Rivoluzione molecolare. La nuova lotta di classe 8806020064, 9788806020064

Ciò che caratterizza il capitalismo è la compartimentazione. Come i discorsi e le dottrine dogmatiche cerca sempre di me

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Italian Pages 258 [276] Year 1997

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Rivoluzione molecolare. La nuova lotta di classe
 8806020064, 9788806020064

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SAGGI 599

Copyright © *97* Félix Guattari Copyright © 1978 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Félix Guattari

La rivoluzione molecolare

Traduzione di Bruno Bellotto, Anna Rocchi Pullberg e Alfredo Saisano

Giulio Einaudi editore

Indice

p. ix

Prefazione all’edizione italiana

La rivoluzione molecolare i. Rivoluzione molecolare e lotta di classe 5 La fine dei feticismi 26 Socialdemocratici ed eurocomunisti di fronte allo Stato II.

La giustizia e il fascismo quotidiano 41 La questione dei tribunali popolari 45 L’odio di Troyes. Sulla pena di morte yi I reati flagranti 56 II 138° anniversario della legge del 1838 62 Tre miliardi di perversi III.

Linee di fuga 73 83 86 92 96 99 103 109

Mary Barnes o l’Edipo antipsichiatrico II denaro nello scambio analitico Antipsichiatria e antipsicanalisi II « Réseau » (Bruxelles 1975) Matti da slegare (Italia 1976) Sulla scuola Gli asili nido e l’iniziazione Gangs a New York. Progetto di ricerca

vili

Indice p. 113 Le droghe significanti 118 Divenire donna IV.

Il cinema, un’arte minore 123 II cinema, un’arte minore 128 Le cinemacchine desideranti 138 II divano del povero V.

Impalcature semiotiche 131 Per una micropolitica del desiderio 181 II posto del significante nell’istituzione 191 II valore, la moneta, il simbolo 196 Senso e potere 209 La coscienza diagrammatica 212 Ridondanze intensive e ridondanze espressive. Appunti 217 Le proposizioni macchiniche 228 Le macchine concrete

239 Milioni e milioni di Alice in potenza

Prefazione all’edizione italiana

Secondo un tenace pregiudizio, il discorso è generalmente senza pre­ sa sulla realtà. L’impazienza cresce finché qualcuno non finisce col gri­ dare: «Basta con le chiacchiere, ci vogliono degli atti!» Tuttavia, ad un esame più attento, ci si accorgerebbe che il discorso, gli atti e la realtà sono sempre collegati tra loro. E aggiungerei che la rapida evoluzione dei mezzi di comunicazione, la trasformazione dei mezzi di produzione e i mutamenti nelle realtà materiali e sociali che ci circondano sono di tali proporzioni che il reale, il logos e la prassi sono sempre più inestri­ cabilmente collegati. Il fatto che un discorso sia vuoto e dogmatico, che si metta a girare a vuoto all’infinito, non significa affatto che sia staccato dal reale. Anzi, esso ha la funzione di confermare una certa realtà dominante e di met­ tersi al servizio di una formazione di potere gelosa dei propri interessi. Corollario: soltanto un discorso di rottura può tentare di uscire dal­ le formazioni oppressive di potere. Nessuna lotta liberatrice, in qual­ siasi campo, può fare a meno di una pratica liberata del discorso, che non riguarda soltanto la disposizione delle parole, il senso delle frasi, ma anche la natura della concatenazione che enuncia questo stesso di­ scorso. In questo libro, si ritiene di poter affermare che un certo tipo di enunciazione individuata — alla quale veniamo preparati in famiglia, a scuola, in ufficio, in fabbrica, attraverso la televisione, ecc. - è inse­ parabile dal conformismo dei discorsi e dalle realtà alienanti del suo contesto capitalistico. Tutto ciò che di creativo, di innovativo e di rivo­ luzionario può emergere, passa sempre attraverso una concatenazione collettiva d’enunciazione, la realizzazione di una lingua minore che ha le sue radici in un particolare territorio sociale, in un segmento vivo della storia. Queste nuove lingue non si parlano soltanto con il linguag­ gio - soprattutto quello che ricalca i codici scritti —, ma anche con mo­ vimenti del corpo, espressioni del viso, costellazioni sociali vive, perce­ zioni particolari... Perciò, fine della dittatura del Significante, vale a

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Félix Guattari

dire della riduzione di tutti questi modi d’espressione minoritari, mar­ ginali rispetto alle esigenze della lingua dominante. I discorsi e le dottrine dogmatiche cercano sempre di mettere del­ l’ordine appellandosi a leggi universali. Essi proiettano l’ordine di un supposto pensiero totalizzante, in realtà totalitario, sulle realtà mate­ riali e sociali. Ciò li porta a tenere rigidamente separati i registri del discorso scientifico, del discorso politico, di quello artistico, ecc... Biso­ gna invece rifiutare non solo questo tipo di compartimentazione, ma anche tutto ciò che separa l’analisi di uno di questi discorsi dalle situa­ zioni sociali che Io sottendono e dalle concatenazioni d’enunciazione che lo pronunciano. L’inconscio reale - non quello dello psicanalista - co­ munica con la produzione reale, che, a sua volta, non coincide affatto con quanto di essa è preso in considerazione dai valori di scambio del capitalismo. L’inconscio e la produzione comunicano con la percezione, che non coincide affatto con le forme proposte dalla realtà dominante. L’inconscio, la produzione e la percezione comunicano con l’arte, con la scienza, con la politica... Sarebbe impossibile ridurre questa rete di comunicazioni trasversali a una teoria generale della Comunicazione. Molteplici componenti semiotiche formano concatenazioni per costitui­ re mondi che si attraversano, si influenzano, si espropriano, si trasfor­ mano. E questa politica delle concatenazioni non può neppure essere ridotta a un semplice problema di quantità d’informazione trasmessa da un vettore di comunicazione ad un altro: essa pone il problema della conquista di nuovi spazi di libertà. Applicazione: i politici di destra e di sinistra che pretendono di par­ lare in nome della Legge si vedono messi in discussione in nome di un’altra Legge, quella ad esempio dei fautori di una «giustizia popo­ lare». In ogni caso, si ha sempre a che fare con lo stesso tipo di legge oppressiva, e forse addirittura con lo stesso tipo di tentativo, atto a evi­ tare l’immensa rivoluzione che cerca forme proprie che rompano radi­ calmente con il discorso di Stato e anche con quelli dei partiti, dei grup­ puscoli e delle dottrine ancora affascinate dallo Stato. In sostanza, ipo­ tesi di una rivoluzione molecolare che avrebbe luogo sincronicamente su tutti i registri, quelli del rapporto con il tempo, con il cosmo, con le parole, con i suoni, con le carezze, con le cose di tutti i giorni, con i progetti più pazzi, più audaci. Ricerca di una regolazione sociale che non sarebbe più fondata sulla Legge sadica, la Legge perversa del Capi­ tale, del Burocrate, del Portavoce di professione, del Giudice pubblico e del Giudice intimo. Ciò significa che questa rivoluzione non avrà più niente a che fare con la lotta di classe? No, di certo! La rivoluzione molecolare rimarrà

Prefazione all’edizione italiana

XI

un fatto locale, si farà recuperare da ogni parte, se non si fonderà sulle grandi trasformazioni sociali portate dalla lotta di classe. Ma, reciproca­ mente, la lotta di classe continuerà a scivolare nel conformismo e nel dogmatismo se non si farà contaminare dalla rivoluzione molecolare. L’alleanza tra i nuovi movimenti di liberazione che, ogni giorno un po’ di pili, trasformano il nostro contesto politico e le lotte della classe operaia è necessaria e inevitabile. Senza tuttavia mai perdere di vista che le lotte di desiderio, le lotte contro il conformismo dominante, la difesa delle minoranze contro il consenso oppressivo della maggioranza ha come bersaglio anche la classe operaia e soprattutto i suoi apparati, particolarmente impregnati dai modi di pensare, dai modi d’organizza­ zione, dai modi di vita del potere capitalistico e dei suoi sostituti negli Stati «socialisti». Alleanza, strategia contro il nemico comune. Ma, parallelamente, lotta incessante contro quell’altra specie di nemico intimo che continua a riemergere nei nostri stessi ranghi, nella nostra famiglia, nella nostra coppia, nel nostro io, non appena i giochi del potere e della dipendenza espropriano la libertà del desiderio e la volontà di cambiare il mondo. FÉLIX GUATTARI

Maggio 1978.

L’edizione italiana di questo volume è tratta da La révolution moléculaire, Editions Recherches, Fontenay-sous-Bois 1977. Rispetto al volume francese essa presenta le seguenti varianti: i primi tre articoli sono stati fusi dall’autore nel saggio Rivoluzione molecolare e lotta di classe; non sono stati inclusi nella scelta italiana i seguenti articoli: Le SPK (Heidelberg 1971), Les psycbiatres contre le frsnquisme (Espagne 1977), La Borde, La fosse aux enfants, J'ai mème rencontré des iravelos heureux, La bombe énergumène. La Balade sauvage, Il et moì-je, Le pian de consistence; è stato incluso l’articolo, non compreso nella scelta francese, Le droghe signi­ ficanti. Per le fonti degli articoli qui raccolti si veda l’edizione francese.

La rivoluzione molecolare

I.

Rivoluzione molecolare e lotta di classe

La fine dei feticismi

Dietro Marx e Freud, dietro la marxologia e la freudologia, c’è la realtà di merda del movimento comunista e del movimento psicanali­ tico. È da questo punto che bisogna partire ed è a questo punto che bisogna sempre tornare. E quando parlo di merda, è appena appena una metafora : il capitalismo riduce tutto allo stato di merda, cioè di flussi indifferenziati e decodificati, da cui ciascuno deve trarre la propria parte secondo modalità private e colpevolizzate. È il regime della intercambia­ bilità: qualunque cosa, in «giuste» proporzioni, può equivalere a qua­ lunque altra. Marx e Freud, per esempio, ridotti allo stato di banalità dogmatiche, potranno essere messi in commercio senza alcun rischio per il sistema. Il marxismo e il freudismo accuratamente neutralizzati dai corpi costituiti del movimento operaio, del movimento psicanalitico e dell’università, non soltanto non disturbano più nessuno, ma sono ad­ dirittura diventati i garanti dell’ordine costituito, la dimostrazione per assurdo che è impossibile scuoterlo seriamente. Si obietterà che non sono da imputare a quelle teorie le deviazioni inerenti ad alcune pra­ tiche che si richiamano ad esse, che il loro messaggio originario è stato tradito, e che bisogna appunto tornare alle fonti, rivedere le traduzioni difettose, ecc. - È questo il trabocchetto feticistico. Non ci sono esem­ pi, nel campo delle scienze, di un simile rispetto dei testi e delle for­ mule enunciate dai grandi uomini di scienza. Il revisionismo è qui di prammatica: non si fa altro che relativizzare, disgregare, scompaginare le teorie costituite. Quelle che resistono sono sottoposte a un assedio continuo. L’ideale non è affatto di mummificarle, ma di aprirle verso altre costruzioni altrettanto provvisorie, ma più salde sul terreno del­ l’esperienza. Quel che conta, in ultima istanza, è l’uso che di una teoria viene fatto. Non si può quindi lasciare da parte l’attualizzazione del marxismo e del freudismo. Bisogna partire dalle pratiche esistenti per poi risalire ai vizi d’origine delle teorie, in quanto esse si prestano in un modo o nell’altro a simili distorsioni. L’attività teorica si sottrae a sten­ to alla tendenza del capitalismo che consiste nel ritualizzare, nel recu-

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Rivoluzione molecolare e lotta di classe

. pera re ogni pratica anche minimamente sovversiva, separandola dagli investimenti desideranti; la pratica teorica non può sperare di uscire dal proprio ghetto se non aprendosi verso le lotte reali. Il primo com­ pito di una teoria del desiderio dovrebbe consistere nel cercare di di­ scernere i possibili me2zi per fare irruzione nel campo sociale, piuttosto che cauzionare l’esercizio quasi mistico dell’ascolto psicanalitico dietro il divano, quale si è sviluppato da Freud in poi. Correlativamente, ogni argomentazione teorica concernente le lotte di classe attuali, dovrebbe impegnarsi in primo luogo ad aprirle verso la produzione desiderante e la creatività delle masse. II marxismo, in tutte le sue versioni, si lascia sfuggire il desiderio e si svigorisce nel burocratismo e nell’umanesimo, mentre il freudismo non solo è rimasto fin dall’origine estraneo alla lotta di classe, ma per di più ha incessantemente deformato le proprie scoperte fondamentali sul desiderio inconscio, per tentare di ricondurlo, ammanettato, alle norme familiari e sociali dell’ordine dominante. Ri­ fiutare di affrontare queste carenze fondamentali, o tentare di dissimu­ larle, equivale a lasciar credere che i limiti intrinseci di queste teorie siano realmente insormontabili. Ci sono due modi di consumare gli enunciati teorici: quello dell’universiiario che prende o lascia il testo nella sua integralità, e quello del dilettante appassionato che al tempo stesso lo prende e lo lascia, lo manipola secondo la propria convenienza, cerca di servirsene per illuminare i propri punti di riferimento e orien­ tare la propria vita. Il solo problema è quello di cercare di far funzio­ nare un testo. Da questo punto di vista, ciò che è sempre vitale nel marxismo e nel freudismo, non è la coerenza dei loro enunciati, ma la loro carica di rottura, ur.a certa maniera di spazzare via l’hegelismo, l’economia politica borghese, la psicologia universitaria, la psichiatria dell’epoca, ecc. L’idea stessa di una congiunzione fra due corpi separati - marxismo e freudismo — falsa la prospettiva. Frammenti di marxismo smembrato possono e devono concorrere a una teoria e a una pratica che vertano sul desiderio; frammenti di un freudismo smembrato possono e devono concorrere a una pratica che verta sulla lotta di classe. L’idea stessa di una teoria e di una separazione tra un esercizio privato del desiderio e un campo pubblico delle lotte d’interesse, conduce implicitamente al­ l’integrazione capitalistica. La proprietà privata dei mezzi di produ­ zione è intrinsecamente legata all’appropriazione del desiderio da parte dell’io, della famiglia e dell’ordine sociale. Si comincia col neutralizzare, nel lavoratore, qualsiasi facoltà di accesso al desiderio, attraverso la ca­ strazione familiaristica, la trappola tei consumi, ecc., per poi appro­ priarsi senza difficoltà della sua forza-lavoro. Separare il desiderio dal

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lavoio: è questo l’imperativo principale del Capitale. Separare l’econo­ mia politica dall’economia desiderante: è questa la missione dei teorici che si pongono al suo servizio. Il lavoro e il desiderio non sono in con­ traddizione se non nell’ambito di rapporti di produzione, di rapporti sociali e di rapporti familiari ben definiti: quelli del capitalismo e del socialismo burocratico. Non esiste alienazione del desiderio, o comples­ so psicosessuale che sia radicalmente e definitivamente separato dalla repressione e dai complessi psicosociali. Dire ad esempio — parlando dei cinesi di oggi - che il loro maoismo continuerebbe a dipendere da un Edipo universale, sarebbe come considerare il maoismo stesso come qualcosa di eterno, eternamente rinascente dalle proprie ceneri. Ma certo la storia non va avanti in questo modo. Dopo il maggio ’68, dal punto di vista del desiderio, un rivoluzionario in Francia è di una razza diversa rispetto a suo padre nel giugno '36. Non c’è Edipo possibile dall’uno all’altro! Né rivalità né identificazione! Nessuna continuità nel cambiamento! E se è vero che la storia contemporanea è proprio fatta di questo genere di fratture, allora i teorici della cosa sociale e quelli della cosa psicanalitica faranno bene a prendere le proprie misure per un serio riciclaggio. Il problema che si pone al movimento operaio rivoluzionario è quel­ lo di un divario fra - i rapporti di forza apparenti, a livello della lotta delle classi, e - l’investimento desiderante reale delle masse. Il capitalismo sfrutta la forza-lavoro della classe operaia, manipola a proprio profitto i rapporti di produzione, ma s’insinua anche nell’eco­ nomia desiderante degli sfruttati. La lotta rivoluzionaria non può ve­ nire circoscritta al solo livello dei rapporti di forza apparenti. Essa deve dunque svilupparsi a tutd i livelli dell’economia desiderante che sono contaminati dal capitalismo: a livello dell’individuo, della coppia, della famiglia, della scuola, del gruppo militante, della follia, delle prigioni, dell’omosessualità, ecc. Gli oggetti e i metodi di lotta sono diversi secondo questi livelli. Gli obiettivi del genere: «pane, pace, libertà...» richiedono l’esistenza di organismi politici che siano inseriti nel campo dei rapporti di forza, e quindi che raccolgano delle energie, che costituiscano dei blocchi. Di necessità, queste organizzazioni sono tenute a essere «rappresentative», a coordinare le lotte, a proporre una strategia e una tattica. Invece, la lotta contro il fascismo «microscopico», quello che s’instaura in seno alle macchine desideranti, non può passare attraverso la mediazione di

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«delegati», di «rappresentanti», di blocchi identificati una volta per tutte. Il «nemico» cambia volto: può essere l’alleato, il compagno, il responsabile, oppure noi stessi. Non si può mai essere sicuri che, una volta o l’altra, non si passerà dalla parte di una politica burocratica o di prestigio, di una interpretazione paranoica, di una complicità inconscia con i poteri costituiti, di una interiorizzazione della repressione. Queste due lotte possono non escludersi a vicenda: - la lotta delle classi, la lotta rivoluzionaria di liberazione implica­ no l’esistenza di macchine da guerra capaci di opporsi alle forze oppressive e, a tal fine, funzionanti secondo un certo centralismo, 0 almeno con un minimo di coordinamento; - la lotta, sul fronte del desiderio, delle concatenazioni collettive che procedono a un’analisi permanente, a una sovversione di tutti 1 poteri, a tutti i livelli. Non è assurdo sperare di rovesciare il potere della borghesia sosti­ tuendo ad esso una struttura che ricostituisca la forma di quel potere? La lotta di classe in Russia, in Cina, ecc., ha mostrato che anche dopo la sconfitta del potere borghese, la forma di questo potere poteva ripro­ dursi nello Stato, nella famiglia, e perfino nelle file della rivoluzione. Come impedire al potere centralizzatore e burocratico di sovrapporsi al necessario coordinamento che comporta una macchina da guerra rivolu­ zionaria? A livello globale, la lotta implica delle tappe, degli interme­ diari; a livello microscopico, è immediatamente in causa qualcosa come un passaggio diretto al comuniSmo, una liquidazione immediata del po­ tere della borghesia, nella misura in cui tale potere è incarnato dal bu­ rocrate, dal leader, o dal militante. Il centralismo burocratico è incessantemente importato nel movi­ mento operaio a partire dal modello centralistico del Capitale. Il Capi­ tale controlla, surcodifica la produzione controllando i flussi monetari ed esercitando un potere di coercizione nell’ambito dei rapporti di pro­ duzione e del capitalismo monopolistico di Stato. Lo stesso tipo di problema si pone con il socialismo burocratico. Ma la produzione reale non ha alcun bisogno di tale sorta di surcodifica, la quale, anzi, non fa che ostacolarla. Le più grandi macchine produttive delle società indu­ striali potrebbero benissimo fare a meno di questo centralismo. È chia­ ro che una concezione diversa dei rapporti fra produzione, distribuzione e consumo, fra produzione, formazione e ricerca, porterebbe alla frantu­ mazione dei poteri gerarchici e dispotici così come esistono all’interno dei rapporti di produzione attuali. In tal modo, potrebbe essere liberata la capacità innovativa dei lavoratori. Il fondamento del centralismo non

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è dunque economico, ma politico. Nel movimento operaio, il centrali­ smo produce lo stesso genere di sterilizzazione. Si deve ammettere che anche le lotte più ampie ed efficaci potrebbero essere coordinate al di fuori degli stati maggiori burocratici! A condizione però che l’economia desiderante dei lavoratori sia liberata dalla contaminazione da parte di una soggettività borghese che fa di essi i complici inconsci della tecno­ crazia capitalistica e della burocrazia del movimento operaio. Bisognerebbe rifiutare, in proposito, di cadere nell’altemativa sem­ plicistica fra : il centralismo «democratico», l’anarchismo, lo spontaneismo. I movimenti marginali, le comunità, non hanno certo nulla da gua­ dagnare cadendo nel mito di un ritorno all’era pretecnologica, di un ri­ torno alla natura; al contrario, essi debbono affrontare la società reale, i rapporti sessuali, familiari, reali, ecc. Ma si deve riconoscere d’altro canto che il movimento operaio organizzato ha rifiutato fino ad oggi di prendere in considerazione la propria contaminazione da parte del po­ tere borghese, il proprio interno inquinamento. E nessuna scienza co­ stituita potrebbe attualmente aiutarlo su questa strada: né la sociologia, né la psicosociologia, né la psicologia, e meno ancora la psicanalisi, si sono sostituite al marxismo in questo campo! Il freudismo, sotto l’ap­ parenza di una scienza, propone come norme non trasgredibili i processi stessi della soggettivazione borghese, e cioè: il mito di una necessa­ ria castrazione del desiderio, la sua sottomissione al triangolo edipico, un’interpretazione significante che tende a separare l’analisi dalle sue implicazioni sociali reali. Si è già detto di una possibile liquidazione del centralismo tecno­ cratico della produzione capitalistica, basata su una concezione diversa dei rapporti fra produzione, distribuzione e consumo da un lato, e, dal­ l’altro, produzione, ricerca e formazione. Tale mutamento tenderebbe evidentemente a trasformare del tutto i modi di concepire il lavoro, in particolare la separazione tra lavoro riconosciuto socialmente utile (dal capitalismo, dalla classe dominante) e lavoro «inutile» del desiderio. La produzione nel suo complesso — produzione di valore di scambio come di valore d’uso, produzione individuale o collettiva - si trova sotto la tutela di un’organizzazione che impone un certo modo di divisione so­ ciale del lavoro. La scomparsa del centralismo capitalistico porterebbe dunque, come contraccolpo, a un profondo rimaneggiamento delle tec­ niche di produzione. Nel contesto di un’industria altamente sviluppata, dell’espandersi dell’informatica, ecc., si possono concepire dei rapporti

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di produzione diversi, non antagonistici con la produzione desiderante, artistica, onirica... In altri termini, il problema che si pone, è se sia o no possibile uscire dall'opposizione esclusiva tra valore d’uso e valore di scambio. L’alternativa consistente nel dire «rifiutiamo qualsiasi for­ ma sviluppata di produzione: bisogna tornare alla natura», non fa altro che riprodurre la separazione tra i vari campi di produzione: la produ­ zione desiderante, e la produzione sociale riconosciuta utile. Il rapporto tra gli individui, i gruppi e le classi è legato alla manipo­ lazione degli individui da parte del sistema capitalistico. Gli individui in quanto tali sono fabbricati in modo da rispondere agli imperativi di questo modo di produzione. L’idea che in partenza ci sarebbero, alla base della società, degli individui, dei gruppi di individui, sotto forma di famiglia, ecc., è prodotta dai bisogni del sistema capitalistico. Tutto ciò che, nello studio delle scienze umane, si costituisce intorno all’indi­ viduo come oggetto privilegiato, non fa che riprodurre la separazione tra individuo e campo sociale. La difficoltà che ci si trova di fronte, non appena si voglia considerare una pratica sociale concreta - parola, fol­ lia, o qualunque altra cosa abbia a che vedere con un leale processo desiderante di produzione - sta nel fatto che non si ha mai a che fare con degli individui. Finché, per esempio, la linguistica si è limitata a definire il proprio oggetto in termini di comunicazione fra individui, non ha potuto cogliere minimamente le funzioni d’integrazione e di coercizione sociale della lingua. Solo oggi la linguistica incomincia a li­ berarsi dell’ideologia borghese, con lo studio dei problemi posti dalla connotazione, dal contesto, dall’implicito, ecc., e da tutto ciò che è at­ tuato dal linguaggio al di fuori di un rapporto astratto fra individui. Un gruppo, una classe, non sono costituiti da individui: è il ricadere dei rapporti di produzione capitalistica sul terreno sociale del deside­ rio, a produrre un flusso d’individui decodificati, condizione dell’asservimento della forza-lavoro. Da quando si è verificato un relativo indebolimento dello stalinismo, e una parte notevole dei giovani operai e studenti si è distaccata dai mo­ delli tradizionali di militantismo, non si sono avute grandi fratture ma piccole fughe di desiderio, incrinature nel sistema dispotico regnante nelle organizzazioni rappresentative. La frattura del maggio ’68, in Francia, è stata recuperata in capo a qualche settimana, anzi, in capo a due settimane. Ciononostante essa ha avuto conseguenze estremamente profonde, che continuano a farsi sen­ tire a diversi livelli. Anche se i suoi effetti non si manifestano più su scala nazionale, la frattura continua ad esistere sotto forma di infiltra­

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zione in ambienti di ogni sorta. È sorta una nuova visione, una nuova maniera di affrontare i problemi militanti. Prima del ’68 sarebbe stato inconcepibile pensare che, per esempio, gli interventi a favore dei dete­ nuti di diritto comune avessero un qualunque senso politico; o che de­ gli omosessuali potessero manifestare nelle piazze e difendere la loro particolare posizione nei confronti del desiderio. I movimenti di libera­ zione femminili, la lotta contro la repressione psichiatrica, ecc., hanno cambiato completamente, di senso e di metodo. I problemi si pongono dunque differentemente, ma senza che vi sia stata realmente una frat­ tura. Ciò è sicuramente dovuto all’assenza di una grande macchina da guerra rivoluzionaria. Bisogna pur riconoscere che un certo numero di rappresentazioni dominanti continuano a fare i loro danni in seno agli stessi gruppi rivoluzionari. È stata iniziata una critica del burocra­ tismo dei sindacati: il principio della «delega di potere» al partito di avanguardia, il sistema di «cinghia di trasmissione» tra le masse e il par­ tito, sono stati rimessi in questione, ma i militanti restano prigionieri di molti pregiudizi della morale borghese, e di atteggiamenti repres­ sivi nei confronti del desiderio. Il che spiega forse il fatto che nel mag­ gio ’68 non ci sia stata contestazione della psicanalisi, come invece è avvenuto per la psichiatria. La psicanalisi ha conservato una certa auto­ rità, nella misura in cui un certo numero di pregiudizi psicanalitici sono stati fatti propri dal movimento. La vera frattura si verificherà solo quando questioni come quelle del burocratismo delle organizzazioni, dell’atteggiamento repressivo dei mi­ litanti verso le mogli, i figli, ecc., la loro incomprensione del problema della stanchezza, della nevrosi, del delirio (spesso ci si rifiuta di stare a sentire qualcuno che «crolla», lo si distrugge, si pensa che sia «finito», che non abbia più il proprio posto nell’organizzazione, o addirittura che sia diventato pericoloso...); solo quando tali questioni, se non passe­ ranno al centro delle preoccupazioni politiche, almeno saranno consi­ derate altrettanto importanti quanto ogni altro compito organizzativo, quanto la necessità di scontrarsi col potere borghese, il padronato, la polizia... La lotta dev’essere condotta nelle nostre proprie file, contro la nostra stessa polizia interna. Non si tratta affatto di un fronte secon­ dario - come hanno potuto ritenere certi maoisti -, di una lotta com­ plementare, marginale. Fintantoché sarà mantenuta la dicotomia fra la lotta sul fronte di classe e la lotta sul fronte del desiderio, resteranno possibili tutti i ricuperi. È significativo che dopo il maggio ’68 la mag­ gior parte dei movimenti rivoluzionari non abbiano capito l’importanza dell’incrinatura rivelatasi con la lotta studentesca: improvvisamente,

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degli studenti, dei giovani lavoratori, avevano «dimenticato» il rispetto del sapere, il potere dei professori, dei capireparto, dei responsabili, ecc. Avevano rotto con una certa forma di sottomissione ai valori del passato, e aperto una strada nuova. Ebbene, tutto ciò è stato attribuito allo spontaneismo, cioè ad una forma transitoria di espressione, desti­ nata a essere «superata» in seguito, con la creazione di organizzazioni centralistiche. Il desiderio si era manifestato nelle masse: se ne è tenuto conto; si è atteso che si calmasse, che si disciplinasse. Non si è capito che quel nuovo tipo di rivolta sarebbe ormai diventato inseparabile da ogni lotta economica e politica futura. La proposta di una micropolitica del desiderio non consiste dunque nel gettare un ponte fra la psicanalisi ed il marxismo, in quanto teorie belTe fatte. Ciò non sembra né auspicabile né possibile. Non si può pensare, infatti, che un sistema di concetti possa validamente funzio­ nare al di fuori del suo contesto d’origine, al di fuori delle concatena­ zioni collettive di enunciazione che l’hanno prodotto. Quando qui si parla di desiderio, non si prende in prestito questa nozione dalla psica­ nalisi ortodossa o dalla teoria lacaniana. Non si pretende di fondare un concetto scientifico, ma si cerca semplicemente di mettere in piedi un insieme teorico provvisorio in cui si esamini e si metta in chiaro il fun­ zionamento del desiderio in campo sociale. Mentre non è possibile far stare insieme in una stessa frase il piacere e il godimento con la rivolu­ zione (non si può dire che esista un «piacere della rivoluzione» o «un godimento della rivoluzione»), nessuno invece si stupisce, oggi, di sen­ tir parlare di un «desiderio di rivoluzione» o di un «desiderio rivolu­ zionario». Ciò sembra legato al fatto che il significato generalmente attribuito al piacere e al godimento è inseparabile da un certo modo d’individuazione della soggettività ipersolitaria, la quale trova una sorta di realizzazione sullo spazio del divano dell'analista. Le cose stanno al­ trimenti quanto alla libido e al desiderio. Il desiderio non è intrinsecamente legato a una individuazione della libido. Una macchina di desiderio incontra forme d’individuazione, cioè di alienazione. Il desiderio non è un desiderio ideale, né ideale è la sua repressione. Non c’è desiderio in sé o repressione in sé. L’ideale di una «castrazione riuscita» fa parte delle peggiori mistificazioni reazionarie. Il desiderio e la repressione funzionano in una società reale e portano il segno di ciascuna delle sue tappe storiche: non si tratta dunque di cate­ gorie generali, trasponibili da una situazione all’altra. La distinzione che qui si propone di stabilire tra micropolitica e ma­ cropolitica del desiderio dovrebbe funzionare come qualcosa che tenda

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a liquidare la pretesa universalità dei modelli proposti dagli psicanalisti, che servono loro a premunirsi contro le contingenze politiche e sociali. Si pensa che la psicanalisi riguardi ciò che avviene su scala molto ri­ stretta, quella della famiglia e della persona, mentre la politica riguarda solo i grandi insiemi sociali. Si vorrebbe mostrare, al contrario, che c’è una politica la quale è in relazione sia col desiderio dell’individuo sia col desiderio che si manifesta nel più vasto campo sociale. E ciò, sotto due forme: o quella di una micropolitica che ha di mira e i problemi in­ dividuali e i problemi sociali, o quella di una macropolitica che ha di mira gli stessi campi (individuo, famiglia, problemi di partito, di Stato, ecc.). Il dispotismo che spesso regna nei rapporti coniugali o familiari proviene dallo stesso tipo di organizzazione libidinale di quello esistente nel campo sociale. Inversamente, non è assurdo affrontare un certo nu­ mero di problemi sociali su vasta scala, come quelli del burocratismo e del fascismo, sulla base di una micropolitica del desiderio. Il problema non è dunque di gettare dei ponti fra campi già completamente costi­ tuiti e separati gli uni dagli altri, ma mettere in opera nuove macchine teoriche e pratiche capaci di spazzar via le stratificazioni anteriori e di creare le condizioni per una nuova pratica del desiderio. Non si tratta dunque più soltanto di descrivere oggetti sociali preesistenti, ma anche d’intervenire attivamente contro tutte le macchine del potere dominan­ te, sia esso il potere dello Stato borghese, quello delle burocrazie di ogni genere, o il potere nel sistema scolastico, il potere nella famiglia, il po­ tere fallocratico nella coppia, e perfino il potere repressivo del super-io sull'individuo. Si possono schematicamente indicare tre maniere di affrontare tali questioni: il primo, sociologico, che si può qualificare analitico-formalistico; il secondo, neomarxista, sintetico-dualistico; il terzo, analiticopolitico. Il primo e il secondo mantengono la separazione tra grandi e piccoli insiemi sociali, mentre il terzo tenta di superarla. Il pensiero sociologico analitico-formalistico mira a individuare dei tratti comuni ed a separare delle specie, o col metodo delle analogie sen­ sibili, o col metodo delle omologie strutturali. Nel primo caso esso cer­ cherà di fissare delle piccole differenze relative: ad esempio, distinguerà le similitudini e i tratti particolari che hanno caratterizzato i tre tipi di fascismo, italiano, tedesco, spagnolo. Nel secondo caso cercherà di fis­ sare delle differenze assolute, ad esempio, tra il fascismo, lo stalinismo e le democrazie occidentali. Da un lato, si minimizzano delle differenze per mettere in luce un tratto comune, e dall’altro si ingrandiscono delle differenze per separare dei piani e costituire delle specie.

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Il pensiero sintetico-dualistico neomarxista pretende di superare un tale sistema non separando mai la descrizione teorica da una pratica so­ ciale militante. Tuttavia, questa pratica incontta generalmente un limite in un diverso tipo di separazione, quella fra la realtà del desiderio delle masse e le istanze che si pensa le rappresentino. Il pensiero sociologico procede reificando gli oggetti sociali e non riconoscendo il desiderio e la creatività delle masse; il pensiero militar.ce marxista tenta di sormon­ tare tale incomprensione, ma si costituisce a sua volta come sistema col­ lettivo di rappresentazione del desiderio delle masse. Esso riconosce l’e­ sistenza di un desiderio rivoluzionario solo nella misura in cui riesce a imporre a quest’ultimo la mediazione della rappresentazione teorica del marxismo e della rappresentazione pratica del partito che è considerato come sua espressione. Tutto un meccanismo di cinghie di trasmissione s’instaura cosi fra teoria, direzione del partilo e militanti, di modo che le innumerevoli differenze che corrono attraverso il desiderio delle mas­ se vengono a trovarsi «massificate», ricondotte a formulazioni standard, di cui si pretende di giustificare la necessità in nome della coesione della classe operaia e dell’unità del suo partito. Dall'impotenza di un sistema di rappresentazione mentale, si è passati all’impotenza di un sistema di rappresentatività sociale. In realtà, non è un caso se questo metodo di pensiero e di azione neomarxista si sm ingolfando in tipi di pratica burocratica: dò è dovuto al fatto che esso non ha mai veramente libe­ rato la sua pseudodialettica da un dualismo impenitente fra rappresen­ tazione e realtà, fra la casta dei portatori di buone parole d’ordine e le masse che d si propone di alfabetizzare e catechizzare. Questo dualismo riduttore dei neomarxisti, lo si ritroverà ovunque, poiché esso contami­ na la concezione dell’opposizione schematica tra città e campagna, le alleanze internazionali, la politica del campo della pace e del campo del­ la guerra, ecc. Tale sistematica bipolarizzazione di ogni problema ruota sempre intorno ad un oggetto terzo, che però non costituisce una «sin­ tesi dialettica». Tale oggetto mette in gioco essenzialmente il potere, in primo luogo il potere di Stato e il potere dei Partito che si propone di assumerne il controllo. Qualsiasi lotta parziale è riportata a questo tipo di oggetto terzo trascendente: tutto deve assumere un significato a par­ tire da esso, anche quando la storia reale lo rivela per quel che è, cioè un’illusione, esattamente come l’oggetto fallico della relazione triango­ lare edipica. Si potrebbe dire, del resto, di questo dualismo e dell’og­ getto trascendente ch’esso promuove, che costituiscono il nucleo dell’Edipo militante con cui dovrà fare i conti un’analisi politica. Un’analisi politica che non voglia restar separata da una politica del­ l’analisi, deve necessariamente rifiutare di lisciar sussistere la separa­

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zione tradizionale tra i grandi insiemi sociali e i problemi individuali, familiari, scolastici, professionali, ecc. Non si tratterebbe pivi, quindi, di ridurre meccanicamente la problematica delle situazioni concrete a ima semplice alternativa di classi o di campi, e di pretendere di trovare tutte le risposte a partire dall’azione di un partito rivoluzionario, unico, de­ positario centrale della verità teorica e pratica. Una micropolitica del desiderio non si proporrebbe dunque più di rappresentare le masse e dì interpretare le loro lotte. Il che non significa che essa condannerebbe a priori ogni azione di partito, ogni idea di linea, di programma, o per­ fino di centralismo; ma si sforzerebbe di situare e di relativizzare la loro azione in funzione di una pratica analitica che lotti a palmo a palmo contro abitudini repressive, contro il burocratismo e il manicheismo moraleggiante che attualmente contaminano i movimenti rivoluzionari. Essa cesserebbe di cercare appoggio in un oggetto trascendente per sen­ tirsi sicura di sé; e non concentrerebbe più la sua azione su un unico punto, cioè il potere di Stato, e la costruzione di un partito rappresen­ tativo capace di conquistarlo in luogo delle masse. Al contrario, investi­ rebbe una molteplicità di obiettivi a diretta portata dei più diversi in­ siemi sociali. È proprio a partire dalla somma di lotte parziali - ma il termine è già equivoco: esse non sono parte di un tutto già costituito che potrebbero scatenarsi lotte collettive di grande ampiezza. L’idea di micropolitica del desiderio implica dunque che vengano ra­ dicalmente rimessi in questione dei movimenti di massa decisi al centro e che mettono in movimento degli individui serializzati. L’essenziale, di­ venta il collegamento di una molteplicità di desideri molecolari, collega­ mento che può portare a effetti di moltiplicazione, a prove di forza su vasta scala. È quanto avvenne all’inizio del movimento del maggio ’68: la manifestazione locale e particolare del desiderio di piccoli gruppi pro­ dusse effetti di risonanza con una molteplicità di desideri repressi, iso­ lati gli uni dagli altri, sopraffatti dalle forme dominanti di espressione e di rappresentazione. In una simile situazione, non ci si trova più da­ vanti a una unità ideale, che rappresenta e media interessi molteplici, ma a una molteplicità equivoca di desideri il cui processo secerne i suoi sistemi peculiari di riferimento e di regolazione. Tale molteplicità di macchine desideranti non è composta di sistemi standardizzati e ordi­ nati, che potrebbero venir disciplinati e gerarchizzati in funzione di un obiettivo unico. Essa si stratifica invece secondo insiemi sociali diffe­ renti, secondo le classi di età, i sessi, le origini geografiche e professio­ nali, le pratiche sessuali, ecc., e non realizza un’unità totalizzante. Ciò su cui si fonda l’unità della lotta, è l’univocità del desiderio delle masse,

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e non il loro raccogliersi intorno ad obiettivi standardizzati. L’unifica­ zione, in questo caso, non è più antagonistica rispetto alla molteplicità dei desideri, come quando essi erano «trattati» da una macchina totalitaria-totalizzante di un partito rappresentativo. In una prospettiva del genere, l’espressione teorica non si interpone più fra l’oggetto sociale e la prassi. L’oggetto sociale è messo in grado di prendere la parola senza, per esprimersi, dover ricorrere a istanze rappresentative. La coincidenza di lotta politica e analisi del desiderio implica quindi che il «movimento» stia costantemente in ascolto di chiunque si esprima a partire da una posizione di desiderio, anche e so­ prattutto se egli si trovi «fuori tema». In famiglia, un ragazzo che si esprima «fuori tema» viene represso, e ciò continua a scuola, in caser­ ma, in fabbrica, nel sindacato, nella cellula di partito. Bisogna sempre restare «in tema» e «nella linea». Ma il desiderio, per sua stessa natura, ha sempre tendenza ad «andare fuori tema», alla deriva. Una concate­ nazione collettiva di enunciazione dirà qualcosa del desiderio senza rap­ portarlo ad una individuazione soggettiva, senza inquadrarlo su un sog­ getto prestabilito e su significati preliminarmente codificati. In tali con­ dizioni, l’analisi non può instaurarsi «dopo» la determinazione dei ter­ mini e dei rapporti di forza, «dopo» la cristallizzazione del sociale in diverse istanze chiuse le une rispetto alle altre: l’analisi partecipa di questa cristallizzazione, è divenuta immediatamente politica. «Quando dire è fare » : la divisione del lavoro tra specialisti del dire e specialisti del fare svanisce. Torniamo alla questione del fascismo e ai suoi rapporti con lo stali­ nismo e le «democrazie» di tipo occidentale. Non ci si propone qui di stabilire confronti riduttivi, ma, al contrario, di rendere più complessi i modelli, fino ad aver presa sul processo in gioco. Dunque, l’analisi non è gratuita, poiché concerne tanto il presente quanto il passato. Si è avuta ogni sorta di fascismo, ogni sorta di stalinismo, e di de­ mocrazie borghesi. E questi tre insiemi si dividono in numerosi sotto­ insiemi non appena si venga a considerare lo status di componenti quali la macchina industriale, la macchina bancaria, la macchina militare, la macchina politico-poliziesca, le tecnostrutture statali, la chiesa, ecc. L’importante sarebbe riuscire a mettere in luce le componenti che han­ no «fatto funzionare» questa o quella formula di potere. I sistemi tota­ litari contemporanei hanno inventato un certo numero di prototipi di partito poliziesco. Il partito poliziesco nazista, ad esempio, meriterebbe di essere studiato comparativamente con il partito poliziesco staliniano: infatti, essi sono forse più prossimi l’uno all’altro di quanto non lo siano

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le altre componenti statali corrispondenti a ciascuno di questi sistemi. Sarebbe interessante mettere in evidenza le varie sorte di macchine di desiderio che entrano nella loro composizione. Ci si accorgerebbe al­ lora che non ci si può più accontentare di considerare le cose da cosi lontano. In effetti, l’analisi può progredire soltanto a condizione di spingersi sempre più avanti nel senso di una molecolarizzazione del suo oggetto, che le permetta di cogliere più da vicino la sua funzione in seno ai gran­ di insiemi sociali. Non c'è un partito nazista: non solo il partito nazista si è evoluto, ma in ciascun periodo esso ha avuto una funzione diffe­ rente secondo i diversi campi su cui è intervenuto. La macchina SS di Himmler non era la stessa che quella delle SA, ed entrambe erano diffe­ renti dalle organizzazioni di massa, quali le concepivano i fratelli Strasser. In seno alla stessa macchina SS, si troverebbe che certi aspetti d’i­ spirazione quasi religiosa - si ricorderà come Himmler auspicasse che le SS fossero formate secondo metodi similari a quelli dei gesuiti — coesistevano con pratiche decisamente sadiche, come quella di un Heydrich. Non è, questa, una ricerca gratuita, ma un rifiuto delle semplifi­ cazioni che impediscono di cogliere la genealogia e la permanenza di certi meccanismi fascisti. Una simile analisi delle componenti moleco­ lari del fascismo potrebbe perciò riguardare campi molto diversi, sia su scala macropolitica sia su scala micropolitica, e dovrebbe permettere di comprendere meglio in che modo uno stesso fascismo continui a funzio­ nare oggi, sotto forme diverse, nella famiglia, nella scuola, o in ima se­ zione sindacale. Ci sono numerosi modi di affrontare tali questioni del desiderio in campo sociale. Esse possono semplicemente venire ignorate o ridotte ad alternative politiche semplificate. Ma si può anche cercare di cogliere le loro trasformazioni, i loro spostamenti e le possibilità nuove che esse offrono a un’azione rivoluzionaria. Lo stalinismo e il fascismo sono stati a lungo considerati come suscettibili di definizioni radicalmente diverse, mentre si classificavano sotto una medesima voce le varie forme di fa­ scismo. Tuttavia, tra i fascismi stessi ci sono forse differenze molto più rilevanti che fra certi aspetti dello stalinismo e certi aspetti del nazismo. Senza voler forzare i paragoni, o giungere ad amalgami del tipo di quelli di Hannah Arendt, denunciati da Jean-Pierre Faye ’, si è pur costretti ad ammettere la continuità di un medesimo macchinismo totalitario, che si cerca una strada attraverso tutte le strutture fasciste, staliniste, democratico-borghesi, ecc. Per non risalire fino al Basso Impero di Dio1

Cfr. j.-P. faye. La crititiue du langagf et son economie, Galilce, Paris 1974.

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cleziano e di Costantino, se ne può individuare la filiazione nelle condi­ zioni create dal capitalismo, dalla repressione contro i comunardi nel 1871 fino alle sue forme attuali. Varie «formule» di appropriazione del desiderio delle masse sono state prodotte dai diversi sistemi totalitari, in funzione delle trasformazioni delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Si dovrebbe tentare di metterne in luce la composizione maccbinica, un po’ come ima sorta di composizione chimica, ma di una chimica sociale del desiderio che passa non soltanto attraverso la Storia, ma anche attraverso l’insieme dello spazio sociale. La trasversalità storica delle macchine di desiderio su cui poggiano i sistemi totalitari, è inseparabile dalla loro trasversalità sociale. Perciò l’analisi del fascismo non può essere una semplice specialità degli sto­ rici: ciò a cui esso ha dato ieri l’avvio, continua a proliferare sotto altre forme nell’insieme dello spazio sociale contemporaneo. Tutta una chi­ mica totalitaria agisce dentro le strutture statali, le strutture politiche e sindacali, le strutture istituzionali e familiari, e persino dentro le strut­ ture individuali, nella misura in cui si può parlare — come si è accen­ nato — di una sorta di fascismo del super-io nel senso di colpa e nella nevrosi. L’evolversi della divisione sociale del lavoro ha determinato il costi­ tuirsi di complessi produttivi sempre piti giganteschi. Ma tale giganti­ smo della produzione ha portato ad una molecolarizzazione sempre più accentuata degli elementi umani messi in gioco nelle concatenazioni macchiniche dell’industria, dell’economia, della formazione, dell’informa­ zione, ecc. Quello che lavora, non è mai un uomo — si può dire lo stesso quanto al desiderio -, ma una concatenazione di organi e di macchine. Un uomo non comunica più direttamente con i suoi simili: gli organi, le funzioni partecipano a un «montaggio» macchinico, che congiunge gli anelli di una catena semiotica e tutto un intreccio di flussi materiali e so­ ciali. (Esempio: nella guida automobilistica, gli occhi leggono la strada praticamente senza intervento della coscienza, la mano e il piede sono in­ tegrati agli ingranaggi della macchina ecc.). In compenso però, se le ter­ ritorialità umane tradizionali sono state mandate in frantumi, le forze produttive sono oggi in grado di liberare l'energia «molecolare » del de­ siderio. Non è ancora possibile valutare la prtata rivoluzionaria di que­ sta rivoluzione macchinico-semiotica, ma essa è manifestamente irrever­ sibile. Ed è il motivo per cui i sistemi totalitari e socialisti burocratici perfezionano e miniaturizzano continuamente i loro sistemi repressivi. Quindi, una condizione indispensabile alla lotta micropolitica del desi­ derio, in qualsiasi campo, sembra consìstete nel saper determinare la composizione macchinico-semiotica delle varie formazioni di potere: in

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mancanza di tale analisi si oscilla costantemente fra una posizione di apertura rivoluzionaria ed una posizione di nuova chiusura totalitaria. L’analisi molecolare non può essere altro che l’espressione di un conca­ tenamento di potenze molecolari che associno la teoria alla pratica. Non si tratta dunque, come qualcuno ha creduto di obiettare, di prendere la storia dal lato meno importante delle cose, o di pretendere, come Pascal, che se il naso di Cleopatra fosse stato più lungo, il corso della storia sarebbe stato diverso, ma soltanto di non lasciarsi sfuggire l’im­ patto del macchinismo totalitario che non cessa mai di evolversi, di adattarsi secondo i rapporti di forza e le trasformazioni della società. Il ruolo di Hitler in quanto individuo portatore di un certo tipo di com­ petenza, è certo stato trascurabile, ma in quanto ha prodotto la cristal­ lizzazione di una nuova figura di tale macchina totalitaria, è stato e resta fondamentale. Hitler è ancora vivo: si aggira nei sogni, nei deliri, nei film, nei comportamenti della polizia che tortura, fra le bande di gio­ vani che venerano la sua effigie, senza conoscere nulla del nazismo! Ci si soffermi un momento su una questione storica che continua ad «agire» sotterraneamente nel gioco degli interessi politici più at­ tuali. Perché il capitalismo tedesco, dopo la disfatta del 1918 e la crisi del 1929, non si accontentò di farsi sostenere da una semplice dittatura militare? Perché Hitler piuttosto che il generale Von Schleicher? A questo proposito Daniel Guérin dice che il grande capitale esitò a « ri­ nunziare a quell’incomparabile, insostituibile mezzo di penetrazione in tutte le cellule della società, che è costituito dalle organizzazioni di mas­ sa fasciste» '. Infatti, una dittatura militare non sarebbe riuscita a con­ trollare le masse con la stessa efficacia di un partito organizzato secondo un modello poliziesco. Una dittatura militare non capta l’energia libidinaie nello stesso modo di una dittatura fascista, anche se alcuni suoi ri­ sultati possono sembrare identici, anche se si giunge allo stesso tipo di metodi repressivi, alle stesse torture, agli stessi campi di concentramen­ to... Il congiungersi, nella persona di Hitler, di almeno quattro serie libidinali, ha fatto cristallizzare nelle masse la mutazione di un nuovo macchinismo desiderante: - un certo stile plebeo che gli permetteva di trovare un appoggio presso gente che più o meno portava i segni delle macchine socialdemocratiche e bolsceviche; - un certo stile di ex combattente, simboleggiato dalla croce di ferro ottenuta nella guerra del '14, che gli consentiva almeno di neutra1

d. guérin,

Fascisme et grand capitai, Maspero, Paris 1959.

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lizzare gli elementi dello stato maggiore militare, anche se non po­ teva guadagnarsene interamente la fiducia; - un opportunismo da bottegaio, un sapersi piegare alle circostanze, una mollezza che gli permetteva di negoziare con i magnati dell’industria e della finanza, pur lasciando loro credere di poterlo facil­ mente controllare e manipolare; - infine — ed è forse l’essenziale - un delirio razzista, una folle ener­ gia paranoica che lo faceva giungere al culmine della pulsione di morte collettiva che si era sprigionata dai carnai della prima guer­ ra mondiale. È evidente che la descrizione resta troppo schema­ tica! In ogni modo, il punto è che le condizioni locali della «irre­ sistibile ascesa» del Fiihrer, la particolare cristallizzazione macchinica di desiderio, che si è operata su Hitler, non possono essere considerate una quantità trascurabile. A questo livello, è in causa tutta ima micropolitica e, di nuovo, non si tratta affatto di un problema storico, biografico o psicanalitico pura­ mente speculativo. La micropolitica che ha fabbricato Hitler ci riguar­ da, qui e ora, all’interno dei movimenti politici e sindacali, dei grup­ petti, nella vita familiare, scolastica, ecc. - nella misura in cui nuove microcristallizzazioni fascisteggianti si sostituiscono alle vecchie sulla stessa linea del macchinismo totalitario. Col pretesto che il ruolo del­ l’individuo nella storia sarebbe trascurabile, ci si suggerisce di rimanere a braccia conserte davanti ai gesticolamenti isterici o alle manipolazioni paranoiche dei tiranni locali e dei burocrati di ogni risma. La funzione di una micropolitica del desiderio sarà quella di opporsi a una simile rinuncia e di rifiutare di ammettere qualunque formula di fascismo, a qualunque livello essa si manifesti. Il cinema e la televisione vorreb­ bero far credere che il nazismo, in fondo, sia stato soltanto un brutto momento, una sorta di errore storico, e anche una bella pagina di storia per gli eroi. Non erano forse commoventi, quelle bandiere del capita­ lismo e del socialismo confuse insieme? Si vorrebbe far credere all’esi­ stenza di un reale antagonismo fra l’asse fascista e gli alleati. In realtà, quello che era in questione allora, era la selezione di un buon modello. La «formula» fascista aveva avuto un cattivo inizio, era divenuto neces­ sario eliminarla e trovarne una migliore. Radek aveva definito il nazi­ smo come qualcosa di esterno alla borghesia, e lo paragonava a una se­ rie di cerchi di ferro con cui la borghesia cercava di consolidare «la botte sfasciata del capitalismo»: ma era, questa, un’immagine che cer­ cava troppo di rassicurare. Il fascismo è rimasto solo parzialmente ester­ no alla borghesia, ed essa si è decisa a respingerlo soltanto nel momento

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in cui si è convinta che - a causa della sua instabilità e del desiderio troppo potente che smuoveva nelle masse - minacciava di far esplodere dall’interno i regimi di democra2Ìa borghese. Accettato nella fase acuta della crisi, il «rimedio» era apparso poi più pericoloso del male. Tuttavia, il capitalismo internazionale non po­ teva pensare di eliminarlo se non nella misura in cui avesse avuto a disposizione altri mezzi per controllare la lotta di classe, in cui avesse sperimentato altre formule totalitarie per controllare il desiderio delle masse. Non appena lo stalinismo ebbe negoziato una tale formula di ricambio, diveniva possibile allearsi con esso; la dittatura staliniana presentava innumerevoli vantaggi rispetto alla dittatura hitleriana, giac­ ché i regimi fascisti non circoscrivevano i problemi con sufficiente pre­ cisione. La missione impossibile che era affidata ai suoi leaders con­ sisteva: 1) nel determinare un compromesso fra diverse formazioni di potere che cercavano di conservare la loro autonomia: la macchina mili­ tare, le fazioni politico-poliziesche, l’apparato economico, ecc.1; 2) nel reprimere e canalizzare l’effervescenza rivoluzionaria che po­ teva sempre rinascere nel contesto apocalittico dell’epoca. Liquidando successivamente le vecchie classi politiche, le nazionalità colonizzate più turbolente, i vecchi bolsceviche i giovani burocrati, ecc., la macchina staliniana doveva andare molto più avanti della macchina nazista nella messa a punto del modello repressivo. I nazisti hanno ster­ minato milioni di ebrei e centinaia di migliaia di militanti di sinistra. Nella misura in cui si abbattevano su elementi considerati come esterni alla loro razza - su dei capri espiatori - tali stermini avevano qualcosa di sacrificale. Non si può dire che i nazisti abbiano sistematicamente combattuto i dirigenti della borghesia tedesca. Il metodo staliniano è stato completamente diverso. Forse, la forza del burocratismo sovietico sarà consistita nell’aver sparso il terrore in ogni direzione, anche in seno alla burocrazia stessa, molto al di là di quanto non si fossero spinte a fare le SS, in certe circostanze, fra i quadri nazisti. Comunque sia, l’al­ leanza fra le democrazie occidentali ed il totalitarismo staliniano non ebbe affatto lo scopo di «salvare la democrazia». Si trattò innanzitutto di eliminare una macchina impazzita che minacciava il loro sistema di dominazione. Durante tutto questo periodo, una specie di crisi da fine del mondo colpi l’intero pianeta. Fu come se tutti i vecchi meccanismi 1 Inutile dire che si semplifica all’estremo; ad esempio, non c’è stato un atteggiamento omo­ geneo da parte dei capitalisti: Krupp fu inizialmente ostile a Hitler.

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regolatori socialdemocratici, sindacali, ecc., sulla cui base avevano po­ tuto reggersi i vecchi equilibri, si fossero rivelati insufficienti. Certo non si deve dimenticare che le organizzazioni di sinistra erano state liquidate preliminarmente in Italia e in Germania. Ma per quale ragio­ ne esse erano crollate come castelli di carte? Mai avevano proposto alle masse una vera alternativa, e in ogni caso nulla che potesse captare la loro volontà di lotta e la loro energia di desiderio, o, almeno, disto­ glierle dalla religione fascista (le analisi di Reich, su questo punto, sem­ brano definitive). Si è spesso fatto valere che i regimi fascisti, ai loro inizi, diedero un minimo di soluzioni economiche ai problemi più ur­ genti — rilancio economico artificiale, riassorbimento della disoccupa­ zione, programma di grandi opere, controllo dei capitali — e questi prov­ vedimenti vengono ad esempio contrapposti all’impotenza dei governi socialdemocratici della Repubblica di Weimar. Ci si accontenta di spie­ gazioni del genere: i socialisti e i comunisti avevano un cattivo pro­ gramma, cattivi dirigenti, una cattiva organizzazione, cattive alleanze, e non si finisce più di enumerare le loro carenze e i loro tradimenti. Ma in tali spiegazioni nulla viene a chiarire come la nuova macchina desi­ derante totalitaria abbia potuto cristallizzarsi nelle masse a tal punto da essere sentita dal capitalismo internazionale stesso come ancora più pe­ ricolosa della dittatura nata dalla rivoluzione d’ottobre. Ciò che si ri­ fiuta di constatare, è che la macchina fascista, sotto la sua forma italiana e tedesca, minacciava il capitalismo e lo stalinismo perché le masse vi investivano una fantastica pulsione di morte collettiva. Riportando il loro desiderio su un capo, un popolo, una razza, esse abolivano, in un fantasma di catastrofe, una realtà che detestavano, e che i rivoluzionari non avevano saputo o voluto colpire. La virilità, il sangue, lo spazio vitale, la morte, per esse, si sostituivano a un socialismo troppo rispet­ toso dei valori dominanti. E ciò a dispetto della intrinseca malafede del fascismo, delle sue false sfide all’assurdo, di tutta la sua messinscena d’isteria collettiva e di stoltezza che riconducevar.o le masse a quegli stessi valori. Ma, rutto sommato, il cammino doveva essere molto più tortuoso, la mistificazione e la seduzione molto più intense che nello stalinismo. Tutte le significazioni fasciste si sviluppano a partire da una rappresentazione composita d’amore e di morte: Eros e Thanatos di­ ventate una sola e unica cosa. Hitler e i nazisti lottavano per la morte, compresa quella della Germania; e le masse tedesche accettarono di seguirli fino alla propria distruzione. Sarebbe infatti difficile capire altri­ menti come esse abbiano potuto continuare la guerra per anni dopo che essa era manifestamente perduta. A paragone di un tale fenomeno, la macchina staliniana, soprattutto vista dall’esterno, sembrava molto più

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ragionevole. Non che fosse per questo meno implacabile; ma era, so­ prattutto, molto più stabile. Perciò non c'è troppo da meravigliarsi che il capitalismo inglese ed americano abbia stretto un’alleanza con essa senza troppi timori. Dopo la liquidazione della Terza Internazionale, essa si presentava come un sistema di ricambio per tenere a freno le masse. Chi, meglio della polizia staliniana e dei suoi agenti, sarebbe stato in grado di controllare i movimenti più turbolenti della classe ope­ raia, delle masse coloniali e delle minoranze nazionali oppresse? A differenza del fascismo, le macchine totalitarie capitalistiche, pur captando l’energia del desiderio dei lavoratori, si sforzeranno di divi­ derli, di particolarizzarli, di molecolarizzarli, infiltrandosi nelle loro file, nelle loro famiglie, nelle loro coppie, nella loro infanzia, e stabilendosi al centro stesso della loro soggettività e della loro visione del mondo. Il capitalismo teme i grandi movimenti di massa: cerca di reggersi ri­ correndo a sistemi automatici di regolazione. Tale ruolo è devoluto allo Stato e ai meccanismi di contrattualizzazione tra gli «interlocutori so­ ciali»; e quando un conflitto esce dai quadri prestabiliti, il capitalismo cerca di circoscriverlo in guerre economiche o locali. Sotto questo aspet­ to, bisogna riconoscere che la macchina totalitaria staliniana sta ora per essere del tutto superata da quella del totalitarismo occidentale. Ciò che faceva la qualità dello Stato staliniano rispetto allo Stato nazista è divenuto il suo principale difetto, rispetto agli Stati «democratici». Lo Stato staliniano aveva sul fascismo il vantaggio di una maggiore stabi­ lità, poiché il partito non era posto sul medesimo piano della macchina militare, della macchina poliziesca e della macchina economica: esso surcodificava in modo rigoroso tutte le macchine di potere, controllava implacabilmente le masse, e riusciva inoltre a tenere a bada l’avanguar­ dia del proletariato internazionale. Il fallimento dello stalinismo clas­ sico - che è forse uno dei tratti salienti del periodo attuale - dipende probabilmente dal non aver saputo adattarsi all’evoluzione delle forze produttive e, in particolare, alla molecolarizzazione della forza-lavoro. All’interno dell’Urss, questo fatto si è tradotto in una serie di crisi poli­ tiche ed economiche, in slittamenti di potere verificatisi l’uno dopo l’al­ tro, che, a scapito del partito, hanno reso un’autonomia di fatto - rela­ tiva, ma nondimeno fondamentale — alle macchine dello Stato, della produzione, dell’esercito, delle regioni, ecc. Ovunque, hanno di nuovo assunto un peso determinante le questioni nazionali e regionali, i parti­ colarismi; il che, fra l’altro, ha permesso ai paesi satelliti di recuperare una certa libertà d’azione, e a quelli capitalisti di recuperare ed inte­ grare parzialmente i rispettivi partiti comunisti. Da questo punto di vi­

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sta, l’eredità di Stalin è andata completamente perduta! Certo lo stali­ nismo sopravvive ancora in un certo numero di partiti e di sindacati, ma oggi funziona piuttosto sul vecchio modello socialdemocratico, e per­ ciò sempre di più tenderanno a sfuggirgli dalle mani lotte rivoluzionarie autonome e lotte di desiderio, come quelle del maggio ’68 o della Lip. Quale fattore determina il passaggio dalle grandi entità fasciste clas­ siche alla moleeolarizzazione del fascismo, cui si assiste oggi? Che cosa provoca la deterritorializzazione dei rapporti umani, che cosa fa perdere loro le basi che avevano nei gruppi territoriali, familiari, nel corpo, nel­ le classi di età, ecc.? Che cos’è questa deterritorializzazione, che genera come contraccolpo l’emergere di un microfascismo? Non è una semplice questione di orientamento ideologico o di strategia da parte del capita­ lismo, ma un processo materiale fondamentale: poiché le società indu­ striali funzionano sulla base di macchine semiotiche che decodificano sempre più tutte le realtà e territorialità anteriori; poiché le macchine tecniche e dei sistemi economici sono sempre più deterritorializzate, esse sono in grado di liberare flussi sempre più forti di desiderio. O, più esattamente, poiché il loro modo di produzione è costretto a liberarli, le forme di repressione sono spinte anch’esse a molecolarizzarsi. Non basta più una semplice repressione massiccia. Il capitalismo è obbligato a costruire ed imporre dei modelli di desiderio, e per la sua sopravvi­ venza è essenziale che riesca a farli interiorizzare dalle masse che sfrut­ ta. È opportuno assegnare a ciascuno un’infanzia, una posizione ses­ suale, un rapporto col sapere, una rappresentazione dell’amore, dell’o­ nestà, della morte, ecc. I rappoiti di produzione capitalisti non si stabi­ liscono soltanto a livello dei grandi insiemi sociali: fin dall’infanzia essi modellano un certo tipo d’individuo produttore-consumatore. La molecolarizzazione dei processi di repressione e, conseguentemente, la pro­ spettiva di una micropolitica del desiderio non sono dunque legate a un’evoluzione delle idee, ma a una trasformazione dei processi mate­ riali, a una deterritorializzazione di tutte le forme di produzione, si tratti della produzione sociale o della produzione desiderante. In mancanza di modelli sperimentati, data l’inadeguatezza delle vecchie formule fasciste, staliniste e forse anche socialdemocratiche, il capitalismo è indotto a cercare nel proprio ambito nuove forme di tota­ litarismo. Finché non le avrà trovate, sarà preso in contropiede da mo­ vimenti che, per esso, si porranno su fronti imprevedibili (scioperi sel­ vaggi, movimenti per l’autogestione, lotte di immigrati, di minoranze radicali, sovversione nelle scuole, nelle prigioni, nei manicomi, lotta per la libertà sessuale, ecc.). Tale nuova situazione, in cui non si ha più a che fare con insiemi sociali omogenei - la cui azione può essere fadl-

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mente canalizzata verso obiettivi unicamente economici - porta come conseguenza immediata a far proliferare e a esacerbare le risposte re­ pressive. Accanto al fascismo dei campi di concentramento, che conti­ nuano a esistere in numerosi paesi si sviluppano nuove forme di fa­ scismo molecolare: il cucinare la gente a fuoco lento nel familiarismo, nella scuola, nel razzismo, nei ghetti di ogni tipo, sostituisce vantag­ giosamente i forni crematori. Ovunque, la macchina totalitaria sta spe­ rimentando strutture più adeguate alla situazione, cioè pili capaci di captare il desiderio per metterlo al servizio dell’economia del profitto. Si dovrebbe definitivamente rinunziare a formule troppo facili, del ge­ nere: «il fascismo non passerà». Il fascismo è già passato e passa conti­ nuamente. Passa attraverso le maglie più strette, è in costante evolu­ zione. Sembra venire dall’esterno, ma trova la sua energia nel cuore del desiderio di ciascuno. In situazioni apparentemente non problematiche, possono apparire da un giorno all’altro delle catastrofi \ Il fascismo, co­ me il desiderio, è sparso ovunque in elementi separati all’interno del campo sociale globale: nei diversi luoghi, esso assume una forma in funzione dei rapporti di forza. Si può dire a un tempo ch’esso è estre­ mamente forte e di una irrisoria debolezza. In ultima analisi, tutto dipende dalla capacità dei gruppi umani di diventare soggetti della storia, cioè di articolare a tutti i livelli quelle forze materiali e sociali, che si aprono ad un desiderio di vivere e di cambiare il mondo. 1 Una delle maggiori preoccupazioni del capitalismo contemporaneo è quella di trovare forme di totalitarismo adatte ai paesi del Terzo Mondo. 2 Un disastro come quello del Cile dovrebbe indurre a diffidare una volta per tutte delle chiac­ chiere socialdemocratiche: Teserrito cileno non era forse, secondo Allende, «l’esercito più demo­ cratico del mondo!»? - Una macchina militare in quanto tale, quale che sia il regime politico del paese in cui essa si trova, cristallizza sempre un desiderio fascista. L’esercito di Trockij, Vesercito di Mao 0 quello di Fidel Castro non hanno fatto eccezione. Il che non diminuisce del resto per nulla i loro meriti rispettivi.

Socialdemocratici ed eurocomunisti di fronte allo Stato

Oltre lo Stato. Nel loro tentativo di conseguire il potere, i socialisti e i comunisti francesi si basano sulla fiducia che ispirano a strati sempre più vasti della popolazione più che sul loro programma. Ma l’uso intensivo dei mass-media non pare abbia trasformato la maniera tradizionale d’im­ postare i problemi politici, in particolare per quel che riguarda la que­ stione dello Stato. Alcuni fra i più autorevoli consiglieri della cerchia di Mitterrand ripropongono un vecchio tema: «In un primo tempo, abbiamo bisogno di un partito forte, e anche di uno Stato forte, per poi creare in seguito le condizioni di crescita di un movimento per l’au­ togestione...» (!). Certo, il bolscevismo non è più di moda, ma non si può fare a meno di pensare che a suo tempo, nella Russia rivoluzio­ naria, fu con questo tipo di argomentazioni che si giustificò la liquida­ zione dapprima dei Soviet, poi del pluralismo dei partiti, del pluralismo delle tendenze e di tutti i dissensi. Non si vuol fare qui un processo alle intenzioni della sinistra, e non si può presagire quale sarebbe il suo atteggiamento nel caso che riuscissero a svilupparsi comitati di base capaci di sottrarsi al suo controllo. La sola cosa che si può dire è che, nella fase attuale, la sinistra non incoraggia minimamente la crescita di un vasto movimento per l’autogestione, e che il suo elettoralismo ossessivo - «niente agitazioni fino alle legislative» - la porta a condan­ nare implicitamente tutto quanto potrebbe somigliare più o meno a dei nuclei di contropotere. Le posizioni prese riguardo ai comitati di soldati e alle radio libere sono, a questo proposito, estremamente signi­ ficative. Il nuovo stile, la stessa utilizzazione dei mass-media, hanno dato i loro frutti, specialmente presso l’elettorato fluttuante. Ma è lecito chiedersi se, in compenso, la sinistra non stia facendo fluttuare le con­ vinzioni del suo elettorato tradizionale, più passivo di prima, e meno convinto che dalle prossime scadenze elettorali possa venir fuori qual­ cosa di nuovo. Quali che siano le condizioni, l’appello alla fiducia di massa, accompagnato da un conformismo sistematico «per rassicurare

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gli onesti cittadini», non ha mai dato risultati spettacolari in periodi di grave crisi sociale. Non è facile far dimenticare, alla memoria collettiva, quella buona mezza dozzina di forti spinte a sinistra, che negli ultimi quarantanni si sono concluse in definitiva con arretramenti e compro­ messi con i partiti borghesi, e con il consolidarsi del capitalismo, seguiti ogni volta da lunghi periodi di demoralizzazione e di atonia delle forze popolari. Se è vero che la base militante non si rafforza nei propri con­ vincimenti, e non si amplia proporzionalmente all’accrescersi del se­ guito conquistato dai partiti di sinistra, dal canto loro gli apparati con­ tinuano invece a consolidarsi, a irrigidirsi, a burocratizzarsi. Prima di trovarsi a dover svolgere, a livello nazionale, un ruolo di normalizza­ zione e di difesa dell’ordine costituito - come accade già per i quadri del partito comunista italiano —, ai responsabili viene chiesto di man­ tenere la disciplina all’interno dell’organizzazione, e di esercitare una vigilanza su tutti quegli elementi che potrebbero gettare turbamento negli animi dei simpatizzanti... Tutto ciò che esula dalla posta in gioco nelle elezioni del ’ / 8 , è percepito come nocivo, specialmente i dibattiti interni e le previsioni sull’avvenire. Non solo il «trionfalismo» dello scorso anno è stato abbandonato (il che sarebbe positivo), ma ogni spin­ ta creativa, ereditata o no dal 1968, tutti i tentativi di lotte e di mezzi nuovi, tutte le strategie e i desideri imprevisti sembrano suscitare so­ spetti. Il «riformismo» attuale della sinistra sarebbe forse giustificato se la crisi odierna fosse soltanto congiunturale e non mettesse in questione i fondamenti dei rapporti di produzione e dei rapporti sociali. Se di­ ventasse chiaro viceversa che nessuna alleanza, nessun aggiustamento «consensuale» sarebbe in grado di risolvere i problemi, in tal caso l’at­ teggiamento consistente nel rassicurare a ogni costo le masse si rivele­ rebbe certamente smobilitante. Quali saranno i mezzi a disposizione dei dirigenti di sinistra per intervenire contro la crisi, contro il sabo­ taggio da parte del padronato e del mondo degli affari, contro la fuga dei capitali, lo scontento dell’esercito, la pressione del capitalismo in­ ternazionale? Forti dell’appoggio degli apparati sindacali da loro con­ trollati, i dirigenti della sinistra sono sicuri di poter beneficiare di una certa tregua sul fronte sociale: ma quale ne sarà la durata? Lo sciopero generale del ' 3 6 è scoppiato immediatamente all’annuncio della vit­ toria della sinistra. Ma è vero che si tende troppo spesso a pensare la situazione attuale riferendosi ai precedenti verificatisi in passato. Se si vuole tentare di circoscrivere meglio i caratteri specifici della crisi attuale e, di conseguenza, la credibilità del nuovo Fronte popolare che si profila all’orizzonte, non ci si deve accontentare di prendere in esame

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soltanto i discorsi o le intenzioni attribuite ai leaders della sinistra, ma è necessario metterli a confronto con lo stato reale e l’evoluzione at­ tuale dei gruppi sociali che essi pretendono di rappresentare. Due serie di fattori fanno si che la crisi attuale sia «diversa dalle altre». La prima è relativa alle trasformazioni del rapporto fra potere di Stato e strutture economiche; la seconda, all'evoluzione delle cosid­ dette «masse popolari», che del resto non sono mai state cosi «massa» come si è finto di credere, e che oggi tendono ad accentuare le proprie differenziazioni e a presentare fronti di lotta diversificati, che i buro­ crati politici e sindacali potranno sempre più difficilmente pretendere di controllare. Attualmente, una politica «dirigistica» di rilancio della produzione grazie a commesse statali, una politica, cioè, fondata sulla creazione di una nuova domanda nel quadro del vecchio sistema, potrebbe ristabi­ lire la piena occupazione, arrestare l’inflazione, ridare fiducia agli inve­ stitori? Un governo di sinistra sarebbe indotto, per esempio, a lanciare nuovi programmi di edilizia popolare, di costruzione di ospedali, scuo­ le, autostrade, aerei supersonici, centrali atomiche... Ma una simile poli­ tica non si sottrae a certi limiti - economici e umani — e inoltre non ci si potrà aspettare ch’essa rilanci la competitività dell’economia fran­ cese sul mercato mondiale! Quando, per mantenere le promesse del Programma Comune, si farà passare qualche banca, qualche trust in cattive acque sotto il controllo dello Stato - di uno Stato che è già larga­ mente al servizio delle grandi imprese capitalistiche - che cosa si sarà realmente cambiato? In realtà, sarà lo Stato a passare ancor più sotto il controllo del capitalismo modernista, e la sinistra, ancora una volta, avrà contribuito ad accelerare tale passaggio. Il buon senso — questa droga che è la meglio diffusa nel mondo — vorrebbe che si accettasse come ovvia l’idea che un’estensione progressiva delle nazionalizzazioni possa costituire una leva capace di trasformare la società nel senso di un «socialismo alla francese». I socialisti continuano perciò a ripetere di voler promuovere delle nazionalizzazioni democratiche, e non una statalizzazione burocratica. Tuttavia, non si vede bene come un settore nazionale autonomo e autogestito potrebbe svilupparsi nelle condizioni attuali! O parallelamente si evolverà l’insieme delle aziende, o niente si evolverà. Nell’economia capitalistica, tutto è strettamente collegato: a livello nazionale, il settore privato e quello pubblico; a livello inter­ nazionale, il sistema capitalista, il sistema socialista burocratico e lo sfruttamento del Terzo Mondo. Il moltiplicarsi delle crisi e l’attuale degradazione delle economie, nazionale e regionale, sono originati es­ senzialmente dalla disfunzione - o dalla ristrutturazione - delle varie

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componenti di ciò che è ormai un vero e proprio capitalismo planeta­ rio. In definitiva, anche l’idea — molto meno ambiziosa di quella di un passaggio progressivo al socialismo — proposta dai dirigenti più «rea­ listi» del Programma Comune, e consistente nel proporre di servirsi di un’estensione limitata del settore nazionalizzato allo scopo di conte­ nere la crisi in Francia, persino tale idea dall’aspetto molto tecnocra­ tico si rivelerà probabilmente illusoria! Nell’evoluzione dei rapporti fra Stato ed economia francese dall’ul­ tima guerra mondiale ad oggi, si possono distinguere schematicamen­ te due fasi: 1) una fase «euforica», in cui i tecnocrati hanno creduto che ci si avviasse verso una gestione pianificata sul piano nazionale; 2) una fase «depressiva» in cui hanno dovuto rinunciare a qualsiasi ambizione di questo tipo (oggi, ad esempio, organismi come il Com­ missariato generale per la pianificazione sono stati relegati nel ruolo di uffici studi di alto livello, senza reale incidenza sull’economia). Durante la fase ascendente, piena d’intenzioni ambiziose, lo Stato si è trovato a doversi addossare, direttamente o indirettamente, l’onere dei settori meno redditizi dell’economia, quelli, ad esempio, che ri­ chiedono un’eccessiva mobilitazione di capitali, un’eccessiva propor­ zione di manodopera, o quelli che si prestano assai poco alle multi­ formi detrazioni che costituiscono la parte principale dei redditi capi­ talistici (spese fittizie, frode fiscale, speculazioni borsistiche, ecc.). Esso è giunto in tal modo a concentrare su di sé e a finanziare l’infrastruttura generale dell’economia capitalistica (infrastrutture, trasporti, co­ municazioni, attrezzature collettive, ecc.). Il profitto privato si è mes­ so, in certo qual modo, a «proliferare» su quel grande ceppo che costi­ tuivano lo Stato e le imprese nazionali. Il sostegno dello Stato al capi­ talismo privato e al suo supporto nazionale assume molto spesso for­ me indirette e ha per effetto: - di supertassare i lavoratori dipendenti, onde consolidare lo sfrut­ tamento capitalistico e il dispotismo burocratico, che ha prolife­ rato incessantemente in tutti i pori della società; - di creare artificialmente nuove zone di profitto privato (per esem­ pio, la pubblicità «adiacente» alla televisione, l’industria turistica «adiacente» alle attrezzature costiere, ecc.). In tali condizioni, non è davvero il caso di contrapporre, a causa del loro status giuridico o amministrativo, le diverse categorie di sfrut­ tatori! Padroni o azionisti, industriali o commercianti, dirigenti, tec­ nici, funzionari, politici, o baroni di qualsiasi tipo, tutti si ritrovano negli stessi ambienti, negli stessi gruppi d’interesse o di pressione, dai

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contorni instabili, ma che controllano in modo capillare l’insieme delle formazioni di potere. Da quando il mercato mondiale ha cominciato ad avere un ruolo preponderante nelle economie nazionali, e le società multinazionali sono diventate i veri centri di decisione per tutto quanto riguarda le monete, le materie prime, gli insediamenti industriali, le grandi scelte tecnologiche, ecc., i poteri di Stato sono stati irreversibilmente privati delle vecchie funzioni di arbitrato fra le componenti economiche e so­ ciali di uno stesso paese. La funzione delle borghesie nazionali e delle burocrazie di Stato è stata anch’essa costretta a modificarsi. Per assog­ gettare la forza-lavoro collettiva, non bastavano più i mezzi di coerci­ zione diretta (come polizia ed esercito, polizia privata nelle fabbriche ecc.), né i mezzi indiretti quali la regolazione selettiva dei consumi per mezzo del sistema salariale, la regolazione dei comportamenti per mez­ zo di sistemi d’intimidazione e di suggestione, che inducevano gli indi­ vidui ad accettare passivamente le leggi, i regolamenti, i precetti mo­ rali, religiosi, educativi, ecc. Ed era lo Stato a dover assicurare il coor­ dinamento, la sorveglianza, talvolta la gestione diretta degli organismi e delle attrezzature collettive cui si affidava il compito di modellare, di sorvegliare costantemente gli individui, le famiglie, le collettività di ogni specie. Ala nella misura in cui, parallelamente alla sua integra­ zione internazionale, l’evoluzione delle forze produttive ha condotto il capitalismo a sfruttare la forza-lavoro muscolare e l’abilità manuale dei salariati relativamente meno della loro capacità di adattarsi, di assoggettarsi a complessi tecnici, a sistemi di codice, a modi d’organiz­ zazione del lavoro sempre più complessi, tali mezzi di formazione e di controllo sono stati sempre più diversificati, sempre più miniaturizzati. Sempre di più, si è fatto appello a tipi di sorveglianza reciproca e di autosorveglianza. Certo, tutto ciò ha sempre lo scopo di alienare i cor­ pi, gli organi, le funzioni, gli atteggiamenti, i rapporti interpersonali al sistema dominante; ma, per giungere allo stesso scopo, si è dovuto usare espedienti supplementari ed accentuare l’ingerenza del potere nei desideri, nella sessualità inconscia, nelle fantasticherie, nelle spe­ ranze di ciascuno. Perciò oggi il controllo dipende meno da una diretta sottomissione degli individui a sistemi di tutela «visibili», a disposi­ tivi di normalizzazione pubblicamente organizzati, che non da una mol­ titudine di operatori istituzionali più o meno privati, da associazioni di ogni sorta, sportive, sindacali, culturali, da gruppi di vicinato, bande di giovani, sette, ecc. Il profitto monetario non è mai stato l’unico oggetto del capitalismo. La ricerca di un certo tipo di dominazione sociale, spesso associata ad

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una sorta di creatività miope e cinica — ignobile in senso etimologico — ha sempre costituito imo dei suoi principali stimoli. Intorno ai due obiettivi fondamentali che sono per esse il denaro e il potere, le bor­ ghesie e le burocrazie hanno dunque prodotto sistemi di regolazione e di controllo capillare delle popolazioni sfruttate, i quali hanno anche la funzione di stabilire in seno alle classi dirigenti, nei paesi occidentali come in quelli dell’Est, quel minimo di disciplina collettiva senza il quale esse non potrebbero far fronte alle pressioni congiunte della lotta di classe e delle «necessità» dello sviluppo. L’originalità del capitalismo contemporaneo - la sua capacità non ancora smentita di sormontare le crisi più gravi, ed anzi di uscirne rafforzato, la sua relativa superiorità in quanto modo di sfruttamento dei lavoratori rispetto alle varie « for­ mule» di socialismo burocratico — si è espressa, fino alla crisi attuale, nel fatto seguente: il concentrarsi dei poteri politici e l’integrazione delle potenze economiche non hanno portato al suo isolamento e accer­ chiamento, ma al contrario sono state accompagnate dalla crescita di zo­ ne d’appoggio sempre più ampie nella società. Si può dire anzi che il capitalismo è riuscito a contaminare l’insieme del corpo sociale con la sua «concezione» del profitto e dell’alienazione, tanto che ciascuno dei suoi sottoinsiemi, in un grado o nell’altro, e secondo le più varie moda­ lità, compresa quella socialista burocratica, è partecipe del tipo di sfrut­ tamento e di desiderio di potere che caratterizza il capitalismo. Le classi operaie dei paesi ricchi partecipano infatti indirettamente al saccheggio del Terzo Mondo, gli uomini al supersfruttamento delle donne, gli adul­ ti all’alienazione dei bambini, ecc. In modo schematico, si può considerare che tutto quanto attiene alla legge tende, per ciò stesso, a modellarsi sullo Stato, e che tutto quanto rientra nella sfera del desiderio tende a modellarsi sulla ricerca del pro­ fitto: la promozione sociale individuale, e perfino l’amore appartengono ormai soltanto agli ultimi settori... della libera impresa!

