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italian Pages [106]
Biblioteca Essenziale Laterza
Claudia Bianchi
Pragmatica del linguaggio
© 2003, Gius. Laterza & Figli
Edizione digitale: giugno 2015 www.laterza.it
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858101414 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Sommario
Ringraziamenti Come funziona il linguaggio? 1. Sintassi, semantica e pragmatica 1.1. La distinzione 1.2. La “pattumiera” della semantica 2. I due sensi di pragmatica: effetto delle parole sul mondo, effetto del mondo sulle parole 3. Le origini filosofiche della pragmatica 3.1. La filosofia del linguaggio ideale 3.2. La filosofia del linguaggio ordinario 3.3. La concezione pragmatica del linguaggio Note
Fare parole con le cose Introduzione 1. Contesti: ambiguità, deissi e linguaggio figurato 2. Ambiguità 2.1. Che cosa si intende per ambiguità? 2.2. Il trattamento dell’ambiguità 3. Deissi 3.1. Che cos’è la deissi? 3.2. A) Il metodo delle coordinate multiple 3.3. B) Carattere e contenuto 3.4. Essenzialità degli indicali 3.5. Contesto di proferimento e mondo 3.6. Semantica o pragmatica? 3.7. Dimostrativi 3.8. Indicali e dimostrativi: una distinzione reale? 3.9. Le “espressioni contestuali” 4. Linguaggio figurato 5. Usi del contesto: la distinzione fra semantica e pragmatica
Fare cose con le parole 1. Parole come atti: la dimensione sociale del linguaggio 2. Atti linguistici 2.1. Enunciati constativi ed enunciati performativi 2.2. Fallimenti e infelicità 2.3. Critica alla distinzione fra constativi e performativi 2.4. La forza illocutoria 2.5. Classificazione delle forze illocutorie 2.6. Da Austin a Grice 3. La conversazione 3.1. Significato e intenzioni 3.2. Linguaggio naturale e linguaggio formale 3.3. Implicature: il principio di cooperazione 3.4. Le massime conversazionali 3.5. Atteggiamenti di fronte alle massime 3.6. Varietà di implicature 4. Presupposizioni
4.1. Che cos’è una presupposizione? 4.2. Uso e abuso delle presupposizioni 4.3. Presupposizioni, implicature, conseguenze logiche 5. La cortesia 5.1. Faccia 5.2. Regole della conversazione e regole della cortesia 5.3. Analisi della conversazione Note
Ricerche in corso 1. La dimensione cognitiva del linguaggio 2. Dal modello del codice al modello inferenziale 3. Inferenze 4. La teoria della pertinenza 4.1. Critica al modello del codice 4.2. Codice e inferenze 4.3. La capacità di metarappresentazione 4.4. Criterio di selezione delle premesse: la pertinenza 4.5. Criterio d’arresto del sistema: effetti e sforzo 5. La distinzione fra semantica e pragmatica 5.1. La prospettiva semantica tradizionale: livelli di senso 5.2. La prospettiva semantica tradizionale: processi 5.3. La prospettiva pragmatica: alcuni esempi 5.4. La prospettiva pragmatica: intuizioni Note
Epilogo Cos’altro leggere Introduzione I: Come funziona il linguaggio? II. Fare parole con le cose III. Fare cose con le parole La cortesia IV. Ricerche in corso
Bibliografia
Ringraziamenti
Devo a François Récanati di avermi introdotto e guidato attraverso il Paese delle Meraviglie Pragmatico, dove mi hanno offerto aiuto e incoraggiamento Michele Di Francesco, Carlo Penco e Marina Sbisà. Un grazie di cuore va a Tito Magri, per aver creduto in questo progetto, e agli studenti del corso di Filosofia del linguaggio delle Università di Bergamo e di Genova, che per primi ne hanno fatto le spese. Un ringraziamento tutto particolare va a Nicla Vassallo, che ha seguito il mio lavoro in ogni sua fase, con paziente intransigenza e ferma dolcezza. Ho infine un debito di riconoscenza difficilmente esprimibile nei confronti dei miei genitori, e di mia nonna – alla memoria della quale questo libro è dedicato.
Come funziona il linguaggio?
Il Coniglio Bianco inforcò gli occhiali: “Da dove devo iniziare, Maestà?” chiese. “Inizia dall’inizio” disse il Re con solennità, “e va’ avanti finché non arrivi alla fine: poi, fermati”. (Lewis Carroll) Introduzione
Per cominciare, qualche scambio di battute, adattate da Achille Campanile: (1) Paolo: “Ciao, sono Paolo. E tu?”; Francesca: “Io no”. (2) Paolo: “Scusa, sai dov’è Piazza Duomo?”; Francesca: “Certo che lo so”. (3) Paolo: “C’è un ladro in biblioteca!”; Francesca “Ah sì? E che legge?”. (4) Paolo: “Ho già visto la tua faccia da qualche altra parte”; Francesca “Non credo, perché la porto sempre con me”. (5) Paolo (a Francesca, che sta suonando al pianoforte): “Che cosa stai suonando?”; Francesca: “Il piano”. Comunicare sembra una faccenda semplicissima. Comunichiamo con parole o con scritti, con gesti o smorfie, con modi di fare, di vestirci, di atteggiarci; comunichiamo usando oggetti, lo sguardo, il sorriso o il silenzio, calci sotto il tavolo o pacche sulla spalla. Comunichiamo con una facilità e un grado di successo straordinari. Ogni tanto, come nei dialoghi di Campanile, qualcosa va storto. È solo in questi momenti che cominciamo a riflettere sulle difficoltà della comunicazione – e, di conseguenza, sulla ricchezza e la complessità del linguaggio e dei meccanismi comunicativi. Questo libro prenderà sistematicamente il punto di vista del fallimento, del malinteso, del cortocircuito, dell’anomalo e del bizzarro, ma anche dell’ironia e del gioco di parole, nella convinzione che è nei momenti di rottura, intenzionale o meno, della comunicazione che si rivela quanto generalmente resta nascosto, sommerso dalla facilità e dal successo dei nostri quotidiani scambi verbali. Torniamo ai dialoghi d’apertura. Che cosa non ha funzionato fra i due interlocutori? Che tipo di competenza sembra mancare a Francesca? Non diremmo che le manca la comprensione del significato delle parole usate da Paolo (quella che viene chiamata la competenza semantica), e nemmeno la comprensione del modo in cui queste parole sono da Paolo combinate per creare delle frasi (quella che viene chiamata la competenza sintattica): Francesca sa certamente cosa significano “dove”, “piazza”, “ladro”, “biblioteca”, “faccia”, “vedere”, e così via, e sa mettere assieme le parole per ottenere frasi di senso compiuto. Quello che Francesca sembra non comprendere (o fingere di non comprendere) è come parole e frasi vengono usate da Paolo: a Francesca manca la competenza pragmatica.
1. Sintassi, semantica e pragmatica 1.1. La distinzione Le zucchine mi piacciono trafelate. (Ennio Flaiano)
Tradizionalmente si suole ripartire lo studio del linguaggio in tre discipline: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi è l’analisi delle relazioni fra segni, la semantica delle relazioni fra segni e oggetti, la pragmatica delle relazioni fra segni e parlanti (cfr. Morris 1938). Vediamo più in dettaglio la tripartizione. La sintassi è lo studio dei segni come tali, dei modi in cui le espressioni linguistiche possono essere combinate da un punto di vista strettamente grammaticale, che non tiene conto del loro significato. Essa stabilisce se una sequenza di segni, come la frase (6) C’è un ladro in biblioteca è ben formata, oppure mal formata, come sono le frasi (precedute da un asterisco che ne indica la non grammaticalità): (7) * Un biblioteca in è ci ladro (8) * Ci sono un ladro in biblioteca. La semantica si occupa invece del significato delle espressioni linguistiche – parole o frasi – al di fuori delle situazioni in cui vengono usate; essa studia le relazioni fra espressioni linguistiche e oggetti del mondo. Tesi semantica centrale è che le regole o convenzioni di una lingua, come l’italiano, fissano una volta per tutte il significato di ogni espressione della lingua – parola o frase. Esse stabiliscono ad esempio il significato di “un”, “ladro”, “in”, “biblioteca”, “esserci” e, una volta applicate le regole sintattiche, il significato di (6). Anche la semantica, come la sintassi, ha il compito di stabilire quali siano le frasi ben formate, basandosi però non sulla struttura sintattica, ma sul significato delle parole, per escludere sequenze come: (9) C’è una biblioteca nel ladro. Secondo un’impostazione assai diffusa in semantica, una frase dichiarativa (un’asserzione o un’affermazione) ha come funzione principale quella di descrivere uno stato di cose del mondo: la frase sarà vera se le cose sono effettivamente come la frase dice che siano, e falsa altrimenti. Conoscere il significato di una frase, allora, significa sapere come deve essere fatto il mondo perché la frase sia vera – sapere in quali casi essa descrive correttamente il mondo, e in quali casi no. Se comprendiamo il significato di (6) dobbiamo poter dire di fronte a qualsiasi situazione se (6) ne costituisce una descrizione corretta: difficilmente verrà attribuita la conoscenza del significato di (6) a qualcuno che affermasse (6) vedendo il ladro in cucina, o sul tetto, o un poliziotto in biblioteca, o nessuno in biblioteca, e così via. Il significato convenzionale di un’espressione viene allora concepito generalmente come un insieme di condizioni: le regole dell’italiano, ad esempio, associano a ogni parola un insieme di condizioni di applicazione (le condizioni che un oggetto deve soddisfare perché la parola gli si applichi) e, a ogni frase, un insieme di condizioni di verità (le condizioni che il mondo deve soddisfare perché la frase ne costituisca una descrizione appropriata, e sia vera). Alla parola “biblioteca”1, ad esempio, sarà associato l’insieme di condizioni (essere una stanza, contenere un consistente numero di libri, essere adibita principalmente a sala di lettura ecc.) che un oggetto deve soddisfare perché sia
possibile applicargli la parola “biblioteca”. Allo stesso modo, a (6) sarà associato l’insieme di condizioni (che ci sia un ladro, che ci sia una biblioteca, che il ladro sia nella biblioteca) che il mondo deve soddisfare perché la frase sia vera. Conoscere il significato di (6) vuol dire sapere come deve essere fatto il mondo perché (6) sia vera, ma non, si badi bene, sapere se (6) è vera o meno: bisogna in altri termini conoscerne le condizioni, e non il valore, di verità. Posso infatti dire di conoscere il significato di (10) L’idolo di George W. Bush è Homer Simpson se so quale stato del mondo renderebbe vera (10) (il fatto che Bush prenda a modello di vita un certo personaggio dei cartoni animati), anche se non ho la minima idea di se (10) sia effettivamente vera o falsa. In sintesi, la semantica è: a) convenzionale: il significato di un’espressione linguistica è determinato dalla forma dell’espressione; b) vero-condizionale: il significato di una frase si identifica con le condizioni di verità della frase, e il significato di una parola con il suo contributo alle condizioni di verità della frase in cui compare; c) composizionale: il significato di un’espressione complessa dipende funzionalmente dai significati dei suoi componenti. La pragmatica, infine, è lo studio delle relazioni fra segni e parlanti, fra espressioni linguistiche e coloro che se ne servono per comunicare pensieri, è lo studio dei modi in cui è possibile usare le frasi in situazioni concrete. In altri termini, mentre la sintassi studia l’apparato combinatorio delle espressioni di una lingua, e la semantica l’apparato interpretativo, la pragmatica si occupa di come un parlante si serva degli apparati combinatorio e interpretativo in una particolare situazione comunicativa. Uno dei compiti della pragmatica è spiegare perché frasi, pur perfettamente ben formate dal punto di vista sintattico e semantico – come le risposte di Francesca nei dialoghi (1)-(5) – possano nondimeno non essere appropriate in certi contesti d’uso2. 1.2. La “pattumiera” della semantica Se Lei si spiega con un esempio, non capisco più niente. (Ennio Flaiano)
In realtà il dominio della pragmatica è stato definito a lungo in negativo: finivano nella pragmatica sostanzialmente tutti i fatti per cui una spiegazione in termini sintattici o semantici (in termini cioè di regole combinatorie o convenzioni linguistiche) si rivelava insufficiente, e le frasi per la cui interpretazione era necessario il ricorso a fattori non linguistici, a conoscenze sul mondo e sulla situazione in cui venivano usate. La distinzione fra sintassi, semantica e pragmatica ha quindi spesso celato un’idea di pragmatica come “pattumiera” della semantica, come ricettacolo di tutte le questioni semantiche insolute, dei rompicapo, dei fatti linguistici considerati minori o marginali. Questo ha fatto sì che i fenomeni relegati nella pragmatica fossero estremamente eterogenei: di fatto la pragmatica si è troppo sovente limitata ad essere la mera descrizione di questioni frammentarie, senza riuscire a sviluppare un progetto teorico unitario. In questo primo capitolo ci limitiamo a elencare alcune delle questioni oggetto, a vario titolo, di teorie pragmatiche – questioni che verranno riprese e approfondite nel corso del libro. Gli esempi mostrano, da un lato, che, in certi casi, la sola conoscenza delle convenzioni semantiche di una lingua non è sufficiente a determinare qual è lo stato di cose descritto da una frase; e, dall’altro, che la tesi secondo cui le frasi di una lingua hanno la sola funzione di
descrivere stati di cose non è plausibile. La pragmatica è stata a lungo identificata con lo studio dei fenomeni di deissi o indicalità – enunciati temporalizzati, o contenenti pronomi, avverbi di tempo o luogo (come “io”, “qui”, “ora”). Ad esempio la frase (11) Qui piove contiene l’espressione “qui”, il cui riferimento (l’oggetto cui rimanda nel mondo) cambia al mutare del contesto in cui viene usata: proferita a Londra (a una certa ora di un dato giorno), (11) può essere vera; proferita ad Algeri (alla stessa ora del medesimo giorno) può essere falsa. La mera conoscenza del significato della frase deve essere integrata con un certo numero di informazioni che non sono semantiche, che non sono cioè di tipo linguistico: per poter interpretare (11) dobbiamo individuare a che luogo si fa riferimento con “qui”. Rientrano nel dominio della pragmatica anche i casi di omonimia: nella frase (12) Il problema di Paolo sono i calcoli, ad esempio, compare la parola “calcolo”, ambigua fra i due significati di “computo” e “sassolino”; oppure i casi di polisemia, di cui è esempio il verbo “finire” nella frase (13) Francesca ha finito un altro libro ambiguo fra i significati “finire di leggere” e “finire di scrivere”; o ancora i casi di linguaggio figurato come nella frase (14) Bea è una gazzella, in cui il termine “gazzella” può riferirsi (se usato letteralmente) a un’antilope africana, o (se usato metaforicamente) a una persona agile e veloce. Anche per (12)-(14) la conoscenza del significato (o dei significati) delle parole contenute nelle frasi non è sufficiente per individuare quale stato di cose il parlante stia descrivendo: sintassi e semantica non permettono di determinare le condizioni di verità di (12)-(14). È necessario possedere conoscenze che riguardano il mondo, e non il linguaggio: la conversazione verte su questioni matematiche, o di salute? Francesca è una scrittrice prolifica o un’accanita lettrice? Bea è una fanciulla agile e slanciata o un animale che vive in Africa? Fanno poi parte del campo di ricerca della pragmatica fenomeni del tutto diversi, analizzati dalle teorie degli atti linguistici. Si tratta del fatto che frasi come (15) La condanno a 11 anni di carcere (16) Guarda! più che descrivere stati del mondo sembrano compiere atti istituzionali (condannare) o linguistici (ordinare, supplicare, sfidare ecc.). Intuitivamente sono ancora informazioni sulle circostanze d’uso delle frasi a consentirne l’interpretazione: dobbiamo sapere chi ha proferito (15), e a proposito di chi, e in che occasione, per poter dire se la frase vale, o meno, come condanna (un giudice in un’aula di tribunale può condannare, un giornalista o uno spettatore no); e dobbiamo sapere in che particolari circostanze (16) è stata usata, con che tono, per quali scopi e con quali intenzioni, per poter interpretare la frase come un ordine, una supplica, un rimprovero, oppure una sfida, o un invito. Casi ancora diversi sono costituiti da quelle che vengono chiamate implicature conversazionali.
Supponiamo che, alla domanda di Paolo “Ti è piaciuta la cenetta che ti ho preparato?”, Francesca risponda: (17) Il caffè era ottimo. Il significato convenzionale delle espressioni che compaiono in (17) – che pure è perfettamente conosciuto da Paolo – non gli permette tuttavia di interpretare (17) come una risposta alla sua domanda, a meno che non venga integrato con informazioni su come è fatto il mondo, e in questo caso particolare su cosa si considera, o meno, abilità culinaria, nonché sulle strategie che i parlanti utilizzano per comunicare ai loro interlocutori opinioni spiacevoli. Per il momento osserviamo che il significato convenzionale di una frase spesso non coincide affatto con i pensieri che un parlante può esprimere proferendo quella frase (quello che viene chiamato il significato del parlante): usando (17), ad esempio, Francesca sta probabilmente comunicando a Paolo il pensiero “La cena era pessima”. Non si tratta di casi marginali o periferici, ma dei modi in cui effettivamente comunichiamo, modi estremamente diffusi e che passano generalmente inosservati. L’apporto di sintassi e semantica è a volte ridotto al minimo: si veda (18) Paolo: “Allora?”; Francesca: “È andata” che può costituire uno scambio comunicativo perfettamente appropriato, sempre che i due interlocutori sappiano abbastanza delle circostanze in cui lo scambio ha luogo. Sempre, cioè, che i due interlocutori conoscano il contesto – per usare un termine che ritornerà quasi a ogni pagina di questo libro: per ora è sufficiente dire che il contesto è la situazione particolare in cui le frasi vengono usate, costituita dal resto della conversazione, dall’ambiente fisico in cui essa avviene, dall’identità degli interlocutori, ma anche dalla complessa rete di scopi, intenzioni, credenze, desideri, timori, pregiudizi e conoscenze che essi condividono.
2. I due sensi di pragmatica: effetto delle parole sul mondo, effetto del mondo sulle parole Les paroles seules comptent. Le reste est bavardage. (Eugène Ionesco)
A partire dai fenomeni sopra elencati sono state proposte svariate definizioni di pragmatica: Levinson (1983) ne elenca addirittura quattordici, e commenta che si tratta di definizioni tutte per qualche verso riduttive, o parziali, o troppo vaghe (il che è forse vero, ma vale allo stesso modo per le definizioni di semantica). Quelle più significative, e che più si avvicinano alla concezione di pragmatica che verrà qui sviluppata, sono: • la disciplina che si occupa dell’uso del linguaggio; • la disciplina che si occupa di ciò che un parlante comunica (al di là, o invece, di ciò che dice); • la disciplina che si occupa del contesto; • la disciplina che si occupa del significato in contesto; • la disciplina che si occupa del significato nelle interazioni sociali; • la disciplina che si occupa della distanza, fisica e sociale, tra interlocutori. Al di là delle definizioni, ci preme chiarire quali sono i compiti della pragmatica. Abbiamo detto che la semantica è lo studio del significato convenzionale delle espressioni e delle frasi di una lingua come l’italiano: del loro significato a prescindere dalle concrete circostanze in cui esse sono utilizzate da parlanti particolari. Come si è visto nel paragrafo 1.2, questa definizione va incontro a due obiezioni. In primo luogo, il contenuto proposizionale (il pensiero espresso da una frase ben formata dell’italiano, le sue condizioni di verità) di una frase non sempre è fissato completamente e univocamente dalle convenzioni semantiche: in certi casi, come (11), è incompleto; in altri casi, come (12)-(14), è ambiguo. In secondo luogo, anche una volta completato e disambiguato il contenuto proposizionale di una frase, le convenzioni semantiche non determinano il tipo di “atto linguistico” che il parlante compie proferendo quella frase: fuori contesto, non sappiamo se il parlante usa (16) per impartire un ordine, o per rivolgere un invito, per formulare una supplica, o una sfida. Entrambe le obiezioni sottolineano la necessità di un’integrazione (e un’interazione) della competenza semantica con conoscenze non linguistiche ma contestuali. Una teoria pragmatica intraprende allora due direzioni di ricerca complementari: 1) da un lato, essa si occupa dell’influenza del contesto sulla parola: l’interpretazione del linguaggio deve tener conto di informazioni sulla situazione di discorso, e dunque sul mondo; 2) dall’altro, essa studia l’influenza della parola sul contesto: i parlanti si servono del linguaggio per modificare la situazione di discorso, e in particolar modo per influenzare le credenze e le azioni dei loro interlocutori. Ci occuperemo della pragmatica nel senso 1 nel secondo capitolo, e della pragmatica nel senso 2 nel terzo. Per il momento rivolgiamo un rapido sguardo alle origini della pragmatica.
3. Le origini filosofiche della pragmatica Quando colui che ascolta non capisce colui che parla e colui che parla non sa cosa stia dicendo: questa è filosofia. (Voltaire)
La pragmatica è per sua natura una disciplina al crocevia di diverse aree di ricerca: filosofia del linguaggio, linguistica, semiotica, sociologia, psicologia, retorica, analisi conversazionale, etnometodologia, linguistica testuale. In questo libro ci occuperemo quasi esclusivamente delle teorie pragmatiche elaborate nell’ambito della filosofia analitica (in modo particolare da filosofi del linguaggio): esse rappresentano infatti le proposte più compiute e generali e, nelle loro elaborazioni più recenti, realizzano quel progetto teorico unitario che faceva difetto alla riflessione pragmatica delle origini3. Nella filosofia del linguaggio contemporanea, semantica e pragmatica sono considerate discipline complementari: la semantica si occupa del significato convenzionale delle espressioni linguistiche, mentre la pragmatica studia gli usi delle espressioni nei contesti concreti di discorso. Eppure la complementarità nasconde spesso una vera e propria contrapposizione teorica. Secondo una tesi non controversa in semantica, è possibile attribuire un contenuto proposizionale alle frasi in modo del tutto indipendente dal contesto in cui il parlante le proferisce: una frase possiede condizioni di verità definite in virtù delle sole regole del linguaggio. È invece tesi diffusa in pragmatica che una frase esprima un contenuto completo solo una volta che si sia determinato il contesto di proferimento della frase. Tale contrapposizione si ritrova nelle origini stesse della pragmatica – nei due modi diversi di concepire il linguaggio che si affermano a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. I fondatori della filosofia del linguaggio contemporanea – Gottlob Frege, Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein, Alfred Tarski e Willard Quine – si occupano prevalentemente di linguaggi formali con l’obiettivo di creare un linguaggio perfetto – un linguaggio ideale – privo dei difetti e delle ambiguità dei linguaggi naturali (le lingue che parliamo e scriviamo quotidianamente, come l’italiano, l’inglese, il giapponese). Solo alla fine degli anni Sessanta, con i lavori di Donald Davidson e Richard Montague, si riconosce la possibilità di costruire, grazie ai metodi logici elaborati per i linguaggi formali, una teoria semantica rigorosa anche per i linguaggi naturali: nasce così la semantica formale o semantica modellistica, che si afferma come il paradigma semantico dominante. A questo modo di concepire il linguaggio si contrappone quello dei filosofi del linguaggio ordinario: il secondo Wittgenstein, Friedrich Waismann, John Austin, Paul Grice, Peter Strawson. Mentre i filosofi del linguaggio ideale si sforzavano di creare uno strumento rigoroso per il lavoro scientifico e filosofico, i filosofi del linguaggio ordinario fanno del linguaggio naturale un oggetto autonomo d’analisi, all’interno del quale risolvere i problemi filosofici: nasce la pragmatica contemporanea. Approfondiamo la contrapposizione. 3.1. La filosofia del linguaggio ideale Dans toutes les tentatives de démontrer que 2 + 2 = 4 il n’a jamais été tenu compte de la vitesse du vent. (Raymond Queneau)
Abbiamo detto che, secondo il paradigma semantico tradizionale, una frase ha la funzione di descrivere uno stato del mondo ed è vera se il mondo è come la frase dice che sia, e falsa altrimenti; il significato di una frase viene identificato con le condizioni di verità della frase. Questo modo di concepire la semantica trova la sua origine nelle opere di Frege, di Russell, del primo Wittgenstein, di Tarski. Loro obiettivo era realizzare il sogno di Leibniz di una lingua universale, mettendo a punto uno strumento affidabile di comunicazione scientifica, un vero e
proprio linguaggio per la scienza. Lo scopo viene perseguito creando linguaggi artificiali – i linguaggi formali – immuni dalle imperfezioni dei linguaggi naturali. Per Frege, infatti, il linguaggio è espressione del pensiero, in quanto riflesso del pensiero; solo per il linguaggio formale, però, si può postulare l’identità di forma linguistica e forma logica, specchio dell’identità di linguaggio e pensiero. Il linguaggio naturale viene criticato in quanto logicamente imperfetto: se ne sottolineano non solo i difetti, ma addirittura i pericoli (cfr. l’Introduzione a Frege 1879). Nel lavoro scientifico e filosofico, pertanto, esso deve essere sostituito, parzialmente o totalmente, con un linguaggio formale. Segue da questa prospettiva la tesi secondo cui l’uso teorico e scientifico precede e fonda l’uso dialogico e discorsivo della lingua, secondo una precisa gerarchia dei fatti linguistici rimasta invariata nell’evoluzione successiva della semantica modellistica: si privilegia la dimensione descrittiva e rappresentativa del linguaggio, si dà priorità al significato letterale su quello figurato, si accantonano nella pragmatica fenomeni linguistici centrali, come polisemia e indicalità. Va qui individuata la radice di un’immagine del linguaggio naturale spesso inadeguata, che ha avuto la conseguenza di mascherare fatti linguistici essenziali, come la deissi, che è l’asse portante del linguaggio e della struttura cognitiva del parlante, o come l’ironia e la metafora, che rappresentano la realizzazione più evoluta del potenziale espressivo della lingua: tali fatti sono stati spinti alla periferia dell’analisi semantica ed etichettati come anomalie, o tutt’al più rompicapo, difficoltà minori per un programma di ricerca comunque trionfante. 3.2. La filosofia del linguaggio ordinario
La rottura con la semantica tradizionale viene segnata dai filosofi del linguaggio ordinario. Si tratta per lo più di proposte non pienamente articolate e che non si traducono in vere e proprie teorie, ma che segnano la nascita di una prospettiva intellettuale sul linguaggio naturale alternativa alla prospettiva tradizionale: ne sono gli iniziatori il secondo Wittgenstein, Austin e Waismann. L’atteggiamento critico e normativo nei confronti del linguaggio naturale cede il passo a un atteggiamento descrittivo e benevolo verso quelli che, lungi dall’essere considerati difetti del linguaggio naturale, sono ora visti come segno della sua ricchezza e del suo potere espressivo. Per il paradigma tradizionale, una frase rappresenta uno stato di cose ed è vera o falsa a seconda che lo stato di cose rappresentato sia realizzato o meno nel mondo. I filosofi del linguaggio ordinario distinguono invece tra “frase” ed “enunciato”: non è la frase, in quanto unità grammaticale, che rappresenta uno stato di cose, ma il parlante che si serve della frase per dire qualcosa di vero o di falso, per produrre, con la frase, un enunciato che può essere vero o falso. Le frasi sono allora solo strumenti, utilizzati dal parlante per fare affermazioni. D’altro lato, questa corrente sottolinea la varietà degli usi discorsivi delle frasi del linguaggio naturale, la diversità delle funzioni che gli enunciati possono esercitare: affermazioni, ordini, domande ecc. È la celebre tesi di Austin: «dire è fare», parlare significa agire, una tesi che verrà analizzata nel terzo capitolo. Gli enunciati non hanno solo un senso cognitivo, ma un senso pragmatico, una funzione sociale: servono infatti a compiere atti istituzionali, come sposarsi, o battezzare, o dichiarare una guerra, o atti linguistici, come affermare, minacciare, esortare, ipotizzare ecc. 3.3. La concezione pragmatica del linguaggio Se ci siamo assicurati che è un cardellino, realmente un cardellino, e poi in futuro fa qualcosa di anormale (esplode, cita la signora Woolf, o chissà cos’altro), non diciamo di esserci sbagliati nel dire che era un cardellino: non sappiamo cosa dire. Ci mancano letteralmente le parole. (John Austin)
L’attenzione rivolta ai contesti d’uso degli enunciati spinge i filosofi del linguaggio ordinario a focalizzare il loro interesse su quella flessibilità ed elasticità del linguaggio di ogni giorno che venivano stigmatizzate dai semantici formali come vaghezza e indeterminatezza: questi stessi caratteri diventano i segni della ricchezza del linguaggio naturale, e della sua capacità di adattarsi a nuovi contesti e a circostanze insolite. Se, in un linguaggio formale, le convenzioni semantiche associano a ogni espressione e a ogni frase un significato fisso una volta per tutte, le espressioni di un linguaggio naturale sono caratterizzate invece da un’indeterminatezza essenziale. Il significato di ogni espressione ha confini definiti in modo solo parziale, in funzione delle conoscenze dei parlanti, dei loro interessi e obiettivi, delle attività che li vedono coinvolti: questo le rende aperte a usi inediti, alla creazione di nuove convenzioni in contesti inattesi. Si possono infatti variare le situazioni di proferimento di un qualsiasi enunciato, per creare circostanze d’uso inattese, casi straordinari o bizzarri in contrasto con le nostre intuizioni, con lo scopo di evidenziare i momenti di tensione del linguaggio naturale. Vediamo qualche esempio: l’enunciato (19) Ecco un mio amico è vero o falso se, quando mi avvicino, l’uomo scompare, oppure parla e si comporta come un uomo, ma è alto solo dieci centimetri? E che dire dell’enunciato (20) È oro proferito a proposito di una sostanza che soddisfa tutti i test chimici per l’oro, ma che emette un nuovo tipo di radiazione (cfr. Waismann 1940)? E che diremmo dell’enunciato (21) È un cardellino proferito a proposito di un uccellino che esplode o cita Virginia Woolf (cfr. Austin 1961)? Austin osserva che né la frase (22) È un gatto né la sua negazione sembrano poter descrivere, o rappresentare, lo stato di cose in cui il mio gatto, dopo anni di vita comune in armonia e amicizia, si mette a discorrere in perfetto inglese. Il linguaggio naturale è a “tessitura aperta”: è in via di principio impossibile prevedere tutte le circostanze che ci spingerebbero a modificare o ritrattare un enunciato, indicare le nuove esperienze che ci costringerebbero a una riformulazione radicale di un pezzo della nostra teoria sul mondo. Problemi analoghi sorgono quando ci imbattiamo in una nuova combinazione di parole: quando diciamo (23) Il cane pensa creiamo un nuovo contesto, usciamo dai limiti del discorso comune, e sorge allora la questione di che cosa vogliamo dire con questa sequenza di parole. La riflessione ci può condurre a esplorare i limiti del pensiero e del linguaggio. Ad esempio, con (24) x è esteso, ma non ha forma (25) Quest’uomo è e non è in casa siamo di fronte a enunciati che non si limitano a mettere alla prova le nostre intuizioni empiriche,
ma sembrano uscire dallo spazio logico occupato dalla lingua fino ad allora. Ma anche in questi casi le espressioni del linguaggio naturale sono sufficientemente flessibili da consentirci di piegarle a usi inediti e inconsueti. A proposito di (24) e (25), infatti, Austin osserva: In un certo senso non possiamo dire che cosa questo “potrebbe voler dire” – non ci sono convenzioni semantiche, esplicite o implicite, che coprano questo caso: eppure esso non è escluso in alcun modo – non ci sono regole che pongano limiti su quello che potremmo o non potremmo dire in casi fuori dal comune (1961, p. 68).
