Un ateo liberale. Religione, politica, società 9788822055101


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Un ateo liberale. Religione, politica, società
 9788822055101

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Alexis de Tocqueville (1805-1859), storico, sociologo e uomo politico francese, rappresenta un classico del pensiero liberale e democratico di tutti i tempi. Da alcune delle sue opere più celebri si coglie la vastità di argomenti sui quali questo grande autore ha lasciato riflessioni che costituiscono, ancora oggi, fonte di insegnamento per le società occidentali. Ma il vero grande nucleo della sua opera monumentale risiede nel complesso e tormentato rapporto fra politica e religione.

Paolo Ercolani (1972) è dottore di ricerca in filosofia e docente incaricato di materie storiche e filosofiche presso l’Università degli studi di Urbino. È studioso del pensiero e delle società liberali, argomento sul quale ha scritto volumi e articoli per riviste specializzate.

ISBN 978-88-220-5510-1

m 20,00 (i.i.)

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Alexis de Tocqueville

Un ateo liberale Alexis de Tocqueville

Religione, politica, società

saggio introduttivo e cura di Paolo Ercolani

La collana ha due serie. La prima (serie rossa) ridà vita a un genere poco frequentato in Italia, il pamphlet, un testo di attualità breve, polemico, propositivo, antiaccademico ma rigoroso. La seconda (serie blu) ripubblica antichi testi liberali, laici, libertini, democratici, dimenticati o occultati dal conformismo del nostro paese.

Un ateo liberale

Il volume raccoglie – per la prima volta in italiano – la summa degli scritti di Tocqueville sulle religioni, con particolare riferimento a quella cristiana. Il lavoro è di notevole interesse poiché l’autore non dimentica mai il contesto storico, inserendo le proprie considerazioni all’interno di eventi fondamentali della storia moderna: il colonialismo (campagna d’India e di Algeria), la Rivoluzione francese, la Restaurazione, l’evento rivoluzionario del 1848 e la Repubblica romana. Sono presenti anche le profonde riflessioni dell’autore sulla questione della certezza o del dubbio, sul travagliato rapporto tra fede e ragione e sul ruolo che la Chiesa deve ricoprire all’interno degli stati liberali. Tutto ciò è impreziosito da quel celebre metodo comparatistico che ha permesso a Tocqueville, com’è accaduto a pochissimi altri autori, di pennellare un ritratto affascinante tanto dell’America quanto dell’Europa.

La collana “Libelli vecchi e nuovi” vuole dare voce ai testi di quel pensiero liberale che da secoli è l’asse portante della modernità del mondo occidentale così contestata da tutti i fondamentalismi. Un pensiero messo all’Indice perché si contrappone all’assolutismo clericale e ai totalitarismi che non tollerano d’essere messi in discussione dal libero pensiero.

libelli vecchi e nuovi edizioni Dedalo

in copertina: Honoré Daumier, gravure contro i preti francesi in lotta con Voltaire.

libelli vecchi e nuovi / 10 collana diretta da Enzo Marzo

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Alexis de Tocqueville

Un ateo liberale Religione, politica, società saggio introduttivo e cura di Paolo Ercolani

edizioni Dedalo 3

La collana “libelli vecchi e nuovi” rappresenta la “biblioteca ideale” di “Critica liberale”, mensile della sinistra liberale pubblicato dalle edizioni Dedalo. [Fondazione Critica liberale, via delle Carrozze 19, 00187 Roma [email protected] – www.criticaliberale.it] Selezione, cura e traduzione dei testi: Paolo Ercolani Collaborazione nella traduzione: Patrizia Calandrini Revisione finale: Paolo Ercolani ([email protected])

© 2008 Edizioni Dedalo srl Viale Luigi Jacobini 5, 70123 Bari www.edizionidedalo.it Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

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Ad Anita, Chiara, Lucio, Milena e Nella, fondamento per la mia avventura di «logonauta»

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Se conoscete una ricetta per credere in Dio, datemela. [...] Se non basta la volontà per credere, ci vorrà molto tempo perché diventi devoto. Le religioni, volendo estendere il proprio potere al di fuori dell’ambito religioso, rischiano di non essere credute in alcun ambito. Se la religione sembra ripugnare allo spirito del nostro tempo per qualcuno dei suoi aspetti, dall’altra parte essa risponde meravigliosamente a parecchi dei bisogni più pressanti della nostra epoca [...]. Le va riconosciuto, essa può esercitare un’influenza costante ed efficace sulla regolarità dei costumi privati e, con ciò, assicurare con forza, seppur in maniera indiretta, la buona condotta dei pubblici affari [...]. Da questo deriva che i popoli liberi hanno sempre riconosciuto di aver bisogno più di tutti gli altri della fede; sebbene i preti si siano mostrati spesso ostili alla libertà, non dimentichiamo mai che la religione le è necessaria. Alexis de Tocqueville

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Il liberalismo degli antichi e dei moderni Religione e politica in Alexis de Tocqueville di Paolo Ercolani

Un agnostico angosciato: la religione come mezzo e non come fine All’interno dell’opera di quella grande personalità umana e culturale che fu Alexis de Tocqueville, l’attenzione per la questione religiosa e il riconoscimento dell’imprescindibile ruolo sociale ricoperto dalla fede e dalla Chiesa, è stata direttamente proporzionale al dubbio lancinante e drammatico rispetto all’effettiva esistenza di un Dio in grado di fornire senso e conforto all’esistenza dell’uomo. Educato fin dalla tenera età secondo i più rigidi precetti della religione cristiana e cattolica, dall’abate giansenista Lesueur, la fede incrollabile di Tocqueville subì un vero e proprio «terremoto» quando questi ebbe la facoltà di allargare i propri orizzonti esplorando la grande biblioteca paterna presso la prefettura di Metz. Qui la lettura di grandi classici del 1700 quali Voltaire, Montesquieu, Buffon, Rousseau, Mably e Raynal minò le certezze del giovane Alexis, fino a instillare in lui il dubbio più radicale e angosciante: egli perse la fede, non soltanto nei confronti della religione adolescenziale, ma di tutte le religioni, all’età di sedici anni, nel 1821, per non ritrovarla mai più1. 1

Cfr. BENOÎT (2007: 18) e BENOÎT (2005: 22, 347-350).

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«La mia vita era trascorsa fino a quel momento piena di una fede che non aveva lasciato penetrare il minimo dubbio nella mia anima», confidava Tocqueville a madame Swetchine, trentacinque anni dopo quello choc che minò alla radice le sue certezze, «in quel momento vi entrò il dubbio o, piuttosto, vi si precipitò con una violenza inaudita, non solo il dubbio di questo o di quello, ma il dubbio universale. Provai all’improvviso la sensazione di cui parlano coloro che hanno assistito a un terremoto»2. Si tratta di quello stesso «dubbio» di cui il filosofo aveva avuto modo di parlare, inserendolo fra le tre prime disgrazie che incombono sulla vita dell’uomo insieme alle «malattie» e alla «morte»3. In realtà va quantomeno citata una querelle che si è aperta rispetto agli ultimi giorni di vita del grande autore. Sua moglie, infatti, fu pronta a giurare che Tocqueville accettò di ricevere la comunione il 6 aprile del 1859, dieci giorni prima di morire. Mentre Beaumont, che ebbe modo di restare al capezzale dell’amico quasi fino all’ultimo, fu altrettanto sicuro nell’affermare che Tocqueville morì pieno di dubbi, rifiutando anzi più volte la comunione con queste precise parole: «Non mi parlate mai di confessione! Mai e poi mai! Giammai mi si farà mentire a me stesso, inducendomi a delle smancerie di fede quando la fede mi manca. Voglio restare me stesso e non abbassarmi a mentire!»4. Gli ultimi momenti della vita di ogni uomo rappresentano qualcosa di troppo intimo e riservato per poter aspirare a delle risposte certe. Soltanto Tocqueville ha sempre 2

Lettera del 26 febbraio 1857, in TOCQUEVILLE (1951 sgg., XV, 2: 315). TOCQUEVILLE (1864-1866, V: 14). 4 Cit. in BENOÎT (2007: 141). REDIER (1925: 290 sgg.) rigetta la testimonianza di Beaumont e mostra un Tocqueville morto nella fede, in pace con Dio e munito dei sacramenti della Chiesa, suffragando la testimonianza della moglie. Dello stesso avviso anche LUKÁCS (1964), che si appoggia su testimonianze assai dettagliate messe per iscritto dai religiosi che hanno assistito Tocqueville negli ultimi giorni di vita. Per una ricostruzione della questione cfr. LAMBERTI (1983: 201-202). 3

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saputo in cuor suo, specie negli attimi appena precedenti il trapasso, e fatta salva la piena capacità di intendere e di volere, lo stato della propria condizione di fede o incredulità. Non è nostra pretesa in questa sede, né ci sembra così importante, cercare una risposta certa rispetto agli ultimi dieci giorni di una vita che è stata straordinaria e prolifica per svariati decenni. Le testimonianze di Tocqueville medesimo, deducibili dalle sue stesse opere scritte in anni di piena lucidità e assenza di paura rispetto a una morte imminente, parlano di un uomo che, pur oltremodo rispettoso della religione e seriamente convinto del grande ruolo sociale della stessa, tuttavia aveva perso quello che alcuni chiamano il grande dono della fede. Si potrebbe citare la frase inequivocabile contenuta in una lettera a Gobineau: «Non sono per nulla credente»5, o quella assai più enfatica e letteraria, sempre in una lettera, stavolta a Corcelle: «Se conoscete una ricetta per credere in Dio, datemela [...]. Se non è sufficiente la volontà per credere, ci vorrà molto tempo perché diventi devoto»6. Del resto, che a partire dalla crisi adolescenziale Tocqueville avesse smesso persino di praticare la religione cui era stato educato da piccolo è un fatto testimoniato dallo stesso abate Lesueur fin dal 1824. All’interno di uno scambio epistolare in cui, di fronte alle manifestazioni di allarme dell’abate, quasi un rimprovero perché Tocqueville non aveva adempiuto al precetto pasquale, il giovane Alexis fece di tutto per evitare un dibattito approfondito sulla fede, che avrebbe rovinato i rapporti con il vecchio precettore, cavandosela con la seguente affermazione: «Io credo, ma non posso più praticare»7. 5

TOCQUEVILLE (1951 sgg., IX: 46). TOCQUEVILLE (1951 sgg., XV, 2: 29). 7 Lettera dell’8 settembre 1824, citata in PIERSON (1938: 17-18). Cfr. anche LAMBERTI (1983: 13). Per una ricostruzione dell’intera vicenda si veda JARDIN (1994: 65-68). 6

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Va anche detto che il crollo delle certezze adolescenziali, con il conseguente sopraggiungere di quel «dubbio» tanto enfaticamente rimarcato da Tocqueville in più occasioni, non si limitò al solo aspetto religioso, ma costituì semmai l’inizio di un’esistenza che da quel momento, e a partire proprio dallo spegnersi della fede, fu caratterizzata da attacchi di angoscia e incertezza quasi costanti rispetto all’intera condizione esistenziale umana8. «Ho finito per convincermi – sono le parole di Tocqueville – che la ricerca della verità assoluta, dimostrabile, come la ricerca della felicità perfetta, era uno sforzo verso l’impossibile. Noi non possediamo che delle verosimiglianze, più o meno. Disperarsi per questa cosa, significa disperarsi per il fatto di essere uomini»9. In quella personalità complessa e fragile che era Tocqueville, il crollo della fede nell’esistenza di una verità assoluta – la verità assoluta per eccellenza è ovviamente Dio – aveva innescato un meccanismo di tormento, dubbio e incertezza rispetto alla globalità della condizione dell’uomo; tanto che un interprete si è spinto a definire la «filosofia di Tocqueville» cartesiana nella sua origine e rispetto alle sue conclusioni principali, e pascaliana rispetto all’angoscia derivante dalla scoperta dei limiti della ragione10. Certamente egli ha sempre professato una specie di «spiritualismo», che non può essere interpretato come un’adesione alla teologia cattolica, ma, semmai, come una vicinanza stretta alla filosofia morale del cristianesimo, tanto è vero che, all’interno della sua opera essoterica, non ha mai trattato il tema della teologia né quello della fede, curandosi soltanto della «funzione politica e morale della religione»11. 8

PIERSON (1938: 682) ha sottolineato il forte attacco di dubbio e angoscia che colse Tocqueville nel 1832, di ritorno dall’America, ma del resto si tratta di episodi costanti rimarcati dallo stesso filosofo lungo tutto il suo epistolario; cfr. TOCQUEVILLE (1951 sgg., XI: 59; XIII, 2: 100; XIII, 2: 106). 9 Cit. in LAMBERTI (1983: 199). 10 LAMBERTI (1983: 201). 11 LAMBERTI (1983: 202).

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Insomma, a un’analisi complessiva ed equilibrata dell’opera del grande autore, e del suo immenso epistolario, non può non venir fuori il ritratto di un Tocqueville «essenzialmente agnostico», rispettoso del Cristianesimo per il fatto che questo ha lanciato delle idee essenziali, ma non per questo credente, cioè capace di aderire fideisticamente a una verità assoluta quale è Dio12. Il punto semmai è un altro. Un punto che genera quella che potrebbe essere ritenuta una contraddizione soltanto a un’analisi superficiale della questione. Il Tocqueville straordinario lettore e interprete di un mondo che stava cambiando, di una Francia (e un’Europa) che si avviava verso un lento, ma inesorabile, processo di disincantamento, secolarizzazione e laicizzazione, in questo anticipando analisi di Durkheim e Weber; ebbene questo stesso Tocqueville è l’autore che pure, con forza e varietà di argomenti, sottolinea l’assoluta necessità della religione e della fede, in particolar modo all’interno delle società democratiche. Malgrado lo smarrimento in prima persona della fede religiosa e della confidenza nella possibilità di una verità assoluta che in qualche modo protegga la condizione dell’uomo, Tocqueville fu un convinto assertore della religione in quanto «preziosa per la libertà politica» e oltremodo utile alle persone nella conduzione della vita privata13. Per lui non era concepibile analizzare una società nel suo sviluppo storico senza tenere in conto il ruolo giocato dalla religione all’interno della medesima società, tanto che, mentre per Nietzsche vi era la necessità morale della morte di Dio, affinché l’uomo, che rappresentava un ponte fra l’animale e il superuomo, potesse infine trascendersi, per Tocqueville, al contrario, né l’uomo né la società potevano fare a meno della 12

In questo modo la pensano, ad esempio, BENOÎT (2007: 9) e BOUDON (2005: 59). Lo stesso Tocqueville, citato da BOESCHE (1987: 186), scrive: «l’unica verità che riconosco come assoluta è che non esiste alcuna verità. Dopo aver scoperto ciò, non darti pena di cercare un’altra verità, perché essa non esiste». 13 BOESCHE (1987: 185, 187).

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fede in Dio: la stessa esperienza della Rivoluzione francese aveva dimostrato che la sostituzione delle forme religiose autentiche con altre forme secolarizzate e ideologiche costituiva un rimedio peggiore del male. L’uomo vive meglio se conferisce al richiamo che sente dentro di sé, all’insoddisfazione esistenziale per la propria finitudine, una dimensione trascendente, per quanto ciò possa sembrare irrazionale. E se l’uomo vive meglio, ciò, per una logica consequenziale stretta, fa sì che anche la società possa condurre un’esistenza più serena e pacificata14. Tocqueville parlò esplicitamente dei forti legami che intercorrono tra le passioni religiose e quelle politiche, entrambe capaci di spingere l’uomo verso la contemplazione di beni immateriali, di animarlo verso il perseguimento di un ideale di società e verso un’idea di perfettibilità della specie umana: Per parte mia concepisco con più facilità un uomo animato contemporaneamente, e al medesimo grado, dalle passioni religiose e da quelle politiche, che non, per esempio, dalle passioni politiche e da quelle per il benessere. Le prime due possono convivere ed essere legate all’interno dello stesso spirito, ma non le seconde due15.

Questa visione della religione come funzionale alla condotta della vita privata e pubblica dell’uomo, ai valori e ai costumi tanto dell’individuo quanto della società, ha condotto un interprete di Tocqueville a scrivere che egli «fu chiaramente interessato alla religione in quanto mezzo e non come un fine: il suo obiettivo era la politica, una politica dell’uomo libero che trovasse il proprio mezzo più congeniale ed efficace nel cattolicesimo romano con i suoi dogmi e la sua disciplina»16. Non c’è dubbio, Tocqueville aveva una visione strumentale della religione, cui da una parte attribuiva il ruolo 14

Cfr. BENOÎT (2007: 25). Cit. in BOESCHE (1987: 256-257). 16 REDIER (1925: 55) e ZETTERBAUM (1967: 116). 15

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di rinforzare la stabilità morale e sociale di una società libera, ma al cui sistema di credenze si guardò bene dall’aderire, perlomeno fino agli ultimissimi giorni della sua vita, scegliendo di darlo per generalmente accettato in vista delle importanti ricadute sul piano politico e filosofico, contribuendo a combattere, in quest’ultimo ambito, quel «materialismo filosofico» che il grande sociologo rubricava tra le grandi cause del dispotismo moderno17. Tale visione strumentale della religione viene confermata anche dall’analisi delle critiche che il sociologo francese decise di muovere contro di essa, rilevando dei difetti che afferiscono inevitabilmente e ancora una volta alla più ampia, e più importante, dimensione politica e sociale. Non a caso la parte più debole del cristianesimo è sempre risieduta, per Tocqueville, nella negligenza rispetto alle «virtù civiche». In una lettera del 5 settembre 1843 a Gobineau scriveva: I doveri reciproci degli uomini in quanto cittadini, gli obblighi del cittadino verso la patria, mi sembrano mal definiti e assai trascurati all’interno della morale cristiana. Qui risiede, mi pare, il punto debole di questa morale ammirevole, in quello che era il punto veramente forte della morale antica18.

La crisi giovanile, l’insorgenza di un dubbio cosmico e angosciato che andava ben oltre i confini ristretti della fede 17 LIVELY (1965: 248-249) e BENOÎT (2007: 23). Queste erano le caratteristiche che Tocqueville attribuiva al nuovo dispotismo: 1) eguaglianza delle condizioni; 2) isolamento derivante dal collasso dei valori della comunità e della tradizione; 3) fiacchezza degli animi; 4) etica dell’egoismo; 5) ossessione di accumulare ricchezza; 6) apatia e indifferenza per la partecipazione politica; 6) centralizzazione del governo; 7) fede o credenza incerte negli ideali; 8) perdita del senso conferito al passato e al futuro. Cfr. BOESCHE (1987: 261). 18 TOCQUEVILLE (1951 sgg., IX: 46). LAMBERTI (1983: 204-205) segue la nostra stessa interpretazione. Del resto si tratta dello stesso modo di procedere adottato da un autore cui Tocqueville si ispirava molto, quel MONTESQUIEU (1748: XXIV, 1, 14) che si proponeva di esaminare tutte le religioni del mondo «in rapporto al bene che se ne trae nello stato civile», consapevole che «la religione e le leggi civili devono tendere principalmente a rendere gli uomini buoni cittadini».

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religiosa, la convinzione, tutta liberale, che fosse impossibile per l’uomo pervenire alla conoscenza di una verità assoluta, la visione strumentale della religione, cui Tocqueville riconosceva un ruolo tanto fondamentale quanto finalizzato al corretto funzionamento della comunità e della società umana, costituiscono tutti aspetti che ci fanno concludere sia nel senso di una netta assenza di atteggiamenti fideistici nel grande pensatore, sia nel senso di una sua sostanziale «adesione esteriore»19 alla religione in senso generale. Un’adesione esteriore che non soltanto mostra la visione strumentale di Tocqueville rispetto alla religione, ma costituisce anche uno degli aspetti nei quali è rintracciabile un residuo di quell’atteggiamento aristocratico che risale alle sue origini. Non a caso, infatti, il grande autore liberale, ne L’Ancien Régime et la Rèvolution, lamentava il diffondersi con la rivoluzione dell’«incredulità assoluta in ambito religioso» (da sottolineare l’uso del termine incrédulité), non limitandosi a considerarla oltremodo «contraria agli istinti naturali dell’uomo», ma specificando che il diffondersi di tale incredulità presso i larghi strati del popolo andava contro l’interesse dei «governi» e di tutti coloro che avevano un personale interesse a «mantenere lo Stato ordinato e il popolo nell’obbedienza»20, sulla scia di un altro grande liberale antirivoluzionario quale Burke e in anticipo rispetto a un non liberale, ma comunque antirivoluzionario, quale Nietzsche21. 19

La felice espressione è di LAMBERTI (1983: 208). TOCQUEVILLE (2002: 1042, 1045). Già CONSTANT (1957: 12191220) distingueva tra alcuni spiriti particolarmente elevati, che evidentemente potevano anche fare a meno del sentimento religioso, e «la massa degli uomini volgari», in cui l’assenza del sentimento religioso provocava una degenerazione morale dannosa per la società: «Non avrei una cattiva opinione di un uomo colto se mi si presentasse come estraneo al sentimento religioso; ma un popolo incapace di tale sentimento mi parrebbe come privato di una facoltà preziosa e diseredato dalla natura». 21 BURKE (1999, v. II: 360), convinto assertore del fatto che il popolo «non deve ritrovarsi sradicati ad arte i princìpi della propria subordinazione naturale», cosa che stava accadendo con la Rivoluzione francese, riteneva di salvaguardare privilegi e proprietà riservati ai pochi 20

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Insomma, quello tra religione e politica, all’interno del pensiero di Tocqueville, ha costituito sempre un nesso tanto inscindibile quanto complesso, tutt’altro che adatto a suggerire conclusioni affrettate e semplicistiche. È quanto avremo modo di cogliere meglio nel prosieguo della nostra analisi, che inizierà con il rapporto fra Tocqueville e le altre religioni che sono state oggetto del suo interesse. Rapporto che, secondo il metodo stesso del grande autore francese, non potrà essere studiato concedendosi all’errore di una separazione tra gli aspetti religiosi e quelli politico-sociali.

L’India e l’induismo L’induismo costituisce senza dubbio, fra le religioni studiate da Tocqueville, quella cui egli riservò il giudizio più severo e inappellabile. Eppure, proprio in questo contesto, emerge come il grande autore francese preferisse la peggiore delle religioni all’assenza di religione, soprattutto in una chiave di lettura che non dimentica mai l’utilità sociale delle credenze di cui abbiamo parlato. Per chiarire questo punto conviene aprire stavolta la Démocratie, precisamente laddove Tocqueville ribadisce ancora una volta l’utilità della religione tanto per il singolo individuo quanto per lo Stato. Sottolineando la «necessità», ben compresa dagli americani, di «moralizzare la democrazia attraverso la religione» (moraliser la démocratie par la religion), Tocqueville vuole arrivare a espriinsegnando al popolo stesso a «consolarsi con gli aggiustamenti finali della giustizia eterna». Per il NIETZSCHE (1878: § 115) teorico dell’utilità della religione in quanto capace di disinnescare il conflitto sociale, «perché in essa l’obbedienza del servo prende le sembianze di una virtù cristiana e viene meravigliosamente abbellita», si vedano le considerazioni di LOSURDO (2002: 268-269, ma anche cap. 14, §§ 4, 5 e cap. 16, §§ 5-7) nella sua monumentale e imprescindibile monografia sul filosofo tedesco.

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mere il concetto secondo cui la democrazia, per sua natura e lasciata senza religione, «favorisce il gusto dei piaceri materiali». Quel materialismo che abbiamo visto essere tanto nettamente avversato da Tocqueville costituiva uno dei mali individuali e sociali che più potevano corrompere e destabilizzare la società umana. Al fine di individuare le armi culturali e sociali per combatterlo, il sociologo francese si esprimeva ancora una volta in maniera inequivocabile: «La maggior parte delle religioni non costituiscono altro che dei mezzi generali, semplici e pratici, di insegnare agli uomini l’immortalità dell’anima»22, ossia l’attenzione, il rispetto e la considerazione di aspetti spirituali, immateriali, così necessari alla vita ordinata tanto degli individui quanto dello Stato. In questo contesto entrava in gioco un primo riferimento all’induismo, in particolar modo alla «metempsicosi», aspetto centrale di questa religione non certo tenuto in gran conto da Tocqueville («Sicuramente la metempsicosi non è più ragionevole del materialismo»), ma comunque preferito all’assenza di religione, incarnata dal materialismo: Se fosse assolutamente necessario che una democrazia facesse una scelta fra le due opzioni [materialismo o metempsicosi], non esiterei un attimo e riterrei che i suoi cittadini rischiano meno l’abbrutimento nel credere che la propria anima si trasferirà nel corpo di un porco che non credendo che essa non è nulla23.

Insomma, se l’assenza di religione conduce al materialismo, il peggiore dei mali per l’uomo, Tocqueville era stato logicamente portato ad affermare che l’induismo, per quanto fondato sulla credenza nella metempsicosi, fosse comunque preferibile all’ateismo, alla perdita di ogni riferimento a un Aldilà, a una trascendenza o principio immateriale24. 22

TOCQUEVILLE (2002: 526-527). TOCQUEVILLE (2002: 527). 24 BENOÎT (2007: 71). 23

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Se le religioni costituiscono un mezzo per distogliere l’uomo dalla considerazione eccessiva dei beni terreni e materiali, patologia in particolar modo tipica dell’uomo dei tempi e delle società democratici, anche un pessimo mezzo quale è l’induismo può avere un senso nell’ambito di questo obiettivo senza tempo e senza confini. Ma da queste considerazioni, abbozzate ai tempi della prima Democrazia, non dovette passare molto tempo prima che Tocqueville pervenisse comunque a un giudizio oltremodo negativo e severo, arrivando a definire l’induismo, con la sua metempsicosi e il suo sistema di caste costituite, come una «religione abominevole, la sola che forse valga meno dell’incredulità»25. All’interno delle sue annotazioni sull’India e l’induismo, infatti, stese a partire dal 1843, quando aveva cominciato a interessarsi alla colonizzazione inglese dell’India, al contatto fra la civiltà indiana e l’impero inglese (in cui il fattore religioso giocò un ruolo determinante per Tocqueville), e che secondo la testimonianza di Beaumont avrebbero dovuto diventare un’opera sistematica nelle intenzioni del grande sociologo, all’interno di queste annotazioni ebbe modo di giungere a un giudizio pressoché inappellabile sulla religione induista26. Dando anche per buona la concezione, espressa da James Mill, secondo la quale le prime idee degli Indù in materia di religione fossero grandi e assai giuste, è comunque cosa certa, scriveva Tocqueville, che nel corso del tempo l’induismo fosse «piombato in mille superstizioni stravaganti e degradanti»27, fino al punto di fargli mettere per iscritto tutto il proprio scetticismo rispetto al fatto che i primi legislatori dell’India «avessero voluto introdurre un

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Cit. in BENOÎT (2007: 75). Cfr. BENOÎT (2007: 73) e TOCQUEVILLE (1864-1866, V: 92-93), per le informazioni di Beaumont. 27 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 507). 26

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culto così abominevole e così assurdo quale è quello che prevale oggigiorno»28. Questa commistione tra un passato tutto sommato glorioso e importante, a fronte di un presente desolante e degenerato, costituisce la cifra portante dell’interpretazione che Tocqueville arrivò a fornire della religione e cultura induiste. «In mezzo a pratiche grossolane e ridicole di questi uomini – annotava ancora una volta il sociologo francese – si manifesta tuttavia l’idea pura e trascendentale della spiritualità dell’anima e della sua superiorità sulla materia», fattore che gli faceva intuire quella che poteva essere una forma di decadenza e corruzione di un’antica dottrina filosofica molto più perfezionata e lineare nella sua origine29. Il giudizio di Tocqueville, ossia quello di una religione che gli pareva incarnare la più «singolare mescolanza» tra alcune nozioni filosofiche «sublimi», incorporate a una «massa di grossolane assurdità», è ancora una volta legato alla sua visione strumentale della religione, che in questo caso gli faceva vedere con un occhio più benevolo tutti quegli aspetti della cultura induista che promuovevano valori spiritualistici e metafisici all’interno dell’animo degli individui, mentre lo conducevano a una condanna sprezzante e senza appello di quegli aspetti di «idolatria condotta agli eccessi più stravaganti» che spingevano gli indù «ad onorare tutto ciò che è utile o che può recare danno, fra cui le cose materiali e gli oggetti della vita quotidiana per i quali si era finiti per credere che passassero le anime degli uomini»30. Il nesso indissolubile che Tocqueville scorgeva, a prescindere dalla cultura e dal paese analizzati, fra la religione e la politica, fra il grado di civiltà e la forza di una nazione o etnia, legato all’analisi della degenerazione dell’in28

TOCQUEVILLE (1951: 541). TOCQUEVILLE (1951: 546). 30 TOCQUEVILLE (1951: 547). Tocqueville giudicava impietosamente anche la filosofia induista, ritenendola confusa poiché nel corso del tempo si era spostata dallo spiritualismo a un deciso materialismo, passando per la dottrina del raggiungimento della felicità attraverso i sensi (Ivi: 545). 29

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duismo di cui abbiamo visto le caratteristiche portanti, condusse il grande pensatore a trovare la spiegazione più conseguente al dominio militare di cui fu vittima l’India. Laddove la religione induista, con la sua alta funzione di strumento di rafforzamento dei costumi e dei valori di una nazione, al pari di tutte le altre religioni, era degenerata venendo meno di fatto a tale funzione, ne era conseguito un indebolimento generale della civiltà induista che la fece di fatto piombare sotto la dominazione straniera. Leggiamo il giudizio implacabile di Tocqueville: La costituzione stessa del potere politico in India, le sue regole e abitudini avevano una natura tale da facilitare rivoluzioni e conquiste. Vi sono stati in questo paese dei grandi despoti, ma giammai un governo forte. La potenza risiedeva sempre nel singolo uomo piuttosto che nell’istituzione. È facile comprendere la causa: in India tutte le scienze si erano arrestate a uno stadio imperfetto, tanto la scienza del governo quanto le altre. La centralizzazione politica vi è sempre stata sconosciuta31.

Per Tocqueville la degenerazione religiosa e filosofica era alla base dell’assenza dell’arte di governo, binomio che finiva per produrre un paese «statico» in tutti i campi, dalle scienze allo spirito stesso degli individui, in cui non si riscontrava più «alcuna traccia di miglioramento né alcun progresso nelle scienze e nelle arti»32. Una religione degenerata (fondata sull’irrazionale dottrina della metempsicosi) e una politica conseguentemente priva di valori forti e unificanti (alla base di un paese diviso in «caste») costituivano per Tocqueville le due cause principali del dominio subìto dall’India da parte delle grandi potenze occidentali, Inghilterra in testa33. L’autore fran31

TOCQUEVILLE (1951: 450). TOCQUEVILLE (1951: 545). 33 «In un paese di caste, l’idea della patria e della nazionalità sparisce in qualche modo. Non vi è che la casta ed essa è troppo debole per opporre una resistenza. Lo spirito di casta, quando diviene onnipotente, favorisce la conquista, poiché non vi è più un’azione comune per difendersi»; TOCQUEVILLE (1951: 537). 32

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cese, infatti, non ha mancato di ricordare che non soltanto gli inglesi avevano conseguito dei successi militari in India, ma con un malcelato orgoglio ricordava che era stato proprio il successo dei francesi a mostrare che tale paese era à la merci de l’Europe, svelando così all’India stessa «il segreto della sua debolezza e dando all’Europa la consapevolezza della propria forza»34. L’analisi storica di Tocqueville fu apparentemente completa, volta da una parte a mettere in evidenza come gli inglesi si fossero abbandonati, su tutta la penisola, a «guerre perpetue» e «devastazioni» che danneggiarono l’India senza tregua, dall’altra a rimarcare come nelle terre conquistate comparvero per la prima volta «governi regolari e moderati», al posto delle amministrazioni capricciose e spesso violente dei principi indigeni35. Le considerazioni globali di Tocqueville sulla colonizzazione dell’India, invece, misero in evidenza tanto il suo orgoglio di occidentale quanto quello di francese, in particolare laddove sottolineava che «gli stessi princìpi dell’India sentivano l’impossibilità di lottare «contro le armi della nostra civilizzazione», o dove lamentava il fatto che la dominazione inglese era stata condotta avendo come fondamento una «ignoranza completa o una conoscenza molto superficiale della condizione di questo paese», riferendosi implicitamente al periodo in cui a dominare queste terre era la Francia36.

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TOCQUEVILLE (1951: 454-455). TOCQUEVILLE (1951: 479). 36 TOCQUEVILLE (1951: 455, 504). In realtà il giudizio fortemente negativo di Tocqueville sulla dominazione inglese dell’India, causa di oppressione e miseria prodotte a suon di azioni criminali (Ivi: 457, 478480, 494-495, 505), veniva espresso in appunti e note scritti nei primi anni ’40 dell’Ottocento, quando il suo animo verso l’Inghilterra era più ostile. In altra occasione ebbe addirittura modo di scrivere che «nulla sotto il sole è tanto meraviglioso quanto la conquista e ancor più il governo dell’India da parte degli inglesi»; TOCQUEVILLE (1862, II: 387). Cfr. anche BOESCHE (1987: 216). 35

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Si tratta di uno schema ormai noto a chi, come Said, ha avuto occasione di studiare le forme di giustificazione culturale dell’imperialismo: ossia critici del colonialismo, come Tocqueville, che, a ben guardare, da una parte «attaccano gli abusi perpetrati nei paesi da parte di potenze che non li toccano più di tanto da vicino», dall’altra «condonano gli abusi di potere nei territori francesi che gli stanno a cuore»37. Il Tocqueville francese e occidentale, figlio cioè di una civiltà che ha lungamente esercitato un dominio spesso spietato sulle terre orientali (e non solo), non è riuscito a non cercare un alibi per spiegare l’accaduto. Ed è proprio concentrandosi sull’analisi della religione e della cultura dell’India che lo ha reperito, parlando del «successo straordinario degli inglesi che ha trovato origine in cause generali e permanenti» che erano in parte estranee agli inglesi stessi, tirando direttamente in ballo l’organizzazione sociale degli indù o le caratteristiche della loro religione, quest’ultima che li avrebbe condotti a una «dolcezza effeminata» che spiega la facilità e la costanza del dominio straniero38. In realtà, le cose non andarono proprio in questo modo, poiché i popoli dell’India si difesero strenuamente fin dalla prima invasione occidentale, per esempio quando i Mahratti lottarono contro inglesi e francesi tentando di sfruttarne la rivalità39. Ma anche, per giungere ai tempi di Tocqueville, non si può dimenticare la grande insurrezione popolare dei sepoys che scoppiò il 9 maggio del 1857, destinata in breve a diventare una vera e propria guerra tra principi indiani, cortigiani, ma anche contadini contro gli inglesi, insurrezione di una tale forza e partecipazione che mise in notevole peri37

SAID (1994: 207). TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 446, 513). 39 Cfr. PERRAULT (2003: 414). 38

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colo il governo di Londra, fino al drammatico epilogo di 320 mila indiani giustiziati di cui 200 mila civili40. Ma Tocqueville non sentiva ragioni da questo punto di vista e, pur essendo consapevole del fatto che «gli indù non provavano alcuna collera verso coloro che avevano un altro culto» e che non vi era «traccia di persecuzione nelle religioni dell’India», esercitava il proprio compito di cittadino occidentale pronto a trovare alibi e pretesti per la conquista e la sottomissione dell’Oriente (non senza evidenziarne onestamente le atrocità)41. Da questo punto di vista il pretesto più forte consisteva nel giudizio fortemente negativo della religione induista: «La conclusione delle sue letture lo spinge a sfumare la posizione iniziale che egli difendeva ne La démocratie, quando riteneva che ogni religione avesse più valore per l’uomo e per la società rispetto all’assenza di ogni religione. Egli ormai considera che le religioni non sono neutrali, umanamente parlando, per le società»42. Ed è stata proprio la degenerazione dell’induismo ad aver minato alla base le qualità naturali e le virtù dei popoli dell’India, rendendoli così i più adatti e sottomessi, nell’ottica di Tocqueville, alla dominazione del più civilizzato, e meglio armato, Occidente43. 40

WOLPERT (2003: 217 sgg.). Furono anche promulgati vari «proclami» in nome dell’imperatore, fra i quali vale la pena citare quello Azimgarh, presso Banāras, del 25 agosto del 1857, il quale parlando della «tirannia e oppressione dell’inglese infedele», che stava a quei tempi distruggendo il popolo del Hindustān, indù e musulmano, chiamava tutto il popolo dell’India al «sacro dovere» di «rischiare la propria vita e i propri averi per il benessere di tutti. Al fine di realizzare questo scopo, vari principi della famiglia reale di Dehlī si sono sparsi per le varie regioni dell’India»; cit. in EMBREE (1963: 1-3). Per una ricostruzione completa della vicenda, cfr. KAYE (1880). 41 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 448, 541). Non dimentichiamo, inoltre, come scrive Said dopo aver fatto cenno alla prolungata dominazione dei vari paesi europei sulle terre indiane (1979: 75), che «l’India non costituì mai una minaccia per l’Europa». 42 BENOÎT (2007: 95). 43 Non a caso SAID (1979: 42) ritrovava l’essenza di quello che egli definiva come «orientalismo» nella «inestirpabile distinzione tra la supe-

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L’Islam: teoria e prassi dello «scontro di civiltà» Il giudizio di Tocqueville sulla religione induista e sull’India, ossia su un ambito che non riguardava più direttamente gli affari politici ed economici della Francia, si concentrava sulla degenerazione di questa cultura. Una degenerazione tale da aver prodotto popoli così superstiziosi e incivili da far spiegare, e quasi giustificare, agli occhi del sociologo francese, l’invasione del mondo occidentale e cristiano, vista come un’occasione di civilizzazione e progresso per popolazioni altrimenti condannate a rimanere escluse dalla modernità. Ma nell’analizzare l’Islam, ossia la religione di appartenenza di popolazioni e paesi sui quali la Francia esercitava una colonizzazione diretta, il giudizio di Tocqueville si faceva certamente meno sbeffeggiante e liquidatorio (l’Islam appartiene pur sempre alla tradizione delle religioni monoteistiche), ma altrettanto certamente più pugnace e avvezzo a configurare una competizione netta e senza sconti con la religione cristiana. In una lettera del 22 ottobre 1843, indirizzata a Gobineau, scriveva: Ho studiato molto il Corano soprattutto in virtù della nostra posizione nei confronti delle popolazioni musulmane in Algeria e in tutto l’Oriente. Vi confesso che ne sono uscito con la convinzione che nel complesso, nel mondo, vi fossero poche religioni altrettanto funeste per il genere umano quanto quella di Maometto44.

Un tono, quello di Tocqueville, che non lasciava quasi per nulla scampo a compromessi o revisioni, ad ammorbidimenti nel giudizio, ma neppure a tentativi di dialogo. Egli aveva letto effettivamente il Corano nell’autorevole traduzione francese a cura di Savary (in due volumi, di cui afriorità occidentale e l’inferiorità orientale», distinzione che si radicalizzò proprio a partire dal periodo in cui fu in vita Tocqueville, e a cui evidentemente questi fu tutt’altro che estraneo. 44 TOCQUEVILLE (1951 sgg., IX: 69).

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frontò la lettura integrale del primo e solo una cinquantina di pagine del secondo, procedendo come da sua abitudine a stendere delle note)45; alla luce di questa attenta lettura era giunto a formarsi l’idea secondo cui la religione di Maometto non soltanto possiede l’«incresciosa propensione a moltiplicare gli appelli alla guerra e al martirio da parte dei fedeli», ma anche a negare spazio alla libertà e alle libertà, in particolar modo nella misura in cui si arroga il diritto di costituire l’unico metro di azione e di giudizio possibile anche negli ambiti dell’etica, della politica, della giurisprudenza e della società in genere46. Insomma, Maometto aveva sostanzialmente predicato la propria religione a popoli poco avanzati, nomadi e guerrieri, una religione che, del resto, covava essa stessa come scopo evidente quello della guerra47. Un’idea tanto netta che persino Gobineau (biasimato da Tocqueville perché arrivò a negare l’unità della razza umana figlia di un unico creatore), in una lettera del 18 novembre 1843 (in risposta a quella succitata di Tocqueville), sentiva il bisogno di prenderne le distanze: «Non posso impedirmi di riscontrare che siete ingiusto nei confronti dell’islamismo»48. Ma del resto questo era il giudizio immodificabile di Tocqueville fin dall’inizio, ossia fin da quella che, verosimilmente, è stata la prima reazione documentabile in seguito alla sua lettura del Corano, contenuta in una lettera al cugino Louis de Kergorlay del 21 marzo 1838, significativa anche perché vi si istituiva subito il termine di paragone con il cristianesimo: Ho letto la vita di Maometto e il Corano [...]. Non capisco proprio come Lamoricière abbia potuto sostenere che questo libro 45

Cfr. BENOÎT (2007: 37). Le note che il grande autore francese ha steso sulla base della lettura del Corano sono contenute in TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 154-162). 46 BENOÎT (2007: 34). 47 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 173). 48 Cit. in TOCQUEVILLE (1951 sgg., IX: 71).

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costituisce un progresso rispetto al Vangelo. Non v’è alcuna comparazione di nessun tipo che possa essere istituita, secondo me, e anzi trovo che la sola lettura del Corano indichi meravigliosamente i differenti destini dei musulmani e dei cristiani49.

È certamente carica di significati questa comparazione fra i testi sacri e i «differenti destini» occorsi ai musulmani e ai cristiani, ma prima di giungere a quello che ci pare il paradosso finale della comparazione stessa, vediamo come essa viene istituita gradualmente dal nostro autore, iniziando con l’entrare nello specifico dei giudizi di Tocqueville sull’Islam, religione che incoraggia tramite i precetti la guerra santa e promette magnifiche ricompense a coloro che muoiono con le armi alla mano50; che sottolinea la felicità riservata a quelli che perdono la vita combattendo per una fede esaltata in mille modi51; che situa la verità nel solo Dio, offrendo all’uomo soltanto la libertà di credere o di perseverare nell’errore52. Una religione che, come abbiamo già sottolineato, secondo Tocqueville si fa esclusiva e onnipervasiva, arrivando in tutti i paesi musulmani a mescolarsi con la giustizia esattamente nel modo in cui i tribunali ecclesiastici avevano tentato di fare nell’Europa cristiana del Medioevo53. 49

TOCQUEVILLE (1864-1866, V: 354). Louis Juchault de Lamoricière (1805-1865) era amico comune di Tocqueville e del cugino, nonché inviato del governo francese in Algeria. 50 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 154). 51 TOCQUEVILLE (1951: 156). 52 TOCQUEVILLE (1951: 162). 53 TOCQUEVILLE (1951: 181). È appena il caso di notare che Tocqueville, nella sua brama zelante di sottolineare il carattere profondamente religioso della società araba, non ha mancato di commettere alcuni errori sull’Islam, fra cui il più grave è stato quello di negare l’esistenza di un clero di fatto all’interno dei paesi musulmani, non senza formulare una chiosa assai ironica: «È stato questo [dell’assenza di un corpo sacerdotale all’interno dell’Islam] un bene in mezzo ai tanti mali che la religione musulmana ha fatto sorgere. Infatti un corpo sacerdotale costituisce in sé la fonte di molti malesseri sociali» (Ivi: 175). Per una ricostruzione degli errori di Tocqueville sull’Islam, cfr. LECA (1988: 68).

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Si tratta dell’unico raffronto con la tradizione cristiana che non viene avanzato ai fini di una critica esclusivamente rivolta all’Islam, poiché per il resto Tocqueville procede a una serie di comparazioni che finiscono con il produrre le disamine più negative e radicali nei confronti dell’islamismo, peraltro ben seguito, in questa opera, da interpreti contemporanei come Boudon, solerte e quasi compiaciuto nel mettere in evidenza, sulla scorta dell’insegnamento del nostro autore, che «l’idea centrale dell’Islam», ossia quella di «far dipendere le leggi, l’organizzazione dello Stato e la rappresentazione del mondo dalla rivelazione», ha finito con il bloccare l’evoluzione del mondo islamico: Fin dalle origini il cristianesimo implica la laicità in nuce: esso stabilisce di «rendere a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», come sottolineato all’unisono dai tre Vangeli sinottici (Matteo, 22, 15-22; Marco, 12, 13-17; Luca, 20, 20-26), laddove invece l’Islam si attribuisce la capacità di stabilire cosa è giusto in ambito politico, giuridico e scientifico54.

Non c’è dubbio che Boudon, in questa sua affermazione, raccoglie appieno l’insegnamento di Tocqueville, limitandosi a parlare, certamente con il senno di poi, di un «blocco» nell’evoluzione del mondo islamico, laddove invece il nostro autore, come è noto avvezzo alle profezie, alcune delle quali riuscite e per questo divenute celebri, si era spinto molto più in là. Ma leggiamo Tocqueville, dalla Démocratie: Maometto ha fatto discendere dal cielo, ed ha posto nel Corano, non soltanto delle dottrine religiose, ma delle massime politiche, delle leggi civili e criminali, delle teorie scientifiche. Il Vangelo, al contrario, parla soltanto dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra loro. Fuori di questo, non insegna nulla e non obbliga a credere in nulla. Soltanto questa, fra mille altre ragioni, è sufficiente per mostrare che la prima di queste due religioni non 54

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BOUDON (2005: 40-41).

potrebbe dominare a lungo in tempi di lumi e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare in questi secoli come in tutti gli altri55.

La profezia di Tocqueville salta agli occhi: in virtù della sua analisi secondo la quale il mondo moderno si stava inesorabilmente avviando verso un’epoca di affermazione della democrazia, inevitabilmente la religione islamica, nel suo rifiutare i valori e le procedure democratiche, e nell’imporsi come potere assoluto (politico, giuridico e scientifico, oltre che religioso), era alla base del declino dei popoli arabi e della fine imminente dello stesso Islam56. Una convinzione, questa del declino imminente della religione islamica, che il sociologo francese condivideva peraltro con molti uomini della sua epoca, e che la storia successiva si è incaricata di smentire con puntualità57. Ma non è una profezia errata, per quanto fondata su pregiudizi e giudizi piuttosto netti sulla religione e sulla cultura islamiche, che può condurre a riflessioni particolarmente prolifiche sull’analisi del pensiero di Tocqueville. Pregiudizi e giudizi netti sull’Islam hanno una storia lunga e autorevole, se è vero che Dante Alighieri poneva Maometto tra i peggiori dannati («seminator di scandalo e scisma», Inferno: XXVIII, 35)58, e che lo stesso Montesquieu, che abbiamo visto essere fra gli autori prediletti da Tocqueville, istituendo una comparazione fra la religione cristiana e quella musulmana, scriveva che quest’ultima andava senza meno rigettata come una «sciagura per la natura umana» al 55

TOCQUEVILLE (2002: 443). «La maggior parte degli arabi conserva ancora una fede assai viva nella religione di Maometto; tuttavia è facile vedere, in questa parte di territorio musulmano [l’Algeria], come in tutti gli altri, che le credenze religiose perdono senza sosta il proprio vigore e divengono sempre più impotenti a lottare contro gli interessi di questo mondo»; TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1 : 151). 57 Per esempio MICHELET (1981, Libro IV, cap. III: 257). 58 DANTE ALIGHIERI (1966-1967: 134). 56

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pari di tutte le religioni date da un conquistatore, che non parlano che di «spada»59. Quello che salta agli occhi, semmai, è un paradosso cui abbiamo già accennato e che ormai non può più essere lasciato nell’ombra. Il tono di Tocqueville era drastico e senza appello: l’antimodernità, l’inciviltà e soprattutto la bellicosità dell’Islam, confrontate con gli alti valori e le moderne pratiche di democrazia dell’Occidente cristiano, senza contare il confronto fra i rispettivi testi sacri, costituivano per il sociologo francese argomenti forti e incontrovertibili nella spiegazione dei ben diversi «destini» dei musulmani e dei cristiani60. Eppure, anche a volersi fermare al periodo in cui scriveva il grande autore, salta agli occhi come fosse la pacifica, moderna e democratica civiltà cristiana a operare una violentissima e sistematica politica di conquista e sfruttamento delle terre abitate dagli islamici, il cui terribile destino non sembrava tanto segnato dall’inadeguatezza della propria cultura religiosa violenta, quanto dalle atrocità commesse in nome della pacifica e democratica religione cristiana. Una storia che Tocqueville non poteva non conoscere, soprattutto quella riguardante lo specifico del proprio paese, in cui Carlo X si recava alla Camera dei deputati annunciando formalmente l’intervento in Algeria, condotto «per il beneficio del cristianesimo». Certamente un monarca poco amato da Tocqueville, che arrivò a sconfessarlo per aderire alla Monarchia di Luglio di Luigi Filippo, con il 59

MONTESQUIEU (1748: XXIV, 4). A sottolineare con efficacia il paradosso è LOSURDO (2007: 208209), il quale da una parte cita il Tocqueville che definiva la «guerra santa» contro l’Islam come «la prima di tutte le buone opere», rimarcando «le tendenze violente e sensuali del Corano», dall’altro riflette sul fatto che «questa critica risulta alquanto unilaterale: a essere accusato d’inclinazione alla violenza e alla guerra santa è il mondo in quegli anni oggetto di una spietata guerra di conquista, la quale spesso assume i toni della crociata. È lo stesso autore liberale francese a celebrare la conquista dell’Algeria come l’impresa benefica di una “nazione cristiana”». 60

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quale pure le cose non cambiarono molto, visto che nel 1837, con l’avanzare della conquista dell’Algeria, questi istituiva un museo di storia nazionale all’interno del palazzo di Versailles, facendo redigere una guida piuttosto eloquente sul messaggio da veicolare al visitatore: Dopo un intervallo di cinquecento anni, troviamo di nuovo la nazione francese che feconda con il suo sangue le arse pianure adorne delle tende dell’Islam. Sono gli eredi di Carlo Martello, di Goffredo di Buglione, di Roberto il Guiscardo e di Filippo Augusto, che riprendono il lavoro incompiuto dei loro antenati. Missionari e soldati ogni giorno allargano il confine della cristianità61.

E in effetti si trattava di una storia che non soltanto, ovviamente, Tocqueville conosceva bene, ma che promuoveva egli stesso con i propri scritti dedicati all’Algeria (nonché con l’attività di parlamentare e di consigliere del governo), laddove si pronunciava rispetto a un paese che «tanto la nostra sicurezza quanto il nostro onore ci impongono di conservare sotto il nostro dominio diretto e di governare senza intermediari»62; oppure laddove decideva di tessere le lodi del maresciallo Bugeaud, celebre per i suoi metodi violenti e nominato governatore dell’Algeria per conto del governo francese, per «il grande servizio reso in terra d’Africa al suo paese», il primo che abbia saputo applicare 61

Cfr. MICHAUD (1825, v. I: 510 sgg.), ripreso fra gli altri dall’ottimo lavoro di WHEATCROFT (2007: 239 sgg.). Significativo il fatto che la Francia ha tentato di sminuire la portata di tali azioni, come si può evincere dalla lettura di un importante manuale di storia francese in cui, a proposito dell’Algeria, si accenna alla monarchia di Luigi Filippo dicendo che quasi aveva ereditato controvoglia l’Algeria da Carlo X, parlando di ministri che si trovarono a dover ratificare decisioni prese di loro iniziativa dai generali dell’esercito in Algeria, nonché di un governo che «evitando di prendere una decisione netta, introduceva in questo modo, quasi malgrado la sua volontà, la Francia nella via della colonizzazione moderna»; DUBY (1999: 605). 62 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 149).

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allo stesso tempo «quel genere di guerra che ai miei occhi, come ai suoi, è il solo genere di guerra applicabile in Africa: egli ha perseguito tale sistema di guerra con un’energia e un vigore senza eguali»63. Parole e prese di posizioni, queste di Tocqueville, tanto pesanti quanto incapaci di suscitare il minimo dubbio rispetto alle idee dell’autore, le quali, se possibile, si fanno ancora più drastiche con il passare degli anni. Nel Rapporto sull’Algeria del 1847, infatti, quando si presentava la possibilità di cominciare a stilare un bilancio dell’«avventura» francese in Algeria, Tocqueville considerava che la lunga campagna di conquista non si era limitata soltanto a segnare il dominio della Francia su quelle terre, ma aveva anche fornito dei validi elementi di conoscenza delle popolazioni indigene. Elementi che conducevano il nostro autore a conclusioni sprezzanti: «Non si possono studiare i popoli barbari se non con le armi alla mano. Noi abbiamo sconfitto gli arabi prima ancora di conoscerli». Anni e anni di sterminio e dominazione facevano giungere Tocqueville alla conclusione per cui «più conosciamo meglio il paese e gli indigeni, più ci appaiono evidenti l’utilità e la necessità di stabilire una popolazione europea sul suolo dell’Africa». Fino ad arrivare a toni trionfalistici e patriottici: «La popolazione europea è venuta», scriveva riferendosi ovviamente alla Francia, «la società civilizzata e cristiana è stata fondata»64. Né erano estranee al nostro autore affermazioni ancora più estreme e brutali, per esempio laddove affermava la necessità di «grandi spedizioni» che avessero lo scopo di mostrare tanto agli arabi quanto ai soldati francesi che nessuno poteva fermare l’avanzata francese, spedizioni che 63 TOCQUEVILLE (1951: 299). Si tratta dello stesso Bugeaud che il 23 febbraio 1848 sparava senza scrupoli sulla folla in rivolta, divenuto celebre al punto di godere di una citazione ne L’educazione sentimentale di Flaubert. 64 TOCQUEVILLE (1951: 309-310).

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andavano concepite con il fine di «distruggere tutto quello che somiglia a un’aggregazione permanente di popolazione o, in altri termini, a una città»; oppure dove faceva riferimento senza alcun turbamento alle «decimazioni» operate nei confronti di molte tribù, per lui giustificate comunque dal fatto che la civiltà europea, contemporaneamente, stava portando in quelle terre un progresso commerciale ed economico di cui, a suo dire, gli stessi indigeni si accorgevano65. Toni da sterminatore entusiasta che Tocqueville, da buon cristiano al pari di molti occidentali, si peritava di spiegare facendo ricorso persino al ritratto antropologico degli arabi, i quali, similmente a quanto fanno i popoli semiselvaggi, «onorano sopra ad ogni cosa la potenza e la forza», «tengono poco alla vita degli uomini» e «amano soprattutto la guerra»66; quindi è in virtù di tutto questo che, trattando di conseguenza questi popoli, non senza aver fatto uso di perseveranza, abilità e «giustizia» (!), il nostro autore riteneva che presto sarebbe arrivato il tempo in cui elevare sulla costa dell’Africa nientemeno che un «grande monumento alla gloria della nostra patria»67. Quest’ultima affermazione ci consente di considerare l’altro grande elemento che componeva il giudizio di Tocqueville sull’Islam, al di là delle poco credibili spiegazioni sulla fine della civiltà araba dovuta alla rozzezza e alla violenza della propria cultura in confronto agli alti valori democratici e rispettosi della dignità umana propri del cristianesimo: la questione nazionale. Dietro alle sue articolate analisi dell’Islam, infatti, non prive di un confronto diretto con gli stessi testi sacri, Tocqueville aveva ben chiaro in mente il punto da cui non poteva prescindere assolutamente un politico attivo e parlamentare francese quale lui era: l’interesse nazionale. Da 65

TOCQUEVILLE (1951: 229, 329). TOCQUEVILLE (1951: 135). 67 TOCQUEVILLE (1951: 151). 66

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qualche anno la Francia aveva iniziato la campagna di conquista dell’Algeria e già nel 1840 l’autore della Démocratie pensava che ci si trovasse di fronte all’impresa più importante della Francia, dalla quale non si doveva neppure pensare per un attimo di recedere, come spiegava fin dall’esordio del Travail sur l’Algérie: «Non credo che la Francia possa pensare seriamente di abbandonare l’Algeria. L’abbandono che essa potrebbe farne, vorrebbe dire agli occhi del mondo l’annuncio certo della sua decadenza»68. Erano in gioco gli equilibri europei e il ruolo che la Francia poteva recuperare dopo la disfatta napoleonica, soprattutto tenendo conto della grande espansione inglese, che stava conducendo l’impero britannico a un rilievo di portata mondiale. Tocqueville ne era ben consapevole, tanto da scrivere a Kergorlay, già dieci anni prima, che l’eventuale partenza dei francesi sarebbe stata seguita immediatamente dall’insediamento degli inglesi69. Egli non mancava, ancora una volta, di spiegare queste dinamiche facendo ricorso ad argomentazioni di carattere culturale, partendo dal presupposto che quanto stava accadendo (l’espansione europea in Africa e Asia) fosse il naturale risultato che occorre «tutte le volte che vi è contatto, anche attraverso la guerra, tra due razze di cui una è civilizzata e l’altra ignorante, di cui una si innalza e l’altra si abbassa». Tale meccanismo, apparentemente venato di un determinismo storico, portava Tocqueville a dedurre, proprio in virtù della necessità storica di un dominio cristiano su queste terre, che «se noi [francesi] abbandoniamo l’Algeria, il paese passerà direttamente sotto l’impero di una nazione cristiana», in primis l’avversaria Inghilterra70. Qui risiedevano il nerbo della politica estera francese e il posto che la Francia poteva ritagliarsi nel mondo; e qui si 68

TOCQUEVILLE (1951: 213). Cfr. JARDIN (1994: 308-313). Si tratta di una lettera del 1830, in TOCQUEVILLE (1951 sgg., XIII, 1: 155). 70 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 216). 69

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formava il giudizio netto di Tocqueville rispetto alla necessità per il suo paese di condurre oltremare una politica di colonizzazione conseguente, necessità che aveva teorizzato con convinzione fin dall’ottobre del 1828 e lungo tutta la Monarchia di Luglio in nome della «grandeur nationale»: Se la Francia indietreggiasse di fronte a un’impresa in cui si trova frapposte soltanto le difficoltà naturali del paese e l’opposizione di piccole tribù che lo abitano, darebbe l’impressione, agli occhi del mondo, di piegarsi sotto la propria impotenza e soccombere per mancanza di coraggio71.

Certamente non è lecito chiudere Tocqueville all’interno della definizione di imperialista tout court, poiché è indubbio che ci troviamo di fronte a un grande studioso e cultore delle arti umanistiche, nonché della libertà, tanto è vero che, nello specifico dell’argomento che stiamo affrontando, si possono rintracciare all’interno della sua produzione delle oscillazioni di cui uno studio equilibrato non può non tenere conto. Vengono in mente i passi in cui l’autore liberale affermava che «si sarebbe nel torto a pensare che le abitudini civili degli arabi li rendono incapaci di piegarsi (se plier) a una vita in comune con noi», o dove addirittura si spinge a profetizzare «un tempo in cui le due razze potranno amalgamarsi», poiché «Dio non lo impedisce», mentre potrebbero impedirlo soltanto le azioni degli uomini72; allo stesso modo non mancano passi autocritici, come quelli in cui ammetteva che «noi abbiamo reso la società musulmana molto più miserabile, disordinata, ignorante e barbara di 71

Cit. in LECA (1988: 78), cfr. anche JARDIN (1986: 304). Significativo il commento di SAID (1994: 182-183), per il quale Tocqueville, che pure aveva severamente criticato la politica americana verso i neri e i nativi indiani, si inseriva fra coloro i quali ritenevano che «l’avanzamento della civiltà europea richiedesse necessariamente di infliggere delle crudeltà nei confronti degli indigène musulmani: nella sua visione la conquista totale equivaleva alla grandezza della Francia». 72 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 152-153). Circa dieci anni dopo (Ivi: 290) si pronunciava in questi termini: «Non credo affatto alla possibilità di un’amalgama fra le due razze».

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quanto non fosse prima di conoscerci»73, o dove, ancora nel 1848, subito prima di interrompere definitivamente ogni riferimento all’Algeria, in un intervento alla Camera per votare sul bilancio della missione in quelle terre, criticava la politica del governo affermando che «il culto musulmano è caduto, in seguito a questa soppressione ingiusta e impolitica [si riferisce alle scuole islamiche, soppresse dal dominio francese], in uno stato di miseria che costituisce un’onta non soltanto per noi, ma per la civiltà tutta intera»74. Affermazioni che hanno condotto un’autrice francese contemporanea, studiosa del contrastato, impari e per molti versi tragico rapporto fra L’Occidente e gli altri, a derubricare Tocqueville dalla schiera dei «partigiani dello sterminio degli arabi», pur all’interno della stessa ricostruzione in cui la studiosa ricorda l’inquietante confessione del nostro autore al colonnello Lamoricière: «Dal momento che abbiamo ammesso questa grande violenza che è la conquista, io credo che non dobbiamo indietreggiare di fronte alle violenze di dettaglio che sono assolutamente necessarie per consolidarla»75. Una forma di realpolitik, quella di Tocqueville, che lo ha portato più volte a giustificare misure di guerra assai poco convenzionali come il dar fuoco ai raccolti, svuotare i silos, impadronirsi di uomini disarmati, di donne e bambini, nonché a tacere, nel 1846, quando venne alla luce il tragico episodio in cui persero la vita centinaia di arabi, in seguito agli incendi appiccati nel corso di quelle razzie approvate da Tocqueville per le loro «qualità umanitarie»76. Quale Tocqueville, allora, emerge da un’attenta lettura dei suoi passi sull’Islam? Certamente viene fuori il fauto73

TOCQUEVILLE (1951: 323). TOCQUEVILLE (1951: 421). 75 BESSIS (2002: 44), corsivi nostri. Si tratta di una lettera inedita a Lamoricière citata anche in LECA (1988: 79) e JARDIN (1986: 304). 76 RICHTER (1963: 380). Cfr. LOSURDO (2007: 22) e LOSURDO (2005: VII, § 6). 74

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re di una «politica realista», disposto in nome della ragion di stato a giustificare e persino promuovere azioni violente e improntate a un dominio efferato; né manca il difensore di una «politica legale» e di «pratiche umanitarie», tanto che si potrebbero persino avanzare delle letture volte a scovare «due» Tocqueville77. Ma non è scegliendo i passi «umanitari» di Tocqueville, per salvare la sua immagine, né facendo riferimento soltanto a quelli «brutali» per dipingerlo come un autore violentemente imperialista, che si rende un servizio all’obiettività scientifica. Né, d’altra parte, può essere sufficiente limitarsi all’atteggiamento compilativo di chi si impegna a descrivere onestamente entrambe le sfaccettature. Perché comunque bisogna tentare di giungere a una conclusione, e quella più rispondente alla complessità del pensiero e dell’opera di Tocqueville ci sembra riscontrabile in chi ha parlato di un autore in cui l’«egoismo nazionale» viene prima di tutto78. Che poi è come dire che per comprendere l’insieme dell’opera del grande liberale, bisogna uscire dai confini ristretti dell’autore, per quanto autorevole e monumentale, e rifarsi al contesto storico e ideologico dell’Ottocento, secolo in cui l’imperialismo occidentale ha raggiunto il suo apice, coinvolgendo i grandi pensatori e costringendoli a prendere espressamente posizione, molto spesso utilizzando la propria arte per supportare ideologicamente le imprese coloniali dei rispettivi stati. Entrando in questa ottica, per esempio leggendo uno dei più importanti studi sul fenomeno dell’imperialismo, 77 Basti pensare al TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 1: 197) grande critico della politica francese in Algeria durante i primi anni di colonizzazione (1830-1834), quello che definiva «inconcepibile che ai giorni nostri, a partire da una nazione che si dice liberale, sia stato stabilito, vicino alla Francia e in nome della Francia, un governo tanto disordinato, tirannico, molesto, così profondamente illiberale, financo in una situazione in cui poteva fare a meno di esserlo senza alcun pericolo, tanto estraneo persino alle nozioni elementari di un buon regime coloniale». 78 JARDIN (1994: 309).

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proprio laddove l’autore si incarica di analizzare «la difesa scientifica dell’imperialismo», ci si accorge che la visione di Tocqueville, che potremmo definire deterministica o naturalistica rispetto all’inevitabile crollo della «razza» o cultura araba nel suo incontrarsi con l’Occidente, assume un senso preciso, proprio perché «l’imperialismo non è altro che questa dottrina della storia naturale considerata dal punto di vista della propria nazione». In questo modo riusciamo a decifrare la «grande complessità e finezza etica e religiosa» che viene costruita per supportare l’impresa storica di una «cristianità imperiale» fornita di una «missione civilizzatrice», in virtù della quale tutti noi occidentali ci sentiamo incaricati dalla Storia e da Dio di «insegnare «le arti del buon governo» e la «dignità del lavoro»79. Il grande liberale Tocqueville, insomma, monumento del pensiero e della cultura cristiani, non sfuggiva tuttavia, alla luce di questa chiave di lettura che ci sentiamo di proporre, a quella vecchia e consolidata prassi di un Occidente che sembrerebbe avere «un’idea troppo alta di sé» per ammettere che «la forza e l’interesse» sono le ragioni esclusive della sua impresa coloniale. Quello stesso Occidente che, proprio nella campagna di conquista dell’Africa del Nord, giustificava la stessa richiamando il grande livello di civiltà che queste popolazioni avevano vissuto nel corso dell’antichità latina e cristiana, cui era seguito il millennio di «sonno islamico» che sarebbe però finito presto proprio grazie al ritorno degli europei colonizzatori, portatori della rigenerazione80. Ed ecco che allora, ancora una volta, emerge quella visione strumentale della religione che già abbiamo avuto modo di sottolineare. Uso strumentale volto a dimostrare 79

HOBSON (1902: 166). BESSIS (2002: 54), che a sua volta cita lo storico E.F. GAUTIER (1932) e la sua teoria dell’oscillazione storica tra Oriente e Occidente che l’Africa del Nord ha vissuto nel corso dei secoli. 80

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la superiorità della cristianità sul mondo islamico e, così facendo, giustificare la conquista delle terre abitate da popolazioni di fedi diverse. Tanto che rischia sempre più di perdere di forza e significato l’affermazione che Tocqueville aveva fatto nella Démocratie, secondo la quale ogni religione vale di più dell’assenza di religione. Il giudizio drastico e sprezzante su queste due importanti religioni (induismo e islamismo), connesso all’uso spesso strumentale della religione cristiana, impongono un bilancio più problematico e travagliato rispetto al rapporto tra politica e religione in Tocqueville.

Il cristianesimo: la religione dei moderni A differenza di quanto abbiamo visto con l’induismo e l’islamismo, Tocqueville non ha dedicato al cristianesimo delle riflessioni specifiche che, seppure sotto forma di note e appunti sparsi, possano essere definite in qualche maniera sistematiche. Questo perché, al di là del suo caso personale di individuo che aveva perduto la fede, era fermamente convinto che il cristianesimo innervasse nel profondo tutte le realtà sociali e culturali del suo tempo e, conseguentemente, ha sparso lungo tutta la sua opera le considerazioni su questa religione e i suoi rapporti con le problematiche e le emergenze della modernità. Alla fine dei conti, si tratta di una vera e propria simbiosi tra cristianesimo e modernità quella che Tocqueville ritiene di evincere dall’osservazione del proprio tempo, senza che sia quindi agevolmente percorribile la strada dell’analisi separata né quella dell’individuazione di quale delle due realtà costituisca la causa o l’effetto. Proprio come Hegel, con le dovute differenze, faceva ricorso allo «spirito», in quanto entità immanente al mondo umano, e al suo seguire la traiettoria del sole da Est a Ovest, 37

per descrivere il processo di evoluzione e sviluppo della storia dell’uomo, storia nella quale l’occidente cristiano rappresenta tanto il momento finale quanto quello in cui la luce della ragione è giunta al suo stadio più alto, allo stesso modo Tocqueville ricorreva alla «provvidenza» per spiegare il processo ineluttabile che stava conducendo all’affermazione della simbiosi fra cristianità e modernità81. Tutto ciò che è moderno è cristiano e tutto ciò che è cristiano è moderno per Tocqueville, si potrebbe scrivere parafrasando la nota espressione hegeliana. Altrimenti si può ricorrere direttamente alle parole di Tocqueville, che usava toni e persino espressioni e concetti evidentemente vicini a quelli del grande pensatore tedesco, per esempio laddove individuava la «grande rivoluzione democratica» che stava caratterizzando i suoi tempi, descrivendola come «un fatto provvidenziale» i cui principali caratteri erano dati dal fatto di essere «universale», «duratura», capace di «sottrarsi alla potenza dell’uomo». Fino ad arrivare a un’estensione del concetto che, se operata da Hegel, avrebbe comportato (come del resto è avvenuto) le accuse più radicali di strumentalizzazione dell’uomo a favore di una visione teologica e totalitaria della Storia, mentre nel caso del grande pensatore francese è passata quasi del tutto inosservata. Ci stiamo riferendo a quel passo in cui Tocqueville conclude il proprio ragionamento affermando che questa rivoluzione democratica è spinta da una forza cosmica e provvidenziale tale per cui «tutti gli avvenimenti, così come tutti gli uomini, servono al suo sviluppo»82: si tratta in fondo di quella stessa visio81

Che tale espressione non fosse intesa da Tocqueville in senso strettamente religioso, è stato mirabilmente chiarito da MATTEUCCI (1969, v. I: 25) e da BOUDON (2005: 59), il quale rimarcava l’agnosticismo di Tocqueville, affiancato semmai a un rispetto per il cristianesimo in quanto religione che ha lanciato delle idee essenziali per la modernità, sulla scia di quanto in seguito avrebbero ritenuto anche Weber e Durkheim. 82 TOCQUEVILLE (2002: 41, 43). La visione di HEGEL (1975, v. I: 273), quella per cui la storia del mondo va da Oriente a Occidente, è nota; egli

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ne strumentale dell’uomo e di interi popoli che è stata imputata allo Hegel che descriveva il «popolo dominatore» come quello che di volta in volta ha concepito il «più alto concetto dello spirito», rispetto al quale i popoli non più capaci di raggiungere certe altezze venivano «messi in disparte»83. Tornano in questo caso alla mente le considerazioni di Tocqueville sui paesi induisti e islamici, destinati a subire il dominio dell’Occidente cristiano in virtù della degenerazione delle rispettive culture e religioni. Tanto è vero che, per sgombrare il campo da eventuali equivoci, l’autore francese si affretta a precisare, poco oltre sempre nell’introduzione alla Démocratie, che l’«uguaglianza delle condizioni», elemento cardine della rivoluzione cui stava facendo riferimento, si presentava nel suo tempo «presso i cristiani» in una maniera tale che non è mai accaduta in nessun altro tempo e paese, al punto che «voler arrestare la democrazia, sembrerà allora come voler lottare contro Dio stesso»84. La democrazia, quindi, intesa come quel sistema caratterizzato dall’uguaglianza delle condizioni che si affermava presso i popoli cristiani, rappresentava per Tocqueville la cifra con cui interpretare il mondo moderno, nella misura in cui si era sostituita a quella «libertà dei moderni» che per Constant e Montesquieu era fondata ancora «sulla distinzione degli ordini e degli stati»85. Democrazia e modernità procedevano di pari passo tanto nella sostituzione di valori e pratiche proprie dell’Ancien Régime quanto nello spostare inesorabilmente verso Ovest la barra della civiltà e della libertà. era del resto un assertore del fatto che l’utilità della filosofia consistesse proprio nello scorgere e insegnare che nessuna forza ha il sopravvento su quella del bene, cioè su Dio (inteso come spirito che si realizza nel mondo e attraverso esso): «Dio prevale, e la storia del mondo non rappresenta altro che il piano della Provvidenza» (Ivi: 65). 83 HEGEL (1975: 55). 84 TOCQUEVILLE (2002: 44). 85 ARON (1967: 227).

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Per Tocqueville, in aggiunta, non si poteva comprendere questo sviluppo inesorabile della democrazia senza tener presente che quest’ultima era stata concepita e resa possibile anzitutto dal nuovo sistema di valori incarnato dal cristianesimo, religione moderna per antonomasia in quanto in possesso di quelle strutture valoriali e pratiche atte a dialogare con i nuovi governi democratici. In tal senso la «rivoluzione democratica», in quanto cifra portante della modernità, non può essere intesa appieno se tenuta separata da quella «rivoluzione cristiana» che ha reso possibili, secondo Tocqueville, tanto le «acquisizioni della morale moderna» quanto i valori che stanno alla base dell’uguaglianza politica86; ovvero senza scorgere il ruolo imprescindibile che il cristianesimo ha svolto nell’affermarsi a livello sociale di quei moeurs che, proprio perché fondati essi stessi sulle croyances, consentono la realizzazione del «regno della libertà»87. Qui risiedeva per Tocqueville la grande carica innovativa del cristianesimo, nella sua capacità di affermare presso la società degli uomini quei valori di universalità che gli sono intrinseci e che trovano una corrispondenza perfetta nel mondo nuovo che si andava affermando; valori, quali «l’uguaglianza democratica», che egli riteneva estranei tanto all’induismo quanto all’islamismo e la cui origine, semmai, andava ricercata in quell’antico impero romano che già Pascal aveva visto come la realizzazione delle profezie dell’Antico Testamento e che il sociologo francese, «pascaliano senza la fede», riteneva esemplificativo di un modello in cui al potere assoluto del capo (Dio o l’Imperatore) corrispondesse l’uguaglianza assoluta fra i sudditi o i fedeli. Così come l’impero romano aveva introdotto, secondo Tocqueville, una certa forma di uguaglianza, nella forma 86 TOCQUEVILLE (1951 sgg., IX: 45-48). Cfr. anche le illuminanti considerazioni di COLDAGELLI (1994: xxxvii). 87 TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 1: 10).

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della parità tra i cittadini che stavano sotto l’imperatore, alla stessa maniera il cristianesimo aveva reso possibile un sistema valoriale per il quale davanti all’unico Dio e sotto la sua potenza, tutti gli uomini erano uguali: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né uomo libero; non più l’uomo e la donna, poiché tutti siete in Gesù Cristo», come recita l’epistola ai Galati (3,28)88. Ma la modernità è per antonomasia il regno della contraddizione, la dimensione in cui ogni realtà, e in specie quelle più pervasive e importanti per il mondo umano, finisce con il mostrare un lato rimasto fino a un certo punto coperto, ma comunque operante nell’ombra, capace di produrre effetti che, alla fine del lungo lavorio sotterraneo, si faranno sentire nella superficie e cambieranno i fenomeni dati per assunti. Di sicuro Tocqueville è stato fra i primi a cogliere questa identità contraddittoria insita nella modernità, quanto meno analizzando le potenzialità trasfigurative contenute nella democrazia (come vedremo), ma non trascurando neppure i molti lati oscuri contenuti nella religione dei moderni e nei suoi presupposti egualitari. Non a caso un autorevole interprete del grande filosofo, che si è dato il compito di studiare l’attualità di Tocqueville in rapporto alle grandi questioni della contemporaneità, ha dedotto dall’opera del sociologo francese che «le cause del successo del cristianesimo sono allo stesso modo causa del suo indebolimento». E questo è vero poiché l’«uguaglianza degli uomini», su cui tanto insiste la religione cristiana, favorisce la possibilità di critica da parte di ogni individuo, la messa in discussione degli stessi elementi che la fondano, fino ad arrivare all’esito paradossale per cui si finisce con il «favorire l’incredulità». Di grande impatto la chiosa di Boudon, l’interprete contemporaneo di Tocqueville cui ci stiamo riferendo: «Assai prima di altri, nella fattispecie prima di 88

BENOÎT (2007: 110, 139) e BOUDON (2005: 40).

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Durkheim e Weber, Tocqueville ha ben compreso che il cristianesimo era la religione dell’uscita dalla religione»89. In altre parole, il costituire la religione della modernità, per il cristianesimo, equivaleva a portare nel suo seno quegli elementi della modernità stessa che, però, minavano fino alla base il sistema delle credenze. Tra questi elementi della modernità spicca quello che è passato alla storia con il nome di «processo di secolarizzazione» (o laicizzazione), di cui per esempio l’Islam – con la sua rigida gerarchizzazione degli uomini e delle donne, con l’altrettanto rigida separazione fra credenti e non credenti (o appartenenti ad altre religioni) e con l’incapacità di contemplare al proprio interno la divisione tra sfera politica e civile e sfera religiosa – era del tutto incapace. L’Islam non era in grado di sopravvivere al passaggio, essenzialmente moderno, dal «modello aristocratico» a quello «democratico», di cui invece il cristianesimo rappresentava una colonna portante oltre che un sistema di riferimento costante90. Certo è che quando Tocqueville parlava di questo cristianesimo, al tempo stesso «democratico» e aperto agli inevitabili processi di secolarizzazione e laicizzazione delle società moderne, era ben consapevole di riferirsi alla fattispecie di quanto aveva avuto modo di osservare con i propri occhi durante il viaggio in America. Era oltreoceano, infatti, che secondo il nostro autore si stava affermando la piena uguaglianza delle condizioni, connessa e in perfetta armonia con una religione altrettanto democratica, mentre sull’altro emisfero «si può dire in maniera generale che il cristianesimo aveva perso su tutto il continente europeo una parte notevole della sua potenza»91. 89

BOUDON (2005: 44-45). BOUDON (2005: 182). 91 TOCQUEVILLE (2002: 1041). Non a caso un interprete di Tocqueville riteneva che l’America rappresentasse l’«archetipo di una democrazia cristiana, una democrazia di tipo interamente nuovo»; ZETTERBAUM (1967: 51). 90

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Ciò perché il cristianesimo dell’Europa, o se vogliamo la Chiesa, non aveva saputo dialogare con l’«epoca della ragione», opponendosi frontalmente alle forze emergenti della modernità (la nuova filosofia, la scienza naturale, ma anche la democrazia) e finendo con il ritrovarsi alleata delle frange più reazionarie e conservatrici. Il processo di secolarizzazione («mondanizzazione»), che conduceva all’idea (e alla prassi) del dominio dell’uomo sul mondo («disincanto»), era stato avviato dall’Illuminismo sulla base di fondamenta gettate nel secolo precedente dalle scienze naturali e dal Rinascimento, e a questo la Chiesa si era opposta con tutte le forze, volendo imporre il proprio dominio dogmatico e la propria visione anacronistica del mondo, aprendo le strade all’anticlericalismo e allo spirito religioso che dovevano esplodere con la Rivoluzione francese. Nel periodo nel quale scriveva Tocqueville ci si trovava pienamente immersi in quella che è stata definita la «crisi della modernità», in cui si era di fronte a un’Europa che tardava e faticava a compiere questo «passaggio» che doveva fare tappa necessaria attraverso il processo di laicizzazione della vita sociale, di contro a un’America che invece accettava l’«autonomia degli ambiti secolari della filosofia e della scienza naturale fino all’arte e alla cultura», dimostrando che si poteva benissimo abitare un mondo divenuto mondano e secolare (oltre che democratico) rimanendo dei buoni credenti e cristiani92. Il grande sociologo francese sperava che l’America costituisse un modello per l’Europa non soltanto dal punto di vista della sua organizzazione politica e sociale, ma anche da quello del sistema di credenze e del ruolo che la Chiesa poteva avere all’interno di una democrazia moder92 In questa ricostruzione della «crisi della modernità» e della differenza tra il cristianesimo europeo e l’«esperienza totalmente diversa degli Stati Uniti con la religione», seguiamo il monumentale lavoro sul Cristianesimo del teologo HANS KÜNG (1994: 751-752), il quale a sua volta cita proprio l’analisi di Tocqueville.

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na. E anzi, soprattutto nella Démocratie, precisamente alla fine del capitolo dedicato al progresso del cattolicesimo negli Stati Uniti, si spingeva persino ad avanzare un’altra delle sue profezie non riuscite, quella secondo la quale il connubio tra democrazia e chiese protestanti era destinato a esaurirsi, poiché le società democratiche del futuro sarebbero state abitate non più tanto da «cristiani» quanto da «cattolici», poiché l’universalismo morale, che rappresenta la giustificazione morale più profonda della società democratica, si accorda più logicamente con l’«universalismo della Chiesa romana»93. Si trattava indubbiamente di un periodo, quello della composizione della Démocratie, in cui Tocqueville non era ancora rimasto scottato dallo scontro con la rigidità antimoderna della Chiesa romana, di qui i toni a dir poco idilliaci con i quali affermava che «la religione cattolica, fra le varie dottrine cristiane, mi pare una delle più favorevoli all’uguaglianza delle condizioni», anzi addirittura democratica nella sua essenza in quanto «società religiosa composta da due soli elementi: il prete e il popolo. Il prete solo si eleva al di sopra dei fedeli: tutti sono uguali sotto di lui»94. Vedremo in seguito che Tocqueville sarà destinato ad essere nettamente smentito rispetto alle sue aspettative di assistere ad un cristianesimo che, dopo aver «reso tutti gli uomini uguali davanti a Dio», non disdegnasse di «vedere tutti i cittadini uguali davanti alla legge»95. Di lì a breve, infatti, si sarebbe verificata una recrudescenza del conflit93

Cfr. LAMBERTI (1983: 190-191). C’è da dire che la visione ottimistica di Tocqueville rispetto al cattolicesimo non deve sorprendere più di tanto. Quando, infatti, egli giungeva in America, il cattolicesimo era in forte crescita, poiché il clero e le alte sfere della cristianità erano composti in larga parte da francesi. Un secolo più tardi anche MARITAIN (1958: capp. 4, 9, 11, 19), che visitava gli Stati Uniti che, nel dopoguerra, vedevano un rinnovamento del cattolicesimo, tirava delle conclusioni simili. 94 TOCQUEVILLE (2002: 273). 95 TOCQUEVILLE (2002: 47).

