJ" pavntwn ejxh/rhmevnon «Parmenide lo [l’essere] dice immobile e solo, perché svincolato da tutto». Una scelta diversa compiono invece Burnet (1905), che stampa oi|on, e diès (1925), che lo esclude ritenendolo estraneo alla citazione. la redazione platonica ha sempre seminato scompiglio tra gli interpreti, anzitutto per la difficoltà di trarne un senso accettabile. cornford (1935, p. 122 s.) ha sostenuto che essa, lungi dall’essere una variante di B 8. 38, fosse invece un verso parmenideo altrimenti ignoto, e che come tale andasse collocato in un’altra sezione del poema (dopo B 19). l’ipotesi è estremamente improbabile ed è oggi

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

È stato notato – e il fatto è evidentissimo – che Platone non ha qui in mente solo e specificamente il frammento ontologico di Parmenide, ma anche il monismo di melisso, del cui testo è riecheggiato un passo molto noto (cf. B 7). È stato anche notato che se attribuissimo a Parmenide la redazione platonica di B 8. 38 saremmo di fronte a gravi anomalie lessicali. P. es. la parola o[noma, che in lui ha sempre valore negativo perché designa la falsità delle convenzioni umane (oltre a B 8. 38 nella versione simpliciana vd. anche B 8. 53, B 9. 1, B 19. 3), verrebbe sorprendentemente associata all’essere (tarán 1965, p. 135 s.). Un secondo e forse ancor più grave slittamento rispetto al dettato autentico del passo causa secondo me la sostituzione di ou\lon “intero” dell’originale con oi\on “unico”. È infatti un’alterazione vistosa sul piano del contenuto, perché il concetto di “Essere intero e immobile” è trasmutato in quello di “essere unico e immobile”. a livello stilistico, però, l’alterazione è camuffata da un avvicendamento perfettamente coerente con le regole del gioco della dizione omerica, dove oi\o" nel senso di “uno solo”45 è ben attestato. cf. p. es. Il. 7. 41 s.: oiJ dev k∆ ajgassavmenoi calkoknhvmide" ∆Acaioiv o i\ o n ejpovrseian polemivzein ”Ektori divw/.

anche la seconda parola sostituita da Platone, televqei, non è semanticamente plausibile nel testo di Parmenide. secondo cornford (1935, p. 113) televqw nei filosofi presocratici non vale mai “essere” ma è usato senza eccezioni con il valore originario di “apparire, diventare”46 conservato anche in omero (chantraine, DELG p. 327). ma, di nuovo, sul piano stilistico televqw non rivela il segno della contraffazione; la dissimula invece, perché non è un verbo abbandonata; a Cornford vanno comunque ugualmente due meriti: quello di avere capito che il testo di Platone non è affatto privo di senso, e quello di aver difeso con forza la restituzione di oi\on in luogo di oi|on. A un riesame della questione è dedicata un’appendice del saggio di dixsaut (1987, p. 246 ss.), che contiene anche una rassegna delle principali posizioni della critica; la dixsaut però, dopo aver scartato tutte le proposte precedenti, suggerisce a sua volta due interpretazioni viziate entrambe dalla lettura di oi|on. la recente soluzione di Palmer 1999, p. 259 s., che vorrebbe Platone interessato solo al primo emistichio di B 8. 38 (mentre il secondo emistichio sarebbe stato citato solo per completare l’esametro), si commenta da sé. Per parte mia ho preferito una soluzione vicina a quella avanzata (e al tempo stesso respinta) da Cornford (1935), che mi pare la sola capace di dare alla versione platonica un senso coerente con l’argomentazione del passo. 45 Senso che ne riflette l’etimologia: vd. Frisk, GEW s. v. oi\o". 46 cf. emped. B 65 ejn d∆ ejcuvqh kaqaroi'si: ta; me;n televqousi gunai'ke" / yuvceo" ajntiavsanta «si riversarono in puri grembi; ora diventano femmine, incontrando il freddo ...»; B 26. 9 hjde; pavlin diafuvnto" eJno;" plevonæ ejktelevqousi «e di nuovo, separandosi un [elemento], diventano molti».

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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usuale in attico, né in poesia né tantomeno in prosa47. al contrario, esattamente come nella sostituzione di ou\lon con oi\on, anche in questo caso una forma omerica come e[menai48 è stata sostituita con un’altra forma perfettamente possibile in un qualsiasi testo esametrico da Omero in poi49. Ma Platone doveva avere probabilmente qualche motivo in più per introdurre proprio televqw nella sua versione di B 8. 38. egli sapeva infatti benissimo che in particolare questo verbo poteva essere usato in un poema filosofico occidentale. televqw è frequente nella letteratura sapienziale in dialetto dorico o comunque collegabile al mondo dorico: lo troviamo non solo negli esametri di empedocle (vd. n. 46), ma anche nel fr. 276 K.-a., un esilarante pezzo di parodia filosofica trasmessoci da Alcimo sotto il nome di Epicarmo (v. 9 ss.): o} de; metallavssei kata; fuvsin kou[pok∆ ejn twujtw'/ mevnei, e{teron ei[h ka tovd∆ h[dh tou' parexestakovto". kai; tu; dh; kajgw; cqe;" a[lloi kai; nu;n a[lloi t e l ev q o m e ", kau\qi" a[lloi kou[poc∆ wuJtoiv katto;n lovgon.

Per via epigrafica televqw è documentato nelle Tavole di Eraclea (i 111), un testo linguisticamente conservatore e con pretese di letterarietà. si ha insomma la netta l’impressione che Platone abbia voluto in un certo senso ‘pitagorizzare’ il testo di Parmenide, con il risultato di modificarne radicalmente il significato in modo più o meno deliberato. Vari studiosi hanno posto l’accento sull’intenzionalità del fatto (p. es. o’Brien 1987, i p. 55), che è molto probabile ma non può essere provata. sicuramente la versione platonica di B 8. 38 ha radici occidentali e potrebbe riflettere altre versioni simili circolanti a quel tempo. il testo originale, o una versione vicina all’originale, ci viene invece fortunatamente da simpl. phys. 87. 1 e 146. 11 (qui all’interno della citazione dell’intero B 8). nondimeno la redazione di Platone ha ‘fatto scuola’ tra i commentatori antichi: la troviamo infatti in eusebio, in teodoreto, nell’anonimo autore del commento al Teeteto e, due volte, in Simplicio stesso, che in phys. 29 e 143 ha accettato il testo platonico senza battere ciglio. 47 gli unici due esempi in prosa sono in Xenoph. anab. 3. 2. 3 e 6. 6. 36; in poesia televqw compare raramente nelle sezioni liriche della tragedia (p. es. aesch. suppl. 1040, eur. Andr. 783; mai in sofocle). 48 in omero e[menai conta cinque esempi nella stessa posizione metrica di B 8. 38. 49 quello di B 8. 38 non è il solo caso in cui Platone si serve proprio di televqw per riferire un brano in esametri che non ricorda bene o che necessita di essere adattato; cf. la sua versione di Hes. op. 121-123 in resp. 468e e in Crat. 397e, che è certamente inferiore a quella giunta per tradizione diretta: «an adaptation of the original text to the ideas which were current in Plato’s time» la definisce van der Valk 1964, p. 300; vd. anche West 1978, p. 181 s. Preferenza al testo di Platone accordano invece Wilamowitz (1928) e solmsen (1970).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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2. Validità del testo di Aristotele (B 16. 2)

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B 16 wJ" ga;r e{kasto" e[cei kra'sin melevwn poluplavgktwn, tw;" novo" ajnqrwvpoisi p a r iv s t a t a i: to; ga;r aujtov e[stin o{per fronevei melevwn fuvsi" ajnqrwvpoisin kai; pa'sin kai; pantiv: to; ga;r plevon ejsti; novhma.

il frammento è conservato da aristotele e teofrasto. il testo di alessandro ed asclepio, che pure lo trasmettono, il primo integralmente, il secondo in parte, dipende recta via da Aristotele ed è quindi di scarsa utilità50. aristotele cita a memoria; in B 16. 1 i suoi mss. scrivono polukavmptwn “dalle molte articolazioni” contro poluplavgktwn di teofrasto, che rappresenta certamente la lezione genuina51. teofrasto, dal canto suo, propone una accurata contestualizzazione del brano (cf. VS a 46) e possiamo pensare che, a differenza del suo maestro, abbia tratto il testo da un esemplare di Parmenide. l’idea che aristotele e teofrasto si siano riferiti a testi differenti non è nuova: essa è già enunciata in Diels 1897, p. 26, quindi in Coxon 1986, p. 4, e in cordero 1987a, p. 5 n. 13. si deve però dissentire fermamente sul giudizio di poziorità della tradizione teofrastea formulato sia da diels («aristoteles, dessen exemplar schlechter war als das des theophrastus») che da coxon («aristotle’s variants are inferior»). a mio parere, infatti, il testo offerto da aristotele è per molti versi superiore. Alcuni dei più recenti editori (Coxon, Cerri) hanno sostenuto giustamente la lezione e[ch (cioè e[ch/) del ms. aristotelico e rispetto a e[cei o e[cein della restante tradizione; infatti il congiuntivo esprime meglio dell’indicativo il carattere soggettivo e contingente della percezione, correlato alla proporzione di caldo e di freddo in ogni individuo in un dato momento; nelle comparative introdotte da wJ" il cong. è usato da omero in avanti52. ma il dato linguistico determinante per postulare la superiorità del testo di aristotele è rappresentato da parivsta–tai. i mss. di teofrasto portano infatti il perfetto parevsthke, che la metrica impone di correggere in parevsthken. diels e dopo di lui Kranz hanno sempre difeso tenacemente la lezione di aristotele53. Gli editori successivi, al contrario, hanno in genere ritenuto più comodo accogliere la lezione di teofrasto. io penso che i primi avessero ragione e che parevsthken sia una forma normalizzata. Ma ciò che né Diels né Kranz hanno

50 aristot. metaph. 1009b 22; theophr. sens. 3 (= Dox. Gr. 499. 18 diels); alex. in metaph. 306. 29 ss.; asclep. in metaph. 277. 19 s. 51 cf. B 6. 6 pla(g)kto;n novon. 52 P. es. Il. 5. 161 ss. 53 Vd. anche Ross (1924, p. 275): «Aristotle is probably as usual quoting from memory, but his parivsta–tai is more likely to be the original form than the easier parevsthken».

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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saputo dare, e che manca tuttora, è una spiegazione plausibile del vocalismo lungo di parivsta–tai, rispetto all’atteso parivsta±tai. occorre anzitutto puntualizzare che parevsthken non dà un senso buono nel contesto della frase. teoricamente esso potrebbe continuare un antico tipo ereditato di perfetto che schwyzer-debrunner 1950, p. 263, chiamano “(iterativo-)intensivo” e che è testimoniato in omero in determinate categorie verbali (tipo mev­ muke); esso sopravvive anche in certe formazioni attiche tra cui proprio e{sthka. ma, diversamente dal caso di e{sthka, le attestazioni omeriche di parevsthka (Il. 16. 852 s. = Il. 24. 131 s. ajllav toi h[dh / a[gci parevsthken qavnato" kai; moi'ra krataihv), che coxon 1986, p. 249, vorrebbe portare a supporto della lezione di Teofrasto in B 16. 2, ci dicono invece che esso ha il valore più usuale del perfetto forte greco, semanticamente differente dal perfetto “(iterativo-)intensivo” poco fa menzionato (schwyzer-debrunner 1950, p. 263, lo denominano infatti “Perfekt des erreichten Zustandes”) e incompatibile col contesto del nostro frammento. in passato soprattutto Fränkel 1960, p. 175, si è pronunciato in difesa di parevsthken e ha richiamato vari paralleli in letteratura di V e iV secolo54. a suo parere «Parmenides redet Zuständen ... und schreibt daher ist zur Stelle». È precisamente il punto su cui io dissento. la comparazione in B 16. 1-2 descrive infatti non una condizione, bensì un processo che varia in base al variare del rapporto tra i due elementi (caldo e freddo) costitutivi del corpo. lo svolgersi della percezione che dà luogo al pensiero non preesiste, ma consegue al mescolarsi dei due elementi. Mi sembra dunque che il valore espresso dal perfetto sia largamente insoddisfacente. il fatto che aristotele abbia citato a memoria non autorizza a privarlo delle più elementari conoscenze di metrica. Eviterò dunque di pormi la domanda oziosa, che pure qualcuno si è posto, se abbia commesso una svista metrica nella sua citazione. c’è piuttosto nella sua testimonianza un altro fatto che richiede attenzione. conviene dare anzitutto uno sguardo a metaph. 1009b 17-25: kai; ga;r ∆Empedoklh'" metabavllonta" th;n e{xin metabavllein fhsi; th;n frovnhsin: «pro;" pareo;n ga;r mh'ti" ejnauvxetai ajnqrwvpoisin» [emped. B 106]. kai; ejn eJtevroi" de; levgei o{ti «o{sson d∆ ajlloi'oi metevfun, tovson a[r sfisin aijei; kai; to; fronei'n ajlloi'a p a r iv s t a t o» [emped. B 108]. kai; Parmenivdh" de; ajpofaivnetai to;n aujto;n trvopon: «wJ" ... novhma» [Parm. B 16].

come si può vedere, la seconda citazione da empedocle, mutila nel secondo verso, si conclude con parivstato. ma nel de anima (427a 22 ss.) aristotele cita di nuovo B 106 e B 108: 54

Vd. anche coxon 1986, p. 249.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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w{sper kai; ∆Empedoklh'" ei[rhke «pro;" pareo;n ga;r mh'ti" ajevxetai ajnqrwvpoisin» kai; ejn a[lloi" «o{qen sfivsin aijei; kai; to; fronei'n ajlloi'a p a r iv s t a t a i».

Fränkel 1960, p. 175, ha immaginato la seguente catena di modificazioni nel testo della Metafisica: prima il parevsthken della citazione parmenidea sarebbe stato trasformato in parivstatai sotto la pressione della stessa forma nel frammento empedocleo; quindi parivstatai della citazione empedoclea sarebbe stato trascritto per errore parivstato. nel de anima, invece, sarebbe stata conservata la lezione genuina parivstatai. È un’ipotesi ingegnosa, che tuttavia trascura un dato fondamentale: come Parmenide in B 16, così empedocle in B 106 e B 108 espone, imitandolo, una teoria della percezione (il che non mi pare in via di principio incompatibile con il fatto che molte fonti antiche connettano B 108 specificamente con la teoria empedoclea sui sogni). l’incompletezza di entrambe le citazioni di aristotele non ci consente di determinare con precisione la prosodia del parivstatai empedocleo (parivsta–tai + C, parivsta±tai + V). Va però notato che, se in Empedocle leggessimo parivsta–tai, esso si troverebbe esattamente nella stessa sede metrica del parivsta–tai di Parmenide. diels 1897, p. 113, credeva che il parivsta–tai di Parmenide fosse una atticizzazione per un originario parivsthtai e citava a confronto ejpivsthtai in Il. 16. 243, che tuttavia non può essere pertinente in quanto si tratta di un congiuntivo55. Kranz (VS, p. 244), rinvia invece a due forme di indicativo documentate in teocrito, e[ra–sai (1. 78) e e[ra–tai (2. 149), che tuttavia a parere di snell (1958, p. 316) rappresentano «ein mißverständnis älterer poetischer sprache»: teocrito infatti le avrebbe modellate su e[ra–tai di saffo fr. 16. 4 Voigt, cioè su un cong. (Blümel 1982, p. 174) erroneamente rianalizzato come indic. perché non associato (secondo l’uso arcaico) alla particella modale56. a mio parere in luogo di parivsta–tai si deve scrivere parista'tai (< paristavetai), da interpretare come forma media tematizzata57. l’accentazione parivsta–tai, che troviamo nei mss. di aristotele, è dovuta a scribi che seguivano la norma attica ed erano dunque abituati ad accentare (correttamente) parivsta±tai. Forme tematizzate di i{sthmi, accanto a un alto numero di forme tematizzate di presenti in -mi, sono attestate nello ionico d’età classica, particolarmente in erodoto (iJsta'/: 2. 143, 4. 103; i{sta, kativsta: 2. 106, 6. 43), ma anche per via epigrafica (kaqista'n a eretria, iV sec. a. c.: IG Xii 9. 189. 34). un presente iJstavw compare nei papiri di iii sec. a. c. (Browning 2004, p. 158), e sopravvive fino a epoca tarda; ejnistavw è nel commento all’Odissea di eustazio (p. 1. 10 stallbaum; esso è tuttora ignoto ai lessici: cf. Pontani 2000, p. 21). 55

van der Valk (1964, p. 47); Janko (1992, p. 351). stessa spiegazione in gow (1952, p. 19); vd. anche schwyzer 1939, p. 681. 57 cf. per converso B 4. 4 sunistav±menon. 56

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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ma la concorrenza di forme atematiche ereditate e forme tematiche recenti nei presenti radicali e a raddoppiamento è una caratteristica già della lingua epica (partiqei': Od. 1. 192; didoi'": Il. 9. 164; damna'/: Od. 11. 221 ecc.) e di altre lingue poetiche (tiqei' in mimn. fr. 1. 6 West; didoi' in sem. fr. 7. 54 West), dove le forme tematiche riflettono chiaramente quella Thematisierungswelle dello ionico arcaico che ci è confermata anche in questo caso dalle iscrizioni (p. es. tiqei'n, didou'n a eretria, ca. 370 a. c.: IG Vii 235. 21, 26, 33, 42; didoi' a mileto, ca. 300 a. c.: SIG 1037. 9; parapitnw'si a samo, 346/345 a. c.: SGDI 5702. 20). uno studio sistematico del fenomeno è stato recentemente condotto da Hackstein (2002, p. 97 ss.). un punto importante della sua argomentazione è che determinate forme recenti dell’epica assunte dallo ionico parlato (che Hackstein chiama “anacronismi isolativi”) non hanno avuto forza sufficiente per affermarsi come norma negli stadi successivi della lingua. È il caso delle forme tematizzate dei presenti a raddoppiamento, che p. es. non hanno mai attecchito nella lingua letteraria ionico-attica (che continua a usare la coniugazione atematica), ma sono rimaste vitali nel parlato, come mostrano le loro rare ma costanti attestazioni fino a epoca molto recente. 3. I versi programmatici del proemio (B 1. 29) Fornisco nell’ordine i testi di Karsten (1835) e diels (1897) di B 1. 28-30: crew; dev se pavnta puqevsqai, hjme;n ∆Alhqeivh" e uj p e i q ev o " aj t r e k e; " h\tor hjde; brotw'n dovxa", th/'" oujk e[ni pivsti" ajlhqhv" è necessario che tu conosca ogni cosa, sia il retto cuore di Verità ben persuasiva sia le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza. crew; dev se pavnta puqevsqai, hjme;n ∆Alhqeivh" e ujk u k l ev o " aj t r e m e; " h\tor hjde; brotw'n dovxa", tai'" oujk e[ni pivsti" ajlhqhv" è necessario che tu conosca ogni cosa, sia il cuore immobile di Verità ben rotonda sia le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza.

siamo al termine del proemio. Parmenide ha compiuto il viaggio che lo ha condotto al cospetto della dea ed ella si accinge ora a rivelargli le due vie di ricerca, veritiera la prima, ingannevole l’altra. il passo ha indubbiamente fornito lo spunto alla dossografia successiva per la tradizionale suddivisione del poema in due parti, la ajlhvqeia e la dovxa; non a caso esso è citato da un alto numero di fonti.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

B 1. 29 è notoriamente uno dei versi più tormentati del testo di Parmenide. le maggiori perplessità si sono da sempre addensate attorno all’epiteto di ajlhqeivh", che è eujpeiqevo" “ben persuasiva” in Plutarco, sesto empirico, clemente alessandrino e diogene laerzio, eujkuklevo" “ben rotonda” in simplicio, eujfeggevo" “ben splendente” in Proclo58. le tre lezioni sono, come si vede, metricamente equivalenti. gli stessi testimoni sono discordi anche in merito all’epiteto di h\tor, che è ajtrekev" lett. “non torto” in Plutarco, diogene laerzio e sesto empirico (math. 7. 111), mentre è ajtremev" “immobile” in clemente alessandrino, Proclo, simplicio e sesto empirico (math. 7. 114). in linea con la priorità accordata al testo di simplicio, diels 1897, p. 57, considerò eujkuklevo" lectio difficilior; e così scrivono tutti gli editori successivi tranne Coxon e O’Brien. A mio giudizio è invece probabile che questa lezione simpliciana, come pure l’ ajtremev" seguente, siano frutto di un rimaneggiamento secondario del passo inteso a trasferire nel verso programmatico del proemio due termini relativi a contenuti ritenuti fondamentali nella interpretazione neoplatonica di Parmenide. un buon punto di partenza è rappresentato dalle due sole parole sicure di B 1. 29: h\tor e ajlhqeivh. h\tor è frequente nell’epica omerica ma cade in disuso attorno alla metà del V sec. a. c.: compare in Pindaro e in Parmenide (unica occorrenza nei presocratici); dei tragici solo eschilo lo usa una volta59. con ajlhqeivh dà vita a un’espressione isolata in greco, perché nella letteratura arcaica h\tor è sempre connesso al corpo e non si presta ad esprimere un valore figurato60. tuttavia, a quanto pare, nell’epica il nome designa solo di rado il cuore come organo anatomico61. nell’ h\tor sembra piuttosto essere racchiusa “la sostanza della coscienza” (Onians 1951, p. 106), ed è perciò che spesso esso è identificato con la sede del linguaggio: in omero “ride”, “piange”, “parla”62; in Pindaro (Ol. 1. 3 s.) “canta”; in eschilo (Pers. 991) “grida”. 58 Plut. adv. Col. 1114d-e; sext. math. 7. 111, 114; clem. strom. 5. 59; diog. laert. 9. 22 (eujpeiqevo" FP: eujpiqevo" B); simpl. cael. 557. 26 (eujkuklevo" deF: eujkuvklio" a); Procl. in Tim. 1. 345. 15. 59 aesch. Pers. 991. a omero guardano naturalmente le riprese d’età ellenistica (apollonio rodio, mosco, timone) e romana (i due oppiani, nonno). 60 Bolelli (1948, p. 65 ss.); onians (1951, p. 105 ss.). Ho l’impressione che molti interpreti parmenidei tendano ad attribuire a h\tor un significato metaforico che il greco non ha mai conosciuto. in italiano si dice p. es. “il cuore del problema”, ma un’espressione simile sarebbe impossibile p. es. in tedesco, dove si dice “der Kern des Problems”, non “das Herz des Problems”. l’italiano e il tedesco condividono quindi solo un certo tipo di valore figurato (p. es. all’italiano “avere un cuore tenero / duro”, corrisponde in tedesco “ein weiches / hartes Herz haben”; l’espressione è nota anche al greco: cf. p. es. Il. 9. 572). Anche Pfeiffer (1975, p. 31) ha sottolineato il valore non figurato di h\tor in B 1. 29 («bei Parmenides hat der ausdruck noch gegenständliche Bedeutung»). 61 secondo Bolelli (1948, p. 67 s.) tre volte nell’Iliade, mai nell’Odissea. 62 rispettivamente Il. 21. 389, Il. 16. 450 ≈ 22. 169, Il. 2. 489 s.

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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Veniamo a ∆Alhqeivh. Nelle più recenti edizioni parmenidee è invalsa l’abitudine di stampare con l’iniziale minuscola nomi come ajlhqeivh, o divkh (B 1. 14 e 8. 14), o peiqwv (B 2. 4), che invece nei VS e nelle edizioni precedenti erano puntualmente scritti con una maiuscola. il vecchio usus è senza dubbio preferibile, e io sono convinto che quei nomi rappresentino in Parmenide dei Sondergötter («rappresentazioni divine di assoluta trasparenza concettuale»)63. l’unica interpretazione possibile del proemio è quella che vede nell’itinerario di Parmenide il percorso dell’iniziato verso la “verità”, e riconosce in Persefone la dea (non nominata) che tale verità deve rivelare all’iniziato giunto al suo cospetto. il proemio contiene dunque la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide64; e la ∆Alhqeivh menzionata in B 1. 29 è, a mio parere, figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina65. l’ h\tor ∆Alhqeivh", il “cuore della Verità”, che la dea mostrerà a Parmenide nel seguito del poema, corrisponde quindi alla sostanza conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in esso contenuto, riducibile all’equazione logicoverbale limpidamente formulata poco più oltre in B 2. 3 (o{pw" e[stin te kai; wJ" oujk e[sti mh; ei\nai), e ripetuta con insistenza quasi ossessiva anche in B 8. come aveva intuito Karsten (1835, p. 67), in h\tor ∆Alhqeivh" viene dunque attivato un significato nuovo, a partire però da iuncturae tradizionali quali «bivh ÔHraklevo", i\" Telemavcoio et similia apud poëtas». 3. 1. L’ h\tor è ajtrekev", non ajtremev" È a questo punto che occorre chiedersi come l’ h\tor ∆Alhqeivh", nel senso che ho appena delineato, possa essere stato qualificato da Parmenide. Perché avrebbe dovuto essere detto ajtremev"? E perché, invece, non avrebbe dovuto essere designato come ajtrekev"? secondo diels (1897, p. 54 s.) «ajtrekev" liegt dem trivialen poetischen sprachgebrauch so nahe, dass es fast von selbst sich in die texte einschlich»; per contro «ajtremev" ist doch ein sehr characteristisches Prädicat des parmenideischen ∆Eovn (8,4), und da dies sein mit der Wahrheit identisch ist, so ist die echtheit gerade dieses Begriffes verbürgt». ajtrekhv" vanta due attestazioni omeriche66, accanto alle molte occorrenze dell’avverbio ajtrekevw". dal senso originario (“non torto”; cf. lat. torqueo, hitt. tarkuzi) l’aggettivo ha sviluppato assai presto il senso di “vero”, “chia63 l’opposizione tra Sondergötter e Augenblicksgötter è stata teorizzata da H. usener; per la sua validità in Parmenide cf. il secondo capitolo dell’Introduzione di untersteiner (1958), in particolare le pp. lXii-lXXVii. 64 Cito solo bibliografia essenziale: Burkert (1969); Sassi (1988); Kingsley (1999, pp. 93 ss., 243 s.); cerri (2000, p. 616 s.). 65 ∆Alhvqeia ‘ipostatizzata’ ritorna con insistenza sulle placche d’osso di olbia Pontica (dubois 1996, p. 154 s.). Per Divkh vd. il fr. 158 Kern a confronto con Parm. B 1. 14. Peiqwv compare nella teogonia riflessa dal papiro di Derveni. 66 Il. 5. 208 e Od. 16. 245; ma vd. Kirk (1980, p. 81 s.) e Heubeck-Hoekstra (1989, p. 277).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

ro”, “reale”67, ed è proprio questo il valore riflesso in formule omeriche come ajtrekevw" katavlexon (17x). in erodoto le parole ajtrevkeia “verità” e ajtrekhv" “vero” sono poste a garanzia della veridicità della ricostruzione storica (Becker 1937, p. 105 ss.). Credo quindi che si possa rispondere affermativamente a Leumann (1950, p. 304), il quale si chiedeva se ajtrekevw" fosse arrivato all’epica dallo ionico parlato. un parallelo impressionante con B 1. 29, di cui è impossibile disfarsi, si trova in Pind. Nem. 5. 16 s. ou[ toi a{pasa kerdivwn / faivnoisa provswpon ajlav­ qei∆ ajtrekhv" (tra l’altro esso va ad aggiungersi ad altri significativi punti di contatto tra l’immaginario del proemio parmenideo e quello di alcune odi pindariche68). diels (1897, p. 55) lo sapeva bene e ha cercato, senza successo, di togliere a tutti i costi valore a questa e ad altre attestazioni di ajtrekhv" in Pindaro69. La perentoria liquidazione di ajtrekev" in B 1. 29, in quanto appartenente al «trivialen poetischen Sprachgebrauch», è quindi frutto di un preconcetto; a meno, s’intende, di non voler tacciare anche Pindaro di “trivialità”. la prima attestazione di ajtremhv" è in sem. fr. 7. 37 West, dove è riferito al mare; omero infatti non conosce l’aggettivo, ma soltanto le forme avverbiali ajtrevma" e ajtrevma; in Hes. op. 539 è attestato ajtremevw; theogn. 978 ha ajtremevw". nel V e nel iV sec. a. c. ajtremhv" appare usato nella prosa attica. non a caso Karsten (1835, p. 68) lo definisce un «vocabulum antiquis non ignotum, studiosius tamen usurpatum a serioribus, praesertim Platonicis, ad immobilem idearum statum significandum». Lo ritroviamo in effetti già in un celebre passo di Platone (Phaedr. 250c) in cui si descrive la contemplazione delle idee (oJlovklhra de; kai; aJpla' kai; aj t r e m h' kai; eujdaivmona favsmata muouvmenoiv te kai; ejpopteuvonte" ejn aujgh'/ kaqara'/). in Parmenide ajtremhv" riappare in B 8. 4 ejsti ga;r oujlomelev" te kai; aj t r e m e; " hjd∆ ajtevleston: con la differenza che qui la sua presenza è sicura, malgrado si tratti di uno dei versi più citati del poema e, probabilmente, del verso in cui in assoluto è più difficile stabilire il testo per la messe di varianti tramandate; nell’antichità doveva essere un passo tanto noto quanto discusso (cf. § 5). 67 LIV s. v. terk; Frisk, GEW e chantraine, DELG s. vv. ajtrekhv" e ajtraktov". l’antico indiano ha conosciuto un’evoluzione simile: qui la radice tark­ passa dal senso concreto di “volgere” a quello astratto di “volgere il pensiero” e quindi “riflettere”; da tarka­ “riflessione” si è poi sviluppato nelle Upanishad un aggettivo di senso contrario a­tarkya “impensabile”; vd. mayrhofer (1992, s. v. TARK). 68 Vd. la bibliografia citata in III 2 § 1 n. 206. 69 ampiamente infondata si dimostra la difesa della lezione ajtremei' offerta dal laur. 35, 52 (d) in Nem. 3. 41; nessun editore l’ha mai presa sul serio, e il testo effettivamente stampato è ajtrekei' del laur. 32, 37 (e). Dubbi sull’affidabilità di d sono stati per altro espressi p. es. da irigoin (1952, p. 330).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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diels ha notato che ajtremhv" è «ein sehr characteristisches Prädicat des parmenideischen ∆Eovn». ciò è esatto se ci si riferisce all’essere così com’è delineato in B 8. ma altra cosa è il v. 29 del proemio, dove io credo che il testo citato da simplicio (nel de caelo), da Proclo e (in parte) da clemente sia stato rimaneggiato in modo tale che l’ h\tor ∆Alhqeivh" non potesse che rinviare alla similitudine tra l’essere e la sfera posta da Parmenide in B 8. 42-45, similitudine in cui Platone ha senza dubbio trovato un precedente fondamentale per la sua concezione dell’universo sferico (Tim. 33b). Resta da capire perché i mss. di Sesto Empirico siano divisi tra ajtrekev" e ajtremev". Per Diels 1897, p. 55, questa era una prova evidente che il secondo è lectio difficilior. io sono invece convinto del contrario. osserviamo nel dettaglio la tradizione. Portano ajtremev" nle in math. 7. 114, portano ajtrekev" (1) i mss. recentiores aBrV in math. 7. 114 e (2) tutti i mss. in math. 7. 111 (il solo n dà la vox nihili ajterkev", tra l’altro ametrica). Va da sé che non si possono porre sullo stesso piano le lezioni di math. 7. 111, dove Sesto cita l’intero proemio, e quelle di math. 7. 114, dove riprende la citazione parafrasandola70. a mio parere la discrepanza tra i mss. è perfettamente spiegabile. una prima fonte, quella da cui Sesto ha tratto il testo del proemio, portava ajtrekev"; e così infatti sesto ha trascritto in math. 7. 111. una seconda fonte, quella da cui Sesto ha ricavato la parafrasi del testo, portava invece ajtremev"; e su questa è stato basato il testo in math. 7. 114 (qui infatti Sesto leggeva certamente ajtremev", che è stato parafrasato con ajmetakivnhton). non va dimenticato che i due aggettivi sono praticamente omofoni, metricamente equivalenti e possono venire confusi anche nel significato (cf. il caso sopra discusso di Pind. Nem. 3. 41). in fase di tradizione medioevale la discrepanza tra le due lezioni è stata eliminata (per collazione o congettura) già nel subarchetipo (") dei mss. recentiores (aBrV) attraverso una generalizzazione di ajtrekev". l’ ajterkev" di n in math. 7. 111 è ovviamente un errore per ajtrekev" dovuto alla velocità di copiatura71 (vd. § 4). 3. 2. La ∆Alhqeivh è eujpeiqhv", non eujkuklhv"72 dei tre epiteti di ∆Alhqeivh trasmessi dalle fonti, eujfeggevo" “ben splendente” di Proclo è certamente non autentico. sia che egli lo trovasse su una fonte scritta, sia che abbia invece citato a memoria (cambiando intenzionalmente o meno il testo), l’aggettivo è falso in quanto connesso alla dottrina neopla70 così ha argomentato già deichgräber (1958, pp. 15-23), che faceva il punto sui criteri di citazione da parte di Sesto, mettendo per altro in luce come questi siano sostanzialmente identici a quelli da lui adottati a proposito di Senofane e di Empedocle. 71 Kochalsky (1911, p. 61) ha segnalato che in Pind. Nem. 5. 17 un ms. della famiglia fiorentina (il già menzionato laur. 32, 52; in sigla d) scrive anch’esso ajterkev". 72 una difesa di eujpeiqhv" vs. eujkuklhv" è stata tentata tempo fa da Jameson (1958), ma giudico gli argomenti addotti in quella sede poco rilevanti per la mia discussione.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

tonica della luminosità dell’Intellegibile, che concepisce la superficie sferica dell’Universo di necessità liscia, perché capace di assorbire e riflettere meglio il bagliore dell’intellegibile, cioè delle idee (o archetipi) della realtà pensata dal demiurgo. La lezione di Proclo ci dice comunque moltissimo. Una volontaria alterazione del passo, dovuta alla fonte usata da Proclo o addirittura a lui stesso, sarebbe indice di un’attitudine non filologica verso il testo di Parmenide e proverebbe che negli ambienti neoplatonici circolavano testi contraffatti. ma anche se si ammettesse di essere di fronte a una citazione a memoria, non si può fare a meno di domandare a chi sulle orme di diels pensa che eujkuklevo" sia autentico: Proclo conosceva bene la similitudine della sfera di B 8. 42-45 e la cita più volte nei suoi scritti73; perché mai è caduto proprio su un epiteto così caratterizzante come eujkuklevo"? in B 8. 43 leggiamo che l’essere parmenideo è eujkuvklou sfaivrh" ejnalivg­ kion o[gkw/ «simile alla massa di una sfera ben rotonda». l’aggettivo eu[kuklo", flesso secondo la declinazione tematica, è ben attestato nella tradizione poetica arcaica: è in omero (6x), in tyrt. fr. 19. 15 West, in Pind. Nem. 4. 66. in B 1. 29 ci troveremmo invece di fronte a un hapax legomenon, perché lo stesso aggettivo è flesso secondo la declinazione atematica. Il fatto in sé non rappresenta un problema: già diels 1897, p. 57, citava diversi esempi di coppie aggettivali in -hv"/-o"74. io sono convinto tuttavia che eujkuklevo" (come pure eujfeggevo") sia stato semplicemente calcato su eujpeiqevo". infatti l’autorità di simplicio, che ci trasmette questa lezione (nel de caelo, non nell’in physicam), non basta da sola a garantirne la genuinità. eujkuklevo" deve essere falso e deve essersi insinuato nella tradizione per motivi simili a quelli che hanno causato la manipolazione di ajtrekev". nell’antichità B 8. 42-45 ha avuto il privilegio di essere il passo parmenideo più citato, a cominciare dal Sofista di Platone, proprio il dialogo in cui si consuma – come ci dichiara l’autore stesso – il “parricidio” di Parmenide (vd. introduz., § 1) . l’ h\tor ∆Alhqeivh", “il cuore della Verità” rivelata a Parmenide, doveva precorrere la dottrina platonica dell’uno sferico e immobile: fu prevalentemente questo il senso in cui venne interpretato il poema parmenideo dalla filosofia neoplatonica. l’epiteto originale della ∆Alhqeivh parmenidea in B 1. 29 era secondo me eujpeiqhv", da interpretare come un composto del tipo Bahuvri–hi col valore di “che ha buona (capacità di) persuasione” (schulz 1952, p. 60). esso è trasmesso da ben quattro testimoni contro i restanti due, per altro divisi tra loro75. È perfettamente consono allo stile epicizzante del proemio (cf. la clausola formulare omerica Eujpeiqevo" uiJov", Od. 11x; «der homerische name Eujpeivqh" 73

Vd. il prospetto di o’Brien (1987, i p. 30 s.). P. es. eujgrafhv": eu[grafo", eujerghv": eu[ergo"; altri esempi in o’Brien (1987, ii p. 316 n. 2). 75 diversamente diels 1897, p. 54: «die majorität der Zeugen entscheidet nicht».

