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Italian Pages 686 [703] Year 1989
Derek Parfìt
Ragioni e persone
IL SAGGIATORE
Traduzione di Rodolfo Rini
ISBN 880431085-5
©
1984 by Derek Parfit Pubblicato da Oxford University Press Titolo originale, Reasons and Persons © 1989 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione il Saggiatore, maggio 1989
Sommario
1x
Ringraziamenti
x111
Introduzione Parte prima
TEORIE CHE SI CONDANNANO ALL'INSUCCESSO )
'
I
Teorie che si condannano indirettamente all'insuccesso
l. La teoria dell'interesse personale 5
condannarsi all'insuccesso 7
2. In che modo 5 possa indirettamente
3. 5 ci dice di non andare mai contro il proprio in
teresse? 11 4. Perché 5 non è intrinsecamente fallace 15 5. Può essere razionale fare in modo di agire irrazionalmente? 17 6. Com'è che 5 implica che non pos siamo evitare di agire irrazionalmente 19 quando contrasta con la moralità 24 Come 5 può autoannullarsi 32 rettamente all'insuccesso 33 L'etica della fantasia 39
11. Perché C non è intrinsecamente fallace 38
modo sbagliato senza essere biasimevoli 43
12.
14. D ell'agire in
15. Può essere impossibile evitare di
16. Può essere giusto far sì che agiamo in modo sba
17. Come C può autoannullarsi 54
flessibilità 58
9.
10. Come il consequenzialismo si condanna indi
13. Il consequenzialismo collettivo 40
agire in modo sbagliato? 48 gliato? 50
7. Un argomento per respingere 5
8. Perché questo argomento fallisce 27
18. L'obiezione che assume l'in
19. Essere razionali o morali può essere un mero mezzo? 61
20.
Conclusioni 66
69
n
Dilemmi pratici
21. Perché C non può condannarsi direttamente all'insuccesso 69
teorie possono condannarsi direttamente all'insuccesso 71 prigioniero e dei beni pubblici 73
86
m
22. Come le
23. Il dilemma del
24. Il problema pratico e le sue soluzioni 80
Cinque errori di matematica morale
25. La concezione del contributo individuale come 86
26.
L'errore consistente nel non tener conto degli effetti di insiemi di atti 90
27.
L'errore di ignorare le probabilità molto basse 94
28. L'errore di ignorare gli ef-
fetti molto modesti o impercettibili 96 percettibili? 100
112
29.
Possono e sserci danni e benefici im 31. Altruismo razionale 107
30. Sovradeterminazione 106
rv Teorie che si condannano direttamente all'insuccesso 32. Di fronte al dilemma del prigioniero
S è intrinsecamente fallace? 114
.33.
U n altra cattiva difesa della moralità 117
34. Dilemmi intertemporali 119
35.
'
U na cattiva difesa di S 120
36. Come la moralità di senso comune si condanna
all insu ccesso 123 37. Le cinque parti di una teoria morale 1 27 l�. (:ome potremmo rivedere la moralità di senso comune in modo che non si condanni all'insuccesso 128 39. Perché dobbiamo rivedere la moralità di senso conH•m· Il l 40. Una revisi o n e più semplice 140 diretlamentc
143
'
v Due possibilità 41. Riduzione delle distanze tra
lavoro che ci attende 146
M e C 143
42. La prima possibilità 144
43. Il
44. La seconda possibilità 147
Parte seconda RAZIONALITÀ E TEMPO
151
VI
La migliore obiezione alla teoria del l'interess e personale
oh i euivi atluali 15 l 4(>. l desideri possono essere intrinseca razionalnu:nte n ece ssari ? 155 47 . Tre teorie rivali 163 48. L'l'goismo psichico 1(>4 49. Teoria dell'interesse personale e moralità 167 50. Il mio primo argomento contro S 169 51. Prima replica del sostenitore di S 1 71 '52. Perché tra S c l' il problema non è quello della neutralità temporale 1 73
45. La teoria degli
tne nte irrazionali o
177
vu L'appello alla relatività completa S 177 54. I suggerimenti di Sidgwick S è solo parzialmente relativa 181 56. Com'è che Sidgwick ha
53. Seconda replica del sostenitore di 178
55. Come
smarrito il sentiero 183 formale 184
192
57. L'appello alla relatività completa applicato a livello
58. L'appello alla relatività completa applicato ad altre tesi 187
VIII Atteggiamenti nei confronti del tempo 59. 192
È i rrazionale non annettere alcuna importanza ai propri desideri passati? 60.
Desideri che di pe ndono da giudizi di valore o da ideali 197
d esi deri passati 202 turo quanto p i i•
62.
61. Meri
f.: irrazionale prendersi tanto meno a cuore il proprio fu
è lont ano? 204 63. Un argomento suicida 211 64. Sofferenze 65. La direz ione della causazione 217 66. La neutralità temporale 220 67. Perché non dovremmo essere parziali nei confronti del futuro 226 6X. Il t ra scorrere dd tempo 229 69. Una asimmetria 234 70. Conclusioni p assate o future 213
239
243
IX
Perché dobbiamo respingere 5
71. L'appello al rincrescimento futuro 243 72. Perché una sconfitta di Proximus non è una vittoria di S 245 73. L'appello all'incoerenza 245 74. Conclusioni 249
Parte terza L'IDENTITÀ PERSONALE
.'57
x Ciò che crediamo di essere 75. Il teletrasporto semplice e il caso della linea secondaria 259 76. Identità qua litativa e numerica 260 77. L'identità personale: il criterio fisico 261 78. Il cri terio psicologico 264 79. Le altre concezioni 269
280
XI Com'è che non siamo ciò che crediamo di essere 80. La continuità psicologica presuppone l'identità personale? 280 81. Il sogget to delle esperienze 285 82. A quali condizioni una concezione non riduzionistica avrebbe potuto esser vera 289 83. L'argomento di Williams contro il criterio psi cologico 292 84. Lo spettro psicologico 294 85. Lo spettro fisico 298 86. Lo spettro combinato 30 l
li l
xn Perché ciò che conta non è la nostra identità 87. Menti divise 311
88. Cos'è che spiega l'unità della coscienza 316 89. Cosa 90. Cos'è che conta quando mi divido? 332 91.
accade quando mi divido? 321
Perché non esiste alcun criterio di identità che possa soddisfare due plausibili re quisiti 339
92. Wittgenstein e Budda 347 93. Io sono essenzialmente il mio 94. La concezione vera è credibile? 349
cervello? 348
l58
XIII Che cos'è che conta? 95. La liberazione dall'io 358 96. La continuità del corpo 359 97. Il caso della linea secondaria 366 98. Le persone-sequenza 369 99. Io sono un tipo (type) o una ricorrenza (token)? 374 100. La soprawivenza parziale 380 101. Gli io successivi 385
l91
XIV Identità personale e razionalità 102. La tesi estrema 391
103. Un argomento migliore contro S 398 104. Il con 105. La sconfitta della teoria classica del l'interesse personale 404 106. L'immoralità dell'imprudenza 405
troargomento del sostenitore di S 401
409
xv Identità personale e moralità 107. Autonomia e paternalismo 409 108. I due estremi della vita 410 109. Il merito 412 110. Gli impegni 416 111. Separatezza delle persone e giustizia di stributiva 420 112. Tre concezioni della concezione utilitarista 421 113. Come può cambiare la portata di un principio 424 114. Come può cambiare il peso di un principio 426 115. Può essere giusto imporre sacrifici a qualcuno a esclusivo beneficio di altri? 429 116. Un argomento per dare un peso minore al principio di eguaglianza 433 117. Un argomento più radicale 437 118. Conclusioni 441 Parte quarta LE GENERAZIONI FUTURE
447
XVI Il problema della non-identità 119. Come la nostra identità dipenda di fatto dal,momento in cui siamo stati con-
cepiti 447
120. I tre tipi di scelta 453
ressi delle persone future? 453
121. Che peso dobbiamo dare agli inte
122. Il figlio di una ragazzina 455
123. Come
un abbassamento della qualità della vita possa non essere peggio per nessuno
460
124. Perché un appello ai diritti delle persone non può risolvere del tutto il
problema 463
467
125. Il fatto della non-identità fa una differenza morale? 126. Del causare catastrofi prevedibili in un futuro lontano 473 127. Con
clusioni 482
484
xvu La conclusione ripugnante 128. Se ci sono più persone, è meglio? 484 popolazione sulle persone esistenti 485
129. Gli effetti dell'incremento della
130. La sovrappopolazione 488
131.
La conclusione ripugnante 492
497
XVIII La conclusione assurda 133. Perché il metodo del contratto ideale
132. Una presunta asimmetria 497 non risolve il nostro problema 498
134. Principio che tiene conto dell'influsso
sulle persone: versione ristretta 500 questo principio 502 sulle persone 503
531
135. Perché non possiamo fare appello a
136. I due principi ampi che tengono conto dell'influsso
137. Teorie possibili 510
138. La somma delle sofferenze
Il livello di assenza di valore 524
516
13 9
526
141. Conclusioni 527
.
140. La concezione lessicale
xrx Il paradosso della mera addizione 142. La mera addizione 531 media 5 32
144.
143. Perché dobbiamo respingere il principio della
Perché do b biam o respingere
l'appello all'ineguaglianza
146. Perché non siamo ancora co stretti ad accettare la conclusione ripugnante 546 147. L'appello al livello di ne
535
145. Prima versione del paradosso539
148. Seconda visione del paradosso 550
gatività 54 8
561
149. Terza visione 555
Capitolo conclusivo 150. L'impersonalità 561
151. Diversi tipi di argomento 566
152. Le conclu
sioni raggiunte vanno accolte con soddisfazione o con rammarico? 569 scetticismo morale 573
153. Lo
154. In che senso la storia umana e la storia dell'etica po
trebbero essere solo agli inizi 574
577
Appendici A. Un mondo senza inganno 577 in pr atic a sconfigge S 583 sonale586 simo 604
B. In che senso la mia conclusione più debole
C. La razionalità e le diverse teorie dell'interesse per
D. II cervello di Nagel592
E. Il modello del continuatore più pros
F. I l tasso di sconto sociale 607
sona possa costituire per lei un beneficio616
G. Se causare l'esistenza di una per
H. Principi rawlsiani 621 l. Co J. La con
s'è che fa sì che la vita di una persona vada nel migliore dei modi 624
cezione di Budda 636
639
Note
671
Bibliografia
681
Indice dei nomi
1\ i ngraziamenti
Diciassette anni or sono, feci un viaggio in Andalusia con Gareth l ·:vans. Allora speravo di diventare filoso fo
e,
ment re si attr ave rsa va in
111acchina la Francia, venivo esponendogli le mie idee 'ue
ancora
acerbe. Le
impietose obiezioni distrussero in me ogni sicurezza. Prima di rag
��iungere la Spagna, però, tornai a sperare. Mi resi conto che l'gli era 'Juasi altrettanto critico nei confronti delle sue stesse idee. Al pari di nu lllerose altre persone, io devo molto all'intensità del
suo
amore per la
writà e alla sua vitalità straordinaria. Mi piace esprimere
a
lui, prima
che a chiunque altro, la mia riconoscenza, perché egli è morto 1
a
soli
rentaquattro anni. Sono molto riconoscente ai miei primi professori, Sir Pl'ter Strawson,
Sir Alfred Ayer, David Pears e Richard Hare. Fin dall'inizio dei miei
studi ho ricevuto preziosi insegnamenti anche da altri studiosi. Molto 11tili mi sono state le conversazioni con Thomas Nagel, Ronald Dwor kin, Tim Scanlon, Amartya Sen, Jonathan G love r Jamcs Criffin, Ann ,
l )avis, Jefferson McMahan e Donald Regan. Ma
n c o ra di più ho impa
a
rato dalla lettura delle opere di questi e di altri autori. Dei miei debiti
ve rso di loro faccio menzione talvolta nelle note di questo lihro. Ma so lto certo che la !abilità della mia memoria e la mia imperizia ne l l o stilare ttote appropriate hanno fatto sì che io presentassi come mie tesi e argo lllentazioni che vanno ascritte ad altri autori, i quali, se leggeranno q ue
sto libro, avranno tutte le ragioni per risentirsene. Essi avevano il diritto
di vedersi citati nelle note. Spero comunque che, per lo più, siano stati
almeno menzionati nella bibliografia. Nella preparazione di questo libro sono stato aiutato da molti. Prima della morte, che risale a due anni fa, John Mackie stilò, sulle prime parti del libro, osservazioni che mi sono riuscite estremamente utili. In questi tdtimi mesi ho ricevuto numerosi commenti su una precedente stesura
di questo libro: così numerosi che mi è mancato il tempo di appo,rtargli
Ringraziamenti
x
tutte le revisioni necessarie. Mi piace elencare, secondo un ordine ca suale, coloro che mi sono stati di aiuto in questo senso: Jonathan Glo ver, Sir Peter Strawson, John McDowell, Susan Hurley, Paul Seabright, John Vickers, Hywel Lewis, Judith Thomson, Samuel Scheffler, Martin Hollis, Thomas Nagel, Robert Nozick, Richard Lindley, Gilbert Har man, Ch ri stopher Peacocke, Peter Railton, Annette Baier, Kurt Baier, Richard Swinhurne, Michael Tooley, Mark Sainsbury, Wayne Sumner, .Jim Stone, Dale Jamieson, Eric Rakowski, James Griffin, Gregory Kav ka, Thomas I l u rka G e offrey Madell, Ralph Walker, Bradford Hooker, ,
D ou glas Maclean, Graeme Forbes, Bimal Matilal, Nicholas Dent� Ro bert Goodin, Andrew Brennan, John Kenyon, James Fishkin, Robert El liott, Arnold Levison, Simon Blackburn, Ronald Dworkin, Amartya Sen, Peter Unger, Peter Singer, Jennifer Whiting, Michael Smith, David Lyons, Milton Wachsberg, William Ewald, Galen Strawson, Gordon Cornwall, Richard Sikora, Partha Dasgupta, Jessie Parfit e Charles Whitty. Da ciascuna delle persone appena menzionate ho imparato qualcosa; da alcune moltissimo. Nei confronti di taluni studiosi i miei debiti sono tali ch e mi corre l o b bligo d i ring raziarE singolarmente. Jonathan Ben '
nett mi ha trasmesso utilissime oss erva z io ni sulla prima metà di una pre ce den te stesura dd lib ro Lo stesso ha fatto Bernard Williams relativa .
mente alla terza parte. Altri sei studiosi mi hanno consegnato commenti
estremamente utili riguardanti tutto quanto il libro. I primi quattro so no John Leslie, Michael Woodford, Larry Temkin e Donald Regan. Da gli altri due ho imparato ancora di più. John Broome è stato visiting fel low nel mio College durante l'anno accademico al termine del quale ho stilato queste parole di ringraziamento. Con i suoi commenti scritti e con le osservazioni formulate nel corso delle fitte conversazioni che ho avuto con lui, egli mi ha aiutato a risolvere molti problemi e mi ha sug gerito molteplici e notevoli miglioramenti. Per ricordare tutti i passi che devo a John Broome, avrei dovuto scrivere non meno di una trentina di note. Ove s i pensi al distacco che si è venuto a creare tra le diverse disci pline accad em i c he e quelle stesse che sono loro più affini, è motivo di incoraggiamento scoprire che un economista, nei ritagli di tempo, sa es
sere un filosofo così apprezzabile. La persona da cui ho avuto modo di imparare di più è Shelly Kagan: i suoi commenti, straordinariamente acuti e penetranti, avevano un'estensione pari a circa la metà del mio manoscritto; molti dei suoi suggerimenti sono stati accolti pressoché in teg ral m ente Per dar loro il dovuto risalto, avrei dovuto scrivere non .
meno di una sessantina di note. Scrivo queste parole di ringraziamento il giorno prima di conse-
Ringraziamenti
XI
gnare il testo in tipografia. Avendo ricevuto un numero così consi stente di obiezioni e di commenti pregevoli, non avrei potuto rivede re e definire il testo in tempo, se non avessi avuto anche aiuti di altro genere. Decisamente preziosa è stata la collaborazione di Patricia Morison, Susan Hurley e William Ewald. Jefferson e Sally McMahan mi hanno consentito di risparmiare molti giorni di lavoro, incarican dosi di mettere in ordine il manoscritto, di controllare le citazioni e di compilare la bibliografia. Questo libro è stato stampato con il si stema della fotocomposizione. Data la mia lentezza nell'apportargli le necessarie correzioni, le quattro persone incaricate della stampa si so no prestate a lavorare oltre l'orario e perfino di notte senza lamentar si. Queste persone.sono A ngela Blackburn, Jane Nunns, Paul Salotti e, più generosa di tutti, Catherine Griffin. Sono riconoscente a tutte le persone che ho ricordato per l'aiuto generosamente accordatomi. Particolare gratitudine devo a coloro che ho menzionato negli ultimi due capoversi. Questo libro ha bensì un autore, ma in realtà è il prodotto dell'impegno congiunto di tutte queste persone. Per finire, voglio esprimere la mia gratitudine anche a un'istituzione, lo All Souls College. Se non avessi avuto lo straordinario privilegio di es sere, negli ultimi sedici anni, borsista prima e ricercatore poi di questo College, certamente questo libro non avrebbe visto la luce. D.A.P. Ali Souls College, Oxford 12 settembre 1983
Introduzione
Al pari del mio gatto, anch'io spesso faccio semplicemente quello che mi va di fare. In tal caso, l'abilità di cui mi servo non appartiene esclusi vamente alle persone. Sappiamo che ci sono delle ragioni per l'azione e che alcune di esse sono migliori o più forti delle altre. Uno dei temi principali di questo libro è rappresentato da un insieme di problemi concernenti quello che abbiamo ragione di fare. In proposito verranno discusse diverse teorie. Alcune di esse sono teorie morali, altre sono teo rie della razionalità. Noi siamo persone particolari. Io ho la mia vita da vivere e tu la tua. Che cosa comporta tutto questo? Che cos'è che fa di me, da un capo al l'altro della mia vita, la stessa persona e una persona diversa da te? E an cora: che importanza hanno questi fatti? Che importanza hanno l'unità della vita di ciascuno e la distinzione tra vite e persone differenti? Que sti interrogativi costituiscono l'altro tema principale di questo libro. Tra i due temi, le ragioni e le persone, ci sono relazioni alquanto stret te. Ritengo che per lo più noi abbiamo opinioni false circa la nostra na tura e la nostra identità nel tempo, e che, una volta che in proposito ab biamo raggiunto la verità, dobbiamo cambiare alcune delle nostre cre denze circa quello che abbiamo ragione di fare: dobbiamo rivedere le nostre teorie morali e le nostre credenze sulla razionalità. Nelle prime due parti del libro formulerò altri argomenti a sostegno di conclusioni di questo tipo. Non enuncerò in anticipo né tali argomenti né le relative conclusioni. L'indice può ben fungere da sommario. Il libro è lungo e talvolta com plesso; perciò ho diviso la trattazione in 154 paragrafi e ho dato a cia scuno di essi un titolo descrittivo. Spero che questo accorgimento valga a facilitare la lettura del testo e a metterne in luce il contenuto più chia ramente di quel che avrebbe potuto fare un indice analitico. Se non avessi scandito la trattazione in paragrafi, anche un indice analitico sa rebbe stato troppo fitto di riferimenti per riuscire utile.
XIV
Intraduzione
Spesso gli autori di libri di questo genere nell'introduzione cercano di metterne a fuoco i concetti centrali. Siccome nel mio caso per offrire spiegazioni che riuscissero utili ci sarebbe voluto almeno un libro, non perderò tempo a darne. I con ce t ti centrali del mio discorso sono pochi: noi abbiamo delle ragioni per a?,ire; dobbiamo agire in certi modi, e alcu ni modi di agire sono moralmente .rbagliati. Alcuni esiti sono positivi o negativi in un senso che ha una rilevanza morale: essere colpiti da una
paralisi, per esempio, per la gente è cosa negativa e, se possiamo farlo, noi lo dobbiamo impedire. Per lo più le persone comprendono i tre enunciati appena formulati quanto basta a consentire loro di seguire la mia trattazione. Mi servirò anche del concetto di interesse personale di un individuo, ossia di quello che sarebbe il meglio per lui. Pur trattan dosi, di nuovo, di un concetto comprensibile alla maggior parte delle persone, possono riuscire utili alcune osservazioni introduttive. Esse compaiono agli inizi del primo capitolo e, in modo più circostanziato, nella Appendice I. Un ultimo concetto centrale della mia trattazione è quello di persona. Che cosa sia una persona, per lo più noi riteniamo di comprenderlo; la Parte terza del libro sostiene che ciò non è vero. Molti autori, nelle introduzioni ai propri libri, cercano di spiegare an che in che modo, discutendo di moralità, possiamo sperare di fare dei progressi. Poiché la migliore spiegazione consiste nel realizzare effettiva
mente dei progressi, questa è l'unica che cercherò di dare. Strawson descrive due tipi di filosofia, quella descrittiva e quella cor rettiva. La filosofia descrittiva fornisce delle ragioni a ciò che noi istinti vamente siamo portati a credere e, inoltre, spiega e giustifica lo stabile nucleo centrale delle nostre credenze su noi stessi e sul mondo in cui vi viamo. Personalmente nutro grande rispetto per la filosofia descrittiva, ma per temperamento sono portato a fare della filosofia correttiva. Se si eccettua il tedioso capitolo primo, in cui non ho potuto fare a meno di ripetere ciò che è stato mostrato essere vero, il mio sforzo è sempre quello di mettere in discussione le nostre credenze. I filosofi non do vrebbero limitarsi a interpretare le nostre credenze. Quando sono false, dovrebbero cambiar/('. Nota a?,giunta nel 1985. Rispetto alla versione precedente, questa ri
stampa presenta diverse correzioni. Così, qui non sostengo più la versio ne ampia dei criteri psicologici di identità personale (cfr. paragrafo 68 e altrove), in quanto l'appoggio che le avevo accordato contrasta con la mia convinzione che non dobbiamo cercare di decidere tra i diversi cri teri. Nella tesi Q (paragrafo 122) e in alcune proposizioni successive, ho sostituito «negativo» (bad) con «peggio» (worse). Altre correzioni non
Introduzione
xv
puramente formali, ma di minore rilievo, sono quelle introdotte nelle note 15 e 57 della Parte prima, nella nota 83 della Parte terza, nell'ulti mo capoverso del paragrafo 24, nella premessa del capitolo terzo (ultimi due periodi), nel decimo capoverso del paragrafo 79, alla fine del quinto capoverso del paragrafo 98, nell'ultimo capoverso del paragrafo 102 e nei capoversi quattordicesimo e quindicesimo del paragrafo 126. Di al cune di queste correzioni sono debitore agli autori dei contributi com parsi sul numero di «Ethics» del luglio 1986.
Ragioni e persone
Ai miei genitori ]essie e Norman Par/it e alle mie sorelle Theodora e ]oanna
Finalmente l'orizzonte, pur senza essere lu minoso, si spalanca di nuovo davanti a noi; finalmente le nostre imbarcazioni possono di nuovo prendere il largo e affrontare il perico lo; a chi ama la conoscenza è di nuovo con sentito ogni ardimento; il mare, il nostro ma re, ci si riapre davanti; forse non è mai stato così aperto. F. NIETZSCHE
Parte prima
Teorie che si condannano all'insuccesso
I. Teorie che si condannano indirettamente all'insuccesso
Molti di noi si chiedono che cos'è che abbiamo più ragione di fare. Alla domanda rispondono diverse teorie. Alcune di es�e sono teorie mo rali, altre sono teorie della razionalità. Se applicate a certe nostre deci sioni, le varie teorie forniscono risposte diverse. Pertanto dobbiamo cer care di stabilire qual è la teoria migliore. Gli argomenti che si possono imbastire su queste teorie sono di molti tipi. Uno consiste nel provare che una teoria si condanna all'insuccesso (is selfdefeating). Questo è l'unico argomento che non richiede assunti di sorta. Esso sostiene che una teoria fallisce nei suoi stessi termini e quindi si autocondanna. La prima parte del presente libro discute gli esiti di questo argomen to. Come avrò modo di spiegare, tutte le più note teorie in qualche mo do si condannano all'insuccesso. Che cosa prova questo fatto? In taluni casi, nulla. In altri, dimostra che la teoria dev'essere ulteriormente svi luppata o ampliata. In altri ancora, che la teoria dev'essere respinta o ri veduta. È questo che emerge a proposito delle teorie morali che la mag gior parte di noi accetta. Comincerò con il caso più noto.
l.
La teoria dell'interesse personale
Possiamo descrivere tutte quante le teorie dicendo quello che esse ci invitano a perseguire. Secondo tutte le teorie morali, noi dobbiamo cer care di agire moralmente. Secondo tutte le teorie della razionalità, noi dobbiamo cercare di agire razionalmente. Diciamo che questi sono i no stri obiettivi/orm a/i Le varie teorie morali, al pari delle varie teorie del la razionalità, ci assegnano diversi obiettivi sostantivi. Quando parlo di «obiettivi», parlo di «obiettivi sostantivi». Intendo il termine nel senso lato per cui si presta ad indicare anche teorie morali .
6
Teorie che si condannano all'insuccesso
che si occupano non di obiettivi morali, ma di diritti e doveri. Suppo niamo che, secondo una certa teoria, cinque tipi di azioni siano assolu tamente proibiti. Ebbene, questa teoria ci assegna l'obiettivo di non compiere mai quelle azioni. Qui discuterò anzitutto la teoria dell'interesse personale, che chiamerò S (Selfinterest Theory). Essa è una teoria della razionalità. S assegna a ciascuna persona questo obiettivo: conseguire quelli che per lei sarebbe ro gli esiti migliori e che consentirebbero alla sua vita di andare nel mi glior modo possibile. Per dare applicazione a S, non dobbiamo far altro che chiederci che cosa realizzi meglio questo obiettivo. Chiamo le risposte a questa do manda teorie dell'interesse personale. Come spiega l'Appendice I, di teo rie plausibili di questo tipo ce ne sono tre. Secondo la teoria edonistica, per ciascuno è meglio ciò che ci dà mag gior felicità. Le diverse versioni di questa teoria avanzano diverse conce zioni della felicità e del modo per misurarla. Secondo la teoria dell'appagamento dei desideri, per ciascuno è meglio ciò che meglio appaga i suoi desideri nel corso della vita. Anche di que sta teoria esistono versioni diverse. Così, per esempio, la teoria del suc cesso prende in considerazione quei desideri di una persona che riguar dano esclusivamente la sua vita personale. Secondo la teoria dei valori oggettivi, certe cose per noi sono buone anche se non le desideriamo e cattive anche se non le paventiamo. Anche di questa teoria esistono versioni diverse. Tra le cose buone potremmo annoverare lo sviluppo delle proprie abilità e della propria conoscenza, nonché il gusto della vera bellezza, e tra quelle cattive il piacere sadico, l'esser vittime dell'inganno, la perdita della libertà e della dignità.· Queste tre teorie in parte coincidono. Tutte quante concordano per lo meno nell'includere la felicità e il piacere tra le cose che migliorano la nostra vita, e l'infelicità e il dolore tra le cose che la rendono peggiore. Tesi come queste potrebbero essere avanzate da qualsiasi teoria plausi bile dei valori oggettivi e sono implicite in tutte le teorie dell'appaga mento dei desideri. Quanto alla teoria edonistica, essa è, per tutte le al tre, per lo meno una parte della verità. Per non dilungarmi troppo, a volte mi limiterò a discutere quest'ultima. Tutte queste teorie sostengono inoltre che, nel decidere che cosa sia meglio per qualcuno, si dovrebbe assegnare lo stesso peso a tutte le par ti del suo futuro. Gli eventi futuri possono essere meno prevedibili; e un evento prevedibile dovrebbe contare di meno se è meno probabile che accada. Non dovrebbe, invece, contare di meno per il solo fatto che, se accadrà, accadrà più tardi.
Teorie che si condannano indirettamente all'insuccesso
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Per operare una scelta tra le diverse teorie dell'interesse personale oc correrebbe già di per sé un libro, ammesso che basti. Ma non è questo che io intendo fare. In questa sede, mi limiterò a esaminare alcune delle differenze che intercorrono tra di esse, senza operare alcuna scelta. Gran parte di questo libro discute la teoria dell'interesse personale. Co me ho detto, essa non verte sull'interesse personale, ma sulla razionalità. Possiamo benissimo discutere di S senza operare una scelta tra le diver se teorie dell'interesse personale, Possiamo infatti formulare delle tesi che sarebbero vere per tutte queste teorie. Ci risulterà utile qualificare alcuni obiettivi come ultimi. Gli altri so no strumentali, meri mezzi per il raggiungimento di un obiettivo ultimo. Così, per esempio, essere ricchi non è un obiettivo ultimo per nessuno, se non per gli avari. Ora mi è possibile riformulare la tesi centrale di S. Eccola: (51) Per ogni persona c'è un fine ultimo sommamente razionale: che la sua vita sia, per lei, la migliore possibile. Come vedremo, S sostiene anche diverse altre tesi. Nei confronti di S si possono avanzare molte obiezioni. Alcune di es se verranno discusse nella seconda e nella terza parte. In questa prima parte prenderò in esame l'obiezione secondo la quale 5, al pari di alcune altre teorie, si condanna all'insuccesso. 2. In che modo S possa indirettamente condannarsi all'insuccesso
Se indichiamo con T una certa teoria, chiamiamo obiettivi- T gli obiettivi che T ci assegna. Diciamo che T si condanna indirettamente all'insuccesso sul piano individuale,
quando è vero che, se qualcuno cercherà di realizzare gli obietti vi-T, questi, complessivamente, si realizzeranno peggio. Sulla base di questa definizione, noi non ci chiediamo semplicemente se una teoria si condanni all'insuccesso, ma se si condanni all'insuccesso quando la si applichi a certe persone, in un certo periodo di tempo. Il mio obiettivo-5 è che la mia vita vada, per me, nel miglior modo possibile. Può esser vero che, se cercherò di fare tutto quello che sarà meglio per me, per me sarà peggio. I casi in cui ciò può accadere sono di due tipi: (a) Se cerco di fare ciò che sarà meglio per me, spesso potrei non riu scire nell'intento. Può darsi che spesso io faccia ciò che per me sarà peggio di qualcos'altro che avrei potuto fare.
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(b) Anche se, tra le varie azioni che posso fare, non faccio mai ciò che per me sarà peggio, per me può esser peggio avere la disposi zione a perseguire solamente l'interesse personale. Assumere un'altra disposizione per me potrebbe esser meglio. Nei casi del primo tipo, le conseguenze negative derivano da ciò che faccio. Supponiamo che io rubi ogniqualvolta sia convinto di poterlo fa re senza essere sorpreso. Ebbene, può accadere spesso che io sia sorpre so e punito. Pertanto l'onestà può essere per me la politica migliore an che in termini di interesse personale. Non vale la pena che ci soffermia mo a discutere casi del genere. Se è in questo modo che 5 si condanna all'insuccesso, nei suoi confronti non si possono avanzare obiezioni di sorta. Qui, infatti, 5 si condanna all'insuccesso solo a causa dell'incom petenza con cui cerco di praticarla: il difetto non sta in 5, ma in me. A certe teorie si può bensì obiettare che sono di troppo difficile attuazio ne; ma non è il caso di 5. I casi meritevoli di considerazione sono quelli del secondo tipo. In ta li casi, avere la disposizione a perseguire solamente il proprio interesse per me potrebbe esser peggio, anche se riuscissi a non fare mai ciò che per me è peggio. Le conseguenze negative derivano non da ciò che io faccio, ma dalla mia disposizione, ossia dal fatto che ricerco solamente l'interesse personale. Che cosa implica questo fatto? Si può avere la disposizione a perse guire solamente l'interesse personale senza essere puramente egoisti. Ammettiamo che io ami la mia famiglia e i miei amici. Ebbene, secondo tutte quante le teorie dell'interesse personale, il mio amore per queste persone influisce su quelli che sono i miei interessi: in buona parte la mia felicità deriva dalla consapevolezza che le persone che amo sono fe lici e che io le aiuto a esserlo. Secondo la teoria dell'appagamento dei desideri, se per coloro che amo le cose vanno bene, come io desidero, sarà meglio anche per me. In casi del genere, ciò che è meglio per me coincide in larga misura con ciò che è meglio per coloro che amo. In ta luni casi, però, ciò che è meglio per me è peggio per coloro che amo. Io ho la disposizione a perseguire il mio interesse personale se, in tutti que sti casi, faccio ciò che è meglio per me. Si potrebbe pensare che, se la mia disposizione è quella dell'interesse personale, io cercherò sempre di fare ciò che conviene a me. Ma spesso, tra due azioni, io ne scelgo una pur sapendo che nessuna delle due è meglio per me. In tali casi non miro a fare ciò che mi conviene, ma ope ro sulla scorta di un desiderio più specifico. Ciò può avvenire anche quando faccio ciò che ritengo esser meglio per me. Supponiamo che io sappia che, aiutandoti, faccio il mio bene. Ebbene, io potrei aiutarti per-
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ché ti voglio bene e non perché mi conviene farlo. Per descrivere in che cosa consista per me la disposizione a perseguire l'interesse personale, basterà dire che, pur agendo spesso sulla scorta di altri desideri, io non faccio mai ciò che credo esser peggio per me. Se ciò è vero, mi si qualifi cherà in modo più chiaro dicendo, non che ho la disposizione a persegui
re il mio interesse, ma che ho la disposizione a non andare mai contro il mio interesse. Ora tornerò a descrivere l'interessante maniera in cui, per un indivi duo, S può indirettamente condannarsi all'insuccesso. Questo av verrebbe qualora uno, non andando mai contro il proprio interesse per sonale, avesse una sorte peggiore di quella che avrebbe adottando qual che altra disposizione. Quand'anche una persona riuscisse a non fare mai ciò che è peggio per lei, potrebbe esser peggio per lei il fatto stesso di non essere mai disposta a sacrificare il proprio interesse. Avere un'al tra disposizione potrebbe riuscirle più vantaggioso. È vero che, qualora l'avesse, talvolta potrebbe accaderle di fare qualcosa che per lei è peg gio; ma i costi di questo suo comportamento potrebbero essere più bas si dei benefici che le deriverebbero dall'altra disposizione. Queste affermazioni possono esser vere anche secondo tutte le varie teorie dell'interesse personale. Gli edonisti si sono accorti da tempo che, quando si anela alla felicità, è più difficile conseguirla. Se essa rap presenta il mio desiderio più intenso, può accadere che io sia meno feli ce che se avessi altri e più forti desideri. Così, potrei essere più felice, se il mio desiderio più intenso fosse la felicità di qualcun altro. Ecco un altro esempio. Kate è una scrittrice. Il suo desiderio più vivo è che il suo libro riesca nel migliore dei modi. E poiché la qualità del li bro le sta così a cuore, il suo lavoro le riesce appagante. Se il desiderio di scrivere un buon libro fosse notevolmente più fiacco, il lavoro le riu scirebbe noioso. Essa è consapevole di questo e accetta la teoria edoni stica dell'interesse personale. Perciò ritiene essere meglio per lei che il suo più intenso desiderio sia quello di scrivere il libro come meglio non potrebbe. Senonché, data l'intensità del suo desiderio, spesso lavora co sì febbrilmente e così a lungo che finisce per ritrovarsi esausta e, a tratti, molto depressa. Supponiamo che Kate sia dawero convinta che, lavorando con ritmi meno sostenuti, il suo libro riuscirebbe un po' meno buono, ma lei sa rebbe più felice: troverebbe il lavoro altrettanto appagante ed evitereb be quei momenti di grave depressione. Conseguentemente Kate riterrà che, qualora lavorasse troppo duramente, farebbe il proprio male. Ma come le sarà possibile riuscire sempre a evitare di lavorare in quel mo do? Può darsi che di fatto, perché non si sottoponga mai a quei ritmi
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proibitivi, sia necessario che il suo desiderio di scrivere il libro come meglio non potrebbe sia molto meno intenso. Ciò che, per lei, sarebbe ancor peggio, perché in quel caso il lavoro le riuscirebbe noioso. Secon do la teoria edonistica, se Kate non sacrificasse mai il proprio interesse personale, le cose per lei andrebbero peggio.1 Supponiamo ora di accogliere, della teoria dell'interesse personale, non la versione edonistica, ma quella dell'appagamento dei desideri. In tal caso, l'affermazione che Kate, lavorando troppo, fa il proprio male, possiamo respingerla. Il suo desiderio più intenso è che il suo libro rie sca nel migliore dei modi. Lavorando così intensamente, pur logorando si e pur incappando in momenti di depressione, essa riesce a migliorare la qualità del libro. In tal modo fa sì che il proprio desiderio più intenso trovi un appagamento più pieno. Secondo questa teoria dell'interesse personale, per lei è meglio così. Se non siamo edonisti, ci occorre un esempio diverso. Supponiamo che io stia viaggiando nel cuore della notte attraverso il deserto. La mia automobile ha un guasto. Tu, per me, sei uno sconosciuto, ma sei il solo automobilista che si trovi a passare di lì. Riesco a fermarti e ti dico che, se mi porterai a casa, ti darò una lauta ricompensa. Non posso pagarti subito, ma prometto di farlo non appena sarò arrivato a casa. Supponia mo, ancora, che io sia così «trasparente» da non riuscire a trarre in in ganno nessuno: non so mentire in modo convincente; o il rossore o il to no della voce mi tradiscono sempre. Supponiamo, infine, che io sappia di non essere disposto a sacrificare in nessun caso il mio interesse perso nale. Una volta che tu mi abbia portato a casa, non sarà conveniente per me assolvere la mia promessa. Poiché so che non faccio mai quello che non mi conviene, so che non manterrò la promessa. E, data la mia inca pacità di mentire in modo convincente, lo sai anche tu: alla mia promes sa non credi. Così resto solo nel bel mezzo del deserto per tutta la notte. Questo mi accade perché non sono mai disposto ad andare contro il mio interesse personale. Se fossi stato un uomo affidabile, disposto a mantenere le promesse anche quando non mi conviene farlo, per me sa rebbe stato meglio. In questo caso, tu mi avresti portato a casa. Qualcuno potrebbe obiettare che, anche se non sono mai disposto ad andare contro il mio interesse personale, potrei decidere di mantenere la promessa in quanto una decisione del genere mi riuscirebbe vantag giosa. Se decidessi di farlo, tu ti fideresti di me e mi porteresti a casa. Questa obiezione non coglie nel segno: io so che, una volta che tu mi abbia portato a casa, non mi converrà darti la ricompensa che ti ho pro messo; se so che non vado mai contro il mio interesse, so anche che non manterrò la promessa; e se sono consapevole di questo, non posso deci-
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dere di mantenerla: non posso decidere di fare quello che so che non fa rò. Perché possa decidere di mantenere la promessa, bisogna che non creda di non essere mai disposto ad andare contro il mio interesse. Po tremmo anche aggiungere l'assunto che questa credenza non ce l'avrei, se non fosse vera. E allora sarebbe vero che, se io fossi e restassi sempre deciso a non andare contro il mio interesse, per me sarebbe peggio. Per me sarebbe meglio essere affidabile. Ho descritto due casi in cui, se una persona ha la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse, fa il proprio danno. Ma ce ne so no molti altri. Probabilmente ciò è vero della maggior parte delle perso ne, per gran parte della loro vita. Applicata a queste persone, la teoria dell'interesse personale si rivela essere ciò che io ho definito come una teoria che, sul piano individuale, si condanna indirettamente all'insuc cesso. Ciò comporta che 5 è intrinsecamente fallace? 5 si autocondan na? Ciò sarà vero se 5 dice alle persone di non andare mai contro il pro prio interesse.
3. Sci dice di non andare mai contro il proprio interesse? Che 5 dica a tutti di non andare mai contro il proprio interesse può sembrare owio. Ma per come l'abbiamo descritta fin qui, 5 afferma solo che, per ogni persona, c'è un fine ultimo sommamente razionale: che la sua vita vada per lei nel migliore dei modi possibili. Se applicata alle azioni, 5 sostiene che
(52) Ciascuno di noi ha più ragione di fare ciò che è meglio per lui; e che
(53) È irrazionale per chiunque fare ciò che crede essere peggio per lui.2
5 deve anche dirci che cosa dovremmo fare quando non possiamo prevedere gli effetti delle nostre azioni. I casi di incertezza, in cui non abbiamo nessuna idea della probabilità dei diversi effetti, li possiamo trascurare. Circa i casi di rischio, in cui tali idee le abbiamo, 5 sostiene che (54) Per chiunque è razionale fare ciò che gli arrecherà il massimo beneficio atteso. Per calcolare il beneficio atteso di un atto, facciamo la somma dei be nefici possibili e ne sottraiamo i possibili costi, dopo aver moltiplicato ogni beneficio e ogni costo per la probabilità che l'atto li produca. Se
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c'è la probabilità di nove su dieci che un atto mi dia un certo beneficio B e una probabilità di uno su dieci che mi faccia perdere un certo bene ficio pari al doppio di B, il beneficio atteso è B x 9/10- 2B x 1/10, os.
sia 7/10 di B. Che cosa dovrebbe dire 5 circa la razionalità dei desideri e delle di sposizioni? Affermando che, per ciascuna persona, c'è un fine ultimo sommamente razionale, è chiaro che 5 dovrebbe sostenere che il deside rio sommamente razionale è quello di raggiungere quel fine. Dovrebbe sostenere che
(55) Il desiderio sommamente razionale è che la nostra vita vada, per noi, nel migliore dei modi possibili. Parimenti, dovrebbe anche sostenere che
(56) La disposizione sommamente razionale è la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse personale. Chi non va mai contro il proprio interesse personale, pur agendo tal volta sulla scorta di altri desideri, non agirà mai contro il desiderio som mamente razionale: non farà mai quello che crede esser peggio per sé. Per semplificare le cose, desideri e disposizioni li chiameremo motiva zioni. Ci sono molti modi per far sì che, col tempo, le nostre motivazioni cambino: possiamo, per esempio, contrarre certe abitudini; agire in una maniera che, in questo momento, non ci piace può far sì che in seguito quel modo di agire ci piaccia; cambiare lavoro o residenza, leggere certi libri, avere dei figli, sono tutte cose che determinano prevedibili cam biamenti nelle nostre motivazioni. Ma di modi in cui ciò può awenire ce ne sono molti altri. Secondo (52) ciò che ciascuno di noi ha più ragione di fare è procura re di avere, o di conservare, uno dei migliori insiemi possibili di motiva zioni in termini di interesse personale. Questi insiemi di motivazioni so no quelli per i quali è vero quanto segue: che non c'è alcun altro insieme possibile di motivazioni di cui si possa dire con verità che, se una certa persona l'avesse, per lei sarebbe meglio. Per «possibile» intendo «cau salmente possibile, tenuto conto dei fatti generali concernenti la natura umana e dei fatti particolari concernenti la natura di questa persona». Spesso è difficile sapere se un certo insieme di motivazioni sia causai mente possibile per una data persona e se sia, per lei, uno dei migliori in termini di interesse personale. Ma queste difficoltà possiamo ignorarle. Ci sono molti casi in cui una persona sa che per lei sarebbe meglio che le sue motivazioni subiscano qualche cambiamento. E in molti di questi casi, la persona sa di poter produrre tale cambiamento in uno dei modi
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indicati sopra. (53) implica che per lei sarebbe irrazionale non produrre tale cambiamento. Affermazioni analoghe valgono per le emozioni, le credenze, le abili tà, il colore dei capelli, il posto in cui viviamo, nonché per tutto ciò che possiamo cambiare. Ciò che ciascuno di noi ha più ragione di fare è cambiare qualsiasi cosa nel modo che per lui sarebbe meglio. Se una persona ritiene di poter produrre tale cambiamento, per lei sarebbe ir razionale non farlo. Ora possiamo riprendere il problema precedente. Stavamo discuten do il caso di persone per le quali è vero che, se non andassero mai con tro il proprio interesse, avrebbero una sorte peggiore che se avessero qualche altra disposizione. Supponiamo che queste persone sappiano che ciò è vero. Ebbene, S dice loro di non andare mai contro il proprio interesse? S sostiene questo: se tali persone non sono mai disposte ad andare contro il proprio interesse, possiedono quella disposizione che è som mamente razionale. Senonché per loro sarebbe irrazionale fare in modo di avere o di mantenere tale disposizione; per loro sarebbe razionale fa re in modo di avere o di mantenere l'altra disposizione, in quanto que st'ultima, per loro, sarebbe migliore. Queste affermazioni sembrano dare al nostro interrogativo risposte contrastanti. Sembrano dire, cioè, a queste persone che esse devono e, insieme, non devono avere la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse. Dire questo, però, significherebbe fraintendere S. Quando S sostiene che una certa disposizione è sommamente razionale, non dice che la debbano avere tutti. Si ripensi alla distinzione tra obiettivi formali e obiettivi sostantivi. 5, al pari di tutte le teorie della razionalità, assegna a ciascuno questo obiettivo formale: essere razionali e agire razionalmen te. A differenziare le diverse teorie sono i diversi obiettivi sostantivi che esse ci assegnano. Con la sua tesi principale, (51), S assegna a ciascuna persona un fine sostantivo: che la sua vita vada, per lei, nel migliore dei modi. Forse che S assegna ad ogni persona un altro obiettivo sostantivo, quello di essere razionale e di agire razionalmente? No. Secondo S, il nostro obiettivo formale non è un obiettivo sostantivo. Qualcuno potrebbe pensare che, nell'elaborare queste tesi, io non ho dato la versione migliore della teoria dell'interesse personale. La mia, però, è la versione che verrebbe accolta dalla maggior parte di coloro che professano tale teoria. Costoro per lo più accetterebbero (52) e (53). Supponiamo che io sappia che per me sarebbe meglio diventare molto irrazionale. Fra breve descriverò un caso in cui quasi certamente ciò sa-
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rebbe vero. Ebbene, se ciò è vero, (52) implica che ciò che ho più ragio ne di fare è di rendermi molto irrazionale e (53) implica che per me sa rebbe irrazionale non rendermi molto irrazionale. (52) e (53) non mi as segnano, come obiettivo sostantivo, quello di essere razionale. Questo implica che, per 5, essere razionali è un mero mezzo? Questo dipende da qual è la migliore teoria dell'interesse personale. Secondo la teoria edonistica, 5 assegna a ogni persona questo obiettivo sostantivo: la massima felicità possibile per lei. Essere razionali non è un elemento essenziale di questo obiettivo. È un mero mezzo. E un mero mezzo è pu re agire razionalmente e avere desideri e disposizioni razionali. Conside riamo ora la teoria dei valori oggettivi. Secondo alcune versioni di que sta teoria, essere razionali rientra tra le cose che sono buone per ogni persona, quali che ne possano essere gli effetti. In questo caso essere ra zionali non è un mero mezzo, ma fa parte dell'obiettivo sostantivo che 5 assegna a ogni persona. Ciò è vero anche per la teoria dell'appagamento dei desideri, limitatamente a quelle persone che vogliono essere raziona li quali che ne possano essere gli effetti. Qualcuno potrebbe obiettare: «Supponiamo di accettare la teoria edonistica. In tal caso S ci dice che essere razionali è un mero mezzo. Ma, allora, perché dovremmo cercare di essere razionali? Perché do vremmo desiderare di sapere che cosa abbiamo più ragione di fare? Se accettiamo ciò che S sostiene e riteniamo che essere razionali sia un me ro mezzo, cesseremo di avere interesse per i problemi che S sostiene di risolvere. Questa non può che essere un'obiezione a S. Una teoria accet tabile della razionalità non può sostenere che essere razionali è un mero meZZO». Potremmo rispondere così: «Una teoria sarebbe inaccettabile qualora sostenesse che essere razionali non ha alcuna importanza. Ma non è questo che S sostiene. Supponiamo che io mi aggrappi a una roccia e che ricorra a questo come a un mero mezzo per sottrarmi alla morte. Il mio atto è bensì un mero mezzo, ma la sua importanza è grandissima. Lo stesso si può dire dell'essere razionali». Può darsi che questo esem pio non risponda completamente all'obiezione. Come vedremo, un'o biezione analoga a quella appena discussa è stata rivolta a certe teorie morali. Per evitare ripetizioni, discuterò tutte queste obiezioni, insieme, nel paragrafo 19. ·
A questo punto posso spiegare un'osservazione enunciata sopra. Se condo S, la disposizione sommamente razionale è quella di non andare mai contro il proprio interesse personale. Io ho scritto che, sostenendo questa tesi, S non ci dice di assumere questa disposizione. S assegna ad ogni persona un obiettivo sostantivo: che la sua vita vada, per lei, nel
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migliore dei modi possibili. Secondo alcune teorie dell'interesse perso nale, essere razionali per certe persone rientra in questo obiettivo. Ma le cose starebbero così solo perché essere razionali, così come essere felici, è una componente di ciò che migliora la nostra vita. Essere razionali, in quanto tale, non è un obiettivo sostantivo. E non lo è neppure avere la
disposizione sommamente razionale. Per certe persone, secondo S, essere razionali non fa parte di ciò che migliora la loro vita. È questo il caso che sto discutendo. Per queste per sone è vero che, se non fossero mai disposte ad andare contro il proprio interesse, per loro andrebbe peggio che se avessero qualche altra dispo sizione. E in quanto questo è vero, per queste persone non andare mai contro il proprio interesse non fa parte dell'obiettivo che S assegna loro. S non dice loro di avere quella che lo stesso S sostiene essere la disposi zione sommamente razionale, ossia quella di chi non è mai disposto ad andare contro il proprio interesse. E se tali persone possono cambiare la propria disposizione, S dice loro che non è che non debbano mai andare contro il proprio interesse, se possono farlo. f>oiché per queste persone sarebbe meglio avere qualche altra disposizione, S dice loro di fare in modo di avere o di mantenere quest'altra disposizione. Se sanno di po ter agire sia nell'uno che nell'altro modo, S sostiene che per loro sareb be irrazionale non farlo. Per loro sarebbe irrazionale fare in modo di avere o di mantenere la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse.
4. Perché S non è intrinsecamente fallace Queste affermazioni ci consentono di rispondere all'altra domanda da me posta. Quando la si applica a queste persone, S è quella che io chiamo una teoria che indirettamente si condanna all'insuccesso. Ebbe ne, ciò fa di S una teoria intrinsecamente fallace? S si condanna da sé? La risposta è negativa. S indirettamente si condanna all'insuccesso perché, per queste persone, sarebbe peggio non andar mai contro il proprio interesse. Ma S non dice loro di non andar mai contro il proprio interesse, anzi dice loro di farlo, se possono. Se queste persone non van no mai contro il proprio interesse, per loro è peggio. Nei termini di S, questo è un risultato negativo. Ma questo risultato negativo non è la conseguenza né del loro conformarsi a ciò che S dice loro di fare, né della presenza in loro della disposizione che S dice loro di avere. Stando così le cose, S non è intrinsecamente fallace. Qualcuno potrebbe obiettare: «Questo risultato negativo potrebbe essere la conseguenza del fatto che queste persone credono in S. In tal
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caso, infatti, esse crederanno che per loro sarebbe irrazionale fare ciò che sarà loro svantaggioso. Potrebbe essere vero che, se credono essere irrazionale agire in questo modo, esse non lo facciano mai. E se non lo fanno mai, hanno la disposizione a non andare mai contro il proprio in teresse. Supponi che avere questa disposizione sia loro svantaggioso in uno dei modi che sono stati descritti. Nei termini di S, questo è un risul tato negativo. E se la credenza in S produce questo risultato, S è intrin secamente fallace». Per rispondere a questa obiezione, abbiamo bisogno di sapere se le persone in questione possono cambiare la propria disposizione. Suppo niamo, per cominciare, che non possano farlo. Perché ciò sarebbe vero? Se non possono cambiare la propria disposizione, e se hanno questa di sposizione perché credono in S, la spiegazione dev'essere che non posso no rendersi disponibili a fare ciò che credono essere irrazionale. Cam biare la propria disposizione sarebbe loro possibile solo se credessero in qualche altra teoria della razionalità. In tal caso, S direbbe loro di fare in modo di credere, se possono farlo, in quest'altra teoria. Discuterò di questa possibilità nei paragrafi 6, 7 c 8. Come dimostrerò, quand'anche ciò fosse vero, S non sarebbe per questo intrinsecamente fallace. Supponiamo ora che queste persone possano cambiare la propria di sposizione senza cambiare le proprie credenze sulla razionalità. Se per queste persone avere la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse è peggio che averne un'altra, S dirà loro di fare in modo di ave re quest'altra disposizione. L'obiezione enunciata sopra chiaramente non coglie nel segno. Può bensì essere vero che queste persone hanno la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse in quanto cre dono in S. Ma S sostiene che per loro è irrazionale mantenere la disposi zione a non andare mai contro il proprio interesse. Se esse la mantengo no, non si può affermare che ciò sia semplicemente la conseguenza del loro credere in S; è infatti la conseguenza del loro non fare ciò che po trebbero fare e che S dice loro di fare. È vero che il risultato, per loro, è peggiore, e cioè un effetto negativo nei termini di S; ma un effetto nega tivo derivante dalla disobbedienza a S non può rappresentare un'obiezio ne a S. Se il mio medico mi dice di trasferirmi dove c'è un clima più sa lubre, non lo si può poi criticare per il fatto che io, essendomi rifiutato di farlo, muoio. C'è una terza possibilità: queste persone potrebbero essere incapa ci di cambiare o le proprie disposizioni o le proprie credenze sulla ra zionalità. La loro credenza in S per loro è negativa, e questo, nei ter mini di S, è un effetto negativo. Ci chiediamo: questo fatto costituisce un'obiezione a S? Ci sarà più facile rispondere a questa domanda do-
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po che avremo discusso altre teorie. La mia risposta la esporrò nel paragrafo 18. 5. Può essere razionale /are in modo di agire irrazionalmente?