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to tra Chiesa di Roma e modernità che, soprattutto in Francia e in Italia, avrebbe portato il nostro autore a una intima e profonda delusione, con cui peraltro si doveva chiudere la sua carriera politica. Ma prima di ciò conviene analizzare il rapporto fra la democrazia americana e il cristianesimo, non soltanto per l’interesse che l’argomento presenta in sé, ma anche perché, come abbiamo visto, veniva affrontato da Tocqueville con più di un occhio (e di un’aspettativa) rivolti verso il futuro dell’Europa.

Religione e democrazia in America: un matrimonio di convenienza Forse nessun autore come Tocqueville ha saputo intuire l’inarrestabile imminenza di un fenomeno sociale dirompente quale la democrazia e, al tempo stesso, analizzarlo con tale profondità e lucidità da metterne in evidenza tanto gli aspetti positivi quanto quelli pericolosi per le sorti della società umana. Certamente egli aveva avuto la possibilità di assistere in presa diretta alle prime esplosioni del fenomeno democratico nella sua duplice veste, ossia quella dirompente, antireligiosa e innervata da empiti di egualitarismo pericolosi per la libertà dell’individuo, che il nostro autore riteneva di riscontrare in Francia, a fronte della spontanea e pacifica comparsa della democrazia in America, avvenuta senza traumi rivoluzionari, nel pieno rispetto dei valori religiosi tradizionali e, soprattutto, con modalità che salvaguardavano la libera sfera d’azione dei cittadini96. 96 È appena il caso di dire che questo schema di Tocqueville non trovava conferma presso molti dei viaggiatori del tempo, in particolare tra gli americani che avevano visitato la Francia, i quali non ritenevano di trovarsi di fronte a una società, quella francese, più inegualitaria della propria; SAUVIGNY (1985, v. II: 48).

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Questa era la ferma convinzione di Tocqueville, che egli senza dubbio traeva dal ruolo che negli Stati Uniti giocava la religione. È oltreoceano che, infatti, il sociologo francese aveva potuto assistere al felice e armonioso matrimonio fra religione e libertà democratica, giungendo a identificare tale condizione come «lo stato naturale degli uomini in materia di religione» in epoca moderna, in netto contrasto con quanto stava avvenendo in Europa e, in particolare, in Francia, dove società politica e religione non riuscivano a realizzare quel medesimo rapporto naturale97. Un matrimonio tanto armonioso quanto di comune convenienza secondo Tocqueville, il quale aveva assistito con sgomento e preoccupazione all’esplosione della democrazia nel suo paese, con la Rivoluzione francese, una democrazia senza freni né limiti che, illudendo gli uomini rispetto alla loro onnipotenza e sostituendo una religione politica a quella trascendente, aveva in realtà finito con il gettarli in una spirale di violenza rivoluzionaria, per di più rimpiazzata nel giro di breve tempo da una dittatura personale. Ora, è evidente che se la democrazia rappresentava per Tocqueville, come abbiamo visto, l’esito immodificabile dei tempi moderni, una sorta di pronunciamento terreno della provvidenza, essa poteva realizzarsi tanto nella versione francese quanto in quella americana e, poiché era quest’ultima che il nostro autore preferiva di gran lunga, tanto da immaginare di poterla importare in Europa, occorreva comprenderne gli elementi che la differenziavano rendendola così indispensabile per il pacifico e libero popolo americano. Magari con l’auspicio di vederla presto riprodotta in Francia. L’elemento decisivo e irrinunciabile che caratterizzava la democrazia nella versione americana era costituito pro97

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TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 1: 312) e MANENT (1993: 126).

prio dalla religione e Tocqueville era arrivato a comprenderlo tramite un ragionamento tanto articolato quanto lineare, che ha contribuito a farlo inserire fra i pensatori più originali e significativi della modernità. Egli, infatti, ha avuto il merito di mostrare come quello spirito naturale di «comunità» che lega gli uomini dei tempi democratici, costituiva sì il frutto dello stato sociale democratico, ma non poteva essere il prodotto né della natura né della democrazia politica. In particolare, quel sentimento di legame profondo e di uguaglianza che legava gli individui della democratica America, conducendoli a dar vita a una società tanto libera quanto pacificata e giusta, non poteva essere il prodotto dello «stato sociale democratico», che spesso si era visto generare – Tocqueville teneva sempre a mente il caso del proprio paese – un’idea di uguaglianza morale ambigua e nel giro di breve esposta al fanatismo egualitario e all’invidia sociale. Lo spirito naturale di comunità e di uguaglianza che pervadeva la società americana, quella morale unificante che accomunava tutti i cittadini nel perseguimento di una parità delle condizioni che non omologasse gli individui e non ne corrompesse la libertà, costituiva il felice prodotto di una dinamica innalzata rispetto alle relazioni umane e congiunta a un fondamento trascendente: l’uguaglianza degli uomini davanti a Dio98. Tutto ciò, precisava Tocqueville, era stato possibile in un paese, l’America, che era stato popolato da uomini i quali, «dopo essersi sottratti all’autorità del Papa», avevano fatto in modo di non sottomettersi ad alcuna autorità religiosa, portando così nel nuovo mondo un cristianesimo che il nostro autore non aveva remore a definire «democratico e repubblicano»: fin dall’inizio dell’avventura che aveva dato origine agli Stati Uniti, chiosava Tocqueville, 98

LAMBERTI (1983: 68).

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«politica e religione si trovarono d’accordo, e dopo non hanno più smesso di esserlo»99. Da queste considerazioni del grande sociologo francese emergeva come il felice connubio tra religione e democrazia in terra americana, come del resto tutte le unioni prolifiche, fosse fondato su una reciproca rinuncia in vista di un bene superiore: da una parte, infatti, la democrazia rinunciava ad assumere le vesti di una religione terrena, pretendendo di sostituire la vera religione adottando delle politiche anticlericali e materialistiche, come per Tocqueville si era verificato in Francia; dall’altra la religione, e questo è un aspetto che vedremo meglio più avanti, rinunciava ad aspirare al potere politico e ad esercitare un’influenza sulle questioni che attenevano alla sfera civile: Una volta che i preti vengono allontanati, o si allontanano essi stessi dal governo, come hanno fatto negli Stati Uniti, non vi sono uomini che, in virtù delle loro credenze, siano più disposti dei cattolici a portare nel mondo politico l’uguaglianza delle condizioni100.

Ancora una volta emerge la visione strumentale che Tocqueville aveva della religione, stavolta spogliata di tutto il suo potere temporale che, ancora per molti versi, permaneva in Europa, e ridotta a un matrimonio di convenienza con la democrazia in vista di quel bene superiore che è la società umana, vero oggetto di interesse e di studio di tutta l’opera del grande autore francese. Il quale non era esente neppure da considerazioni tanto realistiche quanto vicine al cinismo, come quando considerava che «se è 99 TOCQUEVILLE (2002: 273). Questa possibilità di un accordo fra democrazia e religione, che il nostro autore riscontrava peraltro negli Stati Uniti, costituiva uno degli aspetti più importanti che lo differenziavano dai conservatori e dai reazionari del proprio tempo. Per esempio Bonald teorizzava l’inesorabile procedere insieme, all’interno di uno stato, della «democrazia» e dell’«ateismo», così come Balzac, che nel Catéchisme scriveva di una «correlazione evidente e flagrante fra l’ateismo e la democrazia»; cfr. BALZAC (1933: 25, 149, in cui viene citato Bonald). 100 TOCQUEVILLE (2002: 274).

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di grande importanza per l’uomo in quanto individuo che la propria religione sia vera, ciò non avviene per la società. Quest’ultima non ha nulla da temere o sperare dall’altra vita, e ciò che più le importa non è tanto che i cittadini professino la vera religione, ma che essi professino una religione. Del resto – concludeva Tocqueville – tutte le sette americane si ritrovano nella grande unità cristiana e la morale del cristianesimo è ovunque la stessa»101. Se una società libera e pacifica è caratterizzata dal rispetto delle regole e dei limiti che favoriscono la convivenza fra gli individui e se, del resto, l’affermarsi della democrazia era visto come il risultato di una forza cosmica all’opera, al punto che essa sottometteva tutto il mondo umano alla sua legge, dove mai si sarebbero potute attingere le regole stesse se non da una dimensione superiore a questo mondo, o comunque esterna ad esso? Ecco emergere la funzione sociale topica della religione, quella di «moderare realmente la democrazia»102; non soltanto facendo intendere agli uomini che vi sono obiettivi e aspirazioni che trascendono l’esperienza dei loro sensi, ma anche fornendo quelle «credenze dogmatiche» che costituiscono il cemento della società e che, opponendosi all’atomizzazione propria dei paesi democratici, rendono possibile una «vita politica» condivisa, nel senso di un’attività sociale comune da parte di uomini uniti da valori condivisi103. Da questo punto di vista Tocqueville non aveva timore nel definire «le credenze dogmatiche in materia di religione» come le «più desiderabili», poiché ispirano l’agire umano fondandosi su un’idea «assai generale» che gli uomini si sono fatti di Dio, dei suoi rapporti con il genere umano e dei loro doveri verso i propri simili104. 101

TOCQUEVILLE (2002: 275-276). MANENT (1993: 121). TOCQUEVILLE (2002: 526), come sappiamo, parlava di «moralizzare le democrazie attraverso la religione». 103 ZETTERBAUM (1967: 112-113). 104 TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 2: 27). 102

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Ecco allora che si fa sempre più forte l’impressione di un matrimonio di convenienza in cui stavolta, per molti versi, è lo stesso individuo e la sua libertà di ragionare criticamente a farne le spese. Tocqueville era, da questo punto di vista dell’individualismo, certamente un liberale anomalo, o comunque molto più complesso degli individualisti tout court, ma proprio all’inizio della seconda Démocratie descriveva il connubio tra religione e democrazia in America secondo dei termini che pochi liberali odierni sottoscriverebbero senza cadere in contraddizione. Se, infatti, ribadiva che da una parte negli Stati Uniti la religione si era per così dire «posta da sé i propri limiti», generando un ordine religioso che era «interamente distinto» dall’ordine politico, dall’altra registrava con una certa soddisfazione che in quel grande paese il cristianesimo «non regnava soltanto come una filosofia che si adotta dopo un esame, ma come una religione in cui si crede senza metterla in discussione», tanto che gli americani stessi «avendo ammesso senza esame i principali dogmi della religione cristiana, sono costretti a ricevere allo stesso modo un grande numero di verità morali che ne conseguono». Tutto ciò, concludeva Tocqueville, rinchiude all’interno di confini assai stretti la libera attività dell’analisi individuale, sottraendole parecchie e importanti opinioni che spetterebbero all’essere umano in quanto tale105. Qui, del resto, viene fuori la mai superata del tutto origine aristocratica del nostro autore, il quale, partendo dalla convinzione che gli uomini, per svolgere con virile dignità il proprio mestiere di vivere, hanno bisogno di un «sapere» o di una «opinione sul Tutto» che, al tempo stesso li avvolga e li oltrepassi, ne deduceva che poiché la stragrande maggioranza degli uomini non possono formarsi una tale opinione facendo leva sulle risorse soltanto della 105

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TOCQUEVILLE (2002: 431-432).

propria ragione, essi dovessero riceverla d’autorità, secondo le modalità di un dogma religioso106. Se a questo si aggiunge che gli individui dei paesi democratici sono pervasi da «istinti assai pericolosi»107, che li spingono a isolarsi gli uni dagli altri e vivere sulla scia di un amore smisurato per i «piaceri materiali», si capisce facilmente come per Tocqueville la religione, caratterizzata da valori che spingevano in una direzione opposta, fosse ancora più necessaria per questo tipo di individui, cioè fosse più necessaria che mai sia per gli abitanti delle società democratiche che per le società democratiche stesse108. Con buona pace della libertà di critica e della ragione individuale, tenute in grande considerazione dai liberali di tutti i tempi. È quindi evidente che, in quello che abbiamo chiamato matrimonio di convenienza fra la democrazia e la religione, felice unione che Tocqueville aveva modo di osservare nel nuovo mondo, la democrazia si trovava a pagare comunque un prezzo. Ciò non deve sorprendere più di tanto, poiché stiamo comunque parlando di un autore che non era certamente un teorico entusiasta della democrazia, bensì un acuto e intelligentissimo interprete della realtà sociale del suo tempo, che aveva saputo individuare la comparsa di un fenomeno tanto nuovo e inesorabile quanto necessitante di limitazioni. Aspetto, questo, colto con la consueta verve polemica da Luciano Canfora, il quale, nella sua ottima ricostruzione della storia ideologica del concetto di democrazia, osserva che il libro di Tocqueville sull’America «descrive un fenomeno – la democrazia americana – non per esaltarlo ma, si potrebbe dire, per assue106 Non a caso un interprete contemporaneo di Tocqueville rimarcava come questi insistesse sul dato che accomunava la «libertà aristocratica» e la «libertà americana» (per quanto democratica quest’ultima potesse essere): la loro comune alleanza con lo «spirito di religione», LAMBERTI (1983: 81). 107 TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 2: 29). 108 MANENT (1993: 122-123).

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fare gli europei del suo stesso ceto alla dolorosa inevitabilità di una evoluzione avente la democrazia come punto di arrivo»109. Ma in una democrazia come quella descritta dal nostro autore, non è soltanto la maggior parte degli individui a dover pagare un prezzo (l’adesione dogmatica al credo religioso, mettendo da parte la propria ragione), poiché anche la società intera riconosce alla religione un ruolo oltremodo centrale, quello di «fissare il mondo morale», cioè stabilire quel bagaglio comune di valori e costumi che soltanto un’autorità morale e religiosa è in grado di affermare, ben sapendo che l’alternativa sarebbe la dittatura. Infatti, «quando non esiste più un’autorità in materia di religione, esattamente come avviene in ambito politico, gli uomini immediatamente si spaventano di fronte a questa indipendenza senza limiti», e se è vero che essi possono tollerare che tutto sia in movimento nella sfera intellettuale, nondimeno aspirano all’ordine e alla stabilità nelle faccende materiali, per cui se non possono più riprendere le loro vecchie credenze, in assenza appunto di un’alta autorità religiosa, finisce che si gettano tra le mani di un padrone110. Il ruolo riconosciuto alla religione in America è dunque ampio, ma non esente da una buona dose di ipocrisia, del resto inevitabile nei matrimoni di convenienza, che Tocqueville riconosceva senza infingimenti. In nessun paese come nel nuovo mondo la religione cristiana veniva unanimemente professata e i precetti seguiti con scrupolo, ma è certamente più la sua utilità sociale a spingere gli americani a comportarsi in questo modo che non la convinzione e l’amore rispetto alla verità da essa professata: è sotto 109

CANFORA (2004: 364). Del resto stiamo parlando del TOCQUE(1951 sgg., III, 2: 87) che scriveva espressamente di avere «per le istituzioni democratiche un gusto intellettuale», ma di essere «un aristocratico per istinto», cioè uno che «disprezza e teme la massa»: «Amo con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia. Ecco il fondo della mia anima!». 110 TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 2: 29). Cfr. MANENT (1993: 125). VILLE

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il punto di vista dell’utilità – registrava senza ambiguità il nostro autore – che: Gli stessi abitanti considerano le credenze religiose. Io non so se tutti gli americani hanno fede nella loro religione, chi può leggere nel fondo del cuore? Ma sono certo che essi la credono necessaria al mantenimento delle istituzioni repubblicane, e questa convinzione non è propria di una classe di cittadini o di un partito, ma appartiene alla nazione intera, la si ritrova in tutti i ranghi111.

Significativa, a tal proposito, la chiosa di Manent: Il cittadino democratico non è un uomo religioso; ma per rendersi conto senza vertigine della propria libertà illimitata che lo rende individuo sovrano, egli si deve sdoppiare e riconoscersi nell’immagine dell’uomo naturalmente sottomesso a Dio. La religione degli americani è il sospiro del cittadino democratico oppresso dall’eccesso di libertà112.

Una funzione certamente strumentale, quindi, quella della religione in America, che nel connubio con la democrazia si vede riconosciuto comunque un ruolo importante, tale da comportare un freno rispetto agli istinti, alle pratiche e agli obiettivi che gli uomini dei tempi e dei paesi democratici vorrebbero e potrebbero perseguire. Da questo punto di vista Tocqueville, che abbiamo visto non essere un assertore entusiasta della democrazia, esprimeva tutta la propria ammirazione nell’osservare il ruolo riconosciuto alla religione oltreoceano. Tuttavia, si sbaglierebbe a pensare che mancasse una contropartita. In un matrimonio di convenienza entrambi i congiunti rinunciano a qualcosa e beneficiano di un cambio. Questo avveniva in America e Tocqueville, da abile osservatore, non mancava di registrare gli elementi por111 112

TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 1: 316). MANENT (1993: 135).

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tanti. Con altrettanta nettezza e precisione; infatti, dopo aver messo in luce le limitazioni che la democrazia subiva ad opera della religione, il grande sociologo si impegnava a descrivere i confini precisi e invalicabili entro i quali la religione, e le gerarchie ecclesiastiche, dovevano rigorosamente limitarsi. Secondo modalità che non erano impensabili soltanto per l’Europa di quel tempo, ma anche per quella dei giorni nostri. Leggiamo le considerazioni più importanti: Man mano che gli uomini diventano più simili e uguali, è anzitutto importante che le religioni, pur ponendosi accuratamente al di fuori del movimento giornaliero degli affari sociali, non urtino senza necessità le idee generalmente ammesse e gli interessi permanenti che regnano nella massa, poiché l’opinione comune appare sempre più come la prima e la più irresistibile delle autorità.

Da queste limitazioni non sono per nulla escluse le gerarchie ecclesiastiche, poiché, notava con assenso Tocqueville, «i preti americani si allontanano dagli affari pubblici»: «In America la religione è un mondo a parte in cui il prete è sovrano, ma dal quale ha cura di non uscire mai; all’interno di questi confini egli guida l’intelligenza, ma al di fuori lascia gli uomini liberi di sé, abbandonandoli all’indipendenza e all’instabilità che sono proprie della loro natura e dei tempi». Fino alla considerazione finale, molto significativa nel termine di paragone con la situazione francese ed europea in genere: Tutti i preti americani conoscono l’impero intellettuale che la maggioranza esercita, e lo rispettano. Essi non sostengono mai delle lotte contro di essa, se non quelle necessarie. Non si immischiano nelle querelle fra i partiti, ma adottano volentieri le opinioni generali dei loro paesi e dei loro tempi, lasciandosi andare senza resistenza nella corrente dei sentimenti e delle idee che trascina ogni cosa113. 113

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TOCQUEVILLE (2002: 445-446).

A questo punto si può giungere a una conclusione sull’argomento. Tocqueville, fra i più eminenti e capaci interpreti del proprio tempo – nonché spesso e volentieri abile a intuire i possibili sviluppi futuri delle principali questioni, rispetto alla sua analisi dell’esplosiva e inarrestabile comparsa della democrazia, fonte di uguaglianza fra tutti gli uomini e di rifiuto tanto dei dogmi quanto delle tradizioni, se non sottoposti a vaglio critico da parte della ragione – avrebbe certamente potuto annunciare la più o meno imminente «estinzione della religione» sulla scia di quanto avevano fatto e stavano facendo autori come Condorcet, Marx e Feuerbach. Oppure ancora, avrebbe potuto rimanere impantanato nel «dilemma della democrazia» espresso da Rousseau, quello per cui, nel dubbio se religione e libertà potessero essere compatibili, il grande autore del Contratto sociale si risolse proponendo una «religione civile» (senza Chiesa e gestita dal governo), che rigettava la religione tradizionale nel momento stesso in cui cercava di preservarne la funzione di «utilità sociale»114. Tocqueville è riuscito a tirarsi fuori da questo dilemma proprio utilizzando l’esempio offerto dal caso americano, che gli aveva mostrato come la democrazia riposasse sul felice connubio tra «spirito religioso» e «spirito civile», poiché in tale ambito la religione riusciva a farsi «garante dell’ordine sociale» e non finiva con il recitare la parte del «ricorso estremo alla trascendenza contro l’ordine sociale». Il grande autore francese, studiando il fenomeno religioso all’interno della democrazia americana, aveva insom114

Cfr. BOUDON (2005: 45) e ZETTERBAUM (1967: 110-111). MANENT (1993: 133) ha efficacemente sintetizzato la questione tracciando i due «poli estremi» all’interno dei quali si muoveva la descrizione di Tocqueville, ossia da una parte quello della «religione naturale», legata alle aspettative universali degli uomini, ben al di sopra delle questioni politiche e sociali; dall’altra il polo della «religione civile», concernente quell’opinione comune, tipica delle società democratiche, che vede la religione innanzi tutto per la sua utilità sociale.

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ma colto come «la tradizione religiosa» all’interno delle «società secolarizzate moderne», ben lungi dall’aspirare al governo temporale (come in Europa) o comunque a costituirsi alla stregua di un contropotere atto a esercitare un’influenza nelle grandi questioni sociali, si trasforma anzitutto in una «morale sociale», divenendo forse l’elemento più importante ai fini della costituzione e conservazione di una grande democrazia moderna quale Tocqueville riteneva essere quella della Nuova Inghilterra115. Il felice matrimonio (seppure di convenienza) tra democrazia e religione in terra americana, aveva insomma mostrato al nostro autore un’alternativa possibile rispetto alla netta contrapposizione che in Francia, ma non solo, vedeva violentemente divisi credenti ed esponenti del clero da una parte e fautori della libertà e della democrazia dall’altra, questi ultimi, per via della contingenza, inevitabilmente schierati su posizioni antireligiose e anticlericali. Divisione di cui Tocqueville, schierato nel mezzo, evidentemente soffriva, ma che costituiva il risultato di un momento storico e sociale che differenziava oltremodo la situazione europea da quella degli Stati Uniti116. 115

Per queste considerazioni ci siamo ispirati a quanto contenuto in TOURAINE (1994: 123, 241). Significativa la lettera che TOCQUEVILLE (1951 sgg., XIII, 1: 227) scriveva a Kergolay il 29 giugno 1831, in cui dopo aver notato che la religione americana si riduceva sovente a una «morale», considerava che oltreoceano «la fede è evidentemente inerte, entrate nelle chiese (intendo le chiese protestanti) e sentirete parlare di morale; non una parola sul dogma; nulla che possa urtare di meno il prossimo, nulla che possa rivelare l’idea di una dissidenza». 116 Questa «terzietà» di Tocqueville è stata efficacemente riassunta da Zetterbaum, in STRAUSS-CROPSEY (1963, v. II: 675), laddove affermava che «la difesa di Tocqueville dell’utilità della religione non implica che egli promuova una religione di stato; egli, al contrario, deduce dalle considerazioni politiche la necessità della separazione di Chiesa e stato. Ma contrariamente a quelli che hanno tentato di separare i due poteri al fine di rafforzare quello politico e indebolire quello religioso, Tocqueville afferma che solo attraverso la separazione l’influenza religiosa rimarrà abbastanza forte per esercitare i propri effetti benefici sulla società».

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Le due religioni Analizzando il caso americano, Tocqueville si trovava di fronte a una situazione diametralmente opposta a quella europea e, soprattutto, francese. Oltreoceano, infatti, era sorta da circa mezzo secolo una nazione che fin dalla sua nascita vedeva nell’armonia tra religione e ordine politico un elemento fondante di primaria importanza. In nome del bene primo, la libertà, questo rapporto armonico si mostrava negli Stati Uniti attraverso due aspetti apparentemente contrari, ma non certo contraddittori se compresi all’interno di un percorso storico evolutivo. Il primo aspetto è quello che risaliva alla fondazione puritana degli Stati Uniti, in cui religione e politica svolgevano un ruolo che le vedeva inseparabilmente unite nel regolare ogni dettaglio della vita sociale, ma in una maniera tale per cui «il potere della religione veniva esercitato da tutti i membri del corpo sociale su ciascun altro e da ciascuno su tutti», tanto da poterlo descrivere non come un potere della religione sulla società bensì come «un potere della società su se stessa attraverso il tramite della religione»117. Il secondo aspetto, che non tardò molto a presentarsi, era collegato al veloce e costante progresso della società americana, che mano a mano che si sviluppava acquisendo la capacità di autogovernarsi, vedeva il progressivo staccarsi dell’ordine politico dalla tutela di quello religioso, ma secondo delle modalità per le quali alla «fede ardente dei primi puritani» era seguito un «rispetto serio ma di superficie» che la democrazia pervenuta a maturità conservava nei confronti dell’ordine religioso: «E meno la società ha bisogno della religione per conservarsi ed agire su se stessa, più è portata a considerare la religione sotto l’aspetto dell’utilità sociale», chiosava con efficacia Manent118. 117 118

MANENT (1982: 132). MANENT (1982: 133).

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Questo rispetto sentito per la religione, la considerazione che per essa si doveva avere, in quanto insostituibile nel costituire il fondo morale della nazione, uniti alla capacità di costruire una società che, contemporaneamente, nel suo progressivo sviluppo si liberasse dal legame stretto con l’ordine religioso, dall’osservazione troppo rigida delle pratiche esteriori e, aspetto non minore, dalla stretta tutela del clero e di elementi intermediari tra l’uomo e Dio, rappresentavano la condizione ideale per Tocqueville, il cui notevole cruccio era dato semmai dal constatare una situazione oltremodo diversa al di qua dell’Oceano119. Del resto la Francia, e l’Europa in genere, avevano una storia molto più antica dello scarso mezzo secolo americano, storia in cui la contrapposizione fra gli epigoni di Dio e di Cesare risaliva alla notte dei tempi; che aveva visto fasi di lotta tra l’ordine politico e quello religioso assai aspre, con la relativa estremizzazione delle rispettive posizioni ideologiche, che per quanto concerneva i fautori dell’ordine politico arrivavano fino a tentativi più o meno espliciti di ridimensionare fortemente, se non abolire, la Chiesa in 119 Non a caso MITCHELL, in WELCH (2006: 286), descrivendo il sentimento religioso degli americani parla dell’«impulso verso il fondamentalismo» come uno degli aspetti più importanti della religione nell’«età democratica». Per «fondamentalismo» l’autore intende un ritorno ai fondamenti dell’esperienza religiosa, senza la mediazione di intermediari mortali e senza le costrizioni della tradizione e dell’autorità clericale che caratterizzavano la religione nell’«età aristocratica». «La possibilità di un’esperienza religiosa non mediata – chiosa l’interprete cui stiamo facendo riferimento – è stata corroborata dai mistici di tutte le età, tuttavia Tocqueville sembra sostenere che le condizioni di uguaglianza sociale cospirano a fare di quest’ultima il sentimento religioso dominante dell’età democratica». Simili considerazioni si possono trovare in LIVELY (1965: 194), il quale scorgeva un’implicita critica al cattolicesimo contemporaneo laddove Tocqueville consigliava alla Chiesa della nuova epoca democratica di riporre meno enfasi sugli aspetti rituali e sulle osservanze esterne della religione: ogni tipo di simbolismo e, più ancora, le predicazioni rivolte alle virtù ascetiche, costituivano dei tentativi di limitare la libertà degli individui assai contrari allo spirito dei nuovi tempi.

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quanto istituzione pubblica costituita. Era il caso, anche e soprattutto, di quei pensatori che pure riconoscevano, alla stregua di Tocqueville, l’importanza e perfino l’imprescindibilità della dimensione religiosa. Pensiamo al Machiavelli, tanto per risalire al XVI secolo e fare riferimento a un autore italiano, il quale nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, dapprima premetteva: Quelli principi o quelle republiche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino.

Salvo poi impegnarsi in una requisitoria contro la Chiesa, rea di aver preteso per sé un potere ben superiore a quello «che dal datore d’essa ne fu ordinato», facendo diventare gli italiani, con il suo esempio di corruzione, «senza religione e cattivi» e mantenendo l’Italia, con la sua brama di «imperio temporale», divisa ed esposta alla conquista di ogni popolo straniero120. Un secolo dopo, in Inghilterra, Thomas Hobbes, ben lungi dal negare importanza alla religione, esplicitava quello che in Machiavelli era rimasto maggiormente nascosto, dapprima chiedendosi in maniera retorica «quando e dove Cristo avesse ordinato o preso in qualche considerazione l’ipotesi di annunciare un Papa», poi argomentando in maniera più estesa: Non c’è nulla da cui poter inferire una dipendenza del laicato dal clero o degli ufficiali temporali da quelli spirituali; entrambi semmai lo sono rispetto al sovrano civile, il quale in verità è tenuto a dirigere i propri comandi alla salvezza delle anime, ma senza essere soggetto a nessun altro che non sia Dio stesso121. 120

MACHIAVELLI (1966, I, 12: 155-157). HOBBES (1651: 306, 316). Più avanti HOBBES (1651: 330) lo stesso filosofo inglese afferma chiaramente che l’unica Chiesa deputata a fare le leggi è lo stato. 121

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Ma è spostandoci in Francia, ovviamente, in quel secolo dei Lumi la cui filosofia avrebbe ispirato la Rivoluzione francese, che possiamo attingere dei riferimenti sicuramente tenuti presenti da Tocqueville (il quale, come è noto, non usava quasi mai citare le proprie fonti di ispirazione). Uno su tutti è Rousseau, che nel Contract social non soltanto celebrava proprio Hobbes come l’unico, «fra tutti gli autori cristiani», che avesse osato proporre di riunire «le due teste dell’aquila», così da ricondurre tutto all’unità politica122, ma come è noto chiudeva il proprio capolavoro perorando la causa di quella «religione civile» in cui vi fosse una «professione di fede puramente civile, di cui spetta al sovrano stabilire gli articoli, non proprio come dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza i quali è impossibile essere un buon cittadino o un suddito fedele»123. Abbiamo visto tre autori che, in epoche e contesti diversi e con differenti argomentazioni, pur provando un rispetto assoluto per la fede e la dimensione religiosa in genere, biasimavano l’operato della Chiesa, fattasi istituzione mondana spesso con pretese di esercitare direttamente il potere temporale o comunque di influire fortemente sulle questioni di pertinenza del potere politico. Si tratta di tre esempi che potrebbero essere agevolmente ampliati, ma non è questa la sede. Quello che qui ci preme rilevare è che, senza tema di smentita, con la Rivoluzione francese si è verificato un vero e proprio salto qualitativo, rappresentato da un evento storico la cui portata si estendeva ben oltre i confini francesi (e ben oltre i confini cronologici della fine del Settecento!), in cui per la prima volta la religione subiva un attacco complessivo. Concernente la sfera teorica e filosofica, certamente, ma con importanti ricadute su quella pratica, se è vero che per la prima volta si aveva la possibilità, peraltro messa in pratica, di colpire il potere eccle122 123

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ROUSSEAU (1915, II, IV, 8: 127). ROUSSEAU (ivi: 132).

siastico, per esempio nazionalizzando tutti i beni del clero, che al 2 novembre del 1789 ammontavano alla cifra esorbitante di tre miliardi. Anche se c’è da precisare che, malgrado l’indubbio salto qualitativo, il fine dei rivoluzionari era pur sempre quello di mettere l’ordine religioso sotto la tutela del potere politico, non certo quello di abolire la religione e neppure il clero: il 12 luglio del 1789 la Costituzione civile nominava 83 vescovi, uno per dipartimento, i quali, alla stessa stregua dei curati, venivano eletti dai cittadini (quindi anche da atei, protestanti, non cattolici, ebrei, ecc., qui era il vero scandalo!) come avveniva per tutti gli altri funzionari della nazione. In fondo si trattava anzitutto di una rivoluzione sociale, scoppiata anche e soprattutto per ragioni economiche e di miseria popolare e volta a distruggere il regime feudale: la Chiesa si trovava ad essere colpita in quanto rappresentava a pieno titolo uno dei pilastri portanti dell’Ancien Régime, dal quale riceveva benefìci e privilegi notevoli124. Certamente Tocqueville era ben consapevole di questi fatti, sapeva che la situazione dei rapporti fra l’ordine religioso e il potere politico in Francia era diversa da quella americana anche per delle responsabilità oggettive da parte del clero. Egli non voleva subordinare il potere religioso a quello civile e politico, ma, tenendo in considerazione l’esempio americano, promuoveva una netta separazione delle due sfere, con una convinzione tale da permettere di tirare delle conclusioni su una sua radicale difformità rispetto agli intenti rivoluzionari. Di sicuro prevaleva in lui l’odio per tutto ciò che avesse la parvenza della rivoluzione, e questo spiega le sue posizioni altalenanti rispetto al giudizio sulla Chiesa francese. Decisamente lucido era il Tocqueville che prendeva atto del fatto che «uno dei primi passi compiuti dalla Rivoluzione 124 Cfr. DUBY (1999: 517, 520, 523) per le questioni più generali e MIQUEL (1976: 272), per i dati sui beni ecclesiastici e sulle nomine dei nuovi vescovi da parte dell’ordine politico.

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francese è stato quello di attaccare la Chiesa», precisando immediatamente che «è assai meno come dottrina religiosa che come istituzione politica che il cristianesimo aveva acceso odi furiosi; non perché i preti pretendessero di regolare le cose dell’altro mondo, ma perché erano proprietari, signori, beneficiari di decime»: insomma, non perché la Chiesa non potesse trovare un posto nella società nuova che si stava fondando, ma perché essa occupava a quel tempo la posizione più privilegiata e più influente all’interno di quella vecchia società che si trattava di polverizzare125.

Ma il Tocqueville di questo capitolo de L’Ancien Régime et la Révolution era quello che si era dato come scopo di dimostrare che «credere che le società democratiche siano naturalmente ostili alla religione equivale a commettere un grande errore»126. Per fare ciò era disposto anche ad ammettere l’esistenza di due parti della filosofia del Settecento che stavano alla base della rivoluzione: una, quella più fondamentale e durevole nel tempo, concerneva la lotta per il riconoscimento di diritti politici e civili uguali per tutti; l’altra riguardava il furore che i filosofi del XVIII secolo misero in campo contro la Chiesa e la religione in genere. Questa seconda parte dello spirito rivoluzionario era destinata ad essere superata in breve tempo e si spiegava con il fatto che la Rivoluzione francese aveva come obiettivo quello di «abolire la forma antica della società» e, per fare ciò, aveva dovuto mettere sotto attacco «tutti i poteri costituiti», «cancellare le tradizioni», «rinnovare i costumi e le usanze» e, in un certo qual modo, «svuotare lo spirito umano di tutte le idee sulle quali si erano fondati fino a quel momento il rispetto e l’obbedienza»127. Ma una volta che la Rivoluzione era riuscita a scardinare l’Ancien Régime, quindi anche a ridimensionare for125

TOCQUEVILLE (2002: 955-956). TOCQUEVILLE (2002: 957). 127 TOCQUEVILLE (2002: 957). 126

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temente i privilegi della Chiesa – questa l’idea di Tocqueville – il sentimento religioso, che è connaturato al cuore del popolo, era tornato a far sentire la propria presenza inestirpabile e benefica per la società. La posizione del nostro autore mutava però, all’interno della medesima opera, quando dalle considerazioni più generali sul fenomeno religioso si passava a quelle riguardanti lo specifico della condizione sociale. Rispetto a ciò Tocqueville moderava le proprie considerazioni critiche sulla Chiesa, la quale non aveva «nulla per cui essere più attaccata da noi [in Francia] che negli altri paesi», e anzi i privilegi e gli abusi che si erano infiltrati in essa erano ben «inferiori che nella maggior parte degli altri paesi cattolici»; essa stessa era «infinitamente più tollerante» di quanto non lo fosse stata nel passato e non lo fosse ancora oggi presso gli altri popoli128. Per Tocqueville, quindi, la spiegazione del fenomeno rivoluzionario andava ricercata analizzando il fattore sociale ben più di quello religioso: Non si tratta più di sapere in cosa la Chiesa del tempo potesse peccare come istituzione religiosa, ma in che modo fosse di ostacolo alla rivoluzione politica che si stava preparando129.

Ed è a proposito della questione sociale che veniva fuori il sentimento preponderante del nostro autore, quello che lo conduceva fino a contraddire le sue analisi precedenti. Se da una parte, infatti, Tocqueville non negava le spiegazioni più generali che contrapponevano la Chiesa alla filosofia rivoluzionaria (essa si appoggiava sulla tradizione, riconosceva un’autorità superiore alla ragione individuale e aveva come principio cardine quello della gerarchia), così 128 Si tratta di una delle contraddizioni più forti presenti nell’opera di Tocqueville sulla rivoluzione, che non ci porta ad essere per nulla d’accordo con chi (ELSTER, 2006: 64) ritiene L’Ancien Régime et la Révolution un’opera meglio strutturata e perfettamente coerente rispetto agli ardori giovanili, seppur brillanti e pieni di visioni profetiche, espressi nella Démocratie. 129 TOCQUEVILLE (2002: 1042-1043).

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come non aveva negato, nei capitoli precedenti, le evidenti responsabilità che l’istituzione ecclesiastica, con i suoi comportamenti e con il suo «pericoloso commercio» con l’Ancien Régime, indubbiamente aveva; se è vero, come è vero, tutto questo, dall’altra parte Tocqueville scriveva espressamente che sostanzialmente dovevano comunque difendere la religione e la Chiesa «tutti coloro che avevano qualcosa da temere dalle rivoluzioni», anche coloro che pure erano d’accordo con le teorie dei filosofi del Settecento130. Troppo pericolosa, insomma, era una rivoluzione che volesse distruggere nella sua totalità l’ordine costituito, polverizzando al tempo stesso le credenze tradizionali e le pubbliche istituzioni, perché si potesse continuare a concentrarsi sulle pur esistenti responsabilità della Chiesa e dell’Ancien Régime. Troppo pericoloso, soprattutto, era il fatto che la Rivoluzione francese avesse operato «in rapporto a questo mondo precisamente nella stessa maniera in cui le rivoluzioni religiose avevano operato in vista dell’altro», mirando alla «rigenerazione del genere umano» più che alla riforma della Francia, accendendo una passione che fino a quel momento neppure le rivoluzioni politiche più violente avevano potuto mai produrre, ispirando il «proselitismo» e facendo nascere la «propaganda», assumendo insomma quella veste da «rivoluzione religiosa» che finiva per configurarla come una sorta di «nuova religione» o «religione imperfetta», senza un Dio, un culto o un’altra vita, ma nondimeno con i suoi «soldati», «apostoli» e «martiri» come l’islamismo131. Questa interpretazione di Tocqueville era destinata ad avere una grande influenza sulla tradizione liberale successiva, la quale, con lo sguardo rivolto alla tradizione socialista sfociata nella Rivoluzione d’ottobre, avrebbe scorto nella Rivoluzione francese la tappa iniziale di un 130 131

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TOCQUEVILLE (2002: 1044) TOCQUEVILLE (2002: 960).

modo di intendere la «rivoluzione politica» alla stregua di una «rivoluzione religiosa», ossia con la somma pretesa di ritenersi «universalmente valida» nonché «unica via di salvezza per tutta l’umanità», vera e propria origine di quella «democrazia totalitaria» che si realizza ogniqualvolta ci si illude di poter dare vita a un regime che soddisfi contemporaneamente le due più forti esigenze dell’uomo: un credo che tutto comprende e tutto risolve (il desiderio della salvezza) e l’aspirazione alla libertà132. In virtù di quanto sopra, e delle sue stesse idee fondate su una netta separazione tra la sfera politica e quella religiosa, Tocqueville non poteva consentire fino in fondo a una rivoluzione che si presentava con palesi sfaccettature di messianismo politico. Tuttavia, malgrado il nostro autore, in una lettera inviata ad Eugène Stoffels il 5 ottobre 1836, scrivesse con toni inequivocabili che non esisteva uomo in Francia che fosse meno rivoluzionario di lui, né alcuno che avesse un «odio più profondo» per ciò che veniva chiamato «spirito rivoluzionario», che troppo facilmente si combinava con l’amore per il «governo assoluto», in realtà il rapporto di Tocqueville con la Rivoluzione francese non era alieno da qualche ambiguità133. Non mancavano, infatti, pagine in cui il grande pensatore riconoscesse quel carattere unico di grandezza che apparteneva alla Rivoluzione francese, la sola che nel corso della storia fosse stata capace di coinvolgere e mobilitare così largamente tutto l’insieme del popolo, arrivando a stravolgere completamente l’assetto istituzionale di un intero paese. «La Rivoluzione francese non ha mai smesso di affascinare e terrorizzare allo stesso tempo Tocqueville», chiosava Lamberti, ma l’apparente contraddizione può essere superata calandosi sul piano dell’effettualità storica134. 132

ARON (1967: 241) e TALMON (2000: 346-347). Cit. in LIVELY (1965: 204). 134 LAMBERTI (1983: 254). 133

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Così facendo, allora, si può comprendere che quella che potrebbe sembrare un’ambiguità nel giudizio storico di Tocqueville, in realtà va letta come una distinzione: come molti autori liberali, infatti, egli non aveva mai abbandonato il giudizio positivo sulla fase iniziale della Rivoluzione francese, cui andava riconosciuto il ruolo di strumento contro l’assolutismo e di superamento di un Ancien Régime in cui i privilegi e le maglie strette di una società bloccata non consentivano la libertà degli individui. Occorreva, insomma, distinguere il giudizio positivo sui rivoluzionari del 1789 da quello negativo su quelli del 1792, il giudizio diverso pronunciato sui Girondini e sui Giacobini, ossia, rispettivamente, sui «fautori di Montesquieu, che credevano in una costituzione moderata, bilanciata e liberale», contrapposti a coloro che seguivano Rousseau nello spingersi verso una democrazia totalitaria135. Se le cose stavano in questo modo, era come se si imponesse una scelta tra due forme di religione e Tocqueville, pur non appiattito sul consenso acritico nei confronti di quella rappresentata dalla Chiesa tradizionale, non aveva dubbi sullo schierarsi a favore di quest’ultima e contro la religione della rivoluzione. Anche perché, questo il ragionamento del grande francese, l’improvviso e violento rifiuto della religione che era esploso con l’89, non costituiva che un’attitudine tempo135 Cfr. LIVELY (1965: 205) e FURET (1978: 208). Anche LAMBERTI (1983: 255) constatava che per Tocqueville soltanto la Rivoluzione francese ha messo in discussione, allo stesso tempo, le «leggi civili, politiche e religiose», ma solo nella fase iniziale la sua azione è stata volta contemporaneamente alla ricerca della «libertà» e dell’«uguaglianza», perché alla fine l’uguaglianza è divenuta «lo scopo principale». Ciò sostanzialmente la differenziava dalle Rivoluzioni americana e inglese, il cui fine principale era stato la «libertà». La riduttività di questa visione di Tocqueville, in un’ottica di comparatistica fra i cicli rivoluzionari, è stata messa efficacemente in evidenza da LOSURDO (1996: 37-87), il quale criticava con argomenti stringenti l’operazione tesa a distinguere in maniera nettta rivoluzioni «buone» e «cattive», portatrici esclusivamente di libertà o di oppressione.

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ranea, propria soltanto del periodo rivoluzionario e non certo pensabile alla stregua di una caratteristica permanente delle epoche democratiche, le quali, una volta stabilizzate, vedono i propri cittadini desiderare un benessere strettamente connesso all’ordine pubblico e a una sorta di «moralità religiosa»136. In conclusione, il Tocqueville che si trovava di fronte a un’epoca rivoluzionaria che, secondo il suo modo di vedere, si ammantava di furore religioso ed escatologico, non aveva dubbi nello schierarsi con la religione tradizionale e con i suoi organi rappresentativi, ma, come vedremo, senza mai venire meno a quell’idea di società in cui sfera politica e sfera religiosa, come aveva riscontrato in America, fossero nettamente separate e in cui l’ordine religioso perdesse molti dei suoi poteri di influenza, a tutti i livelli, sulla società civile. In questo senso il grande autore francese può essere visto come un momento di discrimine e di crocevia verso una forma di liberalismo affatto moderna.

Lo «strano» liberalismo di un mediatore sconfitto La concezione del liberalismo propria di Tocqueville non sarebbe comprensibile qualora venisse separata dalla sua esperienza di uomo politico fieramente liberale e, forse proprio per questo, «isolato»: «Politicamente Tocqueville appartiene al partito liberale», scriveva Aron, «ossia a un partito con poche chances di raccogliere consenso, per quanto contrastato, nella storia della politica francese»137. Né ci pare il caso di dover accettare meccanicamente l’osservazione di Aron, che si limita al solo contesto francese, poiché il liberalismo di Tocqueville si rivelava talmente precipuo e problematico, verrebbe da dire «americano», da non rendere agevole il suo apprendimento a nes136 137

Cfr. ZETTERBAUM (1967: 64). ARON (1967: 261).

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suna delle tradizioni nazionali europee. Ma egli lo portò comunque avanti con coerenza, forse illudendosi che il modello statunitense fosse esportabile in Europa, rivelandosi almeno in questo, a differenza di quella che abbiamo visto essere la sua grande capacità di realpolitik, non aliena persino a un certo cinismo, un grande idealista deluso e sconfitto dal corso che avrebbero preso gli eventi. Un liberalismo problematico, dunque. Vediamo perché. Tocqueville era certamente un liberale dal punto di vista epistemologico, pienamente aderente a quel «fallibilismo», fondato sulla consapevolezza che le nostre conoscenze sono limitate e smentibili, che «è il primo fondamentale presupposto del pensiero liberale»138. Questa incapacità di pervenire a verità certe e stabili da parte dell’uomo, come abbiamo visto, veniva vissuta dal grande autore francese con una consapevolezza pari soltanto all’angoscia, entrambi riscontrabili laddove egli proclamava di essersi convinto che «la ricerca della verità assoluta», dimostrabile, al pari della ricerca della felicità perfetta, costituiva uno «sforzo verso l’impossibile», tanto da non restargli altro proponimento che quello di rassegnarsi al «dubbio», certamente «il più insormontabile dei mali di questo mondo», da considerarsi peggiore persino della morte stessa139. Una lezione fatta propria, in tempi a noi più vicini, da un grande filosofo come Popper, colui che ha sistematizzato proprio il concetto di «fallibilismo», intendendo esprimere con esso «l’accettazione del fatto che noi possiamo errare», e che la ricerca della verità certa (certainty), o anche soltanto di un’alta probabilità (high probability) è una ricerca erronea, poiché «non possiamo mai essere certi di averla trovata», in quanto «c’è sempre una possibilità di errore»: qui risiede l’essenza del «razionalismo vero», quello esemplificato da Socrate, consapevole dei propri limiti e 138

ANTISERI (1998: 8). TOCQUEVILLE (1864-1866, VI: 153-154) e TOCQUEVILLE (1951 sgg., V, 1: 183). 139

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caratterizzato da una modestia intellettuale, di contro al «razionalismo falso» o pseudorazionalismo, attribuito dal filosofo austriaco a Platone e fondato su una «fiducia immodesta nelle proprie superiori doti intellettuali»140. Tale consapevolezza di Tocqueville rispetto ai limiti della conoscenza umana, ossia della limitata capacità dell’uomo di «produrre delle rappresentazioni valide della realtà», ha dato spunto a un autore come Boudon per evincere implicazioni di metodologia sociale, ad esempio considerando Friedrich von Hayek come uno che, sulla scorta del grande francese, aveva compreso che «i fallimenti a cui è esposto ogni tentativo di pianificazione, si spiegano essenzialmente con il fatto che la conoscenza non può dominare la complessità dei processi sociali»141. Se il suo fallibilismo epistemologico ha fatto sì che Tocqueville venisse accettato dalla comunità dei liberali, e rubricato senza problemi all’interno della medesima, un altro contributo in tal senso lo ha fornito la sua indubbia propensione per la libertà, da lui definita come «la prima delle mie passioni», soprattutto nei confronti di quell’«uguaglianza» che molti esponenti del liberalismo hanno fatto fatica ad accettare e che lo stesso autore francese descriveva con toni preoccupati142. Egli, infatti, era consapevole dell’inesorabile avanzata nel mondo moderno da parte della democrazia e dell’uguaglianza, ma ormai sappiamo che le viveva come un’evoluzione inesorabile della storia, riconoscendovi, proprio per questo, vari elementi di inquietudine per le sorti delle società umane e dei governi. 140 POPPER (1945, II: 375-376) e POPPER (1963: 351). Sul fallibilismo epistemologico e sulle differenze all’interno del pensiero liberale contemporaneo, in particolare tra lo stesso Popper e Hayek, rinvio a ERCOLANI (2006: 23 sgg., 89 sgg.). Per un’analisi più dettagliata della distinzione tra razionalismo vero e falso, cfr. ERCOLANI (2006²: 77-78). 141 BOUDON (2005: 196-198). 142 TOCQUEVILLE (1951 sgg., III, 2: 87). Per una valida ricostruzione dell’importanza primaria che l’idea di libertà rivestiva in Tocqueville, cfr. BALDINI (2001: 68 sgg.).

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Del resto si tratta del Tocqueville il quale si diceva fermamente convinto che «per combattere i mali che l’eguaglianza può produrre, non vi è che un solo rimedio efficace: la libertà politica», lamentandosi del fatto che i popoli democratici avevano sì un «gusto naturale» per la libertà, ma che nulla o troppo poco rappresentava rispetto alla «passione ardente, insaziabile, eterna e invincibile» che essi coltivano per l’uguaglianza, fino al punto di sacrificare la prima per quest’ultima se costretti alla scelta143. In questo riconoscere la preminenza alla libertà rispetto all’uguaglianza, aspetto anch’esso tipico del liberalismo classico, risiedeva una delle caratteristiche più importanti di Tocqueville, secondo alcuni votato a «istruire la democrazia», combattendone i mali che l’uguaglianza, caratteristica precipua della democrazia stessa, poteva arrecare alle società libere. A tal proposito il sociologo francese proponeva due espedienti: la «decentralizzazione locale» e lo sviluppo di «libere associazioni di cittadini», quali ricette sociali e istituzionali miranti a salvaguardare le libertà individuali all’interno delle moderne società democratiche, in seno alle quali lo sviluppo inesorabile dell’uguaglianza rischiava di limitare il libero agire degli individui144. Voler salvaguardare la libertà all’interno delle società democratiche, nelle quali la fortissima spinta verso l’uguaglianza delle condizioni costituiva un pericolo per Tocqueville, rivelava una preoccupazione tanto liberale quanto connessa a un’altra caratteristica fondante di questa tradizione: la forte opposizione alla rivoluzione. Anche se, occorre precisarlo, in ciò Tocqueville si rivelava un antesignano di una ben specifica distinzione, tipica del pensiero liberale, nel considerare i fenomeni rivoluzionari. Cioè quella distinzione per cui da una parte vi sarebbero stati nella storia cicli rivoluzionari negativi, impregnati di ideali tanto astratti e innaturali (uguaglianza) quanto di metodi vio143 144

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TOCQUEVILLE (2002: 501, 495). Cfr. BÉNOIT (1978: 115-116).

lenti che scaturivano nel terrore (rivoluzioni giacobina e bolscevica), mentre dall’altra vi sarebbero state rivoluzioni capaci di diffondere ed estendere la libertà individuale in maniera pacifica e graduale (rivoluzioni inglese e americana)145. Per ovvie ragioni cronologiche Tocqueville poteva operare una tale distinzione rifacendosi soltanto agli eventi rivoluzionari compresi fino alla prima metà dell’Ottocento, peraltro all’interno di note inedite che non aveva fatto in tempo a inserire nella sua opera sulla Rivoluzione francese. In queste note, comunque, il cerchio si chiudeva, soprattutto laddove il sociologo francese rimarcava l’«immensa differenza» che sussisteva tra la Rivoluzione inglese, «condotta unicamente in vista della libertà», e quella francese, «condotta principalmente in vista dell’uguaglianza»146. A voler leggere attentamente l’opera di Tocqueville, come abbiamo già avuto modo di notare, il suo giudizio sulla Rivoluzione francese non era del tutto negativo, comunque, e ciò non soltanto perché egli operava delle distinzioni tra i rivoluzionari dell’89 e i giacobini, ma anche perché nella sua radicalità essa aveva comunque soppresso un qualcosa, l’Ancién Régime, che stava inesorabilmente crollando da solo per consunzione storica. Scriveva Tocqueville: Se non fosse avvenuta [la Rivoluzione], il vecchio edificio sociale sarebbe comunque crollato dappertutto, qui più presto, altro145 La lista degli autori liberali che si sono impegnati in tale rigida distinzione sarebbe troppo lunga da elencare in questa sede. Una ricostruzione esaustiva, anche se critica, di tale corrente di pensiero la si può trovare nel già citato lavoro di LOSURDO (1996). Qui ci limitiamo al caso della ARENDT (1963: 50-51), la quale dopo aver parlato della presumibile lezione che la Rivoluzione bolscevica aveva appreso dalla Rivoluzione francese, riconosceva in entrambe la capacità di annullare le libertà individuali attraverso quella terribile arma a doppio taglio che era costituita dal binomio «ideologia» e «terrore». 146 TOCQUEVILLE (1951 sgg., II, 2: 334). Significativo il fatto che nella stessa pagina Tocqueville sottolineasse anche la differenza tra lo spirito antireligioso della Rivoluzione francese in confronto a una Rivoluzione inglese che «è stata più religiosa che politica».

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ve più tardi; solamente che avrebbe continuato a cadere pezzo per pezzo (pièce à pièce), invece di sprofondare in un colpo solo. La Rivoluzione ha dato il colpo di grazia, in maniera subitanea, attraverso uno sforzo convulsivo e doloroso, senza fasi di passaggio né riguardo, a ciò che alla lunga sarebbe gradualmente finito per conto suo147.

In questa analisi di Tocqueville emergeva un altro aspetto destinato a rivestire un ruolo irrinunciabile per il pensiero liberale del Novecento: quella che Popper avrebbe chiamato «ingegneria sociale gradualistica (piecemal social engineering)», fondata anzitutto sulla convinzione che le conoscenze umane sono troppo limitate perché si possa accogliere come benefica una rivoluzione che pretenda di sovvertire in un colpo solo l’intero impianto di una società148. Nel suo rifiuto di un certo tipo di rivoluzione, Tocqueville mostrava di aderire in pieno, e per certi versi farsi antesignano di quella tradizione liberale che rifiutava tanto il metodo olistico, inteso come pretesa di sovvertire un ordine sociale nel suo complesso e subitaneamente, quanto la presunzione della ragione umana di pianificare tutte le fasi sociali senza riconoscere all’ordine spontaneo insito nelle cose il potere di influenzare gli eventi, in maniera indipendente dall’intervento dell’uomo. Fino a questo punto dell’analisi è certamente arduo trovare degli elementi che possano far allontanare Tocqueville dalla tradizione liberale, tanto da trovarci d’accordo con chi inserisce il grande pensatore francese, in compagnia dei soli Montesquieu e Weber, tra i pochissimi sociologi che non hanno appoggiato le tendenze prevalentemente antiliberali del pensiero sociologico149. Eppure il rapporto fra Tocqueville e il liberalismo non è così lineare e senza problemi, soprattutto se ci concen147

TOCQUEVILLE (2002: 965). POPPER (1957: 67). Per un’analisi più ampia della questione rimando a ERCOLANI (2006: 94-95). 149 MANENT (2006: 110). 148

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triamo su uno dei capisaldi della grande tradizione politica: l’individualismo. Malgrado Hayek, infatti, nella sua analisi sull’individualismo vero e falso, avesse inserito Tocqueville tra coloro i quali meglio avevano rappresentato tale ideale, il rapporto del grande pensatore francese con questo caposaldo del liberalismo non era alieno da punti assai problematici. E ciò non tanto perché, come lo stesso Hayek onestamente riconosceva, Tocqueville risentiva del significato francese del termine «individualismo», intendendo con esso l’egoismo dell’individuo che si estranea dalla società per curare soltanto gli interessi propri e dei familiari, e quindi opponendovisi fermamente, quanto perché l’autore francese ha dato più volte prova di una considerazione dell’individualismo fortemente critica e limitata150. Per esempio, lo abbiamo visto, laddove in un passo giustamente definito «fondamentale» della Démocratie, Tocqueville descriveva «una condizione di vita in cui sembra realizzarsi l’armonioso equilibrio tra un’assoluta libertà di iniziativa e di ricerca nella sfera politica e l’abdicazione alla propria autonomia razionale nella sfera religiosa ed etica», in quanto il grande sociologo parlava dello «spirito umano» che di fronte alla religione «abiura il dubbio» e «s’inchina rispettoso davanti a verità che ammette senza discutere». Questo aspetto ha portato l’acuta studiosa italiana, cui stiamo facendo riferimento, a parlare giustamente di «ambito delimitato [da Tocqueville] assegnato all’autonomia della ricerca individuale e quindi – a voler essere conseguenti – alla libertà umana»151. Potremmo anche chiederci di quale individualismo si possa parlare, a meno di non voler escludere dalla categoria di individuo il genere femminile, rispetto a un autore che magnificava la società americana per il fatto che riconosceva «l’inferiorità della donna» e la sua conseguente 150 151

HAYEK (1948: 4-5). BATTISTA (1976: 29-30).

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sottomissione all’uomo in quanto «capo naturale», senza contare che mai si era pronunciato in favore del diritto di voto alle donne malgrado insistesse sul fatto che la Francia stava marciando verso un lento, ma inesorabile riconoscimento del suffragio universale maschile152. Ma l’aspetto che più salta agli occhi, e che in qualche modo rende assai problematico il rapporto di Tocqueville con il complesso della tradizione liberale, riguarda il suo forte scetticismo, quando non la critica vera e propria, a quella forma di «liberalismo borghese» che vede l’individuo della società civile tutto propenso alla ricerca dei beni materiali e del successo, secondo una «logica degli interessi» fondata sulla convinzione che la natura economica delle cose produce spontaneamente quegli effetti morali che correggono e limitano gli eccessi delle passioni umane, favorendo così anche lo sviluppo dei costumi dei cittadini. Di fronte a questa idea secondo la quale, in buona sostanza, erano il libero commercio e l’economia a produrre delle società più democratiche, Tocqueville frapponeva tutto il proprio scetticismo, considerandola una verità parziale e preferendo insistere sui rischi che l’amore eccessivo dei beni materiali fa correre alla libertà, convinto che è piuttosto la libertà che produce il commercio e la prosperità, non certo il contrario153. In questo, che potremmo definire un parziale rovesciamento ontologico del rapporto libertà-economia, il Tocqueville che considerava basilare la prima, integrata da una serie di valori e costumi sociali che dovevano essere propri della collettività e andare a beneficio della stessa, pren152

TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 2: 219-222), per l’inferiorità della donna e la sua naturale sottomissione all’uomo; BOESCHE (1987: 180) per il discorso sul suffragio, mentre per un’analisi più ampia rinvio ad ERCOLANI (2004: 52 sgg.). 153 Cfr. LAMBERTI (1983: 85, 233, 235). In questo ribaltamento della logica e del rapporto tra economia e libertà Tocqueville seguiva certamente Chateaubriand, critico implacabile dell’individualismo economico di Constant.

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deva le distanze da tutta una tradizione di pensiero liberale a lui antecedente e successiva. Si pensi in particolare a un autore come Montesquieu, riferimento imprescindibile per Tocqueville, il quale affermava che sono «le leggi del commercio che perfezionano i costumi», ma che, soprattutto nel pronunciare l’elogio dell’Inghilterra, parlava di una nazione che aveva sempre sottoposto gli interessi politici a quelli commerciali154. Con il Novecento tale teoria si faceva più esplicita, per esempio con Mises, teorico della democrazia «inestricabilmente legata al capitalismo», oppure, in maniera ancora più diretta, con Milton Friedman, sostenitore del fatto che la libertà economica è «condizione necessaria» per la libertà politica155. Non che tutto questo venisse rigettato in toto da Tocqueville, il quale però preferiva, e di gran lunga, insistere sul fatto che commercio e prosperità sono due prodotti della democrazia liberale, cioè di un sistema in cui non soltanto «l’egoismo» propriamente detto deve essere considerato un elemento da combattere156; anche un eccesso di «libera concorrenza» individuale, che faccia perdere di vista il bene principale della collettività, va vissuto come un elemento di rischio per l’uomo157. 154 MONTESQUIEU (1748: XX, 1 e 7); TOCQUEVILLE (1864-1866, VII: 202) si è espresso più volte in maniera contraria, affermando la saggezza del sacrificare gli interessi economici e industriali in favore di quelli politici. 155 MISES (1922: 539); FRIEDMAN (1962: 4). 156 Non è un caso che il più importante studioso francese dell’individualismo sociale ed economico a cavallo fra Ottocento e Novecento, SCHATZ (1907: 558-559), si fosse sforzato di precisare che l’individualismo non andava assolutamente considerato alla stregua di un «sistema di isolamento nell’esistenza e un’apologia dell’egoismo», perché anzi quest’ultimo è «il peggiore degli ostacoli che incontra l’individualismo», il quale invece si sforza di promuovere lo sviluppo di ogni individuo non facendogli mai dimenticare che ciò è impossibile senza il concorso di tutti gli altri uomini. 157 Tocqueville parlava di un individualismo che proprio nelle democrazie liberali assumeva le vesti di un «sentimento che dispone ogni cittadino a isolarsi dal resto dei cittadini e a ritirarsi nel proprio orto con la

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Insomma, non siamo certamente di fronte a un autore del liberalismo classico che, per usare le sue stesse parole, coltivava «il culto superstizioso del diritto di proprietà» tipico dei Tories inglesi158, ma che anzi in più occasioni si spingeva, con una capacità profetica in questo caso poco valutata, a perorare la causa di un liberalismo che contemplasse l’intervento del governo contro i monopoli, che regolasse le minacce dell’industria all’interesse pubblico, supervisionasse i lavori pubblici e garantisse sovvenzioni e protezioni ai lavoratori sfruttati e alle classi sociali più deboli159. Se questi ultimi aspetti servono a marcare alcune distanze fra Tocqueville e, soprattutto, il liberalismo economico di matrice liberista, in voga e al suo apice proprio negli anni in cui scriveva il nostro autore, possiamo però riscontrare un ulteriore elemento di adesione piena e coerente da parte del grande sociologo al liberalismo più puro. Un elemento che, potremmo dire, nasce proprio dalla grande attenzione che il pensatore francese riservava alla società in quanto dimensione politica collettiva, luogo in cui si curano e progrediscono i costumi e gli affari pubblici. Questo elemento era dato dalla netta separazione fra lo stato e la Chiesa, e sorgeva dalla profonda convinzione di famiglia e gli amici», cioé all’interno di un sistema in cui l’ambizione personale diventa caratteristica pregnante dei costumi e le virtù di responsabilità civica e sociale per i pubblici affari tendono inesorabilmente a svanire; cfr. LIVELY (1965: 77 sgg.). Inequivocabili e persino enfatiche le parole di Tocqueville sulla concorrenza: «Quando ciascuno cerca senza sosta di cambiare posizione e un’immensa concorrenza è aperta a tutti, quando le ricchezze vengono accumulate e dissipate in pochi istanti in mezzo al tumulto della democrazia, l’idea di una fortuna immediata e facile, di grandi beni facilmente acquisiti e perduti, l’immagine stessa del rischio, in tutte le sue forme, si presenta allo spirito umano», TOCQUEVILLE (2002: 530). 158 TOCQUEVILLE (1968: 73). 159 TOCQUEVILLE (1864-1866, IX: 77, 573), ma anche TOCQUEVILLE (1951 sgg., VIII, 2: 294). Per un’analisi più articolata di questioni che qui abbiamo potuto soltanto riassumere, delle considerazioni di Tocqueville in merito al capitalismo e al rapporto fra democrazia e industrializzazione, sono utili le analisi contenute in DRESCHER (1964: cap. 7), DRESCHER (1968: cap. 3) e in BOESCHE (1987: 133 sgg.).

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Tocqueville per cui la politica e la cura degli affari sociali non dovevano essere influenzati in alcun modo da credenze o istituzioni di culto, a differenza di quanto poteva accadere con l’individuo, la cui educazione morale doveva essere ispirata a valori spirituali. Quella che abbiamo visto essere in Tocqueville una difesa dell’«utilità della religione» non lo ha mai condotto a invocare una religione di stato e, anzi, erano proprio delle considerazioni puramente politiche a spingerlo a ritenere necessaria la separazione della Chiesa dallo stato, arrivando a dire che la religione può rimanere forte e far sentire la propria benefica influenza sulla società democratica soltanto se rimane fuori dalle vicende politiche160. Non a caso parliamo di un autore che, come segnalato anche dal più importante filosofo americano, inseriva tra le principali cause della forza della democrazia americana la separazione fra la Chiesa e lo stato, rimarcando il fatto che in essa aveva riscontrato quella piena consonanza tra «spirito di libertà e spirito di religione» che invece mancava in Europa161. Negli Stati Uniti, secondo Tocqueville, ciò era stato possibile perché gli americani avevano compreso che finché una religione «si appoggia soltanto sui sentimenti che sono di consolazione per tutte le miserie», senza mischiarsi agli interessi mondani o legarsi a «poteri effimeri», allo160

Cfr. ZETTERBAUM (1967: 116-117). Si tratta, ovviamente, di RAWLS (1999, v. II: 603-604), il quale significativamente considerava come la grande vitalità della religione negli Stati Uniti non fosse dovuta a una peculiarità del popolo americano, ma a quel Primo Emendamento che, nel momento stesso in cui proteggeva tutte le religioni dallo stato, le metteva anche sullo stesso piano, non permettendo ad alcuna di prevalere sulle altre e reprimerle, come invece ha fatto il Cristianesimo fin dai tempi di Costantino, cercando di assurgere a religione di stato e facendosi supportare da questo nelle feroci repressioni contro le fedi diverse. Soltanto con il Concilio Vaticano II e con la Dichiarazione Dignitatis Humanae, scriveva Rawls, la Chiesa cattolica aveva sconfessato il «furore persecutorio» che aveva messo in atto per secoli. 161

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ra può aspirare all’immortalità; che «via via che una nazione assume uno stato sociale democratico e che le società propendono per la forma repubblicana, diviene sempre più pericoloso unire la religione all’autorità», tanto più che, coinvolta in mezzo alle lotte di partito, dove mai potrebbe finire il rispetto che è dovuto alla Chiesa? I primi a capire questa verità sono stati proprio i preti americani, scriveva Tocqueville, i quali hanno saggiamente deciso di conformarvisi anche a costo di perdere l’appoggio del potere politico. «Perché questo quadro non è applicabile da noi?», si chiedeva in maniera retorica il grande sociologo, riferendosi evidentemente all’Europa e giungendo a una risposta netta: perché da noi vi è una «causa accidentale e particolare» che impedisce allo spirito umano di seguire la via virtuosa, e «sono profondamente convinto che questa causa particolare e accidentale è l’intima unione della politica e della religione»162. In questo modo Tocqueville prendeva le distanze da buona parte del pensiero controrivoluzionario che, sulla questione del rapporto tra religione e politica, vedeva molti epigoni di Bossuet schierati su una posizione tesa non solo a non considerare neppure la separazione delle due sfere, 162 TOCQUEVILLE (2002: 279, 281-282, 283-284). Più avanti, sempre nella Démocratie, TOCQUEVILLE (2002: 528), il nostro autore scriveva di sentirsi così «convinto dei pericoli quasi inevitabili che corrono le credenze quando i loro interpreti si mescolano agli affari pubblici, e al tempo stesso così convinto che bisogna mantenere a ogni costo il cristianesimo all’interno delle nuove democrazie, che piuttosto preferirei incatenare i preti nel santuario che lasciarli uscire da esso» (corsivi nostri). Già Madame DE STAEL (1818: 593), pur all’interno di un libro critico nei confronti della Rivoluzione francese, aveva deplorato il fatto che «la religione in Francia, per il modo in cui i preti l’avevano predicata, si era sempre mescolata con la politica». Da queste idee sappiamo che fu influenzato anche il nostro Cavour, che aveva letto la Démocratie e, in una lettera del 25 marzo 1835 a suo fratello Gustavo, esprimeva il sogno di «una Chiesa libera in uno stato libero»; cfr. BATTISTA (1976: 27), ALBERTONI (1985: 282) e LECA (1988: 672).

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ma anzi a sottolineare il primato epistemologico e sociale della Chiesa cattolica sui governi civili. Era il caso di Bonald, per restare in Francia, il quale considerava la società civile come il luogo in cui avviene la «riunione della società religiosa e politica», con la religione ben in primo piano a svolgere il ruolo di «principio nascosto di tutti gli avvenimenti della società», costituendone l’anima profonda163. Ma si può citare anche Cortés, coevo di Tocqueville e tra i massimi esponenti di quel cattolicesimo che si mostrava antiliberale tanto sul piano teorico quanto su quello pratico, pronto a descrivere la Chiesa cattolica come un’autorità «al di sopra di tutte le altre», «infallibile e stabilita per l’eternità», in cui non v’è «peccato, errore né debolezza»164; tutte premesse che servivano all’autore iberico, ma con non pochi rapporti con la Francia, a evidenziare «l’errore fondamentale del liberalismo», e con esso di Tocqueville, quello cioè di «conferire importanza alle sole questioni di governo, le quali, confrontate con quelle di ordine religioso e sociale, non rivestono alcuna importanza»165. Certamente queste posizioni estreme erano lontane anni luce dalle idee del sociologo francese, il quale però non poteva aderire neppure al forte spirito anticlericale e antireligioso che, soprattutto in Francia, non si era sopito fin dalla Rivoluzione, costituendo anzi uno dei lasciti più forti e duraturi del 1789. Eppure, per uno di quegli strani scherzi del destino che spesso hanno colpito i (pochi) liberali autentici, Tocqueville si trovava a vivere in un periodo storico, e in un paese, in cui le due ali estreme andavano per la maggiore ed erano 163 BONALD (1795, v. II: 310, 323). Lo stesso BONALD (1795: 319) scriveva che «se ogni religione tende a stabilire il governo che le è conforme, o il governo a introdurre la religione che gli conviene», religione cattolica e governo monarchico si scelgono a vicenda. Si tratta evidentemente di una visione superata da Tocqueville. 164 CORTÉS (1851: 33-35). 165 CORTÉS (1851: 204).

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fieramente impegnate ad alimentare uno scontro a tutti i costi che secondo lui si poteva evitare, ma che di fatto lo relegava tra gli isolati, spesso e volentieri bersagli degli strali di entrambe le fazioni166. Così è stato, per esempio, per la grande querelle scoppiata sulla libertà di insegnamento all’interno della Monarchia di Luglio – tra il 1840 e il 1844 – che vedeva violentemente opposti lo schieramento liberale laico e una larga parte del clero francese e dei cattolici. In gioco vi era l’esercizio dell’istruzione secondaria, momento topico della formazione culturale delle future classi dirigenti, ancora regolata dalla legge napoleonica sull’«Université Imperiale», la quale, di fatto, assegnava al solo stato la possibilità di formare la gioventù sulla base dello spirito nazionale. A colpi di brochures e pamphlets non si risparmiavano colpi lo schieramento legittimista di Veuillot e Montalembert («L’Univers», il «Correspondant» e la «Gazette de France») da una parte, e quello laico, favorevole al monopolio dell’istruzione secondaria detenuto dall’«Université», dall’altra, attraverso organi come «Le Journal des Débats», «Le National», diretto da Armand Marrast e «Le Constitutionnel» di Thiers. La posizione di Tocqueville è stata efficacemente riepilogata da Anna Maria Battista: «Netta dissociazione nei confronti della rissa impegnata con toni asprissimi tra laici e cattolici; attribuzione delle responsabilità maggiori di tale 166

La posizione di Tocqueville era nobilmente liberale in quanto, all’interno dei numerosi scritti sull’insegnamento secondario, tendeva a sottolineare il fatto che l’Università può istruire, ma non educare, in palese contrapposizione rispetto alle volontà educative, e monopolistiche, tanto dello stato quanto della Chiesa. In virtù di questa alta concezione dell’insegnamento, che si innalzava al di sopra degli interessi di bottega delle istituzioni politiche come di quelle ecclesiastiche, Tocqueville componeva una serie di articoli per «Le Commerce» (ma che il giornale si rifiutò di pubblicare) volti a dimostrare la perfetta inutilità di uno scontro così frontale. Cfr. JAUME (1997: 238-278) per una valida ricostruzione della querelle sull’insegnamento e per lo specifico della posizione del sociologo.

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insensato conflitto ai polemisti più retrivi dello schieramento cattolico; netto avallo di una impostazione liberista del problema universitario», inteso quest’ultimo come possibilità per i cattolici non già di rivendicare un potere univoco rispetto alla formazione dei giovani, ma il semplice principio costituzionale della libertà d’insegnamento167. Si trattava del Tocqueville che, in una lettera del 1843, scriveva che il suo «più bel sogno» nell’entrare nella vita politica era quello di contribuire alla riconciliazione tra lo «spirito di libertà» e lo «spirito di religione», tra la «società nuova» e il «clero», ma che, al tempo stesso, diveniva man mano più consapevole che si parlava di una riconciliazione «rinviata di anni»168. Il sogno di trovare un punto di incontro tra liberalismo e religione era destinato a sfumare del tutto, nella vita di Tocqueville, anche con la vicenda della Repubblica romana, di pochi anni successiva alla guerra sulla libertà d’insegnamento e vera e propria pietra tombale delle più idealistiche aspirazioni del grande sociologo. Quella che è stata una delle pagine più alte ed entusiasmanti della storia della non ancora Italia, infatti, l’insurrezione di patrioti e rivoluzionari provenienti da tutta la penisola, e guidati da Garibaldi, per rovesciare il secolare potere liberticida e oscurantista dello Stato Pontificio, vedeva Tocqueville coinvolto in primo piano, in quanto titolare del Ministero degli Esteri di quella Francia che era intervenuta per rovesciare la Repubblica romana e ripristinare il potere papale. In realtà il nostro autore, che pur non aveva manifestato la propria contrarietà rispetto alla spedizione francese a 167

BATTISTA (1976: 23-24). Cfr. TOCQUEVILLE (1864-1866: 212-214). «La posizione di Tocqueville appare peculiare e isolata – chiosava BATTISTA (1976: 2829) – la sola che non sia scalfita dallo scontro ideologico in corso, perché essa poggia su una singolarissima dissociazione tra la sfera eticoreligiosa, concepita in chiave dogmatica e illiberale, e la sfera politica in cui la libertà è assunta a valore irrinunciabile, assoluto e primario». 168

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Roma (votando anzi a favore per finanziarla), accettava la poltrona degli Esteri a cose fatte, insediandosi proprio nei giorni in cui l’esercito sferrava l’attacco169. La decisione, quindi, era stata di altri e, in fondo, Tocqueville coltivava la speranza che Pio IX, una volta recuperato il potere, avrebbe concesso quelle riforme in senso liberale che le terre governate dal papato attendevano da decenni. Tale speranza lo spingeva in più occasioni ufficiali a difendere la scelta del proprio governo, subendo per questo le pesanti accuse della sinistra e dei laici francesi, anche se nella corrispondenza privata traspariva il senso di irritazione profonda e cocente delusione per la politica di Pio IX, prontissimo a restaurare le peggiori forme di potere oscurantista e antiliberale e a redigere il Motu Proprio, in cui si ribadiva la più profonda contrarietà a ogni tipo di riforma. In una lettera del 1 ottobre 1849 a Corcelle, amico e plenipotenziario francese a Roma, che però aveva deluso le aspettative di Tocqueville appiattendosi sulle volontà del Papa, esprimeva «indignazione» e «irritazione profonda» in seguito alla lettura del Motu Proprio, lamentando che in essa non vi era contenuta alcuna riforma e nemmeno apertura in senso liberale e criticando aspramente l’amnistia che la Santa Sede aveva concesso con formule talmente restrittive da non salvare quasi nessuno. Il grande autore prendeva atto di una spedizione romana che si era rivelata fallimentare – rendendo più difficile che mai l’«unione tra la Chiesa e la società nuova» – manifestando tutta la propria delusione rispetto a una figura di Papa, quella di Pio IX, che tante speranze aveva suscitato fin dal suo insediamento e 169

Del resto, un protagonista della politica del tempo come FALLOUX (1888, I: 475) riferiva che Tocqueville gli si era rivolto in questi termini:«Se avessi fatto parte del Governo all’inizio della spedizione, mi sarei opposto all’avvio della medesima finché il popolo romano non si fosse pronunciato per proprio conto in merito alla questione del potere temporale».

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tante si era rivelato capace di deluderne, mettendo in grave imbarazzo il governo francese e, prima di tutti, lo stesso Tocqueville, che, nella sua funzione di ministro degli Esteri, aveva più volte assicurato l’intento di «missione liberale» della spedizione stessa170. Tocqueville, che comunque non aveva mancato di rimproverare duramente Corcelle e di prendere misure adeguate per offrire agli esiliati romani un asilo riparatore in terra francese, «rimase personalmente segnato da questa esperienza diplomatica», scriveva Jardin nella sua pregevole biografia del sociologo; «l’ipocrisia della corte romana lo aveva esasperato» tanto che, da questo momento e praticamente fino alla fine dei suoi giorni, nella corrispondenza personale traspariva un’«asprezza anticlericale» che fino a quel momento era stata pressoché assente171. A questo punto si può tentare di trarre delle conclusioni rispetto a quello che appare, in Tocqueville, come un liberalismo problematico e contrastato, proprio di una grande figura che rende difficile ogni tentativo di classificazione. Aristocratico per nascita e gusti, democratico per convinzione politica (con tutti gli evidenti limiti propri del tempo), il grande sociologo si presentava come un liberale che temeva il collasso dei legami tradizionali e paternalistici fra gli individui; ben più vicino a Rousseau che non a Locke nel promuovere una forma di individualismo che salvaguardasse i fondamenti della comunità politica; capace di un «profondo disgusto» per i valori sfrenati del «selfinterest», del capitalismo e del nuovo mondo industriale in genere; convinto, infine, alla stregua dei pensatori «realisti» come Bossuet e Fénelon, della profonda utilità della religione nel produrre autodisciplina e costumi sociali morigerati, ma anche assertore netto dell’inopportunità che i dogmi e le istituzioni ecclesiastiche influenzassero in qualche modo la vita sociale e politica. 170 171

TOCQUEVILLE (1951 sgg., XV, 1: 434-437). JARDIN (1994: 418-425).

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A fronte di tutto ciò, l’autore di questa sintesi efficace riteneva di poter parlare di uno «strano liberalismo», definizione che non ci convince poiché ci sembra che la categoria di «stranezza» non può rendere giustizia a un grande classico del pensiero172. Occorre andare oltre e ricorrere a una categoria più forte, quella di «contraddizione», poiché certamente contraddittorio è stato il liberalismo di Tocqueville, anche se «si tratta di una contraddizione altamente produttiva sia sul piano conoscitivo che su quello etico-politico», per riprendere quanto scriveva Bedeschi nella sua fortunata Storia del pensiero liberale173. Le contraddizioni si spiegano con il periodo e le situazioni oltremodo travagliate e complesse che si è trovato ad affrontare il grande autore francese, che ha cercato di mediare fra un’America che stava esplodendo e un’Europa che rallentava il passo; fra un Antico Regime che lentamente si ritirava e un liberalismo che altrettanto lentamente si faceva democratico; fra una società imperniata sui valori della tradizione e della collettività e una che sempre più abbracciava quelli dell’individualismo e della modernità. Nel caso della religione e del travagliato rapporto fra gerarchie ecclesiastiche e governi democratici in Europa, Tocqueville oltre che esercitare il ruolo di un profondo e raffinato analista, aveva coltivato anche il sogno di poter rivestire il ruolo di mediatore fra lo «spirito di libertà» e lo «spirito di religione». Ma il suo fallimento, almeno in questo, fu cocente e sofferto, e molte delle contraddizioni irrisolte che a quel tempo fecero cadere il suo intento, sono qui ancora oggi a illuminare le contraddizioni di molte nazioni europee (Italia su tutte), che non sono ancora riuscite a separare in maniera pacifica e prolifica la dimensione della fede e quella della ragione. 172 173

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BOESCHE (1987: 264-266). BEDESCHI (1999: 184).