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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... ist von eujpeiqhv" gebildet»: Schulz 1952, p. 60). È attestato epigraficamente come antroponimo in area ionico-attica tra V e iV sec. a. c. 76. l’argomento a mio parere decisivo risiede ad ogni modo nelle precise e sicuramente non casuali corrispondenze terminologiche interne ai frammenti superstiti. a cominciare da B 1. 30, dove si dice che nelle brotw'n dovxai non c’è p iv s t i " aj l h q hv ", con scambio, rispetto a eujpeiqevo" ∆Alhqeivh" di B 1. 29, del sostantivo al posto dell’attributo e dell’attributo al posto del sostantivo (pivsti" ajlhqhv" ricompare poi in clausola a B 8. 28). ancora, in B 2. 3-4 la “prima via”, vale a dire la via dell’essere, è definita “sentiero di Persuasione” perché «fa da scorta alla Verità» (P e i q o u' " ejsti kevleuqo", ∆A l h q e iv h/ ga;r ojphdei'). in B 8. 50-51, là dove termina la prima sezione del poema, Parmenide insiste di nuovo sul rapporto tra Verità e Persuasione, ∆Alhqeivh e Peiqwv, che la contraddistingue (ejn tw/' soi pauvw p i s t o; n l ov g o n hjde; novhma / aj m f i; " ∆A l h q e iv h " )77 e che la percorre frammento dopo frammento. il riferimento di B 8. 50-51 ai versi conclusivi del proemio, tanto più efficace in quanto realizzato mediante le stesse parole-chiave, configura dunque il tracciato (questo sì) circolare dell’ oJdo;" ∆Alhqeivh" percorsa da Parmenide nella prima parte del suo poema (cf. anche B 5 xuno;n dev moiv ejstin, / ojppovqen a[rxwmai: tovqi ga;r pavlin i{xomai au\qi"). Accettare sulla scorta di Diels la lezione simpliciana significherebbe dunque non solo invalidare l’attendibilità di Sesto Empirico come fonte di testo, ma anche travisare profondamente (a mio giudizio) uno dei contenuti essenziali del poema. 4. Sesto Empirico e la redazione psilotica del proemio (B 1. 24 s. e B 1. 20 s.) B 1. 24 s. w\ kou'r∆ ajqanavtoisi sunavoro" hJniovcoisin, i{ppoi" t a iv se fevrousin iJkavnwn hJmevteron dw'.

questo è il testo offerto dalla generalità delle edizioni parmenidee78. in B 1. 25 un testo lievemente diverso è invece stampato da coxon 1986, p. 49, e da cerri 1999, p. 148: i{ppoi" q∆, a i{ se fevrousin, iJkavnwn hJmevteron dw'.

la situazione dei mss. di sext. math. 7. 111 può essere descritta come segue: osborne-Byrne (1997 s. v. Eujpeiqhv"); CEG 856. cf. Fränkel (1969, p. 402 n. 7). 78 ne cito alcune tra le principali: Karsten (1835), mullach (1883), untersteiner (1958), tarán, (1965), gallop (1984), austin (1986), o' Brien (1987); cordero (1997). 76

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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i{ppoi" e aBrV79: i{ppoi nl | q∆ ai{ n80: taiv le: te aBrV.

Vale anzitutto la pena soffermarsi brevemente sul valore di n (Laur. 85. 19) nella tradizione ms. di sesto empirico. esso appartiene al gruppo di mss. che tramandano per intero il corpus delle opere sestane (mutschmann 1909, p. 245) e si compone di tre parti scritte in epoche diverse da mani diverse. La parte centrale e più antica (XIII-XIV sec.), che ci restituisce il proemio di Parmenide, è anche l’unica ad avere rilevanza ai fini della costituzione del testo; le restanti due parti sono state integrate in età posteriore rispettivamente dai mss. l (Laur. 85. 11) e F (Laur. 85. 24) e sono quindi descriptae (Kochalsky 1911, p. 10 n. 1). n è ritenuto il migliore ms. sestano81: è antico e sembra appartenere a un braccio indipendente della tradizione, di cui non restano altri esemplari; e soprattutto è scritto molto accuratamente, come è confermato dal fatto che indica con precisione tutte le lacune dell’antigrafo. qui interessa in modo particolare lo scriba di n. si tratta infatti di uno scri­ ba doctus (Mutschmann 1914, p. VII) che ha più volte corretto il testo dell’antigrafo con lievi emendamenti, commettendo un buon numero di sviste per la velocità di copiatura82. Resta quindi valido il giudizio di Mutschmann (1914, p. Vii n. 1): «in talibus saepe cum libris deterioribus conspirat, cum le ... archetypum fidelius secuti esse videantur». A mio parere un altro emendamento dello scriba di n è forse costituito dalla forma aujtevwn in B 1. 20 (cf. ii 1 § 2. 6). torniamo ora alla situazione dei mss. in B 1. 24 s. quanto all’incipit di B 1. 25, la forma richiesta dalla sintassi è senz’altro il dativo i{ppoi", che è parallelo al precedente dativo hJniovcoisin. in ciò che segue invece la scelta non è affatto così immediata. la maggioranza degli editori ammette un asindeto tra i due dativi e stampa taiv, mentre 79 Questo gruppo di quattro mss. recenti viene di norma identificato, sulla scorta di mutschmann (1909), con la sigla " del subarchetipo da cui derivano. si tratta dei seguenti mss., databili tra XV e XVi secolo: Paris. 1963 (a), Berol. Phill. 1518 (B), Vatic. 1338 (r), Venet. Marc. 262 (V). 80 la vera lezione di n è q∆ ai{: vd. coxon (1968, p. 69). che le cose stiano effettivamente come coxon le riferisce è dimostrato dalla buona riproduzione del f. 125v del ms. n che correda la sua edizione, in cui è leggibile con chiarezza un theta. Fino all’edizione di coxon la costituzione del testo di B 1. 25 è stata pertanto fondata su un’erronea lettura di n. la generalità degli editori ha erroneamente ascritto a n la lezione taiv sulla base di una falsa lettura di mutschmann (1914, p. 27), mentre negli apparati q∆ ai{ compare solo come congettura di g. Hermann; vd. p. es. VS, p. 230. 81 Kochalsky (1911, p. 10 ss.); Mutschmann (1914, p. VI) parla di «mira condicione atque ... praestantia eius, qua ceteros longe superat». Il giudizio è confermato dagli editori parmenidei; p. es. VS, p. 228: «die vorzügliche Hs. n»; tarán (1965, p. 12): «the best ms of sextus». 82 un elenco è in mutschmann (1914, p. Vii n. 2).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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solo coxon 1986, p. 49, e cerri 1999, p. 148, preferiscono esplicitare la coordinazione tra di essi scrivendo q∆ ai{. Ora il primo emistichio di B 1. 25 riprende quasi alla lettera l’incipit del poema (B 1. 1 i{ppoi taiv me fevrousin, o{son t∆ ejpi; qumo;" iJkavnoi) ed è probabile che la somiglianza tra i due passi abbia causato problemi agli scribi durante l’autodettatura; non è casuale che i mss. diano in B 1. 1 esattamente la stessa lezione data in B 1. 2583. la scelta di rendere esplicita la coordinazione tra i due dativi mi pare di gran lunga preferibile. La sequenza B 1. 24-25 deve essere intesa come «o giovane che congiunto a aurighe immortali e cavalle che ti portano», con te che connette due dativi in enjambement; è in buona sostanza il tipo omerico di Il. 1. 4 s. (cf. denniston 1954, p. 497 ss.): aujtou;" de; eJlwvria teu'ce kuvnessin / oijwnoi'siv t e pa'si

io penso che, nonostante la falsa segmentazione (taiv anziché t∆ ai[), i mss. le riflettano meglio la situazione di partenza. La copia nelle mani di Sesto empirico doveva infatti portare t∆ ai[, cioè la congiunzione te elisa e seguita dal pronome relativo senza l’aspirazione. arrivati a B 1. 25, gli scribi che hanno copiato i due mss. devono essersi ricordati dell’incipit e, trovatisi di fronte a un probabile TAI in scriptio continua, hanno scritto meccanicamente sui loro esemplari taiv; viceversa, se sul loro antigrafo vi fosse stato scritto QAI, l’errore sarebbe stato meno spontaneo. Alla luce di quanto osservavo poco sopra, è invece molto probabile che lo scriba di n abbia voluto correggere il testo che aveva di fronte (TAI). il suo ragionamento può essere stato questo: lo scriba si è accorto o (1) che il primo emistichio di B 1. 25 riprendeva l’incipit del poema, da lui appena copiato, e ha corretto in base a ciò che aveva scritto in quel punto (cioè q∆ ai{); oppure (2) che, accettando TAI, sarebbe risultata una sintassi difettosa, e ha corretto in q∆ ai{ il testo dell’antigrafo, perché a suo parere inesatto. In entrambi i casi non si sfugge alla conclusione che q∆ ai{ è forma normalizzata di t∆ ai[. lo stesso modo di procedere si coglie di nuovo in B 1. 13: aujtai; d∆ aijqevriai plh'ntai megavloisi qurevtroi" essa, alta fino al cielo, è agganciata a un grande telaio.

qui infatti il solo ms. n scrive plh;n q∆ ai}, in luogo del ‘difficile’ plh'ntai (cf. ii 2 § 2). un tentativo di emendamento della sintassi è stato per altro esperito anche dal copista di ς (subarchetipo dei mss. recentiores aBrV), che ha ripristi83

taiv le: q∆ ai{ n, te ς è l’apparato a B 1. 1 di coxon 1986, p. 45.

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nato la congiunzione te a B 1. 25, cioè una forma erronea che però conserva la dentale sorda originaria. Sul piano ecdotico nessun editore, a mio giudizio, ha finora stampato il testo esatto: né i tanti che hanno voluto attenersi alla lezione di le (taiv), né i due che hanno optato per quella di n (q∆ ai{). in B 1. 25 il testo autentico t∆ ai[ si ottiene al contrario incrociando tra loro le due lezioni. la tradizione di sesto empirico ci conserva pertanto l’eco di un caso evidente di psilosi84. *** B 1. 20 s. th/' rJa di∆ aujtevwn ijqu;" e[con kou'rai k a t∆ aj m a x i t o; n a{rma kai; i{ppou" là, attraverso quella [la porta del Giorno e della Notte], le fanciulle dirigevano sulla strada carraia il carro e le cavalle.

i migliori mss. di sesto empirico (nle) danno kat∆ ajmaxitovn; r dà aJmaxitovn. omero ha kat∆ ajmaxito;n ejsseuvonto (Il. 22. 146). in attico è invece atteso, almeno dopo una certa epoca, kaq∆ aJmaxitovn (vd. più avanti). L’etimologia corrente, secondo cui l’aspirazione iniziale di a{maxa è originaria (< *si­; Frisk, GEW s. v.), fa difficoltà perché, anche ammettendo che il nome sia entrato nell’epica in forma psilotica (Il. 12. 448, 24. 711 ejp∆ a[maxan: West 1998, p. XVii), restano da spiegare casi letterari (cf. soprattutto Pind. Pyth. 4. 247, pae. 7b. 11 kat∆ ajmaxitovn85, soph. Ant. 251 ejphmaxeumevnh, eur. Rh. 283 t∆ ajmaxitou') ed epigrafici (p. es. Tab. Her. i 60 ejpi; ta'" ajmaxitw') in cui l’aspirazione sarebbe attesa. secondo Wackernagel 1916, p. 46 (vd. anche Wackernagel 1897, p. 6), a{maxa rappresenta un’eccezione alla ‘regola’ per cui, nella redazione attica di omero, parole in origine psilotiche vennero provviste di aspirazione iniziale: in attico, infatti, questa parola avrebbe ricevuto l’aspirazione solo dopo che la redazione di Omero era stata fissata. Rimane da spiegare perché in dorico, forse in arcadico86, e comunque in molti testi letterari attici di V sec. a. C. a[maxa sia saldamente attestato. a meno di non mettere in dubbio l’etimologia tradizionale (cf. Forssman 1966, p. 11), l’unica spiegazione è supporre un’origine ionica della parola, come è stato fatto articolatamente da Jacobsohn 84 a cui potrebbe aggiungersi un altro caso, se fosse esatta la congettura di cerri (1997a) kata; pavnta t∆ h/ a B 1. 3. la congettura restituisce una sintassi in linea con lo stile del proemio (assenza di a[n; uso di te ‘epico’), ma è strettamente legata all’interpretazione generale del contenuto dei frammenti proposta dal suo autore. 85 Per i quali, secondo Forssman (1966, p. 9), va esclusa la dipendenza da Omero perché ajmaxitov" ha senso figurato. 86 cf. il caso dubbio di DGE 654 (tegea, ca. 390 a. c.) citato da Forssman (1966, p. 11 n. 2).

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(1908, p. 364). anche leumann (1950, p. 162) e uguzzoni-ghinatti (1968, p. 60) si sono chiesti se ajmaxitov" nelle Tavole di Eraclea non possa essere ritenuto un omerismo. a parte il caso di IG i2 374 (408/406 a. c., l. 30 ten amacsan, l. 33 amºacsei), che di per sé prova ben poco a causa delle fluttuazioni nella grafia anteriori alla riforma di Euclide (Threatte 1980, p. 493 ss.), la documentazione epigrafica porta indizi significativi del fatto che in attico, sul finire del V secolo a. C., a{maxa avesse ricevuto l’aspirazione iniziale87. Sono quindi incline a pensare che in Soph. Ant. 251 ed eur. Rh. 283 la mancanza della aspirazione debba essere spiegata come un fatto di tradizione letteraria. la conservazione dell’esatto kat∆ ajmaxitovn in B 1. 21 aggiunge un altro piccolo tassello all’idea che la redazione del proemio da cui derivava la tradizione sestana fosse psilotica. 5. Essere “unigenito” e Essere “intero” (B 8. 4) Fornisco nell’ordine i testi di B 8. 2 ss. stampati in diels 1897, p. 34, e VS, p. 235: tauvth/ d∆ ejpi; shvmat∆ e[asi polla; mavl∆, wJ" ajgevnhton ejo;n kai; ajnwvleqrovn ejstin o u\ l o n m o u n o g e n ev " te kai; ajtreme;" hjd∆ ajtevleston: su questa [via] ci sono segni molteplici che l’essere è ingenerato e imperituro, intero e unigenito e immobile e infinito. tauvth/ d∆ ejpi; shvmat∆ e[asi polla; mavl∆, wJ" ajgevnhton ejo;n kai; ajnwvleqrovn ejstin, ej s t i g a; r o uj l o m e l ev " te kai; ajtreme;" hjd∆ ajtevleston: su questa [via] ci sono segni molteplici che l’essere è ingenerato e imperituro, è infatti intero nelle sue parti e immobile e infinito.

Il primo testo riflette le cinque testimonianze di Simpl. phys. 30, 78, 120, 145 (qui nella citazione di B 8. 1-52), cael. 557. il secondo si basa su Plut. adv. Col. 1114c e Procl. in Parm. 115288. Kranz infatti preferì la testimonianza dei secondi a quella del primo, in quanto mounogenev" “unigenito” in B 8. 4 (mss. mon-) sembrerebbe contraddire ajgevnhton “ingenerato” in B 8. 3. inoltre ajtevleston “infinito” è impossibile, perché più oltre Parmenide dice espressamente 87 88

materiali in Forssman (1966, p. 11 n. 4); havmacsai è già in IG i2 81. 12 (421-420 a. c.). Vd. anche Procl. in Parm. 1077 e 1084.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

che l’Essere è finito (oujk ajteleuvthton B 8. 32, tetelesmevnon B 8. 42). d’altro canto però sia Plutarco che Proclo chiudono la loro citazione di B 8. 4 con un altrettanto impossibile ajgevnhton. non è necessario essere uno specialista di Parmenide per intuire sia la quantità di lezioni secondarie offerte dai mss. delle fonti89 sia la varietà delle scelte ecdotiche degli editori90. Se le discutessi tutte, potrei occupare tranquillamente la metà di questo libro. Non voglio però ritornare su una questione tanto abusata, sulla quale hanno scritto studiosi più competenti di me. Vorrei invece esporre qualche osservazione a margine, che corrobori il quadro di insieme da me presentato nel cap. 1. 5. 1. La citazione di Plutarco questo è il testo di Plut. adv. Col. 1114c: tou' nohtou' d∆ e{teron ei\do", «e[sti ga;r oujlomelev" te kai; ajtremev" hjd∆ ajgevnhton», wJ" aujto;" ei[rhke ktl. altro è l’aspetto dell’intellegibile, «è infatti intero nelle sue parti e immobile e ingenerato», come egli stesso [Parmenide] ha detto ...

la lezione oujlomelev" è precedente a Plutarco (cf. qui oltre). È stato sostenuto che in questa citazione le parole e[sti gavr devono necessariamente appartenere a Plutarco e non possono in alcun modo essere state di Parmenide. Ma, a quanto ne so, non è stato finora osservato che ciò è facilmente confutabile attraverso B 8. 33: e[ s t i g a; r oujk ejpideuev": [mh;] ejo;n d∆ a]n panto;" ejdei'to.

qui e[sti gavr sono indubbiamente parole di Parmenide. Credo quindi che non possa essere escluso che, pur in modo brusco, la citazione di Plutarco abbia inizio dove Kranz voleva che iniziasse (pace o’Brien 1987, ii p. 319). Per questo penso anche che il testo offerto da Plutarco rappresenti una delle versioni di B 8. 4 circolanti nell’antichità (cf. § 5. 2). il nostro oujlomelev" appartiene a un gruppo di parole abbastanza rare nel greco di tutte le epoche91. diels (cf. VS, p. 235) ha suggerito che sia potuto entrare nella versione plutarchea attraverso la mediazione di aristot. metaph. 1093b 4 (= VS 58 B 27). L’idea, che oggi non è quasi più considerata, contiene 89 Fonti che per altro non si limitano a quelle qui menzionate; elenco completo in O’Brien 1987, i p. 28 s. 90 completo e dettagliato è o’Brien 1987, ii pp. 318 ss. e 329 ss., anche se il suo ‘assemblaggio’ del testo di B 8. 4 non manca di lasciare perplessi. Informazione più sintetica in Coxon 1986, pp. 4 e 195 s. 91 cf. lsJ s. vv. oujlomelhv", oujlomelivh, oujlomevleia, oJlomelhv", oJlomevleia, oJlomelevw.

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invece un’intuizione geniale. In quel punto della Metafisica infatti aristotele sta parlando dei rapporti numerici individuati dai pitagorici nei più disparati aspetti della realtà: kai; o{ti i[son to; diavsthma e[n te toi'" gravmmasin ajpo; tou' a pro;" to; w, kai; ajpo; tou' bovmbuko" ejpi; th;n ojxutavthn [neavthn] ejn aujloi'", h|" oJ ajriqmo;" i[so" th/' o uj l o m e l e iv a/ tou' oujranou'. e dicono che la distanza dall’alpha all’omega è la stessa che c’è nel flauto dalla nota più bassa alla più alta, il cui numero è uguale all’interezza del cielo.

non credo proprio che oujlomevleia sia da correggere in oJlomevleia, com’è suggerito in lsJ s. v. la parola è ionica e nella mistica pitagorica tarda è usata per riferirsi al numero “sei”, il primo numero perfetto e perciò anche numero della creazione. io non credo che oujlomelev" sia potuto arrivare nel testo di Parm. B 8. 4 direttamente da aristotele. credo però che aristotele ci suggerisca una traccia importante in relazione all’ambito di provenienza del composto, che potrebbe essersi insinuato nella tradizione testuale parmenidea, complice l’atmosfera neopitagoreggiante diffusa nell’accademia tra il ii sec. a. c. e il i sec. d. c. 5. 2. ajgevnhton e la disputa sulla ‘nascita dell’Universo’ leggiamo un breve passaggio di Plat. Tim. 27c: hJma'" de; tou;" peri; tou' panto;" lovgou" poiei'sqaiv ph/ mevllonta", h|/ g ev g o n e n h] k a i; aj g e n ev " ej s t i n ... ma noi che stiamo per fare in qualche modo dei discorsi sul Tutto, per dire come sia stato generato oppure che è ingenerato ...

Questo è un passo veramente cruciale nella storia della filosofia greca. sappiamo che, poco dopo la morte di Platone, senocrate affermava che l’universo fosse ingenerato e che la narrazione del Timeo non andasse interpretata letteralmente, ma come un racconto ad uso di quanti volessero arrivare a capirne l’intima struttura (Whittaker 1969, p. 182). leggiamo ora un passo di giovanni Filopono (aetern. 6. 21, p. 18. 17 ss. rabe): oJ gou'n eijrhmevno" tou' Plavtwno" ejxhghth;" Tau'ro" ejn toi'" eij" to;n Tivmaion uJpomnhvmasin to; «hJma'~ ... ejstin» ejxhgouvmeno~ tau'tav fhsin ejpi; levxew~ «e ij k a i; aj g e n ev ~ ej s t i n » ... tekmhvrion de; tou' ajgevnhton ei\nai to;n kovsmon: fhsi;n gou'n poihvsesqai tou;" lovgou", wJ" gegevnhtai, «eij kai; ajgenev~ ejstin»: kai; ga;r p e r i; t w' n aj g e n hv t w n wJ " g e n h t w' n givnontai oiJ lovgoi didaskaliva" cavrin.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

il già menzionato interprete di Platone, tauro, nel suo commentario al Timeo, illustrando il passo che dice ..., afferma ciò sull’espressione «anche se è ingenerato» ... questa è la prova che l’universo è ingenerato: tauro dice che l’argomentazione verrà condotta supponendo che l’universo abbia avuto una nascita, «anche se in realtà esso è ingenerato»; per pura finalità didascalica, infatti, il discorso intorno a ciò che è ingenerato viene invece svolto come se questo fosse stato generato.

Il filosofo ricordato da Filopono si fondava pertanto sul testo h|/ gevgonen eij kai; ajgenev" ejstin «come l’universo sia nato, anche se in realtà è ingenerato». calvisio tauro, ricordato anche da gellio nelle Noctes Atticae (12. 5. 1), fu esponente di punta dell’accademia di mezzo; il suo floruit è fissato da Eusebio nel 145 d. c. (dillon 1977, p. 237). non è possibile dire se lui stesso fosse responsabile del testo modificato del Timeo che commentava, anche se resta il fatto che «it is not likely that a middle Platonist would feel any compunction in introducing minor changes ... into the transmitted text» (Whittaker 1969, p. 184 n. 15). io credo che la variante ajgevnhton, evidentemente erronea in B 8. 4 (§ 5), risalga alla stessa temperie culturale che ha dato origine alla lettura accolta da Tauro o, se quella lettura si dovesse proprio a lui, che l’ha resa possibile. Nella prima ipotesi, non possiamo dire quanto essa fosse più antica di Tauro, perché il problema della nascita dell’Universo, lasciato sostanzialmente aperto da Platone (dillon 1977, p. 6 s.), fu oggetto di controversia già con i suoi immediati successori. Lo stesso scopo, quello cioè di evitare in B 8. 4 qualsiasi accenno alla ‘nascita dell’universo’ potrebbe avere avuto del resto anche la variante oujlomelev" “intero nelle sue parti” rispetto a mounogenev" “unigenito”. il dibattito sulla generazione dell’universo ha continuato ad alimentare le controversie filosofiche fino alla tarda antichità. E al suo interno un ruolo di primissimo piano fu ricoperto naturalmente dai neoplatonici, come ci attesta soprattutto Proclo (in Tim. 2. 66 ss., p. 217. 4 ss. Diehl). Io credo quindi che anche Proclo abbia attinto per la sua citazione di B 8. 4 a una fonte vicina a quella da cui aveva attinto Plutarco. Questo non significa in alcun modo che entrambi, o l’uno, o l’altro, abbiano letto il testo all’atto della citazione. È invece molto più probabile che abbiano riferito un testo che avevano memorizzato in precedenza. 5. 3. Le due redazioni note a Simplicio Plat. Tim. 31a-b i{na ou\n tovde kata; th;n movnwsin o{moion h\/ tw'/ pantelei' zwv/w/, dia; tau'ta ou[te duvo ou[t∆ ajpeivrou" ejpoivhsen oJ poiw'n kovsmou", ajll∆ ei|" o{de m o n o g e n h; " oujrano;" gegonw;" e[stin kai; e[t∆ e[stai ktl. Plat. Tim. 92c kai; dh; kai; tevlo" peri; tou' panto;" nu'n h[dh to;n lovgon hJmi'n fw'men e[cein: qnhta; ga;r kai; ajqavnata zw/a ' labw;n kai; sumplhrwqei;" o{de oJ kovsmo" ou{tw, zw/o' n oJrato;n ta; oJrata; perievcon, eijkw;n tou' nohtou' qeo;" aijsqhtov", mevgisto" kai; a[risto" kavllistov" te kai; telewvtato" gevgonen ei|" oujrano;" o{de m o n o g e n h; " w[n.

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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il composto monogenhv" “unigenito” è una parola chiave nel Timeo platonico, ripetuta in posizione di assoluta evidenza nella chiusa stessa del dialogo. Non è né una novità né un fatto particolarmente sorprendente che una parola attestata nel poema di Parmenide si ritrovi in un brano di Platone che si ispira al poema. tale è infatti certamente il caso di ajtremhv" (§ 3) e ejpideev" (II 2 § 5); tale potrebbe essere anche quello di monogenhv"92. il fatto che i mss. di Simplicio portino questa forma, mentre in B 8. 4 il metro richiede mounogenev", non è un problema rilevante: la forma mon- potrebbe essere ascrivibile o all’influsso di movno" in B 8. 1 (che è una lettura quasi certa: II 1 § 3. 2)93, oppure, nell’ipotesi che il verso sia stato rimaneggiato, potrebbe essere addirittura appartenuta al testo originale (ibid.). mounogenhv" vanta un pedigree letterario di tutto rispetto: è in esiodo (the­ og. 426, 448; op. 376) e in eschilo (Ag. 898). in età tarda, certamente sulla scia di Platone, diventa usuale nei neoplatonici: ha p. es. decine di attestazioni in Proclo. Ciò è parso sufficiente a Meister (1921, p. 207) per sostenere che si trattasse di un’interpolazione nella copia di simplicio. anche o’Brien 1987, ii p. 320, ha argomentato in favore di una sostituzione in ambito neoplatonico di oujlomelev" con un epiteto «qui bénéficierait de l’autorité du Maître (mounogenev")». Io credo che la versione simpliciana di B 8. 4 sia frutto di una modificazione dell’originale, ma non sono affatto certo che specificamente mounogenev" (o monogenev") non possa essere stato usato da Parmenide. l’interpolazione nella redazione di Simplicio è resa evidente da due fatti: uno è la clausola falsificata hjd∆ ajtevleston, che ha messo in crisi molti editori94. Va tuttavia notato che chi l’ha introdotta nel testo, lo ha fatto con un occhio ai risvolti letterari della sostituzione, dato che si tratta di una clausola omerica (Il. 4. 26). il secondo fatto è stato notato da Whittaker (1971, p. 17 ss.) ed è l’alta probabilità che la versione riflessa in Simplicio sia un adattamento neoplatonizzante di B 8. 4-6 sulla base di Plot. enn. 3. 7. 11. lo stesso Whittaker (1971, p. 29 s. n. 17) ha d’altro canto dimostrato che simplicio aveva familiarità con la versione di B 8. 4 trasmessa da Proclo (e, prima di lui, da Plutarco): simpl. phys. 137. 15 ouj ga;r dia; tou' to; mh; o]n eijsagagei'n polla; ta; o[nta deivknusin oJ Plavtwn, ajlla; tou'to me;n e[deixen a[llo me;n to; e{n, a[llo de; to; o]n aj p o d e iv x a " k a i; ej k t o u' oJ l o m e l e; " e i\ n a i «pavntoqen eujkuvklou sfaivrh" ejnalivv­ gkion o[gkw/, messovqen ijsopalev"». 92

sulla permanenza di espressioni parmenidee in Platone vd. anche § 6. così anche coxon 1986, p. 61; pace meister (1921, p. 207). 94 P. es. tarán (1965, p. 93 ss.) la corregge in hjde; telestovn, coxon 1986, p. 61, la stampa tra cru­ ces, cerri 1999, p. 222 s., introduce una forzatura nella punteggiatura per conservarla. 93

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Procl. in Parm. 1084 a{ma ga;r [Parmenivdh"] aujto; kai; sfaivrh" ejnalivgkion o[gkw/, messovqen ijsopale;" pavnthÊ k a i; o uj l o m e l e; " ej p o n o m av z e i kai; ajtremev".

Platone, che pure cita B 8. 43 ss. (i 1 § 2. 1), non ha mai commentato oujlomelev" in Parmenide. lo ha fatto invece Proclo, mescolando insieme attributi dell’essere parmenideo presi da due punti diversi del poema: B 8. 4 e B 8. 43 ss.95. È questo il retroterra presente a Simplicio in phys. 137. ancora una conferma della sua familiarità con la redazione di Proclo (e Plutarco) ci viene dal fatto che nei due passi in cui cita il verso da solo (phys. 120. 23; cael. 557. 18) simplicio scrive ajgevnhton, non ajtevleston (vd. Whittaker 1971, p. 25 s. n. 8). 6. Simplicio, Platone e le ‘formule dell’identità’ (B 8. 29 s.) B 8. 29 s. t a uj t ov n t∆ ej n t a uj t w'/ t e m ev n o n k a q∆ eJ a u t ov t e k e i' t a i cou[tw" e[mpedon au\qi mevnei:

Questi versi, trasmessi da Simplicio in più punti del commento alla Fisi­ ca aristotelica96, riecheggiano il passo dell’Odissea (12. 158 ss.) in cui odisseo ordina ai compagni di essere legato all’albero della nave per ascoltare il canto delle Sirene (cf. Mourelatos 1970, p. 115 ss.) e rappresentano nel pensiero filosofico greco una delle prime formulazioni del concetto di ‘identità’, di ‘permanenza in sé’, reso visivamente trasparente mediante l’immagine dell’immobilità nello spazio. il modello diretto di B 8. 29 s., sul piano sia del contenuto che della forma, sembra tuttavia essere stato Xenoph. B 26, trasmesso anch’esso da simpl. phys. 23: aijei; d∆ ej n t a uj t w'/ m iv m n e i kinouvmeno" oujdevn oujde; metevrcesqaiv min ejpiprevpei a[llote a[llh/.

Parmenide si è dunque ispirato alla concezione senofanea della divinità, come veniva riconosciuto più o meno esplicitamente già dagli antichi. Aristotele vedeva p. es. nel dio ingenerato, immortale e identico a sé stesso di Senofane un decisivo progresso del pensiero greco verso la “filosofia prima” (sassi 1994, p. 33; Palmer 1999, p. 193). la relazione tra i due passi era percepita in maniera tanto stretta che a Proclo è capitato persino di confonderli (cf. i 1 § 9). l’idea di un principio primo della realtà eternamente esistente e identico a sé stesso è uno dei nodi fondamentali attorno a cui si dipana la riflessione filosofica nel mondo coloniale. Un controcanto in chiave parodica a questa idea 95 96

Vd. anche cordero (1987b, p. 174). cf. il prospetto di o’Brien (1987, i p. 30).

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ci è stato trasmesso, mediante Alcimo, da Epicarmo, in quel fr. 276 K.-A. che abbiamo già incontrato sulla nostra strada (cf. § 1) e che somiglia così tanto a un dialogo platonico ante litteram: w|de nu'n o{rh kai; to;" ajnqrwvpou": oJ me;n ga;r au[xeq∆, oJ dev ga ma;n fqivnei, ejn metallaga'/ de; pavnte" ejnti; pavnta to;n crovnon. o} de; metallavssei kata; fuvsin kou[pok∆ ej n t w uj t w'/ [mss. t a uj t w'/] m ev n e i, e{teron ei[h ka tovd∆ h[dh tou' parexestakovto".

dal contesto in cui diogene laerzio riporta i brani citati da alcimo a sostegno della tesi che Platone si sarebbe giovato dell’aiuto di epicarmo in rapporto a temi fondamentali della sua filosofia, nonché dall’argomento del fr. 276 K.-a., sembra di poter dedurre che l’ideatore della parodia abbia voluto assumere, per così dire, un punto di vista ‘italico’ – probabilmente pitagorico – contro teorie di matrice eraclitea97. i tre passi riportati attestano altresì la diffusione della formula linguistica attraverso cui la filosofia occidentale esprime il concetto di ‘identità’ di un certo ente sul piano logico e/o spaziale. Nella sua versione di base questa formula è ejn taujtw'/ mevnein / mivmnein; in Parmenide essa è potenziata dalla ripetizione insistita degli stessi lessemi (taujtovn ... ejn taujtw'/ ... kaq∆ eJautov; mevnon ... mevnei) fino a coprire lo spazio di un verso e mezzo. così come sviluppata da Parmenide, la formula è rimbalzata sulle sponde opposte del mediterraneo, in ionia d’asia. la troviamo infatti adattata nel fr. B 12 di anassagora, che conosciamo ancora una volta da simplicio (phys. 156 e 176): ta; me;n a[lla panto;" moi'ran metevcei, nou'" dev ejstin a[peiron kai; aujtokrate;" kai; mevmeiktai oujdeni; crhvmati, ajlla; movno" a uj t o; " ej p∆ ej w u t o u' ej s t i n . eij mh; ga;r ejf∆ eJautou' h\n, ajllav tew/ ejmevmeikto a[llw/ ...98.

in anassagora la formula che esprime la nozione di ‘identità’, aujto;" ejp∆ ejwutou' ejstin, corrisponde a quanto ci attendiamo foneticamente in un autore di nascita ionica orientale99. dato che la fonte dei brani riportati è la stessa, gli 97 Vd. p. es. Kirk-Raven-Schofield (1984, p. 323). Prima di riprodurre il lungo estratto da Alcimo, Diog. Laert. 3. 9 ricorda la storia dei libri pitagorici in possesso di Filolao e acquistati da dione per conto di Platone. 98 echi di Parmenide sono ben percepibili in B 12, nonostante siano in genere poco rilevati dai commentatori (eccezione in cerri 1999, p. 230 s.): p. es. Parm. B 8. 22 ejpei; pa'n ejstin oJmoi'on «perché [l’Essere] è tutto omogeneo», è riflesso chiaramente nell’espressione anassagorea nou'" de; pa'" o{moiov" ejsti «ma l’intelligenza è tutta omogenea». 99 cf. iii 1 § 3. 3. il testo di B 12 è il risultato dell’assemblaggio delle due citazioni di simplicio. in phys. 156, dove porta l’intera citazione, i mss. scrivono ejf∆ eJautou'; in phys. 176 invece, dove ne

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

stessi esiti (twujtovn, twujtw',/ kat∆ ejwutov) sarebbero attesi anche in senofane e in Parmenide, tanto più se si considera che i loro poemi sono in esametri omerici e che nell’epica arcaica quegli esiti appaiono già, seppur molto raramente (cf. III 1 § 3. 3). Perché, in questo caso, a Simplicio è arrivato un testo già completamente atticizzato? Per rispondere a questa domanda occorre continuare a seguire le tracce delle ‘formule dell’identità’. dopo anassagora esse conducono in attica: infatti quelle formule si trovano riprese da Platone sia in dialoghi della maturità sia in dialoghi tardi, e sempre in punti in cui l’influsso di Parmenide è più che evidente. Dunque il riuso e l’adattamento delle ‘formule dell’identità’ è un dato trasversale in Platone, cioè è relativo sia alla prima sia alla seconda fase della ricezione della filosofia dell’Essere (cf. I 1 § 2). Plat. symp. 211a-b oujd∆ au\ fantasqhvsetai aujtw'/ to; kalo;n oi|on provswpovn ti oujde; cei're" oujde; a[llo oujde;n w|n sw'ma metevcei, oujdev ti" lovgo" oujdev ti" ejpisthvmh, oujdev pou o]n ejn eJtevrw/ tini, oi|on ejn zwÊvw/ h] ejn gh'/ h] ejn oujranw'/ h] e[n tw/ a[llw/, ajll∆ a uj t o; k a q∆ a uJ t o; m e q∆ a uJ t o u' monoeide;" ajei; o[n, ta; de; a[lla pavnta kala; ejkeivnou metevconta, trovpon tina; toiou'ton oi|on, gignomevnwn te tw'n a[llwn kai; ajpollumev­ nwn, mhde;n ejkei'no mhvte ti plevon mhvte e[latton givgnesqai mhde; pavscein mhdevn. Plat. Phaed. 78d aujto; to; i[son, aujto; to; kalovn, aujto; e{kaston o} e[sti, to; o[n, mhv pote metabolh;n kai; hJntinou'n ejndevcetai… h] ajei; aujtw'n e{kaston o} e[sti, monoeide;" o]n a uj t o; k a q∆ a uJ t ov, wJsauvtw" kata; taujta; e[cei kai; oujdevpote oujdamh'/ oujdamw'" ajlloivwsin oujdemivan ejndevcetai. Plat. Tim. 34a kivnhsin ga;r ajpevneimen aujtw'/ th;n tou' swvmato~ oijkeivan, tw'n eJpta; th;n peri; nou'n kai; frovnhsin mavlista ou\san: dio; dh; k a t a; t a uj t a; ej n t w'/ a uj t w/' k a i; ej n eJ a u t w/' periagagw;n aujto; ejpoivhse kuvklw/ kinei'sqai strefovmenon, ta;~ de; e}x aJpavsa~ kinhvsei~ ajfei'len kai; ajplane;~ ajphrgavsato ejkeivnwn.

Non è molto esagerato affermare che alcuni passaggi di questi brani non sono altro che parafrasi di Parmenide e di melisso100. P. es. la frase mhde;n ejoffre solo l’inizio (fino a ejstin), i mss. scrivono ejp∆ ejwutou'. già deichgräber (1933, p. 347 n. 3) notava l’incoerenza della soluzione di diels, che pone a contatto una forma ionica e una forma attica senza emendare la tradizione, e reclamava che «das Problem der ionismen (und Hyperionismen) ... dringend eine Behandlung verlangt». È tanto improbabile che ejp∆ ejwutou' sia un iperionismo quanto è probabile che ejf∆ eJautou' sia un atticismo della tradizione ms. di simplicio, anche se non è escluso che il testo riferito nei due passi dell’in physicam sia stato ricavato da due fonti diverse (vd. Passa 2005, p. 61). certe caratteristiche formali rilevabili nella parte iniziale di B 12 (p. es. l’uso del “kaiv-Stil”) comprovano secondo Deichgräber (1933, p. 350) l’influsso di modelli innodici («aus dem reinen Konstatierenden ... geht der stil über ins Feierlich-Prädizierende, Hymnische»). 100 Per quanto riguarda specificamente il passo del Timeo, va osservato che «although the cosmos is in motion, unlike the intellegible living creature, the description of its rotation does nevertheless preserve aspects of Parmenides’ description of Being’s unchanging nature» (Palmer 1999, p. 195).

