Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa 8849224931, 9788849224931


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Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa
 8849224931, 9788849224931

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Quaderni

Annali della Fondazione Ugo La Malfa

Diretti da Gabriele Rigano e Corrado Scibilia

I Quaderni degli Annali della Fondazione Ugo La Malfa nascono dall’esperienza della rivista. Obiettivo della collana, infatti, sarà di sviluppare nella dimensione della monografia scientifica, studi sul movimento repubblicano e azionista, ponendosi come l’ideale proseguimento delle sezioni corrispondenti della rivista. Nonostante la ricchezza dei due filoni, la collana costituisce oggi un caso pressoché unico nel panorama editoriale italiano. Essa potrà costituire uno sprone per gli studiosi, anche i più giovani, affinché dedichino le loro energie allo studio di due scuole che hanno rappresentato, pur nella loro natura politica minoritaria, valori fondanti ed esperienze originali della storia del nostro Paese.

© Proprietà letteraria riservata

Gangemi Editore spa Piazza San Pantaleo 4, Roma w w w. g a n g e m i e d i t o re . i t

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni. Le nostre edizioni sono disponibili in Italia e all’estero anche in versione ebook. Our publications, both as books and ebooks, are available in Italy and abroad.

ISBN 978-88-492-7493-6 In copertina: A. Rauli, rielaborazione di un particolare della copertina dell’opuscolo Pro e contro il Bolscevismo, di Oliviero Zuccarini. Conservato presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano

Corrado Scibilia

Tra nazione e lotta di classe

I repubblicani e la rivoluzione russa

Indice Introduzione 1917-1918: La rivoluzione e l’interventismo 1 Le prime reazioni 2 Cappa e la missione in Russia 3 Lenin e Kerenskij 4 Il grande tradimento russo 5 Il Convegno Nazionale di Firenze

7 13 32 42 55 67

1919-1920 Pro o contro il bolscevismo 1 “Bolscevismo e Repubblica Sociale” 2 La pace e l’intervento in Russia 3 Le elezioni e il Congresso di Roma 4 L’“utopia conservatrice” di Colajanni 5 “Pro e contro il Bolscevismo” 6 La segreteria Schiavetti 7 L’uscita di Nenni dal PRI

87 108 119 125 145 153 167

1921-1922 Tra comunismo e fascismo 1 Un difficile equilibrio 2 La morte di Colajanni 3 Verso il fascismo

177 198 207

Conclusioni

219

Fonti

227

Indice dei nomi

229

Introduzione

L

a rivoluzione russa costituì un evento di capitale importanza nella storia del Novecento. Le sue conseguenze si sono fatte sentire sotto ogni latitudine e l’Italia non ha fatto eccezione. La storiografia ha da tempo affrontato le conseguenze che la rivoluzione ebbe sulle forze che si richiamavano agli insegnamenti di Marx, con contributi di grande importanza scritti da studiosi molto prestigiosi1, ma non ha trascurato nemmeno il movimento anarchico2. La stessa attenzione, viceversa, non è stata dedicata all’altra forza anti-sistema dell’epoca, il Partito Repubblicano Italiano (PRI). E invece, la rivoluzione russa costrinse il PRI a mettere in discussione il concetto stesso di rivoluzione e poi a definirne meglio i suoi contenuti. La sua rilevanza per il movimento repubblicano è stata notevole quanto sottovalutata, anche all’interno degli studi specializzati. Uno degli studiosi che ha più lavorato sull’argomento, Santi Fedele, in un suo pregevole studio, parla, infatti, di un atteggiamento

Nel citare gli articoli coevi si è scelto di trascriverli così come apparvero. Pertanto, i nomi degli autori sono stati riportati esattamente come apparivano sul giornale e i nomi russi citati nei testi sono stati lasciati nella traslitterazione originaria. 1 Per citare solo gli studi specifici: Franco Ferri, La Rivoluzione d’ottobre e le sue ripercussioni nel movimento operaio italiano, “Società” n.1, febbraio 1958, pp. 73-100; Gaetano Arfè, Critica Sociale e la Rivoluzione russa, “Critica Sociale” n. 20, ottobre 1962, pp. 511-514; Emilio Sereni, La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia, “Critica marxista” n. 4-5, luglio-ottobre 1967 pp. 3-66; Gabriella Donati Torricelli, La Rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-18, “Studi Storici” n. 4, ottobre-dicembre 1967, pp. 727-765; Aurelio Lepre, Bordiga e Gramsci di fronte alla guerra e alla Rivoluzione d’ottobre, “Critica marxista” n. 4-5, luglio-ottobre 1967, pp. 104-135; Tommaso Detti, La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia, “Studi Storici” n. 4, ottobre-dicembre 1974, pp. 881-893; Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974. 2 Pier Carlo Masini, Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa, “Rivista storica del socialismo” n.15-16, gennaio-agosto 1962, pp. 135-169; Santi Fedele, Una breve illusione. Gli anarchici italiani e la Russia sovietica 1917-1939, FrancoAngeli, Milano 1996.

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“non solo [di] ostilità preconcetta ma anche [di] assoluta incomprensione del significato storico della Rivoluzione d’ottobre” 3. Una delle spiegazioni dello scarso interesse della storiografia per l’argomento è nelle fonti. Dalle carte di Pubblica Sicurezza, spesso privilegiate in questi lavori, infatti, emerge, nel complesso, un quadro di forte antisocialismo e relativa attenzione alla rivoluzione russa. Ciò è determinato non solo dalla sensibilità del funzionario che materialmente stendeva il rapporto, ma anche dalla diversa quantità di rapporti prodotti dalle singole prefetture. Ad esempio, il fascicolo relativo al PRI a Milano è del tutto sproporzionato all’importanza che la città aveva, numericamente parlando, nel movimento repubblicano. E siccome quello milanese è un repubblicanesimo molto moderato, al cui vertice troviamo personaggi come Giovan Battista Pirolini, ciò spiega la ragione di una visuale diversa a seconda della prospettiva. Un altro problema che si riscontra con le fonti archivistiche istituzionali è quello della difficoltà di comprenderlo e definirlo da parte dei funzionari preposti: ad esempio, il fascicolo di Napoleone Colajanni nel Casellario Politico Centrale riporta, nel campo “Colore politico” la dizione “socialista collettivista”. Nella stampa repubblicana, invece, la presenza della rivoluzione russa è massiccia, nella duplice natura di evento nella storia del movimento operaio e nella storia politica novecentesca. La necessità di quantificare, e non solo qualificare, il fenomeno giustifica l’ampio uso delle citazioni contenute nel testo e i riferimenti in nota. Un altro dato da cui emerge l’importanza della rivoluzione russa nelle vicende del PRI è l’influenza che essa ebbe, talvolta in concorso con altri fattori, nelle vicende personali di alcuni esponenti di primo piano del partito o anche di semplici militanti. Si possono riportare alcuni casi esemplari, solo per rapidi cenni. Napoleone Colajanni e Pietro Nenni, dei quali si tratta diffusamente nella ricerca, erano certamente due capi del repubblicanesimo italiano, eppure la loro scelta di vita, tanto radicata, venne messa a dura prova o addirittura abiurata, a causa anche della rivoluzione. Se, infatti, per il vecchio garibaldino gli ultimi anni della sua vita furono caratterizzati dalla polemica durissima con il suo partito, e solo la sua morte impedì, forse, conseguenze anche più definitive, Nenni, dopo alcuni mesi di malessere, concluse la sua ricerca di una nuova prospettiva alla crisi del do-

3

Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo (1919-1926), Le Monnier, Firenze 1983,

p. 35.

8

Introduzione

poguerra uscendo dal PRI, in modo tanto netto quanto fragoroso. Anche Curzio Malaparte, allora militante repubblicano, fu costretto a confrontarsi con questo evento Avevo pensato in principio, – annota lo scrittore – subito dopo il mio ritorno in Italia, di riavvicinarmi al Partito Repubblicano: ma me ne tenni lontano non appena mi accorsi che esso era rimasto fermo a Garibaldi e a Mazzini, nè riusciva a liberarsi dagli schemi del patriottismo e dell’ordine sociale piccolo borghese. Dopo aver visto da vicino i metodi e lo spirito della rivoluzione russa, il problema della rivoluzione italiana, qual’era concepita e imposta sul terreno teorico e pratico dal Partito Repubblicano, mi appariva antistorico e sostanzialmente reazionario, tanto nel senso politico quanto nel senso sociale4.

Questi pochi accenni possono dare un’idea della risonanza dell’evento all’interno del movimento repubblicano. Ma ciò che rimane da dire è che l’elaborazione che seguì fu anche di notevole spessore. Se, come è stato giustamente segnalato da tanta storiografia, i repubblicani furono talvolta preda di un antisocialismo marcato, pure si trovano esempi di coerente e perspicace riflessione sulla rivoluzione russa e su quella repubblicana, magari negli stessi in cui il furore antisocialista era più evidente. È questo il giudizio anche del massimo studioso dei rapporti tra Italia e Russia rivoluzionaria, Giorgio Petracchi, il quale, parlando della posizione di Carlo Sforza sulla rivoluzione russa, scrive: Per tutti gli Anni Venti, a formare il giudizio di Sforza sulla rivoluzione russa avevano concorso alcuni saggi di orientamento repubblicano e socialista riformista (quanto di meglio sia stato scritto in Italia sull’argomento tra il 1920 e il 1922). Intendiamo riferirci all’opuscolo di Oliviero Zuccarini, Pro e contro il Bolscevismo; all’articolo di Napoleone Colajanni, La rivoluzione russa. Appunti e giudizi, al saggio di Rodolfo Mondolfo, Significati e insegnamenti della rivoluzione russa5.

4 Memoriale [1946], in Edda Ronchi Suckert, Malaparte, Volume 1° 1905-1926, s.e, s.l. s.d. [1991], pp. 248-249. Non è ovviamente questa la sede per affrontare il tema del rapporto di Malaparte con la politica. Ci limitiamo perciò a citare il documentato saggio di Giuseppe Pardini, Curzio Malaparte. Biografia politica, Luni, Milano-Trento 1998, pp. 52-53. 5 Giorgio Petracchi, Carlo Sforza e il mondo sovietico 1917-1950. (Apparenze diplomatiche e realtà psicologiche), “Il Politico” n. 3, 1984, p. 389.

Introduzione

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Due di quei tre testi sono opere di autori repubblicani e verranno ampiamente analizzate più avanti. Mi pare la migliore epigrafe possibile. Questa ricerca è nata, ormai molti anni fa, come tesi di laurea. Ho scelto di conservarne la struttura, modificandone solo le parti in cui più evidente era l’ingenuità del giovane studioso, aggiungendo nuove ricerche archivistiche e aggiornando la bibliografia. La grande quantità di articoli citati dalla stampa repubblicana coeva centrati sulla rivoluzione russa, rende ragione in maniera evidente della necessità di questa ricerca. Peraltro, so bene di non aver colmato totalmente la lacuna. Ho analizzato 30 fra quotidiani e riviste, unendo al criterio dell’importanza e della rappresentatività della testata anche quello geografico, nel tentativo di coprire le principali aree di radicamento del PRI. Purtroppo non è stato possibile rintracciare alcune testate, ritengo tuttavia di aver dato un quadro d’assieme indicativo di ciò che il Partito Repubblicano produsse in quegli anni su quell’argomento. Sono grato a Daniela e a Giorgio La Malfa e alla Fondazione Ugo La Malfa per avere voluto che questo libro costituisse il primo volume di una nuova collana, “I Quaderni degli Annali della Fondazione Ugo La Malfa” e li ringrazio anche per l’appoggio che mi hanno dato in tutti questi anni. Alla fine di una ricerca ci sono sempre molte persone da ringraziare. Io non farò eccezione. Ringrazio il personale della Biblioteca Alessandrina di Roma, che mi permise di consultare la collezione de “L’Iniziativa”, allora in condizioni disastrose, quello della Sala Periodici della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, sempre pronto a facilitare il lavoro di ricerca e quello della Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma. Mi sono altresì molto avvantaggiato dei consigli degli archivisti dell’Archivio centrale dello Stato. Ringrazio inoltre Paola Carità, per aver tradotto dal russo parte di una ricerca di Kira Kirova, Marella Mislei, che, in epoca predigitale, fotografò per me la gran massa di articoli che hanno costituito la sostanza della ricerca e Mario Leuci, per la sua operosa collaborazione. Un grazie va agli amici che hanno sopportato le mie enfatiche conversazioni sui repubblicani e il bolscevismo in tutti questi anni, dandomi anche utili indicazioni. In particolare voglio dire grazie a Gabriele Rigano, attento studioso e, per mia fortuna, grande amico. I suoi consigli e la sua lettura, paziente e critica, hanno certamente migliorato il testo.

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Introduzione

Ovviamente, di ogni imprecisione sono io l’unico responsabile. Molti anni sono passati da quando iniziai questo lavoro, e non senza conseguenze. Questa ricerca è nata dalle conversazioni in casa di Lucio Cecchini, il quale con passione ospitava giovani che volevano dedicarsi agli studi repubblicani, ne ascoltava le idee e poi li riempiva di materiale. Non posso dimenticare quanti preziosi opuscoli e quanti libri Lucio mi prestò, con la generosità che lo contraddistingueva. Oggi, purtroppo, Lucio non c’è più, ma il mio ringraziamento affettuoso rimane immutato. Pochi mesi fa ci ha lasciati anche Ferdinando Cordova, che aveva seguito questo lavoro come relatore. È stato per me un maestro capace di ascoltare e rispettare anche le posizioni diverse dalle sue. In tutti questi anni ha sempre rappresentato un punto di riferimento e, se ci fosse ancora, avrebbe letto questo testo, che aveva letto già tante volte nelle precedenti versioni, e, oltre a darmi molti preziosi consigli, avrebbe aggiunto moltissime virgole. Voglio infine dedicare un pensiero a mio padre, anch’egli prematuramente scomparso. Ricordo la sua gioia il giorno della mia laurea, è un peccato non vedere la sua espressione oggi. Questo libro non ci sarebbe stato senza la pazienza e l’aiuto che ho ricevuto, in mille modi diversi, da mia moglie Valeria. Lo dedico a lei e a nostro figlio Giuseppe.

Introduzione

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1917-1918: La rivoluzione e l’interventismo

Le prime reazioni La notizia dell’abdicazione dello zar, a seguito dei moti scoppiati l’8 marzo, giunse in Italia il 16 marzo del 1917, tramite un dispaccio dell’agenzia Stefani. Il partito repubblicano, in quel momento, era profondamente provato1: Non agitazioni, durante i mesi di guerra; nessun movimento, di nessun genere; silenzio operoso, eccitamento della fede negli Italiani, conforto ai dubitanti, esempio ai deboli ed ai pigri, pianto silenzioso per i caduti, per i colpiti dalla sventura e dal dolore

così Giovanni Conti descriveva l’attività del partito2. Ma non fu solo una scelta, l’assenza di attività da parte del PRI. 1 Per la storia del PRI negli anni del conflitto mondiale vedi Un Ignoto [Giovanni Conti], Pensiero e azione. Cento anni di lotta repubblicana in Italia, Libreria Politica Moderna, Roma 1921, pp. 84 e sgg.; Il partito repubblicano dopo la guerra, Libreria Politica Moderna, Roma 1921, pp. 5-13 (è un estratto del libro precedente e di un articolo che Conti scrisse per la rivista “Echi e Commenti” del 5 dicembre 1921); Lucio Cecchini, Il movimento repubblicano nella crisi del dopoguerra, “Archivio Trimestrale” n. 3, settembre 1975, pp. 274-278; id., I repubblicani italiani di fronte al fascismo: dal dopoguerra alla marcia su Roma, “Archivio Trimestrale” n. 4, ottobre-dicembre 1977, pp. 297-305; Bruno Di Porto, Il Partito Repubblicano Italiano. Profilo per una storia dalle origini alle odierne battaglie, PRI, Roma 1963, pp. 113-123; Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo, cit., pp. 1-16; Stéfanie Prezioso, Experience de guerre et militantisme républicain en Italie (1914-1926), “European Review of History – Revue européenne d’Histoire” n. 1, march 2006, pp. 141-161. Cenni, talvolta quantitativamente rilevanti, sono contenuti nelle storie generali del periodo, che, esulando dai termini di questa ricerca non elencheremo. Tra di esse, per gli ampi e significativi riferimenti alle vicende repubblicane, specie in relazione al mondo interventista, citiamo soprattutto Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Einaudi, Torino 1965. Più di recente, Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli, Roma 2003. 2 Un Ignoto (Giovanni Conti), Pensiero e azione, cit., pp. 89; ma vedi anche Vittorio Parmentola, Il rinnovamento del Partito repubblicano, in La democrazia repubblicana di Giovanni Conti, Edizioni della Voce, Roma 1968, p. 41.

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La guerra, infatti, aveva interrotto il processo di rinnovamento del partito, guidato dai cosiddetti intransigenti, il gruppo che si rifaceva agli insegnamenti di Arcangelo Ghisleri ed era guidato da Conti e Oliviero Zuccarini. La causa che aveva portato allo scoperto lo scontro interno al partito, era stata la guerra di Libia, nella quale alcuni settori del partito, sensibili ai richiami nazionalistici, si erano schierati dalla parte del governo, a favore della guerra. Il chiarimento aveva portato all’uscita dal partito di un personaggio dell’importanza di Salvatore Barzilai, esponente di un repubblicanesimo di stampo irredentista, e all’assunzione della segreteria politica da parte di Zuccarini, a seguito del congresso di Ancona del 18-20 maggio 1912. Tuttavia, quando scoppiò la guerra, questa assorbì completamente le energie del partito sconvolgendone la vita interna. L’adesione alla guerra dei repubblicani, che fu totale, implicò sia la rinuncia momentanea alla lotta istituzionale, sia la perdita di quasi tutti i dirigenti del partito, che si sentirono moralmente impegnati ad arruolarsi. Conti, Zuccarini, Eugenio Chiesa, Innocenzo Cappa, Ubaldo Comandini ma anche i più giovani Fernando Schiavetti, Cipriano Facchinetti e i fratelli Attilio ed Egidio Reale, partirono volontari. I pericoli del vuoto che si sarebbe creato ai vertici del partito, furono ben avvertiti da Ghisleri, il quale cercò in tutti i modi di evitare l’arruolamento di Zuccarini, sostenendo la

3 Lettera di Ghisleri a Zuccarini, Lugano 26 agosto 1915. Ghisleri così concludeva: “Che molti dei nostri siano corsi al fuoco sta bene; che ci debbano correre tutti non è necessario né giustificabile. Che ci fossero anche degli esitanti e… dei diffidenti, non guasterebbe per le ulteriori rivendicazioni di partito”. Ghisleri criticò anche i volontari delle Argonne, un gruppo che aveva deciso di andare a combattere i tedeschi in Francia, senza attendere la dichiarazione di guerra dell’Italia. Sarebbe stato meglio, sosteneva Ghisleri, se si fossero rivolti, invece che contro la Germania, contro il Quirinale, per spingerlo alla guerra. Lucio Cecchini, Trent’anni di democrazia repubblicana. Repubblica, interventismo, autonomie, federalismo nel carteggio tra Arcangelo Ghisleri e Oliviero Zuccarini (1903-1935), Istituto per la storia del movimento democratico e repubblicano nelle Marche, s.l s.d. [Ancona 1997], pp. 192-193; Lucio Cecchini, L’epistolario tra Arcangelo Ghisleri e Oliviero Zuccarini, “Bollettino della Domus Mazziniana” n.1, 1977, pp. 30-33; Oliviero Zuccarini, Arcangelo Ghisleri, in Aspetti e figure della Pubblicistica Repubblicana Italiana, Associazione Mazziniana Italiana, Milano 1962, p. 151; Pier Carlo Masini, Arcangelo Ghisleri e l’intervento italiano nella prima guerra mondiale, “Bollettino della Domus Mazziniana” n.1, 1991, pp. 25-36. Anche Conti era contrario all’arruolamento di Zuccarini, tanto da chiedere aiuto a Ghisleri per scongiurarlo. Antonluigi Aiazzi, Democrazia come civiltà. Il carteggio Ghisleri-Conti 1905-1928, Editrice Politica Moderna, Milano 1977, pp. 283, 288-293; Alessandro Spinelli, L’ideale e il metodo. Giovanni Conti nella storia del repubblicanesimo italiano (1906-1957), Istituto per la storia del movimento democratico e repubblicano nelle Marche, Ancona 1999, p. 15. Il carteggio pubblicato da Aiazzi va oggi integrato, per la parte riguardante gli anni 1920-1924, con l’articolo di Marina Tesoro, Dodici lettere inedite di Giovanni Conti ad Arcangelo Ghisleri del primo dopoguerra, in Giovanni Conti nella storia politica italiana, a cura di Giancarlo Castagnari, Istituto per la storia del movimento democratico e repubblicano nelle Marche, Ancona 1991, pp. 165-189.

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1917-1918: La rivoluzione e l’interventismo

priorità di dar voce alle speranze di chi restava3. Nel 1916, alla sua partenza, egli fu sostituito da Armando Casalini, che si rivelò non all’altezza del compito, soccombendo alle diverse pressioni a cui fu soggetto. Inoltre, l’ingresso di due esponenti di primo piano, Chiesa e Comandini, nel governo aveva rappresentato un evento lacerante per la coscienza repubblicana4. La reazione alla rivoluzione russa del febbraio5 da parte dei repubblicani, per queste ragioni, non si discostò da quella dell’interventismo di sinistra. La rivoluzione russa di febbraio – scrive De Felice – era stata accolta dall’interventismo di sinistra col più grande giubilo. I rivoluzionari soprattutto avevano visto in essa la conferma della giustezza della loro posizione, la dimostrazione che la guerra avrebbe avuto necessariamente uno sbocco rivoluzionario6.

Inoltre, la rivoluzione eliminava un alleato scomodo per gli interventisti, costretti a stare dalla stessa parte di un regime assolutista come lo zarismo7. Fin dal 16 marzo, nel dibattito parlamentare sviluppatosi sull’argomento, Napoleone Colajanni asserì che la rivoluzione “è né più e né meno, che un movimento favorevole alla guerra sino alla vittoria, contro i nemici della civiltà umana”8. Era stata la Germania, – secondo l’esponente repubblicano – che l’aveva “infeudata” da molti anni, a spingere la Russia ad una politica di repressione in Polonia; non c’era,

4 Comandini fu ministro senza portafoglio nel governo Boselli dal 18 giugno 1916 al 29 ottobre 1917 e poi Commissario generale per l’Assistenza Civile e la Propaganda Interna dal 10 febbraio 1918 al 1° aprile 1919; Chiesa fu Commissario generale per l’Aeronautica dal 1° novembre 1917 al 14 dicembre 1918. 5 La Russia zarista seguiva ancora il calendario giuliano, ritardato di 13 giorni rispetto a quello gregoriano. Solo nel marzo 1918 il governo bolscevico adottò il sistema occidentale. 6 Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 346. Per un quadro della reazione popolare alla rivoluzione russa vedi Piero Melograni, Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana tra il 1917 ed il 1922, relazione presentata al VI Convegno degli storici italiani e sovietici, Fondazione Giorgio Cini, Venezia – Isola di San Giorgio Maggiore, 2-5 maggio 1974 (ringrazio Antonello Venturi per avermi messo a disposizione una copia di questo lavoro tanto raro quanto importante). Per un panorama delle posizioni nella stampa italiana vedi Guido Donnini, Il 1917 di Russia nella stampa italiana, Giuffré, Milano 1976, pp. 432 e Luciana Giacheri Fossati–Nicola Tranfaglia, Dalla grande guerra al fascismo, in Valerio Castronovo-Nicola Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 300-315. Per le posizioni dei socialisti Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), cit., utile anche metodologicamente. 7 Piero Melograni, Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana..., cit., p. 4. 8 Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, Legislatura XXIV, p. 13064

Le prime reazioni

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dunque, da stupirsi se, alfine, la Russia si era ribellata a tanto strapotere. Egli concluse il suo discorso, augurandosi che, analogamente a quella francese, la rivoluzione russa sapesse riorganizzarsi e battere i suoi nemici. Fu, quindi, Colajanni il primo a sanzionare l’analogia, che tanto successo ebbe in seguito, tra la rivoluzione russa e quella francese del 17899. Come scrive Petracchi, questo paragone, sarebbe divenuto, per la base socialista, un’ovvietà, ed insieme una straordinaria idea forza, e nella quale era ancora viva l’emozione per i fatti del 1905. Moderati e conservatori avrebbero invece negato ogni serio paragone tra la rivoluzione russa e quella francese. L’elemento discriminante che, secondo loro, marcava la differenza era un fattore spirituale: il patriottismo ed il carattere nazionale. Questi elementi, che avevano costituito la forza storica della rivoluzione francese, furono contraddetti invece da quella sovietica, il cui prodotto era stato il disfattismo ed il carattere denazionalizzante10.

Ben diverso invece il tono di Innocenzo Cappa, deputato repubblicano di Corteolona, oratore più volte osannato per la sua arte retorica. Se Colajanni era tutto dati e cifre, Cappa era tutto cuore e sentimento.

9 ibid., p. 13065. Giovanna Procacci, Gli interventisti di sinistra, la rivoluzione di febbraio e la politica interna italiana nel 1917, “Italia contemporanea” n. 138, marzo 1980, p. 57, n.15, ora in Ead., Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Bulzoni, Roma 1999, p. 264, n.15. Sull’abuso che molti, tra cui lo stesso Colajanni, avrebbero fatto di questa analogia, Mario Simonetti, Storici italiani e rivoluzioni in Russia (1917 – 1919), “Il Movimento di liberazione in Italia” n. 3, 1968, p. 61: “L’accenno [...] alla Rivoluzione francese, in quei giorni fra il marzo e il luglio era sul punto di perdere ogni connotazione specifica; anzi, a partire dal saluto del “Popolo d’Italia” all’89 di Russia fino alle esasperate esercitazioni analogizzanti del Colajanni, ebbe il tempo di diventare un luogo comune destituito di ogni valore di riferimento – a parte l’imbarazzo che seguiva quando si doveva individuare il termine di confronto, se l’89, il ‘92 oppure il ‘93”. Cfr. anche Antonino De Francesco, L’eredità di Versaglia. La rivoluzione francese nella cultura italiana e nelle linee storiografiche dell’Italia fra le due guerre, in idem, Mito e storiografia della “Grande Rivoluzione”. La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ‘900, Guida, Napoli 2006, p. 114. Sulla posizione degli storici e degli intellettuali italiani appartenenti all’interventismo democratico, molto interessante Barbara Bracco, Storici italiani e politica estera. Tra Salvemini e Volpe 1917-1925, FrancoAngeli, Milano1998, passim. Sull’importanza del mito della rivoluzione francese per i repubblicani vedi il saggio di Angelo Varni, I repubblicani, in Il mito della Rivoluzione e la sinistra italiana tra ‘800 e ‘900, a cura di Aldo Nicosia, FrancoAngeli, Milano 1991, pp. 163-172. 10 Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea” n. 6, dicembre 1990, pp. 1119-1120, ora in id., L’immagine della rivoluzione sovietica in Italia 1917-1920, in Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, a cura di Pier Paolo D’Attorre, FrancoAngeli, Milano 1991, p. 474.

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1917-1918: La rivoluzione e l’interventismo

Utilizzando ogni artifizio retorico riuscì a parlare della rivoluzione senza citarla una sola volta. Egli affermò la possibilità che un popolo facesse una rivoluzione per intensificare la guerra. E citò a supporto della sua tesi proprio l’esperienza del Risorgimento italiano, la rivoluzione francese, la repubblica romana del ‘49, che divenne così “una rivoluzione per la guerra e per la salvezza d’Italia”11. Concetti analoghi a quelli espressi alla Camera, Colajanni ribadiva nella “Rivista Popolare di Politica, Lettere e Scienze Sociali”, da lui diretta, del 15 marzo. Anche qui infatti, pur nella brevità dell’analisi, egli prendeva spunto per un attacco ai socialisti e ai giolittiani, e ribadiva la natura bellica della rivoluzione. In chiusura dava una formulazione completa e sintetica dell’analogia tra rivoluzione francese e rivoluzione russa: “In Francia c’era un Re buono e debole, Luigi XVI, dominato dalla moglie austriaca; e in Russia c’era Nicola 2° buono e debole dominato dalla moglie tedesca. In Francia i ministeri si succedettero con vertiginosa rapidità; e in Russia si sono succeduti con altrettanta vertiginosa rapidità. In Francia la guerra cogli stranieri affrettò gli avvenimenti; e la guerra li ha affrettati in Russia. In Francia dalla rivoluzione sorse l’uomo, Carnot, che doveva organizzare la vittoria. Auguriamoci che sorga pure in Russia!”12. L’articolo era già un repertorio, ben formulato, di argomenti che sarebbero stati utilizzati nei mesi successivi dalla stampa democratica e repubblicana. Oltre al parallelo tra la rivoluzione russa e quella francese del 1789 erano evocati il binomio rivoluzione – guerra e i miti del sabotaggio tedesco e della germanofilia della corte russa13. Altro spunto destinato al successo era la riesumazione di Rasputin, prontamente richiamato dalle pagine della “Rivista”, sia pure con un articolo tratto da un periodico

11 Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, Legislatura XXIV, pp. 13121-22 discorso di Innocenzo Cappa del 17 marzo. Va rilevato che il sunto del discorso di Cappa, pubblicato sulla prima pagina de “L’Iniziativa” del 24 marzo, esplicitava tutti i riferimenti che Cappa, in aula, aveva lasciato impliciti. 12 Lo Zotico, Due grandi avvenimenti. La presa di Bagdad e la rivoluzione in Russia, “Rivista Popolare di Politica, Lettere e Scienze Sociali”, [d’ora in poi “RP”], 15 marzo 1917, pp. 87-88. Colajanni tornò sugli stessi temi più diffusamente, trovando nuove analogie, nell’articolo La gigantesca tragedia Russa, “RP”, 31 marzo 1917, pp. 104-106. Lo stesso articolo venne poi ristampato col titolo Tra la rivoluzione Francese e la rivoluzione russa, “Il Messaggero”, 12 aprile 1917. 13 Poi ripresi in La guerra liberatrice ha liberato la Russia, “La Libertà”, 24 marzo 1917; I fischietti socialisti, “La Sveglia Repubblicana”, 24 marzo 1917; La Russia si rinnova, “Etruria Nuova”, 25 marzo 1917.

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straniero, come simbolo dell’anima russa, mistica, ma d’un misticismo lubrico e primitivo14. Il “carattere democratico e rivoluzionario” della guerra, era anche sostenuto nella mozione che la Commissione Esecutiva (CE) indirizzò al governo provvisorio russo. La CE del PRI esulta per il trionfo della rivoluzione con la quale il popolo russo prende possesso di sé medesimo e dei propri destini accentuando il carattere democratico e rivoluzionario della presente guerra contro la criminosa oligarchia tartaro-tedesca minacciante l’Europa; invia al popolo russo i più cordiali auguri, le più sentite felicitazioni15. Sull’organo del partito, “L’Iniziativa”, Alfredo De Donno ricordava che non era stato il socialismo marxista a fare la rivoluzione. Essa era dall’altra parte, è di là dalla frontiera prussiana, è nella terra del popolo più idealista e più sentimentale, e la rivoluzione è scoppiata non in nome del salario ma della libertà, non per soffocare la guerra della borghesia, ma per alimentare e rinvigorire la guerra nazionale contro le paure, gli egoismi e i pacifismi dello Stato autocratico16.

L’entusiasmo del giornale17 era condiviso dalla base. Lo stesso nu-

14 La fine di Raspoutine, “RP”, 15 marzo 1917, pp. 94-95; Napoleone Colajanni, Il ritardo della rivoluzione russa, “Roma”, 5-6 aprile 1917; Un simbolo, “Il Pensiero Romagnolo”, 28 aprile 1917; Napoleone Colajanni, Le condizioni psicologiche del popolo russo, “Giornale di Sicilia”, 30-31 maggio 1917, poi ripubblicato col medesimo titolo sul “Roma” del 5-6 giugno 1917 e sul “Giornale del Mattino” del 9 giugno 1917. Per l’immagine della Russia in Italia rimando senz’altro agli studi di Giorgio Petracchi, in particolare all’Introduzione del suo La Russia rivoluzionaria nella politica italiana 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. XV-XXIII e all’articolo Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, cit., in particolare p. 1123: “Naturalmente […] ha buon gioco ed è ampiamente sfruttata l’immagine di Rasputin, che riassume in sé tutto il tenebroso «mistero slavo»”; ora in Id., L’immagine della rivoluzione sovietica in Italia 1917-1920, in Nemici per la pelle..., cit., p. 478. 15 Per la rivoluzione russa, “L’Iniziativa”, 24 marzo 1917. 16 Girondin [Alfredo De Donno], Guerra e rivoluzione, “L’Iniziativa”, 24 marzo 1917. Non mancava il paragone con la rivoluzione francese: si definiva infatti quella russa “un 89 senza 93”. Concetti analoghi in Aroldo Piccardi, Primavera sacra, “Il Pensiero Romagnolo”, 31 marzo 1917. Il primo a ipotizzare l’individuazione di Girondin in De Donno è stato Lucio Cecchini, L’epistolario tra Arcangelo Ghisleri e Oliviero Zuccarini, cit., p. 57, ora in Idem, Trent’anni di democrazia repubblicana, cit., p. 236. Gabriele Rigano, nel suo esemplare saggio Alfredo De Donno: l’itinerario di un intellettuale repubblicano da antifascista a propagandista antisemita (e ritorno), “Annali della Fondazione Ugo La Malfa”, vol.XIX–2004, pp. 75-135, in particolare pp. 96-98, ha definitivamente chiarito l’attribuzione. 17 Già la sera del 22 presso la sede del giornale si svolse una riunione dei “partiti rivoluzionari”, la quale deliberò di organizzare una manifestazione per la domenica successiva, il 25, che avrebbe

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mero riportava notizie di manifestazioni in cui si inneggiava alla Russia e i voti augurali delle sezioni di Milano e di Pisa18. A Pavia, in una conferenza organizzata dal Circolo repubblicano locale, l’oratore sostenne che la rivoluzione russa era “diretta contro lo Zarismo concludendo che dopo la Guerra scoppierà la Rivoluzione Sociale fra gli Stati d’Europa come fu profetizzato dal Mazzini”19. D’altronde un altro esponente repubblicano, Giovanni Magrassi, con modi che suscitarono l’ammirazione dello stesso informatore, sostenne che “la rivoluzione russa non ha avuto un carattere prettamente antidinastico, ma [si era] svolta contro un regime che annientava tutti gli sforzi del popolo russo verso il progresso”. Magrassi elogiava il popolo russo, affermando che la Duma “è la tribuna del popolo. Dalla tribuna il popolo parla [...] e le parole significano libertà, la libertà indipendenza”. Egli richiamava l’esempio degli ebrei e degli armeni, ora più liberi nella vita sociale. Anche lui, però, non rinunciava a definire l’anima russa attraverso la sua letteratura e a richiamare il paragone con la rivoluzione francese, sia pur con molte cautele20.

dovuto partire da Piazza Colonna e arrivare fino all’Ambasciata russa. Tale iniziativa fu però abortita a seguito dell’intervento di Giovanni Giuriati, presidente dell’associazione Trento e Trieste, che sostenne la necessità di attendere maggiori e definitive notizie dalla Russia. Comunicazioni riservate del 23 marzo 1917 in ACS, MI, DGPS, Div. AGR, A5G I GM, b. 134, fasc. 280, sfasc. 3 Rivoluzione russa, e anche in ACS, MI, DGPS, UCI, b. 45, fasc. 996 Rivoluzione russa, e 24 marzo 1917. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, A5G I GM, b. 134, fasc. 280, sfasc. 3 Rivoluzione russa. Cfr. Gabriele Rigano, Alfredo De Donno: l’itinerario di un intellettuale repubblicano, cit., p. 95. 18 L’entusiasmo, nelle settimane seguenti, rimase costante e un po’ dappertutto. Cfr. I repubblicani jesini per la Rivoluzione russa, “L’Iniziativa”, 7 aprile 1917; G. Bienaime, Il movimento repubblicano internazionale, “L’Iniziativa”, 21 aprile 1917; Comitato Sindacale Italiano – Primo Maggio 1917, “L’Iniziativa”, 1 maggio 1917; Ripresa di lavoro a Pisa, ivi, (nello stesso numero notizia di un ordine del giorno della sezione di Terni); Gli Educatori Italiani a quelli della nuova Russia, “Etruria Nuova”, 6 maggio 1917; Pro rivoluzione russa e intervento degli S.U., “L’Iniziativa”, 11 maggio 1917; Per la Russia repubblicana – Al Consiglio Comunale, “La Libertà”, 19 maggio 1917. Ma vedi anche le testimonianze, riguardanti Milano, Roma e Forlì contenute in ACS, MI, DGPS, Div. AGR, A5G I GM, b. 134, fasc. 280, sfasc. 3 Rivoluzione russa. Cfr. Gabriele Rigano, Alfredo De Donno: l’itinerario di un intellettuale repubblicano, cit., p. 95. “Sentimenti di simpatia e di solidarietà pel popolo russo” espresse anche Rodolfo Calamandrei al Congresso Regionale Toscano del PRI, che si svolse a Firenze il 3 aprile 1917, ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1918, cat. K4, b.67, fasc. Firenze. 19 Comunicazione del Prefetto di Pavia del 21 maggio 1917. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, A5G I GM, b. 134, fasc. 280, sfasc. 3 Rivoluzione russa. L’oratore era “Lodivico [sic] Piast”. 20 Comunicazione della prefettura di Milano del 28 marzo 1917. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, A5G I GM, b. 134, fasc. 280, sfasc. 3 Rivoluzione russa. Magrassi concludeva il suo discorso con un inno alla guerra che diventava un inno ai soldati che, a suo dire, godevano dell’amore della popolazione a seguito della guerra di Libia, in cui avevano mostrato tutto “il loro nobile mandato”. A dimostrazione che la confusione ideologica nel PRI era ben lungi dall’essere chiarita, anche dopo l’espulsione di Barzilai. Sul PRI e la guerra di Libia vedi nota 41.

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A Ravenna, il sindaco repubblicano Fortunato Buzzi con un entusiastico discorso, nel quale non rinunciava ai riferimenti alla Francia, alla guerra rivoluzionaria, a un “auspicio alla prossima federazione degli Stati Uniti d’Europa, vaticinata dall’apostolato di Giuseppe Mazzini”, ma nel quale inseriva anche un riferimento elogiativo a Turati, salutava il “grande, [il] misterioso popolo di Russia che ha saputo scuotere, in un’ora così tragica dei suoi destini, il millenario giogo degli czar, congiungendo alla primavera del sole quella della libertà” 21. Non diversamente da “L’Iniziativa” reagì la maggior parte dei giornali repubblicani. “Il Popolano” di Cesena sviluppava, invece, un discorso più articolato, nel quale non veniva sottovalutata l’importanza dei disagi causati dalla guerra alla popolazione, ma venivano anche richiamate cause meno immediate, quali la rivoluzione del 1905 e la corruzione della corte: E su tutti era una pavida figura reazionaria «Nicola II» che ora alcuni vorrebbero esaltare e chiamare perfino magnanimo, dimentichi del suo passato, dell’ostinazione con cui si oppose alla causa polacca, delle persecuzioni, delle innumerevoli condanne per reati politici, dei massacri che egli ordinò per propria iniziativa, e tollerò consapevole. Tutte queste ragioni di odio, accumulate in tanti anni, ormai fervevano e non potevano essere trattenute. Bastava una favilla e il grande incendio sarebbe divampato. Così è avvenuto22.

Gli articoli della stampa repubblicana affiancavano spesso gli elementi sociali ed economici a quelli letterari, in modo più o meno sfumato. A ciò concorrevano la formazione culturale dei maggiori come dei minori esponenti repubblicani, tutti fortemente intrisi di suggestioni

21 Archivio storico del comune di Ravenna – 1917, Documenti sparsi, aprile, n.4, cit. in Sauro Mattarelli, Un’ipotesi laica tra massimalismo e riformismo. La figura di Fortunato Buzzi amministratore della Ravenna prefascista, Circolo Culturale «C. Cattaneo», Ravenna s.d., pp. 124-125 e id., Il comune di Ravenna fra grande guerra e fascismo, in Amministratori locali e stampa in Emilia Romagna (18891943), Centro Emilia-Romagna per la storia del giornalismo, Bologna 1984, pp. 324-325. 22 Y, La rivoluziqne[sic] russa, “Il Popolano”, 24 marzo 1917. Era stato il “Corriere della Sera” del 18 marzo 1917 a definire magnanimo il gesto dello Zar (Nicola II rinunzia al trono anche per il figlio benedicendo il fratello erede). L’indomani lo stesso “Corriere” pubblicò una corrispondenza da Parigi non firmata ma da ascriversi a Pietro Croci altrettanto elogiativa (La terza primavera), tanto da richiedere l’intervento del direttore Albertini, in un fondo non firmato (Il magnanimo gesto), per limitarne la portata. Guido Donnini, op.cit., p. 28; Giorgio Petracchi, L’Italia e la rivoluzione russa di marzo, “Storia contemporanea” n. 1, 1974, p. 98, ora in idem, Diplomazia di guerra e rivoluzione, il Mulino, Bologna 1974, p. 94.

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culturali umanistiche, e l’assenza di precise informazioni, a cui, appunto, ritenevano di dover supplire ricorrendo all’immagine della Russia che emergeva dai libri dei suoi più noti romanzieri23. L’interpretazione della “guerra rivoluzionaria” andava, d’altra parte, strettamente collegata con la polemica antisocialista. Se la rivoluzione rappresentava, per i repubblicani, la conferma di una scelta difficile, quella della guerra, compiuta contro parte del loro elettorato, per ciò stesso, oltre all’entusiasmo per la propria preveggenza, si rafforzava la già cospicua dose di attacchi ai socialisti, che l’avevano avversata. La rivalità tra i due partiti rappresentava una costante, avendo essi simile base sociale e zone contigue di radicamento. Il neutralismo dei socialisti era stato per i repubblicani solo l’ultima provocazione, il tentativo di penetrare nelle zone della Romagna dove il PRI era più forte, ma dove altrettanto forte era la riluttanza verso la guerra. Quasi tutti gli articoli contenevano attacchi contro i socialisti, accenni alla loro germanofilia, più o meno motivata dai cospicui finanziamenti che il PSI avrebbe ricevuto dalla Germania, accuse di mancanza di patriottismo, tanto più stridente se rapportato con quello dei socialisti tedeschi24. Talvolta, come nel caso de “Il Lucifero” del 15 aprile, li si accusava di sabotaggio contro l’Italia, con temi e modi non difformi da quelli che sarebbero divenuti consuetudine dopo Caporetto25. Ci si limita a dare questi pochi cenni non essendo d’altra parte possibile seguire con attenzione una polemica che rappresenta, da sola, un capitolo centrale della storia del partito repubblicano, e che è, da alcuni, additata quale motivo per gli sbandamenti verso il fascismo nel dopoguerra26. Sul piano dei valori di cui questa rivoluzione sarebbe stata portatrice, i repubblicani insistevano circa l’importanza della scelta democratica, con toni anche enfatici e retorici: “A coloro che predicano la fine delle de-

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Faber [Armando Casalini?], Della Rivoluzione russa, “L’Iniziativa”, 1 giugno 1917. Tipico di questo atteggiamento Lo Zotico [Napoleone Colajanni], Le disdette dei socialisti italiani, “RP”, 15 aprile 1917, p. 131. L’articolo venne poi ripubblicato il 6 maggio da “Etruria Nuova”. 25 Enjolras [Piero Pergoli], Le disgrazie del socialneutralismo, “Il Lucifero”, 15 aprile 1917. Nello stesso articolo, accanto agli stereotipi sulla rivoluzione contro la corte traditrice ed all’entusiasmo per l’entrata in guerra degli Stati Uniti, peraltro, si entrava in polemica anche con “Il Popolo d’Italia”, per aver prospettato con tono minaccioso l’intervento del Giappone contro gli USA. 26 Basti citare, senza pretese esaustive, qualche articolo dedicato a questo argomento: Gli esami... di maturità, “La Sveglia Repubblicana”, 31 marzo 1917; Il monopolio socialneutralista, “L’Iniziativa”, 31 marzo 1917; Il trionfo della profezia di Mazzini e l’imbarazzo dei socialisti, “Il Pensiero Romagnolo”, 7 aprile 1917; Le pagliacciate dell’Avanti, “L’Iniziativa”, 7 aprile 1917; L’avvenire del mondo è repubblicano, “Etruria Nuova”, 8 aprile 1917; Faro, Soli, soli... soli!, “Il Popolano”, 21 aprile 1917, dove si distinguevano le responsabilità dei capi dei socialisti dalla massa e dall’ideale stesso, a cui veniva riconosciuta grande importanza nella storia dell’umanità. 24

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mocrazie la Russia doveva insegnare che un popolo che si desta da un lungo servaggio, non sa esprimersi che con una sola parola: Repubblica”27. La sostanza delle argomentazioni ci riporta, però, l’immagine di un partito attento ai “fattori popolari” delle vicende: Questa, lo ripetiamo, è stata la maggiore vittoria della democrazia. E così questa guerra potrà agevolmente definirsi una lotta che la democrazia ha sostenuto contro la reazione, poiché per mezzo di esso [sic] il popolo ha potuto trionfare sulla classe aristocratica. E nuove vittorie e più forti trionfi saranno riserbati al dopo guerra, quando tutte le nazioni saranno riunite e la lotta sarà una sola: quella del fattore popolare contro quello reazionario28.

Questa rivoluzione era il trionfo della libertà contro le sopraffazioni violente dei regimi tirannici29 e del principio di nazionalità, quale “bisogno universalmente sentito”30. Secondo “Il Pensiero Romagnolo”, era stata la libertà, giunta in Russia per tramite della Francia, che aveva sciolto il popolo dalle sue catene: Le relazioni che si stabilirono tra la Francia e la Russia, portarono naturalmente una forte corrente di idee, di coltura, di spirito fra i due paesi, e certamente la vita agitata, febbrile, quasi tumultuosa della nazione francese in questi ultimi anni, quella vita ardente che alcuni chiamano disordine ed anarchia ed è invece la conseguenza e l’affermazione della libertà, deve aver colpito l’anima slava e fattole sentire tutto il suo avvilimento, tutta la sua miseria. […] L’alleanza con la Francia, gli errori dell’autocrazia, e più quella che questi, operarono il miracolo. Il popolo russo non ha fatto una rivoluzione negativa, ma un’affermazione di forza ed alla demolizione ha fatto subito seguire la ricostruzione31.

L’entusiasmo portava, addirittura, qualcuno ad antivedere conquiste di là a venire, prefigurando un panorama idilliaco:

27 Santa Russia, “L’Iniziativa”, 31 marzo 1917. G. Restivo-Alessi, Dinastie che tramontano – Repubbliche che sorgono, ivi, e Buttero, Repubblica, “Il Lucifero”, 22 aprile 1917. 28 im, Il trionfo della democrazia, “Il Pensiero Romagnolo”, 25 marzo 1917. Cfr. inoltre Vaste conseguenze, “L’Iniziativa”, 31 marzo 1917. 29 Gli esami…di maturità, “La Sveglia Repubblicana”, 31 marzo 1917. 30 G. Restivo-Alessi, Dinastie che tramontano, “L’Iniziativa”, 31 marzo 1917. 31 Gl’idi di marzo, “Il Pensiero Romagnolo”, 14 aprile 1917.

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La sovranità del popolo ha trionfato con la rivoluzione, la nazione deciderà sulla sua costituzione con il suffragio universale esteso alle donne. La polizia vecchio e scellerato strumento di tirannide è stata abolita. La antinomia fra lo Stato e il cittadino è sparita; l’esercito non è più moltitudine asservita spoglia dei diritti della personalità umana, ma raccolta di cittadini liberi che difendono con le armi il sacro suolo della loro patria e la libertà acquistata. La libertà di coscienza e il diritto di associazione sono divenuti diritti inalienabili e incoercibili dei cittadini. Il governo è costituito dai rappresentanti di tutte le classi uniti nella grande opera ricostruttrice. Gli operai partecipano ai consigli del Governo; la organizzazione dell’esercito è democratizzata; le riforme sociali troveranno la loro non lontana realizzazione; e la terra è stata promessa ai contadini e le nuove organizzazioni industriali saranno basate sul principio della socialità32.

Questo distacco dalla realtà risulta più chiaro, allorché si analizzi un’altra chiave di lettura, la quale, sulla scorta della narrativa russa ottocentesca, immaginava un’anima slava buona, ingenua, contemplativa, che era il riflesso del modo di vedere gli orientali all’epoca, contrapposta ad una occidentale, più portata – secondo tale stereotipo – all’azione33. Tutto ciò, ci permette di misurare quanto profonda fosse l’ignoranza, comune a tutte le forze politiche, delle cose di Russia. Certo, la chiave di lettura della rivoluzione tesa a considerare ogni evento nell’ottica bellica, non favoriva la comprensione34. Il solo Colajanni sembrava avere tale preoccupazione, per cui, oltre a dedicare sulla “Rivista” alcuni articoli, suoi e di altri, alla Russia, ne riprese da varie pubblicazioni, allo scopo di fornire elementi di conoscenza su ciò che avveniva35.

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G.A., Fra le rovine di un trono e il rinnovamento di una nazione, “L’Iniziativa”, 7 aprile 1917. Santa Russia, “L’Iniziativa”, 31 marzo 1917; Vaste conseguenze, ivi; Faber [Armando Casalini?], Della Rivoluzione russa, ibid., 1 giugno 1917. 34 Persino la simpatia per gli operai russi, che traspare da qualche articolo, si basava soprattutto sulla loro disponibilità a continuare la guerra. Vaste conseguenze, ibid., 31 marzo 1917. 35 Oltre al già citato articolo su Rasputin ripreso da “The New Europe” del 1° febbraio 1917, Roberto Marvasi, La rivoluzione Russa. Un simbolo, (tratto da “Scintilla”, 29 marzo 1917), “RP”, 31 marzo 1917, pp. 115-116; Thomas G. Masaryk, Russia: Dalla Teocrazia alla Democrazia, (tratto da “The New Europe”, 22 marzo 1917), “RP”, 15 aprile 1917, pp. 132136; Felice Momigliano, La guerra e gli Ebrei russi, (tratto da “Nuova Rassegna”, 20 marzo 1917), “RP”, pp. 136-137; Costantino Ketoff, La rivoluzione russa, (tratto da “Nuova Antologia”, aprile 1917), “RP”, 30 aprile, pp. 156-160; Ivan Grinenko, Lo Zemstvo e la sua importanza nella vita economico-sociale e politica russa, (tratto da “Monitore Italo-Russo”, febbraio 1917), “RP”, 15 maggio, pp. 175-178. 33

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In uno scritto apparso sul giornale “Roma”, il quotidiano di Napoli al quale abitualmente collaborava, Colajanni investigava i perché del ritardo della rivoluzione. Nessuno in questo momento può esattamente prevedere – scrisse – quali saranno la estensione, l’esito finale, le conseguenze politiche, economiche, e sociali interne e le ripercussioni internazionali della grande rivoluzione iniziatasi a Pietrogrado nei primi di marzo [...]. Gl’inizi sono oltremodo promettenti e se, come ci auguriamo, saranno duraturi i primi risultati, essi saranno grandiosi. Basta ricordare, per giudicarli tali, i primi atti del governo provvisorio: abolizione della pena di morte, liberazione dei prigionieri politici, richiamo degli esiliati, [...] emancipazione degli Ebrei, restituzione dell’autonomia alla Finlandia, nobilissimo appello ai Polacchi, quasi espiatorio del lungo martirio ch’era stato loro inflitto, ecc. All’interno e all’estero le ripercussioni saranno maggiori se, come sembra assai probabile, la Costituente adotterà il regime repubblicano e darà la terra ai contadini.

Già fin d’ora, però, il filosofo della storia potrà rilevare che essa è arrivata in ritardo, quantunque in Russia esistessero e agissero continuamente e intensamente i fattori principalissimi di ogni rivoluzione, cioè: il dispotismo politico insuperato, la grande miseria delle masse, la corruzione spaventevole delle classi dirigenti aristocratiche e burocratiche36.

Ma la rivoluzione, nonostante vari tentativi, non era scoppiata. Il fenomeno apparentemente paradossale si spiega coll’esistenza in Russia di un insieme di condizioni geografiche, demografiche, etniche, religiose e intellettuali che servirono armonicamente a mantenere immutata la tirannica autocrazia degli Czars. La vastissima superficie dell’Impero – due volte e mezzo circa quella dell’Europa; – la scarsa densità degli abitanti; la deficienza delle strade e delle ferrovie; la grande varietà dei gruppi etnici e delle nazionalità con pari diversità di lingue e di religioni, materialmente e psicologicamente resero difficilissime le comu-

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Napoleone Colajanni, Il ritardo della rivoluzione russa, “Roma”, 5-6 aprile 1917.

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nicazioni e l’intesa, i contatti e il contagio psichico tra le popolazioni dell’Impero e impedirono l’azione comune delle popolazioni.

Oltre alle ragioni naturali, però, ve n’erano altre, di carattere sociale: Dapertutto[sic] le classi rurali sono le meno rivoluzionarie e in Russia sono più numerose che altrove: oltre l’82% e in alcune provincie fino al 97%. L’analfabetismo vi supera quello di ogni altro paese del vecchio continente, è del 77% nella sola Russia Europea. La religione greco-ortodossa, infine, professata da oltre 100 milioni di abitanti serve meravigliosamente a mantenere le masse nell’obbedienza allo Czarismo. Il Santo Sinodo non è che uno strumento di polizia [...]. Il Santo Sinodo al centro ispiravasi allo Czarismo e le ispirazioni trasmetteva alla periferia tra i contadini per mezzo dei «Popi» [sic]. Gli Ebrei, che avrebbero potuto essere elementi rivoluzionari, a causa della spaventevole superstizione furono elementi disgregatori, perché odiano tutti e da tutti sono odiati; e sono circa 5 milioni, concentrati in alcune zone e vittime degli iniquissimi «pogroms». Con siffatte condizioni si spiega la mancanza di una vera rivoluzione trionfante; colla superstizione, coll’ignoranza e colla miseria estrema, che abbrutiscono l’uomo e lo rendono schiavo quasi volontario del dispotismo, ci rendiamo ragione della venerazione dei contadini, dei «mujick» per lo Czar, che chiamano il «Piccolo Padre». [...] Nell’Impero degli Czars date le condizioni rapidamente dianzi accennate, ci vollero la industrializzazione incipiente, la formazione iniziale di una borghesia, la penetrazione graduale della corrente europea e la scossa formidabile delle sconfitte della guerra di Manciuria per riuscire alla rivoluzione del 1905, che rappresenta il prologo – ciò che furono gli Stati Generali alla vigilia dell’epopea 1789-1793 in Francia – della rivoluzione del 191737.

Quest’ultimo aspetto, la “industrializzazione incipiente”, attrasse l’attenzione dei commentatori, alcuni dei quali si posero anche il problema, che tanto occupava le riflessioni dei socialisti, della precocità della rivoluzione, risolvendolo, però, nell’eccezionalità della guerra, che tutto giustificava38.

37 Ivi. Vd. anche La Rivista, La gigantesca tragedia Russa, “RP”, 31 marzo 1917, p. 106; La Rivista, La Russia in marcia verso la Repubblica?, “RP”, 15 aprile 1917, pp. 129-130. Una versione più estesa di quest’ultimo, col titolo La Russia verso la Repubblica?, fu pubblicata dal “Giornale di Sicilia” del 15-16 aprile 1917 e dal “Giornale del Mattino” del 28 aprile 1917. 38 Il bilancio politico della guerra, “Etruria Nuova”, 29 aprile 1917.

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Verso la fine di aprile apparve all’orizzonte un nemico che prese corpo in seguito, ma che già Colajanni aveva presentato: Lenin39. La stampa repubblicana prese immediatamente posizione contro di lui, in quanto rappresentante della corrente pacifista. Il timore dichiarato dei repubblicani era che l’influenza marxista sul moto rivoluzionario avrebbe sviato l’attenzione dalla questione nazionale a quella sociale40. Nella dicotomia lotta di classe-nazione c’erano i prodromi dello sbandamento, che, dimentico delle ragioni ideali, avrebbe identificato nazionalità con nazionalismo. Il filo di lama su cui si muoveva il partito, e si sarebbe mosso negli anni successivi, era in fondo lo stesso del 191141. Passato dunque il primo momento di euforia, cominciarono ad affiorare le contraddizioni nella vicenda rivoluzionaria russa. I repubblicani non diedero, come tutti gli interventisti, molto peso all’arrivo di Lenin in Russia, se non per metterlo in ridicolo e per gettare discredito sulla sua figura. Del dualismo dei poteri, cioè della esistenza di due centri politici distinti e competitivi (il Governo provvisorio, guidato da un cadetto, e il Soviet) si era parlato assai poco. A maggio, però, il problema esplose in tutta la sua interezza per la questione Miljukov. Questi, ministro degli Esteri e appartenente al partito dei cadetti, aveva dichiarato in un’intervista che la Russia rivoluzionaria avrebbe tenuto fede agli obiettivi di guerra sottoscritti dallo Zar. Ne era seguito un moto popolare che aveva portato alle dimissioni del ministro e ad un rimpasto, grazie al quale si era fatta più marcata la presenza dei socialisti nel governo42. I toni scelti dalla stampa repubblicana erano sdrammatizzanti. La confusione che regnava laggiù era giudicata minima, vista la portata dell’evento. Tra le due forze che dividevano il potere, le maggiori simpatie

39 Di lui parlò già in Noi, I Gesuiti rossi e gialli alla difesa dei buoni costumi parlamentari, “RP”, 31 marzo 1917, pp. 101-102. 40 Il cattivo genio di Marx, “L’Iniziativa”, 21 aprile 1917. “La Libertà” del 28 aprile riportava invece le notizie dei fischi a Lenin, bollandolo quale servo dei tedeschi, secondo uno schema molto utilizzato dalla stampa d’opinione italiana. 41 Anche all’epoca della guerra di Libia c’erano state nette spaccature, che avevano visto protagonisti da una parte Barzilai, favorevole all’impresa coloniale, e dall’altra Conti e Zuccarini, nettamente contrari. Lo scontro era terminato con l’espulsione di Barzilai dal partito. Su queste vicende, Marina Tesoro, I repubblicani nell’età giolittiana, Le Monnier, Firenze 1978, segnatamente alle pp. 88-213. 42 La nostalgia nei confronti di Miljukov sarebbe rimasta ancora a lungo tra i repubblicani, tant’è che durante il suo viaggio in Russia, Cappa lo definì “liberatore ieri, vinto oggi, amico sempre dell’Europa liberale”. I. Cappa, Miliukoff alla democrazia italiana, “Il Secolo”, 18 giugno 1917. In alcune interviste rilasciate al suo ritorno, egli auspicò che Miljukov tornasse al governo, magari insieme a Kerenskij. Vd. il paragrafo seguente.

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andavano al governo43, ma si riconosceva anche al Soviet la determinazione ad andare a fondo della guerra44, distinguendo da esso “quei tali mal intenzionati ai quali fa capo Lenine”45 e che erano per la pace immediata. Proprio Lenin assurgeva a bersaglio primario, diventando anche strumento di polemica interna, dal momento che l’“Avanti!” di Serrati mostrava simpatie leniniste. L’antisocialismo dei repubblicani si fece perciò sempre più aspro. Il viaggio di Lenin, attraverso la Germania, rappresentava la prova della fraudolenza del leader bolscevico e dei socialisti italiani che lo appoggiavano. Quasi tutti gli articoli si connotano per questo tipo di argomentazioni, con sfumature, di buon gusto o di virulenza, a seconda della testata46. La passione patriottica trascinò lo stesso Colajanni. Partito da posizioni piuttosto comuni nel movimento repubblicano47, sia pure più meditate e motivate, egli arrivò a formulazioni estremiste, che lo avrebbero portato ai margini del suo partito. In un articolo della “Rivista” scriveva: “I vecchi repubblicani sinora dileggiati, calunniati e perseguitati dai socialisti sul loro idealismo, intanto, continueranno a seguire e applicheranno gl’insegnamenti di Mazzini, che la patria anteponeva alla repubblica”48. Questo spunto polemico rappresentò, negli anni successivi, il cuore della polemica che divise Colajanni dal PRI.

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Riego, Moniti, “Il Pensiero Romagnolo”, 19 maggio 1917. La volontà del popolo in Russia, “L’Iniziativa”, 11 maggio 1917. 45 im, Popolo russo, “Il Pensiero Romagnolo”, 2 giugno 1917. 46 Crare Nistel, Una rivoluzione mancata, “Lucifero”, 13 maggio 1917; I socialisti e la guerra, ibid.; im, La “Sozial-demokratie”. Da Pietrogrado a Stoccolma, “Il Pensiero Romagnolo”, 19 maggio 1917 (in cui si definiva Lenin “il Giolitti russo”); Il governo rivoluzionario della Russia libera, “L’Iniziativa”, 25 maggio 1917; im, Popolo russo, “Il Pensiero Romagnolo”, 2 giugno 1917; Sordi, “Il Pensiero Romagnolo”, 9 giugno 1917; N.d.R., …e i socialisti!, “L’Iniziativa”, 16 giugno 1917. “La Libertà” di Ravenna, ad esempio, diretta in quei mesi da Carlo Bazzi, si segnalava per il suo tono violentemente antisocialista. 47 Napoleone Colajanni, Funambolismo socialistico, “RP”, 15 maggio 1917, pp. 164-167; Id., Le ultime evoluzioni del socialismo italiano, “Giornale di Sicilia”, 23-24 maggio 1917. 48 La Rivista, I socialisti italiani per la repubblica o per gl’Imperi Centrali, “RP”, 31 maggio 1917, p. 186. Il corsivo è nostro. L’articolo fu poi ripubblicato il 23 giugno dalla “Libertà” di Ravenna, questa volta firmato da Colajanni. Sul tema Colajanni ritornava nel numero seguente: Noi, I repubblicani contro la repubblica?, “RP”, 15 giugno 1917. Proprio quest’argomento, non nuovo per lui, doveva significare un progressivo allontanamento dalle posizioni del PRI. Anche in passato, infatti, aveva utilizzato lo stesso espediente polemico, sia pur con esiti poco brillanti, come nel 1915, quando aveva attribuito a Mazzini la frase “Prima italiani, poi repubblicani”. Questo aveva spinto Ghisleri a rispondergli per le rime. “Ghisleri, – ha annotato uno studioso – in un biglietto a Zuccarini che accompagna copia della [...] lettera del 10 marzo 1915 a Chiesa, scrive: «E dite a quest’ultimo [Colajanni] che il suo anacronismo «prima italiani e poi repubblicani» ora che non si tratta di fare l’Italia (che già esiste) ma 44

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Permaneva, comunque, una generale simpatia nei confronti della rivoluzione russa. Essa, tutto sommato, aveva creato meno problemi di quanti se ne sarebbero potuti attendere da un evento così rilevante. V’era chi, come “La Libertà”, se la prendeva con chi esagerava il dramma russo, ingigantendo la figura di Lenin, quando invece “la storia dimostrerà che egli fu un pigmeo perduto nell’immensità della folla di Pietrogrado”49. In fondo, proseguiva il giornale, in Russia c’era sempre lo stesso governo, contrariamente ad altri paesi dell’Intesa. Talvolta il medesimo giornale non aveva una chiara linea sull’argomento, come in questo singolare botta e risposta sulla stessa pagina de “L’Iniziativa”. Il paragone con la rivoluzione francese serviva, in un primo articolo, per criticare quella russa, che non era stata capace di fare altrettanto: “perché [la rivoluzione russa] non cerca di importare in Germania e altrove con le armi i suoi principii invece d’ubbriacarsi di Vodka di fronte alle trincee tedesche?”50. In un altro articolo, invece, si leggeva: Lo Czar non si sarebbe limitato a bere la «Vodka», avrebbe consegnata la Russia mani e piedi legata, alla Germania. Certo la mancata offensiva russa in concomitanza alle altre ritarda la conclusione vittoriosa della guerra. La colpa però non è della rivoluzione bensì del vecchio regime che ha poste tutte le condizioni perché la rivoluzione stessa scoppiasse intempestivamente51.

Il valore intrinseco della rivoluzione venne ribadito da “Il Popolano” e “L’Iniziativa”, che rilevarono come, sia pur dannosa per l’Intesa, essa di lasciarla in balia dei traditori, equivale a dire: come i conservatori «prima colla monarchia, ossia coi corruttori e traditori, e poi col popolo e per il popolo» [...] Colajanni cita la frase in questione al Convegno di Roma del PRI del 27-28 febbraio del 1916. Ghisleri gli scrive allora una lettera (v. Per una formula di Mazzini e per un dubbio nell’Iniziativa del 25 maggio [marzo, sic], a firma un repubblicano lombardo), chiedendogli di precisare in quale passo di Mazzini appaia la frase ricordata. Colajanni deve riconoscere di non essere riuscito a trovarla negli scritti del ligure (v. Napoleone Colajanni, E’ di Giuseppe Mazzini la formula: Italiani prima – repubblicani dopo? in Rivista Popolare 19 aprile 1916 p. 149, sg)”. Lucio Cecchini, I repubblicani italiani di fronte al fascismo..., cit., p. 302, nota 21. Il corsivo è di Cecchini. La lettera di Ghisleri è in Lucio Cecchini, L’epistolario tra Arcangelo Ghisleri e Oliviero Zuccarini, cit., pp. 31 (ma vedi anche pp. 54-55); e in Lucio Cecchini, Trent’anni di democrazia repubblicana, cit., pp. 184-185 e 232-233. 49 Abbasso le tesi, “La Libertà”, 19 maggio 1917. Giudizio positivo sulla rivoluzione davano anche im, Popolo russo, “Il Pensiero Romagnolo”, 2 giugno 1917; La Repubblica russa, “L’Iniziativa”, 23 giugno 1917; Romualdo Rossi, Russia rivoluzionaria, ibid., 7 luglio 1917; Aroldo Piccardi, Rivoluzione!, “Il Pensiero Romagnolo”, 14 luglio 1917. 50 N.d.R., …e i socialisti!, “L’Iniziativa”, 16 giugno 1917. 51 La rivoluzione russa tradisce?, ibid.

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era però meglio dell’impegno simulato dello Zar che mascherava il tradimento, ma soprattutto era una vittoria della democrazia, era la ragione stessa per cui si era iniziata la guerra52. “L’Iniziativa” pose l’accento sul ruolo degli operai, i quali avevano una loro organizzazione, mentre i contadini erano privi anche della coscienza nazionale. “La rivoluzione russa – scriveva l’organo del PRI – va giudicata nel complesso ambiente storico sul quale è sorta”. Essa aveva un “carattere estremamente popolare”. Non era rapportabile a nessun’altra, giacché se la rivoluzione francese portò al potere una classe in Russia questa classe manca. Travolto lo czarismo è la folla anonima che deve organizzare il nuovo potere. Il proletariato è organizzato solo relativamente e nei centri urbani. La grandissima maggioranza del paese è costituita dai Mugik i quali non conoscono che forme rudimentali di aggruppamento e mancano di una coscienza di classe, e naturalmente anche di una coscienza nazionale. Questa è limitata alle classi colte. [...] I conoscitori superficiali della Russia speravano appunto nella massa dei Mugik, si consideravano i contadini russi come una massa propensa alla conservazione pronta a ripetere in grande le gesta della Vandea francese. I contadini russi riuniti recentemente a Mosca erano rappresentati in grandissima maggioranza da elementi socialisti. Questi contadini hanno bensì ripudiato il leninismo ma riaffermando tutti i principi della Rivoluzione. [...] Questa grande massa non è del resto né conservatrice né estremamente rivoluzionaria. È una massa veramente russa, cioè piuttosto fatalistica, portata più alla rassegnazione che all’azione, buona e desiderosa di terre da sfruttare. Su questa massa i centri rivoluzionari urbani influenzati potentemente dalla cultura occidentale, avranno forse sempre il sopravvento. La rivoluzione russa sostanzialmente assai diversa dunque da quelle fin qui avvenute, non troverà facilmente il proprio assestamento essendo fatalmente diretta a realizzare le più democratiche e le più ardite forme di convivenza sociale. [...] Certo tutto questo ci fa perdere tempo; dà però alla grande guerra, il suo carattere decisamente rivoluzionario. [...] La rivoluzione russa può anche considerarsi come un benefico contrappeso a certa zavorra imperialistica che pure ingombra il vascello intesista!53

52 Y, In Russia, “Il Popolano”, 16 giugno 1917; La rivoluzione russa tradisce?, “L’Iniziativa”, 16 giugno 1917. 53 Ivi. I corsivi sono nel testo.

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La posizione di Colajanni nei riguardi della Russia, nel frattempo, andava ovviamente di pari passo con quella verso i socialisti. Stessa durezza nei giudizi, sia pur ragionati, e con mille giustificazioni addotte. Già dalla fine di maggio, egli definiva la rivoluzione “una momentanea salvezza del brigantaggio imperiale”54. Gli era intollerabile la confusione che regnava in quel paese, che rimarcava in ogni occasione. Così sul “Giornale di Sicilia” scrisse su Le condizioni psicologiche del popolo russo: Ciò che avviene in Russia non si può intendere con esattezza se non si ha un’idea delle condizioni psicologiche dei suoi popoli, delle masse quasi amorfe, diverse antropologicamente ed etnologicamente, e tra le quali, anche per ragioni geografiche, incontrava ostacoli formidabili lo sviluppo di un sano sentimento nazionale: il Panslavismo, di cui tanto si è discorso e che ha suscitato tante paure, ora sincere ora artificiose, non è che di pochi, delle «elites» politiche e sociali – prodotto di esportazione più che di consumo interno. Le condizioni psicologiche della massa russa sono il prodotto genuino della grande miseria, della profonda ignoranza, dell’abbrutimento conseguente al secolare ed efferato dispotismo55.

Dunque Colajanni non cedeva alla teoria razzista, né avrebbe potuto, data la sua storia personale56. La superstizione era per lui un “prodotto” dell’oppressione politica ma soprattutto religiosa. La soluzione era nei

54 La Rivista, I socialisti italiani per la repubblica o per gl’Imperi Centrali, “RP”, 31 maggio 1917, p. 186. 55 Napoleone Colajanni, Le condizioni psicologiche del popolo russo, “Giornale di Sicilia”, 30-31 maggio 1917, “Roma”, 5-6 giugno 1917 e “Giornale del Mattino”, 9 giugno 1917. Di diverso parere Faber [Armando Casalini?], Czarismo e rivoluzione, “L’Iniziativa”, 7 luglio 1917, che esaltava il ruolo dello slavofilismo, quale suscitatore di sentimento nazionale. 56 “Con Colajanni abbiamo il primo grande tentativo italiano di costruire un pensiero antirazzista”. Alain Goussot, Alcune tappe della critica al razzismo: le riflessioni di G. Mazzini, N. Colajanni e A. Ghisleri, in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, a cura di Alberto Burgio, il Mulino, Bologna 1999, p. 139; ma vedi anche il saggio di Alberto Cavaglion, Due modeste proposte, che alle pp. 379-380 ribadisce la primogenitura di Ghisleri e Colajanni nell’opposizione al razzismo. Riguardo a Colajanni, celebre la polemica col Niceforo circa l’interpretazione razzista dell’inferiorità del Meridione. Cfr. Massimo L. Salvadori, Il mito del buongoverno, Einaudi, Torino 1981, pp. 184-236 e, specialmente, pp. 233-236. Su Colajanni meridionalista vedi Napoleone Colajanni, La condizione meridionale. Scritti e discorsi, a cura di Anna Maria Cittadini Ciprì, Bibliopolis, Napoli 1994.

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valori in cui aveva sempre creduto: “Contro l’anarchia non c’è che una profilassi efficace e sicura: la libertà, il regime democratico” 57. La vicenda Balabanoff – Grimm fu un episodio laterale del grande confronto coi socialisti, che toccava però, sia pur marginalmente, anche le vicende russe. “L’Iniziativa” se ne cominciò ad occupare alla fine di giugno58. In quei giorni, veniva espulso dalla Russia un socialista svizzero-tedesco, Grimm, incaricato, forse dal governo tedesco, di trattare la pace separata tra Russia e Germania. Ad esso veniva affiancato il nome di Angelica Balabanoff, esule russa, membro della Direzione del PSI, e quello di Lenin, con una storia di un presunto acquisto di un palazzo per 800 mila rubli59, che sarebbero stati forniti dal governo tedesco. Da ciò partì una violenta campagna di stampa che toccò vette di straordinaria volgarità, arrivando all’insulto personale gratuito alla Balabanoff60. Il vero obiettivo, comunque, era il disfattismo di Lenin e dei socialisti italiani. Altro argomento della polemica coi socialisti era costituito dalla Conferenza di Stoccolma. A Stoccolma avrebbero dovuto riunirsi i socialisti zimmerwaldiani, ma il veto di alcuni governi al passaggio o all’uscita dal paese delle delegazioni socialiste, fece abortire il progetto. Ciò nonostante tutta la stampa, e quindi anche quella repubblicana, attaccò per settimane i socialisti, perché avrebbero dovuto incontrare i socialisti tedeschi, i sostenitori del Kaiser61. Questa polemica riprese vigore quando in Italia giunsero i delegati del Soviet, per discutere con i socialisti la partecipazione del PSI al Congresso indetto dai russi.

57 Lo Zotico, L’ammonimento della democrazia all’anarchia, “RP”, 15 giugno 1917, pp. 209-211, poi ripubblicato con titoli diversi: Napoleone Colajanni, Il grande insegnamento che viene dalla Russia, “Il Messaggero”, 17 giugno 1917 e Dal dispotismo all’anarchia. La lezione della Russia, “Giornale di Sicilia”, 20-21 giugno 1917. 58 L’“Avanti” e Angelica Balabanoff solidali con Grimm, “L’Iniziativa”, 30 giugno 1917. 59 Due milioni, “Etruria Nuova”, 15 luglio 1917 e I due milioni di Lenin, ibid., 29 luglio 1917 (800 mila rubli corrispondevano, al cambio di allora, a due milioni di lire). Della vicenda parlò anche Balabanoff nelle sue memorie, non senza qualche accenno critico allo stesso Grimm. Angelica Balabanoff, Ricordi di una socialista, De Luigi, Roma 1946, pp. 129133; ead., La mia vita di rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 129-131. 60 La Rivista, Grimm. L’internazionale zimmerwaldiana ai servizi della Germania e dell’Austria, “RP”, 30 giugno 1917, pp. 225-228, definì la Balabanoff “megera” (p. 225) e “lurida e immonda” (p. 228). L’articolo pubblicava anche il telegramma del ministro degli Esteri svizzero a Grimm, che lo incriminava. Sempre sullo stesso argomento, Angelica Balabanoff contro gl’Italiani, “RP”, 15 luglio 1917, p. 244. 61 C’è internazionale e internazionale, “La Sveglia Repubblicana”, 30 giugno 1917.

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Cappa e la missione in Russia Innocenzo Cappa, deputato dal 1913, allorché aveva sostituito il defunto on. Romussi nel collegio di Corteolona, era personaggio di spicco del Partito Repubblicano62. Ecco come lui stesso descriveva succintamente il suo iter, con il suo stile un po’ ampolloso, appena temperato da qualche sprazzo ironico: Figlio di un funzionario di pubblica sicurezza, ho scelto il dolore domestico di un’antitesi ideale […]. Fioriva il socialismo, languiva il repubblicanesimo, e con fine intuito di speculazione mi sono buttato su quest’ultimo. E sono arricchito... Per arricchire più presto non ho difeso i ladri e gli assassini in tribunale o in Corte d’Assise, ma ho venduto la mia parola (fonografo ambulante per chiunque lo chieda) dietro il capriccio della mia fantasia. […]. Deputato infine di un collegio di campagna, dove la guerra è impopolare innanzi al cuore delle madri, non ho esitato neanche qui un secondo63.

Oltre alla professione di avvocato, esercitò anche quella di giornalista, arrivando alle più alte cariche delle associazioni di categoria, e, inoltre, alla direzione dell’“Italia del Popolo” dal novembre 1901 al 1904, in sostituzione di Ghisleri64. Le sue posizioni furono spesso in disaccordo con quelle dello stesso Ghisleri, allora, ricordiamolo, il maggiore teorico del partito, specialmente nella questione sorta a seguito della guerra di Libia65. Cappa, infatti, aveva assunto una posizione vicina a quella di Barzilai, di appoggio al governo, senza però

62 Su Cappa vedi l’autobiografia Confessioni di un parlatore, Treves, Milano 1938, la nota biografica curata da Terenzio Grandi e apposta come introduzione al volume Innocenzo Cappa, Pagine staccate raccolte da Terenzio Grandi, Bari, Humanitas, s.d. (ma anteguerra) e la voce curata da Luciano Rampazzo nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol.18, pp. 695696, che però dimentica, tra i partecipanti alla missione in Russia, Labriola. Un vivido ritratto del parlamentare repubblicano ci è stato lasciato da Alfredo De Donno, Nella storia dell’interventismo, in Egidio Reale e il suo tempo, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 36-38. Un’anticipazione di queste pagine, rielaborata, uscì in Corrado Sibilia [sic!], Innocenzo Cappa e la missione italiana, in Russia, nel 1917, “Historica” n.1 gennaio-marzo 1997, pp. 37-48. 63 Innocenzo Cappa, All’on. Modigliani perché riconosca tutta la mia cattiveria…, “Il Mondo”, 25 marzo 1917. 64 E non dal 1900, come erroneamente riporta Rampazzo. Aroldo Benini, Vita e tempi di Arcangelo Ghisleri, Lacaita, Manduria 1975, p. 278 e la nota biografica di Terenzio Grandi, cit., pp. 11-13. 65 Marina Tesoro, I repubblicani nell’età giolittiana, cit., passim.

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arrivare alla scissione66. Per questo motivo, quando si era presentato alle elezioni suppletive nel ‘13, Ghisleri aveva sconsigliato il partito di appoggiarlo67. Ciononostante, egli venne eletto nel collegio di Corteolona, il vecchio collegio di Cavallotti, cui fu anche inopinatamente accostato, e la sua elezione fu confermata nelle elezioni generali che si svolsero a pochi mesi di distanza68. Famoso per la sua eloquenza, forse dovette proprio ad essa69, o al fatto che il governo italiano fosse “bisognoso di ricorrere a gente «rossa» (- un po’ stinta -)”70, secondo la pittoresca definizione di Arturo Labriola, l’incarico di andare in Russia71. Il dualismo di poteri al vertice dello stato russo, dopo la rivoluzione di febbraio, aveva spinto i paesi stranieri a cercare un contatto sia con il governo che con i Soviet. Anche in Italia, perciò, ci si dovette risolvere a un tale passo. La missione, composta oltre che da Cappa, da Arturo Labriola, Orazio Raimondo e Giovanni Lerda, partì con l’ostilità di Sonnino, il quale, secondo Labriola, pose anche il veto alla stampa di trattare l’argomento.

66 In quel caso entrò in polemica anche con Colajanni, che così lo liquidava in una lettera a Ghisleri: “Gli esteti e i filosofi sono la peste dei partiti politici”, citato in Marina Tesoro I repubblicani nell’età giolittiana, cit., p. 81, nota 73. Colajanni sembrava aver cambiato idea nel 1917, quando definì Cappa “un gigante della parola”, Napoleone Colajanni, Guerra e rivoluzione in Russia, “Roma”, 25-26 marzo 1917. Lo stesso Cappa, però, ci riferisce come il vecchio garibaldino lo “temesse come un pericolo nazionale (parole sue) per la fatale virtù dello esprimermi”. Innocenzo Cappa, Confessioni di un parlatore, cit., p. 81. 67 Antonluigi Aiazzi, op.cit., pp. 250-257. Ghisleri ci ha lasciato un fulminante parere su Cappa. In una lettera a Terenzio Grandi del giugno agosto [sic] 1917, istituendo un parallelo con Brofferio, descriveva Cappa come “repubblicaneggiante, ma senza determinatezza di carattere, innamorato di sè più che dell’idea, oratore facondo, [...] simpatico e buono, ma debole appunto perchè egocentrico”. L’intransigente e l’idealista. Arcangelo Ghisleri–Terenzio Grandi (Carteggio 1904-1938), a cura di Lorenza Grandi, s.l. s.d., p. 78. 68 Prima di allora, Cappa si era già presentato alle elezioni, con poca convinzione e scarso successo, nel 1904 a Milano, nel 1909 a Parma e nel 1910 a Lugo. Cfr la nota biografica di Terenzio Grandi, cit., p. 15. 69 Kira Kirova, Russkaja revoljucija i Italija. Mart-Oktjabr 1917 g., Nauka, Moskva 1968, p. 219. Le pagine della Kirova sulla missione italiana in Russia, nonostante gli anni, sono ancora utilissime anche per l’uso di fonti russe. 70 Arturo Labriola, Spiegazioni a me stesso, Edizioni Centro Studi Sociali Problemi dopoguerra, Napoli 1945, p. 185. Cfr. Dora Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1970, pp. 231-251. 71 Non è questa la sede per una ricostruzione puntuale della vicenda, sulla quale mi riprometto di tornare con uno studio specifico, di prossima pubblicazione. Sulla missione in Russia e il suo inquadramento nell’ambito dei rapporti italo-russi di quegli anni, vedi Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 14-15; Luciano Tosi, La propaganda italiana all’estero nella prima guerra mondiale, Del Bianco, Udine 1977, pp. 94-95.

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Questo spiega perché di un episodio così interessante rimangano poche testimonianze pubbliche. La posizione di Cappa sulla rivoluzione, ricavata dalla rubrica Fra la cronaca e la storia, che egli firmava sul settimanale “Il Mondo” di Milano72, appariva legata a cliché letterari, analogie storiche, o analisi moralistiche73, in nulla eccentrica rispetto al suo ambiente. Nel numero del 13 maggio Cappa si accomiatava dai suoi lettori, preannunciando che non avrebbe inviato corrispondenze per il timore di essere frainteso74. L’11 maggio “L’Iniziativa” aveva dato la notizia che egli avrebbe portato, a nome del partito, un saluto augurante alla nuova Repubblica75. Anche la stampa nazionale salutò la partenza dei “missionari”, spiegando le ragioni del viaggio, senza dare comunque un gran peso alla notizia76. La sera dell’8, intanto, Cappa aveva lasciato l’Italia, con destinazione Pietrogrado77, dopo le tappe intermedie di Parigi e Londra. La missione, già di per sé ufficiosa, fu ulteriormente ostacolata da Sonnino, che non dette indicazioni chiare né agli inviati, né ai diplomatici operanti nelle città toccate. Inoltre, in concomitanza dell’arrivo a Pietrogrado, fu proclamata l’indipendenza dell’Albania sotto la protezione italiana, atto che, anche alla luce dei patti segreti sugli obiettivi di guerra scoperti dai russi, rese estremamente sospettosi gli interlocutori degli italiani78.

72 Da non confondersi col “Mondo” di Amendola. Questo dove scriveva Cappa, edito da Sonzogno, aveva un taglio da rotocalco e utilizzava molte fotografie. Il giornale chiuse alla fine del 1920. 73 Innocenzo Cappa, All’on. Modigliani perché riconosca tutta la mia cattiveria…, “Il Mondo”, 25 marzo 1917; id., Qui si parla degli adoratori della Germania e degli alleati nostri, ibid., 1 aprile 1917; id., Mentre torna la Pasqua: a quando la pace?, ibid., 8 aprile 1917. 74 Id., Commiato, ibid., 13 maggio 1917. In realtà, come abbiamo visto, spedì un’intervista a Miljukov, tramite telegramma, a “Il Secolo”. Id., Miliukoff alla democrazia italiana, “Il Secolo”, 18 giugno 1917. 75 Il nostro saluto al popolo russo portato da Innocenzo Cappa, “L’Iniziativa”, 11 maggio 1917. 76 Cfr. Raimondo, Labriola e Cappa partono per la Russia, “Corriere d’Italia”, 7 maggio 1917, e il trafiletto senza titolo pubblicato da “l’Informazione”, 8 maggio 1917, in ACS, Fondo Boselli, b.16, fasc.120. 77 MI, DGPS, Div. AGR, CPC, b. 1040, fasc. Innocenzo Cappa. 78 Cfr. Nikolaj Nikolaevicˇ Suchanov, Cronache della rivoluzione russa, vol.II, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 52; Antonello Venturi, Guerra e rivoluzione: Plechanov e il socialismo italiano, 1914-1917, “Storia contemporanea” n. 6, 1981, p. 877 e, soprattutto, Kira Kirova, Russkaja revoljucija i Italija. Mart-Oktjabr 1917 g., cit., pp. 217-226. Accoglienza, peraltro, condivisa dalle altre delegazioni europee. Anche i francesi, ad esempio, ebbero un’accoglienza “mediocre: erano stati descritti come i rappresentanti dell’imperialismo e del capitalismo” del loro paese. Testimonianza di Moutet, inviato francese, al Comitato segreto della Camera francese del 1° giugno 1917. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, A5G I GM, b.134, fasc.280, sfasc. 3.