Di un uomo morto e disteso sul proprio letto, si chiede, diremmo che è in casa? Che non è in casa? La questione dell’adeguatezza di un enunciato non ha infatti una risposta generale, dal momento che gli standard di precisione dipendono dagli scopi: ciò che è sufficientemente preciso per soddisfare certi obiettivi sarà troppo grossolano e approssimativo per altri. La precisione non è d’altro canto sempre un valore in sé: un linguaggio troppo preciso finirebbe inevitabilmente per essere meno flessibile, meno capace di adattarsi a contesti imprevisti. L’obiettivo polemico è ancora una volta la tesi fondante del paradigma tradizionale – l’idea secondo la quale un enunciato ben formato ha condizioni di verità determinate completamente e in modo univoco. Ma, ad esempio, l’enunciato (26) La Francia è esagonale è vero o falso? Un enunciato descrive un fatto e deve quindi essere confrontato con il fatto che descrive perché la sua verità o falsità sia stabilita: nel caso di (26), dice Austin, siamo di fronte a una «descrizione sommaria», che corrisponde ai fatti solo «in una certa misura», sufficiente in certi contesti (per un generale che studia una strategia di difesa della Francia), ma insufficiente in certi altri (per un geografo che deve disegnare una cartina della Francia). E l’enunciato (27) La galassia ha la forma di un uovo al tegame, considerato vero nel contesto di una spiegazione dell’universo a dei bambini, sarà probabilmente considerato falso, o non appropriato, o metaforico, nel corso di un congresso scientifico. (26) e (27) vengono opposti a enunciati come (28) Il gatto è sul tappeto. Si tratta, dice Austin, di «frasi apparentemente pronunciate senza motivo – casi estremi e marginali»: e questo non senza ironia, dal momento che è su esempi come (28) che si è costruita l’immagine del linguaggio naturale veicolata dalla semantica tradizionale. Non è dunque un caso se la prima preoccupazione di autori più recenti, come John Searle e Charles Travis, sia stata quella di escludere che si possano proferire enunciati “senza ragione”, fuori da ogni contesto, in un contesto nullo o contesto zero. I due autori riprendono dalla filosofia del linguaggio ordinario delle origini esempi stranianti e metodo d’indagine: per enunciati apparentemente inoffensivi come (28) o (29) Paolo taglia l’erba (30) Bea ha aperto la porta (31) C’è del latte in frigorifero vengono ancora una volta ipotizzati contesti devianti o bizzarri. Ci si chiede allora se saremmo disposti a considerare vero (28), se il gatto avesse solo un’unghia sul tappeto, oppure fosse completamente sul tappeto ma gatto e tappeto fossero in viaggio nello spazio interstellare, in
assenza di gravità. E (29) sarebbe vero o falso, se l’erba venisse sì tagliata, ma con una forbicina per le unghie, o a fette come una torta di compleanno? E che diremmo di (30), se la porta venisse sfondata con un’ascia, o aperta dopo essere stata strappata dai cardini e gettata in mezzo alla stanza? E come giudicheremmo (31), se il frigorifero fosse solo sporco di latte, o se fosse completamente ricolmo di latte, pronto a inondare chi aprirà lo sportello? Uno stesso enunciato sarà vero in certi contesti e falso in altri – anche se lo stato di cose che l’enunciato descrive resta il medesimo. Supponiamo che Paolo e Francesca stiano facendo colazione e Francesca ami il caffè macchiato; Paolo proferisce (31) e Francesca trova nel frigo solo vecchie incrostazioni di latte: è ragionevole pensare che Francesca giudicherebbe falso (31). La semplice presenza di latte nel frigo non è sufficiente a rendere vero (31): quello che conta, in questo contesto, è che il latte sia, o meno, commestibile, in particolare come complemento del caffè. Il latte deve essere fresco, pulito, e in una forma appropriata: la presenza di secrezioni di ghiandole mammarie di un coniglio, di panna da cucina o di un cheese-cake, non renderebbe vero (31), così come non lo rende vero la presenza di vecchie incrostazioni di latte. Ma ora supponiamo che Paolo e Francesca stiano pulendo la cucina; Francesca ha appena finito di pulire il frigo; Paolo apre il frigo, trova vecchie incrostazioni di latte e proferisce (31): in questo contesto (31) sarebbe giudicato vero. Si noti che la presenza di una bottiglia di latte fresco, pulita e al proprio posto non sarebbe ora considerata pertinente (cfr. Travis 1981). Esempi come quelli citati mostrano che ogni frase ha un senso solo una volta specificato un sistema di assunzioni contestuali (che Searle chiama «background») che ne fissa le condizioni di verità, in altre parole solo una volta fornita una descrizione dell’occasione d’uso, che ne fissa l’interpretazione pertinente. Il sistema di assunzioni contestuali non è unico, né costante, né associato in modo stabile, così come non è unica l’occasione d’uso di un enunciato. Facendo variare in modo opportuno lo sfondo di ipotesi contestuali, è possibile far variare conseguentemente le condizioni di verità delle frasi. Il significato convenzionale di un enunciato, in assenza dell’apporto della particolare occasione d’uso, determina in modo solo incompleto le condizioni di verità dell’enunciato: il senso di un’espressione linguistica dipende dall’uso che dell’espressione si fa – dipende da ciò che con quell’espressione si vuole fare. È la dimensione pragmatica del linguaggio. Esaminiamo ora il primo dei due sensi di pragmatica: l’influenza del contesto sulla parola.
Note 1
Per il momento ignoriamo il fatto che la parola “biblioteca” ha in realtà almeno tre significati diversi: si veda il paragrafo 2 del secondo capitolo. 2 Si noti come, in alcuni dei dialoghi, sia anche il comportamento, e non solo la risposta verbale di Francesca, a non essere appropriato. Nella sua accezione più ampia, la pragmatica è la disciplina che si occupa dell’interpretazione dell’azione intenzionale umana in generale. In questo libro limiteremo la nostra indagine ai comportamenti che coinvolgono l’uso comunicativo del linguaggio: di qui la qualifica “del linguaggio” presente nel suo titolo. 3 Sui precursori della pragmatica e sulle ricerche svolte in tradizioni diverse da quella analitica rimandiamo alla sezione Cos’altro leggere, che chiude il libro.
Fare parole con le cose
Non rimandare a domani quello che puoi fare dopodomani.
Introduzione Immaginate di essere in tram e di sentire per caso, nella conversazione fra due passeggeri, la frase (1) Oggi Silvio ha comprato il «Corriere della Sera». O supponete di ricevere una cartolina con un paesaggio esotico di palme e mare azzurro, dietro a cui qualcuno ha scritto (2) Sono qui da ieri e il tempo è splendido, ma di non riuscire a decifrare né firma, né data, né timbro postale. Oppure immaginate di ascoltare mia nonna che fa il seguente resoconto delle ultime puntate di Beautiful (una soap americana con decine di personaggi, tutti vagamente imparentati e ostinatamente impegnati a sposarsi, tradirsi, divorziare e risposarsi) nel suo stile tutto personale: (3) Lui ha finalmente deciso di sposarla, ma proprio ieri l’ha scoperta nelle braccia di quell’altro. Nel frattempo lei è corsa dalla madre e le ha detto di essere ancora innamorata del figlio del fratello. In un certo senso non sappiamo che cosa è stato detto nei tre casi esaminati: non sappiamo se Silvio ha acquistato una copia del «Corriere della Sera», o la testata; non sappiamo chi è e dove si trova la persona che ci ha scritto, né quando è andata in quel luogo; non sappiamo quale nuovo tradimento si è perpetrato in Beautiful. Eppure sappiamo che cosa, in ciascun caso, ci permetterebbe di determinare quanto è stato detto: per (1) ci basterebbe sapere se la conversazione sul tram verte sulle strategie editoriali di Silvio, o sui suoi acquisti all’edicola; per (2) dovremmo individuare chi, dove, e quando, ha scritto la cartolina; per (3) dovremmo scoprire a chi la nonna fa riferimento con “lui”, a chi con “lei”, e così via. Dovremmo, in altre parole, avere un certo numero di informazioni riguardo ai contesti particolari in cui i tre enunciati sono stati usati. Nel primo capitolo abbiamo detto che la pragmatica si prefigge due compiti: 1) determinare il contenuto proposizionale di particolari tipi di enunciati, ossia stabilire ciò che è stato detto usando quegli enunciati; 2) una volta stabilito il contenuto proposizionale, determinare che tipo di atto linguistico è stato compiuto. In questo capitolo ci occuperemo del primo compito: cercheremo di chiarire come il contesto ci permetta di determinare il contenuto di un enunciato e in che modo il mondo contribuisca a fare parole, a completare il significato delle espressioni linguistiche (o di certe particolari espressioni linguistiche) che usiamo. Vedremo che l’interpretazione linguistica deve tener conto di informazioni sulla situazione di discorso, e dunque sul mondo: il caso più noto è costituito dalle espressioni coinvolte nei casi (2) e (3), le cosiddette espressioni indicali, come “io”, “qui”, “lui”, “quello”, “ieri” ecc., mediante le quali le lingue naturali codificano i tratti del contesto. È però necessario innanzitutto illustrare come le teorie semantiche tradizionali descrivono il funzionamento del linguaggio nei casi “standard”, in cui non si fa appello al contesto. A partire dai casi non indicali, mostreremo in che modi il contesto in cui un parlante proferisce un enunciato permette di determinare il contenuto di quanto egli dice.
1. Contesti: ambiguità, deissi e linguaggio figurato Nel primo capitolo abbiamo accennato al fatto che i fondatori della filosofia del linguaggio contemporanea erano interessati prevalentemente ai linguaggi formali. Il modo tradizionale di concepire il linguaggio subisce l’influenza di questa origine: si tratta di un’immagine fortemente idealizzata, che mal si adatta ai linguaggi naturali, e ancor meno all’uso quotidiano, non scientifico, del linguaggio, e che utilizza frasi quali (4) La neve è bianca (5) Il gatto è sul tappeto come esempi paradigmatici di frammenti di linguaggio naturale. Tesi semantica portante è l’idea che ogni espressione del linguaggio – parola o enunciato – ha un significato fisso, determinato una volta per tutte dalle convenzioni del linguaggio. Una teoria semantica deve essere, si è detto: a) convenzionale; b) vero-condizionale; c) composizionale. Semplici esempi di enunciati del linguaggio naturale, come (1)-(3), mostrano tuttavia che l’intervento del contesto è necessario per determinare qual è lo stato di cose descritto dall’enunciato. Nel corso di questo secondo capitolo mostreremo che l’intervento del contesto ha valenza diversa nei diversi casi. In particolare, nel paragrafo 2 ci occuperemo dei casi di ambiguità, esemplificati da (6) Bea ha una vecchia credenza in cui compare il termine “credenza”, ambiguo fra i due significati di “mobile” e “convinzione”; nel paragrafo 3 affronteremo i casi di deissi, come (7) Io sono bionda in cui compare l’espressione indicale “io”, che non ha riferimento se presa indipendentemente dal contesto in cui viene usata; e, infine, nel paragrafo 4, tratteremo i casi di linguaggio figurato o senso implicito, di cui sono esempio gli enunciati metaforici, come (8) Bea è una balena, che sembrano comunicare un senso diverso da quello letteralmente espresso. Vedremo che sono in gioco non solo diversi usi, ma anche almeno due nozioni di contesto: • il contesto semantico o la situazione oggettiva di proferimento – che si limita a determinare il contenuto di un piccolo numero di variabili e, in particolare, a fissare l’identità di parlante e interlocutori, il tempo e il luogo del proferimento, e così via; • il contesto pragmatico – che corrisponde alla rete di credenze, intenzioni, attività degli interlocutori, e contribuisce alla determinazione delle loro intenzioni comunicative. Cominciamo con l’esaminare l’intervento del contesto nei casi di ambiguità.
2. Ambiguità Io posso sollevare un elefante con una mano sola. Ma dove lo trovo un elefante con una mano sola? (Leopold Fechtner) 2.1. Che cosa si intende per ambiguità?
Si è detto che i linguaggi formali sono caratterizzati da una rigida corrispondenza tra forme e significati: il significato di un’espressione è convenzionale, cioè determinato senza ambiguità dalla forma dell’espressione. A ogni simbolo del linguaggio corrisponde uno e un solo significato. A un enunciato come (5) corrisponde dunque un solo insieme di condizioni di verità, e a un’espressione subenunciativa come “gatto” un solo insieme di condizioni di applicazione (in altri termini, un’espressione subenunciativa dà sempre il medesimo contributo alle condizioni di verità dell’enunciato in cui compare). Alla parola “gatto”, ad esempio, sarà associato l’insieme di condizioni (essere un piccolo felino, domestico, avere quattro zampe, avere una coda, miagolare ecc.) che un oggetto deve soddisfare perché sia possibile applicargli la parola “gatto”. Allo stesso modo, a (5) sarà associato l’insieme di condizioni (che ci sia un gatto, che ci sia un tappeto, che il gatto sia sopra al tappeto) che il mondo deve soddisfare perché l’enunciato sia vero. Il linguaggio naturale si allontana però dall’ideale rappresentato dal linguaggio formale perché contiene espressioni ambigue. Diciamo che un’espressione è ambigua quando può prendere convenzionalmente due o più significati. A un enunciato ambiguo sono allora associati più insiemi distinti di condizioni di verità, a un’espressione subenunciativa più insiemi distinti di condizioni di applicazione (un’espressione subenunciativa può dare due o più contributi diversi alle condizioni di verità dell’enunciato in cui compare). Abbiamo innanzitutto le espressioni lessicalmente ambigue: si parla di omonimia quando è possibile associare alla medesima forma linguistica due o più significati che non hanno generalmente relazione fra di loro. L’enunciato (6) Bea ha una vecchia credenza contiene l’espressione lessicalmente ambigua “credenza” che può essere concepita nei termini di due elementi lessicali distinti, pronunciati e scritti nello stesso modo, per una sorta di caso, o di patologia della lingua: credenza1: “mobile da cucina”; credenza2: “convinzione, opinione”. Abbiamo poi esempi di ambiguità strutturali come (9) Uomini e donne competenti sono al governo in questo paese in cui è possibile individuare due strutture sintattiche, a seconda che l’aggettivo “competenti” vada a modificare la congiunzione “uomini e donne” o il solo termine “donne”. Un esempio analogo è (10) Bea ha visto l’uomo con il binocolo, che ha due interpretazioni distinte, a seconda che Bea abbia visto l’uomo “usando il binocolo”, o abbia visto l’uomo “che aveva il binocolo”. Ci sono anche combinazioni di ambiguità lessicali e ambiguità strutturali, come in (11) La vecchia porta la sbarra
ambiguo fra due letture: “La vecchia porta le impedisce il passaggio” o “La donna anziana porta la sbarra”. O ancora ambiguità di ambito come in (12) Ogni marinaio ama una donna che presenta un caso particolare di ambiguità strutturale: o tutti i marinai amano la stessa donna, o ciascun marinaio ama la propria donna. L’ambiguità di un enunciato può essere causata anche da fenomeni di polisemia, come in (13) Silvio ha comprato un giornale in cui il termine “giornale” è polisemico fra le accezioni “copia di giornale” e “testata”. Se parliamo di polisemia e non di omonimia, è perché in genere i parlanti percepiscono una relazione di parentela fra i diversi significati che l’espressione può prendere, significati di cui uno è spesso considerato prioritario. Lo stesso fenomeno è all’origine dell’ambiguità di (14) Bush ha lasciato la Casa Bianca in mattinata che ha due interpretazioni, a seconda che il presidente si sia allontanato dal luogo fisico (l’abitazione), o abbia lasciato l’istituzione (la presidenza degli Stati Uniti) che ha sede nel luogo nominato. (14) è un caso di polisemia sistematica in quanto la generazione del senso derivato (“istituzione”) dal senso prioritario (“luogo”) è un processo che avviene sistematicamente, come in “Berlusconi ha lasciato Palazzo Chigi in mattinata”, “Chirac ha lasciato l’Eliseo in mattinata”, e così via. E, infine, l’ambiguità di un enunciato può essere causata dal fatto che non sia nota o non sia stata specificata che lingua viene utilizzata in un enunciato, come in (15) I vitelli dei romani sono belli che ha un significato in italiano e un significato differente in latino. 2.2. Il trattamento dell’ambiguità Le persiane per loro natura sono portate ad aprirsi verso l’esterno. Sono gli iraniani che spesso non glielo permettono. (Eros Drusiani)
Qual è il trattamento tradizionale dell’ambiguità? Abbiamo detto che il valore semantico di un’espressione è determinato dalle regole convenzionali del linguaggio: è la tesi a della semantica tradizionale. Secondo la tesi b il valore semantico dell’espressione si identifica con le sue condizioni di verità; e infine il valore semantico di un’espressione complessa è funzione del valore delle espressioni componenti (è la tesi c). La congiunzione delle tre tesi ne implica una quarta: d) ogni parola fornisce alle condizioni di verità dell’enunciato in cui compare un contributo semantico costante. Il paradigma tradizionale giustifica il fatto che la stessa espressione possa contribuire in modo diverso alle condizioni di verità di un enunciato (fatto che contraddice la tesi d) postulando che all’espressione ambigua siano associati due o più insiemi distinti di condizioni di applicazione. Le convenzioni del linguaggio fissano la lista di tutte le proposizioni potenzialmente disponibili, di tutte le alternative, postulando tante unità quanti sono i sensi possibili: (6’) Bea ha una vecchia credenza1
(6’’) Bea ha una vecchia credenza2. La selezione della proposizione appropriata non è però una procedura semantica, in quanto viene messa in atto prima che le convenzioni del linguaggio associno un significato alle espressioni che compongono l’enunciato, prima cioè che entri in gioco la teoria semantica vera e propria. È solo dopo aver selezionato la forma credenza1 o credenza2 e dunque la forma dell’enunciato – (6’) o (6’’) – che il calcolo composizionale del significato viene messo in moto. La procedura di selezione è pragmatica, relativa all’ambiente fisico degli interlocutori, al segmento precedente di conversazione, e all’insieme di conoscenze, ipotesi, credenze e pregiudizi che ciascuno dei partecipanti allo scambio comunicativo ha sul mondo. In molti casi il contesto linguistico da solo (il resto dell’enunciato, o la conversazione immediatamente precedente o seguente) permette di selezionare l’entrata lessicale corretta, come in (16) Bea ha una vecchia credenza. L’ha fatta restaurare di recente (17) Bea ha una vecchia credenza. Su di essa basa tutta la sua esistenza. In altri casi la disambiguazione ha luogo grazie al contesto extralinguistico: è ad esempio plausibile supporre che in (6), proferito nel corso di una conversazione sull’appartamento di Bea, “credenza” sia da intendersi nel senso di “mobile”. Allo stesso modo si procederà alla disambiguazione degli enunciati (9)-(15), usando le informazioni condivise fra parlante e destinatario, conoscenze enciclopediche e sull’ambiente fisico, credenze, desideri e scopi della conversazione. Gli enunciati effettivamente ambigui – che restano tali anche una volta proferiti in un contesto – sono assai rari nelle conversazioni reali, tipici per lo più dell’ironia o dei giochi di parole (come nel celebre motto di Oscar Wilde: (18) La perdita di un genitore si può considerare una disgrazia. La perdita di entrambi rasenta la sbadataggine); assai rari sono del resto i malintesi.
3. Deissi 3.1. Che cos’è la deissi? Insegnante: “Susie, dimmi due pronomi!”. Susie: “Chi? Io?”. (Prochnow e Prochnow Jr)
Il fenomeno che prende il nome di deissi (dal greco deixis, “indicazione”) costituisce l’intervento più evidente e diffuso del contesto nella determinazione del contenuto degli enunciati del linguaggio naturale, al punto che la pragmatica ha coinciso per lungo tempo con il solo studio degli indicali (cfr. Montague 1968). Teoria del contesto, la pragmatica viene talvolta definita anche come teoria della distanza – distanza fisica, sociale, psicologica ed emotiva. Una delle manifestazioni più concrete della distanza è data appunto dai fenomeni raggruppati sotto la denominazione di deissi che, lo vedremo fra breve, sono anche l’espressione più evidente di come le lingue naturali (a differenza dei linguaggi formali, ma anche dei linguaggi tecnici o scientifici) siano caratterizzate tipicamente per l’interazione faccia a faccia. All’interno della categoria generale della deissi, si individuano almeno tre sottocategorie: i deittici di persona, quelli di luogo e quelli di tempo. Le espressioni deittiche personali codificano il ruolo dei partecipanti in uno scambio comunicativo: “io” codifica il ruolo di parlante, “tu” o “voi” quello di ascoltatori o destinatari, “egli” o “ella” (“lui” o “lei”) quello di partecipanti che non sono né il parlante, né i destinatari. Attraverso i deittici personali viene codificata tipicamente anche la distanza sociale dei partecipanti (si pensi all’uso del “Lei” in italiano), in modi diversi nelle diverse lingue, a seconda che nella grammatica siano iscritte distinzioni di status sociale, assoluto o relativo al parlante, e distinzioni di età, sesso, grado di intimità con il parlante: in Tamil, per fare un esempio, esistono sei pronomi di seconda persona singolare, in dipendenza dalla posizione sociale del parlante rispetto al destinatario. È evidente che l’uso dei deittici personali richiede una complessa competenza non solo strettamente linguistica ma anche sociale (dunque pragmatica), tanto più in lingue come il giapponese o il coreano in cui la deissi sociale riveste un ruolo più importante che in italiano (cfr. Levinson 1983). Le espressioni deittiche spaziali codificano invece la distanza fisica, segnalando generalmente almeno la distinzione fra prossimale, o vicino al parlante (con espressioni come “qui”, “questo”, “questo libro”, ma anche verbi come “venire”) e distale, o lontano dal parlante (con espressioni come “là”, “quello”, “quel libro”, e verbi come “andare”). Naturalmente lingue diverse codificano distinzioni diverse: in italiano troviamo termini per “lontano dal parlante e vicino al destinatario” (con espressioni come “codesto”, o “costì”), in altre lingue ci sono deittici per distinguere gli oggetti visibili al parlante e al destinatario da quelli non visibili, oppure deittici per “a monte” e “a valle”. Le espressioni deittiche temporali codificano la distanza temporale – in genere dal momento del proferimento – con espressioni come “ora”, “dopo”, “subito”, oppure “oggi”, “ieri”, “domani”, “lunedì”, “lunedì prossimo”, “quest’anno”, “l’anno scorso”, “l’anno prossimo” ecc. Anche in questo caso l’uso dei deittici richiede una competenza insieme linguistica ed enciclopedica: da un lato le diverse culture categorizzano in modo diverso il tempo (l’hindi ha lo stesso termine per “oggi” e “domani”, il giapponese ha nomi per tre giorni prima del giorno del proferimento, e per due giorni dopo); dall’altro ogni lingua possiede complessi meccanismi di combinazione dei diversi sistemi di divisione del tempo. Per fare un solo esempio, si pensi alle regole per l’uso dei
giorni della settimana, che fanno sì che “Vieni a cena sabato” non possa essere detto la mattina del sabato stesso se non per riferirsi al sabato successivo (altrimenti il parlante avrebbe usato “oggi”, o “stasera”) e neppure il venerdì precedente (altrimenti il parlante avrebbe usato “domani”). L’esistenza di espressioni deittiche costituisce un’obiezione alla congiunzione delle tesi a e b della semantica tradizionale. Vediamo perché. Una frase come (19) Bea è bionda (prescindiamo per il momento dal tempo verbale) ha condizioni di verità fisse, determinate dal significato convenzionale dei componenti della frase: (19) è vera se e solo se Bea è bionda – se cioè Bea (l’individuo che l’espressione “Bea” nomina, o cui si riferisce) appartiene all’insieme degli individui biondi (in altri termini se ha la proprietà di essere bionda). Il significato convenzionale di una frase indicale come (7) Io sono bionda, preso indipendentemente dal contesto di proferimento, non basta invece a determinare le condizioni di verità della frase: per poterla valutare – per sapere come deve essere fatto il mondo se essa è vera – è necessario identificare il riferimento di “io” (l’individuo cui l’espressione si riferisce). Quello che verrà valutato sarà allora l’enunciato indicale (7), cioè la frase in quanto proferita in contesto (si veda il primo capitolo, paragrafo 3.2). Le espressioni deittiche sono espressioni che hanno un riferimento solo dato un contesto di proferimento: usi o occorrenze diverse dello stesso deittico (come tipo di espressione) possono riferirsi a oggetti diversi. Infatti l’enunciato (7) proferito da Bea è vero se e solo se Bea è bionda, proferito da Francesca è vero se e solo se Francesca è bionda, proferito da Claudia è vero se e solo se Claudia è bionda. In altri termini, la verità di (19) dipende da due sole cose: il significato delle parole in (19) e come è fatto il mondo; la verità di (7) dipende invece da tre cose: il significato delle parole in (7), come è fatto il mondo e chi ha proferito (7). Sono stati proposti sostanzialmente due metodi per rendere conto degli enunciati contenenti deittici: A) il metodo delle coordinate multiple, elaborato da Richard Montague: esso definisce le condizioni di verità di un enunciato rispetto a un certo numero di parametri; B) le teorie proposte negli anni Settanta in maniera indipendente da David Kaplan, Robert Stalnaker e John Perry: esse distinguono, nel significato convenzionale di un deittico, due componenti, il carattere e il contenuto. 3.2. A) Il metodo delle coordinate multiple Collaborazione: Io l’insulto. Tu lo tieni. Lui gli mena. Noi aiutiamo e voi guardate se essi arrivano. (Marcello Marchesi)
Secondo il metodo delle coordinate multiple, il contenuto o pensiero espresso da (7) – la proposizione espressa da (7) – è una funzione (in senso tecnico, matematico) che, dato un mondo possibile e un insieme di coordinate contestuali, ci dà il valore di verità (vero o falso) di (7) in quel mondo e rispetto a quelle coordinate. Chiariamo che cosa questo significhi. Abbiamo detto che in una semantica vero-condizionale la frase (19) è vera se e solo se Bea è bionda. Per tipi particolari di enunciati (modali, temporali, di credenza, controfattuali) come (20) Bea potrebbe essere bionda
dobbiamo prendere in considerazione come stanno le cose in mondi alternativi, ossia diversi da quello in cui la frase viene valutata (che assumiamo essere il mondo reale w). E così (20) è vera in w se e solo se c’è un mondo possibile w’ in cui (19) è vera. La semantica dei mondi possibili (o semantica intensionale) relativizza il predicato di verità ai mondi possibili: non si parla più di “vero” tout court, ma di “vero rispetto al mondo w”. Una soluzione analoga viene proposta per le frasi temporali (non eterne). La frase (21) Piove a Milano, ad esempio, può essere vera a un istante t e falsa a un istante t’; la frase (22) Pioveva a Milano è vera all’istante t se e solo se (21) è vera a un tempo t’ precedente t. Il predicato di verità viene allora relativizzato a una coppia mondo possibile/tempo che costituisce quelle che chiamiamo le circostanze di valutazione: si parlerà di enunciati “veri rispetto al mondo w e al tempo t”. Si è suggerito di generalizzare questo metodo a tutti i fattori contestuali suscettibili di influenzare le condizioni di verità di un enunciato in un contesto dato (cfr. Montague 1968). Si ha così che la proposizione espressa da un enunciato (la sua intensione, le sue condizioni di verità) è una funzione che prende come argomento un insieme di parametri e fornisce come valore il valore di verità dell’enunciato (la sua estensione). Per semplificare il trattamento formale, le coordinate contestuali vengono raccolte in un parametro unico detto indice, che contiene, oltre al mondo possibile e al tempo (ma si noti che il numero di parametri è andato variando negli approfondimenti della teoria: cfr. Lewis 1970): 1) il parlante (per “io”); 2) l’insieme dei destinatari (per “tu” o “voi”); 3) il luogo (per “qui” o “là”); 4) l’insieme {o} di oggetti che possono essere designati (per “lui”, “lei”, “questo”, “quello”, “questo libro” ecc.); 5) il segmento di discorso (per stabilire il riferimento di pronomi anaforici e per gli standard di precisione). Parleremo allora di enunciati “veri rispetto all’indice i ” (). 3.3. B) Carattere e contenuto Va sempre in giro con il suo secondo, il Comitiva, che per motivi religiosi parla di se stesso in terza persona plurale. Dice “Sono dei bei camionisti”. Ma chi? “Essi! Domani sera vengono a cena da te”. Tu prepari per diciotto, arriva lui e dice: “Sono arrivati!”. Ma chi? “Essi!”. E mangia tutto lui. E adesso chi paga? “Loro!”. Perché il Comitiva non è mica scemo. (Francesco Salvi)
Le teorie di Kaplan, Stalnaker e Perry propongono di relativizzare l’interpretazione di un enunciato deittico (o indicale) a un contesto. A ogni espressione indicale le convenzioni del linguaggio associano, come suo significato, una funzione (il carattere) che determina, per il contesto dato, un’intensione (il contenuto); l’intensione è a sua volta una funzione da circostanze di valutazione (mondo possibile e tempo) a valori di verità. Il valore semantico di un enunciato è pertanto determinato attraverso due fasi e tre livelli: • significato convenzionale, o carattere, stabilito dalle regole del linguaggio; • intensione, o contenuto (o condizioni di verità); • estensione (o valore di verità). Il carattere di un’espressione indicale è la funzione che, a partire dal contesto di proferimento,
dà il contenuto dell’espressione nel contesto dato: si tratta del significato convenzionale dell’espressione, della regola linguistica associata all’espressione. A ogni tipo di espressione indicale è associato un carattere particolare: per “io” il carattere stabilisce che “un’occorrenza (un uso) di ‘io’ si riferisce al parlante nel contesto di proferimento”, per “qui” che “un’occorrenza di ‘qui’ si riferisce al luogo del proferimento”, per “ora” che “un’occorrenza di ‘ora’ si riferisce al tempo del proferimento”, e così via. Il carattere è pertanto il significato dell’espressione inteso come ciò che conosce un parlante per il solo fatto di conoscere la lingua cui appartiene l’espressione. Il contenuto di un enunciato è invece la proposizione espressa dall’enunciato, ciò che è detto dall’enunciato. Carattere e contenuto rappresentano i due ruoli che, in una semantica tradizionale, erano svolti dalla stessa entità – il senso: quello della competenza semantica, da un lato (il carattere), e quello di “ciò che è detto” o di proposizione espressa, d’altro lato (il contenuto). Infatti, non possiamo dire di comprendere pienamente la frase (23) Io ho ragione e tu hai torto (che supponiamo proferita da qualcuno nella stanza accanto) prima di individuare, in contesto, il riferimento di “io” e “tu”: non conosciamo le condizioni di verità di (23), non sappiamo come deve essere fatto il mondo perché (23) sia vero, non sappiamo cosa (23) dica realmente. E tuttavia in un certo senso conosciamo il significato della frase fuori contesto, grazie alla nostra sola padronanza dell’italiano, della nostra conoscenza del significato convenzionale dei componenti della frase e delle regole di composizione. Se non sappiamo quale proposizione è stata espressa con (23), sappiamo almeno che tipo di proposizione è stata espressa. In filosofia del linguaggio si tende ormai a preferire, al metodo delle coordinate multiple, il trattamento kaplaniano degli indicali or ora illustrato, perché esso permette di tracciare due distinzioni importanti: da un lato, la distinzione fra aspetto oggettivo e aspetto cognitivo degli enunciati indicali; dall’altro, quella fra contesto di proferimento e mondo possibile. 3.4. Essenzialità degli indicali Mi accade spesso di svegliarmi di notte e cominciare a pensare a una serie di gravi problemi e decidere di parlarne col Papa. Poi mi sveglio completamente e mi ricordo che sono io il Papa. (Giovanni XXIII)
Cominciamo con la prima distinzione. Una delle ragioni dell’interesse degli enunciati indicali, e più in particolare della nozione di carattere, risiede nella loro centralità per l’analisi del rapporto fra linguaggio e realtà, e soprattutto della relazione fra credenze e comportamento. Esaminiamo la relazione fra enunciati non indicali come (24) Il 21 gennaio 2003 piove a Milano ed enunciati indicali come (25) Oggi piove a Milano. (24) e (25), se proferito il 21 gennaio 2003, esprimono la stessa proposizione. E tuttavia (24), ma non (25), ci sarà utile se dobbiamo raccogliere informazioni sulle variazioni meteorologiche a Milano nel corso del mese di gennaio, e se dobbiamo immagazzinarle e trasmetterle ad altri. Invece (25), ma non (24), può servire come guida immediata all’azione. La credenza manifestata accettando (24), infatti, di per sé non mi spinge a prendere un ombrello per uscire, a meno che non venga mediata da una credenza che possiamo esprimere con
(26) Oggi è il 21 gennaio 2003. Perry definisce gli indicali come essenziali: quando li vogliamo ridurre a termini non indicali, possiamo farlo solo postulando assunzioni del tipo di (26) che ne conservano la forza esplicativa (cfr. Perry 1993). In proposito si immagini che Carlo Azeglio Ciampi, perduta la memoria, vaghi nella sterminata Biblioteca Nazionale di Roma senza trovarne l’uscita e, per ingannare il tempo, legga una gran quantità di libri, fra cui una biografia di cui egli stesso è il soggetto, e una descrizione dettagliata della biblioteca in cui si trova. All’uomo affetto da amnesia non mancano le conoscenze pubbliche, precise fino ai dettagli, e in particolare le conoscenze sulla persona che gli capita di essere e sul luogo in cui gli capita di essere; non gli mancano neppure certe conoscenze che riguardano la “conoscenza di sé” (senza dubbio Ciampi non si chiede in quale bocca deve infilare il cibo, o quali siano le sue mani). Quello che gli manca è piuttosto la connessione fra questi due tipi di conoscenza, data appunto da enunciati indicali come (27) Io sono Ciampi (28) Questa è la Biblioteca Nazionale di Roma. Qui è cruciale la distinzione fra carattere e contenuto di un’espressione o di un enunciato. Quello che conta per le condizioni di verità di un enunciato è il contenuto dell’espressione indicale. Un enunciato come (7), proferito da Bea, è vero se e solo se Bea è bionda: la proprietà di essere il parlante non è un componente della proposizione espressa e serve solo a identificare il referente. Il significato convenzionale, o carattere, di un indicale si limita a fissare quale aspetto del contesto è pertinente al fine di determinarne il contenuto: il carattere non è un componente della proposizione espressa, ma determina il riferimento, che è un componente della proposizione espressa. Il carattere è però l’elemento che rappresenta l’aspetto cognitivo, psicologico, soggettivo dell’enunciato, e ha pertanto un legame diretto con l’azione. Si consideri infatti l’enunciato (29) Io sto nuotando in un fiume pieno di alligatori, proferito da Paolo e proferito da Francesca: (29) esprimerà, nei due casi, due proposizioni diverse, con diverse condizioni di verità, dal momento che si riferisce a due individui diversi: nel primo caso (29) sarà vero se e solo se Paolo sta nuotando in un fiume pieno di alligatori, mentre nel secondo caso (29) sarà vero se e solo se Francesca sta nuotando in un fiume pieno di alligatori. Ciò che è comune ai due casi è però il carattere dell’enunciato che spinge Paolo e Francesca alla medesima azione, quella di affrettarsi a uscire dal fiume. Consideriamo ora gli enunciati (29), proferito da Paolo, e (30) Tu stai nuotando in un fiume pieno di alligatori, proferito da Francesca con l’intenzione di riferirsi a Paolo. I due enunciati esprimono la medesima proposizione, in quanto costituiti dallo stesso oggetto (Paolo) cui viene attribuita la medesima proprietà (il fatto di star nuotando in un fiume pieno di alligatori): sia (29) sia (30) sono veri se e solo se Paolo sta nuotando in un fiume pieno di alligatori. In questo caso è il carattere ad essere differente e dunque il comportamento che ne consegue sarà differente: sarà Paolo, e non Francesca, ad affrettarsi a uscire dal fiume. 3.5. Contesto di proferimento e mondo
Veniamo ora alla seconda ragione di preferire il trattamento degli indicali nei termini di carattere
e contenuto: la possibilità di tracciare una distinzione netta fra contesto di proferimento e mondo possibile. Il metodo delle coordinate multiple raccoglieva in un indice unico, accanto a mondo possibile e tempo, le coordinate del contesto di proferimento. Kaplan, invece, distingue nettamente fra il contesto di proferimento di un enunciato – che fissa la proposizione espressa dall’enunciato, le sue condizioni di verità, e in particolare il riferimento degli indicali – e il mondo possibile (o le circostanze di valutazione) – che permette di valutare la proposizione espressa, di stabilirne il valore di verità. Mostriamo perché tale distinzione è essenziale. Consideriamo i due enunciati (31) Tu sei bruna e insegni filosofia (32) Tu potresti essere bionda e fare la velina proferiti da Francesca rivolgendosi a Bea. Nei due casi, il contesto di proferimento è lo stesso e il riferimento di “tu” è il medesimo (Bea): è il contesto a fissare il riferimento degli indicali. (31) esprime la proposizione che Bea è bruna e insegna filosofia, (32) esprime la proposizione che Bea è bionda e fa la velina. I due enunciati, però, devono essere valutati rispetto a due diversi mondi possibili: il mondo reale per (31) e un mondo possibile diverso da quello reale per (32). (31) sarà vero se, nel mondo reale w, Bea è bruna e insegna filosofia, mentre (32) sarà vero se esiste un mondo w’ in cui Bea è bionda e fa la velina. Grazie a questa distinzione possiamo capire perché certi enunciati indicali possono essere sempre veri, quando proferiti – veri in tutti contesti –, ma veri in modo contingente – non saranno cioè veri in tutti i mondi possibili. Supponiamo che io proferisca (33) Io sono qui ora. L’enunciato esprime la proposizione “Claudia Bianchi è a Milano il 22 gennaio 2003”, ed è contingente, non è cioè vero in tutti i mondi possibili, dal momento che io potrei benissimo essere altrove, a Parigi nel mio ristorante vietnamita preferito, o ai Caraibi in riva al mare. (33) è però vero ogni volta che lo proferisco: è il suo carattere – il suo particolare significato convenzionale – a renderlo sempre vero, mentre è il suo contenuto ad essere contingente. Questo naturalmente funziona anche se siete voi a proferirlo, funziona chiunque lo proferisca. Provare per credere. È quindi essenziale mantenere distinte le due nozioni di contesto e mondo: • il contesto di proferimento è la localizzazione concreta del proferimento e determina “ciò che è detto” da un enunciato, la proposizione espressa, e in particolare permette di fissare il riferimento delle espressioni indicali; • il mondo possibile rappresenta le circostanze di valutazione, e permette di determinare se “ciò che è detto” è vero o falso. 3.6. Semantica o pragmatica?
