La rivoluzione liberale: saggio sulla lotta politica in Italia


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La rivoluzione liberale: saggio sulla lotta politica in Italia

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PIERO GOBETTI

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LA RIVOLUZIONE

LIBERALE

SAGGIO SULLA LOTTA POLITICA IN ITALIA

Con un saggio introduttivo di Gaspare De Caro.

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40. Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia. Con un saggio introduttivo di Gaspare De Caro.

«Un libro di teoria liberale, pensato e scritto

secondo un piano organico, che, mentre appare come una storia degli uomini e delle idee di questi anni, vorrebbe pur significare un programma positivo e un’indicazione di metodi di studi e d’azione ». Cosî Gobetti presentava nel 1924, col medesimo titolo della rivista settimanale che dirigeva a Torino da due anni, il lungo saggio La rivoluzione liberale, edito a Bologna da Cappelli, avvertendo di non attendersi «dei lettori ma dei collaboratori». Una preoccupazione essenzialmente pratica, dunque, la prospettiva di un intervento immediato nella situazione creatasi alla vigilia del « delitto Matteotti », ancora apparentemente aperta, con il fascismo ormai rivelatosi tutt’altro che un fenomeno effimero e tuttavia non ancora vittorioso in modo definitivo, induceva Gobetti a riproporre organicamente il nucleo di idee intorno al quale si era andato svolgendo il suo pensiero politico. Ma questa stessa preoccupazione forzava in una direzione nuova una elaborazione politica che si era sino allora accentrata essenzialmente sul problema dei rapporti tra le élites intellettuali e le esperienze di lotta e istituzioni della classe operaia: ora, benché direttamente a esso siano dedicate ben poche pagine del libro, è il fascismo l’oggetto principale della riflessione gobettiana, la valutazione « degli uomini e delle idee di questi anni » si commisura al « programma positivo » di una convergenza antifascista delle « forze della nuova iniziativa popolare e di ceti dirigenti incompromessi ».. Dal saggio introduttivo di Gaspare De Caro

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Nuova Universale Einaudi

40

© 1964 Giulio Einaudi editore S. p. A., Torino

Piero Gobetti

LA RIVOLUZIONE LIBERALE SAGGIO

SULLA

LOTTA

POLITICA

Con un saggio introduttivo di Gaspare De Caro

Giulio Einaudi editore

1964

IN ITALIA

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SAGGIO

INTRODUTTIVO

« Un libro di teoria liberale, pensato e scritto secondo un piano organico, che, mentre appare come una storia degli uomini e delle idee di questi anni, vorrebbe pur si-

gnificare un programma positivo e un’indicazione di metodi di studi e d’azione ». Cosî Gobetti presentava nel 1924, col medesimo titolo della rivista settimanale che dirigeva a Torino da due anni, il lungo saggio La rivoluzione liberale, edito a Bologna da Cappelli, avvertendo di non attendersi « dei lettori ma dei collaboratori » (p. 192). Una preoccupazione essenzialmente pratica, dunque, la

prospettiva di un intervento immediato nella situazione creatasi alla vigilia del « delitto Matteotti », ancora apparentemente aperta, con il fascismo ormai rivelatosi tut-

t’altro che un fenomeno effimero e tuttavia non ancora vittorioso in modo definitivo, induceva Gobetti a riproporre organicamente il nucleo di idee intorno al quale si era andato svolgendo il suo pensiero politico. Ma questa stessa preoccupazione forzava in una direzione nuova una elaborazione politica che si era sino allora accentrata essenzialmente sul problema dei rapporti tra le élites intellettuali e le esperienze di lotta e istituzionali della classe operaia: ora, benché direttamente a esso siano dedicate ben poche pagine del libro, è il fascismo l’oggetto principale della riflessione gobettiana, la valutazione « degli

uomini e delle idee di questi anni » si commisura al « programma positivo » (p. 192) di una convergenza antifasci-

sta delle « forze della nuova iniziativa popolare e di ceti dirigenti incompromessi » (p. 191).

