Sull’origine del linguaggio

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MEMORIE FUTURE

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I Jacob Grimm Friedrich Wilhelm Joseph Schelling !

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SULL’ORIGINE DEL LINGUAGGIO

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a cura di Giampiero Moretti Traduzione e note di Tristan Weddigen 1 I

CHRISTIAN MARI NO TI! EDIZIONI I

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Titoli originali:

Friedrich Wilhelm Joseph Schelling: Vorbemerkungen zu der Frage Uber den Ursprung der Sprache. Gelesen in der Klassensilzung der Wissenschaften in Berlin, 25. November 1850, in Sàmtliche Werke, sez. 1, voi. 10, Stultgart/Augsburg, Cotta, 1861, pp. 503-510.

Jacob Grimm: Uber den Ursprung der Sprache. Gelesen in der Akademie am 9. Januar 1851, Berlin, Dnickerei der Kòniglichen Akademie der Wissenschaften, 1851.

© 2004 Christian Marinoni Edizioni s.r.l. Milano I diritti di traduzione, di adattamento totale o parziale, di riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonché di memorizzazione elettroni­ ca. sono riservati per tutti i Paesi.

Christian Marinoni Edizioni s.r.l. Via Alberto da Giussano. 8 - 20145 Milano Tel. 02 481.34.34 - Fax 02 481.33.10 www.marinotti.com; e-mail: [email protected]

INDICE

Pag-

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F.W.J. Schelling, Premesse riguardo al quesito sull’origine del linguaggio

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Note al testo

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Jacob Grimm, SulTorigine del linguaggio

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Note al testo

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Bibliografie

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Introduzione Una disputa romantica (di Giampiero Moretti)

Introduzione

di Giampiero Moretti

UNA DISPUTA ROMANTICA A proposito dell*origine del linguaggio in Grimm e Schelling

La questione dell’origine del linguaggio non è mar­ ginale o eccentrica rispetto al percorso spirituale com­ piuto dal movimento romantico tedesco nello spazio di tempo che va (solo indicativamente) dal 1770 al 1850. In questo ambito, apparentemente soltanto tematico cercare cioè di stabilire l’origine della lingua - la “disputa” fra Jacob Grimm e Schelling si inserisce invece a pieno titolo nella problematica ben più ampia del senso e dell’eredità del romanticismo, e, questo, nel momento del suo compimento. Ad essere chiamate in causa sono l’impostazione romantica di Grimm, nel 1851 già ben noto per i suoi numerosissimi lavori ine­ renti lo studio della lingua tedesca e la linguistica in generale, e quella di Schelling, uno dei veri capi­ scuola del romanticismo in assoluto. Se dunque il tema del linguaggio è già di per sé centrale nell’am­ bito della storia spirituale del periodo in esame, il fatto che a trattarlo fossero due personalità estremamente significative del movimento romantico, benché appartenenti a generazioni diverse, rende legittima

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l’attesa di qualcosa di più che un semplice scontro fra posizioni teoriche diverse o persino antitetiche: ad es­ sere in gioco è la possibilità di fare ulteriore luce sul­ l’essenza stessa del romanticismo tedesco. V’è subito da aggiungere che tale attesa, nel leggere l’intervento piuttosto sibillino di Schelling, e nel confrontarlo poi con l’ampia e ben più pacata esposizione di Grimm, rischia immediatamente di trasformarsi in una sensa­ zione di vaga delusione. Sembra infatti rafforzarsi il luogo comune di avere dinanzi, da un lato, un anziano filosofo, isolato, per certi aspetti risentito verso l’acca­ demia e, per altri, indubbiamente ormai “scomodo”, e, dall’altro, uno studioso più concreto, meno disposto alla teoria e ben più diretto invece alla dimensione “reale” del problema da discutere. Ma si tratterebbe di un’impressione avventata. Ottanta anni erano trascorsi dalla premiazione nel 1771 - da parte dell’Accademia delle Scienze di Ber­ lino - del saggio di Herder sull’origine del linguag­ gio1. Jacob Grimm si presenta all’uditorio dell’Acca­ demia prussiana delle Scienze (1851) e legge le pro­ prie riflessioni sull’origine della lingua facendo espli­ cito riferimento allo scritto di Herder, nonché alle os­ servazioni sul medesimo tema che Schelling aveva letto in quella stessa sede poco tempo prima2. È dun­ que necessario che queste brevi considerazioni pren­ dano spunto proprio dal contenuto del discorso schellinghiano. L’anziano filosofo iniziava osservando che,

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mentre le ricerche di linguistica si erano progressiva­ mente moltiplicate a dismisura, la filosofia sembrava al contrario aver preso gradualmente le distanze dal problema generale di “una” origine del linguaggio, che pure, tradizionalmente, le pertiene. Immediata­ mente dopo, Schelling passava ad enumerare, in ma­ niera abbastanza impietosa, le critiche di Hamann al saggio premiato di Herder e, più in generale, ad ogni tentativo di interpretare l’origine del linguaggio a par­ tire da una concezione della ragione svincolata dalla sensibilità, o comunque dimentica del fatto che sempre secondo Hamann - non si può arrivare lungo la via linguistico-razionale all’origine del linguaggio come ad un risultato conseguito una volta per tutte3. Schelling giunge infine a concludere che, a ben guar­ dare, la questione dell’origine del linguaggio non può essere affrontata da nessuna disciplina autonomamente, per così dire isolandola dalle domande fondamentali della speculazione. Egli, scusandosi per non aver avuto il tempo materiale di trattare esaustivamente la questione come essa avrebbe richiesto, si congeda leg­ gendo all’uditorio una composizione - in realtà sua che riprende il tema dell’origine della lingua in ter­ mini lucreziani4. Questa breve composizione si con­ clude in maniera interlocutoria, tanto che sorge per­ sino il sospetto che Schelling avesse voluto in qualche modo burlarsi dell’uditorio. Tanto più risulta allora comprensibile il rifarsi esplicitamente, da parte di

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Una disputa romantica

Grimm, a meno di due mesi dall’intervento di Schel­ ling, allo scritto herderiano. Si trattava, per Grimm, di “porre al sicuro” da tendenziosità metafisiche, da aspirazioni filosofiche totalizzanti, quanto la lingui­ stica e l’analisi del linguaggio come discipline “auto­ nome” avevano prodotto da Herder in poi, e ciò pro­ prio prendendo le distanze dalla tesi schellinghiana se­ condo la quale la questione dell’origine del linguaggio poteva essere trattata soltanto nell’ambito di un si­ stema filosofico più ampio5. Resta però la domanda sul senso dell’intervento di Schelling. Egli sembra voler riprendere le argomenta­ zioni di Hamann, ma è improbabile che il suo scopo fosse quello di sposare in loto la posizione dell’irre­ quieto Mago del Nord; questi infatti, pur prendendo decisamente le distanze dall’impostazione herderiana, aveva tuttavia negato altrettanto decisamente che una struttura di pensiero sistematica potesse “risolvere” la questione dell’origine del linguaggio. Se dunque è in qualche modo possibile che Schelling abbia ripreso Hamann in funzione vagamente anti-illuminista, consi­ derando cioè i tentativi - compiuti a partire da Herder - di sganciare dall’ambito filosofico la questione del­ l’origine del linguaggio come tentativi di fatto “illumi­ nisti”, esiti settoriali della ragione applicativa, occorre però cercare anche altrove le motivazioni profonde di tale ripresa del pensiero di Hamann, per non correre il rischio di considerarla semplicemente polemica, prò-

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vocatoria, o persino strumentale. L’opposizione di Hamann a Herder passava per quella che lo stesso Hamann aveva indicato essere la necessaria autocomprensione-esperienza della ragione, sperimentabile nella sua impotenza dinanzi al mistero, quindi anche dinanzi al mistero deH’origine del linguaggio. Per Hamann infatti, se la ragione non può oltrepassare l’orizzonte del lin­ guaggio, ciò dimostra l’insuperabilità del mistero del­ l’origine finché la ragione pretende di “utilizzare” unilateralmente il linguaggio per “risolverlo”. Nella sua critica a Herder, Hamann si era riferito, come bersaglio polemico, alla Besonnenheit/Besinnung, una coppia terminologica che Herder aveva usato nel suo scritto con chiaro riferimento alla spontanea, inevi­ tabile riflessività razionale umana nella sua differenza dall’altrettanto spontaneo istinto animale: questo, ap­ punto, al fine di offrire una spiegazione “umana” del­ l’origine del linguaggio. Certo, anche Schelling come Hamann riteneva probabilmente unilaterali e riduttivi sia il tentativo herderiano sia quelli che l’avevano preso a modello. Ogni spiegazione dell’origine della lingua rimaneva inevitabilmente preda, secondo Ha­ mann, dell’arbitraria trasposizione in una costruzione impersonale ed “astratta” del portato sempre e comun­ que “personale” della lingua. Nel linguaggio Hamann sembrava dunque sottolineare una “negatività”, che traspare appunto nella sua insuperabilità per la ragione umana; tale insuperabilità diviene facilmente inaggira-

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bilità e “negatività”, e prende il nome di “sensibi­ lità”, “finitezza”, “creaturalità”, tutte dimensioni, que­ ste, che hanno in comune il rifiuto nei confronti dell’agire, sempre secondo Hamann, astratto e riduttivo della ragione. Opporsi a Herder aveva significato per Ha­ mann opporsi a quello spirito dei suoi tempi che egli vedeva esemplificato in ogni astrattezza razionalistica, ed ovviamente soprattutto in Kant: ma anche nella Besinnung di Herder. Sostenendo infatti questi, nel suo saggio premiato, che l’uomo ha “inventato” il linguag­ gio, seppure non nel senso dell’invenzione totalmente arbitraria, ma perché la natura, creata da Dio, lo ha linguisticamente disposto ed indirizzato all’invenzione del linguaggio, egli, agli occhi di Hamann, implicita­ mente rifiutava il carattere dell’originaria linguisticità del mondo come fenomeno complessivo, isolando l’uomo e la sua “facoltà” linguistica6 e distinguendola, arbitrariamente, dall’“esser parola” caratteristico di ogni aspetto della vita. Hamann aveva dunque criticato Herder perché lo aveva visto in qualche misura difen­ dere una posizione strumentale, riguardo all’origine della lingua; questa non è per Hamann lo strumento per organizzare e dominare (linguisticamente, ma anche operativamente) il mondo considerato come contrappo­ sto all’uomo. Sia la lingua sia il mondo sono per Ha­ mann un Bild, immagine, dietro la quale, tuttavia, la ragione non può risalire perché violerebbe il proprio stesso fondamento creaturale. E l’immagine ha, per Ha-

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mann, un fondamento teologico-umano che non con­ sente un riattingimento puramente razionale della pro­ pria origine linguistica: qualunque tentativo del genere finisce infatti per trascurare l’aspetto ontologicamente sensibile deH’immagine stessa, e, con ciò, l’essenza di creatura dell’uomo. La libertà dell’uomo, per Hamann, avrebbe potuto, proprio per l’assoluta linguisticità che le peri iene originariamente, organizzarsi e svilupparsi anche altrimenti dalla struttura linguistica effettiva­ mente raggiunta nel corso dell’evoluzione storica. Non è certamente questo il luogo per tentare un’e­ sauriente ricostruzione della concezione hamanniana del linguaggio7; occorreva però accennarvi per cercare di capire meglio il senso dell’intervento di Schelling al quale poi fa da risposta l’esposizione di Grimm sull’origine del linguaggio. La ripresa schellinghiana di Hamann sembra così volersi far carico della neces­ sità - sostenuta da Hamann - di considerare la lingua nella sua complessità sensibile-coscienziale, di riferirla cioè ad un processo non esclusivamente umano ma coimplicante in qualche modo la divinità stessa, e, tuttavia, un processo suscettibile di essere ripercorso dalla coscienza umana nel suo autofondarsi. E, questo, l’orizzonte ermeneutico al cui interno si muove la ri­ flessione dell’ultimo Schelling, nelle opere di filosofia della mitologia e della rivelazione, e, in particolare, nel passaggio che egli evidenzia appunto, come neces­ sario per il pensiero, quello dalla cosiddetta filosofia

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“negativa” a quella “positiva”. Solo una volta che tale trasformazione del pensiero sia stata effettiva­ mente conseguita, sembra voler dire Schelling, solo allorché la negatività del concetto e la sua “astrat­ tezza” contrarie alla vita siano state rovesciate nella positività deH’empirismo filosofico rivolto invece libe­ ramente alla vita, solo allora l’insuperabile inaggirabilità dell’origine del linguaggio cesserà di essere tale, rivelando così l’originarietà ontologico-personale della parola, e non del linguaggio in senso universale­ astratto. Si tratta allora di comprendere come, da un lato, Schelling cerchi di riprendere la posizione di Hamann senza darle semplicemente una veste sistematica — ciò che Hamann stesso aveva rifiutato esplicita­ mente - e, dall’altro, come egli si contrapponga alla linea Herder-Grimm non tanto perché la linguistica, nei fatti, avesse cercato uno sbocco esclusivamente settoriale alle proprie impostazioni, quanto piuttosto perché a Schelling appariva “ingenua”8 l’ipotesi ro­ mantica che aveva guidato le ricerche di HerderGrimm. Essa non aveva chiamato in causa il rapporto natura-spirito in senso duplice, realmente dialettico, secondo quella che Schelling chiama in più luoghi la “teoria delle potenze”, ma soltanto unidirezional­ mente, dalla natura, come un tutto finalisticamente ma anche spontaneamente organizzato, allo spirito. Se­ condo tale sviluppo, per Schelling ingenuamente uni­ direzionale, il linguaggio diviene una conquista storica