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Parte I. La trasmissione del poema nell’antichità

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kei'no mhvte ti plevon mhvte e[latton givgnesqai mhde; pavscein mhdevn «nulla gli accade, né di accrescersi né di diminuire, né di patire alcunché» (symp. 211b) riprende con una puntualità di certo non casuale sia Parm. B 8. 44 s. (to; ga;r ou[te ti mei'zon / ou[te ti baiovteron pelevnai creovn ejsti th'/ h] th')/ , sia alcuni argomenti di Meliss. B 7 e 8. In più anche il composto monoeidhv" “di una sola specie”, “uniforme” sembra calcato appositamente su mounogenhv" ”unigenito”, termine che Platone conosceva bene e che derivava forse proprio da Parm. B 8. 4 (cf. i 1 § 2. 1). si può (a mio parere, si deve) legittimamente pensare che anche le ‘formule dell’identità’ applicate da Platone alle Idee in questi ed altri passi non siano un’elaborazione originale di Platone stesso, ma cerchino deliberatamente di riallacciarsi alla terminologia parmenidea dell’essere. ora, abbiamo visto che quella terminologia, sviluppata nella forma più compiuta da Parmenide, era in uso in tutta la filosofia ionica, sia in quella elaborata nelle sedi originarie dell’Asia minore, sia – e soprattutto – in quella elaborata nelle colonie occidentali. ma mentre nel primo caso essa ha potuto conservare la sua forma dialettale originaria nel corso della tradizione, nel secondo ciò non è stato invece possibile, perché i testi dei monisti d’Occidente – in particolare di Parmenide – sono divenuti prestissimo pilastri della nuova filosofia elaborata ad Atene. In rapporto ai brani che ho qui presentato questa impostazione spiega perché simplicio fosse ancora in grado di leggere la versione (ionica) aujto;" ejp∆ ejwutou' in Anaxag. B 12 (cf. n. 99), mentre non era più in grado di fare altrettanto in Xenoph. B 12 e Parm. B 8. 29 s., così come Diogene Laerzio non era più in grado di leggere il testo originale (che doveva essere in questo caso ejn twujtw'/ mevnei, con esito identico allo ionico: iii 1 § 3. 3) nel fr. 276 K.-a. la ragione per cui all’interno del corpus dei presocratici certi frammenti ci sono giunti meglio conservati di altri sotto il profilo dialettale potrebbe risiedere quindi nel diverso trattamento ricevuto dai vari testi nel momento in cui atene assurse a punto di snodo della loro tradizione. al poema di Parmenide toccò un destino illustre, per via della sua influenza sulla filosofia successiva da Platone in poi, e al tempo stesso sfortunato, perché pagò la sua notorietà a prezzo di subire già a ridosso dell'epoca di Platone alcune modificazioni della forma linguistica. in Parm. B 8. 29 la nostra fonte, simplicio, ci restituisce una versione ‘platonizzata’ della ‘formula dell’identità’, guadagnata attraverso un adeguamento alla fonetica attica (cf. gli esiti della crasi e la restituzione delle aspirazioni iniziali). Non è possibile dire una parola definitiva e condivisibile per tutti a riguardo, ma il mio sospetto è che quella versione fosse entrata negli esemplari di Parmenide molto prima di simplicio.

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Parte II tradIzIone ePICa e dIaletto IonICo

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CaPItolo 1 la dIzIone deI frammentI

1. Trattamento di [w] 1. 1. Perdita di [w] nella poesia ionica nel trattamento di [w] abbiamo uno degli elementi fondamentali per apprezzare la modernità della dizione di Parmenide. I riflessi metrici di [w] sono debolissimi nei suoi esametri e possono essere colti solo in caso di puntuali riprese di formulario omerico (§ 1. 2). altrimenti, là dove il materiale linguistico tradizionale è sottoposto a una qualche pur minima forma di adattamento, non sono mai sfruttate le possibilità prosodiche offerte da [w]. i dialetti ionici avevano perso [w] in tutte le posizioni già prima delle ultime fasi creative di Omero. Sotto questo rispetto, quindi, Parmenide ha proceduto senza tentennamenti nel solco della tradizione aedica ionica cui dobbiamo profonde innovazioni nella lingua omerica e la fissazione dei caratteri normativi della dizione epica. 1. 2. Riuso di formule tradizionali Piuttosto limitato si rivela il riuso di formule epiche immodificate o di parole nella stessa posizione metrica riscontrabile in omero e/o negli altri testi arcaici. Se ne contano infatti solo quattro casi. Per altro a ben tre di questi (nrr. 2, 3, 4) si oppongono altrove trattamenti non tradizionali (cf. § 1. 3 rispettivamente ai nrr. 8, 9, 17, 14, 4). [w] prosodicamente operante

1. B 1. 6 suvriggo" ajuthvn ≈ Od. 11. 383 stonovessan ajuthvn; CEG 145 stonov¸esan aj¸utavn (corcira, ca. 600 a. c.) 2. B 8. 31 ajmfi;" ejevrgei= Il. 13. 706

[w] prosodicamente neutrale 3. B 2. 1 ejgw;n ejrevw = Il. 1. 76, 9. 103, 9. 314, 13. 735; Od. 12. 38, 16. 259, 23. 130 (< *ejgw; ¸erevw?) 4. B 8. 52 ejmw'n ejpevwn ≈ Il. 5. 221 = 8. 105 ejmw'n (¸)ojcevwn + HHerm. 531 qemou;" (¸)ejpevwn

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

1. 3. Adattamenti di formule tradizionali (I): perdita di [w] iniziale È nell’adattamento di materiale formulare entrato nella dizione epica in un’età in cui [w] era ancora pronunziato che cogliamo la novità della dizione parmenidea: una novità che finora gli studiosi non hanno saputo cogliere, perché irretiti dalla capacità di Parmenide di innovare ricreando in apparenza le stesse condizioni dell’epica arcaica. nei frammenti si contano ben 17 casi di più o meno puntuali riprese dall’epica arcaica in cui [w] iniziale, ancora in larga parte operante nel modello, è ignorato ai fini della struttura prosodica dell’esametro. a essi andrebbe aggiunto un diciottesimo caso (aijqevre" oijkodov­ mhsan), qualora fosse autentico il verso trasmesso nella Consolatio philosophiae di Boezio (cf. introduz. § 3). di fronte a parole che anticamente presentavano un [w] iniziale troviamo pertanto: abbreviamenti mai realizzati o rarissimi nella dizione tradizionale (nrr. 1-3); elisioni di monosillabi (nrr. 4-5); forme terminanti in øc che valgono prosodicamente come brevi (nrr. 6-13); uso di forme avverbiali tipicamente ioniche in -qen (nrr. 14-16; cf. ii 1 § 4. 2); la particella modale ken che conta prosodicamente come breve (n. 17). nel prospetto riassuntivo che segue appaiono a sinistra il trattamento in Parmenide, a destra esempi paralleli del trattamento tradizionale. trattamento in Parmenide 1. B 1. 3 fevrei e ij d ov t a fw'ta bbjbbjb 2. B 6. 4 brotoi; e ij d ov t e " oujdevn bbjbbjb 3. B 7. 4 kai; hj k hv e s s a n ajkouhvn bjjjbbjj 4. B 1. 23 w|de dæ e[ p o " jbbj 5. B 7. 3 mhdev sV e[ q o " jbbj 6. B 1. 16 balanwto;n oj c h' a bbjbbjb 7. B 1. 19 ajmoibado;n e ij l iv x a s a i bjbbjjjj 8. B 6. 3 dizhvsio" < e i[ r g w > jjbbjj 9. B 7. 2 dizhvsio" e i\ r g e jjbbjb

trattamento tradizionale Od. 9. 281 lavqen eijdovta pollav < *lavqe ¸eid-101 Od. 13. 296 legwvmeqa, (¸)eijdovte" a[mfw Il. 1. 157 qavlassav te (¸)hjchvessa Il. 15. 114 = 15. 398, Od. 13. 199 ojlofurovmeno" dæ e[po" hu[da < *-no" ¸evpo" Il. 9. 540 e{rdesken e[qwn < *-ske ¸evqwn Il. 12. 121 = 12. 291, 13. 124 makro;n ojch'a vs. Od. 21. 47 ajnevkopten ojch'a~ < *-pte ¸och'a~ Il. 17. 728 toi'sin eJlivxetai < *toi'si ¸elivxetai Il. 23. 72 th'lev me ei[rgousi < *me ¸eivrgousi vd. nr. 8

101 gli aedi ionici, che avevano perduto [w] nel loro dialetto, sono responsabili dell’introduzione generalizzata di -n (un morfema tipicamente ionico) nel testo omerico, per eliminare gli iati creatisi nella dizione.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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10. B 8. 60 diavkosmon ej o i k ov t a bbjbbjbb 11. B 10. 3 lampavdo" e[ r g ( a ) jbbjb 12. B 10. 5 fuvsin e ij d hv s e i " bbjjj 13. B 19. 3 ejpivshmon eJ k av s t w/ bbjbbjj 14. B 7. 6 ejmevqen rJ h q ev n t a bbjjjb 15. B 8. 44 messovqen ij s o p a l ev " jbbjbbj 16. B 8. 49 pavntoqen i\ s o n jbbjb 17. B 8. 23 ken e i[ r g o i bjj

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Il. 3. 222 nifavdessin ejoikovta < *v-essi ¸eoikIl. 2. 751 Titarhsso;n (¸)e[rg(a) Od. 9. 11 ejni; fresi;n ei[detai < *fresi; ¸eivdOd. 1. 349 = 6. 189 ejqevlh/sin eJkav­ stw/ < *-h/si ¸ekavstw/ Od. 18. 414 = 20. 322 ejpi; (¸)rJhqevnti vd. nr. 16 Il. 11. 604 e[kmolen i\so" < *e[kmole ¸i'so" Il. 24. 733 e[nqav ken e[rga < *ke ¸e[rga

1. 4. Adattamenti di formule tradizionali (II): perdita di [w] intervocalico102 le condizioni del trattamento di [w] intervocalico sono del tutto comparabili a quelle riscontrate per [w] iniziale. Nei frammenti esistono esempi di riuso di forme non contratte perché anticamente separate da [w] accanto ad attestazioni delle stesse forme contratte. i casi da discutere sono tre. (1) la forma omerica hj(¸)evlio" “sole” compare accanto a quella ionica h{lio" (attestata già in Od. 8. 271): B 10. 2 s. kai; kaqara'" eujagevo" hj e l iv o i o / lampavdo" e[rg∆ ajivdhla B 15 aijei; paptaivnousa pro;" aujga;" hj e l iv o i o B 1. 8 s. o{te spercoivato pevmpein / ÔH l i av d e " kou'rai B 11. 1 ss. pw'" gai'a kai; h{ l i o " hjde; selhvnh / ... wJrmhvqhsan / givgnesqai103.

(2) la forma omerica fav(¸)o" “luce” compare accanto alla forma contratta fw'"104: B 1. 8 ss. o{te spercoivato pevmpein /... eij" f av o "105; B 9. 1 aujta;r ejpeidh; pavnta f av o " kai; nu;x ojnovmastai 102 il trattamento di [lw], [rw], [nw], [sw] (cosiddetto digamma appoggiato) è affrontato con i problemi di sillabazione (ii 1 § 3). Per la forma ejpideev" in B 8. 33 vd. ii 2 § 5. 103 stessa alternanza in empedocle: cf. B 21. 3, B 27. 1, B 48. 6 (dubbio), B 56. 2, B 71. 2, B 115. 11, PStrasb. a(ii) 9, a(ii) 13 vs. B 38. 1 (dubbio), B 40. 4, B 122. 1. 104 Che è l’unica forma attestata da Empedocle: cf. B 45 (su cui vd. più avanti) e B 84. 5. 105 i mss. portano eij" fw'", che è sicuramente un’atticizzazione di ej" favo": i 1 § 5.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

B 9. 3 pa'n plevon ejsti;n oJmou' f av e o " kai; nukto;" ajfavntou

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B 14 nuktifae;" peri; gai'an ajlwvmenon aj l l ov t r i o n f w' "

la clausola ajllovtrio" fwv" dell’epica è stata ripresa da Parmenide grazie alla somiglianza di suono tra fwv" “uomo” e fw'" “luce”: Il. 5. 214 = Od. 16. 102 aujtivk∆ e[peit∆ ajp∆ ejmei'o kavrh tavmoi aj l l ov t r i o " f wv " Od. 18. 218 s. kaiv kevn ti" faivh govnon e[mmenai ojlbivou ajndrov", / ej" mevgeqo" kai; kavllo" oJrwvmeno", aj l l ov t r i o " f wv " .

la nuova formula servì ad affermare una scoperta astronomica fondamentale, cioè che la luna non brilla di luce propria, come mostra ancora di credere senofane (VS A 43), ma di luce solare riflessa. La nuova scoperta fu accettata anche da empedocle, che decise di riusare la stessa formula coniata da Parmenide: B 45 kuklotere;" peri; gai'an eJlivssetai aj l l ovt r i o n f w' " 106.

dietro l’innovazione semantica si cela un’innovazione linguistica: in omero, erede di una dizione in cui [w] intervocalico era ancora in uso, il nom. della parola “luce” compare sempre nella forma non contratta favo" e mai nella forma contratta fw'", normale in epoca successiva. a noi non rimane che immaginare la potente impressione di novità che la dizione parmenidea (e empedoclea), tradizionale e sperimentale al tempo stesso, doveva fare all’orecchio di un ascoltatore del tempo. (3) da ultimo va rilevato il trattamento dell’aggettivo fanov" “lucente”: B 8. 41 diav te crova f a n o; n ajmeivbein Il. 5. 858 dia; de; crova kalo;n e[dayen

l’emistichio parmenideo è modellato sul verso omerico; ma la forma fa–­ nov" è una novità nella dizione perché Omero conosce esclusivamente la forma non contratta fa(¸)einov". 106 il verso di empedocle presenta a sua volta un digamma neglectum in eJlivssetai (< *¸el-), in deroga all’uso prevalente in omero.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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2. Metatesi di quantità 2. 1. Presupposti teorici la mq (tipo basilh'o" > basilevw") rappresenta nell’epica un tratto linguistico ionico, benché la natura fonetica del fenomeno resti discussa. Qui assumerò come modello di riferimento la teoria di schwyzer, nella forma messa a punto da Méndez Dosuna (1993). Essa ha il vantaggio di unificare in un’unica evoluzione fonetica due fenomeni di norma ritenuti distinti sotto il profilo sia teorico che terminologico. tale evoluzione può essere sintetizzata come segue: il processo che appare in grafia greca come ho > ew, ha± > ea– è descrivibile in grafia fonologica come [¤:o] > [yQ:], [¤:a] > [ya:], cioè come perdita di sillabicità della prima vocale e contestuale allungamento della seconda. il corpo fonico del nesso si riduce quindi da 3 a 2 more. Nei testi metrici il fenomeno prosodico tradizionalmente denominato “sinizesi” di ew (< ho), ea– (< ha±) non è quindi artificiale, cioè dettato da esigenze metriche, ma riflette la realtà articolatoria dei gruppi in questione: ew ([yQ:]), ea– ([y!:]) in sinizesi sono i risultati attesi, mentre ew, ea– disillabici sono da considerare casi di dieresi secondaria. con il trattamento di ho, ha± ha coinciso quello di hw, ha– (tipo basilhvwn > basilevwn), in cui formalmente si ha abbreviamento e non MQ (Méndez Dosuna 1993, p. 96). questi presupposti teorici saranno ora applicati all’analisi dei casi di mq presenti nei frammenti superstiti di Parmenide, che sono solo del tipo ew < ho. 2. 2. crewv: modello epico e innovazioni parmenidee B 1. 28 ss. (te). c r e w; dev se pavnta puqevsqai, hjme;n ∆Alhqeivh" eujkuklevo" ajtreme;" h\tor hjde; brotw'n dovxa" ktl.

il nome crewv (< crhwv)107 “necessità”, e quindi, in unione con la copula (sottintesa), “è necessario”, si trova costantemente in sinizesi nei poemi omerici (Il. 10x; Od. 5x). accanto a crewv l’epica conosce anche una forma disillabica creiwv (= crhwv), in cui ei è una grafia secondaria introdotta quando il testo di Omero fu traslitterato da un tipo di alfabeto che ignorava le distinzioni grafiche tra [e], [e:], [e:] a uno più vicino alle convenzioni a noi familiari: una volta persa la coscienza dell’origine di crewv, CREW poteva essere interpretato, se il metro lo richiedeva, come forma con allungamento ed essere trascritto creiwv (Werner 1948, pp. 63 s., 68). Possiamo quindi concludere con Wackernagel (1897, p. 58) che «creiwv ... und crewv stehen als ältere und jüngere Form gerade so neben einander». 107

la forma crhav è conservata in un’iscrizione arcadica (iV sec. a. c.): DGE 665.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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nelle fasi antiche dell’epica creiwv veniva usato come un vero e proprio nome femminile: Il. 10. 172 ajlla; mavla m e g av l h c r e i w; bebivhken ∆Acaiouv".

ma, col procedere del tempo, esso iniziò a essere trattato come neutro: Od. 4. 312 tivpte dev se c r e i w; deu'r∆ h[gage ktl.…

È così che crewv, una volta preso il posto di creiwv, fu anch’esso trattato come neutro («bei diesem findet sich nie ein femininales Attribut»: Wackernagel 1897, p. 60)108. l’evoluzione ulteriore ne ha fatto praticamente un sinonimo di crhv: Od. 15. 201 ejme; de; c r e w; qa'sson iJkevsqai.

secondo Wackernagel (1897, p. 58 s.), sulla cui linea si è attestata anche tichy (1981, p. 204), gli aedi omerici non avrebbero avuto altra possibilità di inserire crewv nell’esametro se non trattandolo metri causa come un monosillabo. Tuttavia, come ha argomentato Méndez Dosuna (1993, p. 102), motivi di ordine sia prosodico che linguistico suggeriscono piuttosto che proprio crewv monosillabico fosse la forma d’uso nel dialetto degli aedi ionici responsabili delle ultime fasi di omero, mentre è molto probabile che la prosodia giambica fosse dovuta a dieresi secondaria109. il trattamento di crewv in B 1. 28 rappresenta un indizio della modernità della dizione del poema di Parmenide rispetto al modello epico (e conferma a mio giudizio la validità della teoria che connette strettamente sinizesi e mq). dietro il tono in apparenza ‘omericissimo’ del passo (crewv preceduto, come spesso in omero, da un monosillabo non ortotonico; anche la clausola è modellata su Od. 15. 377 e{kasta puqevsqai) si celano infatti due notevoli innovazioni: (a) muta cum liquida non ‘fa posizione’ e (b) crewv non è in sinizesi. se fosse corretta la spiegazione che individua nel trattamento monosillabico di crewv in omero una ragione puramente metrica, saremmo di fronte a una situazione paradossale: dovremmo ammettere che il trattamento di crewv in Parmenide è meno artificiale di quello attestato nell’epica. In altre parole: 108 Vd. anche Redard (1953, p. 65). Solo Chantraine, probabilmente a torto, è scettico su questo punto; vd. DELG s. v. crhv: «l’emploi de crewv comme neutre n’est pas assuré dans l’épopée». 109 È assurdo pensare che gli stessi aedi non abbiano saputo ricorrere alla correptio nel caso di crewv, mentre hanno saputo farlo benissimo nel caso di crevo": cf. Od. 8. 353 ei[ ken “Arh" oi[coito crevo" kai; desmo;n ajluvxa"; altri esempi in sommer (1977, p. 310 s.). gli unici casi di correptio in Omero si riscontrano tra l’altro esclusivamente proprio nei gruppi occlusiva + liquida; vd. II 1 § 3. 1.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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l’inserimento di crewv disillabico nell’esametro, impossibile per qualsiasi aedo, sarebbe stato invece possibile per Parmenide. io ritengo al contrario che il trattamento parmenideo sia un caso di dieresi secondaria, del tipo di cui parla Méndez Dosuna (1993, p. 104): «no cabe ... hablar de una evolución lineal ho > ew > ebw, sino de dos cambios de naturaleza contraria: ho > ebw, restringido en un primer momento al habla coloquial y generalizado más tarde a estilos cada vez más formales hasta penetrar en fecha relativamente reciente en la épica, y ebw > ew, surgido en el registro literario hiperformal en fecha tan reciente que apenas se encuentra representado en el texto homérico». In Parmenide, pertanto, le regole del gioco sono diverse perché la lingua si è evoluta rispetto alla situazione rappresentata nell’epica omerica: il trattamento di crewv prova che alla sua epoca esso era ormai una forma letteraria, che non a caso dopo di lui sarà ripresa solo in età ellenistica110. 2. 3. Sinizesi in forme non omeriche: crewvn B 2. 5 hJ d∆ wJ" oujk e[stin te kai; wJ" c r e wv n ej s t i mh; ei\nai

B 8. 11 ou{tw" h] pavmpan pelevnai c r e wv n ej s t i n h] oujciv

B 8. 53 s. morfa;" ga;r katevqento duvo gnwvma" ojnomavzein: / tw'n mivan ouj c r e wv n ej s t i n ktl.

l’origine di crewvn fu compresa sempre da Wackernagel (1897, p. 52 ss.). la linea di sviluppo è stata crhwv (creiwv) > crewv > crewvn, con -n analogico sui neutri kalovn, devon ecc.111. oltre a costituire v. l. accanto a crewv in Od. 1. 225 e 15. 201, crewvn è ben attestato nella letteratura arcaica, in tragedia e commedia, nell’epica e nella prosa classica. La forma è frequente anche tra i filosofi: Anaxim. B 1; Diog. Apoll. B 1; democr. B 39, B 84, B 92 ecc. ; forse anche Heracl. B 80 (mss. crewvmena). il fatto che crewvn sia analizzabile come crewv + n conferma la tesi di Wackernagel (§ 2. 2), secondo cui crewv era usato come neutro. la nuova forma crewvn, che vale anch’essa “necessità”, eredita dal suo antecedente crewv sia il genere sia la sintassi: essa è usata talora come nome indeclinabile, come risulta dal confronto di anaxim. B 1 (kata; to; crewvn) con eur. Hipp. 1256 e HF 21 (tou' crewvn). Tuttavia l’uso più frequente è quello assoluto con acc. e inf. nel senso di crhv, come in Pindaro e in tragedia. 110 apoll. rh. 2. 167, 2. 817, 4. 1164; call. fr. 202. 56 Pfeiffer; poi anche opp. cyn. 1. 88, quint. sm. 1. 758 e 10. 325. 111 non crewvn < crhv + o[n, come sostiene ancora chantraine, DELG s. v. crhv sulla scorta di ahrens (1845, p. 6); obiezioni decisive in Wackernagel (1897, p. 56 e passim).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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Ciò che distingue i passi parmenidei in esame è dunque la presenza di crewvn ejsti(n), un elemento tipico della prosa: per convincersene basta dare uno sguardo a erodoto o a Platone, laddove invece i sintagmi crewvn ejsti, crew;n ei\nai ecc. sono irreperibili p. es. in tragedia. la ragione è semplice: esattamente come crhv, creiwv, crewv, anche crewvn deve avere mantenuto in principio un «régime du type nominal» (Chantraine, DELG s. v. crhv); ed esattamente come crhv (creiwv e crewv non entrano in gioco perché sostituiti proprio da crewvn), che solo in età postomerica ha sviluppato un vero e proprio paradigma mediante l’univerbazione con le voci di eijmiv (crhv + ei\nai > crh'nai, crhv + h\n > (ej)crh'n ecc.), anche crewvn è stato usato con le voci di eijmiv più tardi rispetto alla sua creazione, e verosimilmente a partire da registri linguistici poco formalizzati. si noti che in Parm. B 1. 32 si legge l’imperfetto crh'n. Ad eccezione di Parmenide e di Choer. fr. 7 Bernabé, in poesia crewvn è sempre disillabico (LSJ s. v.). Ma, analogamente a quanto visto al § 2. 2, è probabile che le forme in sinizesi riflettano più da vicino la situazione di partenza. Se questo è vero, a differenza di crewv in B 1. 28, crewvn in B 2. 5, B 8. 11, B 8. 54 – e forse in B 8. 45 (vd. § 2. 4) – rappresenta quindi il trattamento originario. non osta all’intepretazione delle attestazioni di crewvn disillabico come casi di dieresi secondaria il gran numero delle attestazioni stesse. esse ci vengono soprattutto dai testi tragici e comici, dove la scansione disillabica era più adeguata al ritmo giambico. Inoltre, in questi testi la posizione abituale di crewvn è in fine assoluta di verso, dove «la cadencia natural de la recitación tendía al rallentando» (Méndez Dosuna 1993, p. 101)112. 2. 4. creovn B 8. 44 s. to; ga;r ou[te ti mei'zon ou[te ti baiovteron pelevnai c r e ov n ej s t i th/' h] th/`

la lezione creovn è attestata dai mss. BT (W ha crewvn) di Plat. soph. 244e e dal ms. e di simpl. phys. 146. 18. la restante tradizione dà o crewvn o un testo corrotto113. se si tralascia la situazione ambigua dei mss. di Pindaro, la forma è attestata in Erodoto, per lo più come v. l. accanto a crewvn (35x)114. a riguardo condivido 112 in base al calcolo da me effettuato il rapporto tra occorrenze in clausola e occorrenze complessive di crewvn nei tre maggiori tragediografi è in Eschilo 6: 9, in Sofocle 17: 19, in Euripide 147: 166. 113 Portano crewvn tutti i mss. di phys. 52 e 89, insieme a dF in phys. 146. 18; così pure i mss. di Procl. in Parm. 1084 e 1129. i mss. dello Ps. aristotele hanno ei\nai mevcri o[n (wn la prima mano di l), quelli di Stobeo pevlen a[creovn. 114 Powell 1938, s. v. creovn. nella costituzione del testo di erodoto gli editori accordano preferenza a creovn; secondo il controllo da me effettuato sulle edizioni di Hude 1927 e Rosén 19871997, questa forma è attestata unitariamente dalla tradizione nei seguenti passi: Herodot. 5. 49, 5. 50, 5. 109, 5. 111, 6. 43, 6. 84, 8. 3.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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in pieno il giudizio di Wackernagel (1897, p. 61): «diese Form ist zu vielfach überliefert, um erfunden zu sein» (vd. più avanti). in Parm. B 8. 45 il problema ecdotico non è di lieve entità. come ha fatto notare di recente Ferrari (2005, p. 117 n. 13), è estremamente improbabile che Parmenide abbia deciso di usare ora crewvn ora creovn all’interno della stessa formula pelevnai ... ejsti(n) in B 8. 11 e B 8. 45 (cf. § 2. 3). La difficoltà può certo venire scavalcata stampando crewvn in entrambi i passi, come fa p. es. coxon 1986, p. 75. Ma questo è secondo me sconsigliabile per due ordini di motivi. Sul piano filologico creovn è lectio difficilior. Difficilmente può essere corruzione di crewvn, perché in tal caso si dovrebbe ammettere che essa si sia verificata indipendentemente nel ms. W di Platone e nel ms. e di simpl. phys. 146, il che mi pare molto difficile. Se invece si pensa che crewvn è forma normale nella letteratura attica, per di più usata da Platone con una certa frequenza nei dialoghi tardi (57x nelle sole Leggi)115, è più immediato supporre una serie di atticismi degli scribi nei mss. sia di Platone che di simplicio. sul piano linguistico creovn è largamente accettabile in Parmenide. Wackernagel (1897, p. 61) notava che «in einem teil des griechischen sprachgebiets ging man in der annäherung an die neutra auf -on noch weiter, indem man crewvn in creovn umwandelte». Dunque creovn è l’ultimo gradino del meccanismo analogico che ha avvicinato crewv alla categoria dei neutri in -on (crewv > crewvn > creovn). si tratta di una forma ‘moderna’ dello ionico orientale, in rapporto alla quale non dobbiamo fare altro se non riscontrare l’ennesimo caso di ‘solidarietà’ tra erodoto e Parmenide (cf. p. es. ii 2 § 5). la caratura stilistica di crewvn e creovn è diversa: crewvn nasce come forma poetica, creovn è invece una forma tipica della prosa ionica. Wackernagel (1897, p. 56) attribuiva l’incremento nell’uso di crewvn nei dialoghi tardi di Platone a una maggiore predisposizione verso le forme espressive della poesia. in Parm. B 8. 45 si osserva invece il fenomeno contrario, cioè la predisposizione verso forme della prosa. a parere di Wackernagel (1897, p. 61) «wo weder metrum noch Überlieferung creovn verlangen ... ist crewvn festzuhalten». Se quanto ho osservato finora è esatto, e diversamente da ciò che crede Ferrari (2005, p. 117 n. 13), c’è da domandarsi seriamente se la tradizione non richieda creovn anche in altri punti del poema parmenideo; in particolare almeno in B 8. 11, dove viene usata la stessa formula di B 8. 45 e dove il crewvn concordemente trasmesso dai mss. potrebbe essere un atticismo. Possiamo ad ogni modo solo immaginare l’impressione che una tale formula doveva suscitare negli antichi. in essa non c’è nulla di tradizionale: non è tradizionale pelevnai, e non lo è neppure crewvn (che non compare mai in omero, se non come v. l.: cf. § 2. 3). Se poi – come a me sembra più probabile – leggessimo pelevnai 115

Brandwood 1976, s. v. crewvn.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

creovn ejsti(n), l’impressione di novità risulterebbe ancora più netta, perché pelevnai è una forma ionica recente probabilmente di origine occidentale (cf. cassio 1996), mentre creovn è sempre una forma ionica recente, ma di origine orientale. 2. 5. Atticismi in Omero e in Parmenide nei frammenti superstiti di Parmenide non esiste un solo caso di ew in sinizesi metri causa; là dove ew non è esito di ho, misura sempre come disillabo: B 1. 16 ejpifradevw", B 1. 17 ajpterevw", B 8. 52 ejpevwn, B 16. 1 melevwn. d’altro canto la totalità delle forme con mq attestate nei frammenti si trova in sinizesi, e il numero di queste forme è sorprendentemente molto basso: si tratta in sostanza solo di crewvn in B 2. 5 e B 8. 54 (su B 8. 11 e B 8. 45 cf. § 2. 4; su B 1. 17 e B 1. 20 cf. § 2. 6). in compenso il riuso di una forma omerica come crewv fa registrare due forti deviazioni prosodiche dal modello. qui interessa soprattutto la dieresi secondaria, cioè un fenomeno attestato – stando ai materiali raccolti da Méndez Dosuna (1993) – solo sporadicamente nell’epica omerica. Per quanto riguarda crewv in Parmenide il fenomeno può certamente essere stato dettato da necessità metrica, ma questo da solo non cancella il peso dell’innovazione. se poi si aggiunge la attestazione di creovn, a mio giudizio sicura in B 8. 45 e probabile in B 8. 11, l’impressione di ‘modernità’ della dizione parmenidea diventa un fatto difficilmente contestabile. Personalmente ritengo che creovn e in qualche misura anche il trattamento di crewv suggeriscano che nelle recitazioni ioniche di epoca tardo-arcaica e classica le forme con mq tendevano ad essere rimpiazzate da nuove forme createsi in seguito ai processi analogici occorsi nei dialetti ionici. A mio parere questa tendenza, visibile già in omero, è stata tuttavia oscurata nel corso della tradizione dei testi; ne darò una prova prendendo ancora una volta spunto dal testo di B 8. 9 s. tiv d∆ a[n min kai; c r ev o " w\rsen u{steron h] provsqen, tou' mhdeno;" ajrxavmenon, fu'n…

in omero crevo" è attestato appena due volte: Od. 8. 353 e Od. 11. 479. nel primo passo conserva il senso originario di “debito”, nel secondo come in B 8. 9 vale invece “bisogno”, significato secondario ben attestato anche nella lirica e in tragedia. La questione semantica, seppur di notevole interesse, resta marginale nel mio discorso (cf. lsJ s. v.). qui, al contrario, va data attenzione alla morfologia del nome. accanto a crevo" omero attesta gli allotropi crei'o", crei'w", crevw" (su ei per h § 2. 2). La situazione di queste forme è complessa. Secondo Wackernagel 1916, p. 71, la lezione crevw" wjfeivlet(o), difesa da aristarco in Il. 11.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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686 contro crei'o" ojfeivlet(o) di Aristofane di Bisanzio, è un atticismo perché «aristophanes’ lesart entspricht dem festen homerischen gebrauch, dem nur crei'o" (d. i. crh'o") und (od.) crevo" gemäß ist ... dagegen ist die Form crevw" doch wohl nur attisch». Va però notato che crevw" è documentato da alcuni mss. anche in Od. 8. 353, mentre crei'w" è in v. l. con crei'o" sia in Od. 3. 367, dove ha ancora il sostegno di aristarco, sia in Od. 8. 355. Per il resto si ha sempre crei'o". secondo chantraine 1942, p. 70 s., crei'w" «doit être une graphie pour crei'o" avec allongement métrique au temps fort»; ma Werner (1948, p. 68) fa notare che «sonst wird aber in solchen situationen nie -w" für -o" geschrieben». a me sembra che se ci si attiene all’alternativa posta da quest’ultimo («crei'w" mit senkungsdehnung ist entweder attizismus oder setzt fürs ionische neben crevo" auch noch ein crevw" voraus»), la prima soluzione sia di gran lunga preferibile. infatti, come rileva Werner stesso, in Od. 8. 355 può essersi verificato uno slittamento da crei'o" a crei'w", per effetto dello slittamento da crevo" a crevw" che si ha appena due versi prima (Od. 8. 353): qui crevw", benché metricamente accettabile, deve rappresentare un atticismo. allo stesso modo in Od. 3. 367 si vede bene che crei'w" è, pace Aristarco, una grafia secondaria. Credo quindi che crei'o" in Od. 8. 355 non rappresenti altro che uno dei molti casi omerici di allungamento in arsi, e che come tale vada conservato. Omero doveva dunque conoscere solo la forma antica crei'o" (crh'o") e la forma più recente crevo". quest’ultima in effetti è attestata solo nell’Odissea e appare anche in erodoto116. al contrario crevw" rappresenta nel testo omerico un atticismo, come provano anche esempi non omerici quali Hes. op. 647 creva± vs. aristoph. nub. 39 e 443 creva–. Parmenide eredita quindi dall’epica tradizionale la forma recente crevo", attestata anche in HHerm. 138, dove invece non compare mai crei'o". a ben vedere lo statuto di crevo" è del tutto equiparabile a quello di creovn, derivato da crewvn, a sua volta esito di crewv + -n. dal punto di vista testuale ciò che è accaduto in omero (atticizzazione di crevo" in crevw" p. es. in Od. 8. 353) ci aiuta a capire ciò che deve essersi verificato in Parmenide (atticizzazione di creovn in crewvn) sicuramente in B 8. 45 e con buona probabilità in B 8. 11. le due forme crevw" e crewvn sono esistite a un determinato livello cronologico anche in ionico; tuttavia, mentre in questo dialetto sono state ben presto sostituite dalle forme analogiche crevo" e creovn, sono invece rimaste bloccate in attico. Il meccanismo identico di atticizzazione verificabile nei testi di Omero e Parmenide testimonia che nell’antichità il poema del secondo è stato in parte assimilato al testo del primo.

116

Powell 1938, s. v. crevo".

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2. 6. Casi (dubbi) di ew < hw in sinizesi la familiarità di Parmenide con la dizione epica è resa evidente dai due casi di cui qui alla fine mi occupo. Si trovano entrambi nel proemio, la sezione del poema che – secondo la communis opinio – più dipende dall’epos. B 1. 16 s. w{" sfin balanwto;n ojch'a ajpterevw" w[seie p u l ev w n a[ p o:

nella stessa posizione metrica pulevwn (< -hwn < -a–wn) si trova in due passi della Teogonia, dove è descritta la porta dell’ade, ovvero la porta del giorno e della notte di cui parla Parmenide stesso nel proemio: theog. 741 eij prw'ta p u l ev w n e[ n t o s q e gevnoito theog. 773 ejsqivei, o{n ke lavbh/si p u l ev w n e[ k t o s q e n ijovnta.

Qualche dubbio in più suscita invece il secondo esempio: B 1. 20 s. th/' rJa d i∆ a uj t ev w n ijqu;" e[con kou'rai kat∆ ajmaxito;n a{rma kai; i{ppou".

la lezione aujtevwn, accolta dalla maggioranza degli editori, è conservata solo nel ms. n, mentre gli altri mss. di sesto empirico (le") hanno aujtw'n. auj­ tevwn è preferito in quanto forma aulica, ritenuta più adatta allo stile solenne del proemio. i due paralleli nell’epica arcaica normalmente citati sono: Il. 12. 424 ss. oiJ d∆ uJ p e; r a uj t ev w n dh/voun ajllhvlwn ajmfi; sthvqessi boeiva" ajspivda" eujkuvklou"

[Hes.] scut. 237 s. oi} d∆ uJ p e; r a uj t ev w n a[ndre" ejmarnavsqhn polemhvia teuvce∆ e[conte".

Personalmente non credo che siano questi i modelli di B 1. 20 s. Sul piano del contenuto, infatti, il vero modello è stato indicato già da diels 1897, p. 53: Il. 5. 752 = 8. 396 [aiJ »Wrai] th'/ rJa d i∆ a ujt av w n kentrhnekeva" e[con i{ppou".

ma ciò di cui gli studiosi, diels compreso, non si sono accorti è che sul pia­ no metrico il modello della clausola di B 1. 20 è con ogni probabilità Il. 5. 503.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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Il. 5. 502 ss.

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w}" tovt∆ ∆Acaioiv leukoi; u{perqe gevnonto konisavlw/, o{n rJa d i∆ a uj t w' n oujrano;n ej" poluvcalkon ejpevplhgon povde" i{ppwn.