Così come lo abbiamo descritto, il trattamento degli indicali sembra una parte della teoria semantica. A ciascuna espressione, infatti, è associata una regola convenzionale (“io” si riferisce al parlante, “qui” al luogo del proferimento, “ora” al tempo del proferimento ecc.); le espressioni per il loro riferimento dipendono sì dal contesto, ma questo è inteso in senso semantico, individuato da una lista fissa e ristretta di parametri oggettivi della situazione di proferimento (parlante, tempo, luogo ecc.). Due osservazioni sembrano smentire questa impressione. In primo luogo, è proprio vero che è possibile trovare un insieme finito di parametri contestuali,
un indice che contenga tutti i tratti del contesto suscettibili di determinare le condizioni di verità di un enunciato? Le teorie proposte non sembrano avere una restrizione di principio sul numero di parametri che potrebbero rivelarsi pertinenti per l’interpretazione di un enunciato. Vediamo alcuni esempi. L’enunciato (34) Sono le nove richiede un parametro di “fuso orario”: per poter determinare che proposizione è stata espressa con (34) è necessario sapere in che fuso orario è stato proferito l’enunciato; allo stesso modo l’enunciato (35) Siamo in inverno richiede un parametro di “emisfero” (cfr. Perry 1998). In modo analogo l’enunciato (36) Posso ordinare quello che voglio come ultimo pasto sembra rimandare a una coordinata di “ruolo” o “posizione” (cfr. Nunberg 1995). Gli esempi possono essere moltiplicati a piacere. L’enunciato (37) Servi un altro bicchiere al tuo povero Jim sembra richiedere una “coordinata delle bevande precedenti” per fissare il riferimento di “un altro bicchiere”, così come (38) Stanno suonando l’inno nazionale una “coordinata di Stato”, o (39) Gli dei sono in collera una “coordinata di religione” (Cresswell 1973). In secondo luogo, non tutte le espressioni indicali sono sullo stesso piano, non tutte, cioè, dipendono dal contesto nello stesso modo. Kaplan traccia una distinzione fra indicali veri e propri, o puri (le espressioni come “io”, “qui”, “ora”, “oggi”, “domani”) e dimostrativi (le espressioni come “lui”, “lei”, “questo”, “quello”, “quel libro”). Come si è visto, a ogni indicale puro è associata una regola, che fissa il riferimento di un’occorrenza dell’espressione (cioè di un uso dell’espressione) in un contesto dato. La regola è tale da fornire, una volta dati i parametri che identificano il contesto di proferimento, il contenuto dell’espressione in quel contesto. Supponiamo che il contesto C, identificato dall’insieme di parametri , sia esemplificato dall’insieme ; e supponiamo di dover stabilire il contenuto – le condizioni di verità – dell’enunciato (40) Sono arrivata qui ieri. I parametri di C permettono di determinare completamente la proposizione espressa da (40), che sarà ‘Bea è arrivata a Milano il 21 gennaio 2003’. Le cose non sono così semplici quando si tratta dei dimostrativi. 3.7. Dimostrativi No one would remember the Good Samaritan if he’d only had good intentions. He had money as well. (Margaret Thatcher)
Come si ricorderà, nell’indice che raccoglie i parametri contestuali pertinenti per
l’interpretazione di un’espressione compare l’insieme {o} di oggetti suscettibili di essere designati con le espressioni “lui”, “lei”, “questo”, “quello”. Supponiamo che il contesto C, identificato dall’insieme di parametri i: (omettiamo gli altri parametri perché in questo esempio non sono rilevanti), sia esemplificato dall’insieme ; e supponiamo di dover stabilire il contenuto – le condizioni di verità – dell’enunciato: (41) Lei è ubriaca proferito da Bea. La regola associata al dimostrativo “lei” in (41) – “‘lei’ si riferisce all’oggetto designato nel contesto di proferimento” – da sola non fornisce una procedura automatica che individua, anche una volta forniti tutti i parametri contestuali, il referente dell’espressione. Se infatti immaginiamo che nel contesto di proferimento di (41) ci siano più individui di sesso femminile, l’espressione, da sola, può identificare a pari titolo uno qualsiasi di questi individui: la semantica dell’espressione lei non è sufficiente a fissarne in modo univoco il riferimento. Una soluzione possibile è dire che un’espressione dimostrativa (come “lui”, “lei”, “questo”, “quello”) acquista un’istruzione semantica completa (un carattere vero e proprio, un significato convenzionale determinato) solo quando è associata a un atto di indicazione (“a demonstration”: Kaplan 1977). Con atto di dimostrazione si intende generalmente il gesto ostensivo, come il gesto di indicare; in realtà, però, per avere un “atto di indicazione”, non è necessario un gesto vero e proprio da parte del parlante. È spesso sufficiente la semplice direzione dello sguardo del parlante, o il solo fatto che il parlante utilizzi “quell’uomo” in (ad esempio) (42) Fermate quell’uomo se nel contesto di proferimento di (42) c’è un solo uomo, o un solo uomo che corre precipitosamente verso la porta, o un solo uomo perfettamente calmo ma completamente nudo, e così via. Oppure il parlante può fondarsi su una convenzione che, ad esempio, identifica il demonstratum (l’oggetto che viene designato) con qualunque individuo appaia su un’opportuna “piattaforma di indicazione” (si immagini un’asta, in cui il battitore si può riferire in modo non ambiguo con “questo” a qualunque oggetto venga messo su una particolare piattaforma, senza indicarlo e senza nemmeno guardarlo); o ancora può sfruttare appropriate indicazioni naturali, come un’esplosione o una stella cadente, o un fascio di luce. Il termine “indicazione” raccoglie allora ogni elemento oggettivo attraverso cui il parlante mette il destinatario nelle condizioni di identificare il referente di un’occorrenza (un uso) di un dimostrativo; e questo utilizzando un vero e proprio gesto da parte del parlante, oppure l’unicità del candidato a referente nel contesto dato, o ancora la sua pertinenza o risalto o salienza nel contesto. Si possono citare, come casi dimostrativi in cui il parlante non effettua alcun gesto d’ostensione, i dimostrativi percettivi non visivi, come quelli usati negli enunciati (43) Questo rumore mi fa impazzire (44) Questo profumo è delizioso (45) Questo sapore mi ricorda Combray. Tali casi possono essere interpretati come varianti del caso di unicità: gli esempi sono appropriati solo se c’è un solo rumore (o profumo o sapore), o un solo rumore sufficientemente saliente da essere considerato come il solo candidato a demonstratum nel contesto. Spesso, però, nemmeno l’atto d’indicazione associato a un’occorrenza di un dimostrativo è
sufficiente a disambiguare l’espressione. Si immagini che Bea proferisca (46) Adoro questa puntando il dito in modo evidente e non ambiguo nella direzione di una bottiglia di vodka: usando “questa” Bea potrebbe avere l’intenzione di riferirsi alla vodka, o alla bottiglia di vodka, o alla marca di vodka, o all’etichetta della bottiglia, o alla V sull’etichetta, o all’immagine sull’etichetta ecc. Nella revisione che Kaplan ha proposto della sua teoria dei dimostrativi, non è allora il gesto a svolgere il ruolo semantico: l’elemento cruciale è “the directing intention”, l’intenzione direzionale del parlante (Kaplan 1989). Ogni uso della stessa espressione dimostrativa tipo deve essere associato non a un atto di indicazione, ma a un’intenzione. Il gesto ostensivo ha solo il ruolo di rendere manifesta l’intenzione, di esteriorizzarla, un ruolo di semplice contributo pragmatico alla comunicazione, come il fatto di parlare più lentamente o ad alta voce per farsi capire meglio da un interlocutore. Sottolineiamo ancora una volta la differenza fra dimostrativi e indicali: una volta fissato il contesto di proferimento, le regole semantiche determinano completamente, automaticamente e senza ambiguità il riferimento dell’indicale, senza tenere in alcun conto né i gesti, né le intenzioni di chi parla. Si noti infatti che il gesto ostensivo che accompagna talvolta un indicale puro è o enfatico (come quando si proferisce “io” indicando se stessi), oppure non pertinente (come quando si proferisce “io” indicando qualcun altro: il referente di “io” continuerà ad essere il parlante). Un proferimento di “io”, “qui”, “ora”, designa rispettivamente il parlante, il luogo del proferimento e il tempo del proferimento, senza che le intenzioni del parlante abbiano un ruolo nella determinazione del riferimento: in questo senso si parla di indicali automatici (Perry 1997). Sono stati proposti argomenti convincenti per dimostrare che le credenze del parlante – quelle che egli associa al proprio uso di un indicale in un dato contesto – non sono né pertinenti, né necessarie, né sufficienti alla determinazione della proposizione che l’enunciato esprime. Vediamo perché. a) Le credenze non sono pertinenti. Se Paolo proferisce l’enunciato (47) Oggi piove nella convinzione che oggi sia il 21 gennaio, da questo non deriva il fatto che egli stia esprimendo la proposizione (48) Il 21 gennaio piove: se infatti oggi è il 22 gennaio, giornata di sole, allora l’enunciato (47) è falso comunque sia la situazione meteorologica il 21 gennaio – e quindi anche se (48) è vero. b) Le credenze non sono necessarie. Allo stesso modo, il fatto di non avere alcuna credenza associata al giorno espresso da “oggi” in (47) non impedisce a Paolo di esprimere, proferendo (47), una proposizione, che sarà vera se e solo se piove il giorno in cui (47) è stato proferito. c) Le credenze non sono sufficienti. Si immagini, per finire, che Paolo sia convinto di essere Napoleone: l’enunciato (49) Io sono l’imperatore dei francesi proferito da Paolo sarà falso. Non conta con quanta forza Paolo creda di essere Napoleone: la regola semantica associata all’indicale “io” non permette a nessuno che non sia Napoleone di far riferimento a Napoleone utilizzando “io”.
Non è pertanto l’intenzione che conta per la determinazione del referente di un indicale: per un indicale è la regola convenzionale che, una volta dato il contesto, determina completamente il riferimento. Nel caso di un dimostrativo, invece, la determinazione non è automatica e sono pertinenti le intenzioni del parlante: in questo senso si parla di indicali intenzionali. 3.8. Indicali e dimostrativi: una distinzione reale? Non sarai mai solo con la schizofrenia.
Come si è visto, si è ormai soliti sottolineare la necessità di un trattamento asimmetrico di indicali puri e dimostrativi. Il riferimento di un indicale puro come “io” o come “oggi” viene fissato in funzione della situazione di proferimento dell’enunciato, il contesto in senso semantico. Si potrebbe quasi sostenere che la regola associata agli indicali puri è semanticamente completa perché codifica una clausola di unicità: in ciascun contesto c’è un solo parlante (un solo parlante per enunciato, naturalmente) e un solo giorno del proferimento, ma una varietà di oggetti a cui il parlante può volersi riferire – Kaplan scrive: «Sebbene noi si debba affrontare la vita un giorno alla volta, non siamo condannati a percepire o a dirigere la nostra attenzione su un oggetto alla volta» (Kaplan 1989, p. 587). Per i dimostrativi non c’è una regola che fissi automaticamente il riferimento, ma solo restrizioni sui possibili referenti: “lui” si riferisce a un individuo di sesso maschile che non è né il parlante né il destinatario del proferimento, “lei” a un individuo di sesso femminile che non è il parlante né il destinatario del proferimento. La possibilità dell’equivoco è propria solo ai dimostrativi. Il riferimento di “lui” o “questo” viene stabilito in funzione delle intenzioni del parlante, e dunque del contesto in senso pragmatico. E tuttavia c’è tutta una serie di obiezioni che possono essere mosse alla classificazione di “qui”, “ora” e “noi” fra gli indicali puri. L’espressione “qui” può essere sia un indicale puro, come in (50) Sono qui dalle 3, sia un dimostrativo, come in (51) Sono nato qui, proferito indicando una città su una cartina geografica. D’altro lato, se anche la regola associata a “qui” e “ora” stabilisce che le due espressioni si riferiscano rispettivamente al luogo e al tempo del proferimento, è però intuitivamente evidente che le regioni spaziale (per “qui”) e temporale (per “ora”) che includono il luogo o il momento del proferimento non sono determinate. Si vedano ad esempio le innumerevoli diverse regioni spaziali cui si può far riferimento con “qui”: proferendo lo stesso enunciato (52) Qui fa freddo nello stesso contesto, posso designare di volta in volta il mio studio, o il mio appartamento, oppure Milano, oppure l’Italia, o ancora questo pianeta o questa galassia ecc. E si noti la differenza dell’estensione temporale cui ci si può riferire con “ora” nei diversi enunciati: (53) Bea è arrivata ora (54) Ora gli uomini vivono più a lungo. “Qui” e “ora” sembrerebbero dunque termini “intenzionali”, almeno per quel che riguarda l’estensione di spazio o di tempo a cui il parlante può riferirsi. E ancora l’indicale “noi” designa un insieme di individui all’interno del quale il parlante colloca se stesso: il fatto che l’insieme
debba includere il parlante è la restrizione che funge da regola linguistica associata a “noi”. A quale gruppo particolare il parlante faccia riferimento viene invece determinato non da una regola, ma dalle intenzioni del parlante stesso: è il contesto che permette al destinatario di determinare, ad esempio, a quale gruppo si riferisce il parlante con l’espressione “noi” in (55) Noi siamo molto più intelligenti: noi in questa stanza, o noi filosofi, o noi filosofi del linguaggio, o noi donne, o noi italiani, o noi occidentali, o noi esseri umani rispetto agli animali, o rispetto agli extraterrestri ecc. Obiezioni di questo tipo sono state avanzate ripetutamente, ma vengono generalmente ritenute poco preoccupanti. “Qui”, “ora” e “noi” si riferiscono a una regione spaziale o temporale o a un insieme di individui, con un’estensione che può essere vaga, o indeterminata, o contestuale, ma che deve includere il luogo, o il tempo, o il produttore del proferimento. E questo perché gli indicali puri hanno come proprietà semantica definitoria il fatto di essere token-riflessivi (cfr. Reichenbach 1947). Un termine token-riflessivo è un termine che può essere definito mediante l’espressione “questo token” o “questa occorrenza”; avremo allora: • ogni occorrenza del tipo “io” si riferisce alla persona che produce questa stessa occorrenza; • ogni occorrenza del tipo “qui” si riferisce al luogo del proferimento di questa stessa occorrenza; • ogni occorrenza del tipo “ora” si riferisce al tempo del proferimento di questa stessa occorrenza. 3.9. Le “espressioni contestuali” L’uomo di Neanderthal è stato scoperto molto tardi. D’altronde lo stesso Neanderthal non è che ci tenesse a far sapere che stava con un uomo. (Anatolj Balasz)
Altre categorie di espressioni si comportano come i dimostrativi: il loro significato convenzionale è incompleto e non possiamo determinare le condizioni di verità degli enunciati che le contengono. Si tratta delle espressioni contestuali (cfr. Clark 1992), che hanno un significato variabile in funzione delle situazioni in cui vengono utilizzate e possono pertanto assumere un numero indefinito di sensi. Fra esse possiamo annoverare: a) le costruzioni possessive (come “il gatto di Alice” o “il mio gatto”); b) i nomi composti dell’inglese (come “flea collar”, “Illinois shirt”); c) certi aggettivi (come “buono”, “facile”, “difficile”, “rapido”); d) i verbi come “fare”; e) i verbi tratti da eponimi (in genere verbi dell’inglese, che in italiano hanno come corrispondenti qualcosa come “gretagarbeggiare” o “fare la Liz Taylor”). Si prenda ad esempio la frase (56) Il gatto di Alice è nero. L’espressione “il gatto di Alice” può riferirsi di volta in volta al gatto che Alice possiede, a quello che aveva quando era piccola, a quello che sogna di possedere, a quello di Bea, che Alice tiene in braccio, a quello che ha investito, a quello che ha visto scomparire ecc. L’espressione “di” si limita a segnalare l’esistenza di una relazione R che lega il gatto e Alice: R deve essere determinata contestualmente ad ogni uso di (56). Una frase in cui figura l’espressione “il gatto di Alice” presenta delle condizioni di verità determinate solo se viene fissata una relazione specifica tra Alice e il gatto: questa specificazione non obbedisce però ad alcuna regola semantica o
procedura meccanica. Il destinatario deve ricorrere al contesto per determinare la relazione a cui il parlante si riferisce, ma un qualunque elemento del contesto può rivelarsi pertinente a questo scopo: anche qui è la totalità del contesto pragmatico che entra in gioco, e non un fattore che è possibile isolare a priori. I nomi composti dell’inglese (ad esempio “flea collar”, “Illinois shirt”, “finger cup”, “kitchen carpet”) hanno un comportamento analogo. Come nel caso delle costruzioni possessive, la determinazione della relazione R che lega i due sostantivi in un nome composto come “Illinois shirt” è contestuale e non è sotto il controllo completo di una regola o di una procedura linguistica. R varia in modo non prevedibile in un dominio di sensi indefinito: e così con l’espressione “Illinois shirt” un parlante può riferirsi a una camicia con i colori dell’Illinois, o acquistata nell’Illinois, o persa, vista, macchiata, strappata, sognata nell’Illinois ecc. In italiano abbiamo una variazione simile con l’uso delle preposizioni. Si pensi ai messaggi che pubblicizzano shampoo “per” capelli lisci e morbidi, oppure shampoo “per” capelli sfibrati e senza vita, oppure creme “per” le rughe o “per” una pelle giovane e luminosa; si pensi ai collari “per” cani o gatti, e ai collari “per” le pulci; o a Bea che ha parlato “con” sua madre e “con” forza; o ancora a Francesca che si è sposata “con” Paolo e “con” l’abito bianco. Certi aggettivi possono qualificare una gran quantità di nomi: intuitivamente il loro senso, come quello dei possessivi, sembra cambiare in funzione del contesto – e in particolare del contesto linguistico. Si vedano le variazioni di senso dell’aggettivo “difficile” in: “una lingua difficile” (da imparare); “un testo difficile” (da capire); “una persona difficile” (da sopportare o soddisfare); “un bambino difficile” (da allevare); “una vita difficile” (da vivere). O quelle dell’aggettivo “veloce” in: “un’auto veloce”; “una dattilografa veloce”; “un gioco veloce”; “un libro veloce”; “un conducente veloce”; “una decisione veloce”. E ancora, un verbo come “fare” può prendere un numero indefinito di sensi, a seconda del contesto in cui viene usato; nella frase (57) Bea ha fatto la camera “fare” può esprimere il senso “pulire”, o “mettere in ordine”, oppure “dipingere”, o ancora “arredare” a seconda della situazione in cui (57) viene proferita; e può esprimere persino, in scenari appropriati, i sensi “svuotare”, “bruciare”, “riempire d’acqua”, “riempire di pop-corn”, e così via. E infine nella frase (58) Alice ha fatto la Liz Taylor tutta la sera l’espressione “fare la Liz Taylor”, costruita a partire dall’eponimo “Liz Taylor”, può essere compresa solo dopo l’identificazione dell’azione dell’eponimo a cui il parlante si riferisce. C’è un numero indefinito di azioni a cui il parlante potrebbe far riferimento con (58): atteggiarsi come una star di Hollywood, oppure recitare, parlare, affascinare, bere, litigare con il marito, sposarsi un numero simile di volte, e così via. Come i dimostrativi, le espressioni contestuali rappresentano dei “jolly”, il cui valore semantico viene determinato in base alle intenzioni dei parlanti.
4. Linguaggio figurato Il Lago: “E lei dove se ne va, quest’anno?” Il Fiume: “Al solito, al mare” La Montagna: “Io non mi muovo” La Neve: “Io, ai primi calori, mi squaglio”. (Achille Campanile)
Siamo giunti al terzo gruppo di fenomeni linguistici per i quali è necessario prendere in considerazione il contesto nel quale l’enunciato da interpretare viene proferito: nei casi che esamineremo, quello che dipende dal contesto non è il significato convenzionale di un’espressione o di un enunciato, ma il senso implicito dell’enunciato, un senso che non viene espresso letteralmente, ma solo comunicato in modo indiretto. Il destinatario si fonda sul contesto in senso pragmatico – sulle credenze, i desideri, le attività che condivide con il parlante – per identificare un senso diverso dal semplice senso letterale delle espressioni che il parlante utilizza. Abbiamo detto che questo è il caso ad esempio delle metafore. Quando Romeo dice (59) Giulietta è il sole sta letteralmente dicendo che Giulietta è un corpo celeste. Egli però, basandosi sulle conoscenze enciclopediche che condivide (o che pensa di condividere) con noi (il fatto che il sole è un corpo celeste che irradia luce, che è simbolo di bellezza e di maestà, che rende possibile la vita sulla terra ecc.), ci comunica qualcosa di diverso, e cioè che Giulietta è un essere meraviglioso, che è il centro e la ragione della sua esistenza, che è come se irradiasse una luce speciale ecc. Si potrebbe pensare di essere di fronte a un caso analogo a quelli di ambiguità. In fondo, si potrebbe dire, (59) contiene un’espressione lessicalmente ambigua, “sole”, che può essere rappresentata come due elementi lessicali distinti, pronunciati e scritti nello stesso modo: sole1: “corpo celeste”; sole2: “essere meraviglioso”. Naturalmente, però, il significato “essere meraviglioso” o “ragione dell’esistenza” non è sullo stesso piano del significato letterale “corpo celeste”: il significato metaforico viene derivato da quello letterale, a partire dalle conoscenze extralinguistiche che abbiamo sull’oggetto (il sole) cui l’espressione letteralmente si riferisce. La proposizione comunicata da (59) – ‘Giulietta è un essere meraviglioso’ – è una proposizione che il parlante ci chiede di inferire dal significato letterale di quanto ha proferito, e dalla conoscenza della situazione di proferimento: conoscenze enciclopediche sul sole, su Giulietta, su Romeo, sui loro rapporti, accanto al fatto cruciale che Romeo sta dicendo di Giulietta qualcosa di palesemente falso. È solo dopo aver determinato la proposizione letteralmente espressa da (59) (‘Giulietta è un corpo celeste’) che è ci è possibile, utilizzando il contesto, inferire il senso comunicato. Questo non avveniva nei casi di ambiguità: la proposizione effettivamente espressa da (6) (‘Bea ha un mobile antico’, ad esempio) non veniva identificata in seguito e tramite l’identificazione della proposizione letteralmente espressa (‘Bea ha una convinzione antiquata’). La semantica affianca dunque alla nozione di condizioni di verità letterali di un enunciato una nozione di senso comunicato, che costituisce il dominio tradizionale della pragmatica.
5. Usi del contesto: la distinzione fra semantica e pragmatica Abbiamo iniziato la nostra rassegna dei casi in cui il contesto interviene per stabilire il contenuto di certi enunciati del linguaggio naturale dicendo che tale intervento ha valenza diversa nei diversi esempi: è infatti possibile tracciare una distinzione fra usi pre-semantici, semantici e postsemantici del contesto (cfr. Perry 1997). Tipici usi pre-semantici del contesto consentono di disambiguare un enunciato come (6) Bea ha una vecchia credenza in cui compare il termine “credenza”, ambiguo fra i due significati di “mobile” e “convinzione”. La disambiguazione è un processo pre-semantico in quanto entra in azione prima che la teoria semantica vera e propria assegni significati alle varie espressioni di (6), e prima che entrino in gioco le regole di composizione. Per quanto riguarda le espressioni indicali, invece, l’uso del contesto è semantico: esso è necessario per la fissazione delle condizioni di verità di una frase indicale come (7) Io sono bionda anche dopo che si sia eliminata ogni altra ambiguità. Mentre nel caso degli usi pre-semantici il ricorso al contesto è un fatto accidentale (perché è accidentale che a una stessa espressione siano associati più significati), nel caso degli indicali – e dunque degli usi semantici del contesto – è il significato convenzionale dell’espressione indicale a sfruttare il contesto per svolgere la propria funzione: è il significato stesso dell’espressione “io” a dirigerci verso certi tratti del contesto (il parlante, nel particolare contesto di (7)). C’è poi un terzo gruppo di fenomeni di dipendenza dal contesto: quello che dipende dal contesto non è il significato letterale dell’enunciato, o la proposizione espressa, ma un altro livello di senso – il significato del parlante (lo “speaker’s meaning”) o senso implicito o senso comunicato. Il parlante si serve delle aspettative, delle credenze, delle intenzioni che condivide con i suoi interlocutori per comunicare qualche cosa di più del (o di diverso dal) senso letterale delle espressioni che utilizza. È il caso del linguaggio figurato; se proferiamo l’enunciato (8) Bea è una balena stiamo letteralmente dicendo che Bea appartiene alla classe dei cetacei. Possiamo comunicare però qualcosa di diverso, e cioè che Bea è sovrappeso: per far questo ci basiamo sulle conoscenze enciclopediche che condividiamo con il nostro interlocutore (ad esempio sul fatto che le balene sono mammiferi di grosse dimensioni). In questo caso si parla di usi post-semantici del contesto perché è solo dopo aver determinato la proposizione letteralmente espressa da (8) (‘Bea appartiene alla classe dei cetacei’), quindi solo dopo che la teoria semantica ha svolto il suo ruolo, che è possibile inferire il senso comunicato, utilizzando conoscenze sul contesto e il fatto che stiamo dicendo qualcosa di così evidentemente falso di un essere umano, che non può essere ciò che vogliamo davvero dire. Come si ricorderà, avevamo distinto fra due nozioni di contesto: • il contesto semantico – che fissa l’identità di parlante e interlocutori, il tempo e il luogo del proferimento, e così via: è la nozione che entra in gioco negli usi semantici del contesto; • il contesto pragmatico – costituito dall’insieme di credenze, desideri, intenzioni, scopi degli
interlocutori: è la nozione che viene mobilitata negli usi pre e post-semantici del contesto. La distinzione fonda e giustifica quella fra competenza linguistica in senso stretto, che determina ciò che è detto da un enunciato – il senso semantico – e una competenza comunicativa più generale, che determina ciò che il parlante intende comunicare con un enunciato – il senso implicito –, e in definitiva fonda la distinzione tradizionale fra semantica e pragmatica. Si noti che nella semantica tradizionale ogni enunciato ben formato esprime una e una sola proposizione – dice una e una sola cosa. Nei casi pre e post-semantici – ad esempio (6) e (8) – è come se avessimo “troppi significati”. Lo stesso enunciato può esprimere più proposizioni: (6) può esprimere la proposizione che Bea possiede una convinzione antiquata, oppure la proposizione che Bea possiede un mobile antico; (8) può esprimere la proposizione che Bea è un cetaceo, oppure la proposizione che Bea è sovrappeso. Il contesto – qui il contesto in senso pragmatico – ci permette nella stragrande maggioranza dei casi di individuare quale proposizione il parlante sta, in quel contesto particolare, esprimendo. Nel caso degli usi semantici del contesto, abbiamo, si direbbe, il problema contrario: (7) non ha condizioni di verità definite, non sembra cioè esprimere nessuna proposizione, o nessuna proposizione completa. È il contesto – in un caso indicale il contesto semantico di proferimento – a fornire gli elementi per completare la proposizione espressa da (7). La semantica tradizionale assegna dunque al contesto un ruolo circoscritto – limitato ai casi di deissi: l’apporto del contesto è sotto il rigido controllo delle regole semantiche. Nei casi di ambiguità le regole del linguaggio associano alla medesima forma linguistica più significati convenzionali, che a loro volta determinano due insiemi distinti di condizioni di verità. La scelta dell’insieme di condizioni di verità pertinente non è frutto di una procedura semantica, non è cioè soggetta a un sistema fissato di regole, ma è affidata a una razionalità comunicativa generale: la disambiguazione è una procedura pragmatica. Il fatto che le condizioni di verità di un enunciato non siano determinate da una regola semantica, ma dal modulo pragmatico, non è però un controesempio alla tesi a della semantica tradizionale (la forma di un’espressione determina meccanicamente il suo significato): la disambiguazione è una procedura pre-semantica, che avviene prima che entri in gioco la semantica. E infine ci sono i casi di senso implicito: anche gli aspetti impliciti del senso sono forniti dalla pragmatica, in particolare da un insieme di premesse costituite dalle conoscenze condivise e da una catena di inferenze, che, lungi dall’essere delle regole meccaniche di generazione del senso, sono semplici indicazioni fondate su una nozione di plausibilità. L’intervento del modulo pragmatico nell’interpretazione del senso implicito non è ancora una volta un controesempio alla semantica tradizionale: si tratta di processi postsemantici che entrano in gioco solo dopo che la teoria semantica ha determinato la proposizione letteralmente espressa da un enunciato. La pragmatica si situa così “prima” e “dopo”, per così dire, la teoria semantica, segnandone il limite superiore e inferiore, secondo lo schema pragmatica > semantica > pragmatica Processi pragmatici di disambiguazione forniscono l’input della semantica, che a sua volta fornisce l’input di processi pragmatici di individuazione del senso implicito. L’esame degli usi post-semantici del contesto, e in particolare dei meccanismi che consentono a un parlante di comunicare un senso non letteralmente espresso dalle parole che egli usa, ci introduce al tema dell’influenza della parola sul contesto – dei modi, in altri termini, in cui i parlanti modificano la situazione di discorso: questo tema sarà l’oggetto del prossimo capitolo.