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Non c’è dubbio che in questa nuova prospettiva vada parzialmente perduto quanto c’era di più originale e fecondo nella primitiva impostazione gobettiana, la vigorosa unilateralità dell’assunzione delle esperienze politiche della classe operaia Fiat come paradigma di un rinnovamento della teoria e della prassi del liberalismo; la formula di «rivoluzione liberale» viene ora piegata a implicazioni nuove, in parte incongruenti al primitivo significato, acquista ulteriormente quello di una individuazione nelle più lontane direzioni dei fermenti libertari da valorizzare in funzione antifascista. Riaffiorano cosî nel libro le istanze disparate di una cultura politica eterogenea, di cui Gobetti aveva cominciato a liberarsi al vaglio del suo più personale pensiero. Ma, nello stesso tempo, vi rimane l’eco — e qualche frammentario, ma importante, tentativo di sviluppo — della prospettiva politica originaria. Con questa duplicità di motivi La rivoluzione liberale doveva necessariamente risultare un’opera ambigua, e una lettura adeguata di essa si affida soprattutto a una sua esatta collocazione nello sviluppo del pensiero gobettiano. In definitiva essa è un episodio nell’intenso travaglio di pensiero dello scrittore torinese, una sintesi programmaticamente provvisoria che ha la sua ragione in un impegno politico immediato: quando la sconfitta dell’antifascismo si manifesterà inevitabile, quando il fascismo apparirà chiaramente destinato a «durare », Gobetti riprenderà — già fuori dei limiti del libro — i motivi essenziali del suo originario discorso e tornerà a proporre la prospettiva di una maturazione politica della classe operaia come «la chiave di tutta la storia europea futura » '. Seguire lo svolgimento del pensiero gobettiano dalla ! Operai e industria moderna, in «La Rivoluzione Liberale», Iv (1925), p. 161; ora in Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino 1960, p. 908,

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sua prima fase democratica e liberista alla formulazione del concetto di « rivoluzione liberale », al ripiegamento moralistico dell’antifascismo, sino alle ultime pit feconde conclusioni, può costituire dunque la migliore introduzione a una lettura del testo che non tradisca quanto può esservi ancora di vitale. La prima esperienza politica gobettiana — corrispon-

dente alla pubblicazione della rivista « Energie Nove », negli anni 1918-20 — si muove sostanzialmente nell’ambito ideologico e programmatico dell’« Unità » salveminiana e della Lega democratica pet il rinnovamento della politica nazionale: un’esperienza, dunque, di astratto e moralistico liberismo, al quale sfuggono completamente i termini nuovi del rapporto industria-Stato proposti dal più alto livello produttivo raggiunto con la guerra; un’esperienza legata ancora ai miti umanitari del meridionalismo e della democrazia agraria, plurisecolare miraggio della disoccupazione intellettuale italiana; un’esperienza, infine, sulla quale grava pesantemente e pateticamente il complesso di colpa dell’interventismo democratico strumentalizzato dai nazionalisti. e dai fratelli Perrone. Ma è, in sostanza, una breve e non decisiva esperienza. O almeno è decisiva soltanto in quanto il fallimento del più cospicuo tentativo di organizzazione politica degli unitari liberò definitivamente Gobetti dalle illusioni razionalistiche e dalle pretese illuministiche della sinistra democratica, inducendolo a proporsi in termini nuovi il problema di un intervento nella lotta politica che si sostanziasse di un rapporto non illusorio con le forze sociali protagoniste di essa. Soltanto più tardi Gobetti teorizzò il proprio distacco da Salvemini, spingendo la sua critica sino a coinvolgere il problemzismo nella medesima responsabilità attribuita a tutte le « teorie liberali elaborate nell’ultimo cinquantennio » (p. 48), di alimentare cioè il pregiudizio paternalistico secondo cui sarebbe suf-

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ficiente la conoscenza delle questioni tecniche per giudicare e agire in politica, pregiudizio sostanzialmente con-

servatore e illiberale — spiegava — perché riduce il liberalismo a un’arte di governo, ignorandolo come « forza politica e iniziativa di popolo » (p. 49). Ma che sin d’ora Gobetti cominciasse a regolare i propri conti con la 2entalità democratica appare chiaramente dal fatto che già in «Energie Nove » egli prese a guardare a una ben più costruttiva esperienza, alla rivoluzione russa. Sono pagine, quelle che egli scrisse in proposito tra il 1919 e il 192r', di cui sarebbe difficile sopravvalutare l’importanza nella formazione del suo nuovo pensiero; è anzi indiscutibile (tra l’altro un suo schema di storia russa del 1921 fu significativamente intitolato Ur carzpo sperimentale) che proprio nella paradossale e stimolante interpretazione dell’opera bolscevica come « un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo » (Paradosso, p. 222)