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Oltre a ciò, la propaganda contraria al conflitto che veniva facendo Balabanoff non favorì certo il contatto79. A giudicare da quanto scrisse la stessa Balabanoff, infatti, anche lei aveva fatto le spese della cattiva fama del gruppo degli italiani, quando si era trovata davanti una sala semivuota, boicottata perchè ritenuta legata a “quella tale delegazione italiana, nazionalista, antisocialista, la cui sola venuta alcuni mesi prima aveva destato tante proteste e tanta profonda ripugnanza in tutto ciò che vi era di proletariato in Russia”80. I quattro, o piuttosto i tre, dal momento che Lerda si ammalò subito, e non partecipò attivamente alla missione, fecero molti discorsi, ebbero molti incontri81 e passarono il tempo tra le bellezze naturali del luogo. Cappa, in particolare, passava lunghe ore all’Hermitage82. Trovò comunque il tempo per scrivere anche un opuscolo, destinato alle truppe, nel quale spiegava le ragioni della guerra dell’Italia83. I delegati italiani intervennero alle riunioni del congresso dei soviet dei deputati contadini e al congresso dei rappresentanti dell’Unione delle città e ad una riunione del comitato esecutivo del Soviet dei deputati di Pietroburgo, con risultati così deludenti da convincerli ad abbreviare la visita, prevista della durata di un mese, a due sole settimane84. Il 21 giugno i “missionari” erano in Svezia, a Stoccolma, prima tappa del loro viaggio di ritorno. Qui rilasciarono alcune interviste al corrispondente de “Il Messaggero”, Alessandro Dudan85. I quattro dichiararono di avere appuntato

79 Tornato in Italia, Cappa spiritosamente ringraziò Balabanoff per aver reso celebre la spedizione con i suoi attacchi. Innocenzo Cappa, Per gli irredenti prigionieri in Russia, “Il Secolo”, 17 luglio 1917. Nelle sue memorie, Balabanoff ricordò la missione italiana e quelle degli altri paesi, definendole “senza speranze”. Angelica Balabanoff, La mia vita di rivoluzionaria, cit., p. 127. 80 Angelica Balabanoff, Ricordi di una socialista, cit., p. 122. 81 In particolare, i ministri socialisti Cˇernov e Tsereteli. Virginio Gayda, La Missione italiana a Pietrogrado, “La Stampa”, 8 giugno 1917. 82 Sullo svolgimento della missione ci restano poche testimonianze, quasi tutte di valore aneddotico, il che ci dice anche molto sull’importanza che le venne attribuita. Oltre al già citato Labriola, Spiegazioni a me stesso, pp. 184-188; Francesco Maria Taliani, Pietrogrado 1917, Mondadori, Milano 1935, pp. 70-73 e, naturalmente, l’autobiografia di Cappa, Confessioni di un parlatore, cit., pp. 137-139, 247, 281-282, 284-285. 83 Notizia dell’opuscolo di Cappa, oltre che nell’autobiografia a p. 137, anche ne “Il Secolo”, Un opuscolo di Cappa pei russi, 19 giugno 1917. Cfr. Kira Kirova, Russkaja revoljucija i Italija. Mart-Oktjabr 1917 g., cit., p. 223 n.74. Non è stato possibile rintracciarne copia. 84 Ibid., p. 225. Virginio Gayda, Gli argomenti discussi tra la Commissione del “Soviet” e i deputati italiani, “La Stampa”, 17 giugno 1917. 85 Dudan, La Missione italiana in Russia – Le impressioni di Raimondo, Cappa, Labriola e Lerda, “Il Messaggero”, 22 giugno 1917.

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la loro attenzione su tre elementi: il Comitato degli operai e dei soldati, Kerenskij e Miljukoff. Del primo dissero che era depositario del maggior consenso popolare e che non era contrario, fin nei suoi elementi estremi, alla guerra. Di Kerenskij misero in rilievo la determinazione a proseguire la guerra. Di Miljukoff, pure ormai in ombra dopo la sua estromissione dal governo, venne riportata la speranza in una ripresa delle attività belliche. In sostanza, il messaggio era rassicurante, condizionato dal fatto che i quattro parlavano in veste ufficiale86. Dopo Stoccolma, la missione fece tappa a Londra. Anche qui i giornalisti raccolsero le loro impressioni sull’esperienza vissuta. In un’intervista a Gastone Chiesi, Cappa individuò tre forze operanti in Russia. La prima era rappresentata dai contadini, portatori di una questione agraria che per Cappa sarebbe stata centrale nei successivi sviluppi; la seconda dal comitato dei lavoratori e dei soldati, che, se non rappresentava la maggioranza della popolazione, lo era però nell’esercito; e, infine, il governo provvisorio, che si sforzava di mettere ordine. Sul piano sociale interno, Cappa sostenne che i contadini avrebbero finito per prevalere e che il socialismo degli operai non era marxista nel vero senso della parola. Il governo provvisorio, inoltre, era condizionato troppo pesantemente dal comitato degli operai. Sul piano dell’impegno bellico, Cappa era invece certo che tutti, tranne gli estremisti leninisti, fossero contro la pace separata, perché disonorevole. Interessante notare che, però, sul piano strettamente militare, Cappa non si faceva illusioni. Kerenskij e Brusilov procedevano d’accordo, ma il disordine interno era tale che gli sforzi del primo dovevano andare tutti verso la riorganizzazione del paese. Per l’anno in corso dunque non ci si poteva attendere nessun aiuto dalla Russia. Si poteva invece fare affidamento su Kerenskij, che voleva la vittoria come l’Intesa. Qui però Chiesi, sintetizzando le parole di Cappa, scriveva un giudizio che poneva qualche dubbio, in prospettiva. Riportava infatti: “Egli [Kerenskij] è un apostolo e martire della dottrina che propugna e la sua lotta è basata sulla sua eloquenza. Ma non è lecito

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Dudan, Un’intervista dei delegati italiani reduci dalla Russia, ibid., 25 giugno 1917. Gastone Chiesi pubblicò la corrispondenza sul “Roma” del 3-4 luglio 1917 col titolo Ritornando dalla Russia – Un’intervista con l’on. Cappa; su “Il Messaggero” del 3 luglio 1917 col titolo L’arrivo a Londra dei delegati italiani reduci dalla Russia e su “Il Secolo” del 2 luglio 1917 col titolo Cappa, Labriola e Raimondo reduci dalla Russia. Cappa espresse chiaramente la sua scarsa fiducia nelle qualità decisionali di Kerenskij in due articoli pubblicati su “Il Mondo”, Kerenskij ha tolto il comando a Brussiloff, 12 agosto 1917 e Passa l’ombra grottesca dello czar, 23 settembre 1917. 87

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sperare che possa continuare a lungo a governare con tal metodo”87. Miljukoff, infine, veniva elogiato, rammaricandosi per la sua uscita dal governo, ma sperando fosse momentanea. Anche il “Corriere della Sera” pubblicò un’intervista a Cappa88, nella quale egli ripetè gli stessi concetti precedentemente espressi. In più, però, manifestò un giudizio equilibrato su Lenin: “Vi è qualche traditore, qualche venduto fra i leninisti? È verosimile, ma lo stesso leninismo non può spiegarsi con la generalizzazione di un sospetto che diverrebbe calunnioso”89. Lo stesso giudizio avrebbe scritto sul “Mondo”, di lì a pochi giorni90. L’ultima tappa, prima del rientro in Italia, fu Parigi. Qui furono accolti dall’ambasciatore Salvago Raggi, che riferì le sue impressioni al Ministro degli Esteri, Sonnino. Di Cappa disse: Ho visto poco il Cappa che si è dimostrato meco molto sfiduciato di quanto ha visto in Russia e mi ha serenamente confessato di aver compreso come gli uomini sottratti ad una qualsiasi autorità non valgano più nulla. Aggiungeva che era per lui doloroso confessare ciò, che smentiva ideali accarezzati durante tutta la vita. Non so se fosse sincero e se continuerà a parlare nello stesso senso91.

Sincero Cappa lo era, ma non avrebbe continuato a parlare. Il 7 luglio rimise piede in Italia, diretto a Torino92, e, dopo tre giorni scrisse a Boselli93. L’interrogativo che si presentava alla sua coscienza era se parlare, rischiando di alimentare lo sconforto nel paese, o tacere. A Boselli, Cappa espose le ragioni dei suoi silenzi, quello polemico verso Sonnino, col quale diceva di non avere avuto contatti, e quello verso la nazione. “Sento solo il bisogno” rivelò al Presidente del Consiglio “di scrivere soltanto questo a V.E.: l’Italia non è apprezzata all’estero secondo il suo sforzo….”94. Non sarebbe stata opera da comiziante il modificare questa situazione, per la quale Cappa confessò di provare “angoscia”, e

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Impressioni di Raimondo e di Cappa sulla situazione russa, “Corriere della Sera”, 3 luglio 1917. Ivi. 90 Innocenzo Cappa, Vorrei parlare di Lenin e della intelligenza, “Il Mondo”, 22 luglio 1917. 91 Lettera di Salvago Raggi a Sonnino dell’ 8 luglio 1917, in Sidney Sonnino, Carteggio 1916-1922, a cura di Piero Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 261-262. 92 ACS, MI, DGPS, Div. AGR, CPC, b. 1040, fasc. Innocenzo Cappa. 93 ACS, Fondo Boselli, b.3, fasc. 28. 94 Ivi. 89

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perciò egli era “ben deciso al silenzio, se il suo silenzio sia ritenuto più utile dei suoi discorsi” 95. Quando Cappa scrisse per la prima volta pubblicamente sulla Russia, mise la sordina a ciò che avrebbe potuto turbare il lettore. Egli dovette ricorrere a tutta la sua arte oratoria per dire e non dire. Scelse, perciò, il registro della commozione, reputando inutili tutte le altre considerazioni di carattere storico, economico o sociale. “L’unica constatazione onesta, lecita, perché non inutile, è d’ordine più alto, è quella di ordine, oserei dire, religioso: L’odio in Russia ha divorato se stesso”96. Egli non mostrava di credere alle colorazioni politiche della massa russa. Non era questo che la caratterizzava. Ciò che, come abbiamo visto, aveva colpito Cappa, era stata la mancanza di controlli, la libertà assoluta, la voglia di parlare di tutti su tutto. E qui il suo sforzo era quello di descrivere il fenomeno senza far giungere alle conclusioni disastrose alle quali lui sembrava essere giunto. Dipinse perciò una società idilliaca e primitiva che, lasciata a sé stessa avrebbe potuto reggersi. La rivoluzione era, dunque, un unicum, improponibile come modello per altri paesi, perché pericoloso. Al di fuori di questi timori così radicati nel borghese Cappa, figlio, non dimentichiamolo, di un funzionario di polizia, c’era però il riconoscimento dell’opera di un popolo. Se la Russia aveva cancellato l’odio, se essa “attraversa una crisi quasi morbosa di amore della giustizia e di pietà”, non era detto che tale stato fosse definitivo. Certo antisemitismo, certa xenofobia strisciante, lo insospettivano. Pure, non si potevano negare gli atti di magnanimità verso le popolazioni di altra etnia. Ma l’ottica con la quale era inevitabile misurare la rivoluzione russa era quella della guerra: Un popolo senza aggressività è un popolo vinto nella storia… Ed è probabilmente perché anche in me la concezione imperialistica mette talvolta, senza che io voglia e me ne accorga, le sue superbie e i suoi dubbii, che in Pietrogrado, ospite di tanta bontà garrula e dispersiva all’apparenza, giungevo spesso alla conclusione che in tutto quel rosso e quell’azzurro e quel sogno erano una divina poesia seccante, se non si fossero mai più trasformati nella guerra97.

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Ivi. Innocenzo Cappa, Tornando dal paese ove l’odio fu ucciso, “Il Mondo”, 15 luglio 1917. Ivi.

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Dopo questo slancio di sincerità, però, Cappa si riallineava. Erano di quei giorni le notizie dell’offensiva di Brusilov, che dimostrava che “la stanchezza dell’odio non fu in Russia l’alibi di un idealismo inerte e la libertà repubblicana riafferra la vittoria”. Vittoria che, sosteneva Cappa, sarebbe venuta non da Kerenskij o Brusilov, ma dal popolo tutto, guidato dall’umanità dei loro cuori98. Richiesto di un commento sulla sua visita dal segretario Casalini, per “L’Iniziativa”, Cappa inviò una lettera che venne pubblicata il 4 agosto99. Era un Cappa già amareggiato con il partito e con chi lo aveva criticato per le sue posizioni pessimistiche, giudicate esagerate, perché pubblicate dalla stampa nei giorni dell’offensiva russa100. Egli, ben lungi dal volerlo screditare, confessava di essersi invece innamorato di quel popolo. Ma non poteva nascondersi il vero problema del momento: «Quanto altro spasimo, quante altre esperienze prima di un assetto non convulso? Per quali vie, attraverso e dopo questa dolce anarchia, i russi arriveranno a un governo di libertà responsabile? E intanto di che nuovo sangue gronderanno per la guerra?». A questo stato d’animo ispirai, tornato in patria, i miei silenzi e quasi tutte le mie parole.

Cappa non faceva delle belle lettere, si ribellava al ruolo di “oratore che piace alle signore”, che gli avevano affibbiato. Rivendicava la sincerità della sua analisi, pure se, nel finale, ribadiva la necessità, per la Russia, di resistere e di non tradire101. Nel dicembre del 1920, poco dopo la sua uscita dal PRI, Cappa curò la pubblicazione di un’antologia da Lo specchio della Grande Rivoluzione, un libro che Kropotkin aveva dedicato alla rivoluzione francese nel 1909 e di cui scrisse anche la prefazione. Erano passati più di tre anni dalla rivoluzione e dal suo viaggio in Russia e il suo giudizio era, o almeno si atteg-

98 Ivi. Cappa faceva altri accenni al soggiorno in Russia anche in Vorrei parlare di Lenin e della intelligenza, “Il Mondo”, 22 luglio 1917, di cui parleremo più diffusamente nel paragrafo successivo, per i suoi giudizi su Lenin. 99 Innocenzo Cappa, La Russia non tradirà, “L’Iniziativa”, 4 agosto 1917. 100 Nel ringraziare per l’invito a scrivere le sue impressioni così si espresse: “E’ un segno di vita, verso me del partito, a cui mi onoro di appartenere da più di vent’anni e mi giunge in un’ora in cui ho creduto finalmente di servirlo, servendo la patria e dicendo la verità”. Anche in una lettera scritta a Orlando poco dopo il suo ritorno dalla Russia, Cappa aveva espresso perplessità sulle posizioni del suo partito: “Tornato dalla Russia, ho trovato i pochi repubblicani ufficiali alla opposizione. Non venni quindi a votare…”, ACS, Fondo Orlando, b.5, fasc. 233, lettera del 19 luglio 1917. 101 Innocenzo Cappa, La Russia non tradirà, “L’Iniziativa”, 4 agosto 1917.

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giava ad essere, piuttosto equilibrato. Ovviamente era un trionfo di paralleli tra le due rivoluzioni, sulla cui utilità, da consumato oratore, si pose egli stesso il problema: “È utile [...] ritornare alla Rivoluzione Francese, che ad alcuni sembra ormai un gioco da fanciulli? Sì, se però non vi si ritorni con la curiosità che mira alle apparenze politiche di quel dramma, ma con la sagacia che scruta più a fondo”102. Quella sagacia che gli faceva scrivere poco più avanti: “C’è sempre nel giudizio degli storici conservatori, l’oro e la mano degli stranieri, quando un’inquietudine popolare si manifesta”103. Cappa si poneva il problema della rivoluzione, dell’ineluttabile brutalità, della violenza che sempre accompagna i moti di cambiamento. La sola cosa che giustificasse questi “delitti” era, per Cappa, “il principio nuovo che essi, gli uomini, sostennero, che quelle, le rivoluzioni, fecero trionfare”. Bisogna soffrire e peccare per esistere davvero. Ma gli stessi delitti individuali e collettivi, ecco la tesi rivoluzionaria, si santificano se permisero all’umanità di rinnovarsi per la virtù di un «principio nuovo». [...] Nessuna rivoluzione sarebbe del resto, oltre che giustificabile, possibile, senza il prorompere di nuove concezioni”104.

E ancora più avanti: Il passato si ripete spesso nel presente... Se è vero che una rivoluzione è impossibile senza l’incontro di un principio nuovo con una inquietudine collettiva derivante da qualche disagio economico, ma che quando un principio nuovo fu trovato e l’inquietudine è in moto e il disagio tende a giganteggiare la rivoluzione è pei governi un Mefistofele malcomodo, del quale manca ad essi la formula d’esorcismo per ricacciarlo negli abissi, noi siamo in piena rivoluzione e difficile sarà l’arrestarla nei paesi poveri abbandonati alla loro povertà... [...] Il principio nuovo è la interpretazione intransigente e plebea dell’antica speranza comunistica che affermando chi non lavora non mangia non mira a negare il lavoro intellettuale, ma ad escludere in sostanza il diritto alla vita dei lavoratori intellettuali non disposti a inchinarsi alle nuove signorie105.

102 Pietro Kropotkine, Lo specchio della Grande Rivoluzione. Pagine scelte con note e prefazione di Innocenzo Cappa, Vitagliano, Milano 1920, p. IX. 103 Ibid., p. XIV. 104 Ibid., pp. XIX-XX. 105 Ibid., pp. XXIII-XXV.

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Cappa definiva così il suo approccio alla rivoluzione, letterario e paternalistico, e che indica con chiarezza i limiti suoi e dei repubblicani come lui: l’essere cioè esponenti di un’idea rivoluzionaria, ma in fondo non comprenderla fino in fondo, aborrendo solo le ingiustizie, quasi fossero delle imperdonabili imperfezioni estetiche dell’esistenza. Oltretutto, Cappa fu tra i primi a “inchinarsi” alla “nuova signoria” del fascismo, che però non praticava, per sua fortuna, il detto “chi non lavora non mangia”. Il testo continuava ad accostare le due rivoluzioni, quella francese e quella russa, che hanno segnato la storia dell’Europa moderna. Cappa non si sottrasse al dire la sua sul tema dell’intervento in Russia: Nessuno che abbia un temperamento moderno e sincero e un’anima non corrotta e non mercenaria può soltanto fremere d’orrore per quanto avviene in Russia e per quanto potrebbe avvenire domani nel resto d’Europa. Come dal 1789 al 1793 si assolsero alcuni compiti rivoluzionarii che non furono vani [...] qualche cosa può nascere di nuovo e di umano tra le follie tartare degli uni e le cieche resistenze degli altri. Purchè la spada reazionaria non sciolga sterilmente il nodo gordiano da un lato, e l’utopia dall’altra parte non acciechi sino ad un’oscena ferocia sistematica. Comunque, se il tentativo slavo deve fallire, fallisca da sè! Altrimenti genererebbe chi sa quali rimpianti... E se il bolscevismo ha qualche cosa da insegnarci, potrà insegnarcela quando ne scorgeremo le audacie non attraverso il velo di sangue che lo ottenebra e lo disonora all’interno e ai confini – oggi106.

La sua amarezza per le posizioni del PRI, manifestata, come abbiamo visto, già al ritorno dalla Russia, non si sarebbe attenuata: nel 1919 non fu rieletto e, nel novembre del 1920, si dimise da socio della sezione repubblicana milanese. Il suo percorso politico e umano lo avrebbe portato alla Camera nelle file dei Blocchi nazionali nel 1921 e al laticlavio nel 1929, in piena epoca fascista, regime al quale egli aderì da subito. Nel 1938 ritornò, infine, sul suo viaggio in Russia nelle pagine dell’autobiografia Confessioni di un parlatore:

106

Ibid., pp. XXVI-XXVII.

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Io non ho detto sempre la verità, quando ho parlato in pubblico. Talora fu necessario che la verità non venisse detta per carità di patria. Tornavamo dalla Russia nel 1917 Orazio Raimondo ed io (e nomino appena l’altro genialissimo compagno che ci fu poco solidale, Labriola) ed avevamo nell’anima la profonda amarezza di avere visto ciò che avevamo veduto. Qualche scrittore vanesio ha voluto poi farci la lezione, affermando che in Russia fossimo rimasti come sorpresi dalla vastità delle vicende, senza possibilità di orientarci. Si fa molto presto a censurare, là dove si ignora la realtà dei fatti. Né Orazio Raimondo, mirabile figura di italiano non soltanto eloquente, né io, molto minore di lui, ma capace di guardare nelle cose, eravamo rimasti disorientati. Chi rilegga ciò che scrissi allora sulla bella rivista «Il Mondo» […] vedrà che avevo capito Lenin e previsto il suo tragico avvento al potere. Avevamo, però, ricevuto l’ordine prima dal nostro istinto e dalla nostra coscienza, poi da chi in nome dell’Italia questo ordine ci poteva dare, di non dichiarare in pubblico la nostra tristezza invincibile. La Russia era perduta per l’Intesa!107

Lenin e Kerenskij Nel luglio 1917 intervennero due elementi di profondo mutamento nell’immagine della Russia: l’effimera offensiva di Brusilov e la rivolta massimalista a Pietrogrado, fallita, che portò all’esilio di Lenin. I commenti nella stampa furono entusiasti108, anche se talvolta l’entusiasmo si mischiava alla riprovazione verso quanti avevano attentato e attentavano alla vita della rivoluzione109. L’attacco ai mestatori di Russia offriva, poi, il destro per attacchi ben più violenti ai “disfattisti” d’Italia. L’antisocialismo si infiltrava in tutte le notizie che provenivano dalla Russia110,

107 Innocenzo Cappa, Confessioni di un parlatore, cit., pp. 281-282. Ma dimentica Lerda, presente, anche se inattivo. 108 L’esercito della Rivoluzione per l’onore e la libertà della Russia, “La Libertà”, 7 luglio 1917; Bandiera rossa!, “L’Iniziativa”, 7 luglio 1917 (ripubblicato da “La Sveglia repubblicana” del 14 luglio 1917); Kerensky e Brussiloff, “Il Pensiero Romagnolo”, 14 luglio 1917; A fondo, “La Sveglia repubblicana”, 14 luglio 1917; im, Verso la fine, “Il Pensiero Romagnolo”, 21 luglio 1917. 109 La Rivoluzione non si arresta, “Etruria Nuova”, 15 luglio 1917; Noi, Il risveglio russo, “RP”, 15 luglio 1917, pp. 243-244; La rivoluzione russa e la Germania, “La Libertà”, 28 luglio 1917. 110 Solidarietà coi traditori della Rivoluzione, “Etruria Nuova”, 29 luglio 1917; Il voto di Firenze, “Il Pensiero Romagnolo”, 4 agosto 1917; La triste commedia del Pus, “L’Iniziativa”, 4 agosto 1917; Napoleone Colajanni, Dal disfattismo russo al socialismo italiano, “Il Messaggero”, 5 agosto 1917; Il “Soviet” contro il “Pus”, “L’Iniziativa”, 11 agosto 1917; Dove attinge i milioni Lenin, “Etruria Nuova”, 12 agosto 1917; La documentazione del nuovo trucco socialneutralista, “La Libertà”, 25 agosto 1917; I disfattisti alla gogna, “La Libertà”, 15 settembre 1917.

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anche se la questione Balabanoff costituì ancora per tutta l’estate il terreno d’offesa preferito della stampa repubblicana111. Altro episodio assai significativo della querelle coi socialisti fu il viaggio dei delegati del Soviet per convincere i socialisti italiani a partecipare al Congresso di Stoccolma indetto dai russi. A tale argomento la “Rivista” dedicò due articoli112. Nel primo, di Francesco Evoli, si mettevano in rilievo le connessioni con la strategia della Germania, analizzando il ruolo del Soviet nell’equilibrio istituzionale russo. In una nota redazionale, apposta alla fine dell’articolo, si dava poi conto degli ultimi avvenimenti, da cui si inferiva una ridotta influenza del Soviet nella vita politica russa. Tutto fa credere che il pericolo estremo in cui si trova la Russia e la riuscita della rivoluzione stessa conduca ad una unione di tutti i partiti e le classi – la deprecata, dagli internazionalisti, Union sacrèe – che dovrebbe risultare dall’imminente congresso nazionale di Mosca113.

Nei primi giorni di agosto giunse, dunque, una “delegazione del Soviet inviata in Occidente per raccogliere adesioni alla conferenza socialista internazionale di Stoccolma”114. In Italia si accese la polemica su chi fosse più degno di riceverla, se i socialisti, compagni di fede, ma contrari alla guerra che pure i russi combattevano, o gli interventisti di sinistra115. “L’Iniziativa” dell’11 agosto riportava notizia dei saluti indirizzati alla delegazione del Soviet giunta in Italia. Oltre al memoriale del PSI, anche i partiti interventisti ne avevano presentato uno:

111 Perché è fuggita, “Il Pensiero Romagnolo”, 28 luglio 1917; La fuga di Angelica, “Etruria Nuova”, 5 agosto 1917; Angelica creatura, “Etruria Nuova”, 12 agosto 1917; Da Grimm alla Balabanoff, “RP”, 30 settembre 1917, p. 325. 112 Francesco Evoli, Il Congresso di Stocolma [sic] e la situazione internazionale, “RP”, 31 luglio 1917, pp. 268-272, e Gli alleati dell’Intesa contro la Conferenza di Stocolma [sic], “RP”, 30 agosto 1917, pp. 303-304. A causa del complesso stato dei rapporti tra le varie componenti della sinistra marxista internazionale, furono contemporaneamente indetti due Congressi, entrambi a Stoccolma. Un’accurata ricostruzione di quelle vicende è in G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista 1914-1931. Comunismo e socialdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 31-70. 113 Francesco Evoli, Il Congresso di Stocolma [sic] e la situazione internazionale, “RP”, 31 luglio 1917, p. 272. 114 Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979, p. 85; notizie sul viaggio della delegazione russa, e sulle reazioni dei socialisti, alle pp. 85-96. 115 I rappresentanti della Repubblica Russa in Italia, “La Libertà”, 4 agosto 1917; Per l’onore dell’Italia, “Il Pensiero Romagnolo”, 4 agosto 1917; Il Saviet [sic] in Italia, “Il Pensiero Romagnolo”, 11 agosto 1917; Il “Soviet” in Italia, “La Sveglia Repubblicana”, 11 agosto 1917; I rappresentanti del “Soviet” a Ravenna, “La Libertà”, 11 agosto 1917; Per la Russia e per il Belgio, “L’Iniziativa”, 18 agosto 1917; La documentazione del nuovo trucco socialneutralista, “La Libertà”, 25 agosto 1917.

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Il Partito repubblicano a mezzo del suo segretario ha portato il suo saluto esprimendo l’augurio che la democrazia russa concorra anche colle armi a debellare l’assolutismo tedesco. I rappresentanti dei Soviet hanno riaffermato la volontà della Russia di non fare pace separata e di tendere invece ad una pace democratica sotto la pressione della classe operaia organizzata. Noi rinnoviamo qui il nostro saluto alla russia [sic] rivoluzionaria che in questi giorni ha riordinato i suoi poteri rammentando che la vera pace è segnata sulla punta vittoriosa delle baionette di tutti gli eserciti democratici d’Europa in lotta contro gli imperi centrali. Operai e soldati di Russia all’opera!116

L’unica posizione dissonante era quella di Colajanni. Egli si chiedeva chi fossero e cosa volessero i rappresentanti del Soviet, e il Soviet medesimo. Tutto ciò che veniva dalla Russia era – secondo lui – vago. In quel momento pareva che il Soviet fosse contro Lenin, ma i suoi delegati? Colajanni era sarcastico: Che cosa siano venuti a fare non sappiamo. Essi, imbevuti dell’infausto tolstoismo, che per noi è peggiore di qualunque altro anarchismo, nulla possono apprendervi perché il loro maestro detestava tutta la nostra civiltà. Forse essi sono venuti a vedere se i costumi occidentali sono degni di fare compagnia a quelli che in Russia inculcava coll’esempio e colla pratica il loro Raspoutin. Forse rinsalderanno nei socialisti italiani la fede in Lenin. Forse vorranno vedere se i compagni italiani sapranno compiere una rivoluzione come la russa che possa riuscire vantaggiosa e gradita al Kaiser. […] Che cosa sperino i riformisti, i socialisti indipendenti, i sindacalisti non austriacanti ed anche i repubblicani, che hanno presentato loro dei memorandum noi non sappiamo. Sappiamo, però, che avrebbero guadagnato in serietà e dignità se fossero rimasti a casa e si fossero astenuti da ogni atto; che per quanto indirizzato ai rappresentanti della più sfrenata democrazia, non è meno un atto cortigiano117.

116 Ai rappresentanti del Soviet russo, “L’Iniziativa”, 11 agosto 1917. Il memoriale, è riportato integralmente da Renzo De Felice, nell’Appendice al suo Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 711-718. Un altro memoriale, firmato dal Comitato Sindacale Italiano, Partito Socialista Riformista, Federazione dei Circoli Socialisti Autonomi, venne pubblicato da “La Libertà”, La Camera del Lavoro riceve i delegati russi del “Soviet”, 11 agosto 1917. 117 Noi, I rappresentanti del SOVIET in Italia, “RP”, 15 agosto 1917, p. 282. La “Rivista” tornò ancora sull’argomento, ribadendo il suo disappunto: “Ai quattro apostoli che la Russia rivoluzionaria ha mandato in giro in Italia si è accordata una importanza che non meritano. Socialisti, riformisti, repubblicani, anarchici e sindacalisti hanno fatto sfoggio di cortigianismo non ammirevole”. Noi, La sintesi delle idee dei delegati del Soviet, “RP”, 30 agosto 1917, p. 304.

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I delegati russi erano per lui ipocriti e bugiardi: I signori Goldenberg e Smirnoff si mostrano poco dissimili dai Lenin, dai Troitsky, dai Gorki e dai disfattisti tutti, che sono al servizio della Germania. Pensiamo che essi, dichiarandosi contrari alla pace separata e favorevoli alla continuazione della guerra, mancarono di sincerità; e tale mancanza fu suggerita dalla paura di essere espulsi dai paesi, nei quali intesero fare la loro propaganda118.

Ironico fu anche Pirolini, il quale disse che, grazie alle armi degli alleati, i russi potevano continuare a parlare di pace, giacché solo gli eserciti dell’Intesa salvavano la Russia dall’invasione119. Ma il confronto, fino a novembre preminente su ogni altro, era tra Kerenskij e Lenin, ben sintetizzato da “La Libertà”: Due Russie sono state espresse in due uomini, Kerenski e Lenin: la Russia che non diserta il suo posto di lotta e che sa che, abbattuto lo czarismo, bisogna lottare contro l’autocrazia prussiana, e la Russia della diserzione e del tradimento. Il «Soviet» è con Kerenski, i socialisti ufficiali sono con Grimm e con Lenin120.

Le simpatie e l’appoggio dei repubblicani andava, sia pur con qualche perplessità, a Kerenskij. Egli era l’ispiratore e l’artefice, insieme e più di Brusilov, della ricordata offensiva di luglio, che sembrò dimostrare, per un attimo, che la rivoluzione poteva fare la guerra121. Non solo, egli era anche l’uomo che aveva “intimato agli energumeni della sedizione anarcoide sottomissione e obbedienza” 122. Non fece mancare il suo parere Cappa, il quale aveva conosciuto Ke-

118

Ibid., p. 305. Giovan Battista Pirolini, Fronte unico, “L’Iniziativa”, 25 agosto 1917. 120 I rappresentanti del “Soviet” a Ravenna, “La Libertà”, 11 agosto 1917. 121 Bandiera rossa!, “L’Iniziativa”, 7 luglio 1917 (ripubblicato da “La Sveglia repubblicana” del 14 luglio 1917); Kerensky e Brussiloff, “Il Pensiero Romagnolo”, 14 luglio 1917; L’anima della rivoluzione, “La Libertà”, 28 luglio 1917. Colajanni scrisse che “il merito di questo risveglio militare inatteso è soprattutto del ministro della guerra Kerensky, che lo ha preparato superando incredibili difficoltà, con una energia ed una costanza piuttosto uniche che rare”. Noi, Il risveglio russo, “RP”, 15 luglio 1917, pp. 243-244. Vedi inoltre Noi, Le donne russe a Kerensky, “RP”, 31 luglio 1917, pp. 261-262 e Kerenski, “La Sveglia Repubblicana”, 11 agosto 1917. 122 La triste commedia del Pus, “L’Iniziativa”, 4 agosto 1917. 119

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renskij, che, come abbiamo visto, non lo aveva del tutto convinto. Su “Il Mondo”, ritornava più meditatamente sull’argomento. Non siamo, diceva Cappa, in grado di giudicare i nostri contemporanei, troppo vicini a noi. Kerensky è un uomo di azione. Coraggio temerario, assoluta semplicità d’esistenza, spontaneità negli atti, ardore fede. […] Certo quel biondo pallido, dagli occhi miopi ma profondi, dalla voce grave, che pone nel suo lento eloquio francese inflessioni esotiche piene di fascino, è intimamente un melanconico. Quando parla la propria lingua russa avanti alle folle è un oratore velocissimo invece, a ondate di entusiasmo. Allora, dicono, non vi è uno stretto legame logico tra periodo e periodo. Procedendo per rapidi trapassi, abbandonandosi alle invettive, egli è un seduttore sedotto o un istintivo servo padrone del suo pubblico?

Nel suo governo egli doveva barcamenarsi tra posizioni molto diverse. I cadetti spingevano per una più decisa azione bellica, gli estremisti socialisti per la pace. Quale la speranza per Kerensky? L’azione avrebbe purificato tutto. Al primo colpo di cannone si sarebbe risvegliato l’orgoglio slavo, sopra tutto se l’attacco fosse stato provocato dai tedeschi. In mancanza di un simile errore da parte del nemico, egli contava sulla suggestione del successo e sperava, pel successo, sull’audacia di Brussiloff, generale di cavalleria promosso alla suprema responsabilità dalle fortune dell’anno precedente […]. Ma la fortuna non dà l’appuntamento due volte di seguito. Si sa quel che è avvenuto invece. All’offensiva del 1° luglio i leninisti risposero con la rivolta di Pietrogrado. Tutti venduti? Non credo. Anche Lenin? Fate credito alla natura umana, sino ai giudici della storia! Di chi non si è detto in questi terribili tre anni che egli fosse venduto a qualcheduno? Comunque è avvenuto anche il peggio. Brussiloff l’audace, è oggi il temerario deluso. Ma Kerensky non ha esitato. Nella Russia rivoluzionaria il capo che si è illuso torna nell’ombra e la guerra continua senza il generale sconfitto. Perché non si è potuto però trovare per il comando che Korniloff?

La grandezza di Kerenskij, comunque, “non è cominciata […] il 1° luglio, quando Brussiloff sconfiggeva, breve gloria, gli austriaci, ma co-

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mincia adesso e si dimostrerà domani, se egli resisterà sino all’ultimo, rimanendo in contatto con la realtà «popolo» della nazione sua” 123. Colajanni si dimostrava, in quei giorni, confuso sull’esito della lotta per il potere, ma coerentemente pro Kerenskij fin dall’inizio124. Tuttavia, alla metà di agosto il suo pessimismo ebbe la meglio. Nell’augurare a Kerenskij il successo nell’opera di salvezza della Russia, doveva “confessare che in tale riuscita non abbiamo molta fiducia. Grande timore sentiamo di dovere assistere ad un lungo e tormentoso periodo di anarchia e di reazione” 125. Diverso fu l’atteggiamento della stampa dopo la fine di agosto, al momento del tentato golpe conservatore di Kornilov. Allora erano intervenute disillusioni forti sulla capacità di Kerenskij di dominare la situazione. La posizione di parte dei repubblicani fu quella di molta stampa italiana e europea, di equidistanza e di valutazione dell’elemento patriottico nel gesto di Kornilov126. L’organo del partito assunse, invece, una posizione precisa, spintovi dalla positiva valutazione della proclamazione della repubblica da parte di Kerenskij. Per “L’Iniziativa”, infatti, Kornilov era stato appoggiato dai partiti conservatori, che avrebbero fatto pagar caro il loro aiuto in caso di successo. La repubblica, peraltro, costituiva ottimo rimedio anche ai timori degli estremisti che la rivoluzione fosse tradita dal governo127. Anche Cappa trattò l’argomento, lasciando il giudizio alla storia, più che altro per non svolgere il suo pessimismo fino alle estreme conseguenze. In Russia, nonostante la proclamazione della repubblica, v’era gran confusione. “Di certo per ora non c’è che questo: Korniloff, […] è prigioniero. Kerensky che, fino ad oggi, aveva adoperato molto meno di energia per salvare il suo paese dai tedeschi, è diventato fulmineo contro i pericoli della controrivoluzione…”. Lungi dal criticarlo per questo, Cappa lo esortava a non fermarsi a metà:

123

Innocenzo Cappa, Kerensky ha tolto il comando a Brussiloff, “Il Mondo”, 12 agosto

1917.

124

Oltre agli articolo già citati, La dittatura di Kerensky, “RP”, 15 agosto 1917, p. 283. Ivi. Maggiore fiducia nelle sorti del tentativo di Kerenskij dimostrava Questioni di forma, “Etruria Nuova”, 9 settembre 1917. 126 Rassegna di politica e di guerra, “Il Popolano”, 15 settembre 1917; Rassegna politica – Le cose di Russia, ibid., 29 settembre 1917. In quest’ultimo articolo traspare già del sarcasmo su Kerenskij: “Non è veramente la carica di dittatore, quella che meglio si adatta ad un rivoluzionario…”. “Il Pensiero Romagnolo” del 6 ottobre 1917, in un editoriale non titolato né firmato, dava per certa l’intesa tra i due. 127 La proclamazione della repubblica in Russia, “L’Iniziativa”, 22 settembre 1917. 125

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Io non so se Kerenski si sia buttato più decisamente al socialismo ed abbia fatto proclamare la repubblica per avere una base nel popolo. So che, se sarà inesorabile almeno contro lo czarismo e i suoi ritorni, non vincerà forse ancora i tedeschi, ma sino alla fine della guerra, avrà placato la inquietudine slava. La necessità che s’impone ai potenti nelle ore storiche della violenza è di saper essere violenti davvero e con metodo128.

L’altro protagonista, sui giornali repubblicani, fu Lenin. La contrapposizione con Kerenskij era già nei fatti. Mentre quest’ultimo portava la Russia rivoluzionaria all’offensiva vittoriosa, il primo ordiva trame oscure contro il legittimo governo russo. Trame che, peraltro, conducevano direttamente ai tedeschi, nemici giurati dei russi129. L’articolo più interessante, e che avrebbe dato il via a polemiche, fu quello di Cappa su “Il Mondo”. In esso riemergevano ancora ricordi personali, ma soprattutto usciva meno demonizzata la figura di Lenin. Egli individuava nei caratteri dell’“intellighenzia quelli propri dell’uomo russo”. Essi derivavano dalla contrapposizione violenta, voluta dagli zar, tra il potere e la cultura. Infatti l’uomo «intelligente» in Russia non è l’uomo di Stato, l’uomo colto, lo specializzato, il professore, il dottore, l’avvocato, che conoscono più profondamente la loro dottrina e si preparano così a una carriera entro lo Stato loro. In Russia l’intelligente è l’uomo di umanità, sin dal ginnasio, studente, innamoratosi di un indefinito sapere generale. La passione del libro, il gusto della discussione cominciano all’inizio della vita e portano il russo ad una vaga eterodossia sognante...

128 Innocenzo Cappa, Passa l’ombra grottesca dello czar, “Il Mondo”, 23 settembre 1917. In questo articolo egli rispolverava la figura dello Zar, prima osannato dai regimi e dalla stampa di tutto il mondo, ed ora vituperato da tutti. Difficile dire quale fosse la verità, tra le due rappresentazioni dello Zar che erano state proposte, una tutta positiva, l’altra tutta negativa. “Probabilmente il dramma di Nicola II fu questo: il dubbio politico. Egli non seppe essere mai né un logico della reazione come Nicola I né un principe costituzionale davvero. […] Nicola II non sarebbe caduto, malgrado le disfatte sue e della sua Russia dal 1914 al 1917, se volendo recitare la parte del tiranno, non avesse esitato, ondeggiando ogni giorno dalla tragedia alla farsa. La sua colpa storica fu questa: egli fu un tiranno da farsa sanguinosa”. 129 Noi, Il risveglio russo, “RP”, 15 luglio 1917, pp. 243-244; I due milioni di Lenin, “Etruria Nuova”, 29 luglio 1917; Solidarietà coi traditori della Rivoluzione, “Etruria Nuova”, 29 luglio 1917; Il voto di Firenze, “Il Pensiero Romagnolo”, 4 agosto 1917; Aria morta in Russia per Lenin, “Etruria Nuova”, 5 agosto 1917; Dove attinge i milioni Lenin, ibid., 12 agosto 1917.

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Questa situazione, secondo l’esponente repubblicano, era riscontrabile a Pietrogrado, piena di fermenti politici animati da vari gruppi, tra cui i leninisti. Lenin non c’è… Lenin! Il padrone della Russia, mi dicono, se fosse un uomo di azione, un cuore di febbre: una parola che vi turba… […] Si sa che un suo fratello, sotto lo czar, venne appiccato… Si sa che potrebbe con un cenno scatenare ventimila soldati di Pietrogrado contro il Soviet e peggio contro il governo provvisorio… Pietrogrado, piena di allarmi, sarebbe pronta a diventare anche anarchica. […] Ma anche Lenin, l’esule, il tedesco, non è che un russo «intelligente»… e non conclude.

Ogni qual volta succedeva qualcosa, se ne dava la colpa a Lenin. Ma non era vero… Malgrado il suo lungo esilio e l’odio, Lenin non è uomo d’azione. […] Si parlava, per lui, di denaro tedesco. E come avrebbe potuto non averne, se lo avesse accettato? Ma era una leggenda calunniosa… Intorno a Lenin ci son molte figure fosche, ma egli è un sognatore puro. Inutile vendersi allo straniero, quando con un gesto di temerità ci si potrebbe imporre nel mondo della propria immensa patria. Del resto (Dio mi perdoni il confronto!) non fu detto anche di Giuseppe Mazzini, dai moderati lombardi del suo tempo, che era venduto all’Austria? Tutti gli uomini che ci danno noia sono venduti a qualcheduno… La verità è che Lenin si lasciò sfuggire l’ora del dominio… Egli credette soltanto o troppo alla parola. Sentì il tuono degli applausi nei comizi: e si illuse, finché Kerenski non fu più forte. Se avesse osato, che cosa sarebbe successo? Non so… Ma Pietrogrado poteva essere un rogo e si sarebbe illuminata al suo furore civile”.

Lenin, però, era solo il rappresentante dell’anima slava. L’intelligenza, la curiosità che non conclude, la politica che non afferra il suo attimo, una pietà infinita, una bontà prolissa: ecco la diversità slava, di cui tutti i russi, anche i più nazionalisti, sono orgogliosi… […] Così passò, tra le parole, priva d’audacia definitiva, l’ora di Lenin, che si gettò alla riscossa, quando era già troppo tardi… Così, con un colpo di Brussiloff, la guerra è ridiventata popolare. I tedeschi hanno forse imparato, durante la guerra, che credere alla forza e allo stato sol-

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tanto non basta e che chi si specializza perde il senso della realtà universale. Ma noi e i russi, dopo la guerra, non avremo imparato proprio nulla, come se si fosse già prima nella verità assoluta? Il problema sarà di quelli che bisognerà risolvere contando il numero dei morti e delle vittime e facendo il calcolo del tempo perduto130.

A questo articolo rispose Colajanni con due scritti polemici. Ciò che ne ha scritto Innocenzio [sic] Cappa di ritorno dalla Russia, – affermava su “Il Messaggero” – può indurre a considerarlo [Lenin] come un esaltato furioso, e non come un cosciente traditore, posa come un miserabile venduto allo straniero, al nemico del suo paese […]. Per parte mia dubitai sempre, lo confesso, della sua sincerità, perché nell’animo mio non poteva trovar posto la sua dottrina del disfattismo, che ho sempre respinto o combattuto, anche quando sotto forma più attenuata e diversa faceva capolino colla teoria del tant pis, tant mieux! tra i miei amici repubblicani. Lenin scoppiata la guerra gigantesca attuale, augurò e propugnò la disfatta della Russia – e quindi quella della Intesa e della sua nobile causa – perché con tale disfatta egli pensava che sarebbe crollato sicuramente l’esoso dispotismo czarista.

Questa posizione di Lenin si scontrava con quella di altri grandi rivoluzionari russi, tra cui specialmente Kropotkin. Questi riconosceva, infatti, il valore della difesa della patria. Se pure, proseguiva Colajanni, si volessero trascurare questi segni; se si volessero non considerare i vari indizi del suo legame con la Germania (il passaggio accordato sul territorio tedesco, i soldi profusi largamente); rimaneva però il moto di luglio. Si rifletta: i più ardenti socialisti sono al governo; la disciplina nell’esercito è abolita; il Soviet – che si può considerare come l’organismo dell’anarchia, se tra i due termini non vi fosse antitesi – si è sovrapposto al governo; il Comitato dei soldati e degli operai comanda al governo e al Soviet: l’anarchia trionfa… Perché dunque una rivoluzione contro la rivoluzione? […] perché Kerensky e Brusiloff fanno riprendere la guerra e battere i tedeschi. D’onde questa inazione logica: il disfattismo non mirava alla caduta dell’autocratico regime czarista, ma al trionfo della

130

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Innocenzo Cappa, Vorrei parlare di Lenin e della intelligenza, “Il Mondo”, 22 luglio 1917.

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Germania! Un’ultima estrema concessione. Si ammetta che Lenin o i disfattisti russi siano partigiani di una teoria pazzesca e socialmente criminosa, ma siano purissimi e rettissimi nei loro moventi. La loro follia si può spiegare colla storia e colle condizioni della Russia. Il dispotismo vi ha imperversato da secoli, le persecuzioni, i martiri, le soppressioni innumerevoli hanno esasperato gli animi; la miseria e l’analfabetismo vi hanno creato l’ambiente più opportuno per l’efflorescenza delle più pazzesche teorie: la propaganda dell’infausto tolstoismo ha aiutato le loro genesi e le ha circonfuse e rese attraenti col profumo dell’arte.

Queste spiegazioni, queste attenuanti potevano valere per il disfattismo russo, ma non per quello italiano. Entrambi, comunque, facevano solo il bene del militarismo austro- tedesco131. Cappa rispose blandamente, sostenendo che le intemperanze nel giudicare Lenin erano frutto momentaneo della lotta politica, e che solo il tempo, e la storia che in esso scruta, avrebbero potuto dare un parere equanime132. Nella seconda metà di luglio si svolse a Parigi una Conferenza dei paesi dell’Intesa. Era una riunione di routine, ma assumeva valore per la presenza della nuova Russia rivoluzionaria. Il parere dei repubblicani sul ruolo che svolgeva, e che avrebbe dovuto svolgere in futuro, il grande paese slavo, era contraddittorio. Molto positiva era la visione che ne usciva dalle pagine de “L’Iniziativa”. Vi si diceva che tutte le sue realizzazioni sociali, istituzionali e ora belliche, “gli da[vano] il diritto di richiedere da ogni governo alleato una più chiara manifestazione di aspirazioni e di propositi” 133.

131 Napoleone Colajanni, Dal disfattismo russo al socialismo italiano, “Il Messaggero”, 5 agosto 1917. Concetti simili, seppure svolti in forma più succinta, anche su “RP”, Il tradimento di Lenin, 31 luglio 1917, pp. 272-273. Vedi inoltre Il socialismo italiano contro il socialismo internazionale, “Giornale di Sicilia”, 26-27 settembre 1917 e “Roma”, 27-28 settembre 1917. Per il peso della penetrazione tedesca in Russia, Napoleone Colajanni, Il dominio dei tedeschi in Russia, “Giornale di Sicilia”, 2-3 giugno 1917. Critico con Cappa (Dove attinge i milioni Lenin, “Etruria Nuova”, 12 agosto 1917), Colajanni polemizzò in quel torno di tempo anche con Rappoport, un socialista russo esule a Parigi, che aveva difeso Lenin, giudicando in malafede chi lo aveva accusato di essere un traditore. Anche per lui, come per Cappa, Lenin era solo un folle idealista. Inoltre, il russo aveva stabilito un’analogia tra il 1848 in Francia e il 1917 in Russia. La differenza, però, gli rispose Colajanni, era che la Francia allora non era in guerra, mentre la Russia oggi sì. 132 Innocenzo Cappa, Passa l’ombra grottesca dello czar, “Il Mondo”, 23 settembre 1917, e Dopo la caduta di Riga e la caduta di Malvy, ibid., 9 settembre 1917. 133 Girondin [Alfredo De Donno], La Conferenza di Parigi, “L’Iniziativa”, 21 luglio 1917.

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Per “Il Pensiero Romagnolo”, invece, l’Italia doveva assumere il ruolo di difensore dei popoli slavi, già della Russia134. Colajanni si interessò della situazione balcanica alla luce degli ultimi eventi, oggetto specifico dell’incontro parigino. In un articolo legava la soluzione del problema balcanico alla rivoluzione russa, ricordando i passati timori per l’espansione dei paesi slavi verso l’Est. Per parte mia, – scriveva – memore delle profonde osservazioni e delle previsioni di Giuseppe Mazzini sulla funzione degli Slavi residenti nella penisola balcanica, non mi allarmai dello sviluppo panslavistico e guardando più ai pericoli reali del presente che a quelli probabili del futuro sin dal giorno del convegno di Stupinigi, segnalai l’importanza dell’alleanza dell’Italia colla Russia come correttivo poderoso contro l’ambizione e la prepotenza dell’Austria-Ungheria, la nostra nemica irreconciliabile. […] Colla rivoluzione russa lo spettro del Panslavismo si è dileguato come una tenue nebbia, che appannava la visione del futuro, e il mutamento di giudizio si fonda sia per la politica adottata dai socialisti al governo provvisorio, che di Costantinopoli e di altre conquiste non vogliono saperne; sia sul disgregamento che sembra imminente dell’antico Impero degli Czars, che ne ridurrà a proporzioni assai discrete la potenza all’estero135.

La soluzione che Colajanni caldeggiava per contrastare l’Austria-Ungheria e la Germania, una volta che fosse scomparso il Panslavismo, era la creazione di forti Stati nazionali indipendenti. Le conclusioni della Conferenza furono, però, deludenti per i repubblicani. Non era stato affrontato con la dovuta attenzione un problema, quello degli Stretti, che pure il governo russo aveva dimostrato di voler risolvere con buona volontà. In chiusura, perciò, si incitavano le potenze dell’Intesa a darsi un programma positivo, e non solo negativo, di guerra136.

134

Sentimento e onore, “Il Pensiero Romagnolo”, 28 luglio 1917. Napoleone Colajanni, Il problema balcanico. Mazzini e i socialisti, “Giornale di Sicilia”, 8-9 maggio 1917; Id., Per la Boemia indipendente, “Giornale di Sicilia”, 28-29 luglio 1917 e “Roma”, 29-30 luglio 1917. La soluzione auspicata era una repubblica federale con capitale Costantinopoli. Noi, La repubblica federale sola soluzione del problema balcanico, “RP”, 31 luglio 1917, pp. 263-264. Colajanni aveva riproposto le tesi mazziniane in Il pensiero di Giuseppe Mazzini sulla politica balcanica e sull’avvenire degli Slavi, “RP”, 15 febbraio 1915, poi raccolto in opuscolo con lo stesso titolo, coed. Editrice Libreria Moderna e RP, Roma 1915. 136 Girondin [Alfredo De Donno], La sfinge diplomatica a Parigi, “L’Iniziativa”, 4 agosto 1917. 135

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Nel giudizio sulla rivoluzione, il tema della terra e della sua distribuzione era già stato toccato, per ultimo da Cappa, che lo giudicava preminente. Vi ritornava anche “La Libertà”, illustrando le decisioni del governo provvisorio e del Congresso dei contadini. La sostanza del problema era rappresentata, ovviamente, dalla questione della proprietà della terra, che veniva però rimandata alla Costituente. Veniva, inoltre, data rilevanza alla costituzione di un “Comitato Esecutivo dei Consigli dei deputati contadini, che fa da riscontro al Comitato degli operai e soldati (Soviet)”. Infine si esprimevano delle valutazioni: è prematuro dire in quale forma il contadino russo avrà il possesso della terra; ma tutto lascia credere che – seguendo il cammino intrapreso – la Rivoluzione eliminerà ogni ingerenza dello Stato, lasciando ai Comitati agrari locali la distribuzione del lavoro. Un largo federalismo economico farà riscontro al federalismo politico che si preconizza come la più probabile costituzione statale della Russia: il potere – suddiviso in una quantità di organismi amministrativi e tecnici – avrà minori caratteristiche d’oppressione ed un carattere più benigno.

Rimaneva, comunque, che, il fatto di riserbare l’uso e i prodotti d’un territorio immenso come quello della Russia a coloro soltanto che applicheranno ad esso il proprio lavoro, costituirà un avvenimento di capitale importanza e senza precedenti nella storia moderna. Le conseguenze di questo avvenimento saranno immense in tutto il mondo137.

La pace era un tema centrale nella riflessione dei repubblicani. Già da qualche mese il timore che la Russia accettasse una pace a qualsiasi condizione, avanzava nelle fila repubblicane. Di solito si reagiva con rinnovati slanci di fiducia, ben consci della gravità del gesto russo, che avrebbe liberato molte armate austro-tedesche per

137 La guerra rivoluzionaria. Operai e contadini, ricordate!, “La Libertà”, 11 agosto 1917. In testa vi era pubblicato un manifesto di De Ambris, che poneva il motto “La terra ai contadini” quale unica parola d’ordine per una rivoluzione mondiale.

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il fronte italiano. Ma dopo la fallita offensiva di luglio si capì in maniera più chiara che la Russia, nella migliore delle ipotesi, era incapace di iniziative. E il tema della pace si riaffacciò. In settembre esplose la questione: l’avanzata della Germania in territorio russo veniva assunta, in vari articoli, quale prova che la guerra doveva continuare, giacché null’altro avrebbe fermato il nemico, se non la sconfitta138. Verso l’inizio di settembre gli eventi presero un’accelerazione. L’incertezza circa la conclusione delle vicende si ripercosse sui giornali. Vennero rievocati episodi e figure del movimento rivoluzionario russo, un po’ per stabilire un contatto ideale tra quello e Mazzini, un po’ per fissare qualche certezza139. Gli sconfortanti risultati bellici sul fronte russo non lasciavano dubbi. I tedeschi avanzavano, anche Riga cadeva nelle loro mani. Le accuse principali per questi eventi erano rivolte a Lenin140, responsabile di aver prolungato la guerra di un anno141. Alla marea montante contraria alla Russia si opponeva qualche voce, che però, come nel caso di Riego, non trovava niente di meglio che rispolverare temi già esposti mesi prima: la confusione era lo scotto, neanche troppo grave, del grandioso evento rivoluzionario142. Ma i tempi erano ormai passati per queste analisi se, su “Il Pensiero Romagnolo”, un anonimo articolista polemizzava coi socialisti, solo perché avevano osato paragonare l’Italia alla Russia143.

138 Come la Russia, no!, cit.; «Saremo implacabili», “La Libertà”, 8 settembre 1917; Perché la guerra continua, “Etruria Nuova”, 9 settembre 1917; Innocenzo Cappa, Illusioni pericolose, ivi. Già alla fine di luglio, la “Rivista” aveva attaccato l’idealismo portatore di nefaste conseguenze, insito nell’affermazione della pace senza annessioni. Pietro Pegoraro, Perché la pace possa durare, “RP”, 31 luglio 1917, p. 275. 139 Mario Pertusio, Un precursore della repubblica in Russia, “L’Iniziativa”, 25 agosto 1917; Faber [Armando Casalini?], Il movimento rivoluzionario, ibid., 22 settembre 1917. 140 Verso un’altra disillusione, “La Sveglia Repubblicana”, 15 settembre 1917; I disfattisti alla gogna, cit.; Editoriale non titolato né firmato, “Il Pensiero Romagnolo”, 6 ottobre 1917; I fratelli tedeschi, ivi. 141 Il leninismo ha prolungato la guerra di un anno, “La Libertà”, 15 settembre 1917. Vedi anche I regali del leninismo al popolo italiano, ibid., 10 novembre 1917. L’accusa veniva estesa a tutta la Russia in Come la Russia, no!, “Il Pensiero Romagnolo”, 8 settembre 1917 e in Napoleone Colajanni, Il dovere e la necessità della resistenza, “Roma”, 8-9 novembre 1917 e “Giornale di Sicilia”, 9-10 novembre 1917. 142 Riego, Al cader delle foglie, “Il Pensiero Romagnolo”, 13 ottobre 1917. 143 La Russia e l’Italia sono “due” grandi paesi…, “Il Pensiero Romagnolo”, 27 ottobre 1917.

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1917-1918: La rivoluzione e l’interventismo

Il grande tradimento russo Tra la fine di ottobre e i primi di novembre del 1917, accaddero due eventi di portata storica: Caporetto e la rivoluzione d’Ottobre. Caporetto, in particolar modo, significò il mutare, talvolta radicale, delle convinzioni che avevano mosso gli italiani fino allora144. La guerra arrivava sul suolo patrio, metteva per la prima volta in discussione la stessa sopravvivenza della nazione. Anche i repubblicani, sia pur in forma non accentuata, furono partecipi del movimento. Mutava perciò anche il loro modo di interpretare gli eventi internazionali, come la rivoluzione d’ottobre, e poi la pace di Brest-Litovsk. In essi videro essenzialmente i riflessi interni, le conseguenze per il nostro paese. Poche le analisi della situazione legate all’ambiente in cui i fatti si svolgevano. Oltre a ciò, il clima di Caporetto consigliò il nuovo Presidente del Consiglio, Orlando, a mettere un ulteriore bavaglio alla stampa, intervenendo con la censura in modo ancor più pronunciato, per evitare il diffondersi di notizie potenzialmente deprimenti per la pubblica opinione145. È possibile riscontrare, in questo periodo, sulla stampa repubblicana, argomenti propri dell’interventismo e che solo latamente riguardano la nostra ricerca. Così la pubblicazione del patto di Londra146 o la sfiducia nei confronti della volontà popolare147. Anche l’antisocialismo dei repubblicani assunse una coloritura diversa, più accesa. L’accusa non era più quella di tramare indirettamente contro l’Italia, non avversando la Germania, bensì, appoggiando la ri-

144 Per una ricostruzione dell’impatto sul mondo interventista, a cui apparteneva in modo convinto il PRI, Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 362-418. 145 Colajanni approvò senz’altro queste decisioni di Orlando, attaccando i socialisti che le criticavano e che tramavano per la disfatta del paese. Napoleone Colajanni, I limiti della libertà, “Roma”, 29-30 ottobre 1917 e “Giornale di Sicilia”, 30-31 ottobre 1917. 146 Gli eroi della vigliaccheria e le loro gesta – Il sole… dell’avvenire, “Il Pensiero Romagnolo”, 8 dicembre 1917, e Lenine e Clemenceau, “La Libertà”, 8 giugno 1918. Simili le posizioni di Mussolini: Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 400. 147 “Ma gli interventisti di sinistra erano, oltre che ossessionati dall’incubo del tradimento, del sabotaggio e dello spionaggio, pervasi da una profondissima e radicale sfiducia nella maturità civile e politica degli italiani. Qui, a nostro avviso, va ricercato il nodo drammatico di Caporetto e degli avvenimenti successivi che portarono l’interventismo democratico e rivoluzionario ad una rapida involuzione o alla propria vanificazione. Invece di concedere fiducia al popolo italiano […] l’interventismo di sinistra, illuministicamente convinto di essere l’unica forza matura e consapevole del paese, scelse la via del pugno di ferro”. Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 374-375. La preparazione dei “Soviet” italiani, “La Sveglia Repubblicana”, 4 maggio 1918 e Innocenzo Cappa, Kerensky, “Il Mondo”, 19 maggio 1918.

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voluzione bolscevica, di sottoscrivere l’atto attraverso il quale gli Imperi Centrali avevano potuto liberare le forze necessarie a sfondare il fronte italiano148. Proprio sul bolscevismo del PSI scoppiò una polemica francamente pretestuosa e bollata come frutto di “ingenuità” da parte di Colajanni. Era avvenuto infatti che De Donno, su “L’Iniziativa”, avesse chiesto ai socialisti di prendere posizione chiara nei confronti del leninismo149. L’“Avanti!” non s’era fatto pregare due volte e aveva reso immediata confessione di leninismo. Ciò era bastato a scatenare lo sdegno dei repubblicani150. La polemica, come detto, fu chiusa, in modo perentorio, da Colajanni151. Ma in sostanza ogni passo fatto dai bolscevichi veniva rinfacciato ai socialisti italiani, ritenuti, da allora in poi, e per loro stessa ammissione, corresponsabili delle azioni bolsceviche. L’altro evento che caratterizzò il periodo fu, come detto la presa del potere da parte dei bolscevichi. La prima notizia della rivoluzione, fu data da “L’Iniziativa” del 10 novembre, senza commenti e immersa in un duro attacco ai socialisti152. I primi rilievi si appuntarono sul fatto, peraltro falso, che i capi bolscevichi, dietro i loro pseudonimi, avevano in realtà cognomi tedeschi153; ma toccarono anche i valori più

148 Il leninismo italiano senza maschera, “L’Iniziativa”, 10 novembre 1917; La Rivista, I socialisti italiani e la concordia nazionale, “RP”, 30 novembre 1917, pp. 424-428; Gli eroi della vigliaccheria e le loro gesta – Il sole…dell’avvenire, “Il Pensiero Romagnolo”, 8 dicembre 1917. Già da luglio, Colajanni aveva sostenuto questa tesi. La Rivista, La minaccia della guerra civile, “RP”, 15 luglio 1917, pp. 246-247 e Napoleone Colajanni, Il contributo nord – americano nella guerra, “Giornale di Sicilia”, 19-20 luglio 1917. Un esempio dell’antisocialismo del Colajanni pre-Caporetto è nella lettera indirizzata a Gian Luca Zanetti, direttore de “La Sera”, nel settembre, nella quale, tra le varie condizioni per una sua collaborazione al giornale, egli chiedeva “se posso attaccare liberamente i socialisti, che credo i più pericolosi nemici d’Italia”. Lettera di Colajanni a Zanetti, 27 settembre 1917, cit. nell’interessante studio di Barbara Boneschi, Gian Luca Zanetti dall’avvocatura al giornalismo e all’editoria, FrancoAngeli, Milano 2012, p. 77, ma vedi anche pp. 78-80. Ringrazio Barbara Boneschi per avermi messo cortesemente a disposizione il materiale riguardante Colajanni contenuto nell’archivio Zanetti. 149 Girondin [Alfredo De Donno], Armistizi leninisti, “L’Iniziativa”, 15 dicembre 1917. 150 G., L’“Avanti” si dichiara leninista, ibid., 29 dicembre 1917; Dichiarazioni ufficiali di leninismo, “La Libertà”, 5 gennaio 1918; Quale pace vuole l’“Avanti!”?, “L’Iniziativa”, 12 gennaio 1918. 151 Lo Zotico, Lenin, “RP”, 15 gennaio 1918, pp. 9-10; Napoleone Colajanni, L’opera dei leninisti in Russia e in Italia, “Il Messaggero”, 22 gennaio 1918 e “Giornale di Sicilia”, 22-23 gennaio 1918. 152 Il leninismo italiano senza maschera, “L’Iniziativa”, 10 novembre 1917. 153 Tutti d’origine tedesca, “La Libertà”, 1 dicembre 1917; Faber [Armando Casalini?], La catastrofe russa e le sue cause, “L’Iniziativa”, 2 dicembre 1917.

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propri del movimento repubblicano, quali la libertà d’espressione e i diritti civili, stigmatizzandone la limitazione che ne avevano fatto i massimalisti154. Il primo commento organico alla rivoluzione bolscevica, da parte repubblicana, fu di Colajanni sul “Roma” del 16 novembre. In esso, per la verità, egli ripeteva per lo più analisi già formulate in passato. Il suo primo bersaglio, infatti, era Tolstoi, che, col suo pacifismo, col suo apoftegma della “non resistenza al male”, aveva influenzato in modo disastroso i russi155. Il secondo bersaglio era il “disfattismo”. Colajanni sosteneva che non era più la disfatta dello Czarismo che si perseguiva, ma la disfatta della Russia. Gli apologisti di Lenine e di Trotsky che agisce in suo nome, obbiettano che i loro ideali non si limitano all’abolizione del regime dispotico interno; ma sono più vasti, più alti: hanno per obbiettivo l’umanità. Essi vogliono la pace; essi vogliono la libertà di tutti i popoli, l’abolizione della patria perché la esistenza della patria e del sentimento nazionale è la generatrice della guerra maledetta. Si potrebbe pienamente ammettere la sincerità di tali convinzioni e trattarle come sfrenate, disastrose ed irrealizzabili utopie, se tutto ciò che si fa per realizzarle non creasse una intrinseca contraddizione e non riuscisse alle finalità opposte a quelle, che si vorrebbero raggiungere. Colla rivoluzione ultima si crede servire la causa della pace e si prolunga la guerra; la guerra immane attuale sarebbe già finita senza il tradimento cosciente preparato dai Protopopoff e dagli organi dello Czarismo. Si disonora la Russia e si rende impossibile la sua esistenza; non si disarma la Germania e se ne accresce la potenza offensiva. […] Questo contrasto spaventevole fra i fini che si perseguono e i risultati che si ottengono, può sfuggire alla mente incolta e agli spiriti fanatizzati della maggioranza degli operai e dei soldati del Soviet; non si riesce a comprendere come possano non avvertirlo i dottissimi come Lenin; non si comprende come non si av-

154 “Socialismo” sinonimo di “Reazione”, “La Libertà”, 1 dicembre 1917; Gli eroi della vigliaccheria e le loro gesta – Il sole…dell’avvenire, “Il Pensiero Romagnolo”, 8 dicembre 1917; La pace dei leninisti, “La Sveglia Repubblicana”, 8 dicembre 1917; Girondin [Alfredo De Donno], Armistizi leninisti, “L’Iniziativa”, 15 dicembre 1917; “Socialismo” sinonimo di “Reazione” – La ghigliottina in Russia, “La Libertà”, 15 dicembre 1917; Continua l’esperimento, “Il Pensiero Romagnolo”, 26 gennaio 1918. 155 Contro lo scrittore russo, Colajanni aveva scritto Il misticismo anarchico di Tolstoi, ed. RP, Roma 1907.

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vedano che se il “disfattismo” poté abbattere lo Czarismo in Russia, lo stesso “disfattismo” dovrebbe valere ad abbattere il non meno detestabile Kaiserismo in Germania. Ora tutta l’azione dei rivoluzionari russi assicura la vittoria e non la disfatta degli eserciti tedeschi. (Censura)

La tolstoiana “non resistenza al male” contraddetta dai leninisti in danno della Russia ed in favore della Germania ha trovato una disastrosa applicazione nello stesso ex Impero degli Czars, in sostanza pare inspirata alla massima suddetta tutta la condotta di Kerensky, che in Europa, anzi nel mondo civile, tutti abbiamo ammirato. Egli ha visto il male, ma non ha saputo o voluto ricorrere alla resistenza, perdendosi in una inverosimile contraddizione, che del male sino a questo momento ha assicurato la prevalenza almeno a Pietrogrado oggi e domani forse a Mosca e nel resto della Russia156.

Per “L’Iniziativa” la mancanza di coscienza nazionale costituiva il motivo principale del trionfo massimalista. La svalutazione della Russia era evidente, essa regrediva a paese incivile e primitivo. In questo quadro, l’unico elemento di coesione era dato dall’assolutismo, che era stato altresì elemento contrastante l’espansione tedesca. Per questo la Germania aveva consentito ai fuoriusciti (come Lenin) di passare sul suo territorio. Ma ce n’era appena bisogno. Tolta la compressa assolutista il mosaico russo s’è scomposto colla violenza dell’impulso centrifugo proprio ai corpi celesti in dissoluzione. Mai cementate da alcun elemento né ideale, né materiale (né cultura, né strade, né ferrovie sufficienti, né comuni interessi industriali o commerciali esistevano in Russia) le parti dissimili (cento sono le diverse nazionalità componenti la Russia) formanti il paese, lievitate dall’azione tedesca si sono precipitosamente dissolte. In sostanza siamo di fronte ad un paese primitivo che la guerra ed i contatti anticipati e sproporzionati colla civiltà, stanno dissolvendo.

156 Napoleone Colajanni, La rivoluzione russa, “Roma”, 16-17 novembre 1917. Per chiarire meglio il suo pensiero su Kerenskij, Colajanni riportava, infine, un breve articolo apparso su “Il Corriere della Sera”, nel quale lo si criticava aspramente per la sua irresolutezza, causa rilevante del successo leninista.

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Una tale situazione veniva dai socialisti definita il massimo del progresso, della evoluzione proletaria! Proprio loro […] ci vengono a celebrare successi di una povera massa di mugik incolti ubriacati dagli agenti tedeschi in un paese a capitalismo appena incipiente! […] Con tutto ciò la Russia non è morta. Lenin e il suo governo di traditori passeranno, la Russia resterà e forse potrà riscattarsi. Può darsi che dall’eccesso del male venga la reazione del bene. Può darsi che l’armistizio (che di fatto poi esisteva da diversi mesi) leninista sia la frustata che fa sorgere ed agire i buoni elementi rimasti. La convocazione della Costituente può riservare delle sorprese. Se Pietrogrado oramai sgombra di popolazione civile è facilmente dominabile dai soldati (soldati per modo di dire) del Soviet, Mosca vero cuore della Russia può, assieme alle provincie ricostituire le forze sane del paese. Può darsi anche che il caos regni sovrano ancora per diverso tempo, finché le regioni staccate, le parti disperse nell’improvviso crollo, una volta rifatta nella più modesta unità una libera coscienza, sentano il bisogno di riunirsi per lavorare assieme allo sviluppo della pur significativa civiltà slava e della sua non inutile rivoluzione157.

Con il passare dei giorni non mutò il giudizio di Colajanni, durissimo e privo di illusioni. I massimalisti proseguivano, per lui, l’opera di tradimento dello zar, perfezionandola: I massimalisti sono già riusciti a distruggere la Russia come Stato; vogliono distrugge [sic] anche ogni traccia di società civile. Hanno abolito l’esercito, hanno abolito i Tribunali, hanno liberato i delinquenti, hanno abolito è [sic] debiti contratti dallo Stato coll’estero; aboliranno quelli coll’interno, hanno saccheggiato le Banche ed hanno ristabilito il regno della Vodka… Tutto questo hanno operato colla violenza più sfacciata, che si è sfrenata anche contro vecchi rivoluzionari che rispondono ai nomi di Kropotkine, di Pleskanoff. Ora stanno consumando la massima delle violenze: impediscono la riunione della Costituente! È la violenza di pochi che non rappresentano i 180 milioni dell’ex Impero russo; ma i milioni di servi e di vigliacchi non contano quando

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Faber [Armando Casalini?], La catastrofe russa e le sue cause, “L’Iniziativa”, 2 dicembre

1917.

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tolstoianamente si rassegnano o si sottomettono alle decine di enorgumeni [sic], che hanno la decisa volontà di agire e d’imporsi. È [sic] per imporsi più sicuramente pare che Trotzki abbia ristabilito la pena di morte. Qualcuno spera ancora nei Cosacchi, in Kaledine, in Korniloff, in Kerensky… Noi non speriamo più. La putrefazione di questo vasto organismo politico-sociale certamente avrà le sue ripercussioni future su tutta l’Europa; e non saranno tutte ripercussioni dannose. A noi interessa il presente; e oggi pur troppo il trionfo dell’anarchia russa ha permesso l’invasione dell’Italia e il trionfo del militarismo austro-bulgaro-turco-germanico presso i rispettivi popoli, nella speranza, nella illusione che il brigantaggio degli Imperi Centrali riesca ad imporre la pace germanica al mondo civile158.

Quasi subito, però, l’attenzione dei repubblicani fu attirata dalla dichiarazione per una pace democratica dei bolscevichi del 7 novembre e dalle trattative immediatamente intavolate con le potenze centrali che portarono all’armistizio di Brest-Litovsk del 15 dicembre. Già prima della stipulazione del trattato venne criticata la scelta di rompere con le nazioni democratiche per un trattato con quelle “feudali”. Senza volere entrare nel merito dei metodi illiberali con cui un uomo guidava un paese contro la maggioranza, era l’egoismo di Lenin nei confronti dei paesi sottomessi alla Germania e all’Austria che andava condannato.159 Per chi professava l’internazionalismo, non era accusa di poco conto. Tuttavia la speranza era ancora quella di una rapida redenzione: “La vittoria della nostra causa ci libererà di ogni tirannia e dinastica e classista: delle due tirannidi che oggi vediamo così cinicamente alleate”160. Il più agguerrito dei commentatori anti bolscevichi fu, ancora una volta, Colajanni. Firmato l’armistizio, la pace slittava e qualcuno si fa-

158 Noi, Il grande tradimento russo, “RP”, 15 dicembre 1917, p. 443. Vedi anche Noi, Dalla concordia all’apologia del disfattismo, ibid., pp. 441-442. Già dal luglio, Colajanni aveva sostenuto che appoggiare la rivoluzione bolscevica significava sottoscrivere l’atto che avrebbe potuto liberare le forze necessarie a rompere il fronte. La Rivista, La minaccia della guerra civile, “RP”, 15 luglio 1917, pp. 246-247 e Napoleone Colajanni, Il contributo nord – americano nella guerra, “Giornale di Sicilia”, 19-20 luglio 1917. Successivamente, aveva collegato il ritiro russo alla sconfitta italiana: Noi, Il doloroso indietreggiamento dell’esercito italiano, “RP”, 31 ottobre 1917, p. 380. 159 Anche Il diritto dei popoli a disporre di se stessi, “L’Iniziativa”, 12 gennaio 1918, metteva l’accento sull’aspetto morale, o immorale, della vicenda. 160 La pace dei leninisti, “La Sveglia Repubblicana”, 8 dicembre 1917.

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ceva delle illusioni sulla rottura delle trattative. Non Colajanni: “I Russi finiranno coll’accettare tutto: il disonore e il disastro materiale”161. Anche Wilson, che pure aveva avuto in quei giorni parole tenere nei confronti dei bolscevichi, lo avrebbe fatto solo per preparare il terreno ad un cambiamento di politica nei confronti della Russia. Scegliendo dalla stampa internazionale i commenti dei rivoluzionari russi, esclusi dal processo rivoluzionario, egli attaccava la rivoluzione sul suo terreno. Questa non era solo un capovolgimento delle alleanze belliche, ma anche lo stravolgimento del pensiero rivoluzionario russo. Altra ossessione di Colajanni, era l’adesione dei socialisti italiani al bolscevismo, nella quale egli vedeva “la preparazione cosciente di un nuovo Caporetto”. Se il tradimento dei disfattisti russi era in fondo comprensibile, stante l’arretratezza del paese, a causa del lungo potere zarista, le stesse giustificazioni non valevano per i socialisti italiani162. In questi mesi andava, così, definitivamente maturando la svolta “nazionalista” di Colajanni, il quale tuttavia non portava con sé l’intero partito, essendo egli, per scelta e per carattere, un solitario. Per ora la sua posizione e quella del partito erano appena discoste, essendo più che altro una questione di sfumature. Solo a dicembre 1918, all’epoca del Convegno di Firenze, il contrasto sarebbe emerso con evidenza. In marzo, “Etruria Nuova” non esitava a reclamare il ritorno degli Zar, in un’ottica di interesse nazionale: è troppo facile la passeggiata sino a Pietrogrado, perché il militarismo tedesco vi rinunci ora che l’ha cominciata. E giunga a Pietrogrado! E vi ristabilisca lo Zar! Non sono degni di vivere in libertà i popoli che, dopo averla strappata al loro tiranno, non sanno difendella [sic] dai ti-

161

La Rivista, Per la pace giusta e umana, “RP”, 15 gennaio 1918, pp. 5-7. Questi temi si trovano ripetuti in tutti i numerosi articoli che egli scrisse in quei mesi: Napoleone Colajanni, L’opera dei leninisti in Russia e in Italia, “Il Messaggero”, 22 gennaio 1918; id., Le conseguenze del tradimento russo, “Roma”, 28-29 gennaio 1918; La Rivista, L’ultima mistificazione dei socialisti italiani, “RP”, 31 gennaio 1918, pp. 27-29; Noi, Gli agenti tedeschi in maschera di socialisti italiani e russi, “RP”, 15 febbraio 1918, pp. 46-47; id., Il perfezionamento del tradimento russo e la preparazione cosciente di un nuovo Caporetto, “RP”, 28 febbraio 1918, pp. 61-62; Napoleone Colajanni, Il tradimento russo, “Roma”, 28 febbraio– 1 marzo 1918 e “Giornale di Sicilia”, 1-2 marzo 1918; id., Gli iloti contemporanei, “Il Messaggero”, 11 marzo 1918; id., I difensori del tradimento russo, “Giornale di Sicilia”, 21-22 marzo 1918 e “Roma”, 22-23 marzo 1918; id., I socialisti italiani si ravvedono?, “Roma”, 2728 marzo 1918. Anche alla Camera disse cose analoghe, Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, Legislatura XXIV, pp. 15964-15967, seduta del 21 febbraio 1918. 162

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ranni stranieri. E se anche un Ramanoff [sic] qualunque prende il posto di Lenin, non ne risulterà peggiorata la nostra situazione politica o militare163.

Non mancava chi, invece, sottolineava come le trattative di pace avessero smascherato, una volta per tutte, l’imperialismo tedesco e che perciò gli stessi bolscevichi se ne sarebbero ritratti164. O chi metteva l’accento sul fatto che, una volta smantellato l’esercito, i russi erano ormai costretti a trattare, mentre avrebbero dovuto mantenerlo in piena efficienza, per ottenere condizioni migliori165. Le proposte di pace di Lloyd George e di Wilson vennero prospettate ai russi come piattaforma negoziale per le trattative. In caso di rifiuto, si sarebbe dimostrata la loro mala fede166. Il 3 marzo 1918 venne firmata la pace di Brest-Litovsk tra la Russia e le Potenze Centrali167. Si trattava di un trattato durissimo, che privò la Russia di una larga e fertile parte del suo territorio, che le impose gravose condizioni economiche, e che rese disponibili anche molte forze, che gli Imperi centrali potevano ora spostare sul fronte occidentale. Questo fu l’aspetto che venne privilegiato nelle analisi repubblicane. Colajanni, in particolare, non modificava certamente le sue opinioni negative sulla rivoluzione168, ma, soprattutto, incolpava le condizioni sociali del popolo russo. Questo grande disastro – scriveva il deputato repubblicano – in cui tutto è perduto, sopratutto [sic] l’onore, è stato reso possibile dal lungo e brutale dominio dello czarismo, che fece scendere la Russia all’ultimo gradino dell’abbiezione. […] Un popolo disceso a tale grado di abbie-

163 Che il socialismo fosse un trucco prussiano?, “Etruria Nuova”, 10 marzo 1918. Il dubbio del titolo era venuto anche a Agostino Lanzillo, Da Bolo a Lenine, “RP”, 28 febbraio 1918, pp. 69-71. 164 La maschera è caduta, “Il Popolano”, 26 gennaio 1918. Stesse premesse, ma conclusioni opposte, in Enrico Bacchiani, Contro l’offensiva pacifista, “Il Lucifero”, 13 gennaio 1918. 165 Le trattative di Brest-Litowk [sic], “L’Iniziativa”, 12 [sic, 19] gennaio 1918; Rassegna di politica estera ed interna, “Il Popolano”, 23 febbraio 1918. 166 Lloyd George e Wilson, “Il Lucifero”, 13 gennaio 1918; Innocenzo Cappa, All’amico Raimondo: che ne dici di Brest Litowsk?, “Il Mondo”, 13 gennaio 1918. Cappa aggiungeva: “Ma non affrettiamoci a disonorare la sesta parte dell’umanità per le colpe e le illusioni, le codarde diserzioni e gli audaci idealismi di un collettivismo anarchico che la spada tedesca presto forse spegnerà”. In tal modo si tirava fuori dal coro contro il popolo russo. 167 La ricostruzione delle trattative in Edward H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 19171923, Einaudi, Torino 1964, pp. 817-838. 168 Giuseppe Mazzini commemorato da Colajanni, “Roma”, 11-12 marzo 1918.

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zione può soltanto aver fatto la rivoluzione cui abbiamo assistito. Noi siamo tra coloro che non credono alla morte dei popoli e crediamo nella loro rinascita. Ma in Russia, pensiamo, che questa avverrà tra molti decenni.

Della sua durezza verso la Russia, dava, poi, questa giustificazione: Incrudelire nei giudizi contro la Russia, che subisce la più spaventevole sventura che possa subire una nazione potrebbe sembrare mancanza di generosità; anzi vera codardia. Ma quando in un paese ci sono degli svergognati, pazzi o traditori che incitano le masse sofferenti e analfabete ad imitare gli avvenimenti tragici che si sono svolti e continuano a svolgersi nell’ex Impero degli Czar è assolutamente necessario, doveroso, mettere alla gogna gli attori e i fattori di quella orrenda tragedia169.

La ricostituzione di un forte stato russo era peraltro necessaria per impedire l’espansione dei tedeschi in Asia, oltre che dell’integralismo cattolico e musulmano170. La nuova situazione creatasi con la pace spingeva qualcuno a chiedere, “senza che ce lo impediscano vaghi idealismi, o remote speranze d’ipotetici ravvedimenti […] d’intervenire con la prontezza e l’energia che saranno necessarie”. Anche se si riconosceva lo stato deprimente del paese, lo si collegava all’“ossessione delirante e vile di tutto un popolo”, cioè al desiderio di pace171. C’è da chiedersi dove fosse finito Mazzini in tutto questo corrusco agitarsi di armi. Da questo momento le notizie e i commenti dei repubblicani tesero, da una parte a rilevare il progressivo asservimento economico della Russia alla Germania, col governo bolscevico compiacente172; dall’altra a presentare foschi quadri di fame e carestia, più come monito per even-

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La Rivista, Ancora del tradimento russo, “RP”, 15 marzo 1918, pp. 81-84. Napoleone Colajanni, Salviamo la Russia!?, “Il Messaggero”, 23 maggio 1918. Id., Ancora del tradimento russo, “Roma”, 16-17 maggio 1918 e “Giornale di Sicilia”, 17-18 maggio 1918; La Rivista, I fasti dei traditori russi, “RP”, 31 maggio 1918, pp. 189-191; Napoleone Colajanni, La Russia tra la tirannide leninista e la tirannide tedesca, “Roma”, 2-3 agosto 1918. 171 M.T., La pace ad ogni costo, “Il Popolano”, 23 marzo 1918. 172 L’ignominia di Brest-Litowek [sic], “Il Popolano”, 8 giugno 1918. “La necessità di un’economia che le dia maggiori valori di quella che essa produceva prima, è così impellente per la Russia che appunto a questo scopo – esprimendoci figurativamente – la Russia fece, né più né meno, che una grandiosa rivoluzione. Può essa per accontentare i tedeschi, rinunciare a quello che le è indispensabile come l’aria?”. 170

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tuali imitatori, come aveva scritto Colajanni, che per umana pietà verso il popolo russo173. Una voce inattesa in difesa della Russia si levò dalla Puglia, dal direttore di “Humanitas”, l’avvocato Piero Delfino Pesce: Noi abbiamo assistito, – scriveva – con stupore e rammarico, alle valanghe di retoriche imprecazioni contro la Russia che ha reagito alla guerra come essa poteva, e non certo a beneficio della Germania: la Rivoluzione Russa e la pace fittizia che ne è derivata hanno posto la Germania in condizione di presidiare tutta la Russia, e non bastano a tanto né tutto l’esercito né tutto il popolo tedesco, o di arretrarsi prudentemente, e trascinarsi seco per ogni passo indietro un passo avanti della Nuova Russia, che è quanto dire un colpo di piccone alla saldezza dell’Impero174.