A questo punto affronto un problema nuovo. Una teoria può essere inaccettabile anche se non è intrinsecamente fallace. Si è detto che, per molta gente, è vero che non andare mai contro il proprio interesse sa rebbe peggio. Ebbene, questo fatto ci fornisce ragioni indipendenti per respingere 5? Secondo 5, per ciascuna di queste persone sarebbe razionale fare in modo di avere o di mantenere un insieme di motivazioni che sia uno dei migliori possibili in termini di interesse personale. Quali siano questi in siemi di motivazioni è, in parte, una questione di fatto, e i particolari della risposta sono diversi in relazione alle diverse persone e alle diverse circostanze. Ma di ciascuna di queste persone noi sappiamo questo: dal momento che non andare mai contro il proprio interesse per lei sarebbe peggio, sarebbe meglio per lei se qualche volta andasse contro il proprio interesse. Sarebbe meglio, cioè, se qualche volta fosse disposta a fare ciò che ritiene essere peggio per lei. 5 sostiene che agire in questo modo è irrazionale. Se questa persona crede in 5, 5 le dice di fare in modo di es sere disposta ad agire in una maniera che 5 stesso afferma essere irrazio nale. Ebbene, questa implicazione è esiziale per 5? Ci fornisce una ra gione per respingere 5? Consideriamo la Risposta di T. 5chelling al caso della rapina a mano armata. Un ma lintenzionato irrompe nella mia casa. Mi sente telefonare alla poli zia. Ma, poiché la città più vicina è alquanto distante, la polizia per arrivare non impiega meno di quindici minuti. L'uomo mi ingiunge di aprire la cassaforte in cui tengo l'oro che possiedo. Se non avrà l'oro entro cinque minuti, minaccia di incominciare a uccidere i miei figli uno dopo l'altro. Qual è per me il comportamento razionale? Mi serve urgentemente una risposta. Mi vien fatto di pensare che non è razionale conse gnare l'oro a quest'uomo. Egli sa che, se si limiterà a portarmi via l'oro, o io o i miei figli potremo riferire alla polizia il modello ed il numero di targa dell'automobile con cui se ne andrà. Così c'è il ri schio che, se gli darò l'oro, prima di fuggire uccida me e i miei figli. Ma allora, visto che dargli l'oro sarebbe irrazionale, dovrei forse ignorare la sua minaccia? Anche questo sarebbe irrazionale. In questo caso, c'è il rischio che egli uccida uno dei miei figli per ren-
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dere credibile la minaccia di uccidere, se non avrà l'oro, anche gli altri. Che cosa dovrei fare? Che io gli dia l'oro oppure no, è molto pro babile che ci uccida tutti quanti. La situazione è disperata. Fortu natamente mi ricordo di quel che ho letto in The Strategy of Con flict di T. Schelling3, e ho anche una droga speciale proprio a porta ta di mano; si tratta di un farmaco capace di rendere una persona, per un breve arco di tempo, del tutto irrazionale. Afferro la botti glia e ne bevo un sorso prima che quell'individuo possa impedir melo. Nel giro di pochi secondi, tutto il mio comportamento è tale da far pensare che sono matto. Mi metto a girare barcollando per la stanza e dico a quell'uomo: «Fai pure: io voglio bene ai miei fi gli. Te ne prego, uccidili». Lui allora cerca di farsi dare l'oro tortu randomi. Io mi metto a urlare: «Mi fai male: ti prego, continua». Grazie allo stato in cui sono caduto, adesso l'uomo è impotente. Non c'è nulla che egli possa fare per indurmi ad aprire la cassafor te. Minacce e torture non possono strappare nulla a una persona così irrazionale. Al malintenzionato non resta che darsela a gambe nella speranza di non incappare nella polizia. E, dato il mio stato, è meno probabile che egli creda'che ricorderò il numero di targa del la sua automibile. Perciò ha meno ragione di uccidermi. Finché du ra il mio stato di follia, farò cose del tutto irrazionali. C'è il rischio che, prima che arrivi la polizia, io possa fare del male a me stesso o ai miei figli. Ma poiché non possiedo armi, il rischio non è molto elevato. Rendermi irragionevole è il modo migliore per attenuare il grave rischio che quell'uomo uccida tutti noi. Secondo una qualsiasi teoria plausibile della razionalità, in questo caso per me sarebbe razionale far sì che io diventi, per un po', del tutto irra zionale. Questo esempio mi aiuta a risolvere il problema che mi sono posto sopra. S ci dice di far sì di acquisire la disposizione ad agire in un modo che, secondo S, è irrazionale. Questo fatto non costituisce un'o biezione a S. Come dimostra il caso appena esposto, una teoria accetta bile della razionalità può dirci di far sì che compiamo azioni che sono ir razionali nei suoi stessi termini. Consideriamo ora una tesi generale che talvolta viene avanzata: (Gl) Se c'è una motivazione tale che, per qualcuno, è insieme (a) ra zionale fare in modo di averla, e (b) irrazionale fare in modo di perderla, allora (c) non può essere irrazionale per questa perso na agire conformemente a questa motivazione. Nel caso appena descritto, finché il malintenzionato resta in casa mia,
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1 >cr me sarebbe irrazionale fare in modo di cessare di essere del tutto ir
r;tzionale. In questo arco di tempo, io ho un insieme di motivazioni di n
ti è vero sia (a) che (b). Invece (c) è falso: in quell'arco di tempo, i miei
t i sono del tutto irrazionali. Dovremmo quindi respingere ( G l) e so stenere invece che, poiché per me era razionale fare in modo di essere in quello stato, questo è un caso di irrazionalità razionale. at
(>.Com'è che S implica che non possiamo evitare di agire irrazionalmente Torniamo al caso di Kate che, come si ricorderà, accetta la teoria edo llistica dell'interesse personale. Noi potremmo accogliere altre teorie. Ma anche secondo queste ultime possono verificarsi dei casi che, nei lo ro aspetti rilevanti, riproducono quello di Kate, e le affermazioni che se guono potrebbero venir riformulate in modo da rispecchiare questi altri c
asl. Per Kate è bene che il suo più intenso desiderio sia che il suo libro
riesca nel migliore dei modi. Senonché, poiché questo è vero, spesso es sa lavora a ritmi sostenutissimi, cosa che la lascia, per un po', sfinita e depressa. Essendo un'edonista, Kate ritiene che, così facendo, fa il pro prio male. E, dal momento che accetta anche 5, ritiene di agire, in questi casi, in modo irrazionale. Ma c'è di più: questi atti irrazionali sono del tutto volontari. Essa si comporta in questo modo perché, pur avendo a cuore il proprio interesse personale, quest'ultimo non costituisce il suo desiderio più forte: è più forte il desiderio che il suo libro riesca nel mi gliore dei modi. Se tale desiderio si affievolisse, per lei le cose andrebbe ro peggio. Essa agisce sulla scorta di un insieme di motivazioni che, se condo 5, per lei sarebbe irrazionale fare in modo di perdere. Si potrebbe osservare che, agendo sulla scorta di queste motivazioni, non si può dire che Kate agisca irrazionalmente. Ma questo significa as sumere (Gl), ossia la tesi di cui abbiamo mostrato la falsità grazie a quella che abbiamo chiamato la risposta di Schelling al caso della rapina a mano armata. Se fossimo convinti, al pari di Kate, che essa agisce irrazionalmente e in modo del tutto volontario, potremmo sostenere che è irrazionale lei. Ma Kate potrebbe negarlo. Credendo in 5, Kate potrebbe obiettare: «Quando faccio ciò che credo essere peggio per me, il mio atto è irra zionale. Ma poiché agisco sulla scorta di un insieme di motivazioni che per me sarebbe irrazionale fare in modo di perdere, io non sono irrazio nale». E potrebbe aggiungere: «Agendo in conformità al mio desiderio di elevare la qualità dei miei libri, io faccio qualcosa che per me è peggio.
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In termini di interesse personale questo è un effetto negativo. Esso, pe rò, fa parte di un insieme di effetti che è uno dei migliori possibili. Pur procurandomi, a volte, delle sofferenze, tale esito, essendo oggetto del mio desiderio più intenso, mi offre anche dei benefici; i quali, peraltro, sono maggiori delle perdite. Quello di agire, a volte, irrazionalmente, fa cendo ciò che so essere peggio per me, è il prezzo che devo pagare se voglio ottenere quei maggiori benefici. È un prezzo che vale la pena di pagare». Si potrebbe obiettare: «Non è vero che devi pagare quel prezzo. Puoi benissimo lavorare di meno. Puoi benissimo fare ciò che per te sarebbe meglio. Non c'è nulla che ti costringa a fare ciò che reputi irrazionale». Ma Kate potrebbe rispondere: «È vero, potrei lavorare di meno. Ma lo farei solo nel caso in cui il desiderio di migliorare la qualità dei miei libri fosse molto meno forte; e nel complesso questa eventualità per me sarebbe peggiore: il lavoro mi riuscirebbe noioso. Come potrei far sì che in futuro, in casi simili, non scelga liberamente di fare ciò che ritengo ir razionale? Potrei farlo solo cambiando i miei desideri in un modo che sarebbe per me più sfavorevole. È in questo senso che non posso ottene re quei maggiori benefici senza pagare un prezzo minore. Non posso avere i desideri che per me sono i migliori se non scegliendo liberamen te di agire, in taluni casi, in modi per me svantaggiosi. Ecco perché non c'è bisogno che mi consideri irrazionale quando agisco irrazionalmente nel senso appena indicato». Questa replica presuppone una particolare concezione degli atti vo lontari, ossia il determinismo psichico. Secondo tale concezione, i nostri atti sono sempre causati dai nostri desideri e dalle nostre disposizioni. Stanti i desideri e le disposizioni che di fatto abbiamo, non è causalmen te possibile che agiamo diversamente. Qualcuno potrebbe obiettare: «Se non è causalmente possibile che Kate agisca diversamente, non è possibile che essa creda che, per agire razionalmente, debba agire diver samente. Noi dobbiamo fare una cosa, solo se la possiamo fare». Un'obiezione del genere ci si presenterà più innanzi, quando discute remo di ciò che abbiamo il dovere morale di fare. Kate ci aiuterà a ca varcela in breve se risponderà a entrambe le obiezioni in questi termini: «Nella teoria secondo la quale dovere implica potere, il senso di "pote re" è compatibile con il determinismo psichico. Quando una mia azione è irrazionale o sbagliata, io avrei dovuto agire in qualche altro modo. Se condo quella teoria, io avrei dovuto agire in quest'altro modo solo se potevo farlo. Se non potevo farlo, non si può dire che avrei dovuto agire così. Affermare che (l) io non potevo agire in quest'altro modo equivale a dire non che (2) agire in quest'altro modo, stanti i miei desideri e le
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mie disposizioni effettive, sarebbe stato impossibile, bensì che (3) agire in questo modo mi sarebbe stato impossibile, anche se i miei desideri e
le mie disposizioni fossero state diverse: mi sarebbe stato impossibile, 4uali che fossero i miei desideri e le mie disposizioni. Se (l) fosse lo stesso che (2), i deterministi dovrebbero concludere che nessuno può mai agire in modo irrazionale o sbagliato, cosa che essi potrebbero plau sibilmente respingere. Potrebbero invece insistere che (l) equivale a
(3 )». Kate potrebbe anche aggiungere: «lo non dico che il libero arbitrio sia compatibile con il determinismo. Il "potere" che si richiede per il li bero arbitrio potrebbe avere un significato diverso da quello presente nella teoria secondo cui dovere implica potere. La diversità di questi si gnificati è riconosciuta dalla maggior parte di quei deterministi che re putano il libero arbitrio incompatibile con il determinismo. È per que sto che, pur ritenendo che nessuno meriti di essere punito per ciò che fa, essi continuano a credere che è possibile agire in modo irrazionale o sbagliato». È possibile che Kate sbagli a far proprio il determinismo psichico. Io ho affermato sopra che le nostre credenze circa la razionalità possono influire sui nostri atti, in quanto può essere che noi desideriamo agire razionalmente. Qualcuno potrebbe obiettare: Un'affermazione del genere ci dà un'immagine sbagliata del modo in cui quelle credenze influenzano i nostri atti. Non è rifacendoci al desiderio di essere razionali che noi spieghiamo perché uno abbia agito razionalmente. Dire che, ogniqualvolta uno agisce razional mente, desidera farlo, significa enunciare una verità alquanto insi gnificante. In realtà, egli ha agito così perché aveva una credenza, non una credenza
e
un desiderio. Ha agito così semplicemente per
ché credeva di avere una ragione per farlo. E spesso per lui è cau salmente possibile agire razionalmente, quali che siano i suoi desi deri e le sue disposizioni.4 Si noti che chi avanzasse questa obiezione non può sostenere che è sem pre possibile per una persona agire razionalmente quali che siano i suoi desideri e le sue disposizioni. Anche se nega il determinismo psichico, non può sostenere che non c'è nessuna relazione tra i nostri atti e le no stre disposizioni. Egli deve ammettere, altresì, che i nostri desideri e le nostre disposi zioni possono far sì che ci riesca più dzfficile fare quanto crediamo essere razionale. Supponiamo che io stia bruciando dalla sete e che mi si dia un bicchiere d'acqua ghiacciata, supponiamo inoltre che io sia convinto
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di avere una ragione per berla lentamente, in quanto, così facendo, au mento il piacere che posso trame. Ho anche una ragione per non rove sciare l'acqua per terra. Ebbene, data la mia sete bruciante, mi sarà più facile agire secondo quest'ultima ragione che bere l'acqua lentamente. Se quanto afferma l'obiezione è vero, la risposta di Kate dev'essere ri veduta. Kate potrebbe dire: «Se il mio più grande desiderio fosse quello di evitare di fare ciò che reputo irrazionale, per me sarebbe peggio. Per me è meglio che il mio più grande desiderio sia quello di scrivere i miei libri meglio che posso. Dal momento che il mio più grande desiderio è questo, talvolta faccio ciò che reputo irrazionale. E agisco così, in quan to il mio desiderio di migliorare la qualità dei miei libri è più forte del desiderio di non agire in modo irrazionale. Tu affermi che spesso potrei evitare di comportarmi così: con un atto di volontà, spesso potrei aste nermi dal fare ciò che maggiormente desidero fare. Se mi è possibile evitare di agire in questo modo, non posso affermare di non essere in al cun modo irrazionale. Senonché, stante l'intensità del desiderio di mi gliorare la qualità dei miei libri, per me è molto difficile evitare di agire così. E per me sarebbe irrazionale cambiare i miei desideri in modo che mi sia più facile evitare di agire così. Alla luce di queste circostanze, io sono irrazionale solo in un senso molto debole». Kate potrebbe anche aggiungere: «Non è possibile che io, a un tem po, abbia un insieme di motivazioni che è uno dei migliori possibili in termini di interesse personale e che non faccia mai ciò che credo essere irrazionale. E non lo è nel senso per noi rilevante: non è possibile quali che siano i miei desideri e le mie disposizioni. Se non andassi mai contro i miei interessi personali, i miei atti ordinari non sarebbero mai irrazio nali; ma in questo caso avrei agito irrazionalmente, facendo in modo di acquisire o di mantenere la disposizione a non andare mai contro il mio interesse personale. Se, invece, faccio in modo di avere uno dei migliori insiemi possibili di motivazioni, a volte farò ciò che reputo irrazionale. Se non possiedo la disposizione a non andare mai contro il mio interesse personale, non è possibile che agisca sempre come chi ce l'ha. Poiché questo non è possibile, e poiché per me sarebbe irrazionale cercare di acquisire quella disposizione, non posso essere criticata per il fatto che talvolta faccio ciò che reputo essere irrazionale». A questo punto si può dire che S, per come la descrive Kate, è priva di uno dei caratteri essenziali di una qualsiasi teoria. Essa incappa in questa obiezione: «Nessuna teoria può chiedere l'impossibile. Non es sendole sempre possibile evitare di fare ciò che, secondo S, è irraziona le, Kate non sempre può fare ciò che, secondo S, deve fare. Pertanto do vremmo respingere S. Come si diceva, dovere implica potere».
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L'obiezione coglie nel segno anche se neghiamo il determinismo. Co è stato detto, dobbiamo ammettere che Kate, poiché non ha la di sposizione a non andare mai contro il proprio interesse, non può agire Il le
11'mpre come chi, questa disposizione, ce l'ha.
Per 5 rappresenta un'obiezione seria il fatto che Kate non sempre 1 )ossa evitare di fare ciò che 5 sostiene essere irrazionale? Ricordiamo la
risposta di Schelling al caso della rapina a mano armata. Qui, alla luce di 1111a qualsiasi teoria plausibile della razionalità, sarebbe irrazionale, per llle, non rendermi del tutto irrazionale. Ma una volta che mi sia reso ta le, non posso evitare di agire irrazionalmente. Quale che sia l'alternativa che scelgo, almeno uno dei miei atti sarà irrazionale. In questo caso, perciò, è vero che non posso evitare di agire irrazionalmente. E poiché casi del genere possono succedere, una teoria accettabile può implicare che non possiamo evitare di agire irrazionalmente. Il fatto che 5 presenti questa implicazione non costituisce affatto un'obiezione. Qualcuno potrebbe rilevare che queste osservazioni non rispondono compiutamente all'obiezione. Poiché un'obiezione analoga contro alcu ne teorie morali ci si ripresenterà più innanzi, per evitare ripetizioni, di scuterò queste obiezioni, insieme, nel paragrafo 15. A questo punto esporrò sinteticamente altre mie conclusioni. Nel ca
di molte persone-forse della maggior parte delle persone-la teoria dell'interesse personale si condanna indirettamente all'insuccesso. Di so
ciascuna di queste persone è vero che non andare mai contro il proprio interesse-ossia avere la disposizione a non fare mai ciò che ritengono essere peggio per loro è svantaggioso. Per loro sarebbe meglio posse dere qualche altro insieme di motivazioni. Io ho sostenuto che questi ca -
si non costituiscono un'obiezione a 5. Poiché 5 non dice a queste perso
ne di non andare mai contro il proprio interesse, ma, anzi, dice loro di lario, se ci riescono, 5 non è intrinsecamente fallace. Né si può dire che questi casi costituiscano per 5 un'obiezione indipendente. Pur non confutando 5, per coloro che accettano tale teoria questi casi rivestono grande importanza. In questi casi, 5 deve coprire non solo i nostri atti ordinari, ma anche quelli che determinano dei cambiamenti nelle nostre motivazioni. Secondo 5, è razionale fare in modo di acquisi re, o di conservare, un insieme di motivazioni che sia uno dei migliori possibili in termini di interesse personale. Se riteniamo di poter agire sia nell'uno che nell'altro senso, sarebbe irrazionale non farlo. Nella vicen da della maggior parte delle persone, uno qualsiasi dei migliori insiemi possibili di motivazioni può indurre chi le ha a fare, a volte, in modo del tutto volontario, ciò che sa essere peggio per sé. Se queste persone ere-
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dono in 5, crederanno anche che questi atti sono irrazionali. Ma non è affatto necessario che credano di essere irrazionali esse stesse, e ciò in quanto, secondo S, per loro sarebbe irrazionale mutare le proprie moti vazioni in modo da non compiere più questi atti irrazionali. Quelle per sone saranno bensì, in parte, dispiaciute delle conseguenze di tali atti ir razionali, ma nel contempo ·potranno considerarne l'irrazionalità con compiacimento. Si tratta di un'irrazionalità razionale. Qualcuno potrà obiettare che queste affermazioni presuppongono il determinismo psichico e che tale presupposto è falso: a volte può acca dere, infatti, che le persone di cui ci stiamo occupando, facciano ciò che reputano razionale, quali che siano i loro desideri e le loro motivazioni. Se l'obiezione è corretta, le tesi appena enunciate dovranno essere rive dute. Quando queste persone fanno ciò che ritengono essere irraziona le, non possono affermare di non essere irrazionali in nessun senso. Po tranno però sostenere che, date le loro effettive motivazioni, riesce loro molto difficile evitare di agire così e che per loro, alla luce della teoria che professano, sarebbe irrazionale mutare le proprie motivazioni in modo che riesca loro più facile evitare di agire in quel modo. Perciò po tranno sostenere di essere irrazionali solo in un senso molto debole. Do po avere spiegato in che modo le tesi appena enunciate possano essere rivedute, eviterò di menzionare questa obiezione ogni volta che, nel pro sieguo del libro, essa riuscirà pertinente. Non sarà certo difficile appor tare le correzioni del caso anche ad altre tesi analoghe a quelle enuncia te qui. 7. Un argomento per respingere S quando contrasta con la moralità
È stato sostenuto che la teoria dell'interesse personale potrebbe dirci di credere non in lei stessa, ma in qualche altra teoria. La cosa è chiara mente possibile: secondo S, per ciascuno di noi, qualora ciò gli riesca vantaggioso, è meglio fare in modo di credere in un'altra teoria. In precedenza ho già ricordato un argomento a favore di questa con clusione. Esso assume che per noi è impossibile fare ciò che riteniamo irrazionale. Se ciò fosse vero, nei casi che siamo andati discutendo, S ci direbbe di cercare di credere in una teoria diversa. A sostegno di questa conclusione ci sono anche altri argomenti. Li prenderò in esame appli candoli al tema del mantenimento delle promesse. Se riusciranno validi, essi potranno venire applicati a molti altri tipi di atti. C'è un tipo di patto reciproco che riveste grande importanza pratica. Nel fare questi patti, ogni membro di un gruppo fa una promessa con dizionata: ciascuno promette di agire in un certo modo, a condizione
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che tutti gli altri promettano di agire in certi modi. In questo caso, po tranno essere vere entrambe queste cose: (l) che, per ogni membro del gruppo, se tutti mantengono la promessa sia meglio che se non la man tiene nessuno, e (2) che, qualunque cosa facciano gli altri, per ciascun membro del gruppo sia peggio mantenere la promessa. Ciò che ciascu no perde mantenendo la promessa è meno di ciò che guadagna se tutti gli altri mantengono la loro.
È così che (l) e (2) sono entrambe vere. Ta
li patti sono reciprocamente vantaggiosi, pur richiedendo di andare contro
il proprio interesse. Se mi si conosce come una persona che non va mai contro il proprio interesse, verrò escluso da tali patti, in quanto gli altri sanno che non si può fare affidamento sul mantenimento delle mie promesse. Qualcuno ha sostenuto che, poiché ciò è vero, per me sarebbe meglio diventare persona affidabile, abbandonando la disposizione a non andare mai contro il mio interesse.5 Questa tesi non tiene conto di una possibilità, ossia che per me po trebbe esser meglio sembrare affidabile, pur conservando in realtà quel la disposizione. Una volta che sembri affidabile, gli altri mi ammetteran no a questi accordi reciprocamente vantaggiosi; ma, conservando in realtà la disposizione a non andare mai contro il mio interesse persona le, avrò anche i benefici derivanti dal fatto di non mantenere le mie pro messe ogniqualvolta mi convenga non farlo. Dal momento che per me è bene sembrare affidabile, mi converrà, in molti casi, mantenere le pro messe, in modo da preservare questa parvenza. Ma ci sono promesse che posso infrangere segretamente; e inoltre il guadagno che posso trar re dal mancato mantenimento di una promessa può superare la perdita rappresentata dal fatto di non apparire più affidabile. Supponiamo, comunque, che io sia, per così dire, «trasparente», ossia che non sappia mentire in modo convincente. Questo è vero di molte persone e potrebbe esserlo per un numero molto più elevato qualora riuscissimo a disporre di macchine della verità affidabili e a basso prez zo. Supponiamo che questo sia già avvenuto e che in tal modo noi tutti siamo diventati «trasparenti», incapaci di ingannare gli altri. Dal mo mento che siamo già, in qualche misura, «trasparenti», le conclusioni a cui perverrò possono valere per la nostra situazione attuale. Ma sup porre che ogni inganno diretto sia diventato impossibile servirà a sem plificare l'argomentazione. A che cosa essa approdi, vale la pena di ve derlo. Perciò dovremmo assecondare l'argomentazione accogliendo tale assunto. Se tutti quanti fossimo «trasparenti», a ciascuno di noi converrebbe diventare affidabile: persone nei confronti delle quali si può aver fiducia
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che manterranno le proprie promesse, anche quando pensano che con verrebbe loro non farlo. Pertanto, secondo 5, per ciascuno di noi sareb be razionale rendersi affidabile. Supponiamo, inoltre, che per diventare affidabili ci tocchi cambiare le nostre credenze sulla razionalità. Dovremmo fare in modo di credere che per ciascuno di noi è razionale mantenere le proprie promesse an che quando si sa che non ci conviene farlo. In seguito descriverò due modi in cui questo assunto può essere vero. È difficile cambiare le nostre credenze quando la ragione che abbia mo per farlo è semplicemente che il cambiamento sarà funzionale ai no stri interessi. Per farlo ci toccherebbe ricorrere all'autoillusione, magari servendoci di ipnotizzatori, i quali dovrebbero poi farci dimenticare questo processo. Le nostre nuove credenze non riusciremmo a mante nerle, se ricordassimo in che modo le abbiamo acquisite. Supponiamo, per esempio, che io abbia appreso di essere affetto da una malattia che non perdona. Poiché voglio credere di essere sano, pago un ip notizzatore perché mi convinca di esserlo. Ebbene, tale convinzione non potrei mantenerla, se ricordassi il modo in cui l'ho acquisita. In tal caso, infatti, saprei anche che la mia credenza è falsa. Lo stesso si può dire delle nostre credenze sulla razionalità. Se, in considerazione dei vantaggi che possono derivarcene, paghiamo un ipnotizzatore perché cambi le nostre credenze, l'ipnotizzatore dovrà farci dimenticare la ra gione per cui abbiamo le nuove credenze. Sulla scorta degli assunti elaborati sopra, 5 ci direbbe di cambiare le nostre credenze; ci direbbe, cioè, di credere non in 5, ma in una sua for ma riveduta. Secondo tale teoria riveduta, per ciascuno di noi è irrazio nale fare ciò che riteniamo essere peggio per noi, tranne quando mante niamo una promessa. Qualora 5 ci dicesse di accogliere questa teoria riveduta, questo fatto rappresenterebbe un'obiezione a 5? Mostrerebbe che è razionale mante nere tali promesse? Su questi interrogativi dobbiamo fare chiara luce. Può essere che noi abbiamo ragione di credere che è razionale mantene re le nostre promesse, anche quando sappiamo che il farlo si risolverà per noi in uno svantaggio. Quello che mi chiedo è: «Questa credenza sa rebbe motivata, qualora la stessa teoria 5 ci dicesse di fare in modo di averla?». Alcuni rispondono affermativamente, argomentando che, se 5 ci dice di fare in modo di avere questa credenza, questo stesso fatto mostrereb be che tale credenza è giustificata. Essi applicano questo argomento a molti altri tipi di atti analoghi al mantenimento delle promesse che ri tengono moralmente dovuti. Se raggiunge lo scopo, l'argomento appena
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enunciato ha grande importanza. Esso mostrerebbe che, in molti tipi di casi, è razionale agire moralmente anche quando crediamo che ciò si ri solverà per noi in uno svantaggio. Le ragioni morali sarebbero più forti delle ragioni avanzate dall'interesse personale. Molti autori hanno cer cato, senza successo, di giustificare questa conclusione. Qualora l'argo mento in discussione giustificasse davvero tale conclusione, avrebbe ri solto quello che Sidgwick indicava come «il più arduo problema dell'e tica».6
8. Perché questo argomento fallisce
Questo argomento presta il fianco a una semplice obiezione. Esso fa leva sul fatto che S ci direbbe di fare in modo di credere che è razionale mantenere le promesse anche quando sappiamo che il farlo si risolverà per noi in uno svantaggio. Chiamiamo questa credenza B. B è incompa tibile con S. Secondo S, è irrazionale mantenere promesse del genere. Ora: o S è la teoria vera della razionalità o non lo è. Se lo è, B dev'essere falsa, in quanto è incompatibile con S; se non lo è, B può essere vera. Ma in questo caso non si può fondare B o dimostrarne la verità, facendo leva sul fatto che S ci dice di cercare di credere B. Se S non è vera, non può costituire il supporto di B. Una teoria falsa non può sostenere alcu na conclusione. In breve: se S è vera, B dev'essere falsa, e se S è falsa, non può sostenere B. B è o falsa o infondata. Il fatto che S ci dica di cer care di credere B non può fondare B. Qualcuno potrebbe osservare che una teoria della razionalità non può essere vera, ma che, al massimo, può essere la migliore, ossia la teoria meglio giustificata. In tal caso l'obiezione esposta sopra potrebbe essere riformulata nei termini seguenti. Ci sono due possibilità: se S è la teoria migliore, dobbiamo respingere B perché incompatibile con S; se S non è la teoria migliore, dobbiamo respingerla; non possiamo sostenere B ri correndo a una teoria che dovremmo respingere. Nessuna delle due possibilità fornisce alcun fondamento a B.7 Questa obiezione mi sembra forte. Nondimeno conosco persone che non ne sono convinte. Esse potrebbero obiettare: «Se è falsa, S non può sostenere B direttamente. Ma noi potremmo avere ragione di assumere che, se S ci dice di cercare di credere B, questo fatto sostiene B». Per tanto io enuncerò altre due obiezioni. E queste avvaloreranno, altresì, delle conclusioni di più ampia portata. Per cominciare avanzerò la distinzione tra minacce e ammonimenti. Quando dico che, se tu non farai Y, io farò X, le mie parole costituisco-
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no un ammonimento se il mio fare X è peggio per te ma non per me, mentre costituiscono una minaccia se il mio fare X è peggio per entram bi. Dirò che sono uno-cheja-quello-che-minaccia-di-/are se sono una per sona che fa sempre quello che minaccia di fare. Supponiamo che una persona, oltre a essere uno-che-fa-quello-che -minaccia-di-fare, abbia anche la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse. Questa persona darebbe corso alle proprie minacce, anche se sapesse che per lei ciò sarebbe svantaggioso. Senonché, se essa sapesse che facendo delle minacce farebbe qualcosa di svantaggioso per lei, non farebbe minacce. È in questo senso che questa persona, oltre a essere uno-che-fa-quello-che-minaccia-di-fare, ha anche la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse. Essa non fa mai ciò che ri tiene essere svantaggioso per lei, tranne che quando dà corso a una mi naccia. Questa eccezione non copre l'atto di fare delle minacce. Supponiamo che io sia insieme «trasparente» e dotato della disposi zione a non andare mai contro il mio interesse. Se ciò fosse vero, per me sarebbe meglio diventare uno-che-fa-quello-che-minaccia-di-fare e far sapere a tutti gli altri questo cambiamento delle mie disposizioni. Poi ché sono «trasparente», tutti crederebbero alle mie minacce; e le minac ce, quando vengono credute, sono funzionali a molti scopi. Alcune delle minacce che faccio sono difensive, ossia intese a difendere me stesso dall'aggressione altrui. Io potrei !imitarmi a fare minacce difensive, ma potrei anche essere tentato di usare questa mia nota disposizione in altri modi. Supponiamo che i benefici di un'iniziativa condotta in coopera zione siano ripartiti tra tutti quelli che vi partecipano. Supponiamo inol tre che, senza la mia partecipazione, quei benefici verrebbero meno. Io potrei dire che, se non mi si riconoscerà la quota più alta, cesserò di col laborare all'iniziativa. Se gli altri sanno che io sono uno-che-fa-quello -che-minaccia-di-fare e se hanno la disposizione a non andare mai con tro il proprio interesse, mi riconosceranno la quota più alta. Non farlo per loro sarebbe peggio. Altre persone dotate della disposizione a fare-quello-che-minacciano di-fare potrebbero comportarsi anche peggio. Potrebbero ridurci in schiavitù, minacciando che, se non diventeremo loro schiavi, provoche ranno la distruzione di tutti noi. In ipotesi noi sappiamo trattarsi di per sone che farebbero ciò che minacciano di fare e perciò sappiamo che il solo modo per evitare la distruzione è quello di diventare loro schiavi. La risposta a una persona che-fa-quello-che-minaccia-di-fare, se sia mo tutti «trasparenti», consiste nel diventare persone che-ignorano-le minacce. Tali persone ignorano le minacce anche quando sanno che, co sì facendo, faranno il proprio danno. Uno-che-fa-ciò-che-minaccia-di-
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fare non minaccerebbe una persona «trasparente» che-ignora-le-minac ce. Sa, infatti, che, se lo facesse, per lui sarebbe peggio. Poiché la sua minaccia verrebbe ignorata, egli dovrebbe dar corso a ciò che ha minac ciato di fare, ciò che per lui sarebbe peggio. Se tutti quanti fossimo «trasparenti» e avessimo insieme la disposizio ne a non andare mai contro il nostro interesse, quali sarebbero i cambia menti delle nostre disposizioni che riuscirebbero migliori per ciascuno di noi? Risponderò a questa domanda nella Appendice A, perché diver se parti della risposta non hanno attinenza con il problema che sto di scutendo. La parte che ha attinenza con il problema in esame è questa: se tutti quanti fossimo «trasparenti», per ciascuno di noi probabilmente sarebbe meglio diventare una persona a un tempo affidabile e che-igno ra-le-minacce. Questi due cambiamenti comportano dei rischi; ma i ri schi sono ampiamente compensati dai probabili benefici. Quali sono i benefici che potremmo ricavare dal fatto di diventare affidabili? Non saremmo esclusi da quei patti reciprocamente vantaggiosi che richiedo no di andare contro il proprio interesse. Quali sono i benefici che po tremmo ricavare dal fatto di diventare persone-che-ignorano-le-minac ce? Eviteremmo di diventare schiavi di coloro-che-fanno-quello-che-mi nacciano-di-fare. Potremmo ora assumere che non possiamo diventare persone affida bili che-ignorano-le-minacce se non mutando le nostre credenze circa la razionalità. Le persone affidabili mantengono le promesse, anche quan do sanno che da questo deriveranno loro degli svantaggi. Possiamo as sumere che non possiamo acquisire la disposizione ad agire così, se non a condizione che crediamo che mantenere quelle promesse è razionale. Possiamo assumere, inoltre, che, se non ci si conosce come persone do tate di tale credenza, gli altri non farebbero affidamento sul manteni mento di quelle promesse da parte nostra. Sulla scorta di questi assunti, S ci dice di fare in modo di possedere questa credenza. Riguardo al
cambiamento consistente nel diventare persone-che-ignorano-le-minac ce possono valere osservazioni analoghe. Possiamo assumere che non potremmo diventare persone-che-ignorano-le-minacce se non a condi zione che crediamo essere sempre razionale ignorare le minacce. Possia mo assumere, inoltre, che, se non abbiamo tale credenza, gli altri non sarebbero certi che noi siamo persone-che-ignorano-le-minacce. Sulla base di questi assunti, S ci dice di fare in modo di avere questa creden za. Le due conclusioni si prestano a essere fuse insieme. S ci dice di far sì che crediamo essere sempre irrazionale fare ciò che reputiamo essere peggio per noi, tranne quando manteniamo le promesse o ignoriamo le mznacce.
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Questo fatto sostiene le credenze appena menzionate? Secondo S, per ciascuno di noi sarebbe razionale fare in modo di credere che è raziona le ignorare le minacce, anche quando si sa che ciò sarà peggio per noi. Questo dimostra che tale credenza è corretta? Dimostra che è razionale ignorare quelle minacce? Ci sarà di aiuto prendere in esame un esempio: La mia schiavitù. Tu e io viviamo insieme su un'isola deserta. En trambi siamo «trasparenti» e abbiamo la disposizione a non sacrifi care mai i nostri interessi. A un certo punto, tu provochi un cam biamento nelle tue disposizioni, diventando uno-che-fa-quello-che minaccia-di-fare. Tu, poi, possiedi una bomba che potrebbe provo care la completa distruzione dell'isola. Minacciandomi regolarmen te di farla esplodere, mi costringi a lavorare a tuo vantaggio. Il tuo potere ha quest'unico limite: devi lasciare che per me valga la pena di vivere. Se la mia vita peggiorasse al punto di superare questo li mite, cedere alle tue minacce per me cesserebbe di essere meglio che non cedere. Com'è che posso mettere fine alla mia schiavitù? Deciderti non mi sa rebbe di nessun aiuto, perché, se tu non componessi regolarmente un numero segreto su un apposito dispositivo della bomba, questa esplode rebbe automaticamente. Ma supponiamo che io possa fare di me una persona «trasparente» e che-ignora-le-minacce. Stupidamente, tu non hai minacciato di ignorare questo cambiamento delle mie disposizioni. Così questo cambiamento porrebbe fine alla mia schiavitù. Per me sarebbe razionale produrre tale cambiamento? C'è il rischio che tu possa fare qualche nuova minaccia. Ma poiché farla, per te, sa rebbe chiaramente peggio, il rischio è alquanto ridotto. Correndo que sto modesto rischio, otterrei quasi certamente un beneficio enorme: quasi certamente metterei fine alla mia schiavitù. Stante la desolazione della mia posizione di schiavo, secondo S per me sarebbe razionale fare in modo di diventare una persona-che-ignora-le-minacce. E, stanti gli altri assunti formulati sopra, per me sarebbe razionale fare in modo di credere che è sempre razionale ignorare le minacce. Sebbene non possa essere del tutto certo che ciò, per me, sarà meglio, il grande e quasi cer to beneficio sopravanzerebbe il modesto rischio che corro. (Analoga mente, che per una persona sia meglio diventare affidabile, non sarebbe mai del tutto certo. Anche in questo caso, quel che è vero è, tutt'al più, che i benefici probabili sopravanzano i rischi.) Supponiamo ora che io abbia prodotto in me questi cambiamenti. So no diventato una persona che «trasparentemente» ignora le minacce e
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ho fatto in modo di credere che è sempre razionale ignorare le minacce. Secondo S, era razionale, per me, fare in modo di possedere questa cre denza. Ebbene, questo dimostra che tale credenza è corretta? Proseguiamo con il nostro racconto.
Come pongo fine alla mia schiavitù. Siamo entrambi sfortunati. Per un momento, tu dimentichi che io sono diventato una-persona che-ignora-le- minacce. Per uno scopo banalissimo- come quello di impadronirti della noce di cocco che ho appena colto- tu mi ri peti la solita minaccia. Mi dici che, se non te la do, farai saltare in aria sia me che te. Io so che, se mi rifiuto di farlo, per me sarà cer tamente peggio. So che, come persona-che-fa-quello-che-minac cia-di-fare, tu sei affidabile: darai corso alle tue minacce anche se sai che sarà peggio per te. Senonché, proprio come te, adesso io non credo nella teoria del puro interesse personale. Ora, io credo che è razionale ignorare le minacce anche quando so che farlo, per me, saPà peggio, e agisco sulla scorta di questa mia credenza. Co me avevo previsto, tu fai saltare in aria entrambi. Il mio atto è razionale? No. Come prima, possiamo concedere che, poi ché agisco sulla scorta di una credenza che per me era razionale acquisi re, io non sono irrazionale. Più precisamente io sono razionalmente irra zionale; ma ciò che faccio non è razionale. È irrazionale ignorare una minaccia quando so che farlo sarà, per me, un disastro e non av vantaggerà nessuno. S mi ha detto, in questo caso, che era razionale far sì che io credessi essere razionale ignorare le minacce, anche quando so che in tal modo, per me, sarà peggio. Ma questo non dimostra che tale credenza è corretta. Non dimostra che, in questo caso, è razionale igno rare le minacce. A questo punto possiamo trarre una conclusione di più ampia porta ta. Il caso appena esaminato mostra che dovremmo respingere
(G2) Se per qualcuno è razionale fare in modo di credere che per lui è razionale agire in un certo modo, agire in questo modo per lui è razionale.
Torniamo ora aB, ossia alla credenza che per una persona è razionale mantenere le proprie promesse anche quando sa che farlo, per lui, sarà peggio. Sulla scorta degli assunti enunciati sopra, S implica che per noi è razionale fare in modo di credereB. Alcuni sostengono che questo fat
to suffragaB, mostrando che è razionale mantenere tali promesse. Que sta tesi sembra assumere (G2). Ma noi abbiamo visto che (G2) va re spinta.
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C'è anche un'altra obiezione a coloro che sostengono questa tesi. An che se S ci dice di cercare di credere B, S implica che B è falsa. Se B è ve ra, S dev'essere falsa. Poiché queste persone credono B, devono credere che S è falsa. Esse affermano che B poggia sul fatto che S ci dice di fare in modo di credere B. Poiché queste persone devono credere che S è fal sa, la loro tesi assume
( G3) Se una falsa teoria della razionalità ci dice di fare in modo di avere una credenza particolare, questo fatto suffraga tale cre denza.
È chiaro che ( G3) va respinta. Il fatto che una falsa teoria ci dica di fare in modo di credere che la terra è piatta, non suffraga affatto questa credenza.
S ci ha detto di cercare di credere che è razionale ignorare le minacce, anche quando sappiamo che farlo sarà peggio per noi. Come dimostra il mio esempio, questo fatto non suffraga tale credenza. Perciò noi dob biamo respingere sia ( G2) che ( G3 ). Chiaramente dovremmo avanzare tesi analoghe circa il mantenimento delle promesse. Di ragioni per cre dere che è razionale mantenere le proprie promesse, anche quando si sa che farlo, per noi, sarà peggio, possono essercene altre. Ma per dimo strare che è razionale farlo non è di nessuna utilità il fatto che la teoria dell'interesse personale ci dica di fare in modo di credere che lo sia. Qualcuno ha argomentato che, facendo leva su fatti del genere, possia mo risolvere un problema antico: possiamo mostrare che, quando quel la credenza entra in conflitto con l'interesse personale, la moralità ci for nisce le ragioni più forti per l'azione. Questo argomento non coglie nel segno. Tutt'al più, esso dimostra una tesi meno forte: in un mondo in cui tutti fossimo «trasparenti»- ossia incapaci di ingannarci l'un l'altro - potrebbe essere razionale ingannare noi stessi al riguardo della razio nalità.8
9. Come S può autoannullarsi Qualora S ci dicesse di credere in qualche altra teoria, questo fatto non costituirebbe un argomento a favore di quest'altra teoria. Quel che ci chiediamo ora, però, è se rappresenterebbe un'obiezione a S. Nem meno in questo caso si può dire che S fallisca nei suoi stessi termini. S è una teoria della razionalità pratica, non della razionalità teoretica. S può dirci di fare in modo di avere credenze false. Se per noi fosse meglio avere false credenze, avere credenze vere, anche al riguardo della razio nalità, non rientrerebbe nell'obiettivo ultimo assegnatoci da S.
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Gli argomenti enunciati sopra possono venire rafforzati ed estesi. Ciò sarebbe più facile se, come io ho supposto, la tecnologia delle macchine della verità ci avesse resi del tutto trasparenti. Se non fossimo mai in grado di ingannarci a vicenda, si potrebbe formulare un argomento atto a dimostrare che, secondo S, sarebbe razionale per tutti quanti noi fare in modo di non credere in S. Supponiamo che ciò sia vero. Supponiamo che S dica a tutti noi di fa re in modo di credere in un'altra teoria. In questo caso S si autoannulle rebbe. Se tutti credessimo in S, ma potessimo anche cambiare le nostre credenze, S si autoescluderebbe dalla scena. Diventerebbe una teoria in cui non crede nessuno. Ma autoannullarsi non significa condannarsi al l'insuccesso. Lo scopo di una teoria non è quello di essere creduta. Se personificassimo le teorie e fingessimo di attribuire loro dei fini, po tremmo dire che lo scopo di una teoria è, non quello di essere creduta, bensì quello di essere vera, o di essere la teoria migliore. Il fatto che una teoria si autoannulli non dimostra che non sia la teoria migliore. S si autoannullerebbe qualora credere in S fosse, per noi, peggio. Quel che ci dice S non è di credere in S. Dal momento che per noi sa rebbe meglio credere in un'altra teoria, S ci dice di cercare di credere in quest'altra teoria. Se riuscissimo a fare ciò che S ci dice di fare, per noi sarebbe meglio. È vero che in tal modo S si autoescluderebbe dalla sce na, facendo sì che nessuno ci creda più, ma ciò non significa ancora che fallisca nei suoi stessi termini. Significherebbe che, poiché ciascuno di noi ha fatto propria S, dato ciò che S ci dice di fare, ciascuno di noi ne ha tratto la conseguenza migliore per se stesso. Sebbene ciò non comporti che S fallisca nei suoi stessi termini, qualcuno potrebbe sostenere che una teoria accettabile non può autoannullarsi. Questa tesi io la respingo. Essa può sembrare plausibile per quella che, una volta che sia stata attentamente esaminata, si rivela una cattiva ragione. De siderare che la migliore teoria della razionalità non si autoannulli è del tutto naturale. Qualora la migliore teoria si autoannullasse, dicendoci di credere in un'altra teoria, la verità al riguardo della razionalità sarebbe così contor ta da riuscire scoraggiante. È naturale che si speri che la verità sia più sem plice, ossia che la migliore teoria ci dica di credere in se stessa. Ma questo desiderio può essere più di una speranza? Possiamo assumere che la verità deve essere più semplice? Non possiamo.
10. Come il consequenzialismo si condanna indirettamente all'insuccesso
Per lo più, le tesi formulate fin qui possono coprire, con poche modi fiche, tutta una serie di teorie morali. Tali teorie sono versioni differenti
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del consequenzialismo (che d'ora innanzi indicherò con C). La tesi cen trale di C è la seguente:
(Cl) C'è un obiettivo morale ultimo: che gli esiti siano i migliori pos sibili.
C può applicarsi a tutto. Per ciò che concerne le azioni, C sostiene en trambe queste tesi:
(C2) Ciascuno di noi deve fare tutto ciò che renderebbe l'esito mi gliore; e
( C3) Se uno fa ciò che crede renderà l'esito peggiore, agisce in modo sbagliato. Ho già avanzato la distinzione tra ciò che abbiamo più ragione di fare e ciò che, per noi, sarebbe razionale fare, date le credenze che abbiamo o che dobbiamo avere. Ora ci tocca distinguere tra ciò che è oggettiva mente giusto o sbagliato e ciò che lo è soggettivamente. Tale distinzione non ha nulla a che vedere con il problema concernente la possibilità che le teorie morali siano oggettivamente vere. La distinzione è tra ciò che una teoria implica, dati (i) quelli che sono, o sarebbero stati, gli effetti di ciò che una persona fa o potrebbe aver fatto, e (ii) ciò che questa perso na crede o deve credere circa questi effetti. Può essere di aiuto menzionare una distinzione alquanto simile a quella appena enunciata. Il trattamento medico oggettivamente giusto è quello che di fatto sarebbe più vantaggioso per il paziente. Il trattamen to soggettivamente giusto è quello che, sulla scorta dei dati in possesso del medico, per quest'ultimo sarebbe più razionale prescrivere. Come mette in luce questo esempio, ciò che maggiormente vale la pena di co noscere è ciò che è oggettivamente giusto. A questo problema risponde il nucleo centrale di una teoria morale. Noi abbiamo bisogno di chiarire il concetto di «soggettivamente giusto» per due ragioni. Spesso non sap piamo quali sarebbero gli effetti dei nostri atti. È quando facciamo ciò che è soggettivamente sbagliato che ci si deve biasimare. In questo caso ci si dovrebbe biasimare anche se i nostri atti sono oggettivamente giu sti. Un medico che adotti un trattamento che molto probabilmente pro vocherà la morte del paziente dovrebbe essere biasimato anche se di fat to lo salva. Per lo più, nelle pagine seguenti userò i termini giusto, devo, buono e
cattivo, bene e male, in senso oggettivo. Al contrario sbagliato vorrà dire, di solito, soggettivamente sbagliato, ossia biasimevole. Quale sia il senso in cui uso queste parole, spesso risulterà comunque chiaro dal contesto.
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Così è chiaro che, tra le tesi enunciate sopra, (C2) riguarda quello che oggettivamente dobbiamo fare e (C3) quello che è soggettivamente sba gliato. Per quanto concerne i casi di rischio, C esige che (C4) Quello che noi soggettivamente dobbiamo fare è l'atto il cui esito ha la massima bontà o positività attesa. Nel calcolare la bontà o la positività attesa dell'esito di un atto, il valore di ciascun possibile effetto buono o positivo lo si moltiplica per la pro babilità che l'atto lo produca. Lo stesso si dica del disvalore di ogni pos sibile effetto cattivo o negativo. La positività attesa dell'esito è la somma di questi valori meno i disvalori. Supponiamo, per esempio, che, diri gendomi a occidente, io abbia una possibilità su quattro di salvare 100 persone e tre su quattro di salvarne 20. La positività attesa del mio an dare verso occidente, valutata in termini di numero di vite umane salva te, è pari a 100 X 1/4 + 20 X 3/4, cioè a 25 + 15, ossia a 40. Supponia mo ora che, dirigendomi a oriente, io sia certo di salvare 30 vite umane. La positività attesa del mio andare a oriente è pari a 30 X l, ossia a 30. Secondo (C4), io devo andare a occidente, perché il numero di vite umane che mi attendo di salvare è maggiore. Il consequenzialismo si applica non solo alle azioni e agli esiti, ma an che a desideri, disposizioni, credenze, emozioni, colore degli occhi, cli ma e qualsiasi altra cosa. Più esattamente si applica a tutto ciò che può rendere gli esiti migliori o peggiori. Secondo C, il miglior clima possibile è quello che produrebbe gli esiti migliori. Ancora una volta userò il ter mine «motivazioni» per indicare insieme desideri e disposizioni. C so stiene: (C5) Le migliori motivazioni possibili sono quelle di cui è vero che, se le abbiamo, l'esito sarà migliore. Come sopra, «possibile» significa «causalmente possibile». Ce ne sono molti di insiemi diversi di motivazioni che sarebbero, in questo senso, i migliori: all'infuori di essi, non ci sarebbe alcun altro insieme possibile di motivazioni di cui sia vero che, nel caso che noi l'avessimo, l'esito sa rebbe migliore. Sopra ho descritto alcuni dei modi in cui possiamo mo dificare le nostre motivazioni. (C2) implica che noi dobbiamo cercare di procurarci o di conservare uno dei migliori insiemi possibili di motiva zioni. In termini più generali, dobbiamo cercare di cambiare sia noi stessi che tutto il resto in uno qualsiasi dei modi che renderebbero l'esi to migliore. Se riteniamo di poter produrre tale cambiamento, (C3) im plica che omettere di produrlo sarebbe sbagliato.9
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Per mettere in pratica C, dobbiamo chiederci che cos'è che rende gli esiti migliori o peggiori. La risposta più semplice a tale domanda ci vie ne data dall'utilitarismo. Questa teoria combina C con la seguente tesi: l'esito migliore è quello che dà alla gente, detratti i costi, la più grande somma netta di benefici meno sacrifici, o, nella versione edonistica di questa tesi, la più grande somma netta di felicità meno infelicità. Di C ci sono molte altre versioni. Queste possono essere teorie plura liste che, nel determinare cos'è che rende gli esiti migliori o peggiori, si richiamano a più principi tra loro diversi. Così, una versione di C fa ap pello sia alla tesi utilitarista che al principio di uguaglianza. Questo principio sostiene che è male che certe persone, non per loro colpa, stia no peggio delle altre. Secondo questa versione di C, la bontà di un esito dipende sia da quanto sarebbe grande la somma netta di benefici, sia dalla misura in cui benefici e sacrifici verrebbero distribuiti in egual mi sura tra le persone. Tra due esiti, uno può essere migliore in quanto, pur comportando una minore somma netta di benefici, prevede una più equa distribuzione di tali benefici. Un consequenzialista può fare appello a molti altri principi. Tre di questi principi affermano essere male che le persone vengano ingannate, private della libertà e tradite. Altri principi possono riferirsi essenzial mente a eventi passati: due di essi fanno appello ai titoli acquisiti e ai giusti meriti. In nome del principio di uguaglianza, si può sostenere che tra le persone si devono fare parti uguali non in momenti particolari, ma nel complesso della loro vita. In questo caso, tale principio include un essenziale riferimento al passato. Se la nostra teoria morale contiene principi del genere, quelle di cui ci occupiamo non sono soltanto le con seguenze in senso stretto, ossia ciò che accadrà dopo che abbiamo agito. Si può essere consequenzialisti in un senso più ampio; in tal caso il fine morale ultimo non è che gli esiti siano i migliori possibili, bensì che la storia proceda nel migliore dei modi possibili. Tutto ciò che dirò in se guito sul consequenzialismo può essere riformulato in questi termini. Con il termine «consequenzialismo» e con la lettera «C» mi riferisco a tutte queste varie teorie. Come si diceva al riguardo delle diverse teo rie dell'interesse personale, ci vorrebbe almeno un libro per decidere tra le diverse versioni di C; qui non mi occupo di tale decisione, ma solo di ciò che le diverse versioni hanno in comune. Le mie argomentazioni e le mie conclusioni possono applicarsi a tutte, o quasi tutte, le teorie plausi bili di questi tipo. Vale la pena di sottolineare che un utilitarista che si appellasse a tutti i principi menzionati sopra metterebbe a punto una teoria molto diversa dall'utilitarismo. Poiché raramente teorie del gene re sono state discusse, di questa circostanza è facile dimenticarsi.
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Alcuni hanno osservato che, se fa appello a molti principi diversi, il consequenzialismo, potendo estendersi a tutte le teorie morali, cessa di costituire una teoria a sé stante. Questo è un errore. C fa appello solo ai principi concernenti i fattori che possono rendere un esito migliore o peggiore. Così C potrebbe sostenere che, se ci fosse più inganno e più coercizione, le cose andrebbero peggio. In tal caso C assegnerebbe a tutti noi due obiettivi comuni: noi dovremmo cercare di far sì che ci sia meno inganno e meno coercizione. Poiché C assegna a tutti gli agenti degli obiettivi morali comuni, dirò che C è una teoria agente-neutrale. Molte teorie morali non hanno questo carattere, ma assegnano obiet tivi diversi ai diversi agenti, sicché sono agente-relative. Si può sostene re, per esempio, che ciascuno di noi dovrebbe perseguire l'obiettivo di non esercitare costrizioni sugli altri; in questa prospettiva, per me sareb be sbagliato esercitare costrizioni sugli altri anche se, facendolo, io po tessi far sì che di fatto ci sia meno coercizione. Tesi analoghe potrebbe ro essere formulate al riguardo dell'ingannare e del tradire gli altri. Se condo queste tesi, ogni persona, anziché mirare a far sì che ci sia meno inganno e meno tradimento, dovrebbe p roporsi l'obiettivo di non in gannare e di non tradire lei stessa. Queste tesi non sono consequenziali ste, e le tesi che la maggior parte di noi accetta sono di questo tipo. C può bensì richiamarsi a tali principi riguardanti l'ingannare e il tradire, ma non li ripropone nella loro forma più comune. Ora descriverò un diverso modo in cui una teoria T può condannarsi all'insuccesso. Dico che T si condanna indirettamente all'insuccesso sul piano collettivo, quan do è vero che, nel caso in cui diverse persone perseguissero gli obiettivi proposti da T, quegli obiettivi si realizzerebbero peggio.