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dell’umanità: soprattutto, esso si renderebbe accessi­ bile all’interprete a prescindere dalla ricostruzione fi­ losofica della nascita di ciò che invece, per Schelling, necessariamente concresce assieme alla lingua: la co­ scienza. La lingua, di cui Schelling tratta dunque nei suoi scritti di filosofia della mitologia, né è produzione di un singolo - consapevole o meno - né può dirsi pro­ duzione di un “popolo” (ipotesi questa invece vicina al Grimm); in ogni caso, e con ciò torniamo al mo­ tivo profondo per cui Schelling “si rifà” ad Hamann “contro” Grimm, resta inaggirabile il rapporto di pre­ supposizione fra lingua e coscienza finché tale rap­ porto viene interpretato sul piano esclusivamente umano. Partendo dall’idea che la mitologia, e la lingua, sono fenomeni che hanno come teatro la co­ scienza umana, ma non soltanto essa, dato che coin­ volgono il divenire stesso della divinità, Schelling in­ tende ricondurre la nascita della lingua e quella della coscienza a quello che egli in più luoghi della sua opera mostra essere il necessario moto di allontana­ mento dell'uomo, come singolo e come popolo, dalla vicinanza originaria con Dio. Se non si fosse allonta­ nata da Dio, l’umanità “creatrice” di lingue e di mi­ tologie non potrebbe neppure sperare nel ritorno libero alla divinità; percorso questo che segna la riconquista del monoteismo, del suo fondamento, dal punto di vi­ sta della “verità” e non da quello della “relatività”,

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Una dispula romantica

la quale invece secondo Schelling avrebbe “inficiato” il monoteismo originario “nella” coscienza umana dei primordi. Ed è su questo punto che Schelling si di­ stanzia dalla linea Herder-Grimm, secondo la quale si è invece storicamente realizzala una divina rivelazione originaria, poi “attenuata” dal paganesimo, ed infine riconquistala dal cristianesimo: tale posizione, secondo Schelling, non si farebbe carico di indicare l’indispen­ sabile, dialettica conciliazione fra la decadenza pro­ gressiva della rivelazione originaria nella storia (alla quale corrisponde, come anche Grimm nel suo saggio spesso fa vedere, la contemporanea perdita di vitalità storica della lingua) e l’ascesa, di cui la storia pure è teatro, del principio cristiano verso la conquista defi­ nitiva della verità dispiegata. A tale esigenza cerca invece di rispondere la con­ nessione lingua-mitologia in Schelling, che va inter­ pretata nel suo rapporto con la teoria delle potenze. La mitologia, e le molteplici mitologie “prodotte” delle singole popolazioni, così come la lingua, e le diverse lingue dei popoli, segnano per Schelling da un lato il momento de\V allontanamento dell’uomo da Dio, dall’altro però anche la necessaria, metafisica, condizione del riavvicinamento: la conquista cosciente del vero monoteismo. E altresì evidente che, l’allonta­ namento “necessario” dell’uomo da Dio nell’ambito del più generale processo della creazione, da Schelling variamente analizzato nei suoi scritti di filosofia della

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mitologia e della rivelazione, è visto in diretto rap­ porto con la questione della Caduta e del male. « Ciò che è più profondo nell’uomo (originario) è il Ponente Dio [ótas Gott Setzendé] soltanto in sé - non attra­ verso un Actus, ma tramite un Non-Actus. È il Po­ nente Dio senza un suo intervento, senza un moto proprio, e non nel senso che potesse essere cosciente del moto tramite cui è divenuto il Ponente Dio. La coscienza c’è infatti soltanto al termine dell’intero cammino, condotto per così dire attraverso gli stadi della creazione. Va perciò detto che - per divenire consapevole di tale cammino, per percorrere esso stesso con coscienza tutto questo cammino - [...] ha dovuto staccarsi dal proprio originario essere concre­ sciuto con Dio, e che per questa conclusione quella potenza del Porre Dio ha dovuto nuovamente uscire da quel rapporto. In tal modo egli si è sì posto in contraddizione con il movimento teogonico generale, da noi indicato nella creazione, ma proprio questa po­ tenza del movimento generale, che l’essenza umana ri­ chiede come sua conclusione vera e propria, come suo precipuo punto di quiete, proprio questa potenza del movimento generale riconduce l’uomo, nonostante la sua ritrosia, al proprio interno, assoggettandolo ad un processo la cui conclusione consiste nel fatto che egli viene realizzato come colui che pone in sé Dio anche per sé. Può perciò considerarsi tutto il processo conse­ guente come il passaggio dal monoteismo semplice-

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mente essenziale, per così dire radicato nell’essenza dell’uomo, al monoteismo liberamente riconosciuto: posizione, questa, in cui il politeismo, come manife­ stazione transitoria, ottiene un significato diverso ed una diversa giustificazione in relazione al piano uni­ versale della Provvidenza, che non invece in ogni al­ tra congettura che spiega il politeismo a partire dall’i­ nutile frantumazione, che non serve a nessun passag­ gio e che non ha nessuno scopo, di un monoteismo spacciato per originario ma in realtà concepito nient’altro che come dottrina, sistema, e quindi casuale »9. La lunghezza della citazione è giustificata dalla dif­ ficoltà del pensiero schellinghiano. Il filosofo ha qui riaffermato il carattere di “negatività” che a suo av­ viso è implicito nella lingua (e che avevamo già os­ servato in Hamann), riferendolo tuttavia ad una supe­ riore dialettica (non quella “casuale” dei sistemi filo­ sofici!), in grado di giustificare sia l’aspetto discen­ dente sia quello ascendente della storia dell’uomo e, ovviamente, del linguaggio stesso. La lingua, come la mitologia, è insomma sia un necessario atto di allon­ tanamento dalla divinità, e infatti, come tale, contiene in sé la possibilità stessa del male (di “dire” il male), sia l’inevitabile soglia da attraversare per ritornare al divino, una volta però acquisita la “coscienza” del processo universale che coinvolge la divinità stessa: questa “nuova” forma di “coscienza” è ben diversa

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per Schelling da quella “filosofica”, produttrice di si­ stemi astratti. A questo punto è più agevole cogliere la differenza dell’impostazione del saggio di Grimm dalle “pre­ messe” di Schelling. Grimm è rivolto direttamente, concretamente, alla vita del linguaggio, che analizza con rara capacità intuitiva. Dov’è che sembra invece per un attimo smarrirsi? Dinanzi alla progressiva “ra­ zionalizzazione” cui il linguaggio sembra dover inevi­ tabilmente andare incontro nel proprio sviluppo sto­ rico, e, in particolare, dinanzi al significato di tale progressiva “razionalizzazione”. Come considerarla infatti del tutto “positiva” se, romanticamente, ogni allontanamento dall’originario viene vissuto come una “perdita”? Le “premesse” di Schelling, certo a modo loro, avevano posto e “risolto” la questione con una nuova accezione della dialettica. L’inconciliabilità di fondo fra la presenza originaria del divino all’origine del tempo, con tutto lo splendore che essa - agli oc­ chi dei romantici - dovette effondere sulla vita della lingua primordiale, e lo sviluppo del linguaggio nella storia alla volta di una sempre maggiore perfezione e chiarezza, ma a prezzo dell’abbandono di quella luce iniziale, tale inconciliabilità teorica di fondo accompa­ gna invece sia il saggio di Grimm sia le posizioni ro­ mantiche in generale. L’intuizione più genuina del movimento romantico tedesco, quella secondo cui la natura è il terreno organico dal quale la storia, dei

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singoli e dei popoli, del pari organicamente, si svi­ luppa, tale intuizione, che era stata di Gòrres, di Creuzer, e che sarebbe divenuta di lì a poco anche di Bachofen, si manifesta anche nelle pagine più intense del saggio di Grimm. Nell’analisi che Grimm compie della differenza intercorrente fra vocali e consonanti ricompare inoltre anche la simbolica sessuale della du­ plicità maschile-femminile, un altro dei motivi tradi­ zionalmente romantici. Grimm prende le distanze sia dall’ipotesi di un lin­ guaggio creato assieme all’uomo, sia da quella di un linguaggio rivelato direttamente all’uomo dalla divinità stessa. C’è una base fisico-fisiologica in comune con Fanimale, e la necessità che il linguaggio debba es­ sere sempre di nuovo appreso induce Grimm ad allon­ tanarsi da ogni altra soluzione che non fosse quella già evidenziata da Herder; Grimm la riafferma con la sapienza e la dovizia dello studioso di linguistica comparata e di etimologia. La natura è il linguaggio attraverso cui Dio si manifesta, per Grimm, ed è ap­ punto compito dello studioso raccogliere, nella lingua come creazione naturale dell’uomo, le tracce di tale divina manifestazione, mai conchiusa. Pensiero e lin­ guaggio, per Grimm, sono uniti in maniera strettissima e sono entrambi “doni” della divinità nel senso della libera possibilità di esercitarli all’interno di una strut­ tura a sua volta “libera” quanto ai contenuti, che non sono mai precostituiti in senso riduttivo. Lingua e

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pensiero tramandano assieme al genere umano le mol­ teplici conquiste che l’uomo stesso compie, e vanno così a costituire la sfera della storia. Grimm distingue tre periodi nella “storia” delle lingue, i quali scandi­ scono il passaggio dalla massima sensibilità con mi­ nima spiritualizzazione, alla massima spiritualità con minima sensibilizzazione. La terza fase, quella che se­ condo Grimm è la più recente e è destinata a com­ piersi in un futuro ancora lontano, è la fase della lin­ gua come funzione esplicativa, rivolta al massimo ri­ sultato con il minimo sforzo. E uno spirito della lin­ gua quello che, per Grimm, dispone - internamente tale sviluppo. Con un parallelismo che, nella storia spirituale tedesca, accosta la questione della “morte dell’arte” in Hegel a queste tematiche, assistiamo in Grimm al problematico e significativo passaggio dal secondo periodo della “storia” del linguaggio, quello in cui la lingua, equilibrata e pacificata, raggiunge bellezza e capacità di erigere i primi immortali docu­ menti del genere umano, al terzo, quello in cui la lingua deve” seguire il processo che la conduce all’astrazione. Misterioso è, e forse doveva anche per Grimm in fin dei conti restare, il piano sul quale lo spirito del linguaggio trova tanto l’origine delle pro­ prie leggi, quanto anche il proprio legame con la sen­ sibilità, quella capacità cioè di emettere suoni che, in­ nata ed identica fin dall’uomo primigenio, assiste come muta allo sviluppo della lingua e del pensiero.

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Grimm non era rivolto M9 origine del linguaggio ma alla ricostruzione delle più importanti tappe nello sviluppo delle lingue. Sarebbe forse ingiusto preten­ dere altrimenti da chi ha lasciato dietro di sé quei­ rimmensa testimonianza di amore - appunto per lo svilupparsi di una lingua - che è il Dizionario, e che, nella Grammatica tedesca, non ha inteso fornire un ulteriore esempio di grammatica normativa, ma indi­ care nello studio di tale disciplina una direzione di volta in volta storica, filosofica, o critica. E per que­ sto che non ci sentiamo di seguire coloro che leggono il saggio di Grimm soprattutto come un contributo da “emendare” dalle sue avventale etimologie o da altre presupposizioni rivelatesi poi errate alla linguistica successiva. Si tratta invece di riconoscerne l’intima dedizione ad un’idea, quella romantica, che interpre­ tava natura e storia alla luce di un principio univer­ sale di sviluppo, e che all’ermeneutica di tale princi­ pio ha donato le sue migliori opere. La disputa ro­ mantica sull’origine del linguaggio, quella intercorsa fra Schelling e Grimm, non conosce dunque vincitori o vinti, ma gradi diversi di avvicinamento e di collo­ quio con quel principio di cui si diceva, nel presuppo­ sto di un periglioso cammino comune. Giampiero Moretti

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Note Questo volume, qui presentato in una edizione completamente rinno­ vata ed aggiornata, aveva avuto una prima edizione nel 1991, a Ferrara. 1 Tra le edizioni della Abhandlung iiber den Ursprung der Sprache di J.G. Herder segnaliamo quella curata da W. Pross nel voi. II dei Werke in Einzelbdnden dello stesso Herder, Munchen, Hanser, 1987; una prima tr. it. è a cura di G. Necco, Herder, Saggio sull'origine del linguaggio, Palermo, SES, 1954; più recentemente quella curata da A.P. Amicone, Parma. Pratiche, 1995. In generale, si cfr. il testo di L. Formigari. La logica del pensiero vivente, Roma-Bari, Laterza. 1977. Ave­ vamo dedicato in precedenza alcune pagine al pensiero di Herder in rap­ porto all’universo romantico in Heidelberg romantica. Studio sui rap­ porti arte-natura e poesia-mito-storia nel Preromanticismo e in J. Górres, F. Creuzer, J. e VV. Grintnt, J.J. Bachofen, Napoli, Guida, 20023. Sempre su Herder, cfr. il volume collettaneo curato da G. Sauder, Jo­ hann G. Herder 1744-1803, Hamburg, Mciner, 1987, e, in generale, lo studio di J. Hennemann Barale, Luoghi dell’originario, Pisa. ETS. 1998. 2 Schelling aveva letto le proprie osservazioni sull'origine del lin­ guaggio nel novembre del 1850. Si cfr. su ciò l’apparato di riferimenti nelle note curate da T. Weddigcn. 3 Si cfr. a tal proposito le acute pagine introduttive di J. Simon a J.G. Hamann, Schriften zur Sprache, Frankfurt. Suhrkamp, 1967, pp. 980. 4 Per l’importanza di Lucrezio in Herder e nella cultura tedesca del periodo, cfr. il saggio di H.B. Nisbct, Herder und Lukrez, in J.G. Her­ der 1744-1803, cit., pp. 77-87. 5 Resta qui forzatamente assente l’analisi della problematica del lin­ guaggio in W. von Humboldt, che definiremmo solo indicativamente come situantesi in una posizione non del tutto riconducibile a quella maturata lungo la linea Hcrdcr-Grimm. Si confrontino le posizioni teori­ che di D. Di Cesare nel volume da lei curato: W. von Humboldt, La diversità delle lingue, Roma-Bari. Laterza, 19932, pp. XI-XCVI, e di A. Carrara, Introduzione alla scelta di scritti di W. von Humboldt, Scritti sul linguaggio, Napoli, Guida, 1989.