La figura di Lenin fu oggetto di un’attenzione specifica notevole. Se le accuse di essere al soldo della Germania erano scontate175, non mancarono tuttavia analisi più approfondite. Di grande interesse è senz’altro il paragone che Piero Delfino Pesce instaurò tra Hindenburg, Wilson e Lenin, rappresentanti ognuno di uno specifico mondo di valori. Ma se il primo era solo l’ombra di un passato belluino, erano gli altri due ad essere i veri contendenti. Di Lenin non dava un giudizio molto positivo: Vedete: abbiamo rimesso nelle quinte Kerensky, intelligente colto abile vivace, e contempliamo Lenine opaco sognatore. Ci dicono che Trotsky valga dieci Lenine: forte, quadrato di temperamento e di ingegno, insuperabile organizzatore. Non importa: egli non rappresenta per ciò il popolo russo, in questo momento176.

173 Le glorie massimaliste, “Lucifero”, 12 maggio 1918; Notizie politiche – La piovra tedesca in Russia – Lenin vede fosco e Bartzef accusa, “La Libertà”, 18 maggio 1918. 174 Piero Delfino Pesce, La virtù difensiva, “Humanitas”, 9-16 giugno 1918, p. 113. 175 Ad esempio Luciano De Nardis, La Rivoluzione e l’Ombra, “Il Pensiero Romagnolo”, 16 marzo 1918. 176 Piero Delfino Pesce, Hindenburg – Wilson – Lenine, “Humanitas”, 16 dicembre 1917, p. 393. Pesce fu uno dei primi a stabilire questo legame tra il presidente americano e il leader bolscevico, sia pur frapponendo ancora il feldmaresciallo prussiano.

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Tramontato Kerensky, si tendeva a ricreare un dualismo con Trockij, sia pure con apparente disinganno. Quella di presentare quest’ultimo in termini positivi, quando non entusiastici, per contrapporlo a Lenin, sarebbe divenuto un luogo comune177. Diversa era la presentazione di Wilson, un professore di diritto pronto a recitare la sua parte nel momento attuale, con evidenti analogie ideali con Mazzini. E comunque “[è] necessario che Wilson vinca perché l’Altro possa vivere, l’Altro, Lenine. […] Non crediate che il contrario di Wilson sia Hindenburg: Hindenburg è l’ombra, l’ombra del passato, che cammina; Lenin è vivo, e procede”. Durante le trattative russo-tedesche, i delegati russi erano stati dipinti quali “ingenui fanciulli”. Pesce riprendeva quella definizione, per rovesciarne il significato: «Fanciulli»: precisamente; ma vivi e che dovranno crescere, magari simbolicamente, perché, se li sopprimerete, saranno sostituiti da tanti, tanti altri: i russi sono molti, e moltissimi i russi fuori della Russia. […] Wilson, ci sembra, […] ha trovato il modo, con la dignità del maturo, di assicurare i fanciulli russi di tutta la sua considerazione.

Ma, nonostante tutto, il loro sarebbe stato lo scontro decisivo. Grave sarà la lotta, e le membra tenere dei fanciulli, dei fanciulli che hanno creduto di potere anteporre, con ingenuo naturale egoismo, la tutela della loro vita, della loro vita novella, agli impegni protocollari dei padri, saranno contristate nel sangue. Corre ad essi l’obbligo di vibrare all’idra, spontaneamente o in necessaria risposta, il colpo mortale. Non mai la Germania ha errato così fondamentalmente come quando ha barato la partita rivoluzionaria al popolo russo. Siamo ottimisti ma esatti: la Russia imperiale era un peso di piombo al piede dell’Intesa; la Germania ne la ha liberata legando al suo piede la palla di piombo della

177 Si cercò, in un primo momento di accreditare un dualismo Lenin – Trockij, ma poi anche quest’ultimo venne legato al primo nel giudizio negativo. “L’Iniziativa”, circa il suo modo di portare avanti le trattative di pace coi tedeschi, gli riconosceva grandezza nel bene o nel male: “Se Troski è deciso a resistere […] rivela una nuova diplomazia, se è un traditore rivela un genio malefico” (Le trattative di Brest-Litowk [sic], “L’Iniziativa”, 12 [sic, 19] gennaio 1918). Ma anche lui fu coinvolto nella polemica con i socialisti, i quali tentavano di farlo passare per antitedesco, e divenne bersaglio di un articolo molto critico: Trockij vi era definito “il glorificatore, da degno socialista, della ghigliottina”; e il suo comportamento durante le trattative “prima equivoco e poi ributtante” (Note ed appunti – Trotzky, “Lucifero”, 10 febbraio 1918).

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Russia ribelle. O la Germania lascerà che si installi al suo confine, allegramente, questo fomite di infezione ultrademocratica, e il suo mondo è finito; o dovrà avvelenarne la esistenza, e l’imbelle nemico di ieri sarà il formidabile nemico di domani. Troppo si affrettano le altre potenze di Europa a volere ricostituita la Polonia, finzione nazionale: attendano, per umana carità, ancora per poco! E badino alle proprie direttive. Per la Germania rappresenta un sicuro pericolo la Russia, ma anche per tutte le altre crazie [sic]; rappresentano un grave pericolo tutti i russi che sono fuori la Russia per tutti i tedeschi che sono fuori la Germania.

Questa equanimità di giudizio non conduceva però Pesce a rivedere il giudizio complessivo su Lenin: Lenine non trionferà; noi non esageriamo: non trionfano i sognatori […]. Nella costruzione sociale di Lenine sono troppi errori teoretici che costituiscono altrettante debolezze pratiche. Ma è nel sogno di Lenine un così largo sostrato di esigenze reali che l’opera sua, per falsa che sia, non potrà essere vana. E a questi «fanciulli» incombe ancora una più ardua funzione: quella di esperimentare una per una, di saggiare una per una alla prova del fuoco della attuazione, perché bruci o si affermi, le forme pratiche traducenti in concreto la loro dottrina. Arduo e difficile compito, assai più arduo e terribile che fermare oltre la frontiera il più formidabile nemico. E, noi lo sappiamo, alcune di quelle forme, sono vane ed inique più di qualunque altra già superata. Ma è necessario [che] l’esperimento si compia, forse perché è necessario [che] il nuovo elemento che si affaccia alla storia riesperimenti a sua spese ciò che fu già molto vecchio, tanto vecchio da sembrare nuovissimo. La età più avanzata degli altri popoli rispetto al russo consigli loro di approntarsi a fare buon profitto della generosissima scuola. Se trascureranno di farlo è assai probabile [che] a un più crudo esperimento diretto essi siano chiamati assai più presto che essi non credano178.

A Colajanni però sembrava troppo tenue l’epiteto di utopista per Lenin. Egli perciò precisava la sua accusa di tradimento a Lenin:

178

Piero Delfino Pesce, Hindenburg – Wilson – Lenine, “Humanitas”, 16 dicembre 1917,

p. 393.

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Ma sia pur esso un furibondo utopista anziché un traditore cessa perciò di essere infame, gigantescamente infame quest’opera sua? Il pazzo ch’è dominato dalla passione omicida non suscita timore ed orrore? Non si sente il bisogno di difendersi contro di lui, di eliminarlo? Non ci difendiamo come meglio possiamo contro il cane idrofobo? Ora quale più scellerato e pericoloso pazzo di questo Lenin, che conduce la Russia al tradimento contro i suoi alleati, che intrapresero la guerra più spaventevole per assisterla e difenderla dall’Austria e dalla Germania? […] L’assenza di scrupoli di Lenin, che accetta la protezione dei briganti austro-germanici; che tratta la pace con coloro che ne hanno straziato la patria; che per amore di pace prolunga la guerra; che per la passione della giustizia non rifugge dal tradimento; che per la passione dell’uguaglianza riduce tutti i propri concittadini al comune denominatore dell’anarchia, della miseria, della servitù allo straniero, dell’abbiezione, non può che suscitare disprezzo ed odio inestinguibili. Non ci possono essere che i socialisti italiani a difenderlo, ad ammirarlo. Gli uomini singoli ammazzano i cani arrabbiati, le società organizzate rinchiudono nei manicomi criminali gli assassini pazzi. Ma, pur troppo, la società delle nazioni civili non ha mezzi per sopprimere questi pazzi scelleratissimi della Russia, che sono divenuti gli alleati dei più grandi e feroci briganti che la storia rammenta179.

La teoria del pazzo non convinceva “La Sveglia Repubblicana”. Se fosse stato un semplice “matto fuggito dal manicomio”, non si sarebbe spiegato il seguito che egli aveva sulle masse. “Perciò – concludeva l’articolo – è bene che venga dall’oriente la lezione di un esperimento compiuto”, e che il fallimento di un regime che “ha negato certi valori morali e sentimentali che per noi costituiscono la base dell’etica sociale; che sono elementi di giustizia e di progresso, e perciò inscindibili da ogni sistemazione politica”, fosse completo180. Il Convegno Nazionale di Firenze L’ultima estate di guerra fu segnata dal dibattito sull’intervento dell’Intesa in Russia e da quello provocato dalla presentazione del programma sociale da parte del segretario Casalini.

179 180

Lo Zotico, Lenin, “RP”, 15 gennaio 1918, pp. 9-10. Grassetto nell’originale. Quel caro Lenin, “La Sveglia Repubblicana”, 2 marzo 1918.

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Le notizie che arrivavano dalla Russia facevano illudere i repubblicani e le difficoltà dei bolscevichi venivano raffigurate come lo stadio terminale del leninismo. Ma la Russia era una repubblica e le forze che le si opponevano erano, invece, monarchiche: come risolvere la contraddizione? Noi non possiamo esaltarci semplicemente per la discesa celeste di un regime repubblicano, – rispondeva “L’Iniziativa” del 6 luglio – quando essa, per le circostanze contingenti, non sembri utile ad una nazione che, o non lo ha chiesto, o non lo attendeva; ciò nonostante riteniamo che la parte migliore del popolo russo si è già chiaramente manifestata per il regime repubblicano […]. Se una restaurazione czarista, modificata profondamente da influenze democratiche, ridarà alla Russia ordine, dignità, indipendenza, libertà e pane, Lenin è responsabile della rinascita del principio monarchico nella terra da lui voluta follemente matura per il comunismo pseudomarxista. Con la scorta degli avvenimenti riteniamo che per ridare vita a questo immenso corpo martoriato sia proprio necessario un punto d’appoggio cui facciano capo tutte le forze rivoluzionarie antimassimaliste; e se questo punto d’appoggio deve essere un trono democratico e costituzionale, emanazione della Costituente, onore a lui181. L’immagine che usciva della Russia era comunque quella di una terra in preda a fosche contorsioni, dominata da personaggi poco meno che diabolici e che avevano venduto non l’anima, ma il proprio paese all’invasore tedesco182. L’attacco al bolscevismo veniva mosso, però, anche sul piano dei valori rivoluzionari. Per “La Sveglia Repubblicana”, infatti, Lenin non solo non rappresentava un nemico della borghesia, specialmente di quella tedesca, ma ne costituiva un prezioso alleato. Questo perché, dopo la firma del trattato di pace, al Lenin idealista era subentrato uno scaltro politico privo di

181

Resurrezione russa?, “L’Iniziativa”, 6 luglio 1918. Lenine nuovo czar, “La Libertà”, 6 luglio 1918; Mirbach, Lenin et C., “La Libertà”, 13 luglio 1918; A.L.P., Il Governo dei Soviets, “Il Dovere” di Livorno, 14 luglio 1918; Noi, Il caos russo. Speranze fallaci. Ripresentazioni imprudenti, “RP”, 15 luglio 1918, p. 243; Napoleone Colajanni, La Russia tra la tirannide leninista e la tirannide tedesca, “Roma”, 2-3 agosto 1918; Notizie ed altro – I bolsceviki, “La Libertà”, 20 luglio 1918; Riego, Salviamo la Russia, “Il Pensiero Romagnolo”, 21 luglio 1918; La Rivista, Nell’orrendo caos russo, “RP”, 15-31 agosto 1918, pp. 286290; Noi, In Russia, ibid., pp. 328-330; Le peripezie dei Leninisti. Germania ragionatrice e ladra, “La Libertà”, 17 agosto 1918; Lo sforbiciatore, Leggendo i giornali…, “Il Pensiero Romagnolo”, 24 agosto 1918; Notizie ed altro – Le gesta dei bolscevicki – Il seguito di Lenin – L’incognita russa, “La Libertà”, 24 agosto 1918; Lenin & C, “La Sveglia Repubblicana”, 31 agosto 1918 (lo stesso articolo, con meno tagli della censura, fu ripubblicato da “La Libertà” del 7 settembre 1918); Dalle battaglie di Francia alle rivolte di Russia, “Il Popolano”, 7 settembre 1918. 182

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scrupoli. Se prima aveva negato la guerra, ora riarmava l’esercito. Se prima aveva teorizzato l’eguaglianza economica, ora il popolo “muore di fame molto meglio che sotto gli czar. Ma il fenomeno più curioso è nel campo della libertà, che è il tema più importante e delicato d’ogni altro”. Il “diritto alla rivoluzione” su cui Lenin aveva tanto insistito, si era rivelato un diritto limitato ai bolscevichi. Per gli altri c’era la fucilazione. “Perciò la Germania nulla può temere di contagio e sovvertimento dal governo di Lenin che riabilita ogni più fosca reazione e disonora ogni più audace democrazia. Nessuno vorrebbe essere suddito di un bolscevismo così ridicolo e così crudele. Nemmeno… i tedeschi”183. Sullo stesso tema si cimentò anche Faber [Casalini?], su “L’Iniziativa”. Secondo l’autore “il bolchevismo ha una struttura logica che in sé è perfetta e come tale affascina la mentalità popolare russa in questo momento. E [sic] assurdo ma… è logico. È in una parola il marxismo applicato alla lettera all’infuori di ogni considerazione storica e sociale”. I bolscevichi avevano combattuto quindi la borghesia e la guerra borghese, ma non tutta la borghesia, solo quella distante, che non poteva nuocergli. Quella tedesca, vicina e potente, no. Esso era poi andato oltre: “L’eccesso della lotta di classe va a vantaggio della borghesia”. Che era oggi quella tedesca, domani quella russa184. Anche l’antisocialismo di quei mesi si sostanziò di questi argomenti. Si accusava il PSI di essere ipocrita a lamentarsi della scarsa libertà di cui godeva in Italia, per poi propugnare un regime liberticida185. Alla mala fede, inoltre, si accoppiava l’ignoranza: i socialisti volevano i Soviet, e non sapevano neanche cosa fossero186. Roberto Mirabelli, più filosoficamente, li attaccava per aver scisso il concetto di Patria da quello di Umanità187. Ma l’accusa più comune era quella di coprire, con ogni sorta di menzogna, Lenin e il suo governo diretta emanazione della Germania, vale a dire dei nemici dell’Italia188, per cui, all’epoca dell’intervento dell’Intesa in Russia, inevitabilmente ci si trovò su posizioni opposte189.

183

Il bolscevismo, “La Sveglia Repubblicana”, 13 luglio 1918. Faber [Armando Casalini?], I bolscevichi e la borghesia, “L’Iniziativa”, 14 settembre 1918. 185 Contrasti paradossali ed eloquenti, “La Libertà”, 10 agosto 1918; Il bolscevismo, “La Sveglia Repubblicana”, 13 luglio 1918. 186 A.L.P., Il Governo dei Soviets, “Il Dovere” di Livorno, 14 luglio 1918. 187 Roberto Mirabelli, Nazionalismo e internazionalismo, “Roma”, 15-16 agosto 1918. 188 Per esempio Resurrezione russa?, “L’Iniziativa”, 6 luglio 1918; Lenin & C, cit.; I degni successori di Lenin, “La Sveglia Repubblicana”, 7 settembre 1918. 189 Noi, I disfattisti italiani alla difesa dei disfattisti russi, “RP”, 15 luglio 1918, p. 242; L’esperimento di Stato socialista e l’intervento dell’Intesa, “La Libertà”, 3 agosto 1918. 184

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Altro argomento che interessò la stampa fu quello della sorte dello zar. Le prime notizie si diffusero in Italia verso la fine di luglio, dapprima in forma dubitativa, come tutto ciò che arrivava dalla Russia, e che faceva esclamare a Colajanni di non credere a più niente che arrivasse da laggiù, poi con maggiori dettagli. L’uccisione dello zar diede naturalmente lo spunto ad alcune riflessioni più generali sulla rivoluzione. Secondo “L’Iniziativa” lo zar era stato ucciso per paura. Era la paura, infatti, il sentimento dominante in Russia, da un lato come dall’altro. Ed era oltremodo indicativo che, a distanza di un anno e mezzo dalla caduta pacifica dello zar, fosse tornata la paura di un suo ritorno al potere. Di ciò, soprattutto, si doveva ritenere responsabile Lenin, di aver fatto risorgere la “religione dello zar”190. Proprio lo sviluppo cronologico della vicenda, il lungo tempo intercorso dall’arresto dello zar alla sua soppressione, faceva esprimere un severo giudizio a Colajanni191 e ad Argilio De Roberto192. Dal che, quest’ultimo faceva derivare che la rivoluzione russa era “stata una rivolta di schiavi, […] una rivolta di galeotti”, coinvolgendo nel giudizio negativo l’intero popolo russo. Non mancarono, tuttavia, voci diverse. Per “La Libertà”, non erano tanto i bolscevichi da criticare, quanto la pochezza morale e intellettuale dello zar193. Per Ulderico Mazzolani c’era stato “raramente un giudizio sereno ed obbiettivo del tragico episodio, che si inquadra perfettamente nel tumultuario e confuso aggrovigliarsi di eventi, che accompagna la laboriosa gestazione di una Russia nuova”194. E’ interessante notare che, in questo articolo, Mazzolani, come aveva già fatto Colajanni195, contrapponeva la Rivoluzione russa a quella francese, in polemica risposta ai socialisti, che avevano accostato la morte di Luigi XVI a quella di Nicola II. Una contrapposizione questa, che avrà molta fortuna nella sinistra democratica europea.

190

Perché è stato ucciso l’ex Zar?, “L’Iniziativa”, 27 luglio 1918. “L’ex Czar non è o non era una persona che poteva suscitare simpatie; nemmeno quella pietà che egli non sentì mai per gli altri. In ogni modo la rivoluzione leninista lo avrebbe soppresso in modo da trasformare in volgare assassinio quello, che avrebbe dovuto essere giusta, meritata punizione”. Noi, È stato fucilato lo Czar? I leninisti per la Germania?, “RP”, 31 luglio 1918, p. 259. 192 “Lo czar ucciso subito, appena rovesciato il suo governo, sarebbe stato un eccesso, ma un eccesso conseguenziale, che avrebbe potuto sembrar giustizia di popolo; ucciso adesso à [sic] tutto l’aspetto, […] anzi la sostanza di un eccesso brigantesco: un assassinio”. Argilio De Roberto, Degenerazione, “La Libertà”, 24 agosto 1918. 193 La fucilazione dell’ex- czar, “La Libertà”, 3 agosto 1918. 194 u.[lderico] m.[azzolani], Lenin e la rivoluzione, “La Libertà”, 10 agosto 1918. 195 Noi, È stato fucilato lo Czar? I leninisti per la Germania?, “RP”, 31 luglio 1918, p. 259. 191

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Ma il tema che più coinvolgeva i repubblicani era quello dell’intervento in Russia. Si fronteggiavano due diverse argomentazioni: l’autodeterminazione dei popoli e il “diritto di intervento contro i violatori del diritto riconosciuto”, secondo la formula, per la verità un po’ astratta, del programma del Convegno di Firenze. Proprio perciò si insistette molto, negli articoli dedicati a questo argomento, sulla volontà negata del popolo russo, sulla Costituente soppressa, sulla Duma imbavagliata196. Se i socialisti criticavano il tentativo borghese di soffocare nel sangue l’esperimento socialista, Colajanni ed altri insistevano che in Russia non c’era nessun esperimento socialista, citando a supporto, come sempre faceva il vecchio repubblicano, fonti della parte avversa197. Si doveva, inoltre, impedire che i tedeschi penetrassero ancor più profondamente in Russia, impossessandosi delle sue immense risorse, grazie alle quali avrebbero potuto stabilire un dominio illimitato198. Ma c’era anche chi, come Mazzolani, si indignava per la resistenza dei bolscevichi all’Intesa, che certamente non era pari a quella opposta alla Germania199; o chi esaltava l’opera liberatrice e civilizzatrice dell’Intesa200. Il problema si era posto già alla fine di luglio, quando le notizie sulle difficoltà dei bolscevichi, anche di carattere militare, erano numerose sui giornali italiani. Il punto, secondo “L’Iniziativa”, non era quello di far cadere i bolscevichi. Per l’Intesa, infatti, i problemi non si sarebbero affatto risolti. Se la Germania aveva avuto, per un certo periodo, interesse a disorganizzare la Russia, ora essa la voleva organizzata per poterla sfruttare meglio. “Sicché la Germania non ha fretta a far cadere i bolscevichi che la servono – coscienti o no – magnificamente, approfitterà però della loro caduta per ristabilire una forte monarchia militare che si muova sotto la sua diretta tutela”. L’Intesa

196 Soprattutto Colajanni insistette su questo punto in tutti gli articoli scritti in questo periodo. Uno per tutti: Napoleone Colajanni, Le ragioni dell’intervento in Russia, “Roma”, 7-8 agosto 1918. 197 Noi, I disfattisti italiani alla difesa dei disfattisti russi, “RP”, 15 luglio 1918, p. 242; ma vedi anche L’esperimento socialista e l’intervento dell’Intesa, “La Libertà”, 3 agosto 1918. 198 Riego, Salviamo la Russia, “Il Pensiero Romagnolo”, 21 luglio 1918; Notizie ed altro – I bolsceviki, cit.; La penetrazione germanica in Russia, “La Libertà”, 13 luglio 1918. 199 u.[lderico] m.[azzolani], Lenin e la rivoluzione, ibid., 10 agosto 1918; Le peripezie dei Leninisti. Germania ragionatrice e ladra, ibid., 17 agosto 1918. 200 Argilio De Roberto, Degenerazione, ibid., 24 agosto 1918; Mario Pistocchi, Per la redenzione di un popolo, “Il Pensiero Romagnolo”, 14 settembre 1918. Un accenno alle posizione del PRI, invero ingeneroso verso le molteplici posizioni dei repubblicani, è in Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana, cit., p. 74.

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non aveva seriamente considerato il problema, e aveva proposto soluzioni poco adeguate, quali l’intervento del Giappone 201. Questo non sembrava affatto il più adatto a liberare la Russia dall’anarchia tedesco-leninista. […] Ci pare che il problema sia stato posto con caratteri esclusivamente militari. Si è cioè visto soltanto la possibilità o meno di una forte operazione militare dimenticando che il problema è essenzialmente politico. Non si tratta tanto di portare in Russia degli eserciti quanto di suscitarvi e organizzarvi le forze indigene capaci sia di rovesciare il governo attuale quanto di sostituirlo con uno degno della Russia e dell’Intesa202.

Pur partendo da premesse opposte, anche Giuseppe Cester arrivava a simili conclusioni. Per lui, infatti, la fine del leninismo era una iattura per la Germania che avrebbe dovuto muovere molte truppe su quel fronte per tenere sotto controllo il paese. Ma sull’intervento era senz’altro d’accordo con “L’Iniziativa”: La controrivoluzione è in marcia. – scriveva su “Il Pensiero Romagnolo” – Guai all’Intesa se con atti intempestivi e pericolosi, come sarebbe quello dell’intervento – specialmente poi se l’incaricato è l’amico Mikado – avesse a fermare questo promettente risveglio della gente di Russia. […] Dalle nevi dell’anno 1916-1917 è sbocciata la prima rivoluzione: il freddo, la miseria e la fame del 1918-1919 potrebbero sotto le nevi essere fermento di una nuova grande e decisiva rivoluzione che farebbe ritornare a noi, volontariamente la Russia, gettando sulla bilancia della guerra tutto il suo malcontento e tutta la delusione provata. […] Reprimiamo quindi gli impulsi dei nostri cuori agitati che vorrebbero scaraventare contro la Russia traditrice la rabbia e la furia dei cannoni dell’Intesa, conteniamo puranche i sentimenti di pietà che potrebbero torturarci per la sua sorte

201 Da mesi anche la stampa repubblicana utilizzava questo argomento, soprattutto Colajanni. Per esempio: Noi, L’intervento militare del Giappone, “RP”, 15 marzo 1918, p. 88; Napoleone Colajanni, Salviamo la Russia!?, “Il Messaggero”, 23 maggio 1918; La Rivista, I fasti dei traditori russi, “RP”, 31 maggio 1918, pp. 189-191; Napoleone Colajanni, Come salvare la Russia?, “La Sera”, 4-5 giugno 1918. Sull’intervento del Giappone in Russia, vedi Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana, cit., pp. 67-68 e 76 e segg. 202 L’Intesa e il problema russo, “L’Iniziativa”, 29 giugno 1918. Il corsivo è nel testo. Anche Schiavetti, faceva un simile auspicio: La Conferenza Schiavetti al Politeama Livornese, “Il Dovere” di Livorno, 7 agosto 1918.

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disgraziata e poiché siamo nati nel paese di Macchiavelli professiamo un po’ l’arte astuta del celebre fiorentino203.

Il capofila degli “interventisti” fu, come sempre, Colajanni. La sua posizione nei confronti della Russia, com’era venuta maturandosi nei mesi trascorsi, non lasciava d’altra parte adito al minimo dubbio. Egli scartava senz’altro ogni altra forma d’intervento, quale ad esempio l’aiuto economico, che sarebbe stato una follia, nei confronti di un paese che aveva abolito il proprio debito pubblico verso i paesi dell’Intesa, derubando la Francia di ben diciotto miliardi. Un tale intervento, poi, avrebbe avuto come solo effetto di rinforzare i bolscevichi, proprio ciò che si voleva evitare. In conclusione – scriveva Colajanni – il solo intervento utile per l’Intesa e che potrà riuscire utile anche alla Russia non poteva essere e non è stato che quello militare. Questo intervento può riuscire utile alla Russia, liberandola dalla pressione tedesca e cancellando il trattato che le è stato imposto dalla Germania e che gli stessi leninisti hanno dichiarato disonorante e schiacciante. Tale intervento, infine, non potrà mai imporre o favorire una restaurazione reazionaria, cui si negherebbero Italia, Francia e Inghilterra, che viene esclusa dalle esplicite dichiarazioni del Giappone, e che sarebbe impedita dalla prevalente autorità del governo di Wilson. Esso non potrebbe riuscire che a garantire la libera volontà del popolo russo di darsi quel governo che più gli aggradi, senza subire quello che è imposto o dai cannoni tedeschi o dalle mitragliatrici dei leninisti204.

Una sintesi ideale dell’analisi repubblicana sulla Russia, in questo periodo, è rappresentata da un articolo apparso su “L’Iniziativa” a firma Faber. A quanti credevano che la rivoluzione russa fosse morta, egli diceva esplicitamente che non hanno capito un’acca di quel che va succedendo in Russia. […] È lecito credere – proseguiva Faber – che la rivoluzione russa sopravviva

203 Giuseppe Cester, E’ opportuno un immediato nostro intervento in Russia?, “Il Pensiero Romagnolo”, 24 agosto 1918. 204 Napoleone Colajanni, Le ragioni dell’intervento in Russia, “Roma”, 7-8 agosto 1918; La Rivista, Nell’orrendo caos russo, “RP”, 15-31 agosto 1918, pp. 286-290; Noi, In Russia, ibid., pp. 328-330.

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al leninismo, che di essa è solo un aspetto degenerativo. La rivoluzione russa, si badi, non è non [sic] solo nel terrore bolchevico, ma nemmeno nelle pazze misure di carattere socialista estremo finora proclamate più che applicate. La rivoluzione ha però un carattere sociale che negare è semplicemente puerile. Le misure da essa finora stabilite vanno presa [sic] come indici, non come realizzazioni.

Su questo piano, infatti, la rivoluzione non poteva che fallire, data l’assenza di una classe matura a gestirla, come era stata la borghesia in Francia. Tuttavia la rivoluzione c’era stata e “l’idea sociale che è come il centro ideologico della grande rivoluzione rimarrà e maturerà i suoi frutti non solo in Russia ma in tutto il mondo”. Proprio l’incomprensione di ciò, aveva portato l’Intesa a giudicare male la rivoluzione, facendosi troppe illusioni circa la sua tenuta bellica. Inoltre, con più senno si sarebbero date maggiori responsabilità, per ciò che stava accadendo, allo zarismo, piuttosto che al bolscevismo. Né crediamo che le diverse esigue e mal preparate spedizioni militari lanciate leggermente da diversi punti possano risolvere il problema. […] Data l’incapacità cronica della diplomazia non vediamo altro rimedio al male russo all’infuori di quello che potrà sorgere dal popolo che questi mali sopporta colla tradizionale pazienza. Intanto è bene che coloro i quali videro nella guerra l’acceleramento della idea sociale, e questa speranza conservano ferma checché avvenga, non si prestino alle interessate diffamazioni della Rivoluzione russa che vive e vivrà a dispetto dei suoi necrofori e onta della orrenda parentesi bolscevica205.

Siamo ormai quasi al superamento del legame rivoluzione-guerra, in cui dapprima la rivoluzione era vista come un portato necessario della guerra, perciò detta rivoluzionaria, secondo l’interpretazione che ne avevano dato gli interventisti democratici; e poi soppesata in relazione al suo valore bellico, alla qualità delle sue iniziative militari. L’invito poi a non schierarsi con i detrattori della rivoluzione, per non dare appoggio ad operazioni reazionarie mascherate, preludeva al dibattito che nel partito andava nascendo, e che avrebbe avuto pieno svolgimento nei mesi successivi.

205 Faber [Armando Casalini?], La rivoluzione russa e la guerra, “L’Iniziativa”, 24 agosto 1918. Corsivi nell’originale.

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Nel corso del 1918 il partito, fino allora poco vivo, riprese la sua attività206. Esso si era fuso completamente nel movimento interventista, rinunciando ad ogni iniziativa autonoma. Comunque, alla fine di aprile la Commissione Centrale aveva deciso di iniziare una vasta consultazione tra gli iscritti, in vista del Convegno Nazionale, che la Direzione avrebbe potuto convocare “nel momento che essa crede più opportuno”207. In questo dibattito la componente storica era ben rappresentata da Felice De Cicco che, non a caso, intitolò uno dei suoi articoli sull’argomento Rinnovarsi o sparire, richiamando il celebre monito di Giovanni Bovio. Per De Cicco, e per i vecchi repubblicani, si doveva tornare agli ideali antichi, abbandonati per la lotta politica per il potere208. Anche Conti intervenne, affrontando il tema della rivoluzione: Che cosa avverrà domani nella vita sociale del paese? [...] Gli operai delle industrie e i contadini, gli artigiani, e in genere, gli impossidenti, che mangiano il pane «al sudore della loro fronte», come vuole il Vangelo, reclameranno la loro parte di proprietà, di beni materiali, la loro parte di mezzi per una vita non più misera o stentata, per una vita materiale migliore. [...] Il giorno in cui la grande moltitudine affermerà i suoi diritti e si accingerà a farli valere, quel giorno avremo una grande divisione nel campo politico e sociale. Vi saranno conservatori; conservatori più tenaci e remissivi, ciechi e «illuminati»; vi saranno riformisti e ne costituiranno il grosso i democratici, i radicali, i timidi, i falsi, gli ingenui e i furbi; vi saranno rivoluzionari di molte gradazioni e di molte scuole209.

206 Un esempio del dibattito in seno al partito è il poco noto progetto di fusione tra il PRI e l’Unione Socialista Nazionale, uno dei tanti gruppi nati per rappresentare un socialismo attento ai valori nazionali. La storia andò avanti per mesi, con un serrato dibattito su “L’Iniziativa”, alimentato dallo stesso giornale, che arrivò ad intervistare in prima pagina Paolo Mantica, segretario della neonata formazione. In tutto questo tempo la posizione di Casalini fu piuttosto ambigua, anche se traspariva una certa simpatia per il progetto. 207 P.R.I., “Etruria Nuova”, 28 aprile 1918. 208 Felice De Cicco, Rinnovarsi o sparire, “Lucifero”, 21 aprile 1918. Dalle stesse colonne gli rispose Casalini, dicendogli che il semplice richiamo agli ideali non rappresentava un programma politico. Su De Cicco cfr. le pagine che gli dedica Bruno Ficcadenti, Il Partito Mazziniano Italiano, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa – Roma 1999, pp. 131-140 e passim. 209 g.c., Prima del programma, “L’Iniziativa”, 4 maggio 1918, da cui sono tratte anche le citazioni seguenti. Conti intervenne nel dibattito sul programma del partito con altri articoli, di cui dà conto Alessandro Spinelli, L’ideale e il metodo, cit. pp. 19-20.

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I tempi nuovi avrebbero cambiato anche gli obiettivi, mettendo inevitabilmente i partiti di fronte a ciò che avevano propugnato fino allora: Le affermazioni e le pretese rivoluzionarie predominanti saranno non più quelle generiche e verbali, che abbiamo udito, e profferito anche noi per tanti anni: emancipazione operaia, riforme o rivoluzione; eguaglianza e libertà, popolo sovrano e simili, ma quest’altre: espropriazione del capitalismo terriero e industriale; la terra ai contadini; le industrie agli operai, il governo al popolo.

Una volta prefigurata la realtà futura, Conti passava ad analizzare il ruolo del PRI in tale contesto: Or bene, di fronte a tale probabile e facilmente prevedibile stato di cose quale sarà l’atteggiamento dei repubblicani d’Italia, seguaci di Mazzini, di Ferrari, di Bovio? Saranno essi, forse, con la corrente conservatrice? Si può dire che neppure il più sconclusionato dei nostri ex oserebbe di pronunciare cotale argomento. Saranno essi con la corrente dei timidi, dei furbi, dei falsi, di coloro che scaveranno di sotterra tanti «ma», tanti «se», tante «condizioni», tante «sospensive», tanta prudenza, tanto accorgimento da superare, negli effetti, lo stesso conservatorismo più risoluto? Questa corrente proclamerà bensì ancora la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza: declamerà sui diritti popolari, ma si preoccuperà tanto della «maturità» del popolo, della mancanza di «una coscienza popolare», della necessità preminente di far comprendere al popolo i suoi doveri, da render meno retriva, al confronto, la parola di molti, che si classificheranno onestamente retrogradi o moderati.

E con questo, Conti aveva già previsto molto del dibattito interno al PRI, per non parlare di scelte ancora più gravi che di lì a poco alcuni si trovarono a fare (viene in mente il nome di Cappa, ma non solo lui, ovviamente). La novità dei tempi, dunque, seguiti alla guerra doveva responsabilizzare tutti al fine di evitare inutili declamazioni per “prendere posizione e agire”. Conti, con molta finezza, richiamava Mazzini, ricordandone l’assenza di paura nei confronti del popolo.

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Sentiamo di dover far nostra la causa del Popolo; di dover lottare, soffrire e magari soccombere, ma non esitare o tradire.

La pace sociale era, per Conti, alla base di un futuro senza guerre e conflitti di ogni genere, e andava raggiunta eliminando le ragioni della ineguaglianza, come sosteneva citando ancora una volta Mazzini. A questo punto, prima di ogni cenno concreto sul programma e sul metodo di azione sociale, io sento dirmi: Sta bene, questa è la nostra vecchia fede, e non ci smentiremo, ma ammetteremo noi gli eccessi, le pretese assurde, le violenze del Popolo? A queste domande, ci sembra che si debba rispondere: Gli eccessi, le pretese assurde, le violenze non ci faranno mai rinnegare la giustizia. Ci porremmo, se rinnegassimo, tra coloro i quali «pur distruggendo un principio vogliono rifiutarne le conseguenze, o rivelando un principio vogliono rivelarne le conseguenze». Sarebbe inutile formulare programmi e accingersi alla lotta. La forza di un partito sta nella sua logica e nella sua fermezza.

L’importante articolo di Conti preannunciava la polemica tra Colajanni e Ghisleri su quel che Mazzini avrebbe pensato della rivoluzione russa e delle sue conseguenze, e metteva l’accento sulle responsabilità del partito di fronte alle parole rivoluzionarie da questo tante volte espresse. Di grande interesse è anche la polemica tra Pietro Nenni e Guido Bergamo, scoppiata sulle pagine de “Il Pensiero Romagnolo”. Lo scontro, peraltro non personale, poiché i due erano ottimi amici, verteva sulla funzione del partito, sul suo ruolo nella società dopo la guerra. Per Bergamo la contrapposizione era tra chi privilegiava ideali alti alla politica corrente, e chi invece era tutto preso dalla quotidianità. Se in passato si era ecceduto nel primo atteggiamento, oggi, e Nenni ne era un esempio, si eccedeva nel secondo. Tener fede ai propri ideali ed ai destini giusti e liberi dell’Umanità; studiare e decidere alla luce di tale norma, il caso per caso; accolta di uomini che discutono senza odi e senza piccoli pregiudizi; ridere del plauso della massa lavorando per l’umanità; e specialmente far migliori noi stessi per far migliori gli altri: questo saremo domani.

Ma era soprattutto sulla valutazione della guerra che i due divergevano. Per Bergamo “la guerra non ha idealmente creato nulla di nuovo,

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ha solamente acuito fino allo spasimo la necessità di tradurre in realtà i nostri idealismi con ogni mezzo e tentando per tutte le vie” 210. Radicalmente diverso era il parere di Nenni, secondo cui la guerra e la rivoluzione russa avevano sconvolto il mondo, tanto che nulla poteva essere come prima. Anche la sua idea di partito differiva: Io ho fede che, in pochi o in molti che siamo, sapremo costituire davvero un partito d’azione, un partito non una setta un’accolta di uomini che studiano e che non giurano sulle formule, che credono nella vita e non nei fantasmi, che amano il loro paese e che in premio del loro amore non gli offrono qualche facile negazione, ma vigile e sana operosità in tutti i campi211.

Anche Silvio Armellini, direttore de “Il Pensiero Romagnolo” intervenne, schierandosi dalla parte di Bergamo, ma aggiungendo che la guerra non aveva cambiato nulla per chi, da essa, traeva conferma delle proprie convinzioni212. Armellini e Nenni rappresentano bene le due tendenze estreme presenti nel PRI. Anzi, quella di Nenni appare già una posizione ai margini del movimento repubblicano, più simile al combattentismo213. Non si poteva

210 Guido B.[ergamo], Ancora delle pregiudiziali, “Il Pensiero Romagnolo”, 5 ottobre 1918. La polemica era iniziata con un precedente articolo di Bergamo: E le pregiudiziali?, ibid., 14 settembre 1918. 211 Pietro Nenni, Per la nostra azione di domani, “Il Pensiero Romagnolo”, 28 settembre 1918. 212 Pietro Nenni, Per la nostra azione di domani, ibid., 12 ottobre 1918, replica di Silvio Armellini. La polemica proseguì con altri due articoli pubblicati da “Il Pensiero Romagnolo” il 26 ottobre e il 2 novembre. Inoltre, Nenni tornò sulle stesse argomentazioni in un articolo per “L’Iniziativa” del 23 novembre 1918, La mia crisi spirituale. Nenni ricordò anni dopo questa polemica in Cose vissute [1942-43] in Idem, Vent’anni di fascismo, Edizioni Avanti!, Milano 1965, p. 200. Una ricostruzione puntuale della polemica è in Elio Santarelli, I rapporti del repubblicano Pietro Nenni coi forlivesi e una polemica sul “Pensiero Romagnolo”, “Archivio Trimestrale” n. 2, aprile-giugno 1980, pp. 351-367. Su questa polemica, giustamente vista come uno dei primi sintomi dell’uscita di Nenni dal PRI, Enzo Santarelli, Nenni, UTET, Torino 1988, pp. 42-44; id., Nenni dal repubblicanesimo al socialismo (1908-1921). Contributo ad una biografia, “Studi Storici” n. 4, 1973, pp. 886-887, ora in id., Movimento operaio e rivoluzione socialista. Studi letture ricerche, Argalìa, Urbino [1976], p. 315; Roberto Maltoni, Analisi socio-politica dell’adesione di Pietro Nenni al socialismo (1919-’21), “Studi urbinati”, 1975, pp. 562-563; id., La «svolta» di Pietro Nenni (1919-1921), “Nuova Rivista Storica” fasc. III-IV, maggio-agosto 1977, p. 335. Il primo intervento su “Il Pensiero Romagnolo”, e l’ultimo su “L’Iniziativa”, sono stati pubblicati con una breve introduzione da Ivana Rinaldi (a cura di), Pietro Nenni, le delusioni di un interventista, “Storia e problemi contemporanei” n. 1/2, gennaio-dicembre 1988, pp. 147-152. 213 “Il retroterra della crisi non stava soltanto nell’impatto lungo e tenace di un’esperienza vissuta in prima linea, che gli aveva scavato dentro, ma anche per altro verso, nel tentativo, non privo di dignità e di acume, di svolgere nel paese fino alle estreme conseguenze e con una tensione costruttiva, anche se contraddittoria, le impostazioni rivoluzionarie e volontaristiche da cui era partito nel 1914. Di qui derivava quella sua ormai netta preferenza per la causa della

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chiedere al PRI di rinunciare alla pregiudiziale antimonarchica, al culto di Mazzini e all’idea didattica della politica. Per un passo così radicale, anche ammesso che fosse utile, ci sarebbe voluta una segreteria forte e non era quello il momento. Inoltre, il suo tradizionale elettorato non avrebbe seguito il partito e, di questo, presto si sarebbe accorto anche Nenni. Quella di Bergamo appare, con tutte le sue prudenze, la posizione più avanzata possibile. Nel frattempo si precisavano i contorni del programma sociale del PRI, la cui parte caratterizzante era la proposta di convocazione della Costituente. Nella Relazione della Segreteria sul programma sociale, Casalini la proponeva come espressione delle classi che, dopo l’esperienza della guerra, non avrebbero potuto essere lasciate così com’erano, senza che il socialismo o il clericalismo se ne appropriassero214. Su di essa si riuscirono a stabilire delle convergenze con alcune forze politiche e sindacali, ma non a coinvolgere le forze popolari del paese215. Finito il conflitto, la Direzione Nazionale stabilì la data del Convegno Nazionale per l’8 e il 9 dicembre a Firenze. Già questo fu oggetto di polemiche. Secondo Zuccarini, che rievocava anni dopo tale episodio in una lettera a Elio Santarelli216, “si trattò di una convocazione arbitraria, ben calcolata, allo scopo di evitare che vi partecipassero coloro che avevano tenuto le redini del partito fino alla guerra e che non erano stati ancora smobilitati”. Anche il giudizio cauto espresso da Conti sull’opportunità del Convegno nel suo opuscolo Il partito repubblicano dopo la guerra217 dipendeva, secondo Zuccarini, dal fatto che, coloro i quali presero quella decisione all’epoca della pubblicazione “erano ancora membri autorevoli […] del partito”. Esauritasi la spinta dell’interventismo, si ponevano serie questioni al PRI. Durante il conflitto, la maggior parte dei suoi parlamentari aveva aderito al Fascio Parlamentare, per non parlare di Chiesa e Comandini che erano ancora membri del governo. Ora si trattava di riacquistare la

democrazia, da rifondare ex novo. Il 1917 e il 1918 stavano aprendo – questa era la sua intuizione di fondo – orizzonti radicalmente nuovi”. Enzo Santarelli, Nenni, cit., p. 44. 214 Il programma sociale repubblicano, “Il Pensiero Romagnolo”, 5 maggio 1918. 215 Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo, cit., pp. 16-27; Marina Tesoro, «Se arriva la Repubblica». La rifondazione dello Stato nei programmi del PRI, in ead., Democrazia in azione. Il progetto repubblicano da Ghisleri a Zuccarini, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 133-158 e in Il partito politico dalla grande guerra al fascismo. Crisi di rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), a cura di Fabio Grassi Orsini e Gaetano Quagliariello, il Mulino, Bologna 1996, pp. 577-604. 216 Elio Santarelli, Appunti per una storia della “Federazione Repubblicana Autonoma della Romagna e delle Marche” (1923-1925), “Fede e Avvenire” n.4, luglio-agosto 1962, p. 250. 217 Giovanni Conti, Il partito repubblicano dopo la guerra, cit., p. 12.

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propria autonomia. Sennonché c’era un fattore nuovo, e assai pericoloso, nella vita politica italiana: il bolscevismo. Il Partito socialista, infatti si era dichiarato d’accordo coi principi del massimalismo russo e questo scosse le coscienze dei repubblicani. Colajanni e Mazzolani, due fra i parlamentari più autorevoli, decisero di rimanere nel Fascio parlamentare perché, come scrisse Mazzolani, “la guerra non è finita”. Il nodo ideologico che si pose con grande evidenza fu quello della rivoluzione. I repubblicani avevano sempre operato in funzione eversiva della monarchia, ma ora subivano una sorta di “sorpasso a sinistra”, che non poteva non lasciare conseguenze. Nel dibattito precongressuale nelle sezioni di cui abbiamo testimonianza, la lotta al bolscevismo rappresentava uno dei punti importanti dei programmi di cui venivano investiti i delegati218. Ma furono soprattutto i motivi con cui Colajanni giustificò la sua mancata partecipazione al Convegno a condizionarne i lavori. Egli, in una lettera datata 5 dicembre e indirizzata a Casalini, scriveva che dalla guerra è sorto un pericolo sociale forse più grave di quello monarchico: quello del leninismo. Se oggi noi colla nostra azione affrettassimo la caduta della monarchia in me c’è la ferma convinzione, che andremmo incontro ad una disastrosa prova di leninismo alla russa, favorita dalla scellerata propaganda del socialismo disfattista e dalle condizioni economico-sociali create dalla stessa guerra quantunque vittoriosa.

Egli confessava che, nel suo animo di vecchio lottatore per l’unità nazionale, questo tema era delicato. Ritornava poi a un argomento a lui caro, ricordando pure che io, da discepolo fedelissimo di Mazzini, mi sono sempre affermato italiano prima e poi repubblicano. Il timore del leninismo, però, non ci deve far abbandonare la nostra antica fede repubblicana, che dobbiamo continuare ad affermare; tanto più che sono del pari convinto che il regime antisociale, degno di succedere allo cza-

218 ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1918, cat. K4, b.67, fasc. Convegno Giovanile Repubblicano Laziale (Rapporto del 5 dicembre 1918 sulla riunione della sezione romana del 1 dicembre 1918, alla quale aveva preso parte anche Casalini. Egli mise in evidenza la necessità di combattere i bolscevichi, poiché essi erano in realtà sostenitori della monarchia, e contro la vera riforma sociale repubblicana); e fasc. Genova (Telegramma del 9 dicembre 1918, in cui era riportato il programma dei delegati della Sezione Genovese, votato il 4 dicembre 1918).

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rismo, fallirà; col suo fallimento risanerà le correnti popolari e ci riporrà nella condizione, insieme ai socialisti, non nemici della patria, di potere più attivamente agire per la realizzazione del nostro ideale219.

La lettera fu accolta dal convegno con mormorii, se non fischi, ai quali il vecchio repubblicano rispose con orgoglio: Ai mormoratori mi permetto soltanto di augurare di cuore che arrivino all’età di circa 72 anni come sono arrivato io, senza rinnegare la fede repubblicana, dopo averla affermata e difesa per circa 55 anni in tutti i modi, in tutti i tempi, in tutte le occasioni, affrontando ogni sorta di sacrifici, di amarezze e di pericoli220.

Perplessità sulla linea del partito furono espresse anche da Cappa e da Giuseppe Macaggi221. La direzione presentò al Convegno un programma in 15 punti222, che venne svolto da Pirolini. Il tema del bolscevismo, insieme alla Costituente, fu al centro del dibattito223. Già nella relazione della Commissione Esecutiva se ne faceva cenno: La relazione – riportava l’articolo illustrativo – continua esaminando il pericolo del bolscevismo e negando che l’agitazione repubblicana gli

219 Il testo della lettera di Colajanni si trova ne “L’Iniziativa” del 7 dicembre 1918 e in “RP”, 15-31 dicembre 1918, p. 430. 220 Napoleone Colajanni, Il Congresso repubblicano di Firenze, “RP”, 15-31 dicembre 1918, p. 431. Nello stesso numero (Noi, Gli avvenimenti e gli uomini, ibid., p. 421), egli annunciava che, dopo la lotta per la guerra, la Rivista si sarebbe impegnata contro il bolscevismo. 221 Cappa scrisse che “l’antico spirito rivoluzionario non deve accodarci alle insidie e alle impazienze di nessun bolscevismo nostrano. L’ora è alla legalità vigilante”. Il testo della lettera di Cappa è ne “L’Iniziativa” del 7 dicembre 1918. La lettera di Macaggi è nel numero successivo del 14 dicembre. 222 Tanti sono quelli riportati dall’opuscolo pubblicato dalla Commissione Esecutiva, Partito Repubblicano Italiano, Relazione della Commissione Esecutiva al convegno nazionale sull’azione del Partito nell’attuale momento politico. Firenze 8-9 dicembre 1918, Cooperativa Tipografica Italiana, Roma 1918, riprodotti da Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 442-443, il quale però li confonde con i 15 punti approvati dal convegno. Nel programma pubblicato su “L’Iniziativa” del 7 dicembre 1918 mancavano il punto 9 (“Otto ore di lavoro”) e il punto 14 (“Società delle Nazioni, abolizione della diplomazia segreta, diritto di guerra e di pace trasferito dalle dinastie ai popoli”). 223 Notizie sullo svolgimento del Congresso anche in ACS, PS 1919 cat. K4 – Partito Repubblicano b. 100, fasc. Firenze – Congresso.

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possa dar agio di insorgere e di affermarsi. Che anzi la trasformazione del sistema istituzionale col trionfo della sovranità popolare può essa sola evitare il bolscevismo224.

Dunque, Costituente o bolscevismo. La lettera di Colajanni, però, meritava un’attenzione particolare, e una risposta diretta. Gliela diede Casalini, nel corso del dibattito congressuale: Ma c’è anche da parte nostra qualcuno che vorrebbe rimandare ogni azione in vista del pericolo bolscevico. Questo significherebbe il suicidio. Perché le situazioni storiche non sono mutabili a capriccio degli uomini e gli avvenimenti passano sopra gli imbelli e gli assenti. Oggi è sorta in Europa la rivoluzione sociale che prevedemmo e preparammo: può il Partito repubblicano schierarsi contro di essa? È ridicolo pensarlo perché sarebbe infamato e travolto. Ma e il Bolchevismo? Noi lo avversiamo. Non sono nostri nè i suoi metodi né i suoi programmi, però la sua minaccia non può esimerci dall’azione. Ma poi che è il bolchevismo in Italia? Niente di più che uno spauracchio che i conservatori e le istituzioni agitano per deprecare le conseguenze rivoluzionarie della guerra225.

Secondo Casalini, che parlava a nome della Direzione, le condizioni sociali economiche del popolo russo non può [sic] riprodursi negli altri paesi. Certo dei disordini possono verificarsi dappertutto in epoca rivoluzionaria, ma come ce ne spaventeremmo? La rivoluzione non può farsi al latte e miele. Però nei paesi avvezzi a lunga e complicata civiltà esistono anche dei freni che impediscono sempre la dissoluzione finale. Noi crediamo d’altra parte che i veri responsabili di un eventuale bolchevismo siano da ricercarsi non fra i repubblicani, ma nelle stesse istituzioni dimostrate incapaci durante la guerra a risolvere i problemi della guerra e ben più incapaci di risolvere i maggiori e più gravi problemi della pace.

224

La relazione della Commissione Esecutiva, “L’Iniziativa”, 14 dicembre 1918. Il testo del dibattito congressuale è ne “L’Iniziativa” del 14 dicembre 1918, da cui sono tratte anche le cit. seguenti. 225

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Per Pirolini “in quest’ora il P.R. ha la funzione storica d’interpretare la mentalità del paese, non di proclamare la rivoluzione, poiché la rivoluzione c’è già in tutta Europa” 226. Rispetto al resoconto dei giornali, quello della Pubblica Sicurezza ci dà qualche ulteriore particolare: Fu spiegato agli adunati che si desidera la repubblica unitaria, democratica, e non già la confederazione, che certamente smembrerebbe l’Italia, affermando che tale repubblica non ha nulla di comune con quella bolscevica della Russia. Si è detto che la rivoluzione potrà scoppiare in qualsiasi città d’Italia, e probabilmente nelle Romagne, ma non si raggiungerà lo scopo se nella Capitale il popolo si manterrà calmo; sarà necessario che il colpo finale sia dato a Roma dove è la sede del Potere monarchico. Si accennò infine anche alla lotta che si deve sostenere, dichiarando che questa dovrà essere rivolta ad oltranza contro i monarchici e contro i socialisti estremisti, cercando di mantenere rapporti cordiali con gli altri partiti227.

Anche nel manifesto-programma approvato dal convegno, l’argomento era affrontato direttamente: Il partito repubblicano – vi si legge – non crede di poter essere trattenuto nel compimento di questo dovere di sincerità e di ammonimento verso il paese dalla preoccupazione che correnti dissennate – ad imitazione di quanto avvenne in Russia – possano trovare nella crisi di attuazione di ordinamenti più evoluti la opportunità di manifestazioni violenti [sic] e dannose. Così, mentre il partito repubblicano respinge ogni solidarietà e qualunque legame di pensiero con quegli agitatori, coi loro programmi e coi loro metodi, è convinto che la possibilità di un trapianto in Italia di tentativi e tendenze di quel genere sarà tanto minore quanto più pronte saranno le provvidenze progressive e più

226 In un’intervista a “L’Epoca”, egli dichiarò di credere in un’evoluzione della situazione, che avrebbe portato ad uno stato più efficiente. Inoltre, pose il problema della produzione come quello centrale per una forza progressista. Serse Alessandri, Un colloquio con l’on. Pirolini, “L’Epoca”, 12 dicembre 1918. L’intervista fu ripresa anche da “L’Iniziativa” del 21 dicembre. 227 Telegramma espresso del 10 dicembre 1918 relativo alla seduta del giorno prima del convegno repubblicano. ACS, PS 1919 cat. K4 – Partito Repubblicano b. 100, fasc. Firenze – Congresso.

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spontanee e concorde la instaurazione di un regime di più illuminata giustizia sociale228.

Sul tema della Costituente, mentre Nenni assunse una posizione ortodossa, proponendo la Costituente come mezzo per dare voce al desiderio di cambiamento derivante dalla guerra229, si scontrarono le opinioni divergenti di Pirolini e di Mirabelli. Per il primo la Costituente era la strada obbligata verso la repubblica, sostituendosi alla rivoluzione230, Mirabelli invece, sosteneva che la parola al popolo significava dargli la possibilità di scegliere liberamente il suo futuro, ivi compresa la possibilità di essere governati da un re. In conclusione, non si può non essere d’accordo – ci sembra – con il giudizio di Santi Fedele: Vengono sì dibattuti i vari punti dello schema di programma di partito proposti dalla commissione esecutiva uscente, ma in maniera non sufficientemente approfondita e, quel che più conta, senza affrontare il problema della ricerca di alleanze politiche e sociali necessarie perché le istanze di rinnovamento del paese avanzate dai repubblicani possano trovare concreta attuazione231.

Terminato il Convegno, i dirigenti del partito si adoperarono per divulgarne le conclusioni agli iscritti e all’opinione pubblica232. Sui giornali si cominciò a mettere in chiaro che la Costituente era cosa ben diversa,

228 Il testo del dibattito congressuale, del manifesto-programma e del programma pratico approvati dal Convegno sono ne “L’Iniziativa” del 14 dicembre 1918. Questi ultimi due documenti furono pubblicati anche in Partito Repubblicano Italiano, Il Programma della nuova Italia, Roma 1919, pp. 13-16 e sono stati riprodotti da Lucio Cecchini nel suo Alle radici dell’Italia civile. La storia del PRI attraverso i documenti. 1895-1925, Acropoli, Roma 1992, pp. 95-97. Il testo del programma è anche in Marina Tesoro, «Se arriva la Repubblica». La rifondazione dello Stato nei programmi del PRI, in ead., Democrazia in azione., cit., pp. 151152 e in Il partito politico dalla grande guerra al fascismo, cit., pp.588-589. 229 Comunicazione riservata dell’ufficio speciale d’investigazione del 9 dicembre 1918 nella quale si riportano le discussioni del giorno prima al convegno repubblicano. ACS, PS 1919 cat. K4 – Partito Repubblicano b. 100, fasc. Firenze – Congresso. 230 Giustamente, al riguardo Colajanni richiamava “il placido tramonto” della monarchia preconizzato da Alberto Mario. Napoleone Colajanni, Il programma di Firenze del partito repubblicano, “RP”, 15-31 gennaio 1919, p.18. 231 Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo, cit., p. 15 232 A Roma, ad esempio, alla riunione della sezione repubblicana locale intervennero D’Eramo e Casalini, il quale sostenne che una pace troppo dura avrebbe favorito il bolscevismo. Comunicazione riservata, 19 dicembre 1918. ACS, MI, DGPS, UCI, b. 40, fasc. 801 Repubblicani.

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anzi tutto l’opposto rispetto al bolscevismo233. E tanto meno si dovevano confondere rivoluzione bolscevica e rivoluzione repubblicana234. Nelle assemblee delle varie sezioni, invece, prese il sopravvento l’aspetto antibolscevico, in modo ancor più netto che al Convegno235. Non tardò a farsi sentire anche Colajanni, da un lato pubblicando notizie allarmistiche circa il pericolo del bolscevismo236, dall’altro parlando direttamente del Convegno. Questo gli era parso utile, anche se, entrando nel merito, criticò con parole aspre e sferzanti alcune parti del programma pratico, ma soprattutto il presunto carattere di novità con cui si volevano rivestire alcune asserzioni237. Quasi due mesi dopo, tornò sull’argomento, questa volta con toni molto duri, attaccando i repubblicani, che definì simpatizzanti di Lenin e Trockij. “Aggiungo, colla sicurezza di non calunniare Mazzini, che se il grande maestro fosse vivo sarebbe dalla parte mia, e sarebbe per lo intervento egli che stigmatizzò come nefasto egoismo la dottrina del non intervento”. La rivoluzione, ribadì, avrebbe potuto attecchire anche in Italia, ed era una pia illusione che le condizioni diverse potessero impedirlo238. All’accusa di simpatie bolsceviche rispose “L’Iniziativa”, spiegando che non si doveva appoggiare in nessun modo il tentativo del governo di bloccare ogni riforma sociale con la scusa del bolscevismo. Il PRI, dunque, ambiva a porsi tra questi due estremi. “Del resto il bolchevismo, per noi, – scriveva l’organo del PRI – non è un partito ma uno stato d’animo; dipende dal governo provocarlo o meno. Il dilemma è già stato posto: O Wilson o Lenin”239.

233 La Costituente, “La Sveglia Repubblicana”, 7 dicembre 1918; La Costituente ed il Convegno di Firenze. Intervista con l’on. Mirabelli, “Roma”, 15-16 dicembre 1918. 234 Luigi Andreotti, Dopo il Convegno di Firenze, “La Libertà”, 28 dicembre 1918. 235 ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1918, cat. K4, b.67, fasc. “Milano” (Telegramma del 18 dicembre 1918 sull’Assemblea generale della Sezione Milanese del 16 dicembre, a cui aveva preso parte Pirolini; e telegramma del 20 dicembre 1918 su riunione del 18 dicembre) e fasc. “Genova” (Telegramma del 26 dicembre 1918 sull’assemblea generale della Sezione Genovese del 18 dicembre). 236 Noi, Esiste o non esiste in Italia il pericolo bolsceviko?, “RP”, 15-31 gennaio 1919, p. 4. 237 Napoleone Colajanni, Il Congresso repubblicano di Firenze, “RP”, 15-31 dicembre 1918, p. 431 e id., Il programma di Firenze del partito repubblicano, ibid., 15-31 gennaio 1919, pp. 15-18. 238 N.C., Ancora del Congresso repubblicano di Firenze, ibid., 28 febbraio 1919. I socialisti lo accusarono perciò di calunniare Mazzini, ed egli rispose, aggiungendo che, essendo stato Mazzini contro la Comune, tanto più sarebbe stato contro i comunisti. Noi, Mazzini e l’intervento in Russia, ibid., 31 marzo 1919, pp. 106-107. 239 Noi e il bolchevismo, “L’Iniziativa”, 29 marzo 1919. Corsivo nell’originale.

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Colajanni si andava isolando dal suo partito “nel suo ormai integrale mazzinianesimo”, come ha ben detto Tramarollo240. La sua deriva era cominciata già da qualche anno, prima che cominciasse la guerra: Il neomazzinianesimo acquisito ai primi del Novecento se non faceva incappare Colajanni in un pathos di antisocialismo/elitismo lo faceva comunque fuggire dall’ardente umanitarismo socialcavallottiano di cui si era nutrito fino al 1901. In altre parole il Colajanni del 1913 risente del “primonovecentismo” e cioè quella complessa rivolta antipositivista che matura ai primi del Novecento non raramente intrisa di antidemocratismo, di nazionalismo e, certamente, di antigiolittismo241.

La sua analisi del bolscevismo rimaneva legata essenzialmente a tematiche belliche, mentre il partito si muoveva verso sintesi nuove, come la contrapposizione tra il Presidente americano, simbolo della democrazia e della libertà, e Lenin, capo dispotico di uno stato in piena guerra civile242. La necessità che il gruppo dirigente sentiva era quella di sganciarsi dalle alleanze della guerra, di proporre una politica propria. Colajanni non fu in grado di formulare che un mero temporeggiare, e un rifiuto secco verso le novità russe.

240 Giuseppe Tramarollo, Mazzinianesimo di Colajanni, in Atti del primo Convegno su Mazzini e i mazziniani dedicato a Napoleone Colajanni, Pisa 16-17 settembre 1972, Domus Mazziniana, Pisa s.d., p. 40. 241 Aurelio Macchioro, Napoleone Colajanni fra socialismo e protezionismo patrio, “Il pensiero economico italiano” n. 1, 2001, p. 125. Ma tutto l’acutissimo saggio di Macchioro merita di essere letto. Sul mazzinianesimo di Colajanni vedi anche Jean-Yves Frétigné, Dall’ottimismo al pessimismo. Itinerario politico ed intellettuale di Colajanni dalla svolta liberale al fascismo, Archivio Guido Izzi, Roma 2007, pp. 168-169. 242 “Ma nella mentalità popolare – scrive Procacci – non sussisteva quella divisione netta che tra le classi superiori faceva contrapporre Wilson a Lenin: l’attesa messianica coinvolgeva ambedue i grandi paesi e i loro leaders”. Giovanna Procacci, Mentalità collettiva e comportamento popolare durante la “grande guerra”, “Storia e problemi contemporanei” n. 1/2, gennaio – dicembre 1988, p. 21; della stessa autrice, vedi anche il capitolo Un’analisi della mentalità collettiva dopo Caporetto, nel suo Dalla rassegnazione alla rivolta, cit., pp. 317-350, in particolare 346-350. Sul mito dei due capi nazione c’è una cospicua bibliografia. Citiamo Gioacchino Volpe, Fra storia e politica, De Alberti, Roma 1924, p. 152, che all’interno del volume ripubblicò anche parte di un suo opuscolo del 1919, Saluto, dedicato a Wilson, pp. 203-210; Piero Melograni, Storia politica della gande guerra 1915-1918, Laterza, Bari 1969, p. 537; id., Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana..., cit., pp. 33-38; e, più specificamente, Daniela Rossini, Il mito americano nell’Italia della Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 5557 e passim, la quale cita anche Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, vol. quarto. Dall’Unità a oggi, tomo 3, Einaudi, Torino, 1976, p. 2047.

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1917-1918: La rivoluzione e l’interventismo

1919-1920 Pro o contro il bolscevismo

“Bolscevismo e Repubblica Sociale” Il Convegno di Firenze aveva stabilito la necessità, per i repubblicani, di scendere sul terreno rivoluzionario, rompendo con i compagni dell’interventismo, ma senza concessioni al bolscevismo1. Questa decisione provocò un dibattito di notevole importanza sulla natura della rivoluzione repubblicana e sul suo rapporto con quella bolscevica. Entrambe venivano inquadrate in un più vasto movimento rivoluzionario, provocato dalla guerra: “La rivoluzione in Europa non si spiega altro che nella crisi violenta del regime capitalistico, crisi acutizzata dalla guerra” 2. Il collasso della società europea significava la fine della libera concorrenza come regolatore del “corpo sociale”. Da essa, e solo da essa, argomentava Faber, derivava l’“anarchia della produzione”, nella quale “ciascuno può […] formare, accelerare scuotere, travolgere una parte o tutta la economia sociale”3. Posta la questione generale, rimaneva da stabilire quale dovesse essere la posizione del PRI di fronte a un simile sconvolgimento. Attendere che esso esaurisse le sue spinte più estremistiche, appoggiando nell’attesa le poche, possibili riforme? O piuttosto scendere in campo con forze delle quali non si condividevano appieno gli intenti? è fuori dubbio che i repubblicani d’Italia non possono schierarsi colle forze che l’avversano, vale a dire colla reazione. Reazione che oggi

1 Per la storia del PRI nel dopoguerra, oltre ai testi già citati, vedi Marina Tesoro, Il partito repubblicano da galassia regionale a partito nazionale (con appendice), in Il partito politico nella belle époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra ‘800 e ‘900, a cura di Gaetano Quagliariello, Giuffrè, Milano 1990, pp. 469-522, ora in Marina Tesoro, Democrazia in azione, cit., pp. 74-121. 2 Faber [Armando Casalini?], La rivoluzione in Europa, “L’Iniziativa”, 18 gennaio 1919. 3 Ivi.

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può ammantarsi anche di liberalismo ma che non è meno... reazionaria in quanto pretende di arrestare il moto che deve condurre al novus ordo preconizzato da tanti pensatori, e per noi da Giuseppe Mazzini. Ma accettare teoricamente la rivoluzione è presto detto, assorbire praticamente le forze e gli elementi che la sviluppano quotidianamente è molto più difficile. […] La rivoluzione presa in blocco dallo storico si presenterà poi in modo inscindibile, vista ed analizzata nelle sue parti, nelle sue correnti, contrastanti può presentare anche delle contraddizioni, che però sono apparenti. Non c’è dubbio per esempio, che si possa accettare la rivoluzione pur negando Spartaco e Lenin, e magari combattendoli. Non è invece possibile accettare la rivoluzione e nel medesimo tempo il regime capitalistico individualistico che essa deve cancellare. Il grande conflitto è proprio qui. La rivoluzione è sociale appunto in quanto trasforma oltre ai rapporti politici quelli economici. La bandiera del comunismo innalzata in Russia o sventolata in Germania è una reazione al capitalismo borghese ma la definitiva sistemazione sociale non sarà certo comunista. Ciò non toglie però alla rivoluzione il suo significato profondo di lotta contro un regime che ha prodotto la guerra e che si è dimostrato impotente a dar pace e progressivo sviluppo all’umanità4.

Posto che “il processo rivoluzionario si estrinseca specialmente sotto la forma della ascensione operaia”, si trattava di dare una forma a questa “ascensione”: Può darsi che il Soviet sia una forma di organizzazione non solo confacente alle speciali condizioni della Russia ma di carattere transitorio anche laddove è nato. Certo però si è che la nuova organizzazione del lavoro per funzionare normalmente dovrà partire da congegni semplici i quali immedesimino la gestione economica col potere politico salendo da piccoli aggregati locali per avvilupparsi in forma concentrica l’intera nazione; indi l’umanità, cioè la famiglia delle nazioni. […] Nella gestione diretta dei lavoratori, nella organizzazione federale dei popoli che caratterizzano il moto rivoluzionario europeo, noi vediamo gli elementi di quel mazzinianesimo tanto accusato e deriso che finalmente trova riscontro nella realtà storica. Salvo la scelta dei metodi derivanti

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Faber [Armando Casalini?], La rivoluzione in Europa II, “L’Iniziativa”, 1 febbraio 1919.

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dalle diverse premesse (materialiste quelle dei socialmarxisti, idealistiche le nostre) i repubblicani collaborano quindi alla rivoluzione sociale europea portandovi il tesoro prezioso delle loro dottrine immortali, delle loro decise esperienze spirituali5.

Anche dalle analisi lucide e profonde di Alighiero Ciattini usciva un incoraggiamento all’azione, nel rispetto degli ideali e senza “creare l’ossessione per le parole e le formule”. “Bisogna riconoscere – esordiva con arguzia Ciattini – che i repubblicani, non si trovano, come aggruppamento politico, in una situazione troppo comoda. Costituiscono essi un’avanguardia borghese o una retroguardia operaia?”6. Per uscire da questa ambiguità si dovevano prendere posizioni nette, evitando ogni nefasto collaborazionismo con la monarchia ma, soprattutto, superare le contrapposizioni e le alleanze della guerra: “il dissidio sulla guerra – aggiungeva – non ha più ragione d’essere. Come non ha più ragione d’essere una concordia di parti, che raggiungerebbe l’unico effetto, non solo di farci accettare il presente ordine di cose, ma altresì di farci divenire i suoi inconsci sostenitori” 7. Sia nella posizione degli interventisti che in quella dei neutralisti, “per chi giudichi le cose spassionatamente ed obiettivamente”, vi sono “elementi di verità”. A questa rivalutazione del neutralismo, che significava il superamento di uno stallo assai pericoloso per la democrazia italiana, Ciattini affiancava un’analisi del fenomeno bolscevico, visto come la sostituzione di un nuovo valore sociale: il lavoro, ai valori tradizionali della società (politica, cultura ufficiale, parlamentarismo, burocrazia, militarismo, clero, corte, capitalismo, ecc.). È una rottura violenta di tutti gli organi dirigenti della società in nome del lavoro assurto ad unico o a primo titolo di dignità sociale8.

Il bolscevismo fu, dunque, una reazione “dal basso” al potere zarista, alla corruzione e al conservatorismo delle classi dirigenti russe.

5 Ivi. Su alcuni di questi punti Faber [Armando Casalini?] tornò in Rivoluzione e bolchevismo, “L’Iniziativa”, 12 aprile 1919. 6 Alighiero Ciattini, Dalle formule alla realtà, “L’Iniziativa”, 29 marzo 1919. 7 Ivi. 8 Alighiero Ciattini, Orientamenti, “Il Dovere” di Livorno, 16 marzo 1919.

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Anche Ciattini, poi, come Faber, interpretava i suoi tempi come quelli della questione sociale. Chi non sente che l’epoca attuale è tutta dominata dalla questione operaia – ha veramente speso male il suo tempo. Di essa questione il fenomeno bolscevico è l’esasperazione estrema, ma non è perciò un movimento privo di alto significato storico e sociale. E tanto meno è un movimento che si possa e si debba combattere con la forza armata e con la coalizione di tutti gli elementi dell’ordine interno. Noi non dobbiamo perciò creare l’ossessione per le parole e le formule. E soprattutto dobbiamo saper distinguere fra un periodo sociale risolutivo (rivoluzionario) e un periodo di andamento normale della vita sociale9.

Il pericolo era – secondo l’autore – che i repubblicani si ritraessero dalla rivoluzione non appena ne sentissero il rumore. Ma quando noi ci risciacquiamo la bocca con la parola “rivoluzione” abbiamo mai pensato che questo concetto implica la valutazione e la valorizzazione di determinate forze sociali, che, in un certo momento storico, possono trovarsi in un più aperto contrasto con altre determinate classi sociali?10

Da ciò nasceva l’esigenza di un realistico esame dei rapporti con il PSI. Molti avrebbero potuto infatti sentire il problema di differenziarsi dai socialisti. Anche in questo Ciattini faceva chiarezza: “Noi repubblicani ci differenziamo in generale dai socialisti, in quanto non vincoliamo la nostra attività intellettuale agl’istinti ed agli impulsi delle masse” 11. Il ruolo del PRI era da lui indicato con questa immagine: “il fatto corrobora l’idea; – l’idea illumina il fatto. […] Certamente scopo nostro è quello di allargare la ristretta visione della lotta operaia; di elevarla cioé a lotta sociale. Ma non perciò sopprimeremo il dato di fatto della lotta di classe, da cui è dominata tutta l’epoca moderna”12. 9

Ivi. Ivi. Ivi. 12 Ivi. Ciattini tornò in un successivo articolo su questi temi, “Rivoluzione” e “Rivoluzionari”, “L’Iniziativa”, 14 giugno 1919. Anche qui, ribadiva la priorità della scelta rivoluzionaria: “Tutti quanti lottano contro il presente regime monarchico, borghese e militarista, sono oggi sul terreno rivoluzionario”. 10 11

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D’accordo con Ciattini si dichiarava Carlo Piermei, il quale tornava sul tema della lotta di classe: La collaborazione fra le classi oggi non rivoluzionerebbe, nè muterebbe nulla. È solo per forza e volontà della massa lavoratrice, per la via della lotta di classe che si può fare assorgere il lavoro ad unico titolo di dignità sociale, e che si può liberare il proletariato tutto – lavoratori del braccio e del cervello – dallo sfruttamento, e meglio dalla schiavitù capitalistica. Perciò noi non dovremo farci antirivoluzionari, per paura di moti popolari ed antiborghesi. Far ciò varrebbe accollarci tutti i reazionari di ieri e tutti gli opportunisti della politica e del portafoglio. Far ciò varrebbe farci strumenti altrettanto ciechi quanto poderosi nelle mani della parte conservatrice. La rivoluzione che deve portare alla Repubblica Sociale, non può mancare. Noi ne saremo i vessillieri, se gli innumeri borghesi – di mentalità se non di fatto – che sono nelle nostre file, non ci faranno dimenticare l’essenza socialista che ispira tutta l’opera del Maestro. La lotta contro il bolscevismo noi dobbiamo intenderla non come resistenza contro un qualsiasi altro partito d’avanguardia, ma come azione di tutela della libertà da dittature personali, o di singole minoranze violente, e come difesa disperata contro il disgregamento degli organi che provvedono ai bisogni della vita collettiva della nazione, e contro la distruzione anche parziale degli organi della produzione13.

Il tema del rapporto fra bolscevismo e repubblica sociale, fu oggetto di un articolo di Manlio D’Eramo14, membro della Commissione Esecutiva, e che fu poi ripubblicato, con alcune aggiunte, in forma di opuscolo semianonimo15. Tale documento è interessante, sia per l’ufficialità dello scritto, opera di uno dei membri della Commissione Esecutiva più vicini a Casalini, sia perché esso non ha trovato l’attenzione degli studiosi16.

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Carlo Piermei, Verso la rivoluzione sociale, “L’Iniziativa”, 19 aprile 1919. Manlio D’Eramo, Bolscevismo, socialismo e repubblica sociale, “L’Iniziativa”, 1 maggio 1919. 15 M.D., Bolscevismo e Repubblica Sociale, Edito a cura della Direzione Centrale, Roma 1919, pp. 16. 16 Sauro Mattarelli lo definisce “sicuramente ispirato da Conti e Zuccarini”, non riconoscendone l’autore. Tale posizione è in linea con il suo studio, peraltro prezioso per i suoi costanti riferimenti all’archivio personale di Conti, che omette il nome di Casalini e l’intera sua opera. Sauro Mattarelli, Il Repubblicanesimo di Giovanni Conti tra l’età giolittiana ed il primo dopoguerra, in Giovanni Conti nella storia politica italiana, cit., pp. 59-115 (la cit. è a p. 65). 14

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Il pericolo bolscevico era reale, vi si sosteneva, poiché esso “è anche il prodotto di una profonda e collettiva crisi nervosa, ed una crisi nervosa può colpire tanto un popolo colto come un popolo ignorante, tanto un popolo intelligente quanto un popolo che non lo è, tanto un popolo ricco come un popolo povero” 17. Anche la differenza del regime dello zar e quello dei Savoia era rapportabile a quella esistente tra i due popoli. Perciò, se non fossero mutate alcune condizioni, il bolscevismo avrebbe vinto anche da noi. Quali erano queste condizioni che, secondo D’Eramo, producevano “la insofferenza e la esasperazione degli animi”? La burocrazia, la giustizia, il sistema tributario, il costo della vita, l’accentramento statale, il parlamentarismo, le prerogative della corona, la diplomazia segreta, le ingiustizie sociali. A fronte di questi problemi, nessun partito possedeva i programmi giusti per risolverli. Il partito socialista, in particolare, vuole il progresso del proletariato fino a stabilirne la dittatura, vuole l’abolizione della proprietà privata e quindi la socializzazione, cioè la statizzazione, delle proprietà e di tutti gli altri mezzi di produzione. LA DITTATURA DEL PROLETARIATO è una cosa ingiusta quanto l’attuale dittatura della classe borghese. La società non è composta di due classi esattamente distinte l’una dall’altra, la borghesia ed il proletariato, ma di tante altre classi intermedie che hanno uguali dritti [sic] ed uguali doveri. La SOCIALIZZAZIONE dei mezzi di produzione cioè concentrare allo stato la proprietà di ogni cosa che produce: terre, capitali, mobili, strumenti di lavoro, creerebbe la elefantiasi dello Stato, senza che si potesse con ciò raggiungere e la giustizia e l’uguaglianza18.

Ben altrimenti strutturato era il programma del partito repubblicano. “Il PARTITO REPUBBLICANO dice che il popolo in genere, i lavoratori in ispecie, sono tormentati da due forme di schiavitù: politica ed economica”19. La schiavitù politica era rappresentata dalla monarchia, e dal regime di restrizioni alla volontà popolare.

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M.D., Bolscevismo e Repubblica Sociale, cit., p. 5. Ibid., pp. 9-10. Maiuscolo e corsivo nel testo. Ibid., p. 10. Maiuscolo e corsivo nel testo.

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La SCHIAVITU’ ECONOMICA è data dalla proprietà così come oggi costituita, e dal salariato. La proprietà è un furto quando è proprietà ecclesiastica, latifondo di origine feudale, quando è proveniente da eredità fra estranei, e tutte le volte che non è stata prodotta dal lavoro. Essa inoltre, anche se legittimamente prodotta dal lavoro, è fonte di grande ingiustizia, e genera la schiavitù economica, tutte le volte che è eccedente ai bisogni del proprietario, e, per la proprietà terriera, quando non è direttamente e personalmente coltivata dal proprietario. La proprietà deve essere in tali casi espropriata, ma non data allo Stato, che è un cattivo amministratore, e che creerebbe un esercito di impiegati per amministrarla; dev’essere data invece in diretta gestione ad associazioni di lavoratori. Un primo esperimento di questo sistema si è avuto nel 1849, durante i brevi e tormentati istanti di vita della Repubblica Romana. Il salariato deve essere abolito perchè una parte della ricchezza prodotta da lavoratori viene sfruttata dai capitalisti. Ma nemmeno bisogna dare tutte le industrie allo Stato. Invece i lavoratori di ciascuna industria devono essere costituiti in sindacato per la gestione cooperativa del capitale e del lavoro20.

L’analisi del programma consentiva ai repubblicani di definirsi socialisti, rappresentanti di una scuola di socialismo italiano di un socialismo cioè che ha per base la libertà in tutte le sue manifestazioni, ed ha per fine la giustizia uguale per tutti. Il nostro socialismo, sano e semplice, è adatto allo sviluppo storico ed alle tradizioni di libertà della nostra Italia, nonchè al senso di dignità individuale sviluppatissimo tra i popoli latini. Il partito socialista, invece, trae le sue convinzioni dalle dottrine di Carlo Marx, le quali trasformerebbero l’uomo in una macchina produttrice, senza dignità, senza desiderio di progresso, ed imporrebbero la sopraffazione politica di una classe su tutte le altre21.

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Ibid., pp. 11-12. Maiuscolo e corsivo nel testo. Ibid., p. 13 Corsivo nel testo.

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Ma il vero errore dei socialisti consisteva nel ricorso alla rivoluzione quale fenomeno di mutamento sociale. I repubblicani invece credono che una trasformazione politica (sostituzione di una repubblica cioè ad una monarchia) possa effettuarsi in poche ore, ma la riforma sociale nel senso da noi predicato, o in qualsiasi altro senso, non può essere improvvisata da un moto rivoluzionario, ma deve essere studiata, ponderata, legiferata con tutta serietà e con un senso di superiore giustizia. […] La salvezza e l’avvenire d’Italia è quindi nella REPUBBLICA SOCIALE; in una Repubblica cioè la quale oltre ad avere ordinamenti politici in perfetta armonia col senso della più squisita libertà, si ponga rapidamente a trasformare le basi economiche della società, in modo da eliminare tutte le forme di sfruttamento economico, senza impesantire la macchina dello Stato che deve essere invece sveltita22.

Per D’Eramo si doveva perciò legare strettamente la questione istituzionale a quella economica, giacché la preminenza dell’una sull’altra rischiava di ricreare le medesime ingiustizie che si volevano annullare. E comunque “il primo passo da farsi” era “l’abbattimento della monarchia”, con la quale nessun progresso era possibile23. Proprio l’insistenza su quest’ultimo punto, avrebbe portato il PRI a privilegiare la questione istituzionale, a tutto svantaggio di quella economica, e a non contrastare l’avvento di una rivoluzione come quella bolscevica in Italia, vista quale necessario preludio alla repubblica sociale. Anche Giovanni Conti affrontò il problema della rivoluzione. Premeva all’esponente repubblicano dare l’impressione che il PRI non fosse chiuso pregiudizialmente alle novità, ma che, altresì, non se ne facesse travolgere. In una conferenza tenuta a Bologna, egli ribadiva che la Repubblica non avversa nessun movimento rivoluzionario: ma la rivoluzione va concepita come movimento organico trasformatore di organo sociale. Se il bolscevismo significa sostituzione di un nuovo ordine all’ordine abbattuto, non abbiamo nessuna ragione di ostilità. Noi siamo contrari alla distruzione che è fine a se stessa e che non reca nell’atto stesso il proposito della ricostruzione. Abbattere per ricostruire

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Ibid., pp. 13-14. Maiuscolo nel testo. Ibid., p. 15.

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utilmente. Ecco il nostro credo. E se il bolscevismo nella realtà concreta si rivelasse utile alla società, sarebbe colpa imperdonabile avversarlo. Il massimo problema che oggi ci assilla è quello della produzione, a cui segua una più giusta distribuzione. Se il bolscevismo fallisse a questo scopo, sarebbe dovunque, per ciò solo, condannevole. Nessuna pregiudiziale di ostilità, ma nessun entusiasmo per un movimento ancora indistinto ed oscuro. Le finalità debbono essere note: non ci si può gettare nella mischia senza idee chiare!24

L’accenno alle capacità produttive, sia pure fatto in forma ancora dubitativa, costituisce un tassello prezioso per la critica repubblicana al bolscevismo. Anche Pirolini giudicava tale aspetto preminente in una critica seria della rivoluzione russa. In un discorso al Parlamento, così si espresse: Io credo che i Governi che nel passato avevano i mezzi per documentarsi sui risultati economici della Russia e dell’Ungheria bolsceviche, abbiano compiuto un grave errore il [sic] non averlo fatto. Sarebbe stato utile di sapere non già se il Governo dei Soviety, per mantenere l’ordine pubblico, abbia dovuto ricorrere ad un metodo terroristico od all’altro. Non è la cifra di coloro che sono stati incarcerati od impiccati dal bolscevismo che ci interessa, è il risultato finanziario di quel sistema, è il suo fondo distruttore e fabbricatore di miserie, perché arriva alla distruzione delle ricchezze invece che alla loro diversa distribuzione25.

Il problema della produzione veniva così posto al centro della riflessione repubblicana sulla rivoluzione russa. Se si voleva sostituire il capitalismo, era quello il piano su cui bisognava batterlo: La rivoluzione bolscevica in Russia e in Ungheria ha distrutto un sistema economico di produzione, quello borghese-capitalistico. Era un sistema ingiusto, nel quale le classi detentrici della ricchezza avevano

24 La nostra dottrina e la nostra fede, “Lucifero”, 29 giugno 1919. La cronaca della conferenza venne riportata anche su “L’Iniziativa”, G. Conti parla a Bologna, 5 luglio 1919. Vedi anche La situazione, “Etruria Nuova”, 15 giugno 1919. 25 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, Legislatura XXIV, seduta del 12 luglio 1919, pp. 19211-212. Il passo qui riprodotto fu pubblicato anche da “L’Alba Repubblicana” e da “Etruria Nuova” del 20 luglio 1919. Il testo dei giornali, ripreso dal resoconto stenografico, è però leggermente diverso da quello degli Atti. Lo stesso tema, Pirolini aveva sollevato già dal dicembre del 1918. Vedi p. 83, n. 226.

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sfruttato le classi lavoratrici; ma era un sistema eminentemente produttivo. Nessun regime economico – dall’antichità fino a noi – ha raggiunto il colossale sviluppo della produzione, che è stato raggiunto dal sistema capitalistico. La società è stata colmata di produzione; tutti gli uomini, pur esistendo enormi differenze, hanno risentito utilità della grande produzione. Il bolscevismo sarebbe stato benefico e accettabile se avesse organizzato un sistema di produzione non inferiore a quello preesistente. Esso è invece riuscito a quasi annientare la produzione. Ma ha creato un sistema di produzione insopportabile, creando lo Stato industriale, agricoltore, magazziniere, distributore, trasformando gli operai da dipendenti dei capitalisti in dipendenti dello Stato26.