Tocqueville e il mondo contemporaneo: fra religione e politica Il tentativo di tirare un bilancio, per quanto sintetico, rispetto all’eredità di un grande classico del pensiero, costituisce un’impresa ardua e fortemente esposta al rischio di errori e omissioni. Ancora di più questo è vero per un autore come Tocqueville, capace di affrontare tematiche articolate e complesse sia inserendole nel contesto storico e sociale del proprio tempo, sia traendone spunti e riflessioni profetici a beneficio delle generazioni successive. Ma queste non ci sembrano ragioni valide per esimersi da un tentativo onesto e, comunque, affascinante. Sul piano del sottile, ma intricatissimo, rapporto che lega religione e politica, Tocqueville si rivela come il primo grande autore ad aver colto nel cristianesimo, nella sua evoluzione moderna, il paradossale e inesorabile ruolo di religione che segna «l’uscita dalla religione», nella misura in cui essa accoglie e promuove l’«uguaglianza» fra gli uomini e rende questi ultimi individui liberi e in grado di riservarsi uno spazio emancipato da ogni divinità o istituzione terrena che si richiama a essa174. Si tratta, in buona sostanza, di quel fenomeno passato alla storia con il nome di «disincanto» o «disinganno del mondo», iniziato secondo Gauchet fin dal Medioevo occidentale grazie all’«invisibile rivoluzione religiosa» che liberò la dinamica originale della trascendenza (e del rapporto subordinato dell’uomo rispetto alla divinità), e culminato nella rottura moderna verificatasi nei secoli XVI e XVII, una «rottura religiosa» per lo studioso francese del fenomeno175. 174

Cfr. GAUCHET (1985: 133 sgg., 214 sgg.). GAUCHET (1985: 231). Per l’analisi del «disinganno» in epoca rinascimentale, con particolare riferimento alla figura di Montaigne, si veda l’ottimo lavoro di PANICHI (2004: II, 1, V, 2). Mentre per gli sviluppi del concetto di «disincanto» in epoca contemporanea, con particolare attenzione alla figura di Weber, sono imprescindibili i lavori di DE SIMONE (1999) e DE SIMONE (2006). Per una contestualizzazione dell’argomento rispetto allo specifico dell’opera di Tocqueville, cfr. BOUDON (2005: 34 sgg., 45-61). 175

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Tocqueville, che si trovò a scrivere dopo la Rivoluzione francese e l’Illuminismo, che a tutt’oggi, per la storia occidentale, hanno costituito il momento di rottura più radicale con le religioni intese come verità assolute capaci di tradursi in un potere temporale, comprese il fenomeno del «disincanto» come pochi altri, tenendo conto anche del fatto che in Francia era molto influente, almeno a livello accademico, la tradizione del pensiero reazionario e teocratico dei vari Maistre e Bonald. Il grande sociologo, pur tradizionalista e sentimentalmente legato a quell’Antico Regime in cui la Chiesa ricopriva un ruolo centrale, oltre che fiero oppositore della Rivoluzione francese, fu in grado di cogliere prima e meglio di tutti gli altri un dato centrale dell’inesorabile e repentino sviluppo della democrazia: esso portava con sé la fine delle certezze trascendenti e della totale acquiescenza degli uomini rispetto ai dogmi religiosi almeno in misura uguale a quanto prevedeva la costituzione di governi in cui la sfera religiosa doveva rimanere nettamente separata da quella politica. Tocqueville non si limitò a questa importante e raffinata analisi della situazione del tempo, ma arrivò a farla propria attraverso l’elaborazione di due teorie fondamentali all’interno del proprio lavoro. La prima concerne il «fallibilismo», ossia la teoria per cui l’uomo, essere fallibile e limitato, non è in grado di cogliere verità assolute e trascendenti, rimanendo quindi vincolato a una realtà in cui i padroni di casa sono il dubbio e l’angoscia. Ciò gli faceva superare in maniera netta e inequivocabile tutta la tradizione di pensiero teocratico e cattolico che partiva dalla verità assoluta di Dio per giungere al potere assoluto del Re e della Chiesa, che di questa divinità erano le naturali propaggini terrene. Un superamento politico, certamente, ma fondato su premesse epistemologiche e filosofiche che marcavano con decisione la diversità di ambiti tra il campo della ragione 86

e della fede e, quindi, del liberalismo in quanto teoria politica e del cristianesimo in quanto teoria religiosa. Una distanza percepibile, del resto, ancora ai giorni nostri, se per esempio prendiamo l’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II, ove è possibile leggere la piena legittimazione dell’anelito, tutto umano, a «una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio», ma dove viene anche affermato che «credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza», ma, al contrario, «condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone»176. Salta agli occhi l’incompatibilità con le critiche che i liberali hanno rivolto, fino a poco tempo fa, all’ideologia comunista, colpevole di aver proposto una dottrina che doveva essere universalmente valida e quindi non passibile di critiche o di tentativi di falsificazione177; ma è anche evidente la stessa incompatibilità con le critiche che oggigiorno l’Occidente liberale rivolge all’Islam più fondamentalista, reo di fondare la propria azione politica sulle verità assolute contenute nel Corano. Se il fallibilismo costituiva il presupposto epistemologico e filosofico che separava Tocqueville dal cristianesimo più dogmatico, quindi da quel cattolicesimo che ancora oggi avanza forti pretese di regolare la vita politica e legislativa di tutti quegli stati che glielo consentono, la teoria dell’«utilità della religione» rappresentava la traduzione in campo sociale di quel presupposto, poiché consentiva al grande sociologo di riconoscere l’importanza etica e formativa della religione nello stesso momento in cui ne 176

GIOVANNI PAOLO II (1998: §§ 27, 92). Fra l’altro, a rigor di logica, la teoria comunista era molto più esposta ai tentativi di falsificazione di quanto non lo possa essere alcuna religione che, in quanto tale, vede i suoi presupposti e riferimenti in un presunto mondo trascendente, impossibile da sottoporre a esperimenti empirici. 177

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ribadiva i confini netti e insuperabili. Questi confini erano quelli dello stato di diritto e laico, in cui la religione svolge la funzione importante di formare i valori morali e controllare i costumi degli individui che a quei valori liberamente aderiscono, ma in cui nessuna autorità ecclesiastica può arrogarsi il diritto di far diventare i propri dogmi delle leggi (come tali imponibili a tutti i cittadini, a prescindere dalle loro convinzioni), e in cui gli esponenti del clero devono stare ben attenti a non mescolarsi con le vicende della politica e con le lotte di partito, pretendendo di mescolare potere politico e potere religioso. Che teorizzare l’«utilità della religione» significasse anzitutto constatare la fine dell’epoca in cui le credenze religiose avevano un potere enorme sulle società umane e sui governi, era quanto di lì a breve avrebbe esplicitato un assiduo lettore di Tocqueville, ossia quel John Stuart Mill che, nei Tre saggi sulla religione, scriveva che «non c’era stato bisogno di asserire l’utilità della religione fintanto che gli argomenti in favore della sua veridicità non avevano cessato in gran parte di risultare convincenti» e che, piuttosto, proprio l’argomento a favore dell’utilità della religione costituiva in realtà un «appello ai non credenti» per indurli a praticare «un’ipocrisia ben consapevole», al fine di salvaguardare una costruzione che per la società si rivela tanto importante quanto fragile ed esposta al crollo per il minimo soffio di un dubbio178. Si era ormai entrati in un’epoca di «fedi deboli» (weak beliefs), in cui la credenza religiosa si trovava a rivestire il ruolo di «strumento per il bene sociale», per usare ancora le espressioni di John Stuart Mill179, un dato umano e sociale che Tocqueville aveva, forse per primo, intuito ed elaborato nei molti punti della sua opera in cui, del tutto in buona fede (si perdoni il gioco di parole!), finiva con l’attribuire alla religione un ruolo strumentale, essenzial178 179

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STUART MILL (1969, X: 403). STUART MILL (1969: 407).

mente subordinato e funzionale rispetto alla dimensione politica e sociale. La visione strumentale della religione, del resto, costituiva un caposaldo dell’opera del nostro autore al punto che egli non si fece scrupoli di utilizzarla per legittimare la colonizzazione violenta dell’Algeria e degli arabi in genere, tirando in ballo il cristianesimo e la sua superiorità rispetto alle concezioni retrograde e primitive della religione islamica. Si tratta del Tocqueville più brutale, autore di frasi inequivocabili e spesso rimosse di molti interpreti entusiasti (con l’eccezione, in Francia, di Tzvetan Todorov): «Ho udito spesso in Francia uomini che rispetto, ma che non approvo, giudicare come malvagio l’incendio dei raccolti, che si svuotino i silos e ci si impadronisca di uomini disarmati, di donne e bambini. A mio avviso si tratta di necessità spiacevoli, ma alle quali ogni popolo che voglia combattere gli arabi dovrà sottomettersi». Parole forti e difficilmente equivocabili queste di Tocqueville, quando nel 1841 scriveva il suo Travail sur l’Algérie, seguite da palesi discriminazioni nei confronti delle popolazioni locali, alle quali andava impedito il libero commercio e per le quali si doveva prevedere l’istituzione di tribunali speciali che, con procedure «sommarie», procedessero all’esproprio di terre in favore di francesi ed europei, questi ultimi giuridicamente ed economicamente privilegiati: «Non v’è assolutamente nulla che impedisca, quando si tratta degli europei, di trattarli come soggetti separati, per i quali si prevedano delle regole applicabili soltanto a loro»180. La religione, nell’ambito della secolare opera di colonizzazione dell’Occidente, assumeva per Tocqueville un 180

Cit. in LE COUR GRANDMAISON (2001). La storia degli autori e degli stati liberali che, in nome della conquista di terre, sono venuti meno ai princìpi del liberalismo pur enfaticamente promossi, escludendone quei popoli che per motivi culturali o economici potevano minarne il primato, è lunga e piena di sorprese. Abbiamo tentato di ricostruirne gli sviluppi più recenti, pressoché fino ai giorni nostri, in ERCOLANI (2007).

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ruolo centrale, sia quando egli accennava al «profumo biblico» delle imprese dei coloni al di là dell’Oceano, sia quando, nei confronti dell’Islam, magnificava le sorti della «nazione cristiana» che avanzava incontrastata all’interno di quello che si presentava come uno scontro non soltanto tra due religioni, ma anche «tra due razze, di cui l’una è illuminata e l’altra è ignorante, di cui l’una si innalza e l’altra degrada»181. In questo senso è necessario rubricare Tocqueville non certamente tra i primi né tra gli ultimi, ma di sicuro fra i più importanti teorici (e promotori) di quello che il politologo americano Huntington ha chiamato «scontro di civiltà», in cui il ruolo centrale svolto dall’infelice commistione fra politica e religione non può non saltare agli occhi. Ma l’utilizzo degli argomenti religiosi per legittimare le missioni coloniali costituiva una pratica assai diffusa e iniziata ben prima rispetto alle speculazioni di Tocqueville, il quale, invece, può essere ricordato come uno dei primi grandi liberali, se non il primo, a proporsi di conciliare «spirito di religione» e «spirito di libertà», all’interno di un sistema in cui della prima si riconoscevano gli indubbi benefici sociali, ma di cui si fissavano anche i limiti invalicabili, che erano quelli di uno stato liberale, potremmo parlare di un «liberalismo dei moderni», in cui la libertà doveva essere garantita a tutti gli individui a prescindere dalle proprie convinzioni. In ciò risiede certamente uno degli elementi più attuali di questa grande figura che aveva saputo cogliere come pochi l’evoluzione dei tempi e l’uscita repentina e inesorabile dai valori e dalle pratiche dell’Antico Regime. Ma, come spesso è accaduto ai grandi pensatori della storia, anche per Tocqueville si può parlare, nell’ambito del rapporto tra politica e religione, di una «inattualità», di una 181

TOCQUEVILLE (1951 sgg., I, 1: 32; III, 1: 216-225). Cfr. LOSURDO (2007: 144).

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straordinaria capacità di precorrere i tempi e, in virtù di ciò, ritrovarsi isolati e sconfitti nel tempo proprio. Significativo che il «luogo» simbolo della sua sconfitta sia stato lo Stato Pontificio, nell’ambito di quella questione romana che, come poche altre, ha funto da spartiacque tra il liberalismo antico e quello moderno, tra un contesto sociale in cui religione e politica non riescono a venir separate e un altro in cui i ruoli vengono nettamente divisi, a beneficio di individui che sono considerati cittadini, con i loro diritti, a prescindere dall’adesione a credenze e dogmi che, comunque, non hanno un’influenza diretta sul governo di un paese. Quella che a suo tempo è stata una sconfitta per Tocqueville, anche sul piano personale, non può comunque non venire riconosciuta dagli studiosi odierni come una vittoria che si è affermata nel lungo periodo, che ancora non ha finito di affermarsi in molti paesi in cui le autorità ecclesiastiche faticano a non voler esercitare un potere di influenza sui governi. Per fortuna non si esime da questo riconoscimento l’ultimo studio apparso, in ordine di tempo, su Tocqueville, in cui l’autore sottolinea giustamente il fatto che la «democrazia religiosa» pareva al grande sociologo funesta tanto quanto la «democrazia dei socialisti», poiché netto era il suo rifiuto di ogni forma di «politica teologica». Con ciò Lucien Jaume, lo studioso cui stiamo facendo riferimento, intende liberarsi di un malinteso troppe volte reiterato: quello per cui si è visto in Tocqueville un «devoto» o un «militante» o, come spesso accade, soprattutto in quello strano paese che è l’Italia, persino un improbabile fautore dell’indistinto trinomio «liberalismo, Dio e mercato», tipico di quei sedicenti liberali che, presi dall’ansia di conciliare acriticamente l’inconciliabile, per compiacere le potenti gerarchie vaticane, hanno contribuito a creare un sistema ibrido che nella penisola ha finito tanto con l’impoverire l’autorità morale della Chiesa quanto con il pro91

durre un (presunto) liberalismo all’acqua di rose, cui tutti aderiscono in maniera entusiastica e sterile182. Nulla di tutto ciò passò mai per la testa di Alexis de Tocqueville, mente troppo raffinata per non comprendere che liberalismo e religione, specialmente quella cattolica, per stare all’interno del cristianesimo, pertengono a due ambiti diversi e che devono restare separati, per il bene della libertà tanto del primo quanto della seconda. Jaume cita le parole dello stesso Tocqueville, che egli ebbe modo di fermare sul foglio nel 1857, in una lettera a Kergolay, ormai quasi alla fine della sua vita. Volentieri facciamo sì che esse costituiscano anche l’«ultima parola» di questo saggio: Ho sempre creduto che vi sia un pericolo anche nelle passioni migliori, quando diventano ardenti ed esclusive. Non faccio eccezione per la passione religiosa; io la metterei persino al primo posto, poiché, spinta a un certo punto, ella fa sparire, per così dire, più di ogni altra, tutto ciò che non la riguarda e crea i cittadini più inutili o più pericolosi in nome della morale e del dovere183.

182

Le considerazioni a cui abbiamo fatto riferimento, sul Tocqueville fiero oppositore della «politica teologica», si possono leggere in JAUME (2008: 257-259). Fra gli esponenti dell’improbabile «liberalismo cattolico» si possono citare l’autorevole capostipite, ANTISERI (1998: 17), che si limita a definire il liberale idealtipico come uno che «non è anticlericale», e BALDINI (2001), pronto a inserire Tocqueville tra i fautori del fantasioso trinomio «liberalismo, Dio e mercato». Fra gli oppositori italiani di questo liberalismo cattolico, figli di una tradizione altrettanto illustre e autorevole, ci piace segnalare, ultimo in ordine cronologico, il lavoro di BONETTI (2008: 42-43, 165), capace di descrivere in maniera molto più problematica e proficua il rapporto fra religione e liberalismo, servendosi anche delle argomentazioni di Tocqueville troppo spesso rimosse dagli studiosi nostrani. 183 TOCQUEVILLE (1951 sgg., XIII, 2: 328).

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* Per scelta consapevole del curatore sia i testi di Tocqueville che quelli della letteratura critica straniera, laddove possibile, sono stati citati (e quindi ritradotti) direttamente dalle edizioni originali, senza dare indicazione delle eventuali traduzioni italiane. Tale scelta è stata compiuta per avvalorare la scientificità del lavoro, da cui emerge una interpretazione di Tocqueville assai poco ortodossa [N.d.C.].

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Cenni biografici su Alexis de Tocqueville*

29 luglio 1805: Nasce terzogenito, a Verneuil-sur Seine nell’Ile-de-France, Alexis Henri Charles de Clérel, da famiglia nobile (ma lui stesso non si servì mai del titolo di Conte). Il 28 luglio del 1794, i genitori erano scampati all’ultimo momento alla ghigliottina, grazie all’improvviso arresto di Robespierre per ordine della Convenzione. Non si era salvato, invece, uno dei due parenti illustri di Alexis (l’altro era François René de Chateaubriand, scrittore e uomo politico), quel ChrétienGuillaume de Lamoignon de Malesherbes (1721-1794), il quale, Responsabile della Censura, favorì tuttavia la pubblicazione dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert (bloccata dai suoi predecessori). Più volte ministro, fu tra i difensori di Luigi XVI e tra le ultimissime vittime di Robespierre. I genitori di Alexis, rifugiatisi in Inghilterra, fecero ritorno in patria soltanto in seguito alla

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Per la stesura di queste note mi sono liberamente servito dei seguenti testi: J.L. BENOÎT, Tocqueville. Un destin paradoxal, Bayard, Paris 2005; Notice sur A. de Tocqueville, in A. DE TOCQUEVILLE, Oeuvres complètes, a cura di G. de Beaumont, 9 vv., Michel Lévy Frères, Paris 18601866, v. 5; A. MASSARENTI (a cura di), Tocqueville. Vita, pensiero, opere scelte, in I grandi filosofi, vol. 20, Il Sole 24 Ore, Milano 2006; C.B. WELCH (a cura di), Cambridge Companion to Tocqueville, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. XIX-XXVII.

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proclamazione dell’Impero napoleonico, in tempo per far nascere Alexis sul suolo francese. 1821-1823: Tocqueville raggiunge suo padre a Metz, di cui quest’ultimo era stato nominato prefetto in seguito alla prassi politica della Restaurazione, che prevedeva il reintegro delle figure nobiliari all’interno di importanti cariche amministrative. Qui il giovane Alexis ha modo di leggere Rousseau, Montesquieu e Voltaire. Forse anche in seguito all’allargamento dei propri orizzonti culturali (fino a questo momento, sotto l’egida della madre e di un precettore oltremodo conservatore, l’abate giansenista Lesueur, Alexis era stato educato secondo le più rigide posizioni legittimiste e tradizionaliste), perde la fede e conosce una grave crisi esistenziale. Allaccia una relazione che dura sette anni con Rosalie Malye, le cui basse origini sociali, pur tra mille incertezze e ripensamenti, spingono Tocqueville a troncare la relazione. 1824-1826: Tocqueville studia giurisprudenza a Parigi, ove si laurea senza brillare più di tanto, sembrerebbe a causa di difficoltà strutturali connesse alla rigida educazione impartitagli dal precettore in casa. Oltremodo timido, il giovane Alexis soffre anche di un notevole senso di insicurezza. 1826-1827: In ossequio alla tradizione del Gran Tour il giovane Alexis compie un lungo viaggio in Italia e in Sicilia. Al ritorno viene nominato giudice uditore presso il tribunale di Versailles. Nel frattempo inizia l’amicizia con Beaumont. 1828: Inizia la sua storia con Mary Mottley, donna inglese da lungo tempo stabilitasi a Parigi. Ancora problemi per via dell’età della donna (più grande di sei anni) e per le sue umili condizioni sociali. 1830-1832: La rivoluzione del 1830 abbatte la monarchia di Carlo X, al posto del quale viene posto sul trono Luigi Filippo d’Orleans. Si tratta di un momento difficile e cruciale per il giovane Alexis, il quale, legittimi98

sta per educazione e aristocratico per nascita, decide tuttavia di prestare giuramento di fedeltà al nuovo regime. Proprio quest’ultimo conferisce ai due giuristi e amici, Tocqueville e Beaumont, l’incarico di compiere un viaggio negli Stati Uniti per studiarne il sistema penitenziario. Il soggiorno durerà dal 9 maggio 1831 al 20 febbraio 1832. 1833: Beaumont e Tocqueville ricevono il premio Montyon dell’Accademia francese per la loro relazione del viaggio, dal titolo Du système pénitentiaire aux États-Unis et de son application en France, di cui si occupa in particolar modo Beaumont e che confluisce in due corposi volumi. Dal 3 agosto al 7 settembre avviene il primo viaggio in Inghilterra. 1835: Tocqueville dà alle stampe la prima parte de La democrazia in America, mentre dall’estate inizia il suo secondo viaggio in Inghilterra, con soggiorno in Irlanda. 1836: Pubblica sulla «London and Westminster Review», diretta da John Stuart Mill, il saggio L’État social et politique de la France avant et depuis 1789. Dal 7 luglio al 15 settembre compie il viaggio in Svizzera. Il 26 ottobre si sposa con Mary Mottley, donna piuttosto ruvida e dei cui rapporti con Alexis non sono mai trasparsi elementi di affetto e dolcezza. La donna pretendeva che si parlasse inglese in famiglia. L’anno dopo muore la mamma di Tocqueville. 1837: Tocqueville vive una cocente sconfitta alle elezioni legislative di Valognes. Nello stesso anno redige le due Lettres sur l’Algérie. 1838: Proprio a inizio anno viene eletto all’Accademia delle scienze morali e politiche. 1839: In occasione della seconda candidatura alle elezioni di Valognes, Tocqueville viene stavolta eletto alla circoscrizione, ove rimarrà in carica fino al dicembre del 1851. Tocqueville presenta alla Camera il rapporto redatto a nome della commissione incaricata di esaminare la proposta di M. de Tracy, relativa agli schiavi delle 99

colonie francesi. A questo Rapporto seguiranno quello sulla riforma delle prigioni (1843) e quello sulla situazione dell’Algeria (1847), a riprova di un’intensa attività di deputato. 1840: Pubblica la seconda parte de La democrazia in America. Scarso è l’entusiasmo del pubblico, anche rispetto alle trionfali accoglienze che erano state riservate alla prima parte. Tocqueville ne è fortemente frustrato. 1841: Primo viaggio in Algeria ed elezione presso l’Accademia francese. 1842: Elezione al consiglio generale di la Manche nel cantone Montebourg//Sainte-Mère-Église. 1843: Pubblicazione delle Lettres sur la situation intérieure de la France su Le Siècle e stesura del primo Rapport sur les enfantes trouvés presso il consiglio generale di la Manche. 1844: Secondo Rapport sur les enfantes trouvés e presentazione del Rapporto sulla linea ferroviaria Parigi-Cherbourg al consiglio generale di la Manche. 1844-1845: Tocqueville partecipa alla direzione del giornale «Le Commerce». Nello stesso periodo presenta il terzo Rapport sur les enfantes trouvés. 1846: Tocqueville effettua il secondo viaggio in Algeria, stende l’ultimo Rapport sur les enfantes trouvés e dà inizio ai primi contatti per formare la Jeune Gauche. 1847: Stende il Rapporto sull’Algeria, si impegna in molti e importanti interventi alla Camera e abbozza un programma di governo: Question financière e Fragments pour une politique sociale. 1848: Nell’annus terribilis, il 27 gennaio, Tocqueville tiene alla Camera il celebre discorso in cui mette in guardia rispetto all’approssimarsi di una rivoluzione («Siamo seduti sopra un vulcano»). Eletto all’Assemblea, le prime elezioni con il suffragio universale maschile, è membro della commissione incaricata di redigere la Costituzione. Luigi Napoleone viene eletto presidente dei francesi. 100

1849: Nel mese di maggio compie il primo viaggio in Germania. Il 2 giugno viene eletto ministro degli Affari Esteri del secondo governo Barrot (carica che ricoprirà fino al 30 ottobre) e, in questa veste, fra le tante incombenze di un periodo di rivolgimenti in Europa, deve affrontare la spinosa «questione romana», che ne metterà a dura prova le peraltro scarse capacità di affrontare le masse rivoltose e gli eventi rivoluzionari in genere. Eletto Presidente del Consiglio generale di la Manche, vi resterà in carica fino al marzo del 1852. 1850: Tocqueville, che comincia a subire i primi seri attacchi di tubercolosi, soggiorna a Sorrento ove inizia a redigere i Souvenirs. 1851: Prosegue la stesura dei Souvenirs. È relatore della commissione per la revisione della Costituzione, che egli tenta di far votare per evitare il colpo di stato. Il 2 dicembre è fra i duecento firmatari del decreto di decadenza di Luigi Napoleone Bonaparte per slealtà istituzionale e, per questo, viene imprigionato per qualche giorno con gli altri parlamentari che hanno tentato di far fallire il colpo di stato. 1852: Stende l’ultimo rapporto sulla linea ferroviaria ParigiCherbourg e, il 29 aprile, si dimette dal consiglio generale di la Manche. 1854: Compie il secondo viaggio in Germania e soggiorna a Bonn. 1856: Tocqueville porta a termine la sua ultima grande opera sistematica: L’Ancien Régime et la Révolution. 1857: Effettua l’ultimo viaggio in Inghilterra. 16 aprile 1859: Muore a Cannes.

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Nota editoriale

Per l’antologia delle opere di Tocqueville abbiamo fatto riferimento alle seguenti edizioni: Oeuvres complétes, a cura di J.P. Mayer et al., (Gallimard, Paris 1951, sgg.): edizione citata in nota con la formula O.C., seguita dal tomo in numero romano, dal volume in numero arabo e dalle pagine (es. O.C., I, 2, p. 50). Oeuvres complètes d’Alexis de Tocqueville publiées par M.me de Tocqueville, a cura di G. de Beaumont, (MichelLévy frères, Paris 1864-1866): edizione citata in nota con la formula O.C., Bmt, seguita dal numero del volume e dalla pagina (es. O.C., Bmt, v. 10, p. 50). BENOÎT JEAN-LOUIS (Présentation et notes), Alexis de Tocqueville: Notes sur le Coran et autres textes sur les religions (Bayard, Paris 2007): edizione citata in nota con la formula BENOÎT (2007) seguita dal numero della pagina. De la Démocratie en Amérique, I ed. storico-critica riveduta e ampliata a cura di E. Nolla, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1990. Per eventuali precisazioni si rinvia direttamente all’impianto delle note. Come scelta editoriale si è deciso di procedere a una traduzione autonoma e aggiornata, anche rispetto ad alcuni testi di cui esisteva già un’edizione italiana. 103

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Capitolo primo

La fede e il dubbio: il cristianesimo (e il cattolicesimo) problematici di Tocqueville1

Fede e dubbio in una lettera a Madame de Swetchine2 Non so se vi ho mai parlato di un incidente della mia gioventù che ha lasciato una traccia profonda nella mia vita; durante gli anni immediatamente successivi all’infanzia, come paralizzato in una sorta di solitudine, abbandonato a una curiosità insaziabile che trovava solo i libri 1

In realtà le riflessioni di Tocqueville sul cristianesimo e sul cattolicesimo si incontrano lungo tutta la sua opera e, conseguentemente, in tutti i capitoli del presente lavoro, fatta una certa eccezione per quelli specificamente dedicati alle altre religioni. In questo capitolo, quindi, in maniera del tutto arbitraria e opinabile, abbiamo voluto riportare alcuni scritti del grande autore francese dai quali si evince il suo rapporto assai sofferto e problematico con la fede, dichiaratamente abbandonata fin dalla giovane età per aderire a un dubbio radicale, ma devoto e assai rispettoso della religione cristiana e cattolica, di cui egli riconosce in più punti l’alto valore morale, pedagogico e sociale. In Tocqueville, tuttavia, non sono assenti delle critiche, soprattutto rivolte agli eccessi assolutistici e reazionari della Chiesa di Roma, nei confronti della quale, però e ancora una volta, dominano il rispetto e la devozione. 2 Si tratta di una lettera scritta qualche mese prima di morire (26 febbraio 1857). Madame de Swetchine (1782-1857) era una donna di lettere emigrata dalla Russia per via della propria conversione al cattolicesimo. Tocqueville l’aveva conosciuta nel 1853, arrivando a stabilire con lei una confidenza molto profonda, non riscontrabile negli altri rapporti di amicizia. Il loro scambio epistolare è avvenuto durante il biennio 1855-1857 ed è interamente leggibile in O.C., XV, 2, pp. 247-324.

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di una grande biblioteca3 per soddisfarsi, ho accumulato alla rinfusa nel mio animo tutti i tipi di nozioni e d’idee che normalmente appartengono a un’altra età. La mia vita era trascorsa fino a quel momento in una meditazione piena di fede che non aveva lasciato penetrare il dubbio nella mia anima. Quando il dubbio vi entrò, o piuttosto vi si precipitò, con una violenza inaudita, e non il dubbio di questo o quello, ma il dubbio universale. Io provavo tutto d’un tratto la sensazione di cui parlano coloro che hanno assistito a un terremoto, quando il suolo si muove sotto i loro piedi, i muri attorno ad essi, i soffitti sopra le loro teste, le posate fra le loro mani, la natura intera davanti ai loro occhi. Fui impadronito dalla malinconia più nera, preso da un estremo disgusto della vita senza conoscerla, e come oppresso da turbamento e terrore alla vista del cammino che mi restava da fare nel mondo. Le passioni violente mi strapparono da questo stato di disperazione4, esse mi sotL’estratto della lettera che riportiamo in questa sede è contenuto in O.C., XV, 2, p. 315. Scrive Benoît (2007: 20): «Dopo la morte di Alexis, sua moglie non ebbe tregua finché Beaumont e Falloux non ebbero ritrovato e le dettero indietro questa famosa missiva per distruggerla. Fortunatamente Clémentine de Beaumont aveva avuto cura di fare – di nascosto – una copia di questa lettera». 3 Nell’aprile del 1820 Hervé de Tocqueville si era fatto raggiungere a Metz, ove era prefetto, da suo figlio Alexis affinché questi potesse ricevere un insegnamento vero. Egli scoprì allora, nella biblioteca della prefettura, non solo i libri degli Illuministi, che il suo vecchio precettore giansenista e reazionario, il reverendo Lesueur, gli aveva nascosto, ma anche i tre volumi che Boissy d’Anglas aveva consacrato alla memoria di Malesherbes, l’illustre bisavolo di Alexis (Saggio sulla vita, le opinioni e gli scritti di M. di Malesherbes indirizzata ai miei figli). Tocqueville scoprì così che il suo illustre bisavolo, prima di essere ghigliottinato sotto il Terrore per aver difeso il re davanti al tribunale rivoluzionario, era stato l’amico e il protettore di filosofi; che, senza di lui, l’Émile non sarebbe stato pubblicato e che aveva salvato l’Enciclopedia nascondendo sotto il suo tetto gli esemplari che doveva, per missione, distruggere. Cfr. BENOÎT (2007: 19-20, nota 9). 4 Tocqueville fa qui allusione al legame che era nato con Rosalie Malye, il primo grande amore della sua vita, legame che nacque nel 1821 e si concluse nel 1828, un anno dopo il matrimonio, quasi forzato, di Rosalie. Cfr. BENOÎT (2007: 20, nota 10).

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trassero dalla vista di queste rovine intellettuali per trascinarmi verso gli scopi rilevanti; ma da un momento all’altro, queste impressioni della mia prima giovinezza (avevo sedici anni allora) riprendono possesso di me.

Provvidenza e buon senso in una lettera al filosofo Bouchitté5 Avrei avuto un gusto appassionato per gli studi filosofici [...] [ma] mi sono sempre ritrovato al punto di credere che le nozioni che le scienze mi fornivano al riguardo non mi conducevano più lontano, e spesso mi portavano meno lontano rispetto al punto dov’ero arrivato la prima volta attraverso un piccolo numero d’idee molto semplici, e che tutti gli uomini, in effetti, hanno più o meno posseduto. Queste idee conducono facilmente fino alla credenza in una causa primaria, la quale resta al tempo stesso evidente e inconcepibile; a delle leggi stabilite che il mondo fisico lascia vedere e che nel mondo morale bisogna supporre; alla provvidenza di dio6 e, di conseguenza, alla sua giustizia; alla

5 Louis Bouchitté (1795-1861), filosofo cattolico e amico di Tocqueville, noto per una significativa opera sulle prove dell’esistenza di dio. In O.C., Bmt, VII, pp. 475-477. 6 Scrive in nota BENOÎT (2007: 21): «Quando si studia nei dettagli l’insieme del corpus tocquevilliano, appare chiaro come questa credenza nella “Provvidenza” sia diffusa; Tocqueville è ben lontano dal provvidenzialismo di Bousset o dai pensatori contro-rivoluzionari Bonald e Joseph de Maistre, contrariamente a ciò che può pensare il lettore. È vero che Tocqueville ha fatto il necessario, nell’introduzione della prima Democrazia per deviare il suo lettore; per combattere l’ideologia maistreiana (che è quella della sua famiglia politica originale, i legittimisti prossimi dei rivoluzionari), ha fatto ricorso a una strategia argomentativa. Capovolge l’argomentazione maistreiana provando che le vie della Provvidenza all’opera negli sviluppi della Storia hanno condotto la società dalla feudalità alla democrazia. Rispettare i disegni della Provvidenza fa dunque giungere ad accettare la democrazia e ad aderirvi per poter agire su di essa. Se insiste fortemente sulla

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responsabilità delle azioni dell’uomo, al quale è permesso di sapere che c’è un bene e un male e, di conseguenza, un’altra vita. Io vi confesso che, all’infuori della rivelazione, non ho mai ritenuto che la più fine metafisica mi potesse fornire su tutti questi punti nozioni più chiare del più grande buon senso, e ciò mi procura uno stato d’animo un po’ cattivo contro di essa. Quello che io chiamo il fondo che non posso toccare, è il perché del mondo, il piano di questa creazione di cui non conosciamo nulla, né i nostri stessi corpi né, a maggior ragione, il nostro spirito; né la ragione del destino di questo essere singolare che chiamiamo uomo, al quale è stato donato quel tanto di intelligenza sufficiente a mostrargli le miserie della propria condizione, non certo a fargliela cambiare. [...] Qui è il fondo, o piuttosto i fondi, che l’ambizione del mio cervello vorrebbe arrivare a toccare, ma che resteranno sempre e infinitamente al di là delle mie possibilità di conoscere la verità7. Provvidenza è perché l’ideologia provvidenzialista è ancora presente e pregnante sotto la Restaurazione; è lui stesso che lo dichiara al suo lettore, venti anni più tardi, mentre, evocando il ruolo dei fisiocratici alla vigilia della Rivoluzione, afferma che questi avevano: “un tale gusto naturale per l’uguaglianza delle condizioni e per l’uniformità delle regole [...] [che] essi avrebbero definito provvidenziale, se fosse stato di moda, allora come oggi, di far intervenire la Provvidenza in qualunque discorso”». 7 Tocqueville, sullo stesso argomento, scriveva a Stoffels: «Bisogna dunque rassegnarsi a non pervenire, se non in casi assai rari, alla verità dimostrata. Ma, qualunque cosa si faccia, mi direte voi, il dubbio sul quale ci si arrischia costituisce sempre una condizione penosa. Senza dubbio considero tale dubbio come una delle grandi miserie della nostra natura, da porsi immediatamente dopo le malattie e la morte. Ma è perché nutro questa opinione rispetto ad esso che non mi capacito del fatto che tanti uomini se lo impongono gratuitamente e senza utilità. È per questa ragione che considero la metafisica e tutte le scienze puramente teoriche, che non servono a nulla nella realtà della vita, alla stregua di un tormento volontario che l’uomo acconsente a infliggersi», in O.C., Bmt, VII, pp. 83-84. In O.C., V, 1, p. 183, Tocqueville ribadiva il concetto: «Se fossi incaricato di stilare la classifica delle miserie umane, lo farei in questo ordine: 1) le malattie, 2) la morte, 3) il dubbio».

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Lettera di Tocqueville a Gobineau (5 settembre 1843)8 [...] Per quanto mi concerne, ecco ciò che riesco a distinguere in mezzo alla profonda oscurità con cui un argomento simile avvolge i miei occhi: il cristianesimo mi pare aver compiuto una rivoluzione o, se preferite, un cambiamento assai considerevole rispetto alle idee relative ai doveri e ai diritti, idee che costituiscono, in definitiva, la materia di ogni scienza morale. Il cristianesimo non creò precisamente dei nuovi doveri o, in altri termini, delle virtù totalmente nuove, ma cambiò la posizione relativa che occupano tra loro le virtù. Le virtù rudi, e per metà selvagge, che erano in cima alla lista, esso le mise alla fine. Le virtù amabili, come la pietà, l’umanità, l’indulgenza, l’oblio stesso delle ingiurie ricevute erano le ultime ed esso le posizionò davanti a tutte le altre. Primo cambiamento. 8

Nel 1840, su proposta di Victor Cousin, il Re aveva promulgato un’ordinanza che incaricava l’«Accademia delle scienze morali e politiche» di formare un quadro generale rispetto allo stato dei progressi delle scienze morali e politiche dal 1789 al 1830. La sezione morale che doveva fare il punto su «Lo stato delle dottrine morali nel XIX secolo e sulle loro applicazioni alla politica e all’amministrazione» scelse Tocqueville come relatore. Questi, a sua volta, fece appello a Gobineau perché lo aiutasse nelle sue ricerche. Si stabilì quindi uno scambio epistolare tra i due, avente come oggetto i sistemi morali. Subito emerge il patente disaccordo fra i due, che mai si risolverà neppure in seguito. Tocqueville riteneva, infatti, che la morale moderna costituisse una ripresa laicizzata dei valori di umanità e universalità contenuti nei Vangeli e nel messaggio paolino, come appariva nel cristianesimo originario. Gobineau, al contrario, riteneva, in questo periodo della sua vita (in cui ancora si definiva un «hegeliano ateo», prima di convertirsi al cristianesimo nel 1853), che il cristianesimo non fosse altro che un malvagio sincretismo delle filosofie e delle religioni anteriori, che instaurava una morale dei deboli e degli schiavi. Lo scambio epistolare tra i due avvenne tra l’8 agosto e il 28 novembre del 1843. Riportiamo un’ampia scelta di passi tratti dalle tre epistole più importanti e significative di Tocqueville a Gobineau, da cui si evincono le chiare e argomentate posizioni del primo. In O.C., IX, pp. 45-48; 56-62, 67-69.

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Il campo dei doveri era limitato: esso lo estese. Non si estendeva molto più in là dei concittadini ed esso vi fece rientrare tutti gli uomini. Comprendeva principalmente i padroni ed esso vi fece rientrare gli schiavi. Mise in grande evidenza l’uguaglianza, l’unità e la fraternità umana. Secondo cambiamento. La sanzione delle leggi morali riguardava più questo mondo che l’altro. Esso pose lo scopo della vita dopo la vita e, così facendo, donò un carattere più puro, più immateriale, più disinteressato e più alto alla morale. Ultimo cambiamento. Tutte queste cose erano state viste, mostrate e predicate prima del cristianesimo. Esso solo ne fece un insieme, ne legò tutte le parti e, volgendo in religione questa nuova morale, ne inondò le menti. Noi abbiamo vissuto sotto questa morale per molti secoli. Vi abbiamo apportato da poco qualche cambiamento? Ecco quello che non riesco a percepire chiaramente. Noi abbiamo potuto aggiungere delle sfumature ai colori del quadro, ma non vedo affatto che vi abbiamo inserito dei colori interamente nuovi. La morale dei nostri giorni, come io la vedo rivelarsi nelle parole, negli atti pubblici, nelle azioni individuali, nel parlottio incessante della nostra loquace società (ignoro ciò che è impresso nei grossi volumi su questo argomento), la morale moderna, dico io, mi sembra essere ritornata, veramente, in certi casi verso la nozione che se ne aveva nell’antichità, ma, per la maggior parte del tempo, non ha fatto che estendere e sviluppare le conseguenze della morale del cristianesimo senza cambiarne i princìpi. La nostra società si è assai più scostata dalla teologia che dalla filosofia cristiana. Essendo divenute meno stabili le nostre credenze religiose, e più oscura la visione dell’altro mondo, la morale ha dovuto mostrarsi più indulgente verso i bisogni e i piaceri materiali. Si tratta di un’idea che i seguaci di SaintSimon rendevano, io credo, dicendo che bisognava riabilitare la carne. È probabile che la medesima tendenza sia 110

apparsa da molto negli scritti e nelle dottrine dei moralisti moderni. Per la stessa ragione si è dovuto cercare di trovare nella vita la sanzione delle leggi morali che non si poteva più, con sicurezza, porre interamente fuori della vita. Di qui la dottrina dell’interesse bene inteso o dei vantaggi che l’onestà procura in questo mondo e delle miserie che il vizio vi fa nascere. Gli utilitaristi inglesi stanno a dimostrare questa nuova tendenza che i moralisti cristiani hanno conosciuto poco o completamente ignorato. Il cristianesimo e, di conseguenza, la morale cristiana, si era stabilito al di fuori di tutti i poteri politici e di tutte le nazionalità. La grandezza della sua opera consisteva nel formare una società umana al di fuori di tutte le società nazionali. I doveri degli uomini tra loro, in quanto cittadini, gli obblighi del cittadino nei confronti della patria, in una parola le virtù pubbliche, mi sembrano mal definite e alquanto trascurate nella morale del cristianesimo. Qui sta, mi sembra, la parte debole di questa morale ammirevole, allo stesso modo per cui in questo consiste la sola parte veramente forte della morale antica. Sebbene l’idea cristiana della fraternità umana si sia completamente impossessata dello spirito moderno, tuttavia ai giorni nostri le virtù pubbliche hanno riguadagnato molto terreno e io sono convinto che i moralisti del secolo scorso e del nostro se ne sono preoccupati molto di più dei loro predecessori. Ciò è dovuto al risveglio delle passioni politiche, che sono state contemporaneamente la causa e l’effetto dei grandi cambiamenti di cui noi siamo testimoni. Il mondo moderno ha così ripreso e rimesso in onore una parte della morale degli antichi, intercalandola fra i princìpi che compongono la morale del cristianesimo. Ma la più considerevole innovazione dei moderni nel campo della morale mi pare consistere nell’immenso sviluppo e nella nuova forma data, ai nostri giorni, a due idee che il cristianesimo aveva già messo assai in rilievo, e cioè: l’uguale diritto di tutti gli uomini ai beni di questo mondo 111

e il dovere di coloro che hanno di più di venire in soccorso di quelli che hanno di meno. Le rivoluzioni che hanno rovesciato la vecchia gerarchia europea, il progresso delle ricchezze e dei lumi, che hanno reso gli individui più simili gli uni agli altri, hanno permesso sviluppi immensi e inaspettati a quel principio di uguaglianza che il cristianesimo aveva collocato ancora nella sfera immateriale piuttosto che in quella interna all’ordine dei fatti visibili. L’idea che tutti gli uomini hanno diritto a certi beni, a certi godimenti, e che il primo obbligo morale consiste nel procurarli loro, questa idea, come dicevo più sopra, ha preso un’estensione immensa e una varietà di aspetti infinita. Questa prima innovazione ha poi condotto a un’altra: il cristianesimo aveva fatto della beneficenza o, come esso l’aveva chiamata, della carità una virtù privata. Noi ne facciamo ogni giorno di più un dovere sociale, un obbligo politico, una virtù pubblica. Il grande numero di persone da soccorrere, la varietà di bisogni ai quali ci si ritiene obbligati a provvedere, la sparizione delle grandi individualità, alle quali si poteva far ricorso per pervenire a questi scopi, hanno fatto rivolgere tutti gli sguardi verso i governi. Si è imposto loro un obbligo stretto di riparare a certe disuguaglianze, di venire in soccorso di certe miserie, di prestare aiuto a tutti i deboli e a tutti gli infelici. Si è così stabilita una sorta di morale sociale e politica che gli antichi non conoscevano se non in maniera assai imperfetta, e che è una combinazione delle idee politiche dell’antichità e dei princìpi morali del cristianesimo. Ecco, caro signor de Gobienau, tutto ciò che mi è stato possibile scorgere, quanto al presente, nella nebbia che mi avvolge. [...]

Lettera di Tocqueville a Gobineau (2 ottobre 1843) [...] Debbo confessarvi di avere un’opinione del tutto contraria alla vostra sul cristianesimo. Il cristianesimo, a 112

mio avviso, è oggi assai differente da quello che l’ha preceduto, al contrario di quello che voi pensate, e noi siamo molto meno differenti da esso di quello che voi dite. Io non sono affatto credente (cosa per la quale sono assai lungi dal vantarmi) ma, per quanto io non sia credente9, non ho mai potuto esimermi dal provare una profonda emozione nella lettura del Vangelo. Molte delle dottrine che vi sono contenute, e fra le più importanti, mi hanno sempre colpito per la loro novità, e soprattutto l’insieme forma qualcosa di assolutamente differente rispetto al corpo di idee filosofiche e di leggi morali che avevano retto le società nei tempi addietro. Non riesco a capacitarmi di come, leggendo questo mirabile libro, la vostra anima non abbia provato come la mia questa sorta di libera aspirazione che produce un’atmosfera morale più vasta e più pura. Quando si vuole criticare il cristianesimo bisogna prestare particolare attenzione a due cose. La prima è questa: il cristianesimo è arrivato a noi attraverso secoli di profonda ignoranza e rozzezza, di disuguaglianza sociale e di oppressione politica, nei quali ha costituito un’arma nelle mani dei re e dei preti. È giusto giudicarlo per quello che è e non per l’ambiente attraverso il quale esso è stato obbligato a passare. Quasi tutte le tendenze esagerate, quasi tutti gli abusi che rimproverate, spesso e con ragione, al cristianesimo, devono essere attribuiti a queste cause secondarie, come, io credo, mi sarà molto facile provare, e non al codice della morale il cui primo precetto consiste in questa semplice massima: ama dio con tutto il tuo cuore e il tuo prossimo come te stesso, questo racchiude la legge e i profeti.

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La frase in corsivo era stata soppressa nell’edizione Schemann, ma prontamente reinserita in quella Gallimard. Tale soppressione si è ripercossa sull’edizione italiana dell’epistolario fra Tocqueville e Gobineau, come si può notare in Corrispondenza fra Alexis de Tocqueville e Arthur de Gobineau (1843-1859), a cura di Luigi Michelini Tocci, Longanesi, Milano 1947, p. 44.

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La seconda cosa a cui bisogna prestare attenzione concerne il fatto che il cristianesimo non è una filosofia, ma una religione. Vi sono certe dottrine che fanno necessariamente parte di una religione, qualunque essa sia, e che non vanno attribuite al genio particolare di alcuna. Tale è il merito attribuito alla fede, l’utilità, la necessità della fede, l’insufficienza delle usanze prive di fede e, di conseguenza, in una certa misura, l’intolleranza di cui voi vi rallegrate così tanto di vederci esenti. Tutto questo è inerente alle religioni. Questo male è necessariamente legato al bene che esse possono produrre. Non si può avere l’uno senza l’altro. E, per quanto mi riguarda, io sono convinto, ve lo debbo dire, che il male che queste idee fanno alla morale è, tutto sommato, assai inferiore a quello che essa soffre quando si trova a perdere la sanzione necessaria che la fede le conferisce. Più vivo e meno intravedo che i popoli possono liberarsi da una religione positiva, e questo mi rende meno severo di voi rispetto agli inconvenienti che tutte le religioni, financo la migliore, presentano. La maggior parte dei caratteri nei quali credete di riconoscere una nuova morale non sono, a mio avviso, che i segni che hanno sempre accompagnato l’indebolimento di una fede religiosa. Quando non si crede più a una religione, è evidente che non si ripone alcun valore morale nella fede e non si giudicano più gli atti che per quello che sono. Allo stesso modo, quando la nozione dell’altro mondo diviene oscura, è naturale che gli uomini, non potendo prescindere dalla legge morale, cerchino di trovarne la sanzione in questa vita e creino tutti quei sistemi che, sotto differenti nomi, afferiscono alla dottrina dell’interesse. E, ancora, quando si perdono di vista le gioie celesti, è molto facile che ci si attacchi sempre più ai soli beni che rimangono, quelli di questo mondo, e che tanto più ci si affezioni a questi ultimi tanto più l’esistenza degli altri diviene problematica. 114

Io credo che tutto ciò, come si è visto, almeno in parte, con il declino del paganesimo, si vedrà tutte le volte che una religione perderà il proprio impero. Si troverà allora una che mostrerà quegli istinti e dei filosofi che ridurranno gli stessi in dottrina. Debbo dirvi ancora che non sono affatto meravigliato di questo aspetto che prende il nome di riabilitazione della carne. Il cristianesimo aveva forse spinto fino all’eccesso la glorificazione dello spirito, ma in questo aveva costituito un’ammirevole reazione contro il suo tempo e contro lo spirito delle religioni antiche. E voi non trovate che in questa lotta aperta dello spirito contro la materia trionfante vi fosse una bellezza incomparabile? Se il cristianesimo è stato trascinato troppo lontano dalla grandezza stessa del suo sforzo, a mio avviso in ciò non va riscontrato un grande pericolo, poiché tutti gli istinti della grande massa degli uomini si sono protesi in senso contrario, e la carne si sarebbe riabilitata da sé anche se i filosofi non avessero voluto dire la loro in merito. [...] Tra le cose veramente nuove nel campo della morale (tra le quali ve ne sono molte che trovo assai belle), la maggior parte mi sembra provenire direttamente dal cristianesimo. Si tratta del cristianesimo applicato dalle intelligenze più ampie, da altre forme politiche e con uno stato sociale differente. Si tratta, in una parola, di nuove conseguenze derivate da un vecchio principio. [...] Il cristianesimo costituisce la grande base della morale moderna; tutto ciò che nelle leggi, negli usi, nelle idee, nei sistemi filosofici vi sembrasse contrario ai princìpi forniti dal cristianesimo, o anche soltanto differente da esso, deve essere da voi raccolto e messo ben in luce. Questa è la prima regola da seguire, infatti ciò che intendo soprattutto far conoscere non è la morale dei nostri tempi, ma ciò che essa contiene di nuovo e di differente rispetto a quella che l’ha preceduta. [...] Riconosco che i nostri sforzi su questo punto non mi hanno ancora fornito di elementi chiarificatori per me sod115

disfacenti; almeno di quelli di tal specie che io vado cercando e che consistono soprattutto nel mostrare ciò che è nuovo nei sistemi morali e ciò che si distacca dai princìpi forniti dal cristianesimo. Mi sembra che Kant stia piuttosto al di là che al di qua del cristianesimo. Gli autori più moderni di lui hanno forse, su questo punto, una fisionomia differente? Vogliate, ve ne prego, applicarvi a mettere ben in rilievo questa parte del nostro argomento. Quanto agli autori francesi, esito un po’ a pregarvi di occuparvene, poiché di tutti gli argomenti di cui ho bisogno, questi sono quelli da me conosciuti già in misura maggiore, e che trovo più facilmente sotto mano. [...] Voi dite giustamente che uno dei tratti caratteristici delle nostre opinioni morali consiste nel non rivolgersi che ai costumi indipendentemente dalla fede. Ciò appare manifesto nelle leggi moderne, che hanno conferito gli stessi diritti, imposto gli stessi doveri e trattato alla stessa maniera gli uomini di tutte le sette cristiane. Questo trattamento è stato esteso in Francia agli ebrei. Le legislazioni straniere, le opere di diritto straniere, devono contenere delle tracce meno visibili, ma ancora percepibili, di quello stesso spirito. Voi dite che l’elemosina, da privata, è divenuta sociale, che si è fatta più disinteressata e illuminata. Io credo che ciò sia vero in parte, sebbene non tragga dal medesimo fatto le stesse conseguenze e ci veda piuttosto la manifestazione della dottrina cristiana in un’epoca molto civilizzata, progredita nel campo amministrativo e assai democratica, che non un nuovo sistema. I segni che dimostrano questa tendenza sono costituiti dalle risorse accumulate dai poteri pubblici per soccorrere con regolarità amministrativa le differenti forme di miseria, dal perfezionamento, per dirlo in una parola, di tutte le istituzioni caritatevoli del cristianesimo. Si tratta della carità legale diretta. Tutto ciò che può essere stato fatto in tale direzione, soprattutto in Germania, dovrà essere raccolto con grande cura. [...] 116

Lettera di Tocqueville a Gobineau (22 ottobre 1843) [...] Voi dite che secondo me il cristianesimo sarebbe un’opera assolutamente differente da tutto ciò che l’ha preceduta. Io non ho mai pensato questo né credo di averlo detto. Vi è certamente una gran mole di massime e idee che, prima di essere raccolte e concatenate a un medesimo fine dal Vangelo, erano sparse e, conseguentemente, inerti nei libri della Grecia e dell’Oriente. Ne ho ritrovato un gran numero l’altro giorno, nelle leggi di Manu, e so già in anticipo che se ne incontreranno in tutte le raccolte dello stesso tipo. Il cristianesimo ha scelto, sviluppato, classificato, concatenato le une alle altre delle massime e delle idee che per la maggior parte si erano presentate separatamente, o in forma oscura, allo spirito degli uomini, e ha fatto dell’insieme uno strumento di governo morale assolutamente nuovo. Ecco il mio pensiero. [...] Io credo [...] che quasi tutto ciò che noi definiamo come dei princìpi nuovi non debba essere considerato altro che delle conseguenze nuove che lo stato della nostra civilizzazione, delle nostre leggi politiche e del nostro stato sociale ci fa ricavare dai vecchi postulati del cristianesimo. [...] Voi sembrate contestarmi anche l’utilità politica delle religioni. Su questo punto, voi e io, abitiamo proprio agli antipodi. Il timore di dio, dite voi, non impedisce alcun assassinio. Quand’anche questo fosse vero, cosa che è molto dubbia, che conclusione bisognerebbe trarne? L’efficacia delle leggi, sia civili che religiose, non consiste affatto nell’impedire i grandi crimini (questi sono di solito il prodotto di istinti eccezionali e di passioni violente che passano attraverso le leggi come farebbero con delle tele di ragno); l’efficacia delle leggi consiste nell’avere efficacia sulle azioni comuni degli uomini, nel governare le azioni ordinarie di tutti i giorni, nel conferire un percorso abituale alle idee e un tono generale ai costumi. Ridotte a questo, le leggi, e soprattutto le leggi religiose, sono così necessarie che non si sono ancora viste nel mondo delle grandi 117

società che abbiano potuto farne a meno. Io so che vi sono molti uomini che pensano che un giorno avverrà questa liberazione, e che si mettono alla finestra tutte le mattine con l’idea che alla fine riusciranno a percepire questo nuovo sole che si leva. Per quanto mi concerne, sono convinto che guarderanno sempre invano. Crederei piuttosto alla venuta di una nuova religione, che non alla grandezza e alla prosperità crescente delle nostre società moderne senza la religione. Se il cristianesimo dovesse in effetti sparire, come tante persone si affrettano a dire, ci capiterà quello che è capitato agli Antichi prima della sua comparsa, una assai lunga decrepitezza morale, una vecchiaia viziosa e travagliata che finirà per portare con sé, non so davvero né dove né come, un nuovo rinnovamento. Un’ultima questione e poi vi lascio. Nello stesso tempo in cui voi siete così severo con questa religione che, tuttavia, tanto ha contribuito a porci alla testa della specie umana, mi sembrate avere un certo debole per l’islamismo. Questo mi ricorda un altro dei miei amici che avevo ritrovato in Africa convertito alla religione maomettana. La cosa non m’aveva per niente coinvolto. Ho studiato molto il Corano, soprattutto a causa del nostro rapporto diretto con le popolazioni musulmane in Algeria e in tutto l’Oriente10, e vi debbo dire che sono uscito da tale studio con la convinzione che vi sono state nel mondo, tutto sommato, poche religioni così funeste per gli uomini quanto quella di Maometto. Essa è, secondo me, la causa principale della visibile decadenza che oggigiorno si vede nel mondo musulmano e, sebbene sia meno assurda del poli10 Tocqueville, oltre ad aver studiato il Corano, era anche stato in Algeria nel 1841 per studiare le problematiche inerenti alla colonizzazione. Come per altre circostanze simili, anche da questo viaggio aveva tratto delle note poi pubblicate nelle opere complete. Tocqueville tornerà in Algeria nel 1845, in qualità di membro relatore della Commissione straordinaria per gli affari d’Africa, per poi presentare alla Camera due ampie relazioni nel maggio e nel giugno del 1847.

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teismo antico, io la considero, rispetto allo stesso paganesimo, una forma di regressione più che di progresso, poiché le sue tendenze politiche e sociali sono, a mio modo di vedere, infinitamente più temibili. Credo che mi riuscirebbe di dimostrarvelo chiaramente se mai vi venisse la sciagurata idea di farvi circoncidere. [...]

Le sette negli Stati Uniti11 Era una domenica. La città era così deserta che sembrava essere stata minacciata da un assalto la mattina stessa e che tutto il popolo si fosse portato in difesa delle mura. Le vie erano tappezzate di catene e le persiane delle case erano chiuse con tale cura che si era pensato che gli abitanti temessero che il sole potesse commettere un’opera servile introducendovisi attraverso. Errai a lungo in questo deserto senza trovare nessuno che potesse indicarmi il cammino. Feci infine un incontro con un uomo il cui aspetto dolce e venerabile mi attirò per prima cosa. Sebbene fosse di mezza età, il suo vestito aveva conservato una certa aria antica che mi colpì. Indossava un abito alla francese e un cappello a falda larga, dei calzoni corti e scarpe, non aveva davantino sulla camicia né lacci alle scarpe, ma il suo abito era di un tessuto molto fino e si osservava su tutta la sua persona una pulizia così estrema che la si scambiava quasi per eleganza. «Signore – gli dissi – potreste indicarmi in questa città un luogo ove si possa pregare dio?». Egli mi osservò con benevolenza e mi rispose, senza portare la mano al suo cappello: 11 Tocqueville non amava gli eccessi, neppure quelli che si verificavano in nome della religione e della fede. Lo dimostra il testo che segue, pieno di ironia e di spirito voltaireiano, contro le pratiche di tre sette americane, in particolar modo quella dei Quakers Shakers. In BENOÎT (2007: 120-125) (si tratta di un passo tratto da De la démocratie en Amérique, I edizione storico-critica riveduta e ampliata da E. Nolla, II vv.,Vrin, Paris 1990, II, pp. 318-320).

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«Tu hai ragione, amico mio, vieni con me, ma affrettiamo il passo ché la congregazione dovrebbe già essere riunita». Affrettammo dunque il passo, e fummo presto di fronte a una grande casa, davanti alla quale ero già passato senza accorgermi che era una Chiesa. La mia guida mi fece entrare, ed entrò lui stesso, camminando sulla punta dei piedi e scivolando in silenzio, come un uomo che si rammarica di non essere un puro spirito per poter fare ancora meno rumore. Raggiunto il suo banco, infine si sedette, tolse discretamente i guanti e dopo averli arrotolati con cura sembrò cadere in una meditazione profonda. Quando fummo seduti, notai che la Chiesa era piena, cosa che non avrei mai potuto sospettare, tanto il silenzio che vi regnava era profondo. Tutti quelli che mi circondavano erano vestiti come la mia guida, anche i bambini più piccoli che si tenevano seriamente sui loro banchi, vestiti con lo stesso abito alla francese e coperti da un cappello a falda larga. Restai lì un’ora e quaranta minuti nello stesso silenzio e nella stessa immobilità. Mi girai infine verso colui che mi aveva portato, e gli dissi: «Signore, volevo assistere a un servizio divino e mi sembra che voi mi abbiate condotto a un’assemblea di sordo-muti». La mia guida, senza dimostrarsi offesa per la mia domanda, mi guardò con la stessa benevolenza e mi disse: «Non vedi che ciascuno di noi attende che lo Spirito Santo lo illumini; impara a moderare la tua impazienza in un luogo santo». Io tacqui, e presto, in effetti, uno degli assistenti si alzò e prese la parola. Le sue inflessioni erano lamentose e ciascuna delle parole che profferiva era come isolata fra due lunghi silenzi, e disse con una voce lamentosa cose estremamente consolanti, poiché parlò della bontà inesauribile di dio e degli obblighi di tutti gli uomini di aiutarsi gli uni con gli altri, qualunque sia la loro credenza e il colore della loro pelle. Quando si fece silenzio, l’assemblea cominciò a svolgersi in modo pacifico. Mentre mi ritirai ancora commosso dal linguaggio che avevo appena inteso, mi trovai vicino a colui che mi aveva condotto lì e gli dissi: «Mi sem120

bra d’aver sentito parlare qui la lingua del Vangelo, ma la mia anima è turbata, fatemi sapere, vi prego, se la grazia può prodursi in un uomo che non indossa un vestito stracciato e che dà del tu al suo prossimo». Il mio amico dopo aver riflettuto a lungo rispose: «La maggioranza dei nostri fratelli pensa che ciò non sia assolutamente necessario». Contento di avvedermi che non esisteva una relazione indispensabile fra la mia anima e il mio abito raggiunsi la strada con un passo più leggero. Poco distante da lì, scorsi un’altra Chiesa, ma vi si pregava tutt’altro che tranquillamente, al contrario si faceva un così grande tumulto e si innalzava un così bizzarro clamore che non potei reprimere un desiderio curioso e per soddisfarlo entrai. Era un tempio metodista. Inizialmente vidi, in un punto elevato, un giovane uomo la cui voce tonante si ripercuoteva fra le volte dell’edificio. I suoi capelli erano irsuti, gli occhi sembravano lanciare delle fiamme, le sue labbra pallide e tremolanti, tutto il suo corpo sembrava agitato da un tremore [variante: in preda a un’angoscia] universale. Io volli attraversare la folla per andare in soccorso di questo sventurato, ma mi fermai scorgendo in lui un predicatore. Parlava della perversità dell’uomo e dei tesori inesauribili della vendetta divina. Sondava tutti i misteri temibili dell’altra vita. Dipingeva il Creatore occupato incessantemente ad ammucchiare le generazioni nel baratro dell’inferno, a creare peccatori quanto a inventare supplizi. Mi fermai tutto agitato, la congregazione lo era ancora più di me: il terrore si dipingeva in mille modi sui loro volti e il pentimento prendeva l’aspetto della disperazione e della follia. Alcune donne alzavano i propri bambini fra le braccia ed emettevano grida lamentevoli. Altre battevano le fronti contro la terra, alcuni uomini si torcevano su loro stessi accusandosi dei peccati ad alta voce o si rotolavano nella polvere. Nella misura in cui i movimenti del sacerdote divenivano più rapidi e le sue descrizioni più vive, le passioni dell’assemblea sembravano crescere tanto che era difficile non 121

credersi in una di quelle dimore infernali che dipingeva il predicatore. Fuggii colmo di disgusto e penetrato da un profondo terrore. Autore e conservatore di tutte le cose, mi dicevo, è possibile che tu ti riconosca nell’orribile ritratto che le tue creature fanno [qui] di te? Occorre degradare l’uomo con la paura per elevarlo fino a te, e non può elevarsi al rango dei tuoi santi solamente consegnandosi a impeti che lo fanno discendere al di sopra degli animali? Pieno di questi pensieri, camminai velocemente senza guardarmi intorno, di modo che quando esaminai il luogo dove mi trovavo, mi accorsi che ero uscito dalla città e stavo camminando in mezzo ai boschi che la circondano. Nulla mi sollecitava a ritornare sui miei passi e decisi di continuare sulla mia strada per vedere se sarei arrivato a un luogo abitato. Dopo due ore, giunsi infatti su un nuovo terreno incolto e presto scorsi le prime case d’un bel villaggio. Un viaggiatore, che si trovò a passare, mi fece sapere che queste erano di proprietà di una piccola setta religiosa chiamata dansars (sic). Era in effetti evidente che le case di questo villaggio erano state costruite con un piano comune e dalla medesima associazione. Erano costate la stessa somma, vi regnava la stessa aria di agiatezza. Al centro delle coltivazioni si ergeva una grande sala che fungeva da Chiesa. Mi fu detto che il servizio divino veniva celebrato lì e la curiosità mi ci condusse. A un’estremità della sala erano già sistemati una cinquantina di uomini di età differenti, ma tutti portavano lo stesso abito. Era quello dei paesi europei del Medioevo. Di fronte a loro si trovava un numero pressoché uguale di donne avvolte in abiti bianchi come grandi coltri, dalla testa ai piedi. Del resto non si vedeva né pulpito né altare né nulla che ricordasse un luogo consacrato da cristiani per il culto della Divinità. Questi uomini e donne cantavano dei cantici con un tono lugubre e lamentoso. Di tanto in tanto si accompagnavano battendo le mani. Altre volte, si mettevano in movimento compiendo mille rivoluzioni 122

senza perdere il tempo, a volte mettendosi in fila, a volte formando un cerchio. Altre volte essi avanzavano l’uno contro l’altro come per combattersi e si ritiravano in seguito senza essersi affrontati. Assistevo con stupore a questo spettacolo finché improvvisamente, a un dato segnale, tutta la congregazione si mise a ballare. Donne e uomini, giovani e anziani cominciarono a saltare sino a perdere il fiato. Danzarono così a lungo in questa maniera che il sudore scorreva dal loro viso. Infine si fermarono; e uno dei più anziani della compagnia dopo essersi asciugato la fronte cominciò a dire, con voce rotta: «I miei fratelli rendono grazie all’onnipotente il quale, fra le tante e diverse superstizioni che snaturano l’umanità, si è degnato infine di mostrarci la via della salvezza, e lo preghiamo di aprire gli occhi a questa folla di sventurati che sono ancora sprofondati nelle tenebre dell’errore, e di salvarla dai tormenti eterni che forse l’attendono».

Il clero cattolico in Canada e quello europeo12 La religione cattolica non è qui accompagnata da alcuno degli accessori che possiede nei paesi del mezzogiorno d’Europa, ove essa regna con più impero. Non vi sono conventi per uomini e i conventi per donne hanno scopi d’utilità e forniscono esempi di carità molto ammirati dagli stessi Inglesi. Non vediamo assolutamente madonne sulle strade. Nessun ornamento bizzarro e ridicolo, punto di ex voto nelle chiese. La religione [è] illuminata e il cattolicesimo non esercita qui né l’odio né il sarcasmo dei prote12 Convinto della superiorità del cristianesimo e, soprattutto, del cattolicesimo rispetto alle altre religioni, Tocqueville, tuttavia, durante il suo viaggio negli Stati Uniti e in Canada, rileva con una certa preoccupazione come in questi paesi il clero cattolico, e il cattolicesimo in genere, sia molto più conforme ai costumi del tempo di quanto non accade in Europa. I testi che seguono costituiscono, a nostro avviso, una valida testimonianza del timore di Tocqueville.

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stanti. Riconosco che, da parte mia, essa soddisfa il mio spirito più del protestantesimo degli Stati Uniti. Il curato è veramente il pastore del gregge; non è affatto un imprenditore d’industria religiosa come la maggior parte dei ministri americani. Occorre negare l’utilità di un clero, oppure averlo come in Canada13. Il clero non forma qui che un corpo compatto con il popolo. Divide le sue idee, entra nei suoi interessi politici, lotta con esso contro il potere. Al di fuori di esso, non esiste che per esso. Lo si accusa qui di essere demagogo. Non ho inteso dire che si mosse lo stesso rimprovero ai sacerdoti cattolici in Europa. Il fatto è che è liberale, colto e tuttavia profondamente credente, e i suoi costumi sono esemplari. Io sono una prova della sua tolleranza: protestante, sono stato nominato dieci volte da alcuni cattolici alla nostra Camera dei Comuni e non ho mai sentito dire che il minimo pregiudizio di religione mi sia stato mosso contro da chicchessia. I sacerdoti francesi che ci arrivano dall’Europa, simili ai nostri per i loro costumi, sono loro assolutamente diversi per la tendenza politica*. Ciò che mi fa credere che il carattere politico dei nostri sacerdoti sia speciale in Canada è che i sacerdoti che ci arrivano di quando in quando dalla Francia mostrano, al contrario, per il potere una condiscendenza ed uno spirito di docilità che noi non possiamo concepire**14.

Abbiamo visto un grande numero di ecclesiastici da quando siamo nel Canada. Ci è sembrato che formassero in maniera chiara la prima classe fra i Canadesi. Tutti quelli che abbiamo visto sono istruiti, compiti e ben educati. Parlano il francese con purezza. In generale sono più distin13

In O.C., V, 1, p. 211. Conversazione con M. Neilson, 27 agosto 1831* e M. Mondelet, 24 agosto 1831**, in O.C., V, 1. I passi che abbiamo ripreso li abbiamo tratti da BENOÎT (2007: 144). 14

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ti della maggior parte dei nostri curati di Francia. Si nota dalle loro conversazioni che sono completamente canadesi. Sono uniti alla popolazione dal cuore e dagli interessi e trattano molto bene delle sue necessità. Ci sono sembrati tuttavia avere dei sentimenti di onestà verso il re d’Inghilterra, e sostenere in generale il principio di legittimità. Tuttavia uno di essi mi disse: «Noi ora abbiamo tutto da sperare, il ministero è democratico». Essi costituiscono oggi l’opposizione, si ribellerebbero di certo se il governo divenisse tirannico... Il curato stesso prende parte alla gioia comune affinché essa non degeneri in licenza. Egli è l’oracolo del luogo, l’amico, il consigliere della popolazione. Lungi dall’essere qui accusato di essere il partigiano del potere, gli Inglesi lo trattano da demagogo. Il fatto è che egli è il primo a resistere all’oppressione, e il popolo vede in lui il suo appoggio più costante. Anche i canadesi sono religiosi per principio e per passione politica. Il clero forma la classe alta, non grazie alle leggi, ma perché l’opinione e i costumi lo pongono in capo alla società. [...] Si tratta, in effetti, della gente più distinta del paese. Somigliano molto ai nostri vecchi curati francesi. Sono, in generale, degli uomini gioiosi, amabili e ben educati...15

La Chiesa e il potere politico16 Mio Signore, per rispondere alle domande che mi avete posto, ritengo utile stabilire in diritto e in fatto quella che era la posi15

Cit. in BENOÎT (2007: 144-145). In occasione del suo secondo viaggio in Inghilterra, nel 1835, Tocqueville ha messo per iscritto, su richiesta di Lord Radnor, gli elementi di una conversazione nella quale aveva avuto modo di spiegargli come e perché i forti legami che la Chiesa cattolica francese intratteneva con il potere politico fossero al tempo stesso inopportuni e controproducenti. Così come la Monarchia di Luglio, distinguendo religione e politica, aveva permesso un ritorno in auge del cattolicesimo, oltre 16

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zione dei ministri della religione prima della rivoluzione del 1830. Parlerò di seguito dello stato attuale e dei suoi risultati. Quando Napoleone ristabilì in Francia l’esercizio della religione cattolica, non restituì al clero i suoi beni immobili, ma gli conferì una parte del bilancio dello Stato. I sacerdoti, da proprietari divennero lavoratori dipendenti. Questo non fu affatto l’unico danno recato alla loro indipendenza dall’Imperatore. Nella vecchia monarchia, esisteva fra i vescovi e i semplici sacerdoti di ciascuna diocesi un tribunale ecclesiastico che serviva loro da intermediario e che si chiamava, se non erro, tribunale vescovile. Napoleone distrusse questo tribunale d’appello. Consegnò il clero inferiore alla giurisdizione del vescovo, contro la quale non ebbe più ricorsi. L’Imperatore pensava, a torto o a ragione, che avrebbe sempre potuto disporre di un piccolo numero di vescovi a buon mercato, e che a capo di questi lo sarebbe stato di tutto il clero. Questo era lo stato in cui si trovavano i ministri della religione all’epoca della Restaurazione. I Borboni ritornarono con l’idea che occorreva sostenere il trono contro l’altare, e la carta del 1814 dichiara che la religione cattolica era la religione di Stato. Ma non si osò affatto definire ciò che bisognava intendere per religione di Stato. Non si resero al clero i suoi beni; non si aumentarono nemmeno, credo, i suoi salari. Ma li si fecero penetrare indirettamente negli affari pubblici. I curati divennero in qualche modo delle autorità politiche, grazie al peso che ottenevano le loro raccomandazioni. I posti furono spesso assegnati in previsione delle credenze di coloro che li richiedevano piuttosto che in considerazione delle loro capacità. Almeno lo si credette. Nella misura in cui la Reall’accrescimento della pratica religiosa, così la Restaurazione, facendo del cattolicesimo la religione di Stato, l’aveva ripiombata nel discredito. Un rischio, quest’ultimo, che Tocqueville aveva validi motivi di veder ripresentarsi nel futuro prossimo. In O.C., Bmt, VI, pp. 41-47.

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staurazione si stabiliva, l’unione dello Stato e della Chiesa diveniva sempre più evidente. Si fece una legge per punire con pieno rigore la profanazione sacrilega dei vasi sacri e il furto nelle chiese. Tutti gli arcivescovi e una parte dei vescovi entrarono nella Camera dei Pari. La nazione fu, o piuttosto credette di essere, governata dai sacerdoti e scorse ovunque la loro influenza. Fu allora che si vide rinascere ciò che da noi chiamiamo lo spirito voltaireiano, cioè lo spirito di ostilità sistematica e di beffe, non solo contro i ministri della religione, ma contro la religione stessa e il cristianesimo sotto tutte le forme, tutti i libri del XVIII secolo furono ristampati e distribuiti a buon mercato al popolo. Le caricature, i teatri, le canzoni si riempirono di satire amare contro la religione. L’odio di una parte della popolazione contro il clero diventò di una violenza inconcepibile. Svolgevo allora funzioni simili a quelle del procuratore del re e osservavo che tutte le volte che un sacerdote aveva la sventura di essere accusato di un crimine, la giuria, in generale così indulgente, lo condannava quasi sempre all’unanimità. Il clero, che durante l’Impero non era di alcun partito, diventò sotto la Restaurazione un partito. Si aggiunse agli assolutisti più decisi, e predicò spesso in chiaro favore del potere assoluto della corona. Da qui risulta un effetto decisamente funesto: quasi tutti i liberali, cioè la maggior parte della nazione, divennero irreligiosi per principio politico. Facendo dell’empietà, essi credevano di fare opposizione. Si videro spesso allora degli uomini molto onesti entrare in collera al solo sentir nominare la religione, mentre altri conosciuti per l’immoralità delle loro vite parlavano soltanto della necessità di risollevare gli altari e fare onorare la Divinità. Credo, mio Signore, che oggi non vi sia nessuno in Francia, a qualunque partito appartenga, che non consideri gli odi religiosi che la Restaurazione ha fatto nascere come la causa principale della caduta dei Borboni. Abbandonati a loro stessi, i principi del ramo maggiore avrebbero fatto fatica a sostenersi; uniti al clero ed esposti alle 127

inimicizie ardenti che il potere politico dei sacerdoti suscitava, non potevano evitare di soccombere. Questo ci porta fino all’anno 1830. Vediamo quello che è successo dopo. Il clero aveva unito così bene la sua sorte a quella del re che, quando il re venne spodestato dal suo trono nel luglio del 1830, i sacerdoti si credettero tutti minacciati nella propria persona, e molti in effetti lo furono. In qualche grande città, dovettero abbandonare le apparenze esteriori delle loro professioni. L’Arcivescovato di Parigi fu saccheggiato nel febbraio 1831, e l’arcivescovo obbligato a nascondersi. Da parte sua, il corpo legislativo si pronunciava contro di essi. La parola religione di Stato era stata soppressa dalla Carta, e al suo posto si mise religione della maggior parte dei francesi. Tutti i vescovi promossi alla Camera dei Pari da Carlo X persero i loro seggi. Gli altri si sono sempre astenuti dal prendere parte alle sedute. Il ministero degli Affari ecclesiastici fu soppresso. In questo modo, il clero perse tutti i rappresentanti nella Camera dei deputati. Un cambiamento ancor più considerevole si operò nelle abitudini del governo. I sacerdoti persero ogni influenza diretta negli affari amministrativi e politici. Non ci si mostrò in generale ostile verso di loro; ma li si contenne con cura nei limiti del loro ministero. Le tasse sui salari furono modificate in alcune parti. Si spogliarono i vescovi di parte dei loro stipendi per giustificare il trattamento dei semplici sacerdoti. Questo è, credo, lo stato attuale delle cose. Si tratta di conoscere ora quali sono le conseguenze. Qui, mio Signore, sarebbe forse imprudente credermi sulla parola. Voi sapete che, in politica, ciò che rimane più difficile da apprezzare e comprendere è ciò che passa davanti ai nostri occhi. Il passato, nei grandi affari umani, sembrava più chiaro e netto del presente. Tutto quello che vi posso promettere è di mostrarvi esattamente ciò che vedo, e dire senza secondo fine che ciò che credo è che una moltitudine di uomini illuminati crede come me nella Francia. 128

Nel momento in cui il clero aveva perso il suo potere politico, e appena si credette di intuire che era minacciato di persecuzione piuttosto che essere oggetto del favore del governo, gli odi che l’avevano perseguitato durante tutta la Restaurazione, e che dal sacerdote erano passati alla religione, iniziarono a intiepidirsi in maniera visibile. Ciò non ebbe luogo improvvisamente e dappertutto. Gli istinti irreligiosi che la Restaurazione aveva creato o fatto rinascere si mostrarono spesso in alcuni punti del territorio. Ma prendendo l’insieme del paese, fu evidente che il movimento di reazione che stava trascinando gli animi verso le idee religiose era cominciato. Credo che nell’epoca in cui ci troviamo questo movimento non sfugga più a nessuno. Le pubblicazioni irreligiose sono divenute estremamente rare (non ne conosco nemmeno una). La religione e i sacerdoti sono interamente scomparsi dalle cariche pubbliche. È molto raro nei luoghi pubblici sentire tenere discorsi ostili verso il clero o le sue dottrine. Non è che tutti coloro che tacciono abbiano conosciuto un grande amore per la religione, ma è evidente che almeno non provano più odio verso di essa. È già un grande passo. La maggior parte dei liberali, che le passioni irreligiose avevano precedentemente spinto in testa all’opposizione, utilizza ora un linguaggio molto diverso da quello che teneva allora. Tutti riconoscono l’utilità politica di una religione e deplorano la debolezza dello spirito nella popolazione. Ma il cambiamento più grande si nota nella giovinezza. Dopo che la religione è stata posta al di fuori della politica, un sentimento religioso, vago nel suo scopo, ma molto potente nei suoi effetti, si scopre fra la gente giovane. Il bisogno di una religione e di un testo è frequente nei loro discorsi. Molti credono; tutti vorrebbero credere. Questo sentimento li conduce nelle chiese quando un predicatore celebre deve portarvi la sua parola. In occasione della mia partenza da Parigi, le prove della religione erano esposte tutte le domeniche nella cattedrale da un giovane sacerdote dotato di rara eloquenza. Quasi cinquemila ragazzi assi129

stevano regolarmente ai suoi sermoni17. In mezzo ad essi si riuniva, nei suoi abiti pontificali, lo stesso arcivescovo di Parigi, di cui quattro anni fa si era saccheggiato e distrutto il palazzo e che per più di un anno era stato obbligato a tenersi nascosto come un esiliato. Mai un simile spettacolo si era visto durante la Restaurazione, allorché i vescovi avevano un posto nella Camera dei Pari e nel Consiglio del re, e quando l’influenza politica dei sacerdoti passava per onnipotenza...

Lettera a Monsignor Daniel, Vescovo di Coutances18 Monsignore, ho appena ricevuto l’Istruzione pastorale che mi avete inviato. Sono rimasto molto toccato dal fatto che vi siate voluto ricordare di me in questa circostanza. Vogliate gradire l’espressione della mia più viva riconoscenza; vi ho letto, Monsignore, vi ho ammirato. Ho ammirato l’abbondanza di parole che non toglie nulla alla precisione dell’idea; la freschezza del linguaggio; la forza del pensiero, che le ricchezze d’espressione decorano e non irritano affatto. Ho riconosciuto, in una parola, i doni particolari della vostra eloquenza, di questa eloquenza che penetra nell’animo e tocca il cuore. Mentre vi esprimo una perfetta sincerità di sentimenti che la lettura della vostra pastorale mi ha ispirato, mi permettete, Monsignore, di sottoporvi con tutta la diffidenza che devo avere di me stesso quando vi parlo, un’osservazione critica. Essa si rapporta a questo paragrafo della Pa17 Tocqueville evoca qui le conferenze di Lacordaire a Notre-Dame, nel 1835. 18 Si tratta di una lettera del 4 marzo 1858 in cui Tocqueville, pur con toni di sussiego e riverenza, si esprime con forte critica nei confronti del Vescovo di Coutances, reo di aver chiamato per ben tre volte, con tre documenti ufficiali, i fedeli a pregare per Napoleone III, definito come l’«inviato dell’Altissimo». In BENOÎT (2007: 159-161).

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storale, pagina 31, ove voi parlate dell’Inviato dell’Altissimo, Colui che sua grazia ha scelto, questo Ministro dei divini Consigli, ecc. Mi sembrava che queste parole implicassero una sorta di consacrazione in nome della religione [del governo attuale]; riconosco con candore che venendo da un uomo come voi, mi hanno commosso. Non voglio affatto, indubbiamente, entrare in una discussione politica. Mi ritengo un amico delle istituzioni attuali (ciò che confesso che non sono affatto) e, pertanto, di questo stesso enunciato; mi domando se non vi è qualche pericolo per la religione nel prendere parte per il nuovo potere e raccomandarlo con parole simili in nome di dio. Ho visto la Chiesa confondere anche la sua causa a quella del primo impero; l’ho vista anche proteggere la Restaurazione con la sua parola; e non mi è sembrato che essa avesse tratto profitto da questa condotta. In un paese come il nostro, i giudizi che sono posti sul potere del momento non saprebbero essere unanimi. In questi tempi sventurati non si rimproverano solamente le azioni del governo; se ne contestano la moralità, i suoi diritti. Vi è ancora oggi, in Francia, un grande numero di uomini che considerano come atto di coscienza il fatto di non riconoscere il nuovo potere. Credo che non si possa negare che fra questi non se ne trovino molti i quali per la dimensione dei loro lumi, l’onestà delle loro vite, spesso per la sincerità della loro fede, sono gli alleati naturali della Chiesa, dirò i suoi allievi necessari, se la religione non trovasse la sua principale forza in se stessa. Fra quelli che approvano l’attuale cammino del potere, quanto poco hanno onorato i suoi inizi e i suoi primi atti? [Violare i giuramenti più solenni prestati o respinti, invertire con la violenza le leggi che si era cercato di proteggere, mitragliare a Parigi gli uomini disarmati per ispirare un salutare terrore e prevenire la resistenza... Questi atti, e potrei senza dubbio aggiungerne molti altri]. Questi atti possono essere scusati e anche approvati dalla politica; ma la legge morale universale li rifiuta [assolutamente]. Coloro i quali hanno presente questi ricordi così recenti della 131

nostra storia [non possono mancare di provare] un dubbio doloroso in fondo alla loro anima e una sorta di vacillamento delle loro credenze, sentendo le voci più autorevoli compiere i medesimi atti in nome della morale eterna [un potere così nuovo e che è così cominciato]. Ecco alfine, Monsignore, il dubbio che mi permetto di sottoporvi, facendo appello alla vostra indulgenza in favore di un uomo che mostra per voi tanto rispetto quanto attaccamento...