comincino a definirsi le linee essenziali di « una elaborazione politica assolutamente nuova » “, fondata sulle due intuizioni centrali della recessità politica della «civiltà capitalistica » e della possibilità economica di una gestione operaia di essa, là dove la borghesia sia troppo debole e disgregata per assumersi o conservare la direzione dei rapporti di produzione. In una critica che preannunzia chiaramente quella posteriore alla tradizione democratica italiana, da Mazzini a Salvemini, Gobetti scopre l’inconsistenza politica dell’intellighenzia, della pretesa di « rivestire di una funzione politica una classe intellettuale, nutrita di valori mistici, sognante il mito della pura razionalità, miserevolmente priva di ogni capacità d’azione » (ivi, p. 207). E agli idea1 Cfr. Paradosso dello spirito russo, Torino 1926; e Scritti politici cit., pp. 138 sgg., 197 Sgg. 2 I miei conti con l’idealismo attuale, in «La Rivoluzione Liberale», II (1923), p. 5; ora in Scritti politici cit., p. 445.

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li nebulosi, alla metafisica giusnaturalistica dei democratici, «che tengono il popolo fuori del mondo e del reale » (ivi, p. 39), alla proposta dei populisti di una democrazia agraria che dissolve il contadino nella sua comunità e lo sottomette alla terra, Gobetti contrappone l’esperienza bolscevica che, identificando realtà e forza, vita e

individualità economica, in nome del marxismo (« per gli operai la prima forma di vita soggettiva, di vita per loro stessi » [ivi, p. 208], dice Gobetti con Trotzki) esalta per la prima volta in Russia i valori borghesi della volontà e della individualità. Appoggiandosi sui marinai di Pietrogrado per il colpo di Stato, sulla minoranza operaia per la organizzazione prima dei dirigenti, attraverso una crisi necessaria, nella quale soltanto «c’era la possibilità di liquidare insieme, come elementi attivi della storia, lo czarismo e l’utopia degli astratti ragionatori » (ivi, p. 222), i bolscevichi hanno affrontato il problema di promuovere la formazione di una nuova classe dirigente, la costituzione di un ordine nuovo. « Distrutti dalla storia i loro primi propositi e programmi [Lenin e Trotzki] si sono rinnovati con il popolo tutto. Sono passati dall’anarchia alla statolatria tentando ogni cosa. Ma certo il popolo russo ha cominciato in questi anni a formarsi una coscienza politica [...]. L’opera di Lenin e di Trotzki rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esalta-

zione di liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo. È morto lo czarismo, e la mentalità czarista. La Russia si eleva

al livello della civiltà dei popoli occidentali »'. Questa esperienza « soltanto per necessità tattiche e per esigenze storiche [...], in un paese come la Russia, patria del 72îr, adoratrice di ogni forma di comunità, deve prendere il 1 Esperimenti di socialismo, in «Energie Nove», Il (1919), p. 139; ora in Scritti politici cit., p. 151.

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nome e talvolta anche le apparenze di opera socialista » ': in effetti i bolscevichi creano « nell’aspettazione comunista, le aspettazioni e i propositi di una civiltà capitalistica» (ivi, p. 195).

Gobetti fu ben consapevole della possibilità di trasferire le intuizioni storico-politiche che erano alla base di questa interpretazione della rivoluzione russa a quella di tutta la società contemporanea: di qui la necessità che egli avverti di elaborare una metodologia capace di giustificarle e generalizzarle. Egli affrontò questo compito con gli strumenti che la situazione della cultura politica italiana del tempo gli metteva a disposizione (Marx letto attraverso Labriola, Croce e Mondolfo; Sorel, Mosca e Pareto, ecc.), e qui sono indubbiamente i limiti maggiori del suo esperimento che nei suoi risultati non potrebbe utilmente essere riproposto fuori della situazione in cui si collocò, ma che senza dubbio è di essa una delle espressioni più vitali. In costante polemica con i miti ugualitari della democrazia egli si sforza di collegare la sua posizione a una tradizione di pensiero « autenticamente » liberale, di un liberalismo che « non è mai stato conser-

vatore » ‘; in realtà, fuori di questo riferimento polemico, la sua è — come egli stesso ebbe a dire — «una elaborazione politica assolutamente nuova », in cui il liberalismo supera se stesso e la propria atrofizzata dialettica nel tentativo di rinnovarsi a contatto con le necessità nuove del capitalismo e con le esperienze rivoluzionarie del movimento operaio.

Il tentativo metodologico di Gobetti si venne via via chiarendo come necessità di « mettere audacemente d’accordo i due concetti di élite e di lotta politica », svilup1! Trotzki, in «Il Resto del Carlino», 5 aprile 1921; ora in Scritti politici cit., p. 210.