Una posizione intermedia assunse Comandini. Se da una parte egli giustificava il crollo della produzione sotto il regime bolscevico, dovuto al blocco dell’Intesa e alle inevitabili confusioni susseguenti un cambiamento di regime, dall’altra ne criticava aspramente lo statalismo. L’accentramento statale, lo statalismo asfissiante del regime leninista, ai repubblicani, federalisti e anticentralisti, non poteva certo piacere27. Per loro c’era “un cancro che divora[va] il bolscevismo ed [era] precisamente la burocrazia”. Questa “elefantiasi”, come l’aveva definita D’Eramo, dell’apparato statale era d’altronde necessaria al mantenimento del potere leninista, col garantire la sopravvivenza ad un gran numero di persone attraverso attività sostanzialmente parassitarie: Ecco dunque uno dei peggiori mali della società borghese moltiplicato dal regime comunista. Ed è naturale. Anche il comunismo è un regime che si basa sulla statolatria. Lo Stato comunista arrogandosi la facoltà di curare l’andamento di tutte le cose sociali finisce fatalmente per creare una oligarchia di funzionari senza riuscire a provvedere a nulla.

26 Il tramonto del bolscevismo, “Etruria Nuova”, 10 agosto 1919. Vd. anche Logica socialista, “Il Popolano”, 12 novembre 1919. La presa del potere dei bolscevichi in Ungheria, peraltro incruenta, mise in allarme i repubblicani circa il pericolo dell’imperialismo bolscevico. Bandiera rossa, “L’Italia del Popolo”, 29 marzo 1919. Quando poi Bela Kun cadde, essi ebbero la prova dell’impossibilità di trasferire quel modello in Occidente, pure se, nel complesso, ne approvavano l’esperimento in Russia, Il bolscevismo Ungherese, “Il Popolano”, 9 agosto 1919; L’esperimento comunista fallito – Bela Kun fuggito, “L’Iniziativa”, 9 agosto 1919. Sugli effetti devastanti, sul piano economico, del regime comunista, I frutti del bolscevismo, “Etruria Nuova”, 1 gennaio 1920. 27 Non si può ritornare alla vita sociale quale era prima, “La Sveglia Repubblicana”, 16 agosto 1919.

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A questo modello il PRI contrapponeva una democrazia diretta nella quale lo Stato abbia i minori incarichi possibili, ove i centri locali provvedano a tutto ciò che occorre per la vita pubblica col minimo di funzionarismo e il massimo di interessamento da parte di tutti i cittadini. La Federazione realizza la liberà [sic] col massimo di benessere sociale28.

La critica repubblicana si incentrò anche sul tema della lotta di classe. Come abbiamo visto, era accettata da alcuni, più avanzati nella strada del rinnovamento ideologico del partito, ma per lo più rifiutata dagli altri. Il metodo della lotta di classe rendeva i bolscevichi reazionari agli occhi dei repubblicani29. Esso infatti non avrebbe risolto il problema sociale alla radice, ma, semplicemente, creato una nuova aristocrazia operaia e un nuovo proletariato, ancora oppresso dalla forza del capitale30. Rilevante, per la definizione dei caratteri della rivoluzione repubblicana, è la risposta di Casalini ad una polemica con Cesare Rossi che aveva criticato la determinazione dei repubblicani a voler abbattere la monarchia, giacchè questo avrebbe portato alla vittoria dei bolscevichi nostrani, e sostenuto l’opportunità di una “dittatura repubblicana”, stante l’ubriacatura delle masse per il bolscevismo31. Una rivoluzione – sosteneva il segretario del PRI – ha sempre per base i movimenti e le esigenze nuove di una class [sic] […]. Ora, le classi medie non sono una classe, con movimento e con esigenze storiche ben definite bensì una resultante dell’attrito sociale, un punto morto, non materia rivoluzionaria insomma, ma detrito eterogeneo incapace di azione e di esplosione rivoluzionaria. Nemmeno i combattenti sono una classe. Essi rappresentano certamente del buon fermento rivoluzionario, efficace però solo in quanto

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Federazione e Comunismo, “L’Iniziativa”, 9 agosto 1919. Corsivo nel testo. Neutralismo e Bolscevismo strumenti controrivoluzionari, “La Libertà”, 23 agosto 1919. 30 Luigi Andreotti, Nell’ora vermiglia, “L’Iniziativa”, 1 maggio 1919; ***, La dittatura proletaria e il pensiero mazziniano, “Il Popolano”, 2 agosto 1919; Ugo Della Seta, La supremazia del lavoro, “L’Iniziativa”, 30 agosto 1919. 31 La polemica, iniziata con l’articolo di Rossi, Impazienze repubblicane, “Il Rinnovamento”, 31 maggio 1919, è ben inquadrata da Mauro Canali, Cesare Rossi. Da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, il Mulino, Bologna 1991, pp. 128-130. 29

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sia gettato nei lavorati solchi del campo sociale, risolutivo unicamente in caso di applicazione al movimento operaio. La repubblica contro le masse operaie è un sogno pazzo che se anche per un istante realizzato, nessuna dittatura potrebbe mantenere. […] La verità vera è che le masse sono rivoluzionarie senza formule e senza preconcetti mentre i capi – socialisti ufficiali – sono dei demagoghi paurosi, avidi solo di sinecure ed onori quindi impotenti. Il problema allora non consiste nel provocare la rivoluzione che già viviamo, nel cercare la massa rivoluzionaria che esiste, ma nell’incanalare questa rivoluzione, nel conformare questa massa. È in sostanza un problema di direzione non di creazione delle masse rivoluzionarie. […] e visto e considerato che ne [sic] Rossi ne [sic] chiunque altro potra [sic] mai darci di colpo colla bacchetta magica, una repubblica perfetta in ogni sua parte, preferiremo sempre la «disgrazia» di una repubblica minacciata dall’opposizione leninista alla fortuna di una monarchia come quella che ci delizia32.

Rossi, come Colajanni, vedeva nella rivoluzione la rottura del vaso di Pandora, e “progettava di ancorare [l’evidente malessere della società borghese], ad un progetto di conservazione del sistema”33. Altri rivendicavano la necessità di una rivoluzione che fosse autenticamente repubblicana, e che non corresse il rischio di mischiarsi e confondersi con quella socialista34.

32 La repubblica e le classi lavoratrici, “L’Iniziativa”, 5 luglio 1919. Corsivi nel testo. La polemica venne ripresa in Cesare Rossi, Per la repubblica, ibid., 12 luglio 1919, e nella risposta di Casalini ad essa allegata, nella quale il segretario repubblicano ribadiva la necessità della rivoluzione e la sua sfiducia nelle masse socialiste. Ma esprimeva anche la sua speranza che dopo gli eccessi si sarebbe tornati ad uno “stato normale delle cose, migliorato nella sostanza e nella forma”. Sul tema della direzione della rivoluzione, Bolscevismo, “La Sveglia Repubblicana”, 29 marzo 1919. Altrove, il segretario del PRI aveva sostenuto che il partito repubblicano doveva “por[si] a fianco della classe lavoratrice, alla testa delle plebi, e guidarle alla loro emancipazione”. Movimento del partito, ibid., 22 marzo 1919. (E’ la cronaca di una visita di Casalini a Carrara, nella quale, peraltro, egli sosteneva che il PRI “deve rinnovarsi e rinnovare non le sue dottrine, ma la sua azione”). 33 Mauro Canali, Cesare Rossi, cit., p.129 34 Aroldo [Alfredo Bottai], La nostra rivoluzione, “L’Iniziativa”, 1 maggio 1919; Luigi Andreotti, La nostra rivoluzione, ibid., 17 maggio 1919; Il Partito Repubblicano nel momento attuale, “Il Popolano”, 28 giugno 1919 (è il resoconto di un discorso di Comandini al Teatro Comunale di Forlimpopoli). Anche Nenni sostenne che la rivoluzione, se fosse scoppiata, doveva uniformarsi agli insegnamenti dei pensatori repubblicani e non Lenin e Trockij. Telegramma – espresso, 17 marzo 1919, che riporta una conferenza del 16 marzo 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Forlì. Talvolta i toni arrivavano al grottesco, come in un articolo de “L’Iniziativa”, in cui si individuavano le differenze tra la rivoluzione repubblicana e quella socialista. La prima avrebbe presentato “prima il bilancio preventivo e consuntivo: questi i danni immediati, questi i vantaggi mediati; questo il dare, questo l’avere”. La seconda, invece, sarebbe stata “una partita d’azzardo”. G., Che fare? Tentare…, “L’Iniziativa”, 29 marzo 1919.

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V’era comunque nei repubblicani la consapevolezza del momento rivoluzionario35 ed essi cercarono di portare avanti la loro battaglia, che si svolgeva sotto le insegne della Costituente36. Di fronte al catastrofico fallimento della monarchia, appalesatosi nell’incapacità di gestire in modo appena soddisfacente la pace e di corrispondere alle aspettative del popolo che aveva fatto la guerra, il PRI capiva che si andava ad un inesorabile cambio di regime. La previsione che tutti facevano in quei giorni era di una presa del potere da parte dei bolscevichi, invisi alla borghesia. Proprio a quella i repubblicani rivolgevano il loro appello: unirsi al proletariato nella battaglia per la Costituente voleva dire non legare il proprio destino ad un regime finito, ma anche evitare l’avvento di un altro di cui si aveva terrore. La Costituente costituiva una “terza via” tra le opposte fazioni, anzi, come molti la definirono tra i repubblicani, “l’unica alternativa al bolscevismo”. La battaglia vide in primo piano Conti, appena smobilitato, ma anche la direzione fu unanime37. Ma se univoca, o

35 Conti riteneva che l’occasione per incidere sulla situazione, determinatasi a seguito della guerra e della rivoluzione russa, ci fu per i primi quattro, cinque mesi del 1919. Un Ignoto, Pensiero e Azione, cit., p. 106. 36 Giovani, in guardia!, “L’Alba Repubblicana”, 1 aprile 1919; Roberto Mirabelli, I partiti d’avanguardia contro il bolscevismo, “Roma”, 9-10 aprile 1919; Bolscevismo ufficiale, “L’Iniziativa”, 19 aprile 1919; Il valore pratico della Costituente, “L’Alba Repubblicana”, 1 giugno 1919; La situazione, “Etruria Nuova”, 15 giugno 1919; La nostra dottrina e la nostra fede, “Lucifero”, 29 giugno 1919; Roberto Mirabelli, La Costituente, “Roma”, 6-7 luglio 1919; la conferenza di Manlio D’Eramo tenuta il 10 agosto nella Piazza Garibaldi di Collescipoli sul tema “Il partito repubblicano e l’ora presente”. Lettera espresso 16 agosto 1919, ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Perugia e provincia; Enrico Bacchiani, Dallo Statuto alla Costituente, “L’Iniziativa”, 30 agosto 1919; Roberto Mirabelli, Per la Costituente, “L’Iniziativa”, 6 settembre 1919; Mario Gibelli, Capisaldi per la Costituente, ivi; Sante Ravaglioli, I nemici della Costituente, “Il Dovere” di Livorno, 5 ottobre 1919; Alighiero Ciattini, Perché la Costituente, “Lucifero”, 12 ottobre 1919; La Costituente, “L’Iniziativa”, 18 ottobre 1919; Nuntius rubens, Costituente!, “Il Dovere” di Lecce-Taranto, 30 ottobre 1919; Fernando Schiavetti, Intorno alla Costituente, “L’Iniziativa”, 1 novembre 1919; a.d.d.[Alfredo De Donno], Bolscevismo e Costituente, “L’Iniziativa”, 8 novembre 1919; A.B. [Alfredo Bottai], Costituente… e costituente, “L’Iniziativa”, 9 novembre 1919; Per la rivoluzione russa, ivi (lo stesso articolo venne ripubblicato su “L’Italia del Popolo” del 9-11 novembre 1919, col titolo Per la Russia); Un vecchio repubblicano, Dittatura o costituente, “Il Pensiero Romagnolo”, 30 ottobre 1920 (poi ripubblicato con lo stesso titolo da “La Sveglia Repubblicana” del 6 novembre 1920); Roberto Mirabelli, Dittatura o Costituente, “Roma”, 5-6 novembre 1920. 37 g.[iovanni] c.[onti], Costituente!, “L’Alba Repubblicana”, 1 aprile 1919 (la parte finale di questo articolo venne poi ripubblicata su “L’Iniziativa” del 1 maggio 1919, col titolo Il dilemma).

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quasi38, era stata l’adesione all’idea della Costituente, non si raggiungeva analogo risultato riguardo ai particolari. Schiavetti e Mirabelli pensavano, ad esempio, che la Costituente non dovesse escludere alcuno sbocco istituzionale, ivi compresa la Monarchia39. Alfredo Bottai sosteneva la necessità di un governo provvisorio, espressione di tutte le forze politiche, come passaggio intermedio alla convocazione della Costituente. In questo modo scatenò una polemica con il partito, che gli rispose negativamente per bocca del segretario Casalini40. Ma c’era anche chi pensava alla dittatura come passaggio verso la Costituente41 e chi ancora la vedeva possibile e auspicabile solo se fosse uscita dalla rivoluzione42. Tra i due estremi, la monarchia e il bolscevismo, la posizione del PRI cercava di essere equidistante43. Le maggiori responsabilità, e i più forti attacchi, andavano, però, al governo e al regime monarchico44. Nell’analisi dei repubblicani, infatti, il bolscevismo non era altro che uno spauracchio creato dal regime per giustificare una politica liberticida45. Per altri, però, era vero il contrario. Era, cioè, la politica di chiusura alle riforme che accresceva l’importanza del bolscevismo46. O, ancora, esso era un modo per evitare l’“unione proletaria” 47.

38 Perplessità nei confronti della Costituente espresse Cappa (Per la Costituente, “L’Iniziativa”, 21 giugno 1919). Questa non sarebbe bastata per opporsi al grande pericolo del bolscevismo. Al margine di questa lettera, il giornale definiva sarcasticamente Cappa un “Amleto”, roso dal dubbio e privo della capacità di agire. E davvero non si può dar torto all’anonimo redattore, se si pensa che su “Il Mondo” del 15 giugno Cappa, pur col consueto stile involuto, aveva espresso una sostanziale fiducia nella Costituente. Innocenzo Cappa, Fra la cronaca e la storia, “Il Mondo”, 15 giugno 1919. Anche Colajanni espresse riserve sull’opportunità di un’immediata convocazione della Costituente: La Rivista, Il disfattismo della pace, “RP”, 15 aprile 1919, pp. 138-140. 39 Roberto Mirabelli, I partiti di avanguardia contro il bolscevismo, “Roma”, 9-10 aprile 1919; Fernando Schiavetti, Intorno alla Costituente, “L’Iniziativa”, 1 novembre 1919. Sulle posizioni di Schiavetti al congresso vedi Stéfanie Prezioso, Itinerario di un «figlio del 1914». Fernando Schiavetti dalla trincea all’antifascismo, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2004, pp. 238-243. 40 Aroldo [Alfredo Bottai], Con la zampa del gatto, “L’Iniziativa”, 12 luglio 1919; A.B.[Alfredo Bottai], La costituente, ibid., 2 agosto 1919; A.B., Che cos’è la Costituente, ibid., 9 agosto 1919; Per intenderci sulla Costituente, ibid., 23 agosto 1919 (Lettera di Bottai con la risposta di Casalini); Aroldo [Alfredo Bottai], Per la Costituente, ibid., 4 ottobre 1919. 41 n.m., Dittature, “L’Alba Repubblicana”, 22 giugno 1919. 42 Marfra, Sulla dittatura, “Il Pensiero Romagnolo”, 5 luglio 1919. 43 Mario Gibelli, Forma e sostanza, “L’Iniziativa”, 19 aprile 1919. 44 L’Ordine Pubblico, “Il Popolano”, 19 luglio 1919. 45 Per la repubblica sociale, ibid., 12 aprile 1919; Bolscevismo e trasformazione sociale, “L’Iniziativa”, 24 maggio 1919; I problemi dell’ora, “Etruria Nuova”, 6 luglio 1919; La paura del bolscevismo, “Il Popolano”, 8 novembre 1919. 46 Audax, Bolscevismo, “Etruria Nuova”, 13 aprile 1919. 47 m.t., Lo spettro del bolscevismo, “Il Pensiero Romagnolo”, 2 agosto 1919.

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Riguardo a quest’ultimo punto, i repubblicani ripresero presto il loro posto a sinistra, cercando, come abbiamo visto, di stabilire un rapporto diverso con i socialisti. Sarebbe azzardato dire che questa esigenza di buoni rapporti con il PSI fosse sentita a tutti i livelli nel PRI. Soprattutto tra i repubblicani milanesi e quelli romagnoli, questi ultimi a contatto fisico con i socialisti, si era sviluppata una fortissima ostilità durante lo scontro tra neutralisti e interventisti. Al Partito Socialista si rinfacciava l’opportunismo48, il suo legame con il regime bolscevico49 e il tentativo di imporre soluzioni esterne alla crisi italiana50. Ma non si possono sottacere nemmeno gli importanti passi che nei primi mesi dell’anno fecero gli esponenti più avveduti del PRI, ma non solo loro, nel tentativo di coinvolgere anche il PSI nel loro programma politico51. Il tema dell’opportunità degli scioperi divise i due partiti in quei mesi. Il PRI romagnolo pubblicò una dichiarazione, firmata da tutti i maggiori esponenti della regione, contro gli scioperi, che avevano l’unica prospettiva, secondo i repubblicani, di isolare l’Italia dal credito mondiale, facendola con ciò precipitare nella miseria e nella fame52. Anche la Direzione espresse parere negativo, sottoscrivendo un altro manifesto contro gli scioperi, insieme all’Unione Socialista Ita-

48 Dalla tragedia alla commedia – Leninismo a credito, “La Libertà”, 26 marzo 1919; Chiare parole ai lavoratori socialisti, “La Libertà”, 9 aprile 1919 (è un manifesto rivolto ai lavoratori socialisti in cui li si incitava ad abbandonare i loro capi, accusati di vigliaccheria); Il Partito Socialista verso la insurrezione… elettorale, “L’Iniziativa”, 9 agosto 1919. 49 G., Che fare? Tentare…, “L’Iniziativa”, 29 marzo 1919; Napoleone Colajanni, Il sabotage della pace, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 11-12 aprile 1919; a.l., Smascheriamo il bolscevismo, “La Libertà”, 12 aprile 1919; Noi, I bolsceviki della Liguria rinnegano la Patria e commettono un sacrilegio contro Mazzini e Oberdan, “RP”, 15 aprile 1919, pp. 134-135. 50 Il pasticcio massimalista, “L’Iniziativa”, 30 agosto 1919 (l’articolo fu ripubblicato da “L’Alba Repubblicana” del 31 agosto 1919); I repubblicani contro lo sciopero leninista, “La Libertà”, 29 marzo 1919. 51 Cfr. ad es. la documentazione di svariate conferenze tenute durante lo stesso 1919 in Romagna, nelle quali l’elemento di polemica, o anche la consueta zuffa a suon di pugni, si accompagnava spesso con dichiarazioni di unità di intenti, contenuta in ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100. 52 I repubblicani contro lo sciopero leninista, “La Libertà”, 29 marzo 1919. Il manifesto fu ripubblicato anche su “Il Popolano” del 5 aprile 1919. Reazioni positive a questa dichiarazione espressero Mirabelli e Colajanni. Roberto Mirabelli, La Romagna repubblicana e il bolscevismo, “Roma”, 3-4 aprile 1919; La Rivista, Il disfattismo della pace, “RP”, 15 aprile 1919, pp. 138-140.

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liana53. Il manifesto iniziava criticando gli scioperi decretati dai socialisti: Nell’ora in cui il popolo liberato dall’incubo della guerra cerca affannosamente la via della sua completa liberazione, il P.S. Ufficiale che durante tutto il periodo delle ostilità non seppe trovare una parola d’incitamento e di fede per le sue atroci sofferenze, lancia l’appello in favore di uno sciopero generale destinato a suscitare anche nel nostro paese torbidi bolscevichi, mascherando il gesto equivoco con i drappeggi fascinatori della fraseologia rivoluzionaria.

Se la situazione era arrivata a quel punto la colpa era del governo: Noi dobbiamo constatare ancora una volta il completo fallimento delle istituzioni e delle classi dirigenti di fronte ai gravissimi problemi che urgono. Il Governo, impreparato alla guerra, si dimostra, anche maggiormente, impreparato alla pace e noi abbiamo pur oggi la precisa sensazione, che quel rinnovamento profondo nella vita politica e sociale italiana, che doveva essere una conseguenza logica della guerra rivoluzionaria, potrà essere compiuto soltanto in virtù dello sforzo cosciente e coordinato delle classi popolari, mature ormai a più alti destini.

L’alternativa, però, non poteva essere rappresentata da una rivoluzione di tipo bolscevico: Ma se questo rinnovamento non dobbiamo aspettare dalla volontà o dalla capacità delle classi dirigenti, non dobbiamo attenderlo neanche da una dittatura di facinorosi, che per essere assunti in nome del proletariato non sarebbe meno dannosa al proletariato stesso e al paese, rendendo possibile ogni forma di violenza distruggitrice della produzione, isolando la

53 “Il Messaggero”, 4 luglio 1919. Cfr. anche ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Affari generali. Riservata del 7 aprile 1919, oggetto “Movimento politico Accordi dei repubblicani ed Unione Socialista per opporsi ad eventuali movimenti bolsceviki”. Nella quale si riportava che, “in conformità al manifesto recentemente pubblicato”, i repubblicani e i carbonari, uniti, sarebbero scesi in piazza per contrastare, con la propaganda e con forme anche più dirette, l’azione dei socialisti. Tanto che l’estensore del documento auspicava: “Occorrerebbe di trovar modo di utilizzare nel miglior modo questa forza che concorre a contrastare l’attività dei socialisti ufficiali”. Generando, a sua volta il commento a matita del suo superiore: “Il miglior modo è di lasciarla agire per suo conto, senza comprometterla...”.

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nostra nazione nel mondo, compromettendone per lungo tempo le stesse rivendicazioni nazionali, politiche e sociali che ci stanno a cuore.

Questa posizione rischiava di essere ambigua, per questo era necessario essere chiari: Ma non intendiamo di essere fraintesi da chicchessia. Noi ci opporremo risolutamente a che il paese diventi preda dell’anarchia dissolvitrice, ma non siamo menomamente disposti a difendere un regime superato dai tempi ed incapace a soddisfare le nuove e giuste esigenze del popolo, che alla guerra ha dato tutte le sue migliori energie; [sic] Lo spettro del bolscevismo non deve essere pretesto [per] arrestare la marcia ascensionale delle classi lavoratrici ed il rinnovamento profondo della vita nazionale. Le classi dirigenti hanno un solo mezzo per impedire il trionfo del bolscevismo; [sic] cedere pacificamente il potere alle classi popolari, mettendole così in grado di esprimere la propria volontà e realizzare civilmente le proprie aspirazioni, secondo i programmi già da noi indicati e le classi operai [sic] se vogliono raggiungere i più altri [sic] destini, che loro assegna la storia, devono rifuggire da uomini e da sistemi, che comprometterebbero irrimediabilmente la loro causa, trovando nelle [sic] rinnovamento di tutto il paese mezzi atti a soddisfare le loro faute [sic] rivendicazioni.

Da questa analisi della situazione, discendevano 3 punti programmatici: 1°) Che i preliminari di pace siano immediatamente conclusi sulla base dei principii di Wilson. 2°) Che si completi subito, dopo la smobilitazione, il disarmo generale dei popoli ritornati in tranquilla convivenza nella lega delle Nazioni. 3°) Che si convochi una assemblea nazionale costituente con pieni poteri per fissare le nuove forme rappresentative del paese e che dovrà per primo suo atto nominare un governo provvisorio, che regga lo Stato fino alla approvazione del nuovo patto nazionale del popolo italiano. L’assemblea Nazionale dovrà essere eletta a suffragio universale col sistema del [sic] scrutinio di lista per circoscrizione regionali [sic] con rappresentanze proporzionali. Dinanzi all’assemblea nazionale noi sosterremo anche l’autonomia regionale ed un sistema di democrazia diretta sulla duplice base delle rappresentanze delle classi e delle correnti politiche.

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Frattanto i nostri partiti, che sempre furono all’avanguardia in ogni movimento democratico sociale, continueranno nel loro vigile lavoro, sicuri che il paese potrà trovare la sua salvezza e le classi operaie avere il loro trionfo soltanto in libere istituzioni lontane da dittature di qualsiasi specie di persona o di setta politicante, libere istituzioni che per noi si concretano nella repubblica sociale.

Il manifesto, che fu criticato per un eccesso di prudenza sul problema sociale54, appare effettivamente molto debole sul piano della definizione dei mezzi con cui attuare il programma presentato, prefigurando soluzioni irreali. Nell’assemblea dei soci della sezione milanese del 31 marzo 1919, Pirolini si disse contrario alla partecipazione repubblicana agli scioperi indetti dai socialisti, addirittura “ponendo in evidenza la minaccia ed il pericolo che sovrasterebbe all’Italia qualora i socialisti ufficiali riuscissero a mettere in esecuzione lo sciopero generale approvato, secondo il concetto politico bolscevico, dalla direzione del partito”. Il tono generale era fortemente antisocialista, tanto che si fece un appello all’alleanza con tutte le “associazioni ed organizzazioni note per i loro principi antisocialisti”. Fu formata anche una commissione composta da Paolo Taroni, Cesare Covi, Mario Gibelli, Corrado Baruffaldi e Giuseppe Guindani. “Fu pure prospettata l’opportunità, al bisogno, di accordarsi anche col Fascio milanese di combattimento testè quì [sic] sorto per iniziativa del Mussolini, il quale, siccome è noto, fu appunto per combattere e frenare la propaganda leninista”55. La Commissione ebbe diverse riunioni e raggiunse l’accordo con l’Unione Sindacale Italiana e la Unione Italiana del Lavoro, e un forte interesse da parte di Mussolini56. Tuttavia, le divergenze sulla Dalmazia e su Fiume avrebbero ridotto le trattative solo al “pericolo bolscevico” 57. D’altronde, la propensione dei repubblicani milanesi fu confermata nel convegno re-

54 Per la repubblica sociale, “Il Popolano”, 12 aprile 1919. Contrario si dichiarò anche Colajanni, sia per le soluzioni interne che per quelle internazionali che il manifesto proponeva. La Rivista, Il disfattismo della pace, “RP”, 15 aprile 1919, pp. 138-140. 55 Comunicazione del 1° aprile 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Milano. Tuttavia, in una comunicazione del 4 dicembre 1918 il prefetto di Milano chiudeva così: “Nell’ambiente repubblicano peraltro poca fiducia si ripone nel Mussolini e nelle sue dichiarazioni”. Ivi. 56 Telegramma-espresso, 8 aprile e 13 aprile 1919. Ivi. 57 Telegramma-espresso, 6 aprile 1919. Ivi. Cfr. anche la comunicazione del 25 giugno 1919. Ivi.

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gionale lombardo del 24 giugno, quando si discusse di alleanze e della scelta tra socialisti e mussoliniani, propendendo per i primi o tutt’al più per entrambi, posizione quest’ultima tenuta soprattutto da De Andreis. Anche a Livorno si discusse dell’atteggiamento da tenere nei confronti degli scioperi socialisti, con Gino Reggioli che riuscì ad evitare un ordine del giorno nettamente contrario a manifestazioni socialiste, per alcuni da osteggiare addirittura con la forza, rimandando agli organi dirigenti del partito le decisioni e ribadendo “di essere all’avanguardia di qualsiasi movimento per incanalarlo ai fini politici e sociali del partito stesso” 58. La posizione della Commissione Esecutiva fu così definita: partecipazione allo sciopero, ma attenzione a non farsi coinvolgere in atti politici contrari alle posizioni del partito, anzi, cercare di modificarne la natura secondo gli indirizzi repubblicani59. Questa avversione per le manifestazioni socialiste toccò a volte punte di nazionalismo, come quando a Milano fu aggredito il corteo socialista, e si ebbero sanguinosi scontri. I commenti ebbero toni vicini a quelli nazionalisti, quando non fascisti60. Non sempre, comunque, i rapporti erano improntati a tanta asprezza. In alcuni casi il confronto, pure esistente, tra i due partiti rimaneva su un piano di grande correttezza61. Il terreno di scontro principale tra i due partiti era stato, come detto, la polemica tra neutralisti e interventisti. Nonostante l’indubbia foga antisocialista62, non c’è dubbio che, nel corso dell’anno, la posizione dei repubblicani subì una significativa evoluzione. Il problema di trovare alleanze, in una fase in cui, peraltro, i rapporti di forza non erano ancora così sbilanciati, portava il PRI verso il PSI63.

58 Comunicazione 31 marzo 1919, riunione Circolo Bovio di Livorno del 29 marzo. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Livorno. Documento dell’ostilità dei repubblicani verso i socialisti, motivata dalla concorrenza nel mondo delle Camere di Lavoro, è anche la comunicazione del 10 giugno 1919, Convegno operaio repubblicano Toscano del 9 giugno a Livorno. Ivi. 59 Riservata del Prefetto di Milano, 10 aprile 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Affari generali. 60 Contro le imitazioni esotiche, “La Sveglia Repubblicana”, 19 aprile 1919; X, Lettere ad un operaio, ibid., 10 maggio 1919 (per il quale il capo dei bolscevichi sarebbe stato Giolitti). 61 Torniamo alle origini – Dopo i fatti di Forlì, “La Libertà”, 5 luglio 1919. 62 Bandiera rossa, “L’Italia del Popolo”, 29 marzo 1919; Riego, Uno sguardo generale alla situazione, “Il Pensiero Romagnolo”, 16 agosto 1919; Caporetto e la mistificazione socialista, “L’Iniziativa”, 16 agosto 1919. 63 Tale era anche il timore della polizia. Telegramma-espresso del prefetto di Milano, 8 luglio 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Affari generali.

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Inoltre, l’obiettivo preminente della polemica repubblicana era, come abbiamo visto, la monarchia e perciò, ogni gesto dei socialisti, che fosse possibile interpretare in funzione antimonarchica, era rimarcato dal partito64. E’ giusto, infatti, notare che la convergenza tra repubblicani e socialisti, allora e in seguito, venne quasi sempre per un impulso dall’alto verso il basso e il successo di tali iniziative era legato al prestigio e alla forza della segreteria. Anche durante l’estate del 1919, nella quale furono resi pubblici i risultati della Commissione d’inchiesta su Caporetto, che provocarono nuove polemiche tra gli antichi avversari, la Direzione Centrale fece uscire un manifesto, nel quale si sosteneva che “vano è anche recriminare ogni giorno sugli atteggiamenti ideali degl’uni e degli altri, durante la guerra” 65. La vita interna del partito, intanto, riprendeva. Dopo il Convegno di Firenze, anche a livello locale si tornava a discutere della situazione italiana. Il 13 aprile 1919 si apriva, a Forlì, il Congresso della Consociazione Repubblicana della Romagna, la più grande d’Italia. Dalla lettura dei resoconti, apparsi sulla stampa66, si ha la sensazione che il bolscevismo, anche per ragioni ambientali, fosse la principale preoccupazione dei presenti. Solo Pirolini parlò della Costituente, per quanto fosse nell’ordine del giorno concordato. Fu Gaudenzi che aprì il congresso, ribadendo la posizione intermedia dei repubblicani con lo slogan “Né bolscevichi, né monarchici”. Cino Macrelli, invece, attaccò il Convegno di Firenze e pose il problema di quale posizione prendere di fronte a un moto socialista. La sua risposta era che si dovesse prevenirlo con audacia67. In quei

64 Riservata del 10 gennaio 1919, ogg. “Movimento repubblicani in Romagne [sic]”. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Affari generali e in ACS, MI, DGPS, UCI, b. 40, fasc. 801 Repubblicani: “Dalle Romagne giungono notizie di malcontento. Secondo le notizie che si hanno a Roma i repubblicani di Romagna pur di riuscire nei loro intenti che non sono perfettamente ortodossi sono disposti a fare perfini [sic] alleanza cogli elementi socialisti ufficiali. Tale dichiarazione è stata fatta dal Nenni di Bologna – direttore del “Giornale del Mattino” – il quale ha detto a parecchi amici di Roma che, piuttosto che continuare nello stato di cose attuali, i repubblicani di Romagna di cui è conosciuta l’ira contro i socialisti ufficiali sono disposti a dimenticare tutte le passate divergenze e a procedere ad una alleanza colpleta [sic] pur di riuscire a imporsi e far procedere le cose a loro modo. È da notarsi che tale concetto di un riavvicinamento di repubblicani ai socialisti non è discaro neppure ai socialisti Ufficiali”. 65 Il manifesto è riprodotto ne “L’Iniziativa” del 12 luglio 1919. 66 La Romagna Repubblicana a Congresso, “Il Popolano”, 19 aprile 1919; Congresso Repubblicano Romagnolo, “L’Iniziativa”, 19 aprile 1919. Cfr. la comunicazione del 14 aprile 1919 in ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Costituente (Agitazioni pro). 67 Il discorso fu criticato in modo velato, ma corrosivo, nel resoconto de “L’Iniziativa”.

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giorni, l’illustre esponente aveva tenuto svariate conferenze, nelle quali aveva criticato i socialisti, definendoli una minoranza che non aveva il diritto d’imporsi, e il bolscevismo, al quale opponeva le idealità mazziniane68. Bazzi, segretario regionale romagnolo69, prese le difese del partito nelle assise: “Noi siamo dei sentimentali, – disse – ma davanti ad una rivoluzione proletaria, sui principi che non sono i nostri, noi avremo il coraggio di dire che non possiamo dare la nostra adesione”. Parlò anche Nenni, affermando di credere al pericolo leninista. “Lo giudica però – riportava “Il Popolano” – un movimento senza sbocco: più atto alla distruzione che alla ricostruzione”. Anch’egli, poi, criticava i socialisti per la volontà di imporre un modello di regime straniero. I più grandi pericoli, tuttavia, non sarebbero venuti dal PSI, bensì dalla Conferenza di Pace, qualora non si fosse resa interprete delle speranze dei popoli, e dal governo. Ciò detto, non ci si doveva far bloccare dallo spauracchio bolscevico. La sua era una posizione condivisa all’interno del partito e segna un momentaneo riavvicinarsi delle posizioni di Nenni a quelle del PRI. Più ambiguo l’intervento di Pirolini, che parlava a nome della CE: “I repubblicani adunque – disse il deputato di Ravenna – continuino la loro propaganda e i loro atteggiamenti tattici: li assumeranno di volta in volta a seconda degli avvenimenti”. Questo pragmatismo, tante volte enunciato dai maggiori esponenti del PRI, pare figlio della debolezza della segreteria, non in grado di imporre una linea e perciò sostenitrice di nessuna. Comandini chiedeva una maggiore definizione della posizione repubblicana. “Se il leninismo esiste tuttora nella lontana Russia e conquista altri paesi dell’Europa non può essere considerato come un episodio di terrore ma deve essere oggetto di un esame realistico e obiettivo”. Sennonché, come spesso accadeva nel PRI, la richiesta di concretezza si risolveva in se stessa. E d’altra parte anche “L’Iniziativa” lo criticò per la sua vaghezza.

68 Telegramma 7 aprile 1919, conferenza di Macrelli 6 aprile su “I repubblicani e l’ora presente”. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Forlì. 69 Sulle cariche interne al PRI c’è sempre confusione, difficile da sciogliere per l’assenza di documenti ufficiali. In particolare, da altra fonte risulta che Bazzi fosse (anche?) segretario propagandista della sezione milanese dal marzo 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Milano.

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Mazzolani attaccò il PSI e giudicò impossibile ogni contatto con quel partito70. L’ordine del giorno finale71 volle ribadire la posizione di autonomia del PRI e perciò diffidò gli iscritti dal prender parte a organizzazioni legate ad altri partiti72. La pace e l’intervento in Russia Le trattative di pace generarono grandi aspettative nel campo repubblicano. Le grandi idealità che avevano spinto il PRI alla scelta

70 “L’Iniziativa” lo censurò, a causa delle sue critiche al partito per l’uscita dal Fascio parlamentare. 71 Riguardo all’“atteggiamento politico del partito repubblicano”, il congresso si esprimeva così: “Il Congresso afferma che il Partito Repubblicano, assolvendo la funzione assunta al principio della guerra e confermata nel suo corso deve garantire la pace da ogni tentativo di sabotaggio da qualunque parte provenga; che negli avvenimenti svoltisi dall’agosto del 1914 ad oggi il Partito Repubblicano trova conforto e conferma alla sua tesi ed alla sua condotta per cui la guerra è stata ed è una rivoluzione che si concluderà con la non più difficile giustizia politica ed economica per il proletariato mondiale se alla prima necessaria vittoria delle armi contro gli Imperi Centrali seguirà la vittoria contro le speculazioni reazionarie e demagogiche comunque travestite; ritiene che il preannunziato sciopero del Partito Socialista risponde ad un calcolo fatto a fini particolaristici ed è incapace di risolvere il problema sociale la cui soluzione non sta nella dittatura di una classe, ma nelle [sic] instaurazione della piena sovranità di tutto il popolo attraverso alla [sic] Costituente. INVITA i proprii [sic] inscritti a non accettare responsabilità risalenti alle direttive di altri partiti e ad attendere in ogni evenienza le istruzioni dei proprii [sic] organi centrali; riafferma che il compito del Partito di determinare la crisi finale del regime in un’equa composizione dei diritti del lavoro con le necessità della produzione; dichiara altresì che la dottrina economica Mazziniana non è esaurita ne [sic] superata dagli avvenimenti; riconosce nelle organizzazioni mutue cooperative e resistenza, non asservite a partiti politici, ma autonome nella loro azione di classe le cellule della nuova società specialmente nel periodo di transizione tra la società capitalistica e quella in cui il capitale ed il lavoro sarà riunito nelle stesse mani; invita quindi i repubblicani tutti ad intensificare l’opera loro in questi [sic] tre forme di movimento economico”. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Costituente (Agitazioni pro). 72 Gli interventi sul testo del resoconto del Congresso operati da “L’Iniziativa”, scatenarono l’ira de “La Libertà”, il giornale di Bazzi. In un articolo durissimo, questo se la prendeva con i socialisti, e con i repubblicani che avevano intenzione di dialogare con loro. Ma soprattutto si scagliava contro l’organo del partito e la sua CE, giudicandoli inadeguati, anche per la loro mancata partecipazione alla guerra. Scendendo nel vivo della polemica, l’accusa era di disonestà per il modo in cui si era riportato l’andamento del Congresso. Secondo “La Libertà”, a Forlì c’era stato uno scontro tra chi tentennava pavido di fronte al bolscevismo e chi, invece, era nettamente contrario ad esso. La prima corrente era stata “schiantata”. La causa della reazione era però, soprattutto la definizione di “antisocialista” che “L’Iniziativa” aveva dato al discorso di Bazzi. Quello di Bazzi appariva già un repubblicanesimo nazionalista, con toni truculenti e bellicosi, che preludevano a successive svolte ideali. Gli assassini e gli allucinati della Rivoluzione, “La Libertà”, 23 aprile 1919.

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interventista, avrebbero dovuto trovare nella Conferenza di Versailles la piena attuazione. L’autodeterminazione dei popoli, la Società delle Nazioni, il trionfo dell’ideale democratico, che avevano in Wilson, presidente della più grande repubblica del mondo, il loro campione, erano gli obiettivi che parevano ai repubblicani a portata di mano. D’altra parte, proprio queste grandi aspettative responsabilizzavano assai le trattative e rendevano i repubblicani attenti a ogni deroga dagli scopi proposti. Da queste discussioni doveva uscire una più giusta sistemazione del mondo, perciò ci si aspettava anche la soluzione del problema russo73. Per questo si plaudì alla scelta della Conferenza di inviare “suoi fiduciari per discutere e trattare direttamente coi rappresentanti dei vari governi e di tutti i gruppi politici che regg[evano] o si contrast[avano] il potere”74. Le scelte operate fino allora nei riguardi della Russia erano radicalmente sbagliate, secondo i repubblicani: Non si distrugge il regime bolscevico favorendo più o meno coscientemente le tendenze controrivoluzionarie. Non si può pretendere di rappacificare un popolo e con esso stringere pacifiche e durature alleanze violandone le frontiere e volendo con la forza sostituirsi più o meno larvatamente ai governi indigeni75.

La scarsa simpatia verso un intervento armato era espressa anche da chi, come “L’Iniziativa”, deplorava l’inizio di trattative dirette con un governo, quello dei Soviet, privo tutt’affatto di legittimità e che non poteva, a nessun titolo, parlare a nome del popolo russo76. L’intervento auspicato dall’organo del PRI era quello che avrebbe fornito “allo stesso popolo russo insofferente i mezzi materiali della sua seconda liberazione perché non riteniamo certo che gli eserciti europei debbano e possano sostituirsi ai volontari della Russia rivoluzionaria”77. Anche Pirolini, dichiarò che “il partito repubblicano, devoto

73

Alighiero Ciattini, Dalle formule alla realtà, “L’Iniziativa”, 29 marzo 1919. Mario Ronchi, Consacrazioni di libertà, “Il Pensiero Romagnolo”, 1 febbraio 1919. 75 Ivi. 76 I primi atti della Conferenza di Parigi, “L’Iniziativa”, 1 febbraio 1919. 77 Ivi. E’ probabile che questo, e altri articoli di politica estera, apparsi su “L’Iniziativa” senza firma, debbano essere attribuiti a Alfredo De Donno, che era specializzato in quella materia. 74

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dottrina Mazziniana, è contrario [...] invio truppe in Russia come pure a tutti gli imperialismi”78. Più nel dettaglio del Convegno dell’Isola dei Principi, dove appunto avrebbero dovuto incontrarsi i rappresentanti dei governi russi, scendeva Colajanni. E lo faceva per attaccare decisamente quella che definiva una soluzione di compromesso tra l’interventismo francese e il neutralismo americano. Questa opzione, sosteneva Colajanni, avrebbe dato una formidabile arma propagandistica in mano al governo bolscevico, che l’avrebbe spacciata come una vittoria morale. Piuttosto era il caso di intervenire militarmente in Russia. O, nel caso di impossibilità pratica, quantomeno si sarebbe dovuto effettuare un duro blocco economico e si sarebbero dovuti sovvenzionare i governi antibolscevichi. D’altra parte la posta in gioco era la Lega delle Nazioni. Essa non sarebbe stata possibile senza l’apporto della Russia, ma nemmeno si poteva far entrare a pieno titolo, in tale consesso, un paese che aveva tradito tutti i patti sottoscritti. Inoltre, la Lega doveva nascere stabilendo immediatamente un diritto d’intervento, di cui peraltro, secondo Colajanni, era già sostenitore Mazzini e senza il quale la stessa Lega diventava inutile79. Documento della posizione ambigua circa l’intervento in Russia era il resoconto di una manifestazione tenuta la sera del 2 aprile 1919. De Andreis parlando della Russia parlò di questa come di un paese “ove pochi politicanti autocrati si sono insediati sulle rovine dello czarismo, e concluse dicendo che l’avvenire non è dei più forti, ma sebbene dei migliori, e ch’è dovere resistere alla psicologia del momento contro tutte le offensive; quelle del [sic] basso e quelle dell’altro [sic!]”. Parlò poi Bazzi, che

78 Comunicazione prefetto 25 marzo 1919 relativa a una conferenza di Pirolini del 23 marzo a Pisignano di Cervia. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Ravenna e fasc. Costituente (agitazioni pro). Pirolini proseguiva poi criticando il PSI: “Circa nuovo assetto sociale disse che repubblicani vogliono elevamento proletariato adottando metodi più convenienti, secondo condizione e sviluppo singoli popoli, non mai però mediante distruzione ricchezze. Rimproverò ai socialisti locali di lanciare contro i repubblicani il grido di viva Lenin, asserendo che la dottrina leninista, non ancora ben conosciuta, è ripudiata dagli stessi capi del partito socialista, come Turati e Modigliani”. Ivi. 79 Napoleone Colajanni, Il pericolo leninista, “La Sera”, 4-5 febbraio 1919 e “La Sera”, 5-6 febbraio 1919; id., Il pericolo russo, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 6-7 febbraio 1919; id., Le contraddizioni del wilsonismo, “Il Messaggero”, 15 febbraio 1919. Già da gennaio, Colajanni si rammaricava per il mancato intervento in Russia. Noi, L’impunità del leninismo brigantesco, “RP”, 15-31 gennaio 1919, pp. 5-6. D’accordo con la posizione di Colajanni circa l’intervento era Mirabelli: “Mazzini avrebbe definito codarda la diserzione degli Stati civili davanti al bolscevismo terrorista e bancarottiere”. Roberto Mirabelli, Wilson contro Wilson, “Roma”, 12-13 aprile 1919.

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accennando alla minaccia del leninismo, affermò di avere elementi per giudicarlo e per non vedere in esso se non un regresso ideale, e di essere necessario imporre la nostra sana volontà, la quale è contro le resistenze economiche, le debolezze politiche dei conservatori, e contro le doppiezza [sic] e la viltà dei politicanti socialisti. A proposito dei quali l’oratore fece uno [sic] parallelo tra l’Onorevole De Andreis e l’Onorevole Turati, del quale tratteggiò il profilo morale, commiserando la borghesia che aspetta da un siffatto uomo la salvezza, “ [sic] ma noi, soggiunse, fronteggeremo i ricatti bolscevichi come fronteggiammo i calcoli tedeschi.

Al solito, Bazzi si fece esponente dell’ala più reazionaria del PRI, conservando una visione della realtà tutta interna alla dicotomia interventismo/neutralismo, con una piccola, retorica, concessione: “Ad ogni modo, concluse, noi saremo al nostro posto, perchè, se la rivoluzione si deve fare, un secolo di tradizione e di dovere repubblicano ci garantisce il diritto di dominarla” 80. I repubblicani, come detto, furono tra i più accesi sostenitori di Wilson, sostenendo la sua filiazione ideale da Mazzini, e lo usarono in contrapposizione a Lenin81. Colajanni metteva in guardia da quelle che lui definiva “le amare delusioni dell’idealismo”, prendendo una posizione coerentemente antiwilsoniana. Dapprima con molta benevolenza, considerò comunque illuminanti le posizioni del presidente americano, ma non decisive82, poi si fece via via più critico. Se ancora nel gennaio aveva sottoscritto il referendum promosso da “La Sera” affinché venisse assegnato al presi-

80 Espresso del 4 aprile 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Milano. Bazzi aveva sostenuto idee simili anche nella conferenza sul tema “Il dovere dei repubblicani nell’attuale momento politico” tenuta il 23 marzo al Teatro Calderoni a Alfonsine. Comunicazione prefetto, 25 marzo 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Ravenna. 81 “È giunta l’ora di scegliere tra la bandiera rossa di Lenin e quella bianca di Wilson: occorre, dall’una parte o dall’altra, decidersi”. Bandiera rossa, “L’Italia del Popolo”, 29 marzo 1919; a.d.d. [Alfredo De Donno], Karoly ha parlato: Wilson o Lenin!, “L’Iniziativa”, 29 marzo 1919; a.d.d., Un anno di azione critica, ibid., 10 gennaio 1920. Sul parallelo Mazzini – Wilson vedi Antonino De Francesco, L’eredità di Versaglia, cit., passim, che a p. 124 ne parla in riferimento a Nenni. Nel convegno di Firenze si era deliberato di spedire a Wilson una collezione dei libri di Mazzini. Telegramma del 9 dicembre 1918. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Firenze – Congresso. 82 Napoleone Colajanni, Le amare delusioni dell’idealismo, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 24-25 febbraio 1919.

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dente americano il Premio Nobel per la Pace83, già a marzo l’idealismo wilsoniano divenne “una palla al piede per l’Intesa” e Wilson stesso, insieme ai governi occidentali, responsabile del rafforzarsi dei bolscevichi84. Una dura sconfitta militare dei nemici, infatti, avrebbe evitato un così marcato avanzamento del bolscevismo in Italia85. Alla fine di aprile, dopo l’appello di Wilson al popolo italiano, che provocò il ritiro della delegazione italiana dalla Conferenza della pace86, Colajanni riprese voci, apparse sulla stampa, di un probabile coinvolgimento dell’affarismo anglosassone nelle decisioni di Wilson, che egli definì, senza mezzi termini, tradimento87. Questo gravissimo atto imponeva una risposta forte da parte degli italiani. Perciò era necessario, per Colajanni, continuare a cercare di tenere uniti gli italiani, lottando contro il bolscevismo, elemento disgregatore88. Era lo stesso motivo che aveva tenuto Colajanni lontano dal Convegno di Firenze del dicembre 1918. Già qualche giorno prima egli aveva ribadito con forza la necessità di formare un Fascio uguale [a quello costituito dopo Caporetto] più largo, più combattivo, [che] nel paese potrà, dovrà salvarci dal pericolo e dalla tirannide del bolscevismo; questo Fascio dovrà educare e combattere per la salvezza dell’Italia; dovrà impedire che i frutti della vittoria contro i nemici stranieri

83 Il Presidente Wilson in Italia, “La Sera”, 2-3 gennaio 1919. Le perplessità sulla politica di Wilson non intaccarono ancora il giudizio su di lui, che rimase positivo. Napoleone Colajanni, Il contributo nord-americano nella guerra. L’uomo e le istituzioni, “La Sera”, 22-23 gennaio 1919; id., Per vincere la pace, “Roma”, 23-24 gennaio 1919. Nonostante le numerose prese di posizione del politico siciliano su Wilson e il wilsonismo, il suo nome non è presente nell’indice dei nomi del libro di Daniela Rossini, Il mito americano..., cit. 84 Napoleone Colajanni, La riscossa della Germania, “Il Messaggero”, 30 marzo 1919; Noi, Trionfi bolsceviki e proteste di contadini, “RP”, 31 marzo 1919, p. 108; Napoleone Colajanni, La Conferenza di Parigi raccoglie ciò che ha seminato. (Il grande ricatto Teutonico-Magiaro), “RP”, 31 marzo 1919, pp. 111-113. In Noi, Come i pescecani internazionali aggirarono Wilson, “RP”, 15 maggio 1919, pp. 191-193, adontò le responsabilità dell’affarismo anglo-americano. 85 Napoleone Colajanni, La maggiore e peggiore conseguenza del Wilsonismo, “Giornale di Sicilia”, 19-20 aprile 1919 e “Roma”, 20-21 aprile 1919. Gli altri responsabili di una tale situazione, ovviamente, erano i socialisti, prudenti sulle loro riviste ma entusiasti sostenitori di quel regime in Parlamento. 86 Conti approvò la decisione dei delegati e attaccò Wilson. Telegramma espresso 8 maggio 1919 conferenza di Conti a Rivarolo Ligure tenuta il 28 aprile 1919 sul tema “L’attuale momento politico”. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Genova. 87 Napoleone Colajanni, Dalla follia wilsoniana alla follia bolscevica, “Giornale di Sicilia”, 19-20 aprile 1919 e “Roma”, 20-21 aprile 1919; Noi, Ambiente torbido e pieno di sospetti, “RP”, 30 aprile 1919, pp. 157-158; Napoleone Colajanni, Verso la giustizia?, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 7-8 maggio 1919; Noi, La politica estera capitalistica dei bolsceviki, “RP”, 31 maggio 1919, pp. 215-216. 88 Napoleone Colajanni, Dalla follia wilsoniana alla follia bolscevica, “Giornale di Sicilia”, 19-20 aprile 1919 e “Roma”, 20-21 aprile 1919.

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non vengano perduti durante la pace colla organizzazione della guerra civile preconizzata, augurata e preparata dal leninismo indigeno89.

Per il PRI, la posizione di Wilson fu motivo di imbarazzo. Si imputò la maggior parte delle colpe a Orlando e a Sonnino e alla loro politica estera, definendo “inesplicabile” l’atteggiamento del presidente americano90, per poi accentuare la delusione amara nei confronti del presidente americano, senza però dimenticare le responsabilità degli statisti italiani91. In complesso, la pace venne giudicata molto severamente. Nel Convegno Nazionale di Roma (9-10 giugno 1919), fu uno degli argomenti principali discussi, e fu duramente stigmatizzata nell’ordine del giorno approvato all’unanimità: Il Convegno, riaffermando la sua fede nella guerra rivoluzionaria che ha conquistato all’Umanità ancora giustizia ed ha creato il clima storico in cui si attuerà la radicale trasformazione degli attuali istituti politico-sociali, approva le manifestazioni già avvenute da parte di vari organi del Partito contro la pace di Versailles, tendenti a creare uno sbocco che ripugna alle ragioni per cui la guerra è stata combattuta, e che tradisce gli impegni presi col popolo nel corso della guerra stessa92.

E la si continuò a ritenere, nei mesi seguenti, responsabile dell’instabilità europea93.

89

La Rivista, Il disfattismo della pace, “RP”, 15 aprile 1919, p. 140. I repubblicani per Fiume italiana, “L’Iniziativa”, 1 maggio 1919. 91 a.d.d. [Alfredo De Donno] , Dopo il voto di fiducia, ibid., 10 maggio 1919. Nell’ambito di questa ricerca ci limitiamo ad un accenno, per quanto corposo, alla vicenda, che meriterebbe certamente di essere approfondita. 92 Riservata urgente, 12 giugno 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Affari Generali e i resoconti pubblicati su “L’Iniziativa” del 14 giugno 1919. Tra gli argomenti discussi non ci fu, una volta tanto, il bolscevismo. 93 Nullo Caselli, Le forze del progresso, “L’Alba Repubblicana”, 9 gennaio 1920. Nel trattare la Conferenza di Versailles, il destino della Russia venne, nelle analisi di politica estera, legato spesso alla Germania. Il bolscevismo, infatti, era visto ancora come una creatura tedesca che, con la sua presenza minacciosa, permetteva alla Germania di riabilitarsi nella considerazione europea, proponendosi come baluardo antibolscevico. Profetico fu Riego, il quale scrisse che il fallimento della Conferenza di Versailles avrebbe avuto come corollario l’alleanza tedesco-russa. Bandiera rossa, “L’Italia del Popolo”, 29 marzo 1919; Napoleone Colajanni, La riscossa della Germania, “Il Messaggero”, 30 marzo 1919; Noi, Trionfi bolsceviki e proteste di contadini, “RP”, 31 marzo 1919, p. 108; a.l., Smascheriamo il bolscevismo, “La Libertà”, 12 aprile 1919; Riego, L’attimo immenso nel destino di tutti, “Il Pensiero Romagnolo”, 19 aprile 1919; a., L’incognita russa, “L’Italia del Popolo”, 25-28 ottobre 1919. 90

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Nello specifico, riguardo alla Russia il tema dell’intervento si intrecciava parzialmente, come abbiamo visto, a quello delle trattative di pace. I repubblicani deploravano che la politica dell’Intesa si spostasse sempre più nel campo reazionario94. Rimettendo in uso “i più antipatici arnesi dello czarismo maledetto”, i governi occidentali sarebbero riusciti soltanto a guadagnare l’odio eterno di chi rappresentava la vera Russia, vale a dire il popolo russo. Questo, se non era bolscevico, tanto meno poteva apprezzare una restaurazione zarista, fatta con armi straniere95. Così, quando la figura di Kolcˇak emerse quale principale avversario di Lenin, i repubblicani non esitarono a schierarsi dalla parte di quest’ultimo96. Appellandosi ai valori dell’interventismo democratico e rivoluzionario, il “Lucifero” invocava poi l’immediato ritiro delle truppe italiane dalla Russia97. Così non la pensava Colajanni, che definì coloro i quali si opponevano all’intervento in Russia e al riconoscimento del governo di Kolcˇak “degli imbecilli, se non dei complici occulti dei bolscevichi” 98. Il metro di giudizio era sempre la libertà. Non si poteva imporre con le armi la propria volontà, scambiando ciò per missione liberatoria. Pe-

94

g., Occhio alla Russia, ibid., 22-24 ottobre 1919. Faber [Armando Casalini?], I gravi errori dell’Intesa in Russia, “L’Iniziativa”, 31 maggio 1919. 96 Quando Kolcˇak venne fucilato, si scrisse: “Ecco la fine di un illuso, che non servirà ad insegnare a tanti reazionari del nostro paese che l’unica e sola reazione possibile contro la rivoluzione è… la giustizia”. Kolciak fucilato, “L’Alba Repubblicana”, 22 febbraio 1920. 97 Enjolras [Piero Pergoli], I popoli dell’Intesa devono opporsi ad ogni tentativo di restaurazione zarista – Né Koltciak, né Lenin, “Lucifero”, 8 giugno 1919. Mesi dopo “Il Popolano” accusava il governo italiano di essere stato poco lungimirante, per non aver riconosciuto prima il governo russo senza aderire al blocco, dal momento che l’Italia non aveva interessi in quel paese. L’uomo della strada, A volo d’uccello. II I problemi dell’ora, “Il Popolano”, 3 luglio 1920. 98 Noi, Sempre in Russia! Tra Kolciak e Lenine, “RP”, 15 giugno 1919, pp. 237-238. Nello stesso numero, Colajanni plaudiva ancora al riconoscimento di Kolcˇak (Noi, Un altro socialista russo contro il bolscevismo, ibid., pp. 238-239), e, per rinforzare le sue argomentazioni, pubblicava un articolo di Vladimiro Bourtzeff, O Kolciak o Lenin! Tertius non datur!, ibid., pp. 244-245, tratto da “Cause Commune”, tutto a favore dell’ex generale zarista. Vladimir Lvovicˇ Burtzev (Burcev), (1862-1942), in origine populista, aderì al partito socialista rivoluzionario, segnalandosi per le sue pubblicazioni all’estero contro lo zarismo, che gli valsero condanne ed espulsioni dai paesi nei quali era esule, e per la sua attività di scopritore di infiltrati dell’Ochranà tra i socialisti rivoluzionari. Nel 1917 tornò in Russia, dove guidò l’opposizione del suo partito a Lenin, ragione per la quale, fu costretto a fuggire, nel 1921, a Parigi. Presente anche nel nostro paese, lasciò rilevante traccia di sé, tanto che a lui indirizzò il telegramma di felicitazioni per l’avvenuta rivoluzione, “Il Popolo d’Italia” (Telegramma a Burtzev, “Il Popolo d’Italia”, 3 aprile 1917). Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 58 e passim. Qualche altra notizia su pubblicazioni di Burtzev anche in Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia, cit., p. 151 n.53. 95

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raltro il regime leninista avrebbe già cessato di esistere, e di costituire un simbolo, qualora gli si fosse lasciato svolgere la sua parabola inevitabilmente autodistruttiva99. Ma ragioni di imperialismo economico avevano evidentemente spinto verso l’intervento100. Si criticò aspramente anche il blocco economico101, che, se da una parte strozzava l’economia russa, dall’altra impediva agli italiani di comprare il grano che altri paesi facevano pagare molto caro e di cui molti, ma non Colajanni, presumevano che la Russia disponesse in gran copia102. Fu così che il PRI aderì allo sciopero internazionale del 21 luglio, indetto per protestare contro l’intervento militare in Russia e in Ungheria dai partiti socialisti europei. In tal senso si espresse il Comitato

99 C.M., L’ultimo colpo, “Il Popolano”, 21 giugno 1919; Gli articoli della fede – 1°: la pelle, “Etruria Nuova”, 20 luglio 1919; Il blocco contro la Russia, “Il Pensiero Romagnolo”, 8 novembre 1919; Giuseppe Ricchieri, L’idea socialista nel Programma dei Combattenti, “L’Italia del Popolo”, 12-13 novembre 1919; Logica socialista, “Il Popolano”, 12 novembre 1919; Nullo Caselli, Le forze del progresso, “L’Alba Repubblicana”, 9 gennaio 1920; a.d.d. [Alfredo De Donno], Un anno d’azione critica, “L’Iniziativa”, 10 gennaio 1920; Germania e Russia, “Il Popolano”, 17 gennaio 1919. In tal senso si espressero anche un ordine del giorno della Camera del Lavoro di Cesena, pubblicato da “Il Popolano” il 5 luglio 1919, tra i cui promotori figurava Cino Macrelli, e un manifesto elettorale della Consociazione Romagnola, ivi pubblicato l’8 novembre 1919. 100 L.Piast., Contro il blocco della Russia, “L’Iniziativa”, 13 novembre 1919; a., Dalla Russia all’Egitto, “L’Italia del Popolo”, 26-28 novembre 1919. 101 Logica socialista, “Il Popolano”, 12 novembre 1919. Anche Chiesa lo criticò nel suo discorso agli elettori. Eugenio Chiesa, Il problema della ricostruzione nazionale, politica finanziaria, economica (Agli elettori, 1919), Tip. E. Medici, Massa 1919, ripubblicato in La vita di Eugenio Chiesa nel centenario della nascita 1863-1963, a cura di Mary e Luciana Chiesa, Giuffrè, Milano s.d., p. 264 e in Eugenio Chiesa, Scritti e discorsi 1893-1929, a cura di Fulvio Conti e Sheyla Moroni, Centro Editoriale Toscano, Firenze 2003, p. 180. 102 Riforme o rivoluzione?, “Humanitas”, 28 settembre – 5 ottobre 1919, pp. 154-156. L’utilità del commercio italo-russo venne anche affermata da Vahan Totomianz, Relazioni commerciali tra l’Italia e la Russia, “RP”, 15 marzo 1920, pp. 80-81. Il professor Vahan Totomianz, menscevico, fu in Italia dall’ottobre del 1918. Attraverso articoli apparsi su importanti riviste, sostenne la superiorità del modello cooperativo rispetto a quello bolscevico, divenendo un esponente di primo piano della Lega delle cooperative socialista, fino alla rottura, avvenuta nel 1922. Fu un importantissimo sostenitore del commercio italo-russo. Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana, cit., pp. 135-136 e 319; e, soprattutto, Giorgio Petracchi, La cooperazione italiana, il Centrosojuz e la ripresa dei rapporti commerciali tra l’Italia e la Russia sovietica (1917-1922), “Storia contemporanea” n. 2, 1977, pp. 219-223. Assolutamente scettico circa le capacità produttive in campo agricolo della Russia era Colajanni. Napoleone Colajanni, La reale situazione alimentare, “Giornale di Sicilia”, 2-3 marzo 1920 e “Roma”, 6-7 marzo 1920; lo zotico, È necessario diminuire il consumo del grano (Fallaci speranze sulla Russia), “RP”, 15 marzo 1920, pp. 75-78; Noi, Per non creare illusioni: si può esportare vino per importare grano?, ibid., 30 aprile – 15 maggio 1920, p. 139; Noi, Il grano e le materie prime della Russia, ibid., pp. 139-140.

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Centrale del PRI, anche se vanno segnalate significative eccezioni103. Stabilita l’adesione allo sciopero, l’impegno divenne quello di far rilevare la presenza repubblicana e i suoi motivi contro i socialisti accusati di monopolizzarlo, ribadendo i valori dell’interventismo rivoluzionario104. Il battagliero settimanale dei giovani repubblicani, “L’Alba Repubblicana”, sosteneva la necessità del PRI di aderire allo sciopero allo scopo di non dividere il movimento operaio, ma nel contempo esprimeva sfiducia in quello strumento di lotta105. Risoltosi lo sciopero in un sostanziale fallimento, anche per la scarsa partecipazione del movimento operaio internazionale, i repubblicani sfogarono il loro disappunto scaricando tutta la responsabilità sull’incapacità rivoluzionaria dei socialisti106. Ciò non tolse che negli stessi articoli si attaccassero anche quei repubblicani che avevano parteggiato per lo sciopero. In seguito, i dirigenti del PRI spiegarono la loro con la precedente adesione degli operai della UIL, organizzazione alla quale aderivano le Camere di Lavoro e gli operai repubblicani, e con la necessità, perciò, di non spaccare il movimento. Al di là dell’intervento, l’immagine del bolscevismo sulla stampa repubblicana venne declinata in vari modi, sempre però tendenti a mettere in luce la non esportabilità del fenomeno, tipicamente russo. Così Comandini motivava il suo rifiuto del bolscevismo: Per questo diciamo no al comunismo: no perché le condizioni economiche e sociali dell’Italia, scarsa di capitali e di materie prime, esuberante di uomini, mal si presterebbero ad un esperimento di economia rigorosamente autarchica;

103 Il Partito Repubblicano e lo sciopero del 21 luglio, “L’Iniziativa”, 12 luglio 1919. Riprodotto anche in “Il Popolano” del 19 luglio 1919 col medesimo titolo, e ne “L’Alba Repubblicana” del 20 luglio 1919 col titolo Contro la pace di Wersailles [sic], contro l’intervento in Russia per la smobilitazione. Tra le sezioni che non aderirono c’era Ravenna: Sergio Gnani, I repubblicani ravennati di fronte al fascismo (1919 – 1925), Centro di studi storici e politici del PRI dell’Emilia – Romagna, s.l. e s.d. [Ravenna 1976], pp. 10-11. Cfr. anche La Rivista, Per un nuovo e più disastroso Caporetto, “RP”, 31 luglio 1919, pp. 290-296. 104 L’anima del Partito Repubblicano è col popolo russo e ungherese, “L’Iniziativa”, 19 luglio 1919; n.m., Lo sciopero e la nostra adesione, ivi; Lo sciopero generale e il Partito Repubblicano, “Etruria Nuova”, 20 luglio 1919. 105 Lo sciopero generale, “L’Alba Repubblicana”, 20 luglio 1919. 106 Un viaggetto nello sciopero generale, “La Sveglia Repubblicana”, 26 luglio 1919; La Rivista, Per un nuovo e più disastroso Caporetto, “RP”, 31 luglio 1919, pp. 290-296; “La Passerella”, “L’Iniziativa”, 2 agosto 1919.

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no perché, nella migliore ipotesi, la dittatura del proletariato sarebbe da noi sostanzialmente la dittatura esercitata dalle maestranze protette ai danni e contro gli interessi del proletariato agricolo e dell’industria agricola, cioé delle forze progressive dell’Italia di domani; no perché, confermate dagli esperimenti di guerra le leggi economiche di libertà, vediamo appunto nel problema della nuova Italia un problema morale, economico, sociale, politico di libertà107.

Così esso venne visto come uno stato d’animo tipico delle masse russe108, altrove lo si dipinse come un mondo in preda a impulsi orgiastici109, quando non suicidi110, e dove comunque non si applicava minimamente la dottrina marxista111, o dove imperava il “principio sopraffattore”112. Inoltre, esso era responsabile della fine della rivoluzione socialista che aveva sconfitto lo zarismo113. Spesso le analisi sul rapporto tra i repubblicani e il comunismo si sono fermate a questo livello, quello dell’attacco, spesso anche ingiurioso. Ma esiste anche un piano diverso di discussione, nel quale è possibile trovare analisi più ragionate114. Così, su “La Sveglia Repubblicana”, si chiariva che proprio il fatto che il bolscevismo non avesse migliorato le condizioni materiali del popolo russo, costituiva una prova evidente del suo carattere ideale:

107 Crisi di regime – Discorso di Ubaldo Comandini pronunciato il 5 ottobre 1919 al Teatro Comunale di Cesena, “Il Popolano”, 11 ottobre 1919. Ma vedi anche Discorso pronunciato da Carlo Bazzi nel Washington Theatre di S. Francisco, l’8 gennaio 1919, “La Libertà”, 5 aprile 1919; Il pasticcio massimalista, “L’Iniziativa”, 30 agosto 1919 (ripubblicato col medesimo titolo ne “L’Alba Repubblicana” del 31 agosto 1919); Riforme o rivoluzione?, “Humanitas”, 28 settembre – 5 ottobre 1919, pp. 154-156; Logica socialista, “Il Popolano”, 12 novembre 1919. 108 “Il bolchevismo […] non è un sistema rivoluzionario da potersi adottare, come taluno crede, anche in altri paesi, ma uno stato speciale di animo, una forma spiegabile se non giustificabile di esasperazione profonda dell’animo popolare russo così duramente compresso per lunghi secoli”. Faber [Armando Casalini?], La rivoluzione in Europa, “L’Iniziativa”, 18 gennaio 1919. 109 Roberto Mirabelli, I partiti d’avanguardia contro il bolscevismo, “Roma”, 9-10 aprile 1919; Riforme o rivoluzione?, “Humanitas”, 28 settembre – 5 ottobre 1919, pp. 154-156. Cfr. anche l’articolo di Paolo Orano, Che cos’è il bolscevismo, “Etruria Nuova”, 6 aprile 1919 che, pur non essendo scritto da un repubblicano, era pubblicato su una rivista repubblicana. 110 Mario Pistocchi, La Forza e il Progresso, “Il Popolano”, 1 marzo 1919. 111 Caricaturisti, “La Sveglia Repubblicana”, 8 febbraio 1919; Roberto Mirabelli, La Romagna repubblicana e il socialismo, “Roma”, 3-4 aprile 1919; G., Che fare? Tentare…, “L’Iniziativa”, 29 marzo 1919; Riforme o rivoluzione?, “Humanitas”, 28 settembre – 5 ottobre 1919, pp. 154-156. 112 Mario Gibelli, Forma e sostanza, “L’Iniziativa”, 19 aprile 1919; La libertà bolscevica, “Etruria Nuova”, 28 novembre 1919. 113 E. Ottoni, In attesa del Congresso, “L’Iniziativa”, 6 settembre 1919. 114 Antibolscevichi, “L’Alba Repubblicana”, 10 dicembre 1919.

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Non è, evidentemente, un moto esclusivamente egoista per un maggior benessere fisico; è un movimento ideale per una maggior giustizia. Certo […] non ha nell’azione dei suoi dirigenti molta logica, e quindi non può averla nelle menti incolte dei suoi seguaci. Ma è un senso informe e rozzo di «qualche cosa» che deve essere per togliere gli stridori sociali115.

Come abbiamo visto, il problema dei repubblicani non era tanto di demonizzare il bolscevismo, quanto di indirizzare la prossima rivoluzione verso i propri fini. La definizione di bolscevismo che in quell’articolo si dava, per quanto vaga e in fondo riduttiva, esprimeva però tutt’altro che una chiusura dogmatica. Esso era definito “il bisogno ed il senso di eliminare le più stridenti ingiustizie della convivenza sociale e di assicurare al lavoro la dignità che esso merita” 116. Questa mancanza di logica che veniva imputata al bolscevismo, era insita nel fenomeno stesso. La sua rilevanza, infatti, non era nella sua “consistenza filosofica”117, ma nelle sue realizzazioni pratiche. Proprio per questo, lo si poteva criticare, per non aver reso più ricchi e felici i russi118. Dove, partendo da premesse simili, si finiva per arrivare a conclusioni opposte. Colajanni, a sua volta, precisò il carattere della sua avversione al bolscevismo. Ricollegandosi al suo gradualismo, sostenne che, se la rivoluzione politica era facile e indolore, per quella sociale erano necessari tempi lunghi. La struttura del mercato mondiale, infatti, avrebbe condotto alla fame un’Italia rivoluzionaria, poiché avrebbe fatto chiudere i rubinetti del credito internazionale, dai quali dipendevano gli approvvigionamenti del paese. Palese dimostrazione di ciò era la Russia, che pure beneficiava di condizioni naturali assai più favorevoli119.

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Bolscevismo, “La Sveglia Repubblicana”, 29 marzo 1919. Ivi. 117 Di opposto parere Gino Reggioli, I propagandisti del bolscevismo, “Il Dovere” di Livorno, 25 maggio 1919. 118 Dateci un governo!, “La Sveglia Repubblicana”, 12 aprile 1919. 119 Napoleone Colajanni, Ciò che ci darebbe la rivoluzione, “Roma”, 8-9 luglio 1919 e “Giornale di Sicilia”, 9-10 luglio 1919; id., Il grande e pauroso problema, “Giornale di Sicilia”, 14-15 luglio 1919; id., Perché è fallito il grande sciopero, “Roma”, 24-25 luglio 1919 e “Giornale di Sicilia”, 25-26 luglio 1919; id., Ciò che la Russia potrebbe dare all’Italia…!, “Giornale di Sicilia”, 13-14 luglio 1919 e “Roma”, 19-20 luglio 1919. Ma sulle negative ripercussioni internazionali della rivoluzione in Italia si era già espresso nel novembre del 1917: La Rivista, Nell’ora del dolore e nell’attesa della riparazione, “RP”, 15 novembre 1917, pp. 405-407. 116

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Nel secondo anniversario della rivoluzione, il Comitato direttivo dell’unione repubblicana bolognese stampò un manifesto nel quale si plaudiva quella che era “una prima imponente affermazione democratica sociale squarciante le tenebre di un medioevo funesto e pertinace nell’epoca moderna. I repubblicani debbono quindi aderire alle celebrazioni di tanto rinnovamento civile, poiché dalle inevitabili violenze iniziali, dagli eccessi delle prime formazioni,” sarebbe poi uscito un assetto più umano120. Le elezioni e il Congresso di Roma Il 29 settembre 1919 il re emanava il Regio Decreto con il quale venivano indette, per il 16 novembre 1919, le elezioni politiche. I repubblicani, che avevano combattuto una dura battaglia per la riforma elettorale, in senso proporzionale, una volta ottenutala, non furono in grado di utilizzarla al meglio121. I contrasti che si consumarono furono, infatti, tra chi cercava alleanze elettorali e chi voleva che il partito si presentasse da solo ovunque fosse possibile. Alla prima tendenza appartenevano il Gruppo Parlamentare e parte della Direzione. Alla seconda il gruppo guidato da Conti e da Zuccarini122. La data delle elezioni consigliò al PRI di rinviare il congresso, convocato a Firenze dall’11 al 14 ottobre. La decisione, presa dal Comitato Centrale il 6 ottobre, venne aspramente criticata come un cedimento al parlamentarismo123. A favore del rinvio si disse invece Colajanni, che però esprimeva perplessità su alcuni punti del programma. Nell’o.d.g. si parlava infatti di accordi possibili solo con quegli schieramenti che avessero accettato il principio della Costituente. Ebbene, anche questo

120 Per la rivoluzione Russa, “L’Iniziativa”, 9 novembre 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Bologna. 121 Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo, cit., pp. 78-94. L’argomento era stato anche al centro del Convegno Nazionale di Roma del 9-10 giugno 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Affari Generali. 122 Oliviero Zuccarini, La nostra lotta, “Lucifero”, 14 settembre 1919; Alighiero Ciattini, Idealismo politico, ivi; Luigi Andreotti, Certe tendenze, “L’Iniziativa”, 11 ottobre 1919. 123 Ad es. dai repubblicani milanesi. Comunicazione del prefetto di Milano del 15 ottobre 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Congresso Nazionale Repubblicano in Roma. Il testo dell’ordine del giorno approvato in quella circostanza dal Comitato Centrale, presieduto da Innocenzo Cappa, è in “L’Iniziativa” dell’11 ottobre 1919, nella quale è anche il manifesto programma per le elezioni. Il congresso era stato in un primo momento previsto a Bologna, poi a Milano e infine, per ragioni logistiche, a Firenze. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Congresso Nazionale Repubblicano in Roma.

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era per Colajanni un eccessivo aiuto per i socialisti e per i popolari124. Nel dibattito precongressuale prima, elettorale poi, il rapporto con il PSI fu segnato da un impeto di orgoglio per la tradizione repubblicana, rivendicata come l’unica tradizione anticostituzionale in Italia125. De Donno, con terminologia mazziniana, affermava l’impossibilità di scindere il problema politico da quello sociale. Ciò equivaleva a legare la soluzione della questione istituzionale a quella dell’assetto sociale, ponendosi in contrasto con chi riteneva prioritario l’abbattimento del regime monarchico. Sarebbe stata questa la questione chiave del Congresso di Roma. Una sintesi perfetta di ciò che i repubblicani pensavano dei socialisti, si può trovare in queste parole del “Lucifero”, dove è evidente quantomeno l’influenza di Conti, in un articolo che illustrava la posizione del PRI nei riguardi degli altri partiti: Siamo contro i socialisti perché sia col comunismo, sia col collettivismo l’organizzazione sociale non sarebbe migliorata, ma peggiorata perché diminuirebbe la produzione economica, perché aumenterebbe l’autorità dello Stato, perché la libertà individuale sarebbe limitata molto più di oggi, perché manca alla dottrina socialista un contenuto morale, perché, infine, il metodo socialista della violenza per la distruzione degli ordinamenti borghesi senza un chiaro e pronto proposito ricostruttore non può essere accolto da quanti pensano che la rivoluzione è un movimento organico di trasformazione politica e sociale mediante la sostituzione di istituti nuovi ad istituti vecchi e non più rispondenti alle necessità sociali126.

Si cercò, in particolar modo, di mettere in rilievo i diversi principi nel campo della proprietà, tra i due schieramenti. La propaganda contro il collettivismo fu indirizzata verso i contadini e i piccoli proprietari, i

124 Noi, Le elezioni e il partito repubblicano, “RP”, 31 ottobre 1919, pp. 406-407. Lo stesso articolo, purgato delle espressioni critiche nei confronti del PRI, venne ripreso da “L’Iniziativa” dell’8 novembre 1919, col titolo La funzione della Monarchia. Va notato, per inciso, che le preoccupazioni di Colajanni in quel periodo si dividevano, sia pur in proporzioni non equivalenti, tra le due forze considerate antinazionali, socialisti e popolari, appunto. 125 Alfredo De Donno, Il nostro Congresso, “Lucifero”, 28 settembre 1919. 126 I Partiti in lotta, ibid., 26 ottobre 1919. Il corsivo è nel testo. Dubbiosi sulla effettiva capacità rivoluzionaria del PSI erano Luigi Andreotti, Certe tendenze, “L’Iniziativa”, 11 ottobre 1919, e A.C. [Armando Casalini], L’ignobile speculazione dei demagoghi bolscevichi, ibid., 10 novembre 1919.

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quali avevano da temere dall’avvento del bolscevismo, e ai quali si prospettava, in alternativa, l’associazionismo mazziniano127. Tuttavia, nei rapporti di polizia traspare il timore di un riavvicinamento tra i due partiti, foriero di sviluppi nefasti. Vi sarebbe stata una tendenza di questi estremisti repubblicani i quali, pur di giungere ad abbattere le istituzioni, auspicano accordi col partito socialista ufficiale per un’azione immediata. Tale tendenza contrasta con l’acuto dissidio sin qui esistente tra i due partiti sovversivi, profondamente divisi dalla diversità sostanziale del programma economico. Se infatti nell’attuale difficile momento non hanno sin qui dovuto lamentarsi violenze in questa regione [la Romagna], ciò fu dovuto essenzialmente all’atteggiamento riservato e prudente del partito repubblicano, ancora fortemente organizzato e nel quale non scarseggiano gli elementi borghesi ed abbienti solleciti della difesa dei propri interessi patrimoniali. Ma se dovessero prevalere in detto partito quelle correnti pur notevoli che, per l’inveterato odio verso l’istituto monarchico o per la condizione sociale che li porta a meno temere dal socialismo, auspicano un’azione immediata con qualunque mezzo, d’intesa anche coi socialisti per abbattere la forma di governo attuale, allora la situazione potrebbe farsi in Romagna molto preoccupante. Un indice di tale tendenza estremista è anche l’articolo intitolato “Lo sciopero generale” [...]. L’intonazione decisamente rivoluzionaria assunta dal giornale “Il Pensiero Romagnolo” potrebbe anche essere in relazione con l’indirizzo personale dell’ex Deputato On. Gaudenzi Giuseppe testè eletto alla carica di Sindaco di questo capoluogo, e che ha sempre manifestato avversione irriducibile all’attuale forma di governo e preferenze per una politica di azione128.

I risultati delle elezioni furono devastanti per i repubblicani. Non solo la loro rappresentanza parlamentare scese quasi della metà, ma i loro avversari e interlocutori principali, i socialisti, ebbero un’affermazione piena, ottenendo la maggioranza relativa. La ragione principale di questo successo era da ricercarsi proprio nel mito bolscevico:

127 Contadini!, “Il Popolano”, 29 ottobre 1919; La piccola proprietà, “Lucifero”, 31 ottobre 1919; In Russia, “Il Popolano”, 8 novembre 1919; Contadini!, ibid., 12 novembre 1919. 128 Comunicazione riservata della prefettura di Forlì, 7 dicembre 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Firenze – Congresso.

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Chi ha trascinato le masse, – sosteneva “La Sveglia Repubblicana” – chi ha assommato e fatto esplodere il malcontento d’ogni natura, chi ha dato esca a tutte le speranze è stato effettivamente il fascino della rivoluzione russa. È inutile negarlo: Lenin, e nessun altro, ha vinto le elezioni politiche in Italia129.

Verso il PSI nessuna chiusura preconcetta. I veri avversari del PRI erano i clericali130, coi socialisti ci si poteva confrontare, tenendo per ferme le proprie posizioni131. La reazione ufficiale del partito venne affidata ad un manifesto, nel quale, ancora una volta, si ribadivano con fierezza le proprie convinzioni. Ciò che spaventava i repubblicani non era il pericolo bolscevico, a cui essi non avevano mai creduto, bensì un’alleanza, un compromesso tra la monarchia e il socialismo, in memoria di passate convergenze132. Qualora i socialisti avessero, invece, voluto impegnarsi per il socialismo, avrebbero trovato appoggi nel PRI133.

129 Le elezioni politiche di Domenica scorsa. Alla prova, “La Sveglia Repubblicana”, 22 novembre 1919. 130 Anche se non mancò chi, come Carlo Cantimori, propose “una intesa col partito Cattolico pur di arginare il bolscevismo”, sia pure in forma di “allusione velata”. Telegramma espresso del 21 dicembre 1919 relativo a una conferenza di Carlo Cantimori, direttore delle Scuole Normali, al Teatro Dante Alighieri di Ravenna lo stesso 21 dicembre ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Ravenna. Su Carlo Cantimori vedi le pagine a lui dedicate nell’ottimo saggio di Roberto Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), “Cromohs” n. 2, 1997, pp. 1-128, . 131 La battaglia elettorale, “Etruria Nuova”, 28 novembre 1919. La linea era quella di Conti, ispiratore del giornale, e che vi pubblicò un suo commento amaro sulla sconfitta, ma orgoglioso delle proprie idee. g.c., Ai Repubblicani, ivi. Colajanni, invece, unì nella condanna entrambi i partiti, accomunati dall’avversione alla guerra e dalla loro struttura fortemente organizzata, cause che ne avevano motivato la vittoria elettorale. Egli, inoltre, criticò i “disertori delle urne” e la nuova legge elettorale. Napoleone Colajanni, La grande disfatta della italianità, “Giornale di Sicilia”, 23-24 novembre 1919 e “Roma”, 27-28 novembre 1919. 132 Il manifesto venne pubblicato su “L’Iniziativa” il 23 novembre 1919 e su “Il Popolano” il 29 novembre 1919. Sempre su “L’Iniziativa” del 23 novembre vi era un commento stizzito sulla forte astensione. La bassa percentuale dei votanti, se da una parte non legittimava i vincitori, dall’altra esprimeva la vergognosa risposta della borghesia al “disgusto” verso la monarchia. Tale sentimento avrebbe potuto essere assai più proficuamente indirizzato verso la Costituente, che invece era stata ignorata. 133 Pietro Nenni, Il primo ostacolo: la monarchia, “Lucifero”, 30 novembre 1919. Nell’ordine del giorno del 3 dicembre 1919 dell’assemblea della Sezione fiorentina del PRI si esortava il partito alla “concentrazione di tutte le forze sinceramente rivoluzionarie”. Telegramma del 6 dicembre 1919. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Firenze. La stessa sezione però era spaccata sull’accordo con i socialisti. Telegramma del 9 dicembre 1919, relativo ad una riunione del 7 dicembre. Ivi.