Ciò potrebbe essere vero di tutte o di gran parte delle diverse versioni di C. C implica che, ogniqualvolta la cosa ci sia possibile, noi dovremmo cercare di fare ciò che renderebbe l'esito il migliore possibile. Se posse diamo la disposizione ad agire in questo modo, siamo puri operatori di bene. Ora, il fatto che tutti quanti, in ipotesi, siamo puri operatori di be ne, potrebbe rendere l'esito peggiore. Ciò potrebbe essere vero anche se, tra gli atti che possiamo compiere, scegliessimo sempre quelli idonei a rendere l'esito migliore. Gli effetti negativi deriverebbero non dai no stri atti, ma dalla nostra disposizione. Il fatto che, in ipotesi, siamo tutti puri operatori di bene potrebbe avere cattive conseguenze in molti modi. Uno di essi è costituito dalla sua incidenza sulla quantità totale di felicità. Secondo una versione
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plausibile di C, la felicità è una componente cospicua di ciò che rende gli esiti migliori. Gran parte della nostra felicità deriva dall'agire in con formità di certi desideri forti. In tali desideri rientrano quelli impliciti nell'amore per certe persone, quello di lavorare bene, nonché gran parte di quei desideri forti sulla spinta dei quali noi agiamo quando non sia mo impegnati nel lavoro. Ebbene, se diventassimo puri operatori di be ne, gran parte dei nostri atti non sarebbero altro che tentativi di produr re esiti migliori non solo per la nostra comunità, ma per il mondo inte ro. Di conseguenza, raramente noi agiremmo in conformità di quei desi deri forti. È probabile che ciò produrrebbe un'enorme diminuzione del la quantità totale di felicità. In tal modo l'esito sarebbe peggiore, anche se, tra gli atti che possiamo compiere noi scegliessimo sempre quello che rende l'esito migliore. Ciò non potrebbe rendere l'esito peggiore di quel che è di/atto, stante la disposizione che di fatto le persone hanno. Ma renderebbe l'esito peggiore di come potrebbe essere se noi non fos simo puri operatori di bene, ma avessimo certi altri desideri e disposi zioni causalmente possibili. Ci sono diversi altri modi in cui il fatto ipotetico che siamo tutti quan ti puri operatori di bene può rendere l'esito peggiore. Uno di essi dipen de da questa circostanza: quando vogliamo agire in certi modi, è molto probabile che inganniamo noi stessi circa gli effetti dei nostri atti; è mol to probabile che crediamo, falsamente, che quegli atti produrranno l'e sito migliore. Consideriamo, per esempio, il caso dell'uccisione di un'al tra persona. Se vogliamo la morte di qualcuno, è facile per noi credere, falsamente, che la morte di quella persona renderà l'esito migliore. Per tanto l'esito sarebbe migliore se noi avessimo una forte disposizione a non uccidere anche quando credessimo che, facendolo, renderemmo l'esito migliore. Tale disposizione resterà inefficace solo qualora noi cre diamo che, uccidendo, renderemo l'esito di gran lunga migliore. Tesi analoghe, ancorché più deboli, valgono al riguardo dell'ingannare e del l'esercitare costrizioni sugli altri, nonché di diversi altri tipi di atti. 10
11.
Perché C non è intrinsecamente fallace
Assumerò che C, in questi e in altri modi, indirettamente si condanna all'insuccesso sul piano collettivo. Se tutti quanti fossimo puri operatori di bene, l'esito sarebbe peggiore che se avessimo qualche altro insieme di motivazioni. Se ci rendiamo conto di questo, C ci dice che è sbagliato fare in modo di essere, o di restare, puri operatori di bene. Poiché C af ferma questa tesi, non è intrinsecamente fallace. C non si autocondanna. Questa difesa di C è analoga a quella da me formulata di S. Vale la pe-
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na, però, di sottolineare una differenza tra le due. S indirettamente si condanna all'insuccesso sul piano individuale quando è vero di una per sona che per lei possedere la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse sarebbe peggio che possedere un altro insieme di desi deri e disposizioni. Nei termini di S questo sarebbe un effetto negativo. E tale effetto negativo si verifica spesso. Ci sono molte persone la cui vi
ta peggiora perché non vanno mai, o vanno molto raramente, contro il proprio interesse. C indirettamente si condanna all'insuccesso sul piano collettivo quando è vero che il fatto che alcuni di noi o tutti noi siamo puri operatori di bene rende l'esito peggiore di quel che sarebbe se avessimo certe altre motivazioni. Nei termini di C, questo sarebbe un ef fetto negativo. Ma questo effetto negativo potrebbe non verificarsi. Di puri operatori di bene ce ne sono pochi ed, essendo pochi, il fatto che essi possiedano tale disposizione potrebbe non rendere l'esito comples sivamente peggiore. L'effetto negativo nei termini di S si verifica spesso. L'effetto negativo nei termini di C può non verificarsi. Ma questa differenza non ha alcun rilievo per la mia difesa di S e di C. Entrambe le teorie ci dicono di evi tare le disposizioni che avrebbero quegli effetti negativi. È per questo che S non è intrinsecamente fallace e che C non lo sarebbe. Il fatto che quegli effetti negativi si verifichino davvero oppure no è irrilevante. La mia difesa di C assume che noi possiamo mutare le nostre disposi zioni. Qualcuno potrebbe avanzare un'obiezione: «Supponiamo che noi tutti, credendo in C, siamo dei puri operatori di bene. Supponiamo, inoltre, di non poter cambiare le nostre disposizioni. Queste nostre di sposizioni produrrebbero effetti negativi nei termini di C e questi sareb bero la conseguenza della credenza in C. In tal caso C sarebbe intrinse camente fallace». Ho ricordato un'obiezione analoga alla mia difesa di S. L'una
12.
e
l'altra verranno discusse nel paragrafo 18.
L'etica della fantasia
Ho assunto che C si condanna indirettamente all'insuccesso sul piano collettivo. Ho assunto che, se tutti quanti fossimo puri operatori di be ne, l'esito sarebbe peggiore che se avessimo certi altri insiemi di motiva zioni. Se questa tesi è vera, C ci dice che dovremmo cercare di avere uno di questi altri insiemi di motivazioni. Se questa tesi sia vera è in parte una questione fattuale. Dovrei dire molto di più se, anziché assumere la verità di questa tesi, desiderassi di mostrarla. Ma non cercherò di farlo per tre ragioni. In primo luogo sono convinto che questa tesi probabilmente è vera. Ritengo, inoltre, che, an-
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ziché argomentare su dei fatti, convenga discutere le implicazioni della tesi in esame. La terza ragione è che io assumo che, di/atto, nella stra grande maggioranza, gli uomini non diventerebbero puri operatori di bene nemmeno se giungessero a convincersi che il consequenzialismo è la migliore teoria morale. Sulla base di un assunto analogo, Mackie chiama l'utilitarismo dell'at to «l'etica della fantasia»Y Al pari di diversi altri autori, egli assume che, qualora una teoria morale fosse, in questo senso, irrealisticamente esigente- ossia se fosse vero che, quand'anche la accettassimo tutti, la maggior parte delle persone raramente farebbe ciò che ci dice di fare-, noi la dovremmo respingere. Mackie è convinto che una teoria morale è qualcosa che noi inventiamo. Se ciò è vero, è plausibile sostenere che una teoria accettabile non può essere irrealisticamente esigente. Ma, se condo altre concezioni della natura della moralità, una tesi del genere non è plausibile. Noi possiamo bensì sperare che la migliore teoria non sia irrealisticamente esigente. Ma, secondo queste concezioni, si tratta solo di una speranza. Non possiamo assumere che ciò debba esse re vero. Supponiamo che io abbia torto di assumere che C indirettamente si condanna all'insuccesso sul piano collettivo. Anche se questo è falso, noi possiamo plausibilmente assumere che C è irrealisticamente esigen te. Quand'anche l'eventualità che diventiamo tutti quanti dei puri ope ratori di bene non rendesse l'esito peggiore, probabilmente resterebbe causalmente impossibile che tutti o quasi tutti diventiamo dei puri ope ratori di bene. Questi assunti, pur essendo del tutto diversi tra loro, hanno una me desima implicazione. Se è causalmente impossibile che diventiamo puri operatori di bene, C implica nondimeno che dobbiamo cercare di pos sedere uno dei migliori insiemi possibili di motivazioni in termini di consequenzialismo. Pertanto questa implicazione merita di essere di scussa (l) se C o indirettamente si condanna all'insuccesso o è irrealisti camente esigente o sono vere entrambe le cose, e (2) se né l'uno né l'al tro di questi fatti è tale da dimostrare che C non può essere la teoria mi gliore. Sebbene io non sia ancora convinto che C è la teoria migliore, credo che siano vere sia (l) che (2).
13. Il consequenzialismo collettivo Vale la pena di distinguere C da un'altra forma di consequenzialismo. Per come è stata presentata fin qui, C è una teoria individualistica e una teoria interessata agli effetti reali. Secondo C, ciascuno di noi dovrebbe
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cercare di fare ciò che, stante quello che gli altrz; di /atto, faranno, rende rebbe l'esito migliore. E ciascuno di noi dovrebbe cercare di avere, tra i possibili insiemi di motivazioni, uno di quelli che avrebbero gli effetti migliori, stanti gli insiemi di motivazioni che gli altri, di fatto, avranno. Ciascuno di noi dovrebbe chiedersi: «C'è un altro insieme di motivazio ni che sia, a un tempo, possibile per me e tale che, se io lo avessi, l'esito sarebbe migliore?» Le nostre risposte dipenderanno da ciò che sappia mo o possiamo prevedere al riguardo delle motivazioni che avranno gli altri. Che cosa posso prevedere mentre scrivo queste parole nel gennaio 1983? So che la maggior parte di noi continuerà ad avere le stesse moti vazioni che ha ora. La maggior parte di noi amerà certe altre persone e proverà quegli altri desideri forti da cui dipende gran parte della felicità. Poiché quel che so è questo, C potrebbe dirmi di sforzarmi di essere un puro operatore di bene. Ciò può rendere l'esito migliore, anche se, nel caso in cui tutti fossimo puri operatori di bene, ne deriverebbe un esito peggiore. Se le persone, per lo più, non sono puri operatori di bene, il fatto che poche persone lo siano può rendere l'esito migliore. Se, in gran parte, le persone resteranno come sono adesso, ci saranno molte sofferenze, molta ineguaglianza e molte di quelle altre cose che produ cono esiti negativi. Ebbene, molte di queste sofferenze io potrei abba stanza agevolmente scongiurarle, così come potrei fare molto, in altri modi, per rendere l'esito migliore. A rendere l'esito migliore potrei con tribuire rinunciando a stretti legami personali e facendo sì che gli altri miei desideri forti divengano comparativamente più deboli, in modo da poter essere un puro operatore di bene. Se ho fortuna, una scelta del genere può non essere negativa per me. La mia vita sarà tagliata fuori da gran parte delle fonti che alimentano la felicità. Ma una fonte di felicità è la convinzione di fare del bene e que sta convinzione può darmi felicità, rendendo la mia austera esistenza non solo moralmente buona, ma anche appagante. Può anche darsi che abbia meno fortuna e che, per quanto io diventi un puro operatore di bene, la mia esistenza, per me, lungi dall'essere positiva, si riveli molto peggiore di altre possibili. Secondo molte teorie plausibili dell'interesse personale ciò potrebbe verificarsi. In tal caso le esigenze avanzate su di me da C possono apparire ingiuste. Perché mai a tagliar fuori la propria esistenza da gran parte delle fonti di felicità do vrei essere io? O, più esattamente, perché mai dovrei essere uno dei po chi che, come vuole C, devono cercare di farlo? Non sarebbe più giusto che tutti quanti faccessimo di più per rendere gli esiti migliori? Ciò suggerisce una forma di consequenzialismo che è, a un tempo,
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collettivo e interessato agli effetti ideali. Secondo tale teoria, ciascuno di noi dovrebbe cercare di avere uno degli insiemi di desideri e di disposi zioni tali che, se tutti ne avessero uno, si avrebbe un esito migliore che se tutti ne avessero altri. Questa formulazione può essere interpretata in vari modi, e nel rimuoverne le ambiguità si incontrano difficoltà ben no te. Alcune versioni di tale teoria, inoltre, prestano il fianco a obiezioni molto forti. Quelle versioni, infatti, ci invitano a ignorare ciò che di fatto accadrebbe, in modi che potrebbero essere disastrosi. Tuttavia il conse quenzialismo collettivo (CC) esercita un notevole fascino. Più innanzi suggerirò in che modo una teoria più complessa possa evitare quelle obiezioni senza rinunciare al fascino di CC.
CC non differisce da C solo per le tesi che avanza circa i nostri deside ri e le nostre disposizioni. È su ciò che dobbiamo fare che le due teorie divergono. Prendiamo, per esempio, il problema di quanto i ricchi do vrebbero dare ai poveri. Per la maggior parte dei consequenzialisti, il problema trascende i confini della propria nazione. Poiché io sono a co noscenza del fatto che per lo più le altre persone ricche daranno contri buti molto modesti, a me riuscirebbe difficile negare che sarebbe meglio che io destinassi allo scopo quasi tutti i miei redditi . Quand'anche io ri nunciassi ai nove decimi di essi, qualcosa del decimo che mi resta pro durrebbe un vantaggio maggiore se fosse speso da persone poverissime. Così il consequenzialismo mi dice che devo rinunciare a quasi tutti i miei redditi. Il consequenzialismo collettivo è molto meno esigente. Quel che mi dice è che io devo elargire non quella porzione del mio reddito che di fatto renderebbe l'esito migliore, ma una porzione tale che, se tutti la offrissero, produrrebbe l'esito migliore. Più esattamente, esso mi dice di rinunciare a quella parte che mi sarebbe richiesta da una specifica tassa internazionale sul reddito che produrrebbe l'esito migliore. Tale tassa sarebbe progressiva e quindi stabilirebbe per le persone più ricche delle aliquote più elevate. Ma essa esigerebbe da ciascuno molto meno di ciò che esigerebbe C sulla scorta di una qualsiasi previsione plausibile di ciò che di fatto gli altri offriranno. Può darsi che sia meglio che le persone ricche come me rinuncino solo alla metà o ad un quarto dei propri red diti. Potrebbe essere vero, infatti, che, qualora tutti quanti dessimo di più, l'economia dei nostri paesi riceverebbe un contraccolpo così grave che in futuro essi avrebbero molto meno da offrire. E potrebbe essere vero, altresì, che, se tutti quanti dessimo di più, la nostra offerta finireb be per essere troppo cospicua per poter essere assorbita dall'economia dei paesi più poveri. La differenza sulla quale ci siamo soffermati emerge soltanto all'inter-
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no di quella che viene chiamata teoria dell'osservanza parziale. Essa fa parte di una teoria morale riguardante i casi in cui noi sappiamo che certe altre persone non faranno quello che devono fare. C potrebbe esi gere che alcune persone rinuncino a quasi tutto il loro denaro e cerchi no di diventare dei puri operatori di bene. Ma ciò accadrebbe solo per ché la grande maggioranza delle altre persone non fa ciò che, secondo C, deve fare, ossia non dona ai poveri quella quantità di denaro che de
ve elargire loro. Qualcuno ha sostenuto che C, con la sua teoria dell'osservanza par ziale, è troppo esigente. Questa tesi è diversa da quella secondo cui C è irrealisticamente esigente. Come ho detto, io ritengo che ciò non rappre
senterebbe affatto un'obiezione. Ciò che si sostiene è che C, con la sua teoria dell'osservanza parziale, avanza esigenze ingiuste o irragionevoli. Questa obiezione non la si può avanzare nei confronti della teoria del l'osservanza totale di C C sarebbe molto meno esigente se tutti noi pos sedessimo uno dei possibili insiemi di motivazioni che, secondo C, dob
biamo cercare di acquisire. 12
14. Dell'agire in modo sbagliato senza essere biasimevoli C, pur condannandosi indirettamente all'insuccesso, non è intrinseca
mente fallace. Tuttavia può sembrare suscettibile di altre obiezioni. Esse sono analoghe a quelle sollevate nel corso della discussione 'di S. Suppo niamo che tutti noi crediamo C e abbiamo degli insiemi di motivazioni che rientrano, in termini di consequenzialismo, tra i migliori possibili. lo ho sostenuto che, per lo meno per la maggior parte di noi, questi in siemi di motivazioni non comportano che noi siamo puri operatori di bene. Se non lo siamo, a volte faremo cose che crediamo renderanno l'e sito peggiore. In tal caso, secondo C, noi agiremo in modo sbagliato. Eccone un esempio. Gran parte dei migliori insiemi possibili di moti vazioni comprende un grande amore per i propri figli. Supponiamo che Clare possieda uno di quegli insiemi di motivazioni. Ebbene, consideria mo La decisione di Clare. Clare può scegliere tra queste due alternative:
o fare del bene a suo figlio o procurare un beneficio molto maggio re a una persona estranea molto sfortunata. Poiché ama suo figlio, decide di fare del bene a lui anziché all'estraneo. Da consequenzialista, Clare può assegnare un rilievo morale non solo al la quantità di bene che i bambini ricevono, ma anche al fatto che quel bene lo ricevano dai propri genitori. Potrebbe pensare, infatti, che la sol-
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lecitudine e l'amore parentale siano per se stessi, ossia intrinsecamente, una componente di ciò che rende gli esiti migliori. Anche in questo ca so, però, Clare potrebbe credere di fare qualcosa che rende l'esito peg giore, e quindi di agire in modo sbagliato. Si noti che la sua azione è del tutto volontaria; ciò che crede essere sbagliato, se volesse potrebbe be nissimo evitare di farlo. Se non evita di farlo è semplicemente perché il suo desiderio di fare del bene a suo figlio è più forte del desiderio di non fare ciò che reputa sbagliato. Di solito, se qualcuno fa liberamente ciò che reputa sbagliato, è passi bile di serie critiche morali. Ebbene, Clare deve ritenersi passibile di tali critiche? Come consequenzialista potrebbe negarlo e replicare come fa ceva Kate quando sosteneva di non essere irrazionale. Le sue parole po trebbero essere le seguenti: «lo agisco in modo sbagliato perché voglio bene a mio figlio. Sarebbe sbagliato, per me, fare in modo di perdere il mio amore per lui. Questo effetto negativo fa parte di un insieme di ef fetti che è, complessivamente, uno dei migliori possibili. Per me sarebbe sbagliato cambiare le mie motivazioni in modo da non incorrere più in futuro in errori del genere. Stando così le cose, quando incorro in que sto errore, non è affatto necessario che consideri me stessa moralmente cattiva. Come abbiamo visto, può esserci un'irrazionalità razionale. Allo stesso modo può esserci anche un'immoralità morale, ossia un'azione sbagliata non biasimevole. In tal caso, a essere immorale è l'azione e non l'agente». Senonché le si potrebbe di nuovo obiettare: «L'effetto negativo che hai prodotto, avresti potuto evitarlo. Non lo puoi considerare alla stre gua del dolore che un chirurgo non può fare a meno di procurare al pa ziente, quando gli appresta il miglior trattamento possibile. L'effetto ne gativo, nel tuo caso, è il risultato di un atto volontario e separato. Dal momento che lo si poteva evitare, non si può sostenere che esso fa parte di uno dei migliori insiemi di effetti possibili». Clare potrebbe replicare: «È vero, avrei potuto agire diversamente. Ma ciò significa soltanto che lo avrei fatto se le mie motivazioni fossero state diverse. Stanti le mie effettive motivazioni, è causalmente impossi bile che io agisca diversamente. E se le mie motivazioni fossero state di verse, l'esito che ne sarebbe derivato sarebbe stato, nel complesso, peg giore. Poiché le mie effettive motivazioni costituiscono, in termini con sequenzialistici, uno dei migliori insiemi possibili, gli effetti negativi fan no parte davvero, e in senso appropriato, di uno dei migliori insiemi possibili di effetti». Qualcuno potrebbe obiettare: «Se, stanti le tue effettive motivazioni, non è causalmente possibile che tu agisca diversamente, non puoi discu tere della cosa in termini di dovere. Dovere implica potere».
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La risposta di Kate a questa obiezione è riportata nel paragrafo 6. Non si può sostenere che Clare doveva agire diversamente, se non pote va farlo. Quest'ultima condizione non significa: «se, stanti le sue effetti ve motivazioni, ciò sarebbe stato causalmente impossibile», ma invece: «se, quali che fossero le sue motivazioni, ciò sarebbe stato causalmente impossibile». Al pari di Kate, anche Clare può aver torto ad assumere il determini smo psichico. In questo caso, le sue tesi possono essere rivedute. Essa dovrebbe cessare di sostenere che il fatto di possedere uno dei migliori insiemi possibili di motivazioni la porterà inevitabilmente a fare ciò che crede essere sbagliato. Potrebbe invece affermare quanto segue: «Se io fossi un puro operatore di bene, mi sarebbe facile non fare ciò che repu to sbagliato. Ma dal momento che ho un altro insieme di motivazioni, mi è molto difficile agire così. D'altro canto, per me sarebbe sbagliato cambiare le mie motivazioni in modo tale che mi sia più facile agire di versamente. Stando così le cose, quando agisco in questo modo sono moralmente cattiva solo in un senso molto debole». Consideriamo ora
Il caso immaginario. Potrebbe darsi che Clare si sia trovata in con dizione di dover scegliere se salvare la vita di suo figlio o salvare la vita di diversi estranei. Poiché ama suo figlio, Clare avrebbe salvato lui e quegli estranei sarebbero morti. Se ciò fosse accaduto, Clare avrebbe potuto avanzare le stesse tesi? La morte di diversi estranei sarebbe stato un effetto molto negativo. Avreb be potuto la donna sostenere che esso rientrava in uno dei migliori in siemi di effetti possibili? La risposta potrebbe essere negativa. Se Clare non avesse amato suo figlio, l'esito avrebbe potuto essere migliore. Ciò sarebbe stato peggio per lei e, ancor più, per suo figlio. Ma in quel caso si sarebbe salvata la vita di diversi estranei. Questo effetto positivo avrebbe potuto sopravanzare gli effetti negativi, facendo sì che l'esito, nel complesso, fosse migliore. In tal caso Clare avrebbe potuto dire: «Non avevo alcuna ragione per credere che l'amore per mio figlio avrebbe avuto questo effetto molto negativo. Per me, soggettivamente, era giusto che mi permettessi di amare mio figlio, mentre sarebbe stato riprovevole, ossia soggettivamen te sbagliato, fare in modo di perdere tale amore. Quando salvo mio fi glio anziché gli estranei, io agisco sulla spinta di motivazioni che, per me, sarebbe stato sbagliato fare in modo di perdere. Tutto ciò basta a giustificare la mia tesi secondo cui, quando agisco così, si verifica un ca so di azione sbagliata non riprovevole».
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Un consequenzialista avrebbe potuto obiettare: «Se Clare sa di poter salvare quegli estranei, per lei non è soggettivamente sbagliato fare in modo di non amare suo figlio. Ciò, anzi, è giusto, perché in tal modo salva quegli estranei». Ma Clare avrebbe potuto rispondere: «Non mi era assolutamente possibile spegnere il mio amore con la rapidità neces saria. Mutare le proprie motivazioni è senz'altro possibile; ma quando si tratta di quelle più profonde, occorre molto tempo. Per me, cercare di perdere l'amore per mio figlio sarebbe stato sbagliato. Quand'anche mi ci fossi provata, ci sarei riuscita solo quando quegli estranei erano già morti. E, a questo punto, quel cambiamento delle mie motivazioni avrebbe reso l'esito peggiore». Come emerge da questa risposta, le tesi di Clare fanno leva essenzial mente su certi assunti di natura fattuale. Può darsi sia vero che, se la donna avesse avuto la disposizione propria di un puro operatore di be ne, l'esito, nel complesso, sarebbe stato migliore. Ma noi stiamo assu mendo che ciò è falso. Stiamo assumendo che l'esito sarebbe migliore qualora Clare avesse un insieme di motivazioni capaci di indurla, a vol te, a scegliere di fare ciò che crede renderà l'esito peggiore; e, infine, che il suo effettivo insieme di motivazioni è uno dei migliori possibili. Potremmo immaginare altre motivazioni che avrebbero reso l'esito anche migliore. Ma queste, stanti i dati di fatto riguardanti la natura umana, non sono causalmente possibili. Poiché Clare vuol bene a suo fi glio, è lui che essa avrebbe salvato, non quegli estranei. Noi possiamo bensì immaginare che l'amore per i nostri figli sia tale da interrompersi ogniqualvolta è in gioco la vita di altri; e possiamo anche pensare che, se tutti quanti avessimo un amore del genere, ne deriverebbe un esito mi gliore; se tutti quanti dessimo la precedenza alla salvezza di più vite umane, di casi in cui il nostro amore per i figli dovrebbe interrompersi ce ne sarebbero ben pochi, sicché tale amore potrebbe essere non meno intenso di qlianto non sia oggi. Ma, di fatto, è impossibile che il nostro amore sia così: noi non siamo in grado di operare una «sintonizzazione» così fine. Quando qualcosa minaccia la vita del suo bambino, Clare non è in grado di sospendere il suo amore per lui solo perché un'analoga mi naccia pende anche sul capo di diversi estranei.13 Clare afferma che quando fa ciò che crede renderà l'esito peggiore, agisce in modo sbagliato. Ma dice anche un'altra cosa: «Poiché agisco sulla scorta di un insieme di motivazioni che per me sarebbe sbagliato perdere, questi atti non sono riprovevoli. Quando agisco così, non c'è affatto bisogno che mi consideri moralmente cattiva. Se il determinismo psicologico non fosse vero, io sarei, sì, moralmente cattiva, ma solo in un senso molto debole: non dovrei avvertire rimorsi per ciò che faccio. Né dovrei propormi di cercare di non agire più in questo modo».
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A questo punto si potrebbe obiettare che Clare, dal momento che so stiene queste tesi, non può credere veramente di agire in modo sbagliato. In realtà ci sono invece ragioni sufficienti per pensare che lo crede per dawero. Consideriamo il caso immaginario in cui essa salva il proprio bambino anziché un certo numero di estranei. Pur amando il proprio fi glio, Clare non avrebbe pensato che la sua morte sarebbe stata un esito peggiore della morte di quegli estranei. Certo, sarebbe stata un esito peggiore per lui e per lei. Tuttavia, lei avrebbe creduto che la morte de gli estranei, nell'insieme, sarebbe stata molto peggiore. Salvando il figlio anziché gli estranei, avrebbe fatto una cosa che credeva avrebbe reso l'e sito molto peggiore e quindi avrebbe creduto di agire in modo sbaglia to. È la sua teoria morale a comportare come diretta conseguenza que
sta convinzione. Agendo in quel modo, peraltro, la donna avrebbe an che creduto di non dover provare alcun rimorso. Ma la ragione per cui lo credeva non era tale da ingenerare il dubbio nella sua convinzione di aver agito in modo sbagliato. Quella ragione consisteva nel fatto di aver agito sulla scorta di una motivazione - l'amore per il figlio - che per lei sarebbe stato sbagliato fare in modo di perdere. Questa circostanza suf fraga la tesi che la donna non merita alcun biasimo, ma non la tesi che la sua azione non è sbagliata. Si potrebbe dire:
(G4) Se qualcuno agisce sulla scorta di una motivazione che deve fa re in modo di avere e che, per lui, sarebbe sbagliato fare in mo do di perdere, non si può dire che agisca in modo sbagliato. Se (G4) fosse giustificata, risulterebbe fondata la tesi che l'ipotetica azione di Clare non era sbagliata; e ciò sosterrebbe la tesi che essa non può credere veramente che quell'azione sarebbe stata sbagliata. Ma nel paragrafo 16 io descriverò un caso in cui (G4) non è plausibile. Clare potrebbe aggiungere che, in molti altri casi possibili, qualora credesse che un proprio atto è sbagliato, crederebbe anche di essere mo ralmente cattiva, e proverebbe rimorso. Ciò accadrebbe frequentemente nei casi in cui avesse fatto qualcosa che credeva avrebbe reso l'esito peg giore, ma
non
sulla scorta di un insieme di motivazioni che, per lei, sa
rebbe stato sbagliato fare in modo di perdere. Il consequenzialismo, in generale, non spezza il legame tra credenza di aver agito male da un lato e
biasimo e rimorso dall'altro. Lo spezza solo in casi speciali. La discus
sione appena fatta riguarda proprio un caso di questo tipo: quello in cui una persona agisce sulla scorta di una motivazione che per lei sarebbe sbagliato fare in modo di perdere. C'è un altro tipo di casi in cui quel legame viene spezzato. C si appli-
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ca a tutto quanto, anche al biasimo e al rimorso. Secondo C, dobbiamo biasimare e provare rimorso solo quando ciò valga a rendere l'esito mi gliore: è quanto avviene quando biasimo e rimorso farebbero sì che le nostre motivazioni cambino in un senso che renderebbe l'esito migliore. Ciò non è vero quando, come nel caso di Clare, si possiede uno dei mi gliori insiemi possibili di motivazioni; e può non essere vero anche quando motivazioni del genere non le abbiamo. Se ci si biasima troppo frequentemente, il biasimo può essere meno efficace. Così C può impli care che, anche se non abbiamo uno dei migliori insiemi di motivazioni, dovremmo essere biasimati solo per quegli atti che crediamo renderan no l'esito molto peggiore.
15. Può essere impossibile evitare di agire in modo sbagliato?
Le affermazioni di Clare implicano che essa non può evitare di fare ciò che crede essere sbagliato. La donna potrebbe dire: «Non è causai mente possibile che io, a un tempo, abbia uno dei migliori insiemi possi bili di motivazioni e non faccia mai ciò che credo essere sbagliato. Se fossi un puro operatore di bene, i miei atti ordinari non sarebbero mai sbagliati. Senonché, agirei in modo sbagliato se consentissi a me stessa di restare un puro operatore di bene. Se, invece, come devo fare, mi so no procurata uno dei migliori insiemi possibili di motivazioni, allora, a volte, farò ciò che credo essere sbagliato. Se non possiedo la disposizio ne di un puro operatore di bene, non è causalmente possibile che agisca sempre come un puro operatore di bene e che non faccia mai ciò che
credo sbagliato. Ora, dal momento che ciò non è causalmente possibile e che per me sarebbe sbagliato fare in modo di essere un puro operatore di bene, non mi si possono rivolgere critiche di tipo morale per il fatto che non sempre agisco come un puro operatore di bene». A questo punto si può osservare che C, per come viene presentata da Clare, manca di uno dei tratti essenziali di una qualsiasi teoria morale. Si potrebbe obiettare: «Nessuna teoria può chiedere l'impossibile». Poi ché non possiamo evitare di fare ciò che C sostiene essere sbagliato, non possiamo fare sempre ciò che, secondo C, dobbiamo fare. Perciò dob biamo respingere C. Anche qui dovere implica potere. Questa obiezione resta anche se si nega il determinismo psichico. Si supponga che Clare abbia salvato il proprio figlio anziché un certo nu mero di estranei. Essa ha agito in questo modo in quanto non possiede la disposizione di un puro operatore di bene. Il suo amore materno è stato più forte del desiderio di astenersi dal fare ciò che crede essere sbagliato. Ebbene, in questo caso, se neghiamo il determinismo, neghe-
"/ 'eorie che si condannano indirettamente all'insuccesso
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rl'mo anche che per Clare sarebbe stato causalmente impossibile evitare 'l i fare ciò che crede essere sbagliato. Con uno sforzo di volontà, essa
:tvrebbe potuto agire contro il suo desiderio più forte. Ma, quand'anche :tvanzassimo questa tesi, non potremmo affermare che Clare può agire 11·mpre come un puro operatore di bene senza possedere la disposizione di un puro operatore di bene. Neppure coloro che negano il determini
smo psichico possono spezzare del tutto il legame tra atti e disposizioni. Se non possiamo agire sempre come dei puri operatori di bene senza avere la disposizione del puro operatore di bene, l'obiezione avanzata sopra conserva il suo valore, e dobbiamo ammettere la conseguenza a cui approda anche se neghiamo il determinismo. Stiamo assumendo che noi crediamo che, se tutti quanti fossimo puri operatori di bene, l'esito sarebbe peggiore, e che tale credenza è vera. Se è questo che crediamo, non è possibile che non facciamo mai ciò che crediamo renderà l'esito peggiore. Se facciamo in modo di essere o di restare puri operatori di hene, in tal modo facciamo ciò che crediamo renderà l'esito peggiore. Se invece abbiamo altri desideri e altre disposizioni, non è possibile che agiamo sempre come puri operatori di bene e che non facciamo mai ciò che sappiamo renderà l'esito peggiore. E allora colui che avanzava quel l'obiezione potrà concludere: «Anche se il determinismo non è vero, non è possibile che non facciamo mai ciò che sappiamo renderà l'esito peggiore. Quando C sostiene che non dobbiamo mai agire così, ci chie de l'impossibile, e poiché dovere implica potere, la tesi di C è indifendi
hile». Clare potrebbe rispondere: «Nella maggior parte dei casi, quando qualcuno agisce in modo sbagliato, merita di essere biasimato e dovreb he provare rimorso. Ciò è quanto c'è di più plausibile nella dottrina se condo cui dovere implica potere. È difficile credere che possano esserci casi in cui, qualunque cosa uno faccia o possa aver fatto, meriti di essere hiasimato e debba provare rimorso. È difficile credere che per una per sona possa essere impossibile evitare di agire in modo biasimevole. C non implica questa credenza. Se io salvassi mio figlio anziché un certo
numero di estranei, crederei di fare una cosa che renderà l'esito molto peggiore e quindi crederei di agire in modo sbagliato. Ma si tratterebbe di un caso di azione sbagliata non biasimevole. Secondo C, noi possiamo sempre evitare di compiere ciò che merita di essere biasimato. E ciò ba sta a soddisfare la dottrina secondo cui dovere implica potere». Qualcuno potrebbe pensare che queste osservazioni non bastano a li quidare l'obiezione. Anche a Sera stata mossa un'obiezione analoga: è impossibile- si era detto- non fare mai ciò che Ssostiene essere irrazio nale. Per ribattere a questa obiezione, avevo incominciato rifacendomi
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Teorie che si condannano all'insuccesso
alla discussione condotta nel paragrafo 5, quella relativa alla risposta di Schelling al caso della rapina a mano armata. In quella situazione, se condo una qualsiasi teoria plausibile della razionalità, non avrei potuto evitare di agire irrazionalmente. Per fronteggiare l'obiezione a C, Clare può far leva su altri casi in cui non possiamo evitare di agire in modo sbagliato. Che casi del genere esistano è stato sostenuto da alcuni degli autori che si sono opposti con maggior decisione a C. Questa loro rispo sta viene discussa in nota. 14
16. Può essere giusto far sì che agiamo in modo sbagliato?
Poiché si condanna indirettamente all'insuccesso, C ci dice di far sì che facciamo - o che sia più probabile che facciamo - ciò che sostiene essere moralmente sbagliato. Nei termini di C, questa circostanza non rappresenta un difetto. In proposito possiamo porci una domanda ana loga a quella formulata al riguardo della teoria dell'interesse personale. C ci assegna un obiettivo morale sostantivo: che la storia evolva nel mi gliore dei modi. Ebbene, forse che ce ne assegna anche un secondo, cioè di non agire mai in modo sbagliato? La versione più nota di C, ossia l'u tilitarismo, risponde di no. Per gli utilitaristi evitare di agire in modo sbagliato è un mero mezzo per il conseguimento dell'unico obiettivo morale sostantivo: in sé non è un obiettivo sostantivo. Lo stesso potreb bero sostenere quelle versioni di C che giudicano la bontà degli esiti nei termini non di uno solo, ma di diversi principi morali. Lo potrebbe so stenere, per esempio, la teoria che fa appello sia al principio utilitaristi co che al principio di uguaglianza. Tutte queste teorie ci assegnano l'o biettivo formale di agire moralmente e di astenerci dall'agire in modo sbagliato; ma tutte possono sostenere, altresì, che questo obiettivo for male non rientra nel nostro obiettivo morale sostantivo. Anche se il consequenzialismo può avanzare questa tesi, molte altre teorie morali non lo farebbero. Secondo tali teorie evitare di agire in modo sbagliato rappresenta anch'esso un obiettivo morale sostantivo. Qualora accettassimo una di queste teorie, potremmo avanzare obiezio ni a C in almeno due modi. Potremmo osservare: «Una teoria accettabi le non può trattare l'agire moralmente come un mero mezzo». Questa obiezione verrà discussa nel paragrafo 19. Potremmo anche dire: «Una teoria accettabile non può dirci di far sì che agiamo in un modo che ' questa stessa teoria sostiene essere sbagliato». Se l'obiezione che solleviamo è questa, dovremmo chiedere: noi cre diamo davvero che gli atti in questione sono sbagliati? Stiamo conside rando i casi in cui un consequenzialista, pur agendo in modo sbagliato,
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ritiene di non essere moralmente cattivo, perché agisce sulla scorta di motivazioni che, per lui, sarebbe sbagliato fare in modo di perdere. Eb hene, in questi casi, noi crediamo veramente che il nostro consequenzia lista agisca in modo sbagliato? Ciò è molto improbabile nel caso immaginario in cui Clare salva il proprio bambino invece che un certo numero di estranei. Se non siamo consequenzialisti, probabilmente penseremo che l'atto di Clare non è sbagliato. E forse diremmo la stessa cosa di alcuni altri casi del genere. Supponiamo che Clare si astenga dall'uccidermi, pur avendo la fondata convinzione che, uccidendomi, renderebbe l'esito migliore. In tal caso Clare penserebbe che, astenendosi dall'uccidermi, ha agito in modo sbagliato, ma considererebbe il suo comportamento come un caso di azione sbagliata non biasimevole. Essa agisce in modo sbagliato perché ha una forte disposizione a non uccidere e perché, per le ragioni enun ciate alla fine del paragrafo 10, ritiene trattarsi di una disposizione che, per lei, sarebbe sbagliato fare in modo di perdere. Ebbene, noi possia mo ancora ritenere che, astenendosi dall'uccidermi, Clare non agisce in modo sbagliato. Se, su casi del genere, è così che la pensiamo, finisce per essere meno chiaro che si debbano avanzare obiezioni a questa parte di C. La tesi di C secondo cui, in questi casi, Clare non si dimostra moralmente cattiva, ossia non merita alcun biasimo, noi la accettiamo. Su questo non ci sono divergenze. Il punto su cui possiamo avanzare obiezioni è la tesi di C se condo cui Clare, pur non essendo meritevole di biasimo, agisce in modo sbagliato. Ma forse a questa tesi non dovremmo fare obiezioni, se non ha le implicazioni che solitamente la accompagnano. Possiamo ancora obiettare, però, che un'accettabile teoria morale non può dirci di far sì che agiamo in un modo che quella stessa teoria sostiene essere sbagliato. Consideriamo il caso seguente, che chiamerò La mia corruzione morale. Supponiamo che io sia impegnato in una carriera pubblica che, se fossi coinvolto in uno scandalo, verrebbe stroncata. Ho un nemico, un criminale che ho consegnato alla giu satizia e che, ormai rilasciato, vuole vendicarsi. Questi, anziché li mitarsi a farmi del male, decide di costringermi a essere disonesto, sapendo che io giudico questa evenienza peggiore della maggior parte dei mali che mi può arrecare. Mi fa quindi questo ricatto: se io non farò certe cose oscene che lui filmerà, o lui o un membro della sua banda ucciderà tutti i miei figli. Se, in seguito, egli man dasse il filmato a un giornalista, stroncherebbe la mia carriera. Sarà così in grado di indurmi a scegliere di agire male, minacciando di rovinarmi. Con questo ricatto farà sì che io decida di aiutarlo a
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commettere vari reati minori. Pur essendo onesto come la maggior parte della gente, io non sono un santo. Delitti gravi non li com metterei mai solo per salvare la mia carriera, ma sarei disposto ad aiutare il mio nemico a commettere delitti minori. In tal caso il mo do in cui mi comporterei è sbagliato anche se si tiene conto del fat to che, se mi rifiutassi di farlo, la mia carriera sarebbe rovinata. Possiamo inoltre supporre che, conoscendo bene il mio nemico, ho buone ragioni per credere che, se mi rifiuterò di !asciargli filmare quelle scene, i miei figli verranno uccisi, mentre, se non mi rifiute rò, non verranno uccisi. Ciò che il mio nemico mi chiede lo devo fare. Si può sostenere plausibil mente che i governi non dovrebbero cedere a ricatti del genere, perché in tal modo non farebbero altro che esporsi ad altri ricatti. Ma questa tesi non è applicabile al ricatto che mi fa il mio nemico. Per me, dato che l'esito previsto è l'uccisione dei miei figli, sarebbe sbagliato oppor mi alle sue richieste. Devo fare ciò che quella canaglia mi chiede, pur sa pendo che la conseguenza del mio cedimento sarà che, in seguito, spes so agirò in modo moralmente sbagliato. Una volta che i miei figli siano salvi, spesso, per non compromettere la mia carriera, aiuterò il mio ne mico a commettere dei reati minori. Queste mie azioni future saranno assolutamente volontarie: non posso sostenere che le successive minacce del mio nemico mi costringano a comportarmi così; quand'anche, così facendo, rovinassi la mia carriera, potrei rifiutarmi di compiere quelle azioni moralmente sbagliate. Ho affermato che devo lasciare che quell'uomo giri il suo filmato. Su questo punto sarebbero d'accordo anche molti di coloro che respingo no il consequenzialismo. Costoro converrebbero che, poiché questo è l'unico modo per salvare la vita dei miei figli, devo far sì che sia vero che, in seguito, io spesso debba agire in modo sbagliato. In tal modo es si reputano che un'accettabile teoria morale possa dire a una persona di fare in modo di compiere ciò che tale teoria giudica sbagliato. Data que sta loro credenza, essi non possono obiettare al consequenzialismo que sta possibile implicazione. Una volta concesso al mio nemico di girare quel filmato, assumerei la disposizione ad aiutarlo nel commettere dei reati minori. A questo pun to aggiungiamo al nostro caso degli altri particolari. Potrei fare in modo di perdere questa disposizione abbandonando la carriera. Ma il nemico mi ha fatto un'altra minaccia: se abbandonerò la carriera, la sua banda ucciderà i miei figli. Perciò sarebbe sbagliato, per me, fare in modo di perdere quella disposizione. Al contrario, se mi rifiuterò di aiutarlo nel perpetrare i suoi delitti, egli si limiterà a rovinarmi la carriera, conse-
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gnando a un giornalista il filmato che mi ritrae nell'atto di compiere ( lscenità. Il mio nemico mi dà assicurazione che, se mi rovinerà la carrie ra,
non ucciderà i miei figli. Costringermi a fare ciò che io reputo moral
mente sbagliato, minacciando di rovinarmi la carriera, gli procura un perverso piacere. Tale piacere verrebbe meno se la minaccia fosse quella di uccidere i miei figli. Qualora io lo aiutassi a perpetrare i suoi delitti perché per me è il solo modo per preservare la vita dei miei figli, non crederei di agire in modo sbagliato. Dal momento che il mio nemico vuole che io ritenga di agire in modo sbagliato, non è questo che minac cia di fare. Dal canto mio, conoscendolo, ho buone ragioni per credere alle sue minacce. Poiché è il solo modo per preservare la vita dei miei figli, gli devo lasciar girare quel filmato e devo fare in modo di assumere la di sposizione ad aiutarlo nel compiere dei reati minori. Far sì che io perda tale disposizione, per me, sarebbe sbagliato, perché, se lo facessi, i miei figli verrebbero uccisi. D'altro canto, agendo sulla scorta di questa di sposizione, agisco in modo sbagliato. Non è solo per salvare la mia car riera che io devo aiutare quest'uomo a commettere dei reati. Questo caso dimostra che la tesi ( G4) va respinta. Si tratta della tesi secondo cui, se devo fare in modo di avere una certa disposizione, e se, per me, è sbagliato fare in modo di perderla, quando agisco sulla scorta di tale disposizione non posso agire in modo sbagliato. Nel caso appena illustrato, quando agisco sulla scorta di tale disposizione, agisco in mo do sbagliato.t5 A questo punto enuncerò, accostandoli l'uno all'altro, quattro errori molto simili. Alcuni sostengono che, se per me è razionale fare in modo di avere una certa disposizione, agire secondo tale disposizione non può essere irrazionale. Quella che io ho chiamato risposta di Schelling al caso della rapina a mano armata ha mostrato che ciò è falso. Una seconda tesi è che, se per me è razionale fare in modo di credere che un certo atto è razionale, quell'atto è razionale. Il caso che ho chiamato la mia schiavitù ha mostrato che ciò è falso. Una terza tesi è che, se c'è una disposizione che io devo fare in modo di avere e che per me sarebbe sbagliato fare in modo di perdere, non può essere sbagliato, per me, agire secondo tale diposizione. Il caso appena illustrato mostra che ciò è falso. Una quarta tesi è che, se io devo fare in modo di credere che un certo atto non sa rebbe sbagliato, quest'atto non può essere sbagliato. Nel paragrafo 18 mostrerò che anche questo è falso. Queste quattro tesi assumono che ra zionalità e correttezza morale possono venir trasferite o ereditate. Se per me è razionale o giusto fare in modo o di avere la disposizione ad agire
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in un certo modo o di credere che quel modo di agire è razionale o giu sto, allora questo modo di agire è razionale o giusto. Gli esempi che ho portato mostrano che così non è. Razionalità e correttezza morale non si possono ereditare così. Al riguardo, la verità è più semplice di quanto queste tesi implicano. Queste tesi non possono dimostrare che, se crediamo che un atto è irrazionale o sbagliato, sarebbe un errore com pierlo. 17. Come C può autoannullarsi
Si potrebbe affermare che, se si spezza il legame tra la credenza che il nostro atto è sbagliato e la credenza di essere moralmente cattivi, come talvolta fa il consequenzialismo, di fatto la moralità non verrebbe consi derata con la serietà che merita. Se abbiamo desideri che sono spesso più forti del desiderio di non agire in modo sbagliato, quest'ultimo può riuscire compromesso e indebolito. Tale desiderio può soprawivere so lo a questa condizione: che crediamo che esso debba prevalere sempre sugli altri e che, quando ciò non accade, ne proviamo rimorso. Sulla ba se di queste e altre considerazioni, si potrebbe affermare che mantenere sempre il legame tra le nostre credenze morali e le nostre intenzioni ed emozioni significherebbe rendere l'esito migliore. Se ciò è vero, non cre dere in C significherebbe rendere l'esito migliore. Personalmente ho dei dubbi su queste tesi. Tuttavia vale la pena che riflettiamo su ciò che esse implicano. Secondo C, ciascuno di noi do vrebbe cercare di avere un insieme di desideri e di disposizioni che sia in termini consequenzialistici - uno dei migliori possibili. Il fatto di ave re non soltanto questi desideri e queste disposizioni, ma anche le corri spondenti credenze ed emozioni morali può rendere l'esito migliore. Consideriamo, per esempio, il furto. Secondo alcune versioni di C, sottrarre ad altri ciò che appartiene loro è cosa intrinsecamente cattiva. Secondo altre versioni di C non lo è: il furto è cosa cattiva solo quando rende l'esito peggiore. Evitare il furto non fa parte dell'obiettivo ultimo assegnatoci da C. Potrebbe però esser vero che avere una forte disposi zione ad astenersi dal furto renda l'esito migliore, e che lo stesso si pos sa dire della credenza nella intrinseca negatività del furto e del fatto che, quando si ruba, si provi rimorso. Tesi analoghe possono formularsi al ri guardo di molti altri tipi di atti. Se queste tesi sono vere, C si autoannulla. In tal caso, infatti, ciò in cui C ci direbbe che dobbiamo cercare di credere non è C stesso, ma qualche altra teoria. Dobbiamo cercare di credere in quella teoria di cui si può dire che, credendoci, si hanno esiti migliori. A giudicare dalle os-
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servazioni appena svolte, questa teoria può non essere C. Potrebbe esse re una qualche versione di quella che Sidgwick chiamava moralità di l!'nso comune.
Se C ci dicesse di credere in qualche versione di questa moralità, a en1 rare in gioco non sarebbe la moralità del senso comune così com'è ora,
hensì una sua versione migliorata. In realtà la moralità di senso comune 11on è la teoria morale che, se creduta, rende l'esito migliore. Quest'ulti
ma, per esempio, sarebbe molto più esigente con i ricchi. Se gli abitanti dei paesi più ricchi destinassero ogni anno a quelli dei paesi più poveri 1 ma metà o almeno un quarto dei loro redditi, si avrebbero risultati mi gliori. Attualmente l'entità dei loro contributi è inferiore all'uno per cento e tutto fa pensare che essi ritengano giustificato il proprio com portamento. Supponiamo che C ci dica di credere in qualche altra teoria. Come ho già detto, cambiare le nostre credenze è molto difficile, se la ragione che
ci spinge a farlo non è di quelle che insinuano il dubbio nelle nostre vec
chie credenze, ma semplicemente la considerazione che avere credenze diverse produrrebbe effetti positivi. Ma di modi per provocare tale cam hiamento ce ne sono molti. Uno di essi, forse, potrebbe consistere nel venire ipnotizzati tutti quanti e nell'educare diversamente le nuove ge nerazioni. Il modo e la ragione per cui abbiamo acquisito le nostre nuo ve credenze ce li dovrebbero far dimenticare; e quel processo dovrebbe essere tenuto nascosto agli storici futuri. Al riguardo, le cose starebbero in termini molto diversi se, anziché C, accettassimo il consequenzialismo collettivo. Se accettiamo C, possiamo henissimo concludere che la grande maggioranza delle persone deve re spingere C e che solo una piccola minoranza deve continuare a crederci. In tal caso la nostra teoria in parte sarebbe di quelle che si autoannulla no e in parte sarebbe esoterica, in quanto direbbe a coloro che ci credo no di non illuminare la mente della grande massa degli ignoranti. Secon do il consequenzialismo collettivo, noi dobbiamo credere in quella teo ria morale che, se creduta da tutti, produrrebbe l'esito migliore. Questa teoria non può essere esoterica. Alcuni trovano particolarmente discutibile il fatto che una teoria mo rale possa essere esoterica. Se riteniamo che ingannare gli altri sia mo ralmente sbagliato, ingannarli circa la moralità può sembrare particolar mente sbagliato. Sidgwick scrisse: «sembra opportuno che la dottrina secondo la quale è opportuna una moralità esoterica debba restare a sua volta esoterica, oppure, qualora riuscisse difficile mantenere la segretez za, potrebbe essere desiderabile che il senso comune ricusi quelle dot trine che è opportuno riservare a pochi illuminati».16 Williams chiama
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questo atteggiamento «consequenzialismo colonialista», in quanto tratta la maggioranza delle persone alla stregua delle popolazioni indigene di una colonia.17 Come afferma Williams, non possiamo accogliere una conclusione del genere. Sidgwick si rammaricava bensì di questa con clusione, ma non pensava che tale rammarico fosse un buon motivo per dubitarne.18 Come ho detto, è improbabile che C si autoannulli completamente. Tutt'al più si tratta di una teoria che in parte di autoannulla e in parte è esoterica. Il fatto che delle persone non credano C può rendere l'esito migliore; ma è improbabile che l'esito sia migliore se nessuno crede C. Ma questo è un altro motivo per dubitare di C. Supponiamo di giun gere tutti quanti a credere C. (Questo ci sembrerà meno implausibile se ricordiamo che C può essere una teoria pluralistica che si richiama a molti principi morali diversi.) A questo punto decidiamo che C si au toannulli completamente. Arriviamo alla conclusione che, se faremo in modo di credere in una versione migliorata della moralità di senso co mune, otterremo l'esito migliore. Supponiamo, inoltre, di riuscire a pro durre questo cambiamento delle nostre credenze. In seguito, stanti i cambiamenti intervenuti nel mondo e nella nostra tecnologia, potrebbe diventare vero che l'esito sarebbe migliore qualora rivedessimo le nostre credenze morali. Ebbene, se crederemo non più in C, ma in una versio ne della moralità di senso comune, non avremo più la spinta a operare quelle correzioni della nostra moralità di cui abbiamo bisogno. La ra gione per cui crederemo in quella moralità non sarà che in quel momen to noi la giudichiamo la moralità credendo nella quale otterremo l'esito migliore. Questa è bensì la ragione per cui abbiamo fatto in modo di crederci; ma, per crederci, dobbiamo esserci dimenticati che quel che abbiamo fatto è proprio questo. In quel momento semplicemente crede remo in quella moralità e quindi non saremo più spinti a rivederla nem meno se diventasse vero che la nostra credenza in quella moralità accre sce la possibilità di una catastrofe, come, per esempio, una guerra nu cleare. Queste considerazioni dovrebbero incidere molto sulla risposta da dare al problema se, qualora tutti cessassimo di credere in C, si rende rebbe l'esito migliore. Noi possiamo bensì credere correttamente che c'è un'altra teoria morale, credendo nella quale faremmo sì che l'esito, nel breve periodo, sia migliore. Ma una volta che il consequenzialismo si sia autoannullato e che il filo che ci unisce a esso si sia spezzato, le con seguenze a lungo termine potrebbero essere molto peggiori. Questo ci fa pensare che, tutt'al più, può essere vero che C si autoan nulli parzialmente. Ciò che potrebbe davvero essere meglio è questo:
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che la maggior parte delle persone faccia in modo di credere in un'altra teoria mediante un processo di autoillusione che, per riuscire, deve an che venire dimenticato. Ma, per precauzione, alcune persone dovrebbe ro continuare a credere C e conservare prove convincenti del processo di autoillusione. Non c'è bisogno che queste persone vivano in una sor ta di governatorato e nemmeno che abbiano un qualsiasi status partico lare. Finché le cose procedono bene, esse non faranno nulla. Ma qualo ra la teoria morale in cui crede gran parte della gente diventasse perni ciosa, allora quella ristretta cerchia di persone potrebbe produrre le prove di cui dispone. Una volta che la maggioranza abbia appreso che le proprie credenze morali sono il prodotto dell'autoillusione, tali creden ze ne risulterebbero infirmate e il disastro scongiurato. Supponiamo, sebbene io abbia sostenuto che la cosa è improbabile, che C sia una teoria che si autoannulli completamente. Supponiamo che essa dica a tutti quanti noi di fare in modo di credere non in se stessa, ma in un'altra teoria. Secondo Williams, in questo caso la teoria non meriterebbe più di essere chiamata con il proprio nome, in quanto non direbbe più «niente di determinato su come condurre il pensiero nel mondo».19 Questa tesi è alquanto problematica, perché, come anche so stiene Williams, C esigerebbe che il nostro modo di pensare al riguardo della moralità, nonché del nostro insieme di desideri e disposizioni «de ve tendere al meglio».20 E una richiesta del genere è qualcosa di molto preciso e di assolutamente consequenzialista. Williams avanza anche una terza tesi: se C si autoannullasse comple tamente - egli dice - perderebbe ogni efficacia.21 In realtà non è neces sariamente così. Supponiamo che le cose vadano come si è detto sopra. Tutti quanti arriviamo a credere in una versione di C e, a questo punto, crediamo - e si tratta di una credenza vera - che, se tutti credessimo in un'altra teoria, conseguiremmo il miglior esito possibile. C dice a tutti noi di credere in quest'altra teoria. In un qualche modo indiretto, fac ciamo in modo di credere in quest'altra teoria. Ora nessuno crede più C. Ma questo non prova la tesi che C non ha più alcuna efficacia. C ha prodotto l'effetto di far sì che tutti noi ora crediamo in un'altra teoria particolare e, poiché crediamo in quest'altra teoria, questa, a sua volta, influisce su ciò che facciamo; e la nostra credenza in quest'altra teoria produrrà il miglior esito possibile. Sebbene nessuno ci creda più, C è ancora efficace; ci sono due fatti permanenti che sono altrettanti effetti della nostra precedente credenza in C: le nostre nuove credenze morali il fatto che, avendo queste credenze, l'esito è il migliore possibile. Se C si autoannulla completamente, sostiene a ragione Williams, non è affatto chiaro che cosa questa circostanza comporti. Dovremmo stabi-
e
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lire se dimostri che questa teoria «è inaccettabile, o semplicemente che nessuno dovrebbe accettarla».22 È chiaro che, alla luce degli assunti ap pena formulati, nessuno ha il dovere morale di accettare questa teoria. Se qualcuno la accetta, è essa stessa a dirgli che ha il dovere morale di cercare di respingerla e di credere, invece, in un'altra teoria. Senonché, come suggerisce Williams, si pongono due problemi diversi. Una cosa è chiedersi se una teoria sia quella in cui moralmente dobbiamo cercare di credere e un'altra chiedersi se tale teoria sia quella in cui credere sul pia no intellettuale, ossia in termini di ricerca della verità, cioè se tale teoria sia quella vera, o anche la migliore o la meglio giustificata. Io ho soste nuto sopra che, qualora una teoria della razionalità si autoannullasse, ciò non proverebbe che non può essere quella vera o quella meglio giu stificata. Possiamo avanzare una tesi analoga per le teorie morali? La risposta che daremo a questa domanda dipenderà in parte dalle nostre credenze circa la natura del ragionamento morale. Se una teoria può essere vera -vera nel senso più trasparente e pieno del termine-, è chiaro che il fatto che si autoannulli non dimostra che non può essere vera. Ma noi possiamo intendere, invece, la moralità come un prodotto sociale, e ciò sia di fatto, sia nell'ottica di un «costruttivismo ideale». E allora potremmo sostenere che, per essere accettabile, una teoria morale deve realizzare quella che Rawls chiama «condizione di pubblicità»: de ve essere una teoria che tutti devono accettare e professare pubblica mente nei loro rapporti reciproci.23 Secondo queste concezioni metaeti che, una teoria morale non può essere tale da annullarsi da sé. Secondo altre concezioni, lo può essere. Per motivare la scelta tra le due prospet tive, non so se basterebbe un libro; perciò, in questa sede, non posso che lasciare il problema aperto. D'altro canto si tratta di un problema che non ha grande importanza per il nostro argomento, se, come io cre do, C non fosse una teoria che si autoannulla.