? Liberali e conservatori, in «La Rivoluzione p. 24; ora in Scritti politici cit., p. 277.

Liberale»,

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pando un’interpretazione « democratica e liberale » del pensiero di Mosca e di Pareto, la cui dottrina della classe politica « avrebbe potuto illuminare i significati della lotta nel campo sociale se fosse stata connessa più direttamente con le condizioni della vita pubblica e con il contrasto storico dei vari ceti» (p. 49). Sino a che il fascismo non lo obbligò, di fatto, ad accantonare questa sua problematica, Gobetti lavorò a chiarire le implicazioni di questa impostazione metodologica, alla quale lo studio della rivoluzione russa apportò ancora un contributo essenziale. È infatti al confronto con l’opera dei bolscevichi che si concreta il paradigma di lotta politica che egli va meditando sulla base della sociologia di Mosca e di Pareto, il concetto cioè (formulato più tardi, ma implicito in tutta la sua ricerca degli anni 19191921) di una élite che agitando un «mito operoso » e

sfruttando «una rete d’interessi e condizioni psicologiche generali » s'impone « contro vecchi dirigenti che hanno esaurito la loro funzione »: concetto « schiettamente liberale come quello che scopre nel conflitto sociale la prevalenza degli elementi autonomi e delle energie reali, rinunciando all’inerzia di quelle ideologie che si accontentano di avere fiducia in una serie di entità metafisiche come la giustizia, il diritto naturale, la fratellanza dei popoli » (p. 49). Cost pure l’idea di un processo democratico di genesi dell’élite, nel quale «il popolo, anzi le varie classi offrono nelle aristocrazie che le rappresentano la misura della loro forza e della loro originalità » (p. 49), dando luogo a uno Stato che non è tirannico perché vi hanno contribuito i liberi sforzi dei cittadini, è scoperta in atto nell’organizzazione dei soviet: « L'importanza del soviet, — scrive Gobetti, — è nel suo carattere di organizzazione che procede dal basso, espressa nel seno stesso della classe operaia raccolta nella fabbrica, capace di offrire una for-

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ma di coesistenza e di collaborazione di tutti gli elementi produttivi» (Paradosso, p. 222). Il soviet è « l’organo essenziale che può condurre operai e contadini ad una esperienza politica, sempre commisurata alla loro crescente maturità » (ivi, p. 210). Esso è lo strumento con il quale si risolve immediatamente, fuori di ogni astrattismo ugualitario, il problema della libertà, in quanto questa non è proclamata per legge, ma è conquistata dai cittadini « nella stessa misura in cui singolarmente ne possono avere responsabilità » (ivi, p. 210). Di qui il valore liberale della dittatura del proletariato «come governo che non nasce dall’indifferenziato popolo, ma da quella parte di popolo che sente la responsabilità pubblica » (ivi, pp. 209-10); perciò lo statalismo russo non è burocratico accentramento, ma coincide con la libera attività dei cittadini; autorità e disciplina non sono valori che si contrappongano a quelli di autonomia e di libertà, perché «l’autorità del governo coincide con l’iniziativa che viene dal basso » (ivi, p. 229). A giustificare la traduzione del nuovo paradigma liberale dal campo sperimentale della rivoluzione russa nella situazione contemporanea italiana che, Gobetti lo vede bene, si situa in un contesto storico assai diverso da quello in cui operano i bolscevichi, come momento nazionale di uno specifico sviluppo borghese della società occidentale, è rivolto lo scritto La borghesia, del settembre 1921. Si tratta di un tentativo senza dubbio notevole,

seppure appena abbozzato e teoricamente approssimativo, di recuperare al discorso politico il terreno storico reale dello sviluppo capitalistico, di derivare una proposta politica dall’individuazione delle oggettive necessità ! Fu pubblicato nel quindicinale vicentino «Volontà», il 30 settembre 1921, e successivamente ripreso nella «Rivoluzione Liberale», 1 (1922), p. 13; ora in Scritti politici cit., pp. 261 sgg. Cfr. anche qui,