E qui si potrebbe riconoscere una forte innovazione rispetto alla dizione epica tradizionale. mentre in Il. 5. 503 aujtw'n è maschile, Parmenide potrebbe invece avere ripreso la stessa clausola, volgendola però al femminile, e compiendo così un notevole passo in avanti rispetto alla lingua di omero, in cui per il femminile si usano o la antica forma aujtavwn o la forma ionica aujtevwn. in effetti già diels 1897, p. 26 s., si domandava se in B 1. 17 si dovesse leggere pulevwn o pulw'n e citava a confronto alcune oscillazioni nelle iscrizioni numismatiche di elea (casi del tipo UELETEWN vs. UELETWN). Ora queste stesse oscillazioni, lungi dal dover essere ascritte a un improbabile influsso dell’attico, sono attestate in epoca notevolmente antica nelle iscrizioni ioniche orientali (p. es. chio, ca. 600 a. c., DHMARCEWN vs. DHMARCWN: DGE 687). Altri esempi se ne possono oggi leggere nelle iscrizioni del celebre acquedotto di eupalino a samo (Hallof 2003, nr. 996). la mia idea è che aujtw'n in B 1. 20 potrebbe essere una forma di questo tipo, risalente o a Parmenide stesso oppure ad antiche copie eleatiche del poema117. non ci si deve lasciare trarre in inganno dalla lezione apparentemente superiore del ms. n di Sesto Empirico, perché, come ho già avuto modo di notare (I 2 § 4), quel ms. è stato copiato da uno scriba doctus: è dunque possibile che la lezione aujtevwn sia una sua deliberata ‘omerizzazione’. rispetto a diels 1897, p. 30, in cui si optava per aujtw'n, l’aujtevwn stampato in VS, p. 230, è quindi forse un passo indietro, cui si sono allineati quasi tutti i successivi editori. tra le edizioni recenti, l’unica che non si attiene al testo dei VS è quella di Cordero (1997, p. 21). ProsPetto rIassuntIvo deI CasI dI mq

Probabili B 2. 5 crewvn B 8. 54 crewvn dubbi B 1. 17 pulevwn B 1. 20 aujtevwn B 8. 11 crewvn

117 Mi sono dunque ricreduto rispetto a quanto affermavo in Passa (2005, p. 50).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

86 improbabili

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B 8. 45 crewvn (mss. creovn)

3. Sillabazione 3. 1. Tipi di sillabazione nei dialetti ionici e nell’epica il contatto tra consonanti con diverso livello di sonorità ha reso possibile in greco lo sviluppo di vari tipi di sillabazione118. qui ci interessano in particolare i seguenti casi: (a) cosiddetto iii allungamento di compenso: ka–lov" < *ka±l.¸o" vs. ka±lov" < *ka±.l¸o", xeivnio" (ei = [e:]) < *xen.¸io" vs. xevnio" < *xe.n¸io" ecc; (b) trattamenti cosiddetti di muta cum liquida: pat.rov" vs. pa.trov", tevk.non vs. tev.knon ecc., che vengono notoriamente sfruttati in poesia a seconda delle necessità metriche (anche in sandhi: p. es. te brotov" può valere sia jbb sia bbb). sul piano sincronico i due trattamenti (ka–lov"/pat.rov" vs. ka±lo"/pa.trov") si presentano ripartiti tra i vari dialetti di i millennio119. tuttavia è probabile che essi non abbiano convissuto fin dal principio, ma che, viceversa, il trattamento ka–lov"/pat.rov" sia più antico di quello ka±lov"/pa.trov"120. all’interno dello ionico-attico la differenziazione deve essersi verificata poco dopo la migrazione ionica in Asia Minore: probabilmente intorno a quest’epoca in attico e in euboico si creò il nuovo tipo di sillabazione, mentre lo ionico orientale conservò il tipo più antico (Cassio 1998, p. 17 s.). ciò ha importanti ricadute sulla ricostruzione della situazione linguistica dell’epopea omerica. qui sono attestati in gran maggioranza trattamenti del tipo ka–lov"/pat.rov", ma esiste anche un piccolo numero di trattamenti innovativi (p. es. Il. 11. 470 monwqeiv"), che sono stati attribuiti o a redazioni attiche (secondo la teoria tradizionale di Wackernagel 1916, p. 159) o, negli ultimi decenni, all’influsso di altri dialetti, e particolarmente dell’euboico (Wathelet 1981; West 1988, p. 166 ss.). sicuramente essi non risalgono a età antica; se fosse vera la seconda ipotesi, potrebbero essere la spia di un influsso recente dell’euboico sulla dizione epica. 3. 2. Sillabazione nei frammenti di Parmenide: il III allungamento di compenso come nell’epica tradizionale, il iii allungamento di compenso è di norma realizzato anche nei frammenti di Parmenide. ecco un elenco completo delle forme pertinenti: 118 Vd. p. es. Méndez Dosuna (1994, p. 115). 119

la posizione del miceneo è particolarmente complessa; vd. morpurgo davies (1987). Per il greco in fase antica si postula l’eterosillabicità di tutti i gruppi consonantici intervocalici: vd. p. es. Allen (1987, p. 106 ss.). Più tardi indicazioni importanti vengono dal trattamento attico di alcuni comparativi (lejeune 1972, pp. 221, 290 s.) e da apparenti irregolarità nell’accentazione (Méndez Dosuna 1994, p. 116 s.). 120

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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¸is¸-: i\son B 8. 49, i[swn B 9. 4; cf. ijsopalev" B 8. 44; kor¸-: kou'rai B 1. 5 (= B 1. 9, B 1. 15, B 1. 21), kou'r(e) B 1. 24, kouvrou" B 17, kouvra" B 17; mon¸-: mou'nai B 2. 2; dubbio mounogenev" B 8. 4 (correzione di monogen-; vd. i 2 § 5); ol¸-: ou\lon B 8. 38; dubbio oujlomelev" B 8. 4 (vd. i 2 § 5. 1); per¸-: peivrasi B 8. 26 (= B 8. 49), peivrato" B 8. 31, pei'ra" B 8. 42, peivrat(a) B 10. 7; sten¸-: cf. steinovterai B 12. 1.

Rispetto a questa situazione si registra una sola ‘infrazione’, per altro non del tutto sicura. B 7. 6 s. = B 8. 1 s. m ov n o " d∆ e[ti mu'qo" oJdoi'o leivpetai wJ" e[stin:

i mss. di simplicio, che cita B 8. 1 s. tre volte (phys. 78, 142, 145), sono divisi tra movno" e mou'no"121. quelli di sesto empirico, che cita B 8. 1 s. di seguito a B 7. 6, hanno sempre movno". se ritenessimo B 7. 6 s. e B 8. 1 s. appartenenti a due luoghi diversi del poema, in B 8. 1 dovremmo senz’altro optare per la forma ionico-epica mou'no" trasmessa da una parte della tradizione simpliciana. ma, nel caso della citazione di Sesto Empirico, saremmo comunque costretti ad accettare l’unica lezione data dai mss., movno", che è d’altronde l’unica forma metricamente possibile in B 7. 6. Ho già argomentato (i 1 § 5) a favore della continuità tra B 7 e B 8: pace sider (1985, p. 365 s.) credo che movno" debba essere accettato come forma autenticamente parmenidea. non si tratta di una constatazione eccessivamente drammatica. oltre agli sporadici esempi del tipo monwqeiv" nell’epica, tracce di forme che non presentano allungamento di compenso sono anche nei testi dei poeti ionici arcaici, dove invece esso è atteso e di regola effettivamente realizzato. un caso noto è il doriv (atteso douriv < *dor¸iv) per tre volte metricamente garantito in archil. fr. 2 West; ma vengono in mente anche archil. fr. 322 West (Dhvmhtro" aJgnh'" kai; K ov r h " / th;n panhvgurin sevbwn) e Hippon. fr. 220. 3 degani = 182 West (au{th ga;r hJ proi;x oijkivan sw/vzei m ov n h), entrambi generalmente liquidati come spuri122. merita pertanto di essere seriamente considerata l’ipotesi di cassio (1994a, p. 66 n. 80) circa «delle zone o dei livelli sociolinguistici nella ionia d’asia» in cui i trattamenti del tipo movno" e doriv erano la norma. 121 Purtroppo l’attribuzione di ciascuna lezione ai singoli mss. nei vari passi è diversa da edizione a edizione: cf. VS, p. 235, coxon 1986, p. 61, cordero 1997, p. 26. sulla lezione del ms. W cf. sider (1985, p. 365). 122 Per quanto riguarda il frammento di Ipponatte probabilmente a ragione: vd. West (1989, p. 170) e Degani (1991, p. 185). Qualche possibilità in più di essere autentico ha invece il frammento di Archiloco: vd. Casadio (1996, p. 61 ss., con bibliografia precedente a p. 62 n. 3).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

Senza dubbio quei trattamenti erano la norma in Eubea (come ci attestano p. es. vari decreti antichi di prossenia in cui compaiono esclusivamente forme del tipo provxenon)123 e nelle moltissime colonie euboiche d’occidente (vd. la marca di proprietà Cenofavnto– = Xenofavntou graffita sotto il piede di una kylix attica trovata nell’area di cuma, IGG i 21d, ca. 500 a. c.; nonostante la provenienza attica del manufatto, l’iscrizione è euboica: cf. il caratteristico uso di per [ks] e le due attestazioni del nome Xenovfanto" a eretria, SEG 28. 724 nrr. 146-147). Elementi dialettali euboici, che in Occidente influenzarono la dizione epica a epoca molto antica (la coppa di nestore data a ca. il 725 a. c.: CEG 454), hanno probabilmente continuato a penetrare nella poesia prodotta in occidente in fase successiva, anche perché in certi casi coincidevano con gli esiti dei dialetti dorici. In questo contesto va notato che un’antica attestazione letteraria di movno" si trova già in stesicoro (PMG 223), un poeta di origine dorica attivo in Occidente e fortemente influenzato dalla dizione omerica: ou{neka Tundavreo" rJevzwn pote; pa'si qeoi'" m ov n a " lavqet∆ hjpiodwvrou Kuvprido":

i mss. trasmettono movnh" (a) o mia'" (mBT), ma movna" è una correzione praticamente certa, mentre è del tutto improbabile il mou'na" difeso da vari studiosi. Forme come queste devono essere penetrate stabilmente anche nella poesia esametrica composta in Occidente. La migliore prova di una pacifica convivenza tra forme tradizionali con allungamento di compenso e forme meno tradizionali senza allungamento di compenso risiede nei frammenti di empedocle: B 2. 5 aujto; m ov n o n peisqevnte", o{tw/ prosevkursen e{kasto" B 8. 3 s. ajlla; m ov n o n mivxi" te diavllaxiv" te migevntwn e[sti B 17. 1 s. = 16 s. tote; me;n ga;r e}n hujxhvqh m ov n o n ei\nai ejk pleovnwn B 35. 5 (= PStrasb. a(ii) 20) ejn th'/ dh; tavde pavnta sunevrcetai e}n m ov n o n ei\nai PStrasb. a(ii) 17 [aujqavdh?:] mesavtou" t∆ [eijsh]rcovmeq∆ e}n m [ov n o n ei\nai]. 123 cf. p. es. IG XII 549 (il più antico decreto di prossenia conosciuto: Eretria, ca. 500-475 a. C.), IG Xii 9. 187 (eretria, V sec. a. c.); discussione in del Barrio (1991, p. 16).

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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Come si vede, in questi passi non solo movno" è sempre garantito metricamente, ma diventa elemento portante di una delle formule più usate dal filosofo agrigentino. Ma, dove metricamente conveniente, Empedocle non evitava di usare la forma della tradizione epica: B 134. 4 ajlla; frh;n iJerh; kai; ajqevsfato" e[pleto m o u' n o n B 111. 2 ejpei; m o u' n w/ soi; ejgw; kranevw tavde pavnta P. Strasb. a(ii) 21 [speu']de d∆ o{pw" mh; m o u' n o n ajn∆ ou[ata [mu'qo" i{khtai].

questa alternanza di mou'no" e movno", negli esametri di Parmenide e empedocle, è il segno dei tempi mutati, il portato di innovazioni consacrate stabilmente in letteratura grazie a poeti come Stesicoro. Se accettiamo questo, non ci stupirà allora che la stessa alternanza caratterizzi sia i poemi esametrici di Parmenide ed empedocle sia le odi corali di Pindaro. 3. 3. Sillabazione nei frammenti di Parmenide: i trattamenti di muta cum liquida Prenderò qui in esame alcune innovazioni nella sillabazione dei nessi di muta cum liquida nei frammenti di Parmenide. Per ragioni di spazio commenterò solo i casi più significativi; alla fine del paragrafo fornirò invece un prospetto generale delle sillabazioni tradizionali e innovative in sandhi sia interno che esterno. B 8. 2 s. tauvth/ d∆ ejpi; shvmat∆ e[asi polla; mavl∆, wJ" ajgevnhton ejo;n kai; aj n wv l e q r ov n ejstin.

il composto ajnwvleqro" è modellato su ajnovleqro" di Il. 13. 761; cf. ii 2 § 4. quest’ultimo, così come la parola o[leqro", che ricorre varie decine di volte in omero (p. es. nelle clausole formulari lugro;n o[leqron, aijpu;n o[leqron ecc.) presenta una sillabazione tradizionale del tipo pat.rov". al contrario, in B 8. 3 è richiesta una sillabazione ajnwvle.qron. notare che o[leqro" è attestato anche in Parm. B 8. 21 e B 8. 27, dove mantiene la prosodia tradizionale. B 8. 16 s. k ev k r i t a i d∆ ou\n, w{sper ajnavgkh, th;n me;n eja'n ajnovhton ajnwvnumon

Nell’epica arcaica, in qualsiasi forma nominale o verbale collegabile con il verbo krivnw la sequenza V + kr è sempre separata da limite sillabico. Per quanto riguarda le voci del perfetto cf. Il. 14. 19, Od. 13. 182, Od. 16. 248, Od. 24. 107.

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È invece caratteristico del poema di Parmenide affiancare sillabazioni tradizionali (B 8. 55 tajntiva d∆ ejkrivnanto) a sillabazioni innovative come in B 8. 16. lo stesso sembra valere per empedocle: cf. B 154 kai; duvsin e[krinen (di dubbia attribuzione) vs. B 62. 2 ajnhvgage krinovmenon pu'r. B 8. 46 s. ou[te ga;r oujk ejo;n e[sti, tov ken pauvoi min iJ k n e i' s q a i eij" oJmovn

la forma contratta di inf. pr. medio iJknei'sqai è una innovazione rispetto alla dizione epica. in omero, infatti, i pochi trattamenti del tipo pa.trov" sono attestati soltanto per i nessi CR (occlusiva sorda o sonora + r; occlusiva sorda + l), mentre i gruppi occlusiva + nasale non vanno mai soggetti a sillabazioni innovative (allen 1973, p. 210 ss.). È indicativo il fatto che lo stesso trattamento si ritrovi in Xenoph. B 28. 2: to; kavtw d∆ ej" a[peiron iJ k n e i' t a i

Questo verso ha certamente fornito il modello a Parmenide, sia perché la clausola è simile, sia per l’analogia tra le espressioni ej" a[peiron iJknei'tai e iJknei'sqai eij" oJmovn. B 16. 1 s. wJ" ga;r e{kasto" e[cei kra'sin melevwn poluplavgktwn, tw;" novo" ajnqrwvpoisi parivstatai:

in omero (Il. 11. 308, Od. 17. 425, Od. 17. 511, Od. 20. 195) poluvplagkto" ha sempre sillabazione tradizionale e ciò ne impedisce l’uso in clausola. l’innovazione parmenidea è dunque notevole. con essa va confrontato emped. PStrasb. a(ii) 26 tou'to me;n [a]n] qhrw'n ojriplavgktwn ajg[rovter∆ ei[dh], che restituisce la seconda attestazione del composto ojrivplagkto", finora ritenuto un hapax in opp. cyn. 3. 224.

Tipo pat.rov~

Tipo pa.trov~

B 1. 4 poluvfrastoi

B 1. 28 te crewv

B 1. 13 qurevtroi~ = B 1. 17 qurevtrwn

B 1. 30 hjde; brotw`n

B 1. 16 ejpifradevw~

B 2. 8 ou[te fravsai~

B 1. 22 qea; provfrwn

B 8. 3 ajnwvleqron

B 1. 29 ajtremev~ = B 8. 4 ajtremev~

B 8. 15 de; krivsi~

B 4. 2 ajpotmhvxei

B 8. 16 kevkritai

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B 4. 3 skidnavmenon

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B 8. 39 o{ssa brotoiv

B 6. 5 divkranoi

B 8. 46 iJknei`sqai

B 6. 7 a[krita

B 8. 51 tou`de broteiva~

B 6. 7 tufloiv

B 8. 53 duvo gnwvma~

B 8. 21 o[leqro~ = B 8. 27 o[leqro~

B 8. 54 peplanhmevnoi

B 8. 40 givgnesqai

B 8. 61 se brotw`n

B 8. 41 te crova

B 14 ajllovtrion

B 8. 55 ejkrivnanto

B 15 paptaivnousa prov~

B 8. 57 ejlafrovn

B 16. 1 poluplavgktwn

B 12. 1 ajkrhvtoio

B 19. 2 teleuthvsousi trafevnta

B 12. 2 de; flogov~

Da questo quadro si evince che nei frammenti parmenidei il numero complessivo di sillabazioni innovative (tipo pa.trov") è di poco inferiore a quello delle sillabazioni tradizionali (tipo pat.rov"). il rapporto è di 16 a 20. Valori assai simili si ricavano dai frammenti di empedocle (Passa 2004b, p. 115 ss.). Parallelamente a quanto si è visto al § 3. 1, non mancano argomenti per spiegare un incremento così consistente rispetto all’epica omerica. da un lato ci sono alcuni fatti prosodici anomali attestati nei testi dei poeti ionici che possono essere interpretati nel senso di una evoluzione (in epoca postomerica) dei dialetti ionici orientali verso sillabazioni innovative, almeno nei livelli sociolinguistici più bassi. Particolarmente impressionante è il caso di Hippon. fr. 8 degani = 20 West, dove il metro indica cha la parola bakthrivh va sillabata ba.kth.riv.h (devine-stephens 1994, p. 41)124. Ma, di nuovo, non credo che questa sia la vera spiegazione in rapporto al testo di Parmenide (ed empedocle); o almeno non è l’unica. a parte il fatto che esempi simili a bakthrivh in ipponatte sono attestati anche in ambito coloniale (in epich. fr. 80 K.-a. eu[umno" va sillabato eu[.u.mno": devine-stephens 1994, p. 41), per capire le ragioni dell’incremento delle sillabazioni del tipo pa.trov" nei poemi filosofici occorre secondo me tenere presente l’influsso del dialetto euboico sull’epica in ambito coloniale, e confrontare i dati relativi a poeti come stesicoro. secondo il calcolo di nöthiger (1971, p. 112 ss.) nei suoi testi superstiti il rapporto 124 Come mi suggerisce E. Dettori, si può tuttavia anche pensare a una semplificazione nella pronunzia del nesso -kt- non registrata nella grafia; nella sua imitazione del frammento ipponatteo Herond. 8. 60 usa la forma bathrivh. sia che si tratti di una sillabazione non tradizionale, sia che si tratti invece di vera e propria semplificazione del nesso consonantico, Ipponatte si sta cimentando in una prova di mimesi linguistica; cf. la parodia di rhint. fr. 8 K.-a. in cui ÔIppwvnakto" va sillabato ÔIp.pwv.na.kto".

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tra esempi di sillabazione tradizionale e esempi di sillabazione innovativa nei trattamenti di muta cum liquida è, ad esclusione del Papiro di Lille125, di 18 a 15: come si vede, cifre molto vicine a quelle riscontrate in Parmenide ed Empedocle. 4. -n efelcistico 4. 1. Uso di -n efelcistico nella dizione ionica e in Parmenide l’origine del -n efelcistico nell’epica è ancora discussa. nelle forme nominali il morfema è attestato epigraficamente in vari dialetti della madrepatria (tessalico e dialetti occidentali), oltre che in piena età arcaica in ionico d’asia (p. es. a chio, ca. 600 a. c., basileu'sin: DGE 687). nelle forme verbali rappresenta invece probabilmente un’innovazione ionica (Hoekstra 1965, p. 72), la cui origine è stata finora variamente spiegata126. Per gli aedi ionici responsabili dell’assetto finale del testo omerico, che avevano perso [w] iniziale nella loro lingua (cf. ii 1 § 1. 1), -n divenne un mezzo per conservare la struttura metrica del patrimonio formulare ereditato, sanando gli iati. da un dato momento in avanti, però, esso iniziò a essere usato anche davanti a consonante per ‘fare posizione’, e in linea generale l’incremento di questo uso è inversamente proporzionale all’antichità del materiale epico preso in esame (Hoekstra 1965, p. 78 ss.; Janko 1982, p. 65). d’altro canto nella dizione ionica l’uso di -n divenne usuale anche in fine di verso (West 1998, p. XXV), come provano, pur con qualche oscillazione, le iscrizioni127. nei frammenti di Parmenide -n è onnipresente: secondo i miei calcoli se ne contano 63 attestazioni su 143 versi complessivi conservati128. le ripartizioni in base alla posizione metrica sono le seguenti: 38 casi in funzione antiiatica; 13 casi prima di consonante; 12 casi in fine di verso. qui di seguito presento una serie di tabelle in cui i casi di -n sono ridistribuiti secondo la categoria morfologica e in base alla loro funzione prosodica. all’interno di ciascuna tabella sono distinte le varie posizioni nell’esametro, in rapporto a cui ho fornito (se ci sono) esempi di trattamenti paralleli nell’epica tradizionale. tab.

1. Forme di eijmiv (i): -n non ‘fa posizione’

1a. B 8. 9| e[stin o{pw" ≈ Od. 4. 616 = 15. 116 | e[stin a{pa" 125

su cui vd. comotti (1977, p. 59 s.).

126 La spiegazione più valida resta quella di Schulze (1897, p. 902).

127 Particolarmente in ambito ionico orientale le condizioni dell’uso di -n variano da zona a zona: stüber (1996, p. 78 ss.). 128 Ho seguìto i criteri di Janko (1982, p. 64 s.) e ho tenuto conto di: (1) ken; (2) ejgwvn; (3) avverbi in -qen come provsqen; (4) casi del tipo ei{neken e ou{neken; vd. anche più avanti. Il calcolo si basa sul testo greco dei VS; due esametri mutili contano come un intero verso, indipendentemente dalla loro lunghezza. Non sempre ho segnalato i casi nei quali le forme prese in esame risultano da correzioni (secondo me sicure o probabili) del testo tràdito.

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B 8. 18| e[stin oJdov" B 16. 3| e[stin o{per ≈ Od. 17. 159 | e[stin ajtavr Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 06/03/2019

1b. B 8. 16| e[stin h] oujk 1c. B 8. 27| e[stin a[narcon 2.

B 9. 3| pa'n plevon ejsti;n oJmou' = Il. 3. 167, 9. 33 = 9. 276, 19. 177 j b b ejsti;n + V

3a. B 8. 22| oujde; diairetovn ejstin ejpeiv = Il. 1. 281 = 16. 55 j b b j b b ejstin ejpeiv B 8. 47| eij" oJmovn, ou[t∆ ejo;n e[stin 3b. B 8. 25| tw'/ xunece;" pa'n ejstin: ejovn, cf. theog. 687 | oujd∆ a[r∆ e[ti Zeu;" i[scen eJo;n mevno", theog. 853 | Zeu;" d∆ ejpei; ou\n kovrqunen eJo;n mevno" B 8. 54| tw'n mivan ouj crewvn ejstin 4a. B 8. 22 ejstin oJmoi'on |≈ HHerm. 205 ejstin e{kaston | B 8. 48 ejstin a[sulon | B 8. 24 ejstin ejovnto" |, cf. Od. 14. 527 novsfin ejovnto" | 4b. B 8. 36 e[stin h] e[stai |, cf. Il. 18. 266 w|de ga;r e[stai | B 8. 11 ejstin h] oujciv |, cf. Il. 2. 349 ei[ te kai; oujkiv |, Il. 15. 137 o{" te kai; oujkiv | 4c. B 8. 5 e[stin oJmou' pa'n | 5a. B 8. 3 ajnwvleqrovn ejstin |≈ Il. 3. 309 peprwmevnon ejstivn |, HApoll. 176 ejthvtumovn ejstin | (cf. B 8. 18 ejthvtumon ei\nai |) 5b. B 5. 1 xuno;n dev moi ejstin | ≈ Od. 12. 452 ejcqro;n dev moiv ejstin | 5c. B 8. 35 pefatismevnon ejstin | ≈ Il. 14. 196 = 18. 427, Od. 5. 90 tetelesmevnon ejstivn | B 8. 54 peplanhmevnoi eijsivn | ≈ Il. 10. 352 proferevsteraiv eijsin | Od. 2. 29 progenevsteroiv eijsin | 5d. B 8. 15 ejn tw'/d∆ e[stin | tab.

2. Forme di eijmiv (ii): -n ‘fa posizione’

1a. B 2. 3| hJ me;n o{pw" e[stin te ≈ Il. 12. 65 | e[nq∆ ou[ pw" e[stin + C B 2. 5| hJ d∆ wJ" oujk e[stin te129 1b. B 8. 16| e[stin h] oujk e[stin: kevkritai

129

correzione di mullach resa necessaria dal metro; i mss. hanno e[sti te.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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1c. B 6. 2| mhde;n d∆ oujk e[stin: tav

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1d. B 8. 2| leivpetai wJ" e[stin: tauvth/ 2.

tab.

B 3 ejstivn te kai; ei\nai |, cf. Il. 1. 91 = 2. 82, 5. 246 ecc. eu[cetai ei\nai |

3. altre forme verbali: -n non ‘fa posizione’130

1.

B 1. 1| i{ppoi taiv me fevrousin ≈ Il. 10. 323 | dwsevmen, oi} forevousin + V B 1. 25| i{ppoi" taiv se fevrousin

2.

B 1. 23| dexiterh;n e{len ≈ Il. 15. 328 = 16. 306 | e[nqa d∆ ajnh;r e{len + V

3.

B 10. 6 ejpevdhsen ∆Anagkhv |, cf. Il. 6. 458 ejpikeivset∆ ajnagkhv

4.

B 8. 37 Moi'r∆ ejpevdhsen | = Il. 4. 517 = 22. 5, Od. 11. 292 moi'r∆ ejpevdhse(n) | (v. l. moi'ra pevdhse(n) |)

5.

B 8. 9 kai; crevo~ w\rsen | = Il. 8. 335 ejn mevno" w\rsen |

tab.

4. dativi plurali (i): -n non ‘fa posizione’ -a–B 1. 6| a[xwn d∆ ejn cnoivh/sin, cf. Il. 6. 43 prhnh;" ejn konivh/sin + V B 1. 20| govmfoi" kai; perovnh/sin B 8. 14 calavsasa pevdh/sin |, cf. Il. 2. 264 ajeikevssi plhgh/'sin | -oB 8. 31 peivrato" ejn desmoi'sin ≈ Od. 12. 196 | pleivosiv m∆ ejn desmoi'si B 1. 15 malakoi'si lovgoisin | = Od. 1. 56 malakoi'si kai; aiJmulivoisi lovgoisi | HHerm. 317 aiJmulivoisi lovgoisin | B 16. 3 fuvsi" ajnqrwvpoisin | = Il. 2. 669 = 4. 320 ecc. ajnqrwvpoisin | B 1. 24 sunavoro" hJniovcoisin | ≈ Il. 8. 124 = 8. 316, 17. 427 ecc. hJniovcoio | B 1. 7 ejpeivgeto dinwtoi'sin | atem. B 6. 6| sthvqesin ijquvnei ≈ Il. 16. 163 | sthvqesin a[tromov" ejsti B 1. 19| a[xona" ejn suvrigxin ≈ Il. 18. 526 | terpovmenoi suvrigxi

130 non tengo conto della lezione parevsthke (+ C) trasmessa dai mss. di Teofrasto, in quanto a mio parere certamente non autentica: vd. i 2 § 2.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

tab.

95

5. dativi plurali (ii): -n ‘fa posizione’

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-oB 17| dexiteroi'sin me;n kouvrou" atem. B 16. 4| kai; pa'sin kai; pantiv ≈ Od. 4. 176 | kai; pa'sin laoi'si tab.

6. avverbi (i): -n non ‘fa posizione’ -qen B 5. 2| oJppovqen a[rxwmai ≈ Od. 1. 406 | oJppovqen ou|to" B 8. 43| pavntoqen eujkuvklou = Il. 13. 28, 16. 110, 21. 364 ecc. | pavntoqen + V B 8. 44| messovqen ijsopalev" B 8. 7| ph'/ povqen aujxhqevn… ≈ Il. 18. 322, Od. 1. 170 ecc. | tiv" povqen eij" ajndrw'n… B 1. 8| kuvkloi" ajmfotevrwqen = Il. 15. 313, 23. 628, Od. 21. 408 | j j ajmfotevrwqen B 8. 49 | oi| ga;r pavntoqen i\son, cf. B 8. 43 | pavntoqen eujkuvklou B 10. 3 oJppovqen ejxegevnonto | -en B 8. 32| ou{neken oujk ajteleuvthton ≈ Il. 3. 403, 11. 684, 13. 727 ecc. | ou{neka + C B 8. 34 ou{neken e[sti novhma |, cf. Il. 4. 60 = 18. 365 ou{neka sh; paravkoiti" | B 8. 13 ei{neken ou[te gevnesqai | = Il. 2. 138, 2. 161, 3. 87 ecc. ei{neka j b b j a |

tab.

7. avverbi (ii): -n ‘fa posizione’ -qen B 10. 6| e[nqen [me;n ga;r] e[fu = Il. 7. 472, 21. 44, Od. 6. 7 ecc. | e[nqen + V B 7. 6| ejx ejmevqen rJhqevnta131 = Il. 5. 653, 9. 456, 21. 217 | ejx ejmevqen + C B 8. 10| u{steron h] provsqen tou' ≈ Il. 13. 157, Od. 8. 524 ecc. | j b b j provsqen + C

tab.

8. Pronomi (i): -n non ‘fa posizione’ B 2. 1 | eij d∆ a[g∆ ejgw;n ejrevw = Il. 9. 103, Od. 12. 38 ecc. ejgw;n ejrevw

131 Conto anche questo come semplice caso di -n + C perché a Parmenide non può essere sicuramente attribuita più alcuna coscienza della antica forma *¸rh-: cf. ii 1 § 1.3; diversamente Janko (1982, p. 64).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

96 tab.

9. Pronomi (ii): -n ‘fa posizione’

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B 1. 16 w{" sfin balanwto;n ojch'a |≈ Od. 6. 121, 8. 576, ecc. kaiv sfin novo" ejsti; qeoudhv" | tab.

10. ken (i): -n non ’fa posizione’ B 8. 23 tov ken ei[rgoi min sunevcesqai |, cf. B 8. 46 tov ken pauvoi min iJknei'sqai | B 8. 47 ei[h ken ejovnto" |≈ Hes. op. 303 o{" ken ajergov" |

tab.

11. ken (ii): -n ’fa posizione’ B 8. 46 tov ken pauvoi min iJknei'sqai | ≈ Il. 7. 28, Od. 20. 381 tov ken polu; kevrdion ei[h |

Nella tabella che segue è stata messa a confronto la frequenza di -n + C nei poemi epici arcaici e nei frammenti di Parmenide ed empedocle132. i dati relativi all’epica arcaica sono desunti da Janko (1982, p. 66), ma la frequenza è ricalcolata su un intervallo di 10 versi (1000 nell’originale), per poter essere resa meglio confrontabile con le risultanze dei testi dei due filosofi. tab.

12. -n + C nel corpus epico arcaico e in Parmenide (ed empedocle) opera

n. versi

­n + C

frequenza

Il.

15693

559

0, 36

Od.

12110

451

0, 37

Theog.

1022

22

0, 21

Op.

828

18

0, 22

Scut.

424

10

0, 23

HDem.

495

22

0, 44

HAp. (D)

181

11

0, 61

HAp. (P)

365

5

0, 14

HHerm.

580

9

0, 15

HAphr.

293

14

0, 48

Parm.

143

13

0, 91

emped.

487

7

0, 14

132 il calcolo del numero totale dei versi è stato svolto sul testo stampato in VS e su quello del papiro di strasburgo (martin-Primavesi 1999); i criteri di calcolo sono gli stessi adottati per Parmenide: cf. n. 128.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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4. 2. Retrospettiva La frequenza di -n + C in Parmenide è impressionante, più alta persino che nei componimenti molto influenzati dallo ionico come l’Inno ad Apollo Delio (Janko 1982, p. 66) o l’Inno a Afrodite (Hoekstra 1965, p. 75 ss.). tuttavia non bisogna sopravvalutare le risultanze delle analisi statistiche, perché non tengono conto del contenuto delle opere prese in esame (cf. Hoekstra 1965, p. 76, a proposito della Teogonia di esiodo). Pertanto i sei casi di ejstin + C nei frammenti parmenidei (tab. 2) rappresentano sicuramente una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica, in cui si contano più di cento attestazioni di ejstin ma solo tre di ejstin + C (Il. 12. 65, 14. 338; Od. 12. 321); va però tenuto conto che l’argomento del poema non poteva che facilitare un trattamento simile in quella specifica forma verbale. È molto verosimile che proprio grazie al modello di Parmenide si spieghino i quattro casi di ejstin + C in Empedocle (B 17. 34 = B 21. 13 e B 26. 3; B 133. 1), dove per il resto -n + C è un’autentica rarità133. tre casi di -n + C si registrano con avverbi in -qen (tab. 7), tutti più o meno riconducibili a precisi modelli omerici. nondimeno una forte innovazione rispetto all’epica è rappresentata dall’uso di avverbi in -en (ou{neken, ei{neken) e in -qen (messovqen) in funzione antiiatica (tab. 6), laddove il cor­ pus epico arcaico attesta quasi esclusivamente forme in -a (ou{neka, ei{neka; e{neken solo in Od. 17. 288 e 310; HDem. 211; nessun caso di messovqen). l’incremento di -en in Parmenide va indubbiamente attribuito alla predilezione del dialetto ionico per questo tipo di forma: p. es. ei\ten = ei\ta è nell’iscrizione che conserva i decreti dei molpoi di mileto (un apografo del i sec. a. c. tratto da un antigrafo del 450/449 a. c. che conteneva annotazioni risalenti al Vi sec. a. c.: DGE 726. 29); e{neke e e{neken sono ben testimoniati nelle iscrizioni ioniche orientali134. dei due esempi di -n + C nei dat. pl. (tab. 5), dexiteroi'sin sembra un uni­ cum prosodico rispetto alla poesia esametrica arcaica, pa'sin ha invece un precedente nella tradizione (dove è comunque relativamente recente: Hoekstra 1965, p. 107). anche i trattamenti di sfin e di ken (tabb. 9 e 11) si pongono nel solco dell’epica tradizionale; in particolare l’uso di ke/ken in Parmenide conferma che, come già in omero, la scelta dell’una o dell’altra particella è dettata da necessità metriche (dunkel 1990, p. 111 s.)135 e che ken è stato quindi sincronicamente equiparato in ambito ionico a una qualsiasi forma con -n efelcistico. uno sguardo sui casi parmenidei in cui -n evita lo iato dà una misura dell’importanza della funzione che assolve nella dizione ionica. sono infatti diversi i casi in cui -n rimpiazza un antico [w] ancora percepito nell’epica tracf. B 33 ejgovmfwsen, B 84. 6 lavmpesken, PStrasb. a(ii) 4 [p]uknh/'sin. tranne che a Priene dove compare e{neka, su cui vd. stüber 1996, p. 129. 135 ke si trova solo in B 8. 19. 133

134

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

dizionale: p. es. pavntoqen i\son è riusato da Parmenide nelle stesse condizioni in cui omero impiega pavntoqen + V (tab. 6); tov ken pauvoi riflette il modello di tov ken poluv, ma, quando Parmenide si sgancia da quel modello, usa tov ken ei[rgoi che sarebbe difficile trovare in un esametro omerico (tab. 10); eij d∆ a[g∆ ejgw;n ejrevw riflette una situazione già propria di Omero, dove ejgwvn serve a dissimulare l’antico [w] (tab. 8), ma la forma normale in Parmenide è ejgwv (cf. B 6. 2 e B 8. 60). Poche parole richiede infine il -n efelcistico in fine di verso. Esso è sempre presente in tutti i casi in cui il suo uso è ammissibile; le uniche eccezioni sono costituite da ejstiv in B 8. 42 tetelesmevnon ejstiv, che è certamente un’omissione della tradizione per ejstivn (cf. la clausola formulare omerica in tab. 1; cf. anche B 8. 35 pefatismevnon ejstin), e e[asi in B 8. 2 e B 19. 1, che è forse anch’esso una svista di copiatura per e[asin (i mss. omerici oscillano tra l’una e l’altra forma, ma con netta prevalenza della seconda; cf. anche emped. B 17. 27 e[asi vs. B 22. 4 e[asin, entrambi trasmessi da simplicio).

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CaPItolo 2 forme notevolI

1. sfa±" (B 1. 12) B 1. 11 s. e[nqa puvlai Nuktov" te kai; “Hmatov" eijsi keleuvqwn, kaiv s f a " uJpevrquron ajmfi;" e[cei kai; lavino" oujdov":

nell’epica arcaica l’acc. del pronome di iii pl. è di regola espresso o dall’antica forma sfe136 o dalla forma ionica recente sfea" (spesso in sinizesi), sviluppata nel quadro del generale rifacimento della flessione pronominale (uJ–mev: uJmeva" = sfe: sfea"). da sfea" è derivata per contrazione la forma a noi più familiare sfa'", che è caratteristica dell’attico. la forma sfa±" metricamente garantita in B 1. 12 non può rappresentare un acc. ‘breve’ del tipo ben attestato in Esiodo e in poeti influenzati dal dorico, tra ±v (all’interno di un passo che Parmenide conocui p. es. stes. PMG 184. 2 paga" sceva bene: cf. iii 2 § 1) o emped. B 115. 6 w|ra±". essa va invece messa a confronto p. es. con Il. 5. 567 sfa±", Od. 16. 372 h|ma±", soph. Phil. 222 u|ma±". Come ha suggerito Wackernagel 1916, p. 6 n. 1, queste forme sono il risultato di un processo analogico messo in moto da aedi ionici. a partire p. es. dalla forma ie di acc. di ii pl. *us­me si sono creati i diversi esiti dialettali: da un lato eol. u[mme, dor. uJm – ev, dall’altro ion.-att. uJmeva". tuttavia in greco le forme di nom. non sono ereditate (l’ie presentava infatti temi diversi), ma sono state ricavate dagli acc. stessi: in eol. e dor. è stato aggiunto un -" (u[mme-", uJm – ev-"), mentre in ion.-att. è stata aggiunta la desinenza -e" per analogia con i nomi del tipo fuvlak-e" (uJmev-e" > uJmei'"). In questo processo le forme h|ma±", u|ma±", sfa±" rappresentano lo stadio immediatamente successivo. infatti gli aedi ionici hanno risegmentato come u[mm-e", a[mm-e" ecc. le forme eol. di nom. che essi trovavano saldamente fissate nella dizione; da qui hanno ricavato le forme artificiali in -a±", in base a proporzioni del tipo fuvlak-e": u[m(m)-e" = fuvlak-a±": x, con x = u|ma±". l’ultimo stadio del processo è costituito proprio da sfa±". Poiché anticamente il pron. di iii pl. non possedeva il nom.137, in questo caso il meccanismo 136 137

creata in base alla proporzione a[mmi: sfi = a[mme: x (x = sfe): rix (1976, p. 180 s.). sfei'" compare solo a partire dal V sec. a. c.