Fare cose con le parole
Chose étrange que ces mots “deux ou trois fois”, rien que des mots, des mots prononcés dans l’air, à distance, puissent ainsi déchirer le coeur comme s’ils le touchaient véritablement, puissent rendre malade, comme un poison qu’on absorberait. (Marcel Proust)
1. Parole come atti: la dimensione sociale del linguaggio Nel primo capitolo abbiamo distinto due dimensioni di pragmatica, corrispondenti alle due direzioni che assume la relazione fra linguaggio e mondo. Da un lato, in pragmatica ci si occupa dell’influenza che il mondo (o il contesto) esercita sul linguaggio, e si mira a determinare il contenuto proposizionale delle frasi in quanto utilizzate in contesto. D’altro lato, una volta determinato il contenuto proposizionale di un enunciato, ci si interessa dell’influenza che questo può esercitare sul mondo (sul contesto), della sua capacità di modificare stati di cose, ma anche l’ambiente cognitivo degli interlocutori, di cambiare, rafforzare, o eliminare certe credenze, desideri, conoscenze. È della pragmatica in questo secondo senso che tratta questo capitolo. Ad essere sottolineata è ora la dimensione sociale del linguaggio, e in particolare la varietà degli usi discorsivi delle frasi del linguaggio naturale: affermazioni, ordini, domande, minacce ecc. In questa prospettiva parlare significa agire: ogni enunciato serve a compiere un atto, regolato da norme, convenzioni o consuetudini; il linguaggio come tale viene concepito al pari di un’istituzione sociale. La stessa frase – meglio, lo stesso contenuto proposizionale – può avere interpretazioni sorprendentemente differenti a seconda delle intenzioni con cui viene usata, e delle circostanze in cui viene proferita. Per fare un esempio, la frase (1) Esci da questa stanza! può essere usata come ordine o come supplica, come sfida, come consiglio o come invito, a seconda di chi proferisce (1), rivolto a chi, con che tono, in che circostanze, con quali pensieri, scopi e intenzioni. Allo stesso modo una frase apparentemente descrittiva come (2) Sono cintura nera di karatè suona come una minaccia se siete un potenziale aggressore di chi la proferisce, ma come una rassicurazione se chi la proferisce vi sta accompagnando in un quartiere malfamato. E ancora la frase (3) Bea è una vera amica verrà interpretata letteralmente se Bea vi ha appena aiutato in un momento difficile; un’interpretazione ironica sarà più appropriata se l’avete appena scoperta nelle braccia della vostra dolce metà. Ancora una volta la semplice interpretazione semantica, da sola, non permette di determinare che tipo di atto è stato compiuto proferendo (1), (2) o (3): in quel che segue vedremo che solo se si tiene conto delle regole che i parlanti seguono nelle loro interazioni verbali, assieme alla conoscenza del contesto in cui gli enunciati sono stati proferiti, è possibile dare di questi ultimi un’interpretazione completa.
2. Atti linguistici La prima tragedia della vita sono le azioni, la seconda le parole. E forse le parole sono peggio. Le parole sono spietate. (Oscar Wilde) 2.1. Enunciati constativi ed enunciati performativi
Abbiamo già avuto modo di sottolineare come la riflessione filosofica contemporanea sul linguaggio sia nata con lo scopo di costruire uno strumento affidabile di comunicazione scientifica. Ne è scaturita, come inevitabile conseguenza, l’idea che la funzione principale del linguaggio sia quella di descrivere la realtà, di rappresentare stati di cose, idea legata alla tesi che il significato di una frase sia dato dalle sue condizioni di verità, dalle condizioni che il mondo deve soddisfare perché la frase ne costituisca una descrizione appropriata, e perché sia vera. Eppure è evidente che non tutte le frasi che proferiamo sono usate per fare asserzioni sulla realtà, per descrivere stati del mondo. Si pensi a (4) Sì, lo voglio proferita dagli sposi durante la celebrazione di un matrimonio; o ancora a (5) Battezzo questa nave “Queen Elisabeth” proferita al momento di varare una nave; oppure a (6) Mi scuso detto quando urtiamo inavvertitamente qualcuno; o infine a (7) Scommetto 500 euro che domani pioverà. Quando usiamo gli enunciati (4) e (5) non stiamo descrivendo, rispettivamente, la cerimonia di un matrimonio o il varo di una nave, non stiamo informando qualcuno di un fatto, ma lo stiamo compiendo. In altri termini, pronunciando certi enunciati creiamo fatti nuovi, modifichiamo la realtà, contraiamo impegni che possono avere un certo peso: con (5) diamo un nome a una nave e con (4) ci leghiamo per la vita a un’altra persona. In modo analogo, con (6) o (7) non descriviamo l’atto di scusarci o di scommettere, ma compiamo l’atto di scusarci o di scommettere: usando (6) abbiamo porto le nostre scuse (e null’altro ci è richiesto, se la colpa era lieve), e proferendo (7) ci siamo impegnati a pagare 500 euro se l’indomani non piove (e a nulla varrebbe protestare “Oh, ma facevo così per dire”). Sembra allora possibile tracciare una distinzione fra la classe di enunciati il cui scopo è descrivere stati del mondo – gli enunciati constativi come (8) Il gatto è sul letto – e la classe di enunciati che servono a fare cose, a compiere atti regolati da norme e istituzioni (come sposarsi e battezzare) o da semplici consuetudini sociali (come scusarsi o scommettere) – gli enunciati performativi (Austin 1962b). A differenza di (8), i performativi non caratterizzano stati di cose, non hanno contenuto informativo, non dicono nulla sul mondo e non hanno dunque condizioni di verità: mentre (8) è vero se il gatto è effettivamente sul letto, e falso altrimenti, rispetto a un enunciato performativo come (6) non ha senso chiedersi se esso sia vero o falso. Se osserviamo gli enunciati (4)-(7), sembra che la classe dei performativi possa venir isolata
seguendo criteri grammaticali e lessicali: negli enunciati considerati compaiono verbi particolari (come “scusarsi”, “promettere”, “ordinare”, “scommettere”, “complimentarsi”, e così via), alla prima persona dell’indicativo presente. (6), infatti, cessa di essere un enunciato performativo se il verbo “scusarsi” compare al tempo passato o futuro, o al presente, ma non alla prima persona, come negli enunciati (9) Mi sono scusato (10) Mi scuserò (11) Bea si scusa. (9)-(11), infatti, sono descrizioni di stati di cose, in particolare descrizioni di atti (e, più in particolare ancora, di atti di scusarsi) che sono stati compiuti o verranno compiuti tramite (6): non ci si scusa annunciando che ci si scuserà, o che ci si è scusati. Naturalmente non tutti gli enunciati alla prima persona dell’indicativo presente sono dei performativi; ad esempio (12) Lavo i piatti malauguratamente non compie l’atto di lavare i piatti, ma lo descrive. E si noti che mentre non ha senso ribattere “No, non è vero” a (6), è legittimo farlo per (9)-(12): (9) può essere falso, se effettivamente io non mi sono scusato, e così (12) se invece di lavare i piatti sto guardando la tv. Dal momento che considerazioni di verità o falsità sono pertinenti per (9)-(12), questi sono enunciati constativi. 2.2. Fallimenti e infelicità Esempi di applicazioni indebite: “io ti nomino...” detto quando sei già stato nominato, o quando è stato nominato qualcun altro, o quando io non sono abilitato a nominare, o quando tu sei un cavallo. (John Austin)
Gli enunciati performativi, dunque, non sono né veri né falsi. Essi hanno tipi diversi di invalidità, o di fallimenti, detti infelicità: se anche non ha senso ribattere “No, non è vero” a (6), sarebbe ad esempio appropriato ribattere “Non mi sembri sincero”. Austin (1962b) elenca vari casi di infelicità, con diverse gradazioni di gravità. Casi A. Ci sono innanzitutto i casi in cui l’atto fallisce, o “fa cilecca”; l’atto è nullo e non avvenuto in seguito alla violazione di regole di due tipi. A.1 In primo luogo la procedura convenzionale invocata deve esistere: (4) ha l’effetto convenzionale di sposare due persone solo se e in quanto esiste l’istituzione del matrimonio. Non avrebbe invece alcun effetto (alcun effetto sociale o giuridico, naturalmente) mettersi di fronte alla propria sposa e proferire (13) Divorzio da te, dal momento che l’atto sociale o giuridico del divorzio non viene effettuato tramite tale atto linguistico; si noti che invece in certe società musulmane la procedura di ripudiazione prevede proprio che si proferisca un equivalente di (13). Allo stesso modo l’enunciato (14) Ti sfido a duello non avrebbe l’effetto di impegnarci a comparire all’alba dietro al Convento delle Carmelitane scalze accompagnati da due padrini e sciabole ben affilate: la nostra società ha infatti rigettato l’intero codice di procedura che prevede il duello.
A.2 In secondo luogo la procedura convenzionale deve essere usata in circostanze appropriate. L’enunciato (4) proferito in presenza della vostra futura sposa vestita in abito bianco, dei testimoni e dei parenti ma di fronte a un barista non ha l’effetto di sposarvi; e così (15) Ti nomino senatore detto da Caligola al suo cavallo non conta (non dovrebbe contare) come nomina a senatore. Casi B. Altre infelicità sono causate da difetti o lacune nella procedura. B.1 Ci sono casi in cui la procedura non è stata eseguita correttamente, come quando in un testamento scrivo (16) Lascio il mio Picasso a Bea ma ho due Picasso; o quando al posto di (4) rispondo al sacerdote o al sindaco che celebra il matrimonio (17) Ok, se proprio insisti (che pure sarebbe un modo appropriato di accettare qualcosa, in altre circostanze). B.2 Oppure casi in cui la procedura non è stata eseguita fino in fondo, completamente. Se durante la celebrazione del matrimonio uno degli sposi proferisce (4) ma l’altro dice (18) No, non lo voglio l’atto di sposarsi fallisce. E allo stesso modo fallisce l’atto di scommettere se proferisco (7) ma nessuno raccoglie la scommessa (dicendo ad esempio “Ci sto”). Casi C. Infine l’infelicità di un performativo può essere provocata da abusi della procedura, o infrazioni, o insincerità: in questi casi non diremmo che l’atto è nullo e non avvenuto, ma che è “vuoto”, o comunque viziato, dal momento che c’è un abuso della procedura o un uso insincero della procedura. Anche qui possiamo distinguere due possibilità: C.1 La procedura convenzionale è viziata o vuota se viene usata senza avere i pensieri, i sentimenti e le intenzioni richieste dalla procedura stessa – come quando, ad esempio, proferisco (19) Mi congratulo con te ma sono in realtà roso dall’invidia; oppure (20) Prometto di venire alla tua festa ma non ho nessuna intenzione di venire alla tua festa; oppure ancora (21) Ti consiglio di sposarla ma non penso che sposarla sia una buona cosa per te. C.2 La procedura convenzionale è viziata o vuota anche se i partecipanti non si comportano, in seguito, in modo conforme all’atto eseguito – come quando qualcuno vi dà un consiglio, voi lo seguite e quel qualcuno poi vi rimprovera per averlo seguito. Si noti che, benché nei casi C l’atto non sia tecnicamente nullo, anche giuridicamente si possono far valere considerazioni di insincerità o di abuso per annullare un atto: un matrimonio può essere annullato dalla Sacra Rota se viene dimostrata l’adesione non sincera, o un contratto se c’è stata coercizione, o un testamento se chi l’ha redatto non era in grado di intendere e di volere.
2.3. Critica alla distinzione fra constativi e performativi Ho dei pensieri che non condivido. (Pino Caruso)
L’aver individuato una classe ristretta di enunciati – i performativi – per cui non vale la tradizionale caratterizzazione semantica in termini di condizioni di verità sembra suggerire che la teoria degli atti linguistici sia periferica rispetto alla riflessione complessiva sul linguaggio: è quanto veniva teorizzato dai filosofi del linguaggio ideale. In realtà vedremo che la distinzione fra enunciati constativi ed enunciati performativi deve essere abbandonata in favore della tesi generale della presenza di una dimensione performativa – o pragmatica – in ogni uso del linguaggio: dire è sempre anche fare. Da un lato, infatti, non sembrano esserci criteri grammaticali o lessicali in grado di circoscrivere la categoria dei performativi: si promette con un performativo esplicito come (20) ma lo stesso atto può essere compiuto con (22) Verrò certamente alla tua festa; un ordine può essere impartito esplicitamente come in (23) Ti ordino di tacere oppure usando un verbo all’imperativo, come in (24) Taci! o ancora con un enunciato apparentemente descrittivo come (25) Non voglio sentire un’altra parola. D’altro lato, la distinzione fra enunciati constativi – passibili di essere veri o falsi – ed enunciati performativi – che possono essere felici o infelici – è illusoria. E questo per almeno due argomenti speculari: i) da un lato, considerazioni di felicità e di infelicità possono contagiare gli enunciati constativi; ii) dall’altro, considerazione di verità o falsità possono contagiare i performativi. Vediamo i due argomenti. i) Consideriamo un enunciato constativo come (8). L’enunciato può essere infelice negli stessi modi, per la violazione delle stesse regole in vigore per i performativi: A.1 Nel caso dei performativi, l’atto è nullo se la procedura non esiste; in modo analogo, se fallisce la presupposizione di esistenza (se non c’è gatto, o non c’è letto), l’asserzione è nulla e senza effetto1. A.2 Anche le asserzioni sono un atto linguistico, che richiede circostanze appropriate. Non sembra appropriato, ad esempio, fare asserzioni sui sentimenti degli altri: suonerebbe bizzarro se Bea, alla mia affermazione “Mi sento triste”, ribattesse (26) No, non lo sei (anche se potrebbe ribattere “No, non lo sembri”). E non pare appropriato nemmeno fare asserzioni a proposito di stati del mondo sui quali non sono in posizione tale da potermi pronunciare; per fare un esempio, l’enunciato (27) Ci sono 50 persone nell’aula accanto non costituisce un’asserzione genuina, ma solo un’ipotesi o una congettura. B. Anche le asserzioni sono passibili di difetti o lacune, quando si usa, ad esempio, un enunciato non grammaticale, o si sbaglia parola, come in
(28) Il ratto è sul letto. C. Ci sono infine i casi di abuso o infrazione. C.1 Si è detto che un performativo come (20) è vuoto se non ho nessuna intenzione di venire alla tua festa; allo stesso modo dire (29) Il gatto è sul letto ma non ci credo dà origine a un tipo di nonsenso molto simile. C.2 D’altro lato anche fare un’asserzione significa assumere certi impegni: se asserisco (8) mi impegno ad esempio ad asserire (30) Il letto è sotto il gatto; se non lo faccio, la mia asserzione è viziata o vuota. ii) In modo speculare, si richiedono anche per gli enunciati performativi, e non solo per i constativi, considerazioni di adeguatezza, appropriatezza e generale corrispondenza ai fatti – giudizi di verità o falsità: dei verdetti diciamo che sono equi o iniqui, dei consigli che sono buoni o cattivi, delle stime che sono corrette o scorrette, dei rimproveri, delle lodi e delle congratulazioni che sono meritati o immeritati, e così via. Più in generale usiamo spesso i medesimi termini per valutare asserzioni o performativi: “vero” e “falso” non sono proprietà di enunciati, o relazioni fra enunciati e stati del mondo, ma indicano una generica dimensione di valutazione. Come già osservato nel primo capitolo a proposito di enunciati come (31) La Francia è esagonale, la risposta stessa sulla verità o falsità delle asserzioni è raramente una risposta semplice; anche nel caso delle asserzioni devono essere prese in considerazione riflessioni legate agli scopi e alle intenzioni dei parlanti, alle circostanze in cui un’asserzione può essere fatta, ai tipi di impegni che vengono presi. Le asserzioni non saranno allora semplicemente vere o false, ma più o meno obiettive, adeguate, esagerate, approssimate: «“Vero” e “falso” […] non stanno per alcunché di semplice, ma soltanto per una dimensione generale dell’essere una cosa giusta o corretta da dire, in opposizione a una cosa sbagliata, in queste circostanze, a questo uditorio, per questi scopi e con queste intenzioni» (Austin 1962b, p. 106). La distinzione fra constativi e performativi si rivela allora inadeguata: gli enunciati del linguaggio naturale sono tutti, a pari titolo, strumenti che i parlanti utilizzano per fare delle cose. Si rende pertanto necessaria non tanto una classificazione degli enunciati performativi, ma una teoria generale dei modi in cui è possibile usare il linguaggio, degli atti che è possibile compiere con un enunciato, una teoria generale di quella che Austin chiama la forza illocutoria. 2.4. La forza illocutoria
È dunque possibile, a proposito di ogni tipo di enunciato, tracciare una distinzione sistematica fra quelli che Austin chiama atto locutorio, atto illocutorio e atto perlocutorio. L’atto locutorio corrisponde al fatto di dire qualcosa, al proferimento di un’espressione ben formata sintatticamente e dotata di significato, oggetto di studio da parte di sintassi e semantica. Nel caso dell’enunciato (8) un’analisi dell’atto locutorio conduce a individuarne senso e riferimento, e quindi senso e riferimento dei suoi componenti: i sostantivi “gatto” e “letto”, e il predicato “essere su”. Ma ogni volta che proferiamo un enunciato, lo facciamo per uno scopo: l’atto illocutorio corrisponde all’azione che viene effettivamente compiuta, a ciò che facciamo proferendo (8), alla
forza illocutoria che corrisponde al nostro proferimento: affermazione, ordine, minaccia, promessa, avvertimento, e così via. Possiamo usare (8) per fare una semplice asserzione, una pura e disinteressata descrizione di uno stato di cose; ma possiamo servircene per compiere una variegata quantità di altri atti linguistici. È facile immaginare contesti in cui (8) è, ad esempio: • un invito: “Entra in camera e gioca con il gatto”; • un avvertimento: “Non salire sul letto perché il gatto non apprezzerebbe”; • una minaccia: “Se non te ne vai faccio un fischio, il gatto viene qui e ti sbrana”; • un’insinuazione: “Lo hai lasciato salire tu”; • un ordine: “Fallo scendere!”; e così via. L’atto perlocutorio corrisponde infine agli effetti ottenuti dall’atto illocutorio, alle conseguenze psicologiche o comportamentali, intenzionali o meno. Posso usare (8) come un invito rivolto a Bea a giocare con il gatto, e ottenerne come conseguenza l’effetto di farla entrare in camera e di far sì che giochi col gatto; ma posso anche ottenere l’effetto di indurla ad andarsene, perché è allergica ai gatti. Oppure posso intendere (8) come una minaccia nei confronti di Bea, e quindi compiere un atto illocutorio di minaccia, senza ottenere l’effetto perlocutorio di spaventare Bea, ma invece quello di divertirla: le conseguenze perlocutorie dei nostri atti illocutori sono del tutto non convenzionali, e dipendono dalle specifiche circostanze in cui l’atto viene compiuto. 2.5. Classificazione delle forze illocutorie Quel che ho detto, ho detto. E qui lo nego. (Totò)
Sono state tentate svariate classificazioni delle forze illocutorie, tutte in qualche modo insoddisfacenti. La classificazione più riuscita e più nota è quella proposta da Searle 1979, sulla base della direzione di adattamento fra linguaggio e mondo: se ad esempio con un’asserzione miriamo a rappresentare la realtà, e quindi a che il linguaggio si adatti al mondo, con un ordine tendiamo invece a modificare la realtà, e quindi a che il mondo si adatti al linguaggio. È allora possibile distinguere cinque tipi principali di forze illocutorie (di forze e non di verbi), cinque tipi di atti che è possibile compiere proferendo un enunciato: a) Rappresentativi: sono gli atti linguistici con cui esprimiamo le nostre credenze sul mondo (come gli atti di asserire, descrivere, concludere). Con un rappresentativo il parlante cerca di far sì che le sue parole si adattino al mondo e si impegna alla verità di quanto afferma. b) Dichiarativi: sono gli atti linguistici con cui modifichiamo stati del mondo, spesso stati istituzionali (come gli atti di sposare, battezzare, dichiarare guerra, condannare, licenziare). L’uso di un dichiarativo è regolato da complesse istituzioni sociali, e il parlante deve avere un determinato status giuridico o sociale: in questo caso è il mondo ad adattarsi alle parole. c) Espressivi: sono gli atti linguistici con cui esprimiamo i nostri sentimenti e più in generale i nostri stati psicologici (come gli atti di scusarsi, congratularsi, rallegrarsi, ringraziare, salutare): anche in questi atti possono essere coinvolti atteggiamenti e comportamenti regolati socialmente. Con un espressivo il parlante mira a far sì che le sue parole si adattino al mondo dei suoi sentimenti o sensazioni. d) Direttivi: sono gli atti linguistici con cui cerchiamo di indurre gli altri a fare, o a non fare, qualcosa (come gli atti di ordinare, vietare, richiedere, domandare). Con un direttivo il parlante cerca di far sì che il mondo si adatti alle sue parole, grazie all’intervento del destinatario. e) Commissivi: sono gli atti linguistici con cui ci impegniamo a fare qualcosa in futuro (come gli atti di promettere, incaricarsi, rifiutare, acconsentire, scommettere). Con un commissivo il
parlante si impegna a far sì che il mondo si adatti alle sue parole. 2.6. Da Austin a Grice
A questo punto sono opportune alcune precisazioni. Con “atto illocutorio” Austin intende gli aspetti convenzionali di un atto linguistico: la sua idea è che le regole del linguaggio associano in modo convenzionale a una certa formulazione un certo valore illocutorio. Questo sembra accettabile quando si parla di atti in qualche modo istituzionali, come sposarsi (l’enunciato (4)), sposare due persone (“Vi dichiaro marito e moglie”), battezzare bambini o navi (l’enunciato (5)), “vedere” a poker (“Vedo”), condannare (“Condanno l’imputato a dieci anni di prigione”), aprire una seduta (“Dichiaro aperta la seduta”) ecc.: l’aspetto convenzionale è qui evidente, anche perché è la società (e in alcuni casi il diritto) a sanzionare o meno questi atti. Ma l’idea che l’atto illocutorio abbia una forte dimensione di convenzionalità non sembra applicarsi agli atti linguistici in generale: nulla di convenzionale, o di semantico, fa di (8) una minaccia o un invito – sono le circostanze in cui (8) è stato proferito a dare all’enunciato la valenza illocutoria che ha (cfr. Strawson 1964). In questa prospettiva è l’atto sociale ad avere rigide condizioni di felicità, ma non l’atto linguistico in sé: è vero che un barista al suo bancone non può compiere l’atto istituzionale di sposare due persone, ma è anche vero che può compierne l’atto linguistico: sarà l’atto sociale a fallire, e non quello linguistico. L’osservazione risulta più chiara se la applichiamo a un’asserzione. Austin afferma che non posso fare affermazioni come (27) su cose di cui non so nulla, ma anche qui è l’atto sociale a fallire, non l’atto linguistico: (27) mantiene la sua valenza illocutoria di affermazione. Anche Austin ammette che la forza illocutoria è quel livello convenzionale per cui un atto, se ratificato dall’interlocutore, diventa valido, o entra in vigore: un ordine, ad esempio, perché sia eseguito con successo, deve essere riconosciuto come tale dal destinatario (cfr. Sbisà 1989). Vedremo che, secondo Grice, compiere un atto linguistico significa manifestare pubblicamente un’intenzione e che l’atto ha successo quando tale intenzione viene riconosciuta (cfr. Récanati 1981). Questo spiega perché, fuori contesto, non siamo in grado di dire con che forza illocutoria è stato proferito un enunciato. Non basta, ad esempio, la forma imperativa a fare di un enunciato un ordine; come si è accennato in apertura di questo terzo capitolo, l’enunciato (1) può essere sì un ordine, ma anche un consiglio, un permesso, una sfida, o una supplica. In modo analogo non basta la forma interrogativa per fare di un enunciato una domanda, una richiesta di informazioni; l’enunciato (32) Hai una sigaretta? costituisce nella stragrande maggioranza dei casi una richiesta di una sigaretta, e non di informazioni – e questo spiega perché la risposta “Sì” non seguita dall’offerta di una sigaretta verrebbe considerata non appropriata o scortese. Quando forma grammaticale e valore illocutorio coincidono (ad esempio forma dichiarativa e affermazione, forma imperativa e ordine, forma interrogativa e domanda), parliamo di atto linguistico diretto; parliamo di atto linguistico indiretto quando non c’è coincidenza tra forma e valore illocutorio, come per (32), o per gli usi non assertori di un enunciato dichiarativo come (8) (cfr. Searle 1969). Naturalmente, così come è possibile che a una medesima struttura grammaticale corrispondano diversi atti illocutori, uno stesso atto illocutorio può essere compiuto con una gran varietà di strutture grammaticali – come abbiamo già mostrato con gli esempi (23)-(25). D’altro canto è evidente che siamo in grado di ottenere gli stessi effetti perlocutori servendoci dei mezzi più diversi. Possiamo innanzitutto
usare il linguaggio in modo convenzionale: potrei ad esempio persuadere Bea a smettere di girare attorno alla mia dolce metà urlando (33) Se non la smetti ti faccio spaccare le gambe; oppure usando il linguaggio in modo non convenzionale, sussurrando con dolcezza (34) So dove abitano i tuoi vecchi genitori; o ancora utilizzando mezzi non linguistici, ad esempio facendo dondolare dolcemente un grosso bastone (cfr. Austin 1962b).
3. La conversazione “Davvero Lei sta facendo un corso di conversazione?”. “Sì”. (Steve Martin) 3.1. Significato e intenzioni
Si è detto che, secondo Grice, un parlante compie un atto linguistico quando manifesta pubblicamente un’intenzione, e che l’atto ha successo quando l’intenzione comunicativa del parlante viene riconosciuta dal suo interlocutore. Più in generale, Grice è fautore della riduzione della nozione di significato a quella di intenzione, e in definitiva della riduzione della semantica alla psicologia. È centrale in tale progetto la distinzione fra significato dell’espressione (il significato che l’espressione ha convenzionalmente, o letteralmente) e significato del parlante (il significato con cui il parlante usa l’espressione: cfr. Grice 1957). Torniamo a (32): abbiamo fatto notare che (32) è una domanda (e questo corrisponde al significato convenzionale dell’espressione), ma più spesso verrà utilizzata dal parlante come richiesta di una sigaretta (e questo corrisponde al significato del parlante). Allo stesso modo l’enunciato (35) Fa proprio caldo è un’asserzione o descrizione (significato letterale), ma in contesti particolari può fungere da ordine di aprire la finestra, in altri da invito a fare un bagno in mare, in altri ancora sarà detto ironicamente per descrivere una situazione di gran freddo, e così via. (35) può dunque, nelle diverse circostanze, significare per il parlante ‘Apri la finestra’, o ‘Facciamo un bagno’, o ancora ‘Chi ha spento il riscaldamento?’. Il significato del parlante corrisponde a quello che il parlante vuole dire, a ciò che intende comunicare al proprio interlocutore. In un caso di comunicazione intenzionale, infatti, il parlante P vuole produrre nel destinatario D la credenza p, usando una certa espressione E. È in gioco un tipo di significato diverso dal significato naturale, come quando si dice “Queste nuvole significano (o vogliono dire) pioggia” o “Queste macchie significano (o vogliono dire) morbillo”: il verbo “significare” in questi due enunciati segnala connessioni di tipo causale che legano nuvole e pioggia, macchie e morbillo. Si tratta di regolarità tra certi fatti e altri fatti, di cui i primi costituiscono i sintomi o gli indizi: non c’è alcuna intenzione di comunicare alcunché. Ma il significato del parlante è diverso anche da casi di significato non naturale, di comunicazione intenzionale non verbale. Supponiamo che, per produrre in Paolo la credenza che Francesca lo tradisca, io lasci in bella vista sulla mia scrivania una foto in cui Francesca bacia Pietro: in questo caso potrei generare la credenza ‘Francesca tradisce Paolo’ anche senza che le mie intenzioni comunicative vengano riconosciute – Paolo potrebbe credere che io abbia semplicemente dimenticato la foto, e non che l’abbia lasciata lì intenzionalmente. Nella comunicazione verbale, invece, P vuole generare in D la credenza p usando E tramite il riconoscimento delle sue stesse intenzioni comunicative: è parte della comunicazione che D riconosca l’intenzione comunicativa di P. Se quindi voglio comunicare a Paolo la credenza p: ‘Francesca tradisce Paolo’, devo far sì che egli riconosca la mia intenzione. Posso farlo in modo diretto, dicendo ad esempio (36) Francesca ti tradisce; oppure in modo meno diretto, usando enunciati del tipo:
(37) Ho visto spesso Francesca con Pietro (38) Non sapevo che Francesca vedesse così spesso Pietro (39) Francesca e Pietro sono proprio grandi amici. In un certo senso non contano le parole che uso, quello che conta è che Paolo riconosca la mia intenzione comunicativa. Il punto innovativo della teoria griceana è di aver suggerito che la comunicazione può essere caratterizzata essenzialmente come riconoscimento di intenzioni: la comunicazione è possibile ogniqualvolta esiste un mezzo per far riconoscere le proprie intenzioni comunicative all’interlocutore (cfr. Sperber e Wilson 1986). Il voler dire – o significato – del parlante diventa allora il punto di partenza di una vera e propria teoria del significato: “il parlante P vuole dire o significa qualcosa mediante l’enunciato E” equivale a “P ha l’intenzione che il proferimento di E produca un certo effetto nel destinatario grazie al riconoscimento di questa stessa intenzione”. Sono pertanto in gioco due intenzioni: • l’intenzione di produrre in D la credenza p, usando E; • l’intenzione che D riconosca che E è stato prodotto con l’intenzione precedente. L’aver caratterizzato il significato in termini di intenzioni permette di giustificare il fatto che ciascun parlante possa usare in modo deviante un’espressione E – sempre che il suo uso e la sua intenzione comunicativa vengano riconosciute dall’interlocutore: il significato del parlante è prioritario rispetto al significato dell’espressione. E permette di sostenere che il significato del parlante è a fondamento del significato convenzionale: un’espressione E significa p per una comunità di parlanti in quanto esiste una convenzione tale per cui, quando un membro della comunità usa E, con ciò generalmente intende p. Con “convenzione” si intende una regolarità di comportamento caratterizzata dal fatto che P sa che D sa che P sa che nel gruppo vige una certa convenzione caratterizzata, in altri termini, dalla “conoscenza mutua” che si sta agendo conformemente a una convenzione (cfr. Lewis 1969). 3.2. Linguaggio naturale e linguaggio formale È sempre così alle feste: mi ubriaco e nessuno mi parla, oppure nessuno mi parla e mi ubriaco. (Deirdre Wilson)
La distinzione fra significato del parlante e significato dell’espressione consente di chiarire un’altra delle osservazioni chiave di Grice: il fatto che le espressioni che usiamo nelle nostre interazioni comunicative quotidiane spesso comunicano (significato del parlante) molto più di quanto non dicano (significato convenzionale). Si considerino i seguenti enunciati: (40) Francesca si è sposata e ha avuto un bambino (41) Paolo si è vestito ed è uscito di casa (42) Francesca ha dato un calcio a Paolo e lui è caduto. In semantica è comune sostenere che il significato convenzionale della congiunzione “e” corrisponde a quello della costante logica ## – ed è pertanto stabilito dalle tavole di verità di questo simbolo logico. L’enunciato complesso (43) p e q ha dunque lo stesso significato (ha le stesse condizioni di verità) di (44) p ## q. (43) e (44) sono veri nelle stesse circostanze – e cioè quando p e q sono entrambi veri ((43) e (44) saranno falsi in ogni altra circostanza). Questo comporta, fra l’altro, che (43) e (44) siano
equivalenti ai loro enunciati simmetrici (43’) q e p (44’) q ## p. (44) e (44’) sono infatti veri nelle stesse circostanze – hanno le stesse condizioni di verità (sono veri quando p e q sono entrambi veri). Torniamo a (40)-(42) e applichiamo l’analisi tradizionale: l’enunciato complesso (40) è vero se e solo se sono veri entrambi gli enunciati che lo compongono, e cioè (45) Francesca si è sposata (46) Francesca ha avuto un bambino (analogamente per (41) e (42)). Ma si confrontino ora gli enunciati (40)-(42) (“p e q”) con i loro enunciati simmetrici (“q e p”), rispettivamente: (40’) Francesca ha avuto un bambino e si è sposata (41’) Paolo è uscito di casa e si è vestito (42’) Paolo è caduto e Francesca gli ha dato un calcio. La congiunzione “e”, a differenza della corrispondente costante logica ##, sembra in molti casi suggerire l’ordine temporale dei due eventi che mette in correlazione: l’interpretazione naturale di (40) è ‘Francesca prima si è sposata e poi ha avuto un bambino’. Il confronto fra enunciati simmetrici permette di notare che l’implicazione temporale di (40’) è invertita rispetto a quella di (40). Grice ritiene che si debbano applicare ai linguaggi naturali gli strumenti della semantica formale, mantenendo una semantica “povera” o minimale e rendendo conto dei caratteri particolari del linguaggio naturale a livello puramente pragmatico. Se si assume questa prospettiva, l’implicazione di sequenza temporale degli enunciati (40)-(42) non fa parte di “ciò che è detto” dagli enunciati, del livello semantico, del loro significato letterale, ma è da essi solo veicolata o comunicata; essa deriva semplicemente dalla supposizione che, nelle loro conversazioni, i parlanti rispettino generalmente una regola che richiede di raccontare i fatti in modo ordinato, nell’ordine in cui si sono verificati. Una regola, e non una convenzione semantica: essa infatti può essere abbandonata in qualunque momento, come in (40’’) Francesca si è sposata e ha avuto un bambino, ma non so in che ordine si sono prodotti i due eventi. In certi contesti il destinatario è dunque autorizzato a supporre che ci sia una certa sequenza temporale fra p e q, come in (40) Francesca si è sposata [prima] e [poi] ha avuto un bambino (41) Paolo si è vestito [prima] e [poi] è uscito di casa. In altri contesti, il destinatario è autorizzato a supporre che ci sia un legame causale fra p e q, come in (42) Francesca ha dato un calcio a Paolo e [come conseguenza] lui è caduto. 3.3. Implicature: il principio di cooperazione Gianni De Michelis: Hai mai pensato di iscriverti al Partito Socialista? Massimo Cacciari: No grazie, sono ricco di famiglia.