Al di qua dello Stato. Si è esaminato il nuovo rapporto fra Stati e organizzazione mon­ diale: concentrazione tentacolare dei poteri, «molecolarizzazione» del­ le forze di assoggettamento. Il secondo punto riguarda il divenire delle masse popolari (poco importa il termine). Infatti le trasformazioni capi­ talistiche e burocratiche di cui sopra hanno funzionato con molto mag­ giore efficacia nel campo economico che in quello politico, in cui sono

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continuamente andate ad urtare contro barriere nazionali e, a quanto pare, contro ogni sorta di arcaismi. Nel campo della capitalizzazione del plusvalore economico, esse hanno reso le frontiere praticamente per­ meabili, e imposto il gioco del mercato mondiale al di sopra degli anta­ gonismi di regime, dei conflitti razziali, delle disparità di sviluppo. Nel campo del plusvalore di potere, invece, si è constatato un restringimen­ to generale delle prospettive, che non solo ha reso impossibile, ai giorni nostri, il costituirsi di nuove grandi entità territoriali del tipo degli Stati Uniti o deH’Unione Sovietica, ma ha inoltre fatto proliferare le questio­ ni linguistiche, regionali, etniche, ecc. Le cose vanno come se la formula «Stato» fosse oggi superata, ri­ dotta agli estremi, e come se il capitalismo non avesse più a disposizio­ ne i mezzi politici e istituzionali corrispondenti al suo dinamismo eco­ nomico, il quale, dal canto suo, resta ancora temibile. Più lo Stato ha servito il capitalismo industriale, commerciale e finanziario (nel campo delle trattative salariali, nella vita delle collettività locali e perfino nella vita quotidiana di ciascuno), meno si è dimostrato capace di svolgere una politica coerente. Questa incapacità dello Stato di promuovere una pianificazione razionale totale è da attribuire a una debolezza politica degli attuali governanti, o a una mancanza di abilità da parte dei tecno­ crati al loro servizio? Per cambiare tale stato di cose, sarà allora suffi­ ciente sostituire agli uomini politici di destra degli uomini politici di sinistra, e ai tecnocrati di destra dei tecnocrati di sinistra, i quali, del resto, escono dalle stesse scuole e frequentano generalmente gli stessi ambienti? Questa incapacità non dipende piuttosto da un’evoluzione molto più fondamentale, che ha fatto degli Stati moderni nient’altro che degli ingranaggi intermedi fra un al di là e un al di qua, fra istanze supernazionali e gruppi di pressione interni di ogni genere? Questa crisi, questo disadattamento dello Stato, non favorisce sol­ tanto i disegni del capitalismo internazionale, ma apre egualmente nuo­ ve possibilità d’intervento all’azione delle masse: quelle masse di cui si diceva che formano sempre meno un blocco compatto, e che sono in cer­ ca di «identità» nuove che permettano loro di assumere non solo i pro­ pri bisogni quantitativi , ma anche le proprie particolari posizioni di desi­ derio. Tutto considerato, « gli anelli più deboli» del capitalismo sono for­ se da ricercarsi piuttosto sul versante di formazioni collettive di desideri che non su quello dell’economia politica. Ovviamente questi due aspetti sono inseparabili l’uno dall’altro, ma via via che si sviluppa la crisi si va accentuando un certo divario fra loro. Si può ancora immaginare che il capitalismo intemazionale possa riuscire a «risolvere» a modo suo problemi come quelli delle materie prime, delle grandi scelte tecnoio-

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giche, o a tracciare una nuova mappa mondiale degli insediamenti indu­ striali..., ma è veramente difficile vedere come potrà trovare soluzioni ai problemi politici, demografici, ecologici, in cui si sta impantanando. Il «genio» del capitalismo consiste nell’esser stato in grado, per la mag­ gior parte del xx secolo, non solo di neutralizzare i movimenti rivolu­ zionari che miravano ad abbatterlo, ma, per di piti, di essersene servito per far tacere il proletariato mondiale, e, in una certa misura, i movi­ menti di emancipazione nazionale. Ora, ciò che caratterizza essenzial­ mente la crisi attuale, sono forse meno le disfunzioni economiche in quanto tali, che non una certa incapacità degli organi dirigenti dei paesi capitalisti sviluppati di trovare risposte ai problemi sociali — su scala nazionale come internazionale — nella linea del riformismo tradizionale. La formula consistente nel far sostenere le burocrazie di Stato dalle bu­ rocrazie operaie si sta deteriorando in paesi politicamente tanto diversi quanto lo sono l'Italia e l’Inghilterra. E non è detto che, in questo cam­ po, la socialdemocrazia francese ottenga risultati migliori della sua omo­ loga inglese o del partito comunista italiano. Fintantoché l’istituziona­ lizzazione del movimento operaio è andata di pari passo con la moder­ nizzazione del capitalismo — e questo essenzialmente nel quadro relati­ vamente delimitato di un insieme nazionale -, lo scontento dei salariati, la pressione sociale hanno funzionato, di fatto, come una sorta di pres­ sione «selettiva» sulle imprese, le più deboli delle quali erano costrette ad allinearsi con le più potenti, o a scomparire. Tale complementarità tra il progresso sociale e il progresso del capitalismo ha avuto inoltre la tendenza a sproletarizzare le masse operaie, e ad adattarle a modelli di consumo essenziali, d’altro canto, alla produzione e alla stabilità dei rapporti sociali. L’arrivo al potere delle burocrazie socialdemocratiche ed eurocomuniste in un certo numero di paesi occidentali, rientrando nell’ambito di questa «crisi del riformismo», probabilmente non farà che accelerare lo sviluppo di tale crisi internazionale. Infatti tutto lascia prevedere che esse non avranno sull’economia internazionale una inci­ denza maggiore che sull’apparato statale, il quale continuerà a girare su se stesso, registrando passivamente i dati economici, prendendo atto dei rapporti di forza, senza influenzare realmente il corso degli eventi. Se la loro azione rimane di tipo mass-media, spettacolare, non avrà altri effetti, a lungo andare, che quello di smobilitare i potenziali attori di un mutamento sociale reale. Per di più, non si deve affatto escludere un divorzio tra il sindaca­ lismo operaio da una parte, e dall’altra i partiti comunisti e socialisti: non si può scartare a priori un’evoluzione «all’inglese», cioè un pro­ cesso di autonomizzazione delle Trade Unions rispetto al partito labu­

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rista, che paralizza letteralmente i vari tentativi del capitalismo moder­ no di uscire dalla crisi. Nel contesto delle vivacissime lotte concorren­ ziali tra le grandi potenze industriali, il fatto che le burocrazie sindacali prendano le distanze nei confronti dei partiti politici di sinistra — non certo per orientarsi verso un sindacalismo rivoluzionario, ma per andare sempre più verso un corporativismo aH’americana - potrebbe dunque avere la conseguenza di togliere alle dirigenze moderniste di questi pae­ si la possibilità, cui si accennava prima, di utilizzare il sindacalismo con­ trattuale come leva per provocare un’evoluzione a loro favore delle con­ traddizioni intracapitalistiche. E fra non molto saranno tramontati i tempi in cui si poteva ritenere che in caso di crisi grave i partiti socialdemocratici fossero nella posizione migliore per «salvare la faccia» delle borghesie, e rilanciare il sistema capitalista. Forse non si riflette abba­ stanza quando, a questo proposito, si citano gli esempi fino a oggi «riu­ sciti» - ma per quanto tempo ancora? - della socialdemocrazia tedesca e scandinava. Al presente, né i dirigenti del capitalismo intemazionale, né le bu­ rocrazie dei paesi dell’Est, né i leaders «alternativi» dei movimenti di sinistra europei dispongono di mezzi, né di idee, che consentano di far fronte alle frane gigantesche che stanno sconvolgendo il mondo. Continuano tutti a vivere sull’utopia consistente nel pensare che la mac­ china economica potrà indefinitamente tenersi in piedi appoggiandosi sulle tecniche di controllo delle masse instaurate dall’apparato statale, dall’esercito, dalla scuola, dalle attrezzature collettive, dalle burocrazie sindacali... e più di recente dai mass-media. È vero che oggi il controllo sociale si esercita molto meno con la violenza di quanto avvenisse un tempo. Gli individui sono «tenuti a bada» dal loro ambiente, dalle idee, dai gusti, dai modelli, dai modi di essere, dalle immagini che vengono inoculate loro in permanenza, e perfino dai ritornelli con cui s’imbotti­ sce loro il cranio. Ma questo sistema di assoggettamento «con le buo­ ne», per addormentamento collettivo, comincia a guastarsi. Un certo numero di «rumori» sta svegliando la gente. Innanzitutto, su un piano economico, i meccanismi «normali» di assoggettamento vengono meno: la riserva «normale» di disoccupazione supera un po’ dappertutto il se­ gnale di guardia, e l’inflazione «normale», altra forma d’imposizione indiretta dei salariato, tende a diventare incontrollabile. Delle regioni, delle nazioni poco tempo fa ancora considerate come dei poli importanti di crescita economica, cadono nel sottosviluppo. Il caso dell’Italia è molto significativo a questo riguardo, nella misura in cui, da parecchi anni, questo paese riesce a sopravvivere soltanto grazie ai soccorsi in­ ternazionali. L’Inghilterra, dal canto suo, si è messa in una posizione

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di crisi a lungo termine, il cui esito è difficile prevedere. Infine, si assi­ ste a una generale liquidazione delle ideologie, dei modelli di riferimen­ to, e al crollo, l’una dopo l’altra, di tutte le «Mecche» del socialismo. Si potrebbero distinguere, ancora una volta in maniera molto sche­ matica, quattro grandi periodi nella storia deU’integrazione operaia: — un periodo di urbanizzazione intensiva, di lotta contro il nomadi­ smo interno dei lavoratori; — un periodo di alfabetizzazione, di fissazione semiotica della forzalavoro alla lingua del potere e ai suoi sistemi di gerarchia; — un periodo di «socializzazione» corrispondente all’integrazione del movimento operaio e allo sviluppo del sindacalismo contrattuale; — un periodo di assoggettamento generalizzato, che mette in gioco i mass-media, un modello di vita normalizzato sul tipo dell’American Way of Life, ecc. Le diverse tecnologie di assoggettamento e le diverse istituzioni messe in opera durante tali periodi (e che col passar del tempo non si sono eliminate, ma si sono intrecciate le une con le altre) non corrispon­ dono più all’evoluzione delle forze produttive, all’internazionalizzazione dell’economia e alla crescita di un nuovo tipo di desiderio nelle masse. In altri termini, alle quattro precedenti problematiche, almeno secondo l’ipotesi che qui s’intende esporre - si stanno ora sostituendo altre linee di crisi, dagli imprevedibili sviluppi, e cioè: — una crisi che tocca il controllo dei territori, e in primo luogo i po­ teri di Stato (si potrebbe parlare di una sorta di «deperimento dello Stato», ma in una prospettiva ben diversa da quella del marxismo); — una crisi che tocca i meccanismi di assoggettamento economico tradizionali (disoccupazione, inflazione, ecc.) legati essenzialmente aH’internazionalizzarsi dei meccanismi economici e della produzio­ ne (deterritorializzazione del capitalismo); — una crisi che influisce sui modi di assoggettamento della forza-la­ voro, sulla socializzazione degli individui (crisi delle istituzioni, della scuola, del sindacalismo, del militantismo tradizionale, ecc.), a sua volta legata allo sviluppo dei mass-media; — una crisi legata al crescere di una nuova sensibilità in seno alle masse, all’emergere di un nuovo tipo di lotta per la «qualità della vita», e non più soltanto per il «livello di vita», e di un nuovo tipo di rivendicazioni, relativo a ciò che si potrebbe chiamare «il diritto al desiderio».

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Come possono i dirigenti e i teorici di sinistra, nella misura in cui se­ condo le loro stesse affermazioni sono ben decisi a non cambiare niente di essenziale - in un primo tempo, dicono... — come possono proclamare che il loro programma economico permetterà di risolvere queste crisi, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle caserme, nelle prigioni, negli ospizi, ecc.? E che cosa accadrà se la gran massa dei salariati si metterà a rifiu­ tare i «necessari sacrifici», come sta già cominciando ad accadere in Italia, e se un numero sempre più grande di minoritari rifiuterà di con­ tinuare a stare al gioco, e rimetterà in questione nella vita di tutti i giorni i rapporti giuridici, i rapporti domestici, i rapporti fra i sessi, del sistema attuale, di cui le varie componenti della sinistra continuano a farsi garanti? L’alleanza fra il sindacalismo contrattuale e i partiti di sinistra si è fatta sulla base dell’accettazione passiva del capitalismo da parte di ampi strati della classe operaia. Ma il fallimento politico ed economico della destra non sarà forse senza conseguenze su questo stato d’animo d’in­ tegrazione. Se, in una prima fase, una certa autonomizzazione del sinda­ calismo porta la classe operaia a ripiegarsi su se stessa e addirittura a un certo inasprimento «poujadista» dei suoi elementi più conformisti, tuttavia essa potrebbe egualmente favorire, in seguito, lo svilupparsi di correnti di «autonomia operaia», per riprendere un’espressione italiana che contiene aperture verso nuove prospettive rivoluzionarie. Senza spingersi fino a immaginare un ritorno dei grandi sconvolgi­ menti del tipo maggio ’68, tutta una serie di segni mostra che strati so­ ciali sempre più ampi non vogliono più vivere come prima. Un certo tipo di rapporti con le merci comincia ad essere respinto da un numero crescente di persone. L’incentivo a consumare più automobili, più al­ loggi individuali, più elettrodomestici, più svaghi prefabbricati, e per ciò stesso a lavorare di più, a cercare di salire i gradini della gerarchia professionale, a logorarsi prematuramente: e a quale scopo, a vantaggio di chi? Gli incentivi essenziali al buon funzionamento del capitalismo stanno forse in parte cominciando a venir meno. In fondo è l’idea stessa che una soluzione dei problemi socioeconomici attuali possa venir tro­ vata entro gli ambiti esistenti, a perdere la propria credibilità. Nulla dovrebbe impedire — nessun ricatto in nome dell’unità d’azione, nes­ suna intimidazione sotto pena di «irresponsabilità» — d’immaginare svolgimenti ben diversi da quelli che, a ogni costo, si vogliono imporre. Ad esempio, con l’avvento della sinistra al potere: - l’impossibilità, da parte sua, di riassorbire la disoccupazione; — l’impossibilità di superare, nel quadro delle regole del gioco del

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capitalismo (interno come esterno), la dipendenza dell’economia francese rispetto al mercato mondiale e alle superpotenze che lo controllano; — l’accentuarsi del divario tra le regioni, tra i settori socio-professio­ nali, fra i sessi, le classi di età, ecc., cioè da un lato una stratifica­ zione sociale, un’inerzia sociale ed economica sempre più paraliz­ zante, sempre più «rivendicativa» e, dall’altro, una marginalità che acquista sicurezza di sé, allontanandosi dalle «utilità margi­ nali» per assumere nuovi modi di vita. Piuttosto che accontentarsi di assistere da spettatori della domenica sera alle grandi finali elettorali, bisogna porre alla sinistra un certo nu­ mero di domande preliminari. Ad esempio: che cosa farà per «reggere» l’economia, se i sindacati le sfuggono, se faranno una svolta «all’in­ glese»? Che cosa farà per «tenere a bada» i giovani, le donne, le mino­ ranze di ogni sorta che vorranno approfittare dell’occasione perché le cose «cambino un po’»? Di che cosa sarà capace, per garantire l’ordi­ ne? Bisognerà analizzare egualmente, in tutti i particolari, le motiva­ zioni del nostro disfattismo. Infatti, l’ipotesi implicita per molti di noi, è che in ogni modo, alla fine dei conti, usciremo perdenti da questa sto­ ria. La storia non mostra forse che la sinistra è sempre riuscita a rista­ bilire l’ordine, a recuperare i movimenti meglio di quanto avrebbe po­ tuto fare la destra? Chi ci dice però che le cose andranno sempre cosi? Certo non bisogna farsi illusioni: i partiti di sinistra si preparano fin d’ora a fronteggiare, come dicono, le loro «responsabilità», in altri ter­ mini a mettere in atto tutte le forme di repressione che le «circostan­ ze esigeranno», secondo un’altra formula consacrata dall’uso. Ma, ne avranno i mezzi anche questa volta? Il gioco non è fatto e, senza rica­ dere nel messianismo delle crisi e delle rivoluzioni, si può supporre che il sintomo di «stanchezza» elettorale costituito dall’avanzata dell’ecolo­ gismo e dell’estrema sinistra in Francia, il continuo aggravarsi della crisi in Italia, la nascita della nuova Spagna, l’estendersi del dissenso nel­ l’Europa dell’Est, annuncino un periodo di grandi sconvolgimenti. Tut­ tavia, una sorta di torpore collettivo, alimentato dai mass-media, induce ancora troppo spesso a respingere l’idea che possa verificarsi una vera frattura storica. Non si tratta di semplici speculazioni sull’avvenire. Piuttosto che pensare all’ineluttabile ritorno del fascismo (poiché dopo tutto è sempre questo stesso schema meccanico che ritorna in mente), perché non partire invece dall’ipotesi opposta, cioè che in questo ultimo quarto di secolo un nuovo tipo di rivoluzione diventa finalmente possi­ bile, una rivoluzione che non riguarda più unicamente gli apparati poli-



Rivolimone molecolare e lotta di classe

tiri, ma che finirebbe col mettere in causa tutti gli ingranaggi, anche i più molecolari, della società? Al giorno d’oggi, si osa appena dire que­ ste cose ad alta voce, per timore di farsi deridere dai nuovi leaders intel­ lettuali della sinistra: «Eccone un altro che continua a scambiare i pro­ pri desideri per realtà! Ma non sa che il maggio ’68 è finito, che non tornerà mai più, e che è bene sia cosi?» Dopotutto, se si tiene assolu­ tamente ai riferimenti storici, perché non scegliere piuttosto quelli dei grandi periodi in cui furono spazzati via gli uomini, le istituzioni e le idee che parevano i più indiscussi? Non fu proprio in quei momenti che il desiderio, anziché esser scambiato per realtà, prese effettivamente d’assalto quest’ultima, e la trasformò?

II.

La giustizia e il fascismo quotidiano

La questione dei tribunali popolari

... Michel Foucault denuncia, a giusto titolo, la falsa divisione dei ruoli fra le due parti contendenti in un processo, e la pretesa neutralità dell’istanza giudiziaria. Teatro di marionette in cui i meccanismi della giustìzia riscrivono, per tre personaggi stereotipati, le più complesse si­ tuazioni, fabbricano un «caso», inventano dei destini, sulla base dei conflitti e dei drammi più lamentevoli. Per capire meglio il fascino eser­ citato su un certo numero di rivoluzionari da questa idea di « tribunali popolari», bisognerebbe riuscire a mettere in rapporto due tipi di osses­ sioni manichee: quella dei giuristi, relativa alla «verità dei fatti», e quella dei militanti dei gruppetti, relativa alla «giusta causa». Ma come si può discutere con calma di questi problemi con i nuovi «giovani quadri» maoisti, senza rimettere sul tappeto la questione del funzionamento burocratico nelle loro proprie organizzazioni? Non han­ no forse la pretesa di rappresentare appunto una certa giustizia, un or­ dine, una legge? Niente giustizia senza giudice, niente ordine senza cu­ stodi dell’ordine, niente legge senza potere, senza rapporti di forze. Ecco cosa dice Victor: «... il vero potere siamo noi. Siamo noi che ri­ mettiamo le cose a posto...» Qui si avverte che Victor è anch’egli un uo­ mo di legge, e che è pronto a chieder conti agli altri senza doverne ren­ dere. E Michel Foucault si lascia intimidire? È certo esitante proprio nel momento in cui invece, a mio avviso, enuncia la cosa più profon­ da. In risposta a una domanda un po’ insidiosa di Victor: «Come nor­ malizzerai la giustizia?», risponde: «È una cosa da inventare!» Cer­ to! Non si possono programmare delle istituzioni rivoluzionarie in no­ me di alcuna legge storica o morale. E spiega che si dovrebbe trattare «di istanze di chiarimento politico». Qualcosa, insomma, che non inter­ preta, che non surcodifica, che spiega il «come funziona», che innesta e disinnesta i sistemi per superare l’ostacolo. Un’istanza, diciamo, di analisi e d’intervento micropolitico, che non esce mai dal piano mole­ colare dell’energia desiderante. Non si giudica un atto di violenza car-

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La giustizia e il fascismo quotidiano

naie su un piano morale, né si riduce la questione all’accertamento «og­ gettivo» dei fatti. Ci sono dei minorenni, una ragazza, un notaio, un omicidio, un atto di violenza carnale, delle vecchie che guardano, dei poliziotti, dei giudici, dei giornalisti, dei militanti. Tutto questo si com­ bina in un certo modo. La prima cosa da fare, se ci si vuol capir qual­ cosa, è non ridurre tutta la complessità del fatto alla semplice doman­ da: «Chi è il colpevole?» Quando si «tiene» il colpevole, quando si può finalmente esclamare: «Era lui», si crede, si vuol far credere di aver trovato la soluzione del caso. Che ignobile assurdità! E per salu­ tare la conclusione del processo, non si attende più che un sacrifìcio sul­ l’altare della legge. Ed ecco che dei militanti di estrema sinistra recla­ mano una giustizia migliore! Dei buoni giudici, insomma, dei buoni po­ liziotti, dei buoni padroni! Par di sentire il coro dei portinai e dei tas­ sisti, che fa loro eco: «Rimettete in vigore la pena di morte, chiudete i pazzi in manicomio, tagliate i capelli agli hippies...» La stessa idea di giustizia è reazionaria. L’idea di una giustizia popolare, di un tribunale popolare, portata avanti dai maoisti, è egualmente reazionaria: va nello stesso senso dell’interiorizzazione della repressione. «Le masse inven­ teranno»... Non una buona giustizia, un nuovo codice e dei buoni giu­ dici! O, se giungeranno a questo, vorrà dire che staranno andando verso il fascismo. Esse inventeranno invece una «istanza di chiarimento poli­ tico» che permetterà di farla finita con l’individuazione della responsa­ bilità, con la reificazione della colpevolezza. Alla domanda: «Chi ha fat­ to questo?», sostituiranno: «Come si sono venute concatenando le co­ se, come si è giunti a questo?» Esse chiariranno politicamente, «macchinicamente» un concatenarsi di desideri che era rimasto bloccato: «Che cosa è possibile fare?» «Io sono contrario all’idea che il sistema penale sia una vaga superstruttura... tutto un sistema di valori ideali­ stico è assorbito in questo modo...», dice Michel Foucault. Ed è fondamentale. La repressione del desiderio opera nell’infrastruttura, a un li­ vello anteriore alla diflerenziazione dell’energia percettiva, produttiva, sessuale, ecc. Bisogna lottare contro l’incalzare dell’antiproduzione sul desiderio, contro l'appiattimento repressivo del sociale e lo stravolgi­ mento del processo desiderante. A proposito della distinzione tra plebe proletarizzata e non proleta­ rizzata: quel che mi sembra da approfondire, è l’idea abbozzata da Fou­ cault, del distaccarsi di una «avanguardia» attraverso la macchina della scrittura: «Un’etica nell’alfabetizzazione», la legge che passa sotto la lotta, di modo che il capitalismo dispone di un flusso di manodopera «surdecodificata» che verrà a trovarsi in rapporto di contiguità con i macchinismi industriali. Il che implica immediatamente che il potere si

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accinge ad infiltrare tale avanguardia con la sua morale, il suo ideale di vita, ecc. Il trade-unionismo, la socialdemocratizzazione sono state delle fasi, ma delle fasi di che cosa? Dell’integrazione di una parte della classe ope­ raia ai fantasmi dominanti, ai fantasmi dell’individuazione paranoica, mentre al livello preconscio, in cui si svolgono le lotte d’interessi, si manifestava una coscienza di classe autonoma e puritana. Nella storia, i tempi di surcodifica coincidono sempre con i tempi di noia e di depres­ sione. Il movimento operaio è contaminato: seriosità, eliminazione di qualsiasi spontaneità. Si dovrebbe dunque distinguere fra: 1) Una classe operaia ben educata tramite prelievo sulle masse. Flus­ so «surcodificato», istanza la più deterritorializzata nel suo rap­ porto con la macchina, e la più arcaica nel rapporto con la fami­ glia, il potere, ecc. 2) Una pseudoavanguardia per distacco selettivo (i bolscevichi par­ lavano di «distaccamento della classe operaia»). Un esercito di burocrati in potenza, in cui la macchina della scrittura non è più subita passivamente, ma è pienamente assunta. Qui si lavora con­ tro il desiderio e per conto del potere, con una scrittura, con una parola appiattita, satura di «parole d’ordine», impregnata del­ le parole dell’ordine dominante. 3) Un residuo schizofrenico. Il sottoproletariato. Tutto ciò che ri­ fugge, che «non ci sta» o che non trova dove collocarsi. Una macchina rivoluzionaria dovrebbe determinare le proprie con­ nessioni con questi tre livelli gerarchizzati: i ranghi e le caste, attual­ mente indissociabili dalla classe operaia, non possono essere sconfitti se non nella misura in cui verrà elaborata una strategia delle formazioni desideranti. La macchina rivoluzionaria non è un prelievo di classe, un distaccamento di casta burocratica. È una formazione di sovversione de­ siderante. Il desiderio si schiera nella lotta sotto una forma preperso­ nale. Quel che conta, non è un sedicente progresso dall’una all’altra for­ ma di organizzazione del proletariato, da cui esso verrebbe organizzato come un grande esercito centralizzato. È la molteplicità desiderante che sciama all’infinito, la soggettivazione macchinica che contamina tutto (ad esempio, la guerra popolare in Vietnam). La formazione rivoluzio­ naria è al di qua delle caste e delle classi, essa «sdoppia» l’ordine tota­ lizzato. Macchine multiformi si mettono a funzionare nelle scuole, nelle fab­ briche, nei quartieri, negli asili, ecc. Una macchina da guerra rivoluzio­

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La giustizia e il fascismo quotidiano

naria non si sovrappone a questa molteplicità, non la totalizza. Il par­ tito, il segretario generale, Pierre Victor non è il «corpo senza organi del movimento». Ci sono le macchine desideranti rivoluzionarie, più o meno spontaneistiche, policentriche, e poi, accanto, una macchina centralistica, un ordigno di guerra contro il potere. Rifiutiamo dunque l’alternativa esclusiva tra lo spontaneismo impo­ tente dell’anarchia e la surcodifica burocratica, militare e gerarchica dei bolscevichi. Ciò che è militare-potente è una macchina, ma soltanto una macchina fra le altre. Non si desidera per le vie traverse di una struttura delegata. Il desiderio delle masse non proletarizzate non ha con il macchini­ smo lo stesso rapporto che il desiderio delle masse proletarizzate. Tut­ tavia hanno entrambe a che fare con il medesimo macchinismo sociale. Salvaguardare il desiderio nomade, il desiderio «barbarico», la vo­ glia di sbarazzarsi di quelli che sono estranei a esso. Riserva di energia per trarre fuori dal loro torpore gli operai integrati, che si preoccupano delle cambiali di fine mese e dei voti dei figli a scuola. Pretendere di disciplinare il sottoproletariato, significa castrare la classe che meglio incarna la macchina nel senso dell’economia del desiderio: significa agi­ re al servizio della borghesia, dell’integrazione. Il rifiuto di un’istanza-terza dominatrice non implica affatto che si debba rinunziare alla costruzione di potenti macchine da guerra rivolu­ zionarie, che sono anzi necessarie a causa della natura dell’oggetto da distruggere. Non ci si batte con i pugni nudi contro i carri armati. Cio­ nondimeno, una macchina da guerra non significa un embrione di mac­ china di Stato. È proprio il contrario! Lo Stato come antiproduzione, bisogna farlo degenerare subico. La macchina da guerra rivoluzionaria, va messa insieme subito. La potenza della macchina non assomiglia a quella dell’oggetto che essa intende distruggere. La contaminazione im­ maginaria che sviluppa tale confusione è dovuta a una mentalità buro­ cratica congenita.

L’odio di Troyes Sulla pena di morte

Forse non si tratta tanto di una paura quanto di una sorta di piacere collettivo, di godimento fascista che si scatena a partire dal momento in cui eccezionalmente un ampio consenso repressivo si determina nel corpo della società. Non credo si tratti di un fenomeno di tipo «capro espiatorio», per scongiurare l’azione di qualcosa che fa paura. Vedo questa vicenda piuttosto come un movimento libidinale «positivo», of­ fensivo; mentre la paura è qualcosa di difensivo, che fa ripiegare su se stessa la libido. Si sente che la gente è sicura di sé e combattiva. È sicu­ ramente molto difficile ottenere un consenso generale nel campo della giustizia; ci sono sempre dei pensieri reconditi, delle colpevolezze in­ confessabili. Questa volta è chiaro, non ci sono ambiguità. È il delitto abominevole. La gente può godersela, come ai bei tempi delle esecu­ zioni pubbliche descritte da Michel Foucault in Surveiller et punir. Dunque, il problema diventa il seguente: che cosa fa si che quell’atto sia in grado di scatenare un simile consenso? Credo che, prima di tutto, ciò dipenda dal fatto che Patrick Henry si presenta come una persona del tutto comune : un collega d’ufficio, un vicino, una persona che s’incontra per la strada. Che qualcosa di peri­ coloso possa sopravvenire da un «meteco», da un pazzo, da uno che ha la fedina penale sporca, è normale; il problema è stato individuato e classificato, al caso è stato applicato un codice, vi si è preparati. Che invece un delitto di questa natura possa esser compiuto da una persona qualsiasi, non è più affatto normale. Si ha allora il fenomeno dell’una­ nimità : bisogna ricostituire d’urgen2a l’immagine del bianco - normale adulto - civile - fallocrate - piccolo borghese ecc., bisogna toglierle que­ sto tratto minaccioso. La minaccia non proviene più da un elemento marginale, ma dall’interno stesso del modello dominante. Perciò, il mo­ dello si difenderà, compirà i suoi esorcismi. Quando si assiste a cose simili, non ci si riconosce più; allora, per correggere questa alterazione, invece di cercare da cosa essa dipenda, quali ne siano le conseguenze, si ricorre alla chirurgia: ciò non può far

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parte di noi, è soltanto una verruca che ci deturpa il viso! A ogni costo, bisogna marginalizzare il caso. E quando si ritrova un’identità media («noi, saremmo incapaci di giungere a simili eccessi»), si scatena una sorta di giubilazione repressiva. Forse si giunge, in fin dei conti, a un fenomeno di «capro espiatorio», ma in un modo diverso da quello che consiste nei trovare un capro espiatorio fra i pazzi, i marginali, ecc., cioè fra gente che già in partenza si discosta dalla norma. Nel nostro caso, si fabbrica un capro espiatorio, per isteria collettiva, partendo da una persona che era uno dei nostri, e che poi è diventato un tradi­ tore, un rinnegato. Il capro espiatorio tradizionale viene represso, re­ legato, perseguitato, ma al tempo stesso se ne può avere pietà. Adesso, invece, è un’altra cosa, una specie di festa dell’odio, di battuta di cac­ cia popolare offerta dal potere. Ci si ritrova fra i propri simili. Si può essere borghesi, operai, poliziotti, impiegati, ladri, gorilla, assassini di professione: ma si sa quel che si fa, si sa rischiare, ma non senza uno scopo... Questa storia è troppo stupida. Non c’è neanche di che farne un romanzo giallo (o, in tal caso, per dare lo spettacolo della insondabi­ le imbecillità dei poliziotti!) Un delitto cosi deplorevole, compiuto da una persona normale, come noi, da un uomo medio, integrato, esige un giudizio tanto più violento, tanto più unanime, quanto meno si è in grado di situarlo, di giudicarlo. Se almeno il movente fosse la pas­ sione, la gelosia, l’alcolismo, ecc, Ma si tratta, in fin dei conti, di un caso giudiziario interno al modello dominante. Il problema deve scom­ parire con l’individuo. Più o meno, tutti sanno che un atto non è mai individuale, che sem­ pre esso coinvolge tutta una serie di persone, di istituzioni, ecc. Quan­ do si tratta di un delinquente, si vede pressappoco quali sono le cause, si accusa la famiglia, l’educazione, mentre qui il concatenamento è l’in­ tera società, quella stessa società che costruisce il modello medio. Al­ lora, si ha come una precipitazione, un piacere perverso di giudicare, il piacere dell’unanimità, il piacere di calpestare. La complicità si tra­ smette da uno sguardo all’altro. Più che una questione di famiglia o di vendetta, diventa una questione d’identità: non è l’ordine pubblico che Patrick Henry minaccia, ma l’ordine mentale della gente. Il fatto può essere valutato in due modi. Si può dire: è un ritor­ nare indietro, un regresso, un fenomeno residuale; oppure si può rite­ nere che esso esprime il crescere di una nuova forma di fascismo. Ho l’impressione che ci sia nella situazione francese attuale un certo nu­ mero di cose che fanno pensare che un fascismo normale, un fascismo quotidiano si stia instaurando, stia conquistando dei diritti, un’auto-

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revolezza, una legittimità, un po’ come negli Stati Uniti esiste ora un’associazione («Total Women») che si propone d’insegnare alle don­ ne come essere delle vere donne, cioè delle vere donne sottomesse agli uomini. Poiché tutto ciò che assomiglia, ciò che avrebbe potuto far pensare a un’alternativa pili o meno rivoluzionaria, non ha avuto se­ guito, non si è affermato, tornano a galla vecchi temi. Ma non si tratta di una nostalgia retrospettiva: esigere, oggi, che riacquisti vigore la pena di morte è altrettanto diverso e nuovo, in Francia, quanto il fa­ scismo in Cile, ed è un fenomeno che richiede una riflessione originale e forme di azione adatte. Nel fenomeno del consenso microfascista (con ciò non ritengo si tratti di un fascismo su scala ridotta; esso è anzi tanto più grave in quanto investe corrompendoli tutti gli ingranaggi della vita quoti­ diana), c’è un’accettazione implicita dell’arbitrio, della sovranità, e ci si può abbandonare tanto più facilmente ad esigere la pena di morte, in quanto si sa che ci sarà chi deciderà in ultima istanza se concedere la grazia o no. L’investimento microfascista da parte delle masse con­ duce a una fusione del potere giudiziario col potere esecutivo. Ho anzi l’impressione che ci sia un’ambiguità nella posizione delle autorità, una sorta di doppio gioco: da un lato la demagogia stile «Parisien-Libéré», e dall’altro il liberalismo ben educato del giscardismo che non ci tiene troppo a sporcarsi le mani in pubblico. Si fanno concessioni alla dema­ gogia poujadista-fascista per poter controllare i «sentimenti del volgo». È addirittura possibile che Patrick Henry non venga giustiziato: non a questo mira l’operazione del potere, ma a captare ed a strumen­ talizzare tutte le forme di microfascismo che conducono oggi al razzi­ smo anti-giovani, anti-arabi, anti-ebrei, anti-donne, anti-pederasti, anti-qualsiasi cosa... Ciò che viene legittimato attraverso tutto questo, è il potere giu­ diziario, il potere esecutivo, l’insieme dei poteri della tutela dell’ordi­ ne. Personalmente, devo dire che una condanna a morte non mi scan­ dalizza più di una carcerazione: dieci o venti anni di prigione mi sem­ brano una cosa abominevole, un incubo. Un’esecuzione capitale, una carcerazione, un assassinio, una violenza carnale, sono tutte cose che mi sembrano egualmente schifose. La commutazione di una pena di morte in reclusione a vita mi sembra importante solo in quanto sia possibile prevedere che forse il processo sarà rifatto, o che un bel gior­ no il regime finirà col cadere e il condannato sarà scarcerato... Ci sono stati dibattiti sul tema dello stupro, e, soprattutto sulla stampa di de­ stra, altri sul tema delle pene detentive comminate a padroni respon­

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sabili di incidenti sul lavoro. Quale che sia la complessità delle poste in gioco, ho l’impressione che questi dibattiti non abbiano messo chia­ ramente in luce l’illegittimità radicale del potere giudiziario, del po­ tere di punire. Naturalmente, è sempre un bello scherzo mettere per un po’ di tem­ po in prigione dei padroni, ma forse è anche un’operazione che serve da copertura alla giustizia e alle prigioni. Posso capire benissimo che una donna sporga denuncia contro un tale che la perseguita, e che ci sia un intervento della polizia. È un dato di fatto, un rapporto di forze che s’istituisce in una società incapace di metabolizzare i rapporti uma­ ni altrimenti che tramite l’alienazione e la violenza. Ma che di questo dato di fatto si faccia un dato di diritto, che attraverso di esso si giu­ stifichi la delega di un potere di punire ai poliziotti, ai giudici, a dei cor­ pi specializzati, è tutta un’altra faccenda! La violenza è ovunque, al livello della coppia, dei giovani, della scuo­ la, del lavoro, ecc. Finché non si sarà giunti a instaurare nuovi organi­ smi sociali che si assumano il compito di risolvere questi problemi, si ricadrà sulle istituzioni e sui rappresentanti della macchina centrale del potere di Stato, che prendono decisioni più o meno alla cieca, talvolta con una specie di piacere sadico, come è ben dimostrato dalle cronache sui reati flagranti. Nel giro di pochi secondi, c’è qualcuno che decide la sorte di una persona per mesi, magari per anni! Bisogna guardare alla realtà quale è, giacché si ha effettivamente una delega di poteri nella mi­ sura in cui la gente non è mobilitata su questi problemi, e non cerca di costituire un sistema accessibile di organismi che si assumano a loro volta le varie responsabilità. In fin dei conti, volenti o nolenti, ammettendolo o non ammetten­ dolo, in ultima istanza ci si rimette alla polizia, ai giudici, alle prigioni, agli ospedali psichiatrici, ecc. Il movimento operaio, da decenni, ha ri­ nunziato a combattere contro gli ingranaggi intermedi del potere di Sta­ to: e secondo la sua strategia questo problema si porrà soltanto più tar­ di, dopo la presa del potere. Se ne vedono i risultati nei paesi «socia­ listi». Nel frattempo, si denuncerà più o meno l’arbitrio della giustizia, la collusione fra giudici e potere capitalista, e, perfino, al limite ci si pronuncerà per una «giustizia popolare»! In tal modo si continua a garantire il sistema, e a eliminare tutta una serie di problemi riguardanti la necessità di assumersi delle respon­ sabilità, a un livello di umanità, di vita quotidiana, nei confronti dei vari problemi, la violenza, lo stupro, l’oppressione, ecc. È stupido im­ maginare che cosi, caso per caso, il popolo si metta a fare una buona giustizia, una buona scuola, un buon esercito, ecc. Sono la giustizia, la

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scuola, le forze armate, la fabbrica, i rapporti d’alienazione fra uomo e donna, ecc. in quanto tali che bisogna rovesciare. Il problema è uno so­ lo, e solo considerandolo tale si potranno trovare le soluzioni locali. La violenza di coloro che picchiano la moglie, che importunano le donne per la strada, la violenza verso i bambini, ma anche, viceversa, la violenza dei figli verso i genitori, le maestre, la violenza dell’ospedale psichiatrico, ma anche la violenza di certi «malati mentali» contro la famiglia, la violenza nei rapporti gerarchici e burocratici, in tutti i cam­ pi in cui le due cose vanno di pari passo. Il fatto è che l’armatura so­ ciale è costituita in modo tale che non esistono mezzi di regolazione all’infuori della costrizione, della coercizione, della sanzione economica, dell’intimidazione, dell’umiliazione, della colpevolizzazione... E dato che questo identico tipo di violenza esiste egualmente, in forme diver­ se, in seno al movimento operaio, nei partiti, nei sindacati, negli stessi gruppetti di estrema sinistra, si potrebbe pensare che il problema è in­ solubile! Ma soltanto affrontandolo per quello che è, soltanto prenden­ done la misura, si potrà forse avviare una soluzione. Se si considerano le cose settorialmente al livello della famiglia, della scuola, delle prigioni, ecc. non c’è via d’uscita. Prendiamo, ad esempio, la violenza delle relazioni all’interno di una comunità terapeutica come quella che ci è mostrata dal film Asylum ci si può domandare se vi sia realmente un «progresso» rispetto all’ospedale psichiatrico! Guardia­ mo le cose in faccia: a quel livello, non esiste una soluzione valida. Il che non significa che non ci sia in questi casi un problema da mettere all’ordine del giorno fin d’ora e in ogni luogo. In altri termini, le que­ stioni della pena di morte, dello stupro, ecc. possono ricevere una ri­ sposta attendibile solo a condizione che s’inseriscano nella prospettiva di un militantismo nella vita quotidiana. E ciò anche al livello di quel che succede oggi, ad esempio nella famiglia, con gli studenti, con i figli, con i compagni di lavoro... In ciascuna situazione concreta, vi è probabilmente una possibilità di trovare altri tipi di cristallizzazioni sociali, altri tipi di approccio. Ma con la consapevolezza che nessun tentativo di liberazione potrà reggere localmente, se non si appoggerà su tutto un insieme di altri tentativi in tutti i campi e a tutti i livelli. Se non s’imposta la questione su questa scala, non vedo alcun motivo d’indignarsi quando, improvvisamente, la gente si mette a reclamare il ritorno della pena di morte. Uccidere la gente, metterla in prigione, è schifoso, ma, tutto sommato, la sorte dei vecchi o di coloro che vivono nei ghetti, che lavorano come bestie, o anche i microclimi di oppressione che esistono in certe coppie, in certe



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famiglie, si equivalgono tutti. Se una sorta di analista collettivo aves­ se potuto discutere con quel poveraccio contro cui oggi si accaniscono tutti, avrebbe certamente trovato un’altra via d’uscita ai suoi problemi. Buttandosi in una faccenda come questa, egli si è in un certo modo sui­ cidato (prima di essere «smascherato», era stato il primo a richiedere la pena di morte per delitti del genere! ) Non è certo per carità cristiana che possiamo dire: siamo «tutti dei Patrick Henry in potenza», ma è vero, semplicemente vero! Salvo che lui se l’è cavata male, ha dovuto perdere la testa quando si è sentito braccato. Forse non voleva giungere a tanto! Tutta questa storia è la­ mentevole, ma lo è né più né meno che l’imbecillità dei poliziotti, dei giudici, dei giornalisti e dei ministri e della gente qualunque di cui fac­ ciamo parte.

I reati flagranti

In genere, nessuno ha troppa voglia di sapere che cosa succede die­ tro le quinte della giustizia, nei commissariati di polizia, nelle prigioni, oppure nei manicomi, negli ospizi, ecc. Per potere andare a testa alta e avere la coscienza tranquilla, il cittadino-civile-bianco-normalmente costituito - sano di mente preferisce non guardare troppo, lungo la sua strada, i regolamenti di conti microsociali e la moltitudine di illegalità che continuano a verificarsi in nome della legge, dell’educazione e della rieducazione, dell’assistenza, della salute, ecc. Quindi, un intervento in questo campo, per essere efficace, ha bisogno di andare ben al di là di una semplice informazione giornalistica! E il merito di Christian Hennion è appunto quello di essere riuscito a far progredire una parte non trascurabile dell’opinione di sinistra e un certo numero di giudici, pren­ dendo posizioni contrarie ai pregiudizi repressivi sapientemente alimen­ tati dai grandi organi di stampa. Il fatto che i problemi posti dai tribu­ nali che giudicano i «reati flagranti» riguardino un settore marginale della popolazione, non deve far perdere di vista l’importanza delle poste sociali in gioco e dei mutamenti di sensibilità di cui quei tribunali rap­ presentano una specie di rivelatore. Con questo libro, una nuova mino­ ranza cui finora era stata negata ogni possibilità di rivolgersi agli altri, si fornisce di un primo mezzo di collegamento con l’insieme delle altre lotte minoritarie che stanno diventando oggi i luoghi per la ricostitu­ zione di un vero movimento rivoluzionario. La procedura per i «reati flagranti» vorrebbe spacciarsi per una giu­ stizia complementare, la cui funzione si limiterebbe a trattare i casi di second’ordine. È infatti noto che l’istruttoria è ridotta al minimo, e che è compiuta dalla polizia a cui, in pratica, è affidato il compito di giudi­ care il grado di «flagranza» dei fatti incriminati. In tali condizioni, ai giudici non resta più altro che esercitare il proprio buon senso nell’ap­ plicazione della legge, e dispensare qualche paterna raccomandazione ai condannati. Da quasi un anno, le cronache giudiziarie di Christian Hennion invitano ad analizzare questo sedicente buon senso, profondamen-

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te permeato dei pregiudizi più reazionari. Il senso di rivolta di fronte all’intollerabile volgarità, alla nauseante sufficienza di giudici che si ar­ rogano il diritto di distribuire, in pochi minuti, mesi e anni di prigione, si accompagnerà nel lettore, pensiamo, a una fascinazione che si può chiamare pornografica. «Ecco dunque che cosa accade nella testa di quella gente! » Lontano dalla pompa delle grandi corti, in quel retrobottega che è questa giustizia dei poveri, si assiste, come entrati per effrazione, a una specie di ostentazione impudica della libido giudizia­ ria. E si è tentati di lasciarsi prendere dal voyeurismo inerente a questo genere di spettacolo. Come nelle scene di un incubo che si ripete, si sente confusamente che nulla è stato lasciato al caso. I rituali scambi di convenevoli fra giudici, poliziotti, procuratori e avvocati, le facezie per iniziati, fanno parte integrante delle commedie che si recitano, e il cui scopo principale è quello di riprodurre un certo tipo di distanza so­ ciale. C’è qualcosa di religioso, di sacrificale, perfino di etologico in que­ st’opera, altamente specializzata, di segregazione sociale. Si è spesso fat­ to osservare che gl’impulsi della nostra intimità più segreta, più ghiotta di stimoli colpevolizzanti, si trovano rafforzati dallo spettacolo di quei poveracci che cadono nelle trappole delle macchine repressive. Esse hanno il dono di risvegliare in noi i ritornelli microfascisti della nostra infanzia: «Bisogna fare di necessità virtù... Bastava che non si facessero beccare... Gli sta proprio bene... Chi va via perde il posto all’osteria...» Ma, mentre con i delitti importanti, e con quella specie di «caccia al­ l’uomo» che mobilita le grandi istanze giudiziarie e poliziesche, si riesce a equilibrare l’economia nevrotica dei nostri impulsi di vendetta, invece con le storie lamentevoli che vengono quotidianamente trattate come reati flagranti si ha a che fare con dei meccanismi grezzi della perversio­ ne giudiziaria, che sembrano raggiungere qui un grado estremo di gra­ vità. Come possono i giudici riuscire a sentirsi a proprio agio, a dir fa­ cezie, in situazioni simili? Con che sorta di aberrazione mentale si ha a che fare? Alla lettura dei resoconti, appare evidente che coloro che fan­ no questo mestiere vi provano un segreto godimento. Ma che sorta di «delega di piacere» è stata data loro tacitamente, perché ciò sia pos­ sibile? Semmai lo si fosse dimenticato, i «reati flagranti» starebbero a ricor­ dare che la colpevolezza, prima di rientrare nel campo delle procedure legali, è innanzitutto strettamente legata alla libido inconscia delle so­ cietà capitaliste. La giustizia, a quanto si dice, avrebbe fatto un gran passo verso i «lumi» concedendo all’imputato il beneficio della presun­ zione d’innocenza. Ma ciò vale solo, e in misura molto relativa, per i casi seri, cioè per i processi dei ricchi o per delitti molto spettacolari.

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Qui, invece, non si ha tempo da perdere. Il prendere di sorpresa, la ra­ pidità della procedura, tutta una tecnica di disorientamento, che del re­ sto può benissimo essere accompagnata da uno stile bonario, hanno la funzione di delimitare una norma sociale media, sanzionando i diversi passaggi «in margine». Il giudizio sui fatti e il molo della legge nella determinazione della pena sono passati in secondo piano. Ciò che è op­ portuno rendere flagrante, è che la gente che si fa sfilare davanti a que­ sto genere di tribunale «non è dei nostri». L’importante è che tutto quanto è marginale venga registrato, sorvegliato, controllato. In questi luoghi, il razzismo sembra vada talmente da sé, sembra cosi sicuro dei propri diritti, che può prendersi perfino il lusso di una sorta di bono­ mia: «pochi mesi di prigione non faranno male a questi ragazzi... questi pezzenti non staranno peggio in prigione che per la strada...» L’impu­ tato ha appena messo piede nella gabbia, e già è ritenuto colpevole. La flagranza della sua colpevolezza dipende meno dai fatti di cui lo si accu­ sa che non dal suo essere in quanto tale. Essere senza fissa dimora, o immigrati, non sapersi esprimere chiaramente nella lingua dei giudici costituisce di per sé una predisposizione alla colpevolezza. Il piacere microfascista di avere qualcuno in proprio potere può egualmente esprimersi con una violenza diretta - strappare le ali a una mosca, violentare una donna —, o attraverso una violenza legale - di­ squisire sovranamente in un rapporto di forze irreversibilmente asim­ metrico -, o con una violenza inconscia — soggiogare un individuo con atteggiamenti o minacce che egli non può misurare. L’atto di giudicare qualcuno responsabile di un reato — mentre in realtà ci si trova sempre davanti a una rete complessa d’interazioni sociali ed economiche - con­ siste in realtà nel ricostituire, per la «maggior soddisfazione» delle parti contendenti, una sorta di confronto animale che rientra nel campo che gli etologi chiamano il campo dei rituali di sottomissione. Una giustizia che mette in scena unicamente degli individui, cioè che non riesce ad articolare un insieme complesso di circuiti microsociali, inesorabilmente fa pendere il piatto della bilancia dalla parte di una violenza sadomasochistica. Pazzi di solitudine, dilaniati dalla pulsione senza oggetto, gl’in­ dividui ricostituiscono alla cieca degli «ambienti di malavita» piti o me­ no al di fuori da tutte le regole, in cui bene o male riusciranno a trovare una identità. Ora, dal punto di vista dell’economia collettiva del desi­ derio, non si possono aver dubbi: non c’è soluzione di continuità fra gli ambienti della polizia, gli ambienti giudiziari, penitenziari, la malavita, le bande di quartiere, ecc. Non si esce mai dalla logica che lega gli indi­ vidui alla colpevolezza e la legge alla delinquenza latente o manifesta.

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È possibile concepire un’alternativa a tale politica d'individualiz­ zazione della responsabilità, di colpevolizzazione patogena, e di costitu­ zione di ambienti simmetricamente asociali e repressivi? Si potrà final­ mente riuscire a sopprimere tutti questi spaventosi dispositivi di corpi di polizia, di tribunali e di prigioni? Forse finirà con l’imporsi l’idea che la società, piuttosto che affidare a corpi specializzati una funzione di giudizio e di punizione, dovrebbe fornire mezzi di ogni tipo, materiali, economici, culturali, ecc. a dei gruppi di operatori sociali per aiutare le persone in difficoltà a prendere direttamente in mano i propri problemi (e non soltanto in occasione di crisi gravi o di delitti). Però, se ci si li­ mita a questo unico orientamento, non si troverà mai una soluzione a due tipi di problemi: quelli concernenti la protezione delle persone e quelli inerenti al costituirsi di una tecnocrazia invadente e repressiva nell’ambito degli organismi di assistenza sociale. Sembra che sia in cau­ sa uno spostamento molto più radicale di ciò che si può chiamare il cen­ tro di gravità delle assunzioni di responsabilità: alla responsabilizza­ zione individuale e all’assunzione esclusiva di responsabilità da parte di corpi specializzati o di gruppi medico-sociali, dovrà sostituirsi un'assun­ zione collettiva di responsabilità risultante da un altro modo di organiz­ zazione della società. Il lavoro dell’individuo e del gruppo si prolun­ gherà in quello di nuove unità metaboliche del sociale. Non si tratterà affatto di rimettersi alle formazioni sociali quali esse sono: la famiglia, le collettività locali, le associazioni, i consigli di gestione, ecc. con il loro sistema di rappresentanti e di delegati che investono sempre più o me­ no la loro funzione rappresentativa di una carica libidinale repressiva. Un’altra «giustizia», un’altra «educazione», un’altra «igiene mentale» ecc. potranno diventare possibili solo il giorno in cui dei sistemi comu­ nitari e per l’autogestione riorganizzeranno radicalmente il campo so­ ciale ed economico. Non si tratterà più, allora, di ritenere qualcuno re­ sponsabile di un atto delittuoso, di un atto asociale o anormale, ma di esaminare le molteplici ramificazioni sociali e politiche ch’esso mette in gioco, per mobilitarle anche su un terreno che esse sostengono non rien­ trare nel loro ambito. E neppure si tratterà più di lasciare che si eserciti il dispotismo perverso dei giudici, dei pedagoghi, degli psichiatri, dei rappresentanti deH’ordine e dei burocrati di ogni genere. L’era degli specialisti e dei delegati scomparirà innanzi ad altre forme di divisione del lavoro, che non avranno più la finalità di riprodurre le norme socioeconomiche, ma il desiderio di vivere ovunque esso si cerchi. Prospettiva utopica e pericolosa, obietterà qualcuno! Utepica in quanto implica una trasformazione del campo sociale difficilmente con­

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cepibile; pericolosa perché tutto sommato la gente preferirà rimettersi a dei giudici di professione, quali che siano i loro difetti, piuttosto che al poujadismo dei portinai e dei taxisti! Ma nulla dice che gli sconvol­ gimenti economici e sociali in corso in tutti i campi non abbiano come conseguenza una vera e propria rivoluzione nel modo in cui gli uomini, le donne, i bambini e i vecchi organizzano la loro vita; e che se oggi il popolo esiste il più delle volte unicamente sotto forma di una massa amorfa, influenzata dalle rappresentazioni repressive del potere, lo si deve in gran parte al fatto che i movimenti rivoluzionari, i movimenti di sinistra non solo non fanno niente per trasformare la situazione, ma riproducono internamente dei sistemi burocratici e repressivi simili a quelli del potere. Essi pretendono di parlare in nome del popolo senza far nulla per favorire una cristallizzazione sociale tale da indurre la gen­ te ad assumersi dirette responsabilità quanto ai problemi della vita quo­ tidiana e della soddisfazione dei desideri.

Il 138° anniversario della legge del 1838

Due proposte di legge sulle libertà costituzionali sono attualmente all’esame di una commissione speciale dell’Assemblea Nazionale presie­ duta da Edgard Faure: l’una, presentata dai deputati della maggioranza Foyer, Labbé, Chinaud, e Max Lejeune, e l’altra dall’insieme dei depu­ tati comunisti. I socialisti, dal canto loro, dopo aver dato il via a tutta la questione più di due anni fa, proponendo che si aprisse un largo di­ battito su una «Carta delle libertà», hanno appena pubblicato un opu­ scolo con i risultati dei lavori del loro Comitato di riflessione su questi problemi '. In ciascuna di tali relazioni, poche righe (qualche pagina nel libro dei socialisti) sono dedicate ai problemi della difesa delle libertà individuali nel campo della psichiatria. L’elemento comune a queste prese di posizione, che rende assai rela­ tive le differenze su punti secondari, è ch’erre non escono dal quadro giuridico fissato dalla legge del 30 giugno 1838 sugli «alienati». Occu­ pandosi essenzialmente della protezione degl’individui contro eventuali internamenti arbitrari, esse si limitano a prevedere modifiche delle nor­ me d’internamento fissate dalla legge. Data l’importanza delle implicazioni politiche e sociali di tali que­ stioni concernenti la posizione della follia nella società, sembra però che esse meriterebbero ben pili di una semplice modifica di una vecchia leg­ ge reazionaria. Non bisogna dimenticare che questa legge non ha sol­ tanto lo scopo di definire i ruoli assegnati ai quattro personaggi - il pre­ fetto, l’alienista, la famiglia e, molto pivi indietro, il giudice - che hanno il diritto di pronunziarsi in quelle deplorevoli mascherate che sono gl’in­ ternamenti d’ufficio e gli internamend cosiddetti «volontari» \ In realtà la funzione principale della legge del 1838 è di fissare lo stato giuridico 1 Libertés, liberté, Riflessioni del Comitato per una Catta delle libertà, animate da Robert Badinter, prefazione di F. Mitterrand, Gallimard, Paris 1976. 2 «Volontario» non significa affatto che sia il soggetto a richiedere l'internamento, ma la fa­ miglia o i vicini.

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degli «Istituti pubblici destinati agli alienati», cioè di legittimare l’esi­ stenza di spazi speciali di relegazione per i pazzi. Francamente, i testi presi in esame in Parlamento non fanno altro che dissimulare i veri problemi, in un campo in cui le libertà individuali non sono minacciate soltanto, come si finge di credere, da rischi d’inter­ namento arbitrario. L’arbitrio, in questo campo, è talmente ovvio, che vi sono scarsissime probabilità che un difetto di procedura possa con­ durre a metterlo in luce sul piano giuridico. Quando è la legge stessa a istituire l’arbitrio, i poteri repressivi possono permettersi il lusso di esser scrupolosi con essa! I casi celebri d’internamento arbitrario sono quindi, il più delle volte, pura apparenza. Tutta la psichiatria di oggi, comprese le forme più moderne, continua a essere immersa in un clima di arbitrio, e non soltanto per colpa degli psichiatri e dei loro nuovi mezzi - «camicia di forza» chimica, sociale, psicanalitica — ma anche a causa delle abitudini della polizia, dell’atteggiamento dei datori di la­ voro, delle amministrazioni pubbliche, della Previdenza Sociale, che non rispettano il segreto professionale. (Si provi a rispondere a un’offer­ ta di lavoro, dopo un lungo congedo per malattia, dovuto a problemi psichiatrici!) L’arbitrio, è anche la paura dei pazzi, periodicamente mes­ sa in scena dai mass-media con la complicità della popolazione... È l’in­ sieme di questa segregazione sociale che una legge sulle libertà dovreb­ be avere di mira, e l’unico provvedimento capace di colpire oggi l’opi­ nione pubblica e dare l’avvio a un mutamento in profondità, sarebbe la pura e semplice abrogazione della legge del 1838. Infatti, ciò che si deve condannare è il principio stesso di una legge speciale che fonda giuridicamente l’esistenza di spazi di segregazione, e l’esercizio di una tutela su una categoria della popolazione. Perché no, allora, una legge per i ciechi da un occhio, i balbuzienti, i mancini e le persone dai capelli rossi? Ma, si dirà, questa non è gente pericolosa... Ma in base a quali criteri si attribuisce una pericolosità specifica a una forma di malattia? Tante altre categorie della popolazione sono proporzionalmente molto più pericolose dei cosiddetti «pazzi»: ad esempio, gl’imprenditori edili o gli automobilisti! Accettare come ovvia l’esistenza di una legge segre­ gante nei riguardi dei «malati mentali», non può che rafforzare tutte le forme di razzismo di cui sono vittime i giovani, le donne, gli immi­ grati, le minoranze sessuali di ogni natura, ecc. A livello inconscio, una legge può perfettamente dissimularne un’altra: dietro una legge per il «pazzo», una legge per gli omosessuali, una per gli ebrei, una per gli stranieri, in attesa che vengano apprestati dispositivi speciali per «solu­ zioni finali» di nuovo genere. E non è un caso se oggi in un certo nu­ mero di paesi i poteri tendono a far ricorso sempre più spesso non solo

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all’internamento psichiatrico, ma anche alle cure psichiatriche per sba­ razzarsi dei dissidenti politici e religiosi. Ciò che è paradossale nella situazione odierna, è che i portavoce piti rappresentativi della psichiatria moderna hanno chiesto ininterrotta­ mente, in questi ultimi anni, che la legge del 1838 venisse abrogata e sostituita, nel quadro del Codice della Sanità, con misure regolamentari che fissassero, secondo i termini usati dal dottor Henry Ey, «la posi­ zione medico-sociale della profilassi, delFosservazione, delle cure, del dopocura e dell’osservazione dei malati mentali». Questi psichiatri ri­ tengono infatti che l’estendersi della politica detta «di settore» - con­ sistente nell’occuparsi della popolazione di un quartiere, o di una re­ gione nell’ambito di attrezzature extraospedaliere, quali i consultori d’igiene mentale o le cure ospedaliere a domicilio, ecc. - deve portare alla scomparsa delle grandi cittadelle psichiatriche e quindi della legge che le ha istituite. La psichiatria sociale auspica dunque che venga mes­ so al piti presto un termine al vecchio potere degli psichiatri alienisti - tuttora solidamente radicato —, perché esso non fa che ritardare un’e­ voluzione che la psichiatria sociale ritiene irreversibile. (In parecchi paesi, come in certi stati degli Stati Uniti, i grandi ospedali psichiatrici sono già stati chiusi). Ma ciò che complica le cose, è il fatto che la diffi­ denza è divenuta talmente generale in questo campo da non risparmiare più nemmeno i riformatori apparentemente meglio intenzionati. Chie­ dendo l’abrogazione del proprio potere di diritto, lo psichiatra moderno non sta per caso cercando di mettere le mani su poteri molto più im­ portanti di fatto? Perciò Fran;oise Guilbert, in un libro del ^74 su questi problemi è portata a porsi il problema del potere esorbitante che sarebbe conferito agli psichiatri quando fosse abolita la legge del 1838: essi avrebbero, secondo lei, la possibilità di far ricoverare un ma­ lato contro la sua volontà anche senza che nessuno, né la famiglia, né un’amministrazione pubblica, lo richieda, o anche quando la famiglia vi si opponga. Si ricade dunque nel dibattito giuridico circa gli internamenti arbi­ trari, dibattito del resto simmetrico alle campagne della stampa scanda­ listica che denunzia i casi di uscita prematura, che sarebbero pericolosi per la società. Vista in questo modo, la questione appare insolubile. Dal momento in cui si conferisce a dei medici la responsabilità di alienare la libertà di un certo numero di malati, nessun provvedimento giudizia1 Li berte individuelle et hospitalisation des na'ades nter.taux, Librairie technique, Paris 1974.

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rio a posteriori (o a priori, come esigono i progetti di legge attuali) con­ sentirà un qualsiasi controllo, poiché, per definizione, nessuno sarà in grado di valutare la validità dei criteri « scientifici » su cui sono fondate le decisioni dei medici. Eppure la «pericolosità» degli alienisti stessi e la minaccia di una rete di controllo sistematico della popolazione da parte psichiatrica pongono un problema ben reale! Lo si può vedere in particolare per quanto riguarda l’infanzia; gl’internamenti in istituti specializzati si moltiplicano a un ritmo sbalorditivo, e in questo caso non c’è una legge del 1838! Il potere di suggestione degli psicologi, de­ gli psicanalisti e dei lavoratori sociali è autosufficiente. Chi può essere in grado, oggi, di garantire quel tipo particolare di libertà che risulta minacciato non più soltanto dagli interventi arbitrari ma anche da con­ dizionamenti psicologici, audiovisivi e chemioterapici, i quali, il più del­ le volte, sono accettati passivamente da chi li subisce? Certo non lo pos­ sono i giudici, gli avvocati, gli amministratori locali o i deputati! Solo se gli interessati prenderanno direttamente le cose in mano, sarà possibile capovolgere la tendenza dell’evoluzione attuale tendente al massimo sviluppo di tutti i mezzi moderni di alienazione. È evidente che, un giorno o l’altro, bisognerà pur farla finita con l’ospedale psichia­ trico e i suoi succedanei! Ma chi potrà condurre in porto con successo una simile liquidazione? Gli enti statali? Sarebbe inaccettabile che da un giorno all’altro fossero buttati fuori dagli ospedali psichiatrici dei malati ricoverati da anni, e che fossero licenziate le decine di migliaia di persone che vi lavorano! (Cosa che è avvenuta in California, e il ri­ sultato, nel complesso, è stato piuttosto deplorevole). Il film Matti da slegare, di Marco Bellocchio, che descrive un’esperienza di riconversio­ ne di un ospedale psichiatrico in provincia di Parma, mostra la strada: sta ai malati ricoverati, alle famiglie, al personale degli ospedali psi­ chiatrici, ai medici, ai sindacati, ai consigli di fabbrica, alle associazioni culturali, alle amministrazioni comunali, ecc. prendere collettivamente l’impegno di risolvere questo tipo di problemi. Attualmente, numerosi ospedali psichiatrici francesi hanno una percentuale di posti-letto occu­ pati molto inferiore alla loro capacità, il che determina un aumento artificiale dei prezzi giornalieri di degenza, mentre in altri ospedali si tende a «riempire» i letti ricoverando ogni sorta di categorie della po­ polazione che non erano tradizionalmente di competenza della psichia­ tria (vecchi, clochards, disoccupati, ecc.). Non è ancora il ritorno al Grande Internamento negli Ospedali generali del xvn secolo, descritto da Michel Foucault nella sua Histoire de la folie, ma è già il regime del Grande Asilo! Perché chiudere gli occhi davanti a questa nuova situa­ zione? Sono stati e continuano a essere investiti miliardi in attrezzature

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ormai superate, il cui funzionamento è scandaloso (si veda l’esempio dell’ospedale psichiatrico di Mureaux, vuoto per nove decimi). Invece di lasciare che gli ospedali psichiatrici continuino ad essere retti dalla legislazione repressiva ereditata dal xix secolo, perché non permettere loro di seguire la propria evoluzione? I muri del manicomio tendono a diventare sempre piti permeabili, ed è bene sia cosi! Essi non facevano altro che aggravare i disordini, provocando artificialmente la demoraliz­ zazione e l’agitazione. Di fatto, la garanzia delle persone e la direzione delle cure possono essere assunte soltanto da gruppi che dispongano li­ beramente delle attrezzature loro affidate. La legge del 3 gennaio 1968 ha già definito, per quel che concerne i beni degli «incapaci», ima legi­ slazione che svincola i malati mentali dalla legge del 1838. Allora, per­ ché fermarsi? Perché non sopprimere anche la legge stessa, che conti­ nua a vincolare le persone e le istituzioni? I problemi della salute men­ tale, prima ancora di essere di competenza di specialisti, giuristi e po­ teri amministrativi, dovrebbero dipendere dalla collettività in quanto tale. Una legge evolutiva sulle libertà dovrebbe quindi fornire agli uten­ ti i mezzi di costituirsi in un nuovo potere, tale da equilibrare i poteri dello Stato e quelli delle varie categorie socioprofessionali in causa. Un’attività di controllo diverrebbe cosi inseparabile da altre attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di solidarietà attiva. Dei co­ mitati popolari di igiene mentale - ma questo termine dev’essere respin­ to, ricorda troppo le associazioni benefiche della borghesia -, aperti in primo luogo agl’interessati più diretti, dovrebbero esser messi in grado di intervenire per aiutare su tutti i piani le persone in difficoltà e per sorvegliare e assistere i gruppi specializzati sia quando occorrano inter­ venti urgenti, sia a livello di problemi a più lunga scadenza, concernenti ad esempio questioni di lavoro, di reinserimento professionale, di rap­ porti di vicinato, di alloggio, ecc. In questo campo della psichiatria, finora tenuto troppo segreto, i mezzi, i finanziamenti e i diritti dovreb­ bero quindi essere trasferiti verso una nuova forma di organizzazione sociale. Certo, esiste il pericolo che tali «comitati di base» si dimostrino altrettanto repressivi quanto le famiglie, i vicini, i poliziotti della legge del 1838, o i tecnocrati della politica di settore. Perciò gli orientamenti qui indicati assumerebbero un loro significato solo nella misura in cui le forze di sinistra, invece di limitarsi a semplici modifiche della legisla­ zione vigente, lasciassero che si sviluppasse un movimento popolare in­ torno a questo tipo di problemi. Infatti, a termine, la scelta diventerà ineluttabile: o la società troverà i propri mezzi collettivi di «tratta­ mento» dei problemi mentali - che del resto non cessa di generare -, oppure continuerà a delegare degli specialisti, delle istituzioni specializ­

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zate, le quali non faranno die aggravare il male, nella misura in cui esso è largamente indissociabile, appunto, dal permanente intervento delle macchine repressive nel modo di affrontare tali questioni essenziali ine­ renti al desiderio e alla libertà.

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Premessa. L’oggetto di questo dossier — le omosessualità, oggi, in Francia non poteva venire affrontato senza rimettere in questione i metodi abi­ tuali della ricerca in scienze umane, i quali, col pretesto dell’oggettività, cercano accuratamente di stabilire la massima distanza tra il ricercatore e il suo oggetto. Per riuscire a spostare radicalmente l’asse dell’enuncia­ zione scientifica, come è richiesto dall’analisi di un simile fenomeno, non basta «dare la parola» ai soggetti stessi — il che è talvolta un proce­ dimento formale, perfino gesuitico - ma bisogna anche creare le condi­ zioni per un esercizio totale, o addirittura parossistico, di tale enuncia­ zione. La scienza non sa che farsene delle giuste misure e dei compro­ messi che rispettano le convenienze! Spezzare le barriere del sapere co­ stituito - anzi, del potere dominante — non è una cosa semplice. Tre specie di censure almeno dovrebbero essere sventate: - quella del pseudoggettivismo delle inchieste sociali, tipo rappor­ to Kinsey applicato al «comportamento sessuale dei francesi», che collocano a priori tutte le risposte possibili, in modo da far dire alla gente soltanto ciò che quadra con quanto desiderano udire l’osservatore e il committente della ricerca; — quelle dei pregiudizi psicanalitici. che preordinano una «compren­ sione» — in realtà un recupero — psicologica, topica ed economica, dell’omosessualità, di modo che, come già nella sessuologia più tradizionale, essa continua a essere mantenuta nell’ambito clinico delle perversioni, giustificando implicitamente tutte le forme di re­ pressione che subisce. Perciò qui non si parlerà di «fissazione» alle fasi pregenitali, preedipiche, presimboliche ecc. per cui l’orno1 II numero speciale di « Recherches » del marzo 1973 (n. 12), intitolato Trois miUierds de pervers. Grande Encyciopédie de l'Homosexualité, fu sequestrato. Félix Guattari, in quanto diret­ tore della pubblicazione, fu condannato a 600 franchi di multa per oltraggio al pudore. Secondo la sentenza questo numero di «Recherches» costituiva una «ostentazione dettagliata di turpitudini e deviazioni sessuali», la «confessione libidinosa di una minoranza di perversi», e ordinava la di­ struzione di tutti gli esemplari.

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sessuale, uomo o donna, risulterebbe definito come mancante di qualcosa, se non altro di normalità e di moralità. La macchinazio­ ne omosessuale non dipende da un 'identificazione col genitore del­ lo stesso sesso: essa si pone in rottura con qualsiasi forma di ade­ guamento possibile a un polo parentale reperibile. Invece di risol­ versi in fissazione al Simile, essa è apertura alla Differenza. Il ri­ fiuto della castrazione, nell’omosessuale, uomo o donna, non si­ gnifica che essi si «tirino indietro» dinanzi alle proprie responsa­ bilità sociali, ma al contrario, che, almeno potenzialmente, essi tentano di eliminarne a modo loro tutte le procedure identificatorie normalizzate, le quali in fondo non sono altro che altrettante sopravvivenze dei rituali di sottomissione più arcaici; - infine, quella della omosessualità militante tradizionale. Anche su questo terreno la fase «Capanna dello zio Tom» è superata. Non si tratterà più della difesa delle legittime e innocenti rivendica­ zioni delle minoranze oppresse; e nemmeno di una esplorazione quasi etnografica di un misterioso «terzo sesso»... Gli omosessuali parlano a nome di tutti - a nome della maggioranza silenziosa e mettono in questione tutte le forme di produzione desiderante, quali che esse siano. Nulla potrà esser fatto nell’ordine della crea­ zione o della rivoluzione, se si continua a ignorare il senso dei loro interrogativi. Sono passati i tempi di quei geni omosessuali che si adoperavano per separare e sviare la loro creazione dall’omoses­ sualità, sforzandosi di dissimulare il fatto che la radice stessa del loro slancio creatore nasceva dalla loro rottura sessuale con l’or­ dine stabilito. Una parentesi per i sordi : né il pederasta né lo schizofrenico sono in sé dei rivoluzionari, i rivoluzionari dei tempi nuovi! Si vuole sempli­ cemente dire che, come alcuni altri, essi possono essere, possono dive­ nire il luogo di una rottura libidinale di grande importanza nella società, uno dei punti di emergenza dell’energia rivoluzionaria desiderante, da cui il militantismo classico resta dissociato. Non per questo si dimen­ tica che esiste anche una follia manicomiale infinitamente infelice, o una omosessualità edipica infinitamente vergognosa e miserevole! Tuttavia, anche a questi casi di estrema repressione, bisogna continuare a pre­ stare grande attenzione. Il maggio ’68 ha insegnato a leggere sui muri e, da allora, si è comin­ ciato a decifrare le scritte sui muri delle prigioni, dei manicomi, e oggi dei vespasiani. È tutto un «nuovo spirito scientifico» che bisogna rifare!