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analogico deve avere funzionato in maniera per così dire ‘orizzontale’, senza che vi fosse un rifacimento a partire dal nom. Quest’ultimo sviluppo è quindi descrivibile con la proporzione uJmeva": u|ma±" = sfea": sfa±". l’attestazione parmenidea di sfa±" induce a riconsiderare la situazione dell’epica arcaica. Per ciò che riguarda gli esempi omerici, Wackernagel 1916, p. 6 n. 1, si schierava nettamente a favore dell’autenticità di h|ma±" in Od. 16. 372, mentre non sapeva decidere «ob das sfa" ... dem Verfasser angehört oder für sfe hineinkorrigiert ist». a me pare che esso non vada toccato (vd. anche Chantraine 1942, p. 267) perché è probabile che le forme del tipo h|ma±" e sfa±" si debbano ad aedi ionici e siano un arrivo molto recente nella dizione epica. 2. plh'ntai (B 1. 13) B 1. 13 aujtai; d∆ aijqevriai p l h' n t a i m e g av l o i s i q u r ev t r o i ": essa, alta fino al cielo, è agganciata a un grande telaio.

il plurale tantum quvretra può essere usato in letteratura fin da età antica come sinonimo di “porta”. Con questo valore lo troviamo già in Omero, dove costituisce una variante metrica di quvrh / quvrai. si tratta tuttavia di un uso metonimico. il valore primario di quvretra è “telaio (della porta)” (lsJ s. v. quvretra; Frisk, GEW s. v. quvra). esso è chiaramente percepibile p. es. in Od. 18. 384 ss.: eij d∆ ∆Oduseu;" e[lqoi kai; i{koit∆ ej" patrivda gai'an, ai\yav kev toi q uv r e t r a, kai; eujreva per mavl∆ e[onta, feuvgonti steivnoito die;k proquvroio quvraze. ma se odisseo tornasse e giungesse alla terra patria, immediatamente a te lo spazio del telaio, pur essendo molto ampio, si restringerebbe mentre fuggi per il vestibolo fuori della porta.

come è stato capito da coxon 1986, p. 163, lo stesso preciso valore di “telaio” ha quvretra in B 1. 13. Su questo punto la maggioranza delle traduzioni è imprecisa: «Türflügeln» (VS, p. 229), «battants» e «doors» (o'Brien 1987, i p. 5), «battants» (cordero 1997, p. 36), «battenti» (cerri 1999, p. 147). La definizione del corretto significato di quvretra ci aiuta a capire anche il valore della strana forma plh'ntai trasmessa da sesto empirico138. essa non va affatto ricollegata con il presente pivmplhmi “riempire” (così VS, p. 229 e di conseguenza quasi tutti gli editori successivi; vd. più avanti), ma con la 138

sulla lezione plh;n q∆ ai} di n vd. i 2 § 4.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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radice *pelH2­/pCH2­, che ha fornito i presenti *pivlna–mi “avvicinare” (la forma tematizzata pilna/' è in Hes. op. 510), pivlna±mai “avvicinarsi”139. al centro del sistema stanno le forme ereditate dell’aoristo radicale medio, che presentano il grado zero atteso *pCH2­ (> gr. pla–-/plh-; Harđarson 1993, p. 181 s.) e sono ben attestate nell’epica arcaica: Il. 4. 448 s. = 8. 62 s. ajta;r ajspivde" ojmfalovessai / e[ p l h n t∆ aj l l hv l h/ s i ed ecco gli scudi ombelicati cozzavano gli uni contro gli altri; Il. 14. 438 au\ti" d∆ ejxopivsw p l h' t o c q o n iv e di nuovo all’indietro si accasciò a terra; Il. 14. 467 s. kefalh; stovma te rJi'nev" te / o u[ d e i p l h' n t (o) la testa, la bocca e il naso toccarono il suolo; theog. 192 s. prw'ton de; K u q hv r o i s i z a q ev o i s i n / e[ p l h t (o) e dapprima a citera divina approdò.

non ereditato ma creato all’interno del greco (LIV s. v. *pelH2) è invece il perfetto medio pevplhmai, che vanta anch’esso due importanti attestazioni in letteratura arcaica140: Od. 12. 108 s. ajlla; mavla Skuvllh" s k o p ev l w/ pare;x ejlavan

p e p l h m ev n o "

w\ka / nh'a

ma restando vicino allo scoglio di scilla, veloce spingi oltre la nave; semon. fr. 31a West ta; d∆ a[lla p e p l < ev a > t a i xuvla [mss. peplhvatai] stanno vicini gli altri pezzi di legno [?].

il caso retto dalle forme verbali derivate da *pelH2­/pCH2­ è il dativo, come si evince dagli esempi ora riportati, con la sola (ininfluente) eccezione del frammento semonideo. e appunto il dativo è il caso retto da plh'ntai nel verso di Parmenide. B 1. 10-14 contengono quindi la visione della Porta dei sentieri del giorno e della notte, sormontata da un architrave (uJpevrquron) e appoggiata su una soglia di pietra (lavino" oujdov"), che si apre e chiude con un mo139 i presenti tematici pelavzw e pelavw “avvicinare, accostare” sono rifatti sull’aoristo sigmatico ejpevlas(s)a: Harđarson (1993, p. 182). 140 successivamente una terza attestazione (pevplhsai) è in A. P. 5. 46.

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vimento alterno scorrendo nei cardini di un grande telaio (megavloisi qurevtroi"), azionata dalle chiavi (klhi'da" ajmoibouv") di Dike. Infatti poco più avanti, in B 1. 17 s., l’apertura della Porta produce «un vuoto sconfinato dell’intelaiatura», che non può essere altro che il baratro visibile al di là della intelaiatura della Porta stessa (tai; de; qurevtrwn / cavsm∆ ajcane;" poivhsan). l’interpretazione di plh'ntai come “sono riempite” reperibile nella gran maggioranza dei commenti si conforma alla posizione di diels 1897, p. 51: «singuläre, aber unantastbare Weiterbildung zu plh'nto (12, 1)». diels infatti, e dopo di lui quasi tutti gli editori, hanno accolto in B 12. 1 a fronte del testo corrotto dei mss. di simplicio la congettura plh'nto di Bergk (1842, col. 1008), che in quel frammento restituisce molto probabilmente il testo autentico: B 12. 1 s. aiJ ga;r steinovterai p l h' n t o p u r o; " aj k r hv t o i o, aiJ d∆ ejpi; tai'" nuktov", meta; de; flogo;" i{etai ai\sa: le [sfere celesti] più strette si riempirono di fuoco non mescolato, quelle sopra a queste di notte, ma s’aggiunge una parte di fiamma141.

Ora questo secondo aoristo radicale (plh'nto “si riempirono”) è esteriormente ma non geneticamente identico a plh'nto “si avvicinarono”, perché derivato dal grado zero *pCH1­ (gr. plh-) della radice ie *pleH1­ (Harđarson 1993, p. 182). il plh'nto di B 12. 1 ha fatto assumere che anche il plh'ntai di B 1. 13 dovesse derivare dalla stessa radice. Ma l’impossibilità di questa tesi è evidente quando la mettiamo a confronto con i dati: Il. 17. 499 aj l k h' " k a i; s q ev n e o " p l h' t o frevna" ajmfi; melaivna" Il. 18. 50 t w' n de; kai; ajrguvfeon p l h' t o spevo": Il. 21. 16 p l h' t o rJovo" k e l av d w n ejpimi;x i{ p p w n te kai; aj n d r w' n Il. 23. 777 ejn d∆ o[ n q o u b o ev o u p l h' t o stovma te rJi'nav" te 141 alcuni tuttavia, come Fränkel (1960, p. 183 n. 2) e o’Brien (1987, i p. 66), preferiscono un’altra congettura, plh'ntai (come in B 1. 13), avanzata in un secondo momento dallo stesso Bergk (1864, p. 4). plh'nto presenterebbe infatti due difficoltà: la prima di carattere metrico, costituita dal necessario allungamento al quarto tempo forte, la seconda di senso, costituita dalla incongruenza dell’aoristo rispetto al presente i{etai del verso successivo. mi sembra che la prima congettura di Bergk conservi tutta la sua validità: un allungamento metrico si ha sicuramente anche in B 8. 7 (aujxhqevn + V) e d’altro canto plh'nto occupa esattamente la stessa sede metrica di B 12. 1 in vari casi omerici (vd. oltre); quanto alla presunta difficoltà di senso, resta valido l’asciutto commento di diels 1897, p. 106: «das Präteritum erklärt sich aus der Kosmogonie (wJrmhvqhsan givnesqai, 11, 3). im folgenden i{etai tritt der jetzige Zustand, wie natürlich, mehr hervor».

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Od. 8. 57 s. p l h' n t o d∆ a[r ai[qousaiv te kai; e{rkea kai; dovmoi aj n d r w' n / aj g r o m ev n w n Od. 14. 267 = 17. 436 p l h' t o de; pa'n pedivon p e z w' n t e k a i; i{ p p w n Hes. theog. 687 s. ajllav nu tou' ge / ei\qar me;n m ev n e o " p l h' n t o frevne" [Hes.] scut. 146 tou' kai; oj d ov n t w n me;n p l h' t o stovma l e u k a q e ov n t w n

come si vede, nell’epica arcaica plh'to / plh'nto < *pCH1­ è costruito sempre con il genitivo, proprio come il plh'nto congetturato da Bergk in B 12. 1. Possiamo quindi concludere che plh'ntai di B 1. 13 e plh'nto di B 12. 1 non sono affatto corradicali. resta da capire l’origine della prima forma, che in apparenza non ha paralleli in greco. I tentativi di spiegazione finora realizzati hanno a mio giudizio il difetto di proporre spiegazioni eccessivamente complicate142. io ritengo che plh'ntai sia semplicemente una forma ‘corta’ per pevplhntai, iii pl. del perfetto medio attestato in omero e semonide (vd. sopra). il che – mi pare – si attaglia benissimo al senso richiesto dal contesto. Da un punto di vista morfologico, l’assenza del raddoppiamento non è un caso isolato nella lingua epica. Essa si verifica p. es. in un perfetto omerico come devcatai per dedevcatai (Il. 12. 147), che è chiaramente artificiale (Risch 1974, p. 341 s.). d’altro canto negli Inni omerici (HApoll. 538) è attestata una forma di imperativo perfetto come profuvlacqe senza raddoppiamento (atteso propefuvlacqe). in Il. 1. 291 la tradizione offre un presente proqevousin, in cui manca di nuovo il raddoppiamento (atteso protiqevousin). Per spiegare l’ingresso di questo tipo di forme nell’epica Hackstein (2002, p. 112 ss.) ha pensato a un concorso di cause: da una parte l’artificialità della lingua, fortemente condizionata dalla metrica, dall’altra la tendenza degli aedi (ionici) di fase più recente a immettere nella dizione forme ‘corte’ tipiche della pronunzia rapida del parlato. C’è anche da chiedersi quanto possa essere considerata veramente autentica la desinenza -ntai in un autore ionico tardo-arcaico. Per quanto riguarda il testo omerico, proprio nel sistema del perfetto Wackernagel 1916, p. 99 s., ha visto degli atticismi in molti casi in cui la tradizione presenta V + -ntai / -nto, invocando la restituzione di -a±tai/-a±to. ma la situazione è piuttosto complessa e non sempre è possibile ridurre -ntai/-nto a -a±tai/ -a±to senza alterare pesantemente il testo (chantraine 1942, p. 476 ss.). Nei dialetti ionici si è verificata, com’è noto, l’estensione di -a±tai/-a±to a molti temi in vocale. Ma anche su questo punto il quadro non è affatto omoge142

Vd. p. es. Pieri (1977, p. 74 s.).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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neo, tant’è vero che smyth (1894, p. 507) apre la sua discussione della relativa documentazione con parole caute: «after stems ending in a vowel the original -ntai may remain in ionic» (corsivo mio). mentre in omero compaiono forme residuali come mevmnhnto (Il. 17. 364; h è restituita: rix 1976, p. 258) accanto a forme (ioniche) recenti come beblhvatai (Il. 11. 657 = Od. 11. 194) o keklhvato (Il. 10. 195), nei poeti lirici e nei giambografi arcaici il quadro risulta di molto cambiato, perché qui alla vecchia uscita omerica -ha±tai si è sostituita una nuova uscita -eatai (con MQ?), che ai fini metrici conta spesso come disillabo: Hippon. fr. 73. 5 West kekinevatai; anacr. PMG 81.2 ejkkekwfevatai; in questa stessa linea si pone il pepltai di semon. fr. 31a West, che è trasmesso dalle fonti col tipico vocalismo omerico -hatai143. inoltre, -eatai/-eato sono le uscite più frequenti anche in settori importanti della prosa ionica: Herodot. 6. 24 periebeblevato vs. hom. beblhvatai; Herodot. 2. 164 keklevatai vs. hom. keklhvato; democr. B 265 memnevatai, Herodot. 2. 104 ejmemnevato vs. hom. mevmnhnto ecc. in B 1. 13 il metro vieta di leggere plhvatai (jbj) secondo la scrittura prevalente in omero, mentre è possibile, in linea teorica, leggere la forma ionica recente plevatai (jj). ma è davvero necessario pagare il prezzo di una correzione così pesante al testo dei mss. di sesto empirico? non va dimenticato che forme in -ntai vengono trasmesse nei testi di autori, ionici di nascita o che compongono in ionico, collegati strettamente dalla tradizione col mondo delle colonie d’Occidente. Il caso più significativo è senza dubbio quello di Xenoph. B 1. 9, dove i mss. testimoniano concordi pavrkeintai, che Wackernagel 1916, p. 97, riteneva un atticismo per parkevatai (il che ha lasciato scettico Chantraine 1942, p. 476 n. 1). Ad esso si affianca ejpivkeintai in theogn. 421 (v. l.)144. io credo in ogni caso che in B 1. 13 Parmenide abbia seguìto l’uso epico e abbia scritto plh'ntai (cf. i casi come mevmnhnto ricordati sopra). la clausola spercoivato pevmpein in B 1. 8 non prova nulla in senso contrario, perché è anch’essa direttamente presa da Omero: cf. Il. 19. 317 spercoivat∆ ∆Acaioiv e Od. 13. 22 spercoivat∆ ejretmoi'"145. 3. plavttontai (B 6. 5) B 6. 3 ss. prwvth" gavr s∆ ajf∆ oJdou' tauvth" dizhvsio" , aujta;r e[peit∆ ajpo; th'", h} n d h; b r o t o i; e ij d ov t e " o uj d ev n p l av t t o n t a i, divkranoi: ajmhcanivh ga;r ejn aujtw'n sthvqesin ijquvnei plakto;n novon: oiJ de; forou'ntai kwfoi; oJmw'" tufloiv te, teqhpovte", a[krita fu'la. 143

la forma è discussa da smyth (1894, p. 508).

144 A queste scritture rispondono p. es. Pind. Nem. 145

4. 52 katavkeintai e 11. 46 ajpovkeintai. lo stesso vale per emped. B 71. 4 genoivato: cf. Il. 2. 340, Od. 1. 266, 4. 346, 17. 137.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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nella forma plavttontai di B 6. 5 sta probabilmente il più difficile problema linguistico del testo parmenideo. Finora sono state trovate tre soluzioni che possono essere riassunte come segue, indipendentemente dall’ordine in cui sono comparse: (1) plavttontai è una lezione corrotta originatasi direttamente da plavzontai “vagano” dell’archetipo dei mss. simpliciani: è la tesi di coxon (1986, p. 183) e di sider (1985, p. 363 ss.); (2) plavttontai è corruttela medioevale di un originario plavssontai “vagano”, variante dialettale di plavzontai: è la linea di diels 1897, p. 72 s., rappresentata in VS e nella maggioranza delle edizioni; (3) plavttontai è corruttela medioevale di un originario plavssontai, da interpretare però non come variante di plavzontai, bensì come forma regolare di plavssomai “mi invento” (lat. fingo): lo hanno sostenuto cordero (1997, p. 147 s.) e cerri (1999, p. 210). 3. 1. Il senso del passo e la debolezza dell’ipotesi Cordero­Cerri L’ipotesi (3) è debolissima. La metafora della via, e più precisamente del vagare al di fuori della via giusta, dell’andare fuori strada, è centrale nell’immaginario poetico di Parmenide146: cf. anzitutto la figura etimologica in B 6. 5-6 plavttontai ... / ... plakto;n novon; cf. inoltre: B 8. 27 s. ejpei; gevnesi" kai; o[leqro" / th'le mavl∆ ejplavcqhsan, «perché nascita e morte sono state fatte vagare lontano [dalla via dell’essere]»147; B 8. 54 ejn w|/ peplanhmevnoi eijsivn, «in questo sono andati fuori strada»; e ancora in B 16. 1 le membra umane vengono dette poluvplagkta “molto erranti”, in quanto preposte a ricevere dati sensoriali molteplici e quindi devianti rispetto all’unità del reale. Pertanto in B 6. 5 il contesto impone sicuramente un verbo che significhi “vagano”, “errano”. Per la variazione dall’usus omerico, in cui plavzomai è sempre costruito con una preposizione (katav, ejpiv, metav ecc.: lsJ s. v. plavzw), un parallelo piuttosto interessante è costituito dalle reggenze di e[rcomai e steivcw nella laminetta di Hipponion (l. 15 s.): 146

cf. Becker (1937, pp. 139-143).

147 La perdita dell’infisso nasale in B 6. 6 plaktovn

e B 8. 28 ejplavcqhsan (non in B 16. 1 poluplavgktwn, trasmesso da teofrasto) risponde a una prassi ben attestata anche nei mss. di omero, dove le oscillazioni plagx-: plax-, plagk-: plak-, plagcq-: placq- sono frequenti (Sider 1985, p. 364; ugualmente in emped. B 22. 3 ajpoplacqevnta dmo: -plagcqevnta eF; ma PStrasb. a(ii) 16 plagªcqevnt(a)º, a(ii) 26 ojriplavgktwn). secondo diels (1882) in B 6. 6 plaktovn è dato da tutti i mss.; vd anche VS, p. 233; ma coxon 1986, p. 55, che usa un apparato positivo, attribuisce la lezione plagkto;n («e plakto;n factum») al ms. F, mentre cordero 1997, p. 24, che usa un apparato negativo, attribuisce plagktovn non solo a F, ma anche a e e a una serie di mss. minori. in B 8.28 ejplavcqhsan i mss. sono sicuramente divisi, ma non è chiaro in che modo: cf. VS, p. 237, coxon 1986, p. 69, cordero 1997, p. 27. un altro esempio del caos che regna negli apparati critici delle edizioni di Parmenide.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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kai; dh; kai; su; piw;n h o d o; n e[ r c e a < i > h av n te kai; a[lloi muvstai kai; bavccoi hiera;n s t e iv c o u s i kleinoiv e anche tu, dopo aver bevuto, percorrerai la sacra via su cui altri mystai e bacchoi avanzano gloriosi.

Possiamo quindi scartare con tutta tranquillità – credo – l’ipotesi (3), che aggira abilmente il problema testuale. 3. 2. Inverosimiglianza paleografica dell’ipotesi Sider-Coxon Né Coxon né Sider hanno ritenuto di dover offrire spiegazioni su come effettivamente plavzontai si sarebbe corrotto in plavttontai. l’unico scenario che io ho saputo immaginare, ad ogni modo, urta contro due obiezioni difficili da rimuovere. la prima: per sostenere che plavttontai deriva recta via da plavzontai dobbiamo necessariamente supporre che la scrittura dell’archetipo simpliciano fosse PLAiONTAI, cioè usasse ancora l’antica lettera che in molti alfabeti ionici d’età arcaica e classica equivaleva a . questa sarebbe stata male interpretata dagli scribi e copiata come ; da qui PLAT(T)ONTAI. l’ipotesi è tuttavia improbabile, perché si può presumere che l’archetipo simpliciano, come ogni edizione tardo-antica, fosse stato adeguato all’ortografia standard148. La seconda: se fosse vera questa ipotesi, resterebbe da capire per quale ragione B 6. 5 è il solo passo in tutto il nostro Parmenide in cui la tradizione presenti tt per ss; cf. iii 1 § 5. È vero, come fa notare sider (1985, p. 364), che p. es. in anaxag. B 6 i mss. sono divisi tra ejlavssosi e ejlavttosi (cf. diels 1882, p. Viii) e che la seconda lezione si deve a scribi che erano abituati al tt di Simplicio, ma il caso è diverso proprio perché una parte della tradizione ha conservato il ss originario. in Parm. B 6. 5, al contrario, tutti i mss. trasmettono plavttontai: a mio parere questo fatto è la spia di un problema di incomprensione del passo da parte dei lettori antichi; vd. § 3. 7. 3. 3. Valore e difficoltà dell’ipotesi di Diels Per ovviare alle difficoltà sollevate dall’ipotesi (1) e per non dover ricorrere a soluzioni come quella contemplata dall’ipotesi (3), Diels 1897, p. 72 s., ha sostenuto che il testo originale era plavssontai, una variante ‘italica’ di plavzontai. Principale punto di appoggio di questa teoria sono le testimonianze del grammatico eraclide di mileto (ca. 100 d. c.) sul dialetto di taranto: cf. eustath. 1654. 24 e An. Ox. 1. 62 cramer149. a stare a eraclide, il 148 Per questa ragione è ancora più improbabile la conservazione fino all’esemplare in possesso di simplicio di un sampi. È del resto altrettanto inverosimile che questa lettera, che in area ionica nota sempre un’affricata sorda, sia stata usata in B 6. 5 per notare un’affricata sonora; cf. § 3. 4. 149 l’elenco completo delle testimonianze sul tarentino riferibili a eraclide di mileto si trova in garvie (1969, p. 53). i frammenti di eraclide sono editi da cohn (1884); vd. anche schultz (1912, coll. 491-493).

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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tarentino aveva sviluppato un sistema in cui p. es. a un pres. att. salpivzw < *salpivgg-îw corrispondeva salpivssw, a un pres. att. fravzw < *fravd-îw corrispondeva fravssw150; allo stesso modo, quindi, a plavzw < *plavgg-îw poteva corrispondere plavssw. l’idea è molto affascinante e, come si vede, elimina automaticamente le difficoltà poste dalle altre ipotesi. Tuttavia essa non è indenne da problemi: anzitutto le informazioni di Eraclide, su cui non ci sarebbe in sé alcun motivo di dubitare, non trovano la benché minima conferma nelle pur poche e frammentarie iscrizioni di taranto151. in magna grecia le uniche attestazioni epigrafiche in qualche misura confrontabili con plavssontai “vagano” si trovano su due iscrizioni tardo-arcaiche provenienti dalle colonie achee di metaponto e crotone (rispettivamente tevzara = att. tevttara, hevzato = att. e{ssato)152: il parallelo con il fr. B 6. 5 di Parmenide è interessante ma tutt’altro che preciso, dato che avremmo bisogno di attestazioni di ss per z. Per quanto Diels 1897, p. 73, abbia tenuto a chiarire che il presunto plavssontai “vagano” non va ritenuto un dorismo («keineswegs dorisch»), i pochi indicatori sembrerebbero puntare invece proprio in quella direzione. E quand’anche ammettessimo che in alcuni dialetti dorici di Italia meridionale plavssontai era equivalente a plavzontai “vagano”, sembra comunque improbabile che Parmenide abbia deciso di prendere proprio da lì un elemento senza riscontro (apparentemente: cf. § 3. 4) nei dialetti ionici e privo di ‘pedigree letterario’, per usarlo nel suo poema filosofico. L’ipotesi di Diels ha segnato una svolta epocale perché ha cercato per la prima volta una soluzione che tenesse conto del contesto dialettale in cui il poema è stato concepito; ma i suoi difetti di fondo sono nella visione dialettologica d’insieme e nei dati che la dovrebbero sostenere. 3. 4. Depalatalizzazione delle occlusive nei dialetti ionici la situazione determinatasi nel dialetto di taranto non è un fatto isolato, ma va letta nel quadro dei fenomeni connessi a uno dei più importanti e complessi sviluppi fonetici del greco di i millennio: la depalatalizzazione delle occlusive. quando le occlusive palatalizzate persero la loro articolazione palatale (cioé si depalatalizzarono), si crearono nuovi suoni tra loro diversi a seconda del dialetto (p. es. *prak-îw > ion. pravssw, att., beot., eub. pravttw, cret. pravd­ dw ecc.). Se le linee essenziali di questo processo sono chiare, restano invece 150 e viceversa p. es. all’att. plavssw < *plavq-îw corrispondeva in tar. plavzw; vd. anche schwyzer 1939, p. 715. 151 anche le Tavole di Eraclea (iV sec. a. c.), testo esteso e conservatore dal punto di vista linguistico, non confermano nulla di quanto ci dice Eraclide: cf. forme come termavzonti (i 86) e karpizovmenoi (I 149). Anzi uno dei tratti distintivi del dialetto di Taranto rispetto a quello di sparta ricavabili dalle Tavole stesse è proprio l’uso di per ; vd. uguzzoni-ghinatti (1968, p. 35 s. e n. 52). 152 IGG ii 76 e 90.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

dubbi sui passaggi intermedi e soprattutto sulle effettive realtà foniche che si celano dietro alle grafie dialettali. In genere si ammette che l’articolazione palatalizzata abbia lasciato il posto a un’articolazione affricata, sorda o sonora a seconda della situazione di partenza ([ts] e [dz] o altre rappresentazioni: vd. p. es. crespo 1985, p. 91): ma è ancora discusso quando si siano creati i suoni affricati e quanto a lungo si siano conservati nei dialetti153. Vale la pena citare a riguardo la teoria di schwyzer 1939, p. 318, secondo cui l’uso di ss o tt indicherebbe il prevalere rispettivamente della fase fricativa o occlusiva nella realizzazione dell’affricata sorda e avrebbe determinato la pressione della grafia sulla pronunzia (p. es. dove [ts] era segnato , esso passava a [ss])154. in ionico d’asia la notazione delle affricate sorde [ts] risultate da depalatalizzazione delle occlusive sorde è collegata con le molte attestazioni epigrafiche del sampi (), tutte collocabili nell’arco di tempo compreso tra Vi e V sec. a. c. (p. es. tevtara" = tevssara" a efeso, ca. 550 a. c.; ejlavtono" = ejlavssono" a eritre, ca. 465 a. c.)155. Si tratta dunque di una situazione pressoché speculare a quella riscontrata nello stesso periodo nelle colonie achee d’italia meridionale: è infatti chiaro che p. es. il tevzara attestato a metaponto nella seconda metà del Vi sec. a. c. (§ 3. 3) rappresenta un tentativo di rendere graficamente un suono affricato esattamente come il coevo tevtara" di Efeso. Nulla di tutto ciò è documentato nelle colonie ioniche d’Occidente – e in particolare ad Elea – ma va tenuto conto dell’estrema povertà della documentazione156. Dunque l’orizzonte, che in Diels era limitato al tarentino, è invece molto più ampio e investe sia il dialetto di partenza di Parmenide (ionico orientale) sia vari dialetti dorici d’italia meridionale. 3. 5. Derivazione di plav±zw (e plhvssw) e problemi connessi il presente plav±zw si forma sulla radice ie al grado zero *pCH2g­ ampliata con un infisso nasale (cf. lat. plango): la trafila fonetica è stata quindi *pCH2‚g­ Ôo– > *pla–ngÔo– > *pla±ngÔo– (legge di osthoff) > *pla±nzdo– (sviluppo di ­gÔ­) > pla±dzo– (perdita della nasale). il presente plhvssw “colpisco” si forma sulla stessa radice, ma a partire dal grado pieno *pleH2g­: la trafila fonetica è stata quindi 153 Sulla questione si è scritto moltissimo. Il dibattito verte particolarmente sull’interpretazione dei grafemi micenei delle serie e . secondo lejeune (1972, p. 106 ss.), Brixhe (1982, p. 212), chadwick (1983, p. 81 ss.) i segni della serie notano dei fonemi affricati, mentre secondo risch (1979, p. 274 s.), Palmer (1980, p. 31 ss.), crespo (1985, p. 103) notano delle occlusive palatali. Un utile riesame del problema con esauriente bibliografia si trova in Del Barrio (1990). 154 sulla stessa linea anche Brixhe (1982, p. 214). 155 DGE 707 B e 701. ricco dossier sulle attestazioni del sampi in Brixhe (1982, pp. 216-229). 156 l’iscrizione funeraria Aijscrivwn Di(o)nusivou (iV sec. a. c.; ebner 1962, nr. 15) sembrerebbe comunque indicare che a Elea non si è avuto l’esito affricato /dÔV/ > /dzV/ testimoniato invece nella madrepatria Focea nel nome Zionuv(sio") (DGE 705, ca. 500 a. c.), che però è forse un eolismo: vd. stüber (1996, p. 75).

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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*pleH2g­Ôo– > *pla–gÔo– > pla–sso– (= dor. plav–ssw) o pla–tto–; dallo stadio pla–sso– deriva lo ion. plhvssw, dallo stadio pla–tto– l’att. plhvttw. stupisce il doppio risultato di ­gÔ­ in greco, che è (regolarmente) z nel primo presente ma ss/ tt nel secondo, mentre in teoria si attenderebbe di nuovo z. Per superare questi problemi è stata postulata una variante *pleH2k­ della stessa radice ie con identico senso, da cui regolarmente *kÔ > ss/tt (vd. LIV s. v. *pleH2k). C’è tuttavia da chiedersi se valga la pena pagare questo prezzo. Impigliata fra le maglie della nostra documentazione è rimasta infatti una flebile traccia dell’esito atteso z. aristarco (cf. An. Ox. 1. 149 cramer) conosceva due occorrenze del presente plavzw (a–?), controparte eolica di plhvssw/plhvttw; la prima in Il. 21. 268 s. tossavki min mevga ku'ma diipetevo" potamoi'o p l av z∆ w[mou" kaquvperqen:

la seconda in Od. 5. 388 s. e[nqa duvw nuvkta" duvo t∆ h[mata kuvmati phgw'/ p l av z e t o.

Il significato aderisce indubbiamente molto bene ai due passi. E l’impressione che l’interpretazione di aristarco non fosse affatto peregrina è rafforzata in maniera decisiva dal fr. 37 Voigt di saffo, in cui ejpiplavzw (a–?) equivale sicuramente a ejpiplhvssw (vd. tzamali 1996, p. 205 ss.): ka;t e[mon stavlagmon ... to;n d∆ ej p i p l av z o n t∆ a[nemoi fevroien kai; melevdwnai.

Per riassumere: sia che si ammettano già a livello della lingua madre più varianti della stessa radice, sia che al contrario si ammettano in greco più esiti dalla stessa radice, non è possibile prevedere a tavolino tutte le forme effettivamente attestate. da *plāngÔō è atteso plav±zw, mentre fa difficoltà il presente tar. plav±ssw; da *plāgÔō sono attesi invece plav–zw (con ogni probabilità attestato in eolico) o **plhvzw, mentre fanno difficoltà proprio lo ion. plhvssw e l’att. plhvttw. 3. 6. Una nuova spiegazione per B 6. 5 in una situazione generale di incertezza nella realizzazione delle affricate (§ 3. 4), un ruolo di primo piano è stato giocato dall’analogia. molti presenti si sono infatti profondamente modificati sotto la pressione di proporzioni analogiche messe in moto dagli aoristi. un presente tavssw: tavttw (atteso **tav­ zw < *tag-îw) si spiega benissimo attraverso una analogia con l’aoristo: su e[taxa (etak-sa < *etag-sa) è stato creato tavssw: tavttw (< *tak-îw). anche un

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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pres. mavssw: mavttw (atteso **mavzw < *mag-îw) è probabilmente rifatto sull’aor. e[maxa (*mak-îw come emak-sa < *emag-sa)157. In queste condizioni a partire da un aor. e[pla(g)xa (epla(g)k-sa < *epla(g)g­sa) si poteva creare in qualsiasi momento un pres. plavssw (< *pla(g)k-îw), parallelo a tavssw, mavssw, così come del resto il pres. plav–ssw: plhvssw: plhvttw si spiega per analogia coll’aoristo (*pla–k-îw su eplak-sa < *eplag-sa). si noti che già Bechtel (1923, p. 405) spiegava le forme in -ssw del tarentino proprio attraverso proporzioni sviluppate a partire dagli aoristi (tipo fri'xai: frivssw = salpi'xai: x, dove x = salpivssw). Esistono prove sufficienti per dubitare che le forme in -ssw fossero esclusive del dialetto di taranto. Prendiamo il presente aJrmovzw: aJrmovttw: aJrmovssw. omero attesta aJrmovzw, che secondo Heubeck (1961, p. 170) presuppone o un tema in dentale sonora (cf. ÔArmovdio") oppure – si noti – «eine falsche analogiebildung des Präsens nach dem aorist» (p. es. ejfrovntis(s)a: frontivzw = h{rmos(s)a: x, dove x = aJrmovzw). È difficile scegliere, ma il tema in dentale sorda, alla base delle forme in -ttw e -ssw, è sicuramente antico perché garantito dal miceneo158. Prestiamo attenzione a dove troviamo aJrmovssw: nel Corpus Hippocraticum159 (e, se ci fidiamo di Eraclide di Mileto, nel dialetto di Taranto). Prendiamo ancora il presente aijnivzomai: aijnivttomai: aijnivssomai. la forma omerica è aijnivzomai, quella attica aijnivttomai. ma facciamo di nuovo attenzione a dove troviamo aijnivssomai: in erodoto (5. 56). sara ancora solo un caso? anche se è impossibile averne la certezza, io credo di no. non è inverosimile che Parmenide abbia usato plavssontai “vagano” perché era una forma possibile nel suo dialetto, preferendola al vecchio plavzomai che riportava immediatamente ad omero160. A quanto sembra, Empedocle non ha voluto seguire il suo esempio e ha deciso di attenersi alla forma epica tradizionale: B 20. 4 s. a[llote d∆ au\te kakh'/si diatmhqevnt∆ ∆Erivdessi p l av z e t a i a[ndic∆ e{kasta peri;rrhgmi'ni bivoio.

3. 7. La falsa interpretazione antica di B 6. 5 a mio parere la corruzione di plavssontai in plavttontai è avvenuta pri­ ma di Simplicio – non dopo come ha suggerito Diels – e si deve proprio a un difetto di comprensione della lezione originale del passo parmenideo. tutti 157 meno probabile l’analogia dell’aor. magh'nai sul perf. mevmagmai suggerita in alternativa da chantraine, DELG s. v. ma'za. 158 cf. a­ra­ro­mo­te­me­na (/arar(h)motmenā/), a­na­mo­to (/anar(h)mostoi/). 159 Kühn 1989, s. v. aJrmovssw. grazie a ippocrate aJrmovssw è entrato nella prosa medica (galeno, oribasio ecc.). 160 All’influsso del testo omerico si devono le due uniche occorrenze di plavzomai in Herodot. 2. 116-117.