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6 Cfr. J. Simon, cit., p. 44; « secondo Hamann, al contrario, non c soltanto l’uomo ad essere fin dall’inizio dotato di linguaggio, ma il mondo come “palcoscenico” di azioni ed invenzioni umane. La conce­ zione di una linguisticità esclusivamente umana conduce all’isolamento dell’uomo dal mondo e ad una riduzione della conoscenza ai modelli rappresentativi di una lingua "inventata” ». 7 Possono anche vedersi le pagine di S.-A. Joergensen poste come Nachwort all’edizione di J.G. Hamann, Sokratische Denkwiirdigkeiten, Aesthetica in nuce, Stuttgart, Reclam, 1979. nonché R. Unger, Hamanns Sprachtheorie im Zusammenhange seines Denkens, Miinchen, Beck, 1905. 8 Abbiamo trattato tale tema, con particolare riferimento al rapporto Schelling-Bachofen, in // “Signore delle Potenze”. Compimento e crisi del romanticismo tedesco nell'ultimo Schelling e in Bachofen, in « Rivi­ sta di Estetica », 34/35, 1990, numero monografico su “Romanticismo e Filosofia”, pp. 119-143, cui rimandiamo per quanto riguarda le linee ge­ nerali dell’interpretazione qui esposta, valide sia per Bachofen sia per Grimm in quanto entrambi appartenenti, sotto questo aspetto, al mede­ simo filone romantico. Si cfr. ancora il nostro Der Goti in krealiirlicher Gestalt. Schelling, W.F. Otto e il sentiero del mito, in AA.VV., Dalla materia alla coscienza, a cura di C. Tatasciore, Milano, Guerini e Ass., 2000, pp. 219-38. ’ F.W.J. Schelling, Philosophie der Mythologie (1842), in Ausgewàhlte Schrifien, Frankfurt, Suhrkamp, 1985, Bd. VI, pp. 138-139; Schel­ ling, II monoteismo, tr. it. a cura di L. Lotito, Milano, Mursia, 2002.

Friedrich Wilhelm Joseph Schelling

PREMESSE RIGUARDO AL QUESITO SULL’ORIGINE DEL LINGUAGGIO Lette alla seduta di Classe all*Accademia delle Scienze di Berlino il 25 novembre 1850

Le note inserite nel testo, e numerate, sono del traduttore.

Intendo esporre qui alcune premesse riguardo all’in­ dagine circa l’origine del linguaggio. Dico premesse, perché un’analisi che volesse interessarsi veramente di tale questione, e anche solamente avvicinarsi ad una soluzione, troverebbe difficilmente spazio all’interno dei limiti ristretti d’una relazione accademica. Potrà stupirci che, proprio quando le ricerche di linguistica comparata si sono ammirevolmente ampliate, otte­ nendo, o facendoci almeno sperare di ottenere, splen­ didi risultati, la filosofia sembra essersi distanziata da questo problema di natura generale. Il quesito è stato discusso dall’epoca di Platone fino alla tarda età ro­ mana (ne troviamo testimonianze in Sesto Empirico, Aulo Gellio ed altri), e, in tempi recenti, dopo esser stato già l’oggetto di competizioni tra Inglesi, Francesi e Tedeschi, è stato persino scelto come tema per un Concorso a premi, bandito ottantanni or sono dai no­ stri predecessori di quest’Accademia. Voglio illustrare brevemente quale fu poi l’esito di quel Concorso. Com’è noto, venne premiata l’opera di Herder1. Quando

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essa venne pubblicata, una mente non malevola, anzi affine all’autore, si dichiarò insoddisfatta di quella ri­ sposta al quesito: Johann Georg Hamann si è infatti pronunciato almeno tre volte su quell’opera di Her­ der2. Egli scrisse prima una recensione inserita nelle Kònigsbergische gelehrte und politische Zeitungen3, e poco dopo, nelle Zeitungen, una finta critica4 a quella stessa recensione. Entrambi gli articoli, del 1772, sono raccolti nel quarto volume della Miinchner Gesamtausgabe, ove è però stato commesso un grave errore nella redazione del primo articolo. Herder è a favore di un’origine puramente umana del linguaggio, e dice: « un’origine divina del linguaggio non ha nessun ap­ poggio, neanche la testimonianza della Scrittura dell’Oriente »5 (per tale Scrittura s’intende, come dimo­ stra quanto segue, la Bibbia, e non precisamente la Genesi6, come se fosse stato inopportuno nominare la Bibbia davanti all’Accademia Berlinese d’allora). La « Sacra Scrittura », prosegue Herder, « conferisce al linguaggio un’origine chiaramente umana, giacché è l’uomo ad assegnare il nome agli animali »7. A ciò (alle parole: imposizione del nome agli animali), Ha­ mann aveva aggiunto, in un esemplare dell’articolo che ho potuto consultare, una nota in fondo al testo: « il primo aprile S. Syncellus apud Fabricium in Cod. Pseudoepigr. V.T.T.I., p. 13 »8. L’edizione monacense del primo articolo è tratta molto probabilmente da quell’esemplare; ma la nota (senza citazione) è stata

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erroneamente ricompresa nel testo, come se il primo aprile fosse la data in cui anche nella Scrittura furono imposti i nomi agli animali, o come se la nota l’a­ vesse aggiunta Herder stesso, che di solito non era molto incline all’autoironia. Una raccolta delle prime stesure dei saggi hamanniani, che spesso contengono a margine delle note manoscritte dell’autore, si trova ora nella nostra Bi­ blioteca Reale, dov’è giunta assieme alla collezione di libri di Jacobi. Forse vi potremmo trovare altro mate­ riale suscettibile di rivelarci ulteriori lacune ed errori nell’edizione monacense. Un terzo articolo riguardante il trattato herderiano, intitolato Philologische Einfàlle und Zweifel iiber eine akademische Preisschrift9, era rimasto inedito su ri­ chiesta di Herder, ed è venuto alla luce per la prima volta nell’edizione monacense. In questo saggio, Hamann asserisce tra l’altro (e non è il passo più au­ dace): « per correre dietro alla meta prefissa, rima­ nendo nei limiti accademici, per rintracciare quel te­ soro, per vincere quel premio annunciato, non doveva forse il mio amico Herder » (poco oltre lo chiama persino il più dignitoso dei miei amici) « correre alla cieca, e lottare come colui che picchia a vuoto? Come un astuto schiavo di denaro non meritato10, egli non ha saputo fare altro che fondare il suo trattato su rivelazioni e tradizioni del suo tempo, ed edificare le sue prove su sabbia, lavoro incompiuto, legno, fieno e

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stoppie - ma naturalmente tutto secondo la più nuova architettura del suo secolo » (Werke, voi. IV, p. 66)H. Ma Hamann si era espresso12 in modo ben più vio­ lento riguardo ad un secondo trattato sull’origine del linguaggio, pubblicato proprio contemporaneamente al primo, e comunque motivato dal Concorso a premi berlinese (sarà forse stato persino ammesso al Con­ corso, questo trattato?). L’autore, l’uomo divenuto in seguito più noto per le sue opere sulla storia della fi­ losofia che per il proprio filosofare, aveva intitolato quel suo saggio Versuch einer Erklàrung des Ursprungs der Sprache'3\ ma costui si era invece accon­ tentato di spiegare le strutture del discorso parlato. Egli non era quindi neanche giunto alla questione vera e propria. Come dice Hamann, l’origine del lin­ guaggio umano e l’invenzione dei partitati orationis sono tanto fondamentalmente diverse tra di loro, come lo sono la ragione, la logica e Barbara CelarentÌA. « Affidiamo », prosegue la recensione di Ha­ mann, « al lettore che è un po’ più d’un liceale, e però neanche un giornalista corrotto, il compito di ca­ pire da sé quant’è insulsa e scialba la filosofia di quell’autore. Quanto sono noiosi e guerci quei suoi esempi, senza spirito né qualità, e quella sua dotta supellex - quam curtal15 A prescindere dal fatto che l’autore sia stato in grado di considerare il linguaggio unicamente dal punto di vista grammaticale, egli sem-

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bra infine non essere padrone neanche della propria madrelingua » (ibid., p. 5)16. Tali parole poco gradevoli furono dunque il primo risultato del quesito berlinese e delle soluzioni propo­ ste. Che i nostri tempi siano più cauti riguardo al pro­ blema deirorigine del linguaggio, o almeno, che non ne abbiano ancora colto la vera profondità, lo pos­ siamo forse interpretare come l’effetto di ciò che rite­ niamo la conseguenza più felice della filosofia attuale, e cioè che oggi i grandi temi non possono più essere trattati, come prima, capitolo per capitolo, e isolati dal contesto generale; la filosofia deve in tal modo o ri­ nunciare a se stessa, o sforzarsi di diventare in effetti quel capolavoro di tessitura di cui parlava Goethe, dove ogni tratto stabilisce mille rapporti17. Come pos­ siamo osservare nei primi, seri tentativi di risposta, il problema è in realtà, in tutti i suoi lati, così strettamente connesso con le più profonde domande di ogni speculazione, che chiunque vi sia interessato abbando­ nerà ben presto il suo intento se non sarà sicuro di aver già dato in precedenza una risposta soddisfacente a quei massimi enigmi. A prescindere da ciò, si potrebbe tentare (ireipaoTiKCÒq) per il momento di esporre accuratamente le possibilità immediate riguardanti l’origine del linguag­ gio, alcune delle quali sono completamente inventate, altre invece negate, nel loro correggersi, limitarsi o ampliarsi reciproco; ci avvieremmo in tal modo verso

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ciò che c’è di vero e di reale in tale problema. Le possibilità immediate non sono difficili da individuare, poiché sono naturalmente già state provate tutte. Gli Antichi conoscevano una sola alternativa, e cioè la domanda: (puoet p Oéaet tù òvópaTCt (sono i nomi dati per natura oppure per convenzione?). Hamann re­ spinge tale possibilità nella seconda recensione al sag­ gio herderiano, dicendo: « secondo tutte le indagini che ho potuto fare a proposito di questa domanda, partono da questo bivio tutt’al più tre vie possibili, e cioè quella dell’istinto, quella dell’invenzione e quella dell’insegnamento »18. Ma ognuna di queste tre possi­ bilità comprende in sé altre possibilità secondarie. Ha­ mann pronuncia, considerando per esempio un inse­ gnamento originario del linguaggio, le seguenti parole, che devono essere interpretate ovviamente con cautela, o cum grano salis, poiché si trovano nel secondo arti­ colo, che finge di essere una critica alla prima recen­ sione, e che venne probabilmente scritto per rabbonire Herder. Dunque, riguardo all’ipotesi d’un insegna­ mento originario del linguaggio, egli dice: « un inse­ gnamento in senso umano è impossibile per princi­ pio » (poiché ogni insegnamento presuppone già un linguaggio; lo stesso vale per l’ipotesi di un linguag­ gio comune formatosi per convenzione, determinazione (0éc£t) o patto). « L’insegnamento di tipo mistico è ambiguo, afilosofico e antiestetico » (qui la parodia di espressioni herderiane diventa quasi palpabile). « Non

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rimane altra possibilità che l’insegnamento ani­ male »19. Se volessimo intendere quest’ultima afferma­ zione alla lettera, che cioè il linguaggio umano sia sorto dall’imitazione ed umanizzazione graduale di versi animali, essa si contrapporrebbe al genio di Hamann al punto che dovremmo supporvi un altro signi­ ficato, nascosto dietro le parole. L’Eremita di Konigsberg, o, come si faceva volentieri chiamare, il Mago del Nord, avrà forse solo voluto lusingare il suo amico, adattarsi il più possibile al suo modo di pen­ sare; nel suo quarto saggio, anch’esso motivato dal quesito berlinese, intitolato Des Ritters von Rosenkreuz letzte Willensmeinung iiber den gottlichen und menschlichen Ursprung der Sprache20, del 1772, pub­ blicato quindi immediatamente dopo le sue recensioni dei trattati di Tiedemann e di Herder, Hamann sembra volersi giustificare per alcune affermazioni della sua finta critica alla propria recensione, optando per un’al­ tra soluzione ancora: in alia omnia. Egli sembra voler sostenere, nel suo solito modo involuto e diametral­ mente opposto alla discussione razionale, un’origine del linguaggio sia divina sia umana. Per non accontentarmi di queste premesse mera­ mente bibliografiche dovrei discettare nel suddetto modo le uniche tre ipotesi incontestabili proponibili anche oggi, secondo i punti di vista finora invalsi, e usarle come mezzi per un’ascesa graduale di tipo pla­ tonico verso la vera teoria. Devo però ammettere qui