Discorso sulla libertà di religione19 Signori, prego la Camera di constatare che ci troviamo in presenza di due questioni: una questione di fatto e una di diritto. Sembrerebbe, in seguito a ciò che il signor guardasigilli ha appena detto, che non tutti i protestanti di Francia siano dell’avviso, al giorno d’oggi, di rammaricarsi, e questo non deve sorprendere per nulla. Quelli, tra loro, il cui culto è sovvenzionato, che possono governare la propria Chiesa, si ritengono soddisfatti, è molto semplice; mentre, al contrario, coloro che desiderano sottrarsi a questi governi ecclesiastici per adorare dio alla propria maniera, questi si lamentano. KOECHLIN: Quelli non sono protestanti (moti contrastanti). TOCQUEVILLE: Avete inteso signor De Gasparin. Sembrerebbe dunque che i protestanti di Francia siano divisi sulla questione. Ma che ce ne importa? La questione di cui 19 Si tratta di un discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 28 aprile del 1845, in occasione di un dibattito relativo alla libertà religiosa, come risposta al ministro della Giustizia e dei Culti Martin du Nord, il quale sosteneva che l’articolo 291 del Codice penale dovesse applicarsi alle riunioni religiose, concludendone pertanto che nessuna riunione di questo genere potesse avere luogo senza l’autorizzazione del governo. In O.C., Bmt., IX, pp. 416-422.

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ci stiamo occupando deve forse svuotarsi in virtù delle opinioni e degli interessi delle sette protestanti? Forse che questa non è una questione che domina tutti i culti, che interessa tutti i cittadini? Forse che si tratta di sapere se questi o questi altri protestanti si ritengono soddisfatti della attuale giurisprudenza? No, no: la questione è più alta, si libra ben al di sopra di tutte le singole religioni. Non si tratta di una questione di religione, ma di diritto. La questione è di sapere se in questo paese di libertà, la prima di tutte le libertà umane, la più santa e sacra, la libertà religiosa sia stata compresa dalla Francia prima che avessi avuto bisogno di nominargliela; se in questo paese di libertà sarà permesso o meno di adorare il proprio dio senza l’autorizzazione del commissario di polizia (a sinistra: si tratta di questo!). Tale è la questione, non si tratta di altro. Questo argomento è stato lungamente ed eloquentemente sviluppato un anno fa davanti alla Camera; e avevo pensato che il signor guardasigilli, nel constatare un voto così combattuto e discusso per ottenere una maggioranza decisiva, non avrebbe tardato a chiedere una soluzione al parlamento. Egli non l’ha fatto e, al posto di ciò, ha fatto ricorso a un espediente che, oso dire, rappresenta la caratteristica del temperamento abituale del gabinetto, espediente che, come sempre, non ha soddisfatto nessuno. Egli ha lasciato sussistere la giurisprudenza anteriore; ha lasciato che le autorità locali dessero inizio, in virtù della suddetta giurisprudenza, a delle azioni giudiziarie, ma non ha lasciato che queste pervenissero fino ai tribunali. Così facendo ha potuto dire ai partigiani del monopolio di Stato: «vedete chiaramente che porto avanti delle azioni giudiziarie»; e ai partigiani della libertà: «vedete bene che non faccio condannare». In questa maniera egli ha smorzato, lo riconosco, l’irritazione precedentemente prodotta: in questo modo è successo che un gran numero di persone che avevano avuto motivi per lamentarsi non lo abbiano fatto; ma, in fondo, egli non ha fatto nulla che potesse conferire la legittima 133

soddisfazione dovuta a quella sacra libertà di cui parlo continuamente. E tuttavia, signori, io vi domando (senza voler entrare nei dettagli della questione, ma volendo porvi la questione stessa in due parole, credendo in questo modo di risolverla): ma cosa dice la Carta costituzionale? Che ogni cittadino avrà la libertà religiosa. Che cos’è la libertà religiosa? È forse la libertà accordata a ogni uomo di credere nel fondo della propria coscienza a ciò che più gli piace? Ma quale governo, signori, avrebbe il potere di strappare via questa libertà ad alcun uomo? Quale tiranno ha mai avuto il pensiero, non dirò atroce, ma ridicolo, di impedire a un uomo di credere nell’interno della propria coscienza più intima? Che cos’è dunque, signori, la libertà religiosa? È la libertà di culto, la libertà religiosa si dispiega per intero nella libertà di culto, nel diritto di pregare in comune. Ora, che cos’è la libertà di culto? La libertà di culto esisterebbe se, per mettere in pratica il mio culto, che è il primo dei miei doveri agli occhi della mia coscienza, fossi obbligato a ottenere un’autorizzazione preliminare? Di grazia, signori, tornate indietro con la memoria a ciò che, in tutti i tempi e in tutti i paesi in particolare, ha sempre costituito la libertà. Vi trovate forse l’obbligo di un’autorizzazione preliminare a precedere una libertà? Da nessuna parte. Quando credete di aver conseguito la libertà di stampa? Il giorno in cui è scomparsa l’autorizzazione preliminare. Quando si riconoscerà di aver realmente ottenuto la libertà di istruzione? Il giorno in cui verrà sottratto all’Università il diritto di conferire l’autorizzazione preliminare. Gli uomini, financo quelli meno favorevoli alla libertà di insegnamento, sono stati obbligati a riconoscere, in questa Camera come nell’altra, la seguente verità, che è stata solennemente riconosciuta nel rapporto stesso che vi è stato sottoposto l’anno scorso: il signor Thiers ha riconosciuto che, fintantoché la libertà di insegnamento dipenderà dall’autorizzazione preliminare, essa non esisterà per nulla. 134

In questo modo, diciamo con il buon senso di tutti i secoli, con l’esperienza di questo stesso paese, libertà e autorizzazione preliminare sono parole che si urtano fra loro e che non possono marciare di pari passo. Ebbene! Ecco, ciò nonostante, il regime al quale è sottomessa la prima, la più inalienabile di tutte le libertà, in questo paese che ha fatto tante rivoluzioni sanguinose nel nome sacro della libertà, ecco in che stato è ridotta la più preziosa di tutte le libertà, la libertà religiosa. Signori, io lo confesso, ciò che sto dicendo in questa sede mi sembra talmente elementare, talmente chiaro ed evidente che, per arrivare a comprendere il fatto che il governo, senza necessità, ha disconosciuto una verità così lampante, non posso impedirmi di pensare che ha creduto di trovare un grande interesse nel farlo. Qual è questo interesse? L’ordine pubblico, si dirà. Io non credo che fosse in questione l’ordine pubblico, non lo credo proprio, soprattutto quando vedo che qui non si tratta di una di quelle fantasticherie dello spirito umano che, a torto o a ragione, possono farsi belle dandosi il nome di religione, ma di un culto riconosciuto dallo Stato stesso. L’ordine pubblico non era quindi in pericolo. Perché, dunque, il governo ha violato una libertà tanto sacra? Ve lo dirò in poche parole, poiché non voglio sconfinare su una discussione solenne che presto avrà luogo in questo consesso. Sono portato a credere che i ripetuti atti di cui parliamo, atti che risalgono a parecchi anni addietro, sono stati, in questi anni precedenti, molto più numerosi e più oppressivi, lo confesso, di quanto non lo siano oggi; sono portato a credere, dico, che nel momento in cui il governo si è lasciato andare a tali atti non faceva altro che applicare un’idea generale. Qual è, signori, quest’idea generale? A mio parere l’idea generale era la seguente: il governo ha visto che, dopo la Rivoluzione di luglio, per il fatto stesso che questa rivoluzione aveva così felicemente tagliato i legami che tenevano uniti la Chiesa e lo Stato, la religione, per la prima volta, sembrava risollevarsi nel paese, che 135

le credenze religiose sembravano formare nuovamente radici all’interno degli animi; ha visto queste cose e subito ha voluto ridurre al proprio servizio questa nuova forza che si presentava; immediatamente, tramite un insieme di misure che ci sarebbe agevole richiamare, ma che non voglio ricordare perché è mia intenzione essere breve, ha tentato di attirare a sé il cattolicesimo, di mettere le mani sul clero e di farne un agente del governo (moti contrastanti. Agitazione). Eh, signori, la Camera si accorgerà immediatamente che, nel rivangare per un momento questa questione così scottante, non sto cedendo a delle miserevoli questioni di partito: se ne accorgerà. Dicevo, dunque, che il governo aveva creduto che fosse nel suo interesse di ricongiungersi con il clero, di fare del clero, lo ripeto, uno strumento del governo. Affermo che la maggior parte degli atti di cui ci lamentiamo ora, da questa tribuna, trae origine da un tale pensiero. È in questo modo che, per non fuoriuscire dal caso di cui ci stiamo occupando, il governo ha voluto mostrare al cattolicesimo che si frapponeva, per così dire, tra esso e i suoi avversari; che alla bisogna era in grado di difenderlo contro il proselitismo; che stava in guardia per lui affinché il proselitismo non divenisse un concorrente temibile; che era in grado, in caso di bisogno, di essere il braccio secolare della Chiesa. Cosa ne è risultato da questi atti e da molti altri che non intendo richiamare in questa sede? Ne sono risultate due cose: tutti gli antichi avversari del cattolicesimo si sono rianimati, ridestati alla vista di questa parzialità da parte del potere. Non sono stati soltanto i protestanti ad essere inquieti e turbati nel vedere questa nuova unione che sembrava rinascere tra la Chiesa e lo Stato; ma tutti i liberi pensatori, tutti gli uomini sinceri di tutte le confessioni e di tutte le opinioni, che aspirano alla libertà completa, che non la vogliono soltanto per se stessi e per i propri amici, ma per tutti quanti, tutti questi uomini si sono preoccupati; una agitazione sorda si è affacciata immediatamente, non sol136

tanto contro il clero, ma contro lo stesso cattolicesimo. Per un altro verso, nello stesso tempo e in seguito ai medesimi fatti, il clero, o piuttosto alcuni uomini all’interno del clero, ha preso coraggio. Gli uomini intolleranti e ambiziosi all’interno del clero, ve ne sono di tal fatta all’interno di ogni congregazione, anche quelle più onorevoli e sante, hanno creduto che fosse giunto il momento di agire, di fare qualcosa di nuovo e riprendere infine l’offensiva. Resi più forti da questo appoggio segreto che essi credevano di trovare nel governo, si sono lasciati andare agli attacchi, alle provocazioni e alle violenze deplorevoli di cui siamo stati testimoni, le quali, per contraccolpo inevitabile, hanno finito con il portare alle rappresaglie violente cui stiamo assistendo. Cosa è derivato da tutto questo? Ne è derivato qualcosa di profondamente deplorevole, a mio avviso: cioè che la grande e disgraziata guerra che era già intercorsa tra la società nuova e la religione, guerra che sembrava perlomeno sospesa, è ripresa da tutte le parti con violenza, fino al punto di essere giunti, infine, a doverne contemplare il triste spettacolo dei dissidi religiosi che oggigiorno si mostrano ai nostri occhi. Ne è risultato che abbiamo visto prodursi delle divisioni deplorevoli, divisioni funeste e che, spero, non dureranno per sempre, tra le idee religiose e le idee liberali, divisioni che, per conto mio, deploro con tutto il mio animo e considero come la più grande sventura che potesse capitare alla società del nostro tempo. Quanto a me, sono convinto, e questa convinzione, anche dovesse restare individuale e isolata, non sarebbe meno salda, sono profondamente convinto che, in questo paese che è la Francia, la religione non otterrà mai quell’impero sui cuori che le è dovuto; che non porterà mai le anime all’altezza a cui è in grado di innalzarle e che non sarà mai completamente grande se si allontana dalla libertà; mentre, per un altro verso, sono profondamente convinto che, se la libertà si separa in maniera definitiva e completa dalle fedi, le mancherà sempre ciò che le ho visto con tanta ammira137

zione possedere negli altri paesi, le mancherà sempre quell’elemento di moralità, di stabilità, di tranquillità e di vita che solo la rende grande e feconda (molto bene!). Non è questo che sognavo per il mio paese; ho sempre pensato che, sebbene questa alleanza tra lo spirito di religione e lo spirito liberale non esistesse in Francia, per delle cause che non voglio tornare a esaminare, ho sempre pensato, dico, che questa unione così necessaria fra la religione e la libertà si sarebbe fatta prima o poi; avevo creduto che si fosse compiuta dopo la Rivoluzione di luglio, allorché avevo visto la religione e lo stato separarsi in maniera completa e assoluta, con il prete confinato all’interno della propria sfera e lontano dal potere; quando ho visto, in seguito a questa separazione così felice e auspicabile, che le anime più elevate si innalzavano come da sole verso le credenze religiose; quando ho visto da una parte gli uomini religiosi tendere la mano agli uomini di libertà e, dall’altra parte, gli uomini di libertà tendere la mano agli uomini religiosi, ho allora creduto che questa unione stesse per realizzarsi, e ho sentito una gioia grande e patriottica. Quando in seguito ho visto prodursi delle impressioni contrarie, ho provato un profondo dolore per il mio paese. Chi accusare di un male così grande? Non posso trattenermi dal dirlo: prima di tutti il governo. È soprattutto a causa della condotta che ha tenuto da alcuni anni il governo nei confronti del clero che accade ciò che accade; è tale condotta che ha allarmato gli uni e conferito una fiducia assai imprudente agli altri. È prima di tutto questa condotta, così pericolosa nella sua fatalità, ad aver risvegliato in ogni dove vecchi odi che, nell’interesse della patria, si sarebbero dovuti seppellire per sempre (molto bene!). Tocqueville, nello scendere dalla tribuna, riceve le felicitazioni di molti dei suoi colleghi.

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Capitolo secondo

L’India e l’induismo1

Note sull’India e l’induismo L’immenso impero degli inglesi si è stabilito in India in maniera [...] subitanea [...]. Un paese vasto quasi quanto l’Europa è stato conquistato nello spazio di sessant’anni da qualche migliaio di europei sbarcati sulle sue rive in qualità di mercanti. Cento milioni di uomini sono stati sottomessi e vengono governati da trentamila stranieri che, per quanto concerne le leggi, la religione, la lingua e i costumi non hanno alcun punto di contatto con loro e che, tuttavia, non gli lasciano alcuna parte nel governo [...]. Per prima cosa bisogna fare bene attenzione a un aspetto: ciò che gli inglesi hanno fatto in India non rappresenta una novità. Grandi imperi vi si erano elevati prima di loro e in maniera tanto inattesa e più improvvisa. Si sono visti arabi e afghani farvi delle conquiste immense con deboli 1 Si tratta di alcune note che Tocqueville stesso aveva deciso di conservare come «bonnes feuilles» e che si trovano in O.C., III, 1, pp. 441553. Come il lettore avrà modo di intendere, lo stile è quello delle notazioni brevi, spesso dei promemoria fermati su carta in vista di una probabile elaborazione. Quindi materiale non sistematico, con affermazioni spesso perentorie, note e appunti destinati a una futura elaborazione e sistemazione. In questa sede si è deciso di operare una sintesi notevole, riproducendo soltanto quelle parti che sono state ritenute più significative per la comprensione del pensiero generale di Tocqueville sull’induismo.

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risorse. Baber, il fondatore del Gran Mogol, non aveva con sé che diecimila uomini quando aveva attraversato l’Indo. Ma anche all’interno della stessa India, dove accadeva che vasti regni, venuti fuori dalla polvere senza sosta, nascevano e si sviluppavano nello spazio della vita di un uomo [...]. Il successo straordinario degli inglesi, dunque, ha origine da cause generali e permanenti che gli sono in parte estranee e di cui qualcuna può essere facilmente indicata. Si è preteso che fin dall’antichità i popoli dell’India fossero pervenuti a uno stato di civilizzazione assai avanzato. Per parte mia sono convinto del contrario. Dire perché. Le leggi di Manu. Segnale di puerilità. Società civile immobilizzata all’interno della legge religiosa. Sistema delle caste che non può produrre una società particolarmente avanzata [...]. È certo che dopo secoli l’India si era fermata o era ritornata all’età di mezzo della civilizzazione delle società umane, età pericolosa durante la quale i popoli vengono facilmente conquistati delle nazioni meno progredite o più raffinate di loro. Gli indù non conducevano più come gli arabi un’esistenza nomade di popoli per metà coltivatori e per metà pastori. I legami della proprietà individuale o collettiva li avevano ancorati al suolo. Conoscevano le scienze e le arti, ma non possedevano che delle nozioni imperfette di entrambe. Erano abbastanza civilizzati perché un conquistatore li potesse afferrare da tutte le parti, nella loro persona come nella loro proprietà. Non erano ancora abbastanza sapienti per comprendere il segreto per difendersi, il principale effetto della loro civilizzazione era stato quello di attaccarsi al proprio benessere piuttosto che alla propria indipendenza. L’India si è sempre rivelato come il paese meglio predisposto ad essere conquistato e alla riduzione in schiavitù. Si è detto che ciò proviene dalla naturale pusillanimità degli abitanti, ma è un errore, infatti si vedono tutti i giorni degli 140

indù sopportare la sofferenza o sfidare la morte con un’energia sorprendente. Solo il coraggio naturale manca loro assai meno della volontà di servirsene per respingere l’invasione straniera o lottare contro la tirannia. Vi è una moltitudine di caste in India, ma non vi è una nazione o, meglio, ciascuna di queste piccole caste forma una nazione a parte, con il proprio spirito, i propri costumi, proprie leggi e un proprio governo. Nella casta chiusa c’è lo spirito nazionale degli indù. La patria per loro è la casta, la si cercherebbe invano da un’altra parte, è là che essa è viva. Tutti i conquistatori hanno spodestato con facilità i poteri politici dell’India, rovesciato i troni, percorso i regni, ma tutte le volte che hanno voluto rivolgere la propria attenzione sulla casta, hanno incontrato delle resistenze insormontabili. Nel 1805, quando gli inglesi provarono a cambiare questo stato di cose [...], quegli stessi indiani che favorivano la conquista del proprio paese da parte di una manciata di stranieri si sollevarono immediatamente e massacrarono i funzionari inglesi. Bisognò rinunciare all’istante.

Note sulla religione e la società indù È probabile, malgrado quanto affermi Mill, che le prime idee degli indù in materia di religione fossero rilevanti e piuttosto giuste2. Ma è certo che questa religione è poi caduta in mille superstizioni stravaganti e degradanti. Ecco cosa è vero e importante. Tendenza a non voler far conoscere la propria religione, tendenza aristocratica, l’opposto del proselitismo. Quan2 Tocqueville si riferisce a James Mill, padre di John Stuart Mill, che era membro della Compagnia delle Indie e aveva pubblicato una Storia dell’India britannica in nove volumi, di cui il Nostro aveva consultato i primi sei volumi disponibili. Tocqueville, inoltre, aveva intrattenuto, tra alti e bassi, un’amicizia con John Stuart Mill, anche lui membro della Compagnia delle Indie dal 1823 al 1858, nonché una corrispondenza confluita in O.C., VI, 1.

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do lo si analizza per bene si vede che il proselitismo che sembrava una cosa naturale, non è che una nozione venuta a cose fatte, dopo quella dell’uguaglianza fra gli uomini. Non è affatto una nozione naturale per l’uomo. È il Cristianesimo ad averla immessa nel mondo. Prima di esso dai seguaci di Maometto. Il proselitismo non nasce soltanto dalla sincerità della fede, ma dall’idea di uguaglianza fra gli uomini e di unità soprattutto del genere umano. Stravaganza delle nozioni religiose degli indù, rozzezza e libertà eccessiva dei loro dèi. E i greci e i romani? Sebbene la religione bramanitica asservisca eccessivamente l’anima e sia gravata dalle pratiche, tuttavia appare assai vaga nei suoi dogmi principali, con una gran mole di idee spesso contraddittorie. Essa contiene un gran numero di chiese distinte. Da ciò deriva, io credo, tra le altre cose, il fatto che questa religione è governata da una casta e non da una gerarchia e che l’autorità non si trova centralizzata da nessuna parte. Il dispotismo governativo delle istituzioni maomettane è infinitamente più grande, checché ne dica Mill, di quello che risulta dalle istituzioni bramanitiche. I due poteri si trovano riuniti nella medesima mano. Le caste esistono, ma la subordinazione e i rapporti di casta non più. Sono come differenti nazioni che coesistono su uno stesso suolo. Bisogna distinguere gli uomini delle caste basse da coloro che sono stati cacciati via dalla propria casta. Questi indubbiamente rappresentano coloro il cui isolamento è completo.

Note stilate tra il 1841 e il 1843 sulla base dei libri dell’abate Dubois e di Barchou3 Io sono ben lungi dal credere che i primi legislatori dell’India avessero voluto introdurre un culto così abomi3

B. DE PENHOËN, Histoire de la conquête et de la fondation de l’Empire anglais dans l’Inde, 6 vv., Ladrange, Paris 1841 e J.-A. DUBOIS (abate),

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nevole e assurdo quale quello che prevale oggigiorno [I, 136]. Il brahmanesimo e il buddismo differiscono per molti aspetti. Tuttavia è evidente la loro medesima origine. La lingua sacra è la stessa per entrambe le religioni, molti riti sono simili e tutte e due poggiano sul dogma della metempsicosi [I, 139]. Il solo buddismo annovera circa la metà del genere umano tra i suoi seguaci [I, 138]. Segni abominevoli che certi indù si fanno sulla fronte per spirito di religione [I, 147]. Il brahmanesimo è diviso in un gran numero di sette contrapposte; tra queste vi sono quelle che sono legate esclusivamente a Vishnu e quelle che lo sono esclusivamente a Siva. Tutti gli indù, quale che sia la loro casta, possono entrare nell’una o nell’altra delle grandi sette. Ma quella di Vishnu è composta in generale da gente delle ultime caste. Quella di Siva, dove ci si impegna a rinunciare per sempre alla carne, è generalmente composta dalle caste alte [I, 157]. Io non vedo alcuna traccia di spirito di persecuzione nelle religioni dell’India. Fatto singolare per delle religioni così assorbenti. C’è uno sbaglio, vi sono delle liti e delle battaglie a colpi di pugni tra le due sette di Vishnu e di Siva. E se non ne scaturisce una guerra civile ciò è dovuto più alla debolezza del carattere indù che all’assenza di intolleranza [I, 159]. La maggior parte degli indù, e soprattutto gli induisti, non prendono alcuna parte alle lotte religiose. La loro regola è di onorare in maniera uguale Vishnu e Siva [I, 160]. Le due grandi sette risalgono alla più profonda antichità, ma non sembrerebbe che la loro inimicizia sia stata così forte a quel tempo come lo è oggi [I, 161]. Moeurs, institutions et cérémonies des peuples de l’Inde, 2 vv., Paris 1825. Di questo ultimo volume lo stesso Tocqueville riporta, all’interno delle sue note, le citazioni del tomo e della pagina a cui ha fatto riferimento per le proprie considerazioni. Si è ritenuto utile lasciare tali indicazioni.

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Figure della religione dell’India: guru e brahmani Indipendentemente da una gerarchia di caste, vi è una gerarchia di sacerdoti. Questi sono i guru. Io avevo creduto fino a ora che i brahmani fossero dei sacerdoti. Era un errore. I brahmani sono una casta come le altre. Molto spesso i guru vengono presi tra di loro, ma essi non sono affatto dei guru poiché sono dei brahmani [I, 170]. Il potere dei guru è al tempo stesso spirituale e temporale. Essi vegliano sul fatto che le usanze della casta siano osservate e vi escludono coloro che a quelle usanze vengono meno [I, 167]. Nessuno contesta loro tale autorità. Né potrebbe essere altrimenti perché è la religione che mantiene la casta, e la casta è la società stessa. Rispetto portentoso degli indù per i propri guru [I, 169]. Ogni setta, ogni casta ha i propri guru specifici. Vi sono guru inferiori e superiori. I primi derivano la propria giurisdizione dai secondi. Il rango dei guru è generalmente il primo nella società [I, 173]. Alcuni guru sono sposati, ma la maggior parte è celibe [I, 175]. La dignità di guru è ereditaria di padre in figlio [I, 178]. I successori dei guru celibi vengono nominati dai superiori. Vi sono più specie di sacerdotesse o donne consacrate al culto. I principali atti della vita umana vengono accompagnati da cerimonie religiose dirette dai guru che, nella loro veste di officianti, assumono il nome di pourohitas. Allo stesso modo, sono i guru a pubblicare l’almanacco indù e a regolare il corso dell’anno [I, 180-1]. Vi sono delle formule che agli occhi degli indù hanno il potere di agire sul mondo invisibile o soprannaturale4. 4 Tocqueville fa riferimento ai «mantra», formule o sistemazioni di sillabe o parole sacre che aprono l’essere alla dimensione spirituale e onirica del mondo.

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Esse possono incatenare il potere degli dèi. Sono i sacerdoti a conoscere tali formule e a impiegarle. Da qui la massima indù: «l’universo è sotto il potere degli dèi, gli dèi sono sotto il potere dei mantra, i mantra sotto il potere dei brahmani», quindi i brahmani sono i nostri dèi [I, 187]. I brahmani sono una classe di uomini che, in virtù della loro educazione e dei loro modi, sono infinitamente superiori agli altri indù [I, 216]. La casta dei brahmani è quella in cui le usanze sono stabilite con maggiore solidità [I, 217]. I brahmani hanno le proprie scuole separate dove i giovani delle altre caste non sono mai ammessi [I, 232]. I brahmani sono gli unici ad avere il diritto di leggere i Veda5. Non ve ne è che un assai ristretto numero che può leggerli nell’originale sanscrito [I, 234]. Su 20.000 brahmani, a malapena se ne incontra uno che sia in grado di comprendere i Veda nella lingua originale [I, 236]. I brahmani possiedono un gran numero di terre che gli sono state donate dai principi e che sono esentate dalle imposte. Esse si trasmettono di padre in figlio [I, 238]. In qualità di principali funzionari del culto essi ricevono la parte più grande delle rendite derivanti dalle terre assegnate ai templi [I, 239]. In generale, essi sono esentati dalle tasse riscosse sulle case e dalle imposte personali [I, 241]. Presso i principi indù, i brahmani non incorrono giammai nella pena capitale [I, 241]. I brahmani professano che la menzogna e lo spergiuro sono ammessi all’interno di una finalità volta all’utilità personale e non vi è un abitante dell’India che non sia disposto a mettere a profitto tale massima [I, 142]. L’ubriachezza è guardata come un vizio infame e disonorante. Colui che fosse convinto di abbandonarsi ad essa verrebbe escluso con disonore dalla propria casta. Non vi 5

Si tratta dei libri sacri della religione induista.

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sono che i paria a osare un uso pubblico di liquori inebrianti [I, 257]. V’è una dottrina, insegnata nei libri indù, sostenuta dai filosofi del paese e riconosciuta talvolta dai brahmani, secondo cui l’unica macchia dell’anima consiste nel peccato, e che può essere lavata dal pentimento. Ma questa dottrina è stata quasi completamente rimpiazzata da quella che permette di purificarsi attraverso degli atti materiali, senza cambiare la radice profonda dei sentimenti e degli atti stessi [I, 268].

I costumi e la religione degli indiani Io sono convinto che giammai gli indù prenderebbero nulla in prestito da alcuna altra nazione. Ogni cosa presso di loro è impressa da un sigillo di originalità e indipendenza [I, 275]. Il matrimonio. La castità mescolata alla vita contemplativa e ascetica è tenuta in onore. Ma, al di fuori di questa eccezione, il matrimonio è una necessità sociale per un indiano [I, 284]. Le donne non possono in alcun caso pronunciare voto di verginità [I, 286]. La poligamia è tollerata presso i grandi uomini, ma considerata come un abuso. La regola è quella di una sola donna e un legame indissolubile [I, 287]. Posizione delle donne. In un grande stato di inferiorità morale rispetto al marito [I, 321]. Come distruggere una religione che si è così ben innervata in tutta la vita, in cui ogni peccato si trova ad essere un atto disonorante. Ogni infrazione alla legge religiosa fa perdere la propria posizione nel mondo, la famiglia. [...] Come far rinunciare a delle idee religiose quando ciò non è possibile farlo se non cambiando tutte le idee; a delle abitudini religiose se non rinnovando tutte le abitudini. Giammai una religione è stata più ingerente, ma per otte146

nere o trattenere tale autorità su tutte le idee e le azioni dell’uomo, ha dovuto fare delle grandi concessioni rispetto a molteplici passioni o vizi dell’animo umano. Essa sembrerebbe, in particolar modo, aver lasciato ogni libertà ai sensi. I disordini dei costumi non vengono proibiti e, anzi, talvolta vengono comandati da tale religione. Esempio dell’eccesso con il quale la religione si mescola a ogni cosa, dirige tutto e fa di ogni cosa dei peccati e dei peccati mortali: ventitré prescrizioni sul modo di fare la cacca, quasi tutte obbligatorie, pena il peccato mortale [I, 329]. Ciò che colpisce di più in tutte le formule delle preghiere riportate [I, 327-377] è quanto segue: 1) la moltitudine delle cose di uso comune e delle azioni ordinarie della giornata. Accumulazione delle pratiche, tutte rigorosamente ordinate. Come far accettare tante virtù e tante convenzioni se non si legittima qualche grande vizio! 2) La moltitudine dei peccati autentici che tali preghiere cancellano attraverso delle pratiche indifferenti e senza che il pentimento vi sia compreso. È in questo modo che, recitando con fervore una preghiera chiamata gaïatry, di cui soltanto i brahmani conoscono la formula, si cancellano i peccati più enormi [I, 356], preghiera che ci si guarda bene dal far conoscere agli abbietti sudras6. Colui che osasse farlo andrebbe all’inferno, lui e i suoi figli [I, 374]. In questo modo si hanno non soltanto preghiere specifiche contro i peccati commessi, ma anche preghiere che sono prerogativa di alcuni uomini soltanto. Non si potrebbero mescolare due princìpi più abominevoli. Specialità delle caste (kshatrias) per la guerra. Obbligo religioso di farla. L’ambizione guerriera raccomandata vivamente per loro come una virtù [I, 325]. 6

I sudras erano ritenuti gli appartenenti alla casta più bassa all’interno della gerarchia induista.

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Successioni. Spartizione eguale tra tutti i figli, il padre non può avvantaggiarne uno. Legge francese ultra-democratica in mezzo al regime aristocratico delle caste [II, 44]7.

Idee scientifiche, filosofiche e religiose presso gli indiani I brahmani moderni non sono per nulla più dotti di quelli dei tempi di Licurgo o di Pitagora. Gli indù sono in tutto e per tutto stazionari. Non si scopre presso di loro alcuna traccia di miglioramento, alcun progresso nelle scienze e nelle arti [II, 46]. V’è in India ogni specie di filosofia, a partire dallo spiritualismo per arrivare fino al puro materialismo e alla dottrina della felicità attraverso i sensi. Ma io non ho potuto ben discernere il rapporto di queste dottrine con le religioni o, meno ancora, la posizione che quelle occupano di fronte a queste ultime [II, 93] [...]. Tra le stanze morali della più tarda antichità, tradotte dal sanscrito, si trova la seguente: «Prima che esistessero la terra, l’acqua, l’aria, il vento, il fuoco, Brahma, Vishnu e Siva, il sole, le stelle e le altre cose sensibili, esisteva il dio unico ed eterno che è causa di sè» [II, 194]. Gli indù ammettono la fatalità assoluta e sostengono che il destino di ogni uomo è scritto irrevocabilmente sulla sua fronte dalla mano stessa di Brahma [II, 199]. L’idea che lo stato delle anime nell’altro mondo possa dipendere dalle preghiere e dalle elemosine esiste nella religione dell’India, e viene sfruttata dai brahmani [II, 204]. I sudras, nella loro ultima ora, chiamano un brahmano per espiare i propri peccati [II, 222]. 7 «L’abate Dubois segnala che la facoltà per il padre francese di avvantaggiare uno dei suoi figli provoca lo stupore e l’ironia degli indiani» (nota di Tocqueville).

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I vanaprastha o brahmani solitari, che si ritiravano nelle zone deserte per condurvi una vita al di fuori dei sensi, nella contemplazione delle alte verità filosofiche e religiose, esercitavano da quei luoghi una grande influenza sui popoli e sui re. La loro forza morale era pari a quella degli antichi filosofi della Grecia, e l’ha preceduta. Erano famosi nell’Oriente con il nome di gimnosofisti. I princìpi che professavano erano spesso puri. Tutto ciò non esiste più [II, 239, 252]. I sanniassy, anacoreti dell’India abbastanza simili a quelli del cristianesimo8. Contemplazione, distacco completo dal mondo. Mortificazione del corpo [II, 267]. Nel mezzo delle pratiche grossolane e ridicole di questi uomini, tuttavia, si manifesta l’idea pura e trascendentale della spiritualità dell’anima e della sua superiorità rispetto alla materia, che sembra denotare la decadenza e corruzione di un’antica dottrina filosofica assai perfezionata e semplice. Vi è in generale una notevole somiglianza tra molte delle idee degli indù e quelle di Pitagora. Supplizi che si infliggono gli indù, e soprattutto i sanniassy, per spirito di religione [II, 277]. C’è un dio che si articola in tre persone. Brahma o la creazione, Vishnu o la conservazione e Siva o la distruzione. Questa divinità che domina tutte le altre è raffigurata attraverso un corpo a tre teste. Rappresenta l’emblema dell’esistenza delle cose, che non può essere prodotta né perpetuata senza l’accordo di queste tre potenze. Gli indù adorano separatamente e collettivamente ciascuna di queste divinità [II, 289]. Come nel politeismo dei greci, gli dèi indù, e così la stessa Trimurti, hanno passioni malvagie e si lasciano andare a una miriade di atti disonorevoli che necessariamente devono esercitare un’influenza funesta sulla morale [II, 290]. 8

Il sanniassy è un penitente indù che ha rinunciato al mondo e che vive di sole elemosine.

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In generale, la religione brahmanica mi sembra costituire la più singolare mescolanza di alcune nozioni filosofiche sublimi mischiate e come incorporate a una massa di grossolane assurdità. Si potrebbe parlare di un’alta filosofia abbandonata all’esplicazione e alla pratica del basso popolo [...]. Gli indù di ogni cosa fanno una divinità. Essi adorano tutti gli oggetti materiali che hanno un effetto su di loro, senza che si possa percepire che intravedono la divinità sotto la forma [II, 297]. In occasione della festa di gahoury (settembre), ogni lavoratore raccoglie i propri arnesi e li adora, il muratore rivolge lo stesso omaggio alla propria cazzuola, il carpentiere alle sue accette [II, 329]; per la festa di divouligai (dicembre), i lavoratori adorano i frutti di cui i campi sono coperti, i mucchi di letame che li devono rendere fertili; in un’altra festa adorano i serpenti [II, 333]; in un’altra ancora ci si prosterna davanti alle bestie [II, 336]. Giammai l’idolatrìa è stata portata a degli eccessi più stravaganti. È una conseguenza, afferma l’abate Dubois, del principio profferito dagli indù, secondo il quale bisogna onorare tutto ciò che è utile e tutto ciò che può nuocere. Viene da qui, secondo me, la dottrina per cui tutto ha un’anima e le stesse anime degli uomini possono trasferirsi in ogni cosa. Non vi è differenza tra le anime secondo gli indù. Dalla qual cosa essi deducono che moralmente si commette lo stesso male a uccidere una formica e a commettere un omicidio [II, 316]. [La dottrina della metempsicosi] costituisce la base di tutte le dottrine degli indù ed esercita un’influenza assai considerevole sull’insieme dei loro costumi [II, 309]. Tuttavia essa viene rifiutata dai seguaci di Siva [II, 315]. Gli indù non credono all’eternità delle pene. Al termine di un determinato periodo chiamato youga, che comprende molte migliaia di anni, avviene una rivoluzione generale nella natura: il mondo finisce e tutte le anime, 150

buone o malvagie, si vanno a ricongiungere con dio, il quale crea un nuovo mondo e lì comincia un nuovo youga [II, 323]. Vi sono dei paradisi e un inferno. Nei primi si arriva immediatamente in seguito a meriti trascendenti, oppure alla fine di lunghe trasformazioni rese necessarie dal bisogno di purificare l’anima dalle sue macchie. Questi stessi paradisi sono dei luoghi di passaggio dopo i quali si ritorna sulla terra [II, 324]. Il vero paradiso degli indù consiste nell’assorbimento finale dell’anima con dio, cosa che non avviene durante lo youga, se non attraverso una grande perseveranza nella virtù da parte di determinate anime, oppure, per tutte quante, io credo, alla fine dello youga. Si cade all’inferno quando si sono commessi dei crimini che meritano castighi più gravi di quelli che possono risultare dalla metempsicosi. Se ne esce al termine di un certo tempo per trasferirsi in corpi nuovi. L’anima non passa soltanto attraverso i corpi degli uomini, ma anche in quello degli animali e di tutti gli oggetti sensibili. Ciò non avviene per disposizione del caso: l’anima consegue una residenza più o meno gradevole a seconda che essa si sia comportata più o meno bene nella situazione precedente.

Il codice penale, le caste e le cause della potenza della religione induista Se un brahmano uccide un sudra gli è sufficiente, per cancellare completamente tale peccato, recitare cento volte una determinata preghiera chiamata gaïatry. Ogni brahmano che offenderà la cucina di un sudra o salirà su un bue andrà all’inferno e sarà immerso nell’olio bollente [II, 312]. Quale scuola di morale pratica migliore di una simile religione! E tra queste massime abominevoli, si trova quel151

la per cui praticare la virtù per ottenere qualche grazia è cosa buona, ma praticarla senza la mira della ricompensa è la perfezione, e conduce direttamente in paradiso [II, 311]. Quale caos di nozioni superiori alla maggior parte delle religioni pagane e di dogmi più grossolani di qualunque altra! Quasi tutte le religioni sono andate purificandosi e illuminandosi con il tempo. Questa qui presenta un focolaio di luce all’inizio, che va costantemente oscurandosi. Esistono molteplici paradisi di cui uno soltanto per i brahmani [II, 334]. Il beneficio di dare l’anima a un brahmano è accordato soltanto in virtù di meriti accumulati attraverso più generazioni [II, 311]. Nascere paria costituisce la prova che l’anima ha commesso anteriormente dei grandi peccati. Vi sono molti peccati che si espiano facendo del bene ai brahmani. Si cancellano i propri peccati facendo dote di templi [II, 342]. I divertimenti, le danze, gli spettacoli e la scienza costituiscono presso gli indù la parte principale del culto religioso [II, 339]. Edificare dei templi cancella i peccati. Non vi è pressoché uomo che non ne abbia [II, 342]. Tutti i templi sono pieni di immagini oscene [II, 350]. La religione dell’India è la sola che abbia assegnato delle cortigiane a servizio dei templi e le abbia inserite in tutte le cerimonie del culto9. Esse assumono allora degli atteggiamenti lascivi e cantano dei versi osceni [II, 354]. Si tratta di quelle stesse cortigiane che comparivano a tutte le feste di famiglia, visite d’apparato, matrimoni (ibid.). Le sole donne dell’India alle quali sia permesso di apprendere a leggere, a danzare e a cantare [II, 355]. Feste infami [II, 368]. 9

Si tratta chiaramente di un’affermazione di Tocqueville errata e priva di fondamento.

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Le leggi civili e quelle religiose degli indù sono così strettamente legate insieme che è impossibile attaccare le une senza nuocere alle altre [II, 338]. Si tratta della sola religione potente che non abbia un capo e che non si appoggi su una gerarchia sacerdotale. Ma essa in realtà si appoggia su una casta sacerdotale, che forse è ancora più compatta e permanente, essendo lo spirito di casta il più potente fra tutti gli spiriti di corpo. Tutte le occupazioni di un qualche rilievo nei templi sono esercitate dai brahmani [II, 351]. Sono i brahmani che consacrano gli idoli e vi stabiliscono la divinità [II, 350]. La musica, così come tutte le altre arti, è oggigiorno ciò che era in origine. Non ha acquisito alcun perfezionamento [II, 359]. [La religione cristiana in India] è in decadenza [II, 389]. Vantaggio della religione brahmanica: è il solo legame che tiene insieme tutte queste nazioni che vengono chiamate caste [II, 391]. Descrivere questo stato di cose, dopo aver mostrato la divisione delle caste. Del resto questa è una religione demoralizzante [II, 391]. Trecentotrenta milioni di dèi [II, 395]. Ogni uomo porta sulla fronte il proprio destino scritto dalla stessa mano di Brahma. Destino che è irrevocabile [II, 397]. [Paradisi]. Quattro, il primo per i soli brahmani [II, 424]. Culto tributato agli animali e alle sostanze marine [II, 446]; è probabile che queste mille superstizioni siano venute molto dopo. Nessun tribunale regolarmente organizzato. Nessun codice propriamente detto [II, 455]. Corruzione della giustizia [II, 456]. Principali opere di giurisprudenza indù: Darma-Sastra, Nitty-Sastra e Manouva-Sastra [II, 457]. La prescrizione è sconosciuta in India [II, 458].

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Capitolo terzo

L’Islam

Tocqueville e il Corano1 Ho letto la vita di Maometto e il Corano. Quest’ultima lettura è una delle cose che più spazientiscono e più istruttive che si possano immaginare, perché l’occhio vi scopre facilmente, nel vagliarlo molto da vicino, tutti i fili attraverso i quali il profeta teneva e tiene ancora incatenati i suoi seguaci. Questa lettura è un corso completo di arte profetica e ti invito fortemente a farla. Io non concepisco come Lamoricière abbia potuto dire che questo libro sia un’evoluzione del Vangelo2. Secondo me non c’è da fare nessun paragone e trovo che la sua lettura indichi meravigliosamente i diversi destini dei musulmani e dei cristiani. Il Corano non mi sembra essere altro che un compromesso molto valido fra materialismo e spiritualismo. Maometto ha fatto la parte del fuoco, come si dice, nelle più grandi passioni umane, per poter far penetrare con esse un certo numero di nozioni oltremodo epurate affinché le prime mantenessero 1

Si tratta di una lettera di Tocqueville al cugino Louis de Kergorlay del 21 marzo 1838, verosimilmente la prima reazione elaborata, e documentabile, rispetto alla lettura del Corano. In O.C., XIII, 2, pp. 28-29 2 Louis Juchault de Lamoricière (1805-1865), che serviva in Algeria e accoglieva la resa di Abd el-Kader nel 1847, vicino ai sansimoniani, era un amico di Tocqueville e di Kergorlay.

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le seconde e l’umanità avanzasse in maniera passabile, sospesa tra il cielo e la terra. Ecco la veduta filosofica e disinteressata del Corano; quanto alla parte egoista, essa è ancor più visibile. La dottrina per cui la fede salva, per cui il primo di tutti i doveri religiosi è di obbedire ciecamente al profeta; che la guerra santa è la prima fra tutte le opere buone [...] tutte queste dottrine, il cui risultato pratico è evidente, si ritrovano in ciascuna pagina e pressoché in ogni parola del Corano. Le tendenze violente e sensuali del Corano colpiscono talmente gli occhi che non capisco come possano sfuggire a un uomo di buon senso. Il Corano costituisce un progresso per il politeismo in quanto contiene le nozioni più nette e vere di divinità, e abbraccia con una veduta più estesa e chiara certi doveri generali dell’umanità. Ma suscita passioni, e sotto questo aspetto non so se abbia fatto più male agli uomini del politeismo, il quale non accostava, né con la sua dottrina né con il suo sacerdozio, le anime troppo da vicino e le lasciava prendere abbastanza liberamente il volo. Mentre Maometto ha esercitato sulla razza umana un potere immenso che credo, per dirla tutta, sia stato più nocivo che salutare.

Note sul Corano (marzo 1838)3 CAPITOLO I

Incoraggiamento, precetti per la guerra santa. Necessità di obbedire al Profeta, di obbedirgli come a dio. Magnifica ricompensa per coloro che muoiono armi alla mano. 3 In O.C., III, 1, pp. 154-162. Tocqueville legge interamente il primo e una cinquantina di pagine del secondo volume del Corano, scrivendo come da abitudine delle note succinte, quasi degli appunti magari in vista di una migliore elaborazione in un tempo futuro. L’edizione cui Tocqueville fa riferimento (e di cui abbiamo lasciato nel testo le pagi-

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Grandezza, orrore per le pene future. Abominazione dell’apostasia. Quadro completamente fisico del paradiso. Le violenze del linguaggio di Maometto principalmente dirette contro gli idolatri e gli ebrei. La fede costantemente al di sopra delle opere buone. Splendide immagini di dio che giudicano continuamente (sic!). Egli opprime incessantemente gli ebrei e risparmia i cristiani. Come il cristianesimo, il Corano si ricollega incessantemente a tutte le idee del Vecchio Testamento di cui esso non si presenta che come il prosieguo. Occorre in questo modo far risalire l’islamismo sino al principio del mondo, bisogno primario di tutte le religioni. Il Corano contiene quasi tutti i princìpi generali di morale racchiusi in tutte le religioni.

CAPITOLO II

Unità di dio, ubiquità, onnipotenza, misericordia. Immortalità dell’anima. Ricompense e castighi eterni. Immortalità promessa in particolare a coloro che muoiono armi alla mano per la fede. Maometto complemento di profezie ebree e cristiane. Radici dell’islamismo nel giudaismo. Ci si volta verso La Mecca e non più verso Gerusalemme per pregare. Divieto di nutrirsi di animali morti, di maiale e di sangue. L’elemosina, la beneficenza e la pazienza elevate al rango di precetti. ne citate dal medesimo) è la seguente: Le Coran, traduit de l’Arabe, accompagné de notes et précedé d’un abrégé de la vie de Mahomet tiré des écrivains orientaux les plus estimés; edizione in due volumi, traduzione di Savary, Libraires Associés, Amsterdam 1786.

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La fede necessaria per essere salvati. Pena del taglione per l’omicidio. Digiuno del Ramadan. Santità della guerra santa, incoraggiata allo stesso tempo con energia e violenza. Pellegrinaggio alla Mecca ordinato. Proibizione del vino. Proibizione di matrimoni misti. Proibizione di accostarsi alle proprie donne in certi momenti. Norme sul divorzio. Norme sull’allattamento dei bambini, sulla posizione e i diritti della donna in casa del marito, sulla loro dote. Necessità della preghiera. Utilità di sostenere con i propri beni la guerra santa. L’usura proscritta. Forme di contratti.

CAPITOLO III

Prevede gli scismi. Giudizio universale indicato. Quadro del Paradiso: dei giardini bagnati dai fiumi e degli uri. Gesù Cristo riconosciuto come profeta e i suoi miracoli ammessi; la sua nascita raccontata quasi da tutti come nel Vangelo. La sua sola divinità negata. Influenza del pentimento. Ricollega abilmente l’islamismo ad Abramo, padre degli Arabi, il quale, dice, ha costruito come tempio principale quello della Mecca. L’amore, il perdono e la beneficenza raccomandati. La fine dei giorni dell’uomo scritta [70]. Felicità di coloro che muoiono combattendo per la fede esaltata in mille modi. 158

CAPITOLO IV

Comandamento di non sposare più di quattro donne. Regolamenti generali sulle tutele. Legge di successione, privilegio dei maschi [81]. Maometto ha cura di dire che queste prescrizioni sono emanate da dio e promette il paradiso a coloro che vi obbediscono. Pena di morte condotta contro l’adulterio. Punizione della fornicazione. Il pentimento inutile nel giorno del giudizio. Inutile agli infedeli. Norme sulle doti delle donne in caso di ripudio. Norme sui gradi di parentela tra cui ci si può sposare. Non si può sposare una donna maritata se non quando la guerra l’abbia resa libera. Permesso di sposare schiavi in alcuni casi. Divieto del suicidio. Doveri della donna. La donna inferiore all’uomo [82]. Permesso e comandamento di uccidere gli infedeli. Divieto di uccidere i credenti.

CAPITOLO V

Divieto di mangiare maiale, sangue, animali soffocati, accasciati, uccisi a causa di qualche caduta [106]. Abluzioni prima della preghiera. Tagliare i piedi e le mani a coloro che combattono dio e il Profeta [111]. Tagliare le mani ai ladri, è il comandamento di dio [112]. I cristiani saranno giudicati seguendo il Vangelo [114]. I fedeli, gli ebrei e i cristiani che credono in dio fino all’ultimo giorno e praticano la virtù saranno immuni dal timore e dai tormenti [117]. Le strofe seguenti danno modo di credere che siano fra quelli che abbandonano le proprie credenze per credere a queste cose. 159

Il vino, i giochi d’azzardo e le statue sono delle abominazioni inventate da Satana, astenetevene [120]. Il ministero del Profeta si limita alla predicazione [122]. Forme di testamento [123]. CAPITOLO VI

Non mangiare animali sui quali non si è invocato il nome di dio [141]. Gli animali morti, il sangue e il maiale sono immondi [145]. Agli ebrei, abbiamo proibito tutti gli animali che non hanno il corno del piede tagliato e il grasso dei manzi e montoni eccetto quello del dorso, delle viscere e quello che è mischiato con le ossa. Questo divieto è la pena per i loro crimini [ibid]. Non uccidete i vostri bambini per timore della povertà. Vi doneremo il cibo per voi e per loro. Evitate il crimine in pubblico e in segreto [146]. CAPITOLO VII

La fine della vita è stabilita. Nessuno saprebbe prevenirla né rinviarla di un istante [153]. La mia missione è divina, essa abbraccia tutto il genere umano [172]. Questo capitolo molto lungo non contiene pressoché alcun precetto, queste sono storie del Vecchio Testamento un po’ alterate e delle apostrofi agli ebrei e ai pagani. Vi si parla dei geni come di esseri pressoché simili agli uomini. È la seconda volta che ciò si trova. Ma è confuso. CAPITOLO VIII

Il bottino preso al nemico appartiene a dio e al suo inviato. Temete il Signore [180]. Chiunque gli girerà le 160

spalle nel giorno del combattimento avrà per dimora l’inferno [181]. Tutti gli infedeli saranno riuniti nell’inferno [184]. Combattete gli infedeli affinché non vi sia più scisma e la religione santa trionfi universalmente [184]. Oh credenti! Quando marcerete verso il nemico siate irremovibili, obbedite a dio e al Profeta, temete la discordia che spegne il fuoco del coraggio. Siate invincibili [185]. L’incredulo che rifiuta di credere all’islamismo è più abietto del bruto agli occhi dell’Eterno [187]. Se la sorte delle armi fa cadere fra le tue mani coloro che violano il patto che hanno con te contratto, spaventa con il loro supplizio coloro che li seguono [187]. Dio vuole addolcire il vostro compito: venti bravi credenti sbaraglieranno duecento infedeli, cento ne metteranno in fuga mille. Nessun profeta ha mai fatto dei prigionieri se non dopo aver versato il sangue di un grande numero di nemici. Nutritevi dei beni sottratti ai nemici [188]. Non avrete una società con i fedeli che sono rimasti nelle loro case, finché non abbiano marciato in combattimento. I credenti che hanno abbandonato la loro patria per combattere sotto lo stendardo della fede e coloro che hanno prestato soccorso al Profeta sono i veri fedeli. Il paradiso è il loro destino.

CAPITOLO IX

Conservate fedelmente l’alleanza contrattata con gli idolatri se loro stessi la osservano [191]. Una volta trascorsi i mesi sacri, mettete a morte gli idolatri ovunque li incontrerete4. Se si convertono, recitano le preghiere, pagano il sacro tributo, lasciateli in pace. Il Signore è miseri4 «Sembrerebbe che, per quattro mesi, la guerra non fosse lecita fra le tribù arabe, era una sorta di pace di Dio analoga a quella dei tempi feudali» (nota di Tocqueville).

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cordioso [191]. Il fuoco sarà la dimora eterna degli idolatri [192]. I credenti, che si strappano dal seno della propria famiglia per seguire lo stendardo di [Maometto]5, sacrificando i loro beni e le loro vite, avranno il primo posto nel regno dei cieli. Saranno l’oggetto della compiacenza di dio, abiteranno in giardini di delizie e gusteranno i piaceri eterni [193]. Smettete d’amare i vostri padri, i vostri fratelli, se essi preferiscono l’incredulità alla fede [193]. Coloro che stipano l’oro dentro le proprie casseforti e rifiutano di impiegarlo per la fede subiranno dei tormenti dolorosi. Questo oro, arroventato nel fuoco dell’inferno, sarà applicato sulle loro fronti, i loro fianchi e le reni, e si dirà: «gioite ora del vostro tesoro» [195]. L’Onnipotente forma l’anno di dodici mesi6. Quattro di questi mesi sono sacri. Fuggite in questi giorni dall’iniquità, ma combattete sempre gli idolatri [195]. Giovani e vecchi, mettetevi al combattimento, sacrificate le vostre ricchezze e le vostre vite per la difesa della fede! Non è per voi il più glorioso dei vantaggi?! [196]. Alcuni credenti hanno lasciato partire il Profeta, hanno detto: «Non andiamo a combattere durante il caldo!». Il fuoco dell’inferno sarà più terribile del caldo [202]. I ricchi che ti chiedono l’esonero sono colpevoli [203]. Coloro che fanno penitenza, servono il Signore, l’adorano, digiunano, esigono la giustizia, rispettano e osservano i comandamenti divini saranno felici [206]7. Non bisogna intercedere per gli idolatri, neanche nel caso in cui fossero i vostri genitori, perché essi vanno seppelliti all’inferno (ibid.). Temete il Signore ed esercitate la giustizia [207]. Oh credenti! Combattete i vostri vicini infedeli. Che trovino dei nemici implacabili [208]. 5

Parola omessa nel testo. «L’anno arabo è lunare» (nota di Tocqueville). 7 «Tutto ciò che attiene alla guerra è esatto, tutto ciò che attiene alla morale, eccetto l’elemosina, è generale e confuso così come nel versetto precitato» (nota di Tocqueville). 6

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CAPITOLO X

Il Corano conferma la verità delle scritture che lo precedono. Ne è l’esplicazione [214]. Noè fu trattato da impostore. Coloro che non gli credevano furono annegati nelle acque. Guardate quella che è la fine degli increduli! [218].

CAPITOLO XI

Tutto è scritto nel libro dell’evidenza [224]. Colui il quale soffrirà con pazienza e praticherà la virtù riceverà una ricompensa gloriosa. Se si esige che tu compia dei miracoli, non affliggerti, il tuo ministero si limita alla predicazione. Diranno: il Corano è opera sua? Rispondete: portate dieci capitoli simili a quelli che contiene [225]8. La maggior parte degli uomini persisterà nell’incredulità [226]. Dio renderà a ciascun seguace le sue opere; nulla sfugge alla sua conoscenza [237]. Recitate la preghiera all’inizio della giornata, al calare del sole e durante la notte [ibid]. Lo scopo principale dell’undicesimo capitolo è quello di far conoscere agli Arabi tutti i profeti cui i popoli si sono rifiutati di credere e ascoltare, e di spaventarli con l’immagine delle orribili punizioni con cui dio ha colpito la loro incredulità. Come in quasi tutto il Corano, Maometto s’impegna molto di più a farsi credere che a donare delle regole di morale. E utilizza il terrore più di qualsiasi altro movente. Maometto ha evidentemente preso molto dal Nuovo e dal Vecchio Testamento, ma molto di più dal Vecchio che dal nuovo. Si riconosce Mosè in ogni momen8

Tocqueville aggiunge a margine: «Maometto tira fuori molto abilmente dall’impaccio il profeta avvalendosi del grande autore».

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to. Non esce affatto dal Decalogo. Non vi ha aggiunto che le più grandi disposizioni sull’elemosina.

CAPITOLO XII

Questo capitolo non è altro che la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, con qualche variante, poco importante.

CAPITOLO XIII

Coloro che la speranza di vedere dio rende costanti nelle avversità, che recitano le preghiere, che donano in segreto o in pubblico una porzione di beni che abbiamo loro dispensato e che cancellano le loro colpe attraverso opere buone saranno ospiti del Paradiso. Essi saranno introdotti nel giardino dell’Eden: i loro padri, le loro spose e i loro bambini che saranno stati giusti usufruiranno dello stesso vantaggio [258]. Quando il Corano faceva muovere le montagne, divideva la terra in due, faceva parlare i morti, essi non ti credevano [259]9. I giardini di delizie, irrorati dai fiumi, ove si troverà nutrimento eterno e ombre sempre verdi, saranno il premio per la pietà. Gli increduli avranno le fiamme per ricompensa.

CAPITOLO XIV

Niente di nuovo; sempre gli stessi dipinti dei castighi che attendono coloro che si rifiutano di credere ai profeti. 9

«Alcuni infedeli domandarono a Maometto di compiere dei miracoli per provare la sua missione. È così che di solito egli si tira fuori da questo cattivo passo: “Dio potrebbe farmelo fare, ma voi non credereste maggiormente”» (nota di Tocqueville).

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CAPITOLO XV

Immagine della grandezza di dio, minaccia contro coloro che non credono ai profeti. Niente di particolare né di pratico.

CAPITOLO XVI

Grandezza, bontà di dio nei confronti dell’uomo. Attacco violento contro il politeismo. Noi ti abbiamo fatto pervenire il Corano per chiarire i dogmi contestati e per condurre i fedeli [2.16]10. Dio comanda la giustizia, la beneficenza, la tolleranza verso i genitori. Vieta il crimine, l’ingiustizia e la calunnia [2.19]. Evitate lo spergiuro. Chiunque avrà praticato la beneficenza e professato la fede gioirà d’una vita disseminata di piaceri [2.20]. Abramo è il capo dei credenti. Adora l’unità di dio e rifiuta di incensare gli idoli. Noi ti abbiamo ispirato ad abbracciare la religione di Abramo che riconosce l’unità di dio [2.24]. Se vi vendicate, che la vendetta non superi l’offesa. Coloro che soffriranno con pazienza compiranno un’azione più meritoria [ibid.].

CAPITOLO XVII

L’uomo porta la sua sorte attaccata al collo [2.27]. Dio ti ordina la beneficenza verso i tuoi genitori. Non parlar loro che con rispetto. Sii per loro tenero e sottoposto. Rendi ai tuoi vicini ciò che devi loro. Fa dell’elemosi10 «Si nota che Maometto si ricollega sempre alle religioni ebrea e cristiana e, attraverso di esse, all’inizio del mondo» (nota di Tocqueville che nel frattempo lavora sul volume 2).

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na ai poveri e ai viaggiatori [2.28]. Che il timore dell’indigenza non vi faccia uccidere i vostri figli. È un crimine orribile. Noi provvederemo ai loro bisogni e ai vostri. Evitate il vizio, è un crimine e la via per l’inferno. Non versate il sangue umano. L’omicida sarà in potere degli eredi del defunto, ma essi non devono eccedere i limiti chiedendone la morte. Non mettete le mani sui beni dell’orfano. Mantenete il vostro impegno. Non cercate di penetrare ciò che non potete conoscere [2.29].

CAPITOLO XVIII

La verità proviene da dio. L’uomo è libero di credere o di persistere nell’errore. Abbiamo acceso bracieri per i malvagi. Possessore del giardino dell’Eden, ove scorrono i fiumi, ornato da bracciali d’oro, vestito di abiti verdi tessuti in seta e in oro, irradianti gloria, il credente riposerà sul letto nuziale nel soggiorno di delizie [2.42]. Un giorno la terra sarà appianata; raccoglieremo tutti gli uomini, nessuno sarà dimenticato; essi appariranno ciascuno al proprio turno davanti al tribunale di dio [2.51].

Note sull’Islam (1839-1840) Perché non si trova sacerdozio presso i musulmani11 Sacerdote, culto, sacerdozio nel maomettismo. Maometto ha predicato la sua religione a popoli poco avanzati, nomadi e guerrieri; questa religione aveva per scopo la guerra; da qui l’esiguo numero di pratiche e la semplicità del culto. Un culto complicato e carico di pra11

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In O.C., III, 1, pp. 173-175.

tiche suppone dei templi, una popolazione sedentaria, delle abitudini pacifiche. Essendo il culto quasi nullo, il sacerdote è stato poco necessario. Ma c’è una ragione più forte per spiegare l’assenza pressoché totale di sacerdozio regolare fra i musulmani, fatto che in sé sembrava in un primo momento molto singolare, in quanto tutte le religioni, e soprattutto tutte quelle che hanno agito fortemente sull’immaginazione degli uomini, hanno acquisito o conservato la propria influenza con l’aiuto d’un corpo sacerdotale separato dal resto della nazione e fortemente costituito. Il maomettismo è la religione che ha più completamente confuso e mescolato le due potenze; in modo che il grande sacerdote sia necessariamente il principe, e il principe il gran sacerdote, e che tutti gli atti della vita civile e politica si regolino più o meno in base alla legge religiosa. Stando così le cose, l’esistenza di un corpo a parte, come per esempio nel cattolicesimo, a fianco della società civile e politica per dirigere la società religiosa, l’esistenza di un tale corpo era impossibile. Ciò ha rappresentato un bene in mezzo a tutti i mali che la religione musulmana ha fatto nascere. Poiché un corpo sacerdotale è fonte di molte delle malattie sociali, e quando la religione può essere potente senza ricorrere all’aiuto di un simile mezzo, occorre approfittarsene. Ma se da una parte questa concentrazione e questa confusione stabilite da Maometto fra le due potenze ha prodotto questo particolare bene, dall’altra essa è stata la causa principale del dispotismo e soprattutto dell’immobilità sociale che caratterizza il carattere delle nazioni musulmane e che le fa infine soccombere di fronte alle nazioni che hanno abbracciato il sistema opposto. Siccome il Corano è la fonte comune da cui provengono la legge religiosa, la legge civile e in parte la scienza profana, la medesima educazione è data a coloro che vogliono divenire ministri di culto, dottori in legge, giudici e scienziati. Il sovrano prende indistintamente da questa clas167

se di letterati i ministri del culto o imans, i dottori in legge o muphits e i giudici o cadis. Queste diverse professioni non donano alcun carattere indelebile a colui che ne ricopre la funzione. Vi è dunque una religione, ma, a dire il vero, non vi è un sacerdozio. Tutto ciò è tanto più vero quanto più la popolazione musulmana somiglia agli Arabi del profeta, in quanto è più nomade e più divisa in tribù. Sembra che, nelle tribù arabe dell’Algeria, la traccia stessa d’un corpo clericale sia appena visibile, mentre a Costantinopoli c’è qualcosa che somiglia più a una gerarchia religiosa. La stessa parola clero non esiste in arabo. L’influenza temporale che dona la religione a certi uomini è esercitata dai marabouts, potere indefinito e irregolare, abbastanza simile a quello che esercitavano i santi e gli anacoreti alla fine dell’impero romano e durante l’invasione dei Barbari. La sola differenza è che presso gli Arabi questa santità è spesso ereditaria, combinazione bizzarra del potere che un individuo può acquisire accidentalmente attraverso le sue virtù e del principio aristocratico che gli è più contrario.

Culto musulmano12 Le cerimonie sono molto semplici, consistono in preghiere e sermoni. La khotba, che è insieme una professione di fede e una preghiera per il capo dei credenti, è recitata tutti i venerdì. Le moschee devono essere costruite in mezzo a una popolazione agglomerata. Un certo numero di sacerdoti chiamati scheikhs, khatebs, imans, muezzins sono addetti a ciascuna moschea. A capo di tutto questo personale c’è il muphti.

12

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In O.C., III, 1, p. 180.

Le spese del culto sono coperte dalle fondazioni e dai proventi casuali raccolti dagli imans. Al di fuori delle città, il culto musulmano non esiste, non ci sono né moschee, né ministri di culto. Le popolazioni sono abbandonate ai marabouts [...], personaggi senza altro carattere che quello che presta loro la folla.

Giustizia13 Costituzione della giustizia nei paesi musulmani e in particolare in Algeri. La religione e la giustizia sono sempre state confuse nei paesi musulmani, come i tribunali ecclesiastici avevano tentato di fare nell’Europa cristiana del Medioevo. La giustizia non è un diritto regio, essa si rende in nome di dio ben più che in quello del principe. Le sue regole non sono contenute nella legge civile, ma nel Corano e nei suoi commentari. È ciò che fa sì che, tutte le volte che delle parti s’intendono per indirizzarsi verso un giudice straniero, il giudizio è ben reso e valido. È lo stesso corpo che fornisce: 1) gli imans (ministri di culto); 2) i muphits (dottori in legge); 3) i cadis o giudici. Questo corpo è quello degli ouléma, nel quale si fa ingresso solo dopo aver seguito certi studi e sostenuto alcuni esami. Il muphti ha una superiorità riconosciuta sugli altri due ordini. In Algeri c’erano più cadis e un cadi per ogni outan o cantone. Il tribunale di cadi è composto da un solo giudice, il quale si pronuncia senza appello e fa eseguire l’arresto, eccetto in materia penale, ove consegna il delinquente all’autorità secolare. Da qui giustizia e religione si trovano mischiate, ne consegue che i musulmani obbediscono agli arresti con un rispetto religioso che non si trova altrove. 13

In O.C., III, 1, pp. 181-182.

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I cadis erano istituiti in Algeri dal dey. Lo sono per tramite nostro. Ma penso che noi sottoponiamo il loro giudizio all’appello, cosa che deve essere profondamente contraria allo spirito dell’istituzione14.

Garanzie musulmane15 Ciò che vi è di singolare è che nello stesso momento in cui si toglievano ai francesi le garanzie della legge francese, si toglievano ai musulmani le garanzie della legge musulmana. In Algeri, come in tutti i paesi maomettani, era il capo del governo che nominava tutte le alte funzioni giudiziarie e tutte le alte funzioni religiose. Ma egli era obbligato a prendere soltanto quelli che sceglieva in determinate categorie, e dopo che avevano sostenuto certi esami e ricevuto una certa educazione. Ora è sempre il governatore francese a nominare il cadi e i muphits, ma egli può prendere il primo venuto, in modo che non solo non abbiamo portato in Africa le nostre istituzioni liberali, ma abbiamo sottratto agli indigeni le sole cose che somigliassero a istituzioni di questo genere. Riassumendo, che sia istinto grossolano, che sia errore di ragionamento, abbiamo fatto in Africa ciò che ci hanno visto fare ovunque.

Le origini familiari di Abd el-Kader16 La principale aristocrazia araba trae origine dalla religione [...]. Vi sono degli uomini che precedentemente, per 14 «Questo amalgama della giustizia musulmana e indigena è stato fatta con ordinanza del 4 agosto1834» (nota di Tocqueville) 15 In BENOÎT (2007: 52-53). 16 I passi di questo paragrafo e del seguente sono estratti dalle due Lettere sull’Algeria (1837), contenute in O.C., III, 1, pp. 129-153.

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la loro pietà e il sapere, hanno acquisito una reputazione di santità straordinaria. Questi uomini, che si chiamano marabouts, sono stati circondati dal rispetto pubblico per tutta la loro vita e hanno in genere esercitato una grande influenza sullo spirito delle popolazioni circostanti; e ciò che vi è di particolare è che hanno trasmesso tutto questo ai loro discendenti. In ciascuna famiglia di marabout non manca mai di nascere, a ogni nuova generazione, un uomo santo ed erudito, che mantiene la buona reputazione e il potere dei suoi predecessori. Non vi è tribù ove non s’incontrino uno o più marabouts che abitino generalmente vicino alla tomba del loro più celebre antenato e diano molto generosamente ospitalità a coloro che vengono a farvi pellegrinaggio, poiché, in generale, sono ricchi. Questi marabouts [...] [devono essere] considerati i membri più influenti della società araba. Sono l’intelligenza di questo grande corpo di cui l’aristocrazia militare forma il cuore e i membri. Sono in generale i marabouts a ristabilire la pace fra le tribù e dirigere in segreto le molle della politica. Notate bene, Signore, che Abd el-Kader, di cui avete tanto sentito parlare, appartiene a una delle prime famiglie di marabouts della Reggenza e che è marabout lui stesso. Questo spiega le cose [...]. I Turchi avevano allontanato l’aristocrazia religiosa degli Arabi dall’uso delle armi e dalla direzione degli affari pubblici. I Turchi, distrutti, se la videro ridiventare quasi immediatamente guerriera e governante. L’effetto più rapiL’Emiro Abd el-Kader (1808-1883), per anni a capo della resistenza algerina contro l’invasione francese, dopo una serie di rocambolesche situazioni venne infine esiliato in Francia, dove divenne incredibilmente amico di Napoleone III. Rimesso in libertà si dedicò per il resto della sua vita a scrivere di filosofia e a cercare un dialogo tra islamici e francesi. Per questi ultimi assurse a esempio di islamico illuminato che comprendeva i benefici civilizzanti della colonizzazione, mentre per gli algerini rimase un eroe che aveva fatto finta di arrendersi alla Francia per evitare al proprio popolo una guerra impari persa in partenza.

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do e certo della nostra conquista fu quello di rendere ai marabouts l’esistenza politica che avevano perduto. Essi ripresero le scimitarre di Maometto per combattere gli infedeli e non tardarono a servirsene per governare i propri concittadini [...]. A ovest della provincia di Algeri, vicino alle frontiere dell’impero del Marocco, si era stabilita da molto tempo una famiglia di marabouts molto celebre. Essa discendeva dallo stesso Maometto e il suo nome era venerato in tutta la Reggenza. Quando i francesi presero possesso del paese, il capo di questa famiglia era un vecchio chiamato Mahiddin. Alla gloria della nascita, Mahiddin unì il vantaggio di essere stato alla Mecca e di essersi a lungo ed energicamente opposto alle estorsioni dei turchi. La sua santità era un grande onore e la sua abilità nota. Quando le tribù dei dintorni cominciarono a sentire quel disagio insopportabile che causa agli uomini l’assenza del potere, esse vennero a trovare Mahiddin e gli proposero di assumere la direzione dei loro affari. Il vecchio le riunì tutte insieme in un grande piano; allora, egli disse loro che alla sua età bisognava occuparsi del cielo e non della terra, che rifiutava la loro offerta, ma che li pregava di trasferire il loro suffragio a uno dei suoi figli più giovani che avrebbe mostrato loro. Enumerò a lungo i titoli che quest’ultimo possedeva per governare i propri compatrioti: la sua pietà precoce, il suo pellegrinaggio ai luoghi santi, la sua discendenza dal Profeta; fece conoscere molti dei segni sorprendenti di cui il cielo si era servito per designarlo in mezzo ai suoi fratelli e provò che tutte le vecchie profezie che annunciavano agli Arabi un liberatore erano ovviamente riferite a lui. Le tribù proclamarono di comune accordo il figlio di Mahiddin émir-el-mouminin, cioè capo dei credenti. Questo giovane uomo, che all’epoca aveva venticinque anni ed era di aspetto debole, si chiamava Abd el-Kader. Tale è l’origine di questo singolare capo: l’anarchia fece nascere il suo potere, l’anarchia lo ha sviluppato incessantemente e, con la grazia di dio e la nostra, dopo avergli 172

consegnato la provincia d’Oran e quella di Tittery, essa metterà nelle sue mani Costantino e lo renderà molto più potente di quanto non sia mai stato il governo turco che egli sostituisce [...].

I Turchi erano stati più prudenti... I turchi avevano adottato uniformemente, in ogni parte della reggenza che occupavano, una massima politica molto profonda e che devo farvi conoscere. Questi Turchi, che erano gente poco acuta, ma di buon senso, avevano capito che i marabouts, i quali avevano già dalla loro il vantaggio della nascita e quello della religione, sarebbero diventati facilmente avversari molto pericolosi se si fosse permesso loro di mescolarsi nel governo. I Turchi onoravano dunque molto i marabouts, baciavano l’orlo della tunica di ciascuno di essi e andavano devotamente a pregare sulla tomba dei loro antenati. Ma non potevano soffrire il fatto che qualcuno di essi si immischiasse apertamente negli affari pubblici. Loro stessi non li impiegavano mai e non permettevano che riprendessero le armi che avevano lasciato quando si era cessato di fare la guerra ai cristiani. [...] I Turchi erano tuttavia maomettani come gli Arabi, avevano abitudini analoghe alle loro ed erano riusciti ad allontanare dagli affari l’aristocrazia religiosa.

Tocqueville giudica Abd el-Kader17 Abd el-Kader, che è evidentemente uno spirito della specie più rara e più pericolosa, miscuglio di un entusiasmo sincero e un entusiasmo finto, genere di Cromwell 17

Si tratta di un brevissimo estratto dal Travail sur l’Algérie (1841), in O.C., III, 1, pp. 213-282.

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musulmano, Abd el-Kader, dico, ha meravigliosamente compreso ciò. In tutti i suoi atti esteriori, il principe si mostra molto di meno del santo: si nasconde incessantemente dietro l’interesse della religione per la quale, dice, agisce; è come un interprete del Corano ed è con il Corano alla mano che egli ingiunge e condanna, è la riforma che egli predica tanto quanto l’obbedienza; la sua umiltà cresce con la sua potenza. L’odio religioso cui ci ispiriamo l’ha creato, l’ha cresciuto, lo mantiene; estinguerlo significa rinunciare al suo potere. Non lo estinguerà dunque, ma lo ravviverà incessantemente, e ci farà sempre, sia in maniera velata sia palesemente, la guerra, perché la pace, restituendo le tribù ai loro istinti naturali, scioglierebbe presto l’insieme sul quale si sostiene. Non è possibile del resto che Abd el-Kader o qualunque altro principe che tenga sotto il proprio potere le tribù dell’Algeria possa essere soddisfatto della condizione che gli poniamo e che ne usufruisca in pace.

Contro la spoliazione delle fondazioni18 La Camera sa che la carità pubblica, il culto, le scuole sono estranei, nei paesi musulmani, al Tesoro pubblico; sono fondazioni pie che, come nell’Europa del Medioevo, sono state create per provvedere allo stesso tempo a quei bisogni religiosi e sociali di cui ho parlato. Da qualche anno, il gover18

Presentiamo qui un ampio estratto dell’Intervento alla Camera in occasione del voto di bilancio generale dell’Algeria per il 1848 (9 luglio 1847), in cui Tocqueville decide di intervenire per denunciare con forza la spoliazione delle fondazioni religiose musulmane da parte dell’amministrazione coloniale. Consentire ai musulmani di ripristinare le proprie scuole e di poter praticare il proprio culto all’interno delle migliori condizioni possibili è oltremodo opportuno, per Tocqueville, non soltanto in virtù di una questione morale, ma anche e soprattutto di opportunità, al fine di evitare lo sviluppo del fanatismo. In O.C., III, 1, pp. 419-425.

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no francese ha sottratto, in tutta l’Algeria, l’amministrazione delle fondazioni musulmane alle autorità musulmane; nel farlo, a mio avviso, ha commesso un errore. Avrei compreso benissimo il fatto che si portasse la luce nelle tenebre di questa amministrazione, che la si sorvegliasse, che ci si accertasse dell’utilizzo che essa faceva delle somme che le venivano affidate. Ma trasferire alle amministrazioni cristiane la gestione di fondazioni pie stabilite da musulmani era come dare motivo di credere che non si voleva altro che legalizzare l’utilizzo dei fondi che li devia dal loro scopo per consacrarli a un altro utilizzo. E, in effetti, è l’opinione universale che si è presto diffusa in Africa. Questa opinione è fondata? Sono obbligato a dire con profonda vergogna che è fondata ai massimi livelli. Il ministro della Guerra vi diceva in una seduta precedente: «Non si sono confiscati i beni delle scuole e delle moschee. I redditi dei beni religiosi sono stati conservati per le necessità dei maomettani. Noi ci siamo sostituiti alla carità musulmana e abbiamo prestato ai musulmani i soccorsi che erano loro destinati dai fondatori»19. Signori, oso dire che tenendo questo linguaggio il ministro della Guerra è stato indotto in errore. Non parlerò di ciò che accade nelle parti dell’Algeria che non ho percorso, ma dirò cosa succede in Algeri, quello che ho verificato e visto con i miei occhi. Asserisco che il reddito attuale delle fondazioni aventi per scopo il soccorso dei poveri, il culto, le scuole ammonta oggi a circa 400.000 franchi. Asserisco che di questi 400.000 franchi più di 200.000 sono stati dirottati dall’utilizzo originario e sono caduti nel tesoro della colonia. Qual è il risultato? Ne è risultato che la popolazione di Algeri, che la sola presenza dei francesi contribuiva già a rovinare, è caduta in difetto degli aiuti sui quali doveva contare poiché i suoi padri li avevano ad essa predisposti, 19

Il generale Camille-Alphonse Trézel (1780-1860) era succeduto al maresciallo Soult al Ministero della Guerra.

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che questa popolazione è caduta in uno stato di miseria impossibile da descrivere. Spaventerei, rattristerei la Camera, se le ponessi sotto gli occhi il quadro spaventoso che presenta questo povero popolo; i mali di ogni tipo che l’accasciano, la fame, la malattia, la morte e la miseria che l’afferrano anche nel mezzo del paese che hanno abitato i suoi padri. Ecco lo spettacolo che presenta la popolazione di Algeri, in mancanza degli aiuti che le sono dovuti. Quanto al culto, dirò ancora con certezza, e senza timore che mi si smentisca, che il culto musulmano è caduto, a seguito di questa soppressione ingiusta e impolitica, in uno stato di miseria che fa vergogna, non solo a noi, ma a tutta la civiltà. So molto bene che si sono riservati ai principali rappresentanti del culto trattamenti sufficienti; ma il culto musulmano, come il culto cristiano, si compone di un numero molto elevato di diversi funzionari, tutti necessari per la sua celebrazione e per le sue cerimonie. Ora, dico che al di fuori delle persone d’un rango privilegiato che sono in testa al culto musulmano, l’immensa massa di sacerdoti musulmani si trova in uno stato di miseria imbarazzante; la maggior parte di essi è meno pagata di quanto non lo sarebbero i facchini di Algeri. Ecco cosa asserisco, e sono convinto che, quando il ministro della Guerra andrà fino in fondo alla questione, quando acquisirà le prove di ciò che è giusto, sarà obbligato a riconoscere la verità di quello che dico. Quanto alle scuole, è lo stesso. Non dico che non si sia fatto qualcosa per sostenere le scuole; ma affermo che sono in decadenza, che un grande numero di esse cade, e che ciò ha luogo perché non si attribuisce alle scuole il fondo che, originariamente, era stato loro destinato. C’è nulla di più appropriato, Signori, vi domando, di un simile spettacolo per farci screditare in Africa, per farci perdere questa grande forza morale, così necessaria, la prima di tutte le forze del mondo? 176

Quando i musulmani vedevano che noi, che pretendiamo di essere la nazione civilizzata per eccellenza, che pretendiamo di portare la civilizzazione presso di essi, facevamo scomparire tutti i monumenti che potevano far loro conservare i fasti che già possedevano, quando ci vedevano rovinare i templi, lasciar cadere le scuole, quale dispetto profondo volete che provassero nei confronti del nostro governo? Il risultato li indigna, i mezzi per raggiungerlo sembrano loro imbarazzanti. Il fatto che ci si impadronisca con la forza delle loro moschee e delle loro scuole, potrebbero ancora capirlo; ma cosa possono pensare di una grande nazione come la Francia, la quale si abbassa a fare queste cose in maniera furtiva e nascosta, che si appropria, senza osare dirlo, di una somma che era destinata ai poveri, che spoglia il clero per incrementare di qualche migliaio di franchi il proprio tesoro? Lascio giudicare voi stessi. Permettetemi di concludere. Quanto alle fondazioni pie, sono ancora più meravigliato nel sentir dire al ministro della Guerra che la totalità degli introiti che si riferiscono a queste fondazioni è attribuita agli scopi per i quali le fondazioni sono state create; sono convinto non che il ministro non abbia detto la verità, ma che il ministro non conosca la verità. Non equivochiamo. Vero è che oggi si dà un reddito più considerevole di quello che si otteneva dalle medesime fondazioni sedici anni fa. Ma non è questa la questione. Le fondazioni si compongono di un certo numero di immobili; ora, nello stesso momento in cui la presenza dei francesi faceva aumentare immensamente il prezzo dei beni di consumo e rendeva ai musulmani la vita più cara e più difficile, essa faceva pure alzare il valore e il reddito degli immobili. Ne è risultato che le fondazioni che fruttavano 200.000 franchi nel 1830 ne fruttano oggi 400.000; ora, ciò che affermo è che, di questi 400.000 franchi, il Tesoro ne confisca, in modo nascosto e furtivo, più di 200.000 franchi i quali appartenevano legittimamente agli indigeni e dovevano essere consacrati agli scopi che i fondatori avevano previsto. 177

Estratto del Rapporto del 1847 riguardante gli istituti caritatevoli, le scuole e il culto musulmano20 La società musulmana in Africa non era priva di civiltà; essa aveva solamente una civilizzazione arretrata e imperfetta. Esisteva nel suo seno un grande numero di fondazioni pie aventi lo scopo di provvedere ai bisogni della carità o della pubblica istruzione. Abbiamo ovunque messo mano su questi redditi deviandoli in parte dai loro utilizzi originari; abbiamo ridotto gli istituti caritatevoli, lasciato cadere le scuole21, disperso i seminari. Intorno a noi le luci si sono estinte, il reclutamento degli uomini di religione e degli uomini di legge è cessato; questo vuol dire che abbiamo reso la società musulmana molto più disordinata, più ignorante e più barbara di quanto non fosse prima di conoscerci. [...] Ciò che dobbiamo loro da sempre è un buon governo. Con questa parola intendiamo un potere che li diriga, non solo nel senso del nostro interesse, ma anche nel loro; che si dimostri realmente attento ai loro bisogni; che cerchi con sincerità i mezzi per provvedervi; che si preoccupi del loro benessere; che pensi ai loro diritti; che lavori con ardore per lo sviluppo continuo delle loro società imperfette; che non creda d’aver assolto il proprio compito quando ne ha ottenuto la sottomissione e l’imposta; che li governi, infine, e non si limiti a sfruttarli. 20 Il Rapporto sull’Algeria (1847) si trova in O.C., III, 1, pp. 308418. L’estratto lo abbiamo ripreso da Benoît (2007: pp. 64-66). 21 «Il Sig. generale Bedeau, in un eccellente esposto che il ministro della Guerra volle comunicare alla commissione, rese noto che all’epoca della conquista, nel 1837, esistevano nella città di Constantine delle scuole di istruzione secondaria e superiore, ove dai 600 ai 700 studenti studiavano i diversi commentari del Corano, apprendendo tutte le tradizioni relative al Profeta e, di più, seguivano dei corsi nei quali si insegnavano [o si era finito per insegnare] l’aritmetica, l’astronomia, la retorica e la filosofia. Esistevano, inoltre, a Constantine, più o meno nella stessa epoca, 90 scuole primarie, frequentate da 1300 o 1400 ragazzi. Oggi, il numero di giovani che seguono gli alti studi è ridotto a 60, il numero delle scuole primarie a 30, e i bambini che le frequentano a 350 » (nota di Tocqueville).