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Lettera al tribunale. Nel corso degli ultimi anni, c’è stata un’evoluzione nella posizione degli omosessuali nella società. Si può constatare in questo campo, co­ me in molti altri, un divario tra la realtà e la teoria psichiatrica, la pra­ tica medico-legale e giuridica. L’omosessualità è sempre meno sentita come una malattìa vergognosa, una devianza mostruosa, un reato. Tale evoluzione si è ancora accentuata, dopo il maggio ’68, allorché le lotte sociali hanno preso in considerazione problemi prima trascurati, come la vita nelle prigioni, nei manicomi, la condizione femminile, la questio­ ne dell’aborto, della qualità della vita, ecc. È sorto cosi un movimento politico degli omosessuali, che si considerano come una minoranza mar­ ginale, difendono la loro dignità umana e rivendicano il loro diritto al­ l’esistenza. È accaduto anche che alcuni di questi movimenti, ac esem­ pio negli Stati Uniti, unissero la loro azione a quella di movimenti di lotta contro la guerra in Vietnam, dei movimenti di emancipazione dei negri, dei portoricani, dei movimenti femministi, ecc. In Francia, l’evoluzione è stata differente: il movimento rivoluzio­ nario omosessuale, il Fhar (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire), si è subito sviluppato su un piano politico. Non c’è stata una congiunzione di movimenti omosessuali marginali e di movimenti poli­ tici: i problemi deiromosessualità sono stati posti direttamente sulla base di un movimento politico. Tale movimento maoista spontaneista, raggruppato intorno al giornale «Tout», nato dal maggio ’68, non solo rifiutava di ammettere che l’omosessualità fosse una malattia o una per­ versione, ma giungeva a considerare che ogni vita sessuale normale ave­ va direttamente a che fare con essa. Allo stesso modo lo Mlf (Mouvement de Liberation des Femmes) considera che l’omosessualità femmi­ nile è non soltanto una forma di lotta contro lo sciovinismo maschile, ma anche un modo di mettere radicalmente in questione l’insieme delle forme di sessualità dominanti. Dunque, l’omosessualità non sarebbe solo una dimensione della vita di ciascuno, ma entrerebbe in gioco anche in tutta una serie di fenomeni sociali quali quelli della gerarchia, del burocratismo, ecc. La questione risulta perciò spostata: gli omosessuali, uomini e donne, rifiutano la po­ sizione di minoranza oppressa e intendono condurre un’offensiva poli­ tica contro l’asservimento di tutte le forme di sessualità al sistema di riproduzione e ai valori delle società capitaliste e socialiste burocrati­ che. Si tratta dunque in realtà non tanto di omosessualità quanto di trans-sessualità: si tratta di definire quello che sarebbe la sessualità in

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una società liberata dallo sfruttamento capitalistico e dai rapporti di alienazione ch’esso produce a tutti i livelli dell’organizzazione sociale. In tale prospettiva, la lotta per la libertà deU’omosessualità diventa par­ te integrante delle lotte di emancipazione sociale. Sono i temi portati avanti da questa corrente di pensiero, quelli ana­ lizzati nel numero di «Recherches» per il quale sono accusato — in qua­ lità di direttore della pubblicazione - di «oltraggio al pudore». In real­ tà, questo numero di «Recherches» pone, essenzialmente, soltanto dei problemi politici. L’accusa di pornografìa non è che un pretesto, che si può addurre facilmente in questo particolare campo: l’essenziale è re­ primere «per dare l’esempio». «Recherches», come alcune altre pubblicazioni attuali, cerca di rom­ pere con la pratica della radio, della televisione e della maggior parte degli organi di stampa, che consiste nel selezionare le informazioni in funzione dei pregiudizi regnanti, nell’erigersi a giudici della decenza e dell’indecenza, a trasporre in linguaggio castigato l’espressione degli in­ teressati, insomma nel sostituirsi a essi. Sulla situazione nelle prigioni, si farà parlare un giudice, un agente, un ex detenuto, ma che presenti un carattere eccezionale — a esempio l’autore d’un delitto passionale -, ma mai un detenuto medio. Lo stesso avviene per i malati mentali: al li­ mite, un pazzo dotato di creatività potrà farsi ascoltare, ma mai si richie­ deranno testimonianze sulla vita miserevole degli ospedali psichiatrici. Abbiamo dunque voluto dare la parola direttamente agli omosessua­ li. E che cosa succede? Ci si rimprovera la nostra sconvenienza. Ma di quale natura è tale sconvenienza, se non politica? Di fatto, ciò che dice il numero di «Recherches» e il modo in cui lo dice sono decisamente più moderati di quanto si può trovare non soltanto nelle pubblicazioni per sex-shops - con cui non volevamo metterci in concorrenza —, ma anche di ciò che si trova nelle pubblicazioni scientifiche. L’originalità del numero — ciò che scandalizza, ciò per cui ci si mette in stato d’ac­ cusa - è che forse per la prima volta degli omosessuali e dei non omo­ sessuali parlano di questi problemi a proprio nome e in maniera asso­ lutamente libera. iya Sezione penale, 1974. Appunti per un processo.

- Non riprendo i termini della mia lettera al tribunale: l’avvocato Kiejman me lo ha sconsigliato, poiché, a quanto pare, ciò farebbe cat­ tiva impressione,

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-sono convocato in quanto direttore della rivista «Recherches» per un numero speciale sulPomosessualità: Trois milliards de pervers. Grande Encyclopédie de l’Homosexualité\ - che significa il fatto che mi si consideri responsabile di questo nu­ mero? «Recherches» è l’espressione di una équipe, questo numero in particolare è stato fatto collettivamente, tutti i partecipanti hanno chiesto di essere accusati. - Che significa il fatto di considerare qualcuno responsabile di qual­ che cosa ? 10 sono responsabile, rappresento «Recherches», voi rappresentate la legge, i deputati rappresentano il popolo, 11 Presidente della Repubblica, la Francia, gli universitari, il sapere, i pederasti, la perversione. - «Recherches» vuol farla finita con questo genere di rappresenta­ zione, con tutta questa commedia di cattivo gusto dei responsabili e del­ le istituzioni. Quello che vogliamo, è dare la parola a coloro che non riescono mai a far sentire la loro voce. - Al Cerfi ci viene chiesto spesso un parere su questi problemi. Na­ turalmente, sta agli interessati stessi trovare la risposta! Ma qualche volta, non possiamo fare a meno di esporre le nostre idee. - Di recente, il Ministero della Giustizia ci ha chiesto se avremmo accettato di studiare quello che potrebbe essere «la disposizione spa­ ziale di un Palazzo di Giustizia». C’è almeno una osservazione che potrei fare oggi: i giudici do­ vrebbero essere nell’aula, e gli oratori, quali che siano, di fronte al pubblico. - Si può parlare seriamente in un tribunale? quando ero un giovane militante, avrei rifiutato qualsiasi parteci­ pazione a questa «mascherata», vi avrei detto: «Dunque adesso, per esprimersi liberamente in una rivista, bisogna pagare! Va bene, fatemi il conto. Non perdia­ mo altro tempo». E vi avrei buttato un pugno di biglietti di banca o di monete, che gli uscieri sarebbero stati costretti a rac­ cogliere. Voi mi avreste condannato per «oltraggio» e tutti sarebbero stati contenti! Oggi, la penso un po’ diversamente. So che accadono molte cose

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un po’ dappertutto, anche nella magistratura, anche nella po­ lizia, anche nel corpo prefettizio, in fondo, dunque, questo processo m’interessa: vorrei sapere se il gioco è totalmente fatto in anticipo, se tutto è scritto nelle «ta­ vole» della legge... In tal caso, ve lo concedo fin d’ora, questo numero di «Recherches» è indifendibile. (Benché sia convinto che gli avvocati Merleau-Ponty, Kiej'man e Domenach sapran­ no provarvi il contrario! ) - A che servono i testi, il testo di una legge o un testo di «Recher­ ches»? Non sono forse inseparabili dai rapporti sociali che li sottendo­ no, e da ciò che i linguisti chiamano il contesto, l’implicito? L’essen­ ziale non è forse da ricercarsi nella vita stessa, nell’evoluzione di ciò che si potrebbe chiamare «la giurisprudenza della vita quotidiana»? Si con­ staterebbe cosi che l’omosessualità, o almeno il suo «diritto consuetu­ dinario», ha subito un’evoluzione in questi ultimi anni, ed è di questo che dobbiamo parlare. - Ma prima di proseguire, vorrei chiederLe due cose, Signor Giu­ dice, per arricchire il nostro dibattito: 1) di far entrare tutti insieme, fin d’ora, tutti i testimoni, 2) di dare liberamente la parola a tutti i presenti che lo richiedano. Questa faccenda ha due aspetti: - un aspetto ridicolo, - un aspetto serio. Aspetto ridicolo: nell’aprile 1973 ero in Canada, dove partecipavo a un colloquio di estremo interesse. Sfortunatamente, non potevo ritar­ dare il mio ritorno in Francia, a causa delle visite, di cui non potevo spostare la data. Quando arrivo, eoa le valigie, al mio domicilio parigi­ no, trovo sulle scale parecchie persone con cui avevo un appuntamento, sedute sui gradini, davanti alla mia porta chiusa con un lucchetto. Mi ci volle un certo tempo per rendermi conto che il lucchetto, som­ mariamente avvitato sulla porta (il che mi è costato 130 franchi di ripa­ razione), era stato messo dalla polizia dopo una perquisizione. I due te­ stimoni regolamentari erano stati, in mia assenza, la vicina del piano di sopra e... il fabbro! Tutte le mie carte, tutta la mia biancheria erano state rovistate, il bagno messo sottosopra. Con temporaneamente, die­ ci agenti avevano compiuto una perquisizione analoga nella clinica di La Borde, dove lavoro. Erano state rilasciate decine di commissioni ro­ gatorie... Per quale scopo? È appena credibile!: Per trovare esemplari

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del numero sequestrato di «Recherches», mentre questo stesso numero era liberamente in vendita da settimane nelle librerie! Quando ho protestato presso il Giudice Istruttore contro simili pro­ cedimenti, devo riconoscere che è rimasto assai perplesso! Allora ho pensato che si fosse trattato di una «sbavatura», e che il processo sa­ rebbe stato rimandato sine die. Aspetto serio: Che cosa ha motivato una simile agitazione? Il con­ tenuto o l’espressione? a) Il contenuto del numero. Esso è di una ricchezza certamente eccezionale. In particolare per ciò che concerne: - la posizione dell’omosessualità nella società, - il modo in cui diversi gruppi di immigrati nordafricani vivono l’o­ mosessualità, - la miseria sessuale dei giovani, - i fantasmi razzisti che talvolta sono trasmessi nei rapporti di di­ pendenza sessuale, ecc. - la masturbazione: sono state raccolte testimonianze estremamente interessanti su questo argomento relativamente poco conosciuto. Ma occorrerebbero almeno tre ore ai testimoni citati oggi per trat­ tare i diversi argomenti. b) Il modo di espressione del numero. Ciò che la repressione ha voluto colpire, è il modo di espressione. Forse perché esso non rientra in alcun quadro prestabilito: - non si tratta di un libro d’«arte», - né di una rivista pornografica, - né di un romanzo erotico riservato alle élites, - né di un testo che presenti l’aspetto austero di una comunicazione scientifica. Ci siamo liberati, in questo numero, della nozione di autore e d’o­ pera. Quando il giudice d’istruzione mi ha chiesto ad esempio di chi era un determinato articolo, anche supponendo che avessi accettato di ri­ spondere, non sarei stato in grado di farlo. Si tratta infatti per lo più di resoconti, di discussioni, di montaggi di testi, il che rende impossi­ bile determinare la parte di ciascuno! Perfino Timpaginazione è stata fatta collettivamente, e alcune frasi sono state direttamente riprese dal­ le scritte sui muri! Come potrebbe, la legge, trovare dei responsabili?

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Piuttosto che porsi il problema di fondo, si è preferita la facilità, e con­ siderato responsabile il direttore! — È irresponsabile dare la parola alla gente, senza precauzioni, senza letteratura, senza schermo pseudoscientifico? (Anche ammettendo la possibilità che poi la ricerca scientifica, a un secondo livello, lavori sulla base dei documenti cosi messi in luce). Come concepire altrimenti un qualsiasi studio in psichiatria, in pe­ dagogia, o nei campi che competono alla giustizia? È veramente pericoloso lasciare che la gente si esprima come vuole, lasciare che dica le cose come le sente, con il suo linguaggio, le sue pas­ sioni, i suoi eccessi? Si dovrà istituire una polizia dei sogni e dei fantasmi? A che prò reprimere l’espressione pubblica della spontaneità popolare sui muri, o sui treni della metropolitana, come a New York...? Come non comprendere che vietare l’espressione, a questo livello, non può che favorire forme di passaggio all’atto che presenteranno in­ convenienti forse molto maggiori per l’organizzazione sociale? È opinione comune che l’espressione del desiderio sia sinonimo di disordine, d’irrazionalità. Ma l’ordine nevrotico che impone al desiderio di passare attraverso i modelli dominanti costituisce forse il vero disordine, la vera irrazio­ nalità. Ciò che rende la sessualità vergognosa e talvolta aggressiva, è la re­ pressione. Il desiderio che può aprirsi al mondo cessa di essere distruttivo, e può anzi divenire creativo. Questo processo è politico. Esso mette in causa un nuovo modo di affrontare la vita quotidiana e il desiderio, e le nuove forme di espres­ sione che hanno fatto irruzione a partire dal 1968. Si finirà con l’accettare un giorno che la gente si esprima senza dover ricorrere a dei «rappresentanti»? Si accetterà che essa faccia i propri giornali, la propria letteratura, il teatro, il cinema, ecc.? La violenza genera la violenza. Se si reprimono le nuove forme di espressione del desiderio sociale, si andrà incontro a rivolte assolute, a reazioni disperate, o addirittura a forme di suicidio collettivo (come fu per certi aspetti il fascismo hitle­ riano). Sta dunque anche ai giudici scegliere. Si schierano a priori dalla par­ te dell’ordine dominante? Oppure sono capaci d’intendere un altro ordine che sta cercando se stesso per costruire un mondo diverso?

Linee di fuga

Mary Barnes o l’Edipo antipsichiatrico

Nel 1965, una comunità di una ventina di persone si costituisce at­ torno a Ronald Laing. S’insedia nella periferia di Londra, a Kingsley Hall, vecchio edificio che fu a lungo uno dei centri del movimento ope­ raio inglese. Per cinque anni i principali esponenti dell’antipsichiatria e dei malati che «fanno strada» nella schizofrenia esploreranno colletti­ vamente il mondo della follia. Non la follia del manicomio, ma quella che ciascuno porta in sé, una follia che ci si propone di liberare per eli­ minare le inibizioni, i sintomi di ogni sorta. A Kingsley Hall si dimen­ tica - ci si sforza di dimenticare — la divisione dei ruoli tra malato, psi­ chiatra, infermiere, ecc. Nessuno ha il diritto di dare o ricevere diret­ tive, di prescrivete delle ricette... Kingsley Hall diverrà un piccolo ter­ ritorio liberato dalla normalità dominante, una base del movimento del­ la controcultura *. Gli antipsichiatri vogliono superare le esperienze della psichiatria comunitaria: secondo loro queste erano ancora imprese riformistiche, che non rimettevano veramente in discussione le istituzioni repressive e il quadro tradizionale della psichiatria. Maxwell Jones e David Coo­ per2, che sono stati tra i principali animatori di questi tentativi, pren­ deranno parte attiva alla vita di Kingsley Hall. L’antipsichiatria potrà dunque disporre di un suo luogo, sorta di corpo senza organi dove ogni angolo della casa - la cantina, la terrazza, la cucina, la scala, la cappel­ la... -, ogni sequenza della vita collettiva funzionerà come un ingranag­ gio di una grande macchina, portando ciascuno al di là del suo io im­ mediato, al di là dei suoi piccoli problemi, sia che si metta al servizio di tutti, sia che si ripieghi su se stesso in un processo di regressione a volte vertiginoso. Territorio liberato, Kingsley Hall è assediata da ogni parte, il vec­ 1 Cfr. Counler-Culture: The Creation of ars Alternative Society, Peter Owen Ltd and Fire Book,1970. ! dwid cooper, Psichiatria e antipsichiatria, trad. it. Armando, Roma 1972.

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chio mondo s’insinua attraverso tutte le sue fessure: i vicini protestano contro la sua vita notturna, i ragazzi del quartiere gettano pietre contro i vetri, i poliziotti al primo pretesto sono pronti a imbarcare per l’ospe­ dale psichiatrico - quello vero - gli ospiti troppo agitati. Ma la vera minaccia contro Kingsley Hall verrà piuttosto dall’inter­ no: ci si è liberati dalle costrizioni evidenti, ma si continua in segreto ad interiorizzare la repressione e, inoltre, si è rimasti sotto il peso di riduzioni semplicistiche, al famoso triangolo — padre, madre, figlio che serve a rinchiudere nello stampo della psicanalisi edipica tutte le si­ tuazioni che vanno al di là del quadro dei comportamenti cosiddetti normali. Bisogna o no mantenere a Kingsley Hall un minimo di disciplina? Lotte intestine per il potere avvelenano l’atmosfera. Aaron Esterson, capo della tendenza «dura» - lo si vede passeggiare con un libro di Sta­ lin sotto il braccio, mentre Laing ha invece un libro di Lenin — alla fine è eliminato ma, ciò nonostante, l’impresa stenterà sempre a trovare un suo regime di autoregolazione. E poi intervengono la stampa, la televi­ sione, gli ambienti «alla moda»: Kingsley Hall diventa l'oggetto di una pubblicità insistente. Una degli ospiti, Mary Barnes, diventa una sorta di vedette della follia, il che le varrà implacabili gelosie. Della sua esperienza a Kingsley Hall, Mary Barnes e il suo psichia­ tra, Joseph Berke, hanno fatto un libro. Una confessione d’una inge­ nuità sconcertante. Al tempo stesso un’impresa esemplare di liberazione del «desiderio folle» e un dogmatismo neocomportamentistico1, delle trovate geniali e un familiarismo impenitente che ritrova il puritanesi­ mo piti tradizionale. Mary Barnes, la folle, chiarisce in qualche capitolo di confessioni quel che nessun «antipsichiatra» aveva mostrato: la fac­ cia nascosta dell’antipsichiatra anglosassone. Mary Barnes è un’ex infermiera che è stata etichettata come schizo­ frenica. La si sarebbe potuta anche classificare tra le isteriche. Ella pren­ de alla lettera le raccomandazioni di Laing sul «viaggio». Compie come un kamikaze la sua «regressione infantile». I suoi anni di «discesa» la portano più volte sull’orlo della morte per inedia. Tutti sono sconvolti: bisogna o no spedirla in ospedale? Ciò scatena una «crisi gigantesca» nella comunità, ma bisogna dire che anche durante le sue fasi di «risa­ lita» le cose nel gruppo sono lungi dall’andar bene. Mary Barnes inten­ de avere a che fare solo con qualche persona su cui investe pesante­ 1 Comportamentismo : teoria formulata all’inizio del secolo, che riduceva la psicologia allo stu­ dio del comportamento definito come l'interazione tra gli stimoli esterni e le risposte del soggetto. Il neocomportamentismo tende attualmente a ridurre tutti i problemi umani a questioni di comu­ nicazione e d’informazione, lasciando da parte i problemi sociopolitici del potere a tutti i livelli.

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mente il suo familiarismo e il suo misticismo: innanzitutto su Ronnie (Laing), che venera come un dio, e su Joe (Berke), che diventa al tempo stesso suo padre, sua madre e il suo amante spirituale. Mary si è in tal modo costruita un piccolo territorio edipico che en­ trerà in risonanza con tutte le tendenze paranoiche dell’istituzione. Il suo godimento si concentra nella coscienza dolorosa che l’attanaglia sen­ za tregua del male che scatena attorno a sé. Si oppone al progetto di Laing. Eppure, questo progetto è ciò che ha di più caro! Più si sente colpevole, più si punisce, più il suo stato si aggrava, scatenando reazioni di panico intorno a lei. Ha ricostituito il cerchio infernale del familia­ rismo, ma implicando più di venti persone, il che non fa che accrescere i danni! Fa il bebé. Bisogna nutrirla col biberon. Passeggia nuda, coperta di merda; va a pisciare in tutti i letti; rompe tutto oppure si lascia morire di fame. Tiranneggia Joe Berke, gli impedisce di uscire, ne perseguita la moglie, al punto che un giorno, non potendone più, egli la riempie di pugni. Implacabilmente si è tentati di tornare ai metodi ben noti del­ l’ospedale psichiatrico! Joe Berke si chiede come avvenga che un grup­ po di persone dedite a demistificare i rapporti sociali delle famiglie per­ turbate finiscano col comportarsi come una di esse. Per fortuna, Mary Barnes è solo un caso limite. Non tutti si compor­ tano cosi a Kingsley Hall! Ma ella non pone forse i veri problemi? È proprio sicuro che la comprensione, l’amore e tutte le altre virtù cristia­ ne, insieme a una tecnica di regressione mistica bastino a esorcizzare i demoni della foiba edipica? Laing è certamente uno di quelli che si sono impegnati più a fondo nell’impresa di demolizione della psichiatria. Ha oltrepassato i muri del manicomio, ma si ha l’impressione che sia rimasto prigioniero di altri muri, che porta dentro di sé. Non è ancora riuscito a Uberarsi dalla peggiore delle costrizioni, dal più pericoloso «doublé bind» l, quello dello «psicanalismo» — per riprendere la febee espressione di Robert Castel - col suo delirio d’interpretazione significante, le sue rappresen­ tazioni a doppio fondo e i suoi abissi derisori. Laing ha creduto che sarebbe stato possibile sconfiggere l’alienazio­ ne nevrotica centrando l’analisi sulla famigfia, sui suoi «nodi» interni. Per lui, tutto parte dalla famiglia, anche se certo vorrebbe che se ne uscisse. Vorrebbe che ci si fondesse col cosmo, che si facesse andare in frantumi la quotidianità deb’esistenza. Ma il suo modo di spiegazione 1 «Doppio legame» contraddittorio sul piano della comunicazione tra un soggetto e la sua fa­ miglia, fonte di perturbazione totale.

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non riesce a liberare il soggetto da quella presa familiarista che ha vo­ luto solo come punto di partenza e che ritrova invece a tutte le svolte. Tenta di risolvere la difficoltà rifugiandosi in una meditazione di stile orientale che non è in grado di premunire a lungo contro l'intrusione di una soggettività capitalistica che dispone di mezzi molto sottili. Non è possibile venire a patti con l’Edipo: finché non si affronta con deci­ sione questo ingranaggio essenziale della repressione capitalistica, non si potrà cambiar nulla nell’economia del desiderio e dunque nello status della follia. Nel libro di Mary Barnes si parla in continuazione di flussi di merda, di piscio, di latte o di vernice. Ma è significativo rilevare che non si par­ la praticamente mai di flusso di denaro. Non si sa precisamente come vadano le cose da questo punto di vista. Chi detiene il denaro, chi de­ cide gli acquisti, chi è pagato? La comunità sembra vivere dell’aria del tempo: Peter, il fratello di Mary, senza dubbio più avanzato di lei in un processo schizofrenico, non sopporta questo stile bohème di Kingsley Hall. C’è troppo rumore, troppa confusione, e poi, quel che vuole, è riuscire nel suo lavoro. Ma la sorella lo incalza: deve andare a stare con lei a Kingsley Hall. Implacabile proselitismo della regressione: verrai, farai il tuo viaggio, potrai dipingere, andrai fino in fondo nella tua follia... Ma la follia di Peter è ben altrimenti inquietante. Non è entusiasta di lanciarsi in que­ sta sorta di avventura! Forse si può cogliere qui la differenza tra un vero viaggio di schizofrenico e una regressione familiarista di stile pic­ colo-borghese. Lo schizofrenico non è tanto portato al «calore umano». Il suo problema è altrove, dalla parte dei flussi più deterritorializzati: flussi di segni cosmici «miracolanti», ma anche flussi di segni monetari. Lo schizofrenico non misconosce la realtà del denaro - anche se ne fa un uso fuori dal comune - cosi come non misconosce alcun’altra realtà. Lo schizofrenico non fa il bambino. Il denaro è per lui un punto di rife­ rimento come un altro ed egli ha bisogno di disporre di un massimo di sistemi di riferimento, proprio per mantenere le distanze. Lo scambio, per lui, è un mezzo per evitare le commistioni. In breve, Peter vorreb­ be essere lasciato in pace con queste storie invadenti di comunità che minacciano il suo singolare rapporto col desiderio. La nevrosi familiarista di Mary è ben altra cosa: ella non cessa di ricostituire piccole territorialità familiari; è una sorta di vampirismo del «calore umano». Mary si aggrappa all’immagine dell’altro: per esempio, aveva chiesto ad Anna Freud di prenderli in analisi, ma nel suo animo ciò significava che sarebbe andata a stare con lei, con il fra­

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tello, e che sarebbero diventati i suoi figli. È questa operazione che ha cercato di ricominciare con Ronnie e Joe. Il familiarismo consiste nel negare magicamente la realtà sociale, nell’evitare tutte le connessioni con i flussi reali. Restano possibili solo il sogno e l’«huis clos» infernale del sistema coniugale e familiare o an­ cora, nei grandi momenti di crisi, un piccolo territorio maleodorante dove rinchiudersi in solitudine. Cosi ha vissuto Mary Barnes a Kingsley Hall, come missionaria della terapeutica di Laing, militante della follia, professionista. Grazie a questa confessione, s’impara più che attraverso la lettura d’una decina di opere teoriche sull’antipsichiatria. Si possono finalmen­ te intravedere le conseguenze dello «psicanalismo» nei metodi di Laing e dei suoi amici. Dal Freud degli Studi sull’isteria alle analisi strutturalistiche ultima moda, tutto il metodo psicanalitico consiste nel ridurre qualsiasi situa­ zione mediante tre filtri: - l’interpretazione: una cosa dovrà sempre significare qualcos’altro che non se stessa. La verità non può essere colta nell’attualità del­ le intensità e dei rapporti di forza ma solo attraverso un gioco di chiavi significanti; - il familiarismo: queste chiavi significanti sono essenzialmente ri­ ducibili a delle rappresentazioni familiari. Per giungere fino a esse si procederà per regressione: s’indurrà il soggetto a «ritrovare» la sua infanzia. Di fatto, una certa rappresentazione castrata dell’in­ fanzia, un’infanzia del ricordo, un’infanzia mitica, un’infanzia ri­ fugio, come negativo delle intensità attuali e priva di rapporto con quel che fu effettivamente l’infanzia; - il transfert: nel prolungamento della riduzione interpretativa e della regressione familiarista, si ristabilisce il desiderio in uno spa­ zio ristretto, un miserabile territorio identificatorio (il divano del­ l'analista, il suo sguardo, il suo presunto ascolto). Poiché la regola del gioco è che tutto ciò che si presenta dovrà essere ridotto in ter­ mini d’interpretazione e d’immagini di papà e mamma, non resta che procedere alla riduzione finale dell’apparato significante stes­ so, che dovrà ormai funzionare con un solo termine: il silenzio dell’analista, contro cui verranno a urtarsi tutte le domande. Il transfert psicanalitico, strumento per scremare la realtà del desi­ derio, fa precipitare il soggetto in una vertigine di abolizione, in una passione narcisistica che - meno pericolosa della roulette rus­ sa - lo porta tuttavia ugualmente, se funziona, a una fissazione

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irreversibile su sottigliezze di paccottiglia che finiranno col privar­ lo di qualsiasi altro investimento sociale. Si sa da tempo che questi tre filtri funzionano molto male con i paz­ zi: le loro interpretazioni, le loro immagini si allontanano troppo dalle coordinate sociali dominanti. Invece di rinunziare a questo metodo, a Kingsley Hall si tenterà di migliorare i filtri per rafforzarne gli effetti. Cosi, l’interpretazione silenziosa dell’analisi a due è sostituita da un’in­ terpretazione collettiva — e rumorosa —, una sorta di delirio interpreta­ tivo in comune. Il metodo, è vero, trova una nuova efficacia: esso non si contenta più di un gioco di specchi tra le parole del paziente e il si­ lenzio dell’analista, vi sono anche le cose, i gesti, i rapporti di forza. Entrando nel gran gioco della regressione di Mary Barnes, Joe Berke brontola, fa il coccodrillo, la morde, la pizzica, la fa rotolare sul letto... tutte cose ancora rare presso gli psicanalisti ordinari. Quasi ci siamo! Si è sul punto di pervenire a un’altra pratica, a un’al­ tra semiotica. Si stanno per rompere i legami con i sacri principi di significanza e d’interpretazione. Ma no: ogni volta lo psicanalista si ri­ prende, ristabilisce le sue coordinate familiariste. Ed è preso nel suo stesso gioco: quando Joe Berke ha bisogno di uscire da Kingsley Hall, Mary fa di tutto per impedirglielo. Non solo l’analisi è interminabile, lo è diventata anche la seduta! Cosi solo arrabbiandosi Berke riesce a libe­ rarsi per qualche ora della sua «paziente» per partecipare a una riu­ nione sulla guerra in Vietnam. La contaminazione interpretativa è diventata illimitata. Paradossal­ mente è Mary che, per prima, rompe il cerchio, con la pittura. In effet­ ti, in qualche mese, è diventata un pittore celebre Eppure anche qui l’interpretazione non ha perduto i suoi diritti: se Mary si sente colpe­ vole quando prende lezioni di disegno, è perché la passione di sua ma­ dre era la pittura ed ella sarebbe contrariata se sapesse che sua figlia dipinge meglio di lei. Quanto al padre, le cose non vanno meglio: «Ora, con tutti questi quadri tu possiedi il pene, il potere, e tuo padre si sente molto minacciato». Con una diligenza commovente Mary si sforza di assorbire tutto il ciarpame psicanalitico. Così, nell’atmosfera comunitaria di Kingsley Hall, Mary spicca: non vuole avere a che fare con chiunque. Rifiuta gli altri perché vuol essere certa che la persona che si occupa di lei è bene 1 Le sue mostre, in Gran Bretagna e in altri paesi, le hanno assicurato una certa notorietà. De] resto ci sarebbe molto da dire su questa sorta di recupero, tipo « art brut *, che consiste nel lan­ ciare sul mercato un artista pazzo... come una vedette, per il maggior vantaggio dei produttori di questo tipo di spettacoli. L'essenza dell’«art brut» consiste nell’essere al di là o al di qua delle nozioni di opera o delle funzioni di autore.

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imbevuta del pensiero di Ronnie: «Quando acquisii la nozione di seno, di un seno protettore, il seno di Joe, un seno che avrei potuto succhiare senza essere spossessata di me stessa, nulla più mi trattenne... Quando Joe mi metteva il dito in bocca voleva dirmi: "guarda, posso entrare in te senza dominarti, senza possederti, e senza derubarti”». A questo punto, lo psichiatra stesso finisce con l’essere travolto dal­ la macchina interpretativa che ha contribuito a mettere in moto. Egli lo ammette: «Mary interpretava tutto quel che si faceva per lei (o per qualcun altro) come un elemento della psicoterapia: se il carbone non era consegnato a tempo, era la psicoterapia, e cosi di seguito fino alle conclusioni più assurde». Ciò nonostante Joe Berke continua a dibat­ tersi con le sue interpretazioni, che non hanno altro scopo se non quello di far rientrare il suo rapporto con Mary nel triangolo edipico: «A par­ tire dal 1966 seppi scoprire il ruolo che svolgevo presso di lei: la "mam­ ma” prevaleva quando Mary era il bambino; il "papà” e "Peter, suo fratello” si disputavano il secondo posto. Quando Mary mi assimilava a qualcun altro mi sforzavo sempre di farglielo notare, per aiutarla a li­ berarsi dalla sua ragnatela e preservare il mio senso della realtà». Ma gli sarà impossibile venire a capo di questa ragnatela; Mary vi ha fatto cadere dentro tutta la casa. Veniamo alla tecnica della regressione nell’infanzia e al transfert: sviluppati in un ambiente comunitario, essi accentuano i loro effetd di «derealizzazione». Nel faccia a faccia analitico tradizionale, il rapporto a due, il carattere artificiale e delimitato del copione della «seduta» co­ stituiscono una sorta di protezione contro i travalicamenti immaginari A Kingsley Hall, Mary si trova di fronte a una morte reale al termine di ciascuno dei suoi «viaggi» e tutta l’istituzione è invasa da una tri­ stezza e da un’angoscia anch’esse ben reali. Al punto che Aaron Esterson toma ai vecchi metodi dell’autorità e della suggestione: una volta che Mary è sul punto di morire d’inedia, le proibisce brutalmente di continuare il digiuno. Qualche anno prima, era stato con la stessa brutalità che uno psica­ nalista cattolico le aveva proibito di masturbarsi, spiegandole - come essa racconta - che era un peccato ancora più grave che non andare a letto con un ragazzo senza essere sposata. Anche allora la cosa aveva funzionato. In effetti, questo ritorno all’autorità e alla suggestione non è forse inevitabilmente connesso con questa tecnica di regressione to­ tale? Sull’orlo della morte, esce bruscamente dall’ombra un padre poli­ ziotto. L’immaginario, soprattutto quello dello psicanalista non costi­ tuisce affatto una difesa contro la repressione sociale, al contrario, la richiama segretamente.

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Uno degli insegnamenti più ricchi del libro è forse quello di mostrar­ ci fino a che punto è illusorio sperare di ritrovare un desiderio grezzo, assolutamente puro, a partire dalla ricerca dei nodi nascosti nell’incon­ scio e di chiavi segrete d’interpretazione. Non vi è nulla che possa scio­ gliere, con la sola magia del transfert, i conflitti micropolitici reali di cui è prigioniero il soggetto, nessun mistero, nessun mondo nascosto. Non c’è nulla da scoprire nell’inconscio. L’inconscio dev’essere costruito. Se l’Edipo del transfert non risolve l’Edipo familiare è perché resta pro­ fondamente legato all’individuo familiarizzato. Solo sul divano o in gruppo, in una regressione istituzionale, il «ne­ vrotico normale» (come voi e me) o il nevrotico dello psichiatra (il «pazzo») continua a chiedere e richiedere dosi di Edipo. Gli psicana­ listi, che per loro formazione e pratica sono imbevuti della droga riduttrice dell’interpretazione, non possono far altro che rafforzare questa politica di repressione del desiderio: il transfert è una tecnica per sviare gli investimenti del desiderio. Lungi dal moderare la corsa alla morte, sembra al contrario accelerarla, cumulando, come in un ciclotrone, le energie edipiche «individuate» in quella che Joe Berke chiama «la spi­ rale viziosa punizione-collera-colpa-punizicne ». Non può portare ad al­ tro che alla castrazione, alla rinunzia e alla sublimazione: un ascetismo di paccottiglia. Gli oggetti del senso di colpa collettivo si succedono gli uni agli altri, accentuano gl’impulsi punitivi autodistruttivi accompa­ gnandoli con una repressione reale, fatta di collera, gelosia e paura. Il senso di colpa diventa una forma specifica della libido — un Eros capitalistico - quando entra in congiunzione con i flussi deterritorializzati del capitalismo. Trova allora una nuora via, una soluzione inedita, al di fuori dei quadri familiari, del manicomio o della psicanalisi. Non avrei dovuto, è male quello che ho fatto e, più sento che è male, più ho voglia di farlo, perché così riesco a farmi esistere in questa zona d’in­ tensità che è la colpa. Soltanto che questa zona, invece di essere legata al corpo del soggetto, al suo io, alla sua famiglia, prenderà possesso del­ l’istituzione: la vera padrona di Kingsley Hall, in fondo, era Mary Bar­ nes. Ed ella lo sapeva bene; tutto girava attorno a lei, che non faceva che giocare all’Edipo mentre gli altri erano puramente e semplicemente presi nell’edipismo collettivo. Un giorno che la ritrova coperta di merda e tremante di freddo, i nervi di Joe Berke cedono. Egli diventa allora cosciente del suo «po­ tere straordinario di evocare l’incubo preferito di ciascuno e d’incarnarlo». Così, a Kingsley Hall, il transfert non è più «contenuto» dall’ana­ lista. Va in tutti i sensi e minaccia lo stesso psicanalista. C’è mancato poco allora che i vincoli analitici non si rompessero per davvero, e che

Mary Barnes o l’Edipo antipsichiatrico

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le intensità desideranti, gli «oggetti parziali» non seguissero le loro proprie linee di forza senza più essere perseguitati dai sistemi d’inter­ pretazione, debitamente codificati dagli schemi sociali della «realtà do­ minante». Perché questo tentativo disperato di Joe Berke di rimettere insieme la molteplicità sparsa attraverso la quale Mary «sperimenta» la dissolu­ zione del suo io e cerca di far esplodere la sua nevrosi? Perché questo ritorno ai poli familiari, all’unità della persona che impediscono a Mary di aprirsi a tutto un campo sociale esterno, del resto in potenza molto ricco? «La tappa iniziale della sua ricostituzione era paragonabile ai miei sforzi per ricostruire un puzzle di cui non possedevo tutti gli ele­ menti. Tra questi elementi sparsi molti avevano le parti convesse ta­ gliate e le parti concave occluse, sicché mi era praticamente impossibile dire come si incastrassero tra loro. Beninteso, questo puzzle raffigurava la vita affettiva di Mary, gli elementi erano i suoi pensieri, i suoi atti, le sue associazioni, Ì suoi sogni, ecc.». Chi ci prova che la soluzione, per Mary Barnes, sia proprio da cer­ care dalla parte della regressione infantile? Chi ci prova che l’origine dei suoi disturbi derivi da perturbazioni, blocchi del sistema di comunica­ zione intrafamiliari dell’infanzia? Perché non considerare ciò che è ac­ caduto al di fuori della famiglia? In effetti, si constata che tutte le porte che davano sull’esterno si sono rinchiuse brutalmente su di lei quando ha cercato di oltrepassarle; è così che all’esterno ha incontrato sempre solo un familiarismo senza dubbio ancora più repressivo di quello che aveva conosciuto durante l’infanzia. E se i poveri genitori di Mary Bar­ nes non fossero stati altro che degli intermediari miserevoli e fuori gio­ co della tempesta repressiva che soffiava all’esterno? Mary non era «fis­ sata» all’infanzia: non ha trovato l’uscita! Il suo desiderio di una via d’uscita reale era troppo violento, troppo esigente per adattarsi ai com­ promessi esterni. Il primo dramma scoppia a scuola: «La scuola era pericolosa». Mary restava paralizzata, terrorizzata sul suo banco, si batteva con la maestra. «A scuola quasi tutto mi angosciava...» Faceva finta di leggere, finta di cantare, finta di disegnare... Eppure il suo desiderio era quello di essere scrittore, giornalista, pittore, medico! Un giorno le si spiegherà che tutto questo era solo un modo di voler diventare un uomo. «Mi vergo­ gnavo di questo desiderio di essere dottore. So che questa vergogna era legata... — ed ecco l’interpretazione - all’enorme senso di colpa che mi dava il desiderio di essere un ragazzo. Tutto quel che avevo di maschile in me doveva restare nascosto, segreto, ignorato». Preti e poliziotti di tutti i tipi si sono sforzati di colpevolizzarla, a

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proposito di tutto e niente, in particolare a proposito della masturba­ zione. Quando si rassegna a essere infermiera ed entra nell’esercito, è un altro vicolo cieco. Per un momento vuole andare in Russia perché ha sentito dire che laggiù «si tollerava che una donna avesse dei bambini e non un marito». Quando si decide ad entrare in convento, si mette in dubbio la sua fede religiosa: «Cosa vi ha condotto alla chiesa?» E i preti certo non hanno torto: il suo desiderio di santità puzza di zolfo! Alla fine, tutto si conclude al manicomio. Anche qui Mary è pronta a fare qualcosa, a darsi agli altri. Un giorno che porta un mazzo di fiori a un’infermiera si sente dire «Andate via, questo non è il vostro posto! » Non si finirebbe mai di rilevare i traumi sociali, le ferite da lei patite. Diventata infermiera, le si contesta il diritto di passare all’inse­ gnamento superiore. Non era la famiglia che interessava Mary' Barnes, all’inizio: era la società! Ma tutto l’ha ricondotta alla famiglia, anche - è duro riconoscerlo - il suo soggiorno a Kingsley Hall! Poiché l’inter­ pretazione familiarista era il gioco preferito del luogo, e poiché ella ado­ rava quelle persone, ebbene, ci si è messa anche lei. Ma con quale ta­ lento! La vera analista di Kingsley Hall è lei: lei ha fatto giocare a fondo tutte le forze nevrotiche dell’impresa, tutta la paranoia sotterranea dei suoi padre e madre di Kingsley Hall. Mary la missionaria ha almeno contribuito a far si che gli antipsichiatri mettessero in chiaro le implica­ zioni reazionarie dei loro postulati psicanalitici ?

Il

denaro nello scambio analitico

Il denaro funziona come un equivalente truccato, nel senso che quel che rappresenta, quel che cristallizza, non ha lo stesso valore a secon­ da che si sia posti a un polo o all’altro dei rapporti di produzione. Non ha affatto la stessa portata se si è piazzati in posizione di forza, in un si­ stema fondato sulla estorsione del plusvalore, o se, al contrario, si è co­ stretti a contrattare la propria forza-lavoro. Quel che è cristallizzato è al tempo stesso un modo d’organizzazione dello sfruttamento e un siste­ ma di camuffamento della lotta delle classi. Quel che è cosi determi­ nato non sono solo delle posizioni strutturali al livello della produzio­ ne, ma anche la natura delle produzioni codificate nel sistema. Il contenuto della codifica capitalistica si è modificato a mano a ma­ no che si è verificata una diminuzione del tasso di profitto in tutta una serie di settori della produzione. Lo Stato è stato costretto a dare il cam­ bio al capitalismo privato, per esempio con l’assunzione diretta del com­ pito di realizzare opere d’infrastruttura, o in campi in cui il manteni­ mento di un minimo d’ordine sociale implica istituzioni come la previ­ denza sociale, l’assistenza sanitaria, ecc. Ora, per l’appunto, quelle pro­ duzioni che non rientrano più strettamente in un rapporto bipolare di sfruttamento subiscono una sorta di svalutazione. Va da sé per esem­ pio che il lavoro cristallizzato in materie prime o in beni manifattura» in un paese sottosviluppato non è della stessa natura di quello di una zona «opulenta». Lo stesso accade per il lavoro erogato in un punto caldo della produzione capitalistica e in quelli che non lo sono più (il lavoro in certe miniere, per esempio) o che sono semplicemente del tut­ to svalutati (il lavoro dei malati di mente: l’ergoterapia, per esempio, e suoi equivalenti). Bisogna dunque misurare quel che è veicolato dal denaro nello scam­ bio analitico, o meglio nello pseudoscambio analitico, perché in realtà non c’è scambio di servizi tra l’analizzato e l’analista. Vi sono invece due tipi di lavori paralleli: il lavoro analitico del paziente e il lavoro di ascolto e di cernita dello psicanalista. Di fatto, è del tutto illegittimo

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che un flusso monetario passi dall’uno all’altro. Nel quadro di un di­ verso sistema sociale, che prendesse in considerazione questi due tipi di lavoro allo stesso titolo che le altre produzioni, l’analizzato e l’ana­ lista dovrebbero essere pagati entrambi, allo stesso modo in cui la divi­ sione del lavoro implica che in una fabbrica siano pagati il lavoro d’offi­ cina ma anche quello degli uffici e dei laboratori di ricerca. È difficile concepire che degli operai specializzati siano costretti a pagare i dise­ gnatori che preparano quel che loro fabbricheranno! Ma, certo, qui si resta al livello della estorsione del plusvalore. E quando lo psicanalista si fa pagare, in realtà riproduce un certo tipo di riduzione del soggetto ai poli personalistici della società capitalistica. Di nient’altro si tratta quando va dallo psicanalista qualcuno che non è in grado, nell’ambito della sua struttura familiare, d’intervenire individualmente sui flussi monetari - sulla rotazione del «capitale familiare», come si esprime Alain Cotta1 — grazie a una partecipazione diretta nel ciclo della pro­ duzione capitalistica (la moglie, per esempio, che va in analisi e riceve il denaro dal marito, oppure il bambino, ecc.). Poiché non esiste in que­ sto caso, a beneficio della donna o del bambino, un’indennità da parte di un organismo apposito, la loro produzione analitica, che dev’essere considerata di fatto come un lavoro di formazione della forza collettiva di lavoro in senso lato, questa produzione, dunque, è sfruttata. Nel rap­ porto analitico si traspongono e riproducono le strutture dell’aliena­ zione sociale in seno alla famiglia, ci si selve della famiglia come di un relè. In quanto lo psicanalista è costretto ad accettare questo modo di pagamento, egli implicitamente dà la sua cauzione a una certa utilizza­ zione delle strutture familiari come mezzo per reprimere la produzione desiderante e metterla al servizio di un ordine sociale retto dal profitto. Su un piano specificamente analitico mi sembra essenziale ricono­ scere il fatto che il bambino che disegna o che modella qualcosa per un analista, la moglie che entra in analisi per «risolvere i problemi fami­ liari» partecipano alla produzione sociale. Al livello inconscio, l’estor­ sione capitalistica del plusvalore risulta dunque riprodotta e in un certo senso allargata nel rapporto analitico. E la pretesa dell’analisi di porsi come una procedura di verità dovrebbe imporle in primo luogo di autodenunciarsi in quanto, con l’atto del pagamento, rinnova istituzionaliz­ zandola una violenza sociale. Quanto meno, bisognerebbe esigere dagli analisti - la loro pratica essendo quella che è — che la smettano di giustificare il loro rapporto 1

1966.

alain cotta,

Tbécrie generale du capita!, de la croìssxnce et des fiuctuations, Dunod, Paris

Il denaro nello scambio analitico

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monetario con il paziente in base alle leggi di un preteso «ordine sim­ bolico». O altrimenti che traggano tutte le conseguenze della loro posi­ zione e dicano chiaramente che per loro è proprio su quest’ordine che sono fondati di diritto i sistemi di segregazione! È vero che, nella mag­ gior parte dei casi, essi non si spingono cosi lontano. Come il primo bot­ tegaio ritengono che lo sfruttamento del salariato fa parte dell’ordine delle cose: «Bisogna pure guadagnarsi da vivere! » Da un punto di vista analitico è questo forse in fin dei conti l’atteggiamento meno perico­ loso, perché meno mistificante.

Antipsichiatria e antipsicanalisi

- Come è iniziato per lei personalmente quel che si potrebbe chia­ mare l’« affare delPantipsichiatria»? - Ci sono stati per prima cosa Basaglia e Jervis che sono venuti a La Borde verso il 1965-66 e che hanno dato degli articoli alla rivista «Recherches». Poi si è manifestata una differenza non tanto d’idee, quanto piuttosto di stile. Essi non s’interessavano affatto ai nostri ten­ tativi riformistici del genere della psicoterapia istituzionale. La situa­ zione in Italia era già molto diversa e le loro concezioni erano molto più militanti. C’è stato poi il contributo inglese con Laing e Cooper, che anch’essi hanno dato degli articoli alla rivista «Recherches». Erano venuti alle giornate organizzate da Maud Mannoni e da «Recherches», le giornate «dell’infanzia alienata». Neanche il loro stile di rottura con le istituzioni aveva molto in comune con quello di La Borde, né del resto con quello di Maud Mannoni o di Lacan. Successivamente queste differenze di stile hanno rivelato divergenze più profonde. An­ ch’io del resto ho cambiato molto da allora. - Che cos’è l’antipsichiatria? - In primo luogo un fenomeno promosso dai mass-media, che si è sviluppato a partire dai due nuclei inglese e italiano, ma che ha rivelato l’esistenza di un importante movimento di opinione interessato a que­ sti problemi, nel quadro di quella «nuova cultura» che cominciava a emergere. D’altra parte, bisogna riconoscere che tutto quel che fino al­ lora se ne era potuto dire o scrivere e che si era fatto in Francia interes­ sava solo qualche disgraziato infermiere, qualche decina di psichiatri. L’antipsichiatria è veramente arrivata al grande pubblico. Oggi nessuno degli «inventori» dell’antipsichiatria si richiama più a essa. Laing dice: «Io non ne ho mai parlato». Basaglia considera che è una mistificazione che va denunziata. Nel frattempo in Francia è diven­ tata una sorta di genere letterario e cinematografico. Si può fare una carriera letteraria pubblicando libri del genere «Non sarò mai più psi­ chiatra», «Non sarò mai più infermiere», «Non sarò mai più matto»...

Antipsichiatria e antipsicanalisi

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Su questa scia si sono mossi dei gruppetti... Ma quel che è stato vera­ mente importante è il fatto che l’antipsichiatria ha segnato un principio di consapevolezza non solo tra il grande pubblico ma anche tra quelli che si è convenuto di chiamare «i lavoratori della salute mentale». La scoperta della saldatura tra la repressione psichiatrica e le altre forme di repressione è stata - a mio avviso — un fenomeno decisivo di cui non si sono ancora misurate tutte le conseguenze. Tuttavia, questa raggiunta consapevolezza è stata a sua volta recu­ perata in parte da certe correnti psicanalitiche cui non costava nulla dire che la psichiatria era un’infamia. Sottinteso: col nostro divano, noi gua­ riamo la gente senza fare del male a nessuno... - Si può collegare l’antipsichiatria al maggio ’68 in quanto il maggio è stato essenzialmente una denunzia delle istituzioni. Ora, come la pri­ gione, il manicomio era un’istituzione reclusoria, posta in genere al cen­ tro della città e che letteralmente nessuno vedeva. - La contestazione della prigione e del manicomio è stata solo molto parziale nel maggio ’68. Ricordo di aver avuto all’epoca discussioni mol­ to vivaci con amici come Alain Geismar o Serge July, quando preten­ devamo di porre sullo stesso piano i militanti vittime della repressione e l’insieme degli sbandati, dei detenuti di diritto comune, degli psichia­ trizzati. All’epoca anche gli spontaneisti dell’ex movimento «22 mar­ zo», che erano sul punto di fondersi con i maoisti, dicevano: « I prigio­ nieri politici si, i detenuti di diritto comune, non se ne parla! I drogati no! I drogati bisogna denunziarli, sono pericolosi, manipolati dalla po­ lizia, ecc.». A voler parlare al tempo stesso di questioni cosiddette poli­ tiche e dei problemi della follia, si passava per personaggi bizzarri, ov­ vero pericolosi. Oggi ciò non stupisce più nessuno. Solo molto dopo il ’68 si è giunti a questo, con la creazione del Gip (Groupe d’Information sur les Prisons) e di altre azioni dello stesso tipo. Tuttavia, al mo­ mento degli «avvenimenti» del ’68 c’è stata molta agitazione negli am­ bienti psichiatrici, ma tutto è stato molto presto recuperato dagli uni­ versitari e dai baroni attraverso il movimento detto dei «collegi di psi­ chiatria». Il Già (Groupe d’Information sur les Asiles), «Garde-fou», «Les Cahiers pour la Folie», ecc. sono nati molto piti tardi, più o meno sulla scia di quel che Foucault e Deleuze facevano per le prigioni. Bi­ sogna dunque diffidare dalle illusioni retrospettive della memoria! Il maggio ’68 ha forse liberato degli atteggiamenti militanti, ma non i cer­ velli che restavano completamente inquinati e che ci hanno messo mol­ to più tempo ad aprirsi ai problemi della follia, dell’omosessualità, del­ la droga, della delinquenza, della prostituzione, della liberazione della donna, ecc.

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— Che ne è oggi dell’istituzione psichiatrica? — Va benissimo! È l’inizio del crollo su tutti i piani! In primo luogo sul piano materiale: quasi la metà degli ospedali psichiatrici «girano» a meno del 50 per cento della loro capacità reale. Certi ospedali, che sono costati miliardi, sono praticamente vuoti. Ciò spiega in parte l’au­ mento straordinario del costo della giornata di ospedalizzazione psichia­ trica pubblica. Crollo anche nei cervelli. Il fatto è che nessuno ci crede più! La politica «di settore» (la suddivisione dell’istituzione psichiatri­ ca in piccole unità su un territorio corrispondente in teoria a 60 000 abitanti) nel migliore dei casi non ha portato a nulla e nel peggiore a un intollerabile controllo capillare della popolazione. Questo è già mol­ to evidente nel campo della psichiatria infantile. — Ma perché gli ospedali psichiatrici sono vuoti? — È un fenomeno complesso, vi sono vari fattori che posso enume­ rare senza attribuire loro un ordine d’importanza. In primo luogo, la diffidenza, frutto tra l’altro del movimento andpsichiatrico promosso dai mass-media. Poi, forse un certo risultato della politica di settore: molte cose ormai si fanno fuori dell’ospedale. Ma credo anche che la diffusione massiccia di neurolettici abbia svolto un ruolo non trascura­ bile. Non solo attraverso il canale degli psichiatri, ma anche attraverso quello dei medici generici, o anche della stampa più o meno specializ­ zata. Prima che un lattante abbia avuto il tempo di strillare, già gli si è propinato un calmante per farlo tacere e dormire. Di qui attenuazione o addirittura scomparsa di certi fenomeni di rottura sociale che un tem­ po conducevano dallo psichiatra o al manicomio. A partire dagli anni '50 la chemioterapia ha posto fine negli ospedali psichiatrici a quel che si chiamava l’«agitazione». Poi ha sottratto all’ospedale un certo nu­ mero di persone cui ci si è messi a somministrare una « camicia di forza chimica» a domicilio. Ma non ci si è resi conto subito delle conseguenze del fenomeno. Si è voluto continuare a costruire degli ospedali psichia­ trici, tanto più che questo serviva a rilanciare l’industria edilizia. Si pre­ tendeva di saturare di letti certi dipartimenti (di fatto si trattava di finanziare l’«industrializzazione» dell’edilizia). Ma ecco che i medicinali hanno sottratto all’ospedale una parte della clientela abituale e certi psi­ chiatri hanno cominciato a svuotare sistematicamente gli ospedali. Ciò ha creato a volte situazioni conflittuali molto difficili, per esempio nelle regioni povere, dove l’ospedale è l’impresa «industriale» principale! — I manicomi si svuotano, la psichiatria non crede più a se stessa. Ora, i manicomi erano fatti per circoscrivere, proteggere e soprattutto rinchiudere i pazzi, e la psichiatria per curarli. Che ne è allora, oggi, del­ lo status di pazzo ?

Antipsichiatria e antipsicanalisi

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- La soluzione del futuro, per la Francia, è già una realtà negli Stati Uniti. Non appena qualcuno non sta bene, rompe un vetro, si droga, lo si dichiara schizofrenico. Lo si riempie di neurolettici o di metadone e basta. Ci si chiede se per caso non era meglio conservare le «sfumatu­ re» della vecchia nosografia! In un certo numero di stati americani gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi, ma ciò non ha tolto nulla alla re­ pressione psichiatrica che si esercita per altre vie. Cosi si può essere inseriti in sistemi di controllo psichiatrico pur non avendo nulla a che fare con le categorie psichiatriche (clochard, sbandati, vecchi, ecc.). D’altra parte, molti nevrotici e anche «pazzi», secondo le vecchie cate­ gorie psichiatriche, non passeranno più per il manicomio, bensì per la psicanalisi, le visite a domicilio, i neurolettici, ecc. Se il «pazzo furio­ so » è un po’ passato di moda, viceversa la follia psicanalitica ha invaso tutti i settori. Taluni pretendono, per esempio, cosa del tutto aberran­ te, di potere individuare una schizofrenia in un bambino di tre anni! Oggi un po’ tutti criticano l’ospedale psichiatrico: è una buona cosa, ma non basta. Quel che è in causa è un problema generale, non solo il problema dell’ospedale ma anche quello della psichiatria di settore, delle diverse forme di psicanalisi: non si può più fare un lapsus senza sentirsi sottoporre dal primo venuto ad un’interpretazione «selvaggia». Al limite, anche chi tiene rubriche di psicologia nei rotocalchi fa parte delle nuove attrezzature psichiatriche! - Dunque, l’istituzione psichiatrica è scomparsa solo per ricompa­ rire subdolamente? - Sì, miniaturizzata. Quel che mi colpisce del resto, è che tutte le grandi formazioni repressive - la scuola, l’esercito — che un tempo erano costituite da insiemi istituzionali unitari, tendono ora ad essere polverizzate e diffuse dappertutto. È questo, secondo me, l’errore di Illich: ben presto ciascuno sarà nei confronti di se stesso il suo proprio mini­ agente repressivo, la sua propria scuola, il suo proprio esercito. Il su­ per-io ovunque. Ora, nelle grandi entità repressive, c’erano ancora dei rapporti di forza reali, dunque delle lotte possibili. Nelle piccole, ciascuno è vinco­ lato nei sistemi di relazione, di influenze, di sentimenti che non offrono più presa e che in ogni caso implicano altre forme di «liberazione». Per me la politica di settorializzazione della psichiatria e la psicanalisi - e d’altronde esse oggi sono in stretto rapporto tra loro — corrispondono a forme tecnocratiche avanzate di controllo capillare, di potere, un pote­ re che ancora si cerca ma che finirà ben per trovarsi. E se la politica di settore dal punto di vista del potere è ancor oggi un fallimento — tranne che nel caso della psichiatria infantile - nulla dice che non avrà un rilan­

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ciò. Una repressione che non avrebbe bisogno della polizia agli angoli delle strade, ma che si eserciterebbe in permanenza, discretamente, al li­ vello del lavoro, dei vicini, ovunque, non è forse l’ideale per il potere? Lo stesso vale per la psicanalisi. Essa tende a essere ovunque, a scuola, in famiglia, alla televisione. - Ma la psicanalisi ha subito qualche danno, e questo principalmente grazie a Deleuze e a lei, al vostro Anti-Edipo. - Pura illusione! Gli psicanalisti vi sono rimasti impermeabili. Cosa del tutto normale: andate a chiedere a dei macellai di smettere per ra­ gioni teoriche di vendere carne. O di diventare vegetariani! E per quel che riguarda i consumatori, non bisogna credere che la psicanalisi sia inefficace. Funziona a meraviglia! La richiesta resta elevata, ed è giusto che si paghi caro per questo, dal momento che funziona. È un po’ come una droga; e inoltre procura una piccola promozione sociale che non è trascurabile. L’Anti-Edipo ha solo provocato una piccola corrente d’a­ ria. All’uscita del libro una società psicanalitica ha lanciato la parola d’ordine di non parlarne, ché tutto si sarebbe risolto da solo. Ed è quel che è successo. No, il risultato più tangibile dèi’Anti-Edipo è stato di aver impedito l’unione di psicanalismo e gauchismo. - Quel che mi colpisce è il fatto che le due principali vittime della critica delle istituzioni in questi ultimi anni sono stati i due padri fon­ datori, Marx e Freud. Di Marx si sono occupati altri. Ma Deleuze e lei stesso avete preso deliberatamente di petto Freud, perché l’istituzione psicanalitica, comunque s’identifica con Freud. - Freud, si, ma anche, in Francia, Lacan. In Francia la psicanalisi si è affermata molto tardi, con l’arrivo di gente come Lagache o Boutonnier all’università. Prima della guerra la psicanalisi in Francia non esi­ steva, o quasi; ma si è rifatta e, dopo aver vinto fortissime resistenze, si è affermata ovunque, a Saint-Anne, nelle facoltà; anche le case editrici ne sono piene. Negli altri paesi invece da una decina d’anni il movimen­ to freudiano è cosa finita. Negli Stati Uniti si parla ancora di Jung, ma ciò fa parte del folclore, come i massaggi psichedelici o il buddhismo zen. Si può pensare che lo stesso accadrà anche in Francia, ma bisogna diffidare: in Francia l’istituzione freudiana conosce un rilancio fanta­ stico con il lacanismo. Il lacanismo non è una semplice rilettura di Freud: è qualcosa di molto più dispotico dal punto di vista della teo­ ria e dell’istituzione, di molto più rigoroso di punto di vista dell’as­ soggettamento semiotico di coloro che vi partecipano. Ed è forse attra­ verso il lacanismo che ci sarà un rilancio della psicanalisi nel mondo, a cominciare dagli Stati Uniti. Non solo Lacan è uscito dal suo ghetto, ma non escludo la possibilità che lui o i suoi successori pervengano

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un giorno a ricostituire una vera e propria internazionale psicanalitica. Più tardi credo che si distinguerà il lacanismo dal freudismo. Il freu­ dismo era difensivo nei confronti della medicina, della psichiatria, del­ l’università. Il lacanismo al contrario è offensivo; è un dogma di com­ battimento. In proposito bisognerebbe vedere fino a che punto ha in­ fluenzato Palthusserismo, e che tipo di consistenza ha dato allo struttu­ ralismo nel suo complesso, in particolare per via della sua concezione del significante. Forse lo strutturalismo non sarebbe esistito, cosi come l’abbiamo conosciuto, senza il lacanismo. Il potere, l’autorità a volte settaria dello strutturalismo non sarebbero stati possibili senza la con­ cezione matematico-linguistica dell’inconscio messa in circolazione dai lacaniani, concezione che tende in sostanza a tagliar fuori il desiderio dalla realtà. Considerare che il desiderio può essere fondato - simboli­ camente - solo sulla sua propria impotenza, sulla sua propria castrazio­ ne, implica tutto uno sfondo politico e micropolitico. — Secondo lei si è creata dunque ima nuova istituzione, il lacanismo? — Sì. Un banco di prova, una tecnologia avanzata, il prototipo delle nuove forme di potere. È meraviglioso riuscire ad assoggettare qualcu­ no alla propria persona, a tenerlo mani e piedi legati, finanziariamente, affettivamente, senza nemmeno darsi la pena di fare il minimo sforzo di suggestione, d’interpretazione o di dominazione manifesta. Oggi lo psi­ canalista non dice più una parola al suo paziente. Si perviene a un si­ stema di canalizzazione della libido tale che basta il silenzio. Ciò fa pen­ sare a quelle forme ideali della pedagogia in cui il maestro non aveva più bisogno di parlare: bastava un solo cenno della testa — il «nutus» latino - perché insegnasse: diventava allora un «numen», la divinità che muove la testa in segno di approvazione. — L’Anti-Edipo non s’interessava tanto a Lacan quanto a Freud e, a forza di volerne spolverare la statua, non ne lasciava più gran cosa. — Non è stata una cosa deliberata: noi abbiamo proceduto per tappe e ritocchi, ed effettivamente, a forza di ritoccare... Ma la contestazione di Freud, nell’Anti-Edipo, è rimasta molto legata a quella che abbiamo fatto del lacanismo. — Tuttavia non è questa nuova forma di potere che rappresenta il lacanismo messa in questione ne\Y Anti-Edipo. È l’Edipo stesso, fonda­ mento del freudismo. E quando crolla il fondamento... Assistiamo dun­ que a un’evoluzione inversa: l’istituzione psichiatrica si diluisce, men­ tre l’istituzione psicanalitica si rafforza in una nuova forma di potere. — La differenza è che la psichiatria non funziona mentre la psicana­ lisi funziona a meraviglia. Ragion per cui questa può addirittura resu­ scitare un giorno certi settori della prima!

Il «Réseau» (Bruxelles 1975)

Il Réseau che si è costituito nel gennaio 1973 a Bruxelles sul tema dell’«alternativa al settore» si propone di assicurare una circolazione delle informazioni sulle numerose esperienze che si sviluppano attual­ mente ai margini dei quadri ufficiali, organizzando incontri concernenti tanto i «curanti» quanto i «curati», e ciò non solo sotto forma di Col­ loqui o congressi, ma anche per mezzo di manifestazioni teatrali, di fe­ ste, di produzioni video, di film, ecc. Allargando le forme d’espressione abituali, vorrebbe contribuire a far si che la contestazione della psichia­ tria esca dai dibattiti di idee, staccati da ogni realtà, in cui troppo spesso si perde. Alcuni dei promotori di questo Réseau, che hanno vissuto da vicino i tentativi di modernizzazione della psichiatria francese e che si erano impegnati in buona fede nella politica detta «di settore», sono giunti a considerare che non si risolverà alcun problema fondamentale in que­ sto campo finché non si assumerà come obiettivo quel che essi hanno chiamato una depsichiatrizzazione della follia. Le riforme e le innova­ zioni tecniche, quali che siano, non porteranno, secondo gli stessi, che al passaggio da un modo di reclusione a un altro, da una camicia di for­ za a una camicia di forza neurolettica, o psicoterapeutica o psicanalitica. Essi esprimono anche un giudizio severo sulle diverse «correnti innova­ trici» che non hanno fatto altro che accentuare il controllo capillare del­ la follia mettendosi al servizio della classica impresa di riassorbimento, adattamento, neutralizzazione descritta da Michel Foucault nella Histoire de la folie. Nessun disturbo mentale, nessuna forma di devianza può essere se­ parata dal loro contesto familiare, professionale, economico, ecc. Un’e­ sperienza innovatrice, in quanto tale, è a sua volta un sintomo sociale e non sfugge a questa regola: tagliata fuori dal contesto degli scontri sociali e in particolare dalle lotte dei lavoratori della salute mentale, ri­ schia di restare isolata e di esaurirsi rapidamente, come è stato spesso il caso delle esperienze comunitarie inglesi. La prospettiva di un’alterna­

Il «Réseau» (Bruxelles 1975)

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tiva popolare alla psichiatria, senza ridurre la follia a un semplice feno­ meno di alienazione sociale, senza ridurre semplicemente la contesta­ zione dell’oppressione psichiatrica a una lotta sociale contro lo sfrutta­ mento capitalistico, considera che le esperienze militanti possano tro­ vare un punto di appoggio al tempo stesso nelle organizzazioni poli­ tiche e sindacali del movimento operaio e nelle diverse nuove forme di lotta che concernono oggi la condizione femminile, quella infantile, quella penitenziaria, i lavoratori immigrati, ecc. Non si tratta tanto, insomma, di politicizzare la follia quanto di aprire la politica alla consa­ pevolezza di una serie di problemi troppo a lungo misconosciuti dalle organizzazioni tradizionali. A partire dal 1968 si è assistito in Francia allo sviluppo di una mol­ titudine di gruppi che si sforzano di operare una rottura radicale con l’approccio abituale del sistema psichiatrico classico ‘. Le preoccupazioni principali di questo nuovo tipo di azione militante sono centrate su quella che i membri del Réseau chiamano « la condizione degli psichia­ trizzati». Si è lontani da quella che era stata la prima «rivoluzione psichiatrica» che, dalla Liberazione al i960, agitava qualche decina di psichiatri e un pugno di alti funzionari del Ministero della Sanità! Al­ lora gli psichiatri progressisti si proponevano di andare verso i malati e gli infermieri. Era la politica dei «club intraospedalieri» (animati dalla Fédération des Croix Marines), la politica dei corsi di formazione degli infermieri (animati dal Centre d’Entrainement aux Methodes Actives), la politica dell’apertura verso la popolazione mediante centri extraospe­ dalieri, delle cure a domicilio, ecc. Era anche l’epoca in cui la psicote­ rapia istituzionale auspicava di far profittare i malati, il personale e ad­ dirittura l’istituzione nel suo complesso dei benefici della psicanalisi. Con il Réseau internazionale una pagina sembra girata: non si vuole più andare verso; si cerca di fare in modo che l’iniziativa parta dagli stessi interessati. La psicoterapia, le cure, l’animazione - se necessari dovranno essere autogestiti e gli specialisti interverranno solo, in qual­ che modo, come assistenti tecnici. Tentativi del genere si sono sviluppati negli Stati Uniti, nei ghetti del South Bronx, a New York, con Mony Elkaim (che lavora oggi con l’équipe della «Gerbe», in modo simile, in un quartiere povero di

1 Già (Grouped’Information sur les Asiles), «Cahiers pour la Folie», «psychiatrisés en lutte», Aerlip, «Tankonalasanté», «Gardes-fous», «Brèche», «le Vouvray*, «Psychiatrie en liberté de St-Dizier», «la Gratte», per citare, in modo del resto molto arbitrario, solo i gruppi, le comunità, i periodici più noti. Bisognerebbe anche menzionare esperienze come quella animata da Irene Ba lost-Foultier in un quartiere di Villeurbanne, dove lavoratori immigrati, lavoratori della salute m tale e gruppi di bambini gestiscono una casa comunitaria (questa esperienza «marginale» è finan ziata dalla Dass, dalla Ss e dal comune).

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Bruxelles). Cosi pure in Italia delle esperienze molto interessanti sono state condotte in questa direzione, in particolare dal gruppo di psichia­ tri, psicologi e infermieri raccolti dal 1969 attorno a Giovanni Jervis a Reggio Emilia. Qui non sono più solo i «muri del manicomio» che si cerca di distruggere ma anche i muri del professionismo: la medicina mentale è praticata qui direttamente con i membri del ghetto, con i la­ voratori delle fabbriche, nei villaggi, appoggiandosi a personale parame­ dico formato sul posto. Disgraziatamente, molto spesso, tali esperienze restano fragili. Quel­ la di Giovanni Jervis è sul punto di volgere al termine (benché il suo gruppo sia rimasto molto unito) soprattutto a causa di ostacoli politici, legati agli orientamenti della sinistra storica italiana, che teme d’irritare i suoi partners sociali cristiani sostenendo imprese troppo innovatrici. È dunque necessario che venga mantenuto un collegamento costante tra le azioni minoritarie di alternativa alla psichiatria e le lotte sociali più ge­ nerali. Le campagne d’informazione antipsichiatriche, i dibattiti teorici sulla follia e la repressione psichiatrica condotti attraverso i mass-media e a partire da qualche esperienza comunitaria non bastano per modifi­ care in modo duraturo i rapporti di forza esistenti. Ed è allo scopo di superare il carattere molto minoritario, o addirittura d elite cui è rima­ sta in genere legata l’antipsichiatria che si è costituita in Italia, un anno e mezzo fa, attorno a Franco Basaglia, l’associazione Psichiatria Demo­ cratica. Essa raggruppa quasi duemila medici, psicologi, infermieri, assi­ stenti sociali, in ventisette gruppi provinciali operanti con larga autono­ mia, e si sforza di mobilitare l’opinione e di esercitare una pressione co­ stante sui pubblici poteri allo scopo di trasformare delle strutture psi­ chiatriche particolarmente arretrate. I membri di questa associazione considerano che una presa di coscienza politica da parte dei lavoratori della salute mentale dovrà essere caratterizzata dal rifiuto della passi­ vità, dal rifiuto di diventare «dei funzionari del consenso». Pur ammet­ tendo la realtà del problema psichiatrico (e in questo consiste la diffe­ renza rispetto alla vecchia antipsichiatria) essi intendono rifiutare di fornire degli alibi «scientifici» a problemi psicopatologici che rinviano a questioni di vita sociale, di organizzazione del lavoro, di urbanismo, di metodi scolastici... Certo, la comparsa di questo nuovo tipo d'intervento è inseparabile dalle condizioni molto particolari in cui si sviluppano le lotte sociali in Italia: in effetti, da una decina d’anni circa, molti lavoratori italiani sono diventati consapevoli di problemi nuovi e si sono organizzati per imporre delle riforme concernenti l’alloggio, i trasporti, le strutture me­ diche. Psichiatria Democratica ha potuto svilupparsi tanto meglio in

Il «Réseau» (Bruxelles 1975)

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quanto ha saputo conquistare l’attenzione costante di organizzazioni operaie, di consigli di azienda, di sindacati e partiti di sinistra che erano già stati sensibilizzati a questo tipo di problemi. Non è certo un caso se questa nuova « alternativa militante alla psi­ chiatria» è comparsa in paesi dove la situazione degli ospedali psichia­ trici era la più arretrata (i ghetti di New York, l’Italia, la Spagna...) e dove le prospettive ambigue della settorializzazione non hanno avuto la possibilità di creare illusioni. In effetti, se è vero che le soluzioni ai problemi psichiatrici sono politiche prima ancora che tecniche, non c’è da stupirsi del fatto ch’esse si manifestino più nettamente in situazioni di crisi particolarmente acuta.

Matti da slegare (Italia 1976)

Matti da slegare è un film eccezionale È in primo luogo una testi­ monianza senza precedenti sulla psichiatria tradizionale e sulle sue va­ rianti «moderniste», in particolare nel campo dell’infanzia. È poi l’illu­ strazione vivente della politica adottata dai lavoratori della salute men­ tale raccolti in Italia attorno a Franco Basaglia, Giovanni Jervis e i mili­ tanti del movimento Psichiatria Democratica, senza peraltro essere un film di dottrina: sono persone qualsiasi che per una ragione o per l’al­ tra hanno avuto a che fare con la repressione psichiatrica, che riescono a esprimersi su quel che hanno vissuto, e lo fanno con accenti di verità assolutamente sconvolgenti. Infine, è un film che si può mettere sulla linea del capolavoro di Bellocchio, I pugni in tasca. Per due ore dei malati internati da anni — a volte da decine di anni — in spaventosi bagni psichiatrici, dei bambini presi negli ingranaggi della settorializzazione medico-pedagogica prendono la parola, o piuttosto ci afferrano, scuotono in noi delle zone che di solito preferiamo mantenere al riparo. Il piccolo Marco, tredici anni, sbattuto da un istituto all’altro, do­ tato di un’intelligenza e di una vivacità incredibili, non cerca d’impietosirci. Gli si chiede: «Ala allora tu hai l’impressione che la tua psico­ ioga non ti capisca?» Riflette, poi risponde, calmo: «No, non è questo, sono io che non riesco a capirla». Delle donne che sono rimaste rinchiuse, legate per anni, che sono state umiliate, torturate, raccontano senza lagnarsi quel che hanno pa­ tito, ma quel che tengono soprattutto a spiegarci è come, ora, si sono organizzate tra loro per far fronte al mondo esterno che continua a far loro paura. Raccontano le loro passeggiate, le loro prime uscite per an­ dare al cinema... Degli ex militanti spiegano come essi ritengano che è ormai tra gli 1

Cfr. SILVANO AGOSTI - MARCO BELLOCCHIO - SANDRO PETRAGLIA - STEFANO RULLI,

gare, Einaudi, Torino 1976.

Malti da sle­

Matti da slegare (Italia 1976)

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psichiatrizzati e gli ex psichiatrizzati che intendono continuare la loro lotta. Gli operai di un’impresa metallurgica dicono come sono riusciti a integrare una decina di «ritardati mentali» e come questi ultimi sono riusciti a conquistarsi lo status di lavoratori a tutti gli effetti. A brac­ cetto con i suoi compagni un «mongoloide», venuto direttamente da un altro pianeta, evoca il suo arrivo in fabbrica, racconta come aveva strappato i foglietti del calendario che segnavano il sabato e la dome­ nica perché questi erano per lui giorni di solitudine lontano dai suoi compagni d’officina, giorni che avrebbe voluto far scomparire. Un mili­ tante sindacale spiega come è accaduto tutto ciò - si scusa di non aver preparato quel che sta per dire — ma gli sembra che il modo in cui i suoi compagni e lui stesso hanno affrontato i problemi della «follia» e del «ritardo mentale» è forse più efficace di quello degli psichiatri e degli psicanalisti... e poi aggiunge che le cose non sono andate a senso unico: l’amicizia, il calore di quei volti strani ha mutato il clima in fabbrica. Fino allora - spiega - «si era un po’ persa di vista una certa dimensione umana». A mio avviso questo film non apre un dibattito, lo chiude. È giunto il tempo di chiudere i dossier, quelli dell’ospedale psichiatrico — nelle versioni arcaiche o moderniste -, quelli della settorizzazione, quelli del­ le istituzioni medico-pedagogiche, quelli della psicanalisi, ecc. All’ordi­ ne del giorno non sono più le grandi dimostrazioni teoriche, le denun­ zie veementi e i programmi di ogni natura, bensì il passaggio all’atto. In Francia, si sente molto spesso dire: «ma non si può far nulla, nes­ suno si muove, nessuno vuol cambiare la sua posizione...» Sono pronto a credere che il livello delle lotte in Italia favorisca l’immaginazione e incoraggi i tentativi innovatori; ma infine, anche in Francia dev’essere possibile far qualcosa al di fuori delle riunioni e delle pubblicazioni! Forse uno degli aspetti del blocco presente dipende dal fatto che le esperienze comunitarie, i tentativi di sovversione della psichiatria tradi­ zionale, con lo stile delle loro azioni e il loro linguaggio sofisticato, escludono sistematicamente qualsiasi apertura reale sulla società. Un militantismo della vita quotidiana, del tipo di quello che ci presenta Matti da slegare costituisce senza dubbio la sola strada che consenti­ rebbe di far propendere l’opinione pubblica a favore di una trasforma­ zione radicale dello status dell’«assistito» psichiatrico. Le evidenze fol­ goranti cui ci pongono di fronte i militanti operai di Parma avranno forse molto più peso, apriranno forse delle prospettive molto più reali che non tutte le elaborazioni teoriche dei migliori tra noi. Non preten­ do che la verità per principio venga sempre dal popolo, ma mi sembra

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certo che, in questo caso, la repressione \iene sempre dai «curanti», an­ che i meglio intenzionati. Non pretendo che tutto sia semplice quando si tratta di «follia» o di «ritardo mentale», e che il ricorso alle buone intenzioni, ai metodi tradizionali o all’attività comunitaria sia sempre sufficiente per aiutare coloro che soffrono, ma sono persuaso che è ne­ cessario sbarazzarsi urgentemente di tutto ciò cbe odori anche lonta­ namente di ospedale psichiatrico, di camici bianchi, di tecnocrazia del sapere o dell’inconscio, e di mettersi in presa diretta con il buon senso minimo dei diretti interessati. Il che implica, in primo luogo, che ci si decida davvero a dar loro la parola, come ha saputo fare il gruppo di Parma.