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che, per vari motivi, mi è stato assolutamente impossi­ bile intraprendere in questo momento un lavoro di tal genere: nel prendere però lo spunto dalle osservazioni citate, era inevitabile che nascesse il vivo desiderio di aumentare, in qualche modo e da un qualche punto di vista, il valore di tali premesse. Mi ricordai così pro­ prio a proposito che questi nostri incontri ammettono non solamente relazioni con osservazioni dei membri della Società, ma anche la comunicazione di produ­ zioni altrui, se finora ignote, soprattutto se si tratta d’un inedito di un secolo passato o di un nome fa­ moso, come lo è per esempio quello di Leibniz. Il te­ sto che voglio leggervi non è proprio di questo genere; anche se purtroppo non è cosa notevole, può almeno valere oggigiorno come una rarità o un curiosimi. Il testo non appartiene a tempi recenti, che con così grande facilità hanno pensato di poter eliminare non soltanto i segni esteriori della classe dotta, come ave­ vano già fatto generazioni precedenti, ma anche il suo merito essenziale, e cioè la conoscenza delle lingue classiche. Al contrario, il seguente testo appartiene piuttosto ai tempi in cui c’erano ancora uomini che non disdegnavano di esercitarsi nella poesia latina. Si tratta infatti di una poesia latina, e proprio sull’origine del linguaggio. Tale poema ha certamente un pregio, in quanto prende in prestito alcune espressioni e frasi da una poesia didattica e filosofica dell’età romana, dal poema lucreziano, che tra l’altro concerne anche il

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problema dell’origine del linguaggio21. Non leggendo una produzione mia propria, spero di ricavare un van­ taggio, poiché, mentre coloro che non si accontentane del contenuto troveranno forse un piacere nell’espres­ sione linguistica, gli altri, che non s’interessano di quest’ultima, potranno almeno scorgere qualche rap­ porto col quesito. Devo parlare di espressione lingui­ stica, perché si tratterebbe di espressione poetica sola­ mente se il poema giungesse a tesi positive e risol­ vesse il nostro problema, invece di accontentarsi di elencare le opinioni possibili. Ma voglio ricordare in­ fine un pregio del poema: la sua brevità. Dopo un do­ vuto Favete linguis, e con la lettura del piccolo aned­ doto, voglio concludere la mia lezione di oggi. De humani sermonis origine diversae opiniones:22

Quis varias labris vocum ef f ormare figuras Mortaleis docuit, suavem quis ab ore loquelam Fundere, quis rapidis animos percellere dictis? Cetera cuncta Deus muta esse animantia jussit, Addita soli homini verborum daedala lingua, Naturae munus, sed munere quis docet uti? Najnque nec infantes primo sub tempore vitae Utuntur lingua, pendent sed ab ore parentum Auriculis avidis, ut discant verba profari, Et claras lingua formata emittere voces. At homini primum facto et majoribus orbo

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Nemo erat, alloquio blando verbisque benignis J3 Qui darei exemplum. Sunt, qui venerabile Numen Aetemumque patrem matris mortalis ad instar Os homini formasse putent et verba praeisse, Disceret ut vocis linguaeque volubilis usum. Sed quoniam nemo est hominum, qui talia fari Non modo, sed mente atque animo comprendere possit, Sunt, qui nullius impulsu nulloque magistro Verba reperta homini dicant, sed sicuti capta Mature et caris erepta parentibus ultro Discit avis patrii modulamina suavia cantus, Aut veluti modo nata et luminis edita in auras Sponte sua doctas pertexit aranea telas: Sic neque consilio ductos, autore nec ullo Primigenos homines hominum necque sanguine cretos 3+_lnstinctu solo naturae atque ingenita vi Perpulsos laetae commercia inisse loquelae. In partes abeunt alias, neque Numine divo Nec natura ipsa qui dicunt esse magistra Usum hominem, verbis cum disceret addere verba, 12 Naufragio at veluti projectum ad littora vitae Nudum hominem multo studio longoque labore Tentandoque vias dcmum invenisse loquendi, Atque rudes primum voces nilque artis habentes Audituque truces et nulla lege coactas Paullatim inflexas mitescere, sumere formam, Leneque ferre jugum docuisse et vincula amare, Continuo sermone ut deinde expromere posset

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Sensa animi et nil non aptis proponere verbis. Quarum quae sit vera et possit opinio stare, Docti disceptant et adhuc sine judice lis est.

In una stesura precedente della poesia, scritta dall’oratore stesso nel 1825 o 1826, v’è aggiunta al titolo la seguente nota: «secondo un tema dato [ai suoi figli) da tradurre in latino» (nota di K.F.A. Schel­ ling).

Note al testo di Schelling

1 Abhandlung iiber den Ursprung der Sprache, 1772, in Herders Sdmtliche Werke, voi. V, a cura di B. Suphan. Berlin, Weidmann, 1891, pp. 1-154. 2 In queste sue recensioni e critiche, che si chiamano azioni d'au­ tore per il loro impatto politico e personale c che esprimono un impli­ cito gioco di mascheramento e smascheramento nell'ironia ed autoironia costantemente usata, Hamann non critica solamente lo scritto del suo amico ed allievo Herder, ma anche le idee dell'illuminismo francese che vi si affacciavano e che esprimevano lo spirito del tempo; la sua concezione del linguaggio è abbozzata in questi articoli c si delinca nei termini di un dono di Dio che però fa parte della libertà dell’essere umano, in quanto il linguaggio dev'essere appreso. Ricapitolando, i saggi hamanniani sull'origine del linguaggio sono: la recensione del te­ sto di Tiedemann, la recensione del testo di Herder, la critica a quest'ul­ tima recensione, l’articolo intitolato Des Ritters von Rosenkreuz... e quello intitolato Philologische Einfdlle... In un sesto scritto Hamann at­ tacca il re Ludwig II, libero pensatore francofilo e presidente dell’Acca­ demia delle Scienze: si tratta della lettera intitolata Au Salomon de Prusse, che rientra nelle critiche hamanniane all’opera premiata di Her­ der. Su ciò, sulla concezione del linguaggio in Hamann, sui problemi filologici ed interpretativi delle recensioni c del loro contenuto ironico, sul rapporto generale tra Herder e Hamann e sulle reazioni di Goethe e Hegel rispetto alle recensioni, si vedano le spiegazioni vaste ed elabo­ rate di E. Biichsel in: J.G. Hamanns Hauptschriften erklart, voi. IV, a cura di F. Blankc e K. Griinder, Giitersloh, Gcrd Mohn, 1963. Si vedano

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anche: R. Unger, Hamanns Sprachtheorie im Zusammenhange seines Denkens. Miinchen, Beck. 1905. e Stcinthal, cit. in bibl., pp. 39-58 (pp. 81-89 per Schelling e pp. 10-39 per Herder). 3 In Sàmtliche Werke, voi. Ili, a cura di J. Nadler, Herder, Wien, 1951. pp. 17-19. 4 Hamann, op. cit., pp. 20-24. 5 Herder, op. cit., p. 146: Hamann, op. cit., p. 18. 6 E. Biichsel (op. cit., p. 138, n. 18): I Mosè 2, 19. 7 Hamann, op. cit., p. 18. ’ La nota completa è, « xp Kptóxp xoù ’AnptlXiou ppvó sono aggiunte che Grimm fece nell’edizione del 1864. Le aggiunte del traduttore alle note di Grimm sono fra 1 j. Le note inserite nel testo, e numerate, sono del traduttore.

Il grande filosofo che abbiamo fra noi, il Signor von Schelling, ha recentemente riproposto per ben due volte alla Sezione degli studi storico-filosofici il quesito circa l’origine del linguaggio, che era stato il tema di un concorso a premi bandito in questa sede ottantanni or sono1. Dopo aver però subito ritirato questo suo suggerimento, il Signor von Schelling ci ha fornito in una sua apposita lezione qualche chiari­ mento circa il disappunto che Hamann aveva mostrato riguardo alla risposta di Herder, allora premiata dall’Accademia , e ci ha inoltre presentato alcuni passi di una poesia latina di autore ancora ignoto sull’ori­ gine del linguaggio2 senza però purtroppo voler rive­ lare né accennare in alcun modo il proprio punto di vista sull’argomento del concorso; se quel quesito fosse stato mantenuto e sviluppato più dettagliataGoethc possedeva il testo: 26. 108 [Goethe. Vollstandige Ausgabe leizter Hand in 60 Biinden, Stuttgart, Cotta. 1827 e sgg.; cfr. J. G. v. Herder, Sdmtliche Werke, a cura di B. Suphan, Berlin, Weidmann, 1877-1899, voi. V, pp. XII e sgg.).

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mente, ne avremmo certamente potuto trarre parecchio in proposito, poiché ci sembra impossibile che un si­ mile progetto venga illustrato senza che vi si palesi in modo decisivo l’opinione del proponente, specialmente se si tratta di una personalità di tale rilievo. Indubbio rimane solamente che il Signor von Schelling, met­ tendo la soluzione herderiana nuovamente in discus­ sione, la ritenga, almeno per i nostri tempi, del tutto insufficiente3. Ma per quanto si possa essere favorevoli o contrari ai risultati ottenuti ed ottenibili nel 1770, non si può contestare che da allora la situazione della linguistica sia in gran parte o addirittura totalmente mutata, e che oggi, a qualunque oggetto di studio storico o filoso­ fico, e in modo certamente proficuo, vengano dedicati accuratezza e approfondimento maggiori, e che sia perciò auspicabile anche solo il tentativo di adoperare le conoscenze attuali della linguistica per giungere ad una rinnovata risposta al quesito originario. Tutti gli studi di linguistica si trovano al giorno d’oggi in una situazione ben più vantaggiosa che allora, e si può anzi dire che essi, sviluppandosi quanto ai loro mezzi, soltanto nel nostro secolo siano prosperati fino a di­ ventare una vera e propria scienza. Il modo in cui le lingue classiche sono state studiate finora, e in cui vengono in verità tuttora studiate (conformemente ad altri fini della filologia che ritengo certamente impor­ tanti), non ha mai prodotto, se non per mero caso,

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chiarimenti di tipo generale e decisivo sulla correla­ zione delle lingue. Ci si sforzava, invece, di penetrare l’essenza del latino o del greco quel tanto che fosse necessario per afferrare lo spirito di testimonianze lin­ guistiche, preziose e degne di ammirazione eterna, create e tramandate da quelle lingue antiche; e impa­ dronirsi di questo spirito richiede uno sforzo rispetta­ bile. Ma di fronte ad un tale fine le espressioni e le forme esteriori della lingua, per quanto grandiose, ri­ manevano subordinate; la filologia classica riteneva, per così dire, irrilevante tutto ciò che andava oltre l’arte retorica, la tecnica del poeta e il contenuto delle opere, e degnava invece di attenzione quasi solamente quelle osservazioni più dettagliate che potessero in qualche modo procurare delle regole più solide alla critica testuale4. 11 tessuto interiore della lingua atti­ rava per se stesso ben poco l’interesse, e veniva quasi presupposto nella sua bellezza e ricchezza, ragion per cui si trascurava di esaminare anche i fenomeni più notevoli e concettualmente evidenti5. Pressappoco come il poeta che, adoperando abilmente la lingua che egli domina, non abbisogna quasi di conoscenze della struttura interna e ancor meno delle trasforma­ zioni storiche della sua lingua, e cerca solamente di tanto in tanto una parola rara alla quale ha da asse­ gnare un posto opportuno; del pari anche lo studioso di grammatica rintracciava solo eccezionalmente le ra­ dici di una qualunque figura verbale che fosse ai suoi

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occhi insolita, per esercitarvi la sua arte. In questo modo si spiega anche perché, in tutti questi secoli, l’attento e continuo studio del latino e del greco abbia fatto, nella morfologia, sia presso le scuole sia sui ta­ volini dei filologi, solo minimi progressi, e perché esso abbia portato frutti pressoché esclusivamente nel campo della sintassi, che è già quasi fuori l’ambito della grammatica6. Poiché si concepiva erroneamente la lingua latina come figlia servile del greco, si fu in­ capaci di compiere ciò a cui queste due lingue classi­ che dovevano invece incitare con forza, cioè mettere le loro rispettive forme in uno stretto e reciproco rap­ porto, e spiegare così vicendevolmente l’una per mezzo dell’altra. Per di più si era ancor meno pronti a prestare aiuto alla nostra madrelingua, ingiustamente condannata ovunque nelle scuole alla servitù d'un ma­ novale, e men che meno a concederle il terzo posto tra le lingue, benché sia possibile scoprire nei rapporti reciproci di tre lingue imparentate la loro legge eter­ namente vigente, come lo è costruire una figura geo­ metrica partendo da tre punti dati. Si è accostata spesso, e non senza ragione, la lin­ guistica alla storia naturale7; esse si assomigliano per­ fino nel modo in cui vengono coltivate. Salta infatti agli occhi che proprio come i filologi esaminavano i monumenti linguistici dell’età classica nell’intento di ricavarne regole critiche per l’emendazione di testi danneggiati e rovinati, anche i botanici indirizzavano