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Senza dubbio era tanto pericoloso quanto inutile voler loro suggerire i nostri costumi, le nostre idee, i nostri usi. Non è sulla via della nostra civilizzazione europea che bisogna, riguardo al presente, spingerli, ma nel senso di quello che è loro proprio; bisogna domandare loro ciò che gradiscono e non ciò che ripugnano. La proprietà privata, l’industria, l’abitazione stanziale non hanno nulla di contrario alla religione di Maometto. Alcuni Arabi hanno conosciuto o conoscono queste cose altrove; esse sono apprezzate e godute da qualcuno fra di loro nella stessa Algeria. Perché disperiamo di renderli familiari ai grandi numeri? Lo si è già fatto il tentativo, con successo, su qualche punto22. L’islamismo non è assolutamente impenetrabile, ha spesso ammesso in seno talune scienze e arti. Perché non cerchiamo di far fiorire queste sotto il nostro impero? Non forziamo gli indigeni a venire nelle nostre scuole, ma aiutiamoli a risollevare le loro, a moltiplicare coloro che vi insegnano, a formare gli uomini di legge e gli uomini di religione, di cui la religione musulmana non può più fare a meno come la nostra. Le passioni religiose che il Corano ci ispira sono, si dice, ostili, è necessario lasciarle estinguere nella superstizione e l’ignoranza, in mancanza di giuristi e sacerdoti. Sarebbe commettere una grande imprudenza quanto incitarlo. Quando presso un popolo esistono le passioni religiose, esse trovano sempre degli uomini che si fanno carico di diventarne parte e di condurle. Se lasciate scomparire gli interpreti naturali e 22 «Di già un grande numero di uomini importanti, desiderando compiacerci, o approfittando della sicurezza che abbiamo donato al paese, ha costruito case e le abita. È così che il più grande capo indigeno della provincia di Oran, Sidi el-Aribi, si era già innalzato una dimora. I suoi correligionari l’hanno bruciata durante l’ultima insurrezione. Egli l’ha costruita di nuovo. Molti altri hanno seguito questo esempio, fra gli altri il bachagha di Djendel Bou-Allem, nella provincia di Algeri. In quella di Constantine, alcuni grandi proprietari indigeni hanno già in parte imitato i nostri metodi d’agricoltura e adottato qualcuno dei nostri strumenti di lavoro. Il caïd della pianura di Bône, Caresi, coltiva le proprie terre con l’aiuto delle braccia e dell’intelligenza degli Europei. Non citiamo questi fatti come la prova dei grandi risultati già ottenuti, ma come indici felici di ciò che si potrà ottenere con il tempo» (nota di Tocqueville).

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regolari della religione, non eliminerete le passioni religiose, consegnerete solamente la disciplina a dei furiosi o impostori. Oggi si sa che sono dei mediatori fanatici, appartenenti ad associazioni segrete, una specie di clero irregolare e ignorante, che ha infiammato lo spirito delle popolazioni nell’ultima insurrezione, e che ha portato la guerra.

Feroce critica all’Islam in una lettera a Gobineau23 Eccovi nel cuore del mondo asiatico e musulmano; sarei molto curioso di sapere a cosa attribuite la rapida, e in apparenza inarrestabile, decadenza di tutte le razze che avete contrastato, decadenza che ne ha già consegnato una parte e le consegnerà tutte al dominio della nostra piccola Europa, che esse hanno precedentemente fatto così tremare. Dov’è il verme che corrode questo grande corpo? I Turchi sono zoticoni che la natura sembra avere destinato ad essere ingannati e battuti da tutto il mondo; ma voi abitate oggi in mezzo a una nazione musulmana che, se bisogna credere ai viaggiatori, è intelligente, e anche raffinata; chi la trascina lungo i secoli in questo irrimediabile stato di decadenza? È solamente una questione di equilibrio? Sarà che siamo saliti mentre questi rimanevano nello stesso posto? Io non lo credo affatto. Credo che ci sia stato un moto, da entrambe le parti, ma moto in senso contrario. Voi dite che noi assomiglieremo un giorno alla canaglia che avete sotto gli occhi24; forse. Ma prima che ciò accada, noi saremo 23

Il 13 novembre del 1855 Tocqueville scrive questa lettera a Gobineau, che dal 1855 al 1858 ricoprì importanti incarichi presso l’ambasciata di Francia a Teheran. I toni nei confronti dell’Islam sono assai poco amabili e piuttosto aspri. In O.C., IX, pp. 243-244. 24 La frase e l’espressione rinviano alla lettera che Gobineau aveva spedito a Tocqueville, da Teheran, qualche mese prima, il 7 luglio 1855, nella quale egli scriveva a proposito degli Iraniani, che riteneva molto più vicini culturalmente rispetto ai Turchi, gli Arabi e gli Indù: «Insomma, sono dei furfanti che ci sono abbastanza cugini e credo che potremmo dirci con giudizio: ecco come saremo domenica».

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suoi padroni. Alcuni milioni di uomini che, pochi secoli fa, vivevano quasi senza riparo in foreste e paludi, saranno in meno di cento anni i trasformatori del mondo che abitano e i dominatori di tutta la loro specie. Nulla è più chiaramente annunciato in anticipo nella visione della Provvidenza. Se sono spesso, lo riconosco, dei grandi bricconi, sono almeno dei bricconi cui dio ha dato la forza e il potere e che ha messo manifestamente per una volta in testa al genere umano. Nulla reggerà di fronte ad essi sulla faccia della terra. Non ne ho alcun dubbio.

Ancora contro l’Islam in una lettera a Richard Milnes25 Voi mi sembrate essere ritornato dall’Oriente come Lamartine, un po’ più musulmano di quanto non convenga. Non so perché ai giorni nostri molti spiriti diversi mostrano questa tendenza. Da parte mia, ho risentito del mio contatto con l’islamismo (voi sapete che per l’Algeria noi critichiamo ogni giorno le istituzioni di Maometto) di effetti contrastanti. Nella misura in cui ho conosciuto meglio questa religione, ho meglio compreso che è soprattutto da essa che deriva la decadenza che attenta sempre più sotto i nostri occhi il mondo musulmano. Quando Maometto non aveva avuto altro che la colpa di unire intimamente un corpo d’istituzioni civili e politiche a una credenza religiosa, in modo da imporre al primo l’immobilità, che è nella natura dei Saoudis, ne ebbe abbastanza per destinare in un momento i suoi seguaci subito a un’inferiorità e di seguito a una rovina inevitabile. La grandezza, e la santità del cristianesimo, è di non avere al contrario tentato di regnare che nella sfera naturale delle religioni, abbandonando tutto il resto ai liberi movimenti dello spirito umano. 25 In questa lettera del 29 maggio 1844 a Richard Monckton Milnes, uomo politico e letterato inglese (1809-1885), conosciuto a Parigi nel 1840, Tocqueville esprime ancora una volta tutto il senso della propria critica radicale all’Islam, sostanzialmente incompatibile con la democrazia. In O.C., VI, 3, p. 87.

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Capitolo quarto

Scuola, Chiesa e società: la Francia tra reazione e anticlericalismo

Crisi della politica e rinascita dello spirito antireligioso1 TOCQUEVILLE: Signori, non contesterò l’importanza e neppure la grandezza delle questioni appena discusse innanzi a voi, ed è con la massima giustizia che rendo onore al merito di coloro che le hanno trattate. Tuttavia la Camera ne è sembrata poco colpita, cosa che mi spiego solo grazie alla considerazione per cui al di sopra delle questioni particolari, per quanto grandi siano, esistono ancora molte1

In O.C., III, 2, pp. 485-502. Discorso pronunciato da Tocqueville il 18 gennaio 1844, con risposta del ministro dell’Istruzione Pubblica Villemain e controreplica dello stesso Tocqueville. Prima di quest’ultimo erano intervenuti Ducos, che aveva elogiato il governo e parlato del commercio marittimo; Lestiboudois, che era intervenuto sull’equilibrio della bilancia commerciale e Fulchiron, che aveva trattato dello stato dell’industria. Da questi interventi Tocqueville prende spunto per criticare il governo, colpevole di aver abdicato agli alti valori ideali e politici in favore di un appiattimento sugli interessi economici e materialistici della nuova borghesia rampante e commerciale. Egli lamenta anche il rinnovato spirito antireligioso (e anticlericale) che si stava affermando in quegli anni in Francia, alimentato da un clero giovane e intraprendente che combatteva contro il monopolio laico delle Università e più che tollerato (quasi appoggiato) da un governo che, grazie alla «guerra tra l’Università e la Chiesa», poteva, secondo Tocqueville, distrarre l’opinione pubblica dai forti limiti della propria azione politica e socia-

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plici questioni generali che non sono state affrontate o, perlomeno, sufficientemente trattate. Lascerò dunque da parte, per quanto mi concerne, tali questioni particolari, le quali, d’altra parte, ritroveranno naturalmente il loro posto quando saranno affrontate in riferimento ai molteplici emendamenti già depositati, mentre affronterò ciò che ancor più mi sembra angustiare la Camera: le questioni di politica. Non mi impegnerò, signori, nel lavoro un po’ sterile di provare alla maggioranza che essa non sostiene il governo, o che lo sostiene male o incompletamente2. Andrò dritto a quella che mi sembra la vera questione, cioè se essa lo sostiene a ragione. Quando mi domando cos’è che porta principalmente la maggioranza di questa Camera a mantenere in carica il governo, non posso figurarmi, in verità, che sia la gloria che esso dona al paese; semmai è la pace che gli procura. UN MEMBRO DELLA CAMERA: È qualcosa! TOCQUEVILLE: L’idea che il governo sia quello che più di ogni altro è in grado di mantenere l’ordine pubblico interno costituisce, se non mi sbaglio, la ragione stessa di esistenza del governo. Io voglio mostrare che questo ordine pubblico di cui si parla è comprato a un prezzo troppo gravoso, e che è assai meno completo di quanto si supponga. Sicuramente, signori, la quiete pubblica è un gran bene, ma tuttavia bisogna sapere a quale prezzo ce la procuriamo. Non v’è nulla di più placido dell’indifferenza: se per caso la quiete pubblica di cui si parla venisse dall’inle. La miccia che portò a questa vera e propria guerra fu accesa da alcuni attacchi violenti del parti prêtre contro l’Università, attacchi che trovarono l’appoggio convinto del giornalista cattolico Veuillot, che si scagliava quotidianamente contro il monopolio statale dell’insegnamento dalle colonne de «L’Univers», e naturalmente delle alte gerarchie cattoliche. Questi attacchi suscitarono la reazione aspra e altrettanto violenta del variegato mondo laico. Tocqueville, non certo difensore delle posizioni clericali, ma consapevole dell’alto valore morale e sociale incarnato dalla Chiesa e dallo spirito religioso in genere, si trovò a intervenire in questo contesto problematico e oltremodo conflittuale. 2 Si tratta di affermazioni fatte in precedenza da Ducos.

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differenza pubblica, non vi sarebbe alcun motivo di menarne vanto. Quanto a me, signori, credetemi, se la pace di cui ci si vanta fosse il prodotto degli sforzi energici e continui di un grande partito presente nel paese, in grado di intervenire in ogni affare pubblico, che vivesse di vita propria alla maniera, per esempio, del partito conservatore in Inghilterra3, io me ne compiacerei. Mi rallegrerei della sua presenza anche se questo partito non fosse il mio, infatti vi vedrei il principio della vita, della vita costituzionale di un paese libero. Ma, signori, io mi domando, e lo domando a quegli stessi fra i miei colleghi (qui Tocqueville indica il centro della camera) che, pur volendo il bene pubblico in una maniera diversa dalla nostra, e con altri mezzi, tuttavia non lo vogliono meno di noi, ne sono certo, chiedo loro se è effettivamente questo che sta accadendo. Voi dite che le passioni politiche si stanno eclissando; d’accordo, ma dovete aggiungere che ciò accade per tutte le passioni politiche. Voi dite che si stanno abbandonando le idee politiche cattive, e io vi dico che si stanno abbandonando anche quelle buone. Le passioni politiche cattive, senza dubbio, quelle passioni che tutte le lunghe rivoluzioni partoriscono, quali che siano, passioni di violenza, di anarchia, di tirannia popolare, queste passioni qui senza dubbio si spengono. Ma io vi chiedo, signori, le passioni generose, le passioni di libertà, il disinteresse, l’amore per la patria, il desiderio di consacrarsi alla sua gloria e alla sua grandezza, che hanno dato vita, e che ancora costituiscono la gloria, della Rivoluzione francese; queste passioni, domando proprio a voi, non sono forse afflitte dallo stesso male? Questa stessa indolenza che divora un partito non li divora tutti nello stesso tempo? Questa spossatezza politica non è forse 3

Tocqueville era un fervente ammiratore del partito conservatore inglese, guidato da Robert Peel e al potere in Inghilterra dal 1841.

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osservabile sia nella parte di paese che vi sostiene sia in quella che vi attacca? Non è forse vero che lo stesso male che, secondo voi, colpisce l’opposizione, divora anche la maggioranza? E sapete come si chiama questo male? È l’indifferenza, è il sonno! Voi dite che la nazione è tranquilla, io dico che dorme! (esclamazioni al centro. A sinistra: molto bene!). E credeteci, una grande nazione non dorme a vantaggio di alcuno. Il suo risveglio è da temere per tutti, perché da questo risveglio non possono venir fuori che delle nuove rivoluzioni (rumori dal centro). Ma questa quiete pubblica di cui si mena vanto esiste veramente? La guerra è finita, si dice; io dico che essa non ha fatto altro che cambiare il suo teatro: dalle opinioni è passata agli interessi. Non sentite riecheggiare delle parole straordinarie che non si sentivano più da cinquant’anni in Francia? Non sentite parlare senza sosta gli interessi esclusivi di una parte del territorio opposti a quelli di tutto il resto del regno? Le folli minacce di separazione che sono state testé pronunciate? Non sentite la grande unità francese, che la Costituente ha voluto creare, che si va ogni giorno di più spezzettando perlomeno negli spiriti? Non esiste forse una lotta accanita di città in città, di provincia in provincia e, talvolta, perfino di quartiere in quartiere? E non sembra che ogni parte del territorio sia pronta a isolarsi in seno al proprio interesse particolare4? È sempre stato così, si dice. Non è vero, signori, lo nego. Senza dubbio vi sono sempre interessi egoistici e uomini che vi si abbandonano; ma, al di sopra di questi interessi ineluttabili, erano poste delle idee comuni, delle passioni politiche comuni, un patriottismo comune, sul quale il gover4

Aspre rivalità locali si erano riaccese in seguito a decisioni prese in merito al tracciato delle vie ferroviarie. Non soltanto le città entravano in lotta per avere una stazione, ma talvolta, come nel caso di Lione, perfino dei quartieri rivaleggiavano per avere la propria area adibita.

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no, alla bisogna, poteva appoggiarsi per rimettere ogni cosa al suo posto e far trionfare l’interesse di tutto lo Stato su quelli delle singole località. Dove sono queste idee comuni, queste passioni comuni, questo patriottismo comune? Che cosa ne avete fatto e chi vi aiuterà, ormai, a vincere questa anarchia industriale che vi divora? Se non vi prestiamo attenzione, signori, arriveremo presto a quegli eccessi per cui in Parlamento non rappresenteremo più idee e uomini, ma interessi, canali e ferrovie (mormorii di approvazione a sinistra). Voi dite che c’è la pace, ma io vi dirò che è soltanto la guerra che ha cambiato teatro: da politica si è fatta filosofica e religiosa (brusii). Certamente, signori, questo fatto merita di attirare tutta la vostra attenzione particolare. Non lasciatevi ingannare: in questo momento sta accadendo qualcosa di nuovo e, a mio avviso, di deplorevole. La libertà di insegnamento è stata senza dubbio la causa prima, il pretesto di questa guerra, ma la guerra si è estesa ben al di là di questi limiti. Ascoltate i partiti. Gli uni non fanno altro che reclamare la libertà di insegnamento? Le loro parole non si spingono fino ad attaccare la libertà stessa di pensiero, il principio stesso dell’educazione laica in Francia, che ne costituisce la garanzia? Ascoltate gli altri e vedrete che non si limitano più a parlare dell’Università e delle sue regole, ma attaccano la stessa religione, i princìpi e le regole generali su cui essa riposa. Che cos’è questo, signori? Ve lo dirò io: non è altro che la guerra, la vecchia guerra che ricomincia tra il secolo e le credenze, così felicemente interrotta per dieci anni e che ora ricomincia sotto tutti i punti di vista, che si estende, oso dire, su tutta quella linea che occupava un tempo. Credete forse, signori, che si tratti di un piccolo avvenimento? Io credo il contrario e vedo in questo stato di cose un grande pericolo. Preferirei di gran lunga assistere alla lotta, legittima e salutare, fra partiti, che rappresenta la vita stessa dei paesi liberi, piuttosto che vedere questa 187

guerra che turba le coscienze, agita profondamente gli animi e sconvolge le stesse società fin dalle fondamenta. Indipendentemente da questo male sociale, e dovendo scendere a una considerazione di tono minore, io vedo in questa situazione che ho descritto un grande male politico. Prevedo che questa guerra aumenterà ancora di più la confusione che regna tra i partiti che dividono il paese, e tra coloro stessi che compongono la Camera. Cos’è che causa questa confusione? È che esiste dentro tutti i partiti una massa titubante, che non appartiene precisamente né agli uni né agli altri, e che, volgendosi alternativamente verso i primi o i secondi, rende i loro confini instabili e lo spirito pubblico incerto. Ecco, secondo me, una delle grandi cause della confusione di cui siamo testimoni e dell’indebolimento graduale di tutti i partiti, davvero di tutti. Ebbene, qual è la maniera per costringere gli uomini indecisi a schierarsi sotto l’una o sotto l’altra bandiera? È quella di togliergli da sotto i piedi quel terreno neutro che permette di sostenere contemporaneamente il potere senza dispiacere all’opposizione, e parlare nella direzione dell’opposizione senza rompere l’amicizia con il potere. Ciò che mi preoccupa rispetto alla questione di cui parlavo poco fa è che essa presenta proprio uno di quei terreni neutri sui quali i caratteri indecisi amano fare la guerra. Quando si domanderà a determinati uomini perché non si occupano degli interessi dell’opposizione, o perché non si occupano degli interessi del potere, essi risponderanno di non averne il tempo, in quanto si occupano della libertà di insegnamento o dei Gesuiti. Quali sono le cause di questo grande male? Ve n’è una che, a mio avviso, sopravanza tutte le cause secondarie, ed è questa: questa nazione, signori, ha visto passare sotto i suoi occhi, in cinquant’anni, le cose e gli uomini più grandi. Essa ritiene, forse a torto, che le cose sono divenute più piccole e gli uomini meno grandi. Il suo sguardo si allontana dalla scena generale degli affari umani per dirigersi volentieri verso qualche punto particolare. 188

Per lungo tempo la nazione è rimasta irritata dalla vostra politica: volete che vi dica cosa penso? Credo che ora essa si annoi5 (risate). Essa si annoia, e poiché il cuore e lo spirito di un grande popolo non possono restare vuoti, finisce che si rifanno a questioni che hanno vita solo nel passato e che, in mancanza di meglio, li appassiona ancora. Ecco la grande causa. Ma ve ne sono altre, meno generali, ma forse altrettanto influenti; queste cause, non ho paura di dirlo, concernono le mancanze del governo. Signori, un governo saggio ha spesso la maniera di prevenire le guerre pericolose, maniera che consiste nel togliere il terreno di scontro, facendo sparire a priori le questioni irritanti che mettono le armi in mano ai partiti. Questa precauzione, individuabile con naturalezza, non è stata presa. Tra queste questioni, la prima, quella che doveva naturalmente, e per forza, mettere l’uno contro l’altro la Chiesa e lo Stato, era la libertà di insegnamento. Non è mia intenzione, signori, entrare nei dettagli di tale questione, che sarà affrontata più diffusamente in un altro paragrafo; dirò soltanto che la questione della libertà d’insegnamento era di natura tale da irritare profondamente gli spiriti e, più di ogni altra, faceva sorgere la guerra di cui ci lamentiamo; tale questione voi l’avete lasciata per tredici anni senza una soluzione. Ve n’è un’altra. Esistono delle leggi, ordinanze che regolano il rapporto tra il clero e lo Stato, concernenti gli enti che il clero possiede; queste leggi, se fossero buone, bisognerebbe renderle esecutive; se fossero cattive, bisognerebbe avere il coraggio di chiedere alle Camere di abrogarle; ma lasciarle sussistere senza renderle esecutive equivale senza meno a dare origine a delle lamentele fondate da una parte e a delle speranze pericolose dall’altra. 5

Tocqueville ripete in questa sede la formula adottata da Lamartine nel suo celebre discorso del 13 gennaio 1839 contro la «coalizione»: «La Francia è una nazione che si annoia». Da ciò derivano, senza dubbio, le risate con cui vengono accolte le sue parole.

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Vi sarebbe poi un’altra questione, non temo affatto di segnalarla, che riguarda le congregazioni religiose. Su tale questione la mia opinione è netta e salda: io non credo che lo Stato abbia il diritto di proibire a priori, e di far dipendere dal proprio assenso, tutte le congregazioni religiose più di quanto non faccia con le associazioni politiche. Gli nego tale diritto e anzi credo che suo diritto e dovere è quello di dire quali sono le congregazioni vietate e quali quelle consentite, nonché di escludere quelle che per propria natura sono portate a costituire un pericolo pubblico; tale distinzione non è stata operata dallo Stato, che anzi ha lasciato tale questione indecisa, permettendo che prendessero piede in Francia degli ordini religiosi che non sono né vietati né permessi. Agendo in questo modo, esso stesso ha creato il campo di battaglia in cui la Chiesa e i suoi nemici non potevano fare a meno di scontrarsi, facendo montare, da una parte, un’irritazione legittima e, dall’altra, una persecuzione pericolosa. Un altro sbaglio sta nel modo del governo di rapportarsi al clero. La Rivoluzione di luglio aveva reso un grande servigio alla religione, separandola completamente dalla politica e contenendola all’interno di quella sfera del sacro fuori dalla quale essa non troverà mai né la propria forza né la propria grandezza. Così era accaduto, immediatamente dopo la Rivoluzione di luglio, contrariamente a quanto prevedevano coloro che non avevano riflettuto sulla questione se non superficialmente, che le credenze religiose erano parse risvegliarsi e rinascere. Il governo non ha saputo rispettare questa fonte di vita sociale che si apriva insperatamente al suo fianco. Non ha saputo vedere, in questo ritorno degli animi verso le credenze religiose, in questo felice ritorno, nient’altro che una forza nuova che si stava producendo e sulla quale ha voluto mettere le mani. Ha cercato di attirare il clero a sé, trattandolo non come una delle più grandi autorità morali del paese, ma come un ausiliare che vole190

va attirare dentro l’arena. Ha cercato di comprarlo in tutte le maniere; è arrivato fin quasi a sacrificargli, contro il parere della maggioranza del clero stesso, voglio sperare, la più cara e la più grande delle libertà conquistate nel 1789: la libertà religiosa6 (risate polemiche al banco dei ministri. Approvazione a sinistra). Il clero, signori, ha più virtù che cultura. Quando si è visto trattare alla stregua di un potere politico, alcuni suoi membri si sono creduti effettivamente un potere politico e hanno elaborato il pensiero funesto per loro, e funesto per la religione stessa, di parlare da padroni. Hanno oltraggiato e minacciato. Un linguaggio, signori, per cui la Francia si è irritata a buon diritto; sono cinquant’anni che essa lo ha disimparato, e non lo apprenderà di nuovo. Immediatamente sono comparsi sintomi di guerra fra il clero e il paese. Questo era inevitabile. Se si fosse stati capaci di mantenere il clero all’interno della sua sfera propria, questo grande male non sarebbe venuto fuori. Vi era un altro modo di impedirlo, ed è questo: i governi saggi, signori, possono prevenire le grandi riforme, per questo devono correggere gli abusi. Sicuramente, io non condivido i pregiudizi che molte persone professano contro l’Università. Io stesso sono uscito dalle sue scuole. La sua esistenza, il suo stesso potere è uno dei più grandi interessi del paese. Ma il rispetto e la considerazione che porto verso questa istituzione non mi impediranno di rilevare che vi sono degli aspetti da correggere in essa; certamente l’istruzione ha fatto, nel giro di qualche anno, dei progressi all’interno del suo seno, ma l’educazione... DUBOIS: Chiedo la parola.

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Sembrerebbe che Tocqueville si stia riferendo alla repressione del proselitismo protestante, che aveva visto un significativo risveglio anche all’interno dell’ambiente cattolico. Problema per il quale si trovò a parlare alla Camera il 28 aprile del 1845; cfr. O.C., III, 2, pp. 595 sgg.

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TOCQUEVILLE: Ma l’educazione, che è l’istruzione del cuore e dei costumi, possiamo dire che è arrivata a uno stesso livello? Sento di dire di no, e non sono critici interessati alla sua rovina che tengono questo linguaggio, sono degli amici sinceri dell’istituzione, come lo sono io stesso, sono voci che provengono da questa parte (l’opposizione). È stato uno degli oratori di questa parte della Camera che è venuto per primo a esprimere tale opinione a questa tribuna; è un altro che, in un libro eccellente, di cui raccomando particolarmente la lettura al signor ministro dell’Istruzione Pubblica (risate prolungate), dice precisamente le stesse cose7. L’Università, nel lasciare spazio a reprimende nei suoi confronti, ha fornito se non delle cause, perlomeno dei pretesti alla guerra, e io ho il diritto di prendermela con il governo per non aver fatto estinguere dopo molto tempo simili pretesti. La guerra è infine nata, eccola cominciata, viva, già attiva. Che cosa fa, signori, il governo, nel momento in cui alcuni vescovi, che certamente non sono dei funzionari pubblici, dio mi guardi dal conferirgli un tale titolo, ma che sono uomini pubblici, credono di poter impunemente attaccare, ingiuriare e in certi casi calunniare un’istituzione dello Stato8? Che fa il signor ministro della Giustizia? Resta muto e immobile (mormorii al centro). Quando in seguito, irritati da questi attacchi ingiusti, alcuni uomini di rilievo, parlando in nome dello Stato da cattedre create e mantenute dallo Stato, attaccano non più soltanto quella parte di clero che minaccia l’istruzione 7

Se è difficile identificare l’oratore di cui parla Tocqueville, l’opera a cui fa riferimento è sicuramente quella del suo amico Hyacinthe Corne: De l’éducation publique dans ses rapports avec la famille et avec l’État. 8 Tocqueville fa riferimento alle lettere pastorali del vescovo di Chartres (Clausel de Montals), in cui questi attaccava violentemente l’insegnamento della filosofia, e del vescovo di Châlons (de Prilly), che minacciava addirittura di ritirare i cappellani dai collegi dell’Università. Entrambe le lettere sono del 1843.

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laica, non più lo stesso clero nella sua interezza, ma lo stesso cattolicesimo, lo stesso cristianesimo, che rappresenta la fonte comune da cui tutte le nazioni moderne hanno attinto la loro forza e grandezza, come si comporta il signor ministro dell’Istruzione Pubblica? IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: Chiedo la parola. UN MEMBRO: Che fa il ministro? Domanda la parola. (ilarità generale). TOCQUEVILLE: Il signor ministro dell’Istruzione Pubblica non esterna alcun segnale di dissociazione rispetto a quegli eccessi. Signori, molte persone sono rimaste sorprese di questo modo di agire da parte del gabinetto; quanto a me, me l’aspettavo: si è comportato in questa occasione come fa sempre, come si comporta all’interno e all’esterno; si è astenuto, ha lasciato accadere gli avvenimenti, che le passioni montassero, è rimasto buono di fronte a ogni cosa. È la sua abitudine (mormorii). Ma, signori, la guerra provocata in questo modo si è avvelenata, s’è ingigantita, ha oltrepassato, come ho detto poc’anzi, tutti i suoi limiti fisiologici, e ora quali ne saranno i risultati? Vi sono, signori, persone che pensano che il risultato di tutto ciò che sta accadendo sarà quello di conferire al clero una preponderanza generale sulla società e sul governo. Quanto a me, lo riconosco, non posso accettare una tale supposizione come seria, pensare che una società come la nostra, imbevuta, impregnata, oso dire, di libertà civili e religiose, possa arrivare a sottomettersi a un’ortodossia! Signori, si tratta di una pura chimera, non ce ne occupiamo per nulla. E tuttavia vi sono dei pericoli reali. Quali sono? Il pericolo che prevedo è quello di un asservimento graduale e completo del clero al governo, il prete trasformato poco alla volta in un funzionario pubblico. Ecco come, tenetelo a mente, finirà la questione. Analizzate la posi193

zione del clero. Guardate il suo isolamento! Dove sono le sue radici? (esclamazioni di protesta). DUPIN: Ha tutte le radici del cattolicesimo. TOCQUEVILLE: Ha radici in molti spiriti, ma non ha nella società, nel suolo, quelle antiche radici che possedeva un tempo, e me ne rallegro. LHERBETTE: Vi sono sacerdoti, non c’è più il clero. TOCQUEVILLE: Io dico che il clero non possiede nella nazione alcuno degli antichi legami che un tempo lo legavano alla ricchezza e al potere. Dico che in virtù della sua educazione e dei suoi costumi, esso è giunto a un punto in cui risulta essere come uno straniero in mezzo alla nuova società. Dico che il Concordato lo ha posto in una dipendenza salutare dal potere; che la sola forza che gli resta nel mondo politico è la simpatia degli uomini della libertà, e aggiungo che, a causa della maniera in cui si comportano in questo frangente alcuni dei suoi membri, sta perdendo queste simpatie. Allora, signori, il suo isolamento diverrà così completo, così intollerabile, così disperante che, presto o tardi, finirà con il gettarsi tra le braccia che gli apre il potere. Si trasformerà, allora, come avviene in certi paesi, in agente politico dello Stato, e allora ci ritroveremo la più detestabile di tutte le istituzioni umane, una religione politica, una religione serva del governo e che contribuisce a opprimere gli uomini invece di prepararli alla libertà. C’è un ultimo pericolo che, lo ammetto, a costo di non essere d’accordo con la corrente delle opinioni dominanti, mi preoccupa forse più di tutti gli altri: si tratta del timore che da queste disgraziate discussioni, così imprudentemente ingaggiate e violentemente condotte, ne possa scaturire ben presto un’attenuazione, una degradazione, una decadenza, forse persino una rovina delle credenze religiose (esclamazioni al centro). Io lo temo, lo temo profondamente. Signori, mi è capitato spesso di vedere e, posso dirlo senza vantarmi, penso, di studiare da vicino i popoli liberi; ebbene, mi sarà consentito dire che non ho mai visto dei 194

popoli liberi in cui la libertà non tragga le sue radici, più o meno profondamente sotterrate, dalle credenze religiose. E ciò me lo spiego con il ritenere che la libertà sia molto meno figlia delle istituzioni che dei costumi, e che i costumi sono figli delle credenze9. Quarant’anni addietro il signor Portalis, parlando al corpo legislativo a nome di Napoleone, diceva che una morale senza dogma era come una giustizia senza tribunali. Questo motto è vero, signori, lo era allora come lo è oggi. Io dico di più: se le credenze religiose sono necessarie a un popolo libero, esse lo sono ancora di più, credetemi, a una nazione democratica come la nostra. Qual è il tratto caratteristico che distingue un simile popolo? È lo sforzo continuo, energico, illuminato che compie la società ogni giorno per elevare gradualmente la condizione materiale e morale di tutti i cittadini; è il lavoro incessante al quale si dedica fino ai bassifondi dell’edificio sociale, per andarvi a cercare gli infelici e soccorrerli, i deboli per sollevarli. È la vera, santa democrazia quale io la intendo. Ebbene, voi credete che per uno sforzo simile non abbiamo bisogno delle credenze religiose di cui temo di vedersi compiere la rovina? Voi credete che per operare questa santa opera possiamo fare assegnamento sulla fredda e vana filantropia? Voi credete che per andare in soccorso di tutte queste miserie, sollevare tutte queste debolezze, istruire tutte queste ignoranze, portare luce in tutte queste tenebre, voi credete che non abbiamo bisogno di chiamare a noi l’aiuto di tutti gli uomini religiosi, di tutte le credenze, tutti i cleri, tutte le comunioni? Sicuramente non lo credete. Per quanto mi riguarda, sono convinto del contrario, e il più grande pericolo che vedo in queste discussioni funeste è che sono convinto che, presto o tardi, 9 Si tratta di una tematica essenziale della Démocratie en Amerique: «È il dispotismo che può fare a meno della fede, non la libertà», O.C., I, 1, p. 308.

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porteranno a compimento l’indifferenza, e che, a causa della violenza del clero da una parte, dell’irritazione che causa ai suoi avversari dall’altra, noi marciamo verso la rovina o, perlomeno, alla decadenza di questa fonte di cui, secondo me, la nostra società non può fare a meno. Riassumendo, signori, non posso dare l’assenso a votare il paragrafo del vostro indirizzo; questo paragrafo contiene un prospetto che mi sembra falso. Io credo che la pace che esso segnala, la quiete pubblica che indica, rappresenta piuttosto un segnale di sonno che di vita. Credo, ancor più, che questa pace di cui si parla sia la guerra sterile e funesta delle coscienze e degli interessi che si è sostituita alla guerra salutare delle opinioni politiche, e di conseguenza non la voterò se non in presenza di un emendamento che la modifichi in profondità. VILLEMAIN, MINISTRO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: Signori, l’onorevole oratore che scende da questa tribuna ha voluto attribuire ai suoi avversari tutti i torti insieme, anche i più contraddittori; è una cosa impossibile, qualunque buona volontà ci si metta (risate). Così, sembrerà poco concepibile alla ragione illuminata di questa Camera, che la medesima amministrazione abbia avuto la potenza o la ventura di calmare il paese, di mantenerlo calmo, e che, nello stesso tempo, sia proprio essa a dover essere accusata per tutte le sommosse, anche intellettuali, che possono emergere alla superficie della società e turbare l’opinione. L’onorevole oratore mi sembra aver qui confuso due cose che poteva distinguere meglio di qualunque altro: il benessere reale di un popolo, e l’ozio inquieto degli spiriti, che nasce sovente da questo stesso benessere, soprattutto quando viene eccitato dal movimento delle libertà pubbliche (al centro: molto bene!). In verità, signori, indignarsi o spaventarsi perché delle controversie filosofiche, nonché delle questioni religiose possano risvegliarsi nel contesto dell’immensa libertà di stampa e di opinione, che è una delle caratteristiche del 196

regime attuale, equivale a volere il principio e rinnegarne la conseguenza (al centro: molto bene!). Qual è, del resto, l’opinione dell’onorevole oratore su tali controversie? In quale modo le giudica? Cosa biasima o cosa approva? Qual è la sua politica? Quale la sua convinzione? Davvero lo ignoro. In questo cumulo di rimproveri, accuse e fatti contraddittori che ha accumulato contro il governo, io non sono riuscito a distinguere quale fosse propriamente la sua convinzione attuale. Io mi domando, per esempio, dopo averlo ascoltato, vuole o non vuole che le congregazioni non riconosciute dalle leggi possano stabilirsi in Francia? In effetti, pur biasimando la tolleranza del governo, egli dichiara che a suo avviso nessun ostacolo e nessuna interdizione dovrebbero essere opposti alle congregazioni religiose più che alle altre associazioni. Ne concludo che egli ha voluto, contemporaneamente, accusare il governo di fronte a coloro che vorrebbero la soppressione immediata di ogni congregazione, e blandire l’opinione che domanda, per queste riunioni extralegali, la libertà più illimitata. Questo modo di attaccare può essere ingegnoso, ma non perfettamente conforme alla rigorosa sincerità che la tribuna richiede (mormorii diversi). TOCQUEVILLE: Domando la parola. IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: Passo a un altro punto, in cui constato ancora una volta l’abilità dell’oratore nel colpirci da due lati contemporaneamente, per quello che facciamo e per quello che non facciamo, per ciò che diciamo e per ciò che abbiamo dovuto tacere (risa di approvazione). Non lasciate invadere, ci dice, l’insegnamento laico; rappresenta la stessa libertà di coscienza; e ci rimprovera financo le calunnie dirette contro questo insegnamento. Che l’insegnamento laico non venga invaso mi trova d’accordo; che l’insegnamento laico non possa essere minacciato né calunniato, ciò è assai difficile, signori, in piena libertà di stampa e di partiti; significa esigere trop197

po. Ma, per finire, l’oratore ci rimprovera di aver tollerato, di non aver impedito gli attacchi diretti contro l’insegnamento dello Stato, contro l’Università, che non è certamente un’espressione ufficiale di tale insegnamento, ma ne costituisce l’espressione gloriosa, lo dico pensando a tutti gli uomini di cui l’Università si onora, e soprattutto dimenticando me stesso (benissimo! Benissimo!). E nello stesso tempo l’onorevole oratore aggiunge che questa Università presenta dei gravi difetti che si sarebbe dovuto correggere, accusando il governo attuale di non aver realizzato questa salutare riforma. Quali sono questi difetti che voi denunciate e non indicate? Perché vi associate a coloro di cui biasimate gli attacchi? Perché vi fate eco volontaria di tali diffamazioni che ci rimproverate di non aver represso con sufficiente prontezza e forza? Dico che siamo ancora una volta di fronte a quella medesima arte che consiste nell’attaccare su tutti i punti contemporaneamente, di darsi pena meno della verità e più dell’effetto polemico, e del vantaggio di blandire più opinioni con lo scopo di raggruppare più nemici contro di noi. Questo modo di procedere non sembra affatto quello di uno spirito elevato, di uno spirito filosofico... (mormorii a sinistra. Approvazioni al centro), di cui ho spesso avuto modo di apprezzare l’intelligenza e di cui combatto l’opinione in questo momento. Infine, questo attacco su un duplice fronte, questi rimproveri contraddittori, l’onorevole oratore che mi ha preceduto li concentra su un punto, la questione del clero nei suoi rapporti con l’Università e i rapporti preziosi e necessari di quest’ultima con il clero. Così, egli accusa l’inazione del governo riguardo ad alcune pubblicazioni segnate da prevenzioni ingiuste contro le scuole dello Stato. Ma, signori, tutto il mondo sa che per ciò che concerne l’interesse politico, il carattere delle pubblicazioni deve essere valutato dal punto di vista del198

l’effetto che esse producono, dell’influenza che esercitano e dell’appoggio che possono trovare nell’opinione. Tutto quello che è legalmente riprensibile in materia di stampa non è perseguito e non deve esserlo; l’azione penale pubblica dove intervenire soltanto il giorno in cui tra la vivacità illegale dell’attacco e il pericolo politico vi sia un legame evidente (numerose voci: è vero). Si può dire che questa azione legale non sia intervenuta? Si può dirlo in presenza di una dichiarazione di abuso che trae la propria forza dalla sua stessa moderazione (al centro: Sì! Sì! Brusii a sinistra), e in presenza di un’azione giudiziaria volta contro l’espressione più violenta di una certa opinione segnalata, ma non biasimata, dall’onorevole oratore che mi ha preceduto10? Ma egli ci dice, a fianco di questa moderazione eccessiva verso coloro che attaccano ingiustamente l’insegnamento laico, cioè a dire quella che l’onorevole chiama la libertà di coscienza, che c’è stata debolezza, timidezza, diserzione rispetto al dovere verso coloro che abusavano di tale libertà. Ma come! Voi criticate perché su una cattedra che, come segnalava l’anno scorso l’onorevole signor de Carné11, non si indirizzava a quel giovane uditorio dei collegi, che va anzitutto e scrupolosamente preservato, ma a un pubblico libero; perché su una cattedra sulla quale la stessa Restaurazione, una volta soltanto, era intervenuta per allontanarne un professore, alcune opinioni che, senza affermarlo, certamente, voi accusate di essere state ostili al cristianesimo, non sono state giudicate tali! Per il fatto che nessu10

Il ministro fa riferimento a una lettera pastorale, datata 1843, del vescovo di Châlons de Prilly, per la quale era stato condannato per abuso dal Consiglio di Stato. 11 I corsi in questione, un anno addietro come oggi, sono quelli di Michelet e Quinet, entrati a forza nel dibattito sulla libertà di insegnamento. Carné aveva rivendicato la piena libertà dei suddetti corsi e dei professori del Collège de France in genere, soprattutto laddove questi avessero fatto riferimento a un pubblico adulto.

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na azione rigorosa è intervenuta, azione che voi avreste probabilmente biasimato, così da riservarvi un’accusa in più (risa di approvazione al centro), perché degli uomini di talento, ammesso che abbiano commesso qualche errore di opinione e di linguaggio, ammesso che si siano lasciati scappare qualche proposizione riprodotta inesattamente o insidiosamente commentata, non sono stati immediatamente colpiti, per tutte queste cose voi, difensore della libertà, di tutte le libertà, vi indignate e sostenete che il governo ha tradito i propri doveri! Io dico che, a maggior ragione, voi vi sareste comportato come lui (ancora approvazione dal centro). Ora lascio a un’esperienza più autorevole della mia, in questa Camera, la discussione su alcuni altri punti. Il signor Guardasigilli sceglierà il proprio momento e porterà la propria difesa là dove giudicherà più opportuno. Ma prima di terminare, non mi asterrò dal rilevare una di quelle ingiustizie generali con cui ha aperto il dibattito l’onorevole oratore che mi ha preceduto, preludio al dettaglio di tutte le ingiustizie verso l’amministrazione. Non è ben strano, signori, che in un paese che dorme, come l’ha definito ancora una volta l’onorevole oratore che mi ha preceduto, e di cui la quiete è il crimine dell’amministrazione, non è ben strano che in un paese in cui, malgrado questo presunto sonno, non è mai venuta meno la vivacità né l’ardore dello spirito, né di movimento verso le idee, sia venuta fuori una controversia riferita contemporaneamente alla filosofia e alla religione? Non ho mai sentito dire che il regno di Luigi XIV abbia peccato per eccesso di debolezza del potere, per inerzia del governo. Ebbene, in quell’epoca, sotto un’autorità di una potenza tale, mi sembra vi sia stato un grande movimento di discussioni filosofiche e religiose. L’onorevole oratore che mi ha preceduto non ha bisogno di imparare da me quale ricordo di lotte accanite si riallacci al nome di PortRoyal. Ciò che non impediva neppure il governo di Luigi XIV, questo movimento di discussione, voi vi meraviglia200

te di vederlo riprodursi all’interno della grande libertà delle nostre leggi e dei nostri costumi! Vi meravigliate per il fatto che, quando la polemica universale della nostra epoca si aggiunge allo zelo religioso, risorgono delle diatribe religiose! Ma in verità, signori, è stata molto meno la Chiesa di certi giornali ad aver montato la disputa religiosa del nostro tempo (sì, sì, è vero!). Ma, dice l’oratore che mi ha preceduto, il grande errore che avete commesso, o perlomeno, la grande disgrazia in cui siete incorsi, nel calmare la controversia politica e nel lasciare che il dibattito sviasse verso la diatriba religiosa, consiste nell’aver reintrodotto il dubbio negli animi, sostituendo una lotta filosofica alle lotte dei partiti. Signori, non sappiamo noi forse, al contrario, che lo spirito di partito politico si crea un’arma da ogni cosa e prende successivamente ogni forma; che può diventare religioso, precisamente per avere un mezzo di azione in più? E allora dovrete imputare allo spirito religioso quella che è la trasformazione di un pensiero politico? Voi forse credete, per esempio, che quando un grande e celebre agitatore, che la storia giudicherà, che non sta a me giudicare in questa sede, nel movimento eccessivo, impossibile da realizzare e che egli ha intrapreso (interruzione a sinistra), si impadronisce incidentalmente della diatriba tutta interna alla nostra Università, e, accusando di empietà questa Università che egli non conosce, la confonde nei suoi attacchi a quella dinastia nazionale di cui il vostro indirizzo proclama solennemente i diritti; credete forse che non sia mosso da uno spirito di partito del tutto politico, che si avvale di un travestimento da spirito religioso12? (numerosi segnali di approvazione). 12 Il ministro sta facendo riferimento all’agitatore cattolico irlandese O’Connell, il quale, dopo essere stato attaccato su un articolo del «Journal des débats», aveva replicato con violenza inaudita scagliandosi contro il governo francese e lo stesso Luigi Filippo, rei della mancata attuazione costituzionale della libertà d’insegnamento.

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TOCQUEVILLE: Signori, risponderò in pochissime parole al ministro che sta scendendo dalla tribuna. La Camera mi consentirà, innanzi tutto, di eliminare da questo dibattito sia il signor O’Connell, il quale secondo me non ha nulla a che fare con l’argomento che stiamo trattando, sia i ricordi di Luigi XIV... Al centro: E perché mai? TOCQUEVILLE: ... che il ministro ha richiamati in maniera senza dubbio eloquente, ma, a mio avviso, inutilmente. Io dirò soltanto, a tale proposito, che la morte delle passioni politiche (buone o cattive), che poteva essere un sintomo felice sotto una monarchia assoluta, è, io credo, secondo l’avviso di tutti quelli che dopo hanno visto degli Stati liberi, o che se ne sono occupati, il sintomo più funesto per questi stessi Stati (risa ironiche al centro). Ma giungo alla questione. Avevo detto, a proposito di quelli che avevo chiamato gli errori del governo nell’ambito della materia di cui ci stiamo occupando, avevo detto quattro cose. Il signor ministro mi ha accusato di insincerità (esclamazioni e risa). Convengo, signori, che questa parola non è nel dizionario dell’Accademia, ma la si comprende; e questo è sufficiente, io penso, davanti a un’assemblea politica. Avrei desiderato, dunque, che il signor ministro dell’Istruzione Pubblica, che metteva in dubbio la mia sincerità, rispondesse in una maniera più completa, e, lo dico con rammarico, più sincera, agli attacchi che mi ero permesso di rivolgere al gabinetto. Avevo detto questo: avete lasciato in sospeso tre questioni irritanti, dalle quali, presto o tardi, doveva venir fuori quella guerra filosofica e religiosa che noi deploriamo. La prima era la libertà d’insegnamento. Perché siete stati tredici anni senza sottoporcela in maniera utile? IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: Vi sono due progetti presentati.

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TOCQUEVILLE: Ho detto, in modo utile? Mi sembra che il signor ministro non abbia risposto a questa domanda. In secondo luogo, ho detto: vi sono delle ordinanze e delle leggi sul clero, sulle istituzioni ecclesiastiche; se sono valide perché non le rendete esecutive? Se sono cattive, perché non chiedete che vengano abrogate? Il signor ministro ha risposto a questa domanda, ma confesso di non aver inteso perfettamente il senso della sua risposta. E dubito che l’assemblea sia stata più fortunata di me (brusii diversi). Infine, ho detto al signor ministro: esistono in Francia delle corporazioni religiose, delle congregazioni religiose; perché non decidete una volta per tutte rispetto alla questione se abbiano o meno il diritto di esistere? Perché se, stando alle nostre leggi, esse hanno in effetti il diritto di esistere, cosa che viene dibattuta presso i tribunali, perché allora non prendete almeno l’iniziativa? Perché non scegliete, tra queste congregazioni, quelle che possono essere utili, e quelle che, o piuttosto, secondo me, quella che, infatti ve n’è perlomeno una, potrebbe essere pericolosa13? Mi sembra che non abbiate risposto con una sola parola a questa domanda. Comunque vi avevo detto un’altra cosa. Vi avevo detto che avete eccitato le passioni politiche del clero a vostro piacimento, che l’avete blandito, persuaso, a torto per lui, a torto per la stessa religione, di essere un potere politico, e così facendo avete cercato di mettere le mani su di esso. Credo che non abbiate risposto a tale questione con una sola parola. Tuttavia non ho detto tutto quanto; avrei potuto mettere in rilievo, fra le altre cose, quei fondi inseriti l’anno scorso nel budget, con lo scopo palese di venire in soccorso 13

Tocqueville si riferisce evidentemente ai gesuiti.

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di quegli ecclesiastici che si fossero distinti, per citare l’espressione usata. Non avete risposto a questo. Vi ho detto una terza cosa: che per privare i nemici dell’Università non delle cause degli attacchi, ho parlato di pretesti, voi non avete fatto le riforme necessarie all’interno dell’Università. IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: Quali riforme? Bisogna segnalarle, occorre segnalare i vizi che si denunciano. TOCQUEVILLE: È evidente che risulta impossibile in questo momento... Molteplici voci dal centro: Ah! Ah! TOCQUEVILLE: ... scendere in tutti i particolari della questione. Non eviterò di farlo, signor ministro, credetelo, quando la legge che annunciate sarà effettivamente presentata. IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: Perché non parlarne seduta stante? Se vi sono dei vizi, occorre segnalarli. TOCQUEVILLE: Enuncio oggi un’idea generale che risiede nelle menti di molte persone. Non è ancora il momento di addentrarsi nei dettagli. Io dico, e ho il diritto di farlo, che stando al sentimento di molte persone, persone amiche, come me, dell’istituzione universitaria, l’Università, che è superiore, quanto all’insegnamento, a tutte le altre cose, avrebbe ancora da guadagnare quanto a capacità di fornire un’educazione. IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Tutti hanno da guadagnare. TOCQUEVILLE: Ciò che io vado dicendo, nell’interesse stesso di questo grande corpo, per indicargli il modo di scoraggiare la concorrenza, voi lo rivolgete in un attacco contro di lui. E rifacendomi alle mie parole, avete voluto trasformarmi in un nemico dell’Università. Siete voi, signor ministro, siete voi che non siete stato completamente sincero. 204

IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: Permettetemi di rispondere. Molti membri: Voi risponderete dopo. TOCQUEVILLE: Infine, ho detto che una volta che la guerra era cominciata, è stato imprudente da parte del governo non intervenire; che era necessario che si gettasse, in qualche maniera, nel mezzo della lotta, con la forza morale che possiedono tutte le sue parole; che era necessario fin dall’inizio, e non passati alcuni mesi, ma fin dall’inizio far comprendere al clero, tramite un atto pubblico energico, la sconvenienza dei suoi attacchi. Poi ho detto che quanto agli altri attacchi, che mi rincrescono tanto più quanto mi trovo a onorare profondamente gli uomini cui li rimprovero, era ancora una volta dovere del governo intervenire, ma non certo, come siete parsi intendere, sospendendo l’insegnamento. No, no, non sono mai arrivato fino a questo punto, neppure nel fondo del mio pensiero, e voi lo sapete bene. Ho detto che sarebbe stato necessario mostrare con un segno qualunque che il governo non poteva accettare di solidarizzare con espressioni simili. Ecco quello che ho detto, niente di più; il resto è venuto fuori da voi, non da me. Dal banco dei ministri: Che tipo di manifestazione occorreva dare? TOCQUEVILLE: Sicuramente il governo non difetta di organi ufficiali per riprodurre il proprio pensiero. IL MINISTRO DEI LAVORI PUBBLICI: Il «Moniteur»? Con un’inserzione sul «Moniteur»? TOCQUEVILLE: Io dico che il governo, restando zitto, assolutamente muto, da una parte di fronte alle minacce del clero, dall’altra di fronte al linguaggio dei suoi avversari, il governo, secondo me, è venuto meno al suo dovere, finendo lui stesso con il destare, animare, esasperare la discussione; e ribadisco che ho avuto ragione di dire che è in qualche modo a lui che bisogna attribuire principalmente lo stato deplorevole che ne è seguito.

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La libertà d’insegnamento14 Gli uomini che oggigiorno reclamano la libertà d’insegnamento in nome della libertà stessa dello spirito umano, del rispetto dovuto alla coscienza e come una delle conseguenze naturali e necessarie delle nostre nuove istituzioni, vengono sottoposti a un’autentica oppressione alla quale non devono sottomettersi15. Si finge tutti i giorni di confonderli con i partiti, con uno scopo diverso dal loro, reclamano contemporaneamente, ma a fronte di princìpi diversi, questa stessa libertà: si cerca di coprire le loro voci con i clamori alzati in ogni momento contro i legittimisti e il clero16. Non sarà così: un’opinione che risale al 1789, che è stata sostenuta lungo tutto il corso della Restaurazione dai capi più illustri del partito liberale, che ha trovato formulazione all’interno del nostro sistema legislativo all’indomani della vittoria di luglio; che è stata professata da tutta l’opposizione per dodici anni e che lo è ancora da parecchi membri tra i più giustamente rispettati e più eminenti che la compongono, uomini del calibro dei signori de Tracy, de Sade, Dufaure, Odilon Barrot; una simile opinione ha troppe radici perché gli incidenti di un giorno possano farla sparire tutta in una volta o la costringano a non far 14

Si tratta di un editoriale uscito anonimo e senza titolo sul «Commerce» del 29 luglio 1844. Tuttavia è certamente attribuibile a Tocqueville, il quale, in una lettera dello stesso giorno alla moglie, si esprimeva in questo modo: «Vedrai sul giornale di stamane un articolo sulla libertà d’insegnamento. Spero che lo approverai. Con molta fatica sono riuscito a farlo accettare a Corcelle». In O.C., III, 2, pp. 512-515. 15 Tocqueville allude a Thiers e a quei giornalisti che, a suo avviso, ricevevano da questi le parole d’ordine (Sydney Renouf per la «Patrie» e Chambolle per il «Siècle»). Questi due giornalisti prescrivevano alla sinistra di aderire interamente al rapporto di Thiers (nominato relatore della «legge Viellamain»), assai favorevole all’Università. 16 Tocqueville si riferisce ai legittimisti, al partito cattolico di Montalembert e al clero, che reclamavano innanzi tutto un insegnamento confessionale.

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sentire la propria presenza. Quanto a noi, non l’abbandoneremo e non saranno certo le difficoltà del momento a renderci incoerenti con noi stessi. Ma non vedete, si dice, che questa libertà d’insegnamento che voi raccomandate, la reclamano i legittimisti? E che importa? Forse che essi non reclamano, tutti i giorni da quattordici anni, insieme a noi, la libertà di stampa, la libertà d’espressione e la libertà individuale? I nostri princìpi hanno questo di ammirevole, che essi non si limitano a garantire noi stessi, ma costituiscono la salvaguardia di tutti coloro che paventano l’oppressione da qualunque parte provenga; essi non sono soltanto uno scudo per noi, lo sarebbero allo stesso modo contro di noi e qui risiede la loro gloria. Dovremmo rinnegarli per il solo fatto che delle minoranze sconfitte li invocano nella loro debolezza? Ma il clero, si dice ancora, giunge a impadronirsi dell’insegnamento divenuto libero, giunge ad attaccare la Rivoluzione con le sue stesse armi. Mantenete il clero nella sua sfera, non permettete che esso sia contiguo al governo, ma non togliete a tutti i cittadini una libertà necessaria per paura che alcuni sacerdoti ne abusino. A nostro avviso la maggioranza della commissione dell’istruzione secondaria si è troppo preoccupata di questi incidenti esteriori della questione, finendo con il perdere di vista, talvolta, la questione stessa: essa si è così lasciata trascinare a delle conclusioni che coloro che vogliono lealmente e seriamente la libertà d’insegnamento non potrebbero ammettere. L’onorevole signor Thiers, che ne ha costituito l’organo di rappresentanza, si impegna soprattutto a dimostrare due cose incontestabili: la prima è che l’Università è stata spesso calunniata; la seconda è che coloro che parlano a nome del clero hanno assunto, in occasione della libertà d’insegnamento, un atteggiamento tanto ingiustificabile quanto imprudente. Siamo sicuramente bel lungi dal negare che la maggior parte degli attacchi diretti contro i nostri colleghi è ingiu207

sta, che sia falso che nell’Università si insegnino l’irreligione e l’immoralità17. Così come non si nega che gli uomini che trascinano e infiammano il clero in questa lotta infelice cercano di fare della Chiesa un partito, contrapponendola temerariamente allo Stato e al secolo, non soltanto in qualità di potenza indipendente, ma anche come una rivale arrogante; che si sono definiti oppressi proprio quando parlavano più forte e che hanno attaccato oltraggiosamente una gran quantità di uomini onorevoli per delle opinioni che questi non avevano mai avuto o che non avevano più. Questo la commissione lo dice e ha ragione di dirlo. Ma il suo compito si limitava a questo? Dopo aver giustificato l’Università, dopo aver fatto intendere al clero delle verità severe e utili, non occorreva, infine, occuparsi all’atto pratico della libertà promessa, e costituirla in maniera tale da accontentare non coloro che la richiedono per farne un’arma di partito o di setta, ma coloro che la reclamano per impiegarla nella soddisfazione di bisogni legittimi e nell’esercizio dei diritti riconosciuti da cinquant’anni? Ora, cosa fa per costoro il progetto di legge così come è arrivato alla Camera dei deputati e così come è uscito dalle mani della commissione? E, per parlare innanzi tutto del contenuto stesso dell’insegnamento e della sua forma, cosa ne è, in questa legge di affrancamento, della libertà dei metodi che reclamava ancora, in una circostanza recente, l’onorevole signor de Tracy? Quando esamineremo il meccanismo generale del progetto e penetreremo all’interno dei suoi dettagli, faremo vedere che la libertà dei metodi è del tutto sacrificata, che si obbliga tutti ad apprendere le stesse cose e ad apprenderle nella stessa maniera, che si traccia attorno alla mente umana un cerchio immobile dal quale le è impedito di uscire. 17 Tocqueville fa riferimento alla campagna di pamphlets contro l’Università condotta da taluni esponenti del clero e soprattutto, senza dubbio, agli attacchi incessanti dell’«Univers».

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La commissione dichiara che non vede nulla di meglio del sistema di studi indicato più di un secolo fa da Rollin alla società dell’Antico Regime, e che non si potrebbe fare cosa migliore di persistere su quella strada18. Ammirate Rollin, sia pure, ma non imponetelo. Quanto alla facoltà di insegnare e di fondare delle scuole, che è la stessa libertà annunciata dalla Charte, che ne è di essa all’interno della nuova legge? Dimostreremo senza fatica che le condizioni che il progetto impone alla libertà di insegnamento sono così difficoltose, complicate e arbitrarie che, stando ai termini della legge proposta, l’esistenza degli istituti liberi sarebbe talmente travagliata e precaria che persino il regime dell’autorizzazione preliminare sarebbe preferibile a un’indipendenza di tal fatta. Affermiamo, infatti, che se delle simili disposizioni fossero state in vigore finora, pressoché nessuno degli istituti liberi attualmente esistenti avrebbe potuto formarsi, e che non ve ne è praticamente nessuno che possa mantenersi in date condizioni. Lo diremo dunque alla commissione, senza esitare, malgrado il rispetto che riserbiamo nei confronti dei suoi membri: mantenere in questo modo la promessa della Charte significa eluderla; significa fare per la libertà di insegnamento ciò che la Restaurazione ha più volte tentato di fare invano per la libertà di stampa, quando voleva sostituire all’arbitrio eccezionale della censura che ostacolava i giornali un diritto comune che gli avrebbe impedito di nascere. Ecco ciò che, per parte nostra, noi non potremmo giammai tollerare. Non vi è collera, fosse anche giusta, né irritazione, fosse anche legittima, che possa condurci fino a quel punto. Ai nostri occhi sono da prendere solo due partiti: se la promessa fatta attraverso la Charte è stata strap18

Tocqueville si riferisce a Charles Rollin (1661-1741), autore di una Histoire ancienne ancora letta, ma che soprattutto con il suo Traité des Études (1726) aveva fissato i metodi di un insegnamento universitario classico.

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pata in seguito all’errore o all’entusiasmo non ponderato del momento, se è vero che la libertà di insegnamento è impraticabile o pericolosa, allora rifiutiamola; ma se l’accordiamo, doniamola con sincerità, paghiamo lealmente il nostro debito oppure non riconosciamo debitori.

Articoli che Corcelle mi ha impedito di inserire nel «Commerce» nel 184419 Primo articolo È facile vedere come la questione della libertà d’insegnamento, per quanto già rilevante di per sé, sia divenuta oggigiorno in qualche modo secondaria. Essa ha dato vita a una questione ancora più vasta, più difficile e più pericolosa, che ha finito a poco a poco con il prenderne il posto. Non si tratta più soltanto di violenti attacchi scagliati da qualche ecclesiastico contro l’Università; è la condotta generale del clero ad essere in questione, è il suo spirito, le sue credenze, il cattolicesimo stesso. Su questo fronte si è improvvisamente aperto un nuovo e gigantesco terreno di polemica. Quasi tutti i giornali si sono inseriti in questo campo di battaglia, attirati dalle imprudenze e dagli errori di una parte del clero. Tutte le altre lotte sembrano sospese per occuparsi soltanto di questa, la diatriba con il clero occupa più spazio di quella con l’Inghilterra20, e la si ritrova dall’articolo più importante fino al romanzo d’appen19

Questi due articoli, rimasti inediti, erano stati scritti da Tocqueville intorno al 15 agosto del 1844 e inviati a Corcelle, il quale, in quel periodo, dirigeva la redazione del «Commerce». Quest’ultimo, indubbiamente più favorevole di Tocqueville nei confronti del clero, ne aveva bloccato la pubblicazione. Il manoscritto dei due articoli era rimasto a Tocqueville, con il titolo che abbiamo deciso di riprodurre senza modifiche. In O.C., III, 2, pp. 516-521. 20 A proposito di Tahiti e del Marocco.

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dice. Si potrebbe credere che il solo affare interessante che ci rimane sia quello di regolamentare o reprimere la Chiesa. Da parte nostra, guardiamo con molta apprensione la preponderanza che un tale argomento ottiene su tutti gli altri. Una così totale preoccupazione dello spirito pubblico rispetto a tale vicenda ci inquieta e prevediamo che possa predisporre le nostre opinioni a nuovi errori di calcolo. La questione di sapere se il clero si mantiene nell’ambito del posto che la Costituzione gli ha riservato o se ne esca, se si conformi allo spirito del tempo o se gli faccia la guerra, se si riunisca alla nuova società o se voglia tenersene fuori, sono tutti argomenti che rivestono sicuramente un’importanza sociale assai grande e, per parte nostra, le tratteremo a nostra volta con tutta l’attenzione e il rispetto che meritano; ma, prestiamo ben attenzione, non è unicamente su questioni simili che l’opposizione costituzionale può vivere. Una sola notazione è sufficiente per convincersene: qual è l’organo principale del partito conservatore? Il «Journal des Débats». Chi rappresenta più abitualmente e in maniera quasi ufficiale l’attuale gabinetto? Il «Journal des Débats», senza dubbio. Ora, che ci si dica in cosa il linguaggio del «Journal des Débats» sulla questione religiosa differisce, quanto al linguaggio, dalla maggior parte dei giornali dell’opposizione21, dal «Constitutionnel» per esempio? In nulla. Si tratta precisamente degli stessi fatti messi in luce nella medesima maniera; gli stessi ragionamenti, le stesse idee. Il lettore può passare dall’uno all’altro di questi giornali senza accorgersi di aver cambiato partito. Ora, un argomento sul quale il «Constitutionnel» e il «Journal des Débats» si trovano così agevolmente d’accordo può ben essere un argomento interessante e grave, ma è evidentemente 21

Il «Journal des Débats» figurava come difensore del monopolio universitario e si spingeva fino a sostenere che i cattolici non avevano alcun diritto di invocare la Charte, fatta «non per loro e da loro, ma contro di loro». Violenti, in particolare, gli attacchi contro i gesuiti.

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al di fuori della polemica tra i partiti. L’opposizione commetterebbe dunque un grande errore se se ne lasciasse assorbire, in questo modo si cancellerebbe da sola, impiegando le proprie energie per farsi dimenticare. Esaminiamo bene lo stato reale delle cose e cerchiamo di sapere con precisione non soltanto dove ci si vuole portare, ma dove noi per primi vogliamo andare. La sinistra costituzionale non può sperare di succedere immediatamente al ministero attuale. Gli eredi più prossimi del signor Guizot saranno evidentemente scelti all’interno di ranghi diversi dal nostro. Ora, qual è l’interesse evidente di tutti coloro che possono sperare di succedere all’attuale ministero? Il loro interesse evidente è che, nel momento in cui arriveranno al potere, la questione religiosa sia divenuta il più grande affare interno e, se possibile, il solo che preoccupi gli spiriti, ecciti le passioni e agiti gli animi. Infatti è su questo terreno che essi hanno più possibilità di piacere all’opposizione senza perdere l’appoggio dell’attuale maggioranza. Sarà sempre molto più facile per loro scacciare i gesuiti che concedere la riforma elettorale o quella parlamentare. Loro interesse evidente è, dunque, quello di concentrare tutta l’attenzione del paese soltanto sulla questione religiosa. Noi non li rimprovereremo di perseguirlo. Ma è il nostro interesse? Noi pensiamo di no. È senza dubbio cosa buona preoccuparci della condotta da tenere nei confronti del clero, ma non fino al punto di lasciare che il paese dimentichi e che noi per primi perdiamo in qualche modo di vista ciò che ha sempre costituito l’essenza dei nostri princìpi. Riformare la rappresentanza nazionale, purificare il governo, modificare le leggi di settembre, garantire all’interno il paese contro la corruzione amministrativa, risollevare la sua politica estera: ecco il vero programma della sinistra costituzionale. È per far trionfare queste dottrine che essa parla e agisce da quattordici anni, e sono queste le riforme che essa deve esigere da ogni gabinetto che avrà 212

bisogno del suo appoggio. Ma perché essa possa essere in grado di imporle un giorno, occorre prima di tutto non lasciare che si spenga nel paese il desiderio ardente di ottenerle. Trascurare questo dovere per rinchiudersi nel campo della questione religiosa; volgere continuamente su questo unico aspetto gli sguardi della nazione, concentrare su questo solo punto tutta intera la sua attenzione, le sue passioni, i suoi ricordi, trattare questa faccenda non come una delle più importanti del tempo presente, cosa che è vera, ma come l’unica questione della politica interna, significa abbandonare il nostro ruolo per assumerne uno che non è il nostro, significa facilitare al prossimo gabinetto il modo di mantenersi al potere senza accordare alle nostre opinioni quelle legittime soddisfazioni che abbiamo il diritto e il potere di esigere. Significa, in una parola, giocare alla professione degli imbroglioni e, per parte nostra, non ci presteremo a questo gioco. Secondo articolo Il linguaggio violento e provocatorio di una parte del clero, riguardo alla libertà di insegnamento, comincia a produrre i risultati che gli uomini sensati avevano previsto e che temevano tutti gli amici sinceri della religione. La specie di pace che regnava tra la filosofia e il cattolicesimo si è rotta e la guerra tra il secolo e la fede si è riaccesa più viva che mai22. 22

Fin dal 31 marzo del 1842, l’«Univers», in una lettera a Villemain, aveva denunciato 18 professori come antireligiosi, stilando una lista in cui, accanto ai filosofi eclettici, a Michelet e a Quinet, figurava l’inoffensivo J.J. Ampère, amico di Tocqueville. Nel 1844 questa campagna cominciò ad amplificarsi, condotta da vescovi oltremodo battaglieri quali de Montals e d’Astros (quest’ultimo arcivescovo di Tolosa, che sferrò un attacco inaudito contro il titolare della cattedra di filosofia della medesima Università). I toni erano di una gravità conseguente: il primo arrivò addirittura ad accusare l’Università di trasformare i giovani in «animali immondi e bestie selvagge».

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Lo diciamo senza perifrasi: è con grande dolore che contempliamo un tale spettacolo. Non avevamo mai rinunciato, da parte nostra, a vedere la Chiesa e la nuova società riconciliarsi l’una con l’altra. Lo speravamo e soprattutto lo desideravamo con tutto il cuore. Ci sembrava che l’una e l’altra potessero attingere da questa unione le forze che mancavano loro. Cosa può fare la Chiesa se lo spirito vivente del secolo le scappa via? Se non regna che sulla base di antichi ricordi, se rimane attaccata ai cocci di un’èra che non c’è più, se si lascia contaminare soltanto dai costumi, dalle idee, dalle passioni e dagli interessi di un mondo che sta scomparendo? Se, infine, essa non resta in piedi che come la croce che si eleva al di sopra di un cimitero, non più sorretta dalla mano dei credenti? Presto o tardi finirà nella polvere. E noi! Come riusciremo a far vivere la nostra società senza le credenze? Si è mai vista una cosa del genere nel mondo? Non se ne potrebbe citare un solo esempio. In tutta la storia scetticismo e decadenza marciano appaiati. Se la religione sembra ripugnare allo spirito del nostro tempo per qualcuno dei suoi aspetti, dall’altra parte essa risponde meravigliosamente a parecchi dei bisogni più pressanti della nostra epoca. Chi non si accorge che in mezzo a questa moltitudine di piccoli affari e piccoli interessi, di meschine ambizioni che ci assorbono, l’orizzonte dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti minaccia di restringersi sempre più; che è soprattutto oggigiorno che conviene talvolta ricondurre le nostre menti e i nostri cuori verso degli obiettivi più grandi di noi stessi, e che è cosa buona aprirci degli squarci di luce sull’altro mondo? Solo la religione può farlo; solo in questo modo, le va riconosciuto, essa può esercitare un’influenza costante ed efficace sulla regolarità dei costumi privati e, con ciò, assicurare con forza, seppur in maniera indiretta, la buona condotta dei pubblici affari. Come può esservi una vita pubblica regolata se la vita privata è disordinata o turbata? Da questo deriva che i popoli liberi hanno sempre riconosciuto di aver bisogno più di tutti gli altri della fede; sebbene i 214

preti si siano mostrati spesso ostili alla libertà, non dimentichiamo mai che la religione le è necessaria. Ma bisogna dunque lasciare il clero libero in tutti i suoi comportamenti? Bisogna non biasimare le sue deviazioni, tollerare le sue pretese esagerate e approvare i suoi errori? Ci si deve astenere dal parlare dello spirito della Chiesa, delle sue tendenze, dei suoi bisogni, del confine che separa i suoi poteri da quelli dello Stato? Si eviterà di cercare una spiegazione rispetto a tutte queste grandi questioni che hanno di nuovo, e così fortemente, catturato l’attenzione pubblica? Certamente no, e noi stessi percorreremo questa strada. Il clero non potrebbe ritenere dannoso che tali questioni vengano sollevate, perché è stato soprattutto lui a portarle all’ordine del giorno. Quale che sia la violenza degli attacchi che in questo momento gli vengono rivolti, avrebbe torto di irritarsene, poiché, attaccando in maniera violenta e personale i propri avversari, si è fatto esso stesso oggetto di polemica. Ciò che notiamo, con un rammarico che non cercheremo affatto di dissimulare, è che la maggior parte degli organi di stampa e, fra essi, quelli che più ci sono vicini, mettono in questa diatriba uno spirito che ci sembra pericoloso e una vivacità che ci sembra andare oltre rispetto allo scopo che noialtri, amici di una libertà morale e ordinata, dobbiamo sempre proporci. È soprattutto a coloro di cui conosciamo la sincerità e le rette intenzioni che indirizziamo le seguenti osservazioni, non per ingaggiare tra di noi una polemica irritante, ma per tentare di intenderci e chiarirci; è a loro che diremo senza giri di parole: perché prendersela con tutto il clero per quelli che spesso non sono che errori commessi da alcuni dei suoi membri? Perché non limitarsi allo stesso clero, ma spingersi fino ad attaccare il cattolicesimo? Voi non disponete più di noi di un’altra religione di riserva da mettere al suo posto, né ritenete più di noi che un grande popolo come il nostro possa fare a meno della fede religiosa. Non potete quindi limitarvi a combattere i preti senza biasimare la religione? Voi attirate continuamente l’attenzione pubblica su 215

dettagli ridicoli di piccole pratiche, riempite le vostre colonne con racconti di fatti che sono di natura tale da togliere ai sacerdoti la considerazione e la fiducia pubblica. È dunque con lo scherno e con degli aneddoti scandalosi che ci conviene di trattare un argomento così grave? Quale pericolo così pressante vi obbliga a ricorrere a questi metodi estremi, togliendovi il tempo di scegliere le vostre armi? Francamente dove sta oggigiorno il pericolo? Cosa ha guadagnato il clero con tutti i suoi clamori, a cosa hanno condotto le sue dimostrazioni arroganti? Ogni uomo sensato non esiterà a rispondere che tutto ciò ha condotto a far scatenare contro di esso una tempesta più violenta, forse, di quella che era scoppiata alla fine della Restaurazione. Ma come, voi vedete quasi tutti i giornali, quasi tutti gli uomini politici, i magistrati, gli scrittori, le classi più turbolente e influenti della nazione, il paese legale d’accordo nella risoluzione di respingere con forza ogni tentativo di invadenza da parte della Chiesa e avete paura! E sembrate credere che il pericolo sia ancora così grande e pressante da non dover risparmiare nulla, e che, per combatterlo, non bisogna aver timore di far tremare le fondamenta stesse della religione costituita, di attaccare la sua costituzione e le sue dottrine, di ridicolizzare le sue pratiche e di togliere ogni forza morale al suo clero? A noi sembra evidente il contrario, e pensiamo che il pericolo che una simile guerra fa correre al tessuto sociale è ben più grande dei pericoli da cui lo si vuole preservare.

La denuncia della guerra scolastica23 Il mio sogno più bello entrando nella vita politica era quello di contribuire alla riconciliazione dello spirito e dello spirito della religione, della società nuova e del clero. [...] quando penso che da tre anni quasi tutta la stampa era favorevole al ritorno delle idee religiose o almeno non vi era contraria [...] 23

Tocqueville, sempre più in mezzo alle pretese eccessive della Chiesa e alle reazioni anticlericali rispetto alla questione della libertà di

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e che ad oggi tutta la stampa con la sola eccezione dei giornali legittimisti (eccezione più pericolosa che utile) si trova in un parossismo di cieca furia [...] i difetti sono stati e continuano, secondo me, ad essere enormi. Il clero sosteneva la causa più giusta. Quella della libertà d’insegnamento. Aveva un terreno ammirabile, solido e costituzionale sul quale bastava mantenersi fermo. [...] Reclamare la libertà di insegnamento per tutti, in virtù dei princìpi della Costituzione. È la via nella quale era appena entrato. Ma cosa hanno fatto coloro che parlano nel suo nome? Hanno reclamato la direzione dell’educazione come un diritto inerente alla Chiesa; con rara assurdità, hanno fatto temere atti da parte di autorità alle quali, in fondo, non si volevano consegnare. [...] Ma non è tutto: al posto di limitarsi a reclamare la loro parte di insegnamento, hanno voluto provare che l’Università era indegna di insegnare. Una moltitudine di articoli di giornale, di opuscoli e grossi tomi è stata pubblicata allo scopo di attaccare nominativamente una folla di professori e di provare che essi non meritano la fiducia delle famiglie.

La riconciliazione fra religione e libertà24 So bene che si tratta di un mezzo di popolarità assai facile. Oggigiorno ci si fanno perdonare volentieri dal parinsegnamento, fa capire chiaramente la propria posizione mediana in questo estratto da un articolo per il «Commerce», in O.C., XIV, p. 237. 24 Questo abbozzo è relativo a un progetto di discorso per la sessione del 1845, in cui la Camera doveva esaminare il progetto di legge sulla libertà di insegnamento secondario votato dalla Camera dei Pari il 22 maggio 1844. Il 10 giugno 1844 i comitati avevano eletto una commissione di cui faceva parte anche Tocqueville e che scelse Thiers come relatore. Quest’ultimo stilò un rapporto assai favorevole all’Università e oltremodo ostile alle rivendicazioni dei cattolici. Tocqueville, fortemente contrario alle conclusioni di Thiers, buttò giù questa bozza (e alcune note) con l’intento di prendere la parola contro il progetto della commissione. Ma poi, in ragione della crisi di follia occorsa al ministro dell’Istruzione Villemain (dicembre 1844), che venne sostituito, non se ne fece più nulla. In O.C., III, 2, pp. 550-551.

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tito della libertà i più grandi attentati contro la stessa libertà conducendo una guerra contro la religione e contro i preti. Ma è un mezzo che io disprezzo. Agendo in questo modo, perderò forse la popolarità, ma sono sicuro di non perdere la considerazione pubblica (buona forma oratoria da impiegare all’inizio del discorso). Mostrare il dolore che provo nel sostenere una tesi che divide i miei amici, che mi costringe a biasimarne alcuni e mostrare le ragioni che mi vincolano a tale comportamento. Ciò è ancora più difficile che correre il rischio di impopolarità di cui parlo più sopra. Ciò mi induce a parlare delle dottrine dei liberali del XVIII secolo, di tutte le legittime irritazioni che hanno diviso i liberali dalla Chiesa. E poi dire le mie ragioni, dire che questo ha costituito il motivo dei tormenti e delle riflessioni di tutta la mia vita. Tutte le tirate generali sulla religione, sulla sua utilità, non significano nulla. Bisogna serrare la questione più da vicino e mostrare, con nettezza e chiarezza, senza tuttavia annunciarlo, in cosa mi differenzio dalla sinistra rispetto a questa questione. Mettere al punto culminante e in rilievo la mia idea fondamentale, che consiste nella riconciliazione fra la religione e la libertà, l’idea che si sia stati nel torto a separarle, che la nostra nuova società non può progredire pagando un tale prezzo, che l’idea del 1700 non è la mia. Che dopo la carneficina di tutte le autorità nel mondo sociale, nella gerarchia, all’interno della famiglia e del mondo politico, non si può sussistere senza un’autorità nel mondo intellettuale e morale; che se manca in questo ambito, bisognerà ritrovarla da un’altra parte, dove non vorrei affatto, in una nuova gerarchia o in un grande potere politico. Occorreranno soldati e prigioni se si aboliscono le credenze. Cos’è che ha fatto sì che tanti uomini, che non erano naturalmente usciti fuori dall’ambiente rivoluzionario, si siano tuttavia appassionati ai princìpi della Rivoluzione, abbiano apertamente fatto sfoggio dei suoi simboli e siano 218

entrati con tutte le loro forze e tutta la sincerità del loro cuore in quel movimento nuovo che essa sembrava dover imprimere alla società? Forse per il piacere di spostare il potere sociale, di far passare il potere da una mano all’altra, di far predominare una classe su un’altra, di imporre una dottrina al posto di un’altra? No, no, essi hanno sentito il bisogno di qualcosa di più grande, di più elevato, di più geniale, di più umano, mi spingo a dire, per arrivare a farli rinunciare a tanti sentimenti onorevoli, fin nei loro sbagli, a tanti ricordi, per far loro intaccare tanti rispettabili pregiudizi che avevano circondato la loro giovinezza. È stato necessario, per attirarli e trattenerli, che essi vedessero in prospettiva questa cosa nuova e mirabile nel mondo: una grande società in cui la libertà non esistesse per un solo partito, ma per tutti, in cui tutti i sentimenti, tutte le idee potessero venire alla luce e affermarsi a turno all’interno del buon senso nazionale, in cui non vi fosse più di un diritto e comune a tutti25. Ecco ciò che ha congiunto tanti uomini a questa grande opera della Rivoluzione francese, l’idea di questa era nuova nei fasti dell’umanità, cosa che, per quanto mi riguarda, mi ha appassionato e non consentirò mai, per parte mia, che questo grande e nobile movimento dei nostri padri che doveva cambiare il volto dell’umanità conduca soltanto a ciò a cui si è assistito tante volte nel mondo, cioè a sostituire una tirannide con un’altra, e a non fare altro che cambiare l’oggetto dell’oppressione.