Grice chiama implicature le proposizioni che, in determinati contesti, possono essere comunicate (significato del parlante) usando un enunciato, senza essere esplicitamente dette, senza cioè essere parte del significato convenzionale dell’enunciato. Tipi particolari di implicature sono le implicature convenzionali: le proposizioni addizionali comunicate da un enunciato non dipendono da particolari circostanze d’uso dell’enunciato, ma sono associate in modo stabile – in ogni contesto, dunque – a determinate espressioni, come “ma”, “quindi”, “persino”, “non ancora”. Si consideri l’enunciato (47) Francesca è povera ma onesta: esso ha le stesse condizioni di verità (è cioè vero nelle stesse circostanze) di (47’) Francesca è povera e onesta, è vero cioè quando Francesca possiede la proprietà di essere povera e la proprietà di essere onesta. (47), però, a differenza di (47’), implica convenzionalmente che c’è un contrasto fra povertà e onestà. In modo analogo, negli enunciati (48)-(50), le espressioni “quindi”, “persino”, “non ancora” suggeriscono al destinatario di inferire le proposizioni fra parentesi quadre – proposizioni non esplicitamente dette dal parlante, ma solo implicate convenzionalmente (è il parlante a implicare una certa proposizione, e non l’enunciato, come accade nei casi di implicazione logica: si veda infra, paragrafo 4): (48) Egli è inglese, quindi coraggioso [c’è una correlazione fra essere inglese ed essere coraggioso] (49) Persino Paolo è venuto [proprio tutti sono venuti] (50) Francesca non è ancora arrivata [ci si aspettava che Francesca arrivasse prima]. Le implicature conversazionali sono invece le proposizioni che possono essere comunicate usando un enunciato solo in contesti particolari, e che non sono legate a determinate espressioni. Si immagini che Paolo chieda a Francesca: “Andiamo al cinema?” e che Francesca risponda: (51) Sono stanca. Francesca sta dicendo letteralmente di essere stanca, ma nella conversazione particolare che abbiamo riportato è naturale supporre che stia comunicando a Paolo di non voler andare al cinema. Che cosa ci permette di inferire da (51) la proposizione ‘Non voglio andare al cinema’? La tesi sottostante all’idea di implicatura è che le nostre interazioni comunicative, lungi dall’essere casuali o arbitrarie, sono rette da regole che si impongono ad ogni essere razionale. Per agire con qualcuno – spostare un tavolo, ballare il tango, preparare un dolce, ma anche parlare – è necessario coordinarsi, sforzarsi di agire in conformità a ciò che il nostro partner di interazione si aspetta ragionevolmente da noi. La comunicazione, in questa prospettiva, viene intesa come un’impresa razionale di cooperazione: i nostri scambi verbali sono sforzi di collaborazione – con uno scopo e una direzione comuni, stabiliti all’inizio della conversazione o negoziati durante lo scambio. Un’impresa retta dal principio di cooperazione: «il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, con lo scopo o l’orientamento accettato dallo scambio linguistico in cui sei impegnato» (Grice 1975, p. 26). Ad ogni stadio della conversazione certe mosse, pur possibili, saranno rifiutate in quanto inappropriate dal punto di vista conversazionale: basti come esempio il seguente dialogo che ben illustra le difficoltà e i pericoli di una conversazione che non si conforma a principi di
collaborazione: (52) Paolo (a Francesca, su una panchina e con ai piedi un grosso cane): “Il suo cane morde?” Francesca: “No”. Paolo (accarezza il cane e il cane lo morde): “Ma aveva detto che non mordeva!” Francesca: “Ma questo non è mica il mio cane”. 3.4. Le massime conversazionali Dicendo la verità si è più che certi che, presto o tardi, si verrà scoperti. (Oscar Wilde)
Il principio di cooperazione si declina in massime conversazionali. Non si tratta di norme che ogni partecipante alla conversazione è tenuto a rispettare, ma di regole che rispecchiano le aspettative che un soggetto può ragionevolmente intrattenere sulle mosse comunicative del suo interlocutore, sempre che ne presupponga la razionalità. Si noti che il principio di cooperazione – che chiede al parlante di essere razionale nelle sue interazioni verbali – può essere visto come il contraltare del principio di carità interpretativo – che chiede al destinatario o interprete di presupporre o attribuire razionalità al suo interlocutore (sul principio di carità si veda Quine 1960, Davidson 1984). Le massime sono raccolte in quattro gruppi. • Massime di quantità: 1) Dà un contributo tanto informativo quanto richiesto (per gli scopi accettati dallo scambio linguistico in corso); 2) Non dare un contributo più informativo di quanto richiesto. • Massime di qualità (che è possibile sintetizzare nella formula “Tenta di dare un contributo che sia vero”): 1) Non affermare ciò che credi essere falso; 2) Non affermare ciò per cui non hai prove adeguate. • Massima di relazione: Sii pertinente. • Massime di modo (sintetizzate nella formula “Sii perspicuo”): 1) Evita di esprimerti con oscurità; 2) Evita di essere ambiguo; 3) Sii breve; 4) Sii ordinato nell’esposizione. Come ha mostrato l’esempio (52) (un caso evidente di violazione della prima massima di quantità), è arduo immaginare come potrebbe svolgersi la conversazione senza massime come queste. Basti pensare a cosa accadrebbe se tutti fossero eccessivamente prolissi (e quindi non rispettassero la seconda massima di quantità) e invece di dire (53) Ho bevuto un caffè al bar proferissero enunciati come (54) Sono entrato in un luogo pubblico in cui si servono bevande calde e fredde e cibi pronti; mi sono avvicinato al bancone e ho chiesto al cameriere dietro al bancone di farmi un caffè; il cameriere mi ha preparato il caffè e me lo ha servito in una tazzina che ha posato sul bancone; ho preso la tazzina tenendola per il manico e ho sorseggiato il caffè; ho posato la tazzina sul bancone, sono andato alla cassa, ho pagato e sono uscito.
Avremmo effetti ancora più disastrosi per le nostre interazioni verbali se tutti mentissero, violando le massime di qualità, che ci impongono di essere, se non veritieri, quantomeno sinceri: se non potessimo presupporre la sincerità dei nostri interlocutori non avremmo più alcuna ragione di credere loro, con conseguenze gravissime per la stessa vita sociale. Analoghi effetti devastanti avrebbe una sistematica violazione della massima di relazione, senza la quale non potremmo presupporre la pertinenza delle mosse conversazionali dei nostri interlocutori – e quindi nemmeno, ad esempio, che i loro enunciati siano una risposta alle nostre domande (come nell’esempio (51)). Si noti che le massime enunciate regolano il comportamento razionale in generale, sono cioè aspettative valide in ogni attività collaborativa, anche non verbale. Supponiamo, ad esempio, di dover preparare, voi e io, un dolce. Se ho bisogno di due etti di zucchero, mi aspetto che voi me ne passiate due etti, e non quattro chili o un cucchiaino (massima di quantità); allo stesso modo mi aspetto che voi mi passiate lo zucchero e non il sale, e che il cucchiaio che mi tendete per mescolare gli ingredienti sia di legno e non un cucchiaio finto, in gomma (massima di qualità); e ancora mi aspetto che mi passiate lo zucchero e non un guanto da forno – anche se questa mossa potrebbe essere pertinente a un altro stadio della preparazione (massima di relazione); e infine mi aspetto un contributo chiaro e in tempi ragionevoli, e dunque che voi mi passiate lo zucchero non il giorno dopo (massima di modo). Siamo ora in grado di spiegare come nascono le implicature. Le implicature conversazionali dipendono dall’interazione fra il significato convenzionale delle espressioni e il contesto. Il destinatario (ma anche il teorico del linguaggio) deve essere in grado di calcolare un’implicatura a partire da: 1) il significato convenzionale dell’enunciato che viene proferito; 2) l’informazione presente nel contesto in cui l’enunciato viene proferito; 3) le massime conversazionali e l’ipotesi che il parlante si conformi al principio di cooperazione. In altri termini, “il parlante dice p e implica q” se: a) il destinatario presume che il parlante si conformi alle massime; b) per rendere coerente a con il fatto che il parlante ha detto p, il destinatario deve supporre che il parlante pensi q; c) il parlante pensa che il destinatario inferisca o possa inferire b (Grice 1975). Nel nostro esempio iniziale di implicatura, Francesca dice a Paolo (51) Sono stanca e implica ‘Non voglio andare al cinema’ se: a) Paolo presume che Francesca si conformi alle massime; b) per rendere coerente a con il fatto che Francesca ha detto “Sono stanca”, Paolo deve supporre che Francesca pensi ‘Non voglio andare al cinema’; c) Francesca pensa che Paolo inferisca o possa inferire b. Francesca, in altre parole, proferendo (51) si aspetta che Paolo sia in grado di inferirne una risposta negativa al suo invito al cinema, si aspetta cioè che Paolo sia in grado di interpretare (51) come rifiuto di andare al cinema. 3.5. Atteggiamenti di fronte alle massime “Dove vai?”. “A Milano”. “Bugiardo! Mi dici che vai a Milano per farmi credere che non vai a Milano, e invece vai proprio a Milano!”. (Achille Campanile)
Si è detto che una violazione sistematica delle massime conversazionali porterebbe a conseguenze disastrose per la comunicazione e più in generale per le nostre interazioni sociali. Su uno sfondo di sostanziale rispetto delle massime, sono tuttavia possibili diversi atteggiamenti in relazione al principio di cooperazione e alle massime; vediamo quali. 1) In primo luogo, il parlante può semplicemente conformarsi al principio e alle massime. È solo la presunzione che l’interlocutore stia rispettando il principio di cooperazione (e in particolare la massima di relazione) che consente a Paolo di interpretare l’enunciato, proferito da Francesca, (55) Bea è andata spesso a Torino ultimamente come una risposta coerente alla sua domanda: “Come vanno gli amori di Bea?”. 2) Il parlante può invece violare una massima, ad esempio per mentire o ingannare l’interlocutore. Naturalmente, in questo caso, sceglie di non cooperare, anche se non rende manifesta la propria scelta. È importante sottolineare, tuttavia, che è proprio sfruttando l’aspettativa generale di cooperazione, e quindi, in particolare, l’aspettativa generale di sincerità, che è possibile mentire. 3) Il parlante può ancora scegliere di uscire dal raggio d’azione di una massima, manifestando la decisione di non cooperare. Si supponga, come esempio, che alla domanda di Paolo: “È vero che Francesca ha una relazione con Pietro?” Bea risponda: (56) Le mie labbra sono sigillate oppure (57) No comment. Usando (56) o (57) Bea viola in modo manifesto la prima massima di quantità. È interessante notare che tale violazione palese viene generalmente interpretata come se comunicasse più di quanto non dice – e in particolare che Bea sa se Francesca ha una relazione con Pietro (e, malauguratamente per la discreta Bea, nel caso descritto, anche che Bea sa che Francesca ha una relazione con Pietro). 4) Accade spesso che due massime entrino in conflitto fra loro. Si consideri un altro dialogo tra Paolo e Francesca, che stanno programmando un viaggio in Francia e vogliono far visita alla loro amica Bea; alla domanda di Paolo: “Dove abita Bea?” Francesca replica (58) Da qualche parte nel sud della Francia. Per rendere (58) compatibile con il rispetto da parte di Francesca del principio di cooperazione, Paolo deve supporre un conflitto tra la prima massima di quantità (che imporrebbe a Francesca di essere più specifica) e la seconda massima di qualità (che le impone di dire solo cose per cui ha prove adeguate), e inferirne che Francesca non sa in quale città del sud della Francia abita Bea. 5) L’atteggiamento più interessante che un parlante può assumere nei confronti di una massima è quello di sfruttarla per ottenere effetti comunicativi particolari. In caso di violazione palese di una massima, infatti, il destinatario deve avanzare ipotesi supplementari per scartare l’ipotesi di una trasgressione, e per riconciliare il comportamento del parlante con l’assunzione che egli stia cooperando. Grice (1975) offre un’efficace carrellata dei modi in cui è possibile ricondurre a comportamento collaborativo mosse conversazionali apparentemente non in consonanza con le massime; ne esaminiamo alcuni.
Cominciamo con un caso di violazione della prima massima di quantità. Si considerino enunciati come (59) La guerra è guerra (60) Gli uomini sono uomini. Si tratta di tautologie, enunciati sempre veri, veri cioè in ogni circostanza, il cui potere informativo a livello di ciò che viene letteralmente detto è evidentemente nullo. Il proferimento di un enunciato come (60) è pertanto una violazione della prima massima di quantità, che ci chiede di dare un contributo informativo alla conversazione cui stiamo partecipando: dal momento che la violazione è palese, il destinatario, per poter continuare a presupporre che il parlante stia collaborando, deve supporre che, usando (60), egli voglia in realtà comunicare più di quanto non abbia letteralmente detto – e cioè che gli uomini sono esattamente come ci si aspetta che siano, di volta in volta esseri fragili, o insensibili, o assetati di potere, o infantili, o bisognosi di cure e di affetto ecc. Vediamo ora un caso di violazione della seconda massima di quantità. Si torni all’esempio di Francesca legata da troppo stretta amicizia con Pietro, e supponiamo che io dica a un ignaro Paolo: (61) Sono proprio assolutamente sicura e certa che Francesca e Pietro sono buoni amici e sarei pronta a giurarlo. Lungi dal rassicurare Paolo, (61) otterrebbe probabilmente l’effetto opposto di insospettirlo – proprio perché viola la massima che ci chiede di non fornire più informazioni di quanto richiesto. In generale, un eccesso di informazioni può essere fuorviante, e generare effetti indiretti come quello di (61): il destinatario è legittimato a pensare che esista una ragione per quella sovrabbondanza di informazioni. Come esempio di violazione della massima di qualità, si considerino enunciati palesemente falsi come (62) Che giornata meravigliosa! proferito durante un forte temporale: in questo caso il destinatario può ipotizzare un’intenzione ironica da parte del parlante per ricondurne l’apparente insincerità a comportamento collaborativo. In modo analogo si spiega che un enunciato come (63) Sei un fulmine, manifestamente falso se detto di Bea, debba essere interpretato come una metafora (‘Bea è estremamente rapida’) – o, in altri contesti, come una combinazione di metafora e ironia (‘Bea è estremamente lenta’). Un esempio di trasgressione della massima di relazione, che ci chiede di essere pertinenti (di “rispondere a tono”), è il seguente dialogo: (64) Francesca: “Bea è diventata una balena”. Paolo (che ha scorto Bea alle spalle di Francesca): “Bel tempo, vero?”. La replica palesemente incoerente di Paolo serve in questo caso a mettere in guardia Francesca dal continuare sullo stesso tono: il rifiuto di collaborare deve essere interpretato in questo caso come un invito a “cambiare discorso”.
E infine come esempio di violazione della massima di modo, si confrontino gli enunciati (65) Bea ha emesso una serie di suoni strettamente connessi con la melodia di “O sole mio” (66) Bea ha cantato “O sole mio”. Le massime di modo regolano non tanto ciò che viene detto, quanto come viene detto: se anche (65) e (66) hanno lo stesso contenuto informativo, (65) costituisce una violazione della terza massima, che ci invita alla brevità: il destinatario non può che trarre l’implicatura che l’esecuzione canora di Bea è stata di desolante qualità. Bisogna comunque sottolineare che non tutte le massime sono sullo stesso piano e che, di conseguenza, anche l’eventuale trasgressione assume un peso diverso a seconda della massima che si sceglie di ignorare. È evidente che se mentire è generalmente considerato con riprovazione, la violazione estemporanea della massima di relazione (“saltare di palo in frasca”) o di modo verrà giudicata con minor severità. In ogni modo, i parlanti hanno a loro disposizione svariate espressioni – come “per quel che ne so”, “potrei sbagliarmi”, “come sai”, “tra parentesi”, “a proposito” – per segnalare convenzionalmente che stanno violando, o che rischiano di violare, una massima: l’esistenza di tali espressioni è il segno del fatto che i parlanti sono coscienti delle massime, e vogliono mostrare che le osservano, o se ne discostano, consapevolmente. Si vedano gli enunciati (67) Per quel che ne so, Francesca ha una relazione con Pietro, in cui l’espressione “per quel che ne so” segnala il rischio di violare la seconda massima di qualità (il parlante non ha prove adeguate di quanto afferma); o (68) Come sai, Francesca ha una relazione con Pietro, in cui l’espressione “come sai” segnala la violazione della prima massima di quantità (il parlante sta richiamando informazioni note); o ancora (69) A proposito, Francesca ha una relazione con Pietro, in cui l’espressione “a proposito” segnala la violazione della massima di relazione (il parlante sta cambiando oggetto di conversazione). 3.6. Varietà di implicature L’essere umano può credere nell’impossibile, ma non crederà mai nell’improbabile. (Oscar Wilde)
Fra i caratteri generali delle implicature conversazionali, abbiamo citato il fatto che si tratta di proposizioni comunicate dal parlante, e inferite dal destinatario, ma che non fanno parte del significato delle espressioni usate dal parlante; le proposizioni non vengono cioè veicolate da ciò che è detto, ma dall’atto di dirlo – in uno specifico contesto. Dal momento che non sono legate ai particolari termini utilizzati (come accadeva per le implicature convenzionali), le implicature sono non distaccabili: l’implicatura sorge anche se si usano espressioni equivalenti, come in (70) Francesca si è sposata. Ha avuto un bambino dove l’interpunzione genera la stessa implicatura di sequenza temporale prodotta dalla congiunzione “e” in (40). Inoltre, in quanto parte non di ciò che è detto, ma di ciò che è comunicato, le implicature sono cancellabili, o revocabili. Nell’esempio
(40’’) Francesca si è sposata e ha avuto un bambino, ma non so in che ordine si sono prodotti i due eventi la cancellazione dell’implicatura di sequenza temporale non genera infatti una contraddizione, come accade invece per (71) Francesca ha ucciso Paolo, ma Paolo non è morto. E, come detto, le implicature conversazionali sorgono solo in contesti particolari. Se Paolo chiede “Dov’è il latte?” e Francesca risponde (72) Guarda nel frigo! la sua replica verrà generalmente interpretata da Paolo come implicante ‘Il latte è in frigo’; se però Francesca proferisce (71) mentre dal frigo sta uscendo una massa verde e gelatinosa, l’implicatura verrà altrettanto naturalmente cancellata. In modo analogo alla domanda di Francesca (73) Hai visto la mia macchina nuova? Paolo può tranquillamente rispondere “Sì”; la stessa risposta alla domanda (74) Hai visto i miei occhiali? sarà considerata non collaborativa se non seguita dalla precisazione di dove Paolo ha visto gli occhiali (ed è facile immaginare esempi in cui una semplice risposta affermativa sarebbe considerata non collaborativa anche nel caso di (73) – se ad esempio Francesca non ricorda dove ha parcheggiato). Almeno in una certa misura, il legame delle implicature a un contesto specifico viene meno nel caso delle implicature conversazionali generalizzate: si tratta di implicature conversazionali entrate nell’uso, che non richiedono, da parte del destinatario, alcuna conoscenza particolare delle circostanze in cui un enunciato viene proferito. Si veda ad esempio l’uso dell’articolo indeterminativo in (75) Stasera Paolo ha un appuntamento con una donna, che, anche senza alcuna particolare conoscenza della situazione in cui è stato proferito, implica che l’appuntamento di Paolo non è con sua moglie, né con la sua fidanzata, e nemmeno con sua madre, o sorella o figlia. L’implicatura ‘non l’x di P’ generata dall’uso dell’articolo indeterminativo “un x” è piuttosto stabile: si veda per fare solo un altro esempio l’enunciato (76) Francesca è entrata in un giardino e ha trovato un gatto, che implica che il giardino in cui Francesca è entrata non è il suo, e che il gatto che ha trovato non è il suo. Gli esempi possono essere moltiplicati indefinitamente, senza che per questo si possa dire che l’implicatura ‘non l’x di P’ faccia parte del significato letterale di “un x”; si confrontino gli enunciati (77) Paolo è rimasto seduto in una macchina per un’ora, in cui nulla vieta che la macchina in cui Paolo è rimasto seduto sia la sua, o (78) Francesca ha rotto un braccio,
in cui l’interpretazione ‘l’x di P’ è la più naturale; l’uso di (78) per dire ‘non l’x di P’ (‘non un braccio di Francesca’, ad esempio ‘un braccio di Paolo’) sarebbe considerato deviante, quasi un gioco di parole. Un altro esempio di implicatura conversazionale generalizzata è dato dal seguente dialogo: (79) Paolo: “Hai invitato Ada e Bea?” Francesca: “Ho invitato Bea”. Dalla risposta di Francesca, Paolo è legittimato a inferire che Francesca non ha invitato Ada. L’implicatura conversazionale è generalizzata perché una qualunque istanziazione dello schema: (80) a e b? b / non a porta alla medesima interpretazione; si veda ad esempio (81) Paolo: “Hai comprato il pane e il giornale?” Francesca: “Ho comprato il giornale”, in cui Francesca lascia intendere di non aver comprato il pane. Un caso particolare di implicature generalizzate sono le implicature scalari. Si considerino gli enunciati: (82) Molti studenti hanno passato l’esame (83) Bea va spesso in vacanza in Sardegna. Anche se non lo dice, usando (82) il parlante implica ‘non tutti gli studenti hanno passato l’esame’, e usando (83) implica “Bea non va sempre in vacanza in Sardegna”. Certe espressioni esprimono un valore all’interno di una scala di valori – come la scala “tutti, la maggior parte, molti, alcuni, pochi”, o la scala “sempre, spesso, a volte”. Quando ci serviamo di un termine all’interno di una di queste scale di valori, generiamo come implicatura la negazione del valore superiore nella scala: se usiamo “molti” il nostro interlocutore è legittimato a inferire ‘non tutti’ e se usiamo “spesso” a inferire ‘non sempre’ – in accordo con l’aspettativa che la scelta di un termine piuttosto che un altro all’interno di una scala sia una faccenda razionale, e non arbitraria.
4. Presupposizioni Il bagnante: “Ci sono pescicani qui?”. Quello del luogo: “No, no, stia tranquillo. Hanno troppa paura dei coccodrilli”. (Achille Campanile) 4.1. Che cos’è una presupposizione?
Le implicature conversazionali rappresentano un tipo di nesso semantico fra proposizioni che deve essere accuratamente distinto da altri nessi semantici, come le presupposizioni e le conseguenze logiche (o implicazioni). Si considerino gli enunciati (84) Francesca tradisce Paolo (85) Ogni moglie tradisce il proprio marito (38) Non sapevo che Francesca vedesse così spesso Pietro (86) Paolo si è reso conto che Francesca lo tradisce e le relazioni che essi intrattengono con la proposizione p: ‘Francesca tradisce Paolo’. L’enunciato (84) dice p, esprime la proposizione p; (85), invece, implica logicamente p, o ha come conseguenza logica p (se supponiamo che Paolo e Francesca siano sposati): p segue logicamente da (85). Abbiamo già mostrato che, usando (38), un parlante può implicare conversazionalmente p. E infine (86) presuppone p: una presupposizione è ciò che si deve assumere, o dare per scontato, per un uso appropriato di un enunciato. (86) non dice che Francesca tradisce Paolo, ma lo assume come un fatto: se il parlante non pensasse che Francesca tradisce Paolo, non userebbe il verbo “rendersi conto”. Si noti la differenza fra (86) e gli enunciati (86’) Paolo dice che Francesca lo tradisce (86’’) Paolo crede che Francesca lo tradisce (86’’’) Paolo è convinto che Francesca lo tradisce. Usando questi tre enunciati il parlante non presuppone p, non lo presenta come un fatto (si noti, fra l’altro, che in italiano useremmo il congiuntivo per (86’’) e (86’’’)). In sostanza, presupporre una proposizione significa darne per scontata la verità, e assumere che i nostri interlocutori facciano lo stesso. Vediamo altri esempi: l’enunciato (87) È stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi presuppone ‘Il Colosseo è stato venduto ai giapponesi’; l’enunciato (88) Francesca ha smesso di picchiare Paolo presuppone ‘Francesca picchiava Paolo’; l’enunciato (89) Il fratello di Paolo è alto presuppone ‘Paolo ha un fratello’; e infine l’enunciato (90) Il re di Francia è calvo presuppone ‘C’è un re di Francia’. Una caratteristica interessante delle presupposizioni è che vengono generate dall’uso di un enunciato e della sua negazione: (86 neg) Paolo non si è reso conto che Francesca lo tradisce
(87 neg) Non è stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi (88 neg) Francesca non ha smesso di picchiare Paolo (89 neg) Il fratello di Paolo non è alto (90 neg) Il re di Francia non è calvo. Sia (87) sia (87 neg) presuppongono ‘Il Colosseo è stato venduto ai giapponesi’ – e così per tutti gli altri esempi. Ma non è solo l’uso di enunciati dichiarativi (affermazioni o negazioni) come (86)-(90) o (86 neg)-(90 neg) ad avere presupposizioni, è anche l’uso di domande, ordini, ipotesi ecc. Si vedano ad esempio i due enunciati (87 dom) È stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi? (87 hp) Se è stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi, dovremmo assumerla nel nostro ufficio vendite. Sia (87 dom) sia (87 hp) – come già (87) e (87 neg) – presuppongono ‘Il Colosseo è stato venduto ai giapponesi’. 4.2. Uso e abuso delle presupposizioni
L’insieme di tutte le proposizioni presupposte da un parlante determina un insieme di mondi possibili – i mondi compatibili con le presupposizioni – e circoscrive una situazione comunicativa. Questo ha due conseguenze: • un parlante non può asserire qualcosa di incompatibile con ciò che presuppone: l’enunciato (87*) È stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi, e nessuno ha venduto il Colosseo ai giapponesi sembra inappropriato o addirittura mal formato; • un parlante non può asserire qualcosa che è già presupposto: un enunciato come (87**) È stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi, e qualcuno ha venduto il Colosseo ai giapponesi sarebbe ridondante. Si osservi però che la negazione di (87*), e cioè l’enunciato (87* neg) Non è stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi; in realtà nessuno ha venduto il Colosseo ai giapponesi non sembra essere contraddittorio, così come non sembrano contraddittori (86* neg) Paolo non si è reso conto che Francesca lo tradisce, perché Francesca non lo tradisce affatto; (88* neg) Francesca non ha smesso di picchiare Paolo, perché non lo ha mai picchiato. In certe costruzioni, dunque, le presupposizioni sembrano essere cancellabili, nel senso di Grice. Queste osservazioni suggeriscono di trattare le presupposizioni come condizioni d’uso di enunciati, o restrizioni sul contesto – che però non modificano le condizioni di verità letterali di un enunciato. (87) letteralmente non “dice” che il Colosseo è stato venduto – ma appunto lo presuppone. La presupposizione che il Colosseo sia stato venduto è la condizione che un contesto deve soddisfare perché (87) possa essere usato in modo appropriato. Si è detto che quando un parlante presuppone una proposizione ne dà per scontata la verità, e assume che i suoi interlocutori facciano lo stesso; in altri termini, si suppone generalmente che le
presupposizioni siano credute vere dai parlanti. E tuttavia questo non avviene in casi particolari. Innanzitutto in casi di menzogna. Un parlante può presupporre una proposizione che non ritiene vera per meglio ingannare i suoi interlocutori, come quando Bea proferisce (86 neg) per far credere che Francesca tradisca Paolo, e che questo sia un fatto noto. Oppure un parlante può non mettere in discussione presupposizioni a cui pure non crede per facilitare la comunicazione – come quando, discutendo della capigliatura di Chirac con qualcuno convinto che la Francia sia una monarchia, al suo (90) ribattiamo (90 neg), senza per questo impegnarci all’esistenza del re di Francia. E infine un parlante può presupporre una proposizione che non ritiene vera nei casi di finzione, come quando uno scrittore ci parla dell’Imperatore della Galassia, senza però impegnarsi all’effettiva esistenza di un Imperatore della Galassia (cfr. Stalnaker 1970). Si noti che il fatto che abbiano presupposizioni anche domande, ordini, ipotesi (e non solo gli enunciati dichiarativi) genera fenomeni interessanti. Abbiamo detto che (88) presuppone ‘Francesca picchiava Paolo’; in modo analogo la domanda (91) Quando hai smesso di picchiare Paolo? presuppone ‘Picchiavi Paolo’; e così (92) Perché hai picchiato Paolo? presuppone ‘Hai picchiato Paolo’; e ancora (93) Smetti di fare la vittima! presuppone ‘Stai facendo la vittima’. Questo rende le presupposizioni un’arma subdola di persuasione (più o meno occulta). Supponiamo che in un’aula di tribunale il pubblico ministero ponga all’imputata Bea le seguenti domande: (94) Da quanto tempo conosceva la vittima? (95) Perché ha smesso di spacciare eroina? Usando (94) il pubblico ministero presuppone ‘Bea conosceva la vittima’, e usando (95) presuppone ‘Bea ha smesso di spacciare eroina’, che a sua volta presuppone ‘Bea spacciava eroina’: ricordiamo che presupporre una proposizione significa darne per scontata la verità e, cosa ancor più gravida di conseguenze, assumere che gli altri facciano lo stesso. Analogamente le presupposizioni sono un’arma subdola in pubblicità: l’enunciato (96) Il segreto dell’efficacia di X è la sua formula speciale presuppone ‘X è efficace’; e (97) Prova Z, il metodo per dimagrire in una settimana mangiando di tutto presuppone ‘Esiste un metodo per dimagrire in una settimana mangiando di tutto’. 4.3. Presupposizioni, implicature, conseguenze logiche
Non è sempre facile tracciare una distinzione netta fra presupposizioni, conseguenze logiche, implicature convenzionali, implicature conversazionali. La distinzione può essere chiarita esaminando i tipi diversi di sanzione che viene applicata quando la proposizione legata a un dato enunciato (e da questo presupposta, o implicata logicamente o convenzionalmente o conversazionalmente) è falsa. Vediamo i diversi casi.