Sulla scuola

La ricerca, la sperimentazione di un sistema autoritario fascista è ri­ masta all’ordine del giorno sia del capitalismo sia del socialismo buro­ cratico. Molte forze tendono oggi alla liberazione delle energie popolari e del desiderio delle minoranze oppresse, e per far loro fronte i poteri costituiti non cessano di rafforzare le strutture repressive. Ma non si tratta necessariamente di una repressione di massa: essa viene adattata in modo da poter essere interiorizzata più facilmente. Ciò non significa che essa risulti addolcita, ma, dal momento che le sue forme troppo manifeste sono mal tollerate, oggi quel che si cerca è una sorta di minia­ turizzazione del fascismo. Non si farà più necessariamente uso del man­ ganello o dei campi di sterminio: si cercherà piuttosto di controllare i singoli con legami quasi invisibili che li assoggetteranno tanto meglio al modo di produzione capitalistico (o socialista-burocratico) in quanto l’investiranno a livello inconscio. Tutta una serie di dispositivi sociali lavorano alla produzione di que­ sti legami che costituiscono, in qualche modo, la tessitura dei rapporti di produzione. Louis Althusser li ha definiti «apparati ideologici di Sta­ to», ma credo che sbagli quando li considera appartenenti alla sovra­ struttura. Da parte mia, penso che si dovrebbe farla finita al più presto con questo manicheismo delle sovrastrutture ideologiche e delle infra­ strutture economiche che introduce delle casualità a senso unico e che con le loro semplificazioni non fanno altro che confondere le cose. Re­ sta nondimeno interessante l’idea di mettere sullo stesso piano, come ha fatto Althusser, delle istituzioni statali come la scuola, la prigione, la giustizia, ecc. e delle istituzioni sociali come la famiglia, i sindacati, ecc. É in questo continuum istituzionale che si realizza la formazione collet­ tiva della forza-lavoro, a sua volta inseparabile dalle «infrastrutture» economiche. Quel che è forgiato dalle forze di produzione non sono solo, in effetti, flussi di materie prime, di energia, di lavoro umano, ma anche flussi di sapere, flussi semiotici che riproducono atteggiamenti collettivi, comportamenti di sottomissione alle gerarchie. Non è possi-

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bile, per esempio, dissociare il lavoro di semiotÌ2zazione che avviene con la formazione professionale dal lavoro di modellizzazione e di adat­ tamento dei lavoratori ai rapporti che esistono nell’officina e nella fab­ brica. In questo senso, la condizione stessa della riproduzione delle for­ ze di produzione è per l’appunto quel che si realizza nei cosiddetti «ap­ parati ideologici di Stato ». Non si tratta dunque di riprodurre un’ideo­ logia, ma di riprodurre dei mezzi e dei rapporti di produzione. Da questo punto di vista, è possibile accostare quel che avviene a scuola e nella famiglia. Entrambe concorrono infatti alla medesima «funzione di formazione collettiva» della forza-lavoro modellando e adattando dei bambini ai rapporti di potere dominanti. Gli stessi ruoli dei protagonisti diventano a volte intercambiabili. Dal maestro ci si aspetta che svolga una funzione parentale, mentre i genitori sono invi­ tati a diventare dei maestri a domicilio. Di fatto, le persone servono solo a inquadrare, a «canalizzare» - nel senso della teoria dell’informa­ zione — un lavoro di semiotizzazione che passa sempre più attraverso la televisione, il cinema, i dischi, i fumetti, ecc. In luogo di regolare tali processi macchinici in vista di finalità assunte collettivamente, si perviene a una sorta d’intossicazione semiotica generalizzata. Poiché tutte le vecchie territorialità - il corpo, la famiglia, lo spazio domestico, i rapporti di vicinato, di classe, di età, ecc. - sono minacciate da un mo­ vimento generale di deterritorializzazione, si procede alla reintegrazione artificiale di queste stesse territorialità, si ripiega su di esse tanto più che si sa che non le si ritroverà mai più nella loro forma «originaria». Di qui le nostalgie retrospettive che sembrano rientrare meno in un fenomeno di moda che non in un’inquietudine generale di fronte all’ac­ celerazione della storia. Non solo si viene equipaggiati semioticamente per andare in fabbri­ ca o in ufficio, ma si subisce inoltre l’imposizione di una serie di rappre­ sentazioni inconsce che tendono a modellare l’io. Si agisce sull’inconscio per assicurarsi la sua complicità con le formazioni repressive dominanti. A questa funzione generalizzata che stratifica i ruoli, gerarchizza la so­ cietà, codifica i destini, si opporrà da parte nostra una funzione di rego­ lazione collettiva del sociale che non cerchi più di far entrare i singoli in dei quadri prestabiliti, per adattarli a finalità universali ed eterne, ma che accetti il carattere finito e delimitato storicamente delle azioni umane. Solo a questa condizione potranno essere rispettate le singola­ rità del desiderio. Si prenda l’esempio di Fernand Deligny nelle Cevenne: egli non ha creato laggiù una istituzione per «ritardati menta­ li»; ha fatto si che un gruppo di adulti e di «ritardati» possano vivere insieme secondo il loro desiderio. Ha realizzato un’economia collettiva

Sulla scuola

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di desiderio articolando delle persone, dei gesti, dei circuiti economi­ ci, di relazione, ecc. È molto diverso da quel che fanno in genere gli psicologi e gli educatori che hanno una idea aprioristica delle diverse categorie di «minorati». Il sapere qui non si costituisce più in potere, basandosi su tutte le altre formazioni repressive. Il solo modo di «col­ pire» l’inconscio, di farlo uscire dai suoi binari, è di dare al desiderio i mezzi di esprimersi nel campo sociale. Evidentemente, Deligny ama i cosiddetti ritardati, ed essi lo sanno; lo sanno anche quanti lavorano con lui. Tutto nasce da questo e a questo riporta. Non appena si è ob­ bligati, per funzione, a occuparsi degli altri, ad «assisterli», s’instaura una sorta di asettico rapporto sado-masochista che inquina profonda­ mente gli atti in apparenza più innocenti e disinteressati. Immaginiamo che dei «professionisti del ritardato», come i membri dell’Amipi (Association d’Aide Maternelle et Intellectuelle pour les Personnes Inadaptées) si propongano di fare «come Deligny», che ne imitino i gesti, che si organizzino nello stesso modo... cosa accadrebbe? Non farebbero al­ tro che «migliorare» la loro tecnologia microfascista, che finora non ha trovato nulla di meglio che ammantarsi del prestigio «scientifico» del neocomportamentismo anglosassone. Non è al livello dei gesti, delle at­ trezzature, delle istituzioni che troverà la sua strada il vero metaboli­ smo del desiderio — per esempio il desiderio di vivere — ma in un’orga­ nizzazione delle persone, delle funzioni, dei rapporti economici e sociali volta verso una politica complessiva di liberazione. Quando, una quindicina di anni fa, ho lanciato l’idea di un’analisi istituzionale per combattere la psicanalisi, e di analizzatori collettivi per despecializzare l’approccio all’inconscio, intendevo sottolineare la ne­ cessità di un’apertura dei problemi di vita quotidiana nelle istituzioni su tutta una micropolitica, tutto un militantismo di tipo nuovo1. Pur­ troppo l’analisi istituzionale e gli analizzatori sono stati trasformati in nuovi gadget psicosociologici e si è trovato il modo di metterli al servi­ zio di un miglioramento generale dei rapporti umani, cioè, in ultima analisi, di un adattamento alle varie situazioni di alienazione. Oggi però le stratificazioni mentali e professionali in questo campo delle «cose sociali» tendono forse a diventare meno evidenti. Si comin­ cia a presentire l’esistenza di percorsi - la «trasversalità» — tra pro­ blemi di urbanismo, di burocratizzazione, di nevrosi, di micropolitica in seno alla famiglia con i bambini, in seno alla coppia con il fallocratismo, e cosi per la vita collettiva, l’ecologia, ecc. Ci si trova di fronte, mi pare, a una sorta di processo di ricerca di massa. Non sono più degli 1

Cfr. féllx guattari, Psycbanalyse el transversalité, Maspero, Paris 197J.

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specialisti del pensiero o del militantismo che propongono nuovi mo­ delli, ma i diretti interessati che sperimentano nuovi modi di vivere. Il problema non sarà più — per esempio nel campo dell’« educazione » quello dell’applicazione dei metodi pedagogici, nel senso in cui si parla dei «metodi Freinet», ma di microassetti analirico-militanti che possano cristallizzarsi attorno a una classe, a una scuola, a un gruppo di bambi­ ni, ecc. In che direzione un desiderio collettivo ricerca se stesso? Quali interventi potrebbero aiutarlo ad uscire dalle territorialità che lo circon­ dano ? Cosa potrei fare io in quella situazione non come maestro ma in quanto partecipe? È il contrario delle prospettive dello psicologismo e dello «psicanalismo» Non si tratta più di ridurre l’inconscio, di farlo ripiegare su dei complessi universali, sui dei transfert personalizzati, di stenderlo su divani specialistici, di assoggettarlo al preteso sapere del­ l’analista, ma di aprirlo in tutte le direzioni, a volte su linee di fuga minuscole, altre su possibilità di lavorare su più vasta scala alla trasfor­ mazione della società. Costruire la propria vita, costruire qualcosa che sia un po’ vivo, non solo con coloro che sono vicini, con dei bambini — in una scuola o fuo­ ri - con degli amici, dei militanti, ma anche con se stesso per modifi­ care, per esempio, il proprio rapporto col corpo, con la percezione delle cose, non vuol dire, diranno alcuni, distogliersi dalle cause rivoluzio­ narie più fondamentali e più urgenti? Tutto sta nel sapere di quale rivo­ luzione si tratta! Si tratta di farla finita con tutti i rapporti di aliena­ zione, non solo quelli che pesano sui lavoratori, ma anche quelli che pesano sulle donne, i bambini, le minoranze sessuali, ecc.; quelli che pe­ sano su sensibilità atipiche, sull’amore per i suoni, i colori, le idee... Una rivoluzione, in qualunque campo, passa per una liberazione preli­ minare di un’energia di desiderio. Ed evidentemente solo una reazione a catena, attraversando le stratificazioni esistenti, potrà catalizzare un processo irreversibile di contestazione delle formazioni di potere cui è incatenata la società attuale. 1 robert castel, Le psycbanalysme, Maspero. Paris 1973 [trad. it. Lo psicanalismo. Psicana­ lisi e potere, Einaudi, Torino 1975].

Gli asili nido e l’iniziazione

Come evitare che i bambini non aderiscano alle semiotiche domi­ nanti al punto di perdere molto presto qualsiasi vera libertà di espres­ sione? Il loro modellamento da parte del mondo adulto sembra avve­ nire, in effetti, a stadi sempre più precoci del loro sviluppo e ciò in par­ ticolare per mezzo della televisione. Una delle contraddizioni interne delle imprese cosiddette di «educazione nuova» consiste nel fatto che troppo spesso esse limitano i loro interventi al livello delle tecniche del­ l’acquisizione del linguaggio, della scrittura, del disegno, ecc., senza in­ tervenire sui meccanismi di questo modellamento di cui tali tecniche sono solo uno degli agenti. Un’impresa di educazione non può valida­ mente circoscrivere il suo campo a questioni di tecniche di apprendi­ mento o di socializzazione. Essa pone sin dall’inizio tutta una serie di problemi micropolitici. Se si confronta quel che accade oggi nelle società industriali con quello che esisteva nelle società preindustriali o che sopravvive nelle società «primitive», si constata che in queste ultime l’iniziazione, l’ac­ cesso del bambino ai ruoli specificati dal campo sociale adulto, si situa approssimativamente attorno ai nove-dodici anni. Fino ad allora egli non è tenuto a rispettare rigorosamente le interdizioni del gruppo. Solo quando è promosso al rango di persona di pieno diritto, di membro del clan, egli deve piegarsi alle norme del gruppo, il che in cambio lo fa be­ neficiare del prestigio e dei vantaggi materiali propri di ciascuna tappa di tale promozione. Per esempio nelle tribù indiane deU’Amazzonia, prima della loro iniziazione, i bambini mangeranno fuori del circolo de­ gli adulti, dovranno sbrogliarsela da soli per avere i resti; ma potranno imbastire liberamente rapporti sessuali che in seguito saranno consi­ derati incestuosi. È come se, prima deH’iniziazione, gli atti dei bambini non impegnino veramente la comunità. Cosi, per una decina di anni, essi sfuggono al tipo generale di codifica su cui riposa tutta la struttura sociale. Ciò non significa del resto che sfuggano completamente a qual­ siasi tipo di controllo da parte della società: per esempio, fino all’età

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di due anni il comportamento del bambino sarà circoscritto in un terri­ torio posto sotto il controllo della madre; ma durante tutto questo pe­ riodo, per esempio in certe società animiste africane, non vi sarà ap­ prendimento del controllo dello sfintere. La fissazione del periodo di svezzamento è in genere molto elastica e può essere tardiva; ma a par­ tire dal momento in cui si verifica, il bambino si trova bruscamente co­ stretto ad abbandonare questa territorialità materna e a passare sotto la legge di un’altra classe di età, dove dovrà rispettare altri tipi di co­ dice. A volte degli psicanalisti si sono stupiti della brutalità di questo tipo di svezzamento, e gli hanno imputato l’origine di ogni sorta di di­ sturbi. Ma questa sembra proprio una forma particolare di etnocentri­ smo, per cui si misconoscono le condizioni particolari di funzionamento della libido in quelle società. Nelle società industriali sviluppate, tutta questa organizzazione per classi di età sembra essere scomparsa: è come se il processo d’iniziazio­ ne cominciasse sin dallo stadio infantile. L’iniziazione non è più circoscritta a un periodo preciso, non avviene più secondo un cerimoniale particolare, per esempio in quelli che si chiamano i «campi d’iniziazio­ ne». Avviene a «tempo pieno»; mobilita tutto il gruppo familiare e gli educatori. Si tratta in questo caso di un’iniziazione al sistema di rappre­ sentazione e ai valori del capitalismo che non mette più in gioco solo delle persone ma passa anche sempre più attraverso dei mezzi audio­ visivi che modellano il bambino in funzione dei codici di percezione, di linguaggio, dei modi di rapporti interpersonali, dell’autorità, della gerarchia, di tutta la tecnologia capitalistica dei rapporti sociali domi­ nanti. Uno degli elementi primordiali dell’evoluzione di questa iniziazione riguarda il primato della scrittura nella formazione semiotica di base dell’infanzia. Si ricorda che fino a non molto tempo fa la lettura - per esempio quella dei romanzi - poteva essere sconsigliata alle ragazze: Tolstoj mostra delle giovani borghesi e aristocratiche costrette a leggere di notte, di nascosto... Si dava a ciò ogni sorta di giustificazione: la let­ tura faceva male agli occhi, suggeriva cattivi pensieri... In realtà la proibizione era dovuta al fatto che le ragazze non erano destinate a partecipare come gli uomini alla tecnologia della scrittura in quanto componente essenziale dell’integrazione in un modo di pro­ duzione particolare. È da precisare che in altre forme questo tipo di re­ strizione non riguardava solo le figlie delle classi superiori ma anche i figli delle classi povere. Oggi, il capitalismo intende mobilitare il mas­ simo di persone, indipendentemente dall’età e dal sesso, e il bambino dev’essere in grado di decifrare i vari codici del potere il più presto pos­

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sibile. La scuola elementare, al tempo di Jules Ferry, comportava ima sorta di riti di passaggio in epoche ancora relativamente tardive della vita del bambino, rispetto a quelle che conosciamo oggi: alle elementari il maestro era preoccupato soprattutto d’iniziare i bambini a un certo tipo di legge, di disciplina: insegnava loro a stare in fila, a parlare quan­ do ne erano richiesti, ecc. Questo tipo di scuola corrispondeva a un certo modo di organizzazione della produzione, per esempio a quello delle manifatture, del lavoro in serie, ecc. e dell’organizzazione militare di «massa». Oggi, la formazione del lavoratore e del soldato implica un massimo d’integrazione ai processi di semiotizzazione scritturali. I bam­ bini, davanti alla televisione «lavorano»; «lavorano» all’asilo nido con tecniche di gioco concepite per migliorare le loro performances percet­ tive; in un certo senso, si può addirittura considerare questo lavoro analogo a quello degli apprendisti della scuola professionale, o dei me­ tallurgici che si riciclano su nuovi tipi di catene di montaggio. Sarebbe inconcepibile, nella società attuale, la possibilità di formare un lavora­ tore senza questa preparazione che ha luogo nella famiglia, nell’asilo nido, ancora prima dell’ingresso nella scuola elementare. Il punto im­ portante è dunque che i bambini sono tenuti a formarsi il più presto possibile ad una certa traducibilità del complesso dei sistemi semiotici messi in gioco dalle società industriali. Il bambino non impara solo a parlare una lingua materna; impara anche i codici di spostamento nella strada, un certo tipo di rapporti complessi con le macchine, con l’elet­ tricità, ecc. e questi vari codici devono integrarsi con i codici sociali del potere. Questo carattere di scambio generalizzato tra le varie semioti­ che, è essenziale al sistema dell’economia capitalistica: la «scrittura» del capitale implica infatti che il desiderio dell’individuo, nelle sue di­ verse performances semiotiche, sia in grado di adattarsi, sia traducibile in qualsiasi punto del sistema socio-economico. Il capitale è la matrice stessa della traducibilità dei valori di scambio e di tutte le forme di la­ voro. L’iniziazione al capitale implica in primo luogo questa iniziazione semiotica ai diversi modi di traducibilità e ai corrispondenti sistemi d’invarianti. Si è lontani oggi da quando si diceva ai giovani: «Vedrai, quando farai il servizio militare ti metteranno a posto, faranno di te un uomo...» Non si può più aspettare tanto. La precocità dell’addestramento del bambino implica un cambiamento di metodo: sempre meno si tende a ricorrere a sistemi di coercizione materiale — si può fare a meno di bat­ terlo sulle dita, di metterlo in castigo - e sempre più a tecniche di im­ pregnazione audiovisiva che operano con dolcezza e sempre più in pro­ fondità. Si potrebbe individuare una sorta di legge di retroazione: quan­

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to più l’iniziazione è precoce, tanto più duraturo sarà il controllo realiz­ zato sull’individuo. L’iniziazione che avveniva un tempo nell’ambito della scuola e del servizio militare, realizzava ancora solo una imprint troppo labile. Se l’assorbimento dei modelli immaginari, percettivi, so­ ciali, culturali, ecc. non è riuscito a stadi precoci, si incontreranno enor­ mi difficoltà a modellare gli individui per i compiti cui sono destinati nei sistemi estremamente differenziati della produzione. Almeno in Fran­ cia non si mandano più a lavorare nelle manifatture bambini di sei o otto anni, e così si ha l’impressione di avere umanizzato la scuola e i rapporti familiari. Ma non si è fatto altro che rivestire altrimenti la vec­ chia crudeltà dell’iniziazione che consiste nel sottrarre al bambino, il più presto possibile, la sua capacità specifica di espressione spontanea e nell’adattarlo il più presto possibile ai valori e ai significati dominanti, ai tipi di comportamento dominanti. L’essenziale, oggi, non è più l’ap­ prendimento umano della lingua materna. La parola è interamente pro­ grammata dal linguaggio, in particolare dal linguaggio audiovisivo. Il linguaggio parlato alla televisione e nei film non è altro che una certa trascrizione della parola. La televisione è subentrata a tutta una serie di compiti che spettavano agli educatori, alle madri di famiglia. È lei la balia, lei che si è sostituita a un certo tipo di rapporti che si stabilivano un tempo nel quadro delle semiologie della parola. Tutto il linguaggio che vi si produce è al servizio di un certo tipo di formazione, d’inizia­ zione ai diversi ingranaggi della produzione e del campo sociale. L’im­ maginario del bambino sfugge così ora, per esempio, al sistema dei rac­ conti di fate, e anche a un certo tipo di fantasticheria. L’educazione te­ levisiva modella l’immaginario, impone dei personaggi, delle storie, dei fantasmi, degli atteggiamenti, degli ideali: impone tutta una micropo­ litica dei rapporti tra uomini e donne, adulti e bambini, razze, ecc. Un lavoro negli asili nido che rientrasse in un altro più vasto di eco­ nomia desiderante non può dunque che andare controcorrente rispetto a questo tipo di formazione. Quel che conta nell’asilo nido, insistiamo, non è la tecnica, è l’effetto della politica semiotica degli adulti sui bam­ bini. Fino a che punto l’atteggiamento degli adulti che lavorano nel­ l’asilo nido favorisce l’iniziazione dei bambini ai valori del sistema? È questo il problema. In sostanza, un lavoro analitico in un asilo nido non può essere altro che un lavoro micropolitico, e implicherebbe allora un lavoro degli adulti su se stessi, tra loro, un lavoro di analisi del col­ lettivo delle sorveglianti, degli psicologi; un lavoro inoltre sulle fami­ glie, l’ambiente, ecc. L’inconscio del bambino è inseparabile da quello degli adulti; è interamente contaminato dai conflitti che esistono al li­ vello, per esempio, del lavoro dei genitori, delle prove di forza e dei

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conflitti sessuali in seno alla coppia,, dai modelli d’integrazione veicolati da bambini più grandi, ecc. I sistemi capitalistici e socialisti burocratici avevano affidato al personale delle scuole un compito capitale: quello di adattare il bambino al sapere e ai valori della società dominante. Le macchine audiovisive fanno oggi questo lavoro certamente meglio di qualsiasi sorvegliante o educatore. Oggi, negli asili nido e nelle scuole vi sono lavoratori in grado di lottare contro questi sistemi d’integrazio­ ne e di alienazione-, è una lotta micropolitica fondamentale, in cui ri­ sulta messa in gioco tutta una serie di operazioni di base. Ancora ima volta, non si tratta solo di operazioni concrete di apprendimento, ma anche dell’acquisizione di schemi astratti, di schemi di relazione, di tut­ ta una iniziazione all’assiomatica del capitale. Come condurre tale lotta micropolitica? Il semplice fatto di non assoggettare i diversi modi di espressione semiotici dell’infanzia alla se­ miologia del linguaggio scritto non rappresenta già una rottura impor­ tante con il sistema dominante? Che i bambini possano esprimersi con la pittura, la danza, il canto, l’organizzazione di progetti comuni, ecc. senza che il complesso di queste attività sia sistematicamente ricentrato sulle finalità educative classiche (integrazione nella società e rispetto dei poli personalistici e familiari) permette al loro desiderio di sfuggire in una certa misura al modellamento della libido che tende ad assogget­ tarla alla politica capitalistica della decodificazione generalizzata dei flus­ si. Non si tratta di proteggere artificialmente il bambino contro il mon­ do esterno, di creargli un universo artificiale al riparo dalla realtà so­ ciale. Al contrario, bisogna aiutarlo a farvi fronte; egli deve apprendere che cos’è la società, che cosa sono i suoi strumenti. Ma ciò non può es­ sere realizzato a spese delle sue capacità di espressione. L’ideale sarebbe che la sua economia di desiderio riesca a sfuggire al massimo alla poli­ tica di sovracodifìcazione del capitalismo pur sopportando senza trau­ matismi gravi il suo modo di funzionamento. Non si tratta dunque di contornare i flussi decodificati del capitalismo, ma di far loro un posto, di localizzarli, e in certo modo di padroneggiarli. La lotta per la polivocità dell’espressione semiotica del bambino sembra dunque un obiettivo essenziale di questa micropolitica al livello dell’asilo nido. Rifiutare di far «cristallizzare» il bambino troppo presto in un individuo tipificato, in un modello di personalità stereotipato. Ciò non significa che si cer­ cherà sistemadcamente di fabbricare dei marginali, dei delinquenti, dei ribelli o dei rivoluzionari! Non si tratta qui di opporre una formazione a un’altra, ma di creare delle condizioni che permettano agli individui di acquisire dei mezzi di espressione relativamente autonomi e dunque relativamente irrecuperabili da parte delle tecnologie delle diverse for-

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inazioni di potere (statali, burocratiche, culturali, sindacali, dei mass­ media, ecc.). Quando sarà adulto, semmai, a un dato momento, egli deciderà di prendere gli abiti e i ruoli che il sistema gli tende, è bene che possa farlo senza che essi gli aderiscano alla pelle al punto di non potersene più disfare e al punto di adottare in pieno i valori repressivi di cui sono portatori.

Gangs a New York Progetto di ricerca

La marginalità è il luogo in cui è possibile leggere i punti di rottura nelle strutture sociali e gli abbozzi di una problematica nuova nel cam­ po dell’economia desiderante collettiva. Si tratta di analizzare la margi­ nalità non come una manifestazione psicopatologica ma come la parte più viva, più mobile delle collettività umane nei loro tentativi di tro­ vare delle risposte ai cambiamenti che avvengono nelle strutture sociali e materiali. Ma la nozione di marginalità resta a sua volta estremamente ambi­ gua. Di fatto essa implica sempre l’idea di ima dipendenza segreta dalla società pretesa normale. La marginalità sollecita il ricentramento, il re­ cupero. Vorremmo opporle l’idea di minoranza. Una minoranza può vo­ lersi definitamente minoritaria. Per esempio gli omosessuali militanti negli Stati Uniti sono dei minoritari che rifiutano di essere marginalizzati. Nello stesso senso si può considerare che le gangs negre e portori­ cane negli Stati Uniti non sono più marginali di quanto non lo siano i negri e i portoricani nei quartieri delle grandi città ch’essi controllano a volte in maniera quasi completa. Si tratta di un fenomeno nuovo che indica nuove direzioni. Una semplificazione corrente consiste nel dire che questo tipo di gangs si limita a mettere in atto dei meccanismi di autodifesa e che la loro esistenza non è che la conseguenza del fatto che il potere politico, i partiti e i sindacati non hanno ancora trovato una risposta al problema. (È nella speranza di trovare tale risposta che il governatore della California, Reagan, aveva tentato di creare un co­ lossale centro di ricerche per studiare i mezzi per riassorbire la violenza. Queste ricerche dovevano orientarsi nel senso appena caricaturizzato del film Arancia meccanica). È un fatto che nel quadro dei fenomeni di decomposizione che si manifestano in certe grandissime città degli Stati Uniti, l’urbanizzazio­ ne e Inurbanità», semmai l’hanno fatto, non vanno più di pari passo. Il ruolo di crogiolo della città lascia il posto in questi casi di canceriz­ zazione del tessuto urbano, a un aggravamento delle forme di segrega­

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zione razziale, a un rafforzamento dei particolarismi che va fino all’im­ possibilità di circolare da un quartiere all’altro (la polizia penetra ormai solo eccezionalmente in certi quartieri di New York). Piuttosto che considerare tali fenomeni come delle risposte collet­ tive improvvisate ad una mancanza (la mancanza di alloggi, per esem­ pio) bisognerebbe studiarli come una sperimentazione sociale cieca, su grande scala. In modo più o meno conseguente, delle minoranze sociali esplorano i problemi dell’economia del desiderio nel campo urbano. Questa esplorazione non propone forme o modelli, non apporta rimedi a qualcosa che sarebbe patologico; indica la direzione di nuove moda­ lità di organizzazione della soggettività collettiva. Soffermiamoci su un esempio tipico: quello del South Bronx a New York. Delle gangs di giovani riuniscono a volte migliaia di individui che controllano tutta questa parte della città. Si sono dati un’organiz­ zazione molto rigida, molto gerarchizzata e addirittura tradizionalista. Le donne sono organizzate in gangs parallele ma restano completamen­ te assoggettate a quelle maschili. Queste gangs partecipano, in parte, a un’economia desiderante fascista e in parte a quella che alcuni dei loro dirigenti chiamano loro stessi un socialismo primitivo (grass-root). So­ no da rilevare tuttavia i segni di un’evoluzione interessante. In certe gangs portoricane di New York, in cui le ragazze erano tradizional­ mente assoggettate ai capi maschi, compaiono ora delle strutture di or­ ganizzazione femminile più autonome, e che non riproducono gli stessi tipi di gerarchia: le ragazze dicono che a differenza dei ragazzi non sen­ tono la necessità di tale strutturazione. È possibile che faccia la sua com­ parsa un altro tipo di organizzazione di potere, dove si riuscirebbe a liberarsi dalla mitologia legata a questa sorta di culto fallico del capo. A partire di qui, è possibile porre tutta una serie di questioni: - come si è giunti a questo punto? in particolare sul piano della se­ gregazione razziale; - perché i movimenti di emancipazione sono stati costretti a farsi implicitamente gli agenti di questa segregazione? - perché i movimenti rivoluzionari nazionali (Black Panthers, Black Muslims, Young Lords, ecc.) sono rimasti senza presa su quelle migliaia di gangs che controllano isolato per isolato una parte no­ tevole delle grandi città americane? Una certa cultura propria delle masse più diseredate, un certo mo­ dello di vita, un certo senso della dignità umana esistono in queste gangs, e si potrebbero mettere anche al loro attivo certi interventi so­ ciali che forniscono delle risposte a problemi che nessun tipo di potere

Gangs a New York

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di Stato è riuscito ad affrontare. Cosi è bastato, nel South Bronx, che una équipe di medici lavorasse a contatto con le gangs perché si sia po­ tuto sviluppare un sistema molto originale d’organizzazione dell’igiene mentale. È da segnalare, a proposito del problema della droga, un’esperienza estremamente originale, sempre nel South Bronx. Due anni fa, in occa­ sione di lotte razziali, il Lincoln Hospital era stato occupato da militanti rivoluzionari, poi evacuato nel giro di qualche settimana. Ma tutto un piano dell’ospedale ha continuato da allora a essere occupato da ex dro­ gati che si sono assunti il compito di organizzare un servizio di disintos­ sicazione. Questa autogestione di un servizio ospedaliero meriterebbe di essere analizzata in tutti i suoi particolari. Limitiamoci a qualche fatto: - per la maggior parte lo staff è composto di ex drogati; - i medici non hanno mai libero accesso, non solo ai malati ma nem­ meno al servizio; - il centro assicura il proprio servizio d’ordine ed è stato possibile stabilire uno status quo con la polizia dello stato di New York; - dopo aver lottato a lungo contro il centro, Io stato di New York ha finito col sovvenzionarlo; - nel centro si fa un uso molto particolare del metadone, impiegato qui come trattamento intensivo per qualche giorno, mentre nei servizi classici la sua somministrazione dura anni e costituisce ima sorta di droga artificiale che assoggetta definitivamente l’ex dro­ gato al «potere medico». L’aspetto forse più interessante è però la connessione tra l’azione delle gangs e questo servizio autogestito. Attraverso di essa si è giunti non solo a mettere a punto un sistema di cura efficace (si vedono i dro­ gati arrivare da soli, esitanti, fino al centro) ma a fornire soluzioni a un problema più generale, quello del traffico della droga. Le gangs, in ef­ fetti, hanno assunto il controllo della situazione, invero piuttosto rude­ mente, eliminando con la persuasione o a volte anche fisicamente, i pushers (rivenditori). Talune gangs e taluni movimenti negri sono di­ ventati consapevoli della manipolazione di cui erano oggetto attraverso la droga da parte del potere statale (la cosa è risultata evidente per loro quando si è scoperto che gli stocks di droga confiscati dalla polizia di New York erano stati sostituiti con della farina, e rivenduti dalla po­ lizia, e ciò su scala colossale). Ma gli esempi di tali azioni relativamente pacifiche restano eccezio­ nali. La violenza e la paura, spesso alimentate dalla polizia, regnano in

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seno alle gangs. Non si può dire che tale «esperienza» proponga un mo­ dello di «qualità della vita». Certi tentativi di organizzazione più siste­ matici sono combattuti dalle autorità, in particolare i rapporti che co­ minciavano a istituirsi tra le diverse gangs o anche tra le diverse razze (negri e portoricani, chicanos, ecc.), e i rapporti tra gangs locali e movi­ menti nazionali. Nella sua ampiezza e nel suo stile attuale, il fenomeno delle gangs risale solo a pochi anni fa. In precedenza il complesso dei movimenti negri era stato sommerso da un’ondata di droga bianca che era giunta fino ai vertici del movimento. Ma una prima risposta al problema della droga non è stata trovata al livello dei movimenti nazionali bensì a quello delle gangs, che del resto consideravano tali movimenti come troppo elitari, mentre esse restano a stretto contatto con le masse. Alcuni insegnanti e lavoratori sociali hanno cominciato a lavorare con queste gangs. Un insegnante e una cineasta francesi hanno realiz­ zato con essi dei film video. Ma le autorità hanno mal visto tali inizia­ tive e hanno cercato di recuperarle a fini polizieschi. Può darsi però che il Réseau di alternativa alla psichiatria riesca a rilanciare questi ten­ tativi.

Le droghe significanti

II quadro più generale del problema, a mio avviso, consiste nel crol­ lo dei vecchi modi di territorializzazione soggettivi. Vi sono dei feno­ meni per cui la gente si aggrappa a ogni costo a delle territorialità, a degli oggetti, a dei rituali, a dei comportamenti di ricambio, magari i più derisori o catastrofici. Da questo punto di vista si può mettere nella stessa serie la passione di un giovane per la sua moto o per la musica rock, quella di una bambina per le sue bambole, la riterritorializzazione di una banda di quartiere intorno ai suoi emblemi, quella di una massaia intorno ai beni di consumo, di un dirigente intorno alle funzioni gerar­ chiche, alle promozioni, ecc. Il problema della droga diventa allora quel­ lo delle diverse vie attraverso le quali avviene il passaggio da una droga all’altra: sociali, materiali, psicologiche, ecc. Perché la gente si riterritorializza attorno a una cosa piuttosto che a un’altra, in senso più o me­ no «socialitario» o in un altro che può avere conseguenze disastrose per l’individuo o per chi gli sta vicino? Questo modo di vedere il fenomeno dovrebbe consentire di opporsi con successo agli atteggiamenti semplificatori nei confronti della droga, si tratti di pura medicalizzazione, di psichiatrizzazione, di psicologizzazione, di sociologizzazione, di criminalizzazione, ecc. II fenomeno - è evidente — si radica al di là di queste specializzazioni e richiede un ap­ proccio pluridimensionale, un intervento a tutti i livelli. La cosa più importante, più problematica sono evidentemente le dro­ ghe dure e il comportamento collettivo nei confronti di coloro che ad esse sono dediti. Vi sono problemi di «prevenzione», benché questa pa­ rola mi faccia orrore, d’intervento a livello socio-educativo, e in questo campo si potrebbe fare qualcos’altro che non delle operazioni direttamente o indirettamente repressive, come si fa oggi. Ma c’è anche il pro­ blema dei drogati veri e propri, rispetto ai quali i discorsi della pre­ venzione, della terapeutica e del reinserimento sociale sono del tutto sfasati. Sono assolutamente persuaso del fatto che allo stato attuale della

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questione della «droga pesante» non è possibile separare il meccanismo di delinquenza e criminalizzazione da quello della droga in sé. Queste droghe sono talmente costose che implicano tutto uno stile di vita e livelli di reddito che rinchiudono il drogato in una sorta di ghetto ambi­ guo, retto da un meccanismo economico infernale dal quale si potrà uscire solo a condizione di arrivare a una distribuzione yatuita di dro­ ga. Forse sotto controllo medico; ma è possibile affrontare il problema solo a partire da un nuovo approccio non repressivo, e dunque da un nuovo rapporto di forza tra le persone interessate e i poteri. Tutto som­ mato, il risultato sarebbe sempre meno catastrofico della situazione at­ tuale che porta i drogati a vivere in condizioni di angosaa e panico per­ manenti, da cui nasce un ambiente speciale che crea miti sul consumo delle droghe pesanti e tutto un proselitismo che costituisce del resto il solo modo di sopravvivenza dei dealers drogati. Questo è il problema. Non si tratta in alcun modo di teorizzare sul preteso passaggio dalle droghe leggere alle droghe pesanti, ma di disattivare i sistemi d’indu­ zione che portano al proselitismo. È pensabile forse di costringere i sifi­ litici, per sopravvivere, a diffondere la sifilide? È necessario dunque mettere in libera circolazione le droghe pesanti, offrendo nello stesso tempo al drogato la possibilità di scegliere tra una garrma di prodotti sostitutivi. Le modalità organizzative di tale diffusione a fini terapeu­ tici sarebbero da definire con gli stessi gruppi di drogati, con gli opera­ tori sociali, i medici, ecc. Ma il principio numero uno dovrebbe essere la proibizione fatta a giudici e poliziotti d’intervenire con la repressione in questo settore. La mitologia «scientifica» che consiste nel definire il meccanismo delle droghe pesanti in termini di processi chimico-biologici radicalmen­ te diversi da quelli delle altre droghe è simmetrica alla mitologia di cui sono portatori i drogati stessi. L’alcool è una droga estremamente peri­ colosa, e non è certo perché la sua vendita è libera che il numero degli alcolizzati cronici o i casi di cirrosi epatiche sono aumentati. Nel campo delle droghe pesanti la regolazione si farà da sé, e ccn un regime di li­ bertà si perverrà senza dubbio a una riduzione del consumo, a causa della minore intensità del mito e della scomparsa del proselitismo dei dealers. Prima di condannare tale orientamento, sarebbe bene studiare nei particolari l’esperienza che su queste basi è stata fatta in Inghilterra. È vero che numerosi drogati hanno rifiutato di essere schedati, oppure hanno aggiunto l’uso delle droghe distribuite legalmente a quelle di provenienza illegale. Ma l’analisi dovrebbe riguardare in primo luogo il contesto istituzionale di questo esperimento, che certo non ha con­

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sentito di debellare completamente la dipendenza economica e la crimi­ nalizzazione. Una decriminalizzazione completa è ima premessa essen­ ziale: se non sarà possibile ottenerla dai poteri pubblici al livello del consumo e del piccolo traffico, sarà forse necessario che un certo nu­ mero di gruppi militanti si assuma la responsabilità di organizzare un traffico alternativo. È quel ch’è stato tentato a Vincennes, in condizio­ ni difficili, ma col risultato almeno di sopprimere i prodotti più peri­ colosi. Tenuto conto di quanto detto all’inizio sul continuum delle droghe, mettendo sullo stesso piano le droghe pesanti, il suicidio in moto, l’in­ tossicazione audiovisiva, definirò le droghe pesanti come delle droghe microfasciste, di cui si tratta di vedere il rapporto con quella sorta di buco nero che è l’angoscia che inibisce o blocca le componenti semioti­ che aperte verso l’esterno. Pochissimi riescono a uscire indenni dal mondo delle droghe pesanti, a parte qualche gruppo di musica rock che si esprime in pubblico, che «teatralizza» il proprio rapporto con la droga. Gli altri sono in una si­ tuazione disperata, e bisogna sottolineare tutta la disonestà che c’è nel servirsi della capacità di espressione di pochi per proporre una rappre­ sentazione mitologica delle droghe pesanti, disconoscendo la disperazio­ ne indescrivibile in cui versa la massa dei drogati. Torniamo sulla distinzione tra droghe dure e droghe leggere. Quali sono gli elementi che ci permettono di coglierla? Non sono necessaria­ mente tratti clinici: è sempre Io stesso sistema nervoso che viene col­ pito, e si può pensare che in ultima analisi è tutta una questione di den­ sità, d’intensità, di modo di somministrazione, di organizzazione mate­ riale, sociale e soggettivo dei drogati. In altri termini, ciò che conta non sono solo delle caratteristiche fisi­ co-chimiche, ma anche il modo di acquisto, lo stato d’animo collettivo, i miti, ecc. e il problema consiste nel sapere se questi assetti complessi portano o no a un’individuazione rafforzata della soggettività nel senso di una solitudine in un vicolo cieco, di un accerchiamento sociale e ne­ vrotico, cioè nel senso delle coordinate dominanti del sistema capitali­ stico: ogni drogato si isola, si ripiega su se stesso, si taglia fuori dalle realtà esterne che potrebbero aiutarlo a venirne fuori. Queste sono le droghe pesanti, a parte le piccole conventicole che riescono a organiz­ zarsi e a sopravvivere. Una droga può essere detta leggera, invece, quando non va più nel senso di questa individuazione soggettiva, quando si presta alla realizza­ zione di assetti collettivi di enunciazione, e permette a certi individui di liberarsi delle loro inibizioni, di mettere in discussione il loro modo

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di vita, i loro punti di riferimento morali e politici, il loro ambiente ma­ teriale e sociale. Uno degli elementi costitutivi del mito della droga consiste nell’idea ch’essa renderebbe possibile una produzione originale, specifica; ci sa­ rebbe dunque una cultura legata alla droga, tema questo particolar­ mente sfruttato dalla beat generation. Questa mistificazione mi sembra del tutto parallela a quella che si è affermata a proposito dell’arte det­ ta psicopatologica. Si considerino per esempio i due cortometraggi di Henri Michaux sulle droghe allucinogene. In realtà, essi non hanno nulla a che fare con la droga! A tratti, sono molto belli, ma quel che illustrano è evidentemente la letteratura di Henri Michaux, e niente affatto «il mondo della droga». £ aberrante immaginare che esista un’arte specifica dei folli, dei bambini, dei drogati, ecc. Il fatto che un bambino o un pazzo produca delle opere d’arte non implica affatto che la sua produzione sia essenzialmente puerile o folle! Certi ambienti di drogati sviluppano una certa cultura, ma non se ne può inferire che le droghe producano un modo di espressione specifico. Forse degli studi di antropologia e di linguistica dimostreranno un giorno che, lungi dall’appartenere a un mondo marginale, dal rientrare in una cultura particolare, la droga ha svolto un ruolo fondamentale in tutte le società, in tutte le aree culturali e religiose. Si può pensare che il suo uso abbia contribuito nel paleolitico al primo «decollo» del lin­ guaggio umano, che del resto ho chiamato in altra sede la «perversione paradigmatica». Ma la droga solitaria del capitalismo esclude la dimen­ sione collettiva propria, per esempio, dello sciamanismo. È tutta la no­ stra società che è drogata, che richiede droghe sempre pili pesanti, che le associa sempre più a un gusto della catastrofe, a una pulsione verso la fine del mondo. Non c’è più nulla da dire, nulla da fare. Basta seguire il movimento. Il fascismo, lo stalinismo erano delle droghe collettive dure. La società di consumo miniaturizza la corsa alla passività e alla morte. Non c’è più bisogno di costruire campi di sterminio; ciascuno organizza il proprio. In fondo, la divisione tra droga leggera e droga pesante passa per quella tra un nuovo stile di vita - preferisco parlare qui di « rivoluzione molecolare» piuttosto che di nuova cultura - e gli aspetti microfasci­ sti delle società industriali capitalistiche e socialiste burocratiche. Sarò sempre solidale con i drogati, quali che siano, contro la repressione; ma bisogna essere lucidi: le droghe pesanti sono microfasciste. Non in quanto molecole, ma in quanto assetti molecolari di desideri che fanno cristallizzare le soggettività nella vertigine micronazista, nei buchi neri del potere. Il controllo sociale capillare comporta l’uso massiccio di due

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tipi fondamentali di droghe dagli effetti opposti, che «tengono» gli in­ dividui e senza le quali essi diventano pazzi d’angoscia: - una solitudine senza rimedio; - un’incapacità totale di accettare qualsiasi forma di solitudine, un appello costante a tutti i modi di dipendenza, di coinvolgimento (lo sport, la televisione, la coniugalità, il lavoro, la gerarchia, ecc.). Le droghe leggere sono consumate da gente che si costruisce una mi­ croeconomia del desiderio, degli assetti pili o meno collettivi in seno ai quali la droga interviene solo a titolo di componente. Il modo in cui sono assimilate o piuttosto sottilmente differenziate droga e psicosi mi sembra estremamente seducente ma pericoloso. Con la psicosi ci si troverebbe di fronte a un tentativo di superare lo sman­ tellamento semiotico del corpo, mentre con la droga ci si troverebbe di fronte a una volontà micropolitica, a una vocazione a operare personal­ mente questo smantellamento. Credo che questa idea non stia in piedi. Cerco sempre di partire dall’idea dell’assetto, del primato dell’assetto sulle componenti. L’assetto, per me non è il delirio, il sintomo, le allu­ cinazioni; è qualcosa che implica molto di più e molto di meno della persona, che include parti di socialità, di economia, di funzioni orga­ niche, un ambiente ecologico ecc. Il grado d’iniziativa dei drogati non è maggiore di quello dei pazzi. C’è qui il rischio di una responsabilizzazione di cui è bene diffidare. Un pazzo è un pazzo, non è colpa sua! Ma un drogato è un porco, l’ha vo­ luto lui! Tutto ciò che potrebbe apportare un sostegno pseudo-scienti­ fico a questo tipo di fantasma collettivo dovrebbe essere esaminato con estrema attenzione e combattuto. Bisogna farla finita con la responsabilizzazione, la colpevolezza col­ lettiva. C’è gente che è presa in un campo di possibilità micropolitica che lascia loro una via d’uscita e altri che si ritrovano in vicoli ciechi. Ciò dipende nello stesso tempo da fattori obiettivi e da fattori micro­ politici al livello dell’assetto di enunciazione più immediato, più intimo. Ci sono coloro che in un’inondazione trovano una tavola cui aggrap­ parsi e quelli che non la trovano. Bisognerebbe pervenire a una sorta di logica non duplice, ma triplice, molteplice, plurivoca che dia al tempo stesso piena responsabilità e piena irresponsabilità. Ma in ogni caso si pone il problema di una micropolitica che porti a costruire qualcosa, a introdurre altre componenti, a introdurre una nuova materia di espres­ sione.

Divenire donna

Le omosessualità funzionano, nel campo sociale complessivo, un po’ come dei movimenti, delle sette, col loro cerimoniale particolare, i loro riti d’iniziazione, i loro miti amorosi, per parlare come René Nelli. Mal­ grado gli interventi di gruppi a carattere più o meno corporativo, come Arcadie, l’omosessualità continua a essere legata ai valori e ai sistemi d’interazione della sessualità dominante. La sua dipendenza nei con­ fronti della normalità eterosessuale si manifesta con una politica del se­ greto, una clandestinità alimentata dalla repressione e anche un senti­ mento di vergogna ancora vivo negli ambienti «rispettabili» (in partico­ lare tra gli uomini d’affari, di lettere, di spettacolo, ecc.) sui quali oggi regna da padrona la psicanalisi. Essa governa una normalità di secon­ do grado, non più morale ma scientifica. L’omosessualità non è più que­ stione di morale ma di perversione. La psicanalisi ne fa una malattia, un ritardo di sviluppo, una fissazione allo stadio pregenitale, ecc. A un altro livello, più minoritario, più avanguardista, si trova una omosessualità militante, tipo Fhar (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire). L’omosessualità contesta il potere eterosessuale sul suo proprio terreno. Ora è l’eterosessualità che deve rendere dei conti; il problema è spostato, si tende a contestare il potere fallocratico; diventa allora possibile, in teoria, un collegamento tra l’azione delle femministe e quella degli omosessuali. Tuttavia, converrebbe individuare un terzo livello, più molecolare, in cui non sarebbero più distinti allo stesso modo le categorie, i gruppi, le «specialità»; in cui si rinunzierebbe alle opposizioni nette tra i ge­ neri per cercare viceversa i punii di passaggio tra gli omosessuali, i tra­ vestiti, i drogati, i sadomasochisti, le prostitute, tra le donne, gli uo­ mini, i bambini, gli adolescenti, tra gli psicotici, gli artisti, i rivoluzio­ nari, diciamo tra tutte le forme di minoranze sessuali, dal momento che, beninteso, in questo campo non si può essere che minoritari. A questo livello molecolare ci si scontra con dei paradossi affascinanti. Per esem­ pio si potrà dire al tempo stesso a) che tutte le forme di sessualità, tutte

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le forme di attività sessuale si rivelano essere fondamentalmente al di qua delle opposizioni personalistiche omo-etero e b) che esse tuttavia sono più vicine all’omosessualità e di quel che si potrebbe chiamare un divenire femminile. Al livello del corpo sociale, in effetti, la libido si trova presa tra i due sistemi di opposizione di classe e di sesso. Essa è tenuta ad essere ma­ schia, fallocratica; deve necessariamente binarizzare tutti i valori: oppo­ sizione forte/debole, ricco/povero, utile./inutile, pulito/sporco, ecc. Al livello del corpo sessuato, è implicata viceversa in un divenire donna. Più esattamente il divenire donna serve da punto di riferimento, eventualmente da schermo agli altri tipi di divenire (esempio: un dive­ nire bambino come in Schumann, un divenire animale, come in Kafka, un divenire vegetale, come in Novalis, un divenire minerale, come in Beckett). È proprio perché non è troppo lontano dal binarismo del potere fal­ lico che il divenire donna può svolgere questo ruolo d’intermediario, di mediatore nei confronti degli altri divenire sessuati. Per comprendere l’omosessuale, si dice che è un po’ «come una donna». E molti omoses­ suali accettano in parte questo gioco alquanto normalizzatore. La coppia femminile/passivo, maschile/attivo resta cosi un punto di riferimento reso obbligatorio dal potere, per consentirgli di situare, localizzare, territorializzare, controllare le intensità di desiderio. Al di fuori di questa bipolarità esclusiva non c’è salvezza, oppure è la caduta nel non senso, il ricorso alla prigione, al manicomio, alla psicanalisi, ecc. La devianza, le diverse forme di marginalità sono esse stesse codificate per fungere da valvole di sicurezza. Le donne sono insomma le sole depositarie auto­ rizzate del divenire corpo sessuato. Un uomo che si stacca dal fallocratismo inerente a tutte le formazioni di potere imboccherà la strada se­ condo le varie modalità possibili di questo divenire donna. Solo a questa condizione potrà in aggiunta divenire animale, cosmo, lettera, colore, musica. Per forza di cose, l’omosessualità è in tal modo inseparabile da un divenire donna, anche l’omosessualità non edipica, non personalistica. Lo stesso accade per la sessualità infantile, per la sessualità psicotica, per la sessualità poetica (ad esempio la coincidenza, in Ginsberg, di una mutazione poetica fondamentale con una mutazione sessuale). Più in generale, ogni organizzazione «dissidente» della libido deve dunque essere legata a un divenire corpo femminile, come linea di fuga dalla socialità repressiva, come accesso possibile a un «minimo» di divenire sessuato, e come ultima ancora di salvezza nei confronti dell’ordine co­ stituito. Se insisto su questo punto, è perché il divenire corpo femmi­

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Linee difuga

nile non dev’essere assimilato alla categoria di donna cosi come è consi­ derata nella coppia, nella famiglia, ecc. Una categoria del genere esiste del resto solo nell’ambito di un campo sociale particolare che la defi­ nisce. Non c’è la donna in sé! Non esiste un polo materno, un eterno femminino... L’opposizione uomo/donna serve a fondare l’ordine so­ ciale, prima delle opposizioni di classe, di casta, ecc. Viceversa, tutto quel che infrange le norme, tutto ciò che rompe con l’ordine costituito, ha qualcosa a che fare con l’omosessualità o con un divenire animale, un divenire donna, ecc. Ogni semiotizzazione di rottura implica una ses­ sualità di rottura. Non bisogna dunque a mio avviso porre il problema degli scrittori omosessuali, ma piuttosto cercare quel che c’è di omo­ sessuale in un grande scrittore, anche se è eterosessuale. Mi sembra importante mandare in frantumi «grosse» nozioni come quella di donna, di omosessuale... Le cose non sono mai così semplici. Quando le si riduce a delle categorie tipo bianco/nero, maschio/fem­ mina, ci sono sempre dei presupposti taciuti, si sta compiendo un’ope­ razione riduttiva e binarizzante per assicurarsi un potere su di esse. Per esempio, non è possibile qualificare univocamente un amore: l’amore in Proust non è mai specificamente omosessuale; comporta sempre una componente schizoide, paranoica, un divenire pianta, un divenire don­ na, un divenire musica. Un’altra nozione abusata i cui danni sono incalcolabili è quella di orgasmo. La morale sessuale dominante esige dalla donna un’identifica­ zione quasi isterica del suo godimento con quello dell’uomo, espressio­ ne di una simmetria, di una sottomissione al suo potere fallico. La donna deve il suo orgasmo all’uomo. «Rifiutandoglielo» si mette in col­ pa. Quanti drammi idioti attorno a questo tema! E l’atteggiamento sen­ tenzioso degli psicanalisti e dei sessuologi non è certo fatto per aggiu­ stare le cose! Di fatto, accade spesso che delle donne bloccate con dei partner maschi giungano facilmente all’orgasmo masturbandosi o facen­ do l’amore con un’altra donna. Ma allora lo scandalo rischia di essere ancora maggiore! Si consideri un ultimo esempio, quello del movimento delle prostitute. Tutti o quasi in un primo tempo hanno detto: «Benis­ simo, le prostitute hanno ragione di ribellarsi. Ma attenzione: bisogna separare il grano dal loglio. Per le prostitute, va bene, ma per i prosse­ neti non se ne parli nemmeno!» E ci si è messi a spiegare alle prosti­ tute che dovrebbero difendersi, che sono sfruttate, ecc. Tutto ciò è as­ surdo! Prima di spiegare checchessia bisognerebbe cominciare col cer­ care di comprendere quel che accade tra la prostituta e il suo protettore. C’è il triangolo prostituta-protettore-denaro; ma c’è anche tutta una mi­ cropolitica del desiderio, estremamente complessa, che è in gioco tra

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ciascuno dei poli di questo triangolo e personaggi diversi come il cliente e il poliziotto. Le prostitute hanno certo cose interessantissime da dire in proposito. Piuttosto che perseguitarle si farebbe meglio a sovvenzio­ narle, come si fa per i laboratori di ricerca! Sono persuaso che studian­ do tutta questa micropolitica della prostituzione si potrà gettare nuova luce su interi settori della micropolitica coniugale e familiare: il rap­ porto monetario tra il marito e la moglie, tra i genitori e il figlio e, al di là, tra lo psicanalista e il suo cliente. Bisognerebbe anche riprendere quel che hanno scritto in proposito gli anarchici della «belle epoque».

IV.

Il cinema, un’arte minore

Il cinema, un’arte minore

- Cosa pensa del nuovo interesse che mostrano i mass-media e in particolare il cinema per il problema della follia ? - Non sono sicuro che questo interesse sia del tutto nuovo, dal mo­ mento che numerosi film nella storia del cinema hanno affrontato que­ sto «problema»; forse però oggi il pubblico di questi film si è allargato. Per esempio, quello di Asylum è stato assai vasto, rivelando in tal modo l’ampiezza dell’influenza della corrente antipsichiatrica. Lo stesso si era verificato con Family Life. - Da che cosa deriva questa maggiore influenza e quale sarebbe la domanda del pubblico? - Forse vi sono due serie di fenomeni. In primo luogo un certo gu­ sto per un aspetto morboso non della follia, ma di quel che s’immagina sia la follia: allora ciò rientra nel medesimo sistema di modellamento del gusto «popolare» che si ritrova nei film polizieschi o in certo cine­ ma pornografico. Da questo punto di vista, dunque, niente di nuovo. Ma si può avanzare anche l’ipotesi che la società sia attualmente attra­ versata da tutta una serie di sconvolgimenti «molecolari», cioè non an­ cora visibili su vasta scala; che sia agitata da trasformazioni che inve­ stono i suoi sistemi istituzionali di base, la scuola, le prigioni, il funzio­ namento della coppia, lo status della donna, quello degli immigrati, dei malati mentali, degli omosessuali... Molto prima del verificarsi di esplo­ sioni spettacolari (del tipo di quella studentesca nel 1968 o di quella delle prigioni) si produce tutto un lavoro sotterraneo, affiora tutta una nuova sensibilità. Ho l’impressione che, prima di manifestarsi su larga scala, la crisi generale della psichiatria cominci a interessare l’opinione a tutti i livelli, e che in questo contesto i cineasti siano portati ad inte­ ressarsene. - Che cosa pensa della coincidenza dell’uscita di Matti da slegare con il secondo incontro del Réseau internazionale? - Il gruppo « 14 Juillet» ci è venuto a chiedere che tipo di film vole­ vamo veder programmato nel corso dell’incontro e il film del gruppo di

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Parma e di Bellocchio corrispondeva a tal punto all’orientamento attua­ le del Réseau che ci è servito in qualche modo da relazione introduttiva. Di che cosa si tratta? Finora le critiche alla psichiatria sono venute da «professionisti» della follia: da psichiatri, infermieri e piti raramente da ex «psichiatrizzati». Ma spesso il linguaggio di questi «specialisti» è rimasto incomprensibile al grande pubblico, e bisogna dire che a vol­ te è rimasto anche dipendente dal sistema, pur negandolo. Quel che è straordinario, in Matti da slegare, è che si sono messi veramente in gra­ do di parlare gli stessi interessati. È un successo del cinema di lotta, anzi ritengo che così essi hanno potuto esprimersi meglio di quanto avreb­ bero potuto fare con qualsiasi altro mezzo di comunicazione. Non so in virtù di quale metabolismo il gruppo di Bellocchio sia riuscito a lavo­ rare a cosi stretto contatto con coloro che parlano in Matti da slegare: i bambini, gli educatori, gli psichiatri, i militanti; in ogni caso hanno dato il meglio di loro stessi. È un piccolo miracolo: per una volta non si ha l’impressione che ci si presenti un reportage, le persone parlano qui come non si è abituati a sentirle parlare. — Come è stato possibile un simile risultato? — Non so, ma dietro c’è evidentemente tutta una nuova tecnica in via di sperimentazione, e questo a tutti i livelli della realizzazione. Per esempio dei membri del gruppo di Bellocchio hanno spiegato che ogni sequenza, ogni piano è stato discusso collettivamente al momento del montaggio. Sta a loro rispondere alla domanda, ma mi sembra che quel che è stato realizzato con questo film supera ampiamente i problemi del­ la psichiatria. Finora il cinema a grande diffusione, il cinema commer­ ciale è stato un’impresa di mistificazione, d’irreggimentazione, consi­ stente nel far assorbire alla gente, volente o nolente, le rappresenta­ zioni dominanti. Qui, improvvisamente, si ha l’impressione che avven­ ga il contrario, che un cinema di massa potrebbe diventare un mezzo di espressione e di lotta più efficace dei discorsi, dei comizi, dei volantini... — Dopo aver visto Matti da slegare mi chiedo se non è anormale voler restituire al lavoro un alienato, mentre è proprio il lavoro che aliena... — Ha ragione. In Francia oggi certi organismi come l’Amipi cerca­ no di «riadattare col lavoro» secondo i metodi americani di condizio­ namento, dei «ritardati mentali», degli alienati, dei minorati di ogni sorta, e anche a Sainte-Anne si sperimentano dei metodi di condiziona­ mento «scientifici». Ciò presenta un grandissimo pericolo: pensare che il lavoro in quanto tale possa essere terapeutico è assurdo. In Matti da slegare si tratta di una cosa del tutto diversa. Gli operai di Parma si spiegano molto chiaramente in proposito: in effetti ritengono che non

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tanto del lavoro in quanto tale si tratti, ma piuttosto del fatto che tutti quei «declassati» abbiano la possibilità di diventare delle persone come tutte le altre; e non è il lavoro che lo rende possibile, sono i rapporti che riescono a stabilire con gli operai; è il calore umano che nasce da questi rapporti e che è cosi ben reso nel film. — Il cinema le sembra un’arte minore? — Si, se si precisa che un’arte minore è un’arte che può essere al ser­ vizio di chi costituisce una minoranza, e che pertanto non ha nulla di peggiorativo. Un’arte maggiore è un’arte al servizio del potere. Allora mi chiedo se un certo numero di film come Alatti da slegare, Ce gaminlà, Coup pour coup, La ville bidon, Histoire de Paul, Asylum, non apra­ no un altro periodo nella storia del cinema. Un cinema minore per le minoranze, posto che per un aspetto o per l’altro e per quel che c’è di meglio in noi stessi, facciamo parte un po’ tutti di una di tali minoran­ ze. Forse esiste ora un pubblico potenziale che consentirebbe di guada­ gnare terreno sulla distribuzione cinematografica controllata dalla gran­ de industria. Alcuni successi spettacolari dimostrano che il pubblico non vuole vedere solo quel che gli si offre di solito. Forse ci sarà un movimento di massa verso un cinema nuovo; a condizione però che quanti lo praticano riescano a loro volta a uscire da uno stile elitario, da un linguaggio completamente estraneo al pubblico, ovvero dema­ gogico.

Le cinemacchine desideranti

La storia del desiderio è inseparabile da quella della sua repressione. Forse un giorno uno storico si metterà a scrivere la storia dei «cinema» del desiderio (nel senso in cui si dice a qualcuno che esagera nell’espres­ sione dei suoi sentimenti di «non fare del cinema»). Quanto meno, do­ vrà far risalire questa storia all’antichità classica! Potrebbe iniziare con l’apertura della prima grande sala di fama internazionale, una sala per cinefili incatenati: la caverna di Platone. Dovrebbe poi raccontare i due­ mila anni o poco meno del monopolio della produzione e della distribu­ zione esercitato dalla chiesa cattolica', e anche descrivere i tentativi abortiti di società di produzione dissidenti, come il cinema cataro del xn secolo o quello giansenista fino al trionfo del monopolio barocco. Vi si vedrebbe il cinema a colori, con le vetrate del x secolo apparire prima del cinema muto dei «pierrots». Dovrebbe assegnare un posto partico­ lare alle grandi scuole che trasformarono in modo duraturo l’economia del desiderio, come quella dell’amor cortese con i suoi quattrocento tro­ vatori che riuscirono a «lanciare» una nuova forma d’amore e un nuovo tipo di donna. Dovrebbe valutare gli effetti devastatori dei grandi con­ sorzi del romanticismo e la loro promozione di un’infantilizzazione del­ l’amore, in attesa della saturazione del mercato da parte del racket psi­ canalitico, con i suoi cortometraggi standard per schermi miniaturiz­ zati: il piccolo cinema del transfert, dell’Edipo e della castrazione. Il potere può mantenersi solo in quanto si appoggia sulle semiologie del significato: «Non è ammessa l’ignoranza della legge» significa che nessuno è supposto ignorare il senso delle parole. Dei linguisti come Oswald Ducrot insistono sul fatto che la lingua non è semplicemente uno strumento di comunicazione, ma anche uno strumento di potere. In quanto punto di arrivo delle lotte di sesso, di etnia, di classe, ecc. la legge si cristallizza nel linguaggio. La «realtà» imposta dai poteri domi­ nanti è il portato di una semiologia dominante. Non si dovrebbe dunque 1

Cfr. in proposito la poesia di Jacques Prévert Li crossi en l’air.

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partire da un’opposizione di principio tra il piacere e la realtà, tra un principio di piacere e un principio di realtà; ma piuttosto di un princi­ pio di realtà dominante e di un principio di piacere lecito. Il desiderio è costretto a mantenersi, bene o male, su questo limite tra la realtà e il piacere, su questo confine che il potere controlla gelosamente mediante innumerevoli posti di frontiera: nella famiglia, a scuola, in caserma, in fabbrica, negli ospedali psichiatrici e, naturalmente, al cinema. Il desiderio è cosi a tal punto perseguitato che finisce il più delle volte col rinunziare ai suoi oggetti e con l’investire la frontiera stessa e i suoi guardiani. L’eros capitalistico diventerà passione del limite, di­ venterà poliziotto. Pur combattendo i segni troppo vistosi della libido, troverà il suo piacere nella loro contemplazione astiosa: «Guardate queste porcherie...»; diventerà sguardo, spettacolo proibito, trasgres­ sione, senza farsi veramente coinvolgere. Tutte le morali dell’ascetismo e della sublimazione consistono di fatto nel catturare la libido per mar­ carla e costringerla a non uscire da questo sistema di limiti. Non s’in­ tende riaprire qui una discussione tra spontaneismo e centralismo; non si tratta di opporre le «discipline necessarie» all’organizzazione della collettività alla turbolenza degli impulsi «naturali». Neppure si tratta di ridurre tale questione a un semplice affare di morale o di strategia ideologica dei poteri dominanti al fine di meglio tenere in mano gli sfruttati... Le coppie morale/istinto, natura/cultura, ordine/disordine, signore/servo, centralismo/democrazia, ecc. sembrano in effetti vera­ mente insufficienti a dar conto di questa erotizzazione dei limiti, o alme­ no della sua evoluzione contemporanea. Lo sviluppo delle forze di produzione nelle società industriali (e que­ sto è vero tanto per il capitalismo quanto per il socialismo burocratico) implica una liberazione crescente di energia di desiderio; il sistema capi­ talistico non funziona - o non funziona soltanto - mettendo al lavoro masse di schiavi. È tenuto a modellare gl’individui a suo modo e a tal fine ad imporre dei modelli di desiderio: mette in circolazione dei mo­ delli d’infanzia, di padre, di madre, di amante... Lancia tali modelli cosi come l’industria automobilistica lancia i suoi. L’importante è che essi restino sempre compatibili con l’assiomatica del capitale: l’oggetto d’a­ more dovrà sempre essere un oggetto esclusivo che partecipi al sistema della proprietà privata. L’equazione fondamentale è: godere = possede­ re. L’individuo è modellato per adattarsi, come un ingranaggio alla mac­ china capitalistica: al cuore del suo desiderio e nell’esercizio del suo pia­ cere deve ritrovare la proprietà privata, deve realizzare l’ideale della «produzione per la produzione», deve desiderare solo gli oggetti che la produzione di merci gli propone; non solo deve piegarsi alla gerar­

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chia, ma anche amarla in quanto tale. Per scongiurare i pericoli delle lotte di classi, il capitalismo si è dunque sforzato di introdurre un pro­ prietario borghese in ciascun lavoratore. È la condizione preliminare della sua integrazione. I vecchi modelli che fissavano il lavoratore al suo mestiere, al suo quartiere, ai suoi valori morali o alla sua religione (foss’anche socialista) crollano. Il modello paternalistico del padrone non è più compatibile con la produzione, cosi come non lo è più quello del pa­ ter familias con la formazione dei figli. Oggi c’è bisogno di un lavora­ tore deterritorializzato, di qualcuno che non resti ancorato a una quali­ fica professionale, che segua il progresso della tecnologia, o addirittura sviluppi una certa creatività, una certa partecipazione. Inoltre c’è biso­ gno di un consumatore che si adatti all’evoluzione del mercato. In tal modo, si pone il problema di una trasformazione dei vecchi rapporti .di produzione e dei vecchi rapporti familiari , coniugali, scola­ stici, ecc. Ma se si allentano troppo presto i freni, sono le macchine del desiderio che rischiano di imballarsi e di superare non solo le vecchie frontiere ma anche le nuove che il potere intende fissare. I rapporti di produzione, di formazione e di riproduzione oscillano dunque tra tenta­ zioni immobilistiche e fissazioni agli arcaismi. La «soluzione» capitali­ stica consiste nel proporre dei modelli che siano adattati al tempo stesso ai suoi imperativi di standardizzazione - che distruggono le vecchie ter­ ritorialità - e ricostituiscano una sicurezza artificiale; in altri termini che modernizzino gli arcaismi o inducano degli arcaismi artificiali. In queste condizioni, dal lato della produzione, il lavoratore sarà deterri­ torializzato, mentre sarà riterritorializzato dal lato dei rapporti di pro­ duzione, di formazione e di riproduzione. Il cinema, la televisione e la stampa sono divenuti degli strumenti fondamentali per formare ed imporre una realtà e dei significati domi­ nanti. Prima ancora di essere degli strumenti di comunicazione, di tra­ smissione d’informazione, sono degli strumenti di potere. Non manipo­ lano solo dei messaggi, ma anzitutto dell’energia libidinale. I temi del cinema, i suoi modelli, i suoi generi, i suoi gruppi professionali, i suoi mandarini, le sue vedette sono - lo vogliano o no - al servizio del po­ tere. E non solo in quanto dipendono direttamente dalla sua macchina finanziaria, ma in primo luogo e soprattutto perché partecipano alla ela­ borazione e alla trasmissione dei suoi modelli soggettivi. Attualmente i media funzionano per l’essenziale al servizio della repressione. Ma pos­ sono diventare degli importantissimi strumenti di liberazione. Il cinema commerciale, per esempio, alimenta nei film western un razzismo laten­ te; può impedire la produzione di film su avvenimenti come quelli del maggio ’68 in Francia; ma il super 8 e il magnetoscopio potrebbero tra­

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sformarsi in mezzi di scrittura molto più diretti ed efficaci dei discorsi e della stampa. In tal modo potrebbero contribuire a mettere in scacco la tirannia del «saper scrivere» che pesa non solo sulla gerarchia borghese ma si esercita anche nelle file di quel che si conviene di chiamare il mo­ vimento operaio. Al di là del significante, al di là dell’illusione di una realtà inamo­ vibile. Non è questa un’opzione speculativa ma un’affermazione: ogni realtà è datata e situata storicamente e socialmente; l’ordine del reale non ha nulla di un destino, è possibile cambiarlo. Si considerino tre mo­ derne correnti di pensiero, portatrici di tre sistemi di significato: quello dei sistemi totalitari, quello della psicanalisi e quello dello strutturali­ smo. In ciascuno dei tre, si tratta di una certa chiave di volta verso cui converge l’organizzazione della realtà dominante. Un significante domi­ na tutti gli enunciati di un potere totalitario o di un leader, di una chie­ sa o di un dio. Di diritto tutti i desideri devono riferirsi a lui. Nessuno può restare impunemente al di fuori della « linea » o al di fuori di una chiesa. Ma poiché questo tipo di economia libidinale, centrato su un oggetto trascendente, non corrisponde più esattamente alle necessità dei rapporti di produzione moderni, esso tende ad essere sostituito da un sistema più elastico nei paesi capitalistici sviluppati. Per formare un lavoratore, bisogna prenderlo dalla culla, sorvegliare il suo Edipo in famiglia, seguirlo a scuola, nel suo club sportivo, al cinema e fin nel juke-box. La psicanalisi, pur ricalcando il suo modello su questo vecchio tipo di economia libidinale, l’ha affinato, «molecolarizzato»; ha messo in ser­ vizio nuovi tipi di oggetto molto meno vistosi, alla portata di tutte le borse, se cosi si può dire! Questi oggetti dovrebbero sovracodificare tutti gli enunciati di desiderio, il fallo e i suoi oggetti parziali: il seno, la merda, ecc. Allora il dispotismo del significante non tende più a con­ centrarsi su un leader o su un dio e a esprimersi alla scala di un impero e di una chiesa bensì a quella di una famiglia, a sua volta ridotta al trian­ golo. Si è miniaturizzata alla scala della famiglia e dell’io la lotta tra i sessi, tra le classi di età, tra le classi sociali. La macchina del potere fa­ miliare, rettificata dalla psicanalisi funziona a partire da due ingranaggi principali: il fallo simbolico e la castrazione, che sono strumenti di alie­ nazione della donna e del bambino. Si ricorda il carattere tirannico degli interrogatori del piccolo Hans da parte del padre, sotto il controllo del professor Freud! Ma prima di giungere a tal punto, è stato necessario ridurre la resistenza della madre, costringerla a sottomettersi ai dogmi psicanalitici. In effetti, alla madre non veniva in mente l’idea di opporsi a che il figlio la raggiungesse a letto quando ne aveva voglia. Una volta

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che la madre è diventata l’agente del potere fallico, l’attacco all’infan­ zia si concentra sulla questione della masturbazione. Non si rimprove­ rerà francamente al bambino di masturbarsi; gli s’imporrà l’accettazione della buona spiegazione castratrice: gli si ficcherà in testa un sistema particolare di significazione: «Quel che vuoi lo sappiamo meglio di te, è dormire con tua madre e uccidere tuo padre». L’importanza della posta della sottomissione del bambino al codice edipico — e ciò sin dalla più tenera età — non è il risultato di un effetto strutturale o significante, separato dalla storia e dalla società; essa di­ pende dal fatto che il capitalismo non ha trovato altri modi per resti­ tuire alla famiglia una consistenza artificiale. Nelle società arcaiche il bambino restava relativamente libero dei suoi movimenti fino alla ini­ ziazione; ma in regime capitalistico l’iniziazione comincia sin dal bibe­ ron: il rapporto madre/figlio tende a essere controllato sempre più strettamente da psicologi, psicanalisti, educatori, ecc. Nella vecchia for­ mula, il potere era basato su una serie paradigmatica padre/padrone/re che culminava in un dio reso visibile, incarnato, istituzionalizzato. Nel­ la formula attuale l’incarnazione si è deterritorializzata, decentrata: è ovunque e in nessun luogo. Spetta ai modelli familiaristi fornirgli un rifugio. A loro volta, però, i vari modelli di triangolazione edipica della psicanalisi sono risultati troppo pesantemente territorializzati attorno alle immagini parentali e agli oggetti parziali; si è cercato dunque di proporre dei modelli molto più astratti, matematici dell’inconscio. Lo strutturalismo, in psicanalisi - ma è vero anche negli altri cam­ pi - può essere considerato come un tentativo di sostituzione di un dio senza nome al dio della chiesa e a quello della famiglia. Esso propone un modello trascendente della soggettività e del desiderio che sarebbe indipendente dalla storia e dalle lotte sociali reali. Allora il conflitto delle idee tende di nuovo a spostarsi, abbandona il terreno psicanaliti­ co della famiglia e dell’io per quello della semiotica e delle sue applica­ zioni nei mass-media. Non è possibile intraprendere qui un’analisi criti­ ca dello strutturalismo; si vuole soltanto segnalare che una simile cri­ tica dovrebbe cominciare col rimettere in discussione la sua concezione sincretica dei vari modi di codificazione. Sembra indispensabile, in pri­ mo luogo, non assimilare delle codificazioni «naturali», come per esem­ pio quella genetica con quelle delle semiologie umane. Si coltiva l’illu­ sione che l’ordine «naturale» e quello delle produzioni sociali come, per esempio, le strutture di parentela, sarebbero strutturati «come dei lin­ guaggi». Poi, si confondono i modi di codificazione che si potrebbero chiamare a-semiotici, come la musica, la pittura, le matematiche, ecc. con quelli della parola e della scrittura. In secondo luogo, sembrerebbe

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necessario distinguere, in seno alle semiologie significanti, tra le semio­ logie pre-significanti - quelle per esempio delle società arcaiche, dei paz­ zi e dei bambini - e le semiologie significanti delle società moderne che sono tutte sovracodificate dalla scrittura delle leggi sociali ed economi­ che. (Nelle società primitive ci si esprime tanto con la parola quanto con gesti, danze, riti o segni iscritti sul corpo. Nelle società industriali, tutta questa ricchezza di espressione viene meno; ogni enunciato deve essere traducibile nella lingua che codifica i significati dominanti. Per esempio, in una società primitiva «dare la propria parola» è una garan­ zia, ma col capitalismo contano solo la scrittura e la firma legalizzata). Sembra anche importante mettere in luce e insistere sull’indipenden­ za di quel che chiameremo le semiotiche a-significanti. Esse infatti ci fa­ ranno comprendere quel che può permettere al cinema di sottrarsi alle semiologie del significato e partecipare a nuove strutturazioni collettive del desiderio Se lo strutturalismo si rifiuta di prendere in considerazione questa indipendenza è perché è per esso improponibile uscire dalla significa­ zione, cioè dalla coppia significante/significato. D’altra parte, si sforza sistematicamente di iniettare significazione in tutti i regimi di segni che tendono a fuggirgli. (Per la scienza inventerà delle «significazioni rela­ zionali», per il cinema delle unità di significazioni «iconematiche», ecc.). Mettendo in prima linea il significante e le catene significanti, lo strutturalismo tenta di accreditare l’idea che considera secondari i con­ tenuti significativi, ma di fatto è sul significante che trasferisce segretamente il potere normalizzatore della lingua. Cosi, mascherando la creati­ vità possibile di macchine semiotiche a-significanti, fa il gioco di un or­ dine di cose strettamente legato alle significazioni dominanti. Quando è sfruttato dai poteri capitalistici e socialisti burocratici per modellare l’immaginario collettivo, il cinema propende dalla parte delle sue componenti significative. Tuttavia, la sua propria efficacia conti­ nua a dipendere dalle componenti simboliche pre-significanti e da quel­ le a-significanti: concatenazioni, movimenti interni delle figure visive, dei colori, dei suoni, dei ritmi, delle espressioni, delle parole, ecc. A differenza della parola e della scrittura che da centinaia o da migliaia di anni sono rimaste più o meno simili a se stesse in quanto mezzo di espressione, nel giro di poche decine di anni il cinema non ha smesso di arricchire la propria tecnica. E proprio per appropriarsi degli effet1 Bisognerebbe affrontare nei particolari il problema del ruolo delle componenti a-significanti in rapporto alle componenti analogiche. In particolare il fatto che il loro funzionamento come mac­ chine di segni detcrritorializzate «rompe» gli effetti del significato e dell’interpretazione, sfugge al sistema delle ridondanze dominanti, dà impulso alle componenti più « innovatrici ».

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ti di questo arricchimento il potere si è sforzato di accrescere il con­ trollo che esercita su di esso. Man mano che il cinema ha ampliato le sue gamme d’intensità estetiche, i sistemi di controllo e di censura han­ no cercato di assoggettarlo alle semiologie significanti. In che cosa il cinema, come semiotica a-significante, va al di là del quadro delle semiologie significanti? Christian Metz ha dimostrato che il cinema non è una lingua specializzata e che la materia del suo conte­ nuto è indefinita: «l’estensione indefinita [del suo] tessuto semantico dipende da due cause distinte il cui effetto si cumula: da una parte il cinema ingloba in sé un codice — la lingua, nei film sonori - la cui sola presenza basterebbe ad autorizzare le informazioni semantiche più sva­ riate; in secondo luogo, gli altri elementi del testo filmico, per esempio le immagini, sono a loro volta dei linguaggi la materia del cui contenuto non ha limiti precisi» La materia del contenuto tanto più travalica le codificazioni tradizionali in quanto la lega semiotica che compone la sua materia di espressione è a sua volta aperta a molteplici sistemi d’inten­ sità esterni. Le sue materie di espressione non occupano un posto fisso, vanno in più direzioni. Christian Metz ne enumera alcune sottolineando che cia­ scuna di esse dispone di un sistema intrinseco di tratti pertinenti: - il tessuto fonico dell’espressione, che rinvia al linguaggio parlato (semiologia significante); - il tessuto sonoro, ma non fonico, che rinvia alla musica strumen­ tale (semiotica a-significante); - il tessuto visivo e colorato, che rinvia alla pittura (semiotica mista simbolica e a-significante); - il tessuto visivo non colorato, che rinvia alla fotografia in bianco e nero (semiotica mista, simbolica e a-significante); - i gesti e i movimenti del corpo umano, ecc. (semiologie simboli­ che). Umberto Eco aveva già osservato che il cinema non si piega a un sistema di doppia articolazione, ed era stato indotto a cercare di trovar­ gliene una terza. Certo, però, è preferibile seguire Metz secondo il quale il cinema sfugge a qualsiasi sistema della doppia articolazione e, si po­ trebbe aggiungere, a ogni sistema elementare di codificazione significa­ tiva. Le significazioni, al cinema, non sono codificate direttamente in una macchina che incrocia assi sintagmatici e paradigmatici; gli vengo­ no sempre in un secondo tempo, dalle costrizioni esterne che lo model­ 1

Cfr. Christian metz, Langage et ctnémt, Larouss:, Paris 1570, P- 160.