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Tocqueville aggiunge in nota altre versioni finali del periodo da lui prese in considerazione: «... in cui lo spirito fosse libero dal giogo delle caste, in cui la religione di Stato, le filosofie di Stato, le credenze ufficiali cessassero di esistere e si potessero manifestare le tendenze che implica la natura umana in seno alla grande unità nazionale... e tutte le diversità che implica la natura umana giungessero a manifestarsi liberamente in seno alla grande unità nazionale... e in cui lo spirito umano, libero dai lacci delle caste, delle classi...».

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Capitolo quinto

Religione e democrazia

Spirito di religione e spirito di libertà1 [La civiltà anglo-americana] è il prodotto (e questo punto di partenza deve essere tenuto sempre a mente) di due elementi perfettamente distinti, che altrove si sono spesso fatti la guerra, ma che in America si sono in qualche modo incorporati l’uno con l’altro, fino a combinarsi meravigliosamente. Sto parlando dello spirito di religione e dello spirito di libertà. I fondatori della Nuova Inghilterra erano, nello stesso tempo, ardenti settari e innovatori esaltati. Frenati dai vincoli più stretti di certe credenze religiose, essi erano altresì liberi da ogni pregiudizio politico. Di qui due tendenze, diverse, ma non contrarie, di cui facilmente si scorgono tracce un po’ dovunque, nei costumi come nelle leggi. Si tratta di uomini che sacrificano, in nome di un’opinione religiosa, i propri amici, la propria famiglia e la patria; si può ritenerli assorbiti nel perseguimento di quel bene intellettuale che son venuti comprando a un prezzo assai alto. Con un ardore quasi uguale, d’altro canto, li si vede ricercare le ricchezze materiali e le gioie morali, il 1

Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 1, pp. 42-43.

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cielo nell’altro mondo e il benessere e la libertà in quello terreno. Fra le loro mani i princìpi politici, le leggi e le istituzioni umane sembrano cose malleabili, che possono scambiarsi e combinarsi a volontà. Davanti a loro si abbassano le barriere che imprigionavano la società in cui sono nati; svaniscono le vecchie opinioni, che da secoli dirigevano il mondo; un cammino quasi senza limiti e un campo senza orizzonti si aprono dinnanzi; lo spirito umano vi si precipita e li percorre in tutte le direzioni; ma pervenuto ai limiti del mondo politico, si ferma da sé, mette da parte tremante l’uso delle sue più straordinarie facoltà, abiura il dubbio, rinuncia al bisogno di innovare, si astiene dal sollevare il velo del santuario e si inginocchia rispettoso al cospetto di verità che accetta senza metterle in discussione. È così che nel mondo morale ogni cosa è classificata, coordinata, prevista e decisa in precedenza. Nel mondo politico tutto è agitato, contestato, incerto; nell’uno v’è l’obbedienza passiva, seppure volontaria; nell’altro l’indipendenza, il disprezzo dell’esperienza e la gelosia nei confronti di ogni autorità. Lungi dal nuocersi, queste due tendenze, in apparenza così opposte, marciano d’accordo e sembrano prestarsi aiuto reciproco. La religione vede nella libertà civile un nobile esercizio delle facoltà dell’uomo e nel mondo politico un terreno lasciato libero dal Creatore di essere regolato dagli sforzi della ragione. Libera e potente nella sua sfera, soddisfatta del posto che le è riservato, essa sa che il suo impero è tanto meglio stabilito proprio per il fatto che non regna con le sue sole forze né domina senza un appoggio sui cuori. La libertà vede nella religione la compagna dei suoi lutti e dei suoi trionfi, la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi, i costumi come la garanzia delle leggi e la garanzia della sua stessa durata. 222

La religione come istituzione politica2 A fianco di ogni religione si trova un’opinione politica che le è congiunta per affinità. Lasciate che lo spirito umano segua la propria inclinazione ed esso regolerà in maniera uniforme la società politica e la città divina; mi spingo a dire che cercherà di armonizzare la terra con il cielo. La maggior parte dell’America inglese è stata popolata da uomini che, dopo essersi sottratti all’autorità del papa, non si erano sottomessi ad alcuna supremazia religiosa; essi, quindi, portavano nel nuovo mondo un cristianesimo che non saprei delineare in modo migliore se non chiamandolo democratico e repubblicano: questa cosa favorì oltremodo lo stabilirsi della repubblica e della democrazia negli affari politici e sociali. Fin dall’inizio politica e religione trovarono un accordo che non ha più smesso di essere in vigore. Sono passati circa cinquant’anni da che l’Irlanda cominciò a far riversare negli Stati Uniti una popolazione cattolica. Per parte sua il cattolicesimo americano fece dei proseliti: oggigiorno negli Stati Uniti si incontrano più di un milione di cristiani che professano le verità della Chiesa di Roma. Questi cattolici mostrano una gran fede nelle pratiche del loro culto e sono pieni di ardore e di zelo verso le proprie credenze; con tutto ciò essi costituiscono la classe sociale più repubblicana e democratica che vi sia negli Stati Uniti. Questo fatto sorprende a un primo approccio, ma la riflessione ne scopre facilmente le cause nascoste. Penso che sia un errore guardare la religione cattolica alla stregua di un nemico naturale della democrazia. All’interno delle differenti dottrine cristiane, al contrario, il cattolicesimo mi sembra essere una delle più favorevoli all’uguaglianza delle condizioni. Presso i cattolici la società 2

Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 1, pp. 301-303.

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religiosa non è composta che di due elementi: il prete e il popolo. Il prete soltanto si innalza al di sopra dei fedeli: tutti sono uguali sotto di lui. In materia di dogmi, il cattolicesimo pone allo stesso livello tutte le intelligenze; esso costringe a rispettare i dettagli delle stesse credenze tanto il sapiente quanto l’ignorante, l’uomo di genio come l’uomo del volgo; impone le stesse pratiche al ricco come al povero e infligge le medesime restrizioni al potente e al debole; non scende a patti con alcun mortale e, applicando lo stesso metro di giudizio per tutti gli umani, ama confondere tutte le classi ai piedi del medesimo altare, così come esse sono confuse agli occhi di dio. Se da una parte il cattolicesimo dispone i fedeli all’obbedienza, dall’altra non li prepara certo alla disuguaglianza. Direi il contrario del protestantesimo, che, in generale, conduce gli uomini assai meno verso l’uguaglianza che verso l’indipendenza. Il cattolicesimo è come una monarchia assoluta. Togliete il principe e vi troverete delle condizioni più uguali che nelle repubbliche. Spesso è accaduto che il prete cattolico sia uscito dal santuario per penetrare come una potenza all’interno della società, e che esso sia giunto a sedersi nel mezzo della gerarchia sociale; qualche volta ha fatto uso della propria influenza religiosa per assicurare la durata di un regime politico di cui faceva parte: allora è stato così che si sono visti dei cattolici parteggiare per l’aristocrazia in nome dello spirito di religione. Ma una volta che i preti vengono esclusi, o si scostano essi stessi, dal governo, come negli Stati Uniti, non si trovano uomini che, in seguito alle proprie credenze, siano più disposti dei cattolici a trasferire nella dimensione politica l’idea dell’uguaglianza delle condizioni. Se dunque i cattolici degli Stati Uniti non vengono trascinati violentemente, in virtù della natura delle proprie credenze, verso le opinioni democratiche e repubblicane, nondimeno non gli sono contrari per natura, e la loro posi224

zione sociale, così come il loro piccolo numero, li vincola ad abbracciare la democrazia. La maggior parte dei cattolici è povera e ha bisogno che tutti i cittadini governino per arrivare essi stessi al governo. I cattolici sono in minoranza e hanno bisogno che vengano rispettati tutti i diritti per essere sicuri del libero esercizio dei propri. Queste due cause li spingono, anche a loro insaputa, verso delle dottrine politiche che essi forse adotterebbero con meno trasporto se fossero ricchi e predominanti. Il clero cattolico degli Stati Uniti non ha tentato di lottare contro questa tendenza politica; esso cerca piuttosto di giustificarla. I preti cattolici americani hanno diviso il mondo intellettuale in due parti: in una hanno lasciato i dogmi rivelati e vi si sono sottomessi senza metterli in discussione; nell’altra hanno posto la verità politica, che essi ritengono essere soggetta alle libere ricerche degli uomini per volontà di dio. In questo modo i cattolici degli Stati Uniti costituiscono al tempo stesso i fedeli più sottomessi e i cittadini più indipendenti. Si può dunque affermare che negli Stati Uniti non v’è una sola dottrina religiosa che si mostri ostile alle istituzioni democratiche e repubblicane. Tutti i sacerdoti parlano una lingua sola su questo argomento; le opinioni sono concordi con le leggi e non regna, per così dire, che una sola corrente nello spirito umano. Ho abitato per un certo tempo in una delle più grandi città dell’Unione, quando fui invitato ad assistere a una riunione politica il cui fine era di portare soccorso ai polacchi e di far loro pervenire armi e denaro. Trovai due o tremila persone riunite in una vasta sala che era stata allestita per riceverle. Immediatamente un sacerdote, vestito in abiti ecclesiastici, si fece innanzi verso il palco degli oratori. Gli astanti, dopo essersi scoperti, stettero in piedi e in silenzio, con lui che si espresse in questi termini: Dio onnipotente! Dio degli eserciti! Tu che hai dato coraggio e guidato il braccio dei nostri padri quando essi 225

sostenevano i sacri diritti della propria indipendenza nazionale; tu che li hai fatti trionfare su un’odiosa oppressione, e hai concesso al nostro popolo i benefici della pace e della libertà, oh Signore!, volgi l’occhio benigno verso l’altro emisfero; considera con pietà un popolo eroico che lotta oggigiorno come noi lo abbiamo fatto un tempo, e per la difesa dei medesimi diritti! Signore, che hai creato tutti gli uomini sulla base di uno stesso modello, non permettere che il dispotismo sopraggiunga a deformare la tua opera e a sostenere la disuguaglianza sulla terra. Dio onnipotente, veglia sui destini dei polacchi, rendili degni della libertà; che la tua saggezza regni nei loro consigli, che la tua forza sia nelle loro braccia; diffondi il terrore fra i loro nemici, dividi le potenze che tramano per la loro rovina e non permettere che si consumi oggi l’ingiustizia di cui il mondo è stato testimone cinquant’anni fa. Signore, che tieni nella tua mano potente il cuore dei popoli come quello degli uomini, fai sorgere degli alleati alla causa sacra del buon diritto; fai che la nazione francese si innalzi infine e, svegliandosi dal riposo in cui la trattengono i suoi capi, torni a combattere ancora una volta per la libertà del mondo. Oh Signore, non distogliere mai da noi il tuo sguardo; permettici sempre di essere sempre il popolo più religioso e più libero. Dio onnipotente, esaudisci oggi la nostra preghiera; salva i polacchi. Te lo chiediamo in nome del tuo beneamato figlio, nostro Signore Gesù Cristo che è morto sulla croce per la salvezza di tutti gli uomini. Amen. Tutta l’assemblea ripeté amen con raccoglimento.

Credenze religiose e società politica3 Ho mostrato quale era l’influenza diretta che la religione esercitava sulla politica negli Stati Uniti. La sua azio3

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Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 1, pp. 304-308.

ne indiretta mi sembra ancor più potente: è quando essa non parla affatto di libertà che insegna in modo migliore agli americani l’arte di essere liberi. V’è un’innumerevole moltitudine di sette negli Stati Uniti. Tutte differiscono rispetto al culto da attribuire al Creatore, ma tutte si intendono sui doveri che gli uomini hanno gli uni verso gli altri. Ogni setta, dunque, adora dio alla propria maniera, ma tutte le sette predicano la medesima morale in nome di dio. Se è di estremo bisogno per l’uomo come individuo che la propria religione sia vera, ciò non avviene per la società. La società non ha nulla da temere né da sperare dall’altra vita e ciò che più le interessa non è tanto che tutti i cittadini professino la vera religione, ma che essi professino una religione. D’altra parte tutte le sette presenti negli Stati Uniti si riconoscono all’interno della grande unità cristiana, e la morale del cristianesimo è dovunque la stessa. È lecito pensare che un certo numero di americani seguano, nel culto che rendono a dio, piuttosto le proprie abitudini che non le proprie convinzioni. Negli Stati Uniti, d’altra parte, il sovrano è religioso e, per conseguenza, l’ipocrisia deve essere comune; ma tuttavia l’America è ancora il luogo del mondo in cui la religione cristiana ha conservato il potere più forte sulle anime; e nulla mostra meglio quanto essa sia utile e consona all’uomo del fatto che il paese in cui essa esercita ai giorni nostri la più forte influenza sia allo stesso tempo il più istruito e libero. Ho detto che i sacerdoti americani si pronunciano in linea generale a favore della libertà civile, senza escluderne neppure coloro che non ammettono per nulla la libertà religiosa; tuttavia non li si vede prestare il proprio appoggio ad alcun sistema politico in particolare. Hanno cura di tenersi fuori dagli affari politici e non si confondono con le trame dei partiti. Non si può quindi affermare che negli Stati Uniti la religione eserciti un’influenza sulle leggi né sullo specifico delle opinioni politiche, ma semmai dirige i costumi e, regolando la famiglia, contribuisce a regolare lo Stato. 227

Non dubito neppure per un istante che la grande severità di costumi che si osserva negli Stati Uniti abbia come sua fonte principale le credenze religiose. La religione è spesso impotente a frenare l’uomo, in mezzo alle tentazioni senza numero che gli offre la sorte. Essa non riuscirebbe mai a contenere la brama di ricchezza che c’è nell’uomo e che sempre lo pungola, ma essa regna sovrana sull’anima della donna ed è la donna che fa i costumi. L’America è certamente il paese del mondo in cui il vincolo del matrimonio viene maggiormente rispettato e dove si è concepita l’idea più alta e giusta della felicità coniugale. In Europa quasi tutti i disordini della società prendono origine intorno al focolare domestico e non lontano dal letto matrimoniale. È la che gli uomini concepiscono il disprezzo dei legami naturali e dei piaceri permessi, il gusto del disordine, l’inquietudine del cuore e l’instabilità dei desideri. Agitato dalle passioni tumultuose che spesso hanno sconvolto la propria dimora, l’europeo si sottomette con sofferenza al potere che ha lo stato di fare le leggi. L’americano invece, quando esce dalle agitazioni del mondo politico e rientra in seno alla propria famiglia, vi ritrova immediatamente l’immagine dell’ordine e della pace. Là tutti i suoi piaceri sono semplici e naturali, i suoi motivi di gioia innocenti e tranquilli; e come perviene alla felicità attraverso una vita regolare, altrettanto si abitua senza sforzo a regolare le proprie opinioni così bene come i propri gusti. Mentre l’europeo cerca di sfuggire ai dispiaceri domestici recando disturbo alla società, l’americano attinge dalla propria dimora l’amore dell’ordine, che in seguito riproduce negli affari dello Stato. Negli Stati Uniti la religione non si limita a regolare i costumi, ma estende il proprio dominio financo sull’intelligenza. Fra gli angloamericani, gli uni professano i dogmi cristiani perché vi credono, altri perché temono di non aver l’aria di crederci. Il cristianesimo regna dunque senza ostacoli, con il benestare di ciascuno; ne risulta, come ho già 228

detto altrove, che tutto è certo e stabile nel mondo morale, mentre il mondo politico sembra abbandonato alla discussione e ai tentativi degli uomini. In questo modo lo spirito umano non scorge mai davanti a sé un campo senza limiti: quale che sia il grado della sua audacia, sente di volta in volta che deve fermarsi di fronte a delle barriere insormontabili. Prima di rinnovare, è costretto ad accettare certi dati essenziali, e a sottomettere le proprie concezioni più ardite a forme che lo ritardano e lo arrestano. L’immaginazione degli americani, nei suoi più grandi sbalzi, non procede che attraverso una marcia circospetta e incerta, i suoi modi di procedere sono impacciati e le sue opere incomplete. Queste consuetudini a trattenersi si ritrovano nella società politica e favoriscono singolarmente la tranquillità del popolo e la durata delle istituzioni che esso si è dato. La natura e le circostanze avevano fatto dell’abitante degli Stati Uniti un uomo audace; è facile giudicarlo, allorquando si vede in quale maniera esso persegue la fortuna. Se lo spirito degli americani fosse libero da tutti gli impedimenti, non si tarderebbe a riscontrare fra di loro i rinnovatori più radicali e i logici più implacabili del mondo. Ma i rivoluzionari d’America sono costretti a professare apertamente un certo rispetto per la morale e l’equità cristiane, che non permette loro di violare con facilità le leggi quando queste vanno contro l’esecuzione dei loro disegni; e se anche potessero innalzarsi al di sopra dei propri scrupoli, essi si sentirebbero comunque fermati da quelli dei loro partigiani. Fino a oggi non si è trovato nessuno, negli Stati Uniti, che abbia osato avanzare questa formula: che tutto è permesso in nome della società. Massima empia, che pare essere stata inventata in un secolo di libertà allo scopo di legittimare i tiranni futuri. Così, dunque, nello stesso tempo in cui la legge permette al popolo americano di fare tutto, la religione gli impedisce di concepire e osare ogni cosa. La religione, quindi, che presso gli americani non si mescola mai direttamente con il governo della società, deve 229

essere considerata come la prima delle loro istituzioni politiche; infatti, se anche essa non dona loro il gusto per la libertà, gliene facilita singolarmente l’uso. È proprio in questo modo che gli stessi abitanti considerano le credenze religiose. Io non so se tutti gli americani posseggono la fede nella loro religione, chi può leggere nel fondo dei cuori? Ma sono sicuro che la considerano necessaria al mantenimento delle istituzioni repubblicane. Questa opinione non appartiene a una classe di cittadini o a un partito, ma alla nazione intera; la si ritrova presso i cittadini di ogni rango sociale. Negli Stati Uniti, quando un uomo politico attacca una setta, ciò non costituisce una ragione valida perché gli stessi partigiani di quella setta non lo sostengano; ma se egli sferra un attacco a tutte le sette indistintamente, tutti lo sfuggono e finisce con il restare solo. Mentre mi trovavo in America, un testimone si presentò alle assise della contea di Chester (nello Stato di New York), dichiarando di non credere all’esistenza di dio e all’immortalità dell’anima. Il presidente rifiutò di prendere il suo giuramento, dato che, fu la sua spiegazione, il testimone aveva distrutto a priori tutta la fiducia che si poteva prestare alle sue parole. I giornali riportarono il fatto senza commenti. Gli americani fondono a tal punto nel proprio spirito il cristianesimo e la libertà, che è quasi impossibile farglieli immaginare separatamente; e questa non è affatto per loro una di quelle credenze sterili che il passato lega al presente, che sembra vegetare nel fondo dell’anima piuttosto che essere vitale. Ho visto degli americani associarsi per inviare dei sacerdoti presso i nuovi stati dell’Ovest, per fondarvi scuole e chiese; essi temono che la religione si perda in mezzo ai boschi e che il popolo che nasce possa non essere libero quanto quello da cui è uscito. Ho incontrato ricchi abitanti della Nuova Inghilterra che abbandonavano il paese natale con lo scopo di andare a gettare, sulle rive del Missouri o nelle praterie dell’Illinois, le fondamenta del 230

cristianesimo e della libertà. È così che negli Stati Uniti lo zelo religioso si riscalda senza sosta davanti al fuoco del patriottismo. Voi pensate che questi uomini agiscano unicamente in considerazione dell’altra vita, ma vi sbagliate: l’eternità non è che uno degli aspetti di cui hanno cura. Se interrogate questi missionari della civiltà cristiana, rimarrete sorpresi nel sentirli parlare così spesso dei beni terreni, e di trovare dei politici laddove non credevate di vedere che dei religiosi. «Tutte le repubbliche americane sono solidali le une con le altre», vi diranno, «se le repubbliche dell’Ovest piombassero nell’anarchia o subissero il giogo del dispotismo, le istituzioni repubblicane che fioriscono sulle rive dell’oceano Atlantico sarebbero in grande pericolo; noi abbiamo dunque interesse che i nuovi stati siano religiosi, perché così facendo ci permettono di restare liberi». Tali sono le opinioni degli americani, ma secondo alcuni il loro errore è manifesto: infatti ogni giorno mi viene mostrato molto dottamente che tutto è bene in America all’infuori, precisamente, di questo spirito religioso che io ammiro; e vengo a sapere che alla libertà e alla felicità del genere umano, dall’altra parte dell’Oceano, non manca che di credere con Spinoza all’eternità del mondo, o di sostenere con Cabanis che il pensiero è una secrezione del cervello. A ciò io non ho nulla da replicare, in verità, se non che coloro che fanno tali affermazioni non sono stati in America e non hanno visto popoli religiosi né liberi. Li attendo dunque al ritorno. Vi sono in Francia della persone che considerano le istituzioni repubblicane alla stregua di uno strumento passeggero della propria grandezza. Essi misurano a occhio lo spazio immenso che separa i propri vizi e le proprie miserie dalla potenza e dalle ricchezze, e vorrebbero ammucchiare delle rovine in questo abisso per tentare di riempirlo. Questi stanno alla libertà come le compagnie mercenarie francesi del Medioevo stavano ai re; fanno la guerra per il proprio tornaconto anche se portano i loro colori: la repubblica vivrà 231

sempre abbastanza a lungo per trarli dalla loro attuale bassezza. Non è a loro che parlo, ma vi sono altri che vedono nella repubblica uno stato permanente e tranquillo, un fine necessario verso il quale le idee e i costumi spingono ogni giorno le società moderne, e che vorrebbero sinceramente preparare gli uomini a essere liberi. Quando questi attaccano le credenze religiose, lo fanno seguendo le proprie passioni e non i propri interessi. È il dispotismo che può fare a meno della fede, non la libertà. La religione è molto più necessaria nella repubblica che essi preconizzano, che nella monarchia che essi attaccano, e molto più nelle repubbliche democratiche che in tutte le altre. Come potrebbe la società non incontrare la morte se, mentre si affievolisce il legame sociale, quello morale non si rinforza? E come rendere un popolo padrone di se stesso se non è sottomesso a dio?

Le cause principali che rendono potente la religione in America4 I filosofi del 1700 spiegavano in maniera del tutto semplice il graduale indebolimento delle credenze. Lo zelo religioso, dicevano, deve spegnersi nella misura in cui si affermano la libertà e i lumi. Malauguratamente i fatti non si accordano affatto con tale teoria. Vi sono popolazioni europee presso le quali l’incredulità non è eguagliata che dall’abbrutimento e dall’ignoranza, mentre in America si assiste a uno dei popoli più liberi e più illuminati del mondo che adempie con passione a tutti i doveri esteriori della religione. Al mio arrivo negli Stati Uniti, l’aspetto religioso del paese fu quello che mi è saltato immediatamente agli occhi. Più prolungavo il mio soggiorno e più mi rendevo conto delle grandi conseguenze politiche che scaturivano da questi fatti nuovi. 4

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Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 1, pp. 308-315.

Da noi avevo visto lo spirito di religione e lo spirito di libertà marciare quasi sempre in senso contrario. In America li ritrovavo intimamente legati l’uno all’altro e regnare insieme sullo stesso suolo. Ogni giorno sentivo crescere il mio desiderio di conoscere le cause di tale fenomeno. Per comprenderlo, ho interrogato i fedeli di tutte le confessioni; indagavo soprattutto la comunità dei sacerdoti, che custodiscono le diverse credenze e hanno un interesse personale nella permanenza delle stesse. La religione da me professata mi faceva avvicinare particolarmente al clero cattolico e non tardai ad allacciare una specie di intimità con molti dei suoi membri. A ognuno di loro esprimevo il mio stupore ed esponevo i miei dubbi: trovai che tutti questi uomini non differivano tra loro che per dei dettagli; ma tutti attribuivano alla completa separazione fa Chiesa e Stato l’imperio tranquillo esercitato dalla religione nel loro paese. Credo di poter affermare che, durante il mio soggiorno in America, non ho mai incontrato alcun uomo, prete o laico che fosse, che non si sia trovato d’accordo su questo punto. Ciò mi spinse a esaminare più attentamente di quanto non avessi fatto fino a quel momento la posizione che i sacerdoti americani occupano all’interno della società politica. Riscontrai con sorpresa che essi non ricoprivano alcun impiego pubblico5. Non ne trovai uno nella pubblica amministrazione e scoprii che non avevano neppure rappresentanti in seno alle assemblee. La legge, in molti stati, aveva loro chiuso la carriera politica6, l’opinione pubblica in tutti gli altri. 5 A meno che non si voglia conferire tale nome alle funzioni che molti tra loro occupano nelle scuole. La più grande parte dell’educazione è riservata al clero (nota di Tocqueville). 6 Tocqueville cita con precisione gli articoli e i paragrafi delle costituzioni dei vari stati in cui viene espressamente impedito ai sacerdoti di ricoprire cariche pubbliche. In particolar modo, infine, fa riferimento all’articolo 7, paragrafo 4 della Costituzione dello Stato di New York, così concepito: «I ministri del Vangelo, per loro stessa professione consacrati al servizio di dio, e consegnati alla cura e alla direzione delle

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Quando infine mi spinsi a ricercare quale fosse lo spirito del clero stesso, mi resi conto che la maggior parte dei suoi membri sembrava allontanarsi volontariamente dal potere e applicare una sorta di orgoglio della professione nel restarvi estranei. Li intesi colpire con anatemi l’ambizione e la malafede, quali che fossero le opinioni politiche dietro cui si nascondevano. Ma appresi, ascoltandoli, che gli uomini non possono essere condannabili agli occhi di dio per via di queste stesse opinioni, qualora siano sincere, e che non costituisce un peccato più grande sbagliare nell’ambito del governo che sbagliarsi nel modo di costruire la propria casa o tracciare un solco. Li ho visti separarsi accuratamente da tutti i partiti e schivarne il contatto con tutto l’ardore di un interesse personale. Questi fatti finirono di convincermi che mi era stato detto il vero. Allora volli risalire dai fatti alle cause: mi domandai come potesse avvenire che aumentasse la sua forza reale con il diminuire della sua forza apparente, e credetti che non fosse impossibile scoprirlo. Mai il breve spazio di sessant’anni rinchiuderà tutta l’immaginazione dell’uomo; le gioie incomplete di questo mondo non basteranno mai al suo cuore. L’uomo è il solo fra tutti gli esseri a mostrare un disgusto naturale per l’esistenza e un desiderio immenso di esistere: egli disprezza la vita e teme il nulla. Questi differenti istinti spingono senza tregua la sua anima verso la contemplazione di un altro mondo, ed è la religione che ve lo conduce. La religione non è dunque che una forma particolare di speranza, ed è connaturata al cuore umano quanto la speranza stessa. È per una specie di aberrazione intellettuale, aiutaanime, non devono essere turbati nell’esercizio di questi importanti doveri; perciò nessun ministro del Vangelo o sacerdote, appartenente a qualunque setta, potrà essere investito di alcuna funzione pubblica, civile o militare».

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ta da una specie di violenza morale esercitata sulla loro propria natura, che gli uomini si allontanano dalle credenze religiose; ma un’invincibile inclinazione ve li riconduce. L’incredulità è un incidente passeggero, la fede sola costituisce lo stato permanente dell’umanità. Considerando le religioni da un punto di vista puramente umano, si può quindi affermare che tutte le religioni posano all’interno dell’uomo stesso un elemento di forza che non verrà mai a mancare loro, perché perviene a uno dei princìpi costitutivi della natura umana. So bene che vi sono dei tempi in cui la religione può aggiungere a questa influenza che le è propria la potenza artificiale delle leggi e l’appoggio dei poteri materiali che dirigono la società. Si sono viste delle religioni, intimamente legate ai governi della terra, dominare le anime nello stesso frangente attraverso il terrore e attraverso la fede; ma quando una religione contrae una tale alleanza, non ho timore di dire che essa si trova ad agire come potrebbe fare un uomo: essa sacrifica l’avvenire in vista del presente e, ottenendo una forma di potenza che non le è dovuta, mette a rischio il suo potere legittimo. Quando una religione non cerca di fondare il proprio impero su altro che non sia il desiderio di immortalità che tormenta in egual misura il cuore di tutti gli uomini, essa può mirare all’universalità; ma quando essa arriva a unirsi con un governo, è costretta ad adottare delle massime che sono applicabili solo a determinati popoli. Così, dunque, alleandosi a un potere politico, la religione incrementa il proprio potere su alcuni e perde la speranza di regnare su tutti. Fintanto che una religione si appoggia solo su sentimenti che costituiscono motivo di consolazione per tutte le miserie, essa può attirare a sé il cuore del genere umano. Mescolata invece alla passioni amare di questo mondo, finisce per essere costretta a difendere degli alleati procurati dall’interesse più che dall’amore; le tocca allontanare alla stregua di nemici degli uomini che sovente l’amano ancora, sebbene stiano combattendo contro quelli cui essa 235

è alleata. La religione non potrebbe dunque condividere la forza materiale dei governanti senza finire con l’essere gravata da una parte degli odi che gli stessi governanti fanno nascere. Le potenze politiche che sembrano più stabili, a garanzia della propria durata non hanno che le opinioni di una generazione, gli interessi di un secolo, spesso la vita di un uomo. Una legge può modificare lo stato sociale in apparenza più definitivo e più stabile, e con essa cambia tutto. I poteri della società sono tutti, chi più chi meno, passeggeri, come i nostri anni sulla terra; si succedono con rapidità come le diverse occupazioni della vita; e non si è mai visto un governo che si sia appoggiato su una disposizione invariabile del cuore umano, né che abbia potuto fondarsi su un interesse immortale. Così per tutto il tempo in cui una religione trova la propria forza nei sentimenti, negli istinti e nelle passioni che si vedono riprodurre alla stessa maniera in tutte le epoche della storia, essa riesce a sfidare la forza del tempo, o perlomeno non potrà essere distrutta che per mano di un’altra religione. Ma quando la religione vuole appoggiarsi sugli interessi mondani, allora diventa fragile tanto quanto le potenze terrene; da sola, essa può aspirare all’immortalità; legata a poteri effimeri, essa segue la sorte degli stessi, e cade spesso insieme alle passioni passeggere che li sostengono. Unendosi con le diverse potenze politiche, la religione non può dunque non contrarre un’alleanza onerosa. Essa non ha bisogno del loro soccorso per vivere, mentre servendole essa rischia la morte. Il pericolo che sto segnalando esiste in tutti i tempi, ma non è sempre così visibile. Vi sono dei secoli in cui i governi sembrano immortali e altri in cui si potrebbe dire che l’esistenza della società è più fragile di quella di un uomo. Certe costituzioni mantengono i cittadini in una specie di sonno letargico, mentre altre li abbandonano a un’agitazione febbrile. 236

Quando i governi sembrano tanto forti e le leggi così stabili, gli uomini non si rendono conto del pericolo che può correre la religione unendosi al potere. Quando i governi si mostrano tanto deboli e le leggi così mutevoli, il pericolo attira tutti gli sguardi, ma spesso, a quel punto, non c’è più tempo per sottrarvisi. Occorre dunque imparare a scorgerlo da lontano. Man mano che una nazione si dota di uno stato sociale democratico e che si vedono le società propendere verso la repubblica, diviene sempre più pericoloso unire la religione all’autorità; si avvicinano infatti i tempi in cui il potere passerà di mano in mano e le teorie politiche si succederanno; gli uomini, le leggi e le stesse costituzioni spariranno o si modificheranno giorno per giorno, e tutto ciò non durante un periodo limitato, ma costantemente. L’agitazione e l’instabilità pertiene alla natura delle repubbliche democratiche come l’immobilismo e il sonno rappresentano la legge non scritta delle monarchie assolute. Se gli americani, che ogni quattro anni cambiano il Presidente, che ogni due anni eleggono nuovi legislatori e rimpiazzano gli amministratori provinciali ogni anno; se gli americani, che hanno lasciato l’ambito politico ai tentativi degli innovatori, non avessero posto la religione da qualche parte fuori di esso, a cosa potrebbe aggrapparsi essa nel flusso e riflusso delle opinioni umane? In mezzo alle lotte di parte dove finirebbe il rispetto che le è dovuto? Cosa diverrebbe la sua immortalità quando tutto intorno ad essa si trovasse a perire? I sacerdoti americani hanno compreso questa verità prima di tutti gli altri e vi hanno conformato la propria condotta. Essi hanno visto che bisognava rinunciare all’influenza religiosa se volevano acquistare un potere politico, ed essi hanno preferito perdere l’appoggio del potere piuttosto che condividerne le vicissitudini. In America la religione è forse meno potente di quanto non lo sia stata in certi tempi e presso determinati popoli, ma la sua influenza è più durevole. Essa si è ridotta alle sue 237

proprie forze, che nessuno sarebbe capace di toglierle; essa non agisce che all’interno di un’unica cerchia, ma la percorre tutta intera e vi domina senza sforzo. In Europa sento delle voci che si levano da ogni parte; si deplora l’assenza di credenze, e ci si domanda quale sia il modo di restituire alla religione quel che resta del suo antico potere. Mi sembra che vada ricercato con attenzione quel che dovrebbe essere, ai giorni nostri, lo stato naturale degli uomini in materia di religione. Conoscendo allora ciò che possiamo sperare e abbiamo da temere, comprenderemo chiaramente il fine verso il quale devono tendere i nostri sforzi. Due grandi pericoli minacciano l’esistenza delle religioni: gli scismi e l’indifferenza. Nei secoli di fervore accade qualche volta che gli uomini abbandonino la propria religione, ma essi non fanno altro che sfuggire al suo giogo per sottomettersi a quello di un altro. La fede cambia l’oggetto del suo esistere, ma non muore. L’antica religione accende allora in tutti i cuori amori ardenti o implacabili odi; alcuni la abbandonano con collera, altri vi si congiungono con ardore rinnovato: le credenze differiscono, ma l’irreligione è sconosciuta. Ma non è la stessa cosa quando una credenza religiosa viene sordamente minata da dottrine che definirei negative, poiché affermando la falsità di una religione non ne stabiliscono la veridicità di alcun’altra. Allora si operano delle prodigiose rivoluzioni nello spirito umano, senza che l’uomo dia l’impressione di contribuirvi con delle sue passioni e, per così dire, senza dubitarne minimamente. Si vedono degli uomini che lasciano scappare via, come per oblio, l’oggetto delle proprie speranze più care. Trascinati da una corrente insensibile, contro la quale manca loro il coraggio di lottare, e alla quale tuttavia si arrendono con dispiacere, essi abbandonano la fede che amano per seguire il dubbio, che li conduce alla disperazione. 238

Nei secoli che stiamo descrivendo si abbandonano le proprie credenze più per freddezza che per odio; non sono gli uomini a rifiutarla, è essa ad abbandonarli. Smettendo di ritenere vera la religione, l’incredulo tuttavia continua a giudicarla utile. Considerando le credenze religiose da un punto di vista umano, egli riconosce il loro impero sui costumi e la loro influenza sulle leggi. Egli comprende come esse possano far vivere gli uomini in pace e come li possa preparare dolcemente alla morte. Egli rimpiange dunque la fede dopo averla perduta e, privato di un bene di cui sa bene il valore, teme di toglierlo a coloro che lo posseggono ancora. Da parte sua, colui che continua a credere non ha paura di esporre la propria fede a tutti gli sguardi. In coloro che non condividono le sue stesse speranze, egli vede degli infelici piuttosto che degli avversari; sa di poter conquistare la loro stima senza seguire il loro esempio; non è dunque in guerra con alcuno e, non considerando la società in cui vive come un’arena in cui la religione deve lottare contro mille nemici accaniti, egli riesce ad amare i propri contemporanei nello stesso tempo in cui condanna le loro debolezze e si rattrista per i loro errori. Coloro che non credono, nascondendo la propria incredulità, e coloro che credono, mostrando la propria fede, producono un’opinione pubblica favorevole alla religione; la si ama, la si sostiene, la si onora e bisogna penetrare fino al fondo degli animi per scoprire le ferite che essa ha ricevuto. La massa degli uomini, mai abbandonata dal sentimento religioso, non trova nulla che la allontani dalle credenze stabilite. L’anelito istintivo a un’altra vita la conduce senza fatica ai piedi degli altari e libera i loro cuori ai precetti e alle consolazioni della fede. Perché questo quadro non è applicabile da noi? Scorgo fra noi uomini che hanno smesso di credere al cristianesimo senza avvicinarsi ad alcun’altra religione. Ne vedo altri che si sono arrestati nel dubbio e fingono già di non credere più. 239

Più lontano, incontro cristiani che credono ancora, ma non osano dirlo. In mezzo a questi tiepidi amici e ardenti avversari, io scopro infine un piccolo numero di fedeli pronti a sfidare tutti gli ostacoli e a disprezzare tutti i pericoli in nome delle proprie credenze. Questi fanno violenza alla debolezza umana per elevarsi al di sopra dell’opinione comune. Trascinati da questo stesso sforzo, non sanno più dove devono fermarsi precisamente. Poiché hanno visto che, nella loro patria, il primo uso che gli uomini hanno fatto dell’indipendenza è stato di attaccare la religione, essi hanno paura dei loro contemporanei e si allontanano con terrore dalla libertà che questi ultimi perseguono. Poiché l’incredulità sembrava loro una cosa nuova, essi accomunavano in uno stesso odio tutte le novità. Si ritrovano quindi ad essere in guerra con il proprio secolo e con il proprio paese, e vedono un nemico necessario della fede in ognuna delle opinioni che vi si professa. Questo non dovrebbe essere, ai giorni nostri, lo stato naturale degli uomini in materia di religione. Si riscontra dunque fra di noi una causa accidentale e precipua che impedisce allo spirito umano di seguire la propria inclinazione, e lo spinge al di là dei limiti nei quali esso dovrebbe naturalmente arrestarsi. Io sono profondamente convinto che questa causa precipua e accidentale sia data dall’unione intima fra politica e religione. Gli increduli d’Europa perseguono i cristiani in qualità di nemici politici piuttosto che di avversari religiosi: essi odiano la fede assai più che se fosse l’opinione di un partito che non una credenza erronea; e respingono i preti assai più perché amici del potere che come ministri di dio. In Europa il cristianesimo ha permesso che lo si unisse intimamente alle potenze terrene. Oggigiorno queste potenze stanno cadendo ed esso si trova come seppellito sotto le loro rovine. È un vivente che si è voluto attaccare a dei 240

morti: troncate le corde che lo tengono legato ed esso si tirerà su. Io ignoro ciò che si dovrebbe fare per restituire al cristianesimo d’Europa l’energia della sua giovinezza. Dio soltanto potrebbe saperlo; ma nondimeno dipende dagli uomini lasciare alla fede l’uso di tutte le forze che essa conserva ancora.

Filosofia e religione7 Penso che non via sia paese, nel mondo civilizzato, in cui ci si occupa meno di filosofia che gli Stati Uniti. Gli americani non hanno una propria scuola filosofica, essi si preoccupano assai poco di tutte quelle questioni che dividono l’Europa; ne conoscono a malapena i nomi degli argomenti. Tuttavia è facile riscontrare che quasi tutti gli abitanti degli Stati Uniti dirigono il proprio spirito alla stessa maniera, e lo conducono secondo le medesime regole; cioè essi posseggono, peraltro senza mai essersi dati pena di definirne le norme, un certo metodo filosofico che li accomuna tutti. Sfuggire allo spirito di sistema, al giogo delle abitudini, alle massime di famiglia, alle opinioni di classe e, fino a un certo punto, ai pregiudizi nazionali; prendere la tradizione come una fonte di informazioni e il presente come uno studio utile per fare altrimenti e meglio; cercare da sé e soltanto in sé la ragione delle cose, tendere al risultato senza lasciarsi incatenare dal mezzo, mirare alla sostanza attraverso la forma: questi sono i tratti principali che caratterizzano quello che chiamerò il metodo filosofico degli americani. Volendo poi andare ancora oltre e cercare, fra quei tratti diversi, il principale e quello che può pressoché riassu7

Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 11-15.

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mere tutti gli altri, scopro che, nella maggior parte delle operazioni dello spirito, ogni americano fa appello soltanto allo sforzo individuale della propria ragione. L’America è dunque il paese del mondo in cui si studiano meno e si applicano meglio i precetti di Descartes, e ciò non deve sorprendere. Gli americani non leggono le opere di Descartes, perché il loro stato sociale li distoglie dagli studi speculativi, ma ne seguono le massime perché quello stesso stato sociale dispone naturalmente il loro spirito a metterli in pratica. In mezzo al movimento continuo che regna in seno a una società democratica, il legame che lega le generazioni fra loro si allenta o si spezza; ciascuno vi perde facilmente la traccia delle idee dei propri antenati, o non se ne preoccupa più di tanto. Gli uomini che vivono in una società simile non possono più neppure attingere le proprie credenze dalle opinioni della classe alla quale appartengono, infatti non vi sono più, per così dire, classi, e quelle che ancora esistono sono composte da elementi così mobili che il corpo non potrebbe giammai esercitare un potere effettivo sui propri membri. Quanto all’azione che l’intelligenza di un uomo può esercitare su quella di un altro, essa è necessariamente molto ristretta in un paese in cui i cittadini, divenuti quasi uguali, si guardano tutti da molto vicino e, non percependo in alcuno di loro i segni di una grandezza e superiorità incontestabili, sono continuamente ricondotti verso la propria ragione come verso la fonte più visibile e più vicina alla verità. Ciò comporta che non è soltanto la fiducia in quell’uomo ad essere distrutta, ma il gusto di credere a un uomo qualunque sulla parola. Ciascuno si rinchiude strettamente in se stesso e pretende di giudicare il mondo. La consuetudine degli americani di non trovare che in se stessi la regola del proprio giudizio conduce il loro spirito verso altre abitudini. 242

Poiché essi si accorgono di riuscire a risolvere senza alcun aiuto le piccole difficoltà che presenta loro la vita pratica, ne concludono agevolmente che ogni cosa nel mondo è spiegabile e che nulla va oltre i limiti dell’intelligenza. Così, essi negano volentieri quello che non possono comprendere: da qui il loro conferire scarsa fede nello straordinario e un disgusto quasi invincibile per il soprannaturale. Poiché è alla loro stessa testimonianza che sono abituati a rapportarsi, essi amano vedere con molta chiarezza l’oggetto di cui si stanno occupando; lo liberano più che possono dal suo rivestimento, scartano tutto ciò che li separa da esso e tolgono tutto ciò che lo nasconde ai loro sguardi, così da poterlo vedere più da vicino e sotto una luce piena. Questa disposizione del loro spirito li conduce da subito a disprezzare le forme, che essi considerano alla stregua di inutili veli e incomodi interposti fra loro e la verità. Gli americani non hanno, dunque, avuto bisogno di evincere dai libri il proprio metodo filosofico, lo hanno trovato in loro stessi. Direi altrettanto di ciò che è accaduto in Europa. Questo stesso metodo si è stabilito e diffuso in Europa man mano che le condizioni sono divenute più uguali e gli uomini più simili fra loro. Consideriamo un momento la successione dei tempi. Nel 1500 i riformatori sottomettono alla ragione individuale alcuni dogmi della vecchia fede, ma continuano a sottrarle la discussione di tutti gli altri. Nel 1600 Bacone nelle scienze naturali e Descartes nella filosofia propriamente detta aboliscono le formule ricevute dal passato, distruggendo l’impero delle tradizioni e rovesciando l’autorità del maestro. I filosofi del 1700, generalizzando il medesimo principio, promuovono la sottomissione all’esame individuale di ogni uomo di tutte le sue stesse credenze. Chi non vede che Lutero, Descartes e Voltaire si sono serviti dello stesso metodo, e che essi non hanno differito 243

che per il più o meno grande uso che essi hanno preteso se ne facesse? Perché mai i riformatori si sono così strettamente concentrati sul cerchio delle idee religiose? Perché Descartes, volendo servirsi del suo metodo solo per determinate materie, benché l’avesse messo in grado di essere applicato a tutte, ha dichiarato che bisognava impiegarlo soltanto per giudicare sulle questioni filosofiche e non su quelle politiche? Come è potuto accadere che nel 1700, in un sol colpo, si siano potute estrarre da questo metodo delle applicazioni generali che Descartes e i suoi predecessori non avevano individuato o si erano rifiutati di scoprire? Da dove è venuto, infine, che in tale epoca il metodo di cui stiamo parlando sia potuto uscire improvvisamente dalle scuole per penetrare nella società e divenire la regola comune dell’intelligenza, e che, dopo essere stato popolare presso i francesi, sia stato apertamente adottato o segretamente seguito da tutti i paesi d’Europa? Il metodo filosofico in questione ha potuto nascere nel 1600, perfezionarsi e generalizzarsi nel 1700, ma non poteva essere comunemente adottato in nessuno dei due secoli. Le leggi politiche, lo stato sociale, le disposizioni dello spirito che scaturivano da queste prime cause vi si opponevano. Esso è stato scoperto in un’epoca in cui gli uomini cominciavano a livellarsi e a rassomigliare. Esso non poteva essere seguito dalla gran massa delle persone che in secoli in cui le condizioni sociali e gli uomini fossero divenuti a poco a poco pressoché simili. Il metodo filosofico del 1700 non è, dunque, solamente francese, ma democratico, cosa che spiega perché esso è stato adottato così facilmente in tutta Europa, contribuendo oltremodo al cambiamento di fisionomia di questo continente. Non è perché hanno cambiato le loro antiche credenze e modificato i costumi atavici che i francesi hanno sconvolto il mondo, ma è perché per primi hanno generalizzato e portato alla luce un metodo filosofico in virtù del 244

quale si potevano facilmente attaccare tutte le cose antiche e aprire la via a quelle nuove. Se in questo momento mi si chiede perché, ai giorni nostri, questo metodo filosofico è seguito più rigorosamente, e sovente più applicato presso i francesi che non presso gli americani, in seno ai quali, tuttavia, l’uguaglianza è più completa e antica, rispondo che ciò dipende in parte da due fattori che è necessario far comprendere da subito. È la religione ad aver generato le società anglo-americane, non bisogna mai dimenticarlo. Negli Stati Uniti, quindi, la religione si fonde con tutte le abitudini nazionali e i sentimenti che il senso della patria fa nascere: cosa che le conferisce una forza particolare. A questa ragione assai influente si aggiunga pure quest’altra, che non è da meno: in America la religione si è data da sola, per così dire, i propri limiti; l’ordine religioso è rimasto in questo paese interamente distinto dall’ordine politico, al punto che si sono potute cambiare facilmente le vecchie leggi senza scuotere le antiche credenze. Il cristianesimo ha quindi conservato un grande potere sullo spirito degli americani e, cosa che ci tengo particolarmente a rimarcare, esso non regna soltanto come una filosofia che si adotta dopo un esame, ma come una religione in cui si crede senza metterla in discussione. Negli Stati Uniti le sette cristiane variano all’infinito e si modificano continuamente, ma il cristianesimo in sé è un fatto consolidato e irresistibile che non ci si sogna neppure di attaccare o di difendere. Gli americani, avendo ammesso senza analisi i principali dogmi della religione cristiana, sono obbligati ad accettare alla stessa stregua un gran numero di verità morali che ne conseguono e che vi sono connesse. Questo restringe all’interno di limiti assai stretti il campo d’azione dell’analisi individuale, e gli sottrae anche solo la possibilità di molte delle più importanti opinioni umane. L’altra circostanza cui facevo riferimento è la seguente. Gli americani sono in possesso di uno stato sociale e di una costituzione democratica, ma non hanno avuto una ri245

voluzione democratica. Sono giunti sul suolo che occupano pressappoco nella condizione in cui li vediamo oggi. Questo è un fatto assai considerevole. Non vi sono delle rivoluzioni che non rimuovono le antiche credenze, che non irritano l’autorità e oscurano le idee comuni. Ogni rivoluzione, quindi, ha più o meno l’effetto di abbandonare gli uomini a se stessi, e di aprire davanti all’animo di ogni individuo uno spazio vuoto e pressoché senza confini. Quando le condizioni sociali diventano uguali in seguito a una lotta prolungata tra le differenti classi da cui la vecchia società era formata, l’invidia, l’odio e il disprezzo del vicino, l’orgoglio e la fiducia eccessiva in se stessi invadono, per così dire, il cuore umano e ne fanno per qualche tempo il territorio del loro dominio. Ciò, indipendentemente dall’uguaglianza, contribuisce fortemente a dividere gli uomini e a fare in modo che non si fidino dei rispettivi giudizi, così da cercare la verità soltanto in se stessi. Ognuno cerca allora di bastare a sé e pone la propria gloria nel farsi di ogni cosa delle opinioni che siano soltanto sue. Gli uomini non sono più legati da altro che non siano gli interessi, non certo dalle idee, e si direbbe che le opinioni umane non formano più che una specie di pulviscolo intellettuale che si agita da tutte le parti, senza potersi raccogliere e fissare. Così l’indipendenza di spirito che l’uguaglianza suppone non è mai così grande, né sembra tanto eccessiva, come nel momento in cui l’uguaglianza comincia a stabilirsi e durante il faticoso lavoro che la fonda. Si deve quindi distinguere con cura il tipo di libertà intellettuale che l’eguaglianza può donare dall’anarchia portata in dote dalla rivoluzione. Bisogna considerare separatamente ciascuna di queste cose, per non nutrire speranze o paure esagerate nel futuro. Io credo che gli uomini che vivranno nelle nuove società faranno spesso uso della propria ragione individuale; ma sono altresì lontano dal credere che ne abuseranno. 246

Questo dipende da un fattore più generalmente applicabile a tutti i paesi democratici e che, alla lunga, deve mantenere entro limiti prefissati, e qualche volta ristretti, l’indipendenza individuale del pensiero. Lo espongo nel capitolo che segue.

La fonte principale delle credenze presso i popoli democratici8 Le credenze dogmatiche sono più o meno numerose a seconda dei tempi. Nascono in maniere differenti e possono cambiare di forma e di contenuto, ma non può accadere che non vi siano credenze dogmatiche, ossia opinioni che gli uomini accolgono con una fede che non le mette in discussione. Se ognuno cercasse di formare da sé tutte le sue opinioni e di cercare isolatamente la verità attraverso strade aperte da lui soltanto, è probabile che mai un gran numero di uomini potrebbe ritrovarsi in una fede comune. Ora, è facile riscontrare come non vi sia società che possa prosperare senza simili credenze, non ve n’è alcuna che sussista così, poiché senza idee comuni non v’è un’azione comune e, senza un’azione comune, esistono ancora degli uomini, ma non un corpo sociale. Perché vi sia una società e perché, a maggior ragione, questa società sia prospera, bisogna dunque che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre congiunti e tenuti insieme da alcune idee cardini; e ciò non potrebbe accadere, a meno che essi non riescano di volta in volta ad attingere le proprie opinioni da una medesima fonte e non siano disposti a ricevere un certo numero di credenze già pronte. Se considero l’uomo in quanto tale, trovo che le credenze dogmatiche gli sono indispensabili tanto per vivere da solo quanto per agire in comune con i propri simili. Se l’uomo fosse costretto a provare a se stesso tutte le verità di cui si serve ogni giorno, non finirebbe mai; si sfi8

Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 16-19.

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nirebbe con le dimostrazioni preliminari senza mai avanzare di un passo; poiché non ha il tempo, per via della brevità della sua vita, né la facoltà, a causa dei limiti del proprio spirito, di agire in questo modo, si riduce a tenere per buona una massa di fatti e opinioni che non ha avuto né il tempo né la possibilità di esaminare e verificare da per sé, ma che altri, più capaci, hanno trovato o che semplicemente vengono adottati dalla massa. È su questo primo fondamento che egli eleva l’edificio dei propri pensieri. Non è la propria volontà che lo induce a procedere in questa maniera, è la legge inflessibile della sua condizione che ve lo costringe. Non v’è al mondo un filosofo così grande che non creda un milione di cose sulla fede altrui e che non supponga molte più verità di quante ne stabilisca. Ciò non soltanto è necessario, ma desiderabile. Un uomo che cercasse di esaminare ogni cosa da sé non potrebbe che accordare un tempo scarso di attenzione a ogni cosa; tale lavoro terrebbe il suo spirito in un’agitazione perpetua che gli impedirebbe di penetrare in profondità alcuna verità e di fissarsi in maniera salda alcuna certezza. La sua intelligenza sarebbe al tempo stesso indipendente e debole. Bisogna dunque che, tra i diversi ambiti delle opinioni umane, egli faccia una scelta e adotti molte delle credenze senza metterle in discussione, al fine di approfondirne meglio un piccolo numero di cui si è riservato l’esame. È vero che ogni uomo che riceve un’opinione sulla parola di altri mette il proprio spirito in uno stato schiavitù, ma si tratta di una schiavitù salutare che permette di fare un buon uso della libertà. È necessario quindi, qualunque cosa accada, che l’autorità si riservi sempre un qualche ruolo nel mondo intellettuale e morale. Un ruolo mutevole, ma necessario. L’indipendenza individuale può essere più o meno grande, ma non può essere sconfinata. In questo modo, la questione non è di sapere se esiste un’autorità intellettuale nei secoli democratici, ma soltanto ove avrà residenza e quale ne sarà il limite. 248

Ho mostrato nel capitolo precedente come l’uguaglianza delle condizioni faccia concepire agli uomini una sorta di incredulità istintiva per il soprannaturale, e una considerazione troppo elevata e sovente assai esagerata della ragione umana. Gli uomini che vivono in questi tempi di uguaglianza, dunque, difficilmente vengono condotti a porre l’autorità intellettuale alla quale si sottomettono al di fuori o al di sopra dell’umanità. Il più delle volte cercano le fonti della verità in se stessi o nei propri simili. Ciò sarebbe sufficiente a provare che non si potrebbe istituire una nuova religione in questi secoli e che tutti i tentativi di farla nascere sarebbero non soltanto empi, ma ridicoli e irragionevoli. Si può prevedere che i popoli democratici non crederanno così facilmente alle missioni divine, che si faranno volentieri burla dei nuovi profeti e che vorranno trovare all’interno dei confini del mondo umano, e non al di là, l’arbitro principale delle proprie credenze. Quando le condizioni sociali sono ineguali e gli uomini diversi fra loro, si ritrovano alcuni individui molto istruiti, molto saggi e molto potenti per la loro intelligenza, di contro a una moltitudine assai ignorante e limitata. Coloro che vivono in tempi di aristocrazia, dunque, sono naturalmente portati a prendere come guida delle proprie opinioni la ragione superiore di un uomo o di una classe, mentre sono poco disposti a riconoscere l’infallibilità della massa. Il contrario avviene nei secoli di uguaglianza. Man mano che i cittadini divengono più uguali e somiglianti, la propensione di ciascuno a credere ciecamente in un certo uomo o in una determinata classe diminuisce. Aumenta la disposizione a credere nella massa ed è l’opinione pubblica a guidare sempre più il mondo. Non soltanto l’opinione comune è la sola guida che rimane alla ragione individuale presso i popoli democratici, ma essa guadagna presso quei popoli una potenza infinitamente più grande che presso tutti gli altri. Nei tempi di uguaglianza gli uomini non hanno alcuna fede gli uni negli altri 249

a causa della loro similitudine; ma questa stessa similitudine gli fornisce una fiducia pressoché illimitata nel giudizio dell’opinione pubblica; infatti non gli sembrerebbe verosimile che, possedendo tutti dei lumi equiparabili, la verità non si possa riscontrare dalla parte della maggioranza. Quando l’uomo che vive nei paesi democratici si paragona individualmente a tutti quelli che lo circondano, sente con orgoglio di essere uguale a ciascuno di loro; ma quando si mette a considerare l’insieme dei suoi simili e viene a porsi a fianco di questo grande corpo, è immediatamente abbattuto dalla propria insignificanza e debolezza. Quella stessa eguaglianza che lo rende indipendente da ciascuno dei suoi concittadini in particolare lo lascia isolato e senza difese rispetto all’azione della maggioranza. L’opinione pubblica riveste quindi presso i popoli democratici una potenza singolare di cui le nazioni aristocratiche non potrebbero neppure concepire l’idea. Essa non persuade rispetto alle proprie credenze, essa le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una sorta di immensa pressione da parte dello spirito collettivo sull’intelligenza di ciascuno. Negli Stati Uniti la maggioranza si incarica di fornire agli individui una mole di opinioni già pronte, sollevandoli in questo modo dall’obbligo di formarsene di proprie. Vi è un grande numero di teorie in ambito filosofico, morale o politico che ciascuno adotta in questo stesso modo, senza un esame sulla fede del pubblico e, se la si guarda da vicino, si vedrà che anche la religione regna negli Stati Uniti assai meno come dottrina rivelata che come opinione comune. Io so che presso gli americani le leggi politiche sono tali per cui la maggioranza regna sovrana sulla società, cosa che accresce di molto l’impero che essa esercita naturalmente sull’intelligenza. Infatti non v’è nulla di più familiare all’uomo che riconoscere una saggezza superiore in colui che lo opprime. Questa onnipotenza politica della maggioranza negli Stati Uniti aumenta, in effetti, l’influenza dell’opinione pub250

blica sullo spirito di ogni cittadino, ma non è essa a fondarla. È nell’uguaglianza stessa che bisogna ricercare le fonti di questa influenza e non nelle istituzioni, più o meno popolari, che possono darsi uomini uguali. Bisogna credere che l’impero intellettuale della maggioranza sarebbe meno assoluto presso un popolo democratico sottomesso a un re che in seno a una democrazia pura; ma sarà sempre molto autoritario e, quali che siano le leggi politiche che reggono gli uomini nei secoli di uguaglianza, si può prevedere che la fede nell’opinione comune diverrà una sorta di religione di cui la maggioranza sarà il profeta. In questo modo l’autorità intellettuale sarà differente, ma niente affatto minore; e, lungi dal credere che essa debba scomparire, auguro che divenga facilmente troppo grande e che possa fare in modo di rinchiudere infine l’azione della ragione individuale entro limiti tra i più stretti che non convengano alla grandezza e alla felicità del genere umano. Io vedo con chiarezza due tendenze nell’uguaglianza: l’una che porta lo spirito di ogni uomo verso pensieri nuovi e l’altra che lo ridurrebbe volentieri a non pensare più. E mi rendo conto di come, sotto l’impero di certe leggi, la democrazia farà estinguere la libertà intellettuale che lo stato democratico favorisce, in modo che lo spirito umano, dopo aver frantumato tutti gli impedimenti che gli imponevano le classi e gli uomini, si legherà strettamente alle volontà generali della maggioranza. Se al posto di tutte le diverse forze che ostacolavano o ritardavano oltre misura lo slancio della ragione individuale, i popoli democratici metteranno il potere assoluto di una maggioranza, il male non avrà fatto altro che cambiare di carattere. Gli uomini non avranno affatto trovato il modo di vivere da indipendenti, ma avranno soltanto scoperto, impresa ardua, un nuovo volto della servitù. V’è in ciò, non lo dirò mai abbastanza, di che far riflettere profondamente coloro che vedono nella libertà dell’intelletto una cosa sacra, e che non odiano solamente il despota, ma anche il dispotismo. Per quanto mi concerne, quando sento 251

la mano del potere farsi pesante sulla mia fronte, mi importa poco di sapere chi mi opprime e non sono meglio disposto a far passare la mia testa sotto il giogo perché me lo impongono un milione di braccia.

Come negli Stati Uniti la religione sa servirsi degli istinti democratici9 In un capitolo precedente ho stabilito che gli uomini non possono fare a meno di credenze dogmatiche, ma anzi che sarebbe oltremodo auspicabile che ve ne siano di quella natura. Aggiungo qui che, fra tutte le credenze dogmatiche, quelle più auspicabili mi sembrano essere proprio quelle che concernono la religione; ciò si deduce assai chiaramente anche qualora non si volesse prestare attenzione che alle cose di questo mondo. Non vi è pressoché azione umana, per quanto particolare la si concepisca, che non prenda origine da un’idea assai generale che gli uomini hanno elaborato di dio, dei suoi rapporti con il genere umano, della natura della loro anima e dei loro doveri verso i propri simili. Né si potrebbe immaginare che queste idee non rappresentino la fonte comune da cui originano tutte le altre. Gli uomini hanno quindi un interesse immenso a formarsi delle idee ben salde su dio, sulla propria anima e sui propri doveri generali verso il Creatore e i propri simili; infatti il dubbio su questi primi punti farebbe lasciare tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in qualche modo, al disordine e all’impotenza. Questo è, dunque, l’ambito nel quale è più importante che ciascuno di noi abbia delle idee salde, anche se, malauguratamente, proprio in tale ambito è più difficile per ciascuno, se abbandonato a se stesso, riuscire in tale impresa soltanto attraverso lo sforzo della ragione. 9

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Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 27-34.

Soltanto degli spiriti affrancati dalle preoccupazioni ordinarie della vita, assai penetranti, sottili ed esercitati, servendosi di molto tempo e grande cura, possono aprirsi un varco fino a queste verità così necessarie. Inoltre noi vediamo che questi stessi filosofi sono quasi sempre circondati da incertezze e che, a ogni passo, la luce naturale che li illumina si oscura e minaccia di estinguersi; senza contare che, malgrado tutti i loro sforzi, essi non hanno ancora potuto scoprire che un piccolo numero di nozioni contraddittorie, in mezzo alle quali lo spirito umano ondeggia da millenni senza poter afferrare con fermezza la verità e nemmeno trovare nuovi errori. Studi di tal genere sono molto al di sopra della capacità media degli uomini e, quand’anche la maggior parte degli uomini fosse capace di innalzarvisi, è evidente che non ne avrebbe il tempo. Idee salde su dio e la natura umana sono indispensabili alla prassi quotidiana della loro vita, ed è proprio questa prassi che impedisce loro di conseguirle. Questo aspetto mi sembra unico: fra le scienze, ve ne sono di utili alla massa e per giunta alla sua portata; altre non sono avvicinabili che da poche persone e non vengono coltivate dalla maggioranza, che ha bisogno soltanto delle loro applicazioni più marginali; ma la pratica quotidiana di questa è indispensabile a tutti, malgrado lo studio di essa sia inaccessibile alla maggioranza. Le idee generali relative a dio e alla natura umana sono, dunque, fra tutte le idee, quelle che conviene maggiormente sottrarre all’azione abituale della ragione individuale, la quale ha ben più da guadagnare e meno da perdere nel riconoscere in tale ambito un’autorità. L’oggetto primo e uno dei principali vantaggi insiti nella religione consiste nel fornire su ciascuna delle suddette questioni primordiali una soluzione netta, precisa, comprensibile alla massa e assai durevole. Vi sono delle religioni oltremodo false e assurde; tuttavia si può dire che ogni religione che si mantenga nell’ambito che ho indicato e non pretenda di uscire, alla stre253

gua di molte altre che invece hanno provato a farlo, per provare a fermare da tutte le parti il libero slancio dello spirito umano, impone un giogo salutare all’intelligenza; e bisogna riconoscere che, se anche essa non costituisce una salvezza per gli uomini nell’altro mondo, nondimeno si rivela assai utile alla loro felicità e grandezza in questo mondo. Ciò è vero soprattutto per gli uomini che vivono in paesi liberi. Quando presso un popolo la religione è distrutta, il dubbio si impadronisce delle parti più elevate dell’intelligenza e paralizza per metà tutte le altre. Ciascuno si abitua a non possedere che delle nozioni confuse e instabili rispetto alle materie che interessano di più i propri simili e lui stesso; si difendono malamente le proprie opinioni o le si abbandona e, poiché si dispera di risolvere, con le proprie forze soltanto, i più grandi problemi che il destino umano presenta, ci si riduce vigliaccamente a non pensarci più. Un tale stato di cose non può mancare di snervare le anime, allentare la volontà e preparare i cittadini per la servitù. Allora non soltanto accade che questi qui si lasciano portar via la propria libertà, ma sovente sono essi stessi che la abbandonano. Quando non esiste più un’autorità in materia di religione, cosa non più vera che per la politica, gli uomini si spaventano immediatamente di fronte a questa indipendenza senza limiti. Questa perpetua instabilità di tutte le cose li inquieta e li stanca. Poiché tutto si agita nel mondo dell’intelligenza, essi vogliono che tutto sia fermo e stabile perlomeno nell’ordine materiale e, non potendo più recuperare le loro antiche credenze, si danno un padrone. Per quanto mi concerne, dubito che l’uomo possa giammai sostenere allo stesso tempo una completa indipendenza religiosa e una totale libertà politica, e sono portato a credere che, se non ha fede, occorre che serva e, se è libero, che creda. 254

Non so, tuttavia, se questa grande utilità delle religioni non sia più visibile ancora presso i popoli ove vigono condizioni di uguaglianza o presso tutti gli altri. Bisogna riconoscere che l’uguaglianza, che introduce dei grandi beni nel mondo, suggerisce ciò nonostante agli uomini, come si dimostrerà, degli istinti assai pericolosi: essa tende a isolarli gli uni dagli altri, per portare ciascuno di essi a non occuparsi di altro che di sé. Essa apre in una maniera smisurata le loro anime all’amore per le gioie materiali. Il più grande vantaggio delle religioni consiste nell’ispirare degli istinti del tutto opposti. Non v’è religione che non ponga l’oggetto dei desideri dell’uomo al di là e al di sopra dei beni terreni, e che non elevi naturalmente la sua anima verso delle regioni assai superiori a quelle dei sensi. Non ve ne è una che non imponga a ciascuno dei doveri qualunque verso la specie umana o in comune con essa, e che non distolga di volta in volta dalla contemplazione di sé. Ciò lo si ritrova anche nelle religioni più false e pericolose. I popoli religiosi sono, dunque, naturalmente forti precisamente nel punto in cui i popoli democratici si rivelano deboli; cosa che fa ben vedere l’importanza insita nel fatto che gli uomini conservino la propria religione nel divenire uguali. Non ho il diritto né la volontà di esaminare i mezzi soprannaturali di cui dio si serve per far sorgere una credenza religiosa nel cuore degli uomini. In questo momento non considero le religioni che da un punto di vista puramente umano: cerco la maniera in cui esse possano più facilmente conservare la propria autorità nei secoli democratici in cui stiamo entrando. Ho fatto vedere come, in tempi di civiltà ed eguaglianza, lo spirito umano accetta con fatica di ricevere credenze dogmatiche, non sentendone vivamente il bisogno se non in ambito religioso. Ciò indica innanzi tutto che in questi secoli le religioni devono mantenersi, con più discrezione 255

che in tutti gli altri, all’interno dei confini che sono loro propri, senza cercare di uscirne, poiché è volendo estendere il proprio potere più in là della sfera religiosa che rischiano di non essere più credute in alcun ambito. Esse devono quindi tracciare con cura il cerchio all’interno del quale pretendono di contenere lo spirito umano, lasciandolo interamente libero di abbandonarsi a sé al di là di esso. Maometto ha fatto discendere dal cielo, e ha posto all’interno del Corano, non soltanto delle dottrine religiose, ma anche massime politiche, leggi civili e criminali e teorie scientifiche. Il Vangelo, al contrario, non parla che dei rapporti generali degli uomini con dio e fra di loro. Fuori di ciò, esso non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Questa sola, tra mille altre ragioni, è sufficiente per mostrare che la prima di queste due religioni non sarà in grado di restare dominante per molto, in tempi di civiltà e democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare in quegli stessi tempi come in tutti gli altri. Proseguendo oltre in questa stessa ricerca, trovo che perché le religioni possano, umanamente parlando, mantenersi nei secoli democratici, non occorre soltanto che esse si mantengano con cura all’interno del cerchio delle materie religiose; il loro potere dipende ancora molto dalla natura delle credenze che esse professano, dalle forme esteriori che adottano e dai vincoli che impongono. Ciò che ho detto precedentemente, che l’uguaglianza porta gli uomini a idee molto generali e vaste, deve principalmente intendersi in ambito religioso. Uomini simili e uguali concepiscono facilmente la nozione di un dio unico, che impone a ciascuno le medesime regole e accorda loro la felicità futura allo stesso prezzo. L’idea dell’unità del genere umano li riconduce costantemente all’idea dell’unità del Creatore, mentre, al contrario, uomini oltremodo separati gli uni dagli altri e assai dissimili giungono volentieri a concepire tante divinità quanti sono i popoli, le caste, le classi e le famiglie, e a tracciare mille strade particolari per andare in cielo. 256

Non si può negare che anche il cristianesimo abbia in qualche modo subito questa influenza che lo stato sociale e politico esercita sulle credenze religiose. Nel momento in cui la religione cristiana è comparsa sulla terra, la Provvidenza, che senza dubbio preparava il mondo alla sua venuta, aveva riunito una gran parte della specie umana, alla stregua di un immenso gregge, sotto lo scettro dei Cesari. Gli uomini che componevano questa moltitudine differivano molto gli uni dagli altri, ma tuttavia conservavano questo tratto in comune: obbedivano tutti alle medesime leggi e ognuno di essi era tanto debole e piccolo in confronto alla grandezza del principe, che tutti sembravano uguali quando li si veniva a comparare ad esso. Bisogna riconoscere che questo stato dell’umanità, nuovo e particolare, dovette disporre gli uomini a ricevere le verità generali che il cristianesimo insegna, facendoci comprendere la maniera facile e veloce con la quale esso penetrò a quel tempo nello spirito degli uomini. La controprova si ebbe dopo la distruzione dell’Impero. Essendosi il mondo romano frantumato, per così dire, in mille frammenti, ogni nazione si ritrovò a poter tornare alla propria individualità originaria. Ben presto, all’interno di queste nazioni, i ranghi si graduarono all’infinito, le razze marcarono la propria differenza e le caste divisero ogni nazione in più popoli. In mezzo a questa tendenza generale che sembrava condurre le società umane a suddividersi in tanti frammenti quanti se ne potessero immaginare, il cristianesimo non perse di vista le principali idee generali che aveva portato alla luce. Ma tuttavia parve prestarsi, per quanto gli fosse possibile, alle nuove tendenze che il frazionamento della specie umana faceva sorgere. Gli uomini continuarono a non adorare che un solo dio, creatore e conservatore di tutte le cose, ma ogni popolo, ogni città e, per così dire, ogni uomo, credette di poter ottenere qualche privilegio a parte e di crearsi dei protettori particolari presso il sovrano padrone. Non potendo dividere la divinità, si moltiplicarono e si ingran257

dirono oltre misura i suoi agenti; l’omaggio dovuto agli angeli e ai santi divenne, per la maggior parte dei cristiani, un culto quasi idolatra e, per un momento, si poté temere che la religione cristiana regredisse alla maniera di quelle religioni che essa stessa aveva sconfitto. Mi pare evidente che più le barriere che separano le nazioni in seno all’umanità, e i cittadini all’interno di ogni popolo, tendono a scomparire, più lo spirito umano si dirige indipendentemente verso l’idea di un essere unico e onnipotente, che dispensa in maniera uguale le stesse leggi a ogni uomo. Quindi è proprio nei secoli di democrazia che è importante non confondere l’omaggio reso agli agenti secondari con il culto che è dovuto al Creatore. Un’altra verità mi sembra assai chiara: nei secoli di democrazia le religioni devono caricarsi meno di pratiche esteriori rispetto a tutti gli altri periodi. Ho fatto vedere, a proposito del metodo filosofico degli americani, che nulla induce di più alla rivolta lo spirito umano, in tempi di uguaglianza, che l’idea di doversi sottomettere a delle forme. Gli uomini che vivono in questi tempi sopportano con impazienza le figure; i simboli gli sembrano degli artifici puerili di cui ci si serve per velare o abbellire ai loro occhi delle verità che sarebbe più naturale mostrar loro alla luce del sole e in tutta la loro nudità; restano freddi di fronte alle cerimonie e sono portati ad attribuire un’importanza secondaria ai dettagli del culto. Coloro che sono incaricati di regolare la forma esteriore delle religioni nei secoli di democrazia devono fare ben attenzione a questi istinti naturali dell’intelligenza umana, per non dover poi intraprendere una guerra non necessaria contro gli stessi. Io credo fermamente alla necessità delle forme, so che stabilizzano lo spirito umano nella sua contemplazione delle verità astratte e, aiutandolo ad afferrarle con forza, gliele fanno abbracciare con convinzione. Non immagino affatto che sia possibile mantenere una religione senza delle pratiche esteriori, ma, d’altra parte, penso che nei secoli in 258

cui stiamo entrando sarebbe particolarmente pericoloso moltiplicarle oltre misura; che bisognerebbe piuttosto restringerle, mantenendo soltanto quelle assolutamente necessarie alla perpetuazione del dogma stesso, che costituisce la sostanza delle religioni, di cui il culto non rappresenta che la forma10. Una religione che divenisse più minuziosa, inflessibile e gravata da piccole osservanze, contemporaneamente al divenire più uguali degli uomini, si vedrebbe ben presto ridotta a un gruppo di zelatori passionali in mezzo a una moltitudine di increduli. So che non si verrà meno all’obiezione per cui le religioni, avendo tutte per oggetto delle verità generali ed eterne, non possono piegarsi agli istinti in movimento di ogni secolo: risponderò anche qui che bisogna distinguere assai accuratamente le opinioni fondanti di una fede, quelle che vi formano ciò che i teologi chiamano «articoli di fede», dalle nozioni accessorie che ad essa si riallacciano. Le religioni sono obbligate a tenere sempre ferma la propria posizione riguardo alle prime, quale che sia lo spirito specifico del tempo; ma devono guardarsi bene dal rimanere legate nella stessa maniera alle seconde, in secoli dove ogni cosa cambia continuamente di posto e in cui lo spirito, abituato allo spettacolo mutevole delle cose umane, acconsente con sofferenza ad essere fissato. L’immobilità nelle faccende esteriori e secondarie mi sembrerebbe costituire una possibilità di durata soltanto quando la stessa società civile fosse immobile; in tutti gli altri casi sono portato a considerarla come un pericolo. Vedremo che, fra tutte le passioni che l’uguaglianza fa nascere o favorisce, ve n’è una che la rende particolarmente viva e che, contemporaneamente, essa instilla nel cuore di tutti gli uomini: l’amore del benessere. Il gusto per il 10 In tutte le religioni vi sono delle cerimonie inerenti alla sostanza stessa della fede, rispetto alle quali bisogna guardarsi bene dall’operare dei cambiamenti. Ciò si vede particolarmente nel cattolicesimo, dove sovente la forma e la sostanza sono così strettamente unite da formare un tutto unico (nota di Tocqueville).

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benessere costituisce il tratto saliente e indelebile delle età democratiche. È lecito credere che una religione che cercasse di distruggere questa passione madre verrebbe alla fine distrutta da essa; se volesse sradicare interamente dagli uomini la contemplazione dei beni di questo mondo per elevarli unicamente al pensiero delle cose dell’altro mondo, si può prevedere che le anime le sfuggirebbero di mano per andarsi a tuffare, ben lontano da essa, nei soli godimenti materiali e presenti. Il dovere principale delle religioni consiste nel purificare, regolare e limitare il gusto troppo ardente e troppo esclusivo per il benessere di cui esse risentono nei tempi di uguaglianza; tuttavia credo che sbaglierebbero se tentassero di domarlo interamente e distruggerlo. Esse non riusciranno per niente a distogliere gli uomini dall’amore per le ricchezze, ma possono tuttavia persuaderli ad arricchirsi soltanto attraverso metodi onesti. Ciò mi porta a un’ultima considerazione che, in un certo modo, comprende tutte le altre. Man mano che gli uomini diventano più simili e uguali, diviene maggiormente importante che le religioni, ponendosi accuratamente fuori dal movimento quotidiano degli affari, non urtino senza necessità le idee generalmente ammesse e gli interessi permanenti che regnano nella massa; infatti l’opinione pubblica appare sempre più come il primo e il più irresistibile dei poteri: non si trova, al di fuori di essa, un appoggio così forte da poter resistere a lungo ai suoi colpi. Ciò non è meno vero presso un popolo democratico, presso uno che sia sotto un despota o che viva in una repubblica. Nei secoli di uguaglianza i re spesso fanno obbedire, ma è sempre la maggioranza che fa credere, dunque è la maggioranza che bisogna compiacere in tutto ciò che non contrasta con la fede. Ho già avuto modo di mostrare come i sacerdoti americani si tenessero lontani dai pubblici affari. Ciò costituisce l’esempio più eclatante, ma non il solo, della loro riser260

vatezza. In America la religione è un mondo a parte in cui il prete regna, ma dal quale ha ben cura di non fuoriuscire; all’interno di tali limiti egli guida l’intelligenza, ma al di fuori di quelli lascia gli uomini liberi a se stessi, abbandonandoli all’indipendenza e all’instabilità propri della loro natura e dei tempi. Io non ho visto paesi in cui il cristianesimo si ammantasse meno di forme, di pratiche e di figure degli Stati Uniti, e presentasse delle idee più nette, semplici e generali per lo spirito umano. Benché i cristiani americani siano divisi in una moltitudine di sette, essi guardano tutti la propria religione sotto questa stessa luce. Ciò si applica tanto al cristianesimo quanto alle altre religioni. Non vi sono sacerdoti cattolici che mostrano minor attaccamento alle piccole osservanze individuali, ai metodi straordinari e particolari per raggiungere la salvezza dell’anima, e che si concentrano più sullo spirito della legge e meno sulla lettera, dei preti cattolici degli Stati Uniti; da nessun’altra parte si insegna con più chiarezza e si persegue maggiormente quella dottrina della Chiesa che impedisce di rivolgere ai santi il culto riservato a dio. Tuttavia i cattolici americani sono assai sottomessi e sinceri. Un’altra osservazione è applicabile al clero di tutte le confessioni: i sacerdoti americani non tentano neppure di attirare e fissare tutti gli sguardi dell’uomo verso la vita futura e lasciano volentieri il cuore umano libero di dedicarsi al presente: sembrano ritenere i beni mondani importanti, per quanto secondari; anche se non si associano personalmente all’industria, nondimeno si interessano ai suoi progressi e se ne compiacciono e, pur mostrando costantemente ai fedeli l’altro mondo quale oggetto delle loro paure e speranze, non gli impediscono di ricercare onestamente il benessere in quello terreno. Lungi dal far vedere queste due dimensioni come divise e contrarie, si impegnano piuttosto a trovare il punto attraverso il quale si toccano e congiungono. Tutti i sacerdoti americani conoscono l’impero intellettuale che la maggioranza esercita e lo rispettano. Intrapren261

dono contro di essa solamente le battaglie necessarie. Non si mescolano per nulla con le liti di partito, ma adottano volentieri le opinioni generali del proprio paese e del proprio tempo e si lasciano andare, senza far resistenza, alla corrente di sentimenti e idee che trascina tutte le cose intorno a loro. Si sforzano di correggere i propri contemporanei, ma non se ne separano mai. La pubblica opinione non è mai, dunque, loro nemica; li sostiene, piuttosto, e li protegge così che le loro credenze regnano contemporaneamente grazie alle forze che sono loro proprie e grazie a quelle che traggono dalla maggioranza. È così che, rispettando tutti gli istinti democratici che non sono ad essa contrari, e avvalendosi di molti di essi, la religione riesce a lottare con profitto contro lo spirito d’indipendenza individuale, che è il più pericoloso di tutti per essa.

Il progresso del cattolicesimo negli Stati Uniti11 L’America è il paese più democratico della terra, ed è allo stesso tempo il paese in cui, secondo dei resoconti attendibili, la religione cattolica ottiene i maggiori progressi. Ciò sorprende a un primo approccio. Bisogna distinguere bene due cose: l’uguaglianza dispone gli uomini a voler giudicare da se stessi; ma d’altra parte essa dona loro il gusto e l’idea di un potere sociale unico, semplice e uguale per tutti. Gli uomini che vivono in secoli di democrazia sono dunque molto inclini a sottrarsi a ogni autorità religiosa. Ma se consentono a sottomettersi a un’autorità simile, vogliono almeno che sia una e uniforme; poteri religiosi che non vadano a terminare tutti in un unico centro irritano naturalmente la loro intelligenza, spingendoli a concepire con la stessa facilità che non vi possono essere più religioni. 11

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Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 35-36.