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originariamente la loro scienza alla scoperta di poteri salubri nelle singole erbe, e parimenti gli anatomisti sezionavano i corpi per svelarne esattamente le strut­ ture interne, una conoscenza sulla quale si potesse poi fondare il ristabilimento della salute compromessa. Os­ serviamo quindi che quelle materie interessavano sol­ tanto in quanto mezzi, e non per se stesse. Cionono­ stante, il punto di vista e il metodo della ricerca scien­ tifica col tempo mutarono e si prepararono gradual­ mente ad un cambiamento considerevole. Poiché risulta naturale e confermato da ogni esperienza che le cose nuove ed estranee colpiscono maggiormente l’animo umano, e che esse lo incitano a più intensa osserva­ zione rispetto a ciò che è nativo e quotidiano, è certo lecito affermare che grazie ai viaggi all’estero, nonché all’afflusso di piante esotiche nei nostri giardini e al trasferimento in Europa di molteplici specie animali provenienti da continenti lontani, le scienze abbiano cambiato aspetto; esse si distanziarono in certo qual modo dagli scopi pratici e si dedicarono così ad un’a­ nalisi più spregiudicata e quindi più prettamente scien­ tifica dei loro oggetti. Questo è infatti il vero segno della scienza: che essa getti le sue reti alla ricerca di risultati di ogni tipo, e che catturi, isoli e sottoponga al più tenace e severo esame ogni percettibile proprietà dei suoi oggetti, qualunque cosa ne risulti poi in ul­ tima analisi8. Mi sembra che la linguistica debba aver infine subito una rivoluzione analoga ed altrettanto ra-

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dicale quanto l’analisi delle piante e degli animali, che si è liberata della sua prospettiva ristretta e si è ele­ vata fino a divenire botanica ed anatomia comparata. Il Dizionario di Pietroburgo, commissionato dall’impe­ ratrice Caterina II negli anni 1787-90, ha indubbia­ mente avviato e incoraggiato in modo efficace la lin­ guistica comparata, malgrado fosse basato su fondamenta ancora assai insufficienti9. Il dominio britannico ha tuttavia avuto un influsso molto maggiore sulla lin­ guistica comparata: esteso su tutti i continenti, ma consolidatosi soprattutto in India, esso ha suscitato l’interesse per una delle lingue più pure e degne del mondo intero. In questo modo venne iniziata, consoli­ data e diffusa la conoscenza esatta di una lingua che ci era rimasta quasi del tutto ignota fino a quei tempi. Ci si sentì spinti a conoscere il sanscrito10 per il solo amore della sua perfezione e del suo grandioso si­ stema, anche se esso apriva già la via verso uno dei più ricchi ed antichi poemi mai esistiti. Una volta rotto il ghiaccio e trovato nel sanscrito una specie di magnete che potesse orientare i navigatori nell’oceano linguistico, sulla lunghissima serie di lingue direttamente connesse o apparentate col sanscrito è caduta una luce talmente luminosa ed insospettata da configu­ rare l’inizio della vera storia di tutte quelle lingue; una simile luce non era mai apparsa all’occhio di uno stu­ dioso delle lingue, e portò con sé risultati sorprendenti e profondamente incisivi. Analogamente al botanico,

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che deve riconoscere nei gambi e nei nodelli delle piante della propria terra le medesime miracolose atti­ vità vegetative scoperte in precedenza nelle piante eso­ tiche, all’epoca della scoperta del sanscrito si diede inizio alla considerazione storica della nostra madrelin­ gua tedesca e delle sue leggi, rimaste fino ad allora inesplicabilmente ignorate. Fu allora inevitabile che lo sguardo cadesse con maggior intensità, dal nostro punto di vista più particolare ed immediato, anche sulle lingue slave, lituane e celtiche, che sono vicine alla nostra, cosicché tutte hanno gradualmente già otte­ nuto, o riceveranno indubbiamente nel prossimo futuro, la stessa importanza e considerazione storica. In tal modo è stata rintracciata, se non del tutto, almeno la maggior parte degli anelli di una lunga, quasi stermi­ nata catena linguistica che nelle sue radici e flessioni giunge dall’Asia fino a noi. Questa grandiosa lingua, che oggi copre quasi tutta l’Europa e che, espanden­ dosi inarrestabilmente, coprirà un giorno l’intero globo terrestre, può essere chiamata già ora la lingua più po­ tente del mondo. Per l’infinita graduazione della sua struttura interna, che si lascia indagare con chiarezza, questa lingua indogermanica11 è adatta più di ogni al­ tra lingua ad offrirci chiarimenti abbondanti e fertili circa il corso e lo sviluppo universale delle lingue, e forse persino sull’origine del linguaggio umano. Vorrei presentare la possibilità stessa di questa in­ dagine sull’origine del linguaggio come un problema a

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sé stante, la cui soluzione potrà invece esser messa ancora in dubbio da molti. Gli scettici diranno che, se potessimo risolvere tale problema, le nostre lingue e la nostra storia risalirebbero allora a ben prima di quanto in realtà non facciano. Difatti non solo è cre­ dibile, ma già fin da principio indubitabile, che i più antichi monumenti linguistici del sanscrito o dello zendo12, dell’ebraico o di qualsiasi altra lingua che si voglia ritenere la più remota, distano molto tempo, anzi svariati millenni dalla reale origine del linguag­ gio, o dalla creazione del genere umano in terra. Com’è possibile afferrare l’origine del linguaggio e delle lingue, se essa si trova al di là di un tale abisso tem­ porale? È forse la nostra intera questione del tutto in­ concepibile? Tale dubbio diviene ancora maggiore se conside­ riamo la situazione e l’oggetto delle scienze naturali, che mostrano, come ci siamo accorti prima, alcune analogie con la linguistica. Lo studioso della natura cerca di svelare il mistero della vita, tenta cioè di scoprire le leggi della riproduzione e della sopravvi­ venza nel regno animale e quelle della germinazione e della crescita nel regno vegetale. Ma non ho mai appreso che, oltre ai suddetti fini, un anatomista o un botanico consapevoli del loro compito abbiano voluto dimostrare la creazione in quanto tale di animali e ve­ getali. Al massimo, possono rendersi conto che sin­ gole specie animali o forme vegetali particolari deb-

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bano esser state create, che debbano cioè essere ap­ parse il primo giorno in un determinato luogo affinché potessero raggiungere pienamente il loro scopo. Anche se c’è analogia tra creazione e riproduzione, queste sono comunque sostanzialmente diverse l’una dall’al­ tra, in quanto rappresentano rispettivamente un atto primo ed uno secondo. La riproduzione si rinnova in eterno grazie ad una forza collocata nella creatura, mentre la creazione originaria avvenne in virtù di un potere che regna al di fuori del creato. Così come il colpo dell’acciaio sulla pietra desta dal sonno le scin­ tille, la riproduzione, le cui condizioni e leggi sono già innate nel procreante, chiama alla vita nuovi es­ seri. Ma qui a chi riflette bene appare una svolta nel corso dell’indagine, poiché lo studio della natura e la linguistica si separano in modo essenziale; tutto il prosieguo dell’analisi dipenderà infatti da come conce­ piamo il linguaggio, se come creato o meno. Se am­ mettiamo che il linguaggio sia stato creato, allora la sua prima origine rimarrebbe impenetrabile al nostro sguardo quanto il primo albero o animale creati13. Ma nel caso che il linguaggio non sia stato creato, e che quindi non sia scaturito dall’immediata volontà divina, bensì prodotto e formato dalla stessa libertà umana, allora dovremmo cercare di comprendere il nostro og­ getto d’indagine secondo tale principio, il che ci per­ metterebbe di risalire lungo tutta la storia del linguag­ gio, e persino, partendo dalle più antiche testimo-

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nianze linguistiche, di superare col pensiero quell’in­ colmabile abisso millenario, approdando infine alla riva dell’origine del linguaggio. Il linguista non deve quindi rinunciare al suo intento, ma nelle sue ricerche può anche oltrepassare lo studioso della natura, poiché da un lato egli sottopone alla sua indagine un’opera umana, prodotta non di colpo, ma gradualmente, e con radici tanto nella nostra storia quanto nella nostra libertà, e poiché inoltre le creature della natura non sono libere, né conoscono storia alcuna, e mostrano quindi ancora oggi quasi lo stesso comportamento che avevano nel momento in cui vennero plasmate dalla mano del Creatore. Dicendo ciò, ho però formulato già in anticipo quello che intendo considerare come il possibile ri­ sultato di tutta la mia indagine; tuttavia vorrei ag­ giungere una serie di ragioni, alle quali è inoltre con­ sigliabile premettere ciò che potrebbe essere addotto in favore di un’origine divina del linguaggio. Ma una tale origine è immaginabile in due modi diversi, dato che il linguaggio potrebbe esser stato conferito all’essere umano nell’atto stesso della creazione, OPpure essergli stato rivelato da Dio solo in un momento successivo. Tratterò perciò prima l’ipotesi di un linguaggio creato assieme all’uomo, poi quella di un linguaggio rivelato, per spiegare in seguito con precisione le ragioni per le quali nessuna delle due ipotesi sia ammissibile14.

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A prima vista sembrano non pochi i motivi che spingono a ipotizzare un linguaggio umano creato e connaturato. Se pensiamo alla bellezza, potenza e va­ rietà, presente nelle lingue, e dovunque sulla terra, al­ lora si manifesta qualcosa che è quasi sovrumano e che difficilmente può essere scaturito dall’uomo, ma che sembra piuttosto egli abbia rovinato o intaccato qua e là nella sua perfezione. Non assomigliano forse i diversi generi di lingue alle molteplici specie vege­ tali e animali, e perfino alle razze umane stesse, nella loro mutevole e pressoché infinita varietà di forma? Una lingua non fiorisce forse in condizioni favorevoli come un albero che non incontra ostacoli e che si di­ rama in ogni direzione? E una lingua non s’infiacchi­ sce, non regredisce e non muore, forse, proprio come langue e si dissecca una pianta, per mancanza di luce e di terra? Persino il meraviglioso potere curativo delle lingue, con il quale esse ricoprono e compen­ sano presto i danni subiti, sembra coincidere con la forza benefica della possente natura. Inoltre, linguag­ gio e natura sanno mantenere la loro ricchezza con pochi mezzi: risparmiano senza avarizia e spendono con abbondanza, senza mai sprecare. Ma avviciniamoci all’elemento proprio del linguag­ gio. Quasi tutta la natura è pervasa da suoni15 e voci; com’è possibile che la parola non sia stata conferita nell’atto della creazione anche alla sua più nobile creatura, all’essere umano? Gli animali non si capi-

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scono forse fra loro per mezzo di quelle voci che sono infinitamente diverse dal linguaggio umano? Non echeggia forse sempre nell’aria il molteplice canto degli uccelli? L’immaginazione umana ha attri­ buito agli animali un vero e proprio linguaggio. Una saga16 narra addirittura che nell’età dell’oro tutti gli animali parlassero ancora amichevolmente con gli es­ seri umani, e che da allora si astengono dal parlare, ma che potrebbero farlo in caso di estrema necessità, così come l’asina di Balaam, che, subita un’ingiustizia ed apparso l’angelo del Signore, si era messa a par­ lare ad alta voce. Quest’asina avrebbe parlato come un essere umano, mentre altri animali converserebbero ragionatamente nella loro propria lingua, e cioè in ostrogoto o arabo, come si suol dire, una lingua che potrebbe essere percepita e compresa solamente da co­ lui che avesse mangiato un serpente bianco o il cuore di un drago. E gli uccelli sui rami dissero cantando a Sigurd17 che cosa gli rimanesse da fare dopo che egli ebbe ucciso il drago Fafnir ed intinto la punta delle dita nel sangue che sgorgava dal suo cuore . faiaque vocales praemonuisse boves: Tibullo II, 5, 78.

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La nostra distinzione tra natura morta e natura viva non coincide col fatto che la natura possa essere muta oppure piena di suoni e di voci. Tra gli elementi, solo la terra inerte è muta, poiché il vento sibila e urla, il fuoco sprizza, crepita e scoppietta, il mare mugghia*, e il ruscello mormora, borbotta e gorgoglia come se stesse chiacchierando (garrulus rivus) . Come alla terra, anche alle immobili pietre non è stata data la voce, e neppure alle piante, che, anche se vive, sono legate al suolo e sono incapaci di camminale; e se il fogliame sussurra, è per il vento che lo muove dall’e­ sterno. A tutti gli animali invece è concesso sia il mo­ vimento sia il sentimento, anche se non a tutti la voce, giacché i pesci sono muti, e tra gli insetti si fanno sentire soltanto coloro che nel volo emettono un suono ronzante con le loro minute vie respiratorie, oppure sfregando le loro solide elitre l’una contro l’altra; ma dal loro interno, dalla loro bocca, non fuoriesce voce alcuna. Invece, ogni animale superiore a sangue caldo, sia esso uccello o mammifero, possiede un proprio e specifico verso, per mezzo del quale può manifestare i propri sentimenti di piacere e di dispiacere, così da at­ tirare o mettere in fuga altri animali. Ad alcuni tra di essi, ma non ai quadrupedi, che per il resto sono in(pXoTapoc; [il mugghiare]', SàXaaaa iìxqeoaa [il mare mugghiarne]. Si interpreta come parola persino lo sbatacchio della ruota del mulino: Zeitschrift fiir deutsches Allertimi di M. Haupt 4, 511 [cfr. Kleinere Schrijnen (1864), cit. in bibliogr., voi. VII, pp. 163-165].