18.
L'obiezione che assume l'inflessibilità
A questo punto riprenderò un'obiezione sollevata sopra. Consideria mo quelle persone per le quali la teoria dell'interesse personale si con danna indirettamente all'insuccesso. Supponiamo che queste persone credano S e che di conseguenza non contravvengano mai al proprio in teresse. Ciò peggiora la loro situazione. Per loro sarebbe meglio avere altri desideri e altre disposizioni. Questo non sarebbe loro possibile se non nel caso che credessero in una teoria diversa. E potrebbe essere ve ro che non sia loro possibile cambiare né le proprie credenze né le pro prie disposizioni.
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Tesi analoghe possono valere per il consequenzialismo. Supponiamo che, poiché tutti quanti crediamo C, tutti quanti siamo puri operatori di bene. Ciò renderebbe l'esito peggiore di come sarebbe nel caso in cui tutti quanti avessimo altre disposizioni. D'altro canto non possiamo cambiare le nostre disposizioni se non cambiando anche le nostre cre denze circa la moralità. E questi cambiamenti non li possiamo causare. È improbabile che tutte queste tesi siano vere. Ma se lo fossero, ne deri verebbero delle obiezioni a S e a C? Può essere di aiuto considerare un caso immaginario. Supponiamo che Satana esista e che, invece, Dio non esista. Su quale sia la teoria vera della razionalità o la teoria migliore o meglio giustificata, Satana non può influire. Egli, però, sa qual è questa teoria e, data la sua perfidia, fa sì che la credenza in questa teoria produca effetti negativi nei termini stessi di tale teoria. Nell'immaginare la situazione, non c'è bisogno che assumiamo come la migliore teoria quella dell'interesse personale. Qua le che sia la teoria migliore, Satana farebbe sì che credere in essa deter mini effetti negativi nei termini di questa teoria. Possiamo fare lo stesso esempio al riguardo delle teorie morali. Sup poniamo che la migliore teoria morale sia l'utilitarismo. Secondo tale teoria, tutti noi dovremmo cercare di produrre l'esito che, considerato in modo imparziale, sia il migliore per tutti. Satana fa sì che, se la gente crederà in questa teoria, sarà peggio per tutti. Supponiamo ora che la migliore teoria morale non sia il consequenzialismo e che tale teoria dica a ogni persona di non ingannare mai gli altri, di non privarli della libertà e di non trattarli ingiustamente. Satana fa sì che coloro che credono in questa teoria, a dispetto delle loro intenzioni, in realtà ingannino mag giormente gli altri e siano più prepotenti e ingiusti. Satana fa sì che credere in una teoria produca effetti negativi nei ter
mini di questa stessa teoria. Ebbene, questa circostanza è tale da dimo strare, in qualche misura, che questa teoria non è la teoria migliore? Chiaramente no. Tutt'al più dimostra che, data l'interferenza di Satana, sarebbe meglio non credere nella teoria migliore. Dal momento che non siamo altro che delle marionette nelle mani di Satana, la verità della no stra situazione è oltremodo deprimente. Questa verità, forse, sarebbe meglio che non la conoscessimo. In questo caso immaginario, sarebbe meglio che non credessimo nella teoria migliore. Ciò dimostra che dovremmo respingere (G5) Se dobbiamo fare in modo di credere che un atto è sbagliato, questo atto è sbagliato. Come ho già affermato, l'erroneità non può essere ereditata nel modo indicato da questa tesi.
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Supponiamo di non sapere altro se non che credere in una teoria pro durrebbe effetti negativi nei termini di questa teoria. Ciò non dimostre rebbe che questa non è la teoria migliore. Se lo dimostri oppure no, de ve dipendere dalla ragione per cui credere in quella teoria produce que gli effetti negativi. Ci sono due possibilità. Gli effetti negativi possono derivare dal fatto che facciamo ciò che la teoria ci dice di fare: in tal ca so la teoria si condanna direttamente all'insuccesso e ciò potrebbe refu tarla. Ma quegli effetti potrebbero essere, invece, il prodotto di un fatto re della realtà assolutamente distinto. Se tale fattore distinto fosse costi tuito dall'interferenza di Satana, la sua presenza non sarebbe tale da get tare dubbi sulla teoria. Che dire delle due possibilità appena enunciate? Supponiamo che le seguenti proposizioni siano vere: per ciascuno di noi credere S e quindi avere la disposizione a non andare mai contro il proprio interesse sareb be peggio; l'eventualità che tutti noi credessimo C e fossimo puri opera tori di bene renderebbe l'esito peggiore; e, qualora avessimo l'una o l'al tra di queste credenze e di queste disposizioni, saremmo incapaci di cambiarle. In questo caso sarebbe vero che la credenza in queste due teorie avrebbe effetti negativi nei termini di queste teorie. Questa circo stanza getterebbe dei dubbi sulle due teorie oppure andrebbe intesa semplicemente alla stregua dell'interferenza di Satana? La teoria migliore può non essere né Sné C. In seguito io argomente rò che dobbiamo respingere S. Ma se fossi in errore e se fosse vero che la teoria migliore è o S o C, avanzerei l'idea che le possibilità appena il lustrate non rappresentano un'obiezione per nessuna delle due teorie. Se la miglior teoria è o S o C, la credenza in tale teoria produrrebbe ef fetti negativi nei termini stessi di questa teoria. Ma tali effetti negativi non sarebbero la conseguenza del fatto che facciamo o che cerchiamo di fare ciò che S o C ci dicono di fare. Quegli effetti negativi sarebbero il prodotto delle nostre disposizioni. E quelle teorie non ci direbbero di avere queste disposizioni. Ci direbbero anzi di non averle, se ci è possi bile. Sci direbbe che, se possiamo farlo, non dobbiamo avere la disposi zione a non andare mai contro il nostro interesse. E C ci direbbe che, se possiamo farlo, non dobbiamo essere puri operatori di bene. Noi avremmo una di queste disposizioni, perché crediamo in una di queste teorie, ma queste teorie ci dicono di non credere in loro stesse. Sdice a ciascuno di credere nella teoria in cui per lui sarebbe meglio credere. C ci dice di credere nella teoria che produrrebbe l'esito migliore. Sulla ba se di tali assunti, Se C ci direbbero rispettivamente di non credere in Se in C. Poiché noi crediamo o in S o in C, la credenza nell'una o nell'altra
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teoria produrrebbe effetti negativi nei termini di queste teorie. Ma que sti effetti negativi non sarebbero la conseguenza del fatto che facciamo ciò che esse ci dicono di fare. Sarebbero la conseguenza del fatto che abbiamo disposizioni che queste teorie non ci dicono di avere e che, an zi, ci dicono, se ci è possibile, di non avere. Sarebbero la conseguenza del fatto che crediamo ciò che queste teorie non ci dicono di credere e che, anzi, ci dicono, se ci è possibile, di non credere. Poiché quegli ef fetti negativi non possono essere addebitati a queste teorie in nessuno dei modi enunciati sopra, io avanzo l'idea che le tesi enunciate sopra, se sono vere, non sono tali da far dubitare delle teorie. Quelle tesi, infatti, andrebbero intese semplicemente, alla stregua dell'interferenza di Sata na, come deprimenti verità sul reale.
19. Essere razionali o morali può essere un mero mezzo? S ci dice di agire razionalmente e C di agire moralmente. Ma questi sono soltanto quelli che io chiamo i nostri obiettivi formali. Ho assunto che agire moralmente, in quanto tale, non è un obettivo sostantivo asse gnatoci da C. C potrebbe affermare che agire moralmente è un mero mezzo. Analogamente, agire razionalmente può non rientrare nell'obiet tivo sostantivo assegnatoci da S; S potrebbe affermare che agire razio nalmente è un mero mezzo. Tale eventualità rappresenterebbe un'obie zione a queste due teorie? In proposito c'è una differenza tra S e C. S non può sostenere che il nostro obiettivo formale è, in quanto tale, un obiettivo sostantivo, men tre C potrebbe sostenerlo. Ciò può costituire un'obiezione a S. Invece C non si presta a un'obiezione del genere. A S potremmo obiettare: «Se agire razionalmente non è un obiettivo che dovremmo avere, ma un mero mezzo, perché dovremmo essere ra zionali? Perché dovremmo voler sapere ciò che abbiamo più ragione di fare?» Come replicherebbe un assertore della teoria dell'interesse persona le? Potrebbe far propria, circa l'interesse personale, la teoria dei valori oggettivi, e in questo caso risponderebbe così: «Essere razionali e agire razionalmente sono, in se stessi, elementi di ciò che fa sì che la nostra vi ta vada meglio. Se, nell'insieme, essi sono vantaggiosi per noi, S non im plica che essere razionali e agire moralmente siano meri mezzi. In quan to tali, essi rientrano nell'obiettivo ultimo assegnato daS a ciascuna per sona». Consideriamo ora la posizione di chi sostiene la versione edonistica della teoria dell'interesse personale. Questi deve ammettere di ritene-
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re che agire razionalmente è un mero mezzo. Ma potrebbe aggiunge re: «secondo S quello che hai più ragione di fare è tutto ciò che ren derà la tua vita la migliore possibile. Se desideri sapere cos'è che hai più ragione di fare e desideri agire razionalmente, S non implica che tali desideri siano privi di importanza. Non è questo che implica la tesi secondo cui, se segui S e agisci razionalmente, i tuoi atti valgono solo come mezzi. Essere importanti come mezzi è un modo di essere importanti. I tuoi desideri sarebbero privi di importanza solo se non fosse importante agire razionalmente. S sostiene che, nel momento in cui decidi che cosa fare, nulla è più importante che agire razionalmen te. Quest'ultima tesi è giustificata anche quando ciò che per te sareb be razionale fare è di far sì che tu sia disposto ad agire in modo irra zionale. Anche in questo caso, ciò che importa di più è che tu faccia ciò che per te sarebbe razionale fare». A questo punto, lascio S per riprendere il discorso su C. C potrebbe sostenere che agire moralmente è un mero mezzo. A questa tesi possia mo rivolgere questa obiezione: «Se ciò è vero, perché mai dovremmo preoccuparci della moralità?» Consideriamo, per cominciare, la forma più semplice di consequenzialismo, l'utilitarismo edonistico. Chi profes sasse questa teoria potrebbe rispondere: «Dal punto di vista morale, è importante se ciò che accade è buono o cattivo. Se è cattivo, c'è più do lore; se è buono, c'è più felicità. È importante anche che noi agiamo moralmente ed evitiamo di compiere azioni moralmente sbagliate. Noi dovremmo cercare di fare del nostro meglio per diminuire le sofferenze e per accrescere la felicità. Tutto ciò è importante non in sé, ma per le conseguenze che produce. È in questo senso che evitare di agire in mo do moralmente sbagliato è un mero mezzo. Ma ciò non implica che, da un punto di vista morale non sia importante che noi evitiamo di agire in modo sbagliato. Nel momento in cui decidiamo che cosa fare, nulla è più importante che evitare di agire in modo sbagliato. Quest'ultima tesi è giustificata anche quando ciò che dobbiamo fare è di far sì che siamo disposti ad agire in modo sbagliato. Anche in questo caso, ciò che im porta di più è che facciamo ciò che dobbiamo fare». Un utilitarista edonista deve ammettere che, dal suo punto di vista, non ha alcuna importanza che un'azione sia moralmente sbagliata se non ha effetti negativi. Il moltiplicarsi di azioni moralmente sbagliate come queste non renderebbe l'esito peggiore. Come nel caso della ver sione edonistica di 5, il conseguimento del nostro obiettivo formale ha importanza, ma solo come mezzo. Ebbene, l'utilitarista può difendere questa tesi? Per farlo, egli potreb be evocare, innanzitutto, la repulsione per ciò che Williams chiama au tocompiacimento morale.24
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Mettiamo a confronto due persone impegnate ad alleviare le sofferen ze altrui. La prima lo fa per simpatia verso i propri simili; è convinta, al tresì, che la sofferenza è male e dev'essere alleviata. La seconda lo fa perché desidera apparire a se stessa un individuo moralmente buono. Delle due sembra migliore la prima. Ma la prima non è spinta ad agire così dalla considerazione della positività di agire moralmente o della ne gatività di agire in modo moralmente sbagliato. È spinta a farlo sempli cemente dalla simpatia e dalla convinzione che, poiché la sofferenza è male, si deve cercare di eliminarla. Questa persona sembra considerare l'agire morale come un mero mezzo. È la seconda a considerare l'agire morale come un obiettivo a sé stante, ossia buono in se stesso. Poiché la prima persona sembra migliore dell'altra, ciò suffraga la tesi che l'agire morale è un mero mezzo. Consideriamo ora il caso che chiamo Omicidio e morte accidentale. Supponiamo che io sappia che X mo rirà tra breve e che, come ultimo atto della propria vita, X intende uccidere Y. So anche che Z, se nessuno andrà in suo soccorso, sarà vittima dell'incendio di una foresta. Io posso riuscire a persuadere X a non uccidere Y oppure salvare la vita di Z. Supponiamo che io creda che l'uccisione di Y da parte di X non sarebbe peggiore della morte di Z nell'incendio della foresta. Questi due esiti sarebbero ugualmente negativi in quanto entrambi comportano la morte di una persona. Nel primo esito si verificherebbe anche un caso molto grave di azione moralmente sbagliata. Ma, secondo la mia teoria, ciò non rende l'esito peggiore. (Se l'autore del delitto non fosse sul punto di morire, ciò potrebbe rendere questo esito peggiore. Ma X è sul punto di morire.) Dal momento che io credo che un'azione moralmente sbagliata, in sé, non rende un esito peggiore, credo an che che, se per me la possibilità di salvare Z fosse leggermente su periore alla possibilità di persuadere X a non uccidere Y, io devo cercare di salvare Z.25
Sarebbero in molti ad accettare quest'ultima conclusione. Si penserebbe che, se per me la possibilità di salvare Z fosse leggermente più alta del l'altra, io dovrei cercare di salvare Z e non Y. Se accettiamo questa con clusione, possiamo anche sostenere che l'incremento delle azioni moral mente sbagliate è male in se stesso? Possiamo sostenere che io devo cer care di impedire la morte accidentale di Z anche se l'uccisione di Y da parte di X, comportando un'azione moralmente sbagliata, sarebbe un esito peggiore? Sarebbe difficile sostenere questa tesi. Per molte perso ne, ci troviamo di fronte a un altro caso che suffraga la concezione se condo cui evitare azioni moralmente sbagliate è un mero mezzo.
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Si potrebbe obiettare: «Se X intende uccidere Y, il male c'è già e non lo impedirai semplicemente persuadendo X a non portare a termine il suo proposito omicida. È per questo che devi cercare di salvare Z». Il nostro esempio può essere modificato. Supponiamo che io sappia che X possa giungere ben presto a credere, a torto, di essere stato tradito da Y X non è moralmente cattivo, ma è come Otello: di fatto buono, ma po
tenzialmente cattivo. Io so essere probabile che, se X crederà di essere stato tradito da Y, al pari di Otello ucciderà Y. Ho buone possibilità di impedire a X di giungere a questa falsa convinzione e quindi di impedir gli di uccidere Y. Ma la probabilità che riesca a salvare la vita a Z è leg germente superiore. Come prima, X è comunque a un passo dalla mor te. Secondo molti, io devo ugualmente cercare di salvare Z. Questo ci fa pensare che il fatto che X maturi la propria intenzione e poi uccida Y non rappresenti un esito peggiore della morte accidentale di Z. Se fosse un esito peggiore, perché mai dovrei cercare di salvare Z anziché Y? Perché dovrei cercare di impedire il minore dei due mali, se la probabi lità di successo è solo leggermente superiore? Supponiamo che, credendo di dover cercare di salvare Z, io convenga che la morte di Y non sarebbe un esito peggiore della morte di Z. Se ciò è vero, la negatività della morte di Y sta semplicemente nel fatto che egli muore. Il fatto che X maturi la decisione di uccidere e poi agisca così male non può peggiorare questo esito. Come ho sostenuto, possiamo concludere che evitare di agire in modo moralmente sbagliato è un me ro mezzo. In casi del genere, sono molti quelli che pensano che la presenza di azioni moralmente sbagliate non renda l'esito peggiore. Ora, la presenza di un maggior numero di atti moralmente giusti e l'adempimento di un maggior numero di doveri renderebbero l'esito migliore? Io potrei pro mettere molto frequentemente di fare ciò che comunque ho intenzione di fare. In tal modo farei sì che venga portato a termine un maggior nu mero di doveri, ma nessuno penserà che in tal modo renderei l'esito mi gliore, né che sia questo che devo fare. Facciamo ora un'altra ipotesi, ossia che venga eliminata la povertà, che non accadano più calamità naturali, che gli uomini cessino di essere colpiti da malattie fisiche o mentali e che, per tutta una serie di altri eventi favorevoli, essi finiscano per non aver più bisogno dell'aiuto degli altri. Cambiamenti del genere sarebbero, in un certo senso, tutti ugual mente positivi. C'è un senso in cui si può dire che sarebbero negativi? Adoperarsi per gli altri nel momento del dolore, pagando costi persona li consistenti, è cosa moralmente ammirevole. Ora, nel mondo che ho descritto, di persone che hanno bisogno di quell'aiuto ce ne sono ben
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poche e quindi sarebbero molto meno frequenti anche gli atti moral lllente ammirevoli. Ebbene, questa evenienza sarebbe negativa? Sarebbe tale da rendere l'esito, per qualche verso, peggiore? Se rispondiamo di no, questo esempio suffraga, ancora una volta, la concezione che vede nell'agire morale un mero mezzo. Ma alcuni ri sponderebbero di sì, pensando che, da questo punto di vista, l'esito sa rebbe peggiore. Ci sono anche molte persone che hanno concezioni di
verse dell'agire in modo moralmente sbagliato. Costoro penserebbero che l'uccisione di Y da parte di X, al confronto della morte accidentale di Z, è un esito molto peggiore. Può un consequenzialista accettare que
sta tesi? Ciò dipende dai principi che accetta. Consideriamo anzitutto la posi zione di un utilitarista edonista. Se l'uccisione di Y da parte di X non comporta più sofferenze della morte accidentale di Z, né una maggiore perdita di felicità, egli non può sostenere che, come esito, l'assassinio sia molto peggio. Quanto agli atti moralmente ammirevoli di cui si è detto, tutto quello che può sostenere è questo: una delle fonti principali di fe licità è il pensiero di essere efficacemente di aiuto agli altri; in un certo senso, quindi, l'evenienza che solo pochissimi abbiano bisogno di tale aiuto sarebbe negativa. Consideriamo ora la posizione di un consequenzialista che, in tema di interesse personale, accetti la teoria dei valori oggettivi. Secondo tale teoria, essere morali e agire moralmente possono essere per noi cose po sitive in se stesse, quali che ne siano gli effetti: cose che rientrano in ciò che per noi è meglio o in ciò che fa sì che la nostra vita vada nel modo migliore. Al contrario, essere moralmente cattivi può essere, in sé, una delle cose peggiori per noi. Un consequenzialista che avanzi queste tesi può negare che agire moralmente ed evitare di agire in modo moral mente sbagliato siano meri mezzi. Che la nostra vita vada meglio, è me glio per qualsiasi versione plausibile di C. Ora, secondo le tesi appena enunciate, agire moralmente ed evitare di agire in modo moralmente sbagliato sono altrettanti elementi del supremo obiettivo morale asse gnatoci da C. In questa prospettiva, pur facendo parte di tale obiettivo, essi non so no, in quanto tali, obiettivi ultimi, ma fanno parte dell'obiettivo ultimo perché, al pari della felicità, la moralità è una delle cose che contribui scono a migliorare la nostra vita. Un consequenzialista potrebbe avanzare una tesi diversa. Potrebbe sostenere che il nostro obiettivo formale è, come tale, un obiettivo so stantivo; e che l'esistenza di una maggior quantità di azioni moralmente sbagliate sarebbe un'evenienza peggiore anche se non facesse danno a
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nessuno. Analogamente, potrebbe sostenere che il fatto che un maggior numero di persone agiscano moralmente sarebbe un'evenienza migliore, anche se non arrecasse vantaggio a nessuno. Un consequenzialista po trebbe anche sostenere che il conseguimento del nostro obiettivo forma le è assolutamente prioritario rispetto al conseguimento degli altri obiet tivi morali. Potrebbe, cioè, accettare la concezione del cardinale New man, secondo la quale dolore e peccato sono entrambi male, ma il se condo è infinitamente peggiore del primo: l'eventualità che tutti quanti gli uomini soffrano le pene più atroci è meno negativa del fatto che si commetta un solo peccato veniale.26 Di consequenzialisti che arriverebbero a tanto ce ne sono ben pochi, ma, poiché la concezione di Newman è una versione di C, non si può af fermare che C attribuisca un peso troppo modesto al fatto di astenersi dal compiere azioni moralmente sbagliate. C potrebbe riconoscere a questo obiettivo una priorità assoluta su tutti gli altri scopi morali. Ancora una volta, potrebbe sembrare che C non costituisca una teo ria morale a sé stante, ma possa abbracciare tutte le teorie morali. Ciò non è vero. Un non consequenzialista può obiettare a C non che attri buisce scarsa importanza al fatto di astenersi dal compiere azioni moral mente sbagliate, ma che è sbagliato il senso in cui gli attribuisce impor tanza. Secondo la versione estrema di C appena delineata, quello di astenersi da azioni moralmente sbagliate è uno dei nostri obiettivi mora li comuni. Un non consequenzialista direbbe che io non devo agire in modo moralmente sbagliato nemmeno se, così facendo, il risultato fosse che, da parte degli altri, si agisse molto meno in modo moralmente sba gliato. Secondo questa versione di C, invece, in questo caso, agendo co sì, non agirei in modo moralmente sbagliato: e quando faccio una cosa che può ridurre con la maggior efficacia possibile l'incidenza di com portamenti moralmente sbagliati, faccio quello che devo fare.
20. Conclusioni
A questo punto traccerò una sintesi della seconda metà del capitolo. Ho assunto che, per le ragioni esposte sopra, il consequenzialismo si condanna indirettamente all'insuccesso. Qualora avessimo sempre la di sposizione a fare ciò che renderebbe l'esito migliore, renderemmo l'esi to peggiore. Se tutti quanti avessimo questa disposizione, l'esito, tenuto conto di come effettivamente sono le persone, potrebbe essere migliore di quel che di fatto è, ma sarebbe peggiore di quel che potrebbe essere se avessimo certi altri insiemi di motivazioni causalmente possibili. Mi sono chiesto se C, quando si condanna indirettamente all'insuc-
Teorie che si condannano indirettamente all'insuccesso
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cesso, è intrinsecamente fallace. Se, nell'eventualità che abbiamo sem pre la disposizione a fare ciò che renderebbe l'esito migliore, rendiamo l'esito peggiore, C ci dice che non dovremmo avere questa disposizione. Dal momento che C avanza questa tesi, non è intrinsecamente fallace. Supponiamo di accettare tutti quanti C. La nostra teoria ci dice che dovremmo fare in modo di avere, o di mantenere, un insieme di motiva zioni che sia, in termini consequenzialistici, uno dei migliori possibili. Il fatto che C sia una teoria che indirettamente si condanna all'insuccesso implica quanto segue: se abbiamo uno dei migliori insiemi possibili di motivazioni, talvolta agiremo consapevolmente in modi che, secondo la nostra stessa teoria, sono sbagliati; ma, stante la ragione speciale per cui ci comportiamo in modo sbagliato, il fatto che lo facciamo non compor ta che ci dobbiamo considerare moralmente cattivi; possiamo ritenere che si tratti di casi di comportamento moralmente sbagliato non biasime vole; e possiamo ritenerlo perché agiamo sulla scorta di un insieme di motivazioni che per noi sarebbe sbagliato fare in modo di perdere. Alcune di queste tesi potrebbero valere anche se C non fosse una teo ria che si condanna indirettamente all'insuccesso. Esse varrebbero nel caso in cui C fosse irrealisticamente esigente. E probabilmente lo è: quand'anche tutti quanti credessimo in C, è probabile che sia causai mente impossibile che assumiamo la disposizione a fare sempre ciò che crediamo produrrebbe l'esito migliore. Se ciò è vero, C ci dice di cerca re di avere uno dei migliori insiemi possibili di motivazioni. Nell'avanzare tutte queste tesi, C è coerente. Né si può dire che non prenda sul serio la moralità. Di casi in cui, se accettiamo C, ci tocche rebbe di considerarci moralmente cattivi, ne restano molti altri. Sono quei casi in cui uno consapevolemente rende l'esito molto peggiore, e lo rende tale per una ragione diversa dal fatto di possedere uno dei miglio ri insiemi possibili di motivazioni. Sebbene ciò che, a questo punto, ci sta a cuore non sia solo di evitare azioni moralmente sbagliate - poiché ci sta a cuore anche di avere il miglior insieme possibile di motivazioni restano pur sempre molte azioni nel cui autore vedremmo un agente moralmente cattivo Si potrebbe obiettare che queste tesi assumono erroneamente il de terminismo psichico. Un consequenzialista che accettasse questa obie zione dovrà riformulare le proprie tesi. Egli potrà sostenere che, se ab biamo uno dei migliori insiemi possibili di motivazioni, spesso ci riusci rà molto difficile evitare di fare ciò che reputiamo moralmente sbaglia to; e dovrà ammettere che, in questi casi, non siamo del tutto immerite voli di biasimo, anche se siamo moralmente cattivi solo in un senso mol to debole.
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Teorie che si condannano all'insuccesso
Un'altra obiezione è che un'accettabile teoria morale non può dirci di fare in modo di fare ciò che essa sostiene essere sbagliato. Ma io ho por tato un esempio di fronte al quale questa obiezione verrebbe negata an che dalla maggior parte di coloro che respingono C. Una terza obiezione è che, dal momento che C indirettamente si con danna all'insuccesso, non sempre possiamo evitare di fare ciò che C so stiene essere moralmente sbagliato. Poiché non sempre possiamo fare ciò che C dice che dobbiamo fare, C chiede l'impossibile e si scontra con la dottrina secondo cui dovere implica potere. Io ho sostenuto che a queste obiezioni è possibile rispondere. Una quarta obiezione è che, se avessimo credenze morali in contrasto con C, l'esito sarebbe migliore. Se questo fosse vero, C si autoannulle rebbe, dicendoci di credere non in C, ma in qualche altra teoria. lo ho avanzato dei dubbi sulla verità di tutto ciò. Tutt'al più, C sarebbe una teoria che in parte di autoannulla e in parte è esoterica. A rendere l'esito migliore può essere il fatto che alcune persone credono in un'altra teo ria, non il fatto che nessuno creda più in C. E anche ammesso che C si autoannulli completamente, io credo che ciò non basti a dubitare di C. Se basti, dipende dalle nostre concezioni della natura, della moralità e del ragionamento morale. Poiché non ho argomentato la scelta di una di queste concezioni, non ho nemmeno difeso fino in fondo la mia convin zione che l'eventualità che C si autoannulli non autorizza a metterlo in dubbio. Infine mi sono chiesto se possiamo accettare la tesi di C secondo cui agire moralmente è un mero mezzo. Se non possiamo accettarla, C può evitare di avanzarla. C può arrivare perfino a sostenere che quello di im pedire un'azione moralmente sbagliata è un obiettivo assolutamente prioritario nei confronti degli altri obiettivi morali. Gli utilitaristi non possono avanzare questa tesi, ma i consequenzialisti possono. Nella prima metà di questo capitolo ho discusso la concezione della razionalità propria della teoria dell'interesse personale. Nella seconda metà ho discusso un complesso di teorie morali consequenzialiste. È plausibile sostenere che tutte queste teorie indirettamente si condanna no all'insuccesso. Forse esse possono anche autoannullarsi. Ma, per ciò che riguarda queste teorie, condannarsi indirettamente all'insuccesso non significa condannarvisi in un modo che pregiudichi la teoria stessa. Questi fatti non rappresentano nemmeno obiezioni indipendenti alle teorie in esame: non dimostrano che queste teorie sono o false o indi fendibili. Può darsi che lo siano, ma gli argomenti sviluppati fin qui non lo hanno dimostrato. Tutt'al più essi dimostrano che ciò che si può so stenere in modo giustificato è più complicato di quanto non speriamo.
II. Dilemmi pratici
21.
Perché C non può condannarsi direttamente all'insuccesso
Ho descritto in che modo le teorie possano condannarsi indiretta mente all'insuccesso. Ora ci chiediamo in che modo possano condan narsi all'insuccesso direttamente. Diciamo che una persona segue con successo la teoria T quando riesce a compiere l'atto che, tra quelli a lei possibili, realizza meglio gli obiettivi che T le assegna. Diciamo noi per indicare «i membri di un gruppo». Possiamo dire che T
si condanna direttamente all'insuccesso sul piano collettivo quando è vero che, se tutti noi seguiamo con successo T, in tal modo faccia mo sì che gli obiettivi assegnatici da T si realizzino peggio che se nessuno di noi avesse seguito con successo T. Questa definizione sembra plausibile. «Tutti» e «nessuno» ci danno i casi più semplici. Ci basterà discutere questi. Anche se la definizione appena formulata sembra plausibile, dobbia mo respingerla. Quando la si applica a certi problemi di coordinazione essa cessa di essere plausibile. Quei problemi riguardano i casi in cui l'effetto dell'atto di ciascuna persona dipende da quello che fanno le al tre. Ne è un esempio il seguente diagramma: Tu
faccio (l) Io
faccio
(2)
faccio (3)
fai (l)
fai (2)
fai (3)
terzo migliore esito
esito negativo
esito negativo
esito negativo
secondo miglior esito
esito migliore
esito negativo
esito migliore
esito negativo
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Teorie che si condannano all'insuccesso
Se entrambi facciamo (1), entrambi seguiamo con successo C. Dal mo mento che tu hai fatto (1), io avrei reso l'esito peggiore se avessi fatto o (2) o (3 ). E lo stesso potresti dire tu. Se, invece, facciamo entrambi (2), nessuno di noi ha seguito con successo C. Poiché tu hai fatto (2), io avrei reso l'esito migliore se avessi fatto (3 ). E tu potresti dire lo stesso. Se entrambi facciamo (l) anziché (2), entrambi, anziché nessuno dei due, seguiamo con successo C. Ma, così facendo, rendiamo l'esito peg giore determinando una peggiore realizzazione degli obiettivi assegnati ci da C. Secondo la definizione fornita sopra, in questo caso C si con danna all'insuccesso. Questa conclusione non è giustificata. È vero che, se entrambi faccia mo (1), entrambi seguiamo con successo C. Ma se avessimo prodotto l'uno o l'altro degli esiti migliori, anche in questo caso avremmo seguito con successo C. Se io avessi fatto (2) e tu avessi fatto (3), ciascuno avreb be compiuto l'atto che, tra quelli a lui possibili, avrebbe prodotto l'esito migliore. Lo stesso si dica se io avessi fatto (3) e tu avessi fatto (2). L'o biezione a C, qui, non è che C si condanna all'insuccesso, ma che è inde terminata. Noi seguiamo con successo C sia se entrambi facciamo (1),
sia se uno di noi fa (2) e l'altro fa (3 ). Poiché ciò
è vero, se entrambi se
guiamo con successo C, ciò non garantisce che i nostri atti congiunta mente producano uno dei migliori esiti possibili. Ma non garantisce nemmeno che non lo producano. Se noi avessimo prodotto uno degli esiti migliori, avremmo seguito con successo C. Non è che C ci precluda gli esiti migliori. L'obiezione è meno radicale: C semplicemente non ci guida verso gli esiti migliori. Nel paragrafo 26 spiegherò in che modo sia possibile replicare, in parte, a questa obiezione.27 Se C ci precludesse gli esiti migliori, sarebbe certo che, se seguiremo con successo C, non produrremo uno degli esiti migliori. Questa consi derazione ci suggerisce un'altra definizione. Diciamo che la teoria T si condanna direttamente all'insuccesso sul piano collettivo quando (i) è certo che, se tutti noi seguiremo con successo T, per ciò stesso faremo sì che gli obiettivi assegnatici da T si realizzino peggio che se nessuno di noi avesse seguito con successo T, oppure quando (ii) i nostri atti faranno sì che gli obiettivi assegnatici da T si realizzino meglio solo se noi non seguiamo con successo T. (ii) esprime l'idea che, per far sì che gli scopi assegnatici da T si realizzi no meglio, noi dobbiamo disobbedire a T. Per «quando» non intendo «solo quando». Non abbiamo bisogno di coprire tutti i casi. Come ho spiegato, «noi» non vuoi dire «tutti i viventi», ma «tutti i membri di un gruppo».
Dilemmi pratici
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Nel caso di C, (i) e (ii) potrebbero essere veri? Potrebbe essere vero che noi produrremo l'esito migliore solo se non seguiremo con successo C? Potrebbe quindi essere �erto che, se tutti noi - anziché nessuno di noi - seguiremo con successo C, così facendo renderemo l'esito peggio re? Non è possibile né l'una né l'altra cosa. Noi seguiamo con successo C quando ciascuno di noi compie l'atto che, tra quelli che gli sono pos
sibili, rende l'esito migliore. Se i nostri atti producono congiuntamente l'esito migliore, bisogna che noi stiamo seguendo con successo C. Qui non può essere vero di nessuno che, se avesse agito diversamente, avreb he reso l'esito migliore. Secondo questa definizione, C non può essere una teoria che si condanna direttamente all'insuccesso. C può essere una teoria pluralista, in quanto valuta la negatività degli L:siti appellandosi a più principi diversi. Uno di essi può essere una ver sione della tesi utilitarista; gli altri potrebbero essere principi riguardan ti la giusta distribuzione, l'inganno, la coercizione o i diritti intesi come titoli validi. Se questi e altri principi ci dicono di accordarci su quali esi t i sarebbero migliori, il ragionamento appena svolto troverà applicazio ne
anche qui. Questa teoria pluralista non può condannarsi direttamen
te
all'insuccesso, in quanto è agente-neutrale: essa assegna obiettivi mo
rali comuni a tutti gli agenti. Se facciamo sì che questi obiettivi comuni si realizzino nel modo migliore, bisogna che noi stiamo seguendo con
successo questa teoria. Stando così le cose, non può essere vero che noi lacciamo sì che questi obiettivi morali si realizzino nel modo migliore soltanto non seguendo questa teoria. 22. Come le teorie possono condannarsi direttamente all'insuccesso
Che dire se la nostra teoria è agente-relativa, ossia se assegna ai diversi agenti obiettivi diversi? In questo caso potremmo non essere in grado di applicare la clausola (ii) della mia definizione. Se T assegna alle diverse persone obiettivi diversi, potrebbe non esserci alcuna possibilità di rea lizzare nel modo migliore gli obiettivi assegnati da T a ciascuno di noi. Potremo, però, applicare, con una piccola revisione, la clausola (i). Darò allora un'altra definizione: dirò che T si condanna direttamente all'insuccesso sul piano individuale quan do è certo che, se una persona segue con successo T, per ciò stesso farà sì che gli obiettivi a lei assegnati da T si realizzino peggio che
se non avesse seguito con successo T, ("che T si condanna direttamente all'insuccesso sul piano collettivo quando è
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Teorie che si condannano all'insuccesso
certo che, se tutti noi seguiremo con successo T, per ciò stesso fare mo sì che gli obiettivi assegnati a ciascuno da T si realizzino peggio che se nessuno di noi avesse seguito con successo T. La teoria dell'interesse personale assegna ai diversi agenti obiettivi di versi. Ebbene, questa teoria può condannarsi direttamente all'insucces so sul piano individuale? L'obiettivo assegnatomi da S è che la mia vita vada, per me, nel migliore dei modi. Io seguo con successo S quando, tra le azioni a me possibili, compio quella che per me sarà più vantag giosa. Può essere certo che, se seguo con successo S, per ciò stesso ren derò l'esito peggiore per me? Non è possibile. E non lo è né nel caso di un atto singolo, né nel caso di una serie di atti compiuti in tempi diversi. L'argomento che suffraga questa seconda tesi è analogo a quello formu lato sopra. S mi assegna nei diversi momenti sempre il medesimo obiet tivo comune: che la mia vita vada, per me, nel migliore dei modi. Se i miei atti, nei diversi momenti, fanno sì che la mia vita vada nel migliore dei modi possibili, bisogna che, nel compiere ciascuno di questi atti, io stia seguendo con successo S. Bisogna che io, degli atti che mi sono pos sibili, stia compiendo quello che per me è meglio compiere. Così non può essere certo che, se seguo sempre con successo S, per ciò stesso ren derò l'esito peggiore per me. Ciò che per me può essere peggio è che io abbia la disposizione a se guire sempre S. Ma in questo caso non sono i miei atti a essere negativi per me, bensì la mia disposizione. S non può condannarsi direttamente all'insuccesso sul piano individuale. Può farlo solo indirettamente. Possono le teorie condannarsi direttamente all'insuccesso sul piano collettivo? Supponiamo che la teoria T assegni a te e a me obiettivi di versi. E supponiamo che ciascuno di noi possa o (l) promuovere la rea lizzazione dell'obiettivo assegnatogli da T, o (2) promuovere più effica cemente la realizzazione dell'obiettivo dell'altro. Gli esiti possibili sono quelli che emergono dal seguente diagramma Tu
faccio (l)
fai (l)
fai (2)
L'obiettivo assegnato da T a ciascuno di noi si realizza nel terzo dei migliori modi possibili
n mio obiettivo si realizza
Il mio obiettivo si realizza nel modo peggiore, il tuo nel modo migliore
L'obiettivo assegnato da T a ciascuno di noi si realizza nel secondo dei migliori modi possibili
nel modo migliore, il tuo nel modo peggiore
lo faccio (2)
Dilemmi pratici
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Supponiamo infine che né la mia scelta né la tua influiscano su quella dell'altro. In tal caso sarà vero di ciascuno di noi due che, se fa {l) anzi ché (2), farà sì che l'obiettivo assegnato a lui da T si realizzi meglio, e ciò qualunque cosa faccia l'altro. Entrambi seguiamo con successo T solo se entrambi facciamo (l) anziché (2). Solo così ciascuno di noi, tra gli atti a lui possibili, compie quello che meglio realizza l'obiettivo assegnatogli da T. Ma è certo che se entrambi, anziché nessuno dei due, seguiamo con successo T- se entrambi facciamo (l) anziché (2) , per ciò stesso faremo sì che l'obiettivo assegnato da T a ciascuno di noi si realizzi peg gio. Qui la teoria T si condanna direttamente all'insuccesso sul piano collettivo. I casi di questo tipo rivestono una grande importanza pratica. I più semplici si verificano quando -
(a) la teoria T è agente-relativa, cioè assegna ai diversi agenti obiettivi diversi; (b) il conseguimento degli obiettivi assegnati a ciascuno da T dipen de in parte da ciò che fanno gli altri, e (c) ciò che ciascuno fa non influirà su ciò che fanno questi altri.
23. Il dilemma del prigioniero e dei beni pubblici Queste tre condizioni si verificano frequentemente quando T è la teo ria dell'interesse personale. È frequente che S si condanni direttamente all'insuccesso sul piano collettivo. Questi casi hanno un nome fuorvian te che è stato desunto da un esempio, quello del dilemma del prigionie ro. Tu e io veniamo interrogati separatamente su un delitto che abbiamo commesso ms1eme. I possibili esiti sono quelli che emergono dal se guente diagramma: Tu
confesso
confessi
non confessi
Veniamo condannati en-
Io vengo messo in libertà, a
trambi a 10 anni
te danno 12 anni
A me danno 12 anni, tu
Veniamo condannati entrambi a 2 anni
Io non confesso
vieni messo in libertà
Qualunque cosa faccia l'altro, a ciascuno di noi conviene confessare. In tal modo, infatti, ciascuno di noi sarà certo di risparmiarsi due anni di
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prigione. Ma se entrambi confessiamo, per entrambi sarà peggio che se non confessasse nessuno dei due. Per semplificare: per ciascuno andrà peggio se ciascuno, anziché nes suno dei due, farà ciò che per lui sarà meglio. Un caso è quello in cui
(condizione positiva) ciascuno può o (l) procurare a se stesso il mi nore di due benefici o (2) procurare all'altro il beneficio maggiore, e
(condizione negativa) la scelta di ciascuno dei due non è in altri mo di migliore o peggiore per l'altro. Quando si verifica la condizione positiva, gli esiti possibili sono quelli evidenziati dal seguente diagramma: Tu
faccio (l)
fai (l)
fai (2)
ciascuno dei due ottiene il
Io ottengo entrambi i be-
beneficio minore
nefici, tu non ottieni nulla
lo non ottengo nulla, tu ot-
Ciascuno dei due ottiene il
tieni entrambi i benefici
beneficio maggiore
Io faccio (2)
Se aggiungiamo la condizione negativa, il diagramma si trasforma nel se guente: Tu
faccio (l)
fai (l)
fai (2)
Per ciascuno di noi il terzo
Esito ottimo per me, pessi-
dei migliori esiti possibili
mo per te
Esito pessimo per me, otti-
Per entrambi, il secondo
mo per te
dei migliori esiti possibili
Io faccio (2)
Una parte della condizione negativa non può trovar posto in quest'ulti mo diagramma. Non ci dev'essere nessuna reciprocità: dev'essere vero che la scelta dell'uno non farà sì che l'altro faccia la stessa scelta, e vice versa. In tal caso, per ciascuno sarà meglio fare (l) anziché (2) e lo sarà qualunque cosa faccia l'altro. Ma se entrambi fanno (l), per ciascuno sa rà peggio che se entrambi avessero fatto (2).
Dilemmi pratici
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Quand'è che la scelta dell'uno non può influire sulla scelta dell'altro? Solo quando ciascuno deve compiere una scelta definitiva prima di sa pere che cosa sceglie l'altro. Al di fuori delle prigioni e degli esperimenti degli studiosi di teoria dei giochi, questo si verifica raramente. Peraltro, ciò non basta ad assicurare la condizione negativa. Potrebbe esserci, per esempio, una reciprocità differita. La scelta di uno dei due potrebbe in fluire sul fatto che l'altro, in seguito, lo danneggi o gli faccia del bene. Perciò è molto raro che noi possiamo sapere di trovarci ad affrontare il dilemma del prigioniero a due persone. Quest'ultima affermazione è confortata dalla vastissima letteratura sul dilemma del prigioniero. Di casi convincenti che riguardino davvero due persone essa ne descrive ben pochi. La condizione negativa si verifi ca raramente. Uno dei casi più discussi è costituito dalla corsa agli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Spesso si sostiene trattarsi del dilemma del prigioniero. Stati Uniti e Unione Sovietica dovrebbero mettere a punto, in segreto, nuove armi? Qualora a farlo fosse una sola delle due nazioni, questa in seguito potrebbe essere in grado di imporsi all'altra; e tale esito sarebbe il migliore per lei e il peggiore per l'altra. Se lo faran no entrambe, resteranno alla pari, ma con costi molto elevati ed espo nendosi all'insicurezza di una competizione incessante. Questo sarebbe per entrambe il terzo dei migliori esiti possibili. Il secondo miglior esito sarebbe per entrambe che né l'una né l'altra creassero in segreto armi nuove. Ciascuna di esse dovrebbe creare armi nuove, perché in questo modo otterrà per sè il terzo miglior esito, anziché l'esito per lei peggiore che le toccherebbe nel caso in cui l'altra facesse la stessa cosa; e otterrà per sè l'esito migliore, anziché il secondo miglior esito, nel caso in cui l'altra non faccia la stessa cosa. Ma se entrambe costruiscono nuove ar mi, per entrambe ciò sarà peggio che se nessuna delle due lo facesse.28 In questo caso può verificarsi, in parte, quella che ho chiamato condi zione negativa. Se è possibile che le nuove armi vengano create in segre to, ognuna delle due nazioni deve fare la propria scelta prima di cono scere la scelta dell'altra. Relativamente alla ricerca, questo ragionamento può essere corretto. È discutibile, invece, che possa applicarsi alla pro duzione e all'impiego delle armi nuove, perché qui ciascuna è in grado di sapere che cosa fa l'altra. D'altro canto, non è chiaro nemmeno che i soli progressi nella ricerca possano consentire a una nazione di imporsi all'altra. Si aggiunga poi che quella appena descritta è una situazione che si ripete e si rz'propone continuamente. Decisioni come queste sono destinate a ripresentarsi in continuazione. Perciò finisce per non essere chiaro che la scelta di agire in uno dei due modi sarà certamente la mi-
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Teorie che si condannano all'insuccesso
gliore per ciascuna delle nazioni. La scelta compiuta da ciascuna di esse può influire sulle scelte successive dell'altra. La letteratura filosofica ha discusso ampiamente casi ripetuti di que sto tipo, chiamandoli, in modo fuorviante, dilemmi ripetuti del prigio nz'ero. Per vedere in che modo coppie di persone si comportino in casi del genere, sono stati condotti molti esperimentiP A parte le indagini sperimentali, attorno ai «dilemmi ripetuti del prigioniero» c'è stata una discussione teorica molto vivace. Anche se interessante, tale discussione ha scarsa attinenza con il nostro tema. Quel che dobbiamo fare è distin guere due tipi di casi. Nel primo ogni persona sa di dover affrontare un certo numero di «dilemmi ripetuti del prigioniero». Ciò non awiene nei casi reali che hanno importanza pratica. Perciò mi limiterò a discuterne brevemente in nota.30 Nei casi che hanno importanza pratica non si sa quante volte ci toc cherà affrontare i «dilemmi ripetuti del prigioniero». Secondo la mia definizione, coloro che affrontano tale serie di casi, di veri dilemmi del prigioniero non ne affrontano neppure uno. Di queste persone non è vero che sarà peggio per entrambe se ciascuna di esse, anziché nessuna, fa ciò che sarà meglio per lei. E non è vero perché, in questi «dilemmi ripetuti del prigioniero» non è più chiaro quale delle due scelte sarà mi gliore per chi la fa; e ciò perché la propria scelta può influire sulle scelte successive dell'altro. Se uno opta per la scelta collaborativa, ciò in segui to può indurre l'altro a fare lo stesso. Come dicono gli studiosi di teoria dei giochi, nessuna delle due scelte, se ne consideriamo tutte le possibili conseguenze, è dominante, ossia certamente la migliore per chi la fa. Quella sollevata da questi casi è perciò, per chi sostenga la teoria dell'in teresse personale, una questione interna. Se l'obiettivo di una persona è di fare ciò che di meglio può fare per sé, come dovrebbe comportarsi in una serie di «dilemmi ripetuti del prigioniero»? In un vero dilemma del prigioniero i problemi sollevati sono completamente diversi: qui, se uno agisce in uno dei due modi, è certo che per lui sarà meglio non solo im mediatamente, ma a lungo termine e complessivamente. Quello che ci si pone qui non è il problema interno di come uno possa perseguire nel modo migliore i propri interessi. Il problema è che se ciascuno, anziché nessuno dei due, fa ciò che è certo essere meglio per lui, sarà peggio per entrambi. Mentre è molto raro che sappiamo di trovarci ad affrontare il di lemma del prigioniero a due persone, capita di frequente che ci rendiamo conto di affrontare le versioni a più persone di quel di lemma; e tali versioni rivestono una notevole importanza pratica. Il
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caso piuttosto raro della versione a due persone è importante solo come modello per le versioni a più persone. Noi affrontiamo un dilemma a più persone, quando è certo che, se ciascuno, anziché nessuno, fa ciò che sarà meglio per lui, sarà peggio per tutti. Questa definizione copre solo i casi più semplici. Come prima, «tutti» significa «tutte le persone che fanno parte di un gruppo». Un esempio di dilemma a più persone è il dilemma del samaritano. A ciascuno di noi, a volte, capita di poter aiutare un estraneo con costi personali modesti. E ci capita, altresì, con altrettanta frequenza, di poter essere aiutati in modo analogo dagli altri. Nelle comunità piccole i costi di questi aiuti possono venire indirettamente compensati. Il fatto che io aiuti un altro può far sì che, in seguito, anch'io possa essere a mia volta aiutato. Ma in comunità vaste è improbabile che ciò avvenga. Qui po trebbe essere meglio per ciascuno non aiutare mai gli altri. Ma se nessu no si presta mai ad aiutare gli altri, sarebbe peggio per tutti. Ciascuno può avere interesse a non aiutare mai gli altri, ma ci perde - e ci perde di più - per il fatto di non venire mai aiutato. Di casi del genere se ne presentano molti quando (condizioni positive) (i) ciascuno di noi può, con qualche costo per sonale, dare agli altri una maggior quantità complessiva di benefici o di benefici attesi; (ii) se ciascuno, anziché nessuno, dà agli altri questo maggior beneficio, ciascuno riceve un beneficio maggiore o un maggior beneficio atteso, e (condizione negativa) non ci sono effetti indiretti che annullino questi effetti diretti. Le condizioni positive coprono molti tipi di casi. Un estremo è rappre sentato dal caso in cui ciascuno può dare a uno degli altri un beneficio maggiore. Ne è un esempio il dilemma del samaritano. L'altro estremo è rappresentato dal caso in cui ciascuno può dare a tutti gli altri una mag gior quantità complessiva di benefici. Nei casi che stanno tra i due estre mi, ciascuno può dare ad alcuni altri una maggior quantità complessiva di benefici. Quando si verifica il secondo estremo, in cui ciascuno può beneficare tutti gli altri, (ii) è ridondante in quanto è implicita in (i). Ne gli altri casi, (ii) è spesso vera. Sarebbe vera, per esempio, se i benefici venissero distribuiti a caso. Un'altra gamma di casi è quella riguardante le diverse probabilità che le azioni di ciascuno siano di beneficio agli altri. A un estremo della gamma c'è il caso in cui ciascuno può dare agli altri con certezza una maggior quantità complessiva di benefici. All'altro estremo, quello in
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Teorie che si condannano all'insuccesso
cui ciascuno ha una probabilità molto bassa di arrecare agli altri un be neficio molto maggiore. In questo genere di casi ciascuno potrebbe dare agli altri una maggior quantità di benefici attesi, il cui valore è pari ai be nefici possibili moltiplicati per la probabilità che l'atto li produca. Quando gli effetti dei nostri atti sono incerti, la mia definizione del di lemma necessita di una revisione. In questi casi non è certo che, se cia scuno, anziché nessuno, fa ciò che sarà meglio per lui, sarà peggio per tutti. Ci troviamo ad affrontare un dilemma del rischio, quando è certo che se ciascuno, anziché nessu no, procura a se stesso un beneficio atteso, in tal modo o ridurrà per tutti il beneficio atteso o farà ricadere su tutti un danno o un costo atteso. In alcuni casi a più persone si verificano solo le condizioni positive. In tali casi, poiché il numero delle persone interessate è sufficientemente piccolo, ciò che ciascuno fa può influire su ciò che fa la maggior parte degli altri. Questi casi hanno una notevole importanza pratica. Molte volte essi riguardano nazioni, società commerciali o sindacati. Tali casi presentano alcune delle caratteristiche proprie del vero dilemma del prigioniero, ma di questo non hanno la caratteristica principale. Poiché l'atto di ciascuno può influire sugli atti di un sufficiente numero di altre persone, non è chiaro quale atto sarebbe nell'interesse di ciascuno. Quella sollevata da casi del genere è, per un sostenitore della teoria del l'interesse personale, un'altra questione interna. In un vero dilemma del prigioniero, su quale sia l'atto che, nel complesso, darà all'agente un maggior beneficio, o un maggior beneficio atteso, non c'è incertezza di sorta, e i problemi che si pongono sono del tutto diversi. I dilemmi a più persone sono, come ho già detto, estremamente fre quenti. Una ragione di ciò è la seguente: in un caso a due persone è im probabile che si verifichi la condizione negativa. Perché si dia, occorro no interventi particolari, per esempio da parte del personale della pri gione o degli studiosi della teoria dei giochi. Invece nei casi che coinvol gono moltissime persone, la condizione negativa si dà naturalmente. Non è necessario che ciascuno agisca prima di sapere che cosa fanno gli altri. Quand'anche questo non avvenisse, se siamo in molti, è estrema mente improbabile che ciò che ciascuno fa influisca su ciò che fa la maggioranza degli altri. Potrà influire su ciò che fa un ristretto numero di altre persone; ma raramente questo fatto determina una differenza sufficiente. I dilemmi veri più comuni sono i dilemmi del contribuente. Essi vetto no sui beni pubblici, ossia su quegli esiti di cui beneficiano anche coloro che non collaborano a pr.Qdgrli. Può bensì essere vero di ciascuna per-
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sona che, se collabora, accresce la quantità dei benefici o dei benefici at tesi. Ma del beneficio che egli aggiunge, solo una porzione molto picco la ricadrà su di lui. Poiché la sua partecipazione a ciò che egli aggiunge sarà molto piccola, essa potrebbe non ripagarlo del suo contributo. Così per ciascuno potrebbe essere meglio non contribuire. Ciò può essere ve ro qualunque cosa facciano gli altri. Ma se gli altri contribuissero in nu mero troppo basso, sarebbe peggio per tutti; e se non contribuisse nes suno, per ciascuno sarebbe peggio che se contribuissero tutti. Molti dilemmi del contribuente comportano due soglie. In questi casi ci sono due numeri, v e meno di
v,
w,
tali che, se quelli che contribuiscono sono
non verrà prodotto alcun beneficio, e, se sono più di
w,
il be
neficio prodotto non avrà alcun incremento. In molti casi del genere noi non sappiamo che cosa probabilmente faranno gli altri, e quindi chi contribuisce non sarà certo di arrecare un beneficio agli altri. Sarà vero soltanto che egli dà agli altri un beneficio atteso. Un caso estremo è quello delle elezioni, dove la distanza tra le due soglie può essere rap presentata da un solo voto. In tal caso
w
è pari a v+ l. Sebbene un'ele
zione sia raramente un vero dilemma del prigioniero, in seguito varrà la pena di discuterne. Alcuni beni pubblici richiedono contributi finanziari: ciò è vero per strade, polizia e difesa della nazione. Altri richiedono sforzi .cooperativi. Quando, nelle grandi industrie, le retribuzioni dipendono dai profitti e il lavoro è ingrato e pesante, per ciascuno può essere meglio che gli altri lavorino di più, e peggio se lo fa anche lui. Lo stesso può essere vero per dei contadini impegnati in fattorie collettive. Un terzo tipo di beni pub blici consiste nello scongiurare un male: qui il contributo necessario è spesso l'autolimitazione. I casi relativi a questi tipi di beni possono ri guardare, per esempio, i pendolari: ciascuno viaggia più in fretta, se va al lavoro in macchi
na; ma se tutti andranno al lavoro in macchina, viaggeranno più lentamente che se si servissero tutti dei mezzi pubblici. i soldati: ciascuno sarà più al sicuro se volterà le spalle al nemico e
se la darà a gambe; ma se lo faranno tutti, ci saranno più morti che se non lo facesse nessuno. i pescatori: quando le acque sono sottoposte a uno sfruttamento ec-
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Teorie che si condannano all'insuccesso
cessivo da parte dei pescatori, per ciascuno di essi può bensì essere meglio cercare di prendere più pesci; ma se lo faranno tutti, sarà . peggio per ciascuno. .
i contadini: quando c'è sovrappopolazione, per ciascun contadino può bensì essere meglio avere molti figli; ma se tutti avranno molti figli, sarà peggio per ciascuno di loro.31 Di casi del genere ce ne sono moltissimi altri: per ciascuna persona può esser meglio produrre ulteriore inquinamento, usare più energia, non rispettare la coda e non stare ai patti; ma se tutti facessero così, per ciascuno sarebbe peggio che se non lo facesse nessuno. È vero molto spesso che se ciascuno, anziché nessuno, fa ciò che sarà meglio per lui, sarà peggio per tutti. Solitamente questi dilemmi vengono descritti in termini di interesse personale. Il fatto che le persone che mirano esclusi vamente al proprio interesse personale siano poche potrebbe far pensa re che questi argomenti hanno un'importanza secondaria. Ma nella maggior parte dei casi di questo tipo è vero quanto segue: se ciascuno, anziché nessuno, fa ciò che sarà meglio per se stesso, per la propria fami
glia o per le persone che ama, sarà peggio per tutti.