Si vedono ai giorni nostri, più che nelle epoche anteriori, cattolici divenire increduli e protestanti farsi cattolici. Se si considera il cattolicesimo interiormente, esso sembra perdere il passo, mentre se lo si guarda dall’esterno sembra guadagnare terreno. C’è una spiegazione per ciò. Gli uomini dei nostri giorni sono naturalmente poco disposti a credere, ma quelli che posseggono una religione ritrovano subito in se stessi un istinto nascosto che li spinge a loro insaputa verso il cattolicesimo. Parecchie dottrine e usanze della Chiesa romana li stupiscono, ma provano un’ammirazione segreta per il suo magistero e la sua grande unità li attira. Se il cattolicesimo pervenisse infine a sottrarsi agli odi politici che ha fatto nascere, non dubiterei quasi per nulla che questo stesso spirito del secolo, che sembra essergli così contrario, gli diventerebbe assai favorevole, fino a fargli ottenere tutte in una volta delle grandi conquiste. È una delle debolezze più familiari all’intelligenza umana quella di voler conciliare dei princìpi contrari e acquisire la pace a spese della logica. Vi sono, dunque, sempre stati e sempre vi saranno degli uomini che, dopo aver sottomesso a un’autorità qualcheduna delle proprie credenze religiose, vorranno sottrargliene molte altre, lasciando fluttuare il proprio spirito a caso tra l’obbedienza e la libertà. Ma io sono portato a credere che il numero di costoro sarà meno grande nei secoli democratici che in tutti gli altri, e che i nostri nipoti tenderanno sempre più a dividersi in due parti: quelli che usciranno interamente dal cristianesimo e quelli che entreranno nel seno della Chiesa romana.

La dottrina dell’«interesse bene inteso»12 Se la dottrina dell’«interesse bene inteso» riguardasse soltanto questo mondo, non basterebbe; infatti vi è un gran 12

Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 131-133.

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numero di sacrifici che non possono trovare la loro ricompensa se non nell’altro mondo, e qualunque sforzo di spirito si facesse per provare l’utilità della virtù, sarà sempre difficile far vivere bene un uomo che non vuole morire. Si rende dunque necessario sapere se la dottrina dell’«interesse bene inteso» può conciliarsi agevolmente con le credenze religiose. I filosofi che insegnano questa dottrina dicono agli uomini che, per essere felici in questa vita, bisogna vigilare sulle proprie passioni e reprimerne con cura gli eccessi; che non si può acquisire una felicità durevole se non rifiutando mille godimenti passeggeri e che, infine, bisogna vincersi continuamente per rendere un servizio migliore a se stessi. I fondatori di quasi tutte le religioni hanno tenuto pressappoco lo stesso linguaggio. Senza indicare agli uomini un’altra strada, si sono limitati a differire lo scopo; invece di situare in questo mondo il premio per i sacrifici che impongono, essi l’hanno posto nell’altro. Tuttavia, io mi rifiuto di credere che tutti quelli che praticano la virtù per spirito di religione non agiscono che in vista di una ricompensa. Ho incontrato dei cristiani zelanti che si dimenticavano di se stessi per lavorare con più ardore alla felicità di tutti, e li ho intesi pretendere di agire in tal modo soltanto per meritare i beni dell’altro mondo; ma non posso astenermi dal pensare che essi ingannino se stessi. Li rispetto troppo per credergli. Il cristianesimo ci dice, è vero, che bisogna preferire gli altri a se stessi per guadagnare il cielo; ma esso ci dice allo stesso modo che si deve fare il bene del prossimo per amore di dio. Ecco un’espressione magnifica, l’uomo penetra con la sua intelligenza dentro al pensiero divino, vede che il fine di dio è l’ordine e si associa liberamente a questo grande disegno e, pur sacrificando i propri interessi particolari a questo ordine ammirevole di tutte le cose, non aspetta altra ricompensa che il piacere di poterlo contemplare. 264

Io non credo, quindi, che il solo movente degli uomini religiosi sia l’interesse, ma ritengo che l’interesse sia il mezzo principale di cui le stesse religioni si servono per guidare gli uomini, e non dubito che questo sia il percorso attraverso il quale esse colpiscono la massa e diventano popolari. Non riesco, dunque, a vedere con chiarezza perché mai la dottrina dell’«interesse bene inteso» allontanerebbe gli uomini dalle credenze religiose e, anzi, mi sembra di capire che li avvicini. Suppongo un uomo che, per ottenere la felicità in questo mondo, resista all’istinto in tutte le occasioni e ponderi freddamente tutte le azioni della propria vita e, invece di cedere ciecamente alla foga degli istinti primari, abbia appreso l’arte di combatterli e si sia abituato a sacrificare senza sforzi il piacere del momento all’interesse permanente di tutta la sua vita. Se un simile uomo ha fede nella religione che professa, non gli costerà molto sottomettersi ai disagi che essa impone. La ragione stessa gli suggerisce di agire in questo modo e l’abitudine l’ha preparato da tempo a sopportarli. Se anche avrà concepito dei dubbi rispetto all’oggetto delle sue speranze, non si lascerà fermare tanto facilmente e reputerà saggio mettere a repentaglio qualcuno dei beni di questo mondo per conservare il proprio diritto all’immensa eredità che gli viene promessa nell’altro. «A sbagliarsi nel credere alla verità della religione cristiana non si ha molto da perdere, ma quale infelicità se ci si sbaglia nel crederla falsa», ha detto Pascal. Gli americani non ostentano un’indifferenza grossolana nei confronti dell’altra vita; non applicano un orgoglio puerile nel disprezzare dei pericoli ai quali sperano di sottrarsi. Quindi essi praticano la propria religione senza vergogna e senza debolezza, ma di solito si vede, financo nel mezzo del loro zelo, un non so che di così tranquillo, metodico e calcolato che sembra essere la ragione ben più che il cuore a condurli ai piedi dell’altare. 265

Non solo gli americani seguono la propria religione per interesse, ma pongono sovente in questo mondo l’interesse stesso che si può avere a seguirla. Nel Medioevo i sacerdoti non parlavano che dell’altra vita e non si preoccupavano più di tanto di provare che un uomo felice quaggiù può essere comunque un cristiano sincero. Ma i predicatori americani ritornano continuamente alla terra e non possono distogliere da essa i loro sguardi se non con grande fatica. Per meglio toccare i propri uditori, fanno vedere loro tutti i giorni come le credenze religiose favoriscono la libertà e l’ordine pubblico, tanto che spesso risulta arduo comprendere, ascoltandoli, se l’oggetto principale della religione consista nel procurare la felicità eterna nell’altro mondo o il benessere in questo.

Lo spiritualismo degli americani13 Quantunque il desiderio di acquisire i beni di questo mondo costituisca la passione dominante degli americani, vi sono dei momenti di rilassamento in cui la loro anima sembra spezzare tutti in una volta i legami materiali che la trattengono, e scappare impetuosamente verso il cielo. Talvolta si ritrovano, in tutti gli stati dell’Unione, ma specialmente nelle contrade semipopolate dell’Ovest, predicatori che divulgano di località in località la parola di dio. Famiglie intere, vecchi, donne e bambini attraversano luoghi difficili e si aprono un varco tra boschi deserti per venire ad ascoltarli da molto lontano; e, quando li hanno incontrati, essi dimenticano per più giorni e più notti, ascoltandoli, di curare i propri affari e financo gli impellenti bisogni corporali. In seno alla società americana si trovano qua e là delle anime tutte piene di uno spiritualismo esaltato e quasi selvaggio, pressoché introvabile in Europa. Vengono fuori, di 13

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Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 140-141.

quando in quando, delle sette bizzarre che si sforzano di aprirsi delle strade fuori dell’ordinario verso la felicità eterna. Le follie religiose vi sono assai comuni. Questo non ci deve sorprendere. Non è l’uomo a essersi dato da solo il gusto dell’infinito e l’amore per ciò che è immortale. Tali istinti sublimi non nascono da un capriccio della sua volontà: essi trovano il proprio fondamento stabile nella sua natura, esistono a dispetto dei suoi sforzi. Egli può ostacolarli e deformarli, ma non distruggerli. L’anima ha dei bisogni che occorre soddisfare e, per quanto ci si curi di distrarla da se stessa, essa si annoia immediatamente, si inquieta e si agita in mezzo ai godimenti dei sensi. Se lo spirito della grande maggioranza del genere umano si concentrasse un giorno sulla sola ricerca dei beni materiali, ci si può aspettare che si creerebbe una reazione prodigiosa nell’anima di alcuni uomini, i quali si getterebbero perdutamente nel mondo spirituale, per la paura di restare imbrigliati tra gli ostacoli troppo stretti che il corpo vuole imporre loro. Non bisognerebbe dunque sorprendersi se, in seno a una società che non pensasse che alla terra, si incontrasse un piccolo numero di uomini che vogliono prestare attenzione soltanto al cielo. Sarei sorpreso se, presso un popolo preoccupato soltanto del proprio benessere, il misticismo non facesse dei progressi con grande velocità. Si dice che sono state le persecuzioni degli imperatori e i supplizi del circo che hanno popolato il deserto della Tebaide, mentre io penso che siano state piuttosto le delizie di Roma e la filosofia epicurea della Grecia. Se lo stato sociale, le circostanze e le leggi non trattenessero lo spirito americano nella ricerca del benessere, bisogna credere che, quando tale spirito giungesse a occuparsi di cose immateriali, mostrerebbe maggiore riservatezza e più esperienza, e si modererebbe senza sforzo. Ma esso si sente imprigionato dentro limiti dai quali non sem267

bra vi sia la volontà di farlo uscire. Quando sorpassa tali limiti, non sa dove fissarsi lui stesso e corre sovente, senza fermarsi, al di là dei confini del senso comune.

Credenze religiose e piaceri spirituali14 Negli Stati Uniti, quando arriva il settimo giorno di ogni settimana, la vita commerciale e industriale della nazione sembra sospesa; smettono tutti i rumori. Un riposo profondo o, piuttosto, una sorta di raccoglimento solenne gli succede; l’animo rientra infine in possesso di sé e si contempla. Durante quel giorno i luoghi consacrati al commercio sono deserti; ogni cittadino, circondato dai propri figli, si reca in un tempio, dove ascolta strani discorsi che non sembrano fatti per le sue orecchie. Viene intrattenuto sugli innumerevoli mali prodotti dall’orgoglio e dall’avidità. Gli si parla della necessità di regolare i propri desideri, delle gioie delicate congiunte alla sola virtù e della vera felicità che ne consegue. Rientrato nella sua dimora, non lo si vede correre per nulla ai registri del proprio negozio. Egli apre il libro delle sacre Scritture, in cui trova pitture sublimi o toccanti della grandezza e bontà del Creatore, della magnificenza infinita delle opere di dio, dell’alto destino riservato agli uomini, dei loro doveri e dei loro diritti all’immortalità. È così che, di quando in quando, l’americano si sottrae in qualche modo a se stesso e, allontanandosi per un momento dalle piccole passioni che agitano la sua vita e dagli interessi passeggeri che la riempiono, egli penetra tutto in una volta in un mondo ideale in cui tutto è grande, puro, eterno. In un altro punto di questa opera ho ricercato le cause alle quali si deve attribuire il mantenimento delle istituzioni politiche degli americani, e la religione m’è parsa una delle principali. Adesso che mi occupo degli individui, trovo che essa non sia meno utile a ciascun cittadino che a tutto lo stato. 14

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Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 149-153.

È con il proprio agire pratico che gli americani mostrano tutto il loro sentire come necessario per moralizzare la democrazia attraverso la religione. Ciò che a questo riguardo essi pensano di se stessi costituisce una verità di cui dovrebbe essere innervata ogni nazione democratica. Non dubito che la costituzione sociale e politica di un paese possa non disporlo a certe credenze e a certi gusti di cui in seguito può arrivare ad abbondare senza sforzo, proprio nello stesso momento in cui queste medesime ragioni lo allontanano da certe opinioni e inclinazioni senza che sia lui a lavorare in questo senso e, per così dire, senza che gli sorga alcun dubbio. Tutta l’arte del legislatore consiste nel discernere bene già da prima queste inclinazioni naturali delle società umane, al fine di sapere dove bisogna aiutare lo sforzo dei cittadini e dove sarebbe piuttosto necessario rallentarlo. Infatti questi obblighi cambiano secondo i tempi: di immutabile non v’è che il fine verso il quale deve sempre tendere il genere umano, mentre i mezzi con cui farvelo arrivare variano continuamente. Se fossi nato in un secolo aristocratico, nel bel mezzo di una nazione in cui la ricchezza ereditaria degli uni e la povertà senza rimedio degli altri distogliessero, in maniera uguale, gli uomini dall’idea di una condizione migliore e mantenessero gli animi come intorpiditi nella contemplazione di un altro mondo, vorrei che mi fosse possibile stimolare, presso un popolo di tal fatta, il sentimento dei bisogni terreni, penserei al modo di scoprire i mezzi più rapidi e più agevoli per soddisfare i nuovi desideri che avrei fatto nascere e, facendo confluire verso gli studi della fisica i più grandi sforzi dello spirito umano, mi sforzerei di smuoverlo alla ricerca del benessere. Se accadesse di vedere qualche uomo infiammarsi sconsideratamente nella ricerca affannosa della ricchezza e mostrasse un amore eccessivo per i piaceri terreni, non mi allarmerei per nulla; questi tratti particolari scomparirebbero immediatamente nella fisionomia comune. 269

I legislatori delle democrazie hanno altre occupazioni. Date ai popoli democratici cultura e libertà e lasciateli fare. Essi riusciranno a ricavare senza fatica da questo mondo tutti i beni che può offrire; perfezioneranno ciascuna delle arti utili e renderanno tutti i giorni la vita conveniente, più facile e più dolce; il loro stato sociale li spinge naturalmente da questa parte e temo che non abbiano intenzione di fermarsi. Ma mentre l’uomo si compiace di questa ricerca onesta e legittima del benessere, bisogna preoccuparsi che non perda, alla fine, l’uso delle sue facoltà più sublimi e che, nel voler migliorare ogni cosa intorno a sé, non finisca per lasciar degradare se stesso. È qui il pericolo, non da altre parti. È necessario, dunque, che i legislatori delle democrazie e tutti gli uomini onesti e illuminati che vivono in esse si applichino senza riposo a innalzarvi le anime e a mantenerle degne del Regno dei cieli. È necessario che tutti quelli che si interessano all’avvenire delle società democratiche si uniscano e che tutti, di concerto, facciano sforzi continui per disseminare in seno ad esse il gusto dell’infinito, il sentimento della grandezza e l’amore per i piaceri spirituali. Se riscontrate tra le opinioni di un popolo democratico qualcuna di quelle teorie malefiche, che spingono a far credere che ogni cosa perisce con il corpo, considerate pure gli uomini che le professano alla stregua di nemici naturali di quel popolo. Vi sono molte cose che mi feriscono nei materialisti: le loro dottrine mi sembrano perniciose e il loro orgoglio mi disgusta. Se il loro sistema potesse essere di qualche utilità per l’uomo, sembrerebbe che questa consisterebbe nel conferirgli una modesta idea di sé. Ma essi non fanno affatto vedere che è così e, quando credono di avere stabilito a sufficienza di essere dei bruti, si mostrano così fieri come se avessero dimostrato di essere degli dèi. Il materialismo è una malattia dello spirito umano pericolosa presso tutte le nazioni, da temersi particolarmente presso un popolo democratico per il fatto che esso si com270

bina meravigliosamente con il vizio del cuore che è più familiare a quei popoli. La democrazia favorisce il gusto per i piaceri materiali. Questo gusto, se diviene eccessivo, dispone ben presto gli uomini a credere che tutto sia materia; e il materialismo, a sua volta, finisce con il trascinarli con un ardore insensato verso quegli stessi piaceri. Tale è il circolo fatale nel quale le nazioni democratiche si sono spinte. È cosa buona che vedano il pericolo e si fermino. La maggior parte delle religioni non è altro che un mezzo generale, semplice e pratico di insegnare agli uomini l’immortalità dell’anima. È qui il più grande beneficio che un popolo democratico ricava dalle credenze, ed è la cosa che le rende più necessarie a un popolo del genere che a tutti gli altri. Quando, dunque, una religione qualunque ha immesso delle radici profonde in seno a una democrazia, guardatevi bene dal farla vacillare, ma piuttosto conservatela con cura come l’eredità più preziosa dei secoli aristocratici; non cercate di strappar via agli uomini le loro antiche opinioni religiose per sostituirle con delle nuove, perché il timore è che, nel passaggio da una fede all’altra, l’anima, trovandosi per un momento priva di credenze, venga conquistata e riempita interamente dall’amore per i piaceri materiali. Di sicuro la metempsicosi non è più ragionevole del materialismo; tuttavia, se fosse assolutamente necessario che una democrazia facesse una scelta fra le due, non avrei esitazioni a ritenere che i suoi cittadini rischiano meno l’abbrutimento pensando che la propria anima si trasferirà nel corpo di un maiale, che nel ritenere che non esiste. La fede in un principio spirituale e immortale, unito per un certo tempo alla materia, è così necessaria alla grandezza dell’uomo al punto da produrre ancora degli effetti benefici quando non v’è congiunta l’opinione delle ricompense e delle pene, e ci si limita a credere che dopo la morte il principio divino racchiuso nell’uomo si riassorba in dio o vada ad animare un’altra creatura. 271

Questi stessi considerano il corpo alla stregua di una parte secondaria e inferiore della nostra natura, tanto da disprezzarlo anche quando subiscono la sua influenza, mentre conservano una stima fisiologica e un’ammirazione segreta per la parte spirituale dell’uomo, anche quando rifiutano talvolta di sottomettersi al suo impero. Ce n’è abbastanza per conferire alle loro idee e ai loro gusti un certo tono di elevatezza, e per farli tendere disinteressatamente e spontaneamente verso sentimenti puri e grandi pensieri. Non è certo che Socrate e la sua scuola avessero delle opinioni ben salde su ciò che sarebbe capitato all’uomo nell’altra vita, ma la sola credenza sulla quale si erano fissati, che l’anima non ha nulla in comune con il corpo e anzi questo è servo di quella, è stata sufficiente per conferire alla filosofia platonica quella sorta di slancio sublime che la distingue. Quando si legge Platone, ci si rende conto che nei tempi a lui anteriori, e anche nel suo, esistevano molti scrittori che raccomandavano vivamente il materialismo. Questi scrittori non sono pervenuti fino a noi, o lo hanno fatto in maniera assai incompleta. Così è stato in quasi tutti i secoli: la maggior parte delle grandi reputazioni letterarie si è congiunta allo spiritualismo. L’istinto e il gusto propri del genere umano sostengono questa dottrina, spesso la salvano a dispetto degli uomini stessi, facendo rimanere a galla i nomi di coloro che aderiscono ad essa. Non bisogna dunque credere che vi sarà un tempo, quale che sia lo stato politico, in cui le passioni per i piaceri materiali e le opinioni correlate potranno bastare a tutto un popolo. Il cuore dell’uomo è più vasto di quanto si suppone, esso può contenere allo stesso tempo il gusto dei beni terreni e l’amore per quelli celesti; talvolta sembra abbandonarsi perdutamente a uno dei due, ma non sta mai troppo tempo senza pensare all’altro. Se è facile vedere che è particolarmente nei tempi di democrazia che si rivela importante far regnare le opinioni spiritualiste, non è altrettanto facile dire come dovrebbero fare coloro che governano i popoli democratici per farvele regnare. Io non credo alla prosperità e alla durata delle filosofie ufficiali e, quanto alle religioni di stato, ho sempre pensa272

to che se talvolta possono servire momentaneamente gli interessi del potere politico, presto o tardi diventano sempre fatali alla Chiesa. Non sono neanche fra quelli che ritengono che per risollevare la religione agli occhi del popolo, e onorare lo spiritualismo che essa professa, sia cosa buona accordare indirettamente ai suoi ministri un’influenza politica che la legge rifiuta loro. Mi sento così consapevole dei pericoli quasi inevitabili che corrono le credenze quando i loro interpreti si mescolano con i pubblici affari, e sono altresì convinto che sia necessario mantenere a ogni costo il cristianesimo in seno alle nuove democrazie, che preferirei incatenare i sacerdoti nel santuario che lasciarli uscire. Quali mezzi restano dunque all’autorità per ricondurre gli uomini verso le opinioni spiritualiste o per trattenerli all’interno della religione che le suggerisce? Ciò che sto per dire mi nuocerà non poco agli occhi dei politici. Io credo che il solo mezzo efficace di cui i governi possono servirsi per onorare il dogma dell’immortalità dell’anima sia di agire ogni giorno come se vi credessero essi stessi; e penso che è soltanto conformandosi scrupolosamente alla morale religiosa nei grandi affari che essi possono sperare di insegnare ai cittadini a conoscerla, amarla e rispettarla in quelli piccoli.

L’oggetto delle azioni umane nelle epoche di uguaglianza e di dubbio15 Nei secoli di fede lo scopo finale della vita viene posto dopo la vita stessa. In quei tempi, dunque, gli uomini si abituano naturalmente e, per così dire, quasi senza volerlo, a scrutare per una lunga serie di anni un oggetto immobile verso il quale 15

Da De la démocratie en Amérique, in O.C., I, 2, pp. 155-157.

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essi camminano senza sosta, e imparano, attraverso dei progressi impercettibili, a reprimere mille piccoli desideri passeggeri, per meglio pervenire al soddisfacimento di quel desiderio grande e permanente che li tormenta. Quando gli stessi uomini vogliono occuparsi delle cose terrene, si riscontrano in loro le stesse abitudini: essi stabiliscono volontariamente, per le loro azioni di questo mondo, un fine generale e certo, verso il quale dirigono tutti i loro sforzi. Non li si vede dedicarsi ogni giorno a nuovi tentativi, ma hanno disegni saldi che non smettono di perseguire. Ciò spiega perché i popoli religiosi abbiano compiuto spesso delle imprese assai durevoli. Si è scoperto che mentre si occupavano dell’altro mondo, avevano trovato il grande segreto per riuscire in questo qui. Le religioni conferiscono l’abitudine generale a comportarsi in vista dell’avvenire. In questo sono utili tanto alla felicità in questa vita quanto in quell’altra. È uno dei loro più grandi aspetti politici. Ma, man mano che i lumi della fede si oscurano, la vista degli uomini si accorcia, e si direbbe che ogni giorno l’oggetto delle azioni umane sembra loro più prossimo. Una volta abituati a non occuparsi più di ciò che deve accadere dopo la propria vita, li si vede ripiombare facilmente in quella indifferenza completa e brutale per l’avvenire che è molto conforme a certi istinti della specie umana. Non appena hanno perso l’abitudine di investire le loro speranze a lunga scadenza, sono naturalmente portati a voler realizzare senza ritardo i proprio desideri inferiori, e sembra che, nel momento in cui perdono la speranza di vivere eternamente, siano disposti ad agire come se non dovessero esistere che un solo giorno. Nei secoli di incredulità, dunque, bisogna sempre aver timore che gli uomini non si abbandonino senza sosta all’azzardo giornaliero dei loro desideri, e che, rinunciando del tutto a ottenere ciò che non può essere acquisito senza dei lunghi sforzi, non creino nulla di grande, stabile e durevole. Se accade che presso un popolo così disposto lo stato sociale diviene democratico, il pericolo di cui parlo aumenta. 274

Quando ognuno cerca continuamente di cambiare di posto, un’immensa concorrenza è aperta a tutti e le ricchezze si accumulano e si dissipano in pochi istanti in mezzo al tumulto della democrazia; quando v’è l’idea di una fortuna rapida e facile, di grandi beni facilmente acquisiti e perduti, allora l’immagine dell’azzardo si presenta allo spirito umano sotto tutte le sue forme. L’instabilità dello stato sociale favorisce l’instabilità naturale dei desideri. In mezzo a queste fluttuazioni perpetue della sorte, il presente ingrandisce e nasconde l’avvenire e gli uomini non vogliono pensare ad altro che al domani. In quei paesi in cui, per un disgraziato concorso di cause, si ritrovano l’irreligione e la democrazia, i filosofi e i governanti devono impegnarsi senza sosta a differire, agli occhi degli uomini, l’oggetto delle azioni umane: questa è la loro grande occupazione. Bisogna che, rinchiudendosi nello spirito del suo secolo e del suo paese, il moralista impari a difendersi, che ogni giorno si sforzi di mostrare ai propri contemporanei come, anche nel mezzo del movimento perpetuo che li circonda, è più facile di quanto non pensino ideare ed eseguire delle imprese a lungo termine; che faccia vedere loro che, malgrado l’umanità abbia cambiato volto, i metodi con i quali gli uomini possono procurarsi la prosperità in questo mondo sono rimasti invariati, e che, tanto presso i popoli democratici quanto presso gli altri, è resistendo a mille piccole passioni particolari di tutti i giorni che si può arrivare a soddisfare la passione generale della felicità, che è quella che li tormenta. Il compito dei governanti non è meno tracciato. In tutti i tempi è importante che coloro che dirigono le nazioni attuino una condotta proiettata all’avvenire. Ma ciò è ancora più necessario nei secoli di democrazia e incredulità che in tutti gli altri. Agendo in questo modo, i capi delle democrazie non soltanto fanno prosperare gli affari pubblici, ma insegnano anche, con il loro esempio, agli individui, l’arte di condurre i propri affari. Occorre soprattutto che essi si sforzino di bandire, per quanto possibile, l’azzardo dal mondo politico. 275

L’elevazione immediata e immeritata di un cortigiano in un paese aristocratico produce soltanto un’impressione passeggera, perché l’insieme delle istituzioni e delle credenze costringe abitualmente gli uomini a marciare lentamente all’interno di binari dai quali non possono uscire. Ma non v’è nulla di più pernicioso di simili esempi che si presentino agli sguardi di un popolo democratico. Essi finiscono per far precipitare il cuore dei cittadini su una china assai pericolosa. È, dunque, principalmente nei tempi di scetticismo e di uguaglianza che si deve evitare con cura che il favore del popolo, o quello del principe, il cui azzardo vi favorisce o vi nuoce, tenga il posto della scienza e dei servizi resi alla comunità. Bisogna augurarsi che ogni progresso appaia come il frutto di uno sforzo, in modo tale che non vi siano delle conquiste troppo facili e che l’ambizione sia costretta a rimirare a lungo il proprio scopo prima di ottenerlo. Bisogna che i governi si impegnino a restituire agli uomini questo gusto per l’avvenire, che non è più ispirato dalla religione e dallo stato sociale, e che, senza dichiararlo, insegnino ogni giorno con la pratica che la ricchezza, la gloria e il potere sono i premi del lavoro, che i grandi successi si trovano posti al termine di lunghi desideri e che non si ottiene nulla di durevole se non è acquisito con fatica. Quando gli uomini si sono abituati a prevedere da lungi ciò che deve accadere loro quaggiù, e a nutrirsi di speranza, diviene arduo per loro limitare continuamente i loro spiriti all’interno dei confini di questa vita, così che risultano ben disposti a varcarne i limiti per gettare i loro sguardi al di là. Io non dubito affatto, quindi, che abituando i cittadini di questo mondo a pensare all’avvenire non si finisca con il farli avvicinare a poco a poco, e senza che loro stessi se ne accorgano, alle credenze religiose. Così, il mezzo che permette agli uomini di fare a meno, almeno fino a un certo punto, della religione, è forse, dopotutto, il solo che ci resta per ricondurre il genere umano, attraverso una lunga deviazione, alla fede.

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Capitolo sesto

Religione e rivoluzione 1789-1848

La Rivoluzione francese e la distruzione del potere religioso1 Uno dei primi passi della Rivoluzione francese è stato quello di attaccare la Chiesa e, tra le passioni che sono nate da questa rivoluzione, la prima ad accendersi e l’ultima a spegnersi è stata la passione irreligiosa. Anche quando l’entusiasmo per la libertà era svanito, dopo che ci si era ridotti a comprare la tranquillità al prezzo della servitù, si proseguiva nella rivolta contro l’autorità religiosa. Napoleone, che aveva potuto vincere lo spirito liberale della Rivoluzione francese, fece degli sforzi inutili per domare lo spirito anticristiano della stessa e, perfino ai nostri tempi, abbiamo visto uomini che credevano di ricomprare il proprio servilismo verso i miseri rappresentanti del potere politico con la loro insolenza verso dio, e che, mentre rinunciavano a tutto ciò che vi era di più libero, nobile e fiero nelle dottrine della Rivoluzione francese, si illudevano di restare ancora fedeli al suo spirito rimanendo indevoti. Tuttavia è facile, oggigiorno, convincersi che la guerra alle religioni non rappresentasse che un incidente della grande rivoluzione, un tratto saliente e tuttavia fugace della sua fisionomia, un prodotto passeggero delle idee, delle 1

Da L’Ancien Régime et la Révolution, I, 2, in O.C., II, 1, pp. 83-85.

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passioni, dei fatti specifici che l’hanno preceduta e preparata, e non il suo spirito fondante. Si considera, a ragione, la filosofia del Settecento come una delle cause principali della Rivoluzione, ed è certamente vero che si tratta di una filosofia profondamente irreligiosa. Ma bisogna distinguere con cura in essa due parti, che sono a un tempo distinte e separate. In una si trovano tutte le opinioni, nuove o ringiovanite, che fanno riferimento alla condizione delle società e ai princìpi delle leggi civili e politiche, quali, ad esempio, l’uguaglianza naturale degli uomini, l’abolizione di tutti i privilegi di casta, di classe, di professione, che ne rappresenta una conseguenza, la sovranità del popolo, l’onnipotenza del potere sociale, l’uniformità delle norme... Tutte queste dottrine non costituiscono soltanto le cause della Rivoluzione francese, ma formano anche, per così dire, la sua sostanza; esse rappresentano quanto di più fondamentale, durevole e, relativamente al tempo, vero vi è nelle sue opere. Nell’altra parte delle loro dottrine, il filosofi del Settecento sono stati colti da una specie di furore contro la Chiesa: hanno assalito il suo clero, la sua gerarchia, le sue istituzioni e i suoi dogmi e, per distruggerli meglio, hanno voluto sradicare i fondamenti stessi del cristianesimo. Ma questo aspetto della filosofia del Settecento, essendo nato all’interno di quei fatti che la stessa Rivoluzione stava distruggendo, doveva sparire a poco a poco con essi, per ritrovarsi come sepolto nel suo trionfo. Aggiungerò poche parole per finire di farmi comprendere, poiché voglio riprendere altrove questo importante argomento: il cristianesimo aveva acceso odi furiosi assai meno come dottrina religiosa che come istituzione politica; non perché i preti pretendessero di regolare le faccende dell’altro mondo, ma perché erano proprietari, signori, beneficiari di decime e amministratori in tale ambito; non perché la Chiesa non potesse trovare posto nella nuova società che si andava fondando, ma perché essa occupava in quel momento il posto più privilegiato e più potente all’interno della vecchia società che si trattava di ridurre in polvere. 278

Considerate ora come il procedere del tempo abbia messo, e continui a farlo ogni giorno, in luce questa verità: mano a mano che l’opera politica della Rivoluzione s’è consolidata, la sua azione irreligiosa s’è andata rovinando; mano a mano che tutte le antiche istituzioni politiche che essa ha attaccato sono andate distrutte, che i poteri, le autorità, le classi a lei più odiose sono state vinte senza possibilità di appello, e che, ultimo segno della loro disfatta, gli stessi moti di odio che esse ispiravano si erano attenuati; nella misura in cui, infine, il clero si è fatto da parte rispetto a tutto ciò che era caduto con esso, si è vista la potenza della Chiesa riprendere quota e consolidarsi nei cuori delle persone. Né si creda che questo fenomeno sia peculiare alla Francia: non vi è stata Chiesa cristiana in Europa che non si sia ravvivata dopo la Rivoluzione francese. Credere che le società democratiche siano naturalmente ostili alla religione equivale a commettere un grave errore: nulla nel cristianesimo, né tantomeno nel cattolicesimo, è assolutamente contrario allo spirito di queste società, anzi, sono molteplici gli aspetti ad esse assai favorevoli. L’esperienza di tutti i secoli ha fatto vedere, d’altronde, che la radice più vivida dell’istinto religioso è rimasta sempre piantata nel cuore del popolo. Tutte le religioni che sono perite hanno trovato là il loro ultimo asilo e sarebbe ben strano che le istituzioni tendenti a far prevalere le idee e le passioni del popolo avessero come effetto necessario e permanente quello di sospingere lo spirito umano verso l’empietà [...].

La Rivoluzione francese alla stregua di una rivoluzione religiosa2 Tutte le rivoluzioni civili e politiche hanno avuto una patria e ad essa sono rimaste circoscritte. La Rivoluzione 2

Da L’Ancien Régime et la Révolution, I, 3, in O.C., II, 1, pp. 87-90.

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francese non ha avuto un territorio suo proprio, anzi, il suo risultato, in qualche modo, è stato quello di cancellare dalla carta geografica tutte le antiche frontiere. La si è vista avvicinare o dividere gli uomini a dispetto delle leggi, delle tradizioni, delle indoli e della lingua, rendendo talvolta nemici dei compatrioti e fratelli degli stranieri; o piuttosto essa ha formato, al di sopra di tutte le nazionalità specifiche, una patria intellettuale comune di cui gli uomini di tutte le nazioni sono potuti divenire cittadini. Frugate pure fra tutti gli annali della storia, non troverete una sola rivoluzione politica che abbia avuto questo medesimo carattere: non lo ritroverete che in talune rivoluzioni religiose. Quindi è alle rivoluzioni religiose che bisogna comparare la Rivoluzione francese se la si vuole far comprendere con l’ausilio dell’analogia. Schiller sottolinea a ragione, nella sua Storia della guerra dei Trent’anni, che la grande riforma del Cinquecento ha avuto per effetto quello di avvicinare subitaneamente dei popoli che si conoscevano appena e di unirli strettamente tramite delle simpatie nuove3. Allora si sono visti, in effetti, dei francesi combattere contro altri francesi, mentre degli inglesi accorrevano in loro aiuto; uomini nati ai limiti del mar Baltico penetrarono fin nel cuore della Germania per proteggere dei tedeschi di cui non avevano mai sentito parlare fino a quel momento. Tutte le guerre fra nazioni straniere presero qualche aspetto delle guerre civili; in tutte le guerre civili fecero la loro comparsa degli stranieri. I vecchi interessi di ogni nazione furono dimenticati in nome di interessi nuovi; alle questioni di territorio si sostituirono quelle di princìpi. Tutte le regole della diplomazia si trovarono mescolate e confuse, con grande stupore e sofferenza dei politici del tempo. Si tratta precisamente di quanto capitò in Europa dopo il 1789. 3

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J.F.C. SCHILLER (1759-1805), poeta, drammaturgo e filologo tedesco.

La Rivoluzione francese è dunque una rivoluzione politica che ha operato alla stregua di una rivoluzione religiosa e ne ha preso per certi versi la forma. Vediamo attraverso quali tratti specifici e caratteristiche essa finì con il rassomigliare a una rivoluzione religiosa: non soltanto si diffonde a distanza, alla maniera di una rivoluzione religiosa, ma, come questa, essa penetra in paesi lontani attraverso la predicazione e la propaganda. Una rivoluzione politica che ispira il proselitismo; che viene predicata nei confronti dei paesi stranieri con ardore pari a quello con cui la si realizza nel proprio; che spettacolo inaudito! Fra tutte le cose sconosciute che la Rivoluzione francese ha mostrato al mondo, questa è certamente la più inaudita. Ma non fermiamoci a questo: tentiamo di andare più in là con la comprensione e scoprire se questa rassomiglianza, quanto agli effetti, non possa risalire a qualche rassomiglianza nascosta nelle cause. Carattere abituale delle religioni è quello di considerare l’uomo in quanto tale, senza soffermarsi su ciò che le leggi, i costumi e le tradizioni di un paese hanno potuto annettere di peculiare a questo fondo comune. Loro scopo principale è di regolare i rapporti generali dell’uomo con dio, nonché i diritti e i doveri generali degli uomini fra loro, indipendentemente dalla forma delle società. Le regole di condotta da esse indicate riguardano meno l’uomo di un determinato paese e periodo storico e più un figlio, un padre, un servitore, un padrone o un prossimo. Trovando quindi il proprio fondamento nella stessa natura umana, possono essere accolte in maniera uguale da tutti gli uomini ed essere applicabili in ogni situazione. Da ciò deriva il fatto che le rivoluzioni religiose hanno avuto spesso teatri d’azione così ampi, e che raramente sono rimaste confinate, come le rivoluzioni politiche, all’interno del territorio di un solo popolo, e neppure di una stessa razza. Volendo approfondire ulteriormente questo tema, si vedrà che più le religioni hanno avuto questo carattere astratto e generale che ho indicato, tanto più si sono estese, a dispetto della differenza delle leggi, dei climi e degli uomini stessi. 281

Le religione pagane dell’antichità, che erano tutte più o meno legate alla costituzione politica o al sistema sociale di ciascun popolo, e che conservavano fin nei loro dogmi una certa fisionomia nazionale e spesso addirittura municipale, sono rimaste solitamente circoscritte all’interno dei confini di un territorio dal quale non sono quasi mai uscite. Esse generarono talvolta l’intolleranza e la persecuzione, ma il proselitismo rimase loro quasi del tutto sconosciuto. Perciò non vi sono state delle grandi rivoluzioni religiose in Occidente prima dell’avvento del cristianesimo. Quest’ultimo, oltrepassando con facilità tutti gli impedimenti che avevano fermato le religioni pagane, conquistò in poco tempo gran parte del genere umano. Non credo che voglia dire mancare di rispetto a questa religione santa affermare che essa ha dovuto il suo trionfo, in parte, al fatto di essersi liberata più di ogni altra di tutto ciò che poteva essere peculiare a un popolo, a una forma di governo, a un modello sociale, a un’epoca e a una razza. La Rivoluzione francese ha operato, in rapporto al mondo terreno, precisamente nella stessa maniera in cui lo fanno le rivoluzioni religiose in vista dell’aldilà; ha considerato il cittadino in una maniera astratta, al di là delle determinate società di appartenenza, alla stessa stregua in cui le religioni considerano l’uomo in generale, indipendentemente dal paese di origine e dal tempo in cui vive. Essa non è andata in cerca soltanto di quale fosse il diritto specifico del cittadino francese, ma di quali fossero i diritti e i doveri in generale degli uomini in materia politica. È proprio risalendo sempre a ciò che vi era di meno specifico e, per così dire, di più naturale in ambito di stato sociale e di governo, che essa ha potuto rendersi comprensibile a tutti e imitabile in cento luoghi contemporaneamente. Poiché essa aveva l’aria di puntare alla rigenerazione del genere umano più ancora che a una riforma della Francia, è riuscita a fomentare una passione negli animi che neppure le rivoluzioni politiche più violente 282

erano state in grado di produrre. Essa ha ispirato il proselitismo e fatto sorgere la propaganda. Da qui, infine, ha potuto assumere quella fisionomia da rivoluzione religiosa che tanto ha spaventato i contemporanei; o meglio è diventata essa stessa una sorta di nuova religione, religione imperfetta, è vero, senza un dio, un culto e una vita oltre la vita, ma che, ciò nonostante, come l’islamismo ha inondato tutta la terra con i suoi soldati, i suoi apostoli e i suoi martiri. Non bisogna credere, del resto, che i metodi da essa impiegati fossero del tutto senza precedenti, e che tutte le idee da essa messe in campo fossero completamente nuove. Vi sono stati in tutti i secoli, financo in pieno Medioevo, degli agitatori che, per cambiare determinati costumi, hanno invocato le leggi generali delle società umane e hanno agito opponendo alla carta costituzionale dei propri paesi i diritti naturali dell’umanità. Ma tutti questi tentativi sono falliti: la stessa fiaccola che infiammò l’Europa nel Settecento fu agevolmente spenta nel Cinquecento. Perché argomenti di siffatto genere producano delle rivoluzioni, bisogna, in effetti, che certi cambiamenti già intervenuti nelle condizioni di vita, nelle tradizioni e nei costumi abbiano predisposto lo spirito umano a lasciarsene penetrare. Vi sono dei tempi in cui gli uomini differiscono talmente tanto gli uni dagli altri, che l’idea di una medesima legge applicabile a tutti risulta per loro quasi incomprensibile. Ve ne sono altri in cui è sufficiente mostrare loro, anche solo da lontano e confusamente, l’immagine di una determinata legge perché essi la riconoscano immediatamente e vi accorrano. Il fatto più straordinario non è che la Rivoluzione francese abbia impiegato il procedimento che ognuno ha potuto osservare e concepire quelle idee che essa ha prodotto: la grande novità consiste nel fatto che tanti popoli fossero arrivati al punto di mettere in pratica con efficacia le medesime procedure e accettare con facilità quelle massime. 283

L’irreligione dei francesi rivoluzionari4 Dopo la grande rivoluzione del Cinquecento, in cui il libero spirito esaminatore aveva cercato di distinguere tra le diverse tradizioni cristiane quali fossero quelle false e quelle vere, erano continuamente venuti alla luce degli spiriti geniali, più curiosi o più arditi, che le avevano contestate o rigettate tutte. Lo stesso spirito che, ai tempi di Lutero, aveva fatto uscire dal cattolicesimo contemporaneamente milioni di cattolici, ogni anno spingeva isolatamente certuni cristiani perfino a uscire dal cristianesimo: all’eresia era succeduta l’incredulità. In linea generale si può affermare che nel Settecento il cristianesimo aveva perduto su tutto il continente europeo una parte notevole della propria potenza; ma, nella maggior parte dei paesi, veniva abbandonato più che violentemente combattuto; coloro stessi che se ne allontanavano lo facevano quasi con rimpianto. L’irreligione era diffusa presso i principi e gli ingegni più elevati; essa non aveva una gran penetrazione, ancora, tra le classi medie e il popolo: si attestava come capriccio di determinati ingegni, non come opinione comune. «Si tratta di un pregiudizio generalmente diffuso in Germania», dice Mirabeau nel 1787, «quello per cui le province prussiane pullulino di atei. La verità è che se anche vi si trovano alcuni liberi pensatori, il popolo è tanto attaccato alla religione quanto le contrade più devote, e che vi si conta anche un gran numero di fanatici». Egli aggiunge che è giusto rammaricarsi per il fatto che Federico II non autorizzi il matrimonio dei preti cattolici nonché, soprattutto, per il fatto che rifiuti di lasciare a quelli che si sposano la rendita del proprio beneficio ecclesiastico, «misura che», egli dice, «oseremmo credere degna di siffatto grande uomo». Da nessuna parte ancora l’irre4

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Da L’Ancien Régime et la Révolution, III, 2, in O.C., II, 1, pp. 202-

ligione era divenuta una passione comune, ardente, intollerante e oppressiva, se non in Francia. Là si stava verificando una cosa ancora inaudita. Anche in tempi passati era successo che si attaccassero con violenza delle religioni stabilite, ma l’ardore che si mostrava contro di esse trovava sempre origine dallo zelo ispirato da nuove religioni. Financo le religioni false e detestabili dell’antichità non ebbero dei nemici numerosi e ardenti finché non si presentò il cristianesimo a soppiantarle; fino a quel momento esse si spegnevano dolcemente e senza clamore, in mezzo al dubbio e all’indifferenza: si tratta della morte per vecchiaia delle religioni. In Francia ci si scagliò con una specie di furore contro la religione cristiana, senza sforzarsi neppure di provare a mettere un’altra religione al suo posto. Si lavorò con ardore e costanza per svuotare le anime della fede che le aveva riempite, e le si lasciò vuote. Moltissimi uomini si infiammarono in questa ingrata impresa. L’incredulità completa in materia di religione, che è così contraria agli istinti naturali dell’uomo, tanto da lasciare l’anima in una situazione dolorosa, sembrò attraente per la massa. Ciò che fino a quel momento non aveva provocato altro che una sorta di languore morboso, generò a quel punto il fanatismo e lo spirito di propaganda. L’incontro di numerosi grandi scrittori disposti a negare le verità della religione cristiana non sembrava sufficiente a spiegare un avvenimento così straordinario; infatti perché mai tutti questi scrittori, e dico tutti, hanno portato il proprio intendimento da questa parte e non dall’altra? Perché tra tutti questi non se ne è avuto uno che avesse anche soltanto immaginato di poter scegliere la tesi contraria? E infine, perché mai essi hanno trovato, assai più di tutti i loro predecessori, l’orecchio della folla tutto proteso all’ascolto e il loro animo così proclive a credergli? Vi erano delle motivazioni assai specifiche del tempo e del paese di questi scrittori che potevano spiegare tanto la loro impresa quanto, soprattutto, il loro successo. Da molto tempo lo spirito di Voltaire era nel mondo, ma proprio Voltaire non poteva che regnare nel Settecento e in Francia. 285

Anzitutto riconosciamo che la Chiesa non aveva nulla per cui dovesse essere esposta agli attacchi in misura maggiore da noi che in altri paesi, i vizi e gli abusi che ad essa si erano mescolati erano, al contrario, in misura minore che nella maggior parte degli altri paesi cattolici; mostrava una tolleranza infinitamente maggiore rispetto a quella applicata fino a quel momento e che ancora stava applicando presso altri popoli. È perciò assai meno nella condizione della religione che in quella della società che bisogna cercare le cause specifiche del fenomeno. Per comprenderlo, non bisogna perdere di vista un solo momento quanto ho detto nel capitolo precedente, e cioè che tutto il sentimento di opposizione politica che i vizi del governo avevano generato, non potendo manifestarsi negli affari pubblici, aveva trovato rifugio nella letteratura, e che gli scrittori erano divenuti i veri capi del grande partito che si proponeva di sovvertire tutte le istituzioni sociali e politiche del paese. Afferrato bene questo concetto, cambia la prospettiva dell’oggetto in questione. Non si tratta più di sapere in cosa la Chiesa del tempo potesse peccare nel suo ruolo di istituzione religiosa, ma in che modo essa costituisse un ostacolo alla rivoluzione politica che si stava preparando, tanto da divenire particolarmente scomoda agli occhi degli scrittori, che ne erano i principali promotori. La Chiesa costituiva un ostacolo per via dei princìpi propri del suo governo, contrastanti con quelli di coloro che volevano far prevalere i propri nell’ambito del potere civile. Essa si appoggiava principalmente sulla tradizione, mentre quelli professavano un grande disprezzo per tutte le istituzioni fondate sul rispetto del passato; essa riconosceva un’autorità superiore alla ragione individuale, la stessa a cui quelli si limitavano a richiamarsi formalmente; essa si fondava su una gerarchia, mentre quelli tendevano alla confusione dei ranghi. Per trovare una via di intesa con essa, sarebbe stato necessario che da una parte e dal286

l’altra si fosse riconosciuto che la società politica e la società religiosa, essendo per natura essenzialmente differenti, non possono reggersi per mezzo degli stessi princìpi; ma si era ben lontani da tutto ciò in quel momento, e sembrava che per poter intaccare le istituzioni dello stato fosse necessario distruggere quelle della Chiesa, che a queste servivano da fondamento e modello. La Chiesa, d’altra parte, a quel tempo costituiva essa stessa il primo dei poteri politici, il più detestato di tutti sebbene non fosse il più oppressivo; infatti si era mescolata a quelli senza esservi chiamata per sua vocazione e natura, e spesso consacrava dei vizi di quei poteri che per altri versi condannava, coprendoli con la sua sacra inviolabilità quasi volesse conferire a quelle autorità politiche il suo stesso carattere eterno. Attaccandola, si era sicuri di entrare immediatamente nelle grazie dell’opinione pubblica. Ma, oltre queste ragioni di carattere generale, gli scrittori ne covavano di più specifiche e, per così dire, personali, per avercela con la Chiesa. Per la precisione, essa rappresentava quella parte del potere governativo che era loro più prossima e maggiormente in diretta opposizione. Gli altri poteri non si interessavano agli scrittori che di rado, ma essa, essendo in particolar modo incaricata di sorvegliare gli interventi dei pensatori e di censurarne gli scritti, li infastidiva tutti i giorni. Difendendo contro di essa le libertà generali dello spirito umano, essi combattevano anzitutto per la propria causa, cominciando con lo spezzare i vincoli che più direttamente li costringevano. La Chiesa, inoltre, sembrava loro essere, di tutto il vasto edificio che stavano mettendo sotto attacco, e in effetti lo era, la parte più accessibile e meno difesa. La sua potenza si era andata affievolendo contemporaneamente al rinforzarsi del potere dei princìpi temporali. Dopo essere stata loro superiore, quindi, su un piano di parità, essa si era ridotta a divenire loro cliente; fra loro si era stabilita una specie di scambio: quelli le prestavano la loro forza materiale ed essa la sua autorità morale; quelli costringevano 287

all’obbedienza dei suoi precetti ed essa faceva rispettare la loro volontà. Commercio pericoloso, quando si avvicinano i tempi della rivoluzione, e sempre a discapito di una potenza che non si fonda sulla costrizione, ma sulla fede. Sebbene i nostri re si facessero ancora chiamare figli primogeniti della Chiesa, assolvevano in maniera assai negligente i propri doveri verso di essa; mostravano un ardore assai inferiore nel proteggerla rispetto a quello che impiegavano per difendere il proprio governo. Non permettevano, questo è vero, che qualcuno mettesse la propria mano su di essa, ma tolleravano che la si percuotesse da lontano con mille strali. Questo semi-impedimento che veniva imposto a quel tempo ai nemici della Chiesa, ben lungi dal diminuire il loro potere, lo aumentava. Vi sono dei frangenti in cui la coercizione degli scrittori riesce ad arrestare il movimento del pensiero, in altri lo rinforza. Ma non si è mai verificato che una simile politica di censura, quale quella che si esercitava a quel tempo sulla stampa, non avesse centuplicato il potere di quest’ultima. Gli autori erano perseguitati soltanto nella misura che induce al lamento, non in quella che spaventa; pativano quella specie di strettoia che spinge alla lotta, non il giogo pesante che soverchia. Le persecuzioni di cui erano fatti oggetto, quasi sempre lente, fragorose e vane, sembravano avere come scopo più quello di incitarli alla scrittura che di dissuaderli. Una completa libertà di stampa sarebbe stata meno dannosa per la Chiesa. Scriveva Diderot a David Hume nel 1768: «Voi ritenete la nostra intolleranza più favorevole ai progressi dello spirito della vostra libertà illimitata. D’Holbach, Helvetius, Morellet e Suard non sono del vostro avviso5». Nondimeno 5 Paul Heinrich Dietrich, barone d’Holbach (1723-1789), pensatore francese di origine tedesca, fu il più radicale esponente del materialismo illuministico. Il suo Sistema della natura (Amsterdam 1770) suscitò le critiche persino di Voltaire. Claude-Adrien Helvetius (1715-1771), francese, fu anch’egli un pensatore materialista che con il suo Lo spirito

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era lo scozzese ad avere ragione. Abitante di un paese libero, questi possedeva l’esperienza della libertà; Diderot giudicava le cose da uomo di lettere, Hume da politico. Fermo il primo americano che incontro, nel suo paese o in un altro, e gli domando se crede che la religione sia utile alla stabilità delle leggi e al buon ordine della società; egli mi risponde senza esitazione che una società civilizzata, ma soprattutto una società libera, non può sussistere senza religione. Il rispetto per la religione rappresenta, ai suoi occhi, la più grande garanzia di stabilità dello Stato e di sicurezza per gli individui. Anche i meno avvezzi alla scienza della politica conoscono almeno questa verità. Tuttavia, non v’è paese al mondo in cui le più ardite dottrine dei filosofi del Settecento, in materia di politica, siano applicate più che in America; solamente le loro dottrine antireligiose non vi hanno potuto mai prendere piede, neppure approfittando della illimitata libertà di stampa. Posso dire altrettanto degli inglesi. La nostra filosofia irreligiosa fu loro predicata anche prima che la maggior parte dei nostri filosofi venisse al mondo: fu Bolingbroke6 a portare a termine l’istruzione di Voltaire. Lungo tutto il corso del Settecento l’incredulità ebbe dei rappresentanti celebri in Inghilterra. Scrittori abili e pensatori profondi portarono avanti tale causa, ma non riuscirono mai a farla trionfare come avvenne in Francia, poiché tutti coloro che avevano qualcosa da temere dalle rivoluzioni si mobilitarono per venire in soccorso delle credenze stabilite. Tra loro, anche quelli che si trovavano maggiormente inseriti (1758), pubblicato anonimamente, suscitò polemiche rilevanti. André Morellet (1727-1819) fu un filosofo francese autore di vari pamphlets assai polemici che contribuirono a diffondere le idee madri dell’Illuminismo. Jean-Baptiste-Antoine Suard (1733-1817) fu un celebre critico letterario francese, per anni segretario della Académie. 6 Henry Saint-John, visconte di Bolingbroke (1678-1751), fu saggista e uomo politico inglese. Da posizioni conservatrici avversò la politica di Walpole, tanto da dover ripiegare spesso e volentieri in Francia nei periodi di disgrazia.

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nella società francese di quel tempo e che non ritenevano false le dottrine dei nostri filosofi le respingevano in quanto pericolose. Grandi partiti politici, cosa che avviene sempre presso i popoli liberi, trovarono un interesse nel legare la propria causa a quella della Chiesa; si vide lo stesso Bolingbroke divenire alleato dei vescovi. Il clero, rincuorato da questi esempi e non sentendosi mai solo, combatteva in prima persona ed energicamente per la sua stessa causa. La Chiesa d’Inghilterra, malgrado il vizio d’origine inerente alla sua costituzione e gli abusi di ogni sorta che pullulavano al proprio interno, resistette vittoriosamente al colpo; scrittori e oratori uscirono dai propri ranghi per sostenere con ardore la difesa del cristianesimo. Le teorie ostili a quest’ultimo, dopo essere state discusse e rifiutate, furono infine rigettate grazie a uno sforzo della società stessa, senza che il governo intervenisse. Ma perché cercare degli esempi fuori della Francia? Quale francese avrebbe oggi l’ardire di scrivere i libri di Diderot o di Helvetius? Chi vorrebbe leggerli? Sarei tentato di dire: chi ne conosce i titoli? L’esperienza incompleta che abbiamo acquisito in sessant’anni di vita politica è stata sufficiente per disgustarci di questa pericolosa letteratura. Vedete come il rispetto della religione abbia ripreso gradualmente il suo impero nelle differenti classi della nazione, nella misura in cui ciascuna di queste acquisiva questa esperienza presso la dura scuola delle rivoluzioni. L’antica nobiltà, che era la classe più irreligiosa prima dell’Ottantanove, divenne la più fervente dopo il 1793; la prima a essere colpita e la prima a convertirsi. Quando la borghesia si sentì anch’essa colpita dal suo stesso trionfo, la si vide riavvicinarsi a sua volta alla fede. Poco a poco il rispetto per la religione penetrò in tutti i luoghi in cui gli uomini avessero qualcosa da perdere nei disordini popolari, l’incredulità sparì o almeno si tenne nascosta, man mano che si rendeva manifesto il timore delle rivoluzioni. Le cose non stavano in questo modo alla fine dell’antico regime. A tal punto avevamo smarrito l’esperienza dei 290

grandi fatti umani, ignorando il ruolo che ricopre la religione nel governo degli imperi, che l’incredulità si instillò innanzi tutto negli animi proprio di coloro che avevano un interesse più personale e più pressante nel mantenere lo Stato nell’ordine e il popolo nell’obbedienza. Non si limitarono ad accogliere l’incredulità, ma nella loro cecità fecero in modo che si diffondesse presso le classi inferiori; finirono con il fare dell’empietà una sorta di passatempo della loro vita oziosa. La Chiesa di Francia, fino a quel momento assai ricca di grandi oratori, sentendosi abbandonata da tutti coloro che un interesse comune avrebbe dovuto ricongiungere alla sua causa, divenne muta. Per un momento si poté credere che, pur di conservare ricchezze e rango sociale, essa fosse pronta a rinnegare la sua fede. Coloro che disconoscevano il cristianesimo alzavano il tono della voce e coloro che ancora credevano stavano in silenzio, quindi avvenne ciò che assai sovente si era visto presso di noi, non soltanto in ambito di religione, ma in tutte le altre materie. Gli uomini che conservavano l’antica fede temettero di essere rimasti i soli a farlo e, avendo paura più dell’isolamento che dell’errore, si appiattirono sulla folla senza pensarla alla stessa maniera. Ciò che ancora non era che il sentimento di una parte della nazione, sembrò essere in questo modo l’opinione di tutti, e da quel momento apparve come un fenomeno ineluttabile agli stessi occhi di coloro che gli avevano attribuito questa falsa apparenza. Il discredito universale nel quale piombarono tutte le fedi religiose alla fine dell’ultimo secolo ha esercitato senza alcun dubbio la più grande influenza su tutta la nostra Rivoluzione: ne ha marcato il carattere. Nulla ha contribuito di più a conferire al suo volto quell’espressione terribile che conosciamo. Quando cerco di distinguere i differenti effetti che l’irreligione ha prodotto a quel tempo in Francia, predisponendo gli uomini di quel tempo a delle forme di estremismo assai inaudite, trovo che si è trattato assai più di un disor291

dine delle intelligenze che di un degrado degli spiriti o di una corruzione dei costumi. Quando la religione abbandonò gli animi, non li lasciò, come avviene spesso, vuoti e debilitati; essi si trovarono momentaneamente riempiti da sentimenti e idee che per un po’ occuparono il posto lasciato libero dalla religione, impedendo loro di sprofondare. Se i francesi che fecero la Rivoluzione erano più increduli di noi in materia religiosa, nondimeno conservavano una fede ammirevole che a noi manca: credevano in se stessi. Non dubitavano della perfettibilità e della forza dell’uomo; si votavano volentieri al servizio della sua gloria, avevano fede nella sua virtù. Alimentavano le proprie energie con questa consapevolezza orgogliosa che conduce sovente all’errore, ma senza la quale un popolo non è capace di far altro che servire; essi non dubitavano del fatto che erano chiamati a trasformare la società e a rigenerare la specie umana. Tali sentimenti e passioni erano divenuti per loro una specie di nuova religione che, producendo qualcuno dei grandi effetti tipici delle religioni, li sradicava dall’egoismo individuale, li spingeva all’eroismo e alla devozione e li rendeva spesso come insensibili a tutti quei piccoli beni di cui siamo schiavi. Ho studiato molto la storia e mi spingo ad affermare che non vi ho mai riscontrato delle rivoluzioni in cui si sia potuto vedere sin dall’inizio, in un così grande numero di uomini, un patriottismo più sincero, più abnegazione e più vera grandezza. La nazione mostrò in quell’occasione ciò che costituisce il principale difetto, ma anche la maggiore qualità della giovinezza: l’inesperienza e la generosità. Malgrado ciò l’irreligione produsse a quel tempo un danno sociale immenso. Nella maggior parte delle rivoluzioni politiche che erano comparse fino a quel momento nel mondo, coloro che attaccavano le leggi costituite mantenevano il rispetto delle credenze e, nella maggior parte delle rivoluzioni religiose, coloro che attaccavano la fede non si proponevano allo stesso 292

tempo di mutare la natura e l’ordine di tutti i poteri e di abolire da cima a fondo l’antica costituzione del governo. Si era sempre conservato, dunque, all’interno dei più grandi terremoti sociali, un punto che restava solido. Ma poiché con la Rivoluzione francese le leggi religiose furono abolite contemporaneamente al rovesciamento delle leggi civili, lo spirito umano si trovò a perdere tutto il proprio assetto; non seppe più a cosa aggrapparsi né dove arrestarsi e si videro apparire dei rivoluzionari di una specie sconosciuta, che portarono l’audacia fino alla follia, che non furono sorpresi da alcuna novità, non rallentarono per alcuno scrupolo e non esitarono mai di fronte all’esecuzione di alcun disegno. Né si può credere che quegli esseri nuovi fossero stati il prodotto isolato ed effimero di un momento storico e sociale determinato, destinati a passare con questo; essi hanno dato vita in seguito a una razza che si è perpetuata e ripartita in tutti i paesi civilizzati della terra, che dovunque ha conservato il medesimo volto, le stesse passioni e il medesimo carattere. Nascendo l’abbiamo trovata nel mondo e ancora si presenta sotto i nostri occhi.

La questione romana7 IL CITTADINO TOCQUEVILLE, MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Chiedo la parola. 7 Formalmente Tocqueville era ministro degli Affari Esteri quando l’esercito francese, comandato dal generale Oudinot, aveva ricevuto l’incarico segreto di occupare la Repubblica romana per restaurare il potere temporale del Papa. Ma che la questione non fosse così semplice lo si può intuire fin dalla cronologia: Tocqueville si insediò come ministro il giorno stesso in cui partì il corpo di spedizione (3 giugno 1849). Di fatto egli si trovò a gestire una situazione decisa da altri un paio di mesi prima, almeno da quel 16 marzo in cui Barrot aveva fatto richiesta alla Costituente di inviare un corpo di spedizione, con l’ambiguo e poco convincente obiettivo di esercitare una mediazione tra il Papa e i suoi sudditi in rivolta. Il primo corpo di spedizione, sempre

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IL CITTADINO PRESIDENTE: La parola al signor mini-

stro degli Affari Esteri. IL CITTADINO TOCQUEVILLE, MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Signori, l’Assemblea ha voluto che si tenesse

un dibattito sugli affari di Roma, ed essa ricorderà che ho acconsentito con rammarico, poiché vedevo in questo dibattito degli inconvenienti che percepisco ancora; tuttavia mi sottometto alla volontà della maggioranza e mi comandato da Oudinot, era partito il 24 aprile, incontrando una fiera e risoluta resistenza da parte dei rivoltosi romani, tanto che la Costituente fu costretta a sconfessare l’attacco. Ma poco più di un mese dopo ci fu la significativa vittoria del partito dell’ordine nelle elezioni per la Legislativa. Oudinot fu incaricato una seconda volta di preparare un corpo di spedizione, che partì alla volta di Roma il giorno stesso in cui Tocqueville si insediò come ministro degli Esteri. Quest’ultimo dette disposizioni il più possibile moderate ai propri ambasciatori a Roma e a Napoli (d’Harcourt e Rayneval), ordinando loro di consentire la restaurazione del potere papale solo a condizione che venisse impedita ogni forma di restaurazione e di ripristino degli antichi abusi, accertandosi che venissero altresì create nuove istituzioni rappresentative (il testo del dispaccio del ministro Tocqueville ai propri ambasciatori si trova in O.C., III, 3, pp. 266-268). Dopo un lungo mese di assedio, Roma venne occupata e Tocqueville si preoccupò ancora di più di rimarcare la propria intenzione di favorire una reale laicizzazione dell’amministrazione, dei tribunali e degli organi locali, senza perdere la speranza rispetto alla costituzione di un’assemblea elettiva. Il testo che qui riportiamo, contenuto in O.C., III, 3, pp. 315-332, costituisce la riproduzione del dibattito, acceso e caratterizzato da momenti di forte tensione, provocato nell’Assemblea legislativa il 6 agosto del 1849 dall’interpellanza di Arnaud de L’Ariège, un cattolico che sedeva fra i banchi della Montagna e che giudicava la restaurazione del potere temporale della Chiesa come dannoso sia per quest’ultima che per la democrazia. Tocqueville, con uno sforzo di assunzione di responsabilità non sue, in quanto neo-ministro degli Affari Esteri che si trovava a gestire decisioni prese da altri, difese pressoché senza riserve le decisioni prese dal partito dell’ordine, rimarcando il fatto che ci si trovava in una fase storica in cui il potere temporale del papato si rivelava ancora indispensabile. Ma è significativa la conclusione del discorso di Tocqueville, in cui questi si trovò a ribadire la necessità che lo Stato pontificio si dotasse comunque di istituzioni liberali e democratizzasse la propria amministrazione, oltre a pronunciare un appello direttamente al Papa Pio IX perché recuperasse lo spirito riformatore dimostrato prima dei fatti del ’48. I propositi di Tocqueville andarono sistematica-

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accingo a seguire l’onorevole che mi ha preceduto nella discussione da lui aperta8, pregando l’Assemblea di tenere nel dovuto conto la difficoltà della situazione in cui mi trovo, essendo i negoziati in corso... (esclamazioni e risate ironiche a sinistra). Si tratta di un principio talmente elementare che, in verità, bisogna essere assai novizi della vita politica per venirlo a contestare in questa sede (approvazione a destra). Ribadisco dunque che la situazione del ministro degli Affari Esteri è sufficientemente complessa perché gli si conceda di dire soltanto ciò che gli sembra assolutamente indispensabile per rispondere ai desideri dell’Assemblea. Imiterò l’onorevole che mi ha preceduto in un punto; come lui non mi addentrerò nel campo delle discussioni retrospettive, credo si tratti di un argomento esaurito (lievi rumori a sinistra). Molte discussioni successive, un voto dell’Assemblea nazionale davanti alla quale io parlo mi sembrano aver chiuso questa questione9. Non ci tornerò sopra; riprenderò la discussione della questione dal punto in cui si trovava quando sono giunto nella posizione che mi trovo a occupare in questo momento. Dirò all’Assemblea come, di primo acchito, ho percepito la questione e quali sono le soluzioni che avevo intravisto; e, per non farle perdere inutilmente il suo tempo, ritengo opportuno portare immediatamente ai suoi occhi lo stesso dispaccio che avevo inviato ai nostri agenti, tre giorni dopo essermi insediato al ministero: al signor de Raymente delusi e il governo papale riprese ben presto i vecchi e retrogradi metodi di governo. La corrispondenza con il suo amico Corcelle, personalmente incaricato dal ministro di svolgere pressioni sull’entourage del Papa (e che venne meno a tutte le disposizioni affidategli), contenuta in O.C., XV, pp. 247 sgg., costituisce il documento più eloquente e significativo della sostanziale impotenza del ministro Tocqueville rispetto alle vicende della questione romana. 8 Tocqueville si riferisce ad Arnaud, sul quale rinviamo alla nota precedente. 9 Il 12 giugno la politica del governo francese nei confronti della questione romana era stata approvata con 361 a favore e 203 contrari.

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neval e al signor d’Harcourt, ministro plenipotenziario della Repubblica francese presso la Santa Sede. Ecco il testo del dispaccio10: Non devo affatto spiegarmi con voi su tutto ciò che ha preceduto il momento attuale, ma è necessario che vi indichi la maniera in cui bisogna agire per trarre il miglior partito possibile dalla posizione presa. Nell’inviare un esercito in Italia, la Francia aveva in vista molteplici scopi, nessuno dei quali deve essere da voi dimenticato. Voleva far riconoscere e mantenere la giusta influenza che essa deve esercitare all’interno della penisola italiana. Desiderava che il papato riprendesse quella posizione indipendente e libera di cui tutto il mondo cattolico ha bisogno, e che è nell’interesse di tutti i governi che dirigono popolazioni cattoliche conservargli. Intendeva assicurare gli Stati romani contro il ritorno agli abusi del vecchio regime. Essa aveva, infine, la convinzione che, agendo in questo modo, sarebbe stata in accordo con la maggioranza del popolo romano, il quale, sebbene assai ostile agli abusi del governo pontificio, non lo era affatto nei confronti del papato. Sono questi, se non mi sbaglio, i giusti motivi che hanno determinato la spedizione in Italia. Non bisogna mai perderne di vista alcuno. Ho trovato, insediandomi al ministero, che l’ordine di impadronirsi immediatamente di Roma era stato impartito da quasi otto giorni, e ho appreso subito dopo, da un dispaccio telegrafico del primo giugno, che tale ordine stava per essere immediatamente eseguito. Io suppongo, dunque, che la città sia nelle nostre mani, o sia in procinto di caderci, e ragiono di conseguenza. Non ho bisogno di raccomandarvi di non lasciar trattare Roma, quale che sia stata la resistenza dei suoi difensori, da città conquistata. Noi siamo andati a combattere gli stranieri che la opprimevano, non a opprimerla a nostra volta (proteste a sinistra. Approvazione a destra e al centro). 10 Nel citare la maggior parte del dispaccio, Tocqueville si discosta talvolta dal testo preciso, ma per dei dettagli di forma che non ne alterano assolutamente il significato.

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Ne avrete ben presto la prova. Proseguo: Io spero che, dal momento in cui quegli stranieri saranno stati sconfitti, voi avrete avuto cura di provocare, da parte della popolazione, l’espressione dei sentimenti che noi supponiamo le appartengano e che, ovunque si estenda la nostra influenza, sarà stato lo stesso. Voi avrete senza dubbio provocato, allo stesso modo, l’istituzione di un’amministrazione municipale. Occorre che l’esercito agisca nei limiti esatti richiesti dalla sua sicurezza e dai suoi bisogni. Dobbiamo prevenire ogni specie di reazione violenta, sia contro le persone sia nei fatti; quindi, è importante che non vengano ristabilite quelle istituzioni e forme del passato che hanno dato luogo a denunce, fintantoché non saranno state regolate in accordo con Sua Santità le questioni connesse. Fino a nuovo ordine, noi dobbiamo occupare Roma. Non perdete infine di vista, e questo è ora il punto capitale, che noi vogliamo assicurare agli Stati della Chiesa delle istituzioni liberali serie. Io sono sicuro che Sua Santità, che ha fornito tante prove eclatanti delle sue inclinazioni benevoli e liberali, comprende la necessità della nostra posizione a questo riguardo e il bisogno dei popoli. La Francia repubblicana ha fornito al Santo Padre prove eclatanti di simpatia. In cambio di queste testimonianze, come premio ai sacrifici che sono stati già compiuti, la Francia ha il diritto di aspettarsi che le condizioni necessarie all’esistenza di un governo liberale e degno dei lumi del secolo non vengano rigettate. È ciò che dovete ripetere vivamente al Santo Padre, con piena fiducia, ma anche con una rispettosa fermezza. Fategli comprendere bene tutti gli incresciosi inconvenienti che possono sorgere dalla situazione attuale; rivolgetevi senza intermediari alla sua coscienza e al suo cuore; mostrategli l’immensa responsabilità che peserebbe su di lui se la pace del mondo intero potesse essere messa in pericolo in seguito ai suoi rifiuti (segni di approvazione a destra e al centro).

Lo vedete, signori, tre obiettivi erano indicati: stabilire in Italia la giusta influenza che ci è dovuta, restituire al Papa l’indipendenza necessaria al governo delle nazioni 297

cattoliche e, infine, ottenere per gli Stati romani delle riforme e delle istituzioni liberali serie (rumori a sinistra). Io riprenderò, se l’Assemblea me lo permette, le questioni una ad una, facendo vedere le soluzioni che abbiamo ottenuto e quelle che speriamo di ottenere. Prima di tutto, per cominciare dalla prima, dalla giusta influenza che dobbiamo esercitare sugli ordinamenti delle questioni italiane, noi non abbiamo fatto mistero a nessuno che questo costituiva uno dei principali scopi della nostra spedizione. L’abbiamo detto a tutte le grandi nazioni d’Europa e nessuna ci ha contestato tale diritto, non avevamo alcuna ragione di nasconderci, essendo la nostra pretesa del tutto legittima e moderata. Non intendevamo ricavare dalla nostra impresa alcun incremento territoriale, né intraprendere un’occupazione prolungata del paese. Pretendevamo soltanto, e ciò, lo ripeto, non è mai stato contestato, che la Francia, posta com’è alla quota di potenza cui è giunta, avesse diritto a prendere parte a tutti i negoziati e a tutti i fatti che avessero per oggetto la regolamentazione della questione italiana. Ciò che avevamo detto lo abbiamo fatto, e l’invio del nostro esercito in Italia ha avuto, se non per scopo unico, almeno per scopo principale, di far riconoscere e di assicurare questa legittima influenza11. Ora, signori, questo scopo l’abbiamo noi ottenuto? È ben facile, oggi che i fatti sono in parte compiuti e che, per conseguenza, la critica è agevole, è ben facile, oggigiorno, criticare ciò che è stato fatto (interruzione a sinistra). 11 In nota al volume delle opere complete da cui stiamo citando (O.C., III, 3, p. 318), il curatore scrive significativamente che «la politica che Tocqueville difende dalla tribuna non corrisponde affatto ai suoi sentimenti più intimi. Egli non era per nulla favorevole al ristabilimento del potere temporale da parte delle truppe francesi, ma, quando si insediò al ministero, la Francia si era già troppo compromessa perché tale politica non fosse più perseguita».

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UN MEMBRO: Noi non abbiamo aspettato oggi per farlo! IL CITTADINO MINISTRO: Io dico che prima di critica-

re ciò che è avvenuto, sarebbe giusto pensare a ciò che si sarebbe detto se la nostra spedizione non avesse avuto luogo affatto, se fossimo restati timidi e semplici spettatori di questo aggiustamento completo degli affari italiani (approvazioni a destra e al centro). Allora le lamentele che ci vengono indirizzate oggi sarebbero state ancora più forti, senza dubbio, e in ogni caso più giuste. A DESTRA: È giusto, molto bene! IL CITTADINO MINISTRO: Come, signori, forse dimenticate, dunque, in quale situazione si trovavano le faccende dell’Italia al momento in cui la spedizione ha avuto luogo? Non ricordate che a nord la Lombardia era sottomessa, i ducati invasi, il Piemonte vinto e soggiogato... UN MEMBRO A SINISTRA: Bisognava non lasciar fare l’Austria! IL CITTADINO MINISTRO: ... che nel Mezzogiorno la Sicilia era sottomessa, e che, di tutta la penisola italica, non restava che l’Italia centrale... UN MEMBRO A SINISTRA: e Venezia! IL CITTADINO MINISTRO: ... e nell’Italia centrale, non era forse evidente agli occhi di tutti che, se non fossimo intervenuti, altri si sarebbero mossi per intervenire se non contro di noi, almeno senza di noi? (nuova interruzione a sinistra). Non c’erano che due modi, signori, di tirarsi fuori da una situazione del genere: fare la guerra a favore della repubblica romana che non avevamo voluto riconoscere, o fare quello che abbiamo fatto. La guerra, l’Assemblea costituente non ha voluto la guerra, e in ogni caso ci avrebbe privato della possibilità di farla, togliendo dal bilancio, negli ultimi giorni della sua sessione, le somme necessarie... (esclamazioni a sinistra. Approvazione a destra). IL CITTADINO COMBIER, AI PIEDI DELLA TRIBUNA: Voi avete trovato agevolmente il denaro per attaccare la repubblica romana! 299

IL CITTADINO PRESIDENTE: Ritornate al vostro posto; non siete qui per interrompere in questo modo, a bruciapelo, l’oratore che sta sulla tribuna (risa). IL CITTADINO MINISTRO, RIVOLGENDOSI A SINISTRA: Sì, voi parlate di guerra oggi che non si tratta di farsi eleggere; ma a quei tempi, quando bisognava captare la benevolenza degli elettori... (proteste a sinistra. Segni di approvazione a destra). ... Allora non si parlava di guerre, ma di economie (è vero!). Allora si faceva richiesta, a proposito del bilancio, di riduzioni che, come andavo ripetendo in continuazione, dovevano renderci la guerra impossibile; si richiedeva una riduzione tale da rendere necessario il rinvio a casa di più di centomila dei nostri soldati... (rumori a sinistra. A destra e al centro: sì, sì! Benissimo!). IL CITTADINO MINISTRO: ... E chi si è opposto a quelle economie imprudenti e intempestive? Siamo stati noi, i componenti della maggioranza di oggi, noi che adesso siamo accusati di avere un amore eccessivo e intemperante per la pace! (benissimo, benissimo!). Ritorno al punto e dico che bisognava o fare la guerra per la repubblica romana, o fare ciò che abbiamo fatto, oppure astenerci. Se ci fossimo astenuti, gli stessi uomini che oggi ci accusano, proprio loro, ci sarebbero venuti a dire: vedete a quale grado di svilimento avete fatto precipitare la Repubblica! Ma come, la Francia, non da sessant’anni, ma da trecento, non ha lasciato che si facesse un grande cambiamento in Italia senza immischiarsene; e ciò che non è accaduto nei giorni più deboli e disgraziati della monarchia, la Repubblica lo lascia accadere! Quale vergogna per voi!... Ecco ciò che ci avrebbero detto (rumori e risa ironiche a sinistra. Approvazione a destra). (Un membro, ai piedi della scala dei banchi della sinistra, nel corridoio, pronuncia qualche parola che non riusciamo a intendere).

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IL CITTADINO DUFAURE, MINISTRO DELL’INTERNO: Che linguaggio singolare! Dove avete formato la vostra educazione? (indirizzandosi al presidente). Signor presidente, sarebbe bene che i membri che si trovano nel corridoio riprendessero il proprio posto; lo chiedo esplicitamente (movimenti). IL CITTADINO PRESIDENTE: Invito i signori rappresentanti a riprendere il proprio posto. Quando ci si vuole far perdonare la propria presenza nei corridoi, si tiene presente la condizione di osservare un silenzio ancora maggiore a quello dovuto fra i banchi. IL CITTADINO MINISTRO: Noi non abbiamo voluto fornire all’opposizione questo facile argomento, così siamo intervenuti. Cosa accade oggigiorno? Accade che un esercito francese occupa una posizione formidabile proprio al centro dell’Italia. Non è questo un avvenimento di peso? È di natura tale da diminuire l’immagine della Francia nel mondo? Per quanto mi concerne, credo il contrario (approvazione a destra). Non solamente la presenza del nostro esercito in Italia è di una natura tale da incrementare la nostra posizione nel mondo, ma, lo dico con gioia, ciò che la ingrandisce, ancor più della presenza del nostro esercito, è la maniera ammirevole con cui lo stesso viene condotto (vivo assentimento). UN MEMBRO A DESTRA: Le nazioni straniere ci rendono giustizia! IL CITTADINO MINISTRO: E poiché mi trovo su questo terreno, mi sia concesso un’ultima volta di respingere le odiose calunnie che sono state indirizzate a questo esercito, non soltanto in Italia ma in Francia (approvazione a destra. Mormorii a sinistra). Voci eloquenti e generose l’hanno già detto dall’alto della tribuna britannica e io sono felice di ripeterlo qui. Sì, lo dichiaro senza timore di essere smentito... Sì, io cerco invano nella storia uno spettacolo più singolare e più grande di quello rappresentato dall’assedio di Roma.

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Ecco un esercito che giunge ai piedi di una piazza che vuole prendere; questa piazza è fortificata soltanto da una parte; proprio da questa parte l’assedio dovrà essere assai micidiale e prolungato. Attaccandola da questa parte non soltanto ci si espone a quel tipo di morte gloriosa che il soldato ama affrontare, ma anche alla febbre che la stagione porta mentre si è trattenuti ai pedi di quelle mura. Tuttavia si affrontano tali inconvenienti e pericoli; lo si sceglie e perché? (interruzione a sinistra). IL CITTADINO PRESIDENTE: Si potrebbe credere che non comprendiate né l’importanza né la dignità della questione (benissimo! Benissimo!). UN MEMBRO A SINISTRA: E l’onore della Francia? IL CITTADINO PRESIDENTE: Vi è un certo numero di componenti fra voi, e vedo che i loro vicini ne sono addolorati, che adottano il sistema di interrompere. Vedo che la metà di voi lavora per far tacere l’altro e che ciò non gli riesce (risa). IL CITTADINO MINISTRO: Signori, che voi interrompiate quando è in questione la nostra politica, noi stessi, nulla di meglio; ma non sarà permesso di fare l’elogio del nostro esercito davanti a un’Assemblea attenta? (molto bene! Molto bene!). Mi stavo domandando, quando sono stato interrotto, perché questo esercito sceglie in questo modo la parte più pericolosa di tutte? Perché, giungendo attraverso quella, non mette in pericolo che se stesso, mentre lascia protetta la popolazione innocente della città; risparmiandosi l’obbligo crudele di uccidere donne, bambini e vecchi, come accade in tutti gli assedi ordinari. Fa di più: con uno spirito da civiltà raffinata, che costituisce la gloria del nostro tempo, si espone a questi grandi pericoli. Perché? Per salvare dei monumenti (molto bene! Molto bene!), per salvaguardare i resti venerandi delle età antiche12. 12

L’esercito francese aveva deciso di attaccare Roma dalla parte destra del Tevere, entrando dal Gianicolo. È certamente vero che, se aves-

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UN MEMBRO ALL’ESTREMA SINISTRA: Il sangue dei nostri soldati valeva più dei monumenti! UNA VOCE: E al cornicione di San Pietro non ci tenete dunque13? (risa). IL CITTADINO MINISTRO: E quando infine l’esercito ha trionfato, inizia la trasformazione; il vincitore diventa un amico, un fratello14. Io dico che è uno spettacolo unico nella storia, che è ammirevole e che un paese il cui esercito ha fornito uno spettacolo simile si è fatto più grande agli occhi del mondo. Ecco quanto avevo da dire! Ora qual è stato il risultato della spedizione? Cosa abbiamo fatto dopo aver sconfitto gli stranieri che erano a Roma? È qui, signori, che si fonda la questione che ha voluto soprattutto trattare l’onorevole che mi ha preceduto. Domanderò all’assemblea il permesso di non seguirne gli sviluppi, mi permetterei di dirgli, più teologici che politici, cui si è lasciato andare: gli chiederò il permesso di ricondurre la questione all’interno di quelli che mi sembrano i termini semplici e pratici del dibattito. L’onorevole che mi ha preceduto ha detto che la questione dell’indipendenza del papato era una questione religiosa. Non lo nego, ma noi non siamo qui all’interno di un concilio: noi siamo un’Assemblea politica. Ora, ciò che ci deve vedere maggiormente occupati è la questione politica, che si trova nascosta dietro quella questione religiosa. Tale questione politica è grave; forse non vi potrebbe essese attaccato da qualunque altra parte della riva sinistra, si sarebbe trovata di fronte a resistenze e barricate che avrebbero coinvolto anche la popolazione civile. Però è anche vero che così facendo avrebbe mantenuto assai più compatte le unità di comunicazione. 13 Si avverte in questa affermazione l’eco delle notizie stravaganti e fantasiose che si diffondevano in merito alle distruzioni operate durante le operazioni dell’assedio. 14 L’affermazione di Tocqueville costituisce un’evidente esagerazione: l’esercito francese, che pur si comportò correttamente, anche se non in assenza di frizioni con la popolazione, non fu certo accolto come un liberatore.