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Casalini tornò, in un successivo commento, sulla giustezza delle posizioni del PRI, a cui la storia avrebbe dato ragione134. In questo esprimeva tutti i limiti di una segreteria, forse di un gruppo dirigente, incapace di elaborare la realtà su un piano politico, senza sterili moti d’orgoglio, ma con la duttilità necessaria per coinvolgere gli elettori sul proprio programma. Proprio sul terreno della formazione di una coscienza nei lavoratori, tanto caro alla tradizione mazziniana, non potevano aver presa certi atteggiamenti da Cassandre autocompiaciute. D’altra parte il mutare della situazione politica arrivava come ultimo colpo ad una segreteria già molto debole e ormai assediata. C’era la necessità di un cambiamento della linea politica che prendesse atto dell’avvenuto trionfo del PSI e, con esso, dell’ideale leninista. Non si poteva più contrapporre, su di un piano di uguaglianza, le due opzioni, bolscevica e repubblicana. Il PRI aveva 9 deputati, il PSI 156. In queste cifre stava la velleità di un progetto che non comprendesse al suo interno, sia pure in forma strumentale, il partito che monopolizzava i consensi della classe operaia. Il compito di ridefinire la linea politica, e il gruppo che doveva applicarla, fu perciò delegato al Congresso che venne convocato per i giorni 13-14-15 dicembre 1919 a Roma. La Relazione della CE ripeteva le posizioni già viste: il bolscevismo era uno spauracchio che la monarchia agitava di fronte al paese per sconfiggere il vero cambiamento135. Le affermazioni contenute nella Relazione spinsero Colajanni, nel suo intervento, a sostenere con forza la realtà del pericolo bolscevico e, perciò, a criticare la Relazione. Ciò, a detta de “Il Messaggero”, scatenò “un pandemonio” 136. Ghisleri espose la sua relazione sul problema istituzionale. In essa accennò al bolscevismo, che per lui era assente nel paese, ma ben presente al governo. La disorganizzazione dello Stato: questo era il bolscevismo. “Il nostro socialismo nazionale non vuole violenze né dal basso, né dall’alto e – sopra tutto – non vuole che per l’interferenza dei rapporti economici con quelli politici internazionali una rivoluzione economica

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a.c., Per la nostra strada, “L’Iniziativa”, 30 novembre 1919. Sintesi del dibattito vennero pubblicate da “Il Messaggero” il 14 dicembre 1919, e da “L’Iniziativa” il 20 dicembre 1919. 136 La posizione di Colajanni fu pesantemente criticata anche dai mazziniani intransigenti. Lorena Cantarelli, Il Partito Mazziniano «La Giovine Italia». Programma, organizzazione e storia (1922-1925), “Il Politico” n. 2, 1982, p. 359. 135

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conduca l’Italia al disastro e alla fame”. Negava l’unicità del modello sociale. Accusava i socialisti di brigare con la monarchia. “Tra la falsa democrazia del P.P.I. e il «conservatorismo bolscevico» dei socialisti v’è posto per un programma che proclami – ed attui – l’educazione del proletariato come il primo e indispensabile caposaldo di tutta l’azione intesa a preparare un avvenire di giustizia politica e sociale” 137. Nell’o.d.g. Schiavetti, che costituì un compromesso accettabile per tutti, ma che proprio per questo rimandò ogni soluzione a tempi migliori, ci si richiamava alla stretta osservanza mazziniana138. La soluzione di compromesso politico, tra i sostenitori della segreteria e i suoi avversari, si riverberò sugli organi dirigenti. Con una formula inedita, si confermò Casalini segretario politico, ma vennero nominati anche tre responsabili della propaganda. Essi erano Mario Gibelli, per l’Italia del Nord, Giuseppe Gaudenzi, per l’Italia del Centro, e lo stesso Casalini, per l’Italia del Sud. Ora la novità era in questo, nell’aver nominato responsabile di un’organizzazione inesistente il segretario del partito, mentre gli venivano sottratte le due parti più importanti. Proprio questa ambigua soluzione rese difficile capire agli stessi iscritti il ruolo di Casalini e la Direzione fu costretta a specificare che egli rimaneva segretario139. Zuccarini criticò fortemente il congresso, e chi lo aveva convocato, plaudendo solo all’o.d.g. Schiavetti140. L’“Etruria Nuova” sostenne, invece, la sostanziale continuità nelle scelte141. Grande rilievo si diede, nei commenti, al bolscevismo. “L’Iniziativa” rilevò come questo fosse stato l’unico tema di forte contrapposizione, a seguito dell’intervento di Colajanni142. Per Pesce “il bolscevismo, massimalismo, non è una teoria, un sistema, ma un metodo” e come tale avrebbe potuto essere utilizzato dai repubblicani quando fossero stati pronti ad impiantare il loro sistema143.Vi era poi la tendenza De Donno-Gibelli, sostenitori della

137 La relazione di Arcangelo Ghisleri, “Etruria Nuova”, 25 dicembre 1919 e “Il Pensiero Romagnolo”, 20 dicembre 1919. Critico verso le posizioni didattiche di Ghisleri fu Gobetti, che le definì reazionarie. Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, Torino 1983, p. 126. 138 La precisa direttiva, “Etruria Nuova”, 25 dicembre 1919. 139 Nel partito, “Il Popolano”, 17 gennaio 1920. 140 Oliviero Zuccarini, La volontà del Partito, “Lucifero”, 20 dicembre 1919. 141 “Etruria Nuova”, 25 dicembre 1919. 142 Il successo e il significato, “L’Iniziativa”, 20 dicembre 1919. 143 Piero Delfino Pesce, Pensiero repubblicano, “Humanitas”, 21-28 dicembre 1919, pp. 203-205.

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tesi secondo cui nulla si doveva concedere al socialismo, essendo stato pienamente confermata la giustezza del mazzinianesimo. Ciò in polemica con Guido Bergamo, che aveva parlato di tre tendenze al Congresso, una più conservatrice, una antisocialista e una filosocialista. Per Pirolini non ci si doveva confondere con i socialisti, ma neppure ostacolarli. La nuova repubblica non sarà bolscevica, in Italia perché si gioverà delle vaste esperienze sociali che sono state tentate sul corpo di altre nazioni come la Russia. Lenin non è un mito, nella complicata storia moderna non esiste più l’uomo-miracolo. La nuova repubblica italiana avrà il contenulo [sic] sociale che i tempi avranno maturato. Né più né meno. Noi dobbiamo affrettarla senza paura.

Dato il momento bisognava perciò appoggiare le conquiste repubblicane del PSI144, e anche “il gruppo parlamentare repubblicano dovrebbe camminare di coserva [sic] a quello socialista, non con carattere di alleanza, ma all’unico scopo di non intralciarne l’opera” 145. La linea che, confusamente, uscì vincitrice dal Congresso di Roma fu quella che privilegiava la soluzione del problema politico, rispetto a quello sociale. Un nuovo gruppo dirigente stava per assumere la guida del partito, un gruppo che avrebbe spinto ancora di più per un appoggio strumentale alla rivoluzione bolscevica in Italia, nella convinzione che compito del PRI, in quella fase storica, era di eliminare prima di tutto la ragione del disastro dello Stato italiano: la monarchia. Successivamente, avrebbe cercato di imporre ai lavoratori il proprio programma, esautorando quello dei socialisti. Ciò provocò la dura polemica, nei contenuti e poi nella forma, con Colajanni. L’“utopia conservatrice” di Colajanni La valutazione del bolscevismo di Colajanni rimase, nel 1919, molto aspra. Il suo studio sul fenomeno, e sulla sua durata, era strettamente collegato al timore che si cercasse di imporlo anche in Italia. Aveva, infatti,

144 Giovan Battista Pirolini, Il Congresso repubblicano, “RP”, 31 dicembre 1919, pp. 486487, poi ripubblicato da “L’Iniziativa” il 31 gennaio 1920. 145 Telegramma del 26 dicembre 1919, relazione su una riunione tenuta la sera del 23. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Milano.

L’“utopia conservatrice” di Colajanni

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enumerato le cause della permanenza al potere dei bolscevichi, citando tutte ragioni che valevano solo per la Russia146. La sua analisi si appuntava ancora sulle radici tolstoiane del bolscevismo, vale a dire l’influenza di un pensiero antioccidentale che esaltava la rassegnazione, e che, quindi, rendeva accettabile qualsiasi regime alle attonite masse russe147. Ma l’attenzione di Colajanni era ormai sulle ripercussioni che il fenomeno bolscevico cominciava ad avere nel nostro paese. Perciò egli non mancò di sottolineare, in polemica con il suo partito, il pericolo bolscevico, segnalando ogni gesto dei socialisti, che potesse essere considerato un prologo alla rivoluzione148. Per salvare l’Italia da questo epilogo, egli sosteneva l’opportunità di un Fascio, simile a quello formatosi dopo Caporetto, in evidente sintonia con le parole di Mazzolani149. Ora, però, il ripiegamento di Colajanni verso posizioni conservatrici, in senso lato, si andava perfezionando. Anche la guerra, da lui tanto voluta, si colorava diversamente, essendo la diretta responsabile dell’insorgere del bolscevismo. Per combattere il bolscevismo con le sue stesse armi, egli decise, a partire da agosto, di impegnarsi nella contropropaganda, vale a dire la divulgazione del maggior numero possibile di informazioni che potessero gettare discredito sulla Russia150. Era, questa, una soluzione in quei giorni sostenuta anche da Pirolini, ma fu il parlamentare siciliano a far-

146 Erano: 1. “L’estensione dello Stato e la scarsa densità della popolazione”; 2. “Le condizioni economiche”; 3. “L’infiacchimento degli animi, la degenerazione morale [che] sono tanto più facili e duraturi quanto maggiore è l’ignoranza di un popolo e il popolo russo è attualmente il popolo più analfabeta d’Europa”; 4. Mancanza di “stadi intermedi tra le classi e le professioni” 5. “Le condizioni psicologiche del popolo russo – che sono alla loro volta il prodotto fatale delle condizioni geografiche, demografiche, economiche e politiche di tutta la storia della Russia – sono tali che richiamano le condizioni dei popoli primitivi e di quelli peggiori del medio evo”. Napoleone Colajanni, Perché dura il leninismo e perché si deve temerlo, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 16-17 febbraio 1919. Ma vedi anche Lo Zotico, Ancora dei bolsceviki, “RP”, 15 febbraio 1919, pp. 49-50 e Noi, La barbarie crudelissima dei bolsceviki, ibid., 28 febbraio 1919, pp. 66-67. 147 I punti qualificanti di tale influenza erano “l’avversione al regime rappresentativo, il disprezzo dell’intelligentia, l’esaltazione dell’ignoranza e dei contadini, l’odio contro lo Stato e contro la civiltà occidentale […]. In conclusione: – affermava Colajanni – Lenin e Trotzky non sono tolstoiani: ma la rassegnazione delle masse russe a qualunque tirannia è il prodotto del tolstoismo e favorire [sic] il mantenimento del bolscevismo come mantenne lo czarismo”. Noi, Tolstoi e il bolscevismo, ibid., 15 aprile 1919, pp. 133-134. 148 Noi, I bolsceviki della Liguria rinnegano la Patria e commettono un sacrilegio contro Mazzini e Oberdan, ibid., pp. 134-135. 149 La Rivista, Il disfattismo della pace, ibid., pp. 138-140. 150 Napoleone Colajanni, La forza e la propaganda, “Roma”e “Giornale di Sicilia”, 1011 agosto 1919, riprodotto su “Il Dovere” di Livorno del 28 settembre 1919, col titolo La borghesia, il socialismo, il bolscevismo.

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sene il maggiore interprete. Non che fosse mancata, anche prima, sulla “Rivista”, una robusta dose di catastrofiche notizie sul leninismo151, ma da quel momento in poi ci fu un’indubbia accelerazione152. Se il rapporto con il PRI rimaneva conflittuale, purtuttavia, nel corso del 1919 non ci furono rotture drammatiche. Anche la lettera che Colajanni aveva spedito al Convegno di Firenze, era da considerarsi un episodio di dissenso interno, tant’è vero che egli stesso aveva espresso un parere favorevole sull’andamento di quell’incontro. Ne è un esempio la polemica, garbatissima in verità, che Colajanni aprì col suo partito dalle pagine de “Il Messaggero”. Sarà bene ricordarsi di questo episodio, poiché, qualche mese dopo, il PRI avrebbe accusato Colajanni di utilizzare un giornale non di partito per una polemica interna; accusa che, però, si dimenticarono di fargli in questo caso. Entrando nello specifico, Colajanni attaccava l’interpretazione della pace dei repubblicani. Le sue preoccupazioni erano quelle di non turbare eccessivamente l’atmosfera politica, sempre a causa del pericolo bolscevico, ma il suo tono era assai conciliante153. Riguardo alla pace, egli fu nettamente contrario alle condizioni uscite dalle trattative, tanto che, da componente la Commissione parlamentare

151 G. Bergamasco, Nella Russia insanguinata, “RP”, 15 aprile 1919, pp. 140-142 (venne presentata come una rubrica che avrebbe raccolto notizie, sparse su varie riviste, riguardanti la Russia); G. Bergamasco, I Bolsceviki descritti da un socialista francese, ibid., 31 maggio 1919, pp. 216-217. 152 La Rivista, In Ungheria – Tra il bolscevismo e la reazione monarchica, ibid., 15 agosto 1919, pp. 312-313; Napoleone Colajanni, Il primo fallimento del bolscevismo, “Roma”, 1718 agosto 1919 e “Giornale di Sicilia”, 19-20 agosto 1919; Spigolature bolsceviche, “RP”, 31 agosto – 15 settembre 1919, p. 335; Gli orrori del leninismo, ibid., 15-31 gennaio 1920, p. 4; Logica rivoluzionaria del socialismo russo, ibid., 15 febbraio 1920, p. 37; Le ferrovie sotto i bolscevichi, ivi; La socializzazione delle donne fra i bolscevichi, ibid., 15 marzo 1920, pp. 74-75; Com’è reclutato e come si batte l’esercito bolscevico, ibid., 15-30 settembre 1920, p. 275; Il pane nella Russia e in Italia, ibid., 15 ottobre 1920, pp. 306-307; Napoleone Colajanni, Largo alla verità!, ibid., pp. 308-310; Il bolscevico Massimo Gorki contro il regime attuale del lavoro in Russia, ibid., 31 ottobre 1920, p. 327; L’amnesia dell’Avanti! sulla teoria e sulla pratica degli assassini, ibid., pp. 327-328; Come si ruba in Russia, ibid., 15 novembre 1920, p. 347; Noi, In Russia, ivi, 31 (ma 15) dicembre 1920, p. 370; In Russia, ibid., 31 dicembre 1920, p. 393. 153 Napoleone Colajanni, La pace e i repubblicani, “Il Messaggero”, 1 giugno 1919. Il suo ragionamento proseguì in Un pericolo grave, ibid., 3 giugno 1919, in cui ribadì la sua posizione sulla rivoluzione, in polemica con i repubblicani fiorentini, che l’avevano proposta per riparare i torti subiti dall’Italia a Parigi. L’intento di “coprire”, per amor di patria, l’operato di Orlando e di Sonnino, era più scoperto in Il dovere dell’imparzialità, “Roma”, 4-5 giugno 1919 e “Giornale di Sicilia”, 5-6 giugno 1919. Pure non fece mancare i suoi rilievi critici verso entrambi: Gli errori del ministero Orlando – Sonnino, “Giornale di Sicilia”, 10-11 giugno 1919 e “Roma”, 13-14 giugno 1919, considerazioni poi rifuse in La Rivista, Nella tormentosa attesa della pace, “RP”, 15 giugno 1919, pp. 229-235.

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incaricata di esaminare il Trattato, diede voto contrario alla soluzione “ambigua” trovata al problema adriatico. I suoi strali si appuntarono soprattutto contro Wilson, le cui responsabilità egli disgiungeva da quelle del suo popolo154 e contro Clemenceau, unito, invece, ai francesi nell’accusa di ingratitudine155. Le sue soluzioni, egli le aveva proposte già all’indomani della fine della guerra, criticando l’impostazione wilsoniana: 1) “Pace senza annessioni e senza indennità; senza nè vinti, nè vincitori”: “Se l’accettasse oggi l’Intesa, che della guerra impostale ha risentito danni spaventevoli non darebbe prova di umanità, ma di semplice imbecillità, che incoraggerebbe i briganti a ricominciare. Non vogliamo annessioni ingiuste; ma vogliamo indennità nella misura del possibile”; 2) “Libertà dei mari”: “Si deve riconoscere […] che la supremazia navale britannica non dette fastidio a nessuno per un secolo – se se ne eccettua l’Egitto dove essa compie azione proficua agli egiziani; – nemmeno alla Germania. La libertà dei mari perciò resterà per tutti una formula avveniristica. Resterà la supremazia navale britannica infrenata, per ogni evento, dallo sviluppo della marina nord-americana”; 3) “L’autodecisione dei popoli”: “Tale autodecisione non può manifestarsi e realizzarsi che per mezzo dei plebisciti. Ma i plebisciti nelle zone grigie abitate da popolazioni diverse e spesso nemiche acerrime tra loro […] darebbero risultati caotici. […] L’autodecisione wilsoniana, perciò, dovrà necessariamente essere applicata con molte restrizioni e correzioni”; 4) “La lega delle nazioni”

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Napoleone Colajanni, Al di là del fallimento della borghesia, “La Sera”, 4-5 maggio

1919.

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La sua attenzione critica verso la Francia fu sempre molto alta. Napoleone Colajanni, Francia (Razza e civiltà), “Roma”, 13-14 luglio 1918; id., Dove va la Francia?, “Roma”, 4-5 luglio 1919 e “Giornale di Sicilia”, 6-7 luglio 1919; id., Fraternità latina, “La Sera”, 18-19 agosto 1919; Id., Manifestazioni di simpatia francese per l’Italia, ibid., 21-22 agosto 1919; id., La politica della Francia, “Roma”, 18-19 gennaio 1920 e “Giornale di Sicilia”, 21-22 gennaio 1920; id., La politica della Francia (Dall’ipotesi alla realtà), “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 19-20 febbraio 1920; id., I torti della Francia confessati dai Francesi, “Roma”, 12-13 agosto 1920 e “Giornale di Sicilia”, 13-14 agosto 1920; id., Tenerezze italofile francesi (Fatti e persone), “La Sera”, 23-24 settembre 1920; id., Le preoccupazioni della Francia, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 12-13 gennaio 1921.

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che, da sola avrebbe risolto tutti i problemi, ma ci sarebbero voluti molti anni, forse secoli, prima che la Germania modificasse la sua mentalità. Solo allora avrebbe potuto avere piena attuazione. Per ora si sarebbero potuti abolire gli eserciti permanenti e la coscrizione obbligatoria. Per quanto riguardava, infine, l’Italia, consigliava fermezza nella determinazione dei confini, ma anche giustizia156. Proprio sui confini con gli jugoslavi, Colajanni si irrigidì sempre più, in corrispondenza dell’atteggiamento progressivamente aggressivo del nascente stato balcanico157. Una formidabile summa del pensiero colajannesco del periodo è rappresentato da La funzione del Re nei tempi nostri, apparso sulla “Rivista”. In esso, Colajanni si poneva il problema dell’inutilità della monarchia e della sua sostituzione: Anzitutto – scriveva – penso che la monarchia deve cadere per via evolutiva; colla rivoluzione se essa oppone resistenza alla volontà nazionale. E mai come ora, mi sembra vicino l’avvenimento della valigia del Re che prende la via di Chiasso, come riassumeva tutto il suo lucido ragionamento evoluzionista Alberto Mario. C’è poi una ragione di opportunità che non mi fa desiderare in questo momento né il placido tramonto, né il tramonto con tuoni e lampi, della monarchia; cioè: la paura che l’Italia cada nelle mani dei comunisti bolscevichi. Dunque si dovrebbe augurare la lunga vita della monarchia? Niente affatto. Si dovrebbe continuare la propaganda educativa tra le masse per alcuni anni ancora; nel frattempo ho fede che il bolscevismo fallirà in Russia, com’è fallito in Ungheria, e che esso si renderà più umano e civile come pare che accenni ad avvenire per opera dello stesso Lenine. La trasformazione se avvenisse nella madre patria del bolscevismo avrebbe la sua ripercussione benefica in Italia e altrove, risparmiando alla nostra cara patria gli orrori morali e il disastro eco-

156 La Rivista, Problemi da discutere…, “RP”, 15-31 dicembre 1918, p. 428. Sulle zone grigie, Napoleone Colajanni, Il diritto plebiscitario, “Roma”, 20-21 luglio 1917 e “Giornale di Sicilia”, 22-23 luglio 1917; id., Nell’attesa della pace, “Giornale di Sicilia”, 25-26 novembre 1918 e “Roma”, 26-27 novembre 1918; La Rivista, L’opera della Conferenza di Parigi, “RP”, 15 febbraio 1919, pp. 48-49. 157 Noi, L’imprudenza e l’inciviltà dei Croati e degli Sloveni, ibid., 15 marzo 1919, pp. 87-88.

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nomico spaventevole, che i bolscevichi hanno scaraventato sull’antico impero degli Czars158.

La sua posizione sulla monarchia non potè che sorprendere chi lo conosceva e le reazioni a questo scritto lo costrinsero a precisare meglio il suo pensiero. Ormai tutti i popoli, puntualizzò, erano convinti della inutilità dell’istituzione monarchica. Il Re se governa ed è malvagio costituisce uno spaventevole pericolo. Se regna semplicemente ed è un galantuomo e poco meno di un Roi Faineant, è perfettamente inutile. Oggi in Italia se la monarchia dura ancora si deve alla paura del bolscevismo. Avremmo già la repubblica non borghese, ma sociale di Mazzini, se la figura di Lenine su di essa non proiettasse un’ombra sinistra e paurosa159.

In occasione delle elezioni legislative, egli accentuò le sue accuse ai socialisti, criticando Nitti per il suo avvicinamento a questi ultimi160. Tale avvicinamento avrebbe prodotto – secondo lui – una legge elettorale, che sembrava fatta per aprire loro la via del potere161. L’attacco di Colajanni, senza trascurare i massimalisti come Serrati e Bordiga, si appuntava soprattutto sui riformisti. Era sconsigliabile far troppo dipendere dalle loro decisioni, giacché essi erano dottrinalmente incoerenti e politicamente isolati, senza più contatto con le masse socialiste162. Il rischio che Colajanni paventava era quello di transigere troppo, per poi essere sca-

158 Napoleone Colajanni, La funzione del Re nei tempi nostri, ibid., 30 settembre – 15 ottobre 1919, pp. 382-384. La confusa situazione italiana del dopoguerra spinse anche Salvemini a dare il suo appoggio alla monarchia, di cui esaltava il ruolo di moderatrice della vita politica. Marina Tesoro, Salvemini e la crisi del 1920-’22, “Nuova Antologia” n. 526, marzo 1976, p. 398; Massimo L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino 1963, p. 111 e sgg. Notevoli sono, inoltre, in questo periodo i contatti tra il PRI e Salvemini, soprattutto attraverso Zuccarini e la sua rivista, “La Critica Politica”. 159 Napoleone Colajanni, Il crepuscolo della monarchia italiana, “RP”, 31 dicembre 1919, pp. 481-485 (la citazione a p. 485). 160 Napoleone Colajanni, Le prossime elezioni legislative, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 5-6 ottobre 1919. 161 Noi, La riforma elettorale è stata votata!, “RP”, 15 agosto 1919, p. 309; Napoleone Colajanni, La prima prova della nuova legge elettorale, “Giornale di Sicilia”, 9-10 novembre 1919, “Roma”, 10-11 novembre 1919. Già da mesi, comunque, egli andava ripetendo che la riforma del sistema elettorale non avrebbe risolto i grandi problemi del paese. id., Cataplasmi sulle gambe di legno (La riforma elettorale), “Giornale di Sicilia” e “Roma”, 19-20 marzo 1919; La Rivista, La riforma elettorale, “RP”, 31 marzo 1919, pp. 109-111. 162 Napoleone Colajanni, Evoluzione e rivoluzione sociale, ibid., 31 ottobre 1919, pp. 410-418.

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valcati a sinistra. Non diversamente, quando la sua polemica si rivolse ai repubblicani, temette che tutte le lusinghe verso i massimalisti sarebbero state inutili, essendo stati, questi ultimi, ormai soppiantati dagli anarchici. A queste tendenze distruttrici ci si doveva opporre invece nettamente. Perciò egli criticò i repubblicani che, a suo dire, con il loro manifesto elettorale ponevano troppe condizioni per eventuali alleanze elettorali. Pretendere che gli altri partiti accettassero, come condizione imprescindibile, la Costituente, significava per Colajanni dare via libera ai socialisti e ai popolari. “È necessario, – scriveva – è doveroso gridare e ripetere che oggi la lotta, essenziale non è tra monarchia e repubblica, ma tra civiltà e bolscevismo” 163. Le elezioni del 1919 sancirono, come abbiamo visto, una netta vittoria dei socialisti e una notevole affermazione dei popolari, due forze fortemente avversate, per il loro supposto carattere antinazionale, da Colajanni164. Ciò rafforzò ancora di più il vecchio repubblicano nella sua intenzione di combattere un bolscevismo mai come ora incipiente. La sua campagna allarmistica sul rischio di una rivoluzione si rianimò165. Questo lo poneva sempre più in contrasto con il PRI, che dalle elezioni traeva una lezione diversa, e che stava modificando la sua classe dirigente, con una più adatta alla nuova politica che la situazione richiedeva. A questo punto Colajanni era ancora interno al PRI, tanto che venne chiamato a presiedere il primo Congresso del partito dal 1914. Il suo intervento, critico verso la posizione nei confronti del bolscevismo, fu accolto da grande disapprovazione. Le traiettorie, ormai, andavano allontanandosi. La pietra dello scandalo fu comunque il suo voto a favore del governo Nitti. “L’Iniziativa” lo attaccò con toni assai pesanti, parlando di “ossessione antibolscevica” che lo aveva portato nel campo conservatore. Egli perciò non poteva più dirsi repubblicano166. 163 Noi, Le elezioni e il partito repubblicano, “RP”, 31 ottobre 1919, pp. 406-407; Napoleone Colajanni, La funzione della Monarchia, “L’Iniziativa”, 8 novembre 1919. 164 Id., Alla ricerca delle cause. (La suggestione russa), “La Sera”, 2-3 dicembre 1919. 165 Id., I fattori imponderabili della rivoluzione, “Roma”, 9-10 dicembre 1919 e “Giornale di Sicilia”, 10-11 dicembre 1919. Stessi concetti ed episodi venivano rilevati in Id., Conseguenze contraddittorie del trionfo socialista, “RP”, 15 dicembre 1919, pp. 457-461. Il suo timore era quello che la rivoluzione potesse scappare di mano ai socialisti. 166 Le opinioni dell’On. Colajanni, “L’Iniziativa”, 31 dicembre 1919. Di questa, come delle altre note anonime rivolte a Colajanni, si può indicare l’autore in Alfredo De Donno. Oltre al fatto che allora egli aveva la responsabilità del giornale, c’è anche la testimonianza di Conti: “Con Colajanni se l’è presa sistematicamente il bravo e il buon De Donno ed io quando ho fatto in tempo, sono intervenuto per attenuare. Ora ho convinto De Donno a considerare Colajanni come uomo del quale non si debbono prendere a rigoroso esame tutte le azioni e le… reazioni”. Antonluigi Aiazzi, op. cit., pp. 329-330, lettera del 20 luglio 1921. Ghisleri non condivideva l’animosità degli attacchi a Colajanni.

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La reazione di Colajanni non si fece attendere. Giustificò il suo voto con la necessità di evitare spaccature, che avrebbero aiutato i nemici del paese. In questo senso, la figura di Nitti era ideale, essendo egli uomo in grado di unire le forze, con il suo prestigio indiscusso167. Quanto all’attacco de “L’Iniziativa”, si appellava all’esempio di Mazzini, contrario anche lui alla Comune di Parigi. All’accusa di essere conservatore, rispondeva con quella di bolscevismo. La chiusa dell’articolo merita una citazione per esteso, essendo un documento della testardaggine donchisciottesca di Colajanni, sempre però animata da limpidità di intenti: Un’ultima parola. Amici carissimi da Milano mi scrivono: è necessaria oggi la intransigenza perché la rivoluzione è imminente, è nell’aria, batte alle porte, è fatale. Anche la morte è cosa fatale; ma noi facciamo di tutto per allontanarla, per ritardarla. E per parte mia siccome ritengo che oggi una rivoluzione sarebbe un errore, un disastro, quasi un delitto, mi sento nel dovere di spiegare tutte le mie debolissime forze per ritardarla. Certamente non sarò io che potrò mutare il corso degli avvenimenti; ma se essi saranno disastrosi non avrò il rimorso di avere contribuito a provocarli, anche con un concorso infinitamente piccolo168.

La polemica proseguì sui medesimi binari, tra risposte piccate di Colajanni169, e rinnovate repliche dei repubblicani170. Il tono dell’organo del partito era ora subdolamente conciliante: Ecco qua dunque un repubblicano che non vuole repubblica. Lo constatiamo con dolore perché si tratta di Colajanni e non del primo che capita e lo constatiamo comprendendo bene tutto l’amore profondo pel nostro paese, che muove il nostro illustre amico a sostenere queste

167 Giudizio positivo sul presidente del Consiglio espresse in Napoleone Colajanni, Francesco Nitti, “RP”, 31 agosto-15 settembre 1919, pp. 337-340, nel quale ricordò l’amicizia che li legava. 168 N.C., Perché votai in favore del Ministero Nitti, “RP”, 31 dicembre 1919, pp. 474476. L’articolo, privo della nota in risposta a “L’Iniziativa”, fu sostanzialmente riprodotto ne “Il Messaggero” del 7 gennaio 1920, col titolo Dal Reichstag a Montecitorio. Al problema, costituito dalla presenza in parlamento di una maggioranza considerata antinazionale, formata dai partiti socialisti e popolari, Colajanni dedicò un altro articolo, Il centro cattolico in Germania e il partito popolare in Italia, “Il Messaggero”, 8 gennaio 1920. 169 N.C., Ancora del mio voto in favore del Ministero Nitti, “RP”, 15-31 gennaio 1920, pp. 6-7. 170 L’on. Colajanni e la rivoluzione, “L’Iniziativa”, 17 gennaio 1920.

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cose. Ma con tutto il rispetto che dobbiamo a Napoleone Colajanni noi dichiariamo che ci sentiamo di amare il nostro paese quanto lui pur lavorando per la rivoluzione. Se non sembrasse irriverente diremmo che ci sembra di amarlo anche di più il nostro paese invocando il solo rimedio che il nostro paese possa salvare: la rivoluzione, e che Colajanni si inganna in piena buona fede credendo proprio di salvarlo sorreggendo le istituzioni monarchiche che lo rodono a morte da tanti anni171.

In sostanza, per i repubblicani, Colajanni confondeva paese e governo, e, per salvare il primo, voleva salvare anche il secondo. Ma se la repubblica era dannosa per il nostro paese, gli chiedeva “L’Iniziativa”, perché dirsi repubblicano? E se il bolscevismo era un pericolo così grande, come avrebbe potuto fermarlo un governo debole e diviso? Per concludere: l’on. Colajanni può considerarsi repubblicano lo stesso anche quando vota per il Governo di Nitti, nessuno lo scomunicherà per questo, ma ha torto quando pretende che i repubblicani non debbano esprimere la loro riprovazione apertamente. Egli votando per il Governo serve un’illusione, noi votando contro serviamo l’ideale repubblicano e l’interesse nazionale172.

Colajanni aveva sostenuto che l’intero gruppo parlamentare era schierato sulle sue stesse posizioni, con la sola eccezione, forse, di Pirolini, ma anche altrove trovò difensori. Pesce, capo del repubblicanesimo pugliese, pur esprimendo disaccordo con Colajanni, lo definiva suo maestro e attaccava la Direzione del partito173.

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Ivi. Ancora le opinioni dell’on. Colajanni, “L’Iniziativa”, 7 febbraio 1920. 173 P. Delfino Pesce, C’est la faute a Colajanni, “Humanitas”, 18-25 gennaio 1920, p. 9. La posizione di Delfino Pesce nei confronti del partito appariva piuttosto ambigua. Da una parte era conosciuto come uno dei capi del rinnovamento del PRI, dall’altra non mancava di criticare, con tono spesso troppo didascalico, i membri della Direzione. Colajanni lo ringraziò per questo: Napoleone Colajanni, Per la rivoluzione… e contro la rivoluzione, “RP”, 15 marzo 1920, p. 77. Su Pesce, come sulla maggior parte dei principali esponenti repubblicani dell’epoca, manca uno studio organico. Si può comunque vedere il bel saggio di Guido Lorusso, Note bibliografiche e linee di ricerca per un profilo biografico, culturale e politico di Piero Delfino Pesce, in Omaggio a Piero Delfino Pesce, a cura del Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali del Distretto Ba/15, Edizioni del Sud, Bari s.d. [1989], pp. 9-32. Utile anche, sia pure relativo a un periodo precedente, è il profilo ideologico di Pesce di Vitantonio Barbanente contenuto nel suo saggio Consigliere provinciale d’assalto nell’età giolittiana, in Piero Delfino Pesce. Nel centenario della nascita 1897-1974, a cura di Vitantonio Barbanente, Laterza, s.l. s.d., pp. 152-171. 172

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A questo punto Colajanni sferrò un attacco definitivo al suo partito, per le argomentazioni e per i modi. Egli volle dimostrare che la rivoluzione sarebbe stata, per un paese come l’Italia, un completo disastro174. La gravità del pericolo che per lui l’Italia correva, pericolo di sopravvivenza per alcuni milioni di persone, serve bene a spiegare la foga e la decisione con cui Colajanni si gettò nella rinnovata polemica col PRI, che a questo punto gli doveva parere poco meno che complice di genocidio. Egli scelse il piano ideologico, richiamandosi a Alberto Mario e al suo evoluzionismo, come aveva sempre fatto175, ma soprattutto definendo come anacronistica una rivoluzione repubblicana nella quale le due mete, l’unità e la libertà, erano ormai state raggiunte. Per lui, il re era ormai anche più funzionale di un monarca costituzionale, un vero garante della libertà. I repubblicani erano rivoluzionari ormai solo per “contagio psichico” o per “moda politica”. Essi avevano messo Mazzini in soffitta, e non avrebbero potuto fare altrimenti, vista l’avversione che il pensatore genovese aveva avuto per la Comune, tanto meno pericolosa del bolscevismo176. Anche dalle colonne della “Rivista” portò le sue critiche al partito e alla sua politica, accusata di essere velleitaria, dal momento che avrebbe voluto dirigere un moto rivoluzionario essendo “una sparuta minoranza, una vera quantité negligeable”, e indeterminata, visto che si riempiva la bocca di parole come “repubblica sociale”, senza mai indicare in che modo questa avrebbe potuto risollevare l’Italia. Anche qui, inoltre, non rinunciò alla sua dichiarazione di fede in Mario, nella quale coinvolse anche Ghisleri, esplicitando, come avrebbe fatto praticamente in ogni articolo, la sua posizione con la frase “prima italiano, poi repubblicano”177. L’accenno all’altro grande esponente repubblicano sembrava

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Napoleone Colajanni, Contro la rivoluzione II, “Il Messaggero”, 11 febbraio 1920. Fin dal primo numero della “Rivista”, egli si era richiamato agli insegnamenti di Mario. Arturo Colombo, Colajanni e la «Rivista Popolare», “Nuova Antologia” n. 2052, dicembre 1971, p. 499; Lina Severino, La «Rivista Popolare» di Napoleone Colajanni, “Archivio Trimestrale” n. 2, aprile-giugno 1981, p. 358. 176 Napoleone Colajanni, Contro la rivoluzione, “Il Messaggero”, 6 febbraio 1920. 177 N.C., Piccola polemica repubblicana, “RP”, 15 febbraio 1920, pp. 33-35. A questo articolo rispose De Donno, sarcasticamente rilevando che gli argomenti di Colajanni, portati alle estreme conseguenze, avrebbero giustificato una totale immobilità del partito, a cui non sarebbe rimasto che “affacc[iarsi] alla finestra e contempl[are] i placidi tramonti….”. A.D.D., Le schermaglie dell’on. Colajanni, “L’Iniziativa”, 7 marzo 1920. Lo stesso numero della “Rivista” riportava un altro duro attacco ai repubblicani, portato citando, con evidente soddisfazione, gli attacchi di cui il PRI era fatto oggetto da parte dei giornali socialisti. Noi, Opportunismo socialista, “RP”, 15 febbraio 1920, p. 36; e più direttamente: Lo Zotico, L’on. Turati e l’on. Treves contro lo sciopero nei servizi pubblici, ibid., pp. 41-43 (in particolare pp. 42-43). 175

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fatto più per sollecitare una sua presa di posizione sulla vicenda, dato che gli attacchi provenivano da uomini a lui vicini e si poteva, pertanto, sospettare che ne fosse lui l’ispiratore. Le parole che bruciarono di più furono quelle apparse su “Il Messaggero”, a cui i repubblicani si lamentavano di non poter in alcun modo replicare appropriatamente. L’uso, per una polemica interna, di un giornale esterno, sembrò un’imperdonabile offesa per i repubblicani, privi oltretutto di un proprio quotidiano, atto a dare una sollecita risposta. Non consideravano che, la stessa cosa, Colajanni l’aveva fatta nel giugno del ‘19, ma, forse, oltre alla loro memoria debole, c’era da considerare la diversità, rispetto ad allora, dei rapporti reciproci. Nella risposta, “L’Iniziativa” richiamava l’ineluttabilità della rivoluzione e la possibilità per i repubblicani, com’era avvenuto per la guerra, di imporre i propri fini agli altri. L’obiettivo del giornale era poi isolare Colajanni dagli autorevoli amici dei quali si era circondato nel suo attacco. Se a Ghisleri si poteva appena accennare, dato che lo stesso Colajanni lo aveva coinvolto sulle sue posizioni in forma dubitativa, su Mario e Mazzini occorreva essere chiari. Ci si dilungava perciò in citazioni tratte da scritti di Mario, per dimostrare la sua avversione alla monarchia e la sua fede nel federalismo. Di Mazzini, poi, si ricordava che l’avversione alla Comune era accompagnata dal medesimo sentimento verso Napoleone III. Infine si chiariva a Colajanni che il partito intendeva essere rivoluzionario sul piano istituzionale, ma gradualista su quello economico, ben conscio che “una costituzione economica non s’improvvisa”. Il tono era secco, ma non offensivo178. Risposte a Colajanni vennero anche da “Lucifero”179 e “L’Alba Repubblicana”180 e, forse, non è del tutto arbitrario riconoscere, nell’anonimo estensore del sarcastico attacco di quest’ultimo, lo stesso Conti, ispiratore della linea del giornale dei giovani repubblicani181. Alcune voci di iscritti si fecero sentire su “L’Iniziativa”, esprimendo il dolore di chi aveva sempre guardato a Colajanni come a un maestro

178

L’on. Colajanni contro l’azione politica del partito repubblicano, “L’Iniziativa”, 15 febbraio

1920.

179

L’on. Colajanni e noi, “Lucifero”, 22 febbraio 1920. Rivoluzione e conservazione, “L’Alba Repubblicana”, 15 febbraio 1920. In questo articolo si ripeteva il paragone del momento dell’entrata in guerra con l’attuale. Anche allora, il PRI aveva accettato l’inevitabilità della guerra, sopportandone gli eccessi per ottenere il proprio scopo. 181 “Strumento efficace di lotta – scriveva Conti a Ghisleri – si è manifestata l’«Alba» che debbo compilare dalla 1ª all’ultima riga!”. Marina Tesoro, Dodici lettere inedite di Giovanni Conti, cit., p. 173, lettera dell’agosto del 1920. 180

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e che ora vedeva le sue parole rinforzare le argomentazioni dei nemici del PRI e di quanti volevano bloccarne l’azione politica182. Colajanni, però, non si fermò qui e continuò a bersagliare i repubblicani dalle colonne della “Rivista” 183. La vera reazione del partito arrivò solo ora. Approfittando dell’anniversario della morte di Mazzini, che cadeva il 10 marzo, data fondamentale per i repubblicani, partì la controffensiva, probabilmente studiata da Conti. Era assai preoccupante, infatti, la manovra di delegittimazione che Colajanni, anche col peso della sua autorità, aveva realizzato. In particolar modo, bruciava quell’appropriazione di Mazzini, che da mesi Colajanni andava compiendo. Il rischio era che, in un passaggio così delicato di leadership e di linea politica, il partito si trovasse privo della necessaria copertura ideologica. Proprio per questo, nonostante il vuoto epistolare tra i due184, è senz’altro ipotizzabile che l’iniziativa nascesse da Conti, il quale richiese forse anche una parola da Ghisleri, l’unico in grado di opporre la propria voce, con uguale forza, a quella di Colajanni. La prima mossa spettò a Conti che scrisse un articolo su “L’Alba Repubblicana”, ingiustamente poco noto. L’intera pagina, per la verità, era un capolavoro di architettura politica. Era interamente dedicata a Mazzini, con un articolo di Conti e uno di un altro esponente in rotta col partito, Giuseppe Macaggi185. Sotto l’articolo di Conti, inoltre, con il titolo Il pensiero economico, venivano riportate parole di Mazzini e di Colajanni. Attraverso estese citazioni mazziniane, Conti ricostruiva il pensiero del genovese su rivoluzione sociale e Comune. Mazzini, sosteneva Conti, legava strettamente rivoluzione politica e sociale, quindi, l’insistere del PRI sulla prima, portava con sé la seconda. Sulla Comune, poi, Mazzini, se attaccò l’estremismo rosso, pure attaccò i conservatori che, soffocando la rivolta, pensavano di bloccare l’ascesa dei lavoratori, che era un moto ineluttabile. Ciò consentiva a Conti di terminare così: “Può darsi che i repubblicani […] siano proprio sulla via dell’inferno, ma sembra che quella via abbia battuto anche Giuseppe Mazzini”186.

182

Enzo Mevi, Per un articolo di Napoleone Colajanni, “L’Iniziativa”, 22 febbraio 1920. L’Avanti e i massimalisti ancora una volta sorpassati, “RP”, 29 febbraio 1920, pp. 5455; I Mazziniani nell’ora presente, ibid., pp. 55-56. 184 Il carteggio tra Conti e Ghisleri, pubblicato da Aiazzi, si interrompe il 7 agosto 1919, per riprendere l’11 giugno 1920. 185 Giuseppe Macaggi, Le profezie di Mazzini, “L’Alba Repubblicana”, 7 marzo 1920. 186 Giovanni Conti, Parli Mazzini, ivi. 183

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Sulla stessa lunghezza d’onda, troviamo Ghisleri che, nella sua commemorazione di Mazzini, fatta su invito della sezione repubblicana milanese, affrontò direttamente il tema187. Oggi Mazzini – sosteneva Ghisleri – non parteciperebbe allo sgomento che ha preso anche uomini dotti e di buona fede. […] Mazzini […] non avrebbe perduto di fronte ai movimenti odierni, anche i più turbinosi, il suo ottimismo ed avrebbe compresa la ragione del fenomeno e degli episodi; e non si sarebbe spaventato e avrebbe visto nella cecità dei governanti e delle classi privilegiate il motivo determinante le rivolte. Egli non si sarebbe opposto al desiderio degli operai di costituire i famosi «Consigli di fabbrica» che darebbero modo di educare gli operai alla conoscenza diretta del complesso sistema degli scambi e della produzione che li innalzerebbero alla considerazione serena dei fatti e delle cose ed insieme tempererebbero certe semplicistiche illusioni da cui sono predominate le masse. […] Ma esiste una borghesia in Italia capace di comprendere ciò? […] Esiste in Italia un Governo? Di fronte ai torbidi, questa verminaia che ci governa da Roma non ha la più grande e tutte le responsabilità? […] Mazzini oggi, non sarebbe fra i difensori dell’attuale ordine di cose, non si spaventerebbe, non avrebbe il timore di una scossa perché comprenderebbe che ogni atto di conservazione tende a perpetuare il caos, l’anarchia.

Questa interpretazione di Mazzini, vicina al proletariato e contro le classi dirigenti, Ghisleri applicava anche alla Comune, nella quale il genovese aveva visto più le colpe dei ricchi, che le nefandezze del poveri188. 187 Mazzini e il momento attuale, “L’Italia del Popolo”, 13 marzo 1920. Il giornale, fondato da Cipriano Facchinetti e vicino al PRI, era ufficialmente l’organo del Fascio wilsoniano d’azione. 188 L’articolo ebbe grande diffusione, soprattutto negli organi di stampa in cui si faceva maggiormente sentire l’influenza di Conti e Zuccarini. Per primo lo riprese “L’Alba Repubblicana” del 21 marzo 1920, col titolo Mazzini in un discorso di Ghisleri, poi anche il “Lucifero” del 4 aprile 1920, col titolo Cosa direbbe Mazzini. La tradizione di questo intervento è alquanto curiosa. Non esistono infatti versioni ufficiali, riviste dall’autore, o resoconti stenografici. Il testo tramandato è il riassunto fattone da un anonimo giornalista de “L’Italia del Popolo”, presente alla cerimonia. L’articolo comparve a pagina 3, nella Cronaca Milanese, senza grande rilievo, perciò. Conti, poi, ne pubblicò il testo dapprima in Un Ignoto, Pensiero e azione, cit., pp. 116-121, poi nell’estratto Il partito repubblicano dopo la guerra, cit., pp. 29-35 e, infine, Arcangelo Ghisleri, Democrazia in azione, Casa Editrice Italiana, Roma s.d., un’antologia curata dallo stesso Conti, pp.187-190. “Il discorso di Arcangelo Ghisleri – secondo la testimonianza di Conti – ebbe, come doveva avere una larga eco nel Partito, e a [sic] determinare un più sereno sforzo di chiarificazione delle idee del Partito”. Giovanni Conti, Il partito repubblicano dopo la guerra, cit., p. 35. Una piccola curiosità è legata ad un refuso che fa sì che, nell’opuscolo di Conti, Pensiero e azione, il discorso sia datato 1910. In molte opere successive, anche dello stesso Conti, la data viene indicata come 1919, correggendo evidentemente in modo errato il refuso.

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A questo attacco diretto, proveniente dal più illustre ideologo del PRI, Colajanni non rispose pubblicamente. Non v’è traccia, infatti, nei tanti giornali a cui collaborava189, di questa polemica. D’altra parte, anche lo scontro con il PRI era alle ultime battute. Ormai, la stizza del vecchio deputato siciliano non si conteneva più190 e, nonostante la fine degli attacchi da parte de “L’Iniziativa”, con una dichiarazione di De Donno191, egli, nei mesi successivi, non mancò di attaccare, quando poteva, il PRI192. Nel far questo, si riavvicinò a quanti erano da tempo fuori dal partito, come i mazziniani di Felice Albani e della “Terza Italia”, e a vecchi leader in polemica con la nuova dirigenza, come Minuti e Cappa193. Tutto ciò costrinse il nuovo segretario, Fernando Schiavetti, ad intervenire, per chiarire la posizione del partito. Nel far ciò, Schiavetti, più diplomatico di De Donno, cercò di dimostrare un grande rispetto per Colajanni, tutto rivolto al passato, dando corpo alla sua “monumentalizzazione”, in contrasto con il suo più recente operato194. La polemica era stata comunque un momento importante per i repubblicani, tant’è che, nella sua relazione sull’attività del giornale dal gennaio al settembre del 1920, in vista del Congresso di Ancona, De Donno la metteva tra le questioni più rilevanti affrontate in quel torno di tempo195. Essa era stata utile, perché rappresentativa del pensiero di una parte rilevante del partito.

189 Un elenco di questi si trova nella preziosa Nota biobibliografica di Vittorio Parmentola, in Atti del Primo Convegno su Mazzini e i mazziniani dedicato a Napoleone Colajanni, cit., pp. 168-170. Manca, però, in questo inventario, che pure, per esplicita ammissione dell’autore, è incompleto e di semplice introduzione all’opera di Colajanni, il “Roma”. 190 Napoleone Colajanni, Per la rivoluzione… e contro la rivoluzione, “RP”, 15 marzo 1920, pp. 76-80. La critica di Colajanni era che il PRI non era stato capace di diventare maggioranza, come avrebbe voluto Mario, arrivando addirittura a un rapporto di 1 a 16 con i socialisti. L’accusa era sgradevole, soprattutto se si considera che questo era sempre stato l’argomento con il quale i socialisti avevano messo in discussione l’utilità dell’esistenza di un partito repubblicano. 191 A.D.D., Metodi polemici dell’on. Colajanni, “L’Iniziativa”, 18 aprile 1920. Era una risposta all’articolo precedente. 192 N. C., Al peggio non c’è fine…., “RP”, 15 aprile 1920, pp. 117-118. In particolare furono i fatti di Ancona a risvegliare l’ostilità di Colajanni. Per lui il fallito conato rivoluzionario, dimostrava l’ipocrisia parolaia dei repubblicani, incapaci, come i socialisti, di mettere in atto i loro propositi. Gli effetti della libera propaganda anarchica. Repubblicani e socialisti nei moti di Ancona, ibid., 30 giugno 1920, pp. 185-186; Per i moti di Ancona e per i deputati repubblicani, ibid., 1530 luglio 1920, pp. 217-218. 193 Noi, La bandiera rossa dei neo-repubblicani antimazziniani, ibid., 15 giugno 1920, p. 170; La bandiera rossa, ibid., 15-30 luglio 1920, pp. 217-218; Napoleone Colajanni, Ai botoli ringhiosi ed agli avversari politici, ibid., pp. 230-232; La bolscevizzazione e la rivoluzionariomania dei neo-repubblicani, ibid., 15-31 agosto 1920, p. 244. 194 f[ernando] s[chiavetti], Per l’indirizzo del Partito. Noi bolscevichi, “L’Iniziativa”, 4 luglio 1920. 195 A. De Donno, L’“Iniziativa” dal Gennaio al Settembre 1920, ibid., 26 settembre 1920.

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Riguardo al Congresso di Ancona, a cui non partecipò, Colajanni fu assai severo e, ancora una volta, tentò di dividere le responsabilità della nuova Direzione da quelle di Ghisleri196. La polemica con i repubblicani, ovviamente, non fu la sua sola preoccupazione in quei mesi. La situazione interna, così confusa e foriera di svolte inconsulte, lo aveva spinto, come abbiamo visto, ad appoggiare il governo Nitti, ma più che altro egli aveva scelto di appoggiare la legalità, sotto qualsiasi nome si presentasse. I suoi strali si indirizzarono, perciò, verso gli scioperi, che oltre ad aumentare la confusione, fino alle soglie della rivoluzione, diminuivano la produzione, in un momento già così drammatico per il paese197. Contemporaneamente, però, egli criticò quei ceti che si arricchivano senza considerare che sarebbero stati i primi a cadere in una rivoluzione scoppiata per il caro-vita. Perciò, per risolvere questo problema che angu-

196 Risveglio repubblicano, “RP”, 15 novembre 1920, p. 346; Il Congresso repubblicano di Ancona, ibid., 31 (ma 15) dicembre 1920, p. 364. Colajanni entrò in polemica anche con Nenni, che, peraltro, proprio allora usciva dal PRI, il quale lo aveva attaccato in quanto nemico della rivoluzione russa. Colajanni gli rispose che poneva una grande differenza tra la rivoluzione russa e il bolscevismo, e che avversava solo quest’ultimo. Terrorismo, comunismo e dittatura del proletariato, ibid., 31 ottobre 1920, p. 327; Al Repubblicano bolscevizzante Pietro Nenni, ibid., 31 (ma 15) dicembre 1920, pp. 364-365. Di diversa entità, e importanza, la polemica con Zuccarini che, nel presentare “La Critica Politica”, aveva affermato che la “Rivista” di Colajanni era soporifera. Durissima fu la risposta del siciliano: Perché nascerà una nuova rivista repubblicana, ibid., 31 dicembre 1920, p. 402, alla quale Zuccarini replicò con una lettera apparentemente cortese, in realtà molto secca. Lettera del 29 dicembre 1920 in Giuseppe De Stefani, Napoleone Colajanni e la crisi del primo dopoguerra italiano (19191921), in Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento, Atti del Seminario di Studi, Enna, 3-6 giugno 1982, Epos, Palermo 1983, p. 142. 197 Napoleone Colajanni, Dallo sciopero all’esperimento bolscevico, “La Sera”, 17-18 luglio 1919; Introduzione della Rivista a XX, Gli scioperi criminosi, “RP”, 15-31 gennaio 1920, pp. 7-9; Napoleone Colajanni, Dallo sciopero alla rivoluzione?, “Roma”, 23-24 gennaio 1920 e “Giornale di Sicilia”, 24-25 gennaio 1920; Noi, La follia suicida italiana, “RP”, 15 marzo 1920, p. 70; Napoleone Colajanni, Caos e non rivoluzione, “Roma”, 8-9 luglio 1920 e “Giornale di Sicilia”, 10-11 luglio 1920; La rivolta dei metallurgici e il manifesto dei socialisti antibolscevichi. Verso la rivoluzione?, “RP”, 15-31 agosto 1920, p. 241; Napoleone Colajanni, Resipiscenze equivoche e tardive, “Roma”, 9-10 settembre 1920 e “Giornale di Sicilia”, 11-12 settembre 1920; id., Gl’insegnamenti di un grande sciopero, “Roma”, 10-11 luglio 1921 e “Giornale di Sicilia”, 11-12 luglio 1921. Per attaccare gli operai e il loro presunto controllo sulle fabbriche, Colajanni non esitò a ricorrere all’esempio della Russia, nella quale Lenin aveva sciolto i Consigli di fabbrica e reimposto una ferrea disciplina: Napoleone Colajanni, Verso un tragico risveglio?, “Giornale di Sicilia”, 21-22 aprile 1920 e “Roma”, 27-28 e 28 aprile 1920; id., Nuova carta del lavoro o nuovo regime?, “Giornale di Sicilia”, 29-30 settembre 1920 e “Roma”, 1-2 ottobre 1920; id., I probabili risultati del controllo, “Giornale di Sicilia”, 6-7 ottobre 1920 e “Roma”, 7-8 ottobre 1920; id., Forza e volontà del lavoro, “Il Messaggero”, 5 ottobre 1920; id., Né reazione, né rivoluzione, “La Sera”, 29-30 ottobre 1920. L’attacco si estese dai lavoratori ai loro rappresentanti: I dirigenti dei Lavoratori in Francia e in Italia di fronte al bolscevismo, “RP”, 15-30 settembre 1920, p. 274; Napoleone Colajanni, I lavoratori francesi contro il bolscevismo, “Giornale di Sicilia”, 16-17 settembre 1920 e “Roma”, 17-18 settembre 1920.

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stiò i primi mesi del dopoguerra, egli propose un intervento moderatore dello stato attraverso due strumenti: prezzi politici e calmiere198. Parallelamente, si occupò della produzione granaria e dei motivi che ne riducevano la quantità, rimarcando l’importanza del pane per evitare ripercussioni sull’ordine pubblico199. Nè dimenticò un altro tema a lui molto caro, il Mezzogiorno, per il quale richiese interventi strutturali che ne riducessero lo svantaggio con il settentrione, aumentato ulteriormente dopo la guerra200. Ma, ovviamente, i bersagli preferiti della sua polemica erano i socialisti201, portatori, secondo Colajanni, di una ideologia nefasta per l’Italia, anche perché non si rendevano conto che la situazione stava loro sfuggendo

198 La Rivista, Il minaccioso problema del caro vivere, “RP”, 30 giugno-15 luglio 1919, pp. 260-267. Napoleone Colajanni, Tragici ammonimenti. (Il costo della vita), “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 21-22 giugno 1919; id., Ministeri che passano e pericoli che restano, “Roma”, 24-25 giugno 1919 e “Giornale di Sicilia”, 25-26 giugno 1919; id., L’azione dello Stato nel problema alimentare, “La Sera”, 26-27 giugno 1919; id., I fattori del rincaro della vita, “Giornale di Sicilia”, 9-10 giugno 1920 e “Roma”, 11-12 giugno 1920 e 12 giugno 1920; id., Il tormentoso problema del caro-vivere, “Roma”, 16-17 giugno 1921; id., Insegnamenti e conseguenze della follia degli alti prezzi, ibid., 23-24 giugno 1921. Inoltre, egli sostenne la necessità del razionamento alimentare, attuato giustamente in guerra. Id., Per una equa distribuzione dei prodotti alimentari. La tessera, ibid., 13-14 gennaio 1918; La giustizia annonaria al Consiglio Comunale. Parla Colajanni, ibid., 5-6 gennaio 1918; Napoleone Colajanni, Il futuro problema alimentare, ibid., 30-31 luglio 1919. 199 Egli cominciò ad occuparsene fin da prima della fine del conflitto, affrontando il tema degli esoneri agricoli per i soldati interessati dai lavori agricoli. Gli sembrò, questa, la ragione prima del crollo della produzione in quegli anni. Napoleone Colajanni, Il problema preoccupante del pane, “Giornale di Sicilia”, 4-5 febbraio 1918 e “Roma”, 5-6 febbraio 1918; id., Gli esoneri e la mano d’opera agricola, “Giornale di Sicilia”, 19-20 settembre 1917; id., Ancora degli esoneri agricoli, ibid., 16-17 ottobre 1917; id., Gli esoneri agricoli (Verso la riparazione?), ibid., 21-22 novembre 1917; id., Per la produzione del grano, “Roma”, 24-25 novembre 1917; id., Il maggiore problema di oggi e di domani, ibid., 5-6 maggio 1918; id., Terre incolte e problema alimentare, ibid., 13-14 settembre 1919; id., Per aumentare la produzione dei cereali (Illusioni e realtà), ibid., 15-16 luglio 1920 e “Giornale di Sicilia”, 16-17 luglio 1920; id., I paurosi aspetti del problema agrario, “La Sera”, 28-29 agosto 1920 e 30 agosto 1920. 200 Anche in questo caso, le analisi di Colajanni cominciano durante la guerra. Egli sostenne, durante e dopo il conflitto, che fosse il meridione il più duramente provato. Napoleone Colajanni, Una cambiale in favore del Mezzogiorno, “Roma”, 10-11 luglio 1917 e “Giornale di Sicilia”, 14-15 luglio 1917; id., Protestiamo la cambiale, “Roma”, 7-8 dicembre 1918 e “Giornale di Sicilia”, 9-10 dicembre 1918; id., La distribuzione regionale della ricchezza, “La Sera”, 1-2 aprile 1919; id., Sperequato trattamento politico tra Nord e Sud, ibid., 5-6 novembre 1920. 201 La Rivista, Verso l’anarchia?, “RP”, 15 marzo 1920, pp. 72-75; Napoleone Colajanni, Nell’attesa di un Parlamento socialista, “Giornale di Sicilia”, 6-7 aprile 1920 e “Roma”, 7-8 aprile 1920; La Rivista, In piena anarchia, “RP”, 30 aprile – 15 maggio 1920, pp. 145-148; Ferocia e incoscienza dei bolscevichi italiani, ibid., 15-31 agosto 1920, p. 242

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di mano202. L’idea di Colajanni era, infatti, che il leader che avrebbe approfittato di un eventuale moto rivoluzionario sarebbe stato Enrico Malatesta, il capo degli anarchici, “il rivoluzionario più serio e più logico di oggi” 203. Perciò egli rimaneva convinto della necessità di mantenersi uniti contro l’unico nemico e di sostenere il modo migliore per fermarlo. Quando Nitti gli apparve troppo debole204, non esitò ad appoggiare il ritorno di Giolitti205. Non per questo egli dimenticava trent’anni di battaglie, ma sperava che il credito che Giolitti aveva presso la pubblica opinione riuscisse a coagulare intorno allo Stato le forze necessarie per battere il comunismo206. Anche nel valutare la questione di Fiume, Colajanni considerò principalmente la necessità di non spaccare il paese. Quando giunse la prima notizia dell’impresa, ribadì l’italianità della città adriatica, difendendo nel contempo l’operato di Salandra e di Sonnino, che certamente non erano stati in grado di prevedere la dissoluzione dell’Impero Asburgico quando avevano firmato il Patto di Londra. Criticò, però, l’operato di D’Annunzio, creatore di turbative e pericoli per la patria. A lui, Colajanni ricordò il ben diverso comportamento di Garibaldi207. In seguito, rivide parzialmente il giudizio sul poeta, rimanendo molto severo nei confronti delle sue tendenze imperialiste e delle sue

202 Napoleone Colajanni, I consigli di Lenin applicati in Italia, “Roma”, 12-13 marzo 1920 e “Giornale di Sicilia”, 15-16 marzo 1920; id., Il “delirium tremens” sociale, “Giornale di Sicilia”, 26-27 marzo 1920 e “Roma”, 27-28 marzo 1920; L’amnesia dell’Avanti! sulla teoria e sulla pratica degli assassini, “RP”, 31 ottobre 1920, pp. 327-328. 203 Per i moti di Ancona e per i deputati repubblicani, ibid., 15 – 30 luglio 1920, pp. 217-218; La Rivista, In piena anarchia, ibid., 30 aprile – 15 maggio 1920, pp. 145-148; Gli effetti della libera propaganda anarchica. Repubblica e socialisti nei moti di Ancona, ibid., 30 giugno 1920, pp. 185-186; Napoleone Colajanni, La condanna della rivoluzione, “Il Messaggero”, 13 luglio 1920; La rivolta dei metallurgici e il manifesto dei socialisti antibolscevichi. Verso la rivoluzione?, “RP”, 1531 agosto 1920, p. 241. 204 Napoleone Colajanni, Parlamento e paese, “Giornale di Sicilia”, 21 maggio 1920 e “Roma”, 21 maggio 1920. 205 Napoleone Colajanni, Attorno alle crisi ministeriali, “RP”, 30 aprile – 15 maggio 1920, pp. 142-145. 206 Napoleone Colajanni, Giolitti, “Giornale di Sicilia”, 1-2 giugno 1920 e “Roma”, 3-4 giugno 1920; id., Il dovere del Parlamento, “Giornale di Sicilia”, 21-22 giugno 1920 e “Roma”, 23-24 giugno 1920; La Rivista, Il grave compito del 5° Ministero Giolitti, “RP”, 30 giugno 1920, pp. 189-191. 207 Napoleone Colajanni, Fiume!, “Roma”, 18-19 settembre 1919; id., Fiume nella propaganda italiana all’estero, “La Sera”, 25-26 settembre 1919; La Rivista, Nell’agonia della XXIV legislatura – Da Caporetto a Fiume, “RP”, 30 settembre-15 ottobre 1919, pp. 376-382. Contro l’interpretazione di comodo del Patto di Londra, visto come una scusa per negare il dovuto all’Italia, La Rivista, Fiume, ibid., 31 dicembre 1919, pp. 478-481, nel quale l’atteggiamento anti italiano era visto attraverso la necessità della Francia di creare un forte stato antitedesco dove prima era l’Austria-Ungheria. Continuando questa politica, però, si sarebbe giunti all’obiettivo, opposto, di spingere l’Italia nelle braccia della Germania.

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pose tribunizie208. Firmato il Trattato di Rapallo, Colajanni lo approvò, criticando le mire verso la Dalmazia di D’Annunzio, di cui auspicò il ritorno alla poesia, pur nel sostanziale apprezzamento per l’opera da lui svolta209. Ben presto, però, si accorse che anche a Giolitti mancava l’energia per soffocare l’anarchia. Di fronte al deterioramento dei rapporti tra operai e padroni, nei confronti dei quali Colajanni era ugualmente duro, nulla aveva fatto il governo. Invece, egli avrebbe auspicato un controllo sui salari e sui profitti che abbassasse la tensione210. Verso la fine dell’anno si diffuse la voce che Giolitti, soddisfatto della sua riabilitazione, si sarebbe ritirato. Colajanni, scartando ovviamente le ipotesi di dittatura proletaria o militare, sembrò possibilista nei confronti di Orlando, più adatto di Nitti e Corradini, a gestire quella fase211. In cima ai suoi pensieri c’era però il tema della rivoluzione. Se da una parte, come abbiamo largamente visto, questo argomento costituiva il terreno di scontro con i repubblicani e i socialisti, nondimeno Colajanni era interessato a studiare il leninismo. Il bisogno d’ordine, “l’utopia conservatrice”, per la quale si doveva mantenere tutto com’era, nella speranza di sopravvivere alla tempesta in arrivo, non risolveva tutto l’approccio di Colajanni al bolscevismo. Egli era pur sempre uno studioso attento ai dati e, da decenni, critico della struttura della società italiana. Così non dimenticò che, il non aver affrontato e risolto il problema del latifondo, rendeva l’Italia un paese a rischio, giacché proprio questa era stata la questione al centro di tutte le rivoluzioni scoppiate nel dopoguerra212. Egli proponeva di costituire un ceto di piccoli proprietari, che costituissero un formidabile strumento

208 Noi, Fiume, “RP”, 15-30 novembre 1919, pp. 428-429, in cui stigmatizzava l’impresa di Zara; Napoleone Colajanni, L’impresa di Fiume (Verso la soluzione?), “Giornale di Sicilia”, 28-29 dicembre 1919, “Roma”, 31 dicembre 1919-1 gennaio 1920; Introduzione della Rivista a I. H. Rosny, Gabriele D’Annunzio, “RP”, 15 novembre 1920, pp. 350-351. 209 Napoleone Colajanni, La pace giusta fra l’Italia e la Jugoslavia, “RP”, 31 dicembre (ma 30 novembre) 1920, pp. 366-369; id., Contro un nuovo Aspromonte, “Roma”, 4-5 dicembre 1920. Id., Finalmente l’Italia ha la sua pace! (Dopo il tragico episodio fratricida), “RP”, 31 dicembre 1920, pp. 405-406. Id., Contrasti etnico-politici nell’Adriatico, “Roma”, 10-11 febbraio 1920 e “La Sera”, 12-13 marzo 1920; id., Giustizia internazionale o diritto di conquista, “Roma”, 17-18 novembre 1920; id., Condizioni etniche e sentimento nazionale della Dalmazia, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 24-25 novembre 1920. 210 La Rivista, Il trionfo dei metallurgici, “RP”, 15-30 settembre 1920, pp. 277-280. 211 La Rivista, Rivoluzione e reazione, ibid., 31 ottobre 1920, pp. 328-331. 212 Napoleone Colajanni, I termini di un problema urgente, “Roma”, 5-6 febbraio 1920; id., Il problema del latifondo, “La Sera”, 29-30 dicembre 1920; id., Est periculum in mora, ibid., 16-17 febbraio 1921.

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di conservazione delle istituzioni213. D’altronde, anche in Russia i contadini, pur non essendo bolscevichi, erano contrari alla caduta di quel regime, per la paura di perdere le proprie terre. Di più, essi arrivavano ad osteggiare Lenin negando ai suoi emissari i viveri necessari per le città, creando quel fenomeno di “ruralismo”, come lo definì Colajanni in opposizione all’urbanismo, tipico della Russia214. L’antibolscevismo influì sulla sua posizione nei confronti della Polonia e dell’Ucraina nella guerra che queste scatenarono contro la Russia. Aldilà dell’aspetto morale, erano le possibilità nulle di successo a motivare il giudizio fortemente negativo nei confronti delle due nazioni attaccanti. Una vittoria russa avrebbe, infatti, grandemente aumentato il prestigio dei bolscevichi215. Questa guerra, poi, oltre a mostrare il volto imperialista del leninismo216, metteva in luce l’assurdità del progetto wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli, poiché si scontrava con le “zone grigie” del continente, di cui il confine russo-polacco non era che una delle tante217. A fronte di Wilson, Colajanni rivalutava Metternich, sostenendo l’opportunità di una pace imposta, sul modello del Congresso di Vienna. Straordinariamente, per un repubblicano, affermava che meglio sarebbe stato ricostruire uno Stato federale sulle ceneri dell’Impero Asburgico, dove trovassero posto anche gli italiani delle terre irredente218. Ma la questione era se la rivoluzione realmente fosse la soluzione dei tanti problemi italiani. Per Colajanni la risposta era negativa, poiché un’eventuale rivoluzione avrebbe chiuso al nostro paese le porte del credito internazionale219. Riprendendo argomentazioni già utilizzate l’anno

213 A proposito della questione sorta tra l’assegnazione dei latifondi agli enti colletivi o alla proprietà privata, propose un compromesso: “assegnare il latifondo agli enti colletivi e consentirne la conduzione individuale”. Id., Dal latifondo alla piccola proprietà?, “Giornale di Sicilia”, 8-9 maggio 1920. 214 Id., La politica dei contadini, “Roma”, 19-20 ottobre 1920; id., Continuando… Il fallimento del regime comunista, “RP”, 31 ottobre 1920, pp. 339-341. 215 Noi, La Polonia contro la Russia bolscevica, “RP”, 30 aprile – 15 maggio 1920, p. 139; Napoleone Colajanni, Gli insegnamenti della guerra in Ukraina, “Roma”, 1-2 giugno 1920. 216 Noi, La Polonia contro la Russia bolscevica, “RP”, 30 aprile – 15 maggio 1920, p. 139; Napoleone Colajanni, Gli insegnamenti della guerra in Ukraina, “Roma”, 1-2 giugno 1920; Lo Zotico, L’ultima guerra del quarto d’ora…, “RP”, 15-31 agosto 1920, pp. 261-264; Napoleone Colajanni, La guerra russo-polacca (Altri insegnamenti), “Roma”, 26 -27 agosto 1920. 217 Id., Gli insegnamenti della guerra in Ukraina, “Roma”, 1-2 giugno 1920. Colajanni proponeva una confederazione sul modello svizzero con capitale a Costantinopoli. 218 Lo Zotico, L’ultima guerra del quarto d’ora…, “RP”, 15-31 agosto 1920, pp. 261-264. 219 Noi, Se il popolo conoscesse la realtà fracasserebbe le ossa a coloro che consigliano la rivoluzione, ibid., 15-31 gennaio 1920, pp. 2-3; Napoleone Colajanni, Il consiglio di Lenin, “La Sera”, 29-30 gennaio 1920; id., Perfino contro Lenin?, ibid., 4-5 febbraio 1920.

L’“utopia conservatrice” di Colajanni

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precedente, egli sostenne che l’Italia era uscita dalla guerra in condizioni così drammatiche da non poter prescindere, se mai lo avesse potuto fare prima, dalle importazioni di materie prime dall’estero220. Le rivoluzioni avevano sempre avuto cause economiche, ragionava Colajanni, ma nel 1789, ad esempio, la struttura del mercato internazionale era assai più semplice, tanto che la Francia aveva potuto combattere da sola contro tutti221. Anche la Russia, che pure, per le sue immense risorse naturali, era l’unico paese europeo in grado di sostenere un esperimento di tipo leninista, aveva dovuto ricorrere all’aiuto di capitalisti stranieri222. Né potevano essere d’aiuto, come taluni sostenevano, i paesi della Mitteleuropa223, dai quali non era possibile importare ciò di cui c’era bisogno e che, anzi, avevano essi stessi bisogno di aiuto. L’idea era del socialista Graziadei, che era tornato dal suo viaggio in Russia pienamente conquistato da quel regime. Colajanni lo attaccò ripetutamente, citando le testimonianze di altri viaggiatori, anch’essi socialisti, ma più critici di lui224. Queste dichiarazioni furono molto discusse, poiché venivano a confermare, per bocca degli stessi socialisti, l’immagine che della Russia avevano tratteggiato i giornali borghesi225. Le desolanti rivelazioni sullo stato dell’ex impero zarista, spinsero ancor di più Colajanni a chiedere ragione a Turati, Treves e i riformisti, del loro comportamento. Già all’epoca del governo Nitti, egli aveva criticato il presidente del Consiglio per aver cercato l’appoggio dell’ala destra del PSI, nel-

220

Vedi p. 118. Napoleone Colajanni, Per la rivoluzione… e contro la rivoluzione, “RP”, 15 marzo 1920, p. 77. L’affermazione di Colajanni era provocata da una lettera di Ignazio Berra, a lui diretta. Berra gli scrisse ancora, sostenendo che l’attuale regime avrebbe perso anch’esso il credito internazionale, per cui conveniva intervenire. Ma allora, gli chiedeva Colajanni, perché non intervenire per ristabilire l’ordine, e riacquistare credito attraverso questa strada? N.C., Al peggio non c’è fine…, ibid., 15 aprile 1920, pp. 117-118. 222 Napoleone Colajanni, Contro la rivoluzione II, “Il Messaggero”, 6 febbraio 1920. In Perché non si dovrebbe fare una rivoluzione…, “Roma”, 19-20 agosto 1920 e “Giornale di Sicilia”, 24-25 agosto 1920, egli enumerava altre differenze tra la Russia e l’Italia, oltre alla minore autosufficienza italiana. Vi era, infatti da considerare la minore densità di abitanti russa, che comportava maggior ricchezza di terra, e la maggiore complessità della società italiana. 223 Colajanni aveva anche criticato l’idea che il grano di cui l’Italia necessitava, potesse venire dalla Russia. Vedi p. 115. 224 Napoleone Colajanni, Largo alla verità!, “RP”, 15 ottobre 1920, pp. 308-310; id., Russia e Italia – Un dubbio dell’Amleto neobolscevico, “Il Messaggero”, 17 ottobre 1920; id., Peccatori impenitenti, “Giornale di Sicilia”, 26-27 ottobre 1920 e “Roma”, 29-30 ottobre 1920. 225 Ad esempio, i reportages di Luciano Magrini del maggio – giugno 1920, apparsi su “Il Secolo” di Milano, e poi raccolti in volume, col titolo Nella Russia bolscevica, Società Editoriale Italiana, Milano 1920, alla fine dell’anno. Su Magrini vedi più avanti. 221

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l’illusorio tentativo di staccarla dai massimalisti e realizzare, con il loro appoggio, le necessarie riforme. Fin da allora era chiara a Colajanni la drammatica condizione di stallo di Turati, che non era in grado di trarre dai suoi pesanti attacchi al bolscevismo, le uniche conclusioni possibili226. Dall’attenzione che Colajanni dedicò ai riformisti, dai toni quasi accorati e poi stizziti con cui si rivolgeva a Turati e a Treves, si può capire la grande importanza che egli dava a quello schieramento, ma anche la profonda amarezza che gli generava la politica che conduceva227. Per questo riferì con sardonico piacere la notizia dell’ultimatum della Terza Internazionale al PSI affinché espellesse i riformisti, nonostante tutte le loro acrobazie dialettiche228. Quella che ormai era diventata un’ossessione per la salvezza dell’Italia, lo portò ad assumere posizioni sempre più discutibili. Di fronte all’insorgere del fascismo, prese nettamente posizione contro i socialisti, sostenendo essere il primo una risposta alle provocazioni dei secondi229. Il fascismo gli appariva un’incarnazione dell’ideale di “socialismo nazionale”, a cui il PRI non aveva saputo corrispondere. Non a caso, dunque, egli criticò aspramente i repubblicani per la loro posizione di equidistanza tra socialisti e fascisti, paragonando questi ultimi alle “falangi mazziniane e garibaldine”, da cui invece il PRI, per le sue posizioni filobolsceviche, si era irrimediabilmente allontanato230. “Pro e contro il Bolscevismo” L’elaborazione più articolata sul bolscevismo, di parte repubblicana, si deve a Oliviero Zuccarini. Esponente di primo piano del rinnovamento del PRI negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, egli era, insieme a Conti, l’allievo prediletto di Ghisleri. I due, entrambi

226 Napoleone Colajanni, Peccatori impenitenti, “Giornale di Sicilia”, 26-27 ottobre 1920 e “Roma”, 29-30 ottobre 1920; id., Gl’insegnamenti del Congresso socialista, “Roma”, 18-19 ottobre 1919 e “Giornale di Sicilia”, 19-20 ottobre 1919. 227 Noi, Il Congresso di Reggio Emilia, “RP”, 31 ottobre 1920, pp. 331-332; Gli assassini di Bologna – Ciò che potrebbe attendere l’Italia dal trionfo del bolscevismo, ibid., 31 [ma 15] dicembre 1920, pp. 362-363. 228 Noi, Le vergognose contraddizioni del Congresso di Reggio Emilia non commuovono Lenin, ibid., 15 novembre 1920, pp. 351-352; L’autocrazia di Lenin, ibid., 31 dicembre [ma 30 novembre] 1920, pp. 362-363. 229 Gli assassini di Bologna – Ciò che potrebbe attendere l’Italia dal trionfo del bolscevismo, ibid., 31 [ma 15] dicembre 1920, pp. 362-363. 230 Lo Zotico, La scissione nel partito repubblicano provocata dalle nuove tendenze bolsceviche, ibid., 31 dicembre 1920, pp. 389-390. Colajanni arrivò a rivalutare anche i clericali che, con l’eccezione di Miglioli, gli sembravano diventati buoni italiani. La Rivista, Contro l’Italia e per la guerra civile, ibid., pp. 406-408.

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marchigiani, avevano preso in mano il partito dopo la dura polemica contro Barzilai al tempo della guerra di Libia e Zuccarini stesso aveva assunto la segreteria del partito, che avrebbe tenuto fino al 1916, quando, dopo reiterate richieste, partì volontario per la guerra. L’attenzione di Zuccarini, nella lotta politica, era sempre andata verso i problemi del lavoro, essendosi occupato di ristabilire una forte presenza repubblicana nel sindacato, dove i socialisti avevano la maggioranza. Egli cercava di collegare la soluzione dei problemi salariali con i produttivi, per saldare le lotte sindacali a quelle per la conquista di una società che fosse regolata secondo i precetti mazziniani. Proprio per questo fu scelto per scrivere la relazione sul problema sociale, da presentarsi al Congresso di Roma, nel dicembre 1919231. Nel documento, Zuccarini sosteneva il fallimento del regime monarchico e dell’organizzazione economica che lo caratterizzava, a seguito della guerra, dell’aumento smisurato della burocrazia, della quantità del debito pubblico, che generava un’inflazione galoppante, tale da ridurre enormemente il valore dei salari. Si imponeva, pertanto, una soluzione, la quale non poteva venire che dalla rivoluzione. In tale ottica, l’autore discuteva di quella bolscevica, definendola un totale fallimento come risposta ai problemi sociali. Questa non poteva venire che da un mutato assetto istituzionale, il quale avrebbe rappresentato la necessaria cornice entro cui potevano essere svolte le riforme, che avrebbero comportato grandi autonomie regionali e ridotte competenze centrali; annullamento del debito pubblico, figlio di passate gestioni sconsiderate; licenziamento della gran parte della burocrazia e abbattimento delle barriere doganali.

231 La relazione, scritta per il congresso originariamente previsto per novembre, fu resa nota dalla stampa con largo anticipo rispetto alle assise. La versione integrale venne pubblicata in due parti da “L’Italia del Popolo”, rispettivamente dell’11-14 ottobre 1919 e del 15-17 ottobre 1919, entrambe col titolo Il problema sociale e da “Humanitas” del 7-14 dicembre 1919, col titolo Pensiero repubblicano, pp. 193-196. La prima parte venne pubblicata anche dal “Lucifero” del 5 ottobre 1919, col titolo I risultati negativi dell’esperimento bolscevico; parzialmente, da “L’Iniziativa”, del 23 novembre 1919, col titolo Il problema sociale e “L’Alba Repubblicana” del 15 maggio 1920, col titolo Il Bolscevismo, riprodotto da “La Riviera” del 22 maggio 1920, col medesimo titolo. La seconda parte fu riprodotta ne “L’Iniziativa” del 4 ottobre 1919, col titolo La proprietà e i repubblicani e sul “Lucifero” dell’11 dicembre 1919, Le soluzioni del Problema Sociale in una relazione di Oliviero Zuccarini. Fu, inoltre, riprodotta in opuscolo, col titolo Il problema sociale. Relazione al XIII Congresso Nazionale Repubblicano, Roma 1919. Anche Zuccarini la ripubblicò parzialmente nella raccolta di suoi scritti Il mio socialismo. (Sindacalismo repubblicano), Edizioni di “Critica Politica”, Roma 1946, pp. 61-74. Questo libro doveva avere per l’autore un valore pratico, di lotta politica, per cui i testi contenuti vennero tagliati delle espressioni ritenute superate dai tempi. Nel caso specifico, manca proprio l’analisi del bolscevismo.

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Gli altri due problemi, che Zuccarini affrontava nella sua relazione, erano la proprietà e la produzione. Riguardo alla prima, prefigurava una distribuzione della ricchezza dello Stato in parti uguali a ciascuno e un limitato diritto di eredità, per far sì che ognuno partisse dalle stesse condizioni e avesse stimoli a produrre. Della produzione, e l’organizzazione sociale più funzionale ad essa, Zuccarini scriveva essere il grande problema di fronte al quale qualsiasi regime si sarebbe trovato. La sua proposta era in perfetta linea con l’ortodossia mazziniana, reclamando la libertà per ogni cittadino di associarsi con altri. Da questa relazione derivò un ordine del giorno che sintetizzava le conclusioni di Zuccarini. In particolare, vi si considerava come un esperimento fallito il sistema «bolscevico» che al dominio delle vecchie oligarchie affaristiche e burocratiche, ha sostituito il despotismo politico di una nuova oligarchia; che nel campo economico, traducendo nel fatto la concezione statale collettivista, ha burocratizzato maggiormente e con più disastrosi effetti la vita economica; ha creato nuove categorie di privilegiati; ha ristabilito nel lavoro quelle gerarchie e quelle subordinazioni che pretendeva di poter eliminare; ha ridotto la produzione ai minimi termini fino a preparare per il proletariato la eguaglianza solo nella miseria232.

Le idee contenute in questo importantissimo scritto, rappresentarono il nucleo fondamentale del successivo opuscolo Pro e contro il bolscevismo, uscito nel 1920, nel quale Zuccarini rifuse anche alcuni articoli233 che aveva redatto nei primi mesi dell’anno, sotto l’urgenza della polemica antibolscevica, scatenatasi a causa della presa di posizione di Colajanni. Tuttavia, l’intento propositivo ebbe senz’altro la meglio su quello polemico. Egli costruì, infatti, attorno alla posizione del PRI riguardo al bolscevismo, un preciso progetto sociale. A tale scopo, oltre

232 Oliviero Zuccarini, Ordine del giorno Zuccarini sul problema sociale, “L’Iniziativa”, 6 dicembre 1919 e “Lucifero”, 11 dicembre 1919. Ripubblicato anche in id., Il mio socialismo, cit., pp. 75-76. 233 Id., Vigilia rivoluzionaria – Pro e contro il Bolscevismo. Che cosa vogliamo, “L’Alba Repubblicana”, 1 maggio 1920. Le posizioni espresse in questo articolo vennero positivamente giudicate da “Guerra di classe”, organo dell’Unione Sindacale Italiana, in un articolo a firma Aligio. Il fatto fu notato con soddisfazione in Per la buona intesa, “La Riviera”, 12 giugno 1920.

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alle fonti citate, utilizzò anche alcuni passaggi della sua relazione al Congresso di Bologna del 1914234. L’intento polemico nei confronti di Colajanni era immediatamente ravvisabile nella ribadita vocazione rivoluzionaria del PRI, in polemica non solo con il vecchio deputato siciliano, ma direttamente con il suo maestro, Alberto Mario. La visione del pericolo bolscevico in Italia era quella di Ghisleri, secondo il quale il vero bolscevismo era ai vertici dello Stato, perciò abbattere il regime monarchico significava liberare il paese da una prospettiva disastrosa, non precipitarcelo. Per evitare la solita, sterile polemica sul bolscevismo, materiata più di pregiudizi che di analisi pacate, Zuccarini affrontava direttamente il problema: Come soluzione socialista del problema economico il bolscevismo è negativo. […] Ma non possiamo disconoscere il valore storico immenso che il bolscevismo rappresenta ed è destinato a rappresentare. Esso segna effettivamente l’inizio di un epoca nuova. Faticoso inizio – e si capisce. Il sistema bolscevico così come è stato concepito e attuato non è destinato a restare. Costituisce, però, il fermento fecondatore di tutti gli esperimenti, di tutte le iniziative rivoluzionarie. Il proletariato mondiale ha avuto, solo attraverso ad esso, il senso che la sua ora è scoccata. Che importa se l’esperimento bolscevico si trascina di errore in errore, e ripete più duramente il male che voleva sanare? Ciò interessa secondariamente: ogni inizio rivoluzionario ripete sempre le forme, i mezzi, i metodi della società in dissoluzione. Ma il privilegio capitalistico è vulnerato a morte. Le ultime classi della gerarchia sociale salgono al primo posto. In tutto il mondo l’utopia si sustanzia di realtà. E il lavoro si prepara a prendere funzioni direttive nella produzione sociale235.

Con simili premesse, era inevitabile l’accusa di essere bolscevichi, perciò Zuccarini non lasciava che poche righe prima di rispondere a quella che sapeva essere l’obiezione più accesa nei confronti del PRI.

234 Oliviero Zuccarini, Pro e contro il Bolscevismo, Libreria Politica Moderna, Roma 1920. Il testo fu parzialmente ristampato in id., Il mio socialismo, cit., pp. 25-59. A questa edizione si rifà Federico Paolini, L’esperienza politica di Oliviero Zuccarini. Un repubblicano fra Mazzini, Mill e Sorel, Marsilio, Venezia 2003, pp. 95-97. Si è qui utilizzata la prima edizione, che mi è stata cortesemente messa a disposizione dal Dr. Lucio Cecchini. 235 Oliviero Zuccarini, Pro e contro il Bolscevismo, cit., pp. 11-12. Corsivo nel testo.