24. Il problema pratico e le sue soluzioni
Supponiamo che ciascuno abbia la disposizione a fare ciò che sarà meglio per sé, per la propria famiglia o per le persone che ama. Ciò po ne un problema pratico. Se non interverrà un cambiamento, l'esito effet tivo sarà peggiore per tutti. Questo problema rappresenta una delle ra gioni principali per le quali quel che ci serve è qualcosa di più dell'eco nomia dellaissezjaire: la ragione per cui abbiamo bisogno insieme della politica e della moralità. Ricorriamo alle etichette e diamo per intese espressioni come «la pro pria famiglia» e «le persone che ama». Ciascuno ha due alternative: E (più egoistica) e A (più altruistica). Se tutti faranno E, per ciascuno sarà peggio che se tutti facessero A. Ma per ciascuno, qualunque cosa faccia no gli altri, sarà meglio fare E. Il problema è che, per questa ragione, ora ciascuno ha la disposizione a fare E. Tale problema sarà in parte risolto se la maggior parte delle persone farà A; sarà risolto interamente se lo faranno tutte. Una soluzione può
l >!lemmi pratici
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,·ssere raggiunta in uno o più dei modi raffigurati nel diagramma se guente: Ciascuno può fare A
perchè assume la disposizione a fare A. Può assumerla
perchè E diventa impossibile (l)
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perchè per lui ora sarebbe meglio fare A. A ora può essere meglio per lui
sia se per lui, ora, fos�e meglio fare A, sia se non lo fosse. Ora può essere vero
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a causa di un cambiamento nella sua situazione (2)
a causa d"1 un camb"lamento nella sua persona (3)
che, a causa di questo cambiamento awenuto in lui, per lui non sia più peggio fare A (4)
che, nonostante questo cambiamento awenuto in lui, per lui resti ancora peggio fare A (5)
Il cambiamento in (3) è diverso dal cambiamento in (4). In (4) una persona ha la disposizione a fare A indipendentemente dal fatto che ciò per lei sia meglio o non lo sia. Il fatto che, a causa di questo cambiamen to nella persona, A non sia, per lei, peggio, è un mero effetto collaterale. In (3) uno ha la disposizione a fare A solo perché, dato qualche altro cambiamento avvenuto in lui, per lui è meglio fare A. Le soluzioni da (l) a (4) eliminano il dilemma: per ciascuno la scelta altruistica cessa di essere peggiore dell'altra. Spesso si tratta di buone soluzioni; talvolta, però, sono inefficienti o irrealizzabili e allora abbia mo bisogno di (5). (5) risolve il problema pratico, ma non elimina il di lemma. Rimane un problema teorico. In questo capitolo e nel prossimo mi occuperò di come possiamo risolvere il problema pratico. Il proble ma teorico lo discuterò nel capitolo quarto. Nella soluzione (1), la scelta egoistica è resa impossibile. Talvolta que sta è la miglior soluzione. In molti dilemmi del contribuente, ci dovreb be essere una tassazione a cui non sia possibile sottrarsi. Spesso, però,
(l) sarebbe una soluzione molto infelice. Per attuarla, bisognerebbe di struggere le reti da pesca e legare i soldati ai loro posti di combattimen to: due soluzioni non prive di controindicazioni.
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Teorie che si condannano all'insuccesso
(2) è una soluzione meno diretta: E rimane possibile, ma per ciascuno diventa meglio A. Potrebbe esserci un sistema di premi. Senonché, se il sistema funziona, bisognerebbe premiare tutti. Forse sarebbe meglio che l'unico premio consistesse nell'evitare una penalità. Se tale sistema funziona, non paga nessuno. Se tutti i disertori venissero fucilati, forse non diserterebbe più nessuno. La scelta tra (l) e (2) è spesso difficile. Consideriamo il dilemma del contadino: per ciascuno sarà meglio avere più figli, ma se tutti avranno più figli, sarà peggio per ciascuno di loro. In certi paesi si premiano le famiglie con due figli e in Cina quelle con un figlio solo. Ma dove il pro blema è più grave, il paese è troppo povero per premiarle tutte. Perché il sistema sia efficace, la mancata assegnazione del premio deve equiva lere a una penalità. E poiché il sistema non sarebbe efficace al cento per cento, alcuni si troverebbero a sopportare delle penalità che, peraltro non ricadrebbero solo sui genitori, ma anche sui bambini. Un'alternativa è (1), ossia far sì che sia impossibile avere più di due fi gli. Ciò comporta la sterilizzazione obbligatoria dopo la nascita del se condo figlio; un correttivo potrebbe consistere nella reversibilità della sterilizzazione, in modo che sia possibile correre ai ripari nel caso in cui uno dei figli, o entrambi, morissero. Una soluzione del genere può ap parire repellente; tuttavia, in un eventuale referendum, potrebbe racco gliere consensi unanimi. Per tutti i membri del gruppo sarebbe meglio che nessuno, anziché tutti, avesse più di due figli; e nel caso in cui tutti preferissero che accada questo, tutti quanti potrebbero preferire e so stenere col proprio voto il sistema della sterilizzazione obbligatoria. Se un referendum si esprimesse unanimamente a favore di tale sistema, l'obbligo della sterilizzazione potrebbe non apparire più repellente. Questa soluzione presenta dei vantaggi nei confronti di un sj,:;tema di premi o di penalità. Come ho detto, quando quest'ultimo sistema non è pienamente efficace, coloro che hanno più figli devono pagare delle pe nalità che ricadrebbero anche sui figli. Non sarebbe meglio, invece che punire una cosa, renderla impossibile?32 (l) e (2) sono soluzioni politiche, cambiamenti della nostra situazione. Da (3) a (5) sono soluzioni psicologiche: a cambiare siamo noi. Tale cam biamento può essere specifico e risolvere un solo dilemma. È il caso del pescatore che diventa pigro e del soldato che arriva a preferire la morte al disonore o che assume un atteggiamento ispirato a obbedienza asso luta. Ma ci sono dei cambiamenti di portata più generale. Eccone quat tro esempi: Potremmo diventare affidabili. In tal caso ciascuno potrà promette re di fare A a condizione che gli altri facciano lo stesso.
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Potremmo diventare restii a comportarci da «/ree rider»33• Se ritiene che molti altri faranno A, uno può arrivare a preferire di fare la propria parte. Potremmo diventare kantiani. In tal caso ciascuno farebbe soltanto ciò che razionalmente può volere che facciano tutti. Nessuno razio nalmente può volere che tutti facciano E. Ciascuno quindi farebbe A. Potremmo diventare più altruisti. Se ci fosse una sufficiente dose di altruismo, ciascuno farebbe A. Queste sono soluzioni morali. Essendo in grado di risolvere qualsiasi di lemma, esse sono le soluzioni psicologiche più importanti. Spesso sono migliori delle soluzioni politiche. Ciò è dovuto, in parte, al fatto che non c'è bisogno di imporne l'adozione. Prendiamo il dilem ma del samaritano. Non si può far sì che sia impossibile non soccorrere gli estranei. Non è facile cogliere sul fatto e multare i samaritani cattivi. E vero che si potrebbe invece premiare i samaritani buoni; ma per ga rantire che ciò avvenga, dovrebbe intervenire la legge e, stanti i costi amministrativi, una soluzione del genere potrebbe non essere vantaggio sa. Se assumessimo autonomamente la disposizione ad aiutare gli estra nei sarebbe molto meglio. Sapere quale sia la soluzione migliore non basta. Quale che sia la so luzione adottata, la si deve tradurre o far tradurre in realtà. Spesso la co sa è più facile quando si tratta di soluzioni politiche: è più facile cambia re le situazioni che cambiare le persone. Spesso, però, ci troviamo a fronteggiare un altro dilemma del contribuente, questa volta di secondo ordine. Di soluzioni politiche che possano essere attuate da una sola persona ce ne sono poche. Per lo più esse richiedono la cooperazione di molti. Ma una soluzione è un bene pubblico che va a vantaggio di cia scuno, indipendentemente dal fatto che si sia o non si sia fatta la propria parte. Nella maggior parte dei gruppi vasti, per il singolo fare la propria parte è peggio. La differenza che egli determina è troppo piccola per ri pagarlo del suo contributo. Nelle democrazie ben organizzate l'entità del problema potrebbe es sere modesta. Qui ci basterà comunque rifarci alla versione originaria del dilemma e intenderlo nel senso più ampio. Risolverlo non è sempre facile; ma quando non lo fosse, potremmo mettere ai voti una soluzione politica. Se poi il governo tenesse conto dei sondaggi d'opinione, po trebbe non esserci neppure bisogno di votare. Il problema assume proporzioni più vaste quando non c'è un gover no. È questo che preoccupava Hobbes e che oggi dovrebbe preoccupa re le nazioni. Ne è un esempio la diffusione delle armi nucleari. Senza un «governo del mondo» è difficile arrivare a una soluzione.34
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Il problema diventa enorme quando alla sua soluzione si oppone qualche gruppo dominante. Ciò costituisce il dilemma degli oppressi. Tutti questi dilemmi del contribuente spesso richiedono soluzioni morali. Spesso noi abbiamo bisogno di persone che abbiano l'autonoma disposizione a fare la propria parte. Se queste persone possono modifi care la situazione in modo tale da poter dare attuazione a una soluzione politica, questa può essere autosufficiente. Ma in assenza di persone del genere, a una soluzione non si arriverà mai. Le soluzioni morali sono dunque spesso le migliori e le sole praticabi li. Abbiamo quindi bisogno di motivazioni morali. Com'è che potrem mo introdurle nelle persone? Fortunatamente non è questo il nostro problema. Queste motivazioni esistono, ed è grazie a esse che risolviamo molti dilemmi del prigioniero. Ciò che occorre fare è rafforzarle e dif fonderle. Nella realizzazione di questo compito la teoria ci è di aiuto. I dilemmi del prigioniero vanno spiegati, e vanno spiegati al pari delle loro solu zioni morali. Entrambe le cose sono state intese troppo poco. Una soluzione può essere rappresentata, come abbiamo visto, da un'intesa condizionata. Perché essa sia possibile, occorre preliminar mente che ci sia comunicazione tra tutti i membri del gruppo. Se miria mo solo all'interesse personale, cioè se abbiamo la disposizione a non andare mai contro il nostro interesse, raramente il fatto che siamo in grado di comunicare può fare una differenza. Nell'ambito dei gruppi più vasti, non servirebbe a nulla promettere di fare la scelta altruistica: per ciascuno di noi, infatti, sarebbe peggio mantenere la propria pro messa. Ma supponiamo di essere affidabili. A questo punto ciascuno potrebbe promettere di fare A a condizione che tutti gli altri facciano lo stesso. Se sappiamo di essere tutti affidabili, ciascuno avrà una ragione per associarsi a questa intesa condizionata. Ciascuno saprà che, se non si associa, l'intesa non avrà luogo. Una volta che tutti quanti abbiamo fatto questa promessa, tutti quanti faremo A. Se siamo molto numerosi, in pratica sarà difficile raggiungere l'unani mità. Se la nostra unica motivazione morale è l'affidabilità, sarà impro babile che riusciamo a realizzare quella comune intesa condizionata: probabilmente associarsi per ciascuno di noi sarebbe peggio; è inoltre probabile che non saremmo in grado di comunicare tra di noi.35 Di persone la cui unica motivazione morale sia l'affidabilità ce ne so no ben poche. Supponiamo di essere anche restii a comportarci da «free rider». Chiunque di noi abbia tale motivazione desidererà non restare al di fuori della comune intesa condizionata; preferirà associarvisi anche se farlo, per lui, sarà peggio. Ciò risolve il problema appena menzionato
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concernente l'intesa comune. E se a essere «free rider» sarà restio un numero sufficiente di persone, non ci sarà alcun bisogno di un'intesa reale; ci basterà sapere con certezza che saranno in molti a fare A. A questo punto ciascuno preferirebbe fare la propria parte. Ma la riluttan za a essere «free rider» per sé sola non basta a darci quella certezza. Co sì ci sono molti casi in cui essa non ci offre alcuna soluzione.36 Una soluzione ce la potrebbe fornire in ogni caso il test kantiano. Ma anch'esso ha i suoi problemi. Potrei volere razionalmente che la medici na la esercitino tutti o che non la eserciti nessuno? Forse, se articolassi mo quel test in modo più sottile, problemi del genere riusciremmo a ri solverli. A sollevarli, però, non sono i dilemmi del prigioniero, bensì i casi in cui ci verrebbe naturale chiederci: «E se tutti facessero così?».J7 La quarta soluzione morale è rappresentata da un sufficiente altrui smo. Qui non alludo all'altruismo puro. I puri altruisti, ossia coloro che non annettono nessuna importanza ai propri interessi personali, posso no trovarsi a fronteggiare dilemmi analoghi a quello del prigioniero e potrebbe essere vero che se tutti, anziché nessuno, facessero ciò che cer tamente è meglio per gli altri, sarebbe peggio per tutti.38 Per «sufficiente altruismo» intendo un sufficiente interesse per gli altri, dove il caso limi te è rappresentato da una benevolenza imparziale: un uguale interesse per tutti, compreso se stesso. La quarta soluzione è stata la meno compresa. Spesso si è afferma to che, in quei dilemmi del contribuente che coinvolgono un numero elevato di persone, l'azione del singolo non fa alcuna differenza; e si è creduto che ciò dimostri che un altruista razionale non darebbe il proprio contributo. Come argomenterò nel prossimo capitolo, que sto è un errore.
III. Cinque errori di matematica morale
Spesso si sostiene che, nei casi in cui sono coinvolte moltissime perso ne, una singola scelta altruistica non farebbe alcuna differenza. Alcuni di coloro che avanzano questa tesi ritengono che essa incrini soltanto la quarta soluzione morale, ossia quella fornita dall' «altruismo sufficien te». Essi argomentano che, in tali casi, poiché non possiamo fare appello alle conseguenze dei nostri atti, dobbiamo fare appello invece o al test kantiano - «e se tutti facessero così?» - o alla riluttanza ad agire da «free rider».39 Ma se il mio contributo da un lato comporta per me un costo reale e, dall'altro, è certo che non farebbe alcuna differenza - os sia non arrecherebbe alcun beneficio agli altri-, a motivare la mia azio ne non può essere la riluttanza a comportarmi da «free rider». Tale ri luttanza può entrare in gioco solo se ritengo di accaparrarmi dei benefi ci a spese di altri. Se, invece, il mio eventuale contributo non fa alcuna differenza, il fatto che io non lo dia non danneggerà gli altri e quindi io non mi avvantaggerò a loro spese. Potrei pensare che il mio caso sia ana logo a quelli in cui, essendo stata chiaramente superata una certa soglia, qualsiasi ulteriore atto altruistico è fatica sprecata. Questa credenza può incrinare anche la soluzione kantiana. Se sono certo che il mio contribu to non farebbe alcuna differenza, posso razionalmente volere che tutti gli altri agiscano come me. Posso razionalmente volere che nessuno dia il proprio contributo quando sappia che questo non farebbe alcuna dif ferenza. Poiché altri potrebbero pensarla come me, è molto importante stabilire se, in casi del genere, non possiamo fare appello alle conse guenze dei nostri atti.
25. La concezione del contributo individuale come «quota-del-totale» La mia tesi è che possiamo fare appello a queste conseguenze. Prima di spiegare il perché, mi tocca spiegare altri due errori. Consideriamo il caso della
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Prima missione di salvataggio. Io so quanto segue. Cento minato ri sono rimasti intrappolati in un pozzo in cui l'acqua sta salen do; li si può riportare in superficie mediante un montacarichi azionato da pesi applicati a lunghe funi. Se io e altre tre persone saliremo su una piattaforma, le daremo il peso necessario a solle vare il montacarichi e salveremo quelle cento persone. Se, inve ce, mi astenessi dal collaborare a quella missione, potrei andare
in un altro posto e salvare, da solo, altre dieci persone. C'è un quinto potenziale soccorritore. Se io vado altrove, questi si unirà agli altri tre e, insieme con loro, salverà i minatori. Quando posso agire in modi diversi, com'è che dovrei decidere quale sia l'atto che gioverebbe di più agli altri? Supponiamo anzitutto che io mi unisca agli altri quattro soccorritori per salvare quelle cento persone. Secondo la concezione del contributo come «quota-del-totale», ciascu no produce la propria quota del beneficio totale. Poiché in cinque sal viamo cento persone, ciascuno di noi ne salva venti. In termini meno prosaici, il bene che ciascuno di noi fa è pari a venti vite umane salvate. Secondo questa concezione, io mi devo unire agli altri quattro e salvare l'equivalente di venti persone. Se andassi da quell'altra parte a salvare le altre dieci persone, ne salverei di meno e quindi non devo farlo. Questa risposta è chiaramente sbagliata. Se mi comportassi così, infatti, dieci persone morirebbero inutilmente. Poiché gli altri quattro soccorritori salverebbero i cento minatori anche senza il mio aiuto, io devo andare a salvare quelle dieci persone. La concezione del contributo individuale come «quota-del-totale» può essere corretta. Si potrebbe dire che, quando io mi unisco ad altri che stanno facendo del bene, il bene che io faccio non corrisponde esat tamente alla mia quota del beneficio complessivo prodotto. Dalla mia quota dovrei sottrarre tutte le riduzioni che la mia partecipazione deter mina nelle quote di beneficio prodotte dagli altri. Se mi unisco a questa missione di salvataggio, sarò una delle cinque persone che insieme salva no cento vite umane. La mia quota sarà di venti vite umane. Se io non mi fossi unito a loro, quelle cento persone le avrebbero salvate gli altri quattro e la quota di vite umane salvate sarebbe stata di venticinque per ciascuno di loro, ossia cinque in più che se fossi rimasto con loro. Rima nendo con loro, io riduco la quota degli altri quattro di un totale di 4 X 5, ossia di venti vite umane. Secondo questa versione riveduta della con cezione in esame, la mia quota del beneficio è pari a 20- 20, ossia zero. Perciò io dovrei andare a salvare le altre dieci persone. La risposta della versione riveduta è quella giusta. Consideriamo ora la
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Seconda missione di salvataggio. Come nel primo caso è in pericolo la vita di cento persone. Esse possono essere salvate se io e altre tre persone organizziamo insieme una missione di salvataggio. Noi
quattro siamo i soli che possono unirsi per farlo. Basterà che uno di noi si rifiuti di collaborare perché quelle cento persone muoiano tutte quante. Se io non mi unirò agli altri, potrò andare da un'altra parte e salvare, da solo, altre cinquanta persone. Secondo la versione riveduta della concezione del contributo individua le come quota-del-totale, io devo andare a salvare queste cinquanta per sone. Se, infatti, mi unisco agli altri tre, la mia quota del beneficio totale prodotto sarà pari soltanto a venticinque vite umane. Perciò posso pro durre un beneficio maggiore andando a salvare, in un altro posto, cin quanta persone. Questo è chiaramente falso, perché, se agisco così, si perderanno cinquanta vite umane in più. Quindi devo unirmi agli altri tre e optare per l'altra missione di salvataggio. Così ci tocca introdurre nella concezione in esame un'altra correzione: devo aggiungere alla mia quota del beneficio prodotto tutti gli incrementi che determino nelle quote prodotte dagli altri. Se collaboro con gli altri tre, consento loro di salvare, con me, cento vite umane; se non collaboro, gli altri tre non sal vano nessuno. La mia quota è di venticinque vite umane, in più io accre sco di settantacinque le quote prodotte complessivamente dagli altri. Secondo la concezione che deriva dalle due integrazioni illustrate, la mia quota totale è di cento vite umane. Uguale è la quota totale prodot ta da ciascuno degli altri tre. Poiché ciascuno figura come produttore dell'intero beneficio totale, questa non è una versione della concezione del contributo individuale come quota-del-totale, ma una concezione del tutto diversa. Ed è questa concezione derivante dalle due integrazio ni a dare, in questo caso, la risposta giusta. Il fatto che essa affermi che ciascuno salva cento vite umane non costituisce un'obiezione. È proprio questo che ciascuno fa, sia pure non da solo, bensì con l'aiuto degli al tri.40 La nuova concezione può essere esposta in termini più semplici: io devo agire in quel modo che ha come conseguenza il maggior numero possibile di vite umane salvate. In termini più generali, (C6) Un atto reca un beneficio a qualcuno se ha come conseguenza che qualcuno riceva un beneficio maggiore. Un atto danneggia qualcuno se ha come conseguenza che qualcuno riceva un dan no maggiore. L'atto che reca un maggior beneficio alle persone è quello che ha come conseguenza che le persone ricevano un beneficio maggiore. ·
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Questa tesi implica, correttamente, che io non devo partecipare alla pri ma missione di salvataggio, mentre devo partecipare alla seconda. I consequenzialisti dovrebbero fare appello a (C6), al pari di tutti co loro che riconoscono l'importanza di quello che Ross chiamava principio di bene/icienza. Secondo una qualsiasi teoria morale plausibile, ci sono circostanze in cui noi dovremmo cercare di fare ciò che recherebbe il beneficio maggiore alle persone. Forse (C6) abbisogna di qualche ulteriore chiarimento. Supponia mo che io possa fare o (l) o (2). Per stabilire quale delle due azioni rechi il maggior beneficio alle persone, devo confrontare tutti i bene fici e tutte le perdite che in seguito deriveranno alle persone rispetti vamente dal fatto che io faccia (l) o (2). L'atto che reca maggior be neficio alle persone è quello che, comparativamente, avrebbe come conseguenza la più elevata somma netta di benefici - ossia il saldo più elevato di benefici meno perdite. Il fatto, peraltro frequente, che della causa di tali benefici e di tali perdite facciano parte gli atti di molte altre persone è irrilevante. (C6) corregge l'uso consueto delle parole «beneficio» e «danno». Quando io affermo di aver recato un beneficio a qualcuno, le mie parole per solito vengono intese nel senso che qualche mio atto è stato la causa principale o immediata di un beneficio goduto da quella persona. Se condo (C6), io reco un beneficio a qualcuno anche quando il mio atto è una componente remota della causa per cui qualcuno ha ricevuto il be neficio. Perché ciò sia vero, basta che, se avessi agito diversamente, quella persona non avrebbe ricevuto il beneficio. Considerazioni analo ghe valgono per la nozione di «danno». (C6) corregge l'uso consueto delle parole «beneficio» e «danno» an che in un altro senso. Secondo l'accezione comune, a volte io reco un beneficio a qualcuno anche se ciò che faccio non è di vantaggio a questa persona. Ciò può accadere quando il mio atto, pur essendo sufficiente a produrre un beneficio, non è necessario. Supponiamo che io possa facil mente o salvare la vita di] o evitare che K perda un braccio. Io so che, se non salverò], lo farà certamente qualcun altro, mentre nessun altro può evitare che K perda il braccio. Ebbene, se salvo], io- secondo l'uso linguistico corrente - gli reco un beneficio, e anzi un beneficio maggiore di quello che avrei recato a K se gli avessi salvato il braccio. Ma, da un punto di vista morale, non è in questo modo che si misurano i benefici. Nel prendere la mia decisione, io- come mi dice di fare (C6)- non do vrei tener conto di questo beneficio a]. Secondo (C6), salvandogli la vi ta, non gli reco alcun beneficio. Non è vero che la conseguenza del mio atto sia un beneficio maggiore per ]; se avessi agito diversamente, lo
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avrebbe salvato qualcun altro. (C6) implica correttamente che devo sal vare il braccio a K. È questo l'atto che ha per conseguenza un beneficio maggiore per gli altri. Nell'accezione riveduta e corretta di «beneficio», è questo l'atto che reca alle persone un beneficio maggiore.
26. L'errore consistente nel non tener conto degli effetti di insiemi di atti Il primo errore di matematica morale è rappresentato dalla concezio ne del contributo individuale come quota-del-totale. Questa concezione va respinta, dovendo noi, invece, appellarci a (C6). In tal caso ci riesce naturale assumere che (Secondo errore) se un atto è giusto o sbagliato in virtù dei suoi ef /etti, i soli effetti di cui si deve tener conto sono gli effetti di questo atto particolare. Questo assunto è errato in alrneno due tipi di casi. In alcuni casi gli effetti sono sovradeterminati. Si consideri il
Primo caso. X e Y sparano e mi uccidono. Lo sparo dell'uno o del l'altro, per sé solo, mi avrebbe ucciso. Nessuno dei due compie un atto che ha come conseguenza la morte di una persona in più. Stante quel che fa l'altro, è vero di ciascuno dei due che, se non avesse sparato, ciò non avrebbe fatto alcuna differenza. Se condo (C6) non mi danneggiano né X né Y. Supponiamo di fare il se condo errore, ossia di assumere che, se un atto è sbagliato in virtù dei suoi effetti, i soli effetti di cui si deve tener conto sono gli effetti di que sto atto particolare. Poiché né X né Y mi danneggiano, siamo costretti ad accettare l'assurda conclusione che X ed Y non agiscono in modo moralmente sbagliato. Alcuni utilizzerebbero questo caso per sostenere la tesi che dovrem mo respingere (C6). C'è, però, un'alternativa migliore. Dovremmo avan zare la tesi che
(C7) un atto, anche se non danneggia nessuno, può essere moralmen te sbagliato in quanto fa parte di un insieme di atti che, insieme, danneggiano altri. Analogamente un atto, pur non recando be nefici a nessuno, può essere ciò che una persona deve fare, in quanto fa parte di un insieme di atti che, insieme, recano dei be nefici agli altri.
X e Y agiscono in modo moralmente sbagliato perché essz; insieme, mi fanno del male: insieme, mi uccidono. (C7) dovrebbe essere accolta anche da coloro che respingono C. Per una qualsiasi teoria morale plau-
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sibile, in casi di questo tipo è un errore considerare soltanto gli effetti dei singoli atti: anche se ciascuno di noi non danneggia nessuno, noi possiamo agire lo stesso in modo moralmente sbagliato se, insieme, dan neggiamo un'altra persona. Nel primo caso gli atti sovradeterminanti sono simultanei. Che cosa si dovrebbe dire dei casi in cui non lo fossero? Consideriamo questo
Secondo caso. X mi induce con l'inganno a sorbire una bevanda av velenata capace di procurarmi una morte dolorosa nel giro di qual che minuto. Prima che il veleno abbia effetto, Y mi uccide in modo indolore. Pur uccidendomi, Y, con la sua azione, non peggiora la mia situazione: (C6) perciò implica che, uccidendomi, Y non mi arreca un danno. (Per un verso l'atto di Y peggiora leggermente la mia situazione, in quanto abbrevia di qualche minuto la mia vita. Ma questa circostanza è larga mente compensata dal fatto che Y mi risparmia una morte dolorosa.) (C6) implica anche che X non mi danneggia. Come nel primo caso, non mi danneggiano né X né Y. (C7) implica correttamente che X e Y agi scono in modo sbagliato perché essi, insieme, mi uccidono. Insieme, es si mi danneggiano, perché, se entrambi avessero agito diversamente, io non sarei morto. Anche se la risposta fornita da ( C7) è giusta, può sembrare che questo caso rappresenti un'obiezione a (C6). Può sembrare assurdo affermare che Y, uccidendomi, non mi danneggia. Ma consideriamo il
Terzo caso. Come prima, X mi induce con l'inganno a sorbire una bevanda awelenata capace di procurarmi una morte dolorosa nel giro di qualche minuto. Y sa di poter salvare la tua vita agendo in un modo che avrà come inevitabile effetto collaterale la mia morte immediata e indolore. Poiché Y sa anche che io sono sul punto di morire di una morte molto dolorosa, agisce in quel modo. (C6) implica che Y deve agire così, perché non danneggia me e reca un grande beneficio a te. Questa è la conclusione giusta. Non peggiorando la mia situazione, il fatto che Y mi uccida è moralmente irrilevante. Mo ralmente irrilevante è anche il fatto che X non mi uccida. (C6) implica correttamente che X agisce in modo moralmente sbagliato. Sebbene X non mi uccida, nell'accezione corrente del termine, in questo caso X è il vero assassino. X mi danneggia e agisce in modo moralmente sbagliato perché è vero che, se lui non mi avesse awelenato, Y non mi avrebbe ucciso. Se X avesse agito diversamente, io non sarei morto. Y non mi danneggia perché, se avesse agito diversamente, questa circostanza non
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avrebbe fatto alcuna differenza per ciò che riguarda la mia morte. E dal momento che Y non danneggia me e arreca a te un grande beneficio, Y fa ciò che deve fare. Queste affermazioni mostrano che il secondo caso non costituisce per (C6) un'obiezione di sorta. Nel terzo caso (C6) implica correttamente che Y deve agire come agisce, perché in tal modo non mi danneggia. Nel secondo caso l'atto di Y per me ha esattamente lo stesso risultato. Perciò avevo ragione di affermare che, nel secondo caso, Y non mi dan neggia; qui Y agisce in modo moralmente sbagliato in quanto è membro di un gruppo di persone che, insieme, mi danneggiano. Qualcuno potrebbe osservare che, se è per questo che, nel secondo caso, Y agisce in modo moralmente sbagliato, Y deve agire in modo mo ralmente sbagliato anche nel terzo caso: Y, infatti, anche qui sarebbe membro di un gruppo di persone che, insieme, mi danneggiano. Queste osservazioni mostrano che c'è bisogno di avanzare un'altra te si. Nel terzo caso è vero che, se sia X che Y avessero agito diversamente, io non sarei stato danneggiato; ma ciò non dimostra che X e Y insieme mi danneggino. È vero anche che, se X, Y e Fred Astaire avessero agito tutti quanti diversamente, io non sarei stato danneggiato; ma ciò non basta a fare di Fred Astaire il membro di un gruppo di persone che, in sieme, mi danneggiano. Dovremo così avanzare la tesi
(C8) Quando dico che un gruppo di persone, insieme, danneggia o reca un beneficio ad altre persone, questo gruppo è il più picco lo di cui sia vero che, se tutti i suoi membri avessero agito diver samente, le altre persone non avrebbero ricevuto danni o bene fici. Nel terzo caso, di questo gruppo fa parte solo X. È vero di X che, se avesse agito diversamente, io non sarei stato danneggiato. Y non è un membro di questo «gruppo». Nel secondo caso non è vero che, se o X o Y avessero agito diversamente, io non sarei stato danneggiato. Non lo sarei stato solo se entrambi avessero agito diversamente. Parimenti, non sarei stato danneggiato se X, Y e Fred Astaire avessero agito diversa mente. Ma (C8) implica giustamente che Fred Astaire non è membro del gruppo di persone che, insieme, mi danneggiano. Questo gruppo è formato da X e da Y. Consideriamo ora la
Terza missione di salvataggio. Come prima, se quattro persone sali ranno su una piattaforma, così facendo, salveranno la vita di cento minatori. Sulla piattaforma salgono cinque persone. Stante ciò che fanno gli altri, è vero di ciascuna di queste cinque perso-
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ne che il suo atto non fa alcuna differenza: se non fosse salita sulla piat taforma, i cento minatori li avrebbero salvati le altre quattro. Sebbene nessuna di esse, per sé sola, faccia differenza, tutte e cinque insieme sal vano quei cento minatori. Questo caso mostra che a (C8) occorre ag giungere qualche altra precisazione. Qui non esiste un gruppo minimo di persone che, insieme, salvano quelle cento vite umane. Dei casi di questo tipo tornerò a occuparmi nel paragrafo 30. C'è un secondo tipo di casi in cui dovremmo considerare gli effetti di insiemi di azioni. Si tratta dei problemi di coordinazione. Ne è un esem pio il diagramma seguente: Tu fai (l)
fai (2)
faccio (l)
Secondo miglior esito
esito negativo
faccio (2)
esito negativo
esito ottimo
Io
Supponiamo di applicare il consequenzialismo solo agli atti singoli. Di remo allora che ciascuno ha seguito con successo C se, tra gli atti a lui possibili, ha compiuto quello che ha per conseguenza l'esito migliore. Come abbiamo già visto, nell'affrontare problemi di coordinazione, C sarà allora indeterminata. In questo caso noi seguiamo con successo C sia se entrambi facciamo (2) che se entrambi facciamo (1). Supponiamo di fare entrambi (1). Stante quel che hai fatto tu, io ho compiuto l'atto che ha la conseguenza migliore. L'esito sarebbe stato peggiore se io avessi fatto (2): lo stesso vale per te. Se entrambi facciamo (1), entrambi seguiamo con successo C, ma non abbiamo prodotto il miglior esito possibile. Un consequenzialista dovrebbe avanzare la tesi seguente:
(C9) Supponiamo che una persona, tra gli atti che gli sono possibili, abbia compiuto quello che ha la conseguenza migliore. Non ne deriva che questa persona abbia fatto ciò che doveva fare. Essa doveva chiedersi se fosse membro di un gruppo che avrebbe potuto agire in modo tale da produrre conseguenze ancora mi gliori. Se ciò è vero, e se è vero che avrebbe potuto persuadere questo gruppo ad agire in quel modo, questo è ciò che essa do veva fare. Se include (C9), C in questo caso cessa di essere indeterminata. C dice sia a me che a te di fare (2). Ci sono problemi di coordinazione di fronte
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ai quali (C9), per sé sola, non ci dà la risposta giusta. In questi casi (C9) deve avanzare tesi più complesse. Qui io ignorerò queste complicazioni. Se ho menzionato i problemi di coordinazione, è stato solo per esporre la seconda ragione per cui è un errore considerare soltanto gli effetti de gli atti singoli. Quand'anche respingessimo C, dobbiamo nondimeno convenire che considerare soltanto gli effetti degli atti singoli è un erro re. Secondo una qualsiasi teoria morale plausibile, di fronte a certi pro blemi di coordinazione noi dobbiamo fare ciò che renderebbe l'esito migliore.41
27.
L'errore di ignorare le probabilità molto basse
Torniamo ora a quei dilemmi del prigioniero che coinvolgono molte persone. Spesso si afferma che, in questi casi, non possiamo appellarci alle conseguenze dei nostri atti. Questa affermazione implica altri tre er ron. Uno di essi riguarda quei casi in cui ciascun atto altruistico ha una probabilità estremamente piccola di produrre benefici estremamente grandi. Talvolta si sostiene che, al di sotto di una certa soglia, le proba bilità estremamente basse non hanno alcun significato morale. In questo errore si incorre spesso nel discutere di elezioni che interes sano molti votanti. Un'elezione, pur non essendo un puro dilemma del prigioniero, si presta a illustrare questo errore. È stato detto che, in un'elezione a carattere nazionale, uno non può giustificare la scelta di votare semplicemente appellandosi alle conseguenze del proprio atto. 42 Spesso questa affermazione è falsa. Supponiamo che, se io voto, ciò comporterà dei costi, e nessun beneficio se non il possibile effetto su chi vince le elezioni. Sulla base di questi assunti, il fatto che io voti non può essere giustificato in termini di interesse personale. Spesso, però, può essere giustificato in termini di consequenzialismo. Quando non sono in grado di prevedere gli effetti del mio atto, C mi dice di fare ciò che pro durrebbe il maggior beneficio atteso. Il beneficio atteso del mio atto è il possibile beneficio moltiplicato per la probabilità che il mio atto lo pro duca. lo potrei essere in grado di giustificare la mia scelta di votare sulla scorta del beneficio atteso. Consideriamo un'elezione presidenziale negli Stati Uniti. Se io voto, la probabilità che il mio voto faccia una differenza è molto piccola. Fa cendo una stima approssimativa, se voto in uno degli Stati più grandi e dalla maggioranza incerta, in cui entrambi gli esiti sono possibili, la pro babilità che il mio voto faccia una differenza è all'incirca di uno su cento milioni. (È molto difficile fare una stima del genere. Non si può presu-
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mere che i vari tipi di voto abbiano tutti un'uguale probabilità di deter minare una differenza. Diversi autori, però, concordano nel ritenere che essa sia all'incirca di uno su cento milioni.43) Chiamiamo i due candidati A e B, e supponiamo che, se il prossimo presidente sarà A, in media gli americani ne avranno un beneficio. Certi americani ci perderanno; per costoro sarebbe stato meglio che avesse vinto B. Ma le perdite di questi americani, la minoranza dei ricchi, sa ranno ampiamente compensate dai benefici che ne deriveranno a tutti gli altri. È per questo che A è il candidato migliore. Se sarà eletto lui, ne deriverà, detratti gli svantaggi, una maggiore somma totale netta di be nefici. Il beneficio netto medio per gli americani è pari a quella somma totale divisa per il numero degli americani. Per semplificare le cose, non tengo conto degli effetti sui non americani. Se il mio voto ha una proba bilità di uno su cento milioni di influire sull'esito delle elezioni, il bene ficio atteso del mio voto è il seguente: Beneficio netto medio derivante agli americani dal-
X
. l'elezione di A
il
numero
degli
americani
i costi per me e per altri del mio andare
cento milioni
a votare
Poiché di americani ce ne sono duecento milioni, è probabile che il calcolo dia un risultato positivo. Lo darà se l'elezione di A arrecherà in media agli americani un beneficio netto di entità superiore alla metà dei costi del mio andare a votare. Per dubitarne, dovrei essere decisamente cinico. Considerazioni analoghe possono farsi per molti altri beni pub blici e valgono sia per altruisti che per consequenzialisti. Un altruista che non ignori le probabilità molto basse spesso si troverà ad avere una ragione morale per prestare il proprio contributo. I benefici attesi che egli arrecherebbe agli altri sarebbero maggiori dei costi del suo contri buto. Qualcuno potrebbe obiettare che è irrazionale tener conto delle pro babilità molto basse. Quando i nostri atti non influiscono che su poche persone, ciò può essere vero, ma solo perché, in questo caso, la posta in gioco è comparativamente modesta. Consideriamo i rischi di causare la morte accidentale di altre persone. Forse è irrazionale darsi pensiero della probabilità di uno su un milione di uccidere una persona. Ma se io fossi un ingegnere nucleare, sarebbe irrazionale che mi preoccupassi della stessa probabilità di uccidere un milione di persone? Non è così che la pensa la maggior parte di noi. Noi riteniamo, giustamente, che di probabilità del genere si debba tener conto. Supponiamo che gli inge-
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Teorie che si condannano all'insuccesso
gneri nucleari ignorino tutte le probabilità pari o inferiori alla soglia di uno su un milione. In tal caso potrebbe accadere che, per ciascuno dei molteplici componenti di un reattore nucleare, ci sia una probabilità su un milione che, un giorno o l'altro, abbia un guasto capace di provocare una catastrofe. Chiaramente sarebbe moralmente sbagliato, per i pro gettisti di reattori, ignorare queste pur basse probabilità. Se di reattori ce ne sono molti, ciascuno con numerosi componenti del genere, non ci vorrà poi molto perché questo rischio di uno su un milione sia stato cor so un milione di volte. La catastrofe non è così remota. Quando la posta in gioco è molto alta, non si deve ignorare nessuna probabilità per piccola che sia. Ciò è vero anche quando la probabilità riguarda un rischio che si presenterà moltissime volte. Nei casi che rien trano nelle due classi appena delineate ogni pur piccola probabilità va presa per quello che è e inserita nel calcolo del beneficio atteso. Una probabilità molto bassa solitamente la possiamo ignorare; non dobbia mo farlo, invece, quando può coinvolgere un gran numero di persone o quando riguarda un rischio che si presenterà moltissime volte. Il nume ro molto alto delle persone coinvolte e della frequenza del rischio gros so modo elimina il basso valore di quella probabilità. Considerazioni analoghe valgono per quegli atti che, probabilmente o certamente, arrecheranno agli altri benefici molto modesti. Non dob biamo ignorare benefici del genere se essi ricadono su un numero di persone molto alto. L'entità di questo numero grosso modo elimina l'e siguità del beneficio. Così, la quantità complessiva dei benefici può es sere senz'altro notevole. I due punti appena svolti non sono ugualmente plausibili. I benefi ci molto modesti possono essere impercettibili, ed è plausibile affer mare che un «beneficio impercettibile» non è un beneficio. Al con trario non è plausibile affermare che una probabilità molto bassa non è una probabilità.
28. L'errore di ignorare gli effetti molto modesti o impercettibili
Il terzo errore di matematica morale consiste nell'ignorare le probabi lità molto basse quando queste o riguardano moltissime persone o ri guardano casi che si ripetono moltissime volte. Il quarto e il quinto er rore consistono nell'ignorare rispettivamente gli effetti molto modesti e quelli impercettibili su un gran numero di persone. Si tratta di errori molto simili e possono venir criticati con gli stessi argomenti. Gli effetti impercettibili, però, sollevano in più una questione a sé stante. Non c'è bisogno che io mi soffermi a descrivere entrambi gli errori. Il
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quarto è uguale al quinto, tranne che sostituisce «molto modesti» con «impercettibili». Alcuni credono che (Quinto errore) se un atto ha sugli altri degli effetti impercettibili, esso non può essere moralmente sbagliato perché ha questi effetti. Un atto non può essere sbagliato a causa dei suoi effetti sugli altri se nessuno di questi altri può mai notare alcuna differenza. Analo gamente, se un atto avesse sugli altri effetti impercettibili, tali effet ti non possono fare di quest'atto ciò che uno deve fare. Io negherò tutte queste affermazioni. C'è un tipo di effetti impercettibili che non è oggetto di controversie di sorta. Io potrei procurarti danni se ri in un modo che è impercettibile. La dose di radiazioni con cui ti colpi sco può essere la causa sconosciuta del cancro che ti porterà alla morte molti anni dopo. In questo caso, sebbene la causa possa rimanere sco nosciuta, il danno è percepibilissimo. Quando dico che intendo negare le affermazioni appena enunciate, mi riferisco agli atti i cui effetti sulle persone sono impercettibili. Consideriamo, per cominciare, la variante di un caso descritto da Glover.44 Le gocce d'acqua. Nel deserto c'è un gran numero di feriti in preda a una sete bruciante. Noi siamo un gruppo numericamente uguale di altruisti, ognuno dei quali possiede una pinta d'acqua. Ebbene,
potremmo versare le nostre borracce in un'autocisterna per il tra sporto dell'acqua, mandarla nel deserto e farla dividere in parti uguali tra tutti quei feriti. Ciascuno di noi, aggiungendo la propria acqua, consente a ciascuno di quei feriti di bere solo un tantino di acqua in più, forse solo una goccia in più. Ciascuna di queste gocce in più costituisce un beneficio minimo anche per un uomo molto assetato. Il suo effetto su ognuno di quegli uomini potrebbe essere addirittura impercettibile. Assumiamo che il beneficio arrecato a ciascuno di essi sia semplicemen te quello di alleviare il dolore della sete, peraltro senza conseguenze sul la salute. Trattandosi di benefici consistenti esclusivamente nell'attenua zione di un dolore, essi appartengono a quel tipo di benefici dei quali è più plausibile dire che, per essere benefici, devono essere percettibili. Supponiamo, in primo luogo, che, poiché il numero dei feriti e degli altruisti non è elevatissimo, il beneficio che ciascuno di noi arrechereb be a ciascuno di loro, pur essendo modesto, sia però percettibile. Se commetteremo il quarto errore, penseremo che benefici così modesti non abbiano alcun significato morale: il fatto che un atto arrechi agli al-
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tri benefici così modesti secondo noi non basterebbe a farne ciò che qualcuno devè fare. Saremo quindi costretti a concludere che nessuno di noi deve aggiungere la propria acqua. Questa conclusione è chiara mente sbagliata. Supponiamo ora che i feriti siano un migliaio, e che altrettanti siano gli altruisti. Se versiamo nell'autocisterna la nostra pinta di acqua, cia scuno di noi fa sì che ogni ferito beva in più la millesima parte di una pinta. La differenza tra non bere nulla e bere la millesima parte di una pinta quegli uomini la possono avvertire. Perciò chiediamoci: «Se essi berranno almeno un decimo di pinta, saranno in grado di avvertire l'ef fetto del bere un millesimo di pinta in più?». Assumerò che la risposta sia negativa. (Se la risposta è affermativa, ci basterà supporre che altrui sti e feriti siano più numerosi. Una frazione di pinta il cui effetto sia troppo esiguo per essere percettibile non può non esserci.) Supponiamo che cento altruisti abbiano già versato la propria acqua nell'autocisterna. Ciascuno dei feriti berrà per lo meno un decimo di pinta. Noi siamo gli altri novecento altruisti, ciascuno dei quali può ag giungere la propria acqua. Supponiamo ora di fare il quinto errore: rite niamo che, se un atto ha sugli altri effetti impercettibili, tali effetti non bastano a fare di quest'atto ciò che uno deve fare. Se siamo convinti di questo, non possiamo spiegare perché ciascuno di noi debba aggiungere la propria pinta d'acqua. Qualcuno potrebbe obiettare: «Questo problema lo possiamo evitare ridescrivendo l'effetto dell'aggiunta di ciascuna pinta d'acqua. Non c'è alcun bisogno di sostenere che essa dia a ciascuno dei feriti un millesi mo di pinta. Potremmo dire che dà una pinta a un uomo». Ciò è falso. L'acqua verrà divisa tra tutte quelle persone in parti ugua li. Se io aggiungo la mia pinta, l'effetto del mio atto sarà che un uomo in più riceverà una pinta intera? E se non la aggiungo, ci sarà forse un uo mo che, anziché una pinta intera, non riceve nulla? Non è vera né l'una né l'altra cosa. La descrizione corretta dell'effetto del mio atto è una so la: quella che assegna a ciascuno di quei mille feriti un millesimo di pin ta in più. Qualcuno suggerirebbe di rifarsi alla concezione del contributo indi viduale come quota-del-totale. Secondo tale concezione il contributo di ciascuno è pari al beneficio che ogni uomo riceve da una pinta. Ma noi abbiamo visto nel paragrafo 25 che questa concezione può implicare conclusioni assurde e quindi non possiamo appellarci a essa. Ciò a cui possiamo appellarci è una tesi riguardante quello che faccia mo insieme con altri. Questa:
(ClO) Quando (l) l'esito migliore è quello per il quale si arreca alle
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persone il maggior beneficio; (2) ognuno dei membri di un gruppo può agire in un certo modo; (3) tale gruppo arreche rebbe un beneficio a quelle altre persone, se un numero suffi ciente dei suoi membri agisse in questo modo; (4) arrechereb be il beneficio maggiore se tutti agissero in questo modo; e (5) ciascuno di essi non solo conosce questi fatti, ma crede anche che un numero sufficiente dei membri del gruppo agirà così; allora (6) ciascuno di essi deve agire così. Ciascuno di noi può dare a ciascuno dei mille feriti un millesimo in più di una pinta d'acqua. Se a far questo sarà un numero sufficiente di noi, ciò arrecherà un beneficio a ciascuno di quegli uomini. Noi arrechere mo loro il beneficio maggiore se tutti agiremo così. Noi conosciamo questi fatti e sappiamo che un numero sufficiente del nostro gruppocento persone- ha già agito così. (ClO) implica correttamente che cia scuno di noi deve agire così. Torniamo ora al quinto errore. Secondo la concezione che esso espri me, un atto non può essere giusto o sbagliato in virtù dei suoi effetti su altre persone, se tali effetti sono impercettibili. Il caso appena descritto refuta questa concezione. Qui è chiaro che ciascuno di noi deve versare la propria pinta d'acqua nell'autocisterna. Ciascuno di noi deve far sì che ciascun ferito beva un millesimo di pinta in più. Ciascuno di noi de ve influire su ciascuno dei feriti in questo modo, anche se gli effetti sono impercettibili. Potrebbe venirci da pensare che, essendo questi effetti impercettibili, ciascuno di noi non arreca benefici a nessuno. Senonché, anche se ciascuno non arreca benefici a nessuno, noz; insieme, arrechia mo a quei feriti un grande beneficio. Gli effetti di tutti i nostri atti sono percettibili: noi mitighiamo enormemente la sete bruciante di quelle persone. I consequenzialisti possono appellarsi a diversi principi; così possono credere che, in certi casi, l'esito migliore non sia quello che arreca alle persone il beneficio maggiore. Per coprire anche questi casi, essi po trebbero sostenere che
(C11) Quando (l) i membri di un gruppo migliorerebbero l'esito, se un numero sufficiente di essi agisse in un certo modo e (2) fa rebbero sì che l'esito sia il migliore se tutti quanti agissero in quel modo; e (3) ciascuno di essi non solo conosce questi fatti, ma crede anche che un numero sufficiente dei membri del proprio gruppo agirà così; allora (4) ciascuno di essi deve agire così. Anche i non consequenzialisti credono che, in certi casi, dobbiamo cer-
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care di produrre l'esito migliore. In taluni di questi casi essi possono ap pellarsi a (C11). Come è già stato segnalato, in certi casi (C11), per sé so la, non fornisce la risposta giusta, sicché ci toccherebbe formulare an che un'altra tesi più complicata. Ma io non intendo occuparmi di queste complicazioni. 45 Come ho mostrato nel paragrafo 26, ci sono due tipi di casi in cui oc corre appellarsi agli effetti non già di atti singoli, ma di insiemi di atti. Ciò accade quando (l) gli effetti dei nostri atti sono sovradeterminati o quando (2) ci troviamo ad affrontare problemi di coordinazione. I casi che stiamo esaminando sono quelli in cui (3) l'atto di ciascuna persona avrà sulle altre effetti impercettibili. Essi possono costituire un terzo ti po di casi in cui occorre appellarsi agli effetti di insiemi di atti. Se sia ne cessario farlo dipende in parte dalla risposta a un altro problema.