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lano. Se il cinema muto, per esempio, è riuscito a esprimere in modo molto più intenso e autentico di quanto abbia fatto il cinema sonoro le intensità del desiderio nei loro rapporti con il campo sociale, non è per­ ché era meno ricco sul piano dell’espressione, ma perché il copione si­ gnificante non aveva ancora preso possesso dell’immagine e perché, in tali condizioni, il capitalismo non aveva ancora colto tutti i vantaggi che poteva trarne. Le invenzioni successive del sonoro, del colore, della te­ levisione, ecc., in quanto arricchivano le possibilità di espressione del desiderio, hanno fatto sì che il capitalismo s’impadronisse del cinema e se ne servisse come di uno strumento privilegiato di controllo sociale. È interessante in proposito constatare come la televisione non solo non abbia assorbito il cinema, ma anzi sia stata costretta ad assoggettarsi alla formula del film commerciale, che pertanto non è mai stato così forte come oggi. In tali condizioni, la posta costituita dalla liberalizzazione nel campo del film pornografico sembra relativamente secondaria. Si re­ sta qui al livello di una sorta di «contrattazione» sul piano del conte­ nuto che non può costituire una vera minaccia per i poteri costituiti, i quali, al contrario, trovano opportuno allentare le redini su un terreno che non minaccia in alcun modo le basi dell’ordine costituito. Le cose andrebbero diversamente se si trattasse della libertà delle masse popo­ lari di fare il cinema che desiderano, pomografico o no. La miniaturiz­ zazione del materiale potrebbe diventare un fattore determinante in vi­ sta di una evoluzione del genere. La realizzazione di circuiti privati di televisione via cavo potrebbe essere l’occasione di una prova di forza decisiva; in effetti, nulla garantisce che, dal punto di vista di quel che si chiama qui P«economia del desiderio», le realizzazioni in questo cam­ po non siano ancora più reazionarie di quelle delle televisioni nazionali. A ogni modo, sembra che tutto quel che tende a circoscrivere le lotte micropolitiche del desiderio nell’ambito di un eros tagliato fuori da ogni contesto - e questo non vale solo per il cinema - è una trappola. L’eros capitalistico, si diceva, investe sempre il limite tra un piacere lecito e un’interdizione codificata. Prolifera ai limiti della legge; si fa complice dell’interdizione; canalizza la libido sull’oggetto proibito, che si limita a sfiorare. Questa economia della trasgressione polarizza la pro­ duzione desiderante in un gioco di specchi che la esclude da qualsiasi accesso al reale e la rende prigioniera di rappresentazioni fantasmatiche. La produzione fantasmatica resta in tal modo separata dalla produzione sociale. II desiderio fantasmatico e la realtà capitalistica — che conver­ te il desiderio in flusso di lavoro «utile» - implicano in apparenza due tipi diversi di concatenazioni. Di fatto mettono in gioco due politiche del desiderio del tutto complementari: una politica di ripiegamento sul­

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la persona, l’io, l’appropriazione dell’altro, la gerarchia, lo sfruttamen­ to, ecc. e una politica di accettazione passiva del mondo cosi com’è. Alle nozioni di eros e di erotismo vorrei contrapporre quelle di desi­ derio e di energia desiderante. Il desiderio non è, come l’eros, strettamente legato al corpo, alla persona e alla legge; non è più polarizzato sul corpo vergognoso, all’organo nascosto, all’interdizione incestuosa che non alle fascinazioni e ai miti del corpo denudato, del fallo onni­ potente e della sublimazione. Il desiderio si costituisce prima della cri­ stallizzazione del corpo e degli organi, prima della divisione dei sessi, prima della rottura tra l’io familiare e il campo sociale. Basta osservare senza pregiudizi i bambini, i pazzi e i primitivi per comprendere che il desiderio può fare l’amore tanto con degli esseri umani, quanto con dei fiori, delle macchine o delle situazioni di festa. Non rispetta i giochi ri­ tuali della guerra dei sessi: non è sessuale, è transessuale. La lotta per il fallo, la minaccia di una castrazione immaginaria, non lo riguardano sostanzialmente, cosi come non lo riguardano l’opposizione tra genitalità e pregenitalità, normalità e perversione. Non svaluta il bambino, la donna o l’omosessuale. Insomma, non è centrato sui significati e i va­ lori dominanti: rientra in semiotiche a-significanti, aperte, disponibili per il meglio e per il peggio, in quanto nulla dipende qui dal destino ma solo da strutturazioni collettive. In conclusione, il cinema può essere allo stesso modo macchina del­ l’eros, cioè d’interiorizzazione della repressione, e macchina di ùberazione del desiderio. Un’azione a favore della libertà d’espressione non dovrebbe dunque essere centrata in primo luogo sul cinema erotico, bensì su quello che chiamerei un cinema di desiderio. La vera trappola è la rottura tra i temi erotici e i temi sociali; tutti i temi sono insieme sociali e transessuali. Non c’è da una parte un cinema politico e dall’al­ tra un cinema erotico. Il cinema è politico, qualunque sia il soggetto: ogni volta che rappresenta un uomo, una donna, un bambino o un ani­ male, esso prende posizione nella microlotta di classe che riguarda la riproduzione dei modelli di desiderio. La vera repressione del cinema non è dunque centrata sulle immagini erotiche: essa mira innanzitutto a imporre il rispetto delle rappresentazioni dominanti, dei modelli di cui il potere si serve per controllare e canalizzare il desiderio delle mas­ se. In ogni film, in ogni sequenza, in ogni piano si pone una scelta tra un’economia conservatrice del desiderio e un’apertura rivoluzionaria. Si può pensare che più un film sarà concepito e realizzato secondo dei rap­ porti di produzione ricalcati su quelli delle imprese capitalistiche, più è probabile che rientri nell’economia libidinale del sistema. Tuttavia nes­ suna teoria potrebbe fornire le chiavi di un giusto orientamento in que­

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sto campo. Si può fare un film sulla vita in un convento e mettere in gioco una libido rivoluzionaria; si può fare un film di apologia della rivoluzione e fare un film fascista dal punto di vista dell’economia del desiderio. In ultima analisi, determinanti sul piano politico ed estetico, non sono le parole e il contenuto ideale, ma essenzialmente i messaggi a-significanti che sfuggono alle semiologie dominanti.

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Gli psicanalisti hanno sempre diffidato un poco del cinema, attirati invece dalle altre forme di espressione. Ma l’affermazione inversa non è vera. Quante volte il cinema ha «fatto piedino» alla psicanalisi, a co­ minciare dalla proposta di Goldwyn a Freud: 100 ooo dollari per occu­ parsi degli amori celebri! Questa disimmetria non dipende solo da pro­ blemi di rispettabilità, è legata più profondamente al fatto che la psica­ nalisi non può capire niente dei processi inconsci messi in gioco dal ci­ nema. Essa ha tentato talvolta di cogliere analogie formali tra il sogno e il film: per René Laforgue si tratterebbe di una specie di sogno collet­ tivo, per Lebovici di un sogno per far sognare. Ha cercato di assimilare la sintagmatica filmica al processo primario, ma non ha mai neppure sfiorato, - e lo si capisce bene, — ciò che fa la sua specificità: un’attività di normalizzazione dell’immaginario sociale che non può essere ridotta ai modelli familiaristici ed edipici, anche quando si ponga deliberatamente al loro servizio. La psicanalisi ha un bel «gonfiarsi» oggi di lin­ guistica e di matematica: essa continua comunque sempre a ripetere stancamente le stesse banalità sull’individuo e la famiglia, mentre il ci­ nema è connesso all’insieme del campo sociale e alla storia. Qualcosa d’importante sta avvenendo nel cinema, luogo di investimento di cari­ che libidinali fantastiche, ad esempio quelle che si accentrano intorno a quelle specie di complessi costituiti dal western razzista, da nazismo e resistenza, dall’«american way of life», ecc. Bisogna pur ammettere che in tutto questo Sofocle non occupa certo un posto rilevante! Il cine­ ma è diventato una gigantesca macchina per modellare la libido sociale, mentre la psicanalisi rimarrà sempre un piccolo artigianato riservato a élites selezionate. Si va al cinema per sospendere per un certo tempo gli abituali modi di comunicazione. L’insieme degli elementi costitutivi di questa situa­ zione concorre a questa sospensione. Qualunque sia il carattere alienan­ te del contenuto di un film o della sua forma di espressione, il suo obiet­ tivo fondamentale è la riproduzione di un certo tipo di comportamento

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che, in mancanza di meglio, si chiamerà: performance cinematografica Proprio perché è capace di mobilitare la libido su questo tipo di perfor­ mance, il cinema può porsi al servizio di quello che Mikel Dufrenne ha chiamato un «inconscio fatto in casa»2. Considerate dal punto di vista della repressione inconscia, la perfor­ mance cinematografica e quella psicanalitica («l’atto analitico») merita­ no forse di essere confrontate. La psicanalisi della belle époque ha la­ sciato credere a lungo di proporsi la liberazione delle pulsioni, dando loro la parola; in realtà, non ha mai accettato di allentare la morsa del discorso dominante se non nella misura in cui prevedeva di riuscire, meglio di quanto avesse mai fatto prima la repressione normale, a do­ mare, a disciplinare, ad adattare le pulsioni alle norme di un certo tipo di società. In fin dei conti, il discorso emesso durante le sedute analiti­ che non è molto più «liberato» di quello che si subisce durante la proie­ zione di un film. La pretesa libertà dell’associazione d’idee è una men­ zogna che nasconde una programmazione, una segreta modellizzazione degli enunciati. Sulla scena analitica come sullo schermo, è già stabilito che nessuna produzione semiotica di desiderio dovrà incidere sulla real­ tà. Sia il «mini cinema» dell’analisi sia la psicanalisi di massa del cine­ ma proscrivono i passaggi alPatto, gli «acting out». Gli psicanalisti e anche, in una certa misura, i cineasti, vorrebbero essere considerati co­ me creature al di fuori del tempo e dello spazio, come puri creatori, neutri, apolitici, irresponsabili... E in un certo senso, forse hanno ra­ gione, dal momento che, in realtà, non hanno poi una grossa presa sui processi di controllo di cui sono gli agenti. Lo schema di lettura psica­ nalitico oggi appartiene in egual misura all’analista e all’analizzato. Ade­ risce alla pelle di ognuno di noi - «hai fatto un lapsus!» - s’integra nelle strategie intersoggettive e persino nei codici percettivi: si pronun­ ziano interpretazioni psicanalitiche come se fossero minacce, si « vedo­ no» falli, ritorni al seno materno, ecc. Oggi l’interpretazione è diven­ tata talmente scontata, che la migliore, la più sicura, per uno psicana­ lista preparato è ancora il silenzio, un silenzio sistematico battezzato 1 A questo proposito, si potrebbe parlare di « film viewing - acts », simmetricamente agli « speech acts » studiati da J. Searle. 2 «Vi si olirono belle immagini, ma solo per sedurvi: mentre pensate di divertirvi pazzamente, assorbite l’ideologia necessaria aUa riproduzione dei rapporti di produzione. Vi si nasconde la real­ tà storica, camuffandola sotto un verosimile di convenzione che non è soltanto tollerabile, ma an­ che affascinante; cosicché non avete neppure pili bisogno di sognare, né ne avete il diritto, dal momento che i vostri sogni potrebbero essere non conformisti: vi si offre un sogno già confezio­ nato che non perturberà niente: fantasmi su misura, una godibile fantasmagoria che vi mette a posto con il vostro inconscio, poiché è chiaro che ha diritto alla sua parte, lo sapete, soprattutto se siete sufficientemente "acculturati” da reclamare in suo nome e da dichiararvi suoi soggetti. Oggi il cinema tiene a vostra disposizione un inconscio fatto in casa (formato familiare), perfettamente ideologizzato» (mikel dufrenne, in Citséma, Théorie et Lecture, Klincksieck, Paris 1973).

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«puro ascolto analitico». In realtà, il vuoto dell’ascolto risponde qui a un desiderio svuotato di ogni contenuto, a un desiderio di niente, a un impotenziamento radicale; in queste condizioni, non sorprende che il complesso di castrazione sia diventato il riferimento costante della cura, la scansione di ogni sequenza, il cursore che riporta costantemente il desiderio al grado zero. Lo psicanalista, come il cineasta, è «portato» dal suo soggetto. Da entrambi ci si aspetta la confezione di un certo tipo di droga che, pur essendo tecnologicamente più sofisticata dei calumet tradizionali, ha comunque la funzione di trasformare la modalità di sog­ gettivazione di coloro che la usano: si capta l’energia di desiderio per ritorcerla contro se stessa; per anestetizzarla, per separarla dal mondo esterno, in modo che non minacci più l’organizzazione e i valori del si­ stema sociale dominante. Tuttavia, la droga psicanalitica e quella cine­ matografica non sono della stessa natura; hanno nel complesso gli stessi obiettivi, ma la micropolitica del desiderio che esse comportano e le concatenazioni semiotiche sulle quali si fondano sono nettamente di­ verse. Forse si penserà che queste critiche si rivolgano esclusivamente a un certo tipo di psicanalisi e che non riguardino l’attuale corrente strutturalistica, in quanto quest’ultima non ritiene più che l’interpretazione debba dipendere da paradigmi di contenuto — come avveniva con la teo­ ria classica dei complessi parentali - bensì da un gioco di universali si­ gnificanti, indipendentemente dai significati che possono veicolare? Ma è possibile credere agli psicanalisti strutturalisti quando pretendono di aver rinunziato a modellare e a rendere traducibile le produzioni di de­ siderio? L’inconscio dei freudiani ortodossi era organizzato in com­ plessi che cristallizzavano la libido in elementi eterogenei: biologici, fa­ miliari, sociali, etici, ecc. Il complesso di Edipo, ad esempio, a parte le sue componenti traumatiche reali o immaginarie, era fondato sulla divi­ sione dei sessi e su quella delle classi di età. Si pensava che fossero basi obiettive, rispetto alle quali la libido era costretta a esprimersi e a fina­ lizzarsi. A tal punto che, ancor oggi, porsi domande su queste «eviden­ ze» potrà sembrare ad alcuni decisamente a sproposito. Eppure tutti conoscono numerose situazioni in cui la libido rifiuta queste pretese basi oggettive, evita la divisione tra i sessi, ignora i divieti legati alla separazione in classi di età, confonde a piacere le persone, tende a tra­ scurare sistematicamente le opposizioni esclusive tra soggetto e oggetto, tra l’io e l’altro. Gli psicanalisti ortodossi ritengono che queste non sia­ no altro che situazioni perverse, marginali o patologiche che richiedono un’interpretazione e un adattamento. Lo strutturalismo lacaniano si era originariamente costituito come reazione a questi «abusi», a questo rea­

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lismo ingenuo, in particolare a proposito di problemi relativi al narci­ sismo e alla psicosi. Esso intendeva rompere radicalmente con una pra­ tica della cura centrata esclusivamente sulla «rimodellatura» dell’io. Ma, denaturalizzando l’inconscio, liberando i suoi oggetti da una psico­ genesi troppo limitativa, strutturandoli «come un linguaggio»1, non 1 ha in ogni caso aiutato a rompere i ponti personologici e ad aprirsi sul sociale, sui flussi cosmici e semiotici di ogni genere. Pur non rinviando più le produzioni di desiderio a un insieme di complessi buoni a tutto, si pretende sempre di interpretare ogni loro connessione a partire da un’unica e fissa logica del significante. Si è rinunziato alla meccanica sommaria delle interpretazioni di contenuto (l’ombrello vuol dire...) e degli stadi di sviluppo (i famosi «ritorni» agli stadi orale, anale, ecc.), ora non si parla più del padre e della madre, bensì del «nome del pa­ dre», del fallo e dell’Altro della castrazione simbolica, senza tuttavia avvicinarsi minimamente alla micropolitica del desiderio sulla quale si fonda, in ogni singola situazione, la differenziazione sociale dei sessi, o l’alienazione del bambino. Secondo noi i conflitti di desiderio non pos­ sono essere circoscritti al solo terreno del significante, neppure nel caso di una «pura» nevrosi significante, come la nevrosi ossessiva. Essi de­ bordano sempre sui terreni somatici, sociali, economici, ecc. E a meno di considerare che il significante si ritrovi in qualunque cosa, bisogna davvero ammettere che il ruolo dell’inconscio è stato notevolmente ri­ stretto, quando lo si è visto soltanto dal punto di vista delle catene si­ gnificanti che mette in atto. «L’inconscio è strutturato come un linguag­ gio», dice Lacan. Certo! Ma da chi? Dalla famiglia, dalla scuola, dalla caserma, dalla fabbrica, dal cinema e, in certi casi speciali, dalla psichia­ tria e dalla psicanalisi. Quando gli si è fatta la pelle, quando si è riusciti a soffocare la polivocità dei suoi modi di espressione semiotica, quando lo si è legato a un certo tipo di macchina semiologica, allora certo fini­ sce per essere strutturato come un linguaggio. Se ne sta li tranquillo. Si mette a parlare la lingua del sistema dominante, che d’altronde non è la lingua di tutti i giorni, bensì una lingua speciale, sublimata, psica­ nalizzata. Non solo si è adagiato nella sua alienazione alle catene signi­ ficanti, ma continua a chiedere senza sosta del significante! Non vuole più avere a che fare con il resto del mondo e con le sue modalità di semiotizzazione. Qualunque problema un po’ penoso, troverà per lui, se non proprio la soluzione, almeno una sospensione che lo smorzerà nel gioco del significante. In queste condizioni, cosa rimarrà, ad esempio, * Con la sua teoria dell’oggetto piccolo a, Lacan è giunto a considerare gli oggetti parziali co­ me entità logico-matematiche («esiste un materna della psicanalisi»).

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della millenaria alienazione delle donne imposta dagli uomini? Per il significante, cosi com’è concepito dai linguisti, soltanto tracce neutre e innocenti come l’opposizione tra maschile e femminile, e per quello de­ gli psicanalisti, miraggi che giocano intorno alla presenza-assenza del fallo. Di fatto, a ogni tipo di performance linguistica, a ogni valutazione del «grado di grammaticalità» di un enunciato, corrisponde una certa formazione di potere. La struttura del significante non è mai compietamente riducibile a una pura logica matematica; essa è sempre collegata alle varie macchine sociali repressive. Una teoria degli universali, sia in linguistica sia in economia, in antropologia come in psicanalisi, non farà che ostacolare un’esplorazione effettiva dell’inconscio, cioè delle costel­ lazioni semiotiche di ogni genere, delle connessioni di flussi di ogni ge­ nere, dei rapporti di forza e delle costrizioni di ogni genere che costitui­ scono le concatenazioni di desiderio.

L’inconscio al cinema. La psicanalisi strutturalista non potrà insegnarci molto di più sui meccanismi inconsci messi in gioco dal cinema, a livello della sua orga­ nizzazione sintagmatica, di quanto aveva fatto la psicanalisi ortodossa, a livello dei suoi contenuti semantici. Per contro, il cinema potrebbe aiutarci a capire meglio la pragmatica de gl’investimenti inconsci nel campo sociale. L’inconscio al cinema infatti non si manifesta come sul divano: esso sfugge parzialmente alla dittatura del significante, non è riducibile a un fatto linguistico, non rispetta più, come invece continua­ va a fare il transfert psicanalitico, la classica dicotomia locutore-ascoltatore, caratteristica della comunicazione significante. Si tratta d’altronde di sapere se questa è qui messa semplicemente tra parentesi oppure se è possibile riesaminare, a questo proposito, l’insieme dei rapporti tra il discorso e la comunicazione. La comunicazione tra un locutore e un ascoltatore individuabili forse non è altro che un caso particolare, limi­ te, della pratica del discorso. Gli effetti di desoggettivazione e di disin­ dividuazione dell’enunciazione, generati dal cinema oppure dalle con­ catenazioni tipo droga, sogno, passione, creazione, delirio, ecc. forse non sono poi tanto eccezionali rispetto al caso generale, che dovrebbe essere quello della comunicazione intersoggettiva «normale» e della co­ scienza «razionale» del rapporto soggetto-oggetto. Si tratterebbe qui di rimettere in discussione l’idea di un soggetto trascendentale dell’enun­ ciazione, l’opposizione tra discorso e lingua, oppure ancora la dipenden­ za dei diversi tipi di performances semiotiche da una pretesa compe­

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tenza semiologica universale. Il soggetto cosciente di sé non dovrebbe quindi essere più considerato altro che una particolare «opzione», quella di una specie di follia normale. È illusorio credere che esista soltanto un soggetto, un soggetto autonomo e centrato su un individuo. Si ha sempre a che fare con molteplici modalità di soggettivazione e di semiotizzazione, e a questo proposito, per l’appunto, il cinema mostra che possono essere elaborate, trattate, manipolate all’infinito. Ma se è vero che la dilatazione, l’esaltazione macchinica dell’inconscio cinematogra­ fico non lo preserva - anzi - dalla contaminazione dei significati di po­ tere, bisogna pur sempre ammettere che esso mette in atto processi di­ versi da quelli della psicanalisi o di tecniche artistiche più raffinate. In­ fatti esso si manifesta a partire da concatenazioni semiotiche irriducibili a una concatenazione sintagmatica che lo disciplinerebbe meccanicamen­ te, che lo strutturerebbe secondo piani rigorosamente formalizzati del­ l’espressione e del contenuto. Il suo montaggio, a partire da spezzoni semiotici a-significanti, da intensità, da movimenti, da molteplicità, ten­ de essenzialmente a sottrarlo alla delimitazione significante, che inter­ viene solo in un secondo tempo attraverso la sintagmatica filmica, nel senso che questa fissa generi, cristallizza personaggi, stereotipi compor­ tamentali, omogenei ai campi semantici dominanti \ Questo «eccesso» delle materie dell’espressione sul contenuto segna certo il limite di un possibile paragone tra la repressione dell’inconscio al cinema e nella psicanalisi. Entrambi conducono fondamentalmente la stessa politica, ma gli scopi e i mezzi utilizzati sono diversi. La clientela dello psicanalista si presta, in un certo senso, da sola al lavoro di ridu­ zione significante, mentre il cinema deve cogliere continuamente i mu­ tamenti dell'immaginario sociale per «restare in corsa», deve inoltre mobilitare una vera e propria industria, una moltitudine d’istituzioni e di poteri di censura, capaci di tenere sotto controllo la proliferazione inconscia che minaccia di scatenare. Lo stesso linguaggio parlato non funziona al cinema come nella psicanalisi; non è predominante, è solo un mezzo tra gli altri, uno strumento all’interno di una complessa orche­ strazione semiotica. Le componenti semiotiche del film sfuggono le une alle altre senza mai fissarsi e stabilizzarsi in una sintassi profonda dei contenuti latenti o in sistemi trasformazionali che porterebbero, in su­ perficie, a contenuti manifesti. Significati relazionali, emotivi, sessuali — sarebbe meglio dire: intensità - vi sono costantemente trasmessi da 1 Bisognerebbe riprendere l’analisi di Bettini e Cassetti che distinguono tra nozione di iconi­ cità e quella di analogismo: la sintagmatica filmica, in un certo senso, «analogizza» le icone, vei­ colate dall'inconscio. Cfr. La sémiologie des moyens de communicalicn audiovisuels et le problème de l’analogie, in Cinema, Tbéorie et Lecture cit.

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«tratti di materia dell’espressione» eterogenei (riprendendo la formula di Christian Metz, tratta a sua volta da Hjelmslev). I codici s’interse­ cano, ma nessuno di questi riesce mai a dominare gli altri; si passa, in un continuo va e vieni, da codici percettivi a codici denotativi, musicali, connotativi, retorici, tecnologici, economici, sociologici, ecc.

Il cinema come concatenazione macchinica. Il cinema commerciale non può essere considerato soltanto come una semplice droga a buon mercato. La sua azione inconscia è profon­ da. Forse più di quella della psicanalisi. Innanzitutto a livello delle mo­ dalità dello spettacolo. La performance cinematografica segna la sogget­ tività. Essa intacca l’individuazione personologica dell’enunciazione e sviluppa una particolarissima modalità di coscientizzazione. Senza il supporto dell’esistenza di un altro, la soggettivazione tende a diventare di tipo allucinatorio: non si concentra più su un soggetto, esplode su una molteplicità di poli anche quando si fissa su un unico personaggio. In senso stretto, non si può neppure più parlare di soggetto dell’enun­ ciazione nell’accezione abituale, dal momento che ciò che è emesso da questi poli non è più solo un discorso, bensì intensità di ogni genere, costellazioni di tratti, cristallizzazioni di affetti... A volte si giunge per­ sino a non sapere più esattamente chi parla, e di chi si tratta ! I ruoli sono delimitati e il transitivismo soggettivo controllato mol­ to meglio nella psicanalisi! In essa infatti si parla continuamente il di­ scorso dell’analista, si dice a qualcuno ciò che si pensa vorrebbe sentire, ci si aliena cercando di farsi valere nei suoi confronti. Mentre al cinema non si ha più la parola; qualcosa parla al vostro posto; vi si fa il discor­ so che l’industria cinematografica immagina vorreste sentire ’; una mac­ china vi tratta come una macchina, e non conta tanto ciò che vi dice quanto questa specie di vertigine di abolizione che procura il fatto di essere «lavorati» in questo modo. Dal momento che le persone sono co­ me dissolte e le cose avvengono senza testimoni, ci si abbandona a un mondo senza colpa. Mentre si paga il proprio posto sul divano affinché un testimone — possibilmente qualcuno che sia distinto, di livello netta­ mente superiore al vostro - investa e controlli i vostri più intimi pen­ sieri e sentimenti, al cinema si paga il posto per farsi invadere da conca­ tenazioni soggettive dai contorni mal definiti, per lasciarsi coinvolgere 1 Lo psicanalista è un po’ nella posizione dello spettatore al cinema: assiste allo svolgimento di un montaggio fabbricato per lui.

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in avventure teoricamente senza futuro. In teoria, perché in realtà la modellizzazione che risulta da questa vertigine a buon mercato lascia comunque qualche traccia: l’inconscio si ritrova popolato da indiani, da cow-boys, da poliziotti, da gangsters, dai vari beìmondo e marylinmonroe... È come il tabacco o la cocaina; si riesce a definire i suoi effetti - ammesso che sia possibile - solo quando vi si è ormai completamente dentro. Ma la cura psicanalitica non è forse stata istituita appunto per evi­ tare tale promiscuità? L’interpretazione, il transfert non hanno forse la funzione di selezionare il buon inconscio dal cattivo? Il paziente non è forse guidato, non lavora forse munito di un setaccio? Certo! Ma que­ sto setaccio è in realtà ancora più alienante di qualunque altro sistema di controllo della soggettività! All’uscita dal film, ci si deve risvegliare e mettere in sordina il proprio cinema - tutta la realtà sociale si adopera in questo senso - mentre la seduta dello psicanalista, diventata intermi­ nabile, deborda su tutto il resto della vita. Andare al cinema, come si dice, è una distrazione, mentre la cura analitica - ed è vero anche per i nevrotici — tende a essere una specie di promozione sociale: è legata alla sensazione che, alla lunga, si finirà per essere uno specialista dell’incon­ scio, uno specialista che d’altronde, a volte, avvelena l’entourage quanto gli altri specialisti di qualsiasi altra cosa, a cominciare dal cinema. L’alienazione provocata dalla psicanalisi dipende dal fatto che la par­ ticolare modalità di soggettivazione ch’essa produce si organizza intor­ no a un soggetto-per-un-altro, un soggetto personologico, superadattato, superalienato alle pratiche significanti del sistema. La proiezione ci­ nematografica invece deterritorializza le coordinate percettive e deitti­ che1. Le papille semiotiche dell’inconscio non hanno neppure avuto il tempo di essere eccitate che già il film, in quanto opera «manifatturata», cerca di condizionarle al «gusto» semiologico del sistema. L’in­ conscio, non appena è messo a nudo, diventa come un territorio occu­ pato. Il cinema, in fondo, ha preso il posto delle vecchie liturgie. Ha la funzione di rinnovare, di adattare, di assimilare i vecchi dei del familiarismo borghese. Serve una religione che usa il linguaggio della comuni­ cazione «normale», quella adottata in famiglia, a scuola o sul lavoro. Anche quando sembra dare la parola a un personaggio «normale», a un 1 Nel caso della televisione, l’etletto di detertitoriaiizzazione sembra attenuato, ma è forse an­ cor più subdolo: si è immersi in un minimo di luce, la macchina è di fronte a noi, come un inter­ locutore amichevole, si è in famiglia, si visita in pullman le profondità abissali deU’inconscio per poi passare alla pubblicità e alle notizie del giorno. In realtà, l'aggressione è in questo caso ancor più violenta, ci si piega inconsciamente alle coordinate socio-politiche, a un tipo di modellizza­ zione senza il quale le società industriali capitalistiche non potrebbero probabilmente piti fun­ zionare.

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uomo, a una donna o a un bambino, in realtà si tratta sempre di una ri­ costituzione di una marionetta, di un modello-fantasma, di un «invaso­ re» pronto a aggrapparsi all’inconscio per dominarlo. Non si va al ci­ nema con il proprio io, con la propria «personalità segreta», i propri ricordi d’infanzia, come se si andasse da uno psicanalista! Si accetta in anticipo che esso ci spogli della nostra identità, del nostro passato e del nostro futuro. Il suo miracolo derisorio consiste nel renderci, per pochi attimi, orfani, celibi, privi di memoria, incoscienti e eterni. Quando al­ l’uscita si riprendono i riflessi «di tutti i giorni», quando si ritrovano i volti dei vicini come chiusi in se stessi, può capitare di essere tentati di prolungare l’impressione prodotta dal film, se se ne è stati toccad. Ca­ pita persino che un film possa sconvolgere la nostra esistenza! A dire il vero, un cinema capace di liberarsi della sua funzione di droga norma­ lizzatrice potrebbe avere effetti liberatori inimmaginabili, effetti immen­ samente più forti di quelli prodotti da libri o correnti letterarie. Ciò perché il cinema interviene direttamente sul nostro rapporto con il mon­ do esterno. E anche se questo esterno è inquinato da rappresentazioni dominanti, da questo intervento può derivare un minimo di apertura. La psicanalisi ci soffoca - con molto lusso, certo —, spegne il nostro rap­ porto con il mondo esterno in ciò che ha di più singolare, di più impre­ vedibile, proiettandovi sopra il cinema dell’interiorità. Quali che siano i suoi stereotipi, il suo conformismo, il cinema si vede superato dalla ricchezza dei mezzi di espressione che mette in atto. A questo propo­ sito, tutti hanno fatto l’esperienza del proseguimento, a volte diretto, del lavoro del film in quello del sogno (ho notato, per quanto mi riguar­ da, che questa interazione era tanto più forte quanto più il film mi era sembrato scadente). Il cinema commerciale è incontestabilmente familiarista, edipico e reazionario. Ma non lo è intrinsecamente come la psicanalisi: ed è «ol­ tre al resto». La sua «missione» non consiste nell’adattare la gente ai modelli desueti, arcaici e elitari del freudismo, bensì a quelli che deri­ vano dalla produzione di massa, e questo — va sottolineato - anche quando essi ricostituiscono gli archetipi della famiglia tradizionale. An­ che se i suoi mezzi «analitici» sono più ricchi, più pericolosi, perché più affascinanti, di quelli della psicanalisi, essi sono in realtà molto più pre­ cari, oltre che molto più ricchi di promesse. E se è vero che è perfetta­ mente possibile immaginare che in futuro si costituisca un’altra pratica del film, che un cinema di lotta possa aggredire i valori dominanti, non si capisce come potrebbe nascere una psicanalisi rivoluzionaria! Di fatto, l’inconscio psicanalitico (o quello letterario, d’altronde l’u­ no deriva dall’altro) è sempre un inconscio di seconda mano. Il discorso

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dell’analisi si costituisce intorno ai miti analitici: i miti individuali so­ no, a loro volta, costretti ad adattarsi ai contesti formati dai miti di rife­ rimento. I miti del cinema non dispongono di tale sistema di metamiti e la gamma dei mezzi semiotici che mettono in opera entrano in connes­ sione diretta con i processi di semiotizzazione dello spettatore. Insomma, il linguaggio del cinema e degli audiovisivi è vivo, mentre quello della psicanalisi ormai da molto tempo parla solo ima lingua morta. Dal cinema ci si può aspettare il meglio e il peggio; dalla psicanalisi, soltan­ to una disperante litania consolatoria. Nelle peggiori condizioni com­ merciali, si possono ancora produrre buoni film, film che modificano concatenazioni di desiderio, che «cambiano la vita», mentre da molto tempo, non esistono più buone sedute analitiche, buone scoperte, buoni libri di psicanalisi.

V.

Impalcature semiotiche

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Per una micropolitica del desiderio

Introduzione. Le analisi degli strutturalisti cercano di mascherare la dualità fondamentale fra contenuto ed espressione, interessandosi soltanto dell’epressione, mettendo tra parentesi il contenuto, considerando legittima la divisione tra il lavoro relativo al contenuto e quello riguardante l’e­ spressione. È un modo per motivare il rifiuto di ammettere le origini politiche della formalizzazione dei contenuti. Bisognerebbe opporre qui una genealogia politica dei contenuti significativi ai procedimenti che generano gli enunciati delle grammatiche generative e trasformazionali. Per gli strutturalisti, la componente semantica sembra non porre alcun problema. Essa compare o no, in questa o quella occasione, ma è data per scontata e mai rimessa in questione in quanto tale. Non ci si preoccupa di determinare il particolare modo di struttura­ zione di ogni tipo di contenuto, si finge di credere che il problema del loro formalismo si ponga soltanto dal momento in cui entrano nel rap­ porto espressione-contenuto, e tutto ciò che riguarda la determinazione dell’origine di questo formalismo è trasferita così sul significante, sulle catene significanti. Eppure essi sono sempre modellati da un ordine po­ litico e sociale; non vi è niente di meccanico nella strutturazione dei contenuti: il campo sociale non è un contenuto sovrastrutturale deter­ minato meccanicamente da un'infrastruttura economica, come non lo è il campo semantico rispetto alla struttura significante, oppure le diffe­ renti manifestazioni di una società primitiva rispetto alle strutture ele­ mentari della parentela... Cercare di rendere conto di complesse strutture socio-storiche par­ tendo da una meccanica scambista, oppure del linguaggio partendo da un sistema di trasformazioni logiche, o ancora del desiderio partendo dal gioco di un insieme significante generatore di fantasmi, equivale sem­ pre al tentativo di evitare di mettere in questione le funzioni di potere che controllano il campo sociale a ogni livello. In causa non è quindi la manifestazione di un formalismo universale in quanto tale, bensì la ma­ niera con la quale un sistema di potere è portato a utilizzare i mezzi di

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una formalizzazione significante per unificare tutti i modi di espressio­ ne, centrandoli sui propri valori «fondamentali», ossia il rispetto dei beni, delle persone, delle gerarchie sessuali e razziali, delle classi di età, del «diritto» per le classi dominanti di espropriare i lavoratori dei mez­ zi di produzione, ecc. Non si ha quindi mai a che fare, in realtà, con una struttura in sé, una specie d’ideale gioco di scacchi, con una matrice logica capace di modellare i contenuti significativi. Prima di essere strutturati dal lin­ guaggio, o «come un linguaggio», i contenuti sono strutturati da una moltitudine di livelli micropolitici. Corollario: è proprio questo che spiega come un’azione rivoluzionaria micropolitica consenta di relati­ vizzare le «significazioni dominanti» e di neutralizzare le forme di evi­ denze e di limiti proposte dagli strutturalisti. Negare la funzione del potere nella rappresentazione implica il rifiuto dell’impegno micropo­ litico ovunque questo è richiesto, cioè ovunque esiste un effetto di si­ gnificazione. Bisognerebbe perciò sbarazzarsi della netta opposizione tra il conte­ nuto e /'espressione, che finisce per isolarli l’uno dall’altra e lasciarli, in un certo modo, indipendenti, per cercare invece i punti di artico­ lazione, i punti di antagonismi micropolitici a ogni livello. Ogni forma­ zione di potere organizza un sistema di ridondanza di contenuto. La macchina dell’espressione, che domina l’insieme di queste formazioni, serve soltanto a normalizzare le formalizzazioni locali, per rendere tra­ ducibile, per centralizzare, un significato invariante riconosciuto dal­ l’ordine dominante, per perfezionare un consenso (ciò che Hjelmslev ha designato come livello della sostanza immediata e definito come per­ cezione collettiva). Fra il contenuto e l’espressione è in gioco la stabilizzazione dei rap­ porti di deterritorializzazione. La macchina di segni a-significante, il si­ stema delle figure dell’espressione (sempre nel senso di Hjelmslev) si costituisce nel punto di incontro di tutte le semiologie significanti. In un certo senso, essa ha un ruolo equivalente a quello che lo Stato eser­ cita nei confronti delle varie fazioni della borghesia, e che consiste nel mettere ordine e nel gerarchizzare le pretese delle diverse fazioni locali. La macchina di espressione a-significante (il piano del significante) ela­ bora un sistema di ridondanza vuota e di traducibilizzazione di tutti i si­ stemi di ridondanza territorializzati che derivano dalle molteplici istan­ ze regionali di potere. (Esempio: il potere della famiglia sulla produ­ zione del dire-bene, il potere della scuola su quella dello scrivere-bene, della disciplina, della competizione, della gerarchia, ecc.). Nel sistema di espressione a-significante si stabilizza cosi un regime medio di deterrito-

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rializzazione, che capta e regola le deterritorializzazioni relative dei for­ malismi del contenuto. Francois Jacob suggerisce1 che certe codifiche «naturali» potrebbero funzionare su tre dimensioni. Todorov, da parte sua, ritiene che le se­ miologie simboliche utilizzino, in modo specifico, due dimensioni. Sol­ tanto la codifica linguistica funzionerebbe secondo un sistema lineare (e secondo una modalità che, a parere di Jacob, dovrebbe essere accurata­ mente distinta dalla codifica genetica, che è relativamente meno deterritorializzata). Seguendo questi autori, si potrebbe insomma pensare che le modalità di codifica subiscano una sorta di processo di molecolarizzazione e di discretizzazione. Si può addirittura immaginare di prolungare questa tendenza alla deterritorializzazione con le semiotiche a-significanti delle scienze, che abbandonano la linearità della lingua impiegan­ do sistemi di segni-particelle. Infatti, l’opposizione fra il segno e il refe­ rente, ad esempio nella fisica teorica, sembra perdere attualmente in parte la sua pertinenza: oggi non si esige più una prova positiva del­ l’esistenza di una particella; basta che la si possa fare funzionare senza contraddizione nell’insieme della semiotica teorica. Solo quando un ef­ fetto sperimentale estrinseco farà intervenire il sistema semiotico, si porrà, retroattivamente, il problema dell’esistenza della particella. Ma, fino a quel momento, il problema non ha senso. Proprio perché è rifiu­ tata dall’insieme teorico-sperimentale, la particella acquista retroattiva­ mente una specie di carica di esistenza negativa. Non è perciò più neces­ sario dimostrare di volta in volta l’esistenza di una particella; si è ab­ bandonato l’obiettivo, fondamentale in altri tempi, di una materializza­ zione di questa esistenza per mezzo di un effetto fisico d’individuazione spazio-temporale. Questo tipo di semiotica fa intervenire quelli che chiamiamo segni-particelle, ossia entità che sono passate al di qua delle coordinate relative a spazio, tempo e esistenza. Tra il segno e il refe­ rente si stabilisce un nuovo tipo di rapporto, non più diretto, ma che coinvolge tutta una concatenazione teorico-sperimentale. Con queste specie di semiotiche a-significanti, si abbandona il terre­ no della semiologia per quello della potenza di concatenazione macchinica. L’esempio tratto dalla fisica teorica potrebbe applicarsi ad altri campi: sociali, artistici, ecc. Sembra quindi che esistano due possibili politiche nei confronti del­ la significazione. La si può accettare di diritto come un effetto inelimi­ nabile, e pensare di ritrovarla a ogni livello semiotico, oppure la si può accettare di fatto, nell’ambito di un particolare sistema politico, e pro­ 1

Cfr. La logìque du vivant, Gallimard, Paris 1970 [trad. it. Einaudi, Torino 19712].

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porsi in compenso una lotta micropolitica generalizzata, capace di svuo­ tarla dall’interno, permettendo cosi alle molteplicità intensive di libe­ rarsi dalla tirannide della surcodifica significante. Proprio in questo sen­ so va tutto un insieme di espressioni e sperimentazioni. Ad esempio, quelle di bambini, di schizofrenici, di omosessuali, di carcerati, di alie­ nati di ogni tipo, in quanto contribuiscono a minare, a corrodere la se­ miologia dell’ordine dominante, a emettere nuove linee di fuga e costel­ lazioni inedite di segni-particelle a-significanti.

Le minoranze di desiderio, psicanalisi e semiotica. Da tempo ormai la fortuna della psicanalisi ha superato i limiti delle sette che la costituiscono. Nella misura in cui si è dedicata alla defini­ zione di una norma — il confine tra normale e patologico nel campo del comportamento -, essa è andata scivolando verso il terreno politico. Infatti, le forze sociali che si sono confrontate nel processo di produzio­ ne capitalistica sono direttamente interessate alla definizione di tale si­ stema di norme, di un modello di vita, di un modello di soggettività desiderante corrispondente al tipo d’individuo «normalizzato» richie­ sto dal sistema. In altre epoche, le dispute religiose o filosofiche hanno avuto nel campo delle lotte sociali un ruolo analogo a quello svolto oggi dalla psicanalisi. Ma, per la psicanalisi, la politica consiste innanzitutto nel volersi situare al di fuori del politico e nel rivendicare lo status di scienza obiettiva. Essa ha cercato sostegno in varie scienze, prima nella biologia e nella fisica, poi nella matematica e nella linguistica; ma spes­ so non ha fatto altro che imitarle. Inoltre, non è mai riuscita a liberarsi da un funzionamento di tipo settario per cui le società di psicanalisi somigliano più a corporazioni gelose dei loro interessi che non a società operanti per il progresso delle scienze. Non riuscendo a offrire serie ga­ ranzie scientifiche, la psicanalisi si è rifugiata in un’attività «letteraria» che non ha certo contribuito a chiarire la sua pratica effettiva. Il freudismo, mentre da un lato scopriva la portata degli investi­ menti inconsci di desiderio, dall’altro si adoperava per scongiurarne i «malefici». Fin dall'inizio, la psicanalisi ha cercato di adeguare le pro­ prie categorie ai modelli normativi dell’epoca. Ha contribuito cosi a sta­ bilire un’ulteriore barriera contro il desiderio: è giunta al momento op­ portuno, quando l’organizzazione repressiva della famiglia, della scuola, della psichiatria, ecc. cominciava a scricchiolare. Essa ha costruito ap­ punto una barriera ancora più interna, tale da controllare più intima­

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mente l’economia soggettiva del desiderio, afferrandolo sul nascere per non più lasciarlo. L’ambizione del controllo sistematico della psicanalisi è senza limiti: a buon diritto, niente dovrebbe sfuggirle; la sua volontà di egemonia riguarda al tempo stesso la follia, il sogno, le deviazioni di ogni genere, l’arte, la storia, il mondo primitivo, fino alle sequenze me­ no importanti della vita quotidiana, come un lapsus o un atto mancato. Qualsiasi non-senso si dovrebbe cosi piegare alle sue griglie esplicative, entrando nel registro della sua comprensione. Si prenda l’esempio del­ l’omosessualità: la psicanalisi la classifica tra le perversioni; la defini­ sce come una fissazione a uno stadio infantile, stadio definito a sua volta come pregenitale e «perverso polimorfo». In questo modo, attraverso una descrizione che si autodefinisce obiettiva, essa avallerà implicita­ mente una norma, una genitalità di diritto, un diritto di cittadinanza per il desiderio, che tuttavia squalifica quello del bambino, dell’omoses­ suale, del pazzo e, allargando poco per volta il campo, quello della don­ na, del giovane che non ha ancora pienamente accettato la prospettiva coniugale-familiare, ecc. Se ima lotta rivoluzionaria riuscisse a liberarsi dei modelli dominanti e, in particolare, del modello di tutti i modelli, il capitale — il quale con­ siste nel ridurre le molteplicità desideranti a un flusso indifferenziato: un flusso di lavoratori, un flusso di consumatori, ecc. -, se riuscisse a rompere con una semplificazione manichea della lotta di classe e ammet­ tesse invece il carattere plurale delle scelte desideranti, in quanto possi­ bili legami fra le rivolte e la rivoluzione, essa sarebbe allora portata a prendere in considerazione e a cercare appoggio sulle minoranze di ogni genere, evitando norme aprioristiche. Tale riconversione ha come pre­ supposti l’individuazione e la neutralizzazione dei modelli che sono stati «implicitati» dalla psicanalisi, con la sua legittimazione della repressio­ ne del desiderio fondata sul dogma dell’Edipo e sull’assunzione della castrazione. Oggi molti sono d’accordo nel riconoscere che una lotta ri­ voluzionaria sarà veramente possibile soltanto se s’impegnerà anche sul fronte del desiderio. Ma per il momento si è ancora incapaci di pensare seriamente all’apertura dei nuovi fronti di desiderio, perché si resta in­ trappolati dall’alternativa psicanalitica classica: - sul versante del desiderio: una forza pericolosa, distruttrice, che non sa costruire nulla; - su quello dell’io e del sociale: il mondo della realtà con il quale bisogna comunque venire a patti, al quale ci si dovrà piegare, sal­ vo poi pretendere che si trattava dell’unico modo per riuscire a controllarlo.

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Come se la follia non si trovasse, anzitutto, proprio nel cuore dell’or­ dine capitalistico in quanto tale! Come se la ragione non dovesse essere colta, anzitutto, proprio all’interno del più folle desiderio! Il desiderio non è necessariamente perturbatore, anarchico. Un desiderio liberato dalla tutela del potere si rivela più reale, più realistico, organizzatore più capace, meccanico più completo, del razionalismo delirante dei pia­ nificatori e dei padroni del sistema attuale. La scienza, l’innovazione, la creazione proliferano sul versante del desiderio e non su quello dello pseudorazionalismo dei tecnocrati. La psicanalisi non è una scienza, ma un movimento politico-religioso che dovrebbe essere considerato alla stessa stregua di altri che, per un certo tempo e in un determinato contesto, hanno proposto modelli re­ golatori. La sua concezione del desiderio solo in apparenza si è presen­ tata «in anticipo sui tempi»; questo anticipo è servito soltanto a mette­ re a punto il supplemento di repressione richiesto dalla logica del siste­ ma e a riadattare una tecnica d’interpretazione, di derivazione del desi­ derio e d’interiorizzazione della repressione. L’oggetto della psicanalisi è insomma ciò che si può chiamare la paranoia collettiva, ovvero la con­ catenazione di tutto ciò che opera in senso opposto alla liberazione del desiderio schizoide nel sociale. Prima di esaminare la posizione partico­ lare ed estrema della psicanalisi sui diversi gradi di questa paranoia col­ lettiva, si concentrerà l’attenzione su questa funzione in sé, sul ruolo ch’essa esercita in generale sul piano sociale. Soltanto dopo si cercherà d’individuare quelle particolari basi sulle quali la psicanalisi si è fon­ data, esasperandone in un certo senso il funzionamento. Si cercherà di definire la natura di un coefficiente di paranoia collettiva, coefficiente complementare e inverso che una decina di anni fa avevo proposto di chiamare coefficiente di trasversalità. Si cercherà qui di respingere l’opposizione fra due realtà, la prima obiettiva, la seconda soggettiva, considerando invece due possibili poli­ tiche-, una politica dell’interpretazione, che si rivolge al passato e si svi­ luppa nell’immaginario, e una politica della sperimentazione, che fa leva sulle intensità attuali del desiderio, che si costruisce come macchinismo desiderante, al livello del reale storico e sociale. Interpretazione o spe­ rimentazione; psicanalisi «scientifica» o politica del desiderio? Per fon­ dare queste alternative, si dovrà risalire a monte della psicanalisi e della politica quali si presentano di solito e cercare di collocarle nel loro ri­ spettivo rapporto con il linguaggio. Con che cosa si interpreta? Con la parola! Con cosa si sperimenta? Con segni, funzioni macchiniche, con­ catenazioni di cose e di persone. A prima vista, sembra che i due campi debbano rimanere separati. E in che modo l’introduzione della politica

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potrebbe portare a un chiarimento della situazione? A prima vista i sen­ timenti, l’azione, la teoria e il macchinismo corrispondono a ordini di cose differenti che non dovrebbero essere confusi ! Eppure bisogna evi­ tare che si cristallizzino in strati isolati l’uno dall’altro. Questo ci porterà a risalire ancora pili a monte, al di qua della lin­ guistica e a pensare alla possibilità di una semiotica capace di rendere conto sia del funzionamento della parola significante sia dei segni scien­ tifici, dei macchinismi tecnico-scientifici e delle concatenazioni sociali. Ci si troverebbe cosi di fronte a una alternativa politica fondamentale all’interno di uno stesso insieme semiotico, suscettibile di aprirsi sulle semiotiche a-significanti e che permetterebbe il passaggio dalle scienze obiettive alle lingue significative e soggettivanti. I semiotici si dividono già tra quelli che fanno rientrare la semiotica nelle scienze del linguag­ gio e quelli che considerano il linguaggio un caso particolare, ma nient’affatto privilegiato, del funzionamento di una semiotica generale. Se­ condo me, la conseguenza di questo dibattito è che il desiderio, nel pri­ mo caso, s’insabbia nell’immaginario investendosi su un sistema di fu­ ghe significanti, che si potrebbero chiamare perversione paradigmati­ ca, mentre, nel secondo caso, esso entra in concatenazioni semiotiche a-significanti, facendo intervenire segni e cose, persone e gruppi, organi e forze o macchine. La politica del significante fa si che una macchina di segni, per mezzo di una collezione finita di segni discreti, «digitalizza­ ti », delimiti e selezioni i flussi territorializzati, scegliendo soltanto flussi d’informazioni decodificabili. Il ruolo di questa macchina di segni con­ siste nel produrre «sostanze semioticamente formate», nel senso dato da Hjelmslev, cioè strati di espressione che stabiliscano una corrispon­ denza tra i due campi formalizzati, piano dell’espressione e piano del contenuto, operazione che, per i linguisti, specifica la produzione di un effetto di significazione. L’insieme del reale intensivo è «trattato» dalla coppia formalizzatrice significante-significato; l’insieme dei flussi si cri­ stallizza nel «flash» della significazione, che situa un oggetto di fronte a un soggetto; un rapporto di rappresentazione sterilizza il movimento del desiderio; l’immagine diventa reminiscenza di un reale impotenziato e la sua agglutinazione costituisce il mondo dei significati dominanti e dei luoghi comuni. La prima violenza politica consiste in questa operazione di delimita­ zione delle molteplicità intensive. Il rapporto convenzionale (per Peirce) o arbitrario (per Saussure) tra il significante e il significato in fondo non è che l’espressione di un potere per mezzo dei segni. L’espressione del contesto, dell’implicito, delle presupposizioni, cioè di tutto ciò che ri­ guarda, in un modo o nell’altro, i rapporti del potere e del desiderio, è

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respinta dagli esperti di scienze umane come qualcosa che supera il qua­ dro delle loro ricerche e che dev’essere considerato «fuoritema». Un po’ come un giudice che richiami all’ordine un teste che rifiuta di limi­ tarsi alle domande poste, o come la polizia quando allontana brutal­ mente il pubblico dallo spettacolo di uno dei suoi «incidenti». La for­ mazione dei significati, quel che c’è «da capire», deve rimanere prero­ gativa del potere. Gli strumenti di espressione sono forniti agli utenti proprio come si dà pala e piccone ai forzati; le penne e i quaderni a righe dati agli sco­ lari sono strumenti di produzione; l’insegnamento - l’in-segnamento è programmato per produrre soltanto un certo tipo di significati normalizzati. Si provi ad evitarli! L’imperativo basilare della legge, quello cioè che nessuno deve ignorare, è fondato innanzitutto sull’esigenza che nes­ suno ignori il peso dei significati dominanti! Tutte le intensità deside­ ranti dovranno passare sotto il giogo della coppia formalizzatrice espres­ sione-contenuto, qual è stata elaborata nell’ambito di determinati rap­ porti di produzione. A parte la follia e fughe di non-senso del sistema!

I segni lavorano direttamente sui flussi materiali. Non è facile liberarsi della politica della significazione e dell’inter­ pretazione: un certo modo, nelle scienze umane, d’imitare il «rigore scientifico», a scapito della consapevolezza delle implicazioni politiche legate a ciascuno dei loro oggetti, conduce implacabilmente a una se­ greta dipendenza dai paralogismi metafisici - sempre gli stessi - che si riferiscono al reale, all’anima e alla significazione. Si considerino, ad esempio, le ricerche condotte attualmente negli Stati Uniti sulla comunicazione: cosa sono se non una trappola obietti­ vista, una falsa alternativa al soggettivismo psicanalitico? I ricercatori che lavorano al Mental Research Institute di Palo Alto, intorno a Gre­ gory Bateson, esaminano nel «comportamento» soltanto ciò che, secon­ do loro, può essere trattato in «termini di comunicazione» ’. Utilizzando la suddivisione proposta da Carnap e Alorris tra sintassi, semiotica e pragmatica, essi giungono a delimitare, con il termine semantica, ima dimensione che, sebbene faccia parte della comunicazione, conserva nei confronti di quest’ultima un certo rapporto di esteriorità. Secondo que­ sti ricercatori, il comportamento non è altro che una «pragmatica della 1 p. watzlawtck - j. helmick-3eavin - d. Jackson, The Pragmatici of Human Communication, W. W. Norton, New York 1967 [trad. it. Astrolabio, Roma 1971].

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comunicazione», dipende interamente dalla trasmissione d’informazio­ ne, dalla circolazione di simboli tra trasmettitori e ricevitori e dai loro effetti di retroazione (feed-back). Il presupposto «semantico» di questa organizzazione delle comunicazioni interpersonali si fonda sull’idea che gli individui in presenza «siano già d’accordo sul significato da attribui­ re a questi simboli». Il comportamento si riduce cosi a un flusso d’in­ formazione, o, per lo meno, ne dipende strettamente. Ma che ne è del desiderio in tutta questa storia d’informazione? Un comportamento di desiderio è forse un disturbo, un «rumore», oppure semplicemente il giubilo per la buona ricezione del messaggio? Sembra che le uniche cose che interessano a questi ricercatori siano l’organizzazione sintattica dell’informazione e la strategia pragmatica del comportamento. Lo stu­ dio del significato non li riguarda. Sembra che, per loro, sia scontato. Mentre il significato apparterrebbe, in fondo, soltanto alla filosofia, la sintassi dipende da una scienza nobile: la logica matematica. E la prag­ matica si confonde, puramente e semplicemente, con la psicologia. Ma si può dire che questa tripardzione elimina il dispotismo del si­ gnificante? No, tutta la comunicazione comportamentista rimane tribu­ taria del mistero della significazione. Ci si è accontentati di mantenerla a una certa distanza; in realtà, sarà sempre presente in ciascuna delle sequenze comportamentali. Presenza ancor più tenace: più le si concede Io status di una evidenza implicita, più metterà in opera un formalismo invadente. Si rimane cosi prigionieri di una percezione della significa­ zione che si definisce «immediata», di un cogito semiologico significan­ te. Questa corrente neocomportamentista sfugge solo in apparenza alla trappola dell’interpretazione significativa in cui è presa la psicanalisi. Ci si può addirittura chiedere se non vi è stata una specie di divisione del lavoro tra coloro che si sono posti l’obiettivo di controllare capillar­ mente il comportamento utilizzando la teoria dell’informazione e coloro che hanno invece assunto il compito di controllarne i contenuti signifi­ cativa partendo da uno schema di lettura edipizzante. Nei primi, il «comportamento» è ridotto a «binary digits», nei se­ condi a un triangolo! Sarebbe utile esaminare anche procedimenti ana­ loghi adottati dagli antropologo strutturalisti, quando cercano di defi­ nire le società arcaiche esclusivamente dal punto di vista del sistema di parentela, riducendole cosi a una logica scambista; oppure ancora le pratiche delle sette letterarie il cui culto è interamente rivolto a una lettura chiamata testuale... Poco importa il metro di misura, che si tratti del Significante, della Libido oppure di un’unità di scambio matrimoniale; il metodo è Io stes­ so, ciò che conta è inculcare l’idea che esista un referente univoco da

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scoprire, un invariante trascendente, non significativo, con il compito di rendere conto dell’insieme delle formazioni significative. Si parte alla ricerca di una meccanica - non di una macchina, cosa ben diversa! - che fisserebbe i flussi, determinerebbe incroci, identificherebbe punti fissi, stabilizzerebbe strutture, darebbe la sensazione rassicurante di avere, finalmente, qualcosa di vagamente eterno nelle scienze umane e solleve­ rebbe al tempo stesso i ricercatori dalla loro responsabilità politica. In questa direzione si può forse cogliere un tratto comune alle differenti discipline che utilizzano questo tipo di metodo e trovare la chiave che spieghi certi punti d’incontro, a prima vista poco evidenti, come quello tra la psicanalisi e il comportamentismo di Bateson, nell’antipsichiatria di Laing, quello tra una linguistica dominata dalla fonologia diacronica e la psicanalisi lacaniana, quello tra la tradizione epistemologica e il marxismo di Althusser, ecc. Non annullare le differenze tra le diverse macchine semiotiche, cer­ care invece di specificarle al massimo, non farle dipendere l’una dall’al­ tra, come fa, ad esempio, Benveniste il quale giunge alla conclusione che ogni semiologia di un sistema non linguistico deve necessariamente rifarsi al modello linguistico, poiché «non può esistere se non attraverso e nella semiologia della lingua» \ È in questa prospettiva che si propor­ rà qui la seguente classificazione dei modi di codifica: codifiche a-semiotiche «naturali», semiologie significanti e semiotiche a-significanti. i) Le catene di codifica a-semiotiche «naturali». Esse non fanno intervenire uno strato semiotico specifico. Le catene di codifica, ad esempio genetiche, sono costituite partendo dallo stesso tipo di materiale dei flussi biologici codificati. Tra uno strato biologico, oggetto della codifica, e uno strato informazionale non vi è né differen­ ziazione né autonomizzazione. Interviene semplicemente la specializza­ zione di un certo numero di elementi dei flussi energetici e biologici per il lavoro di trasmissione e di produzione del codice. Poiché la ma­ teria dell’espressione non forma uno strato — una sostanza semiotica specifica - non è possibile alcuna traducibilità diretta del sistema di co­ difica in un altro. Il biologo che rappresenta graficamente le catene di RNA e di DNA, traspone le strutture in un sistema di segni, produce dal nulla un nuovo supporto di espressione. Completamente diverso è il caso di una semiotica significante che fa passare un messaggio, ad 1 Cfr. Sémiologie de la langue, in « Semiotica», 1969, nn. 1 e 2. Benveniste parla anche di «modellazione semiotica» da parte della lingua, di preminer.2a del sistema significante ecc.

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esempio visivo, attraverso il canale di onde hertziane, per ricostituirlo in un ricevitore televisivo: in tal caso, avviene un continuo passaggio delle forme codificate da una sostanza all’altra; la traducibilità è resa possibile dall’indipendenza degli strati di espressione; la possibilità di «estrarre» la forma da sostanze distinte ha appunto permesso di tra­ sporle. 2) Le semiologie della significazione. Esse sono costituite a partire da specifici strati di espressione. È pos­ sibile suddividerle in due categorie: quelle che si fondano su una molte­ plicità di strati e quelle che ne utilizzano soltanto due: a) Le semiologie simboliche. L’espressione delle società arcaiche, quelle dei pazzi, dei bambini, ecc. mettono in gioco una molteplicità di strati di espressione gestuali, rituali, verbali, «produttivi», sessuali, ecc. ma nessuno di questi strati è completamente autonomo; essi si sovrap­ pongono parzialmente, rimandano gli uni agli altri, senza che nessuno surcodifichi gli altri in modo costante. b) Le semiologie significanti. Con le lingue moderne tutta la polivocità dell’espressione, tutti gli strati di espressione come la parola, la mi­ mica, il canto, ecc. diventano dipendenti da una archi-scrittura signifi­ cante. Ormai la macchina semiotica funziona soltanto su due strati: quello della formalizzazione dei contenuti e quello della formalizzazione dell’espressione. In realtà, non esistono due strati, ma uno solo: lo stra­ to della formalizzazione significante che, partendo da un insieme finito di figure dell’espressione, pone in corrispondenza biunivoca una parti­ colare organizzazione della realtà dominante e una formalizzazione della rappresentazione. Infatti, le rappresentazioni significative - i concetti saussuriani - sono strutturate solo in apparenza su uno strato autono­ mo dal contenuto, solo in apparenza esse «abitano» un’anima, popolano un cielo di idee, oppure si organizzano in icone della quotidianità. La semiotica significante coltiva l’illusione dell’esistenza di un piano del significato per ritardare, mediare, o addirittura proibire una congiun­ zione diretta tra le macchine di segni e le macchine reali. Mettere in questione i due piani fondamentali della semiotica significante ci porta anche a contestare lo status della doppia articolazione linguistica: in­ fatti, ciò che dovrebbe garantire la costituzione di monemi autonomi è lo stabilirsi di rapporti paradigmatici tra queste entità e dei contenuti specifici, formalizzati e strutturati su un piano autonomo; ma se questo piano, lungi dal rispondere all’organizzazione logica sognata dalle se­ mantiche strutturali o generative, non è altro che un aggregato di rap-

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porti di forza, di compromessi e di approssimazioni di ogni genere, allo­ ra è proprio la legittimità strutturale del rapporto significante-significato a essere compromessa. Si sa che le semiotiche significanti di doppia articolazione prevedono segni caratterizzati da tre funzioni: la denotazione, la rappresentazione e la significazione. La denotazione stabilisce un rapporto tra il segno e la cosa designata. È la funzione referenziale. Essa implica o presuppo­ ne la realtà della cosa denotata. In effetti, la denotazione è un elemento fondamentale per la costituzione di una realtà dominante. Con la rap­ presentazione, l’insieme delle sintesi connettive produttive viene a tro­ varsi diviso tra un reale denotato (o indicizzato) e un mondo d’imma­ gini, un mondo d’icone rappresentative, figurative o relazionali. L’in­ sieme di queste immagini costituisce ciò che di solito va sotto il nome di mondo mentale. La significazione risulta dal rapporto che si stabili­ sce tra il supporto significante di questa rappresentazione e la rappre­ sentazione stessa. In nessun caso, perciò, il segno rimanda direttamente alla realtà, ma è sempre costretto a passare attraverso il mondo della rappresentazione. La concatenazione dei segni su un asse sintagmatico, la funzione di significanza, secondo Benveniste, è inseparabile dalla fun­ zione deìYinterpretanza che dispone i segni su un asse paradigmatico, che li rapporta al mondo dei significati e li mette definitivamente lon­ tano dalle intensità reali. Il gioco delle significazioni, la loro prolifera­ zione, il loro sfasamento rispetto alle rappresentazioni, a causa dell’au­ tonomia e dell’arbitrarietà del gioco dell’insieme significante, hanno co­ me conseguenze contraddittorie l’apertura delle possibilità creative ma anche la produzione di un soggetto privo di ogni accesso diretto alla realtà, un soggetto prigioniero di un ghetto significante, i cui effetti nel campo letterario sono stati tanto acutamente esplorati da Maurice Blan­ chot. È vero che la formalizzazione dell’espressione significante avviene parallelamente a una certa formalizzazione dei contenuti significati; sa­ rebbe tuttavia illusorio pensare che queste due formalizzazioni siano costituite per mezzo di uno stesso tipo di meccanismo generativo. La formalizzazione dell’espressione dipende da una particolare macchina linguistica, da una gamma finita di segni discretizzati, digitalizzati. La formalizzazione del contenuto dipende da rapporti di forza sociali, da molteplici interazioni, da macchine e da strutture che non possono, in alcun modo, essere appiattite su un piano omogeneo del contenuto. L’il­ lusione della doppia articolazione comporta il livellamento delle molte­ plicità intensive sulla macchina significante, e si fonda sulla finzione di un piano della rappresentazione. È avvenuto cosi un duplice appiattimento delle intensità: prima sui

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contenuti significati, poi sul significante, la cui ambizione dispotica con­ siste nel trattare tutto ciò che si presenta per rappresentarlo attraverso un processo ripetitivo che non fa altro che rinviare a se stesso. Cosi, tutto sembra normalizzarsi, logicizzarsi, formalizzarsi. Gli enunciati del­ le strutture semiotiche significanti sono formati su uno strato d’impotenziamento e si fanno eco all’infinito. Questa eco costituisce l’effetto di significazione: il significante raccoglie, delimita, autonomizza, appiat­ tisce il significato. Oltre a essere separati dalle produzioni reali, gli enunciati non hanno più niente a che fare né con l’intelligenza1 che il soggetto è tenuto ad avere del loro significato né con la sudditanza che deve loro. Le intensità possono essere solo indicizzate, connotate come ciò che deve restare fuori del campo semiotico, cioè, in ultima analisi, fuori del campo politico. Lo strato di formalizzazione del contenuto è quindi produttore di una soggettività separata, per sua essenza, dal reale, di una soggettività vuota e trasparente a se stessa, di una soggettività di pura significanza che corrisponde perfettamente alla formula lacaniana: un significante la rappresenta per un altro significante. Si può dar conto di questa sog­ gettività su due piani: il soggetto dell’enunciato e quello dell’enuncia­ zione \ Il soggetto dell’enunciato è diventato il garante del soggetto dell’enunciazione per effetto di una sorta di ecolalia riduttrice. Ogni enunciazione dovrà perdere la sua polivocità e accontentarsi, seguendo una modalità biunivoca, del soggetto dell’enunciato. Tale è il progetto delVedipizzazione linguistica. (I linguisti potranno poi dire che il sog­ getto dell’enunciazione è solo ciò che rimane del processo dell’enuncia­ zione in quello dell’enunciato). La nostra prospettiva è opposta: quel che interessa è individuare gl’indizi, le tracce residue, le fughe trasver­ sali di una concatenazione collettiva di enunciazione che costituisce co­ munque l’istanza produttiva reale di ogni macchinismo semiotico. Il programma dell’edipizzazione linguistica consiste anche nel formalizza­ re la soggettivazione degli enunciati su una codifica astratta del tipo iotu-egli, che «dota i parlanti di uno stesso sistema di riferimenti perso­ nali»3... e dà loro la possibilità di adattarsi ai caratteri d’interscambiabilità, di traducibilità e di universalità di un certo numero di ruoli che saranno assegnati loro nell’ambito di un’economia di flussi decodificati. Ritorniamo ora ai modi arcaici di espressione, ad esempio, ai feno­ 1 Abraham Moles mene l’accento sulla collusione etimologica tra l’intelligenza e l’idea di le­ game (Théorie de l’inlormalion et percepticn estbétùiue, Denoel, Paris 1970). 2 Bisognerebbe dire, piuttosto, il rifiuto dell’enunciazione. 3 ÉMII.E benveniste, in Problèma du hngage, Gallimard, Paris 1966 [trad. it. Bompiani, Mi­ lano 1970].

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meni che sono stati descritti da Pierre Clastres a proposito dei Guayak't: essi non sono sottomessi a questa specie di dispotismo del significante'. Io è questo, ma anche quello. Cosi si evitano le sintesi disgiuntive esclu­ sive. Io sono Giaguaro, ma questo Giaguaro rimanda al tempo stesso a molte altre cose, parla da una molteplicità di punti d’intensità: all’e­ nunciato Giaguaro corrispondono infatti diversi luoghi di enunciazione. Quando una di queste intensità è abolita, quando, ad esempio, l’ani­ male o l’indiano chiamato Giaguaro muore, l’enunciato, separato dalla sua fonte di enunciazione, conserva tutta la sua forza. La sua rappresentazione continua a esistere malgrado l’abolizione del referente. Non è legata in modo univoco a un significante. Insiste, gira a vuoto, diventa minacciosa in quanto non si sa più a cosa assegnar­ la. Dal momento che gli strati di espressione, in questo caso, non sono distinti da una delimitazione significante che sottoponga il contenuto a una formalizzazione rigorosa, una rappresentazione residua o marginale - in questo caso il concetto polivoco di Giaguaro - diventa l’oggetto di una denotazione sfuocata, incerta, oscillante, poco sicura di sé, al limite di una denotazione priva di supporto, di una pura denotazione della de­ notazione! Il referente tende a diventare l’essere in sé della denotazio­ ne, l’espressione della perdita di ogni coordinata, un’inquietudine senza oggetto, un buco nero come luogo di soppressione, d’inibizione delle componenti semiotiche. Ma il buco nero chiama il buco nero, il blocco chiama il blocco, e ciò che minaccia e che dev’essere scongiurato è la possibilità che una macchina coscienziale venga a instaurarsi con un funzionamento «moderno», ovvero che una semiotica significante sia in grado di deterritorializzare ogni singola posizione di desiderio imponen­ dole coordinate personologiche universali, facendo intervenire, in par­ ticolare, deittici2 che fissano, in un modo o nell’altro, l’enunciazione al soggetto dell’enunciato. Questo pericolo si aggrava quando significati senza referente fisso sono emessi nella natura (con la morte, il sogno, la stregoneria, ecc.). Tutta la stabilità del sistema denotativo territorializzato è così compromessa. A una pratica semiotica di gruppo rischia di succedere un sistema di denotazione coscienziale, individuata e traspa­ rente a se stessa. L’enunciazione collettiva territorializzata è minacciata alle fondamenta. Il Giaguaro! Cosa è diventato ora di fronte a questa cosa morta? La parola ronza in testa. Una parola priva di garanzie, che 1 Ckronique des Indiens Guayakis, Plon, Paris 1972. Queste considerazioni non implicano af­ fatto un ritorno al mito del «buon selvaggio». La crudeltà delle società arcaiche è reale quanto il terrore dispotico o il cinismo del capitalismo; ma non prende le mosse dal significante. 2 O shifters, espressione il cui referente può essere determinato soltanto in relazione agli inter­ locutori.

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risponde soltanto a se stessa: si è costituito un doppio dotato di una vita semiotica autonoma, sempre pronto a investirsi in un referente di ricambio, a gettarsi su un oggetto sospetto, a compromettere le rappre­ sentazioni dominanti, a espropriare le istanze del potere e ad assicurarsi il controllo delle macchine desideranti. La concatenazione territorializzata dell’enunciazione, come l’individuazione del soggetto dell’enuncia­ zione, ci sembra perciò dipendere fondamentalmente dai particolari rap­ porti che la produzione desiderante stabilisce, in una data società, con i flussi più o meno deterritorializzati, e con i mezzi adottati al fine di scongiurarli. 3) Le concatenazioni collettive delle semiotiche a-significanti. Il sistema di segni perde l’autonomia della sua stratificazione senza per questo ricadere nel modo di codifica naturale. Semplicemente non la collega più al significante. L’informazione si dissocia cosi dal signifi­ cato. Essa diventa, per usare un’espressione di Moles, una misura della complessità dei sistemi macchinici \ Si accentua l’opposizione tra le for­ me significative ridondanti da un lato e un’espressione informativa che tende a sfuggire a qualsiasi comprensione dall’altro. (Nelle equazioni della fisica teorica non vi è nulla «da capire»). L’informazione macchinica sfugge alla rappresentazione strutturale; essa è costituita da «ciò che accresce una rappresentazione», cioè l’improbabile, il non ridon­ dante, per mezzo della rottura, nel tessuto dei flussi di segni e dei flussi materiali, e attraverso la produzione di congiunzioni inedite. I doppi della rappresentazione sono ri-articolati direttamente sulla produzione o permangono come arcaismi, residui, sogni perduti2. Poiché le catene hanno perso la loro univocità, la gerarchia di valori tra una denotazione reificante e le connotazioni immaginarie tende a sfocarsi. La denotazione scompare di fronte al processo descritto da Peirce con il termine di «diagrammatizzazione». Si abbandona la funzione di riterritorializzazione delle icone, degli indici e dei concetti per un la­ 1 Bisogna precisare che Abraham Moles intende questa dissociazione soltanto rispetto ai patterns della percezione, ma, per illustrarla, è portato a opporre «la complessità strutturale» di una macchina (partendo dalla frequenza d uso degli elementi die la compongono) alla «complessità fun­ zionale» di un organismo (in base alla frequenza delle occorrenze delle sue varie funzioni) (Tbéorie cit., p. 87). 2 Come dicono gli indiani: «i bianchi hanno perso l'anima»; in altri termini, la loro anima (il loro sistema di ridondanza) si è deterritcrializzata, si è «messa a lato», ha firmato un patto con un macchinismo diabolico.

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voro dei segni come supporto delle macchine astratte e simulazione dei processi macchinici materiali. Questo lavoro dei segni, questo lavoro di diagrammatizzazione è diventato la condizione necessaria dei muta­ menti deterritorializzanti relativi ai flussi reali; non vi è più rappresen­ tazione, bensì simulazione, pre-produzione, o, se si vuole, trans-duzione. Il piano della significanza crolla, non si ha più a che fare con due piani e con un sistema di doppia articolazione; si ritorna costantemente al continuum delle intensità macchiniche fondato su una pluralità delle articolazioni. I punti di soggettivazione perderanno, qui, la loro funzione di loca­ lizzazione apparente della produzione dei significati, la loro funzione di sede di un godimento privatizzato e edipizzato. Ormai non saranno che residui soggettivi, un godimento deterritorializzato, adiacente al proces­ so fondamentale di concatenazione macchinica. L’individuazione imma­ ginaria della rappresentazione - l’aspetto figurativo dei significati — è sostituita dal figurale (nel senso di Lyotard1; la stratificazione rigida, semantizzata e retoricizzata degli enunciati scompare dinanzi a una con­ catenazione collettiva di enunciazione a n dimensioni; concatenazione collettiva deterritorializzata in cui l’uomo non occupa più il primo po­ sto. Il soggetto individuato dell’enunciazione rimaneva prigioniero de­ gli effetti di senso, cioè di una riterritorializzazione che s’impotenziava nella significazione. La concatenazione collettiva e macchinica dell’e­ nunciazione è invece prodotta dalla congiunzione tra segni di potenza e flussi deter ri torializzati. Si abbandona così il terreno della significa­ zione, come correlato dell’individuazione soggettiva, per quello del pia­ no di consistenza macchinica, che permette la congiunzione tra senso e materia per mezzo dell’articolazione di macchine astratte sempre più deterritorializzate e sempre più collegate ai flussi materiali di ogni genere. La significazione derivava da un ritorno della coscienza su se stessa, da un ripiegarsi su icone rappresentative, da una rottura delle congiun­ zioni macchiniche. Una concatenazione collettiva di enunciazione può restare senza significato per chiunque e tuttavia ricavare il proprio senso (ad esempio storico o poetico) da una congiunzione creativa ope­ rante direttamente sui flussi. Per contro, l’alto tenore in significato di un enunciato, emesso da una enunciazione individuale, può non avere alcun senso macchinico, non dare luogo ad alcuna congiunzione di flussi reali, restare separata da qualsiasi possibile sperimentazione. In altri termini, l’equazione significato + significante = significazione è relativa all’individuazione dei fantasmi e ai gruppi assoggettati, mentre l’equa­ 1

j.-F. lyotard,

Dìscours, Figure, Klincksieck, Paris 1972.