• Se A implica logicamente B e B è falsa – allora A è falsa. (98) Bea ha venduto il Colosseo ai giapponesi implica logicamente (fra gli altri enunciati) B: ‘Qualcuno ha venduto il Colosseo ai giapponesi’. Se B è falsa, allora (98) è falsa. • Se A presuppone B e B è falsa – allora A è deviante o priva di valore di verità. (87) È stata Bea a vendere il Colosseo ai giapponesi presuppone B: ‘Il Colosseo è stato venduto ai giapponesi’. Se B è falsa, (87) è priva di valore di verità. • Se A implica conversazionalmente B e B è falsa – allora A è fuorviante. Torniamo a Paolo che chiede “Dov’è il latte?” e Francesca che risponde (72) Guarda nel frigo! (72) implica conversazionalmente B: ‘Il latte è in frigo’. Se B è falsa, allora (72) è fuorviante. • Se A implica convenzionalmente B e B è falsa – allora A è mal formulata o addirittura falsa. (47) Francesca è povera ma onesta implica convenzionalmente B: ‘C’è un contrasto fra povertà e onestà’. Se B è falsa, allora (47) è quantomeno mal formulata (da Lycan 2000).
5. La cortesia A: Buongiorno. Mi scusi se la disturbo. B: Ma si figuri. A: Grazie mille. Arrivederci. (Morecambe & Wise)
Nel corso di questo capitolo si è mostrato che le nostre interazioni verbali hanno una dimensione sociale essenziale: il linguaggio ci permette di fare delle cose, in particolare di trasferire informazione, di indurre i nostri interlocutori a intrattenere certe credenze. Allo stesso tempo, però, il linguaggio ci consente di identificare, esibire, modificare le relazioni che ci legano ai nostri interlocutori. Con cortesia si intende quell’insieme di strategie che mirano appunto a stabilire, conservare o alterare relazioni fra interlocutori – che esse rivestano carattere interpersonale, o sociale, quando non istituzionale. Nel primo capitolo abbiamo fatto notare che, accanto a una competenza sintattica e semantica – che ci consente di esprimere giudizi di accettabilità sintattica e semantica a proposito degli enunciati della nostra lingua – esiste una competenza pragmatica – che ci permette di stabilire se un dato enunciato è pragmaticamente ben formato, cioè appropriato a un particolare contesto. Abbiamo proposto svariati esempi in questo senso: per tornare a (32) Hai una sigaretta? la risposta “Sì”, se non seguita dall’offerta di una sigaretta, verrebbe considerata non collaborativa o, appunto, scortese. Più in generale, siamo in grado di giudicare se un certo enunciato è più cortese di un altro, e questo a prescindere dalla semplice forma grammaticale. La forma interrogativa in (99) Ti dispiace buttare quell’orrore?, ad esempio, ci sembra più cortese di un imperativo come (100) Butta quell’orrore! pur esprimendo il medesimo contenuto “sgradevole”; e tuttavia non sempre l’imperativo viene percepito come scortese, come accade per (101) Prendi un’altra fetta di torta! generalmente sentito come più cortese rispetto a (102) Puoi prendere un’altra fetta di torta. In questo paragrafo diventerà chiaro, fra l’altro, perché spesso un parlante sceglie strategie comunicative indirette, come l’implicatura in (32), che pure richiedono un maggior sforzo comunicativo (da parte del parlante) e un maggior sforzo interpretativo (da parte del destinatario) rispetto a strategie dirette come
(103) Dammi una sigaretta! 5.1. Faccia Le dispiace se non fumo? (Achille Campanile)
La valutazione dell’accettabilità pragmatica di un enunciato deve prendere in considerazione tre gruppi di fattori: i) le assunzioni del parlante sui suoi rapporti con il destinatario;
ii) la situazione concreta di discorso; iii) i tentativi di modificare i) e ii). Fa parte di i) lo status relativo dei partecipanti all’interazione verbale, come l’età, il potere, la condizione sociale e (in certe culture) il sesso (o il genere), tutti fattori esterni alla relazione, e fattori stabili; ma ne fanno parte anche fattori interni, come il grado di intimità o di amicizia, che invece possono mutare rapidamente nel corso dell’interazione. Ogni interazione rappresenta un potenziale rischio per quella che viene definita la “faccia” (o “reputazione”), e cioè l’immagine di sé pubblica, emotiva e sociale di una persona (cfr. Goffman 1967, Brown e Levinson 1987). In questa prospettiva, allora, la cortesia viene definita come quell’insieme di mezzi impiegati da un parlante per mostrare consapevolezza della faccia dell’altro. Bisogna chiarire subito che tali mezzi sono impiegati in situazioni di distanza sociale – con l’espressione di rispetto (e questa è l’accezione comune, non tecnica, di “cortesia”) – ma anche in situazioni di vicinanza sociale – con l’espressione di solidarietà o sentimenti amichevoli. La faccia ha due aspetti: la faccia negativa, che corrisponde al bisogno di essere indipendenti e di avere libertà di agire, e la faccia positiva, che corrisponde al bisogno di esseri accettati, e di piacere. Di conseguenza un atto comunicativo può essere di cortesia negativa – può cioè essere volto a preservare la libertà d’azione dell’altro – o di cortesia positiva – finalizzato a incoraggiare i sentimenti di amicizia e solidarietà. Un parlante ha perciò dinanzi a sé un ampio spettro di alternative per compiere un atto comunicativo. Vediamone alcune grazie a un esempio: supponiamo che, mentre Paolo sta guardando un emozionante episodio di Beautiful alla tv, Francesca si fermi proprio davanti al televisore. Paolo può intraprendere diverse strategie per comunicare a Francesca il proprio desiderio che lei si sposti. Tanto per cominciare può non dire nulla, ma fare sforzi per cercare di vedere, sporgendosi dalla poltrona e allungando il collo, per manifestare l’intenzione di comunicare a Francesca il proprio desiderio di farla spostare da lì davanti. Oppure può dire qualcosa, e anche qui le possibilità sono molte. Può scegliere di usare un ordine diretto come (104) Spostati! che ha il vantaggio della chiarezza, ma è una seria minaccia per la faccia di Francesca, e può essere usato solo in casi estremi; si noti che è sempre possibile mitigare un ordine, come in (105) Per favore, spostati. Paolo può scegliere di intraprendere una strategia di cortesia positiva, come in
(106) Ti sarei grato se ti spostassi; o una strategia di cortesia negativa, espressa tipicamente con la forma interrogativa come in (107) Ti dispiacerebbe spostarti?; o ancora usare un’implicatura, come (108) Non riesco a vedere nulla, o infine un’implicatura ironica (diventata convenzionale) come (109) Sei bella ma non sei trasparente. 5.2. Regole della conversazione e regole della cortesia
Nelle questioni di massima importanza, essenziale è lo stile, non la sincerità. (Oscar Wilde)
Robyn Lakoff (1973) individua due gruppi di regole pragmatiche: quelle che regolano la conversazione – che possono essere sintetizzate nella massima “Sii chiaro” e che corrispondono sostanzialmente alle massime griceane – e le regole della cortesia – che possono essere riassunte nella massima “Sii cortese”. Come le massime conversazionali, anche le regole della cortesia sono applicabili non solo alle interazioni verbali, ma a tutte le transazioni cooperative umane. E come le massime griceane, anche le regole della cortesia possono essere violate: in altri termini è possibile essere intenzionalmente scortesi, ma la trasgressione viene resa possibile dalla tacita aspettativa del rispetto di regole come quelle che vedremo. Le regole della cortesia devono essere suddivise in tre sottogruppi che regolano i rapporti in situazioni di diversa distanza sociale e cioè: A) nel discorso formale: “Non ti imporre”; B) nel discorso fra pari: “Offri delle alternative”; C) nel discorso informale: “Metti il tuo interlocutore a suo agio” o “Sii amichevole”. Vediamo più in dettaglio i tre sottogruppi. A. Le regole “Non ti imporre”, “Sta sulle tue”, “Non ti immischiare” si applicano al discorso formale, in cui si suppone una differenza di status o di potere fra i partecipanti. Queste regole ingiungono di non chiedere quella che viene definita “merce non franca” (azioni o parole che costano all’interlocutore) o quantomeno di chiedere il permesso, o di scusarsi se la si chiede. Questo significa evitare di domandare o dare opinioni personali; utilizzare espressioni impersonali o costruzioni passive come (110) Il pranzo è servito (111) È vietato fumare; astenersi da tutta una serie di argomenti di conversazione, come il sesso, i bisogni corporali, il denaro, la morte – o, se li si affronta, chiedere il permesso, come in (112) Posso chiederle quanto ha pagato quel fuoristrada? o usare termini tecnici come “copulare”, “defecare”, “condizioni disagiate”, “deceduto”. B. La massima “Offri delle alternative”, che regola il discorso fra partecipanti di pari status e potere ma senza particolare intimità, impone di lasciare che sia l’interlocutore a decidere come reagire. La massima si concretizza nell’uso di espressioni attenuative, come in (113) Bush è in qualche misura un conservatore; nella scelta di esprimere opinioni e richieste in modo tale che possano essere ignorate, senza perdere la faccia, come in (114) Suppongo sia ora di andare, o con l’uso massiccio di implicature; nella scelta, per gli argomenti tabù, di eufemismi come “andare a letto”, “andare in bagno”, “essere in ristrettezze”, “scomparso”. C. La regola “Sii amichevole”, infine, si applica al discorso informale, fra partecipanti di pari status legati da relazioni di amicizia o intimità. La regola impone di far sentire l’interlocutore a proprio agio, e di mostrare interesse nei suoi confronti; essa si concretizza nel dare e domandare opinioni personali; nel dare del tu e usare nomi propri e soprannomi; nell’intercalare con espressioni che dimostrano partecipazione attiva come “se ti va”, “sai”, “voglio dire”, nell’uso di
un linguaggio diretto, e anche crudo, per gli argomenti tabù. È interessante notare che, se ci aspettiamo le regole C, l’uso di regole più formali (come A) viene interpretato come segnale di distanza, o di ironia (si rileggano gli esempi (106) e (107)) o addirittura come un venir meno della cortesia. Questo significa due cose. Da un lato, C, quando è applicabile (quando gli interlocutori sono in rapporti di amicizia o intimità), ha la precedenza su ogni altra regola. Dall’altro, le massime griceane della conversazione possono essere reinterpretate come sottocasi delle regole A della cortesia: la cortesia, nel discorso formale, si manifesta nel trasmettere il messaggio in poco tempo e imponendo il minimo sforzo al destinatario. Ecco perché la violazione delle massime griceane (la violazione di A) preserva la cortesia nel discorso fra pari, siano essi intimi o meno (preserva B e C). A, B e C costituiscono, per Lakoff, regole pragmatiche universali, che ammettono però diversi ordini di priorità a seconda degli scopi che il parlante persegue. La domanda di Paolo a Bea (115) Quanto hai pagato quel fuoristrada? è sì una violazione di A (Paolo sta chiedendo merce non franca) ma rispetta C (Paolo fa sentire Bea importante, mostra un interesse attivo nei suoi confronti). In modo analogo l’uso di rafforzativi o di performativi espliciti, come in (116) Ti dico che Paolo è un imbroglione (117) Giovanotto, ti sto chiedendo di uscire (118) Ti ripeto per l’ultima volta di smetterla rappresentano violazioni di B e C (che abbiamo visto essere le regole della cortesia vera e propria) in favore di A, la regola della chiarezza. È inoltre evidente che i parlanti possono avere una diversa percezione della situazione comunicativa, o del loro rispettivo status, nonché un diverso stile conversazionale – che privilegia il rispetto e la deferenza a rischio dell’impersonalità, o piuttosto il coinvolgimento e l’interesse, a rischio dell’indiscrezione e della sciatteria. 5.3. Analisi della conversazione “Che cos’è un Carosello elettorale?” disse Alice: non che ci tenesse molto a saperlo, ma il Dodo aveva lasciato cadere una pausa come se qualcuno dovesse prendere la parola, ma nessuno si era sognato di farlo. (Lewis Carroll)
È piuttosto comune l’impressione che le nostre conversazioni quotidiane fluiscano senza difficoltà, senza particolare sforzo da parte dei partecipanti, e con quello che sembra un sostanziale accordo sul modo di procedere: in genere i partecipanti alla conversazione non parlano tutti assieme, ma uno alla volta, senza lasciare momenti imbarazzanti di silenzio e senza controversie troppo accese su a chi di volta in volta tocca parlare. È solo quando la conversazione non scorre in modo fluido che diventano evidenti – o devono essere esplicitate – le regole che gestiscono la conversazione, e che stabiliscono, ad esempio, a chi tocca parlare, per quanto tempo, chi può intervenire, e in che modo, quali espressioni segnalano la fine di un turno nella conversazione o della conversazione stessa, e così via. Si è detto che conversare è come ballare il tango o preparare un dolce con qualcuno – un’attività cooperativa che richiede coordinazione fra i partner. Bisogna ora aggiungere che conversare comporta anche una lotta per il controllo della parola: presa, possesso e cessione della parola sono regolati da convenzioni e consuetudini, anche nelle conversazioni più disinteressate e quotidiane. In genere, dunque, in una conversazione ci sono due o più partecipanti, che parlano uno alla volta, senza sovrapposizioni e
senza silenzi troppo lunghi. Sovrapposizioni, fraintendimenti sui turni di presa di parola e silenzi prolungati sono considerati significativi – generalmente di imbarazzo, disaccordo, ostilità: si tratta di casi in cui il parlante comunica più di quanto non dica. Naturalmente l’esempio più evidente è il silenzio: supponiamo che Paolo dica, rivolto a Francesca, (119) Cosa hai fatto oggi? e che Francesca resti in silenzio; o che, al (120) Ciao! di Paolo, Bea non risponda nulla. Nei due esempi, Francesca e Bea comunicano un contenuto che può essere anche molto ricco, anche senza dire nulla. E questo perché una domanda – come (119) – è un’esplicita cessione del proprio turno di parola all’interlocutore selezionato (cui è rivolta la domanda). (120), invece, è la prima parte di una coppia adiacente, come “Ciao!” / “Ciao!” (saluto/saluto); “Grazie” / “Prego” (ringraziamento/minimizzazione); “Come stai?” / “Bene grazie”; “Come va?” / “Non mi posso lamentare”; “Che ore sono?” / “Sono le…”. Si tratta di schemi automatici che rappresentano veri e propri atti sociali: se il destinatario della prima parte di una coppia adiacente non fornisce la seconda parte, o ne fornisce una inattesa, tale mancanza verrà considerata significativa, e comunicherà più di quanto non dica (per fare un esempio, si immagini che al (120) di Paolo, Bea risponda con (119)). Richieste, offerte e affermazioni sono atti sociali compiuti tipicamente con l’aspettativa di un’accettazione e un accordo piuttosto che di un rifiuto o un disaccordo; accettazione e accordo occorrono più spesso come seconda parte di una coppia adiacente (li si definisce con il termine tecnico di preferenza). Il silenzio è in genere il segnale che il destinatario non può produrre un accordo o un’accettazione – ma anche in questo caso sono molte le strategie che un parlante può intraprendere per evitare di esprimere in modo diretto un rifiuto o un disaccordo: da esitazioni e pause all’uso di mitigatori o introduttori (“davvero”, “beh”), dall’espressione di dubbio o scuse (“non so”, “che peccato”, “mi dispiace”) all’offerta di spiegazioni (“devo fare…”, “non ho tempo”), dalla richiesta di comprensione (“capisci”, “vedi”) all’impersonalità (“tutti fanno…”, “è necessario fare…”) (cfr. Yule 1996). Come si vede, compiere un atto sociale in situazioni di distanza sociale o interpersonale comporta un gran dispiego di parole e quindi un maggior sforzo comunicativo, specialmente se si sta esprimendo un rifiuto o un disaccordo. Nel quarto capitolo verrà approfondita l’analisi dei rapporti tra sforzo comunicativo e interpretativo, da un lato, ed effetti cognitivi, dall’altro (in questo caso tra cortesia e chiarezza, ma gli effetti cognitivi possono essere i più svariati). Su questo punto analizzeremo in particolare la teoria più all’avanguardia in pragmatica cognitiva, la teoria della pertinenza.
Note 1
Si tratta di una lettura strawsoniana delle descrizioni definite; per Russell, (8) sarebbe falso (cfr. Strawson 1950 e Russell 1905).
Ricerche in corso
1. La dimensione cognitiva del linguaggio My brain? It’s my second favourite organ. (Woody Allen)
In questo capitolo conclusivo verranno indicate le direzioni di ricerca più stimolanti e originali verso le quali si muove una disciplina che intreccia sempre più il proprio cammino con la psicologia, le scienze cognitive e i modelli di rappresentazione e di elaborazione dell’informazione. Più volte si è sottolineato come la questione dell’interpretazione del comportamento linguistico dei nostri interlocutori si leghi indissolubilmente a quella dell’interpretazione del loro comportamento in generale, allo studio dei modi in cui otteniamo, processiamo, organizziamo e trasmettiamo l’informazione, e in ultima analisi alla riflessione sui modi in cui costruiamo e modifichiamo la nostra rappresentazione del mondo. Ne segue che gli esiti più interessanti e promettenti della pragmatica privilegiano una prospettiva cognitiva, che tende a identificare modelli di interpretazione linguistica, modelli di interpretazione tout court e modelli della mente. All’interno di questa prospettiva si sottolinea il carattere rivoluzionario della teoria griceana che, al modello tradizionale del codice, oppone un modello della comunicazione di tipo inferenziale.
2. Dal modello del codice al modello inferenziale A: Ciao cara, da dove vieni? B: Dall’istituto di bellezza. A: Ah, era chiuso? (Achille Campanile)
La comunicazione è un processo che mette in gioco due dispositivi di trattamento dell’informazione. Un meccanismo di emissione modifica l’ambiente fisico del meccanismo di ricezione per far sì che quest’ultimo costruisca rappresentazioni simili a quelle immagazzinate dal primo meccanismo. In particolare, nella comunicazione orale, il parlante P apporta delle modifiche all’ambiente acustico del destinatario D tali che D formi pensieri o rappresentazioni mentali simili a quelli di P. Ma in che modo uno stimolo fisico, che non ha alcuna somiglianza con la rappresentazione mentale di P, può provocare la somiglianza delle rappresentazioni di P e D? La risposta tradizionale – da Aristotele (che la concepiva per la comunicazione orale) ai semiotici contemporanei (che l’hanno estesa a ogni forma di comunicazione) – è il modello del codice: la comunicazione consiste nella codifica e decodifica di messaggi. Un codice è un sistema che permette a due dispositivi di trattamento dell’informazione di comunicare stabilendo una corrispondenza fra messaggi interni al dispositivo e segnali esterni. Gli enunciati di una lingua corrispondono ai segnali esterni: le parole permettono a P di rendere il proprio pensiero accessibile agli altri. Il modello del codice è allora caratterizzato da tre tesi: 1) Un codice permette di associare a ogni senso o pensiero un’espressione, e viceversa. 2) Le lingue naturali sono codici. 3) P codifica il senso che vuole comunicare a D con un’espressione che D decodifica, identificando in questo modo il senso, o pensiero, comunicato da P. Nel corso della nostra analisi, a questo modello abbiamo più volte opposto che la rappresentazione semantica di una frase (la sua codifica) spesso non coincide affatto con i pensieri che possono essere espressi proferendo quella frase: il significato convenzionale delle frasi utilizzate da P determina in modo solo incompleto ciò che P vuole dire. Si supponga che, alla domanda di Francesca “Hai fame?”, Paolo risponda (1) Ho pranzato da Bea. Il significato convenzionale delle espressioni che compaiono in (1) – che pure è perfettamente trasparente a Francesca, da lei completamente decodificato – non le permette tuttavia di ricostruire il messaggio che Paolo le vuole comunicare, non le permette di identificare (1) come una risposta pertinente alla sua domanda. In molti casi la comunicazione deve fare appello a processi inferenziali che permettono a D di riconoscere le intenzioni di P; tali processi devono integrare il modello del codice. Ma di che tipo di inferenze si servono i parlanti?
3. Inferenze Either he’s dead, or my watch has stopped. (Groucho Marx)
In logica, un’inferenza è un processo deduttivo che da un certo numero di premesse consente di derivare conseguenze logiche. Quando uno schema d’inferenza è valido (“valid”), esso preserva la verità: questo significa che se le premesse sono vere anche la conclusione che ne viene derivata sarà vera. Esaminiamo un esempio classico di inferenza valida: (2) Tutti gli uomini sono mortali (premessa) Socrate è un uomo (premessa) Socrate è mortale (conclusione) Se uno schema d’inferenza è valido – come quello istanziato in (2) – esso lo è in tutti i contesti, per ogni sua istanziazione. Un’inferenza logica pur valida non è però fondata (“sound”), non permette cioè di derivare una conseguenza vera, quando almeno una delle premesse è falsa, come in: (3) Tutti gli uomini odiano la violenza (premessa) Attila è un uomo (premessa) Attila odia la violenza (conclusione) Le inferenze di cui si parla in psicologia sono processi mentali all’opera nei più svariati compiti cognitivi, come la percezione, la pianificazione di azioni, o la comprensione. Simili ai ragionamenti logici, sono tuttavia processi molto informali e spesso ellittici, che si producono in modo spontaneo, automatico e in larga parte inconscio. Le implicature griceane, più che inferenze logiche vere e proprie, possono essere viste come meccanismi di formazione e conferma di ipotesi. Un proferimento è un’azione dotata di senso: a partire dal dato di un proferimento, D può ricostruire, in contesto, l’intenzione comunicativa di P – avanzando ipotesi che gli permettono di passare, attraverso inferenze, da ciò che P ha detto a ciò che P vuole dire, a ciò che P ha l’intenzione di comunicare. Le premesse sono di tre tipi: i) innanzitutto D deve prendere in considerazione l’enunciato stesso, il suo contenuto esplicito, e convenzionale; ii) D deve poi tenere in conto le informazioni derivate dal contesto in cui l’enunciato è stato proferito; iii) e infine D deve fare l’ipotesi che P rispetti il principio di cooperazione e le massime. Un’implicatura avrà dunque la seguente forma: (4) i) P ha detto p ii) il contesto contiene le seguenti informazioni: ... iii) P rispetta le massime iv) Se i) P ha detto p, ii) il contesto contiene le informazioni citate, e iii) P rispetta le massime – P deve voler dire q P vuol dire q Naturalmente (4) non pretende di essere un processo logicamente valido, ma piuttosto riuscito, o meno, efficace, o meno: si invocano processi inferenziali di questo tipo per render conto tanto del successo quanto del fallimento della comunicazione, per spiegare tanto la comprensione
quanto gli errori e i malintesi. Se nel caso delle inferenze logiche un’inferenza fallisce quando una delle premesse non è vera, nel caso delle implicature si verifica un fallimento comunicativo quando una delle premesse non è condivisa. Si torni al dialogo tra Paolo e Francesca, e si consideri il tipo di inferenza che Paolo si attende che Francesca tragga da (1): (5) i) Paolo ha proferito (1) ii) il contesto contiene le seguenti informazioni: quando si ha appena pranzato non si ha fame iii) Paolo rispetta le massime iv) Se i) Paolo ha proferito (1), ii) il contesto contiene le informazioni citate, e iii) Paolo rispetta le massime, Paolo deve voler dire che non ha fame Paolo vuol dire che non ha fame Nei casi di implicatura, tuttavia, a differenza dei casi di inferenza logica, non tutte le premesse sono esplicitate: è allora facile immaginare contesti in cui Paolo e Francesca non condividono tutte le premesse. Questo è particolarmente plausibile per la premessa ii): la non condivisione di ii) condurrebbe Francesca a trarre l’implicatura sbagliata. Si immagini che, mentre Francesca trae l’implicatura in (5), Paolo – fondandosi su una diversa premessa ii) che erroneamente crede condivisa – si aspetti in realtà la seguente inferenza: (6) i) Paolo ha proferito (1) ii) il contesto contiene le seguenti informazioni: Bea è una pessima cuoca, e quando è invitato a casa sua, Paolo mangia sempre pochissimo iii) Paolo rispetta le massime iv) Se i) Paolo ha proferito (1), ii) il contesto contiene le informazioni citate, e iii) Paolo rispetta le massime, Paolo deve voler dire che ha fame Paolo vuol dire che ha fame Come si ricorderà, secondo Grice il parlante non si impegna sulla verità delle implicature che D inferisce. Si tratta di implicature non verocondizionali – che cioè non fanno parte delle condizioni di verità degli enunciati da cui sono tratte: la proposizione “Non ho fame” non fa parte del significato di (1), non fa parte di ciò che è detto da (1). Ne è prova il fatto che un’implicatura è sempre cancellabile senza contraddizione, come in (1’) Ho pranzato da Bea, ma ho ancora fame; e ne è prova il fatto che implicature reciprocamente incompatibili possono essere tratte dal medesimo enunciato, in contesti diversi – come in (5) e (6). Le teorie pragmatiche più recenti, che mirano a integrarsi alle scienze cognitive, hanno fatto proprio il modello inferenziale della teoria griceana, il quale postula un sistema di manipolazione di rappresentazioni. E tuttavia contro il modello di Grice vengono ora sollevate obiezioni decisive: in primo luogo le regole d’inferenza utilizzate dai parlanti non vengono mai veramente esplicitate; in secondo luogo non viene proposto nessun criterio di selezione all’interno dell’insieme potenzialmente infinito di premesse di un’inferenza; e infine non viene fornita nessuna indicazione di quando il sistema inferenziale si deve fermare – in altri termini di quando un’interpretazione è ritenuta soddisfacente. In sintesi, la teoria griceana sembra essere in grado di fornire solo spiegazioni ex post facto. In una prospettiva cognitiva, allora, una teoria pragmatica deve cercare di ovviare a tali obiezioni, e dunque deve:
a) indicare in che modo l’informazione viene rappresentata; b) indicare in che modo viene acquisita nuova informazione; c) esplicitare i processi di interpretazione, e in particolare: c.1) le regole d’inferenza; c.2) il criterio di selezione delle premesse; c.3) il criterio d’arresto del sistema. Nel paragrafo successivo vedremo che la teoria della pertinenza soddisfa le condizioni citate e si propone come riuscita integrazione di pragmatica e scienze cognitive.