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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coloro che, sufficientemente colti, venivano messi di fronte all’incipit di B 6. 5 plavssontai, divkranoi «vagano, uomini a due teste» dovevano provare una sensazione piuttosto imbarazzante: da un lato riandavano spontaneamente con l’orecchio a omero e ai suoi 12 esempi di voci di plavzw/plavzomai a inizio assoluto di verso; dall’altro, però, leggevano di seguito una forma come divkra–noi, che difficilmente avrebbe potuto suonare epica e che somigliava piuttosto a un tipo molto diffuso nella letteratura attica (cf. iii 2 § 4). che fare? ad un certo punto deve essersi imposta la soluzione di reinterpretare plavssontai “vagano” come voce di plavssw “plasmo, invento”, proprio come hanno fatto molto più tardi Cordero e Cerri. Bisognava però rendere salda questa soluzione, di modo che i lettori successivi non cadessero di nuovo nell’equivoco: probabilmente un plavttontai o un tt fu aggiunto nell’interlinea o al margine di un antenato della copia di simplicio (che era tutta corredata di scolii: cf. i 1 § 10). Di qui plavttontai è entrato nella tradizione parmenidea161. la forma non può in alcun modo essere conservata in un’edizione moderna e il compromesso di VS, p. 233, imitato da molti editori successivi, va assolutamente evitato. a mio giudizio occorre scrivere plavssontai “vagano”. chi non ne fosse convinto può scrivere plavzontai, a patto che abbia trovato argomenti più credibili di quelli di Coxon e Sider. 4. ajnwvleqron (B 8. 3) e ajnwvnumon (B 8. 17) B 8. 2 s. tauvth/ d∆ ejpi; shvmat∆ e[asi polla; mavl∆, wJ" ajgevnhton ejo;n kai; aj n wv l e q r ov n ejstin

B 8. 16 ss. kevkritai d∆ ou\n, w{sper ajnavgkh, th;n me;n eja'n ajnovhton aj n wv n u m o n (ouj ga;r ajlhqhv" e[stin oJdov").

sia ajnwvleqro" “che non perisce” sia ajnwvnumo" “che non ha nome” sono formazioni artificiali di un tipo ben attestato nella lingua epica (Risch 1974, p. 215 s.; come è noto, le forme reali erano nwvleqro" < *‚­H3l­ e nwvnumo" < *‚­ H3n­). Per ajnwvnumon in B 8. 17 si deve solo registrare il parallelo rappresentato da Hom. Od. 8. 552: 161 Per questo ritengo del tutto improbabile il suggerimento di Tarán ap. sider (1985, p. 365 n. 20), secondo cui il curatore dell’edizione aldina del commento alla Fisica di simplicio (Venezia 1526; cf. cordero 1977) avrebbe potuto trovare la lezione plavzontai in qualche ms. oggi perduto; plavzontai è stato stampato anche da stephanus nell’editio princeps dei frammenti di Parmenide (Parigi 1573).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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ouj me;n gavr ti" pavmpan aj n wv n u m ov " ejst∆ ajnqrwvpwn162.

nel caso di ajnwvleqro" le cose stanno in maniera diversa. omero conserva infatti un esempio della forma ajnovleqro" in Il. 13. 761: tou;" d∆ eu|r∆ oujkevti pavmpan ajphvmona" oujd∆ aj n o l ev q r o u ".

il composto omerico è stato fabbricato ad arte (cf. ajnavpoino" vs. nhvpoino"), probabilmente in quanto oujd∆ ajnolevqrou" rispetta esattamente la prosodia di clausole formulari del tipo di lugro;n o[leqron, aijpu;n o[leqron ecc. l’ajnwvleqro" di Parmenide potrebbe spiegarsi come una forma con allungamento in composizione rifatta sull’ajnovleqro" omerico per evitare la successione di tre sillabe brevi. tuttavia l’esame delle occorrenze di ajnwvleqro" consente anche un’ipotesi più affascinante: che cioè esso sia stato coniato nell’ambito del pensiero scientifico-filosofico, per disporre di una nuova forma ‘alta’, alternativa a quella consacrata nell’epica e al tempo stesso più vicina alla lingua reale. Se dobbiamo credere ad Aristot. phys. 203b 13, ajnwvleqro" era usato già da anassimandro (cf. B 3). dopo Parmenide il composto appare in Plat. Phaed. 88b e 95b, in theophr. hist. plant. 3. 12. 2, nonché in Aristotele stesso (de mundo 396a 31). notare che **nwvleqro" non è mai attestato. Per quanto riguarda Parmenide, il carattere marcatamente non tradizionale di ajnwvleqro" si evince anche dal fatto che esso occupa una posizione metrica ignota alla dizione più antica e presenta una sillabazione recente (muta cum liquida non fanno posizione: vd. ii 1 § 3. 2). 5. ejpideev" (B 8. 33) B 8. 33 e[sti ga;r oujk ej p i d e u ev ": [mh;] ejo;n d∆ a]n panto;" ejdei'to è infatti non manchevole: se lo fosse, mancherebbe di tutto.

i mss. di simplicio, che trasmette B 8. 33 per ben tre volte nel suo commento alla Fisica di aristotele (di cui una all’interno della lunga citazione di B 8 in phys. 146), sono divisi tra ejpideuev" e ejpideev". Purtroppo è impossibile desumere dalle edizioni critiche un quadro univoco della lezione portata dai mss. in ciascuno dei passi in questione; qui mi sono attenuto all’app. di VS, p. 238, e di cordero 1997, p. 28163, da cui risulta che i mss. sono così divisi: 162 già omero usa tuttavia anche nwvnumo" (Od. 13. 239, 14. 182) e nwvnumno" (Il. 12. 70, 13. 227, 14. 70; Od. 1. 222). 163 Che non coincide con quello di Coxon (1986, p. 71); vd. anche Coxon (1968, p. 72 e n. 1).

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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phys. 30 ejpideuev" eaF: ejpideev" de phys. 40 ejpideuev" ea: ejpideev" deF phys. 146 ejpideuev" deF

le soluzioni adottate dagli editori sono state tre. (1) con ejpideuev" è violata la rigida norma che vieta che un esametro sia diviso esattamente a metà. inoltre si impone una improbabilissima sinecfonesi in mh; ejovn: sarebbe l'unico caso in Parmenide in cui lo iato V + ejovn non verrebbe tollerato (cf. iii 1 § 7). nonostante ciò, è il testo difeso da untersteiner (1958, p. 156 n. 145). si tratta, a mio giudizio, di una posizione insostenibile. (2) Per evitare le difficoltà metriche e prosodiche ma conservare allo stesso tempo ejpideuev", Bergk (1864, p. 6) propose l’espunzione di mhv supponendo che si trattasse di un’interpolazione secondaria. si ottiene così un esametro perfettamente regolare, che è il testo stampato, da diels 1897, p. 38, in avanti, nella maggioranza delle edizioni. (3) resta tuttavia la possibilità di accogliere l’altra lezione dei mss. simpliciani, ejpideev", da leggere come trisillabo, che restituisce anch’essa un esametro del tutto regolare. Una serrata difesa di questa lezione è stata condotta con argomenti paleografici da Coxon (1968, p. 72 s.; poi anche Coxon 1986, p. 208); cerri 1999, p. 234 s., la accoglie con cautela. come ha ben argomentato cerri 1999, p. 233 s., l’espunzione di mhv è altamente sconsigliabile. rileggiamo B 8. 33 così come è tràdito dai mss. di simplicio: e[sti ga;r oujk ejpideuev" [vel ejpideev"]: mh; ejo;n d∆ a]n panto;" ejdei'to «[l’essere] è infatti non manchevole: non essendo(lo), mancherebbe di tutto»; cioè: «... se non fosse non manchevole». si vede bene che, espungendo mhv, il senso sarebbe profondamente incompatibile con la logica di Parmenide: «... essendo(lo), mancherebbe di tutto»; cioè: «essendo manchevole ...». ma come avrebbe potuto Parmenide definire l’essere “manchevole”? meno probabile è a mio parere l’interpretazione di mh; ejo;n in senso esistenziale: “non essere”164. Ma, anche in questo caso, il mhv è assolutamente necessario all’intelligenza del passo: «... il non essere mancherebbe di tutto». questa è anche l’interpretazione di simplicio, che evidentemente leggeva il mhv nel suo testo, parafrasando in phys. 40: wJ" ga;r to; mh; o[n, fhsivn, ejndee;" pavntwn ejstivn, ou{tw" to; o]n ajnendee;" kai; tevleion «come infatti il non essere – dice – è manchevole di tutto, così l’Essere è non manchevole e perfetto» (cf. coxon 1968, p. 72). la conservazione di ejpideuev", a prezzo della (improbabile) espunzione di mhv, è dettata dal raffronto con la dizione epica. omero conta infatti otto 164 cf. p. es. anche tarán (1965, p. 114): «the context is more likely to refer to Being that to nonBeing».

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

attestazioni di ejpideuhv" e un numero ancora maggiore di casi di deuvw, (ejpi­) deuvomai ecc., tutti ricreati secondariamente (risch 1974, p. 332). in fase antica le forme reali erano *dev¸w, *ejpide¸ev" ecc.165. Grazie a Omero queste forme si fossilizzano e divengono standard in poesia a tutte le epoche: vd. p. es. Hes. theog. 605 ejpideuhv", HApoll. 338 ejpideueva, mimn. fr. 2. 13 West ejpideuvetai, theogn. 942 ejpideuovmeno", apoll. rh. Arg. 2. 315 ejpideueva, opp. cyn. 3. 333 ejpideuhv" ecc. tutt’altro scenario occorre immaginare invece nello ionico parlato, dove [w] si era perso già prima delle fasi recenti di omero e dove si usava normalmente ejpideev", ejpidevomai ecc. in Il. 18. 100 noi troviamo infatti una forma isolata dh'sen (v. l. devhsen), rispetto al tradizionale ejdeuvhsen (Od. 9. 483 ecc.), che è stata introdotta da aedi ionici. la conferma viene da erodoto, che usa ejdevhse (7. 10), ejpidevetai (1. 32), ejdeveto (1. 35 ecc.), accanto a ejndeev" (1. 32) e ejndehv" (5. 106). solo in due esempi (4. 130, 7. 29) la tradizione erodotea è divisa tra ejpideueve" e ejpideeve"; la seconda è una grafia ipercorretta e sembra una specie di compromesso tra l’att. ejpideei'" (dem. Phil. 4. 36, Plat. leg. 694d ecc.) e lo ion. ejpideve" (iferesi: cf. Il. 7. 100 ajkleve" < *aj-kle¸e-e"). È noto che le grafie ee, eei, eh nei testi letterari ionici dissimulano contrazioni saldamente istituite nei dialetti reali. nelle iscrizioni esistono casi di forme non contratte che riflettono grafie letterarie morfologicamente più ‘trasparenti’: cf. p. es. il devhtai attestato a Samo sul finire del IV sec. (SEG 1. 351), che si trova anche in Herodot. 3. 96, Plat. Crat. 406a, aeschin. in Ctes. 205 ecc. si tratta tuttavia di esempi isolati, mentre le forme contratte sono attestate in tutto il dominio ionico fin da epoca antica (p. es. ajdikh'tai < -ehtai a chio: SEG 16. 485, 575-550 a. c.)166. la sinizesi in ejpideev", che Cerri 1999, p. 234, definisce «non facilissima», è invece a mio giudizio del tutto normale in un autore ionico tardo-arcaico. Parmenide naturalmente non poteva usare una grafia che riflettesse la pronunzia veloce caratteristica del parlato (ejpidei'" < -ee") bensì ha usato la sola grafia adeguata a un testo scritto, morfologicamente più ‘trasparente’ (ejpide-e": ejpide-o": ejpide-i ecc.). qualcosa di simile si ha in aristoph. av. 597: nuni; m h; p l ev e, ceimw;n e[stai. nuni; p l ev e, kevrdo" ejpevstai. 165 Difficile per devw una base alternativa *deus­, come ipotizza Frisk, GEW s. v. devw [2]: vd. schwyzer 1939, p. 348. 166 In Occidente la documentazione è più povera, ma gli antroponimi ∆Agaqoklh'" e Proklh'" a elea e ÔIppoklh'" a cuma (IGG nr. 61) suggeriscono un quadro simile a quello degli altri dialetti ionici. casi come ∆Istroklevh" in un’iscrizione esametrica di smirne (640-630 a. c.) dipendono dalla dizione epica: vd. stüber (1996, p. 59 s.). in euboico -klevh" è stato ricreato secondariamente a partire dal gen. -klevou" e dall’acc. -kleva: vd. del Barrio (1991, p. 181).

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Parte II. Tradizione epica e dialetto ionico

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qui pleve (v. l. plei') < *ple¸e, che rappresenta con ogni probabilità la lezione genuina, è in sinizesi ma non è contratto, per evitare la confusione con l’ind. plei'. Dunque in B 8. 33 Parmenide ha preferito probabilmente la forma ionica ‘moderna’ ejpideev" a quella tradizionale dell’epos ejpideuev" (trattamento simile in B 8. 41 fa–novn: cf. ii 1 § 1. 4). sarebbe tuttavia un errore ritenere l’epica omerica completamente esente da innovazioni di questo tipo. Notare p. es. la differenza di trattamento in Il. 7. 223 ejpi; d∆ o[ g d o o n h[lase calkovn Il. 7. 246 ajkrovtaton kata; calkovn, o}" o[ g d o o " h\en ejp∆ aujtw'/

rispetto a Od. 7. 261 = 14. 287 ajll∆ o{te dh; o[ g d o ov n moi ejpiplovmenon e[to" h\lqe.

nella prima coppia di esempi l’ordinale o[gdo(¸)o" mantiene la prosodia tradizionale; nel secondo si trova al contrario in sinizesi, ma rimane non contratto per analogia grafica con l’ordinale precedente e{bdomo" e successivo e[nato" (lejeune 1972, p. 259). Io credo quindi che ejpideuev" non sia autentico ma sia frutto di un rimaneggiamento successivo di B 8. 33. È indubbio che Simplicio leggesse questa forma sulla sua copia e che l’ejpideev" di alcuni mss. sia quasi certamente un atticismo degli scribi (vd. diels 1897, p. 84; contra coxon 1968, p. 72 s.). ma il punto è che, per un caso fortuito e paradossale, la forma normalizzata coincideva secondo me con la lezione autentica, mentre la presunta lezione autentica della copia in possesso di simplicio, poi travasatasi nell’archetipo dei mss. simpliciani, era anch’essa una forma normalizzata, ma introdotta nel testo in epoca molto più antica rispetto alla prima. tra le ‘parole parmenidee’ usate da Platone nel celebre e bellissimo passo del Timeo (32d-34a), in cui viene descritta “la composizione del mondo” (hJ tou' kovsmou suvstasi") ad opera del demiurgo, appare anche ejpideev" (33c): oujd∆ au\ tino" ejpidee;" h\n ojrgavnou scei'n w|/ th;n me;n eij" eJauto; trofh;n devxoito, th;n de; provteron ejxikmasmevnhn ajpopevmyoi pavlin.

Io credo che questa forma, ordinaria nell’attico di Platone, utilizzata ancora nel Timeo e in altri dialoghi tardi, sia stata tratta in Tim. 33c direttamente da B 8. 33 di Parmenide. se all’epoca di Platone avesse già iniziato a insinuarsi in alcune copie del poema la forma ejpideuev" non è dato sapere, così come non è possibile sapere se Platone e la tradizione legata alla sua scuola ne siano stati in qualche misura responsabili.

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Parte III raPPortI Con altre tradIzIonI letterarIe

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CaPItolo 1 attICIsmI della tradIzIone167

1. L’antichità degli atticismi parmenidei La trattazione degli atticismi in Parmenide è affrontata qui e non altrove in ossequio alla generale convizione che essi possano rappresentare un omaggio alla tradizione letteraria attica, anche se sono persuaso che nei frammenti le forme riferibili all’attico non siano mai atticismi ’d’autore’, cioè non costituiscano elementi deliberatamente usati dal poeta in omaggio alla tradizione poetica ateniese. Al contrario tutte le forme attiche – ove esse risultino esclusivamente attiche – sono a mio giudizio atticismi introdotti secondariamente nel testo. i casi in cui certe forme siano comuni a un numero più ampio di dialetti e/o di tradizioni poetiche – tra i quali anche l’attico e la letteratura da esso influenzata – sono discussi più avanti in iii 2 §§ 3-5. come ho sostenuto (i 1 § 3), alcuni atticismi nel vocalismo devono essere stati introdotti presto nelle copie del poema di Parmenide in circolazione ad Atene. Più tardi si sono aggiunte altre alterazioni, che attraverso una quantità di fonti intermedie si sono travasate nelle citazioni dei testimoni d’epoca imperiale. Guasti devono infine essersi ovviamente verificati in fase medioevale. È quasi sempre difficile, se non impossibile, selezionare il livello cronologico cui assegnare le varie alterazioni. in assenza di indicazioni esterne esse possono teoricamente essere datate a un qualsiasi momento della tradizione del testo, purché non danneggino la struttura metrica dei versi in cui si trovano. A mio parere, comunque, esistono in certi casi indizi che suggeriscono una datazione più o meno alta di alcuni dei fenomeni di cui mi occuperò in quanto segue. 2. a– per h Parmenide compone in esametri omerici; è quindi ovvio aspettarsi una presenza generalizzata di h in luogo di a–. all’atto pratico i mss. delle fonti non deludono le nostre attese: h è saldamente attestato quasi ovunque. In partico167 Questo capitolo va letto come complemento all’inquadramento generale della Parte I, dove sono esaminati anche alcuni casi specifici di atticizzazione.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

lare, la tradizione documenta spesso h là dove l’attico presenterebbe invece a–: cf. B 1. 23 dexiterhvn, B 6. 5 ajmhcanivh, B 8. 30 kraterhv, B 8. 43 sfaivrh", B 8. 51 ajlhqeivh", B 12. 1 ajkrhvtoio168. Esistono tuttavia alcune eccezioni a questa ‘regola’ generale. Un ottimo esempio è rappresentato a mio parere dall’avvio di B 10 (vv. 1-3): ei[sh/ d∆ a ij q e r iv a n te fuvsin tav t∆ ejn aijqevri pavnta shvmata kai; k a q a r a' " eujagevo" hjelivoio lampavdo" e[rg∆ ajivdhla169.

il frammento, che dobbiamo a clemente alessandrino, è sicuramente atticizzato (I 1 § 6), ed esistono diversi indizi che questi a– si debbano a redazioni attiche antiche. diels 1897, p. 26, ha osservato a proposito di a– in B 16. 1 (kra'si~): «kra'si" gehört wie die meisten Bildungen auf -si" zu den abstracten jungen Wörtern, die das alte epos nicht kennt. Parmenides ist der erste, der kra'si" und der erste und einzige der pevdhsi" ... verwendet. so ist es begreiflich, dass die attischen Abschreiber, die auf Homer und attische Prosa eingeschrieben waren, das fremdklingende krh'si" sich anpassten». Purtroppo la spiegazione funziona solo in parte: infatti in emped. B 128. 6 tutti i mss. di Porfirio e di Ateneo scrivono ajkra–vtoisi, non ajkrhvtoisi, benché quest’ultima sia una forma ben attestata in omero (p. es. Od. 2. 341 a[krhton ... potovn). Pertanto – anche se è impossibile provarlo – credo che dietro questi a– del testo di Parmenide ci siano operazioni di livellamento ben più complesse (e antiche) di quanto Diels non abbia creduto. diversa posizione rivestono invece gli altri casi di a–. essi riguardano in sostanza tre forme (B 1. 24 sunav–oro", B 6. 5 divkra–noi, B 10. 2 euja–gevo") che sarebbe molto rischioso liquidare cursoriamente come normalizzazioni del testo. Queste forme aprono infatti il problema dell’influsso su Parmenide delle tradizioni letterarie in cui esse erano non solo largamente accettate ma addirittura prestigiose. Esaminarle significa affermare seriamente la possibilità di un influsso della lingua della lirica sulla poesia di Parmenide; cf. III 2 § 1. 3. Contrazioni e crasi In questa sezione esaminerò alcune forme contratte dei frammenti parmenidei che possono essere ritenute con sicurezza o con altissima probabilità atticismi della tradizione. 168 ajkrhvtoio è una correzione praticamente sicura di Bergk (1842, col. 1008) poi recepita da stein (1867) e da diels. i mss. di simpl. phys. 39 portano ajkrhvtoi" (dea) o ajkrivtoi" (eF); in queste forme la confusione tra -krh-, -kra–-, -kri- è molto frequente anche nella tradizione di Empedocle: cf. VS, app. a B 21. 14, B 22. 4 e 7, B 128. 8; vd. anche più avanti. 169 sulla forma euja–gevo" vd. iii 2 § 5.

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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3. 1. ou per eo/eu

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B 1. 31 s. ajll∆ e[mph" kai; tau'ta maqhvseai, wJ" ta; d o k o u' n t a crh'n dokivmw" ei\nai dia; panto;" pavnta perw'nta

B 6. 6 s. oiJ de; f o r o u' n t a i kwfoi; oJmw'" tufloiv te, teqhpovte", a[krita fu'la170.

In questi passi, trasmessi dal solo Simplicio, possiamo escludere che dokou'nta e forou'ntai siano lezioni autentiche. esse sono state sostituite o a dokevonta e forevontai (in sinizesi) o a dokeu'nta e foreu'ntai. È infatti ipotizzabile che all’epoca di Parmenide lo ionico avesse già sviluppato anche il secondo tipo di forma (Passa 2001, p. 391 ss.). nei casi come i nostri la dizione omerica ha a disposizione due possibilità: (1) forme quadrisillabiche come quelle di Il. 5. 342 ajqavnatoi kalevontai jbbjb bjj (16x), di Il. 8. 89 hJnivocon forevonte" jbbjbbjb (25x), di Il. 5. 158 dia; kth'sin datevonto bjjjbbjb (27x), che rappresentano il tipo più antico e frequente; (2) forme trisillabiche come quelle di Od. 10. 229 ejfqevggonto kaleu'nte" jjjb bjb (3x), di Od. 1. 112 polla; dateu'nto jbbjb (6x), che rappresentano invece il tipo più recente e raro (mancano del tutto casi di -eu'ntai clausolare). È evidente che la situazione prosodica di dokou'nta in B 1. 31 e di forou'ntai in B 6. 6 è parallela a quella dei trattamenti omerici del tipo (2). Se, come ho sostenuto altrove (Passa 2001), la grafia eu è autentica nella stragrande maggioranza delle attestazioni omeriche, è tanto più probabile che vada restituita anche nei due versi parmenidei in esame. Vari esempi, probabilmente autentici, ne sono per altro conservati anche nei frammenti di empedocle171. Sul problema cruciale di questi atticismi, ovvero la loro cronologia, non esiste alcuna indicazione. È pura supposizione ritenere che essi siano molto tardi, come voleva diels 1897, p. 27. 170 secondo coxon 1986, p. 184, in B 6. 6 «the ionic form is probably intended by the scribe of the ms. E of Simplicius». Sembra quindi che il ms. e legga foreu'ntai rispetto a dF che hanno invece forou'ntai; coxon ha infatti rivisto i passi pertinenti dei principali mss. del commento alla Fisica di simplicio (coxon 1968). ma dall’app. di cordero 1997, p. 24, che ha anch’egli rivisto gli stessi mss. (vd. cordero 1987a, pp. 3-24), risulta che e ha forou'ntai come dF. l’app. di diels (1882, p. 117) dà ragione a cordero. così diels 1897, p. 34, stampa forou'ntai, mentre foreu'ntai è segnalato in app. come congettura di Karsten (1835); in VS, p. 233, scompare anche questo accenno. quale è l’esatta lezione di e? Per rispondere alla domanda occorrerebbe consultare di nuovo il ms. In mancanza di ciò, ho preferito attenermi all’app. di Diels (1882), benché sia noto che egli non consultò direttamente tutti i mss., ma per quelli italiani (tra cui e) si affidò alle collazioni di G. Vitelli (cf. Diels 1882, p. XIII ss.): il tortuoso cammino alla fine del quale vide la luce l’edizione del commento simpliciano è stato notoriamente causa di imprecisioni; vd. tarán 1987. 171 Vd. B 17. 8 e 21, B 21. 1, B 112. 5, B 137. 2, PStrasb. a(ii) 22.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

122 3. 2. h per -ea

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B 8. 38 s. tw/' pavnt∆ o[nom(a) e[stai, o{ssa brotoi; katevqento pepoiqovte" ei\nai aj l h q h'.

la forma ajlhqh' è offerta da tutti i mss. di simplicio, unico testimone di B 8. 39. la dizione omerica attesta esclusivamente la forma non contratta ajlhqeva (7x; mai in clausola). B 8. 39 è costruito con materiale formulare: l’aoristo katevqento occupa la stessa posizione metrica che ha in omero (Od. 4x). tradizionale è pure la posizione di pepoiqovte": cf. p. es. pepoiqovte" hjde; bivhfi(n) (Il. 3x). ma una clausola del tipo attestato in Parmenide è ignota all’epica arcaica, che praticamente conosce solo -ea monosillabico (p. es. qeoeideva Hom. 4x; teuvcea 3x). L’elegia e il giambo presentano una situazione più fluida, ma va notato che la gran parte degli esempi di -h viene da teognide e solone (West 1974, p. 94). nelle iscrizioni ioniche orientali -e(h)a finale contrae in -h solo raramente e per lo più molto tardi172. nessuna indicazione ci arriva purtroppo dalle pochissime iscrizioni di elea. Su questo punto può essere instaurato un confronto con Empedocle, dove h < -e(h)a è notevolmente frequente e rappresenta a mio parere un elemento dorico (cf. iii 2 § 4). tuttavia, ammesso che la mia spiegazione delle forme empedoclee in -h sia esatta, un dorismo di questo tipo può essere ammesso con minore plausibilità in Parmenide: infatti di norma sono le forme letterarie ioniche a entrare nei testi esametrici di autori non ionici, mentre è raro il contrario, in particolare nel caso di elementi sedimentati nella dizione tradizionale. Dunque l’ipotesi più probabile è che ajlhqh' in B 8. 38 sia un atticismo per ajlhqeva. tentare di darne una datazione approssimativa sarebbe velleitario. 3. 3. a–u per wu B 6. 8 s. oi|" to; pevlein te kai; oujk ei\nai t a uj t o; n nenovmistai kouj t a uj t ov n, pavntwn de; palivntropov" ejsti kevleuqo"

B 8. 29 s. t a uj t ov n t∆ ejn t a uj t w/' te mevnon kaq∆ eJ a u t ov te kei'tai cou[tw" e[mpedon au\qi mevnei:

172 sullo ionico d’asia vd. stüber (1996, p. 56 ss.). meno chiara la situazione dello ionico insulare e dell’euboico; vd. Knitl (1938, p. 23 ss.) e del Barrio (1991, p. 17 s.). cf. p. es. la forma quvh a ceo nel V sec. a. c. (IG Xii 5. 593 a 17); ad eretria ta; e[th accanto a ajteleva (IG Xii 9 189. 26 e 32). Problematica anche la forma skªevºlh a mileto nel V sec. a. c. (DGE 728. 8): scherer (1934, p. 16) ne ricava che a quest’epoca il passaggio -ea > -h si era praticamente realizzato anche nello ionico orientale; stüber (1996, p. 58) preferisce invece «die annahme eines frühen attizismus».

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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B 8. 34 t a uj t o; n d∆ ejsti; noei'n te kai; ou{neken e[sti novhma

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B 8. 57 s. h[pion o[n, mevg∆ [ajraio;n] ejlafrovn, eJ w u t w'/ pavntose twujtovn, tw'/ d∆ eJtevrw/ mh; t w uj t ov n:173.

È probabile che gli esiti wu della crasi si siano conservati solo in B 8. 57-8 – rispetto a a–u di tutti gli altri passi – proprio perché nella tradizione riflessa in simplicio il passo si era corrotto da un tempo considerevole (cf. i 1 § 10). Alla luce di quanto ho osservato in I 2 § 6, sussistono pochi dubbi che wu sia l’unica forma autentica in Parmenide; a–u risulta da una atticizzazione, probabilmente quasi ovunque antica, messa in moto dall’importanza assunta da nessi come ejn taujtw'/ mivmnein / mevnein, kaq∆ eJauto; kei'sqai / ei\nai ecc. nella lingua di Platone e, grazie a lui, della filosofia attica successiva. la contrazione di oa dà w in tutto il dominio ionico-attico. È invece proprio nelle crasi che ionico e attico hanno preso strade diverse: in ionico si è conservato l’esito della contrazione (oJ aujtov" > wuJtov", eJo aujtou' > eJwutou' ecc.), in attico ha prevalso la spinta a ricomporre il vocalismo della forma semplice (oJ aujtov" > a–uJtov", eJo aujtou' > eJa–utou' ecc.). nell’epica arcaica wu fa una timida comparsa (Il. 5. 396 wuJtov"; Hes. theog. 126 eJwuth',/ sui cui cf. West 1966, pp. 81, 116; fr. 45 merkelbach-West eJwuth'") certamente introdotto in età recente da aedi ionici; successivamente però diventa piuttosto frequente sia nella prosa che nelle iscrizioni ioniche orientali174. sulla situazione delle colonie d’occidente siamo come al solito assai meno informati, ma wu è sicuramente la forma normale in area dorica175. l’unica incertezza riguarda eJautov in B 8. 29. la forma non ha alle spalle alcuna crasi perché risulta dall’univerbazione di eJ + aujt-. sappiamo però dagli scolii omerici che in ionico si era creato un eJwutov analogico sugli altri casi. esso era troppo recente per poter entrare in omero, ma allo stesso tempo abbastanza antico per poter entrare in Parmenide; notare p. es. che in Herodot. 4. 61 i mss. sono unanimi su eJwutov. allo stesso modo è probabile che l’eJwuthvn che Zenodoto voleva leggere in Il. 14. 162 e che invece aristarco respingeva (schol. a ad loc.), sia un iperionismo in omero (così p. es. Janko 1992, p. 23 s.), ma nondimeno sia stato creato molto prima dell’età di Zenodoto (vd. Wackernagel 1916, p. 73; rengakos 1993, p. 54 s.). la forma eJwutw/ ` in B 8. 57 è dunque probabilmente autentica. 173 Sulla difficoltà metrica posta da B 8. 57 e sul participio di eijmiv

vd. I 1 § 10 e qui oltre al § 7. P. es. Heracl. B 15, B 17, B 51; Hecat. FGrHist 1 F 127, 325; su anassagora vd. i 2 § 6. Per quanto riguarda le iscrizioni, eJwutw'/ è attestato a olbia del Ponto nel Vi sec. a. c. (dubois 1996, nr. 23), eJwuto' (= eJwutou') a mileto nel V sec. a. c. (SIG 57). 175 cf. Pind. Ol. 1. 45; epich. frr. 129 e 276 K.-a. in emped. B 29. 3 i\so" eJautw'/ è una congettura di schneidewin; eJautw'/ potrebbe essere corretto in eJwutw'/, ma cf. B 22. 1 eJautw'n. la forma houtorevkta" (wuJtorrevkta") < oJ aujt- si legge alla l. B9 della lex sacra di selinunte (V sec. a. c.): vd. Jameson-Jordan-Kotansky 1993. 174

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3. 4. w per ew il fenomeno potrebbe non essere un atticismo della tradizione: cf. ii 1 § 2. 6. 4. ei per e B 8. 44 s. to; ga;r ou[te ti m e i' z o n ou[te ti baiovteron pelevnai creovn ejsti th/' h] th/'.

in ionico è atteso mevzon, esito foneticamente regolare di *meg­Ôos. il mei'zon di B 8. 44 è invece la forma attica corrispondente (analogica sull’antonimo ceivrwn: vd. lejeune 1972, p. 113 n. 2). In questo caso ci troviamo di fronte con altissima probabilità a un atticismo antico, perché i mss. e i papiri omerici portano anch’essi costantemente forme a vocalismo attico (Wackernagel 1916, p. 13). il fatto che tutte le fonti di B 8. 44-5 (tra cui figurano oltre a Simplicio, che ne è la fonte principale, Platone, aristotele, eudemo, Proclo: cf. o’Brien 1987, i p. 28 ss.) siano concordi su mei'zon indica infatti verosimilmente che in questo punto specifico il poema parmenideo è stato adeguato molto presto al modello attico fissato per Omero; lo stesso deve valere per emped. B 59. 1 e 98. 4. 5. Atticismi nel consonantismo Le atticizzazioni nel consonantismo sono molto più rare nei frammenti di Parmenide. -rs- è conservato in B 12. 5-6 a[rseni ... / a[rsen (cf. invece emped. B 67. 1 a[rreno"; i mss. di galeno hanno a[rrena). anche ss è sempre conservato, p. es. in B 7. 5 glw'ssan o B 8. 41 ajllavssein, tranne che nel caso di B 6. 5 plavttontai (cf. ii 2 § 3). 6. Restituzione di aspirazioni iniziali già sulla carta ci sarebbero validi motivi per pensare che la redazione del poema di Parmenide fosse psilotica. In questa direzione va non solo l’alfabeto di tipo ionico orientale in uso a elea176, ma anche una serie di circostanze collaterali, quali il prestigio della dizione epica psilotica nel VI e nel V sec. a. C., come si evince tanto dalle testimonianze grammaticali quanto dalle iscrizioni177, e la presenza in italia meridionale di modelli psilotici di poesia esametrica in una data piuttosto vicina a quella di Parmenide178. 176 cf. p. es. la dedica votiva ª∆Aqhnaivh" ÔEllhºnivh" (?) kai; Zhªno;" ÔEllhºnivo– (?) (fine VI-inizio V sec. a. c.: calvini 1993, nr. 155). alfabeti ionici orientali sono attestati in italia meridionale dal Vii sec. a. c., p. es. a siri (cf. IGG 46). con l’espansione degli interessi focei nel mediterraneo occidentale, il loro uso si diffonde sulle coste dell’italia centro-settentrionale (gravisca), della corsica (alalia), della Francia (marsiglia, Pech mao), della spagna (emporion). 177 cassio 2002; cf. anche il dossier sulle iscrizioni vascolari raccolto e discusso da Wachter (2001, p. 332 s.). 178 tale è p. es. il modello sottostante agli esametri della laminetta di Hipponion: cassio (1994b, p. 187).

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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In ambito coloniale il quadro è, come sempre, tanto ricco quanto sfumato: accanto alla laminetta di Hipponion, che ha alle spalle un modello ionico psilotico, incontriamo redazioni non psilotiche fin dal primo contatto con l’epica occidentale, rappresentato dall’iscrizione della coppa di nestore (ca. 725 a. c.: CEG 454) che notoriamente segna le aspirazioni iniziali. Forse i due modelli sono stati in concorrenza, ma c’è ragione di credere – p. es. sulla base di possibili casi di psilosi in empedocle179 – che l’epica psilotica circolasse ampiamente in occidente ancora in pieno V sec. a. c. indipendentemente dai segni diacritici, apposti molto tardi in mss. e papiri e passibili di essere male interpretati dagli editori moderni, la tradizione ha conservato a mio parere evidenti tracce dell’antica redazione psilotica del testo. il solo indicatore affidabile è rappresentato dai trattamenti del tipo ejp∆ ajlov" vs. ejf∆ aJlov", in cui l’operatività o meno della psilosi risulta dall’occlusiva precedente180. Un caso a mio parere di questo tipo nei frammenti parmenidei è ricavabile dalle lezioni dei mss. di Sesto Empirico in B 1. 25: cf. I 2 § 4. Un’altra più debole indicazione è contenuta in B 1. 21 (cf. i 2 § 4). nessuna indicazione ci viene invece dai mss. di simplicio181. Al di là di questi pochi casi, tuttavia, le aspirazioni iniziali sono tutte segnate (p. es. B 6. 3 = 7. 2182 ajf∆ oJdou', B 8. 29 kaq∆ eJautov, B 8. 30 cou[to"183 ecc.) e una parte di esse deve essere stata introdotta nel testo parmenideo in età molto antica. secondo la teoria classica di Wackernagel tra il Vi e il V sec. a. c. il testo di omero venne adeguato parzialmente alla fonetica attica, e uno dei primi passi fu proprio l’introduzione di un alto numero di aspirazioni. oggi tuttavia vari studiosi ritengono quelle aspirazioni omeriche di origine euboica, non attica184. questo è impossibile da assumere per il testo di Parmenide, la cui circolazione in aree di dialetto euboico – se c’è stata – è stata irrilevante ai fini della tradizione successiva. Al contrario, resta molto attraente la teoria di Wackernagel perché, come noi ben sappiamo, il poema filosofico prese prestissimo la strada di Atene (cf. I 1 §§ 2-3). e proprio a atene potrebbe essere incorso in un processo di adeguamento alla fonetica attica parallelo a quello sostenuto da Wackernagel per il testo di Omero. 7. Participio di eijmiv Se nella maggioranza dei casi è facilmente verificabile che le forme del tipo o[n/o[nto" del participio di eijmiv sono state introdotte dai copisti medioe179

raccolti e discussi in Passa (2004, p. 144 ss.).

180 Anche questo non mette per altro del tutto al riparo dai fraintendimenti, perché esiste

l’eventualità che si facesse largo uso della scriptio plena: vd. p. es. Janko (1992, p. 33). 181 l’unico caso pertinente potrebbe essere B 12. 4, se si accetta la lettura di cerri (1999, p. 271) pavnt∆ h] gavr contro pavnta ga;r di diels (mss. pavnta ga;r). sulla congettura dello stesso cerri (1997a) in B 1. 3 cf. i 2 § 4 n. 84. 182 qui l’aspirazione è segnata anche da tutti i mss. di sesto empirico. 183 Con varianti di scarso rilievo in qualche ms. 184 Vd. p. es. ruijgh (1995, p. 49 s.).

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vali185, c’è un solo verso parmenideo in cui la generalità degli editori accetta come autentica la forma o[n: si tratta di B 8. 57, cioè del verso che immediatamente precede l’interpolazione sulla copia di simplicio (cf. i 1 § 10): B 8. 55 ss. kai; shvmat∆ e[qento cwri;" ajp∆ ajllhvlwn, th/' me;n flogo;" aijqevrion pu'r, h[pion o[ n, mevg∆ [ajraio;n] ejlafrovn, eJwutw/' pavntose twujtovn, tw/' d∆ eJtevrw/ mh; twujtovn: e posero segni separatamente gli uni dagli altri, da un lato il fuoco etereo che è mite, assai [rarefatto] leggero, in tutto identico a sé, ma non identico all’altro.

essendo B 8. 57 ipermetro, gli editori si sono esercitati a scovare l’intruso. nell’ottocento era usuale l’espunzione di ejlafrovn come glossa di ajraiovn186; da diels 1897, p. 97, in poi si è preferito viceversa espungere ajrai­ ovn come glossa di ejlafrovn187; gomperz (1924, p. 17 e n. 60) ha proposto di espungere eJwutw/', che mi pare l’ipotesi in assoluto più improbabile, sia perché annulla il parallelismo tra eJwutw/' ... twujtovn e tw/' d∆ eJtevrw/ mh; twujtovn, sia perché il glossatore avrebbe scritto eJautw/' (cf. § 3. 3). messe a confronto le citazioni nei mss. di simpl. phys. 30, 39, 180, diviene a mio giudizio chiaro il peso esercitato dalla tradizione orizzontale su B 8. 57, un fenomeno che in linea generale né Diels né tantomeno gli editori dell’Ottocento hanno preso in considerazione (Harlfinger 1987, p. 275 ss.). Devo confessare di aver esaminato più volte la questione con gli strumenti della filologia e della critica semantica, ma il risultato non cambia: sia l’espunzione di ejlafrovn sia quella di ajraiovn hanno ampi margini di arbitrarietà188. Mi pare invece molto più saggio lasciarsi guidare dall’analisi linguistica. la forma attica di part. o[n non sarebbe in sé impossibile in un testo esametrico tardo-arcaico, soprattutto alla luce dei seguenti precedenti: Od. 7. 94 ajqanavtou" o[ n t a " kai; ajghvrw" h[mata pavnta HApoll. 329 s. ajll∆ ajpo; sei'o thlovqen o u\ s a qeoi'si metevssomai ajqanavtoisin 185 P. es. in B 8. 12 tutti i mss. simpliciani portano o[nto" per l’esatto ejovnto"; cf. inoltre B 2. 7, B 6. 1, B 8. 7 ecc. 186 così p. es. Karsten (1835) e Bergk (1864). 187 così p. es. tarán (1965), coxon (1986), o’Brien (1987), cordero (1997). 188 Vd. l’acuto commento di cerri (1999, p. 248 ss.), che stampa il testo tra cruces (p. 154).