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vece i più vicini alla nostra specie, bensì soprattutto agli uccelli, è concesso un canto sonoro, in genere grazioso ed allietante. Se un esprimersi umano rauco, aspro e duro viene paragonato al gracchiare dei corvi, al gracidare delle rane, all’abbaiare dei cani e al ni­ trire dei cavalli, perché allora tutti i versi degli ani­ mali non sono equiparabili al linguaggio umano? Il verso degli animali, benché multiforme quanto le specie stesse, è manifestamente impresso per natura nel singolo animale, che lo emette senza averlo mai imparato. Togliete dal nido un uccellino appena uscito dal guscio, ed allevatelo; anche se non avrà mai vis­ suto con i suoi simili, quest’uccellino sarà padrone di igni verso proprio della sua specie. È per questo moivo che il verso assegnato ad una determinata specie animale rimane sempre uniforme ed invariabile; un cane abbaia ancora oggi così come abbaiava il giorno della creazione, e l’allodola trilla nel volo così come migliaia di anni fa. Proprio perché concesso alla na­ scita, ciò che è innato è indelebile ed immutabile. Tutti gli animali vivono ed agiscono secondo un loro oscuro istinto innato, che di per sé non può svi­ lupparsi ulteriormente e che contiene fin dal principio una sua naturale e per noi umani talvolta irraggiungi­ bile perfezione. La tela del ragno sembra veramente fuoriuscire dal corpo di quell’animaletto, ed è tesa in modo così fine e regolare quanto la venatura che cre­ sce spontaneamente nelle foglie. L’ape produce sem-

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pre a regola d’arte la sua celletta esagonale, senza mai allontanarsi minimamente, foss’anco di un sol passo, dal progetto di costruzione e dal modello pre­ stabilito. Eppure, gli animali, che sono comunque do­ minati dall’istinto della necessità, possiedono, chi più e chi meno, un qualcosa di analogo alia libertà umana, che le si avvicina cautamente e dalla quale essi però retrocedono immediatamente per tornare alla loro intima natura. Quando le api lasciano l’alveare per la raccolta del nettare e si posano sulla brughiera, ritrovando poi con sicurezza e sempre in tempo la via del ritorno, alcune api dello sciame possono cambiare rotta per qualche centinaio di metri, e perire smarren­ dosi: la loro piccola libertà si sarà dunque rivelata fa­ tale. Vi sono degli animali mansueti che l’uomo am­ maestra per le sue necessità; ma, in tutta evidenza, più è sviluppato quel loro istinto alle attività pratiche, più sarà difficile addestrarli. L’ape o la formica sareb­ bero insensibili a qualsiasi insegnamento umano; ma il cane, il cavallo, il bue o il falco lo accettano fino ad un certo punto nel sottomettersi alla volontà del­ l’uomo, e, qualora li liberassimo dal nostro giogo, tor­ nerebbero tutti volentieri alla loro naturale spontaneità, dimenticando quanto hanno imparato. L’intera vita animale sembra scandita da un’unica necessità che neanche improvvisi scorci e lampi di libertà riescono a vincere; necessità alla quale, infine, non scampiamo neanche noi esseri umani liberi.

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II verso uniforme ed immutabile di cui è dotata ogni singola specie del mondo animale, è diametral­ mente opposto al linguaggio umano, che è invece sempre mutevole, che cambia quindi di generazione in generazione e che dev’essere sempre imparato. Solo ciò che l’essere umano non ha bisogno d’impa­ rare, ciò che egli sa quindi fare fin dalla nascita, è quanto rimane identico in tutti i popoli: e cioè il la­ mento, il pianto, il gemito o qualsiasi altra espressione di sensazioni fisiche, che potremmo a ragione parago­ nare al grido dei versi animali. D’altronde queste ma­ nifestazioni innate non fanno propriamente neanche parte del linguaggio umano, i cui mezzi non sono in grado di esprimere con precisione né di imitare piena­ mente quei suoni umani ed animali. Mettiamo a confronto l’esempio fatto prima per l’im­ mutabilità del verso animale con uno concernente l’acquisibilità del linguaggio umano: se supponiamo che un neonato di madre francese o russa venga raccolto su un campo di battaglia, e che esso venga poi educato in Germania, allora il bambino non inizierà a parlare né il francese né il russo, bensì il tedesco, come tutti gli altri bambini tra i quali sarà cresciuto. La sua lingua non può quindi essergli innata. Gli stessi esseri umani che, nostri contemporanei, acquistano presto tutti i suoni e tutte le proprietà della nostra lingua attuale, se messi al mondo cinquecento o mille anni fa, sarebbero entrati senza accorgersene ed

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altrettanto facilmente in possesso di tutto ciò che di­ stingue la lingua dei nostri antenati da quella nostra odierna. Le particolarità di ogni singola lingua dipen­ dono quindi dallo spazio e dal tempo in cui nascono e vengono educati coloro che le applicano. Spazio e tempo sono la causa di ogni trasformazione del lin­ guaggio umano, e solamente in base ad essi può spie­ garsi la molteplicità dei popoli e il loro allontana­ mento dalla comune fonte originaria. Un Tirolese ed un Frisone di oggi, che s’incontrino e vogliano par­ larsi, faranno entrambi fatica a capire l’uno il discorso dell’altro, benché i loro antenati debbano esser stati si­ mili gli uni agli altri, anzi debbano essere appartenuti allo stesso ed identico gruppo etnico. Anche tra gli es­ seri umani che vivono in una comunità e che si capi­ scono pienamente tra di loro sogliono tuttavia suben­ trare, secondo il sesso e l’individuo, singolarità e dif­ ferenze linguistiche tali, da rivelare un patrimonio les­ sicale ora più ora meno ampio e ricco. In tal modo il linguaggio sembra certo a tutti un bene comune, ma nello stesso tempo, ai singoli parlanti, un loro modo di esprimersi particolarmente originale e comunque mille miglia lontano dall’uniformità del verso animale. No, il linguaggio umano non è né innato né creato assieme all’uomo, e, per le sue produzioni come per i suoi risultati, non può esser paragonato al verso ani­ male; una sola cosa i due devono avere più o meno



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in comune: una certa base sottesa che dipende neces­ sariamente dalla strutturazione corporea. Ogni suono viene generato da un moto e da una vi­ brazione dell’aria. Persino l’elementare mugghiare pro­ prio del mare deriva dal violento battere delle onde, che trasmettono la loro pressione sull’aria, come anche il crepitare del fuoco scaturisce dall’agitazione dell’aria mentre si consuma il combustibile. Per natura, sia gli animali sia gli uomini hanno organi vocali per mezzo dei quali possono produrre svariate pressioni sull’aria, il cui effetto immediato è un suono regolare ed uniforme. L’animale produce in tal modo alcuni suoni simili a quelli dell’essere umano, anche se quest’ultimo è capace di svilupparli in modo assai più ricco ed ampio. Tale sviluppo ordinato dei suoni lo chiamiamo sistemazione o articolazione, e il linguaggio umano si presenta perciò articolato, un attributo che è già nell’epiteto omerico ri­ ferito agli esseri umani: oi péponeq, pépOTteq dvOpco7tot, oppure Ppoioi, dal verbo peipopat o peptico, e cioè coloro che suddividono o articolano la loro voce. Quest’articolazione dei suoni deriva essenzialmente dal­ l’andatura e dalla posizione eretta dell’uomo , fattori Persino avSpwnog avente il viso o l’aspetto di un uomo, rimanda alla posizione eretta del volto. La prima parte di questa parola acquisisce, per influsso della P. una 0 invece di una A, e appartiene a dvqp ùvopóq che corrisponde in sanscrito a nri e nara, che significa vir, homo. Altri hanno pensato a avo) àSpcìv che significa guardare verso t’alio.

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che gli consentono di pronunciare i singoli suoni con calma e misuratezza, mentre gli animali sono chinati verso terra: pronaque quum spectent ammalia caetera terram, os homini sublime dedit caeluinque lucri jussit, et erectos ad sidera tollere vultus . La misura e la successione necessarie di questi suoni e di queste risonanze sono condizionate in modo naturale, quanto la scala musicale o la gamma dei colori, poiché nulla può essere aggiunto alla loro legge intrinseca: oltre ai sette colori dello spettro ot­ tico, che offrono la possibilità di infinite mescolanze, non ne sono pensabili altri, e tantomeno si può ag­ giungere qualcosa alle tre vocali ay i ed w18, dalle quali provengono la e come la o, nonché tutti gli altri dittonghi e la loro fusione in vocali lunghe. È altret­ tanto impossibile ampliare, per la medesima ragione, l’ordine delle semivocali e delle consonanti, che si presentano, nella loro incalcolabile varietà d’unioni. Questi suoni primordiali sono innati in noi poiché sono determinati dagli organi del nostro corpo, e ven­ gono quindi emessi a gola e a polmoni pieni in modo sonoro e aspirato, oppure formati con l’ausilio del paOvidio: Metamorfosi I, 84; [memre gli animali guardano a terra chinali in avanti, la natura diede agli uomini il volto rivolto verso l’alto, e comandò loro di guardare il cielo e di sollevare lo sguardo verso le stelle}.

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lato, della lingua, dei denti o delle labbra. Alcune con­ dizioni per la produzione di tali suoni sono talmente comprensibili ed intuibili, che il tentativo di riprodurli, di imitarli cioè fino ad un certo punto mediante artifi­ ciosi congegni meccanici, non poteva del tutto fallire. Ma poiché gli organi fisici di parecchie specie animali assomigliano a quelli umani, e poiché gli uccelli, la cui conformazione fisica è in genere meno affine alla nostra di quella dei mammiferi, ci assomigliano però maggiormente per la loro posizione eretta del collo, posizione che permette d’altronde remissione di una voce canora piacevole, non dobbiamo neanche meravi­ gliarci che tra di essi i pappagalli, i corvi, gli storni, le gazze e i picchi siano particolarmente abili a co­ gliere e a ripetere quasi perfettamente alcune parole umane. Al contrario, neanche un mammifero ne è ca­ pace; specialmente alle scimmie, che altrimenti ci as­ somigliano da far spavento, non è mai venuto in mente di scimmiottare il nostro linguaggio, anche se spesso cercano di imitare qualche nostro gesto. Eppure, si potrebbe supporre che una qualche specie di tali pri­ mati che imparano a camminare in modo eretto riesca Il picchio (der Spechi), nome che significa etimologicamente «l’uc­ cello che scruta e che presagisce» (der spdhende und weissagende Vogel), si chiamava perciò in greco pÉpoy, quindi come l’uomo veggente; nell’antica saga romana e germanica, Picus e Bienenwolf compaiono di frequente nelle stirpi degli eroi. E interessante il fatto che pappagalli e corvi possano raggiungere anche l’età avanzata degli uomini.

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a pronunciare suoni vocali, linguali e dentali, anche se quelli labiodentali sarebbero per loro comunque impos­ sibili, data la sporgenza dei loro denti: invece, non c’è la benché minima traccia di un tentativo di parlare. Johannes Miiller19 ha recentemente esaminato con cura la gola di alcuni uccelli canori, e ci ha dimo­ strato cosa vi produce e regola il canto. Non so se sia possibile che la dissezione anatomica individui an­ che nelle gole evolute di cantanti umani i segni che annunciano un particolare sviluppo delle facoltà ca­ nore; oppure, per fare una domanda ancor più sca­ brosa, non so se sia possibile che l’anatomista riesca a documentare tracce esteriori evidenti negli organi vocali di quei popoli che coltivano suoni gutturali de­ cisamente duri, o che si sono esercitati, come gli Slavi, a pronunciare difficili e pesanti combinazioni di sibilanti. Se ciò avvenisse, dato che questo tipo di singolarità si può ereditare, così come si possono tra­ smettere inconsciamente di padre in figlio alcuni gesti ed alcuni movimenti delle spalle, o come i fratelli possono spesso avere lo stesso dono del canto , allora sarei incline a credere all’esistenza di predisposizioni che servirebbero alla pronuncia di determinazioni so­ nore della propria lingua già impresse nelle gole dei bambini di alcuni popoli, sì che alcuni nostri suoni È persino riscontrabile che i fratelli possono starnutire in modo simile.

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sarebbero riusciti diffìcili a quel bambino tedesco d’o­ rigine russa o francese. Ciò rappresenterebbe l’esatto pendant di quella necessità animale che viene limitata dalla libertà, poiché qui, al contrario, sarebbe la li­ bertà linguistica dell’uomo ad esser apparentemente li­ mitata da un tratto di necessità, che però la nostra li­ bertà supera comunque facilmente. L’anatomia dovrà percorrere ancora molta strada prima di poter distin­ guere gli organi vocali di un Tedesco del Nord che vive nelle pianure da quelli di un pastore alpino della Germania del Sud. Ciò non toglie però nulla al nostro intento principale, e cioè alla dimostrazione che il lin­ guaggio umano non è innato. La naturale base vocale, di cui sia il linguaggio umano sia il verso animale hanno bisogno e che ambedue presuppongono quanto la nostra anima il cranio umano, non è altro che lo strumento sul quale le lingue vengono suonate, e que­ ste composizioni ed esecuzioni musicali si mostrano di tale varietà da contrapporsi affatto all’immutabilità dei versi animali. Il fisiologo verrà magari attratto mag­ giormente dallo strumento, il filologo invece da quanto vi viene suonato20. Ma oltre all’ipotesi che abbiamo appena rifiutato, quella di un linguaggio innato, ne era stata ritenuta plausibile anche un’altra, secondo cui il linguaggio sa­ rebbe stato dato all’essere umano non immediatamente all’atto della creazione, ma piuttosto comunicatogli da Dio dopo la creazione originaria; la specie umana