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dell’organizzazione produttiva nella visione dinamica dei suoi successivi livelli storici. Gobetti distingue due momenti nella storia del « mondo moderno nato dalla rivoluzione francese », che «in senso generico » si può definire borghese: in un primo momento «l’economia si fonda sul liberismo, la politica sul liberalismo, la concezione filosofica è immanentista e critica; la morale è attivistica e realistica; la logica è

dialettica »; in un successivo « processo di corruzione il liberismo diventa socialismo di Stato; il liberalismo si fa

democrazia demagogica o nazionalismo di transazione: il criticismo si dissangua nel positivismo e nel sensismo, la dialettica perde ogni suo nerbo nell’eristica e nella retorica». Un terzo momento si prepara nell’ascesa del movimento operaio che « ha col più formidabile paradosso negato in teoria la sua funzione nella società presente: in uno sforzo tanto più gigantesco quanto più, in apparenza,

impotente (data l’umile condizione spirituale dei proletari) ha acconsentito a identificare la civiltà presente con la classe avversaria: ed ha affrontato la responsabilità di

creare una civiltà nuova ». Ma, dice Gobetti, « il valore ri-

voluzionario degli operai è nella loro possibilità di essere più vigorosamente borghesi (come produttori), oggi che molti industriali più non sanno adempiere la loro funzione di risparmiatori e intraprenditori. Poiché il sistema borghese, nella sua realtà ideale anticattolica, e nella sua validità di produzione industriale, non s’avvia verso il tramonto: attende anzi di essere più perfettamente realizzato da una élite nuova (anche se l’élite nuova dovesse

essere la dittatura del proletariato) [....]. I piani illusori, le pretese sociologiche del socialismo e del comunismo

intanto si faranno concreti in quanto si proporranno il

problema specifico dell’eredità della società borghese. Il mito marxista, nella sua temerarietà, avrà saputo far degni i proletari di questo compito... »

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L’ambigua esperienza torinese dei consigli di fabbrica sembra offrire a Gobetti la migliore verifica della validità della sua impostazione nella situazione italiana. Se da una parte, infatti, i consigli esprimono un’esigenza di rottura rivoluzionaria che non ha precedenti nella storia della classe in Italia, dall’altra, riproponendo il vecchio schema — mutuato dall’esperienza borghese — della rivoluzione operaia come coronamento politico di un già conseguito potere economico, sembrano oggettivamente ri-

condurre tale esigenza tutta dentro il capitale, sino a offrire una soluzione alle necessità nuove di direzione e di organizzazione del sistema: i consigli, infatti, non organizzano la classe operaia în quanto tale, ma si rivolgono agli operai in quanto produttori, propongono una nuova organizzazione degli operai in quanto forza lavoro, lavoro produttivo; riproducendo nella loro struttura di squadra, di reparto, di officina l’organizzazione della produzione di capitale, ricomponendo intorno a questa l’iniziativa autonoma di tutti gli operai come le vecchie commissioni interne non riuscivano più a fare, essi si presentano, secondo l’obiezione di Serrati, assai più come « organi fecnici della produzione e dell'ordinamento industriale » ! che come organi politici della classe operaia contro il capitale, mentre la stessa conquista del potere politico è intesa dall’« Ordine Nuovo » come gestione operaia del capitale « per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività » È. Con tutta l'apparenza della legittimità Gobetti può dunque formulare la sua valutazione dei consigli come strumenti di una nuova economia sorgente « dalle viscere ! Nell’articolo, a firma «Il comunista», numero del 15-30 dicembre

I corzitati di fabbrica, nel

1919 di «Comunismo».

? Per un rinnovamento del Partito socialista, in «L'Ordine Nuovo», II (1920), n. 1, p. 3; ora in A. GRAMSCI, L'Ordine Nuovo, Torino 1954, p. 117.

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stesse del movimento operaio » ', imposta dall’insubordinazione operaia e perciò inevitabile, anche se l’occupazione delle fabbriche si è rivelata economicamente disastrosa: infatti « l’organizzazione antica dell’industria non appaga pi gli operai che la intralciano, sicché essa pure è ugualmente disastrosa » ?. « In questo senso, — può scrivere Gobetti nel novembre del 1920, — la rivoluzione è fatta: e continuerà su questa via. Non sarà contro lo Stato; son gli operai che diventano Stato; questa impressione netta abbiamo riportato a Torino nelle giornate, meravigliose di ordine e di disciplina, dello scorso novembre. Sapranno pure gli operai accogliere e assorbire nell'ordine nuovo la borghesia: ai contadini permetteranno la proprietà privata, come stanno dicendo, lasceranno ai borghesi commerci e impieghi. La loro lotta contro la borghesia è stata circoscritta ormai nei limiti della lotta contro il pescecane (figura mitica e perciò poco reale; ma è servita e serve come sprone all’azione); abbatteranno l’alta borghesia che si è dopo la guerra andata troppo corrompendo. Occuperanno l’industria e, rispettando il fattore tecnico-intellettuale (questi valori ormai sono sentiti anche dagli operai manuali; ora stanno pensando, a Torino, anche al problema del risparmio), la verranno organizzando secondo il sistema dei Consigli di fabbrica, che stanno diventando un organismo più solido che non fosse in Russia. Non istaureranno il comunismo, ma sol-