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HHerm. 106 kai; ta;" me;n sunevlassen ej" au[lion ajqrova" o u[ s a ".

in Parmenide stesso esiste un altro caso in cui tre mss. di simpl. cael. 557 attestano una forma attica del participio di eijmiv: B 1. 31 s. ajll∆ e[mph" kai; tau'ta maqhvseai, wJ" ta; dokou'nta crh'n dokivmw" ei\nai dia; panto;" pavnta p e r w' n t a.

qui infatti, a fronte di perw'nta del ms. a, i mss. deF scrivono per o[nta, che era evidentemente già la lezione del loro archetipo. che si legga la prima o la seconda forma, il senso di B 1. 31 s. è tale da dare del filo da torcere ai migliori esegeti. Per per o[nta hanno optato cerri (1999, p. 185 s.) e realeruggiu (2003, p. 200 ss.). in favore di perw'nta si pone invece una prassi ormai secolare nelle edizioni parmenidee, che è basata principalmente su Il. 21. 281 ss.: nu'n dev me leugalevw/ qanavtw/ ei{marto aJlw'nai ejrcqevnq∆ ejn megavlw/ potamw',/ wJ" pai'da suforbovn, o{n rJav t∆ e[naulo" ajpoevrsh/ ceimw'ni p e r w' n t a.

Sia in B 8. 57 che in B 1. 32 la scelta è difficile. Io, nondimeno, inclino a credere che su questo punto Parmenide sia stato coerente, cioè che in rapporto a un verbo fondamentale nel suo poema, tanto per significato quanto per frequenza, abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto. In effetti i versi parmenidei sembrano essere pensati in funzione delle forme ioniche, perché «lo iato tra articolo e parte nominale ..., tollerato anche nella dizione epica tradizionale, ma in essa di fatto rarissimo, percorre come un brivido l’intero poema» (cerri 1999, p. 92 s.; corsivo mio). se ne contano infatti ben dieci attestazioni: 1. B 2. 7 tov ge mh; ejonv (in tempo forte)

6. B 8. 19 ajpovloito ejovn

2. B. 4. 2 to; ejo;n tou' ejovnto"

7. B 8. 32 to; ejo;n qevmi"

3. B 7. 1 ei\nai mh; ejovnta

8. B 8. 33 ejpidee;" mh; ejovn189

4. B 8. 7 oujd∆ ejk mh; ejovnto"

9. B 8. 35 a[neu tou' ejovnto"

5. B 8. 12 pot∆ ejk mh; ejovnto"

10. B 8. 37 pavrex tou' ejovnto"

Non vedo dunque altra scelta, per chi ritenesse autentici i participi di eijmiv in B 8. 57 e B 1. 32, se non quella di correggerli rispettivamente in ejovn e ejovnta, 189 Su questa lettura, in luogo di ejpideue;"

ªmh;º ejovn di VS, p. 238, cf. ii 2 § 5.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

naturalmente da scandire entrambi in sinizesi (il che non fa nessuna difficoltà in un autore ionico dell’epoca di Parmenide: cf. Passa 2001). La mia impressione è comunque che o[n in B 8. 57 non sia un atticismo di epoca medioevale, come è invece possibile nel caso di o[nta (per ejovnta) in B 1. 32, ma risalga – come lo scolio che seguiva B 8. 57 sull’esemplare di Simplicio – alla tarda antichità.

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CaPItolo 2 Influsso della lIrICa Corale

1. La lirica dorica e la lingua poetica di Parmenide la storia dei rapporti linguistici tra la poesia esametrica di Parmenide e la grande tradizione lirica arcaica è in sostanza ancora tutta da scrivere, mentre molto è stato fatto dagli storici della letteratura nell’analisi dei motivi poetici e delle forme culturali sottostanti ai due tipi di testi. In linea teorica la tesi di un influsso a vasto raggio della lirica corale su più o meno tutte le forme di poesia praticate nell’Occidente coloniale è quanto mai verosimile. ad eccezione di alcmane, infatti, tutti i grandi poeti lirici della ‘seconda generazione’190 hanno avuto intensi legami con quel mondo. Stesicoro e Ibico vi nacquero addirittura; Simonide, Pindaro e Bacchilide vi costruirono con modi e tempi diversi fasi importanti della loro carriera. In particolare la fortuna di Stesicoro e di quella che Burkert (1987, p. 54) ha chiamato “stesichorean production” nel Vi sec. a. c. fu certamente enorme. la tecnica narrativa dell’epica fu travasata nelle forme espressive della lirica corale (lingua e metro). e mentre l’epopea omerica si avviava ormai a diventare un ‘classico’, il nuovo genere poetico conosceva invece, proprio in quel momento, la sua stagione di massima vitalità. Sarebbe sciocco chiudersi gli occhi di fronte a questo fatto e limitarsi ad analizzare i modelli poetici di Parmenide escludendo la lirica in base a utili, ma rigide, distinzioni tra generi letterari. Tanto più che per motivi di campanilismo l’autorità di un poeta come stesicoro dovette essere di lungo corso nelle colonie d’occidente. Di lui ci rimane relativamente poco, ma la sua influenza sulla lingua parmenidea è un fatto più che certo. Il composto uJdatorivzon “radicato nell’acqua”, che Parmenide impiegò in relazione alla terra secondo uno scolio allo Hexaemeron di Basilio (VS B 15a), è stato etichettato in maniera non troppo felice «trenchant neologism» (Coxon 1986, p. 247). In realtà capiamo qualcosa in più della sua origine da Stes. PMG 184. 2: Tarthssou' potamou' para; paga;" ajpeivrona" aj r g u r o r iv z o u " 190 Distinti da quelli della ‘prima generazione’, attivi nella madrepatria greca e/o nell’isola di lesbo (soprattutto eumelo, terpandro, arione).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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presso le infinite sorgenti del fiume Tartesso radicate nell’argento.

Dietro a queste formazioni in -rivzo" e ai contesti in cui sono usate si nasconde un pezzo di ‘cultura occidentale’ molto più importante di quanto gli studiosi non abbiano finora sospettato191. d’altro canto forme giunte in occidente attraverso i dialetti euboici, come gli infiniti ‘corti’ attestati in Parm. B 8. 10 fu'n e B 12. 5 migh'n (mss. migevn; cf. garcía-ramón 1990, p. 165 ss.; cassio 1996, p. 18), furono ammesse nelle lingue poetiche probabilmente proprio grazie a stesicoro (ei\n è metricamente garantito in PMGF 157). così come, anche grazie ai ‘dattili lirici’ stesicorei, gli esametri dei poeti nati o attivi in occidente mostrano un forte incremento di sillabazioni non tradizionali nei gruppi di muta cum liquida (cf. ii 1 § 3. 2). Affinità tra la lingua di Parmenide e quella delle odi pindariche sono riscontrabili anche dal punto di vista linguistico. oltre agli elementi discussi più avanti in questo capitolo, si osservano convergenze particolarmente in ambito lessicale: p. es. la parola gevnna± “nascita, origine” è attestata per la prima volta in Parmenide (B 8. 6) e Pindaro (Ol. 7. 23 ecc.)192. sono perciò incline a pensare che, in rapporto alla forma di aor. e[gent(o)193 in Parm. B 8. 20, si insista troppo sugli antecedenti esiodei dimenticando le attestazioni nei lirici: 191 le «radici della terra e del mare infecondo» (gh'" rJivzai ... kai; ajtrugevtoio qalavssh") sono note già a Hes. theog. 728. ma è solo con Xenoph. B 28 che si delinea una prima vera teoria scientifica a riguardo: gaivh" me;n tovde pei'ra" a[nw para; possi;n oJra'tai / hjevri prosplavzon, to; kavtw d∆ ej" a[peiron iJknei'tai «questo limite superiore si vede sotto i nostri piedi venire a contatto con l’aria, ma il limite inferiore si estende all’infinito»; cf. Aristot. cael. 294a 21 = Xenoph. a 47 oiJ me;n ga;r dia; tau'ta a[peiron to; kavtw th'" gh'" ei\naiv fasin, ejp∆ a[peiron aujth;n ejrrizw'sqai levgonte" w{sper Xenofavnh" ktl. «i primi perciò dicono che la parte inferiore della terra è infinita, affermando, come Senofane, che essa protende le sue radici all’infinito». L’idea pare essere stata fecondissima nel patrimonio figurativo dei poeti e nelle teorie astronomiche degli scienziati d’Occidente. In Parmenide la rappresentazione della terra proposta da Senofane, che riflette la vecchia concezione di anassimandro, è ormai superata dalla nuova teoria della sfericità del globo terrestre: l’epiteto “radicato nell’acqua” deve alludere quindi a corsi e bacini d’acqua sotterranei simili a quelli descritti da Platone in un noto passo del Fedone (108c ss.), che Kingsley (1996, p. 89) definisce «western in origin»; notare che la scoperta della sfericità della terra, presupposta anche dal suddetto passo del Fedone, è ascritta dalle fonti alternativamente a Pitagora e a Parmenide (cf. Parm. a 44). una ascendenza occidentale dei composti in -rivzo" è indirettamente sostenuta dai neologismi come rJivzwma “radice”, usato da Emped. B 6 in rapporto ai quattro elementi, tevssara ... pavntwn rJizwvmata «le quattro radici di tutte le cose», e in un frammento pitagorico anonimo tramandato da aezio (cf. VS 58 B 15); a mio parere eschilo, che fornisce in ordine cronologico la prima attestazione della parola col senso di “stirpe” (sept. 413), rivela anche su questo punto il suo debito verso la cultura occidentale. cf. ora emped. PStrasb. a(ii) 27 s. ªajgrw'nº ... rJizofovrwn gevnnhma «messe dei campi portatori di radici»; fonti tarde connettono rJizofovro" al mito di circe: vd. martin-Primavesi 1999, p. 238 s. 192 Poi anche in emped. B 17. 27, B 22. 7 (e 9?), B 110. 9. su gevnna± vd. isebaert 1985, p. 350 s. con bibliografia precedente. 193 Non ereditata, ma creata in ambito greco: Harđarson (1993, p. 169) con bibliografia precedente.

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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e cioè, oltre a alcm. PMG 1. 89 e sappho frr. 42. 1 e 68. 2 Voigt, soprattutto ibyc. PMGF 3. 10 e Pind. Pyth. 3. 87, 6. 28, fr. 33b. 1 snell-mähler194. anche la parola e[legco" “prova, confutazione” non si trova mai nell’epica omerica, ma ha le sue prime attestazioni in Parm. B 7. 5 e Pind. Ol. 4. 18. in conclusione, una limitata presenza di elementi provenienti dalla lirica in Parmenide (e a maggior ragione in empedocle) va senz’altro ammessa, fermo restando, in base alle convenzioni della poesia esametrica e a quanto sappiamo del dialetto nativo del filosofo, l’impasto fondamentalmente ionicoepico della sua lingua. 2. Forme con a– nella poesia esametrica sempre dalla lirica arrivano a mio parere i tre esempi di a– in Parmenide che esaminerò nelle pagine che seguono e che difficilmente possono essere ritenuti atticismi della tradizione. La questione non va impostata attraverso la categoria classica dell’opposizione tra h dell’epica ionica e a– della lirica dorica, perché essa si rivela inadeguata. Un esempio illuminante in tal senso è quello dei composti in -ba–mwn in empedocle: B 20. 6 s. wJ" d∆ au[tw" qavmnoisi kai; ijcquvsin uJdromelavqroi" qhrsiv t∆ ojreilecevessin ijde; p t e r o b av m o s i kuvmbai". PStrasb. a(ii) 27 s. [tou'to d∆ ajn∆ ajgrw'n] rJizofovrwn gevnnhma kai; aj m p e l o b av m [o n a bovtrun].

Fino alla pubblicazione del papiro di strasburgo gli studiosi si sono trovati in difficoltà per spiegare la a– metricamente garantita in pterobavmosi. le soluzioni avanzate sono state le più varie, ma ora l’analogo ajmpelobavmwn nel papiro obbliga a concludere che Empedocle ha davvero usato quelle forme. I soli paralleli proponibili per i composti empedoclei vengono – e in gran quantità – dalla tragedia attica, dove composti in -ba–mwn metricamente garantiti sono attestati sia nelle parti dialogate sia nei cori. In tragedia queste forme sono di regola state spiegate mediante l’influsso della lirica corale. Björck 1950, p. 338, ha fatto osservare che un antecedente dei composti in -ba–mwn va probabilmente visto nell’aggettivo palivmba–mo" in Pind. Pyth. 9. 18. Si vede bene allora che non ha senso porsi il problema del perché Empedocle, che scrive in esametri omerici, e dunque dovrebbe usare il dialetto ionico, non si sia servito della variante epica in -bhmwn. La risposta è che quei composti in -bhmwn non potevano essere usati perché non erano mai esistiti 194

Poi anche in emped. B 98. 5.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

o, se lo erano, non erano più accettati in poesia. Poteva invece essere usata la forma -ba–mwn, divenuta prestigiosa attraverso la lirica corale. Io credo quindi che in ambito coloniale i rapporti tra dialetti e generi letterari siano stati più fluidi e certamente non possono essere descritti in termini di generica opposizione tra lingua dell’epica e lingua della lirica. data l’importanza assunta dal dorico nel mondo occidentale, non è inverosimile ammettere anche nel poema filosofico di Parmenide la presenza di qualche elemento preso dalla lirica: un punto su cui gli studiosi, concentrati sul rapporto tra la poesia filosofica e l’epica, hanno finora evitato di soffermarsi con la dovuta attenzione. 3. suna–voro" (B 1. 24) B 1. 24 w\ kou'r∆ ajqanavtoisi sunavoro" hJniovcoisin... É cai'r(e):

il vocalismo di suna–voro", concordemente attestato dai mss. di sesto empirico, pone una questione testuale molto seria. Esso sembra fuori posto in un poema in esametri omerici, per di più composto da un autore ionico. la correzione in sunhvoro" risale a Brandis (1813)195. diels però non l’ha accolta, perché in contrasto con la sua visione della storia antica del testo parmenideo: «die attischen exemplare des Parmenides werden also vermutlich sunavoro" gehabt haben» (diels 1897, p. 53). i successivi editori hanno recepito quasi tutti il testo di Diels. La correzione è stata invece ritenuta opportuna da coxon 1986, p. 8: «the evidence of the manuscripts, if combined with that of Parmenides’ general dependence on Homer, amply justifies the restoration ... of ajqanavth/si sunhvoro" for ajqanavtoisi sunavoro"». entrambe le posizioni contengono, a mio parere, un errore di valutazione. in quanto segue proverò a reimpostare il problema esaminando i dati a disposizione. i composti in -a–oro" < *-a–¸or-196 hanno nell’epica il vocalismo atteso -horo" (-a–¸o- > -h¸o-). omero attesta sunhvoro" “aggiogato insieme” e quindi “compagno” (Od. 8. 99) nella stessa posizione metrica di sunavoro" in B 1. 24: fovrmiggov" q∆, h} daiti; s u n hv o r ov " ejsti qaleivh/ 195 ad essa fa riscontro il kathvora congetturato da stein (1867) in emped. B 78 (mss. kat∆ hjevra) e difeso da Wilamowitz (1929, p. 647): non liquet. 196 La radice IE è quella di ajeivrw “sollevare”, da cui il greco ha tratto il senso di “agganciare”, “congiungere”, attestato p. es. nel neutro plurale miceneo o­pa­wo­ta /opaworta/ “che stanno attaccati”. È da respingere l’ipotesi avanzata da Frisk (GEW s. v. ajeivrw [2]) di una seconda radice IE recante il valore specifico di “attaccare”: vd. LIV s. v. *H2wer. l’a– risulta da allungamento in composizione: vd. Wackernagel (1889, p. 41).

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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cui fanno riscontro le attestazioni di sunaeivrw “aggiogare” in Il. 10. 498 s. (∆Oduseu;" luve mwvnuca" i{ppou", / su;n d∆ h[eiren iJma'si) e in Il. 15. 680 (o{" t∆ ejpei; ejk polevwn pivsura" sunaeivretai i{ppou", v. l. sunageivretai). omero attesta inoltre methvoro" “sospeso” (Il. 8. 26, 23. 369; anche in HHerm. 135, 488), ajphvwro" “elevato” (con allungamento metrico, Od. 12. 435), parhvoro", il cui senso di base è “(cavallo) legato accanto” (Il. 16. 471, 16. 474; cf. parhoriva “bilancino” in Il. 8. 87, 16. 152197), ma che può valere anche “disteso” (Il. 7. 156) o “stolto” (Il. 23. 603)198. compaiono tuttavia nei poemi omerici due composti che presentano vocalismo -a–oro": si tratta di tetravoro" (Od. 13. 81) e crusavoro" (Il. 5. 509, 15. 256). Sul primo ritornerò necessariamente più avanti. Quanto a crusavoro" e al suo antecendente atematico crusavwr, attestato in esiodo e negli Inni (notare che i mss. hanno timavwr in aesch. suppl. 42), oggi si è inclini a pensare che non vada collegato etimologicamente agli altri composti in -a–oro" / -horo"199. 197 Il “bilancino” è la traversa di legno che si usava per affiancare un cavallo di rinforzo a una coppia di cavalli già aggiogati; per estensione può indicare il cavallo stesso. 198 Su questo vd. Leumann (1950, p. 222 ss.); parhvoro" nel senso di “stolto” è anche in archil. fr. 130. 5 West. 199 secondo l’etimologia tradizionale (schulze 1892, p. 420 s.), recepita in chantraine, DELG e in Frisk, GEW s. v. ajeivrw (1) e (2), cru–sav–wr/cru–sav–oro" significherebbe “dalla spada d’oro” e sarebbe appunto da connettere con a[or “spada” (lett. “ciò che è appeso [alla cintura]”), interpretato come nome radicale da *awor o *aw3 con trattamento acheo o eolico della sonante. ma un cru–sav–wr/ cru–sav–oro" così inteso difficilmente può essere epiteto di Apollo (Omero, Esiodo, Inni) o demetra (HDem. 4), la cui arma tipica non è la spada. anche l’etimologia tradizionale di a[or non sempre si adatta ai materiali superstiti, p. es. a Il. 14. 384 ss. h\rce d∆ a[ra sfi Poseidavwn ejnosivcqwn, / d e i n o; n a[ o r t a n uv h k e " e[ c w n ej n c e i r i; p a c e iv h/, / ei[kelon ajsteroph'/ («li precedeva Poseidone che scuote la terra / tenendo nella mano possente una lunga spada [?], spaventosa, / simile a un fulmine»): cf. ruijgh (1985, p. 154). sull’antroponimo miceneo a­o­ri­me­ ne /ahorimene:s/, che non ha traccia di [w] interno, si basa invece l’etimologia di a[or proposta da ruijgh (1985, p. 152 ss.): a[(h)or < *‚s­3 “ciò mediante cui si salva” e quindi “arma” sarebbe un nome radicale formato sul grado zero della radice *nes­ (cf. Nevstwr“colui che salva”, ne­e­ra­ wo /nehela:wos/ “colui che salva il popolo”, nev(s)omai “salvarsi”, “ritornare sano e salvo”); il locativo di a[(h)or si troverebbe nel primo membro di /ahorimene:s/, da interpretare come Pos­ sessivkompositum (“colui che ha forza nella [sua] arma”). Hajnal (1992, p. 298 ss.) ha interpretato il primo membro di a­o­ri­me­ne sempre come locativo, suggerendo però una diversa derivazione: /ahori-/ sarebbe una variante apofonica di /aheri-/ < *ajeri­ (cf. hom. hjeri-, hjri-) attestata nell’antroponimo a­e­ri­qo­ta /aherikwoita:s/ (“colui che si muove presto al mattino”). la forma atematica crusavwr è attestata a partire da Hes. op. 771 × b ∆Apovllwna cru–sav–ora (= HApoll. 123); omero usa invece unicamente la forma tematica crusa–ovro": Il. 5. 509 × b ∆Apovllwno" cru–sa–ovrou (= HApoll. 395 � HDem. 4 × j Dhvmhtro" cru–sav–orou), Il. 15. 256 × b ∆Apovllwna cru–sav–oron (= Hes. fr. 357 merkelbach-West). sulla a– di crusavwr vd. Wyatt (1969, p. 97 ss.), ruijgh (1985, p. 157); in theog. 281 il nome del dio Crusavwr, che nasce assieme a Pegaso dalla testa di medusa, presenta una prosodia anomala: vd. West 1966, p. 247. da notare che in tutti i passi epici menzionati è sempre possibile sostituire la forma tematica crusavoro" con quella atematica crusavwr; secondo Janko (1978, p. 194) la tematizzazione di crusavwr potrebbe essere dovuta ad analogia proprio coi composti in -a–oro"/-horo".

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

dopo la mq nei dialetti del gruppo ionico-attico le forme in -horo" hanno lasciato il posto a nuove forme in -ewro". così, p. es., a methvoro" dei poemi omerici corrisponde metevwro" in erodoto e metewrolovgo" in euripide (fr. 913. 2 Kannicht). nei testi letterari, tuttavia, le forme con mq sembrano recessive: accanto al tipo in -ewro" particolarmente l’attico ha sviluppato un tipo in -wro" (p. es. tevtrwro" eur. 4x), che prevale nettamente nella documentazione rispetto a -ewro". È comunque importante notare che a partire da certe forme come sunhvoro" e parhvoro" tanto l’attico quanto lo ionico non hanno creato né le forme con mq **sunevwro" e **parevwro" né le forme ulteriormente ridotte **suvnwro" e **pavrwro"200, probabilmente perché si trattava di parole mai entrate in uso nella lingua parlata. col trattamento dei composti in *-a–¸oro" ha coinciso quello di alcuni composti in *-¸oro", del tipo *tima–-v ¸oro". Anche in questo caso le trasformazioni fonetiche hanno dato vita a una situazione di polimorfia: p. es., oltre a timavoro" e timhvoro"201, è stata creata una forma timwrov" che vanta diverse attestazioni in tragedia (ma timwrevw è p. es. anche in erodoto). a eccezione del già menzionato metewrolovgo", la tragedia attica usa quindi fondamentalmente due tipi di forme: quelle in -a–oro" e quelle in -wro", che hanno una sillaba in meno e rappresentano una comoda alternativa metrica. un dato molto importante è proprio l’alto numero di composti in -a–oro" attestato in tragedia sia nei trimetri (particolarmente in clausola, con valore metrico b×bÖ) che nei cori: xunavoro", tetravoro", pedavoro", paravoro", katav­ oro" e il già visto timavoro". Björck 1950, p. 113, ha svalutato la possibilità che queste forme vadano ascritte all’influsso della lingua della lirica corale; a suo parere, infatti, in esse «das “dorische” a– wird ... nicht besonders gesucht, denn um hom. methvoro" zu ersetzen, sagen die tragiker nicht *metavoro" sondern metavrsio"». l’osservazione è acuta ma prova poco: credo infatti che proprio nel caso di questo composto, che a differenza di molti altri era sopravvissuto nell’attico parlato (metevwro"), la tragedia abbia preferito crearsi una propria forma letteraria alta, distinta sia da quella in uso nell’epica sia da quella in uso nella lirica202. Rimane inoltre da spiegare perché, se è vero che molti composti non erano correnti in attico, in tragedia si usa costantemente -a–oro" (anche nei trimetri) e mai -horo", benché anch’esso forma letteraria di prestigio. io penso che il successo in tragedia dei composti in -aoro" debba essere ascritto proprio al loro successo nella lirica corale. Pindaro ne conosce infatti 200 Accentazione puramente congetturale; per le questioni accentuali vd. Leumann (1950, p. 223 n. 20). 201 Prima attestazione in Apollonio Rodio; vd. più avanti. 202 all’origine di metavrsio" sta forse pedavrsio", che potrebbe essere una creazione eschilea sul pedavoro" (forma eolica corrispondente al methvoro" omerico) attestato in alc. fr. 315 Voigt; vd. Björck 1950, p. 112 s.

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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ben quattro tipi: timavoro", sun-/xunavoro" (e suna–orevw, fr. 214 snell-mähler), ajpavoro" e infine tetravoro" (2x; cf. anche tetraoriva 4x)203. Proprio tetrav–oro" “attaccato a un giogo a quattro” figura con questo vocalismo già nell’epica (Od. 13. 81 ss.), all’interno di una similitudine: hJ d∆, w{" t∆ ejn pedivw/ t e t r av o r o i a[ r s e n e " i{ p p o i, pavnte" a{m∆ oJrmhqevnte" uJpo; plhgh'/sin iJmavsqlh", uJyovs∆ ajeirovmenoi rJivmfa prhvssousi kevleuqon, w}" a[ra th'" pruvmnh me;n ajeivreto, ku'ma d∆ o[pisqe porfuvreon mevga qu'e polufloivsboio qalavssh".

Per chantraine 1942, p. 21, l’a– di tetravoro" può essere analogico sull’a– degli altri composti in tetra-, ma già Bechtel (1914, p. 169) si era accorto che la vera ragione di questo vocalismo va oltre le capacità di spiegazione della mera analisi linguistica: «das schwanken zwischen a– und h liegt in der geschichte des epos begründet»204. shipp (1972, p. 17) ha sostenuto che tetravoroi è giunto a omero dalla poesia attica. Pur interessante, l’idea non coglie secondo me l’orizzonte culturale e la relativa tradizione letteraria da cui i composti in -aoro" hanno effettivamente preso lustro. Nei poemi omerici le menzioni del tiro a quattro cavalli – la quadriga – sono estremamente rare: nel mondo rappresentato da omero gli eroi usano infatti prevalentemente il tiro a due cavalli. Tra le menzioni della quadriga è interessante specialmente quella di Il. 11. 698 ss., che si trova all’interno della lunga sezione dell’Xi libro, in cui sono narrati episodi della vita del giovane nestore: kai; ga;r tw'/ crei'o" mevg∆ ojfeivlet∆ ejn “Hlidi divh,/ t ev s s a r e " aj q l o f ov r o i i{ p p o i aujtoi'sin o[cesfin, ejlqovnte" met∆ a[eqla: peri; trivpodo" ga;r e[mellon qeuvsesqai:

le vicende narrate nel racconto di nestore sono state talora riportate a un’epica peloponnesiaca di età micenea. l’idea può essere esatta in termini di contenuto, nel senso che ci troviamo di fronte a un nucleo antico di materiali epici legati al Peloponneso; ma – per ciò che riguarda i quattro versi citati – è assolutamente inverosimile quanto alla cronologia, perché l’introduzione della quadriga nelle competizioni sportive non può essere fatta risalire oltre 203 in diverse attestazioni pindariche -ao- va letto in sinizesi, probabilmente perché lo iato tendeva a ridursi nel dorico parlato: cf. casi epigrafici come naurov" (ma Hesych. na–rov") < *na–(¸o¸)orov" “guardiano del tempio” (schwyzer 1939, p. 248); la metrica garantisce Laumevdwn < la–¸o- in lycophr. Alex. 952 e pavra–ro" < -a–¸or- in theocr. 15. 8. 204 sulla stessa linea anche Björck 1950, p. 114.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

il periodo arcaico. A Olimpia la corsa con la quadriga entrò a far parte ufficialmente del programma dei giochi nel 680 a. c. e soltanto a partire dall’età arcaica iniziano a apparire i primi esempi di quadrighe nell’arte figurativa (p. es. nel gruppo scultoreo del frontone del tempio di Apollo a Delfi). Del resto il nome stesso “quadriga” (tetraoriva o tevqrippon) appare attestato per la prima volta in Pindaro. Nel quadro della sua teoria sulle tradizioni letterarie antiche, Pavese (1972, pp. 59 s., 65) ritiene che i composti in -a–oro" vengano dalla tradizione epica continentale. Ma ciò è difficilmente conciliabile con i dati: la sopravvivenza di questi composti – ammesso che essi siano veramente molto antichi – è infatti incomprensibile senza la mediazione della lirica dorica arcaica. A mio parere, dunque, -a–oro" si è definitivamente affermato nella letteratura arcaica e tardo-arcaica grazie alla lirica. nel caso particolare di tetrav­ oro", è possibile che il composto abbia avuto la sua consacrazione letteraria in area dorica, e che sia penetrato nelle ultimissime fasi dell’epica omerica direttamente nella forma in cui era stato accolto in poesia. Una controprova dell’esattezza di questa mia interpretazione risiede nel timavo– co" testimoniato due volte negli Inni (HDem. 268; HAphr. 31), che non può essere spiegato altrimenti se non come una forma artificiale rifatta su timavo– ro", mentre la parola reale del greco è timou'co" (eol. or. timw'co") < *timo-(h)oco" “colui che ha onore”, di cui si contano varie attestazioni epigrafiche antiche in area ionica orientale205. È interessante osservare come invece nell’epica ellenistica si registri un deciso ritorno verso -horo", probabilmente perché si cerca di ricaratterizzare come epici composti che erano sentiti come tipici della lirica e della tragedia. accanto agli omerici parhvoro" e methvoro", apollonio rodio usa infatti kathvoro" e timhvoro", non katavoro" e timavoro" come Pindaro e i tragici; egli documenta inoltre la nostra prima attestazione di ejphvoro". allo stesso modo, accanto agli omerici parhvoro" e methvoro" arato usa ajphvoro", non ajpavoro" come Pindaro. che cosa fare allora del sunavoro" di B 1. 24? Io ritengo che il testo di Diels sia quello giusto, ma non per le ragioni sostenute da diels: sunavoro" non è la lezione portata dagli antichi esemplari attici, ma è invece probabilmente la forma voluta da Parmenide. egli non ha resuscitato sunhvoro", come faranno più tardi con altri composti in -horo" apollonio rodio e arato, ma ha preferito usare una forma di successo nella poesia a lui coeva. se è giusto quanto ho osservato, la stessa scelta è stata fatta dal poeta di Od. 13. 81 ss., il quale ha visto in tetravoro" l’unica forma accettabile in poesia alla sua epoca. 205 Vd. lsJ s. vv. timoucevw, timouciva, timouvcion, timou'co". La vocale di composizione di questi composti in -(h)oco" è o: mic. ko­to­no­o­ko /ktoino-(h)okhos/ “che ha la ktoinav”, eujnou'co" “che ha la eujnhv”, “eunuco” ecc.

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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È ben noto il debito del proemio di Parmenide verso l’immaginario dell’ippica e quindi anche verso la poesia che celebrava il mondo legato alle corse coi cavalli. Proprio all’inizio del poema (B 1. 1) il filosofo dice che le cavalle lo stanno portando «fino dove giunga la (sua) anima» (o{son q∆ ejpi; qumo;" iJkavnoi), quasi a volere significare il carattere agonistico del suo viaggio. Come comprese per primo Fränkel (1960 e 1969), il difficile procedere del carro è metafora della sfida imposta dalla poesia a chi debba piegare alle sue regole la propria esposizione, metafora che ha un numero impressionante di paralleli proprio nei poeti lirici corali206. ed appunto dalla lirica corale Parmenide ha derivato, a mio giudizio, il suo sunavoro" in B 1. 24207. 4. divkra–noi (B 6. 5) B 6. 4 s. aujta;r e[peit∆ ajpo; th'", h}n dh; brotoi; eijdovte" oujde;n plavttontai, d iv k r a n o i:208

i composti che derivano il secondo membro dalla radice ie al grado zero *%3H2­ (gr. kavra– ion. -rh, kavra–na ion. -rh-, kra–nivon ecc.) appaiono in greco in due forme diverse: -kavra–no" (ion. -kavrhno", eol. orient. -kavra±nno"209) e -kra–­ no" (ion. -krhno"?). nonostante l’ambiguità dei dati del miceneo (a­ka­ra­no “senza testa” = /akarānos/ o /akrānos/? [cf. ajkavrhno"]; qo­u­ka­ra “dalla testa di bue” = /gwoukarās/ o /gwoukrās/? [cf. bouvkra–no"]), è probabile che entrambi i tipi siano antichi210. Nel I millennio questi composti sono ben attestati in letteratura, come risulta da questo quadro211: -krav–no"

-krhvno~

-kavra–no~

-kavrhno~

-

-

-

*ajkavrhno~

ajmfivkra–no" (t)

*ajmfivkrhno"

-

*ajmfikavrhno~

206 Durante (1976, p. 131 ss.); D’Alessio (1995) con bibliografia precedente.

207 Probabile è invece la correzione ajqanavth/si di Brandis invece di ajqanavtoisi di VS, p. 230; cf. sider (1985, p. 362). 208 il passo è corrotto: per la forma plavttontai vd. ii 2 § 3. 209 kavranno": kekruvfalo", krhvdemnon (esichio); vd. lsJ s. v. kavranno". 210 il doppio esito -kavra–no": -krav–no" è condizionato dal trattamento della laringale. sui problemi linguistici posti dai nomi della “testa”, particolarmente in miceneo, vd. risch (1966); Peters (1980, pp. 228-286). 211 c = commedia; H = omero e Inni; l = lirica; t = tragedia; emp = empedocle; Hdt = erodoto; Parm = Parmenide. l’asterisco indica che il composto è attestato solo in età ellenistica e/o romana. Per l’indicazione dei passi pertinenti si rinvia ai relativi lemmi in lsJ.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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-

-

*ajnqokavrhno~

aujtovkra–no" (t)

-

-

-

bouvkra–no" (emp,t)

-

-

-

divkra–no" (Parm)

-

*dikavra–no"

*dikavrhno"

dorivkra–no" (t)

-

-

-

ejkatovgkra–no" (l)

-

ejkatontakavra–no" (l)

*ejkatontakavrhno~

-

-

-

*eujrukavrhno~

-

-

-

*miltokavrhno~

muriovkra–no" (t)

-

-

-

-

-

-

*xanqokavrhno~

-

-

-

*ojxukavrhno~

ojrqovkra–no" (t)

-

-

*ojrqokavrhno~

-

-

-

oujlokavrhno~ (H)

-

-

*pentekontakavra–no~

-

poluvkra–no" (t)

-

-

*poulukavrhno~

-

-

-

*prokavrhno~

*rJaibovkra–no"

-

-

-

-

-

-

seisikavrhno~ (c)

taurovkra–no" (t)

-

-

*taurokavrhno~

trivkra–no" (t)

-

trikavra–no~ (l)

trikavrhno~ (Hdt)

-

-

-

uJyikavrhno~ (H)

calkeovkra–no" (l)

-

-

-

-

-

crusokavra–no~ (t)

-

-

-

-

*yednokavrhno~

a mio giudizio la situazione può essere illustrata come segue. l’epica arcaica usa -kavrhno" (ion.) < -kavra–no" probabilmente per motivi metrici (uJyikavrhnoi in Il. 12. 132 = HAphr. 264 e oujlokavrhno" in Od. 19. 246 ricoprono esattamente lo spazio dell’adonio finale)212. ma in età tardo-arcaica e classica -kavrhno" sparisce quasi del tutto: esistono solo due casi, uno in Erodoto (trikavrhno", su cui cf. più oltre) e uno in Menandro (seisikavrhno")213. si 212 l’epica attesta l’altro trattamento della radice in krhvdemnon, krh'qen < kra–-, su cui vd. più avanti. 213 fr. 145. 7 K.-a.; il lemma manca del tutto in lsJ.

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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tratta però di una morte apparente: dall’età ellenistica, e fino al tardo periodo romano, i composti in -kavrhno" conoscono un autentico boom di attestazioni214, fatto che si spiega con il tentativo di ‘riepicizzare’ la lingua della poesia esametrica in contrapposizione alla lirica e alla tragedia. Probabilmente anche per influsso dell’epica -kavra–no" resta in uso nella lirica (cf. ejkatontakavra–no" e trikavra–no" in Pindaro), dove è affiancato da -kra–­ no" (cf. ejkatovgkra–no" in Pindaro, calkeovkra–no" in Bacchilide). ma la stagione di vero successo dei composti in -kra–no" arriva solo con la tragedia, mentre, in parallelo, il prestigio di -kavra–no" inizia a scemare (cf. solo crusokavra–no" in euripide): dei tredici composti elencati, addirittura undici sono attestati esclu­ sivamente o anche (sia nelle parti corali che nei dialoghi) in uno dei tre maggiori tragediografi di V secolo e specialmente in Euripide; il dodicesimo è divkra–no" in Parmenide215, il tredicesimo un conio ellenistico (rJaibovkra–no" koruvna “mazza a testa curva”: A. P. 6. 35, leonida). a testimonianza del successo dei composti in -kra–no" sta l’assenza pressoché totale di aggettivi in -krhno", di cui esiste un unico esempio tardo, in uno dei principali fautori della rivitalizzazione di -kavrhno": nic. alex. 417 ajmfivkrhno" (accanto a ajmfikavrhno" in ther. 373: cf. n. 214 e coxon 1986, p. 182 s.). a esso si aggiunge la glossa di esichio ejpivkrnhnon: kefalovdesmon, che rappresenterà il corrispettivo ionico di ejpivkra–non “copricapo” (eur. Hipp. 201; il nome significa invece “capitello” in Pind. fr. 88 snell-mähler, eur. IT 51). del resto l’a– è dominatore assoluto anche nella prosa. nella terminologia medica e zoologica p. es. “gomito” si dice wjlevkra–non “olecrano”, cioè lett. “testa dell’avambraccio”216, mai **wjlevkrhnon. anzi galeno de usu part. 2. 2. 14 ci informa che ippocrate evitava la parola, usando al suo posto ajgkwvn; in effetti non va escluso che l’unica occorrenza di wjlevkra–non nel Corpus Hippocraticum (epid. 7. 61) sia una forma secondaria (cf. anche ejpikra–tiv" in Hippocr. praec. 10). in teoria la posizione di divkra–no" potrebbe essere stata simile a quella di trivkra–no" (di- è analogico su tri-: risch 1974, p. 221): le forme in -kavra–no" e -kra–no" potrebbero essere state di casa nella lirica (trikavra–no" è in Pind. fr. 52 snell-mähler), in tragedia (trivkra–no" è in soph. Tr. 1098) e nella prosa (cf. p. es. l’opera satirica di anassimene di lampsaco intitolata Trikavrano": lsJ s. v.), mentre -kavrhno" sarebbe rimasto come forma residuale in certi settori dello ionico (trikavrhno" è in Herodot. 9. 81). ma la differenza sostanziale è 214 P. es. ajmfikavrhno" e ojxukavrhno" sono documentati per la prima volta in nicandro, prokav­ rhno", xanqokavrhno" e poulukavrhno" nell’Antologia Palatina, taurokavrhno" in nonno, eujrukavrhno" e ajnqokavrhno" in oppiano d’apamea. 215 Poi anche in call. fr. 785 Pfeiffer divkranon h[ruge fitro;n ejpairovmeno" («strepitava agitando il bastone a due teste»); l’indicazione manca del tutto in lsJ s. v. divkrano". 216 tràdito talora come ojlevkranon, forma metricamente obbligatoria p. es. in aristoph. pax 443. Il termine è frequentissimo in commedia; vd. LSJ s. vv. wjlekranivzw, wjlevkranon.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

che, mentre divkra–no" è antico217, dikavra–no" (unica occorrenza in A. P. 6. 306) e dikavrhno" (batrach. 298; poi nonn. 5. 154, 13. 131) sono recenti. in un autore ionico come Parmenide il vocalismo di divkra–no" lascia perplessi. Esiste – è vero – il parallelo di bouvkra–no" in emped. B 61: polla; me;n ajmfiprovswpa kai; ajmfivsterna fuvesqai, bougenh' ajndrovprw/ra, ta; d∆ e[mpalin ejxanatevllein ajndrofuh' b o uv k r a n a, memeigmevna th/' me;n ajp∆ ajndrw'n th/' de; gunaikofuh' skieroi'" hjskhmevna guivoi".