4. La teoria della pertinenza 4.1. Critica al modello del codice Cred’io ch’ei credette ch’io credesse (Dante Alighieri)
All’inizio degli anni Ottanta l’antropologo Dan Sperber e la linguista Deirdre Wilson danno le coordinate di una teoria cognitiva della pragmatica, la teoria della pertinenza, destinata a un successo notevolissimo: si tratta della teoria della comunicazione che più ha influenzato le recenti ricerche pragmatiche. Si è detto che il modello del codice concepisce la comunicazione come una sorta di “duplicazione” di pensieri dal parlante P al destinatario D e, di conseguenza, presuppone la possibilità di giungere a una perfetta simmetria fra meccanismo di emissione e meccanismo di ricezione del messaggio. All’interno di questa prospettiva, un processo inferenziale è ammissibile solo se P e D condividono le premesse dell’inferenza, ossia se condividono il contesto. Con contesto si intende un sottoinsieme di ipotesi sul mondo: l’informazione sull’ambiente fisico immediato dei soggetti; l’informazione sugli enunciati precedenti; la conoscenza enciclopedica che i soggetti hanno in memoria (ipotesi scientifiche, credenze religiose, previsioni, ricordi, pregiudizi culturali, ipotesi sulle credenze degli interlocutori, e così via). L’idea che due soggetti condividano il contesto suscita due ordini di problemi. In primo luogo, è estremamente improbabile che P e D condividano integralmente quantomeno la conoscenza enciclopedica: lo mostrano esempi come (5) e (6). In secondo luogo, la nozione di contesto condiviso (“P e D condividono l’assunzione q”) ammette almeno due letture: nella lettura debole significa semplicemente che P crede q e D crede q; nella lettura forte significa che P crede q, D crede q, P crede che D creda q, D crede che P creda q, P crede che D creda che P creda q ecc. (sulla nozione di contesto condiviso o conoscenza mutua si vedano Lewis 1969 e Schiffer 1972). Sembra allora che P, per selezionare le ipotesi condivise – quelle che entrano effettivamente nel processo inferenziale –, debba fare ipotesi di secondo grado, sulle ipotesi di D, e che D debba fare ipotesi su quelle di P – e così via all’infinito. Così intesa, l’ipotesi di un sapere condiviso fra P e D non ha evidentemente plausibilità psicologica. In una prospettiva cognitiva, dunque, il modello del codice deve essere abbandonato. 4.2. Codice e inferenze Se alzi gli occhi e vedi il sole, vuol dire che non pioverà. Se alzi gli occhi e vedi le nuvole, vuol dire che pioverà. Se alzi gli occhi e non vedi niente, vuol dire che sta piovendo. (proverbio inglese)
L’importanza di Grice è di aver sottolineato come il successo della comunicazione consista non nel riconoscimento, da parte di D, del significato convenzionale delle espressioni utilizzate da P (e quindi non nella “decodifica” del messaggio inviato da P), ma nell’identificazione del voler dire di P, delle sue intenzioni comunicative – anche in assenza di un codice. Sulla scia di Grice, Sperber e Wilson si propongono di spiegare la comunicazione in modo indipendente dai processi di codifica (anche se processi di codifica e decodifica continuano a svolgere un ruolo, pur ausiliario), secondo un modello di tipo inferenziale. In un modello inferenziale la comunicazione è produzione e interpretazione di indizi: P produce un indizio del senso che intende comunicare, un indizio che può essere non verbale (come un gesto, una smorfia, un silenzio, un sorriso, e così via) oppure verbale. Il modello inferenziale si
caratterizza come segue: 1) P produce un indizio del senso che intende comunicare. 2) D inferisce il senso inteso da P a partire dall’indizio e dal contesto – e questo in ogni caso. 3) Un enunciato linguistico è un indizio complesso del senso inteso da P (e non una sua codifica). L’indizio – linguistico o meno – può essere molto scarno. A una festa Francesca può comunicare a Paolo, seduto dall’altra parte della stanza, il suo desiderio di andarsene semplicemente facendo il gesto di guidare. E alla domanda di Paolo “Che cosa c’è al cinema stasera?” Francesca può rispondere (7) Nulla per comunicare che non c’è nulla di interessante, o nulla che non abbia già visto, o magari nulla nei cinema vicino a casa (e non che i cinema non hanno in programmazione nessun film). Sia nel caso non verbale (il gesto), sia nel caso del proferimento di un enunciato (come (7)), Paolo si fonda sulla propria conoscenza del contesto per interpretare l’indizio fornitogli da Francesca. Lo stesso indizio avrà tutt’altro significato in un contesto diverso: potrebbe essere usato per comunicare che i cinema sono ancora in sciopero, o chiusi per il riposo settimanale. Quando siamo in presenza di un indizio verbale – di un enunciato – l’interpretazione avviene in due fasi, grazie a due tipi di processi: a) da un lato abbiamo i processi linguistici o semantici di decodifica, che trattano la rappresentazione semantica degli enunciati; b) dall’altro abbiamo i processi pragmatici d’inferenza, che forniscono l’interpretazione vera e propria1. Il modulo linguistico a ha come input dati percettivi (proferimenti di enunciati) e come output una prima interpretazione dell’enunciato presentata come una forma logica: si tratta di una sequenza ordinata di concetti, che costituiscono gli indirizzi delle entrate enciclopediche. Esaminiamo nuovamente un esempio proposto nel terzo capitolo: si immagini che Paolo chieda a Francesca: “Andiamo al cinema?” e che Francesca risponda: (8) Sono stanca. Francesca sta dicendo letteralmente di essere stanca, ma è plausibile assumere che stia comunicando a Paolo di non voler andare al cinema. Il modulo linguistico permette di far corrispondere a ogni termine di (8) un concetto che dà accesso alla conoscenza enciclopedica, e cioè alle informazioni che verranno usate come premesse nei processi inferenziali d’interpretazione b. Il concetto essere stanco attiva una serie di informazioni – come ‘si è stanchi quando si lavora molto’, ‘si è stanchi quando si è malati’, ‘quando si è stanchi non si ha voglia di uscire’ – che possono entrare come premesse di un processo inferenziale. Tale processo conduce Paolo a inferire da (8) la proposizione ‘Francesca non vuole andare al cinema’. Si noti che i processi pragmatici d’inferenza non sono processi specifici al linguaggio ma si applicano anche alla comunicazione non verbale, all’interpretazione di gesti e silenzi: si tratta di processi generali (che vengono attivati cioè in tutti i compiti cognitivi, siano essi tipici della vita quotidiana, o della ricerca scientifica o dell’espressione artistica) e universali, nel senso di non culturalmente determinati e comuni anche ai mammiferi superiori. L’interpretazione vera e propria è costituita dunque da un insieme di processi inferenziali b che hanno come premesse da un lato la forma logica dell’enunciato (l’output dei processi linguistici
di decodifica – a) e dall’altro il contesto (una parte dell’ambiente cognitivo dell’individuo – ciò che l’individuo sa o può sapere, ciò cui ha o può avere accesso). Più in particolare, il contesto è costituito da tre tipi distinti di informazione. In primo luogo esso comprende le informazioni derivate dall’interpretazione degli enunciati precedenti. Immaginiamo, ad esempio, che Francesca, a Genova, telefonando a Paolo, a Milano, dica (9) Piove e aggiunga (10) Vuoi venire lo stesso? È sull’interpretazione di (9) che Paolo si fonderà per inferire da (10) la proposizione ‘Dal momento che a Genova piove, vuoi ancora venire a Genova come avevamo previsto?’. Abbiamo in secondo luogo le informazioni acquisite tramite la percezione della situazione di proferimento, l’ambiente fisico immediato, accessibile a P e D. Supponiamo che Paolo e Francesca debbano prendere il treno per Genova; arrivati in stazione vedono il treno che si sta allontanando, e Francesca dice: (11) E ora? In questo caso Paolo si fonderà sull’informazione percettiva accessibile a lui e a Francesca per inferire da (11) la proposizione ‘Cosa facciamo ora che il treno è partito?’. Ci sono, in terzo luogo, le informazioni che fanno parte della conoscenza enciclopedica, rese accessibili dai concetti presenti nella forma logica dell’enunciato. Supponiamo che Bea chieda a Francesca se le piace la focaccia, e che Francesca risponda (12) Sono di Genova. In quest’ultimo esempio Francesca fa leva sulla conoscenza enciclopedica che suppone Bea possegga, e che viene attivata dal concetto genova (‘La miglior focaccia viene fatta a Genova’, ‘Tutti i genovesi amano la focaccia’) per comunicare una risposta affermativa alla domanda. 4.3. La capacità di metarappresentazione
Ma come avvengono le inferenze? Secondo la teoria della pertinenza, la comprensione inferenziale è resa possibile da una capacità cognitiva propria agli esseri umani, la capacità di attribuire stati mentali ai nostri simili, il fatto cioè che vediamo gli altri come mossi da credenze, desideri, speranze, paure, ipotesi, convinzioni. La comunicazione umana costituirebbe solo un effetto secondario di tale capacità, detta di metarappresentazione (la capacità di rappresentarsi mentalmente gli stati mentali altrui), che costituisce il vero tratto distintivo degli umani e consente loro un’interazione ricca e complessa. E allora comunicare non consiste nel codificare un pensiero, o nel duplicare i pensieri di P in D, o ancora nel modificare i pensieri di D: comunicare vuol dire modificare in modo intenzionale il contesto dei nostri interlocutori, il loro ambiente cognitivo e, in particolare, l’insieme di ipotesi che sono manifeste a noi e a loro, ossia le ipotesi che noi e loro siamo in grado di accettare come vere o probabilmente vere. Non si ricade però nel regresso all’infinito tipico della nozione di conoscenza mutua o sapere condiviso adottata dal modello del codice. Non bisogna pensare che P e D vedano o sappiano le stesse cose, e facciano le stesse ipotesi: l’ambiente fisico di P e D sarà necessariamente sempre diverso, così come le loro capacità cognitive, in quanto influenzate dalle loro diverse esperienze e
conoscenze precedenti. P e D, tuttavia, sono in grado di vedere e sapere le stesse cose, e sono in grado di fare le stesse ipotesi. La comunicazione non si basa allora su un sapere mutuo (che dovrebbe essere necessariamente condiviso) e non consiste in un algoritmo infallibile: come per Grice, la comunicazione è piuttosto un’attività di coordinazione. 4.4. Criterio di selezione delle premesse: la pertinenza “Ciò è invero rilevante” disse il Re, rivolgendosi alla giuria... il Coniglio Bianco intervenne “Irrilevante vorrà certo dire sua Maestà”... “Irrilevante, volevo dire, certo” disse il Re prontamente, e fra sé e sé continuò a bassa voce “rilevante... irrilevante... irrilevante... rilevante” come per provare quale suonava meglio. (Lewis Carroll)
L’ambiente cognitivo di un individuo è lo sterminato insieme di ipotesi a sua disposizione: quali ipotesi usare per l’interpretazione di un enunciato? In altri termini, come possono i soggetti scegliere all’interno di un insieme potenzialmente infinito il sottoinsieme di assunzioni che costituirà le premesse di un processo inferenziale? Nella prospettiva che stiamo esaminando, l’essere umano è un dispositivo di trattamento dell’informazione: la selezione dell’informazione sarà pertanto dettata da un criterio che massimizza l’efficacia nel trattamento dell’informazione, e in particolare massimizza la pertinenza dell’informazione trattata. L’interpretazione pragmatica è qui un processo psicologico governato da un solo principio cognitivo, il principio di pertinenza: è questo principio a determinare quale informazione particolare attirerà l’attenzione di un individuo. Come si ricorderà, già per Grice l’atto di comunicare qualcosa suscita delle attese che l’atto stesso sfrutta: se D riconosce un comportamento comunicativo, allora si aspetta che P rispetti certe regole. Si precisa ora che l’aspettativa del destinatario riguarda la pertinenza del proferimento di P: un comportamento comunicativo è in generale una garanzia tacita di pertinenza. In un esempio di comunicazione non verbale proposto da Sperber e Wilson, Maria si trova in paese esotico e decide di andare a fare una passeggiata; il portiere dell’albergo, per avvertirla del pericolo di improvvisi violenti temporali, le indica delle nuvole dall’aspetto minaccioso. Il gesto del portiere ha la funzione di attirare l’attenzione di Maria e di rendere pertinenti le nuvole, che pure facevano già parte del contesto percettivo di Maria: Maria cerca quindi di attribuire loro un significato, andando a cercare nella sua conoscenza enciclopedica attivata dal concetto nuvola (‘Nuvole dall’aspetto minaccioso preannunciano temporali’). Anche il principio di pertinenza – come le massime conversazionali – non costituisce una norma cui i soggetti debbano sottostare, ma un principio generale d’interpretazione all’opera per il linguaggio e per il comportamento in generale. Tutte le massime griceane sono rimpiazzate dalla massima di pertinenza: in questa prospettiva, infatti, essere pertinenti consiste nel fornire l’informazione richiesta e solo l’informazione richiesta (la massima di quantità), nel fornire informazioni veritiere (la massima di qualità), nel fornire informazioni in modo chiaro (la massima di modo). Naturalmente l’aspettativa di pertinenza di tanto in tanto può essere delusa: tutti sappiamo che esistono parlanti inaffidabili, prolissi, noiosi, o confusi. 4.5. Criterio d’arresto del sistema: effetti e sforzo Da quando l’ho vista, signora, ho invano cercato di stare lontano da lei, ma qualcosa in me echeggiava ininterrottamente, come un tam tam nella giungla. C’è qualcosa che vorrei chiederle, signora: mi può lavare un paio di calzini? (Groucho Marx)
Lo scopo di un sistema cognitivo è quello di costruire e modificare la propria rappresentazione del mondo, per migliorare la propria capacità di azione e per moltiplicare le inferenze che tale rappresentazione rende possibili. È evidente che ogni ragionamento inferenziale ha un costo cognitivo, richiede cioè al soggetto tempo e fatica per costruire il contesto pertinente e per computare l’inferenza. Lo sforzo deve essere giustificato dagli effetti cognitivi ottenuti grazie al
processo inferenziale. Tali effetti consistono in modifiche della rappresentazione del mondo del soggetto: l’individuo può aggiungere nuova informazione alla propria rappresentazione del mondo (può cioè giungere a credere qualcosa); oppure rinforzare o indebolire l’informazione presente nella rappresentazione del mondo (può cioè mutare la forza con cui crede qualcosa); o ancora sopprimere un’informazione (ad esempio perché una credenza è in contrasto con la nuova informazione che ha aggiunto). Il principio di rendimento che regola il sistema è semplice: gli sforzi devono essere equilibrati dagli effetti ottenuti. Il sistema ha come base la ricerca e l’ottimizzazione della pertinenza: maggiori sono gli effetti ottenuti, maggiore sarà la pertinenza dell’inferenza; maggiore è lo sforzo per calcolare l’inferenza, minore sarà la sua pertinenza. Il principio di rendimento ci dà anche un criterio intuitivo di arresto del sistema, un criterio per stabilire quando un’interpretazione deve essere considerata soddisfacente: il sistema si ferma non appena gli effetti ottenuti equilibrano gli sforzi fatti. Un sistema cognitivo reale, in altre parole, visto che le sue capacità computazionali sono limitate, non tende a ottimizzare o massimizzare l’utilità attesa, bensì interrompe la sua ricerca di alternative interpretative non appena trova un’interpretazione che oltrepassa una certa soglia di accettabilità. Vediamo un semplice esempio per chiarire la relazione fra costi ed effetti cognitivi. Si supponga che alla domanda di Paolo: “Compreresti una Jaguar?”, Francesca risponda: (13) Non comprerei mai una macchina di lusso. L’interpretazione della risposta di Francesca richiede a Paolo uno sforzo superiore rispetto a una semplice risposta negativa, come: (14) Non comprerei mai una Jaguar. Lo sforzo viene però equilibrato dal maggior numero di effetti cognitivi, dal maggior numero di informazioni che Paolo può aggiungere alla propria rappresentazione del mondo, come (15) Francesca non comprerebbe mai una Rolls Royce (16) Francesca non comprerebbe mai una BMW (17) Francesca non comprerebbe mai una Mercedes. (15)-(17) rappresentano inferenze che Paolo potrebbe trarre da (13): si tratta di proposizioni “implicitate” da Francesca – pur se più debolmente rispetto a (14). L’analisi nei termini di costi ed effetti permette di fornire non solo una descrizione dei fenomeni di implicatura che segnalava già Grice, ma anche una loro spiegazione. La teoria griceana non chiarisce mai cosa spinga un parlante a preferire una risposta indiretta come (13) a una risposta diretta come (14), che intuitivamente sembra essere più collaborativa in quanto non costringe il destinatario a complesse operazioni inferenziali. I teorici della pertinenza danno una risposta: il proferimento di risposte indirette e di enunciati complessi viene considerato accettabile (“pertinente”) quando consente al destinatario di ottenere maggiori effetti cognitivi – quando cioè gli permette di arricchire, a un costo ragionevole, la propria rappresentazione del mondo. Allo stesso modo, nell’esempio della focaccia, (12) – che pure richiede un maggior sforzo interpretativo rispetto a un semplice “Sì” – viene considerato pertinente in quanto comunica non solo una risposta affermativa, ma anche la ragione di tale risposta, e permette quindi al D di trarre inferenze supplementari. La teoria della pertinenza fornisce così anche una spiegazione naturale del perché i parlanti utilizzino strategie indirette che preservano la cortesia –
estremamente costose sul piano dello tempo e della fatica che domandano al parlante per formularle, e al destinatario per interpretarle: tali strategie hanno l’effetto cognitivo aggiuntivo, di grandissimo valore sociale, di preservare o rinsaldare le relazioni sociali fra interlocutori. Il parlante ha dunque modi diversi di comunicare il medesimo contenuto – (13) e (14), ad esempio – modi che però richiedono al destinatario uno sforzo cognitivo differente. Adattiamo un esempio che abbiamo già proposto nel terzo capitolo, e consideriamo la differenza fra i seguenti enunciati: (18) Sono andato al bar. Ho bevuto un caffè (19) Sono entrato in un luogo pubblico in cui si servono bevande calde e fredde e cibi pronti; ho chiesto al cameriere di farmi un caffè; il cameriere mi ha preparato il caffè; ho sorseggiato il caffè, sono andato alla cassa, ho pagato e sono uscito. Qualunque soggetto considererebbe irragionevole la quantità di tempo e fatica necessarie per interpretare (19) rispetto a (18). Ma si consideri ora un altro enunciato: (20) Il fiume era in secca da molto tempo. Tutti andarono al funerale. (20) ci sembra di difficile interpretazione perché facciamo fatica a stabilire il legame fra le due parti dell’enunciato: a differenza di quello che avviene per (18), l’interpretazione della prima parte non ci fornisce informazioni pertinenti che possano essere usate come premesse di un processo inferenziale. E tuttavia (20) è un enunciato di interpretazione immediata per un parlante del Sissala (una lingua parlata in Ghana e in Burkina Faso) – che probabilmente avrebbe difficoltà a interpretare (18). Per comunicargli con successo quanto veicolato da (18) dovremmo probabilmente esplicitare le assunzioni contestuali in esso implicite – ad esempio proferendo qualcosa di simile a (19); allo stesso modo il parlante del Sissala, per comunicare a noi quanto veicolato da (20), dovrebbe produrre un enunciato come (21) Il fiume era in secca da molto tempo. Quando un fiume è in secca da molto tempo vuol dire che uno spirito è morto, e che si deve fargli il funerale. Tutti andarono al funerale (l’esempio è in Blass 1990). La maggior complessità di (19) e di (21) è il prezzo da pagare per il successo della comunicazione.
5. La distinzione fra semantica e pragmatica Con l’aiuto delle parole non si è mai potuto esprimere tutto quello che le parole nascondono. (Eugène Ionesco)
Molte delle controversie di cui si è dato conto in questo libro hanno, in modo più o meno esplicito, la loro origine in concezioni diverse del confine fra i due ambiti disciplinari di semantica e pragmatica: una domanda ricorrente riguardava quanto, nell’interpretazione di un enunciato, sia da attribuire alla nostra conoscenza del linguaggio e quanto alla nostra conoscenza del mondo. In questi paragrafi conclusivi daremo un’idea dei dibattiti più recenti su una questione che anima filosofi del linguaggio, linguisti, psicologi cognitivi, studiosi di intelligenza artificiale. La rassegna delle varie posizioni in gioco costituirà fra l’altro l’occasione per un riepilogo e un approfondimento delle diverse concezioni di pragmatica cui si è fatto cenno. 5.1. La prospettiva semantica tradizionale: livelli di senso
Il paragrafo conclusivo del secondo capitolo era dedicato alla distinzione fra usi pre-semantici, semantici e post-semantici del contesto, tracciata all’interno della tradizione della semantica modellistica. In quell’occasione avevamo individuato due nozioni di contesto: • il contesto semantico (all’opera negli usi semantici del contesto) che fissa l’identità di parlante e interlocutori, il tempo e il luogo del proferimento ecc.; • il contesto pragmatico (mobilitato negli usi pre e post-semantici del contesto) che è costituito dall’insieme di ipotesi sul mondo avanzate dai soggetti, dalle loro credenze, desideri, intenzioni, attività. Alla distinzione fra contesto semantico e pragmatico corrisponde quella tra competenza semantica in senso stretto, che determina ciò che è detto da un enunciato (il senso semantico) e una competenza comunicativa generale, che determina ciò che il parlante comunica con quell’enunciato (il senso comunicato); e corrisponde in definitiva la distinzione tradizionale fra semantica e pragmatica. La prospettiva tradizionale individua allora tre livelli di senso di un enunciato. 1) Il significato convenzionale dell’enunciato: questo livello di senso corrisponde alla regola semantica associata alle espressioni indicali, al loro “carattere”; viene concepito come una funzione da elementi del contesto semantico di proferimento al valore semantico dell’espressione (il “contenuto”). 2) La proposizione espressa dall’enunciato (o contenuto): corrisponde a ciò che è detto dall’enunciato, alle sue condizioni di verità; si tratta del livello più propriamente semantico. 3) Il senso implicito veicolato dall’enunciato: corrisponde a ciò che è comunicato dal parlante tramite l’enunciato; si tratta del livello tradizionalmente considerato pragmatico. Questo livello rende conto dei fenomeni di senso figurato, o comunicato implicitamente – i fenomeni detti di “significato del parlante”: il parlante riesce a comunicare qualcosa di diverso o di aggiuntivo rispetto al significato letterale delle espressioni di cui si serve, sfruttando il contesto pragmatico che egli condivide con i suoi interlocutori. Esempi standard di senso implicito sono gli usi figurati o metaforici, e le implicature conversazionali griceane. 5.2. La prospettiva semantica tradizionale: processi Annuncio economico: “Vendo cane pastore maremmano; mangia tutto; gli piacciono i bambini”. (Achille Campanile)
È ora tempo di riepilogare ed esaminare in maggior dettaglio i processi interpretativi che
consentono il passaggio da un livello di senso all’altro. Abbiamo innanzitutto i processi semantici che, a partire dal livello del significato convenzionale di un enunciato (il livello 1), permettono di determinarne la proposizione espressa (il livello 2). Si tratta del meccanismo detto di saturazione, che consente di individuare il riferimento delle espressioni indicali, dimostrative e contestuali. Il destinatario deve applicare il processo di saturazione ogni volta che nell’enunciato proferito dal parlante compaiono particolari espressioni linguistiche (pronomi, avverbi di luogo o di tempo, tempi verbali, possessivi, certi aggettivi, costruzioni possessive): la saturazione è pertanto un processo obbligatorio, necessario per ottenere una proposizione completa, che sia valutabile come vera o falsa. Ad esempio, nella frase (22) Bea ha bruciato il libro di Silvio la costruzione possessiva “il libro di Silvio” può esprimere un numero indefinito di sensi: l’espressione potrebbe riferirsi al libro che appartiene a Silvio, di cui Silvio ci ha parlato, che narra la vita di Silvio, che Silvio ha scritto, o visto, oppure sognato, o ancora spedito ai suoi concittadini, e così via. (22) esprime una proposizione definita (e non più un semplice schema di proposizione da completare) solo dopo che sia stata specificata la relazione pertinente fra Silvio e il libro nel contesto di proferimento. Ci sono poi i processi pragmatici – arricchimento libero, transfert e implicature conversazionali – che permettono di passare dalla proposizione espressa (il livello 2) al senso comunicato implicitamente (il livello 3). A differenza della saturazione, questi processi hanno come input una proposizione che è già completa e valutabile, e forniscono come output un’altra proposizione, diversa o più dettagliata rispetto alla proposizione d’origine. Vediamo in primo luogo l’arricchimento libero. Si consideri l’enunciato (23) Bea ha fermato l’auto. Esso esprime una proposizione completa, una proposizione di cui conosciamo le condizioni di verità: (23) sarà vera se e solo se Bea ha fermato l’auto, e falsa altrimenti. Secondo la semantica tradizionale, la specificazione del modo in cui Bea ha fermato l’auto non fa parte delle condizioni di verità di (23), anche se il più delle volte “arricchiamo” del tutto naturalmente le condizioni di verità dell’enunciato, immaginando modi ben differenti di fermare l’auto, a seconda che Bea sia il conducente o un vigile urbano, Catwoman o Lara Croft, una passante investita dall’auto in corsa o una mucca che attraversa una strada di campagna (cfr. Rumelhart 1979). Si tratta dell’arricchimento del senso di una proposizione di per sé completa, che avviene sfruttando informazioni enciclopediche che sono parte del contesto pragmatico, grazie cioè alla nostra conoscenza di come è fatto il mondo, e in particolare le auto, il codice stradale, i supereroi o gli animali al pascolo. L’arricchimento è alla base anche dei fenomeni detti di bridging, come quelli esemplificati dagli enunciati (24) Bea prese la chiave e aprì la porta (25) Paolo è andato alla festa e ha incontrato Francesca. Non sono parti delle proposizioni letteralmente espresse da (24) e (25) le interpretazioni secondo le quali, nel caso di (24), Bea ha aperto la porta ‘con la chiave’, o, nel caso di (25), Paolo ha incontrato Francesca ‘alla festa’: (25), ad esempio, è un enunciato perfettamente accettabile come mero elenco delle attività della serata di Paolo. Tali interpretazioni, per quanto molto naturali, non devono essere necessariamente generate, in quanto non fanno parte del
significato delle espressioni contenute nei due enunciati (esse sono fra l’altro cancellabili o ritrattabili senza contraddizione). Mentre la saturazione è un processo obbligatorio, dunque, l’arricchimento contestuale è un processo facoltativo: esso non è indispensabile in vista dell’ottenimento di una proposizione completa e valutabile come vera o falsa, e permette semplicemente di ottenere una proposizione che corrisponde in modo più completo alle intenzioni comunicative del parlante. Altro processo pragmatico è il transfert, che sostituisce valori metaforici o metonimici al valore semantico letterale di un’espressione. Si consideri l’enunciato (26) Il panino al prosciutto se ne è andato senza pagare proferito dal cameriere di un ristorante con l’intenzione di riferirsi al cliente che aveva ordinato il panino (cfr. Nunberg 1979). L’interpretazione letterale (prima dell’applicazione del processo di transfert) fornisce al destinatario dell’enunciato una proposizione completa, anche se falsa (i panini non escono dai locali senza pagare). Il meccanismo di transfert consente di ricostruire l’interpretazione metonimica dell’espressione “panino al prosciutto” – che ha come riferimento il cliente che ha ordinato il panino – e di inferire da (26) la proposizione vera ‘Il cliente che aveva ordinato il panino al prosciutto se ne è andato senza pagare’. Ci sono infine i meccanismi a noi ormai noti di implicatura conversazionale, che permettono al destinatario di inferire, da quanto il parlante dice letteralmente, proposizioni che il parlante si limita a comunicare in modo implicito. Supponiamo, ad esempio, che Paolo chieda a Francesca, dopo cena, “Vuoi un caffè?”, e che Francesca risponda (27) Il caffè non mi fa dormire. La risposta negativa (la proposizione ‘Non voglio un caffè’) non viene letteralmente espressa da (27), ma solo comunicata implicitamente; si noti fra l’altro che (27) può comunicare una risposta affermativa (la proposizione di segno opposto ‘Voglio un caffè’) in diverso contesto (se, ad esempio, immaginiamo che Paolo e Francesca stiano preparando un esame per il giorno dopo e abbiano previsto di passare la notte a studiare). Come si vede, il quadro tradizionale traccia una distinzione fra processi obbligatori o semantici (la saturazione), che consentono di determinare il livello della proposizione letteralmente espressa dal parlante, e processi facoltativi o pragmatici (l’arricchimento, il transfert e le implicature), che consentono di individuare un livello di senso addizionale e implicito. Lo schema tradizionale di livelli di senso e meccanismi interpretativi sarà pertanto: 1) Significato convenzionale (ciò che è proferito); in seguito all’applicazione del processo semantico di saturazione: 2) Proposizione espressa (ciò che è detto); in seguito all’applicazione dei processi pragmatici di arricchimento, transfert e implicatura conversazionale: 3) Senso implicito (ciò che è comunicato). Riassumiamo. Secondo la prospettiva tradizionale, la proposizione espressa (il livello 2) differisce in modo minimo dal significato convenzionale dell’enunciato (il livello 1), dal momento che incorpora elementi contestuali solo in presenza di un numero limitato di espressioni – indicali, dimostrativi, espressioni contestuali. Ogni effetto del contesto sulle condizioni di verità di un enunciato deve essere riconducibile a un elemento presente nella forma logica della frase (nella sua struttura sintattica profonda) ed è pertanto governato e regimentato
da convenzioni linguistiche. Tale tesi è conseguenza diretta di un principio di correlazione o isomorfismo tra sintassi e semantica, secondo il quale l’enunciato E significa ‘p’ in virtù dei particolari significati degli elementi di E, del loro ordine, e del loro carattere sintattico (cfr. Grice 1989, p. 87, e Fodor e Lepore 1991, p. 333). Il passaggio dal livello 1 al livello 2 è limitato ai fenomeni di indicalità in senso lato: l’intervento del contesto deve essere innescato dalla presenza di un indicale, di un dimostrativo, di un pronome, o di un’espressione indicale celata nella forma logica dell’enunciato. La proposizione espressa letteralmente – il livello semantico – è risultato del solo processo di saturazione: si tratta dell’entità linguistica minima passibile di valutazione, di quella che viene chiamata la proposizione in senso minimale (Récanati 1993, cap. 13). In questa prospettiva, e contrariamente a quanto abbiamo visto esplicitamente sostenuto ad esempio dai teorici della pertinenza, l’interpretazione linguistica è crucialmente differente da ogni altro tipo d’interpretazione e, in particolare, dall’interpretazione del comportamento (che è di tipo inferenziale e non regimentata da regole o stipulazioni basate sul significato). 5.3. La prospettiva pragmatica: alcuni esempi Queste regole sono semplicissime! Le capirebbe un bambino di quattro anni. Chico, vammi a trovare un bambino di quattro anni, perché io non ci capisco niente! (Groucho Marx)
Molti studiosi si oppongono a questo modo di concepire il ruolo di semantica e pragmatica (fra gli altri Kent Bach, Robyn Carston, François Récanati, Dan Sperber e Deirdre Wilson): la semantica di un enunciato del linguaggio naturale (significato convenzionale dell’enunciato, più un numero limitato di fattori contestuali) il più delle volte non sarebbe sufficiente a fissare le sue condizioni di verità. Ogni enunciato esprime una proposizione solo una volta che gli siano aggiunti, grazie al contesto inteso in senso pragmatico, elementi che non corrispondono ad alcun costituente sintattico (costituente esplicito o indicale nascosto, presente solo al livello della forma logica) dell’enunciato e che pure devono entrare a far parte dell’interpretazione semantica dell’enunciato. Esaminiamo il tipo di esempi che motiva questa tesi di sottodeterminazione semantica. Cominciamo con quelle che vengono chiamate “impliciture conversazionali” (“conversational impliciture” – contrapposte alle implicature griceane: cfr. Bach 1994): (28) Paolo e Francesca sono sposati [l’uno all’altro] (29) Bea ha [esattamente] tre macchine (30) Ada non ha mangiato [oggi] (31) Non morirai [a causa di questo taglio] (detto da una madre per consolare il figlio che si è tagliato) (32) Tutte le bottiglie [che ho comprato] sono vuote (33) Solo due studenti [in questa classe] conoscono la capitale della Lituania (34) Imelda non ha scarpe [appropriate all’occasione] da mettersi (35) Nessuno [famoso] va più in quel locale, perché c’è troppa gente. Del medesimo tenore sono gli esempi di “loose talk” (cfr. Sperber e Wilson 1985/6): (36) La conferenza comincia alle cinque [o poco dopo] (37) L’Olanda è piatta [non ha montagne e poche colline] (38) Devo correre [andare rapidamente] in banca prima che chiuda (39) Ho il raffreddore: mi serve un Kleenex [o un qualsiasi fazzoletto di carta].
Secondo gli oppositori della prospettiva tradizionale, l’interpretazione semantica degli enunciati (28)-(39) – in altri termini le proposizioni che essi esprimono, il loro insieme di condizioni di verità letterali – viene ottenuta solo in seguito a espansioni e arricchimenti contestuali (rappresentati qui dal materiale linguistico posto fra parentesi quadre). Gli autori pragmatici fanno infatti notare che il ricorso a processi di espansione e arricchimento come quelli esemplificati in (28)-(39) è un fenomeno estremamente diffuso nel linguaggio naturale, che non pone particolari problemi di interpretazione, e che passa generalmente inosservato. In particolare esso non è percepito come violazione di norme conversazionali, nemmeno nel caso di enunciati letteralmente falsi come (30)-(35) e (37). Nessuno interpreta il parlante come se, con (30), stesse dicendo che Ada non ha mai mangiato nel corso della sua esistenza, o la madre come se, con (31), stesse dicendo al proprio figlio di essere immortale: le condizioni di verità di (30) e (31) vengono integrate in modo del tutto naturale e inconscio con quanto messo fra parentesi quadre. Nella prospettiva che possiamo definire “pragmatica” (in opposizione alla prospettiva tradizionale, “semantica”) si argomenta a favore dell’esistenza di costituenti pragmatici della proposizione espressa: non è mai possibile esprimere una proposizione senza che il contesto vi aggiunga dei costituenti pragmatici che non corrispondono ad alcun elemento sintattico o semantico dell’enunciato (o costituenti inarticolati, cfr. Perry 1986, sez. 1, e 1998, e Récanati 1993, p. 260). La proposizione espressa (il livello 2) viene pertanto identificato non con la proposizione in senso minimale, ma con la proposizione arricchita o completata attraverso processi di arricchimento e transfert – e, pertanto, con quella che viene chiamata la proposizione in senso massimale. Anche lo schema proposto nelle prospettive pragmatiche è in tre livelli: la differenza significativa rispetto al modello tradizionale riguarda il livello 2, e i processi che contribuiscono a determinarlo. Avremo infatti: 1) Significato convenzionale (ciò che è proferito); in seguito all’applicazione in parallelo dei processi di saturazione, arricchimento e transfert: 2) Proposizione espressa (in senso massimale) (ciò che è detto); in seguito all’applicazione delle implicature conversazionali: 3) Senso implicito (ciò che è comunicato). 5.4. La prospettiva pragmatica: intuizioni
Nel modello tradizionale, si è detto, ogni apporto del contesto deve essere innescato da un costituente dell’enunciato – sia esso esplicito oppure implicito (tacito, non pronunciato) ma nondimeno presente sotto forma di variabili nella struttura sintattica dell’enunciato: tale tesi è conforme al principio, estremamente plausibile, che stipula un isomorfismo tra struttura sintattica e interpretazione semantica. Postulando l’esistenza di costituenti taciti o non articolati di un enunciato (come quelli fra parentesi quadre negli esempi (28)-(39)), si attacca di fatto il principio di isomorfismo tra sintassi e semantica, che costituisce uno dei capisaldi della semantica tradizionale. L’attacco viene giustificato con l’obiettivo di salvaguardare le intuizioni semantiche dei parlanti su quello che costituisce le condizioni di verità di un enunciato. Viene adottata, a questo scopo, una nozione di condizioni di verità intuitive: la proposizione espressa non è quella che corrisponde strettamente alla forma logica dell’enunciato, ma la proposizione individuata dalle intuizioni verocondizionali dei partecipanti allo scambio conversazionale2. Chi comprende un enunciato dichiarativo sa quali stati di cose renderebbero vero quell’enunciato, sa in quali circostanze concrete esso sarebbe vero. Alla base c’è l’idea di matrice griceana secondo la quale dire è una varietà di significato non naturale, e deve di conseguenza essere riconoscibile da parte
dell’interlocutore: il significato non naturale è una questione di riconoscimento di intenzioni. Le critiche contro i modelli tradizionali traggono pertanto la loro forza da intuizioni preteoriche riguardanti ciò che è realmente accessibile alla coscienza dei parlanti: quando proferisce un enunciato, il parlante è responsabile e cosciente della proposizione espressa in senso massimale dall’enunciato, e non della proposizione espressa in senso minimale. Immaginiamo che Paolo proferisca (40) Ho fatto colazione in risposta all’offerta di un cappuccino: è plausibile supporre che Paolo non sia cosciente di aver letteralmente detto ‘Ho fatto colazione una volta nel passato’ o ‘Ho fatto colazione almeno una volta nella vita’; in modo analogo se, guardando fuori dalla finestra, Paolo dice a Francesca (41) Piove sembra naturale pensare che egli non sia cosciente di aver detto ‘Piove in qualche luogo dell’universo’. In entrambi i casi, non è così che lo interpreta il destinatario del proferimento: non sembra ad esempio plausibile supporre che Francesca debba operare un complesso computo inferenziale per inferire da (41) la proposizione ‘Piove qui a Milano’. Dal momento che gli interlocutori non hanno coscienza della proposizione espressa in senso minimale, semantico (dopo la sola saturazione di indicali e dimostrativi), essa resta un oggetto puramente teorico. Dal punto di vista pragmatico, tale livello di senso costituisce allora solo un’astrazione, che non viene necessariamente calcolata dal destinatario e non ha pertinenza psicologica. Bisogna osservare, tuttavia, che la nozione di condizioni di verità intuitive, e di cosa affiori alla coscienza dei parlanti, è controversa all’interno stesso della prospettiva pragmatica. È infatti possibile esprimere dubbi sulla pertinenza, per una teoria semantica, di osservazioni concernenti i processi cognitivi dei parlanti, e anche su un appello talvolta disinvolto alle intuizioni semantiche dei parlanti, spesso condizionate da fattori non semantici, dalla nostra conoscenza del mondo (cfr. Bach 2001, pp. 24-25, e Taylor 2001, pp. 50-52). Si consideri nuovamente l’enunciato (28) Paolo e Francesca sono sposati. Si è detto che, in una prospettiva pragmatica, l’interpretazione secondo la quale Paolo e Francesca sono sposati ‘l’uno all’altro’ è parte delle condizioni di verità letterali di (28) – parte di ciò che è detto da (28) – così come verrebbe confermato dai parlanti. Questa tesi contrasta però con alcune osservazioni: da un lato non ci sarebbe alcuna contraddizione nel proferire
(42) Paolo e Francesca sono sposati, ma non l’uno all’altro; e non sembra ridondante proferire (43) Paolo e Francesca sono sposati l’uno all’altro. D’altro lato, l’interpretazione ‘sono sposati l’uno all’altro’ generalmente non sorge in (44) Paolo e sua sorella Francesca sono sposati; e neppure in (45) Pietro e Paolo sono sposati. E tuttavia le osservazioni concernenti gli esempi (42)-(45) si limitano a indurre dubbi ragionevoli sul carattere indubitabile delle intuizioni semantiche dei parlanti, ma non sembrano
essere argomenti conclusivi contro i pragmatici. In una prospettiva pragmatica, che l’interpretazione ‘sono sposati l’uno all’altro’ sia cancellabile (in senso griceano) come in (42), o non compaia, come in (44) e (45), non implica in alcun modo che essa non faccia parte delle condizioni di verità letterali di (28) quando proferito in contesti appropriati: è tesi fondante della prospettiva pragmatica che gli enunciati non abbiano condizioni di verità determinate in astratto, una volta per tutte, al di fuori di ogni contesto. Anzi, in contesti appropriati, l’interpretazione ‘sono sposati l’uno all’altro’ farebbe parte delle condizioni di verità anche di (44) – ad esempio se proferito a proposito di faraoni nell’antico Egitto – o delle condizioni di verità di (45) – ad esempio se proferito in Olanda o Danimarca.