tanto un regime di dittatura e disciplina del lavoro nell’interno della fabbrica (disciplina che più non possono ottenere i capitalisti). Non andranno più innanzi, anche se i miti e i programmi sono diversi, poiché la storia ha segnato loro il cammino »?. 1 1920; SMI 3

La rivoluzione italiana, in «L’Educazione Nazionale», 30 novembre ora in Scritti politici cit., p. 191. bd pwxo2; Ibid., pp. 193-94.

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Certamente a buon diritto Gobetti poteva definire rivoluzionaria questa sua posizione nei confronti della generale mediocrità del pensiero politico italiano del suo tempo, della gretta ideologia dell’ordine sociale e dell’interesse generale alla quale aveva tutte le ragioni di ridurre la tradizione del liberalismo italiano. Ma il lettore odierno può valutare ancora meglio la modernità e l’importanza del pensiero di Gobetti riconoscendolo come l’interpretazione più avanzata possibile (ancora oggi) del. la funzione storica della classe operaia dal punto di vista del capitale. Operando una distinzione fondamentale tra la direzione formalmente borghese del processo produttivo e il processo materialmente capitalistico della produzione stessa, considerando la prima come una fase storicamente transitoria del secondo, Gobetti intuisce il livello più alto dello sviluppo capitalistico, già previsto e definito da Marx come capitale « sociale», nel quale le categorie borghesi dell’iniziativa individuale e della proprietà privata perdono il loro carattere di funzioni essenziali del capitale e questo, quanto più estende il proprio potere sulla società, tanto più deve riproporre la propria dittatura di classe come dominio dell’intera società (e non più di una élite economica e politica) sulla classe operaia. Sul piano ideologico e degli istituti è il trionfo della democrazia e della « socialità »: al pensiero « borghese » il compito di mistificare questo rapporto rovesciandolo nelle forme di una gestione operaia della fabbrica e dello Stato. In questo senso il concetto di rivoluzione liberale appare come il primo tentativo in Italia di definire un programma di integrazione totale della forzalavoro sociale nel processo di funzionamento del sistema capitalistico, una geniale anticipazione, nelle sue intuizioni centrali, della tematica « neocapitalistica » (0, come altri ama dire senza ironia, « postcapitalistica ») e delle corrispondenti prospettive « democratiche » delle zone ri-

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formistiche del movimento operaio (alla cui elaborazione, durante il periodo dell’antifascismo e della Resistenza, certamente il ricordo di Gobetti non fu estraneo). Quando Gobetti, presentando la sua nuova rivista «La Rivoluzione Liberale », nel 1922, cercò di spiegarsi il fallimento della « grande rivoluzione », riconobbe che l’impulso operaio « non ebbe sistemazione perché la parte sana della nostra classe dirigente non seppe riconoscere il valore nazionale del movimento operaio »*. E per proprio conto si accinse a ripropotre e generalizzare in una prospettiva liberale l’esperienza torinese, a « illumi-

nare gli elementi necessari della.vita futura (industriali, risparmiatori, intraprenditori) ed educarli a questa libertà di visione » ‘. Questo il significato, questo il programma primitivo della « Rivoluzione Liberale », nelle sue linee essenziali, anche se la coesistenza con questa impostazione di alcuni motivi, ad essa inassimilabili, del bagaglio uritario determina incertezze e contraddizioni che hanno indotto la critica storiografica alle più inadeguate interpretazioni della posizione gobettiana. Del resto è lo stesso Gobetti a confermare in più occasioni quale sia l’ispirazione fondamentale del suo pensiero: come quando, per esempio, commentando la sua Storia dei comunisti torinesi, dopo aver sottolineato di essere « forse il solo liberale che abbia seguito e vissuto con animo critico il singolare movimento », avverte che essa vuole essere « essenzialmente una giustificazione teorica » del manifesto programmatico della rivista. Ma le primitive intenzioni di Gobetti furono assai pre1 Manifesto, in «La Rivoluzione Liberale», 1 (1922), p. 2; ora in Scritti politici cit., p. 239.