Non credo sia qui necessario ipotizzare un influsso della tragedia (cf. bouv­ kra–no" in soph. Tr. 13); non siamo di fronte a un elemento attico, bensì a un dorismo – forse di ascendenza lirica o forse proveniente dalla commedia siciliana – cui fa riscontro in questo frammento un secondo dorismo: la contrazione finale in bougenh', ajndrofuh', gunaikofuh', che non può essere in alcun modo ritenuta un atticismo della tradizione218. in Parmenide invece, a voler ragionare in astratto, ci attenderemmo dikav­ rhnoi, una forma del tipo in uso nell’epica (e per altro metricamente possibile in B 6. 5). Ma oltre a essere scorretta dal punto di vista del metodo filologico, l’ipotesi di una normalizzazione di dikavrhnoi in divkranoi è molto debole alla luce della parodia di crat. fr. 161 K.-a. (dai Panoptai): k r a n iv a d i s s a; forei'n, ojfqalmoi; d∆ oujk ajriqmatoiv219.

Per Parmenide mi sembrano quindi percorribili due strade. (1) la prima comporta l’accettazione del divkra–noi dei mss. come forma autentica, non ionica ma proveniente dal dorico letterario (lirica e/o commedia siciliana; cf. bouvkra–no" in Emped. B 61). Ciò significherebbe che Parmenide ha optato per una forma di successo nella letteratura coeva, piuttosto che usare un tipo di forma, consacrato sì nella dizione epica, ma ormai avviato al declino e rimasto vitale solo in certe aree dello ionico (cf. trikavrhno" in erodoto). Se quanto ho concluso a proposito di sunav–oro" in B 1. 24 e euja–gevo" in B 10. 2 è esatto (cf. §§ 3 e 5), la scelta non sarebbe isolata. È inoltre possibile che la forma iperdorica ajriqma–toiv (atteso ajriqmhtoiv), usata da cratino nella parodia di B 6. 5, fosse mirata a ridicolizzare proprio il ricorso dei filosofi delle colonie (cratino può aver avuto in mente tanto il divkranoi di Parmenide quanto 217 anche il supposto carattere recente del nome divkranon “forcone”, testimoniato in luc. Tim. 12, potrebbe non essere tale: cf. il passo di callimaco citato alla n. 215. nulla si può dire invece della glossa di esichio dikravnou": ta;" triovdou". 218 come del resto la posizione metrica dei tre aggettivi prova oltre ogni dubbio. la contrazione finale -ea > -h, antica in molte varietà di dorico, è attestata anche altrove in empedocle (cf. B 59. 3 dihnhkh'; B 130 proshnh'; PStrasb. a(ii) 29 ajyeudh'); vd. Passa (2005, p. 49). 219 sulla forma ajriqmatoiv vd. più avanti.

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Parte III. Rapporti con altre tradizioni letterarie

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il bouvkra–no" di empedocle) a forme prestigiose nella poesia dorica (e attica), estranee tuttavia alla tradizione letteraria ionico-epica. sono incline a preferire questo scenario. (2) la seconda strada implica invece che divkra–noi si debba a una normalizzazione attica. Se fosse così dovremmo quindi leggere divkrhnoi, benché questo vocalismo non abbia alcun parallelo antico in questi composti. Va tuttavia ricordato che l’epos arcaico attesta sempre krhvdemnon “benda” e krh'qen “dal capo” con h vs. kra–nivon (Il. 8. 84) e inoltre kra–tov", kra–tiv ecc. con a– (Zenodoto krh-), tutte forme che Wackernagel 1916, pp. 2 s., 255, riteneva atticizzate o introdotte da un poeta attico (diversamente chantraine 1942, p. 230). notare che in B 6. 5 sono presenti degli atticismi, anche se non sappiamo quanto antichi (iii 1 § 3. 1). 5. euja–gevo" (B 10. 2) B 10. 1 ss. ei[sh/ d∆ aijqerivan te fuvsin tav t∆ ejn aijqevri pavnta shvmata kai; kaqara'" e uj a g ev o " hj e l iv o i o lampavdo" e[rg∆ ajivdhla220.

Per l’origine dell’aggettivo eujag – hv" “luminoso” si accetta di norma la spiegazione di schwyzer 1939, p. 203 n. 3, che lo fa derivare per dissimilazione di u da una forma di partenza eujau– ghv" (< eu\ + aujghv con allungamento in composizione)221; in effetti eujaughv" è v. l. accanto a eujaghv" in Pind. pae. fr. 19. 25 snellmähler, in pae. Erythr. 15 e 23 Powell e in aristot. de mund. 397a 16. l’a– è metricamente garantito in questo frammento di Parmenide, in Lyr. Adesp. 35. 19 Powell e in A. P. 6. 204 (leonida); non lo è nelle tre occorrenze in tragedia (aesch. Pers. 466; eur. suppl. 652, Bacch. 662): cf. Björck 1950, p. 147. euja–ghv" è ben attestato anche nella prosa filosofica e scientifica: oltre che in aristotele (cf. sopra), si trova in democrito222, in Platone e in ippocrate (cf. lsJ s. v.). È possibile che l’eujav–ghto" presente in aristoph. nub. 276 («eine willkürliche augenblickserweiterung von euja–ghv"»: Björck 1950, p. 148 n. 1) rappresenti la caricatura di una parola di uso comune nel lessico scientifico-filosofico del tempo. un derivato di eujag – hv" compare probabilmente anche in emped. B 47: ajqrei' me;n ga;r a[nakto" ejnantivon aJ g ev a k uv k l o n [la luna] guarda infatti di fronte il sacro (?) cerchio del suo signore. 220

sull’a– di aijqerivan e kaqara'" cf. iii 1 § 2.

221 così anche Björck 1950, p. 147, e chantraine, DELG s. v. aujghv; Frisk, GEW è corretto s. v. euja–­

ghv", ma del tutto fuorviante s. v. a[go". 222 B 152, dove è integrazione verosimile di diels; cf. app. ad loc. e VS iii, p. 180.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

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questo frammento va a sua volta confrontato con Parm. B 15:

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aijei; paptaivnousa p r o; " a uj g a; " hjelivoio cercando sempre con gli occhi i raggi del sole.

in VS, p. 331, aJgeva è fatto risalire a un presunto aggettivo aJ–ghv" col valore di “puro”, “sacro”, ma questo è impossibile perché i supposti termini corradicali a{gio" “sacro” ecc. hanno un a±. È invece probabile che abbia ancora ragione schwyzer 1939, p. 203 n. 3, nel ritenere l’ aj–ghv" di empedocle una retroformazione su euja–ghv"223: ajgeva kuvklon vale quindi “cerchio luminoso” (così p. es. Wright 1995, p. 202). se la ricostruzione di schwyzer è giusta, in un autore ionico come Parmenide potremmo aspettarci teoricamente eujhghv" (cf. schwyzer 1939, p. 203 n. 3: «eujhghv", das man bei Parm. erwartet»). Ma questa forma è attestata, per altro in maniera dubbia, solo una volta in un autore molto tardo: aret. de curat. diut. morb. 1. 13. io credo che non ci siano dubbi sul fatto che eujagevo" vada conservato in B 10. 2. Allo stato attuale nessuno potrà darci la certezza che questa fosse anche la forma in uso nel dialetto ionico – sempre ammesso che l’aggettivo abbia davvero mai avuto una sua storia al di fuori dei testi letterari – ma è l’unica forma possibile in poesia. Parmenide può averla presa ancora una volta dalla lirica, come la distribuzione delle nostre attestazioni invita a pensare.

223

una fragile ipotesi alternativa è offerta da Björck 1950, p. 148 n. 1.

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ConClusIonI

1. Trasmissione del testo nell'antichità Finché fu in vita, Parmenide ebbe certo modo di sovrintendere alla diffusione delle prime copie scritte del suo poema. e forme di controllo del testo224 possono essere state esercitate, nel periodo immediatamente successivo alla sua morte, dagli allievi di Elea; questa seconda supposizione deve tuttavia essere avanzata con cautela, perché alcuni settori della tradizione tendono a sottolineare il legame tra i successori di Parmenide - in particolare Zenone - e il mondo attico (cf. Introduz. § 2). È comunque naturale supporre che nell’Occidente coloniale – a Elea così come altrove – si conservasse a partire dal V secolo una linea di tradizione testuale autonoma, da collegare forse anche con gli ambienti pitagorici (cf. introduz. § 3), e che tradizioni di testo abbiano preso corpo in altre aree greche, tra cui probabilmente l’asia minore, dove il poema parmenideo sembra essere stato conosciuto a fondo abbastanza presto (cf. I 2 § 6). Di questa più antica fase della tradizione del poema di Parmenide, che possiamo chiamare pre-platonica, non ci restano testimoni, quantunque non sia da escludere che a uno di questi filoni testuali abbia attinto molto più tardi Sesto Empirico (cf. I 1 § 5 e più avanti). Il punto di svolta fu rappresentato tuttavia dalla tradizione attica. Benché sia verosimile ammettere che copie del poema parmenideo siano affluite ad atene molto presto, noi possiamo effettivamente iniziare a farci un’idea della qualità di questa tradizione solo con Platone. Egli non rappresenta solo la nostra prima fonte di testo ma fornisce informazioni essenziali per la nostra comprensione della ricezione attica della filosofia parmenidea. L’interpretazione platonica del contenuto filosofico del poema sembra essere stata propedeutica alla legittimazione della nuova filosofia che Platone andava elaborando ad Atene. Platone ebbe esperienza diretta della cultura filosofica del mondo coloniale e cercò di presentarsene come l’erede. tra i temi fondamentali impostisi grazie a lui nella storia del pensiero greco spicca sicuramente la problematica dell’Uno, di cui Platone si occupò in particolare nei dialoghi più tardi – Parme­ nide e Timeo soprattutto – fornendo al loro interno un’interpretazione indubbiamente personale della filosofia parmenidea (cf. I 1 § 2 e I 2 § 1). 224 sul ‘controllo’ del testo da parte dell’autore e successivamente alla sua morte vd. rossi (2000), in particolare le pp. 166-167 e 173-175.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

Nonostante le difficoltà di interpretazione di dati insufficienti e al tempo stesso complessi, sembra ragionevole ammettere sulla base di alcune discrepanze nelle citazioni dei più antichi testimoni – Platone, Aristotele, Teofrasto – il formarsi nel tardo IV sec. a. C. di diverse tradizioni attiche. Tra esse si deve probabilmente distinguere tra una tradizione ’accademica’, strettamente legata alla scuola fondata da Platone, e una tradizione che ho chiamato ’dossografica’, legata agli ambienti del Peripato, il cui primo e fondamentale rappresentante è con ogni verosimiglianza Teofrasto (cf. I 1 § 3). Per quanto riguarda aristotele, invece, alcuni indizi nelle sue citazioni invitano a supporre che la sua conoscenza del testo del poema – almeno quella di cui si conserva traccia – sia rimasta ancorata all’ambiente dell’Accademia. l’età ellenistica non ci ha restituito neppure un verso di Parmenide. ciò va spiegato probabilmente con l’egemonia a quell’epoca di sistemi filosofici imperniati sull’etica e con una certa diminuzione di interesse per le dottrine presocratiche in generale. certamente il testo di Parmenide era posseduto nei grandi centri della cultura ellenistica, alessandria innanzitutto. l’assenza totale di fonti di testo come pure la povertà di informazioni ci impediscono tuttavia di fare qualsiasi ipotesi sulle tradizioni conosciute dagli Alessandrini e sul tipo di interventi – se ce ne furono – che vennero praticati sul testo di Parmenide (ma cf. introduz. § 3). la tradizione accademica fu certamente di grande prestigio e di longevità eccezionale ma non restò indenne da modificazioni, in particolare durante il periodo del cosiddetto Medioplatonismo (cf. p. es. I 2 § 5). Essa è riflessa a mio giudizio nelle testimonianze di Plutarco prima e di Proclo poi (i 1 §§ 4 e 9). le citazioni superstiti di queste due fonti sembrano infatti dipendere da esemplari che portavano un testo assai vicino. Dal secondo filone della tradizione attica, che ho definito ’dossografico’, dipendono altre fonti tarde, la cui caratteristica principale è quella di portare un testo molto rovinato sotto il profilo linguistico. se la mia ipotesi è esatta, il testo citato da clemente alessandrino dipendeva da una tradizione di questo tipo (I 1 § 6). il testo da cui sesto empirico ha tratto il proemio dipendeva invece probabilmente da una tradizione in parte o del tutto indipendente dalle tradizioni attiche. nonostante si sia insistito spesso, a iniziare dai primi del novecento, sul collegamento tra sesto empirico e gli ambienti dello stoicismo, a mio parere i brani di Parmenide che da lui ci arrivano riflettono piuttosto una matrice scettica di impronta anomalista. È comunque certo che Sesto attingeva a una tradizione importante: non a caso, a lui e a lui solo dobbiamo la nostra conoscenza del proemio (cf. i 1 § 5; i 2 §§ 3 e 4). al neoplatonismo e ad alcuni tra i suoi esponenti di spicco risale la gran parte dei frammenti di Parmenide che oggi conosciamo. i neoplatonici guardarono alla storia della filosofia precedente in una prospettiva sostanzialmente atemporale e nutrirono una venerazione per le antiche filosofie che

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Conclusioni

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maggiormente inclinavano al misticismo e all’interpretazione simbolica della realtà. al centro degli interessi furono posti Pitagora e Platone. Parmenide fu visto come un anello di congiunzione tra la filosofia più antica e la filosofia di Platone, di cui i neoplatonici si ritenevano interpreti (i 1 § 7). anche nel caso del neoplatonismo sarebbe ingenuo ragionare in termini di una tradizione del testo unitaria. Nella realtà dovettero esistere più tradizioni, collegate con le varie aree del mondo greco-romano a cui il neoplatonismo fece arrivare la propria voce. riguardo al poema di Parmenide è come sempre difficile prospettare scenari certi. Un fatto, in ogni caso, sembra assodato: Proclo e simplicio si sono riferiti a tradizioni diverse. mentre possiamo inquadrare le citazioni di Proclo nel solco della tradizione accademica (cf. I 1 § 9), è più difficile formulare un giudizio riguardo alla tradizione giunta in mano a Simplicio. L’ipotesi che qui ho avanzato è che Simplicio si sia riferito a una tradizione di origine microasiatica facente capo in ultima analisi a giamblico e alla sua scuola (i 1 § 8). in rapporto a Parmenide, simplicio è un testimone fondamentale ma sopravvalutato per vari motivi: mancava infatti sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell’esemplare giunto in suo possesso (cf. i 1 § 10). 2. Lingua di Parmenide e dialetto ionico orientale al di là delle convenzioni connesse con il genere poetico, è indubbio che gli esametri parmenidei riflettano in via privilegiata un dialetto ionico. La particolare collocazione geografica di Elea, posta nel mezzo di una enclave euboica e in stretto contatto con il mondo coloniale dorico, pone tuttavia il problema specifico di individuare, se possibile, il tipo di dialetto ionico. l’esame linguistico dei frammenti superstiti indirizza verso il dialetto ionico orientale parlato a elea in età immediatamente successiva alla fondazione della città da parte degli esuli focei. le indicazioni in favore di un’originaria coloritura ionica orientale non sono molte e debbono essere recuperate sotto i guasti della tradizione del testo. tra gli indizi principali va certamente annoverata la psilosi, di cui si può ricostruire un caso a mio giudizio certo in B 1. 25 e di cui la copia del proemio usata da sesto empirico conservava forse altri esempi (cf. i 2 § 4). un secondo indicatore potrebbe essere l’esito wu delle crasi o + au, che in Parmenide è stato quasi del tutto oscurato dalla tradizione ma che affiora già nei testi epici arcaici e ha attestazioni in iscrizioni ioniche orientali antiche (iii 1 § 3.3). Fatti come il mantenimento di ss invece di tt (tranne che in plavttontai, su cui cf. ii 2 § 3) o di rs invece di rr provano poco ai fini della collocazione dialettale perché strettamente legati al genere poetico. allo stesso modo va letta anche l’assenza di trattamenti tipicamente ionici orientali come kote, kw" in luogo di pote, pw" ecc.

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

rispetto alla dizione epica tradizionale, anch’essa notoriamente molto influenzata dai dialetti ionici, il poema di Parmenide presenta vari elementi di ’modernità’, che rappresentano con ogni probabilità dei riflessi della lingua parlata, di cui talora la documentazione epigrafica ci dà conferma. Tra gli indicatori fondamentali dello scarto rispetto all’epica omerica va sicuramente annoverata la pressoché assoluta inoperatività prosodica di [w] (II 1 § 1), sia in formule esametriche di nuovo conio che in adattamenti di formule tradizionali. i pochi esempi di [w] metricamente operante si registrano solo dove la dizione è deliberatamente arcaizzante e riprende puntualmente il formulario omerico. I casi sicuri o probabili di metatesi di quantità sono appena due, mentre dei restanti quattro casi uno rappresenta quasi certamente un guasto della tradizione e gli altri tre sono incerti o molto dubbi (II 1 § 2). Va dunque registrato qui un deciso avanzamento rispetto all’epica tradizionale: Omero fotografa infatti una situazione in cui gli esiti metatetici corrispondevano alle forme reali dei dialetti ionici; ma in età successiva molti di quei dialetti avevano iniziato a ridurre ulteriormente tali esiti, come si vede dalle iscrizioni. È probabile che anche su questo punto la dizione parmenidea sia in linea con i dialetti parlati. tuttavia le forme originarie, o presumibilmente tali, vanno ricostruite sotto le incrostazioni della tradizione, che ha spesso agito in direzione del ripristino delle forme con metatesi, percepite come più auliche in un contesto esametrico. La frequenza del ­n cosiddetto efelcistico è molto alta in tutti i contesti metrici (ii 1 § 4). colpisce in maniera particolare rispetto all’epica omerica e ad altri testi esametrici arcaici, anche quelli molto influenzati dallo ionico, il gran numero di casi in cui ­n si trova usato prima di consonante per ’fare posizione’. altrettanto numerosi sono gli esempi in cui ­n dissimula un antico [w] ormai perduto nella dizione. anche molti tratti morfologici peculiari del testo parmenideo si spiegano in modo soddisfacente alla luce di sviluppi recenti dei dialetti ionici orientali, le cui tracce affiorano talora già nel testo omerico e più spesso nella lirica ionica arcaica. il pronome sfa±" è una forma analogica entrata in uso in fase relativamente recente nei dialetti ionici, di cui esistono rari paralleli nell’epica tradizionale (ii 2 § 1). analoga spiegazione vale forse per il perfetto non raddoppiato plh'ntai, che potrebbe riflettere le pronunce veloci dello ionico parlato, attestate raramente anche in omero (ii 2 § 2). l’aggettivo ejpideev", che alterna nei mss. con ejpideuev", è una forma ionica recente che Parmenide ha preferito alla forma tradizionale ed aulica ejpideuev" (ii 2 § 5). il presente parista'tai (da preferire nettamente al parevsthken di una parte della tradizione; per l’accento cf. i 2 § 2) è una forma tematizzata e recente di un tipo ben attestato sia nel testo omerico che nella poesia, nella prosa e nelle iscrizioni ioniche arcaiche e classiche.

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3. Dialetti e tradizioni letterarie in Occidente riconoscere che il dialetto fondamentale del poema di Parmenide è lo ionico orientale non equivale ad azzerare la questione delle interferenze dialettali, che non solo furono sicuramente all’ordine del giorno nei dialetti delle colonie ma rappresentano un tratto distintivo di molte tra le lingue letterarie d’occidente. Ferma restando la sua coloritura ionica orientale, neppure il poema parmenideo è rimasto chiuso alla penetrazione di elementi estranei alla tradizione epica. Per il suo indubbio interesse questo tema è uno tra i pochi concernenti la lingua parmenidea ad avere attirato l’attenzione di studiosi di livello (tra i più recenti García Ramón 1990, Cassio 1994 e Cassio 1996, Ferrari 2005). L’accento è stato posto ovviamente sui casi più eclatanti, vale a dire le forme di infinito con paralleli nella letteratura e nell’epigrafia greca d’Occidente: da un lato gli infiniti ’corti’ fu'n per fu'nai (B 8. 10) e migh'n per migh'nai (B 12. 5), che hanno conferme nelle iscrizioni euboiche e un illustre antecedente in stesicoro (ei\n, PMGF 157)225, dall’altro l’infinito tematico a desinenza atematica pelevnai (B 8. 11 e 45), con paralleli nel pievnai graffito sulla Laminetta di Hipponion (iV sec. a. c.) e nel kleptevnai inciso su uno skyphos rinvenuto nell’entroterra di Lentini (primo quarto del V sec. a. C.)226, che riflette probabilmente forme di infinito create nell’ambito dei dialetti ionici d’Occidente. A questi esempi, che rivelano la preferenza di Parmenide per forme in uso nei dialetti locali anche a discapito di quelle consacrate dall’epica, potrebbe aggiungersi il plavssontai di B 6. 5, se è esatta l’ipotesi di una forma analogica possibile tanto nei dialetti ionici orientali quanto in alcuni dialetti dorici d’Occidente a fianco del plavzontai tradizionale (cf. ii 2 § 3). Anche sul piano fonetico è ammissibile un influsso sugli esametri parmenidei di tradizioni letterarie nate o travasate in area coloniale. Benché, come nell’epica omerica, il iii allungamento di compenso venga di norma realizzato nei frammenti superstiti, esiste un caso certo di mancata realizzazione (B 8. 1). d’altro canto, il numero di casi in cui muta cum liquida ’fanno posizione’ è di poco superiore a quello dei casi in cui si ha il trattamento contrario. A meno che non si tratti di fenomeni appartenuti ai livelli sociolinguistici inferiori dello ionico orientale, questi casi rivelano l’influsso di tradizioni poetiche al cui interno gli esiti senza allungamento di compenso e del tipo pa.trov" erano normali (su questi problemi cf. II 1 § 3). È dunque attraente l’ipotesi che si tratti di elementi derivati da quei dialetti che hanno avuto un loro ruolo, pur molto marginale, anche nelle fasi più recenti del testo omerico, quali l’euboico e varie forme di dorico. La menzione dei dialetti dorici apre inoltre la delicata questione dei rapporti linguistici tra il poema di Parmenide e la lirica. l’abitudine ad ancorare i vari 225 226

esauriente documentazione in garcía ramón (1990). Pugliese carratelli (2001, i a 1); manganaro (1996, p. 18).

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Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua

generi letterari greci a caratteristiche formali specifiche non deve farci chiudere gli occhi di fronte alla possibilità di un influsso ad ampio raggio del dialetto tradizionale della lirica sulla poesia esametrica tardo-arcaica. in Parmenide esistono a mio giudizio tre esempi di a– di ascendenza lirica di cui è difficile disfarsi (B 1. 24, B 6. 5, B 10. 2; cf. iii 2 §§ 3-5). l’ingresso di un tratto così marcatamente eterogeneo in un contesto esametrico sottolinea l’audace tentativo da parte di Parmenide di riformare in profondità la dizione epica, il cui tessuto linguistico tendeva ormai a fossilizzarsi nelle forme ereditate dalla tradizione. 4. Atticizzazione del poema La presenza di molti atticismi nei frammenti di Parmenide trova giustificazione nelle vicende della trasmissione antica del poema. È difficile arrivare a conclusioni definitive su questo argomento ed è probabile che non avremo mai informazioni sufficientemente chiare su come si sono svolti i fatti. A mio parere gli atticismi dovettero iniziare a penetrare nel poema parmenideo in età piuttosto vicina alla sua composizione, quando cioè esso assurse a testo fondamentale per la filosofia elaborata ad Atene. Dalla tradizione attica si dipanano, con la sola ma fondamentale eccezione di sesto empirico, le tradizioni testuali riflesse nelle nostre fonti. Ciò non significa ovviamente che non siano esistite tradizioni indipendenti; ma queste tradizioni, purtroppo, sono irrimediabilmente perdute. i processi di atticizzazione del testo furono estremamente complessi. da un lato dovette essere ben presto avviato un livellamento del poema sul piano fonetico (cf. p. es. i 2 § 6). esso non si tradusse semplicemente nell’immissione di elementi attici, quanto piuttosto in un adattamento del testo alle norme con cui ad atene erano stati recepiti i poemi epici arcaici. in altre parole, là dove era metricamente possibile, il testo di Parmenide fu per così dire ’omerizzato’: così si spiega, accanto all’introduzione di elementi tipici dell’attico (forme ad aspirazione iniziale in luogo delle corrispondenti forme psilotiche, modificazioni nel vocalismo), la sostituzione delle originarie forme ioniche ’moderne’ con equivalenti tradizionali (p. es. ejpideuev" per ejpideev" o, in parte della tradizione, parevsthken per parista'tai; cf. rispettivamente ii 2 § 5 e i 2 § 2). rispetto al testo omerico, tuttavia, nel caso di Parmenide i fenomeni di atticizzazione si fecero col tempo via via più profondi, di pari passo con il tentativo del mondo ateniese di appropriarsi della tradizione filosofica precedente. Se il metro lo permetteva, il poema fu reso più vicino alla norma attica, fino ad arrivare all’eliminazione di tratti costituenti della sua coloritura linguistica originaria (p. es. la sostituzione di a– per h in B 10; iii 1 § 2), eliminazione a cui i poemi epici arcaici, che pure dipendono in larga parte dalla tradizione attica, non sono mai stati sottoposti. D’altro canto, modificazioni ancora più marcate furono introdotte sul piano dei contenuti, mediante la sostituzione di termini ritenuti poco adeguati

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al contenuto del poema a seconda della prospettiva interpretativa adottata. Anche questo processo dovette iniziare molto presto, probabilmente già con Platone, a giudicare dagli indizi che possono essere raccolti in vari suoi dialoghi (cf. i 2 §§ 1 e 5). il lavoro esegetico su Parmenide continuò ininterrotto nei secoli fino alla tarda antichità, quando ad opera delle scuole neoplatoniche si verificarono le più cospicue alterazioni del testo di cui rimanga traccia (cf. soprattutto i 2 §§ 3 e 5). 5. Parmenide poeta: valutazione e problemi aperti antichi e moderni hanno dato un giudizio negativo della poesia di Parmenide, vedendo nella densità concettuale e nella durezza dei suoi esametri una prova di incapacità poetica. in realtà Parmenide, oltre a essere stato un pensatore rivoluzionario per il suo tempo, è stato anche un grande innovatore nel campo delle forme letterarie. la sue origini ioniche orientali lo rendevano capace di muoversi a suo agio all’interno della poesia esametrica: erede della più prestigiosa tradizione epica del proprio tempo, il cui baricentro era nella ionia d’asia, si pose l’obiettivo ambizioso di rivitalizzarla non solo nei contenuti ma anche nella forma. Molto si è scritto – e forse molto ancora si scriverà – sul perché decise di scrivere in versi. Qualsiasi ne sia la ragione, Parmenide volle che i suoi versi fossero ’nuovi’ al pari dei contenuti che esprimevano. Lungi dal rifugiarsi nel vieto esercizio di riproporre pedissequamente una lingua ormai fossilizzata in strutture prefissate – ciò che del resto i temi affrontati nel suo poema difficilmente gli avrebbero consentito – Parmenide volle parlare alla sua epoca senza sottrarsi al confronto con generi letterari e forme poetiche alternativi all’epos (su questo punto in particolare cf. III 2 § 1). Se in alcuni punti il suo poema sembra quasi prosa messa in versi, è perché egli raccolse la sfida di dare forma poetica a contenuti per i quali era ormai invalsa la prosa, vale a dire quella stessa modalità espressiva che Parmenide usava nelle sue lezioni orali ai discepoli della scuola di elea (cf. i 1 § 2.2). se il suo poema accoglie tratti linguistici recenti presi dallo ionico contemporaneo, è perché cercò di rinnovare la veste della poesia esametrica mettendola in contatto con la lingua quotidianamente usata nella divulgazione filosofica. Tanto nei contenuti quanto nella forma il poema fu pensato da Parmenide per imporsi all’attenzione di chi lo avesse letto o memorizzato. Se la posizione di Parmenide nella tradizione epica è una questione essenziale, già affrontata in vari studi più o meno sistematici con alterni risultati, sulla quale torneranno sicuramente in futuro altri studiosi, a mio giudizio restano tuttavia aperti, oltre a quelli affrontati in questo libro, due temi di grande interesse sui quali poco o nulla è stato scritto finora. Il primo riguarda i rapporti tra la poesia parmenidea e la nascente prosa scientifica, di cui i frammenti superstiti riflettono chiaramente non solo elementi lessicali, ma anche,

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in diversi punti, movenze sintattiche. il secondo riguarda invece il legame tra Parmenide e la tradizione poetica attica, con cui i frammenti mostrano evidenti punti di contatto, particolarmente sotto il profilo lessicale (importanti sembrano soprattutto le convergenze con eschilo, poeta che intrattenne stretti legami con il mondo coloniale)227. sarebbe un decisivo passo in avanti riuscire a stabilire le modalità dell’interscambio culturale tra atene e le colonie occidentali in epoca anteriore al periodo di grande egemonia che la città attica esercitò a partire dalla metà del V secolo a. c.

227 Di questi problemi, che non hanno potuto trovare spazio in questo libro, mi sono in parte occupato nella mia tesi di laurea (La lingua di Parmenide: tradizione epica e dialetti ionici, non pubblicata).

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IndICe delle Parole greChe

ajgevnhton aijqeriva–n ajlhqeivh ajlhqh' ajmaxitovn ajnustovn (v.l. ejfiktovn) ajnwvleqron ajnwvnumon ajpotmhvxei ajraiovn ajtevleston ajtremev~ (v.l. ajtrekev~) aujtevwn (v.l. aujtw'n)

61 ss. 120 51 ss. 122 60 s. 38 89, 111 s. 111 s. 32 s. 126 61 s., 65 53 ss. 84 s.

divkra–noi dokou'nta

137 ss. 121

eJautov ejgwv, ejgwvn ei{neken eij~ ejlafrovn ejovn, ejovnta, ejovnto~ ejpideuev~ (v.l. ejpideev~) ejstin euja–gevo~ eujkuklevo~ (v.l. eujpeiqevo~, eujfeggevo~) eujkuvklou e[cei (v.l. e[ch/) eJwutw'/

66 ss., 122 s., 125 97 s. 97 31 126 126 ss. 112 ss. 97 141 s. 55 ss. 56 48 122 s.

hjevlio~ h{lio~ h\tor

75 75 52 s.

qurevtroi~

100

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Indice delle parole greche

iJknei'sqai

90

kaqara'~ ke, ken kevkritai kra'si~

120 97 89 s. 120

mei'zon messovqen movno~ mounogenev~ (mss. mon­, v.l. oujlomelev~) oijkodovmhsan o[n ou\lon ou{neken

124 97 87 ss. 61 ss. 17, 74 125 ss. 45 ss. 97

panapeuqeva (v.l. panapeiqeva, parapeiqeva) parivsta–tai (v.l. parevsthke) perw'nta (v.l. per o[nta) plavttontai plh'ntai plh'nto poluplavgktwn (v.l. polukavmptwn) pulevwn

38 48 ss. 127 s. 104 ss. 100 ss. 102 s. 48, 90 84 s.

suna–voro~ sfa±~

132 ss. 99 s.

tai'~ taujtovn, taujtw/' twujtovn

39 n. 38 66 ss., 122 s. 66 ss., 122 s.

uJdatorivzon

129 s.

faveo~ favo~ fa–novn forou'ntai fw'~

76 75 s. 76 121 75 s.

creovn crevo~ crewv crewvn

80 ss. 82 s. 77 ss. 79 ss.

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IndICe deI PassI dIsCussI

anaxag.

B 12

67 ss.

aristoph.

av. nub.

597 276

114 s. 141

aristot.

de an. metaph.

427a 22 ss. 1009b 17 ss. 1093b 4

49 s. 49 s. 62 s.

Boet.

cons. phil. 4. 6. 38

17

crat.

fr. 161 K.-a.

17 s., 140 s.

diog. laert.

9. 21 9. 28

17 15

emped.

B 2. 5 B6 B 8. 3 s. B 17 . 1 s. = 16 s. B 20. 4 s. B 20. 6 s. B 35. 5 B 45 B 47 B 61 B 108 B 111. 2 B 133. 1 B 134. 4

88 130 n. 191 88 88 110 131 s. 88 76 141 s. 140 49 s. 89 38 89

P. Strasb. a(ii) 17 20 21 26 27 s. 28

88 88 89 90 131 s. 130 n. 191

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164 epich.

fr. 276 K.-a.

47, 66 ss.

Hom.

Il.

7. 223 7. 246 10. 172 11. 698 ss. 13. 761 21. 268 s.

115 115 78 135 s. 112 109

Od.

4. 312 5. 388 s. 7. 261 8. 99 8. 353 8. 355 3. 367 8. 552 13. 81 ss. 14. 287 15. 201 18. 384 ss.

78 109 115 132 ss. 83 83 83 111 s. 135 115 78 100

Hymni

Aphr. Dem.

31 268

136 136

iambl.

vit. Pyth. 267

37

ioann. Phil.

aetern.

63 s.

Parmen.

a1 a2 a5 a 12

13 n. 1, 14 n. 2 25 13 n. 1 14 n. 2

B 1. 12 B 1. 13 B 1. 17 B 1. 20 B 1. 24 B 1. 24 s. B 1. 28 B 1. 29 B 1. 31 B 1. 32

99 s. 100 ss. 84 ss. 84 ss. 132 ss. 57 ss. 77 ss. 51 ss. 121 127

B 2. 5 B 2. 6 ss.

79 s. 38 s.

6. 21

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B4

32 s.

B 6. 5 B 6. 6 B 6. 8 s.

104 ss., 137 ss. 121 122 s.

B 7. 6

87 ss.

B 8. 1 B 8. 3 B 8. 4 B 8. 9 B 8. 11 B 8. 16 B 8. 17 B 8. 29 B 8.29 s. B 8. 33 B 8. 34 B 8. 38 B 8. 39 B 8. 41 B 8. 42 ss. B 8. 44 B 8 45 B 8. 46 B 8 53 s. B 8. 57 B 8. 57 s.

87 ss. 89, 111 s. 61 ss. 82 s. 79 s. 89 s. 111 s. 122 s. 39, 66 ss. 62, 112 ss. 122 s. 45 ss. 122 76 23 s. 124 80 ss. 90 79 s. 126 s. 122 s.

B 10. 1 ss. B 10. 2

120 141 s.

B 12. 1 B 12. 3 ss.

102 s. 28

B 14

76

B 15

142

B 15a

129 s.

B 16. 1 B 16. 2

90 48 ss.

165

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166 Pind.

Nem.

5. 16 s.

54

Plat.

Parm.

127b

13 s.

Phaed.

78d 108c

68 s. 130 n. 191

Phaedr.

250c

54

soph.

237a 241d-242a 242d

25 13 s. 16 s.

symp.

178b 211a-b

28 63 s.

Theaet.

180d-e

45 ss.

Tim.

27c 31a-b 33 b-c 33c 34a 92c

63 s. 64 ss. 23 s. 115 68 s. 64 ss.

Plot.

enn.

5. 1. 8

33 ss.

Plut.

adv. Col.

1114c

62 s.

Procl.

in Parm.

1084

65 s.

sappho

fr. 37 V.

sext. emp.

math.

7. 111 7. 112 ss. 7. 114 9. 4

55, 57 ss. 29 ss. 55 28 n. 24

simpl.

cael.

558. 3 558. 8

40 s. 40 s.

phys.

22 31. 3 ss. 39 137. 15 ss. 144. 25 ss.

16 41 s. 28 65 s. 40 s.

stes.

109

fr. 184. 2 (PMG) fr. 223 (PMG)

129 s. 88

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Xenoph.

Zen.

a 12 a 13 a 31 a 47

16 16 16 130 n. 191

B 1. 9 B 26 B 28 B 28. 2

104 39, 66 ss. 130 n. 191 90

a1

15

167

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