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avrebbe quindi recepito mnemonicamente il linguaggio in modo da tramandarlo ed elaborarlo di generazione in generazione assieme a tutti i cambiamenti e alle cor­ ruzioni da esso subiti per opera umana. Tale divina co­ municazione o rivelazione del linguaggio dovrebbe es­ sersi comunque palesata prima della emanazione delle leggi divine, alle quali la rivelazione del linguaggio può essere del resto benissimo paragonata; di conse­ guenza, essa dovrebbe essere avvenuta quasi immediata­ mente dopo la creazione della prima coppia umana, poiché quest’ultima non avrebbe potuto fare a meno del linguaggio, forse neanche per un attimo. D’altronde, che alla creatura più nobile e compiuta sia mancato al­ l’inizio ciò che comunque le sarebbe poi toccato, sem­ brerebbe inconciliabile con l’onnipotenza del Creatore. Una siffatta concezione si distinguerebbe, quanto al suo fondamento, in modo essenziale dall’idea di un’ori­ gine umana del linguaggio, concezione che le oppor­ remo in seguito; la differenza tra le due riguardo alla tradizione di quel prezioso dono è invece apparente­ mente minima. Una tale tradizione avviene di genera­ zione in generazione, poiché gli esseri umani non muoiono né nascono tutti nello stesso momento. Chi so­ pravvive lascia quindi in eredità ai suoi posteri ciò che essi stessi avevano ricevuto dai loro antenati, indipen­ dentemente dal fatto che si tratti di un linguaggio rive­ lalo da Dio o di un linguaggio acquisito liberamente dai primi esseri umani. La rivelazione dovè avvenire in una

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sola volta, ammesso poi che essa non si sia mai spenta del tutto e che abbia continuato a diffondere la sua, an­ che se indebolita, luce; al contrario, l’invenzione umana potrebbe essersi ripetuta più volte. Nel caso di un lin­ guaggio rivelato, dovremmo anche tener conto che gli esseri umani viventi al momento della rivelazione sareb­ bero stati privilegiati dalla volontà divina rispetto agli altri che vennero dopo, il che si opporrebbe certamente alla giustizia divina. Mi pare che l’idea di un linguaggio rivelato debba risultare particolarmente gradito a coloro che vogliono supporre uno stato di innocenza paradisiaca all’inizio della storia umana; il peccato originale sarebbe quindi stato la causa per cui le doti e capacità più nobili del­ l’essere umano sarebbero in seguito andate in rovina, e per cui anche il linguaggio, di origine divina e inizial­ mente perfetto, si sarebbe poi degradato per giungere ai posteri solo in una forma sbiadita. Un tale punto di vi­ sta potrebbe piacere e trovare sostegno, poiché in effetti l’intera storia delle lingue, per quanto l’abbiamo finora esplorata, sembra voler mostrare una simile decadenza da una forma più vicina ad una più lontana dalla per­ fezione; di conseguenza, sembrerebbe che anche per il linguaggio debba avvenire, così come per l’intera na­ tura umana, una restaurazione ed una redenzione, e che si debba lentamente tornare per via spirituale alla per­ duta condizione di originaria perfezione e purezza. Tuttavia troviamo quest’interpretazione già in con-

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traddizione con i documenti della nostra Sacra Scrit­ tura, che non ricorda in nessun luogo essere avvenuta una rivelazione divina del linguaggio all’uomo; anzi, essa presuppone resistenza del linguaggio senza dame alcuna spiegazione, facendo peraltro avvenire la confu­ sione delle lingue solo molto tempo dopo il peccato originale. In modo ingegnoso quanto commovente ogni discrepanza tra le lingue viene ricondotta ad un vio­ lento sacrilegio compiuto uomini spavaldi che si illu­ sero, similmente ai Titani della mitologia greca ed al loro assalto all’Olimpo, di potersi avvicinare alla divi­ nità per mezzo della stolta costruzione di una torre, perdendo così l’unità e la semplicità della loro lingua che, ormai confusa, fu sparsa da lì in tutto il mondo. Un abile pittore ha recentemente cercato di raffigurare in una ricca composizione questa saga, forse nata dalla semplice interpretazione erronea del termine ebraico babai, che significa mischiare o mescolare2'. Ma in questo campo l’arte può solamente giocare, senza otte­ nere nulla. Dato che la frammentazione del linguaggio sull’intera faccia della terra è stata del tutto naturale quanto la successiva molteplicità infinita delle lingue , Molteplicità che veniva supposta anche nel Medioevo, ma spesso limitata a 72 lingue. Nel Parzìval (736, 28) vieti detto di un re pagano: egli aveva 25 annate, di cui nessuna capiva quello che diceva l'altra (er hete fiinf und zweinzec her / der neheinez sandern rede vemani) (Wolfram von Eschcnbach, Parzìval in Gesamtausgabe, a cura di K. Lachmann, Berlin, Reimer, 1833).

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e poiché essa ha aiutato l’umanità a progredire nei suoi massimi fini, tale frammentazione dev’essere con­ siderata benevola e necessaria, e in nessun caso appor­ tatrice di confusione; essa è inoltre avvenuta sicura­ mente in tutt’altro modo da come ci vuole far inten­ dere quel racconto, che è comunque esposto a forti obiezioni da parte della storia della lingua. La mia analisi giunge qui a toccare il punto di vi­ sta teologico, dal quale non ha però nulla da temere22. Per rivelazione noi intendiamo un annuncio o una manifestazione che i Greci chiamavano à7toKàX,u\|/i(;, cioè svelamento, e i Romani revelatio. Tutte queste de­ nominazioni riportano ad uno stesso concetto: ciò che ora è scoperto, prima era velato, e ciò che era un tempo celato o nascosto, è adesso svelato. È indubitabile che un’originaria forza creatrice debba ininterrottamente per­ vadere e mantenere in vita ogni sua opera: il miracolo del perdurare del mondo, e quello della sua creazione, si equivalgono perfettamente. Questa forza divina co­ stantemente manifestantesi è una rivelazione soltanto per chi è in grado di comprendere23. Poiché questa forza divina compenetra l’intera natura, ed è quindi presente in tutte le cose, essa vi giace aperta e svelata ma anche racchiusa e nascosta, e si lascia esplorare e studiare uni­ camente per mezzo delle cose stesse: essa sta in tutte le cose, e, appunto perciò, mai al di fuori di esse. La na­ tura parla, ma rimane incompresa finché il ricercatore non la rintraccia, di modo che essa diventi intelligibile.

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L’ingenua immaginazione degli Antichi soleva sup­ porre un rapporto immediato tra la divinità e gli es­ seri umani. Per la nostra ragione la realtà di tale idea è incomprensibile e inammissibile quanto quella della maggior parte dei miti. Se ammettessimo che all’ini­ zio dei tempi la divinità si sia manifestata in modo visibile, perché mai essa avrebbe dovuto smettere di farlo in seguito? Ciò si opporrebbe al concetto di continuità che le è necessariamente insito; non creata, non può avere storia, e deve restare quindi eterna­ mente uguale a se stessa. Ci sentiamo come presi nell’incantesimo di un cerchio di contraddizioni che, comparendo da ogni lato, raggiungono il loro apice nel momento dell’affermazione dell’origine divina del linguaggio. Come oggi non ci appare affatto strano che sui no­ stri palcoscenici uomini ed eroi di ogni epoca e paese si esprimano tutti nella lingua attuale, alla poesia greca non crea il minimo imbarazzo che gli dèi vi appaiano e parlino la lingua del luogo, dato che ne abbiamo esperienza unicamente per mezzo dei nostri concetti. Ci deve però essere stata una ragione per cui Omero, e gli stessi poeti tragici, raffigurano Apollo, Ermete, Atena e altri dèi e dèe, ma giammai Zeus stesso Tale rispetto per Giove offende Plauto, quando egli lo fa apparire c parlare nel suo Anfitrione.

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mentre appare di persona, parlando, all’uomo; quelle divinità si presentano come se fossero soltanto i mes­ saggeri di Zeus, incaricati di contenere e di rivestire in parole umane la sua suprema e di per sé inesprimibile volontà. In tal modo, in quel politeismo lussureggiante appare solo un’infinità di galoppini del sommo essere, le cui caratteristiche essi rappresentano ed i cui ordini essi enunciano e trasmettono, proprio come i santi e gli angeli della tradizione cattolica. Nell’Africo Testamento, Dio appare sin da principio di persona e parla con Adamo, Èva, Noè, Abramo, Mosè e Giosuè, i quali tutti, stando alle descrizioni, capiscono le parole divine, alle quali persino rispon­ dono; ma da nessuna parte vien detto che una prima iniziazione a tale comprensione sia avvenuta o sia stata ritenuta necessaria. Tuttavia, già al tempo di Mosè Dio inizia ad allontanarsi dagli uomini, ad appa­ rire solamente sulla montagna, e a parlare solo dalla nuvola da cui escono fulmini e tuoni, proprio come Zeus si mostra nelle nubi accompagnato da tuoni. Col tempo, non appare più Dio in persona, ma solo il Suo angelo, al punto che già nei confronti di Mosè rimane alcune volte incerto se questi abbia sentito la voce del Signore oppure quella del Suo messaggero. In seAnche neìì'Edda, quando si aggirano per il mondo i tre dèi Odino, Hoenir e Loki, è solo Loki colui che parla, mentre gli altri tacciono.

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alto tedesco Mensch e così in tutti i nostri dialetti. Questa denominazione può essere a ragione ricondotta al nome Manna o Mannus, un antenato mitico, docu­ mentato già da Tacito, e poi al nome Manas, un re indiano, la cui radice man significa pensare e alla quale appartengono altresì manas, pévoq e Mensch (essere umano, uomo). L’essere umano non si chiama Mensch solament perché ragiona, bensì egli è davvero un essere umane nel senso di Mensch in quanto pensa, e parla poiché pensa26. Questo strettissimo nesso tra la capacità umana di pensare e quella di parlare nomina e attesta il fon­ damento e l’origine del linguaggio umano. Abbiamo visto prima come nel greco le denominazioni di essere umano derivino dal viso rivolto verso l’alto e dal par­ lare articolato; ma qui l'uomo viene designato ancor più giustamente secondo la sua peculiare capacità di pensare. Gli animali invece non parlano perché non pensano, e vengono perciò chiamati coloro che non parlano, i non-parlanti, in nordico antico ómeelandi , oppure coloro che sono privi di ragione, i non-ragionanti, bruta, mutae bestiae, mutimi et turpe pecus ; In danese: de umaelende [nota del Grimm che si trova solo nell’cdizionc di Rassein, cit. in bibl.J. Thet dumbe diar [l'animale stupido/muto/sordo/ottuso]: Richthofen, 206 [Karl von Richthofen, Altfriesisches Worterbuch, Gòttingen, Dietcrich, 1840]. Daz unsprechende vihe [le bestie non-parlanti]: Wamung, 2704; [Die Wamung, a cura di M. Haupt, «Zeitschrift fUr deutsches Al-

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dXoyog esprime nello stesso tempo sia non-parlante sia non-pensante *. Il bambino inizia a parlare dal mo-

tertum», 1, 438-537, 18411]. Tier ungewizzen [l’animale che non sa]; Erek, 5843 [Hartmann von Aue, Erek, a cura di M. Haupt, Leipzig, Weidmann, 1839 e sgg.].

Ratio significa anche orario, così come Xóyoc; significa sia parola sia ragione.

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mento in cui comincia a pensare, e la sua capacità di parlare si sviluppa in lui assieme al pensiero, non in modo additivo, bensì moltiplicativo. Gli esseri umani dotati dei pensieri più profondi, filosofi, poeti, oratori, posseggono anche le maggiori capacità linguistiche. La forza del linguaggio crea i popoli e li tiene assieme; senza un tale legame i popoli si disperderebbero. È principalmente la ricchezza del pensiero dei singoli po poli che consolida il loro dominio sul mondo. Il linguaggio appare dunque come un lavoro pro­ gressivo, come un’opera umana, come una conquista nello stesso tempo rapida ma anche lenta, che gli uo­ mini devono al libero sviluppo del loro proprio pen­ siero e tramite la quale essi vengono separati ma an­ che uniti. Tutto ciò che gli esseri umani sono, lo de­ vono a Dio; ma tutto ciò che essi conquistano, nel bene come nel male, lo devono a se stessi. L’ispira­ zione del profeta è solo un’immagine del pensiero de­ sto e vivo in lui. Ma poiché il linguaggio era inizial­ mente imperfetto, e siccome il suo valore aumenta solo nel tempo, il linguaggio non può essere originato da Dio, da Colui che crea soltanto enti perfetti. 11 Creatore ci ha dato due preziosi doni: l’anima, e cioè la capacità di pensare, e gli strumenti linguistici, e cioè la capacità di parlare; ma pensiamo solamente in quanto esercitiamo queste facoltà, e parliamo sola­ mente in quanto impariamo la lingua. Pensiero e lin­ guaggio sono nostre proprietà, e su ambedue si basa

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la crescente libertà della nostra natura, cioè il sentire quae velis et quae sentias dicere (pensare ciò che si vuole, e dire ciò che si pensa); grazie a questa libertà ci siamo elevati, e senza di essa saremmo, come gli animali, in preda alla pura necessità. Ma linguaggio e pensiero non sono isolati e riser­ vati a singoli esseri umani; tutte le lingue sono invece una comunità che ha fatto il suo ingresso nella storia, e congiungono il mondo. La loro molteplicità è ap­ punto indirizzata ad aumentare, ampliare ed animare il corso e lo sviluppo delle idee. Il genere umano, che eternamente cambia e si rinnova, tramanda e dà in eredità quella formidabile conquista che è offerta a tutti, quel bene che i posteri sono destinati a conser­ vare, ad amministrare e ad aumentare; è qui che ap­ prendimento ed insegnamento s’intrecciano tra di loro in modo immediato quanto inosservato. Il poppante ode al seno materno le prime parole che gli vengono dette dalla tenera e soave voce della madre, parole che si imprimono saldamente nella sua pura memoria prima ancora che egli possa esser padrone dei suoi organi vocali; e così si forma e si amplia velocemente negli anni ciò che giustamente si chiama madrelingua, che, sola, ci procura e ci trasmette in modo indelebile la terra natia e la patria. Quel che vale per le diverse stirpi e schiatte che hanno ricevuto l’impronta delle medesime proprietà linguistiche, deve valere anche per l’intera società umana. Senza le diverse lingue,

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senza l’arte poetica e senza le invenzioni, avvenute al momento giusto, della scrittura e della stampa, la mi­ glior forza e capacità dell’umanità si sarebbe indebo­ lita e consumata. Anche della scrittura si è preteso che ci fosse stata insegnata dagli dèi; ma l’origine chiaramente umana della scrittura, come il suo cre­ scente perfezionamento, devono, se ciò fosse mai ne cessano, dimostrare e confermare l’origine umana de linguaggio. Erodoto ci riferisce che Psammetico, re degli Egizi, voleva scoprire quali fossero il popolo e la lingua creati per primi, e che egli avesse perciò dato ad un pastore due neonati da allevare in solitudine, con l’or­ dine di non pronunciare alcuna parola in loro presenza ma di osservare quale fosse il loro primo suono. Dopo qualche tempo questi bambini avrebbero esclamato p£KÓg con le mani tese ogni volta che il pastoie si avvicinava loro, ripetendo più volte la medesima espressione anche in presenza del re. In seguito a delle ricerche ci si sarebbe poi accorti che i Frigi chiamano il pane PeKÓg e si sarebbe quindi giunti alla convinzione che i Frigi fossero il popolo più an­ tico del mondo . Erodoto 2, 2. Cfr. Fragni, hisl. graec. I, 22; 23.