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Ed ecco – scriveva l’ex segretario repubblicano – in quanto i repubblicani non sono bolscevichi: mentre riconoscono tutto il valore storicamente rivoluzionario del bolscevismo, mentre si rifiutano di aderire come che sia a qualsiasi manifestazione antibolscevica che, comunque mascherata, è sempre una forma di esasperazione conservatrice, essi sono contro il bolscevismo come sistema di organizzazione politica e sociale. E lo sono – si ponga bene mente alle parole – non in quanto desiderano conservare qualche cosa dell’ordinamento presente, ma appunto per la ragione opposta: sono contro il bolscevismo perché il bolscevismo è conservatore. […] Come ordinamento interno è lo stesso [della società borghese], fondato sullo stesso principio: più complicato, più esteso, più burocratizzato, sì, ma il medesimo. […] Come sistema economico: è l’intervenzionismo, il monopolismo, lo statalismo quale abbiamo avuto modo di esperimentare in tutti gli Stati nelle sue forme ridotte e pur tuttavia disastrose, portato al massimo sviluppo. Come emancipazione del lavoro, non realizza la libertà dell’operaio, ma perpetua la schiavitù del salario che non cessa di diventare schiavitù solo perché al padrone si è sostituito lo Stato. In questo senso i repubblicani sono antibolscevichi236.

Le radici dell’analisi del dispotismo accentratore bolscevico erano così poste. Ad esse si contrapponevano le ragioni del rivoluzionarismo repubblicano, visto come la componente antiautoritaria del pensiero rivoluzionario. In questa visione della società avevano importanza decisiva i sindacati, veri strumenti di libertà e di gestione diretta, ad opera dei lavoratori, dei mezzi di produzione. Il repubblicanesimo era, perciò, la variante più adatta, al momento, del socialismo, del quale era una corrente. Posto il problema con tanta chiarezza, non rimaneva a Zuccarini che argomentare le affermazioni fatte. In primo luogo si doveva spiegare il fallimento del bolscevismo come esperimento socialista. Per farlo, si servì delle parole della sua relazione, durissime: l’esperimento bolscevico non aumenta di un centesimo le nostre cognizioni sull’ordinamento possibile di una società nuova; non ha fatto fare al problema della ricostruzione un passo di più verso la soluzione.

236

Ibid., pp. 12-13. Corsivo nel testo.

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I suoi risultati sono stati tutti negativi. Praticamente si è risolto nell’applicazione su tutta la linea del principio autoritario e dell’idea monopolistica237.

Alla critica consueta sulla mancanza di libertà in Russia, Zuccarini accompagnava una fine analisi degli strumenti elettorali attraverso i quali la volontà degli elettori veniva incanalata secondo quanto volevano i capi. Tale complicato meccanismo di votazione, non era che uno degli aspetti della mastodontica complessità della burocrazia. Ciò era dovuto al fatto che “i bolscevichi sono rimasti fermi nella vecchia concezione statale collettivista, di marca prussiana”238. Gli obiettivi delle critiche di Zuccarini erano, come abbiamo visto, la rigida gerarchia, creatrice di parassitismo e ingiustizie, e l’accentramento. Questa organizzazione, oltre alla sua immoralità, era anche antieconomica. Mancavano gli stimoli che potessero condurre l’intero sistema ad una maggiore produzione. La dimostrazione migliore dell’incapacità del comunismo di corrispondere alla realtà russa era data dalla creazione di un vasto ceto di piccoli proprietari terrieri, sui quali il governo di Lenin non era riuscito ad imporsi. Ma l’attacco al bolscevismo non doveva essere, per Zuccarini, se non un modo per evitare che il suo fallimento trascinasse, con sé, l’intero bagaglio di ideali, di cui la rivoluzione era stata portatrice. “Il fatto che primeggia nella rivoluzione russa, e che nulla potrà più distruggere, è questo: l’abolizione del privilegio di classe coll’espropriazione capitalistica a beneficio della collettività”239. La rivoluzione “ha portato il principio della uguaglianza sociale dall’utopia alla realtà”240. Persino l’esercito rosso, emblema del potere leninista, era giudicato necessario alla resistenza della rivoluzione, contro le tendenze controrivoluzionarie. Sono pagine cariche di entusiasmo, con richiami a profezie mazziniane, usate per avvalorare l’importanza del passaggio storico che si stava vivendo, ed in cui era chiara l’immagine di un cammino progressivo dell’umanità verso forme superiori di convivenza, nel quale il bolscevismo era, comunque, un passo avanti. Le preoccupazioni che, più o meno artatamente, venivano messe in giro da chi aveva interesse alla conser-

237

Ibid., p. 22. Ibid., p. 24. Ibid., p. 29. Corsivo nel testo. 240 Ibid., p. 30. Corsivo nel testo. 238 239

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vazione o da chi aveva solo paura, non avevano ragioni d’essere. Anche per Zuccarini le diverse condizioni storiche e psicologiche del popolo italiano rendevano impossibile il trapianto dell’esperimento russo. Con eccessivo ottimismo, Zuccarini pensava “che un potere dittatoriale, in Italia, non si reggerebbe due mesi, giacché troverebbe assai presto contro di sé quelle stesse masse che gli avrebbero, in un primo momento, dato la possibilità di stabilirsi”241. Anche l’appoggio dato ai socialisti era più una reazione al regime accentratore monarchico, per cui, le stesse masse che avversavano il re, non avrebbero voluto le medesime condizioni ricreate da qualcun altro. La proprietà era un bisogno primario dell’individuo, che per nulla al mondo vi avrebbe rinunciato. In realtà sotto la maschera socialista che copre da noi l’agitazione rivoluzionaria [ci si accorgeva] che la rivoluzione si affermerà come la rivolta della campagna contro la città, degli interessi produttivi contro gli interessi parassitari, dei Comuni contro lo Stato, dei lavoratori della libera produzione contro i lavoratori improduttivi della burocrazia romana. Soprattutto la rivoluzione sarà nel fallimento dello Stato, cioè nel fatale crollo della mostruosa impalcatura statale incapace, oramai, a sostenersi e ad essere sostenuta242.

Questa analisi permetteva a Zuccarini di escludere con nettezza l’appoggio dei repubblicani al regime monarchico, in funzione antibolscevica. Se la rivoluzione era inevitabile, la soluzione non era nella reazione, bensì nello scatto in avanti, nell’elaborazione di un compiuto progetto rivoluzionario. “I repubblicani, insomma, – scrive Tesoro – nell’ora in cui la scelta del campo non ammette compromessi e mediazioni devono, secondo Zuccarini, ribadire il loro ruolo storico e schierarsi sul terreno rivoluzionario” 243. Pareva a Zuccarini che anche gli epigoni italiani di Lenin fossero, ormai, convinti che la violenza insita nel regime bolscevico non fosse praticabile. Bisognava che tutte le forze rivoluzionarie si unissero, affinché i loro sforzi fossero coronati da successo, pur nella loro diversità. Ciò che differenziava i repubblicani dai socialisti non erano gli obiettivi

241

Ibid., p. 39. Ibid., p. 43. Corsivo nel testo. Marina Tesoro, Zuccarini e le autonomie, in Democrazia repubblicana, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, p. 263 e ead., Zuccarini: la battaglia autonomista, “Nord e Sud” n. 9, ottobre 1975, p. 130 ora in ead., Democrazia in azione, cit., p. 247. 242 243

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della lotta sociale, ma “il metodo e i modi delle realizzazioni politiche e sociali. Per i socialisti il problema sociale è un problema di autorità; per noi – scriveva Zuccarini – è un problema di libertà”244. Altre differenze che Zuccarini evidenziava erano: la visione dello Stato, che i socialisti volevano pletorico e accentrato, la pessimistica valutazione del popolo, che portava i socialisti a richiedere la dittatura del proletariato, e il diritto di proprietà. La proposta alternativa di Zuccarini poggiava su un gradualismo economico, per il quale il passaggio dalla società capitalistica alla società del lavoro debba e possa avvenire col graduale assorbimento da parte dei sindacati operai delle funzioni produttive e distributive che oggi sono del capitalismo. […] Per i socialisti, insomma, proprietà, produzione, commercio, devo [sic] essere in mano allo Stato, unico regolatore di tutto. Per noi proprietà, produzione, commercio devono passare in mano ai sindacati dei lavoratori e tutta la società deve essere organizzata produttivamente245.

C’era, poi, un’altra forza verso la quale Zuccarini dimostrava interesse: gli anarchici, che erano l’opposto dei socialisti, giacché se questi ultimi volevano lo “Stato-tutto”, i primi propugnavano “niente Stato”. Così, era possibile riscontrare, nelle parole di Zuccarini, una certa simpatia per gli anarchici, che avevano anch’essi l’obiettivo della libertà, pure se idolatrata. Noi siamo, – scriveva Zuccarini – nel senso boviano, tendenzialmente anarchici, in quanto vogliamo che le funzioni dello Stato decrescano, che lo Stato si riduca, insomma, al minimo necessario delle funzioni e delle attribuzioni. Il nostro repubblicanismo, è, in sostanza, tutto quello che dell’anarchismo è praticamente realizzabile246.

Indicando le posizioni estreme, Zuccarini aveva qualificato meglio la posizione del PRI, giusto mezzo tra le due, l’unica rispondente alle necessità della realtà. Evidentemente polemico il finale, nel quale il par-

244 245 246

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Oliviero Zuccarini, Pro e contro il Bolscevismo, cit., p. 55. Ibid., pp. 57-58. Ibid., p. 62. Corsivo nel testo.

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tito dei visionari discepoli di Mazzini, si prendeva la soddisfazione di dare la qualifica di astratti utopisti agli altri. L’importanza dello scritto è innegabile. Esso appare come una summa delle riflessioni repubblicane sulla rivoluzione russa247, inscrivendo, peraltro, il giudizio sull’evento, in un progetto sociale alternativo. Non ci sono novità di rilievo, ma Zuccarini ebbe il merito di riprendere, utilizzando la fondamentale chiave di lettura ghisleriana248, il meglio del pensiero repubblicano, che fuse con la sua sensibilità sociale249. La segreteria Schiavetti Il carattere di sintesi che abbiamo ravvisato nell’opuscolo di Zuccarini trova la sua conferma nell’analisi del dibattito che si svolse nel PRI, su quegli argomenti, nel corso del 1920, tra la sua relazione al Congresso e Pro e contro il Bolscevismo. Molta attenzione era rivolta all’aspetto della gestione operaia dell’economia. Per questo veniva caldeggiata l’adozione dei consigli di fabbrica, non già, come prospettavano i socialisti, quale primo passo verso il comunismo, bensì verso il “Controllo del Sindacato sulle fabbriche”. I repubblicani vi collegavano una funzione pedagogica, senza la quale sarebbero stati solo uno strumento di divisione e di inefficienza, come dimostrava la loro soppres-

247 Non mi pare, infatti, che si possa, a proposito della posizione di Zuccarini, parlare di “un’importante eccezione” ad un atteggiamento “non solo [di] ostilità preconcetta ma anche [di] assoluta incomprensione del significato storico della Rivoluzione d’ottobre”. Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo, cit., p. 35. Tale prospettiva costringe poi Fedele a forzare i concetti, citando esempi che, per motivi diversi, non sono probanti. 248 L’opuscolo piacque a Ghisleri, come si rileva da questa lettera. Per facilitarne la diffusione, Zuccarini aveva chiesto a Ghisleri qualche riga che ne consigliasse l’acquisto: “Innanzitutto voglio chiedervi un favore: quattro righe di giudizio sul mio opuscoletto: Pro e contro il Bolscevismo. Non un articolo e nemmeno una nota di recensione: quattro righe semplicemente che valgano (se pubblicate sotto l’annuncio della pubblicazione nei giornali nostri) a raccomandarne la lettura e la diffusione ai repubblicani. Non le chiedo tanto per me, quanto perché le copie siano esitate, [sic] servano allo scopo per cui l’opuscolo fu scritto, e sopratutto [sic] perché la Libreria Politica Moderna non vi rimetta le spese. Si capisce che non vi chiederei queste quattro righe se quel che me ne diceste privatamente, dopo aver letto il volumetto, non mi autorizzasse a pensare che quel mio lavoro non v’è affatto dispiaciuto”. Lettera del 15 ottobre 1920. Lucio Cecchini, Trent’anni di democrazia repubblicana, cit., pp. 261-262. 249 Un severo giudizio sull’analisi di Zuccarini e sulla tradizione repubblicana diede Gobetti. Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, cit., pp. 124129; Licisco Magagnato, Il giudizio di Gobetti sui nuovi repubblicani, in La democrazia repubblicana di Giovanni Conti, cit., pp. 79-84. Di tutt’altro avviso Armando Borghi, che dal punto di vista anarchico, elogiò lo scritto. Armando Borghi, La rivoluzione mancata, Edizioni Azione Comune, Milano [1964], I ed. pubblicata col titolo L’Italia tra due Crispi. Cause e conseguenze di una rivoluzione mancata nel 1925, pp. 68-69, 81-83.

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sione, voluta da Lenin, in Russia250. L’esaltazione dei sindacati era fatta anche in chiave antistatale, quale esaltazione del controllo dal basso, della libertà di associazione, forma che si riteneva superiore a qualunque altra251. Al di fuori di questo sistema non v’erano che due alternative: il sistema borghese capitalista e quello comunista, entrambi sfruttatori, l’uno a nome del privato, l’altro dello Stato252. L’argomento era d’altronde di capitale importanza nell’elaborazione teorica della nuova linea repubblicana, tanto che Casalini vi dedicò una serie di articoli prima e dopo la sua estromissione dalla segreteria del partito. In essi ritroviamo la positiva valutazione storica della rivoluzione253, ma anche le critiche alle sue realizzazioni. In particolare, era il suo carattere accentratore a sembrargli inadatto: È assurdo – sosteneva – parlare di «comunismo» oggi, in una economia così profondamente complessa, in una società dominata dalla tecnica, dal macchinismo, dalle specializzazioni individualistiche. Il comunismo è il regime che nella storia contrassegna le epoche di povertà, di immobilismo barbarico, di profonda decadenza di ogni vita civile.

Se, dunque, il regime comunista era inadatto a gestire l’economia, non erano, però, spiegate le ragioni del suo successo. Secondo Casalini “il fenomeno della elevazione operaia attraverso il processo della pura lotta sindacale tecnica, può avvenire soltanto laddove il potere politico non frappone più i suoi ostacoli che sono sempre costituiti dai privilegi

250 Faber [Armando Casalini?], Dalla rivoluzione ai “consigli di fabbrica”, “L’Iniziativa”, 17 gennaio 1920; a.b.b.[Antonio Bandini Buti], Bolscevismo, “La Libertà”, 6 marzo 1920; Beati i poveri di spirito…!, “La Libertà”, 13 luglio 1920. 251 La Repubblica dei Soviet, “L’Alba Repubblicana”, 13 giugno 1920; Luigi De Andreis, Comunismo – collettivismo – cooperativismo, “Lucifero”, 19 settembre 1920. 252 Quel terribile Mazzini…, “La Sveglia Repubblicana”, 28 febbraio 1920. Contro l’accentramento statale e il burocratismo della Russia si espressero anche A. Niger, Leghe antibolsceviche, “L’Iniziativa”, 21 marzo 1920; La Repubblica dei Soviet, “L’Alba Repubblicana”, 13 giugno 1920; Decentramento e socialismo. – Gli aspetti del problema e le contraddizioni socialiste, “La Fiaccola Repubblicana”, 19 agosto 1920. Per gli stessi motivi, aggiunti alla mancanza di libertà e all’esaltazione dei puri istinti brutali, il bolscevismo era criticato in un manifesto rivolto agli studenti di Ancona, apparso sui muri della città il 22 aprile. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1920, cat. K4, b.108, fasc. Ancona. 253 A.C. [Armando Casalini], Esperimenti di socialismo, “L’Iniziativa”, 24 gennaio 1920. Ugualmente buono il giudizio di Renato Schinetti. Ren-Schi, Bolscevismo, “La Libertà”, 10 luglio 1920. Lo stesso articolo venne ripubblicato senza firma in “Etruria Nuova”, 18 luglio 1920, col titolo La verità sul Bolscevismo.

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di casta o di classe”. Dato che questo non era il caso dell’Italia, la crescita del proletariato non poteva passare, come ad esempio era avvenuto in Inghilterra, attraverso le rivendicazioni sindacali, bensì attraverso una fase di rottura politica254. La rivoluzione era, secondo Casalini, un bisogno dello spirito. Essa scoppiava in epoca di penuria, contrariamente a quanto sostenuto da Marx, e segnava l’avvento della mazziniana “idea sociale”, alla fine del ciclo storico della borghesia255. Su quale fosse la rivoluzione più adatta all’Italia, Casalini non aveva dubbi. La sua tesi era che il processo rivoluzionario italiano ha carattere localistico, non centralistico, che perciò l’onda rivoluzionaria non va e non andrà, come nelle rivoluzioni classiche, dal centro alla periferia, ma viceversa. […] Ora una rivoluzione che ha (e nessuno può fare che sia diversamente) questi precisi caratteri può correre due evidenti pericoli: può essere soffocata o deformata dal centro, o dispersa e deviata nei mille rivoli dal basso. La burocrazia di Roma – se il potere passasse in mano, magari attraverso al Parlamento, ai socialisti comunisti – continuerebbe a soffocare l’Italia sotto l’etichetta del socialismo, la mancanza di precisi congegni regionali o federali polverizzerebbe la rivoluzione fino al più spaventoso dominio locale. Dunque solo la immediata creazione degli organi regionali o federali può salvare la Rivoluzione e nel medesimo tempo l’Italia dallo sfacelo e questo compito potrebbe essere assunto in gran parte dai repubblicani256.

Perché ciò avvenisse, però, costoro avrebbero dovuto dotarsi di un programma nazionale. Troppo spesso, invece, il PRI cadeva in tentazioni particolaristiche257.

254

A.C. [Armando Casalini], La dittatura del proletariato, “L’Iniziativa”, 31 gennaio 1920. A.C. [Armando Casalini], La Rivoluzione, ibid., 8 maggio 1920. 256 Corsivo nel testo. Armando Casalini, La rivoluzione federale, “L’Iniziativa”, 20 giugno 1920 e “Humanitas”, 1-8 agosto 1920, pp. 122-123. “Non occorrono in Italia i Soviets, organismi grossolani, in confronto degli storici, saldi organismi comunali e sindacali”. I soviets, “L’Alba Repubblicana”, 1 maggio 1920. Stessi concetti in Fafin d’Arvarsen, Soviety o comuni, “Il Popolano”, 1 maggio 1920. Per il concetto di rivoluzione dal basso, Partito Repubblicano e Partito Socialista di fronte alla Rivoluzione, “La Libertà”, 10 luglio 1920. Proprio questa incomprensione motivava l’accusa di inettitudine rivolta ai socialisti. 257 Armando Casalini, La Rivoluzione senza programma, “L’Iniziativa”, 15 agosto 1920. 255

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Dopo i fatti di Ancona, Casalini accentuò la sua critica ai socialisti, arrivando, in un importante articolo, a contrapporre frontalmente i due progetti rivoluzionari258. L’unico schieramento con cui fosse possibile trovare un punto d’incontro, strumentale e momentaneo, – secondo l’autore – era quello degli anarchici259. La sua analisi trovò adesioni in Pesce e Colajanni, soprattutto per la sfumatura antisocialista260. Ma il problema che più di tutti mobilitava i repubblicani era il rapporto con i socialisti261. Il congresso aveva stabilito che il PRI era rivoluzionario nel campo politico ed evoluzionista in quello economico, ma la preminenza in quel momento doveva andare al problema politico262.

258 “Oramai due vie chiare, antitetiche, verticalmente antitetiche sono aperte alla rivoluzione italiana, quella comunista e quella federale. Una segue la linea parlamentare e si modella sulla burocrazia accentrata riuscendo solo a mutare la forma non la sostanza del presente regime, l’altra segue la linea estralegale [sic], risponde perfettamente alle condizioni e alle esigenze regionalistiche del nostro paese e sbocca ad un sostanziale mutamento di regime sciogliendo il nodo gordiano della tirannide italiana vale a dire la burocrazia romana”. Armando Casalini, Le opposte vie della Rivoluzione italiana, ibid., 11 luglio 1920. 259 A.C. [Armando Casalini], Anarchia, ibid., 7 marzo 1920. 260 Piero Delfino Pesce, pur plaudendo all’articolo, rilevava polemicamente che le stesse cose lui le andava dicendo da tempo, sicché giungeva gradita l’autocritica dell’ex segretario del PRI. Ciò che più premeva a Pesce, era comunque notare l’impossibilità di un’alleanza con i socialisti. Rilievi 58. Un buon articolo di Armando Casalini, “Humanitas”, 18-25 luglio 1920, p. 113. Anche Colajanni lodò l’articolo: Per i moti di Ancona e per i deputati repubblicani, “RP”, 15-30 luglio 1920, p. 218. 261 La clamorosa affermazione elettorale del PSI nelle elezioni del novembre precedente, aveva lasciato ancora strascichi. Mario Gibelli (La nostra azione, “L’Iniziativa”, 15 febbraio 1920) e Carlo Bazzi (A proposito di crisi d’azione, ibid., 22 febbraio 1920) rappresentano un ottimo esempio delle elaborazioni repubblicane del periodo. Entrambi cercavano di delimitare e precisare i contorni dell’azione sociale del PRI nei confronti di quella socialista, individuando nel partito repubblicano una scuola nazionale socialista. Esula, comunque, dai limiti di questa ricerca, seguire più attentamente questa discussione, di cui ricordiamo solo, a mo’ d’esempio l’articolo di Bazzi Debbono i repubblicani aderire all’Internazionale socialista?, ibid., 29 febbraio 1920, nel quale l’autore esprimeva parere favorevole e faceva, in tal senso, esplicita richiesta alla CE. Questa proposta era stata già fatta da Mario Gibelli al XII Congresso (Bologna, 16-18 maggio 1914), in seguito alla quale si inviò una domanda alla Segreteria Generale dell’Internazionale Socialista a Berlino. Nonostante l’appoggio di Amilcare Cipriani, l’Internazionale respinse la domanda, sia pur in modo ufficioso, per la contemporanea presenza di un’altra sezione italiana, cioè il PSI. Gibelli ritornò su questa idea nel XV Congresso (Trieste, 22-25 aprile 1922), nel quale, però, a causa della concomitanza di argomenti ritenuti più importanti, come il fascismo, non fu discussa. Mario Razzini, Mario Gibelli, “Archivio Trimestrale” n.1, gennaiomarzo 1976, pp. 37-39; Vittorio Parmentola, Due documenti giuliani, ivi, pp. 31-36; id., Attività internazionale del PRI, ibid. n.4, ottobre-dicembre 1976, pp. 301-306, in cui l’autore riporta la parte della relazione dedicata all’argomento. 262 Su queste indicazioni ribatterono De Donno e Casalini: A.D.D., Fervide discussioni a Milano per le tendenze sulla lotta repubblicana, “L’Iniziativa”, 29 febbraio 1920 e A.C. [Armando Casalini], Il Massimalismo, ivi. Ma vedi anche Rivoluzione e rivoluzionari, “La Sveglia Repubblicana”, 6 giugno 1920.

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Ciò significava, in sostanza, passare sopra le differenze tra le due concezioni sociali per il tempo necessario a sconfiggere la monarchia. La necessità di questa alleanza non era, però, sentita a tutti i livelli nel partito. Il fatto che il PSI non avesse ancora fatto la rivoluzione, nonostante le favorevoli occasioni, veniva interpretato, da alcuni, come il segno di un ripensamento, di un saggio avvicinarsi alle posizioni repubblicane263 e, da altri come l’indizio della incapacità di quel partito di decidere e realizzare alcunché. Senza contare che parlare di rivoluzione e non farla, era estremamente controproducente e antirivoluzionario264. Di una certa durezza fu la polemica che si svolse sulle pagine del “Lucifero” tra Piero Pergoli (Enjolras) e Zuccarini. Il primo aveva espresso, sull’organo della Consociazione della Marche, tutto il suo dissenso nei confronti della linea che il partito aveva assunto nei confronti del bolscevismo. Troppo conciliante e troppo suscettibile di essere confuso con quello dei socialisti gli pareva l’atteggiamento dei repubblicani. C’era, nel tono di Pergoli, un attacco alla corrività dei partiti, alla quale non doveva cedere il PRI. In pratica, l’articolista proponeva, in contrapposizione al bolscevismo, un partito di tipo bolscevico, fatto di “minoranze coscienti”, il tutto detto con un tono un po’ snob: “La nostra rivoluzione, – scriveva – come tutte le rivoluzioni, non sarà opera di masse che attendono un immediato miglioramento delle loro condizioni economiche, ma di minoranze audaci, coscienti, disposte al sacrificio, pronte a rinunziare a ogni benessere materiale” 265. Le incongruenze e le pericolose tendenze antipopolari di Pergoli furono immediatamente rilevate da Zuccarini, allora ancora direttore del giornale e segretario della Consociazione marchigiana, cariche che di lì a poco abbandonò, sempre più impegnato a Roma nel partito e nelle sue attività editoriali. Il tono era quindi doppiamente stizzoso, poiché l’attacco era apparso sul suo giornale e da una persona vicina. La risposta permetteva a Zuccarini di chiarire, una volta di più, la necessità che i repubblicani si schierassero con la rivoluzione e, per far ciò, cercassero quanti più appoggi possibili.

263

Marpis [Mario Pistocchi], Rettifica di timone?, “Il Popolano”, 24 gennaio 1920. Carlo Bazzi, L’antirivoluzione, “L’Iniziativa”, 24 gennaio 1920. Enjolras [Piero Pergoli], Il coraggio della verità, “Lucifero”, 15 febbraio 1920. Lo stesso disprezzo dimostrava Livio Pivano, Per le vie del massimalismo, “L’Iniziativa”, 22 febbraio 1920. 264 265

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Penso – diceva Zuccarini – che fare da soli sia impossibile; proporsi di contare solo sulle proprie forze una pazzia. La rivoluzione non sarà l’opera di un solo partito o di alcune forze specifiche, ma il risultato di una grande opera collettiva nella quale primeggeranno solo coloro che avranno saputo portare migliore, più illuminato e più disinteressato contributo di forze, d’iniziativa e di orientamento. Tutto ciò senza mai perdere il contatto con le masse266.

Per tutto il partito, a giudicare dalla stampa, si diffondeva il timore della perdita della specificità della presenza repubblicana, tanto da far chiedere a qualcuno, con preoccupazione: “i repubblicani sono bolscevichi?”267. A questa inquietudine si reagiva chiedendo una maggior differenziazione della dottrina mazziniana da quella socialista268. Da parte della dirigenza, però, non vi furono cedimenti. Il 7 maggio Schiavetti assunse la carica di segretario e, pochi giorni dopo, scrisse una circolare a tutte le sezioni per chiarire il suo pensiero269. Accanto a richiami

266 O. Zuccarini, Verità per verità, “Lucifero”, 29 febbraio 1920. A questo articolo seguiva la controreplica di Pergoli, assai piccato per il tono di Zuccarini. In essa, comunque null’altro si aggiungeva a quanto detto, essendo soltanto un modo per avere l’ultima parola. A questa polemica fa pure riferimento Lorena Cantarelli, aggiungendo che “alla radice dell’intolleranza e del disprezzo di Pergoli verso i socialisti, c’era tutta quella serie di episodi di violenza di cui egli stesso era stato una vittima, che avevano distinto la polemica neutralismo-interventismo e che non si erano ancora esauriti”. Lorena Cantarelli, Il Partito Repubblicano delle Marche dal Congresso regionale di Falconara alla costituzione dell’«Alleanza del Lavoro», “Archivio Trimestrale” n. 3, luglio-settembre 1981, p. 490, nota 2; ma vedi anche p. 491. Altri cenni sul PRI nelle Marche in Enzo Santarelli, Le Marche dall’Unità al fascismo, Editori Riuniti, Roma, 1964 – Reprint a cura dell’Istituto regionale per la Storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona 1983, pp. 244-283. Santarelli, tuttavia, mette più in luce i cedimenti del repubblicanesimo locale verso il fascismo, che non il chiaro atteggiamento antifascista della dirigenza, espresso nella figura di Zuccarini. Vedi i duri giudizi a p. 271 e 274-275. 267 Giovanni Magrassi, I repubblicani sono bolscevichi?, “Etruria Nuova”, 6 giugno 1920 e “Il Dovere” di Livorno, 6 giugno 1920. Con tono quasi mistico, Magrassi rispondeva no, se il bolscevismo era lotta di classe, sì se voleva dire lotta ai parassiti. 268 Livio Pivano, Per le vie del massimalismo, “L’Iniziativa”, 22 febbraio 1920; Idem, Vie massimalista e vie repubblicane, ibid., 7 marzo 1920. 269 Sulla segreteria Schiavetti vedi soprattutto Marina Tesoro, L’itinerario politico di Fernando Schiavetti (Dal partito repubblicano al partito d’azione), “Il Politico” n. 4, 1984, pp. 675-684; ead., Fernando Schiavetti dirigente repubblicano, “Nuovo Archivio Trimestrale” n. unico, giugno 1987, pp. 595-632, ora in ead., Democrazia in azione, cit., pp. 199-234. Utili anche Fernando Schiavetti, Nascita di uomini democratici, “Belfagor” n. 6, 1954, pp. 687694; Nicola Tranfaglia, Tra Mazzini e Marx. Fernando Schiavetti dall’interventismo repubblicano all’esperienza socialista, “Rivista di storia contemporanea” n. 2, aprile 1984, pp. 219-236, ora in id., Labirinto italiano, La Nuova Italia, Firenze 1989, pp. 247-268; Stéfanie Prezioso, Itinerario di un «figlio del 1914», cit., pp. 246-265.

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alla disciplina, vero tallone d’Achille in un partito pieno di spiriti vivaci, c’era una limpida indicazione d’appartenenza del PRI al fronte rivoluzionario. In ben due punti, il terzo e il quarto, lo si affermava senza mezzi termini, comprendendo nei partiti ai quali avvicinarsi, lo stesso PSI270. Perciò si attaccarono con decisione episodi di partecipazione di repubblicani a leghe antibolsceviche271. In quest’ottica, di grande importanza è la presa di posizione nei confronti del dilemma comunismo – fascismo. “Noi non siamo bolscevichi, – scriveva “L’Alba Repubblicana” – non accettiamo il comunismo, ecc. ma non opponiamo al bolscevismo le squadre armate del fascismo che si oppongono al bolscevismo e difendono la presente costituzione economica-sociale e politica”272. Rilevante la presa di posizione di Oronzo Reale, il quale era a favore di un’alleanza con gli altri partiti sovversivi273, pur conservando qualche perplessità verso i socialisti. Per realizzare questa alleanza, però, si dovevano dare per fermi alcuni punti, che ne esprimessero la natura costruttiva e non solamente distruttiva. Questi punti erano: rivoluzione con la forza, istituzione di un governo provvisorio e convocazione della Costituente, con l’impegno di rispettare qualunque decisione prendesse, foss’anche il ritorno alla monarchia. È evidente, negli articoli di Reale, la stanchezza montante per i piccoli episodi di rivolta e gli scioperi. La sensazione che ciò potesse condurre a una conclusione negativa, portava l’autore alla ricerca di alleanze per dare un senso a tutto quel movimento274. La preoccupazione per l’esito delle agitazioni, insieme alla riprovazione per i tentennamenti dei socialisti, era condivisa dalla Direzione

270 La circolare è del 12 maggio. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1920, cat. K4, b.108, fasc. Firenze. Anche Pirolini aveva, in un discorso tenuto al circolo “9 febbraio” di Gambellara, invitato i socialisti e gli anarchici ad attuare la rivoluzione con i repubblicani. Ibid., fasc. “Ravenna”. O. Zuccarini, Noi e i socialisti, “Il Dovere” di Livorno, 31 marzo 1920; Carlo Carini, I socialisti e noi, “Etruria Nuova”, 4 aprile 1920; O. Zuccarini, Storia di ieri e verità di oggi, “L’Iniziativa”, 1 maggio 1920. Carini dava, inoltre, notizia di un discorso di Conti a Porto S. Stefano. 271 A. Niger, Leghe antibolsceviche, “L’Iniziativa”, 21 marzo 1920. 272 Contro il fascismo. Polemichette, “L’Alba Repubblicana”, 18 aprile 1920. Sul rapporto del PRI col fascismo vedi l’interessante testimonianza del segretario Schiavetti, in Fernando Schiavetti, La prima resistenza al fascismo, in Egidio Reale e il suo tempo, cit., pp. 73-91. 273 A favore dell’unità d’azione, si espresse anche Luigi Adanti, La strada maestra, “L’Iniziativa”, 29 agosto 1920. 274 O.R. [Oronzo Reale], Per la concentrazione rossa, “Il Dovere” di Lecce-Taranto, 16 giugno e 3 luglio 1920. Stessa insofferenza per le titubanze mostrate durante la rivolta di Ancona, espresse Zuccarini, che, in un comizio tenuto il 20 luglio, chiamava a raccolta tutti i partiti sovversivi per attuare la rivoluzione. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1920, cat. K4, b.108, fasc. Massoneria Carboneria, Roma.

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del partito, che la espresse in un documento ufficiale rivolto agli iscritti275. La stessa Direzione si dovette difendere dagli attacchi che le venivano dalla parte democratica, la quale, su “Il Messaggero”, aveva accusato il PRI di aver tradito la tradizionale linea di collaborazione. In un fondo anonimo su “L’Iniziativa” l’accusa veniva rovesciata: erano stati in realtà i partiti democratici a rifiutare l’unico mezzo legale per cambiare la situazione, la Costituente, per appoggiare, invece, il regime monarchico. I repubblicani, fedeli alla loro linea rivoluzionaria, attribuivano alla loro alleanza con i socialisti e gli anarchici lo stesso valore strumentale che aveva avuto, per il PRI, quella con i partiti democratici durante la guerra276. Se, durante l’estate, della Russia si tornò a parlare a causa della guerra con la Polonia e dei resoconti dei viaggi nel paese comunista apparsi sulla stampa nazionale, nei mesi precedenti era stato il tema del pronto riconoscimento dello stato russo al centro dell’interesse dei repubblicani. Fin dal dicembre del 1919, come abbiamo visto, la Direzione del PRI ne sosteneva la necessità277. Il partito aveva fiducia nel fatto che, una volta libero di esprimersi e di agire, il regime russo avrebbe mostrato tutte le sue lacune, evolvendo naturalmente “verso esperimenti sociali più equi, in un libero ordinamento repubblicano”, creando il nucleo degli Stati Uniti d’Europa278. Perciò, quando la politica dell’Intesa nei confronti della Russia cambiò, i commenti furono entusiasti279. Contraddittorio, peraltro, il giudizio che si dava di quel regime, quando lo si analizzava. Se si era tutti d’accordo sul fatto che non vi fosse realmente comunismo in Russia, piuttosto una dura tirannia, pure nel giudicare quest’ultima, si avvertivano sfumature diverse. Se c’era chi criticava senza mezzi termini la rigida disciplina imposta nelle fabbriche

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La Direzione del Partito ai repubblicani, “L’Iniziativa”, 25 luglio-1 agosto 1920. Fronte unico rivoluzionario o democratico?, ibid., 8 agosto 1920. Sullo stesso argomento, più distesamente intervenne Fernando Schiavetti, Repubblicani e democratici, ibid., 15 agosto 1920. L’articolo era stato scritto originariamente per essere pubblicato da “Il Messaggero”, ma venne, invece, censurato. I sistemi del “Messaggero”, ibid., 22 agosto 1920. Ugualmente critico verso il fronte unico democratico, e per una collocazione del PRI tra le forze sovversive, L’equivoco democratico, ivi. 277 I primi atti della nuova Direzione, ibid., 31 dicembre 1919. 278 P.I., Noi e la Russia Rivoluzionaria, “Il Dovere” di Lecce-Taranto, 31 gennaio 1920. 279 Il riconoscimento della repubblica russa. Finalmente!, “Il Pensiero Romagnolo”, 28 febbraio 1920; Faber [Armando Casalini?], L’Intesa sulla via di una Canossa russa, “L’Iniziativa”, 29 febbraio 1920; Marpis [Mario Pistocchi], La nuova politica verso la Russia, “Il Popolano”, 6 marzo 1920. 276

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e nell’esercito, tanto da richiamare l’immagine dello “czarismo rosso”280, c’era chi era affascinato dagli stessi aspetti. In particolare, la figura di Lenin, con tutto il suo carico di negatività, pur criticata nelle scelte, veniva però esaltata come l’unica in grado di imporre una ferma linea politica in un paese allo sbando281. Per qualcuno, addirittura, Lenin si stava convertendo alla dottrina economica mazziniana282. Particolari, poi, gli articoli di Florskij e di Caciorovsky su “L’Iniziativa”. Il primo era un cittadino russo, di cui null’altro si sa. Aveva simpatie socialiste rivoluzionarie e difendeva la lotta dei governi democratici che in Russia si trovavano stretti tra la reazione di destra e di sinistra. Invocava, perciò, per essi, l’attenzione e la solidarietà da parte degli italiani283; oppure, segnalava la preoccupante convergenza d’interessi tra il bolscevismo e i musulmani, che avrebbero potuto costituire una terribile forza d’impatto284. Caciorovsky , che era un socialista-rivoluzionario, in Italia dal 1909285, scrisse un articolo sulle gravissime conseguenze della crisi alimentare russa, che era insieme produttiva e distributiva. A seguito di questa catastrofe, venti milioni di contadini sarebbero morti di fame. Per rendere più fosco il quadro, Caciorovsky esaltava la figura del contadino russo e la sua organizzazione pre-bolscevica. L’insieme, per motivi polemici, suonava eccessivamente idilliaco e manifestamente esagerato. La Russia era definita una “democrazia contadinesca”:

280 Faber [Armando Casalini?], Comunismo?, “L’Iniziativa”, 21 marzo 1920. Le colpe del governo erano comunque separate da quelle del popolo, giudicato con ammirazione. Un vecchio repubblicano, Come le foglie, “Il Pensiero Romagnolo”, 24 luglio 1920. 281 A.C. [Armando Casalini], Lenin, “L’Iniziativa”, 7 febbraio 1920; Lettera a Lenin, “La Sveglia Repubblicana”, 1 maggio 1920 e “Il Popolano”, 15 maggio 1920. 282 Questo affermò Menotti Riccioli in un discorso del 10 marzo 1920 alla sala dei Commessi di Commercio a Firenze. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1920, cat. K4, b. 108, fasc. Firenze. Vedi anche Beati i poveri di spirito…!, “La Libertà”, 31 luglio 1920. 283 J. Florskij, Per sventare un complotto, “L’Iniziativa”, 8 maggio 1920. 284 J. Florskij, Real Politik, ibid., 27 giugno 1920. 285 Nato nel 1870, Caciorovsky era uno studioso del Mir, l’organizzazione sociale contadina. Oppositore dello zarismo fu esiliato e poi amnistiato. Nel 1909 venne in Italia per motivi di salute, collaborando a diverse iniziative degli esuli russi, quali l’Istituto russo o italo-russo di Milano, antibolscevico, che pubblicava una sua rivista, “La Russia”, della cui redazione egli faceva parte. Secondo Tamborra, il gruppo era caratterizzato da “un tardo populismo […] completamente fuori stagione, [che] viene ancora rivendicato come valido da questi ultimi epigoni, il cui inguaribile romanticismo si sposa all’assoluta mancanza del senso del reale”. Angelo Tamborra, op.cit., p. 228. Ne fu decretata l’espulsione il 9 settembre 1919, ma contro questa decisione si appellarono numerose personalità, tra cui Bissolati, Turati, Canepa, Arcà e Salvemini, perciò il decreto venne sospeso, MI, DGPS, Div. AGR, 1925, b. 17, fasc. Caciorowski Carlo. Per ulteriori notizie sono da vedersi il già citato Tamborra, e Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia, cit., ad indicem, ma soprattutto p. 137, n.8.

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La singolare storia della Russia – sosteneva l’autore – ha fatto di essa una grande pacifica democrazia contadinesca. Il territorio enorme, le ricchezze naturali inesauribili, l’industria relativamente insignificante con l’esclusione di ogni imperialismo hanno fatto del popolo russo un gigante buono e pacifico.

Forti critiche erano rivolte ai governi occidentali che, invece di appoggiare le forze sane della Russia, avevano sovvenzionato e aiutato avventurieri di ogni risma e financo gli stessi bolscevichi. Ci voleva, per evitare che il contadino russo, esaurita la pazienza, se la prendesse con le nazioni occidentali, un piano di aiuti da parte di queste ultime. Essi avrebbero dovuto avere forma di prestito “forse 500 milioni di dollari per dieci o venti anni”, da parte degli Stati Uniti, l’unico paese dal quale i russi lo avrebbero accettato volentieri. Inoltre avrebbero dovuto essere gestiti dalla Croce Rossa americana, che avrebbe dovuto occuparsi anche di ristabilire un minimo di collegamenti, “all’infuori di tutti i governi di fatto della Russia”. Beneficiarie dovevano essere le organizzazioni collettive dei contadini286. De Donno, commentando l’articolo positivamente e assicurando l’appoggio del PRI, esprimeva però perplessità sulla reazione positiva del governo bolscevico ad un intervento che, di fatto, lo avrebbe ignorato287. L’ammirazione per l’esercito rosso, che sconfinava nella preoccupazione per l’ombra che allungava sull’Occidente288, si ridestò in occasione della guerra russo-polacca. Obtorto collo, i repubblicani riconoscevano ai russi il diritto di difendersi da quella che ritenevano un’indebita aggressione da parte della Polonia, opportunamente sobillata dalla Francia289, ma quando il tanto temuto esercito russo oltrepassò il confine, e si parlò delle condizioni di pace, accusarono la Russia di essere imperialista290. L’accusa, peraltro, fu reiterata anche quando i polacchi passarono alla controffensiva291. 286

C. Caciorovsky, La crisi suprema del popolo russo, “L’Iniziativa”, 11 dicembre 1920. Ivi. In Russia, “Il Popolano”, 24 luglio 1920. 289 Luigi Adanti, La strada maestra, “L’Iniziativa”, 29 agosto 1920; Vulcano, Coerenza!, “Il Dovere” di Livorno, 5 settembre 1920. Critico verso l’atteggiamento della Francia che, con il suo militarismo voleva soffocare la rivoluzione russa, tenendo tutta l’Europa, spossata, sotto l’incubo delle armi e, impedendo alla Russia di rinascere, contribuiva alla miseria d’Europa, era Giuseppe Malagodi, Il pericolo francese, “Lucifero”, 20 novembre 1920. 290 Bolscevismo imperialista, ibid., 15 agosto 1920 e “Etruria Nuova”, 22 agosto 1920; Guerra imperialista, “Il Popolano”, 21 agosto 1920; Vulcano, Coerenza!, “Il Dovere” di Livorno, 5 settembre 1920. 291 Noticine – Guerra proletaria, “Il Popolano”, 21 agosto 1920; Militarismo comunista, “Lucifero”, 29 agosto 1920. 287 288

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La pace venne salutata con evidente delusione per il tradimento di ogni missione sociale operato dai bolscevichi. La guerra non era stato nient’altro che uno scontro tra due militarismi, in nulla differenti; solo l’intervento delle nazioni occidentali aveva spinto alla pace292. Tutti gli articoli che riguardavano questa vicenda servirono a rinfocolare la polemica con il PSI, determinato a giustificare tutto ciò che proveniva dalla Russia293, a esaltare la difesa di quel paese dopo aver boicottato quella dell’Italia294 o, infine, a condannare il militarismo, salvo poi usarlo per imporre il proprio modello sociale295. Grande presa sulla stampa repubblicana ebbero, come accennato, i resoconti dei viaggi che compirono in Russia una delegazione socialista e Luciano Magrini. Quest’ultimo aveva effettuato il suo viaggio in Russia nel maggio – giugno del 1920, pubblicando su “Il Secolo”, durante l’estate, alcune corrispondenze che furono poi raccolte in volume296. Magrini aveva simpatie repubblicane, ma era soprattutto un giornalista. I suoi reportages erano improntati ad un grande rigore documentario e fornivano un quadro assai vivo e interessante della Russia di quel periodo297. Le prime due parti, più descrittive, fornirono materiale a quanti volevano porre in rilievo la povertà e il disordine materiale e morale del paese. Nell’ultima, dedicata alle istituzioni, Magrini lasciava maggiormente trasparire le sue idee e la sua imposta-

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a.d.d.[Alfredo De Donno], Stati e governi minorenni, “L’Iniziativa”, 5 settembre 1920. Militarismo comunista, “Lucifero”, 29 agosto 1920. Lenin contro i leninisti, “Il Dovere” di Lecce-Taranto, 10 settembre 1920. 295 Vulcano, Coerenza!, “Il Dovere” di Livorno, 5 settembre 1920; Noticine – Guerra proletaria, “Il Popolano”, 21 agosto 1920. 296 Luciano Magrini, Nella Russia bolscevica, Società Editoriale Italiana, Milano, 1920. Della stessa comitiva di Magrini faceva parte anche Bertrand Russell, citato più volte nel libro. Con il suo scrupolo e serietà, Magrini aveva cominciato ad occuparsi da subito della rivoluzione russa, con vari articoli scritti sempre per “Il Secolo”. L.M., Un socialista nel nuovo governo, 18 marzo 1917; id., Il carattere profondamente antitedesco della rivoluzione, 21 marzo 1917; id., Gli avvenimenti di Russia, 23 febbraio 1918; Luciano Magrini, L’organizzazione dell’esercito rosso, 19 febbraio 1919; id., Le forze che combattono contro i bolscevichi, 20 febbraio 1919; L.M., Da Kerenski all’esperimento comunista, 28 febbraio 1919. In essi è evidente un rigore giornalistico unito ad una visione della rivoluzione vicina a quella repubblicana. 297 Appaiono, a mio avviso, francamente eccessive e ingiuste le critiche rivoltegli da Enzo Santarelli, che definì questo libro di Magrini e il successivo, cui accenneremo più avanti, quali “espressione di un rincrudito antibolscevismo”, inserendo il giornalista, limpidamente antifascista, nelle fonti di Mussolini sulla Russia sovietica. Enzo Santarelli, Mussolini e l’imperialismo, in id., Ricerche sul fascismo, Argalia, Urbino 1971, p. 33. Su Magrini mi permetto di rinviare a Corrado Scibilia, Magrini Luciano, DBI, ad vocem. 293 294

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zione, critica soprattutto verso la burocrazia sovietica, dilagante e incontrollata298. La visita di una delegazione del PSI in Russia, nel maggio del 1920, e le impressioni che essa riportò da quel viaggio furono certo più foriere di spunti polemici, consentendo ai repubblicani di rinfacciare ai socialisti il loro entusiasmo nei confronti di quel regime. Dalle reazioni di alcuni dei partecipanti a quel viaggio, infatti, trapelava una disillusione per il regime comunista299. Fu a questo punto che si giunse al Congresso di Ancona, svoltosi dal 25 al 27 settembre 1920. La necessità di un Congresso per chiarire la situazione interna, dopo l’ambiguo risultato del precedente, era evidente. Nelle precedenti assise, infatti, non si era creata una spaccatura tra maggioranza e minoranza, ma un unanimismo sospetto sull’o.d.g. Schiavetti, che si era poi ripercosso sull’elezione degli organi dirigenti e, in particolar modo, della segreteria. Ora, dopo che a maggio il gruppo Conti – Zuccarini – Schiavetti, con l’elezione alla segreteria di quest’ultimo, aveva preso definitivamente possesso delle leve del comando, si avvertiva la necessità di una sua legittimazione congressuale. Nella relazione della Direzione veniva difesa e spiegata la nuova politica di unità d’azione, pur con differenti obiettivi, con le forze sovversive. Si citavano i moti di Ancona che, per quanto non nati per iniziativa repubblicana, avevano subito la decisiva influenza del PRI. Pertanto la solidarietà del partito, secondo la Direzione, doveva andare a manifestazioni di questo tipo300.

298 Su questi aspetti si soffermarono alcuni articoli: Comunismo, “L’Iniziativa”, 13 luglio 1920; Bolscevismo, “La Riviera”, 24 luglio 1920; Umberto Gatti, Nella Russia bolscevica, “Il Popolano”, 11 dicembre 1920. 299 Stelio, Di ritorno dalla Russia, “Il Pensiero Romagnolo”, 17 luglio 1920; In Russia, “Il Popolano”, 24 luglio 1920; Bolscevismo, “La Riviera”, 24 luglio 1920; Fallimento, “La Sveglia Repubblicana”, 24 luglio 1920; J. Florskij, Letteratura di visitatori, “L’Iniziativa”, 8 agosto 1920; L’incanto svanito, “L’Azione”, 9 ottobre 1920; m.p. [Mario Pistocchi], La verità sulla Russia, “Il Popolano”, 16 ottobre 1920; Eclissi della Costellazione “Falce e Martello”, “L’Azione”, 23 ottobre 1920. La relazione di Colombino sul viaggio in Russia venne riportata in più parti sul “Lucifero”, a partire dal 5 dicembre 1920 (E. Colombino, Quello che hanno visto in Russia). Brani della relazione anche in La dittatura russa, “L’Iniziativa”, 18 dicembre 1920. Sulla visita della delegazione socialista vedi Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano I Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, pp. 64-77; e Piero Melograni, Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana..., cit., pp. 42, 46-51. 300 Per l’indirizzo politico del partito – Relazione dell’opera svolta dalla Direzione del P.R.I. dal Dicembre 1919 al Settembre 1920, “L’Iniziativa”, 12 settembre 1920.

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Questa volta, la netta posizione della segreteria rendeva più facile il dibattito, enfatizzando le differenti visioni301. Non mancò, dunque, chi parlò esplicitamente di “destri” e “sinistri”, parole bandite fino allora302. La prima giornata fu interamente occupata dalla discussione sulla rivoluzione e i rapporti col PSI. Tranne un intervento di osservanza mazziniana, tutti concordavano sulla necessità di compiere la scelta rivoluzionaria. Alcuni criticavano la Direzione per essere troppo filosocialista, altri perché, nonché appoggiare i moti provocati da altri, il PRI avrebbe dovuto farsene promotore. La linea rimaneva, comunque, quella dei “sinistri”, ormai in pieno possesso del partito, ma non del Gruppo parlamentare, che aveva più scrupoli legalitari. Fece sentire la sua voce anche Ghisleri, il quale esortò i repubblicani a stare dalla parte degli operai, pur avversando ogni dittatura, per indirizzarli verso forme di organizzazione sociale ed economica di tipo mazziniano303. Alla fine l’o.d.g. Schiavetti sull’operato della CE venne votato “a grande maggioranza”. La relazione di Mario Gibelli, anch’essa approvata, sul problema politico, era più fredda sui rapporti coi socialisti e ritirava fuori la parola d’ordine, ormai un po’ impolverata, della Costituente. Sulla questione della terra vi fu chi propugnò la nazionalizzazione, in aperto contrasto con l’idea mazziniana. A loro rispose Conti: E bene, la realizzazione di queste finalità di giustizia sarà conseguita con mezzi e per vie diverse, in relazione alla condizione delle varie regioni. Nazionalizzazione, cooperazione, piccola proprietà, sono termini tutti accettabili e tutti refutabili. E poiché noi non abbiamo, come bene ci avvertiva Arcangelo Ghisleri, pregiudiziali economiche, noi non escludiamo neppure le soluzioni socialiste della socializzazione, della statizzazione e la stessa soluzione comunista, perché se l’evoluzione economica le produrrà

301 “C’è nell’aria – scriveva Conti in agosto a Ghisleri – tanto cavallottismo e radicalismo per paura della rivoluzione. Se andremo di questo passo – concludeva – non so dove andremo a finire”. In un’altra lettera, specificava: “Io credo che il Partito sia proprio attraversato da queste due tendenze: la repubblicana (che ha poi in sè una sottotendenza che vuole più vivamente occuparsi della questione sociale) e la democrazia radicale”. Marina Tesoro, Dodici lettere inedite di Giovanni Conti..., cit., pp. 173-174; 175-177. 302 Cervino, Il Partito Repubblicano in un dilemma storico, “L’Iniziativa”, 26 settembre 1920. L’articolo era a favore della segreteria. 303 A questo ideale Schiavetti sostenne di informare la sua azione alla guida del partito. f.s.[Fernando Schiavetti], L’ora nostra verrà, ibid., 27 novembre 1920.

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segno sarà che le leggi economiche lo consentono. Ciò che non accettiamo è ogni idea di prestabilite e irreducibili e forzate sistemazioni incompatibili con le soluzioni spontanee date dagli elementi naturali304.

Un primo commento positivo sul congresso lo diede Schiavetti, rammaricandosi solo delle eccessive critiche di filosocialismo di alcuni settori, che a sua volta accusava di non capire chi erano i veri nemici del PRI305. “La Vedetta” di Lugo parlò di un PRI che “va brancolando affannosamente dietro a tutte le aberrazioni di marca marxista o bolscevica”. Per Alfredo Bottai, che rispose sul “Sindacato operaio” di Parma, le accuse di bolscevizzazione erano inconsistenti306. Complessivamente si può dire che vi fosse una certa distanza tra la base e il vertice del partito, quest’ultimo più attento alle necessità della lotta politica. Gli attacchi alla segreteria furono bilanciati da quelli a Chiesa e Comandini per la loro scelta di entrare al governo, ma entrambi restituiscono l’immagine di un partito diviso. Sul piano politico, significative erano le attenzioni che il PRI dedicava a Turati e ai riformisti, gruppo con il quale più di una volta si erano riscontrate affinità di giudizio. L’interesse si acuì alla fine del 1920, quando si moltiplicavano le voci di una possibile scissione del PSI, a seguito delle condizioni per l’ammissione all’Internazionale Comunista, che avrebbero significato l’espulsione dei riformisti. Per questo grande fu lo spazio che la stampa repubblicana dedicò al convegno riformista di Reggio Emilia. Si sperava che i riformisti potessero essere “il nucleo di raccolta delle energie più consapevoli di tutto il socialismo nostrano”307.

304 P.R.I., XIV Congresso Nazionale (Ancona 25-26-27 settembre 1920), Resoconto sommario, edito a cura della Direzione del Partito, Roma 1921, pp. 41-42 e ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1920, cat. K4, b. 108, fasc. Ancona. Su questo congresso sono da vedersi anche la partecipata testimonianza di Icilio Missiroli, Il Congresso di Ancona del 1920 (Testimonianza), “Archivio Trimestrale” n. 4, dicembre 1975, pp. 352-354 e, soprattutto, quella più organica di Mario Razzini, Il XIV Congresso del P.R.I. di Ancona del 1920, “Archivio Trimestrale” n. 4, ottobre-dicembre 1976, pp. 293-299. 305 Fernando Schiavetti, Note al Congresso, “L’Iniziativa”, 9 ottobre 1920. 306 Giudizi ed impressioni sul Congresso, ivi. La polemica nel partito proseguì con toni aspri, come attestava l’intervista a Rodolfo Calamandrei, ripresa da “La Nazione”. L’indirizzo politico del Partito nel pensiero dell’on. Calamandrei, ibid., 11 dicembre 1920. 307 Senza conclusione, “Il Popolano”, 16 ottobre 1920. Su questo argomento Reggio, “L’Azione”, 16 ottobre 1920; Un vecchio repubblicano, Dopo il Convegno di Reggio Emilia, “Il Pensiero Romagnolo”, 23 ottobre 1920. Ovviamente, durissimo era il giudizio sui socialisti bolscevichi, che sembravano essere in procinto di prendere la guida del partito. Alberto Bertolini, Povero bolscevismo!…, “La Libertà”, 4 dicembre 1920.

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Cominciavano, però, per i repubblicani problemi di altro genere. La reazione montante creava ulteriori motivi di perturbamento nella politica italiana, rispetto ai quali era difficile posizionarsi. Il PRI si veniva, infatti, a trovare in posizione intermedia tra le due estreme, pieno di contraddizioni al suo stesso interno308. L’uscita di Nenni dal PRI Nel corso del Congresso di Ancona, giunse anche a maturazione la crisi ideologica di Pietro Nenni309. La sua appartenenza al PRI aveva subito, nel corso dei due anni trascorsi dalla fine della guerra, già molti scossoni. La polemica con Bergamo sulle pagine de “Il Pensiero Romagnolo” ne era stata un chiaro esempio. Tuttavia, Nenni aveva conservato un ruolo importante nel PRI, seppur defilato, essendo direttore del “Giornale del mattino” dall’agosto del ’17. Era questo l’organo radicale di Bologna, dove non era certo rilevante il ruolo dei repubblicani310, pur

308 Se la Direzione pubblicò un manifesto per spronare i lavoratori a lasciare il socialismo e abbracciare il repubblicanesimo, più adatto a contrastare la reazione (Il Partito Repubblicano nel momento attuale, “Il Popolano”, 6 novembre 1920), altri espressero la dicotomia con i termini dittatura o Costituente. Un vecchio repubblicano, Dittatura o costituente, “Il Pensiero Romagnolo”, 30 ottobre 1920, poi ripubblicato ne “La Sveglia Repubblicana” del 6 novembre 1920, rivendicava la Costituente quale risposta del PRI alle dittature di destra e di sinistra. Roberto Mirabelli, Dittatura o Costituente, “Roma”, 5-6 novembre 1920, la proponeva, invece, in chiave polemica verso il PRI, che aveva ormai tralignato in favore del leninismo. 309 Una testimonianza della quale si può trovare in Pietro Nenni, Intervista sul socialismo italiano, a cura di Giuseppe Tamburrano, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 23 e sgg. In esso, tuttavia, il centro d’interesse del curatore e una certa distanza dagli avvenimenti fa sì che il ruolo del PRI vi risulti del tutto secondario. Sull’argomento vedi anche Corrado Scibilia. L’uscita di Nenni dal PRI. Un’interpretazione, “Annali dell’Istituto Ugo La Malfa” XII-1977, pp. 255-264. 310 Il vivido racconto di come Pontremoli, “un forlivese direttore del Secolo, che della natia Romagna aveva conservato la cordialità del tratto e il culto della solidarietà” lo avesse chiamato a dirigere il giornale è in Pietro Nenni, Cose vissute [1942-43] cit., p. 195, ma vedi anche pp. 196204. Il giornale era stato ceduto dalla Massoneria alla Sei, Società Editoriale Italiana, di Giuseppe Pontremoli. Infine, passò ad una “Società Editrice del Giornale del Mattino, composta in gran parte da quegli stessi elementi che ebbero già l’iniziativa di fondare questo libero organo della democrazia bolognese”, secondo quanto scriveva lo stesso giornale il 29 settembre 1917. Citato in Nazario Sauro Onofri, La Grande Guerra nella città rossa, Edizioni del Gallo, Milano 1966, pp. 242-243, ma vedi anche pp. 223-245. Cessò le pubblicazioni il 31 agosto del 1919. Notizie sul giornale si possono trovare in Luigi Arbizzani, Nazario Sauro Onofri, I giornali bolognesi della resistenza, A.N.P.I., Bologna 1966, p. 13, n. 5; Franca Biondi Nalis, La giovinezza politica di Pietro Nenni, Franco Angeli, Milano 1983, p. 51, n. 34 e le fonti da lei citate. Notizie su Pontremoli anche in Roberto Maltoni, Analisi socio-politica dell’adesione di Pietro Nenni al socialismo (1919-’21), cit., pp. 561-562; id., La «svolta» di Pietro Nenni (1919-1921), cit., pp. 334-335. Sul PRI a Bologna e l’azione di Nenni Nazario Sauro Onofri, La strage di palazzo d’Accursio. Origini e nascita del fascismo bolognese 1919-1920, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 65-67.

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godendo dell’appoggio del PRI311. Lì rimase fino alla fine di agosto del ‘19, quando, alla chiusura del giornale, venne assunto nella redazione de “Il Secolo”, appartenente allo stesso gruppo editoriale. Negli articoli scritti per il quotidiano bolognese, la posizione di Nenni sulla rivoluzione russa risultava simile a quella di Colajanni, legata ai valori nazionali della guerra e fortemente venata di antisocialismo312. Nenni si distaccò parzialmente da Colajanni al termine del conflitto, quando sostenne di non credere al pericolo bolscevico313. Successivamente, però, si riavvicinò al vecchio siciliano, dichiarandosi timoroso di un conato rivoluzionario che scavalcasse i partiti314. Nel maggio del 1920, in una polemica di estremo interesse, venivano allo scoperto le sue perplessità circa il ruolo del PRI. La tesi nenniana era che il mazzinianesimo fosse ormai superato come mezzo di lotta sociale. Il socialismo tendenziale di Mazzini, – scriveva su “L’Iniziativa” – al quale difettò lo strumento delle realizzazioni socialiste: la lotta di classe, pare a me inadatto ormai per esprimere i bisogni delle folle operaie. ma [sic] di quel socialismo umano vive perenne l’incitamento rivolto agli

311 “Fu stabilito [...] di dare tutto il possibile appoggio finanziario all’altro giornale “Il Mattino” di Bologna di cui è direttore il fervente repubblicano Pietro Nenni”. Telegramma espresso del 10 dicembre 1918 relativo alla seduta del giorno precedente del convegno repubblicano di Firenze (8-9 dicembre 1918). ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1919, cat. K4, b. 100, fasc. Firenze – Congresso. 312 Nenni, Uno sbrentolo di costituzione, “Giornale del Mattino”, 20 marzo 1917; id., Ora d’attesa, ibid., 14 aprile 1917; id., La situazione interna, ibid., 15 aprile 1917; id., La crisi russa, ibid., 9 maggio 1917; id., La crisi rivoluzionaria in Russia. Lo spettro dell’anarchia, ibid., 15 maggio 1917; id., L’insidia di una formula, ibid., 23 maggio 1917; id., Ora d’attesa, ibid., 13 giugno 1917; id., Malessere, ibid., 16 giugno 1917; id., La tesi di Caillaux, ibid., 7 luglio 1917; N., Il dittatore rivoluzionario, ibid., 26 luglio 1917; id., Tirando le somme, ibid., 15 agosto 1917; id., L’illusione di Stoccolma, ibid., 21 agosto 1917; id., Il fallimento di due metodi, ibid., 6 settembre 1917; id., Luci ed ombre nell’Intesa, ibid., 10 novembre 1917 (dove si dipingeva la Russia come una traditrice, intrisa com’era di tolstoismo); Nenni, L’errore dei bolscevichi, ibid., 17 marzo 1918; N., La contro rivoluzione tedesca, ibid., 23 marzo 1918; id., L’intervento cino-giapponese, ibid., 30 giugno 1918 (a favore dell’intervento dell’Intesa); Nepi, Il proletariato nel dopo-guerra, ibid., 21 agosto 1918 (in cui si sosteneva che nel dopoguerra la rappresentanza politica ed economica del proletariato doveva passare alle organizzazioni sindacali e si biasimavano, inoltre, gli scioperi che, impoverendo la nazione, impoverivano il lavoratore); id., La diplomazia dei lavoratori, ibid., 18 settembre 1918; Nenni, Fra l’armistizio e la pace, ibid., 16 novembre 1918. 313 Id., Il «babau» del Soviet, ibid., 8 dicembre 1918. 314 Id., Una vittoria della libertà, ibid., 25 gennaio 1919.

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umili di farsi migliori delle classi che ora hanno il potere. In mancanza di questo la rivoluzione sarebbe una rivolta di bestie. E ciò non è socialismo315.

I punti discussi da Nenni erano due. Il primo era un ripensamento critico della guerra e delle sue ragioni. Essa aveva dimostrato, infatti, in modo inequivocabile, la natura intrinsecamente militarista del mondo capitalistico, per cui, secondo una corretta lettura marxista, solo fuori dal capitalismo vi poteva essere pace. Il secondo era l’alternativa tra dittatura o Costituente. Nenni mostrava evidentemente di preferire la prima, non apparendogli la seconda come una vera soluzione, ma, anzi, solo un modo per differire la presa del potere del proletariato. Se pure questa affermazione avrebbe fatto inorridire i repubblicani, egli trovava più assurdo inseguire il rivoluzionarismo degli anarchici, come il PRI andava facendo da qualche tempo316. La risposta arrivò un mese dopo. Il piano del dissidio, per l’organo del PRI, era filosofico: una contrapposizione tra diritto e forza. Se Lenin aveva imposto in Russia la sua volontà con la forza, ciò non lo legittimava al governo, altrimenti anche la monarchia avrebbe avuto il medesimo diritto. Era la rispondenza alle “norme morali supreme” che legittimava un governo, non bastando a ciò nemmeno l’appoggio della maggioranza della popolazione. Esse erano: Bene sociale, Libertà, Progresso. La risposta repubblicana era e rimaneva la Costituente. Anche sul problema della proprietà si ripetevano le medesime posizioni della relazione di Zuccarini317. D’altra parte, l’attacco di Nenni non era un invito alla discussione, essendo troppo frontale per stimolare un dialogo. I repubblicani avrebbero dovuto dirsi socialisti, per dare ragione a Nenni. L’ultimo capitolo della vicenda fu la risposta di Nenni. Ormai si rivolgeva ai suoi ex compagni con il “voi”, per esprimere un distacco già avvenuto. Accusava ancora una volta il PRI di accodarsi agli anar-

315 Pietro Nenni, Repubblica del Suffragio Universale o Dittatura Proletaria, “L’Iniziativa”, 28 maggio 1920. Nella postilla che seguiva l’articolo, Schiavetti, evitando di rispondere direttamente a Nenni, gli contestava però poca chiarezza di idee e prefigurava l’esito di queste riflessioni sostenendo che egli gli sembrava “un battello che va alla deriva. [...] C’è uno sbriciolamento di problemi che potrebbe essere l’indizio – e speriamo che non sia – di uno sbriciolamento interiore”. 316 Ivi. 317 “Repubblica del suffragio universale” o Dittatura proletaria, ibid., 27 giugno 1920.

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chici e di volere la rivoluzione a tutti i costi, salvo poi parlare di Costituente. Dopo di che – concludeva Nenni – a me non resta che lasciarvi al vostro compito di sollecitatori dell’insurrezione nell’esercizio del quale compito, non so perché, voi suggerite l’immagine dei morfinomani. Forse voi non avete torto di dire che la preoccupazione dei repubblicani dev’essere quella di cercare di tradurre in atto il nostro pensiero. È pure la mia preoccupazione e non confido che nel movimento socialista accettando l’idea – limite dell’abolizione d’ogni proprietà, senza illudermi che il socialismo possa fare a meno di passare attraverso a infinite transazioni che potranno anche sospingerlo su strade non intraviste dal pensiero umano318.

Nonostante i duri giudizi contenuti nei due interventi, i repubblicani rimasero convinti della non irrimediabilità della rottura e, anzi, nella nota all’articolo di Nenni sostenevano non esserci differenze tra le due posizioni. La rottura ufficiale avvenne a seguito del Congresso di Ancona. Il primo articolo di presentazione, su “Il Secolo”, rappresentava un’altra chiara presa di distanza. Nenni ritornava sulla guerra, per sostenere esaurito il compito del PRI. Il partito repubblicano – scriveva – che fino alla guerra ha assolto il compito di mantenere viva la tradizione mazziniana, battendosi nel paese per un programma di rivendicazioni nazionali e politiche […] si trova all’indomani di quella grande rivoluzione che è stata la guerra, senza meta e senza precise direttive, di fronte ad una dinastia che bene o male, volentieri o no, ha accettato e risolto colla guerra il problema dell’irredentismo, di fronte ad un governo che ha la sua base nel suffragio universale e che è uscito dalla neutralità nei conflitti fra capitale e lavoro a tutto beneficio della classe operaia.

Nenni negava perciò l’esistenza di un problema istituzionale, essendosi ormai trasferito il conflitto sul piano sociale. A questa evoluzione

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Replica di Pietro Nenni, ibid., 8 agosto 1920.

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il PRI non aveva saputo rapportarsi, preferendo una sterile adesione alle parole di Mazzini; solo le nuove leve sembravano sensibili al nuovo tempo. L’importanza del convegno è tutta nell’urto di queste due mentalità, di cui l’una s’è arrestata al conflitto fra principato e libertà, così come apparve a Mazzini e fu politicamente svolto da Alberto Mario e l’altra aderisce al proprio tempo, alle forme nuove di lotta, ai nuovi bisogni.

La critica principale di Nenni era, perciò, che mentre queste due tendenze si combattevano, il partito rimaneva senza una linea, sospinto nelle lotte più discutibili dalla sua “tisi insurrezionale”. L’accusa era simile a quella di Casalini, che aveva parlato di incapacità del PRI di darsi una linea nazionale; così Nenni parlava di “manifestazioni localistiche”. Il tutto in aperto contrasto con la dottrina mazziniana. Il conflitto sociale, nel quale i repubblicani avrebbero dovuto assumere una posizione, era dunque questo: Da una parte minoranze irose e scontrose sature di odio, abbagliate dal sogno di una rivoluzione completa e decisiva che in ventiquattro ore rovesci l’opera di secoli, minoranze rumorose, capaci magari d’eroismo, che vedono nell’insurrezione l’igiene del mondo, simili e opposte a quelle minoranze fasciste e nazionaliste che augurano al paese un bagno di sangue, che credono indispensabile risolvere per le strade a bombe a mano ed a pugnalate il conflitto sociale e politico, che si rinnova e si perpetua e rappresenta lo sforzo perenne dell’umanità a migliorarsi; dall’altra parte le masse operaie illuse oggi dalla miracolista propaganda massimalista, ma moralmente sane, non tocche dal delirio insurrezionista, disciplinate alle loro organizzazioni di classe, capaci in ultima analisi di tutti gli arresti e di tutte le pause che nelle lotte per la loro emancipazione si rendono via via necessarie nel graduale divenire del socialismo. […] Di fronte alla coscienza dei repubblicani – concludeva Nenni – è posto quindi l’interrogativo: Con chi? Con queste masse o colle minoranze insurrezionali?319

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Pietro Nenni, I repubblicani al bivio, “Il Secolo”, 25 settembre 1920.

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Le reazioni tra i congressisti furono assai vivaci. Ecco come la raccontava Mario Razzini: Nenni era allora ancora iscritto al P.R.I., ma, per il Congresso, non aveva alcuna delega. Fu proprio nell’inviare al giornale il suo primo articolo di commento che si scopriva in lui il presentimento di una crisi d’opinione. Egli, con incontrollata inopportunità, affermava che il Partito che gli aveva dato notorietà e prestigio portandolo alla considerazione dell’opinione pubblica nazionale, era ormai superato a tutti gli effetti. L’intonazione data all’articolo non poteva non suscitare vivissime proteste, soprattutto fra i delegati marchigiani e romagnoli. Tant’è che Cipriano Facchinetti consigliava Nenni ad allontanarsi dal congresso. Ciò che egli fece: dopo alcuni mesi entrava a far parte della redazione dell’Avanti ed in seguito, sostituendo Giacinto Serrati, ne diventava direttore320.

Altrettanto viva la testimonianza di Icilio Missiroli: La sua posizione [di Nenni], pur senza giungere ad una chiara manifestazione durante i lavori congressuali, impegnò i presenti in appassionate discussioni. Ricordo la difesa che di Nenni fecero tanto Cipriano Facchinetti che Mario Gibelli i quali si sentivano sicuri che la crisi fosse passeggera: a quei nobili spiriti pareva impossibile che si potesse passare facilmente dal mazzinianesimo al marxismo e certamente dovettero prendere atto con estrema amarezza della… conversione321.

Commentando i risultati del Congresso, Nenni confermò le sue critiche: “In verità più che di urto di tendenze siamo di fronte a diversi stati d’animo, che hanno la loro spiegazione in situazioni locali”. La volontà di favorire i processi insurrezionali, gli sembrava inficiata da velleitarismo, stanti i burrascosi rapporti con i socialisti. Inoltre, Nenni criticava il diverso atteggiamento dei repubblicani sul piano politico, dove erano rivoluzionari, e su quello sociale, dove erano democratici.

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Mario Razzini, Il XIV Congresso del P.R.I. di Ancona del 1920, cit., pp. 298-299. Icilio Missiroli, Il Congresso di Ancona del 1920 (Testimonianza), cit., p. 353.

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La conclusione che si può trarre da questa constatazione è che anche dopo il Congresso di Ancona il movimento repubblicano rischia di non avere eco né a destra né a sinistra, né fra la piccola né la media borghesia che affida le riforme politiche alla pratica del suffragio universale invece che alla insurrezione, né fra il proletariato che ha aspirazioni più vaste d’un ordinamento cooperativo. Siamo quindi a questo proposito ancora lontani da una concreta visione del mondo322.

Pochi giorni dopo, il circolo “Antonio Fratti” di Milano, a cui Nenni era iscritto e che lui stesso aveva fondato, iniziò il procedimento di espulsione. Per prevenirlo, lo stesso Nenni scrisse una lettera di dimissioni. In essa esponeva il suo rammarico per il modo in cui erano andate le cose, ma la visione della realtà era ormai profondamente diversa: Non ho mai avuto la cretina ambizione di non mutare pensiero. Nato troppo povero per essere avviato agli studi, ho formato la mia educazione sul grande libro della vita che è così mutevole. Natura d’ipercritico sono più pronto, ora che lo scetticismo tiene luogo all’antica fede, a vedere le manchevolezze di un programma. Modesto studioso ho creduto mio dovere dirvi che il vostro insuccesso politico ha le sue cause nell’assenza di un principio e di un metodo nei conflitti del lavoro. Beati voi che avete l’orgoglio di credere che cinquant’anni di lotte sociali e civili siano trascorsi senza scalfire l’edificio sociale vagamente delineato da Giuseppe Mazzini! Beati voi se potete credere che un mutamento dei rapporti politici sia per avere una qualsiasi influenza sui rapporti sociali! Per me un metodo solo è buono e resiste al mutar dei tempi: quello della lotta di classe. Per me la battaglia che vale la pena d’essere combattuta è quella contro i privilegi del capitale, è quella contro il principio di proprietà da Mazzini accettato come condizione di progresso. Verso quali sbocchi va il movimento operaio? Verso il comunismo, verso il socialismo di Stato, verso il regime sindacale dei “soviets”? Nessuno sa e può dirlo con precisione. Ma io so e voi sapete che il metodo per vincere è uno solo, quello della lotta di classe e – amici miei – la lotta di classe si svolge colla stessa asprezza

322 Pietro Nenni, Note al Congresso repubblicano, “Il Secolo”, 30 settembre 1920. Nenni parlò in termini elogiativi solo degli interventi di Chiesa, Facchinetti e Ghisleri, gli uomini ai quali era personalmente più legato.

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nella Francia repubblicana e nell’Italia monarchica, ovunque le borghesie sono al potere323.

L’atto conclusivo della sua esperienza repubblicana fu la pubblicazione del libro Lo spettro del comunismo, avvenuta nei primi mesi del 1921. In questo libro, Nenni prendeva le distanze dalle sue illusioni di interventista, negando, in un’ottica marxista, la possibilità che una guerra potesse sconvolgere gli assetti sociali, se non era guerra di classe. L’abiura di Mazzini, peraltro chiara, vi era nuovamente esplicitata, nel relegarlo al ruolo di profeta, senza legami con la realtà324. La parte che più direttamente riguardava il PRI era nella prefazione, nella quale ripeteva i termini del dilemma in cui si era trovato, come era venuto mostrandoli nei mesi precedenti. L’unica novità era il rammarico per la mancanza di un partito social-repubblicano, il cui programma avrebbe dovuto essere quello di Turati325. Il ripensamento dell’esperienza della guerra era, d’altra parte, comune al PRI, che aveva ormai da tempo abbandonato i furori interventisti, nei suoi uomini migliori. Anche i repubblicani avevano capito l’inutilità dello sforzo fatto, che non aveva cambiato niente a livello sociale. Da questo, però, facevano discendere la necessità di un cambiamento di regime, convinti che solo per colpa della monarchia, espressione dei ceti capitalistici, non si fosse potuto raccogliere il frutto della guerra. Nenni, invece, apparteneva alla schiera di quanti ritenevano conclusa l’esperienza del PRI con la riunione delle terre irredente, negando ogni valore sociale al messaggio mazziniano. Alla sua concezione della politica, appariva troppo rigida la pregiudiziale istituzionale, che limitava gli spazi di manovra. Sensibile all’emancipazione del proletariato, per questo si adoperò in ogni modo, perseguendo una coerenza del fine, incurante dell’incoerenza dei mezzi326. L’insofferenza nei confronti

323 La lettera di Nenni è in Giuseppe Tamburrano, Pietro Nenni, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 62-63. (la citazione è a p. 63); e in Pietro Nenni, Protagonista e testimone di un secolo. 1891-1991, s.l., s.d. (è un’antologia edita dalla Direzione del PSI, curata dalla Fondazione Nenni), pp. 36-37. 324 Pietro Nenni, Lo spettro del comunismo 1914-1921, Modernissima, Milano 1921, pp. 36-37. 325 Ibid., pp. 6-7. 326 È lo stesso Nenni a dire che “questi primi passi per svincolarmi da solidarietà politiche che cominciavano a pesarmi, erano pieni di contraddizioni, e m’avveniva sovente di fare due passi indietro dopo di averne fatto uno avanti”. Pietro Nenni, Cose vissute [1942-43] cit., p. 201.

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del PRI si era manifestata già all’indomani della fine della guerra, nei confronti delle due iniziative politiche più rilevanti del partito: la Costituente e la fine della collaborazione con la monarchia. Riguardo alla prima credeva fosse impossibile sul piano legale e dannosa su quello insurrezionale, sembrandogli che il paese avesse bisogno soprattutto di ordine e disciplina. Circa la seconda, se esprimeva un formale riconoscimento alla posizione del PRI, egli si faceva sostenitore di una collaborazione, sia pur condizionata, con le classi dirigenti, che spronava alle riforme, unica salvezza dal caos327. Come risulta evidente, se nel 1918-19 aveva assunto posizioni “destre”, trovandosi ideologicamente vicino a Colajanni, nel 1920 la sua dissidenza si collocava a sinistra, considerando ormai superato il mazzinianesimo del PRI a favore del marxismo. La sua “conversione” fu un processo lento e complesso, con il quale si staccò totalmente dal suo vecchio partito, che non cercò nemmeno di indirizzare verso altri obiettivi, avendone negate fin le premesse ideologiche. Durante la seconda guerra mondiale, quando ripensò a quegli anni, ne fece una ricostruzione ingenerosa, velata dalle nuove scelte compiute, gettando una pesante ombra di disapprovazione sui suoi antichi compagni. Retrodatando il suo allontanamento dal PRI, così descriveva il suo partito nel 1914: Il Partito repubblicano era troppo vecchio, troppo saturo di sacre memorie, troppo preso dai riti commemorativi per mettersi all’avanguardia della lotta politica. Nonpertanto fra gli elementi giovani s’avvertiva la necessità di una revisione critica della dottrina e di un allacciamento coi socialisti328.

La sua “spirituale adesione alla milizia socialista” sarebbe avvenuta nell’estate del 1919 “quando mi trovai, compagno fra compagni, a lato degli scioperanti di Molinella, ritrovando fra di loro il senso del mio destino, che era di lottare col proletariato fino alla vittoria o fino alla morte” 329.

327 Nenni, Il «babau» del Soviet, “Giornale del Mattino”, 8 dicembre 1918; Id., Una vittoria della libertà, ibid., 25 gennaio 1919; Id., Il dovere della democrazia, ibid., 31 gennaio 1919. 328 Pietro Nenni, Cose vissute [1942-43], cit., p. 183. 329 Ibid., p. 204.

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Tuttavia, come abbiamo visto, fu solo alla fine del 1920 che si decise a rompere col PRI: Allora la mia decisione fu presa, nel senso di abbandonare il giornalismo professionale, di dimettermi dal Partito repubblicano il quale si attardava su decrepite posizioni politiche e sociali e di prendere una posizione di lotta nelle organizzazioni operaie330.

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Ibid., p. 209.

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Un difficile equilibrio Con l’inizio del 1921 il panorama politico del PRI e dell’Italia andarono incontro a notevoli cambiamenti. Giungevano, infatti, a maturazione in quel periodo processi già lungamente avviati, come la scissione del partito socialista, che comportò la nascita del Partito Comunista d’Italia, e la progressiva centralità del fascismo nella vita politica italiana. Ma ebbero grande importanza, anche, eventi interni al partito, come il chiarimento della linea politica dopo il Congresso di Ancona, che avrebbe successivamente portato alla scissione delle Consociazioni Romagnola e Marchigiana. All’inizio dell’anno, comunque, il partito riuscì in un’impresa notevole e attesa da anni: la fondazione di un organo quotidiano, “La Voce Repubblicana”. Tale risultato si dovette principalmente alla ostinata attività di Giovanni Conti1, così come la nascita della rivista culturale “La

1 Conti al Congresso di Trieste dell’aprile del 1922 ne indicò le prospettive e le funzioni, sostenendo la necessità che il giornale fosse espressione del partito, rappresentando il pensiero della maggioranza. “Ciò che importa – stabilì Conti – è che il giornale non sia sede di polemiche interne, di questioni e di dispute neppure di carattere dottrinario, perché il giornale deve essere fatto per la propaganda, la difesa delle idee e del programma tra il pubblico e non per i soli repubblicani”. Partito Repubblicano Italiano, Resoconto sommario del XV Congresso Nazionale, Società Anonima Poligrafica Italiana, Roma 1922, pp. 8-9. Ghisleri, che pure era il più ascoltato consigliere di Conti, aveva vivamente sconsigliato l’intrapresa, ricordando la sfortunata esperienza de “La Ragione”, da lui stesso diretta per un breve periodo e che si era risolta in un grave danno economico per il partito. Accanto a queste preoccupazioni di carattere pratico, ve n’erano altre di contenuto. Le esigenze del quotidiano, infatti, allentavano le possibilità di controllo sugli articoli pubblicati, creando possibili imbarazzi al partito. Il timore era quello di frustrare “energie buone oggi, che saranno stanche o perdute domani”. Antonluigi Aiazzi, op.cit., lettera del 5 novembre 1920, p. 320, ma vedi anche quella del 4 gennaio 1921, pp. 321-324. Una volta uscito il giornale, egli ne fu poi entusiastico sostenitore: “L’indirizzo è buono, autonomo, senza codarde piaggerie verso affini: l’idea vi serve di guida. Bravi!”. Ibid., lettera dell’11 marzo 1921, p. 327.

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Critica Politica”, era dovuta all’azione di Oliviero Zuccarini2. I due organi mutuarono, evidentemente, molto dai loro fondatori, cercando di applicare l’ideale mazziniano dell’educazione, fornendo materiale di approfondimento sui problemi dell’epoca, accanto a riflessioni che ne illustrassero le implicazioni. Il primo evento significativo di cui la nuova stampa repubblicana si occupò fu il Congresso Socialista di Livorno. Esso veniva al termine di un processo, attraverso il quale il proletariato aveva ormai perso l’iniziativa nello scontro sociale in atto dal dopoguerra, assumendo, perciò, un’ulteriore valenza. La delusione per la conclusione infausta della stagione propizia motivava la durezza dei giudizi sul partito socialista. La responsabilità dell’inazione era soprattutto di chi aveva la rappresentanza della maggioranza del proletariato e non aveva saputo farne alcun uso, precipitando, anzi, in piena confusione. Ciò perché gli uomini che lo guidavano erano asserviti non “alla nobile valutazione delle necessità supreme della propria idea, ma alle meschine bizze di tanti uomini assetati di comando e di popolarità”3. Di fronte alle colpe di questi, la stessa frazione comunista, sia pur criticata per il suo asservimento a Mosca, anzi alla Chiesa di Mosca e al Papa Lenin, come amavano dire polemicamente i

2 Così Zuccarini ne annunciava l’uscita a Ghisleri, in una lettera dell’8 novembre 1920: “A metà dicembre farò uscire il primo numero della Rivista che vi annunciai. La Rivista s’intitolerà: La Critica Politica. V’ho pensato molto; non ho trovato di meglio. V’è la Critica Sociale, è vero, e può sembrare un inconveniente. Ma, d’altra parte, noi ci differenziamo dai socialisti appunto nella maggiore importanza che diamo al problema politico in rapporto a tutti gli altri: economici, finanziari, sociali, morali. Deve essere appunto preoccupazione della rivista studiare i vari problemi in relazione alle istituzioni politiche: a quelle che ci sono, a quelle che si propongono e a quelle che… sono da preferirsi. La rivista non sarà […] strettamente di Partito.[…] Deve essere, invece, l’espressione di un movimento più largo. Essa vorrà riassumere, concretizzare e, in certo modo, ispirare quel movimento che in senso regionalista e federale viene ora esprimendosi in varie regioni e in vari giornali”. Lucio Cecchini, Trent’anni di democrazia repubblicana, cit., pp. 262-263. Corsivo nel testo. Ghisleri aveva risposto a Zuccarini il 13 novembre dicendogli che “tem[eva] l’avventura del quotidiano – mentre cred[eva] utile e possibile la rivista”. Ibid., p. 265, e Lucio Cecchini, L’epistolario tra Arcangelo Ghisleri e Oliviero Zuccarini, cit., p. 72. Sulla rivista, e sui rapporti con “La Voce Repubblicana”, Zuccarini tornava anche in altre lettere, soprattutto quelle del 17 novembre 1920 e del 2 dicembre 1920. Lucio Cecchini, Trent’anni di democrazia repubblicana, cit., pp. 265-268. Su “La Critica Politica” vedi la documentata introduzione di Permoli a La Critica Politica 1920 – 1926. Tra democrazia e fascismo, a cura di Piergiovanni Permoli, Edizioni Archivio Trimestrale, Roma 1986. 3 I socialisti a Congresso, “Il Popolano”, 15 gennaio 1921. Faceva ugualmente cenno alle insufficienze ideali dei socialisti, rapportandole all’ipertrofica crescita elettorale, Piero Delfino Pesce, Rilievi 76 – Socialismo e communismo [sic], “Humanitas”, 16-23 gennaio 1921, p. 9.