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re questione più grave; riguarda non soltanto le coscienze, ma anche i governi e gli individui, che il Papa abbia un potere indipendente, una situazione indipendente. Qualunque cosa si faccia, signori, i poteri religiosi e temporali saranno talmente mescolati, e la religione, benché non concerna questo mondo, influenzerà in maniera così diretta e costante gli avvenimenti di questo mondo, che vi sarà sempre pericolo, e un pericolo grave per i popoli e per i governi, laddove l’uomo, quale che sia, che eserciti un’influenza preponderante sulla religione possa al tempo stesso subire un’influenza di cui i governi e i popoli stessi possano ritrovarsi a subirne e soffrirne le conseguenze. Ecco qua, se non mi sbaglio, un assioma politico chiaro e incontestabile (risa ironiche a sinistra. Approvazione a destra). Da parte mia sono convinto che, nello stato attuale delle cose, le opinioni cattoliche siano il prodotto conseguente della necessità stessa degli avvenimenti; non v’è oggigiorno (ignoro quali siano le possibilità per l’avvenire, ma gli uomini politici devono occuparsi soprattutto del presente o del futuro prossimo), non v’è oggigiorno, o in un avvenire imminente, altro modo di rendere il Sovrano Pontefice indipendente che quello di lasciargli un potere temporale. Con il sistema contrario si giungerà sempre, direttamente o indirettamente, alla situazione per cui una potenza straniera si troverà a esercitare sulla volontà del Santo Padre una pressione di cui la Francia in particolare, e il mondo cattolico in generale, potranno avere motivi per cui lamentarsi (è vero! È vero!). Per parte mia, dunque, non ho esitato a pensare e non esito un istante a dire che uno dei primi obiettivi della nostra spedizione in Italia ha dovuto consistere nel restituire al Papa la sua indipendenza, che, secondo me, non poteva essergli restituita che insieme al potere temporale (a destra: sì! Sì!). IL CITTADINO LAVERGNE: Bisognava dirlo all’Assemblea costituente! Voi l’avete ingannata! 304

IL CITTADINO MINISTRO: Io dico che l’interesse visibile, l’interesse capitale non soltanto della nazione francese, ma dei 150 milioni di cattolici che sono sparsi per il mondo, era che il Santo Padre fosse indipendente e che, come conseguenza, si riappropriasse del suo potere temporale. IL CITTADINO LAVERGNE: Bisognava dircelo dall’inizio! Ci avete ingannato! IL CITTADINO MINISTRO: Io non c’ero15 (movimenti). IL CITTADINO LAVERGNE: Se non è una cosa attribuibile a voi, lo è a coloro che vi hanno preceduto. IL CITTADINO MINISTRO: Noi siamo stati convinti fin dall’inizio che era necessario non opporsi al ristabilimento del Papa a Roma. Dico di più, abbiamo avuto forti ragioni di credere, come ho detto nel dispaccio che ho letto all’assemblea, che questo ristabilimento venisse incontro alle intenzioni della maggioranza del popolo romano (proteste a sinistra). UNA VOCE A DESTRA: Esclusi i cittadini romani che si trovano qui. IL CITTADINO MINISTRO: Quello che ci sembrava ancora più sicuro è che la repubblica romana, così com’era al momento in cui l’abbiamo attaccata, era un regime di terrore... (mormorii e dinieghi a sinistra). A DESTRA: Sì! Sì! E di assassinii! IL CITTADINO MINISTRO: ... e che si sosteneva solo con il terrore. Lo proverò. Vi sarebbero mille maniere di dimostrarlo, ma mi limiterò a citare all’Assemblea un’opinione, una testimonianza e un fatto. Essa giudicherà.

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Barrot nelle sue «Memorie» dice che Tocqueville voleva semplicemente rimarcare il fatto che era assente quando si tennero i dibattiti in occasione dei quali venne decisa la spedizione. Tuttavia è più che lecito vedere nell’atteggiamento del grande autore francese il desiderio di prendere le distanze da una decisione che non solo non era stato lui a prendere, ma che non incontrava la sua approvazione.

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Quanto all’opinione, essa proviene da un uomo che, sicuramente, voi non ricuserete e che conosce bene l’Italia, l’onorevole signor Bixio16. Ecco ciò che il signor Bixio diceva il 29 novembre del 1848 all’Assemblea nazionale. Non faccio che riportare quanto scritto su «Le Moniteur»: Una fazione che si dice liberale, ma che sembra darsi il compito di far odiare la libertà; a una fazione che, dello spirito rivoluzionario, non sembra conoscere altro che gli eccessi, la fazione demagogica, mentre l’Austria opprime l’Italia del nord, fa pesare sull’Italia del centro, farà presto pesare su quella del sud una nuova servitù, tremenda quasi al pari di quella dello straniero, la servitù del disordine (benissimo!). Roma è stata il teatro di un’insurrezione tanto impolitica quanto funesta, e il papato, che non è un’istituzione italiana, apparentemente, ma un’istituzione di diritto pubblico e religioso in Europa, e il cui mantenimento si lega al mantenimento stesso dell’equilibrio e delle credenze dell’Occidente...

Interrompete dunque, signori! (risate di approvazione a destra. Applausi ironici a sinistra). IL CITTADINO LAGRANGE, DAL SUO POSTO: È questa una provocazione, sì o no? IL CITTADINO PRESIDENTE: Siete nel vostro diritto in questo momento (risate). IL CITTADINO MINISTRO: Riconosco che il signor Presidente ha ragione e io mi trovo nel torto. «Il papato, nella persona di un venerabile pontefice, primo promotore della resurrezione d’Italia, viene insultato da quegli stessi per i quali egli potrebbe rappresentare l’ultima ancora di salvezza» (benissimo! Benissimo!). Tali sono, signori, le opinioni che si era formato il signor Bixio da lontano (rumori a sinistra). Porterò ora sotto i vo16 Jacques-Alexandre Bixio (1808-1865) era nato in Italia sotto l’occupazione francese. Deputato alla Costituente e alla Legislativa, aveva una posizione da repubblicano moderato. Fu anche ministro dell’Agricoltura di Luigi Napoleone, carica che ricoprì per pochi giorni. Si ritirò a vita privata per dirigere una libreria.

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stri occhi, se me lo permettete, l’opinione di un testimone oculare; e anche questo sono certo che non lo rifiuterete: si tratta del signor de Lesseps17 (approvazioni e risa a destra e al centro). Non avrei pronunciato di fronte a questa tribuna il nome del signor de Lesseps, poiché si trova in questo momento davanti a una giurisdizione amministrativa, se lo stesso signor de Lesseps non si fosse appellato all’opinione pubblica e, di conseguenza, non mi avesse posto in diritto di agire nei suoi confronti come egli ha agito nei nostri. Ecco dunque ciò che trovo nell’opera, o meglio nell’opuscolo, del signor de Lesseps: Non ho avuto che da essere felice della lealtà di Mazzini e della moderazione del suo carattere, che gli sono valse tutta la mia stima [...]. Io devo rendere omaggio alla nobiltà dei suoi sentimenti, alla convinzione dei suoi princìpi, alla sua notevole capacità, alla sua integrità e al suo coraggio.

Il ritratto, signori, come potete vedere è lusinghiero. IL CITTADINO ESTANCELIN: E adulatore. IL CITTADINO MINISTRO: Vi confesso di essere rimasto molto sorpreso nel trovare questo giudizio, anche perché fra gli incartamenti del Ministero degli Affari Esteri avevo trovato dei frammenti di lettere del signor de Lesseps che sottopongo alla vostra attenzione e che, ne sono certo, non vi sembreranno collimare con l’elogio che avete inteso. Ecco la prima (il signor de Lesseps al signor ministro degli Affari Esteri, il 25 maggio): 17 Ferdinand de Lesseps (1805-1894), diplomatico e imprenditore francese, condusse con spregiudicatezza e palesi scorrettezze il proprio incarico a Roma durante la vicenda dei rapporti fra il governo francese e la repubblica romana. In seguito si pentì pubblicamente sia della propria condotta scorretta sia della restaurazione del potere assoluto da parte del Papa. Richiamato in Francia, la sua carriera di ambasciatore finì con questo evento. Fece stampare l’opuscolo «Ma mission à Roma, mai 1849», per appoggiare pubblicamente il proprio ricorso al Consiglio di Stato. A questo fa riferimento Tocqueville nelle righe che seguono.

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[...] Si tratta di Mazzini. Questo capo della Giovane Italia, soprattutto dopo il suo soggiorno in Inghilterra, si dice che avesse sognato per la sua patria una specie di protestantesimo: alcuni dei suoi scritti, e precisamente un’opera pubblicata in due volumi (Parigi 1847) da un omonimo, suo allievo, ma non suo parente, e che ho avuto modo di leggere durante il mio viaggio, fornisce qualche elemento di chiarezza all’argomento in questione18. Fin da parecchi giorni vedevo il triumviro in rapporti stretti con dei missionari inglesi e americani, agenti di propaganda politica o religiosa. Quest’uomo, di rimarchevole intelligenza, non è che un volgare ambizioso. UN MEMBRO A SINISTRA: Non lo conosceva ancora. UN ALTRO MEMBRO A SINISTRA: Era partito con le sue

idee. IL CITTADINO MINISTRO19:

Non ha compreso che, ispirato fin qui dal genio della cospirazione, poteva, appoggiandosi sugli elementi conservatori della società, rigenerare il proprio paese, forse il mondo, senza scosse violente. Ha continuato, essendo padrone del potere, a ordire quelle trame tenebrose e infernali che l’avevano occupato lungo tutta la sua vita. Venticinque anni di soggiorno nelle prigioni d’Europa e nell’esilio non gli permettono più di aprire gli occhi alla luce, fino a fare di lui il nemico più accanito della società. Vorrebbe rigenerare gli uomini passando su rovine e cadaveri [...] (sensazione).

Ecco cosa scriveva il signor de Lesseps il 25 maggio. Ma forse ne avevo preso coscienza man mano che il tempo passava. Ecco un altro dei suoi dispacci, del 28 maggio; ne estraggo quanto segue: Consideravo l’occupazione di Roma come un pericolo per le nostre truppe, perché ci impegnava nelle questioni dell’amministrazione romana più di quanto non volessimo e ci avrebbe fatto 18

A.L. MAZZINI, De l’Italie dans ses rapports avec la liberté et la civilisation moderne, 2 vv., Librairie d’Amyot, Paris 1847. 19 Tocqueville continua a citare quanto de Lesseps scriveva nella sua corrispondenza con il Ministero degli Affari Esteri.

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raccogliere una parte dell’eredità del potere esecutivo attuale, il cui capo opprime, terrorizza e conduce in rovina gli abitanti, trovandosi già posto davanti al deficit e alla bancarotta. Innanzi tutto ho fatto conoscere al Governo, e in seguito al signor de Rayenal, i mezzi da me impiegati per strappare la maschera del Nerone moderno, e per sottrarre la popolazione romana al suo dominio [...] (risa di approvazione a destra. Esclamazioni a sinistra). UN MEMBRO A SINISTRA: È il vostro agente, non il

nostro. UN MEMBRO A DESTRA: Voi l’avete sostenuto alle ele-

zioni di Parigi. IL CITTADINO MINISTRO: Il tempo continuava a passare e l’illuminazione non giungeva, tanto che ancora il 30 maggio il signor de Lesseps raccomandava nuovamente di non lasciare che le nostre truppe entrassero in contatto con i soldati di Mazzini, che egli appellava come la crème del cattivo socialismo e delle società segrete (risa a destra). Con questi contorni, signori, vedete descritto per grandi tratti il regime che abbiamo distrutto. Ma per giudicarlo disponiamo di un fatto più convincente di tutte le testimonianze: lo spettacolo stesso che ci ha offerto Roma quando vi siamo entrati. Durante i due primi giorni del nostro soggiorno a Roma, l’esercito si è trovato in una condizione di stupore profondo. In un grande numero di quartieri i cittadini si avvicinavano a noi soltanto, per così dire, tremando, facendoci segretamente pervenire testimonianza della loro simpatia (interruzione a sinistra). L’immagine del dispotismo che noi abbiamo distrutto era ancora presente nei loro pensieri e se essi non avevano più paura del governo rovesciato, tuttavia temevano ancora i suoi pugnali (viva approvazione a destra). UNA VOCE A SINISTRA: È un articolo del «Constitutionnel». IL CITTADINO MINISTRO: Essi avevano ragione di temerli, perché sono stati più di dieci o dodici gli omicidi che hanno avuto luogo in quei primi giorni.

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La popolazione a Roma presentava, dunque, questo spettacolo singolare: l’esercito francese vincitore era infinitamente meno temuto del vinto; ne abbiamo avute un centinaio di prove in quei primi giorni. A chi abbiamo voluto rivolgerci all’atto pratico? Non certamente agli uomini che passavano per essere i sostenitori degli atavici abusi del governo pontificio, ma ai capi, agli amici del vecchio liberalismo. E in quali disposizioni d’animo li abbiamo trovati? UNA VOCE A SINISTRA: Voi avete cacciato Mamiani20. IL CITTADINO MINISTRO: Una breve citazione ve lo farà comprendere. Si tratta di un dispaccio del 5 luglio del signor de Rayneval: Posso riassumere tutti i loro discorsi in due parole: «Sono tre mesi che non usciamo dalle nostre dimore. Volete venire con me? – Dicevo io. – Dio ce ne guardi, verremmo assassinati!». Tutti, nessuno escluso, si sentivano al riparo soltanto ben chiusi nelle proprie case. Non immaginavo che il terrore potesse arrivare fino a questo punto. I meno timidi mi hanno detto: «Fateci condurre da dei gendarmi, così da fornire l’impressione di essere costretti». Questo ci fornisce la misura della situazione.

Ecco, signori, il regime che abbiamo distrutto (sì! Sì! Proteste a sinistra). 20

Terenzio Mamiani (1799-1885), filosofo, poeta e patriota italiano, era stato membro del governo rivoluzionario di Bologna nel 1831. Aveva poi trovato rifugio a Parigi, dove aveva guidato un gruppo di esuli, non rientrando negli stati romani che al momento dell’amnistia decretata da Pio IX. Liberale moderato, fu chiamato a capo del governo romano da maggio ad agosto del 1848, quando abbandonò di fronte alle reticenze di Pio IX rispetto alle riforme che egli voleva portare avanti. Dopo una breve parentesi di ritorno al governo, in seguito all’assassinio di Pellegrino Rossi, fu ben presto emarginato dal prevalere delle posizioni rivoluzionarie. Trovandosi a Roma al momento dell’ingresso dei francesi, venne da questi espulso perché conosciuto come persona oltremodo invisa a Papa Pio IX.

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UNA VOCE A SINISTRA: È assurdo! Non ci credete voi per primo! (nuova e più viva approvazione a destra). IL CITTADINO PRESIDENTE (rivolgendosi agli stenografi del «Moniteur»): Constatate i mormorii e i movimenti dell’Assemblea; è la sola vendetta che possiamo prendere. IL CITTADINO MINISTRO: Dicendo che non ci credo io per primo voi sarete forse molto eloquenti, ma, di sicuro, non siete cortesi. UNA VOCE A DESTRA: È la più irrilevante delle loro preoccupazioni. IL CITTADINO MINISTRO: Passo sopra a tali ingiurie (esclamazioni a sinistra). A DESTRA: Benissimo! Benissimo! IL CITTADINO MINISTRO: E io ripeto la mia frase e dico che distruggendo un regime del genere, siamo stati assai benemeriti non soltanto dell’umanità, ma della libertà stessa (mormorii a sinistra. Approvazione a destra). IL CITTADINO PASCAL DUPRAT: V’è tuttavia qualcosa che la coscienza non può accettare, quale che sia l’opinione politica degli uomini. UN MEMBRO A SINISTRA: Voi sguazzate nel sangue! (risa ironiche a destra). IL CITTADINO TASCHEREAU: Questi signori sono contrariati di non poter mettere fuori legge. IL CITTADINO MINISTRO: Una volta distrutto tale regime, abbiamo avuto valide ragioni di pensare che fosse tra i desideri del popolo romano quello di ristabilire l’autorità pontificia, certamente non insieme ai suoi abusi, ma il potere temporale senza gli abusi. Ciò che ce ne ha dato prova sono i voti che ci provenivano da tutte le parti, i numerosi indirizzi che ci provenivano da ogni dove (risa e mormorii a sinistra). Ciò che ce ne ha fornito prova, soprattutto, sono state le numerose testimonianze di gioia pubblica, quando ha avuto luogo il ripristino dell’autorità papale21 (rumori e dinieghi a sinistra). 21

In realtà, al momento dell’entrata dei francesi a Roma, il 3 luglio, la restaurazione dell’autorità papale non aveva suscitato alcun entusia-

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UN MEMBRO A DESTRA: Signor presidente, vigilate sull’applicazione del regolamento. IL CITTADINO GRANIER: Si ricomincia con il sistema di rendere impossibile ogni deliberazione dell’Assemblea. IL CITTADINO MINISTRO: il ripristino del potere temporale del Papa, come ho detto, ci sembrava necessario alla tranquillità dei governi cattolici e alla pace delle coscienze tra le nazioni cattoliche; noi vediamo in esso il solo e vero pegno dell’indipendenza del Papa. Tale ripristino non ci pareva contrario alla volontà della popolazione romana: lo abbiamo fatto e abbiamo avuto ragione di farlo. NUMEROSE VOCI: Sì! Sì! Molto bene! IL CITTADINO MINISTRO: Ora, signori, è nei nostri voti e nei nostri desideri che tale restaurazione si faccia a qualunque prezzo? È, può essere nei desideri della Francia che il ristabilimento del Papa non sia che la restaurazione degli antichi abusi dell’autorità temporale? Quegli abusi contro i quali lo stesso Pio IX ha lottato con tanto coraggio? Senza dubbio no. Per quanto abbiamo potuto giudicarne, i veri sentimenti del popolo romano sono questi qui: desiderio di vedere ripristinato il potere del Papa e, nello stesso tempo, una energica ripugnanza per quelli che potevano sembrare abusi e vizi del governo pontificio. UN MEMBRO A SINISTRA: Quali sono? Spiegateceli! IL CITTADINO MINISTRO: Non abbiamo smesso di avvertire e ancora avvertiamo il desiderio più vivo che le riforme necessarie, le istituzioni secondo noi indispensasmo, secondo quanto lo stesso comandante Espivent aveva riferito a Tocqueville. Quest’ultimo, in una lettera del 10 luglio a Corcelle (O.C., XV, 2, pp. 304-305), si esprimeva in questo modo: «Ho rilevato con forza il silenzio assoluto dei romani all’indirizzo del Papa. Il signor Espivent, che marciava con la colonna del generale Oudinot, mi ha assicurato di non aver inteso un solo grido che avesse un carattere politico in direzione di una restaurazione». C’è da dire, tuttavia, che lo stesso Corcelle, riferendo in merito alla cerimonia del 14 luglio in cui era ricomparsa la bandiera pontificia su Castel S. Angelo, parlava di un «certo entusiasmo» della folla, che ora poteva esprimersi liberamente poiché non aveva più paura. O.C., XV, 2, p. 320.

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bili, come dicevo poc’anzi, di un buon governo, siano accordate agli Stati romani. Lo desideriamo non soltanto perché abbiamo il gusto di queste cose, ma anche perché le riteniamo indispensabili per il mantenimento del potere temporale del Papa e per la grandezza della Chiesa cattolica nel mondo. Sono convinto, per mio conto, e non ho timore di avanzare questa previsione dalla tribuna, sono convinto che se la Santa Sede non apporta, per quanto concerne la condizione degli Stati romani, le loro leggi, le loro abitudini giudiziarie e amministrative, delle riforme consistenti, se non vi unisce delle istituzioni liberali compatibili con la condizione attuale dei popoli, sono convinto, dico, che quale che sia la forza che si congiunge a questa antica istituzione del potere temporale dei papi, quale che sia la potenza delle mani che si tenderanno da un punto all’altro dell’Europa per sostenerla, questo potere si troverà ben presto in grande pericolo. Per quanto mi riguarda ne sono profondamente convinto. Lo credo, lo temo, ma spero che ciò non accada perché si adotteranno gli strumenti per impedire una tale disgrazia (risa a sinistra). Lo desidero tanto, signori, per questa Chiesa cattolica di cui avete visto poc’anzi un rappresentante tanto eloquente quanto verace. Come lui ammiro questa immensa associazione cattolica, che copre tutto il mondo con i suoi 150 milioni di uomini sparsi su tutta la faccia della terra e che fanno in modo che, ovunque si portino i propri passi, si incontrino attraverso la differenza di razze, di climi, di abitudini, di linguaggio, degli uomini che hanno il diritto e il dovere di trattarsi come fratelli (molto bene!). Ho un’ammirazione profonda, più grande di quanto ne potrei dire, per questa ammirevole potenza morale, la più grande che si sia mai vista, che si chiama Chiesa cattolica (rumori a sinistra). Sono convinto che le società che sono uscite fuori da essa non vivranno tranquille a lungo senza questa istituzione (benissimo!). Desidero ardentemente il suo mantenimento, e non soltanto il mantenimento, ma che 313

conservi il suo potere di governo e di espansione nel mondo (rumori a sinistra). Ma è proprio perché coltivo questo desiderio che cerco con passione quali siano, umanamente parlando, i provvedimenti migliori da prendersi perché questa potenza e forza si mantengano; sono convinto che non ve n’è che uno: che la Chiesa non si scosti senza un motivo necessario dallo spirito del secolo; che dovunque il secolo presenti delle idee moderate e applicabili, dei fatti che si legittimano, dei pensieri che possono essere ammessi, ovunque si riscontrino tali requisiti, la Chiesa cattolica, invece di allontanarsene gli si faccia incontro. Ebbene, ciò che noi le domandiamo di fare a Roma è proprio questo. E per ottenerlo, cos’altro dobbiamo fare se non supplicare il Santo Padre stesso... (interruzioni e rumori a sinistra). A DESTRA: Benissimo! Benissimo! IL CITTADINO PASCAL DUPRAT: Ah! Voi siete arrivati a pregare! Una politica che prega fallisce, anche nei confronti del Papa. IL CITTADINO DE PANAT: Sì, supplicare, ognuno ha i suoi gusti, il proprio linguaggio. IL CITTADINO MINISTRO: ... di supplicare il Santo Padre perché continui a incamminarsi su quella via in cui si era addentrato già di sua iniziativa, in virtù della sua iniziativa generosa e gloriosa; di ricordarsi i suoi stessi esempi, i successi che hanno fatto seguito ai suoi primi atti. UN MEMBRO: Sono stati belli i suoi successi! IL CITTADINO MINISTRO: Io non parlo dei successi per sé, per il suo stesso potere; io so, come diceva l’onorevole signor Bixio nella citazione che avete ascoltato, che le sue benevole intenzioni sono state indegnamente tradite. IL CITTADINO BIXIO: Chiedo la parola! IL CITTADINO MINISTRO: ... Che lo si è ripagato con la più nera ingratitudine; sì, forse lui ha avuto di che perdere, ma la Chiesa cattolica vi ha immensamente guadagnato. Io non esito per nulla a dire che ciò che, da diciotto mesi, è sembrato far rifiorire la fede da tutte le parti, ciò che ha 314

fatto smettere, in ogni caso, questa sorta di guerra intestina e fratricida che la fede e la ragione si facevano in giro per il mondo, ciò che ha fatto cessare quella guerra empia e sciagurata sono stati gli esempi del Santo Padre (benissimo! Benissimo!). Ebbene è proprio a lui che, mi sia concesso di dirlo rispettosamente, è proprio a lui che lo rammento con deferenza e fiducia; io lo supplico di scartare tutto ciò che potrebbe suscitare vedute benevoli; lo supplico di fare ciò che è nel suo cuore, convinto che la Francia non avrà più nulla da desiderare (benissimo! Benissimo!). Ora, quali devono essere queste riforme, quali devono essere le istituzioni liberali serie di cui parlavo? È su questo, ne chiedo vivamente scusa a questa parte dell’Assemblea (la sinistra), che sono deciso a tacere (risa ironiche a sinistra. Segni di approvazione molto vivaci a destra). IL CITTADINO DE LA MOSKOWA: Il ministro ha ragione, soprattutto nell’interesse della causa della libertà. IL CITTADINO MINISTRO: Io credo sinceramente che una discussione su questo aspetto sarebbe oggigiorno pericolosa per il risultato che andiamo cercando (numerosi segni di assenso sui banchi della maggioranza). Avendo questa convinzione, non mi costringerete a parlare (a sinistra, ironicamente: molto bene!). Concludo dichiarando che sono autorizzato non soltanto a pensare, ma a dire nella maniera più formale che tali sono le intenzioni ben salde del Santo Padre22: quale cattolico, quale uomo per bene potrebbe dubitare della parola di Pio IX! È potendo fare conto sulla sua ferma volontà, come sulla nostra, che possiamo affermare che la nostra spedizione non terminerà con una restaurazione cieca e implacabile (segni prolungati di approvazione). 22

In realtà le cose, come sappiamo, non stanno per nulla in questi termini. Tocqueville, proprio nel momento in cui si era impegnati nei negoziati di Gaeta e giudicando impossibile esercitare una pressione sul Papa, tenta di risvegliare presso Pio IX quelle tendenze liberali mostrate all’inizio del suo pontificato, incoraggiandolo ad affrancarsi dalla politica reazionaria del suo Segretario di Stato Antonelli.

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Discorso sulla questione romana23 La parola al Signor ministro degli Affari Esteri (l’attenzione aumenta, movimento). TOCQUEVILLE, MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Signori, il governo ha pensato che, prima dell’apertura di questo grande dibattito, possa essere utile alla discussione e gradito all’Assemblea che il governo renda noti l’andamento e il fine dei negoziati dei quali si sta per parlare: questo è il 23 Il testo che segue lo riprendiamo da A. DE TOCQUEVILLE, Scritti politici, 2 vv., Utet, Torino 1969, v. I, pp. 570-584, a cura di Nicola Matteucci, cui si devono la traduzione e la seguente nota esplicativa: questo discorso venne pronunciato all’Assemblea legislativa il 18 ottobre 1849, in occasione della discussione su un progetto di legge relativo a stanziamenti straordinari per la spedizione romana. Sulla questione romana Tocqueville era già intervenuto l’11, il 26 giugno e il 6 agosto 1849: la terza volta per rispondere ad Arnaud de l’Ariège, il quale si era domandato se il potere temporale fosse necessario al Papa per la sua missione spirituale. Ora Tocqueville si trova in una situazione assai delicata e difficile. Infatti da un lato il Presidente, Luigi Napoleone, aveva scavalcato il governo con il condurre una sua personale politica estera: il 18 agosto aveva inviato una lettera al colonnello Edgar Ney, suo ufficiale d’ordinanza che si trovava a Roma, nella quale chiaramente affermava il principio che i francesi non erano andati a Roma per ristabilire il potere assoluto del Papa. La lettera venne poi pubblicata dal «Moniteur» il 7 settembre, e il suo contenuto irritò profondamente conservatori e moderati. Dall’altro lato, il 12 settembre, era venuto il Motu Proprio di Pio IX, che deluse l’opinione liberale e scoraggiò Tocqueville per l’esiguità delle concessioni e per la mancanza di una vera amnistia. In questa precaria situazione i moderati e la sinistra decisero di mettere in crisi il governo, scarsamente sostenuto, o meglio segretamente avversato da Napoleone. Thiers, che era il relatore sul progetto di legge, nel suo discorso del 13 ottobre non fece accenno alla lettera al colonnello Ney, mostrando però chiaramente di disapprovare sia l’iniziativa che il contenuto della lettera. Il governo si vide così costretto a difendere Napoleone, anche se non amava troppo le continue iniziative personali del Presidente, e a riportare l’iniziativa di questi nella più complessa diplomazia del governo, anche perché la sinistra velatamente cominciava a contrapporre la politica più liberale del Presidente a quella del governo. Il discorso di Tocqueville lasciò insoddisfatto e irritato Napoleone, proprio perché il ministro degli Esteri non aveva fatta sua, e difese a oltranza, la famosa lettera; infatti fece subito sapere in giro che aveva apprezzato il discorso di Victor Hugo, che nell’occasione fu il leader della sinistra.

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solo scopo per cui ora sono qui. Non è mia intenzione discutere sull’argomento, la discussione verrà dopo: ora la mia unica intenzione è quella di esporre i fatti, e il solo merito che mi propongo di ottenere è quello di mettere in questa esposizione una completa franchezza e un’esattezza assoluta. D’altronde, dopo ogni mia affermazione, chiederò all’Assemblea il permesso di leggere i relativi documenti. A dire il vero, signori, la storia di questi negoziati non deve cominciare che con la presa di Roma. Non voglio, mi si creda, rifare retrospettivamente la storia dei dibattiti che hanno avuto luogo prima di quell’epoca; mi limiterò a una sola notazione: se debbo cercare quale fosse il desiderio di tutti, dico tutti, coloro che hanno votato per la spedizione di Roma, credo di poter con ragione affermare che tutti desideravano la restaurazione di Pio IX. A SINISTRA: No! No! VOCE A DESTRA: Voi, proprio voi avete votato contro! BERTHOLON: Lamorcière ha protestato contro di ciò (reclami a destra). LATRADE: E Jules Favre il relatore. HEECKEREEN: Jules Favre non ha votato sulle condizioni del suo rapporto; si è astenuto (agitazione). IL PRESIDENTE: Volete avere una discussione o una disputa? L’una o l’altra (approvazione a destra. Mormorii a sinistra). Ecco i nomi degli oratori iscritti a parlare pro e contro le conclusioni della commissione: Contro: Mathieu (de la Drôme), Victor Hugo, Emmanuel Arago, Savatier-Laroche, Mauguin, Émile Barrault, Joly, Edgar Quinet, Francisque Bouvet, Cavaignac. LATRADE: Forse che questo risponde alla domanda? (rumori a sinistra). IL PRESIDENTE: Ecco gli oratori iscritti a parlare a favore: Thuriot de la Rosière, de Montalembert, Ollivier, Fabvier, de Montigny, de la Moskowa. Tutti gli oratori, da entrambe le parti, che terranno un linguaggio non parlamentare e faranno rumorose interru317

zioni, contro le quali protesto fin d’ora... (molto bene! Molto bene!). IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Signori, faccio notare a chi mi interrompe prima che abbia potuto terminare la mia frase ed esporre il mio pensiero, faccio loro notare che non parlo affatto di chi ha votato contro la spedizione di Roma, ma di chi ha votato a favore... (nuova interruzione a sinistra) e dico che, all’inizio, se non tutti, quasi tutti se preferite, di coloro... VOCE A SINISTRA: Voi non ne sapete nulla. NUMEROSE VOCI A DESTRA E AL CENTRO: Non interrompete! All’ordine! IL PRESIDENTE, voltandosi a sinistra: Bisogna sapere se permettete che si tenga una discussione libera in questa Assemblea. VOCE A DESTRA: Richiamate all’ordine! GENERALE TARTAS: Si applichi con rigore il regolamento! IL PRESIDENTE: Non so chi sia a interrompere; li sento, ma non li vedo. Continuate, Signor Ministro. IL MINISTRO: Dicevo allora, dovessi mai essere interrotto una terza volta, che quasi tutti, se non tutti coloro che hanno votato per la spedizione di Roma potevano differire tra loro quanto alle condizioni da porre per ristabilire Pio IX sul trono, ma tutti desideravano ristabilirvelo. Ecco ciò che dico. Affermo d’altronde che da ogni parte si ammetteva che questa restaurazione dovesse essere al tempo stesso liberale e clemente. Questo è stato detto dal governo, dai diversi oratori e nessuno ha protestato. Non soltanto questo è stato detto qui, ma è stato ripetuto ufficialmente all’estero; e nessuno ha protestato. Così posso con ragione dire che, secondo le iniziali intenzioni e desideri della Francia, la nostra spedizione a Roma doveva concludersi con la restaurazione di Pio IX, ma una restaurazione liberale e clemente. 318

Ebbene, signori, questo è stato il mio punto di partenza, questo il punto di partenza di tutto il governo nei negoziati e in ogni azione. Presa Roma, abbiamo favorito con ogni nostro mezzo – non abbiamo forzato – la restaurazione di Pio IX, e l’abbiamo fatto tanto più volentieri in quanto eravamo convinti, e la nostra convinzione si è da allora accresciuta, che la restaurazione di Pio IX, a condizioni diverse, senza dubbio, a seconda delle diverse persone, era nei voti dell’immensa maggioranza degli abitanti degli Stati romani (rumori e dinieghi a sinistra, approvazioni a destra). PARECCHI MEMBRI A SINISTRA: Che ne sapete? Consultateli. DUFAURE, ministro degli Interni: È incontestabile! CARLO ABBATUCCI: Tranne i cittadini romani di qui (risa). IL MINISTRO: Questa era la nostra convinzione, ed essa è aumentata per quanto è successo dopo. Ho già detto che ora non avrei discusso, ma avrei solo esposto le azioni del governo francese; più tardi le si discuterà e le si giudicherà; è inutile interrompermi ora, avrete il tempo di farlo dopo. Rimesso Pio IX al suo posto, qual è stato il nostro atteggiamento nei suoi confronti? Vi è stato chi ci ha rimproverato di aver cercato di coercire la volontà del papa; altri ci hanno rimproverato il contrario. Posso qui dire, nel modo più energico e più sicuro, che il governo francese non ha mai pensato di abusare della forza che era nelle sue mani per coercire la volontà della Santa Sede (molto bene! molto bene!). E questo non l’abbiamo neppur pensato, signori, per due ragioni: la prima è che al fianco del principe si trovava il pontefice, che il pontefice è il capo della religione cattolica e che il governo, che rappresenta una nazione essenzialmente cattolica, non voleva usare la violenza contro un 319

principe che è al tempo stesso il pontefice di tale religione (molto bene!). La nostra seconda ragione, se vi è bisogno di darne per atti di questa specie, è che il potere del pontefice è uno di quei poteri immateriali, incomprensibili, intangibili, se posso esprimermi in questo modo... (rumori a sinistra, vivaci approvazioni a destra e al centro) contro i quali si sono adoperate e si adopreranno invano, in ogni tempo, le più grandi potenze della terra (stesse reazioni). Il solo modo in cui un governo cattolico non dico possa coercire il potere pontificio, dio non voglia che io usi questa parola, ma possa esercitare su di lui un’influenza legittima e una vera azione, è domandandogli cose giuste, sensate, eque, conformi agli interessi delle popolazioni che egli dirige, conformi alla ragione, al buon senso, al buon diritto, domandandogliele a nome di tutti i cattolici illuminati della terra, domandandogliele rispettosamente, ma ad alta voce e pubblicamente, davanti a tutto il mondo (molto bene!). E questo è quanto abbiamo fatto, questo è quanto stiamo ancora oggi facendo. Cosa abbiamo domandato? Dirò subito e senza ambagi che non abbiamo insistito per ottenere dal papa quelle istituzioni che potevano dare immediatamente una grande libertà politica. Non l’abbiamo fatto, perché l’esperienza della storia recente, perché le nostre stesse osservazioni ci hanno dimostrato che, nello stato in cui si trovano le popolazioni romane, con un partito liberale moderato disorganizzato e pieno di terrore, con un partito anarchico furibondo e folle e una massa inerte, sarebbe stato imprudente domandare al Santo Padre di ristabilire quelle istituzioni che lo avevano già rovesciato. Ripeto, non abbiamo per nulla insistito per avere quelle istituzioni che danno una grande libertà politica. Ciò che abbiamo domandato sono delle istituzioni che possano d’ora in poi dare agli Stati romani il benessere e la libertà civile e che, al tempo stesso, possano in breve prepararli alla libertà politica. Ecco cosa abbiamo domandato. 320

Ed ora, signori, per uscire dalle formulazioni generali ed entrare nei particolari, che potrei fare se non leggervi i dispacci che mostrano quanto ho avuto l’onore di narrarvi? Il dispaccio, o meglio, la nota che sto per leggere all’Assemblea è dei signori Corcelle e Rayneval, ed è stata indirizzata il 19 agosto al Cardinale Antonelli. La prima parte non è che una trascrizione di un mio dispaccio del precedente 4 agosto. La seconda parte è soprattutto opera del signor Corcelle, il quale, benché colpito da una gravissima malattia, trovò nell’ardore del suo patriottismo e del suo zelo la forza necessaria per tracciare, con una mano quasi morente, le righe che sto per leggervi (risa ironiche su qualche banco della sinistra). UNA VOCE A DESTRA: Molto bene, signori, sappiamo che non rispettate nulla! IL MINISTRO: Questa nota termina nel modo seguente: «Il governo della repubblica indirizza al Santo Padre le seguenti richieste, nelle quali si sente in diritto e in dovere di persistere...». Si osservi che le richieste erano di data assai anteriore: 1) Che si riconoscano formalmente alcuni dei princìpi contenuti nel primo articolo dello statuto del 17 marzo 1848, e precisamente quelli che garantiscono la libertà individuale, che consacrano il debito pubblico e che assicurano l’inviolabilità della proprietà privata. Sono princìpi comuni a tutte le società civili, qualunque forma politica esse adottino; 2) che una nuova organizzazione dei tribunali dia ai cittadini delle reali garanzie giurisdizionali; 3) che si promulghino delle leggi civili analoghe a quelle che regolano persone e proprietà in alta Italia e nel regno di Napoli, e che derivano dal nostro Codice civile; 4) che si creino delle assemblee comunali e provinciali elettive; 5) che si secolarizzi l’amministrazione pubblica; 6) sua Santità ha intenzione di ristabilire la consulta che, nel 1847, era stata incaricata di un’attività consultiva in materia legi321

slativa e finanziaria. Il governo della Repubblica preferirebbe che i membri di detta assemblea fossero eletti direttamente dai corpi locali, e non scelti da una lista formulata da detti corpi; ma considera utile e importante che ad essa si accordi voto deliberativo in materia d’imposte. Sarebbe, d’altronde, assai facile trovare una forma nuova, o basata su una qualche legislazione straniera, che ponesse la sovranità spirituale completamente al di sopra degli assalti dai quali alcuni sono portati a crederla minacciata per queste concessioni. Queste sono le domande che da lungo tempo i rappresentanti del governo della Repubblica sono stati incaricati di rivolgere al governo di Sua Santità. Dalle dichiarazioni del cardinale prosegretario di Stato all’ultima conferenza, essi hanno visto, con il più gran dolore e il più vivo rammarico, che le intenzioni del governo pontificio non corrispondevano esattamente alle aspettative del gabinetto francese. Dato però che Sua Santità ha benevolmente voluto sospendere la sua decisione definitiva fino a che la Francia non avesse reso completamente noto il suo pensiero, i sottoscritti hanno giudicato sia giunto il momento di ottemperare agli ordini ricevuti e pertanto rinnovano e presentano formalmente le domande della Francia. Essi non disperano che la generosità di Pio IX le accolga e si prendono la libertà di insistere presso il governo pontificio, con il più profondo rispetto e al tempo stesso con tutta la perseveranza che la costante devozione della Francia alla grandezza e alla prosperità della Chiesa consente. I sottoscritti non possono terminare senza richiamare l’attenzione di Sua Eminenza su considerazioni d’ordine più generale e più elevato. In particolare essi non ricorderanno a Sua Eminenza che la Francia è interessata, per le sue credenze e i suoi pubblici costumi, a che la Chiesa non perda quell’atteggiamento liberale che le ha valso, nel 1848, l’assenso del mondo intero. Quanto diverse erano, poco prima di questa grande e salutare rivoluzione che ha riconciliato la fede con lo spirito delle nuove istituzioni, le tendenze generali del mondo da quel che sono divenute dopo! Nelle discussioni politiche come nelle fantasie della letteratura non vi erano che odio e reazione contro la fede. Poi apparve Pio IX e, alle sue prime parole, la guerra contro la fede scomparve come per miracolo. E con quale gioia il clero di Francia sentì che questa fortunata pacificazione gli rendeva il 322

suo vero posto nell’opinione dei popoli! Con quale trasporto si accolsero, non soltanto da parte dei cattolici, ma anche di chi fino ad allora si era mostrato loro avversario, le speranze provenienti dal trono pontificio! Non vi è dubbio che per la religione questo fu uno dei suoi più bei trionfi (reazioni contraddittorie). Le riforme di Pio IX hanno senza dubbio portato a delle deplorevoli deviazioni; ma ciò non toglie che questa forza, nascente dalle riforme e dalle speranze che avevano eccitato simpatie così ardenti e generose, non sia stata per la Chiesa un aiuto provvidenziale. Dovrà la Francia tornare a vedere un completo cambiamento di direzione nel pensiero della Santa Sede portare un cambiamento altrettanto completo nelle tendenze morali delle popolazioni? Una nuova reazione antireligiosa diverrebbe terribile; e potrebbe un tal pericolo rimanere entro i confini francesi? Non si farebbe strada in tutte le nazioni cattoliche o dissidenti ove la libera discussione è possibile, e rimarrebbe l’Italia al sicuro da tale contagio? I sottoscritti non hanno alcun dubbio che queste importanti considerazioni colpiranno lo spirito illuminato di Sua Eminenza e che Sua Santità ne peserà tutta la portata (approvazioni su alcuni banchi). IL MINISTRO: Le domande contenute nel documento, che ho appena letto, si ritrovano, ridefinite ed esposte in modo più particolareggiato, ma non accresciute, in un altro dispaccio che non leggerò all’Assemblea, ma che darò al «Moniteur». Signori avete appena visto quali sono le domande che il governo ha indirizzato alla Santa Sede. Le abbiamo fatte fin dal primo governo, e vi abbiamo persistito fino alla fine. Avevo bisogno di farvele conoscere prima di alludere a un documento che, per quanto non sia di natura diplomatica, ha tuttavia causato grande impressione, impressione naturale e legittima pensando alla sua importanza e al suo autore; parlerò ora della lettera scritta dal Presidente della Repubblica a uno dei suoi aiutanti di campo (l’attenzione aumenta).

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Debbo dire solo poche parole. Ci è stato domandato, sia al di fuori di questa Assemblea che in seno alla commissione da essa nominata, se la politica espressa nella lettera del Presidente della Repubblica era la nostra, se era la politica che noi avevamo avanzato e sostenuto e di cui ci prendevamo la responsabilità. Abbiamo risposto allora e sono ben lieto di avere l’occasione di rispondere pubblicamente ora, abbiamo risposto che tale politica era esattamente quella dei nostri dispacci (approvazioni da parecchi banchi); l’Assemblea può ora giudicare. Infatti, cosa vi è nella nota dei signori Corcelle e Rayneval che non sia in pratica contenuto nella lettera del Presidente della Repubblica? Quali domande contenute nella lettera non erano già state da noi richieste, come appena sentito? Possiamo, dunque, considerare la lettera del Presidente della Repubblica come un riassunto sommario, rapido, familiare se volete, ma fedele della nostra politica, che essa ha tradotto in uno slancio generoso e fiero. Pertanto noi non l’abbiamo sconfessata e non la sconfesseremo mai (grande impressione, reazioni contrastanti). PASCAL DUPRAT: Allora, voi siete contro le conclusioni della commissione? IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: E ora, signori, che conoscete i principali atti della nostra diplomazia, una parola sul Motu Proprio che conclude la serie (ascoltate! Ascoltate!). Non cercherò di nascondere, sarebbe difficile farlo dopo i documenti di cui ho appena dato lettura, non cercherò di nascondere che il Motu Proprio non ha realizzato interamente le nostre speranze. UN MEBRO A SINISTRA: E lo accettate ugualmente? IL MINISTRO: Bisogna tuttavia notare, cosa che qui si ignora, che questo Motu Proprio il quale, come ho appena detto, non ha immediatamente e completamente realizzato tutti i voti della nostra diplomazia, che questo Motu Proprio ha suscitato i timori più vivi e la ripugnanza più profonda nel partito dell’Ancien Régime a Roma. 324

Questo partito vi ha visto infatti, o ha finto di vedervi, che il Santo Padre si rimetteva su quella china liberale che lo ha portato all’abisso. Ecco, da un lato, ciò che bisogna considerare; dall’altro è giusto dire che nel Motu Proprio del Papa si trovano la maggior parte delle riforme più essenziali che abbiamo domandato e che quasi tutte quelle che non vi si trovano sviluppate, vi sono in germe e in promessa. A SINISTRA: Ma no, avanti! A DESTRA: Molto bene! Molto bene! BELIN: Bellissimo, davvero! IL MINISTRO: I dinieghi con cui si accolgono le mie parole mi meravigliano, signori. Domando all’Assemblea di poter entrare, per un solo momento, nella discussione; non volevo farlo, ma i vostri dinieghi mi ci costringono. Cosa abbiamo domandato? Abbiamo domandato delle riforme civili, delle riforme giudiziarie; il Motu Proprio le promette (risa ironiche a sinistra). Signori, potrete dubitare della parola del Santo Padre; ma non potete negare che egli le promette (nuova interruzione a sinistra). Dicevo che questi signori (l’oratore indica la sinistra) potevano dubitare delle parole del Santo Padre; son liberi di farlo; io, per parte mia, non ne dubito; ma non posso negare che nel Motu Proprio si siano presi questi impegni (nuovi rumori a sinistra). Continuo allora, e dico: avevamo domandato delle riforme nella legislazione civile e penale; le si sono promesse. Avevamo domandato libertà municipali e provinciali; e queste non sono promesse, ma concesse, e nel modo più largo (esclamazioni a sinistra). ODILON BARROT, Presidente del Consiglio: Sì! Sì! E forse maggiori di quanto non vi riuscirete voi. IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Abbiamo richiesto una consulta, è stata concessa. Posso quindi in verità ripetere che parecchie delle domande della Francia sono state 325

completamente e immediatamente accordate nel Motu Proprio, e che la maggior parte delle altre sono state annunciate e promesse (mormorii a sinistra). Ed è con questo sentimento al tempo stesso di rammarico e di approvazione che il Governo, non appena venuto a conoscenza del Motu Proprio, ha inviato il seguente dispaccio al suo ministro a Roma: 30 settembre 1849. Signore, Il governo ha preso conoscenza del manifesto di Sua Santità in data 12 corrente mese, e deve farvi conoscere la sua opinione su questo documento e comunicarvi la risoluzione che esso gli ha suggerito. Il manifesto consacra l’istituzione del consiglio dei ministri creato da Pio IX; istituisce un consiglio di Stato; stabilisce, sotto nome di consulta, una camera deliberante, prodotto indiretto di un’elezione, che discuterà tutte le questioni finanziarie, esaminerà il bilancio, e darà il suo parere sulla creazione, il tasso e la riscossione delle imposte. Esso accorda o mantiene, in modo assai esteso, le libertà comunali e provinciali. Esso annuncia infine la riforma della legislazione civile, delle istituzioni giudiziarie e delle norme di giustizia penale. Le istituzioni promosse dal manifesto ci sono parse incomplete; mi scrivete che avete immediatamente fatto le vostre riserve al proposito e io vi approvo. A ogni modo, abbiamo compreso che, se convenientemente messe in pratica, esse realizzerebbero in grandissima parte i voti della Francia e porterebbero delle notevolissime e assai felici innovazioni nell’amministrazione degli Stati della Chiesa. La vostra principale missione, signore, è di fare in modo, con tutte le vostre forze, di accelerare con i vostri consigli disinteressati e pressanti l’immediato ed efficace svilupparsi dei princìpi istituzionali liberali contenuti nel manifesto...

Domando all’Assemblea il permesso di fermarmi un momento perché non riesco più a parlare. (Il Ministro, dopo un istante di riposo, riprende nei seguenti termini): 326

Signori, non ho più molto da dire. Ho appena parlato delle istituzioni, non mi resta che dire qualche parola sulle persone. Per quanto riguarda le persone abbiamo ritenuto nostro dovere tenere un linguaggio più vivo e più pressante che rispetto alle istituzioni. Infatti a questo punto non si trattava più di costringere il sovrano pontefice a concedere delle istituzioni che potevano ripugnare alla sua prudenza o alla sua coscienza, ma di non essere noi stessi costretti a sopportare che si compissero sotto i nostri occhi e, per così dire, nelle nostre mani, degli atti per i quali i nostri princìpi e la generosità francese avessero a soffrire (molto bene! molto bene!). Immediatamente dopo il nostro ingresso in Roma abbiamo compreso di avere allo stesso tempo un dovere e un diritto. Il dovere di vincere definitivamente, o piuttosto di domare la fazione demagogica che avevamo già vinto... (violente interruzioni a sinistra, approvazioni a destra). UNA VOCE A SINISTRA: Repubblicana! IL MINISTRO: ... La fazione demagogica che avevamo già vinto; di dare al paese che occupavamo una pace vera e profonda: a ciò ci siamo dedicati immediatamente, come risulta da un breve dispaccio che vi chiedo il permesso di leggere. Esso è stato scritto prima della presa di Roma, il 26 giugno; contiene poche parole, ma chiare e precise: Ve lo ripeto, una volta in Roma bisogna per prima cosa occupare e amministrare militarmente la città; disarmare tutti, espellere o arrestare tutti gli stranieri pericolosi. In seguito si dovrà installare una municipalità romana e bisognerà cercar di riunire e costituire un partito liberale moderato (risa ed esclamazioni ironiche a sinistra).

Ciò che si era prescritto, grazie a dio, è stato fatto; gli stranieri che turbavano l’ordine sono stati espulsi, quelli che resistevano arrestati, e si è anche resa una pace reale e vera alla città e agli Stati che occupiamo. VOCE A SINISTRA: E l’Assemblea costituente romana? Ne avete espulso i membri! 327

IL MINISTRO: Noi ci siamo limitati a questa misura per l’allontanamento delle persone pericolose, di cui ho appena parlato (risa e bisbigli a sinistra); abbiamo fatto in modo che li si trasportasse in Francia o altrove; abbiamo loro aperto, eccezionalmente, il nostro territorio e ve li abbiamo ricevuti; siamo perfino giunti a fornir loro dei soccorsi. Ma, mentre prendevamo delle precauzioni e facevamo ricorso a queste misure per domare, come ho appena detto, il partito demagogico che avevamo vinto... DIVERSE VOCI ALL’ESTREMA SINISTRA: Repubblicano! Siete dei forti che combattete contro i deboli. IL MINISTRO: ... e mentre facevamo queste cose, facendo le quali credevamo di compiere un dovere, sapevamo di avere un diritto, e tale diritto, come ho appena detto, era di non permettere assolutamente, sotto i nostri occhi, quasi tra le nostre mani, che si compissero atti di violenza contro le persone. Ed ora bisogna che lo dica: molti di quegli uomini che noi proteggevamo in tal modo erano assai poco degni del nostro interesse. Fra loro c’erano molte persone che, dopo aver perso la libertà nel loro paese, non ci avevano consentito di farla risorgere (risa ironiche a sinistra). Parecchi avevano combattuto contro di noi nel modo più violento e, spesso, meno leale; molto dopo la loro disfatta, ci avevano perseguitato con le loro ingiurie, le loro calunnie e i loro oltraggi. I loro amici, sparsi in tutta Europa, ancor oggi attaccano ogni giorno la nazione e il suo esercito (vivace interruzione a sinistra). UN MEMBRO A SINISTRA: Non attaccano che voi! IL MINISTRO: E perché abbiamo voluto proteggerli e salvarli? Per una ragione che tutti capiranno: la Francia non poteva abbandonare chi aveva vinto, anche se indegno del suo perdono. A SINISTRA: Non dovete insultarli! ANTOINE THOUREY: Che ne avete fatto dell’Assemblea costituente? IL PRESIDENTE: Chiedo al «Moniteur» di accertare le interruzioni e il loro carattere.

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IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Chi mi interrompe troverebbe senza dubbio più patriottico applaudire agli oltraggi che sono sparsi negli ignobili pamphlet a cui faccio allusione. A SINISTRA: Sono contro di voi e non contro l’esercito. IL PRESIDENTE: Pierre Leroux e Pascal Duprat, vi invito nominativamente al silenzio; avrete la parola se volete, ma non interrompete. VOCE A DESTRA: Richiamateli all’ordine. IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Senza dubbio essi troverebbero ancor più patriottico andare in un teatro a fischiare la nostra bandiera e i nostri soldati (applausi a destra). A SINISTRA: Non si fischia la bandiera, ma la politica, il ministero! IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Non soltanto abbiamo domandato che non avessero luogo gli atti di cui abbiamo parlato; ma, dato che Sua Santità non era a Roma e le sue intenzioni potevano essere misconosciute, abbiamo agito in modo che non potessero aver luogo, e in questo senso bisogna capire il seguente dispaccio scritto il 19 agosto ultimo scorso al generale comandante il nostro esercito: «Finché saremo a Roma non possiamo permettere che si esercitino, all’ombra della nostra bandiera, delle violenze politiche. Vi sono dei fatti che abbiamo il diritto e che siamo decisi a impedire; in essi rientrano le violenze contro le persone e non dobbiamo ad alcun costo permetter che esse vengano esercitate» (molto bene! molto bene!). In seguito, quando si sono avute le restrizioni portate dalla commissione dei cardinali all’amnistia concessa dal Santo Padre, abbiamo creduto nostro immediato dovere di rendere note le seguenti osservazioni:

Parigi, 30 settembre Il ministro degli Affari Esteri al consigliere in Roma. Il governo è stato penosamente sorpreso dalla notifica relativa 329

all’amnistia che la commissione dei cardinali ha creduto suo dovere pubblicare il 18 corrente. Avevamo compreso e approvato che la commissione si rifiutasse di applicare l’amnistia promessa dal Santo Padre ad alcuni individui particolarmente pericolosi per la pubblica tranquillità; ma contavamo che tali persone sarebbero state in piccolo numero e designate nominativamente in anticipo, in modo da rassicurare immediatamente tutti gli altri sulla sorte loro riservata. Eravamo ben lontani dall’attenderci che si lasciassero al di fuori di questo atto di mansuetudine e di prudenza delle categorie così numerose e mal definite. Signore, fate presente al governo del Santo Padre che una simile amnistia non produrrebbe che delle vive inquietudini, una prolungata agitazione, dei profondi risentimenti e dei grandi pericoli, e che non ne deriverebbero certo né una pacificazione degli spiriti né un volontario ritorno verso l’ordine. Nell’interesse del potere pontificio, per il bene della Chiesa, scongiuratelo di ritornare su questa misura e di modificarne profondamente la portata e gli effetti. Il Santo Padre che, come lui stesso così veritieramente dice, per il suo carattere paterno è portato all’indulgenza, non può volere che le sue benevole intenzioni vengano realizzate in modo così incompleto. Annunciando un’amnistia ai suoi sudditi egli non ha inteso fare una vana promessa, e di ciò facciamo appello dal suo governo a lui stesso. Fate notare a Sua Santità, con il rispetto filiale che gli dobbiamo, ma anche con la fermezza che è nostro dovere e nostro diritto avere, che la Francia non potrebbe né direttamente, né indirettamente associarsi agli atti di rigore che il numero delle eccezioni fa prevedere; essa considera che tali eccezioni vanno direttamente contro a uno dei fini che le potenze cattoliche si erano proposti: la conciliazione dei partiti e la reale pacificazione del paese (molto bene!).

Ecco, signori, le richieste che abbiamo rispettosamente portato ai piedi del Santo Padre (risa ironiche a sinistra). IL PRESIDENTE: Non volete che si rispetti nulla! HEECKEREN: Loro non vogliono neppure che si sia cortesi! 330

IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Spero che esse saranno esaudite, e lo spero perché ho fiducia nella parola e nel carattere di Pio IX; lo spero perché, arrendendosi alle nostre preghiere, egli non farà che perseverare in quel gran disegno di cui parlava Corcelle, quello di conciliare la libertà con la fede e non farà che proseguire in quel grande ruolo che ha così gloriosamente cominciato (risate ironiche a sinistra), quel grande ruolo che gli ha valso tanti suffragi e incoraggiamenti così illustri quando, sin dall’inizio, tutta l’Europa applaudiva i suoi sforzi e voci eloquenti gli gridavano da ogni parte, da questa stessa tribuna: coraggio, Santo Padre, coraggio! (esclamazioni a sinistra). UN MEMBRO: È Thiers! NUMEROSE VOCI: Sì! Sì! Molto bene! Molto bene! IL MINISTRO: Credo dunque che le nostre richieste saranno esaudite; già parecchie parti delle restrizioni poste all’amnistia sono state tolte o modificate in modo singolarmente favorevole a chi vi era ricompreso. In ogni caso, quanto si può dire al presente è che questa rivoluzione romana, iniziata con la violenza e l’assassinio... (violente proteste all’estrema sinistra. No, no! È una calunnia!). A DESTRA: Sì, sì! È verissimo! Molto bene! IL MINISTRO: Che è iniziata con la violenza e l’assassinio... (nuove proteste, rumorosi interventi a sinistra). TESTELIN: Mentite! (oh! Oh!). NUMEROSE VOCI: All’ordine! All’ordine! (lunga agitazione). IL PRESIDENTE: Testelin... (nuove grida: All’ordine! All’ordine!) un momento, signori, vi prego (indirizzandosi all’estrema sinistra). Testelin, da questo lato ho sentito numerose interruzioni; dato che erano simultanee ho atteso il momento di poter cogliere una voce che dicesse delle parole che potevano essere riprese. Quelle da voi usate sono un insulto, vi richiamo all’ordine. TESTELIN: L’accetto. AL CENTRO E A DESTRA: All’ordine!

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IL PRESIDENTE: Invece di sottomettervi, persistete: vi richiamo all’ordine una seconda volta con iscrizione al processo verbale. A DESTRA: Benissimo! Benissimo! La censura! (esclamazioni a sinistra, una lunga e tumultuosa agitazione, Pascal Duprat si alza e rivolge al Presidente delle parole che, nella confusione, non giungono fino a noi; per un istante sembra che parecchi membri dell’estrema sinistra vogliano abbandonare l’aula). IL PRESIDENTE: Duprat, non avete la parola; sedetevi e state zitto (Pascal Duprat si siede e si ristabilisce la calma). IL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI: Spregio profondamente queste ingiurie e continuo a ripetere che ciò che è certo finora, è che questa rivoluzione iniziata con la violenza e l’assassinio... (nuove vivaci esclamazioni a sinistra: Non è vero!). NUMEROSE VOCI: È vero! Molto bene! Molto bene! ... che è continuata con la violenza della folla, questa rivoluzione, finora, non è costata ad alcuno, per ragioni politiche, né la libertà, né i suoi beni, né la vita. Ecco la verità; e quando penso, senza far allusione ad alcun fatto particolare, agli avvenimenti più o meno tragici che in questi ultimi tempi hanno portato in Italia e nel resto d’Europa la restaurazione degli antichi poteri, quando penso a ciò, ho ragione di proclamare qui che coloro che noi abbiamo vinto debbono benedire il cielo... (esclamazioni a sinistra. A destra: è evidente) coloro che noi abbiamo vinto debbono benedire il cielo che è stato il braccio della Francia a colpirli e non altri... (vive approvazioni al centro e a destra). Signori, ho detto quanto volevo dire, ho esposto, tra interruzioni per lo meno inutili e sempre sconvenienti, quali erano stati il pensiero e l’azione della diplomazia francese; la Francia e l’Assemblea giudicheranno. A SINISTRA: Sì! Sì! A DESTRA: Molto bene! Molto bene!

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Rabbia e sconfitta in una lettera a Corcelle del 1 ottobre 184924 La mia impressione durante la lettura del Motu Proprio e dell’amnistia [...] è stata di un’indignazione e irritazione profonda. Trovo che il Motu Proprio rappresenti un modello compiuto di astuzia politica; non una promessa a fianco della quale non si sia trovato il modo di venirvi meno; non una concessione che non cela una facilità per ritirarsi, non un’istituzione liberale il cui valore non sia annullato da un commentario o da un’aggiunta che possa ridurla a un niente. È così, per prendere un esempio, che dopo aver fatto della Consulta un’insignificante riunione di consulenti in materia finanziaria, si conferisce al Papa il diritto di aggiungere a questi corpi dei membri presi al di fuori delle candidature indicate. Di modo che la maggioranza sarà sempre a sua personale disposizione e che anche il carattere laico dell’istituzione potrà essere e sarà senza dubbio modificato. Tutto ciò non è né sincero né serio. Quanto all’amnistia, essa mi sembra un atto impolitico e odioso. Ho ricercato e mi sono fatto mettere sotto gli occhi tutte le amnistie che sono state concesse in trentaquattro anni in Europa, non ve n’è una che non sembri un capolavoro di clemenza comparato a questa. Non v’è un principe laico che abbia mostrato più dimenticanza e mansuetudine, almeno nel testo dell’atto di amnistia, del papa. [...] Dio voglia che la spedizione di Roma non abbia per effetto quello di rendere più difficile che mai l’unione della Chiesa e della nuova società, e che dopo aver ristabilito il 24 Riportiamo ampi estratti della lettera di Tocqueville a Corcelle del 1 ottobre 1849 (O.C., XV, 1, pp. 434-437), in cui il grande statista francese manifesta tutta la propria irritazione e delusione per l’epilogo della vicenda romana. Il Papa Pio IX, peraltro beatificato nel 2000 da Giovanni Paolo II, ben lungi dal riprendere la politica di riforme in senso liberale auspicata da Tocqueville, si impegnò in una feroce restaurazione che di liberale non aveva pressoché nulla.

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papa noi non diveniamo molto più cattivi cattolici di quanto non lo siamo già. Per quanto forti fossero le mie impressioni, ho appreso sul campo che era necessario comprimerle. Ho dunque proposto e fatto ammettere dal Consiglio la linea di condotta che indica la spedizione. Non esprimere soddisfazione del Motu Proprio. Non vi sarebbe sincerità né dignità nel farlo. Nessuno ci crederebbe. Ma ammettere che il Motu Proprio contiene dei buoni germi; non esprimere la diffidenza quanto ai germi non sviluppati; annunciare, il più seriamente possibile, che si può, che si lavora per svilupparli. Aspettando, restare a Roma, non come minaccia verso il papa, ma per preservarlo da nuove rivoluzioni finché non siano terminate le sue imprese liberali. Considerare il Motu Proprio come l’opera personale del papa, quella che porta il suo sigillo. Quanto all’amnistia, reclamare rispettosamente ma energicamente. Su questo punto, il nostro onore di nazione e il nostro onore come ministro è così avviato che non possiamo cedere. Adesso, vi è ancora un motivo di conflitto. Il governo pontificio vuole assolutamente avere questo conflitto? Nulla gli risulta più facile. Noi non possiamo indietreggiare e se vuole perseguitare sotto i nostri occhi gli uomini politici esclusi dall’amnistia e che non disturbano l’ordine pubblico; se non consente nemmeno ad attendere la nostra partenza da Roma per soddisfarsi su questo punto; se tiene in maniera assoluta non solo a non fare ciò che vogliamo, ma a mancare verso di noi ogni riguardo; eh allora! Egli porterà un lutto con la Francia o a dir poco porterà presso di noi un cambiamento di gabinetto e la guerra fra le diverse frazioni da parte dell’ordine. Spetta a lui esaminare. Quanto a noi, finché saremo coinvolti in queste faccende, non lasceremo che la giustizia politica romana segua il suo corso nei paesi che occupiamo e su questo punto mantengo tutti gli ordini che le mie lettere precedenti contenevano già.

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Approfondimenti bibliografici*

Opere di Tocqueville Oeuvres complétes, a cura di J.P. Mayer et al., Gallimard, Paris 1951 sgg.: - Tome I, vol. 1 et 2: De la démocratie en Amérique (1ère et 2ème partie), 1951. - Tome II, vol. 1: L’Ancien Régime et la Révolution, 1953; vol. 2: Fragments et notes inédites sur la Révolution, 1953. - Tome III, vol. 1: Écrits et discours politiques: écrits sur l’Algérie, les colonies, l’abolition de l’esclavage, l’Inde, 1962. vol. 2: Écrits et discours politiques sous la monarchie de Juillet, 1985; vol. 3: Écrits et discours politiques (seconde République), 1990. - Tome IV, vol. 1 et 2: Écrits sur le système pénitentiaire en France et à l’étranger, 1984. - Tome V, vol. 1: Voyage en Sicile et aux États-Unis, 1957; vol. 2: Voyage en Angleterre, Irlande, Suisse et Algérie, 1957. - Tome VI, vol. 1: Correspondance anglaise, avec Reeve et J. S. Mill, 1954; vol. 2: Correspondance et conversations de Tocqueville et Nassau Senior, 1991. - Tome VI, vol. 3: Correspondance anglaise, 2003. - Tome VII, Correspondance américaine et européenne, 1986. - Tome VIII, vol. 1, 2 et 3: Correspondance Tocqueville-Beaumont, 1967. - Tome IX, Correspondance Tocqueville-Gobineau, 1959.

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Senza aspirare alla completezza, sarebbe un’impresa impossibile con un mostro sacro come Tocqueville, riportiamo alcuni degli studi più recenti e più significativi che hanno costituito un’ottima documentazione ai fini del presente lavoro.

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- Tome XI, Correspondance Tocqueville-Ampère et Tocqueville-RoyerCollard, 1970. - Tome XII, Souvenirs, 1968. - Tome XIII, vol. 1 et 2: Correspondance Tocqueville-Kergolay, 1977. - Tome XIV, Correspondance Familiale, 1998 - Tome XV, vol. 1 et 2: Correspondance Tocqueville-Corcelle et Tocqueville-Mme de Circourt, 1983. - Tome XVI, Mélanges, 1989. - Tome XVIII, Correspondance Tocqueville-Circourt et TocquevilleMme de Circourt, 1983. Oeuvres complètes d’Alexis de Tocqueville publiées par M.me de Tocqueville, a cura di G. de Beaumont, Michel-Lévy frères, Paris 1864-66. Oeuvres, a cura di A. Jardin, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 1991-1992. De la démocratie en Amerique – Souvenirs – L’Ancien Régime et la Révolution, a cura di J.C. Lamberti e Françoise Mélonio, Laffont, Paris 1986. De la Démocratie en Amérique, I edizione storico-critica riveduta e ampliata a cura di E. Nolla, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1990.

Traduzioni italiane CANDELORO G. (a cura di), La democrazia in America, Bur, Milano 1999. – L’antico regime e la rivoluzione, Bur, Milano 2000. COLDAGELLI U. (a cura di), Viaggio in America 1831-1832, Feltrinelli, Milano 1990. – Scritti, note e discorsi politici (1839-1852), Bollati Boringhieri, Torino 1994. – Viaggi, Bollati Boringhieri, Torino 1997. DIANI M. (a cura di), Quindici giorni nel deserto americano, Sellerio, Palermo 1989. – La Rivoluzione, Sellerio, Palermo 1989. FACCIONI E. (a cura di), Viaggio negli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1990. MATTEUCCI N. (a cura di), Scritti politici di Alexis de Tocqueville, UTET, Torino 2007. MATTEUCCI N., DALL’AGLIO M. (a cura di), Vita attraverso le lettere, Il Mulino, Bologna 1996. MICHELINI TOCCI L. (Introduzione e traduzione di), A. de TocquevilleA. de Gobineau, Del razzismo. Carteggio 1843-1859, Donzelli, Roma 1995. RE L. (a cura di), Scritti penitenziari, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002.

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Sitografia http://faculty.law.lsu.edu/ccorcos/resume/tocquebib.htm (realizzato da Christine Alice Corcos, Associate Professor of Law presso il Louisiana State University Law Center, è oltremodo degno di menzione in quanto riporta quasi per intero tutti i materiali disponibili su Tocqueville. In assoluto la più importante raccolta bibliografica su Tocqueville). http://www.asmp.fr/fiches_academiciens/decede/tocqueville_biblio.htm (interessante sito dell’ Accademia delle scienze morali e politiche di cui fu membro anche Tocqueville). http://www.tocqueville.culture.fr/fr/ (importante sito creato in occasione del bicentenario della nascita di Tocqueville [1805]). http://tocqueville.ifrance.com/ (sito ideato da Éric Keslassy, autorevole studioso di Tocqueville). http://www.tocqueville.org (il più importante sito americano, dal quale è possibile reperire indicazioni e materiali utili sul rapporto fra Tocqueville e l’America). http://americancenter.sciences-po.fr/en/activities/publication/revue-tocqueville/pages/enligne.htm (sito della Tocqueville Review).

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Ringraziamenti

Il ringraziamento più essenziale va all’amico Enzo Marzo, persona libera e combattente indefesso di battaglie civili fondamentali, per aver deciso di accordare la propria fiducia a un giovane studioso. Il vero ideatore di questo progetto, cui non mi è stato per nulla difficile aderire con passione e impegno, è stato lui. Desidero rendergliene merito e gratitudine. Al Prof. Domenico Losurdo, maestro impareggiabile e discreto nume tutelare delle mie produzioni intellettuali, per i suoi insegnamenti che mi hanno formato come uomo e come studioso e, in questo caso, anche per avermi messo a disposizione la sua immensa e preziosissima biblioteca. Al Prof. Antonio De Simone, per i suoi insegnamenti e per la stima e l’affetto che si sono tradotti, in questa circostanza, in una mole incredibile di suggerimenti bibliografici e tematici. All’Ing. Alessandro Cioppi, a Luciano Marchetti e alla grande “famiglia” di «PiQuadro» in quel di Cagli e Urbino, per la loro incredibile sensibilità verso la cultura umanistica, per l’amicizia e per l’aiuto concreto che hanno voluto fornire a un giovane studioso come me. Al Prof. Corrado Ocone della Luiss University Press vanno la mia stima più sincera e un grande grazie per la sua autorevole vicinanza e per l’impagabile incoraggiamento. 345

Al Professore e amico Guido Liguori, per tante cose ma, in questa circostanza in cui mi sono tornate oltremodo utili, per avermi insegnato quella precisione e attenzione filologica sempre difficili da raggiungere per un filosofo (e infatti non le ho raggiunte!). Al Prof. don Marco di Giorgio e all’amico di una vita Simone Moretti, dai quali mi separano molte idee in ambito di religione, ma ai quali mi accomuna il bisogno e il gusto della ricerca rispetto ai misteri insondabili che circondano la nostra esistenza. Oltre al piacere della tavola, antico e moderno «convivio» per discussioni e confronti da cui attingere materiale per i miei lavori. Nessuno me ne vorrà se esprimo il mio grazie più grande a Patrizia, per il suo duplice «ruolo». Di collaboratrice seria e competente rispetto alla traduzione di alcuni dei testi, e di compagna sensibile e paziente rispetto al comune vissuto dei contesti. Tutte queste persone hanno contribuito a vario titolo al presente lavoro, di cui tuttavia va attribuita soltanto a me la responsabilità di eventuali imprecisioni o errori. Ad lectoris auctoritatem me confero!

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Indice

Il liberalismo degli antichi e dei moderni Religione e politica in Alexis de Tocqueville

di Paolo Ercolani Un agnostico angosciato: la religione come mezzo e non come fine L’India e l’induismo L’Islam: teoria e prassi dello «scontro di civiltà» Il cristianesimo: la religione dei moderni Religione e democrazia in America: un matrimonio di convenienza Le due religioni Lo «strano» liberalismo di un mediatore sconfitto Tocqueville e il mondo contemporaneo: fra religione e politica

7 7 15 23 37 45 57 67 85

Riferimenti bibliografici

93

Cenni biografici su Alexis de Tocqueville

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Nota editoriale Capitolo primo La fede e il dubbio: il cristianesimo (e il cattolicesimo) problematici di Tocqueville Fede e dubbio in una lettera a Madame de Swetchine Provvidenza e buon senso in una lettera al filosofo Bouchitté Lettera di Tocqueville a Gobineau (5 settembre 1843) Lettera di Tocqueville a Gobineau (2 ottobre 1843) Lettera di Tocqueville a Gobineau (22 ottobre 1843) Le sette negli Stati Uniti Il clero cattolico in Canada e quello europeo La Chiesa e il potere politico

103

105 105 107 109 112 117 119 123 125 347

Lettera a Monsignor Daniel, Vescovo di Coutances Discorso sulla libertà di religione

Capitolo secondo L’India e l’induismo Note sull’India e l’induismo Note sulla religione e la società indù Note stilate tra il 1841 e il 1843 sulla base dei libri dell’abate Dubois e di Barchou Figure della religione dell’India: guru e brahmani I costumi e la religione degli indiani Idee scientifiche, filosofiche e religiose presso gli indiani Il codice penale, le caste e le cause della potenza della religione induista

Capitolo terzo L’Islam Tocqueville e il Corano Note sul Corano (marzo 1838) Note sull’Islam (1839-1840) Perché non si trova sacerdozio presso i musulmani Culto musulmano Giustizia Garanzie musulmane Le origini familiari di Abd el-Kader I turchi erano stati più prudenti... Tocqueville giudica Abd el-Kader Contro la spoliazione delle fondazioni Estratto del Rapporto del 1847 riguardante gli istituti caritatevoli, le scuole e il culto musulmano Feroce critica all’Islam in una lettera a Gobineau Ancora contro l’Islam in una lettera a Richard Milnes

Capitolo quarto Scuola, Chiesa e società: la Francia tra reazione e anticlericalismo

130 132 139 139 141 142 144 146 148 151 155 155 156 166 166 168 169 170 170 173 173 174 178 180 181

183 Crisi della politica e rinascita dello spirito antireligioso 183 La libertà d’insegnamento 206

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Articoli che Corcelle mi ha impedito di inserire nel «Commerce» nel 1844 La denuncia della guerra scolastica La riconciliazione fra religione e libertà

Capitolo quinto Religione e democrazia Spirito di religione e spirito di libertà La religione come istituzione politica Credenze religiose e società politica Le cause principali che rendono potente la religione in America Filosofia e religione La fonte principale delle credenze presso i popoli democratici Come negli Stati Uniti la religione sa servirsi degli istinti democratici Il progresso del cattolicesimo neli Stati Uniti La dottrina dell’«interesse bene inteso» Lo spiritualismo degli americani Credenze religiose e piaceri spirituali L’oggetto delle azioni umane nelle epoche di uguaglianza e di dubbio

Capitolo sesto Religione e rivoluzione 1789-1848 La Rivoluzione francese e la distruzione del potere religioso La Rivoluzione francese alla stregua di una rivoluzione religiosa L’irreligione dei francesi rivoluzionari La questione romana Discorso sulla questione romana Rabbia e sconfitta in una lettera a Corcelle del 1 ottobre 1849

210 216 217 221 221 223 226 232 241 247 252 262 263 266 268 273 277 277 279 284 293 316 333

Approfondimenti bibliografici

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Ringraziamenti

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libelli vecchi e nuovi

ENZO MARZO

Le voci del padrone Saggio di liberalismo applicato alla servitù dei media

Un pamphlet sulla libertà d’informazione, sullo stato dei media nel presente e in un futuro condizionato da rivoluzionari mutamenti tecnologici. 978-88-220-5501-9

pp. 224 / e 15,00

PIERFRANCO PELLIZZETTI - GIOVANNI VETRITTO

Italia disorganizzata Incapaci cronici in un mondo complesso prefazione di Mauro Barberis

Perché stentiamo a far funzionare ogni organizzazione complessa tipica della modernità? Un paese individualisticamente povero e inefficiente mette a repentaglio la sua stessa libertà. 978-88-220-5502-6

pp. 152 / e 14,00

MARCELLO VIGLI

Contaminazioni Un percorso di laicità fuori dai templi delle ideologie e delle religioni prefazione di Sergio Lariccia

Incombe sul mondo la minaccia di una guerra di religione? Come vivere in pace in società diventate multietniche e multiculturali? 978-88-220-5503-3

pp. 304 / e 16,00

JEREMY BENTHAM

Libertà di gusto e d’opinione Un altro liberalismo per la vita quotidiana a cura di Gianfranco Pellegrino

Quattro pamphlet liberali, quattro proposte di libertà nella nostra vita quotidiana. Libertà nella condotta sessuale, nella vita economica, nella discussione pubblica e nella stampa indipendente, garanzia contro gli abusi di potere. 978-88-220-5504-0

350

pp. 352 / e 17,00

MARCEL GAUCHET

Un mondo disincantato? Tra laicismo e riflusso clericale a cura di Davide Frontini

Papa Ratzinger e il nuovo clericalismo, la new age e i talebani: siamo davvero di fronte a un ritorno del religioso? Un’analisi rigorosa per cominciare a pensare davvero la religione nella democrazia. 978-88-220-5505-7

pp. 248 / e 16,00

F. LA MOTHE LE VAYER - A. DE MONLUC - C. LE PETIT

L’antro delle ninfe saggio introduttivo di Jean-Pierre Cavaillé

Una raccolta di saggi di autori libertini e anticlericali che presenta una complessa genesi ideologica e letteraria della sessualità 978-88-220-5506-4

pp. 128 / e 14,00

PAOLO BONETTI

Il purgatorio dei laici Critica del neoclericalismo prefazione di Enzo Marzo

La laicità dello Stato italiano appare ogni giorno più compromessa dall’ingerenza del Vaticano e della Cei nella nostra vita pubblica e privata, mentre la politica rimane impassibile. 978-88-220-5507-1

pp. 224 / e 15,00

NORBERTO BOBBIO

Contro i nuovi dispotismi Scritti sul berlusconismo premessa di Enzo Marzo - postfazione di Franco Sbarberi

Pagine dense, scritte all’origine del fenomeno «berlusconismo», che ha poi contaminato un po’ tutti, anche i suoi presunti oppositori. 978-88-220-5508-8

pp. 128 / e 14,00

PIERFRANCO PELLIZZETTI

La quarta via Una Sinistra vera dopo la catastrofe prefazione di Giorgio Galli

I cedimenti e i trasformismi della Sinistra favoriscono l’ascesa di una Destra affaristica, reazionaria e videopopulista. Solo una «nuova via» può ridarci una speranza di Giustizia e Libertà. 978-88-220-5509-5

pp. 240 / e 16,00

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Volume di pagine 352 carta Luxcream 1,8, gr. 70 Finito di stampare nell’ottobre 2008 dalla Dedalo litostampa srl, Bari

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Alexis de Tocqueville (1805-1859), storico, sociologo e uomo politico francese, rappresenta un classico del pensiero liberale e democratico di tutti i tempi. Da alcune delle sue opere più celebri si coglie la vastità di argomenti sui quali questo grande autore ha lasciato riflessioni che costituiscono, ancora oggi, fonte di insegnamento per le società occidentali. Ma il vero grande nucleo della sua opera monumentale risiede nel complesso e tormentato rapporto fra politica e religione.

Paolo Ercolani (1972) è dottore di ricerca in filosofia e docente incaricato di materie storiche e filosofiche presso l’Università degli studi di Urbino. È studioso del pensiero e delle società liberali, argomento sul quale ha scritto volumi e articoli per riviste specializzate.

ISBN 978-88-220-5510-1

m 20,00 (i.i.)

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Alexis de Tocqueville

Un ateo liberale Alexis de Tocqueville

Religione, politica, società

saggio introduttivo e cura di Paolo Ercolani

La collana ha due serie. La prima (serie rossa) ridà vita a un genere poco frequentato in Italia, il pamphlet, un testo di attualità breve, polemico, propositivo, antiaccademico ma rigoroso. La seconda (serie blu) ripubblica antichi testi liberali, laici, libertini, democratici, dimenticati o occultati dal conformismo del nostro paese.

Un ateo liberale

Il volume raccoglie – per la prima volta in italiano – la summa degli scritti di Tocqueville sulle religioni, con particolare riferimento a quella cristiana. Il lavoro è di notevole interesse poiché l’autore non dimentica mai il contesto storico, inserendo le proprie considerazioni all’interno di eventi fondamentali della storia moderna: il colonialismo (campagna d’India e di Algeria), la Rivoluzione francese, la Restaurazione, l’evento rivoluzionario del 1848 e la Repubblica romana. Sono presenti anche le profonde riflessioni dell’autore sulla questione della certezza o del dubbio, sul travagliato rapporto tra fede e ragione e sul ruolo che la Chiesa deve ricoprire all’interno degli stati liberali. Tutto ciò è impreziosito da quel celebre metodo comparatistico che ha permesso a Tocqueville, com’è accaduto a pochissimi altri autori, di pennellare un ritratto affascinante tanto dell’America quanto dell’Europa.

La collana “Libelli vecchi e nuovi” vuole dare voce ai testi di quel pensiero liberale che da secoli è l’asse portante della modernità del mondo occidentale così contestata da tutti i fondamentalismi. Un pensiero messo all’Indice perché si contrappone all’assolutismo clericale e ai totalitarismi che non tollerano d’essere messi in discussione dal libero pensiero.

libelli vecchi e nuovi edizioni Dedalo

in copertina: Honoré Daumier, gravure contro i preti francesi in lotta con Voltaire.