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zione: concatenazione collettiva dell’enunciazione = senso - non senso macchinico, si riferisce al fantasma di gruppo e al gruppo soggetto. Pur non potendo approfondirla come si dovrebbe, è necessario ri­ prendere qui l’idea di una congiunzione fra le macchine semiotiche e le macchine di flussi reali che specificherebbe le concatenazioni collet­ tive a-significanti. È da notare anzitutto che i flussi semiotici sono reali quanto quelli materiali e che, in un certo senso, i flussi materiali sono semiotici quanto le macchine semiotiche. Si dovrebbe introdurre qui l’idea di una semiotica delle intensità, di una semiotica del continuo, distinguendo, sempre secondo Hjelmslev, la materia-senso (ingl. purport), non semioticamente formata, dalle sostanze semioticamente for­ mate. Se non si darà ai macchinismi semiotici e a quelli materiali un fondamento comune al di qua dell’opposizione rappresentazione-produ­ zione, essi rientreranno immancabilmente, i primi in ima concezione idealistica della rappresentazione, i secondi in una concezione realistica reificante della produzione. Bisogna considerare che uno stesso macchi­ nismo astratto li sussume e permette di passare dagli uni agli altri. Que­ sto macchinismo astratto «precede» in un certo senso l’attualizzazione delle congiunzioni diagrammatiche fra i sistemi di segni e i sistemi d’in­ tensità materiali. Bisogna accettare l’evidenza: nelle scienze, nelle arti, nell’economia politica, ecc. le macchine di segno lavorano, in parte, direttamente sui flussi materiali, e ciò avviene qualunque sia il regime «ideologico» della parte rimanente che agisce nel registro della rappresentazione. A meno di non fare appello a un’istanza divina — come la «complicità delle ori­ gini» del mito in Derrida, che s’istituisce sul piano di una archiscrittura significante — si deve necessariamente ricorrere, per concepire la con­ giunzione fra parole e cose, a un sistema di chiavi macchiniche che «at­ traversano» i diversi campi considerati. Questa congiunzione sembra realizzarsi a partire dai mutamenti mac­ chinici più deterritorializzati, quelli che operano appunto sul piano del­ le macchine più astratte. Queste costituirebbero, in un certo senso, al di qua delle formazioni semiotiche e dei flussi materiali, la punta avan­ zata della deterritorializzazione macchinica. Contrariamente agli altri contenuti, esse non si inscrivono nel disordine delle strutture della rap­ presentazione; non sono condizionate dalle coordinate spazio-temporali deirimmaginario sociale; costituiscono di per sé il luogo di ogni possi­ bile consistenza di un processo di verità: le macchine astratte cristalliz­ zano la deterritorializzazione, ne sono l’intensità fondamentale. Rica­ vando la nozione di consistenza dalle assiomatiche matematiche, si par­ lerà di consistenza macchinica e si dirà che la generazione delle mac­

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chine astratte, quali che siano i loro supporti di attualizzazione mate­ riali o semiotici, avviene su un piano di consistenza macchinica. Non si tratta piti di affermare, su un piano formale, la condizione di non con­ traddizione di un sistema, ma di esprimere il carattere di coerenza, d’ir­ reversibilità dei mutamenti macchinici deterritorializzati che operano sul phylum macchinico. Le strutture rappresentative, in quanto riman­ gono separate dalle istanze produttive reali, impongono alle macchine semiotiche di «rettificare» continuamente il loro punto di vista per adattarsi all’economia dei flussi materiali; esse devono organizzarsi nel­ la prospettiva di una consistenza e di una decidibilità assiomatica o spe­ rimentale. Completamente differente è il caso delle macchine intensive che non hanno affatto bisogno di ricorrere a tali sistemi di mediatori. Esse sono infatti in presa diretta sul loro sistema di codifica e di veri­ fica. Sono esse stesse la loro verità. Articolano la loro consistenza logica solo attraverso la loro esistenza, e questa non è più individuale. Non si ha più a che fare allora con esistenti individuati, localizzati in relazione a sistemi di coordinate spazio-temporali e a sistemi di osservazione. Tale modalità di esistenza implica che un soggetto e un oggetto siano costituiti al di fuori del processo di deterritorializzazione, donde i rap­ porti di relativa deterritorializzazione di tempo e spazio. Con il macchi­ nismo astratto ci si pone immediatamente nella prospettiva della deter­ ritorializzazione in atto, cioè dei processi reali di modificazione, di mu­ tamento, di buco nero, ecc. Le macchine quindi possono essere individuate soltanto nel campo della rappresentazione; la loro esistenza, al di qua dei sistemi del pen­ siero referenziale, è trans-individuale e diacronica. Una macchina non è altro che un anello della catena macchinica, che può essere arbitraria­ mente distinto su un albero o su un rizoma d’implicazione macchinica. Una particolare macchina confina sempre, da un lato, con quella che essa «supera» e, dall’altro, con quella che la condanna all’obsolescenza. La codifica naturale faceva intervenire catene a-semiotiche territorializzate senza produrre alcuna fuga significante; ad esempio, la deterritorializzazione del processo di riproduzione genetica, la sua «creativi­ tà», la sua «innovazione», avvenivano senza autoidentificazione, senza referente significativo, insomma senza macchina coscienziale. La stessa economia, lo stesso evitare qualsiasi fuga significante si riscontrerebbe in semiotiche di comunicazioni sociali come quelle degli insetti, che si fondano su una codifica altamente specializzata, non traducibili, prive di un piano autonomo del significante. L’instaurazione di un macchini­ smo semiotico a-significante, legata ai processi di deterritorializzazione tecnici, scientifici, artistici, rivoluzionari, ecc. comporta anche la liqui­

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dazione dei modi di rappresentazione umanistici, personologici, familiaristici, patriottici, ecc. Essa implica un allargamento costante della pro­ duzione desiderante all’insieme delle semiotiche a-significanti e ai loro plusvalori macchinici. Ciò non significa comunque un ritorno al mito di una semiotica della «natura». Si tratta anzi di un superamento delle semiotiche centrate sull’uomo, di un passaggio irreversibile a semioti­ che che mettono in gioco apparati teorici e tecnologici sempre più diffe­ renziati, sempre più artificiali, sempre più lontani dai valori arcaici. Il problema non consiste più nel tentare di mettersi di traverso ai flussi deterritorializzati, ma di portarsi davanti a loro. Sempre più numerosi i flussi di desideri, sempre più accentuata la deterritorializzazione dei flussi. Dalla congiunzione fra le semiotiche della coscienza e quelle dei macchinismi deterritorializzanti dipende la capacità delle società umane di liberarsi dalle alienazioni territorializzate sull’io, la persona, la famiglia, la razza, lo sfruttamento del lavoro, la divisione dei sessi, ecc. L’uomo fa l’amore utilizzando segni e ogni genere di elementi extra­ umani, cose, animali, immagini, sguardi, macchine, ecc. che non erano stati codificati, ad esempio, nel funzionamento sessuale dei primati. Con il passaggio alle semiotiche a-significanti, la soggettività dell’enuncia­ zione è portata a investirsi su un corpo senza organi collegato a una molteplicità d’intensità desideranti. Questo corpo senza organi oscilla fra un’antiproduzione che tende a riterritorializzarsi in significazioni residue e una iperproduzione semiotica che si apre verso nuove connes­ sioni macchiniche. La concatenazione collettiva di enunciazione può cosi diventare il nucleo d’immanenza di nuove connessioni desideranti, il luogo in cui si produce e si gode, oltre l’umanità, in rapporto ai flussi cosmici che attraversano tutti i tipi di macchinismo. Di nuovo, ciò non significa affatto che l’enunciato debba ritornare ai meccanismi «presi­ gnificanti» della codifica naturale oppure che sia condannato a non esse­ re altro che un elemento fra i tanti di una macchina sociale alienante. Non si correrà il pericolo di unirsi al coro di quegli umanisti che pian­ gono sulla perdita dei veri valori e sull’essenza malefica delle società in­ dustriali, anche se hanno cercato di adattarsi allo stile «nuova cultura».

Semiotiche a «n» articolazioni. Le semiotiche significanti istituiscono sistemi di mediazione che rap­ presentano, neutralizzano e impotenziano le molteplicità intensive sot­ tomettendole alla coppia forma-sostanza. Esse dànno forma alle sostan­ ze dell’espressione e a quelle del contenuto; impongono alle materie

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intensive il regime degli strati a doppia articolazione Questo sistema dev’essere considerato come una particolare opzione semiotica dei pro­ cessi di deterritorializzazione. Ci si trova di fronte a un’alternativa: o un sistema a n articolazioni in cui le diverse semiotiche a-significanti uniscono i loro effetti senza che nessuna surcodifichi le altre; oppure un sistema di doppia articolazione - di doppia formalizzazione - che surcodifica tutti gli altri sistemi. In quest’ultimo caso, le semiotiche diven­ tano vittime di ciò che si potrebbe chiamare l’illusione significante e sembrano dipendere tutte dalla linguistica 1 Persino gli strad semiotici descritti da Hjelmslev appartengono ancora a quella particolare forma­ lizzazione propria delle semiotiche significanti. Sembra tuttavia che la tripartizione proposta da Hjelmslev, a patto di trasporla, dovrebbe es­ sere conservata: — la forma, considerata indipendentemente dalla sostanza (contraria­ mente a Hjelmslev). Essa apparterrebbe, in questo caso, a ciò che chiameremo le macchine astratte; -la sostanza, o, più esattamente, la coppia sostanza/forma. Essa corrisponderebbe al caso particolare delle semiologie della signifi­ cazione, come modalità di attualizzazione, di manifestazione, di captazione della potenza di deterritorializzazione delle macchine astratte quando queste dipendono dal sistema di stratificazione di un’espressione e di un contenuto, fondato sul principio della dop­ pia articolazione; — la materia, considerata indipendentemente dalla sua formazione se­ miotica significante (e neppure questo caso è esaminato da Hjelm­ slev, poiché, secondo lui, ciò significherebbe uscire dal campo se­ miotico). Essa diventerebbe un’istanza corrispondente a ciò che qui è definito come il senso macchinico. Nell’ambito di una semio­ tica del senso macchinico, e non più del significato, delle intensità materiali, e non più del significante come categoria in sé, delle con­ catenazioni collettive di enunciazione, e non più di una individua­ zione del soggetto fondata sul primato dell’enunciato, è proprio la distinzione tra contenuto ed espressione a scomparire poco a po­ 1 Cfr. l’analisi di Christian Metz a proposito dei Fondamenti di Hjelmslev: « Ritorniamo al cap. 13 dei Fondamenti dove si dice che la forma è una pura rete di relazioni, che la materia (qui chiamata "senso”) rappresenta l’istanza inizialmente amorfa nella quale si inscrive e si "manifesta” la forma e che la sostanza è ciò che appare quando si proietta la forma sulla materia "come una rete tesa proietta la propria ombra su una superficie ininterrotta”; questa metafora ci sembra parti­ colarmente chiara: la "superficie ininterrotta’ è la materia, la "rete tesa” è la forma e "l’ombra” della rete sulla superficie è la sostanza» (christian metz, Langage et cinema, Larousse, Paris 1970, p. 138). 2 émile ienyeniste, in «Semiotica», 1969, nn. 1-2.

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co. È forse in questo senso che si deve intendere l’intuizione di Hjelmslev (o dei suoi traduttori) quando identifica materia e senso. Nel caso particolare delle macchine significanti a doppia articolazio­ ne, si cade, in un certo senso, sotto il regime di una deterritorializza­ zione controllata. L’antiproduzione di significazione e di soggettivazio­ ne riterritorializza parzialmente il processo semiotico. Non si tratta d’altronde di una neutralizzazione radicale: le semiotiche della signifi­ cazione comportano anche la realizzazione di una deterritorializzazione coscienziale che avrà sempre un ruolo fondamentale nelle congiunzioni macchiniche più avanzate, artificiali, moderne, scientifiche. Nel caso di una politica delle semiotiche a-significanti, a n articolazioni, si conser­ verà perciò un certo uso parziale delle semiologie significanti. Queste funzioneranno malgrado i loro effetti riterritorializzanti di significazio­ ne e soggettivazione. Perderanno semplicemente la funzione di surco­ difica sui sistemi di produzione semiotica che cadevano sotto il dispo­ tismo del significante. Distinguendo, come si è cercato qui di fare, due diverse politiche semiotiche, si vogliono determinare le condizioni che permetterebbero a un certo numero di regioni semiotiche, nelle scienze, nelle arti, nella rivoluzione, nella sessualità, ecc. di liberarsi dalla tutela delle rappre­ sentazioni dominanti, e addirittura del sistema della rappresentazione in quanto tale, sistema che separa la produzione desiderante dalla pro­ duzione scambista e la sottomette agl’imperativi dei rapporti di produ­ zione dominanti. Riprendiamo i tre tipi di sintesi che abbiamo utilizzato per distin­ guere e articolare produzione e rappresentazione: 1) Sul piano delle sintesi connettive, i processi di codifica a-semiotici fanno intervenire le macchine astratte, cioè processi macchinici indipendenti dalle dicotomie tra il «fare» e il «pensare», tra la rappresentazione e la produzione. Il senso macchinico qui do­ vrebbe essere inteso nella sua accezione vettoriale: il senso marca una modalità di connessione polivoca tra i flussi macchinici. Le molteplicità intensive non possono essere totalizzate, territorializzate su un sistema di significazione. Esse producono le loro pro­ prie coordinate e questa produzione di senso, che non ingloba il processo stesso e che si sviluppa a lato di esso, trasversalmente, al di fuori di qualsiasi sistema di rappresentazione, non è nient’altro che ciò che abbiamo definito come il corpo senza organi. 2) Con le sintesi disgiuntive s’instaura il primato del formalismo del­ la rappresentazione. Particolari sostanze significanti assumono il

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controllo del funzionamento delle macchine astratte; essi captano, organizzano, «disciplinano» le sintesi connettive. Oltre che mac­ chine di deterritorializzazione sul versante della coscienza che si annulla, esse sono al tempo stesso una struttura di riterritorializzazione per mezzo del regime di doppia articolazione che ge­ nera effetti di significazione e di soggettivazione. Con le sintesi disgiuntive si oscillerà fra l’impasse dell’impotenziamento iconico e una diagrammatizzazione deterritorializzante capace di riartico­ larsi con le sintesi connettive. 3) In questa ramificazione, le sintesi congiuntive definiscono lo sta­ tus della soggettivazione. Nel caso delle semiologie significanti, la soggettivazione è individuata, scissa dal significante, resa impo­ tente; il soggetto è pura contiguità rispetto alle sostanze signifi­ canti. Ogni polivocità dell’enunciazione è eliminata in un sogget­ to « trascendentalizzato » dell’enunciazione. Nel caso delle semiotiche a-significanti, una concatenazione colletti­ va di enunciazione permette di evitare la frattura inerente ai sistemi di rappresentazione. Il senso delle macchine astratte si unisce al senso del­ le concatenazioni collettive di enunciazione, al di qua e al di là dei signi­ ficati disgiuntivi esclusivi delle semiologie significanti, con il loro effet­ to d’individuazione della soggettività. Le concatenazioni collettive di enunciazione e di produzione operano perciò una congiunzione da un lato tra le macchine astratte e, dall’altro, tra le macchine attualizzate nei flussi materiali e nei flussi di segni a-significanti. L’effetto specifico della deterritorializzazione tendente al nulla della macchina coscienziale si trova, in un certo senso, isolata dai significati soggettivanti. Una mac­ china di deterritorializzazione intensiva agisce sui flussi di segni e confe­ risce loro una nuova potenza liberandoli dalle impasse iconiche e inse­ rendoli in processi di congiunzione diagrammatica. Con le semiotiche a-significanti, si è cosi usciti dall’impasse tipica dei processi di codifica significante, che consisteva 1) nel separare la produzione dalla rappre­ sentazione; 2) nell'isolare e neutralizzare il continuum delle «produ­ zioni materiali», sottraendolo ai due formalismi della rappresentazione significante: quello del contenuto e quello dell’espressione. La doppia articolazione stringe in una sorta di sandwich le molteplicità intensive. Tradotto nella terminologia di Martinet questo problema potrebbe es­ sere enunziato nel seguente modo: i monemi strutturati sul piano della prima articolazione e i fonemi strutturati su quello della seconda artico­ lazione non sono di natura diversa. Entrambi sono generati, partendo dallo stesso continuum, da un effetto di doublé bind, dalla necessità di

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rispondere a due tipi eterogenei di formalizzazione. Si avranno così in «uscita» due tipi di produzione: significati gerarchizzati, paradigmatizzati, impotenziati e significanti civilizzati, sintagmatizzati. Ma, al di fuo­ ri di questa coppia costitutiva dell’effetto di significazione, si è potuta formare una linea di fuga diagrammatica a-significante di nuovo tipo. È possibile stabilire ora una relazione semiotica diretta fra la mate­ ria dell’espressione e le macchine astratte. Di conseguenza, la distinzio­ ne tradizionale fra l’espressione-significante e il contenuto-significato tende a perdere il suo carattere di evidenza apodittica. L'espressione di nn senso macchinico sostituisce: 1) il sistema della significazione, fondato sulla coppia significante/ significato; 2) il sistema della rappresentazione, fondato sulla coppia sostanza/ forma; 3 ) l’articolazione dei due precedenti sistemi in quanto modalità di soggettivazione che impedisce qualsiasi accesso diretto al referen­ te, cioè alle molteplicità materiali intensive. Si può ritenere a questo proposito, che il sistema di pensiero refe­ renziale sia stato in fondo soltanto una estrema barriera, un tentativo disperato, per scongiurare la proliferazione, sempre più pericolosa, di macchine astratte sul phylurn macchinico \ Le due coppie significato/significante, sostanza/forma erano sogget­ tivanti; la coppia espressiva materia/ macchina astratta implica una concatenazione collettiva di enunciazione. È bene però ripetere che tale desoggettivazione non per questo invalida le semiotiche «umane». Nel­ l’ipotesi dell’abolizione del dispotismo del significante, le lingue signi­ ficanti si troverebbero ancora a svolgere un ruolo essenziale come mezzi di cattura dei processi di riterritorializzazione e nel dare tutta la loro virulenza alle punte macchiniche di deterritorializzazione. Così, nella schizoanalisi si darà libero corso alle rappresentazioni edipizzanti, ai fantasmi paranoico-fascisti per meglio scongiurare i loro effetti di bloc­ co dei flussi e per rilanciare il processo in una sorta di fuga macchinica in avanti. 1 Metz ritiene che esista in Chomsky un certo superamento dell’opposizione di Hjelmslev fra espressione e contenuto. I chomskiar.i fanno riferimento a una «macchina logica» che precederebbe il testo e sarebbe capace di generarlo, superando cosi l’opposizione tra forma del contenuto e for­ ma dell’espressione. È un punto da approfondire; d sembra tuttavia che, a prima vista, questa macchina logica resti ancora limitata alle semiotiche della significazione e non permetta di com­ piere il passaggio alle macchine astratte che invece precedono non solo il testo, ma anche ogni ma­ nifestazione macchinistica. La stessa osservazione vale per il sistema di oggetti astratti proposto dal Modello Generativo Applicativo di S. K. Saumjan.

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L’approccio che qui si propone implica un capovolgimento fondamentale di prospettive. Si rinuncia alle classificazioni formali delle com­ ponenti semiotiche per considerare innanzitutto il montaggio, le conca­ tenazioni da esse costituite, e ciò in funzione dei regimi particolari di deterritorializzazione di flusso. Le macchine di segni partecipano ai pro­ cessi di deterritorializzazione che si verificano entro il phylum macchi­ nico. Non è nemmeno più necessaria una distinzione netta tra, per esempio, una diagrammatizzazione che verta su dei segni e una innova­ zione tecnologica, o una mutazione scientifica che verta su dei flussi «naturali» o delle macchine «artificiali». Sia per quel che riguarda la «natura» sia per quel che riguarda i segni si ha a che fare con lo stesso tipo di macchinismo e con la stessa semiotica delle intensità materiali. Le opposizioni tra natura e cultura, segni e cose, anima e materia, pensiero e tecnica, ecc. assumevano una consistenza apparente solo nel quadro di una semiologia della significazione che intendeva classificare, controllare, costituire in oggetti chiaramente delimitati e collegati a pre­ cisi referenti, tutti i «contenuti» che estorceva alle molteplicità inten­ sive ‘. Le concatenazioni di flussi deterritorializzati di elettroni, di flussi di segni, d’insiemi sperimentali, di macchine logiche, ecc. concorrono a una piena espansione delle congiunzioni deterritorializzanti e libera le macchine astratte dall’imperialismo degli strati significanti. Le congiunzioni macchiniche potranno trovare il loro senso, essere «pilotate» nella loro intensità deterritorializzante sia partendo da un flusso di elettroni sia da un flusso di equazioni o da un flusso assioma­ tico. Ciò non comporta — bisogna insistere su questo punto — un ritorno alle «origini»: la costruzione di una concatenazione collettiva di enun­ ciazione implica, al contrario, che si continui, sotto altre forme, a pas­ sare attraverso le «successioni del significante» e le scissioni della sog­ gettivazione individuata. Si tratterebbe tuttavia solo di un ricorso resi­ duo, privo di portata trascendentale, d’incidenza paralizzante sui pro­ cessi storici di deterritorializzazione. Sembra opportuno citare alcuni esempi di macchine astratte. Queste possono essere macchine logiche messe in circolazione dalla scienza op­ pure formule di trasversalità «liberate» nel corso della storia, ad esem­ pio, nel campo delle macchine da guerra o delle macchine religiose. Ma questo tipo di macchinismo prolifera anche su scala microscopica. Esa­ 1 È forse un’intuizione di questo genere che pota Christian Metz a proporre l’analisi dei tratti pertinenti della materia dell'espressione, oppure l'opposizione ira la categoria deU’espressione e quella della significazione. Ma, secondo me, ha torto di continuare a parlare, a proposito del cine­ ma, di materia del significante e di non attenersi invece alla formulazione di Hjelmslev: materia dell 'espressione.

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miniamo ciò che, nella clinica di La Borde, va sotto il nome di griglia: quali che siano le diverse forme della sua realizzazione, le sue varie fasi, si può ritenere ch’essa abbia fatto emergere una macchina astratta. Il problema riguardava la possibilità di congiungere flussi di tempo, flussi di lavoro, varie funzioni, flussi di denaro, ecc. con modalità un po’ diffe­ renti da quelle che generalmente esistono in cliniche dello stesso genere e che possono essere caratterizzate dall’esistenza di un organigramma di funzioni relativamente statico. La griglia dei turni — «iscritta» su un foglio - la macchina delle «rotazioni» delle funzioni, iscritta in una se­ miologia gestuale, la modificazione delle categorie gerarchiche, iscritta in una semiologia giuridica e sociale, sono altrettante manifestazioni proprie di uno stesso macchinismo astratto che esprime un certo muta­ mento - locale e con scarse conseguenze, certo - dei rapporti di produ­ zione. E forse si è fatto tanto chiasso e sono state dette tante falsità su questo esperimento proprio perché questo macchinismo è nato a La Borde1. Altri esempi di macchine astratte: i rituali di amore che con­ traddistinguono ogni epoca. Con l’amour courtois, ci si troverebbe di fronte, secondo René Nelly, a un tipo radicalmente nuovo di concate­ nazione dei rapporti tra tomo e donna, nel quadro dell’organizzazione delle caste feudali. La semiotica amorosa romantica, d’altro canto, indi­ pendentemente dai significati e dai sentimenti che porta con sé, corri­ sponderebbe piuttosto all’aflermarsi di un certo tipo di rapporto con l’infanzia, di un uso delle intensità e delle territorialità dell’infanzia in ciò che si è chiamato «blocchi di infanzia», opponendoli ai ricordi d’in­ fanzia. (Che non si tratti,in questo caso, semplicemente di temi signifi­ cativi, bensì della realizzazione di una macchina intensiva a-significante, potrebbe essere attestato da! ruolo decisivo esercitato da tali blocchi d’infanzia nella musica diSchumann...)

I rapporti di forza dell’enunciazione. La funzione del linguaggio non consiste unicamente nel servire da canale di trasmissione ai flussi di informazione; le lingue non sono sem­ plici supporti di comunicazione tra gli individui, non sono separabili dal campo sociale e politico in cui si manifestano. Quella che è stata chiamata l’arbitrarietà nelrapporto di significazione - il rapporto significante-significato — non è altroché una particolare manifestazione dell’ar­ bitrarietà del potere. La lingua dominante è sempre la lingua della classe 1

Cfr. il numero speciale della ùvisu « Recherches » su La Borde, aprile 1976, n. 21.

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Impalcature semiotiche

dominante, il potere utilizza le semiotiche significanti, ma, nella sua lo­ gica fondamentale, funziona per mezzo di semiotiche a-significanti. Lin­ guisti come Oswald Ducrot giungono cosi a «dubitare della metafora troppo facile che assimila lingue e codici e, di conseguenza, a sfumare o addirittura a rimettere in questione la definizione di lingua come stru­ mento di comunicazione» Promettere, ordinare, consigliare, dare la parola, fare l’elogio, prendere sul serio o alla leggera, ironizzare, ecc. so­ no atti micropolitici quanto linguistici. Essi appartengono, in diversa misura, a quelli che Austin chiama atti illocutori. Ogni enunciato può cosi rimandare a una stratificazione di enunciazione, ordinata in base alle gerarchie, alle caste e alle classi. Ogni domanda sullo status delle concatenazioni collettive di enunciazione comporterebbe quindi il rifiu­ to di appiattire l’enunciazione sugli enunciati, e l’esame di stratificazioni di enunciazione che non possono certo essere ridotte alle sole sostanze linguistiche. Al di là dei messaggi esplicitati e enunciati individual­ mente, l'analisi dovrebbe occuparsi delle dimensioni semiotiche a-significanti che sottendono, chiarificano, smontano ogni discorso. Il suo obiettivo non consisterebbe tanto nel cercare di esprimere tutto in ter­ mini di testo e di significante, quanto nel cogliere gli autentici rapporti di forza, cioè le concatenazioni macchiniche del desiderio. Il potere utilizza semiotiche significanti, ma non si aliena mai com­ pletamente in esse e sarebbe certo illusorio immaginare che possa diven­ tare la vittima delle proprie pratiche significanti e delle proprie ideolo­ gie. Le classi dominanti favoriscono lo sviluppo di comportamenti di significanza; ciò costituisce anzi una base della loro potenza, ma, per esse, l’unico scopo è l’uso di tali strumenti semiotici per «drogare» individui che sono già assoggettati sul piano dei loro rapporti di produ­ zione desiderante ed economica. Esistono due modi di affrontare una semiotica ideologica: quello che, partendo da un potere reale - ad esempio, il potere di Stato o quello di un movimento politico tradizionale - tenta di determinare la generazio­ ne dei significati dominanti come tecnica di impotenziamento semiotico, e quello che parte invece dall’ideologia, o addirittura da una critica del­ l’ideologia, per cercare di rendere conto della realtà. In questo secondo caso, si ha a che fare con una sorta di simulazione delle intensità reali, ci si culla in grandi dichiarazioni, programmi imponenti, è lo stile, ben noto, dei partiti riformisti e di tutti quelli che vogliono nascondere le basi effettive del potere politico. La politica di significanza consiste nell’usare ovunque tutto un sistema di disturbo del senso macchinico, nel 1

oswald ducrot, Dire

et ne pus dire, Hetmarm, Paris 1972, p. 24.

Per una micropolitica del desiderio

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fare proliferare, su territorialità soggettive, arcaismi che reificano l’e­ nunciazione, scindendola nei due strati formalizzati del contenuto e dell’espressione. Il risultato di questa politica consiste nel bloccare la prassi semio­ tica delle masse — formate da ogni genere di minoranze desideranti op­ presse - nell’impedire loro di entrate in connessione diretta con i flussi materiali e con quelli semiotici, di collegarsi con le linee di deterritoria­ lizzazione dei diversi tipi di macchinismi e di minacciare cosi l'equilibrio dei poteri costituiti. Il pensiero referenziale, la comprensione, l’inter­ pretazione, la trascendentalizzazione di oggetti «chiari e distinti», il dogmatismo dipendono dallo stesso metodo di assoggettamento agli enunciati e ai significati dominanti. Ogni enunciato dovrà essere inteso nel campo prestabilito di valori bipolari esclusivi, ogni sequenza semio­ tica dovrà abbandonare il terreno della sua originaria formazione mac­ chinica, per entrare nei sistemi di ridondanza formale della significa­ zione e della rappresentazione '. Non sembra il caso di aggrapparsi all’opposizione tra scienza e ideo­ logia, soprattutto nel modo ossessivo degli althusseriani che la rendo­ no netta, schematica, priva di un autentico rapporto con il pensiero di Marx. La salvezza non proviene da un ricorso globale alla scienza, o a una scientificità, del tutto mitica, dei concetti o delle teorie, considerate indipendentemente dal loro contesto tecnico-sperimentale e dalla loro contingenza storica. I rapporti tra scienza e politica non sono mai rap­ porti di dipendenza. Certo entrambi derivano dallo stesso tipo di conca­ tenazioni collettive economiche e sociali, ma le loro produzioni semio­ tiche sono orientate verso strade radicalmente diverse. Gli enunciati scientifici — nell’ambito degli odierni rapporti di pro­ duzione scientifica — sono, in un certo senso, aspirati dal campo del for­ malismo logico-matematico, mentre gli enunciati politici - non più nel senso di una micropolitica del desiderio, ma in quello abituale — sono sistematicamente ridotti a enunciati personologici, familiaristici e uma­ nistici. In queste condizioni, attribuire alla scienza - in realtà, a una cer­ ta mitologia della scienza - il privilegio esclusivo di costituire il luogo della verità, di essere l’unico centro di tutte le deterritorializzazioni, vuol dire darle troppa importanza. E pretendere di ridurre la politica a un puro esercizio ideologico, qualora si rifiutasse di sottomettersi alle ingiunzioni degli epistemologi, significherebbe spingere ancor pili la po­ litica nell’impasse in cui si trova. Si rifiuterà perciò, qui, la validità di 1 Gli assiomi del pensiero referenziale sono stati raggnippati da Gilles Deleuze, in Différenct et Répétition, intorno a quattro temi: l’identità nel concetto; la similitudine nella percezione; l’a­ nalogia nel giudizio; la negazione neila posizione dell’esistenza.

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Impalcaturesemiotiche

una coupure epistemologica radicale tra un campo concettuale di pura scientificità e un’ideologia puramente illusoria e mistificatrice. Non ap­ pena il discorso della scienza diventa un discorso sulla scienza — ed è impossibile determinarne il confine in modo assoluto sul terreno con­ creto delle concatenazioni scientifiche di enunciazione, anche se non mancheranno gli epistemologi per contraddirci! - esso scivola di per sé nell’ideologia, cioè in una semiotica della significazione. Le pretese ideo­ logie, per contro, possono acquisire un’efficacia reale, possono essere utilizzate «scientìficamente» e avere decisive conseguenze sociali, eco­ nomiche e materiali. In altri termini, ci sembra completamente assurdo voler fondare una politica rivoluzionaria sulla scienza. La scienza alla quale si riferiscono i marxisti scientifici non esiste; si tratta di una scien­ za immaginaria che ha riscontro solo negli scritti epistemologici. Non ci sembra invece assurdo fondare una politica rivoluzionaria su pratiche semiotiche e analitiche che rompano con la semiotica dominante; cioè su una pratica della parola, della scrittura, delle immagini, dei gesti, dei gruppi, ecc. che guidi in modo differente il rapporto tra i flussi di segni e l’insieme dei flussi deterritorializzati. Infatti, proprio perché si lascia­ no imprigionare nella rete delle semiologie interpretative, le masse non colgono bene l’autentica fonte della loro forza, cioè la loro presa con­ creta sulle semiotiche industriali, tecnologiche, scientifiche, economiche e sociali, facendosi intrappolare nei fantasmi della realtà dominante e nelle modalità di soggettivazione e di repressione del desiderio imposte dalla borghesia. A proposito di ogni tipo di macchinismo semiotico, d’ordine scienti­ fico, artistico, musicale, sportivo, ecc. bisognerà determinare l’equili­ brio delle forze, la composizione risultante da due politiche semiotiche di base: quella della significanza e dell’interpretazione, da un lato, e quella delle connessioni macchiniche e della sperimentazione collettiva, dall’altro. Qualunque sia la contaminazione delle semiotiche scientifiche da parte degli enunciati della religione e della filosofia, esse restano com­ plessivamente fondate su una politica macchinica. Ciò che conta, in ul­ tima analisi, è sempre la presenza delle concatenazioni di segni, di in­ siemi tecnico-sperimentali, mentre le finalità, le interpretazioni, le rap­ presentazioni iconiche finiscono sempre per passare in secondo piano. Ma, ancora una volta, non esistono garanzie che proteggano meccanicamente la pratica scientifica dalle aberrazioni interpretative, ed è noto che gli scienziati vi si dedicano spesso e volentieri, talvolta con un vero e proprio fervore mistico. Per concludere queste riflessioni sulle concatenazioni dell’enuncia­

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zione, farei alcune osservazioni a proposito delle semiotiche artistiche. In questo campo le cose sono meno chiare, il «recupero significante» avviene in nome dell’opera, dell’artista, dell’ispirazione, del talento, del genio... Sembra tuttavia che, neU’insieme, si possa considerare l’evolu­ zione dell’arte moderna come una tendenza verso una politica a-signifi­ cante: il figurale, le concatenazioni macchiniche stanno prendendo il sopravvento sui sistemi rappresentativi, espressivi codificati, iconici. Tuttavia un esame dei vari tipi di concatenazioni collettive indurrebbe ad articolare meglio questo giudizio. Lo stereotipo abituale, per esem­ pio, di un pittore corrisponde a un individuo particolarmente aperto alla vita in società... Lo si rappresenta con un gruppo di amici, in una bettola... Forse farà parte di una scuola, probabilmente sarà più im­ pegnato politicamente di un musicista. Quest’ultimo, infatti, apparirà piuttosto come un personaggio solitario, alle prese con la vertigine del­ la creazione musicale la cui chiave sembra inafferrabile. Si può notare tuttavia che, a parte alcune eccezioni, i musicisti sono sempre stati in­ clini alla difesa dei valori tradizionali, alla religione, o addirittura soste­ nitori della reazione sociale. In realtà, essi sono, a modo loro, molto «impegnati». Non è quindi possibile attenersi alla prima impressione, che collocherebbe il pittore dalla parte della società e il musicista da quella della trascendenza. Il paradosso risulta confermato se, invece del loro atteggiamento intellettuale, si esamina la natura delle concatena­ zioni collettive in cui entrambi sono inseriti. La produzione musicale utilizza vastissime concatenazioni colletti­ ve, comporta una rilevante divisione del lavoro e si fonda su tutto un pbylutn musicale. Ogni musicista scrive nel prolungamento delle scrit­ ture precedenti; quali che siano le novità di cui è portatore, egli rimane tributario di tutta una tecnologia, di tutto un apparato professionistico che gli permette di manifestare la sua opera. I musicisti fanno parte di una sorta di casta, dai rituali molto complessi, una casta che occupa d’al­ tronde un posto non trascurabile nella gerarchia dei poteri reazionari. (I pittori debbono senz’altro fare i conti più con i poteri finanziari che con quelli aristocratici). Bisognerebbe opporre, a questo punto, le mac­ chine astratte della musica (a-significante e deterritorializzante per eccel­ lenza) alle strutture delle caste musicali, ai conservatori, ai dogmi scola­ stici, alle regole di scrittura, al sistema che fa capo aU’impresario, ecc. Si noterebbe che la concatenazione collettiva della produzione musicale è organizzata in modo da frenare, da ritardare la potenza di deterrito­ rializzazione che il pbylutn musicale mette in gioco. Bisognerebbe ri­ prendere, qui, la storia dei rapporti tra la Chiesa e la musica, partendo dall’origine della polifonia. La Chiesa, ad esempio, ha sempre cercato

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Impalcature semiotiche

di bloccare l’espansione macchinica della musica strumentale, ha voluto limitarsi per molto tempo alla sola voce. Essa ha cercato di fissare dog­ maticamente confini di scrittura, di imporre stili, forme di composizio­ ne. Per contro, uno dei «tratti pertinenti della materia dell’espressione pittorica», riprendendo una formula di Christian Metz, consisterebbe forse nel fatto che il pittore, nonostante l’apparenza, è molto più solita­ rio del musicista1. Le scuole, la tradizione hanno su quest’ultimo un peso di gran lunga inferiore. Le forme musicali invadono l’ascoltatore, lo prendono, lo guidano, lo controllano. Una tela mandene le distanze nei confronti dell’amatore che la prende, la lascia, la guarda distrattamente. Il pittore, l’opera, l’amatore restano, in un modo o nell’altro, radicalmente separati gli uni dagli altri. In fin dei conti, le concatena­ zioni collettive costituite dalle arti plastiche sono molto meno «uma­ ne», molto più macchiniche delle concatenazioni collettive della musica, impregnate, persino nelle loro forme più moderne, da una polidca di ridondanza significativa. La pittura è chiaramente più territorializzata della musica, ma il pittore è più deterritorializzato del musicista. 1

Cfr. il romanzo di Alberto Moravia La noia.

Il posto del significante nell’istituzione

Le categorie di Hjelmslev saranno riprese qui solo per tentare di de­ finire la posizione del significante nell’isdtuzione; posizione che non è identificabile se si parte dalla situazione analitica classica. Si ricorderà che la sua distinzione tra espressione e contenuto coincide con la tripar­ tizione tra materia, sostanza e forma. Ci si fonderà essenzialmente sul­ l’opposizione hjelmsleviana tra materia (materia dell’espressione, mate­ ria del contenuto) e formazione delle sostanze semiotiche. Ciò che si vuole affermare qui è che le semiologie della significazione funzionano nei quattro quadrati dell’espressione e del contenuto, e a un altro livello, della sostanza e della forma, mentre le semiotiche cui ci si trova di fronte, in una situazione istituzionale, mettono in atto anche le due dimensioni delle materie non semioticamente formate, cioè il senso, come materia dell’espressione, e il continuum dei flussi materiali come materia del contenuto (cfr. la tabella a p. 182). Per Hjelmslev una sostanza è semioticamente formata quando si proietta la forma sulla materia o sul senso, «come una rete tesa proietta la propria ombra su una superficie ininterrotta». È noto che le catene significanti comportano la presenza, a livello della sostanza dell’espressione, d’insiemi finiti di segni, di segni discretizzati e digitalizzati, le cui composizioni formali corrispondono alla for­ malizzazione dei contenuti significati. Sembra che i linguisti abbiano identificato troppo in fretta la distinzione di Hjelmslev tra espressione e contenuto con quella di Saussure tra significante e significato. In real­ tà, la separazione tra le materie non semioticamente formate e le sostan­ ze semioticamente formate, nella misura in cui è stabilita indipendente­ mente dai rapporti tra espressione e contenuto, apre la strada allo studio di semiotiche indipendenti dalle semiologie significanti, cioè di semioti­ che che, per l’appunto, non siano fondate sulla bipolarità significantesignificato. La preoccupazione di non appiattire le semiotiche istituzio­ nali sulle semiologie significanti ci porta a distinguere sia tra loro sia da quelle che abbiamo chiamato le codificbe a-semiotiche. 13

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Impalcature semiotiche

Riassumiamo di nuovo la classificazione proposta a questo riguardo

1) Le codifiche a-semiotiche: esempio: la codifica genetica oppure qualunque tipo di codifica definita come naturale e che funzioni indi­ pendentemente dalla costituzione di una sostanza semiotica. Queste mo­ dalità di codifica formalizzano il campo delle intensità materiali senza ricorrere a una «scrittura» autonoma e traducibile. Non si deve cadere neH’illusione semiotica consistente nel proiettare una scrittura sul cam­ po naturale. La scrittura genetica non esiste. La seconda colonna verti­ cale della tabella non riguarda perciò questo caso2. 2) Le semiologie significanti: sono fondate su sistemi di segni, su so­ stanze formate semioticamente e che hanno rapporti di formalizzazione 1 Si ritornerà a più riprese, in questo libro, su questo tentativo di classificazione delle codifi­ che. Infatti, essa è stata progressivamente elaborata durante la redazione dei diversi articoli e non si potevano unificare a posteriori le varie angolazioni dalle quali è stata proposta inizialmente. 2 Sapere se, nelle codifiche a-sem:otiche, esistano strati corrispondenti a quelli dell/espressione e del contenuto è un problema che non è possibile affrontare in questa sede. Si può dire semplicemente che esistono certamente sistemi complessi di articolazione, non fosse che, appunto, nella co­ difica genetica.

Il posto del significante nelTistituzione

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sul duplice piano del contenuto e dell’espressione. Si possono distin­ guere due tipi di semiologia significante: le semiologie simboliche e le semiologie della significazione: a) Le semiologie simboliche: esse comportano vari tipi di so­ stanze; ad esempio, nelle società arcaiche, una semiotica gestuale, una della mimica, una posturale, una delle iscrizioni sul corpo, una rituale, ecc. Anche la costituzione del «mondo» dell’infanzia o quella del «mon­ do» della follia fanno intervenire più cerchi semiotici decentrati che non saranno mai completamente traducibili in un sistema di significa­ zione universale. Le sostanze semiotiche conserveranno perciò una certa territorialità autonoma che corrisponderà a un certo tipo di godimento specifico. b) Le semiologie della significazione: tutte le loro sostanze d’espressione (sonore, visive, ecc.) sono invece centrate su un’unica so­ stanza significante. È la «dittatura del significante». Questa sostanza di riferimento può essere intesa come archi-scrittura, ma non nel senso di Derrida: non si tratta di una scrittura che «originerebbe» tutte le organizzazioni semiotiche, bensì dell’emergere, storicamente datato, delle macchine di scrittura, cioè di uno strumento fondamentale dei grandi imperi dispotici. Le macchine di scrittura sono essenzialmente legate all’instaurazione delle macchine del potere di Stato. Non appena queste sono insediate, tutte le altre sostanze semiotiche policentriche cadono sotto il controllo di uno strato specifico del significante. Il carattere totalitario di questa dipendenza è tale che, per un effetto immaginario di feed back, dà l’im­ pressione di «originare» l’insieme delle semiotiche partendo dal signi­ ficante. L’istanza della lettera nell’inconscio diventa quindi fondamen­ tale, non in quanto rumerebbe a una scrittura archetipica, ma perché manifesta il permanere di una significanza dispotica che, pur essendo nata in determinate condizioni storiche, continuerà comunque a eserci­ tare i suoi effetti e a svilupparsi in altre condizioni. c) Le semiotiche a-significanti: esse devono essere distinte dalle semiologie della significazione; si tratta insomma di semiotiche post-significanti. Una semiotica a-significante sarà, ad esempio, una mac­ china di segni matematici che non si proponga di produrre significati, op­ pure un insieme tecnico-semiotico scientifico, economico, musicale, arti­ stico, oppure ancora una macchina rivoluzionaria analitica. Queste mac­ chine a-significanti continuano a sostenersi sulle semiotiche significanti, ma servendosene solo come uno stmmento di deterritorializzazione se­ miotica che consentirà ai flussi semiotici di stabilire nuove connessioni con i flussi materiali più deterritorializzati. Il funzionamento di queste

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connessioni non dipende dal fatto che significhino o no qualcosa per qualcuno. In un certo senso, è giusto ritenere, come fa Benveniste, che tutte le semiotiche dipendono da una lingua significante nel venire all’e­ sistenza. Ma questa correlazione non implica affatto un rapporto di gerarchizzazione e di sottomissione. Una teoria chimico-fisica non si preoc­ cupa di proporre una rappresentazione mentale dell’atomo o dell’elet­ tricità, anche se, nella sua esposizione, continua a ricorrere a una lin­ gua di significati e d’icone. Essa non può fare a meno di questa specie di stampelle, ma mette essenzialmente in azione un certo tipo di macchina di segni che serve da supporto a macchine astratte che fondano la con­ catenazione tra gli insiemi sperimentali e quelli teorici. Si arriva a un punto in cui anche la distinzione tra macchina di segni e macchina tec­ nico-scientifica non è più pertinente; l’invenzione di un nuovo tipo di catena chimica oppure l’individuazione di una particella microfisica so­ no, in un certo qual modo, pre-formate da una produzione semiotica che determinerà non solo le loro coordinate spazio-temporali ma anche le loro condizioni di esistenza. Con le semiotiche a-significanti, i rapporti di produzione e di generazione reciproca tra la macchina semiotica e i flussi materiali risultano così radicalmente modificati. La macchina significante era fondata sul sistema della rappresenta­ zione, cioè su una produzione di ridondanza semiotica, che costituisce un mondo di quasi-oggetti, d’icone, di analogon e di schemi e sostituisce le intensità e le molteplicità reali. L’effetto di significazione, che risulta dal legame tra i due formalismi del significante e del significato, era preso così in un vero e proprio circolo vizioso, dove i flussi semiotici e i flussi materiali si neutralizzavano reciprocamente nel campo della rap­ presentazione. Un mondo di significazione dominante s’instaurava, par­ tendo dalle riterritorializzazioni significanti che risultavano da questa sorta di automutilazione delle macchine semiotiche, consistente nel loro essere centrate esclusivamente sulla macchina significante, macchina di simulacro e di impotenziamento. Il significante si sviluppava su uno strato autonomo, rimandava continuamente al significante, mentre il reale era messo a debita distanza dai flussi semiotici. Si poteva indivi­ duare una soggettività negli ingranaggi di questa macchina significante, secondo la formula lacaniana: «un significante rappresenta il soggetto per un altro significante». Soggettività ambigua, duplice: sul versante dell’inconscio, faceva parte di un processo di deterritorializzazione se­ miotica che «lavorava» le macchine linguistiche e le preparava a trasfor­ marsi in macchine semiotiche a-significanti, mentre sul versante della coscienza, s’insediava su riterritorializzazioni della significanza e dell’interpretanza.

Il posto del significante nell’istituzione

Questa posizione del soggetto cambierà radicalmente con l’emergere in primo piano delle semiotiche a-significanti. Il mondo della rappresen­ tazione mentale (che Frege oppone ai concetti e agli oggetti, oppure il « riferimento» al vertice del triangolo di Ogden e Richards, che si pone tra il simbolo e il referente) perde cosi la sua funzione di accentramento e surcodifica delle semiotiche. I segni lavorano le cose al di qua della rappresentazione. I segni e le cose si concatenano gli uni con gli altri indipendentemente dalla «presa» soggettiva che su di essi vogliono ave­ re gli agenti individuali di enunciazione. Una concatenazione collettiva di enunciazione è quindi in grado di destituire la parole dalla sua funzione di supporto immaginario del co­ smo. La sostituisce con un dire collettivo, che riunisce elementi macchi­ nici di ogni genere, umano, semiotico, tecnico, scientifico, ecc. L’illu­ sione di un’enunciazione specifica del soggetto umano si dissolve e si rivela nient’altro che un effetto contiguo agli enunciati prodotti e mani­ polati dai sistemi politico-economici. Generalmente si ritiene che, non potendo accedere al controllo delle semiotiche significanti, i bambini, i pazzi e i primitivi siano costretti a esprimersi per mezzo di semiotiche di «second'ordine», come l’espres­ sione gestuale, corporale, le urla, ecc. Il principale inconveniente di questi mezzi consisterebbe nel fatto che non permettono di tradurre in modo univoco i messaggi di cui sono portatori nel codice linguistico generatore dei significati dominanti. La relativa intraducibilità delle di­ verse componenti semiotiche era attribuita a un deficit, oppure alla fis­ sazione a uno stadio pregenitale, al rifiuto della legge o a una carenza culturale, oppure ancora all’azione contemporanea di alcuni di questi elementi. Bisognerebbe invece modificare profondamente tutta questa prospettiva di analisi interpretativa per giungere a un altro tipo di ana­ lisi tendente a evidenziare le componenti semiotiche a-significanti. Ma, prima di pensare a tale possibilità, è necessario cercare di mo­ strare in cosa una analisi in istituzione o una analisi istituzionale, che non si definisca come una micropolitica del desiderio, sarebbe incapace di superare l’analisi freudiana classica. L’analisi duale e quella istituzionale, quali che siano i loro argomenti teorici, divergono essenzialmente per la diversa gamma di mezzi semio­ tici che mettono in atto. Le componenti semiotiche della psicoterapia istituzionale sono nettamente più numerose; esse permettono difficil­ mente il rispetto del sacrosanto principio della «neutralità analitica». Ciò può «sistemare le cose» ma può anche aggravarle. L’istituzione rie­ sce talvolta a creare macchine a-significanti che lavorano nel senso di una liberazione del desiderio, proprio come certe macchine letterarie, arti­

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stiche, scientifiche, ecc. Così, il problema delle scelte micropolitiche del­ l’analista o del gruppo analitico è pili sentito e, a volte, molto più «aper­ to» di quanto non Io sia nell’analisi duale. Lo psicanalista classico è ine­ vitabilmente portato a non riuscire quasi mai - ammesso che lo vo­ glia! - a uscire dal suo ruolo di agente normalizzatore della libido e del comportamento. In un’istituzione, lo statuto della soggettivazione e del transfert sarà completamente diverso. Sia gli effetti a-significanti e diagrammatici sia quelli della significanza e dell’interpretanza possono perciò assumere proporzioni decisa­ mente maggiori di quelle di una analisi duale ed erodere ogni minimo aspetto della vita quotidiana. La mania dell’interpretazione, la continua sorveglianza di pretesi «passi falsi» dell’inconscio possono giungere fino a quella che si potrebbe chiamare una «perversione paradigmatica istitu­ zionale». Si constata così che il ricatto che spinge verso l’analisi e l’an­ goscia che ne deriva rafforzano i meccanismi d’identificazione, e persino di mimetismo, con i guru dell’analisi. Questi, inoltre, fanno il gioco del­ le strutture gerarchiche oppressive. Si è instaurato così un nuovo tipo di dispotismo psicanalitico in questi ultimi anni, nella maggior parte degli istituti per bambini in cui «ci s’interessa all’analisi». La schizoanalisi intende differenziarsi radicalmente da queste prete­ se «analisi istituzionali». Ciò che le interessa è esattamente il contrario del predominio del significante e dei leader analisti. Essa vuole favo­ rire un policentrismo semiotico stimolando la formazione di sostanze semiotiche relativamente autonome e intraducibili, accettando tali e quali sia il senso sia il non senso del desiderio, non cercando di adattare i modi di soggettivazione ai significati e alle leggi sociali dominanti. Il suo scopo non è affatto il recupero dei fatti e dei gesti che escono dalla norma, bensì accettarli come tratti singolari di soggetti che, per una ra­ gione o per l’altra, sfuggono alla legge comune. Come potranno tali con­ catenazioni collettive scongiurare gli effetti di questa specie di peste analitica, diventata particolarmente virulenta da quando le varie radio hanno deciso che garantirne la proliferazione rientrasse nei loro com­ piti? Almeno con il riso, con l’humour, con una derisione che smonti caso per caso le pretese pseudoscientifiche degli psicanalisti di ogni ge­ nere. Si troveranno così «semioticamente formati», ma anche social­ mente organizzati, nuclei di resistenza, non solo nei confronti dei guasti della psicanalisi, ma anche delle varie tecniche d’intimidazione che ope­ rano per allineare la popolazione sui modelli familiocentrici e sulle ge­ rarchie del sistema. Sia chiaro che qui non s’intende condannare la psi­ canalisi soltanto in nome di un’altra pratica dell’analisi, cioè di un’a­ nalisi micropolitica che non sia mai separata - comunque mai debberà-

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tamente - dal reale e dal sociale. Insomma in nome di un’autentica pratica dell’analisi. Il principale rimprovero che bisogna rivolgere agli psicanalisti è infatti che non fanno dell’analisi. Essi si trincerano nel loro studio e dietro il transfert affinché la cura si svolga in circuito chiu­ so, affinché niente penetri dall:esterno. Fanno dell’analisi un esercizio di pura contemplazione dello spostamento dei significanti, accompagna­ to da qualche interpretazione che spesso non è altro che uno sterile gioco di seduzione. Ritorniamo un attimo su un problema che è già stato affrontato: quello della psicofarmacologia. Finora, oltre a essere impiegata come mezzo di contestazione, essa è stata posta al servizio di ima semiologia significante dispotica, di un’interpretazione dei disturbi che rinvia a ca­ tegorie chiuse su se stesse. È stato proprio questo che ha spinto gli anti­ psichiatri a condannarla, insieme a tutta la semiologia psicopatologica. Gl’interventi psicofarmacologici sono infatti codificati sia da categorie mediche sia da categorie repressive o addirittura poliziesche. Fare ru­ more, turbare l’ordine diventa qualcosa di anormale: si risponde con una droga. Ma questo uso repressivo delle droghe costituisce un motivo sufficiente per condannare qualsiasi impiego delle droghe stesse? In certe esperienze di psicoterapia istituzionale, si è tentato di riorientare la psicofarmacologia verso una sperimentazione collettiva, dove la som­ ministrazione delle droghe non dipende piti esclusivamente da un rap­ porto medico-malato, ma è decisa da gruppi che comprendono «curan­ ti» e «curati». Cosi, il punto di riferimento cessa di essere il laborato­ rio, per diventare - almeno questo è lo scopo - la raccolta collettiva del­ le intensità corporali e degli effetti soggettivi. In questo modo, si tro­ verebbero riunite le condizioni per una sorta di «gestione» delle singo­ larità che eviterebbe la loro sistematica repressione. La separazione tra la droga che è oggetto della repressione polizie­ sca e quella che si utilizza per reprimere «l’agitazione in ospedale» non è inscritta nelle molecole. La differenza tra certe droghe della farmaco­ pea moderna e alcune delle droghe usate dai tossicomani è definibile talvolta soltanto a livello di effetti secondari che saranno forse eliminati in futuro. È sufficiente ricordare il ruolo della mescalina nell’opera di Henri Michaux per far capire che la droga può far parte di un sistema formato semioticamente attraverso una modalità a-significante, mentre oggi la psicofarmacologia è utilizzata soprattutto dalla psichiatria per scopi repressivi. Dal momento che le nosografie classiche si sono dete­ riorate, si è giunti poco per volta a fare di ogni erba un fascio. Negli Stati Uniti, ad esempio, si fa rientrare la maggior parte dei disturbi nel-

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la categoria, buona a ogni uso, della schizofrenia. E non appena si dice schizofrenia, si passa alle dosi massicce di neurolettici. La psicofarmaco­ logia tuttavia potrebbe anche orientarsi verso la costituzione di una se­ miotica a-significante, liberata della surcodifica medica, del potere del­ lo Stato, delle multinazionali, ecc. Invece di reprimere ogni ricchezza espressiva, ogni apertura sul reale e sul sociale, essa aiuterebbe gl’indi­ vidui a mettere in valore le loro possibilità. A proposito delle concatenazioni collettive analitiche, è stata fatta una obiezione che sembra piuttosto paradossale. In essa si vede il ri­ schio di una repressione delle singolarità del desiderio, la minaccia di un nuovo tipo di dispotismo. È evidente che le mie proposte in merito sono state interpretate attraverso ciò che si sa dell’analisi di gruppo oppure dell’analisi in istituzione. In realtà, lo ripeto, non si tratta affat­ to, per me, di sostituire l’analisi individuale con tecniche di gruppo, che in effetti possono portare alla normalizzazione delle singolarità perso­ nali. Quando parlo di concatenazioni, non mi riferisco necessariamente ai gruppi. La concatenazione può comportare individui, ma anche fun­ zioni, macchine, sistemi semiotici di vario genere. Solo se si risalirà fino all’ordine molecolare delle macchine desideranti, cioè ben al di qua del gruppo e dell’individuo (verso ciò che Lacan ha chiamato l’oggetto «a»), si potranno disarticolare le strutture istituzionali massificate, se­ rializzate e dare alle posizioni marginali di desiderio la possibilità di uscire dalle impasse nevrotiche. L’individuazione del desiderio scivola sempre verso la paranoia e il particolarismo. Il problema consiste per­ ciò nel trovare vie collettive per uscire dalla tirannia dei sistemi fondati sull’identificazione e sull’individuazione. È vero che gli effetti di gruppo portano facilmente a sistemi di chiusura, a fissazioni a certi tipi di par­ ticolarismo, ad atteggiamenti xenofobi, fallocratici, ecc. Ma queste riterritorializzazioni, in quanto ricostituite attraverso concatenazioni creati­ ve, possono aprirsi su altre prospettive. Bisognerebbe in realtà distin­ guere accuratamente la chiusura nevrotica della soggettività presa in un processo d'individuazione personologica dalle idiosincrasie di gruppi che contengono possibilità di modificazione e di trasformazione. Ricordiamo un ultimo esempio, quello di un bambino psicotico, che, giorno per giorno, sbatte la testa contro un muro. Una macchina di go­ dimento autodistruttivo funziona, in questo caso, per se stessa, al di fuori di ogni contatto. In che modo l’energia desiderante di «sbatterela-testa-contro-un-muro» potrà essere collegata con una concatenazione collettiva? Non si tratta di trasferire questa attività, di sublimarla, ben­ sì di farla funzionare su un registro semiotico articolabile con un certo

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numero di altri sistemi a-signi£canti. Non si tratta di frenare il deside­ rio, di permutare i suoi oggetti, bensì di allargare il campo del godimen­ to, di aprirlo a nuove possibilità. Sarà comunque difficile evitare gli at­ teggiamenti adattativi e repressivi, se non si metterà in rilievo che il godimento, centrato sull’io, conduce sempre alla tentazione della sua espressione estrema: l’impotenza e l’abolizione. La liberazione dal narcisismo distruttore, per un soggetto, non pas­ sa attraverso la sua repressione nel reale né la sua castrazione nel fan­ tasma : essa richiede invece un supplemento di potenza e una neutraliz­ zazione dei poteri che l’alienano. Si tratta dunque soprattutto di una presa di potere sul reale e mai di pure e semplici manipolazioni dell’im­ maginario o del simbolico. Femand Delignv non reprime, non interpre­ ta; fa in modo che i ritardati mentali con i quali vive giungano a speri­ mentare altri oggetti, altre relazioni, a costruire un altro mondo. L’analisi riadattativa svolge una politica di significanza; tende a ri­ durre l’orizzonte del desiderio; al controllo dell’altro, alla appropria­ zione dei corpi e degli organi; vuole ritrovare una pura coscientizzazione del costituirsi come soggetto. La schizoanalisi rinunzia alla «volontà d’identità» e alle coordinate personologiche significanti, in particolare a quelle del familiarismo. Essa si disinteressa delle strategie del potere, optando invece per un corpo senza organi che disindividui il desiderio e accetti di vederla portata da flussi cosmici a-semiotici e da flussi sto­ rico-sociali a-significanti. Nell’approccio analitico tradizionale, ogni volta che si passa da una semiotica pre-significante a una significante, si forma una mancanza di godimento, s’instaurano un campo di colpevolizzazione e un’immagine del super-io. Giocare con la propria merda fa parte di una certa «mate­ ria» (si può proprio dirlo). Quando un intervento analitico vuole tra­ sformare questo piacere, trasformare questa materia in sostanza semio­ tica traducibile, interpretabile secondo il codice dominante, esso finisce per mutilarlo o abolirlo, per fissarlo su una « falsa immagine (semblant) semiotica significante», che sostituirà il corpo senza organi. Program­ mare gl’individui, condizionarli a una infinita traducibilità dei loro desi­ deri, è sempre stato lo scopo delle istituzioni normative. Lungi dal cam­ biare questo stato di cose, la psicanalisi non fa altro che portare miglio­ ramenti tecnologici a questo stesso tipo di progetto. Bisognerebbe ancora determinare ciò che dà consistenza alla politica psicanalitica di evirazione del desiderio. Perché la psicanalisi si è impo­ sta a tal punto come una specie di religione di ricambio? E, in ultima analisi, a chi appartengono i suoi problemi? Essenzialmente agli organi­ smi di potere che hanno interesse a far diventare ogni prassi trasmissi­

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bile, trasponibile all’infinito in termini di economia di flussi decodifi­ cati. Essenzialmente al capitalismo (e forse domani al socialismo buro­ cratico), in quanto fondato su leggi che stabiliscono l’equivalenza e la traducibilità generali di tutte le espressioni semiotiche. Certamente, l’accesso al godimento rimane ancora possibile in tale sistema, ma a pat­ to che la libido si pieghi alle norme dominanti. Si formeranno tipi nuovi e ben precisi di perversi: ad esempio, il perverso burocratico, le cui mo­ dalità di godimento sono state meravigliosamente analizzate da Kafka. L’istanza della lettera burocratica si sviluppa come un cancro nel tes­ suto delle società industriali, a benefìcio delle élite che possono acce­ dere al suo godimento. Ma, poiché i posti sono cari e rari, e si richiede tutta una preparazione, tutta una didattica, gli esclusi del desiderio sono innumerevoli. Per costoro, il godimento della lettera capitalistica si ri­ durrà, il sabato sera, alle manipolazioni di combinazioni sulla schedina e, la domenica pomeriggio, alle gioie della partita alla televisione. Biso­ gna tuttavia aggiungere che, poiché gli esclusi dal totocalcio e dal calcio sono anch’essi innumerevoli, tutta una popolazione finisce per ritrovarsi negli ospedali psichiatrici, nei centri di rieducazione, nei riformatori, nelle prigioni, ecc. Le grandi scelte dell’economia del desiderio possono essere riassunte in due tipi di opzioni: - un godimento colpevole, costituito in modo che tutto rinvìi sem­ pre a tutto, dove il desiderio ha come sola via di uscita l’investirsi nel proprio movimento di fuga, e in un sistema d’indefinita tradu­ cibilità che di esso costituisce la modalità più deterritorializzata. Più che aprirsi al desiderio, l’universo e la storia si «rannicchia­ no», si chiudono dentro un effetto di buco nero che li assorbono completamente. - Un’economia collettiva di desiderio che tende a disperdere i mia­ smi e i simulacri significanti sui quali s’instaura il principio di un debito universale. Essa riassorbe i punti d’individuazione dell’eco­ nomia libidinale, i punti di responsabilizzazione colpevolizzanti, i transfert esclusivi che appiattiscono il desiderio sulle persone, sui ruoli, sulla gerarchia e su tutto ciò che si organizza intorno a punti di signifìcanza del potere. Il suo obiettivo consiste nell’impedire alle componenti semiotiche a-significanti di farsi intrappolare dalla semiologia significante.

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La malattia del significante. Non si vede per quale ragione le scienze economiche debbano sfug­ gire alla malattia che da un po’ di tempo devasta le scienze del linguag­ gio, l’antropologia, la psicanalisi, ecc.: ovvero lo strutturalismo. Questa nuova idea fissa consiste nell’interpretare tutti gli strati del sociale par­ tendo da una scrittura unica, costituita da catene significanti, imputre­ scibili, eterne. La storia, dal suo canto, dovrà scriversi come potrà, con le invarianti di base che questa Iingua-testura-del-mondo le propone. Sembra che i responsabili di questa malattia siano un virus (la teoria dell’informazione) e un agente infettivo (la linguistica fonologica). Pri­ ma sindrome: l’illusione interpretativa. Dal momento che qualsiasi fatto sociale, comportamentale, mitico, immaginario, ecc. può essere espresso con il linguaggio, si affermerà che è «strutturato come un linguaggio». Seconda sindrome: l’illusione della riduzione binaria. Poiché ogni se­ quenza linguistica può essere analizzata in fasci di valori differenziali (tra fonemi, grafemi, opposizioni distintive, ecc.), si considereranno questi stessi fatti come dipendenti da una formula significante univer­ sale. Prognosi: negativa. Dal momento che ogni fatto sociale può essere « strutturalizzato » — cioè separato dalle sue reali concatenazioni di enun­ ciazione, dal suo contesto economico e sociale, dai suoi campi politici e micropolitici - la scienza diventa l’alibi dell’irresponsabilità dei ricerca­ tori. Nelle scienze economiche in particolare, la tradizionale tendenza a ridurre i fatti relativi alla produzione e al consumo all’unica sfera della circolazione troverà un aiuto insperato.

Economia del desiderio o desiderio economico. Se è vero, com’è nostra convinzione, che il desiderio mette in crisi i codici, se è vero ch’è investimento di rottura di codici, un’economia di desiderio non potrà che sbarrare la strada a un’economia di potere. Quando gli economisti parlano di desiderio - capita, ogni tanto - si

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limitano ad assegnargli un angolino, e solo a patto di essere riusciti, in primo luogo, a incasellare tutti i «bisogni fondamentali». Il desiderio diventa cosi solo una sorta di condimento per «far passare» la doman­ da. Si veda, ad esempio, in quali termini lo si affronta in un dizionario economico: il valore d’uso è determinato dal gusto, il bisogno o l’abitu­ dine, mentre il valore di scambio è definito dalla «desiderabilità» che un bene presenta per tutti. Quindi è desiderabile ciò che resta invariato nello scambio. Allo stesso modo, si può pensare che lo strutturalismo si costituisce implicitamente ogniqualvolta lo scambio intende control­ lare il desiderio. Eppure molta gente rifiuta di sentire parlare di scam­ bio, di chiedere qualsiasi cosa a chiunque... Ma ciò significa che non possono «accedere al desiderio»? (È riconoscibile qui un’espressione cara alla psicanalisi strutturalista: se non vuoi rimanere incastrato per tutta la vita nella domanda, devi accettare di passare sotto le forche cau­ dine della castrazione simbolica, unico accesso possibile al desiderio im­ possibile). Non mi riferisco ai pazzi e ai suicidi che, cerne tutti sanno, non fanno parte della nostra società! Esistono tuttavia società che ri­ fiutano lo scambio, ad esempio le «società senza Stato» esaminate da Pierre Clastres: un indiano che si rispetti non scambia il prodotto della propria caccia, lo offrel.

I tre valori. Lo scambio, il valore di scambio non hanno niente di universale. La codifica degli scambi ha utilizzato, nel corso della storia, differenti ma­ terie di espressione, in funzione delle concentrazioni di potere nell’anti­ chità, oppure delle varie tappe del processo che avrebbe portato alle so­ cietà industriali. Dal flusso di cauri, di cui parlano gli etnologi, al flusso elettronico dell’odierno sistema bancario, i media dello scambio sono passati attraverso tutta una serie di rotture, di scollamenti, di fissazioni arcaiche, ma che in fin dei conti hanno seguito una linea generale di de­ territorializzazione 2. Le diverse modalità di semiotizzazione dei valori non dovrebbero quindi essere giudicate sul metro delle macchine eco­ nomiche più deterritorializzate, ovvero quelle delle sodetà capitalisti­ 1 Cfr. anche la critica, da patte di E. R. Leach, delle concezioni troppo rigidamente scambiste a proposito dell’analisi dei matrimoni nelle sodetà primitive e soprattutto il fatto che le contro­ prestazioni che servono da «equivalente» alle donne «scambiate», non sono assimilabili a beni dello stesso valore, ma a elementi affatto intangibili come i diritti e il prestigio. Crilique de l'anthropologie, trad. fr. Puf, Paris 1966, p. 193. 2 Esempio di una traccia di questa deterritorializzazione: la parola latina pecunia (ricchezza) che, come osserva Jean Marchal, proviene da pecus (bestiame).

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che fondate su un sistema di scambio generalizzato, al livello della circo­ lazione, che nasconde sistemi di asservimento, al livello della produzio­ ne e del consumo. Ed è fuor di dubbio che la semplice opposizione tra valore d’uso e valore di scambio è anch’essa insufficiente, e forse per­ sino sviante poiché pone implicitamente il secondo in posizione subor­ dinata rispetto al primo. Bisognerà invece considerare tre tipi di valori: 1) i valori di scambio, che fanno intervenire sistemi di equivalenti semiotici che giocano sui valori difterenziali dei loro elementi co­ stitutivi; 2) i valori d’uso, che derivano dall’opposizione di due termini - una cosa «vale» in relazione a un’altra - e la cui modalità di semiotizzazione è coerente con una concezione del mondo fondata su una bipolarità dei valori; 3) al di qua dei primi due, ciò che chiamerò i valori intensivi di desi­ derio, i valori di affetto, che ignorano sia la convertibilità dei va­ lori del sistema dello scambismo generalizzato sia le opposizioni manichee soggetto-oggetto, bene-male, utile-inutile, bello-brutto, ecc.

Le quattro codi fiche. Ciò che favorisce l’incomprensione dei valori di desiderio e perpetua la tradizionale opposizione tra valore d’uso e valore di scambio, è la confusione che spesso si crea tra le componenti semiotiche che agiscono nel primo e nel secondo. A questo proposito, sarebbe opportuno distin­ guere: - le codifiche «naturali», che non possono essere assimilate a quelle linguistiche, nemmeno nel caso limite delle codifiche genetiche, dove tuttavia si è tentato un fragile paragone (si veda in proposito il dialogo tra Jakobson e Francois Jacob); - le codifiche simboliche, nelle quali agiscono semiotiche di ogni ge­ nere, gestuale, rituale, mitografica, ecc., senza privilegiare partico­ larmente la sfera della parole; -le codifiche significanti, che: c) assoggettano l’una all’altra parole e scrittura; b) sottomettono tutte le altre semiotiche alla catena li­ neare del significante (sistema di doppia articolazione); - le codifiche a-significanti: quelle delle «macchine di scritture» co­ me la matematica, la musica, ecc. che fanno lavorare i segni indi­ pendentemente dai loro eventuali effetti di significazione.

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L’economia monetaria utilizza questi quattro tipi di codifica, senza dipendere esclusivamente da uno di essi : 1) Sul piano del referente, essa usa materie di espressione che pos­ siedono una loro particolare modalità di codifica, una sorta di re­ sistenza del materiale economico (flussi demografici, riserve natu­ rali di materie prime, limiti geografici naturali, ecc.). 2) Sul piano simbolico, il denaro funziona come mezzo di asservi­ mento immaginario: ogni individuo è in un certo senso telegui­ dato dal proprio «potere» d’acquisto, non solo nel campo del «codice di livello di vita», descritto da Jean Baudrillard, ma an­ che in quello dei codici percettivi, sessuali. Gli oggetti di consu­ mo sono percepiti solo se ad essi si accede potenzialmente con mezzi monetari, altrimenti non si può far altro che sognarli, o più semplicemente passarvi accanto senza vederli (Dostoevskij diceva che la moneta è una «libertà coniata»). È ovvio ricordare che gli oggetti del desiderio sessuale sono legati in modo inestricabile a valori di prestigio, di status, a brame che sono sempre più o meno traducibili in termini di livello di vita. 3) L’economia monetaria interagisce costantemente con le codifiche significanti del linguaggio, soprattutto attraverso il sistema delle leggi e delle regolamentazioni. 4) L’inscrizione monetaria funziona, in parte, con la modalità di una macchina semiotica a-significante, quando è utilizzata non più co­ me mezzo di pagamento, bensì come mezzo di credito e di finan­ ziamento. In tal caso, essa costituisce, nel settore economico, uno strumento semiotico indispensabile quanto i calcoli e i piani in quello della scienza e della tecnica. (I tentativi di pianificazione statale che hanno voluto fare a meno del sistema dell’economia di mercato, sono stati costretti finora - nonostante i suoi squilibri, le sue follie e la sua infamia - a ritornarvi in una forma o nell’al­ tra, per non essere riusciti a realizzare un sistema altrettanto sen­ sibile per la registrazione dei fatti economici). Ma qui entra in gioco tutto il problema dell’articolazione della microeconomia dell’autogestione rispetto alle strutture macroeconomiche.

Le formazioni di potere. Così, man mano che i mezzi di scambio si sono deterritorializzati, si è passati da modalità di asservimento immaginarie ad altre signifi­

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canti, poi a modalità di asservimento di tipo cibernetico. Ma gli effetti si sono accumulati gli uni sugli altri, permettendo all’egemonia dello scambismo generalizzato — dei flussi decodificati - di rafforzare la seria­ lizzazione economica degli individui e di penetrare sempre pili a fondo negli strati biologici e sociali. Non si tratta semplicemente di un’astratta presa del potere, fondata su quella pura scrittura che sarebbe il Capi­ tale. A ogni livello di queste stratificazioni, intervengono formazioni di potere di varia natura. Certo, si tratta in primo luogo del potere di Sta­ to come luogo di convertibilità generale di tutti i sistemi di valori eco­ nomici, simbolici, significanti e di desiderio, ma si tratta anche del ri­ zoma tentacolare delle formazioni di potere - legate a insiemi sociali, dai più vasti ai più ristretti - che miniaturizzano e approfondiscono questa convertibilità, giungendo a una delimitazione e un controllo si­ stematico di tutti i singoli sistemi di valori. L’industria dello spettacolo, ad esempio, fondata sui mass media, organizzerà i luoghi di convertibi­ lità di tutte le rappresentazioni immaginarie: mentre la famiglia e la scuola si incaricheranno della traducibilità semantica e della delimita­ zione significante di qualsiasi espressione del bambino, ecc. Tutte que­ ste formazioni di potere si sostengono reciprocamente, e non consen­ tono perciò di considerare che lo scambismo generalizzato sia esclusi­ vamente legato alla sfera economica. Da questo punto di vista, l’econo­ mia non può esigere alcuna autonomia. La stessa cosa si dovrebbe dire, e per le stesse ragioni, della linguistica, della sociologia, dell’urbanesi­ mo, ecc. In realtà, tutti i livelli s’intrecciano e il nuovo stile delle lotte sociali di desiderio lo rivela ogni giorno più chiaramente: non si tratta più oggi di articolare una microeconomia su una macroeconomia, ma di fondarsi su ima micropolitica del desiderio per tentare di liberare un’e­ nergia capace di mettere finalmente in crisi strutture politiche e sociali che, paradossalmente, sembrano rafforzarsi man mano che si manife­ stano in modo più evidente i loro squilibri, la loro sclerosi e la loro as­ surdità.

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Per gli strutturalisti l’ideale è riuscire a far rientrare qualsiasi situa­ zione complessa in una formula semplice. Una formula espressa in for­ ma matematica, assiomatica, oppure trattata in un computer. Oggi un computer può trattare problemi molto complessi: ad esempio, può met­ tere in «formula» un’immagine. Si tratta però di sapere se questa im­ magine non è fondamentalmente diversa da quella che percepiamo nel mondo «naturale». L’immagine prodotta dal computer è stata ridotta allo stato di messaggio binario, è diventata una formula che può passare attraverso canali di trasmissione come l’elettricità, ha perso tutto ciò che l’immagine di partenza conteneva in termini di profondità, di ca­ lore, di possibilità di riorganizzazione, ecc. Credo che le riduzioni strutturalistiche portino a risultati di questo genere. Ciò ch’esse ci restitui­ scono corrispondono a una sorta di visione tecnocratica del mondo, che perde, strada facendo, l’essenziale delle situazioni di partenza. Per es­ senziale, intendo tutto ciò che ha a che fare con il desiderio. Quale che sia la complessità della situazione di cui s’interessa e la formalizzazio­ ne che ne propone, lo strutturalismo ritiene che essa sia riducibile a un sistema di scrittura binaria, a ciò che i semiotici chiamano «segni digitalizzati», quelli cioè che possono essere introdotti in una tastiera di macchina da scrivere o di un computer. Le scienze umane credono di darsi uno statuto scientifico scegliendo la strada già presa dalle scienze esatte. (Ad esempio, la matematica quando cerca di assiomatizzare l’in­ sieme dei suoi campi, facendo dipendere l’algebra, la topologia, la geo­ metria, ecc. da un’unica e medesima logica fondamentale, da una sola scrittura di base). Con l’analisi dei fonemi e dei tratti distintivi, i linguisti hanno in­ teso elaborare una serie di chiavi capaci di rendere conto della struttura di tutte le lingue, ma ciò che hanno colto riguarda in realtà soltanto cer­ ti tratti generali della lingua. La vita del linguaggio, a livello semantico e pragmatico, sfugge a questo tipo di formalizzazione. Da molto tempo, anche nel campo della psichiatria si è voluto procedere a descrizioni

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scientifiche, si è cercato di far rientrare i sintomi e le sindromi in quadri sistematici, ma dò che si manifesta nella realtà non coincide mai con questo tipo di classificazione. Ci si trova sempre di fronte a sistemi di border lines, non si sa mai se si ha a che fare con un’isterica che presen­ terebbe per altri versi caratteri paranoici, ma che farebbe pensare anche a una schizofrenica, il che inoltre non le impedirebbe di essere depres­ siva, ecc. Un conto è fare l’analisi di una struttura, un altro proporre una filosofia strutturalista, un’interpretazione strutturalista che tenga conto della dinamica stessa delle cose, dei rapporti di forza, delle situa­ zioni politiche, degli investimenti di desiderio... Tutto ciò sembra scon­ tato, eppure è proprio quello che fanno i freudiani e spesso i marxisti, quando parlano di strutture inconsce oppure di strutture economiche. Costoro vogliono dare l’impressione di aver trovato la formula atomica definitiva, che il loro ruolo si limiti ormai a un intervento, con un’in­ terpretazione o una parola d’ordine, su questa struttura, su questa for­ mula. Per darsi importanza, per darsi il potere. Credo che si debba ri­ spondere che le strutture esistono non nelle cose, ma a lato delle cose. L’approccio strutturale è una prassi come un’altra, ma forse non è né la più ricca né la più efficace.

Ridefinire il senso. Si tratta di ridefinire il problema del senso e del significato, non co­ me qualcosa che cade dal cielo o sia insito nella natura delle cose, ma che risulta dalla congiunzione di sistemi semiotici confrontati gli uni con gli altri. Non esiste senso indipendentemente da tale congiunzione. Un certo tipo di senso è prodotto dalle semiotiche del corpo, un altro tipo dalle numerose semiotiche del potere, un altro ancora dalle semio­ tiche macchinistiche, cioè quelle che utilizzano segni che non sono né simbolici, né dell’ordine dei sistemi significanti del potere; tutti questi tipi di senso s’intrecciano costantemente e non consentono mai di dire che costituiscono significati universali. Si può ritenere che, a questo proposito, esistano due tipi di conce­ zioni politiche del desiderio. Da un lato una ragione formalista cerca di darsi chiavi con le quali tenterà di giungere alla sua interpretazione, a una ermeneutica; dall’altro, una ragione apparentemente folle parte dall’idea che l’universalità debba essere cercata nella singolarità, e che quest’ultima possa diventare l’autentico supporto di un’organizzazione politica e micropolitica molto più razionale di quella che oggi cono­ sciamo. 14

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Storia di una donna. Partiamo dall’esempio della malata riportato da Carlo Sterlin. Tre mesi prima della nascita, vomito gravidico attraverso la bocca della madre; a sei mesi, allergia alimentare; a tre anni, eczema generalizzato; a sei anni, disturbi nella scolarizzazione; a vent’anni, crisi d’angoscia; a trent’anni, vaginiti non specifiche; a quarant’anni, tentativi di suici­ dio. In ogni stadio di questo quadro clinico, sembra che siano interve­ nute componenti semiotiche ben diverse. Nel caso del vomito gravidico attraverso la bocca della madre, l’espressione dei disturbi non passa per un soggetto localizzato, la malattia passa da una persona a un’altra, come quando si dice «se i genitori bevono i bambini trincano». Mi sem­ bra che, qui, si sia in presenza di un’organizzazione semiotica che di­ pende da un funzionamento simbolico. Queste semiotiche simboliche non mettono in gioco un locutore e un ascoltatore definibili. La pa­ role non ha un ruolo di primo piano, il messaggio non passa attraver­ so catene linguistiche, bensì attraverso corpi, rumori, mimiche, postu­ re, ecc. A sei mesi, allergia alimentare. Non saprei definire la differenza tra le componenti semiotiche che intervengono in questa allergia e il vo­ mito gravidico, ma una cosa mi sembra evidente: con l’allergia la loro importanza è aumentata. Infatti, dopo la nascita del bambino, rumori, sensazioni di caldo e di freddo, luce, urti, un rapporto con il viso del­ l’altro hanno cominciato a costituire le coordinate di un mondo. Resta da sapere perché il bambino continua a portarsi dietro questo nuovo mondo. Rifiuto di entrarvi, di collegarvisi? A sei anni, disturbi nella scolarizzazione. Questi comportano eviden­ temente un intervento del linguaggio. E non un linguaggio qualsiasi, bensì quello del maestro, quello del potere degli adulti. Molti destini sono cristallizzati fin dalla scuola elementare. Si può predire con buon anticipo che un bambino non andrà mai all’università, non è il caso di calcolare il quoziente intellettuale. La macchina scolastica modella, sele­ ziona implacabilmente i bambini. In questo caso si può ben parlare di semiotiche significanti. Notiamo che con la scuola si entra nelle leggi della società, alle quali sfuggono il vomito e l’eczema. È assurdo punire un bambino perché ha un eczema! Ma ci si rifarà ampiamente non ap­ pena non saprà fare un’addizione. Si profila così la serie dei poteri mi­ crosociali, la famiglia, la scuola, i poteri locali, giungendo per gradi fino al potere di Stato. Un terapeuta che non s’interessasse alla vita quoti­ diana del bambino, nella sua famiglia e nei suoi rapporti con l’esterno,

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centrando invece la sua attenzione sulle pure strutture, sulle pure ca­ tene significanti, sui complessi, sugli stadi di sviluppo ritenuti «univer­ sali», rifiuterebbe semplicemente di vedere ciò che di fondamentale av­ viene sul piano della realtà e dell’economia del desiderio. A vent’anni, crisi d’angoscia. Si tratta forse di sindromi schizofre­ niche che compaiono soltanto in un certo periodo della vita. Certi psi­ canalisti, oggi, affermano di scoprire schizofrenie fin dall’età di tre o quattro anni. Ma come determinare seriamente tali disturbi prima della pubertà? Poiché le componenti semiotiche puberali (nuove impressio­ ni, inquietudine di fronte all’ignoto, repressione da parte dell’ambiente, ecc.) sono messe in gioco da tali sindromi, l’analisi deve orientarsi verso le formazioni di potere che ad esso corrispondono: quella del liceo, del­ l’istituto professionale, delle associazioni sportive, del tempo libero, ecc. Tutta un’altra parte della società minaccia in questo caso di abbat­ tersi sul desiderio dell’adolescente, d’isolarlo dal mondo e di portarlo a ripiegarsi su se stesso. A trent’anni, vaginiti non specifiche. Si cambia di nuovo registro: ora è senz’altro la problematica della coppia che passa in primo piano. A quarantanni, tentativo di suicidio. Si vedono profilarsi le formazioni di potere medico, poliziesco, religioso... Mi sono limitato a esaminare sommariamente le possibili grandi linee dell’analisi: il continente poco esplorato delle formazioni di potere, cioè un inconscio collegato direttamente sul sociale e non nascosto in qualche angolo del cervello oppure in complessi stereotipati. L’analista non può assumere una posizione neutrale nei confronti di queste formazioni di potere. Non può accon­ tentarsi di essere lo specialista che ricerca gli allergeni nel caso, ad esem­ pio, di un eczema. Bisognerebbe mettere in discussione tutto l’atteggia­ mento degli specialisti, tutta la politica d’interpretazione fondata su codifiche prefabbricate. L’analisi delle componenti specifiche, quando si è in presenza di un problema micropolitico di essenziale importanza (che per definizione è trasversale a diversi campi eterogenei), non è una pura questione di forma; essa impegna in primo luogo la pratica di una mi­ cropolitica concernente sia l’oggetto studiato o curato sia il desiderio di coloro che conducono questa analisi. Il carattere riduttivo del formalismo utilizzato dagli strutturalisti di­ pende dal rapporto ch’esso stabilisce tra le strutture «profonde» e quel­ le «superficiali». Questo fatto riguarda soprattutto il problema della doppia articolazione linguistica che implica, da un lato, un sistema di segni che non hanno senso in quanto tali (fonemi, grafemi, simboli) e, dall’altro, sequenze di discorso portatrici di significato (monemi, ecc.). Ci si comporta come se il livello formale assumesse il controllo dei si­

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gnificati, generasse, producesse, non si sa come, i significati. Ma questi non cadono dal cielo, non emergono spontaneamente da una sintassi o da una semantica generativa! Sono inseparabili dalle formazioni di po­ tere che li generano in rapporti di forza fluttuanti. Niente di universale né di automatico in tutto questo.