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giornali repubblicani, era elogiata per la sua sincerità e coerenza4. In sede di presentazione del congresso, comunque, i repubblicani riconobbero la necessità e l’utilità della scissione, giacché la non adesione ai 21 punti della Terza Internazionale, corrispondeva ad un distacco dal comunismo e non solo ad una affermazione di autonomia. Le ripercussioni sulla storia del PSI, concludeva la “Voce”, sarebbero state senza dubbio straordinarie, essendo quella che si accingeva ad aver luogo a Livorno la più importante delle scissioni subite dal PSI5. All’importanza dell’evento discusso corrispondeva, poi, la novità del mezzo che ospitava la discussione. Finalmente dotati di un loro quotidiano, i repubblicani seguirono giornalmente le cronache del congresso, affidandole, negli ultimi giorni, addirittura a Oliviero Zuccarini. Venne subito rilevato lo scontro tra la posizione dei riformisti, o concentrazionisti, e quella dei comunisti, tra una via nazionale al socialismo e una che, invece, guardava al modello russo6. La posizione idealmente più forte – sosteneva l’inviato – è quella dei concentrazionisti che hanno rispetto ai comunisti il vantaggio di essere critici mentre quelli […] sono dogmatici e rispetto agli unitari il vantaggio della sincerità e delle determinatezza. Ma i concentrazionisti […] soffrono in confronto di noi repubblicani una contraddizione analoga a quella degli unitari nei loro riguardi7.

Altro punto di confronto era, poi, la rivoluzione. Mosca spingeva il PSI a farla e lo rimproverava per non averla fatta prima, mentre Serrati e gli unitari negavano tale eventualità. Quello che risultava in tutta chiarezza, secondo Zuccarini, era la natura riformista del partito socialista, nato e sviluppatosi all’interno delle strutture legali del paese. La crisi che viveva il PSI era, perciò, null’altro che la presa di coscienza di ciò e, per

4 I socialisti a Congresso, “Il Popolano”, 15 gennaio 1921; Comunisti e riformisti al Congresso Socialista di Livorno, “La Voce Repubblicana”, 16 gennaio 1921. 5 Ivi. Un po’ perfidamente, “La Voce Repubblicana” ricostruiva tutte le scissioni del movimento socialista dalla sua nascita. Scettico sulla scissione era invece Pesce. P.D. Pesce, Rilievi 76 – Socialismo e communismo [sic], “Humanitas”, 16-23 gennaio 1921, p. 9. 6 m.z., La confusione delle lingue al Congresso Socialista di Livorno, “La Voce Repubblicana”, 19 gennaio 1921. Le tre posizioni al Congresso erano rappresentate dai massimalisti o comunisti unitari, i comunisti detti anche puri e i riformisti o concentrazionisti. 7 Ivi. Corsivi nel testo. Notizie sul congresso anche in Le tendenze al Congresso Socialista, ibid., 17 gennaio 1921.

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questo, venivano sciolti i vincoli con Mosca, che implicavano patti che i socialisti non potevano mantenere8. L’esito del Congresso venne definito dai repubblicani come un trionfo di Turati9. Il PSI era ritornato alla sua vera natura riformista: la diatriba sui 21 punti era stato solo un pretesto, scelto da Serrati, per sganciare il partito dall’obbligo di fare la rivoluzione. In particolare, Zuccarini era scettico circa il fatto che il nuovo partito comunista potesse realizzare quanto non era riuscito al vecchio PSI: A parte tutto – scriveva su “La Critica Politica” – non crediamo che il risultato rivoluzionario sia, dall’azione degli uni e degli altri, per venirne affrettato. E ciò non solo perché i due partiti sono ora destinati a neutralizzarsi a vicenda, quanto perché le premesse e le pregiudiziali di cui l’uno come l’altro si circondano li portano ad agire effettivamente come freni anziché come propulsori di soluzioni rivoluzionarie. Una rivoluzione non può essere fatta su misura né essere il risultato di una sola forza, di un’unica volontà, di una unica direzione. L’esclusivismo – che continua ad essere caratteristica comune ai due partiti – condanna alla sterilità gli uni e gli altri. Mosca in questo senso opera più per la controrivoluzione che per la rivoluzione. […] La grave colpa del Partito socialista italiano di fronte alla storia non è tanto quella di non aver fatto la rivoluzione, quanto quella di averle impedito di prodursi, mentre tutte le condizioni favorevoli esistevano, nelle sole forme in cui si rendeva possibile ed utile. In sostanza ha parlato di rivoluzione e ha funzionato come forza di conservazione10.

8 Oliviero Zuccarini, Il Congresso Socialista di Livorno – Ancora risse e tumulti, ibid., 20 gennaio 1921. Sotto lo stesso titolo, anche l’articolo di cronaca del congresso. L’incapacità del PSI di fare la rivoluzione era messa in luce anche da Come il cigno!, “La Libertà”, 22 gennaio 1921. In L’ombrello, “La Sveglia Repubblicana”, 22 gennaio 1921, utilizzando l’immagine turatiana, si definiva il PSI come l’ombrello che riparava la borghesia dal “sole dell’avvenire”, immagine che tornava in La morale della favola, “La Voce Repubblicana”, 22 gennaio 1921. 9 Zuccarini, Il trionfo di Turati al Congresso Socialista, “La Voce Repubblicana”, 21 gennaio 1921; E la farsa continua…., “Il Popolano”, 22 gennaio 1921; L’ombrello, “La Sveglia Repubblicana”, 22 gennaio 1921; La fine del Congresso Socialista – Dal terrorismo elettorale al riformismo turatiano, “La Voce Repubblicana”, 22 gennaio 1921; Zuccarini, La scissione socialista – Parecchie frazioni – Nessuna soluzione, ibid., 23 gennaio 1921; Ferruccio Bigi, La scissione socialista ed il dovere dei repubblicani, “Lucifero”, 27 febbraio 1921. Parallelamente, Arturo Catelani esprimeva soddisfazione per la sconfitta dei comunisti. A. Catelani, Con le pive nel sacco, “La Voce Repubblicana”, 25 gennaio 1921. 10 Negli stessi termini si era espressa “La Voce Repubblicana”, secondo la quale, l’errore di considerare sullo stesso piano rivoluzione economica e politica, faceva necessariamente del PSI una forza di conservazione sociale. La morale della favola, ibid., 22 gennaio 1921.

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C’era proprio bisogno – concludeva desolato Zuccarini – che i fascisti accorressero ora a salvare l’ordine costituito?11

A questo punto, stante il tramonto della possibilità rivoluzionaria, rimaneva da stabilire quale dovesse essere il rapporto tra il PRI e le nuove forze: L’atteggiamento di questo vecchio Partito repubblicano – scriveva “Lucifero”, giornale vicino a Zuccarini – di fronte a queste due correnti del movimento socialista non può mutare per ora ed improvvisamente dalla rigorosa linea fin qui seguita. Ma bisogna pure pensare che anche noi abbiamo una funzione storica nel nostro Paese, che viviamo nelle correnti vive le quali agitano la nostra vita politica. Potremo per questo avere azioni comuni da svolgere sul terreno pratico con l’uno o con l’altro o con ambedue i partiti separatisi a Livorno. […] Tra questi due partiti che credono alla trasforzione [sic] della società secondo un disegno prestabilito di nuova realizzazione, noi repubblicani rimaniamo ad affermare che solo a traverso la conquista del potere politico potrà la classe operaia, in un regime di piena libertà, elaborare e gradualmente tradurre in ordinamenti pratici la sua aspirazione per la conquista del la [sic] piena indipendenza dalla soggezione del capitale12.

Zuccarini, però, era stato meno possibilista nei confronti dei comunisti, tra i quali aveva lodato Terracini, Gramsci e Bordiga, definiti “giovani di buone doti intellettuali e di qualche preparazione”, ma di cui metteva in rilievo la disciplina, dovuta anche ad organi internazionali. Il nuovo Partito comunista – sosteneva, poi, l’esponente repubblicano – si ispirerà nella lotta politica ai criteri della più rigida intransigenza. Il Partito repubblicano non troverà, dunque, in esso un possibile

11

Oliviero Zuccarini, Il Congresso Socialista, “La Critica Politica”, 1 febbraio 1921, pp. 33-35. Chiarificazione – Dopo il Congresso Socialista, “Lucifero”, 30 gennaio 1921. Anche per Pistocchi, che deprecava l’inutilità del fallimento del regime russo quale monito per i suoi epigoni italiani, il PRI doveva rimanere equidistante tra “i sostenitori delle istituzioni decrepite e gli opportunisti speculatori della buona fede popolare”, ribadendo con fermezza i suoi ideali. m. p. [Mario Pistocchi], L’equivoco socialista permane e la nostra ora s’approssima, “Il Popolano”, 29 gennaio 1921. 12

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alleato. Il concetto della “dittatura” del resto, che è un punto fondamentale del suo programma, è assolutamente autentico [sic, antitetico] a quello della “sovranità popolare” che è caposaldo del nostro Partito.

Egli si poneva poi il problema del funzionamento delle amministrazioni comunali nelle quali vi fossero comunisti, dichiarandosi pessimista. Parimenti si dichiarava riguardo al ruolo dei comunisti nel sindacato, da cui secondo lui si sarebbero staccati, non accettando una linea opposta alla loro13. Di opinione opposta a quella di Zuccarini, dominante nel partito, circa l’esito del Congresso socialista, era Mirabelli, vecchio notabile del partito, ormai un po’ ai margini. Per lui, infatti, non era stato Turati il vincitore del Congresso, essendo la simpatia con cui era stato accolto semplicemente un tributo personale. Il vero vincitore era, invece, Serrati, che con la sua alleanza con Turati aveva però introdotto un elemento di ambiguità molto dannoso nella vita politica italiana. Mirabelli sosteneva la necessità dell’alleanza dei riformisti con i repubblicani e i settori più progressisti della borghesia per la conquista del potere14. La crisi del movimento socialista costituiva un’occasione importante per il PRI per riuscire ad attirare dalla sua una parte dell’elettorato socialista. Così, un po’ per forza, un po’ per debolezza, i repubblicani accentuarono, nel corso dell’anno, la loro politica intransigente. Era, infatti, avvenuto che il Congresso di Ancona, se aveva consegnato la direzione del partito al gruppo Schiavetti – Conti – Zuccarini, non aveva sopito i forti contrasti sulla linea da tenersi15. L’intransigenza fu pertanto l’unica soluzione possibile, come riconobbe lo stesso Schiavetti al Congresso di Trieste, per evitare lo scontro frontale tra chi voleva la chiusura a sinistra e chi a destra. Furono così rispolverate parole d’ordine mai passate fuori moda, come la Costituente, che tornò ad essere

13 Zuccarini, La scissione socialista – Parecchie frazioni – Nessuna soluzione, “La Voce Repubblicana”, 23 gennaio 1921. 14 Roberto Mirabelli, La parola di Livorno e la politica italiana, “Roma”, 29-30 gennaio 1921. L’utilità e la necessità della nascita di questo schieramento venne da lui ripresa in id., Il gruppo radico-socialista, ibid., 15-16 febbraio 1921 e id., Un gruppo d’avanguardia nel Parlamento e nel Paese, ibid., 16-17 febbraio 1921. 15 Il pensiero della Direzione del Partito, “Lucifero”, 13 marzo 1921, in risposta alle critiche di Pergoli apparse nel numero precedente.

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il punto qualificante del programma del PRI, a metà tra il rimpianto, o la recriminazione, e la proposta16. Il bisogno di ribadire la propria specificità spinse Ugo Della Seta a definire i caratteri del “principio repubblicano” direttamente sul primo numero de “La Voce Repubblicana”. Tra essi, egli indicava il fondamento morale, il riconoscimento del principio d’autorità e della necessità dell’azione. Ma soprattutto esso non vuole l’odio tra le classi. Constata, come realtà storica, la lotta di classe, ma questa lotta ritiene potersi gradatamente attenuare e, in una più austera educazione, superare anche, in una più alta reciproca coscienza dei doveri civili, che, se misconosciuti, debbono incontrare la sanzione severa, e non farisaica, delle leggi17.

Talvolta, il richiamo alle radici ideali del repubblicanesimo era dovuto a polemiche che cominciavano a nascere con i comunisti, i quali trattavano i repubblicani da borghesi e congetturavano avvicinamenti di questi ultimi con i riformisti. A queste offese rispose lo stesso Schiavetti, ribadendo per l’ennesima volta la natura antiborghese dei repubblicani18. Questa presunta comunanza tra riformisti e repubblicani ventilata dai comunisti del “Lavoratore” di Trieste non era poi così campata in aria, se un autorevole esponente del repubblicanesimo fiorentino, Rodolfo Calamandrei, auspicava addirittura l’avvento di Turati al governo. Dopo averne ricordato le scelte passate e le polemiche che ne erano sorte con i repubblicani, Calamandrei esaltava il ruolo presente di Turati: Ma fra il nostro Partito – esclamava – e un Turati […] assertore della Patria, rifuggente da dittature di classe, fautore di socialismo graduale, quali divergenze fondamentali si manifesterebbero?

16 Nino Barzocchi, Costituente, “Il Pensiero Romagnolo”, 8 gennaio 1921; Per risorgere, “La Voce Repubblicana”, 3 marzo 1921; Chaque [Aurelio Natoli], La Costituente, “La Riscossa”, 5 marzo 1921. V. Marcolini, Per la Costituente, “La Voce Repubblicana”, 23 marzo 1921 (per il quale la Costituente costituiva anche l’unico rimedio contro la lotta fascisti-socialisti); E. Riccioli, Novum organum, ibid., 1 aprile 1921; Costituente!, “La Riviera”, 2 aprile 1921; Costituzione e Costituente, ibid., 9 aprile 1921; Il pensiero del Partito Repubblicano sull’attuale momento politico, “La Voce Repubblicana”, 3 luglio 1921 (è un discorso fatto alla Camera da Conti il 25 giugno). 17 Ugo Della Seta, Il principio repubblicano, ibid., 16 gennaio 1921. Altrettanto sicuro del prossimo trionfo dell’ideale repubblicano, a petto del declino del bolscevismo, si dichiarava Umberto Gatti, Riscossa, “Il Popolano”, 22 gennaio 1921. 18 Fernando Schiavetti, Borghesi e antiborghesi, “La Voce Repubblicana”, 25 gennaio 1921.

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Datemi pure di ingenuo, ma io non saprei trovarle. Federazione dei popoli, eliminazione degli armamenti, sviluppo della potenzialità agraria industriale commerciale della Nazione, decentramento amministrativo, radicale falcidia di parassitismi, ecc. ecc. ma tutto questo è nel bagaglio di Turati come è nel bagaglio nostro. Non per nulla egli cominciò la sua vita politica sotto la ispirazione delle dottrine di Mazzini. E allora?… Allora, io credo che la figura di Turati incarni, oggi, un bivio nella storia italiana. Perché in questo cozzare di bolscevismo contro fascismo, di rivolta a mano armata contro viscida reazione, […] di patriottismo contro negazione di patria o contro nazionalismo imperialista, vedo Turati destinato a imperniare quel governo pacificatore autorevole e forte, capace di iniziare la rigenerazione d’Italia dal sessantennio di cancro monarchico, quel governo cui solo possano affiancarsi le forze vive e sane del paese, aliene sì dai sanguinosi tumulti che dalla supina stasi nella mefitica palude in cui ci andiamo dibattendo19.

La risposta del giornale alla proposta di Calamandrei era ambigua. Mentre si rinfacciavano a Turati le passate posizioni contro la repubblica e la sua concezione sociale “statolatra e autoritaria”, per cui non vi poteva essere “malgrado le voci dei programmi né identità, né concordanza”, nelle poche parole finali si capovolgevano gli scenari: “Ma le divergenze teoriche non avrebbero peso innanzi ai fatti e alle soluzioni”20. Completamente opposta era l’opinione di Francesco Egidi che, sul “Lucifero”, diede inizio ad una serie di interventi sul “metodo”. Egli, infatti, criticava aspramente il PSI, “partito dei benestanti”, specialmente i riformisti, e non lesinava critiche ai repubblicani che avevano gioito per la vittoria degli unitari. Il PRI, sosteneva Egidi, non aveva interessi da difendere, per cui era naturale lottare per la rivoluzione. Ma, proprio su questo punto, il comportamento del PRI risultava condannabile. Il PRI aveva ritenuto, infatti, soddisfacente la scissione perché confinava il rivoluzionarismo del PSI a una corrente, la quale era poi facilmente attaccabile per la sua obbedienza a Lenin. Ma non è precisamente per questo – sosteneva Egidi con sarcasmo – che molti repubblicani sono contrari alla frazione rivoluzionaria del par-

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Rodolfo Calamandrei, Turati al bivio, ibid., 6 febbraio 1921. Ivi. Corsivi nel testo.

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tito socialista, ma perché… perché c’è un pericolo veramente grave ed è che i comunisti son forse i soli che, insieme ai fascisti, potrebbero fare la repubblica. E non c’è guaio peggiore di una repubblica fatta da altri che non sia precisamente il Segretario ufficiale del P.R.I.!

Questa stasi tattica del PRI non piaceva evidentemente a Egidi che rincalzava: Bisogna volgersi verso coloro che sentono vigente la necessità di un mutamento di regime: il nostro partito può avere ancora una ragion d’essere, qualora diventi un vero e proprio partito d’azione. E per agire occorre vivere nella realtà e cercare nella realtà le forze vive e le volontà audaci e tenaci.

Invece, i più tra i repubblicani preferivano “naufragare nel mare purissimo del sogno mazziniano”21. L’articolo di Egidi non fu certamente l’unico critico verso la Direzione, tuttavia si segnala per il luogo in cui fu stampato, il giornale, cioè, vicino a Zuccarini, organo della Consociazione marchigiana. Questo, e il senso della proposta, fa pensare più ad un attacco rivolto verso le componenti troppo prudenti del PRI, piuttosto che non verso Schiavetti, che subiva, semmai, più critiche dal versante opposto. La “sparata” di Egidi non rimase senza risposta. Più che altro, però, le differenze erano nelle sfumature. Sullo stesso giornale, Orni si dichiarava sostenitore della segreteria e della linea da essa tenuta, sostenendo che fosse l’unica in grado di garantire la ricostruzione dopo la rivoluzione, la dittatura del proletariato essendo utile, al più, “per la controrivoluzione”. Ma per operare fattivamente nell’ottica rivoluzionaria, bisognava allearsi con qualcuno: “A parte la dittatura dei Comunisti e la troppa libertà degli Anarchici, noi siamo molto vicini alle direttive di questi due partiti. Anche i Sindacalisti sono nostri buoni alleati”. Più duro, Orni era con i comunisti unitari che avrebbero voluto sfruttare la rivoluzione, fatta scoppiare da altri, per i loro scopi di potere. Questa non poteva essere la strada del PRI, che [doveva] invece provocarla, poiché sono le minoranze agguerrite e più evolute che fanno la storia, esso dunque deve avvicinarsi ai partiti

21 Francesco Egidi, Noterelle polemiche – A proposito di metodi, “Lucifero”, 30 gennaio 1921. Corsivo nel testo.

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sinceramente rivoluzionari non perché non è un partito di benestanti come quello socialista per tutte le conquiste fatte, come asserisce il prof. Egidi, ma perché il Partito Repubblicano ha contenuto prettamente rivoluzionario ed é conscio che la sola lotta di classe, per quanto mai negata perché è realtà non può da sola condurre all’emancipazione completa delle classi lavoratrici, emancipazione che si otterrà con la conquista del potere politico per mezzo della rivoluzione22.

L’accettazione della lotta di classe da più parti, come abbiamo visto, sia pur in un’ottica rigidamente mazziniana, rappresenta senz’altro lo sforzo ideale maggiore dei repubblicani in quel periodo. L’intransigenza nei confronti del movimento socialista, diventava equidistanza nei confronti dello scontro tra socialisti e fascisti23. I motivi di questa posizione sono diversi. Se da una parte c’era la necessità di non spaccare il partito, dall’altra c’era la speranza di far breccia sulle masse socialiste24, configurandosi come terza forza, patriottica più dei fascisti e popolare più dei socialisti25. Questa posizione, comunque, non riuscì a raggiungere nessuno degli scopi per i quali era stata assunta. Le critiche a destra e a sinistra furono notevoli, continuando a squassare i vari organismi interni26, riu22

Orni, Discussioni – Per il metodo, ibid., 13 febbraio 1921. La Direzione del Partito ai Repubblicani, “La Voce Repubblicana”, 18 marzo 1921. E’ la circolare, inviata dalla Giunta Esecutiva della Direzione ai Comitati Federali, alle Sezioni e ai Gruppi, con la quale si sancisce la politica di equidistanza. Tale decisione andava presa in vista di un rafforzamento del partito, che avrebbe consentito ai repubblicani di entrare nella lotta in un secondo momento, per affermare gli ideali mazziniani. 24 Mario Paleari accusava i capi socialisti di avere illuso le masse socialiste col miraggio della rivoluzione, salvo poi, una volta che questa era fallita per motivi strategici, lasciarle nella disperazione. Mario Paleari, Disillusioni, ibid., 4 marzo 1921. 25 Il Salentino, Dalla guerra civile alla libertà nazionale, ibid., 27 gennaio 1921; L’apoteosi della Repubblica in Campidoglio, ibid., 15 febbraio 1921 (è il resoconto delle celebrazioni in onore della Repubblica Romana, delle quali rilevante è il discorso sul momento politico di Cipriano Facchinetti); Per risorgere, “La Voce Repubblicana”, 3 marzo 1921; Basta!, “La Sveglia Repubblicana”, 5 marzo 1921; Appunti de “La Voce” – L’ora presente, “La Voce Repubblicana”, 19 marzo 1921. Il fascismo veniva associato nella condanna al bolscevismo, essendo entrambe forze di pura distruzione. Gli arditi del popolo, “Il Pensiero Romagnolo”, 23 luglio 1921. Ciò pensava anche Mario Bergamo che al Convegno della Federazione Repubblicana Emiliana sostenne la necessità di ricercare intese locali con i raggruppamenti affini, specialmente con gli anarchici. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1921, cat. K4, b.115, fasc. Bologna. 26 Esempio di ciò il Congresso Giovanile Repubblicano Nazionale, svoltosi il 12 febbraio. L’organizzazione, guidata da Oronzo Reale, era robustamente antifascista e dal resoconto del dibattito emerge un contrasto palese nei confronti dei romagnoli, accusati di fiancheggiare i fascisti per il loro antisocialismo. Vedi ne “La Voce Repubblicana” del 12 febbraio 1921 il saluto ai congressisti e il giorno dopo il resoconto del dibattito della mattinata. 23

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nendoli solo nella critica alla Direzione. Quanto allo sfondamento a sinistra, le elezioni dell’aprile del ‘21 confermarono sì la crescita del partito, soprattutto la presenza in zone in cui prima era quasi assente, ma il risultato era ancora tale da poter far dire ad alcuni che di sconfitta si trattava comunque. D’altronde anche i fascisti non accordarono che pochi mesi di tregua ai repubblicani, per poi attaccarli, soprattutto nelle zone dove più forte era la componente di rivendicazione sociale, vale a dire il Veneto. Il repubblicanesimo in Veneto era monopolizzato dalla figura di Guido Bergamo. Egli aveva saputo impugnare con grande decisione e piglio volitivo le rivendicazioni degli abitanti della zona, che aveva subito le gravissime conseguenze dell’essere stata il teatro di tre anni di guerra. Agitando il tema della ricostruzione e della lotta contro i “pescecani”, vale a dire coloro che avevano speculato sulla guerra ottenendo forti guadagni, Bergamo era riuscito a farsi eleggere in Parlamento, nonostante la sua giovane età impedisse la ratifica della nomina27. A Roma, Bergamo riuscì a rimanere per tutta la legislatura, alla chiusura della quale, la sua elezione era “rimasta da riferire”. Rieletto nel ‘21, grazie al voto favorevole dei socialisti il suo mandato fu annullato, a causa dell’età, il 2 giugno 192228. Al congresso regionale, che si svolse a Padova, Bergamo ribadì la necessità di una forte azione repubblicana, sganciata dagli estremismi rossi e neri: Bisogna rincuorare le masse, ridare la sensibilità della loro forza: educarle alla scuola del sacrificio seguendo i dettami immortali di Maz-

27 Bergamo aveva allora 28 anni, essendo nato nel 1893. Su di lui vedi Angelo De Nardo, Nazzareno Meneghetti, Giocondo Protti, Rino Ronfini, Vita di Guido Bergamo (1893-1953), Comune di Venezia, Ufficio affari istituzionali – Confederazione fra le Associazioni combattentistiche di Venezia e Mestre, s.l., 1983 [I ed. pubblicata nel 1954 dal Comitato per le onoranze a Guido Bergamo]; Mario Razzini, Le lotte politiche e sindacali nella Marca Trevigiana, “Archivio Trimestrale” n. 1, gennaio-marzo 1980, pp. 39-43 (tratto da “La Riscossa”, giugno 1961); id., La difesa repubblicana de “La Riscossa”, ivi, pp. 44-47 (tratto da “La Voce di Romagna”, 1 luglio 1961); Guido Bergamo: un protagonista. Montebelluna – 14 gennaio 1984, “Archivio Trimestrale” n. 3, luglio-settembre 1984, pp. 261-291 (sono riprodotti alcuni interventi all’omonimo convegno di studi: Giovanni Spadolini, Un apostolato mazziniano, pp. 263-268; Randolfo Pacciardi, Profilo di Guido Bergamo, pp. 269-272; Santi Fedele, Guido Bergamo, il movimento repubblicano e le lotte sociali della Marca Trevigiana, pp. 273-284; Massimo Scioscioli, I primi anni dell’attività politica di G. Bergamo: dallo sciopero di Torretta Trevigiana alle lotte sull’intervento, pp. 285-291); L’anomalia laica. Biografia e autobiografia di Mario e Guido Bergamo, a cura di Livio Vanzetto, Cierre, Verona 1994. 28 Il 6 giugno 1922 gli subentrò, nella circoscrizione di Venezia, Adriano Arcani.

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zini, sorreggerle nella battaglia contro gli sfruttatori, e riadditare ad essi la via maestra per la loro emancipazione che è il sindacato libero da tutela e da asservimenti di partiti, di sètte [sic] o di frazioni, integrato dall’istituto della cooperazione

che era la soluzione ideale del problema della terra29. Alle elezioni, che si svolsero in maggio, il PRI si presentò con proposte collaudate. Nel manifesto elettorale venivano ripetuti i concetti di Repubblica Sociale e Federale30, mentre molti commentatori tornarono alla Costituente31. Se non mancarono toni demagogici e antiparlamentari, in cui erano evidenti bersagli i socialisti e Giolitti, con la significativa omissione dei fascisti32, anche in questa occasione venne ribadita l’intransigenza dei repubblicani a confondere il loro con altri programmi33. L’intransigenza fu anche la parola in grado di mettere tutti d’accordo e che concluse la riunione del Comitato Centrale del 13 giugno, tenuto a un mese dalle elezioni, giudicate positivamente, anche per la vittoria di Conti nel Lazio. In tale occasione emerse un certo interesse per le posizioni del PSI in tema di repubblica e un duro attacco al fascismo. Si pronunciarono a favore di un’attenta considerazione verso i socialisti Conti, Bergamo (assente, ma presente in lettera: “Ma una pregiudiziale antisocialista per il partito repubblicano sarebbe un non senso”), Consigli. Più freddi Reggioli e Macrelli, che rilevavano l’aspetto strumentale dell’avvicinamento del PSI alle posizioni repubblicane, nel momento in cui i comunisti li combattevano nelle loro

29 Nella stessa sede, Aurelio Natoli, direttore de “La Riscossa”, organo regionale, ribadì a sua volta le critiche agli imbelli socialisti e alle classi dirigenti incapaci, esprimendo un plauso per l’affrancamento, laborioso ma necessario, del PRI veneto dalla democrazia. Una imponente rassegna di forze, “La Voce Repubblicana”, 25 febbraio 1921. 30 Il manifesto è in ibid., 16 aprile 1921. Tale manifesto venne criticato da “L’Azione Comunista”, alla quale rispose “La Voce Repubblicana” con un attacco alla Russia, dove i comunisti avevano tolto la proprietà ai capitalisti russi per accentrarla nello Stato che, a sua volta, ora la cedeva ai capitalisti stranieri. Incomprensione comunista, “La Voce Repubblicana”, 12 maggio 1921. 31 Fu soprattutto “La Riviera” a insistere su questo punto. Costituente!, “La Riviera”, 2 aprile 1921 e Costituzione e Costituente, ibid., 9 aprile 1921. 32 Ipsilon, Lettera al mio amico X, “La Sveglia Repubblicana”, 16 aprile 1921. Per rafforzare la polemica con i socialisti, “Lucifero” ripubblicò la relazione Colombino sulle condizioni della Russia, per colpire quello che era stato l’argomento vincente delle precedenti elezioni. Emilio Colombino, La dittatura del Proletariato, “Lucifero”, 28 aprile 1921. 33 Per aspera ad astra, “La Voce Repubblicana”, 24 aprile 1921.

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organizzazioni34. Unanime, poi, la condanna del fascismo e del suo presunto “tendenzialismo repubblicano” 35. Progressivamente, i repubblicani venivano mettendo a fuoco la loro interpretazione del fascismo, come movimento nato da pulsioni spontanee di patriottismo, che era però ormai asservito agli interessi della borghesia. Perciò, sostenevano, dietro la parvenza di lotta al bolscevismo, dietro la bandiera nazionale così generosamente quanto ipocritamente esibita, si nascondeva un attacco al popolo e alle sue conquiste sociali36. Ma anche con i comunisti i rapporti furono subito difficili. Le polemiche scoppiavano per l’accusa reciproca di indebolire il fronte rivoluzionario, i repubblicani con la loro ideologia borghese, i comunisti con la loro intransigenza che aveva condotto alla scissione di Livorno, vista ormai come un indebolimento delle possibilità rivoluzionarie del proletariato37. Il Congresso del PSI, il primo dopo la scissione di gennaio, costituì un ulteriore motivo per interrogarsi sulla compatibilità delle posizioni reciproche, all’interno del movimento operaio. Dei riformisti, Schiavetti criticava “l’agnosticismo istituzionale”38 e l’illusione che le riforme da loro proposte non venissero snaturate dal governo. Dei massimalisti unitari criticava l’incoerenza della posizione, indecisa tra rivoluzione e riforme, nell’assurda attesa che il regime stesso consegnasse loro il potere. Dei comunisti, poi, lodava la coerenza ma ne condannava i contenuti. Di tutti e tre, infine, criticava gli sbocchi: “Quanto al fine che essi si propongono, è inutile dire

34 Quanto fosse difficile e impopolare per la Direzione mantenere una posizione equilibrata, quando non positiva verso il PSI, era testimoniato dai numerosi articoli antisocialisti che si trovano nella stampa repubblicana. Ciò valeva anche per giornali lontani dalla Romagna, dove tradizionalmente più forte era l’avversione repubblicana verso i socialisti. Il Partito Socialista a destra, “La Voce Repubblicana”, 21 maggio 1921; Chiodini, Di fronte allo Stato di lor signori, “L’Alba Repubblicana”, 17 luglio 1921. 35 L’adunanza del Comitato Centrale del Partito Repubblicano, “La Voce Repubblicana”, 14 giugno 1921. 36 Enrico Parri, Guerra al Popolo e non al Bolscevismo, “Etruria Nuova”, 24 luglio 1921. Analoga posizione sostenne Conti in una conferenza tenuta a Grosseto il 29 settembre 1921. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1921, cat. K4, b.115, fasc. Grosseto. Su questo argomento, rimandiamo al saggio di Santi Fedele. 37 Incomprensione comunista, “La Voce Repubblicana”, 12 maggio 1921; Vezio D’Adda, “Bandiera” che vuol sventolare, “Lucifero”, 26 giugno 1921; Palle al balzo – Comunismo ingenuo, “La Voce Repubblicana”, 19 luglio 1921; Repubblicanofobia, ibid., 10 agosto 1921. 38 Stessa accusa, rivolta all’intero PSI, era in Ramo secco, “La Sveglia Repubblicana”, 22 ottobre 1921.

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che il nostro socialismo associazionista è del tutto antitetico ai sogni collettivistici e comunistici di cui essi si compiacciono”39. Critiche aspre furono rivolte ai risultati del congresso socialista. Dalle assise erano usciti chiari due elementi: il primo era la progressiva diminuzione di interesse degli italiani nei confronti delle beghe interne, sempre più cervellotiche e meno ideali, al PSI; il secondo era l’inconciliabilità delle posizioni dei riformisti con quelle degli unitari. Non è possibile – scriveva “La Sveglia Repubblicana” – cementare o fondere elementi disparati onde agitare nel Paese, un unico metodo. Una più salutare epurazione, evitata ad ogni costo oggi dovrà farsi domani, poiché il principio monarchico e quello socialista, sono inconciliabili40.

Il problema rimaneva quello di trovare interlocutori a sinistra, per evitare un isolamento che, lungi dal penalizzare soltanto il PRI, avrebbe causato gravi conseguenze a tutto il proletariato. I socialisti avevano nel dopoguerra, sosteneva Antonio Conti, perseguito una politica suicida di isolamento. Dapprima si erano staccati dagli interventisti rivoluzionari, per propagandare la rivoluzione bolscevica. Contemporaneamente avevano seguito una politica riformista, convinti di poter conquistare il potere attraverso le schede elettorali e che, una volta ottenuti certi risultati, la borghesia si sarebbe mossa e avrebbe fatto lei la rivoluzione. E ciò era accaduto, infatti, con il fascismo, solo che il PSI aveva rinculato, cosicché la borghesia aveva vinto, perché aveva saputo rimanere unita, mentre il proletariato, diviso, perdeva41. Ciò che valeva per i socialisti, valeva, come abbiamo visto, anche per il PRI. Momento significativo di un processo di distacco polemico, che avrebbe avuto fine solo nel gennaio del 1923, con la scissione delle Consociazioni Romagnola e Marchigiana, fu il Congresso Romagnolo Emi-

39 f.s.[Fernando Schiavetti], Tre vicoli ciechi, “La Voce Repubblicana”, 21 agosto 1921. Curioso che, dopo aver tanto parlato del ritorno del PSI al primitivo riformismo, Schiavetti qui accenni a “sogni collettivistici”. Più in linea con la visione imperante del PSI dopo il Congresso di Livorno è Socialismo e collaborazione, “La Libertà”, 27 agosto 1921, nel quale ci si augura persino l’andata al governo dei socialisti, in un’ottica completamente diversa da quella di Calamandrei e cioè per ingigantire il fallimento della loro prospettiva. 40 L’equivoco permane, “La Sveglia Repubblicana”, 15 ottobre 1921. 41 A. Conti, La rivoluzione borghese, “Lucifero”, 16 ottobre 1921.

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liano dell’ottobre del ‘21. Il resoconto del congresso apparve su “Il Popolano”, giornale diretto da Mario Pistocchi e vicino a Comandini, in polemica sempre più aperta con la segreteria. Le assise furono aperte da Gaudenzi, esponente di spicco della fazione dei simpatizzanti per la Direzione. È chiaro, in questo intervento, il ripiegamento del partito su posizioni più ambigue, ma per ciò stesso più condivisibili. E dunque proclami all’intransigenza, sancita con tanta nettezza dal Congresso di Ancona. Intransigenza, però, che Gaudenzi si sforzava di caratterizzare come non antisocialista: I repubblicani – sosteneva – […] debbono riconoscere e dire che il rivoluzionarismo dei socialisti e dei comunisti è stato intessuto di falsità e di codardia. Noi però non dobbiamo metterci contro la massa operaia, perché anche il nostro è un partito operaio. Egli [Gaudenzi] però non ha, in questo senso, pregiudiziali: se vi fossero nel paese forze oneste che tendessero davvero alla repubblica, crede che noi le dovremmo considerare come nostre alleate.

Se criticava il PSI per non aver fatto la rivoluzione, pure era chiaro che Gaudenzi era nettamente antifascista tanto da ascrivere a motivo di plauso per il PRI il non aver ceduto alle lusinghe del “tendenzialismo repubblicano” fascista. Dopo di lui parlò Sommovigo, più antisocialista. Venne, infine, il turno di Comandini, vero deus ex machina del partito a Cesena, la cui intransigenza aveva maggiori sfumature antisocialiste42. Egli accusò la Direzione di essersi spostata su posizioni filosocialiste nel passato, esponendo il partito alla derisione dei socialisti, con un’ingenua indeterminatezza negli scopi finali. Respinse le accuse di filofascismo che venivano fatte ai romagnoli, ma ricordò la particolarità della situazione del PRI in Romagna, dove l’unico partito avversario del repubblicano era quello socialista. Proprio le differenze regionali, secondo Comandini, sconsigliavano l’imposizione di un modello unico di politica per tutto il territorio nazionale. L’ultimo attacco andò alla “Voce”, accusata di essere parziale nel giudicare l’operato delle

42 Vedi ad esempio Il poderoso discorso di Ubaldo Comandini, “Il Popolano”, 10 settembre 1921 e la Conferenza sul “Momento politico attuale” da lui tenuta al Teatro Comunale di Ferrara il 27 novembre 1921, quest’ultima più uniformemene intransigente. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, 1921, cat. K4, b.115, fasc. Ferrara.

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singole federazioni. Infine, esortò la Direzione a dare direttive più precise sui temi sociali. A quel punto del dibattito, vi erano due ordini del giorno, uno di Gaudenzi e uno di Comandini. Data l’ora tarda non si poté votare, ma si fusero le due proposte, aggiungendo a quello di Gaudenzi l’attacco alla “Voce”. L’o.d.g. di Gaudenzi criticava il PSI oltre che per i motivi già esposti, per la sua indifferenza al problema istituzionale, ma era complessivamente più cauto nelle critiche al partito43. Nel commento finale del giornale, ci si dichiarava soddisfatti della chiarificazione intervenuta, con la divisione in due schieramenti contrapposti44. Una prima risposta alle sollecitazioni emerse dal convegno la diede Zuccarini, respingendo come false le accuse di filobolscevismo45, cui seguì quella di Carlo Francesco Ansaldi, su “La Voce Repubblicana”, il quale sosteneva trattarsi di posizioni individualistiche, che attaccavano per mascherare la vacuità della loro proposta politica. Egli rivendicava, poi, l’importanza dell’opera svolta dal partito che, pur nella sua intransigenza, non si era isolato dalle masse. Con tutto ciò aveva mantenuto ferma la superiorità dell’azione politica su quella sociale, secondo i dettami mazziniani46. Dei due schieramenti all’interno del PRI parlò, invece, Schiavetti, in un’importantissima intervista a “Il Secolo”, ripresa da “La Libertà”. Il segretario del PRI riconosceva l’esistenza di posizioni diverse ma, nel contempo, della difficoltà di definirne meglio le caratteristiche. Ciò era dovuto anche al fatto che nel PRI non c’era una tradizione di correnti, essendosi il partito diviso più su questioni particolari e su sfumature personali. Recentemente – proseguiva Schiavetti – poprio [sic] sul Secolo Federico Comandini, il figlio dell’on. Ubaldo, ha accennato a un criterio distintivo delle due principali tendenze del partito, abbastanza, ma sempre limitatamente, esatto: vi sono alcuni, egli ha detto, che considerano la politica di guerra soltanto come una parentesi (e sarebbero, aggiungo io, i cosidetti [sic] sinistri o rivoluzionari, o…bolscevichi!); vi son altri che

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Movimento politico, “Il Popolano”, 29 ottobre 1921. Congresso di chiarificazione, ivi. Il discorso di Zuccarini è riportato in “Il Pensiero Romagnolo” del 5 novembre 1921 46 Carlo Francesco Ansaldi, La via maestra del nostro Partito, “La Voce Repubblicana”, 22 novembre 1921. 44 45

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dal fatto guerra, a parte situazioni contingenti ed eccezionali, pensano di poter trarre qualche insegnamento per i futuri atteggiamenti del partito (e sarebbero i destri o, come altri di loro amano chiamarsi, i tradizionalisti). In altre parole i primi sarebbero coloro che vogliono assolutamente chiuso il periodo delle collaborazioni imposte dalla guerra e credono che la lotta per il raggiungimento delle finalità strettamente politiche e sociali del partito non debba patir tregua alcuna per l’arbitrario e subdolo presentarsi di pretese necessità patriottiche. Essi pensano che una maggiore e più sincera giustizia sociale e la conseguente riconciliazione delle classi proletarie con l’idea e l’amore della patria siano la nostra prima, vera, santa necessità nazionale. I tradizionalisti invece, richiamandosi ad alcune tradizioni del partito, sono meno diffidenti verso i ricatti sentimentali che troppo spesso tendono loro le classi dirigenti e si trovano spiritualmente vicini a tutti coloro che al momento buono sanno far risuonare al loro orecchio la parola patria. Tutte e due le tendenze sono rigidamente intransigenti verso tutti i partiti, di alcuni dei quali conoscono per dolorosa esperienza l’impotenza e l’insincerità; ma sul terreno della lotta quotidiana avviene spesso che i rivoluzionari si trovino a combattere non insieme ma accanto ai socialisti, agli anarchici, ai comunisti, ai cosidetti [sic] rossi insomma, per tentare di spirare nelle loro masse un alito di vita repubblicana; mentre i tradizionalisti, avversari anzitutto dei rossi, cui non sanno perdonare la loro indifferenza ideale e pratica – che qualche volta diviene negazione – nei riguardi del concetto di patria, simpatizzano necessariamente con quei partiti e quei gruppi che condividono, sia pure per motivi meno disinteressati, questa loro incompatibilità.

Inoltre, proseguiva il segretario del PRI, “nemmeno ai nomi [si poteva] dare un valore assoluto; i tradizionalisti non rinunceranno mai ad affermare di essere più rivoluzionari dei rivoluzionari e fedelissimi allo spirito della dottrina repubblicana. Si tratta di stati d’animo, insomma, più che differenze dottrinarie”. Era vero, però, che il partito era molto cambiato. “Con la creazione di un organo quotidiano […] e con una opera continua di assistenza e di direzione, l’attività politica dei repubblicani è stata resa più omogenea, il partito e [sic] stato riorganizzato, l’apostolato è stato ripreso con intensità e con risultati insperati”. Il vero punto in quel periodo era, dunque, la ridefinizione del ruolo del partito: “Noi – sosteneva Schiavetti – non abbiamo alcuna velleità di rappresentare una forza numerica. […] Noi vogliamo portare il nostro

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contributo a una ricostruzione della coscienza nazionale dal ‘70 in poi, a nostro parere, spezzata e mortificata”47. Tuttavia, l’azione di Schiavetti non evitò giudizi severi da parte di osservatori benevoli come Terenzio Grandi, il quale scriveva a Ghisleri: Il partito repubblicano oggi è intento a organizzarsi: su un programma non ben definito, o almeno all’organizzazione meccanica, numerica, commerciale. Auguriamo passi presto all’opera di illustrazione del proprio pensiero, di sviluppo delle sue riserve intellettuali e morali. Se no, continuo a pensare, un organismo senza testa non ha facoltà di vero progresso e d’imperio48.

Nel frattempo, si definiva la posizione del partito nei confronti della Russia bolscevica, rispetto alla quale i principali organi di stampa repubblicani sposarono il punto di vista dei socialisti rivoluzionari russi. Gli scrittori più assidui e più informati delle cose russe erano infatti Caciorovsky, Florskij e Jakovleff, tre personaggi legati alla visione politica di quel gruppo49. Caciorovsky criticava la matrice marxista della rivoluzione russa. Essa, infatti, era scoppiata non nel momento previsto da Marx, bensì durante una crisi e in un paese sottosviluppato industrialmente. Inoltre, la causa scatenante era stata soprattutto la guerra. Egli sosteneva, poi, il gradualismo nella rivoluzione sociale, che sarebbe potuto avvenire soltanto “come lo sviluppo continuo e l’approfondimento organico della democrazia stessa”. Al di fuori della democrazia, infatti, sosteneva Caciorovsky, “non nasce che un mostruoso frutto dell’anarchia dispotica, ma non il socialismo”. Ad una visione “elementista” della società, egli contrapponeva l’ideale di una fusione di intenti fra le tre classi fondamentali: “Costruire il collettivismo potrà soltanto il popolo lavoratore, soltanto tutti e tre i fratelli nel lavoro: il proletariato, la classe contadinesca, l’«intelligenza», – uniti armonicamente”. Ciò perché “l’apogeo della lotta di classe non caccia dalla scena della sto-

47 Il Partito Repubblicano e l’ora presente, “La Libertà”, 3 dicembre 1921. L’intervista era originariamente apparsa su “Il Secolo” del 30 novembre 1921. 48 Lettera di Grandi a Ghisleri, 19 novembre 1921, in L’intransigente e l’idealista, cit., p. 120. 49 Solo del primo, però, siamo riusciti ad avere notizie precise. Degli altri due nulla sappiamo oltre lo pseudonimo.

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ria la lotta nazionale, ma coincide con quest’ultima”. Il bolscevismo, invenzione tedesca trapiantata in Russia, non poteva rappresentare perciò la soluzione ai problemi di quel paese, necessitando, come ognuno, di soluzioni particolari50. Jakovleff teneva una sorta di rubrica, “Lettere dalla Siberia”, nella quale magnificava una piccola repubblica denominata “Regione Marittima”, portatrice, a dire dell’autore, di valori democratici in una zona sempre più dominata dallo scontro degli imperialismi bolscevico e giapponese51. Diverso per portata e continuità l’apporto di Florskij alla definizione di una linea verso la Russia bolscevica. Invece degli articoli di commento, propri di un settimanale, i redattori della “Voce” cercarono di creare un’opinione informata sui fatti di Russia, sia pur attraverso una certa linea interpretativa. In quest’ottica, Florskij, con la sua conoscenza della lingua russa e i suoi contatti, giocò un ruolo di primo piano52. Egli era inflessibilmente antibolscevico, fustigando il regime leninista quando si macchiava di gravi colpe, come quella di concedere concessioni di sfruttamento delle risorse russe ai capitalisti stranieri, ed esaltando le forze di opposizione53. Come Caciorovsky, anche Florskij proponeva un prestito per rilanciare l’economia della Russia affinché potesse rientrare nei circuiti commerciali54.

50 C. Caciorowsky, Insegnamenti dell’esperimento bolscevico, “La Critica Politica”, 15 gennaio 1921, pp. 22-23. Corsivo nel testo. Sulla via nazionale al socialismo, egli tornava in C. Caciorovsky, L’idea mazziniana e il nuovo indirizzo spirituale europeo, “La Voce Repubblicana”, 3 febbraio 1921 51 Jakovleff, Un’oasi repubblicana, “La Voce Repubblicana”, 19 gennaio 1921; Il bolscevismo si… democratizza, ibid., 27 gennaio 1921; Costituente… bolscevica, ibid., 3 marzo 1921; La piovra dell’Oriente: il Giappone, ibid., 17 marzo 1921 52 Dalla fine dell’anno, egli iniziò una rassegna della stampa dedicata alla Russia, commentando e correggendo ciò che si scriveva su quel paese. Florsky, Rassegna orientale, “La Voce Repubblicana”, 2 ottobre 1921 e 21 ottobre 1921. 53 Florsky, Gli orizzonti economici del Governo di Mosca, “La Voce Repubblicana”, 12 febbraio 1921. Contrario all’accordo commerciale anglo-russo, Florskij si dichiarò in L’alleanza AngloBolscevica, ibid., 5 aprile 1921, giacché legava il governo inglese a quello russo, consentendo al secondo di rimanere al potere grazie al primo, come s’era visto a Kronstadt. Critico anche Il capitalismo inglese e la Repubblica dei Soviet, “Lucifero”, 1 aprile 1921. Florsky, L’ordine è ristabilito, “La Voce Repubblicana”, 23 marzo 1921; I “senza partito”, ibid., 28 aprile 1921; Come si svolgono le elezioni in Russia, ibid., 21 maggio 1921 (questo articolo venne criticato da Guglielmo Pannunzio, che scrisse una lunga lettera al giornale, il quale lo difese, ribadendo i suoi intenti informativi. A proposito di elezioni in Russia, ibid., 26 maggio 1921); La riorganizzazione delle forze rivoluzionarie, ibid., 21 settembre 1921 54 Florsky, Gli scambi colla Russia, ibid., 5 maggio 1921.

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Al di fuori di questi tre autori, la sensazione che si ricava dalla lettura delle notizie e dei commenti riguardanti la Russia è di una certa monotonia. Passata la stagione delle elaborazioni originali, si ripescavano vecchi cliché55 e vecchi spunti polemici, come i resoconti di viaggi in Russia, stilati da socialisti al loro rientro in Italia56. Inoltre, si diede largo spazio alle notizie allarmistiche sulle condizioni della Russia e a quelle che illustravano le attività degli ambienti antibolscevichi57. L’atteggiamento del PRI, in particolare, nei confronti della Russia, si mantenne, comunque, complessivamente equilibrato. Se da una parte non si mancava di condannare un regime, ritenuto ormai fallimentare, se non fallito58, dall’altra aspre critiche andavano alle grandi potenze

55 Chaque [Aurelio Natoli], Le vere origini del bolscevismo, “La Riscossa”, 15 gennaio 1921; Marchi d’oro a Lenin, “La Voce Repubblicana”, 19 gennaio 1921 e Lenin comprato dalla Germania, ibid., 25 gennaio 1921, riciclavano le vecchie voci su Lenin, la cui figura era dipinta in modo stereotipato da Nino Barzocchi, Lo Czar rosso, “Il Pensiero Romagnolo”, 26 marzo 1921. Un campionario di collaudate riflessioni è in Giulio Gratton, Il grande monito, “La Voce Repubblicana”, 13 marzo 1921. 56 La situazione nelle campagne russe, “La Libertà”, 22 gennaio 1921; Verità sulla Russia, “Lucifero”, 23 gennaio 1921; Lo czarismo rosso, “Il Dovere” di Lecce-Taranto, 23 gennaio 1921 (dove riaffioravano persino connotazioni mistiche e ancestrali, frammiste a sfumature di carnale sensualità); Un nuovo libro sulla Russia, “Lucifero”, 6 marzo 1921. 57 a.d.l., I lavori della Costituente panrussa, “La Voce Repubblicana”, 20 gennaio 1921; a.d.l., Per l’integrità territoriale della Russia, ibid., 5 febbraio 1921; La democrazia rivoluzionaria russa e l’ora presente, ibid., 10 febbraio 1921; L’attacco dei Soviety contro la Repubblica Georgiana, ibid., 24 febbraio 1921; Appunti de “La Voce” – Le biblioteche in Russia, ivi; C.W., I Sindacati e lo Stato nella Russia dei Soviet, “La Critica Politica”, 1-15 marzo 1921, pp. 76-78; a.d.l., La libertà di pensiero in Russia, “La Voce Repubblicana”, 6 marzo 1921; Armi italiane in Russia, ibid., 19 marzo 1921; L’insurrezione dei contadini nella Russia centrale dilaga, ibid., 15 aprile 1921; Una protesta georgiana contro l’imperialismo bolscevico, ibid., 24 aprile 1921; La chiusura di 160 officine russe per il 1° maggio, ibid., 28 aprile 1921; La Real-Politik dei bolscevichi, ibid., 27 maggio 1921; La politica orientale di Mosca, ibid., 22 giugno 1921; A. Sorrentino, Nuova lotta antibolscevica nell’Estremo Oriente, ibid., 23 giugno 1921; Nella repubblica comunista risorge l’ergastolo degli Zar, “Lucifero”, 26 giugno 1921; F., Una lettera di Lenin ai comunisti del Caucaso, “La Voce Repubblicana”, 30 giugno 1921; L’Europa è un vulcano ardente, ibid., 25 settembre 1921; Gli spaventosi contrasti della Russia bolscevica, ibid., 27 ottobre 1921; La ridda dei miliardi bolscevichi, “La Sveglia Repubblicana”, 19 novembre 1921; Il costo della vita in Russia, ivi; La gravissima situazione russa, “La Voce Repubblicana”, 8 dicembre 1921; Il tramonto di una deità comunista, ibid., 27 dicembre 1921. 58 Giulio Pierangeli rilevava il carattere rurale della rivoluzione, a causa dei benefici che il governo era stato costretto a concedere ai contadini. Con ciò si era stabilito un regime di piccola proprietà, caro appunto ai contadini, nel quale il bolscevismo diventava un semplice “mezzo di lotta internazionale, per la migliore protezione degli interessi russi”. Vi era, infatti, in Lenin l’intento di accordarsi con la piccola borghesia, spingendola ad allearsi con il proletariato. Ciò che, secondo Pierangeli, ricordava Proudhon e avrebbe comportato una seria revisione in senso federalista e rurale dei socialisti. Giulio Pierangeli, Teorie e realtà in Russia, “La Critica Politica”, 16 aprile – 1 maggio 1921, p. 103. F. Arieli scorgeva, invece, in un discorso di Lenin che riconosceva l’importanza dell’educazione del proletariato, echi mazziniani che potevano essere di stimolo per l’Italia. F. Arieli, Nuovo orientamento della politica economica russa, ibid., 16 novembre – 1 dicembre 1921, pp. 226-227. Simile Insegnamenti, “La Sveglia Repubblicana”, 17 dicembre 1921.

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che, con il loro comportamento imperialistico, avevano ridotto la Russia all’isolamento59. I repubblicani furono perciò forti sostenitori della ripresa dei rapporti commerciali con la Russia60, anche se con ciò si sarebbe riconosciuto implicitamente il governo bolscevico61. D’altronde, si trattava di compiere un’azione logica, non esistendo altro governo in Russia ormai da anni ed essendo più assurdo continuare a credere in un inesistente governo dello Zar. Tanto più si confermarono nella condanna del comportamento occidentale e nella spinta verso il ricongiungimento con la Russia, quando scoppiò la terribile carestia durante l’estate del ‘21. Preannunciata dai più avvertiti commentatori, come Caciorovsky, già dalla fine del 1920, quando si vide il livello insufficiente di sementi piantate62, essa esplose in tutta la sua virulenza nell’estate successiva. Le cause vennero individuate nella siccità, ma le difficoltà nei trasporti resero le conseguenze più tragiche. L’ampiezza della tragedia portò molti a utilizzarla come definitivo atto d’accusa verso il bolscevismo, mentre a livello internazionale, grazie all’azione dell’esploratore Nansen si organizzarono aiuti. Gli appelli in favore della Russia si ripeterono gene-

59 “Anche lo czarismo – scriveva “La Voce Repubblicana” – è caduto ma attraverso l’esperimento comunista, che lascerà, per ragioni storiche, il posto ad una repubblica sociale federalista il blocco nazionale russo continuerà a rappresentare con la forza della sua vitalità un poderoso elemento della vita europea fra il suo centro e l’Asia”. Il Salentino, La piccola Intesa, “La Voce Repubblicana”, 8 febbraio 1921. 60 Noi, Note e commenti – Il rappresentante della Russia in Italia, “La Critica Politica”, 16 febbraio 1921, p. 64.; La nebulosa degli scambi commerciali con la Russia, “La Voce Repubblicana”, 5 aprile 1921; Note e commenti – La missione russa non se ne va, “La Critica Politica”, 16 maggio – 1 giugno 1921, p. 132. Era invece contrario Florskij, dal cui articolo il giornale si dissociava. Florsky, Il IV anniversario della rivoluzione bolscevica, “La Voce Repubblicana”, 10 novembre 1921 (ripubblicato, senza il prologo critico in “Il Popolano”, 19 novembre 1921). Testimonianza di questo atteggiamento fu la mozione che Eugenio Chiesa presentò alla Camera, su questo argomento, il 19 dicembre 1921, che non fu accolta. Su questa e sull’argomento in complesso Noi, Note e commenti – Niente rapporti con la Russia, “La Critica Politica”, 16-31 dicembre 1921, pp. 243-244. L’intervento di Chiesa a spiegazione della sua mozione venne riprodotto in “La Voce Repubblicana”, 23 dicembre 1921, con il titolo La battaglia repubblicana per la ripresa dei rapporti con la Russia. Il testo della mozione è ora in La vita di Eugenio Chiesa nel centenario della nascita..., cit., pp. 431-432. 61 C.F. Ansaldi, La condotta equivoca del Governo italiano contraria al diritto internazionale, “La Voce Repubblicana”, 11 dicembre 1921; Florsky, Per una pubblicazione del “Paese” sull’Ambasciata russa, ibid., 27 dicembre 1921. Contrario era Un significativo incidente a Baku, ibid., 20 novembre 1921, per “non urtare i sentimenti del popolo russo che non sono certo identici a quelli dei dittatori di Mosca”. 62 C. Caciorovsky, La crisi suprema del popolo russo, “L’Iniziativa”, 11 dicembre 1920. Gli stessi concetti, in forma riveduta, sono ripetuti in Id., La carestia in Russia, “La Voce Repubblicana”, 4 febbraio 1921.

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rosamente su tutta la stampa repubblicana, più attenta al grido di sofferenza degli umili che non agli errori dei potenti63. Curiosa, in tale contesto, la polemica che “La Voce Repubblicana” scatenò contro la politica estera italiana, incolpata di essere rinunciataria per non essersi ancora accaparrata nessuna cospicua concessione in Russia, nonostante le favorevoli condizioni64. La morte di Colajanni La lacerante polemica che aveva diviso il PRI da Colajanni, a seguito delle posizioni che questi aveva preso circa il bolscevismo, proseguì nel 1921 e si interruppe solo per la morte del vecchio garibaldino, nel settembre di quell’anno. Ma se gli argomenti del contendere erano praticamente gli stessi dei mesi passati, il tono si fece via via sempre più violento, da una parte e dall’altra, trascinando gli avversari su posizioni estreme. L’attività politica di Colajanni nel 1921, non solo riguardo al problema bolscevico, fu tutta contraddistinta dalla polemica. Circa il bolscevismo, in particolare, egli rimproverava aspramente la borghesia per la sua insipienza, non essendosi resa conto del mortale pericolo rappresentato dal comunismo e dalla sua propaganda65. Proprio su questo

63 La Russia in preda alla fame, “La Sveglia Repubblicana”, 6 agosto 1921; C. Caciorovsky, La Russia muore di fame, “La Voce Repubblicana”, 6 agosto 1921; Il calvario della Russia sventurata, ibid., 7 agosto 1921; Florsky, I caratteri della crisi alimentare russa, ivi; La catastrofe russa, ibid., 11 agosto 1921; Babu, La tragedia russa, “L’Azione”, 13 agosto 1921; La tragedia russa, “La Libertà”, 13 agosto 1921; Per la Russia martire, “La Riviera”, 13 agosto 1921; Le carovane della morte, “La Voce Repubblicana”, 13 agosto 1921; Un grido di dolore dalla Russia, “L’Alba Repubblicana”, 14 agosto 1921; Note di politica – Salviamo la Russia, “Il Popolano”, 14 agosto 1921; La portata politica della tragedia russa, “La Voce Repubblicana”, 14 agosto 1921; Salviamo la rivoluzione!, “La Libertà”, 27 agosto 1921; La situazione nella Russia meridionale, “La Voce Repubblicana”, 31 agosto 1921; Florsky, Le risorse bolsceviche, ibid., 1 settembre 1921; La Russia da una crisi alimentare ad una politica, ibid., 8 settembre 1921; Cicerin, Noulens e la fame, ibid., 14 settembre 1921; Il poderoso discorso di Ubaldo Comandini, “Il Popolano”, 10 settembre 1921; Il crollo di un mito, “La Sveglia Repubblicana”, 17 settembre 1921 e “Il Pensiero Romagnolo”, 24 settembre 1921; I repubblicani di Pisa per la Russia, “La Voce Repubblicana”, 17 settembre 1921; Evghenij Schreiber, Come i bolscevichi lottano contro la fame, ibid., 22 settembre 1921. 64 Il diplomatico frigio, I grandi successi della Consulta, “La Voce Repubblicana”, 30 ottobre 1921. L’autore, presumibilmente Carlo Francesco Ansaldi, non fu soddisfatto neanche quando l’accordo commerciale fu firmato, lamentandosi sempre della eccessiva lentezza della diplomazia. A proposito dell’accordo italo-russo, ibid., 4 novembre 1921. 65 Napoleone Colajanni, La politica di padre Zapata, “Il Messaggero”, 14 gennaio 1921; id., Nell’attesa delle deliberazioni di Livorno, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 19-20 gennaio 1921; id., L’ostruzionismo (Ricordi e comparazioni), “Giornale di Sicilia”, 10-11 febbraio 1921, “Roma”, 12-13 febbraio 1921.

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punto, poi, era chiara la cecità di quel ceto, che aveva lasciato mano libera ai socialcomunisti, divisi a Livorno, ma uniti da un’ideologia nefasta. Le masse avevano così potuto credere che la Russia fosse un paradiso terrestre, mentre invece era assai più simile ad un inferno. Pertanto, come andava facendo da mesi, proseguì nella sua campagna “informativa” sulle condizioni della Russia66, intento consono al suo carattere pratico di raccoglitore di dati. Altro bersaglio della sua polemica era Turati, paragonato in un articolo a Padre Zapata, che predicava bene e razzolava male. L’esponente riformista – secondo Colajanni – era stimato dalla borghesia ma non era affatto diverso dai suoi compagni. Anzi era anche peggio, dal momento che pronunciava parole di forte critica al bolscevismo sulla “Critica Sociale” o ai convegni dei riformisti, ma poi lo difendeva in Parlamento e rimaneva nello stesso partito di quelli che ne agognavano la realizzazione in Italia67. Di fronte a questo spettacolo poco edificante, l’entusiasmo del vecchio garibaldino si risvegliava solo verso i fascisti, che gli apparivano i restauratori dell’amor di patria e, addirittura, coloro i quali avevano ristabilito la legalità, dopo le violenze socialiste che avevano caratterizzato il dopoguerra. Certo, talvolta avevano ecceduto anche loro e sarebbe stato meglio che del rispetto della legalità si fosse assunto il compito il governo, ma in assenza di questo era benvenuta la “santa e necessaria reazione” dei fascisti68.

66 L’impresa bolscevica creata e favorita dal governo imperiale tedesco, “RP”, 15-31 gennaio 1921, pp. 3-4; G. Bergamasco, In Russia, ibid., pp. 11-13; In Russia, ibid., 15-31 marzo 1921, pp. 58-59; Napoleone Colajanni, Il proletariato ingannato dai bolscevichi italiani, “Giornale di Sicilia”, 7-8 maggio 1921; Il fallimento del bolscevismo nelle confessioni di Lenin, “RP”, 30 giugno 1921, pp. 173-179; Napoleone Colajanni, Nel paradiso bolscevico… si muore di fame, “Roma”, 30-31 luglio 1921; Nel paradiso comunista – Cronaca della fame e della morte, “RP”, 31 agosto 1921, pp. 241-242. 67 Lo Zotico, La parola è all’accusato…, “RP”, 31 dicembre [ma 30 novembre] 1920, pp. 369-370. 68 La critica ai socialisti era quasi sempre accompagnata dalla difesa dei fascisti: Napoleone Colajanni, La politica di padre Zapata, “Il Messaggero”, 14 gennaio 1921; Il trionfo della violenza e della barbarie, “RP”, 15-31 gennaio 1921, pp. 1-2; La Rivista, Il Congresso socialista di Livorno, ibid., pp. 6-9; Napoleone Colajanni, Nell’attesa delle deliberazioni di Livorno, “Roma” e “Giornale di Sicilia”, 19-20 gennaio 1921; id., Tra la menzogna e l’ipocrisia, “RP”, 15-28 febbraio 1921, pp. 38-39; id., Episodi di guerra civile, “Il Messaggero”, 7 marzo 1921; id, Al di là della Russia?, “Roma”, 9-10 marzo 1921 e “Giornale di Sicilia”, 10-11 marzo 1921; Il delitto mostruoso di Milano, “RP”, 15-31 marzo 1921, p. 57; Pro e contro il fascismo, ibid., pp. 58-59; Napoleone Colajanni, Chi semina vento raccoglie tempesta, “Giornale di Sicilia”, 26-27 marzo 1921 e “Roma”, 29-30 marzo 1921; id., L’ipocrisia e la viltà contro la violenza, “RP”, 15 aprile 1921, pp. 90-91; id., La lezione ha giovato, “Giornale di Sicilia”, 27-28 aprile 1921 e “Roma”, 30 aprile-1 maggio 1921; I risultati della battaglia elettorale, “RP”, 15-31 maggio 1921, pp. 122-125; Napoleone Colajanni, Critica e crisi del partito socialista, ibid., pp. 129-130.

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Lo sconforto che sempre più lo prendeva, lo portava a criticare con asprezza non soltanto il Parlamento, ostaggio dei socialisti, ma lo stesso paese, che ne aveva consentito il trionfo69. Il suo pessimismo si riscattò, in parte, con l’ingresso dei fascisti alla Camera: A Montecitorio col fascismo per un momento è sembrato che entrasse la violenza; in realtà col soffio patriottico è entrata la libertà – in ispecie la libertà di parola, la libertà di discutere, che è la conditio sine qua non del regime rappresentativo e che i socialcomunisti, invidi della servitù abietta del sovietismo, avevano completamente distrutta70.

Questo giudizio sul fascismo, anticipato già negli ultimi mesi del 1920, costituì un ulteriore motivo di rottura con il PRI, che aveva preso una netta posizione antifascista fin dall’inizio della segreteria Schiavetti. In particolare, Colajanni entrò in una polemica dura e violenta, nei toni e nei contenuti, con i repubblicani giuliani71, che lottavano costantemente contro le violenze fasciste, particolarmente esposti per l’esempio che rappresentavano di un nazionalismo che non mirava alla sopraffazione. Anche sul bolscevismo le posizioni non potevano essere più lontane. Colajanni sosteneva il bisogno primario di difendersi dalla “marea bolscevica”, che vedeva montante ancora nel 1921, e, dato che i capi del partito non condividevano la sua posizione, lui li chiamava “repubbli-

69 Un’angosciosa protesta, ibid., 30 aprile-15 maggio 1920, pp. 138-139; Napoleone Colajanni, La riabilitazione dei peggiori metodi elettorali borghesi, “La Sera”, 25-26 marzo 1921. Ugualmente critico era stato con i deputati della passata legislatura, intenti solo a cogliere vantaggi personali. La Rivista, La tormentosa agonia della XXIV legislatura, “RP”, 15 marzo 1919, pp. 91-92. 70 Le forze morali della Camera nuova contro i rinnegati e contro i disertori, ibid., 15 giugno 1921, pp. 142-144 (la citazione a p. 144) ripubblicato in “Il Popolo d’Italia”, 29 giugno 1921, col titolo Le forze morali della nuova Camera. Contro i rinnegati e contro i disertori; La paura acceca e trascina alla menzogna e alla calunnia i socialisti, “RP”, pp. 145146. 71 Napoleone Colajanni, Repubblicani bolscevizzati e fascisti, “RP”, 15 aprile 1921, pp. 95-96; Uno dell’«Emancipazione», Napoleone Colajanni e i repubblicani bolscevizzati, “L’Emancipazione”, 11 giugno 1921. Risposta di Colajanni in Napoleone Colajanni, Le mie necessarie polemiche, “RP”, 31 luglio 1921, pp. 206-209. Conclusione orgogliosa ma pacata in A Colajanni, “L’Emancipazione”, 24 agosto 1921.

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cani bolscevizzanti o bolscevizzati”, ricevendone in cambio l’accusa di essere passato dalla parte della monarchia72. Queste polemiche ne fecero, inoltre, il punto di riferimento di una serie di personaggi messi ai margini del PRI dalla nuova politica della segreteria73 e che videro, nell’attacco a Colajanni, la dimostrazione del settarismo e del tralignamento, dalla corretta tradizione mazziniana, di Schiavetti e del suo gruppo. In questo frangente si rifece vivo il Partito Mazziniano Italiano, con il suo organo, “La Terza Italia”, che espresse solidarietà a Colajanni74. Il quale, però, confermò tutti i suoi dubbi e le sue perplessità sulla scelta astensionista, che era uno dei capisaldi del PMI. Tale atteggiamento, specie nelle elezioni del maggio del 1921, aveva il significato di un tradimento, data la necessità di chiamare a raccolta ogni forza per “scongiurare per sempre l’avvento del bolscevismo”75. Le ultime scaramucce tra PRI e Colajanni riguardarono l’esito delle elezioni, che l’uomo politico siciliano considerava una sconfitta per il partito76, e la sua presunta iscrizione al gruppo fascista. Nonostante tutte le divisioni, Colajanni era stato eletto, infatti, nella legislatura precedente, presidente del gruppo parlamentare repubblicano. Nella nuova Camera, però, i deputati dell’edera non raggiunsero

72 Solite menzogne e calunnie di bolscevichi repubblicani, “RP”, 15-31 gennaio 1921, p. 2; Il trionfo della violenza e della barbarie, ibid., pp. 1-2; io, Uno scoglio, “Il Pensiero Romagnolo”, 12 febbraio 1921; Controrilievi – La scissione nel partito repubblicano, “Humanitas”, 27 febbraio-20 marzo 1921, pp. 33-34 (lettera di Colajanni e relativa risposta di Pesce, che stimolarono altri interventi: Controrilievi – La scissione nel Partito Repubblicano, “Humanitas”, 27 marzo-17 aprile 1921, pp. 41-42). 73 Colajanni espresse il suo appoggio a Macaggi, Cappa e Vallone, “scomunicati” dalla Direzione. Le candidature repubblicane, “RP”, 30 aprile 1921, p. 103 e I repubblicani nella lotta elettorale, ibid., 15-31 maggio 1921, pp. 117-118. 74 Vedi la lettera di Armando Tosti in Controrilievi – La scissione nel Partito Repubblicano, “Humanitas”, 27 marzo-17 aprile 1921, pp. 41-42. 75 Napoleone Colajanni, Nella mischia elettorale, “Giornale di Sicilia” e “Roma”, 13-14 aprile 1921; La Rivista, Le elezioni, “RP”, 15 aprile 1921, pp. 89-90 e I repubblicani nella lotta elettorale, ibid., 15-31 maggio 1921, pp. 117-118. Ma vedi anche Napoleone Colajanni, L’ambiente elettorale del 16 novembre 1919, “Il Messaggero”, 9 maggio 1921 e id., Verso le elezioni del 15 Maggio 1921, ibid., 10 maggio 1921. 76 I repubblicani nella lotta elettorale, “RP”, 15-31 maggio 1921, pp. 117-118; I risultati della battaglia elettorale, ibid., pp. 122-125. A questi articoli rispose La missione dell’on. Colajanni, “La Voce Repubblicana”, 9 giugno 1921, a cui, a sua volta, rispose Colajanni. N.C., Ai gesuitelli della «Voce Repubblicana», “RP”, 15 giugno 1921, pp. 141-142. Altro motivo di estemporanea polemica fu la presunta iscrizione di Colajanni in due liste, l’una ministeriale, l’altra antiministeriale, riportata dalla “Voce”. Una… smentita dell’on. Colajanni, “La Voce Repubblicana”, 30 aprile 1921; Napoleone Colajanni, Ai gesuitelli della «Voce Repubblicana», “RP”, 30 aprile 1921, pp. 101-102; L’on. Colajanni è ministeriale… restando repubblicano, “La Voce Repubblicana”, 7 maggio 1921.

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il numero minimo di dieci, necessario per formare un gruppo autonomo. Colajanni, allora, pensò di iscriversi al gruppo fascista e prese contatto con Mussolini per questa ragione. La cosa non andò in porto per le insistenze di Eugenio Chiesa, che lo convinse ad aderire al gruppo misto, di cui fu eletto presidente, come repubblicano, così da permettere al PRI di essere rappresentato nelle commissioni77. Negli ultimi mesi della sua vita, egli rivide il giudizio sulle responsabilità di Cadorna circa il disastro di Caporetto78, salutò con l’onore delle armi il ritiro di Giolitti79, dimostrando, invece, grande allarme per il crescente potere e influenza di don Sturzo80. Anche con Mussolini si cominciava a intravedere un dissidio circa la natura del fascismo. Colajanni, lo giudicava un movimento transeunte, Mussolini un partito e, perciò, cominciava a manovrare in Parlamento con modi non dissimili dagli altri “politicanti”81, revocando in dubbio il suo “tendenzialismo repubblicano”, cui Colajanni aveva creduto fino allora82. Tuttavia, negò il suo voto a Bonomi, proprio per il suo atteggiamento antifascista83. Nell’ultimo numero della “Rivista Popolare” da lui diretto, Colajanni pubblicò un articolo, destinato a rimanere un po’ come il suo testamento politico, se non altro per ragioni cronologiche. In esso, non modificava il suo giudizio sui socialisti e sui fascisti, mostrandosi, anzi, più estremista di Mussolini nell’esprimere diffidenza nei confronti della pace sottoscritta tra i due schieramenti, ma, soprattutto, auspicava, con Colonna Di Cesarò, un rinnovato

77 P. D. Pesce, Rilievi 95. Segue: Colajanni fascista, “Humanitas”, 5-26 giugno 1921; L’on. Colajanni e il fascismo, “La Voce Repubblicana”, 23 giugno 1921. A tutti rispose Colajanni in Napoleone Colajanni, Le mie necessarie polemiche, “RP”, 31 luglio 1921, pp. 206-209, suscitando forti reazioni: L’on. Colajanni non è esatto, “La Voce Repubblicana”, 5 agosto 1921 e Napoleonica, ibid., 17 agosto 1921. 78 Noi, Il tradimento di Caporetto e il generale Cadorna, “RP”, 15 aprile 1921, p. 85. 79 La Rivista, La grande discussione all’inizio della 26ª legislatura, ibid., 30 giugno 1921, pp. 163-167. 80 Id., Occhio a D. Sturzo, ibid., 15 luglio 1921, pp. 184-185; Don Sturzo, ibid., 31 luglio 1921, p. 202. 81 La Rivista, La grande discussione all’inizio della 26ª legislatura, ibid., 30 giugno 1921, pp. 163-167; id., Ossigeno ai morituri o cura di ferro ricostituente?, ibid., 31 luglio 1921, pp. 204-205. 82 Parole e detti equivoci di Benito Mussolini, ibid., 15 luglio 1921, p. 183. Fiducia nel tendenzialismo fascista, Colajanni aveva espresso in La tendenza repubblicana del fascismo, ibid., 15 giugno 1921, p. 146; La Rivista, La grande discussione all’inizio della 26ª legislatura, ibid., 30 giugno 1921, pp. 163-167. Sul suo rapporto con il fascismo, vedi il puntuale e sintetico studio di Elio Santarelli, Colajanni 50°, “Pensiero Romagnolo” n.39, 23 ottobre 1971. 83 Napoleone Colajanni, Nel regno dei coccodrilli, “Roma”, 24-25 luglio 1921; La Rivista, Ossigeno ai morituri o cura di ferro ricostituente, “RP”, 31 luglio 1921, pp. 204-205.

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Patto di Roma in cui dovrebbero entrare le forze democratiche, non socialiste, contro il prepotere dei socialisti e clerico-popolari. […] In questo nuovo patto di Roma, – proseguiva – data la situazione attuale, dati i pericoli che corre la patria, dovrebbero trovare posto anche i fascisti e i nazionalisti; non esitiamo a dire che dovrebbero parteciparvi i repubblicani, che, memori della parte presa dal grande Maestro di tutti che riposa a Staglieno, nella formazione dell’Unità d’Italia, dovrebbero agire impedendo che l’opera sua non si perda. Sarebbe un’unione transitoria che non dovrebbe cancellare i programmi e la futura azione dei singoli partiti, ma dovrebbe fare argine alla marea bolscevica che minaccia la patria.

Nonostante avesse formulato la proposta, egli esprimeva comunque scetticismo sulla sua realizzazione84. In questo epilogo c’è tutto il Colajanni del dopoguerra, ancora legato agli schemi del Fascio parlamentare, come nel dicembre del 1918, quando si era rifiutato di uscire da quel raggruppamento per gli stessi motivi per cui ora voleva ricostituirlo. Nulla nella sua analisi del bolscevismo era mutato, dimostrando un sostanziale scollamento dalle reali condizioni del paese, nel quale era ormai chiara, a quasi tutti gli esponenti della sinistra, la fine del periodo rivoluzionario. Il continuo richiamo alla sua vita e alle sue battaglie, l’incredulità per gli attacchi che subiva da quelli che un tempo si dichiaravano suoi allievi e che lo avevano amareggiato ed esacerbato, testimoniavano di una “monumentalizzazione” in vita, alla quale i suoi avversari furono ben lieti di partecipare. Proiettando la sua grandezza nel passato, infatti, lo si poteva dividere da un presente ritenuto imbarazzante dai suoi compagni di fede85.

84 Id., Tra le crisi, ibid., 31 agosto 1921, pp. 245-248 (la citazione è a p. 248). Anche alla vigilia delle nuove elezioni, Colajanni aveva auspicato un’alleanza per la “salvezza del paese”. Id., Avremo le nuove elezioni?, ibid., 15-31 marzo 1921, pp. 64-65. Nel suo ultimo articolo, pubblicato dal “Giornale di Sicilia” il giorno della sua morte, tornava sulle critiche ai socialisti, che avevano ingannato i lavoratori col mito bolscevico. Napoleone Colajanni, Ancora delle riduzioni dei salari, “Giornale di Sicilia”, 2-3 settembre 1921. 85 Sul complesso rapporto tra Colajanni e il PRI, vedi i saggi di Luigi Lotti, Il Partito Repubblicano dal 1895 al 1921, in Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento, Atti del Seminario di Studi, Enna, 3-6 giugno 1982, Epos, Palermo 1983, pp. 61-68; di Giuseppe De Stefani, Napoleone Colajanni e la crisi del primo dopoguerra italiano, cit., pp. 120149; e Jean-Yves Frétigné, op. cit., pp. 175 e segg. Mi permetto, inoltre, di rinviare a Corrado Scibilia, Tra nazione e nazionalismo: Colajanni e il PRI nella crisi del primo dopoguerra, “Annali dell’Istituto Ugo La Malfa”, vol. XIV-1999, pp. 133-180, che costituisce un’ampia anticipazione delle pagine dedicate a Colajanni in questo volume.

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Colajanni morì il 2 settembre del 1921, a Enna, l’allora Castrogiovanni, di “paralisi cardiaca”. La stampa repubblicana lo commemorò con grande rispetto, consapevole che, con lui, se ne andava un rilevante pezzo della storia del repubblicanesimo italiano. A titolo esemplificativo possiamo citare gli articoli che gli dedicarono “La Voce Repubblicana”86, “Il Popolano”87, “La Libertà”88, il più partecipato, “Etruria Nuova”89, “Humanitas” 90, “La Critica Politica”91, il più esauriente.

86 Vi si esprimeva rammarico per la perdita di un uomo con cui pure ci si era confrontati e che, forse, avrebbe potuto essere ancora utile alla causa repubblicana. “In questi ultimi mesi la visione politica dell’antico combattente si era smarrita dietro alcune sue particolari interpretazioni della lotta politica italiana, alla quale ormai partecipava scarsamente con qualche articolo di giornale. Ma il suo passato è di quelli che rendono il ricordo di un uomo incancellabile nella mente dei cittadini che hanno sempre urgente il bisogno di rifarsi ad un esempio intemerato”. Napoleone Colajanni, “La Voce Repubblicana”, 4 settembre 1921. 87 Comandini tributò un commosso ricordo a Colajanni all’inizio di un suo discorso. Ne celebrò il passato e la figura, nonostante le divergenze sui suoi ultimi atteggiamenti, “che possono spiegarsi con le sue preoccupazioni per l’avvento di ordinamenti catastrofici nel nostro paese”. Il poderoso discorso di Ubaldo Comandini, “Il Popolano”, 10 settembre 1921. 88 “In politica ha sempre rappresentato se stesso. La sua permanenza nel partito repubblicano che egli amava in un modo tutto speciale è sempre stata saltuaria. […] In fondo era un temperamento entusiasta, tutte le nuove idee aventi carattere di rivolta contro una tirannia materiale e morale lo prendevano subitamente. La stessa ragione per cui circa trent’anni or sono si proclamava repubblicano-socialista è la stessa per la quale prima di morire si proclamò repubblicano-fascista. In allora il socialismo si si [sic] annunciava con spirito di ribellione al conservatorismo opprimente negatore della libertà. Il socialismo divenne poi; [sic] sotto altre forme ma con procedimenti analoghi a sua volta oppressore della libertà. Da ciò l’ammirazione di Colajanni per il fascismo in quanto il fascismo preso così alla lettera rappresentava agli occhi di lui il più pratico correttivo della baldanzosa alterigia socialista”. Tuttavia, concludeva l’autore, egli fu critico anche nei confronti di questo. Dorio, Napoleone Colajanni, “La Libertà”, 10 settembre 1921. 89 Vi si riconosceva un maestro, il cui disaccordo dalle direttive del partito sarebbe stato “non sostanziale, ma di dettaglio”. Napoleone Colajanni, “Etruria Nuova”, 11 settembre 1921. 90 Pesce ribadiva la sua devozione totale per un maestro, che non gli era stato imposto dalle circostanze della vita, ma che egli aveva scelto. P.D. Pesce, Rilievi 109. Napoleone Colajanni, “Humanitas”, 11 settembre-2 ottobre 1921, p. 89. 91 “Scoppiata la rivoluzione russa, se ne compiacque dapprincipio e la paragonò alla francese, facendo anche, nella sua «Rivista», alcuni troppo solleciti raffronti fra i personaggi maggiori di questa e di quella. Ma il seguito della rivoluzione lo deluse, e la degenerazione bolscevica lo indignò. Del bolscevismo è stato critico spietato, inesorabile, talvolta ingiusto, rivelandone volta per volta gli aspetti più tragici, scagliandosi contro i socialisti italiani che dapprincipio avevan creduto nel mito di Mosca, battendosi anche contro i suoi compagni repubblicani che, secondo lui, amoreggiavano un po’ con Lenin. In verità la repubblica dei Soviets, a base della lotta di classe, e quindi fondamentalmente anti-democratica, era la perfetta antitesi della repubblica vagheggiata da Colajanni, sorretta dal concetto mazziniano dell’associazione e da quello proudhoniano della mutualità. Di ciò bisogna tener conto nell’attaccarlo, e si è avuto torto a dimenticare, per eccesso polemico, che Colajanni avversava il bolscevismo in nome di principi meditati lungo mezzo secolo di pensiero e di azione”. Michele Viterbo, N. Colajanni, “La Critica Politica”, 16

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Gli ultimi anni di Colajanni, con l’adesione al primo fascismo, così “scandalosi” rispetto alle battaglie della giovinezza e della maturità, hanno probabilmente contribuito al sostanziale oblio nel quale è caduta la sua figura. D’altronde il problema si pose da subito, per l’uso spregiudicato che ambienti nazionalisti e fascisti fecero della sua figura, tanto che, già l’anno dopo, Giuseppe Restivo-Alessi era costretto a difenderne la memoria. Nell’articolo, scritto per commemorarne il primo anniversario della scomparsa, parlò delle sue critiche al bolscevismo e dei suoi attacchi ai socialisti italiani, fatti in nome dell’amor di patria. Ma chiarì che egli non rinnegò con ciò il suo pensiero socialista che fu il prodotto di profonde serene meditazioni; fu contro il metodo irrazionale e dissolvente che si adoperava non contro le aspirazioni dei lavoratori prodotto inevitabile delle mutate condizioni economiche della nazione e delle esigenze dei tempi nuovi. Chi osa dare altra spiegazione – ammonì l’autore – degli ultimi atteggiamenti del Suo pensiero fraintende la Sua parola; compie una irreverenza [sic] verso la Sua memoria92.