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Se fosse mai possibile avviare un tale esperimento, il cui racconto suona in effetti alquanto strano e fan­ tastico, e se fosse quindi possibile eseguirlo abbando­ nando dei neonati su di un’isola sperduta facendoli al­ levare da servi muti, allora tali misere creature, cui sarebbe stata sottratta una parte dell’eredità umana, non pronuncerebbero certo nessuna parola della più antica lingua umana, che comunque non potrebbe es­ sere loro innata, ma inizierebbero invece da capo, così come i primi esseri umani: essi si inventerebbero una lingua personale per mezzo della loro iniziale capacità di pensare, e, nel caso che il loro isolamento dovesse perdurare, tramanderebbero un tale linguaggio ai loro posteri. Unicamente a sì caro prezzo la linguistica po­ trebbe trovare l’immediata conferma di ciò che essa è comunque autorizzata a dedurre da altre premesse: per quanto possa durare il mondo, un tale esperimento non dovrebbe mai essere fatto, perché dovrebbero op­ ponisi innumerevoli impedimenti. Mi avvicino al mio compito vero e proprio, o al­ meno al punto che interesserà di più la maggior parte dei miei ascoltatori, a quello cioè che dovrebbe ri­ spondere alla domanda circa il modo in cui ci si debba immaginare che i primi esseri umani abbiano realizzato l’invenzione del loro linguaggio. A prescindere dal problema qui ancora lasciato da parte, e cioè se le lingue del mondo, sostanzialmente diverse l’una dall’altra, possano esser ricondotte ad

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un’unica origine o formazione, oppure se a più fonti o formazioni diverse, devo tuttavia trattare prima, molto brevemente, la questione se si debba supporre, anche nel caso di un’unica lingua madre ben diffusa ed in seguito largamente ramificata, che ci sia stata una sola oppure più di una coppia umana in grado di aver creato e tramandato tale linguaggio. E da presumere che uomo e donna siano stati creati assieme, adulti e capaci di procreare, poiché non è l’uccello che presuppone l’uovo, e la pianta il seme, bensì è al contrario l’uovo a presupporre l’uc­ cello, e il seme la pianta; il bambino, l’uovo e il seme sono dei prodotti, quindi esseri in origine non creati: di conseguenza, il primo uomo non può esser mai stato bambino; il primo bambino deve invece aver avuto un padre. Chi crederebbe mai che da ele­ menti originariamente non creati, collegati tra di loro e agenti reciprocamente, sia potuta nascere gradual­ mente una segreta e muta potenza? Il legame in grado di suscitare la vita, al cui affievolirsi ed al cui scom­ parire la vita stessa si ritira invece sempre nella mate­ ria morta, deve certamente aver preceduto quegli ele­ menti. Ma che di ogni specie animale e vegetale sia stata creata solo un’unica coppia, e non varie coppie contemporaneamente, e che quindi tutte le erbe si siano moltiplicate partendo dalla proliferazione di un unico filo d’erba, fino a raggiungere la loro attuale ricchezza, è un argomento più dissuasivo che convin-

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cente. Una forza creatrice che plasmasse solo singole coppie potrebbe liberamente crearne di più, così come sarebbe comunque costretta, creando le prime coppie, a produrre due volte qualcosa dello stesso genere. Contro l’idea che l’intera massa degli animali sia sorta da una sola coppia di ogni specie si è obbiet­ tato, non senza ragione, che l’istinto sociale delle for­ miche e delle api, che dev’essere comunque innato e non gradualmente acquisito, non potè aver aspettato che si fossero formate vere e proprie comunità. Se ap­ plichiamo tale ragionamento all’essere umano e al suo linguaggio27, allora diventa persino probabile che sia stata creata più di una coppia umana, già per la natu­ rale ragione che la prima madre avrebbe potuto parto­ rire anche solo figli o solo figlie, per cui ogni ulte­ riore riproduzione sarebbe stata impedita, ma ancor più per la ragione morale che tra fratelli e sorelle debba esser evitata quella mescolanza di cui la natura ha orrore. La Bibbia passa quindi sotto silenzio che, se Adamo ed Èva fossero stati soli al mondo, i loro bambini si sarebbero dovuti accoppiare tra di loro*. Goethe fa nascere le prime coppie umane a dozzine: Eckcrmann voi. 2, p. 21 [J.P. Eckermann, Gespràche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens, 1823-1832, Leipzig, Brockhaus, 1837 e sgg.J clniziò a convincersi che il genere umano abbia potuto, in determi­ nate condizioni naturali, sorgere ovunque, e che ogni razza umana crea­ tasi in tal modo abbia potuto inventarsi il suo proprio linguaggio se­ condo leggi organiche: Goethe 31, 190 (vedi prima nota al testo]. - Il

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L’origine del linguaggio si spiega ancora più facil­ mente se supponiamo che da principio abbiano parte­ cipato alla sua formazione due o tre coppie umane, e presto anche i loro bambini, sì che tutte le condizioni linguistiche abbiano potuto moltiplicarsi immediata­ mente e in gran numero; ciononostante, l’unità della regola generale che ne risultava non avrebbe corso nessun pericolo, poiché anche nel caso di una sola coppia umana il linguaggio avrebbe dovuto essere in­ ventato da due individui, dall’uomo e dalla donna, senza dimenticare la successiva partecipazione dei loro bambini. Alle donne, che dopo alcune genera­ zioni, e soprattutto in presenza di molteplici coppie umane, avrebbero senz’altro assunto le usanze e i ruoli loro propri, per tanti aspetti così differenti da quelli maschili, si potrebbero attribuire persino alcune particolarità dialettali sviluppate già da tempo per esprimere concetti per loro particolarmente correnti; una precisa conferma di ciò viene dal pracrito28 con­ frontato con il sanscrito. Ma in tutte le lingue antiche osserviamo che vengono distinte, una accanto all’altra, le flessioni maschili da quelle femminili, il che non genere umano deriva forse da una sola coppia? A. v. Humboldt in Kosmos 1, 381; 382. Martius (Ureinwohner Brasìliens, 81) suppone che i popoli d’America siano originari del loro stesso continente (K.F.P. von Martius, Vani eleni Rechtszustande unter den Ureinwohnern Brasìliens, Munchen, Franz, 1832].>

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può essere avvenuto senza l’influsso della donna sulla formazione stessa del linguaggio. Dalla correlazione delle lingue, che ci offre chiari­ menti ben più sicuri di ogni documento storico sulla parentela dei singoli popoli, si possono allora fare delle deduzioni che ci riportano allo stato primordiale del­ l’essere umano, al periodo della creazione originaria, e alla contemporanea formazione del linguaggio. Lo spi­ rito umano trova un diletto particolare ed edificante nell’immaginarsi e nel supporre al di là delle prove tangibili ciò che esso può percepire unicamente nel­ l’ambito della ragione, ovvero ciò per cui manca an­ cora una verifica nel mondo esterno. Nelle lingue, le cui testimonianze sono giunte fino a noi da una remota antichità, scorgiamo in genere due diverse e divergenti direzioni o correnti, dalle quali si deve necessariamente dedurne una terza, precedente, che si trova però al di là dell’ambito delle testimonianze pervenuteci. Sanscrito e zendo, e in gran parte ancora il greco e il latino, ci presentano l’antico tipo di lingua, che mo­ stra una ricca, piacevole ed ammirevole compiutezza morfologica, ove tutti gli elementi sensibili e spirituali si sono vitalmente compenetrati. Negli sviluppi e nelle forme successive di quelle lingue antiche, come per esempio nei dialetti dell’india odierna, nel persiano, nel greco moderno e nelle lingue romanze, la forza e la duttilità interne delle flessioni si è in genere affie­ volita o è del tutto svanita, anche se viene parzial-

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mente recuperata con l’aiuto di mezzi e rimedi esterni. Anche nella nostra lingua tedesca, le cui sor­ genti, che talvolta fluiscono con grande forza e talal­ tra stillano solo debolmente, possono essere seguite at­ traverso tempi lunghi e poste infine sul piatto della bilancia, appare con evidenza queiridentico decadi­ mento da un precedente apice di maggiore compiu­ tezza morfologica, e poi lo stesso tipo di rimedio. Se confrontiamo la lingua gotica del quarto secolo con quella tedesca di oggi, allora notiamo come siano pro­ pri della prima suoni piacevoli e una bella agilità, e della seconda invece, a scapito di quelle precedenti qualità, uno sviluppo largamente potenziato dell’e­ spressione linguistica. L’antica potenza linguistica ap­ pare comunque sempre ridotta, poiché al posto delle antiche doti e dei primi strumenti è subentrato qualco­ s’altro, i cui vantaggi non devono neppure essere sot­ tovalutati29. Ambedue queste tendenze non contrastano affatto tra di loro, poiché tutte le lingue si presentano su li­ velli molteplici e svariati, certo simili, ma non iden­ tici. Un impoverimento morfologico era per esempio già iniziato anche nel gotico e nel latino, e tanto nel caso deH’una come in quello dell’altra lingua si può ipotizzare una precedente forma più antica e più ricca, che si pone, rispetto alla forma classica, come quest’ultima si pone rispetto al nuovo alto tedesco o al francese. Detto in altri termini, e da un punto di vista

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più generale, l’apice di una lingua antica e la perfe­ zione della sua forma non si possono assolutamente comprovare storicamente; ma anche la tendenza oppo­ sta, lo sviluppo spirituale del linguaggio, oggi non è affatto già arrivato alla sua conclusione, anzi, non vi perverrà che in un futuro lontanissimo. Persino nel caso del sanscrito è lecito supporre un precedente sta­ dio linguistico più antico, la cui ricchezza, quanto a disposizione e natura, si sarebbe formata in modo an­ cor più puro; storicamente non possiamo però assolu­ tamente ricostruire tale stadio, possiamo però almeno intuirlo o scorgerlo da lontano nel suo rapporto con le forme della lingua vedica30. Mi sembra peraltro che proprio l’errore fatale di voler spostare ancor più indietro nel tempo quella per­ fezione della forma, fino a collocarla in un presunto paradiso, freni l’indagine sulla lingua originaria. Dal confronto dei due periodi linguistici nominati per ul­ timi risulta piuttosto che, così come la flessione ce­ dette il posto ad una sua dissoluzione, la flessione stessa sia a suo tempo necessariamente sorta da una congiunzione di elementi verbali analoghi. Dobbiamo quindi supporre non soltanto due, bensì tre stadi dello sviluppo del linguaggio umano: il primo stadio sa­ rebbe quello della produzione, di un attecchimento e di una crescita delle radici e delle parole, il secondo quello della fioritura di una flessione compiuta, il terzo, invece, quello della germinazione o della ten-

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denza verso il pensiero, ove la flessione viene abban­ donata perché ritenuta ancora insufficiente; la connes­ sione e l’ordinamento di parole e di pensieri profondi, che nel primo periodo avvenivano in modo ingenuo e che nel secondo erano splendidamente formati, ven­ gono nuovamente realizzati nel terzo periodo con una coscienza più limpida. Si tratta del fogliame, del fiore e del fruito in maturazione, i quali, come natura vuole, si succedono uno accanto e dopo l'altro in un’immutabile successione . Grazie alla mera neces­ sità di un primo periodo invisibile, che ha preceduto gli altri due periodi, invece riconoscibili, mi sembra del tutto eliminata l’illusione di un’origine divina del linguaggio umano: contraddirebbe la saggezza di Dio vincolare preventivamente ciò che deve invece avere una libera storia umana, così come sarebbe anche stato, nei confronti dei posteri, contrario alla Sua giu­ stizia attribuire ai primi esseri umani un linguaggio divino e lasciarlo poi decadere dal suo apice. Ciò che il linguaggio ha di divino, lo possiede perché nella natura e nell’anima nostre vi sono propriamente posti e dispiegati elementi divini. Limitando l’analisi del linguaggio all’ultimo pe­ riodo del suo sviluppo, non ci saremo mai avvicinati al mistero della sua origine; e generalmente falliscono