29. Possono esserci danni e bene/ici impercettibili? Qualcuno potrebbe obiettare: «Tu affermi che ciascuno dei mille al truisti deve versare nell'autocisterna la propria pinta d'acqua, perché in tal modo i feriti otterrebbero il massimo beneficio. Ciò è falso. Suppo niamo che uno degli altruisti si astenga dal dare la propria acqua. Forse che i feriti avrebbero un beneficio minore? No. Essi berranno qualche goccia d'acqua in meno; ma questo effetto è impercettibile. Stando così le cose, il beneficio che ne deriva loro non può essere minore». Questa obiezione assume che non possono esserci benefici impercet tibili. Se accettiamo tale assunto, ci troviamo ad affrontare una parte di un problema più vasto, variamente chiamato problema del sorite, para dosso di Wang o paradosso del mucchio. Nel nostro caso il beneficio consiste nell'alleviamento del dolore in tenso della sete. Se ognuno dei feriti riceverà una pinta d'acqua, la sua sete diventerà meno dolorosa. Il suo dolore sarà meno negativo. Il pro blema è quello che emerge da quanto segue. Assumiamo che
(A) Il dolore di una persona non può diventare impercettibilmente più o meno negativo. Il dolore di una persona non può diventare più o meno negativo, se questa persona non è in grado di perce pire alcuna differenza. Ed è plausibile assumere che
(B) L'espressione per lo meno tanto negativo quanto, applicata ai do lori, è una relazione transitiva: se il dolore di una persona nell'esi to (2) è per lo meno tanto negativo quanto lo era nell'esito (l), e nell'esito (3) è per lo meno tanto negativo quanto lo era nell'esito
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(2), il suo dolore nell'esito (3) dev'essere per lo meno tanto nega tivo quanto lo era nell'esito (1). Cento altruisti hanno già offerto le loro pinte d'acqua. Ciascuno dei fe riti berrà per lo meno un decimo di pinta. Essi non noterebbero l'effetto di un millesimo di pinta in più. (Se ciò è falso, possiamo assumere che la frazione di acqua sia un pò più piccola.) Nei diversi esiti possibili varia il numero di altruisti che versano la lo ro acqua nell'autocisterna. Indicheremo questi esiti con il numero delle persone che danno il proprio contributo di acqua. Così, se tale contri buto non lo darà nessun altro, avremo l'esito 100. Supponiamo che lo dia un altruista in più. Ciascun ferito berrà più acqua, ma la quantità aggiuntiva sarà così piccola che egli non se ne ac corgerà. Secondo (A), la sete di ciascuna di quelle persone non può di ventare meno dolorosa. Il loro dolore nell'esito 101 dev'essere per lo meno tanto negativo quanto lo sarebbe stato nell'esito 100. Supponiamo ora che un secondo altruista aggiunga la propria pinta d'acqua. Come prima, nessuno dei feriti può notare questa differenza. Secondo (A) la sete di ciascuna di quelle persone non può diventare meno dolorosa. Il loro dolore nell'esito 102 dev'essere per Io meno tanto negativo quanto Io sarebbe stato nell'esito 101. Secondo (B), il dolore di ciascuna perso na nell'esito 102 dev'essere per Io meno tanto negativo quanto lo sareb be stato nell'esito 100. Lo stesso si può dire se anche un terzo altruista versa la propria pinta d'acqua. Nell'esito 103 il dolore di ciascuna di quelle persone dev'essere per lo meno tanto negativo quanto Io sarebbe stato nell'esito 100. Lo stesso si può dire per ogni altruista in più che dia il proprio contributo di acqua. Supponiamo ora che tutti i membri del gruppo diano il proprio contributo. Avremo così l'esito 1000, in cui ognuno dei feriti beve un'intera pinta d'acqua. La combinazione di (A) e (B) implica che il dolore di ciascuna di quelle persone dev'essere per lo meno tanto negativo quanto lo sarebbe stato nell'esito 100. Il fatto di bere un'intera pinta d'acqua, anziché solo un decimo di essa, non può procurare alcun sollievo al dolore di ciascuno di quegli assetati. Poiché questa conclusione è assurda, dobbiamo respingere o (A) o (B). Dei due, qual è che può andare? Personalmente respingo (A). Riten go che il dolore di una persona possa diventare meno pesante, ossia me no negativo, di una quantità troppo piccola per poter essere avvertita. Il dolore di una persona è più grave, in un senso che ha rilievo morale, se tale persona se ne preoccupa di più o ha un desiderio più intenso che cessi.46 Ritengo che una persona possa preoccuparsi un po' di meno del proprio dolore o avere un desiderio un po' più debole che cessi, anche se non è in grado di avvertire alcuna differenza. Più in generale, posso-
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no esserci danni impercettibili e impercettibili benefici.
È stato dimo
strato, in molte altre situazioni di diverso genere, che le persone, nel ri ferire la natura delle proprie esperienze, incorrono in piccoli errori. Eb bene, perché mai dovremmo assumere che esse non possono incorrere in errori analoghi al riguardo della gravità del loro dolore e dell'intensi tà del loro desiderio che un dolore cessi? Supponiamo che tu respinga queste affermazioni e continui ad accet tare (A). In questo caso, devi respingere (B). Per evitare l'assurda con clusione a cui siamo giunti prima, devi ammettere che, applicata ai do lori, per lo meno tanto negativo quanto non è una relazione transitiva. E le implicazioni del rifiuto di (B) sono uguali a quelle del rifiuto di (A). Ora devi ammettere che i tuoi atti possono essere sbagliati in virtù dei loro effetti sul dolore di qualcun altro, anche se nessuno di essi aggrava il dolore di quella persona. Lo devi ammettere perché, sebbene nessuno dei tuoi atti aggravi il suo dolore, insieme essi possono avere tale effetto. Ciascun atto può essere sbagliato anche se i suoi effetti sono impercetti bili, perché esso fa parte di un complesso di atti che insieme aggravano moltissimo il dolore di quella persona. Consideriamo il caso che chiamerò
Tristezze del passato. Mille torturatori hanno mille vittime alla loro mercè. All'alba di ogni giorno, ciascuna delle vittime soffre già di un dolore lieve. Ciascuno dei torturatori gira mille volte l'interrut tore di un certo strumento. A ogni giro di interruttore il dolore di una vittima aumenta impercettibilmente. Ma una volta che ogni torturatore abbia girato mille volte il proprio interruttore, il dolore che avrà inflitto alla propria vittima sarà molto intenso. Supponiamo che tu commetta il quinto errore: credi, cioè, che un atto non possa essere moralmente sbagliato in virtù dei suoi effetti sugli altri se tali effetti sono impercettibili. Ebbene, dovrai allora concludere che in questo caso girare l'interruttore non è mai moralmente sbagliato. Nessuno di quei torturatori agisce mai in modo moralmente sbagliato. Questa conclusione è assurda. Perché le azioni di quei torturatori sono moralmente sbagliate? Una spiegazione fa appello all'effetto complessivo di ciò che ciascuno di essi fa: ciascuno gira un interruttore mille volte e questi atti, nel loro insie me, infliggono alla vittima un intenso dolore. Prendiamo ora in considerazione il caso de
I torturatori «innocui». Nel caso che ho chiamato «tristezze del passato», ciascun torturatore infliggeva a una vittima un dolore in tenso. Ora le cose sono cambiate. Ciascuno dei mille torturatori
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preme un pulsante e così provoca un giro di interruttore su ciascu no dei mille strumenti. Le sofferenze delle vittime hanno la stessa intensità di prima, ma nessuno dei torturatori aumenta percettibil mente il dolore di una qualsiasi delle vittime. In questo caso possiamo fare appello all'effetto complessivo dell'azione di ciascun torturatore? La risposta dipende in parte dal fatto che respin giamo (A), ritenendo che il dolore di una persona possa diventare im percettibilmente più negativo. Se siamo convinti di questo, possiamo af fermare quanto segue: «Premendo il pulsante, ciascun torturatore fa sì che ciascuna vittima soffra un po' di più. L'effetto della sua azione su ciascuna vittima è di lieve entità, ma poiché tale effetto si aggiunge alle sofferenze di mille vittime, la quantità complessiva di sofferenze che cia scun torturatore determina è molto alta. Dal momento che le vittime soffrono esattamente come nel caso precedente, l'azione di ciascun tor turatore è moralmente sbagliata né più né meno di prima. Nel caso che abbiamo chiamato «tristezze del passato», ogni torturatore procurava un'enorme quantità di sofferenze a una vittima. Qui ognuno dei tortura tori "innocui" procura una quantità di sofferenze complessivamente al trettanto grande a queste mille vittime». Supponiamo invece di accettare (A), ossia di ritenere che i dolori non possano peggiorare impercettibilmente. In questo caso dovremo am mettere che nessuno dei torturatori «innocui» procura ad alcuna delle vittime una sofferenza aggiuntiva. Né potremo fare appello all'effetto complessivo dell'azione di ciascun torturatore. Ciascuno di essi preme un pulsante e così provoca un giro di interruttore su mille strumenti. Ebbene, se accettiamo (A), dobbiamo dire che in tal modo ciascuno dei torturatori non procura dolore a nessuno. Nessuno dei torturatori fa del male a nessuno. Ma anche se nessuno di essi fa del male a nessuno, ognuno dei tortu ratori «innocui» agisce in modo moralmente sbagliato né più né meno che nel caso de «le tristezze del passato». Se non possiamo fare appello agli effetti dell'azione di ciascuno di loro, dobbiamo fare appello a ciò che essi fanno insieme. Anche se, presi singolarmente, non fanno del male a nessuno, insieme essi procurano grandi sofferenze a mille vitti me. Possiamo così affermare che
(Cl2) Quando (l) il fatto che le persone soffrano di più rende l'esito peggiore; e (2) ciascuno dei membri di un gruppo può agire in un certo modo; e (3 ), se ad agire così è un numero sufficiente di essi, ciò provocherebbe la sofferenza di altre persone; e ( 4 ), se
tutti agissero in questo modo, ciò provocherebbe a quelle
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persone la più grande sofferenza; e (5) ciascuno di essi non so lo conosce questi fatti, ma crede anche che un numero suffi ciente dei membri del proprio gruppo agirà così; allora (6) cia scuno di essi, agendo così, agirebbe in modo moralmente sba gliato. Qualcuno potrebbe obiettare: «Nel caso dei torturatori innocui, (4) non è vera. Questi torturatori non procurano alle loro vittime la più grande sofferenza se tutti fanno fare un giro a ciascuno degli interruttori. Sup poniamo che uno di essi non lo faccia. Nessuna delle vittime noterà la differenza. Poiché un dolore non può diventare impercettibilmente me no negativo, le vittime non soffrirebbero di meno se un torturatore si astenesse dal compiere quell'atto». Come ho già osservato, questa obiezione solleva il ben noto problema del sorite. Se accettiamo (A), la risposta a questa obiezione non può pre scindere da una soluzione di questo problema. Senonché, trattandosi di un problema di difficile soluzione e che, in più, solleva questioni che non hanno nulla a che fare con l'etica, in questa sede mi asterrò dal di scuterlo. 47 Se accettiamo (A), la nostra obiezione ai torturatori innocui non può che essere molto complessa e deve risolvere il problema del sorite. Se respingiamo (A), l'obiezione può essere più semplice; in questo caso possiamo affermare che ciascuno dei torturatori infligge alle vittime una grande somma totale di sofferenze. Quale di queste due soluzioni è la migliore? Anche se respingiamo (A) potrebbe essere sbagliato adottare la spiegazione più semplice. Se lo sia davvero, dipende dalla risposta che daremo a un altro problema. Consideriamo il caso de
Il torturatore singolo. Una mattina un solo torturatore va a lavorare. Capita che ciascuna delle vittime stia già soffrendo, per cause natu rali, dolori alquanto intensi: all'incirca lo stesso dolore che prove rebbero dopo cinquecento giri di interruttore. Essendo a cono scenza di questo, il solo torturatore giunto al lavoro preme il pul sante che fa scattare di un giro gli interruttori di tutte le macchine della tortura. L'effetto è il medesimo dei giorni in cui sono all'ope ra tutti i torturatori. Più precisamente, l'effetto è lo stesso che se tutti gli interruttori fossero stati girati cinquecento e una volta. Il solo torturatore presente si rende conto che questo è l'effetto da lui prodotto. Sa anche di non rendere il dolore di ciascuna vittima percettibilmente più intenso e di non essere membro di un gruppo di persone che producono quell'effetto insieme.
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Ebbene, questo torturatore agisce in modo moralmente sbagliato? Supponiamo di essere convinti di no. In tal caso non possiamo far no stra l'obiezione più semplice avanzata a proposito dell'esempio in cui agiscono tutti i torturatori. Non possiamo sostenere che ciascuno di essi agisce in modo moralmente sbagliato perché infligge agli altri una notevole quantità complessiva di sofferenze. Se è per questo che ciascuno agisce in modo moralmente sbagliato, si deve ammettere che anche il torturatore solitario agisce in modo moralmente sbaglia to. Egli fa la stessa cosa degli altri e produce lo stesso effetto. Se sia mo convinti che il torturatore singolo non agisce in modo moralmen te sbagliato, dobbiamo far nostra l'altra obiezione avanzata a propo sito del caso in cui agiscono tutti i torturatori. Dobbiamo cioè soste nere che ciascuno di essi agisce in modo moralmente sbagliato in quanto è membro di un gruppo di persone che, insieme, infliggono alle proprie vittime grandi sofferenze. Io sono propenso a pensare che il torturatore singolo agisca in modo moralmente sbagliato, ma conosco molte persone che non lo pensano. Esse ritengono che, per una persona, non può essere moralmente sba gliato produrre su altri certi effetti, se sa (l) che tali effetti saranno im percettibili e (2) che non sono una componente di un complesso di ef fetti che, insieme, sono percettibili. Poiché questa credenza è alquanto diffusa e non implausibile, è meglio non basarsi sugli effetti dell'azione di ciascun torturatore. Anche se siamo convinti, come lo sono io, che di danni e di benefici impercettibili ce ne possono essere, è meglio rifarsi a ciò che fanno insieme dei gruppi di persone. Il procedimento che fa ap pello a questa circostanza è meno controverso. Se il torturatore singolo non agisce in modo moralmente sbagliato, potrebbe essere scorretto affermare che certe persone commettono cin que errori di matematica morale. Se questo torturatore non agisce in modo sbagliato, il quinto errore finisce per essere semplicemente un ca so speciale del secondo. In questo paragrafo mi sono chiesto se possano esserci danni e bene fici impercettibili. Io sono orientato a rispondere affermativamente. Se rispondiamo negativamente, dobbiamo abbandonare la tesi che, quan do vengono applicate a danni e benefici, per lo meno tanto negativo quanto e per lo meno tanto positivo o buono quanto siano relazioni tran sitive. Ho anche mostrato che il fatto che accettiamo l'una o l'altra fa poca differenza. Quale che sia la nostra risposta, dobbiamo abbandona re quello che ho .chiamato quinto errore; dobbiamo cioè abbandonare l'idea che un atto non possa essere o giusto o sbagliato, in ragione dei suoi effetti su altre persone, se tali effetti sono impercettibili.
30. Sovradeterminazione Torniamo ora alle pinte d'11cqua e ai feriti, e aggiungiamo alcuni tratti nuovi al caso descritto sopra. Supponiamo che tu arrivi con un'altra pinta prima che l'autocisterna parta per raggiungere i feriti. A questi oc corre di più di una pinta d'acqua a testa. Dopo che ne avranno bevuto una, la loro sete intensa e dolorosa non sarà del tutto spenta. Senonché l'autocisterna può portare solo mille pinte d'acqua e ora è piena. Se ci versi dentro anche la tua, sarà come buttarla via. Tu non hai alcuna ragione morale per aggiungere la tua pinta d'ac qua, perché significherebbe sprecarla. Secondo (ClO) lo devi fare se, in tal modo, diventi membro di un gruppo di persone che insieme arreca no un beneficio ad altre. Possiamo pensare che, aggiungendo alle altre la tua pinta, tu non diventi membro del gruppo di persone che insieme arrecano un beneficio a quei feriti. È vero che essi potranno bere un pò della tua acqua e che tu agisci come gli altri altruisti. Ma, nel tuo caso, si può dire che, «a differenza degli altri altruisti, tu non dai a ciascuno dei feriti un millesimo di pinta d'acqua in più. Il tuo atto non ha alcun effet to sulla quantità d'acqua che quegli uomini ricevono». Ma le cose non sono così semplici. Se aggiungi la tua pinta d'acqua, si verificherà un caso che comporta sovradeterminazione. È ben vero che, se non avessi dato il tuo contributo, non avresti determinato alcuna dif ferenza sulla quantità d'acqua che i feriti bevono. Ma una volta che lo abbia dato, la stessa cosa è vera degli altri altruisti: se uno qualsiasi di loro non avesse dato il proprio contributo, ciò non avrebbe determinato alcuna differenza sulla quantità d'acqua che i feriti bevono; l'autocister na, al tuo arrivo, non sarebbe stata piena e la tua pinta l'avrebbe riempi ta. Ciò che è vero di te lo è anche di ciascuno degli altri altruisti. Perciò è vero che tu sei membro del gruppo delle persone che insieme arreca no un beneficio ai feriti. In un caso del genere dobbiamo basarci su ciò che gli agenti sanno o hanno ragione di credere. Supponiamo che gli altri altruisti non avesse ro ragione di credere che tu saresti arrivato con la tua pinta d'acqua. In tal caso ciascuno di essi doveva versare la propria, e ciò perché ciascuno di essi aveva una buona ragione per credere che, così facendo, sarebbe diventato membro di un gruppo di persone delle quali sono vere en trambe queste cose: (l) che, insieme, arrecano un beneficio ai feriti, e (2) che tale beneficio è il maggiore possibile se tutte versano nell'autoci sterna la propria pinta d'acqua. Quando arrivi, tu sai che la cisterna è piena e quindi non hai alcuna ragione di dare il tuo contributo; sai, in fatti, che, così facendo, non diventeresti membro di quel gruppo. Di venteresti membro di un gruppo che è troppo vasto. Dovremmo allora porre
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(C13) Supponiamo che ci sia un gruppo di persone che, agendo in un certo modo, arrecheranno, insieme, un beneficio ad altri. Una persona, qualora pensi che questo gruppo o è già troppo vasto o lo diventerebbe se essa entrasse a farne parte, non ha alcuna ragione morale per entrare a farne parte. Un gruppo è troppo vasto se è vero che, qualora uno o più dei suoi membri non avesse agito, ciò non avrebbe diminuito il beneficio che
tale gruppo arreca ad altri. Se aggiungi all'acqua dell'autocisterna anche la tua, fai sì che quel grup po diventi troppo vasto, mentre, se non lo fai, non lo diventa. Questo è un caso-limite particolare. (C13) copre anche i casi ben più comuni in cui un gruppo è già troppo vasto.
31. Altruismo razionale
Il quinto errore di matematica morale è l'idea che gli effetti impercet tibili non possano essere moralmente significativi. Questo è un errore molto grave. Ciascuno di quelli che abbiamo chiamato torturatori inno cui, quando entra in azione insieme a tutti gli altri, agisce in modo mo ralmente molto sbagliato. Ciò è vero anche se nessuno sta percettibil mente peggio a causa del suo atto. Ciò vale anche per noi: dobbiamo smetterla di pensare che un atto non possa essere moralmente sbagliato in virtù dei suoi effetti sugli altri se non è tale da far sì che qualcuno stia percettibilmente peggio. Ciascuno dei nostri atti può essere moralmente molto sbagliato in virtù dei suoi effetti sugli altri anche se nessuno potrà mai avvertire alcuno di quegli effetti. I nostri atti, insieme, possono far sì che altri stiano molto peggio. Il quarto errore è altrettanto grave. Se riterremo che gli effetti di mo desta entità siano moralmente trascurabili, potrebbe accadere frequen temente che peggioriamo molto la vita delle persone. Ripensiamo al di lemma del pescatore: quando si verifica un eccessivo sfruttamento delle acque da parte dei pescatori o una diminuzione delle risorse ittiche, per ciascun pescatore può bensì essere meglio cercare di prendere più pesci, ma se tutti lo faranno, sarà peggio per ciascuno di loro. Si consideri il caso di Come i pescatori provocano un disastro. Ci sono molti pescatori che
si guadagnano da vivere pescando, ciascuno per conto proprio, in un grande lago. Non ponendo limiti alla propria attività, ciascuno di essi per un pò di stagioni catturerà una maggior quantità di pe sce. In tal modo, però, farà diminuire il volume complessivo del
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pesce che verrà catturato da molti altri. E poiché di pescatori ce ne sono molti, se nessuno si porrà dei limiti, ciascuno di essi influirà solo in misura molto modesta sulla resa della pesca degli altri. I pe scatori ritengono che tali modesti effetti siano moralmente trascu rabili. Perciò, pur non facendo mai ciò che reputano moralmente sbagliato, non pongono limiti alla propria attività. Così ciascuno accresce la quantità di pesce catturata da lui, ma determina una di minuzione molto maggiore del prodotto complessivo della pesca. Poiché tutti quanti agiscono così, ne deriva un disastro. Nel giro di poche stagioni tutti pescano molto meno pesce e non hanno più di che vivere per sé e per i propri figli. Se quei pescatori avessero conosciuto i fatti, fossero stati sufficiente mente altruisti e non fossero incorsi nel quarto errore, si sarebbe evitato il disastro. Ciascuno di essi sa che non limitare la propria attività gli pro cura un certo vantaggio, qualunque cosa facciano gli altri. Sa inoltre che, se agirà in questo modo, gli effetti che ne deriveranno a ciascuno degli altri sono piuttosto modesti. Quei pescatori, però, non dovrebbe ro credere che questi effetti modesti siano moralmente trascurabili. Do vrebbero credere che agire come fanno è sbagliato. Ancora una volta sono due i modi in cui si può spiegare perché quegli atti sono sbagliati. Il primo è quello che si basa sull'effetto complessivo dell'atto di ciascuna persona. Ogni pescatore sa che, se non si pone dei limiti, prenderà più pesce, ma diminuirà la quantità complessiva del pe sce che verrà preso da un numero molto più alto di pescatori. In cambio di un piccolo guadagno personale, egli impone agli altri una perdita complessiva molto più consistente. Noi possiamo affermare che questa sua scelta è sbagliata. Questa tesi non assume che ci possano essere dan ni o benefici impercettibili e perciò è meno controversa della corrispon dente tesi relativa agli atti di ciascuno dei «torturatori innocui». L'alternativa da me proposta consiste nel fare appello a ciò che questi pescatori fanno insieme. Ciascuno sa che, se né lui né tutti quanti gli al tri si porranno dei limiti, insieme essi procureranno a se stessi una per dita complessiva ingente. Degli altruisti razionali penserebbero che atti del genere sono sbagliati ed eviterebbero il disastro. Qualcuno potrebbe aggiungere: «Si comporterebbero così anche de gli egoisti razionali. Ciascuno sa che, non ponendosi dei limiti, diventa membro di un gruppo di persone che procurano a se stesse una perdita ingente. Agire in quel modo è irrazionale anche in termini di interesse personale». Come argomenterò nel prossimo capitolo, questa tesi non è giustificata. Ciascuno di quei pescatori sa che, se non si pone dei limiti, per lui sarà meglio. E quando una persona fa ciò che sa essere meglio
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per sé, non si può dire che il suo atto, in termini di interesse personale, sia irrazionale. Ricordiamo ora Il dilemma del pendolare. Supponiamo di vivere nella periferia di
una grande città. Possiamo andare al lavoro e tornare a casa o in macchina o in autobus. Poiché non ci sono corsie riservate agli au tobus, l'intensificarsi del traffico rallenta gli autobus non meno che le macchine. È quindi comprensibile che si verifichi quanto segue: qualora la maggior parte di noi andasse al lavoro in macchina, il fatto che uno di noi ci vada in macchina anziché in autobus gli farà bensì guadagnare tempo, ma imporrà agli altri una perdita com plessiva di tempo molto maggiore. Si tratterebbe di un effetto dif fuso. Ciascuno potrebbe provocare un ritardo di venti secondi ad altre cento persone o un ritardo di due secondi ad altre mille. Gran parte di noi considererebbe tali effetti così modesti da essere mo ralmente trascurabili e quindi penserebbe che, se posto di fronte a questo dilemma del pendolare, anche un altruista razionale possa giustificatamente scegliere di andare in macchina anziché in auto bus. Ma se la maggior parte di noi farà questa scelta, tutti quanti subiremo quotidianamente ritardi cospicui. Degli altruisti razionali eviterebbero queste conseguenze. Come si è det to sopra, essi potrebbero fare appello o agli effetti di ciò che fa ciascuna persona o agli effetti di ciò che fanno tutte insieme. Ciascuno guadagna del tempo per sé, ma a prezzo di una perdita complessiva di tempo mol to più consistente per gli altri. Potremmo sostenere che agire così sareb be sbagliato, anche se gli effetti di questa scelta sugli altri fossero mode sti. Potremmo, invece, sostenere che agire così è sbagliato perché coloro che lo fanno impongono a tutti un'enorme perdita di tempo. Se accet tiamo una qualsiasi di queste due tesi e siamo sufficientemente altruisti, risolveremo il dilemma del pendolare risparmiando quotidianamente molto tempo. Ragionamenti analoghi possono applicarsi a innumerevoli altri casi. In alcuni di essi potrà essere poco chiaro se gli effetti sugli altri di una scelta siano molto modesti o impercettibili. Pensiamo ai dispositivi di depurazione dei gas di scarico delle nostre automobili. Noi siamo porta ti a pensare che sarebbe moralmente sbagliato risparmiare i costi della manutenzione di quei dispositivi, se la conseguenza di questa scelta fos se un inquinamento grave ai danni di qualche altra singola persona. Ma sono molti coloro che non giudicherebbero tale scelta moralmente sba gliata se essa semplicemente aumentasse in misura modesta o impercet-
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tibile l'inquinamento dell'aria a danno di molti. In molte grandi città l'effetto di un comportamento del genere sarebbe proprio questo. Se nessuno di noi inquinasse l'aria sarebbe molto meglio per tutti. Ma per credere che sarebbe moralmente sbagliato farlo, molti di noi devono cambiare le proprie concezioni. Dobbiamo smetterla di credere che un atto non possa essere moralmente sbagliato in virtù dei suoi effetti sugli altri, qualora tali effetti siano modesti o impercettibili. Col cambiare delle nostre condizioni di vita, possiamo aver biso gno di cambiare il nostro modo di pensare circa la moralità. Ho pre sentato degli argomenti a favore di un cambiamento di questo tipo. La moralità di senso comune funziona meglio in piccole comunità. Finché siamo in pochi, se arrechiamo agli altri benefici o danni com plessivi notevoli, inevitabilmente esercitiamo su di loro un influsso si gnificativo che può produrre o gratitudine o risentimento. Nelle pic cole comunità, è plausibile la tesi che non possiamo aver danneggiato altri, se non c'è nessuno che abbia motivi di lagnanza o di risentimen to per ciò che abbiamo fatto. Fin verso l'inizio del nostro secolo gran parte dell'umanità è vissuta in piccole comunità. Ciò che ciascuno faceva poteva influire solo su pochi altri. Ora, però, le cose sono cambiate. Ora ciascuno di noi può influire in mille modi su un numero incalcolabile di persone. Noi possiamo esercitare un influsso reale, ancorché modesto, su migliaia o milioni di persone. Interessando un gran numero di persone, questi effetti posso no essere di modesta entità o anche impercettibili. Oggi fa un'enorme differenza che continuiamo o non continuiamo a credere che, se non ci sono persone con validi motivi per lagnarsi di noi o per esserci grate, non possiamo aver arrecato loro danno o benefici notevoli. Se continue remo a essere convinti di questo, potremo non riuscire a risolvere molti seri dilemmi del prigioniero, nemmeno se ci prenderemo a cuore gli ef fetti delle nostre azioni sugli altri. Ciascuno di noi, per assicurare a se stesso o alla propria famiglia piccoli benefici, potrebbe negare agli altri benefici complessivamente molto maggiori o scaricare su di loro danni complessivamente molto maggiori: potremmo pensare che ciò sia lecito, in quanto gli effetti della nostra azione su ciascuno degli altri saranno o di modesta entità o impercettibili. Se il nostro modo di pensare sarà questo, la nostra azione si risolverà spesso in un danno molto maggiore per tutti noi. Se ci prenderemo sufficientemente a cuore gli effetti della nostra azione sugli altri e cambieremo la nostra concezione morale, questi pro blemi riusciremo a risolverli. Non basta chiedersi se un nostro atto dan-
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neggi altre persone; tale atto potrebbe essere moralmente sbagliato in virtù dei suoi effetti sugli altri, anche se la risposta a quella domanda
fosse negativa. Ciò che devo chiedermi è: «Il mio atto fa parte di un complesso di atti che insieme arrecheranno un danno agli altri?». La ri sposta potrebbe essere affermativa e il danno arrecato agli altri dal mio atto molto serio. In tal caso, compiendolo, agirei in modo moralmente molto sbagliato, proprio come facevano quelli che abbiamo chiamato «torturatori innocui». Questa concezione non possiamo non accoglierla, se la nostra preoccupazione per gli altri è quella di dar soluzione a gran parte dei numerosissimi dilemmi del prigioniero che ci troviamo ad af frontare; alludo a quel gran numero di casi in cui, se ciascuno di noi, an ziché nessuno, fa ciò che sarà meglio per lui- o per la propria famiglia o per coloro che ama - sarà peggio, e spesso molto peggio, per tutti.
IV. Teorie che si condannano direttamente all'insuccesso
Il dilemma del prigioniero a più persone ci troviamo ad affrontarlo molto spesso. È vero frequentemente che, se ciascuno di noi anziché nessuno, fa ciò che sarà meglio per lui, per la sua famiglia o per coloro che ama, ciò sarà peggio per tutti noi. Se ciascuno di noi ha la disposi zione ad agire così, questi casi sollevano un problema pratico. Se non cambierà qualcosa, l'esito sarà peggiore per tutti noi. Questo problema è suscettibile di due tipi di soluzione, una politica e una psicologica. Tra le soluzioni psicologiche, le più importanti sono quelle morali. Come ho sostenuto sopra, ci sono molti casi in cui abbia mo bisogno di una soluzione morale. Di tali soluzioni ne ho descritte quattro, fornite da altrettante mo tivazioni: affidabilità, riluttanza a essere dei «free rider», desiderio di soddisfare il test kantiano e altruismo sufficiente. Ogni soluzione mo rale presenta due forme: quando una di quelle motivazioni induce una persona a compiere la scelta altruistica, ciò che essa fa può essere o non essere peggio per lei. Questa distinzione solleva questioni al quanto ardue. Io mi limiterò a enunciare ciò che le mie argomenta zioni assumono. Secondo tutte le teorie plausibili dell'interesse per sonale, quali siano i nostri interessi dipende in gran parte dalle nostre motivazioni e dai nostri desideri. Perciò, se abbiamo motivazioni mo rali, potrebbe non essere vero che la scelta altruistica sarà, per noi, peggiore. Tuttavia potrebbe anche essere vero. E noi potremmo fare quella scelta anche in questo caso. Qui io respingo quattro tesi ricorrenti. Alcuni affermano che nessuno fa ciò che ritiene essere peggio per lui. Questa tesi è stata refutata fre quentemente. Altri dicono che ciò che ciascuno fa, per definizione, è per lui il meglio: quell'azione, come dicono gli economisti, «massimizze rà la sua utilità». Poiché questa è una pura e semplice definizione, non può essere falsa. Però non ha attinenza con il nostro tema: semplice-
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mente non concerne gli interessi personali a lungo termine di una perso na. Altri dicono che la virtù viene sempre premiata. Anche questa tesi è stata refutata, a meno di ammettere che c'è un'altra vita. Altri dicono che la virtù è premio a se stessa. Secondo la teoria dei valori oggettivi, essere morali o agire moralmente è una delle cose che migliorano la no stra esistenza. Ma, secondo le versioni plausibili di questa teoria, posso no esserci casi in cui, per una persona, agire moralmente nel complesso sarebbe peggio. Il fatto di agire moralmente potrebbe privare quella persona di troppe delle cose che migliorano la nostra esistenza. Ma torniamo al nostro discorso. Molti dilemmi del prigioniero richie dono soluzioni morali: occorre che possediamo la disposizione diretta a compiere la scelta altruistica. Ogni soluzione morale presenta due for me. Una di esse elimina il dilemma. In questi casi, poiché abbiamo una motivazione morale, non è vero che per ciascuno sarà peggio fare la scelta altruistica. Ma, in altri casi, ciò può restare vero. Anche allora po tremo operare quella scelta: ciascuno, cioè, potrà fare, per ragioni mora li, ciò che sa essere peggio per lui. Spesso ci occorrono soluzioni morali di questa seconda forma. Chia miamo queste soluzioni sacrz/icio del proprio interesse personale. Esse ri solvono il problema pratico: l'esito è migliore per tutti. Ma non elimina no il dilemma. Rimane un problema teorico. Il problema è il seguente: noi possiamo avere ragioni morali per com piere la scelta altruistica, ma per ciascuno sarà meglio compiere la scelta rhe asseconda i propri interessi personali. La moralità è in conflitto con l'interesse personale. Ebbene, stante tale conflitto, che cosa è razionale l are? Secondo la teoria dell'interesse personale, la scelta razionale è quella rhe asseconda i propri interessi personali, Se crediamo in S, nei con fronti delle soluzioni morali consistenti nel sacrificio del proprio inte t·l·sse avremo un atteggiamento di ambivalenza. Riterremo cioè che, per dare attuazione a tali soluzioni, dovremo agire tutti in modo irrazionale. Molti autori si oppongono a questa conclusione. Alcuni sostengo no che le ragioni morali non sono più deboli di quelle dell'interesse pl'rsonale. Altri affermano senza mezzi termini che sono più forti. Se modo loro è la scelta che asseconda il proprio interesse a essere irra zionale. Questa controversia può sembrare irrisolvibile. Com'è possibile soppesare e confrontare tra loro questi due tipi di ragioni? Dal punto di vista morale le ragioni morali sono naturalmente supreme. Ma dal punto di vista dell'interesse personale le ragioni dell'interesse perso nale sono ugualmente supreme. Dove trovare una scala di valutazione lll'utrale?
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32. Difronte al dilemma del prigioniero S è intrinsecamente fallace?
Qualcuno ha detto che non abbiamo bisogno di una scala neutrale. C'è un senso in cui, di fronte al dilemma del prigioniero, la teoria del l'interesse persÒnale si condanna all'insuccesso. Si è affermato che, poi ché ciò è vero, le ragioni morali sono superiori a quelle dell'interesse personale anche in termini di interesse personale. Come abbiamo visto, sul piano individuale S può condannarsi indi rettamente all'insuccesso: per una persona, avere la disposizione a non sacrificare mai il proprio interesse può essere peggio. Ma questo non è vero nel dilemma del prigioniero. Qui gli effetti negativi vengono pro dotti da atti, non da disposizioni. E quale sia la scelta migliore per cia scuna persona è chiaro. Di ciascuna delle due è vero che fare la scelta al truistica per lei sarà certamente peggio. S dice a ciascuna di fare la scelta che asseconda i suoi interessi. E qualunque cosa facciano gli altri, per ciascuna sarà meglio fare questa scelta. Qui S sul piano individuale non -si condanna all'insuccesso. Ma nel senso definito nel paragrafo 22, S si condanna direttamente all'insuccesso sul piano collettivo. Se tutti seguono con successo S, per ciascuno sarà peggio che se non lo facesse nessuno. Questa circostanza dimostra che, se tutti seguiamo S, siamo irraziona li? Possiamo prendere avvio da una domanda di portata più modesta: se crediamo in S, la nostra teoria si rivelerà fallace anche intrinsecamente? Potremmo rispondere: Y Un sostenitore di S potrebbe replicare: «Noi non ci stiamo chiedendo che cosa sia razionale fare per la ragione, ma che cosa lo sia per me. Io potrei ragionevolmente rifiutarmi di assumere il "punto di vista del tut to"; non sono il tutto, io. Perché mai il mio punto di vista non potrebbe essere, semplicemente, il mio punto di vista?». A sua volta anche la teoria dell'interesse personale può essere messa sotto accusa. Un sostenitore della teoria degli obiettivi attuali potrebbe obiettare: «Quel che ci stiamo chiedendo non è semplicemente che cosa sia razionale fare per me, ma che cosa sia razionale fare per me ora. Quello che dobbiamo prendere in considerazione non è semplicemente il mio punto di vista, bensì il mio punto di vista attuale». Come scrive Williams, «la prospettiva corretta sulla propria vita è dal presente».16 Questo punto si presta a essere sviluppato in termini più formali. Sul la scia di Nagel, io ho distinto due tipi di ragione per l'azione; Nagel chiama oggettiva una ragione che non sia legata ad alcun punto di vista. Supponiamo di affermare che c'è una ragione per alleviare le sofferenze di una persona. Ebbene, questa ragione è oggettiva se è una ragione per chiunque- per chiunque possa alleviare le sofferenze di quella persona. Queste ragioni io le chiamo agente-neutrali. Le ragioni soggettive di Na gel sono tali solo per l'agente. Io le chiamo ragioni agente-relativeY
L'appello alla relatività completa
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Circa il senso in cui le ragioni possono essere relative devo fornire al lettore qualche altra spiegazione. In un certo senso, tutte le ragioni pos sono essere relative a un agente, a un tempo e a un luogo. Quand'anche tu e io stessimo cercando di conseguire un obiettivo comune, le nostre situazioni causali potrebbero essere diverse. Potrebbe darsi che io abbia una ragione per agire in un modo che promuova il conseguimento del nostro obiettivo comune, mentre tu non ce l'hai, magari perché non sei in grado di agire così. Poiché anche le ragioni agente-neutrali possono essere, in questo senso, agente-relative, questo senso è irrilevante per la nostra discussione. Quando chiamo una ragione agente-relativa, non affermo che questa ragione non possa essere una ragione per altri agenti. Dico solo che può non esserlo. Secondo la teoria degli obiettivi attuali, la mia ragione per agire è una ragione per altri agenti se io e loro abbiamo lo stesso obietti vo. Analogamente, quando P afferma che una ragione è relativa al tem po, non dice che tale ragione, col passar del tempo, debba venir meno, ma solo che può venir meno: verrà meno se cambierà l'obiettivo dell'a gente. Se tutte le ragioni per l'azione fossero agente-neutrali, ciò sarebbe fa tale alla teoria dell'interesse personale. Si pensi alla ragione che ogni persona ha di promuovere il proprio interesse. Se tale ragione fosse co mune a tutti quanti, ogni persona avrebbe un'ugual ragione di promuo vere gli interessi di tutti. La teoria dell'interesse personale verrebbe as sorbita nella benevolenza imparziale. Perciò un sostenitore della teoria dell'interesse personale dovrà affermare che le ragioni per l'azione pos sono essere agente-relative: possono essere ragioni per l'agente senza es sere ragioni per nessun altro. Chi sostiene la teoria degli obiettivi attuali ne converrebbe, ma po I
rebbe aggiungere (P l), ossia la tesi che una ragione può essere relativa
all'agente nel momento dell'azione: può essere per lui una ragione in qt1el momento, senza esserla in altri. Questa tesi si contrappone alla seconda replica del difensore di 5, quella che assume che la forza di una ragione si estende nel tempo. Se condo 5, come scrive Nagel, «c'è ragione di promuovere ciò che... ci sarà ragione di promuovere».18 Le ragioni dell'interesse personale sono, in questo senso, atemporali o temporalmente neutrali. Sebbene atemporali, però, esse non sono impersonali. Come ho det lo,
5 è una teoria ibrida. Secondo le teorie morali neutraliste, le ragioni
per l'azione sono a un tempo atemporali e impersonali. Secondo la teo ria degli obiettivi attuali quelle ragioni sono insieme tempo-relative e agente-relative: sono ragioni per l'agente nel momento in cui agisce. Se-
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Razionalità e tempo
condo la teoria dell'interesse personale le ragioni sono agente-relative, ma non tempo-relative. S respinge il requisito dell'impersonalità, ma esi ge la neutralità temporale. In quanto teoria ibrida, S può essere attaccata da due lati. Ciò che S afferma contro una delle teorie rivali può essere rivolto contro di lei dal l'altra. Nel respingere il neutralismo, un sostenitore della teoria dell'in teresse personale deve affermare che una ragione può aver forza solo per l'agente. Ma ciò che sta alla base di questa tesi ne suffraga anche un'altra: se una ragione può aver forza solo per l'agente, può aver forza per l'agente solo nel momento dell'azione. Il sostenitore della teoria del l'interesse personale non potrà che respingere questa tesi e attaccare l'i dea di una ragione tempo-relativa. Senonché gli argomenti con cui met te in luce la neutralità temporale delle ragioni e refuta la teoria degli obiettivi attuali possono essere invocati per mostrare che le ragioni sono neutrali rispetto alle persone e quindi per refutare la teoria dell'interesse personale. Tempo fa, Nagel ha avanzato un argomento di questo secondo tipo. Se il suo argomento è valido, si impone il neutralismo. In questo mo mento io non intendo discutere l'argomento di Nagel, ma l'appello alla relatività completa. Al pari dell'argomento di Nagel, anche questo ap pello costituisce una sfida alla teoria dell'interesse personale. Una parte di tale appello è costituito da (Pl), ossia dalla tesi che le ragioni, se pos sono essere relative all'agente, possono essere integralmente relative: re lative all'agente nel momento dell'azione. Le ragioni per l'azione o possono essere relative o non possono esser lo. Se, come argomenta Nagel, non possono esserlo, vince il neutrali smo. In tal caso dobbiamo respingere sia la teoria dell'interesse perso nale che la teoria degli obiettivi attuali, nonché gran parte della moralità di senso comune. Supponiamo ora che, come oggi Nagel è arrivato a credere, le ragioni possano essere relative. Ebbene, giustamente (Pl) afferma che, se le ra gioni possono essere relative, possono essere relative all'agente nel mo mento dell'azione. Come argomenterò nei paragrafi 59, 60 e 61, può es sere vero che mentre un tempo io avevo una ragione per perseguire un certo obiettivo, ora non ce l'ho più. E può essere altrettanto vero che in futuro avrò una ragione per perseguire un certo obiettivo, anche se ora non ce l'ho. Stando così le cose, non si può affermare che la forza delle ragioni si estende nel tempo. Questa circostanza pregiudica la seconda replica del sostenitore di 5. Oltre che a (Pl), un sostenitore della teoria degli obiettivi attuali può richiamarsi alle due tesi più audaci (P2) e (P3). Ora dimostrerò che, se tale appello è giustificato, ci sono ulteriori ragioni per respingere S.
58. L'appello alla relatività completa applicato ad altre tesi Supponiamo, anzitutto, che' uno accetti sia 5 che la concezione del l'interesse personale propria della teoria dell'appagamento dei desideri. Costui, per quanto lo riguarda, potrebbe formulare 5 in questi termini:
(59) Quello che io ho più ragione di fare
è ciò che meglio appagherà
tutti i miei desideri per tutta la vita. La tesi analoga è la seguente:
(P4) Quello che ho più ragione di fare ora
è ciò che meglio appaghe-
rà tutti i desideri che ho ora. Poiché (59) è in contrasto con (P4), l'appello alla relatività completa ci dice di respingere (59). (59) è incompatibile con la relatività completa. Dicendoci di respingere (59), quell'appello ci dice di respingere una ver sione di 5 e ci consente di accettare (P4), ossia quanto la versione stru mentale di P implica. Consideriamo ora
(510) Io posso razionalmente ignorare i desideri che non sono miei; e
(P5) Io ora posso razionalmente ignorare i desideri che ora non sono miei. Queste due tesi non sono in contrasto tra loro. In forza dell'appello alla relatività integrale, se accettiamo (510), dobbiamo accettare anche (P5). Ma (P5) è sia una negazione di S che una formulazione parziale di alcu ne versioni di P. Ancora una volta, l'appello gioca a favore di P contro S. Un sostenitore della teoria degli obiettivi attuali respingerebbe bensì S, ma ne accetterebbe alcune tesi. Accetterebbe, per esempio, il rifiuto di RB, ossia della tesi secondo cui la ragione esige una benevolenza im parziale. Inoltre, pur respingendo la versione edonistica di S, accette rebbe al suo posto
(P6) Non E, se non
è irrazionale avere più a cuore la propria felicità.
è un edonista, dovrebbe aggiungere
(P7) Non
è irrazionale avere più a cuore ciò che accade a se stessi o preoccuparsi di più dei propri interessi.
(P7) difende quella che io chiamo «parzialità a proprio favore». A diffe renza di S, (P7) non afferma che un agente razionale debba a un tempo avere questa parzialità nei propri confronti e !asciarsene guidare: si limi la a dire che tale parzialità non è irrazionale.
Razionalità e tempo
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Supponiamo di accettare (P7). La tesi analoga è
(P8) Non è irrazionale avere più a cuore ciò che accade a se stessi nel momento attuale.
(P8) difende quella che io chiamo parzialità nei confronti del presente, una parzialità ancora più comune di quella a proprio favore. L'una e l'altra trovano modo di esprimersi in affermazioni di questo tenore: «Lo sapevo, qualcuno lo doveva pur fare questo lavoro ingrato, ma non vole vo essere io»; «Certo, presto o tardi dovevo farlo, ma non volevo farlo adesso». (Oppure: «Lo sapevo di dovermi far trapanare il dente, ma non volevo farlo subito».) In forza dell'appello alla relatività completa, se accettiamo (P7), do vremmo accettare anche (P8). La cosa è plausibile: le due parzialità che esse esprimono possono essere difese sulla base di ragioni analoghe. Le ragioni per preoccuparmi di ciò che accade a me sono di tipo diverso dalle ragioni per preoccuparmi di ciò che accade agli altri. I rapporti tra me e i miei sentimenti sono più diretti dei rapporti tra me e i sentimenti altrui. Questa circostanza rende (P7) plausibile. Analogamente, le ragio ni per preoccuparmi di ciò che accade a me ora sono di tipo diverso dal le ragioni per preoccuparmi ora di ciò che mi è accaduto nel passato o mi accadrà in futuro. I rapporti tra me ora e i sentimenti che provo ora sono più diretti dei rapporti tra me ora e i sentimenti che ho provato o proverò in altri momenti. Questa circostanza rende (P8) plausibile. Dal momento che (P7) verrebbe accolta sia da un sostenitore della teoria dell'interesse personale che da un sostenitore della teoria degli obiettivi attuali, quest'ultimo potrebbe avanzare la seguente osservazio ne: «La teoria dell'interesse personale non è del tutto implausibile. Il suo errore è quello di passare da (P7) a una tesi più arrischiata. Secondo (P7) non è irrazionale preoccuparsi di più dei propri interessi personali. Questo è plausibile. Al contrario, non è plausibile affermare che la solle citudine per i propri interessi debba rappresentare sempre l'obiettivo ultimo di ciascuna persona».
(P7) e (P8), entro la teoria degli obiettivi attuali, non sono tesi centra li. Chi non si preoccupasse di più o di se stesso o dei propri sentimenti attuali non verrebbe giudicato irrazionale da un sostenitore della teoria degli obiettivi attuali. La tesi del tutto diversa che è centrale alla versio ne critica di P non implica (P7) e (P8). Supponiamo che io conosca i fat ti e ragioni con lucidità. Secondo la tesi centrale di CP, se il mio insieme di desideri non è irrazionale, quello che io ho più ragione di fare ora è ciò che meglio appagherebbe quei miei desideri attuali che non sono ir razionali. Una tesi simile vale per chiunque.
L'appello alla relatività completa
189
È. vero che un sostenitore della teoria degli obiettivi attuali accette rebbe (P7); egli però la collocherebbe entro una tesi di più vasta portata che potrebbe essere la seguente:
(P9) Un modello di interessamento non è irrazionale semplicemente perché non dà la massima importanza alla realizzazione dell'esi to che, considerato in modo imparziale, è il migliore. Per me sa rebbe non meno razionale preoccuparmi di più di ciò che acca de a me o alle persone che io amo, nonché della riuscita dei miei progetti o della fortuna delle cause a cui ho dedicato me stesso. Questa tesi non assegna una posizione privilegiata alla parzialità a pro prio favore. Tale parzialità viene semplicemente citata come esempio di un interessamento che, pur non essendo imparziale o agente-neutrale, è nondimeno razionale. Questo è il più semplice ed evidente tipo di inte ressamento non imparziale, ossia agente-relativo. Ma ce ne sono molti altri, ad alcuni dei quali fa cenno (P9) che li considera non meno razio nali del primo. Se accettiamo (P9), l'appello alla relatività integrale ci dice di ac cettare
(PlO) Un modello di interessamento non è irrazionale semplicemente perché non assegna la massima importanza al proprio interesse personale. Per me non sarebbe affatto meno razionale preoc cuparmi di più, in questo momento, di quelle persone che, in
questo momento, amo, della riuscita di un piano che ora sto cercando di realizzare, o della fortuna delle cause a cui, in que
sto momento, mi sto dedicando. E potrebbe non essere affatto meno razionale che la mia sollecitudine per il mio interesse personale implichi una parzialità temporale a favore del pre sente. Potrebbe, per esempio, non essere meno razionale che io mi preoccupi di più, in questo momento, di ciò che mi acca de in questo momento.
(PlO) è una delle tesi principali della teoria degli obiettivi attuali. Essa non assegna un posto privilegiato alla parzialità nei confronti del pre sente; si limita a citarla come esempio di un interessamento che, pur es sendo relativo all'agente nel momento dell'azione, può essere non meno razionale. Dico «può» perché di CP ci sono diverse versioni. Una di esse affer che, nel preoccuparmi del mio interesse personale, dovrei essere lemporalmente neutrale. Questa versione è coerente con (PlO). Essa af
ma
lerma che io dovrei preoccuparmi in modo temporalmente neutrale an-
190
Razionalità e tempo
che degli interessi di coloro che amo. Nel mio sforzo di fare ciò che per loro sarà meglio, dovrei assegnare eguale importanza a tutti i momenti della loro vita. Ciò è coerente con la tesi che per me non è meno razio nale preoccuparmi di più, in questo momento, degli interessi di coloro a cui, in questo momento, voglio bene. E quand'anche mi preoccupassi dei miei interessi personali in modo temporalmente neutrale, per me non è meno razionale preoccuparmi di più, in questo momento, della riuscita di un piano che ora sto cercando di realizzare o della fortuna delle cause a cui, in questo momento, mi sto dedicando. La mia preoccu pazione per l'attuazione di quel piano o per il buon esito di quelle cause non concerne il mio interesse personale. Se accettiamo (PIO), respingeremo la tesi centrale della teoria dell'in teresse personale, ossia la tesi che, per chiunque, è irrazionale compiere ciò che sa essere peggio per lui. Secondo S il modello di interessamento sommamente razionale è costituito da una parzialità temporalmente neutrale a proprio favore. Secondo (PIO) ci sono molti altri modelli di interessamento che non sono meno razionali. Se ciò è vero, il mio primo argomento è valido. Se abbiamo uno di quegli altri modelli di interessa mento, non sarebbe meno razionale agire in conformità a essi. E non lo sarebbe nemmeno se, così facendo, agissimo in un modo che sappiamo essere contrario ai nostri interessi a lungo termine. Ebbene, dovremmo accettare (PIO)? Più esattamente: possiamo re spingere (PIO), se abbiamo accettato (P7), ossia la tesi che non è irrazio nale essere parziali nei propri confronti? Tale parzialità è davvero inte gralmente o sommamente razionale? Nel paragrafo 51 ho ricordato al cuni altri desideri e preoccupazioni, ed ho affermato che essi non sono meno razionali della parzialità a proprio favore. Se quella tesi era giusti ficata, dobbiamo accettare di (PIO) una versione che faccia posto ad al cune condizioni. Dovremmo precisare meglio (PIO), perché può essere irrazionale de siderare la riuscita di un piano o votarsi a certe cause. Così, potrebbe es sere irrazionale voler restare sul fondo di una caverna più a lungo di chiunque altro. Senonché, come ho affermato, ci sono molti desideri di riuscita che non sono meno razionali della parzialità nei propri confron ti. Basti pensare al desiderio di creare certi tipi di bellezza o di consegui re certi tipi di conoscenze. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Qual cosa di molto simile va detto delle cause a cui ci votiamo. Nel secolo scorso non era irrazionale votarsi alla causa dell'adozione dell'esperanto come lingua franca del mondo o come lingua internazionale. Stanti le posizioni relative dell'inglese e dell'esperanto, votarsi a questa causa og gi, forse, sarebbe irrazionale. Ma ci sono molte altre cause votarsi alle
L'appello alla relatività completa
191
quali non è meno razionale che adottare un atteggiamento di parzialità nei propri confronti. Dovendo accettare una versione di (PlO) che fac cia posto a condizioni e riserve, dovremmo accettare una versione di CP che spesso contrasta con S. In questo capitolo ho argomentato che una ragione, se può aver forza solo per una persona, può aver forza per una persona solo in un certo momento. La tesi secondo cui la forza di una ragione qualsiasi si esten de nel tempo noi la dovremmo respingere. Perciò dovremmo respingere la seconda replica del sostenitore di S al mio primo argomento, in quan to essa fa appello proprio a quella tesi. Se non è in grado di avanzare una terza replica, il sostenitore di S forse dovrà ripiegare sulla prima e affermare che la parzialità nei propri confronti è sommamente raziona le. Questa sua tesi la dovremmo respingere, e, se il sostenitore di S non può replicare ulteriormente, dovremmo respingere S. Ho argomentato anche che ci sono altre ragioni per respingere S. A fornircele è l'appello alla relatività completa. Secondo tale appello le so le teorie sostenibili sono quella degli obiettivi attuali e quella della mo ralità, perché solo loro riservano lo stesso trattamento alle nozioni di «io» e di «ora». (Le teorie morali agente-neutrali riservano loro chiara mente lo stesso trattamento. Lo stesso fanno, ancorché in modo meno evidente, le teorie agente-relative, secondo le quali io devo riconoscere un'importanza speciale agli interessi di certe persone, per esempio agli interessi dei miei figli. Questa tesi sembra riservare alla nozione di «io» un trattamento che nega alla nozione di «ora», ma ciò non è vero. La re lazione che mi lega ai miei figli non può esserci in un certo tempo e non esserci in un altro. I miei figli non possono esistere e non essere miei fi gli. È per questo che, nel trattare i miei obblighi verso i miei figli, non c'è bisogno di ricorrere alla parola «ora». Ci sono però altre relazioni che possono sussistere in un certo momento e non sussistere più in un altro. Nel trattare tali relazioni una teoria morale agente-relativa ricorre alla parola «ora». Se, per esempio, io sono un medico, ho obblighi spe ciali nei confronti di quelli che ora sono miei pazienti. Verso coloro che lo sono stati nel passato ma che ora sono pazienti di altri medici, invece, quegli obblighi non li ho più.) Nel prossimo capitolo presenterò nuove ragioni per respingere S, ma mi riprometto soprattutto di discutere alcuni problemi imbarazzanti.