Diversi sistemi di codifica. Per cercare di chiarire lo status dei diversi sistemi di codifica, si ser­ vano essi o meno di segni, nel senso che a questi dànno i semiotici e i linguisti, proporrò una serie di distinzioni al solo scopo di scoprire il funzionamento pratico di quelle che chiamerei le macchine di segni. In realtà, si ha però sempre a che fare con l’intreccio di vari sistemi, si è sempre in presenza di semiotiche miste. Credo innanzitutto che sia ne­ cessario non confondere codifiche naturali e codifiche semiotiche. Per alcuni linguisti, come Roman Jakobson, il codice genetico può essere paragonato al codice linguistico. Entrambi i sistemi utilizzano una ri­ stretta gamma di elementi discreti che si combinano per formare mes­ saggi complessi - ad esempio i quattro radicali chimici di base del co­ dice genetico che servono alla fabbricazione delle proteine - e si potreb­ be persino estendere il paragone dicendo, come è stato fatto, che certe combinazioni svolgono un ruolo di «punteggiatura» nelle sequenze or­ ganiche. Jakobson ha notato altre caratteristiche comuni a questi siste­ mi, ad esempio la linearità delle modalità di codifica. I biologi sembrano tuttavia piuttosto riservati sulla portata da attribuire a questo tipo di parallelismo. Francois Jacob, in particolare, ritiene che sarebbe meglio insistere sulle differenze piuttosto che sulle somiglianze. Nella codifica genetica, non esistono né locutore né ascoltatore, né soggetto per inter­ pretare i messaggi che, in questo modo, conservano una certa rigidità che non si ritrova in quelli del discorso, le cui sequenze sono aperte su assi di sostituzione e trasposizione (asse paradigmatico, asse sintagma­ tico). Le trasformazioni genetiche, contrariamente a quelle linguistiche, implicano rotture, mutamenti e tutto un processo di selezione che costi­ tuisce un immenso détour. Questa prima distinzione dovrebbe permettere di evitare le assimila­ zioni vagamente magiche che gli strutturalisti tendono a fare tra il lin­ guaggio e la «natura», e che partono dalla segreta speranza di poter «prendere il potere» sulle cose e sulla società dominando semplicemen­ te i segni che queste mettono in azione. (Si ritrova qui la vecchia follia delle streghe e dei cabalisti, con le loro statuette e i loro Golem). Esiste

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di certo un campo in cui i segni trovano un’efficacia diretta sulle cose — quello delle scienze sperimentali vere e proprie, che utilizzano tutta una tecnologia materiale e un trattamento complesso delle macchine di segni. Proprio questo ci porterà d’altronde a distinguerle dai sistemi significanti e a classificarle nelle semiotiche a-significanti.

Materie e sostanza dell’espressione. Vorrei che ci si soffermasse innanzitutto su una distinzione proposta da Hjelmslev tra materia dell’espressione e sostanza dell’espressione. Quando il bambino comincia a articolare i primi suoni, maneggia una materia dell’espressione fonica, poi, integrandosi poco per volta nei for­ malismi dominanti, trasforma questa materia in ciò che chiamiamo so­ stanza dell’espressione fonologica, cioè una particolare sostanza semio­ tica. Ma non per questo si può dire che «la materia non semiologicamente formata sia informale». Hjelmslev precisa che può essere scienti­ ficamente formata. Bisogna quindi distinguere le materie scientificamen­ te formate, musicalmente formate, ecc. dalle sostanze semiologicamente formate. Questa distinzione non è inutile se si considera l’uso che si potrà farne nella pratica. Prendiamo ad esempio la sequenza: «sono disoccupato, mi presento a un ufficio di collocamento e mi sento rispon­ dere che sono troppo vecchio». Esprimere questa sequenza oralmente, o in forma scritta, oppure ancora per mezzo di un film, di un video tape durante un reportage, cambia totalmente la portata del messaggio per il semplice fatto che si è passati da una sostanza dell’espressione a un’altra. La congiunzione di diverse materie dell’espressione ha modificato la portata pragmatica del messaggio. Un eczema è scientificamente for­ mato oppure semiologicamente formato? Una vaginite reattiva non spe­ cifica implica forse come componente dominante, in questa o quella fase del suo sviluppo, semiotiche significanti del sociale, oppure l’intervento di una codifica a-semiotica dipendente da virus, batteri, ecc.? Cosa di­ pende da situazioni sociali, da rapporti di forza, dal linguaggio, dal de­ naro, dai rapporti di parentela? Pretendere che il significante sia ovun­ que (e che, di conseguenza, l’interpretazione e il transfert siano efficaci ovunque) significa disconoscere che ognuna di queste componenti della codifica (semiotica o no) può «prendere il potere» sulle situazioni e su­ gli oggetti che ci si trova di fronte. Penso invece che non si debba dare la priorità a un approccio particolare. Nessuna priorità dogmatica. La priorità deve essere indicata dall’analisi della situazione.

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Semiologie simboliche. In questo modo, possediamo già una prima distinzione tra le mac­ chine di segni che funzionano costituendo una sostanza semiologica au­ tonoma - un linguaggio — e quelle che funzionano direttamente come codifica «naturale», indipendentemente dal linguaggio. Invece che di segni, si dovrebbe forse parlare di segnali. La differenza tra un segnale, ad esempio un segnale ormonale, e un segno linguistico, consiste nel fatto che il primo non produce significato, non genera il sistema di ri­ dondanza stabile che permetterebbe a un soggetto di considerarlo iden­ tico a una rappresentazione. Vediamo ora una seconda distinzione. Il sistema significante è sepa­ rato dalle rappresentazioni significate e dagli oggetti ai quali si riferisce; il rapporto significante-significato, dicono i linguisti, è immotivato, arbi­ trario. Esistono tuttavia tipi di segni che hanno un rapporto di analogia o di corrispondenza con le rappresentazioni ch’essi significano, e sono i segni iconici. I cartelli stradali, ad esempio, non implicano l’utilizzazio­ ne di una macchina linguistica. Poco per volta, i linguisti e i semiotici sono giunti alla conclusione che le icone o i diagrammi, oppure ogni mezzo di espressione preverbale, gestuale, corporale, ecc. dipendano dal linguaggio significante e non siano altro che mezzi imperfetti di comuni­ cazione. Mi sembra che questo sia un pregiudizio intellettualistico che presenta immensi inconvenienti quando si ha a che fare con bambini, pazzi, primitivi, o con qualsiasi persona che si esprime in un registro semiotico che classificherei tra le semiologie simboliche. Le semiologie simboliche: la danza 2d esempio, la mimica, una somatizzazione, una crisi nervosa, una crisi di pianto..., ovvero ogni mezzo di espressione che si manifesti in modo immediato, immediatamente comprensibile. Un bambino che piange, quale che sia la sua nazionalità, fa capire che ha male. Non ha bisogno di dizionario. Si è cercato di far derivare queste semiotiche simboliche dalle semiologie linguistiche, con il pretesto che non è possibile decifrarle, capirle, tradurle, se non ricor­ rendo al linguaggio. Ma questo cosa prova? Se, per andare dall’America all’Europa, si prende un aereo, non si dirà certo che questi due conti­ nenti dipendono dall’aviazione. Sono esistiti popoli di ogni genere - e alcuni ne esistono ancora — senza semiotiche significanti, in particolare, senza scrittura. Il loro sistema di espressione (in cui la parole interagi­ sce direttamente con altre forme di espressione, rituali, gestuali, musi­ cali, ecc.) non per questo ne è impoverito! Si può persino pensare che certi gruppi etnici hanno resistito a lungo alla diffusione delle lingue

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scritte - cosi come avevano resistito all’intrusione di certe tecnologie — perché sentivano che questi sistemi significanti avrebbero distrutto il loro modo di vita, il loro tradizionale modo di desiderio. I bambini, i malati mentali, esprimono spesso ciò che più conta per loro al di fuori delle semiologie significanti. Lo specialista, il tecnocrate della «cosa» mentale, il rappresentante del potere medico o scolastico rifiutano di ascoltare tali modi di espressione. Così la psicanalisi ha elaborato tutto un sistema d’interpretazione che le permette di far corrispondere qua­ lunque cosa alla stessa gamma delle rappresentazioni universali: un abe­ te è un fallo, appartiene all’ordine simbolico, ecc. Imponendo tali si­ stemi di traducibilità, gli specialisti assumono il controllo delle semio­ logie simboliche con le quali i bambini, i pazzi, ecc. cercano di salva­ guardare in qualche modo la loro economia di desiderio. La semiologia significante dei poteri dominanti li tiene, dice loro: «in realtà, tu volevi dire questo, non mi credi, ma forse sono io che mi esprimo male, allora modificherò la mia interpretazione, finché non riuscirò a farti accettare il principio stesso della traducibilità generale di tutte le tue espressioni simboliche». Infatti per lo psicanalista, riuscire a far passare tutte le espressioni del desiderio attraverso lo stesso linguaggio interpretativo è diventato un affare della massima importanza; per lui, è il mezzo per far rientrare tutti gl’individui devianti nelle leggi del potere dominante. Ecco la vera specialità dello psicanalista! Le formazioni di potere impongono significati. Eccoci arrivati al problema del rapporto significato-potere. Tutte le stratificazioni di potere producono e impongono significati. In situa­ zioni eccezionali, è possibile sfuggire a questo mondo di significazioni dominanti: ad esempio qualcuno che si sveglia da un elettroshock si chiede dov’è, poi supera a sbalzi successivi una soglia di significati. Ri­ trova il proprio nome e progressivamente rimette a posto le diverse di­ mensioni dei significati del mondo. L’uso dell’alcool o della droga è un tentativo per attraversare in sen­ so opposto la soglia dei significati dominanti. Ma qual è questa soglia? Qual è questa intersezione tra i sistemi di ridondanza, di codifica, di segni di ogni genere? Di cosa ci si veste ogni mattino, quando ci si alza: identità, sesso, professione, nazionalità, ecc.? Questa soglia è costituita dalla ricomposizione in un unico centro delle varie componenti dell’espressioni simboliche - il mondo dei gesti, dei rumori, dei corpi - da tutto ciò che, nell’economia del desiderio, minaccia di lavorare soltanto

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per sé. «Dai, riprenditi, sei qui, in questo rapporto coniugale, questa situazione di lavoro, sei responsabile dei tuoi atti, inoltre disponi di ogni tipo di potere, a partire da quello di rompere le scatole a quelli che ti circondano e di romperti le scatole...» Il significato è sempre l’in­ contro tra la formalizzazione, da parte di un dato campo sociale, di si­ stemi di valori, di sistemi di traducibilità, di tegole di comportamento, oltre che di una macchina di espressioni che di per sé non ha senso, che è, come si è detto, a-significante, che automatizza i comportamenti, le interpretazioni, le risposte volute dal sistema. Il sistema della doppia articolazione, introdotto da Martinet, ma­ schera la radicale disparità tra la formalizzazione a livello del contenuto e quella a livello dell’espressione. A quest’ultimo livello (che per Mar­ tinet è quello della seconda articolazione), i fonemi, i sistemi di oppo­ sizioni distintive oppure le figure a-significanti di Hjelmslev, una mac­ china estremamente efficace, una macchina che chiameremo diagram­ matica, nasconde, da una parte, tutte le operazioni creative del linguag­ gio, che, dall’altra, essa ingabbia in una particolare sintassi. A livello della prima articolazione, quello dei monemi, delle frasi, del testo, delle interpretazioni semantiche e pragmatiche, avviene la congiunzione di tutte le formazioni di potere, il loro accentramento, la loro gerarchizzazione che organizza un certo tipo di equivalerne, un certo tipo di signi­ ficati. La presenza della macchina linguistica serve a sistematizzare, « strutturalizzare » queste formazioni di potere; è fondamentalmente uno strumento al servizio della legge, della morale, del capitale, della religione, ecc. Inizialmente le parole e le frasi assumono un senso solo grazie a una particolare sintassi, una retorica territorializzata su ogni formazione di potere locale. Ma solo la pratica di una lingua più gene­ rale, che surcodifica tutte queste lingue, tutti questi particolari dialetti, consente la presa di potere, a un livello più totalitario, da parte di una macchina economica e sociale statale. Nella misura in cui l’intreccio del­ le due modalità di formalizzazione — quella della macchina linguistica in quanto macchina a-significante, e quella delle formazioni di potere in quanto produttrici di contenuti significati - è realizzato, centrandolo su una lingua significante, si ottiene un mondo «sensato», cioè un campo di significazione omogeneo rispetto alle coordinate sociali, economiche e morali del potere. Gli strutturalisti, soprattutto quelli americani, lasciano nell’oscurità l’origine sociale della formazione dei significati e pretendono di gene­ rarli partendo da strutture semiotiche profonde. Con loro non si sa mai da dove proviene il senso. Invece, il senso non proviene mai dal lin­ guaggio in quanto tale, da strutture simboliche profonde oppure da una

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matematica dell’inconscio; esso è modulato da formazioni di potere so­ ciale ben reali, ben reperibili, a patto che si voglia reperirle. Se ritorno tra poco in questa sala indossando una sottana, in sé ciò non avrà alcun senso, ma ne acquisterebbe uno se volessi collocarmi nella categoria dei travestiti. Nessun problema se qui siamo tutti dei travestiti; se ci si tro­ vasse invece in un seminario di preti ciò avrebbe un senso ben diverso. In un ospedale psichiatrico, le cose sarebbero interpretate in modo an­ cora diverso: «guarda oggi non sta bene, si è messo un vestito da don­ na». A seconda che mi si consideri come un prete, un giudice, un pazzo o un travestito, il senso cambierà. La presa di significato è sempre inse­ parabile da una presa di potere. Portare la propria merda su un vassoio a qualcuno, può essere sentito come un abominevole non-senso da parte di gente normale, ma per un terapeuta, può essere un buon segno, l’in­ dicazione di un dono, di un messaggio importante, che purtroppo lo psi­ canalista tenderà ad appiattire sul proprio sistema di interpretazioni: vuole significarmi il suo transfert, sono sua madre, regredisce, ecc. Nelle società moderne (capitalistiche o socialiste burocratiche), tutte le semiologie simboliche sono centrate sulla formazione della forza-la­ voro. Questa formazione comincia fin dall’infanzia, fin dalPinizio si con­ trasta la particolare logica del bambino, i suoi particolari modi di semiotizzazione. Quando un bambino dice «mamma voglio ucciderti», men­ tre è evidente che adora sua madre, non si può accettare questa moda­ lità di funzionamento della sua economia desiderante, gli si chiedono spiegazioni, dei conti, la giustificazione di questa ambivalenza. Eppure, a questo livello delle semiotiche simboliche dell’inconscio, non vi è al­ cuna contraddizione, non vi è niente da tradurre né da interpretare. Ogni volta che, a proposito di un desiderio, si pone la domanda «cosa significa?», non ci si può sbagliare: una formazione di potere sta inter­ venendo e chiedendo dei conti. Il bambino è continuamente sballottato in sistemi di potere contraddittori, a cominciare dal potere su me stesso, sulla sua ricchezza, sulla sua emotività, la sua voglia di correre, di dise­ gnare, contrariati dal desiderio di diventare adulto. A tutto questo bi­ sogna aggiungere le limitazioni che pesano sul potere familiare, e che pesano indirettamente anche su lui. Preso in una rete di poteri antago­ nistici, il bambino deve arrangiarsi per sviluppare le proprie compo­ nenti semiotiche di desiderio, disciplinarle, piegarle all’accentramento operato dalle semiologie significanti del potere dominante, in poche pa­ role, castrarle. Talvolta l’insieme del sistema entra in crisi, ed ecco la fuga disordinata, l’angoscia, la nevrosi, il ricorso allo specialista, ecc. La significazione è sempre la congiunzione tra un certo tipo di mac­ chine a-significanti e la stratificazione dei poteri che generano i regola-

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menti, le leggi, le ridondanze, i condizionamenti. La significazione è questa congiunzione, questo andirivieni tra questi diversi sistemi di for­ malizzazione. Ciò che lega le materie dell’espressione a-significante alla sostanza del contenuto significato è proprio l’esistenza di una macchina di formalizzazione comune. Ovvero una macchina significante. Ma non è perché questa formalizzazione comune del contenuto e dell’espressio­ ne li riunisce in una sostanza semiologica comune che le si deve consi­ derare della stessa natura, della stessa origine. L’arbitrarietà dell’opera­ zione di congiunzione significante, tra ciò che i linguisti chiamano il si­ gnificante e il significato, è in realtà un arbitrio politico: « accetta i siste­ mi di codifica dominanti, tutto è previsto per questo, altrimenti subirai i sistemi repressivi».

Semiotiche diagrammatiche. La terza distinzione qui introdotta è quella che distingue le semio­ tiche significanti da quelle a-significanti. I semiotici, seguendo Charles Sanders Peirce, hanno ritenuto opportuno collocare in un’unica voce il sistema delle immagini (icone) e quello dei diagrammi, pensando che un diagramma non fosse altro che un’immagine semplificata delle cose. Ma l’immagine rappresenta al tempo stesso più e meno di un diagram­ ma, essa riproduce molti aspetti che un diagramma non considera nella sua rappresentazione, mentre il diagramma raccoglie, con un’esattezza e un’efficacia di gran lunga superiori all’immagine, le articolazioni fun­ zionali di un sistema. Ritengo quindi che si dovrebbero separare i due campi, porre l’immagine tra le semiotiche simboliche, e fare del dia­ grammatismo una particolare categoria semiotica, quella delle semioti­ che a-significanti, categoria molto importante dal momento che potrà intervenire in settori come la scienza, la musica, l’economia, ecc. Le se­ miotiche a-significanti, o diagrammatiche, non producono ridondanze significative bensì ridondanze macchiniche (certi linguisti hanno ricor­ dato questo campo parlando di significati relazionati). Charles Sanders Peirce dà come esempio di diagramma rappresentazioni grafiche, ad esempio, curve di temperatura oppure, a un livello più complesso, siste­ mi di equazioni algebriche. I segni funzionano al posto degli oggetti ch’essi designano, e indipendentemente dagli effetti di significazione che possono esistere marginalmente. È come se certe macchine di segni dia­ grammatiche avessero come ideale la perdita di ogni energia autonoma, è come se rinunciassero a tutta la polisemia possibile nei sistemi simbo­ lici o in quelli significanti: si epura il segno, non ci sono più n interpre­

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tazioni possibili, bensì una denotazione e una sintassi estremamente precisa e rigida. In fisica, ad esempio, d si può sempre fare, per sé, una rappresentazione degli atomi o delle particelle, ma questa rappresen­ tazione non può essere presa in considerazione nella semiotizzazione scientifica. Altro esempio, la musica, che può sempre essere commen­ tata o immaginata, dalla quale però non si può estrarre un significato traducibile, definibile per tutti. Anche la musica, in quanto tale, utilizza una macchina a-significante: proprio perché consente di sfuggire ai si­ gnificati dominanti, essa ha un effetto diagrammatico suirinscrizione del soggetto nelle coordinate spazio-temporali del mondo dei suoni. Le semiotiche a-significanti possono mettere in gioco sistemi di se­ gni che hanno tra l’altro un effetto simbolico o significante, tuttavia nel loro particolare funzionamento, non hanno niente a che fare con questo simbolismo o con questa significazione. Le semiotiche simboliche, come le semiotiche significanti, sono efficaci perché tributarie di una certa macchina a-significante. Bisognerebbe mostrare che le macchine di segni a-significanti, in tutti i campi, tendono a sfuggire alle territorialità del corpo, dello spazio, del potere sociale e all’insieme dei significati ch’esse generano. Infatti sono più deterritorializzate delle altre. Ad esempio, un bambino si sveglia lamentandosi di avere male; sua madre comincia concludendo che non vuole andare a scuola. Poi, cambiando registro, decide di chiamare un medico. Soltanto lui ha il potere di dire: «suo figlio non deve andare a scuola». Si è passati da una semiologia simbo­ lica operante a livello del corpo a una semiologia significante che agisce a livello del potere familiare, poi a qualcos’altro dove interviene una macchina di potere con la sua notevole efficacia sociale e tecnica. A ognuno di questi passaggi, si lascia una territorialità per un’altra, che of­ fre una presa maggiore alle macchine di segni a-significanti. Una macchi­ na diagrammatica, la presunta scienza del medico, scongiura la macchina diagrammatica del potere scolastico, il quale, a sua volta, ha espulso in parte il potere familiare. La testura stessa del mondo capitalista è fatta di questi flussi di se­ gni deterritorializzati, i segni monetari, economici, di prestigio, ecc. I si­ gnificati, i valori sociali (quelli che possono essere interpretati) si mani­ festano sul piano delle formazioni di potere, ma il capitalismo si sostie­ ne essenzialmente su macchine a-significanti. I movimenti in borsa, ad esempio, non hanno alcun senso; il potere capitalistico a livello econo­ mico, non fa discorsi, cerca soltanto di controllare le macchine semioti­ che a-significanti, di manipolare gli ingranaggi a-significanti del sistema. Esso attribuisce a ognuno di noi un ruolo: medico, bambino, maestro, uomo, donna, omosessuale. Ognuno dovrà poi adattarsi al sistema di

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significati che gli è stato preparato. Ma sul piano dei poteri effettivi, questo tipo di ruolo non conta mai; il potere non è necessariamente lo­ calizzato a livello di direttore o di ministro, bensì agisce nei rapporti finanziari, nei rapporti di forza, tra gruppi di pressione... Le macchine a-significanti non conoscono né i soggetti, né le persone, né i ruoli, e nemmeno gli oggetti delimitati. È proprio questo che conferisce loro ima specie di onnipotenza: esse passano attraverso i sistemi di signifi­ cati nei quali si riconoscono e si alienano i singoli soggetti.

Le domande diagrammatiche dello schizofrenico. In ogni momento siamo accerchiati dalle formazioni di potere. Nelle nostre società, non si deve gesticolare troppo, bisogna rimanere al pro­ prio posto, bisogna firmare nello spazio apposito, riconoscere i segni che ci fanno, sentire le giuste parole d’ordine, e se si sbaglia ci si ritrova in prigione o in ospedale. Più che considerare lo schizofrenico come un essere paralizzato nel proprio corpo e che dev’essere sorvegliato, si po­ trebbe tentare di scoprire (e non d’interpretare) in che modo funziona nel campo sociale nel quale si dibatte, e quali domande, trasversali, dia­ grammatiche, ci rivolge. Non si tratta d’imitare gli schizofrenici, di fare i catatonici, ma di chiarire fino a che punto un pazzo, un bambino, un omosessuale, una prostituta, ecc. mettono in movimento componenti del desiderio che noi, i «normali», ci guardiamo bene dal far interve­ nire. Se sul corpo del pazzo, del bambino di ognuno di noi hanno luogo drammi d’ordine simbolico (pre-significante) o d’ordine post-significan­ te, fino a che punto ciò ci riguarda? La nostra funzione consiste nell’adattare il soggetto al mondo, nel curare la devianza? Cosa vuol dire cura­ re uno schizofrenico? Forse non si è là tanto per curarlo quanto lui per interpellarci. Quando dico noi, non voglio dire soltanto noi individual­ mente (eppure quando si discute con uno schizofrenico dopo aver avuto una lite in famiglia, non si vedono più le cose allo stesso modo, è un’ot­ tima cura), ma è anche un noi che vale per tutto il campo sociale. Lo schizofrenico si dibatte in un mondo in cui le relazioni tra segni e le produzioni di significati superano di gran lunga le nostre follie e le no­ stre nevrosi individuali.

La coscienza diagrammatica

Ri-esaminare la dicotomia, che sembra scontata, tra l’io e il soggetto. Dietro lo spessore dell’io, si nasconderebbe un puro soggetto, una pura trasparenza soggettiva che diventa, con i lacaniani, il soggetto dell’in­ conscio, pura articolazione significante. Ma il soggetto non è forse un modo di essere altro rispetto a sé? Qui, il sé non è altro che una risultante d’intensità, il corpo senza or­ gani delle intensità. Il soggetto dell’enunciazione è un io (moi-je) che costituisce un blocco di alterità sul quale s’infrangono le intensità. Non esiste un mistero àe\Y altro, un mistero dell’incomunicabilità. C’è il fe­ nomeno della soggettivazione che si realizza, con una sola operazione, in soggetto e altro. Ma il soggetto non è meno altro dell’altro. In un certo senso, lo è anche di più. Dopotutto, l’altro può essere in qualche modo circoscritto. II soggetto è inafferrabile; con lui non la si finisce più; è onnipresente. La coppia d’impotenziamento soggetto-altro tende verso una signifi­ canza vuota; uno per-l’altro, battezzato per-sé, si costituisce come un blocco di alterità all’interno della coscienza stessa. Perciò non si ha il soggetto da una parte, e dall’altra, l’altro e la coscienza. Tutto è dato immediatamente nell’economia significante che impotenzia le intensità. Perlomeno nel caso delY individuazione dell’enunciazione e del regime delle duplici sostanze significanti (contenuto-espressione), oppure, se si vuole, del regime della sostanza del doppio, della coppia d’impotenzia­ mento che provoca il ripiegarsi della deterritorializzazione su se stessa. Con le concatenazioni territorializzate dell’enunciazione, la coscienza re­ stava indubbiamente separata dal sistema soggetto-altro. Essa era sen­ z’altro più intensiva, meno masochistica, mentre il soggetto era più col­ lettivo. Inoltre, l’altro era certo meno distinto dal soggetto. Una sorta di transitivismo soggetto-altro investiva tutto il campo di territorializzazione. Questo scarto proveniva dal fatto che l’economia delle semio­ logie simboliche riusciva a evitare un ricentramento su una coppia di deterritorializzazione: noesi-noema, costitutivo della coscientizzazione.

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La doppia articolazione significante estraeva da tutte le componenti simboliche il formalismo più differenziato. In un certo senso, la coscien­ za consiste nel capitalizzare tutti i sistemi di chiusura formale delle in­ tensità. Tutta la potenza intensiva si adopera per impotenziarsi. Esisto­ no tuttavia tanti tipi di coscienza, come d’altronde tante modalità di soggettività e di alterità. Esempio: la coscienza del sogno, la coscienza dell’inconscio che lascia passare ciò che è proibito, mescola le coordi­ nate spazio-temporali, gioca con le sinestesie... Oppure, all’opposto, la coscienza morale che focalizza il suo sguardo colpevolizzante su un og­ getto preciso, le ridondanze significative, le ridondanze di contenuto dell’ordine dominante che si appiattiscono sulla macchina figurale signi­ ficante. Cosi, si potrebbe definire la coscienza come il risultato del pro­ cesso di collegamento interno della coppia soggetto-altro, in quanto vet­ tore di abolizione delle intensità. L’imminenza del soggetto e la trascen­ denza dell’altro, infatti, sono soltanto i due volti dello stesso sistema d’impotenziamento e d’illusione. Certo si tratta sempre di una coscienza di qualcosa... Ma questo qualcosa non è posto per essere evitato; la sog­ gettività lo evita per affermare il predominio deU’impotenziamento. Tutte le semiologie e tutte le semiotiche sono centrate su un punto d’impotenziamento (punto d'interpretanza, punto di fuga dall’insieme delle prospettive paradigmatiche). La coscienza è sempre un appello al­ l’altro. Ma esiste anche ogni sorta di gradi di alterità, e altrettanti di coscienza. Si passa cosi per gradi da un’alterità debole, nel sogno e nel delirio, all’ideale di un’alterità assoluta nella colpevolizzazione della co­ scienza morale, la cui comparsa è correlativa a quella dei flussi decodi­ ficati. La coscienza è il corpo senza organi di tutte le punte di deterrito­ rializzazione, il corpo senza organi deH’impotenziamento. La coscienza «moderna» si è costituita solo rendendo traducibili, riducendo, delimi­ tando, formalizzando, gerarchizzando le sostanze dell’espressione delle semiologie simboliche e centrandole sul buco nero dell’impotenziamento significante. La virulenza delle particelle a-significanti che saranno emesse da que­ sto buco nero dipenderà dal grado di centramento di tutte le compo­ nenti d’impotenziamento. Ogni particella è portatrice di una specie di carica di annullamento (néantisation). Il vuoto della coscienza si tra­ sforma in perdita d’inerzia positiva del segno che è cosi in grado di fun­ zionare in un processo di diagrammatizzazione. Poco importa se i segni a-significanti sono stati generati nel tormento e nel dolore coscienziali! Ciò che conta adesso è che dei sistemi d’inscrizione abbiano acquisito una velocità di deterritorializzazione, una capacità di distacco che con­ senta loro di doppiare, di simulare, di catalizzare i processi di deterrito-

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rializzazione dei flussi materiali, in modo che alla potenza della deterri­ torializzazione materiale si unisca la superpotenza delle deterritorializzazioni macchiniche segno-particella.

Ridondanze intensive e ridondanze espressive Appunti

Distinguiamo le ridondanze intensive da quelle espressive. Le ridon­ danze intensive procedono per codifica intrinseca, senza fare interve­ nire specifici strati di espressione; esse restano quindi prigioniere di stratificazioni di codifica. Esempio: la stratificazione intrinseca del cam­ po delle particelle nucleari, quella dell’organizzazione atomica, moleco­ lare, chimica, biologica, ecc. Ognuna di queste modalità di codifica, di riproduzione, di mantenimento e d’interazione non può essere separata dal suo particolare strato. Tra gli strati non esistono rapporti di espres­ sione, di concordanza, d’interpretazione, di riferimento, ecc. Essi riman­ gono indifferenti gli uni agli altri. Da uno strato energetico a uno strato materiale, a uno strato biologico, ecc. si può passare soltanto per mezzo di un plusvalore di codice, cioè una specie di proliferazione e d’intrec­ cio dei codici, che rispetta tuttavia l’autonomia degli strati, che non in­ tacca affatto la loro disposizione. Gli strati accumulati formano una spe­ cie di humus. È il sistema del «brodo»: dietro la vita, un brodo biolo­ gico, dietro il brodo biologico, quello chimico-fisico, ecc. In questo caso si ha una codifica senza che emerga una macchina semiotica. Le macchi­ ne astratte rimangono prigioniere delle stratificazioni. Il passaggio diretto da uno strato all’altro potrà avvenire soltanto se interverranno specifiche macchine semiotiche autonomizzate. Si avrà cosi non più un plusvalore di codice ma una transcodifica. La macchina semiotica utilizzerà una procedura di deterritorializzazione assoluta ca­ pace di attraversare tutte le stratificazioni. L’autonomizzazione di tale macchina semiotica comincia con la macchina di riproduzione biologica. In quest’ultima infatti si delinea la specializzazione di una macchina di lettura che appiattisce le intensità, che le esprime (nel senso etimolo­ gico di «spremere» il succo da un frutto). La macchina di espressione genetica comporta il distacco di una linea di codifica che servirà da stampo riproduttivo. S’instaura cosi un sistema di doppia articolazione: una linea di codifica deterritorializzata, cioè, una linea che si stacca al

Ridondarle intensive e ridondanze espressive

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massimo dalla seconda e ter2a dimensione', una linea che aderisce alle intensità, che le diagrammatizza. Soltanto la possibilità di reperire tale linea permette di leggere e di trascrivere in modo diacronico un pro­ cesso complesso. La procedura di riproduzione, ad esempio in cristallografia, non ricorre a questo sistema di allineamento del codice. Un cri­ stallo a tre dimensioni, oppure una soluzione che si sta cristallizzando, «decifrano» soltanto dall’esterno l’organizzazione di un altro cristallo, non possono far altro che modellarsi, adattarsi ad esso. Contrariamente alle catene di DRA-DNA. un cristallo resta troppo territorializzato per poter raggiungere il livello delle macchine astratte che guidano il pro­ cesso di deterritorializzazione fisico-chimica. Ma la catena genetica resta comunque prigioniera dello strato di organismo. Anche se in misura in­ feriore, accadrà la stessa cosa con la deterritorializzazione delle concate­ nazioni di enunciazione, ad esempio nelle società primitive. Queste uti­ lizzano parzialmente sistemi di transcodifica, ma si tratta ancora di una transcodifica relativa e policentrica. La volontà di essere policentriche traduce una specie di rifiuto della «cancrena» deterritorializzante. Que­ sto rifiuto può manifestarsi attraverso la gerarchizzazione di un sistema macchinico (le società tradizionali, ad esempio, cercheranno di limitare l’estensione della metallurgia, della scrittura, ecc. facendole funzionare unicamente come strumenti specializzati). Solo al termine del processo di degenerazione delle semiologie significanti, con la comparsa di com­ plessi di enunciazione macchinica, si formeranno linee di diagrammatizzazione e concatenazioni collettive socio-materiali, dalle quali sorgeran­ no macchine di segni che prenderanno veramente il potere sulle stratifi­ cazioni. La deterritorializzazione dei segni, nella fisica matematica, in informatica, ecc. implica una sorta di superlinearità del segno. Ad essere esatti, non si può neppure dire che si tratta ancora di un segno. Si è abbandonato il campo di una espressione polivoca pre-significante che mescola gesti, paroles e danze, - e persino quello delle semiologie surcodificate dal significante, - e quello post-significante delle lettere e dei segni assiomatizzati della scienza e dell’arte, per disporsi sulla tangente di un’espressione diretta dei macchinismi astratti. La distinzione segnoparticella scompare; la diagrammatizzazione rifiuta ogni primato dei flussi materiali e, inversamente, le intensità reali parlano per se stesse per il tramite di macchine che comporteranno solo un minimo d’inerzia semiologica. Le teorie, i teorici e i complessi economico-sperimentali 1 Le posizioni relative della dimensione temporale permetterebbero forse di definire la diffe­ renza tra la codifica genetica e quella linguistica; mentre il tempo di generazione delle relazioni di biunivodzzazione è piti rigido nella macchina genetica, le forme 0 le strutture profonde nel lin­ guaggio introducono un certo scarto tra l’organizzazione degli enunciati e quello dei codici.

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Impalcature semiotiche

costituiscono una rete di sostanze di espressione a-signiScanti che pos­ sono manifestare, senza mediazione rappresentativa, le loro deterritorializzazioni spazio-temporali. A questo livello, non ha più senso separare le diverse regioni scienti­ fiche, ad esempio una regione astrofisica da una microfisica. Si è in pre­ senza di uno stesso universo di macchine astratte che lavorano su due diverse scale: delle galassie e delle particelle. (Si vedano le teorie sul primo secondo dell’espansione dell’universo). Così, è la nozione stessa di scala che dipende da un principio di relatività e, se esistono mondi extraterrestri, simili al mondo umano, bisognerà cercarli sia in altre ga­ lassie sia nel mondo microfisico. Fatto che comunque non facilita certo Io stabilirsi di rapporti con loro! L’esistenza di macchine semiotiche corrisponde quindi a uno stadio intermedio del processo di deterritorializzazione. «Prima» del segno — al di qua — le macchine astratte rimangono prigioniere delle stratifi­ cazioni. «Dopo» il segno — con gli insiemi macchinici a-significanti — si esce dal registro semiotico; si passa a una inscrizione diretta delle mac­ chine astratte nel piano di consistenza. «Prima» del segno si ha una ridondanza di pura informazione stratificata. «Dopo» il segno, si ha un’informazione destratificata, una diagrammatizzazione destratifican­ te; cioè un principio di trans-formazione che si sovrappone alle deterritorializzazioni relative, apre le stratificazioni intensive sostenendosi sul­ la potenza di deterritorializzazione delle macchine di segni. Tra i due momenti, le semiologie della ridondanza significativa: cioè tutti i siste­ mi che cercano d’impotenziare i processi di deterritorializzazione inten­ sivi. Le codifiche stratificate chimico-fisiche, biologiche, ecologiche, ecc. sono via via entrate in crisi, zavorra in meno che permette una certa deterritorializzazione. Gli strati non sono più chiusi ermeticamente gli uni rispetto agli altri; li attraversano flussi di deterritorializzazione in­ tensiva. Con i sistemi di doppia articolazione delle ridondanze espres­ sione-contenuto, si è così realizzato un tentativo di blocco assoluto. Ma l’unico risultato ottenuto è stata una deterritorializzaziom relativa, una stratificazione dell’espressione che finirà per mancare l’ofciettivo essen­ ziale che consisteva nell’imbrigliare la creatività potenziale delle mac­ chine a-significanti (macchine militari, tecnologiche, di scrittura, di se­ gni monetari, di segni scientifici, ecc.). Dopo le dighe della deterrito­ rializzazione «naturale», entreranno in crisi quelle della deterritorializ­ zazione semiologica «artificiale». Si tratta perciò del fallimento di ogni tentativo di dare alle cose una natura rappresentativa, fondata su mondi mentali, espliciti o nascosti che costituiscono altrettante barriere contro l’accelerazione del processo di deterritorializzazione.

Ridondanze intensive e ridondanze espressive

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La teoria dell’informazione ha tentato di salvare l’obiettivo delle se­ miologie del significato definendo le ridondanze significative come un rapporto inverso rispetto alla quantità d’informazione; ma si è trattato solo di un conflitto semiologico di retroguardia. In realtà, il passaggio d’informazione dipende da un processo diagrammatico che non ha alcun rapporto diretto con le ridondanze significative della «comprensione» umana. «Prima» del significante, la ridondanza e l’informazione coin­ cidevano in un processo di diagrammatizzazione intrinseca. «Dopo» il significante, la diagrammatizzazione avvia un processo di transcodifica illimitata. Tra i due momenti, la stratificazione semiologica conserva co­ munque un ruolo essenziale: infatti, i residui di un processo significante si accumulano allo stesso modo di quelli degli altri strati di codifica. Le linee d’interpretanza con la loro gerarchia dei contenuti, e le linee di significanza, con la loro proliferazione controllata, diventano una specie di materiale di base per la realizzazione di macchine di segni a-significanti. I rifiuti del significante, le figure dell’espressione, le concatena­ zioni prediagrammatiche sono elementi essenziali all’engineering di ac­ celeratori di segni-particelle la cui capacità di deterritorializzazione sarà in grado di far esplodere gli strati di codifica. L’organizzazione del mondo vivente rappresentava già un inizio di realizzazione di un acceleratore di questo tipo. A un certo livello, gli organismi pluricellulari continuano a essere colonie, mute di organismi unicellulari, che vivono in parte di un sistema d’infracodifica e, per il resto, di transcodifica. Quest’ultima tuttavia, anche se limitata dal per­ sistere di queste codifiche intrinseche, si apre alle varie stratificazioni intensive cosmiche, le esprime, le modifica. In questo senso, si può pen­ sare ch’essa rappresenti l’emergere di una prima macchina semiotica a-significante. Ma questa macchina biologica dovrà evidentemente esse­ re radicalmente distinta dalle macchine a-significanti delle concatenazio­ ni collettive di enunciazione. Infatti, non può ancora essere considerata una macchina di segni. Il segno significante e quello a-significante dipen­ dono dalla messa in opera di altri due tipi ben precisi di macchina: in­ nanzitutto di una specie di acceleratore della deterritorializzazione che la porta all’assoluto per impotenziarla, poi delle «fabbriche di tratta­ mento semiotico» che produrranno questa deterritorializzazione asso­ luta e sotto forma quantica. Sarebbe assurdo formulare l’ipotesi che lo stesso sistema di segni possa attraversare contemporaneamente i campi chimico-fisico, biologico, umano, e macchinico. Solo le particelle a-significanti, situate tangenzialmente rispetto alle macchine astratte, sono ca­ paci di farlo. Le loro condizioni di produzione rimangono decisamente particolari, dipendono dalla realizzazione di concatenazioni macchini-

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Impalcature semiotiche

che prive di qualsiasi carattere di universalità. I segni della semiologia e quelli di quasi tutte le semiotiche costituiscono degli strati come tanti altri. Così come esistono strati di particelle elementari, di elementi fisi­ ci, chimici, biologici, ecc., esistono anche strati semiotici, strati di mac­ chinismi a-significanti che, in diversa misura, mettono in gioco quanti di deterritorializzazione assoluta. Se i segni restano localizzati in strati par­ ticolari, le macchine astratte sono invece coinvolte da tutti gli strati. La deterritorializzazione risulta cosi irrigidita (in «natura» o in mac­ chine semiotiche binarie dove essa è scongiurata dal sistema coscienza­ significante) oppure liberata dalle macchine a-significanti delle concate­ nazioni collettive di enunciazione. A seconda che si passi da uno strato all’altro, le macchine astratte riceveranno un grado più o meno grande di attualizzazione e di potenza. Questo grado di liberazione corrisponde al grado d’intensità della deterritorializzazione '. È come se ci fosse, «al­ l’inizio», ima deterritorializzazione lenta, irrigidita in codifiche intrin­ seche, poi una deterritorializzazione accelerata, secondo un processo a zig zag. A ogni punta di deterritorializzazione avviene un’emissione di una macchina astratta, seguita da una ristratificazione. Nel passaggio da uno strato all’altro, il coefficiente di accelerazione cresce continuamente. Le macchine astratte portano l’accelerazione della deterritoria­ lizzazione intensiva fino al punto di esplosione degli strati. Questo pun­ to di esplosione implica il passaggio di una soglia, di una specie di «muro della deterritorializzazione assoluta». Se la deterritorializzazione rimbalza su questa soglia, si resta nel regime di impotenziamento semiologico (sistema coscienza-significante); se invece la supera, si passa al regime delle linee di fuga di segni-particelle a-significanti (concatena­ zioni collettive di enunciazione). 1 Bisognerebbe distinguere due tipi d’intensità, le intensità differenziali, tra gli strati, e l’in­ tensità assoluta, quella del corpo pieno senza organi. L’intensità assoluta manifesta sia tutta la po­ tenza della deterritorializzazione, considerata in quanto :ale, sia tutta la sua impotenza nello scolla­ mento della deterritorializzazione semiotica dal sistema significante-coscienza.

Le proposizioni macchiniche

La produzione di enunciati delle concatenazioni territorializzate ave­ va già una certa efficacia diagrammatica, una certa presa semiotica sulle forze materiali e sociali. Ma era ancora solo un diagrammatismo con­ trollato dal funzionamento dell’insieme del gruppo territoriale che vo­ leva segmentarlo come un qualsiasi altro macchinismo suscettibile di mettersi a lavorare in proprio. Con l’individuazione dell’enunciazione, questo diagrammatismo si differenzia, si specializza; mentre, sul versan­ te della lingua, s’impoverisce e si spegne progressivamente, su quello delle macchine di segni continuerà a svilupparsi e a proliferare. Si giun­ gerà così a tre regioni semiotiche: 1) quella delle scienze, delle tecniche e dell’economia, lavorata co­ stantemente da macchine diagrammatiche che funzionano in base a enunciati matematici e algoritmici; 2) quella delle lingue del potere, delle lingue burocratiche e religio­ se, il cui diagrammatismo è interamente rivolto al controllo delle semiotizzazioni residue di desiderio; 3) quella delle lingue parlate, luogo di composizione delle varie cor­ renti di deterritorializzazione e di territorializzazione degli altri due livelli. In questo modo, il lavoro di epurazione, di impoveri­ mento che i flussi capitalistici fanno subire alle lingue territoria­ lizzate, tende alla costituzione di due specie ben distinte di metalingue di «giudizio» - o di surcodifica: - le metalingue algoritmiche, che articolano proposizioni di giu­ dizio scientifico, fondato su una logica rigorosamente raffinata e poliziesca, il cui ruolo consiste nell’imporre e garantire un certo contenuto di verità «universale» agli enunciati che esse producono; - i metalinguaggi burocratici, le cui proposizioni di potere hanno il ruolo di imporre e di garantire un certo contenuto di univer­ salità ai significati e alle formalizzazioni che producono.

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Impalcature semiotiche

Verità e potere possono dunque essere considerati come formazioni sostitutive dei corpi senza organi delle semiotiche territorializzate. La sintassizzazione dispotica delle semiotiche sul versante della prassi e la semiotizzazione delle macchine di potere su quello del sociale uniscono cosi i loro effetti per delimitare, concentrare e accelerare il diagramma­ tismo della vecchia macchina territoriale. Queste macchine di formaliz­ zazione, capaci di modificare le strutture esistenti, sono concentrate nel­ le mani di una formazione di potere che assoggetta la casta degli scribi. Questa operazione tuttavia può essere effettuata solo in nome dell’uni­ versalità del processo messo in atto - ruolo del monoteismo deterritorializzato, deH’unità di potere trascendente - scienza, ragione, legitti­ mità, ecc. La verità deve essere universale per fare accettare e interio­ rizzare la contingenza della formazione di potere che controlla le mac chine di segni, che hanno il compito di concatenare le formalizzazioni dell’espressione e quelle dei contenuti dominanti. L’idea che enunciati possano, in quanto tali, essere portatori di formalizzazione, di informa­ zione universale, è identica a quella che stabilisce un valore di scambio universale partendo dalla circolazione delle merci. La coupure tra gli enunciati di «superficie» e le posizioni di verità logica deriva da un metodo che trascendentalizza il significante, e al quale sono particolar­ mente affezionati gli scienziati; è addirittura uno dei fondamenti del loro organizzarsi in casta; è ciò che li differenzia dagli altri gruppi. Il despota oppure la formazione sociale dispotica non sono più i depositari degli enunciati di verità; dietro ai testi, dietro ai rapporti di potere, esi­ ste una verità profonda a livello della testura logica delle catene signi­ ficanti. La verità politica non è più unicamente sociale; ai valori di desi­ derio, all’arbitrarietà della «scoperta», si sovrappone una verità in sé. Il linguaggio della scienza, come quello del capitalismo, ritiene di esse­ re, in quanto puro discorso, il depositario esclusivo delle potenze di diagrammatismo che mette in atto. In realtà, è impossibile che il dia­ grammatismo, per definizione, sia concentrato in un solo strato semio­ tico. Esso è sempre trans-semiotico. Se si stabilisce una relazione dia­ grammatica tra un sistema di enunciati e un sistema macchinico mate­ riale o sociale, ciò non dipende da corrispondenze o da omologie for­ mali. Il diagrammatismo coinvolge qui lo stesso macchinismo interno - macchinismo astratto di deterritorializzazione positiva — in entrambi i sistemi. Il rifiuto dell’esistenza di proposizioni che trascendano gli enunciati linguistici e le concatenazioni macchinistiche non è altro che un aspetto di un rifiuto più generale di ogni legge formale universale. Il diagram­ matismo fa intervenire concatenazioni trans-semiotiche più o meno de-

Le proposizioni macchiniche

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territorializzate, regimi di segni, di codifica, di catalisi, ecc., che consen­ tono, secondo particolari modalità, di attraversare le stratificazioni di ogni genere. In queste condizioni, non si può più porre il problema di una verità in sé. Una proposizione è vera in un dato campo macchi­ nico e non lo sarà più quando una macchina (materiale, o semiotica) ne modificherà la concatenazione. La verità significa che «qualcosa passa». Viene meno quando le connessioni macchinistiche si bloccano. Perciò a ogni logica - a ogni dimensione di verità logica - corrisponde un tipo di concatenazione. In altri termini, la ricerca di una logica proposizio­ nale universale, che sottenda l’insieme del discorso scientifico, è illuso­ ria. Le proposizioni di giudizio sono legate a ogni singolo tipo di mac­ china di enunciazione. Perciò qui si preferirà parlare di proposizione macchinica. Gli enunciati linguistici non devono essere confrontati a valori di verità universali, bensì a singole combinazioni di proposizio­ ni macchiniche (macchine astratte). La valutazione dei valori di verità del referente ha indotto Meinong a cercare di uscire da un’alternativa troppo semplice tra l’esistenza e la non-esistenza: per lui, gli oggetti ideali sussistono (bestehen) senza tuttavia esistere (existieren); egli con­ sidera inoltre una terza specie di essere, quello dell’ausserseiend del­ l’oggetto puro che si situerebbe «al di là dell’essere e del non-essere», e una quarta, poi una ennesima specie di essere potrebbero essere attri­ buite all’oggetto per negazioni successive1. Ma la sua lotta contro il «pregiudizio in favore del reale» non lo conduce a attaccare l’illusione di un esistente generale, che trascende tutte le manifestazioni contin­ genti. Vorremmo invece partire dall’idea che a ogni modo di esistenza corrisponde ima modalità di concatenazione, una proposizione macchi­ nica. È assurdo chiedersi se l’oggetto dell’intenzionalità abbia un riferi­ mento reale. «Dietro» l’enunciato linguistico, «dietro» la semiotizzazione percettiva, ecc. esiste una macchina astratta che sfugge alle coor­ dinate di esistenza (spaziale, temporale e di sostanza dell’espressione). Questo oggetto, al centro dell’oggetto, non è localizzabile in una specie di cielo delle rappresentazioni, ma si trova al tempo stesso «nella testa» e nelle cose. È al di fuori delle coordinate. Il suo carattere di macchi­ nismo deterritorializzante lo fa passare attraverso le coordinate lingui­ stiche e quelle di esistenza. Non è né un oggetto mentale né un oggetto materiale. In queste condizioni, non avrebbe senso considerare «gradi» di esi­ stenza, «gradi» di verità. Tutto esiste e tutto è vero: il liocorno esiste 1 LÉONARD linsky, Le problème de la rérérence, Paris 1970 [trad. it. Riferimento e modalità, Bompiani, Milano 1974].

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in un certo strato di proposizioni macchiniche e in funzione di una par­ ticolare concatenazione di enunciazione, quanto il cavallo oppure il di­ nosauro in altri strati. Il corpo senza organi dell’esistenza, l’esistenza dell’oggetto puro al di là dell’essere e del non essere, non è una cate­ goria universale indifferenziata. È il luogo di tutte le differenziazioni macchiniche astratte situate al di fuori delle coordinate (piano di consi­ stenza). Le molteplicità intensive, «prima» di cadere nelle coordinate di esistenza degli strati, costituiscono una materia astratta di pura diffe­ renziazione. Perciò il funzionamento delle macchine non è riducibile: - né a articolazioni logico-matematiche; - né a manifestazioni di strati da esaminare a partire da una «scien­ za» fenomenologica. Alla logica e alla fenomenologia opporremo qui una macchinica, cioè un sistema di concatenazioni di proposizioni macchiniche irriducibili agli enunciati logico-matematici e alle regioni fenomenologiche. Le proposizioni macchiniche non sono gerarchizzabili. Non partono dal semplice per giungere al complesso. Nelle sue parti elementari il complesso è già presente e d’altra parte, le sue entità molari possono funzionare perfettamente secondo modalità elementari. La macchinica non si fonda su universali, non postula leggi trascendentali. Non cer­ cheremo di fondare una logica macchinica, ma soltanto di cogliere il funzionamento di phylum e di rizomi. Dal momento che non sono sepa­ rabili dagli strati che le manifestano, le proposizioni macchiniche li at­ traversano continuamente, costituendo linee di fuga altamente diffe­ renziate (linee di deterritorializzazione positiva). Queste ultime, a loro volta, serviranno da fondamento alla loro collocazione in coordinate spazio-temporali e sostanziali (coordinate di deterritorializzazione nega­ tiva). Le proposizioni macchiniche non sono «semplificabili», «riduci­ bili», alla stregua di formule matematiche o di enunciati logici. Tutta­ via, quando non si annullano in un buco nero di deterritorializzazione positiva, oppure non si organizzano al di fuori degli strati in una rete di linee di fuga, esse si accumulano in blocchi residui che serviranno come materiale di base per la formazione degli strati. Si passa cosi da un sistema di quanti di virtualità, portati dalle linee di fuga, a una co­ struzione stratificata in cui le linee sono organizzate in relazioni di cor­ rispondenza reciproca in un sistema di articolazioni molteplici. Nel pri­ mo caso, la virtualità, oscillando costantemente verso la minaccia del­ l’annullamento, tipo buco nero, garantisce le possibilità di apertura e di modificazione portate dalle linee di fuga, mentre, nel secondo caso,

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i quanti sono riorganizzati in blocchi (infiniti-limitati-discontinui) in si­ stemi di articolazione tra gli strati. Una discontinuità di strati sostitui­ sce il regime intensivo quantistico (fimto-contiguo-continuo-illimitato) *. Bisogna perciò considerare una doppia stratificazione: una stratifica­ zione molare, visibile, del tipo materia, vita, macchina di segni, ecc. e una stratificazione molecolare trasversale che capta l’energia di deterri­ torializzazione, la fa girare a vuoto su se stessa piuttosto che lasciarla fuggire verso un effetto di buco nero. Di conseguenza, l’insieme dei pro­ cessi di deterritorializzazione - assoluto, relativo, ecc. - dovrà adattarsi in qualche modo agli stati di stratificazione delle proposizioni macchi­ niche, non potendo impedire che i flussi si siano stratificati secondo una certa modalità. Come contrappeso al macchinismo astratto, esiste cosi un «fatto compiuto», una contingenza del phylutn macchinico che sarà esaminato ulteriormente insieme alla funzione delle macchine concrete. In ultima analisi, a livello delle concatenazioni macchiniche in atto, la distinzione tra macchina astratta e stratificazione scompare: è come se la deterritorializzazione positiva del macchinismo astratto e la deterri­ torializzazione negativa delle articolazioni tra gli strati si neutralizzas­ sero, senza che si possa mai parlare di «sintesi dialettica».

Deterritorializzazione positiva, deterritorializzazione negativa. Considerata «indipendentemente» dagli strati e soltanto a livello delle linee di fuga e delle concatenazioni tra gli strati, la deterritoria­ lizzazione ha quindi ima duplice natura, positiva e negativa. La deterritorializzazione positiva corrisponde a un effetto di puro buco nero, a un’assenza oppure a una abolizione delle coordinate. Di­ stingueremo una linea di fuga per l’assenza di coordinate da una linea di abolizione per la loro deterritorializzazione, ma questa distinzione di­ mostra già che non si può considerare la deterritorializzazione positiva al di fuori degli strati. Infatti la linea di abolizione implica gli strati, mentre la linea di fuga evita sempre gli strati. Opposta a questa deterri­ torializzazione intrinseca, la deterritorializzazione negativa è differen­ ziale, è costitutiva dei sistemi di coordinate e delle sostanze dell’espres­ sione. La deterritorializzazione positiva costruisce, partendo dai muta­ menti del proprio sistema quantistico, una realtà macchinica astratta, 1 C£r. Gilles deleuze e ff.lix cuattari, Kafka, pour nuit, Paris 197; [trad. it. Feltrinelli, Milano 1975].

urte littérature mineure, Editions de Mi-

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una realtà particolare che non deve rendere conto a nessuno, mentre la deterritorializzazione negativa, partendo dai propri sistemi di connes­ sione, di interazione, di codifica, di riproduzione, ecc. costituisce la real­ tà concreta degli strati. L’opposizione resta tuttavia ancora troppo netta. In realtà, la deter­ ritorializzazione positiva interviene in diversa misura nella costituzione delle proposizioni di coordinate e di sostanze. Esiste una deterritoria­ lizzazione positiva dello spazio a livello astrofisico e delle particelle ele­ mentari, dal momento che il tempo, su scala umana, rappresenta un pro­ cesso positivo di deterritorializzazione. Ma noi abbiamo a che fare con questo tempo e questo spazio, allo stato nascente, sempre e soltanto attraverso macchine di espressione che trattano le materie intensive, che le sostantificano in attività di semiotizzazione soggettivante e stra­ tificante (macchine concrete delle semiotiche simboliche, macchine si­ gnificanti, macchinismo di potere, ecc.).

Censimento sommario ài alcune proposizioni macchiniche. Flussi; Strati; c) Insieme oggetto-specie. A) b)

a)

Proposizione ili flusso.

Proposizione i La deterritorializzazione positiva. La si trova allo stato puro nel buco nero. Ma è una componente di base delle proposizioni di flussi intensivi (linea di fuga e linea di aboli­ zione). A dire il vero, la deterritorializzazione positiva non è «ancora» una proposizione. Ma non per questo è un’antiproposizione. Essa esiste sia prima sia dopo qualsiasi proposizionalità. Proposizione 2 Le macchine di posizionalità. Esse manifestano l’impossibilità dei buchi neri in quanto proposi­ zione di esistenza. La deterritorializzazione positiva non può esistere al di fuori di proposizioni macchiniche che la trasformano in negativa. La prima concatenazione pro-posizionale che congiunge questi due tipi di deterritorializzazioni costituisce il flusso intensivo. A livello dei si­ stemi di strati, le macchine di posizionalità si specificheranno ulterior­

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mente in proposizioni di interazione, di cristallizzazione, di catalisi, di stampo, di riproduzione, di effetto diagrammatico, ecc, Proposizione zero oppure 1 I flussi intensivi. Paradosso antidialettico, questa proposizione dovrebbe essere pre­ sentata prima di quelle che si riferiscono alle deterritorializzazioni, an­ che se può esistere soltanto se assodata a macchine estensive di proposizionalità. I flussi intensivi costituiscono la via attraverso la quale la deterritorializzazione positiva tratta con le altre proposizioni. Proposizione 3 Le macchine astratte. Costituiscono la modalità particolare di organizzazione quantistica della deterritorializzazione positiva dei flussi intensivi. La deterritoria­ lizzazione negativa delle proposizioni di posizionalità (proposizione 2) viene cosi a essere «ri-positivizzata». La deterritorializzazione positiva è quantificata e messa in atto in flussi e strati secondo formule macchi­ niche che attraversano e superano il sistema delle coordinate e delle so­ stanze. (Tra le proposizioni, non esiste evidentemente nessun nesso ne­ cessario, ma solo concatenazione macchinica. Cosi, ciò che era determi­ nato dalla posizionalità negativa sul piano delle proposizioni 2, deter­ minato dalla codifica, dalla produzione di mancanza, dall’obiettivazione, dalla rappresentazione, ecc. — tutte cose che faranno appello a propo­ sizioni « ulteriori » di strati -, è sostituito dal ritorno di una pura deter­ ritorializzazione positiva. Non vi è quindi nessuna Aufhebung, poiché la proposizione 1, collegata alle proposizioni di strati, funziona come una macchina astratta di rottura e di innovazione che non conserva al­ cuna «acquisizione» di deterritorializzazione. Dal punto di vista della deterritorializzazione positiva, niente è mai acquisito, esistono soltanto residui macchinici e di strati). Le macchine astratte potranno anche essere definite, ancor più « tar­ divamente» (proposizione 17), come risultanti dalla congiunzione di più processi di deterritorializzazione positiva, il che implica la possibi­ lità e l’autonomia di vari processi. Proposizione 4 Natura e velocità di deterritorializzazione. Essa è positiva e assoluta per i buchi neri, quantistica per le linee di fuga, negativa, continua e differenziale per i rapporti tra strati, nulla per il corpo senza organi delle stratificazioni. La velocità di deterrito­ rializzazione fa anche intervenire componenti proposizionali che, in una

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fenomenologia dialettica, non potrebbero che intervenire «ulteriormen­ te», cioè delle determinazioni di strati. Infatti, il rapporto: deterritorializzazione negativa deterritorializzazione positiva cambia completamente natura e velocità in funzione degli strati nei qua­ li funziona (strati energetici, biologici, semiotici, ecc.). Sarà una velocità positiva quando una concatenazione si deterritorializzerà relativamente, e una velocità negativa quando questa si riterritorializzerà relativamente. È come se, in quest’ultimo caso, l’energia positiva girasse su se stessa, come se il corpo senza organi funzionasse come una specie di anti - buco nero e il piano di consistenza potesse es­ sere definito come il luogo delle deterritorializzazioni positive poten­ ziali. b)

Proposizione di strati.

Proposizione 5 I nodi di intensità. Questi costituiscono punti di ritorno, punti di oscillazione tra pro­ posizioni di deterritorializzazione positiva e di deterritorializzazione ne­ gativa. I nodi sono alla «base» degli strati, o, più esattamente, del po­ tere relativo agli strati delle deterritorializzazioni negative in quanto queste impongono alle deterritorializzazioni positive di convertirsi in enunciati di virtualità astratta1. Proposizione 6 Le ridondanze. Si tratta di nodi di intensità, al secondo grado, costitutivi della te­ stura stessa degli strati. È così possibile distinguere tre livelli di strati­ ficazione: a) Il livello molecolare dei nodi di intensità. b) Il livello di ridondanza molare: organizzazione internodi, che pro­ duce un’entità tra gli strati chiusa su se stessa, anti - buco nero; ad esempio, macchine concrete del tipo tratti di voltità (visagéité). c) Il livello delle linee di deterritorializzazione residua, che servi­ ranno da coordinate o da possibile connessione, sia attraverso un sistema di linee di fuga, sia attraverso un sistema di linee di abo­ lizione. 1

Qui la virtualità diventa «seconda» rispetto alle proposizioni di strati.

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Proposizione 7 Le inter-azioni. Costituiscono il rovescio delle ridondanze. Partendo da esse, le stra­ tificazioni dei flussi potranno polarizzarsi in zone, in campo, in oggetto, in costellazione, ecc. L’opposizione ridondanza-interazione rappresenta, nella deterrito­ rializzazione negativa stratificata, la ripetizione dell’opposizione del li­ vello A (proposizione di flussi) tra la deterritorializzazione positiva e quella negativa «allo stato puro». Le proposizioni di interazione e di ridondanza hanno tra loro rapporti differenti a seconda delle loro ri­ spettive velocità di deterritorializzazione. L’interazione tra velocità negative di interazione e velocità negative di ridondanza corrisponde a una stratificazione «fredda» (es.: società paleolitica). L’interazione tra velocità negative di interazione e velocità positive di ridondanza produce linee di abolizione oppure linee di ritorno (es.: un rizoma fascista: mentre le coordinate economiche e materiali si «rei­ ficano», il corpo senza organi del sociale si deterritorializza positivamente, cosicché l’insieme si svuota dall’interno). L’interazione tra velocità positive di interazione e velocità negative di ridondanza produce linee di fuga (es.: le società capitalistiche che si riterritorializzano, e si arcaizzano man mano che si deterritorializzano). L’interazione tra velocità positive di interazione e velocità positi­ ve di ridondanza produce concatenazioni macchiniche che «superano» l’opposizione ridondanza/interazione ( società rivoluzionaria che funzio­ nerebbe a partire da flussi-schizo). Si vedrà in seguito (proposizione 17) che le macchine astratte saran­ no anche definite come un sistema di congiunzione dei flussi a velocità positiva. Infatti il rapporto tra macchina astratta e concatenazione mac­ chinica si gioca intorno all’assunzione «effettiva» degli strati. c) Proposizione d’insieme, di oggetto e di specie. Proposizione 8 Le polarizzazioni. Esse risultano dal contro-effetto di proposizioni macchiniche di in­ terazione su sistemi di ridondanza stratificata. Si parlerà di polarizza­ zione quando, in una data concatenazione, coesistono velocità di deter­ ritorializzazione di segno contrario - dal momento che la bipolarizzazione non è che un caso particolare, e che l’organizzazione di zone po­ lari può anche avvenire partendo da n soglie di velocità.

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Proposizione 9 Le coupures. Effetto di una ridondanza relativa alle concatenazioni polarizzate. Proposizione 10 I campi. Risultano dal contro-effetto di proposizioni di coupure relative a strati polarizzati. Proposizione 11 Gli insiemi , gli oggetti e le specie. Risultano dalla contro-applicazione di una proposizione di coupure — di una coupure di secondo grado - su campi che, di conseguenza, as­ sumeranno una posizione referenziale '. Un sistema di coordinate parti­ colari - di strati - è cosi messo in atto: la doppia articolazione si obiet­ tiva, si specifica. Qui si ritrova il punto assunto all’inizio come obietti­ vo: l’analisi delle diverse modalità di codifica e di semiotizzazione. Proposizione 12 Gli effetti. Essi costituiscono il rovescio delle proposizioni d’oggetto. Si ritro­ vano nuovamente le omologie già esaminate tra: 1) la deterritorializzazione positiva e la deterritorializzazione nega­ tiva a livello del flusso; 2) le interazioni e le ridondanze a livello degli strati. Inoltre si incontra qui un fattore di inerzia, di stratificazione al se­ condo grado. Gli oggetti, gli insiemi, le specie, attraverso processi di stampo, di catalisi, di cristallizzazione, ecc. si riproducono su se stessi, mentre le ridondanze intrinseche di strati erano inseparabili dalle in­ terazioni estrinseche tra strati. Con gli effetti, si stratifica un nuovo for­ malismo, un nuovo principio di stratificazione si mette in atto. Questa proposizione di forma, di organismo, ecc. avrà in qualche modo un ef­ fetto retroattivo sull’«origine» degli strati. Proposizione 13 I processi. Si tratta di effetti che implicano la connessione di una linea di fuga di deterritorializzazione positiva. Proposizione 14 Le codifiche. Risultano dall’interazione di strati le cui velocità di deterritorializ­ zazione sono negative e che mettono in gioco effetti di oggetti e di in­ siemi. 1

Macchine concrete che stabiliscono rapporti di tipo figura-fando, organc-organìsmo, ecc.

Le proposizioni macchiniche

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Proposizione 15 Le riproduzioni codificate. Sistema di ridondanza che sfocia nella produzione di specie che fun­ zionano partendo da una deterritorializzazione negativa. Proposizione 16 I processi diagrammatici. Risultano dalla congiunzione di proposizioni di strati e di proposi­ zioni di oggetti che hanno velocità di deterritorializzazione di segno con­ trario, congiunzione dominata da linee di fuga positive e che portano a una produzione di oggetti, di insiemi o di specie dotate di due caratteri: 1) sono riproducibili; 2) costituiscono da soli un nuovo strato, più deterritorializzato de­ gli strati e degli oggetti della composizione originaria. Si ritrova qui il paradosso della concatenazione in rizoma delle pro­ posizioni : la riproduzione diagrammatica sembra infatti dipendere dal­ la riproduzione codificata, mentre è più «innovativa», più «creativa» di quest’ultima, dal momento che i plusvalori di codice restano tribu­ tari degli strati. Bisogna tuttavia che ci siano pure proposizioni di strato e di oggetto affinché la deterritorializzazione positiva dei processi dia­ grammatici possa operare i suoi mutamenti semiotici nelle concatena­ zioni macchinistiche, e viceversa. Si noti che si troverà anche «del dia­ grammatismo» al di fuori delle codifiche semiotiche (mutamenti gene­ tici, ecc.). Proposizione 17 Le macchine astratte. Derivano dalla congiunzione di processi di deterritorializzazione po­ sitiva. Si giunge cosi a una duplice origine delle macchine astratte: - un’origine «naturale», a livello delle proposizioni di flussi (n. 3), - un’origine « artificiale», diagrammatica, a livello delle proposizioni di oggetto (n. 16) che «implica» il fondarsi sull’insieme dei siste­ mi di stratificazione. In realtà, non esiste né «prima» né «dopo»; le macchine astratte come il diagrammatismo attraversano da ogni parte i sistemi di coordi­ nate, di strati e di oggetti.

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Che cosa funziona in quelli che abbiamo chiamato i tratti di voltità

(visagéité), di paesaggità, di corporeità, ecc.? Da cosa proviene il mi­ stero di uno sguardo, di un oggetto, di una strada, di un ricordo? Ciò che è dato a vedere sembra nascondere qualcosa. Quale specie di linea di fuga ci dà l’impressione che potremmo fare incontri incredibili, quali sono le potenzialità di un secondo mondo che sembra funzionare se­ condo altre coordinate, secondo altri codici? L’intervento del ricordo nella percezione dev’essere senz’altro importante in questo lavoro di «misterizzazione». Il ricordo connette deterritorializzazione e riterritorializzazione. Da una parte, seleziona certi tratti della rappresenta­ zione, dall’altra, ricompone un insieme che può essere presentato in un unico blocco, sul quale ci si potrà fondare, ma che, in realtà, sarà soggettività in ogni suo aspetto e che, in un certo senso, non potrà più sfuggire come sfuggiva la realtà. Le linee di fuga del ricordo sono sem­ pre false linee di fuga, simulacri di fuga, fughe per giocare a farsi paura. Certi ricordi assumono un peso particolare, acquisiscono una fun­ zione di matrice, una funzione di organizzazione della modalità di sog­ gettivazione; saranno proprio questi ricordi a essere raggruppati sotto la voce dei tratti di voltità, di animalità, di corporeità, ecc. In realtà, in questi casi, il ricordo non è più completamente tale, dal momento che funziona in presa diretta sulle cose. E forse non si dovrebbe nep­ pure più parlare di ricordo bensì di blocco: un blocco d’infanzia, con­ trariamente a un ricordo d’infanzia, è sempre attuale. I tratti di voltità, di animalità, ecc. costituiscono costellazioni o blocchi che, a loro volta, sono tipi di macchine per concretizzare le intensità. Raggruppiamo que­ sti vari tipi di blocchi nella voce generale delle macchine concrete. Queste macchine concrete, per lo meno quelle che funzionano nel registro delle semiotiche simboliche, hanno la funzione di associare due tipi di ridondanze: i) le ridondanze di rappresentazione, che sono alla base del seman-

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tismo iconico e dei paradigmi sintagmatizzati delle semiologie si­ gnificanti; 2) le ridondanze diagrammatiche che fanno lavorare direttamente sul reale gli elementi deterritorializzati delle macchine di segni. Esempio di ridondanze diagrammatiche: i piani, le descrizioni fisi­ che e matematiche dell’aereo Concorde. Nel registro semiotico, contano essenzialmente le articolazioni deterritorializzate delle varie materie che comporranno l’aereo: alluminio, flusso elettrico, flussi semiotici consi­ derati nel loro aspetto materiale, ecc. Tale piano tuttavia presenta un interesse solo in quanto le sue articolazioni sono sufficientemente deter­ ritorializzate e possono entrare in relazione con le articolazioni deterri­ torializzate delle materie di espressione. La diagrammatizzazione consi­ ste in questo passaggio, al livello più deterritorializzato, tra questi due tipi di deterritorializzazione. Affinché le punte di deterritorializzazione dei sistemi semiotici e di quelli materiali possano congiungersi, è neces­ sario che i tratti pertinenti delle materie di espressione utilizzate, i loro materiali elementari, siano compatibili con la natura dei tratti articolato­ ti di deterritorializzazione del campo materiale. Bisogna che il piano se­ miotico dell’espressione possa «sopportare» il tipo di consistenza mac­ chinico del sistema materiale (o sociale) e, inversamente, evitare che parta in tutti i sensi. Prendiamo un esempio semplicissimo: non è possi­ bile riprodurre il profilo di una chiave con una materia qualunque, biso­ gnerà scegliere una cera di una qualità particolare; se si tenterà di fare lo stampo con della purée, non si potrà cogliere, trasferire la linea dia­ grammatica costitutiva della chiave. Se si vorrà disegnarne il profilo su un foglio di carta, non si dovrà prendere un pennello troppo largo, un inchiostro troppo fluido o troppo denso, bisognerà insomma scegliere materie di espressione compatibili con i tratti del macchinismo da tra­ sferire. La ridondanza diagrammatica è quindi tributaria, da una parte, delle articolazioni deterritorializzanti dei vari strati materiali e semio­ tici da connettere (l’alluminio, l’acciaio, l’informatica, le equazioni...) e, dall’altra, della capacità delle materie di espressione di capitalizzare, se cosi si può dire, di macchinare, di organizzare questo sistema di con­ nessioni. Quelle che abbiamo chiamato le ridondanze di rappresentazione non funzionano in base a questi tipi di congiunzioni diagrammatiche, non sono prodotte a beneficio di una concatenazione macchinica. Esem­ pio: un’immagine, un ritratto non organizzano congiunzioni macchi­ niche tra gli elementi di deterritorializzazione dell’oggetto denotato e del materiale di espressione; un ritratto aggiunge sempre, piti o meno,

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qualcosa al proprio modello e trasforma a sua volta i propri materiali in sostanza dell’espressione. Un esempio completamente diverso sarà invece un’immagine codificata da un computer. Questa rappresenta­ zione corrisponde a una cifra assolutamente indipendente, dal punto di vista «creativo», da colui che l’ha programmata; in questo caso, tutto ciò che «supera» è di troppo, l’ideale di tale diagramma consiste nel comportare il minimo possibile d’inerzia nei mezzi di espressione e nel trasmettere un messaggio ridotto essenzialmente a una codifica bi­ naria. Nel diagrammatismo, i residui sostanziali semantici o significanti dell’oggetto e del mezzo di espressione sono sempre di troppo. Il semantismo o la significanza sono tollerati solo provvisoriamente, e si spera comunque di ridurli in futuro grazie al progresso tecnico e scientifico. Le macchine concrete di voltità, di paesaggità, ecc. fanno interve­ nire entrambi i tipi di ridondanza (quella di rappresentazione e quella di diagrammatismo). Esse appartengono alle semiotiche miste; concate­ nano un compromesso tra i diversi registri semiotici e materiali. A li­ vello del piano di consistenza, questo compromesso è reso possibile dalle macchine astratte; a livello delle concatenazioni reali, è organiz­ zato dalle macchine concrete. Cosi come si dirà della coscienza che rap­ presenta l’impossibilità di una deterritorializzazione assoluta, allo stesso modo si definiranno ora le macchine astratte come quelle che segnano l’impossibilità di una deterritorializzazione positiva quantistica1. Le macchine astratte non esistono in un reale trascendentale, ma solo a livello della possibilità sempre aperta della loro manifestazione. Esse costituiscono l’essenza del possibile, un possibile la cui sola impossi­ bilità è esistere come sostanza. Di conseguenza non si potrà pensare all’esistenza di una sostanza della deterritorializzazione oppure a un dualismo tra l’essere e il divenire. La voltità come macchina concreta segna l’impossibilità, nel campo della rappresentazione, di un divenire indipendente dal formalismo dei contenuti. I contenuti non sono niente al di fuori delle formazioni di potere, al di fuori degli operatori diagrammatici che funzionano in stra­ tificazioni particolari. I tratti di voltità manifestano un micropotere reale. Si può addirittura ritenere che, nei sistemi capitalistici, fondati sulle stratificazioni significanti e su quelle di soggettivazione, nessun potere potrebbe essere instaurato indipendentemente da queste mac­ chine di voltità. Un capitalista non ha il potere «in generale», controlla un dato territorio, una data fabbrica, in un dato paese e, per ognuno di 1 Ad esempio, si potrebbe definire, in modo un po’ umoristico, la coscienza come il corpo sen­ za organi delle macchine astratte, in opposizione al piano di consis:enza, il quale non può essere definito né come l’insieme di tutti gli insiemi né come il corpo senza organi dei corpi senza organi.