L’anno dopo, toccò al figlio, Luigi, difendere la memoria del padre dalle strumentalizzazioni dei fascisti di Castrogiovanni93. L’ultima parola nei confronti del bolscevismo, però, Colajanni non l’aveva ancora pronunciata. Nel maggio del 1922, infatti, la “Nuova Antologia” pubblicava in due parti uno studio inedito scritto nei suoi ultimi mesi di vita94. Anche in questo lavoro è riscontrabile l’interesse principale di Colajanni per le cifre e gli esempi, per un discorso, cioè, che si fa concreto, piuttosto che per l’elaborazione teorica.

ottobre-1 novembre 1921, pp. 207-209. La “Rivista Popolare”, ormai diretta da Carlo Bazzi, pubblicò nel numero speciale del 15 dicembre 1921, il primo uscito dopo la morte del suo fondatore, i necrologi dedicati a Colajanni apparsi sulla stampa. 92 G. Restivo-Alessi, Napoleone Colajanni e il Socialismo, “La Voce Repubblicana”, 6 settembre 1922. 93 Gino Colajanni, Napoleone Colajanni non è stato mai fascista, ibid., 14 settembre 1923, ora in Vittorio Parmentola, Nota biobibliografica, cit., pp. 139-142. 94 Napoleone Colajanni, La rivoluzione russa – Appunti e giudizi, “Nuova Antologia”, 1° maggio 1922, pp. 54-73 e id., Nella Russia del bolscevismo – Il fallimento di una rivoluzione, ibid., 16 maggio 1922, pp. 161-174. Cfr. Jean-Yves Frétigné, op. cit., pp. 200-201.

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Nulla di nuovo è dato rilevare, se non la sistemazione complessiva più unitaria di un discorso che l’anziano deputato repubblicano aveva compiuto negli anni precedenti. Il fine ultimo di Colajanni era quello di dimostrare, attraverso la solita messe di dati, tratti preferibilmente da fonti bolsceviche, il fallimento dell’esperimento comunista. La sua ostilità nei confronti di quel regime si poggiava sul fatto che esso non rappresentava la maggioranza dei russi, ma solo una esigua parte. Ciò che – a suo giudizio – lo aveva reso possibile erano state le condizioni primitive del popolo russo e la diversa levatura dei tre protagonisti della vicenda rivoluzionaria: Nicola II, Kerenskij e Lenin, dei quali il terzo era enormemente superiore agli altri due. Nonostante ciò, il comunismo era fallito, sotto due aspetti: uno, che direi estrinseco, che riguarda i difetti e le colpe che i socialisti mondiali attribuiscono esclusivamente alla società borghese, all’organizzazione capitalistica attuale; l’altro, intrinseco, si riferisce a quei fenomeni che sono scomparsi o sono ridotti a minime proporzioni, nella società capitalistica, e che nel momento storico attuale si direbbero esclusivi, caratteristici dell’esperimento comunista95.

Tra i primi enumerava: “il militarismo”, “la burocrazia”, “gli scandali”, “la giustizia internazionale”, “il capitalismo”; tra i secondi: “il bilancio dello Stato”, “inflazione cartacea e prezzi”, “la produzione”, “le condizioni del lavoro”, “la dittatura del proletariato”, “lo sterminio della borghesia”, “la terra ai contadini”. Tutti questi fattori lo portavano alla conclusione del totale fallimento del comunismo, non certamente dovuto al blocco operato dalle potenze europee nei suoi confronti. Fu questa l’ultima condanna di un regime da lui tanto avversato da costituire l’ossessione dei suoi ultimi anni96.

95 Napoleone Colajanni, La rivoluzione russa – Appunti e giudizi, “Nuova Antologia”, 1° maggio 1922, pp. 65-66. 96 “La rivoluzione sovietica e i rischi successivi di bolscevizzazione (al punto di scorgere persino nelle posizioni assunte da Ghisleri rischi bolscevichi) diventerà la prima preoccupazione pubblicistica di Colajanni”. Aurelio Macchioro, Napoleone Colajanni fra socialismo e protezionismo patrio, cit., p. 135. Vedi anche Nunzio Dell’Erba, Napoleone Colajanni dall’impresa libica alla guerra mondiale, “Rassegna siciliana” n. 28, agosto 2006, pp. 26-29, ora in Gian Biagio Furiozzi (a cura di), Le sinistre italiane tra guerra e pace (1840-1940), FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 89-109, soprattutto 106-109.

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Verso il fascismo Il 1922 fu segnato dall’ascesa al potere del fascismo, ciò che significò un calo nell’elaborazione teorica e nell’attenzione rivolti alla rivoluzione russa. Perciò, l’immagine che fuoriusciva, dalla stampa repubblicana, del bolscevismo e della Russia, era legata a cliché abusati e a vecchie analisi97. La circostanza che più interessò i repubblicani fu il riavvicinamento della Russia bolscevica alle Potenze europee, concretizzatosi nelle due Conferenze di Genova e dell’Aia. La posizione dei repubblicani fu coerentemente mazziniana, nonostante la scarsa simpatia nei confronti del regime leninista. Essi propugnavano, infatti, la piena integrazione della Russia nell’Europa, attraverso scambi commerciali, quand’anche questi avessero significato un riconoscimento di fatto del governo al potere98. Tale opportunità di commercio era inoltre necessaria all’Italia99 e all’Europa per alleviare la crisi e alla Russia per risollevarsi dalla prostrazione in cui era precipitata dopo la guerra e la carestia ma, anche, per meglio far circolare, insieme alle merci, le idee, l’unica arma che avrebbe potuto scardinare il bolscevismo. In quest’ottica, perciò, i repubblicani appoggiarono il tentativo operato alla Conferenza di Genova, sostenendo che

97 P. D. Pesce, Rilievi 122. La proprietà privata in Russia, “Humanitas”, 8 gennaio 1922, p. 9; Protesta socialista contro la reazione bolscevica, “La Voce Repubblicana”, 26 gennaio 1922; Alfredo Morea, Al di là del Comunismo, “Lucifero”, 4-5 febbraio 1922; Florsky, Episodi della fame in Russia, “La Voce Repubblicana”, 17 febbraio 1922; Fer, Nansen parla della Russia, “La Sveglia Repubblicana”, 25 febbraio 1922; Il complotto antibolscevico spiegato dai socialisti rivoluzionari, “La Voce Repubblicana”, 15 marzo 1922; Contro la reazione leninista e i suoi aiutanti, ibid., 22 marzo 1922; Un disperato grido d’aiuto dalle prigioni bolsceviche, “Il Popolano”, 1 aprile 1922; Florsky, La situazione della Russia bolscevica mentre i delegati dei Soviety tornano a Mosca, “La Voce Repubblicana”, 21 maggio 1922; Ly. S., Il processo di Mosca, ibid., 15 giugno 1922; Si teme il linciaggio dei difensori, ibid., 17 giugno 1922; Il processo contro i socialrivoluzionari russi, ibid., 24 giugno 1922; Florsky, La verità sui documenti rapiti, ibid., 28 luglio 1922; Lenin eliminato dal governo per ragioni di salute, ibid., 21 giugno 1922; C. Caciorowsky, Per conoscere la Russia, “La Critica Politica”, 25 giugno 1922, pp. 273-277; P. Ingusci, Le costituzioni degli stati moderni – Gli Stati minori, “L’Alba Repubblicana”, 30 luglio 1922; Florsky, Si prepara la restaurazione…, “La Voce Repubblicana”, 5 settembre 1922; S.R., Reazione bolscevica, ibid., 6 settembre 1922; ter, L’orrore del bolscevismo russo, “Lucifero”, 910 settembre 1922; Le delizie del Comunismo, ivi; Florsky, L’opera degli zaristi, “La Voce Repubblicana”, 28 settembre 1922; Herz Joffe, La fine di una idea, ibid., 8 ottobre 1922; Florsky, Cronache moscovite, ibid., 11 ottobre 1922; S.R., Operai e organizzazioni in Russia, ibid., 20 ottobre 1922; C. Caciorovsky, Il problema russo, ibid., 11 novembre 1922; L’Orientale, L’imperialismo bolscevico, ibid., 27 dicembre 1922. 98 C.F. Ansaldi, Il riconoscimento internazionale dello Stato russo, ibid., 26 febbraio 1922. 99 La ripresa dei rapporti con la Russia, “L’Emancipazione”, 4 marzo 1922; L’Alta Banca internazionale contro la ripresa dei rapporti economici italo-russi, “La Voce Repubblicana”, 20 dicembre 1922. Contro gli indirizzi che, invece, teneva la politica estera italiana, Salentino, Politica estera passiva, ibid., 9 giugno 1922.

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essa rappresentava il fallimento per entrambi gli schieramenti, che per anni si erano duramente confrontati e che erano costretti dagli eventi a collaborare100. Di questa intransigenza si assunse l’onere soprattutto la Francia, che venne difatti molto criticata, spingendo, per contrasto, gli osservatori repubblicani a giustificare l’accordo russo-tedesco, definito pienamente legittimo nelle condizioni nelle quali i due paesi erano stati ridotti dalle potenze europee101. Il giudizio finale sulla Conferenza fu molto duro, dato il sostanziale fallimento del riavvicinamento, che portò ad una nuova Conferenza a L’Aia e le critiche furono distribuite tra i due contendenti, ormai raffigurati nella Francia e nella Russia. Se alla prima si rimproverava il solito eccesso di nazionalismo, la rigidità eccessiva sulla questione delle riparazioni, anche a scapito della ricostruzione europea, alla seconda venivano imputate le scarse garanzie offerte a chi avrebbe voluto investire in quel paese102. Il principale avvenimento del 1922, come abbiamo detto, fu la progressiva ascesa del fascismo, fino alla marcia su Roma. L’elaborazione teorica sulla rivoluzione e sul problema bolscevico non poteva non risentirne, se-

100 Due capitolazioni, ibid., 11 gennaio 1922; P.D. Pesce, Rilievi 124. La Russia viene, “Humanitas”, 15 gennaio 1922, p. 17; La Russia e l’equilibrio mondiale, “L’Emancipazione”, 21 gennaio 1922; Philo-sofo, Le rettifiche della Storia, “Etruria Nuova”, 22 gennaio 1922; **, Francia e Russia e la Conferenza di Genova, “La Critica Politica”, 25 febbraio 1922, pp. 64-67; La Russia bolscevica a Genova, “La Voce Repubblicana”, 7 aprile 1922; Genova, “Il Popolano”, 8 aprile 1922; Parole e fatti dei bolscevichi, “La Voce Repubblicana”, 11 aprile 1922; Dalla Russia alla Germania, ibid., 14 aprile 1922; Egoismi e incomprensioni, “Il Popolano”, 15 aprile 1922; Debiti e ricostruzioni, “La Voce Repubblicana”, 18 aprile 1922; a.m., Le condizioni economiche dei paesi vinti. VI La Russia, ibid., 19 aprile 1922; Il Comunismo a pranzo, ibid., 26 aprile 1922; Pan [Francesco Antonio Perri], La Conferenza di Genova, ivi; Biemme, I bolscevichi di Sua Maestà, “La Riviera”, 6 maggio 1922; m.a., W Lenin!, “Il Popolano”, 29 aprile 1922; Il “memorandum” alla Russia, “La Voce Repubblicana”, 4 maggio 1922; Perché la Russia è intransigente, ibid., 16 maggio 1922. Per meglio precisare le condizioni della Russia e la scarsa affidabilità dei suoi governanti “La Voce Repubblicana” pubblicò due estratti dal nuovo libro di Luciano Magrini, La catastrofe russa, “La Promotrice”, Milano 1922, pp. 218. L. Magrini, I bolscevichi a Genova, “La Voce Repubblicana”, 9 aprile 1922, e L. Magrini, Nella Russia dei Soviety, ibid., 29 aprile 1922. 101 Il nucleo della nuova Europa, ibid., 20 aprile 1922; La portata dell’accordo russo-tedesco, ibid., 19 maggio 1922. L’importanza dello sfruttamento delle risorse russe per reinserire nel gioco europeo la Germania era sottolineata in Dalla Russia alla Germania, ibid., 14 aprile 1922. 102 Da Genova all’Aja, ibid., 17 maggio 1922; Salentino, L’epilogo di Genova, ibid., 18 maggio 1922; A. De Donno, Ricostruire con la pace o con la guerra?, “La Critica Politica”, 25 maggio 1922, pp. 213-215; Sogno e realtà nella politica russa, “La Voce Repubblicana”, 25 maggio 1922; P.D. Pesce, Tra Genova e La Aja [sic], “Humanitas”, 28 maggio 1922, pp. 169-170; Come la diplomazia ricostruisce l’Europa, “La Voce Repubblicana”, 22 giugno 1922; Oreste De Biase, Daltonismo politico, “Humanitas”, 6 agosto 1922, pp. 250-251 (ripubblicato su “La Sveglia Repubblicana” del 26 agosto 1922, col titolo L’esatta visione).

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gnando fortemente il passo103. Gli anni ‘19 e ‘20 sembravano lontani, il momento rivoluzionario era passato, tanto da essere oggetto di analisi distaccate, come quella che tentò Zuccarini, ricostruendo quel clima entusiasta ma inconcludente. Secondo il dirigente repubblicano, le classi dirigenti avevano ripreso fiato, ma la rivoluzione era solo rinviata, essendo una necessità. Prima o poi, pertanto, si sarebbe di nuovo posto il problema della sua attuazione. Tra le colpe dei socialisti in quel tempo, Zuccarini citò il preteso monopolio sulla rivoluzione, cui il declino del “modello russo” aveva causato danni irreparabili. Quel modello era passato poi ai comunisti, verso i quali non cambiava la posizione del PRI che, di fronte allo sbocco dittatoriale di una rivoluzione bolscevica, avrebbe lottato affinché “il trionfo della rivoluzione segn[asse] il trionfo della libertà”104. Lo scontro non cessò nel corso dell’anno. Nei confronti dei socialcomunisti, numerose furono le polemiche, spesso motivate dalla diffidenza indisponente con la quale i repubblicani erano trattati dai loro potenziali alleati105. L’unico momento di contatto fu l’Alleanza del Lavoro, la quale, a sua volta, generò, per il suo fallimento, ulteriori polemiche106.

103 Sul dibattito interno al PRI sono da vedersi le sintesi di Massimo Scioscioli, Dalla marcia su Roma alle elezioni del 1924. Il dibattito politico nel PRI, “Archivio Trimestrale” n. 4, ottobredicembre 1977, pp. 329-352 e di Danilo Veneruso, La vigilia del fascismo, il Mulino, Bologna 1968, pp. 299-310. Quest’ultimo mette bene in rilievo la fondamentale dicotomia vertice-base, operante nella storia del PRI del dopoguerra. Nel presentare la dirigenza repubblicana con la sua coerenza ma anche con la sua astrattezza, non dimentica l’avversione che spesso alcuni settori del partito, specie in Romagna, provarono per una politica di sinistra. 104 O.Z., A proposito di rivoluzione, “Lucifero”, 13 novembre 1921. 105 Dalle elezioni comunali alla Repubblica Mazziniana, “L’Emancipazione”, 14 gennaio 1922; Blocco rosso, comunisti, socialisti, repubblicani, ibid., 21 gennaio 1922; Chiodini, Contro un semplicismo, “L’Alba Repubblicana”, 22 gennaio 1922; Feuerbach [Oliviero Zuccarini], Le tesi comuniste sulla questione agraria, “La Critica Politica”, 25 gennaio 1922, pp. 44-46; Mazzinianesimo e comunismo, “Il Pensiero Romagnolo”, 28 gennaio 1922; Idiozie comuniste, “L’Emancipazione”, 28 gennaio 1922; Chiodini, Differenza di principio e differenza di metodo, “L’Alba Repubblicana”, 29 gennaio 1922; O.Z., Il “fronte unico” dei socialisti, “Il Pensiero Romagnolo”, 4 febbraio 1922; Antonio Chiodini, L’azione dei partiti in Italia II/ I comunisti, “La Riviera”, 20 maggio 1922; Giov. Piccione, Il Socialcomunismo, “L’Alba Repubblicana”, 23 luglio 1922; G. Piccione, Repubblicanesimo, “L’Alba Repubblicana”, 30 luglio 1922; Imperialismo rosso, “La Voce Repubblicana”, 7 ottobre 1922; Agli ordini di Zinovieff, “La Voce Repubblicana”, 16 dicembre 1922; “Noi vogliamo un governo operaio!”, “La Voce Repubblicana”, 31 dicembre 1922. 106 Il PRI vi entrò con diffidenza, come al solito per non rompere l’unità del fronte proletario, ma le divisioni all’interno del patto e il fallimento dello sciopero generale dell’agosto, portarono a galla anche nel PRI le ostilità al progetto. Noi e gli altri, “L’Azione”, 12 agosto 1922; Chiarimenti, “La Parola Repubblicana”, 16 agosto 1922; Differenze di statura, “La Voce Repubblicana”, 20 agosto 1922. Anche Schiavetti aveva dovuto spiegare le ragioni dell’adesione del PRI, nella relazione sull’opera della Direzione presentata al Congresso di Trieste. Fernando Schiavetti, La relazione sull’opera della Direzione, ibid.,1 aprile 1922. L’intera vicenda fu ricostruita in La Direzione del Partito, L’attività della Direzione del Partito dal Congresso di Trieste ad oggi, ibid., 8 dicembre 1922.

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Due esempi chiariscono la stasi del partito: rispetto alla politica interna, la riproposizione della Costituente107; rispetto al bolscevismo, la pubblicazione, sotto altro titolo, di parti dell’opuscolo Pro e contro il bolscevismo di Zuccarini, uscito quasi due anni prima108. Ma il principale bersaglio delle polemiche repubblicane non poteva che essere il fascismo. Di questo movimento, veniva messa in luce la natura reazionaria, di mero strumento delle classi agiate contro il proletariato e le sue conquiste. I repubblicani negavano l’esistenza di un pericolo bolscevico ancora reale, mentre sostenevano la somiglianza dei due movimenti, tanto da definire spesso il fascismo quale “bolscevismo capovolto”. In questa critica, inoltre, coinvolgevano lo stato liberale, che aveva scoperto definitivamente la sua natura di classe109. La posizione del PRI, dunque, cercò di porsi nel mezzo, ma ciò non gli evitò la solita accusa di bolscevismo110.

107 Per la Costituente, “L’Emancipazione”, 11 febbraio 1922; Pericle Toschi, Per la vitalità del partito, “Lucifero”, 1-2 aprile 1922. Bandini Buti, però, criticava i socialisti proprio per aver ritirata fuori una parola ormai sorpassata come quella della Costituente, avendo la borghesia rialzato il capo ed essendo il proletariato depresso. a.b.b. [Antonio Bandini Buti], Le espiazioni del socialismo – La Costituente, “La Riscossa”, 15 luglio 1922 e “Etruria Nuova”, 16 luglio 1922. 108 O. Zuccarini, Il problema sociale è problema di libertà, “Lucifero”, 27-28 gennaio 1922 e “Il Pensiero Romagnolo”, 4 febbraio 1922 (sono le pagine 49-55 dell’opuscolo); O. Zuccarini, Repubblicani e socialisti di fronte al problema sociale, “Lucifero”, 4-5 febbraio 1922 e “Il Pensiero Romagnolo”, 11 febbraio 1922 (pp. 55-60). 109 Del rapporto del PRI con il fascismo diamo solo le indicazioni che toccano la tematica del nostro lavoro. Un’esposizione più esauriente si può trovare nel libro, più volte citato, di Santi Fedele. Bolscevismo capovolto – Il fascismo che ricostruisce l’Italia, “L’Emancipazione”, 3 giugno 1922; Il nuovo bolscevismo, “La Riscossa”, 29 luglio 1922; La biscia morde il ciarlatano, “La Voce Repubblicana”, 10 agosto 1922; Noi e gli altri, “L’Azione”, 12 agosto 1922; Il tramonto della democrazia e la posizione repubblicana, “La Voce Repubblicana”, 12 agosto 1922; La condanna del regime, “Etruria Nuova”, 20 agosto 1922; La stessa rotta e gli stessi timonieri, “La Voce Repubblicana”, 24 agosto 1922; C.F. Ansaldi, La nostra volontà, ibid., 25 agosto 1922; Il pensiero di A. Ghisleri sull’attuale momento politico, ibid., 27 agosto 1922 (ripubblicato in “Il Popolano” del 9 settembre 1922, col titolo Monito di A. Ghisleri; è parte di una lettera di Ghisleri a Conti del 23 agosto 1922, il cui testo integrale si può leggere in Antonluigi Aiazzi, op. cit., pp. 365-366); R. Pacciardi, Il Partito Repubblicano e l’ora attuale, “Etruria Nuova”, 10 settembre 1922 (ora in id., Dall’antifascismo alla repubblica, Edizioni Archivio Trimestrale, Roma 1986, pp. 14-17); Un accordo fra comunisti e fascisti ordinato da Mosca, “La Voce Repubblicana”, 13 dicembre 1922. 110 Salvatore Talevi, Il nostro “Bolscevismo”, “L’Azione”, 23 settembre 1922; P.D. Pesce, Rilievi 203. Bolscevismo?, “Humanitas”, 1 ottobre 1922, p. 305. Le accuse vennero anche dall’Unione Mazziniana, un’accozzaglia di ex del PRI, tra cui spiccavano i nomi di Casalini, Bazzi e i coniugi Albani, che tentarono di provocare una scissione a destra del PRI, peraltro senza esito. Il loro organo fu la “Rivista Popolare” che, dopo la morte di Colajanni, era passata sotto la direzione di Bazzi. Carte in tavola prima di andare a carte quarantanove, “La Voce Repubblicana”, 18 ottobre 1922; Il Sindacato Nazionale degli espulsi, “L’Alba Repubblicana”, 21 ottobre 1922; Pan [Francesco Antonio Perri], Dies irae, “La Voce Repubblicana”, 26 ottobre 1922.

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Tutte le cautele della Direzione non valsero ad evitare scontri e lacerazioni all’interno del partito. Sotto la pressione del fascismo, ideale e fisica, il PRI faticò a conservare l’unità. Dal settembre del 1920, quando al Congresso di Ancona si era stabilita la leadership del gruppo Schiavetti – Conti – Zuccarini, l’obiettivo primario era stato quello di creare un partito la cui forma rispondesse meglio ai bisogni della lotta politica. Per riuscire nell’intento, già di per sé così complesso, ci si astenne dal provocare fratture sulla linea politica, scegliendo una posizione di disimpegno nello scontro tra socialisti e fascisti111. La Direzione, che pure a parole reclamava la sua equidistanza, aveva una chiara posizione antifascista e le sia pur blande prese di posizione, in tale ottica, di Schiavetti, erano comunque inaccettabili per alcuni settori del partito, come ad esempio i cesenati guidati da Comandini112, i quali non parteciparono al Congresso che si svolse a Trieste dal 22 al 25 aprile. Al Congresso, comunque, Schiavetti rimarcò l’azione della segreteria sotto il profilo del risveglio organizzativo del partito, ma, soprattutto, sotto quello dello sforzo per imporre una linea politica unitaria. Se dal Congresso di Ancona era venuta una chiara indicazione verso l’intransigenza nei confronti degli altri schieramenti politici, fu, però, la stessa unanimità con la quale il principio fu accettato ad inficiarne l’applicazione. Esso venne interpretato, secondo il segretario, da una parte come una chiusura a destra, dall’altra come una chiusura a sinistra. Critiche erano venute anche per la posizione verso il fascismo, il cui antibolscevismo appariva a Schiavetti francamente pretestuoso, giacché “il pericolo bolscevico [non fu] mai imminente in Italia”113. La scelta del PRI fu, quindi, coerentemente a fianco delle masse, scelta che era ormai primaria, essendo terminato l’impegno per l’unità e l’indipendenza del paese. Il dibattito mise in luce l’anima antifascista del partito, con il solo Chiesa in una posizione di prudenza, che gli fu aspramente rinfacciata.

111 F. Schiavetti, La relazione sull’opera della Direzione, “La Voce Repubblicana”, 30 marzo, 31 marzo e 1 aprile 1922. 112 Sulla posizione di Comandini, attento a sembrare neutrale, salvo poi dilungarsi nelle critiche ad una sola parte, vedi Il discorso di Ubaldo Comandini, “Il Popolano”, 28 ottobre 1922. 113 P.R.I., Resoconto sommario del XV Congresso Nazionale, cit., p. 26. Vedi anche ACS, Min. Interno, Dir. Gen. P.S., Div. Affari gen. e ris., 1922, cat.K4, b.167, fasc. Trieste. Alcuni congressisti, giunti alla stazione di Mestre da Forlì, diretti a Trieste, “cominciarono ad intonare, accompagnandosi con strumenti, canzoni sovversive e ad emettere grida “Evviva la Russia e Lenin! Abbasso l’Italia””. Comunicazione del prefetto, 28 aprile 1922. Ibid., fasc. Venezia.

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Le critiche alla segreteria non mancarono, ma furono, come rilevò lo stesso Schiavetti nella replica, frammentarie e l’operato della Direzione venne approvato a stragrande maggioranza. Il vero cuore del congresso, però, fu rappresentato dalla relazione sull’azione politica, tenuta da Conti. Nella sua analisi, il PRI doveva trovare uno sbocco ad una crisi iniziata già nel 1903. Per far ciò, bisognava prendere atto dei mutamenti, non sempre positivi, occorsi nella vita politica italiana del dopoguerra, consistenti “nella più intensa partecipazione dei cittadini alla politica, nell’irrequieto e disorientato agitarsi della gioventù che ha fatto la guerra, nell’aspettazione di eventi rinnovatori, nell’attesa di novità”114. Tutto ciò non poteva essere trascinato nelle solite discussioni dottrinali che avevano contraddistinto da sempre il PRI, poiché era la realtà oggettiva. Bisognava interpretare lo scontento che il popolo provava verso le forze tradizionali e per far ciò, si dovevano “rigettare i vecchi metodi imposti anche ai repubblicani ed alla pubblica opinione da altri partiti rivoluzionari”115. Ma qui, secondo Conti, arrivavano le dolenti note. Il partito, infatti, nonostante gli sforzi della dirigenza, gli appariva inadeguato al compito di coagulare intorno a sé un consenso cospicuo, per il “tradimento” dei capi. La polemica di Conti andava a quei maggiorenti del partito i quali, creatasi una posizione di forza personale, trascuravano la cura dell’organizzazione. Erano due modi antitetici di concepire la lotta politica, quello ottocentesco dei leaders con la loro base feudale (come Comandini a Cesena) e quello più moderno di Conti, che aveva dedicato gli anni dopo la guerra alla riorganizzazione del repubblicanesimo nel Lazio, tanto da riuscire eletto come deputato di Roma nelle elezioni del maggio del ‘21. Per questo sforzo e per quello parallelo del giornale e della casa editrice “Libreria Politica Moderna”, Conti sacrificò, allora e in seguito, posizioni di potere all’interno del partito, trovandosi, poi, in minoranza. Di fronte a questa situazione, “il nostro sforzo – sosteneva Conti – deve essere diretto a caratterizzare sempre di più il Partito, ad individuarlo, a definirlo in modo che la sua personalità balzi evidente agli occhi degli italiani” 116. Per questo si doveva rifiutare la proposta presentata dai repubblicani triestini di chiamare il partito repubblicano-socialista117.

114

P.R.I., Resoconto sommario del XV Congresso Nazionale, cit., p. 37. Ibid., p. 38. Ibid., p. 40. Corsivo nel testo. 117 Contro questa proposta si espressero anche Russo, Schiavetti e Gibelli. 115 116

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A questo punto, Conti affrontava la parte propositiva della sua relazione, specificando, preliminarmente, la peculiarità del PRI, partito che partecipava alla vita politica per cambiare totalmente il regime istituzionale ed economico. Oltre a questa, fece un’altra premessa, ricordando la complessità della società italiana, che andava ben oltre il dualismo proletariato-borghesia. Da una ripartizione delle classi così semplicistica non poteva che avvantaggiarsi il capitale, che aveva potuto far credere che i suoi interessi fossero gli stessi dei piccoli proprietari e degli artigiani118. Ciò detto, l’oratore tirava le conclusioni: Non una esclusiva azione di classe, non una azione di carattere socialista o sindacalista, sia pure con marca repubblicana. Ma azione complessa di tutte le forze ed i gruppi sociali, i quali possano essere uniti in lotta contro la monarchia in quanto essi gruppi ed esse classi risentono il danno, del dominio monarchico, sono sottoposte alla plutocrazia della grande industria, della banca che tende al massimo accentramento economico (come la monarchia tende all’accentramento politico) e vuole la scomparsa della piccola impresa agricola, industriale, commerciale e dell’artigianato – una vera proletarizzazione – e cioè la fine stessa d’ogni possibilità di vita democratica, di vita civile superiore119.

Conti forniva, poi, al partito un quadro di riferimento molto preciso: L’azione che il Partito dovrebbe svolgere d’ora in avanti dovrebbe essere spiccatamente antistatale e cioè contro l’accentramento nello Stato di funzioni economiche, sociali, industriali, commerciali che non gli spettano, che non può esercitare e che potranno essere assegnate a sinlacati [sic] e ad altri individui; autonomista, contro l’accentramento politico e amministrativo, per la libertà della regione e del Comune; antimilitarista, a costo di essere bollati, dai patrioti della sesta giornata, per antinazionali, dice l’oratore, questa è una delle nostre lotte specifiche. Con la lotta contro il militarismo noi colpiremo nel cuore la monarchia. L’altra lotta nostra deve essere contro il protezionismo. […] La nostra azione dovrà essere, in fine, anticapitalista, in difesa dei con-

118 Questo argomento si trovava anche in Chiodini, Contro un semplicismo, “L’Alba Repubblicana”, 22 gennaio 1922. 119 P.R.I., Resoconto sommario del XV Congresso Nazionale, cit., p. 42. Corsivo nel testo.

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tadini e degli operai; in difesa dell’artigianato, della piccola proprietà, in difesa dell’agricoltura, contro ogni sfruttamento di coalizioni industriali e bancarie e contro il fiscalismo dello Stato; per la effettiva e concreta valorizzazione dell’agricoltura contro ogni forza che sospinga l’Italia ad altre forme di lavoro e di attività120.

Questo programma rivolto ai ceti medi, sintetizzato da Conti in un ordine del giorno, rappresentava una sostanziale novità per il PRI. Piuttosto che continuare la concorrenza al PSI, Conti proponeva di ampliare i riferimenti sociali, tentando una coraggiosa interpretazione della crisi del dopoguerra. La sua proposta, però, in nome dell’ortodossia mazziniana, non venne accettata. Angelo Scocchi di Trieste121, Amedeo Sommovigo, Felice Sigismondi di Milano e lo stesso Schiavetti ne contestarono i contenuti; Alfredo Zannoni di Jesi fu cautamente d’accordo. Il solo Cantimori si dichiarò interamente con Conti. Schiavetti, in particolare, dichiarò che, a parte la piccola proprietà agricola, convenga guardarci bene dal favorire, sia pure con fini onesti e niente affatto demagogici, una moltitudine di piccoli egoismi contrari per loro natura allo sviluppo economico ed industriale della nazione. Il piccolo commercio deve cedere, come ha detto con tanta competenza l’amico Scocchi, alla cooperativa di consumo; la piccola industria alla grande industria e questa alla grande cooperativa di produzione122.

120 Ibid., p. 43. Corsivo nel testo. Anche Zuccarini aveva dedicato la sua attenzione a questi problemi, in polemica con le soluzioni proposte dai comunisti: Feuerbach [Oliviero Zuccarini], Le tesi comuniste sulla questione agraria, “La Critica Politica”, 25 gennaio 1922, pp. 44-46. Su questo tema tornò, poi, “L’Alba Repubblicana”, organo dei Giovani Repubblicani, notoriamente vicino a Conti. O., Mazzini e il diritto di proprietà, “L’Alba Repubblicana”, 18 giugno 1922. M. L. (Variazioni sulla proprietà terriera, ibid., 30 luglio 1922) si dichiarò, però, dubbioso del fatto che l’associazionismo fosse relegato a “extrema ratio”. L’autore sosteneva che non di “extrema ratio” si trattava, bensì della rispondenza al principio mazziniano “Libertà e Associazione”. Si doveva, cioè, privilegiare la piccola proprietà, espressione di libertà, finché non ledeva i diritti della comunità. Solo allora si poteva ricorrere all’associazione. 121 Su Scocchi, “deus ex machina del mazzinianesimo triestino”, vedi Fabio Todero, Appunti per una storia dei repubblicani della Venezia Giulia tra questione sociale e questione nazionale 1906-1922 in Gli italiani dell’Adriatico orientale. Esperienze politiche e cultura civile, a cura di Lorenzo Nuovo e Stelio Spadaro, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2012, pp. 97-140, in particolare pp. 103-105. 122 P.R.I., Resoconto sommario del XV Congresso Nazionale, cit., p. 52.

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Schiavetti presentò, pertanto, un ordine del giorno, firmato anche da Attilio Quattrini di Firenze e Zuccarini, che modificava quello di Conti, mettendo meno in rilievo il ruolo della piccola proprietà, inscrivendolo nella più complessa visione sociale del PRI. Questa versione risultò più accettabile, così Mario Gibelli, che pure lodò le intenzioni di Conti, la sottoscrisse. Contrario si dichiarò, invece, Alfredo Colombo, per la debolezza del richiamo ai valori nazionali. Inoltre, Colombo innescò una discussione aspra sul concetto di lotta di classe. Nell’ordine del giorno da lui presentato si leggeva: “La pratica della lotta di classe, intesa come insurrezione di sfruttati contro sfruttatori, non contraddice nè [sic] alla dottrina nè [sic] alla coscienza de irepubblicani [sic]”123. Contro tale o.d.g. si schierarono Reggioli, Lami Starnuti, Schiavetti, Conti e Domenico Pigollo di Genova; a favore Razzini, Oscar Spinelli e Scocchi. Nella sua replica finale, Conti criticò l’astrattezza delle proposte uscite dalla discussione, sostenendo la necessità di corrispondere alla realtà effettiva. Sia pur fortemente piccato per le incomprensioni con le quali il suo o.d.g. era stato accolto, egli aderì a quello di Schiavetti, che si impose su quello di Colombo, sul quale era convogliato anche Scocchi124. Come c’era da aspettarsi, la frase contenuta nell’o.d.g. Colombo che riguardava la lotta di classe, scatenò una notevole polemica. Schiavetti, per nulla soddisfatto della trovata, la definì senz’altro “inopportuna”. L’impostazione espressa in quel testo era, per il segretario del PRI, non compatibile con la dottrina repubblicana, che accettava sì la lotta di classe, ma non come “interpretazione della storia”. Ad essa, infatti, i re-

123

Ibid., p. 56. Ibid., p. 59. Nello stesso congresso altri due furono gli argomenti importanti trattati: le autonomie regionali, relatore Zuccarini, e i rapporti con il movimento sindacale. In particolare, su quest’ultimo argomento si riproponevano gli insegnamenti mazziniani e l’adesione alla UIL come strumento di lotta, con lo scopo di valorizzare la presenza repubblicana all’interno di quel mondo. Una presentazione degli esiti del congresso è in Giovanni Conti, Il Partito Repubblicano – Il Congresso di Trieste, “Echi e commenti”, 5 maggio 1922, pp. 10-11. Un buon riassunto lo fece Zuccarini in O.Z., I repubblicani a Trieste, “La Critica Politica”, 25 maggio 1922, pp. 224228, che venne largamente riprodotto in Almanacco Repubblicano 1923, Libreria Politica Moderna, Roma s.d., pp. 142-149. Per una sintesi analitica del congresso vedi anche Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo, cit., pp. 200-210. Sugli articoli che Conti scrisse per “Echi e commenti” vedi il bel saggio di Bruno Di Porto, La collaborazione di Giovanni Conti al periodico «Echi e commenti», Servizio Editoriale Universitario, Pisa 1989 che ne riporta in appendice alcuni brani; ma cfr. anche id., Politica, economia e cultura in una rivista tra le due guerre. “Echi e commenti” 19201943, Giappichelli, Torino 1995, ad indicem. 124

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pubblicani univano una necessaria opera di emancipazione culturale del proletariato, ma la loro interpretazione era respinta senza appello dai socialisti. Ma soprattutto, concludeva Schiavetti, quando i socialisti parlano di lotta di classe hanno il pensiero rivolto alla classe intesa come unità organica superante le artificiose o transitorie differenze nazionali e sola, dinanzi ad esse, viva e perenne. Ora questo non è e non può essere, assolutamente, pensiero repubblicano, perché per noi tutti i problemi sono nazionali: tutti anche quello della creazione di una superiore società internazionale125.

Perri, a sua volta, segnalava il pericolo che la lotta di classe “possa essere negata o liminata [sic] con le formule vuote di un patriottismo superficiale, attraverso essa il proletariato cerca la sua emancipazione e la collaborazione è inquinata da troppi veleni politici per potere essere assunta come principio”126. La crisi degli ultimi mesi e la marcia su Roma crearono nel PRI una situazione di confusione, confessata dal suo segretario e che provocò la convocazione di un congresso straordinario, a Roma dal 16 al 18 dicembre, in forma privata. Questa necessità era motivata dalla ormai dichiarata crisi della politica di intransigenza, inadatta agli ultimi eventi. Da una parte, in alcuni, come in certi settori delle consociazioni della Romagna e delle Marche, non erano rimaste senza effetto le “sparate patriottiche” dei fascisti, dall’altra, si erano innescati, come nei fratelli Bergamo, meccanismi di imitazione dei sistemi socialisti127. A questo punto si scatenò il dibattito sulla funzione del partito, riprendendo la proposta di Conti al Congresso di Trieste. La maggioranza che aveva

125 Corsivo nel testo. f.s. [Fernando Schiavetti], Il “dogma” della lotta di classe, “La Voce Repubblicana”, 3 maggio 1922; f.s., Classe e nazione, ibid., 4 maggio 1922. Della stessa opinione si dichiarò C. F. Ansaldi, Repubblicanesimo e lotta di classe, ibid., 6 maggio 1922. 126 Pan [Francesco Antonio Perri], Noi e la lotta di classe, ibid., 16 maggio 1922. Purtroppo, però, lo stesso Perri non andava oltre la generica raccomandazione di portare “in questa lotta […] i valori della nostra dottrina”. 127 Fernando Schiavetti, La situazione spirituale del Partito, ibid., 22 novembre 1922. Tale immagine di un partito diviso, era anche in La Direzione del Partito, L’attività della Direzione del Partito dal Congresso di Trieste ad oggi, ibid., 8 dicembre 1922. All’esterno, però, Conti volle far trasparire un’immagine di compattezza. Intervistato da “L’Epoca”, negò la possibilità di una scissione, sostenendo che i cesenati fossero solidali con la Direzione e che l’unica politica possibile fosse mantenersi fermi sulla propria linea. I repubblicani si scindono in filofascisti e antifascisti? Un’intervista con il deputato Conti, “L’Epoca”, 17 settembre 1922.

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1921-1922 Tra comunismo e fascismo

guidato il partito dal ‘20, si divise in tre proposte diverse: la prima, quella di Bergamo, che propugnava un appoggio diretto ad un’organizzazione sindacale, entrando più direttamente nelle lotte operaie; la seconda, quella di Conti, che proponeva di estendere la rappresentatività del PRI alle diverse classi lavoratrici, compresa la piccola proprietà; la terza, quella di Schiavetti, per evitare i rischi di una politica classista, più sensibile ai ricatti, puntava a un partito che fosse una “minoranza rivoluzionaria e agile”, una scuola che si richiamasse fortemente a Mazzini ed elaborasse nuove prospettive sociali128. Al congresso, dunque, giunse a maturazione la rottura con quei settori del partito, peraltro rilevanti, che avevano guardato al fascismo con occhio benevolo. La discussione fu animata, ma alla fine fu ribadita la natura antifascista del PRI, ciò che spinse le Consociazioni Romagnola e Marchigiana a fondare una Federazione Autonoma, nel gennaio del 1923129. Ma anche lo stesso gruppo dirigente, come abbiamo visto, era diviso sulla linea da seguire in quella fase di profonda crisi. La soluzione non si trovò. Schiavetti lasciò la segreteria per la direzione de “La Voce Repubblicana”, Giuseppe Gaudenzi, figura ecumenica, primo segretario del PRI, gestì il partito nella sua qualità di vicesegretario, fino al congresso di Milano del maggio del 1925, quando il gruppo di Mario Bergamo, fortemente orientato a sinistra, ebbe la meglio.

128 F. Schiavetti, Gli insegnamenti di un Convegno mancato, “La Voce Repubblicana”, 2 dicembre 1922; F. Schiavetti, In margine al Convegno di Bologna, ibid., 3 dicembre 1922. A lui rispose Conti, puntualizzando la sua posizione in Giovanni Conti, La funzione del Partito Repubblicano, ibid., 5 dicembre 1922. Nella discussione intervenne anche Oronzo Reale, il quale respinse l’interpretazione classista del partito e ne richiamò una funzione di apostolato. O. Reale, Sulla funzione del Partito, ibid., 10 dicembre 1922. Un ottimo riassunto delle diverse posizioni, per chiarire meglio il dibattito precongressuale, è in F.G., Conclusione, “Etruria Nuova”, 17 dicembre 1922. 129 Partito Repubblicano Italiano, Resoconto sommario del XVI Congresso Nazionale, Roma 17-18 dicembre 1922, Roma, 1924. Un’agile riassunto del dibattito congressuale in Almanacco Repubblicano 1923, cit., pp. 150-154. Sul congresso vedi anche Renzo De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 514-515. Sulla scissione vedi Elio Santarelli, Appunti per una storia…, cit, pp. 242-255; 302-316; 363-377; id., Ubaldo Comandini e la scissione dei repubblicani cesenati nel 1923, “Archivio Trimestrale” n. 2-3, giugno-settembre 1976, pp. 197-227.

Verso il fascismo

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Conclusioni

“C

onfesso che avemmo anche la speranza che la stessa rivoluzione russa fosse l’inizio dell’epoca sociale dell’umanità e potesse evolvere verso forme di libertà più estesa e più compiuta dopo gli eccessi e le scosse rivoluzionarie anche barbare”1. Così Randolfo Pacciardi rievocava, negli ultimi anni della sua vita, quegli eventi, testimoniando della grande importanza che ebbero anche nel movimento mazziniano. Il rapporto dei repubblicani con la rivoluzione russa fu, nei mesi in cui durava la guerra, sostanzialmente allineato a quello degli interventisti di sinistra. Le differenze di tono o anche di argomenti, non sono tali, infatti, da escludere il PRI dal novero di quelle forze, valendo per esso le analisi fatte al riguardo. Tuttavia, dall’esame della stampa repubblicana, risulta una maggiore attenzione a tematiche sociali, una più marcata sensibilità verso le vicende della Russia e del suo popolo, di quanto non risulti dagli studi dedicati all’argomento2. Fu solo verso la metà del 1918, quando il partito riprese la sua attività, ma più alla fine dell’estate, che la “questione bolscevica” si presentò come il tema principale. Essa era un elemento in grado di rimettere in

1

Randolfo Pacciardi, Dall’antifascismo alla resistenza, cit., p. X. Soprattutto gli studi di Giovanna Procacci, che sono quanto di meglio prodotto in Italia sull’argomento, sono però molto severi nei confronti del PRI, segnatamente per quanto riguarda la politica interna, mentre più indulgente appare il giudizio verso la politica estera. Ciò deriva, a mio parere, anche dalla scelta delle fonti a cui la studiosa si rifà. Oltre a “L’Iniziativa”, infatti, Procacci utilizza la “Rivista” di Colajanni e il “Giornale del Mattino” di Nenni, espressioni di due esponenti tra i più spinti nella polemica antineutralista e rappresentativi solo in parte delle posizioni del partito. Giovanna Procacci, Gli interventisti di sinistra, la rivoluzione di febbraio e la politica interna italiana nel 1917, cit. Ma vedi anche ead., Italy: From Interventionism to Fascism, 1917-1919, “The Journal of Contemporary History” n. 4, October 1968, pp. 153-176. 2

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discussione l’intero assetto ideologico del PRI o, quantomeno, di differire la realizzazione del suo progetto sociale3. Il problema non era nuovo, essendo, presente fin dalle origini del mazzinianesimo un conflitto tra due anime, quella più sensibile ai richiami patriottici insiti nella tradizione risorgimentale e quella vicina ai bisogni del movimento operaio, per la cui emancipazione proponeva il programma dell’associazionismo mazziniano. Tale contrapposizione s’era più volte presentata, come nel conflitto Bovio – Ghisleri sul colonialismo o, soprattutto, nella vicenda libica. La spaccatura aveva sempre visto disposti su due fronti il Partito, o, più propriamente, alcuni suoi settori, e il Gruppo Parlamentare4. Proprio con l’esito del conflitto sulla guerra di Libia, che aveva visto protagonisti il gruppo ispirato da Ghisleri e rappresentato da Conti e Zuccarini da una parte e Salvatore Barzilai dall’altra, era cominciato l’esperimento di costruzione del partito nuovo, più legato alle tematiche sociali che non agli antichi richiami storici5. La guerra aveva interrotto questo processo, ma aveva anche portato a compimento l’unificazione del paese con il ricongiungimento delle terre irredente. Veniva così a cadere uno dei temi che aveva raccolto adesioni intorno al PRI, creando la sensazione che fosse ormai terminata la sua funzione storica. Così, da una parte la fine dell’irredentismo, dall’altra il mito bolscevico, contribuivano a rendere difficile il compito degli uomini che guidavano il PRI. Colajanni e Mazzolani, influenti deputati, sostenevano, alla fine della guerra, la necessità di non rompere l’unità delle forze interventiste, per scongiurare il pericolo di una presa del potere da parte del bolscevismo. In queste condizioni, Casalini seppe indicare una linea di rottura con la precedente esperienza, ma di continuità con la tradizione del PRI. La

3 Anche per Mattarelli “fu soprattutto nei confronti del massimalismo socialista, del «bolscevismo», che si sviluppò il dibattito all’interno del partito”. Sauro Mattarelli, Il Repubblicanesimo di Giovanni Conti…, cit., p. 64, ma vedi anche p. 65. 4 I pericoli del parlamentarismo erano tanto sentiti, da spingere Ghisleri a scrivere un saggio su di essi. Arcangelo Ghisleri, Il parlamentarismo e i repubblicani, Libreria Politica Moderna, Roma 1912. 5 O. Zuccarini, Un cinquantennio di lotte repubblicane, in La democrazia repubblicana di Giovanni Conti, cit., pp. 32-33; Marina Tesoro, Il partito repubblicano da galassia regionale a partito nazionale, in Il partito politico nella belle époque, cit., pp. 469-514. Ma vedi anche Maurizio Ridolfi, I partiti popolari tra eredità democratica ed evoluzione socialista, ivi, pp. 523-555.

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Conclusioni

parola d’ordine della Costituente, quale unica alternativa concreta al bolscevismo, dal cui spettro il segretario del PRI non si fece intimorire, ma di cui affrontò l’esistenza con lucidità, era forse la più realistica possibile. Lo riconobbe, anni dopo, lo stesso Nenni, omettendo di ricordare a chi spettasse il merito di aver lottato per quell’ideale, quando già era entrato nel partito che, con la sua incomprensione, aveva contribuito al suo affossamento6. Evitata la demonizzazione del bolscevismo, al Convegno Nazionale di Firenze del dicembre del 1918, si posero le basi dello studio della “questione bolscevica”, che portò nei mesi successivi ad un’interessante quanto misconosciuta analisi del fenomeno russo, tanto nelle sue caratteristiche interne, quanto nelle sue ripercussioni esterne. Il dibattito che si svolse tra i repubblicani nei primi mesi del 1919 e che portò alle conclusioni tirate da Zuccarini nel suo opuscolo Pro e contro il bolscevismo, appare degno della massima attenzione. La critica al bolscevismo si appuntò sugli aspetti morali, mettendo in rilievo la mancanza di libertà di quel popolo, libertà vista mazzinianamente come base di ogni possibile sviluppo umano. Ma anche sugli aspetti economici, denunciando l’incapacità della struttura collettivista a competere con l’efficienza del modello capitalistico, il solo terreno sul quale si poteva pensare di sconfiggere il sistema vigente. Infine, riportandosi all’altro troncone della tradizione repubblicana, quello cattaneano, si giudicò conservatrice la rivoluzione bolscevica, in quanto accentratrice e burocratica. Purtuttavia, si riconobbe nella rivoluzione russa l’alba di un mondo nuovo, nel quale le masse proletarie assurgevano al ruolo di protagoniste, tanto da spingere il PRI a ipotizzare di appoggiare un eventuale moto rivoluzionario di tipo bolscevico nel nostro paese, in modo strumentale, quale apripista di una più compiuta e organica rivoluzione repubblicana. Anche sul piano propositivo, però, non di poco conto furono le riflessioni sui caratteri della rivoluzione repubblicana rispetto a quella bolscevica. Agli uomini più acuti e più sensibili ai problemi sociali,

6 “Fu questa parola d’ordine [la Costituente] monopolio di qualche partito? Chi ha vissuto l’atmosfera di quei mesi febbrili […] risponderà negativamente a questa domanda. [… ] Era tutto ed era nulla, o meglio, poteva essere tutto e fu nulla”. Pietro Nenni, Il diciannovismo, Edizioni Avanti!, Milano 1962, III ed., pp. 19-20 (I ed. con il titolo Storia di quattro anni dal 1919 al 1922, Libreria del «Quarto Stato», Milano 1927).

Conclusioni

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era chiara la necessità di un chiarimento che la nuova situazione richiedeva al PRI. La spinta, determinata dalla rivoluzione d’ottobre, non gettò il PRI in braccio ai partiti democratici o conservatori, come qualche esponente del partito, un nome per tutti, Colajanni, avrebbe voluto. Anzi, la sfida di legittimare la collocazione dei repubblicani nello schieramento di sinistra fu affrontata con grande determinazione da Conti, Zuccarini, Schiavetti e da quanti condivisero la responsabilità del partito in quel torno di tempo. Rivoluzione federale, associazionismo volontario, democrazia diretta: questi i capisaldi della proposta repubblicana. In quest’ottica, il cambio della guardia alla guida del partito non significò una radicale svolta politica. Semmai, va visto come il tentativo, operato da Conti e Zuccarini, di creare una forma – partito più aderente ai tempi nuovi, nel quale fosse più marcata la disciplina a scapito dei potentati “feudali” che avevano caratterizzato l’organizzazione politica nell’Italia post-unitaria. Vale perciò la pena di rivedere parzialmente il giudizio su Armando Casalini, il segretario del PRI durante gli anni di guerra. Casalini aveva tentato di “rifare” e non di “mutare” il programma mazziniano, secondo le sue parole, riportandolo alla sua natura di “forma” di socialismo7. Quanto gli fosse riuscito non è facile dire. La sua figura è assai complessa e sfuggevole sia per il condizionamento prodotto dal severo giudizio di Conti, che ne rimarcò la scarsa cultura8, sia per la sua successiva adesione al fascismo. Ma, se riguardo alla prima accusa si può obiettare forse una certa severità, sulla seconda c’è un interessante parere di De Donno, secondo il quale egli

7 Armando Casalini, Nuova funzione, “L’Iniziativa”, 30 novembre 1919 (è l’introduzione di Armando Casalini, I repubblicani, la proprietà e il socialismo. (Discussioni), Libreria Politica Moderna, Roma 1919). 8 “Segretario del Partito – scriveva Conti – era Armando Casalini autodidatta pericoloso a sè e agli altri per la sua insaziabile voglia d’imparare e di insegnare per la quale imparava male e insegnava peggio. Grafomane anche perché, per fortuna, non oratore egli aveva, durante la guerra, sull’Iniziativa, […] deteriorato i repubblicani, come un topo indisturbato avrebbe deteriorato una biblioteca di scrittori. Tre anni di guerra, – concludeva feroce – tre anni di distruzioni nel campo del Partito”. Giovanni Conti, Contro corrente e copialettere, Stampa privata a cura dell’autore, s.l. s.d. [1950], p. 35. Casalini risultava essere in possesso di licenza tecnica, pure se non stimato intellettualmente nel suo ambiente. ACS, MI, DGPS, Div. AGR, CPC, b.1133, fasc. Armando Casalini.

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Conclusioni

fu spinto verso il fascismo dalla veemenza con la quale venne estromesso dalla guida del partito9. A giudicare dall’esame della sua attività, più che nelle intenzioni, Casalini peccò nelle realizzazioni. La sensazione che si prova leggendo i suoi scritti, e gli atti prodotti dalla sua segreteria, è quella di un’intrinseca debolezza, dovuta a ragioni oggettive e soggettive. Non sarebbe giusto dimenticare che le difficoltà del PRI si riscontrano un po’ in tutte le forze dell’interventismo democratico e rivoluzionario, bloccate nella camicia di forza dell’union sacrée. Le posizioni prese dal forlivese nel corso del 1919, come abbiamo visto, non differivano dalla linea degli intransigenti. Anzi, talune osservazioni appaiono assai convincenti e non prive di fondamento, come la critica alla natura locale del programma repubblicano e la necessità di una maggiore attenzione ai fattori nazionali. Oppure, e non paia contraddizione, la sua idea di rivoluzione dal basso, con i comuni al posto dei soviet. Casalini appare inadeguato come segretario, non sembra avere le qualità umane e organizzative per imporre una linea politica e costruire una struttura in grado di sostenerla. Certo, andrebbe valutato quanto egli fu responsabile della decisione di assumere la guida del partito e quanto non incise invece l’incapacità dei leader repubblicani di comprendere la necessità di non indebolire il partito stesso, lasciandolo sguarnito nonostante i richiami di Ghisleri. Lo sforzo primario del PRI nel dopoguerra appare quello di accentuare il richiamo ad una disciplina di partito. Così, Schiavetti sacrificò quasi ogni attività di partito dopo il Congresso di Ancona, immobilizzando il PRI nell’equidistanza tra PSI e fascisti, per evitare contrasti che avrebbero vanificato il suo tentativo10. Tutto ciò non sa-

9 Lettera personale di Alfredo De Donno a Lucio Cecchini, del 10 agosto 1976, citata in Lucio Cecchini, I repubblicani italiani di fronte al fascismo..., cit., p. 313, nota 61. Altrove, De Donno aveva scritto che Casalini era “convinto della possibilità di realizzare nel movimento fascista, insieme col sindacalista Edmondo Rossoni, i postulati della dottrina sociale mazziniana. Gli eventi lo avevano trascinato oltre le sue intenzioni, e nelle file fasciste si era pigramente adagiato per forza d’inerzia, dissimulando il suo intimo disagio morale”. Per l’autore, inoltre, l’uccisione dell’ex segretario del PRI sarebbe dovuta all’intento di Mussolini di “smatteottizzare l’Aventino”, pareggiando i conti. Alfredo De Donno, L’Italia dal 1870 al 1944, Libreria Politica Moderna, Roma 1946, p. 181. 10 Di “linea esitante” parla anche Stéfanie Prezioso, Itinerario di un «figlio del 1914», cit., p. 261.

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rebbe bastato ad evitare la scissione, che ebbe la conseguenza di portare allo scoperto il contrasto, nel gruppo dirigente, tra Conti e Schiavetti. Il primo, infatti, accortosi del clamoroso vuoto di rappresentatività del ceto medio11, del quale avrebbe beneficiato il fascismo, propugnava un partito che si facesse interprete della piccola proprietà, soprattutto terriera. Per Schiavetti, invece, il PRI doveva recuperare uno slancio propositivo, anche a scapito della perdita quantitativa del consenso. Il contrasto, esploso alla fine del 1922, non ebbe, allora, né vincitori né vinti, portando il partito ad una ennesima condizione di stallo, privato di una sua linea precisa fino al 1925, quando i vincitori furono i “sinistri”, guidati dai fratelli Bergamo, sostenitori di un programma velleitario assai vicino a quello socialista. La stagione della riflessione sulla “questione bolscevica” ebbe il suo culmine nel 1920, per poi affievolirsi nel corso del 192112. Nel 1922 già non si rintracciano più elementi nuovi di analisi. In pochi anni le priorità sono cambiate. Le urgenze con cui il PRI, e il paese, devono confrontarsi sono quelle dettate dall’incombere di una forze eversiva come il fascismo, non più il bolscevismo. Come scrive Nicola Tranfaglia: Certo, la forza elettorale del PRI è minuscola: nove deputati alle lezioni del 1919, sei a quelle del 1921. Ma la sua posizione è importante proprio perché è l’unica forza interventista che lavora per ricostruire su nuove linee gli schieramenti politici ancora dominati dalla guerra. Occorre prendere atto che il tentativo di Schiavetti e dei suoi compagni di lotta viene battuto dagli errori dei socialisti e dall’avventurismo demagogico e ambivalente di Mussolini, ma è necessario anche sottolineare che quella posizione appare, a distanza ormai grande dagli

11 Spadolini definiva la posizione di Conti “quasi un presentimento della futura «Unione Democratica nazionale» amendoliana”. Giovanni Spadolini, Introduzione a Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo, cit., p. XX. Conti, tuttavia, non aveva simpatia per il progetto di Amendola, che definì un “nuovo Zanardelli”. Marina Tesoro, Dodici lettere inedite di Giovanni Conti…, cit., p. 184, lettera a Ghisleri del 21 maggio 1924. 12 Conti così liquidava le discussioni nel partito in una lettera a Ghisleri del 29 gennaio 1921: “I critici sdraiati sulle poltrone, o smidollati nelle discussioni accademiche sulle tendenze, a pro e contro il bolscevismo (santa retorica e santa ingenuità!) mi irritano”. Marina Tesoro, Dodici lettere inedite di Giovanni Conti…, cit., p. 183.

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avvenimenti, come quella che più teneva conto della complessità della situazione politica del paese13.

Tra alti e bassi, quindi, pur cedendo il passo pian piano ad altre urgenze, come la novità rappresentata dal fascismo, il confronto con la rivoluzione russa e le conseguenti scelte ideali, anche antitetiche, da questa ispirate, attraversa come un filo rosso la parabola del PRI dal 1917 fino all’avvento del fascismo, contribuendo ad animare e a chiarificare i termini del dibattito politico interno, mettendo in luce le complesse dinamiche ideologiche caratterizzanti la posizione liminare del PRI, partito piccolo ma espressione delle grandi idealità che avevano animato il progetto risorgimentale e i primi 60 anni di vita unitaria.

13 Nicola Tranfaglia, Tra Mazzini e Marx. Fernando Schiavetti dall’interventismo repubblicano all’esperienza socialista, cit. p. 255. Non dissimile il giudizio di Veneruso, per il quale la dirigenza repubblicana “riuscì a elaborare una linea politica tra le più coerenti dell’intero mondo politico italiano”. Danilo Veneruso, op.cit., p. 17, ma vedi anche p. 16. Ingeneroso appare, invece, il giudizio di Roberto Vivarelli. Se è indubbio che la vicenda di Colajanni “mostra quanto profondo fosse ormai il disorientamento all’interno di questo partito”, pure sembra eccessivo parlare del PRI come di una delle forze le quali, “lacerate da dissidi interni, […] mancavano ormai di idee e di programmi per il futuro del paese e, esposte ai violenti attacchi dei socialisti, non sapevano riproporre una loro specifica identità capace di distinguerle sia nei confronti del governo, […] sia nei confronti dei nazionalisti”. A fianco delle figure di Chiesa, Pirolini e Mazzolani si potevano ricordare quelle di Conti, Zuccarini, Facchinetti e Schiavetti, evidentemente meno “allineate” con i nazionalisti. Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, il Mulino, Bologna 1991, vol. 2°, pp. 177-178.

Conclusioni

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Fonti Quotidiani e Periodici 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.

“L’Alba Repubblicana”, Roma, Organo della Federazione Giovanile Repubblicana, Settimanale, 1919-1922 “L’Azione”, Pesaro-Urbino, Settimanale, 1920-1922 “Corriere della Sera”, Milano, Quotidiano, luglio 1917 “La Critica Politica”, Roma, Quindicinale, poi Mensile, 1920-1922 “Il Dovere”, Lecce-Taranto, Quindicinale, 1919-1921 “Il Dovere”, Livorno, Organo dell’Unione Repubblicana Livornese, Settimanale, 1918-1921 “Echi e Commenti”, 1920-1922 “L’Emancipazione”, Trieste, Bisettimanale, 1921-1922 “L’Epoca”, Roma, Quotidiano, 1918-1922 “Etruria Nuova”, Grosseto, Organo della Federazione Provinciale, Settimanale, 1917-1922 “La Fiaccola Repubblicana”, Palermo, Quindicinale, 1920 “Giornale del Mattino”, Bologna, Quotidiano, 1917-1919 “Giornale di Sicilia”, Palermo, Quotidiano, 1917-1921 “Humanitas”, Bari, Settimanale, poi Quindicinale, 1917-1922 “L’Iniziativa”, Roma, Organo Ufficiale del PRI, Settimanale, 1917-1921 “L’Italia del Popolo”, Milano, Bisettimanale, 1919-1920 “La Libertà”, Ravenna, Bisettimanale, 1917-1922 “Lucifero”, Ancona, Organo della Consociazione Regionale delle Marche, Settimanale, 1917-1922 “Il Messaggero”, Roma, Quotidiano, 1917-1921 “Il Mondo”, Milano, Settimanale, 1917-1920 “La Parola Repubblicana”, Cosenza, Quindicinale, 1922 “Il Pensiero Romagnolo”, Forlì, Settimanale, 1917-1922 “Il Popolano”, Cesena, Settimanale, 1917-1922 “La Riscossa”, Treviso, Organo della Consociazione Veneta, Settimanale, 1920-1922 “La Riviera”, Savona, Settimanale, 1920-1922 “Rivista Popolare di Politica, Lettere e Scienze Sociali”, Roma, Quindicinale, 1917-1921 “Roma”, Napoli, Quotidiano, 1917-1921 “Il Secolo”, Milano, Quotidiano, 1917-1922 “La Stampa”, Torino, Quotidiano, 1917 “La Sveglia Repubblicana”, Carrara, Settimanale, 1917-1922 “La Voce Repubblicana”, Roma, Organo ufficiale dl PRI, Quotidiano, 1921-1922

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Fonti archivistiche e abbreviazioni ACS Archivio Centrale dello Stato: Fondo Boselli Archivi di famiglie e di persone, Fondo Paolo Boselli Fondo Orlando Archivi di famiglie e di persone, Fondo Vittorio Emanuele Orlando MI, DGPS, Div. AGR, cat. K4 Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, categoria K4, anni 1917-1922 MI, DGPS, UCI Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Ufficio Centrale investigazioni MI, DGPS, Div. AGR, A5G I GM Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, categoria A5G prima guerra mondiale (conflagrazione europea) MI, DGPS, Div. AGR, CPC Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale MI, DGPS, Div. AGR, anno Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, categorie annuali, 1920-1925, cat A11

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Fonti

Indice dei nomi A Adanti Luigi, 159, 162 Aiazzi Antonluigi, 14, 33, 131, 136, 177, 210 Albani Adele, 210 Albani Felice, 138, 210 Albertini Luigi, 20 Alessandri Serse, 83 Aligio, 146 Amendola Giovanni, 34, 224 Andreotti Luigi, 85, 97, 98, 119, 120 Ansaldi Carlo Francesco, 192, 197, 198, 207, 210, 216 Arbizzani Luigi, 167 Arcà Francesco, 161 Arcani Adriano, 187 Arfè Gaetano, 7 Arieli F., 196 Armellini Silvio, 78 Aroldo vedi Bottai Alfredo Audax, 100 B Babu, 198 Bacchiani Enrico, 62, 99 Balabanoff Angelica, 31, 35, 43 Bandini Buti Antonio, 154, 210 Barbanente Vitantonio, 133 Baruffaldi Corrado, 104 Barzilai Salvatore, 14, 19, 26, 32, 146, 220 Barzocchi Nino, 183, 196 Bazzi Carlo, 27, 107, 108, 110, 111, 156, 157, 205, 210 Benini Aroldo, 32 Bergamasco G., 127, 199 Bergamo Guido, 77-79, 125, 167, 187, 188, 216, 224 Bergamo Mario, 186, 216, 217, 224 Berra Ignazio, 144 Bertolini Alberto, 166 Biemme, 208 Bienaime G., 19 Bigi Ferruccio, 180 Biondi Nalis Franca, 167 Bissolati Leonida, 161 Boneschi Barbara, 56 Bonomi Ivanoe, 202

229

Bordiga Amadeo, 130, 181 Borghi Armando, 153 Boselli Paolo, 37 Bottai Alfredo, 98-100, 166 Bovio Giovanni, 75, 220 Bracco Barbara, 16 Brofferio Angelo, 33 Brusilov Aleksei Aleseevicˇ, 36, 39, 42, 45, 46, 49, 50 Burcev Vladimir Lvovicˇ, 114 Burgio Alberto, 30 Buttero, 22 Buzzi Fortunato, 20 C Caciorovsky Carlo, 161, 162, 194, 195, 197, 198, 207 Cadorna Luigi, 202 Calamandrei Rodolfo, 19, 166, 183, 184, 190 Canali Mauro, 97, 98 Cantarelli Lorena, 123, 158 Cantimori Carlo, 122, 214 Cappa Innocenzo, 14, 16, 17, 26, 32-42, 45-48, 50, 51, 53-55, 62, 76, 81, 100, 119, 138, 201 Caretti Stefano, 7, 15 Carini Carlo, 159 Carità Paola, 10 Carnot Lazare Nicolas Marguérite, 17 Carr Edward H., 62 Casalini Armando, 15, 21, 23, 30, 39, 54, 56, 59, 67, 69, 74, 75, 79, 80, 82, 84, 87-89, 91, 97, 98, 100, 114, 117, 120, 123, 124, 154-156, 160, 161, 171, 210, 220, 222, 223 Caselli Nullo, 113, 115 Castagnari Giancarlo, 14 Castronovo Valerio, 15 Catelani Arturo, 180 Cattaneo Carlo, 76 Cavaglion Alberto, 30 Cavallotti Felice, 33 Cecchini Lucio, 11, 13, 14, 18, 28, 84, 148, 153, 178, 223 Cˇernov Viktor Michajlovi , 35 Cervino, 165 Cester Giuseppe, 72, 73 Chaque vedi Natoli Aurelio Chiesa Eugenio, 14, 15, 27, 79, 115, 166, 173, 197, 202, 211, 225 Chiesa Luciana, 115 Chiesa Mary, 115 Chiesi Gastone, 36

230

Indice dei nomi

Chiodini Antonio, 209, 213 Ciattini Alighiero, 89-91, 99, 109, 119 Cipriani Amilcare, 156 Cittadini Ciprì Anna Maria, 30 Clemenceau Georges, 128 Colajanni Luigi, 205 Colajanni Napoleone, 8, 9, 15-18, 21, 23, 24, 26-28, 30, 31, 33, 42, 44, 45, 47, 50-52, 54-64, 66, 68, 70-73, 77, 80-82, 84-86, 98, 100, 101, 104, 110115, 118-120, 122-145, 147, 148, 156, 168, 175, 198-206, 219, 220, 222 Cole G.D.H., 43 Colombino Emilio, 164, 188 Colombo Alfredo, 215 Colombo Arturo, 134 Colonna di Cesarò Antonio, 202 Comandini Federico, 192 Comandini Ubaldo, 14, 15, 79, 96, 98, 107, 116, 166, 191, 192, 204, 211, 212 Consigli Ettore, 188 Conti Antonio, 190 Conti Fulvio, 115 Conti Giovanni, 13, 14, 26, 75-77, 79, 91, 94, 99, 112, 119, 120, 122, 131, 135-137, 145, 159, 164, 165, 177, 182, 183, 188, 189, 210-217, 220, 222, 224, 225 Cordova Ferdinando, 11 Corradini Camillo, 142 Covi Cesare, 104 Crare Nistel, 27 Croci Pietro, 20 D D’Adda Vezio, 189 D’Annunzio Gabriele, 141, 142 D’Attorre Pier Paolo, 16 D’Eramo Manlio, 84, 91, 92, 94, 96, 99 De Ambris Alceste, 53 De Andreis Luigi, 105, 110, 111, 154 De Biase Oreste, 208 De Cicco Felice, 75 De Donno Alfredo, 18, 32, 51, 52, 56, 57, 99, 109, 111, 113, 115, 120, 124, 131, 134, 138, 156, 162, 163, 208, 222, 223 De Felice Renzo, 13, 15, 44, 55, 81, 217 De Francesco Antonino, 16, 111 De Nardis Luciano, 64 De Nardo Angelo, 187 De Roberto Argilio, 70, 71 De Stefani Giuseppe, 139, 203

Indice dei nomi

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Dell’Erba Nunzio, 206 Della Seta Ugo, 97, 183 Detti Tommaso, 7 Di Porto Bruno, 13, 215 Donati Torricelli Gabriella, 7 Donnini Guido, 15, 20 Dorio, 204 Dudan Alessandro, 35, 36 E Egidi Francesco, 184-186 Enjolras vedi Pergoli Piero Evoli Francesco, 43 F Faber vedi Casalini Armando Facchinetti Cipriano, 14, 137, 172, 173, 186, 225 Fafin d’Arvarsen, 155 Faro, 21 Fedele Santi, 7, 8, 13, 79, 84, 119, 153, 187, 189, 210, 215, 224 Fer, 207 Ferrari Giuseppe, 76 Ferri Franco, 7 Feurbach vedi Zuccarini Oliviero Ficcadenti Bruno, 75 Florskij J., 161, 164, 194, 195, 197, 198, 207 Frétigné Jean-Yves, 86, 203, 205 Furiozzi Gian Biagio, 206 G Garibaldi Giuseppe, 9, 141 Gatti Umberto, 164, 183 Gaudenzi Giuseppe, 106, 121, 124, 191, 192, 217 Gayda Virginio, 35 Ghisleri Arcangelo, 14, 27, 28, 30, 32, 33, 77, 123, 124, 131, 134-137, 139, 145, 148, 153, 165, 173, 177, 178, 194, 206, 210, 220, 223, 224 Giacheri Fossati Luciana, 15 Gibelli Mario, 99, 100, 104, 117, 124, 156, 165, 172, 212, 215 Giolitti Giovanni, 27, 105, 141, 142, 188, 202 Girondin vedi De Donno Alfredo Giuriati Giovanni, 19 Gnani Sergio, 116 Gobetti Piero, 124, 153 Goldenberg Iosif Petrovicˇ, 45 Gorkij Maksim (pseudonimo di Aleksej Maksimovicˇ Peškov), 45 Goussot Alain, 30

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Indice dei nomi

Gramsci Antonio, 181 Grandi Lorenza, 33 Grandi Terenzio, 32, 33, 194 Grassi Orsini Fabio, 79 Gratton Giulio, 196 Graziadei Antonio, 144 Grimm Robert, 31, 45 Grinenko Ivan, 23 Guindani Giuseppe, 104 H Hindenburg Paul Ludwig von Beneckendorff e von, 64, 65 I im, 22, 27, 28, 42 Ingusci Pantaleo, 207 Ipsilon, 188 J Jakovleff, 194, 195 Joffe Herz, 207 K Kaledin Aleksej Maksimovicˇ, 60 Kerenskij Aleksandr Fëodorvicˇ, 26, 36, 39, 42, 45-50, 58, 60, 64, 65, 206 Ketoff Costantino, 23 Kirova Kira, 10, 33-35 Kolcˇak Aleksandr Vasilevicˇ, 114 Kornilov Lavr Georgievicˇ, 46, 47, 60 Kropotkin Pëtr Alekseevicˇ, 39, 40, 50, 59 Kun Béla, 96 L La Malfa Daniela, 10 La Malfa Giorgio, 10 Labriola Arturo, 32, 33, 35, 42 Lami Starnuti Edgardo, 215 Lanzillo Agostino, 62 Lenin (pseudonimo di Ul’janov Vladimir Il’icˇ), 26, 27, 31, 37, 39, 42, 4446, 48-51, 54, 57-60, 62, 64-70, 85, 86, 88, 98, 110, 111, 114, 122, 125, 126, 130, 139, 143, 150, 151, 154, 160, 169, 178, 184, 196, 204, 206, 211 Lepre Aurelio, 7 Lerda Giovanni, 33 Leuci Mario, 10 Lloyd George David, 62 Lorusso Guido, 133

Indice dei nomi

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Lotti Luigi, 203 Luigi XVI, 17, 70 M Macaggi Giuseppe, 81, 136, 201 Macchioro Aurelio, 86, 206 Machiavelli Niccolò, 73 Macrelli Cino, 106, 107, 115, 188 Magagnato Licisco, 153 Magrassi Giovanni, 19, 158 Magrini Luciano, 144, 163, 208 Malagodi Giuseppe, 162 Malaparte Curzio, 9 Malatesta Enrico, 141 Maltoni Roberto, 78, 167 Mantica Paolo, 75 Marcolini V., 183 Marfra, 100 Mario Alberto, 84, 129, 134, 135, 138, 148, 171 Marucco Dora, 33 Marvasi Roberto, 23 Marx Karl, 7, 93, 155 Masaryk Thomas G., 23 Masini Pier Carlo, 7, 14 Mattarelli Sauro, 20, 91, 220 Mazzini Giuseppe, 9, 19, 20, 27, 28, 49, 52, 54, 63, 65, 76, 77, 79, 80, 85, 87, 110, 111, 130, 132, 134-137, 153, 168, 171, 173, 174, 184, 217 Mazzolani Ulderico, 70, 71, 80, 108, 126, 220, 225 Melograni Piero, 15, 86, 164 Meneghetti Nazzareno, 187 Metternich – Winneburg Klemens Wenzel Lothar principe di, 143 Mevi Enzo, 136 Miglioli Guido, 145 Miljukov Pavel Nikolaevicˇ, 26, 34, 36, 37 Minuti Luigi, 138 Mirabelli Roberto, 69, 84, 99-101, 110, 117, 167, 182 Mislei Marella, 10 Missiroli Icilio, 166, 172 Modigliani Giuseppe Emanuele, 110 Momigliano Felice, 23 Mondolfo Rodolfo, 9 Morea Alfredo, 207 Moroni Sheyla, 115 Moutet Marius, 34 Mussolini Benito, 55, 104, 163, 202, 223, 224

234

Indice dei nomi

N Napoleone III, 135 Natoli Aurelio, 183, 188, 196 Nenni Pietro, 8, 77-79, 84, 98, 106, 107, 111, 122, 139, 167-175, 219, 221 Nepi vedi Nenni Pietro Niceforo Alfredo, 30 Nicola I, 48 Nicola II, 17, 20, 48, 70, 206 Nicosia Aldo, 16 Niger A., 154, 159 Nitti Francesco Saverio, 130, 132, 133, 141, 142 Nuntius rubens, 99 Nuovo Lorenzo, 214 O Onofri Nazario Sauro, 167 Orano Paolo, 117 Orientale L’, 207 Orlando Vittorio Emanuele, 39, 55, 113, 127, 142 Orni, 185 Ottoni E., 117 P Pacciardi Randolfo, 187, 210, 219 Paleari Mario, 186 Pan vedi Perri Francesco Antonio Pannunzio Guglielmo, 195 Paolini Federico, 148 Pardini Giuseppe, 9 Parmentola Vittorio, 13, 138, 156, 205 Parri Enrico, 189 Pastorelli Piero, 37 Pegoraro Pietro, 54 Pergoli Piero, 21, 114, 157, 158 Permoli Piergiovanni, 178 Perri Francesco Antonio, 208, 210, 216 Pertici Roberto, 122 Pertusio Mario, 54 Pesce Piero Delfino, 64-66, 124, 133, 156, 178, 179, 201, 202, 204, 207, 208, 210 Petracchi Giorgio, 9, 16, 18, 20, 33, 71, 72, 115 Philo-sofo, 208 Piast Ludovico, 19, 115 Piccardi Aroldo, 18, 28 Piccione Giovanni, 209 Pierangeli Giulio, 196

Indice dei nomi

235

Piermei Carlo, 91 Pigollo Domenico, 215 Pirolini Giovan Battista, 8, 45, 81, 83, 84, 85, 95, 104, 106, 107, 109, 125, 126, 159, 225 Pistocchi Mario, 71, 117, 157, 160, 164, 181, 191 Pivano Livio, 157, 158 Plechanov Georgij Valentinovicˇ, 59 Pontremoli Giuseppe, 167 Prezioso Stéfanie, 13, 100, 158, 223 Procacci Giovanna, 16, 86, 219 Protopopoff Alexander Dmitrievicˇ, 57 Protti Giocondo, 187 Proudhon Pierre-Joseph, 196 Q Quagliariello Gaetano, 79, 87 Quattrini Attilio, 215 R Ragionieri Ernesto, 86 Raimondo Orazio, 33, 42 Rampazzo Luciano, 32 Rappoport Charles, 51 Rasputin Grigorij Efimovicˇ, 17, 18, 23, 44 Ravaglioli Sante, 99 Razzini Mario, 156, 166, 172, 187, 215 Reale Attilio, 14 Reale Egidio, 14 Reale Oronzo, 159, 186, 217 Reggioli Gino, 105, 118, 188, 215 Restivo-Alessi Giuseppe, 22, 205 Ricchieri Giuseppe, 115 Riccioli Ernesto, 183 Riccioli Menotti, 161 Ridolfi Maurizio, 220 Riego, 27, 54, 68, 71, 105, 113 Rigano Gabriele, 10, 18, 19 Rinaldi Ivana, 78 Romussi Carlo, 32 Ronchi Mario, 109 Ronchi Suckert Edda, 9 Ronfini Rino, 187 Rosny I. H., 142 Rossi Cesare, 97, 98 Rossi Romualdo, 28 Rossini Daniela, 86, 112

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Indice dei nomi

Rossoni Edmondo, 223 Russell Bertrand, 163 Russo C., 212 S Salandra Antonio, 141 Salentino Il, 186, 197, 207, 208 Salvadori Massimo L., 30, 130 Salvago Raggi Giuseppe, 37 Salvemini Gaetano, 130, 161 Santarelli Elio, 78, 79, 202, 217 Santarelli Enzo, 78, 79, 158, 163 Savoia famiglia, 92 Schiavetti Fernando, 14, 72, 99, 100, 124, 138, 158-160, 164-166, 169, 182, 183, 185, 189, 190, 192-194, 200, 201, 209, 211, 212, 214-217, 222225 Schinetti Renato, 154 Schreiber Evghenij, 198 Scibilia Corrado, 32, 163, 167, 203 Scioscioli Massimo, 187, 209 Scocchi Angelo, 214, 215 Sereni Emilio, 7 Serrati Giacinto Menotti, 27, 130, 172, 179, 180, 182 Severino Lina, 134 Sforza Carlo, 9 Sigismondi Felice, 214 Simonetti Mario, 16 Smirnov Aleksandr Nikolaevicˇ, 45 Sommovigo Amedeo, 191, 214 Sonnino Giorgio Sidney, 33, 34, 37, 113, 127, 141 Sorrentino, A., 196 Spadaro Stelio, 214 Spadolini Giovanni, 187, 224 Spinelli Alessandro, 14, 75 Spinelli Oscar, 215 Spriano Paolo, 164 Stelio, 164 Sturzo Luigi don, 202 Suchanov Nikolaj Nikolaevicˇ, 34 T Talevi Salvatore, 210 Taliani Francesco Maria, 35 Tamborra Angelo, 114, 161 Tamburrano Giuseppe, 167, 174 Taroni Paolo, 104

Indice dei nomi

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Ter, 207 Terracini Umberto, 181 Tesoro Marina, 14, 26, 32, 33, 79, 84, 87, 130, 135, 151, 158, 165, 220, 224 Todero Fabio, 214 Tolstoi Lev Nikolaevicˇ, 57 Toschi Pericle, 210 Tosi Luciano, 33 Tosti Armando, 201 Totomianz Vahan, 115 Tramarollo Giuseppe, 86 Tranfaglia Nicola, 15, 158, 224, 225 Treves Claudio, 144, 145 Trockij Lev (pseudonimo di Bronštejn Lev Davidovicˇ), 45, 57, 60, 64, 65, 85, 98, 126 Tsereteli Irakli, 35 Turati Flippo, 20, 110, 111, 144, 145, 161, 166, 174, 180, 182-184, 199 V Vallone Antonio, 201 Vanzetto Livio, 187 Varni Angelo, 16 Vecchio repubblicano un, 99, 166, 167 Veneruso Danilo, 209, 225 Ventrone Angelo, 13 Venturi Antonello, 15, 34, 43, 114, 161 Viterbo Michele, 204 Vivarelli Roberto, 225 Volpe Gioacchino, 86 Vulcano, 162, 163 W Wilson Thomas Woodrow, 61, 62, 64, 65, 73, 85, 86, 103, 109, 111-113, 128, 143 Z Zanardelli Giuseppe, 224 Zanetti Gian Luca, 56 Zannoni Alfredo, 214 Zotico Lo vedi Colajanni Napoleone Zuccarini Oliviero, 9, 14, 26, 27, 79, 91, 119, 124, 130, 137, 139, 145-153, 157-159, 164, 169, 178-182, 185, 192, 209-211, 214, 215, 220-222, 225

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Indice dei nomi

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,AäRIVOLUZIONEäRUSSAäCOSTITUÖäUNäEVENTOäDIäCAPITALEäIMPORTANZAäNELLA STORIAäDELä.OVECENTOä,EäSUEäCONSEGUENZEäSIäSONOäFATTEäSENTIREäSOTTO OGNIäLATITUDINEäEäL)TALIAäNONäHAäFATTOäECCEZIONEä,AäSTORIOGRAFIAäHAäDA TEMPOäAFFRONTATOäLEäCONSEGUENZEäCHEäLAäRIVOLUZIONEäEBBEäSULLEäFORZE CHEä SIä RICHIAMAVANOä AGLIä INSEGNAMENTIä DIä -ARX ä CONä CONTRIBUTI IMPORTANTIä SCRITTIä DAä STUDIOSIä PRESTIGIOSI ä Eä NONä HAä TRASCURATO NEMMENOäILäMOVIMENTOäANARCHICOä,AäSTESSAäATTENZIONEäNONäÞäSTATA DEDICATAäALLALTRAäFORZAäANTI SISTEMAäDELLEPOCA äILä0ARTITOä2EPUBBLICANO )TALIANOä02) ä,AäRIVOLUZIONEäRUSSAäCOSTRINSEäILä02)äAäMETTEREäIN DISCUSSIONEäILäCONCETTOäSTESSOäDIäRIVOLUZIONEäEäPOIäAäDEFINIRNEäMEGLIO IäSUOIäCONTENUTI äPORTANDOLOäADäUNAäRICONSIDERAZIONEäGENERALEäSUL PROPRIOäRUOLOäNELäCONTESTOäPOLITICOäITALIANOä1UELLAäDEIäREPUBBLICANI FU äDUNQUE äUNAäDELLEäRIFLESSIONIäPIÂäCOERENTIäEäAPPROFONDITEäSULLA RIVOLUZIONEäRUSSAäPRODOTTEäINä)TALIAäINäQUEGLIäANNI

)NDICE )NTRODUZIONE  ä,AäRIVOLUZIONEäEäLINTERVENTISMO ä,EäPRIMEäREAZIONI ä#APPAäEäLAäMISSIONEäINä2USSIA ä,ENINäEä+ERENSKIJ ä)LäGRANDEäTRADIMENTOäRUSSO ä)Lä#ONVEGNOä.AZIONALEäDIä&IRENZE  ä0ROäOäCONTROäILäBOLSCEVISMO äh"OLSCEVISMOäEä2EPUBBLICAä3OCIALEv ä,AäPACEäEäLINTERVENTOäINä2USSIA ä,EäELEZIONIäEäILä#ONGRESSOäDIä2OMA ä,hUTOPIAäCONSERVATRICEväDIä#OLAJANNI äh0ROäEäCONTROäILä"OLSCEVISMOv ä,AäSEGRETERIAä3CHIAVETTI ä,USCITAäDIä.ENNIäDALä02)  ä4RAäCOMUNISMOäEäFASCISMO ä5NäDIFFICILEäEQUILIBRIO ä,AäMORTEäDIä#OLAJANNI ä6ERSOäILäFASCISMO #ONCLUSIONI #/22!$/ 3#)"),)! 2OMA ä  ä DALä ä Þä DIRETTOREä DELLA BIBLIOTECAäEäDELLARCHIVIOäDELLAä&ONDAZIONEä5GOä,Aä-ALFA äDOVEäSVOLGE ATTIVITÍäDIäRICERCAä$ALääDIRIGEäLAäRIVISTAäDIäSTORIAäCONTEMPORANEA h3TORIAä Eä 0OLITICAä !NNALIä DELLAä &ONDAZIONEä 5GOä ,Aä -ALFAvä 3Iä Þ OCCUPATOäINäPARTICOLAREäDELLAäSTORIAäDELäMOVIMENTOäREPUBBLICANO ITALIANO äCURANDOäVOLUMIäSULLAäVITAäEäSULLOPERAäDIä5GOä,Aä-ALFA