VIII. Atteggiamenti nei confronti del tempo
La teoria dell'interesse personale afferma che nel provvedere ai nostri interessi noi dobbiamo assumere un atteggiamento di neutralità tempo rale. Come ho detto, anche un sostenitore della teoria degli obiettivi at tuali può avanzare questa tesi. Ora intendo chiedermi se questa tesi sia giustificata. Se sarà affermativa, la risposta non rappresenterà un'obie zione a P; ma se sarà negativa, sarà un'ulteriore obiezione a S.
59.
È irrazionale non annettere alcuna importanza ai propri desideri
passati?
Consideriamo, anzitutto, quei sostenitori di S che sull'interesse perso nale accettano la teoria dell'appagamento dei desideri. Secondo tutte quante le versioni di questa teoria, per una persona è meglio ciò che me glio appaga i suoi desideri per tutta la vita. L'appagamento dei desideri di una p�rsona per lei è bene, mentre la loro frustrazione è male, anche se tale persona non venisse mai a sapere se quei desideri siano stati ap pagati. Per stabilire che cosa appagherebbe meglio i miei desideri, devo cercare di prevedere quali desideri avrei a seconda delle diverse stra de che la mia vita potrebbe imboccare. L'appagamento di un deside rio conta tanto più quanto più il desiderio è forte. È vero anche che conta tanto più quanto più il desiderio dura nel tempo? Se mettiamo a confronto da un lato il più forte desiderio che ha accompagnato i miei ultimi cinquant'anni di vita e dall'altro il desiderio che ha avuto i cinque minuti di maggiore intensità, sembra plausibile rispondere affermativamente. Ma, quanto ai desideri di debole intensità, la ri sposta è tutt'altro che evidente. Secondo la teoria dell'appagamento indiscriminato dei desideri, per una persona è bene se uno qualsiasi dei suoi desideri viene appagato,
Atteggiamenti nei confronti del tempo
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male se uno qualsiasi non viene appagato. Un'altra versione è la teoria del successo. Essa annette importanza solo a quei desideri della persona che riguardano la sua esistenza. Quali siano questi desideri non è sem pre chiaro; ma ciò non costituisce un'obiezione alla teoria del successo. Perché mai dovrebbe essere sempre chiaro che cosa è meglio per una persona? A questo punto sarà bene ricordare in che cosa la teoria del successo differisca dalla versione più generale della teoria edonistica. Le due teo rie si richiamano entrambe ai desideri che una persona ha circa la pro pria vita. Gli edonisti, però, si richiamano solo ai desideri riguardanti quegli aspetti della nostra vita che possiamo cogliere mediante l'intro spezione. Supponiamo che il mio più intenso desiderio sia quello di ri solvere un problema scientifico. Ebbene, gli edonisti affermano che per me sarebbe meglio credere, per il resto della mia vita, di aver risolto quel problema. Secondo loro non importa se la mia credenza è falsa: ciò non farebbe alcuna differenza nel mio modo di percepire la qualità della mia vita. Sapere la verità e credere il falso non sono esperienze diverse. Secondo la teoria del successo, invece, se la mia credenza è falsa per me è peggio. Ciò che io desidero è risolvere quel problema. Se questo desi derio non viene appagato, anche se io credo che lo sia, per me è peggio. Possiamo ricordare, infine, che teoria edonistica e teoria del successo presentano entrambe due versioni. Una versione tiene conto della som ma totale risultante dall'appagamento dei desideri locali o particòlari di una persona. L'altra versione tiene conto solo dei desideri globali di una persona: delle sue preferenze per l'uno o l'altro aspetto della propria vi ta, o per la propria vita globalmente considerata. Tra due possibili tipi di vita, globalmente io potrei preferirne uno anche se comportasse un più modesto esito complessivo in termini di appagamento di specifici desideri. È una preferenza globale di questo genere quella che spinge certe coppie di giapponesi a lasciarsi cadere nel vuoto da un dirupo mentre sono all'apice dell'estasi amorosa. Potremmo distinguere altre versioni della teoria dell'appagamento dei desideri. Ma in questa sede non è necessario farlo. Criticherò quei sostenitori della teoria dell'interesse personale che assumono una ver sione della teoria dell'appagamento dei desideri. Anche qui userò il ter mine «desiderio» nel senso di «desiderio appropriato», in quanto le di verse versioni di questa teoria si richiamano a desideri diversi. Per lo più le mie osservazioni valgono quale che sia la versione che viene adottata. Se assumiamo la teoria dell'appagamento dei desideri, l'assioma della benevolenza razionale di Sidgwick può venir formulato così:
(RBl) Ogni persona ha più ragione di fare ciò che meglio appagherà i desideri di tutti;
Razionalità e tempo
194
e la teoria dell'interesse personale diviene questa:
(511) Ogni persona ha più ragione di fare ciò che meglio appagherà, o la porrà in condizione di appagare, tutti i propri desideri. Un sostenitore della teoria dell'interesse personale non può che respin gere (RB1). Come ho detto, egli potrebbe asserire
(510) Io posso razionalmente ignorare i desideri che non sono miei. Un sostenitore della teoria degli obiettivi attuali potrebbe aggiungere
(P4) Io ora posso razionalmente ignorare i desideri che ora non sono m1e1. Dico «potrebbe» perché (P5), in base alla versione critica di P, può es sere respinta. Alla luce dell'appello alla relatività completa, se accettia mo (510), dovremmo anche accettare (P5). Poiché un sostenitore di 5 deve accettare (510), ma non può accettare (P5), deve respingere l'ap pello alla relatività completa. Questo appello afferma che le ragioni so no relative non soltanto alle singole persone, ma anche ai singoli mo menti. Il sostenitore di S può replicare che, mentre il problema di chi ha un certo desiderio riveste un notevole significato razionale, il problema di quando ce l'ha non ne riveste alcuno. Ebbene, questo è vero? Dovrei forse cercare di appagare i miei desi deri passati? Un problema del genere può venir posto a proposito della teoria dell'appagamento dei desideri. È vero che l'appagamento dei miei desideri passati per me è bene e che il loro mancato appagamento per me è male? Dei desideri passati- a parte gli ultimi desideri di perso ne morte - i sostenitori della teoria dell'appagamento dei desideri si so no occupati raramente. Forse ciò dipende dal fatto che una questione del genere non poteva sorgere entro certe versioni più antiche della teo ria edonistica. Non posso migliorare ora la qualità delle mie esperienze passate. Potrei, però, essere in grado di appagare i miei desideri passati anche quando non desidero più farlo. Ho una ragione per farlo? Alcuni desideri sono implicitamente condizionati alla loro persisten za. Se in questo momento ho il desiderio di fare, più tardi, non appena sorgerà la luna, una nuotata, forse desidero farlo solo qualora, una volta spuntata la luna, ne abbia ancora voglia. Se un desiderio è condizionato alla sua stessa persistenza, ovviamente, una volta che sia passato, può es sere ignorato. C'è una classe di desideri molti dei quali, implicitamente, sono condi zionati in questo senso. Sono quei desideri il cui appagamento ritenia mo ci arrecherebbe soddisfazione e il cui mancato appagamento ritenia-
Atteggiamenti nei confronti del tempo
195
mo ci arrecherebbe frustrazione. Una volta che questi desideri siano ve nuti meno, il loro appagamento non ci arrecherà soddisfazione e il loro mancato appagamento non ci arrecherà frustrazione. È quindi naturale che molti di questi desideri siano condizionati alla propria persistenza. Nel caso di altri desideri non sussiste un'analoga ragione generale per assumere che siano condizionati. Supponiamo che io conosca sul treno una donna che non avevo mai visto prima. Essa mi parla con ca lore delle proprie ambizioni, nonché delle speranze e dei timori con cui accoglie ogni possibilità di successo. Alla fine del nostro viaggio, io provo simpatia per lei e desidero intensamente che i suoi progetti riescano. Lo desidero intensamente anche se so che non la incontrerò mai più e che il mio desiderio non durerà. In un caso del genere, il mio desiderio che quella donna abbia successo non è implicitamente condizionato alla propria persistenza. Ciò è vero di innumerevoli altri desideri di vario tipo. Ne sono un esempio quanto mai chiaro i desideri di certe persone al riguardo di ciò che accadrà dopo la loro morte. Supponiamo che io non creda nella mia sopravvivenza dopo la morte. Essendo convinto che la mia morte sarà la mia estinzione, i miei desideri per ciò che accadrà in seguito non possono essere condizionati al proprio persistere fino al momento dell'appagamento. Tale condizione non potrà verificarsi. Tut tavia io continuo a nutrire questi desideri. Quando sarò morto, essi sa ranno desideri passati non condizionati al loro persistere. Questi deside ri «incondizionati» del morto non creano alcun imbarazzo a certi soste nitori della teoria dell'appagamento dei desideri. Essi accettano la tesi che, facendo sì che tali desideri non vengano appagati, noi andiamo contro gli interessi del morto. Se faranno propria la teoria del successo, essi non avanzeranno questa tesi al riguardo di tutti i desideri di questo tipo. Uno dei miei più forti desideri è che Venezia non venga mai distrutta. Ebbene, supponiamo che, dopo la mia morte, un'inondazione cancelli Venezia dalla faccia della terra. Secondo la teoria del successo, ciò non sarebbe contro i miei interessi, né implicherebbe che io ho avuto una vita peggiore. Tuttavia è vero che certi eventi la teoria del successo li giudica negativi per le per sone morte. Supponiamo che io lavori cinquant'anni per la salvezza di Venezia. Se, dopo la mia morte, Venezia venisse distrutta, secondo la 1 coria del successo per me sarebbe peggio: significherebbe che il lavoro sizione non ha il pregio di essere generale. La tesi secondo cui le me '" differenze di collocazione temporale - ossia le pure e semplici rispo '"c alla domanda «quando?»- non possono avere significato razionale .1veva una seducente semplicità. Ma questa nuova posizione, pur essen ' 1, > meno semplice, è ugualmente suscettibile di giustificazione. Il soste l t li ore di5 potrebbe affermare che, se ci si riflette sopra, essa appare in lttitivamente plausibile: «Se paragoniamo presente, passato e distanza 1 wl futuro, è chiaro che le prime due sono realtà assolutamente diverse , L dia terza. Mentre le prime due hanno un owio significato razionale , l te giustifica, da parte nostra, un interesse diverso, la terza è altrettanto '•vviamente insignificante». Questo appello all'intuizione non è decisivo. Tali intuizioni non sono t111iversali. Tra le persone che, quando un evento negativo viene rinvia '"· provano sollievo, sono molte quelle che non giudicano irrazionale ta l .. sollievo. Consideriamo un altro effetto della parzialità nei confronti di , l che è vicino nel tempo: la crescente eccitazione che proviamo con l',1vvicinarsi al presente di un evento positivo- un po' come, a teatro, 'l'lando le luci in sala si abbassano. Ebbene, sarebbero in molti a soste lwrc che tale eccitazione non è irrazionale. < :hi tiene le parti di 5 potrebbe osservare: «Coloro che hanno intui 1< >n i del genere non hanno considerato il problema con sufficiente at1t 11zione. Quelli che lo hanno fatto, com'è il caso dei filosofi, in generale >l< onoscono che è irrazionale preoccuparsi di più del futuro più vicino a .•
l[i)f».
234
Razionalità e tempo
Come ho già detto, l'accordo dei filosofi non giustifica questa loro concezione. La teoria dell'interesse personale è stata a lungo dominante e, essendo stata insegnata per più di due millenni, non possiamo non aspettarci di trovarne l'eco nelle nostre intuizioni. Non si può giustifica re S facendo appello semplicemente a intuizioni che possono essere sta te prodotte dal suo insegnamento. Se il passare del tempo non è un'illusione, a chi sostiene S non basta fare appello solo alle nostre intuizioni. Può affermare che è proprio il passare del tempo a giustificare la parzialità nei confronti del futuro. Se gliene si chiedesse la ragione, gli potrebbe riuscire difficile darla. La tesi appena enunciata, infatti, non suggerisce affatto che il passato sia irrea le. Se lo fosse, sarebbe estremamente facile intuire perché i dolori passa ti non possano avere importanza di sorta. Non è così evidente la ragione per cui, dato che il tempo passa, i dolori passati non contano. Il sostenitore di S potrebbe argomentare: «Supponiamo di accettare la metafora secondo la quale l'ambito dell'"ora" si muove verso il futu ro. Ciò spiega perché, dei tre atteggiamenti verso il tempo, uno è irra zionale e gli altri due sono razionalmente richiesti. I dolori contano solo in considerazione di come sono quando sono nel presente, ossia nel l'ambito dell"'ora". È questa la ragione per cui dobbiamo preoccuparci di più dei nostri dolori se nel dolore ci siamo ora. L"'ora" si muove ver so il futuro. È per questo che i dolori passati non hanno importanza per noi. Una volta passati, non faranno-che allontanarsi sempre più dall'am bito dell"'ora". Le cose stanno in termini molto diversi riguardo alla vi cinanza nel futuro. Il passare del tempo non giustifica il fatto che ci si preoccupi di più del futuro prossimo, perché, per lontani che siano, i dolori futuri entreranno nell'ambito dell"'ora"». Non è chiaro se questi argomenti siano solidi. L'ultimo, in particola re, forse presuppone ciò che vuole dimostrare. Ma chi sostiene S po trebbe invece affermare che, dal momento che ci richiamiamo al passare del tempo, non abbiamo bisogno di argomentazioni: non c'è più alcun bisogno di spiegazioni ulteriori. Il fatto che, poiché il tempo passa, le sofferenze passate semplicemente non possono avere importanza - non possono essere oggetto di un interesse razionale- potrebbe essere un'al tra verità fondamentale. Atemporale non provava sollievo nell'appren dere che la sua terribile prova apparteneva al passato. Così facendo, po trebbe darsi che egli incorresse in quel tipo di errori che risultano in spiegabili. Un errore può essere così grossolano da collocarsi fuori della portata dell'argomentazione. 69. Una asimmetria
Forse, facendo appello non più alla neutralità temporale ma al passa re del tempo, il sostenitore della teoria dell'interesse personale ha raf-
!ltteggiamenti nei confronti del tempo
235
lorzato la propria posizione. Ma noi dovremmo considerare un ultimo tipo di casi che chiamerò le sofferenze passate o future di quelli che amo.
Primo caso. Sono in esilio, lontano dal mio paese dove ho lasciato mia madre che è vedova. Sebbene sia molto preoccupato per lei, solo raramente riesco ad avere sue notizie. Da qualche tempo ho appreso che è affetta da una malattia che non perdona e che le re sta poco da vivere. Ora vengo a sapere qualcosa di nuovo: la sua malattia è diventata estremamente dolorosa e le medicine non le sono di alcun sollievo. Nei prossimi mesi, prima di morire, la aspet ta una terribile prova. Che sarebbe morta di lì a poco lo sapevo già, ma mi addolora profondamente apprendere delle sofferenze che dovrà sopportare. Il giorno dopo mi si dice che le mie informazioni erano in parte sbagliate. I fatti erano esatti, ma non era giusta la loro collocazione nel tempo: quei mesi di sofferenze, mia madre li aveva già soppor tati e ora era morta. l·:bbene, a questo punto io devo provare sollievo? Credevo che le prove tnribili di mia madre fossero nel futuro e invece erano nel passato. Se condo la nuova concezione del sostenitore di 5, i dolori passati sempli cemente non contano. Il fatto che io apprenda delle sofferenze di mia 111adre ora non mi dà
alcuna ragione di angoscia. In questo momento,
1 >er me, è come se mia madre fosse morta senza soffrire. Se ciò che ho
appreso mi angoscia, io sono come Atemporale: l'errore in cui incorro è ,
osì grossolano da sfuggire alla portata dell'argomentazione.
Quest'ultimo esempio potrebbe scuotere il sostenitore di 5: può riu scirgli difficile riconoscere che la mia reazione è irrazionale. Sulla base ,Iella sua nuova posizione, potrebbe dire: «Com'è possibile che ti angu sti la notizia che tua madre ha avuto questi mesi di dolore? Anche se ha
sofferto, ormai le sue sofferenze sono nel passato. Le notizie che hai avu to non sono affatto cattive notizie». Se applicate al mio interesse per al tri, queste considerazioni sembrano meno convincenti.
Il sostenitore di 5 potrebbe modificare la sua nuova posizione e dire: .. Non avrei dovuto affermare che i dolori passati semplicemente non contano.
È altro ciò che il passare del tempo comporta:
è che contano
,// meno». Questa correzione è indifendibile. Un dolore, quando è pas s;Jto, è passato completamente. L'appartenenza al passato non è que ·.t
ione di grado. Non è plausibile dire che, poiché il tempo passa, è ra
lionale avere un certo interesse per il dolore passato, ma un interesse 111/nore che per il dolore futuro. Che cosa si dovrebbe dire dei miei do l, >ri passati? Io li considero con completa indifferenza. Ora, questo è ir-
Razionalità e tempo
236
razionale? Dovrei forse esserne un pò angustiato, ma meno che se fosse ro in gioco delle sofferenze future? L'appello al passare del tempo non può plausibilmente sostenere questa tesi. In casi come questi, è difficile pensare che la mia indifferenza sia irrazionale. Questi miei esempi mettono in luce una sorprendente asimmetria tra l'interesse per il nostro passato e l'interesse per il passato di altri. Se mi si ricordasse che tempo fa ho dovuto sopportare diversi mesi di soffe renze, non me ne angustierei affatto. AI contrario, mi rattristerebbe molto apprendere che mia madre, prima di morire, ha dovuto sopporta re prove terribili. Taie asimmetria è ridotta nel
Secondo caso. Come il primo, tranne che mia madre, pur avendo sofferto diversi mesi, è ancora viva e ora non soffre alcun dolore. In questo caso mi dispiacerebbe di meno apprendere delle sofferenze passate di mia madre. Questa differenza è facilmente spiegabile. Se mia madre è come me, anche lei ora vede le sue prove passate con indiffe renza. (A quanto possiamo supporre, i ricordi che mia madre ha delle proprie prove passate, come quelli che ho io delle mie, non sono in se stessi dolorosi.) Se c'è un'asimmetria tra l'interesse per i nostri dolori passati e l'interesse per i dolori passati degli altri, non sorprende che ta le asimmetria sia quanto mai chiara nei casi in cui gli altri ora sono mor ti. Se mia madre è ancora viva, sul mio atteggiamento attuale natural mente influirà quello che io assumo essere il suo atteggiamento attuale. Il fatto che io possa assumere che lei ora vede con indifferenza le pro prie sofferenze passate ridimensiona la mia preoccupazione per quelle sofferenze. Invece, se mia madre è morta, ora non vede con indifferenza le proprie sofferenze passate. E poiché sul mio interesse per le sue soffe renze passate non può influire il suo atteggiamento presente, questo è il caso in cui il mio interesse nei suoi confronti si manifesta nella forma più pura. Fa una differenza il fatto che le sofferenze di mia madre si sono concluse con la sua morte? Consideriamo il
Terzo caso. Vengo a sapere che mia madre ha sofferto per diversi mesi, ma che, prima di morire, ha vissuto un mese senza dolori di sorta. Nella sua vita c'è stato un periodo in cui le sue sofferenze so no appartenute al passato e nel quale quindi, per lei, esse non con tarono più nulla. Se è questo che vengo a sapere, che differenza farà per la mia preoccu pazione nei confronti di mia madre? Ritengo che potrà fare, tutt'al più,
.-i t t eggiamenti nei confronti del tempo
237
t ma modesta differenza. Sarei profondamente dispiaciuto di apprendere che mia madre ha sofferto per tutti quei mesi, anche se sapessi che ha
,,vuto un mese in cui quelle sofferenze sono appartenute al passato. Non dolorosa morte di mia madre a procurarmi dispia
i· solo la notizia della
n�re. Se a procurarmi dispiacere fosse stato solo quello, e se non avessi sofferto nell'apprendere che essa aveva dovuto soffrire molto alcuni me si prima di morire, la mia reazione sarebbe così speciale che, forse, po I rcbbe essere ignorata. Ma il mio interesse per il passato di coloro che ;tmo e che ora sono morti non si riduce al desiderio che essi non abbia no avuto una morte dolorosa. Mi dispiacerebbe apprendere che, in un tttomento qualsiasi della loro vita, essi hanno avuto mesi di sofferenze di cui non ero mai venuto a conoscenza. Da questo punto di vista, ritengo
che la gente per lo più sia come me. Consideriamo infine il
Quarto caso. È come il terzo caso, tranne che non è che venga a sa pere delle sofferenze di mia madre: ne ero già a conoscenza quan do ebbe a sopportarle. Anche se lo sapevo già, il pensiero che nella vita di mia madre ci sono stati diversi mesi di sofferenza continuerebbe a rattristarmi. Ancora una volta sono convinto che tesi analoghe valgano per la maggior parte delle ,tltre persone. Rispetto al nostro atteggiamento nei confronti delle no si re sofferenze passate- che per lo più noi vediamo con completa indif krenza - permané una sorprendente asimmetria. Si potrebbe obiettare: «Per fare scomparire questa asimmetria, basta tntrodurre delle distinzioni. Tu chiedi se, una volta che appartenga al passato, la sofferenza sia qualcosa di importante. Questa domanda pone, ittsieme, diversi interrogativi. Il primo è se tu debba provare simpatia e l'altro se debba preoccupartene. Il fatto che una sofferenza appartenga al passato fa differenza non per la simpatia, ma solo per la preoccupazione che ne hai. Noi proviamo simpatia solo per gli altri. È per questo che le l t te
sofferenze passate le vedi con indifferenza. Non puoi provare simpa-
1 ia
per te stesso. Al contrario, quando vieni a sapere delle sofferenze
passate di tua madre, provi e devi provare simpatia. Invece sarebbe irra ;.tonale preoccuparsi di queste sofferenze passate, proprio come lo sareb1 >c preoccuparsi delle tue sofferenze passate. Perciò non c'è alcuna ;tsimmetria.43 Queste considerazioni, secondo me, non rimuovono l'asimmetria. All'inizio del primo caso mi si dice che mia madre, prima di morire, .,offrirà per diversi mesi. Il giorno dopo mi si dice che in parte quel-
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Razionalità e tempo
l'informazione era sbagliata: quei mesi di sofferenza mia madre li ave va già provati e ora era morta. Secondo le tesi appena formulate, il primo giorno - quando credevo che le sofferenze di mia madre ap partenessero al futuro - io avrei dovuto essere molto preoccupato, mentre quando apprendo che appartengono al passato non dovrei preoccuparmene più, anche se dovrei continuare a provare simpatia. Qualora cessassi di preoccuparmene, presumibilmente ciò farebbe una differenza notevole per il mio atteggiamento e anzi ne cambie rebbe la qualità. Ma personalmente sono sicuro che, se questo caso immaginario si verificasse, il mio atteggiamento non cambierebbe nei due sensi appena indicati. Il mio dispiacere sarebbe un po' meno in tenso, ma la differenza non sarebbe così netta. Né si verificherebbe in esso un cambiamento qualitativo. Il fatto che un evento sia collocato nel passato può e deve influire su quelle mie emozioni che sono legate ad atti possibili. Ma in questi casi, nel momento in cui penso che le sofferenze di mia madre sono nel futu ro, nulla posso fare che le sia utile, nemmeno scriverle una lettera. Per ciò non posso preoccuparmene attivamente, cercando dei modi in cui poter aiutare la persona di cui mi preoccupo. In questi casi la mia preoccupazione può essere soltanto passiva: può essere solo sconforto e dispiacere, non spinta a cercare possibili rimedi. Poiché il mio dispiace re assumerebbe questa forma, quando venissi a sapere che le sofferenze di mia madre appartengono al passato, la sua qualità non cambierebbe. Ammetto che, quando venissi informato di questo, potrei sentirmi un po' meno addolorato. La mia preoccupazione, come potrebbe risentire dell'atteggiamento di mia madre, se fosse viva, così potrebbe risentire del mio atteggiamento nei confronti delle mie stesse sofferenze passate. Questo effetto in parte può eliminare l'asimmetria. Relativamente alla mia preoccupazione per le mie stesse sofferenze, che tali sofferenze si trovino nel futuro o nel passato sono due cose completamente diverse. Non sarebbe per nulla sorprendente se questo fatto relativo ai miei at teggiamenti influisse sulle mie preoccupazioni per le sofferenze passate delle persone che amo. Dal momento che le mie preoccupazioni per le sofferenze passate delle persone che amo non possono evitare di risenti re delle mie preoccupazioni per le mie stesse sofferenze passate, le mie preoccupazioni per le sofferenze degli altri non possono mai assumere una forma del tutto pura o genuina. E, come ho detto, quando vengo a sapere che le sofferenze di mia madre appartengono al passato, la mia preoccupazione non si attenua granché. Come faceva osservare l'obiezione riferita sopra, io non provo alcuna preoccupazione per le mie sofferenze passate in quanto non posso pro-
, li teggiamenti nei confronti del tempo va
239
re simpatia per me stesso. Questa affermazione non rimuove l'asim
lnctria; semplicemente ci fornisce una ridescrizione: essa concede che 1 ra il nostro atteggiamento verso le sofferenze passate della nostra vita e quello verso le sofferenze passate della vita degli altri questa differenza c'è davvero.
Questa asimmetria rende più difficile difendere la teoria dell'interesse l'crsonale. Un sostenitore di 5 non può affermare plausibilmente che ta k asimmetria sia razionalmente necessaria; e qui, in particolare, non può fare plausibilmente appello al trascorrere del tempo. Se il trascorre n· del tempo giustifica la mia completa indifferenza nei confronti delle 1nie sofferenze passate o addirittura fa di tale indifferenza un requisito 1
azionale, il sostenitore di 5 deve avanzare la stessa tesi al riguardo del
111io interesse per coloro che amo. Nel caso immaginario che contempla
la morte di mia madre è altrettanto vero che le sue sofferenze apparten l'.ono al passato. Che cosa dovrebbe dire il sostenitore di 5 dei nostri atteggiamenti verso le sofferenze passate? «Qui- potrebbe dire- non c'è un atteggia li
lento che sia l'unico razionale. Che tu consideri con la più completa in
,lilferenza le tue sofferenze passate non è irrazionale. Ma non lo è nep pme che la conoscenza delle tue sofferenze passate sia per te causa di 1•.rande angoscia. Analogamente, non è irrazionale che tale angoscia te la 1 •rocuri la conoscenza delle sofferenze passate di tua madre. Ma non è 11razionale neppure che tu consideri le sue sofferenze passate con la più '' >mpleta indifferenza». Se il sostenitore di 5 ammette non essere irrazionale tutta questa gam-
111.58 Supponiamo che io provassi una grande passione ,li tipo fisico per il corpo di Mary Smith. Ebbene, tale passione si trasfe rirebbe sulla replica di Mary Smith. Questo caso è analogo a quello in '·ui il corpo per cui provo grande passione sia quello di una tra due ge l nelle identiche. Se questa morisse la mia passione potrebbe benissimo Indirizzarsi al corpo dell'altra gemella. Il comune amore non lo si può trasferire così facilmente. Esso investe Lt psicologia della persona amata, nonché la sua perennemente mutevo le vita mentale. L'amore per una persona, inoltre, è un processo, non 11110 stato stabile. Il mutuo amore implica una storia comune. È per que sto che, se ho amato Mary Smith per mesi o per anni, non posso rim piazzarla così semplicemente con la sua pur somigliantissima gemella. l 'cr la sua replica le cose stanno in termini molto diversi. Se ho amato Mary Smith per mesi o per anni, la sua replica avrà dei quasi-ricordi ' ompleti della nostra storia comune. Quel che io sostengo è che, se non amo la replica di Mary Smith, è 1111probabile che la spiegazione vada cercata nel fatto che io amavo il suo ' orpo particolare. È dubbio che esista qualcuno che provi un amore o ttna passione del genere. Non resta che spiegare la cosa, dicendo che il tn io amore è cessato senza ragione. Nessuna ragione è una cattiva ragio tw. L'amore può cessare così, ma solo se si tratta di un tipo di amore di tnodesto livello.
378
L'identità personale
Ho discusso l'immaginaria alternativa di Nagel al mondo reale. In ta le alternativa, le persone vengono spesso replicate, ma non ci sono mai due repliche di una stessa persona che coesistano. La relazione R non assume mai una forma ramificata. Io sostengo che in questo mondo l'a more per una persona dovrebbe trasferirsi direttamente sulla sua repli ca. E ciò perché la sua relazione con questa replica contiene tutto quello che di fondamentale importanza c'è nella comune soprawivenza. Secondo Williams, in un mondo in cui c'è posto per la replicazione, occorre distinguere tra persone-tipo e ricorrenze di questi tipi. Ma nel mondo appena descritto, in cui la relazione R assume sempre la forma di una relazione biunivoca, questa distinzione non sarebbe di nessuna utilità. Interpretare ciascuna nuova replica come un'altra ricorrenza di una persona-tipo significherebbe rappresentare la realtà in modo fuor viante. Tale descrizione ignora ciò che ha più importanza, la continuità psicologica e il divenire che una vita porta con sé. Noi possiamo descri vere meglio ciò che accade in uno dei due modi che sto per enunciare. Se la concezione di Nagel è falsa, il nostro criterio di identità perso nale può essere ampliato e venire così inteso come il ricorrere della rela zione R non ramificata. In tal caso nella comunità immaginaria di Nagel ciascun individuo sarebbe una persona. Una volta all'anno tali persone passano in nuovi corpi. Poiché ad avere questi nuovi corpi sarebbe Ma ry Smith, l'amore per Mary Smith dovrebbe trasferirsi direttamente su di essi. Anche se le persone cambiano corpo molto spesso, l'amore per una di esse in particolare non correrà alcun rischio. Se la concezione di Nagel è vera, gli individui di questa comunità non sono persone: sono, e ritengono di essere, persone-sequenza. La perso na-sequenza Mary Smith passa ogni anno in un nuovo corpo. Anche qui il tipo di amore che noi apprezziamo non correrà alcun rischio. Se amo una persona-sequenza, non amo una persona-tipo. Amo un individuo particolare che vive una storia continuativa. Consideriamo ora l'altra alternativa al mondo reale, quella immagina ta da Williams. In questo mondo, di una singola persona ci sono molte repliche che coesistono. La distinzione proposta da Williams qui può riuscire utile. Si pensi a cinquanta repliche di Greta Garbo quando ave va trent'anni. Dire che esse sono altrettante ricorrenze della stessa per sona-tipo è una descrizione appropriata. Come dice Williams, se a esse re oggetto d'amore è la persona-tipo, ci troviamo di fronte a un amore molto diverso da quello comune. Questo non è il tipo di amore che an nette grande importanza al fatto di avere una storia comune. Se io vivessi in questo mondo e facessi parte di un insieme di repli-
(,be cos'è che conta?
379
che, potrei considerarmi la ricorrenza di un tipo. Posso invece conside rarmi il tipo? Il cambiamento sarebbe radicale. In un senso della parola «tipo», se io fossi una persona-tipo, non potrei cessare di esistere. Quand'anche in questo momento non ci fossero ricorrenze della mia persona-tipo, questa persona-tipo esisterebbe comunque. Una persona tipo sopravvivrebbe anche alla distruzione dell'universo. E ciò perché, in questo senso, un tipo è un'entità astratta al pari di un numero. Ma
noi non possiamo considerarci delle entità astratte. Comunque si intenda il senso della parola «tipo», c'è una grande dif ferenza tra il comune amore e l'amore per una persona-tipo. Quest'ulti mo non può essere reciproco: io posso bensì amare una persona-tipo, ma questa persona-tipo non può amare me. Un tipo non può amare più di quanto possa amare il numero nove. Io non posso essere amato dalla rosa inglese o dalla nuova donna americana. Ciò che può avvenire è che l'amore per me sia una delle caratteristiche di una persona-tipo. In tal caso, tutte quante le repliche di questo tipo amerebbero me. Ove ciò accadesse, potrebbe esserci amore reciproco tra me e una di queste persone-ricorrenza. Potrebbe anzi esserci amore reciproco tra me e due o tre di queste persone. Ma, come afferma Williams, questo amore ci distoglierebbe dall'amare la persona-tipo a causa della crescen te importanza di avere storie comuni. Torniamo ora alle tesi principali di Williams. Egli avanza l'idea che quella di chi dice che amare una persona significa amare il suo corpo è tm'affermazione fuorviante che, però, contiene una profonda verità. Se oggetto del nostro amore non fosse un corpo particolare, egli suggeri sce, noi ameremmo una persona-tipo. Tale amore sarebbe molto diverso da quello comune e, inoltre, sarebbe inquietante. Esso metterebbe a re pentaglio molte delle cose che noi apprezziamo. Io accetto quest'ultima tesi, ma nego le altre. Sulla scia di Quinton, dubito che qualcuno ami un corpo particolare. Una passione puramente lisica è passione per un tipo di corpo o per un corpo-tipo e, come tale, ha i tratti inquietanti dell'amore per una persona-tipo. Quando di due
gemelli identici ne morisse uno, questa passione non potrebbe riversar si, senza alcun dolore, sul corpo dell'altro gemello. Un'altra tesi che ho negato è che, se il nostro amore non è per un cor po particolare, ciò che amiamo debba essere una persona-tipo. Questa circostanza risalta maggiormente nell'alternativa immaginaria al mondo reale elaborata da Nagel: qui le persone vengono replicate frequente mente, ma mantenendo sempre una corrispondenza biunivoca. In que sto mondo la relazione R traccia linee che collegano molti corpi diversi,
380
L'identità personale
ma non assume mai una forma ramificata. Io sostengo che in questo mondo l'amore comune sopravvivrebbe immutato. Se la concezione di Nagel è falsa, in questa società le persone passerebbero ogni anno in un nuovo corpo, ma resterebbero comunque persone particolari. Se la con cezione di Nagel è vera, a passare in un nuovo corpo sarebbero delle persone-sequenza. Ma l'�more resterebbe tuttavia amore per un indivi duo particolare. Una persona-sequenza è un individuo. Se le mie argomentazioni sono corrette, io posso continuare a soste nere la concezione che ho difeso. Ciò che conta non è l'esistenza conti nuativa di un corpo particolare, ma la relazione R, quale che ne sia la causa.
100. La sopravvivenza parziale
Prima di accingermi a considerare l'esistenza così com'è, esaminerò brevemente un'ultima serie di casi immaginari. Il primo è il contrario della divisione: la fusione. L'identità è una relazione logicamente biuni voca e di tipo tutto-o-nulla. Come la divisione mostra che nella soprav vivenza ciò che conta non necessariamente si configura come una rela zione biunivoca, così la fusione mostra che ciò che conta può avere dei gradi. La fusione si verificava nei casi centrali dello spettro combinato; là, la persona che si costituiva era psicologicamente collegata, e all'incirca nella stessa misura, sia con me che con qualcun altro. Noi possiamo immaginare un mondo in cui la fusione sia un processo naturale: due persone si incontrano; mentre non sono consapevoli di ciò che accade loro, i loro due corpi diventano un corpo solo e quella che si sveglia è una persona sola. Quest'unica persona può benissimo avere il quasi-ricordo di aver vis suto entrambe le vite delle due persone originarie. Non c'è bisogno che perda alcun quasi-ricordo. Alcune cose, però, le deve perdere. Due per sone qualsiasi che si fondessero in una sola, avrebbero caratteristiche differenti nonché intenzioni e desideri tra loro diversi. Come sarà possi bile fare di tutto ciò una cosa sola? Ecco alcune risposte possibili. Alcune di queste caratteristiche sa ranno compatibili e coesisteranno nell'unica persona che si costitui rà. Alcune, però, saranno incompatibili. Ebbene, queste, se dotate di ugual forza, si annulleranno; se dotate di forza diversa, vedranno pre valere le più forti, però indebolite. Questi effetti potrebbero essere prevedibili al pari di quelli regolati dalle leggi che governano geni do minanti e recessivi.
Che cos'è che conta?
381
Non sarà difficile fornire qualche esempio. Io ammiro il Palladio e in tendo visitare Venezia. Sono in procinto di fondermi con una persona che ammira Giotto e che intende visitare Padova. La persona che si co stituirà con la fusione avrà entrambe queste predilezioni ed entrambe le intenzioni. Poiché Padova è vicina a Venezia, potrà senz'altro realizzarle entrambe. Supponiamo ora che io ami Wagner e che dia sempre il mio voto a un socialista. L'altra persona odia Wagner e vota sempre per un conservatore. La persona che si costituirà con la fusione sarà un elettore disorientato e fluttuante. Al pari della divisione, anche la fusione non quadra con la logica del l'identità. Dell'unica persona che si costituirà con la fusione non si può dire che sia identica a ciascuna delle due persone originarie. La migliore descrizione consiste nel dire che essa non è né l'una né l'altra. Ma, come mostra il caso della divisione, questa descrizione non comporta che que ste persone debbano considerare la fusione equivalente alla morte. Quale dovrebbe essere il loro atteggiamento? Se fossimo sul punto di sottoporci a una fusione di questo tipo, qualcuno di noi potrebbe consi derarla equivalente alla morte. Ciò è meno assurdo che giudicare la divi sione equivalente alla morte. Quando io mi divido, le due persone che si costituiranno saranno in tutto identiche a me. Quando invece mi fondo con un altro, la sola persona che si costituirà non sarà completamente uguale a me. Questa circostanza fa sì che, di fronte alla fusione, per noi diventi più facile pensare: «lo non sopravvivrò», e quindi continuare a considerare la sopravvivenza come una realtà del tipo tutto-o-nulla. Come ho argomentato, in tutto ciò non c'è alcun fatto del genere. I due tipi di connessione, fisica e psicologica, possono ricorrere in tutti i gradi possibili. Ebbene, come dovrei considerare un caso in cui queste relazioni ricorrono con gradi di intensità ridotti? Si potrebbe dire: «Supponiamo che tra me e una persona costitui tasi così ci sia all'incirca la metà della quantità consueta di queste due relazioni. Questo risultato sarebbe positivo all'incirca la metà della comune sopravvivenza. Se, rispetto alla quantità consueta, di quelle relazioni ce ne fossero nove decimi, il risultato sarebbe positivo nella misura di nove decimi». Questo modo di vedere è troppo rozzo. Nel giudicare che valore ab bia per me un particolare caso di fusione, dobbiamo sapere quanto sia stretta la mia relazione con la persona costituitasi. Dobbiamo sapere al tresì se questa persona avrà delle caratteristiche che io giudico positiva mente o negativamente. La concezione appena descritta trascura erro neamente questa seconda questione. Io suggerisco la seguente concezione. Il valore che ha per me la mia relazione con una persona che si costituisca dipende sia (l) dal grado di connessione tra me e questa persona, sia (2) dal valore che hanno ai miei occhi le caratteristiche fisiche e psicologiche di questa persona. Suppo-
382
L'identità personale
niamo che, mediante l'ipnosi, mi si facciano perdere cinque caratteristi che indesiderate: disordine, pigrizia, paura di volare, vizio di fumare e tutti i ricordi della mia vita scapestrata. Certo, la connessione psicologi ca che in tal modo si stabilisce è molto meno piena, ma ciò è largamente compensato dall'eliminazione di caratteristiche negative. Sono ben pochi quelli che si giudicano perfetti. Nella maggior parte dei casi, noi saremmo ben contenti di certi cambiamenti delle nostre ca ratteristiche fisiche e mentali. Se tali cambiamenti fossero dei migliora menti, accoglieremmo con favore una riduzione di entrambi i tipi di connessione. Dovrei evitare la fusione, se prevedibilmente comportasse l'eliminazione di caratteristiche che apprezzo e l'acquisizione di caratte ristiche che trovo ripugnanti. Supponiamo che ci siano solo due cose che danno senso alla mia vita: la lotta per il socialismo e le qualità che io trovo in Wagner. In questo caso, aborrirei la fusione con un conservato re che odi Wagner. Poiché la persona che verrebbe a costituirsi sarebbe un elettore disorientato e fluttuante, la mia relazione con lei potrebbe essere negativa quasi quanto la morte. Un altro caso di fusione, invece, potrei giudicarlo più positivo della comune sopravvivenza anche se pre vede un cambiamento .di pari entità. E ciò nel caso in cui considerassi tutte le modifiche intervenute come dei miglioramenti. Quelle modifi che infatti potrebbero apparirmi tutte o come aggiunta di una caratteri stica che apprezzo o come eliminazione di una caratteristica che dete sto. Al pari dei matrimoni, le fusioni possono essere o grandi successi o grandi disastri. Consideriamo ora delle persone molto meno reali. Esse sono esatta mente come noi, tranne che per ciò che concerne il loro metodo di ri produzione. Come le amebe, si riproducono mediante un processo di divisione naturale. L'esistenza di queste persone può essere rappresen tata dal seguente diagramma. Le linee del diagramma rappresentano le traiettorie spazio-temporali disegnate dai corpi di queste persone. Chiamerò ciascuno di questi seg menti ramo e l'intera struttura albero. Ciascun ramo corrisponde a quel la che si considera la vita di una persona. La prima persona è Eva. Le due successive sono Secunda e Tertia. La cinquantesima persona in cima all'albero è Quinquagesima. All'inizio della loro vita, Secunda e Tertia hanno una connessione psi cologica piena con Eva, così com'era appena prima di dividersi. Come ho argomentato, la relazione di Eva con ciascuna di queste due persone è positiva all'incirca quanto lo è la comune sopravvivenza. Lo stesso si dica di ogni altra divisione nella storia di questa comunità.
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Che dire della relazione tra Eva e le persone più lontane da lei nell'al bero, per esempio Quinquagesima? Con Quinquagesima Eva ha un rapporto di continuità psicologica. Tra le due ci saranno catene ininterrotte, tra loro collegate, di connes sioni psicologiche dirette. Così Eva ha delle quasi-intenzioni che vengo no tradotte in realtà da Tertia, la quale a sua volta ha delle quasi-inten zioni che vengono tradotte in realtà da Sexta, e così via fino a Quinqua gesima. E Quinquagesima ha dei quasi-ricordi di gran parte della vita della persona che la precede immediatamente, la quale a sua volta ha dei quasi-ricordi di gran parte della vita di chi la precede immediata mente, e così via fino a Eva. Anche se Quinquagesima ha una relazione di continuità psicologica con Eva, tra le due potrebbe non esserci alcuna connessione psicologica specifica. Perché ci sia connessione, occorre che ci sia un collegamento diretto. Se, per altri versi, queste persone sono simili a noi, Eva non può avere un collegamento stretto con tutti coloro che costituiscono un im maginario albero indefinitamente lungo. Con il passare del tempo i qua si-ricordi si affievoliscono e scompaiono. Le quasi-ambizioni, una volta soddisfatte, saranno soppiantate da altre. Le quasi-caratteristiche gra dualmentè cambieranno. Perciò quanto più, nell'albero, una persona è lontana da Eva, tanto meno dirette saranno le sue connessioni con lei. Se ne sarà distante quanto basta, potrebbe non avere con lei nessuna connessione diretta e specifica. Assumiamo che questo sia vero di Eva e di Quinquagesima. Ho detto specifica perché di tipi di collegamento diretto ce ne sono vari. Da Eva Quinquagesima erediterebbe molti ricordi di fatti, per esempio del fatto che, al pari degli altri, anche lei si riproduce per divi-
384
L'rdentità personale
sione. Erediterebbe altresì molte abilità generali, come quella di parlare o di nuotare. Ma non erediterebbe nessuna delle caratteristiche psicolo giche che distinguono Eva dalle altre persone di questa comunità. Tra Eva e Quinquagesima c'è continuità psicologica, ma non c'è alcu na connessione psicologica specifica. Il caso solleva il problema che ho menzionato sopra: qual è l'importanza relativa di queste due relazioni? Io ritengo che contino entrambe. Può darsi che altri ritengano che una di esse conti più dell'altra. Personalmente non conosco alcun argo mento che avalli questa credenza. Assumerò pertanto che nessuna delle due sia più importante dell'altra. Ciò non significa assumere che la loro importanza sia esattamente uguale. Un interrogativo come quello che ci siamo posti potrebbe non avere una risposta esatta. Poiché in seguito ciò sarà importante, prenderò in esame una conce zione diversa. Secondo tale concezione, a contare non è la connessione, ma solo la continuità. Se in futuro ci sarà una persona che abbia una re lazione di continuità psicologica con me come sono ora, non avrebbe al cuna importanza che tra me come sono ora e questa persona non ci sia alcuna connessione psicologica diretta. Come ho detto, alcune volte l'attenuarsi della connessione può riusci re gradito o essere un miglioramento. Ma non sarebbe una tesi sosteni bile quella di chi affermi che l'assenza di ogni connessione psicologica non ha alcuna importanza. Si pensi, innanzitutto, all'importanza della memoria. Se la nostra è stata una vita degna di essere vissuta, per lo più noi apprezziamo enormemente la nostra capacità di ricordare molte del le nostre esperienze passate. Supponiamo che io sappia di essere sul punto di perdere tutti i miei attuali ricordi del passato. Tale perdita non distruggerebbe la continuità della memoria. Ad assicurare tale continui tà sono le catene di molteplici ricordi che, giorno dopo giorno, si colle gano l'uno all'altro. Supponiamo che io sappia che, di qui a due giorni, i miei soli ricordi saranno quelli relativi alle esperienze che avrò domani. Ebbene, secondo la concezione appena formulata, non venendo meno la continuità della memoria, ci resterà tutto ciò che conta. Il fatto che, di qui a due giorni, perderò tutti i ricordi della mia vita passata, non do vrebbe avere per me alcuna importanza. Molti di noi dissentirebbero energicamente. Quella di perdere tutti i ricordi diretti della nostra vita passata è un'eventualità di cui ci rammaricheremmo profondamente. Consideriamo ora la continuità dei nostri desideri e delle nostre in tenzioni. Supponiamo che in questo momento io ami certe persone. Eb bene, io potrei cessare di amare tutti quanti senza che ci sia alcuna inter ruzione nella mia continuità psicologica. Ma un cambiamento del gene re mi arrecherebbe un grande dispiacere. Supponiamo altresì che io de-
Che cos'è che conta?
385
sideri intensamente raggiungere certi obiettivi. Avendo questi vivi desi deri, sarei dispiaciuto che vengano rimpiazzati da altri. Ora devo preoc cuparmi di più della realizzazione di ciò che mi sta a cuore ora. Poiché mi sta maggiormente a cuore l'appagamento dei desideri attuali, mi di spiacerebbe perdere questi desideri e acquistarne di nuovi. Più in gene rale, io desidero che la mia vita abbia certi tipi di unità complessiva; che si sottragga, nella sfera delle mie aspirazioni e dei miei interessi, all'epi sodicità e alle fluttuazioni continue. Tali fluttuazioni sono bensì compa tibili con la piena continuità psicologica, ma allenterebbero la connes sione psicologica. Questa è un'altra ragione per cui tale allentamento mi dispiacerebbe. E i cambiamenti di questo tipo dispiacerebbero alla maggior parte di noi. Si consideri infine la continuità di carattere. Tale continuità non verrà meno se il nostro carattere muta in modo naturale. Ma nella maggior parte dei casi certi aspetti del nostro carattere noi li apprezziamo e desi deriamo che non mutino. A ncora una volta, noi desideriamo la connes sione psicologica, non solo la continuità. Ho descritto tre ragioni per le quali la maggior parte di noi respingerebbe la concezione secondo cui la connessione psicologica non ha alcuna importanza. Queste riflessioni, presentando delle ragioni valide, bastano a refutare questa concezione. Noi ammettiamo che la connessione non è tutto- conta anche la conti nuità psicologica-; ma dobbiamo respingere la concezione secondo cui i: importante solo la continuità.
l O l. Gli io successivi
Ho immaginato delle persone che sono esattamente come noi tranne ,
he per il fatto che si riproducono per divisione naturale. Ora avanzerò
qualche idea su come queste persone potrebbero descrivere le loro in crrelazioni. Ciascuna persona è un io. Eva può pensare a una qualsiasi persona che comunque rappresenti un segmento dell'albero come a uno degli io suoi discendenti. Questa espressione implica la continuità psico l
logica in direzione del futuro. A differenza di Eva, Tertia ha degli io che discendono da lei solo nella metà di destra dell'albero. Per indicare la continuità in direzione del passato, queste persone possono servirsi del l'espressione «io ancestrale». Gli io ancestrali di Quinquagesima sono lutte le persone che si trovano sull'unica linea che la collega con Eva. Poiché la continuità psicologica è una relazione transitiva, o nell'una "nell'altra direzione del tempo, essere un io ancestrale di ed essere un io , h c discende da sono pure transitive. Ma la continuità psicologica non è t 111a relazione transitiva, se ammettiamo che prenda entrambe le direzio-
386
L'zdentità personale
ni in un unico argomento. Quarta e Septima sono entrambe in relazione di continuità psicologica con Eva, ma da ciò non segue, anzi è falso, che siano in relazione di continuità psicologica tra loro. Avanzerò ora qualche idea circa il modo in cui queste persone po trebbero descrivere i diversi gradi di connessione psicologica. Noi po tremmo dare alle espressioni il mio io passato e il mio io futuro un signi ficato nuovo. Nella loro accezione comune, esse indicano me stesso nel passato o nel futuro. Secondo il nuovo uso che ne facciamo noi, invece, si riferiscono non a me stesso, ma a quelle altre persone la cui relazione con me è di connessione psicologica. Così, l'espressione «uno dei miei io passati» implica l'esistenza di un certo grado di connessione. Per in dicare i diversi gradi, c'è la seguente serie di espressioni: «il mio più stretto io passato», «uno dei miei più stretti io passati», «uno dei miei più lontani io passati», «a malapena uno dei miei io passati» (ho dei quasi-ricordi relativi a pochissime sue esperienze) e, infine, «estraneo ai miei io passati: solo un io ancestrale». Questa è la serie delle espressioni riguardanti il passato che potrebbero essere usate da Quinquagesima. Eva potrebbe usare una serie analoga riguardante il futuro. Chiaramente questo modo di parlare si attaglierebbe alle mie immagi narie persone e consentirebbe loro di descrivere con maggior precisione le interrelazioni che ricorrono tra loro. Esso fornirebbe altresì una de scrizione nuova e plausibile del caso immaginario della mia divisione. Anche se io non sopravvivo alla mia divisione, le due persone che ven gono a costituirsi sono due miei io futuri; essi mi sono vicini così come mi è vicino il mio io di domani. Analogamente, ciascuno di essi può rife rirsi a me come a un ugualmente vicino io passato. (Essi possono avere in comune un io passato senza essere lo stesso io.) Consideriamo ora un altro genere di persone immaginarie che si ri producono sia per fusione che per divisione, e che lo fanno spesso. Ogni autunno si fondono e ogni primavera si dividono. Le loro relazioni possono venir raffigurate come segue:
i
tempo
/
Y- '-+- primavera -
,
� /
A--/..-+- autunno --+--autunno ' /
Che cos'è che conta?
387
A è la persona la cui vita è rappresentata dal ramo a tre linee. L'albero a due linee rappresenta le vite che sono in relazione di continuità psicolo gica con quella di A. Ciascuna persona ha il proprio albero a due linee che è collegato con gli alberi degli altri ma è diverso da essi. Per queste immaginarie persone, le espressioni «un io ancestrale» e «un io discendente» coprirebbero un'area troppo vasta per essere di grande utilità. Potrebbero esserci coppie di date tali che chi è vissuto anteriormente alla prima data è un io ancestrale di tutti quelli che sono vissuti dopo la seconda. E poiché la vita di ciascuna persona dura solo sei mesi, la parola «io» coprirebbe un'area troppo ridotta per poter far fronte a tutto il lavoro che fa per noi. A fare, per queste persone,. gran parte del lavoro, dovrebbe essere un parlare che faccia posto a io passati c futuri. Il modo di parlare che ho appena proposto ha un difetto. L'espressio ne «un io passato di» implica la connessione psicologica. E le varianti di questa espressione possono essere usate per indicare i vari gradi di con nessione psicologica. Ma ciò che distingue gli io successivi non è un ri dotto grado di connessione. A distinguere gli io sono le fusioni e le divi sioni, e quindi non possiamo servirei di quelle espressioni per indicare una ridotta connessione nell'ambito di una singola vita. Questo difetto non interesserebbe alle persone immaginarie appe na descritte. Esse si dividono e si uniscono così frequentemente, e di conseguenza la loro vita è così breve, che nell'ambito di un'unica vita la connessione psicologica ricorrerebbe sempre con un'intensità mol elevata. Consideriamo infine un altro genere di persone immaginarie. Ancora 1 ma volta, esse differiscono da noi solo quanto al metodo di riproduzio ne. Esse non si riproducono. Nel loro mondo non c'è né riproduzione sessuale, né divisione e fusione. C'è una quantità di corpi perenni che gradualmente cambiano aspetto. E le connessioni psicologiche dirette e specifiche ricorrono, come prima, solo per periodi di tempo limitati, ad l·sempio cinquecento anni. Il concetto è illustrato dal diagramma che se gue: l ,e due ombreggiature rappresentano i gradi di connessione psicologica 11ci loro due punti centrali. Queste persone non potrebbero adottare il modo di pensare da me lo
proposto. Poiché la loro è una continuità psicologica priva di biforca ;.ioni, essi dovrebbero considerarsi immortali. In un certo senso lo sono. Ma quello che devono fare è di tracciare un'altra distinzione. Queste persone avrebbero una ragione per pensare se stesse come 1mmortali. Le parti di ciascuna «linea» sono tutte psicologicamente con-
i
tempo
t
tinue. Ma solo tra le parti adiacenti l'una all'altra ci sono connessioni psicologiche dirette e specifiche. Questa circostanza fornisce a queste persone una ragione per non pensare ciascuna linea come corrispon dente a un'unica vita indifferenziata. Qualora la vedessero così, non avrebbero alcuna possibilità di far posto a queste connessioni psicologi che dirette. Qualora, per esempio, una di queste persone dicesse: «Ho trascorso un certo periodo di tempo esplorando l'Himalaia», quelli che l'ascoltano non avrebbero titolo ad assumere, per esempio, che chi parla ha dei ricordi di quel periodo, che il suo carattere di allora e quello at tuale in qualche misura sono simili, o che si tratta di un individuo che, in questo momento, sta concretizzando i piani o le intenzioni che aveva allora. La parola «io», non portando con sé nessuna di queste implica zioni, per queste persone immortali non avrebbe l'utilità che ha per noi. Per dare loro un modo di parlare più corretto, correggo la mia prece dente proposta. La distinzione tra io successivi può esser fatta in riferi mento non al ramificarsi della continuità psicologica, ma ai gradi di con nessione psicologica. Poiché questa connessione è questione di grado, la determinazione di queste distinzioni può essere lasciata alla scelta del parlante e si può ammettere che muti in relazione al contesto. Poiché ora queste distinzioni vengono fatte all'interno di una vita sin gola, ci siamo riavvicinati molto all'uso comune delle espressioni «il mio io passato» e «il mio io futuro». In base al modo di parlare da me pro posto, noi usiamo il termine «io» e gli altri pronomi per indicare solo quelle parti della nostra vita con cui, quando parliamo, abbiamo le con nessioni psicologiche più forti. Una volta che tali connessioni abbiano subìto un sensibile allentamento - quando cioè si sia verificato un signi ficativo cambiamento di carattere, di stile di vita, di credenze o di ideali -possiamo dire: «Non sono stato io a fare questo, ma un mio io prece-
Che cos'è che conta?