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questi spazi, utilizza un certo numero di quei convertitori di significato che sono le macchine concrete1. I tratti dominanti di voltità — quelli della madre, del padre, del maestro, del poliziotto, del giudice, della ve­ dette, del padrone, ecc. - modulano, in ciascuna di queste situazioni, la possibile sopravvivenza di altre macchine concrete più «arcaiche»: i tratti di animalità, di paesaggità, ecc., legati ad antiche concatenazioni territorializzate, nell’infanzia, nella campagna, nelle società primitive, ecc. La costituzione di macchine concrete di potere è l’unica via che consenta a un sistema capitalistico di tollerare, e di far funzionare, a proprio vantaggio, le linee di fuga inerenti allo sviluppo delle forze pro­ duttive e alla deterritorializzazione dei rapporti di produzione. Il suo potere iconico sarebbe nullo senza la potenza diagrammatica di queste macchine concrete riterritorializzanti. Le macchine concrete diagrammatizzano gli strati; sono il luogo del­ l’interazione tra le macchine astratte e gli strati di potere. I vari dive­ nire di desiderio — divenire-omosessuale, divenire-bambino, divenire­ vegetale, ecc. - devono passare attraverso queste macchine concrete che sono gerarchizzate in modo da far dipendere certi divenire da altri, in particolare dalle macchine di divenire-invisibile della colpa edipica e di divenire-donna del rapporto con il corpo sessuato. In che modo appare questa gerarchizzazione delle macchine concrete ? Essa si manifesta sia attraverso la congiunzione a livello molecolare delle proposizioni mac­ chiniche, sia a livello molare di captazione e concatenazione di linee di fuga nettamente differenziate. Come le macchine astratte, anche le mac­ chine concrete non appartengono, in quanto tali, all’ordine molare o a quello molecolare, proprio perché costituiscono la possibilità dell’arti­ colazione tra questi due livelli. Una macchina concreta non appartiene a uno strato particolare, essa segna invece le possibili politiche di interstratificazione. Lavora concretamente un «o, o». O una concatenazione si richiuderà, si stratificherà, oppure si aprirà verso linee di fuga dia­ grammatiche. La macchina concreta apre il possibile: sia sotto forma di cerchi significanti, centrati ad esempio su tratti di voltità, sia sotto forma di spirali post-significanti che lasciano partire lungo la tangente delle linee di fuga. Nel primo caso, la macchina concreta produce terri­ torialità pesanti, iconiche, che si dispiegano su almeno due dimensioni; nel secondo, dissemina una linea deterritorializzata in segni-particelle che tendono a sfuggire alle dimensioni spazio-temporali. Consideriamo le attività di meditazione trascendentale che oggi fanno furore negli Sta­ 1 Un compito particolarmente importante di analizzatori rivoluzionari potrebbe consistere nel reperire e neutralizzare gli effetti riterritoridizzanti di queste macchine concrete che secernono l’at­ taccamento alle gerarchie, al fallccraùsmo, al possesso individuale, al gusto della dipendenza, ecc.

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ti Uniti: si noterà come esse si sviluppino in corpi senza organi che aprono il desiderio su un esterno non significante, oppure si richiudono in un’attività significante che aliena gl’individui ai valori del potere. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, esse funzioneranno in entrambe le direzioni. (Notiamo, per inciso, che il testo significante di un rituale non è necessariamente legato all’esistenza di un testo scritto, come quel­ li del buddhismo; potrebbe anche essere un testo spazializzato, come nel caso della cerimonia del tè). Nel fascismo hitleriano, si troverebbe­ ro, a livello molare, macchine concrete - militare, poliziesca, estetica, ecc. - che organizzano la congiunzione di un potere stratificato da lunga data, addirittura arcaico, con macchine astratte che «si cercano» se­ guendo vie altamente deterritorializzate. E infatti i temi modernisti del capitalismo di Stato, della scienza, ecc. sono stati associati paradossal­ mente a rappresentazioni decisamente regressive del tipo: «gli ebrei con le loro grinfie s’impadroniscono del mondo», «la purezza del san­ gue», ecc.; lo stesso vale per la congiunzione tra: Stalin, piccolo padre del popolo, Ivan il Terribile e l’ossessione di una pianificazione buro­ cratica di Stato. Le macchine concrete metabolizzano la congiunzione dei flussi semiotici, dei flussi materiali e sociali al di fuori delle relazioni di causalità o di genealogia che possono essere specifiche delle varie ri­ dondanze di strati. Con esse, le cose possono giocare su vari piani: si potrà dire, ad esempio, che l’opera di Céline non ha niente a che vedere con il fascismo e l’esatto contrario. Essa non ha niente a che vedere nel senso che la sua macchina di deterritorializzazione letteraria rimanda a macchine astratte, a un phylum dell’espressione letteraria senza rappor­ to alcuno con le prove di forza politiche e sociali ad essa contempora­ nee, mentre è tutta interna al fascismo nel senso che è proprio in base a una particolare concatenazione dei tratti di voltità, essenzialmente raz­ zisti, che questa stessa macchina letteraria è esistita (ruolo particolare di macchina concreta del familiarismo, nel passage Cboiseul, del movi­ mento operaio, a Sint-Denis, sotto l’autoritarismo di Doriot, ecc.). Non si tratta qui di stabilire ima distinzione tra buoni tratti di voltità, che funzionerebbero ad esempio a partire da punti-segni, e cattivi tratti, che funzionerebbero secondo una modalità iconica più territorializzata; si troveranno infatti riterritorializzazioni fasciste sia su un versante sia sull’altro. Consideriamo ora, all’interno delle ridondanze rappresentative, una seconda distinzione tra le microridondanze e le macroridondanze. Nel caso di uno strato significante, l’insieme delle ridondanze espres­ sive locali è riferito alle macroridondanze degli effetti di significazione. Uno strato significante non può generare direttamente linee di fuga, a

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meno che non sia in corso di distruzione. Nel caso delle semiotiche sim­ boliche o delle semiotiche a-significanti, non si ritrova invece questo tipo di accentramento, di chiusura. Le semiotiche simboliche pre-significanti sono territorializzate in una molteplicità di centri che stabiliscono una sorta di segmentalità semiotica che le pone tutte sullo stesso piano, mentre le semiotiche a-significanti (post-significanti) sfuggono al sistema di territorializzazione e a quello binarizzato di codifica lineare. Entram­ be non impongono alle linee di fuga sistemi di centratura che le surcodificherebSero e le porrebbero come linee esterne suscettibili di essere proiettate su sistemi di coordinate. La linea di fuga fa parte del dia­ grammatismo territorializzato oppure del di agrammatismo macchinico, allo stesso modo degli altri elementi del rizoma. La linea di fuga - ad esempio di un pazzo in una società primitiva - fa parte della concate­ nazione collettiva territorializzata dell’enunciazione. La linea di fuga di un particolare effetto imprevisto, che rompe con la concatenazione teo­ rico-sperimentale, fa parte del processo scientifico. Così le macchine concrete si costituiscono direttamente a partire dalle linee di fuga, sen­ za passare per le mediazioni e le surcodifiche proprie dei sistemi delle semiotiche significanti, in particolare dei sistemi di significazione di se­ condo grado. Si potranno perciò opporre le macchine concrete che me­ tabolizzano diagrammaticamente le linee di fuga a quelle che invece riterritorializzano un potere significante. A tutti i livelli, le macchine con­ crete saranno quindi il luogo di compromesso tra il diagrammatismo delle concatenazioni e le loro ripercussioni nei sistemi di analogia, di significanza, ecc. Questo compromesso costituirà la politica concreta della deterritorializzazione: sia che la composizione delle deterritoria­ lizzazioni si organizzi nel predominio di una deterritorializzazione quan­ tistica diagrammatica, sia che sfoci in una riterritorializzazione vuota, sotto forma di coscienza vuota, di voltità vuota, che surcodifica tutti i divenire di desiderio e si esprime, ad esempio, attraverso un Dio mono­ teista trascendente, una Madonna astratta, come nell’amor cortese, op­ pure in un sistema di equivalente generale, con il Capitale. I grandi ope­ ratori cosiddetti simbolici dei significati di secondo grado (il Significan­ te, il Capitale, la Libido, ecc.) non esistono mai in quanto tali, possono funzionare solo grazie al sostegno di macchine concrete. Perciò non ba­ sterà dire che un certo tipo di monoteismo deterritorializzato, del tipo di quello codificato da san Paolo e sant’Agostino, dev’essere messo in rapporto con i flussi capitalistici che appariranno fin dalla prima « rivo­ luzione industriale» del xn secolo; bisognerà anche cogliere la produ­ zione di nuove significazioni, di nuove coordinate interpretative sul pia­ no delle costellazioni contingenti dei tratti di voltità che hanno indiriz­

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zato effettivamente il sistema in un senso piuttosto che nell’altro: con i Padri del deserto esso rischiava di annullarsi verso un divenire invisi­ bile; con altre eresie, si territorializzava il figlio a scapito del padre; in certi momenti, si è dovuto scegliere tra una rappresentazione di Maria come madre di Dio oppure come madre dell’uomo; in altri, si è dovuto decidere se rinunziare a venerare l’icona del Cristo in quanto tale, ecc. Attraverso tutti questi tipi di «compromessi» micropolitici concred, operati dalle macchine teologiche, sono stati definiti il diritto all’esi­ stenza, la possibile sopravvivenza di divenire-animale, di divenire-bam­ bino, di divenire-donna, di divenire-corpo, di divenire - intensità musi­ cali, ecc. Le macroridondanze della rappresentazione capitalistica non possono essere descritte validamente in base a un’unica logica duali­ stica centrata, ad esempio, sul simbolo fallico. Il fallo è diventato un operatore generale di potere in quanto è rimasto tributario delle costel­ lazioni di tratti di voltità, dei blocchi storici, realizzati dalle macchine concrete; e lo stesso vale per tutti gli altri oggetti parziali della psica­ nalisi. L’esame delle macchine concrete è importante perché queste do­ vrebbero rendere molto più difficili i tentativi di descrizione della sto­ ria in termini di significati, e soprattutto di significati omogenei a un particolare livello di grande formazione di potere. Qui, bisognerà rimet­ tere in discussione tutta la prospettiva genealogica: forse non esiste ge­ nealogia completamente recuperabile della follia, dell’illegalità, del se­ gregare i bambini, ecc. se non ci si riferisce a macchine concrete il cui emergere sfugge ai rapporti di forza molari, alle implicazioni diacroni­ che del phylum macchinico nel campo dell’economia, della demografia, delle macchine di guerra, ecc. Non è forse legittimo considerare che una particolare follia poetica, una follia molecolare abbia potuto mettere in moto quella specie di ceppo virale costituito dall’amor cortese? Si obiet­ terà forse che non è un problema essenziale, che le condizioni si trova­ vano riunite, ecc. Eppure non è proprio a livello di questa singolare fol­ lia, e solo a questo livello, che si può sperare di cogliere le corrispon­ denze, i rapporti trasversali tra le diverse macchine concrete che hanno metabolizzato i significati dell’epoca, sia sul piano letterario, erotico, estetico, sia su quello militare, tecnologico, architettonico, ecc.? Una descrizione dei rizomi macchinici renderebbe impossibile la suddivisio­ ne degli strati omogenei a livello molare. Non è forse legittimo supporre che, in ogni epoca, sistemi di macchine concrete si siano infiltrati nelle semiotiche percettive, nella sensibilità, nella memoria, ecc. in modo da indurre il sociale a cristallizzare in un certo senso i rapporti umani? Quale macchina concreta ha portato la percezione collettiva a conside­

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rare che, non solo tutti gli uomini erano eguali - gli uomini e le donne — ma anche le tappe dello sviluppo dell’uomo? Da dove provengono i si­ stemi di equivalenza generalizzata tra il bambino, l’uomo, la donna, equivalenza che d’altronde non ha fatto altro che rinforzare i rapporti di dipendenza delle donne nei confronti degli uomini, dei bambini ri­ spetto agli adulti, dei primitivi rispetto ai civilizzati...? Quale tipo di macchina molare ha imposto l’instaurazione di sistemi di equivalenze libidinali tra il lavoro utile e l'attività inutile, i valori di desiderio e i valori d’uso, i valori di scambio e quelli di desiderio, ecc.? Il potere, a livello delle macroridor.danze, non sarebbe niente senza gli operatori diagrammatici che svuotano costantemente della loro sostanza le micro­ ridondanze, che le fanno lavorare in senso opposto rispetto alle connes­ sioni deterritori alizzanti. (Esempio: la puerilizzazione del sentimento amoroso, in epoca romantica, corrispondeva a una certa perdita dell’in­ fanzia, per i bambini stessi che stavano entrando in massa nelle scuole e nelle fabbriche). L’instaurazione di una traducibilità generale dei va­ lori da parte del capitalismo è strettamente legata alle macchine con­ crete. La sua operazione di omogeneizzazione dei campi personologici è sempre stata accompagnata da quella condotta, nel campo infrapersonologico, a livello di una molecolarizzazione delle macchine concrete. Addirittura, questa è stata la condizione che ha permesso al suo svilup­ po di non crollare sotto il peso di contraddizioni che, secondo Marx, avrebbero dovuto portarlo inesorabilmente alla perdita. Il potere della borghesia sulla classe operaia non si riduce a un rapporto generale di classe; esso si esercita a partire dagli innumerevoli luoghi di potere mo­ lecolari istituiti da queste macchine concrete che «negoziano» le varie modalità di deterritorializzazione e lavorano sia le molteplicità moleco­ lari che le stratificazioni molari '. Riassumendo, le macchine concrete coincidono con l’esistenza della doppia articolazione degli strati: - nei metastrati, nelle linee di fuga e nelle macchine astratte del pia­ no di consistenza, esse materializzano il possibile portato dalla de­ territorializzazione positiva quantistica; - negli interstrati, esse stratificano una deterritorializzazione nega­ tiva differenziale. La macchina astratta - o condensatore diagrammatico — connette la deterritorializzazione positiva quantistica del codice alla deterritorializ1 Cosi, le macchine concrete possono essere definite molari nel loro aspetto stratificante e mo­ lecolari per la loro deterritorializzazione diagrammatica.

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zazione negativa differenziale di flussi e perciò dev’essere considerata, in un certo senso, come antecedente rispetto alle differenziazioni di flus­ si e di codici, rispetto alle differenziazioni di codifiche naturali, simbo­ liche, significanti e a-significanti. La distinzione tra macroridondanza e microridondanza, nel caso particolare delle codifiche semiotiche, com­ prenderà in realtà anche quella tra semiotiche significanti e semiotiche simboliche, ma ne faremo un uso più generale e l’applicheremo all’in­ sieme delle materie non semiotiche formate; di conseguenza, il suo in­ teresse consisterà soprattutto nella possibilità di trasferire l’effetto delle macchine concrete diagrammatiche al di là del caso particolare delle se­ miotiche a-significanti nel quale l’avevamo relegato finora. È ovvio che le considerazioni precedenti non implicano affatto che, sul piano delle macchine concrete, si possa postulare il predominio di una economia molecolare sull’economia molare. Infatti, se può essere necessario che esista una potentissima macchina molecolare (ad esem­ pio, un movimento rivoluzionario) per generare una linea di fuga dia­ grammatica in una stratificazione molare, inversamente, può essere ne­ cessario che un’enorme macchina concreta molare sia messa in opera per produrre un effetto diagrammatico microscopico (ad esempio, una macchina poetica). Nella maggior parte dei casi, questi «effetti» agiran­ no in entrambi i sensi: per esempio, il complesso di La Borde dovrà funzionare come macchina concreta affinché, in un dato momento, un tratto particolare, un modo di accettare una sigaretta, un modo di ser­ vire un piatto, diventino pertinenti a livello delle congiunzioni operate dalle modalità di semiotizzazione degli psicotici. Per contro, questi stes­ si psicotici dovranno avere la possibilità di funzionare come macchine concrete affinché La Borde possa, a sua volta, costituire tale concatena­ zione. L’estrazione di una macchina concreta può quindi implicare con­ catenazioni di grande rilevanza, come se si trattasse di una grande fab­ brica semiotica, che, partendo da un minerale territorializzato, estrar­ ranno un materiale deterritorializzato molare, a sua volta supporto della produzione di particelle deterritorializzate molecolari. In questo modo, si potrà considerare una concatenazione sia dal punto di vista della sua produzione di particelle che da quello della sua organizzazione macro­ scopica. La voltità ha sempre due aspetti: il primo rivolto verso le microri­ dondanze, aperto a uno spiegamento rizomatico dei sistemi semiotici, l’altro verso le ridondanze di rappresentazione, dalle quali potranno sempre realizzarsi connessioni con la gerarchia delle formazioni di po­ tere. (In quest’ultimo caso la voltità concreta diventa cosi l’equivalente della voltità pubblica di potere). Voltità di maschera, poiché la vera

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voltità di potere, in un sistema capitalistico, ha vergogna di mostrarsi, deve continuamente nascondersi la vacuità dei propri fondamenti, deve vestire, iconizzare, analogizzare il diagrammatismo che territorializza in un’arbitrarietà di classe e di casta. Da questa contraddizione deriva il fascino esercitato da personaggi come il giudice, il poliziotto, il mae­ stro, ecc., oltre che il mistero del loro doppio diagrammatico: il ladro, la prostituta, il delinquente, ecc. La chiave del mistero della voltità ca­ pitalistica e dell’individuazione della soggettività sta senz’altro nel fatto ch’esse oscillano costantemente tra la rivelazione di un potere binario­ fallico invisibile e un’esplosione di desiderio in ogni direzione, effetto del crollo delle vecchie territorialità. Qui non ci si trova di fronte a due voltità, bensì ai due volti di una stessa macchina concreta, che porta il desiderio al limite dell’abolizione di ogni voltità. Del volto si conser­ verà soltanto il minimo di tratti di ridondanza che permetterà di far funzionare il sistema; si ricomporrà continuamente, attraverso i media, una voltità artificiale. Tuttavia un divenire-invisibile minaccia da ogni parte il sistema; esso costituisce, in quanto tale, il punto estremo di fa­ scino, quello che capta tutta l’energia di desiderio come desiderio di abolizione. Perché le macchine di voltità sono legate essenzialmente alla modalità della soggettivazione individuata? Perché non all’animalità oppure a questa o quella modalità di corporeizzazione? Il diagramma­ tismo delle concatenazioni territorializzate tende a ricostituire territori, emblemi (ad esempio, quelli dei tee-shirts delle gangs americane, specie di tatuaggi moderni), mentre l’estrazione dei tratti di voltità è un’ope­ razione costitutiva delle formazioni significanti deterritorializzate. La presenza dei tratti pertinenti di voltità permette al sistema di assumere un controllo semiotico degl’individui, di metterli accanto a un flusso di lavoro decodificato. Il volto non è mai riconosciuto in quanto moltepli­ cità o emblema territorializzato, bensì in quanto consente di universa­ lizzare i significati di potere, significati di equivalenza umana generale. Il totem animale, il corpo tatuato, non si aprivano mai verso una lin­ gua universale, come quella dell’economia scambista. Con la voltità, le singolarità del volto e del corpo sono poste al servizio di una particolare modalità del diagrammatismo che deterritorializza le costellazioni di macchine desideranti e le mette accanto alle macchine di produzione. Il volto costituisce la sostanza dell’espressione per eccellenza del signifi­ cante. In altri termini, si può dire che qui il profilo umano è conside­ rato come quello di una chiave: non contano tanto le sue singolarità quanto l’efficacia della cifratura che consente di operare. La voltità capi­ talistica è sempre al servizio di una formula significante. Con essa av­ viene la presa del potere da parte del significante, l’organizzazione di

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una certa modalità di soggettivazione individuatala vertigine collettiva di una macchina di coscientizzazione vuota e di un divenire impercetti­ bile. In queste condizioni, è impossibile pensare che possa esistere una funzione della lettera a livello del corpo: prima del volto esistevano tratti di corporeità, ima sintassi di corporeità; dopo il volto si giunge a un divenire invisibile, a un annullamento, alla vergogna dei tratti di corporeità, poiché questi ultimi non sono più che un residuo tollerato, poiché la maggior parte delle leggi del potere si fonda su tratti scrittu­ rali che possono essere tradotti. E sarebbe evidentemente assurdo vo­ lere stabilire, partendo da questi vari tratti, una sorta di scrittura gene­ rale come cercano di fare gli strutturalisti.

Milioni e milioni di Alice in potenza

Pericolo imminente. Attenzione, la più piccola linea di fuga può fa­ re esplodere tutto. Sorveglianza speciale dei piccoli gruppi perversi che fanno proliferare parole, frasi, atteggiamenti, capaci di contaminare in­ tere popolazioni. Neutralizzare in primo luogo tutti quelli che potreb­ bero aver accesso a un’antenna. Ghetti ovunque - se possibile autogesti­ ti - micro-gulag ovunque, fino all’interno della famiglia, della coppia, e nella testa anche, in modo da controllare ogni individuo, giorno e notte.

Parlano, parlano, O.K., parlano continuamente. Emettono segni, parole, brandelli di segni, brandelli di parole per obbligarci ad accet­ tare il ruolo di figlio, di donna, di padre, di operaio, di studente, per insegnarci ad essere bravi, disciplinati, ad obbedire, a lavorare... Il terrore è radicato nel quotidiano, il terrore della prigione e del manicomio, della caserma e della disoccupazione, della famiglia e del sessismo. Terrore contro i desideri, per ridurre il quotidiano alla forma miserabile nella quale la chiesa, la famiglia, lo Stato l’hanno da sempre rinchiuso e costretto. Ma la lotta di classe apre una brec­ cia nel potere in fabbrica, la gestione comunitaria rompe la domina­ zione dell’isolamento; il desiderio trasforma il quotidiano. E la Scrit­ tura percorre trasversalmente vari ordini ricomponendoli in modo creativo. Desiderio di potenza del discor­ Bisogna partire storicamente so dell’ordine oppure potenza del dalla crisi dell’estrema sinistra ita­ desiderio contro l’ordine del di­ liana dopo il '72, in particolare di uno dei gruppi più vivi sia sul pia­ scorso... Il punto di vista dell’autono­ no teorico sia su quello pratico: mia su questo problema dei mezzi Potere Operaio. Tutta una tenden­ di comunicazione di massa è che za dell’estrema sinistra si disper­ cento fiori sboccino, che cento ra­ derà in questa crisi, animando tut­ tavia movimenti di rivolta nelle dio trasmettano...

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La guerriglia dell’informazio­ ne, il ribaltamento organizzato del­ la circolazione delle informazioni, la rottura del rapporto tra emissio­ ne e circolazione dei dati... si situa all’interno della lotta generale con­ tro l’organizzazione e il controllo del lavoro... L’interruzione e la sovversione dei flussi di produzione e della cir­ colazione dei segni emessi dal po­ tere sono un terreno sul quale si può agire direttamente...

varie autonomie (nome dato ai mo­ vimenti delle donne, dei giovani, degli omosessuali, ecc.)- Si creano così circoli politico-culturali come a Bologna il Gatto Selvaggio, dal quale uscirà, nel 1974, l’iniziativa di Radio Alice. Dopo la fase di dispersione, si delinea un processo di ricomposi­ zione del movimento (Radio Alice è una radio nel movimento). Dopo la soppressione del mo­ nopolio di Stato, mille radio in­ dipendenti si costituiranno dall’e­ strema sinistra all’estrema destra, oppure come portavoce di certi settori particolari. L’originalità di Alice consiste nel superare il carattere puramen­ te «sociologico», per così dire, di queste ultime e nell’assumersi co­ me progetto. Radio Alice rientra nelTocchio del tifone culturale: sovversione del linguaggio, pubblicazione della rivista «A/traverso», restando pe­ rò anche immersa nell’azione poli­ tica che essa vuole « trasversalizzare».

Alice, «A/traverso, rivista per l’autonomia», Potere Operaio, «Ros­ so, giornale nel movimento». Concatenazione collettiva di enunciazio­ ne. Teoria - tecnica - poesia - sogni - parole d’ordine - gruppi - sesso - soli­ tudine - gioia - disperazione - storia - senso - non senso. La vera opera d’arte è il corpo infinito dell'uomo che si muove attraverso i mutamenti incredibili dell’esistenza particolare. Farla finita con il ricatto della miseria. Valore di desiderio - valore d’uso — valore lavoro. L’aristocrazia operaia, il lumpen... Quale mise-

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ria? Quale lavoro? Riappropriazione del tempo. Il diritto di dimenti­ care che ora è. - Ero sdraiato sul letto. - D’accordo compagno, eri stanco e hai il diritto di riposarti... - Niente affatto, leggevo! - Hai ragione compagno, leggevi per migliorare il tuo livello teo­ rico e per prepararti a nuove lotte... - Non so. Forse! leggevo «Diabolik»... Farla finita con il ricatto della miseria, con la disciplina del la­ voro, l’ordine gerarchico, il sacrificio, la patria, gl’interessi generali. Tutto ciò ha fatto tacere la voce del corpo. Tutto il nostro tempo, da sempre, è dedicato al lavoro, otto ore di lavoro, due ore di trasporto, e poi riposo, televisione, cena in famiglia. Tutto ciò che non sta al­ l’interno di questo ordine è osceno per la polizia e i magistrati. Alice, Radio linea di fuga. Concatenazione teoria-vita-pratica-gruppo-sesso-solitudine-macchina-tenerezza-carezza. Farla finita con il ricat­ to della scientificità dei concetti. Gl’« intellettuali organici» sono i bu­ rocrati della teoria. Capisci, vecchio mio, la battaglia semiologica va bene, però è una cosa che mi ricorda Nanterre, nel ’68, con la sociolo­ gia, oppure rue d’Ulm, con l’epistemologia, o ancora Sainte Anne, con la psicanalisi... Rileggere Marx, Freud, Lenin, Gramsci... forse... ma ci sono anche gli enunciati, i gesti, il configurarsi di un mondo fatto da noi stessi, la traduzione nelle nostre lingue minoritarie. La pratica della felicità diventa sovversiva quando è collettiva. A Bologna, all’inizio, non eravamo più di un centinaio, giravamo a vuoto e Radio Alice ha catalizzato un processo, qualcosa che ha attra­ versato le diverse autonomie: studenti medi, femministe, omosessuali, lavoratori immigrati... È a questo punto che hanno cominciato a svilup­ parsi i movimenti di autoriduzione e di appropriazione, il rifiuto del lavoro, l’assenteismo. Nel 1976, Bifo, uno dei principali animatori di Radio Alice, è stato arrestato per «istigazione morale alla rivolta». Tutto ciò ha portato alla rivolta del marzo '77. Fu la spaccatura: tutta la vetrina del comuniSmo new look in frantumi! Trent’anni di buona condotta e di leali servigi perduti, screditati agli occhi della bor­ ghesia. Fino a quel momento si pensava che il Pei e i sindacati avrebbero

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saputo meglio di ogni altro tenere il popolo! Si diceva, ad esempio: « In Cile i carri armati, in Italia i sindacati». Ma Zangheri, il sindaco comu­ nista di Bologna, ha fatto appello alle forze repressive che si sono mani­ festate nelle loro forme più violente. Ha fatto entrare i carri armati in città. Ha esortato personalmente la polizia alla repressione sul tema: «Caricate, è la guerra, questa gentaglia dev’essere eliminata, si sono esclusi da soli dalla comunità... »l. C’erano 15 000 persone a manifestare in piazza. Non si era mai vista una cosa del genere a Bologna! Alice ci teneva al corrente minuto per minuto di ciò che avveniva per mezzo di amici che telefonavano e che passavano subito in diretta. Tutto il processo e gli arresti successivi sono stati «motivati» da questo ruolo «militare» di Alice.

Cospirare vuol dire respirare insieme: di questo siamo accusati; vogliono impedirci di respirare perché abbiamo rifiutato di respirare nei loro luoghi di lavoro asfissianti, nei loro rapporti individuali, fa­ miliari, nelle loro case atomizzanti. Se c’è un attentato che devo con­ fessare è proprio contro la separazione tra vita e desiderio, contro il sessismo nei rapporti interpersonali, contro la riduzione della vita a una prestazione salariata. Alice, figli di puttana. Tutti questi porci piccoli borghesi, questi dro­ gati, questi finocchi, questi viziosi, barboni che vogliono insudiciare il cuore della nostra bella Emilia. Ma non ci riusciranno, perché qui, da trent’anni a questa parte, tutti hanno raggiunto un alto livello di co­ scienza di classe. Qui, anche i piccoli industriali hanno la loro tessera del Partito. E i nostri bravi giovani lavoratori non si lasciano coinvol­ gere in queste macchinazioni diaboliche. Sarà il popolo stesso a rifiutare l’avventura. E che non si pensi di accusare il Pei di pratiche antidemo­ cratiche! Ovunque, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, abbiamo incoraggiato la formazione di comitati popolari, di consigli dei delegati. E sono proprio questi che oggi tendono a diventare i migliori garanti dell’ordine.

In ogni occasione, i nostri bisogni devono essere rappresentati dai «portavoce» delegati, in cambio della promessa di parlare doma1 [A proposito dell'impiego delia forza pubblica, Renato Zangheri, neU’imervista % F. Mussi (Bologna '77, Roma 1978, p. 19) ha dichiarato: «Non si è chiesto né l’intervento né il patere del Comune, anche cosi interrompendo una tradizione consolidata negli anni, quando l'amministrazione comunale, in qualità di rappresentante di interessi generali, veniva consultata, e ron risultati positi­ vi». (Nota dell’Editore)].

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ni. Miniparlamenti e comici d’istituto, consigli di quartiere, decen­ tralizzazione culturale, tutti luoghi dove si delega senza che cambino i rapporti reali, che non ci danno alcun potere; i padroni vi mandano un sociologo, uno psicologo, un antropologo, un riformatore, cioè in fin dei conti un poliziotto col manganello. L’errore storico. Con la mano tesa siamo andati verso di loro, vole­ vamo spiegare loro la linea corretta del nostro partito. AH’università di Roma, Lama era venuto apposta per presentare il punto di vista dei la­ voratori. L’hanno cacciato a sassate. Non rispettano niente. «I Lama stanno nel Tibet». Ma si pensa forse che il partito comunista italiano, il partito dei lavoratori e di tutto il popolo, si lascerà ancora per molto intimidire da un pugno di esaltati, di agitatori irresponsabili che si auto­ definiscono «indiani metropolitani»? L’unica debolezza che abbiamo avuto è stata la nostra pazienza, durata troppo a lungo. La legittimità del potere statale, oggi, si fonda su di noi. E, in fin dei conti, tocca al nostro partito valutare ciò che è opportuno e ciò che non lo è per le masse.

Noi vi amiamo. Siamo con voi dal profondo del cuore e questo ci dà il diritto di mettervi in guardia. In voi c’è tutto, il bene e il male, sta a voi fare la scelta. Certo, è fin troppo facile accusarvi della disorganiz­ zazione attuale, e dobbiamo riconoscere che molti di voi sono stati spin­ ti alla disperazione! Ma il nostro dovere è dirvi: «Mantenete il sangue freddo, non superate un certo limite». Pensate che il paese è in crisi, pensate alla minaccia fascista. Insomma, in altri termini, pensate come noi! A volte dite cose meravigliose, ma spesso cadete nella confusione, nella banalità, nell’oscenità gratuita, non estetica. Riprendetevi, siate ciò che noi siamo sempre stati: bravi bambini turbolenti!

Il ricatto della crisi e del fascismo non vi riuscirà più. La crisi, eb­ bene, noi la rivendichiamo e non facciamo niente per «sistemare le co­ se». Anzi ci auguriamo di generalizzarla e persino di esportarla. Oggi - e tanto meglio! - l’Italia vive, in buona misura, a rimorchio delle grandi potenze capitalistiche, terrorizzate dall’idea del suo crollo totale. Si è giunti cosi a una specie di autoriduzione su scala internazionale. Altri strati della popolazione, altri paesi seguiranno. Tutto un mon17

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do sta crollando. Noi non ci accontentiamo di mettere in discussione la forma dei rapporti tra sfruttatori e sfruttati, noi andiamo alla radice dei problemi, alla materia dello sfruttamento capitalistico-burocratico, cioè al lavoro salariato, all’accettazione passiva di una frattura tra lavoro e desiderio, l’investimento del lavoro come droga di abolizione di tutti i desideri aperti sul mondo. Quanto ai fascisti, essi attualmente non sono più, in Italia, che un pugno di pagliacci. Influenzano sempre meno la gente. E, per noi, il pericolo non viene tanto da quella parte, bensì dalla congiunzione tra l’apparato di Stato capitalistico e gli apparati burocra­ tici del Pei e dei sindacati. Con tutti i mezzi, questa nuova alleanza repressiva, dalle ramifica­ zioni tentacolari, cerca di separare le lotte economiche e politiche dei lavoratori dai mille aspetti dell’autonomia. Il suo obiettivo è ottenere che il controllo e la normalizzazione delle masse siano realizzati dalle masse stesse e che in seno al popolo s’instauri un consenso maggiori­ tario conservatore contro le minoranze di ogni genere, anche se queste ultime messe insieme fanno molto di più di tutte le maggioranze! Se­ condo noi, è proprio da questa parte che può ancora venire la minaccia di un movimento reazionario di massa. Non vengano allora a chiederci, in nome di una immaginaria crociata antifascista, di allearci a quelli che oggi sono diventati gli agenti della forma embrionale di un nuovo tipo di fascismo.

A Bologna e a Roma si sono accesi i focolai di una rivoluzione che non ha niente a che fare con quelle che finora hanno sconvolto la storia, di una rivoluzione che spazzerà non solo i regimi capitalistici, ma anche i bastioni del socialismo burocratico - si richiamino essi all’eurocomu­ nismo, a Mosca o a Pechino -, di una rivoluzione i cui fronti impreve­ dibili incendieranno forse i continenti, ma che si concentreranno anche, a volte, sul quartiere di una città, su una via, una fabbrica, una scuola... I suoi obiettivi riguarderanno sia le grandi scelte economiche e tecno­ logiche sia i comportamenti, i rapporti con il mondo, le singolarità di desiderio. I padroni, i poliziotti, i politici, i burocrati, i professori, gli psicanalisti avranno un bel unire i loro sforzi per fermarla, canalizzarla, recuperarla, avranno un bel raffinare, diversificare, miniaturizzare al­ l’infinito le loro armi, ma non riusciranno più a riprendere in mano l’immenso movimento di fuga e la moltitudine dei mutamenti moleco­ lari di desiderio eh'essa ha già scatenato. Non si contano più le crepe nell’ordine economico, politico e morale del xx secolo, e oggi gli uomini

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del potere non sanno più cosa fare. Il nemico diventa a volte inafferra­ bile, proprio vicino a voi c’è qualcosa che non funziona più come prima, è vostro figlio, vostra moglie, è il vostro stesso desiderio che tradisce la vostra missione di custode dell’ordine costituito! La polizia ha liquidato Alice - i suoi animatori sono ricercati, condannati, imprigionati, i suoi locali saccheggiati — ma il suo lavoro di deterritorializzazione rivoluzio­ naria continua senza sosta penetrando fin nelle fibre nervose dei suoi persecutori. In tutto questo non c’è niente di costruttivo. Forse, anche se non è affatto evidente: ma il problema non è questo. Il punto di vi­ sta di Radio Alice è il seguente: il movimento che riuscirà a distruggere la gigantesca macchina capitalistico-burocratica, sarà, a maggior ragione, capacissimo di costruire un altro mondo, dal momento che la compe­ tenza collettiva in materia se la costruirà strada facendo, senza che, nella fase presente, sia necessario elaborare «progetti di società» di ricambio.

finito di stampare il 17 giugno 1978 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso l’Officina Grafica Artigiana U. Panelli in Torino C. L. 200-6

Saggi

1 raimondo craveri, Voltaire

politico del­ l’Illuminismo. 2 paolo treves, Biografia di un poeta. Mau­ rice de Guérirt. 3 zino zini, I fratelli nemici. Dialoghi e mi­ ti moderni. 4 Pier silverio i.eicht, Corporazioni roma­ ne e arti medievali. 5 johan HUiziNGA, La crisi della civiltà. 6 Ettore ciccotti. Profilo di Augusto. 7 angelina la piana, La cultura americana e l'Italia. 8 gertrude stein, Autobiografia di Alice Toklas. 9 Niccolo tommaseo, Diario intimo. 10 rudyard kipling, Qualcosa di me. Per i miei amici noti e ignoti. 11 gregorio maranón, Amiel, o della timi­ dezza. 12 cesare de lollis, Scrittori francesi del­ l'Ottocento. 13 EGMONT COLERUS, Piccola storia della ma­ tematica da Pitagora a Hilkert. 14 tommaso parodi, Giosue Carducci e la letteratura delia nuova Dalia. 13 luigi Salvatorelli, Pio XI e la sua ere­ dità pontificale. 16 siro Attilio nulli, 1 processi delle stre­ ghe. 17 PIETRO pancrAzi, Studi sul D’Annunzio. 18 niccolò tommaseo, Cronichetta del Sessantasei. 19 augusto rostagni, Classicità e spirilo mo­ derno. 20 Bernard fay, La massoneria e la rivolu­ zione intellettuale del secolo xvijj. 21 valter pater, Mario l'epicureo. 22 GEORGE MACAULAY TREVELYAN, La rivolu­ zione inglese de! 1688-89. 23 Adolfo omodeo, La leggenda di Carlo Al­ berto nella recente storiografia.

aldo mautino, La formazione della filo­ sofia politica di Benedetto Croce. 23 trank thiess, Tsusbima. Il romanzo di una guerra navale. 26 johan huizinga, Erasmo. 27 fltabatei scimei, Mediocrità. 28 Adolfo omodeo, Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica. 29 Giacomo savarese, Tra rivoluzioni e rea­ zioni. Ricordi su Giuseppe Zurlo (17391828). 30 sven hedin, Il lago errante. 31 E. R. hughes, La Cina e il mondo occiden­ tale. 32 carlo cattaneo, L'insurreclion de Milan e ie Considerazioni sul 1848. 33 Carlo pisacane, Saggio su la Rivoluzione. 34 j. hersch, L'illusione della filosofia. 33 will winker, Fugger il ricco. 36 madame de rémusat, Memorie. 37 paolo serini, Pascal. 38 carl Gustav JUNG, Il problema dell'in­ conscio nella psicologia moderna. 39 luigi band ini, Uomo e valore. 40 Mario Praz, La carne, la morte e il dia­ volo nella letteratura romantica. 41 cesare de laugier, Concisi ricordi di un soldato napoleonico. 42 pero martinetti, Ragione e fede. Saggi religiosi. 43 lev TOLSTÒJ, Carteggio confidenziale con Alekscndra Andrifevna Tolstàia.

24

44

luigi

Salvatorelli,

Pensiero

e

azione

del Risorgimento. 45

fjòdor

dostojevskij,

Diario di uno scrit­

tore (1873). 46 47

Bernhard bavink, La scienza naturale sul­ la via della religione. CHARLES DE MONTESQUIEU, Ri flessioni e pensieri inediti (1716-17.35).

48 clemens von METTERNicH, Memorie. 49

emilio

lussu,

torni.

83

Due tempi. Mote e ricordi di un contemporaneo. pi WERNER HEISENBERG. Mutamenti nelle ba­ si della scienza. 32 nikolAj berdjajev, La concezione di D0stojevskij. 33 H. w. RUSSEL, Profilo d’un umanesimo cristiano. 34 bruno zevi, Verso un'architettura organi­ ca. Saggio sullo sviluppo del pensiero ar­ chitettonico negli ultimi cinquantanni 53 CARLO levi, Cristo si è jertnato a Ehoiì. 36 Alexander werth, Leningrado. 37 felice balbo, L’uomo senza miti. 38 cesare pavese, Dialoghi con Leucò. 59 emilio wssu, Un anno sull'Altipiano. 60 julien benda, Le democrazie alla prova. Saggio sui principi democratici. 61 mario praz, Motivi e figure. 62 BERNHARD PAUMGARTNER, Mozart. 63 augusto monti, Realtà del Partito d'Azione. 64 CARLO sforza, Panorama europeo. Appa­ renze politiche e realtà psicologiche. 63 harold J. laski, Fede, ragione e civiltà. Saggio di analisi storica. 66 mario soldati, America primo amore. 67 norman cousins, L’uomo moderno è an­ tico. 68 Lucio lombardo-radice, Fascismo e anti­ comunismo. Appunti e ricordi 1935-1943. 69 walter lippmann, La giusta società. 70 paul hazard, La crisi della coscienza eu­ ropea. 71 Filippo Buonarroti, Congiura per l’egua­ glianza o di Babeuf. 72 carlo levi, Paura della libertà. 73 luigi sturzo, L'Italia e l’ordine intema­ zionale. 74 thomas babington macaulay, La con­ quista dell’India. 73 Wilhelm ròpke, La crisi sociale del no­ stro tempo. 76 emilio sereni, Il capitalismo nelle cam­ pagne (1860-1900). 50

Giacomo

perticone,

77 samuel bernstein, Filippo

Buonarroti.

78 W. GOETHE e F. SCHILLER, Carteggio. 79

84

Marcia su Roma e din­

robert G. la mia vita.

vansittart,

Insegnamenti del­

Aspetti del cattolicesimo della Restaurazione. 81 felice balbo, Il laboratorio dell’uomo. 82 matthew Arnold, Cultura e anarchia. 83 johan huizinga, Homo ludexs. 80 Adolfo omodeo,

86 87 88 89

kurt hildebrandt, Platone. La lotta del­ lo spirito per la potenza. iljX ilf e evchénij petròv, Il paese di Dio. skerwood aneeeson, Storia di me e dei miei racconti. aldo carosci, Storia della Francia mo­ derna (1870-1946).. ernest hemingway, Morte ne! pomerig­ gio. O.

MAENCHEN-HELFEN

e

B.

NICOLAJEVSKI,

Karl Marx. 90

barbara

wootton,

Liberti

e

pianifica­

zione. 91

giovita scalvini, Foscolo the. Scritti editi e inediti.

Manzoni

Goe­

Pierre lecomte du nouy, L'avvenire del­ lo spirito. 93 RUCGERC zangrandi, Il lungo viaggio. Con­ tributo alla storia di una generazione. 94 gustavo a. wetter s. Il materialismo dialettico sovietico. 93 leone ginzburc, Scrittori russi. 96 bruno zevi, Saper vedere l’architettura. Saggio sull'interpretazione spaziale del­ l'architettura. 97 peter viereck, Dai romantici a Hitler. 98 franco venturi, Jean Jaurès e altri sto­ rici della Rivoluzione Jrancese. 99 MAX weber, Il lavoro intellettuale come professione. 100 kare maex e Friedrich engels, Manife­ sto del Partito Comunista. 101 Igor markevitch, Made in Ilaly. 102 Silvio guarnieri, Carattere degli italiani. 103 Marcel Raymond, Da Baudelaire al sur­ realismo. 104 josif stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale. 103 emmanuel mounier, Che cos’è il perso­ nalismo? 106 thorstein veblen, La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni. 107 aueksàndr i. hejzen, Passato e pensieri. 108 henri lefebvee, Il materialismo dialet­ tico. 109 Christopher caudwell, La fine di una cultura. 110 p. M. s. blackett, Conseguenze politiche e militari dell’energia atomica. in luigi russo, De vera religione. Koterelle e schermaglie, 1943-1948. 112 Silvio spaventa, La giustizia nell'ammi­ nistrazione. iti massimo d'Azeglio, 1 miei ricordi. 114 Georges lefebvre, L’Ottantanove. 113 Filippo tup.ATI e ANNA KULisciOFF, Car­ teggio, voi. I. Maggio 1898 - giugno 1899. 92

116

EISEN'STEIN, vic, La figura

BLEIMAN,

KOSINZEV,

IUTKE-

e l’arte di Charlie Chaplin. 117 marcello SOLE*!,.Memorie. 118 GEORGES friecmann, Problemi umani del macchinismo industriale. 119 George Thomson, Escbilo e Alene. 120 Christopher caudwelL, Illusione e real­ tà. Saggio sulle origini della poesia. 121 massimo mila, L'esperienza musicale e l’estetica. 122 bertrand russell, Storia delle idee del secolo xix. 123 giaime pintor, Il sangue d’Europa (19391943). 124 hector berlioz, L’Europa musicale da Gluck a Wagner. 123 kugh j. schonfield. Il Giudeo di Tarso. Ritratto eterodosso di Paolo. I2 CARLO LEVI, L’Orologio. 127 gyòrgy lukacs, Saggi sul realismo. 128 s. M. eisenstein, Tecnica del cinema. 129 ettenne GiLSCN, Eicisa e Abelardo. 130 Enrico falqui, Prosatori e narratori del Novecento italiano. 131 aldo Capitini, Nuova'socialità e riforma religiosa. 132 fiero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia. 133 Giuseppe squarciapino, Roma bizantina. Società e letteratura ai tempi di Angelo Sommarugti. 134" Arrigo cajumi, Pensieri di un libertino. 133 erick eyck, Bismarck. 136 bruno zevi, Storia dell’architettura mo­ derna . 137 marc bloch, Apologia della storia. 138 andré gide, Viaggio al Congo e Ritorno dal Ciad. 139 fiero gobetti, Coscienza liberale e classe operaia. 140 gaston baty e rene chavance, Breve sto­ ria del teatro. 141 barrows dunham, Miti e pregiudizi del nostro tempo. 142 ernest hemingway, Torrenti di primave­ ra. Storia romantica in onore di una gran­ de razza al tramonto. 143 john maynard keynes. Politici ed econo­ misti. 144 guido aristarco, Storia delle teoriche del film. 143 beniamino dal fabbro. Crepuscolo del pianoforte. 146 bruno snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo e altri saggi. 147 Georges Sadoul, Storia del cinema. 148 cesare pavese, La letteratura americana e altri saggi.

149

benjamin farrington, Francesco Bacone filosofo dell’età industriale. 130 Lettere di condannati a morte della Re­ sistenza italiana (S settembre 1943 - 25 aprile 1945). 131 Carlo L. RAGGHIANTI, Cinema arte figura­ tiva. 132 LOUIS de saint-just, Frammenti sulle Istituzioni repubblicane seguito da testi inediti. 133 Giovanni GiOLiTri, Discorsi extraparlamen­ tari. 134 Giorgio graziosi, L’interpretazione musi­ cale. 133 Arnold rose, I negri in America. 136 lewis jacobs.L’avventurosa storia del ci­ nema americano. 137 cesare pavese, Il mestiere di vivere (Diario 1933-1930). 138 morelle, Codice della Datura. 139 bela balazs, Il film. Evoluzione ed es­ senza di un'arte nuova. 160 aneurin bevan, Il socialismo e la crisi in­ ternazionale. 161 c. w. ci pam. Civiltà sepolte. Il romanzo dell’archeologia. 162 estes kefauver, Il gangsterismo in Ame­ rica. 163 john middleton murry, Shakespeare. 164 Antonina Vallentin, Il romanzo di Goya. 163 ROBERTO BATTAGLIA, Storia della Resisten­ za italiana (8 settembre 1943 - 23 aprile 1943)166 ivanoe bonomi, La politica italiana dopo Vittorio Veneto. 167 Filippo turati e Anna kuliscioff, Car­ teggio, voi. V. Dopoguerra e fascismo (1919-22). 168 Lettere dei Macchiaioli. 169 gyokgy lukacs, Il marxismo e la critica letteraria. 170 Raffaele ciAMPiNi. Gian Pietro Vieusseux. I suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici. 171 Ludovico Geymonat, Saggi di filosofia neorazionalistica. 172 dina bertoni jovine, Storia della scuola popolare in Italia. 173 luigi rognoni, Espressionismo e dodeca­ fonia. 174 james bosvtell, Diario londinese (17621763). 373 II diario di Anna Frank. 176 rcbert jungk, Il futuro è già cominciato. 177 F. o. matthiessen, Rinascimento ameri­ cano. Arte ed espressione nell’età di Emer­ son e Whitman. 178 Lettere di condannali a morte della Re­ sistenza europea.

179 eugène delacroix, Diario (1804-1863). 180 D. Livio bianco, Guerra 181

partigiani. franco venturi, Saggi sull’Europa illu­ minista. I. Alberto Radicati ài Passeraio.

ed ernesto artom. Iniziative neutralistiche della diplomazia italiana nel 1870 e nel 1913. 183 Theodor W. adorno, Minima moralia. 182

isacco

184 Roberto cessi, Martin 185

186

Lutero.

Taylor, Artisti, principi e mercanti. Storia del collezionismo da Ramsete a Napoleone. luigi preti, Le lotte agrarie nella valle HENRY

FRANCIS

padana.

187 léon poliakov,

degli Ebrei.

Il nazismo e lo sterminio

188 max j. friedlander, Il 189

Siro

Attilio

mento.

nulli,

conoscitore d'arte. Erasmo e il Rinasci­

190 hans mayer, Thomas

Mann.

D ENTRkvES, Dante politico e altri saggi. 192 norberto bobbio, Politica e cultura. 193 roman vlad, Modernità e tradizione nel­ la musica contemporanea. 194 Mario untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico. Dalla preistoria a Escbilo. 193 tommaso fiore, Il cafone all’interno. 196 carlo levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia. 197 c. w. ceram. Il libro delle rupi. Alla sco­ perta dell’impero degli Ittiti. 198 gyorgy lukacs, Breve storia della lettera­ tura tedesca dal Settecento ad oggi. 199 erich auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. 200 tibor mende, Conversazioni con Nebru. 201 franco fortini, Asia Maggiore. Viaggio in Cina. 202 ada gobetti, Diario partigiano. 203 angelos angelopoulos, L’atomo unirà il mondo? 204 FRANCO VENTURI, Il moto decabrista e i fratelli Poggio. 203 Cristoforo m. negri, I lunghi fucili. Ri­ cordi della ritirata di Russia. 191

Alessandro

PASSERIN

La Chiesa e le organizza­ zioni cattoliche in Italia (1943-1933).

206

carlo falconi,

207

CARLO levi,

Il futuro ka un cuore antico. Viaggio nell'Unione Sovietica.

208 Giovanni ferretti, Scuola 209 carlo casaxegno, La

e democrazia.

regina Margherita.

210 Frederick pollock, Automazione. 211

JANNACCONE, Scritti e discorsi opportuni e importuni ( 1947-1933).

PASQUALE

212 ADOLFO VENTURI,

te italiana.

Epoche e maestri dell’ar­

2ij

morus,

Gli animali nella storia delti ci­

viltà. 214 Roberto «uiducci, Socialismo e verità. 215 cesare brandi, Elicona III-IV. Arcadio 0 della Scultura. Eliante 0 dell’Architet­ tura. 216 No al fascismo 1 cura di ernesto rossi. 217 felice del vecchio, La chiesa di Can­ neto. 21Ì Francois fejto, Ungheria 1943-1937. 219 Pierre fi.'ncastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo. 220 leonard voolley, 11 mestiere dell"archeo­ logo. 221 danilo dolci, Inchiesta a Palermo. 221 guido Calogero, Scuola sotto inchiesta. Saggi e polemiche sulla scuola italiana. 223 cesare brandi, Elicona II. Celso o della Poesia. 224 Manlio razzi, Carlo Goldoni e la sua poetica sedale. 223 armando cavagnin, Vent’anni di resisten­ za al fascismo. 226 iìgon corti, Ercolano e Pompei. Merle e rinascila il due città. 227 PIETRO SECCHIA e CINO MOSCATELLI II

Monte Resa è sceso a Milano. La resisten­ za nel Bicllese, nella Valsesia e nella Valdossola. 228 Ultime lettere da Stalingrado. 229 EDMUND WILSON, I manoscritti del Mar Morto. 230 robert jungk. Gli apprendisti stregoni. 231 roman vlad, Strawinsky. 232 primo levi, Se questo è un uomo. 233 Alberto nirenstajn. Ricorda cosa ti ha fatto Amclek. 234 marcus cunliffe, Storia della letteratu­ ra americcr.a. 235 vance Packard, I persuasori occulti. 236 alexander werth, Storia della Quarta Repubblica. 23; MARCEL PROUST, Giornate di lettura. Scritti critici e letterari. 238 mario tobino, Passione per l’Italia. 239 WILLIAM H. prescott, La Conquista del Messico. 240 ernesto n. rogers, Esperienza dell’archi­ tettura. 241 leonard wdolley, Ur dei Caldei. 242 Eugenio Livi, Il comico di carattere da Teofrasto a Pirandello. 243 GILLO dorfies, Il divenire delle arti. 244 leo spitzer, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna. 245 theodor w. adorno, Filosofia della musi­ ca moderna.

246 Filippo turati e anna KLUSCIOFF, Car­ teggio, voi. VI. Il delitto Matteotti e l’Aventino (1923-25). 247 J. J- lador-lederee, Capitalismo mondia­ le e cartelli tedeschi tra le due guerre. 248 angelo maria ripellino, Ma]akovskif e il teatro russo d'avanguardia. 249 asturo Carlo jemolo, Società civile e so­ cietà religiosa (1555-1958). 250 carlo levi, La doppia notte dei tigli. 231 AMBROISE vollard. Quadri in vetrina. 252 gaeiano salvemini, Italia scombinata. 233 mario einaudi, La rivoluzione di Roose­ velt, 1932-1952. 254 aldo garoso, Gli intellettuali e la guerra di Spagna. 255 alois riegl, Arte tardoromana. 256 JEAN fostand, L'uomo artificiale. 237 carl Gustav jung, La simbolica dello spi­ rito. Studi sulla fenomenologia psichica con un contributo di Ritvkab Scbàrf. 238 massimo mila, Cronache musicali 19551959239 john chadwick, Lineare B. L’enigma del­ la scrittura micenea. 260 Frederick antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nei primo Quattrocento. 261 William h. whyie jr, L’uomo dell’orga­ nizzazione. 262 La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, voi. I. «Leonardo», «Hermes», «Il Regno». 263 erwin piscator, Il teatro politico. 264 Eugenio battisti, Rinascimento e Ba­ rocco. 265 walter binni, Carducci e altri saggi. 266 La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, voi. III. « La Voce » (1908-1914). 267 luigi Salvatorelli, Leggenda e realtà di Mapoleone. 268 Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Hoss. 269 ladislao mittner, La letteratura tedesca del Novecento e altri saggi. 270 Danilo dolci, Spreco. Documenti e in­ chieste su alcuni aspetti dello spreco nel­ la Sicilia occidentale. 271 Alberto caracciolo, Stato e società civi­ le. Problemi dell'unificazione italiana. 272 robert jungk, Hiroshima, il giorno dopo. 273 renato birolli, Taccuini (1936-1959). 274 Corrado maltese, Storia dell'arte in Ita­ lia 1785-1943. 273 Adolfo omoeeo, Libertà e storia. Scritti e discorsi politici. 276 H. H. stuckenschmidt. La musica mo­ derna.

277

massimo l. salvatori, Il mito del buon­ governo. La questione meridionale da Ca­ vour a Gramsci. 27S theodor h. GA5TER, Le piti antiche storie del mondo. 279 II diario di David Rubinowicz. 280 geoffrey bibby, Le navi dei Vichinghi e altre avventure archeologiche nell’Europa preistorica. 281 Ferdinando salamon, Il conoscitore di stampe. 282 Antonina Vallentin, Storia di Picasso. 283 La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, voi. IV. «Lacerha», «La Voce» (1914-1916). 284 Federico zeri, Due dipinti, la filologia e un nome. Il Maestro delle Tavole Barbe­ rini. 283 ingmak bergman, Quattro film-. Sorrisi di una notte d'estate, Il settimo sigillo, I! posto delle fragole, Il volto. 286 x. a. riciiards, I fondamenti della critica letteraria. 287 raffaello GlOLii, La disfatta dell’Otto­ cento. 288 ippolito ntevo, Lettere garibaldine. 289 julius von schlosser, L’arte del Medio­ evo. 250 gunther anders, Essere 0 non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. 291 luigi Salvatorelli, Unità d’Italia. Saggi storici. 292 Lanfranco caretti, Ariosto e Tasso. 293 vance Packard, I cacciatori di prestigio. 294 p. M. s. blackett, Le armi atomiche e i rapporti fra Est e Òvest. 293 Trent’anr.i di storia italiana ( 1915-1945). Dall’antifascismo alla Resistenza. 296 Alfredo parente, Castità della musica. 297 nikolàt lébedev, il cinema mulo sovie­ tico. 298 lev trotshj, Scritti 1929-1936. 299 cesare brandi, Carmine 0 della Pittura. 300 Gioachino belli, Lettere Giornali Zibal­ done. 301 muto revelli, La guerra dei poveri. 302 Alfredo todisco, Viaggio in India. 303 Gillo dorit.es, Simbolo comunicazione consumo. 304 danilo dolci, Conversazioni. 303 harold acton, Gli ultimi Medici. 306 La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, vcl. V. «L'Unità», «La Voce po­ litica» (1913). 307 Racconti di bambini d'Algeria. 308 lionel trilling, La letteratura e le idee. 309 walter benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti.

3X0

erwin

panofsky,

Il significato nelle arti

visive. 311

peter

Teoria

szondi,

de!

dramma

La fortuna dei primi­ tivi. Dal Vasari ai neoclassici. 344 vance Packard, Gli arrampicatori azien­ dali. 343 danilo dolci, Ver so un mondo nuovo. 346 serge; m. ejzenStejn, Torma e tecnica del film e lezioni di regia. 347 Vittorio lugli, Pagini ritrovale. Memo­ rie fantasie e letture. 348 maxio giovana, Resistenza nel Cuneese. Storia di una formazione partigiana. 349 PAUL ROTHA e RICHARD griffith, Storia del cinema. 330 Lamberto vitali, L’opera grafica di Gior­ gio Morandi. 331 MICHELANGELO ANTONIONI, Sei film. 332 LUIGI SALVATORELLI, Miti e storia. 333 Carlo levi, Tutto il miele è finito. 334 Ernst H. gombrich, Arte e illusione. Stu­ dio sulla psicologia della rappresentazione pittorica. 333 Giovanni macchia, Il mito di Parìgf. Sag­ gi e motivi francesi. 336 angelo maria xipeluno, Il trucco t l’a­ nima. I maestri della regia nel teatro rus­ so del Novecento. 337 gillo dorfles, Nuovi riti, nuovi nàti.

343

312 Giorgio FANO,

Seggio sulle origini del lin­

guaggio. Heinrich

Lampisterie.

mo­

derno.

313

341 paul Goodman, La gioventù assurde. 342 tristan tzara, Manifesti del dadaismo e

schliemann,

La

scoperta

di

Troia. 314 bertolt brecht, Scritti

teatrali. piccole virtù. 316 William gaunt, L’avventura estetica. 317 Enrico castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovannetli e la pittura in Provenza nel seco­ lo XIV. 318 Attilio Milano, Storia degli ebrei in Ita­ lia. 319 john golding, Storia del cubismo (19071914)320 Lettere della Rivoluzione algerina. 321 p. a. quarantotti gambini, Sotto il cielo di Russia. 322 fred K. prieberg, Musica ex machina. 323 mortimer wiieeler, La civiltà romana oltre i confini dell’impero. 324 La cultura italiana del '900 attraverso le riviste, voi. VI. «L’Ordine Nuovo» (1919-1920). 323 Giorgio melchiori, I funamboli. Il ma­ nierismo nella letteratura inglese contem­ poranea. 326 Claudio magris. Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna. 327 michele ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo. 328 K0NSTANT1N S. STANISLAVSKIJ, La mia vi­ ta nell’arte. 329 cesare cases, Saggi e note di letteratura tedesca. 330 rosario romeo, Dal Piemonte sabaudo al­ l’Italia liberale. 331 frank lloyd wright, Testamento. 332 Antonio la penna, Orazio e l’ideologia del principato. 333 benvenuto Terracini, Lingua libera e li­ bertà linguistica. Introduzione alla lingui­ stica storica. 334 Adolfo omódeo, Lettere 1910-1946. 335 franca pieroni bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia (18481892). 336 Roberto GIAMMANCO, Dialogo sulla socie­ tà americana. 337 HERBERT MARCUSE, ErOS e civiltà. 338 leone ginzburg, Scritti. 339 paolo spp.iano, . L’occupazione delle fab­ briche. Settembre 1920. 340 Victor w. von hagen, La Grande Strada del Sole. 313 natalia ginzburg, Le

Giovanni previtali,

338 MARIO SILVESTRI, IsOUZO 1917.

339

Mezzogiorno medieva­

Giuseppe galasso,

le e moderno. 360

augusto

monti,

1 miei conti .con la

scuola. Note e contronote. Scrit­ ti sul teatro. 362 j. Christopher 11EROLD, Bonaporte in Egitto. 363 Giorgio guazzotti, Teoria e realtà del Piccolo Teatro di Milano. 364 Antonio cederna, Mirabilia Urbis. Crona­ che romane 1937-1963. 363 CLAiRE-ÉLiANE engel, Storia delTa'pinismo. In appendice Cento anni di alpini­ smo italiano di Massimo Mila. 366 lecnard woolley, Un regno dimenticato. Storia di una scoperta archeologica. 367 barry ulanov. Storia del jazz in America. 368 VLADIMIR ja. propp, I canti popolari russi.

361 eugène ionesco,

Con una scelta di canti a cura di Gigliola Venturi. 369 Sergio donadcnt, Arte

egizia.

370 Roland barthes, Saggi critici. 371 Frank lloyd wright, La 372

città vivente. Studi e documenti del tempo fascista: Al­ berto aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario.

373

Charles

F.

delzell,

I nemici ài Musso­

lini. 374

Giulio

carlo

argan,

Walter Gropius e lì

Bauhaus. 373 nuto revelli, La

strada del davai. Mabler. 377 Edward H. carr, Sei lezioni sulla storia. 378 erich kuby, I russi a Berlino. La fine del Terzo Reich. 379 geoffrey BIBEY, Quattromila anni fa. Un quadro della vita nel mondo durante il se­ condo millennio a. C. 380 F. w. deakin e G. s. storry, Il caso Sorge. 381 Giorgio bassani, Le parole preparate e al­ tri scritti di letteratura. 382 gar alperovitz, Un asso nella manica. La diplomazia atomica americana: Potsdam e Hiroshima. 383 luigi rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia. 384 g. Francesco malipiero, V, f.lo d’Arian­ na. Saggi e fantasie. 383 KARL LOWITH, Saggi su Heidegger. 386 E. j. hobsb.awm, I ribelli. Forme primiti­ ve di rivolta sociale. 387 Bonaventura tecchi, Goethe scrittore di fiabe. 388 André breton, Manifesti del Surrealismo 389 Emilio sarzi amadé, Rapporto dal Viet­ nam. 390 Danilo dolci, Chi gioca solo. 391 Mario tronti, Operai e capitale. 392 Edoardo sanguineti, Guido Gozzano. In­ dagini e letture. 393 Umberto saba, Lettere a un’amica. 394 michele pantaleone, Mafia e droga. 393 edgar sngw, L'altra riva de! fiume. La Ci­ na oggi. 396 La storia dell’arte raccontata da E. H. Gomhrich. 397 lev trotskij, La rivoluzione permanente. 398 serge mallet, La nuova classe operaia. 399 augusto illuminati, Sociologia e classi sociali. 400 JOHN beckwjth, L'arte di Costantinopoli. Introduzione all’arte bizantina (330-1433). 401 yt\TtmQi.Y,L’invincibile Arni ada. 402 vance Packard, La società nuda. 403 Autobiografia di Malcolm X. 404 William L. shirer, Diario di Berlino (1934-1947). 405 boris pasternak, Lettere agli amici geor­ giani. 406 Albert ducrocq, Cibernetica e universo. 11 romanzo della materia. 376 theodor ss. adorno, Wagner.

carl ih. ereyee, Cinque film: La_Passione di Giovanna d'Arco, Vampiro, Dies irae, Oràet, Gertrud, seguiti da tutti gli scritti sul cinema. 408 Maurice blanchot, Lo spazio letterario. 409 carlo d:on:sctti, Geografia e storia della letteratura italiana. 410 anouaf. abdel-malek, Esercito e società in Egitto 1932-1967. 411 johan huizinga, La civiltà olandese del Seicento. 412 Victor serge, L’Anno primo della rivolu­ zione russa. 413 Antonio GiOLiTn, Un socialismo possibile. 414 luigi capello, Caporetto, perché? La 2“ armata e gliavvsnimenti dell'ottobre 1917. 407

413

Antonio

ghirelli,

Storia

del

calcio

in

Italia. 416 cesare blandi, Struttura

417

Richard

hcfstadter,

e architettura. Società e intellettua­

li in America. Nati sotto Saturno. La figura dell'artista dall'Anti­ chità alla Rivoluzione francese. 419 gyorgy lukacs, Marxismo e politica cul­ turale. 420 John Kenneth galbraith, Come uscire dal Viet Nam. Una soluzione realistica del più grave problema del nostro tempo. 421 William SH2RIDAK allen, Come si diven­ ta nazisti. Storia di una piccola città 19301935422 Augusto monti, Scuola classica e vita mo­ derna. 423 JOHN KENNETH GALBRAITH, Il nUOVÓ Stato industriale. 424 Giorgio pano, Neopositivismo, analisi del linguaggio e cibernetica. 423 robert jungk, La grande macchina. I nuo­ vi scienziati atomici. 426 GILLO dorfles, Artificio e natura. 427 miguel barnet, Autobiografia di uno schiavo. 428 antonin artaud, Il teatro e il suo dop­ pio. Con altri scritti teatrali e la tragedia «I Cenci». 429 Mario silvestri, Il costo della menzo­ gna. Italia nucleare 1943-1968. 430 Pierre eoulez, Note di apprendistato. 4}i Adolfo omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti 1913-1918. 432 ernesto n. rogers, Editoriali di architet­ tura. 433 c. w. ceram, I detcctives dell’archeologia. Le grandi scoperte archeologiche nel rac­ conto dei protagonisti. 4:8 RUDOLF e MARGOT WITTKOWER,

LAMBERTO VITALI, Un fotografo fin de siècle. Il conte Primoii. laurence THOMPSON, 1940: Londra bru­ cia.

popper, L'arte cinetica. L’immagi­ ne dtl movimento nelle arti figurative. 433 462 denis bablet, La scena e l’immagine. Seggo su Jotef Svoboda. 463 J. ERIC S. THOMPSON, La civiltà maya. 436 ved mehta Teologi senza Dio. 464 Ezio Raimondi, Metafora e storia. Studi 437 RAFFAELE amaturo. Congetture sulla su Dante e Pelrarce. «Notte» del Parini. In appendice i ma­ noscritti ambrosiani criticamente ordinati. 463 Louis a. christopee, Abu Simbel. L’epo­ pea li una scoperta archeologica. 438 FERDINANDO Bologna, Novità su Giotto. Giotto al tempo della cappella Peruzzi. 466 lev trotskij, 1 problemii della rivoluzio­ ne cinese e altri scritti }« questioni in439 theodor w. adorno, Il fido maestro sosti­ terntzionali 19241)40. tuto. Studi sulla comunicatone della mu­ sica. 467 lionello venturi, Le via dell’Impressio­ nismo. Da Manet a Cézanr.e. 440 michele PANTALEONE, Antimafia: occasio­ ne mancala. 468 Leonardo sciascia, La corda’pazza. Scrit­ tori t cose della Sicìlii. 441 GISELA M. A. RICHTER, L'arte greca. 469 Ernst h. gombrich, A cavallo di un ma­ 442 Arnold Hauser, Le teorie dell'arte. Ten­ nico di scopa. Saggi di teoria dell’arte. denze e metodi della critica moderna. 470 Enrico fvbini, Gli enciclopedisti e la mu­ 443 William hinton, Fansben. Un villaggio sica. cinese nella rivoluzione. 471 nuto revell:. L’ultimo fronte. Lettere di 444 Vittorio strada. Tradizione e rivoluzione soldati caduti o dispersi nella seconda nella letteratura russa. guerra mondiale. 443 mario bortolotto, Fase seconda. Studi 472 danco montaldi, Militanti politici di sulla Nuova Musica. base. 446 Jacques m. vergès. Strategia del proces­ 473 I fratelli di Sdedcd. Lettere dal carcere so politico. di George Jackson. 447 nikolaus PEYSNER, L’architettura moder­ 474 bruno zevi, Saper sedere l’urbanistica. na e il design. Da 'William Morris alla Ferrera di Biagio Rossetti, la prima città Bauhaus. modirna europea. 448 carl th, dreyer, Gesù. Racconto di un 473 karcl górski, L'Ordine teutonico. Alle film. origini dello stato prussiano. 449 PAUL rozenberg, Vivere in maggio. 476 Frederick antal, Studi su Fuseli. 430 jane jacobs, Vita e morie delie grandi cit­ 477 robeit havemann, Domande Risposte tà-. Saggio sulle metropoli americane. Domtnde. Autobiografia di uno scienzia­ 431 NORMAN COHN, Licenza per un genocidio. to marxista. I «Protocolli degli Anziani di Sion»: sto­ 478 paolo fossati, L'immagine sospesa. Pit­ ria di un falso. tura c scultura astratte in Italia, 1934-40. 452 Maurice blanchot, Il libro 1! venire. 479 sì mone de beauvoir, La terza età. 433 GIAN Carlo ROSCIONI, La disarmonia pre­ 480 FELIJ KLEE, Vita e opera di Paul Klee. stabilita. Studio su Gadda. 481 Claudio macris, Lontano da dove. Jo­ 434 leonard R. palmer, Minoici e micenei. seph Roth e la tradizione ebraico-orien­ L’antica civiltà egea dopo la decifrazione tale. della lineare B. 482 bobbi SEALE, Cogliere l’occasione! La sto­ 433 MICHELE PANTALEONE, Mafia e politica ria d:l Black Paniher Party e di Huey P. 1943-1962. Newton. 436 PAUL phiuppot, Pittura fiamminga e Ri­ 483 alangardiner, La civiltà egizia. nascimento italiano. 484 VINCENZO DI benedetto, Euripide: teatro 437 GEORGE c. VAILLANT, La civiltà azteca. e società. Nuova edizione riveduta a cura di Susan483 franco corderò, L'Epistola ai Romani. nah B. Vaillant. Antnpologia del cristianesimo paolino. 438 GIOVANNI ROMANO, Casalesi del Cinque­ 486 Philippe jullian, Ostar Wilde. cento. L’avvento del manierismo in una città padana. 487 franses A. yates, L’arte della memoria. 439 vance Packard, Il sesso selvaggio. 1 rap­ 488 roman ghirshman, La civiltà persiana an­ porti sessuali oggi. tica. 460 MASSIMO L. SALYADORI, Gramsci e il pro­ 489 v. gosdón childe, L’alba della civiltà eu­ blema storico della democrazia. ropea.

434

,

461

frase

490 L. N. GL'MILEV, Gli Unni. Un impero di nomadi antagonista dell'antica Cina. 491 allen ginsberg, Testimonianza per il .processo di Chicago, 1969. 492 jean-luc godard, Cinque film-. Fino al­ l’ultimo respiro, Questa è la mia vita. Una donna sposata. Due o tre cose che so di lei, La Cinese. 493 Vittorio lugli, La cortigiana innamorata e altri saggi. 494 F. w. d. deakin, La montagna pii aita. L’epopea dell’esercito partigiano jugo­ slavo. 493 William hlnton, Buoi di jerro. La rivo­ luzione nell’agricoltura cinese. 496 basil Davidson, La civiltà africana, intro­ duzione a una storia culturale dell’Africa. 497 Francis donald klingender, Arte e rivo­ luzione industriale. 498 bjorn kurtén, Non dalle scimmie. 499 Antonio faeti, Guardare le figure. Gli il­ lustratori italiani dei libri per l’infanzia. 300 c. w. ceram, Il primo americano. Archeo­ logia e preistoria del Nordamerica. 301 monello venturi,.Il gusto dei primitivi. 302 paolo fossati, Il design in Italia 19431972. 303 samuel mines, Gli ultimi giorni dell’u­ manità. Sopravvivenza ecologica o estin­ zione. 304 ernst H. gombrich, Norma e forma. Stu­ di sull’arte del Rinascimento. 303 Vladimir markov, Storia del futurismo russo. 306 edgar snow. La lunga rivoluzione. 307 aldo pomini. Il ballo dei pescicani. Sto­ ria di un forzato. 308 Danilo dolci, Chissà se i pesci piangono. Documentazione di un'esperienza educa­ tiva. 509 alexander

werth,

L'Unione Sovietica nel

dopoguerra 1943-1948. 310 bruno zevi, Spazi dell’architettura mo­ derna. 311 luigi Salvatorelli, Vita di san France­ sco d'Assisi. 312 gOnter grass, Viaggio elettorale. Discor­ si politici di uno scrittore. 313 gustave glotz. La Città greca. 314 angelo maria ripeluno, Praga magica. 315 Antonio GHiRELLi, Storia di Napoli. 316 bertolt brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte. 317 Gillo dorfles, Dal significato alle scelte. 318 Nadar. Testi di Nadar, Jean Prinet e Antoinctte Dilasser, Lamberto Vitali. Con 100 fotografìe di Nadat c altri documenti.

GRISERI e Roberto GABETO, Ar­ chitettura dell’eclettismo. Un saggio su G. B. Scheilino. 320 ugo duse, Gustav Mahler. 321 LUIS bunuel, Sette film: L’età dell’oro, Nazarin, Viridiana, L'angelo sterminatore, Simone del deserto, La via lattea, Il fascino discreto della borghesia. 322 Luciano bellosi, Buffalmacco e il Trion­ fo della Morte. 323 c. P. fitzgerald, La civiltà cinese. 324 cesare erandi, Teoria generale della cri­ tica. 323 Sergio solmi, Saggio su Rimbaud. 326 Giuseppe galasso, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’Impero romano a oggi. 327 elaine Morgan, L’origine della donna. 328 H. r. hays, Dalla scimmia all’angelo. Due secoli di antropologia. 329 tomàs maldonado, Avanguardia e razio­ nalità. Articoli, saggi, pamphlets, 1946319

Andreina

1974-

330 vance Packard, Una nazione di estranei. schwarz, La Sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche. 332 Arnold schoenberg, Analisi e pratica mu­ sicale. Scritti 1909-1930. 333 Federico fellini, Quattro film: I Vitel­ loni, La dolce vita, 8‘/2, Giulietta degli spiriti. 334 gianni rondolino, Storia del cinema d’a­ nimazione. 333 frances fitzgeralp, Il lago in fiamme. 336 j. innes mille*, Roma e la via delle spe­ zie. Da! 29 a. C. al 641 d. C. 337 wilfrid mellers, Musica nel Nuovo Mondo. Storia della musica americana. 338 gustave glotz, La civiltà egea. bertolt brecht, Scritti teatrali. 339 I. Teoria e tecnica dello spettacolo 1918331

arturo

1942.

340 II. * L'acquisto dell’ottone», «Breviario di estetica teatrale» e altre riflessioni I937-I9}6. ■341 ìli. Note ai drammi e alle regie. 342 robert jungk. L’uomo del millennio. 343 P. A. ALLUM, Potere e società a Napoli nel dopoguerra. 344 JULLAN beck, La vita del teatro. L’artista e la lotta del popolo. 343 William hinton. La guerra dei cento giorni. Rivoluzione culturale e studenti in Cina. carlo ragghianti, Arti della visione. 346 I. Cinema. 347 n. Spettacolo.

GIAN Carlo ferretti, •Officina». Cultu­ 376 igor' stravinsky e robert craft, Collo­ ra. letteratura e politica negli anni eia qui con Slravinskr quanta. e 577 mario mieli, Elementi di critica omoses­ 349 eryctn panofsky.Studi di iconologìa. I te­ suale. mi umanistici nell'arte del Rinascimento. 378 mario isnenghi, Giornali di trincea( 1915550 luigi magnani, Beethoven nei sud qua­ 1918). derni di conversazione. 579 Giorgio agamben, Stanze. La parola e il 551 susan sontac, Interpretazioni tendenzio­ fantasma nella cultura occidentale. se. Dodici temi culturali 580 yvonne kapp, Eleanor Marx. 552 Frederick antal, Classicismo e romanti­ 1. Vita famigliare (1855-1883). cismo. 381 Georges duby, La domenica di Bouvines. 533 lalla romano, Lettura di un'immagine. 27 luglio 1214. 554 lionello venturi, Come si comprende la 582 luigi longd, Continuità della Resistenza. pittura. Da Ciotto a Ckagall. 548

355

Roberto

gabetti

e

careo

olmo.

Le

Cor-

583 ARNOLD HAUSER, Sociologia

dell’arte. I. Teoria generale. II. Dialettica del creare e del fruire. in. Arte popolare, di massa e d'avanguar­ dia.

busier e « L'Esprit Nouveau ». 556

pirrotta, Li due Orfei. Da Polizia­ no a Monteverdi.

nino

portinari, Le parabole del reale: Romanzi italiani dell'Ottocento.

557 FOLCO 558 559 560

alpatov, Le icone russe. Proble­ mi di storia e d’interpretazione artistica. Edoardo sanguineti, Giornalino 19731973romano bilenchi , Amici. Vittorini, Rosai e altri incontri. michail

561 Nicola chiaromonte, Scritti

sul teatro. Marco Cavallo. A cura di Giuliano Scabia. Una esperienza di animazione in un ospe­ dale psichiatrico. 563 gillo dorfles, Il divenire della critica. 564 luigi aurigemma, Il segno zodiacale del­ lo Scorpione nelle tradizioni occidentali dall’antichità greco-latina a! Rinascimento. 565 roger gentis, Guarire la vita.

5S4

Il romanzo della vita. 567 Johannes brOndsted , 1 Vichinghi. 568 c. A. burland, Monlezumi signore degli Aztechi. 569 r. w. hutchinson, L'antica 570

cesare

571

luigi

brandi,

ranea. magnani,

civiltà cretese. Scritti sull’arte contempo­ Goethe,

Beethoven

e

il

demonico. 572 Federico zeri, Diari di lavoro 2. 373 edgar snow, La mia vita di giornalista. Un viaggio attraverso la storia contempo­ ranea. 574

Francesco arcangeli, Dal romanticismo all'informale. I. Dallo «spazio romantico» al primo Novecento. II. Il secondo dopoguerra. 575 II melodramma italiano dell’Ottocento Studi e ricerche per Massimo Mila.

B.

saarinen,

I

grandi

collezionisti

585 Antonio ghirelli, Napoli italiana. 586

paolo

matthiae,

Ebla. Un impero ritro­

vato. Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana.

557 Ludovico zorzi,

solmi, Saggi sul Fantastico. Dal­ l’antichità alle prospettive del futuro.

558

Sergio

589

ernst

562

566 Albert ducrocq,

aline

americani.

H. gombrich, Immagini simboliche. Studi sull'arte nel rinascimento.

salvatore settis, La « Tempesta» inter­ pretata. Giorgione, i committenti, il sog­ getto. 591 BERNHARD PAUMGARTNER, Mozart. 590

592 albe steiner, Il

mestiere di grafico.

ripellino, Saggi ir, forma di badate. Divagazioni su temi dì lettera­ tura russa, ceca e polacca. 594 luigi magnani, La musica in Proust. 595 Giovanni previtali, La pittura del Cin­ quecento a Napoli e nel vicereame. 596 Uno sguardo privato. Memorie fotogra­ fiche di Francesco Cbigi. A cura di Èva Paola Amendola. 597 jean-paul Aron, La Francia a tavola dal­ l’Ottocento alia Belle Epoque. » 59 8 ANACLETO Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino. , 599 FÉLEX GUATTARI, La rivoluzione moleco­ lare.

593

angelo

maria

Lire 7000 («ó03)