Note 1
L’articolazione di processi linguistici a e processi generali b si attua attraverso una teoria della mente di tipo modularista. Secondo Fodor 1983 la mente ha un funzionamento gerarchico, per tappe successive che corrispondono a diversi componenti, o moduli – e in particolare a un sistema periferico costituito da moduli specializzati nel trattamento dei dati percettivi provenienti dai vari canali (dati visivi, acustici, olfattivi, e di decodifica del linguaggio) e un sistema centrale che tratta i dati concettuali che provengono da un modulo periferico, completandoli e integrandoli con dati in memoria o provenienti da altri moduli periferici. Mentre il sistema centrale ha un carattere complesso e non specializzato, i diversi moduli periferici sono caratterizzati dal fatto di essere isolati e “incapsulati” (cioè ciascuno impermeabile alle informazioni provenienti dagli altri moduli), di effettuare operazioni in modo rapido, automatico e obbligatorio. Nella prima edizione di Relevance (Sperber e Wilson 1986), il modulo linguistico è parte del sistema periferico, mentre il modulo pragmatico è parte del sistema centrale. L’elaborazione più recente della teoria della pertinenza (nella seconda edizione di Relevance, 1995) fa leva su una tesi modulare generalizzata, in cui non esiste un sistema centrale, ma solo moduli percettivi, specializzati cioè nel trattamento dei dati percettivi – come a – e moduli concettuali – come b – che trattano i dati concettuali provenienti da moduli percettivi o da altri moduli concettuali. 2 Récanati adotta l’“Availability Principle”, il principio di accessibilità, il quale richiede che «quando dobbiamo decidere se un aspetto pragmatico del significato dell’enunciato è parte di ciò che è detto [...] dovremmo sempre cercare di preservare le nostre intuizioni pre-teoriche sulla questione»: Récanati 1989, p. 310, e 1993, p. 248. John Searle e Charles Travis difendono una concezione analoga delle condizioni di verità degli enunciati del linguaggio naturale: si vedano ad esempio Searle 1992 e Travis 1985 e 1997.
Epilogo
Ogni cosa ha la sua morale, basta trovarla. (Lewis Carroll)
Il dibattito su quale considerare il livello semantico, il livello che corrisponde alle condizioni di verità di un enunciato – se la proposizione in senso minimale o la proposizione in senso massimale – è parso ad alcuni puramente terminologico. Eppure la contrapposizione fra prospettiva semantica e pragmatica su questo punto va oltre la questione meramente tecnica. Al cuore del dibattito c’è il problema di determinare ciò che è implicito e ciò che è esplicito in quello che diciamo, i contenuti proposizionali di cui siamo responsabili quando diciamo qualcosa; in sostanza gli impegni che contraiamo nei confronti dei nostri interlocutori per il fatto di aver proferito certe parole in determinati contesti. Secondo la prospettiva tradizionale, la semantica ha il compito di assegnare agli enunciati del linguaggio naturale condizioni di verità a partire dal loro significato convenzionale, dopo aver determinato contestualmente il riferimento di indicali e dimostrativi. Secondo la prospettiva pragmatica – che prende anche il nome di “contestualismo radicale” – invece, per ottenere, a partire dal significato convenzionale di una frase, il livello corrispondente alle condizioni di verità, o alla proposizione espressa dalla frase, è ogni volta necessario ricorrere a processi pragmatici: la semantica fornisce interpretazioni per lo più incomplete, che normalmente non affiorano alla coscienza dei parlanti. Non è più compito della semantica attribuire condizioni di verità agli enunciati del linguaggio naturale, ma della pragmatica – o della pragmatica verocondizionale. L’obiettivo polemico di questo secondo modo di concepire la distinzione fra semantica e pragmatica è sempre quell’immagine del linguaggio secondo cui le espressioni linguistiche hanno sensi stabili e condizioni di verità fissate dalle convenzioni semantiche, e la comprensione è un tipo di computo che segue regole completamente determinate. Contro questa immagine si erano già rivolti i filosofi del linguaggio ordinario delle origini: Austin, Waismann, Wittgenstein. Il contestualismo argomenta allora in favore di un’immagine di linguaggio in senso lato wittgensteiniana, sostenendo che la semantica delle espressioni del linguaggio naturale dipende dal loro uso. Le condizioni di verità di un enunciato del tutto inoffensivo come (1) L’abito di Paolo è blu variano in dipendenza dell’occasione d’uso. Assumiamo che (1) sia privo di indicali (il tempo verbale non è qui rilevante) e che la sua semantica sia completamente determinata da regole convenzionali: (1) sarà vero se e solo se l’abito (quell’abito determinato) è blu. E tuttavia, (1) può essere usato per dire una varietà di cose distinte, a seconda della particolare situazione e del particolare scopo per cui esso viene proferito: per certi scopi, ad esempio, solo un abito a tinta unita blu conterà come blu, e (1) detto di un abito a righe blu sarà falso; per altri scopi, un abito a righe blu conterà come blu, e (1) detto di quell’abito sarà vero. Dal momento che la porzione del mondo (lo stato di cose) cui si fa riferimento resta costante – abito e colore dell’abito non mutano nei due casi – ma il valore di verità dell’enunciato cambia, ciò significa che le condizioni
di verità dell’enunciato sono diverse nei due diversi casi. La semantica di (1) non varia – il suo significato convenzionale è il medesimo – e tuttavia la sua interpretazione è radicalmente diversa da occasione in occasione: in altre circostanze ancora abiti bianchi verniciati di blu, o macchiati di blu, o chiusi in porta-abiti blu, o con una spilletta blu, e così via, conteranno come blu. Ne segue che le espressioni linguistiche non hanno una semantica intrinseca – o che, se ce l’hanno, essa non è sufficiente a determinare un unico insieme di condizioni di verità. In questa prospettiva, il significato di un’espressione costituisce esclusivamente un insieme di restrizioni su ciò che è possibile dire con esse: sono le circostanze d’uso dell’espressione a permetterci di determinare l’interpretazione appropriata alle circostanze stesse. Le espressioni linguistiche hanno solo sensi occasionali, appropriati a un’occasione specifica. Certo, le prospettive contestualiste devono confrontarsi con la difficoltà di indicare i modi in cui le circostanze d’uso di un’espressione ci consentono di fissarne l’interpretazione appropriata. Se non esiste un algoritmo che generi condizioni di verità complete, non ci resta che affidarci a quella stessa ragionevolezza e a quella capacità di stare al mondo che guidano tanta parte delle nostre azioni. Il legame fra linguaggio e azione rappresenta, dunque, il fulcro teorico della strategia pragmatica. Classificando abiti come blu (e decidendo se gli abiti a righe blu contino o meno come blu) noi prendiamo decisioni, e adottiamo linee di condotta: “è blu” sarà usato correttamente in un’occasione solo per descrivere ciò che conta come blu in quell’occasione. Molte risposte saranno possibili in ciascuna circostanza, ma tutte dovranno essere compatibili con le restrizioni che il significato convenzionale di “è blu” impone (ad esempio che il blu sia un colore in un sistema di colori, e che se un oggetto è blu, esso non è contemporaneamente giallo o nero): il che salva dall’obiezione tradizionale secondo cui le prospettive contestualiste permettono di dire qualunque cosa con qualunque espressione, e vanificano la distinzione stessa fra usi corretti e usi scorretti. In certi contesti, tuttavia, certe interpretazioni saranno più ragionevoli di altre e, dato uno scopo, costituiranno informazioni di maggior valore per le azioni che si stanno conducendo. Saranno allora le nostre necessità del momento a creare le linee di condotta – pur nel rispetto di massima delle linee adottate nella comunità fino a quel momento. Facendo questo, non facciamo nulla di diverso, o di più, di quando, ad esempio, scegliamo un abito per una circostanza in cui sia richiesto un abbigliamento formale: se giacca e cravatta sono una buona descrizione di cosa si intenda (per Paolo) con “abbigliamento formale”, certo non saremmo disposti ad accettare come appropriato l’abbigliamento di Paolo se si presentasse vestito solo con una giacca e una cravatta (e senza camicia, o senza pantaloni) oppure con una giacca verde a pois rossi, o una cravatta ricoperta di fango, o lunga otto metri.
Cos’altro leggere
Dal momento in cui ho preso in mano il libro fino a quando l’ho rimesso a posto, non ho smesso di ridere per un solo momento. Un giorno ho intenzione di leggerlo. (Groucho Marx)
Introduzione Le origini
La pragmatica è una disciplina relativamente recente; e tuttavia la riflessione su quello che ora è diventato il dominio della pragmatica ha precursori in campi di ricerca diversi e tradizioni anche molto lontane. Per un’archeologia della pragmatica si consiglia il capitolo introduttivo di Récanati 1981, l’articolo di Nerlich e Clarke 1994, ricchissimo di riferimenti, e il volume che ne costituisce un’espansione, Nerlich e Clarke 1996. Nerlich e Clarke individuano quattro diversi approcci alla pragmatica. L’approccio più influente è quello anglosassone o della filosofia del linguaggio ordinario – con Ludwig Wittgenstein (1889-1951), John Austin (1910-1960) e Peter Strawson (1919) –, corrente che abbiamo privilegiato in questo libro. A questo filone si lega la riflessione in filosofia del diritto, da Thomas Reid (1710-1796) fino allo stesso Austin; e la scuola inglese del contestualismo, con l’egittologo Alan Gardiner (1879-1963), che fornisce una prima analisi degli atti linguistici, l’antropologo Bronislaw Malinowski (1884-1942), che studia l’“uso pragmatico delle parole” nelle società “primitive” e il linguista John Firth (1890-1960). Un secondo approccio è quello francese. In ambito strutturalista (fondatore dello strutturalismo è Ferdinand de Saussure, 1857-1913) si studia la lingua come sistema, senza prendere in considerazione il parlante: si veda Saussure 1916. Nello stesso ambito si sviluppa però la teoria dell’enunciazione, elaborata da Charles Bally (1865-1947) ed Emile Benveniste (1902-1976): Benveniste, in modo particolare, si occupa di come la “langue” (il sistema della lingua) diventi “parole” (discorso). Terzo approccio è quello tedesco, che studia la pragmatica come una parte della teoria dell’azione, la “pragmatica universale” o “trascendentale”: rappresentanti di questo filone sono fenomenologi come Anton Marty (1847-1914) e Adolf Reinach (1883-1917), e psicologi come Karl Bühler (1879-1963), che distingue le diverse funzioni del linguaggio (espressione, rappresentazione e appello). Quarto e ultimo approccio è quello americano legato alla semiotica e al pragmatismo di Charles Peirce (1839-1914) e Charles Morris (1901-1979); sulle corrispondenze fra Peirce e la pragmatica si veda Feldman 1986. La tradizione linguistica
La tradizione linguistica ha un ambito di ricerca più vasto rispetto a quello della tradizione analitica, e comprende linguistica testuale, sociolinguistica, psicolinguistica, analisi della conversazione. Mey 1993 e 1998 costituiscono ottime introduzioni alla pragmatica all’interno di questa tradizione; le riviste più rappresentative sono il «Journal of Pragmatics» (North-HollandElsevier, Amsterdam) e «Pragmatics», che è l’organo dell’International Association for Pragmatic Studies (IPrA). Per una breve introduzione alla pragmatica linguistica si veda Conte 1983; per una rassegna di studi italiani in questo campo, si rimanda a Caffi e Hölker 2002 e sulla linguistica testuale alla raccolta di Conte 1977. Sulla pragmatica linguistica in ambito strutturalista si veda Benveniste 1966. Ducrot (1972, 1980 e 1984) sviluppa la pragmatica integrata. Per la psicopatologia della comunicazione il riferimento classico è a Watzlawick et al. 1967. Molte analisi pragmatiche sono state sviluppate nell’ambito della microsociologia, che si occupa delle interazioni quotidiane e degli eventi comunicativi come parte di più complessi rituali (o micro-rituali) sociali: si vedano Goffman 1967 e Sacks, Schegloff e Jefferson 1974. Una corrente della microsociologia è la ricerca etnolinguistica o di etnometodologia, per cui si rimanda a Duranti 1992 e 1997. Sulle relazioni fra lingue si vedano le raccolte di saggi di Blum-
Kulka, House e Kasper 1989 e Kasper e Blum-Kulka 1993. La tradizione analitica: introduzioni e raccolte di classici
In questo libro abbiamo privilegiato la tradizione filosofica e linguistica di riflessione sul linguaggio di ambito analitico (per una panoramica accurata ed esauriente della filosofia analitica si consiglia D’Agostini e Vassallo 2002). All’interno di questa tradizione, sono poche le introduzioni alla pragmatica tradotte in lingua italiana. Levinson 1983 è il testo più noto e completo, di non facilissima lettura e ormai un po’ datato: nel primo capitolo fornisce un’interessante storia del termine “pragmatica”. Più accessibile Green 1989, che vede la pragmatica come studio della comprensione dell’azione intenzionale umana, e rivolge un’attenzione particolare a questioni grammaticali e più in generale al rapporto fra sintassi e pragmatica. I testi di autori italiani – Bertuccelli Papi 1993 e Caffi 2002 – escono dall’ambito propriamente analitico. In lingua inglese la scelta è invece ampia. Leech 1983 presenta un approccio socio-culturale, con un accento su retorica e cortesia; anche il già citato Mey 1993 sottolinea l’aspetto sociale nell’uso del linguaggio; Blakemore 1992 è una piacevole introduzione alla pragmatica dal punto di vista della teoria della pertinenza; Yule 1996 è un testo accessibile e stringato, che però tocca tutti i temi essenziali; Peccei 1999 è un’introduzione adatta anche alle scuole superiori, con esercizi e molti esempi; buone introduzioni ai singoli argomenti si trovano nella collezione Pragmatics and Beyond. In lingua francese due introduzioni alle scienze del linguaggio in guisa di dizionario sono Moeschler e Reboul 1994 (dal punto di vista della teoria della pertinenza) e Ducrot e Schaeffer 1995 (dal punto di vista della linguistica testuale e della pragmatica integrata); Reboul e Moeschler 1998 costituisce una breve introduzione alla pragmatica e alla teoria della pertinenza. In italiano i testi classici di pragmatica si trovano sparpagliati in raccolte di testi di filosofia del linguaggio, come Bonomi 1973, Bottani e Penco 1991 e Penco 2001; Sbisà 1978 raccoglie saggi dedicati agli atti linguistici. In inglese si trovano testi classici in Bar-Hillel 1971, Cole 1981, Parret, Sbisà e Verschueren 1981, e nel più recente Davis 1991. Nuyts e Verschueren 1987 costituisce una vastissima fonte di riferimenti e una mappa del variegato campo di ricerche coperto dalla pragmatica.
I: Come funziona il linguaggio? La filosofia del linguaggio ideale
Sulla distinzione fra sintassi, semantica e pragmatica si vedano Lyons 1977 (il secondo volume contiene tre capitoli su questioni pragmatiche), Lycan 1984 (incentrato sui rapporti fra linguaggi formali e linguaggi naturali), Chierchia 1997 (un manuale di semantica che riserva grande attenzione alla pragmatica) e Lycan 2000 (un ottimo manuale di filosofia del linguaggio). Fra i testi classici della filosofia del linguaggio ideale sono pertinenti alle considerazioni svolte nel primo capitolo di questo libro Frege 1879 (l’Introduzione contiene passi celebri sui difetti e sui pericoli del linguaggio naturale), Frege 1884 (il testo che è all’origine della svolta linguistica) e Frege 1892 (che introduce la nozione di senso e riferimento, e una riflessione più generale fra segno, pensiero e realtà extralinguistica); Russell 1905 (la teoria delle descrizioni qui esposta rappresenta un esempio paradigmatico di atteggiamento normativo ed eliminativista verso il linguaggio naturale); Wittgenstein 1921 (in cui compaiono le tesi secondo cui il significato di una frase è dato dalle condizioni di verità della frase, e le proposizioni sono immagini di stati di cose); Tarski 1944 (l’articolo di Tarski più accessibile e divulgativo, in cui viene formalizzata la definizione di verità per i linguaggi formali); Quine 1960 (un altro esempio di una porzione di linguaggio naturale “emendato” – con l’eliminazione di tutti i termini singolari che non siano variabili individuali). Montague 1974 e Davidson 1984 costituiscono l’evoluzione più matura del paradigma della semantica formale. Per un’introduzione e un primo approfondimento del paradigma tradizionale, si vedano, in italiano, Santambrogio 1992, Picardi 1994, Casalegno 1997 e Marconi 1999. La filosofia del linguaggio ordinario
I testi fondatori della filosofia del linguaggio ordinario sono Austin 1961 (che raccoglie gli articoli filosofici pubblicati in vita da Austin), 1962a (che raccoglie le lezioni di filosofia della mente ed epistemologia) e 1962b (che raccoglie le lezioni dedicate agli atti linguistici); Wittgenstein 1953 (in cui viene esposta la teoria del significato come uso) e 1969 (un lavoro degli anni Trenta pubblicato postumo); Waismann 1940 (in cui viene sottolineata la “tessitura aperta” del linguaggio naturale rispetto ai linguaggi formali, tecnici o scientifici) e Strawson 1964; la distinzione tra frase ed enunciato viene proposta in Austin 1950 e Strawson 1950. La concezione pragmatica del linguaggio – filiazione diretta della filosofia del linguaggio ordinario delle origini – viene esplicitata da John Searle e Charles Travis in una grande quantità di libri e articoli: fra gli altri si vedano Searle 1979, 1980 e 1992, e Travis 1975, 1981, 1997 e 2000; per un’analisi si vedano Récanati 1993 e, in italiano, Bianchi 2001a.
II. Fare parole con le cose Ambiguità
Un’introduzione al tema dell’ambiguità si trova in Chierchia 1997; sulla distinzione fra omonimia e polisemia rimandiamo a Fuchs 1996 e Victorri e Fuchs 1996; nella sterminata letteratura sulla polisemia si vedano Lyons 1977 (per un’introduzione), Nunberg 1979 (per un punto di vista pragmatico), Rastier 1987 (per una prospettiva di semantica interpretativa) e Pustejovsky 1995 (per un’esposizione della teoria del lessico generativo). Deissi
Levinson 1983 contiene un bel capitolo introduttivo sul tema della deissi; una buona antologia di testi è Yourgrau 1990; in Bonomi e Zucchi 2001 si trova un’analisi dei concetti essenziali alla riflessione sulla rappresentazione linguistica del tempo. Uno dei testi precursori del modo di concepire la deissi contemporaneo è Reichenbach 1947: nel capitolo 7 compare la definizione degli indicali come token-riflessivi; su questo punto si veda Garcia-Carpintero 1998. In Burks 1949 si trova la concezione dei deittici come simboli indicali, e la critica della distinzione di Peirce fra icona, indice e simbolo. Pur discepolo di Carnap, Bar-Hillel (1954), in polemica con il maestro, sottolinea che l’indicalità è una proprietà essenziale del linguaggio. Fra i trattamenti formali delle espressioni indicali, il metodo delle coordinate multiple viene esposto in Montague 1968: la pragmatica viene qui definita come la semantica formale dei linguaggi indicali. Lewis 1970 e Cresswell 1973 esaminano il problema di quali coordinate contestuali inserire nell’indice; per una critica si veda Travis 1981. All’inizio degli anni Settanta, Robert Stalnaker (1970), David Kaplan (1977 e 1979) e John Perry (1993 e 1997) propongono un’alternativa al metodo montagoviano in tre teorie indipendenti – ma per molti versi equivalenti – in cui il senso fregeano viene concepito come strutturato e comporta carattere e contenuto. Sulla questione dell’essenzialità degli indicali e in genere per una posizione neo-russelliana si rimanda alla raccolta di articoli di Perry 1993; per una posizione neo-fregeana si veda Evans 1981. Kaplan 1977 contiene la distinzione fra contesto di proferimento e mondo; sulla nozione di validità pragmatica (verità in tutti i contesti) si veda Chierchia e Mc Connell-Ginet 1990. Le due teorie kaplaniane dei dimostrativi sono esposte in Kaplan 1977 e 1989; Reimer 1991 propone una difesa di Kaplan 1977; Bach 1992 e Récanati 1993 una difesa di Kaplan 1989; per una posizione di conciliazione si vedano Roberts 1997 e Bianchi 2003a. Per una critica alla distinzione fra indicali e dimostrativi rimandiamo a Predelli 1998; per un’estensione degli argomenti di Predelli all’indicale “io” si veda Bianchi 2001b. Le espressioni contestuali vengono introdotte in Clark e Clark 1979 e Clark 1992; sui nomi composti si veda Green 1989. Linguaggio figurato
Testi classici sulla metafora sono Black 1954 e Davidson 1978; il capitolo 4 di Thornborrow e Wareing 1998 presenta un’accurata analisi della metafora letteraria; sulla distinzione fra significato letterale e senso figurato si vedano Searle 1979, Sperber e Wilson 1985/6, Récanati 1995 e la ricchissima collezione di saggi raccolti in Ortony 1993.
III. Fare cose con le parole Atti linguistici
La teoria della forza illocutoria ha numerosi precursori. Frege 1879 distingue fra senso (il pensiero espresso da un enunciato) e forza assertoria (il riconoscimento della verità del pensiero espresso da un enunciato). Gardiner 1932 anticipa la teoria degli atti linguistici con la distinzione fra “cosa significata” (il contenuto proposizionale) e “qualità discorsiva” (la forza illocutoria); anche in Bühler 1934 compare la nozione di atto linguistico; e Benveniste 1958 propone un’analisi dei performativi contemporanea ma indipendente rispetto a quella austiniana. Lo stesso Wittgenstein, in testi degli anni Trenta e poi nelle Ricerche Filosofiche (pubblicate postume nel 1953), sottolinea l’“infinità” degli usi del linguaggio. In Austin 1962b si trovano raccolte le William James Lectures, tenute da Austin all’Università di Harvard nel 1955, e pubblicate postume nel 1962. Sulla teoria austiniana cfr. Searle 1969, 1973 e 1979 (che contiene una classificazione alternativa degli atti linguistici); Strawson 1973, gli articoli raccolti in Berlin et al. 1973, Bach e Harnish 1979 e, in italiano, Sbisà 1989. Per una critica della teoria degli atti linguistici e una proposta alternativa si consiglia Récanati 1981 (che illustra il dibattito fra convenzionalisti – Austin e Searle – e intenzionalisti – Grice e Strawson) e Searle 1989: i due autori ripropongono la distinzione tra performativi e constativi; si veda anche Sbisà 2003. Infine, sugli atti linguistici indiretti si vedano Cole e Morgan 1975 e Lycan 1984. La conversazione
Le William James Lectures, tenute da Paul Grice (1913-1988) all’Università di Harvard nel 1967, e circolate per anni solo come ciclostilati o fotocopie, vengono pubblicate per la prima volta in Grice 1975, e poi, in edizione riveduta, nella raccolta di saggi di Grice 1989. Nel volume si trovano anche vari saggi su percezione, razionalità, certezza, scetticismo, e l’articolo Meaning (Grice 1957) che costituisce il testo classico sulla tesi del significato come riconoscimento di intenzioni. Su questo tema si veda Searle 1969 e 1983, i cui capitoli 5 e 6 sono dedicati alle intenzioni del parlante; i saggi raccolti in Cohen et al. 1990 costituiscono un utile approfondimento della questione. Grice 2001 è invece il volume che raccoglie le John Locke Lectures tenute a Oxford alla fine degli anni Settanta sul concetto di essere razionale – legato in modo indissolubile a temi centrali delle teorie pragmatiche griceane. Introduzioni generali all’opera di Grice si trovano in Bennett 1976, Travis 1985, Avramides 1989, Neale 1992, Sperber e Wilson 1986, e nella raccolta di saggi di Grandy e Warner 1986; in italiano suggeriamo Sbisà 1989, Leonardi 1992 e Cosenza 1997. Schiffer 1972 e Bach e Harnish 1979 espongono prosecuzioni del programma griceano che hanno avuto grande influenza. Sulle difficoltà dell’equivalenza fra simboli logici dei linguaggi formali e costanti logiche dei linguaggi naturali, si vedano Strawson 1952, pp. 81-82, Gazdar 1979, Ducrot 1980, Cornulier 1985 e Récanati 1993. Cohen 1971 propone di attribuire alle costanti logiche del linguaggio naturale un ricco bagaglio di significato, soggetto ad annullamento; anche per Carston 1988, 1993 e 2002 le connotazioni temporali e causali della congiunzione “e” sono da mettere nel livello della proposizione espressa – risultato di come la nostra mente organizza l’informazione in sceneggiature o scripts. Sulle implicature convenzionali si vedano Ducrot 1972 e il capitolo 5 di Lycan 1984; contro l’esistenza stessa del fenomeno, Bach 1999b. Sulla distinzione fra implicature convenzionali e conversazionali cfr. Cole e Morgan 1975; per una critica alla
nozione di implicatura conversazionale si veda Davis 1998; sulle implicature conversazionali generalizzate cfr. Levinson 2000; Sbisà 2003 e Penco 2003 costituiscono utili discussioni sulla negoziazione degli scopi conversazionali. La letteratura sulle presupposizioni semantiche e pragmatiche è assai vasta: si vedano, fra gli altri, Strawson 1950, Ducrot 1972, Stalnaker 1974, Wilson 1975, Gazdar 1979, Sbisà 1999; per un’introduzione chiara e completa si consiglia Lycan 2000. Sul linguaggio dei politici e della pubblicità cfr. Simpson 1993. La cortesia
Una discussione delle regole della cortesia si trova in Lakoff 1973 e Brown e Levinson 1987. Sulla nozione di faccia cfr. Goffman 1967 e 1981; sulla componente rituale della comunicazione in ambito terapeutico si veda anche Bercelli, Leonardi e Viaro 1999. Il capitolo 6 di Gleason 1997 offre un’utile introduzione allo studio dell’apprendimento infantile dei principi pragmatici (l’alternanza di domanda e risposta, i meccanismi di indicalità, anafora e prospettiva, la coesione testuale); Bishop 1997 analizza lo sviluppo e i disordini della comprensione dei bambini. Lo studio della conversazione si divide tradizionalmente in analisi del discorso e analisi della conversazione – diverse soprattutto per il metodo. L’analisi del discorso utilizza i principi e i metodi della linguistica, estendendola al di là della frase, al testo; nozione centrale è la coerenza – o l’incoerenza – del discorso: si vedano il manuale di Brown e Yule 1983, Coulthard 1985 e Ellis e Beattie 1986. L’analisi della conversazione è invece una parte dell’etnometodologia, e utilizza metodi empirici: studia le proprietà sistematiche dell’organizzazione del discorso e i modi in cui gli enunciati si dispongono per formare sequenze. Testi di utile consultazione sono Geis 1995 e, in italiano, Sbisà 1992, Bazzanella 1994 e Caffi 2001 (che contiene anche un interessate studio di corpus di colloqui tra medico e paziente). Sugli stili di conversazione, anche da un punto di vista etnografico, si veda Coulthard 1985.
IV. Ricerche in corso La dimensione cognitiva e inferenziale del linguaggio
Sulla pragmatica cognitiva si veda Bara 1999, che analizza i processi mentali della comunicazione, le patologie della comunicazione e la pragmatica clinica, con studi di interazioni tra medico e paziente e tra psicoterapeuta e utente. Testo classico del modello comunicativo del codice o del messaggio è Shannon e Weaver 1949, ispirato dalle tecnologie di telecomunicazione. Reddy 1979 critica il modello, che vede come una forma della metafora del condotto: le parole sono “veicolo” per il senso, recipienti o tubi in cui i sensi, o i pensieri, vengono depositati o fatti transitare e che ne permettono la trasmissione agli altri; per una critica del modello del codice e un’esposizione del modello inferenziale, si vedano Bach e Harnish 1979 e il capitolo introduttivo di Sperber e Wilson 1986. La teoria della pertinenza
La teoria della pertinenza viene esposta in Sperber e Wilson 1986 (seconda edizione riveduta 1995) e in una gran quantità di articoli, fra cui Wilson e Sperber 1988 e 1993, Carston 1988, 1993, 1996 e 2002; Blakemore 1992 è un’introduzione accessibile alla teoria. In «Behavioural and Brain Sciences», 10, pp. 697-754, si trovano commenti a Sperber e Wilson 1986 (fra gli altri di Clark, Levinson, Bach e Harnish). Molto vasta è anche la letteratura sulla conoscenza mutua: Lewis 1969 introduce la nozione di “common knowledge”; Schiffer 1972 quella di “mutual knowledge”; Grice 1989 usa il termine di “common ground” – ripreso dallo psicologo Herbert Clark e dai suoi collaboratori in Clark 1992 e 1996, e da Stalnaker 1999 e 2002; si veda anche la raccolta di articoli in Smith 1982. I modi in cui la conoscenza enciclopedica viene immagazzinata vengono esaminati in Fillmore 1975 e 1982, Langacker 1987, Dunbar 1991, Barsalou 1992. Récanati 2000 è un testo esauriente sulle metarappresentazioni. Sulla modularità della mente il riferimento classico è Fodor 1983; per un’analisi dei rapporti delle tesi modulari con la pragmatica si veda Kasher 1984. La distinzione fra semantica e pragmatica
Il confine fra semantica e pragmatica è stato tracciato in vari modi: le proposte più interessanti si trovano in Gazdar 1979, Récanati 1989, Sperber e Wilson 1985/6, Bach 1994 e 1999a. Il numero 128 di «Synthese», 2001, è tutto dedicato alla questione (si vedano soprattutto Bach 2001 e Récanati 2001), così come le raccolte di saggi di Turner 1999, Szabo 2003 e Bianchi 2003b. Sui processi di interpretazione cfr. Nunberg 1995 (per il processo di transfert) e Clark 1992 (per il processo di bridging). La rilevanza delle intuizioni dei parlanti in semantica viene analizzata da Récanati 1989 e 1993, Bach 2001 e 2002 e Taylor 2001. Sui processi cognitivi all’opera nell’interpretazione pragmatica si rimanda a una serie di articoli di psicolinguisti – che sottolineano come gli stessi processi siano all’opera nell’interpretazione del significato letterale e non letterale: Gibbs e Gerrig 1989, Clark 1992, Gibbs 1993 e 1994, Gibbs e Moise 1997; per un’interpretazione più filosofica si consiglia Récanati 1995. Sui costituenti inarticolati cfr. Perry 1998 e Récanati 2001. Epilogo
Su impegni e inferenze si vedano i testi che si richiamano alla semantica del ruolo concettuale, e in particolare Brandom 1994. Travis 2000 contiene un’articolata e matura proposta
wittgensteiniana sul linguaggio. Sull’impossibilità di distinguere conoscenza semantica e conoscenza enciclopedica cfr. Rumelhart 1979 e Langacker 1987; quest’ultimo rigetta in toto la distinzione fra sintassi e semantica, e quella fra semantica e pragmatica. Versioni del contestualismo si trovano in Travis 1975 e 1981 (che contiene un’interessante analisi dell’anticontestualismo di Grice), Searle 1979 e Récanati 1993 (che suggerisce di affidare la determinazione delle condizioni di verità alla pragmatica verocondizionale); in italiano si vedano Bianchi 2001a (soprattutto la IV parte) e la raccolta di articoli in Penco 2002. I testi di Campanile sono tratti da Trattato delle barzellette. Con florilegio, silloge, repertorio, divisione per materie, enciclopedia alfabetica e storica, ad uso delle scuole, università, famiglie, comunità, signore sole, viaggiatori, tipi sedentari e professori della Sorbona, Rizzoli, Milano 1961 (2001); Manuale di conversazione, Rizzoli, Milano 1973, e Tragedie in due battute, Rizzoli, Milano 1978 (1995); i testi di Flaiano da Frasario essenziale per passare inosservati in società, Bompiani, Milano 1986. Ho scelto molte epigrafi dalla raccolta a cura di Gino e Michele, Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano, vol. I (Einaudi, Torino 1991) e vol. II (Baldini & Castoldi, Milano 1992); da Alice nel paese delle meraviglie, nella traduzione di Aldo Busi (Feltrinelli, Milano 1993), e da una preziosa raccolta personale. Sul linguaggio dell’umorismo si consiglia Ross 1998.
Bibliografia
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