389
dente». E allora potremo descrivere in che modo e in che misura siamo legati a questo io passato. Questo modo di esprimersi non si attaglierebbe solo a queste immagi narie persone immortali; spesso, anzi, è utile e naturale anche nella no stra esistenza. Eccone alcuni esempi tratti da due scrittori tra loro molto diversi: Mentre amiamo, siamo incapaci di agire come degni predecessori dell'essere che saremo prossimamente e che non amerà più.59 E il timore d'un avvenire in cui ci saranno tolti la vista e la compa gnia di coloro che amiamo e dai quali traiamo oggi la nostra gioia più dolce, quel timore, lungi dal dissiparsi, si accresce, se al dolore d'una simile privazione pensiamo che si aggiungerà ciò che per noi sembra al presente ancora più crudele: non sentirla come un dolo re, restarle indifferente; perché allora il nostro «io» sarebbe muta to... Sarebbe dunque una vera e propria morte di noi stessi, morte seguita è vero - da resurrezione, ma in un «io» differente e al cui amore non possono innalzarsi le parti dell'antico «io» condannate a morire.60 -
Il nostro affetto per i morti non si indebolisce perché sono morti loro, ma perché siamo noi stessi a morire. Albertine non aveva nul la da rimproverare al suo amico. Chi ne usurpava il nome ne era so lamente l'erede ... Il mio nuovo «io», mentre cresceva all'ombra dell'antico, l'aveva spesso udito parlare di Albertine: per mezzo suo... gli pareva di conoscerla, gli era simpatica...; ma era soltanto una tenerezza di seconda mano.61 Nadja scriveva nella sua lettera: «Quando tornerai ...»: Ma in que sto sta l'orrore: che non ci sarà ritorno... Arriverà un uomo nuovo, sconosciuto, che porta il cognome del marito e lei vedrà che l'altro uomo, il primo e unico, quello che lei ha aspettato per quattordici anni chiudendosi alla vita, quell'uomo non esiste più.62 Innokentij ebbe compassione della moglie e promise che sarebbe venuto... Provava una sensazione di pietà, ma non per la moglie con la quale adesso viveva e non viveva e dalla quale si preparava a partire di nuovo fra qualche giorno, bensì per quella ragazza della settima classe, bionda, con i riccioli fino alle spalle...63 ( :ome questi passi suggeriscono, le nostre emozioni possono avere per ggetto non un'altra persona considerata in modo atemporale, ma ,,n'altra persona presa in un certo periodo della propria vita. Un esem-
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L'zdentità personale
pio quotidiano di questo fatto è il seguente: una coppia può benissimo avere la netta percezione di amarsi ancora; ma quando i due si chiedono se sono ancora innamorati, la domanda può suonare loro imbarazzante; essi sentono di volersi ancora bene, ma il loro comportamento reciproco e i sentimenti che suggerisce loro la presenza dell'altro non danno loro alcuna conferma di ciò. Se essi distinguessero tra io successivi, la loro perplessità verrebbe meno: si renderebbero conto che si amano recipro camente e che sono innamorati ciascuno dell'io precedente dell'altro. Quando si parla di io che si succedono l'uno all'altro si corre sempre il rischio di essere fraintesi o intesi troppo alla lettera. La cosa andrebbe pensata in analogia con il modo in cui suddividiamo la storia di una na zione, ossia con il nostro intenderla come storia di nazioni successive: l'Inghilterra anglosassone, per esempio, quella medievale e quella dei Tudor.64 Questo modo di esprimersi presenta un altro limite: è adatto solo a quei casi in cui si verifica una netta discontinuità che traccia il confine tra due io. Ma la connessione psicologica può presentarsi a livelli di in tensità ridotta senza che ricorrano di queste discontinuità. Il linguaggio degli io successivi, pur essendo meno rigido di quello dell'identità, non può venir usato per esprimere tali graduali attenuazioni del grado di connessione psicologica. Qui occorre parlare esplicitamente di gradi di connessiOne. A questo punto abbandono i casi immaginari per tornare a occupar mi della vita reale. Sosterrò che, se mutiamo la nostra concezione della natura dell'identità personale, possono mutare anche le nostre credenze al riguardo di che cosa è razionale, nonché di che cosa è moralmente giusto o sbagliato.
XIV. Identità personale e razionalità
102. La tesi estrema
Riprendiamo in esame la teoria dell'interesse personale. Essa sostiene che, per ciascuna persona, c'è un fine ultimo sommamente razionale: che le cose vadano per lei nel migliore dei modi possibili. Un agente ra zionale dovrebbe non solo avere una parzialità temporalmente neutrale a proprio favore, ma anche farne la norma suprema del proprio com portamento. Per una persona è irrazionale fare ciò che ritiene esser peg gio per lei. Alcuni autori affermano che, se la concezione riduzionistica è vera, noi non abbiamo alcuna ragione per riservare un interesse particolare al nostro futuro personale. È quella che io chiamo tesi estrema. Butler ha scritto che, secondo una versione riduzionistica della concezione di Locke, «sarebbe un errore... immaginare... che il nostro io attuale nutra interesse per quello che ci accadrà domani».65 Se la si intende in senso letterale, quella che ci troviamo di fronte è una previsione. Ma probabil mente quello che Butler voleva dire è che, se la concezione riduzionisti ca è vera, l'interesse per il nostro futuro personale non è razionalmente richiesto. Noi non avremmo alcuna ragione di averlo. Sidgwick ha avan zato tesi analoghe a proposito della concezione di Hume. Secondo tale concezione «l'io permanente e identico non è un fatto, ma una finzio ne»; «l'io è semplicemente una... serie di sentimenti». Sidgwick si chie deva: Perché mai... una parte di tale serie di sentimenti ... dovrebbe riser vare a un'altra parte della stessa serie un interesse maggiore di quello che riserva a tutte le altre?66 Wiggins avanza l'idea che questo interrogativo non abbia risposta.67 E Madell scrive: Owiamente io ho tutte le ragioni di preoccuparmi, se la persona a
L'identità personali'
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cui toccherà di soffrire sono io, ma non è affatto ovvio che abbia una qualche ragione di preoccuparmi del fatto che la persona a cui toccherà di soffrire abbia un certo insieme di impressioni mnemo niche... E aggiunge:
... sentirsi dire che, in un contesto del genere, essere me non impli ca altro che questo...non ci dà alcun chiarimento.68 Altri autori non hanno dubbi. Secondo la concezione riduzionistica, l'i dentità personale consiste solo nella continuità fisica e psicologica. Swinburne sostiene che, se l'identità personale non consiste se non in questi due tipi di continuità, di fronte alle due prospettive di vivere o di morire, noi dovremmo restare indifferenti. Come egli dice, «certamente in se stessa tale continuità non ha alcun valore».69 Swinburne respinge la concezione riduzionistica. Ma ci sono almeno due riduzionisti che avanzano tesi analoghe. Perry afferma che se io, semplicemente, so che qualcuno soffrirà un dolore, ho una ragione per impedirlo, se ciò mi è possibile. Ma nel caso in cui venissi a sapere che la persona a cui toccherà di soffrire sono io, allora, come pensa la mag gior parte di noi, io avrei una «ragione addizionale» per impedire quel dolore. Perry scrive che, secondo l'interpretazione riduzionistica dell'i dentità personale, sembra non esserci nulla che possa giustificare questa tesi. Io ho una ragione per impedire il dolore di una persona a me total mente estranea e, a meno che ciò interferisca con l'appagamento dei miei progetti attuali, ho solo questa medesima ragione anche per impe dire il mio dolore futuro. Il fatto che un certo dolore sia destinato a es sere il mio per sé non mi dà una ragione in più per prevenirlo.70 Su que sto punto conviene anche Wachsberg.71 Dobbiamo accettare questa tesi estrema? Prima di rispondere mi tocca presentare qualche altra riflessione a commento di una distin zione elaborata in precedenza. Una cosa è chiedersi che effetti avreb be sui nostri atteggiamenti e sulle nostre emozioni il fatto di diventa re riduzionisti, e un'altra chiedersi se, qualora la concezione riduzio nistica fosse vera, tali atteggiamenti o emozioni sarebbero giustificati. Come ho osservato, qualora cessassi di credere alla concezione non riduzionistica, diventerei meno interessato al mio personale futuro. Ma esso continuerebbe a starmi a cuore molto più di quanto non mi starebbe a cuore il futuro di un estraneo. Pur preoccupandomi meno del mio futuro, qualora sapessi che il futuro mi riserva un grande do lore, ne sarei nondimeno profondamente angustiato. Se gli altri di-
Identità personale e razionalità
393
vcntassero riduzionisti, si verificherebbero all'incirca gli stessi effetti. Questo è quanto dobbiamo aspettarci che accada, quale che sia la no stra concezione. A selezionare questo interesse speciale per il proprio luturo sarebbe l'evoluzione. Gli animali che ne fossero privi avrebbe ro più probabilità di morire prima di trasmettere i propri geni. Tale interesse, come fatto naturale, resterebbe anche nel caso in cui deci dessimo che non ha giustificazione. Noi possiamo, bensì, riuscire a tacitarlo per un po' riflettendo intensamente su questi argomenti; ma hen presto esso tornerebbe a farsi sentire. Come ho affermato, un atteggiamento, se ha una spiegazione di tipo evolutivo, costituisce un fatto neutrale che non va né a favore né contro la tesi secondo cui quell'atteggiamento è giustificato. C'è, però, un'ecce zione. Si tratta della tesi secondo cui il fatto che tale atteggiamento ce l'abbiamo tutti quanti costituisce una ragione per considerarlo giustifi cato. È questa tesi a essere compromessa da una spiegazione di tipo evo lutivo. Stante l'esistenza di questa spiegazione, quell'atteggiamento ce l'avremmo tutti quanti, anche se non fosse giustificato. Pertanto, il fatto che ce l'abbiamo non può costituire una ragione per ritenerlo giustifica to. Se lo sia, è un problema aperto in attesa di soluzione. Ebbene, dovremo accettare la tesi estrema secondo cui, se la conce zione riduzionistica è vera, non abbiamo alcuna ragione per avere una sollecitudine speciale per il nostro futuro? Analizziamo le ragioni addot a suo favore da Swinburne. Egli afferma che la continuità fisica e
te
quella psicologica in sé non hanno alcun valore. Di questa tesi e di altre consimili tempo fa ho scritto: Si tratta di tesi troppo forti. Perché mai la continuità psicologica dovrebbe non avere alcun significato razionale? Un significato glie lo si deve sicuramente riconoscere anche secondo la prospettiva non riduzionistica. Qualora non disponessimo di alcuna forma di
continuità, anche ammesso che ci resti l'identità non sapremmo che cosa farcene. Senza i legami rappresentati da memoria e inten zione, non potremmo né agire né progettare di agire; non potrem mo nemmeno pensare. 72 Come scrive Wachsberg/3 questa mia replica è priva di efficacia. Swin lmrne ritiene che l'identità personale sia un fatto ulteriore profondo, di stinto dalla continuità fisica e psicologica, e reputa che sia questo fatto ulteriore a darci delle ragioni per nutrire un interesse speciale nei con fronti del nostro personale futuro. lo ho affermato che, senza continuità psicologica, noi non possiamo né pensare né agire. Tutto ciò non costi tuisce un'obiezione alla prospettiva di Swinburne. Questi può bensì
394
L'identità personale
convenire che, se si aggiunge al fatto ulteriore dell'identità personale, la continuità psicologica riveste una grande importanza; ma ciò non dimo stra che, in assenza di questo fatto ulteriore, la continuità psicologica giustifichi un interesse speciale nei nostri confronti. In quell'occasione ho anche scritto: La continuità può sembrare cosa di poco conto se paragonata con quel >. Questa tesi è plausibile quando la si applica a casi come quello in cui mi è impossibile salvare due persone entrambe in perico lo. Il principio (A) implica che, non salvando entrambe le persone, agisco in modo moral mente sbagliato. Qui il difetto sta nel principio, non nel mondo. Se è vero che, qualora fossimo tutti puri operatori di bene, l'esito sarebbe peggiore, il consequenzialismo implica che non possiamo evitare di agire in modo moralmente sba gliato. Anche se un consequenzialista può fare appello a molti principi morali diversi, a implicare questa conclusione è un singolo principio: quello secondo cui è sbagliato fare ciò che crediamo renderà l'esito peggiore. Ma se, come sostiene Nagel, possono esserci ca si in cui non possiamo evitare di agire in modo moralmente sbagliato, la spiegazione non è necessariamente che c'è un conflitto tra due principi diversi. La spiegazione non può fare appello semplicemente al fatto che è causalmente impossibile agire contemporaneamente in due modi tra loro diversi. Essa deve fare appello a qualcosa di più profondo: a qualcosa di analogo al conflitto tra due principi diversi. Nel caso che stiamo considerando la spie gazione potrebbe essere di questo tipo. C'è un conflitto, non tra due principi diversi, ma tra quello che sarebbe l'insieme migliore di atti e quello che sarebbe l'insieme migliore di desideri e di disposizioni. Stiamo assumendo che, stanti i fatti riguardanti la natura uma na, è causalmente impossibile compiere l'insieme di atti che renderebbe l'esito migliore e, insieme, avere i desideri e le disposizioni il cui possesso renderebbe l'esito migliore. Que-
Note
642
sto tipo di conflitto può essere considerato sufficientemente simile a quello prodotto dal conflitto tra due principi diversi. E qui si può dire che il difetto sta, non nel principio se condo cui è sbagliato fare ciò che crediamo renderà l'esito peggiore, ma nel mondo. Un consequenzialista potrebbe riprendere una parte della riflessione di Nagel e dire: > ([1972], pp. 174-175). La «confutazione>> di Sidgwick da parte di Moore consiste nel negare che queste espressioni abbiano senso. Moore aggiunge poi: «Per nessuna teoria si potrebbe desiderare una confutazione così completa>> (ivi, p. 174). Eppure Moore aveva appena affermato che «bene>> è una parola che non può essere definita. Come giustamente esclama Mackie [1976], p. 323, vien voglia di dire: . 15
H. Rashdall [1907], p. 45.
16 B. Williams [1987], pp. 9-32, p. 24. 17
8 1
Cfr. T. Nage! [1970]. lvi, p. 45, (corsivo mio).
19 lvi, p. 74. 2° Cfr. B. Williams [1987], p. 30: «Certe cose, ad esempio un attaccamento profondo ad
altre persone, si esprimono necessariamente nel mondo in modi che non possono rispec chiare nello stesso tempo il punto di vista imparziale, e che anzi corrono il rischio di essere in contrasto con esso. Esse corrono questo rischio per il fatto stesso di esistere; d'altro
Note
648
canto, se non esistessero cose del genere, la vira di un uomo sarebbe priva di quel senso e di quella convinzione che sono indispensabili per indurlo a essere fedele alla vita stessa. Perché qualcosa, ivi compresa l'adesione al sistema imparziale, abbia un senso, occorre che la vita abbia un senso; ma se essa ce l'ha, non può accordare un'importanza suprema al sistema imparziale, sicché la presa che questo esercita su di essa sarà, alla fine, insicura>>. 21 R.M. Hare [1971], pp. 214-226 e pp. 233-247. 22 Cfr. T. Nagel [1986], cap. 4. 23 Cfr.]. Bentham [1962], cap. 4, secondo paragrafo. 24 C.I.Lewis [1964], p. 483. 25 26 27 28
D. Hume [1971], p. 568. Prendo a prestito questo diagramma da G. Ainslee per il tramite di R. Nozick. Cfr. Strotz [1955-56].
Cfr. Platone [1984], vol. V. 29 A.C. Pigou [1932], p. 23.
30 D. Hume [1971], p. 568. 31 lvi, p. 437. 32]. Rawls [1982], p. 346. 33 Questa versione del caso mi è stata suggerita da G. Harman. 34]. Rawls [1982], p. 248. 35 D. Hume [1971"], vol. II, pp. 567-589, p. 583. 36 Riprendo alcune osservazioni di R. Nozick. 37 Una versione più sottile di questa obiezione viene avanzata da A. Edidin [1982]. Qui non rispondo completamente all'obiezione di Edidin. 38 G.E.M. Anscombe [1957], p. 68. 39 Secondo me, questi guadagni sarebbero a loro volta superati dalle perdite descritte dal sostenitore di 5 all'inizio del paragrafo 65. 40 Queste osservazioni sono alquanto semplificatorie. Potremmo ammettere che «ora>> possa applicarsi a descrizioni di un universo senza vita, anche se negassimo il trascorrere del tempo. L'evento X c'è relativamente all'evento Y, se X e Y accadono nello stesso tempo. 41 Cfr. D.F. Pears [1966], p. 249: . 42 Queste osservazioni sono troppo rozze. Certe esperienze, quand'anche nel presente fossero neutre o addirittura spiacevoli, possono essere ricordate con grande gioia. M. Proust [1961], III vol., pp. 399-669, p. 468, scrive:> di quelli relativi alle molecole di cui quegli oggetti sono costituiti. Potremo allora chiederci, stante la descrizione di una situazione possibile, ma non attualizzata in termini di popolo, se in quella situazione l'Inghilterra esista ancora... Analogamente, stanti certe vicissitudini controfattuali nella storia delle molecole di un tavolo T, potremmo chiederci se, in quella situazione, T esista, o se un certo mucchio di molecole, che in quella situazio ne costituirebbe un tavolo, costituisca il medesimo tavolo T. In ciascun caso noi chie diamo dei criteri di identità che riconducano dei mondi possibili a certi particolari , nel senso di ricondurre i primi ad altri particolari più «basilari». Se gli enunciati ri guardanti le nazioni (o i tavoli) non sono rzducibili a quelli riguardanti altri ingredien ti più «basilari>>, se nelle relazioni tra quegli ingredienti c'è una , al lora è difficile aspettarsi di fornire criteri di identità rigidi e solidi; nondimeno nei ca si concreti possiamo benissimo essere in grado di dire se un certo mucchio di mole cole costituisca ancora il tavolo T, anche se in alcuni casi la risposta può essere inde terminata. Ritengo che considerazioni analoghe valgano anche per il problema dell'i dentità nel tempo... Data la possibile non riducibilità dell'affermazione riguardante l'Inghilterra, io sono indi-
Note alla Parte terza
651
ne a intendere in un senso più debole la parola che compare verso la fine del secondo periodo di Kripke. Il problema centrale al riguardo dell'identità personale, se condo me, è se queste osservazioni valgano non solo per le nazioni e i tavoli, ma anche per le persone. 12]. Butler [1736]; ora in]. Perry (a cura di) [1975], p. 100. 13
Su questo punto consento con S. Shoemaker [1970].
14 Cfr. C. Peacocke [1983]. 15 G. Evans [1982] (p. 246), critica giustamente una fuorviante descrizione della memo
ria presente nel mio [1971]; ora anche in]. Perry [1975]. Evans propone anche un argo mento contro >. 2
1
22 23
Cfr. B. Williams [1978), pp. 95-100. Si veda, per esempio, l'obiezione avanzata da Williams nell'opera appena citata. È troppo dogmatico affermare che non abbiamo nessuna prova a favore di una conce
zione non riduzionistica. Le prove di cui disponiamo, come ebbe una volta a osservare giudiziosamente C.D. Broad, suffragano tutt'al più la seguente conclusione: se una perso na chiaramente seria e sana di mente affermasse di disporre di prove migliori dello stesso tipo, la sua affermazione non dovrebbe venire disinvoltamente ignorata. 24 Queste osservazioni derivano dal saggio di B. Williams, Imagination and the Se!/, ora in [1973). 25 Cfr. B. Williams [1970); ora in [1973). 2 6 Resterebbero, bensì, certi tipi di continuità che non sono caratteristici di una perso
na, per esempio il ricordo di come si fa a camminare e a correre; ma il criterio psicologico non dovrebbe fare appello a questi tipi di continuità. 27 Per una discussione di questo problema rinvio ancora una volta agli scritti di Dum mett, Peacocke e Forbes citati nella nota 47 della prima parte. Cfr. anche R.M. Sainsbury, In De/ence o/ Degrees o/ Truth, saggio inedito; e C. Wright [1975). Per una discussione
più ampia dell'argomento applicato alle persone, si veda specialmente P. Unger [1979); e, dello stesso autore [1979 a). Non ho ancora avuto tempo di pormi il problema se la solu zione proposta da Peacocke, Forbes e Sainsbury- la soluzione che fa appello ai «gradi di verità>>- quadri con l'argomento di Unger. 28
29
B. Williams [1973), p. 63. Cfr. «The Times», London, Science Column, 22 novembre 1982. Mi si dice che alcu-
ne riviste scientifiche daranno presto notizia di esiti ancora più impressionanti. 3°
32
Cfr., per esempio, G .. Evans [1978), p. 208; e N.U. Salmon [1982), pp. 245-246. Cfr.]. Broome [1984). R.W. Sperry, in }.C. Eccles (a cura di) [1966), p. 299.
33
T. Nagel, La bisezione del cervello e l'unità della coscienza, in [1986), pp. 145-161, p.
li
150. 34 35
Ibidem. G. Madell [1981), p. 137, avanza l'idea che a rendere mie certe esperienze non è il
fatto che le abbia un certo soggetto di esperienze, ossia io, bensì il fatto che tali esperienze hanno la proprietà di essere mie. Secondo questa concezione, la topografia dello spazio mentale è data dall'esistenza di un gran numero di proprietà diverse, una per ciascuna del le persone che siano mai esistite. Personalmente sono disposto a convenire con Madell che io e lui potremmo avere due esperienze simultanee qualitativamente identiche, ma assolu tamente distinte l'una dall'altra. Ma tale distinzione non deriva necessariamente dal fatto che una di esse ha la proprietà unica di essere mia e l'altra la proprietà unica di essere di
Note alla Parte terza
653
Madell. Potrebbe derivare semplicemente dal fatto che una di esse è questa esperienza che ricorre in questa particolare vita mentale, mentre l'altra è quella esperienza che ricorre in quell'altra particolare vita mentale. Può essere che a queste due vite mentali si debba rife
rirsi per il tramite delle loro connessioni con due diversi corpi umani. (l casi reali di menti divise costituiscono un'obiezione alla concezione di Madell. Né sembra plausibile trattare !' di un'esperienza come una proprietà. A distinguere cose o eventi tra loro di versi non è il fatto che ciascuno di essi abbia una proprietà unica. Le cose e gli eventi fisici possono essere distinti tra loro in quanto sono in luoghi diversi. Quando penso al pensiero che in questo momento occupa la mia mente come a qualcosa di mio, non lo identifico in riferimento alla sua collocazione spaziale. Il riferimento in base al quale lo identifico im plica essenzialmente un termine indica/e, o un dimostrativo, e non l'ascrivere a esso una proprietà unica. Posso usare l'indicale >. E continua: Nelle nostre relazioni generali con altri esseri umani, il loro corpo è per lo più intrin secamente privo di importanza. Noi ce ne serviamo come di un comodo mezzo di ri conoscimento che ci consente di collocare senza difficoltà carattere e complessi di ri cordi persistenti a cui siamo interessati, che amiamo o che ci piacciono. Sarebbe sconvolgente che un complesso a cui siamo emozionalmente legati assuma un'appa renza fisica mostruosa o repellente; sarebbe motivo di disorientamento sociale che passi continuamente da un corpo all'altro pur restando a sua volta com'era; sarebbe motivo di confusione e di logoramento l'eventualità che questo suo passare da un corpo all'altro diventi un fenomeno generalizzato: scoprire dove siano i propri amici e la propria famiglia diventerebbe un compito defatigante.
È però del tutto chiaro
che il nostro interesse e il nostro affetto resterebbero legati al carattere e al complesso dei ricordi e non al corpo a cui questi erano originariamente legati. Nell'eventualità di un generalizzarsi di queste migrazioni da un corpo all'altro, ci troveremmo nella condizione di persone che cercano di rintracciare i propri cari al buio. Qualora tali passaggi diventassero a un tempo frequenti e spazialmente radicali, senza dubbio ci troveremmo a dover rinunciare al tentativo di identificare le persone individuali, ve dremmo cambiare il carattere stesso delle relazioni tra le persone, e la vita umana avrebbe l'aspetto di un'interminabile sequenza di brevissimi viaggi oceanici. 59 60
M. Proust [ 1961'], vol. I, pp. 415-933, p. 573.
61
lvi, p. 660. M. Proust [1961], vol. III, pp. 399-669, pp. 575-576.
62
A. Solzbenitsyn [1968], p. 265.
63
lvi, pp. 443-444.
64
T. Penelbum [1971], avanza dei dubbi sulla correttezza di questo modo di esprimere
le cose. Personalmente ho cercato di rispondere brevemente alle sue obiezioni in [1971]. 65 In]. Perry [1950], p. 102. 66
H. Sidgwick [1907], pp. 418-419.
67
Cfr. D. Wiggins [1979].
69
G. Madell [1981], p. 110. R G Swinburne [1973-74], p. 246.
8 6
70
.
.
The Impor/ance o/ Being identica!, in A. Rorty (a cura di) [1976], pp. 78-85.
71
M. Wachsberg [1983].
72
D. Parfit [1982], p. 229.
73
Cfr. M. Wachsberg [1983].
74
D. Parfit [1982], p. 230.
75
R. Chisholm, Reply to Strawson Comments, in H.E. Kiefer e M.K. Munitz (a cura di) [1970], pp. 188-189.
Note alla Parte terza
655
76 Questa replica mi è stata suggerita da]. Broome. 77 Questo spunto mi è stato suggerito da M. Wachsberg. 78 H. Sidgwick [1907], p. 124. 79 Cfr. D. Parfit [1982], p. 232. 80 (Nota aggiunta nel 1985.) Come ha sottolineato B. Garrett, in questo paragrafo c'è un errore. Nel caso della parentela a contare non è la relazione transitiva parente di ma la re lazione intransitiva parente stretto di che può avere dei gradi. il mio appello a questa ana logia, perciò, non assume che a contare sia la relazione transitiva dell'identità personale. Esso assume che a contare è, in parte, la relazione intransitiva della connessione psicologi ca, che può avere dei gradi. (Oltre a rifarmi al caso della divisione, avrei dovuto richiama re gli argomenti esposti nel paragrafo 90.) 81]. Butler [1736], ora in]. Perry (a cura di) [1975], p. 102. 82 T. Reid [1785] ora in]. Perry (a cura di) [1975], p. 112. 83 G. Madell [1981], p. 116. 84 V. Haksar [1979], p. 111. 85 P.T. Geach, God and the Soul, p. 4. 8 6 V. Nabokov [1971], p. 64: «Dissero che la sola cosa che questo inglese amava nel mondo era la Russia. Molti non riuscivano a capire perché non ci fosse rimasto. A doman de del genere, la risposta di Moon sarebbe stata invariabilmente: "Chiedi a Robertson (l'orientalista) perché non è rimasto a Babilonia". Sarebbe stato del tutto ragionevole obiettare che Babilonia non esisteva più; e Moon avrebbe annuito silenziosamente con un furbesco sorriso. Nella rivoluzione bolscevica vedeva qualcosa di netto e irrevocabile. Non aveva difficoltà ad ammettere che, di lì a poco, dopo i primi momenti, nell"'Unione Sovie tica" avrebbe potuto fiorire una qualche civiltà; ma era irrevocabilmente convinto che la Russia aveva concluso la propria storia e che questa era irripetibile>>. 87 R. Nozick [1981], p. 36, scrive: «l vincoli morali collaterali su quanto possiamo fare, secondo me, rispecchiano il fatto delle nostre esistenze separate. Rispecchiano il fatto che non può awenire tra noi alcun atto morale equilibratore: gli altri non danno importanza morale superiore a una delle nostre vite in modo da portare a un maggior bene sociale complessivo. Non è giustificato alcun sacrificio di qualcuno di noi per altri. L'idea fonda mentale che esistono individui differenti con vite separate e che quindi nessuno può essere sacrificato per altri...>> (seconda sottolineatura mia). 88]. Rawls [1982], pp. 39-40. 89 Cfr. D. Gauthier [1962], p. 126. 90 L'affermazione è di Espinas (cit. in]. Perry [1950], p. 402). 91 D. Gauthier [1962], p. 126. 92]. Rawls [1982], p.41; cfr. anche p. 129. 93 lvi, p. 40.
94 T. Nagel [1970], p. 134. 95]. Rawls [1982], p. 166. 96 lvi, p. 41.
97 lvi, p. 40. Ometto le parole «considerate come una sola persona>>, perché mi sto chie-
dendo se il suo ragionamento debba implicare questo assunto. 98 lvi, p.66. 99 R.B. Perry [1950], p. 671. 10° Cfr. H. Sidgwick [1907], p. 425: «L'argomento utilitarista non può essere valutato per ciò che vale se non a condizione che si tenga conto appieno della forza cumulativa che esso deriva dal carattere complesso della coincidenza tra utilitarismo e senso comune>>. 101]. Rawls [1982], p.40. Aggiungo qui un breve commento a un altro passo di Rawls. C'è, egli scrive, ... una curiosa anomalia.
È normale considerare l'utilitarismo una teoria individuali-
656
Note stica, e ciò per molte buone ragioni. Gli utilitaristi... hanno sostenuto che il bene del la società è costituito dai vantaggi goduti dai singoli. Tuttavia l'utilitarismo non è in dividualista ...per il fatto che... applica alla società intera il principio di scelta per un solo uomo (p. 41).
La mia trattazione suggerisce una spiegazione di questa curiosa anomalia. Un individuali sta afferma (l) che il benessere di una società consiste esclusivamente nel benessere dei suoi membri e (2) che i membri della società hanno diritto ad averne una quota equa. Sup poniamo di essere non riduzionisti al riguardo delle società e delle nazioni; crediamo cioè che l'esistenza di una società o di una nazione trascenda l'esistenza dei suoi membri. Que sta credenza minaccia (1). Suffraga l'idea che il bene della società o della nazione trascen de il bene dei suoi membri. E ciò, a sua volta, minaccia (2): nel perseguimento di un obiet tivo nazionale che trascende gli individui, l'equa distribuzione del benessere appare meno importante. Così coloro che al riguardo delle nazioni sono non riduzionisti possono arri vare a respingere entrambe le tesi individualistiche. Gli utilitaristi respingono (2), ma ac cettano (1). Ciò costituirebbe, come afferma Rawls, >. L'uti!itarismo di Bentham può essere in parte suffragato dalla sua credenza nella conce zione riduzionistica. Ma queste affermazioni non valgono per tutti gli utilitaristi. Un'ecce zione ovvia è rappresentata da Sidgwick. In [ 1907] (pp. 416-417) Sidgwick riconosce un certo peso al principio di eguaglianza. Il principio di utilità mantiene, beninteso, una prio rità assoluta. Ma il rifiuto dei principi distributivi non può essere spiegato nel modo che ho appena illustrato. Sidgwick respingeva il riduzionismo humiano. E se concluse la prima edizione del suo libro con la parola , fu principalmente a causa del peso che assegnò alla distinzione tra le persone. (Si veda, per esempio, a p. 400, o anche l'afferma zione da lui fatta in Mind, 1889: >. L'esistenza di dieci miliardi di persone al di sotto di tale livello avrebbe meno valore di quella di una sola persona che vi vesse al di sopra del livello di beatitudine. Se l'esistenza di quelle persone ha meno valore di quella di quest'ultima, il suo valore sarebbe ampiamente sopravanzato dall'esistenza di una persona che soffra e che abbia una vita indegna di essere vissuta. Dobbiamo accettare altresì una variante di (R) che preveda lo stesso scambio di parole. Secondo la concezione lessicale, quando consideriamo l'esistenza di persone che si collocano al di sopra del livello di mediocrità, la quantità può sempre controbilanciare la qualità. 41 Queste considerazioni sono anche il frutto dei suggerimenti di ].A. McMahan. 42 Si veda di nuovo, ].A. McMahan [1981]. 43 La prima parte di questo capitolo riprende Parfit [1971], mentre la seconda presenta un argomento nuovo. 44 F. Myrna Kamm e ].L. Mackie avanzano entrambi l'idea che, pur essendo nostro do vere, per ragioni egalitaristiche, mutare A in B, tale cambiamento non costituirebbe un miglioramento. È possibile che abbiamo il dovere di fare ciò che renderebbe l'esito peg giore. Questa prospettiva potrebbe fornire una parziale soluzione del paradosso della me ra addizione. Ma non si tratterebbe di una soluzione completa. 45 Questa obiezione viene avanzata da Tooley, Woodford e altri autori. 46 Devo questo punto a R.M. Dworkin e A.K. Sen. Io e molti altri lo abbiamo trascurato per oltre dieci anni. 47 Si veda la discussione della comparabilità parziale in A.K. Sen [1970]. 48 Cfr. G. Kavka [1982]. 49 Spesso è poco chiaro se un cambiamento renda una ineguaglianza più o meno grave. Questo problema viene accuratamente discusso in L. Temkin [1982]. La dissertazione di Temkin probabilmente verrà pubblicata. 50 Si veda, di nuovo, L. Temkin [1982]. 51 Per una versione riveduta e ampliata di questo argomento si veda il mio Overpopula tion and the Quality of Li/e, in P. Singer (a cura di), Practical Ethics, Oxford University Press, Oxford 1986.
Note alle Appendici
665
Note al Capitolo conclusivo 1
Williams avanza questo argomento contro l'utilitarismo dell'atto, sostenendo che nella
struttura di questa teoria c'è . Cfr. Una critica dell'utilitarismo, in].]. C. Smart e B. Williams (a cura di) [1985], p. 135. 2 A suggerire l'idea della possibilità di sfidare lo scettico facendo appello a ragioni non morali è stato H. Sidgwick [1907], pp. 37-38. 3
Qui seguo le orme di T. Nagel [1980], pp. 97-126 e [1986], capp. 9 e 14.
4
Cfr.]. Rawls, The Independence of Mora! Theory, in «Proceedings and Addresses of
the American Philosophical Association>>, 1974-75, pp. 5-22; e T. Nagel, [1986], cap. 9.
Note alle Appendici 1
B. Hooker ha corretto la mia precedente concezione secondo cui una persona affida
bile non guadagnerebbe nulla se nessun altro lo fosse. Una persona non affidabile potreb be procurarmi un beneficio confidando che io gliene procurerò, a mia volta, un altro. 2 G. Harman dubita che questa idea sia difendibile. La sua obiezione potrebbe essere questa: «Moralità e interesse personale ci danno entrambi delle ragioni per l'azione. Tali ragioni hanno una forza diversa a seconda dei casi. Quando la moralità è in conflitto con l'interesse personale, possono esserci delle soluzioni al problema di che cosa sia razionale fare. Una ragione molto forte basata sull'interesse personale ha la meglio su una ragione morale debole, e viceversa. Solo in certi casi nessuna delle due ragioni sarà più forte del l'altra». Secondo questa concezione, questi due tipi di ragioni possono essere pesati me diante una scala neutrale, sicché le risposte al problema variano a seconda dei casi: tra pesi diversi c'è commensurabilità. Supponiamo di accettare una versione della moralità di senso comune. In tal caso po tremmo replicare: «Queste tesi sono scorrette. Qualsiasi plausibile teoria morale tiene conto dell'interesse personale dell'agente. Supponiamo che io ti prometta di farti un favo re di poco conto. Awiene, però, che per mantenere la mia promessa io mi trovi a dover subire una perdita grave. Ebbene, questo non è un caso in cui su una debole ragione mo rale ha la meglio una forte ragione di interesse personale. Qui, se succede che io possa mantenere la promessa solo accollandomi dei costi elevatissimi, cessa di essere vero che io debba mantenere la mia promessa. In un caso del genere, la moralità non è in conflitto con l'interesse personale. Considerazioni analoghe valgono per tutti i principi morali. Se io debba agire in conformità a tali principi dipende, in parte, da quanto ci troveremmo a dover sacrificare per farlo. Ciò che, diversamente, sarebbe nostro dovere morale fare cessa di esserlo qualora esiga da noi un sacrificio eccessivo o comporti un'eccessiva interferenza con la nostra vita. Poiché la moralità riconosce il giusto peso alle pretese dell'interesse personale, non puoi dire che in questo caso su una debole ragione morale ha la meglio una forte ragione di interesse personale. Se devi agire in un certo modo, nonostante i tuoi costi personali siano alti, ciò non significa che a tali costi non sia stato dato il peso dovuto. Questo è ciò che devi fare, a dispetto di tali costi>>. In questa prospettiva, le ragioni dell'in teresse personale vengono soppesate mediante una scala morale. Di scale neutrali median te le quali pesare i due tipi di ragioni non ce ne sono. Tra quelli che fanno propria questa prospettiva, alcuni respingono la teoria dell'interesse personale e ritengono che, quando la moralità contrasta con l'interesse personale, è irrazionale perseguire l'interesse personale. Ma altri fanno propria la prospettiva di Sidgwick e ritengono che, in caso di contrasto, è razionale sia seguire la moralità che seguire l'interesse personale. Supponiamo ora di accettare una forma di consequenzialismo. Secondo questa teoria morale, le ragioni per l'azione sono agente-neutrali. In tal caso non si potrà dire che, se
666
Note
una persona debba agire in un certo modo, dipende da quanto quella persona particolare si trovi a dover sacrificare. Gli interessi dell'agente non hanno alcun peso speciale: non han no un peso maggiore degli interessi di chiunque altro. I consequenzialisti potrebbero an ch'essi dire che, nella loro teoria, agli interessi personali si dà il peso dovuto. Ma il senso di questa affermazione non può essere lo stesso che essa avrebbe nella prospettiva della moralità di senso comune. Nel decidere che cosa l'agente debba fare, la moralità di senso comune riconosce davvero un peso speciale agli interessi personali dell'agente; può quindi affermare che essa dà il dovuto peso alla forza speciale delle ragioni dell'interesse persona le. I consequenzialisti non possono affermarlo. Nonostante questo, i consequenzialisti possono anche respingere la tesi della commen surabilità dei diversi pesi. Potrebbero sottolineare che C, essendo agente-neutrale, forni sce delle ragioni di tipo diverso da quelle dell'interesse personale. Data questa loro diver sità, non si può metterle a confronto con le altre, perché non esiste una scala neutrale. 3D. Hume [1971], p. 296. 4 Prima di Sidgwick, questa era la soluzione proposta pressoché universalmente. La no vità di Hume consiste nel fatto che egli la proclama senza fare appello all'altra vita. Quali fico la soluzione di Hume come , luglio 1980. 3° Cfr., per esempio, G.E. Moore [1964]; e W.D. Ross [1938]. 31 Cfr. R.B. Edwards [1979]. Uno spunto analogo compare nel Fi/ebo di Platone. Per
Note alle Appendici
669
una più approfondita discussione delle diverse teorie dell'interesse personale, cfr.J.P. Griffin, We/fare, di prossima pubblicazione. n · JJ
Cfr. H. Sidgwick [1907], pp.111-112.
Da Milina Panha, in S. Collins [1982], pp.182-183. Ci/a Mara, cit. in Th. Stcherbatsky, The Soul Theory o/ the Buddhists, in «Bulletin de l'Académie des Sciences de Russie>>, 1919, p.839. J� Vasabandhu, cit. in Stcherbatsky, op.cit., p. 845. J6 Cit. ivi, p. 851. J7 lvi, p. 853. Js Cfr.S. Collins [1982], pp. 247-261. J9 T. Stcherbatsky, The Centra/ Conception o/ Buddhism, Royal Asiatic Society, London 1923, p. 26. 40 Visuddhimagga, cit. in S. Collins [1982], p. 133. }4
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Indice dei nomi
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Ayer, A.].,
IX,
653 n. 42, 671
Baier, A., x Baier, K., x, 646 n. 50, 647 n. 54, 671 Barry, B., 658 n. 7, 659 n. 13, 661 n. 25, 27, 664
n.
36, 671
Bayles, M.D., 671 Benditt, T., 671 Bennett, ]., x, 661 n. 25, 671 Bentham,J., 205,587-88,648 n. 23,656 n. 101, 671
Blackburn, A., XI Blackburn, S., x Blanshard, B., 647 n. 11, 671 Bogen, J., 657 n. 2, 671 Brandt, R.B., 647 n. 2, 659 n. 17, 672 Braybrooke, D., 672 Brennan, A.A., x, 654 n. 57, 672 Bricker, P., 668 n. 29 Broad, C.D., 652 n. 23, 672 Broome, J., x, 622-24, 644 n. 31, 647 n. 7, 649 n. 43, 652 n. 31, 668 n. 27, 672 Brown, P.G., 675 Buchanan, A., 672 Budda, 347-48, 357, 574, 636-37 Butler, J., 281, 283-84, 587, 649 n. 48, 651 n. 12, 655 n. 81, 672 Byron, G., 228 Cartesio, R., 285-92, 320, 652 nn. 19, 20, 672
Cechov, A., 228 Chisholm, R., 394, 654 n. 75, 672
15
Collins, S., 669 nn. 33, 38, 40, 672 Cornwall, G.,
x
Davis, A., IX Daniels, N., 672 Dasgupta, P., x Dent, N., x Dennett, D.C., 672 Deutscher, 650 n. 7, 675 Dostoevskij, F., 664 n. 39 Dummett, M., 646 n. 47, 672 Dworkin, G., 679 Dworkin, R.H., IX,
x,
664 n. 46, 672
Dyson, F., 654 n. 56 Edgley, R., 672 Edidin, A., 648 n. 37, 672 Edwards, R.B., 668 n. 31, 672 Elliott, R., x, 672 Epicuro, 227 Espinas, 655 n. 90 Evans, G., IX, 651 n. 15, 652 n. 30, 672 Ewald, W., x, XI Ewing, A.C., 654 n. 39, 672 Feinberg,]., 672 Findlay,]., 656 n. 102, 673 Fishkin, J.S., x, 673 Foot, P., 647 n. 4, 673 Forbes, G.,
x,
646 n. 47,652 n. 27,657 n.
2, 673
Gale, R.M., 673 Gauthier, D., 422,427-28, 639 n. 5,644 n. 28, 646 n. 50, 655 n. 89, 673
Indice dei nomi
682 Geach, P., 415, Gert, B., 647 n. 54, 659 n. 17, 673 Glover, J.C.B., IX, x, 97, 582, 645 n. 44, 673 Godwin, W., 466, 673 Goodin, RE., x, 673 Gosling, J . C.B , 647 n. 7, 673 Grice, H.P., 653 n. 42 Grice, G.R., 660 n. 17, 673 Griffin, C., XI Griffin, ].P., IX, x, 625, 662 n. 31, 668 n. 28, 669 n. 31, 673 Grim, P., 673 Guttenplan, S., 673 .
Haight, G.S., 667 n. 6, 673 Haksar, V., 412, 441, 673 Hardin, G., 674 Hare, R.M., IX, 145, 202, 640n. 13, 645n. 46, 647 n. 55, 674 Harman, G., x, 647n. 54, 648n. 33, 660n. 17, 665 II n. 2, 674 Hobbes, T., 83 Hofstadter, D.R., 674 Hollis, M., x, 645 n. 40, 674 Hooker, B., x, 666 II n. l, 667 n. 7 Hume, D., 152, 155, 162, 178-80, 205, 210, 219, 228, 253, 574, 584-85, 596, 647n. l, 648nn. 25, 30, 31, 35, 650n. 9, 666 nn. 3, 4, 674 Hurka, T.M., x, 663 n. 35, 674 Hurley, S., x, XI Ishiguro, H., 651 n. 15, 657 n. 4 Jack, J.M.R., 653 n. 45 Jamieson, D., x Kagan, S., x, 639 n. 7 Kamm, F.M., 664 n. 44 Kant, L, 82, 85-86, 119, 137-38, 141, 285-86, 288, 449-52, 651 n. 17, 674 Kavka, G., x, 549-50, 659n. 9, 664n. . 48, 674 Kenyon, ]., x Kripke, S., 650nn, 3, 11, 657 n. 2, 667n. 9, 668 n. 11, 674 Leslie, ]., x, 674 Levison, A., x Lewis, C.I., 205, 648 n. 24, 674
Lewis, D.K., 328, 674 Lewis, H.D., x, 652 n. 18, 661 n. 21, 675 Lichtenberg, G.C., 287-89, 320, 652n. 20, 675 Lindley, R., x Locke, ]., 264-69, 280, 284-86, 291-92, 391, 412, 415, 650 n. 5, 675 Lyons, D., x, 675 Mackaye, ]., 500, 675 Mackie J.L., IX, 40, 640 n. 11, 647 n. 14; 653 n. 42, 660 n. 17, 664n. 44, 675 Maclean, D., x, 675 McDermott, M., 675 McDowell, ]., x McMahan, ]., IX, XI, 659n. 15, 661 n. 26, 663 nn. 34, 35, 664 nn. 41, 42, 668 n. 19, 675 McMahan, S., XI Madell, G., x, 391, 412, 652n. 19, 652n. 35, 654 n. 68, 675 Marglin, S., 668 n. 15, 675 Martin, 650 n. 7, 675 Matilal, B., x Meehl, P., 645 nn. 42, 43, 675 Mill, ].S., 148, 406, 656 n. 101 Miller, F., 645 n. 39, 675 Montefiore, A., 675 Morison, P., XI Moore, G.E., 647 n. 14, 668 n. 30, 675 Nabokov, V., 655 n. 86, 675 Nagel, T., IX, x, 158, 168, 185-186, 199-200, 202, 247, 312, 348-49, 369-74, 428, 438-39, 592-603, 639 n. 4, 641 n. 14, 646nn. 48, 51, 647nn. 5, 17, 648n. 22, 649 n. 46, 652 n. 33, 665 n. 3, 667 nn. 8, 10, 668 n. 20, 675-76 Narveson, ]., 501, 659 n. 17, 661 nn. 25, 30, 676 Newman, cardinale, 66, 676 Newton, Sir lsaac, 320 Nietzsche, F., 116, 228, 676 Norman, R., 647 n. 3, 676 Nozick, R., x, 349, 493-94, 604-607, 648n. 36, 649 n. 45, 653n. 47, 655n. 87, 676 Nunns, ]., XI Olson, M., 645 n. 39, 676 Ooms, T., 659 n. 8
Indice dei nomi
683
Ordenshook, P., 645 n. 43
Salmon, N.U., 652
Parfit, D., 654 nn. 72, 74, 655 n. 79, 664 n. 43, 676
Parfit,].,
x
Partridge, E., 676 Peacocke, C.,
282, 646 n. 47, 651 n. 14,
x,
652 n. 27, 676
Pears, D.F.,
IX,
648 n. 41, 676
Penelhum, T., 654 n. 64, 676 Perfectus, T., 597 Perry, J.. 392, 650 n. 8, 651 nn. 12, 15, 16, 653 n. 43, 654 n. 65, 655 nn. 81, 82, 99, 664 n. 39, 676
Pigou, A.C., 208, 648 n. 29 Platone, 208, 494, 661
n.
23, 668 n. 31,
676
Proust, M., 648 n. 42, 677 Putnam, H., 667 n. 9 Pitagora, 223, 227 Quine, W.V.O., 258, 650 n. 2, 677 Quinton, A., 323, 377, 379, 650 n. 8, 653 n. 42, 654 n. 58, 677
A.,
646 n. 50, 677
Rashdall, H., 184, 647 n. 15, 677 Raverat, G., 657 n. l, 677 Rawls, ]., 58, 211, 422-23, 427-30, 436, 439-40, 613-16, 622-24, 633, 643 n. 23, 648 n. 34, 655 nn. 88, 92, 95, 101, 661 n. 28, 665 n. 4, 668 n. 21, 677 Ray,
C.,
677
Raz,]., 677 Regan, D.,
IX, x,
640 n. 12, 644 n. 27, 645
n. 45, 677 Reid, T., 285, 412, 677 Rescher, N., 646 n. 50, 677 Richards,
D.A.J.,
660 n. 17, 677
Riker, W., 660 n. 18, 64.5 n. 43, 677 Robertson, D., 486, 660 n. 18, 677 Rorty,
A.,
651 n. 15, 654 n. 70, 677
Ross, D., 89, 668 n. 30, 677 Runciman, W., 644 n. 32, 678 Russell,
B.,
653 n. 36, 677
Sainsbury, R.M., Salotti, P.,
XI
Sartorius, R., 645 n. 39, 675
x,
n.
17,
Schell,]., 678 Schelling, T., 17-19, 23, 53, 639 n. 3, 647 n. 53, 678 Schneewind, J.B., 647 nn. 5, 6, 678 Schueler, G.F., 678 Schwartz, T., 659 n. 11 Seabright, P., x Sen, A.K.,
IX, x,
643 nn. 17, 21, 644 n. 32,
645 n. 36, 647 nn. 7, 15, 659
n.
17, 661
n. 21, 664 n. 47, 665 I n. l, 678 Shoemaker, S., 288, 651 n. 13, 653
n.
37,
678
Shorter, J.M., 653 n. 45, 678 Sidgwick, A.S., 678 Sidgwick, H., 27, 55-56, 145, 178-81, 183-84,
193,
228,
584-85,
587-88,
633-34, 639 nn. 6, 10, 643 n. 16, 647 nn. 55, 10, 12, 654 n. 66, 655 nn. 78, 100, n
n. 2, 666 n. 4, 667 nn.
5, 7, 669 n. 32, 678
Railton, P., x, 677 Rakowski, E., x Rapoport,
30, 677
Scanlon, T.M., IX, 643 n. 25, 659 661 n. 31, 677 Scheffler, S., x, 677
656 n. 101, 665
Rahula, W., 677
n.
Samuelson, P.A ., 661 n. 20, 677
652 n. 27, 677
Sikora, R.I., x, 661 n. 25, 664 n. 36, 678 Singer, M., 678 Singer, P., X, 649 n. 44, 664
n.
51, 678
Smart,
B., 678 Smart, J.J.C., 678-79
Smith, M.,
x
Sobel, J.H., 679 Solzhenitsyn,
A.,
654 nn. 62, 63, 679
Sperry, R.W., 652 n. 32, 679 Stcherbatsky, T., 669 nn. 34, 35, 39 Sterba, J.. 662 n. 31 Stone,]., x Strang,
C.,
645 n. 37, 679
Strawson, G.,
x
Strawson, P.F.,
IX, x, XIV,
288, 679
Strotz, P.F., 648 n. 27, 679 Sumner, R.W., x, 647 n. 55, 679 Swinburne, R.G., x, 392-93, 649, 652
n.
18, 679
Taylor, 647
n.
54
Temkin, L.,
x,
657 n. 104, 664 nn. 49, 50,
679
Thomson, J.J.,
x,
649 n. 43, 679
684 Tooley, M., x, 664 n. 45, 659 n. 12, 679 Treblicot,]., 679 Ullmann-Marg alit, E., 645 n. 37, 679 Unger, P., x, 652 n. 27, 679 Vickers, ]., x Van Straaten, Z., 679 Wachsberg, M., x, 392-93,655 n. 77, 679 Walker, R., x Warnock, G.]., 647 n. 54, 679 Warren, M., 661 n. 25 Watkin, ]., 679 Whiting, ]., x
Indice dei nomi Whitty, c.' x Wiggins, D., 323,346,348,391,651
n.
15,
653 nn. 39,40,47,49,50,52,654 n. 67, 679-80 Williams, B., x, 55-58, 62, 184, 288-89, 292-93, 301, 339-47, 361, 374-80, 594, 642 n. 14, 643 nn. 17, 19, 21, 22, 24, 647 nn. 4,16,20,652 nn. 21,22,24,25, 28, 653 nn. 44, 46, 48, 51, 54, 643, nn. 17, 19, 21, 22, 24, 654 n. 57, 665 1 n. l, 668 nn. 16, 17, 680 Wittgenstein, L., 258, 347-48 Woodfor d, M., x, 663 n. 33, 664 n. 45 Woods, M., 653 n. 40, 680 Wright, C., 652 n. 27
Titoli pubblicati nella collana Theoria
R. Carn ap I fondamenti filoso/ici della fisica ,
].C. Eccles, Il mistero uomo C. Sini, Passare il segno H. Putnam, Verità e etica ].C. Harsanyi, Comportamento razionale e equilibrio di contrattazione C.G. Hernpel, Aspetti della spiegazione scientifica
K.J. Arrow, I limiti dell'organizzazione I. Hackin g , L'emergenza della probabilità R. Nozick, Spiegazioni filosofiche G. Pontara, Filosofia pratica
].C. Harsanyi, L'utilitarismo S. Maffettone, Valori comuni
Finito di stampare nel mese di maggio 1989 dalla Milanostampa -Farigliano (CN)
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